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ecclesiologia: 2010/2011 - Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

1. IL DISCORSO TEOLOGICO SULLA CHIESA<br />

APPUNTI DI ECCLESIOLOGIA<br />

Anno scolastico 2012/2013<br />

1.1. Il punto di partenza del trattato di <strong>ecclesiologia</strong><br />

1. È singolare che i manuali di <strong>ecclesiologia</strong> si moltiplichino in una situazione in cui le chiese si<br />

svuotano 1 : piena fioritura del “secolo della Chiesa” (O. DIBELIUS, Das Jahrhundert der Kirche, Ber-<br />

lin 1926) o disperato accanimento terapeutico su un malato terminale? Di certo, è la necessità da<br />

parte dei credenti di ripensare la Chiesa e la sua missione entro una cultura che, segnata dalla seco-<br />

larizzazione degli ambiti pubblici del vivere sociale e dal crescente pluralismo etico-religioso, ha<br />

rivoluzionato la presenza della Chiesa nel mondo: da chiave di volta del sistema sociale e culturale<br />

a realtà opzionale o al massimo “infermiera” degli scarti del progresso globalizzato. Quale che sia la<br />

situazione, questo è il contesto in cui deve avvenire il rendere ragione del “credo ecclesiam”.<br />

2. Oltre a ciò dopo il Vaticano II è cresciuta l’incertezza sulla struttura e sul metodo della ecclesio-<br />

logia sistematica 2 . Fino alla metà del secolo XX i manuali “De Ecclesia” impostavano la loro tratta-<br />

zione attorno alla categoria di “societas”: la Chiesa era presentata come “societas perfecta inaequa-<br />

lium”. L’approccio era condizionato chiaramente dalle controversia del passato: il manuale non era<br />

una riflessione sul “mistero” della Chiesa, ma una difesa delle sue istituzioni contestate ad ondate<br />

successive dagli “spiritualisti”, dai conciliaristi, dai protestanti, dal regalismo, dal pensiero laico.<br />

1 J. WERBICK, La Chiesa. Un progetto ecclesiologico per lo studio e per la prassi, Queriniana, Brescia 1998 (ed. or.<br />

1994) 5. Segnalo che in Italia di recente sono stati editi due manuali di considerevoli dimensioni e portata: S. DIANICH –<br />

S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Nuovo Corso di Teologia Sistematica 5, Queriniana, Brescia 2002; C. MILITELLO, La<br />

Chiesa «il corpo crismato», Corso di Teologia Sistematica 7, EDB, Bologna 2003. Per una valutazione della ricerca ecclesiologica<br />

nel Novecento sono molto utili gli articoli bilancio di J. FRISQUE, “L’<strong>ecclesiologia</strong> del XX secolo”, in Bilancio<br />

della teologia del XX secolo, III, Città Nuova, Roma 1972, 211-262 e di G. ZIVIANI – V. MARALDI, “Ecclesiologia”,<br />

in G. CANOBBIO – P. CODA (edd.), La Teologia del XX secolo un bilancio. 2. Prospettive sistematiche, Città Nuova,<br />

Roma 2003, 287-410.<br />

2 Per una panoramica sulle questioni di metodo in <strong>ecclesiologia</strong>: T. CITRINI, “Questioni di metodo dell’<strong>ecclesiologia</strong><br />

postconciliare”, in A.T.I., L’<strong>ecclesiologia</strong> contemporanea, a cura di D. Valentini, EMP, Padova 1994, 15-41; S. DIA-<br />

NICH, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1993; PONTIFICIA<br />

FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA MERIDIONALE SEZIONE SAN LUIGI, Sui problemi di metodo in <strong>ecclesiologia</strong>. In dialogo<br />

con Severino Dianich, a cura di A. Baruffo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2003; G. ROTA, “Dove va<br />

l’<strong>ecclesiologia</strong> in Italia? Un bilancio dei manuali di <strong>ecclesiologia</strong> alla svolta del millennio”, in Teologia 32 (2007) 71-<br />

91. È sintomatico che alcuni autori abbiano persino rinunciato ad adottare un proprio punto di vista sistematico sulla<br />

Chiesa, ma si siano accontentati di elencare i vari modelli ecclesiologici oppure si sono limitati a far interagire fra loro<br />

le varie metafore che nella Scrittura e nella tradizione sono state applicate alla Chiesa: A. DULLES, Modelli di Chiesa,<br />

Messaggero, Padova 2005 (ed. or. 1967; expanded edition 1987); B. MONDIN, Le nuove ecclesiologie, Paoline, Roma<br />

1980; J. WERBICK, La Chiesa, op. cit.<br />

1


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

Il manuale, perfezionatosi nel XIX secolo 3 , aveva però alle spalle una lunga tradizione, che affonda<br />

le sue radici nei primi saggi che studiano la realtà della Chiesa: cominciando dal De regimine cri-<br />

stiano di Giacomo da Viterbo (1301-1302) 4 , passando per il De ecclesiastica sive Summi Pontificis<br />

protestate di Egidio Romano (1316), per arrivare al Tractatus de ecclesia di Giovanni da Ragusa<br />

(1431-1449) e alla Summa de ecclesia di Giovanni da Torquemada (circa 1450). Tutte queste opere,<br />

che in qualche modo indicano la nascita dell’<strong>ecclesiologia</strong> come trattato autonomo, rivelano però<br />

un’indole non teologica: essi intendono difendere il potere papale contro conciliaristi e regalisti.<br />

Una ragione plausibile della mancanza di una riflessione teologica sulla Chiesa, può essere addebi-<br />

tata al fatto che il referente fondamentale della teologia medievale, il Liber Sententiarum di Pietro<br />

Lombardo, non fa spazio a una riflessione sulla Chiesa, demandando al diritto canonico o alla sa-<br />

cramentaria i temi propriamente ecclesiologici. Lo stesso accade anche nella Summa Theologiae di<br />

Tommaso d’Aquino 5 .<br />

Il trattato vero e proprio appartiene alla teologia post-tridentina, la quale è tutta preoccupata di pro-<br />

vare contro i protestanti che la Chiesa cattolico-romana è l’unica vera e visibile Chiesa di Cristo.<br />

L’esigenza non va liquidata come semplice autogiustificazione: in quei tempi confusi in cui più co-<br />

munità ecclesiali rivendicavano di essere la vera Chiesa di Cristo, si sentì la necessità di offrire al<br />

discernimento dei fedeli disorientati alcuni elementi empiricamente rilevabili che permettessero loro<br />

di verificare senza ambiguità la loro appartenenza alla vera comunità di salvezza. Ecco perché Ro-<br />

berto Bellarmino nel presentare la chiesa si concentrò solo sulla sua dimensione istituzionale, in<br />

3 G. COLOMBO. “Il dato e lo sviluppo storico della definizione di Chiesa nella costituzione dogmatica «Lumen gentium»”,<br />

in La costituzione dogmatica «De Ecclesia», Scuola di Pastorale per le Diocesi della Regione Emiliana, Parma<br />

1965, I, 13.<br />

4 È molto istruttivo riflettere sulla struttura dell’opera. Essa è divisa in due parti. La I Parte, intitolata “La gloria del regno<br />

ecclesiastico” è in sei capitoli: cap. 1. La Chiesa è definita un regno in modo opportuno e appropriato; cap. 2. Il regno<br />

della Chiesa è ortodosso, quindi giustamente glorioso. Le condizioni e l’essenza della sua gloria; cap. 3. Il regno<br />

della Chiesa è uno; cap. 4. Il regno della Chiesa è cattolico, cioè universale; cap. 5. Il regno della Chiesa è santo; cap. 6.<br />

Il regno della Chiesa è apostolico. La II parte, intitolata “Il potere di Cristo re e del suo Vicario”, si divide in dieci capitoli:<br />

cap. 1. Le molteplici forme del potere di Cristo; cap. 2. Il potere che Cristo comunicò agli uomini; cap. 3. Gli uomini<br />

ai quali è stato comunicato il potere di Cristo; cap. 4. Le differenze tra i poteri sacerdotale e regio nei prelati della<br />

Chiesa relativamente agli atti e ad altre forme di confronto; cap. 5. I gradi e le forme di disuguaglianza del potere sacerdotale<br />

e regio in chi li possiede. Il primato del Sommo Pontefice su tutte le Chiese e i loro reggenti; cap. 6. La differenza<br />

e l’uguaglianza delle due forme, spirituale e secolare, del potere regio; cap. 7. Ulteriori confronti tra il potere spirituale e<br />

temporale; cap. 8. Alcune riflessioni sui poteri già descritti; cap. 9. Il supremo potere spirituale detiene la pienezza del<br />

potere pontificio e regio; cap. 10. Alcune obiezioni alle affermazioni fatte e loro soluzione. Dell’opera di Giacomo da<br />

Viterbo esiste una traduzione italiana: Il governo della Chiesa, a cura di A. Rizzacasa e G.B.M. Marcoaldi (Firenze:<br />

Nardini Editore, 1993).<br />

5 Tommaso svolge le tesi teologiche riguardanti la chiesa nel quadro della grazia capitale di Cristo (gratia capitis):<br />

l’uomo Gesù, possedendo la pienezza della grazia, è allo stesso tempo la Testa dell’umanità e del corpo della Chiesa, di<br />

cui lo Spirito è (secondo la prospettiva di S. Agostino) l’anima; la chiesa è quindi l’ambito dell’influsso spirituale del<br />

Cristo (S. Th., III, q. 8).<br />

2


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

particolare sui tre elementi della professione esterna della fede, della partecipazione ai sacramenti e<br />

dell’obbedienza ai legittimi pastori in particolare al Papa, come condizioni necessarie e sufficienti<br />

per determinare l’appartenenza alla chiesa. Non che nella Chiesa non ci fossero lo Spirito, la vita di<br />

grazia, le virtù soprannaturali della fede, speranza e carità; ma queste realtà non si potevano visi-<br />

bilmente localizzare e quindi non consentivano un discernimento ecclesiale. Questa scelta ebbe però<br />

conseguenze decisive per il trattato di <strong>ecclesiologia</strong>. Abbandonata sul nascere l’alternativa di tema-<br />

tizzare la Chiesa a partire dal suo mistero, respinta polemicamente l’idea di una Chiesa invisibile e<br />

nascosta, cara alla teologia della Riforma, esasperato il conflitto tra “congregazione “ e istituzione a<br />

favore di quest’ultima, tra autorità ecclesiastica e autorità della Scrittura, la letteratura post-<br />

tridentina insisterà sulla dimensione esterna, giuridica della Chiesa, tacendone gli aspetti interiori e<br />

pneumatici. Ne deriverà una «<strong>ecclesiologia</strong> del potere gerarchico e soprattutto del potere papale» 6 .<br />

Nella teologia cattolica fu, in particolare, il Billuart ad adottare (prima metà del ‘700) il termine so-<br />

cietas nel suo preciso significato sociologico istituzionale come la fondamentale chiave ermeneutica<br />

dell’<strong>ecclesiologia</strong>. Questa idea ebbe tale successo che ancora nel 1950 il De Ecclesia di T. Zapelena<br />

sostanzialmente lo riprende. Il punto di partenza è l’idea che Gesù con la sua predicazione del Re-<br />

gno ha istituito la chiesa nella forma di una «vera e propria società»; cosa sia la società viene defini-<br />

to sul piano filosofico: è l’«unione stabile di molti che tendono con i loro atti a un fine comune». I<br />

molti ne costituiscono la causa materiale, l’unione morale la causa formale, lo scopo comune la cau-<br />

sa finale, l’autorità la sua causa efficiente 7 . Ora, è proprio l’autorità il principio decisivo per la com-<br />

prensione della Chiesa. Infatti, l’unione della massa dei fedeli sia pure nella forma di unità morale<br />

non ne è il principio interpretativo. La causa finale, che è la salvezza delle anime, risulta struttural-<br />

mente estrinseca alla chiesa, che ne è semplicemente lo strumento. Non resta che la causa efficiente:<br />

l’autorità investita di questo potere da Cristo stesso unisce i fedeli e li tiene uniti nella chiesa affin-<br />

ché vi trovino gli strumenti per salvarsi l’anima. E per dimostrare che così Dio ha voluto la chiesa,<br />

basterà provare, mediante Mt 16,18s, che Gesù ha conferito a Pietro una suprema autorità, capace di<br />

adunare gli uomini nella fede e mantenerli nell’unità sotto il suo governo 8 .<br />

3. La categoria di societas applicata alla Chiesa non ha cominciato a godere di cattiva fama solo a<br />

ridosso del Concilio Vaticano II. Già all’inizio del secolo XIX la scuola di Tübingen e segnatamente<br />

il suo esponente più illustre, Johann Adam Möhler, aveva stigmatizzato l’<strong>ecclesiologia</strong> societaria<br />

6 Y. CONGAR, “Bulletin d’ecclésiologie”, in Revue des sciences philosophiques et théologiques 31 (1947) 78.<br />

7 T. ZAPELENA, De ecclesia Christi. Pars apologetica, Università Gregoriana, Roma 1950, 68.<br />

8 Ibid., 73-78.<br />

3


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

come “deismo naturalistico”. Recensendo un saggio di storia ecclesiastica del Katerkamp, così sin-<br />

tetizzava tale concezione: «Dio creò (all’inizio) la gerarchia, ed ha provveduto più che a sufficienza<br />

per la Chiesa, fino alla fine del mondo» 9 . Dio è attivo ed efficace solo agli inizi della Chiesa, in ana-<br />

logia al suo agire nella creazione; l’ulteriore svolgimento, il decorso della storia, si svolge seguendo<br />

leggi, strutture e funzioni autonome, immanenti alla Chiesa; legittima garante di questo svolgersi è<br />

la gerarchia. Ora, questa visione dimentica che lo Spirito continua ad agire nella Chiesa, anzi a strut-<br />

turarla come il suo organismo, come il corpo di Cristo, la continuazione dell’incarnazione 10 .<br />

L’impulso dato da Möhler venne ripreso e diffuso dalla Scuola Romana 11 . Esso raggiungerà il suo<br />

apogeo nei primi decenni del XX secolo, quando riceverà poi la sua consacrazione con l’enciclica di<br />

Pio XII, Mystici corporis (1943), che presenterà la Chiesa proprio quale corpo mistico di Cristo. In<br />

quegli stessi anni, però, alcuni autori avevano preferito incentrare la riflessione sulla Chiesa sulla<br />

categoria di popolo di Dio, ritenendola più esauriente nel render conto della realtà della Chiesa che<br />

quella di corpo mistico 12 . La discussione fra queste due alternative ha contrassegnato per un po’ la<br />

riflessione teologica fino alla vigilia del Concilio Vaticano II attorno alla questione di una possibile<br />

definizione vera e propria della Chiesa, concludendosi però con la rinuncia a tale impresa, conside-<br />

rata la realtà di «mistero» della Chiesa: di essa se ne poteva dare solo una descrizione di tipo meta-<br />

forico o analogico 13 . In ogni caso, da allora la trattazione societaria ha dovuto cedere il passo<br />

all’approfondimento del carattere misterico (meglio ancora: trinitario 14 ) e storico salvifico della<br />

Chiesa. Nel frattempo un’altra proposta ecclesiologica si faceva strada, quella della “Chiesa sacra-<br />

mento”: essa sembrava in grado di salvaguardare nella realtà unitaria della Chiesa la distinzione e la<br />

9<br />

ThQ 5 (1823) 497; sul tema J.R. GEISELMANN, “Il mutamento della coscienza della chiesa e dell’ecclesialità nella teologia<br />

di Giovanni Adamo Möhler”, in J. DANIÉLOU – H. VORGRIMLER (edd.), Sentire Ecclesiam. La coscienza della<br />

Chiesa come forza plasmatrice della pietà, vol. II, Edizioni Paoline, Roma 1964 (ed. or. 1961), 221-459.<br />

10<br />

J.A. MÖHLER, L’unità nella Chiesa. Il principio del cattolicesimo nello spirito dei Padri della chiesa dei primi tre<br />

secoli, Città Nuova, Roma 1969 (ed. or. 1825); Simbolica o esposizione delle antitesi dogmatiche tra cattolici e protestanti<br />

secondo i loro scritti confessionali pubblici, Jaca Book, Milano 1984 (ed. or. 1832).<br />

11<br />

K.H. NEUFELD, “La scuola romana”, in R. FISICHELLA (ed.), Storia della teologia, III, EDB, Bologna – Roma 1996,<br />

267-285.<br />

12<br />

M.D. KOSTER, Ekklesiologie im Werden, Paderborn 1940.<br />

13<br />

Y. CONGAR, Sainte Église. Études et approches ecclésiologiques, Paris 1963. Un tentativo molto serio di individuare<br />

una formula ecclesiologica fondamentale si trova nel saggio di H. MÜHLEN, Una mystica persona. La Chiesa come il<br />

mistero dello Spirito Santo in Cristo e nei cristiani: una persona in molte persone, Città Nuova, Roma 1968 (ed. or.<br />

1964; 1967 2 ).<br />

14<br />

Un tema ancora molto presente nei manuali: M. KEHL, La Chiesa, op. cit, 57-95; B. FORTE, La Chiesa dalla Trinità.<br />

Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, San Paolo, Cinisello B. (Mi) 1995; G. CALABRESE, Per una <strong>ecclesiologia</strong><br />

trinitaria. Il mistero di Dio e il mistero della Chiesa per la salvezza dell’uomo, EDB, Bologna 1999. Recentemente<br />

è stato fatto anche il tentativo di determinare le caratteristiche della Chiesa a partire dalle proprietà personali<br />

“teologiche” ed “economiche” dello Spirito Santo: G. CISLAGHI, Per una <strong>ecclesiologia</strong> pneumatologica. Il Concilio Va-<br />

4


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

coappartenenza di dimensione giuridico-istituzionale e dimensione misterico-spirituale, che le pre-<br />

cedenti impostazioni della “Chiesa società” e della “Chiesa corpo mistico” tendevano a separare, la<br />

prima relegando gli aspetti teologali al trattato “De gratia” e la seconda contrapponendo la Chiesa<br />

del diritto alla Chiesa della carità. Questa impostazione, inoltre, superava un certo ecclesiocentri-<br />

smo, mettendo maggiormente in luce l’esistenza e il compito della chiesa nel mondo 15 .<br />

Tutte queste posizioni vennero accolte e miscelate nella costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen<br />

gentium del Concilio Vaticano II (1964), che non a caso intitolerà i primi due capitoli proprio «De<br />

ecclesiae mysterio» (il radicamento trinitario ed economico della Chiesa) e «De populo Dei» (la<br />

Chiesa quale “soggetto storico” presente nella storia in cammino verso il Regno di Dio compiuto).<br />

Per la prima volta il magistero della Chiesa si preoccupava non solo di difendere l’istituzione, ma di<br />

evidenziare il carattere teologico della realtà della chiesa.<br />

4. In verità i grandi orientamenti conciliari, dopo una prima fase di recezione “selvaggia” 16 , in cui la<br />

categoria di “popolo di Dio” dopo essere stata la chiave di volta della nuova riflessione ecclesiolo-<br />

gica, è caduta in oblio, anche in ragione di una sua rilettura secondo un’accezione sociologica e per-<br />

sino “rivoluzionaria” (teologia politica e teologia della liberazione 17 ) in alcune correnti vicine al<br />

pensiero marxista e quindi preoccupate del risvolto pratico del pensiero teologico 18 , verranno con-<br />

vogliati attorno alla categoria di “comunione”.<br />

Il sinodo straordinario dei vescovi del 1985 dedicato appositamente alla recezione del Vaticano II,<br />

ha favorito intenzionalmente la dissolvenza sulla categoria di popolo di Dio per ricentrare<br />

l’<strong>ecclesiologia</strong> attorno alla categoria di “comunione”. Nel documento finale, infatti, si dice espres-<br />

samente che «l’<strong>ecclesiologia</strong> di comunione è l’idea centrale e fondamentale dei documenti del con-<br />

ticano II e una proposta sistematica, Dissertatio Series Romana – 39, Pubblicazioni del Pontificio Seminario Lombardo<br />

in Roma – Glossa, Roma- Milano 2004.<br />

15 O. SEMMELROTH, La Chiesa sacramento di salvezza, Napoli 1965 (2 a ed. ted. 1955); E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento<br />

dell’incontro con Dio, Edizioni Paoline, Roma 1962 (ed. or. 1957); K. RAHNER, Chiesa e sacramenti, Morcelliana,<br />

Brescia 1965 (ed. or. 1960); J. AUER, La chiesa universale sacramento di salvezza, Cittadella, Assisi 1988 (ed.<br />

or. 1983). Ancora di recente utilizza la categoria di sacramento come chiave di volta dell’<strong>ecclesiologia</strong> W. SIMONIS, Die<br />

Kirche Christi. Ekklesiologie, Patmos, Düsseldorf 2005.<br />

16 J. RATZINGER - V. MESSORI, Rapporto sulla fede, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1985; G. COLOMBO, “Riprendere<br />

il cammino: il Vaticano II e il post-concilio”, in La Scuola cattolica 133 (2005) 3-18.<br />

17 L. BOFF, Ecclesiogenesi. Le comunità di base reinventano la chiesa, Borla, Roma 1978 (ed. or. 1977); ID., Chiesa:<br />

carisma e potere. Saggio di <strong>ecclesiologia</strong> militante, Borla, Roma 1984 (ed. or. 1981); J.A. ESTRADA, Da chiesa mistero<br />

a popolo di Dio, Cittadella, Assisi 1991 (ed. or. 1988).<br />

18 J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> del Vaticano II, in ID., Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo<br />

(Mi) 19879-32; ID., “L’<strong>ecclesiologia</strong> della Costituzione «Lumen Gentium»”, in Il Concilio Vaticano II. Recezione<br />

e attualità alla luce del Giubileo, a cura di R. Fisichella., San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000, 66-81, qui 69.<br />

5


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

cilio» 19 . Inoltre, la Congregazione per la dottrina della fede (1992) ha fatto sua, pur con alcuni di-<br />

stinguo, questa nozione di communio come «molto adeguata per esprimere il mistero della chiesa»<br />

così che «può certamente essere una chiave di lettura per una rinnovata <strong>ecclesiologia</strong> cattolica» 20 .<br />

Anche la 7 a assemblea generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Canberra 1991) nel docu-<br />

mento della commissione di Fede e costituzione, «L’unità della Chiesa come koinonia: dono e vo-<br />

cazione», ha proposto di considerare la communio come categoria chiave della visione della chie-<br />

sa 21 . In particolare questa nozione appare sempre più chiaramente come possibile formula di con-<br />

senso verso l’auspicato processo ecumenico di unione delle Chiese e come occasione per ristruttura-<br />

re i concreti rapporti intraecclesiali. Molti progetti ecclesiologici recenti hanno di conseguenza tro-<br />

vato quindi il loro asse centrale attorno alla categoria di comunione come capace di esprimere il ra-<br />

dicamento della Chiesa nella comunione trinitaria e allo stesso tempo la concreta forma dei rapporti<br />

intraecclesiali 22 .<br />

D’altra parte non mancano voci critiche nei confronti di questa nuova manualistica della comunio-<br />

ne: in essa vi vedono una Chiesa in cui viene sbiadita la prospettiva storica che il concilio con la ca-<br />

tegoria di popolo di Dio aveva messo in primo piano, una chiesa rinchiusa su se stessa e concentrata<br />

sui propri problemi di ristrutturazione delle istituzioni a livello universale come a livello locale, che<br />

ha smarrito il contatto con la cultura “postmoderna” 23 . Non solo, si evidenzia pure che il termine<br />

comunione non può significare la chiesa come un soggetto collettivo operante nella storia, ma solo<br />

la condizione particolare del rapporto che lega fra loro i suoi membri 24 . Pertanto, sta riprendendo<br />

fiato una riflessione ecclesiologica attenta alle acquisizioni della contemporanea filosofia sociale,<br />

che contesta le tendenze idealizzanti e riduzionistiche dell’<strong>ecclesiologia</strong> scaturita in seguito al Vati-<br />

19 SINODO DEI VESCOVI, II Assemblea straordinaria (1985), Relatio finalis, II, C, 1 = EV 9, § 1800. W. KASPER, Il futuro<br />

dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985, Queriniana, Brescia 1986.<br />

20 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera «communionis notio» su alcuni aspetti della Chiesa intesa<br />

come comunione, 1. Cfr. J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> della Costituzione «Lumen Gentium», art. cit., 69ss.<br />

21 Cfr. Il Regno. Documenti XXXVI (1991/7) 253. Incentrato sul tema della comunione è anche l’importante documento<br />

di FEDE E COSTITUZIONE, La natura e lo scopo della Chiesa, in Il Regno. Documenti XLIV (1999/9) 315-328, e quello<br />

del Gruppo di lavoro bilaterale della conferenza episcopale tedesca e della direzione della chiesa evangelica di Germania,<br />

Communio sanctorum. La chiesa come comunione dei santi, a cura di A. Maffeis, (Brescia: Morcelliana, 2003).<br />

22 Pioniere è stato J. HAMER, La Chiesa è una comunione, Morcelliana, Brescia 1964 (ed. or. 1962). Uno dei suoi sostenitori<br />

più convinti e convincenti J.-M. R. TILLARD, Chiesa di chiese. L’<strong>ecclesiologia</strong> di comunione, Queriniana, Brescia<br />

1989 (ed. or. 1987); ID., L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité, Cerf, Paris 1995. Su questa linea<br />

anche: S. DIANICH, La Chiesa mistero di comunione, Marietti, Genova 1975; M.M. GARIJO-GUEMBE, Gemeinschaft der<br />

Heiligen, Patmos, Düsseldorf 1988; M. KEHL, La Chiesa, op. cit.; B. FORTE, La Chiesa dalla Trinità, op. cit.; M. SE-<br />

MERARO, Mistero, comunione e missione. Manuale di <strong>ecclesiologia</strong>, EDB, Bologna 1996; J. RIGAL, L’ecclésiologie de<br />

communion. Son évolution historique et ses fondements, Cerf, Paris 1997.<br />

23 G. COLOMBO, “Il «popolo di Dio» e il «mistero» della chiesa nell’<strong>ecclesiologia</strong> postconciliare”, in Teologia 10 (1985)<br />

97-168; ID., “Riprendere il cammino: il Vaticano II e il post-concilio”, in La Scuola cattolica 133 (2005) 3-18.<br />

24 S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, op. cit., 152.<br />

6


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

cano II, che sarebbe molto a suo agio nel discettare con la Scrittura e la tradizione patristica della<br />

provenienza della Chiesa dalla Trinità, ma estremamente imbarazzata nell’utilizzare le contempora-<br />

nee riflessioni sociologiche per determinare concretamente identità e compiti della Chiesa quale re-<br />

altà sociale fra le altre 25 . Che la cosa stia cominciando a riscuotere un certo interesse, si vede anche<br />

in un’attenzione crescente alla filosofia sociale e ai suoi risvolti sulla dimensione istituzionale della<br />

Chiesa nei manuali più avvertiti 26 .<br />

1.2. Da dove partire?<br />

(1) Ciò considerato ci chiediamo quale sia il punto di partenza per una riflessione teologica sulla<br />

chiesa? La risposta “catechistica” suggerisce che l’intelligenza della fede qui in questione dovrebbe<br />

prendere in esame quell’articolo del Simbolo della fede che confessa: credo ecclesiam.<br />

Il suggerimento non è superficiale. Se, infatti, facciamo attenzione alla concreta esperienza della fe-<br />

de, rileviamo due punti di vista. Da una parte si diviene credenti solo perché altri hanno già vissuto<br />

questa fede in precedenza, l’hanno raccontata, annunciata e insegnata. Ognuno, dunque, impara la<br />

fede solo a condizione che prima di lui esista già una comunità di credenti e che egli stesso diventi<br />

parte di questa comunità. Dall’altra parte sembra che solo chi già crede possa comprendere effetti-<br />

vamente che cos’è la chiesa… Naturalmente si può studiare la chiesa dal punto di vista storico, so-<br />

ciologico e psicologico. Se però si interroga un credente convinto, egli dirà che tali indagini non<br />

hanno ancora colto il senso autentico, la dimensione profonda della chiesa.<br />

Questa doppia prospettiva ecclesiologica di base si ritrova codificata anche nei documenti fonda-<br />

mentali della fede cristiana, nelle confessioni della chiesa antica. Se infatti si comprende la profes-<br />

sione di fede trinitaria della chiesa antica come espressione della struttura fondamentale dell’espe-<br />

rienza cristiana di Dio, la chiesa appare collocata all’interno del contesto complessivo della fede cri-<br />

stiana e, più precisamente, in una duplice posizione: in primo luogo essa è soggetto della fede<br />

nell’introduzione della professione di fede ove dice «io credo» oppure «noi crediamo»; in secondo<br />

luogo essa appare come oggetto della fede nel terzo articolo: «Credo nello Spirito Santo, la santa<br />

chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vi-<br />

ta eterna» (Simbolo Apostolico: DzH, 10-30).<br />

25 C. DUQUOC, Chiese provvisorie. Saggio di <strong>ecclesiologia</strong> ecumenica, Queriniana, Brescia 1985 (ed. or. 1985); ID.,<br />

«Credo la Chiesa». Precarietà istituzionale e Regno di Dio, Queriniana, Brescia 2001 (ed. or. 1999); J.A. KOMON-<br />

CHACK, Foundations in Ecclesiology, Boston College, Boston 1995; N. ORMEROD, “The Structure of a Systematic Ecclesiology”,<br />

in Theological Studies 63 (2002) 3-30.<br />

26 M. KEHL, La Chiesa. Trattato sistematico di <strong>ecclesiologia</strong> cattolica, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1995 (ed. or.<br />

1992) 123-154, 373-385; S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, op. cit., 11-71.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

a) Chiesa come soggetto della fede<br />

A) Nel Credo la chiesa appare anzitutto come soggetto della fede. Certo, sono sempre i singoli cre-<br />

denti che dicono «io credo» o «noi crediamo»; se però si segue la spiegazione teologica della profes-<br />

sione di fede dell’antichità e del Medio Evo, è sempre la chiesa il vero soggetto che qui parla.<br />

B) In questa prospettiva la fede di ogni singolo è partecipazione alla fede della chiesa, fede nella<br />

chiesa. Nessuno inventa da sé la propria fede. La fede è possibile solo come credere-con e credere-<br />

dopo (imitazione). La comunità dei fedeli è il vero soggetto della fede e il modo proprio della tra-<br />

smissione di essa. In linea di principio solo nella comunità è possibile la fede.<br />

C) La chiesa non diviene soggetto della fede per propria decisione o per propria forza. Essa può di-<br />

venire soggetto nella misura in cui essa sa di essere, si professa e si comporta come popolo eletto e<br />

radunato da Dio, come forma della manifestazione storica del Risorto, costituita attraverso la parte-<br />

cipazione al corpo eucaristico di Cristo, e come nuova creazione realizzata dallo Spirito Santo.<br />

D) Da questo punto di vista però la chiesa non è solo oggetto dell’agire di Dio ma, in conseguenza e<br />

come significato di esso, è essa stessa soggetto di un’azione, cioè della chiamata alla comunione con<br />

Dio, della raccolta e della mediazione. In questa prospettiva la chiesa ha un determinato compito e<br />

una missione e perciò anche una certa struttura e forma di organizzazione.<br />

b) Chiesa come oggetto della fede<br />

A) Secondo il Credo, la chiesa è anche oggetto della fede e, in ultima analisi solo come tale è com-<br />

prensibile. Essa tuttavia non si trova sullo stesso piano dell’oggetto vero e proprio e del fondamento<br />

della fede, il Dio uno e trino. Se infatti la tradizione latina della professione di fede e della sua spie-<br />

gazione, a partire dal V secolo, all’unanimità ed espressamente ha distinto «io credo in Dio Padre…,<br />

in Gesù Cristo…, nello Spirito Santo…» (credo in Deum Patrem… in Jesum Christum… in Spiri-<br />

tum Sanctum) 27 da «io credo la chiesa» (credo Ecclesiam), voleva esprimere in questo modo la con-<br />

vinzione che nella sua essenza la fede è un convertirsi e un rivolgersi verso il Dio vivente stesso,<br />

che la fede, come risposta alla chiamata di Dio, è un essere in relazione con lui…, mentre questa fe-<br />

de può riferirsi alla chiesa solo in quanto essa fa parte delle opere e degli strumenti di cui Dio si ser-<br />

ve per chiamare l’umanità alla comunione con sé. Per questo il Catechismus ad Parochos del Con-<br />

cilio di Trento così spiega: «Noi crediamo nelle tre persone della Trinità, Padre, Figlio e Spirito san-<br />

27 La distinzione fra credere in Deum (incondizionata adesione e dedizione della vita e del cuore), credere Deo (credito<br />

dato all’autorità), credere Deum (accettazione di un dato oggettivo), è formulata classicamente da S. Agostino: In Joannem,<br />

29, 6; 48, 3: PL 35, 1631 e 1741; In Psalm., 77, 8: PL 36, 988s; 130,1: PL 37, 1704.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

to, così che proprio in loro collochiamo la nostra fede. Invece, mutando la forma del dire, noi pro-<br />

fessiamo di credere la santa chiesa e non nella santa chiesa, affinché con questo modo diverso di<br />

parlare si faccia distinzione fra Dio, autore di tutte le cose e le sue creature, e riconosciamo venuti<br />

dalla bontà divina tutti quei sublimi benefici che furono conferiti alla chiesa» (p. I, cap. x, n. 22).<br />

Si deve però riconoscere che nei simboli antichi si diceva pure: “credo nella chiesa”: si veda ad es.<br />

la recensione greca del Simbolo redatto al Costantinopolitano I: «heis mίan hagίan katholikèn kaì<br />

apostolikèn ekklesίan» (DzH 150). In proposito O. SEMMELROTH così commenta: «Credere in Dio<br />

come Dio di salvezza significa infatti incontrarlo nel contesto che lui stesso ha scelto per farsi<br />

Corpo e che già in Cristo comportava delle imperfezioni che lo rendevano motivo di scandalo (Mt<br />

11,6). Infine, questa è la kenosi di Dio, la quale prosegue nella sua incarnazione e nella quale il Signore<br />

glorificato percorre la storia: mediante il suo santo Spirito e nella Chiesa. Credere in Dio significa<br />

cercarlo nel corpo di Cristo, che è la Chiesa… È vero che la tradizione ha sempre esitato ad<br />

affermare una possibilità di credere “in ecclesiam”, mentre si è dimostrata più disposta ad affermare<br />

un “credo ecclesiam”, dove il credere-in veniva propriamente riservato a Dio soltanto. E tuttavia,<br />

siccome Dio, nel proseguimento della historia salutis, dopo la glorificazione di Cristo, ha voluto<br />

riuscirci accessibile nel sacramento della sua Chiesa, si può rettamente parlare anche di un “credo<br />

in ecclesiam”. Questa fede infatti si riferisce a Dio in quanto egli è presente ed attivo nella sua<br />

Chiesa mediante lo Spirito di Cristo. E si riferisce alla Chiesa in quanto essa è il corpo del Signore,<br />

il sacramento della salvezza, quindi segno e pegno di un Dio che si comunica agli uomini» (“Il<br />

nuovo popolo di Dio come sacramento della salvezza”, in Mysterium Salutis vol. VII, 379). Anche<br />

Tommaso spiega perché si può confessare un credere nella Chiesa: «Si dicatur: “in sanctam Ecclesiam<br />

catholicam”, est hoc intelligendum secundum quod fides nostra refertur ad Spiritum Sanctum,<br />

qui sanctificat Ecclesiam [“qui unificat Ecclesiam”: In 3 Sent., d. 25, q. 1, a. 2, ad 5m], ut sit sensus:<br />

“Credo in Spiritum Sanctum sanctificantem Ecclesiam”. Sed melius est, et secundum communiorem<br />

usum, ut non ponatur ibi in sed simpliciter dicatur “sanctam Ecclesiam catholicam”»<br />

(S.Th., II-II, q.1, a. 9, ad 5; cfr. H. DE LUBAC, Meditazione sulla Chiesa, Milano 1979, 14ss.).<br />

B) Chi fa propria la professione di fede dunque crede che la chiesa appartiene ai doni di salvezza del<br />

Dio vivente, ai “frutti” della redenzione e alla speranza escatologica dei cristiani; essa stessa però<br />

fonda la sua esistenza sulla fedeltà e sulla fidatezza del Dio uno e trino. Per questo è esclusa ogni<br />

idolatria della chiesa. In questa prospettiva, la chiesa, piuttosto, è sempre opera del libero agire divi-<br />

no di cui non si può disporre e anzitutto creatura e opera dello Spirito Santo (terzo articolo).<br />

C) Poiché si tratta della chiesa nel terzo articolo, dove si compie il passaggio tra la presenza della<br />

redenzione in Cristo e l’anticipazione del compimento nello Spirito santo, si trova qui anche<br />

l’indicazione del luogo dell’<strong>ecclesiologia</strong> all’interno della dogmatica.<br />

(2) Una volta individuato il luogo, occorre determinare anche il modo concreto di procedere. Una<br />

possibile via potrebbe essere quella di ripercorrere le tappe storiche che hanno portato al costituirsi<br />

del trattato per vedere a quali esigenze rispondeva in origine e come la sua impostazione è cambiata<br />

successivamente. Preferiamo evitare questa strada per due ragioni. La prima risiede nel fatto che<br />

l’<strong>ecclesiologia</strong> odierna non ha alle spalle qualcosa di simile a quanto possiede, ad es., la teologia<br />

trinitaria in un De Trinitate di Agostino (o una Summa Theologiae). Per quanto sia enorme la lette-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

ratura prodotta lungo i secoli sul nostro oggetto, l’unica vera e propria tradizione trattatistica<br />

dell’<strong>ecclesiologia</strong> è quella scolastica in tutte le sue accezioni, la quale però, più o meno, è sempre<br />

stata governata da preoccupazioni controversistiche ed apologetiche… poco teologiche. Inoltre que-<br />

sta via esige di riflettere su alcune scelte di impostazione del discorso ecclesiologico senza cono-<br />

scerne i contenuti. Per questi motivi, la scelta è caduta su una via diversa. Partiremo dall’osserva-<br />

zione del linguaggio con cui si parla della chiesa, cercando di evidenziarne i diversi significati.<br />

1.3. Il linguaggio<br />

In <strong>ecclesiologia</strong> ci troviamo di fronte al caso di un atto di fede che, invece di tendere esclusivamente<br />

verso Dio, è alle prese con questa “creatura” della Parola di Dio che è la chiesa. Il primo nodo da<br />

sciogliere in questa ricerca è allora quello di identificare che cosa sia la chiesa. A prima vista infatti<br />

sembra che il termine chiesa sia univoco e significhi una realtà dai contorni ben determinati, ma non<br />

è così. Tra le varie parti della teologia, quella che ha maggior difficoltà nell’identificare con esattez-<br />

za il proprio oggetto è proprio l’<strong>ecclesiologia</strong>.<br />

1.3.1. Le sue aporie<br />

In passato vigeva una regola ortografica, secondo cui si doveva scrivere Chiesa con la maiuscola per<br />

dire la società dei cristiani e chiesa con la minuscola per indicare l’edificio del culto. Ma in seguito<br />

è sorto il bisogno di declinare la Chiesa con la maiuscola anche al plurale. Infatti il discorso ecume-<br />

nico porta con sé la necessità di poter ragionare senza il tradizionale presupposto che ogni altra<br />

chiesa, diversa da quella intesa da noi, sia tanto inautentica da potersi reputare di fatto inesistente.<br />

Inoltre, anche nell’ambito più ristretto dell’<strong>ecclesiologia</strong> confessionale cattolica diventa necessario<br />

declinare la Chiesa al plurale, non appena si intende sfaccettare il concetto tradizionale dominante<br />

di chiesa universale nell’idea delle chiese locali… nonostante gli imbarazzi che possono sorgere nel<br />

dire «la chiesa di Milano»… superati o nel dire «la diocesi di Milano» o con gli arcaismi neotesta-<br />

mentari o patristici «la Chiesa che è in Milano» oppure «la chiesa pellegrina in Milano».<br />

Se usciamo dal recinto del linguaggio ecclesiastico, poi, molte cose cambiano. Persiste infatti<br />

l’abitudine di usare il termine «chiesa» per indicare esclusivamente il papa, i vescovi o qualche isti-<br />

tuzione ecclesiastica di altissimo livello. Questo avviene normalmente nei mezzi di comunicazione<br />

sociale e nei discorsi comuni della gente.<br />

Oltre a questi fenomeni più macroscopici, anche all’interno di alcuni luoghi classici del discorso ec-<br />

clesiologico è facile rilevare la presenza di ambiguità. Per esempio l’assioma «La chiesa fa l’euca-<br />

ristia e l’eucaristia fa la chiesa», presenta un differenziarsi di piani semantici. Infatti l’eucaristia è<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

soggetto (cioè «fa» la chiesa) sul piano dell’agire di Dio, mentre sul piano “empirico” ne è l’oggetto,<br />

dato che se per eucaristia si intende invece l’azione rituale, l’assioma è palesemente equivoco, poi-<br />

ché se non c’è una chiesa costituita che la celebri, semplicemente non si dà azione eucaristica. Se<br />

non si esercita un rigoroso controllo logico, può succedere che si discorra su due piani diversi come<br />

se ci si trovasse sul medesimo piano, con effetti devastanti per la sensatezza delle cose che si dico-<br />

no. Ciò accade per esempio, quando si consegna la chiesa e le sue imprese alla grazia del mistero<br />

per risolvere i problemi di carattere storico riguardanti la sua missione fra gli uomini… come quan-<br />

do si dice che per risolvere i problemi basta pregare ed essere santi… oppure quando si sostiene che<br />

la soluzione offerta al problema deve essere considerata valida solo perché è legittima ed è sostenuta<br />

dalla fede e dalla preghiera, indipendentemente dalla verifica della sua efficacia. Pensiamo anche a<br />

certe interpretazioni del potere di agire in persona Christi, dove il rapporto con Cristo è pensato ne-<br />

gli identici termini giuridici di una delega plenipotenziaria da un’autorità superiore a un’autorità in-<br />

feriore tutto sommato omogenee fra loro, quasi non intervenisse alcun salto di qualità nel rapporto<br />

fra Cristo e il ministro sulla terra. Può succedere inoltre che si parli di una sacramentalità della nor-<br />

mativa canonica, senza preoccuparsi di distinguerla nettamente dalla sacramentalità dell’ex opere<br />

operato, nella quale la grazia significata dal segno chiede di essere creduta per fede.<br />

Anche nella ricerca di un corretto rapporto con il mondo, cioè con gli uomini e con le istituzioni che<br />

non le appartengono, bisognerebbe guardarsi dalle ambiguità che possono derivare alla chiesa dalla<br />

sua consapevolezza di essere una grandezza trascendente e insieme immanente alla storia. Si pensi<br />

alla pretesa, che a volte si avanza, di sottrarre la chiesa al giudizio del mondo in nome dello Spirito<br />

che la guida, oppure, viceversa, di porla dentro la storia in competizione con le istituzioni mondane,<br />

quasi si trattasse di grandezze fra loro omologabili. La Parola, è vero, giudica e non tollera di essere<br />

giudicata; ma la chiesa che la porta, in quanto è un soggetto storico che agisce con gli uomini e fra<br />

gli uomini, non può sottrarsi al giudizio degli uomini stessi.<br />

Infine, il principio calcedonese della natura umana e divina unite fra di loro «senza confusione e<br />

mutamento, senza divisione e separazione» sarà sempre utilmente invocato in <strong>ecclesiologia</strong>, ma non<br />

si può parlare della chiesa utilizzando la communicatio idiomatum, che attinge la sua legittimità solo<br />

dall’unione ipostatica dell’umanità e della divinità di Cristo.<br />

1.3.2. I diversi piani semantici<br />

I paralogismi, nei quali così frequentemente ci imbattiamo quando parliamo della chiesa, in realtà<br />

non sono imputabili al termine in se stesso, che si presenta con un sufficiente carattere di univocità:<br />

è chiesa un insieme di persone convocate da Dio per vivere uniti in Cristo nella forza dello Spirito<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

santo. Il fatto è che il discorso sull’ekklesía si colloca su piani diversi, e il termine assume significati<br />

differenziati a seconda del piano sul quale viene adoperato. Sarà allora utile cercare di individuare<br />

con maggiore precisione i diversi piani sui quali il termine chiesa assume differenti significati.<br />

a) Il piano fenomenico<br />

Prima di tutto si può discorrere della chiesa come di un oggetto immediatamente raggiungibile nella<br />

pura e semplice osservazione dei fenomeni sociali quali di fatto si presentano a qualsiasi osservato-<br />

re. Chiunque può venire a sapere che in una certa città esiste un’aggregazione di persone le quali<br />

chiamano questo loro ritrovarsi insieme col nome di chiesa. Come questa entità si presenti ed agi-<br />

sca, lo si potrà rilevare attraverso gli strumenti che normalmente si utilizzano per conoscere un fe-<br />

nomeno sociale: dall’osservazione diretta alla notizia giornalistica alla documentazione storica…<br />

Non c’è da meravigliarsi, quindi, che su questo piano parlare della chiesa sia molto spesso la stessa<br />

cosa che parlare del papa, o della conferenza episcopale di un certo paese, o della curia romana.<br />

L’osservatore del fenomeno sociale, infatti, muovendosi sul proprio piano specifico, coglie<br />

all’interno della società civile forme di aggregazione determinate dall’attività economica, altre di<br />

natura politica o culturale, altre di carattere ludico e sportivo e infinite altre determinate dai fattori<br />

più diversi, e accanto a queste anche forme caratteristiche di strutturazione sociale dell’esperienza<br />

religiosa. Dal punto di vista della rilevazione del tessuto sociale quello della chiesa è un fenomeno<br />

registrabile accanto agli altri come fenomeno tipico della religione cristiana, nella quale si dà questo<br />

nome all’aggregazione sociale dei credenti… e dove il fattore gerarchico sembra risultare l’unico<br />

elemento determinante dal punto di vista storico e politico. Pretendere che tutti costoro intendano la<br />

chiesa in un’accezione diversa, per esempio come “sacramento”, cioè segno e strumento di<br />

un’azione salvifica di Dio (Lumen gentium 1), non sarebbe affatto ragionevole.<br />

b) Il piano misterico<br />

Chi guarda le cose con fede tende a scandalizzarsi della spregiudicatezza con cui si parla della chie-<br />

sa sul piano fenomenico, perché egli ha davanti a sé la dimensione profonda di ciò che la chiesa<br />

rappresenta per lui. Egli vorrebbe che mai si parlasse della chiesa senza tenerne conto. In tal modo<br />

però egli si colloca su un altro piano semantico, quello della fede.<br />

Solo attraverso l’atto di fede il discorso si sposta su un piano sul quale si possono dire, di cose stori-<br />

camente apparenti, le radici non storicamente apparenti. Il celebre e fondamentale nesso, dichiarato<br />

da Paolo in 1Cor 15, fra la morte di Cristo, fatto storicamente verificabile, e i nostri peccati, non<br />

può in alcun modo essere constatato empiricamente: è un nesso affermato solo in quanto creduto.<br />

Che in Gesù Cristo Dio abbia agito nella storia umana o che il Risorto sia all’opera nell’atto della<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

chiesa che battezza, sono affermazioni plausibili solo sul piano delle cose credute, anche se riguar-<br />

dano oggetti conosciuti fenomenicamente, come la storia di Gesù di Nazaret o la celebrazione di<br />

una liturgia battesimale in una comunità cristiana.<br />

Quando si passa su questo piano del discorso, parlare della chiesa diventa un’impresa molto più<br />

complessa e difficile. Che il Cristo sia presente alla sua chiesa, ad es., è un dato fondamentale del<br />

discorso credente. Però un dato di questo genere è dell’ordine del sapere della fede: non se ne dà né<br />

verifica empirica né argomentazione di pura ragione. Chi lo afferma e lo crede, lo fa in forza della<br />

sua libera decisione di accogliere come parola di Dio il messaggio apostolico che lo attesta. D’altra<br />

parte questa presenza di Cristo è creduta come presenza nel luogo stesso dell’empeiría ecclesiale,<br />

presenza a quella stessa realtà che il sociologo rileva attraverso le sue indagini e lo storico indaga<br />

con i suoi documenti. Il credente, quindi, deve riferirsi anche al piano fenomenico: non può eluder-<br />

lo, altrimenti non potrebbe dire, a proposito della presenza di Cristo, a chi e dove egli sia presente.<br />

c) Il piano escatologico<br />

Nel linguaggio della fede inoltre si parla della chiesa non solo come di un oggetto “esistente” solo<br />

dal momento in cui è apparso nella storia e solo là dove lo si può dire presente. Infatti se ne parla in<br />

un modo che sembra permettere di traslocare con assoluta disinvoltura l’oggetto chiesa lungo il<br />

tempo, in qualsiasi epoca, ed anche fuori del tempo. Su questo piano semantico la chiesa esiste nella<br />

mente eterna di Dio ed appare già, «in figura», nel consorzio di Adamo ed Eva segnato dalla grazia;<br />

essa inizia la sua storia ab Abel e nella storia di Israele. Naturalmente questo modo di discorrere non<br />

cancella l’interesse per una sua storia da intendersi nel senso più proprio e cronologicamente deter-<br />

minato: in tal caso si dirà che vi fu un tempo in cui la chiesa non c’era e che ancor oggi vi sono re-<br />

gioni del pianeta dove la chiesa non c’è. Il primo modo di parlare della chiesa non rende insensato il<br />

secondo, e viceversa. Ancora si parla della chiesa anche come di un’entità che andrà al di là della<br />

nostra stessa storia, per cui le si può attribuire l’aggettivo celeste. In conclusione: parlando del no-<br />

stro oggetto sul piano misterico il discorso si complessifica, in quanto comporta l’intersecarsi della<br />

dimensione storica e della dimensione escatologica. Occorrerà porvi grande attenzione. Per cui, se si<br />

afferma che la chiesa esisteva fin dall’inizio in Adamo ed Eva, non si può ignorare che i soggetti in-<br />

dividuali che componevano quella chiesa e la stessa chiesa di Israele sono (non solo materialmente,<br />

ma anche formalmente) altri dai soggetti che compongono la chiesa empirica storicamente determi-<br />

nata. E circa la chiesa celeste non è detto che tutti i membri della chiesa terrena vi apparterranno,<br />

mentre potranno appartenervi uomini e donne che sulla terra non l’hanno neppure conosciuta.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

d) Il piano confessionale<br />

Infine c’è un piano del discorso dove si parte dal presupposto che si diano storicamente diverse enti-<br />

tà che pretendono di essere la chiesa di Cristo, mentre in realtà solo una fra tutte lo è veramente. Si<br />

pensi a come ciascuna delle tre grandi conformazioni ecclesiastiche si sia qualificata, per distinguer-<br />

si, con un aggettivo del quale nessuna delle altre potrebbe in alcun modo fare a meno: è forse pen-<br />

sabile una chiesa che non voglia essere evangelica, o non pretenda di essere ortodossa, o che possa<br />

rinunciare a dirsi cattolica?<br />

Il presupposto è tutt’altro che privo di senso, dal momento che questa esistenza di “chiese”, al plura-<br />

le, è del tutto anomala, anzi da ogni cristiano è considerata come una situazione peccaminosa. È na-<br />

turale, quindi, che l’<strong>ecclesiologia</strong> si trovi aperto davanti anche questo piano di discorso per la sua<br />

riflessione. La questione centrale è quella della necessaria individuazione della vera chiesa. Anzi,<br />

nel quadro di una teologia controversistica e non ecumenica, questo è il problema decisivo di ogni<br />

possibile <strong>ecclesiologia</strong>. Non meraviglia che D. Palmieri abbia potuto dare al suo trattato un titolo<br />

siffatto: Tractatus de Romano Pontifice cum prolegomeno de Ecclesia (Romae 1877). L’apice della<br />

controversia confessionale, infatti, sta nella questione del papato. Non appena ci si collochi su que-<br />

sto piano, è evidente che non si potrà sviluppare un’<strong>ecclesiologia</strong> adeguata e corretta senza prima<br />

aver risolto (previamente) il problema del primato.<br />

Ugualmente significativa è l’impostazione di R. Bellarmino. Se la chiesa è l’insieme degli «eletti»,<br />

per cui nella chiesa visibile la vera chiesa resta nascosta e non se ne possono determinare i confini,<br />

come volevano i riformatori, è naturale che Bellarmino, ritenendo invece necessario definire un con-<br />

fine visibile al di fuori del quale non si può parlare di vera chiesa, volesse costruire un’<strong>ecclesiologia</strong><br />

che si muovesse esclusivamente sul piano della visibilità. Certamente egli non riteneva che potesse<br />

esistere un’autentica chiesa cristiana senza interiorità, senza la fede del cuore, la carità dell’anima<br />

cristiana e la presenza dello Spirito Santo. Ma il discorso necessario in quel momento era quello di<br />

un’<strong>ecclesiologia</strong> confessionale e bisognava elaborare una criteriologia per la possibile legittimazio-<br />

ne della chiesa empirica. L’appello al divino, in questo quadro, doveva restare sullo stesso piano:<br />

sarà la volontà, storicamente manifestata, del divino fondatore. Se Gesù ha voluto una chiesa dotata<br />

di una certa struttura, le condizioni da lui poste segnano i confini della vera chiesa. Che poi questo<br />

corpo di credenti abbia tutto un suo mondo interiore, misticamente ricco e carico di grazia, sarà un<br />

dato che non interesserà più l’<strong>ecclesiologia</strong>.<br />

Quando la riflessione teologica si svolge su questo piano, è logico che la dimensione misterica della<br />

chiesa non risulti determinante e che la prospettiva escatologica non interferisca. La stessa dinamica<br />

segno-grazia, esteriore-interiore, caratteristica del piano semantico sacramentale, non appare rile-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

vante. Ecco perché una tale impostazione ecclesiologica confessionale non appare più praticabile.<br />

Ma è possibile un’<strong>ecclesiologia</strong> che resti del tutto assente dal piano confessionale? Il libro di Hans<br />

Küng, La Chiesa 28 , era un tentativo interessante di elaborare un saggio di <strong>ecclesiologia</strong> ecumenica<br />

che tentava di accostarsi il più possibile all’ideale di un discorso transconfessionale grazie all’ap-<br />

porto biblico, inteso rigorosamente come l’elemento fondante e il principio critico di tutti gli svi-<br />

luppi successivi. Ma fino quando la divisione fra le chiese persiste, è possibile in <strong>ecclesiologia</strong> man-<br />

tenere la riflessione teologica sempre al di qua del piano confessionale? Il farlo significherebbe,<br />

come minimo, ignorare che c’è pure una manifestazione della volontà divina sulla forma empirica<br />

della chiesa e che questa forma empirica non costituisce una grandezza totalmente incommensurabi-<br />

le con il mistero dell’elezione e della grazia. Mantenendosi al di qua del piano confessionale<br />

l’oggetto dell’<strong>ecclesiologia</strong> verrebbe a scomparire: resterebbe da trattare in teologia dogmatica del<br />

mistero dell’elezione e della grazia e in teologia pratica dell’organizzazione dei credenti più adegua-<br />

ta per la predicazione del vangelo e la celebrazione dei sacramenti.<br />

e) Conclusione<br />

Osservando come il termine chiesa tenda sempre a scivolare da un piano semantico all’altro, diventa<br />

inevitabile l’interrogativo radicale: è mai possibile fare un’<strong>ecclesiologia</strong>? Se ci collochiamo sul pia-<br />

no fenomenico, potremmo studiare l’aggregazione dei cristiani dal punto di vista sociologico e sto-<br />

rico, oppure da quello di altre scienze umane… Se lo consideriamo sul piano del mistero, allora<br />

sconfineremmo nella teologia della grazia. Se sottolineiamo le valenze escatologiche, affronterem-<br />

mo le questioni cardine di una teologia della storia. Se invece consideriamo il problema delle divi-<br />

sioni confessionali, ci troveremmo nel settore dell’ecumenismo.<br />

C’è quindi un’unica possibilità di fare <strong>ecclesiologia</strong>: individuare un punto in cui i diversi piani se-<br />

mantici si intersecano, in modo che dello stesso identico oggetto si possa ragionare su ciascun pia-<br />

no. Non sarà certo l’abbandono di una o più prospettive possibili a garantire l’adeguatezza e l’uni-<br />

vocità della riflessione ecclesiologica. Né sarebbe facilmente accettabile la posizione fondamental-<br />

mente rinunciataria di chi, nell’ultima fase della neoscolastica, giustapponeva due trattati ecclesio-<br />

logici: quello apologetico, che trattava della chiesa dal punto di vista della sua struttura sociale, e<br />

quello dogmatico, che ne studiava il mistero 29 . Neppure si potrebbe garantire la correttezza del di-<br />

28 Brescia: Queriniana, 1969; orig. ted. 1967. Cfr. anche i lavori di H. SCHUTTE, La Chiesa nella comprensione ecumenica<br />

(Padova: Messaggero, 1993) e di G. CERETI, Per un’<strong>ecclesiologia</strong> ecumenica (Bologna: E.D.B., 1997).<br />

29 T. ZAPELENA, De ecclesia Christi. Pars apologetica. Editio quinta recognita et aucta (Roma: Università Gregoriana,<br />

1950); ID., De ecclesia Christi. Pars altera apologetico-dogmatica (Roma: Università Gregoriana, 1954).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

scorso ignorando la complessità del linguaggio e mescolando fra loro i diversi modi di parlare. Una<br />

condizione fondamentale, necessaria per parlare bene della chiesa, sarà invece quella di rendersi<br />

sempre consapevoli del piano sul quale il nostro linguaggio ha possibilità di essere sensato, per non<br />

passare da un piano all’altro senza mutare contemporaneamente i criteri del discorso.<br />

1.4. L’oggetto<br />

Il problema della complessità del parlare cristiano intorno alla chiesa non è consistito, lungo la sto-<br />

ria, semplicemente in una questione di parole; al contrario, esso si è imposto con prepotenza soprat-<br />

tutto nei momenti delle grandi crisi della chiesa. È l’interrogativo della coscienza cristiana sulla au-<br />

tenticità della realtà stessa nella quale il cristiano vive, che egli chiama “chiesa” e di cui si domanda<br />

se sia davvero la chiesa di Gesù Cristo.<br />

1.4.1. Un oggetto nascosto (la “vera” chiesa)<br />

Nell’antichità cristiana, prima di Gioacchino da Fiore (1130-1202), la posizione che tradizionalmen-<br />

te si teneva era quella antignostica di Ireneo (135/140-200), secondo cui la chiesa vera è semplice-<br />

mente quella che può vantare una discendenza diretta dalle istituzioni apostoliche. Nel secondo mil-<br />

lennio, invece, si cominciò a porre la questione della “vera” chiesa nella sua dimensione globale e si<br />

sollevò la domanda di fondo sulla stessa autenticità cristiana dell’esistenza ecclesiale.<br />

In particolare nella riflessione cattolica si riteneva che MARTIN LUTERO (1483-1546), andando alla<br />

ricerca della vera chiesa, avesse negato legittimità a tutte le forme storiche che pretendessero di ren-<br />

derla visibile agli uomini. La chiesa sarebbe stata quindi una realtà invisibile e inafferrabile.<br />

Nel pensiero poco sistematico di Lutero la riflessione teologica (non solo cattolica) rilevava almeno<br />

una costante: con il termine “Chiesa” Lutero comprendeva due realtà 30 : «La prima, che è naturale,<br />

fondamentale, essenziale e autentica, noi la chiameremo una cristianità spirituale, interiore; la se-<br />

conda, che è costruita ed esteriore, noi la chiameremo una cristianità corporale, esteriore…» 31 .<br />

I commentatori di Lutero hanno discusso nel corso dei secoli sulla questione di sapere se i termini<br />

«Chiesa visibile» e «Chiesa invisibile» designano due realtà separate o due aspetti distinti di una<br />

medesima realtà. Tutto dipende dall’interpretazione del seguito della citazione, che così prosegue:<br />

«non che noi intendiamo separare l’una dall’altra, ma è proprio come quando io discorro a proposito<br />

di un uomo e lo chiamo, secondo l’anima, un uomo spirituale, secondo il corpo, un uomo corpo-<br />

30 Questa costante è sottolineata da A. BIRMELÉ, “Église”, in Encyclopédie du protestantisme, Paris-Genève 1995, 488.<br />

31 LUTERO, Del Papato di Roma (1520), in ID., Scritti politici (Torino: U.T.E.T., 1968 2 ), 81.<br />

16


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

rale, o come l’Apostolo (Rm 7,22s) che ha l’abitudine di parlare dell’uomo interiore ed esteriore.<br />

Allo stesso modo anche l’assemblea cristiana, secondo l’anima, è una comunità che concorda in<br />

una medesima fede, benché, secondo il corpo, essa non possa essere raccolta in un medesimo luogo,<br />

mentre ciascun gruppo è raccolto nel suo luogo.<br />

Questa cristianità è governata dal diritto canonico e dai prelati stabiliti nella cristianità: di essa<br />

fanno parte tutti i papi, cardinali, vescovi, prelati, preti, monaci, suore e tutti coloro che, nello stato<br />

delle cose esteriori, sono reputati dei cristiani, che essi siano autentici e solidi cristiani o che non<br />

lo siano. In effetti, anche se questa comunità non fa un solo vero cristiano poiché tutti gli stati nominati<br />

possono esistere senza la fede, nondimeno mai essa rimane senza qualcuno che, inoltre, è<br />

anche autentico cristiano, proprio come il corpo non fa sì che l’anima viva, mentre l’anima sicuramente<br />

vive nel corpo e anche, sicuramente, senza il corpo. Ma coloro che sono senza fede e senza<br />

la prima comunità in seno a questa seconda comunità, allo sguardo di Dio sono morti, sono degli<br />

ipocriti…».<br />

Alcuni autori affermano di conseguenza che la Chiesa visibile e la Chiesa invisibile costituiscono<br />

«due realtà differenti», e quella che merita veramente il nome di Chiesa è la realtà interiore: «[non vi<br />

è] alcun dubbio che Lutero ha voluto mantenere integralmente la sua nozione di Chiesa, per essenza<br />

spirituale e invisibile come l’anima» 32 . Altri sottolineano al contrario che il punto di partenza di Lu-<br />

tero non è la comprensione dell’elezione e della separazione tra eletti e dannati, ma la constatazione<br />

che, seppur giustificato davanti a Dio, l’essere umano che vive in terra è cittadino di due regni, quel-<br />

lo di Dio e quello del mondo; perché egli è “simul iustus et peccator”. La distinzione non è quindi<br />

da operare tra le persone umane, ma all’interno di ciascuna di esse. «Ecclesiologicamente, ciò signi-<br />

fica che la comunione spirituale dei credenti è una comunità corporale terrestre e dunque visibile. Le<br />

coppie visibile-invisibile, esteriore-interiore o corporale-spirituale indicano che la necessaria distin-<br />

zione non separa due chiese esistenti per se stesse, ma descrivono due aspetti della realtà complessa<br />

della Chiesa unica» 33 .<br />

Si potrebbe perciò dire — seguendo l’analisi di Sergio Rostagno, che si iscrive nella seconda linea<br />

interpretativa — che per Lutero la chiesa non è una realtà invisibile, bensì una realtà “nascosta”:<br />

«Abscondita est ecclesia, latent sancti» 34 . La tesi di Lutero, insomma, non mirerebbe a separare già<br />

in questa terra la vera chiesa da quella falsa. Al contrario, essa sembra voler dire che qualunque<br />

strumento usassimo per scoprire la vera chiesa, mai potremmo raggiungere lo scopo. Si possono in-<br />

dividuare dei segni, che però non costituiscono un vero e proprio criterio discriminante. Per Lutero<br />

32 H. STROHL, La Pensée de la Réforme (Neuchâtel: Delachaux et Niestlé, 1951) 178. L’autore annota: «Dopo che i luterani<br />

moderni esaltano, a loro volta, la loro Chiesa visibile [essi hanno creduto di poter] discernere nello stesso Lutero<br />

l’esistenza tra le due cristianità del medesimo legame che c’è tra il corpo e l’anima. La Chiesa invisibile sarebbe dunque,<br />

come in certe teorie cattoliche, l’anima della Chiesa costituita. Ma il seguito [del testo di Lutero] vieta questa interpretazione».<br />

33 A. BIRMELÉ, “Église”, op. cit., 488.<br />

34 LUTERO, De servo arbitrio, WA 18, 652.<br />

17


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

infatti esistono tre tipi di società umane: quella secolare, quella ecclesiastica «delle cerimonie» e<br />

quella «quae in fide, spe et caritate ambulat, estque christiana». Di quest’ultima il papa certamente<br />

non è il capo, non sembrando egli camminare alla sua testa in fide, spe et caritate 35 .<br />

Questo non perché Lutero concepisca la chiesa dentro uno schema platonico, quasi che la realtà vi-<br />

sibile fosse umbratile e ingannevole mentre la realtà vera risiederebbe altrove, bensì perché<br />

l’essenza della chiesa deve consistere nella vita prodotta dallo Spirito santo, che solo la fede può<br />

percepire e che va colta al di là del valore morale delle opere che caratterizzano l’esistenza dei pa-<br />

stori e dei fedeli.<br />

Alla radice di questo modo di pensare sta Zwingli (1484-1531) che, a sua volta, si muoveva sulla<br />

linea di Agostino (354-430). Questi, provocato dalla controversia donatista, era giunto a parlare del-<br />

la chiesa come di un corpus verum atque permixtum o verum atque simulatum, in quanto «gli ipocri-<br />

ti» sembrano essere parte della chiesa mentre in realtà non appartengono al corpo di Cristo. Certa-<br />

mente, il corpo è unico «propter temporariam commixtionem et communionem sacramentorum»,<br />

però non si deve dimenticare che si tratta di un corpus permixtum 36 . Questa tematica fu sempre sol-<br />

lecitata dal bisogno di domandarsi se coloro che appartengono alla chiesa, quale la si vede e la si vi-<br />

ve nell’esperienza quotidiana, le appartengano fino in fondo oppure no. Nel caso di Lutero sarà, in-<br />

fatti, il detto di Mt 26,16 («Molti i chiamati pochi gli eletti») a farlo parlare della ecclesia abscondi-<br />

ta come del coetus electorum. Egli amerà distinguere fra una chiesa spirituale e una chiesa corpora-<br />

le, utilizzando questa concezione per dire che nell’insieme della chiesa corporale solo una parte è<br />

composta da eletti, mentre chi siano costoro nessun uomo lo può né decidere né discernere, poiché<br />

Dio dispensa i suoi doni come vuole, al punto da doversi aspettare che un giorno «gli ultimi saranno<br />

i primi e i primi gli ultimi» (Mt 20, 16).<br />

La chiesa resta una realtà nascosta solo in questo senso, cioè in quanto essa, come oggetto della fe-<br />

de, è il coetus electorum. Il corpo degli eletti, anche se resi tali per il dono imperscrutabile dello Spi-<br />

rito, non costituisce sic et simpliciter una realtà invisibile; è vero però che è impossibile tracciarne<br />

in maniera storicamente determinata i confini. Non si tratta, quindi, nel pensiero di Lutero, dell’esi-<br />

stenza di due realtà di chiesa, una vera e una falsa, ma piuttosto di due aspetti sotto i quali la mede-<br />

sima realtà ecclesiale deve essere sempre considerata.<br />

35 S. ROSTAGNO, «Ecclesia abscondita». Appunti su un concetto controverso, in Studi Ecumenici VI (1988) 183-192.<br />

36 AGOSTINO, De doctrina christiana, III, xxxii, 45, CCL 32, 104s.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

A proposito della <strong>ecclesiologia</strong> dei Riformatori, quindi, la questione de vera ecclesia andrebbe arti-<br />

colata distinguendo la chiesa nascosta, che è la “vera” chiesa in quanto distinta dalla chiesa in senso<br />

lato che è la comunità dei battezzati che si rifà alla Parola e al sacramento. Tuttavia se si vuole di-<br />

stinguere la “vera” chiesa da quella “falsa” lo si può fare solo a riguardo della chiesa in senso lato,<br />

cioè in ordine alla sua forma visibile. Ad ogni modo, dove c’è una chiesa visibile che si presenta in<br />

una forma autentica, lì è presente anche la chiesa nascosta. Se viceversa si possa dare una presenza<br />

della chiesa anche là dove la sua forma empirica non sia autentica, non andrebbe escluso come teo-<br />

logicamente impensabile, ma sarebbe un fatto contingente e passeggero. Attraverso queste distin-<br />

zioni ai Riformatori fu possibile attribuirsi il diritto di smantellare tutte quelle strutture della chiesa<br />

visibile che non erano chiaramente prescritte dal dettato della S. Scrittura, anzi della Sola Scriptura.<br />

Quale che sia il vero pensiero riformato, possiamo rilevare almeno diversi elementi significativi che<br />

convergono verso un orientamento comune.<br />

1) La questione della natura della Chiesa dipende dalla questione che concerne i membri della Chie-<br />

sa: chi ne fa parte? I peccatori sono inclusi nella sua unità essenziale? Unanimemente i riformati lo<br />

rifiutano mantenendo una nozione univoca di “membro della Chiesa” secondo cui solo i giusti ap-<br />

partengono veramente alla comunità di salvezza.<br />

2) La terminologia è ben stabilita. È nata la coppia Chiesa visibile, esteriore, constatabile con i sen-<br />

si, e Chiesa invisibile o nascosta, opera divina, interiore, inconoscibile.<br />

3) La relazione tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile è la grande questione ecclesiologica. Certi te-<br />

sti inclinano nel senso di una dualità stretta (separazione), mentre altri indicano un legame più forte<br />

ma che resta estrinseco. La chiesa visibile è una realtà che rimane umana, mentre la Chiesa invisibi-<br />

le è una pura realtà di grazia.<br />

È così che la teologia controversistica cattolica si è trovata a dover affrontare in maniera esplicita e<br />

in un neonato quadro confessionale il problema della molteplicità dei piani semantici del discorso<br />

ecclesiologico. Ormai la questione de vera ecclesia era stata sottratta al discorso sulla dimensione<br />

interiore della chiesa e non disponeva più di alcun piano sul quale poter essere posta, che non fosse<br />

quello della chiesa visibile. E su questo piano la teologia cattolica, con in testa il Bellarmino, la po-<br />

se. Nessuno ignorava le ricchezze interiori della chiesa. Se però si doveva discutere sul luogo in cui<br />

poterla trovare, dove raggiungerla, come appartenerle, non aveva senso parlare della sua interiorità:<br />

era necessario giudicare della verità della sua forma storica e della legittimità della sua struttura so-<br />

ciale. Fu così che il Bellarmino, per liberare il discorso dai possibili equivoci, poté affermare:<br />

«Perché uno possa dirsi in qualche modo parte della vera chiesa… non riteniamo necessaria alcuna<br />

19


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

virtù interiore, ma soltanto l’esterna professione della fede e la comunione nei sacramenti, cose<br />

che i sensi possono percepire» 37 .<br />

Nonostante l’intenzione di contraddire le affermazioni ecclesiologiche dei protestanti, Bellarmino<br />

accetta di restringere la questione della definizione reale della Chiesa alla questione dei suoi membri<br />

— i protestanti considerano le condizioni di una piena appartenenza ecclesiale (i giusti), egli invece<br />

si attiene al minimo richiesto —, adoperando la medesima terminologia di Chiesa visibile e Chiesa<br />

invisibile e la concezione secondo cui esse sono fra loro separabili. Egli si giustificava, pensando di<br />

riproporre il pensiero di Agostino; ma si sbagliava: mentre questi infatti considerava l’appartenenza<br />

di ciascun membro «con il corpo e con il cuore» all’unica Chiesa, Bellarmino parla dell’apparte-<br />

nenza al corpo e al cuore (o all’anima) della Chiesa. Questa concezione sfocerà più tardi nell’idea<br />

ventilata nell’<strong>ecclesiologia</strong> della manualistica che esistono due comunità, di certo normalmente uni-<br />

te, ma che possono anche essere separate.<br />

1.4.2. Un oggetto sdoppiato<br />

Nella manualistica si è aperta così la strada ad una sorta di bilocazione dell’<strong>ecclesiologia</strong>: certamen-<br />

te, la definizione reale della Chiesa esprime l’assemblea di coloro che verificano la triade bellarmi-<br />

niana degli elementi esteriori (il corpo della Chiesa) e possiedono le virtù interiori (l’anima della<br />

Chiesa); per cui il corpo e l’anima della Chiesa sono inseparabili. Tuttavia ciò non si verifica di ne-<br />

cessità per il singolo individuo, il quale può appartenere al corpo senza appartenere all’anima — il<br />

caso dell’eretico occulto — e, reciprocamente, può appartenere all’anima e non al corpo — coloro<br />

che si trovano nel caso di errore o di ignoranza invincibile. Questa separabilità, limitata ai soli indi-<br />

vidui, influisce tuttavia sulla concezione della comunità nel suo insieme. Quest’ultima, in quanto vi-<br />

sibile, raccoglie gli uomini il cui comportamento sociale è conforme, e tra loro pure gli ipocriti. Il<br />

suo principio di unità è visibile e assicura una corporeità di tipo sociale-naturale. In quanto vivifica-<br />

ta soprannaturalmente, la Chiesa è invisibile; il suo principio di unità è, su questo piano, puramente<br />

interiore. Anche se è raramente esplicitato, questi due principi conducono a distinguere realmente,<br />

sebbene inadeguatamente, due comunità e non una sola 38 . Così all’inizio del XX secolo è comune-<br />

mente ammesso che: «Il corpo comprende l’elemento visibile o la società visibile alla quale si ap-<br />

37 Disputationum Roberti Bellarmini de controversiis tomus secundus, Venetiis 1721, 1 a controv., liber III, caput II, 53s.<br />

38 L’esempio più illuminante si trova in L. BILLOT, Tractatus de Ecclesia Christi (Prati 1903 3 ) 272: «Altra è la forma del<br />

corpo della chiesa secondo che essa è precisamente un corpo sociale, e altra è la sua forma secondo che essa è vivente<br />

della vita di grazia». Così un’incorporazione alla Chiesa non è di per se stessa un’incorporazione al Cristo (Ibid., 320-<br />

321).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

partiene mediante la professione esteriore della fede cattolica, la partecipazione ai sacramenti e la<br />

sottomissione ai legittimi pastori, e l’anima comprende l’elemento invisibile o la società invisibile,<br />

alla quale si appartiene per il fatto che si possiede i doni interiori della grazia» 39 .<br />

L’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica “classica” nella controversia controriformista accetta così di distinguere<br />

nella Chiesa un corpo e un’anima; questo “corpo” però non è più il “Corpo di Cristo” paolino, ma<br />

una realtà sociale naturale. In secondo luogo essa limita la visibilità della Chiesa alla sua corporeità<br />

così intesa. Ne risulta una concezione del visibile ecclesiale che non costituisce un segno indirizzato<br />

alla fede, ma una manifestazione puramente sociologica. Infine, se il visibile-naturale è separabile<br />

dall’invisibile-soprannaturale, essa non può ritenere, in coerenza col mistero del Verbo incarnato,<br />

che l’invisibile abiti nel visibile, vi si esprima e si comunichi per la sua mediazione. «Il pericolo di<br />

una simile visione è di lasciar credere che la Chiesa sia composta di due metà capaci di esistere se-<br />

paratamente, che si finirà per chiamare, l’una “Chiesa visibile” e l’altra “Chiesa invisibile”» 40 .<br />

Nell’<strong>ecclesiologia</strong> contemporanea nessuno ritiene di poter fare una teologia del mistero della chiesa<br />

senza tenere conto della sua forma sociale, né alcuno aspira a costruire un’<strong>ecclesiologia</strong> che possa<br />

ritenersi indipendente dalla riflessione sul mistero. Ciò però non significa che la meta di una eccle-<br />

siologia globale sia facilmente raggiungibile… come testimoniano diversi tentativi della teologia<br />

neoscolastica, la quale, nelle sue ultime produzioni, sotto la spinta della Mystici Corporis (1943) di<br />

Pio XII, affiancava al trattato sulla chiesa-società quello sulla chiesa-corpo di Cristo. Tale organiz-<br />

zazione era giustificata per ragioni di pura comodità. Ma gli stessi autori segnalavano che «sarebbe<br />

funesta se avesse la conseguenza di far pensare all’esistenza di due trattati teologici distinti, uno re-<br />

lativo all’organizzazione ecclesiastica (il trattato sulla chiesa), l’altro concernente la vita profonda<br />

delle membra di Cristo (il trattato sul corpo mistico). In tal caso essa porterebbe, di fatto, a scindere<br />

l’organizzazione gerarchica dall’organizzazione della carità, la chiesa dal corpo di Cristo» 41 .<br />

Così nell’<strong>ecclesiologia</strong> contemporanea si sono moltiplicate le voci che proclamano il superamento<br />

delle antitesi, tipiche del momento della Riforma, fra una chiesa invisibile e una chiesa visibile:<br />

«Colui che nella confessione di fede dice: credo Ecclesiam, non trascura con orgoglio, questo volto<br />

concreto della chiesa e confessando: credo resurrectionem carnis, non può più trascurare<br />

l’uomo reale tutto intero, che è corpo e anima, né la sua speranza, come se proprio a lui la resurrezione<br />

non fosse promessa. Ma egli non guarda attraverso e al di là di questo volto in maniera per<br />

così dire malinconica, come se non fosse che un aspetto trasparente, dietro il quale cercare altrove<br />

la chiesa. Esattamente come non può trascurare il volto più o meno avvenente del prossimo che gli<br />

39 E. DUBLANCHY, “Église”, in Dictionnaire de théologie catholique, tome IV (Paris 1911) col. 2154.<br />

40 CH. JOURNET, L’Église du Verbe incarné, t. 2. Structure interne et unité catholique (Paris 1951) 574.<br />

41 T. ZAPELENA, De ecclesia Christi. Pars altera apologetico-dogmatica, op. cit., 338s.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

è comandato di amare, né guardare al di là di questo volto! Il suo sguardo penetra nel visibile della<br />

chiesa — che è la realtà. Vedendo quello che è sotto gli occhi di tutti, egli vede — non a lato o dietro<br />

ma dentro — quello che tuttavia non è sotto gli occhi di tutti. Egli non si libera dunque del tutto<br />

da quello che c’è di visibile nella chiesa. Non lo sfugge per andare verso qualche paese delle<br />

meraviglie. Il credo Ecclesiam può e deve senza dubbio includere in lui molte distinzioni e molte<br />

domande, molta afflizione e vergogna. Può e deve essere senza alcun dubbio un credo molto critico.<br />

In relazione a tutto quello che c’è di visibile nella chiesa, può e deve esprimere semplicemente<br />

una speranza impaziente. Ma è proprio in tutta la sua visibilità, che è poi la sua esistenza storica<br />

sulla terra, che il credente la prende sul serio. Quel credo confessa la fede nell’invisibile che è proprio<br />

il mistero del visibile. Con la fede nella Ecclesia invisibilis l’uomo passa sul campo di lavoro<br />

e di lotta della Ecclesia visibilis. Senza fare questo, senza prendere parte, con discernimento ma<br />

con serietà, alla vita storica della comunità, alla sua attività, alla sua costruzione, alla sua missione,<br />

restando al livello di una ecclesialità teorica e astratta, non si è ancora ripetuto, dandogli tutto il<br />

suo senso, il credo Ecclesiam» 42 .<br />

Un’asserzione cui fa eco anche H. Küng, per il quale: «Non ci sono due chiese, una visibile e una<br />

invisibile. E non si può nemmeno dire, nello spirito del dualismo platonico e dello spiritualismo,<br />

che la chiesa visibile (in quanto “materiale” e terrena) è l’immagine della chiesa autentica, invisibile<br />

(spirituale e celeste). Come pure non è che l’invisibile sia l’essenza e il visibile la forma storica del-<br />

la chiesa. Ma l’unica chiesa è nella sua essenza e nella sua forma storica sempre contemporanea-<br />

mente visibile ed invisibile. La chiesa oggetto della fede è dunque un’unica chiesa: la chiesa invisi-<br />

bile nel visibile, o meglio nascosta nel visibile» 43 .<br />

Tutte queste riflessioni ci hanno mostrato l’insufficienza delle categorie e delle distinzioni utilizzate<br />

per districare la complessità dell’oggetto, con la pretesa di riuscire a distinguere l’aspetto empirico<br />

da quello misterico in modo tale da poter parlare del primo liberi dalle implicazioni del secondo, e<br />

viceversa. Se si vuole parlare davvero della chiesa, la sua forma empirica — anche quando sia il pu-<br />

ro apparato sociale dell’aggregazione dei cristiani, anche quando sia forma storica contingente e non<br />

essenziale all’idea di chiesa, anche quando sia piena di peccati — non accetta di essere svuotata del<br />

mistero della grazia che la costituisce. Così, al contrario, se l’<strong>ecclesiologia</strong> non deve ridursi a pura<br />

riflessione sul mistero della grazia, si può cogliere qualcosa del credo ecclesiam solo scrutando il<br />

mistero dentro la forma empirica della chiesa e nelle sue componenti puramente esteriori, per quan-<br />

to esse siano contingenti, inessenziali e segnate inevitabilmente dal peccato degli uomini.<br />

Da qui nasce il problema di come individuare l’azione della chiesa nella storia. In proposito Jac-<br />

ques Maritain nella sua famosa teoria sull’azione politica dei cristiani distingueva fra l’agire del cri-<br />

42 K. BARTH, Kirchliche Dogmatik, IV/I (Zürich: E.V.Z., 1953) 730 [trad. franc. IV/I ***, 12-13].<br />

43 H. KÜNG, La Chiesa, op. cit., 43.<br />

22


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

stiano «da cristiano» e l’agire del cristiano «in quanto cristiano» 44 . Secondo questa visione i credenti<br />

si possono impegnare nell’azione sociale e politica portandovi tutta la forza e tutti i valori della loro<br />

fede, ma senza che la loro azione debba essere considerata un’azione della chiesa e ne possa com-<br />

promettere le responsabilità: la chiesa, infatti, si muoverà sempre a un livello diverso, quello carat-<br />

terizzato non già dalla contingenza storica bensì dalla sua natura trascendente e divina. In modo si-<br />

mile la formula parallela che K. Rahner suggerisce risulta, ecclesiologicamente, ancora più netta.<br />

Egli afferma, infatti, che i laici nel campo dell’azione temporale agiscono christlich (cioè cristiana-<br />

mente), e non kirchlich (ecclesialmente), mentre solo la gerarchia agisce kirchlich 45 .<br />

Tale distinzione ha un effetto particolarmente significativo sull’<strong>ecclesiologia</strong>, in particolare a propo-<br />

sito del rapporto fra la chiesa e la storia. Da un lato il corpo cristiano sarebbe chiamato a esercitare<br />

un influsso decisivo sulla società, sulla sua vicenda politica e, quindi, sulla storia degli uomini, sen-<br />

za che tutto questo debba avere un qualche significato ecclesiologico, non essendone la chiesa il ve-<br />

ro soggetto. Dall’altro lato la storia dovrebbe registrare l’azione vera e propria della chiesa la quale,<br />

però, non ne condividerebbe le caratteristiche della contingenza e della fallibilità. Si tratterebbe<br />

quindi di processi storici che non si intreccerebbero con quelli degli altri soggetti e, più che apparte-<br />

nere alla storia, la attraverserebbero con il loro carattere di assoluta trascendenza. Ci domandiamo<br />

se, nella prospettiva maritainiana, si possa ancora fare una storia della chiesa, o se questa non debba<br />

ridursi all’agiografia, alla storia della liturgia e alla storia dell’episcopato e del papato 46 .<br />

La questione teologica, infatti, si ribalta inevitabilmente sulla disciplina storica che ha per oggetto la<br />

chiesa. In realtà una riduzione della storia della chiesa come quella che sembrerebbe doversi ipotiz-<br />

zare a partire dall’<strong>ecclesiologia</strong> di J. Maritain, non si è mai verificata in maniera riflessa e formale,<br />

anche se di fatto, non di rado, gli storici della chiesa vi si sono avvicinati. Oggi, poi, che il Vaticano<br />

II ha attribuito al popolo di Dio il ruolo di autentico soggetto storico della missione, lo storico della<br />

chiesa aspira esplicitamente ad allargare gli spazi della sua ricerca e a scrivere la «storia vissuta del<br />

popolo cristiano» 47 .<br />

44 J. MARITAIN, Umanesimo integrale (Roma: Borla, 1980) 307-320. Cfr. ID, La Chiesa del Cristo (Brescia: 1971).<br />

45 K. RAHNER, Grundstrukturen im heutigen Verhältnis der Kirche zur Welt, in F. ARNOLD - K. RAHNER, Handbuch der<br />

Pastoraltheologie, II/2 (Freiburg Basel Wien: Herder, 1966) 203-267.<br />

46 Cfr. quanto dice la Gaudium et spes al n. 40: «La chiesa condivide la stessa sorte terrena del mondo» e quanto poi è<br />

stato affermato a partire dalla Evangelii nuntiandi alla Christifideles laici, a proposito di una concezione della missione<br />

della chiesa, della quale fa parte, a tutti gli effetti, anche l’operare dei laici nell’ambito temporale.<br />

47 J. DELUMEAU (ed.), Storia vissuta del popolo cristiano (Torino: Sei, 1979).<br />

23


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

1.3.3. Un oggetto storico ambiguo<br />

La questione più importante all’interno del problema della individuazione dell’oggetto della storia<br />

della chiesa non riguarda più l’estensione materiale della “cosa” da studiare. La questione più inte-<br />

ressante è quella del suo oggetto formale: di qual genere sia la “cosa” su cui gli storici della chiesa<br />

devono interrogarsi e, quindi, di qual genere sia la scienza cui essi si stanno applicando.<br />

1) A partire dal Rinascimento, passando poi per l’Umanesimo e l’Illuminismo, la storia ecclesiastica<br />

si è emancipata dallo schema storico-salvifico-dogmatico in cui era stata situata classicamente da<br />

Eusebio, ma anche dalla sua funzione apologetica a servizio della dogmatica, come si era venuta a<br />

maturare, specialmente ad opera del Baronio, a partire dalla Riforma, e infine anche dalle specula-<br />

zioni condotte nell’alveo di una filosofia della storia, quelle che riscontriamo, ad esempio, nello spi-<br />

rito dell’idealismo tedesco… Si trattava insomma di descrivere «come erano andate effettivamente<br />

le cose». Ma quel che poteva sembrare pura oggettività, in effetti era l’affermarsi di una vera e pro-<br />

pria concezione del mondo, che parve inconciliabile col metodo dogmatico. La storia della chiesa<br />

divenne quindi il focolaio di tutti i pericoli cui la teologia sarebbe poi andata incontro (Döllinger e il<br />

Vaticano I; il modernismo…). D’altra parte la storia si è rivelata quale locus theologicus indispen-<br />

sabile anche per la stessa dogmatica, che «ai nostri giorni non è più concepita come una scienza a-<br />

prioristica deduttiva, ma piuttosto come una scienza ermeneutica che procede con metodo storico e<br />

che comprende i dogmi della chiesa partendo dalla loro genesi storica e quindi pure dal loro nesso<br />

storico» 48 (cfr. Optatam Totius 16). Questi sviluppi hanno fatto sorgere due tendenze negli storici<br />

della chiesa: per alcuni la storia della chiesa è solo una disciplina scientifica, mentre per altri la sto-<br />

ria della chiesa è una disciplina teologica.<br />

(a) Secondo una prima corrente (O. Köhler, G. Alberigo, E. Poulat, V. Conzemius) la storia della<br />

chiesa è teologicamente rilevante proprio in quanto è una storia seriamente approfondita e si affer-<br />

ma per sua stessa natura come disciplina storica autonoma. Se «la storia della chiesa è e deve rima-<br />

nere una disciplina storica», dovrà avere per oggetto la chiesa «assumendo questa espressione non<br />

nella sua accezione dogmatica, bensì in quella fenomenologica, intendendo cioè tutte le manifesta-<br />

zioni di vita, di pensiero, di organizzazione che si sono espressamente rifatte al cristianesimo, il cui<br />

statuto storico è uno statuto ecclesiale» 49 . La storia della chiesa è storia della salvezza nel suo in-<br />

48<br />

W. KASPER, “Storia della chiesa come teologia storica”, in Teologia e Chiesa (BTC 60; Brescia: Queriniana, 1989)<br />

104-120, qui 107.<br />

49<br />

G. ALBERIGO, “Nuove frontiere della storia della chiesa”, in Concilium 6 (1970/7) 82-102.<br />

24


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

sieme. Ma lo storico non è in grado di cogliere una storia nel suo insieme. A lui non resta che espor-<br />

re la storia della chiesa come storia profana, anche se «in conformità alla sua comprensione esisten-<br />

ziale dell’oggetto di cui tratta, deve prendere come punto di riferimento quella base che lo pone in<br />

relazione con l’evento», cioè la relazione della chiesa, nella sua storia, con la Sacra Scrittura, di cui<br />

la storia della chiesa è in qualche modo esposizione e interpretazione 50 .<br />

(b) Una seconda corrente (H. Jedin, J. Lortz, E. Iserloh, W. Brandmüller) sostiene una concezione<br />

teologica della storia, non per contestare le acquisizioni dell’età moderna. Essi intendono piuttosto<br />

integrare la storiografia, con la sua autonomia, in una più ampia concezione di teologia storica. Il<br />

problema, infatti non è quello di distinguere i diversi livelli di riflessione o valutare dal punto di vi-<br />

sta teologico dei fatti che precedentemente sono stati accertati in modo storico, dato che la scienza<br />

storica è sempre inevitabilmente condizionata dalla precomprensione dello storico. Non è possibile,<br />

per costoro, una lettura profonda dei fatti se non li si legge al livello superiore delle intenzioni: è co-<br />

sì che alla storia della chiesa si apre la possibilità di una scienza teologica, senza che con questo<br />

venga disattesa l’imponenza dei fatti. Per i cristiani il principio e la fine della storia sono veri e pro-<br />

pri dati di fede: l’epifania di Dio in Gesù Cristo è il dato determinante di tutta la storia e la sua paru-<br />

sia ne è il punto di arrivo. È Dio stesso, nella persona del Figlio, che non solo agisce sulla storia ma<br />

vive egli stesso una propria storia. La chiesa è il dispiegarsi di questo evento nel cammino comples-<br />

sivo della storia umana. Ecco perché la storia della chiesa presuppone un concetto di chiesa fondato<br />

sulla Scrittura e sulla prima tradizione. La chiesa infatti non può distanziarsi dalla sua origine. Per<br />

quanto sia difficile a delimitarsi, c’è quindi nella chiesa uno ius divinum, ed è nel ritorno alla forma<br />

evangelii che essa si fa creativa e si dà continuamente una forma nuova.<br />

2) Un’utile messa a punto del problema ci è offerta da Walter Kasper 51 , il quale chiarifica le que-<br />

stioni ermeneutiche ed epistemologiche sottostanti raccogliendole attorno a due punti di vista fon-<br />

damentali. Innanzitutto, egli precisa che la storia si costituisce con la «fusione dialettica tra<br />

l’avvenimento storico oggettivo e la sua interpretazione storica soggettiva». L’ideale di una scienza<br />

storica che faccia a meno di qualsiasi presupposto, sia neutrale rispetto ad ogni valore è una illusio-<br />

ne. In secondo luogo, «questa fusione continua, mai conclusa, tra soggetto e oggetto è possibile solo<br />

entro l’orizzonte di un’anticipazione del senso intero della storia».<br />

50 O. KÖLHER, “La chiesa come storia”, in My Sal VIII (Brescia: Queriniana, 1975) 651-729, qui 726-728.<br />

51 W. KASPER, “Storia della chiesa come teologia storica”, art. cit. Cfr. pure il bilancio storiografico di S. XERES, Storia<br />

della Chiesa, in G. CANOBBIO – P. CODA (edd.), La Teologia del XX secolo un bilancio, 1. Prospettive storiche, Città<br />

Nuova, Roma 2003, 203-247.<br />

25


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

Per cui, in primo luogo, occorre riconoscere il significato costitutivo del soggetto nel processo della<br />

comprensione storica. Il soggetto è insomma «l’unico accesso universale possibile al reale, il mezzo<br />

che consente una conoscenza oggettiva della realtà, per quanto sempre entro una certa prospettiva e<br />

per frammenti». Per cui una scienza senza presupposti è necessaria nel senso che lo studioso deve<br />

sempre porre sotto controllo le premesse da cui parte, renderle oggetto della sua critica; nella consa-<br />

pevolezza che le scienze dello spirito rimangono continuamente legate ad una determinata epoca<br />

storica, al grado di maturazione personale che lo studioso ha conseguito, come pure agli atteggia-<br />

menti di fondo in cui si traduce una certa visione del mondo e su cui si basa anche la sua compren-<br />

sione. «La virtù della scienza non si basa nell’assenza dei presupposti, bensì nell’autocritica dei<br />

fondamenti» (E. Spranger). Se poi si applica questa considerazione alla storia della chiesa, vediamo<br />

perché una comprensione secolarizzata della storia della chiesa è non meno pregiudiziale di una sua<br />

comprensione teologica, anzi è un pregiudizio ancor più pericoloso, perché oggi sembra affatto<br />

plausibile e quindi rimane a livello inconscio, non pone interrogativi critici. In realtà nemmeno i so-<br />

stenitori di una storia della chiesa non-teologica possono “fare” storia della chiesa senza presupposti<br />

di ordine teologico, perché «se invece di scrivere la storia della chiesa in modo “conformistico”, po-<br />

nendosi dalla parte dei “vincitori”, si preferisce fare una “storia degli eretici”, ci si espone ancora<br />

una volta, benché in altro modo, alla tentazione di trasferire le categorie dell’oggi nel passato… So-<br />

prattutto i grandi rivolgimenti storici ci inducono ad orientare lo sguardo verso i “profeti e precurso-<br />

ri” (V. Conzemius), che all’improvviso appaiono estremamente interessanti, quando per il passato<br />

non avevano goduto di molta attenzione. Qui si corre facilmente il rischio di una conclusione affret-<br />

tata, atta a confermare tendenze del momento» 52 . Una comprensione teologica della storia della<br />

chiesa ha il vantaggio di indicare chiaramente i presupposti da cui parte e di interpretare l’oggetto<br />

delle sue riflessioni proprio a partire da tali presupposti.<br />

In secondo luogo, si deve tener conto della struttura anticipatrice della storia. Perciò la precompren-<br />

sione teologica non è qualcosa che si inserisce nella storia in modo puramente esteriore e soggetti-<br />

vo, ma deriva dalla stessa dialettica di soggetto ed oggetto che costituisce la storia. Infatti la media-<br />

zione sempre frammentaria di soggetto e oggetto riesce possibile solo nell’orizzonte e nell’antici-<br />

pazione di un senso globale della storia. Proprio per la natura del circolo ermeneutico il singolo in-<br />

dividuo, che entra in rapporto con la storia, può essere compreso solo alla luce dell’intero, come vi-<br />

ceversa si può comprendere l’intero solo a partire dall’individuo. Ma siccome la storia si realizza<br />

52 K. SCHATZ, “Ist Kirchengeschichte Theologie?”, in Philosophie und Theologie 55 (1980) 481-513.<br />

26


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

interamente solo alla fine del suo corso, ogni comprensione di tipo storico rappresenta una anticipa-<br />

zione della totalità di senso della storia stessa. Proprio nel suo carattere frammentario la storia è<br />

permeata da una problematica, da una speranza, anzi da un tratto escatologico: i grandi errori e le<br />

confusioni della storia pongono il problema del senso della storia stessa, ed anche di una giustizia<br />

più piena. In tal modo la storia stessa solleva un problema che a sua volta introduce in una dimen-<br />

sione in cui il teologo risponde professando la propria fede in Dio, Signore della storia. Naturalmen-<br />

te è anche possibile omettere o lasciar aperta, dal punto di vista metodologico, una tale questione<br />

che motiva la scienza storica, ma pure la trascende, e limitarsi quindi volutamente alla storiografia,<br />

lasciando tutti gli altri problemi ai filosofi e ai teologi. In questo senso si può considerare la storia<br />

della chiesa come qualcosa di meramente profano. Ma quando si tematizza coscientemente il pro-<br />

blema e lo si vuol risolvere anche in chiave teologica, si farà della storia della chiesa una teologia<br />

storica, che è scienza di fede non soltanto per il proprio oggetto materiale, ma anche per quello for-<br />

male. In base a questi due presupposti Kasper può esporre la sua tesi.<br />

(a) Innanzi tutto occorre riconoscere come punto di partenza che la teologia parte dalla confessione<br />

di fede che in Gesù Cristo si è manifestato in modo escatologico definitivo il senso della storia. Essa<br />

intende la chiesa come segno sacramentale di questa salvezza in cui tutta la storia spera, senza però<br />

essere in grado di realizzarlo. Di conseguenza la storia della chiesa è la maturazione di ciò che la<br />

chiesa è nelle mutevoli costellazioni del processo storico.<br />

(b) Questa tesi si basa sull’enunciato teologico di fondo che Gesù Cristo è l’autocomunicazione di<br />

Dio all’uomo, l’autocomunicazione escatologica definitiva, in quanto per sua stessa natura non può<br />

essere storicamente superata. Ma questa vittoria escatologica della verità, giustizia, amore, è realtà<br />

storica soltanto quando viene assunta nella storia degli uomini storici, cioè laddove Dio trova degli<br />

esseri umani che credono e che pubblicamente attestano questa fede. La comunità di fede della chie-<br />

sa è dunque un momento intrinseco del compimento escatologico della storia salvifica in Gesù Cri-<br />

sto. Per la chiesa ciò significa che da un lato essa è la presenza vittoriosa della verità, dell’amore e<br />

della vita di Dio nella storia. Partecipa al carattere escatologico dell’avvenimento di Cristo, per cui<br />

non potrà mai perdere la verità di Gesù. Essa è il corpo di Cristo e il tempio costruito da Dio nello<br />

Spirito santo. D’altro canto la chiesa porta questo tesoro in vasi di creta. È la presenza del nuovo<br />

eone nelle condizioni dell’antico. È chiesa santa, ma al tempo stesso anche chiesa dei peccatori.<br />

(c) Ne consegue che al pari di qualsiasi soggetto storico, anche la chiesa ci riesce comprensibile sol-<br />

tanto se abbiamo compreso e seriamente assunto il suo modo di intendersi. Ma la chiesa non può<br />

non intendersi se non in termini storico-salvifici. Certo la storia della chiesa non può essere a sua<br />

27


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

volta storia della salvezza: avremmo un progresso storico salvifico che all’interno del processo sto-<br />

rico porta oltre lo stesso Gesù (cfr. la tesi di Gioacchino da Fiore della età dello Spirito contestata da<br />

S. Tommaso). Ma da questa precisazione non si può concludere che oggetto della storia della chiesa<br />

sarebbe soltanto la storia “mondana” della chiesa. Ci troveremmo di fronte a una concezione duali-<br />

stica, ad un’<strong>ecclesiologia</strong> dissociata, analoga alla cristologia dissociata dei nestoriani, in cui l’ele-<br />

mento terreno e quello celeste della chiesa verrebbero collegati tra loro in termini quantitativi e ad-<br />

ditivi. Al contrario in una concezione “sacramentale”, il visibile, l’umano e il terreno che c’è nella<br />

chiesa va concepito come attualizzazione simbolico-reale del Divino, dell’escatologicamente Defi-<br />

nitivo. Se si assume questa prospettiva sacramentale, si converrà che la chiesa ha la propria essenza<br />

teologica non accanto o dietro o al di sopra della storia, ma nella stessa storia. Così la storia della<br />

chiesa è la storia della sua essenza, e l’oggetto della storia ecclesiastica è la storicità dell’essenza<br />

della chiesa stessa. Ovvero la storia della chiesa, concepita come teologia storica, è teologia della<br />

realizzazione essenziale della chiesa all’interno di epoche e culture storiche in continuo mutamento.<br />

La storia della chiesa allora risponderà alla domanda: negli eventi della storia della chiesa, che cosa<br />

c’è di concretizzazione storica del Vangelo e che cosa è sua falsificazione e riduzione?<br />

3) In modo simile Gerhard Ebeling ha concepito la storia della chiesa come storia del-<br />

l’interpretazione della Sacra Scrittura 53 . Se per esegesi scritturistica si intende l’accezione più ampia<br />

in cui la esprime il modo cattolico di intendere la tradizione, tradizione che si attua non solo in for-<br />

mule teologiche, bensì in tutto «ciò che la chiesa fa, tutto ciò che la chiesa è ed in cui crede» (DV 8),<br />

allora la storia della chiesa sarà pure la riflessione sulla presenza dell’Evangelo della salvezza esca-<br />

tologica in Gesù Cristo nelle mutevoli costellazioni della storia. Nella consapevolezza che la storia<br />

dell’essenza della chiesa si svolge nelle condizioni di una storia umana, anzi di peccato, non conse-<br />

gue una strumentalizzazione apologetica (erroneamente intesa).<br />

1.4.4. Un oggetto “vissuto”<br />

Secondo M. Kehl (La Chiesa, 13-31) esiste un forte legame tra spiritualità ed <strong>ecclesiologia</strong>. A suo<br />

parere in molte controversie non entrano «in gioco soltanto dei fattori biografici e socio-psicologici,<br />

e neppure soltanto diverse posizioni ecclesiologiche e interessi di politica ecclesiale (elementi che<br />

senza dubbio concorrono in modo decisivo)», ma spesso alla base di tutto si trova «un’esperienza<br />

spirituale fondamentale della chiesa, una visione spirituale di essa e un’opzione che raggiungono gli<br />

53 G. EBELING, Kirchengeschichte als Geschichte der Auslegung der Heiligen Schrift (1947), in ID., Wort Gottes und<br />

Tradition. Studien zu einer Hermeneutik der Konfessionen (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1964) 9-27.<br />

28


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

strati emozionali profondi della fede». «Per esperienza spirituale della chiesa intendo un legame di<br />

carattere fondamentale tra il mio personale atto di fede e la comunità credente: quale significato esi-<br />

stenziale ha la chiesa (anche in quanto chiesa universale!) per la mia fede personale?». «A dispetto<br />

di molte tendenze attuali… nella propria spiritualità non basta concentrarsi esclusivamente su Gesù<br />

Cristo o sul regno di Dio; di entrambi, infatti, ogni tempo e ogni singolo individuo possono farsi fa-<br />

cilmente un’immagine che si adatta a loro. Alla concretezza e impegnatività della nostra sequela di<br />

Cristo e dell’intera nostra spiritualità appartiene una relazione spirituale con la chiesa» (ibid., 18).<br />

1.4. Conclusioni<br />

1.4.1. Essenza in forma storica<br />

Il concetto di chiesa è essenzialmente connotato dalla relativa forma storica della chiesa stessa. Cia-<br />

scun tempo ha una sua idea di chiesa, elaborata partendo da una particolare situazione storica, vissu-<br />

ta e strutturata da una particolare chiesa storica, tratteggiata concettualmente da particolari teologi<br />

nel corso della storia. Tuttavia, permane qualcosa di stabile, un’essenza imposta dalla sua origine,<br />

che permanentemente la determina. Quindi, nella storia della chiesa e della comprensione che essa<br />

ha di sé, c’è un elemento costante, che tuttavia si palesa solo in ciò che si muta. C’è qualcosa di i-<br />

dentico, ma solo nel variabile; un continuo, ma solo nell’evento; un’essenza della chiesa non in una<br />

immobilità metafisica, ma solo in una forma storica in continua trasformazione. Proprio per scorge-<br />

re questa originaria permanente essenza — in divenire dinamico —, si deve fare attenzione alla<br />

forma storica in perpetuo cambiamento. Anche il NT non comincia con una dottrina sulla chiesa,<br />

che si sarebbe realizzata in seguito, ma con la realtà della chiesa, che in seguito diviene oggetto di<br />

riflessione. La chiesa reale è in primo luogo un esserci, un fatto, un evento storico. L’essenza reale<br />

della chiesa si attua in forma storica. Si tenga presente, però, che:<br />

a) Non si deve separare l’essenza dalla forma: non si possono scindere l’essenza e la forma<br />

della chiesa, ma si devono vedere nella loro unità. La distinzione tra essenza e forma non è una di-<br />

stinzione reale, ma solo di ragione: in realtà non c’è e non ci fu mai un’essenza della chiesa “in sé”,<br />

separata, allo stato puro, estratta dal flusso delle forme storiche. Il mutabile e l’immutabile non si<br />

lasciano ripartire con precisione: ci sono costanti che permangono, ma non ci sono settori irrefor-<br />

mabili a priori (LG 48c; UR 6a). Un’essenza senza forma è informe e dunque irreale, così come ir-<br />

reale è una forma senza essenza, mancando appunto dell’essenza. Nonostante tutto ciò che vi è di<br />

relativo, la forma storica non deve essere considerata semplicemente irrilevante nei confronti di<br />

29


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

un’essenza sussistente da qualche parte “al di dentro” o “al di sopra”. Solo se si vede l’essenza della<br />

chiesa, non al di fuori né al di sopra, ma nella sua forma storica, si ha a che fare con la chiesa reale.<br />

b) Non si devono identificare essenza e forma. Essenza e forma non possono essere poste<br />

sullo stesso piano, devono anzi essere viste nella loro differenza. Anche se la distinzione che inter-<br />

corre tra essenza e forma è una distinzione di ragione, essa è tuttavia necessaria. Come potremmo<br />

altrimenti determinare ciò che permane nel divenire delle forme? Come potremmo, altrimenti, e-<br />

sprimere un giudizio sulla concreta forma storica? Come avere altrimenti un criterio, una norma per<br />

determinare ciò che è legittimo in una manifestazione storico-empirica della chiesa? Non esiste una<br />

forma della chiesa — neppure quella offerta dal NT — in grado di abbracciare l’essenza della chiesa<br />

così da averla come possesso definitivo. E neppure esiste una forma della chiesa — nemmeno quel-<br />

la del NT — che rispecchi perfettamente ed esaustivamente l’essenza della chiesa. Solo se, nel mu-<br />

tare delle forme, percepiamo come distinta l’essenza immutabile, ma sempre presente della chiesa,<br />

noi riusciamo a cogliere la chiesa reale.<br />

1.4.2. Essenza e non-essenza<br />

La distinzione fra essenza e forma, però, non basta a descrivere completamente la realtà della chie-<br />

sa. Infatti, in tutti gli elementi negativi a cui si appiglia la critica alla chiesa e che l’ammirazione su-<br />

perficiale non prende o prende non sufficientemente in considerazione, non si esprime solamente<br />

una “forma” storica della chiesa; neppure vi si esprime l’essenza buona — stabile e insieme mute-<br />

vole — della chiesa. Piuttosto qui si introduce il male nella chiesa, la non-essenza (Hans Küng parla<br />

di Unwesen nel senso di essenza pervertita). La non-essenza della chiesa è in contraddizione con<br />

l’essenza, benché le viva addosso: essa non è l’essenza genuina, legittima, è un’essenza pervertita,<br />

illegittima. Essa non è dovuta alla volontà di Dio, ma alla debolezza degli uomini che compongono<br />

la chiesa. Come un’ombra la non-essenza accompagna l’essenza della chiesa in tutte le sue forme<br />

storiche. L’essenza reale della chiesa si realizza nella non-essenza. Non solamente il suo carattere<br />

storico in generale, ma precisamente il fatto che la chiesa sia intaccata storicamente dal male deve<br />

essere per ogni <strong>ecclesiologia</strong> un dato fondamentale di cui tenere conto a priori e sempre senza alcu-<br />

na falsa apologetica. È per questo che l’<strong>ecclesiologia</strong> non potrà mai semplicemente prendere o addi-<br />

rittura giustificare, come norma, l’attuale status quo della chiesa. Essa contribuirà piuttosto con tutte<br />

le sue forze — a partire dal Vangelo — a quella purificazione critica che è premessa per il rinnova-<br />

mento continuamente necessario (LG 8; UR 6). La chiesa quale è realmente: l’essenza con la sua<br />

forma storica e contemporaneamente l’essenza con la non-essenza.<br />

30


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

1.4.3. La chiesa oggetto della fede<br />

Ciò che distingue dagli altri gli uomini che costituiscono la chiesa, e la costituiscono realmente, è<br />

che essi credono. Essi intendono essere una comunità di credenti (communio fidelium). Ciò che cre-<br />

dono e sperano per se stessi, intendono crederlo e sperarlo per gli altri. Ma essi sono convinti che li<br />

si conosce male, se si dimentica che essi sono una comunità di credenti. Essi pensano che si conosce<br />

male questa chiesa ogniqualvolta non la si capisce in quel che essa ha di più specifico. In quanto<br />

chiesa della fede, essa fa appello alla fede della chiesa. Non è dunque un caso storico, ma esatta-<br />

mente il fondamento dell’intelligenza di ciò che la chiesa è, che essa sia stata inserita nella confes-<br />

sione di fede. Solo con la fede la comprendiamo per quello che pretende di essere, ossia non come<br />

l’oggetto termine della fede (credo in Deum…), ma come il luogo in cui lo Spirito santo opera. Così<br />

per il cristiano la chiesa è anzitutto oggetto di fede. Quello che è importante non è ammirare o criti-<br />

care la chiesa ma crederla; credere che la chiesa, comunità di credenti, crede essa stessa (fede della<br />

chiesa, genitivo soggettivo: Ecclesia credens) e che l’uomo crede non nella chiesa, ma la chiesa (fe-<br />

de della chiesa, genitivo oggettivo: credens Ecclesiam).<br />

1) Che noi non crediamo nella chiesa significa:<br />

(a) che la chiesa non è Dio. Certamente il credente è convinto che nella chiesa e nel suo operato agi-<br />

sce Dio. Ma l’azione di Dio e quella della chiesa non sono identiche, né si implicano semplicemente<br />

l’una l’altra. Bisogna invece distinguerle. Ogni divinizzazione della chiesa resta così esclusa;<br />

(b) che noi siamo la chiesa: in quanto comunità di credenti la chiesa non è qualcosa di diverso da<br />

noi. Se noi siamo la chiesa, la chiesa è una chiesa pellegrina e segnata dal peccato. Di conseguenza<br />

ogni idealizzazione della chiesa è esclusa.<br />

2) Che noi crediamo la chiesa significa:<br />

(a) che la chiesa si fa in virtù della grazia di Dio attraverso la fede: una comunità che non crede, non<br />

è chiesa. La chiesa non esiste in sé ma negli uomini concreti che credono. La chiesa non procede<br />

semplicemente dalla disposizione di Dio, ma anche dalla decisione degli uomini destinati a costitui-<br />

re la chiesa, dalla loro decisione radicale per Dio e il suo regno. Questa decisione è la fede.<br />

(b) che la fede si realizza per grazia di Dio attraverso la chiesa: è Dio che chiama l’individuo alla<br />

fede. Ma senza la comunità che crede, neanche l’individuo arriva più alla fede; anche la fede non e-<br />

siste in sé, ma negli uomini concreti che credono. Ma non l’hanno neppure direttamente da Dio. Es-<br />

si l’hanno attraverso la comunità che loro annuncia, nella fede, il messaggio e che richiede la loro<br />

fede personale. Questo non vuol dire che il cristiano crede sempre a causa della chiesa. Può anche<br />

accadere che l’uomo creda piuttosto malgrado essa, come gli appare nella sua forma storica. Anzi<br />

31


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

può essere che la chiesa sia accettata semplicemente per la fede in Dio ed in colui che Dio ha invia-<br />

to. Eppure la chiesa, in quanto comunità di credenti, non è solo oggetto di fede, ma insieme luogo e<br />

patria della fede. La fede della comunità suscita e stimola la fede del singolo ed in seguito non cessa<br />

di abbracciarla e sostenerla. La fede dell’individuo partecipa così della fede della comunità e della<br />

verità comune. Insomma né la fede si può dedurre semplicemente dalla chiesa né la chiesa sempli-<br />

cemente dalla fede. La chiesa non esiste come dato oggettivo, indipendentemente dalla decisione di<br />

fede del singolo, né i credenti si uniscono alla chiesa da soli. Fede e chiesa rimandano l’una all’altra<br />

e si fecondano l’una l’altra in servizio reciproco; ma in ultima analisi si radicano non in se stesse, né<br />

l’una nell’altra, ma insieme nel misericordioso atto salvifico di Dio.<br />

1.4.4. Invisibile nel visibile<br />

Il credo Ecclesiam si riferisce alla chiesa reale. Precisamente la chiesa oggetto della fede non è una<br />

chiesa di spiriti, una chiesa spirituale, ma la chiesa degli uomini, accessibile ai sensi. La vecchia<br />

diatriba fra chi sostiene una Ecclesia invisibilis e chi sostiene una Ecclesia visibilis è oggi superata.<br />

1) I riformatori si opponevano ad una chiesa medievale in cui si rivelava un Imperium politico-<br />

spirituale, accentuando l’aspetto invisibile e nascosto della chiesa. Ma con ciò essi vollero rinnovare<br />

la chiesa visibile e non fondare una chiesa invisibile. Una chiesa puramente invisibile non è mai esi-<br />

stita né all’epoca della fondazione della chiesa né all’epoca della Riforma. Come potrebbe mai esse-<br />

re invisibile questa chiesa reale fatta di uomini reali? Il fedele cristiano, senza illusioni, sarà conscio<br />

con realismo che la chiesa che egli crede, esiste effettivamente, cioè, dato che questa chiesa è fatta<br />

di uomini, visibilmente. Certo, spesso può essere scandaloso, per il fedele cristiano, che questa chie-<br />

sa della fede, sul piano storico, psicologico e sociologico, non solo sia inequivocabilmente delimi-<br />

tabile, ma anche confrontabile ed esaminabile; e che perciò proprio questa chiesa della fede, che<br />

vuole essere formalmente differente, possa essere messa sullo stesso piano di raggruppamenti, di<br />

società, di organizzazioni secolari più o meno rispettabili. Ma è precisamente nella fede che il cri-<br />

stiano inquadrerà, o meglio accetterà, questa situazione, sapendo che la chiesa che egli crede non so-<br />

lamente è visibile, ma deve essere tale, poiché fatta dagli uomini e per gli uomini. Essa dunque è vi-<br />

sibile non contro la sua essenza, ma in conformità alla sua essenza.<br />

2) Da quello che finora si è detto risulta che la teologia cattolica della controriforma e del medioevo<br />

aveva fondamentalmente ragione quando, contro tutte le tendenze spiritualistiche, ha sostenuto la<br />

forma visibile della chiesa e, contro ogni fanatismo, ha difeso l’ordine della chiesa. Ma non si è po-<br />

tuto né si è voluto fondare una chiesa puramente visibile. Nella misura in cui la chiesa è riconoscibi-<br />

32


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

le «fide solum» 54 essa è nascosta, invisibile. La chiesa reale è quella che si crede nel visibile e perciò<br />

è una chiesa invisibile nel visibile. La sua visibilità perciò è di tipo tutto particolare: ha un aspetto<br />

intimo e invisibile che le è essenziale. La parte visibile della chiesa vive dell’invisibile, è coniata,<br />

marcata, dominata dall’invisibile. La chiesa dunque è essenzialmente di più di quello che è sul pia-<br />

no visibile: non solo un popolo, ma un popolo eletto; non un corpo qualsiasi, ma un corpo mistico;<br />

non un edificio qualsiasi, ma un edificio spirituale. Essa non può evitare d’essere percepita costan-<br />

temente nel mondo unicamente per quello che è visibilmente: un fenomeno sociologico come molti<br />

altri, un’organizzazione religiosa, da favorire, da combattere o da ignorare… Nel migliore dei casi<br />

essa può protestare e professare che essa è più di quello che è visibilmente. E soprattutto essa può<br />

cercare di vivere talmente di fede da diventare per gli uomini un problema senza posa inquietante:<br />

se non vi sia cioè in essa qualcosa di più di quello che è visibile. Guai invece alla chiesa che si perde<br />

nel visibile e che si mette al livello delle altre organizzazioni ritenendosi un “gruppo di pressione”<br />

fra i molti 55 . Una chiesa siffatta si condanna da sola. Nella visibilità le manca l’essenziale che la<br />

rende segretamente ciò che essa dovrebbe essere: lo Spirito che invisibilmente penetra il visibile e la<br />

rende spiritualmente viva, feconda e degna di fede. Oggi nessun cattolico che crede la chiesa reale,<br />

oserà dire come il Bellarmino che la chiesa è visibile come la repubblica di Venezia. Egli si atterrà<br />

al Catechismo Tridentino, secondo cui quello che c’è di essenziale nella chiesa è nascosto e «rico-<br />

noscibile solo con gli occhi della fede» 56 . Non ci sono due chiese, una visibile e una invisibile. E<br />

non si può nemmeno dire, nello spirito del dualismo platonico e dello spiritualismo, che la chiesa<br />

visibile (in quanto “materiale” e terrena) è l’immagine della chiesa autentica, invisibile (spirituale e<br />

54 Catech. Trid., I, 10, 21: «Che cosa dobbiamo credere nella Chiesa. Non gli uomini furono autori di questa chiesa, ma<br />

Dio stesso immortale che l’ha edificata sopra una pietra solidissima, come attesta il profeta: “L’altissimo stesso l’ha fondata”<br />

(Sal 86,5); perciò è chiamata eredità di Dio e popolo di Dio. Anche il potere che ha ricevuto non è umano, ma dovuto<br />

a un dono divino. Quindi, come non lo si può conquistare con le forze naturali, così pure solo con la fede noi comprendiamo<br />

che nella chiesa ci sono le chiavi del regno dei cieli, che ad essa è stato trasmesso il potere di rimettere i peccati,<br />

di pronunciare scomuniche e di consacrare il vero corpo di Cristo, e che i cittadini viventi in essa non hanno quaggiù<br />

una dimora permanente, ma cercano quella futura».<br />

55 «Quello che c’è di terribile nell’integrismo è che, nello scontro di due mentalità che evidentemente deve decidersi nel<br />

cristiano stesso con il massimo di coscienza… l’integrismo oppone chiesa visibile a non-chiesa visibile e su questo fronte<br />

rivendica per la chiesa (perché la battaglia si deciderà sul piano del mondo) proprio i mezzi della non-chiesa»: H.U.<br />

VON BALTHASAR, “Esperienza della chiesa in questo tempo”, in Sponsa Verbi, Morcelliana, Brescia 1985 3 , 14.<br />

56 Catech. Trid., I, 10, 20: «Perché il credere nella Chiesa di Cristo appartenga agli articoli di fede. In ultimo si dovrà<br />

spiegare perché entri negli articoli di fede il credere nella Chiesa. È vero infatti che ognuno con la ragione e con i sensi<br />

rileva che sulla terra c’è la Chiesa, ossia una società di uomini dedicati e consacrati a Cristo Signore; e a comprendere<br />

questo non c’è bisogno della fede, tant’è vero che non ne dubitano neppure i Giudei e i Turchi. Tuttavia soltanto la mente<br />

illuminata dalla fede, e non già convinta da ragioni, può intendere quei misteri che sono contenuti nella santa Chiesa<br />

di Dio… Poiché questo articolo, non meno di tutti gli altri, supera la facoltà e le forze della nostra intelligenza, a buon<br />

diritto professiamo che l’origine, i benefici e la dignità della Chiesa non li conosciamo con la ragione umana, ma li scorgiamo<br />

con gli occhi della fede».<br />

33


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

celeste). Come pure non è che l’invisibile sia l’essenza e il visibile la forma storica della chiesa. Ma<br />

l’unica chiesa è nella sua essenza e nella sua forma sempre contemporaneamente visibile ed invisi-<br />

bile (cfr. LG 8). La chiesa oggetto della fede è dunque un’unica chiesa: la chiesa invisibile nascosta<br />

nel visibile. Questa chiesa crede ed è creduta. Ma in chi crede questa comunità? da chi viene?<br />

1.4.5. L’origine della chiesa è data come criterio della sua “verità”<br />

L’<strong>ecclesiologia</strong> è essenzialmente storica, in quanto essa, come la chiesa stessa, è fatta dagli uomini e<br />

per gli uomini che vivono nel tempo e nel mondo, nell’irrepetibile nunc del loro mondo in continua<br />

trasformazione. L’essenza della chiesa esiste soltanto nella storia della chiesa. La chiesa reale non<br />

ha soltanto una storia, ma essa stessa esiste vivendo la sua storia. Non esiste quindi una dottrina del-<br />

la chiesa intesa come sistema immutabile, bensì soltanto una dottrina in rapporto con la storia della<br />

chiesa, del dogma, della teologia, cioè essenzialmente determinata dalla storia. Il condizionamento<br />

storico sempre nuovo di ogni <strong>ecclesiologia</strong>, che non preclude il riconoscimento di determinati tipi e<br />

stili ecclesiastici, è perciò un dato fondamentale che non ammette eccezioni. Non solo nel senso che<br />

ogni teologo vede la chiesa in una prospettiva diversa e da un punto di vista personale. Ma soprat-<br />

tutto ad un livello di rapporto pluralistico dove l’<strong>ecclesiologia</strong>, in quanto si realizza nel mondo, cui<br />

pure la chiesa appartiene, ha a che fare con un contesto storico concreto sempre nuovo, con un lin-<br />

guaggio che muta in continuità, con un rapporto chiesa-mondo sempre nuovo. La situazione storica<br />

in continuo mutamento, da cui l’<strong>ecclesiologia</strong> viene plasmata e in cui a sua volta si inserirà, stimola<br />

una sempre nuova, precisa configurazione e determinazione nella libertà. La dottrina sulla chiesa è<br />

assieme alla chiesa stessa necessariamente soggetta al continuo cambiamento e deve perciò essere<br />

sempre ripensata daccapo. Come la chiesa, così anche l’<strong>ecclesiologia</strong>, non può essere vincolata ad<br />

alcuna situazione particolare passata, presente o futura. Essa non può identificarsi completamente<br />

con i programmi e i miti … le categorie di un mondo e di un tempo particolari.<br />

Peraltro l’<strong>ecclesiologia</strong>, proprio in quanto storica, può e deve lasciarsi determinare da quella che è la<br />

sua origine: dalla chiesa. Questa origine non è semplicemente una situazione storica e meno ancora<br />

un “principio” trascendentale ideato dalla filosofia e che si esplica nella storia della chiesa. È invece<br />

un’origine “data”, “posta”, “costituita” in modo assolutamente concreto: secondo la fede della chie-<br />

sa, attraverso il grande intervento storico di Dio stesso in Gesù Cristo mediante lo Spirito Santo tra<br />

gli uomini, a favore degli uomini e quindi anche mediante gli uomini. L’origine della chiesa, fonda-<br />

ta sull’atto salvifico di Dio in Gesù Cristo, non determina soltanto il suo primo momento o la sua<br />

prima fase, bensì l’intera storia della chiesa in ogni suo momento, determina la chiesa nella sua es-<br />

senza. Così la chiesa reale non può mai lasciarsi indietro la sua origine, anzi non può mai separarsi<br />

34


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

da essa. Dalla sua origine in poi si trova, in ogni forma storica, in ogni cambiamento, in ogni situa-<br />

zione concreta, una continuità nella verità, nella solidità. Alla chiesa la sua essenza non solo è stata<br />

data, ma le è stata anche affidata. La fedeltà all’essenza originaria (UR 6) nell’evolversi storico del<br />

mondo in funzione del quale la chiesa esiste, non è possibile però nella forma antiquaria<br />

dell’«immobilismo», ma soltanto nel dinamismo dell’«aggiornamento» (Giovanni XXIII).<br />

La stabilità della chiesa dipende dall’unione che essa ha con la sua origine: Gesù Cristo e il suo<br />

messaggio; dall’aderenza più o meno totale al fondamento della sua esistenza: l’atto salvifico di Dio<br />

in Cristo, valido una volta per tutte, presente in virtù dello Spirito Santo, il quale ha il compito di<br />

ricordare l’opera e la parola di Gesù Cristo, introducendoci così nella verità intera (Gv 14,26; 15,26;<br />

16,13s). Una riflessione retrospettiva sull’origine è quindi continuamente necessaria. Concretamente<br />

essa si attua riflettendo sopra la primitiva testimonianza di fede, cui la chiesa di ogni tempo è co-<br />

stantemente legata. In quanto originaria, questa testimonianza è unica nel suo genere, non superabi-<br />

le. E dato che essa è unica nel suo genere, irripetibile, essa obbliga vitalmente, è normativa per la<br />

chiesa di tutti i tempi. Noi troviamo la testimonianza e il messaggio originari negli scritti<br />

dell’Antico e del Nuovo Testamento. Cioè quegli scritti che la stessa comunità ecclesiale, in un<br />

complesso e secolare processo di discernimento, ha riconosciuto quale testimonianza originaria, au-<br />

tentica dell’azione che Dio ha compiuto in Gesù Cristo per gli uomini.<br />

(a) È nell’obbedienza che la chiesa ha riconosciuto la parola che la riguardava nella raccolta degli<br />

scritti del NT, nel loro legame con l’AT e nell’esclusione di speculazioni e di aggiunte fantastiche.<br />

Questo è stato il metro, la pietra di paragone, la linea di demarcazione del “canone” neotestamenta-<br />

rio. Proprio nella parola umana di questi scritti, la chiesa credente ha percepito la parola di Dio, qua-<br />

le è stata definitivamente proclamata a compimento dell’antica alleanza in Gesù Cristo. Il fatto che<br />

nella parola umana di questi scritti sia originariamente attestata la rivelazione divina, è dunque il<br />

motivo finale per cui la loro testimonianza è incomparabile, insuperabile, vincolante in maniera uni-<br />

ca e vitale. Ogni altra testimonianza della tradizione ecclesiastica non può in fondo che gravitare in-<br />

torno a questa originaria testimonianza sulla parola di Dio: nient’altro che interpretare, commentare,<br />

spiegare e applicare questo documento originario, a seconda della situazione storica, sempre diver-<br />

sa. Proprio per via della situazione sempre nuova della predicazione ecclesiale, delle questioni e del-<br />

le esigenze della vita concreta in continuo mutamento, questo documento primitivo viene scanda-<br />

gliato a profondità sempre nuove. Ma la Scrittura rimane la norma normans di una tradizione eccle-<br />

siale che, proprio perché norma normata, deve essere presa sul serio.<br />

35


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

Tuttavia nemmeno i testi neotestamentari sono semplicemente piovuti dal cielo, né sono documenti<br />

divini fuori del tempo; né scritti di estatici, la cui personalità e individualità è annullata dal divino<br />

invasamento…; essi testimoniano la parola di Dio in una parola autenticamente umana. Perciò que-<br />

ste testimonianze sono profondamente storiche. Nel caso dell’<strong>ecclesiologia</strong> ciò significa che la sto-<br />

ria della chiesa, come pure la storia della nozione di chiesa, non è cominciata solo dopo il NT, bensì<br />

nel NT, che a sua volta presuppone l’AT. Gli scritti del NT perciò non ci pongono solo premesse e<br />

basi per la storia della chiesa e dell’idea di chiesa, ma già le prime e decisive fasi della storia della<br />

chiesa e della sua autocoscienza. Non solo dopo il NT, ma già nel NT ci sono differenti concezioni<br />

di chiesa. E si può dire che le diverse accentuazioni, prospettive e tensioni che notiamo<br />

nell’<strong>ecclesiologia</strong> dei secoli seguenti, sovente riflettono accentuazioni, prospettive e tensioni presen-<br />

ti nello stesso NT. Dietro tutto questo non si cela solo l’indole particolare dei vari autori e delle tra-<br />

dizioni da questi accolte, ma anche i diversi orientamenti teologici degli autori e delle comunità re-<br />

trostanti e inoltre le diverse situazioni pastorali nel contesto delle quali questi scritti si inseriscono.<br />

(b) All’interno del NT ci sono testimonianze molto varie. Solo se si prende sul serio l’intero NT con<br />

tutti i suoi scritti quale positiva testimonianza del vangelo di Gesù Cristo, si sfugge a una dissocia-<br />

zione delle contrastanti affermazioni ecclesiologiche del NT, che porta a una semplificazione del<br />

messaggio neotestamentario, alla selezione e all’eresia, e che è un attentato all’unitarietà della Scrit-<br />

tura e all’unità della chiesa. Ma vale anche il contrario: solo se si prende sul serio l’intero NT con<br />

tutti i suoi scritti differenziati e con le rispettive caratteristiche, si evita quell’armonizzazione delle<br />

opposte affermazioni ecclesiologiche del NT che porta un livellamento del suo messaggio, che è un<br />

attentato alla varietà della Scrittura e della chiesa.<br />

(c) D’altra parte che la chiesa del NT sia l’origine normativa della chiesa non significa un ripristino<br />

antistorico, né una riproduzione della comunità neotestamentaria. La chiesa del NT non è un model-<br />

lo che si possa copiare con servilismo, senza tener conto del cambiamento dei tempi e delle situa-<br />

zioni sempre nuove. Neppure le parole di Gesù si devono pronunciare o riprodurre materialmente.<br />

La lettera uccide, è lo spirito che vivifica … E lo Spirito ricorda Gesù introducendo profeticamente<br />

nel futuro (Gv 16,13). Il suo compito sta nel riattualizzare la novità di Gesù proprio nel suo carattere<br />

di novità e nel renderla quindi spiritualmente affascinante. Egli attualizza il messaggio e l’opera di<br />

Gesù Cristo in modo da rispondere ai diversi “segni dei tempi” (GS 3, 10 passim). Di conseguenza,<br />

se la chiesa intende rimanere fedele alla propria natura, non può semplicemente conservare inaltera-<br />

to il proprio passato, ma deve cambiare proprio perché realtà storica. Ciò non significa che il NT au-<br />

torizzi ogni sviluppo a piacimento; ci sono evoluzioni storiche sbagliate e involuzioni. Infatti è il<br />

36


Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />

messaggio del NT, quale testimonianza originaria, l’istanza critica cui rifarsi col mutare del tempo.<br />

Esso è la norma critica cui la chiesa di ogni tempo deve riferirsi. Senza dimenticare però che<br />

l’istanza cui è affidata la comprensione della Scrittura è la chiesa: la Scrittura è il libro della chiesa.<br />

E l’interpretazione vissuta del vangelo di Cristo, in cui consiste la storia della chiesa non può essere<br />

trascurata nel tentativo di capire il significato del Vangelo (il senso della tradizione). Infine, occorre<br />

ricordare che è l’unico e medesimo Spirito che opera nei diversi suoi doni; per cui i diversi doni ed<br />

effetti dello Spirito dovranno integrarsi, interpretarsi e correggersi a vicenda. Criterio indispensabile<br />

per il discernimento degli spiriti è allora quello che mostra come l’unità dello Spirito risulti garanti-<br />

ta e la comunione ecclesiale non compromessa, bensì “edificata”. Il criterio della tradizione vera sta-<br />

rà allora nell’unanimità e nella sintonia con la fede della chiesa intera, di tutti i luoghi e di tutti i<br />

tempi. Proprio in vista di tale consenso, il Magistero svolgerà il proprio servizio (DV 8) 57 .<br />

1.4.6. Una <strong>ecclesiologia</strong> “cattolica”<br />

a) In quanto teologia ecclesiale ogni spiegazione della Sacra Scrittura, allora, si trova sempre già<br />

all’interno di un processo storico di interpretazione, la Tradizione quale «autotradizione di Dio at-<br />

traverso Gesù Cristo nello Spirito Santo per una presenza continua nella chiesa» (W. Kasper). Solo<br />

la reale partecipazione alla «storia degli effetti» della fede biblica all’interno della tradizione della<br />

fede ci dischiude il significato di questa fede perennemente salvifico e liberante allora come oggi. In<br />

questo senso la teologia dogmatica si comprende quale «trasmissione della fede come realtà presen-<br />

te ad ogni tempo» (Drey).<br />

b) All’interno di questo evento della tradizione, l’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica attribuisce un’importanza<br />

particolare proprio alle spiegazioni storiche della fede biblica che sono normative e rappresentano la<br />

chiesa universale: le professioni di fede ecclesiali, gli interventi magisteriali dei concili universali,<br />

dei papi e del collegio episcopale, ma anche di singoli vescovi … Accanto a queste testimonianze<br />

esplicite della tradizione ecclesiale della fede, sono importanti anche le forme di vita ecclesiale ac-<br />

quisite e riconosciute a livello regionale e universale nella liturgia, nell’annuncio e nel servizio. I-<br />

noltre, rilevanti sono poi le testimonianze dei santi, della spiritualità, dell’arte …<br />

c) Infine occorre prestare ascolto anche alle voci critiche e profetiche che in ogni fase della storia ri-<br />

chiamano la chiesa dalle sue deviazioni per ricondurla al centro della sua vocazione. Il modo in cui<br />

gli “altri” ci vedono non è affatto indifferente per la comprensione teologica della chiesa.<br />

57 K. LEHMANN, “Norma normans non normata? La Bibbia nel contesto fondante di teologia e magistero”, in Il Regno.<br />

Attualità 53 (2008/16) 563-572.<br />

37


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

I. L’ORIGINE DELLA CHIESA NELLA TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA<br />

1.0 Introduzione: il Gesù storico, una «memoria pericolosa» per la chiesa<br />

Quando noi ci interroghiamo sull’origine normativa della chiesa, che è fondamentale per la verità<br />

della chiesa nella sua autocomprensione e nel suo attuarsi, non basta presentare semplicemente il<br />

processo postpasquale attraverso il quale è sorta la chiesa oppure le differenti concezioni ecclesiolo-<br />

giche presenti negli scritti neotestamentari, per poi accertare l’esistenza di taluni punti che coinci-<br />

dono con la nostra chiesa e teologia attuali 1 . Decisiva per la normatività della chiesa primitiva e del-<br />

la sua teologia della chiesa è la dimostrazione del suo legame costitutivo con il Gesù Cristo storico<br />

che, proprio nella sua realtà storica, è il Salvatore assoluto (“escatologico”); fin dalla sua origine,<br />

infatti, la chiesa rivendica di essere corpo, popolo e sacramento di Cristo e di essere a servizio e-<br />

sclusivamente del suo rendersi presente. Ma di che genere è questo legame?<br />

L’accertamento del legame costitutivo della chiesa al Gesù storico non può limitarsi unicamente alla<br />

verifica di carattere apologetico di una “fondazione” di tale entità sociale e storica da parte di un<br />

“fondatore” (Gesù Cristo). Infatti il richiamo al Gesù storico per la chiesa non rappresenta una ricer-<br />

ca “di scuola” che possa essere condotta con distanza tipica dello studio storico, ma solleva numero-<br />

si interrogativi “provocatori” rivolti alla chiesa: essa vive effettivamente nella sequela, documenta-<br />

bile anche storicamente, di questo Gesù al quale costantemente si richiama?<br />

In effetti, la figura di Gesù rappresenta anzitutto una «memoria pericolosa» (J. B. Metz) per la chiesa<br />

e questo per diversi motivi:<br />

a) La chiesa è totalmente in relazione con il regno di Dio venuto e ancora da venire ed essa è a<br />

servizio del suo prendere forma nella storia come anticipazione della realtà definitiva. Ciò implica<br />

un monito nei confronti della tentazione delle istituzioni ecclesiali di assolutizzarsi divenendo fine a<br />

se stesse e di porre la propria stabilità come fine ultimo dell’agire salvifico di Dio nella storia.<br />

b) Con la sua critica nei confronti di alcuni aspetti disumani delle tradizioni religiose del suo po-<br />

polo (ad es. la comprensione del sabato: Mc 2,27s) Gesù ha stabilito un parametro sulla base del<br />

quale anche la chiesa deve lasciarsi misurare. Il criterio ultimamente decisivo per il suo annuncio e<br />

1 Abbiamo raccolto queste riflessioni introduttive da M. KEHL, La chiesa, op. cit., 257-258. Sul tema si veda anche<br />

l’equilibrata posizione della COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di Ecclesiologia (7 ottobre 1985):<br />

cap. I. “La fondazione della Chiesa ad opera di Gesù Cristo”, in EV IX, nn. 1683-1680.<br />

38


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

il suo ordinamento è perciò esclusivamente la salvezza degli uomini (cfr. CIC can. 1752). La chiesa<br />

deve mettersi al servizio di questa salvezza come segno anticipatore e strumento che la comunica.<br />

c) Gesù ha dato chiare istruzioni per la vita comune dei suoi discepoli (ad esempio, Mt 23,8-11;<br />

Lc 22,24-27) che con il loro gruppo devono rappresentare una sorta di modello del “vero Israele”.<br />

Le strutture giuridiche e di governo istituzionalizzate devono quindi differenziarsi profondamente<br />

da tutte le altre strutture di dominio: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le<br />

dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere<br />

grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Mc<br />

10,42-44).<br />

La verità e la credibilità della chiesa dipendono dalla sua disponibilità a esporsi sempre di nuovo al<br />

“pericolo” di questa memoria del Gesù storico, dalla sua disponibilità a “convertirsi” costantemente<br />

dalla tendenza a garantirsi semplicemente la propria sopravvivenza individuale e istituzionale e a<br />

mettersi a tutti i livelli in cammino sulla via di Gesù verso la comunione compiuta del regno di Dio.<br />

Solo a questa condizione essa può richiamarsi a Gesù come al suo fondatore senza suscitare<br />

l’impressione di operare una falsificazione ideologica della storia.<br />

1.0.1 Premesse ermeneutiche<br />

a) La questione della fondazione della chiesa<br />

a) Nella dottrina ecclesiale preconciliare condizionata dall’orientamento controriformistico (contro-<br />

versia e apologetica) e nella dogmatica neoscolastica la legittimità biblica della chiesa era riassunta,<br />

richiamandosi a determinati passi biblici, in una chiara asserzione storico-dogmatica: Gesù ha isti-<br />

tuito o fondato l’unica chiesa 2 . Tale affermazione si trova nella forma più chiara nel giuramento an-<br />

timodernista del 1910 di Pio X (sostituito solo nel 1967): «Credo fermamente che la chiesa custode<br />

e maestra della parola rivelata è stata istituita immediatamente e direttamente dallo stesso Cristo<br />

vero e storico, mentre era tra di noi, e che essa è stata edificata su Pietro, principe della gerarchia<br />

apostolica, e sui suoi successori per sempre» (DzH 3540).<br />

Affermare l’istituzione o la fondazione della chiesa da parte di Gesù significa qui che il Signore ter-<br />

reno e risorto ha posto in modo consapevole ed esplicito determinati atti giuridici formali attraverso<br />

i quali egli ha fondato la chiesa come una istituzione visibile e costituita giuridicamente dalla sua<br />

volontà nei suoi aspetti essenziali. Ciò implica che tutte le istituzioni ecclesiali essenziali risalgono<br />

2 S. WIEDENHOFER, La Chiesa. Lineamenti fondamentali di <strong>ecclesiologia</strong> (Cinisello Balsamo: San Paolo, 1994) 47-56.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

a Gesù stesso (cfr. Mt 16,18s; Mt 18,18; Gv 20,23; Lc 22,17-20 par.; Mt 28,18-20 e altri): il primato<br />

papale è fondato nell’istituzione della chiesa su Pietro, il collegio episcopale nella chiamata del col-<br />

legio apostolico, la gerarchia ecclesiastica e la sua triplice potestà nel conferimento della triplice po-<br />

testà di Cristo (ufficio magisteriale, pastorale e sacerdotale) agli apostoli e inoltre i sacramenti (in<br />

particolare l’eucaristia) e l’insegnamento della fede. In questa prospettiva la chiesa era compresa<br />

come organo di salvezza visibile, permanente e ordinato gerarchicamente, che può trasmettere la<br />

salvezza agli uomini poiché è stata dotata da Cristo di tutte le istituzioni necessarie e da lui ha rice-<br />

vuto anche i poteri necessari. In forza di questo essa stessa è una società perfetta, cioè possiede tutti<br />

i mezzi necessari per la salvezza ed è perciò distinta e indipendente rispetto a tutte le altre istituzio-<br />

ni. Tutte queste affermazioni relative alla fondazione della chiesa provengono da un contesto apolo-<br />

getico-polemico. Esse servono alla legittimazione e alla distinzione rispetto a determinati avversari.<br />

L’asserzione sull’istituzione dei sette sacramenti, ad esempio, è rivolta contro i riformatori (DzH<br />

1601); il discorso sull’istituzione del primato papale e sulla costituzione della chiesa contro le altre<br />

confessioni e contro la modernità (DzH 3055; cfr. 3050, 2997s); l’affermazione relativa alla fonda-<br />

zione della chiesa si rivolge contro il modernismo (DzH 3452-3457; 3540).<br />

b) Nell’esegesi recente questa concezione è diventata problematica per diverse ragioni. Dal punto di<br />

vista storico bisogna partire dal presupposto che i vangeli sono sorti nella situazione ecclesiale po-<br />

stpasquale. Ciò significa che essi trasmettono le parole di Gesù in modo già attualizzato in riferi-<br />

mento a questa situazione ecclesiale. Anche i due passi nei quali nei sinottici ricorre la parola «chie-<br />

sa» (ekklesía, Mt 16,18s e Mt 18,17) sembra abbiano origine con ogni probabilità dalla situazione<br />

post-pasquale. Di fatto però le situazioni prima e dopo la Pasqua sono assai diverse: i vangeli an-<br />

nunciano le parole e le azioni di Gesù in modo nuovo e sulla base di una nuova esperienza, quella<br />

della morte e risurrezione di Gesù e della comunità che a partire da essa si raccoglie e attende il ri-<br />

torno del Signore. In Gesù, invece, al centro sta qualcos’altro: anzitutto la sua predicazione escato-<br />

logica nella quale egli annuncia l’irrompere imminente del regno di Dio e, in secondo luogo, le sue<br />

azioni con carattere di segno nelle quali egli, in concrete situazioni di sventura, conferisce una for-<br />

ma percepibile nel nostro mondo all’amore incondizionato e senza limiti di Dio e alla sua miseri-<br />

cordia. Oltre a ciò, Gesù si rivolge all’intero Israele (senza escludere alcun gruppo). Il suo scopo è la<br />

raccolta, il rinnovamento e la preparazione dell’intero popolo in vista del regno di Dio che viene. In<br />

questa prospettiva Gesù non voleva né fondare una nuova comunità religiosa, né costituire un resto<br />

o una comunità particolare all’interno di Israele. Che da tale movimento di raccolta di fatto derivi<br />

una separazione non dipende perciò dalla volontà di Gesù ma dal rifiuto dei destinatari. In tale qua-<br />

dro una fondazione della chiesa secondo la comprensione tradizionale è perciò difficile da collocare.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

b) Orientamenti esplicativi<br />

a) Entrambe le risposte, quella apologetico-dogmatica e quella esegetica, tradiscono lacune e pro-<br />

blemi e necessitano quindi di una valutazione ermeneutica. La risposta apologetico-dogmatica è in-<br />

genua dal punto di vista storico, poiché essa riconosce la chiesa attuale senza alcun problema nelle<br />

allusioni bibliche, e arrischiata dal punto di vista pratico perché in questo modo finisce per legitti-<br />

mare tutti gli sviluppi successivi oppure, con la sua concentrazione sull’essenza della chiesa, li sot-<br />

trae alla critica. La corrente posizione storico-critica è ingenua dal punto di vista sistematico perché<br />

non tiene conto in maniera sufficiente dei suoi presupposti (la sua comprensione della storia, della<br />

società, della lingua, della comunicazione, della tradizione, della sua antropologia e ontologia) e<br />

della complessità dei suoi concetti generali o caratterizzazioni (chiesa, fondazione); e questo si ri-<br />

flette dal punto di vista pratico nella sua lettura dei fenomeni storici e sociali. Da entrambe le parti<br />

si devono perciò precisare le scelte ermeneutiche.<br />

b) Dal punto di vista dogmatico devono essere poste in relazione in maniera adeguata l’insuperabile<br />

ecclesialità della fede (che cos’è la chiesa si può sapere solo nella partecipazione all’autocompren-<br />

sione della chiesa stessa, non al di fuori di essa) e la canonicità della sacra Scrittura (ciò che è fede<br />

ecclesiale deve essere conforme alla testimonianza apostolica della Scrittura).<br />

Dal punto di vista teologico-dogmatico si può presupporre che una chiesa che trasmette la sacra<br />

Scrittura come propria legge fondamentale, in linea di principio sia in continuità con la sua origine<br />

biblica (senza chiesa non c’è Bibbia).<br />

Poiché tuttavia la chiesa non trasmette un proprio prodotto ma un bene che le è stato affidato,<br />

che, come norma della sua fede, la precede, essa può e deve anche essere interrogata criticamente<br />

sulla base di questa testimonianza biblica (la Bibbia come norma per la chiesa).<br />

c) Dal punto di vista esegetico devono essere collegate in maniera adeguata la fondatezza storica<br />

della fede («come è andata effettivamente») e la pluralità dei presupposti della conoscenza storica<br />

(la conoscenza storica è sempre legata a determinate supposizioni, attese, timori e pregiudizi e a<br />

servizio di determinati interessi, bisogni di legittimazione e strategie di azione).<br />

L’accesso storico-critico consente, attraverso il suo strumentario metodologico, di formulare i-<br />

potesi fondate su come si sono svolti effettivamente i fatti.<br />

L’affidabilità dell’ipotesi storica, però, cresce nella misura in cui l’approccio storico è anche<br />

oggetto di riflessione sistematica (in relazione ai suoi presupposti logico-ontologici, e alla sua uti-<br />

lizzazione dei concetti) e pratica (in relazione alla situazione della comunicazione e degli interessi).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

La comprensione apologetico-dogmatica dell’istituzione della chiesa è sorta in un contesto storico<br />

ben determinato ed è legata a problematiche e interessi precisi: tale visione della chiesa infatti si<br />

fonda nello sviluppo medioevale dell’<strong>ecclesiologia</strong>. Essa trova la sua elaborazione vera e propria nel<br />

periodo post-riformistico, in particolare nella distinzione e nella difesa nei confronti della Riforma.<br />

Solo verso la metà del XIX secolo però questa comprensione della chiesa diviene una dottrina teo-<br />

logica ed ecclesiale fissata. Fino alla metà del secolo XX essa ha determinato e dominato la visione<br />

teologico-dogmatica della chiesa. Una tale visione dell’istituzione della chiesa ha senso dunque solo<br />

in un quadro polemico-apologetico, legato alle controversie circa la legittimità. Questa comprensio-<br />

ne della fondazione della chiesa ha avuto effettivamente una certa funzione quando era in gioco la<br />

legittimazione della chiesa contro pretese concorrenti, quelle del potere regale medioevale prima e<br />

poi quelle delle altre confessioni, le quali rispondevano a questa questione in maniera opposta, ma<br />

nel quadro della medesima logica. Una tale visione inoltre ha senso soltanto entro una determinata<br />

forma di pensiero e di determinati presupposti, cioè nel quadro della dottrina aristotelica delle quat-<br />

tro cause e dell’utilizzo della Scrittura come testo di diritto. Di fatto, tutti i testi magisteriali sulla<br />

fondazione della chiesa anteriori al Vaticano II provengono da tali situazioni di legittimazione.<br />

Al passaggio da un’impostazione apologetica a un’impostazione teologica è collegato in maniera<br />

coerente nella teologia recente anche il passaggio linguistico dall’idea di «istituzione della chiesa»<br />

ai concetti di «origine della chiesa» o «inizio della chiesa». Sintomaticamente la Lumen gentium si<br />

esprime in questo modo: «Il mistero della santa chiesa si manifesta nella sua fondazione (in eiusdem<br />

fundatione). Il Signore Gesù, infatti, diede inizio alla sua chiesa (Ecclesiae suae initium fecit) predi-<br />

cando la buona novella, cioè la venuta del regno di Dio da secoli promesso nelle Scritture...» (LG 5).<br />

Anche la corrente interpretazione storico-critica della questione della fondazione della chiesa non è<br />

però priva di presupposti. In conseguenza della critica illuministica della legittimità delle istituzioni<br />

tradizionali (Stato, chiesa, diritto), essa unisce un interesse pratico “illuminato” nei confronti delle<br />

attuali istituzioni a una spiegazione storica della loro origine. La sua comprensione dell’istituzione<br />

della chiesa rigorosamente ha senso solo in un tale quadro di critica dell’istituzione.<br />

In particolare, il metodo storico-critico rischia di sottovalutare il fatto che la storia — il tentativo di<br />

conferire agli eventi passati il carattere del puramente passato — ha originariamente la forma di un<br />

racconto, per cui i contenuti obiettivi hanno la loro verità primariamente non come contenuti propo-<br />

sizionali fissati, ma come parti integranti di un atto linguistico (nel senso più ampio del termine) in<br />

cui essi solo difficilmente sono separabili dall’attitudine propriamente personale del tradente nella<br />

sua intenzione di incontrare l’orizzonte recettivo di coloro ai quali si rivolge.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

Inoltre il “metodo storico-critico” ha ricercato la verità dell’origine facendo astrazione dalla validità<br />

della tradizione, costituendosi chiaramente prima di tutto come antitesi alla tradizione. Ciò si può<br />

provare anche in relazione alla problematica della Leben-Jesu-Forschung. La prima fase di questa<br />

ricerca (da Reimarus fin quasi alla prima guerra mondiale) era segnata da una radicale ripulsa verso<br />

tutto ciò che si poteva identificare come aggiunta della tradizione all’«autentico Gesù storico». Sin-<br />

tomaticamente la tradizionale «ricerca sul Gesù storico» ha inteso le testimonianze nel senso di in-<br />

formazioni. Essa cerca questo Gesù per così dire “alle spalle” dei testimoni neotestamentari e perde<br />

di vista con ciò lo stesso atto della testimonianza nel quale, soltanto, l’incondizionato può essere<br />

storicamente portato come valore. Questo è ancora il caso in cui si cercano gli ipsissima verba et<br />

facta Jesu sulla via della ricerca della storia delle forme. Sebbene anche quelle originarie briciole<br />

dalle quali si potrebbe ricostruire lo scheletro del Gesù storico siano state riconosciute come confi-<br />

gurate kerigmaticamente come parte di un annuncio, ci si è nondimeno sforzati, astrazion fatta da<br />

questa configurazione operata dalle prime comunità, di impadronirsi del vero Gesù storico 3 .<br />

d) Dal punto di vista teologico-sistematico si deve inoltre considerare un altro aspetto. Alla que-<br />

stione se Gesù abbia fondato una chiesa non è facile dare risposta né dal punto di vista storico, né da<br />

quello sistematico. Prima di poter dare una risposta si deve chiarire che cosa si intenda precisamente<br />

con la domanda. Entrambi i concetti principali che in essa si trovano (chiesa e fondazione) si pre-<br />

stano a diverse interpretazioni. Essi possono avere un contenuto e un’ampiezza differenti.<br />

Se si utilizza “chiesa” in un senso molto stretto (= comunità dei fedeli che, sotto la guida del papa e<br />

dei vescovi, condividono la stessa fede ecclesiale e ricevono gli stessi sacramenti), alla questione se<br />

Gesù abbia fondato la chiesa è difficile dare una risposta affermativa in modo indifferenziato. Se al<br />

contrario si intende “chiesa” in un senso più ampio e aperto (= comunità suscitata da Cristo nello<br />

Spirito di coloro che accolgono le esigenze del Regno) una risposta positiva è invece senz’altro pos-<br />

sibile. Lo stesso vale per l’uso della parola “fondazione”. Vi sono infatti modelli culturali assai dif-<br />

ferenti per tali processi di fondazione, di istituzione. Il modello dipende dall’immagine dell’uomo e<br />

del mondo, dalla rappresentazione del tempo e da determinate condizioni di vita della società.<br />

e) Dal punto di vista filosofico-sistematico la spiegazione apologetico-dogmatica e quella storico-<br />

critica del sorgere della chiesa sono vincolate a un importante presupposto comune: un’accentuata<br />

3 Queste osservazioni pertinenti sono di H.-J. VERWEYEN in La Scuola Cattolica CXXV (1997) 517-538.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

riduzione ermeneutica del significato delle testimonianze storiche all’intenzione dell’autore, cioè a<br />

ciò che l’autore stesso con le sue espressioni ha inteso o voluto.<br />

Nell’apologetica tradizionale questa riduzione avveniva sotto l’influsso della teoria aristotelica della<br />

significazione, dominante nel pensiero occidentale. Secondo tale teoria, le parole sono segni delle<br />

rappresentazioni (mentali) e queste sono simili alle cose. La relazione significante (cioè la relazione<br />

tra parola e rappresentazione/significato/concetto oppure tra forma e contenuto della parola) è con-<br />

venzionale, cioè fissata storicamente e socialmente. I significati delle parole dipendono dunque dal<br />

loro uso effettivo all’interno di una comunità linguistica. Una teologia che si basa su tali presupposti<br />

perciò cercherà subito e in modo quasi esclusivo il contenuto proposizionale delle frasi (ciò che vie-<br />

ne affermato come vero o falso) o il contenuto dei concetti e, a causa della mancanza di senso stori-<br />

co e della pressione derivante dal bisogno di legittimazione, ritroverà anche sulla bocca di Gesù Cri-<br />

sto, il «fondatore della chiesa», il legame abituale tra la parola e la rappresentazione «chiesa».<br />

Nel metodo storico-critico tale riduzione avviene sotto l’influsso dell’ermeneutica romantica, la<br />

quale porta a compimento uno sviluppo già iniziato nell’epoca moderna. Per capirne la portata ne<br />

indichiamo le due fasi principali, che raccogliamo sotto i due nomi di Spinoza e di Schleiermacher.<br />

Con SPINOZA si introduce una nuova strategia interpretativa del testo sacro. L’esegesi patristica e<br />

medievale, infatti, era finalista: essa si basava sulla convinzione che la Scrittura era ispirata e quin-<br />

di conteneva la dottrina cristiana. Di conseguenza quei testi oscuri o ostici, in cui apparentemente si<br />

rilevava uno scarto dalla dottrina già posseduta, dovevano essere presi non in senso letterale ma in<br />

senso figurato (allegorico). I tempi moderni invece vedono la nascita di una nuova strategia inter-<br />

pretativa di tipo operazionale, dominato dalla filologia: nell’interpretazione della Bibbia la preoc-<br />

cupazione principale non è tanto quella di trovare il senso vero (o spirituale, conforme alla dottrina),<br />

bensì il vero senso, cioè quello che risulta dall’applicazione rigorosa al testo di un metodo scientifi-<br />

co di interpretazione. Questa rivoluzione nell’esegesi è opera di Baruch Spinoza col suo Trattato<br />

teologico-politico (1670). Secondo Spinoza, occorre distinguere radicalmente un discorso che pro-<br />

duce una conoscenza, dunque di tipo scientifico, che non può derivare che dalla ragione, da un di-<br />

scorso che mira a suscitare un’impressione e a indurre un comportamento, che oggi chiameremmo<br />

di tipo ideologico. Il discorso biblico, che mira a “muovere” le anime, appartiene al secondo tipo e<br />

quindi non pretende di condurre ad alcuna conoscenza razionale. Così la sua interpretazione non mi-<br />

rerà a scoprire la sua verità, ma il suo senso. L’innovazione di Spinoza è in apparenza minima: egli<br />

abolisce la separazione tra testi sacri (sensati e veri) e testi profani (sensati ma non necessariamente<br />

veri) e dichiara che non esiste alcun testo il cui senso sia necessariamente vero. Questo spostamento<br />

di frontiere, tuttavia, ha delle conseguenza capitali: non solo si tratta la Bibbia come qualsiasi altro<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

testo, ma si prende anche coscienza delle tecniche utilizzate tradizionalmente nell’interpretazione<br />

dei testi non sacri, e li si erige a programma, assumendo le loro implicazioni ideologiche. La conse-<br />

guenza è un’inversione dell’esegesi patristica: mentre quest’ultima non è libera dal senso del testo,<br />

il quale è dato in anticipo, ma è relativamente libera nel metodo, lasciato alla volontà dell’interprete,<br />

l’esegesi spinozista non presuppone alcun senso, che invece è da trovare liberamente, ma esercita la<br />

sua costrizione sul metodo il cui rigore non può essere attenuato. Questa costrizione sarà in partico-<br />

lare di ordine grammaticale: necessità di conoscere la lingua, strutturale: presupposizione della coe-<br />

renza del testo, storico: necessità di situare il testo nel contesto storico del suo autore.<br />

Se Spinoza fa il passo decisivo, una vera e propria ermeneutica filosofica generale, al cui interno si<br />

inserisce come una regione quella della Bibbia, è elaborata da Friedrich D.E. SCHLEIERMACHER, il<br />

quale persegue a più riprese il progetto di una Ermeneutica generale. Con lui l’ermeneutica filosofi-<br />

ca si interroga, per la prima volta, sulla comprensione del senso come tale e cerca di coglierne le re-<br />

gole globali fondate immediatamente sulla natura del pensiero e del linguaggio. L’idea feconda di<br />

Schleiermacher è di articolare il linguaggio o più precisamente il discorso al pensiero. Si abbandona<br />

definitivamente la concezione razionalista di una relazione univoca tra la parola (il segno) e il suo<br />

senso (la rappresentazione indipendente e comune a tutti gli uomini), a vantaggio di un insieme<br />

complesso in cui il senso non è più semplicemente fissato per convenzione linguistica, ma risulta<br />

anche dalla molteplicità degli usi individuali degli elementi linguistici. Schleiermacher si riferisce<br />

qui al «circolo ermeneutico» secondo cui la totalità del senso si comprende sempre a partire dai suoi<br />

elementi, mentre la comprensione di ciascun elemento suppone già che si sia colta una totalità sen-<br />

sata. La lingua o il discorso implica dunque nel suo centro una sorta di oscurità, o l’esistenza di una<br />

incomprensione spontanea che accede qui per la prima volta a uno statuto fondamentale. Essa ne-<br />

cessita allora la «comprensione», non più come esperienza spontanea, ma come un’arte metodica e<br />

generale. Inoltre, se il senso e il significato di un testo dipendono esclusivamente dall’atto creativo<br />

della loro produzione da parte di un determinato autore, allora sarà certo possibile comprendere uno<br />

scrittore meglio di quanto egli non abbia compreso se stesso, ma il comprendere è inteso quale ri-<br />

produzione dell’atto creativo originario dell’autore. Certamente rimane il difficile problema di come<br />

il lettore attuale possa divenire contemporaneo del lettore originale o dell’autore, ma il senso di un<br />

testo, da rilevare con il metodo storico-filologico, in questa prospettiva deve rimanere legato neces-<br />

sariamente all’intenzione originaria dell’autore. In questa traiettoria l’esegeta deve comprendere la<br />

questione dell’inizio della chiesa come questione delle testimonianze esplicite circa l’intenzione di<br />

Gesù di fondare la chiesa, soprattutto quando egli lega tale questione a quella circa la legittimità del-<br />

la chiesa in quanto tale oppure circa la legittimità di un determinato ordinamento ecclesiale.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

La recente filosofia del linguaggio (soprattutto di orientamento pragmatico e analitico) ha però con-<br />

dotto a un importante ampliamento nella comprensione del linguaggio e del testo e, corrisponden-<br />

temente, anche nell’ermeneutica della comprensione e interpretazione delle testimonianze linguisti-<br />

che o testuali. Secondo tale visione, il significato del testo non dipende solo dalla sua struttura sin-<br />

tattica e semantica (ad es., quali possibilità grammaticali o quali concetti e metafore sono stati uti-<br />

lizzati). Il significato dipende anche dalla struttura pragmatica (quale funzione aveva questa asser-<br />

zione in una determinata situazione comunicativa) 4 . Tale funzione può essere molteplice (affermare<br />

qualcosa, mettere di fronte a una decisione, chiedere riconoscimento, testimoniare qualcosa, produr-<br />

re una nuova relazione tra chi parla e chi ascolta…) e può essere assai complessa, nel caso che una<br />

funzione ne presupponga un’altra. Quando, ad es., Gesù, con il suo annuncio del regno di Dio, pone<br />

i suoi ascoltatori in una situazione escatologica di decisione, questo atto linguistico dell’appello im-<br />

plica anche l’affermazione di essere realmente l’inviato escatologico di Dio (anche nel caso che Ge-<br />

sù stesso non l’abbia esplicitamente affermato). Se da un punto di vista pragmatico ogni testo viene<br />

costituito dalla cooperazione tra chi parla e ascolta o autore e lettore, nessun testo è concluso. In o-<br />

gni caso, la reazione dell’ascoltatore è inseparabilmente legata all’azione di chi parla. Ciò che<br />

l’annuncio del regno di Dio da parte di Gesù significa non può essere perciò determinato indipen-<br />

dentemente dalla reazione dei suoi ascoltatori (certo non indipendentemente dalla sua intenzione).<br />

La storia degli effetti appartiene immediatamente al significato dell’annuncio di Gesù. D’altra parte,<br />

ogni espressione linguistica è possibile solo all’interno di un mondo linguistico già esistente e rego-<br />

lato (sintatticamente, semanticamente e pragmaticamente) in cui chi parla entra, che assume e solo<br />

con l’aiuto del quale egli può esprimersi. Se nell’annuncio o nell’agire di Gesù è fondata o inizia<br />

una chiesa, dipende dunque anche dal mondo linguistico nel quale Gesù si esprime.<br />

f) Se si assume come punto di partenza un’ermeneutica che integra le acquisizioni della semiotica<br />

o della pragmatica linguistica, il significato delle azioni linguistiche storiche non dipende solo<br />

dall’intenzione di chi parla ma anche dai modelli di azione e di linguaggio utilizzati (dal contesto<br />

4 J. Austin (How to Do Things with Words, London 1962) ha riconosciuto in un atto linguistico almeno tre aspetti:<br />

l’aspetto locutorio per il quale l’espressione ha un significato (dire qualcosa: esecuzione di un atto di dire qualcosa; è<br />

l’atto con cui emetto una serie di suoni articolati che, in una determinata lingua, assumono un certo significato);<br />

l’aspetto illocutorio per il quale l’espressione ha un valore o forza (compimento di un’azione che si fa parlando: esecuzione<br />

di un atto nel dire qualcosa; è l’atto con cui imprimo al mio atto linguistico una certa “tonalità” che può svariare<br />

dal consiglio al comando, dalla preghiera all’ammonimento, all’elogio...); aspetto perlocutorio per il quale l’espressione<br />

ha un effetto (produzione di alcuni effetti sulla situazione nella quale si parla o nel nostro interlocutore). Così<br />

un’espressione come «tu non puoi fare questo» produce: un atto locutorio — egli mi dice: «Tu non puoi fare questo»<br />

(senso dell’espressione); un atto illocutorio — egli protestò contro il mio atto (forza illocutoria dell’espressione); un atto<br />

perlocutorio — egli mi dissuase dal fare questo (effetto reale dell’espressione).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

antecedente di azione nel quale si muove colui che parla) come pure dall’interazione e ricezione (dal<br />

contesto conseguente di azione che chi parla mette in moto). Il significato (“fondatore” della chiesa)<br />

dell’agire del Gesù prepasquale deve dunque essere colto non solo a partire dall’intenzione di Gesù,<br />

ipoteticamente ricostruita, ma anche a partire dalla preistoria e dalla storia degli effetti di tale azio-<br />

ne, come pure dai suoi contesti sociali (in particolare la continuità dei gruppi portatori della tradi-<br />

zione o l’identità del gruppo dei discepoli). Su questo sfondo è opportuno distinguere diversi aspetti<br />

del formarsi della chiesa che possono essere così riassunti:<br />

Dato che la chiesa è connessa con un processo di separazione in Israele e ha nella celebrazione<br />

eucaristica il suo luogo proprio e il suo centro (Ekklesia come comunità cultuale cristiana) può es-<br />

serci chiesa in senso stretto solo dopo Pasqua o dopo Pentecoste. Solo a questo punto può realiz-<br />

zarsi anche la concreta istituzionalizzazione della nuova comunità di fede.<br />

D’altra parte questo sviluppo non è pensabile senza la storia del Gesù prepasquale. Il movimen-<br />

to escatologico di Gesù, orientato alla raccolta di Israele, e i segni della vicinanza del regno di Dio<br />

che creano comunione costituiscono il fondamento teologico-oggettivo e anche storico-sociologico<br />

dell’istituzionalizzazione postpasquale della chiesa.<br />

Poiché il movimento di raccolta di Gesù non è concepibile fuori di Israele, anche la storia d’Israele e<br />

il carattere sociale della sua fede sono parte integrante della preistoria fondatrice della chiesa.<br />

1.1. Il popolo di Dio nell’Antico Testamento<br />

1.1.1. Quale lettura “ecclesiologica” dell’AT ?<br />

Per investigare i fondamenti biblici dell’<strong>ecclesiologia</strong> cristiana dobbiamo studiare non solo le fonti<br />

neotestamentarie, quasi che la chiesa fosse un fenomeno nato all’improvviso, bensì anche quelli an-<br />

ticotestamentari e giudaici. L’Antico Testamento e il suo sviluppo estremo nell’epoca del giudaismo<br />

del secondo tempio, tracciano infatti delle linee storiche e teologiche che fanno da binario alla realtà<br />

storico-culturale della chiesa. Non vi è chiesa neotestamentaria, come fenomeno storico-culturale,<br />

senza le radici giudaiche 5 .<br />

Si tratta di determinare come si è arrivati, nel quadro della tradizione biblica a quella che in termini<br />

teologici si definisce la “nuova creazione” di Cristo, la chiesa. La questione implica due prospettive<br />

5 Riprendiamo alcune riflessioni di M. NOBILE, Ecclesiologia biblica. Traiettorie storico-culturali e teologiche (Bolo-<br />

gna: EDB, 1996) 5-12.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

complementari, una, che potremmo chiamare orizzontale, l’altra invece verticale. Riguardo alla<br />

prima, la chiesa può essere considerata come un’espressione socio-religiosa e culturale, inserita e<br />

leggibile in un tessuto storico tipico, che è la cosiddetta epoca di Gesù (I sec. a.C. - I sec. d.C.). Ciò<br />

implica la conoscenza della realtà geo-politica e religiosa del tempo; qual era il contesto storico<br />

prossimo e remoto, quali le espressioni sociali e culturali che lo caratterizzavano; che cosa si pensa-<br />

va e si voleva; come si viveva e che cosa si credeva. L’obbligatorietà di queste domande nasce dal<br />

fatto che la rivelazione biblica è storica e, quindi, mediata da una “lingua” di volta in volta ben pre-<br />

cisa e definita, appunto la “lingua della storia”, nel suo divenire ininterrotto e cangiante, nelle sue<br />

peculiarità epocali e culturali nuove, eppur sempre antiche, perché inserite nel «continuum» della<br />

storia 6 . La chiesa primitiva è espressione e frutto del giudaismo del secondo tempio, così come si è<br />

sviluppato in epoca ellenistica (dal IV sec. a.C. in poi) e così come esso ha sviluppato l’eredità di<br />

quello che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento.<br />

La seconda prospettiva della questione ecclesiologica consegue dalla precedente: il fondamento bi-<br />

blico della <strong>ecclesiologia</strong> non può limitarsi al piano orizzontale della letteratura neotestamentaria, ma<br />

deve investigare anche verticalmente l’AT e le idee religiose del giudaismo, inteso come l’erede<br />

delle Scritture ebraiche. A questo punto però bisogna stare attenti a non cadere nella trappola apolo-<br />

getica. Questo rischio è stato frequentemente corso anche dalla lettura ecclesiologica dell’AT.<br />

Di fatto l’interesse ecclesiologico del ricorso all’AT si è sviluppato in quattro tappe successive di<br />

crescente e progressiva profondità.<br />

1) Dapprima si è cercato di capire il significato di alcuni termini (come “chiesa”, “popolo di Dio”,<br />

“Israele di Dio”…) e di altre metafore, mediante l’analisi filologica. Per quanto ampio, questo stu-<br />

dio si limita a considerare l’AT come luogo ermeneutico per la comprensione del linguaggio del<br />

NT; anche se il presupposto di una certa continuità tra Israele e la chiesa costituisce un principio di<br />

grandi risonanze. Questa è la via già percorsa dai manuali De ecclesia.<br />

2) Un secondo passo viene compiuto quando si recupera l’ampiezza della lettura tipologica propria<br />

dei padri; allora tutto l’AT si trasfigura ed acquista senso, anche se questa strada aiuta ad evidenzia-<br />

re piuttosto la superiorità, la discontinuità, la novità della chiesa (cfr. J. Daniélou; H. Rahner) 7 .<br />

6 Questo non vuol dire che ciò che avviene nella storia sia sempre logico e conseguente o completamente razionale. Tuttavia,<br />

la conoscenza approfondita delle varie manifestazioni umane che caratterizzano un’epoca è una condizione ineliminabile,<br />

anche quando oggetto della ricerca è un tema non esauribile nelle coordinate storiche, qual è un tema teologico.<br />

L’attenzione a tale esigenza è coerente con il “tempo” e lo “spazio” entro cui si manifesta il trascendente.<br />

7 Cfr. H. RAHNER, Simboli della Chiesa. L’<strong>ecclesiologia</strong> dei Padri (Cinisello Balsamo - Milano: Edizioni San Paolo,<br />

1994 2 ; originale tedesco 1964). Pensiamo alle categorie di promessa-adempimento; Israele secondo la carne e Israele<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

3) Il terzo passo allarga la considerazione a tutta la storia; non solo alle figure o ai tipi, ma a tutto<br />

l’arco delle vicende del popolo d’Israele, legando la storia della chiesa a quella di Israele come fase<br />

successiva, nella continuità-discontinuità di un’unica storia della salvezza; in questo caso si può<br />

parlare di chiesa già presente nell’AT 8 .<br />

4) L’ultimo passo viene appena timidamente avanzato: anche il mistero della sopravvivenza degli<br />

ebrei tocca la riflessione sulla chiesa; la storia del popolo di Dio dell’AT ha qualche riflesso anche<br />

nella storia di quel popolo fino ad oggi; la chiesa deve leggersi ed interpretarsi anche in questa ulte-<br />

riore storia. Questo tipo di discorso teologico è appena abbozzato dal Concilio Vaticano II con la<br />

Dichiarazione Nostra aetate, cap. 4 9 .<br />

Orbene, la pregiudiziale apologetica scatta allorché si accentua in maniera impropria l’apporto di<br />

una metodologia caratterizzata da due elementi. Il primo consiste nella concezione statica del rap-<br />

porto tra AT e NT. In base a tale premessa, si compila una serie sistematica di figure o di testi presi<br />

dall’AT e li si dispone su di un dittico ideale e fisso, del quale occupano un campo; l’altro offre la<br />

serie corrispondente di immagini e di testi del NT. Quest’ultimo è la realizzazione piena del primo;<br />

l’Antico Testamento sta al Nuovo come l’ombra alla realtà, come la promessa al compimento, come<br />

l’imperfezione alla perfezione, come la verità fittizia alla verità “vera”. La concezione è sostenuta<br />

dal secondo elemento, che è la predisposizione ermeneutica. La convinzione della superiorità del<br />

NT sull’AT, da un lato offre al ricercatore un percorso scontato, un binario predeterminato che tra-<br />

sforma lo studio in un esercizio di pura quanto superflua erudizione, dall’altro, di conseguenza, in-<br />

debolisce il rigore della ricerca scientifica e la possibilità di autentiche scoperte: vale la pena di<br />

prendere sul serio il rigore oggettivo dell’esercizio scientifico e di “non fare finta” d’interessarsi alle<br />

radici veterotestamentarie e giudaiche della fenomenologia neotestamentaria. La predisposizione se-<br />

secondo lo Spirito; già e non ancora. Ricordiamo l’espressione di Agostino: «Novum Testamentum in Vetere latet, et Vetus<br />

in novo patet»: Quest. in Hept., 2, 73: PL 34, 623, espressione ripresa nella Dei Verbum al n. 16.<br />

8 L’antesignano è l’ottimo articolo di N. FÜGLISTER, “Strutture dell’<strong>ecclesiologia</strong> veterotestamentaria”, in MySal VII,<br />

23-113. Cfr. pure M. NOBILE, Ecclesiologia biblica, op. cit.; H. SIMIAN-YOFRE, La Chiesa dell’Antico Testamento. Costituzione<br />

crisi e speranza della comunità credente dell’Antico Testamento (Bologna: EDB, 1996); G. LOHFINK, Dio ha<br />

bisogno della Chiesa? Sulla teologia del popolo di Dio (Cinisello Balsamo – Milano: San Paolo, 1999).<br />

9 Questo nuovo approccio teologico è stato ripreso e approfondito da due documenti “pastorali” vaticani: SEGRETARIA-<br />

TO PER L’UNIONE DEI CRISTIANI, Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare “Nostra<br />

Aetate”, Roma, 1 dicembre 1974, in EV 5, 772-793; SEGRETARIATO PER L’UNIONE DEI CRISTIANI, Sussidi per una corretta<br />

presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, Roma, 24 giugno<br />

1985, in EV 9, 1615-1658. Un altro importante documento è quello della PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Il popolo<br />

ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, Città del Vaticano 2001. Sono poi da ricordare gli interventi<br />

di Giovanni Paolo II nelle sinagoghe di Magonza (1980) e di Roma (1986): cfr. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,<br />

2 (1980) 1274s; ibid., IX (1986) 1027s; come pure i discorsi tenuti da Benedetto XVI nella sinagoga di Colonia (2005)<br />

e di Roma (<strong>2010</strong>): cfr. Il Regno. Documenti, 50 (2005/15) 393-395 e 55 (<strong>2010</strong>/3) 71-73.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

ria avrà come risultato non solo un approfondimento della verità, che non è mai banale e scontata,<br />

ma sarà anche un buon apporto alla soluzione di un problema che attanaglia gli ebrei e i cristiani da<br />

duemila anni e che, a causa anche dei tremendi eventi della seconda guerra mondiale di cui tutti por-<br />

tiamo addosso una ferita, si è reso più pressante ai nostri giorni, in campo laico e in campo religio-<br />

so. Il problema è unico, ma costellato di varie domande: qual è la vera natura della relazione tra<br />

l’ebraismo e il cristianesimo? Il secondo è forse in un rapporto di successione e di sostituzione-<br />

negazione rispetto al primo? Se è così, la pretesa cristiana è fondata nello specifico teologico cri-<br />

stiano o si tratta piuttosto di una consolidata esagerazione di ordine psicologico? Se invece non si<br />

tratta di un banale rapporto di esclusione reciproca, si ripropone il problema della natura,<br />

dell’origine, dell’autentica parentela (che non minimizza le differenze) della relazione tra il giudai-<br />

smo e il cristianesimo. Conosceremo tanto meglio noi stessi, quanto più indagheremo nelle nostre<br />

radici comuni con il giudaismo, nella cui galassia si situa la nascita della chiesa cristiana.<br />

Oltre a ciò occorre considerare ancora due criteri ermeneutici. Un’indagine sulle radici veterotesta-<br />

mentarie della chiesa diviene di solito una ricerca tipologica: è un’esigenza che viene da lontano,<br />

dalla tradizione perenne del cristianesimo, che si radica nello stesso NT, ove le realtà nuove portate<br />

da Gesù Cristo vengono spesso presentate nella sequenza binaria di tipo-antitipo 10 .<br />

D’altra parte è un fatto che il metodo tipologico è stato contestato dagli interlocutori ebraici del dia-<br />

logo ebraico-cattolico; ciò è stato riconosciuto anche in un documento vaticano:<br />

Dall’unità del piano divino deriva il problema del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento. La<br />

Chiesa, sin dai tempi apostolici (cfr. 1Cor 10,11; Eb 10,1), e poi ininterrottamente nella sua tradizione,<br />

ha risolto questo problema soprattutto attraverso la tipologia, che sottolinea il valore fondamentale<br />

dell’Antico Testamento nella visione cristiana. Ma la tipologia suscita in molti un senso di<br />

disagio che è forse l’indizio di un problema non risolto 11 .<br />

Certamente, il criterio tipologico può e deve funzionare anche oggi. Tuttavia, bisogna chiarire in che<br />

senso e in che modo. Di sicuro non canonizzando un metodo esegetico temporaneo, perché legato al<br />

10 I dodici apostoli sono l’espressione delle nuove dodici tribù d’Israele, quindi del nuovo popolo di Dio (cfr. Gc 1,1:<br />

«Giacomo, servo di Dio e del signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che si trovano disseminate nel mondo: salute!»). Le<br />

due mogli di Abramo sono per Paolo il pretesto, legittimato dal tipo di esegesi del suo tempo, per un’argomentazione<br />

tipologica: «Ditemi voi che volete stare sotto la legge: non ascoltate ciò che dice la legge? È stato scritto infatti che Abramo<br />

ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello avuto dalla schiava, è nato secondo la carne,<br />

mentre quello avuto dalla donna libera è nato in virtù della promessa. Tali cose sono dette per allegoria (hatina estin allêgoroumena):<br />

le due donne sono le due alleanze, una proviene dal monte Sinai, genera i figli per la schiavitù ed è Agar.<br />

Ora, Agar significa il monte Sinai in Arabia e corrisponde alla Gerusalemme di adesso, che difatti si trova in stato di<br />

schiavitù con i suoi figli. La Gerusalemme celeste invece è libera. Essa è la nostra madre…» (Gal 4,21-26). Nell’esegesi<br />

di Paolo, quindi, Agar e Sara sono il tipo dell’antica e della nuova alleanza, dell’antico e del nuovo Israele.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

gusto di un’epoca, quale quello rabbinico di Paolo o quello allegorico dei padri della chiesa. Piutto-<br />

sto, è da considerare che cosa desse al NT prima e ai padri poi, la possibilità di adoperare tale meto-<br />

do. La possibilità è inscritta nella natura del linguaggio. Le realtà salvifiche, rappresentate dalla sto-<br />

ria d’Israele e delle sue istituzioni, sono venute a costituire una grammatica semantica idonea a dare<br />

nome e un nome specifico (storicamente definito e rilevante) al processo trascendente che la fede ha<br />

sempre visto in atto nella storia. La fede, sia giudaica che cristiana, ha poi dato rilevanza autorevole<br />

a tale “grammatica”, così che per parlare di quelle realtà soprannaturali, si potesse e si dovesse farlo<br />

prioritariamente solo per il tramite di quei termini semantici. Quando la chiesa primitiva parla di un<br />

nuovo Israele o di una nuova Gerusalemme, non inventa un modo d’interpretare il nuovo sulla base<br />

dell’antico: tale metodo era già diffuso da alcuni secoli nel giudaismo del secondo tempio, e quella<br />

della chiesa è stata un’esegesi dei fatti tra le tante altre (storicamente parlando) della galassia giu-<br />

daica. Quindi, cercare di capire i simboli e le immagini del NT sulla base della tipologia dell’AT,<br />

non significa innanzi tutto, in un’ermeneutica storica, giudizio negativo e fagocitamento o elimina-<br />

zione delle interpretazioni concorrenti, passate e contemporanee all’esegesi neotestamentaria.<br />

L’antico, infatti, rimane come figura del nuovo; il nuovo non sarebbe comprensibile senza l’antico,<br />

ma lo tras-figura. Il nuovo “riempie” l’antico: la narrazione biblica non progredisce se non con la<br />

ripresa incessantemente rinnovata delle figure antiche; ciò nell’Antico e nel Nuovo Testamento.<br />

Il secondo criterio ermeneutico, che deve sottendere la nostra ricerca, è la dipendenza intrinseca<br />

dell’<strong>ecclesiologia</strong> dalla cristologia. Non a caso il documento vaticano citato aggiunge:<br />

È importante anche sottolineare che l’interpretazione tipologica consiste nel leggere l’Antico Testamento<br />

come presentazione e, sotto certi aspetti, come il primo delinearsi e come l’annuncio del<br />

Nuovo (cfr. per es. Eb 5,5-10, ecc.). Cristo è oramai il riferimento-chiave delle Scritture: «quella<br />

roccia era il Cristo» (1Cor 10,4). È dunque vero, ed è bene sottolinearlo, che la Chiesa e i cristiani<br />

leggono l’Antico Testamento alla luce dell’avvenimento del Cristo morto e risorto e che, a questo<br />

titolo, esiste una lettura cristiana dell’Antico Testamento che non coincide necessariamente con la<br />

lettura ebraica. Identità cristiana e identità ebraica debbono essere pertanto accuratamente distinte<br />

nella loro rispettiva lettura della Bibbia. Ciò, tuttavia, nulla sottrae al valore dell’Antico Testamento<br />

nella Chiesa e non vieta che i cristiani possano, a loro volta, utilizzare con discernimento le tradizioni<br />

di lettura ebraica 12 .<br />

11 SEGRETARIATO PER L’UNIONE DEI CRISTIANI, Ebrei ed Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica.<br />

Sussidi per una corretta presentazione (Roma, 24 giugno 1985), in Enchiridion Vaticanum IX, n. 1627.<br />

12 Ibid., nn. 1629-1630. Sul tema cfr. anche PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella<br />

Chiesa, I.C.2. «Approccio mediante il ricorso alle tradizioni di interpretazione giudaiche», Città del Vaticano 1993; e<br />

PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, «Comprensione<br />

cristiana dei rapporti tra Antico e Nuovo Testamento», II.A.1-7.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

Per trattare lo specifico della chiesa cristiana, bisogna tenere sempre presente il suo fondamento sto-<br />

rico e teologico: l’evento di Gesù Cristo. Ma proprio nel correlarci costantemente al fondamento<br />

cristologico, verremo aiutati, nella nostra ricerca, a situare la chiesa nella scia di quelle traiettorie<br />

storico-teologiche che partono dall’Antico Testamento:<br />

«Del resto, lo stesso Nuovo Testamento esige parimenti di essere letto alla luce dell’Antico. La catechesi<br />

cristiana primitiva vi farà costantemente ricorso (cfr. ad es. 1Cor 5,6-8; 10,1-11)» 13 .<br />

1.1.2. Linee riassuntive dei dati biblici<br />

a) Dalla storia veterotestamentaria della fede provengono tanto le più importanti designazioni e im-<br />

magini della Chiesa quanto i più importanti modelli sociali dell’organizzazione ecclesiale. Ancora<br />

più rilevante però è il fatto che anche la struttura religiosa profonda della Chiesa cristiana ha trova-<br />

to la sua forma previa nell’esperienza religiosa della socialità del popolo di Israele. C’è perciò<br />

un’unità fondamentale tra il popolo di Dio veterotestamentario e neotestamentario. Senza questa u-<br />

nità la nascita della Chiesa cristiana rimarrebbe incomprensibile.<br />

b) L’autocomprensione di Israele come popolo eletto di Yhwh è da un lato segnata dalle diverse<br />

condizioni politiche e sociali della sua storia. Così, ad es., le denominazioni «popolo di Yhwh» (am<br />

Yhwh, laos theou o kyriou, Es 19,4-7; Dt 4; 7,6-12; 32,8ss) e «dodici tribù di Israele» (Gn 49,1-28;<br />

Dt 33) si riferiscono all’organizzazione delle tribù nel periodo anteriore alla costituzione dello Sta-<br />

to, con una federazione non rigida e decentralizzata di tribù, clan e famiglie e una strutturazione ge-<br />

nealogica. Qui Israele è per così dire la stirpe, la parentela, la truppa e l’esercito di Yhwh. Così le<br />

denominazioni «regno di Yhwh» o «regno di Dio» (malkut jhwh, basileia tou theou; cfr. Sal 102,19<br />

[LXX]; 144,11-13 [LXX]), «regno di Davide» (cfr. 2Sam 7; 23,1-7; 1Cr 17,17) e «le due case di I-<br />

sraele» (Is 8,14) rimandano alla forma di organizzazione come Stato territoriale del periodo monar-<br />

chico con la sua struttura sociale centralista. Le designazioni «resto santo» (schear o schearit; cfr.<br />

13 Ibid., n. 1631. Il documento della PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella<br />

Bibbia cristiana, n. 6 precisa: «L’Antico Testamento possiede in se stesso un immenso valore come Parola di Dio. Leggere<br />

l’Antico Testamento da cristiani non significa perciò volervi trovare dappertutto dei diretti riferimenti a Gesù e alle<br />

realtà cristiane. Certo, per i cristiani, tutta l’economia veterotestamentaria è in movimento verso Cristo; se si legge perciò<br />

l’Antico Testamento alla luce di Cristo è possibile, retrospettivamente, cogliere qualcosa di questo movimento. Ma<br />

dato che si tratta di un movimento, di un progressione lenta e difficile attraverso la storia, ogni evento e ogni testo si situano<br />

in un punto particolare del cammino e a una distanza più o meno grande dal suo compimento. Leggerli retrospettivamente,<br />

con occhi da cristiani, significa percepire al tempo stesso il movimento verso Cristo e la distanza del rapporto<br />

a Cristo, la prefigurazione e la dissomiglianza. Inversamente, il Nuovo Testamento può essere pienamente compreso solo<br />

alla luce dell’Antico Testamento».<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

2Re 19,4; Is 1,9; Ez 9,8) e «diaspora» (diaspora; cfr. Is 49,6) presuppongono la dispersione tra i po-<br />

poli pagani, la situazione dell’esilio, mentre alla base delle espressioni «comunità cultuale» o «as-<br />

semblea di Israele» (q e hal jhwh, ekklesia kyriou; cfr. Dt 9,10; 23,2ss. 9; edat Yhwh, synagoge<br />

kyriou; cfr. Nm 27,17; 31,16; Sal 73,2 [LXX]) e «città santa», «Gerusalemme» o «Sion» (cfr. Is<br />

1,8s; 46,13; Sal 149,2) stanno gli sforzi di restaurazione post-esilica nel quadro di una forma orga-<br />

nizzativa prevalentemente familiare, con associazioni che hanno i loro punti di cristallizzazione nel-<br />

le sinagoghe. Tutte queste denominazioni e immagini sono già state sviluppate e trasformate dalla<br />

dinamica della fede in Yhwh e perciò esistono di fatto già con una pluralità di significati e di aspetti.<br />

Le espressioni che indicano la forma sociale della fede di Israele designano tanto (1) una realtà em-<br />

pirica, l’Israele concreto con le sue condizioni di vita storiche, politiche, sociali e culturali, come<br />

pure (2) una realtà ideale e normativa della fede, l’Israele di Yhwh; esse indicano infine anche (3)<br />

una realtà escatologica, la sperata e attesa nuova comunità di Yhwh.<br />

c) Dato che tutte queste designazioni e immagini sono state accolte nel canone dell’Antico Testa-<br />

mento, anche la forma sociale della fede di Israele viene affermata come una realtà multiforme e<br />

complessa, un cammino con diverse situazioni e tappe piuttosto che una forma unitaria e compiuta.<br />

La singolarità di Israele non consiste nella peculiarità della sua situazione politica o socioculturale<br />

ma nella particolare dinamica della sua esperienza di Dio: un Dio che non è la somma del mondo e<br />

delle sue forze, né la sorgente del mondo, da cui questo emanerebbe, ma piuttosto un “soggetto” Al-<br />

tro dal mondo, colui che crea il mondo e quindi non può identificarsi con esso, e il Signore della<br />

storia. Proprio questa esperienza unica conferisce al popolo la propria identità e gli fa inoltre supera-<br />

re e comprendere anche i tempi di crisi. In forza di questa esperienza di Yhwh, Israele ha compreso<br />

le grandi esperienze di redenzione e di salvezza come rivelazioni di Yhwh e, perciò, ha visto la pro-<br />

pria esistenza fondata nella liberazione dall’Egitto, nel dono della legge al Sinai o nell’elezione di<br />

Sion. In forza di questa esperienza di Yhwh i credenti di Israele hanno però compreso i tempi di cri-<br />

si della loro storia come una nuova e più profonda rivelazione della fedeltà e della potenza del loro<br />

Dio e, in tali situazioni, hanno imparato anche a comprendere se stessi in modo nuovo.<br />

d) In questo modo, ad es., la crisi della conquista assira nell’ultimo terzo dell’VIII secolo, sperimen-<br />

tata come giudizio, nella reinterpretazione profetica della fede diventa occasione per una trasforma-<br />

zione dell’immagine di Dio (con un’accentuazione della singolarità, trascendenza e santità di Dio<br />

accanto alla sua misericordia, bontà e vicinanza) e per la trasformazione dell’autocomprensione<br />

(con un’accentuazione della relazione individuale, soggettiva e personale con Dio) e insieme anche<br />

di una interiorizzazione, spiritualizzazione, soggettivizzazione e moralizzazione del modo di esiste-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

re politico, fino ad allora indifferenziato, del popolo. Su questo sfondo, nel VII secolo, avviene an-<br />

che la sintesi della Torah nel Deuteronomio la cui intenzione fondamentale ha trovato la sua espres-<br />

sione più bella nello «shema Israel» (ascolta Israele), che è entrato anche nella liturgia:<br />

«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con<br />

tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4-5).<br />

Relazione con Dio e relazione con se stessi sono qui inseriti in una struttura di reciproca determina-<br />

zione: nel momento in cui il popolo fedele, come conseguenza dell’affinarsi della coscienza religio-<br />

sa ad opera dei profeti, si riferisce totalmente alla unicità, santità e indisponibilità del Tu divino, si<br />

concentra e si approfondisce anche la coscienza di sé, o la coscienza della socialità, nella totalità del<br />

cuore, della persona e delle forze. E quanto più l’individuo credente o il popolo credente nello sfor-<br />

zo morale riesce a dare, attraverso l’amore verso Dio, unità e profondità alla propria vita, tanto più<br />

intensamente anche Dio diviene riconoscibile e sperimentabile nella sua unicità, santità e libertà.<br />

e) Ancora più radicale è la crisi del tempo dell’esilio. Dopo la perdita del tempio, della terra e del<br />

regno i credenti di Israele scoprono in maniera nuova la divinità di Yhwh, che ora include esplici-<br />

tamente il suo dominio universale sulla storia e la sua potenza creatrice, la sua insondabile libertà e<br />

onnipotenza. In questo modo il problema della mediazione si manifesta con estrema acutezza. Da<br />

una parte, il solco profondo tra il Dio trascendente e la storia terrena da ora in poi viene superato<br />

con l’aiuto di esseri divini con funzione mediatrice (parola di Dio, spirito di Dio, sapienza di Dio).<br />

Dall’altra parte, in questa situazione di miseria nella quale sembra che Yhwh abbia abbandonato il<br />

suo popolo, la speranza si lega a mediatori umani della salvezza, che intervengono come inviati di<br />

Yhwh a favore del popolo: Mosè, i profeti, il servo di Yhwh sofferente, il Messia. In questa espe-<br />

rienza di crisi il Deuteroisaia interpreta in maniera nuova anche l’idea di elezione e di conseguenza<br />

anche la funzione del popolo di Israele (soprattutto nella figura del servo sofferente come pure nella<br />

figura del re-messia pacifico). Il mezzo adeguato della signoria di Yhwh nel mondo non è l’affer-<br />

mazione di sé, la forza e la violenza ma la sofferenza vicaria, la non violenza e la pace. La vocazio-<br />

ne di Israele non è solo quella del testimone passivo della presenza di Yhwh nel mondo, ma anche<br />

quella di essere un centro salvifico tra i popoli del mondo, un portatore di benedizione che attraver-<br />

so il culto, nella forma dell’intercessione e della lode, si trasmette ai popoli. Inoltre la questione del-<br />

la mediazione viene affrontata anche attraverso un processo di istituzionalizzazione delle precedenti<br />

oggettivazioni della parola di Dio, mediante la sintesi della Torah, la messa per iscritto della tradi-<br />

zione sacra e la formazione del canone delle sacre Scritture.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

i) La socialità del popolo di Israele riceve una nuova struttura a partire dal III secolo nelle correnti<br />

apocalittiche che, nella situazione sempre più disperata della diaspora, con l’oppressione insoppor-<br />

tabile e la disastrosa perdita della fede, potevano trovare consolazione solo in un’ultima radicalizza-<br />

zione dell’antica idea dell’alleanza: solo l’unilaterale e gratuita fedeltà di Yhwh può ora rendere<br />

possibile la continuazione dell’esistenza del popolo. Solo se il corso della storia della salvezza non<br />

può essere minacciato da alcuna stoltezza e malvagità umana è possibile la speranza. Il compito<br />

dell’apocalittico è di spiegare la situazione storica come la realizzazione di un piano divino di sal-<br />

vezza concepito prima del tempo, che troverà il suo compimento alla fine della storia ormai immi-<br />

nente. In tal modo nel concetto della comunità di salvezza entra un ultimo elemento: la tensione tra<br />

la misera forma terrestre della comunità e la sua forma finale ricreata da Dio alla fine dei tempi.<br />

g) Soprattutto dopo la massiccia politica di ellenizzazione di Antioco IV Epifane (che governò dal<br />

176/175 fino al 164 a.C.), la comprensione giudaica del popolo di Israele si differenziò ulteriormen-<br />

te. Ognuno dei gruppi che si erano formati aveva le proprie idee su chi apparteneva a Yhwh e al suo<br />

popolo. Il giudaismo riformista radicale sosteneva la politica di ellenizzazione di Antioco IV poi-<br />

ché si era schierato non solo a favore di una «modernizzazione» del giudaismo, ma anche per una<br />

religione universale «illuminata» e «naturale». Per questa corrente il popolo di Dio è l’unica umanità<br />

nella misura in cui essa accetta il monoteismo etico. Il giudaismo riformista moderato, che si incon-<br />

tra negli scritti di orientamento sapienziale della diaspora come pure in Filone e Giuseppe Flavio,<br />

mantiene l’idea di elezione di Israele e di alleanza, anche se le interpreta come paradigmi: Israele è<br />

il popolo eletto in quanto modello per il mondo, ma Israele è tale solo nella misura in cui esercita<br />

effettivamente la sua funzione esemplare. In tal modo si giunge qui a una chiara distinzione tra il<br />

popolo terreno e il popolo di Dio celeste. Per contro, la politica religiosa di Antioco IV suscitò an-<br />

che la resistenza dei credenti fedeli alla tradizione. L’orientamento teocratico e ierocratico dei Mac-<br />

cabei e degli Asmonei con l’idea di «guerra santa» perseguì una «de-modernizzazione» e una «de-<br />

ellenizzazione» del giudaismo, con lo scopo sacerdotale-cultuale di purificare il tempio santo e di<br />

restaurare Israele come una comunità cultuale riunita attorno al tempio di Gerusalemme e al sommo<br />

sacerdote. La sua comprensione del popolo di Dio è dichiaratamente particolaristica, esclusivistica e<br />

ierocratica. Con questa corrente collaborarono strettamente i sadducei, il partito conservatore forma-<br />

to dalla classe più elevata del sacerdozio del tempio di Gerusalemme, per il quale la priorità assoluta<br />

spettava alla celebrazione corretta del culto. La questione dell’identità viene risolta in modo diverso<br />

nel movimento pietistico-nomista dei chassidim, degli esseni e dei farisei. Mentre i chassidim e gli<br />

esseni, di orientamento escatologico o apocalittico, attendevano in comunità chiuse ed elitarie<br />

l’irruzione prossima della signoria di Dio, con un esplicito orientamento verso la fede retta, il culto<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

autentico, la rigorosa osservanza della legge e comprendevano se stessi come germe e avanguardia o<br />

come fondamento e nucleo del futuro compimento del popolo di Dio, ai farisei interessava in primo<br />

luogo una vita comunitaria ispirata alla legge della santità, con pasti comuni e momenti fissi di pre-<br />

ghiera, con lo scopo di realizzare l’obbedienza e la necessaria fedeltà in rappresentanza dell’intero<br />

Israele e, in secondo luogo, di rendere la Torah praticabile per tutto il popolo.<br />

h) Ne consegue che alla domanda radicale: «Chi appartiene a Israele?», nella coscienza credente<br />

del popolo si danno risposte diversificate. Ne elenchiamo, certamente semplificando, almeno tre.<br />

(1) Da una parte troviamo la prospettiva universale dal tempo della profezia recente, Deutero e Trito<br />

Isaia. Israele impara a comprendersi come testimone di Dio davanti a tutti i popoli. Israele si cono-<br />

sce come “popolo santo”, “regno di sacerdoti” (Es 19,6), che ha una funzione di mediazione tra il<br />

suo Dio e i popoli del mondo (Gen 12,3; Is 19,24-25; 55,5) 14 . Inoltre si ritiene che da questi popoli<br />

usciranno uomini che diventeranno membri di Israele assumendo su di sé il giogo della legge ed en-<br />

trando nell’ordinamento cultuale (Is 56,3.6-7; Est 9,27) 15 . Ma per tutti si attende nel futuro la rac-<br />

colta dei popoli attorno a Israele e Gerusalemme come centro. L’idea profetica del pellegrinaggio<br />

dei popoli verso Sion, enunciata per la prima volta in Is 2,1-5 16 e ampiamente illustrata in Is 60-65,<br />

fu un elemento centrale dell’attesa apocalittica del futuro: alla fine del tempo la salvezza che rifulge<br />

in Israele e da Sion raggiungerà tutti i popoli e tutti gli uomini.<br />

(2) A questa prospettiva universalistica si oppose la tendenza a sottolineare una distinzione interna a<br />

Israele stesso. Se il criterio di appartenenza a Israele è l’adesione alla torah e la fedeltà al Patto di<br />

Dio, chi non soddisfa tale criterio fa ancora parte del popolo di Dio? La tradizione vede il sorgere di<br />

14 Gen 12,3: «Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte<br />

le famiglie della terra»; Is 19,24-25: «In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in<br />

mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: “Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie<br />

mani e Israele mia eredità”»; Is 55,5: «Ecco tu chiamerai gente che non conoscevi; accorreranno a te popoli che non ti<br />

conoscevano a causa del Signore, tuo Dio, del Santo di Israele, perché egli ti ha onorato».<br />

15 Is 56,3: «Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: “Certo mi escluderà il Signore dal suo popolo!”». Is 56,6-7:<br />

«Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi, quanti si<br />

guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia<br />

nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare, perché il mio tempio si<br />

chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli»; Est 9,22: «I Giudei stabilirono e presero per sé, per la loro stirpe e per<br />

quanti si sarebbero aggiunti a loro, l’impegno inviolabile di celebrare ogni anno quei due giorni, secondo le disposizioni<br />

di quello scritto e alla data fissata».<br />

16 Is 2,1-5: «Ciò che Isaia, figlio di Amoz, vide riguardo a Giuda e a Gerusalemme. Alla fine dei giorni, il monte del<br />

tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno<br />

molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue<br />

vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.<br />

Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

questa domanda nell’annuncio che Yhwh fa ad Elia: «Io poi mi sono risparmiato in Israele settemila<br />

persone, quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal e quanti non l’hanno baciato con la bocca»<br />

(1Re 19,18). L’idea che Dio separerà dal popolo un resto di quelli che costituiscono il vero Israele e<br />

sono i portatori della salvezza, acquistò contorni sempre più precisi nella predicazione profetica (Am<br />

5,15; 9,8s; Is 1,9; 4,3; Zac 13,8) 17 , così da legarsi alla fine con la prospettiva sul giudizio venturo:<br />

«Or in quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Vi sarà un<br />

tempo di angoscia, come non c’era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel<br />

tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro» (Dan 12,1). Dunque, solo<br />

quelli che nell’elezione di Dio per la vita hanno stabilità, possono essere considerati Popolo di Dio.<br />

(3) Inoltre, trasversale alle due prospettive, al tempo del NT si nota anche la tendenza a recuperare<br />

una definizione di Israele su base etnica e statale. Questa tendenza si prepara nell’epoca postesilica<br />

mediante il ricordo vivo dell’antica forma di organizzazione nelle dodici tribù. Si ricostituiscono le<br />

genealogie, in cui si deve registrare chi vuole appartenere al popolo (Esd 2,59-63; Ne 7,5-7) 18 . Cia-<br />

scun israelita al tempo di Gesù era in grado di indicare il suo capostipite e sapeva a quale tribù ap-<br />

parteneva. Questa tendenza riconoscibile dal tempo di Esdra e Neemia si rafforzò in seguito alla<br />

grande crisi ellenistica sotto Antioco IV Epifane. A questo periodo appartiene anche il tentativo de-<br />

gli asmonei di ottenere un’indipendenza statale per la Giudea e di stabilire un regno sacerdotale<br />

(1Mac 13-16). Nel passaggio tra il secondo e il primo secolo a.C. essi intrapresero sistematicamente<br />

la rigiudaizzazione della Galilea insediando giudei immigrati fedeli alla legge. L’obiettivo era quel-<br />

popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra. Casa di Giacobbe,<br />

vieni, camminiamo nella luce del Signore».<br />

17 Am 5,15: «Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto; forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà<br />

pietà del resto di Giuseppe»; Am 9,8-10: «Ecco, lo sguardo del Signore Dio è rivolto contro il regno peccatore: io lo<br />

sterminerò dalla terra, ma non sterminerò del tutto la casa di Giacobbe, oracolo del Signore. Ecco infatti, io darò ordini<br />

e scuoterò, fra tutti i popoli, la casa d’Israele come si scuote il setaccio e non cade un sassolino per terra. Di spada periranno<br />

tutti i peccatori del mio popolo, essi che dicevano: “Non si avvicinerà, non giungerà fino a noi la sventura”»; Is<br />

1,9: «Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato un resto, già saremmo come Sodoma, simili a Gomorra»; Is 4,3:<br />

«Chi sarà rimasto in Sion e chi sarà superstite in Gerusalemme sarà chiamato santo, cioè quanti saranno iscritti per restare<br />

in vita in Gerusalemme»; Zac 13,8-9: «In tutto il paese, — oracolo del Signore — due terzi saranno sterminati e periranno;<br />

un terzo sarà conservato. Farò passare questo terzo per il fuoco e lo purificherò come si purifica l’argento; lo<br />

proverò come si prova l’oro. Invocherà il mio nome e io l’ascolterò; dirò: “Questo è il mio popolo”. Esso dirà: “Il Signore<br />

è il mio Dio”».<br />

18 Esd 2,59-63: «I seguenti rimpatriati da Tel-Melach, Tel-Carsa, Cherub-Addàn, Immer, non potevano dimostrare se il<br />

loro casato e la loro discendenza fossero d’Israele: figli di Delaia, figli di Tobia, figli di Nekodà: seicentoquarantadue.<br />

Tra i sacerdoti i seguenti: figli di Cobaià, figli di Akkoz, figli di Barzillài, il quale aveva preso in moglie una delle figlie<br />

di Barzillài il Galaadita e aveva assunto il suo nome, cercarono il loro registro genealogico, ma non lo trovarono; allora<br />

furono esclusi dal sacerdozio. Il governatore ordinò loro che non mangiassero le cose santissime, finché non si presentasse<br />

un sacerdote con Urim e Tummim»; Ne 7,5-6: «Il mio Dio mi ispirò di radunare i notabili, i magistrati e il popolo,<br />

per farne il censimento. Trovai il registro genealogico di quelli che erano tornati dall’esilio la prima volta e vi trovai<br />

scritto quanto segue…».<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

lo di riguadagnare al popolo di Israele la terra di Israele nella sua estensione originaria. È probabile<br />

che proprio allora giungessero in Galilea gli antenati di Gesù, i quali si annoveravano nella famiglia<br />

di Davide (Rm 1,3; Mt 1,1). Questo sviluppo venne però interrotto molto presto già verso la fine del<br />

dominio asmoneo con l’inclusione della Palestina nell’area egemonica dell’impero romano (63<br />

a.C.), ma la tendenza ad identificare Popolo, Terra e Stato si rafforzò di nuovo, soprattutto nei grup-<br />

pi nazional-religiosi degli zeloti, e condusse Israele alla catastrofe del 70 d. C.<br />

i) In questo sviluppo protogiudaico della comprensione della comunità di fede quindi sono già e-<br />

splorate tutte le principali possibilità di comprensione del rapporto tra particolarità della comunità e<br />

promessa universale. Nella storia della Chiesa riappariranno tutti questi modelli fondamentali. An-<br />

che per ciò che riguarda le attuazioni fondamentali della comunità o i criteri essenziali di apparte-<br />

nenza in questo contesto sono già sperimentati tutti i modelli che successivamente avranno un ruolo<br />

anche nella storia della Chiesa. La terna farisaica dei segni che assicurano l’appartenenza al popolo<br />

di Dio: discendenza, circoncisione e comportamento etico, viene presupposta in tutti i gruppi giu-<br />

daici, anche se si attribuisce un peso diverso ai singoli elementi: l’appartenenza può essere fondata<br />

in modo primariamente etnico, cultuale o etico. In seguito alla trasformazione cristiana questi ele-<br />

menti diverranno i tre noti segni dell’appartenenza: fede in Cristo (professione), battesimo (sacra-<br />

mento) e comunione fraterna (etica), i quali pure sono valutati in modo assai diverso.<br />

Concludendo possiamo tracciare alcune linee sintetiche su tre punti sui quali i diversi prospetti di<br />

teologia biblica trovano una certa consonanza.<br />

1) Anzitutto si nota che la coscienza di Israele è venuta formandosi attraverso una serie successiva e<br />

molto varia di vicende storiche. Potremmo riassumerle così: Israele è dapprima passato attraverso<br />

una lunga situazione di nomadismo; e poi s’è trovato ad affrontare una ancora più lunga situazione<br />

di diaspora (che dura tutt’oggi). La terza situazione, che è intermedia tra le due precedenti, quella<br />

della stabilizzazione in un territorio e in una struttura politica (stato) che l’accomuna agli altri popo-<br />

li, è qualcosa di secondario, di precario, almeno nella prospettiva profonda di coscienza unitaria del<br />

popolo; tant’è vero che l’unità politica dura poco (sorgono i regni del nord e del sud, con storie<br />

spesso autonome) e la stessa forma politica monarchica deve subire una pesante critica soprattutto<br />

da parte dei profeti (cfr. la satira politica di Gdc 9,8-15, e la ben più pesante obiezione “religiosa” di<br />

1Sam 8,5-8…). Resta invece più duratura la fisionomia delle tribù, e l’unità nazionale tenuta desta<br />

dai profeti va al di là delle stesse divisioni delle tribù e dei regni, come pure il valore religioso e tra-<br />

scendente dell’esperienza dell’unità politica (Gerusalemme, Sion, tempio, regno…) viene percepito<br />

e celebrato dopo l’esperienza dolorosa dell’esilio, mediante una trasfigurazione in prospettiva spiri-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

tuale ed escatologica. L’esperienza base, dunque, è quella di un popolo privo di sicurezze umane, in<br />

balia al tempo stesso di Dio e degli altri popoli. La sua singolarità lo fa apparire centrato in se stes-<br />

so, ma in realtà vive decentrato, “eccentrico”, in quanto la sua esistenza è totalmente sospesa a ciò<br />

che sta sopra di lui o fuori di lui. Le due situazioni, di cui sopra, sono contrassegnate dalle due punte<br />

estreme dell’esodo e dell’esilio: due eventi forti, costitutivi della coscienza del popolo. Ambedue<br />

mettono a nudo il peso della schiavitù e l’anelito alla libertà, e disegnano Dio come colui che salva<br />

e libera, che trae dalla schiavitù o castiga con essa, per purificare e poi richiamare alla libertà: Egli è<br />

colui che finalmente “raccoglierà” Israele da tutti i popoli fra i quali è stato disperso e riconcilierà le<br />

fratture interne al popolo di Dio (Dt 30,1-6; Is 11,12s; Ez 37,21 …) 19 .<br />

2) La seconda riflessione della teologia biblica riguarda appunto il tipo di coscienza che è maturata<br />

nel popolo di Israele in seguito alle vicende di nomadismo (esodo, deserto) e di diaspora (esilio e<br />

post-esilio). Israele ha percepito progressivamente che l’unità sua più profonda era costituita dalla<br />

sua relazione unica con Dio: esso è un popolo nato dalla fede. E anche se in Israele la famiglia natu-<br />

rale e la parentela del sangue svolgono un ruolo del tutto particolare, la tradizione biblica, fin dai<br />

suoi inizi, conferma che l’esistenza del popolo di Dio non si regge sul sangue, sulla parentela natu-<br />

rale e tanto meno su un automatismo genealogico (cfr, ad es. il caso di Abramo in Gen 12 e 22). In<br />

questa prospettiva si comprendono la varietà e la ricchezza di temi, che, a seconda delle esperienze<br />

particolari, esprimono la relazione singolare d’Israele con Dio: popolo santo, sacerdotale, imparen-<br />

tato con Dio, vigna di Dio, gregge di Dio, tempio di Dio… Il tema più ricco e dominante sarà quello<br />

dell’alleanza (b e rît); ma va ricordato che solo progressivamente verrà data un’accentuazione<br />

all’aspetto di intimità tra Dio e il popolo e all’elevazione di questi al livello inaudito di partnership<br />

con Dio. Certamente questo approfondimento della coscienza unitaria di Israele comporta una mag-<br />

gior attenzione a problemi concreti di fedeltà e di adeguamento alla vocazione. Soprattutto<br />

l’esperienza dell’esilio indurrà a riflettere sulle condizioni di permanenza delle promesse e della fe-<br />

deltà di Dio al suo popolo, e si farà strada l’interpretazione spirituale ed escatologica di popolo di<br />

Dio, erede delle benedizioni dell’alleanza: il giudizio di Dio tocca anche Israele, scevera al suo in-<br />

terno, per riduzione progressiva, un resto santo, che evidenzierà il carattere di “povero-servo-figlio”<br />

di Dio, nel quale si riassume la dignità del popolo di Dio; e così le strutture storiche della teocrazia<br />

saranno superate, idealizzate, trasferite in prospettiva superiore e futura.<br />

19 Sul tema cfr. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa?, op. cit., 69-78. Egli osserva che lo stesso Gesù ha inteso riunire<br />

Israele in nome della sovranità di Dio (Mt 12,30; 23,37), e che, quando nell’ebraismo è rispuntata l’antica coscienza che<br />

Israele deve riunirsi, è risuonata la parola Kibbuz, dall’antico concetto teologico «qabaz » (= raccogliere, riunire), p. 77.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

Al tempo stesso la coscienza di Israele approfondisce l’altro aspetto della sua singolarità, che gli de-<br />

riva dal suo sperimentarsi in balia anche di tutti gli altri popoli (e non solo di Dio). Israele scopre,<br />

anzi, dalla sua vicinanza con Dio, dalla sua familiarità con lui, un impegno e una missione per tutto<br />

il mondo. Proprio la coscienza di rappresentare il luogo della presenza, della manifestazione e<br />

dell’azione di Dio nella storia (tramite Israele, Dio si rivela come l’“Emmanuele”, il “Dio con noi”),<br />

porta il popolo di Dio a sentirsi progressivamente gravato di una responsabilità singolare nei con-<br />

fronti di tutti gli altri popoli. Si può parlare di vocazione “missionaria” di Israele. L’esperienza<br />

dell’esilio e poi del ritorno dei dispersi alla città santa fa percepire l’orizzonte futuro di un ritorno<br />

all’unità di tutti i popoli, di un ritorno al Dio di cui è popolo santo l’Israele di Sion, della città santa;<br />

e Gerusalemme col suo tempio, nella sublimazione profetica, viene indicata come punto di raccolta<br />

di tutti i popoli della terra. È di questa comunione con tutta l’umanità che vive Israele; e non solo<br />

della comunione intima con Dio. Anzi, è proprio la comunione intima con Dio che apre questo alla<br />

comunione con gli altri popoli. La scelta di Dio è caduta su Israele a vantaggio dei popoli. Dio ha<br />

bisogno di avere nel mondo un testimone, un popolo nel quale poter rendere visibile la sua gloria.<br />

Perciò la scelta grava sul popolo eletto con tutto il suo peso. Essere eletti non è un privilegio, non è<br />

una preferenza sugli altri, ma un’esistenza per gli altri.<br />

Questi i tratti essenziali della coscienza di Israele. Ma l’interpretazione ulteriore di questa vocazione<br />

comporta accentuazioni varie, addirittura polarizzazione di tendenza. L’interpretazione spiritualiz-<br />

zante dovrà sempre tenere conto anche delle esigenze di unità storica, e quindi anche delle strutture<br />

sociologiche e giuridiche (riguardo al culto, alla politica, al territorio…). Alcune linee accentueran-<br />

no la prospettiva della “potenza”, anche in senso positivo e non automaticamente negativo (illustrata<br />

dal successo di guide e capi gloriosi, come i Giudici, Davide, i Maccabei); altre sottolineeranno la<br />

funzione dei profeti, la forza dell’evangelizzazione della parola di Dio (sull’esempio dei profeti: ec-<br />

co l’importanza delle sinagoghe, nella diaspora, dopo la distruzione del tempio); altre affermano<br />

l’importanza della mediazione cultuale, della preghiera e del sacrificio a favore dei popoli (il post-<br />

esilio evidenzierà il popolo di Dio come comunità cultuale, popolo sacerdotale). Difficile sarà, in<br />

ogni caso, interpretare il movimento di questa vocazione missionaria universalistica d’Israele: alcu-<br />

ni tenderanno a vederlo in direzione centripeta, come assorbimento degli altri dentro Israele; altri lo<br />

vedranno maggiormente in direzione teocentrica centrifuga (rispetto ad Israele), come cammino ver-<br />

so il regno di Dio escatologico, e come evento di novità che trasformerà lo stesso Israele.<br />

3) Il terzo punto che la teologia biblica sottolinea riguarda appunto il rimando ulteriore che la co-<br />

scienza messianica e missionaria di Israele opera per rapporto alla propria storia. Duplice rimando,<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

ossia duplice allargamento in orizzonte. Indietro, verso la storia anteriore ad Abramo, verso la pro-<br />

tologia per legare l’alleanza specifica tra Dio ed Israele con precedenti altre alleanze; Dio in tutta la<br />

storia si è manifestato Dio dell’alleanza con gli uomini; importante, nella preistoria (rispetto alla<br />

storia di Israele) è già l’alleanza paradisiaca con Adamo, ma emblematica è soprattutto l’alleanza<br />

dopo il diluvio. Rimando ed allargamento, poi, in avanti, per rapporto al futuro, al tempo successivo<br />

all’alleanza antica; già dentro l’antica alleanza si danno chiari cenni di una prospettiva di supera-<br />

mento, di novità ulteriore e superiore: nuova legge, nuovo tempio, nuovo patto, nuovi cieli e nuova<br />

terra, nuova lingua, nuova cittadinanza (cfr. Ger 31; Ez 36). La lettura di questa prospettiva sarà ov-<br />

viamente evidenziata dal NT (cfr. in particolare la simbolica dell’Apocalisse), e poi ampliata dalla<br />

riflessioni dei padri della chiesa. Sarà proprio questa coscienza del cristianesimo fin dai suoi inizi,<br />

di essere cioè il nuovo popolo di Dio, il nuovo Israele con tutto ciò che questo comporta, sarà questa<br />

coscienza che porterà al tempo stesso ad affermare la continuità e la discontinuità tra Israele e chie-<br />

sa, tra antico e nuovo popolo di Dio. La chiesa si trova quindi già prefigurata e in qualche modo ini-<br />

ziata prima della sua stessa apparizione storica nella vita e nella coscienza di Israele.<br />

1.2. Gesù e l’origine della chiesa<br />

È evidente che senza la Chiesa oggi non avremmo neppure i testi che ci parlano di Gesù. Il gruppo<br />

riunito attorno a Gesù, la comunità generata dalla sua parola è il soggetto portatore del suo messag-<br />

gio. Questo non ci è accessibile se non nel prisma della risposta credente dei discepoli. Già questo<br />

fatto dovrebbe renderci attenti contro le facili semplificazioni di chi afferma «Gesù sì, chiesa no!».<br />

La chiesa si presenta infatti come un prolungamento dell’azione e della parola di Gesù, ma la sua<br />

pretesa è “seconda” e “derivata” rispetto a quella originaria del Signore e può scadere nell'infedeltà<br />

che la storia ci testimonia. Per questo il suo essere segno del dono di Cristo deve essere sempre<br />

riaccolto nella fedeltà e nella libertà. Tuttavia tale fedeltà non dipende dalla libertà della risposta<br />

della chiesa, ma è sorretta dalla promessa di Cristo. La promessa di indefettibilità è assicurata dal<br />

Signore risorto. Ma Gesù ha effettivamente promesso così? Ossia: Gesù ha voluto la chiesa?<br />

«Gesù ha annunciato il Regno di Dio — insinuava Loisy all’inizio del secolo — e ne è venuta la<br />

chiesa!» Questo sospetto che la chiesa sia come il surrogato dell’intenzione di Gesù, il misero tra-<br />

dimento della sua predicazione sta sempre sullo sfondo della critica, ma non viene mai affrontato<br />

direttamente. Se al centro del messaggio di Gesù sta il regno di Dio, la chiesa in che relazione è po-<br />

sta con questo centro? La chiesa è compatibile col regno di Dio? Hans Conzelmann, ad es., afferma<br />

risolutamente l’incompatibilità delle due cose: con l’annuncio che Gesù fa di Dio «non si accorda la<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

fondazione di una comunità escatologica organizzata» 20 ; «l’autocoscienza escatologica di Gesù e-<br />

sclude l’idea di una chiesa presente» 21 . Il problema diviene più acuto se consideriamo i testi in cui<br />

Gesù parla dell’attesa imminente: «Se Gesù ha visto e annunciato come imminente l’avvento della<br />

signoria di Dio, allora sembra non ci possa essere posto per una “chiesa” che si costituisce nel<br />

“mondo”, progettata per durare nel tempo; ciò significherebbe, infatti, vedere in essa soltanto una<br />

soluzione provvisoria e un’istituzione ad interim, destinata a durare per un periodo di tempo calco-<br />

lato di stretta misura» 22 .<br />

Osserviamo quindi che la questione di una “fondazione” o “derivazione” di una chiesa dal Gesù<br />

prepasquale impone di considerare quale relazione ci sia fra l’interesse centrale dell’opera di Gesù,<br />

ossia l’annuncio del regno di Dio, e una eventuale realtà storico-sociale connessa con questo.<br />

1.2.1. Il messaggio di Gesù circa il regno di Dio<br />

Per la realizzazione della vera chiesa di Dio erano in concorrenza tra loro, al tempo di Gesù, diversi<br />

gruppi-comunità-chiese religiose e allo stesso tempo socio-politiche (tra cui i farisei, i sadducei, gli<br />

zeloti, gli esseni di Qumran, la comunità di Giovanni il Battista, gli ebrei della diaspora), non tanto<br />

con tendenze separatistiche miranti a rompere con la chiesa universale di Yhwh, quanto piuttosto<br />

nello sforzo di rinnovare nel suo insieme tale chiesa universale. L’identità dei diversi gruppi dipen-<br />

de non da ultimo dalle rispettive comprensioni di chiesa (con diversi atteggiamenti nei confronti del<br />

tempio, dell’osservanza della Torah, del paese, della potenza di occupazione…).<br />

a) La concentrazione di Gesù su Israele<br />

Proprio questo è il contesto in cui venne a trovarsi Gesù e in cui dovette prendere posizione sul pro-<br />

blema della chiesa; e lo ha fatto, anche se non è possibile dimostrare che abbia parlato di ekklesía o<br />

di qahal di Dio. Nel complesso è oggi indiscusso che Gesù abbia voluto dare avvio alla raccolta de-<br />

finitiva, escatologica, di tutto Israele e lo ha voluto come “messaggero escatologico” (cfr. Mc 12,6)<br />

e come sapienza di Dio 23 . Lo possiamo affermare in base ad alcuni indizi.<br />

20 a<br />

H. CONZELMANN, Eschatologie II, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart II, 3 ed. 1956-1965, 668.<br />

21<br />

H. CONZELMANN, Grundriss der Theologie des Neuen Testament (München 1968) 50.<br />

22<br />

W. TRILLING, «Ecclesiologia implicita». Proposta sul tema «Gesù e la Chiesa», in ID., L’annuncio di Gesù. Orientamenti<br />

esegetici (Brescia: Paideia, 1986) 73-97.<br />

23<br />

Mc 12,6: «Aveva ancora uno, il figlio prediletto: lo inviò loro per ultimo, dicendo: Avranno rispetto per mio figlio!»:<br />

Mt 12,41-42: «Quelli di Ninive si alzeranno a giudicare questa generazione e la condanneranno, perché essi si convertirono<br />

alla predicazione di Giona. Ecco, ora qui c'è più di Giona! La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione<br />

e la condannerà, perché essa venne dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c'è<br />

più di Salomone!».<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

Come nel caso del Battista, così anche in quello di Gesù il messaggio e la prassi sono caratterizzati<br />

dall’attesa prossima: la situazione si è fatta grave; non c’è più tempo; bisogna prendere una decisio-<br />

ne definitiva. Per questo il Battista vuole riportare il popolo di Dio nella condizione dell’antico Isra-<br />

ele, affinché impari di nuovo a fidarsi del suo Dio; dal deserto, attraverso l’acqua del Giordano —<br />

proprio nel punto in cui, secondo la tradizione, Giosuè l’aveva fatto attraversare ai figli della gene-<br />

razione del deserto per introdurli nella terra promessa —, egli vuole fargli riattraversare i confini<br />

della terra promessa. L’intero Israele sta sotto la minaccia della collera di Dio, e non può rivendicare<br />

come garanzia di salvezza la propria appartenenza alla stirpe di Abramo (Mt 3,9). Soltanto un inizio<br />

totalmente nuovo, può salvare ancora il popolo di Dio.<br />

Pure Gesù si reca da Giovanni, entra nella situazione di deserto creata dal Battista e si lascia immer-<br />

gere nel Giordano. Tuttavia per lui ciò che è imminente non è il giudizio come nel Battista, bensì la<br />

salvezza. La basiléia di Dio si è avvicinata (Mc 1,15, Lc 10,9) 24 , e precisamente nel senso che di-<br />

venta già presente (Lc 11,20; 17,20s.) 25 . Questa escatologia del presente costituisce un’ulteriore dif-<br />

ferenza dal Battista. Naturalmente la presenza della salvezza non elimina l’imminenza, ciò che an-<br />

cora manca della salvezza. Perciò non solo nel Battista, bensì anche in Gesù la costellazione escato-<br />

logica spinge ad agire: Israele deve lasciarsi radunare nel vero popolo di Dio, perché il kairós è<br />

giunto; ma finché Israele non è “convertito”, non ha ancora preso la sua decisione “per” il Vangelo,<br />

la basiléia, sicuramente vicina, non è ancora del tutto presente (cfr. Lc 14,15-20).<br />

b) Gesù opera in territorio ebraico<br />

Prima di osservare da vicino i detti e i gesti di Gesù, osserviamo una caratteristica della sua missio-<br />

ne: nella sua attività egli si è concentrato sul territorio ebraico. Nazaret, Nain, Cana, Cafarnao, Cho-<br />

razin e Betsaida sono località da lungo tempo abitate da una popolazione ebraica. Non esiste neppu-<br />

re un solo motivo che induce a pensare che Gesù abbia mai abbandonato il territorio ebraico per de-<br />

dicarsi a insegnare tra i pagani. Quando egli abbandonò il territorio ebraico (Mc 5,1; 7,24; 8,27) 26 , in<br />

realtà dovrebbe aver lavorato tra gruppi ebrei marginali residenti in territori di confine. I relativi te-<br />

sti non dicono infatti sorprendentemente che egli sia entrato in Gerasa, Tiro o Cesarea di Filippi, ma<br />

24 Mc 1,15: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo»; Lc 10,9: «curate i malati<br />

che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio».<br />

25 Lc 11,20: «Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio»; 17,20-21: «Interrogato<br />

dai farisei: “Quando verrà il regno di Dio?”, rispose: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione,<br />

e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!”».<br />

26 Mc 5,1: «Intanto giunsero all’altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni»; 7,24: «Partito di là, andò nella regione<br />

di Tiro e di Sidone»; 8,27: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo».<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

parlano sempre del territorio delle campagne, che circondava ognuna di queste antiche città-stato.<br />

Ovviamente Gesù poteva imbattersi in pagani dappertutto, anche in territorio ebraico. In occasione<br />

di tali incontri egli ha più volte guarito anche pagani. Ma nella tradizione sinottica queste guarigioni<br />

di pagani sono espressamente narrate come eccezioni: tanto nella storia del centurione di Cafarnao<br />

(Lc 7,1-10) quanto in quella della sirofenicia (Mc 7,24-30) viene esplicitamente rilevato il riferi-<br />

mento a Israele: «Neanche in Israele ho trovato una fede così grande» (Lc 7,9); «Non è bene prende-<br />

re il pane dei figli [cioè di Israele] e gettarlo ai cagnolini» (Mc 7,27).<br />

In questo contesto non si può ignorare che, vicino ai luoghi dell’attività di Gesù, esistevano nume-<br />

rose città di tipo ellenistico con popolazione prevalentemente pagana o perlomeno forti gruppi di<br />

popolazione pagana: ad es. Sefforis, Scitopoli, Hyppos, Gadara, Gerasa, Cesarea di Filippi, Tiberia-<br />

de. Non sembra che Gesù abbia operato in alcuna di tali città. Forse durante la sua attività pubblica<br />

le ha addirittura evitate intenzionalmente. Viceversa sale a Gerusalemme, cioè là ove Israele è con-<br />

centrato e rappresentato. Chi voleva parlare a tutto Israele, doveva farlo in Gerusalemme.<br />

Tutto ciò non è un caso, ma mostra che Gesù ha consapevolmente operato solo in Israele (cf. Mt<br />

10,5-6). Una comparsa tra i pagani sarebbe stata certo possibile e forse sarebbe stata coronata da<br />

grande successo. Tuttavia Gesù si concentra su Israele, perché di fronte all’imminente basiléia deve<br />

radunare il popolo di Dio. È quanto dimostra in maniera chiarissima la seguente azione simbolica.<br />

c) La missione dei Dodici<br />

Da una cerchia più ampia di discepoli Gesù ne ha scelto dodici e li ha mandati a due a due: «Ne co-<br />

stituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di<br />

scacciare i demoni» (Mc 3,14; cfr. 6,7 e Mt 10,6). L’aoristo epoíesen indica un evento irripetibile,<br />

verificatosi in un luogo determinato e in un tempo determinato. Con un gesto dimostrativo, che ri-<br />

mane impresso nella memoria, Gesù costituisce un gruppo di dodici discepoli. Il numero dodici può<br />

riferirsi solo al numero delle tribù d’Israele. Ma le dodici tribù costituiscono un punto centrale della<br />

speranza escatologica d’Israele. Infatti anche se allora il sistema delle dodici tribù non esisteva più<br />

da lungo tempo — a parere dei contemporanei ormai sopravvivono solo due tribù e mezzo: Giuda,<br />

Beniamino e la metà di Levi —, si spera per il tempo salvifico escatologico la piena restituzione del<br />

popolo delle dodici tribù. Già la parte finale del libro di Ezechiele descrive in modo programmatico<br />

come le dodici tribù, richiamate in vita alla fine dei tempi, ricevono la parte definitiva della terra lo-<br />

ro destinata (37; 39,23-29; 40-48). Sullo sfondo di questa speranza la costituzione di dodici discepo-<br />

li da parte di Gesù può essere interpretata solo come un “gesto escatologico di compimento” posto<br />

consapevolmente. I Dodici illustrano la rinascita e il raduno d’Israele, avviati da Gesù, nel popolo<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

escatologico delle dodici tribù 27 . Simboleggiano tale raduno già per il fatto che sono costituiti come<br />

Dodici, ma poi anche perché poco dopo (o subito?) sono mandati a tutto Israele (Mc 6,7-13).<br />

Ma la costituzione e l’invio dei Dodici non simboleggiano solo la volontà di Gesù di radunare<br />

l’Israele escatologico. Tale azione simbolica va vista anche nel contesto del suo messaggio della ba-<br />

siléia. I Dodici devono infatti predicare il regno di Dio (Mc 3,14; Lc 9,12) e renderlo presente con la<br />

cacciata dei demoni (Mc 3,15; 6,7). Anzi, dobbiamo spingerci ancora più avanti: non solo la loro at-<br />

tività, bensì già essi stessi e il fatto della loro missione sono segni della basiléia che ora si sta mani-<br />

festando. Con la loro esistenza e la loro attività essi simboleggiano la pretesa di Dio su tutto Israele,<br />

e precisamente di un Israele che si sottomette completamente alla sua sovranità.<br />

Equivarrebbe naturalmente a sottovalutare in maniera grave la dimensione profonda di una simile<br />

azione simbolica, se la considerassimo solo come illustrazione o dimostrazione. Essa è certamente<br />

l’una e l’altra cosa. Ma oltre a ciò è un’azione che dà inizio al futuro, che si realizza anticipatamente<br />

già nel segno posto in maniera profetica e in tale sua realizzazione germinale prospetta già il futuro.<br />

Con la costituzione dei Dodici e con la loro predicazione del regno di Dio comincia già l’esistenza<br />

dell’Israele escatologico, in cui la sovranità di Dio abbraccerà tutto.<br />

Per il resto, nella creazione dei Dodici si manifesta quella correlazione tra regno di Dio e popolo di<br />

Dio, senza la quale non si comprende Gesù. La basiléia ha bisogno di un popolo in cui potersi im-<br />

porre e da cui poter irradiare. Altrimenti non sarebbe localizzabile.<br />

Se a proposito di Gesù possiamo parlare di una “istituzione” o “fondazione”, lo possiamo fare anzi-<br />

tutto in relazione alla “istituzione” e “creazione” dei Dodici. Tale azione simbolica, nel mentre e-<br />

sprime la pretesa di Gesù, possiede addirittura una dimensione giuridica. Soltanto che essa non si<br />

riferisce a una Chiesa di nuova fondazione, bensì all’Israele da radunare.<br />

d) Le parole di condanna su Israele<br />

I vangeli di Matteo e di Luca contengono un numero relativamente grande di parole di condanna<br />

pronunciate da Gesù su Israele. Tra di esse vanno annoverate la sentenza di Mt 8,11s., inoltre le sen-<br />

tenze contro Corazin e Betsaida (Lc 10,13s.), contro Cafarnao (Lc 10,15), contro Gerusalemme (Lc<br />

13,34s.) e soprattutto contro «questa generazione» (cfr. spec. Lc 11,29-32.49-51). Quasi tutte queste<br />

parole di condanna sono pervenute attraverso la fonte dei lóghia e dovrebbero aver avuto un preciso<br />

Sitz im Leben nella missione postpasquale verso Israele (più precisamente: nel suo fallimento). Ciò<br />

27 Si noti che il numero dodici non indica solo che tutto Israele è chiamato, bensì anche che ora si tratta di creare<br />

l’Israele escatologico, il quale tornerà ad essere un popolo di dodici tribù.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

non esclude naturalmente affatto che esse risalgano a Gesù stesso. Gli elementi loro comuni sono i<br />

seguenti. Se astraiamo da Lc 10,13-15ab, esse si riferiscono a tutto Israele. Particolarmente chiaro<br />

ciò risulta nelle parole su «questa generazione». «Questa generazione» indica la generazione<br />

d’Israele attualmente vivente, che è messa di fronte al messaggio e alla prassi escatologica di Gesù.<br />

Che si tratti del destino di tutto Israele risulta chiaro anche dal fatto che in Mt 8,11s.; Lc 10,13s. e Lc<br />

11,29-32 i pagani sono antiteticamente contrapposti al popolo di Dio.<br />

Queste parole di condanna fanno pensare a un ripudio definitivo d’Israele. Gesù non le ha sicura-<br />

mente pronunciate all’inizio della sua attività pubblica. Esse presuppongono una attività piuttosto<br />

lunga da parte sua, anzi sono state pronunciate verosimilmente nella situazione in cui si andava de-<br />

lineando la sua morte violenta. Esse mostrano che per Gesù Israele è entrato nella crisi decisiva del-<br />

la sua storia. Naturalmente la decisione del popolo non è ancora definitiva. C’è ancor sempre<br />

un’ultima speranza che gli uditori di Gesù comprendano i segni del tempo e si rendano conto della<br />

loro situazione 28 . Proprio per questo Gesù adotta anche la forma iperbolica del linguaggio di con-<br />

danna. La gravità della minaccia mira a provocare una conversione all’ultimo momento.<br />

Molto sorprendente è il modo e la frequenza con cui Gesù attacca singole città d’Israele o addirittura<br />

tutto il popolo come un collettivo. Non avrebbe dovuto distinguere più accuratamente tra la parte<br />

del popolo che opponeva un rifiuto, da un lato, e i suoi discepoli e simpatizzanti, dall’altro?<br />

L’universalità delle minacce non dovrebbe dipendere solo dal genere letterario, ma avere motivi più<br />

profondi. Questi dovrebbero consistere soprattutto nel fatto che Gesù ha a cuore appunto tutto Israe-<br />

le. Egli non vuole conquistare solo una parte del popolo, tanto meno fondare una comunità-resto;<br />

per lui tutto dipende dal fatto che tutto il popolo di Dio, inclusi i suoi capi, accolga la basiléia. Si<br />

tratta di una situazione simile a quella successiva di Paolo. Neppure costui si contenta che rimanga<br />

eletto un «resto» d’Israele. Tutto Israele deve essere salvato (Rm 11,26).<br />

e) I discepoli di Gesù<br />

Le parole di condanna contro Israele segnano chiaramente una cesura nell’azione di Gesù. Come<br />

sono andate le cose dopo? Gesù, una volta constatata l’indifferenza del popolo, ha modificato la fi-<br />

nalità della sua attività e da quel momento si è concentrato sul gruppo dei discepoli, per farne il nu-<br />

cleo di una futura Chiesa? Può certamente essere che alla fine Gesù si sia dedicato maggiormente<br />

28 Lc 12,54-57: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia<br />

lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai<br />

questo tempo non sapete giudicarlo?».<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

all’istruzione dei discepoli. In tal modo però egli non mutò affatto l’essenza e il compito del loro<br />

gruppo. Durante il tempo di Gesù questo ebbe dall’inizio alla fine lo stesso compito. Quale? Ma<br />

prima ancora, chi sono questi discepoli?<br />

(1) Chi sono i discepoli.<br />

Tra gli abitanti di Israele che ascoltano Gesù e gli credono dobbiamo distinguere, in linea di princi-<br />

pio, due gruppi. Abbiamo anzitutto coloro che accolgono il messaggio di Gesù ma rimangono nel<br />

loro villaggio o nella loro città per attendervi il Regno di Dio, il gruppo dei “simpatizzanti sedenta-<br />

ri” 29 . Dove Gesù passa, lascia dei seguaci, che con le loro famiglie attendono il Regno e che accol-<br />

gono lui e i suoi messaggeri; si trovano in tutto il paese, soprattutto in Galilea, ma anche in Giudea,<br />

per es. a Betania e nella Decapoli («Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo<br />

pregava di permettergli di stare con lui. Non glielo permise, ma gli disse: “Va’ nella tua casa, dai<br />

tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato”. Egli se ne andò e<br />

si mise a proclamare per la Decàpoli ciò che Gesù gli aveva fatto»: Mc 5,18-20). Soprattutto però<br />

nei vangeli si trovano, accanto all’ethos radicale e senza compromessi dei discepoli che seguivano<br />

Gesù nei suoi spostamenti, anche segni di un comportamento morale che rispecchia chiaramente le<br />

condizioni di vita della famiglia, della professione, del vicinato e dei villaggi (cfr. Mc 10,2ss. 13ss;<br />

Mt 6,16; 23,1ss; 18,20). Di questi discepoli alcuni li conosciamo anche per nome, come ad esempio<br />

Giuseppe di Arimatea, un membro autorevole del sinedrio, di cui leggiamo che «aspettava il Regno<br />

di Dio» (Mc 15,43). Non lo faceva certamente a prescindere dal messaggio di Gesù. Deve aver ap-<br />

prezzato e rispettato Gesù, come mostra l’episodio del sepolcro (Mc 15,42-47). In questo contesto<br />

dobbiamo ricordare anche Zaccheo a Gerico, trasformato in un uomo nuovo dall’incontro con Gesù.<br />

Egli promette di dare in futuro la metà dei suoi beni ai poveri, e di restituire quattro volte tanto ciò<br />

che ha frodato; e Gesù parla della salvezza che è entrata «in questa casa», cioè in Zaccheo e nella<br />

sua famiglia (Lc 19,8s.). Ma l’esempio più bello di seguace «sedentario» di Gesù è Lazzaro, che abi-<br />

ta a Betania (Gv 11,1). Egli viene chiamato discepolo e amico di Gesù (Gv 11,11).<br />

Dai seguaci di questo tipo vanno invece distinti i «discepoli» in senso proprio. Il termine greco cor-<br />

rispondente (mathetés) dovrebbe essere tradotto propriamente con “allievo”; in questo modo appari-<br />

rebbe subito evidente che — almeno per quanto riguarda la terminologia — sullo sfondo c’è il rap-<br />

porto rabbinico maestro-allievo. Lo stesso vale del termine «seguire». Ogni volta che nel vangelo<br />

29 G. THEISSEN, Gesù e il suo movimento. Analisi sociologica della comunità cristiana primitiva (Torino: Claudiana,<br />

1979) 31-38.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

leggiamo che i discepoli «seguono» Gesù, la parola va intesa alla lettera: quando egli si spostava,<br />

essi camminavano alcuni passi dietro di lui, esattamente come gli allievi della Torah si muovevano<br />

dietro il loro rabbi, sempre a rispettosa distanza.<br />

Questo gruppo è composto da coloro che insieme con Gesù percorrono le strade polverose della Pa-<br />

lestina e che la contemporanea ricerca sociologica chiama «i carismatici itineranti» 30 . Essi sono<br />

quelli che hanno seguito la chiamata di Gesù e che per lui hanno lasciato case, campo, famiglia, la-<br />

voro e proprietà per andare insieme con Gesù sulle strade della Palestina e della Siria in un’evidente<br />

povertà, senza denaro, calzature, bastone e provviste e con un solo vestito (cfr. Mc 1,16ss; 3,21;<br />

10,28ss; Lc 5,1ss; 14,26; Mt 10,10). Quando in Mt 6,34 si dice: «Non affannatevi dunque per il do-<br />

mani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena», trova pro-<br />

babilmente espressione un’esperienza quotidiana normale per una comunità di persone senza patria<br />

e protezione e completamente libere.<br />

Questa cerchia di discepoli che seguono Gesù è un gruppo ben circoscritto. Quando un sabato i di-<br />

scepoli strappano delle spighe, viene chiesto a Gesù: «Vedi, perché essi fanno di sabato quel che<br />

non è permesso?» (Mc 2,24). Agli occhi dei sorveglianti Gesù è dunque responsabile dei propri di-<br />

scepoli come ogni dottore della legge è responsabile dei propri allievi.<br />

Tuttavia i discepoli di Gesù si distinguono sotto molti punti di vista da quelli dei rabbini. Non lo se-<br />

guono perché vogliono imparare la Torah, ma perché hanno udito il messaggio di Gesù sulla vici-<br />

nanza del Regno di Dio. Non sono loro a scegliersi il maestro come fanno di solito gli allievi dei<br />

rabbini; è Gesù che li chiama (Lc 9,59) 31 ; anzi, essi sono destinati a rimanere discepoli perché uno<br />

solo è il Maestro (Mt 23,10). Egli li chiama a una sequela che esige da loro la rinuncia al lavoro fi-<br />

nora condotto e l’abbandono della famiglia (cfr. Mc 1,16-20). La durezza di questa richiesta appare<br />

in piena luce in un detto di Gesù, che originariamente doveva suonare così (Mt 10,37 = Lc 14,26):<br />

«Chi non odia padre e madre non può essere mio discepolo. Chi non odia figlio e figlia non può es-<br />

sere mio discepolo». Gesù esige quindi dai suoi discepoli il distacco deciso dalla famiglia: questo<br />

vuol dire «odiare». Alla famiglia e ai legami finora coltivati subentra la comunione di vita con Gesù<br />

e con «chi compie la volontà di Dio» (Mc 3,35), ossia la nuova famiglia dei discepoli, ai quali «è<br />

stato confidato il mistero del regno di Dio» (Mc 4,10s). Questa comunione di vita significa qualcosa<br />

di più che un essere attorno al maestro per imparare la Torah in base ai suoi insegnamenti e al suo<br />

stile di vita. La comunione di vita con Gesù è comunione di destino. Essa arriva al punto che il di-<br />

30 THEISSEN, Gesù e il suo movimento, 20-30.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

scepolo deve essere pronto a subire la stessa sorte di Gesù, se è il caso perfino la persecuzione o<br />

l’esecuzione capitale: «Chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me» (Mt 10,38).<br />

Malgrado queste esigenze radicali, non dobbiamo immaginarci la cerchia dei discepoli di Gesù co-<br />

me un gruppo molto ridotto. In ogni caso, è più ampia del gruppo dei Dodici 32 . L’equivalenza tra di-<br />

scepoli e Dodici è una schematizzazione di Matteo. Conosciamo il nome di tre persone che apparte-<br />

nevano ai discepoli di Gesù, ma non ai Dodici: Cleofa (Lc 24,18), Giuseppe Barsabba e Mattia (At<br />

1,23). Sono pure conosciute nominalmente cinque donne che seguivano Gesù e lo assistevano con i<br />

loro beni: Maria di Magdala, Giovanna moglie di Cusa, Susanna, Maria madre di Giacomo e Salo-<br />

me (Lc 8,1-3; Mc 15,40s.). È dunque opportuno non ridurre troppo la cerchia dei discepoli di Gesù.<br />

(2) Qual è la funzione dei discepoli.<br />

Ma molto più importante è l’interrogativo seguente: perché Gesù, oltre ai Dodici, ha chiamato dei<br />

discepoli? La risposta migliore ci viene data da Lc 10,2 (par. Mt 9,37s.): «La messe è molta, ma gli<br />

operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe». Il<br />

«padrone della messe» è ovviamente Dio. La messe è un’immagine biblica antichissima per indicare<br />

il giudizio, ma anche per indicare il tempo salvifico escatologico. La raccolta della messe deve indi-<br />

care il raduno di Israele nel popolo di Dio degli ultimi tempi. Gli uomini che aiutano in questo mo-<br />

vimento di raduno, dice Gesù, non sono mai troppi. Poiché il tempo incalza come nei giorni della<br />

mietitura. Gesù ha perciò chiamato e inviato i discepoli al lavoro nella messe escatologica (Mc<br />

1,17). Essi sono collaboratori di Gesù nel raduno d’Israele di fronte all’imminente basiléia.<br />

Quando però Israele nel suo insieme rifiuta il messaggio di Gesù, alla cerchia dei discepoli viene as-<br />

segnata un’altra funzione. Essa riceve ora il compito di rappresentare simbolicamente nella loro esi-<br />

stenza, come singoli e come comunità, quanto deve avvenire in tutto Israele: la piena dedizione al<br />

vangelo del regno di Dio, la conversione radicale a uno stile nuovo di vita, la comunicazione non<br />

violenta e non dominante, il raduno in una comunità fraterna. Qui si dovrebbe propriamente esporre<br />

tutto l’insegnamento impartito da Gesù ai discepoli, cosa che ora non possiamo fare.<br />

Ci limiteremo a mettere in luce quattro elementi che qualificano la comunità dei discepoli.<br />

31 Lc 9,59: «A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”».<br />

32 In Luca il simbolismo è completato dal gruppo dei «settanta» o «settantadue», che rappresenta il cerchio più ampio dei<br />

discepoli (Lc 10,1-20). Poiché secondo l’antica tradizione con questo numero si indicava il numero dei popoli (non ebrei)<br />

del mondo (Gn 10; Es 1,5; Dt 32,8), questi settanta discepoli indicano l’esigenza che l’Israele escatologico abbracci<br />

tutti i popoli della terra. Il movimento di raccolta escatologica di Gesù avviene dunque in particolari, determinate comunità,<br />

ma in modo tale che esse rappresentino e significhino la totalità di Israele e dell’umanità.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

(I) È una comunità chiamata alla sequela. Che cosa sia il Regno di Dio non si dà in maniera preco-<br />

stituita facendo astrazione dalla risposta pratica di coloro che lo accolgono o rifiutano, ma solo nella<br />

mediazione della fede, che concorre a dare figura al messaggio stesso. Gesù infatti non annuncia il<br />

regno di Dio in generale, ma si indirizza a destinatari differenziati: i Dodici, i discepoli, la folla, i<br />

sommi sacerdoti, gli scribi, gli anziani. In questa differenza si situa anche la dinamica del diverso<br />

modo con cui il vangelo è offerto e accolto. Se tutte le risposte conferiscono a dare un volto al Re-<br />

gno e al suo annunciatore («è un profeta, è Elia, è Giovanni Battista, è un indemoniato, è un be-<br />

stemmiatore…»), solo chi è chiamato da Gesù e acconsente a vivere con lui può essere istruito sul-<br />

l’identità del Regno di cui parla e sul grado di implicazione di questo Regno con colui che lo porta<br />

(Mc 4,10). Ecco perché Gesù chiama a sé dei discepoli perché stiano con lui e per mandarli a predi-<br />

care (Mc 3,14). Notiamo che in questo atto sono già presenti le modalità del “prendere-con” di Gesù<br />

e dello “stare-con” lui, allo scopo di essere “mandati-per”. “Comunione” e “missione” sono già di-<br />

namiche presenti mentre Gesù è ancora all’opera nel suo ministero. La comunità credente non pro-<br />

lunga l’azione di Gesù una volta venuto meno lui, ma è all’opera mentre Gesù è presente e attivo.<br />

La prima caratteristica dice che la comunità dei discepoli è tutta concentrata su Gesù: «Salì poi sul<br />

monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con<br />

lui» (Mc 3,13-14). Lo stare con Gesù è dunque il momento fondante e permanente della comunità,<br />

non è un aspetto transitorio. Questo «stare con Gesù» presenta alcuni aspetti assai interessanti. Gesù<br />

chiama a sé quelli che vuole, come a dire che la chiamata è un dono libero del Signore. Ciò non<br />

mette in luce tanto l’arbitrarietà della chiamata, ma il fatto che il discepolo non può creare la rela-<br />

zione con Gesù, bensì riceverla in dono da lui, non può meritarla, ma essa è il frutto della libertà di<br />

chi chiama. Inoltre il discepolo vive continuamente alla presenza di Gesù, sta con lui, ascolta il ma-<br />

estro, lo segue ovunque vada, lo interroga e da lui viene istruito sulla qualità del vangelo (Mc 4,34).<br />

Lo stare con Gesù non può essere superato, non è un momento introduttivo, ma è una costante della<br />

comunità dei discepoli. Infine, il discepolo vive la sua relazione con Gesù con domande, dubbi, in-<br />

comprensioni, persino cadute e tradimenti. Egli ha intrapreso una strada di cui solo Gesù conosce la<br />

meta e possiede la capacità di giungere fino in fondo (Gesù annuncia che la croce è il destino del di-<br />

scepolo: Mc 8,34; d’altra parte, quando si profila questa eventualità, egli è il primo a dispensarne i<br />

discepoli: Gv 18,8). Questa è la regola essenziale della comunità: percepire il proprio stare con Gesù<br />

come il frutto di una chiamata sovranamente libera, che quindi deve essere sempre assunta respon-<br />

sabilmente e mai può essere lasciata alle spalle.<br />

(II) È una comunità inviata per l’annuncio. Il gruppo dei discepoli è costituito in vista della missio-<br />

ne. Questo avviene già all’inizio del ministero di Gesù, non quando egli vede ormai profilarsi<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

all’orizzonte la sua fine tragica. La missione dei discepoli cresce e si sviluppa con quella di Gesù,<br />

perché la missione della comunità non può superare Gesù, ma deve ricondurre a quell’ultima Parola<br />

che è la storia di Gesù che ci rivela la verità di Dio. Inoltre il compito affidato ai discepoli è descrit-<br />

to contenutisticamente negli stessi termini con i quali è presentata l’attività di Gesù: «E andò per<br />

tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,39). Queste due<br />

dimensioni della missione di Gesù, fatta di parole («predicando») e di azioni di salvezza («scac-<br />

ciando i demòni») sono le medesime che definiscono lo scopo per cui sono costituiti i Dodici. La<br />

comunità dei discepoli quindi rende presente la missione di Gesù. Infine, si deve notare una stretta<br />

relazione tra lo “stare-con-Gesù” e l’“essere-mandati-per”. Il primo momento della comunione dei<br />

discepoli con Gesù e tra di loro non viene superato e trasceso nel momento della missione. Ne è il<br />

momento costitutivo: l’attuazione del compito apostolico è resa possibile dallo “stare-con-Gesù”,<br />

dall’esperienza permanente dell’essere radicati in lui: solo lo stare con Gesù, il vedere e il toccare<br />

con mano «il Verbo della vita» (1Gv 1,1-3) consente di annunciare in maniera univoca ciò che una<br />

semplice istruzione verbale potrebbe fraintendere. Non è ammissibile un annuncio o un’azione di<br />

liberazione dal demonio senza una crescente esperienza della comunione con Gesù. Per questo lo<br />

stare con Gesù è il momento interno della missione apostolica.<br />

(III) È una comunità “trasparente”. Essa, infatti, deve rappresentare simbolicamente nella sua esi-<br />

stenza quanto deve avvenire in tutto Israele. La sequela, che caratterizza il gruppo dei discepoli e ne<br />

plasma l’esistenza, non lo chiude nei confronti del resto d’Israele. Infatti la radicalità di una nuova<br />

esistenza è richiesta a tutti in Israele, anche agli aderenti di Gesù che rimangono legati al luogo in<br />

cui risiedono. Diverse sono solo le forme concrete di tale radicalità, che debbono corrispondere alla<br />

rispettiva situazione delle singole vite. Gesù non ha chiamato tutti gli uomini d’Israele a divenire di-<br />

scepoli, però ha chiamato tutti a entrare pienamente nel regno di Dio. Il gruppo dei discepoli non si<br />

distingue quindi in linea di principio per una più grande radicalità del restante Israele, bensì solo per<br />

il fatto che vive la forma di esistenza sua specifica della sequela, o anche per il fatto che è entrato<br />

già ora in quella dedizione al regno di Dio, che tutto Israele deve vivere 33 . Inoltre, Gesù non presen-<br />

33 In tal senso, ad esempio, Helmut Merklein è piuttosto critico nei confronti dell’idea di un doppio ethos, quello dei carismatici<br />

itineranti e quello dei simpatizzanti residenti (che ripeterebbe sotto altri termini la distinzione fra un’etica delle<br />

vocazioni speciali — o etica dei consigli — e l’etica dei fedeli comuni — o etica dei precetti). Perciò suggerisce che:<br />

«l’ethos dei discepoli non è… un caso particolare, bensì soltanto un concreto caso speciale dell’ethos generale. Se ne ha<br />

conferma nella tradizione sinottica, nella quale le esigenze della sequela non appaiono come ethos particolare, ma sono<br />

tramandate come paradigmi della fede per la comunità. Ciò significa che in determinate situazioni quanto è richiesto al<br />

discepolo nella sua situazione concreta di messaggero della signoria di Dio può farsi critico anche per i fedeli residenti,<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

ta mai l’appartenenza alla cerchia dei suoi discepoli come condizione per entrare nel Regno di Dio.<br />

Perciò è chiaro che il gruppo dei discepoli non è il «santo resto» d’Israele e tanto meno è una nuova<br />

comunità all’interno o al di fuori del popolo di Dio, comunità che Gesù, una volta riscontrata una<br />

crescente opposizione, avrebbe fondato come surrogato o alternativa a Israele. Infatti, è sintomatico<br />

che Gesù, per interpretare il proprio modo di agire nei confronti del popolo di Dio, non abbia ripre-<br />

so l’idea di «resto» coniata da Isaia 34 . Egli continua a rivolgere il suo appello a tutto Israele. Perciò<br />

non è lecito intendere la comunità dei discepoli di Gesù sul modello di Qumran. Essa può essere ca-<br />

pita solo nel suo rapporto e nella sua funzione di segno nei confronti dell’insieme di Israele. Essa<br />

deve rappresentare come segno ciò che Israele dovrà diventare. In questo senso è — certo mai in<br />

maniera indipendente da Gesù, bensì sempre e solo in unione a lui — segno dell’imminente Regno.<br />

Questo perché la verità di Dio che salva può mostrarsi solo nella vita di un popolo che ne vive<br />

l’identità radicale fondandovi la propria esistenza. Per questo la legge del Vangelo ha un significato<br />

immediatamente teologico, non solo perché essa è motivata a partire dall’agire di Dio (Mt 5,44-45:<br />

«Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste,<br />

che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli in-<br />

giusti»), ma anche perché nel comportamento del discepolo è l’agire stesso di Dio che diviene visi-<br />

bile nel mondo (Mt 5,16: «risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini, perché vedano le vostre o-<br />

pere buone e rendano gloria al Padre che è nei cieli»; fino alla proclamazione estrema: «siate per-<br />

fetti come è perfetto il Padre vostro celeste»). Poiché la manifestazione della verità di Dio è insepa-<br />

rabile dalla sua appropriazione, la rivelazione di Dio in Gesù non riguarda solo la sua iniziativa, ma<br />

coinvolge gli interlocutori la cui reazione concorre a determinarne l’evidenza.<br />

(IV) La differenza di Gesù: nessuno è più del maestro. Se è vero che nell’agire del discepolo può<br />

essere riconosciuta l’identità di Dio, rimane vero che l’eccesso fra Dio e l’uomo è colmato solo da<br />

Gesù. Egli è il maestro che non può essere sostituito: solo lui vive dell’eccesso di Dio che è<br />

all’origine delle beatitudini, del comandamento dell’amore ai nemici…<br />

Esemplifichiamo il nostro assunto riferendoci emblematicamente a un episodio che testimonia alcu-<br />

ne tensioni all’interno del gruppo, e che torna ben due volte nel vangelo di Marco (9,33-37; 10,35-<br />

soprattutto quando l’adesione a tutti richiesta all’evento della signoria di Dio porta al conflitto con le norme sociali correnti»:<br />

ID, La signoria di Dio nell’annuncio di Gesù (Brescia: Paideia, 1994) 158.<br />

34 Proprio questa idea era di grande attualità ai tempi di Gesù. Gli esseni di Qumran interpretavano l’esistenza della loro<br />

comunità in mezzo a Israele sulla falsariga dell’idea del «resto»: erano convinti di essere il santo resto di Israele eletto<br />

da Dio; tutti gli altri giudei, che non appartenevano alla loro comunità e non si santificavano insieme con loro, erano<br />

considerati massa dannata. Gli esseni consideravano se stessi «figli della luce», tutti gli altri «figli delle tenebre».<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

40): la discussione lungo la via su chi fosse il più grande (9,34); la pretesa di Giacomo e Giovanni<br />

di sedere nel Regno alla destra e alla sinistra di Gesù (10,35-37). Si tratta di tensioni all’interno del-<br />

la comunità, dove emergono invidie, gelosie, problemi di prestigio e di posto, di rango e di onore. Si<br />

noti che i due episodi sono situati dopo il secondo e il terzo annuncio del destino di Gesù e quindi<br />

appaiono in stridente contrasto con la missione di Gesù che va precisandosi con le caratteristiche del<br />

servo. L’incomprensione dei discepoli appare grande. Ma Gesù non si scoraggia, riprende il suo in-<br />

segnamento con un gesto profetico e con la parola che illumina.<br />

Nel primo episodio l’evangelista riprende: «Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno<br />

vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. E, preso un bambino, lo pose in mezzo e<br />

abbracciandolo disse loro: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi ac-<br />

coglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”» (9,35-37). Gesù compie l’azione profe-<br />

tica di porre nel mezzo un bambino, uno dei tanti piccoli, che egli stesso aveva accolto e indica la<br />

legge del servizio degli ultimi e di tutti. Si tratta di un servizio-accoglienza da compiere «nel suo<br />

nome», perché accogliendo così si accoglie Gesù come colui che è inviato da Dio. Nel secondo epi-<br />

sodio Gesù, dopo aver messo in guardia i due discepoli dal senso della loro richiesta risponde: «Al-<br />

lora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le<br />

dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere<br />

grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio<br />

dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per<br />

molti”» (10,41-45). Anche qui abbiamo una parola di Gesù, prima con un confronto in negativo, poi<br />

con un’indicazione in positivo e infine con la presentazione di una figura esemplare che qualifica il<br />

modo della missione di Gesù. Notiamo gli elementi essenziali presenti nelle due risposte di Gesù.<br />

La prima reazione di Gesù registra il fatto che il Signore riprende la chiamata originaria: «sedutosi,<br />

chiamò i Dodici» (9,35), «allora, chiamatili a sé» (10,41). Di fronte alle difficoltà, all’insorgere delle<br />

tensioni e discussioni Gesù li rinvia alla vocazione originaria. Le tensioni si risolvono ritornando al<br />

senso della vocazione di Gesù, approfondendo la chiamata, assumendo nuovi criteri di convivenza.<br />

La chiamata è progressiva, lo stare con Gesù prevede una crescita. Alla progressiva rivelazione del<br />

mistero di Gesù corrisponde la graduale comprensione della propria chiamata.<br />

Poi Gesù presenta la misura della grandezza dei discepoli, indicandola nel servizio alla comunità ri-<br />

volta verso tutti gli altri (cfr. 9,35; 10,43-44). Anzitutto Gesù non disprezza la domanda dei discepo-<br />

li, non demonizza il loro desiderio di essere primi e grandi, non reprime il senso della loro discus-<br />

sione. Gesù però introduce un orientamento diverso, educa il desiderio, orienta la volontà dei disce-<br />

poli: il principio regolatore e il criterio della grandezza sono il servizio della comunità.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

Del servizio viene indicato il movimento: questo servizio non sarà rivolto solo alla comunità, ma<br />

cominciando da essa dovrà poi irradiarsi verso tutti gli uomini (si noti il parallelismo in crescendo<br />

di 10,43-44 «chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi<br />

sarà il servo di tutti»). Il servizio che anima la comunità è segno e strumento di un servizio tenden-<br />

zialmente rivolto a tutti, che non può e non deve ripiegarsi sulla comunità. La comunità è così il se-<br />

gno di un dinamismo della carità che partendo dalla comunione non si rinchiude nel gruppo, ma si<br />

apre al mondo. Inoltre viene indicata la figura esemplare del servizio: prima in modo negativo, ri-<br />

cordando la maniera con cui i capi delle nazioni spadroneggiano sulle comunità che pure dovrebbe-<br />

ro servire ed escludendo qualsiasi contaminazione nella vita dei discepoli («Fra voi però non è co-<br />

sì»: si noti l’indicativo!); poi in modo positivo, mediante il gesto profetico di porre in mezzo il<br />

bambino. La cura gelosa dei piccoli e degli ultimi è il servizio esemplare e il criterio decisivo della<br />

comunità. Nei confronti di questi si deve assumere lo stesso atteggiamento di Dio che si prende cura<br />

dell’orfano e della vedova. Essi sono come la pupilla del suo occhio, sono al suo sguardo il bene più<br />

prezioso. Infatti, da questi non deriva alcuna gratificazione o applauso, ma un’assunzione di respon-<br />

sabilità. La cura dei piccoli non è quindi una forma di infantilismo o una tattica strumentale della<br />

comunità, ma un segno che rimanda a quella capacità di mettere in mezzo colui che è venuto per<br />

servire. Si può partire dai piccoli e dagli ultimi con il segreto desiderio di arrivare tra i primi!<br />

Per questo il piccolo è figura esemplare, ma non è criterio assoluto: esso deve essere accolto «nel<br />

suo nome», cioè nella sua forza salvifica, nel suo stile. Ma in tal modo si accoglie Gesù come rivela-<br />

tore del volto del Padre che ci dona-invia il Figlio suo. Solo Gesù dunque è il criterio assoluto del<br />

servizio alla e nella comunità rivolta a tutti. Quindi bisogna custodire gelosamente la “differenza”<br />

del servizio di Gesù. Perciò nel secondo testo (10,45) la figura esemplare è quella del servizio di<br />

Gesù che è venuto per servire e — in parallelo si spiega — dare la sua vita in riscatto per molti.<br />

I poveri li avremo sempre con noi, di piccoli saremo sempre circondati, gli ultimi saranno sempre ai<br />

margini di questa società, ma se non verremo evangelizzati dal gesto di Gesù, essi potranno gridare<br />

alla nostra porta ma noi non avremo orecchi per intendere. Perciò bisogna tenere in gran conto la fi-<br />

gura esemplare del servizio di Gesù, che «da ricco che era si è fatto povero per noi, per arricchire<br />

noi con la sua povertà» (2Cor 8,9). Per questo non bisogna temere — con la donna del vangelo —<br />

di sprecare l’olio preziosissimo per riconoscere il gesto di Gesù: «“Perché tutto questo spreco di olio<br />

profumato? Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri!” Ed e-<br />

rano infuriati contro di lei» (cfr. Mc 14,4-5). Senza questo spreco, senza questo gesto disinteressato<br />

che custodisce la differenza della carità di Gesù, che contempla la misura incalcolabile della sua de-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

dizione, i poveri potrebbero diventare il pretesto per la nostra carità. Per questo «dovunque, in tutto<br />

il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto».<br />

La storia di Gesù è la storia del costituirsi delle relazioni che la parola del Regno instaura e entro le<br />

quali Gesù si delinea come l’unico portatore dell’univocità del suo senso. Per i discepoli l’accesso al<br />

senso compiuto del Vangelo coincide con la conoscenza del legame che esso ha con la persona di<br />

Gesù. Registrando lo scarto tra Gesù e i discepoli, la narrazione evangelica illustra insieme la di-<br />

scontinuità e l’unità tra la fede pasquale e la storia di Gesù. L’unità è assicurata da Gesù, il quale an-<br />

ticipa ciò che i discepoli comprenderanno solo dopo. Dopo la lavanda dei piedi, Gesù chiede loro:<br />

«Sapete ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12). I discepoli non lo sanno e tantomeno comprendono, come<br />

risulta dalla resistenza di Pietro al gesto di Gesù. Egli però anticipa loro, iscrive nel loro cuore, ciò<br />

che solo dopo, mediante il travaglio della memoria, potranno capire: «Quello che io faccio, tu ora<br />

non lo capisci, ma lo capirai dopo» (Gv 13,7). Perciò i discepoli non prolungano la storia di Gesù,<br />

ma «dopo» accederanno alla comprensione della verità di Dio che Gesù, e solo lui, ha realizzato. Il<br />

superamento dello scarto che sigilla l’inaccessibilità teorico-pratica della verità del crocifisso sup-<br />

pone la nuova iniziativa di Dio: la manifestazione del Risorto. Questa introduce i discepoli nella ve-<br />

rità di Gesù realizzata sulla croce e anticipata da Lui nel gesto dell’ultima cena. Nel manifestarsi del<br />

Risorto Dio rivela se stesso rivelando che il crocifisso è la sua rivelazione, poiché mostra che la sua<br />

morte determina l’essere di Dio e ne condivide la permanente attualità. Nella manifestazione di Ge-<br />

sù da parte di Dio la morte di Gesù diviene reale anche per i discepoli nell’atto di Dio che ne comu-<br />

nica il senso. La morte di Gesù è attualmente presente poiché l’atto di Dio la mantiene come la for-<br />

ma della sua comunicazione all’uomo. L’evangelista Giovanni, dopo aver visto sgorgare dal fianco<br />

squarciato di Gesù sangue e acqua (Gv 19,34), può così commentare: «Chi ha visto ne dà testimo-<br />

nianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (19,35).<br />

Dalla morte di Cristo, nuovo Adamo, nasce come nuova Eva la Chiesa, la comunità dei credenti.<br />

La comunità credente deve allora continuamente lasciarsi evangelizzare dalla Pasqua di Gesù, deve<br />

custodire l’amore che vi si rivela, deve coltivare fedelmente il suo senso, mettendo al centro Gesù e<br />

la sua inaudita dedizione. Per questo il discepolo non può essere più del maestro, per questo la co-<br />

munità della sequela rimane per sempre concentrata sulla memoria di Gesù, per questo l’eucaristia<br />

— il gesto che custodisce gelosamente e insuperabilmente l’amore di Gesù — è il gesto centrale<br />

della comunità, la sua fonte, la sua misura e la sua meta. La chiesa-comunità non può andare al di là<br />

dell’eucaristia di Gesù: a essa deve ritornare, da essa deve partire, diversamente misconoscerebbe<br />

l’insuperabile differenza di «colui che mi/ci ha amato e ha dato se stesso per me/noi» (Gal 2,20).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

f) L’ultima cena<br />

In che rapporto sta l’ultima cena di Gesù con la sua prassi del regno di Dio? In questa cena Gesù è<br />

rimasto fedele alla sua dedizione a Israele oppure, di fronte alla propria morte, con l’istituzione del-<br />

l’eucaristia ha fondato qualcosa di nuovo, cioè la Chiesa (intesa come nuovo popolo di Dio)? 35<br />

La prima cosa che colpisce è che egli, malgrado la morte che vede incombere su di sé, persevera<br />

nella sua attesa del regno di Dio. Ce lo mostra la cosiddetta “prospettiva escatologica” di Mc 14,25<br />

par, Lc 22,16.18. Nella redazione marciana più breve essa suona: «In verità vi dico che non berrò<br />

più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio». Gesù rimane quindi<br />

convinto che quel banchetto della basiléia realizzata in misura piena, di cui aveva parlato in Mt<br />

8,11s. e Lc 14,16-24, avrà luogo. La prospettiva escatologica in Mc 14,25 non è soltanto una profe-<br />

zia della morte, bensì anche una conferma di tutto quello che egli aveva predicato sull’avvento della<br />

basiléia. Rimane solo da domandarsi: con quale popolo sarà celebrato il banchetto del regno di Dio?<br />

Per rispondere a tale domanda, d’importanza decisiva è la notizia tramandata in Mc 14,17, secondo<br />

cui Gesù ha celebrato l’ultima cena metà tòn dódeka. I Dodici erano infatti stati costituiti come sim-<br />

bolo reale dell’Israele escatologico da radunare. Quando ora, nella cornice dell’ultima cena, vengo-<br />

no loro offerti il pane e il vino, la rappresentazione d’Israele per loro mezzo raggiunge il suo ultimo<br />

spessore. Non ad essi privatamente, bensì ad essi quale simbolo reale di tutto Israele, Gesù, in pro-<br />

cinto di andare a morire, offre se stesso come dono salvifico porgendo loro il pane e il vino.<br />

Ma non è solo la scelta dei Dodici a commensali a mostrarci con quanta decisione Gesù orienti<br />

l’ultima cena a tutto Israele. Un indizio altrettanto importante in tal senso è l’applicazione della sua<br />

morte «per i molti», espressa nelle parole pronunciate sul vino (Mc 14,24) 36 . Con l’«hypèr pollòn »<br />

Gesù interpreta la sua morte imminente alla luce di Is 53,11s. come morte espiatrice vicaria 37 .<br />

35 È questa l’idea di Joseph Ratzinger: «Il Padre nostro era il primo indizio di una speciale comunità di preghiera con e a<br />

partire da Gesù. Inoltre nella notte, prima della passione, Gesù compie un altro passo in tale direzione quando trasforma<br />

la Pasqua di Israele in un culto talmente nuovo, che logicamente doveva portare fuori dalla comunità del tempio e con<br />

ciò fondare definitivamente un popolo della “nuova alleanza”», in ID., La Chiesa. Una comunità sempre in cammino<br />

(Cinisello Balsamo – Milano: Edizioni Paoline, 1991) 18.<br />

36 Mc 14,24: «Questo è il mio sangue dell’alleanza versato per molti»; Mt 26,28: «questo è il mio sangue dell’alleanza,<br />

versato per molti, in remissione dei peccati». Paolo e Luca riportano invece l’espressione «per voi» e la connettono il<br />

primo al pane (1Cor 11,24s.: «Questo è il mio corpo, che è per voi… Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue»)<br />

l’altro sia al pane sia al vino (Lc 22,19-20: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me…<br />

Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi»). È interessante notare come nella tradizione<br />

neotestamentaria appaiano due motivi esplicativi che illustrano le parole sul pane e sul calice: il motivo del patto e il<br />

motivo dell’espiazione. La redazione paolina collega il motivo dell’espiazione alla parola sul pane e il motivo dell’alleanza<br />

a quella sul calice; la versione marciana invece vincola i due motivi alla parola sul calice. A proposito del senso<br />

dell’alleanza come emerge nel detto esplicativo sul calice, riportiamo le riflessioni di Hegermann, il quale, dopo aver<br />

osservato come la forma testuale probabilmente più antica, quella marciana, «questo è il mio sangue dell’alleanza», ri-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

Ma chi sono i «molti», cui egli dedica la sua morte come dono salvifico espiatorio? Il più delle volte<br />

la risposta suona: tutti gli uomini. Questa concezione può rifarsi ai polloí di Is 52,14s. 38 e Mt 8,11 e<br />

inoltre alla forma giovannea delle parole pronunciate sul pane in Gv 6,5lc 39 . Essa ha buone ragioni a<br />

suo favore e in fondo è giusta. Solo che salta un gradino intermedio 40 . Tutta l’esistenza di Gesù fu<br />

anzitutto esistenza per Israele e solo attraverso questa esistenza per Israele esistenza per i popoli<br />

(cfr. Gv 11,50-52) 41 . Solo se tutto Israele trova la salvezza, pure i popoli possono trovarla. In questa<br />

luce è escluso che Gesù, nell’ora dell’ultima cena, abbia dimenticato il suo popolo, cui era diretta la<br />

sua missione, e abbia potuto parlare di salvezza per i popoli ignorando Israele. Se ciò fosse vero, la<br />

salvezza come dovrebbe pervenire ai popoli? E che ne sarebbe di Israele? Quanto abbiamo finora<br />

visto di Gesù domanda che i «molti» indichino anzitutto Israele e mediatamente attraverso Israele<br />

prenda alla lettera l’espressione del “detto esplicativo” di Es 24,8 (LXX) — «Ecco il sangue dell’alleanza che Yhwh ha<br />

stabilito per voi in base a tutte queste parole» —, così continua: «Questa ripresa di Es 24,8 era preparata in quanto il<br />

passo già prima del tempo di Gesù era inteso come rappresentazione di un atto di espiazione… Il riferimento a Es 24,8<br />

nel detto esplicativo sul calice può essere inteso soltanto tipologicamente: l’evento di espiazione nella morte di Gesù è<br />

interpretato come analogia che supera quell’evento veterotestamentario di espiazione. Non s’intende quindi un rinnovamento<br />

del patto del Sinai, bensì una garanzia di salvezza nuova, superiore, concessa da Dio nel “sangue”, cioè nella<br />

morte, di Gesù. La versione del detto del calice trasmessa da Paolo in 1Cor 11,25 (cfr. Lc 22,20) può essere giustamente<br />

considerata come esplicazione della versione marciana. Con le parole: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue” è<br />

senza dubbio ripreso Ger 31 (38),31-34, dove Yhwh proclama: “stringerò con la casa di Israele un patto nuovo”, un patto<br />

del tutto diverso al confronto di quello del Sinai (v. 32): il patto di obbligazione viene sostituito con un patto di promessa.<br />

Yhwh promette il perdono dei peccati e scriverà la sua disposizione nel cuore, in altri termini: darà un cuore<br />

nuovo, sicché il suo popolo faccia la volontà di Dio… Questa promessa viene proclamata come adempiuta nell’evento<br />

di Gesù»: H. HEGERMANN, diathêkê, in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento I (Brescia: Paideia, 1995) 793-794.<br />

37<br />

Is 53,11-12: «Il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le<br />

moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi,<br />

mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori». Merklein, rilevando come questo passo non avesse<br />

importanza per il pensiero teologico giudaico del tempo (non fu mai letto come dichiarazione sulla sofferenza e morte<br />

espiatoria di una figura messianica) e come nell’insieme delle prove scritturistiche di cui si serviva la comunità cristiana<br />

primitiva avesse una parte sorprendentemente limitata (gli strati più antichi della tradizione primitiva non lo citano come<br />

prova biblica in questo senso: cfr. At 8,32s.), suggerisce che forse fu proprio un segno della creatività singolare di Gesù,<br />

il quale interpretò la sua morte alla luce di Is 53 secondo il motivo della espiazione: MERKLEIN, La signoria di Dio, 171-<br />

172. Della stessa opinione è ROLOFF, Die Kirche im Neuen Testament, 55-56. Mentre di parere contrario è G. BARTH, Il<br />

significato della morte di Gesù. L’interpretazione del Nuovo Testamento (Torino: Claudiana, 1995) 84-88.<br />

38<br />

Is 52,14-15: «Come molti si stupirono di lui — tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua<br />

forma da quella dei figli dell’uomo — così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,<br />

poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito».<br />

39<br />

Gv 6,51: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è<br />

la mia carne per la vita del mondo».<br />

40<br />

R. PESCH, Voraussetzungen und Anfänge der urchristlichen Mission, in K. KERTELGE (ed.), Mission im Neuen Testament<br />

(Freiburg: Herder, 1982) 11-70, 41 osserva che alla morte espiatrice di Gesù non venne dato un valore esplicitamente<br />

universale fin dall’inizio già per il semplice fatto che, dopo la Pasqua, la comunità primitiva non ha praticato subito<br />

la missione tra i pagani.<br />

41<br />

Gv 11,50-52: «“Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo (laós) e<br />

non perisca la nazione (èthnos) intera”. Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò<br />

che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano<br />

dispersi». Cfr. Rm 15,8-9: «Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore della veracità di Dio,<br />

per compiere le promesse dei padri; le nazioni pagane invece glorificano Dio per la sua misericordia».<br />

77


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

tutti i popoli. Gesù avrebbe allora interpretato il dono della sua vita come un atto di espiazione e<br />

precisamente di espiazione per quell’Israele, che aveva rifiutato il suo messaggio e che ora si accin-<br />

geva a ucciderlo. Le posizioni esegetiche che affermano che lo schema dell’espiazione sarebbe stato<br />

introdotto come categoria esplicativa solo dalla comunità postpasquale e che non sarebbe conciliabi-<br />

le col messaggio della basiléia di Gesù, perché la salvezza della basiléia sarebbe già misericordia<br />

incondizionata che esclude ogni espiazione, non hanno capito quel che espiazione significa nella<br />

Bibbia 42 , né hanno compreso la storicità della basiléia che giunge su Israele. In Gesù la vicinanza<br />

della basiléia non è una vicinanza atemporale del semper et ubique (cfr. Gv 7,6: «Gesù allora disse:<br />

“Il mio tempo (kairós) non è ancora venuto, il vostro invece è sempre pronto”»); al contrario, la ba-<br />

siléia è irripetibile, va afferrata ora, non è ripetibile a piacimento, è appunto offerta escatologica di<br />

Dio. Se in Gerusalemme i rappresentanti d’Israele ripudiano Gesù, Israele rifiuta definitivamente la<br />

basiléia. Ma se esso rifiuta la basiléia, ha fallito il senso della sua esistenza, ha perso la salvezza per<br />

sé e per i popoli e dimostrato assurda l’elezione di Dio. La questione è quindi teologica: e cioè<br />

«opponendo a Gesù un rifiuto che era sì parziale, ma non meno rappresentativo, date le conseguenze<br />

che ne venivano per la maggioranza del popolo, non si portava grave pregiudizio all’elezione escatologica<br />

di Dio, nella sua qualità di evento divino, che Gesù aveva predicato per l’intero Israele,<br />

o addirittura, la si portava all’assurdo in quanto evento inefficace?» 43 .<br />

Solo così si spiega la paurosa serietà delle minacce pronunciate da Gesù verso la fine della sua atti-<br />

vità pubblica. Nel momento in cui Israele rifiuta definitivamente la basiléia respingendo Gesù, si<br />

crea una situazione in cui nulla è più come era all’inizio in Galilea e in cui Mc 1,15 («la basiléia è<br />

vicina») non può appunto essere più ripetuto. Il kairós è passato e passato inutilmente.<br />

42 G. Barth precisa che l’idea dell’espiazione sottende il nesso azione-esistenza, nel senso che ogni azione crea una “sfera<br />

di azione che produce un destino”, per cui il destino che tocca a chi compie un’azione non è una punizione sancita in<br />

una certa misura arbitrariamente in base a qualche norma eteronoma, ma è il “compimento”, ovvero il “ritorno” di ciò<br />

che egli stesso ha compiuto. Inoltre, questa concezione si inserisce nel quadro dell’idea di un ordine della creazione: per<br />

la salvaguardia di tale ordine, allora, risulta necessario che l’autore del male, che con la sua azione si è posto fuori dei<br />

limiti del cosmo, muoia. In tal senso, compiendo il giudizio sul malfattore e permettendo il realizzarsi della catena misfatto-disgrazia,<br />

Dio dimostra la sua fedeltà verso la propria creazione. L’AT non conosce la possibilità che un misfatto<br />

o un peccato sia considerato semplicemente come non avvenuto e che quindi esso semplicemente non venga imputato. Il<br />

misfatto, infatti, è un disturbo dell’ordine della creazione, che in una certa misura, mediante quest’azione negativa, è uscito<br />

dal suo equilibrio, e può ritornare perfettamente a filo solo quando il seguito di conseguenze, la disgrazia, si è pienamente<br />

attuato, oppure quando l’espiazione è stata compiuta. La possibilità dell’espiazione è l’unica via per liberare il<br />

peccatore dal suo intreccio di disgrazie. La grazia di Dio si dimostra proprio nel garantire al peccatore la possibilità<br />

dell’espiazione. In tal senso per Barth i testimoni neotestamentari (mentre non si pronuncia sull’intenzione di Gesù)<br />

hanno interpretato la morte di Gesù come espiazione vicaria, ossia nel senso che grazie alla sua morte, egli ha compiuto<br />

vicariamente per tutti gli esseri umani quell’unica espiazione che può liberare il mondo dal suo intreccio di colpa e disgrazia:<br />

cfr. G. BARTH, Il significato della morte di Gesù, 94-104.<br />

43 MERKLEIN, La signoria di Dio, 175.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

In questa situazione è di aiuto solo un atto salvifico di Dio, che di fronte al rifiuto opposto da Israele<br />

concede di nuovo la vita né meritata, né dovuta. Ma precisamente a un evento del genere si riferisce<br />

la Bibbia quando parla di «espiazione» 44 . L’idea di espiazione non contraddice il messaggio della<br />

basiléia di Gesù; al contrario la basiléia, in quanto salvezza che sopraggiunge storicamente ed è le-<br />

gata all’accoglienza da parte del popolo, esige in caso di rifiuto appunto l’atto di un’espiazione.<br />

«Nell’ultima cena… rifacendosi a Is 53 Gesù avrebbe interpretato la propria morte […] come espiazione<br />

per Israele, la cui maggioranza si disponeva chiaramente a respingerlo. Ciò garantiva che<br />

nemmeno il rifiuto fa recedere Dio dal proposito di offrire la salvezza escatologica, né mette in<br />

questione l’efficacia dell’elezione divina. Anzi, proprio nella morte del suo rappresentante l’azione<br />

escatologica di Dio appare come evento efficace, poiché Dio fa sì che la morte del suo inviato diventi<br />

un atto di espiazione… La morte espiatrice di Gesù, quindi, non fonda una nuova salvezza,<br />

né questa sta, anche soltanto lontanamente, in tensione con l’evento salvifico che fin dall’inizio del<br />

suo ministero Gesù ha proclamato e rappresentato. La salvezza della morte espiatrice di Gesù è<br />

una componente integrale di questo evento della signoria di Dio» 45 .<br />

Perciò, solo nella morte di Gesù si manifesta in maniera definitiva la vera essenza della basiléia, in<br />

quanto questa concede la vita anche nella situazione dell’annientamento del suo rappresentante e<br />

precisamente così si dimostra salvezza irrevocabilmente donata. Possiamo quindi dire: Gesù perse-<br />

vera nella sua dedizione a Israele anche di fronte alla morte sicura, anzi la dimostra in questo mo-<br />

mento in maniera più profonda e radicale di quanto abbia mai fatto prima. Ciò dimostra che le paro-<br />

le di condanna contro «questa generazione» sono stati tentativi estremi di guadagnare ancora il po-<br />

polo. Una volta falliti anche tali tentativi, rimane solo la via del servo di Dio, che si carica la colpa<br />

dei molti. Gesù, una volta che Israele oppone il suo rifiuto, non fonda una Chiesa come ripiego, ma<br />

porta a compimento la raccolta del popolo di Dio: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore,<br />

rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).<br />

g) Il risultato<br />

I testi che abbiamo esaminato ci offrono un quadro coerente:<br />

44 Un esempio suggestivo di cosa intendere per espiazione è offerto da G. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa?, op.<br />

cit., 232: «Dag Hammarskjöld — il secondo segretario generale dell’ONU, perito il 17 settembre 1961 in un incidente<br />

aereo in prossimità del Katanga mentre era impegnato a porre fine alla guerra civile nel Congo — ci ha lasciato un passo<br />

del suo diario, che può aiutarci a capire meglio quanto abbiamo appena cercato di spiegare: “Pasqua 1960. Il perdono<br />

spezza la catena delle cause, in quanto colui che — per amore — “perdona”, assume su di sé la responsabilità delle<br />

conseguenze di ciò che tu hai commesso. E questo comporta sempre sacrificio. Il prezzo per il tuo riscatto mediante il<br />

sacrificio di un altro, sta nel fatto che tu stesso sia disposto, allo stesso modo, a riscattare senza badare al rischio”.<br />

Questo testo illuminato… chiarisce la dimensione del concetto di “espiazione vicaria”: l’amore perdona. Ma le conseguenze<br />

del peccato nemmeno l’amore può cancellarle, poiché sono profondamente incise nella storia. La “catena delle<br />

cause”, messa in atto dal peccato, continua ad estendersi. Quando l’amore è vero, non si limita a perdonare, ma assume<br />

su di sé anche le conseguenze delle azioni degli altri. E questo ha il suo prezzo, non avviene senza sacrificio».<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

1. Nella sua azione Gesù si è coscientemente concentrato sulla popolazione ebraica della Palestina.<br />

Le guarigioni di pagani sono rare e sono presentate come eccezioni. Una attività didattica specifica<br />

davanti a pagani non ci è tramandata da alcuna parte.<br />

2. In Gesù questa concentrazione è chiaramente motivata in maniera storico-salvifica: a Gesù sta a<br />

cuore il raduno escatologico d’Israele. Soprattutto la costituzione dei Dodici mostra in maniera pro-<br />

grammatica la rivendicazione che egli avanza sul popolo delle dodici tribù. Non si tratta del resto<br />

d’Israele e tanto meno di una comunità particolare all’interno o all’esterno di questo.<br />

3. La particolarità di questa concentrazione su Israele non esclude in alcun modo l’universalità, per-<br />

ché Gesù pensa secondo lo schema profetico secondo cui proprio la salvezza d’Israele renderà pos-<br />

sibile anche la salvezza dei popoli (cfr. però Mt 8,11s, par. Lc 13,28s 46 ). Gesù viene a Israele preci-<br />

samente perché la sua missione mira a tutto il mondo. Si tratta d’un universalismo rappresentativo.<br />

4. In Gesù constatiamo continuamente una salda correlazione fra la proclamazione del regno di Dio<br />

e il raduno d’Israele. La sua predicazione escatologica non esclude il raduno del popolo di Dio, al<br />

contrario lo esige più che mai. Come la basiléia ha il suo tempo, così ha anche il suo luogo. Essa ha<br />

bisogno di un popolo in cui potersi affermare.<br />

5. Come mostrano Lc 10,2 e 11,2, per Gesù il raduno d’Israele è l’opera escatologica di Dio, per la<br />

quale bisogna pregare. Ma contemporaneamente è anche lui che compie tale opera.<br />

6. Nell’opera del raduno d’Israele esiste una dialettica fra vecchio e nuovo: da un lato a Gesù sta a<br />

cuore il ripristino d’Israele. Nello stesso tempo il raduno del popolo di Dio è l’evento di una nuova<br />

creazione escatologica, per indicare la quale il concetto di raduno non è sufficiente (cfr. la parabola<br />

del seminatore). Perciò dobbiamo parlare anche della creazione del vero Israele quale comunità sal-<br />

vifica escatologica. Il discorso del nuovo popolo di Dio, riscontrabile spesso a partire da Barn 5,7 47 ,<br />

andrebbe tuttavia evitato, perché si presta ad essere frainteso nel senso di una sostituzione di Israele.<br />

7. Come il Battista, anche Gesù può parlare di una divisione che attraversa Israele (cfr. Lc 12,49-<br />

53). Tuttavia egli non utilizza la categoria della divisione per separare in maniera esteriormente vi-<br />

sibile il vero Israele dall’Israele incredulo. Il gruppo dei discepoli non ha la funzione di segnare una<br />

45 MERKLEIN, La signoria di Dio, 175.<br />

46 In questo logion Gesù istituisce un confronto tra ebrei e pagani e insegna che questi ultimi sederanno al posto dei primi<br />

nel banchetto escatologico del regno di Dio. Se negli antichi oracoli profetici il pellegrinaggio dei popoli al Monte<br />

Sion è la conseguenza della fedeltà di Israele al suo Dio (Is 2,2s; Zc 2,11, …), qui Gesù afferma che i popoli verranno<br />

anche se Israele, o la maggioranza di Israele, respingerà il suo messaggio.<br />

47 «Egli per abolire la morte e per provare la risurrezione dei morti doveva incarnarsi e soffrì. Per compiere la promessa<br />

fatta i padri, prepararsi un popolo nuovo e dimostrare, stando sulla terra, che egli stesso operando la risurrezione giudicherà»:<br />

Lettera di Barnaba, V, 6-7, in I Padri apostolici (Roma: Città Nuova, 1984 4 ) 192.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

simile divisione. I discepoli piuttosto prefigurano tutto il popolo escatologico di Dio. Essi sono rife-<br />

riti a tutto Israele, e devono mantenere questa relazionalità.<br />

8. Gesù continua a indirizzarsi a tutto Israele anche di fronte alla morte, anzi conferma e approfon-<br />

disce ancor più tale suo orientamento: durante l’ultima cena interpreta la sua morte imminente come<br />

atto di espiazione posto da Dio per tutto Israele, atto che dischiude di nuovo al popolo la possibilità<br />

dell’accoglienza della basiléia.<br />

9. Il quadro risultante dalla nostra indagine non è solo in sé coerente, ma concorda anche con la vi-<br />

suale degli autori neotestamentari. L’unica differenza sta nel fatto che la teologia cristiana primitiva<br />

dovette riflettere pure sulla prosecuzione postpasquale del confronto fra vangelo e Israele e consta-<br />

tare un rifiuto rinnovato. In questo contesto, entro il NT si delinearono due posizioni diverse circa il<br />

ruolo definitivo dell’Israele recalcitrante: il giudizio negativo di Matteo (Mt 21,43; 28,15), da Luca<br />

(At 28,25-28) e dall’autore dell’Apocalisse (Ap 2,9; 3,9); il giudizio positivo di Paolo (Rm 11).<br />

h) Conclusioni<br />

Per tirare delle conclusioni corrette si devono tener presenti due presupposti:<br />

1) Innanzi tutto occorre ricordarsi che l’immagine ottenuta nella nostra “ricostruzione” storica non<br />

può essere utilizzata come normativa nei confronti delle diverse “cristologie” ed “ecclesiologie” ne-<br />

otestamentarie: utilizzare i tratti “storici”, così ricostruiti come criterio per l’originarietà dei diversi<br />

“credo” neotestamentari è procedimento scorretto, perché presuppone che l’immagine del Gesù<br />

“storico” coincida con la realtà del Gesù terreno. Ma la ricostruzione storica, necessaria e pur insuf-<br />

ficiente, ci dà al massimo un’immagine che contiene una “domanda direzionale”: «il compito del<br />

credente è quello di svelare, nella sua indagine storica, la vita di Gesù quale domanda direzionale,<br />

messa storicamente presente in modo tale da invitare al rifiuto o allo scandalo, oppure alla decisione<br />

di affidarsi con fede a questo Gesù» 48 . In questo senso l’immagine di Gesù frutto della ricerca stori-<br />

ca e l’immagine desunta dalla fede dei discepoli conferiscono in linea di principio alla identificazio-<br />

ne di quella “realtà” resasi presente nel Gesù terreno o della storia. Il sapere storico, che permette di<br />

ricostruire una serie di indizi e una immagine che li collega assieme, ci mette a disposizione un in-<br />

dicatore che spinge la nostra attenzione a percepire i contorni di Colui che è il criterio normativo<br />

per la proclamazione ecclesiastica e, inversamente, la stessa confessione di fede si mostra tale pro-<br />

prio in quanto si lascia determinare dalla priorità del Gesù reale: in quanto confessione essa è relati-<br />

48 E. SCHILLEBEECKX, Gesù la storia di un vivente (Brescia: Queriniana, 1976 2 ) 68.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

va alla realtà che riconosce. Per questo ricostruzione storica dell’itinerario della comprensione dei<br />

discepoli e confessione cristiana primitiva concorrono simultaneamente a mostrare la continuità, pur<br />

nella progressione e di là della cesura della morte, tra il Gesù pre- e post-pasquale.<br />

2) Inoltre, bisogna considerare la tensione tra origine e fondamento: ossia, se l’origine della cristo-<br />

logia si trova nell’opera e nella persona del Gesù prepasquale, il fondamento della cristologia poggia<br />

sulla fede pasquale della Chiesa. Infatti, se è fuori discussione che a fondare la fede cristiana ci sia<br />

la Pasqua, altrettanto indiscutibile è ormai il fatto che alla origine della cristologia ci stia la persona<br />

di Gesù di Nazareth, con la sua predicazione, la sua azione e la sua coscienza singolare. Tuttavia<br />

l’attuale enfasi sul momento prepasquale corre il rischio di intendere la ricostruzione storica come<br />

normativa della professione di fede e come tendenzialmente esaustiva della sua figura essenziale.<br />

La risurrezione non è solo la conferma esteriore di un’identità di Gesù, la quale sarebbe già nota<br />

prima di Pasqua: essa infatti è l’evento che per la prima volta e in modo definitivo consente<br />

l’accesso a questa identità. E ciò vale anche per la “sua” chiesa.<br />

Ciò considerato, possiamo affermare che il tema fondamentale sottostante alla nostra ricostruzione è<br />

che Gesù voleva radunare Israele nel popolo escatologico di Dio. Tale sua volontà non concorda so-<br />

lo col messaggio della basiléia, ma è addirittura il suo necessario correlato. Infatti Dio stabilisce la<br />

sua basiléia nella misura in cui essa dà forma a un popolo concreto. L’avvento del regno di Dio e la<br />

nuova creazione escatologica d’Israele sono indissolubili. Come Gesù non ha mai rinunciato a pro-<br />

clamare la basiléia, così non ha mai rinunciato a radunare Israele.<br />

1) Il cristiano dei nostri giorni può restare sorpreso nel vedere che Gesù non si è rivolto direttamente<br />

a lui, figlio dei gentili, ma con gran decisione ha interpellato Israele. E questo Israele, che Gesù pen-<br />

sava di radunare in prospettiva escatologica, nel frattempo ha vissuto una lunga storia al di fuori di<br />

questo movimento di raccolta.<br />

2) Inoltre un altro problema viene dall’attesa ravvicinata, che Gesù probabilmente condivideva. Es-<br />

so può forse essere attenuato sul piano teologico, pensando che a Gesù stesso interessasse non tanto<br />

annunciare la vicinanza cronologica, quanto piuttosto proclamare che con lui aveva inizio l’evento<br />

della signoria di Dio? Ma è poi effettivamente credibile l’annuncio di un evento che addirittura do-<br />

po quasi duemila anni non è ancora giunto al traguardo? Se Gesù condivideva un’attesa a breve<br />

termine, che è stata smentita dai fatti, perché non avrebbe potuto essere vittima di un errore sogget-<br />

tivo anche quando parlava di un’azione salvifica escatologica di Dio già in atto? E la morte di Gesù,<br />

la sua morte in croce, non è la prima dimostrazione che egli non può essere stato il rappresentante<br />

terreno dell’azione escatologica di Dio? Molti suoi contemporanei sono stati di questo parere.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

3) Eppure i discepoli di Gesù si sono attenuti al suo annuncio e dopo la sua morte non hanno tardato<br />

a raccogliersi in comunità; decisione, questa, per la quale si richiamavano alla pasqua e alla loro e-<br />

sperienza del Risorto. In realtà l’annuncio di Gesù resiste e cade con la professione di fede nel Ri-<br />

sorto. È questo che consente di restare fedeli alla validità dell’annuncio di Gesù e di diffonderlo an-<br />

che oltre la sua morte, in quanto si deve vedere l’agire escatologico di Dio, che fa risorgere e ricrea,<br />

nei riguardi di Gesù come conferma e prosecuzione dell’agire escatologico creatore ed elettivo di<br />

Dio in Gesù. La professione di fede pasquale è anche il motivo per cui l’evento della signoria di Dio<br />

proclamato da Gesù non può essere messo in dubbio, con una qualche legittimità teologica, né dalla<br />

delusione provocata dall’attesa ravvicinata né dal lungo periodo trascorso. Un simile dubbio non po-<br />

trebbe trovare giustificazione in quello che, secondo un criterio umano, apparirebbe come evento<br />

palesemente mancato. Proprio la risurrezione del Crocifisso fa respingere come teologicamente ina-<br />

deguata qualsiasi obiezione derivante dall’esperienza umana poiché essa esige e rende possibile<br />

credere che Dio dà la vita ai morti e chiama all’esistenza ciò che non è (Rm 4,17).<br />

In questa fede, del resto, nella risurrezione stessa di Gesù si mostra che l’evento della signoria di<br />

Dio da lui annunciato, è giunto al traguardo. In esso è già attuata la nuova creazione, obbiettivo a<br />

cui tende la signoria di Dio. Ciò che l’avvenire riserva a questo mondo in esso è già realtà. È quindi<br />

logico che il cristianesimo primitivo abbia sviluppato una cristologia e in Gesù abbia visto il Figlio<br />

dell’uomo che deve venire o il Messia in cui trova compimento la speranza d’Israele.<br />

Si comprende anche come ben presto si sia tentato di far emergere nella cristologia l’annuncio della<br />

signoria di Dio. Celebre è rimasta la frase di Marcione secondo cui nel vangelo il regno di Dio altro<br />

non è che Cristo stesso (Tertulliano, Adversus Marcionem 4,33,8). Origene parla di Cristo come<br />

dell’autobasileia (In Matthaeum commentarius 14,7 a Mt 18,23). Questa idea non è sbagliata se do-<br />

po pasqua la fede nella signoria di Dio può essere conservata solo nella fede in Cristo; ma identifi-<br />

care Cristo con la signoria di Dio e la cristologia con l’escatologia non è così semplice. Se anche il<br />

Nuovo Testamento si mostra al riguardo discreto (cfr. 1Cor 15,23-28), è per validi motivi. La cristo-<br />

logia, infatti, dispiega tutto il suo significato soltanto quando viene riferita a un’escatologia teologi-<br />

camente orientata, che vede tutti gli uomini e tutto il mondo raccolti intorno a Cristo, nel quale la<br />

signoria di Dio ha già raggiunto il proprio obbiettivo, affinché — per dirla con Paolo quando in<br />

1Cor 15,28 parafrasa concretamente l’idea della signoria di Dio — Dio sia tutto in tutti.<br />

4) Quando Gesù annuncia la signoria di Dio si rivolge anzitutto a Israele. Anche se i gentili non so-<br />

no esclusi dalla salvezza escatologica, la validità di questo annuncio continua a esser legata a Israe-<br />

le, suo primo destinatario. E quanto alla chiesa cristiana, essa può riferire a se stessa la promessa<br />

salvifica solo a condizione di essere in continuità con quell’Israele al quale Gesù l’ha annunciata.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

L’annuncio di Gesù, poi, aveva in vista tutto Israele, perché la promessa dell’elezione escatologica<br />

di Dio era data a tutto il popolo. Ma Gesù dovette sperimentare che il popolo, per il raduno del qua-<br />

le egli era stato inviato, respingeva in maggioranza il suo annuncio. E quando dopo pasqua<br />

l’annuncio di Gesù si trovò indissolubilmente legato alla professione di fede nel Crocifisso che da<br />

Dio era stato risuscitato e intronizzato come messia, queste esperienze continuarono per la comunità<br />

dei discepoli. Così dalla comunità comprendente tutto Israele si passò a quella costituita da una sola<br />

parte di esso. E se questa intese se stessa come il vero luogo di raccolta della comunità degli eletti,<br />

si trattò di un fatto teologicamente coerente e niente affatto singolare nella storia delle religioni.<br />

Qualcosa di simile era accaduto nel II secolo a.C., quando dal movimento degli asidei, che in prin-<br />

cipio aveva in vista tutto Israele, era sorta una serie di gruppi che consideravano Israele come co-<br />

munità degli eletti, ma in modi assai differenti o in parte pretendendo di essere ciascuno la vera co-<br />

munità degli eletti. L’assioma di Paolo secondo cui «non tutti quelli che provengono da Israele sono<br />

israeliti» (Rm 9,6b) non è affatto un adagio cristiano antigiudaico, ma solo l’adattamento cristiano di<br />

un teologumeno che in realtà aveva scosso il giudaismo già molto tempo prima di Paolo. Nel cri-<br />

stianesimo primitivo, d’altra parte, l’idea della vera comunità degli eletti non porta alla separazione<br />

esoterica come potrebbe essere quella di Qumran. La «comunità di Dio» (ekklesía tou Theou) esca-<br />

tologica, che a Gerusalemme si raccolse intorno ai Dodici, si adoperò anche — nello spirito del-<br />

l’annuncio di Gesù — al raduno dell’intero Israele.<br />

5) Una novità rispetto al primo giudaismo è costituita dall’avvio, nella comunità dei discepoli, della<br />

predicazione ai gentili, i cui pionieri — nella teologia e nei fatti — furono probabilmente gli «elle-<br />

nisti» raccolti intorno a Stefano (cfr. Atti 6). Furono questi i primi a riconoscere che la morte di Ge-<br />

sù, in quanto evento espiatorio escatologico, comportava la fine del culto nel tempio, di modo che<br />

anche le leggi rituali, difficili da accettare per i gentili (timorati di Dio), dovevano perdere valore.<br />

Di fatto sembra che gli «ellenisti» furono anche i primi a varcare i confini d’Israele (cfr. Atti 8,4-8;<br />

11,20s.). La loro teologia e prassi furono pure la base da cui Paolo partì per costruire, sul piano teo-<br />

logico, la dottrina della giustificazione del credente e, su quello pratico, la sua concezione della mis-<br />

sione ai gentili. Ciò nonostante non è da dimenticare che Paolo non rinunciò all’idea, fondamentale<br />

in Gesù, dell’elezione escatologica d’Israele. Il suo zelo nel promuovere la colletta per i «poveri» di<br />

Gerusalemme (Gal 2,10) non pare proprio nato da un compromesso con l’idea che a Gerusalemme<br />

andasse riconosciuto un diritto giuridico. È assai più probabile che in quella decisione — forse ri-<br />

chiamandosi alla tradizione del Trito-Isaia (cfr. Is 60,5-17; 61,6; 66,12) — Paolo abbia ravvisato<br />

l’inizio del pellegrinaggio escatologico dei popoli a Sion. In Rm 11 egli è persino guidato dalla vi-<br />

sione profetica della salvezza dei gentili, che — questa volta capovolgendo il motivo del pellegri-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

naggio dei popoli — muove Israele a gelosia (vv. 11.14), e dell’ingresso di tutti i gentili che avrebbe<br />

portato a salvezza l’intero Israele (vv. 25s.).<br />

Questa visione di Paolo non si è adempiuta. Ma per quanto attiene alla teologia l’idea non può esse-<br />

re trascurata da qualsiasi <strong>ecclesiologia</strong> che voglia salvaguardare la validità dell’annuncio di Gesù.<br />

Questo diverrebbe problematico, se l’elezione di Dio che esso proclama per Israele risultasse ineffi-<br />

cace proprio nei riguardi d’Israele. Per questo Paolo attribuisce tanta importanza al «resto» d’Israele<br />

che non si è chiuso al vangelo (Rm 11,5-7). Egli presenta la continuità con l’immagine della radice<br />

nella quale sono stati innestati anche i rami selvatici dell’ulivo pagano (Rm 11,16-18).<br />

6) La chiesa cristiana può pensarsi come popolo di Dio soltanto in continuità con quell’Israele che<br />

si è aperto all’elezione proclamata da Gesù. Da tale continuità essa sempre dipende. Ma dipende<br />

anche dall’altro Israele, da quella realtà etnica che storicamente sta in continuità con coloro che<br />

all’annuncio di Gesù e al vangelo hanno opposto un rifiuto. Perché l’elezione escatologica di Dio,<br />

alla quale anche la chiesa si richiama, può ridursi solo alla creazione di un resto d’Israele a cui spet-<br />

terebbe la funzione, storicamente limitata, di gettare un ponte per assicurare la continuità con la<br />

chiesa cristiana, costituita quasi tutta da gentili, mentre lo lascerebbe invece perdere in quanto popo-<br />

lo? La chiesa, dunque, non può perdere di vista neppure il popolo d’Israele, poiché la sua perfezione<br />

è legata alla speranza che i rami staccati vengano reinnestati sull’ulivo (Rm 11,24), la cui radice por-<br />

ta anche i rami della chiesa costituita dai gentili (Rm 11,18). La validità dell’annuncio di Gesù per-<br />

dura solo nella continuità con Israele, al quale egli ha predicato l’annuncio della signoria di Dio, e<br />

nella speranza della redenzione finale dell’Israele che ha respinto questo annuncio (cfr. Rm 11,25-<br />

27). La chiesa continua dunque a essere rimandata a Israele sia sul piano della storia della salvezza<br />

sia escatologicamente. Ma, posta questa condizione, la chiesa può e deve concepirsi anche come de-<br />

stinataria e al tempo stesso dispensatrice dell’annuncio di Gesù.<br />

7) Alla luce di questa premessa cristologica ed ecclesiologica, oggi ancora si può credere che<br />

l’evento della signoria di Dio proclamato da Gesù non ha abbandonato il mondo al proprio destino,<br />

ma — specie nella predicazione del vangelo — dispiega la sua efficacia divina (cfr. Rm 1,16s.) in<br />

un’opera creatrice che giustifica gli empi (cfr. Rm 4,5). Così la chiesa si presenta come il luogo in<br />

cui il popolo escatologico di Dio si raduna in attesa della liberazione del mondo (cfr. Rm 8,21). E<br />

nella misura in cui, proseguendo il compito affidato da Gesù ai discepoli (Lc 10,9 par.), con la paro-<br />

la e le opere annuncia questo evento di liberazione, la chiesa — analogamente a Gesù — può con-<br />

cepirsi come rappresentante e ministro della signoria di Dio. D’altra parte un’identificazione pura e<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

semplice della signoria di Dio con la chiesa deve essere esclusa. La chiesa infatti nella preghiera ne<br />

invoca la venuta come opera che solo Dio può instaurare (Mt 6,10).<br />

La chiesa rappresenta la signoria di Dio e deve concepirsi come tale se vuole essere all’altezza<br />

dell’incarico a lei affidato da Gesù, ma sempre e soltanto per incarico di Gesù e in analogia alla sua<br />

rappresentanza, salva restando la riserva escatologica. La chiesa e il singolo cristiano non possono<br />

mai avere la sicurezza di Gesù (cfr. Lc 11,20 par.; 9,49-50) nel qualificare un loro singolo atto come<br />

evento della signoria di Dio; piuttosto, possono avere la fiduciosa consapevolezza che l’evento di<br />

più ampia portata e preparato da Dio accade nel loro operare. In quale misura ciò che la chiesa e i<br />

cristiani fanno del tutto da sé sia realmente un evento in cui accade la signoria di Dio, sarà rivelato<br />

dal «giorno del Signore» (cfr. 1Cor. 3,13; 4,4). Se dunque da una parte non si può presumere che<br />

l’agire umano sia per se stesso l’evento della signoria di Dio, d’altra parte la riserva escatologica,<br />

che necessariamente accompagna questo agire, non deve indurre all’inattività, con il pretesto che in<br />

essa è all’opera Dio. Qui non è in questione se l’inattività umana possa mettere in forse l’avvento<br />

della signoria di Dio. Ma una chiesa che prega per la venuta della signoria di Dio ed è convinta che<br />

la signoria di Dio è un evento già presente, e si limitasse poi a predicare solo a parole, senza far nul-<br />

la e lasciando il mondo e l’uomo nella loro concreta miseria, si sarebbe già allontanata dalla propria<br />

fede. Se Gesù ha collegato l’incarico di predicare la signoria di Dio a quello di curare i malati (Lc<br />

10,9 par.), non lo ha fatto a caso; anche per la chiesa dei nostri giorni questo è essenziale, benché<br />

oggi essa non disponga più, comunemente, del potere di salvare per via carismatica e debba attende-<br />

re al suo compito di guarire in modi molto più semplici.<br />

Circa l’agire è ancora da ricordare un altro aspetto. In Gesù l’annuncio della signoria di Dio si situa-<br />

va nella sua prassi di misericordia, nella quale era possibile sperimentare l’elezione escatologica di<br />

Dio. La prassi di misericordia di Gesù è addirittura il luogo in cui il suo annuncio della signoria di<br />

Dio si fa concreto e grazie al quale i suoi precetti si mostrano nella loro portata e fattibilità.<br />

Quindi la chiesa, se non vuole sconfessarne l’annuncio, deve essere anch’essa luogo della miseri-<br />

cordia. E in realtà essa può esserlo, dal momento che di null’altro vive se non del perdono di Dio<br />

che l’ha eletta. Solo partendo dall’esperienza di questo spazio di misericordia è possibile attuare<br />

l’ethos escatologico di Gesù e proporlo al mondo come modello di condotta. Nonostante la speran-<br />

za, fondata sull’incarico ricevuto da Gesù, che l’evento della signoria di Dio accade nella sua predi-<br />

cazione e azione, la chiesa deve essere convinta di dover sempre pregare — anche per se stessa —<br />

con le parole: «Venga a noi la tua signoria regale!» e «Perdona a noi i nostri debiti...» (Lc 11,2.4).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

1.3. La riflessione sulla realtà della Chiesa nelle comunità ecclesiali post-pasquali<br />

Nello sviluppo successivo dell’<strong>ecclesiologia</strong> neotestamentaria si deve riconoscere anzitutto la plura-<br />

lità di realizzazioni ecclesiali e la diversità di accentuazioni nella comprensione della chiesa. Sono<br />

soprattutto due le questioni che approfondiremo, stabilendo un confronto tra le risposte che le diver-<br />

se tradizioni neotestamentarie danno in proposito:<br />

1. gli inizi post-pasquali della comprensione della Chiesa fra coscienza di continuità ed esperienza<br />

di novità (ossia come il discepolato di Gesù prepasquale diviene la Chiesa del Signore risorto);<br />

2. il passaggio dall’epoca apostolica a quella successiva (testimoniato dallo stesso NT), quando nel-<br />

la chiesa viene meno l’immediatezza della testimonianza apostolica e si comincia a porre il proble-<br />

ma della continuità come condizione che garantisce la fedeltà della chiesa alla propria identità. In<br />

questo contesto si precisano concetti importanti come quello di “tradizione” del messaggio apostoli-<br />

co e prendono forma le strutture ecclesiali (i ministeri) a servizio della tradizione (cfr. le lettere pa-<br />

storali, le lettere di Giovanni, l’opera lucana). Questo aspetto dell’<strong>ecclesiologia</strong> neotestamentaria è<br />

importante anzitutto perché è l’anello di congiunzione con l’evoluzione successiva della storia della<br />

chiesa, ma anche perché mostra la problematicità di certe attualizzazioni che pretendono di trasporre<br />

immediatamente dati neotestamentari (ad es. la comunità carismatica di Corinto) nel presente.<br />

1.3.1. Tra coscienza di continuità ed esperienza di novità.<br />

Inizi post-pasquali della comprensione della Chiesa<br />

a) Tentativo di individuare la direzione<br />

1. Il presupposto fondamentale che ci guida in questo breve percorso alla ricerca del sorgere e svi-<br />

lupparsi della Chiesa dopo Pasqua è costituito dal riconoscimento franco della reale connessione fra<br />

cristologia ed <strong>ecclesiologia</strong>. Come le apparizioni del risorto furono la condizione di possibilità del<br />

sorgere della fede in Gesù Signore, facendo sì che la Pasqua fosse il punto di partenza di una cristo-<br />

logia esplicita, così il fatto che degli uomini credano in Gesù di Nazaret come al Signore che Dio ha<br />

costituito e si trovino assieme nella confessione che dà espressione comune a chi Gesù è per loro, è<br />

la condizione di possibilità perché si dia una Chiesa. Per questo la fede in Cristo e la confessione di<br />

Cristo, che hanno la loro sorgente nella Pasqua, appartengono ai presupposti della Chiesa.<br />

2. Rileviamo inoltre che i primi testimoni non parlano in nessun luogo di una fondazione o di un i-<br />

nizio della Chiesa, mentre al contrario essi fissano in modo preciso il momento temporale del sorge-<br />

re della fede in Gesù: con le prime apparizioni di risurrezione a Simon Pietro e ai dodici (1Cor 15,5;<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

cfr. Lc 24,34), che verosimilmente ebbero luogo già due giorni dopo il venerdì santo, il primo gior-<br />

no della settimana successivo alla pasqua di morte (Gv 20,19). Non solo; notiamo che il sorgere del-<br />

la Chiesa non è mai collegato con queste apparizioni — cosa sorprendente, anche i testimoni neote-<br />

stamentari non ne parlano. Questo vale anche per il racconto lucano della Pentecoste (At 2), che a<br />

dire il vero spesso è considerato come racconto di fondazione, ma a un’osservazione più precisa sul<br />

merito è piuttosto ambivalente: per Atti questa non è l’ora in cui nasce la Chiesa — almeno nel sen-<br />

so che in questo momento per la prima volta verrebbe alla luce la comunità di Gesù Cristo; essa in-<br />

fatti esiste già: At 1,15 — bensì l’ora in cui viene dotata di quella «forza dall’alto» (Lc 24,49; At<br />

1,8), che sola la rende adeguata alla sua missione, alla sua azione salvifica nel mondo e le dona il<br />

mistero della sua esistenza escatologica. Questo silenzio sull’inizio della Chiesa difficilmente è solo<br />

casuale. Piuttosto può essere un indizio del fatto che lo sviluppo della comprensione della Chiesa<br />

era subordinato non solo obiettivamente, ma anche temporalmente allo sviluppo della cristologia.<br />

Per quanto concerne la cristologia, dobbiamo osservare che i suoi dati fondamentali si sono svilup-<br />

pati in maniera sorprendentemente rapida. La fase decisiva dura dai tre ai cinque anni; quelli che se-<br />

parano la morte di Gesù e la sua risurrezione dalla chiamata di Paolo. Martin Hengel ha giustamente<br />

parlato di un «impulso creativo incomparabilmente dinamico», che «si espresse nella riflessione cri-<br />

stologica», ed egli indica come motivo essenziale la presenza di inizi di una cristologia esplicita già<br />

nella predicazione di Gesù, inizi che sollecitarono uno sviluppo.<br />

Anche per l’<strong>ecclesiologia</strong> non mancano degli spunti nell’agire e nella predicazione di Gesù. Se però<br />

qui lo sviluppo si svolse diversamente, si deve al fatto che al suo inizio non stava l’esperienza di<br />

una svolta totale, ma piuttosto lo sforzo di mantenere una continuità. Le apparizioni pasquali comu-<br />

nicarono ai testimoni la certezza che oramai il grande cambiamento dei tempi era iniziato e che il<br />

nuovo mondo di Dio aveva fatto la sua irruzione. La riflessione cristologica fu il tentativo di com-<br />

prendere concettualmente questa situazione nuova determinata dalla intronizzazione di Gesù alla<br />

destra di Dio, in modo che gli inizi presenti nella sua predicazione fossero adeguati a sostenere la<br />

direzione del cammino. La comprensione della Chiesa del tempo iniziale quindi non fu in alcun<br />

modo innovativa. Il gruppo dei seguaci di Gesù si comprese in un primo tempo non come una nuova<br />

comunità fondata attraverso l’evento pasquale. Ciò che la riunì fu piuttosto l’incarico di continuare<br />

la raccolta prepasquale finale di Israele che Gesù aveva iniziato — questo certamente in una situa-<br />

zione nuova, creatasi per il fatto che l’agire di Dio aveva manifestato che Gesù era il Signore messi-<br />

anico di Israele. A questa continuità del compito segue anche la continuità della struttura della co-<br />

munione prepasquale di vita e di servizio con Gesù. La prima forma post-pasquale della Chiesa è in<br />

larga misura determinata da questa duplice continuità.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

3. Che e fino a che punto la novità dell’evento pasquale abbia fatto di questa comunità qualcosa di<br />

nuovo, divenne chiaro ai suoi stessi membri solo poco alla volta. Pasqua non è la data di fondazione<br />

della Chiesa, piuttosto la possibilità di scoprire la Chiesa. Questa scoperta si attuò in un processo<br />

progressivo di chiarificazione e di riflessione, che, iniziato a Pasqua, continua durante l’intero arco<br />

di tempo documentato nel Nuovo Testamento e giunge a compimento solo nella terza generazione<br />

cristiana, cioè fra l’80 e il 110. Per accelerarlo si ebbe bisogno di una serie di impulsi di diverso ge-<br />

nere, provocati da fattori sia esterni sia interni. Processi e sviluppi nell’ambiente della comunità ri-<br />

chiesero che si affrontasse e risolvesse tra l’altro il fatto decisivo che i Giudei nella stragrande mag-<br />

gioranza rifiutarono di raccogliersi attorno a Gesù come al Signore messianico di Israele. In seguito<br />

fu la missione indirizzata alla società ellenistica non formata ai valori giudaici, che suscitò diversi<br />

problemi ecclesiologici. Da ciò derivarono conflitti intercomunitari come pure la necessità di svi-<br />

luppare forme di vita comune per credenti provenienti da cerchie tradizionali differenziate.<br />

Paolo — sulla base della propria esperienza di apostolo dei gentili e di fondatore di comunità — fu<br />

il primo a riconoscere pienamente il peso teologico del tema “Chiesa” e a sviluppare indicazioni<br />

normative. Tutte le lettere paoline che ci sono pervenute derivano sicuramente dall’ultima fase<br />

dell’attività dell’Apostolo, quindi dal tempo della sua separazione dalla comunità di Antiochia (ca.<br />

49) fino alla sua morte. Eppure anche in esse non troviamo documentata una comprensione della<br />

Chiesa completamente rifinita; piuttosto una comprensione che è in processo dinamico di sviluppo.<br />

4. Da queste osservazioni risulta il nostro percorso. Intendiamo raccogliere quegli inizi e primi ele-<br />

menti della comprensione della Chiesa che si possono rintracciare nel tempo iniziale della fede in<br />

Cristo — quindi entro i due decenni che separano la risurrezione di Gesù dalle lettere paoline.<br />

b) La situazione di partenza: i «dodici» a Gerusalemme<br />

Nella nebbia della tradizione si delineano i contorni di due avvenimenti, che possono essere indicati<br />

a ragione come fattori scatenanti per la formazione della comunità primitiva: la ricostituzione del<br />

gruppo dei dodici e il suo ritorno a Gerusalemme.<br />

1. Dopo la catastrofe del venerdì santo i discepoli avevano abbandonato in fretta e furia Gerusa-<br />

lemme, per ritornare in Galilea, loro regione di origine 49 . Lì si verificarono, presumibilmente solo<br />

pochi giorni più tardi, le prime apparizioni del risorto. L’antica formula di fede di 1Cor 15,5 precisa<br />

anche il nome dei destinatari: «egli apparve a Cefa, poi ai dodici». È chiaro che queste apparizioni<br />

49 Cfr. G. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa?, op. cit., 237ss.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

non furono esperienze individuali di carattere estatico, che servivano ad accertare che Gesù era vivo<br />

presso Dio. Piuttosto in quel Gesù risorto apparve a loro il Signore messianico definitivo di Israele,<br />

costituito in questa condizione da Dio stesso. Se teniamo conto di questo fatto si chiarisce perché<br />

ritroviamo non solo in 1Cor 15,5, ma pure negli antichi resoconti di apparizione dei vangeli (Mt<br />

28,16-20; Lc 24,36-49; Gv 20,19-23), che trattano dell’apparizione del risorto al gruppo dei dodici,<br />

il motivo dell’invio e dell’incarico. Questo tema appartiene ai motivi centrali che qualificano la tra-<br />

dizione pasquale. Il contenuto dell’incarico è la proclamazione pubblica della potenza del risorto.<br />

Ne consegue però anche il peso particolare dato al fatto di nominare Pietro e i dodici come i primi<br />

testimoni. In questione è qui il rinnovamento dell’incarico specifico che i dodici avevano ricevuto<br />

già prima di Pasqua e che stava in relazione con la rappresentazione simbolica del popolo di Israele:<br />

essi devono diventare il punto di cristallizzazione di un Israele rinnovato, segno augurale della isti-<br />

tuzione di Gesù come Signore del tempo finale sul popolo di Dio. Con la ricostituzione dei dodici<br />

viene posto un segno del nuovo inizio di Dio con Israele. Si capisce allora anche il senso della tradi-<br />

zione, nel suo nucleo senza dubbio antica, del completamento del gruppo dei dodici con la scelta di<br />

Mattia (At 1,15-26). Se il gruppo doveva conservare il suo significato di simbolo del popolo di Dio<br />

nella sua totalità, era necessario completarlo, dopo che Giuda il traditore era venuto meno.<br />

2. Già Gesù era salito a Gerusalemme, per raggiungere da quel luogo simbolico tutto Israele e per<br />

chiamarlo alla scelta decisiva. La stessa cosa si ripeteva ora in coincidenza con gli avvenimenti di<br />

Pasqua. Se i dodici volevano che la loro missione abbracciasse tutto Israele, dovevano esercitarla in<br />

Gerusalemme, il centro e il punto di raccolta del popolo di Dio. Ecco perché essi ritornarono a Ge-<br />

rusalemme, presumibilmente accompagnati da una grossa schiera di discepoli di Gesù, alla succes-<br />

siva festa di pellegrinaggio, la Pentecoste che si celebrava cinquanta giorni dopo la Pasqua.<br />

Con la ricostituzione pasquale del gruppo dei dodici si dà nello stesso tempo il loro orientamento a<br />

Gerusalemme. Alla luce di questo fatto si chiarisce un po’ la tendenza della tradizione a spostare in<br />

Gerusalemme le stesse prime apparizioni pasquali (Lc 24,36-49; At 1,3-11; Gv 20,19-23), le quali<br />

storicamente ebbero luogo probabilmente in Galilea. Possiamo dire allora che a ragione Luca negli<br />

Atti ha considerato Gerusalemme come il solo luogo nel quale la prima comunità dei seguaci di Ge-<br />

sù aveva fatto la sua comparsa pubblica. È probabile che anche in città e villaggi della Galilea ci<br />

fossero gruppi di seguaci di Gesù che osservavano la dottrina del maestro di Nazaret e che fedel-<br />

mente la tramandavano, vedendo in lui il Signore che Dio aveva confermato attraverso l’evento del-<br />

la risurrezione. Ma questi gruppi non influenzarono quanto avvenne in Gerusalemme sotto gli occhi<br />

di tutto Israele grazie al gruppo dei dodici; Luca vi poté giustamente soprassedere nella sua seconda<br />

opera, che ha come tema la diffusione missionaria del vangelo.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

c) Pentecoste e la discesa dello Spirito santo<br />

Con la ricostituzione del gruppo dei dodici e il ritorno a Gerusalemme si collega un altro evento:<br />

l’esperienza della discesa dello Spirito di Dio. È vero che, considerando le condizioni della fonte,<br />

non possiamo tentare una ricostruzione storica degli avvenimenti di Pentecoste, tuttavia dietro i ri-<br />

tocchi del racconto lucano (At 2) sono ancora sufficientemente riconoscibili alcuni tratti precisi.<br />

1. Importante è anzitutto il contesto biblico. Nell’Antico Testamento, soprattutto negli scritti profe-<br />

tici recenti, l’attesa del rinnovamento definitivo di Israele è strettamente connessa con l’effusione<br />

dello Spirito di Dio. Ad es. in Ezechiele troviamo l’importante visione dello Spirito di Dio, che<br />

scende su una pianura piena di ossa aride — immagine drastica dell’Israele morto — e suscita nuo-<br />

va vita (Ez 37). Il tema di questa visione è il futuro ristabilimento del popolo di Dio. Ora in conse-<br />

guenza della discesa dello Spirito questo ristabilimento non sarà solo qualcosa di momentaneo e<br />

transitorio; al contrario ad esso viene assicurata una effettiva stabilità: «Allora non nasconderò più a<br />

loro il mio volto, perché diffonderò il mio spirito sulla casa di Israele» (Ez 39,29). In Is 59,21 Alle-<br />

anza e Spirito sono implicati in una relazione reciproca e immediata: «Quanto a me, ecco la mia al-<br />

leanza con essi, dice il Signore: il mio spirito che è sopra di te e le parole che ti ho messo in bocca<br />

non si allontaneranno dalla tua bocca né dalla bocca della tua discendenza né dalla bocca dei di-<br />

scendenti dei discendenti, dice il Signore, ora e sempre». In questo passo è in questione proprio<br />

l’istituzione dell’alleanza permanente e definitiva di Dio con il suo popolo. In tutte queste espres-<br />

sioni riconosciamo la comprensione fondamentale e anticotestamentaria dello Spirito (ruah) di Dio<br />

come del soffio che concede e conserva la vita e il respiro con una sottolineatura storico-salvifica: lo<br />

Spirito di Dio è quella forza creatrice di storia, in virtù di cui Dio è attivo in Israele. E precisamente<br />

è primariamente il popolo nella sua totalità che fa l’esperienza dell’efficacia di questo spirito. Tut-<br />

tavia gli effetti di questo spirito riguardano anche singole persone in Israele, e ciò secondo una du-<br />

plice modalità. Da un parte ci si attende dallo Spirito il rinnovamento morale del singolo, come dice<br />

Ez 36,26, dove analogamente a Is 59,21, Spirito e Alleanza sono immediatamente ordinati l’uno<br />

all’altro: «Io darò loro un cuore nuovo e metterò dentro di loro uno spirito nuovo; toglierò da loro il<br />

cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo<br />

i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi». Dall’altra parte il libro di Gioele<br />

annuncia che l’effusione dello Spirito susciterà nei singoli membri del popolo fenomeni profetico-<br />

estatici: «Dopo questo io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli<br />

e le vostre figlie, i vostri anziani faranno sogni e i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli<br />

schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito» (Gl 3,1s), compiendo così il deside-<br />

rio espresso da Mosè nel tempo fondatore del popolo: «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

volesse il Signore dare loro il suo spirito!» (Nm 11,20; cfr. in tal senso Luca intende probabilmente<br />

anche il logion gesuano della bestemmia contro lo Spirito santo: Lc 12,10).<br />

2. Su questo sfondo possiamo cogliere il significato dell’esperienza della effusione dello Spirito per<br />

i seguaci di Gesù: esso divenne il principio interpretativo della ricostituzione della cerchia dei dodi-<br />

ci. La rinnovata trasmissione dell’incarico di raccogliere Israele ottenne la propria interpretazione di<br />

senso attraverso la ricezione dello Spirito, poiché questo era la prova del fatto che Dio stesso oramai<br />

aveva iniziato il rinnovamento finale del suo popolo.<br />

Particolare attenzione merita in tale connessione la circostanza che secondo Atti 2,33 (cfr. Lc 24,49)<br />

è il Cristo risorto a effondere lo Spirito: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto<br />

dal Padre lo Spirito santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udi-<br />

re». In questo caso difficilmente si tratta di una costruzione lucana, perché il legame tra la risurre-<br />

zione e elevazione di Gesù e l’invio dello Spirito si rileva anche in alcuni testi neotestamentari di<br />

provenienza diversa. Si veda ad es. il racconto di apparizione di Gv 20,22s, in cui il risorto non solo<br />

raccoglie e incarica i discepoli, ma dona anche lo Spirito «alitando su di loro», cioè attraverso un di-<br />

retto trasferimento del respiro di vita di Dio; si veda inoltre Ef 4,7-12, come pure, almeno come te-<br />

stimonianza indiretta, 2Cor 3,17, dove Cristo e lo Spirito sono posti quasi in unità.<br />

Ulteriore elemento comune a questi testi è che essi, diversamente dalla maggior parte degli asserti<br />

successivi sullo Spirito, intendono lo Spirito non come dono individuale per i singoli cristiani, ma<br />

piuttosto per i discepoli nella loro totalità, cioè per la Chiesa. Perciò si potrebbe riconoscere alla lo-<br />

ro base una tradizione molto antica, che intende lo Spirito come effetto dell’avvenimento pasquale<br />

per la comunità dei discepoli e inoltre per l’intero popolo di Dio. Questa tradizione richiama di nuo-<br />

vo un’esperienza storica particolare del gruppo dei dodici; poiché non può essere tratta né dall’AT<br />

né dalle rappresentazioni giudaiche contemporanee dello Spirito. Secondo queste infatti il Messia è<br />

il “portatore” dello Spirito (Is 11,1s), ma mai colui che lo amministra.<br />

3. Ci si addentrerà solo brevemente nella questione del reperto storico che è ricavabile dal racconto<br />

lucano di Pentecoste (At 2). Luca invero dà a questo resoconto un grosso peso nello spazio della se-<br />

conda parte della sua opera storica, non solo per il modo in cui lo espone, ma soprattutto per i nu-<br />

merosi richiami (At 10,47; 11,15-17; 15,8) con cui contrassegna la Pentecoste come l’«inizio» del-<br />

l’azione apostolica. Egli tuttavia rende piuttosto complicato il tentativo di risalire al fatto che sta<br />

dietro. Già solo l’esposizione che libera molteplici associazioni su piani diversi, ci fa capire che At<br />

2,1-13 non è da intendersi come una riproduzione di un evento storico unico. Concepito letteraria-<br />

mente è per es. il triplice uso della parola «lingue», che dipende dalla duplicità di significato del<br />

termine (in greco glòssa può significare anche “linguaggio). Così lo Spirito appare in forma di «lin-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

gue di fuoco» (At 2,3), conduce a un parlare e udire in «lingue» differenti (At 2,5-11) e finalmente in<br />

At 2,12, il parlare è in connessione con la citazione di Gioele 3,1-5 sul “parlare in lingue” inarticola-<br />

to ed estatico, cioè sulla glossolalia. Persino la forma del miracolo delle lingue in sé è poco chiara.<br />

Basandosi su At 2,4 si potrebbe supporre che lo Spirito ha dato agli Apostoli la capacità di parlare<br />

nelle diverse lingue straniere; At 2,8 suggerisce però che fu piuttosto un miracolo di “ascolto”: cia-<br />

scuno era in grado di ascoltare gli apostoli parlare nella propria lingua. Qualcuno ha avanzato<br />

l’ipotesi che questa descrizione del miracolo di linguaggio o di ascolto, in collegamento con la tavo-<br />

la dei popoli (At 2,9-11), si riferisca all’esperienza di una primitiva fase della missione tra non giu-<br />

dei, interpretata in maniera teologica come effetto dello Spirito santo. Tale missione non venne e-<br />

sercitata dalla comunità primitiva in Gerusalemme, ma piuttosto dalla comunità di Antiochia. Luca<br />

avrebbe ricevuto il dato fondamentale della storia di Pentecoste dalla tradizione della comunità di<br />

Antiochia, dove costituiva il fondamento della missione tra i pagani. Le indicazioni di una glossola-<br />

lia estatica (At 2,12s), al contrario, potrebbero derivare da una interpretazione lucana.<br />

4. Che cosa si può dire sullo svolgimento dei fatti nel giorno di Pentecoste/festa della settimane?<br />

4.1. L’osservazione della stretta connessione tra risurrezione di Gesù e invio dello Spirito nella tra-<br />

dizione potrebbe avallare la supposizione che in quel giorno sarebbe avvenuta un’apparizione del<br />

risorto messa particolarmente in rilievo grazie ai suoi effetti. Di fatto si è cercato molte volte di i-<br />

dentificare l’evento di Pentecoste con l’apparizione «davanti a 500 fratelli» (1Cor 15,6) menzionata<br />

da Paolo. Questo è però inverosimile, poiché non solo At 2,1-13 è privo di qualsiasi accenno a<br />

un’apparizione del Risorto, ma inoltre le tradizioni più antiche separano in genere le apparizioni del<br />

risorto dalla ricezione dello Spirito: anche se queste erano ristrette a una cerchia ristretta di testimo-<br />

ni (1Cor 9,1; 15,8), per principio da nessuna Cristo era escluso (Gal 3,2ss; 1Cor 12-14).<br />

4.2. Spesso si suggerisce di collegare l’evento storico di Pentecoste con la festa delle Settimane, nel-<br />

la comprensione che ne avevano i giudei del tempo. Originariamente Pentecoste era una festa del<br />

raccolto, che iniziava sette settimane dall’inizio della mietitura (Dt 16,9s). Da questa datazione era<br />

derivato anche il nome «festa delle settimane» (hag shavuot). Il contenuto della festa era la presen-<br />

tazione solenne del raccolto nel santuario di Gerusalemme. Presto circoli sacerdotali collegarono il<br />

termine alla festa di Pasqua, secondo la testimonianza di Lv 23,15s: «dal giorno dopo il sabato [di<br />

Pasqua]… conterete sette settimane complete. Conterete cinquanta giorni fino all’indomani del set-<br />

timo sabato». Più tardi questo legame si rafforzò con un riferimento formale anche mediante il cal-<br />

colo farisaico delle date al sabato dopo il giorno di Pasqua. Perciò la festa delle settimane aveva<br />

luogo regolarmente il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, e di conseguenza nello stesso giorno<br />

della settimana, quale conclusione del tempo di Pasqua che si estendeva per cinquanta giorni. La<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

traduzione greca nel giudaismo ellenistico Pentekosté (il cinquantesimo [giorno dopo la Pasqua];<br />

Tob 2,1; 2Macc 12,32) rispecchia questo stato di cose.<br />

Durante il II secolo a.C., poi, questo sviluppo fece sì che alla festa della settimane si aggiunsero<br />

nuovi riferimenti teologici, che si sovrapposero all’originario carattere di festa del raccolto. Di fron-<br />

te alla minaccia che l’ellenismo portava all’identità del popolo giudaico, durante l’età maccabaica si<br />

cercò di salvaguardare le tradizioni dei padri ancorando più di quanto si era fatto fino ad allora gli<br />

eventi storico-salvifici significativi del tempo primitivo alle feste. Così il libro dei Giubilei — com-<br />

posto tra il 145 e 140 a. C. in uno dei gruppi sacerdotali di riforma sorto da poco del movimento a-<br />

sideo, che influì considerevolmente sul modo di pensare della comunità settaria di Qumran, di poco<br />

posteriore — interpreta la festa delle settimane come giorno di commemorazione delle passate sti-<br />

pulazioni dell’alleanza di Dio con Israele, e rispettivamente dell’alleanza con Noè (Jub. 6,15-18),<br />

del patto con Abramo (Jub. 6,19s; 14,10-20), come pure del patto di Mosè sul Sinai (Jub. 6,11), cer-<br />

tamente senza sopprimere del tutto la connessione con l’antica festa agraria. Si stabilì poi anche un<br />

dispositivo formale a favore di questa nuova interpretazione: il vecchio nome hag shavuot (= festa<br />

delle settimane) con una mutazione della vocalizzazione venne letto anche hag sh e vuot (= festa dei<br />

giuramenti). Fu possibile così riferirsi a quei giuramenti con cui Israele nel passato si era sottoposto<br />

all’istituzione del patto di Dio. La comunità di Qumran celebrava una festa annuale del rinnovamen-<br />

to del patto (1QS 1,8-2,18) che è una variante specifica della festa delle settimane israelitica. Questo<br />

sviluppo sfociò alla fine in una completa concentrazione della festa su quella conclusione del patto<br />

che, tra quelle accennate per la coscienza di identità e autocomprensione di Israele, aveva acquisito<br />

dopo la distruzione del tempio un significato decisivo, il patto di Mosè sul Sinai, al cui centro si<br />

trovava la Torà. Per questo dal secondo secolo d.C. la festa di Pentecoste veniva celebrata come<br />

giorno di commemorazione del dono della Legge sul Sinai e il racconto biblico connesso, Es 19, di-<br />

venne la pericope della festa.<br />

Questo stadio finale dello sviluppo non era ancora stato raggiunto nell’anno della morte di Gesù (30<br />

d.C.), ma abbiamo buoni motivi per supporre che i discepoli di Gesù appartenevano alla cerchia in<br />

cui si era imposta l’interpretazione storico-salvifica della festa di Pentecoste come rinnovamento<br />

dell’impegno del Patto di Israele. Se teniamo conto di questo fatto, diventa plausibile il loro corteo<br />

verso Gerusalemme a Pentecoste. In verità al tempo di Gesù l’osservanza del precetto del pellegri-<br />

naggio a Pentecoste era piuttosto trascurata dalla vasta massa del popolo. Tuttavia non mancavano<br />

persone, appartenenti a quei gruppi del popolo che condividevano questa interpretazione storico-<br />

salvifica, che facevano un pellegrinaggio a Gerusalemme. È possibile che i discepoli di Gesù, rico-<br />

stituiti come gruppo dei dodici dall’iniziativa del risorto, si rivolsero a costoro con l’intento di rac-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

coglierli come popolo di Dio del tempo finale. È probabile allora che questa offerta fosse compresa<br />

come compimento della speranza nel rinnovamento finale del patto di Dio col suo popolo.<br />

4.3. Così il gruppo dei dodici durante la festa di Pentecoste venne a Gerusalemme per predicare per<br />

la prima volta davanti a un vasto pubblico giudaico che Dio aveva risuscitato Gesù e lo aveva costi-<br />

tuito Signore definitivo del popolo di Dio. In quella occasione i suoi discepoli inoltre fecero<br />

l’esperienza della presenza dello Spirito di Dio, atteso per il tempo finale. È verosimile, anche se<br />

non del tutto sicuro, che si sia trattato di un’esperienza estatica particolare — almeno se ci riferiamo<br />

al significato che Gl 3,1-5 ha acquisito in At 2,17-21. Il fatto che si era riusciti a guadagnare alla fe-<br />

de in Gesù un numero considerevole di uomini provenienti da Israele aggregandoli al gruppo dei<br />

dodici, probabilmente fece sorgere anche la coscienza del compimento della promessa dello Spirito.<br />

Così i discepoli non solo ritennero che era ormai divenuta realtà lo sperato rinnovamento finale del<br />

Patto di Dio con Israele, ma si convinsero inoltre di aver sperimentato il tempo finale, la cui caratte-<br />

ristica essenziale era costituita proprio dall’effusione dello Spirito di Dio su tutto il popolo.<br />

4.4. Così la Pentecoste giudaica con la sua tematica del Patto costituì il motivo per la prima e costi-<br />

tutiva esperienza dello Spirito fatta dai discepoli di Gesù. Nello stesso tempo essa offrì anche il<br />

concreto luogo di nascita del tema del nuovo patto, un tema così importante per la comprensione<br />

della Chiesa. La presenza dello Spirito di Dio tra i discepoli fu per loro il segno che Dio era ormai<br />

pronto a rinnovare il suo patto con l’intero popolo (cfr. Is 59,21) collocandolo nell’orizzonte del<br />

tempo finale. Forse si chiarisce così anche la stretta connessione tra Spirito e patto, presupposta da<br />

Paolo in 2Cor 3,6. In ogni caso l’offerta del patto, legittimata attraverso la presenza dello Spirito,<br />

era rivolta a tutto Israele.<br />

Che sia così lo vediamo dal ruolo che ha giocato il gruppo dei dodici. La ricezione dello Spirito non<br />

era propriamente il segno che lo Spirito sarebbe stato partecipato ai singoli quale criterio della pro-<br />

pria appartenenza alla nuova comunità particolare che stava sorgendo. Piuttosto l’offerta dello Spiri-<br />

to era rivolta di principio al popolo di Dio nella sua totalità come segno dell’adempimento della<br />

promessa. La predica di Pentecoste di Pietro, sebbene elaborata da Luca, ne ha mantenuto il ricordo<br />

essenzialmente nella conclusione: «poiché per voi è la promessa e per i vostri figli, e per tutti quelli<br />

che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (At 2,39).<br />

Il significato della prima Pentecoste in Gerusalemme, perciò, congiungerebbe per il gruppo dei di-<br />

scepoli la presenza sperimentata dello Spirito di Dio come conseguenza immediata dell’elevazione<br />

di Gesù con il tema del rinnovamento del patto. Il tema del patto potrebbe aver acquisito allora la<br />

funzione di principio interpretativo dell’esperienza dello Spirito, poiché ne dischiuse il significato<br />

storico salvifico nell’orizzonte di Israele.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

La chiara coscienza di costituire la comunità escatologica, in cui l’effusione dello Spirito, promessa<br />

per gli ultimi tempi, è già divenuta realtà, è sottolineata negli Atti anche attraverso le descrizioni<br />

della vita dei primi cristiani (At 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16): esse mettono in luce che la promessa<br />

già formulata dalla Legge, «Non vi sarà in mezzo a te alcun bisognoso» (Dt 15,4), di fatto però non<br />

pienamente realizzata a causa della mancata corrispondenza del popolo (Dt 15,7.11), ora è divenuta<br />

realtà (At 4,34: «Non vi era nessun bisognoso in mezzo a loro») nella comunità santa suscitata<br />

dall’effusione dello Spirito 50 .<br />

d) Fondazione dell’identità attraverso il Battesimo<br />

Gli sviluppi storici non procedono quasi mai secondo un’unica linea. Questo vale anche per la for-<br />

mazione dell’autocomprensione della Chiesa. Sicuramente i discepoli di Gesù nel primo tempo<br />

post-pasquale hanno considerato come loro compito la raccolta finale di tutto Israele quale popolo<br />

di Dio. Essi rimangono così in continuità con il loro incarico pre-pasquale. Per questo Pentecoste<br />

non costituisce per loro un’esperienza di rottura. Pertanto solo a certe condizioni si può indicare la<br />

Pentecoste come il giorno della nascita della Chiesa. Ma se questa rappresentazione difficilmente<br />

può essere attribuita all’autocomprensione dei discepoli di Gesù, tuttavia è autorizzata da una retro-<br />

spettiva, che interpreta l’avvenimento di Pentecoste alla luce degli sviluppi che esso istituirà.<br />

Partendo dalla Pentecoste si delineano dei fattori che, se come tali in un primo tempo non fondarono<br />

alcuna identità di gruppo separato da Israele, tuttavia nel corso ulteriore costituirono gli inizi di una<br />

identità di gruppo in formazione. Dal punto di vista teologico determinante fu l’esperienza della no-<br />

vità escatologica, quale dono della presenza dello Spirito. Dal punto di vista sociologico i discepoli<br />

di Gesù fecero l’esperienza di un loro isolamento progressivamente più marcato in Israele. Quale<br />

che sia il motivo decisivo, è evidente che subito dopo Pentecoste essi non potevano sapere che<br />

l’annuncio dei seguaci di Gesù avrebbe raggiunto solo una minima percentuale di Ebrei. La raccolta<br />

di tutto Israele attorno al gruppo dei dodici come suo punto centrale non ebbe luogo. Perciò i segua-<br />

ci di Gesù divennero agli occhi del loro ambiente uno dei molti gruppi giudaici particolari, una hai-<br />

resis (At 24,5.14; 26,5), analogamente ai discepoli di Giovanni e alla comunità di Qumran. Inoltre<br />

essi diedero vita a una forma di vita di gruppo molto specifica, che li differenziò dal loro ambiente;<br />

cosa che in parte è da attribuire al fatto che provenivano in maggioranza dalla Galilea e alle difficili<br />

circostanze esteriori della loro esistenza in Gerusalemme.<br />

Il luogo in cui si concretizzò in modo primario l’esperienza teologica di novità, fu il battesimo. Esso<br />

appartiene fin dall’inizio alle condizioni base della fede in Gesù. Secondo At 2,38 i primi battesimi<br />

50 Cfr. V. FUSCO, Le prime comunità cristiane. Tradizioni e tendenze nel cristianesimo delle origini (Bologna: EDB,<br />

1995) 195.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

ebbero luogo a Pentecoste, e non abbiamo alcun motivo per mettere in dubbio questa notizia. In o-<br />

gni caso nel NT non ci sono tracce di una discussione sulla necessità del battesimo; esso viene pra-<br />

ticato fin dall’inizio in modo del tutto spontaneo. La cosa è tanto più sorprendente per il fatto che né<br />

Gesù ha battezzato né sono state tramandate delle istruzioni sue a riguardo del battesimo. Quali ra-<br />

gioni c’erano per una sua ripresa dopo Pasqua?<br />

1. Giovanni il Battista ne aveva rivendicato il significato di azione/segno escatologico: chi si con-<br />

vertiva e si faceva battezzare si sottometteva all’imminente agire finale di Dio verso il suo popolo;<br />

un agire che oramai stava per spuntare. Per questo ai discepoli, che raccogliendosi attorno a Gesù<br />

come al Salvatore definitivo del popolo si ritenevano i destinatari del dono della salvezza di Dio, fu<br />

possibile vedere nel battesimo il segno della sottomissione all’agire di Dio.<br />

2. Già per Giovanni Battista il Battesimo era connesso con lo Spirito. Chi si faceva battezzare, si<br />

preparava anche alla venuta del «più forte», il quale avrebbe battezzato con Spirito e fuoco (Mt<br />

3,11; Lc 3,16). I discepoli di Gesù, quindi, collegarono facilmente il compimento del tempo finale<br />

della promessa biblica dell’effusione dello Spirito di Dio per tutti in Israele con il segno del Batte-<br />

simo; tanto più che dichiarazioni bibliche come Is 44,3 e Gl 3,1s annunziavano la venuta dello Spi-<br />

rito utilizzando la metafora dell’acqua. Il battesimo divenne così un segno visibile dell’inserimento<br />

nell’ambito della salvezza presente; un ambito determinato dallo Spirito.<br />

3. Lo stesso Battesimo di Gesù deve aver giocato un ruolo essenziale per la fondazione del battesi-<br />

mo cristiano. È vero che nel resoconto sinottico del battesimo (Mc 1,9-11 e par.) mancano riferi-<br />

menti diretti alla prassi battesimale ecclesiale, tuttavia i riferimenti tematici alla teologia del batte-<br />

simo rendono verosimile una tale connessione. Così Gesù in virtù del battesimo è proclamato «por-<br />

tatore dello Spirito» (Mc 1,10), mentre la voce dal cielo lo dichiara Figlio di Dio. Allo stesso modo<br />

nel battesimo cristiano il conferimento dello Spirito è collegato con lo status di figli di Dio. Così per<br />

Paolo (Gal 4,5-6; Rm 8,15; cfr. Ef 1,5) il dono proprio del battesimo è il conferimento della filiazio-<br />

ne che si attua mediante lo Spirito. Per cui solo il battezzato, in forza dell’efficacia dello Spirito san-<br />

to, può nominare Dio “Padre”. Il racconto del Battesimo da una parte evidenzia che Gesù col suo<br />

farsi battezzare ha preso possesso del battesimo di Giovanni e gli ha conferito il proprio significato<br />

istituto da Dio. D’altra parte esso dà al battesimo di Gesù un riferimento tipologico alla vita dei cre-<br />

denti: come il battesimo si trova all’inizio della via di Gesù, così si trova pure all’inizio<br />

dell’esistenza cristiana. I credenti in virtù del battesimo sono in comunione con Gesù; essi si sotto-<br />

pongono come lui al compimento della rivendicazione della giustizia di Dio — cfr. Mt 3,15.<br />

4. I due aspetti si ritrovano nelle formule che riferiscono il battesimo a Gesù: «en tò onómati Iesou<br />

Christou» (At 10,48; cfr. 2,38: epi) e «eis tò ónoma tou kuríou Iesou» (At 8,16; 19,5; 1Cor 1,13.15;<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

cfr. 1Cor 10,2; Mt 28,19). La prima sottolinea che Gesù è l’autorità che ha istituito il battesimo.<br />

L’amministrazione avviene facendo ricorso ai suoi pieni poteri. Il battesimo di Giovanni infatti era<br />

collegato al potere del Battista che aveva ricevuto da Dio l’incarico di amministrarlo. Ormai però<br />

Gesù gli è subentrato. Siccome Gesù è colui da cui dipende la venuta dello Spirito di Dio del tempo<br />

finale, la subordinazione sotto la potenza dello Spirito può aver luogo solo mediante il battesimo<br />

amministrato “nel suo nome”. La seconda formula esprime invece il passaggio di proprietà. Se<br />

nell’AT Israele proclamando su di sé il nome di Dio si riconosceva come popolo di proprietà di Dio<br />

(Dt 28,10; Is 43,7), ora i credenti in Gesù confessando il suo nome sono incorporati alla Signoria<br />

presente dell’innalzato (Gc 2,7), che ha il suo “raggio di azione” nella comunità dei credenti.<br />

e) Il nuovo culto liturgico<br />

Il secondo luogo nel quale si concentra come centro nevralgico la novità teologica esperimentata del<br />

discepolato di Gesù, e che perciò divenne anche sociologicamente il principio per lo sviluppo di una<br />

specifica identità di gruppo, fu il culto liturgico. Ciò risulta dai resoconti degli Atti degli Apostoli<br />

sulla vita liturgica della prima comunità di Gerusalemme. Così noi leggiamo nel sommario di At<br />

2,46: «Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i<br />

pasti con letizia e semplicità di cuore». Mentre At 5,42 dice degli apostoli: «Ogni giorno nel tempio<br />

e a casa non cessavano di insegnare e di evangelizzare il Cristo Gesù». Di conseguenza, all’inizio<br />

c’erano due diversi tipi di assemblea liturgica, che si differenziavano considerevolmente non solo in<br />

riferimento al luogo, ma soprattutto a riguardo della loro configurazione.<br />

1. La prima era la partecipazione al servizio del tempio, ossia al servizio liturgico di tutto Israele.<br />

Poiché Gerusalemme era il centro di Israele e il luogo dell’attesa raccolta del popolo di Dio, il tem-<br />

pio poteva essere considerato come il centro di Gerusalemme e il centro della raccolta. Perciò la<br />

comunità dei seguaci di Gesù qualificava la sua presenza in Gerusalemme stando nel tempio. Essi<br />

prendevano parte alle tre ore di preghiera quotidiana (At 3,1) sfruttando inoltre l’occasione favore-<br />

vole alla predicazione missionaria data dal convenire in quel luogo di molti giudei (At 3,11-26).<br />

L’elemento centrale del servizio cultuale al tempio era sicuramente la celebrazione dei diversi sacri-<br />

fici quotidiani. Non dovremmo escludere a priori la possibilità che la comunità primitiva abbia pre-<br />

so parte ai sacrifici del tempio. Essa non condivideva i principi della comunità di Qumran, che boi-<br />

cottava come illegittimo il culto sacrificale, poiché considerava illegittimo e impuro il sacerdozio<br />

del tempio (cfr. 1QM 2,1ss). Gesù aveva avuto una relazione sostanzialmente positiva verso la pietà<br />

sacrificale giudaica (Mt 5,23; 8,4; 23,18), perlomeno di lui non ci viene tramandato alcun giudizio<br />

negativo definitivo sul sacrificio. L’unico fondamento per respingere il culto sacrificale poteva esse-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

re l’intuizione che la morte di Gesù era ormai l’unico sacrificio valido, che superava ed aboliva il<br />

sacrificio finora celebrato. Questa intuizione emerge già presto dalla riflessione teologica sulla cena<br />

del Signore, in primo luogo sulle parole di istituzione del dono della vita «per i molti» (Mc 14,24)<br />

[cfr. Rm 3,25]. È discutibile tuttavia che tale intuizione possa essere già presupposta per il tempo i-<br />

niziale. Se così stanno le cose, allora non fu di primo acchito la svalutazione del tempio e la critica<br />

al culto divino ivi celebrato, che indusse i discepoli di Gesù a sviluppare accanto a questo una pro-<br />

pria forma di servizio divino. Il motivo primario dovrebbe consistere piuttosto nell’intuizione che<br />

per seguire la volontà di Gesù si doveva continuare quella comunità di mensa che egli aveva istitui-<br />

to in modo permanente nella notte dell’addio.<br />

2. Ciò avviene nella forma di assemblee domestiche, che si tenevano nelle case dei membri della<br />

comunità. In proposito si suppone che la casa di Maria, la madre di Giovanni Marco (At 12,12), sia<br />

stata per il tempo iniziale un importante (e forse unico) luogo concreto di raccolta.<br />

Queste assemblee domestiche nel giudaismo gerosolimitano del tempo non erano affatto qualcosa di<br />

insolito, se consideriamo che questo è il tempo della crescita disordinata delle comunità sinagogali:<br />

secondo la tradizione talmudica (jMeg 73b) in Gerusalemme ci sarebbero state allora 480 sinago-<br />

ghe. Anche se questa cifra fosse esagerata, è evidente l’importanza del nuovo movimento per la rac-<br />

colta di piccoli gruppi, promosso principalmente dal fariseismo. Le sinagoghe erano in parte artico-<br />

late per gruppi di connazionali ed erano ospitate nelle case dei membri benestanti, dove si tenevano<br />

delle assemblee liturgiche, al cui centro c’erano l’istruzione sulla Torà e preghiere. Esternamente<br />

anche le assemblee domestiche della comunità originaria erano analoghe a questi culti sinagogali.<br />

Ciononostante solo in Gc 2,2 si applica ad un’adunanza cristiana il termine “sinagoga”. Il fenomeno<br />

linguistico documenta la coscienza della diversità contenutistica e della novità di queste assemblee.<br />

3. I segni distintivi di queste nuove assemblee sono descritte dal sommario proveniente da un’antica<br />

tradizione: At 2,42: «erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli, e nella κοινωνία,<br />

nella frazione del pane e nelle preghiere».<br />

3.1. La dottrina aveva qui il proprio luogo, esattamente come nelle sinagoghe. Ma non era più la<br />

Torah con la sua spiegazione e continuazione nella Halacha orale; piuttosto la dottrina degli aposto-<br />

li, che sicuramente comprendeva anche la trasmissione delle parole di Gesù, innanzi tutto le sue i-<br />

struzioni etiche (cfr. 1Cor 7,10.25), come pure l’interpretazione della sua storia alla luce del venerdì<br />

santo e della Pasqua. Già molto presto si sviluppò un modo peculiare di interpretare le Scritture, che<br />

cercava di mostrare come le promesse delle Scritture avevano ricevuto il loro adempimento<br />

nell’agire di Dio con Gesù. Se consideriamo che l’insegnamento della dottrina esige continuità, non<br />

è sbagliato immaginare che essa fosse rivolta a coloro che nel battesimo si erano sottomessi a un<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

impegno vincolante e quindi avevano un riferimento stretto alla comunità: coloro che mediante il<br />

battesimo erano stati incorporati nell’ambito della Signoria finale del Cristo innalzato, si trovavano<br />

uniti fra di loro in una relazione particolare. L’impegno vincolante della comunione con Cristo ave-<br />

va come conseguenza l’impegno vincolante dell’essere-con nella comunione dei battezzati.<br />

3.2. Un secondo segno distintivo è lo spezzare del pane (At 2,46; 20,7.11; 1Cor 10,16). Questo se-<br />

gno distintivo senza dubbio antico intende la cena del Signore, di cui mette in rilievo come pars pro<br />

toto l’elemento centrale dell’avvenimento della cena, attraverso cui si attua l’inclusione dei parteci-<br />

panti. Antichi sono anche i segni caratteristici che sottolineano il carattere di comunione: si parla di<br />

un «radunarsi assieme» (sunérchomai: 1Cor 11,17s.20.33s; 14,23) e di «essere assieme in un mede-<br />

simo luogo» (eínai epì tò autó: At 2,44; 1Cor 11,20; 14,23). Ora, uno degli elementi basilari della<br />

venuta della condizione escatologica era costituito proprio dal radunarsi del popolo di Dio disperso<br />

e, per estensione, di tutta l’umanità “in un medesimo luogo” intorno alla persona del Messia, perché<br />

si potesse attuare il giudizio del mondo e si stabilisse il regno di Dio 51 . Mediante la celebrazione<br />

della cena del discepolato, il Cristo rinnovava continuamente la sua comunione e dischiudeva la<br />

partecipazione alla salvezza finale. Nel primitivo tempo gerosolimitano la cena si celebrava «con<br />

giubilo» (en agalliásei: At 2,46), cioè in un’atmosfera escatologica, che si nutriva dell’esperienza<br />

della risurrezione. La certezza della comunione conviviale permanente con il risorto sfociava in<br />

un’attesa intensa del compimento escatologico creduto ormai prossimo.<br />

3.3. L’atmosfera di gioia e di speranza trovarono espressione immediata nelle forme liturgiche della<br />

celebrazione, cioè nelle preghiere. Il punto di partenza per lo sviluppo venne offerto dalle preghiere<br />

del pasto festivo giudaico, la preghiera di benedizione (berakah) sul pane al suo inizio e la preghiera<br />

di rendimento di grazie (kiddush) sul calice conclusivo (1Cor 10,16). Qui troviamo anche le radici<br />

per una indicazione come pars pro toto della cena come eucaristia, che se in verità è attestata espli-<br />

citamente solo attorno al passaggio al secondo secolo (Did. 9,1.5; Ign Ef 13,1; Phld 4; Sm 8,1), tut-<br />

tavia dovrebbe essere più antica. Come elemento integrante centrale della celebrazione della cena<br />

del Signore è tramandato il grido di invocazione aramaico: marana’ tha’ = «Signore nostro, vieni!»<br />

51 Il tema emerge qua e là nel vangelo: in Mt il regno di Dio è paragonato «a una rete gettata nel mare, che raduna ogni<br />

genere di pesci» (Mt 13,47), mentre, in termini ancor più espliciti, nella descrizione della parusia del Figlio dell’uomo<br />

leggiamo che, in quel giorno, «saranno radunate davanti a lui tutte le genti» (Mt 25,32). In Gv lo scopo della passione<br />

di Cristo e, per estensione, di tutta l’opera salvifica, non è solo la salvezza di Israele, «ma anche il radunare i figli di<br />

Dio che erano dispersi» (Gv 11,52). Non a caso Paolo offrendoci la più antica descrizione dell’eucaristia ci dice che la<br />

chiesa è riunita «in un medesimo luogo» (1Cor 11,20). Un riflesso del tema si ha già nella prima letteratura postapostolica;<br />

ad es. nella Didaché così si prega: «Come questo pane spezzato sui colli e radunato divenne una cosa sola,<br />

così la tua chiesa sia radunata dai confini della terra nel tuo regno» (9,4). Ecco perché si parla di sinassi eucaristica.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

(1Cor 16,22; cfr. Ap 22,17.20). Con questa invocazione la comunità implora (o confessa) la venuta<br />

presente del Signore innalzato alla comunione conviviale in attesa di partecipare con il Signore alla<br />

futura cena del compimento messianico, a cui la celebrazione attuale della cena rinvia come antici-<br />

pazione. Nell’orizzonte della cena si sviluppò quindi una particolare forma di preghiera cristiana 52 .<br />

4. Per quel che riusciamo a capire, la celebrazione della cena costituiva il motivo centrale per la rac-<br />

colta dei discepoli di Gesù. Ciò significa che la corrispondenza della comunità dei discepoli di Gesù<br />

con le comunità sinagogali giudaiche si limita all’aspetto sociologico 53 . È indubitabile quindi che la<br />

comunione di mensa sia stato il principio decisivo per la formazione della specifica autocompren-<br />

sione e coscienza di identità della primitiva comunità. Certamente questa coscienza di identità non<br />

comportava una delimitazione nei confronti di Israele. Le assemblee di mensa di Gerusalemme ave-<br />

vano luogo ancora all’ombra del tempio. Non che non ci fossero tensioni: i discepoli di Gesù ne e-<br />

rano consapevoli, e tuttavia speravano che si arrivasse a una soluzione prossima. Molto presto però<br />

si presenteranno dei fattori che muteranno la vicinanza in contrapposizione. Verosimilmente il pri-<br />

mo colpo venne sferrato dalla critica teologica al tempio dei giudeo-cristiani ellenistici della cerchia<br />

di Stefano (At 6,14), che riprese i motivi della polemica di Gesù contro il tempio e il culto del tem-<br />

pio erigendoli a principi fondamentali.<br />

f) Il nuovo stile di vita<br />

Dal punto di vista storico, l’ethos del cristianesimo delle origini si colloca tra ebraismo e paganesi-<br />

mo 54 . È l’ethos di un gruppo che deriva dall’ebraismo, ma che trovò la maggior parte dei suoi se-<br />

guaci nel paganesimo. L’ethos cristiano primitivo si distingue da quello ebraico solo per gradi, in-<br />

52 Rimane aperta la questione sulla frequenza della celebrazione della cena nella comunità originaria. Difficilmente si<br />

può ricavare da At 2,46 l’indicazione che essa fosse celebrata quotidianamente. Verosimilmente la celebrazione aveva<br />

luogo settimanalmente nel “primo giorno della settimana”, il “giorno del Signore” (At 20,7; cfr. Ap 1,10).<br />

53 Considerato il fatto che l’assemblea conviviale cristiana è orientata alla costituzione di una cerchia stabile di membri,<br />

cioè i battezzati, come pure la posizione centrale del pasto, qualcuno la mette in parallelo ai raduni dei gruppi farisaici<br />

(khaburot), che si impegnavano accanto allo studio della Legge a compiti caritativi. Anche i membri di queste khaburot<br />

si assegnavano degli obblighi stabili, e pare che essi celebrassero l’inizio del sabato con particolari tempi di pasto comuni<br />

(bEr 85b; bPes 101b). Ma a prescindere da ciò, per quel poco che ne sappiamo questi tempi di pasto in comune<br />

non avevano alcun significato costitutivo per la comunione. Il parallelo più vicino del giudaismo contemporaneo si ha<br />

nei pasti comunitari della comunità di Qumran, poiché anch’essa celebrava dei pasti liturgici di carattere fortemente escatologico<br />

che avevano un’importanza considerevole per l’autocomprensione del gruppo. Tuttavia a fronte di questa<br />

somiglianza, spicca la profonda differenza: i pasti di Qumran avevano un carattere sacerdotale, essi esprimevano visibilmente<br />

la separazione dal culto ufficiale del tempio. Al contrario, non troviamo un tale presupposto nelle assemblee<br />

conviviali precristiane. Il gruppo dei credenti in Gesù si radunava in queste assemblee conviviali non per sostituire il<br />

culto del tempio, bensì per obbedire al comando di Gesù e attestare così che erano sua proprietà. Se l’appartenenza era<br />

fondata sul battesimo; essa acquisiva la sua strutturazione mediante la celebrazione della cena.<br />

54 Ci ispiriamo per questa sezione alle riflessioni di G. THEISSEN, La religione dei primi cristiani. Una teoria sul cristianesimo<br />

delle origini (Torino: Claudiana, 2004) 93-158.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

tensificando e radicalizzando elementi già esistenti nell’ebraismo, con una tendenza a superarli in<br />

virtù di una «migliore giustizia» (Mt 5,20). Questa tendenza al superamento viene portata avanti<br />

nell’ambito pagano. In specie, il cristianesimo delle origini introduce nella società pagana due ele-<br />

menti provenienti dalla tradizione ebraica ma del tutto nuovi in questa forma: l’amore per il prossi-<br />

mo e l’umiltà. Il legame tra i due valori è il vero elemento innovatore all’interno del mondo pagano.<br />

Inoltre, essi si riferiscono a due dimensioni fondamentali dei rapporti sociali: l’amore concerne so-<br />

prattutto il rapporto tra chi si trova all’interno e chi all’esterno del gruppo. L’amore dei primi cri-<br />

stiani vuole superare questo confine. L’umiltà concerne, invece, il rapporto tra “alto” e “basso”.<br />

a) L’amore per il prossimo esiste già nell’AT e nell’ebraismo. Esso viene richiesto la prima volta<br />

nella Legge di santità: Lv 19,18 si riferisce all’amore nei confronti del vicino, che in linea di princi-<br />

pio gode del medesimo status. Questo amore per il prossimo si collega in Levitico 19 a un ethos o-<br />

rientale della carità abbastanza diffuso, che si riferisce ai deboli, alle vedove e agli orfani. Solo in<br />

Israele, però, la categoria di queste “persone miserevoli” viene estesa anche ai forestieri: Lv 19,34.<br />

Ora, l’ethos cristiano primitivo dell’amore per il prossimo è una radicalizzazione dell’ethos ebraico.<br />

Quel che c’è di nuovo è che il duplice comandamento dell’amore per Dio e per il prossimo si collo-<br />

ca al centro e viene esplicitamente definito come il più grande dei comandamenti. Anzi, in primo<br />

luogo, l’amore per il prossimo diviene amore per i nemici (Mt 5,43s). Si noti che qui il nemico non<br />

è soltanto il nemico personale: si parla infatti di «nemici» come di un gruppo che ha potere di perse-<br />

cuzione e di discriminazione. Perciò il comandamento non si rivolge ai singoli, bensì, al plurale, alla<br />

comunità: «amate i vostri nemici!».<br />

In secondo luogo, l’amore per il prossimo viene esteso fino a diventare amore per lo straniero (Lc<br />

10,25ss). Il samaritano della parabola si rivela essere il «prossimo» non perché abbia uno status che<br />

giustifichi tale definizione, ma per il suo comportamento.<br />

Infine, l’amore per il prossimo diventa amore per il peccatore (Lc 7,36ss).<br />

Questa estensione del concetto di amore si associa nella tradizione di Gesù a un rifiuto dell’amore<br />

nei confronti dei parenti più stretti: Lc 14,26. Ciò indica che l’amore si separa dal suo primo Sitz im<br />

Leben – l’amore all’interno del circolo parentale – per essere rivolto a coloro che in genere si trova-<br />

no al di fuori di questo gruppo ristretto: la “nuova famiglia di Dio” (Mc 3,31-35; par.). Non solo:<br />

con tale estensione, questo amore per il prossimo rischia di perdere la sua simmetria di principio.<br />

Quando Matteo distingue il comandamento dell’amore dei nemici da quello dell’amore per il pros-<br />

simo e rappresenta l’amore per il nemico come radicalizzazione dell’amore per il prossimo, egli<br />

omette, citando Lv 19,18, la “formula di equivalenza”. Egli non dice: «Avete inteso che fu scritto:<br />

ama il tuo prossimo come te stesso», ma soltanto «Ama il tuo prossimo» (Mt 5,43; diversamente in-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

vece Mt 19,19; 22,39). Matteo avverte giustamente che l’elemento dell’equivalenza deve venir me-<br />

no nell’amore per i nemici.<br />

Ciò nonostante, questa tendenza al riconoscimento dello stesso valore di altri esseri umani viene<br />

mantenuta. Soprattutto Luca vi si mostra molto sensibile: Lc 6,31; Lc 10,29ss; 7,47; 7,5…<br />

Gli sviluppi nel cristianesimo delle origini prendono però un’altra direzione: qui troviamo tendenze<br />

che vanno verso una certa restrizione del comandamento dell’amore. Ancora in 1Ts 3,12, Paolo<br />

mette sullo stesso piano l’«amore degli uni verso gli altri e verso tutti», ma in Gal 6,10 comincia<br />

gradualmente a fare alcune distinzioni: «Così, dunque, finché ne abbiamo l’opportunità, facciamo<br />

del bene a tutti, ma specialmente verso i fratelli nella fede». Giovanni va ancora oltre e sembra sca-<br />

vare un’opposizione tra il mondo e la comunità; qui l’amore è ormai solo «amore degli uni per gli<br />

altri» (Gv 13,34; 15,12.17) Nelle lettere di Giovanni, esso appare come «amore fraterno», ma limita-<br />

to alla comunità (1Gv 2, 10…). Tuttavia, non ci si deve ingannare: anche questo amore reciproco<br />

deve avere un effetto verso l’esterno. Esso dovrà essere un segno di distinzione dei discepoli di Ge-<br />

sù, che renderà possibile la loro identificazione da parte di tutti (Gv 13,35). Tutti sono potenzial-<br />

mente inclusi in questo amore, poiché Dio ha amato tutto il mondo e non solo gli eletti (Gv 3,16).<br />

Questa tendenza alla restrizione non è da interpretarsi semplicemente come perdita: il fatto che nella<br />

comunità l’amore sia sancito come nuovo Sitz im Leben, fa sì che anche la tendenza, in esso intrin-<br />

seca, all’uguaglianza fondamentale di tutti emerga in maniera più chiara, e ciò specialmente in Pao-<br />

lo, in Giacomo e in Giovanni: si vedano le esortazioni di Paolo ai forti nei confronti dei deboli<br />

(1Cor 8,9ss; Rm 14,15; Filem 16); Gc 2,1-11; l’episodio della lavanda dei piedi (Gv 13,1ss), in cui<br />

Gesù, il Signore e il Maestro, nell’esercitare il sevizio dello schiavo manifesta l’estremo dell’amore<br />

e rivela tutto ciò che il Padre gli ha rivelato, facendo dei discepoli i suoi amici (Gv 15,15).<br />

Troviamo quindi nell’elaborazione del comandamento dell’amore nel cristianesimo delle origini due<br />

tendenze: da una parte, il superamento dei confini tra gruppo esterno e gruppo interno; dall’altra, il<br />

superamento dei limiti gerarchici tra «alto» e «basso».<br />

b) Se l’amore per il prossimo si rivolge fondamentalmente al vicino e al prossimo ma riscontra o-<br />

vunque reali disuguaglianze, la relativizzazione e il superamento delle differenze di status devono<br />

necessariamente diventare un valore complementare. Nella tradizione biblica la rinuncia allo status<br />

corrisponde spesso a un innalzamento di status: umiliazione ed elevazione sono associate. Alcune<br />

particolarità dell’umiltà nel cristianesimo primitivo si evincono già da una breve analisi delle prin-<br />

cipali affermazioni al riguardo. Nel cristianesimo primitivo si può parlare di cambio di posizione<br />

come di scambio fra il primo e ultimo (cfr. Mc 10,31; Mt 19,30; 20,16; Lc 13,30) o di relazione in-<br />

terna tra umiliare ed elevare (Lc 14,11; 18,14; Mt 23,12; Fil 2,6ss; 2Cor 11,7; Gc 4,10). Ma la va-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

riante più caratteristica del cambio di posizione è soprattutto l’umiliazione di sé che mira<br />

all’elevazione di altri: Mc 10,43; cfr. 9,35 e Mt 23,11. È tipico del cristianesimo delle origini fare<br />

della rinuncia allo status una condizione per l’autorità all’interno della comunità. L’umiltà, normal-<br />

mente un atteggiamento degli schiavi e di chi è sottomesso, diventa così la caratteristica distintiva di<br />

coloro che vogliono assumere posizioni di guida nella comunità.<br />

Nella letteratura epistolare si invita all’umiltà come atteggiamento interiore, anzi all’umiltà recipro-<br />

ca (Fil 2,3; Rm 12,16; Ef 4,2; 1Pt 5,5).<br />

Come si giunse alla scoperta di questa nuova virtù sociale? Il primo passo si ha quando il timore di<br />

Dio diventa non solo espressione di timida paura di fronte all’arbitrio della divinità, ma immagine<br />

di speranza: cfr. il cantico di Anna (1Sam 2,6s). In secondo luogo questa virtù comincia ad essere<br />

inserita nell’ideale dei re: cfr. Zc 9,9. Il terzo passo fu compiuto solo in piccoli gruppi comunitari:<br />

cfr. già all’interno dei rotoli di Qumran (1Qs 2,23-25).<br />

L’ethos cristiano primitivo dell’umiltà porta fino in fondo questi tre presupposti, con due tendenze:<br />

nella tradizione sinottica l’assioma del cambio di posizione agisce insieme al richiamo alla rinuncia<br />

allo status; le esortazioni all’umiltà, come atteggiamento determinante per l’azione compaiono nella<br />

letteratura epistolare sotto la forma di umiltà reciproca, finché questa diverrà verso la fine<br />

dell’epoca cristiana primitiva un’umiltà della sottomissione unilaterale.<br />

Nei Sinottici troviamo nel Cantico di Maria la prima delle condizioni indicate: l’azione di Dio è in-<br />

terpretata come umiliazione salvifica ed elevazione (Lc, 1,52). Questo cambio di posizione si mani-<br />

festa in particolare nella nascita del Messia. Si trova nei Sinottici anche la seconda condizione: un<br />

ideale di regno umano, del quale fa parte l’autolimitazione del potere per via della rinuncia allo sta-<br />

tus. Gesù è colui che realizza questo ideale: egli è re umile che entra in Gerusalemme in groppa a un<br />

asino (Zc 9,9 = Mt 21,5; cfr. Gv 12,15). Egli è il sovrano Figlio di Dio, che potrebbe esercitare tutti i<br />

poteri divini, ma che vi rinuncia per percorrere il cammino fino all’estrema umiliazione sulla croce.<br />

Come Figlio dell’uomo che non è venuto per farsi servire ma per servire tutti con il sacrificio della<br />

propria vita, egli è allo stesso un esempio per i suoi discepoli (Mc 10,45) e una contro-immagine<br />

speculare dei sovrani della terra che opprimono i popoli e abusano del loro potere (Mc 10,42). Tra i<br />

discepoli, quindi, avrà autorità solo colui che è disposto a essere servo o schiavo di tutti. In questa<br />

tradizione sinottica, l’umiltà non è una virtù degli umili, che devono semplicemente accettare la<br />

propria posizione inferiore, bensì è l’imitazione del Signore dell’universo che rinuncia spontanea-<br />

mente al proprio status. L’umiltà è una virtù del potente.<br />

Nella letteratura epistolare cristiana primitiva prende inizio una nuova evoluzione: qui l’umiltà si<br />

lega alla terza condizione sopraccitata: al sua collocazione nelle comunità locali. Qui l’umiltà non è<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

un atteggiamento servile di fronte ai sovrani, bensì un comportamento da tenere nei confronti di<br />

chiunque, a prescindere dal suo status sociale. Essa è imitatio di colui che ha abbandonato il status<br />

superiore per portare la salvezza agli esseri umani attraverso l’umiliazione di se stesso.<br />

Rispetto alla tradizione sinottica qui si aggiunge un nuovo elemento: nelle comunità si pretendono<br />

reciprocamente l’umiltà e la rinuncia allo status. Il legame interno tra amore e umiltà si evince da<br />

Gal 5,13, dove Paolo esorta: «Per mezzo dell’amore siete a servizio gli uni gli altri»; cfr. Fil 2,2s;<br />

1Cor 13,5; Rm 12,9ss; Ef 4,2. Paolo poi lega l’ethos dell’umiltà reciproca a una visione critica delle<br />

autorità comunitarie: 1Cor 3,21-23; 2Cor 11,7.<br />

Questo tema si precisa nella 1 Pietro, in cui all’umiltà reciproca si aggiunge l’invito a sottomettersi<br />

agli anziani della comunità: 1Pt 5,5. La Prima Clementis va ancora oltre: in essa l’umiltà non è più<br />

un fatto di reciprocità, ma è il riconoscimento unilaterale delle autorità comunitarie (1Clem 56,1).<br />

c) Questi due valori fondamentali si riflettono poi sulle altre norme e valori. Qui accenneremo ai lo-<br />

ro riflessi su quattro ambiti: potere, proprietà, sapere e santità.<br />

- Circa il primo, il potere, notiamo che le tre caratteristiche che nei Salmi di Salomone (17) erano<br />

proiettate sul futuro re messianico – potere teocratico, realizzazione della pace, vittoria sui nemici –<br />

sono ora legate ai seguaci di Gesù, cioè a persone umili provenienti dal popolo; anzi la basileia di<br />

Dio viene aperta a tutti i pagani (Mt 8,11). L’attesa messianica tradizionale è stata trasformata in un<br />

messianismo di gruppo (il regno dei cieli appartiene ai poveri in spirito: Mt 5,3; i figli di Dio sono<br />

esentati dal pagamento di particolari imposte: Mt 17,24ss; i dodici giudicheranno le tribù di Israele:<br />

Mt 19,28; i cristiani regneranno con Cristo: Rm 5,17; giudicheranno gli angeli: 1Cor 6,3; i cristiani<br />

già regnano: 1Cor 4,8…), i cui nemici non sono le altre nazioni, ma Satana e i demoni (Mt 12,28).<br />

- Anche nei confronti della proprietà e della ricchezza è un fatto riconosciuto che la carità cristiana<br />

(rivolta di preferenza ai poveri e ai deboli) ha preso il posto dell’evergetismo antico. In proposito<br />

sono importanti i due passi: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35); e le opere di mise-<br />

ricordia di Mt 25,31ss. Questi atteggiamenti filantropici, che nell’antichità connotavano i compor-<br />

tamenti delle classi elevate, diventano ora condotte tipiche anche dei poveri (cfr. la vedova: Mc<br />

12,41-44). Per quanto, poi, riguarda le motivazioni psicologiche troviamo la moderata messa in<br />

guardia contro l’avidità o pleonexia (cfr. Mc 7,22; Lc 12,15; Col 3,5; Ef 5,3): essa fa parte<br />

dell’idolatria (Col 3,5; Ef 5,5) ed esclude dal regno di Dio (1Cor 6,10; Ef 5,5). Più radicale è<br />

l’esigenza contenuta nella tradizione sinottica di liberarsi anche dalle preoccupazioni per i bisogni<br />

elementari della vita, e non solo dal desiderio del superfluo: Mt 6,25ss. Il motivo di fondo sta<br />

nell’esempio dato dal Cristo stesso che, come ha rinunciato al potere di questo mondo, è divenuto<br />

prototipo della rinuncia alla povertà: 2Cor 8,9.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

- In modo simile le indicazioni precedenti valgono anche per la sapienza. Anche qui Cristo incarna<br />

il cambiamento radicale dei paradigmi: colui che è la sapienza stessa di Dio si fece follia (1Cor<br />

1,18ss). Notiamo innanzi tutto che nei sinottici Gesù ha trovato nuovi destinatari della sapienza di<br />

Dio, non i «sapienti e gli intelligenti» ma piuttosto i piccoli, coloro che sono gravati dal lavoro (Mt<br />

11,28ss; cfr. al contrario di Sir 38,24-39,11) e persino le donne (Lc 10,38-42). In Paolo questo pro-<br />

cesso di capovolgimento continua: la sapienza della croce di fronte al mondo sembra pazzia, ma in<br />

realtà è la vera sapienza (1Cor 1,26ss; cfr. Gc 3,13-18). Questa sapienza si concentra infine non nel-<br />

la torah, ma ultimamente nella persona di Gesù (Mt 12,42; Col 2,3; Gv 1,1ss): trasmessa da lui, essa<br />

diventa accessibile a tutti, in Israele e anche oltre i suoi confini (al contrario delle correnti apocalit-<br />

tiche che la riservano a pochi e rari visionari: Enoch etiopico, 42,1-2).<br />

- I potenti e i ricchi tendono a circondare la loro potenza e la loro ricchezza con l’aura del sacro e<br />

della legittimità. Sapienti e sacerdoti amministrano quest’aura, poiché il loro vero potere è quello<br />

della definizione: secondo Lv 10,8 ai sacerdoti spetta di discernere ciò che è santo da ciò che è pro-<br />

fano, ciò che è impuro da ciò che è puro. Ora, il mantenimento dello status proprio dei sacerdoti si<br />

otteneva in Israele attraverso una serie di restrizioni circa la discendenza, il comportamento matri-<br />

moniale e tramite l’irrigidimento dei tabù. Dall’altra parte, Israele è consapevole che a tutto il popo-<br />

lo Dio chiede: «Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv 19,2; 22,31ss). Tutto il<br />

popolo riceve la profezia: «sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa» (Es 19,6). Nel<br />

movimento di Gesù questa tendenza all’estensione della santità viene addirittura dilatata ai non e-<br />

brei, quando questi si convertono alla fede cristiana. Il mantenimento dello status sulla base della<br />

discendenza nel cristianesimo viene completamente eliminato (cfr. già la predicazione del Battista:<br />

Mt 3,9ss). Nel cristianesimo la potenza che conferisce la santità e la purità è lo Spirito santo, che ri-<br />

veste Gesù e in seguito inabita i cristiani, conferendo loro lo statuto di figli di Dio, indipendente-<br />

mente dalla discendenza e dalla loro origine (Rm 8,4; Gal 4,6). Tutti i battezzati sono «santi» (Rm<br />

1,7; 1Cor 1,12 passim): sono tutti nella condizione che prima apparteneva soltanto ai sacerdoti. Es-<br />

si, pertanto, devono comportarsi in maniera irreprensibile, poiché i loro corpi sono tempio dello Spi-<br />

rito Santo (1Cor 6,18s); è il loro corpo l’offerta vivente, santa e gradita che devono offrire a Dio<br />

(Rm 12,1). Mediante Cristo, tutti sono «lavati, santificati, giustificati» (1Cor 6,11): il battesimo<br />

quindi purifica, porta alla santificazione e conduce verso una nuova vita etica, fatta di giustizia. I<br />

cristiani formano in quanto comunità, un «edificio spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacri-<br />

fici spirituali» (1Pt 2,5); di conseguenza devono comportarsi in modo esemplare tra i pagani (1Pt<br />

2,11s). Questo ethos si fonda sull’evento della risurrezione di Gesù Cristo, la quale ha dato inizio a<br />

una nuova realtà in mezzo al vecchio mondo, aprendo nuove possibilità di comportamento.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

g) La formazione di una propria struttura organizzativa<br />

Ogni vita associata che non dipende dalla pura spontaneità del momento, ma piuttosto vuole essere<br />

stabile e continua, ha bisogno di strutture permanenti. I compiti devono essere ripartiti, le responsa-<br />

bilità devono essere delegate a persone o a gruppi di persone. A dire il vero noi conosciamo poco<br />

circa lo sviluppo della costituzione comunitaria e delle strutture di direzione in Gerusalemme. Dob-<br />

biamo affidarci a notizie più o meno incidentali presenti negli Atti e nelle lettere paoline. Quanto<br />

poi alle considerazioni teologiche e pratiche sottostanti a questo sviluppo ne sappiamo ancora meno.<br />

Qui noi non possiamo fare altro che offrire delle congetture. Tuttavia al fondo del materiale a dispo-<br />

sizione possiamo cogliere almeno due elementi comprensivi:<br />

(1) Nei primi due decenni fino al “concilio apostolico” (ca. 48) i rapporti all’interno della comunità<br />

cristiana furono in rapido mutamento. Si susseguirono e in parte esistettero l’uno accanto all’altro<br />

diversi modelli costitutivi. Qualcuno parla di una fase di esperimenti, in cui si cercò di rispondere<br />

convenientemente alle necessità esterne in divenire e nello stesso tempo di conferire all’auto-<br />

comprensione comunitaria ancora fluttuante un’espressione appropriata.<br />

(2) Se si cerca di ricondurre questo sviluppo a un denominatore comune, allora abbiamo a che fare<br />

con una crescente caratterizzazione istituzionale nei confronti del giudaismo. Da movimento escato-<br />

logico di raccolta di Israele oramai esso diviene la Chiesa di Gesù.<br />

Si può giungere ad un’appropriata comprensione della storia della costituzione della Chiesa primiti-<br />

va solo se si resiste alla tentazione ovvia di costringerla nel reticolo delle posizioni confessionali<br />

dell’età moderna. Queste sono inadeguate. Se sul versante cattolico si è sempre cercato di rintraccia-<br />

re nella comunità primitiva gli inizi di uno sviluppo organizzativo ininterrotto che avrebbe condotto<br />

all’ordinamento gerarchico posteriore, al contrario gli interpreti evangelici, che negavano tutto ciò,<br />

vi hanno trovato una conferma della propria posizione critica per principio nei confronti del ministe-<br />

ro: la comunità primitiva si sarebbe caratterizzata per una vita comune determinata solamente da<br />

una comunicazione spontanea e libera da strutture di ordinamento. La tesi di una costituzione «cari-<br />

smatico-democratica» senza persone speciali che detengono un ufficio, è sostenuta fino ad oggi dal-<br />

la teologia protestante, anche se in generale non più nella formulazione radicale di R. Sohm, il qua-<br />

le, prendendo a modello la comunità di Corinto, opponeva la «Chiesa dello spirito e della carità» al-<br />

la «Chiesa del diritto». Si vedano ad es. le riflessioni di H. von Campenhausen:<br />

«La comunità non è dunque vista in Paolo come una organizzazione sempre strutturata, gerarchizzata<br />

o stratificata, bensì come un cosmo vivente, unitario, di liberi doni spirituali che si servono e<br />

si integrano a vicenda e i cui depositari non possono mai elevarsi gli uni sopra gli altri o chiudersi<br />

gli uni agli altri. Dal momento che ogni costrizione, ogni potere permanente di comando è espressamente<br />

escluso, il quadro della comunità che così si presenta, se inteso nel senso di un ordina-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

mento sociale umano, è utopistico». E ancora: «Per un ufficio di direzione secondo il tipo del presbiterio<br />

o del posteriore episcopato monarchico, non c’è posto in Corinto, né in pratica, né in linea<br />

di principio» 55 .<br />

Ora, è certamente un errore pretendere che le comunità paoline avessero già un’organizzazione ca-<br />

nonica, visto che questa sorge da situazioni e prospettive posteriori. L’età apostolica gode di norme<br />

speciali, poiché l’«apostolo» in senso paolino, cioè l’«inviato di Gesù Cristo», chiamato personal-<br />

mente da Dio al suo servizio, è una figura eccezionale, così come il carismatico abilitato immedia-<br />

tamente dallo Spirito al suo servizio nella comunità. Questo ordinamento «apostolico» e «pneumati-<br />

co» è, però, essenzialmente diverso da quello «canonico» o «gerarchico»? Eduard Schweizer osserva<br />

giustamente che «libertà dello spirito e ordinamento giuridico» non si possono contrapporre e non si<br />

escludono a vicenda. Egli, però, presenta questo ordinamento nei seguenti termini:<br />

«È lo Spirito di Dio, che indica nella libertà quello che l’ordinamento della comunità poi riconosce:<br />

questo è dunque funzionale, regolativo, di servizio, non costitutivo; e proprio questo è determinante»<br />

56 .<br />

Rinviando a più oltre la questione decisiva, se un determinato ordinamento o costituzione fosse «co-<br />

stitutivo» già per la Chiesa primitiva, qui ci limitiamo a raccogliere i “dati” a disposizione.<br />

1. Nel tempo post-pasquale primitivo i dodici costituirono il centro attorno al quale si raccolse la<br />

comunità. Essi dal loro sorgere rappresentavano il simbolo kerigmatico di quella raccolta di tutto I-<br />

sraele a cui mirava Gesù. Per questo agli occhi delle persone che si univano a loro, essi erano prima-<br />

riamente i “testimoni” dell’innalzato, segni viventi del regno che viene e centro del popolo di Dio<br />

della fine dei tempi oramai in processo di raduno visibile. Osserviamo che i dodici non devono esse-<br />

re identificati in modo puro e semplice con la prima successiva cerchia degli apostoli e che come<br />

singoli non sembra abbiano esercitato un’attività missionaria al di fuori di Gerusalemme; piuttosto<br />

essi furono attivi con la loro comune testimonianza nella città santa.<br />

2. Pietro godeva nel gruppo dei dodici di una posizione di preminenza essendo il confidente più<br />

stretto di Gesù e il primo testimone della risurrezione (1Cor 15,5). Egli agiva anche in modo indi-<br />

pendente, precisamente sia come portavoce della comunità verso l’esterno (At 3,1-10; 5,15) e di<br />

fronte alle autorità giudaiche (At 3,11-26; 4,8-22) sia come colui che regolava le questioni interne<br />

(At 5,1-11). La tradizione lo presenta come un instancabile predicatore, che grazie al dono dello<br />

Spirito diventa un testimone coraggioso (At 2,14), e come una guida autorevole della comunità; at-<br />

55<br />

H.F. VON CAMPENHAUSEN, Kirchliches Amt und geistliche Vollmacht in den ersten drei Jahrhunderten (Tübingen<br />

1953) 69,71.<br />

56<br />

E. SCHWEIZER, Gemeinde und Gemeindeordnung im Neuen Testament (Zürich 1959) 186.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

traverso la sua parola lo Spirito interviene a liberare come pure a giudicare la vita della comunità (At<br />

5,1-11). Un ruolo simile, anche se in posizione inferiore, si può attribuire a Giovanni di Zebedeo e<br />

(presumibilmente) anche a suo fratello Giacomo (At 12,2).<br />

3. Il primo organo direttivo ecclesiale in senso proprio si incontra nel gruppo dei sette ellenisti at-<br />

torno a Stefano (At 6,5). Sebbene Luca ci informi solo in modo molto frammentario sulle circostan-<br />

ze e il retroterra da cui emerge questo gruppo, siamo in grado di ricostruirli in modo più o meno<br />

plausibile. Gli “ellenisti” sono Giudei di lingua greca, venuti dalla diaspora, che avevano aderito al-<br />

la fede in Gesù e tuttavia tenevano assemblee liturgiche proprie. Alla base di questo comportamento<br />

ci possono essere motivazioni linguistiche, anche se queste probabilmente non erano decisive: di<br />

fatto risulta anche che c’erano differenze teologiche, poiché gli ellenisti, diversamente dalla comu-<br />

nità di lingua aramaica, avevano una posizione critica nei confronti del culto del tempio. È chiaro<br />

che questi ellenisti non erano oppure non erano sufficientemente integrati nel sistema della assisten-<br />

za sociale e dei compensi finanziari, che erano stati istituiti nella comunità di lingua aramaica: que-<br />

sto dovrebbe essere l’elemento di verità della presentazione lucana che parla di un conflitto circa<br />

l’assistenza delle vedove degli ellenisti (At 6,1). Essi si trovarono perciò nella necessità di istituire<br />

un proprio sistema di assistenza, così come in fin dei conti accadeva in ciascuna comunità sinagoga-<br />

le. La costituzione organizzativa scelta da loro rientra totalmente all’interno del tradizionale mondo<br />

giudaico. L’organo dei sette corrispondeva cioè alla struttura di direzione delle comunità sinagogali<br />

locali, alle quali presiedeva un organismo di sette anziani con un compito analogo: all’esterno do-<br />

veva rappresentare la comunità e all’interno preoccuparsi dello svolgimento ordinato della sua vita.<br />

Così gli ellenisti per primi fecero l’esperienza che bisogni amministrativi e sociali potevano rendere<br />

necessaria la creazione di ministri.<br />

4. Presto il gruppo dei dodici si trasformò e si allargò al gruppo degli apostoli. Dopo che Giacomo<br />

di Zebedeo subì il martirio durante la persecuzione di Erode Agrippa nell’anno 44 (At 12,2) si ri-<br />

nunciò a indire un’elezione suppletiva: la potenza kerigmatica del numero dodici apparentemente<br />

aveva perso di incisività 57 . Questo fatto ci fa pensare all’inizio di un processo di cambiamento di pa-<br />

radigma: fino ad allora i fattori decisivi erano l’attesa imminente del Regno e con essa la raccolta e<br />

57 O forse come suggerisce Christian Grappe la missione dei Dodici, i quali costituiscono sia il nucleo dell’Israele del<br />

tempo finale sia i giudici futuri delle dodici tribù, non poteva che terminare con la morte. Pertanto, mentre l’apostasia di<br />

Giuda Iscariota creò un vuoto in seno al gruppo e costrinse i rimanenti a indire un’elezione suppletiva perché «la sua<br />

parte di eredità» (At 1,20) fosse attribuita ad altri cosicché non fossero messe in pericolo l’esistenza e il significato del<br />

gruppo, alla morte tragica di Giacomo non ci fu alcuna altra elezione: egli, infatti, aveva portato a termine la sua missione:<br />

C. GRAPPE, D’un temple à l’autre. Pierre et l’Eglise primitive de Jérusalem (Paris: PUF, 1992) 147.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

il compimento di tutto Israele, da ora diventano la legittimazione ricevuta dal Signore risorto e il<br />

compito di raccogliere missionariamente la comunità di salvezza.<br />

4.1. Per questo rileviamo che a Gerusalemme sono stati applicati rigorosi criteri per stabilire chi ap-<br />

parteneva alla cerchia degli apostoli. Infatti può rivendicare il titolo di apostolo solo chi «ha visto il<br />

Signore» (1Cor 9,1), cioè chi è stato testimone di un’apparizione del Risorto. Le apparizioni del Ri-<br />

sorto erano avvenute in un periodo cronologico relativamente ristretto; Paolo non solo presenta la<br />

sua cristofania, occorsagli all’incirca due anni dopo le apparizioni a Pietro, come l’ultima, ma la<br />

qualifica pure come un’eccezione (1Cor 15,8-11) — anche per la differenza cronologica dalle altre<br />

apparizioni. Per questo la “testimonianza” venne intesa in un senso contenutisticamente qualificato:<br />

decisiva infatti non era tanto la pura visione del Risorto, ma piuttosto l’aver ricevuto insieme con<br />

quella anche un incarico. Da una parte ciò trova la sua espressione nella struttura formale di quelle<br />

tradizioni pasquali delle apparizioni del Risorto davanti al gruppo dei discepoli che sfociano in una<br />

parola di incarico, che ha di mira la raccolta e la guida della comunità di salvezza nel nome di Gesù<br />

(Mt 28,16-20; Lc 24,36-49; At 1,3-8; Gv 20,19-23; Mc 16,9-20). D’altra parte anche Paolo nel reso-<br />

conto della sua vocazione in Gal 1,15 si richiama espressamente a un incarico conferitogli da Dio.<br />

4.2. Coloro che erano stati chiamati in questo modo compresero di essere stati personalmente costi-<br />

tuiti e inviati quali messaggeri, che dovevano rendere noto pubblicamente l’evento salvifico in vista<br />

della raccolta della comunità salvifica del tempo finale. La parola greca apóstolos, che divenne un<br />

termine apposito per designare questa funzione, è proprio di formazione cristiana: essa è sorta pro-<br />

babilmente come traduzione dell’espressione protogiudaica shaliah. L’espressione faceva parte del<br />

vocabolario del diritto di rappresentanza, le cui radici si trovano nell’antico diritto semitico del mes-<br />

saggero (cfr. 1Sam 25,40; 2Sam 10,1ss) e che al tempo rabbinico ha trovato la sua formulazione più<br />

pregnante nel principio: «l’inviato di un uomo è come lui stesso» (Ber. V,5). Ciò significa che<br />

l’incaricato è di diritto il rappresentante di colui che gli ha dato l’incarico. Egli, in virtù della mis-<br />

sione conferitagli, è autorizzato e obbligato a rappresentarne gli interessi. La missione vale solo in<br />

absentia e cessa alla presenza del ritorno di colui che lo ha inviato.<br />

4.3. Considerati i criteri richiesti, il gruppo degli apostoli in Gerusalemme era un gruppo stabile e<br />

chiuso; i suoi membri erano noti a tutti. Ciononostante non ci è più possibile dare un nome a tutti<br />

quelli che vi facevano parte — è verosimile che i dodici fossero annoverati tra gli apostoli, come pa-<br />

re dica 1Cor 15,5 («… ed apparve a Cefa, poi ai dodici»). Poiché se Cefa/Pietro, il portavoce del<br />

gruppo dei dodici era considerato apostolo in ragione della sua apparizione pasquale, lo stesso do-<br />

vrebbe valere anche per gli altri membri del gruppo. Probabilmente anche Giacomo, il fratello del<br />

Signore, era apostolo. Ciò risulta dall’espressione di Paolo formulata probabilmente in analogia in-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

tenzionale a 1Cor 15,5 «poi apparve a Giacomo, infine a tutti gli apostoli» (1Cor 15,7), che nomina<br />

le persone allora decisive nella comunità di Gerusalemme (cfr. Gal 1,18) e nello stesso tempo allude<br />

allo spostamento del rapporto di direzione; se all’inizio le persone determinanti erano stati i dodici<br />

e, come loro esponente, Pietro, oramai sono quelli attorno a Giacomo come uno degli apostoli.<br />

4.4. Gli apostoli, come già il gruppo dei dodici, inizialmente risiedevano ancora in prevalenza a Ge-<br />

rusalemme (cfr. Gal 1,17.19). La loro autocomprensione perciò non era ancora determinata dall’idea<br />

di un invio missionario esteso al mondo. Essi probabilmente ritenevano che il loro compito fosse<br />

quello di raccogliere la comunità di salvezza in Gerusalemme, il luogo dell’atteso compimento di<br />

Israele. E tuttavia con il passaggio dai dodici agli apostoli ebbe luogo un significativo spostamento<br />

di accenti: l’idea della ricostituzione dell’Israele delle dodici tribù nella pienezza attesa per il tempo<br />

finale retrocesse a favore della creazione di una comunità convocata su incarico di Gesù.<br />

4.5. Ma così è posto il fondamento per comprendere questa comunità come una comunità autonoma<br />

con confini ben delimitati. Se gli apostoli sono i portatori esclusivi legittimati da Gesù Cristo e, con<br />

la fine delle apparizioni del risorto, definitivi dell’annuncio salvifico, allora ciò che viene messo in<br />

rilievo e delimitato è l’ambito storico nel quale si può ascoltare l’annuncio di salvezza. Chi è «assi-<br />

duo all’insegnamento degli apostoli» (At 2,42), chi si unisce a loro e diviene membro della comuni-<br />

tà, si trova in una relazione vincolante di subordinazione all’evento salvifico attuatosi nell’agire di<br />

Dio in Cristo. Se il gruppo dei dodici era stato un simbolo pieno di speranza che anticipava la sal-<br />

vezza futura, allora nell’apostolato si esprime il riferimento vincolante all’agire salvifico di Dio già<br />

attuatosi e la possibilità di sottomettersi alla sua azione salvifica presente.<br />

4.6. Da questa comprensione del ministero apostolico come incarico missionario del risorto risultò<br />

uno sviluppo, nel corso del quale l’incarico missionario acquisì un significato centrale per<br />

l’autocomprensione degli apostoli. Il motore di questo sviluppo fu in primo luogo Pietro, che come<br />

primo membro del gruppo gerosolimitano degli apostoli operò missionariamente in Giudea e nella<br />

regione costiera (At 9,32-43), e con questa sua attività guadagnò alla comunità persino uomini che<br />

appartenevano ai cosiddetti “timorati di Dio” (At 10). In seguito fu Paolo che diede all’apostolato<br />

l’orientamento missionario univoco. Nella misura in cui l’azione degli apostoli si spostò verso<br />

l’esterno, si ridusse il loro significato per la direzione della comunità di Gerusalemme.<br />

5. In ogni caso constatiamo nella Gerusalemme degli anni 40 un mutamento significativo nella dire-<br />

zione della comunità. Il fatto che questo si attuò in una parziale continuità del personale direttivo,<br />

non deve far passare in secondo piano il cambiamento delle indicazioni della funzione poiché in es-<br />

so si esprime una nuova accentuazione della comprensione teologica delle funzioni direttive.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

5.1. Probabilmente in connessione con la persecuzione della comunità primitiva sotto Agrippa I, che<br />

mirava con la forza a una restaurazione giudaica nazionalistica (At 12,1), Pietro fu costretto a rinun-<br />

ciare alla direzione della comunità e almeno temporaneamente ad abbandonare la città. Forse egli si<br />

era screditato agli occhi dei rigoristi giudaici col suo comportamento lassista nei confronti della<br />

Legge; per questo per la comunità, che non voleva abbandonare la sua collocazione all’interno del<br />

giudaismo, era diventato persona ormai “compromessa”. Gli subentrò Giacomo il fratello del Signo-<br />

re (At 12,17). Lo incontriamo anche nel resoconto che Paolo fa del concilio apostolico, a dire il vero<br />

non espressamente come apostolo, ma come membro di un organismo direzionale a tre, nel quale<br />

c’erano anche Pietro e Giovanni di Zebedeo; un organismo che porta la duplice indicazione de «gli<br />

autorevoli» (oi dokountes) (Gal 2,2) e «le colonne» (oi stùloi) (Gal 2,9). La metafora «colonne» a-<br />

scrive a questo organismo a tre una funzione fondante e portante, sul cui sfondo possiamo intrave-<br />

dere la rappresentazione fondamentale per l’<strong>ecclesiologia</strong> della comunità santa come del tempio fi-<br />

nale di Dio (cfr. Ap 3,12). In Gerusalemme, la città del tempio antico, è già iniziata l’edificazione<br />

del nuovo e definitivo tempio di Dio: la comunità di salvezza, fondata e sostenuta dai tre uomini che<br />

Dio ha scelto per questo incarico. In ogni caso è chiaro che nella designazione «colonne» si esprime<br />

la coscienza di essere centro e autorità determinante della comunità di salvezza e, come pure la cer-<br />

tezza che questo centro ha il proprio luogo naturale ed ereditario esclusivamente in Gerusalemme.<br />

5.2. Questo ministero delle «colonne» non ebbe certo una lunga durata — Gal 2,9 è poco più che<br />

un’istantanea che fissa una fase transitoria di uno sviluppo in corso dello stabilirsi dell’autorità soli-<br />

taria di Giacomo. Già poco dopo il concilio apostolico Pietro probabilmente abbandonò per sempre<br />

la città, e anche le tracce di Giovanni si perdono. Rimase come unica figura normativa solo Giaco-<br />

mo. Paolo durante l’ultima sua visita a Gerusalemme lo incontrò come guida autorevole che pren-<br />

deva le decisioni con un potere individuale e pieno (At 21,18). Da dove gli derivava questa posizio-<br />

ne? Di certo dall’autorizzazione ricevuta dal Risorto; egli infatti era ritenuto un «apostolo» e una<br />

«colonna». In modo simile anche la sua parentela con Gesù deve aver avuto un ruolo importante. Se<br />

questo sicuramente contribuì a rafforzare il suo prestigio, tuttavia non fu l’unico motivo. Decisiva fu<br />

infine la sua autorità carismatica, con cui egli riuscì non solo a tenere assieme le forze e correnti dif-<br />

ferenti nella comunità gerosolimitana, ma persino ad esercitare un influsso considerevole anche<br />

all’interno di Gerusalemme. Lo stesso Paolo, con cui è probabile non ci fosse una sintonia teologica<br />

piena, nelle sue lettere non accenna mai ad una polemica contro Giacomo.<br />

5.3. A fianco di Giacomo troviamo un gruppo di anziani (At 15,2.4.22s; cfr. 21,18). Questo gruppo<br />

sta in una qualche analogia col primitivo sviluppo nei gruppi comunitari ellenistici del tempo, dove<br />

i sette costituivano già un organismo di anziani. La costituzione di anziani è caratteristica del-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

l’ambito giudaico. Nella sinagoga gli anziani erano i rappresentanti della tradizione, che tramanda-<br />

vano la loro esperienza e la loro conoscenza della Legge, garantendo così la continuità della vita<br />

comunitaria. Ciò che qualificava l’anziano era la maturità e la sapienza di vita; ecco perché di regola<br />

essi erano uomini di età avanzata. Nella comunità primitiva le cose erano più o meno simili. Qui gli<br />

anziani erano dei cristiani provati, che come organismo dovevano decidere su precise questioni ri-<br />

guardanti la comunità e come singoli a seconda del bisogno offrivano aiuto e servizi amministrativi.<br />

In ogni caso gli anziani rappresentano un elemento di un ordinamento costituzionale. Questa imma-<br />

gine dell’ordinamento gerosolimitano del decennio tra il 50 e il 60 - Giacomo dotato di autorità ca-<br />

rismatica come guida spirituale di una Chiesa locale, in compagnia di un organismo di anziani, che<br />

tutelava gli interessi tecnico-amministrativi — con qualche precisazione potrebbe offrire l’anticipa-<br />

zione del modello del monoepiscopato, che pochi decenni più tardi si affermò in modo generale.<br />

g) Le autodesignazioni<br />

1. La più antica autodesignazione dei seguaci di Gesù in Gerusalemme è forse “discepoli” (matheta-<br />

í) (At 6,1s.7; 9,26; cfr. 9,10.19). Il termine esprime la coscienza della continuità con la cerchia della<br />

sequela del Gesù prepasquale. Decisiva qui non è la conoscenza diretta e personale di Gesù, ma<br />

piuttosto la relazione di fede in lui, che si esprime nell’impegno nei confronti della sua dottrina e<br />

nel legame alla struttura sociale da lui istituita.<br />

2. Altrettanto antica è la designazione, estremamente frequente nel NT (At 10,23; 11,1.12.29…; Rm<br />

1,13; 7,1; 1Cor 1,1), dei membri della comunità come “fratelli” (adelphoí). L’espressione non e-<br />

sprime il legame “verticale” con Gesù, bensì il vincolo “orizzontale” che connette fra loro i credenti,<br />

e che è dovuto al coinvolgimento nella stessa causa. In modo simile la designazione “fratelli” era<br />

corrente nella comunità settaria di Qumran (1QS 6,22; 1Qsa 1,18). Solo sporadicamente (Mt 28,10;<br />

Gv 20,17) traspare l’importanza di una relazione stretta simile a quella di una famiglia.<br />

3. In modo molto più vicino ai principi teologici dell’autocomprensione comunitaria si avvicina<br />

l’autodesignazione “i santi” (oi hágioi), che in verità si incontra di preferenza in Paolo (Rom 1,7;<br />

1Cor 1,2; 2Cor 1,1…), ma dovrebbe derivare da un antico uso gerosolimitano (At 9,13.32.41;<br />

26,10; cfr. 2Cor 8,4; 9,1.12). “Santo” è secondo l’uso linguistico anticotestamentario in primo luogo<br />

Dio stesso, e precisamente per la sua purezza, perfezione e separazione da ogni impurità e peccato,<br />

come pure anche tutto quello che appartiene alla sua sfera e alla sua presa quotidiana. In tal senso<br />

nei testi veterotestamentari posteriori (Dan 7,21; Tob 8,15; 12,15; 1Mac 1,46) anche degli uomini<br />

che appartengono a Dio possono essere chiamati “santi”. La parola poi è applicata, anche se rara-<br />

mente, a tutto Israele (Lev 19,2; 1Mac 1,49). Quando la comunità di Gerusalemme si denomina “i<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

santi”, esprime con ciò la sua illimitata appartenenza alla sfera di Dio, così come si è dischiusa<br />

nell’evento Cristo. Non che essa intenda rivendicare una perfezione già conseguita, ma piuttosto la<br />

sua illimitata disponibilità a Dio e alla sua causa. Dio in Cristo ha cominciato ad affermare la sua<br />

Signoria escatologica, mentre egli fa risaltare la santità del suo nome (Mt 6,9); la comunità dei di-<br />

scepoli confessa di essere l’ambito, in cui tutto questo oramai è iniziato e nello stesso tempo lo<br />

strumento di cui egli si serve per raggiungere questo suo scopo.<br />

4. Tuttavia l’autocomprensione della comunità dei discepoli post-pasquale trova la sua espressione<br />

più pregnante nella designazione: ekklesía tou Theou = Chiesa/comunità di Dio.<br />

4.1. Il significato del termine.<br />

Il concetto ecclesiologico neotestamentario con cui le comunità cristiane si autodesingano è ekkle-<br />

sía 58 . Per i primi cristiani, in particolare per gli ellenisti, questo termine era ben conosciuto perché<br />

corrente nel greco profano. Il sostantivo etimologicamente deriva da ek e kaléo e conseguentemente<br />

indicherebbe «(la totalità de)i chiamati fuori»; tuttavia questo significato originario a quanto pare<br />

non gioca più alcun ruolo nel nostro materiale. Esso è stato completamente rimosso da variazioni di<br />

senso che il termine ha subito nel corso di una lunga storia. Nella grecità classica come anche<br />

nell’ellenismo il vocabolo è divenuto un termine tecnico indicante l’assemblea popolare costituita<br />

da uomini liberi aventi diritto di voto. Questo uso linguistico politico si trova anche in At 19,39 do-<br />

ve indica «la regolare assemblea popolare» degli abitanti di Efeso 59 . Ma in un senso più ampio il<br />

vocabolo può venire adoperato anche per ogni riunione pubblica: così in At 19,32 esso indica un<br />

«assembramento tumultuoso» provocato nel teatro di Efeso dagli argentieri di quella città (cfr. an-<br />

che 19,40). Il termine era però corrente anche nell’uso linguistico veterotestamentario e giudaico;<br />

nei Settanta (III-II sec. a. C.) serve frequentemente come equivalente greco della parola ebraica qa-<br />

hal. In quest’uso distinguiamo due significati di ekklesía, che troveremo nel Nuovo Testamento. 1)<br />

In connessione con Israele il termine significa l’intero Israele (nella sua totalità esterna ed empirica),<br />

che si riunisce in un luogo o che è rappresentato da questa concreta assemblea; in particolare<br />

l’espressione «ekklesía di Dio» o «del Signore», che connota l’azione di Dio che convoca e raduna il<br />

suo popolo, definisce Israele come l’assemblea convocata da Dio. 2) Mentre l’uso linguistico elleni-<br />

58 Le 114 presenze sono ripartite nel NT in modo diseguale. Tra i sinottici soltanto in Mt se ne trovano tre (16,18; 18,17<br />

[bis]). In Gv il vocabolo manca del tutto. Il maggior numero di presenze si ha in Paolo (46, di cui 22 in 1Cor), nelle deuteropaoline<br />

(16) e in Atti (23). In Eb se ne trovano 2. Nelle lettere cattoliche il vocabolo compare solo in 3Gv (3 volte) e<br />

in Gc (1 volta). Delle 20 presenze in Ap, 19 si trovano nel contesto delle sette missive (Ap 1-3).<br />

59 At 19,39-41: «“Se poi desiderate qualche altra cosa, si deciderà nell’assemblea ( ) ordinaria. C’è il rischio di<br />

essere accusati di sedizione per l’accaduto di oggi, non essendoci alcun motivo per cui possiamo giustificare questo assembramento”.<br />

E con queste parole [il cancelliere] sciolse l’assemblea ( )».<br />

114


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

stico significherà la concreta assemblea di un popolo, di una pólis, di una comunità e non tanto<br />

(come nel giudaismo) il popolo di Dio nel suo insieme nel suo significato teologico.<br />

4.2. Il senso dell’espressione nel NT.<br />

Nella stragrande maggioranza dei passi neotestamentari in cui compare, il termine ekklesía ha un ca-<br />

rattere prettamente cristiano e va tradotto con comunità o assemblea della comunità o chiesa. Una<br />

ripartizione dei passi rispondente a queste varie accezioni è possibile soltanto entro certi limiti. In<br />

particolare occorre tener presente che la distinzione tra comunità come associazione dei cristiani di<br />

un determinato luogo e chiesa come società sovraccomunitaria del popolo di Dio o della totalità dei<br />

cristiani è del tutto estranea al NT, e ciò dipende dal fatto che il cristianesimo primitivo intende la<br />

ekklesía primariamente non come entità di carattere organizzativo, ma come entità teologica. Né la<br />

ecclesia universalis è soltanto un’associazione secondaria di singole chiese particolari autonome, né<br />

la comunità locale è soltanto un’unità di tipo organizzativo subalterna alla chiesa universale; sono<br />

invece entrambe — l’assemblea locale dei cristiani e la sovralocale comunità dei credenti — forme<br />

egualmente legittime della ekklesía costituita da Dio. È infine da sottolineare come i primi cristiani<br />

non ripresero la denominazione corrente delle assemblee giudaiche, synagogé, non tanto per la vo-<br />

lontà di distinguersi dal giudaismo (almeno fino a che non divenne completa la rottura fra i due mo-<br />

vimenti), ma «perché gli obiettivi e il senso delle assemblee, fissate dalla Legge e dai costumi ebrai-<br />

ci, non corrispondevano più a quelli delle assemblee cristiane. Occorreva un’altra designazione per<br />

segnalare, in primo luogo ai giudei, ciò che queste assemblee avevano di specifico» 60 . A disposizio-<br />

ne dei cristiani di lingua greca la Settanta fornì la parola necessaria con il termine cultuale ekklesía.<br />

4.3. Sull’origine della espressione nella prima comunità cristiana registriamo almeno due posizioni<br />

che se immediatamente non coincidono, nondimeno possono essere complementari: quella di Jür-<br />

gen Roloff e quella di Pierre Grelot 61 .<br />

- ROLOFF fonda la sua proposta su uno studio di una serie di passi, che rifletterebbero il più antico<br />

uso linguistico cristiano, in cui compare l’espressione ekklesía tou Theou, «comunità di Dio» (1Cor<br />

1,2; 10,32; 11,22; 15,9; 2Cor 1,1; Gal 1,13. — Plurale: 1Cor 11,16.22; 1Ts 2,14; 2Ts 1,4). Qui il<br />

genitivo «di Dio» non è un’aggiunta che determina in modo più preciso il precedente concetto co-<br />

munità, ma è parte costitutiva e integrale di una formulazione terminologica compatta. E questa per<br />

Roloff potrebbe essersi formata come traduzione dell’espressione q e hal ‘el (1 QM IV,10; 1 QS a I,25<br />

60 P. GRELOT, «Sur cette pierre je bâtirai mon Église», in NRTh 109 (1987) 642-643.<br />

61 J. ROLOFF, “Ekklesía”, in DENT I, 1092-1106; ID., Die Kirche im Neuen Testament (Göttingen: Vandenhoech & Ruprecht,<br />

1993) 82-85; P. GRELOT, «Sur cette pierre je bâtirai mon Église», in NRTh 109 (1987) 641-659.<br />

115


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

[em]) attestata nel giudaismo apocalittico, dove indicava la schiera di Dio della fine dei tempi 62 . Ro-<br />

loff ne deduce che l’espressione ekklesía tou Theou (q e hal ‘el) sia stata in primo luogo un’auto-<br />

designazione della primitiva comunità gerosolimitana in formazione dopo la pasqua. Essa vi si pre-<br />

stava perché corrispondeva esattamente al concetto escatologico che tale comunità aveva di sé. Que-<br />

sta aveva coscienza di essere la schiera eletta da Dio, da lui destinata a diventare centro e punto di<br />

cristallizzazione dell’Israele della fine dei tempi, al quale ora doveva essere rivolta la sua chiamata.<br />

I giudeocristiani ellenisti della cerchia di Stefano, gli etnicocristiani antiocheni (At 11,26; 13,1) e<br />

anche Paolo poterono senza difficoltà far propria questa denominazione, benché la loro concezione<br />

della legge fosse diversa da quella dei gerosolimitani; anzi la comune coscienza dei giudeocristiani<br />

e degli etnicocristiani di essere la comunità di Dio della fine dei tempi si mostrò infine come il vin-<br />

colo unificante senza il quale il fondamentale riconoscimento, nel concilio apostolico (Gal 2,6-10),<br />

dell’etnicocristianesimo, libero dalla legge, da parte del giudeocristianesimo, fedele alla legge, diffi-<br />

cilmente sarebbe stato immaginabile.<br />

- GRELOT, nota però che «né l’ebraico qahal e il suo equivalente aramaico, né il greco ekklesía figu-<br />

rano per designare l’assemblea religiosa di Israele in un contesto escatologico» 63 . Egli perciò ricava<br />

queste conclusioni:<br />

(1) La parola è biblica e non è una semplice trasposizione dell’ ekklesía civile.<br />

(2) L’assemblea cristiana è un compimento delle Scritture, ma non delle promesse profetiche, per-<br />

ché la parola qahal/ ekklesía non figura in un contesto originario orientato verso l’escatologia o<br />

in testi che il Giudaismo contemporaneo di Gesù avrebbe interpretato in prospettiva escatologica.<br />

62 Questo modo d’intendere per Roloff rivedrebbe la concezione tradizionale, secondo cui il termine cristiano ekklesía<br />

sarebbe stato tratto dai Settanta, che l’avrebbero introdotto come traduzione del veterotestamentario qahal, «assemblea,<br />

schiera del popolo di Dio». Una tale ripresa diretta dell’AT secondo Roloff è improbabile per vari motivi: 1) qahal nei<br />

Settanta non è tradotto soltanto con ekklesía, ma anche con synagogé, e proprio quest’ultimo è il concetto di gran lunga<br />

più profilato e più pieno di contenuto teologico per la designazione della comunità di salvezza. 2) I Settanta rendono q ehal<br />

jhwh con ekklesía (synagogé) kyriou, mentre il NT parla in prevalenza di ekklesía tou Theou. 3) Manca nel NT una<br />

prova scritturistica che parta dal concetto ekklesía (fatta eccezione forse per At 7,38), cosa insolita per un concetto di<br />

tale importanza tratto direttamente dall’AT. D’altra parte, si devono tuttavia far valere anche alcune considerazioni contrarie<br />

alla tesi (di Schrage) secondo cui il concetto di ekklesía sarebbe stato dapprima assunto come autodesignazione<br />

nella cerchia dei giudeocristiani ellenisti raccolti intorno a Stefano (At 6) e poi ulteriormente sviluppato da Paolo precisamente<br />

in antitesi polemica col concetto synagogé, già gravato di nomismo giudaico. Essa non regge, tra l’altro, per il<br />

fatto che in nessuna delle presenze in Paolo è riscontrabile una nota di critica alla legge, e anzi il concetto in Mt 16,18 si<br />

inserisce a pieno titolo nell’ambito della concezione giudeocristiana della legge propria della comunità di Mt. A ciò si<br />

aggiunge che Paolo in 1Ts 2,14 include nella designazione ekklesía tou Theou anche le antiche comunità giudaiche.<br />

63 P. GRELOT, Sur cette pierre, 644. E Ne 13,1 [= 2Esdra 23,1 LXX] sembrerebbe dargli ragione. Qui infatti si utilizza<br />

proprio l’espressione ekklesía tou Theou [q e hal elohîm] in un discorso che intende determinare le condizioni di appartenenza<br />

alla comunità di Israele, già fissate in Dt 23,4 [passo in cui si adopera invece l’espressione q e hal Yhwh = ekklesía<br />

tou Kyriou].<br />

116


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

(3) Inoltre non è da supporre un trasferimento alla comunità fondata da Gesù del titolo dato prece-<br />

dentemente all’assemblea cultuale di Israele, in particolare quella del deserto che aveva ricevuto<br />

il dono della Legge, perché più propriamente è la medesima ekklesía. Ci sarebbe, nella realizza-<br />

zione storica del disegno di Dio, una sola ekklesía, una sola “assemblea santa” riunita per assicu-<br />

rare il vero culto di Dio. Fondata nel deserto all’epoca dell’alleanza sinaitica e del dono della<br />

Legge, questa “assemblea santa” ha trovato il suo “compimento” supremo e la sua struttura defi-<br />

nitiva grazie al sangue della Croce, che è il “sangue dell’alleanza” (Mc-Mt) attraverso cui è stata<br />

realizzata “la nuova alleanza” (Lc-1Co), e mediante il dono dello Spirito promesso (Lc 24,29; At<br />

1,5.8; 2,1-36). La ekklesía allora non si sostituisce alla comunità di Israele riunita in vista del ve-<br />

ro culto di Dio. Essa ne è la fioritura finale.<br />

(4) Così l’ ekklesía di Israele, senza recidersi nessuna delle sue radici storiche, riceve da Dio la sua<br />

ultima mutazione. Non si tratta tanto di rimpiazzare una istituzione con un’altra. Il mutamento<br />

era stato abbozzato durante il ministero di Gesù dal gruppo di discepoli che egli aveva riunito at-<br />

torno a lui e si realizza pienamente dopo la sua risurrezione. Lo sviluppo della ekklesía così tra-<br />

sformata prosegue durante tutta l’epoca apostolica. Ma uno dei suoi elementi essenziali è la sua<br />

apertura a tutte le nazioni: cfr. Mt 28,19-20. In questo contesto non si tratta di creare un nuovo<br />

gruppo religioso accanto a Israele, in concorrenza con lui, ma di raccogliere Israele e le nazioni<br />

— o almeno coloro che avranno creduto in Israele e nelle nazioni — in seno al gruppo dei disce-<br />

poli di Gesù Cristo. Non sono quindi i discepoli che si organizzeranno in una ekklesía, per loro<br />

iniziativa, per fare concorrenza al giudaismo da cui il loro gruppo primitivo sarà escluso dopo<br />

aver sussistito a titolo particolare. Ma è Gesù Cristo, risuscitato tra i morti, che dà loro la missio-<br />

ne di condurre la ekklesía, già esistente in Israele, al suo compimento definitivo, in riferimento a<br />

ciò che egli ha detto e fatto fino alla sua morte e alla sua esaltazione suprema.<br />

(5) Il termine tecnico qahal / ekklesía è scelto esattamente, nel linguaggio religioso, per mostrare<br />

questa continuità dei due Testamenti attraverso la mutazione che la venuta, la morte e la risurre-<br />

zione di Gesù Cristo hanno introdotto nel popolo di Dio, per fare sì che il “regime di alleanza”,<br />

fondato sul Sinai e rifondato di nuovo dal Cristo, realizzi effettivamente la salvezza degli uomini.<br />

Ciò avverrà raggiungendo la totalità del genere umano, senza obbligarlo ad entrare nella “nazio-<br />

ne” giudaica. Gesù fu, personalmente, il solo “Resto” giusto dell’ ekklesía sinaitica, per far scop-<br />

piare i limiti di questa e farle raggiungere i limiti del genere umano tutto intero.<br />

Il vocabolo ekklesía da solo, dove compare come termine ecclesiologico, va inteso come abbrevia-<br />

zione dell’espressione originaria ekklesía tou Theou, va cioè sottintesa la precisazione «di Dio» co-<br />

117


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

me genitivus auctoris. Talvolta in Paolo anche Cristo è menzionato in connessione con la ekklesía,<br />

così in Rom 16,16: «Vi salutano tutte le chiese di Cristo». Tuttavia che qui Dio non sia stato affatto<br />

sostituito da Cristo come autore e iniziatore della comunità, risulta chiaro da 1Ts 1,14: «Infatti voi<br />

siete diventati imitatori delle chiese di Dio in Giudea in Gesù Cristo» («in Gesù Cristo» si riferisce<br />

alle «chiese di Dio» e non a «imitatori»). L’azione di Dio che fonda la chiesa è mediata da Cristo. La<br />

comunità in Tessalonica deve la sua esistenza, non diversamente dalle comunità in Giudea, a Gesù<br />

Cristo operante nella parola del vangelo. La medesima cosa è espressa in forma abbreviata in Gal<br />

1,22: «le chiese della Giudea in Cristo». «In Cristo» è qui non soltanto un’espressione convenziona-<br />

le che sostituisce l’aggettivo «cristiano» ancora mancante; una tale qualificazione non avrebbe senso<br />

poiché Paolo non conosce altra ekklesía che quella cristiana. Si fa piuttosto ancora una volta riferi-<br />

mento all’origine della comunità di Dio nell’evento di Cristo.<br />

4.4. Sintesi riassuntiva.<br />

(a) ekklesía è l’assemblea dei credenti e specialmente l’assemblea liturgica (1Cor 11,18.20): come<br />

Israele si sente «comunità di Dio» nella celebrazione pasquale, così pure la comunità cristiana<br />

nella celebrazione liturgica e in specie della cena del Signore si intende come la comunità esca-<br />

tologica che Dio ha raccolto mediante l’opera redentrice di Gesù Cristo;<br />

(b) ekklesía è la comunità locale concreta (1Cor, 1,2; 14,23; 2Cor 1,1; Rm 16,4; Gal 1,2; 1Ts 1,1;<br />

Flm 2): la singola comunità nonostante la sua limitatezza locale, è, nel concreto adempimento<br />

dell’obbedienza di fede, chiesa di Dio in senso pieno, non come singola entità isolata, ma in<br />

quanto in essa assume forma visibile l’operare di Dio, volto in tutto il mondo alla raccolta del<br />

popolo; essa è l’assemblea dei cittadini che, possedendo pieni diritti di cittadinanza alla nuova<br />

realtà sociale e salvifica istituita da Dio (Fil 3,20; Ef 2,19), sono veramente liberi (Gal 5); essa è<br />

il luogo in cui vengono prese decisioni determinanti come l’espulsione o la riammissione di un<br />

membro nella comunità (1Cor 5-6; 2Cor 2,5-11);<br />

(c) ekklesía è, infine, l’intera comunità dei credenti in Cristo (Gal 1,13; 1Cor 15,9; 12,28; At 20,28;<br />

Col 1,18.24; Ef 1,22; 3,10.21; 5,23-32), che si comprende come l’assemblea escatologica del<br />

popolo formato dai santi di Dio, la cui costituzione ha preso un inizio definitivo a partire dalla<br />

risurrezione di Gesù e dall’invio dello Spirito.<br />

Secondo i dati neotestamentari non c’è contraddizione tra l’uso locale e l’uso universale del termine<br />

ekklesía. Il primo uso privilegia il concetto paolino secondo cui la singola concreta assemblea dei<br />

credenti è chiesa in senso proprio; il secondo riprende soprattutto l’idea gerosolimitana (ripresa in<br />

Ef e Col) dell’unica Chiesa di Dio che comprende tutti i credenti.<br />

118


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

1.3.2. Il punto della situazione<br />

a) Chiesa come implicazione nell’agire di Gesù<br />

La nostra riflessione sulla relazione fra Gesù e Chiesa è giunta alla conclusione che la Chiesa è im-<br />

plicata in modo necessario (ossia “teologico”) nell’evento Gesù. Se quindi possiamo parlare di una<br />

cristologia implicita nel Gesù prepasquale, analogamente si può parlare di una <strong>ecclesiologia</strong> impli-<br />

cita. In entrambi i casi abbiamo parole e azioni di Gesù, che nelle condizioni mutate della situazione<br />

post-pasquale costituiscono il principio per una nuova comprensione. Come l’autotestimonianza e la<br />

rivendicazione di autorità di Gesù costituiscono gli impulsi iniziali insostituibili per la cristologia,<br />

così lo sono per la forma e l’autocomprensione della Chiesa il suo comportamento di convocazione<br />

e la figura sociale della cerchia dei suoi discepoli. Pertanto i seguenti impulsi provenienti da Gesù si<br />

ripercuotono come istruzioni direttive per il discorso neotestamentario sulla Chiesa:<br />

1. Nel segno dell’imminente Regno di Dio Gesù dà inizio alla raccolta della comunità salvifica degli<br />

ultimi tempi. Per Gesù, allora, Signoria di Dio e Popolo di Dio si coappartengono immediatamente.<br />

Qui troviamo il presupposto per cui la comunità post-pasquale dei discepoli, mentre comprese la ri-<br />

surrezione di Gesù come l’inizio dell’evento salvifico finale, nello stesso tempo imparò a compren-<br />

dere se stessa come inizio e nucleo del popolo di Dio definitivo. Perciò escatologia ed <strong>ecclesiologia</strong><br />

si trovano unite in una relazione mutua.<br />

2. Gesù manifesta la coscienza di essere inviato a Israele. La comunità salvifica, la cui raccolta egli<br />

cercò di realizzare, doveva essere nel suo nucleo il popolo delle dodici tribù compiuto e rinnovato.<br />

Questa missione di Gesù verso Israele durante la sua attività terrena non raggiunse un compimento<br />

visibile. Tuttavia essa rimase una norma vincolante per le prime due generazioni cristiane. Il pro-<br />

blema ecclesiologico fondamentale che si presentò fu che Gesù voleva raccogliere Israele, tuttavia<br />

ciò che ne venne fu la Chiesa dai giudei e dai pagani. Ma il fatto che, da una parte, Israele in mag-<br />

gioranza avesse rinunziato a credere in Gesù e che, d’altra parte, i pagani avessero accolto la chia-<br />

mata alla conversione e alla fede in lui, necessitava di un fondamento teologico. Questo è proprio il<br />

punto di partenza della riflessione ecclesiologica esplicita del cristianesimo primitivo: ossia la rela-<br />

zione tra la Chiesa — composta da ebrei e pagani — e Israele. Nonostante le differenti risposte, gli<br />

autori neotestamentari concordano sul fatto che la Chiesa si trova in una relazione indissolubile con<br />

Israele e che la chiamata alla salvezza è una conseguenza immediata della raccolta del popolo di Dio<br />

iniziata da Gesù. Ne deriverà come conseguenza permanente per la Chiesa di Gesù il suo legame<br />

canonico alle Scritture e alla storia di Israele, che diventano Antico Testamento.<br />

3. L’orientamento di Gesù a Israele più che “esclusivo”, fu “inclusivo”. Egli volle raccogliere per<br />

119


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

Dio e la sua Signoria non un resto santo, piuttosto l’intero popolo fino ai suoi margini più estremi<br />

— i pubblicani e i peccatori. Nel suo orizzonte entrano almeno indirettamente anche i pagani:<br />

l’Israele totale potrà così finalmente adempiere alla sua funzione di segno salvifico per i popoli del<br />

mondo. I discepoli riconobbero che Gesù aveva aperto definitivamente questa prospettiva inclusivi-<br />

sta nei confronti dei pagani soprattutto nelle parole pronunciate sul calice durante l’ultima cena (Mc<br />

14,24 par.), e riflettendo su di esse trovarono la legittimazione post-pasquale della missione ai pa-<br />

gani. Così la Chiesa di Gesù avrà come tratto essenziale la sua apertura universale: nessuna condi-<br />

zione etnica, sociale, culturale, religiosa può impedirne l’appartenenza (Gal 3,28).<br />

4. Gesù ha fatto sì che sorgesse una struttura sociale nuova nella cerchia degli uomini da lui raccol-<br />

ti. Questa si riferiva in primo luogo ai discepoli chiamati alla forma di vita della sequela, ma non è<br />

circoscrivibile ad essa. Tale struttura sociale era determinata dalla vicinanza del Regno di Dio e i<br />

suoi segni distintivi essenziali erano la rinuncia alla forza e al dominio, la disponibilità al servizio e<br />

la capacità di accogliersi nell’amore e nel perdono. Così la comunità dei discepoli divenne una “so-<br />

cietà di contrasto”, che attraverso la propria esistenza offriva un segno pubblico in grado di alimen-<br />

tare la speranza nella Signoria imminente di Dio 64 . Questo è un fattore centrale per l’auto-<br />

comprensione della Chiesa primitiva. Naturalmente esso rimase vivo soprattutto in gruppi fortemen-<br />

te determinati da una teologia apocalittica della storia (Apocalisse) e rispettivamente nelle comunità<br />

che si dovevano affermare come minoranze in un ambiente ostile (Matteo, 1 Pietro; scritti giovan-<br />

nei). Ma anche dove, nel quadro di un’apertura alla società non cristiana, questa coscienza di con-<br />

trasto perse di importanza (lettere pastorali), rimase tuttavia l’intuizione che la comunità cristiana è<br />

debitrice nei confronti della società della testimonianza di una condotta singolare.<br />

5. La nuova struttura sociale dei discepoli di Gesù si costituisce solo perché Gesù chiama a farvi<br />

parte e offre la sua comunione. È Gesù stesso che incarna la figura della nuova vita, determinata<br />

dalla vicinanza della Signoria di Dio; ma soprattutto è lui che apre l’accesso a questa vita — in<br />

modo ultimo e definitivo nell’orientamento del suo morire alla comunità dei discepoli durante<br />

l’ultima cena. La presenza di Gesù in mezzo alle persone che gli appartengono, il suo “esserci-per-<br />

loro” e “essere-con-loro”, è fin da allora un presupposto decisivo per l’esistenza della Chiesa.<br />

b) Le esperienze e le decisioni della generazione apostolica<br />

La generazione apostolica ha inoltre posto alcune pietre miliari per la comprensione della Chiesa.<br />

64 Sulle “norme di tavola” del regno di Dio, si veda G. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa?, op. cit., 203-215; cfr.<br />

anche ID., Gesù come voleva la sua comunità? (Cinisello Balsamo - Milano: EP, 1987) 61-102.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

1. In primo luogo emerge il peso centrale della escatologia. Senza dubbio la coscienza della Chiesa<br />

ha le sue origini nell’esperienza della presenza dello Spirito di Dio degli ultimi tempi nella comuni-<br />

tà post-pasquale dei discepoli. Questa imparò a comprendersi come strumento e punto di cristalliz-<br />

zazione per quel rinnovamento del popolo di Dio, il cui punto di partenza era l’elevazione di Gesù<br />

alla destra di Dio. La Pentecoste non significò alcuna rottura con la storia di Israele, piuttosto il suo<br />

compimento finale; era la conclusione e l’offerta escatologica della stipulazione del patto di Dio per<br />

il suo popolo. Così escatologia e storia della salvezza appaiono intrinsecamente connesse. La pre-<br />

senza della novità definitiva fu compresa come l’obiettivo ultimo dell’agire storico di Dio, il quale<br />

nel passato aveva sempre di nuovo chiamato, rinnovato e legato a sé il suo popolo.<br />

Questo legame tra escatologia e storia della salvezza — come appare anche terminologicamente<br />

nell’autodesignazione ekklesía tou Theou — fu pure determinante per l’intuizione della essenziale<br />

unità della Chiesa: come Israele era il popolo unico, al quale Dio aveva attestato nella storia il suo<br />

agire creatore, e che era il segno della sua Signoria, così anche il popolo più grande, attraverso cui<br />

Dio può attestare il proprio agire finale che ha di mira la totalità del mondo e della storia, e che è il<br />

segno presente della sua nuova creazione, può essere solamente uno. In virtù di questa intuizione la<br />

Chiesa dal tempo primitivo in poi ha resistito tenacemente a tutte le tentazioni ovvie di dar forma,<br />

analogamente alle altre comunità di culto, ad associazioni determinate esclusivamente da fattori re-<br />

gionali e culturali, indipendenti l’una dall’altra. La prova decisiva fu il concilio apostolico.<br />

2. Una decisione fondamentale fu quella di aprire la missione ai pagani. È probabile che in essa si<br />

vide il compimento delle parole pronunciate da Gesù sul calice nell’ultima cena (Mc 14,24), nella<br />

nuova interpretazione resa possibile dall’esperienza escatologica presente. La raccolta dei “molti”<br />

annunziata da Gesù come effetto del suo morire appariva come un dato reale deciso e perseguito in<br />

potenza da Dio stesso. Nella stessa direzione orientava anche la fede nella risurrezione e nell’eleva-<br />

zione di Gesù quale Signore definitivo del mondo e della storia: l’universalità della Signoria di Ge-<br />

sù Cristo aveva come segno manifesto la raccolta di un unico popolo per Dio in tutto il mondo.<br />

3. Altro elemento fondamentale fu la nuova interpretazione cristologica del Battesimo. Il battesimo<br />

fu inteso come quell’atto con cui Dio incorpora sia giudei sia pagani all’ambito della Signoria di<br />

Cristo nello Spirito, ossia al popolo di Dio degli ultimi tempi, la Chiesa. Sicuramente il battesimo<br />

fin dall’inizio fu compreso come l’evento, attraverso cui il singolo entra in connessione con Cristo,<br />

come atto di legame personale a lui e come inclusione nella salvezza da lui resa effettiva. Questo si<br />

esprime già nelle formule del Battesimo «sul nome di Cristo» e «nel suo nome». Così si intese il<br />

battesimo come la continuazione e la trasformazione della chiamata prepasquale di Gesù al suo di-<br />

scepolato nelle nuove condizioni della situazione post-pasquale. Come poi la chiamata al discepola-<br />

121


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

to non istituiva solo una relazione personale del chiamato a Gesù, ma nello stesso tempo anche<br />

l’appartenenza alla comunione dei discepoli di Gesù, così pure il battesimo divenne l’atto della in-<br />

corporazione nella comunione della Chiesa e pure un atto di iniziazione. Il battezzato veniva aggre-<br />

gato (At 2,41) alla comunità di quegli uomini, che già come concreta figura sociale, si sottoponeva-<br />

no all’ambito dell’evento salvifico del tempo finale. Tra il battezzato e la Chiesa si costituiva dun-<br />

que una relazione di legame mutuo. Proprio questa comprensione del battesimo come corrisponden-<br />

te post-pasquale alla chiamata di Gesù al discepolato, fornì il presupposto per cui tre dei quattro<br />

vangeli canonici — l’eccezione è Luca con la sua visione storicizzante — iscrissero completamente<br />

la loro immagine della Chiesa nello spazio della storia della comunità pre-pasquale dei discepoli.<br />

4. Paolo congiunge <strong>ecclesiologia</strong> e cristologia. Egli presenta la Chiesa come la comunione di coloro<br />

che sono riuniti nella koinonía dell’unico “corpo”, grazie alla partecipazione al dono che Gesù ha<br />

fatto di se stesso nella morte “per i molti”. La Chiesa per Paolo è quindi un organismo vivente; per-<br />

tanto le sue relazioni vitali sono determinate in modo costitutivo dal “principio Cristo” dell’essere a<br />

servizio gli uni per gli altri. Perciò Paolo attribuisce alla cena eucaristica la capacità di costituire la<br />

Chiesa. Il suo modello ecclesiologico fondamentale è la comunione liturgica a quella mensa che è il<br />

memoriale della cena del Signore, e che contemporaneamente è anche comunione di vita. Questo<br />

modello fondamentale trova la sua manifestazione concreta nell’assemblea locale, poiché solo qui è<br />

possibile esperimentare la coappartenenza di comunione eucaristica e di comunione di vita.<br />

Nell’esistere come assemblea locale, cioè come comunità, la Chiesa mantiene la fedeltà a ciò che la<br />

informa ossia l’essere l’uno con l’altro e l’uno per l’altro in virtù della comunione di mensa con Ge-<br />

sù. Solo perché essa vive come comunità che sorge dalla mensa eucaristica, la Chiesa è preservata<br />

dal comprendersi come associazione di opinioni religiose. Inoltre solo così essa può percepire la<br />

propria funzione, di essere segno dell’agire salvifico di Dio nel mondo di fronte alla società. Tutti i<br />

tentativi di sostituire la comunità locale concreta attraverso altre, sedicenti forme di organizzazione<br />

conformi ai dati sociali della moderna società, hanno contro di loro il veto teologico di Paolo.<br />

5. Poiché Paolo ha dato all’idea della forma sociale vincolante della Chiesa un profilo così netto,<br />

egli ha chiarito che la visibilità appartiene all’essenza della Chiesa. La sua forma sociale è impressa<br />

nella Chiesa per il fatto che essa diviene corpo di Cristo, organismo vivente, nel quale Gesù, il servo<br />

che ha dato se stesso, è continuamente presente e attivo. Ed essa è visibile, poiché la nuova creazio-<br />

ne di Dio, di cui Cristo è il primogenito, deve avere un segno pubblico in cui manifestarsi. Paolo e-<br />

sprime così a partire dal suo principio cristologico quello che finalmente è la convinzione di tutti gli<br />

scrittori neotestamentari. Egli su questo punto concorda pienamente con Matteo. Anche il primo e-<br />

vangelista sottolinea la forma sociale vincolante e nello stesso tempo la visibilità della Chiesa: essa<br />

122


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

è la comunione dei discepoli, che vive nella sequela di Gesù e nella radicale obbedienza ai suoi co-<br />

mandamenti e per questo costituisce per il mondo un segno di speranza della vicinanza di Dio.<br />

6. Sebbene Paolo abbia certamente istituito il modello interpretativo cristologico della Chiesa come<br />

“corpo” e per quanto gli abbia dato un peso fortissimo, non lo ha assolutizzato; piuttosto egli ha<br />

continuato nello stesso tempo il modello interpretativo tradizionale, che vedeva la Chiesa come po-<br />

polo di Dio degli ultimi tempi. Tuttavia l’insorgente bipolarità nella comprensione della Chiesa,<br />

non è espressione di irrisolutezza e incoerenza teologica, piuttosto deriva dall’intuizione che<br />

l’essenza della Chiesa non può essere sufficientemente compresa da un’unica prospettiva, ma ri-<br />

chiede una considerazione bidimensionale. Il modello interpretativo “popolo di Dio” fa risaltare la<br />

dimensione storico-salvifica e perciò anche escatologica della Chiesa. Esso mette in rilievo che la<br />

Chiesa è la realizzazione di quell’agire creatore di storia in forza del quale il Dio di Israele si è scel-<br />

to nella storia il suo popolo. A motivo di questo agire di Dio, essa è posta in una continuità perma-<br />

nente con Israele ed è perciò radicata nel passato. Proprio questo agire di Dio è però ciò in forza del<br />

quale essa è divenuta il segno di ciò che viene, del nuovo mondo di Dio. Con il modello interpreta-<br />

tivo “popolo di Dio” viene espressa per così dire l’orizzontalità storica dell’essenza della Chiesa, il<br />

suo essere in rapporto con la totalità della storia e del mondo. Il modello interpretativo cristologico<br />

con le sue metafore centrali “corpo” e “edificio”/“tempio” risponde invece alla verticalità della pre-<br />

senza di Cristo nello Spirito. Essa esprime che la Chiesa come realtà presente determina e visibil-<br />

mente produce i suoi effetti nella sua figura sociale come κοινωνία. Poiché Paolo accoglie entrambi<br />

i modelli interpretativi e si premura di connetterli fra loro — nonostante tensioni permanenti —, e-<br />

gli ha posto una norma vincolante, sulla quale tutti gli altri discorsi e riflessioni sulla Chiesa devono<br />

lasciarsi misurare. Perciò si può correttamente dire che la Chiesa è «popolo di Dio non altrimenti<br />

che a partire dal corpo di Cristo crocifisso e risorto»: J. RATZINGER, “L’<strong>ecclesiologia</strong> del Vaticano<br />

II”, in ID., Chiesa, ecumenismo e politica (Cinisello Balsamo: EP, 1987) 24.<br />

7. Tra i fattori significativi per la prima generazione si deve finalmente menzionare anche il ministe-<br />

ro dell’Apostolato. Nella specifica impronta che riceve soprattutto da Paolo, esso diviene l’anello di<br />

congiunzione personale tra Cristo e la Chiesa. L’apostolo è colui che porta e trasmette l’annuncio<br />

del vangelo, annuncio che ha di mira la raccolta del popolo di Dio degli ultimi tempi. Nello stesso<br />

tempo però egli è anche l’inviato di Cristo, che nella sua persona rappresenta la forma di esistenza<br />

determinata da Cristo, il Servo e colui che ha dato se stesso, in una maniera normativa per la vita<br />

della Chiesa. Questa immagine dell’Apostolo pone il principio per la comprensione del ministero di<br />

direzione delle comunità, come si sviluppò nelle comunità paoline.<br />

123


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

1.3.3. Il passaggio dall’epoca apostolica a quella post-apostolica<br />

a) L’era sub-apostolica nel Nuovo Testamento<br />

Se gli apostoli sono il fondamento solido su cui si appoggia la santa casa della Chiesa (Ef 2,20), co-<br />

sa è avvenuto quando l’ultimo testimone apostolico è morto, e la chiesa non poteva più fondarsi sul-<br />

la testimonianza di coloro che avevano visto il risorto? Anche solo dal punto di vista sociologico il<br />

problema della continuità e della successione sorge inevitabilmente con la scomparsa dei capi origi-<br />

nari di un movimento. La crisi si accentua quando questi capi hanno spinto innovativamente i loro<br />

seguaci lontano dai precedenti criteri di autorità. Dal tempo in cui morirono gli apostoli, le chiese si<br />

stavano allontanando o si erano già allontanate da gran parte di ciò che anteriormente costituiva<br />

l’autorità nel giudaismo; ma allora esse hanno dovuto sopravvivere senza la vivente tutela delle<br />

grandi figure della prima generazione. Come hanno pensato di affrontare la sfida della continuità<br />

con la testimonianza apostolica quale garanzia della fedeltà della chiesa alla propria identità? 65<br />

In passato si rispondeva a questa domanda volgendosi alle opere scritte dopo il NT, perché si pre-<br />

sumeva che il NT e l’era apostolica fossero confinanti. Si pensava che i libri del NT fossero stati<br />

scritti dagli apostoli e la fase storica successiva al NT fu chiamata «sub-apostolica». Nella tradizio-<br />

ne cattolica questa visione venne sintetizzata nell’assioma che la rivelazione si era chiusa con la<br />

morte dell’ultimo apostolo; ciò presupponeva che la composizione del NT si fosse completata prima<br />

della morte degli apostoli. Oggi, invece, si anticipa la fine del periodo apostolico all’interno della<br />

fase storica del NT. Così si può ragionevolmente ipotizzare che la maggior parte del NT nella for-<br />

ma finale in cui ci è pervenuto fu scritto dopo la morte dell’ultimo apostolo conosciuto 66 .<br />

65<br />

Raccogliamo qui alcune riflessioni di R. E. BROWN, Le Chiese degli Apostoli. Indagine esegetica sulle origini dell’<strong>ecclesiologia</strong><br />

(Casale Monferrato (Al): Piemme, 1992).<br />

66<br />

Forse quest’affermazione restrittiva ha bisogno di essere spiegata. Sebbene molti siano chiamati «apostoli» nel NT,<br />

noi ne conosciamo dettagliatamente soltanto tre. Se iniziamo dai dodici, la maggior parte di loro non sono altro che nomi.<br />

Escludendo Giuda Iscariota, ne emergono soltanto quattro, cioè le due coppie di fratelli: Pietro e Andrea, Giacomo e<br />

Giovanni. Anche se nei vangeli questi quattro apostoli vengono presentati spesso in compagnia di Gesù, nella storia che<br />

il NT dà della chiesa primitiva Andrea scompare; Giacomo viene martirizzato all’inizio degli anni 40 (At 12,2); e Giovanni<br />

è menzionato all’ombra di Pietro in pochi passi (3,1; 4,13; 8,14; Gal 2,9). La tradizione posteriore abbellì la biografia<br />

di Giovanni identificandolo con il discepolo prediletto della tradizione del IV Vangelo, ma una simile identificazione<br />

è tutt’altro che certa. Di conseguenza, Pietro è l’unico membro del collegio dei dodici sulla cui “carriera ecclesiastica”<br />

siamo oggettivamente informati, grazie alle lettere paoline ai Galati e ai Corinzi, grazie al libro degli Atti e alle<br />

lettere della tradizione petrina. All’infuori dei dodici conosciamo parecchie cose su Paolo, grazie alle tredici lettere attribuite<br />

a lui nel NT e grazie alle informazioni biografiche fornite dal libro degli Atti. Giacomo «il fratello del Signore»<br />

era probabilmente un apostolo, sebbene non fosse uno dei dodici. La sua importanza come guida della comunità di Gerusalemme<br />

ci è attestata sia nelle lettere paoline che nel libro degli Atti; una delle Lettere del NT è attribuita a lui, mentre<br />

nella lettera di Giuda l’autore si identifica in relazione con Giacomo. Secondo una tradizione attendibile, Pietro e<br />

Paolo morirono a Roma negli anni 60, e Giacomo morì a Gerusalemme nello stesso periodo. Così, entro l’anno 67 d.C. i<br />

tre apostoli di cui possediamo una conoscenza dettagliata erano spariti dalla scena.<br />

124


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

Si può, perciò, adottare una terminologia che distingua una «età apostolica», che si riferisce al peri-<br />

odo che va fino agli anni 60, dal periodo «sub-apostolico», che designa gli ultimi trent’anni del pri-<br />

mo secolo. Con l’eccezione delle indiscusse lettere di Paolo, forse la maggior parte del NT è stata<br />

scritta in questi ultimi trent’anni del primo secolo, un periodo in cui gli autori del NT scrivevano<br />

senza usare i loro nomi propri e a volte si celavano sotto il nome dei loro predecessori apostolici. La<br />

tradizione successiva tenderà ad assegnare un nome agli autori dei vangeli; ma le ricerche moderne<br />

hanno messo in discussione l’attendibilità di queste attribuzioni che, in ogni caso, possono essere<br />

intese come indizi sull’autorità che si trova dietro l’opera individuale, più che non sull’effettivo au-<br />

tore. Come per le epistole deutero-paoline (le pastorali, Ef, e Col) e le lettere cattoliche, la designa-<br />

zione degli autori come Paolo, Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda probabilmente rappresenta una<br />

pretesa di fedeltà agli apostoli piuttosto che una obiettiva designazione di paternità apostolica. In ve-<br />

rità, l’anonimato dei veri autori ben si adatta all’ambiente sub-apostolico, dove la fedeltà alla me-<br />

moria dei grandi apostoli era la caratteristica dominante.<br />

In questa terminologia il periodo «post-apostolico» comincia alla fine del primo secolo quando ab-<br />

biamo gli scritti cristiani che si fondano sulla propria autorità, ad esempio le lettere di Ignazio di<br />

Antiochia e la lettera della chiesa di Roma alla chiesa di Corinto, che noi conosciamo come la prima<br />

lettera di Clemente. Questi scritti della «terza generazione» muovevano dal presupposto di avere gli<br />

apostoli come fonte diretta 67 . Se l’episodio della morte dell’ultimo apostolo si può datare alla metà<br />

degli anni 60, il problema di sapere che cosa accade quando l’ultimo apostolo sparì dalla scena, ot-<br />

tiene una risposta già in gran parte del NT.<br />

b) Vari approcci al periodo sub-apostolico<br />

1. La risposta classica, già data nella prima lettera di Clemente (n. 42 e 44), è che come Gesù elesse<br />

gli apostoli (i dodici insieme a Paolo), così anche gli apostoli elessero i vescovi e i presbiteri che<br />

succedessero loro 68 . Di conseguenza, si formò l’idea di una ordinata successione di autorità nella fa-<br />

67 L’espressione «tre generazioni» per indicare i periodi “apostolico”, “sub-apostolico” e “post-apostolico” è una generalizzazione<br />

utile se non la si prende troppo alla lettera; la 2Pt evidentemente non rientrerebbe nella nostra divisione.<br />

68 1Clem., XLII. XLIV: «Gli apostoli predicarono il vangelo da parte del Signore Gesù Cristo che fu mandato da Dio.<br />

Cristo da Dio e gli apostoli da Cristo. Ambedue le cose ordinatamente dalla volontà di Dio. Ricevuto il mandato e pieni<br />

di certezza nella risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo e fiduciosi nella parola di Dio con l’assicurazione dello<br />

Spirito santo andarono ad annunciare che il regno di Dio era per venire. Predicavano per le campagne e le città e costituivano<br />

le loro primizie, provandole nello spirito, nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli. E questo non era nuovo; da<br />

molto tempo si era scritto intorno ai vescovi e ai diaconi. Così, infatti dice la Scrittura: “stabilirò i loro vescovi nella<br />

giustizia e i loro diaconi nella fede” [Is 60,17] (...) I nostri apostoli conoscevano da parte del Signore Gesù Cristo che ci<br />

sarebbe stata contesa sulla carica episcopale. Per questo motivo, prevedendo esattamente l’avvenire, istituirono quelli<br />

che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati...»: in I<br />

Padri apostolici (Roma: Città Nuova, 1984 4 ) 76-77,78.<br />

125


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

se sub-apostolica, sulla base di una chiesa unita, sfigurata soltanto dagli eretici. Queste tesi classiche<br />

cominciarono a essere rigettate al tempo della Riforma e sono state messe in discussione dagli studi<br />

moderni che hanno mostrato che l’immagine clementina era troppo semplice e non universale.<br />

2. Nel XIX secolo un’altra risposta fu data da F.C. Baur. Nella sua concezione hegeliana della storia<br />

della Chiesa, la tesi e l’antitesi erano rappresentate da Giacomo e Paolo: una concezione filo-<br />

giudaica in conflitto con una concezione filo-pagana del cristianesimo. Il secolo II vide la sintesi di<br />

ciò che precede, e l’immagine di Pietro fu invocata per simboleggiare un cristianesimo intermedio<br />

tra Paolo e Giacomo. Essenziale alla sua ipotesi era una datazione molto tardiva di alcuni documenti<br />

usati per sostenere tale sequenza, ad es. Atti. Gran parte degli studi moderni smentiscono tale data-<br />

zione e considerano come contemporanei i vari atteggiamenti cristiani osservati da Baur.<br />

3. Nel XX secolo sono state date altre risposte alla questione del cristianesimo sub-apostolico. Wal-<br />

ter Bauer sostenne che il periodo del NT e la sua immediata prosecuzione formarono un’era in cui<br />

non esisteva alcun cristianesimo standard o ortodosso: tra le tante diverse prospettive in antagoni-<br />

smo, una risultò vittoriosa e nel secondo secolo divenne l’ortodossia; quest’ortodossia si spostò da<br />

Roma verso est. La maggioranza degli studiosi ammettono alcune delle diversità che Bauer pone nel<br />

periodo del NT; ma recentemente c’è stato un crescente coro di obiezioni che rimproverano<br />

all’ipotesi di Bauer di essere troppo semplicistica e di lasciare senza risposta alcune domande fon-<br />

damentali. Ad es., la prospettiva che prevalse sulle altre era più fedele a ciò che Gesù insegnò, ri-<br />

spetto a quelle che erano state sconfitte? Dalla lettura di Bauer e della sua proposta si può avere<br />

l’impressione che tutte le diverse prospettive erano di uguale valore e ciò che emerse come ortodos-<br />

sia fu semplicemente un accidente storico, la sopravvivenza del più forte o del più adatto.<br />

4. Un’altra risposta è quella di Kirsopp Lake che ha interpretato il periodo sub-apostolico in termini<br />

di grandi centri cristiani rappresentati dalle città. Durante la vita di Gesù, il suo ministero si era<br />

svolto tra la Galilea e Gerusalemme. Nel periodo apostolico, se ci concentriamo sull’ovest, vediamo<br />

la fioritura di centri come Gerusalemme, Antiochia e Corinto. Nel periodo tardo-apostolico ed in<br />

quello sub-apostolico, secondo Lake, Efeso e Roma emersero come i grandi centri cristiani con i<br />

quali molti dei libri del NT possono essere associati. Roma era considerata come rappresentante del<br />

cristianesimo giudaico, più conservatore, sostenitore di un’<strong>ecclesiologia</strong> forte e di una cristologia<br />

debole 69 . Collegate a Roma sarebbero Rm, 1Pt, Eb, 1Clemente ed il Pastore di Erma. Sarebbero in-<br />

69 Cristologia forte significa una presentazione di Gesù che pone un accento più marcato sulla sua divinità ed il suo essere<br />

associato a Dio; la cristologia debole pone l’accento sull’itinerario umano di Gesù (senza necessariamente negare o<br />

omettere la sua divinità).<br />

126


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

vece collegate ad Efeso le lettere ai Col ed agli Ef, ed il IV Vangelo, opere di <strong>ecclesiologia</strong> debole,<br />

nel senso che pongono poca enfasi sulla struttura della chiesa, ma di alta cristologia, in quanto asso-<br />

ciano Cristo con la creazione. Recenti studi potrebbero trovare limitativa la concentrazione di Lake<br />

su due centri cristiani, perché certamente anche Antiochia ed Alessandria avevano un ruolo impor-<br />

tante nel periodo sub-apostolico e/o post-apostolico. Nonostante ciò, la sua osservazione di un cri-<br />

stianesimo più conservatore e più strettamente associato al giudaismo (Roma) e di un cristianesimo<br />

più instabile (Efeso) rimane una valida intuizione.<br />

Di fronte a queste varie prospettive, che non hanno ancora trovato una soluzione soddisfacente, pos-<br />

siamo almeno indicare alcuni elementi sui quali c’è un consenso crescente.<br />

c) Rivendicazione normativa e molteplicità storica<br />

1. Con un’osservazione molto generale rileviamo innanzi tutto che in tutti gli scritti e gruppi di<br />

scritti neotestamentari si delineano concezioni teologiche specifiche. Noi vi possiamo discernere<br />

rappresentazioni teologiche almeno abbozzate circa l’essenza, la funzione e la figura di Chiesa. Cer-<br />

tamente queste rappresentazioni hanno il loro luogo originario nella concreta esperienza della realtà<br />

ecclesiale; tuttavia non si può dire che vi si esauriscano del tutto: in connessione e opposizione alla<br />

propria esperienza pratica della Chiesa, si dovette pure comprendere che cosa è la Chiesa secondo la<br />

volontà di Dio e perciò che cosa essa deve anche essere. Perciò il discorso neotestamentario sulla<br />

Chiesa rivendica di essere un discorso normativo.<br />

2. Questa rivendicazione normativa sembra messa in questione dal fatto che nel NT troviamo l’una<br />

accanto all’altra molteplici rappresentazione della Chiesa. Oggi non è più possibile avvicinarsi al<br />

NT con l’aspettativa di trovarvi una dottrina unica sulla Chiesa, che come tale, poiché è conforme<br />

alla Scrittura, può essere trasferita senza mediazione nella nostra situazione presente. E questo è un<br />

bene, poiché di fatto questa procedura per lo più si concludeva col ritrovare nel NT solo la conferma<br />

di quelle rappresentazioni sull’essenza e figura della Chiesa, che erano valide per la propria tradi-<br />

zione confessionale. La ricerca storico critica opera qui come correttivo, che resiste al tentativo di<br />

“incassare” con troppa fretta a proprio vantaggio gli asserti neotestamentari. Essa ci svela la loro<br />

molteplicità e nello stesso tempo anche la loro estraneità, invitandoci così ad entrare in un processo<br />

di comprensione differenziato di fronte alla ricchezza del mondo neotestamentario.<br />

– Quando si tenta di usare queste testimonianze per ricostruire le situazioni della comunità nel peri-<br />

odo sub-apostolico, un serio problema metodologico è quello di accertare se i pensieri espressi siano<br />

peculiari all’autore o siano veramente condivisi da una comunità. Quando si tratta di epistole o di<br />

lettere, la situazione è spesso più facile da determinarsi. Nonostante ciò, per il fatto che tutti gli<br />

127


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

scritti sono stati conservati (e perfino accettati come canonici), siamo certi che almeno alcuni cri-<br />

stiani trovarono in essi una guida.<br />

– Un altro problema metodologico richiede cautela nel valutare il livello parziale in cui gli scritti ri-<br />

traggono le prospettive della comunità. Se le Pastorali pongono l’accento sulla struttura presbiterale<br />

e Col–Ef sottolineano il corpo di Cristo, questo non significa che i cristiani che ricevettero le Pasto-<br />

rali e l’autore che le scrisse ignorassero la teologia del corpo di Cristo, né che le persone coinvolte<br />

in Col–Ef fossero all’oscuro della struttura presbiterale. Si può soltanto essere certi della rilevanza<br />

positiva che i cristiani attribuivano ai temi che emergevano in uno scritto particolare.<br />

– Inoltre è chiaro che le differenti concezioni di Chiesa che noi rileviamo, non sono da intendere<br />

come rappresentazioni alternative, tra le quali possiamo scegliere a seconda del bisogno. Questa sa-<br />

rebbe una procedura possibile, nel caso che conoscessimo il riferimento preciso di ciascuno di que-<br />

sti abbozzi a una determinata situazione storica — situazione che in nessun caso è congruente con la<br />

nostra. Di fatto avviene spesso che noi ritroviamo nelle singole concezioni elementi che ci sono fa-<br />

miliari a partire dalle nostra tradizioni confessionali e che perciò ci piacciono particolarmente. Così<br />

c’è una chiara vicinanza della tradizione luterana alle lettere pastorali con la loro sobrietà, la loro<br />

accentuazione di confessione e tradizione come la loro comprensione del ministero come un compi-<br />

to di insegnamento (anche se alcuni tratti della comprensione del ministero delle Lettere Pastorali,<br />

innanzitutto il legame “retroattivo” personale del ministero all’Apostolo, sono estranei al Luterane-<br />

simo). Mentre ci fa pensare a un carattere “cattolico” in senso ampio la lettera agli Efesini, soprat-<br />

tutto con la sua comprensione della Chiesa come ambito e strumento della salvezza. Gruppi di chie-<br />

se libere con una rigorosa struttura interna o comunità monastiche al contrario si sentono meglio ga-<br />

rantite da Matteo. Ma proprio la coscienza di tale vicinanza a una determinata concezione dovrebbe<br />

essere ampliata attraverso la riflessione sulla totalità della testimonianza neotestamentaria della<br />

Chiesa come pure attraverso la riflessione critica sulle sue possibili riduzioni, unilateralità e deficit.<br />

– Di fronte al reperto esegetico differenziato sono inadeguate anche due “letture” determinate un<br />

poco dal moderno pensiero confessionale.<br />

Dal lato evangelico è la riduzione del principio scritturistico a un “centro della Scrittura” che si cer-<br />

ca nella testimonianza della prima generazione e soprattutto in Paolo. Proprio il considerevole e-<br />

mergere del tema Chiesa negli scritti posteriori — che di fatto costituiscono la parte predominante<br />

del canone neotestamentario — viene considerato volentieri come conferma del loro “protocatto-<br />

licesimo”. Ma a prescindere da ciò, il fatto che il tema Chiesa già in Paolo sia affrontato con una in-<br />

tensità sorprendente — almeno non sufficientemente presa in considerazione nella consueta tradi-<br />

zione interpretativa protestante —, dovrebbe chiarire che gli scritti posteriori con i loro asserti vo-<br />

128


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

gliono prendere posizione sui problemi che stavano sorgendo nell’età sub-apostolica: il problema<br />

della identità della Chiesa in una storia che continuava, della sua corretta relazione con l’eredità del<br />

tempo originario del vangelo come pure del rapporto della Chiesa alla società non cristiana. Ma<br />

proprio questi sono quei problemi per cui anche l’<strong>ecclesiologia</strong> odierna è alla ricerca di una soluzio-<br />

ne. In questo caso la conversazione con l’età sub-apostolica e con la sua comprensione della Chiesa<br />

ci può dare delle indicazioni importanti.<br />

Al contrario l’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica, che è in stretto rapporto con l’idea della crescita della cono-<br />

scenza della verità e della molteplice pienezza, è obbligata nell’uso che fa della Scrittura a seguire<br />

l’idea della pienezza e della conforme crescita organica della verità del vangelo. Poiché in questa<br />

tradizione l’<strong>ecclesiologia</strong> ha sempre giocato un ruolo centrale, essa inclina non solo a valorizzare gli<br />

scritti posteriori come testimonianza di una verità in sviluppo, piuttosto a leggervi uno sviluppo or-<br />

ganico, voluto da Dio, che conduce in modo più o meno lineare alle strutture di ordine e di ministe-<br />

ro della Chiesa antica. Questa visione però non considera adeguatamente la pluralità di questi scritti.<br />

d) Problemi e principi di soluzione dell’età sub-apostolica<br />

1. L’età sub-apostolica ha offerto un contributo importante e consistente alla <strong>ecclesiologia</strong> perché si<br />

è trovata ad affrontare due questioni decisive e vitali. Proprio riflettendo su di esse, essa ha cercato<br />

di rispondere alla questione più radicale su che cosa è la Chiesa: (1) la questione circa l’identità e la<br />

continuità del popolo di Dio nella storia che continuava e (2) la questione circa la sua relazione al<br />

mondo e alla società.<br />

2. La questione della identità e continuità si è posta alla Chiesa in conseguenza dell’esperienza che<br />

la storia continuava. Di fronte allo scemare dell’attesa della imminente parusia, l’autocomprensione<br />

della Chiesa come segno che preannunciava la raccolta definitiva del popolo di Dio, attuata e auto-<br />

rizzata da Gesù, in vista dell’imminente nuova creazione di Dio, se non si può dire che si mostrò i-<br />

nadeguata, almeno apparve come bisognosa di completamento. La Chiesa doveva riflettere sulla sua<br />

relazione alla storia. Essa di fronte ai mutamenti esterni, che si riflettevano nel suo interno — il più<br />

spettacolare dei quali fu il passaggio al mondo pagano —, doveva chiarirsi che cosa di quanto era<br />

apparso con Gesù e con la generazione dei primi testimoni rimaneva fondamentale e determinante<br />

per la sua esistenza nella storia. E nello stesso tempo essa doveva cercare di conservare questo fon-<br />

damento dandogli una figura vincolante affinché la sua permanente efficacia operativa fosse assicu-<br />

rata anche per il futuro. In altre parole: dall’esperienza della storia emerse il compito necessario e<br />

teologicamente legittimo della istituzionalizzazione, che già in Paolo emerge sintomaticamente nella<br />

cura prestata alla custodia della “tradizione”.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

3. La Tradizione come attuazione essenziale della Chiesa<br />

3.1. La parola tradizione fa pensare — come l’equivalente latino traditio — a un bene tradizionale,<br />

istituzionale, consolidato, secondario — una volta sospetto ai Riformatori come un’assolutizzazione<br />

umana, che agisce come uno sbarramento più che come apertura nei confronti della Parola di Dio e<br />

persino nei confronti dello stesso Spirito. Ma se studiamo il termine parádosis o meglio ancora il<br />

verbo paradidònai nel NT, ne ricaviamo un’immagine differenziata e di grosso spessore teologico.<br />

Nel linguaggio profano questi termini significano anzitutto l’atto giuridico di trasmettere degli oggetti<br />

o dei beni a un nuovo proprietario, spesso un’eredità al legittimo erede. Gli stessi termini sono<br />

applicati al processo mediante cui si perpetuano dottrine e pratiche religiose, tramandate da una<br />

generazione all’altra attraverso la parola e l’esempio vivente. Il termine è stato esteso poi<br />

all’insieme dei contenuti così comunicati. La riflessione rabbinica ha formalizzato il processo della<br />

tradizione e della recezione mediante le formule qibel (trasmettere) e masar (ricevere), che significano<br />

quei procedimenti che garantiscono una tradizione legittima e senza errore. Il movimento cristiano<br />

ha assunto questa idea e l’ha pure qualificata in senso cristologico e pneumatologico. Se Dio<br />

si è rivelato una volta per sempre nella storia di Gesù di Nazaret, manifestato nella sua risurrezione<br />

dai morti come il Cristo e il Figlio di Dio, per la salvezza di tutti gli uomini, allora il cristianesimo<br />

si vede confrontato, fin dalle sue origini, col problema della trasmissione missionaria di ciò che è<br />

stato rivelato. Gli apostoli sono in ciò i testimoni autentici, privilegiati, di questa tradizione prima,<br />

compresa sia come contenuto del Vangelo sia come azione di ricezione e di trasmissione, tanto più<br />

che essi hanno ricevuto lo Spirito santo (Lc 1,1-4; At 1,1-6.21). L’oggetto della tradizione è evidentemente<br />

il Cristo vivente: ciò conferisce al contenuto del vangelo il valore di una dottrina vera<br />

e propria (Rm 6,17) alla quale ciascuno deve conformarsi (2Ts 3,6), e di una regola di vita che richiede<br />

anche un comportamento preciso che i credenti possono “ricevere” e seguire solo in quanto<br />

è “trasmessa” dall’esempio dei missionari (cfr. 1Ts 4,1; Fil 4,9). Nelle Lettere pastorali l’aspetto<br />

dottrinale riceve un accento del tutto particolare. La tradizione si identifica allora con<br />

l’insegnamento apostolico verificato come tale (2Tim 1,12; 2,2), ed è «un deposito (parathèke)»<br />

che bisogna fedelmente conservare (1Tim 6,20), con l’aiuto dello Spirito che «abita» i credenti<br />

(2Tim 1,12ss). La genuinità (1Tim 1,10; 2Tim 4,3; Tt 1,9; 2,1; cfr. 2Pt 3,1s) e la sicurezza di questo<br />

deposito tradizionale si devono difendere, confondendo coloro che la contraddicono (Tt 1,9).<br />

La memoria collettiva della fede non è più recente: essa deve attraversare lo spazio di più generazioni.<br />

Così è vitale per le chiese che il deposito sia confidato a ministri sicuri, a presbiteri che esercitano<br />

l’«episkopé», cioè un’ispezione responsabile su di esse (Tt 1,9; cfr. At 20,28ss). Alla radice<br />

di questo processo di trasmissione il NT riconosce, però, l’atto di consegna di Gesù. Infatti il<br />

NT mostra di sapere molto bene che il termine παραδιδώναι non significa solo affidare, lasciare,<br />

trasmettere, ma pure consegnarsi (nel senso della dedizione a Dio) — a dire il vero anche tradere<br />

nel senso di consegnare e tradire.<br />

Se cerchiamo un passo centrale del NT in cui troviamo espresse le due dimensione della parádosis,<br />

ossia quella della consegna a Dio e quella di lascito testamentario agli uomini, siamo rinviati a Gv<br />

19,30, dove si dice che al momento della sua morte Gesù «parédoken to pneuma». Giovanni qui non<br />

vuole dire solo che Gesù «spirò», poiché in Mt (27,50) si dice: aphèken to pneuma; e in Mc (15,37)<br />

e Lc (23,46): exépneusen = esalò lo spirito, spirò. La presentazione giovannea della morte di Gesù<br />

libera molteplici strati semantici: infatti la morte in croce di Gesù costituisce nello stesso tempo il<br />

lascito testamentario dello Spirito, come pure il lascito dei sacramenti spirituali del Battesimo e<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

dell’Eucaristia e della vera celebrazione della Pasqua.<br />

Ma prima di procedere ulteriormente con Giovanni, vogliamo vedere qual è il significato teologico<br />

che Paolo ha dato ai termini “paradidònai” e “parádosis”: essi intendono esprimere (1) la consegna<br />

alla morte di Gesù e il suo effetto di riconciliazione con Dio, e in collegamento con questo anche (2)<br />

la trasmissione apostolica del messaggio della redenzione proveniente dall’opera di salvezza di Ge-<br />

sù, quale offerta della salvezza.<br />

Paolo presenta il primo significato in Gal 2,20: «Io vivo nella fede nel Figlio di Dio, che mi ha ama-<br />

to e ha dato se stesso per me». Cristo è qui chiamato: colui che ha dato/consegnato se stesso (o pa-<br />

radòn eautòn). Si può così dire che è Gesù stesso il contenuto e l’atto della parádosis.<br />

Questa dottrina di Paolo viene ulteriormente sviluppata in Ef 5. Così in Ef 5,2 si dice: «Camminate<br />

nella carità, come anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio come obla-<br />

zione e sacrificio di soave odore» (parèdoken eautòn hypèr hemon). La dimensione del “per noi” è<br />

così inseparabilmente collegata all’orientamento della dedizione sacrificale di Gesù a Dio. E in Ef<br />

5,25 il destinatario diretto di questa parádosis che Gesù ha fatto della sua vita è proprio la Chiesa: i<br />

mariti devono amare le proprie mogli «come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei,<br />

per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola». La parádosis che<br />

Gesù ha fatto di se stesso continua così a essere attiva nella Chiesa, in particolare nel Battesimo —<br />

il tema che si trova sullo sfondo dell’argomentazione sviluppata nel passo.<br />

3.2. La parádosis che Gesù ha fatto di sé sulla croce e la tradizione di Confessione di fede, Batte-<br />

simo ed Eucaristia in Paolo e Giovanni. Paolo fa uso di una nozione apparentemente tecnica della<br />

tradizione, che può essere parafrasata così: ciò che Cristo ha istituito una volta per la Chiesa, rag-<br />

giunge il singolo attraverso la mediazione della parádosis dell’Apostolo (e in seguito attraverso la<br />

successione di insegnamento e di direzione che origina dall’Apostolo nella Chiesa). Già Paolo, il<br />

quale a più riprese afferma che il suo apostolato gli è stato conferito direttamente da Cristo e non<br />

per la mediazione dei primi apostoli, si vede incorporato in una catena di trasmissione. Egli ricono-<br />

sce quindi che il processo della tradizione, nel quale egli si è lasciato incorporare, a riguardo della<br />

predicazione della dottrina, del Battesimo e della Eucaristia è già iniziato con i primi apostoli.<br />

(a) Le attuazioni fondamentali della tradizione ecclesiale secondo 1Cor 11,23ss e 1Cor 15,3ss. In<br />

due passi di 1Cor Paolo accenna al fatto che egli si trova in una catena di tradizione, che proviene<br />

dal Signore, e che egli ha trasmesso tale tradizione alla comunità di Corinto dalla sua fondazione<br />

come un ordinamento vincolante. Sono i passi di 1Cor 11,23 e 1Cor 15,3. Il primo si trova diretta-<br />

mente prima del racconto paolino della Cena con il comando di fare memoria di Gesù, quale moti-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

vazione della prassi della cena del Signore nella Chiesa. Così in 1Cor 11,23 si dice: «Poiché ho ri-<br />

cevuto dal Signore (parèlabon), ciò che vi ho trasmesso (parédoka)». Il testo prosegue con il ben<br />

noto racconto di istituzione: «Il Signore Gesù nella notte in cui fu consegnato prese del pane…».<br />

Nel secondo passo si tratta della tradizione della confessione della Chiesa con i suoi elementi essen-<br />

ziali: «morto per i nostri peccati» e «risorto il terzo giorno». Di nuovo Paolo all’inizio del v. 3 dice:<br />

«Poiché vi ho trasmesso (parédoka), anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto (parélabon)». Poi<br />

ammonisce i cristiani di Corinto a rimanere saldi in questa confessione di fede, perché da essa si ot-<br />

tiene la salvezza, se viene mantenuta «nella forma [tini lógo = in quella espressione]» in cui l’ha an-<br />

nunziata. E vi fa seguire il brano linguisticamente preformato: «Cristo è morto per i nostri peccati…<br />

è apparso a Cefa e quindi ai dodici». Paolo sta quindi citando un antico brano della tradizione (di<br />

Antiochia?); addirittura lo qualifica come «euangélion» (1Cor 15,1) e «kérygma» (15,11).<br />

La confessione ecclesiale con i contenuti essenziali della morte e della resurrezione di Gesù di 1Cor<br />

15,3-5 e la cena del Signore ricordata in 1Cor 11,23 costituiscono così le due “linee nodali” della<br />

tradizione. Sicuramente Paolo presuppone anche la tradizione del Battesimo e di fatto in 1Cor 12<br />

(cfr. Ef 5,25) offre una dettagliata esposizione degli effetti che derivano alla Chiesa quale Corpo di<br />

Cristo dal Battesimo, e in particolare considera i molteplici doni di grazia che lo Spirito conferisce<br />

mediante il Battesimo. Così il Battesimo può essere indicato come la terza “linea nodale” essenziale<br />

della tradizione apostolica proveniente da Cristo e vivente nello Spirito, grazie alla quale la Chiesa<br />

si attua sempre di nuovo in modo essenziale e totale.<br />

(b) La presentazione testamentaria della morte di Gesù e le sue implicazioni pneumatologiche e sa-<br />

cramentali nel vangelo di Giovanni. Dopo Paolo è Giovanni che mostra nel suo vangelo come con-<br />

tinua nella Chiesa la parádosis originaria che Gesù ha fatto di sé sulla croce anche come dono te-<br />

stamentario dello Spirito del Signore innalzato; in modo particolare essa continua a vivere in modo<br />

liturgico e concreto nei sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia, ma anche nella grande anamnesi<br />

di Cristo della notte pasquale, che porta a compimento nella comunità primitiva quello di cui i Giu-<br />

dei facevano memoria nella celebrazione della cena con un agnello pasquale immolato nel tempio.<br />

Notiamo innanzi tutto che Giovanni in alcuni passi del vangelo presenta la morte di Gesù come “e-<br />

levazione”: «Quando sarò innalzato da terra — Gv 12,32 — attirerò a me ogni cosa». E l’evangelista<br />

soggiunge: «Egli disse questo, per indicare di quale morte doveva morire». L’innalzamento sul sup-<br />

plizio della croce realizza visibilmente la parola/segno dell’elevazione; e le braccia aperte inchioda-<br />

te al legno della croce sono per Gv il segno della volontà salvifica con cui il Signore sulla croce ab-<br />

braccia l’umanità. Questa volontà salvifica si rende presente nella Chiesa e riceve la sua massima<br />

efficacia nell’Eucaristia. Non a caso la rappresentazione e le parole di Gesù in Gv 12,32 hanno avu-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

to un seguito liturgico molto importante. Già la Traditio di Ippolito, che ci offre la testimonianza<br />

della preghiera eucaristica più antica, attorno al 215, ha utilizzato nella liturgia il passo di Gv, per<br />

riassumere e presentare l’intera opera salvifica di Gesù con le parole: «Per compiere la tua (del Pa-<br />

dre) volontà e acquistarti un popolo santo, egli ha steso le braccia, quando patì, per liberare dalla<br />

passione, coloro che in lui credevano». E la seconda preghiera eucaristica romana, che imita conti-<br />

nuamente il modello della Traditio, ha evidenziato il riferimento a Gv 12,32 ancora più chiaramente<br />

di Ippolito e l’ha formulato nella maniera seguente: «Per compiere la tua volontà e acquistarti un<br />

popolo santo, ha steso le braccia sul legno della croce».<br />

Queste e altre interpretazioni teologiche della morte di Gesù in Gv — tra cui la descrizione mista-<br />

gogica della morte di Gesù in Gv 19,30-37 —, ci consentono di dire che anche la parola di Gv 19,30<br />

parèkoken to pneuma = rese lo Spirito, non significa solamente come nei passi paralleli di Mc e Lc:<br />

«spirare, esalare lo spirito». Qui viene espressa insieme alla dimensione della dedizione al Padre an-<br />

che una dimensione soteriologico-ecclesiologica, come si è indicato anche a proposito della dichia-<br />

razione «egli diede se stesso» (parèkoken eauton). La dimensione soteriologica ed ecclesiale in Gio-<br />

vanni è inoltre retta dalla dimensione pneumatologica. Così l’espressione: parèkoken to pneuma di<br />

Gv 19,30 compie nello stesso tempo ciò che secondo Gv 7,38 Gesù aveva promesso a gran voce nel<br />

grande giorno della festa della capanne, giorno in cui aveva luogo una processione lustrale: «Chi ha<br />

sete venga a me; e beva, chi crede in me. Dal suo (del Messia) seno scorreranno fiumi di acqua vi-<br />

va». E l’evangelista aggiunge: «questo egli disse riferendosi allo Spirito che i credenti in lui avreb-<br />

bero ricevuto: infatti non c’era ancora lo Spirito perché Gesù non era stato ancora glorificato».<br />

Quindi quando Gesù è stato innalzato e glorificato — entrambi gli aspetti formano un insieme unita-<br />

rio secondo Gv 12,23-28 e Gv 13,31-32 — ha luogo la parádosis dello Spirito, cioè lo Spirito è do-<br />

nato gratuitamente a coloro che credono. La relazione diretta del discepolo con il Gesù terreno come<br />

portatore messianico dello Spirito ora è resa possibile dal Paraclito che il Signore innalzato e glori-<br />

ficato manderà dal Padre. Osserviamo infine che questa dimensione pneumatologica della morte<br />

salvifica di Gesù è riconoscibile anche in Gv 19,34-35, come pure in 1Gv 5,6ss.<br />

In connessione immediata con la testimonianza della morte di Gesù, Giovanni sottolinea solenne-<br />

mente che dopo la morte del Signore uscirono dal fianco trafitto sangue ed acqua. Questo passo ha il<br />

suo corrispondente in 1Gv 5,6, secondo cui ci sono tre testimoni, che nella vita della Chiesa man-<br />

tengono presente in modo permanente ciò che in una modalità storico-salvifica e unica avvenne in<br />

questo mondo, ossia il venire di Gesù nell’acqua e nel sangue. Così 1Gv 5,8 dice espressamente:<br />

«Sono tre che danno testimonianza: lo Spirito e l’acqua e il sangue. E questi tre sono concordi». C’è<br />

quindi secondo 1Gv 5 una triplice parádosis nella Chiesa, nella quale sfocia quella parádosis che<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

Gesù ha fatto di sé in croce: il permanente effetto salvifico dello Spirito, congiunto con i due sacra-<br />

menti dello Spirito, il battesimo e la cena del Signore.<br />

Questa triplice parádosis nella Chiesa sarà ripresentata ancora nella concretezza liturgica, così come<br />

è tramandato dalla più antica prassi della comunità primitiva nella celebrazione della notte pasqua-<br />

le 70 , che, facendo l’anamnesi di Cristo, diviene il luogo centrale anche della confessione di fede cri-<br />

stiana. In essa culmina l’esperienza liturgica del mistero di Cristo: l’esperienza di come la Chiesa<br />

vive della parádosis che Gesù ha fatto di se stesso e dello Spirito che Gesù sulla croce ha “conse-<br />

gnato” e che come dono spirituale della parádosis “ispira” nella sua Chiesa (cfr. Gv 19,30; 20,22).<br />

3.3. L’importanza permanente delle tradizioni apostoliche centrali e le forme di attuazione liturgi-<br />

ca. Caratterizzeremo ora le tradizioni originarie, che abbiamo raccolto da Paolo e da Giovanni, della<br />

dottrina apostolica e delle attuazioni liturgico-sacramentali del tempo apostolico, che sono costituti-<br />

ve per l’identità della Chiesa in qualsiasi epoca. Se qui ci concentriamo sulle “linee nodali” della<br />

tradizione apostolica non è per negare il carattere apostolico di altre tradizioni. E ciò non è affatto<br />

insignificante per l’identità della Chiesa. Infatti parlando di tradizione “apostolica”, ipso facto è in<br />

gioco anche la continuità del ministero apostolico, la quale non si può separare dalla confessio nella<br />

Chiesa, dall’Eucaristia, dal Battesimo e dalla anamnesi di Cristo dell’anno liturgico.<br />

- La tradizione apostolica della confessio, che si rispecchia in 1Cor 15,3-5 e che Paolo contrassegna<br />

con la parola chiave parèdoka = io vi ho trasmesso, nell’epoca posteriore della Chiesa continua a<br />

vivere in una forma più concentrata prima nella confessione battesimale, poi nel Simbolo Apostoli-<br />

co, mentre quella forma di anamnesi (presupposta già in 1Cor 15,3-4) della storia della passione con<br />

l’attestazione della risurrezione troverà espressione compiuta nella forma del vangelo.<br />

- Il Battesimo è l’evento sacramentale della nascita dall’alto, dall’acqua e dallo Spirito santo (cfr.<br />

Gv 3,5), e dà inizio perciò alla vita nella Chiesa e con la Chiesa per chiunque giunge a credere in<br />

Cristo. Ma, come mostra la prassi battesimale della Chiesa fin dal suo inizio, in connessione con il<br />

Battesimo troviamo anche la confessione della fede cristiana nella sua totalità. Questa confessione<br />

se in un primo tempo era orientata a Gesù in quanto Cristo, nel tempo apostolico successivo si è<br />

70 Sarebbero qui da valutare anche gli aspetti di teologia pasquale presenti in Paolo (in 1Cor 5,7 Cristo è presentato come<br />

agnello pasquale; inoltre in 1Cor 10,1ss diversi avvenimenti dell’Esodo vengono presentati come compiuti nella storia<br />

salvifica nel mistero di Cristo del Battesimo, e tutto questo sullo sfondo di una celebrazione pasquale cristiana, che a<br />

Corinto è celebrata molto probabilmente come nella comunità primitiva di Gerusalemme) e nel quarto vangelo (si pensi<br />

solo al fatto che Giovanni caratterizza in posti decisivi del suo vangelo la morte di Gesù sulla croce — perciò la parádosis<br />

di se stesso all’interno della Chiesa — come morte sacrificale del “vero agnello pasquale”) e la tradizione apostolicoliturgica<br />

della celebrazione della liberazione della notte di pasqua.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

strutturata trinitariamente. La formulazione trinitaria del comando di battezzare in Mt 28,19s non ri-<br />

specchia una formula battesimale trinitaria con cui si amministra il sacramento, piuttosto è il riflesso<br />

di una confessione battesimale strutturata trinitariamente, che appare anche in Ef 4,4-6, e poi è do-<br />

cumentata in tutte le testimonianze battesimali che si sono conservate dei secoli III e IV — da Ippo-<br />

lito a Basilio —, dove la confessio costituisce nello stesso tempo anche la forma linguistica del Bat-<br />

tesimo, per il fatto che l’immersione è eseguita direttamente sulla confessione dei Battezzandi. Do-<br />

po che nel V secolo si giunge a una formula di amministrazione del ministro durante il Battesimo, la<br />

confessione dei battezzandi (in forma di domanda e risposta) precede immediatamente l’atto batte-<br />

simale e rimane ancora in questa forma semplicemente la confessione modello della fede ecclesiale.<br />

Possiamo quindi affermare che già nel tempo neotestamentario la prassi battesimale costituisce il<br />

luogo più importante della tradizione della confessio. Questa tradizione si continuerà poi nel colle-<br />

gamento tra Battesimo e confessio, che costituirà per i Padri di Nicea e di Costantinopoli la sorgente<br />

normativa da cui essi attingeranno i propri simboli.<br />

- Infine la cena del Signore non è da considerare solo come il terzo dei sette sacramenti. Se infatti se<br />

si rispetta l’istruzione data da Paolo in 1Cor 10,16s l’unico Pane e l’unico Calice, ai quale parteci-<br />

pano i credenti, sono semplicemente la causa dell’unico corpo ecclesiale di Cristo. E come è acca-<br />

duto per la tradizione battesimale, così anche la stessa celebrazione eucaristica appare nella sua tota-<br />

lità come una confessione di fede. Infatti le antiche preghiere eucaristiche — ad es. la preghiera di<br />

Ippolito —, la cui struttura contenutistica è già tracciata nelle eulogie ed eucaristie in Ef e Col, sono<br />

strutturate come un ringraziamento storico salvifico indirizzato a Dio, il Padre e come preghiera di<br />

domanda per la chiesa. Ma in questo esse abbracciano tutti i contenuti centrali della Cristologia e<br />

della Soteriologia, della pneumatologia e della <strong>ecclesiologia</strong>.<br />

Perciò la Confessio, il Battesimo e la tradizione della cena del Signore sono nella Chiesa fin dal<br />

tempo apostolico le linee nodali della tradizione apostolica e le attuazioni viventi della Chiesa che<br />

rendono presente l’opera salvifica di Cristo come pure articolano la fede della Chiesa.<br />

4. Il ministero ordinato<br />

Abbiamo già visto che sulla questione del ministero ordinato i conflitti confessionali dividono anco-<br />

ra la lettura dei testi del NT. Alcuni elementi condivisibili, però, si possono almeno individuare.<br />

4.1. L’intima struttura della Chiesa si differenzia da ogni comunità o società puramente umana. Essa<br />

sa di essere sottomessa al Signore glorificato che, con il suo Spirito, la dirige e la edifica, l’accresce<br />

di sempre nuovi fedeli: «Il Signore accresceva ogni giorno il numero di coloro che sarebbero stati<br />

salvati» (At 2,47; cfr. i passivi di 2,41; 5,14; 11,24); il successo della evangelizzazione è una cresci-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

ta della «parola di Dio» (At 6,7; 12,24; cfr. 19,20); la «mano del Signore» è con i missionari in An-<br />

tiochia, cosicché una grande moltitudine si converte alla fede nel Signore (11,21). Questa non è solo<br />

la concezione di Luca, visto che anche Paolo è convinto che gli è stata «aperta la porta» dal Signore<br />

(cfr. 1Cor 16,9; 2Cor 2,12; Col 4,3); che il Signore ha concesso a Pietro la grazia per l’apostolato<br />

tra i circoncisi e a lui tra i Gentili (Gal 2,8; cfr. 2Cor 3,5s), che Cristo opera attraverso di lui e attra-<br />

verso la sua parola per chiamare i pagani all’accettazione della fede, «per la potenza dei miracoli e<br />

dei segni, per la potenza dello Spirito (divino)» (Rm 15,17-19; cfr. 1Ts 1,5; 1Cor 2,3-5). La stessa<br />

edificazione interna delle comunità non è propriamente il frutto delle fatiche degli uomini, quanto<br />

piuttosto opera di Dio e dello Spirito Santo. Così Luca può asserire che: «La Chiesa in tutta la Giu-<br />

dea, la Galilea e la Samaria era in pace poiché era edificata e camminava nel timore del Signore, e si<br />

accresceva con il conforto dello Spirito Santo» (At 9,31). Paolo sviluppa una teologia della «cresci-<br />

ta» (1Cor 3,6s; Col 1,6.10) e della «edificazione» della Chiesa (1Cor 3,9-11; 14,5.12. 26; 2Cor<br />

12,19; Ef 2,21; 4,12-16), in cui il primato è attribuito a Dio e alla sua potenza. Così le persone inca-<br />

ricate di uffici e di servizi per la Chiesa, sono solo strumenti di Dio, ministri di Cristo, organi dello<br />

Spirito Santo (1Cor 4,1; 12,4-6), e quindi è loro inerente un carattere sostanzialmente diverso da<br />

quello di tutti i «funzionari» designati solo da un ordinamento e una costituzione umana.<br />

4.2. La legge che vige per tutti i membri della Chiesa, qualunque siano le funzioni esercitate nel-<br />

l’intero e per l’intero organismo, è quella del servizio e dell’amore, come Gesù stesso ha stabilito e<br />

richiesto per i suoi discepoli (cfr. Mc 10,42-45 par.) nel senso paradossale che «proprio chi si abbas-<br />

sa, sarà esaltato» (da Dio: Lc 14,11; Mt 23,12). Il contesto in cui queste massime sono inserite (cfr.<br />

Mt 23,8-10; Lc 22,24-27), mostra che la Chiesa primitiva era consapevole che questo «ordine nuo-<br />

vo» era normativo anche per la sua vita concreta. Sul tema sono particolarmente efficaci le parole<br />

con cui Paolo presenta il ministero apostolico (cfr. 1Cor 4,1s; 9-13; 2Cor 4,5.12.15; 6,4-10; Fil<br />

2,17). Il «servizio» cristiano non è paragonabile a quello richiesto nell’ambito della vita sociale,<br />

poiché nella Chiesa primitiva non è soltanto questione di un «bene comune» superiore (anche se<br />

questo aspetto non manca, cfr. 1Cor 12,7), ma anche di un ordinamento escatologico.<br />

4.3. Per questa ragione gli uffici e i ministeri che man mano compaiono nella comunità, il loro nu-<br />

mero, designazione e genere non sono determinanti, purché si conservi l’ordinamento voluto e sta-<br />

bilito da Dio (cfr. 1Cor 12,28; 14,33). La «storia della costituzione» del cristianesimo primitivo mi-<br />

surata con questo metro, appare di fatto non unitaria e mutevole. Anche la tanto dibattuta questione,<br />

se accanto agli uffici «carismatici», cioè a quelli che venivano assunti grazie a doni spirituali rico-<br />

noscibili, ve ne fossero degli altri «istituzionali» o «amministrativi», i cui detentori venivano costi-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

tuiti mediante semplice incarico e con vincolo locale, perde di importanza se ogni «ufficio» della<br />

Chiesa primitiva ha senso solo in quanto concesso da Dio e confermato dallo Spirito. Perciò anche<br />

la differenza tra uffici permanenti e uffici transitori è di scarsa importanza. Quello che importa è che<br />

si riconosca un ordinamento che viene da Dio, voluto da lui, mediante il quale Cristo permane il ca-<br />

po della sua comunità terrena che egli regge in forza dello Spirito. Rimane ancora discussa la que-<br />

stione se la Chiesa nel Nuovo Patto secondo la volontà di Dio e la disposizione di Gesù Cristo deb-<br />

ba avere nella sua struttura visibile un ordinamento articolato, graduato («gerarchico»), con potere<br />

di direzione in determinati organi, o se il «popolo santo di Dio» come tale sia depositario di ogni po-<br />

tere, e ogni necessario ordinamento debba essere stabilito di volta in volta solo dalla disposizione<br />

dello Spirito Santo (comunque essa si manifesti). Detto in breve: un determinato ordinamento fon-<br />

damentale è costitutivo per la Chiesa di Gesù Cristo?<br />

4.4. La visione protestante tradizionale opponeva il concetto di Chiesa della primitiva comunità di<br />

Gerusalemme a quello di Paolo. Nella comunità di Gerusalemme ci sarebbe stata fin dall’inizio la<br />

presenza di una regolare gerarchia, di un ordinamento divinamente stabilito, di un diritto ecclesia-<br />

stico divino, di una Chiesa come istituzione nella quale vengono accolti i singoli fedeli. Paolo, inve-<br />

ce, avrebbe avuto un concetto nuovo e del tutto diverso di Chiesa: per lui gli «apostoli», che in Ge-<br />

rusalemme godevano di una preminenza divina permanente, che li autorizzava alla direzione della<br />

comunità, sarebbero stati solo degli strumenti, ministri, annunciatori, ambasciatori di Cristo. In tal<br />

senso le persone come tali non avrebbero avuto grande importanza, mentre essenziale era piuttosto<br />

la testimonianza data al Cristo. Senza entrare nel difficile dibattito sulle relazioni fra Paolo e le «co-<br />

lonne» di Gerusalemme — notiamo che egli ha coscienza di essere apostolo come loro, chiamato<br />

direttamente da Dio e autorizzato dal Signore e tuttavia cerca continuamente il contatto e l’accordo<br />

con loro (cfr. Gal 1; 2,2-10; 1Cor 15,3.9-11) —, ci limitiamo a studiare il rapporto che egli in quan-<br />

to apostolo di Gesù Cristo intrattiene con le sue comunità. Ebbene di fronte ad esse, Paolo sa di ave-<br />

re un’autorità che include anche il potere di dirigere e di comandare. Paolo è conscio del «pieno po-<br />

tere» (exousía) che il Signore gli ha dato (2Cor 10,8; 13,10), anche se non vuole servirsene per la<br />

«distruzione», bensì per la «edificazione» della comunità. Egli non fa dipendere in alcun modo il<br />

suo potere dalla «libertà della comunità» nel seguirlo. Delicatamente, ma inequivocabilmente, egli<br />

chiede ai Corinti: «Cosa volete? Devo venire a voi con il bastone o con l’amore, in spirito di man-<br />

suetudine?» (1Cor 4,21). Nonostante la sua assenza da Corinto, egli ha già deciso il caso del-<br />

l’incestuoso e si attende che la comunità riunita, presso la quale si sente presente in spirito, esegua il<br />

giudizio di anatema: il passo, sintatticamente non chiaro (1Cor 5,3-5), manifesta chiaramente che<br />

l’Apostolo non accorda alla comunità alcuna libertà di decisione. Anche le istruzioni che dà sul cul-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

to hanno un tono autoritativo (cfr. 1Cor 11,17-33): egli non solo esorta, ma dà anche disposizioni<br />

concrete (diatásso; cfr. 1Cor 7,17; 16,1; Tit 1,5), adoperando lo stesso verbo con cui in 1Cor 9,14<br />

viene riferito un ordine del Signore. Certamente Paolo distingue un chiaro comando del Signore<br />

(1Cor 7,10) da una decisione che è solo sua (1Cor 7,12): egli però la prende con tale risolutezza da<br />

non tollerare obiezioni. Anche le istruzioni sulla condotta morale che dà «nel Signore Gesù» (1Ts<br />

4,2) sono precise e concrete (cfr. 1Ts 4,11; 2Ts 3,4.6.10.12). La comunità di Corinto deve aver rico-<br />

nosciuto questa direzione apostolica: altrimenti non si capirebbe perché gli abbia sottoposto deter-<br />

minate questioni (cfr. 1Cor 7,1: i capitoli successivi rispondono ai quesiti sottoposti). Paolo espres-<br />

samente nota: «Così io prescrivo per tutte le chiese» (1Cor 7,17).<br />

Con queste premesse, si può contestare la separazione che in genere si introduce fra le lettere pasto-<br />

rali e il Paolo delle lettere alle comunità, come se le prime fossero testimoni non soltanto di una e-<br />

voluzione della situazione, ma anche di una concezione del ministero totalmente diversa. Infatti, in<br />

primo luogo, non si può dire che le lettere alle comunità diano un quadro esaustivo dell’agire apo-<br />

stolico di Paolo, dell’organizzazione e delle prescrizioni che egli ha disposto per le sue neo-<br />

fondazioni. In secondo luogo, si deve notare che anche nelle lettere indirizzate a queste comunità<br />

sono menzionate delle persone che nella comunità hanno assunto compiti e funzioni organizzative e<br />

direttive; così già in 1Ts 5,12, inoltre 1Cor 12,28 (kybernéseis) 16,15s («siate loro sottoposti!»); Rm<br />

12,6-8. Anche se l’attività e le facoltà di tali ausiliari locali di Paolo nelle comunità (distinti dai suoi<br />

inviati) erano limitate (cura dei poveri, amministrazione, ma anche compiti pastorali), è tuttavia e-<br />

vidente che Paolo designa o riconosce queste persone, ne sostiene la posizione in seno alla comunità<br />

e la rafforza con la sua autorità: sebbene egli rimanga il padre e il capo delle comunità. In questo<br />

modo si dovrebbe intendere anche la nomina degli «anziani», cui accenna il resoconto di At 14,23.<br />

Perciò il quadro che le pastorali offrono del periodo di consolidamento delle comunità paoline è<br />

tutt’altro che inattendibile. Limitandoci a quanto detto, è chiaro che Paolo non è solo il predicatore<br />

della parola e il servitore delle sue comunità, bensì è anche l’Apostolo dotato di pieno potere, con-<br />

sapevole della sua autorità e del suo potere direttivo; anzi, quando è necessario, ne fa anche uso.<br />

4.5. Se consideriamo poi la testimonianza dei Vangeli — i quali, pur tenuto conto della importanza<br />

della «redazione» da parte degli Evangelisti, tramandano anche e soprattutto la conoscenza che la<br />

Chiesa primitiva aveva di sé, fondata sulla parola e sull’azione di Gesù — notiamo che essi ricorda-<br />

no che Gesù ha assegnato agli «inviati» una particolare dignità e potere. L’affermazione: «Chi ascol-<br />

ta voi, ascolta me; e chi rifiuta voi rifiuta me: chi poi rifiuta me, rifiuta colui che mi ha mandato»<br />

(Lc 10,16; cfr. Mt 10,40; Gv 13,20), enuncia il principio generale secondo cui vanno giudicati i<br />

messaggeri di Gesù: essi continuano la sua missione e partecipano corrispondentemente al suo<br />

138


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

mandato e al suo potere che viene da Dio. Secondo Mc 3,15; 6,7.11.17s e par. Lc 10,19, Gesù già<br />

durante la sua attività terrena ha concesso ai suoi discepoli una partecipazione alle sue facoltà e ai<br />

suoi poteri. Non è perciò corretto dire che i «Dodici» originariamente non avevano niente a che fare<br />

con l’ufficio apostolico posteriore (la designazione «apostoli» in Lc 6,13 è secondaria), ma che era-<br />

no solamente il gruppo di coloro che, accogliendo l’annuncio del Regno, vivevano nella sua luce ed<br />

erano suoi messaggeri, incaricati di chiamare tutto Israele alla conversione e un giorno suoi giudici<br />

nel Regno futuro. Secondo Mc 3,14s lo scopo dichiarato della elezione del Dodici da parte di Gesù è<br />

quello di «stare con lui» e di «mandarli a predicare (keryssein), e ad avere potere (échein exousían)<br />

di scacciare i demoni». Ma questo corrisponde alla stessa missione di Gesù: annunziare il Regno di<br />

Dio che si avvicina e renderlo visibile nella sua potenza (cfr. Mc 1,39). Mandato e attività dei «Do-<br />

dici» (Mc 6,7.13) sono dunque in linea con l’azione specifica di Gesù. Gli uomini scelti da lui, riu-<br />

niti intorno a lui e partecipi della sua opera, hanno un compito preciso nella formazione della comu-<br />

nità escatologica di salvezza. Essi non rivestono solo un significato simbolico (l’Israele completo<br />

del tempo escatologico), un compito di profezia per il presente (richiamo al popolo delle dodici tri-<br />

bù) e una funzione escatologica (giudici su Israele: cfr. Lc 22,30; Mt 19,28), bensì possiedono anche<br />

pieni poteri per raccogliere nel nome di Gesù l’attuale comunità di salvezza.<br />

In Matteo troviamo inoltre il detto sul potere di «legare e sciogliere» (Mt 18,18): anche se non ven-<br />

gono esplicitati i suoi destinatari, è difficile pensare che non siano i «Dodici», tanto più che<br />

l’espressione analoga di Gv 20,23 è rivolta solo a loro. Se il potere di legare e sciogliere abbraccia<br />

un’attività che consiste nell’annunciare e nell’insegnare autorevolmente, nell’obbligare, nell’orga-<br />

nizzare e nel giudicare, e principalmente il potere sacro di insegnare e di giudicare, è difficile sup-<br />

porre che sia la Chiesa in quanto totalità il soggetto di questo potere. Si veda in proposito quanto ri-<br />

portato dagli Atti (cfr. 5,1-11; 6,2-6; 15,6-29), come pure dalla coscienza apostolica di Paolo (cfr.<br />

sopra). Anche se la comunità è fatta partecipe di importanti decisioni (cfr. At 15; 1Cor 5), rimane<br />

però riconoscibile la guida autorevole dell’«Apostolo». L’assemblea che in Gerusalemme discute<br />

sulla necessità della circoncisione per i cristiani non giudei, si articola negli «apostoli e anziani in-<br />

sieme con tutta la comunità» (At 15,22; cfr. 6.12.23). Le comunità locali sono dirette da presbiteri<br />

(collegi di presbiteri) e solo ai capi della Chiesa di Efeso il Paolo degli Atti dice: «Vegliate su voi<br />

stessi e su tutto il gregge in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come ispettori (episko-<br />

pous) per pascere la Chiesa di Dio» (At 20,28). Alla base della concezione paolina di 1Cor 12,28 vi<br />

è l’immagine di una Chiesa articolata, distinta in gradi secondo le funzioni: «Vi sono alcuni che Dio<br />

ha costituito nella Chiesa, in primo luogo apostoli, in secondo luogo profeti, in terzo luogo dottori,<br />

poi quelli con la potenza dei miracoli, con il dono delle guarigioni, il dono di assistere, di governare,<br />

139


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

di parlare in varie lingue». Sebbene Paolo si preoccupi di correggere la stima eccessiva che i Corinti<br />

danno ai carismi — col rischio di stilare classifiche fra i fedeli —, esaltando invece la necessità<br />

dell’edificazione comune, egli non cancella le differenze e le articolazioni della costruzione, anzi fa<br />

risalire a Dio la designazione ai differenti uffici (cfr. Ef 4,11). La menzione degli «apostoli» al pri-<br />

mo posto, poi dei profeti e dei dottori (in Ef 4,11: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e dottori) non<br />

è casuale. Il quadro non corrisponde ancora alla posteriore «gerarchia», ma mostra il principio di un<br />

«ordinamento santo» che Dio ha dato alla sua Chiesa. Il santo popolo di Dio viene guidato anche da<br />

pastori umani che sono responsabili davanti al «Pastore supremo» (cfr. 1Pt 5,2-4). Diventa così evi-<br />

dente la composizione «apostolica» della Chiesa primitiva.<br />

4.6. L’attenzione al ministero ordinato come elemento che permette di garantire la continuità della<br />

Chiesa nella storia che procede ha avuto un grande peso soprattutto negli scritti vicini a Paolo e al<br />

paolinismo, in modo eminente nelle “pastorali”. Questo fatto è una conseguenza del significato che<br />

Paolo ha ascritto alla stretta correlazione fra Vangelo e Apostolo. È l’apostolo che, come persona<br />

inviata con una missione speciale dal Signore stesso, manifesta la struttura del Vangelo; e la Chiesa<br />

sorge e viene formata mediante questa testimonianza. Questa funzione di servizio al Vangelo asse-<br />

gnata personalmente venne raccolta e continuata nelle comunità paoline dopo la morte degli Apo-<br />

stoli dalle guide delle comunità. La teologia del ministero che si delinea in modo chiaro nelle lettere<br />

pastorali vuole fornire così uno strumento per la configurazione della continuità ecclesiale.<br />

Dedichiamo un’attenzione particolare alla figura del ministero ordinato quale appare nelle “pastora-<br />

li”. Esse, sebbene presentino ancora una strutturazione ancora un po’ fluida 71 , certamente anticipano<br />

quello che la Chiesa del secondo secolo ha riconosciuto essere un elemento essenziale che mantiene<br />

la Chiesa fedele alla sua “origine” e alla sua “essenza”.<br />

Le tre epistole “pastorali” (1 e 2Tm e Tt) costituiscono il più formale trattamento esplicito della con-<br />

tinuità sub-apostolica nel NT. Paolo trascorse gran parte della sua vita cristiana come missionario,<br />

accrescendo costantemente il numero di coloro che erano venuti alla fede in Gesù Cristo.<br />

71 La varietà dei titoli con cui nel NT ci si riferisce al ministero denota una evoluzione che a partire da un ministero specificamente<br />

apostolico sfocerà in un ministero “ecclesiale” con una forma sempre più istituzionalizzata: 1\ a Gerusalemme<br />

abbiamo i “dodici”, i “sette” ellenisti, poi i profeti, gli “anziani” (presbyteroi), i didascali (rabbi); 2\ a Cesarea un<br />

evangelista (Filippo), le cui figlie profetizzano; a Joppe ci sono delle vedove (Tabità); 3\ ad Antiochia, una triade pastorale<br />

in una strutturazione gerarchica: apostoli, profeti e didascali; 4\ a Efeso, un evangelista (Timoteo), gli episkopi; 5\ a<br />

Corinto la stessa triade di Antiochia; si parla anche di diaconi (Rm 1 e 2Cor) e di proistamenoi “presidenti” (cfr. Rom),<br />

6\ a Roma di hegoumenos, “dirigente” (Eb). L’evoluzione e la stabilizzazione dei ministeri si spiega: 1\ per la situazione<br />

della Chiesa di Gerusalemme, dalla Pentecoste alla guerra giudaica; 2\ per lo sviluppo della Chiesa (da 60.000 verso il<br />

60 d. C. fino a 240.000 verso l’80, di cui un quarto nella provincia di Asia); 3\ per la sparizione degli apostoli e dei ministri<br />

itineranti; 4\ per il ruolo della Chiesa di Roma, che si sostituisce a quella di Gerusalemme.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

L’ambientazione delle due lettere scritte a Timoteo e della lettera a Tito vede Paolo nell’ultimo pe-<br />

riodo della sua vita: «È giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia,<br />

ho terminato la mia corsa» (2Tm 4,6-7). In conformità a questo contesto i suoi pensieri si rivolgono<br />

ai cristiani che egli sta per lasciare. Come possono sopravvivere, specialmente con un pericolo e-<br />

norme rappresentato da falsi maestri che potrebbero traviarli (Tt 1,10; 1Tm 4,1-2; 2Tm 3,6; 4,3)? In<br />

altre parole, gli interessi di Paolo non sono più primariamente missionari ma pastorali; egli è preoc-<br />

cupato di curare il gregge già esistente. Naturalmente, un tale interesse non manca nelle sue prime<br />

lettere, ma giustamente queste tre lettere sono state designate «Pastorali» per eccellenza 72 .<br />

Il consiglio del Paolo alla fine della sua vita terrena sul come sopravvivere, dato a Timoteo e a Tito,<br />

e attraverso essi alle comunità cristiane, è in sintesi una risposta in termini di istituzione. Alcune<br />

delle comunità paoline non sono complete nel senso che esse non hanno autorità locali, ma adesso a<br />

tale carenza si deve rimediare, nominando in ogni città dei presbiteri-vescovi (Tt 1,5-7). La guida<br />

autorevole di questi uomini preserva le comunità ecclesiali locali dalla disintegrazione.<br />

Sebbene la parola presbyteros (comparativo di présbys «vecchio», che in greco significa «anziano»)<br />

si riferisca all’età, il costume di chiedere consigli agli uomini più anziani di una comunità implicò<br />

che «anziano» o «presbitero» finissero per designare un funzionario scelto idealmente per la sua<br />

saggezza, spesso più avanzato in età, ma non necessariamente. Le sinagoghe giudaiche avevano un<br />

gruppo di anziani o presbiteri che stabilivano la linea di condotta della sinagoga. I presbiteri cristia-<br />

ni, comunque, avevano un ruolo di sorveglianza pastorale che andava al di là del loro equivalente<br />

giudaico; perciò li troviamo designati con un secondo titolo, epískopos, «soprintendente, sorveglian-<br />

te, vescovo». La frequente pretesa che presbyteros sia un ruolo preso in prestito dal giudaismo men-<br />

tre epískopos sia preso in prestito dalla amministrazione secolare e religiosa dei pagani è troppo<br />

semplificata e non tiene conto delle testimonianze dei rotoli del Mar Morto. Nei 150 anni precedenti<br />

la nascita del cristianesimo gli Esseni descritti nei rotoli avevano, a parte i presbiteri, dei funzionari<br />

chiamati «sovrintendenti», con ruoli di insegnamento, di ammonizione e di amministrazione quasi<br />

72 Un cambiamento simile si trova nella figura di Pietro in Gv 21. I vangeli sinottici ricordano Pietro come il pescatore<br />

che si era trasformato in pescatore di uomini (Lc 5,10). Nella prima parte di Gv 21 (1-11) Pietro fa una pesca miracolosa<br />

e trascina verso la riva una rete carica di 153 grossi pesci. La scena cambia bruscamente quando Gesù tralascia il fatto<br />

dei pesci ed ordina a Pietro di nutrire i suoi agnelli e le sue pecore (Gv 21,15-17). Le immagini del mondo della pesca<br />

sono molto appropriate all’attività missionaria di condurre gli uomini dentro la comunità cristiana, ma non si prestano<br />

alla cura continua di coloro che sono stati accolti in essa. L’immagine canonizzata del NT per indicare la cura pastorale<br />

è il prendersi cura di un gregge; l’immagine dalla quale noi traiamo il termine «pastorale». Nella stessa maniera in cui il<br />

missionario Paolo, raffigurato come vicino alla morte, diventa primariamente Paolo il pastore che si prende cura di coloro<br />

che ha convertito, così in Gv 21 c’è un cambiamento di immagine: da Pietro il pescatore a Pietro il pastore. Nella «epistola<br />

pastorale» petrina, Pietro dà un consiglio sulla cura pastorale (1Pt 5,1-3).<br />

141


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

uguali a quelli dei vescovi delle Pastorali. I sovrintendenti della comunità religiosa degli Esseni era-<br />

no figurativamente descritti come «pastori», proprio come lo erano i vescovi cristiani (At 20,28-29;<br />

1Pt 5,1-3). Perciò, è plausibile che dalla sinagoga i cristiani presero un modello di gruppi di presbi-<br />

teri per ciascuna chiesa, mentre il ruolo di sorvegliante pastorale (epískopos) dato a tutti o a molti di<br />

questi presbiteri 73 proveniva dal modello organizzativo di gruppi giudaici, i cui componenti viveva-<br />

no in un rapporto di solidarietà molto stretta, come ad es. gli Esseni del Mar Morto. Non si dice nel-<br />

le Pastorali che i presbiteri-vescovi presiedessero l’eucaristia o il battesimo 74 . Non sappiamo neppu-<br />

re come venivano nominati i presbiteri-vescovi, sebbene dal tempo in cui furono scritti gli Atti Bar-<br />

naba e Paolo potessero essere descritti come coloro che nominavano presbiteri in ogni chiesa<br />

(14,23). Che questa immagine sia stata troppo semplificata è indicato da Tt 1,5 dove è chiaro che ci<br />

sono delle città di missione paolina senza presbiteri 75 . Secondo la Didaché 15,1 i cristiani erano in-<br />

vitati a nominare per se stessi vescovi e diaconi 76 .<br />

Una tale informazione di retroterra sui presbiteri-vescovi può essere utile, ma non dovrebbe disto-<br />

glierci da quelle funzioni dei presbiteri-vescovi che fanno di loro una risposta delle Pastorali al mo-<br />

do in cui le comunità paoline sopravvissero dopo la morte dell’apostolo.<br />

Il primo e più importante aspetto nelle Pastorali è che i presbiteri-vescovi devono essere i maestri<br />

ufficiali della comunità, ancorati alla sana dottrina ricevuta da Paolo attraverso Tito e Timoteo, e<br />

avversi ad ogni insegnamento nuovo o differente. Essi possono proteggere la comunità dall’errore<br />

perché hanno l’autorità di ridurre al silenzio i falsi maestri (Tt 1,9-2,1; 1Tm 4,1-11; 5,17). Essi de-<br />

vono custodire «il buon deposito» (2Tm 1,14; cfr. 1Tm 6,20; 2Tm 1,12). Essi lo possono fare in virtù<br />

del dono dello Spirito (2Tm 1,6: «ti ricordo di ravvivare il dono [chárisma] di Dio che è in te per<br />

l’imposizione delle mie mani») che hanno ricevuto mediante l’imposizione delle mani da parte del<br />

73<br />

Negli scritti di poco posteriori al 100 d.C., ad es. in quelli di Ignazio di Antiochia, viene attestato il modello ecclesiale<br />

che prevede un solo epískopos a presiedere su un gruppo di presbiteri (e diaconi). Il fatto che le Lettere Pastorali usino il<br />

termine presbyteros sia al singolare che al plurale, mentre epískopos è attestato (2 volte) solo al singolare, ha indotto alcuni<br />

studiosi a ritenere che l’organizzazione ecclesiale con un solo vescovo era già vigente quando le Pastorali vennero<br />

scritte (negli anni 80?). Tuttavia in Tt 1,5.7 i due termini sono interscambiabili, per cui c’erano anche diversi presbiterivescovi<br />

nella chiesa di una data città menzionata nelle Pastorali. Una osservazione in 1Tm 5,17 suggerisce,però, che non<br />

tutti i presbiteri esercitavano una funzione di controllo e di insegnamento; evidentemente la funzione episcopale di controllo<br />

stava diventando più stimata: J. SCHLOSSER, “Episkopos, Episkopé, Ekklesia nel Nuovo Testamento: quali relazioni?”,<br />

in La relazione fra il Vescovo e la Chiesa locale, Quaderni di studi ecumenici 14, Venezia 2007, 51-81.<br />

74<br />

Gc 5,14 mostra, però, che i presbiteri hanno un ruolo speciale nella preghiera sugli ammalati e nell’unzione. Dal tempo<br />

di Ignazio, la presidenza dell’eucaristia e del battesimo era affidata al (singolo) vescovo o ad un suo delegato.<br />

75<br />

«Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo<br />

le istruzioni che ti ho dato».<br />

76<br />

«Eleggetevi, dunque, vescovi e diaconi degni del Signore, uomini mansueti non desiderosi di denaro e provati. Essi<br />

esercitano per voi anche il ministero dei profeti e dei dottori»: in I Padri apostolici, op. cit., 38.<br />

142


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

presbytérion (1Tm 4,14: «Non trascurare il dono spirituale che è in te [tou en soi charismatos] e che<br />

ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte del collegio<br />

dei presbiteri») accompagnata da parole profetiche nel quadro di una celebrazione liturgica in cui<br />

l’assemblea cristiana gioca un ruolo di testimonianza (1Tm 1,18: «Questo è l’ordine che ti do, figlio<br />

mio Timoteo, in accordo con le profezie già fatte su di te…»; 1Tm 6,12: «Combatti la buona batta-<br />

glia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fat-<br />

to la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni»; 2Tm 2,2: «Le cose che hai udito da me<br />

in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a<br />

loro volta anche altri»). In proposito si può parlare di un “legame di successione di tipo dottorale”;<br />

anzi, siccome la trasmissione del deposito - che è l’elemento primo ed essenziale - non avviene al di<br />

fuori della catena dei ministri istituiti, si può persino parlare di “successione apostolica”.<br />

Il secondo aspetto è che, poiché la chiesa è «la casa di Dio» (1Tm 3,15; un confronto reso più signi-<br />

ficativo dal fatto che la chiesa si incontrava appunto in una casa), i presbiteri-vescovi devono essere<br />

simili ai padri che portano la responsabilità di una famiglia, ne amministrano i beni ed offrono e-<br />

sempio e disciplina. La stabilità e una stretta relazione simile a quella di una famiglia terranno la<br />

chiesa unita contro le forze disgregatrici che la circondano o la invadono. Le qualità richieste ad un<br />

presbitero-vescovo sono virtù istituzionali tali che sarebbero apprezzate in una organizzazione ri-<br />

stretta con una impostazione familiare 77 . Queste richieste riflettono l’emergere della chiesa come<br />

una società con delle norme prestabilite e con suoi funzionari ufficiali. Naturalmente, l’autore delle<br />

Pastorali spera che uomini con doni carismatici siano nominati presbiteri-vescovi, ma egli è dispo-<br />

sto a sacrificare le qualità carismatiche a favore di qualità più prosaiche che promuoveranno<br />

l’armonia nella comunità cristiana. L’istituzionalizzazione del movimento cristiano fu un aspetto di<br />

ciò che gli studiosi chiamano «proto-cattolicizzazione». Mentre il giudizio su quel termine e su<br />

quella tematica richiede delle sfumature, è certo che se la chiesa è una società, una normativa, costi-<br />

tutiva o meno, è un inevitabile sviluppo sociologico che è della natura nella chiesa.<br />

Il terzo aspetto che rivelano le pastorali è l’idea di conservare un’eredità apostolica contro idee e<br />

maestri radicali. Una forte stabilità e una solida continuità sono segni di una struttura istituzionale<br />

77 Egli deve essere irreprensibile, retto e santo; padrone di sé, non arrogante né avventato (Tt 1,7-9). Deve essere capace<br />

di condurre bene la propria famiglia e di vigilare sui suoi figli (1Tm 3,4). Ciò implica che egli debba essere capace di far<br />

quadrare il bilancio della sua casa; in particolare, non deve essere attaccato al denaro (1Tm 3,3-5); esigenze importantissime<br />

se, come si può ben sospettare dai paralleli dei rotoli del Mar Morto, il presbitero-vescovo doveva amministrare il<br />

denaro comune della comunità cristiana. Egli non può essere sposato più di una volta; non può essere un neo-convertito;<br />

i suoi figli devono essere cristiani (Tt 1,6; 1Tm 3,2-6).<br />

143


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

(presbiteri-vescovi e diaconi) destinata a conservare l’eredità apostolica. Le Pastorali hanno trovato<br />

un modo per evidenziare l’unicità dell’apostolo e nello stesso tempo per estendere la sua influenza<br />

al di là del tempo della sua vita. L’apostolicità è personificata in Paolo — nessun altro apostolo è<br />

menzionato e di nessun altro c’è bisogno — e questo apostolo provvede al tempo successivo alla<br />

sua dipartita trasferendo la sua eredità ai presbiteri-vescovi sotto la sovrintendenza di Timoteo e di<br />

Tito. Enfaticamente Paolo è un maestro, «un maestro delle nazioni» (1Tm 2,7; vedi anche 2Tm<br />

1,11); e la principale funzione dei suoi successori è di insegnare «la sana dottrina» (Tt 2,1), portando<br />

avanti le linee direttive date dall’apostolo ai suoi discepoli. Il vescovo deve «essere attaccato alla<br />

dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmesso» (Tt 1,9). Timoteo, che ha osservato il modo di<br />

insegnare di Paolo (2Tm 3,10), è ammonito: «Persevera in ciò che hai imparato e in cui hai ferma-<br />

mente creduto, sapendo da chi lo hai appreso» (3,14). Il nemico contro il quale questo avviso è di-<br />

retto sono i maestri che introducono nuove idee, un gruppo descritto come uomini insubordinati,<br />

vuoti ciarlatani e ingannatori 78 .<br />

Le circostanze storiche in cui le epistole pastorali furono scritte portavano con sé un grande pericolo<br />

per la forma del cristianesimo che alla fine sarebbe stata chiamata «ortodossia». I propagandisti del-<br />

lo gnosticismo (1Tm 6,20: ciò che è falsamente chiamata conoscenza [gnosis]) avevano già conqui-<br />

stato aderenti tra i cristiani 79 . Adesso comincia la lotta all’ultimo sangue che sarebbe culminata in-<br />

torno al 180 con l’Adversus haereses di Ireneo. Già il «Paolo» delle Pastorali aveva intuito che la<br />

migliore risposta ad una moltitudine di prospettive che pretendono di essere rivelate o perfino tradi-<br />

zionali era una tradizione con una genealogia sicura, che coinvolgeva legami tra la fase apostolica e<br />

i funzionari ecclesiastici approvati. Ireneo avrebbe soltanto perfezionato l’argomentazione quando si<br />

appellò ad una catena di vescovi dei grandi centri cristiani nella sua confutazione delle dottrine gno-<br />

stiche. La massima: «mantieni fermamente il sicuro insegnamento che hai ricevuto» (Tt 1,9) è stata<br />

un’arma essenziale nei tempi di maggiori crisi dottrinali: nei momenti in cui la libertà teologica ten-<br />

de a divenire anarchia, «la chiesa del Dio vivente, il sostengo e roccaforte della verità» (1Tm 3,15)<br />

ha il diritto di non lasciarsi distruggere dall’interno.<br />

4.7. Al termine della nostra riflessioni sul tema del ministero possiamo presentare due risultati. In<br />

primo luogo ci sembra legittimo concludere che la Chiesa primitiva sia nel suo complesso sia nelle<br />

sue singole comunità non fu mai priva di ordinamento, e questo non era un ordinamento che di volta<br />

78 Cfr. le varie descrizioni in 1Tm 1,3ss; 4,lss; 6,20-21; 2Tm 2,16-18; 3,1-9; 4,3-4; Tt 1,10-16; 3,9.<br />

79 In realtà non è chiaro il fatto che solo una forma di pensiero eretico fosse il bersaglio, poiché 1Tm 1,7 e Tt 1,10 considerano<br />

giudei e giudeo-cristiani come oppositori che potrebbero non equivalere agli gnostici.<br />

144


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

in volta doveva essere stabilito dallo Spirito Santo e riconosciuto dalla comunità, ma era basato su<br />

una costituzione fondamentale della Chiesa, determinata da Dio e obbligante fin dall’inizio. Ciò non<br />

esclude la guida costante e anche le indicazioni immediate dello Spirito Santo, tanto meno esclude<br />

la cooperazione della comunità. Resta inoltre alla Chiesa spazio sufficiente per la configurazione<br />

concreta della sua costituzione e libertà sufficiente per la designazione di uffici e ministeri di volta<br />

in volta necessari. La Chiesa primitiva, tuttavia, non vede se stessa semplicemente come «popolo di<br />

Dio» che deve attendere e prestare ascolto alle direttive immediate del suo Signore celeste, ma piut-<br />

tosto come «gregge di Cristo», che il Signore ha provveduto sulla terra anche di pastori umani, i<br />

quali la governano e guidano nel suo nome.<br />

In secondo luogo non dovremmo generalizzare il modello di continuità presentato dalle «pastorali»<br />

applicandolo in modo puro e semplice alle altre chiese di tradizione non paolina; tuttavia questo<br />

modello a poco a poco venne accolto e riconosciuto come fondamentale dalla Chiesa antica e tra-<br />

smesso a noi come normativo. Perciò non è lecito pretendere di “reinventare” la Chiesa a partire da<br />

una ipotetica ricostruzione storica delle comunità cristiane custodi di altre tradizioni che presente-<br />

rebbero un’alternativa, ingiustamente soppressa nella storia della Chiesa, che attenderebbe dalla sua<br />

riscoperta un presente nella nostra storia. Meglio parlare più correttamente di istanze custodite dalla<br />

testimonianza neotestamentaria con cui la Chiesa attuale deve confrontarsi e su cui deve misurar-<br />

si… all’interno di un contesto storico e culturale ben diverso da quello con cui si dovevano confron-<br />

tare le comunità neotestamentarie. Proprio questa osservazione ci introduce alla seconda grave que-<br />

stione che dovette affrontare l’età sub-apostolica.<br />

5. La questione della relazione della Chiesa al mondo e alla società.<br />

I limiti della risposta offerta dall’età sub-apostolica a questa questione sono segnati da due posizioni<br />

estreme, difficilmente conciliabili.<br />

5.1. Da una parte si colloca l’Apocalisse di Giovanni, la cui comprensione della Chiesa deriva da<br />

una cristologia radicale della fine dei tempi. Secondo l’Apocalisse la Chiesa è coinvolta nella batta-<br />

glia finale di Cristo contro il suo avversario, le potenze politico-sociali. Poiché appartiene a Cristo e<br />

nello stesso tempo esiste nel mondo, analogamente a Cristo — il vero signore del mondo —, con la<br />

propria testimonianza non può che suscitare ostilità e sopportare tale ostilità con una condotta pas-<br />

siva-sofferente. In quest’ottica la Chiesa si trova in opposizione al mondo e alla società; anzi questa<br />

opposizione è intrinseca alla sua essenza — cioè di essere l’ambito della salvezza di Cristo — e<br />

perciò non è superabile in modo intramondano. Il motivo della “società di contrasto” trova qui la<br />

sua espressione estrema. Similmente, anche se in modo meno radicale, le lettere ai Colossesi e agli<br />

145


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

Efesini intendono la Chiesa come lo strumento mediante il quale la Signoria finale di Cristo ricapi-<br />

tola a sé tutte le cose sottomettendo le potenze di questo mondo.<br />

5.2. L’altro estremo è segnato dalle lettere pastorali. Presupponendo la presenza permanente del<br />

vangelo del mondo in virtù e a partire dalla venuta di Gesù Cristo, esse intendono la testimonianza<br />

della Chiesa come la realizzazione della volontà salvifica di Dio, che ha di mira tutti gli uomini.<br />

Chiesa e società così non sono separate l’una di fronte all’altra, piuttosto secondo la volontà di Dio<br />

in relazione l’una all’altra; anzi viene riconosciuta pure una fondamentale disponibilità della società<br />

ad aprirsi all’annuncio della Chiesa. La Chiesa viene espressamente incoraggiata ad assecondare<br />

questa disponibilità in modo da avvicinarsi alle norme e ai modelli di pensiero della società. Luca<br />

non va così lontano come le lettere pastorali, ma si muove su posizioni vicine, quando negli Atti al-<br />

lude alla forma positiva della relazione fra Chiesa e Impero Romano e la sua società, come a una<br />

possibilità sperata.<br />

5.3. Se queste due posizioni non si possono conciliare con un semplice compromesso, tuttavia rico-<br />

nosciamo almeno un tratto comune e precipuo di tutte le testimonianze dell’età sub-apostolica che è<br />

in grado di coprire tutte l’arco delle posizioni: è la fiducia nella efficacia della condotta di vita pub-<br />

blica della comunità cristiana. La Chiesa mediante la testimonianza della sua condotta opera effica-<br />

cemente nel mondo — o per provocare la latente ostilità del mondo contro Cristo (Ap) oppure per<br />

dimostrare il compimento dell’ideale etico della società (Pastorali). Il compito centrale della Chiesa<br />

è di conseguenza, di rendere visibile l’alterità della Signoria di Dio nel suo Cristo evitando di adat-<br />

tare supinamente la propria condotta di vita ai costumi della società circostante: essa infatti vive<br />

come “società di contrasto” caratterizzata dal compito di servizio di Gesù nel mondo e nella società.<br />

e) Conseguenze<br />

Questa generazione cristiana non ha concluso una volta per sempre il discorso sulla Chiesa. Esso<br />

rimane aperto anche dopo. Il nostro compito è quello di proseguirlo. Noi lo possiamo fare perché<br />

possiamo abbracciare l’intera storia dell’esperienza ecclesiale e, almeno dopo il Vaticano II, anche<br />

la comprensione ecumenica contemporanea di quello che la Chiesa può essere.<br />

Il patrimonio neotestamentario, però, ci fornisce alcune istanze irrinunciabili. Senza pretendere di<br />

farne un inventario completo, segnaliamo alcune conseguenze che si possono trarre da queste istan-<br />

ze, allo scopo di suscitare anche una riflessione personale.<br />

1. Non si sono trattati qui i differenti modelli di chiesa che vengono offerti dal NT, perché nessuno<br />

degli autori biblici intendeva offrire un quadro complessivo di ciò che la chiesa dovrebbe essere. Se<br />

uno degli autori avesse voluto presentare un modello, potremmo essere certi che dai loro rispettivi<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

scritti sarebbe emersa una <strong>ecclesiologia</strong> più completa e più ricca di sfumature. Non c’era alcuna te-<br />

stimonianza in queste opere che facesse emergere una <strong>ecclesiologia</strong> coerente o uniforme. Piuttosto,<br />

scritti indirizzati a diverse comunità neotestamentarie avevano degli accenti del tutto diversi 80 . An-<br />

che se ciascuna accentuazione poteva essere efficace nelle particolari circostanze dello scritto, cia-<br />

scuna aveva anche degli aspetti di manchevolezza che avrebbero costituito un pericolo se fossero<br />

state assolutizzate e ritenute valevoli per tutti i tempi. Prese globalmente, comunque, queste accen-<br />

tuazioni costituiscono una lezione notevole sulle idee del cristianesimo primitivo a proposito della<br />

vita delle comunità.<br />

2. Noi che viviamo nelle chiese del ventesimo secolo, che cosa possiamo ricavare da un tale studio?<br />

Ci sono cristiani che ancora rifiutano l’esistenza di diversità nel NT. Alcuni lo fanno a partire da<br />

una rigida concezione della divina ispirazione che svaluta la situazione umana degli scritti del NT<br />

ed insiste sul fatto che il loro messaggio deve essere uniforme perché solo la voce di Dio può essere<br />

ascoltata. Altri rigettano le diversità nel NT perché proiettano nel primo secolo una situazione ideale<br />

in cui Gesù aveva progettato la chiesa, gli apostoli concordavano tutti nel portare avanti le sue diret-<br />

tive, e gli unici che differivano erano gli agitatori condannati dagli autori del NT. Nessuna di queste<br />

obiezioni ultraconservatrici alle diversità del NT può reggere dinanzi alle testimonianze.<br />

D’altro lato, alcuni studiosi acutizzano le diversità riscontrabili nel NT in conflitti dialettici e posi-<br />

zioni contraddittorie. Nessuno può dimostrare che qualunque delle chiese qui studiate abbia rotto la<br />

koinonía con un’altra. Non è neppure verosimile che le chiese del NT di questo periodo sub-<br />

apostolico non avessero il senso della κοινωνία tra i cristiani e che fossero delle conventicole chiuse<br />

in se stesse che andavano ciascuna per la propria strada. Paolo è eloquente sull’importanza della<br />

koinonía, e nell’eredità paolina la preoccupazione per l’unità dei cristiani è visibile in Lc/At ed in<br />

Ef. Pietro è una figura ponte nel NT, ed il concetto di popolo di Dio in 1Pt richiede una compren-<br />

sione collettiva del cristianesimo. Con tutto il suo individualismo, il quarto vangelo sa di altre peco-<br />

re che non sono di quell’ovile e sa del desiderio di Gesù che esse siano riunite. Mt ha un concetto<br />

della chiesa, ed espande gli orizzonti del cristianesimo fino ad includere tutte le nazioni. La maggior<br />

parte del NT fu scritta prima delle maggiori rotture della κοινωνία riscontrabili nel secondo seco-<br />

80 Queste accentuazioni potrebbero essere contrarie e logicamente in uno stato di tensione reciproca, ma esse non sono<br />

contraddittorie; e non c’è alcuna testimonianza del fatto che qualunque comunità da noi studiata stesse escludendo (che<br />

è cosa diversa dal correggere) le sottolineature presenti nella tradizione di un’altra comunità. Può essere utile ripetere<br />

che noi non sappiamo se i cristiani di una chiesa specifica di quel periodo sapessero molto di preciso circa le opere del<br />

NT presso altre chiese, sebbene essi possono aver conosciuto le altre tradizioni cristiane e i loro stili di vita. I grandi a-<br />

147


Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

lo 81 , e perciò le diversità del NT non si possono usare per giustificare le divisioni dei cristiani di og-<br />

gi. Noi cristiani moderni abbiamo rotto la koinonía; perché, esplicitamente o implicitamente, ci<br />

siamo scomunicati a vicenda e/o abbiamo stabilito che le altre chiese sono infedeli alla volontà di<br />

Cristo nelle sue esigenze più importanti. Ora, tale situazione di divisione non è approvata dal NT.<br />

3. Se non possiamo ignorare le differenze ecclesiologiche del NT né possiamo usarle per giustificare<br />

l’attuale status quo, in che modo possono esserci utili?<br />

Primo: esse ci rafforzano. Molti di noi appartengono ad una particolare chiesa cristiana, perché sia-<br />

mo nati in famiglie che facevano parte di quelle chiese. Tuttavia, quando siamo cresciuti, se siamo<br />

rimasti fedeli alla nostra chiesa di origine, è stato perché vi abbiamo trovato degli aspetti che ci por-<br />

tavano vicino a Cristo e all’amore di Dio. Così l’appartenenza ad una chiesa è divenuta una questio-<br />

ne di convinzione. Uno studio delle diverse sottolineature nelle chiese del NT può illustrarci le forze<br />

che noi ammiriamo nelle nostre chiese e può accrescere il nostro apprezzamento per come questa<br />

chiesa è rimasta fedele all’eredità biblica.<br />

Secondo: esse ci lanciano una sfida. Un uso del NT per rafforzare l’apprezzamento della propria<br />

chiesa, comunque, non è per nulla nuovo per il mondo cristiano. In una cristianità divisa, abbiamo<br />

avuto una lunga storia dell’uso delle Scritture teso a dimostrare di essere nel giusto, sia da parte del-<br />

le chiese che da parte dei singoli. Il contributo più grande dei moderni studi sul NT, perciò, può<br />

consistere nel mettere in evidenza quei modi in cui la Scrittura può sfidare costruttivamente. Un ri-<br />

conoscimento della gamma delle diversità ecclesiologiche del NT rende molto più complessa la pre-<br />

tesa di qualsiasi chiesa di essere assolutamente fedele alle Scritture. Noi siamo fedeli, ma nel modo<br />

che è a noi proprio; ed entrambi gli studi ecumenici e biblici dovrebbero portarci alla consapevolez-<br />

za che ci sono altri modi di essere fedeli, ai quali non abbiamo reso giustizia. In breve, uno studio<br />

postoli (Pietro, Paolo, Giacomo) erano in contatto reciproco, ma noi non siamo sicuri se i loro discepoli della successiva<br />

generazione fossero in frequente contatto gli uni gli altri.<br />

81 All’inizio del movimento cristiano non c’era un corpo dottrinale fissato ma una fede in Gesù che aveva bisogno di essere<br />

articolata. Di conseguenza il periodo neotestamentario implicò uno sviluppo di intuizioni e di formulazioni su Gesù<br />

e sulla comunità che conservava il suo nome, una crescita a cui diedero dei contributi decisivi le figure maggiori della<br />

prima generazione. Naturalmente, c’erano delle volte in cui Pietro, Paolo e Giacomo differivano tra loro; ma queste differenze<br />

non causarono una rottura di κοινωνία, per quanto possiamo sapere. Dalla fine del primo secolo, comunque, alcuni<br />

cristiani resistevano in maniera veramente forte agli sviluppi che avevano preso piede in altri gruppi, e i diversi<br />

punti di vista sostenuti riguardo ad importanti istanze cominciarono a diventare veramente contraddittori. È stato allora<br />

che probabilmente avvennero le più grosse fratture di κοινωνία, per esempio, nella comunità giovannea, come è attestato<br />

da 1Gv 2,19. Il secondo secolo vide un tentativo di determinare quale di queste contraddittorie visioni preservasse meglio<br />

la comprensione apostolica e quale la distorcesse maggiormente. Questa fu la questione dell’ortodossia e<br />

dell’eresia. È un travisamento affermare che questo punto di vista significhi che l’ortodossia non esistesse prima del tardo<br />

secondo secolo. L’eredità che alla fine fu riconosciuta come ortodossa esisteva fin dal tempo di Gesù, non in un modo<br />

statico ma in un modo dinamico.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />

franco delle ecclesiologie del NT potrebbe provocare ogni comunità cristiana a chiedersi se essa sta<br />

trascurando parte delle testimonianze del NT. Se le chiese hanno accettato il canone della Bibbia,<br />

esse non possono permettere che le loro preferenze riducano al silenzio alcuna voce biblica.<br />

Terzo, per le chiese che vivono oggi in un orizzonte ecumenico sarà finalmente importante, che in-<br />

vece di perseverare nell’isolamento autosufficiente, comincino a prendere sul serio la verità<br />

dell’essenziale unità del popolo di Dio e che, invece di assicurarsi nei confronti del futuro che appa-<br />

re insicuro brandendo con preoccupazione le proprie posizioni confessionali e culturali a volte or-<br />

mai datate, arrischino confidando nella presenza dello Spirito santo procedendo coraggiosamente<br />

verso quella novità, che è stata promessa come opera dello Spirito.<br />

4. Dalle considerazioni sopra svolte emerge inoltre l’importanza decisiva del momento istituzionale:<br />

esso non si può semplicisticamente contrapporre allo Spirito. D’altra parte occorre verificare che le<br />

forme istituzionali non contraddicano l’opera dello Spirito. Solo così infatti si può essere evitare che<br />

l’istituzione Chiesa diventi un guscio vuoto e lo Spirito una spiritualità disincarnata.<br />

5. Importante è pure il motivo della chiesa come “società di contrasto”. Nel nostro contesto segnato<br />

dalla fine della “cristianità”, quale potrebbe essere la testimonianza che la Chiesa può dare alla so-<br />

cietà? Quale che essa sia, non dovrebbe mai rinnegare la forma “cristologica” del servizio per gli al-<br />

tri «come il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in<br />

riscatto per molti» (Mt 20,28), e della mutua accettazione, di cui il «Signore e Maestro» ha «dato<br />

l’esempio» così che come ha fatto lui così facciano anche i suoi discepoli (Gv 13,14s).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

II. L’AUTOCOMPRENSIONE DELLA CHIESA NELLA STORIA<br />

Avvertenza preliminare<br />

1) Questa parte dedicata all’illustrazione dello sviluppo storico della comprensione della chiesa vor-<br />

rebbe evitare di limitarsi alle dottrine teologiche sulla chiesa, per considerare la storia della chiesa in<br />

quanto tale come luogo in cui la chiesa rivela la comprensione di sé, non solo nella forma della ela-<br />

borazione dottrinale, ma anche con le concrete scelte storiche che le conferiscono una determinata<br />

forma. Ovviamente questo studio è possibile solo in modo assai limitato e per temi maggiori.<br />

2) Una descrizione del mutamento operatosi nell’immagine della Chiesa non deve ripetere quanto<br />

già esposto nelle presentazione teologico-biblica. Tuttavia l’oggetto, che con questo tema s’intende<br />

descrivere, si basa su quel fondamento. Ciò s’impone, se l’evento che la Scrittura attesta non costi-<br />

tuisce un puro inizio nel tempo ma è anche una origine permanente e normativa. Storia e storicità,<br />

inserite nell’orizzonte della rivelazione, della storia di salvezza, della fede e comunità dei credenti,<br />

quindi della Chiesa, svolgono la funzione di condurre l’«origine nella pienezza» (J.A. Möhler) ad<br />

effetto, alla maturazione ed alla concretizzazione sempre diversa nel tempo. Questo però non si ve-<br />

rifica né nel senso di un progresso inarrestabile e nemmeno in quello di una defezione, che sarebbe<br />

sopravvenuta subito dopo i primi inizi, bensì nei termini di una attualizzazione, condizionata tanto<br />

dalle possibilità e forza di realizzazione, quanto dalle remore, dalle opposizioni, dalla defettibilità<br />

dei credenti di ogni tempo e della comunità dei fedeli, sempre e variamente intessuta di nessi storici.<br />

Per questo motivo, nella storia e nel mutamento storico operatosi nel contesto della fede e della<br />

Chiesa, è presente e vitale la sua stessa origine, e in misura più o meno intensa anche fedeltà e cor-<br />

rispondenza. Qui si radicano anche — ne sono l’effetto — una istanza critica decisiva, di carattere<br />

storico e tradizionale, e un criterio teologico, atto a valutare i diversi momenti storici e la realizza-<br />

zione della fede e della Chiesa in essi prodotta.<br />

3) Alla base di una esposizione del mutamento verificatosi nell’immagine della Chiesa sta l’intero<br />

ambito in cui questa vive, si esprime e si articola: professione di fede, liturgia, spiritualità, riflessio-<br />

ne teologica, espressione simbolica ed artistica. Nelle riflessioni seguenti il nostro discorso non ver-<br />

terà dunque soprattutto su concetti di Chiesa, su una caratterizzazione essenziale della Chiesa cioè<br />

che risponda, di volta in volta, ai requisiti di una definizione, quanto piuttosto sulle immagini, nelle<br />

quali non si astrae affatto dal concreto ma, in quanto lo si espone, lo si implica pure.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

4) «Immagine della Chiesa» presenta una duplice accezione. Con essa s’intende, per un verso, (1)<br />

una raffigurazione vitale, una idea espressiva che la comunità dei credenti si fa di ciò che la Chiesa<br />

è e deve essere. Ma s’intende pure (2) la figura concreta che nelle diverse epoche la Chiesa presenta<br />

all’osservatore, che vive in essa o anche al di fuori delle sue cerchie. Queste due dimensioni si tro-<br />

vano in un rapporto di interazione e confluenza: la Chiesa concreta viene organizzata secondo<br />

l’immagine che di essa ci si fa e che si cerca nella concretizzazione storica del suo attuarsi. D’altra<br />

parte l’immagine che della Chiesa ci si fa, dipende dalla sua figura storica effettiva, e dalla sua real-<br />

tà concreta. Da questa combinazione ed intreccio inscindibili di idea e realtà originano delle tensio-<br />

ni, le quali però non costituiscono un danno per la Chiesa, ma sono la sua necessaria espressione, la<br />

figura che abbraccia tutte le sue dimensioni. In una storicità così compresa troviamo la ragione pro-<br />

fonda del fatto che, realmente e di necessità, esiste un mutamento nell’immagine della Chiesa.<br />

2.1. I primi tre secoli: la Chiesa come mistero<br />

2.1.1. Situazione storica<br />

1) Nei primi secoli non esiste ancora un’<strong>ecclesiologia</strong> autonoma. La Chiesa è compresa anzitutto<br />

come parte del piano divino di salvezza che è stato rivelato in Cristo e ora è annunciato a tutto il<br />

mondo. Dato che l’attenzione dei credenti di questo tempo si concentra completamente sull’evento<br />

della redenzione attuata da Dio in Gesù Cristo, anche la mediazione ecclesiale del mistero di sal-<br />

vezza viene compresa come parte dell’azione divina, come parte dell’economia della salvezza, co-<br />

me mistero della fede. D’altra parte, la Chiesa non è ancora divenuta oggetto diretto di riflessione,<br />

poiché essa in misura maggiore o minore si identifica con l’esperienza stessa della fede, con la stes-<br />

sa vita cristiana. Anche da questo punto di vista la Chiesa è soprattutto mistero della fede.<br />

2) Questa particolare visione della Chiesa, caratteristica dei primi secoli, dipende anche da una serie<br />

di presupposti e di condizioni storiche.<br />

Nonostante la rapida diffusione, i cristiani, ancora all’inizio del IV secolo, continuano a rimanere una mino-<br />

ranza nella società (forse il 12-15 per cento, anche se in alcune regioni raggiungono già la metà della popo-<br />

lazione complessiva). Fino alla svolta costantiniana le comunità cristiane rimangono un corpo estraneo<br />

all’interno del loro contesto socioculturale. Un gran numero di principi del loro stile di vita e del loro siste-<br />

ma di credenze si oppone direttamente ai principi della società ellenistico-romana: l’apertura universale del-<br />

la comunità che accoglie tutti coloro che credono (per cui accanto agli strati inferiori e medi della società<br />

sono rappresentati in essa anche la classe superiore e gli intellettuali) costituisce una messa in questione di<br />

fondo del carattere rigorosamente classista della società dell’impero (aristocrazia senatoriale, cavalieri, uffi-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

ciali dell’amministrazione, plebe, liberti, schiavi). La pretesa assoluta di verità della fede implica non solo<br />

esigenze etiche elevate, ma si contrappone anche all’atteggiamento sincretistico della cultura ellenistico-<br />

romana. Fino a quando l’ambiente è più forte, i cristiani si trovano perciò nella posizione di potenziale o a-<br />

cuto rifiuto e di persecuzione. In tale situazione non solo passa in primo piano il carattere comunitario e de-<br />

cisivo della fede, ma anche la sua alterità; la consapevolezza di essere quaggiù in una condizione di esilio e<br />

di avere il proprio punto di riferimento nell’aldilà, riceve costantemente una palese conferma.<br />

Come mostrano lo sviluppo del commercio e della tecnica, il progresso della civiltà urbana e la costruzione<br />

di numerosi splendidi edifici, la fioritura economica dell’ellenismo era proseguita in epoca imperiale. Essa<br />

però recava vantaggi solo alle classi più elevate e alla popolazione delle città. Già verso la fine del I secolo<br />

però cominciò ad annunciarsi in Italia una crisi economica che doveva estendersi rapidamente a tutto<br />

l’impero; tale situazione determinò un aumento della pressione statale sulla popolazione, fino a quando i di-<br />

sordini all’esterno e all’interno nel III secolo fecero sorgere una brutale dittatura militare con estorsione di<br />

tributi, confische e un peso fiscale insopportabile. Finché durarono lo sviluppo economico e la fase di con-<br />

quista politico-militare, il sincretismo religioso (politeismo) venne confermato nella sua funzione di integra-<br />

zione. Esso però cessò di essere utile politicamente quando, con la fine della politica di conquista e della pa-<br />

cificazione esterna, si trovarono in primo piano i conflitti interni e gli scontri di interessi. La macchina mili-<br />

tare da sola, a lungo termine, non poteva mantenere l’unità. L’unica possibilità di sopravvivenza era rappre-<br />

sentata da un mondo simbolico (religioso) unitario in grado di fondare il consenso e legittimare il potere. In<br />

tal modo si creava per il cristianesimo una nuova situazione politico-sociale: la pretesa di verità universale<br />

del monoteismo e lo stile di vita integro che fino ad allora avevano causato la sua emarginazione lo colloca-<br />

no ora in una posizione di vantaggio. Non appena, sotto la spinta di questa nuova plausibilità, saranno com-<br />

piuti i primi passi sulla via per divenire religione di Stato e verso una perdita della distinzione tra Chiesa e<br />

società (questo è accaduto in forma iniziale già prima della svolta costantiniana), ciò avrà immediatamente<br />

delle conseguenze per l’autocomprensione della Chiesa e la formazione delle proprie strutture.<br />

3) In questi primi secoli si sono sviluppati nei loro tratti essenziali i lineamenti fondamentali della<br />

Chiesa che permangono anche nei secoli successivi: le norme fondamentali della fede (canone della<br />

sacra Scrittura, confessione di fede, regola della fede), le forme fondamentali della liturgia (batte-<br />

simo ed eucaristia), della costituzione ecclesiale (ordinamento episcopale) e della trasmissione della<br />

fede (annuncio, catechesi, teologia); ciò tuttavia accade in connessione con queste concrete condi-<br />

zioni storiche e sociali. In tale situazione non era possibile giungere a una <strong>ecclesiologia</strong> unitaria.<br />

Piuttosto vi sono luoghi assai diversi dell’autocomprensione ecclesiale. Se si vuole sapere come la<br />

Chiesa antica si è compresa si devono dunque conoscere questi differenti luoghi della sua autocom-<br />

prensione nella loro diversità, nella loro influenza reciproca e nel loro sviluppo.<br />

152


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

2.1.2. Luoghi dell’autocomprensione ecclesiale e della riflessione ecclesiologica<br />

a) La Chiesa nel contesto della liturgia<br />

1) L’assemblea liturgica è stata fin dall’inizio uno dei luoghi centrali della formazione dell’auto-<br />

coscienza ecclesiale. Qui si incontra la Chiesa soprattutto come realtà spirituale e mistica, come<br />

mistero della fede. Qui infatti viene creduto e celebrato in segni e riti sacri il fatto che l’agire salvi-<br />

fico di Dio ha trovato una forma di apparizione storica ed escatologica nella concreta figura terrena<br />

della comunità di salvezza e, in particolare, nella sua assemblea liturgica. Questo contesto liturgico<br />

è significativo dal punto di vista ecclesiologico in primo luogo a motivo della connessione dell’idea<br />

storica di rivelazione e salvezza (soprattutto della ripresentazione anamnetica della morte e risurre-<br />

zione di Gesù Cristo) con le immagini arcaiche cosmiche e mitiche, con i segni, i simboli e i riti che<br />

toccano gli strati più profondi dell’anima. Nella liturgia battesimale, ad esempio, l’accoglienza nella<br />

comunità e il passaggio dalle tenebre alla luce, dalla sepoltura nelle acque della morte alla risurre-<br />

zione alla vera vita, formano un’intima unità. Ma questo contesto liturgico è significativo dal punto<br />

di vista ecclesiologico anche per il legame costitutivo tra culto e stile di vita: la comunità ecclesiale<br />

è costituita, per così dire, dall’unità di queste due forme della fede.<br />

2) Questa figura completa della comunità raccolta per il culto viene compromessa in diversi modi<br />

dai processi di differenziazione che hanno luogo nei primi quattro secoli.<br />

Con il crescere delle comunità e il manifestarsi del peccato all’interno di esse, si rende necessaria la<br />

strutturazione del catecumenato e della penitenza pubblica. In questo modo però, oltre alla delimi-<br />

tazione nei confronti dei pagani e degli ebrei, viene istituzionalizzata anche un’altra distinzione<br />

all’interno della comunità riunita per il culto (in particolare per la celebrazione eucaristica). Con lo<br />

sviluppo di dispute all’interno e il sorgere di movimenti eterodossi, diventano necessarie istanze<br />

normative a garanzia dell’unità ecclesiale (canone, regola della fede, confessione di fede, vescovo).<br />

Comunione ecclesiale e comunione eucaristica divengono così dipendenti reciprocamente in modo<br />

nuovo. Quanto più le comunità diventano numerose e la comunità ecclesiale si trasforma in società<br />

cristiana (a partire dal IV secolo), tanto più forte deve diventare la differenziazione all’interno della<br />

Chiesa (la formazione di una gerarchia di uffici e di ministeri con una chiara distinzione tra clero e<br />

laici 1 ). In tali circostanze, infatti, il battesimo e la fede battesimale non possono più essere la condi-<br />

1 Sembra che fu Tertulliano il primo a introdurre una sintomatica rilettura dell’espressione laos tou Theou nel senso di<br />

plebs o turba fidelium, ossia la specifica denominazione di quanti non sono stati insigniti di un ordo vero e proprio: cfr.<br />

G. MAZZILLO, “«Popolo di Dio»: categoria teologica o metafora?”, in Rassegna di Teologia 36 (1995) 553-587.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

zione sufficiente per avere accesso alla comunione eucaristica; ora si richiede in più l’ortodossia<br />

dottrinale e la comunione con i legittimi pastori della Chiesa e le loro comunità.<br />

3) Tuttavia la liturgia rimane il luogo in cui viene trasmessa un’autocomprensione spirituale e rela-<br />

zionale della Chiesa: un’autocomprensione che essa sa di ricevere esclusivamente dall’agire di Dio<br />

e a cui cerca di corrispondere nell’assemblea liturgica e nel comportamento quotidiano.<br />

In questo modo, la comunità si sperimenta nell’eucaristia non solo come popolo di Dio raccolto da<br />

tutti i popoli, ma anche come mistero del corpo di Cristo: attraverso la partecipazione all’unico pa-<br />

ne, la pluralità e la diversità dei suoi membri vengono unite per formare una comunità. Al tempo<br />

stesso, quello che viene celebrato nel segno liturgico, il dono redentivo del corpo di Gesù, deve es-<br />

sere reso presente ora nella storia, dal “suo corpo” che è la Chiesa. Come illustra S. Agostino:<br />

«Se vuoi comprendere il mistero del corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo che dice ai fedeli: voi siete il corpo<br />

di Cristo e sue membra (1Cor 12,27). Se dunque voi siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Si-<br />

gnore è deposto il mistero di voi: ricevete il mistero di voi. A ciò che siete rispondete: Amen e rispondendo<br />

lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: il corpo di Cristo, e tu rispondi: Amen. Sii membro del corpo di Cristo,<br />

perché sia veritiero il tuo Amen. Perché dunque il corpo di Cristo nel pane? Non vogliamo qui portare niente<br />

di nostro; ascoltiamo sempre l’Apostolo il quale, parlando di questo sacramento, dice: Pur essendo molti<br />

formiamo un solo pane, un solo corpo (1Cor 10,17). Cercate di capire ed esultate. Unità, verità, pietà, carità.<br />

Un solo pane: chi è questo unico pane? Pur essendo molti formiamo un solo corpo. Ricordate che il pane<br />

non è composto da un solo chicco di grano, ma da molti. Quando si facevano gli esorcismi su di voi veniva-<br />

te, per così dire, macinati; quando siete stati battezzati siete stati, per così dire, impastati; quando avete rice-<br />

vuto il fuoco dello Spirito Santo siete stati, per così dire, cotti. Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete» 2 .<br />

Nella comune lode di Dio, la comunità si sperimenta come comunità riempita dallo Spirito Santo,<br />

unita nella comunione del Dio trino, nell’unità di amore, per formare un cuore e un’anima sola.<br />

4) In questa prospettiva, la Chiesa rimane una realtà liturgico-sacramentale, o misterica, la forma<br />

simbolica attuale della vicinanza del Dio trino. Come segno vivente della bontà creatrice di Dio, del<br />

dono di Cristo e della forza trasformante dello Spirito di Dio, essa deve essere espressa anche in un<br />

grande numero di immagini prese dalla Bibbia o da altro contesto simbolico 3 .<br />

2 AGOSTINO, Serm. 272; Discorsi, IV/2, NBA vol. XXXII/2, Città Nuova, Roma 1984, 1042-1045.<br />

3 Notiamo che il simbolismo utilizzato dai Padri deriva da una temperie platonica, in cui è fondamentale il rapporto fra<br />

l’originale e l’immagine (eikon). La chiesa terrena viene osservata come una copia dell’immagine originaria e celeste, la<br />

quale porta in se stessa i contrassegni dell’autentico, del permanente e dell’eterno. La struttura e l’ordinamento della<br />

chiesa sono quindi una copia dell’ordinamento celeste; i segni, simboli, sacramenti e modi di agire della chiesa sono ri-<br />

154


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

(a) Immagini naturali: luna, piantagione, vite, paradiso, giardino. Una raffigurazione applicata alla<br />

chiesa, molto usata e feconda per la sua vasta possibilità di impiego, è quella del «mysterium luna-<br />

e» 4 . Ciò che si afferma è innanzitutto la verità fondamentale che la chiesa non vive e risplende di lu-<br />

ce propria, ma grazie a Cristo, che è la luce; la chiesa è luce da luce, luce ricevuta, e il suo splendore<br />

è un riflesso della luce ricevuta da Cristo. Come la luna nella notte, così anche la chiesa risplende,<br />

di luce riflessa, nelle tenebre del tempo, dell’ignoranza, della colpa, della perdizione. Come la luce<br />

della luna, anche quella della chiesa è una luce schermata, languida, rifratta, condizionata dalla ca-<br />

pacità riflettente, tipica delle condizioni naturali della luna. Mentre il sole (Cristo) irradia sempre<br />

con la stessa intensità la sua luce e il suo splendore, la luce della luna (chiesa) attraversa incessan-<br />

temente delle fasi alterne, ora crescendo ora calando, e questo sia rispetto alle sue dilatazioni este-<br />

riori e spaziali, sia al calore smisurato del suo interno; immagine molto appropriata per esprimere la<br />

variabilità del cammino ecclesiale. Un destino quello della luna che può sfociare fin quasi alla spa-<br />

rizione della sua luce: «donec auferatur luna». Questo tramonto però, che non conduce mai<br />

all’estinzione totale della sua luce, segna l’inizio della rinascita imminente, della fase crescente. La<br />

forza e la garanzia del rinnovamento stanno al centro della luce, sulla quale la luna traccia la propria<br />

via: il sole, Gesù Cristo, in cui essa tramonta per risorgere rinnovata e di nuovo splendente.<br />

(b) Immagini antropologiche: l’immagine della chiesa sposa di Cristo intende indicare allo stesso<br />

tempo la presenza interiore di Cristo nella chiesa e con la chiesa e al contempo la non-identità tra<br />

Cristo e chiesa, il carattere della contrapposizione personale e quindi anche la distanza tra Cristo,<br />

signore e sovrano, e la sua chiesa. Questa immagine non risponde soltanto alla domanda chi sia la<br />

chiesa 5 — a differenza dell’altro interrogativo, riferito all’istituzione, cioè che cosa sia la chiesa —<br />

produzioni delle realtà divine ed invisibili, che si manifestano agli uomini nelle forme visibili. Cfr. Y. CONGAR, “Chiesa”,<br />

in Dizionario di Teologia I, Queriniana, Brescia 1969 3 , 229-242; qui 230-231.<br />

4<br />

H. RAHNER, “Mysterium lunae”, in Simboli della Chiesa. L’<strong>ecclesiologia</strong> dei Padri, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo<br />

(Milano) 1994 2 , 145-287.<br />

5<br />

Secondo von Balthasar l’essere persona non è la condizione originaria dell’essere creato, bensì il risultato del suo incontro<br />

con la Persona assoluta: il soggetto non diviene persona che in questo scambio con Dio, lasciandosi attrarre al di<br />

là di sé stesso nel compimento di una “missione”. Così, il modello e l’archetipo della “persona” è il Cristo, perché egli è<br />

la persona singolare e concreta in cui si opera la congiunzione, da una parte del dono irrevocabile di Dio, che si impegna<br />

“di persona” nella temporalità, e d’altra parte dell’accoglienza di Dio da parte dell’uomo, come capacità di lasciarsi<br />

afferrare e guidare nel più completo dono di sé. Di conseguenza ogni soggetto diviene persona qualitativamente unica<br />

mediante la sua integrazione nella persona archetipica del Cristo, partecipando del Cristo. Similmente la Chiesa assume<br />

la sua personalità propria in coloro che — secondo gradi diversi — si avvicinano sempre di più a Dio e che divengono<br />

così animae ecclesiasticae. Spossessata di sé, gettata al di fuori dei limiti della propria sussistenza naturale, dilatata e<br />

aperta all’universale secondo un grado stabilito da Dio, l’anima ecclesiastica, assunta nella persona del Cristo, si unisce<br />

al Cristo sofferente per la salvezza dell’umanità, ed è perciò chiamata a vivere, in una perfetta disposizione di dono di<br />

sé, in vista dell’edificazione del Corpo che è la Chiesa. Queste persone singolari aprono lo spazio all’universale. La<br />

Chiesa è realizzata così (analogamente) in queste persone umane “ecclesializzate”; e solo loro, in definitiva, sono la per-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

ma rende anche chiaro che essa deve essere descritta a questo modo in quanto, nella sua condizione<br />

di chiesa storica e concreta, è chiesa dei peccatori.<br />

L’immagine della «casta meretrix» è un motivo ricorrente nella <strong>ecclesiologia</strong> dei Padri 6 , lo si esem-<br />

plifica con l’interpretazione allegorica della figura veterotestamentaria della meretrice Rahab, appli-<br />

cata alla chiesa. Analogamente vengono interpretate in chiave ecclesiologica anche le figure di Ta-<br />

mar, la donna di Osea (Gomer), e la Maddalena neotestamentaria, utilizzate per spiegare tanto il de-<br />

stino quanto la missione della chiesa. Secondo la stessa accezione s’interpretano pure le parole del<br />

Cantico: «Nigra sum, sed formosa» (1,5), per le quali si rivela determinante l’interpretazione che ne<br />

ha dato Origene nel suo commento, pure confermata dall’immagine di una chiesa senza macchia e<br />

senza rughe (Ef 5,27), della sposa «immacolata» (1Cor 11,2), e quindi una distinzione all’interno<br />

della stessa chiesa concreta: come élite dei santi e puri, dei perfetti, e come il gran numero di coloro<br />

che, per quanto vivano nella chiesa, non si adeguano al suo ideale. L’altra differenza, desunta dal<br />

passo suaccennato, distingue nella realtà della chiesa, la manifestazione esteriore e percepibile dalla<br />

sua dimensione profonda, che si lascia esperire soltanto in spirito 7 .<br />

sona-Chiesa. Al limite, la Chiesa non è persona realmente e adeguatamente che in Maria, la quale, come persona singolare<br />

infinitamente dilatata, aperta all’universale, viene a coincidere con la Chiesa stessa: H.U. VON BALTHASAR, “Chi è<br />

la chiesa?”, in Sponsa Verbi, Morcelliana, Brescia 1985, 139-187. L’autore ha sviluppato queste riflessioni in, Il complesso<br />

antiromano e in Teodrammatica, t. II: Le persone del dramma, vol. 2: Le persone nel Cristo. Se ne può trovare<br />

un’esposizione sintetica in J.-N. DOL, “«Qui est l’Église?» Hans Urs von Balthasar et la personnalité de l’Église”, in<br />

NRT 17 (1995) 376-395 e più approfondita in B. LEAHY, Il principio mariano nella Chiesa, Città Nuova, Roma 1999.<br />

6 H.U. VON BALTHASAR, “Casta meretrix”, in Sponsa Verbi, 189-283. Proprio nelle tre espressioni tipicamente femminili<br />

che Balthasar attribuisce alla missione della Chiesa — la verginità, la sponsalità e la maternità —, emerge che la perfezione<br />

di Maria supera quella della Chiesa: Maria è infatti perpetuamente vergine (cfr. anche la pienezza di grazia che si<br />

confessa dell’Immacolata Concezione), mentre la Chiesa è, sotto un certo aspetto, una prostituta a cui il Cristo ha reso la<br />

verginità; inoltre, la Chiesa è madre mediante la fede, che è la fede di Maria — il suo fiat, quale infinita disponibilità<br />

nelle mani di Dio, è come il terreno nel quale può germinare la Chiesa; Maria è infine la Nuova Eva associata al Nuovo<br />

Adamo — perché la Chiesa possa scaturire come sposa e non solamente come corpo di Cristo alla Croce, occorre che<br />

sia dato un sì personale, “nuziale”, ed è ancora Maria che lo dà a nome dell’umanità peccatrice (che essa rappresenta,<br />

benché preservata per la sua Immacolata Concezione): cfr. DOL, “«Qui est l’Église?»”, art. cit., 386.<br />

7 Agostino riprenderà questa intuizione e, associando il tema della Chiesa come “immaculata” (Ef 5,27) a quello della<br />

“columba mea” del Cantico (Ct 5,2), svilupperà la teologia della “columba”. Secondo questa visione la columba è quella<br />

parte della Chiesa che non è solo “oggettivamente” immacolata, ma che è anche comunione soggettivamente amante<br />

in maniera perfetta, è la sposa e il corpo di Cristo, che in collegamento perfetto con lui concorre ad attuare la sua opera<br />

della dedizione amorosa per la redenzione del mondo. Lo Spirito Santo donatole stabilmente a Pentecoste e che inabita<br />

nei santi foggia nel fuoco dell’amore quell’argentea columba, che in modo fecondo collabora a operare la remissione dei<br />

peccati: «Petra enim tenet, petra dimittit; columba tenet, columba dimittit, unitas tenet, unitas dimittit» (De Baptismo,<br />

III, xviii, 23). Il suo amore per il Cristo rende efficace il sacramento del perdono anche quando viene amministrato da<br />

un ministro indegno. Infatti è essa l’autentico soggetto ecclesiologico delle operazioni santificanti, e soprattutto del perdono<br />

dei peccati. Non che Agostino separi il ministero, che ha l’amministrazione del sacramento, da questa dimensione<br />

spirituale della Chiesa. Ma a Pietro vengono conferite le chiavi «in typo unitatis». Solo così Agostino può superare<br />

dall’interno il donatismo: la condizione per un efficace legare e sciogliere non è la santità personale del ministro insignito<br />

dell’ufficio, ma la santità personale della vera Chiesa, la columba, che lega e scioglie non senza il principio ministeriale<br />

dell’ufficio.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Anche l’immagine della chiesa-madre può ricollegarsi a motivi biblici. Comprendendosi come Ma-<br />

ter ecclesia, la chiesa vuole segnalare la proprietà che la qualifica, di essere cioè la mediatrice della<br />

verità e della salvezza. E lo è in quanto mediatrice di parola, sacramento e fede — specialmente nel<br />

battesimo, nell’eucaristia e nella penitenza — e colei alla quale è stata affidata anche la cura di pre-<br />

servare e custodire la prole che le è stata donata: Cipriano ad esempio afferma che nessuno può ave-<br />

re Dio per padre se non ha la chiesa per madre (De unitate ecclesiae, 23) 8 .<br />

L’immagine si concretizza nell’interpretazione di Eva e Maria secondo una tipologia ecclesiologi-<br />

ca. Il paragone tra la chiesa ed Eva ha condotto, nella patristica, alla diffusa concezione secondo cui<br />

la Chiesa sarebbe scaturita dal costato di Gesù Cristo, il secondo Adamo, stando al racconto di Gv<br />

19,34, dove si parla del sangue ed acqua che scaturiscono dal costato di Cristo. Sangue ed acqua fu-<br />

rono interpretati come simboli dei due sacramenti fondamentali: eucaristia e battesimo 9 .<br />

(c) Immagini storiche, tecniche o politiche: città, tempio, torre, arca, vascello. Un’immagine tipica<br />

del tempo dei Padri, molto usata, è desunta dal simbolismo nautico: la chiesa è come un vascello<br />

che solca il mare del mondo 10 . La ritroviamo in diverse varianti: la chiesa è una nave, fabbricata col<br />

legno della croce, il cui albero maestro si interseca con l’antenna e forma una croce; il suo nocchiero<br />

è Cristo. La sorte della chiesa-nave si ritrova espressa nella frase: «fluctuat, non mergitur». Qui si<br />

rispecchia anche la sua condizione di variabilità e di pericolo continuo, ma anche la certezza che<br />

l’affondamento è impossibile e l’approdo sicuro. L’equipaggiamento e l’attrezzatura della nave, il<br />

catalogo nautico e l’antico simbolismo marinaro, servono a descrivere la realtà della chiesa nel suo<br />

insieme: i suoi ministri, la sua organizzazione e la sua struttura. L’interpretazione della chiesa me-<br />

diante l’immagine dell’arca di Noè (1Pt 3,20) illustra come la chiesa, in mezzo al diluvio universa-<br />

le del tempo e del mondo, offra riparo, scampo, salvezza. Essa è l’arca della salvezza, non è possibi-<br />

le salvarsi senza di essa, è necessaria alla salvezza. Cristo, al pari di Noè il giusto, si trova nell’arca<br />

nella sua qualità di capostipite di un nuovo genere umano. Questa immagine spiega concretamente<br />

l’espressione «extra ecclesiam nulla salus», che già nel periodo patristico Cipriano aveva coniato e<br />

variamente illustrato (De unitate ecclesiae, 6), e la cui spiegazione e conseguenze da essa derivanti,<br />

principalmente in riferimento alla possibilità di salvarsi al di fuori della chiesa, avevano condotto a<br />

forti controversie e a non pochi malintesi fin dagli inizi (in concreto, con la questione se ammini-<br />

8 K. DELAHAYE, Per un rinnovamento della pastorale. La comunità madre dei credenti negli scritti dei padri dei primi<br />

tre secoli, Ecumenica, Bari 1974; H. DE LUBAC, Meditazione sulla chiesa, Jaca Book, Milano 1987, 161-192.<br />

9 H. RAHNER, “Flumina de ventre Christi”, in Simboli della Chiesa, 289-394.<br />

10 H. RAHNER, “Antenna crucis”, in Simboli della Chiesa, 395-966.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

strare o meno il battesimo agli eretici). L’immagine chiarisce ancora una volta la struttura dialettica<br />

della chiesa: questa è la chiesa dei peccatori, o in termini simbolici un’arca che accoglie anche gli<br />

animali impuri, ma che al contempo è l’unica chiesa dei salvati, ai quali la grazia della redenzione<br />

viene partecipata all’interno di questa imbarcazione. L’interpretazione della chiesa come barca di<br />

Pietro rimane nell’orizzonte di quanto già affermato. La situazione di pericolo deriva dalla storia<br />

stessa della chiesa; il felice esito di questo viaggio sta nella promessa. Il vascello è quello di Pietro<br />

pescatore (Lc 5,3), che, sotto la guida del nocchiero Cristo, è anche pilota dell’imbarcazione; a lui<br />

sono state indirizzate le parole di salvezza e di guida. Quest’immagine fu interpretata e specificata<br />

nel corso del tempo soprattutto nel senso che la posizione privilegiata di Pietro, il pescatore di uo-<br />

mini, comportava il primato romano: Gesù infatti insegna dalla barca di Pietro. Questa barca fu in-<br />

terpretata poi in chiave di politica ecclesiastica, fino a giungere all’identificazione: «navis Simonis<br />

est ecclesia Petri».<br />

In tutte queste immagini al centro sta l’essere una cosa sola della Chiesa con Cristo, che è l’espe-<br />

rienza fondamentale della comunità liturgica che è determinante nel formare l’identità della Chiesa.<br />

b) La Chiesa nel contesto della missione e dell’apologia<br />

1) Quando ci si rivolge all’esterno si parla della Chiesa in modo diverso. Nell’annuncio missionario<br />

e nella difesa della nuova fede cristiana dagli attacchi degli intellettuali pagani in primo piano non<br />

stanno né la liturgia né l’ordinamento ecclesiale, e neppure la Chiesa in quanto tale. Qui si tratta<br />

piuttosto, da un lato, della nuova situazione salvifica e liberante per l’umanità che è stata creata at-<br />

traverso l’incarnazione di Dio e nella quale entra chi crede in Cristo e vive secondo i suoi precetti.<br />

Dall’altro lato, si tratta proprio della prassi morale alternativa, verificabile empiricamente, che di-<br />

viene invito rivolto a coloro che stanno al di fuori. Il testo più caratteristico di questo modo di pen-<br />

sare è senz’altro costituito dalla Lettera a Diogneto.<br />

V. «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per regione, né per linguaggio, né per costumi. Infatti,<br />

non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La<br />

loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filo-<br />

sofica umana… Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del<br />

luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente pa-<br />

radossale. Vivono nella loro patria ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono di-<br />

staccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e<br />

generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma<br />

non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono<br />

conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti;<br />

mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e<br />

proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono pu-<br />

niti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come<br />

stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio».<br />

VI. «A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le<br />

parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abi-<br />

tano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si<br />

vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ri-<br />

cevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cri-<br />

stiani li odia perché si oppongono ai piaceri. L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani<br />

amano coloro che li odiano. L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono<br />

nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. L’anima immortale abita in una dimora mor-<br />

tale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei<br />

cieli. Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si<br />

moltiplicano. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare» 11 .<br />

2) Questo discorso apologetico sulla Chiesa opportunamente non utilizza né le immagini e le rap-<br />

presentazioni bibliche e liturgiche né le espressioni dell’autoesperienza immediata nella liturgia.<br />

Quando si deve spiegare all’esterno la particolarità di questa nuova comunità di fede è meglio ricol-<br />

legarsi a quei modelli di esperienza che sono più familiari al cittadino normale di una città romana.<br />

Tra di essi vi è certamente la pluralità di associazioni, consorzi, circoli, club, scuole, collegi (factio,<br />

secta, corpus, curia, coitio), che, a partire dal II secolo, esistevano in gran numero nell’impero ro-<br />

mano. Del medesimo genere era anche l’impatto con la comunità di fede per coloro che stavano<br />

all’esterno, come un tipo di associazione, con una cassa comune, con incontri regolari per il culto e<br />

pasti nelle feste, una direzione e un cimitero comune. Una descrizione apologetica che sottolineava<br />

questa analogia poteva, da una parte, dimostrare la normalità civile di questa nuova associazione e,<br />

dall’altra, attraverso la distinzione rispetto alle altre associazioni, cercare di mostrare la particolari-<br />

tà e singolarità della Chiesa. Con la sua pretesa universale essa ha, in certo modo, assorbito in sé<br />

tutte le finalità delle singole associazioni.<br />

11 A Diogneto, in I Padri apostolici, a cura di A. Quacquarelli, Città Nuova, Roma 1984 4 , 356-358.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Proprio così argomenta Tertulliano nel suo Apologeticum (197 d. C.) quando egli, da una parte, me-<br />

diante il rimando al carattere simile alle associazioni della comunità cristiana, vuole dimostrare la<br />

legittimità del cristianesimo, ma al tempo stesso sottolinea la particolarità religiosa e morale di que-<br />

sta “associazione”.<br />

«Ora esporrò lo scopo della comunità cristiana (negotia christianae factionis), affinché, dopo la confutazio-<br />

ne del male, vi mostri il bene. Noi formiamo un solo corpo mediante il vincolo di religione, l’unità della di-<br />

sciplina e della comune speranza… Preghiamo anche per gli imperatori, per i loro ministri e magistrati, per<br />

la conservazione del mondo, per la tranquillità dell’ordine, per il ritardo della catastrofe finale. Ci radunia-<br />

mo per leggere le divine Scritture… Certo, il nostro cibo sono le parole sante: con esse innalziamo la nostra<br />

fede, confermiamo la nostra speranza e nel contempo irrobustiamo la nostra disciplina inculcando i coman-<br />

damenti… Presiedono anziani già provati, che sono pervenuti a tanta dignità non col danaro ma per la testi-<br />

monianza della loro virtù, perché nessuna cosa di Dio è venale. Abbiamo pure una specie di cassa comune,<br />

ma non è costituita con elargizioni onorarie, come prezzo d’acquisto di una religione. Ciascuno, mensilmen-<br />

te, quando crede opportuno, se lo vuole e se lo può, offre un modesto contributo. Nessuno è costretto ma si<br />

offre spontaneamente. Queste offerte sono come il deposito della pietà (quasi deposita pietatis)…» 12 .<br />

In questa ottica missionaria, orientata verso il mondo esterno, la Chiesa è dunque a un tempo realtà<br />

escatologico-trascendente e realtà morale. I due aspetti sono strettamente collegati fra loro.<br />

c) La Chiesa nel contesto della questione circa l’unità e l’identità della fede<br />

1) Tra le esperienze fondamentali della fede cristiana, che determinano la sua struttura sociale, vi è<br />

anche quella dell’essere inviata nel mondo in modo che, come nuova comunità di salvezza, possa<br />

servire da testimonianza e da segno di fronte al mondo, affinché gli sia possibile aderire a questa via<br />

della fede portatrice di redenzione. Con questa fondamentale esperienza dell’essere inviata, la co-<br />

munità dei credenti assume una singolare caratteristica di soggetto. Tale caratteristica non si espri-<br />

me solo nei diversi atti dell’annuncio e della testimonianza, ma anche nelle azioni liturgiche e nel-<br />

l’attività sociale. Questa capacità di azione pubblica e unitaria assai presto si trovò a essere minac-<br />

ciata e messa in questione. Con la crescente distanza dall’origine e il passaggio in nuovi spazi so-<br />

cioculturali, la questione dell’identità, della continuità e dell’unità della fede divenne sempre più<br />

importante. Con l’aumento delle controversie teologiche, delle eresie e delle divisioni nelle comuni-<br />

tà, non era screditata solo la testimonianza unitaria di fronte al mondo, ma era messa in pericolo an-<br />

12 TERTULLIANO, L’Apologetico, 39, Edizioni Paoline, Roma 1950, 165-166.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

che la stabilità della comunità di fede. Perciò, in tale contesto, il carattere di soggetto capace di agire<br />

proprio della Chiesa deve essere tematizzato dal punto di vista teologico, spirituale e pratico.<br />

2) Questo avviene in primo luogo ponendo al centro la Chiesa come soggetto di azione nei contesti<br />

in cui opera: la Chiesa è il soggetto terreno, istituito da Dio, della mediazione della salvezza. Perciò<br />

devono rimanere uniti ad essa quanti cercano la salvezza. A lei infatti è stata donata da Dio la com-<br />

prensione della verità; essa, ripiena dello Spirito Santo, conserva la tradizione apostolica della fede;<br />

essa predica, insegna e trasmette la grazia e la nuova vita; essa è il luogo della verità, dell’amore,<br />

dello Spirito Santo, della comunione con Cristo, della pace e della salvezza. In secondo luogo, in<br />

questi contesti, deve essere indicato anche il concreto soggetto di azione che rappresenta<br />

l’istituzione ecclesiale e che in essa diviene segno e criterio dell’unità e dell’autenticità della fede: i<br />

vescovi come successori degli apostoli. Non appena divenne chiaro che nella tensione tra origine e<br />

presente la questione posta dalla precarietà dell’identità e della continuità non poteva più essere ri-<br />

solta solo con l’aiuto di un richiamo alla tradizione apostolica materiale e che anche le altre norme<br />

poste a garanzia dell’identità (canone della Scrittura, regola della fede, confessione di fede) non po-<br />

tevano risolvere tutti i problemi, il soggetto personale rappresentativo della tradizione (il ministero<br />

episcopale e, più tardi, i sinodi e il papato) dovette essere rafforzato e consolidato nella sua autorità.<br />

In determinate situazioni di crisi, infatti, solo le decisioni di queste istanze potevano garantire e con-<br />

servare la continuità e l’identità della fede nonostante la sua discontinuità storica ed sociale.<br />

Nell’opera Adversus haereses (circa 180 d. C.), con cui Ireneo di Lione cerca di confutare la gnosi,<br />

il concorrente che allora minacciava l’identità della fede cristiana, si può rilevare in modo evidente<br />

l’emergenza della Chiesa come soggetto di azione come pure la sua concretizzazione nel ministero<br />

episcopale. In particolare per Ireneo sono tre i criteri che permettono di discernere la vera chiesa in<br />

continuità con la chiesa degli apostoli: l’episcopato che, fondato dagli apostoli e continuato nei suc-<br />

cessori da loro istituiti, garantisce la validità della dottrina ecclesiale; il Nuovo Testamento che,<br />

scritto dagli apostoli, rappresenta la testimonianza autorevole e definitiva all’atto salvifico di Dio in<br />

Cristo; il “canone della verità” che, trasmesso dagli apostoli, provvede una concisa presentazione<br />

della fede in forma di credo. In tal senso egli così presenta l’intreccio delle varie norme della fede.<br />

«La predicazione della Chiesa è solida da ogni parte, rimane sempre uguale ed è sostenuta dalla testimo-<br />

nianza dei profeti, degli apostoli e di tutti i loro discepoli, come abbiamo dimostrato, in base “all’inizio, il<br />

mezzo e la fine”, e per mezzo di tutta l’economia di Dio e la sua opera sicura per la salvezza dell’uomo e che<br />

fonda la nostra fede. Questa l’abbiamo ricevuta dalla Chiesa e la custodiamo: essa per opera dello Spirito di<br />

Dio, come un deposito prezioso contenuto in un vaso di valore, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

il vaso che la contiene. Alla Chiesa infatti è stato affidato il Dono di Dio, come il soffio alla creatura pla-<br />

smata, affinché tutte le membra, partecipandone, siano vivificate; e in lei è stata deposta la comunione con<br />

Cristo, cioè lo Spirito Santo, arra di incorruttibilità, conferma della nostra fede e scala della nostra salita a<br />

Dio. Infatti “nella Chiesa — dice — Dio pose apostoli, profeti e dottori” (1Cor 12,28) e tutta la rimanente<br />

operazione dello Spirito. Di lui non sono partecipi quelli che non corrono alla Chiesa, ma si privano della<br />

vita a causa delle loro false dottrine e azioni perverse. Poiché dove è la Chiesa, lì è anche lo Spirito di Dio;<br />

e dove è lo Spirito di Dio, lì è la Chiesa e ogni grazia. Ora lo Spirito è Verità. Perciò quelli che non parteci-<br />

pano di lui non si nutrono alle mammelle della Madre per la vita, né attingono alla purissima sorgente che<br />

sgorga dal corpo di Cristo, ma “si scavano cisterne screpolate” (Ger 2,13)… [Il discepolo spirituale] giudica<br />

anche quelli che provocano scismi, che sono vuoti dell’amore di Dio e guardano al proprio interesse più che<br />

all’unità della Chiesa e per qualunque futile motivo tagliano e dividono il grande e glorioso corpo di Cristo e<br />

per quanto dipende da loro lo uccidono; parlano di pace e fanno la guerra, e veramente “scolano il mosceri-<br />

no e inghiottono il cammello” (Mt 23,24): perché da loro non può venire alcuna correzione che sia tanto<br />

grande, quanto è grande il danno dello scisma. Giudica anche tutti quelli che sono fuori della verità, cioè<br />

fuori della Chiesa. Ma lui non è giudicato da nessuno, perché tutto in lui è solido: la sua fede integra in un<br />

solo Dio onnipotente, dal quale vengono tutte le cose; e la sua adesione ferma al Figlio di Dio Gesù Cristo, il<br />

Signore nostro, per mezzo del quale vengono tutte le cose, e le sue economie per cui il Figlio di Dio si fece<br />

uomo; la vera gnosi nello Spirito di Dio, che dà la conoscenza della verità, che presenta le economie del Pa-<br />

dre e del Figlio, secondo ogni generazione, per gli uomini, come vuole il Padre: è la dottrina degli apostoli,<br />

l’antico organismo della Chiesa in tutto il mondo, il marchio del corpo di Cristo secondo le successioni dei<br />

vescovi, ai quali essi affidarono ogni Chiesa locale, la conservazione non finta delle Scritture giunta fino a<br />

noi, la raccolta completa senza aggiunta e senza sottrazione, una lettura senza frode e, conforme alle Scrittu-<br />

re, una spiegazione corretta, armoniosa, esente da pericolo e da bestemmia; e infine l’eminente dono della<br />

carità, che è più prezioso della gnosi, più glorioso della profezia e superiore a tutti gli altri carismi» 13 .<br />

Nel contesto dell’idea di missione e della salvaguardia dell’identità la Chiesa si colloca in primo pi-<br />

ano come il soggetto della mediazione della salvezza, dotato da Dio di tutti i doni necessari: essa ha<br />

la comprensione/intuizione della verità, conserva fedelmente la tradizione della fede, insegna, pre-<br />

dica e guida. Essa è il luogo della verità, dell’amore, della salvezza. Nel vescovo posto nella succes-<br />

sione apostolica la Chiesa si concretizza come soggetto di azione.<br />

3) Da questo contesto di azione è segnata pure la struttura costituzionale della Chiesa. Anche la<br />

Chiesa universale esiste nella forma di una comunione, una communio di Chiese locali autonome,<br />

ognuna delle quali rappresenta l’essenza integrale della Chiesa. Nel corso del II secolo il ministero<br />

13 IRENEO DI LIONE, Contro le eresie e gli altri scritti, Jaca Book, Milano 1981, 295-296, 377-378 [corsivo ns.].<br />

162


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

del vescovo monarchico (monoepiscopato) si è affermato in tutte le Chiese per diverse ragioni. Vi<br />

sono sicuramente motivi di ordine teologico-pratico: la migliore garanzia dell’unità della comunità.<br />

Vi sono ragioni di carattere teologico-sistematico, quali la rappresentanza dell’unico Dio o di Cri-<br />

sto, e motivi storico-teologici: l’idea della successione apostolica che assicura una catena personale<br />

di tradizione grazie alla quale si è legati all’origine. Soprattutto, è la rivendicazione da parte della<br />

nuova comunità di fede di un carattere universale e pubblico a rendere necessaria anche una rappre-<br />

sentanza pubblica del soggetto ecclesiale di azione nell’annuncio, nella liturgia e nella diaconia.<br />

In questa prospettiva, la comunità non si comprende secondo il modello di un’associazione, di un<br />

partito o di un circolo, ma secondo il modello della città antica e della sua amministrazione (polis,<br />

civitas, curia), che sa di essere responsabile per tutti gli aspetti della vita dei suoi membri. Se l’unità<br />

della Chiesa locale è garantita dal vescovo (insieme al collegio dei presbiteri e dei diaconi), l’unità<br />

della Chiesa universale lo è dal collegio dei vescovi. Nel corso del tempo questa unità troverà sem-<br />

pre più un punto fisso nel primato del vescovo di Roma. A partire dal III secolo c’è un’esplicita ri-<br />

vendicazione da parte dei vescovi di Roma di una preminenza sovraregionale e, successivamente,<br />

anche sulla Chiesa universale.<br />

Descrizione riassuntiva<br />

La Chiesa appare nei primi tre secoli, e anche oltre, primariamente come una realtà immediatamente<br />

connessa con la fede e in misura minore come risultato della riflessione teologica o dell’ordina-<br />

mento giuridico. Poiché il credente vede la sua esistenza interamente nella presenza dell’agire salvi-<br />

fico divino sempre attuale, la Chiesa gli appare anzitutto come realtà storico-escatologica e poi<br />

pneumatico-sacramentale. Solo in una mutata situazione storica e sociale avviene la prima tematiz-<br />

zazione di sé da parte della Chiesa, una differenziazione e un’acquisizione di autonomia che portano<br />

con sé subito degli spostamenti di accenti.<br />

163


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

2.2. La svolta costantiniana: la chiesa come dominio spirituale<br />

2.2.1. Situazione storica<br />

1) Nella Chiesa medioevale, il cui inizio in Occidente viene collocato tra il IV secolo (la svolta co-<br />

stantiniana) e l’VIII secolo (la scelta da parte dei papi dei re franchi e la nascita dello Stato pontifi-<br />

cio), e che si dissolve nel XVI secolo (con la Riforma), il contesto storico muta in maniera profon-<br />

da. Esso fa sì che ora al centro ci sia l’interesse per il lato sociale, politico e istituzionale della Chie-<br />

sa. All’inevitabile messa a tema di questi aspetti della Chiesa sono legati anche i primi inizi di<br />

un’<strong>ecclesiologia</strong> orientata in senso giuridico nella quale la gerarchia sta in primo piano. Il dominio<br />

spirituale è perciò la metafora fondamentale per la comprensione medioevale della Chiesa.<br />

2) I fattori storici responsabili di questo cambiamento sono di natura diversa. In seguito alla svolta<br />

costantiniana la Chiesa perseguitata diviene libera (editto di Milano: 313) e, ben presto, si trasforma<br />

in Chiesa di Stato (editto di Tessalonica: 380); da Chiesa dei martiri e dei confessori diviene rapi-<br />

damente Chiesa di massa e impero cristiano o comunità dei popoli cristiani. Per raggiungere i propri<br />

obiettivi e svolgere le proprie funzioni, la chiesa si serve delle stesse articolazioni e strutture politi-<br />

che ed organizzative dello stato romano; utilizza i templi, costruisce veri e propri edifici cristiani. I<br />

vescovi sono equiparati agli alti funzionari dello stato, ai senatori, e ottengono insegne, onorificenze<br />

e privilegi. Con la crescente integrazione tra Chiesa e mondo la coscienza escatologica regredisce.<br />

Non si diventa più cristiani per decisione, ma per nascita. Il populus Dei diviene populus christia-<br />

nus, un concetto culturale, sociologico e politico. Anche la tentazione cui la Chiesa è esposta divie-<br />

ne meno spirituale e assume una forma geografica e politica identificabile: è il nemico che si trova<br />

al di fuori del popolo cristiano e che perciò deve essere combattuto (attraverso le crociate, la perse-<br />

cuzione degli ebrei e degli eretici e l’inquisizione). La triade ebrei, eretici e pagani come nemici del-<br />

la cristianità è una formula fissa della teologia e della predicazione tardomedievali 14 .<br />

14 «La chiesa crede fermamente, confessa e annuncia che “nessuno di quelli che sono fuori della chiesa cattolica, non<br />

solo i pagani [FULGENZIO DI RUSPE, De fide seu de regula fidei ad Petrum 38, n. 81]”, ma anche i giudei o gli eretici e<br />

gli scismatici, potranno raggiungere la vita eterna, ma andranno nel fuoco eterno, “preparato per il diavolo e per i suoi<br />

angeli” [Mt 25,41], se prima della morte non saranno stati ad essa riuniti»: CONCILIO DI FIRENZE, Bolla Cantate Domino,<br />

4 feb. 1442, in DzH 1351. Gli ebrei furono colpiti in modo peggiore perché combattere pagani ed eretici si era infatti<br />

rivelato assai difficile. A partire dalle crociate, l’ostilità verso gli ebrei sviluppatasi nella teologia si estende anche alla<br />

vita quotidiana, come mostrano le parole di Pietro di Cluny: «A che cosa serve cercare e combattere i nemici della fede<br />

cristiana in terre lontane se dissoluti e bestemmiatori ebrei, che sono di gran lunga più malvagi dei saraceni, non in terre<br />

lontane, ma qui in mezzo noi senza ostacoli e temerariamente oltraggiano impunemente, calpestano con i piedi e disprezzano<br />

Cristo e tutti i sacramenti cristiani? Come può lo zelo divino animare i figli di Dio se gli ebrei, i peggiori nemici<br />

di Cristo e dei cristiani, se la cavano impavidi?»: cit. in WIEDENHOFER, La Chiesa, op. cit., 115.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

In Oriente, l’imperatore ormai cristiano acquista un crescente influsso sulla Chiesa: egli, l’epìskopos<br />

ton ektòs («vescovo esterno») 15 , legifera in materia di regolamento ecclesiastico come in questioni<br />

dottrinali; convoca e dirige i concili; crea e modifica le circoscrizioni ecclesiastiche; nomina i ve-<br />

scovi delle sedi principali; dà alle decisioni dei concili valore di legge dell’impero. In lui l’impero<br />

cristiano sembra riflettere il regno di Dio incominciato. Questa tendenza verso il “cesaropapismo” 16<br />

fu sostenuta anche dal reclutamento dei vescovi esclusivamente tra le file dei monaci. Secondo le<br />

intenzioni, questa prassi doveva garantire il carattere spirituale dell’autorità ecclesiale, ma, di fatto<br />

ha condotto all’abbandono dei compiti giurisdizionali all’autorità imperiale.<br />

In Occidente, in condizioni diverse (mancanza dell’autorità imperiale, caduta della struttura statale<br />

antica, formazione di signorie territoriali e del sistema feudale, presenza e ruolo della Sede romana,<br />

differenziazione sociale e politica a partire dal XI/XII secolo) e non senza influssi riconducibili alla<br />

riflessione agostiniana (De civitate Dei), all’interno del popolo cristiano divampa la lotta per il pre-<br />

dominio tra papa e imperatore, tra il potere secolare ed ecclesiale. Contro la riduzione della chiesa a<br />

funzione della politica nel periodo dalla Chiesa imperiale sotto gli Ottoni, a partire dalla riforma<br />

gregoriana dell’XI secolo, la libertà e l’indipendenza di essa sono riaffermate con l’aiuto della ri-<br />

vendicazione papale della supremazia sul popolo cristiano, mediante cioè una sorta di monarchia<br />

papale. Nella Chiesa viene stabilita in modo sempre più chiaro la divisione tra chierici e laici. Que-<br />

sta è la nuova forma in cui l’antica tensione escatologica tra Chiesa e mondo si manifesta in una si-<br />

tuazione mutata: preti e monaci sono gli “uomini spirituali”, superiori ai laici che conducono la vita<br />

del mondo. Anche la struttura costituzionale della Chiesa cambia: dato che quasi tutto l’Occidente,<br />

seguendo l’idea carolingia di impero, fu incorporato nella liturgia romana e, in seguito alla missione<br />

anglosassone, integrato nell’amministrazione romana e poiché gli ordini mendicanti, che dipende-<br />

vano direttamente dal papa, esercitarono con successo una cura pastorale orientata in senso centrali-<br />

15 Eusebio racconta che Costantino avrebbe detto ai vescovi: «Voi siete stati creati vescovi da Dio per ciò che riguarda<br />

la situazione interna della chiesa. Io invece sono stato designato come vescovo per gli affari esterni»: Vita Constantini<br />

II, 17; GCS I, 84, 20-30.<br />

16 Occorre però sfumare l’accusa di cesaropapismo, perché 1) la cristianità bizantina non ha mai accettato che<br />

l’imperatore avesse autorità assoluta in materia di fede e di morale; 2) essa non ha evitato il cesaropapismo opponendo<br />

all’imperatore un’altra autorità opposta (quella del sacerdozio), ma riferendo ogni autorità direttamente a Dio (cfr. la<br />

sesta Novella di Giustiniano: «Le più grandi benedizioni del genere umano sono i doni di Dio che ci sono stati concessi<br />

dalla sua misericordia dall’alto — il sacerdozio e l’autorità imperiale. Il sacerdozio officia alle cose divine; l’autorità<br />

imperiale è posta sopra, e mostra diligenza nelle cose umane; ma entrambe procedono dall’una e la stessa sorgente, ed<br />

entrambe adornano la vita dell’uomo»); 3) l’imperatore ha un ruolo determinante nei concili ecumenici (e questo fino al<br />

concilio di Firenze del 1439); 4) gli stessi papi glielo riconoscono; anzi i papi si attendono il concorso del potere temporale<br />

per far trionfare la fede e riconoscono all’imperatore un ruolo unico nella cristianità: cfr. le osservazioni puntuali di<br />

J. MEYENDORFF, Rome, Constantinople, Moskow. Historical and Theological Studies, St. Vladimir’s Seminary Press,<br />

New York 1996, 174-175; E. LANNE, in Il primato del successore di Pietro, LEV, Città del Vaticano 1998, 220-221.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

stico, l’intera Chiesa latina viene per così dire assorbita nella Chiesa della città di Roma. L’unità<br />

della Chiesa come comunione delle diverse Chiese locali diventa sempre più l’uniformità della<br />

Chiesa nell’unica Chiesa romana. Secondo tale concezione esiste in fondo soltanto una Chiesa, cioè<br />

la Chiesa locale romana diffusa in tutto il mondo. Tutte le altre Chiese sono sue suffraganee che de-<br />

rivano da essa, sono permanentemente inserite in essa e da essa sono governate. I vescovi sono solo<br />

aiutanti e vicari del papa dal quale ricevono la potestà per partecipare alla cura della Chiesa univer-<br />

sale. Al papa soltanto è conferita la plenitudo potestatis; i vescovi sono chiamati solo in partem sol-<br />

licitudinis. Il plurale “le Chiese” in questo modo perde di fatto e teologicamente il suo contenuto 17 .<br />

Monasteri indipendenti (esenti) dai vescovi, che sono direttamente sottomessi al papa, sono impie-<br />

gati sempre più come strumenti per l’esercizio di una giurisdizione papale diretta nelle Chiese loca-<br />

li. La posizione dei legati pontifici è configurata in modo che essi sono posti al di sopra dei vescovi.<br />

3) Anche nel Medioevo latino vi sono luoghi diversi nei quali si sviluppa la comprensione della<br />

Chiesa; tuttavia la differenziazione politico-religiosa legata alla controversia tra papa e imperatore<br />

viene ad assumere la posizione centrale in modo così dominante che tutti gli altri luoghi dell’essere<br />

Chiesa e del suo articolarsi sono assorbiti nel vortice di questo movimento.<br />

2.2.2. Luoghi dell’autocomprensione ecclesiale e della riflessione ecclesiologica<br />

a) La chiesa nel contesto apologetico della controversia politico-religiosa<br />

1) L’evento della conversione di Costantino ha segnato in maniera indelebile la Chiesa: Eusebio ne<br />

parla quasi come fosse la realizzazione di un vecchio sogno, quello millenaristico (cfr. Ap 20): at-<br />

traverso la mediazione politica e istituzionale la legge del Vangelo diventa legge del mondo.<br />

Nell’epoca moderna diverrà facile criticare l’era costantiniana, l’alleanza tra Chiesa e Stato, come<br />

colpa originale che genererà i compromessi storici della Chiesa con le potenze politiche. Vi si è vi-<br />

sto la rottura con il Vangelo quale fermento che fa lievitare la pasta del mondo. Da ora in avanti, la<br />

potenza politica, sostenendo la parola di Dio con la sua efficacia sociale, sarà lo strumento per far<br />

accedere alla nuova fede le masse popolari. Si deve però, da una parte, capire l’entusiasmo che su-<br />

scitò questa conversione, la quale saldò un’alleanza fino allora ritenuta contro natura: il Regno vie-<br />

17 Poiché «la comunità della città di Roma incorpora tutto l’orbis latino nello spazio ristretto della sua urbis» ne consegue<br />

che «l’intero Occidente è per così dire solo più un’unica comunità locale e perde sempre più l’antica struttura<br />

dell’unità nella pluralità, la quale diventa infine del tutto incomprensibile»: J. RATZINGER, “Primato ed episcopato”, in<br />

ID., Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1984 3 , 148-149.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

ne finalmente in questo mondo, un mondo non destinato alla perdizione, ma a realizzare concreta-<br />

mente il sogno dei profeti di Israele e del messianismo di Gesù. D’altra parte dobbiamo considerare<br />

come i cristiani cercarono di definire il ruolo del politico nell’avvento del Regno: essi si rifecero al-<br />

le immagini veterotestamentarie, che evocavano l’unità politica del popolo eletto o persino delle na-<br />

zioni sotto l’autorità di Dio, rappresentata dal suo delegato: il re, di cui Davide costituiva il model-<br />

lo; in seguito il Messia regale. Gesù durante la sua missione non aveva esercitato queste due moda-<br />

lità di potere. Da risorto, non li aveva forse delegati a coloro che non separavano più la finalità del<br />

potere politico dall’utopia biblica di un Regno di giustizia e di pace? Chi sarebbe stato la guida di<br />

questo tentativo di iscrivere il Regno nelle istituzioni sociali, politiche e culturali: la Chiesa o<br />

l’autorità politica? In ogni caso, questo tentativo generoso di integrazione del politico alla finalità<br />

religiosa di iscrivere il Regno in questo mondo condusse ad assumere delle sanzioni che corrispon-<br />

devano ai modelli delle punizioni penali, cioè a considerare come delinquenti coloro che trasgredi-<br />

vano, con opinioni o azioni, le norme stabilite dalla legge ecclesiastica (cfr. l’inquisizione). Quale<br />

che sia l’intenzione, l’uso della violenza per costruire un regno di pace, di giustizia, mostra il carat-<br />

tere illusorio dell’impresa. La cristianità non è riuscita a bandire la violenza.<br />

Non solo, laddove l’intreccio tra religione/Chiesa e società/Stato è presupposto come ovvio contesto<br />

di esperienza e di azione, il concetto di Chiesa, automaticamente, subisce una dilatazione politico-<br />

culturale. Per quanto in Oriente e in Occidente si sia cercato ripetutamente di distinguere in linea di<br />

principio il potere spirituale da quello secolare e ciò sia anche riuscito, tuttavia in entrambi i mondi<br />

l’ambito politico ed ecclesiale, a causa della mescolanza di fatto e di modelli di pensiero arcaici che<br />

continuavano a far sentire la propria influenza, rimanevano legati a una concezione politico-<br />

religiosa unitaria che doveva portare a un contrasto interno alla Cristianità.<br />

2) Al seguito dei padri greci, in Oriente, la Chiesa viene compresa all’interno della storia salvifica<br />

che porta alla divinizzazione dell’uomo: nell’umanità di Cristo, Dio è diventato quello che noi sia-<br />

mo in modo che noi diveniamo quello che lui è. Perciò la Chiesa, come corpo di Cristo, è la totalità<br />

del mistero salvifico della nostra divinizzazione e abbraccia il cosmo, la storia e l’essere umano.<br />

Questo evento di divinizzazione si compie soprattutto nella sacra liturgia, in particolare nei sacra-<br />

menti, si riflette nell’architettura e iconografia come pure nella santità della vita (perciò i monaci,<br />

come gli autentici uomini spirituali hanno un ruolo centrale nella Chiesa). A questa visione mistica<br />

della Chiesa si lega l’idea di una profonda unità (sinfonia) tra Chiesa e Stato, che di fatto tende al<br />

cesaropapismo, anche se vi sono sempre stati tentativi di salvaguardare l’indipendenza della Chiesa.<br />

Sulla base di una <strong>ecclesiologia</strong> della comunione e di un attualismo pneumatologico, si respinge con<br />

decisione lo sviluppo occidentale dell’immagine della Chiesa. Nel XIII e XIV secolo ciò avviene at-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

traverso la resistenza contro il tentativo occidentale di unione e si esprime nella critica della monar-<br />

chia papale e nell’accentuazione del carattere collegiale e patriarcale dell’ordinamento ecclesiale.<br />

Nell’anno 1357 il greco Atanasio, di fronte al legato romano Pietro Tommaso, giustifica così la ri-<br />

chiesta greca di una struttura patriarcale collegiale:<br />

«Ho detto anche che gli apostoli sono dodici, lo so, ma essi non sono dodici capi della Chiesa.<br />

Come i fedeli, nonostante il loro numero, come noi affermiamo, formano la Chiesa e l’unico corpo<br />

di Cristo grazie all’identità del culto e della religione, allo stesso modo, comprendimi bene, anche<br />

gli apostoli, benché siano in numero di dodici, sono un unico capo della Chiesa, in forza<br />

dell’identica dignità e della uguale potestà spirituale» 18 .<br />

3) In Occidente, a partire da Gelasio I, si distingue l’autorità sacra dei papi (auctoritas sacrata pon-<br />

tificum) e il potere regale (regalis potestas) 19 . In Occidente rimane viva anche la tradizionale visione<br />

storico-salvifica e sociale della Chiesa. Nonostante questa differenziazione e il legame con la tradi-<br />

zione, però, i concetti teologici fondamentali vengono ora dilatati in senso politico. Così, il “popolo<br />

di Dio”, il popolo spirituale che Dio ha radunato da tutti i popoli, la cui vera patria è nei cieli, divie-<br />

ne una realtà politico-teologica, il popolo cristiano o la comunità dei popoli cristiani.<br />

Accanto ai concetti “Chiesa di Cristo” (ecclesia Christi) e “popolo di Dio” (populus Dei) (e talvolta<br />

in modo da sostituirli) compaiono ora in modo caratteristico i concetti di “cristianità” (christianitas)<br />

e di “popolo cristiano” (populus christianus). Anche il concetto “Chiesa universale” (ecclesia uni-<br />

versalis), che dai tempi di Agostino designava l’insieme dei giustificati dalla grazia di Cristo, com-<br />

prende ora sia l’aspetto spirituale che quello secolare.<br />

4) Lo stesso slittamento concettuale si può registrare anche nella comprensione della Chiesa come<br />

“corpo di Cristo”. La stretta connessione e il legame reciproco tra eucaristia e Chiesa si dissolvono<br />

sempre più. L’eucaristia diviene sempre più ricezione individuale della grazia nella comunione e<br />

presenza divina degna di adorazione. La Chiesa diviene sempre più istituzione di diritto divino, il<br />

cui ordinamento esige una costituzione rigorosamente giuridica e la cui unità è fondata sulla presen-<br />

za di un capo visibile, il pontefice romano. La Chiesa dunque è corpo di Cristo nel senso di un or-<br />

ganismo ordinato gerarchicamente a capo del quale si trova la Sede romana.<br />

18 Citato da Y.-M.-J. CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, Cerf, Paris: 1970, 265.<br />

19 Lettera di Gelasio I all’imperatore Anastasio del 494. La famosa teoria delle due spade subirà un certo sviluppo nel<br />

corso del medioevo: Gelasio infatti aveva detto che “due potenze si spartiscono l’impero eminente del mondo”; mentre<br />

al tempo di Pipino il Breve si dirà che “due potenze si spartiscono l’impero eminente del mondo o Chiesa”. La Chiesa<br />

passa quindi a designare l’insieme della società, ciò che noi chiamiamo «christianitas». La teologia soggiacente a questa<br />

prospettiva è quella della regalità universale di Cristo, in cui si trovano riunite le funzioni di re e sacerdote, mentre sulla<br />

terra — nella Chiesa — queste funzioni sono ripartite tra i due poteri.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

In tal senso è particolarmente istruttiva l’evoluzione della espressione “corpo mistico” (corpus<br />

mysticum). Essa compare nel IV secolo per significare il pane eucaristico consacrato oppure il corpo<br />

del Signore presente in forma sacramentale, attraverso il quale i fedeli sono trasformati nel vero<br />

corpo di Cristo (corpus verum), cioè la Chiesa. Questo uso linguistico si è mantenuto quasi univer-<br />

salmente nella teologia latina fino al IX secolo. Nell’XI secolo, in reazione alla controversia con Be-<br />

rengario di Tours, che tendeva verso una concezione puramente simbolica della presenza di Cristo<br />

nel sacramento, scompare la parola “corpus mysticum” riferita all’eucaristia. Verso la metà del XII<br />

secolo la coppia di concetti ricompare, ma con un rovesciamento del significato: per sottolineare il<br />

realismo sacramentale della presenza di Cristo nel sacramento dell’altare ora il corpo eucaristico<br />

viene designato come vero corpo di Cristo mentre la Chiesa è solo corpo mistico. Nel XIII secolo si<br />

afferma quest’uso linguistico e si parla comunemente del corpo mistico della Chiesa. Inoltre il con-<br />

cetto di corpus, che proviene dal contesto sacramentale, viene sempre più fortemente determinato<br />

dal concetto corporativo-sociologico di corpus, già corrente nella scienza canonistica del XII secolo.<br />

Chiesa come corpus mysticum significa ora il corpo dei cristiani il cui capo è il papa 20 .<br />

5) Una simile trasformazione si trova infine anche nella comprensione della Chiesa come «tempio<br />

dello Spirito Santo» o come comunità carismatica. Quanto più i canonisti si sforzavano di compren-<br />

dere l’autorità spirituale come controparte del diritto imperiale o regale, tanto più tendevano insen-<br />

sibilmente ad assimilare il diritto spirituale della Chiesa a quello secolare; comprendevano cioè<br />

l’autorità spirituale come una potestas che inoltre tendeva a diventare un dominium. Ora i laici, in<br />

quanto “non chierici”, vengono distinti dalla gerarchia che, grazie alla potestà spirituale a essa con-<br />

ferita, diviene il vero nucleo della Chiesa. A partire dall’XI secolo questa potestà spirituale non è<br />

più solo la potestà che l’ordinato riceve indipendentemente dalla comunità; essa si divide in una po-<br />

testà sacramentale di ordine, finalizzata all’amministrazione dei sacramenti, e in una potestà pasto-<br />

rale di carattere giuridico che serve per il governo della Chiesa. Al termine di questa evoluzione si<br />

può affermare semplicemente: «Il potere sacerdotale si distingue in potere di ordine e potere di giu-<br />

risdizione. Il potere di ordine attiene alla consacrazione del corpo reale del Signore nell’eucaristia, il<br />

potere di giurisdizione si riferisce invece al corpo mistico di Gesù Cristo e consiste nella capacità di<br />

governare e di guidare i fedeli verso la beatitudine celeste» 21 .<br />

20 Bonifacio VIII, Bolla Unam sanctam, 1302: «La sola e unica chiesa ha dunque un solo corpo, un solo capo, non due<br />

teste come un mostro, e cioè Cristo e il vicario di Cristo» (DzH, n. 872); Bartolomeo da Lucca, in Tommaso d’Aquino,<br />

De regimine principum, III, 10, verso il 1300, a cura di T. Mathis, Marietti, Torino-Roma 1948 2 , 49.<br />

21 L. ANDRIANOPOLI, Il catechismo romano commentato, Ares, Milano 1983, 274, 283.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

6) Nel momento in cui l’autorità spirituale non venne più compresa come ministerium, come servi-<br />

zio della comunità e nella comunità, ma come dominium, si giunse necessariamente anche a un con-<br />

flitto all’interno della stessa gerarchia. La differenza di funzioni tra papato ed episcopato, con questi<br />

presupposti, doveva condurre al conflitto tra le rivendicazioni dei due poteri più alti. Tanto più che<br />

l’insegnamento teologico corrente, pur continuando a veicolare una comprensione della chiesa ispi-<br />

rata alla Bibbia e ai Padri e principalmente incentrata sull’immagine del Corpo mistico, di fatto in-<br />

terpretava questa immagine caricandola di una connotazione di tipo corporativo, secondo cui la testa<br />

rappresenta il corpo, come riassumendolo in sé 22 . Si capisce allora perché, ad esempio Agostino<br />

Trionfo († 1328), appoggiandosi alle teorie gerarchiche dello Pseudo-Dionigi, può scrivere nella<br />

Summa de potestate ecclesiastica (1326) che «il papa è il capo di tutto il corpo mistico della chiesa<br />

in modo tale che egli non riceve nulla, quanto a forza e autorità, dalle membra, ma soltanto agisce<br />

sempre su di queste, perché egli è semplicemente il capo». D’altra parte, anche questi stessi autori,<br />

favorevoli alla monarchia papale assoluta, ammettevano un’eccezione alla regola che «prima sede a<br />

nemine iudicatur», ossia quando il papa fosse incorso in una deviazione dalla fede 23 . In questo caso<br />

il papa poteva essere giudicato dalla chiesa, cioè dal concilio, il quale, come rappresentante della<br />

chiesa universale, avrebbe contato più del papa da solo.<br />

Nell’epoca del grande scisma (1378-1417) si diffuse pure un’altra convinzione, ossia che solo un<br />

concilio era in grado di attuare la riforma della chiesa divenuta chiaramente necessaria «tam in capi-<br />

te quam in membris». Voci si erano alzate per denunciare gli abusi del sistema di finanziamento del<br />

papato in occasione delle nomine di vescovi e di abati e delle sanzioni che ne conseguivano. Ad e-<br />

sempio nel 1328 il papa Giovanni XXII aveva scomunicato 36 vescovi e 46 abati perché non aveva-<br />

no pagato le tasse a tempo debito. Agli occhi di molte persone pie era lo stesso papato che costituti-<br />

va il principale ostacolo alla riforma, o, secondo i termini di Jean Gerson al concilio di Costanza,<br />

«una tirannia che distrugge la chiesa». Proprio in queste traiettorie si collocavano altri teologi che,<br />

sensibili all’affermazione degli stati nazionali e quindi all’autonomia del potere temporale (pensia-<br />

mo all’influsso di Marsilio da Padova e di Guglielmo di Ockham), interpretando la congregatio fi-<br />

delium nel senso corporativo di tutto il popolo che è soggetto di vita e di potere, erano favorevoli ad<br />

una limitazione dell’autorità pontificia da parte della ecclesia e dei suoi rappresentanti.<br />

22 Non a caso la grande scolastica del XIII secolo svolgeva le tesi teologiche riguardanti la chiesa nel quadro della grazia<br />

capitale di Cristo (gratia capitis): per S. Tommaso (S. Th., III, q. 8) l’uomo Gesù, possedendo la pienezza della grazia, è<br />

allo stesso tempo la Testa dell’umanità e del corpo della Chiesa, di cui lo Spirito è (secondo la prospettiva di S. Agostino)<br />

l’anima: la chiesa è quindi l’ambito dell’influsso spirituale del Cristo.<br />

23 Cfr. GRAZIANO, Decreto I, dist. 40, p. III, c. XI.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Queste correnti alimenteranno il CONCILIARISMO, quando esso si presenterà come la sola maniera di<br />

uscire dall’impasse al momento del grande scisma d’Occidente. In questo caso il concilio non solo<br />

giudicò pure della legittimità dei papi che si opponevano fra di loro, ma si riunì pure senza essere<br />

stato convocato da uno di loro. Diversi teologi affermarono in questa occasione che la sopravviven-<br />

za dell’ecclesia esigeva che il potere di convocare un concilio generale appartenesse alla chiesa<br />

stessa (Pierre d’Ailly, Jean Gerson). L’idea conciliarista si trovava peraltro accreditata dal nuovo<br />

modello di funzionamento corporativo, quello delle città e delle università, sviluppatosi nel XIV se-<br />

colo. Questo modello di universitas fornì al medioevo — che fino al secolo XII conosceva soltanto<br />

la sovranità personale (re, duca, conte) in gerarchie graduate in cui gli inferiori sono sottoposti ai<br />

superiori, ma non derivano da questi, come dalla loro fonte, la loro autorità —, un nuovo modello di<br />

comunità. In queste corporazioni l’universitas, rappresentata da un organo eletto, deteneva il potere<br />

supremo (sovranità), in particolare quello legislativo. Il rector è al di sopra dei singoli membri, ma<br />

non dell’universitas: di cui è piuttosto il delegato e a cui deve rendere conto. Le differenti tesi con-<br />

ciliariste applicheranno questo modello ai rapporti tra papa e concilio. Si dice ad esempio che il pa-<br />

pa è al di sopra di tutti i membri della chiesa, ma non al di sopra della chiesa nella sua totalità; op-<br />

pure che il concilio ha il potere legislativo, il papa quello esecutivo; che il papa non possa essere<br />

giudicato da nessuno, significa «da nessuna persona individuale», ma non vale per la totalità della<br />

chiesa o per la sua rappresentanza in concilio ecumenico, che anzi può deporre il papa non soltanto<br />

per eresia, ma anche per altri gravi motivi.<br />

Questo influsso dei modelli politici del tempo non deve però oscurare il fatto che il conciliarismo<br />

veicolava pure l’antica <strong>ecclesiologia</strong> di comunione, soffocata nell’alto medio evo dall’influsso del<br />

modello feudale. Il tema agostiniano del potere delle chiavi date a Pietro, non come persona indivi-<br />

duale ma come personificante la chiesa, restava bene comune di teologi e canonisti.<br />

La dottrina conciliarista, almeno nella sua forma moderata, trova una formulazione netta nel decreto<br />

Haec sancta (6 aprile 1415) del concilio di Costanza (1414-1418):<br />

«Questo santo sinodo di Costanza, costituendo un concilio generale, legittimamente radunato nello Spirito<br />

santo a lode dell’onnipotente Dio, per estirpare il presente scisma e per realizzare l’unione e la riforma della<br />

Chiesa di Dio nel capo e nelle membra, con lo scopo di conseguire più facilmente, più sicuramente, più frut-<br />

tuosamente e più liberamente l’unione e la riforma della Chiesa di Dio ordina, definisce, stabilisce, giudica e<br />

dichiara quanto segue.<br />

Per prima cosa dichiara che questo sinodo, legittimamente radunato nello Spirito santo, costituendo un con-<br />

cilio generale e rappresentando la Chiesa cattolica militante, riceve la sua autorità direttamente da Cristo;<br />

chiunque, di qualunque condizione e dignità, fosse pure quella papale, è tenuto a obbedirgli in ciò che appar-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

tiene alla fede, alla estirpazione dello scisma già ricordato e all’universale riforma della stessa Chiesa di Di-<br />

o, nel capo e nelle membra.<br />

Ancora dichiara che chiunque, di qualunque condizione, stato, dignità, fosse pure quella papale, avrà con o-<br />

stinazione disprezzato l’obbedienza alle ingiunzioni, alle disposizioni o ordinamenti, ai comandi di questo<br />

sacro sinodo e di qualunque altro concilio generale legittimamente radunato, nelle materie richiamate sopra<br />

o ad esse attinenti, tanto quelle già decretate quanto quelle che lo saranno in futuro, se non si sarà ravveduto,<br />

sia sottomesso ad una penitenza proporzionata e sia debitamente punito ricorrendo, se necessario, anche ad<br />

altri strumenti del diritto» 24 .<br />

La portata di questo decreto non ha cessato di essere oggetto di discussione nella chiesa cattolica,<br />

soprattutto in seguito alla condanna ulteriore del conciliarismo e alle definizioni del Vaticano I sul<br />

primato del papa. Storicamente questo decreto non ha ricevuto l’approvazione formale dei papi, a<br />

cominciare da Martino V (1417-1431) che fu eletto a Costanza; ma, nota Yves Congar, la dottrina<br />

dell’epoca non lo richiedeva e il concilio non l’ha nemmeno cercato 25 . Le circostanze storiche non<br />

indicano la volontà di proporre una definizione dogmatica. Gli stessi Padri del concilio non hanno<br />

cercato di insistervi con i seguaci di Gregorio XII (e così pure quelli di Benedetto XIII), tanto che a<br />

questo papa venne consentito di convocare ancora una volta il concilio, prima di abdicare. A lui e ai<br />

suoi seguaci si concesse la norma giuridica, che solo con il loro ingresso il concilio aveva avuto ini-<br />

zio (e che perciò anche tutte le sedute precedenti, compresa quella in cui fu proclamato Haec san-<br />

cta, non erano ancora sedute valide) e si ascoltò pazientemente la bolla di convocazione. In certo<br />

qual modo, dunque, il concilio di Costanza ha relativizzato il principio conciliaristico, per la causa<br />

dell’unità. Resta che, nonostante questa portata limitata, il decreto conserva un significato ecclesio-<br />

logico durevole: ogni <strong>ecclesiologia</strong> che lega la Chiesa al papa, senza volere anche il contrario, viene<br />

confutata dall’esperienza storica del grande scisma e dagli eventi connessi.<br />

Da questa discussione tra il conciliarismo e la rivendicazione di autorità suprema da parte del papa-<br />

to, che ha segnato il XIV, XV e XVI secolo, nascono i primi trattati propriamente teologici «De Ec-<br />

clesia» (quelli di Giovanni Stojkovic da Ragusa e Giovanni da Torquemada) che, di conseguenza,<br />

trattano solo della gerarchia e la considerano esclusivamente dal punto di vista della potestà (pote-<br />

stas). In precedenza, la questione circa la vera Chiesa e la sua identificabilità esterna era già stata ar-<br />

ticolata nella presa di distanza rispetto ai movimenti settari ed eretici del secolo XII.<br />

24 Testo in G. CANOBBIO (ed.), I documenti dottrinali del magistero, Queriniana, Brescia 1996, nn. 548-550.<br />

25 Y. CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, op. cit., 326-327.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Se in Oriente si giunse a un tentativo di impossessarsi dell’ambito ecclesiale da parte di quello poli-<br />

tico, in Occidente, al contrario, si sviluppò piuttosto il tentativo di sottomettere l’ambito politico a<br />

quello ecclesiale. In Oriente perciò sorge una tendenziale teologizzazione della politica e una marca-<br />

ta sacralizzazione dell’impero, mentre in Occidente, al contrario, si determina una politicizzazione e<br />

giuridicizzazione della Chiesa e specialmente del papato. Nell’alto Medioevo perciò la Chiesa si in-<br />

contra soprattutto secondo il modello del «dominio sacro».<br />

7) Sotto l’influsso di questo contesto nell’alto Medioevo muta anche la presentazione iconografica<br />

della Chiesa. Certo, il motivo misterico radicato nella Scrittura e nei padri si ritrova anche durante il<br />

Medioevo, ma nel nuovo contesto subisce una profonda trasformazione: da vergine, sposa o madre<br />

presentata come partecipe del mistero di Cristo, la Chiesa diviene ora la dominatrice del mondo,<br />

presentata come signora incoronata e regina (domina et regnatrix, imperatrix) che, per incarico di-<br />

vino, vuole ordinare tutta l’ecumene secondo le leggi di Cristo.<br />

8) La differenziazione socio-politica ha determinato profondamente anche la struttura della Chiesa:<br />

uno dei risultati principali di questo processo di differenziazione infatti è che ora il popolo cristiano<br />

è composto dalla gerarchia e dai laici. In quanto rappresentanti della dimensione propria, spirituale<br />

della Chiesa e detentori della potestà spirituale, i chierici sono posti chiaramente al di sopra dei laici<br />

e talvolta identificati addirittura esplicitamente con la Chiesa 26 . Così Graziano può dire che:<br />

«Ci sono due tipi di cristiani. Il primo, in quanto incaricato di un servizio divino e dedito alla contemplazione<br />

e all’orazione, è conveniente che stia lontano da ogni tumulto delle cose temporali. Di<br />

esso fanno parte i chierici e coloro che sono dedicati a Dio e cioè i religiosi (conversi). […] L’altro<br />

tipo di cristiani è costituito dai laici, dal greco laós, che in latino significa popolo. A costoro è<br />

permesso possedere beni temporali, ma solo per l’uso. Non c’è nulla di più meschino che disprezzare<br />

Dio per la ricchezza. A costoro è concesso sposarsi, coltivare la terra, giudicare tra uomo e<br />

uomo, trattare cause in tribunale, deporre offerte sull’altare, pagare le decime: così potranno salvarsi,<br />

se però eviteranno il vizio e faranno del bene» (Decreto, can. 7, c. XII, q. 1).<br />

Per comprendere questo deprezzamento della condizione comune dei battezzati occorre considerare<br />

però due fatti. Da una parte, il periodo delle invasioni aveva causato un abbassamento generale della<br />

cultura, per cui di fronte alla stragrande maggioranza della popolazione, che era analfabeta, si trova-<br />

va una élite “clericale”, la quale, siccome possedeva la lingua scritta, il latino, era la sola categoria a<br />

scrivere e quindi a lasciarci il proprio punto di vista. La causa principale è stata però l’applicazione<br />

26 La Chiesa viene quindi paragonata a una piramide «perché la base, dove sono situati i carnali e gli sposati, è larga,<br />

mentre la parte superiore, dove la via stretta è proposta ai religiosi e agli ordinati, è appuntita»: GILBERTO DI LIMERICK,<br />

De institutione ecclesiastica, PL 159, 997 a.<br />

173


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

di criteri ascetici per gerarchizzare gli stati di vita. Un’etimologia della parola «aghios», nel senso di<br />

«separato dalla terra», ha attraversato tutto il Medio Evo, veicolando l’idea che il più perfetto è colui<br />

che è il più distaccato dai beni terrestri. Se si considera poi che erano spesso i monaci a diventare<br />

vescovi e Papi, si capisce perché si giunse a pensare che solo i viri spirituales potevano dirigere la<br />

Chiesa, mentre gli altri dovevano dedicarsi agli affari temporali. La prevalenza dei valori monastici<br />

produsse una svolta nel cristianesimo: riforme come quella cistercense svilupparono l’idea del con-<br />

temptus mundi, che non è solo il disprezzo dei suoi aspetti negativi come la violenza, ma piuttosto il<br />

rifiuto generalizzato della “carne”. In certi momenti si arrivò a pensare che solo i vergini potevano<br />

essere veramente santi, mentre gli sposati rimanevano in qualche modo invischiati nel peccato.<br />

Poiché il papato diviene il cardine di questa struttura e la Chiesa latina viene per così dire assorbita<br />

nella Chiesa romana («Chiesa cattolica» = «Chiesa romana»), al posto della struttura sinodale ed e-<br />

piscopale della Chiesa antica subentra ora un ordinamento papale centralistico. Egidio Romano<br />

(1244-1316) potrà così dire nel suo De ecclesiastica potestate: «Papa qui potest dici ecclesia» (c.<br />

13), e Bonifacio VIII concludere la sua bolla Unam sanctam (1302) con l’affermazione: «Porro su-<br />

besse Romano Pontifici omni humanae creaturae declaramus, dicimus, diffinimus omnino esse de<br />

necessitate salutis» (DzH 875). Un testimonianza particolarmente significativa di simile concezione<br />

è costituita dalle asserzioni di Gregorio VII nei Dictatus papae (1075):<br />

«1. La Chiesa romana è stata fondata soltanto da Dio; 2. Solo il pontefice romano si dica di diritto universa-<br />

le; 3. Egli solo abbia il potere di deporre e reintegrare i vescovi; 4. Durante un concilio il suo legato, anche<br />

se di grado inferiore, presieda a tutti i vescovi e possa pronunciare sentenza di deposizione contro di loro; 5.<br />

Il papa abbia il potere di deporre anche gli assenti; 6. Con chi è stato scomunicato da lui tra l’altro non dob-<br />

biamo nemmeno rimanere nella stessa casa; 7. Solo a lui sia lecito, a seconda delle necessità del momento,<br />

istituire nuove leggi, fondare nuove pievi, trasformare in abbazia una chiesa canonicale e viceversa, smem-<br />

brare un episcopato ricco ed aggregare quelli poveri; 8. Solo il papa possa far uso delle insegne imperiali; 9.<br />

Al papa e solo a lui spetta che tutti i principi bacino i piedi; 10. Solo il suo nome venga proferito nelle Chie-<br />

se; 11. Il suo nome è unico in tutto il mondo; 12. Gli sia lecito deporre gli imperatori; 13. Gli sia lecito, qua-<br />

lora la necessità lo imponga, trasferire i vescovi da una sede all’altra; 14. Egli abbia il potere di ordinare<br />

chierici in ogni Chiesa in qualsiasi momento lo voglia; 15. Chi è stato ordinato dal papa può essere preposto<br />

ad altra Chiesa, ma non prestarvi servizio; costui non deve ricevere da un altro vescovo un grado superiore;<br />

16. Nessun sinodo senza indicazione del papa deve essere chiamato generale; 17. Nessun canone e nessun<br />

libro siano da considerarsi canonici senza la sua autorità; 18. A nessuno sia lecito ritrattare le sue sentenze;<br />

lui solo possa ritrattare quelle di tutti; 19. Nessuno lo possa sottoporre a giudizio; 20. Nessuno osi condan-<br />

nare chi si appella alla sede apostolica; 21. Le cause di maggior importanza, di qualsiasi Chiesa, siano ri-<br />

messe alla sede apostolica; 22. La Chiesa romana non ha mai errato né potrà mai errare, come testimonia la<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Sacra Scrittura; 23. II pontefice romano, se è stato ordinato secondo i canoni, è indubitabilmente reso santo<br />

per i meriti del beato Pietro, come testimonia il vescovo di Pavia Ennodio, seguito in ciò dal parere di molti<br />

santi Padri e come è scritto nei decreti del beato papa Simmaco; 24. Per suo ordine o con il suo consenso sia<br />

lecito ai gradi inferiori presentare accuse (contro i superiori); 25. Egli abbia il potere di deporre e reintegrare<br />

i vescovi anche senza riunire il sinodo; 26. Non sia considerato cattolico chi non è d’accordo con la Chiesa<br />

romana; 27. II pontefice può sciogliere i sudditi dal vincolo di lealtà verso gli iniqui 27 .<br />

9) A questo sviluppo dell’ordinamento ecclesiale è legata anche la specifica problematica della<br />

Chiesa medioevale in Occidente. Si ricordi infatti che ciò che sembra un’esagerata affermazione di<br />

pretese da parte del papa, deve essere giudicato correttamente dal punto di vista storico come stru-<br />

mento per riaffermare la libertas Ecclesiae, cioè la liberazione della Chiesa dalla sua dipendenza<br />

dall’imperatore e dal suo invischiamento nell’«economia familiare» della società nobiliare feudale.<br />

Gregorio VII lottò duramente contro questa tradizione secolare di mescolanza tra impero, nobiltà e<br />

Chiesa. In questo egli è l’esponente di una nuova epoca della storia dell’occidente che può essere<br />

definita in modo pertinente «processo di differenziazione». L’unità ingenua e indistinta tra Chiesa e<br />

società va perduta; la Chiesa si crea un proprio spazio di libertà per poter adempiere il proprio spe-<br />

cifico compito spirituale senza impedimento. Questa delimitazione, però, avviene (a differenza del<br />

secolo V) non rispetto a una società pagana, ma a una società che almeno esternamente è ampia-<br />

mente cristianizzata. Per questo la formazione di strutture ecclesiastiche proprie porta quasi inevita-<br />

bilmente alla contrapposizione tra una cultura cristiano-clericale e una cultura cristiano-laicale. Se<br />

la Chiesa non vuole più essere semplicemente identica alla società cristiana in generale, stabilisce<br />

una differenziazione rispetto a quest’ultima diventando prevalentemente l’ambito definito dal papa<br />

e dai suoi vicari, i vescovi e i chierici. La clericalizzazione e la giuridicizzazione della Chiesa che<br />

inizia nel medioevo hanno qui una delle loro radici storiche più rilevanti. Infatti, lo sforzo di assicu-<br />

rare per mezzo di categorie politiche la libertà dell’autorità ecclesiale dall’intromissione secolare e<br />

di fondare il carattere non derivato dell’autorità papale e l’originalità e sovranità del diritto ecclesia-<br />

le, ha condotto, contro le intenzioni, a trasformare l’autorità ecclesiale praticamente e teoricamente<br />

in un’autorità secolare di ordine superiore. Perciò la rivendicazione da parte dei papi dell’alto Me-<br />

dioevo di una preminenza teorica del potere spirituale, in modo non intenzionale (ma logicamente),<br />

è stata tra le cause della secolarizzazione del potere spirituale tardomedioevale.<br />

27 Da Il papa e il sovrano. Gregorio VII ed Enrico IV nella lotta per le investiture, Europia, Novara 1985.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Il ministero petrino del vescovo di Roma in questo modo diviene sempre più un’istituzione ierocra-<br />

tica e un’istanza amministrativa centralistica. Il ministero episcopale, che dall’inizio del Medioevo è<br />

coinvolto nel processo di feudalizzazione (i vescovi diventano signori delle città, di Chiese proprie e<br />

signori con investitura regale), nella maggior parte dei casi verso la fine del Medioevo è diviso tra<br />

un vescovo nominale, che come signore secolare cura i suoi interessi mondani, e un vescovo ordina-<br />

to che, come aiutante episcopale, serve quando c’è un sacramento da amministrare.<br />

b) La chiesa nel contesto della liturgia<br />

1) Nell’ambito della liturgia ecclesiale e della sua spiegazione teologica e spirituale inizialmente<br />

l’autocomprensione della Chiesa antica rimane intatta. Anche lo stretto legame tra Chiesa e Cristo,<br />

in particolare tra Chiesa ed eucaristia, rimane pacifico nell’alto Medioevo: la Chiesa come comunità<br />

dei fedeli è frutto dell’eucaristia; l’unità del corpo di Cristo si realizza attraverso la comune parteci-<br />

pazione al corpo e sangue sacramentali di Cristo. L’eucaristia, a sua volta, è celebrazione e azione<br />

della totalità della Chiesa, compiuta in una responsabilità organicamente differenziata.<br />

«Si può dire che nel sacramento dell’altare ci sono due cose: il vero corpo di Cristo e ciò che egli<br />

significa, cioè il suo corpo mistico, che è la Chiesa. Ora, come un solo pane è fatto di molti chicchi,<br />

ed è prima bagnato, macinato e cotto per diventare pane, così il corpo mistico di Cristo, cioè la<br />

Chiesa, formata dall’unione di molte persone come da altrettanti chicchi di grano, è bagnata<br />

dall’acqua del battesimo, è macinata tra le due mole dei due testamenti, l’Antico e il Nuovo, oppure<br />

tra le due mole della speranza e del timore… è cotta infine con il fuoco della passione e della<br />

tribolazione, per meritare di essere il corpo di Cristo» (Simone di Tournai, De Sacramentis).<br />

La liturgia romana del primo millennio non conosce nessuna preghiera liturgica che non abbia come<br />

soggetto il «noi» della comunità (famuli tui, fideles tui, populus tuus, familia tua, grex tuus).<br />

Dal punto di vista iconografico, l’autocomprensione della Chiesa come custode e celebrante dei mi-<br />

steri di Cristo, caratteristica della Chiesa antica e della liturgia, continua anche nel Medioevo. La<br />

Chiesa viene rappresentata come colei che genera figli alla nuova vita nel lavacro battesimale, come<br />

colei che sotto la croce raccoglie il sangue del Salvatore dalla ferita del fianco per porgerlo ai fedeli.<br />

2) La clericalizzazione della Chiesa tuttavia non si arrestò neppure di fronte alla liturgia. Anzi, essa<br />

divenne sempre più un affare proprio del clero; il popolo venne degradato a spettatore passivo e alla<br />

fin fine poteva persino mancare del tutto. A partire dall’VIII secolo infatti la messa privata era dive-<br />

nuta, nei monasteri prima e poi anche presso il clero secolare, la regola, così che il suo rito (al più<br />

tardi nel XIII secolo) influenzò sempre più anche il rito della celebrazione normale. Alla individua-<br />

lizzazione della liturgia, in particolare dell’eucaristia (nello sviluppo dell’adorazione eucaristica),<br />

ancora una volta è legata una individualizzazione e una perdita del carattere misterico della Chiesa.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Nell’iconografia, il processo medioevale di dissoluzione della comprensione sacramentale (simboli-<br />

co-mistica) della Chiesa trova espressione in un nuovo realismo. La Chiesa assume sempre più an-<br />

che nella sua rappresentazione simbolica quella forma nella quale il fedele concretamente e attual-<br />

mente la incontra: la forma cioè di sacra istituzione di carattere amministrativo, giuridico e cultuale.<br />

c) La chiesa nel contesto del movimento (spirituale) di riforma<br />

1) A partire dal monachesimo del IV secolo, che aveva cercato di compensare la coincidenza tra<br />

Chiesa e mondo con una rinnovata e consapevole presa di distanza dal mondo, passando attraverso<br />

la chiesa monastica dei benedettini, gli ordini riformati del XII secolo e i movimenti ascetici popola-<br />

ri e pauperistici dall’XI al XIII secolo e fino ai movimenti evangelici del tardo Medioevo, che ave-<br />

vano sempre reagito a una Chiesa mondanizzata, in contrasto con la commistione di Chiesa e mon-<br />

do e con l’istituzionalizzazione, la giuridicizzazione, la politicizzazione e secolarizzazione della<br />

Chiesa, si sviluppò una rinnovata accentuazione dell’elemento carismatico e contemplativo, come<br />

pure una spiritualizzazione diretta o indiretta e una individualizzazione della comprensione della<br />

Chiesa (che perciò raggiunge ugualmente il suo vertice nel tardo Medioevo) 28 . Attraverso la borghe-<br />

sia cittadina, che dal XII-XIII secolo viene ad essere sempre più in primo piano, questa spiritualiz-<br />

zazione e individualizzazione della comprensione della Chiesa nel tardo Medioevo assume, per così<br />

dire, anche un significato direttamente sociale e politico. Infatti la borghesia, sempre più consapevo-<br />

le culturalmente, socialmente e politicamente che non poteva più trovare alcuno spazio e funzione<br />

in una Chiesa sempre più clericale, doveva (insieme ai suoi sostenitori ed esponenti clericali e mo-<br />

nastici) sviluppare un nuovo protagonismo nella “spiritualità della carità” (nella fondazione di ospe-<br />

dali, case di accoglienza per i pellegrini, confraternite…) ridefinendo in molti casi la Chiesa in ter-<br />

mini spiritualistici o individualistici per trovare in essa una nuova patria spirituale — questo avvie-<br />

ne, ad es., nei numerosi movimenti di riforma pratico-mistici del tardo Medioevo, in particolare nel-<br />

la devotio moderna («Imitatio Christi» di Tommaso da Kempis) — oppure attaccare frontalmente<br />

dal punto di vista teologico e politico l’istituzione ecclesiale clericalizzata; per questo Ockham,<br />

Wyclif, Girolamo da Praga, Hus e altri si sono richiamati con nuovo vigore e accenti sempre più<br />

forti alla Chiesa invisibile e autentica contro quella visibile e inautentica.<br />

2) Un tale impulso di riforma, di carattere carismatico e orientato al vangelo, nell’alto Medioevo po-<br />

teva ancora, come mostra l’esempio di Francesco di Assisi, sottomettersi in modo deciso e consape-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

vole all’ordinamento ecclesiale e ai suoi rappresentanti e così garantire la propria efficacia<br />

all’interno della chiesa. La teologia del primato fu sviluppata proprio dagli ordini mendicanti. Con-<br />

tro gli attacchi del clero secolare, che combattevano la nuova forma di vita degli ordini mendicanti<br />

come contraria al vangelo e alla tradizione precedente, i rappresentanti dei mendicanti legittimarono<br />

il loro movimento di riforma richiamandosi all’autorità del papa che, a nome della Chiesa, aveva<br />

canonizzato Francesco e Domenico e aveva preso sotto la sua protezione la nuova forma di vita.<br />

Ciò che era in questione, al di là delle dispute di territorio e di influenza, era la percezione tradizio-<br />

nale della chiesa come comunione di chiese locali. In effetti, collegandosi immediatamente al papa,<br />

i nuovi ordini davano corpo a una nuova forma di appartenenza alla cattolicità: la loro patria spiritu-<br />

ale non era più una chiesa locale quanto la chiesa universale. Accanto alla chiese legate alle strutture<br />

feudali e ai luoghi particolari, essi rappresentano la dimensione “missionaria”, la mobilità,<br />

l’estensione universale della chiesa. Ma, rivendicando la missione ricevuta dal papa, essi rafforza-<br />

vano l’influenza di questi e la rappresentazione della chiesa come una diocesi universale 29 .<br />

Nel tardo Medioevo tuttavia, in un contesto in cui si veniva a contatto con la Chiesa vista soprattut-<br />

to come centro di una burocrazia e di un fiscalismo mondanizzati, che impiegava i suoi mezzi spiri-<br />

tuali senza ritegno per fini politici o economici e che nello scisma d’Occidente si era rivelata pro-<br />

fondamente divisa al suo interno, un legame tra movimento spirituale di riforma e istituzione papale<br />

non rappresentava più una possibilità reale.<br />

2.2.3. Descrizione riassuntiva<br />

1) La Chiesa medioevale in Occidente si può rappresentare con la metafora del dominio spirituale.<br />

Questo significa che la Chiesa si attiene sì alla differenza di principio tra ambito spirituale e secola-<br />

re, ecclesiale e politico, ma che essa si esplica principalmente nel contesto del conflitto politico-<br />

religioso e per mezzo di una concezione del potere di tipo politico e giuridico. Se la Chiesa dei padri<br />

e della tradizione agostiniana si comprendeva come la parte della Chiesa celeste in cammino nella<br />

storia terrena, ora essa diviene la “Chiesa militante”, che conduce alla “Chiesa trionfante” del cielo.<br />

2) Sotto il peso prevalente del modello religioso-politico, che fonda la libertà della Chiesa sulla in-<br />

dipendenza e superiorità dell’ordinamento giuridico spirituale, si trasformano anche le rappresenta-<br />

28<br />

Pensiamo a Gioachino da Fiore (ca. 1130 – 1202), che nell’ecclesia spiritualis vede il futuro della chiesa attuale e che<br />

ne attende il compimento e la realizzazione nella nuova e imminente età dello Spirito.<br />

29<br />

Cfr. J. RATZINGER, “L’influsso della disputa degli ordini mendicanti sullo sviluppo della dottrina del primato”, in ID.,<br />

Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1984 3 , 55-80.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

zioni, immagini e strutture dei rimanenti luoghi della comprensione della Chiesa. L’antica immagi-<br />

ne della mater Ecclesia, ad esempio, riceve nella riforma gregoriana un senso completamente nuovo<br />

rispetto a quello della patristica. Ora essa serve a esprimere il primato della Chiesa romana, la sua<br />

sovranità, la forza normativa universale e la sua autorità; l’immagine assume ora lo stesso significa-<br />

to di domina. I tentativi di riforma spirituale vengono assunti nella commistione di dominio spiritua-<br />

le e secolare; all’inizio del Medioevo le istituzioni monastiche sono integrate tanto nella struttura<br />

delle Chiese proprie come nella Chiesa del Re. Un’istituzione ascetica che vuole distanziarsi dal<br />

mondo diviene così il monastero della cultura, rivolto al mondo, nel quadro di una stretta simbiosi<br />

tra monachesimo e nobiltà. Analogamente, nel basso Medioevo, gli ordini mendicanti sono integrati<br />

nel centralismo papale. D’altra parte, i movimenti di riforma spirituale (soprattutto, nel tardo Me-<br />

dioevo), di fronte alla massiccia istituzionalizzazione della Chiesa e alle rivendicazioni dirette di<br />

dominio da parte della gerarchia, sono coinvolti in un processo di spiritualizzazione e di individua-<br />

lizzazione.<br />

3) Il processo di differenziazione tra lo spirituale e il secolare, il religioso e il sociale, l’ecclesiale e<br />

lo statale avvenuto in Occidente è ambivalente. Il duplice movimento, conclusosi in epoca moderna,<br />

di ecclesializzazione della religione e di statalizzazione della società e la fondamentale distinzione<br />

tra spirituale e secolare che in tale movimento si è affermata nella società e nella cultura ha proba-<br />

bilmente il suo presupposto più importante e il suo fondamento nella disputa medioevale tra papato<br />

e regno e nella lotta sostenuta per la libertà e l’autonomia della Chiesa. Senza tale differenziazione<br />

una correlazione critica delle due realtà non sarebbe possibile. Certo, il progresso fu ottenuto a caro<br />

prezzo: alla Chiesa formata dai chierici stava ora di fronte una società secolare formata da laici.<br />

Nel contesto complessivo dello sviluppo medioevale la Chiesa appare anzitutto come un’istituzione<br />

sacra, fondata da Cristo e che da lui ha ricevuto tutti gli organismi necessari alla sua vita e i rispetti-<br />

vi poteri e che, così armata, combatte nel mondo per la gloria di Dio.<br />

179


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

2.3. La Chiesa dell’epoca moderna: Chiesa come confessione<br />

2.3.1. Situazione storica: la “frantumazione” della Christianitas<br />

a) Per motivi tanto sociali che culturali, l’idea di ordo, dominante nel Medioevo, cioè l’idea di un<br />

ordinamento unitario divino del mondo, dal XIV secolo, e ancor più dal XV, cade in una profonda<br />

crisi. Pian piano si dissolve l’idea di christianitas universalis, di una Chiesa fino allora identificata<br />

con l’impero che si differenzia secondo le diverse nazioni e secondo il particolarismo che in queste<br />

affiora e che pone in questione, se non il cristianesimo come tale, certo però la sua compattezza,<br />

l’ecclesia universalis che trovava il proprio apice nel papato. Le grandi forze che muovono il conci-<br />

liarismo e che ispirano la critica alla Chiesa pontificia sono un altro chiaro sintomo del nuovo mo-<br />

mento storico. Nel contesto del processo di formazione dello Stato moderno, le rivendicazioni in<br />

concorrenza reciproca del potere delle corporazioni, dei patrizi e dei prìncipi indeboliscono in modo<br />

crescente la capacità di integrazione propria delle istanze superiori: regno, impero e Chiesa.<br />

Lo Stato moderno, infine, nasce in reazione diretta contro le guerre di religione. La conflittualità po-<br />

litica e sociale causata dall’insolubilità della questione della verità religiosa dovette in certo modo<br />

suggerire la soluzione assolutistica del problema della pace: la monopolizzazione della funzione di<br />

assicurare la pace da parte del sovrano che perciò deve essere dotato di un potere assoluto sopra tutti<br />

i soggetti; la creazione di un ambito pubblico di azione politica soprareligioso e sopramorale, pura-<br />

mente razionale, dal quale sono bandite coscienza, morale e fede come cause dei dissidi politici; la<br />

relegazione della religione e della morale nell’ambito privato della persona.<br />

b) Lo sforzo del nominalismo tardomedioevale di salvare l’indipendenza della fede rispetto alla ra-<br />

gione e di salvaguardare la divinità di Dio condusse non solo a una rigida distinzione tra fede e sa-<br />

pere, rivelazione e ragione, ma anche a un’immagine di Dio nella quale l’onnipotenza incomprensi-<br />

bile e la libertà illimitata erano così accentuate da rendere Dio un Dio nascosto per la ragione e da<br />

dissolvere l’ordine del mondo fondato nella creazione. Una ragione umana resa così abissalmente<br />

incerta doveva rovesciarsi nell’autoaffermazione e nella autofondazione sovrana. Si può così dire<br />

che caratteristica peculiare del periodo è proprio la progressiva emancipazione dell’individuo, del<br />

soggetto, della libertà personale, del pensiero, di una critica che — come si esprime la filosofia che<br />

verrà poi pensata da Descartes — eleva il dubbio a principio metodico («de omnibus dubitandum»);<br />

che riconosce nella certezza che il soggetto ha di se stesso («Cogito, ergo sum») il fondamento di<br />

ogni sicurezza ed accertamento; che nelle scienze naturali, che si vanno formando, scopre un ambito<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

di realtà autonomo e diverso da quello mediato dalla Chiesa — per quanto questa, come lo dimostra<br />

il caso Galilei, volesse disporre e decidere normativamente anche in tale sfera — ed accessibile<br />

all’uomo mediante la verifica metodica, tramite l’esperienza, l’esperimento e la regolarità delle leg-<br />

gi colta secondo schemi matematici. In questa nuova prospettiva s’inserisce direttamente il ritorno,<br />

iniziatosi con il rinascimento e l’umanesimo, all’antichità, riscoperta e riproposta nell’arte, nella let-<br />

teratura e nella filosofia, spogliata da ogni mediazione e integrazione ecclesiastica, presentata nella<br />

sua originalità e affermata nella sua autonomia. Si delinea così una nuova immagine dell’uomo, più<br />

emancipata, orientata verso il mondo di quaggiù, e questa a sua volta offre nuovi motivi per una cri-<br />

tica alla Chiesa ed al suo operare. Bisogna però anche aggiungere che in questo periodo proprio il<br />

papato si rivela come il difensore più eloquente e l’alleato più strenuo dello spirito nuovo. I papi del<br />

rinascimento e le loro imprese architettoniche ed artistiche, senza dubbio imponenti, di cui la più<br />

nota è la costruzione della basilica di S. Pietro a Roma, conferiscono all’immagine imperiale e<br />

trionfalistica della Chiesa una dimensione quasi anacronistica e scandalosa.<br />

c) Con la libertas Ecclesiae nella lotta per le investiture, la Chiesa ha preso le distanze dall’impero<br />

per evitare gli abusi causati dall’intromissione dell’imperatore negli affari ecclesiastici. In quanto<br />

ambito spirituale, la Chiesa viene rivendicata come realtà propria dagli ecclesiastici. La società, co-<br />

me organizzazione della sfera temporale, risulta despiritualizzata, e, in un certo senso, collocata al<br />

di fuori della Chiesa. Per accedere alla salvezza, e quindi far parte della Chiesa, la società deve rea-<br />

lizzare l’ordine cristiano sulla terra ponendosi sotto la direzione del potere spirituale; il sovrano<br />

temporale, per non essere extra Ecclesiam, non può che riconoscersi vassallo di Roma. Sembra que-<br />

sto, in termini sbrigativi, l’unico modo per ritrovare, attraverso la legittimazione del potere spiritua-<br />

le e l’obbedienza ad esso, la possibilità della salvezza. È l’unico guado consentito: la società, il po-<br />

tere temporale, i laici, la vita quotidiana, si trovano dall’altra sponda del fossato e potenzialmente al<br />

di fuori della salvezza, a meno di sottomettersi all’autorità clericale, la quale decide ratione salutis<br />

anche nella gestione degli affari del mondo. L’extra, infatti, evoca il mondo, il saeculum, inteso co-<br />

me spazio dell’errore e dell’iniquità. Così il tema della distinzione e separazione tra «spirituale» e<br />

«temporale» diventa fondamentale nella storia europea, con la continua ricerca di confini difficil-<br />

mente precisabili tra la Chiesa come realtà salvifica e il mondo come sfera del profano non redenta<br />

o persino assoggettata al male, e con un pensiero dicotomico, sia dei chierici con la loro cultura se-<br />

parata, sia da parte dei «laici» con la loro cultura critica della religione.<br />

Il superamento della complementarità gerarchica e la conseguente pretesa di subordinazione del<br />

temporale allo spirituale-ecclesiastico da parte dell’autorità religiosa, aprono una strada media al<br />

rapporto tra le due sfere, quella della progressiva “mondanizzazione” dell’ambito politico con la<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

corrispettiva “ecclesializzazione” del cristianesimo. Se le strutture ecclesiali, in quanto strutture cle-<br />

ricali, si autonomizzano nella forma istituzionale delle chiese, l’altra sponda potrà e dovrà organiz-<br />

zarsi in modo autonomo, con fondamenti non più spirituali, dando valore e dignità alla vita tempo-<br />

rale, magari recuperando il religioso al di là della identificazione con l’ecclesiastico.<br />

Sarà poi il coagularsi delle monarchie nazionali ad approfittare del distacco delle due sfere: in una<br />

logica di penetrazione in profondità e in intensità della collettività territorialmente determinata, il<br />

potere politico diventa veramente sovrano, tendendo al monopolio dell’appartenenza dei sudditi; e<br />

non mancherà di attuare una sacralizzazione sui generis della sfera temporale, in concorrenza con la<br />

sacralità clericale e in contrapposizione alla rivendicazione di supremazia del potere ecclesiastico.<br />

Così, superata la logica della complementarità gerarchica, il mondo appare sempre più come luogo<br />

di impegno per l’uomo, da trasformare, da costruire, attraverso la conoscenza e il dominio. Da un<br />

certo punto di vista il mutamento non avviene affatto all’insegna della laicizzazione, in quanto<br />

l’impegno di trasformazione del mondo o l’interesse per il secolo non negano il riferimento<br />

all’appello di Dio, tanto che possiamo notare una contemporanea crescita degli standards religiosi<br />

del clero secolare e degli ordini monastici, nonché degli standards etico-religiosi tra la popolazione<br />

laica impegnata ad agire responsabilmente in conformità con la volontà divina. Ciò che è nuovo è la<br />

simultaneità dell’impegno nel mondo e l’individualizzazione della fede: più l’investimento effettivo<br />

per l’aldiqua è seriamente considerato, vissuto ed assunto nella sua autonomia oggettiva, più<br />

l’impegno della fede si fa soggettivo. Tradizionalmente l’interesse per l’invisibile comportava un<br />

certo distacco dal visibile, o viceversa: era logico che in quest’ottica, la vita monastica rappresentas-<br />

se il livello più elevato di vita «religiosa». Ora l’idea è di far marciare l’uno con l’altro, anzi di far<br />

procedere l’uno attraverso l’altro: l’impegno e la conquista del mondo sono la risposta e la “verifi-<br />

ca” delle sollecitazioni suscitate dall’invisibile.<br />

Non è quindi una questione di scristianizzazione: il fattore religioso è ben vivo ed operante a livello<br />

di coscienza, anche se in parte dissimulato dietro ai duri dati del mondo; il valore religioso può es-<br />

sere, anzi, più concretamente vissuto nella storia. In questione è l’idea di “religione di Chiesa”, non<br />

solo per l’identificazione del religioso con l’ecclesiastico, ma anche per la complessiva mediazione<br />

ecclesiale; conseguentemente, e più in generale, sono in questione la condizione storica del cristiano<br />

e della comunità credente, e il senso dell’esperienza umana e della civiltà; in definitiva è in questio-<br />

ne l’idea o la concezione della fede cristiana nella realtà storica, sia ecclesiale che civile.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

2.3.2. La nuova immagine di chiesa che sorge nella Riforma<br />

a) L’avvenimento più decisivo per la nostra tematica è costituito comunque dalla Riforma. Come si<br />

sa, i motivi che ispirano il movimento sono i più diversi: essa ripropone l’istanza di un rinnovamen-<br />

to della Chiesa che si estenda dal capo a tutte le membra; ancora più appassionatamente esercita una<br />

critica agli abusi e alle carenze presenti nella Chiesa, addebitati non soltanto al fallimento soggetti-<br />

vo delle singole persone ma ascritti anche all’istituzione: papato, curia e vescovi, almeno nella figu-<br />

ra e nei tratti in cui concretamente si danno. La Riforma ha riconosciuto inoltre l’importanza e la<br />

forza delle Chiese “nazionali” che si emancipano dal papato e che a livello nazionale determinano le<br />

modalità di una alleanza tra Chiesa e mondo, tra Chiesa e popolo; ha riconosciuto di quale forza di-<br />

spongano i laici, coscienti della propria autonomia, soprattutto l’autorità civile.<br />

b) La Riforma, però, si fonda soprattutto sull’esperienza basilare, teologica e religiosa, che accom-<br />

pagnava di pari passo questi fattori e che era vissuta da singoli individui, dai riformatori, primo fra<br />

tutti Martin Lutero, il quale, mosso dall’interrogativo: «come posso essere accetto a Dio?», aveva<br />

scoperto il vangelo della giustificazione mediante la sola fede, senza le opere della legge: sola gra-<br />

tia, sola fide, sola Scriptura. Egli riscoprì la verità del sacerdozio di tutti i fedeli come fondamento<br />

della comunione dei credenti; fece la scelta radicale di una teologia della croce e del carattere nasco-<br />

sto della attività e presenza di Dio, rifiutando la «theologia gloriae». Si noti che Lutero condusse<br />

queste esperienze nell’ambito di quella Chiesa nella quale e nella cui tradizione era cresciuto, nella<br />

quale aveva vissuto da monaco agostiniano ed esercitato la professione di insegnante di teologia,<br />

della cui esistenza e necessità non dubitava, nella cui cerchia egli credeva di potere, anzi di dovere,<br />

proporre e realizzare la propria istanza come un contributo offerto alla reformatio ecclesiae, possibi-<br />

le solo all’interno di questa Chiesa e non al di fuori di essa.<br />

Questi processi di differenziazione si sono poi evoluti nel tempo e collegandosi a fattori anche ex-<br />

tra-teologici non hanno condotto alla riforma della Chiesa, ma di fatto hanno prodotto la divisione<br />

della Chiesa occidentale in diverse confessioni e corpi ecclesiali e a una pluralità di pretese di verità<br />

e di Chiese che si combattevano reciprocamente in modo sanguinoso.<br />

L’istanza teologica di Lutero, che non verteva sulla questione del papa e della Chiesa ma sul pro-<br />

blema della giustificazione e della salvezza, investiva però anche delle realtà ecclesiologiche che di<br />

fatto entrarono al centro della contestazione in un periodo successivo. Egli esaminò il problema del<br />

legare e sciogliere del papa, un potere che non veniva contestato in se stesso — al contrario,<br />

all’inizio Lutero annetteva la massima importanza al consenso del papa — ma nelle modalità della<br />

sua applicazione, più concretamente nella prassi delle indulgenze.<br />

183


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Lutero sollevò anche la questione del magistero, esigendo che si riconoscesse la Scrittura come uni-<br />

ca norma normans e che ci si lasciasse da essa interrogare e vagliare — essa è infatti «sui ipsius in-<br />

terpres» —, che si rispettasse l’istanza ultima del giudizio della coscienza (dieta di Worms, 1521).<br />

Egli affrontò la tesi secondo la quale i papi e i concili non possono errare ed esercitò una critica agli<br />

abusi della Chiesa, soprattutto nei termini che ritroviamo in quattro scritti decisivi del 1520: Sul Pa-<br />

pato di Roma, Sulla cattività babilonese della Chiesa, La libertà cristiana e Alla nobiltà cristiana<br />

della nazione tedesca. In quest’ultimo, che è il primo dei grandi scritti riformatori, Lutero si scaglia<br />

contro gli abusi introdotti nella Chiesa e individua soprattutto tre aspetti, giudicati inaccettabili per<br />

le differenze che introducono nella Chiesa. Si tratta delle «tre muraglie» innalzate dai «romanisti»<br />

che Lutero, come Giosuè davanti alle mura di Gerico, intende far crollare: l’esenzione del clero nel-<br />

le questioni temporali dalla sottomissione all’autorità civile (soprattutto in ambito giudiziario), mo-<br />

tivata con la superiorità dell’autorità ecclesiale rispetto a quella civile; l’aver riservato al papa la<br />

spiegazione autentica della Scrittura; l’aver riservato al papa la convocazione del concilio. Questa<br />

situazione di privilegio di cui il clero gode è inaccettabile, tanto più che i pastori si rivelano incapaci<br />

o non intenzionati a realizzare la necessaria riforma della Chiesa. Contro questi abusi Lutero affer-<br />

ma un duplice principio: anche il clero è «sottoposto alla spada» dell’autorità civile, la quale, essen-<br />

do istituita da Dio, può esigere la sottomissione di tutti nell’ambito di propria competenza; in se-<br />

condo luogo, tutti i cristiani, laici compresi, hanno il diritto e il dovere di dare il proprio contributo<br />

alla vita ecclesiale e, in concreto, di operare per la convocazione di un concilio cristiano (cfr. WA 6,<br />

413, 27-33) e per la riforma della Chiesa, dato che essa non viene attuata dagli ecclesiastici 30 .<br />

Lutero è così un caso singolare in cui confluiscono simultaneamente le tre correnti ecclesiologiche<br />

del Basso Medioevo: l’opposizione al papato; l’idea conciliarista della riforma (a cui in seguito ri-<br />

nunciò); la nozione spiritualistica di Chiesa come «communio sanctorum» (cfr. Wyclif, Hus).<br />

c) Su queste premesse, Lutero si creò uno spazio di libertà e di distanza nei confronti delle numero-<br />

se tradizioni ecclesiastiche e concezioni tradizionali che cozzavano contro la sua dottrina della giu-<br />

stificazione e che secondo la sua esperienza sminuivano la divinità di Dio.<br />

Questo atteggiamento lo condusse a riscoprire l’idea dell’uguaglianza dei fedeli fondata sul sacer-<br />

dozio battesimale. Solo la fede nella parola di Dio, infatti, può rendere l’uomo giusto e pio, cioè<br />

30 Sono abbastanza evidenti le ascendenze conciliariste di questa tesi di Lutero: quando nella Chiesa l’autorità competente<br />

non è in grado di compiere ciò che dovrebbe fare, devono subentrare le istanze inferiori. Non a caso Lutero giustifica<br />

spesso l’intervento dei laici nell’ambito che propriamente spetterebbe ai ministri richiamandosi alla «situazione di<br />

necessità», che si è determinata: Y. CONGAR, L’Église. De Saint Augustin à l’époque moderne, op. cit., 311.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

porlo nella corretta relazione con Dio, e al tempo stesso renderlo libero nei confronti delle opere<br />

della legge, perché solo la fede realizza l’unione dell’anima con Cristo, come «una sposa si unisce al<br />

suo sposo» 31 . L’unione, che si compie mediante la fede, si definisce per l’adesione a una parola pre-<br />

dicata e al Cristo annunciato mediante questa parola. Da questa unione l’uomo spirituale riceve nel-<br />

lo scambio di beni che avviene grazie all’unione sponsale con Cristo, i doni della «regalità» e del<br />

«sacerdozio». Lutero non intende questi due «munera» primariamente in termini funzionali, come<br />

abilitazione a compiere determinate attività, ma li qualifica espressamente come dignitates, come<br />

privilegi che sono propri del credente e che determinano una fondamentale uguaglianza all’interno<br />

della Chiesa. Proprio su questa base Lutero può riscoprire la verità del sacerdozio di tutti i fedeli<br />

come fondamento della comunione dei credenti 32 . In particolare egli riprende l’idea che nella Chiesa<br />

tutti sono sacerdoti per mostrare che è insostenibile la posizione di chi afferma l’esistenza di uno<br />

«stato ecclesiastico» al quale spetterebbero in maniera esclusiva determinate competenze:<br />

«Hanno avuto la trovata di chiamare ecclesiastici (geystlich stand) i papi, i vescovi, i preti e gli abitatori<br />

dei conventi, secolari (weltlich stand) invece i principi, i signori, i commercianti e i contadini;<br />

la qual cosa è una finissima ed ipocrita costumanza, ma nessuno si lasci abbindolare da essa,<br />

31 «Non soltanto la fede concede che l’anima divenga simile alla parola divina e cioè ripiena d’ogni grazia, libera e beata,<br />

ma unisce anche l’anima a Cristo, così come una sposa si unisce al suo sposo. Da questo matrimonio ne consegue,<br />

come dice S. Paolo (Ef 5, 3-32), che Cristo e l’anima divengono un corpo solo, uniti nella buona come nella cattiva sorte<br />

ed in tutte le cose, e ciò che Cristo possiede diviene proprio anche dell’anima credente, e ciò che l’anima possiede diviene<br />

proprio di Cristo. Così Cristo ha tutte le beatitudini ed i beni, ed essi divengono propri dell’anima. Così l’anima ha<br />

tutti i vizi e i peccati su di sé, ed essi divengono propri di Cristo. Si compie in tal modo l’amoroso scambio e la lieta disputa.<br />

Mentre Cristo è Dio e uomo che ancora non ha peccato, e la sua virtù è insuperabile, eterna ed onnipotente, ora<br />

nello scambiarsi l’anello nuziale, cioè la fede, con l’anima credente, fa propri tutti i peccati di lei e insomma altro non fa<br />

che apparire come se egli stesso li avesse commessi; ma avviene necessariamente che in lui questi peccati devono essere<br />

ingoiati e scomparire, perché la sua invincibile giustizia è assai più forte di qualsivoglia peccato; cosicché l’anima, grazie<br />

al dono nuziale, cioè alla sua fede, viene resa pura e libera di tutti i peccati e dotata dell’eterna giustizia di Cristo suo<br />

sposo»: Della libertà del cristiano: WA 7,25, 28-26, 5 (trad. it. in Scritti politici, op. cit., 373-374).<br />

32 Si capisce allora perché in diversi testi di teologia si trova l’affermazione che questa dottrina rappresenterebbe uno<br />

degli aspetti più caratteristici della teologia della Riforma. Nella maggior parte dei casi però questa tesi si riduce a una<br />

formula dal contenuto assai vago, aperta alle interpretazioni più diverse. Il tema del sacerdozio universale dei fedeli può<br />

diventare allora la cifra della visione della Chiesa proposta dalla Riforma, che si pone come alternativa radicale alla<br />

concezione cattolica basata su una mediazione sacerdotale, oppure la bandiera di una visione democratica della Chiesa e<br />

della società elevata contro le tendenze assolutiste della tradizione precedente: cfr. ad es. C. EASTWOOD, The Priesthood<br />

of All Believers. An Examination of the Doctrines from the Reformation to the Present Day (London: Epwort Press,<br />

1960) 1-65. Nella presentazione che ne fa l’autore, il tema del sacerdozio universale dei fedeli perde ogni contenuto<br />

specifico per diventare la cifra della teologia della Riforma che si oppone con forza all’eresia romana, caratterizzata<br />

dall’istituzionalismo, dalla pretesa di disporre della grazia mediante i sacramenti, dal pelagianesimo. In realtà, come riconosce<br />

H.M. Barth, nelle stesse Chiese nate dalla Riforma il tema del sacerdozio universale è stato sì usato frequentemente<br />

come slogan in funzione critica nei confronti di Roma e del clericalismo, ma non sempre se ne sono comprese a<br />

fondo le implicazioni ecclesiologiche. Cfr. H.M. BARTH, Einander Priester sein. Allgemeines Priestertum in ökumenischer<br />

Perspektive (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1990) 13-19. D’altra parte, pure in campo cattolico il sacerdozio<br />

dei fedeli è stato riscoperto anche prima del Vaticano II, ad es. nel movimento liturgico e nella riflessione<br />

sull’apostolato dei laici. A questo proposito si veda il testo di P. DABIN, Le sacerdoce royal des fidèles dans la tradition<br />

ancienne et moderne (Bruxelles-Paris: L’Edition Universelle – Desclée De Brouwer, 1950).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

e per le seguenti ragioni: i cristiani tutti appartengono allo stato ecclesiastico (geystlichs stands),<br />

né esiste tra loro differenza alcuna, se non quella dell’ufficio (ampt) proprio a ciascuno; come dice<br />

S. Paolo (1Cor 12), che noi siamo tutti un solo corpo, ma che ogni organo ha il suo compito<br />

(werck) particolare con cui essere utile agli altri; e ciò avviene perché tutti abbiamo uno stesso battesimo,<br />

uno stesso Vangelo, una stessa fede e siamo tutti cristiani allo stesso modo. Il battesimo, il<br />

Vangelo e la fede, infatti, ci fanno tutti spirituali (geystlich) e tutti cristiani. E la potestà ch’è del<br />

papa o del vescovo, cioè di ungere, ordinare, consacrare e vestirsi diversamente dai laici (leyen),<br />

può rendere uno fariseo o prete consacrato, giammai però serve a rendere uno cristiano o uomo<br />

spirituale (geystlichen menschen). Infatti tutti quanti siamo consacrati sacerdoti dal battesimo, come<br />

dice S. Pietro (1Pt 2,9): ‘Voi siete un sacerdozio regale ed un regno sacro’; e l’Apocalisse:<br />

‘Col tuo sangue ci hai fatti sacerdoti e re’ (Ap 1,6). Giacché, se non fosse in noi una consacrazione<br />

più alta di quella che ci dà il papa o il vescovo, giammai uno sarebbe fatto sacerdote con la sola<br />

consacrazione del papa o del vescovo, né potrebbe celebrare messa, predicare e assolvere» 33 .<br />

In questo testo il cardine su cui poggia tutta l’argomentazione è l’affermazione che ogni cristiano, in<br />

forza del battesimo, è membro a pieno diritto del popolo di Dio ed è geystlich, cioè spirituale-<br />

ecclesiastico 34 . L’autorità della Chiesa non può pretendere di porre una persona in uno stato che gli<br />

appartiene originariamente in forza del battesimo e non può neppure privare il battezzato della di-<br />

gnità e dei diritti che gli devono essere riconosciuti. L’attuale distinzione tra gli stati perciò equivale<br />

di fatto a un disconoscimento del valore del battesimo.<br />

Lutero non nega che, accanto alla fondamentale uguaglianza di tutti i cristiani, vi siano anche delle<br />

differenze. Tali differenze non riguardano però la dignità che spetta ai membri del popolo di Dio<br />

(geystlich stand), ma sono relative all’ufficio esercitato (des ampts odder wercks halben: WA 6,<br />

408, 28). L’attività di chi annuncia la parola non conferisce a questa persona una dignità maggiore<br />

rispetto a quella di chi fa l’artigiano, né si stabilisce alcun rapporto di subordinazione e di dominio,<br />

perché il senso del ministero è quello di essere a servizio degli altri. In particolare, per l’esercizio<br />

del ministero della predicazione e dell’amministrazione dei sacramenti, è necessario un mandato<br />

specifico (cfr. WA 6, 408, 11-17). La chiamata da parte della comunità all’esercizio di un ministero<br />

è dunque necessaria, ma non modifica lo stato spirituale di colui che è chiamato; è questa la ragione<br />

per cui Lutero rifiuta la dottrina medievale del charachter indelebilis 35 .<br />

33 Alla nobiltà cristiana…: WA 6, 407, 10-28; trad. it. in M. LUTERO, Scritti politici, (Torino: UTET, 1959 2 ) 130-131.<br />

34 Il termine geystlich letteralmente significa “spirituale”, ma è anche designazione corrente per i membri del clero ed è<br />

precisamente questa ambivalenza semantica che Lutero utilizza nella sua argomentazione.<br />

35 Lutero incontra il concetto di stato anzitutto nel suo significato giuridico: lo stato clericale e quello laicale differiscono<br />

tra di loro per le potestà che sono proprie del primo e mancano al secondo. Il concetto di stato ha però anche un significato<br />

sociologico: dal concetto giuridico si è infatti passati a ritenere che i due gruppi nella Chiesa costituiscano quasi<br />

due caste separate, due corpi a sé stanti. Lutero si oppone tanto al concetto giuridico di stato (riferito alla potestà),<br />

come a quello sociologico (che configura una casta sacerdotale) e a quello ascetico (proprio del monaco). Lutero assume<br />

invece un concetto teologico di stato, indicante la realtà ontologica, spirituale, interiore e soprannaturale, proveniente<br />

dalla ricezione del medesimo battesimo e dal possesso della stessa fede.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

La critica di Lutero non riguarda soltanto gli effetti che la distinzione rigida tra clero e laici deter-<br />

mina nella Chiesa, ma si rivolge anche contro la radice di questa concezione, cioè la teologia sacra-<br />

mentaria, che legittima questa distinzione affermando che il sacerdozio è conferito mediante l’ordi-<br />

nazione. Questo punto di vista è centrale nell’argomentazione sviluppata nella parte sull’Ordine del-<br />

lo scritto De captivitate babylonica ecclesiae praeludium, che si propone di verificare sulla base<br />

della Scrittura la dottrina romana dei sacramenti. È noto che la teologia medievale aveva definito il<br />

ministero ordinato a partire dal potere di consacrare l’eucaristia e, su tale base, si era stabilita una<br />

stretta connessione tra la concezione dell’eucaristia come sacrificio e il ministero inteso come sa-<br />

cerdozio finalizzato all’offerta del sacrificio. Lutero reagisce contro questa concezione e la critica<br />

sulla base della Scrittura, in primo luogo affermando che la Scrittura non utilizza il vocabolario sa-<br />

crificale per l’Eucaristia e quindi essa non è un sacrificio e il ministro di conseguenza non è un sa-<br />

crificatore; in secondo luogo precisando invece che la Chiesa è edificata dall’annuncio della parola<br />

di Dio e che quindi il ministero di coloro che sono chiamati a servizio della Parola è essenziale per<br />

la costituzione e la vita della Chiesa. In ogni caso il ministro è radicalmente eguale in dignità a qual-<br />

siasi battezzato, perché un’unzione corporea non può dare a un uomo un di più di sostanza spiritua-<br />

le, tale da conferirgli una dignità e una potestà superiore a quella dei laici. Tutti i cristiani infatti so-<br />

no unti dallo Spirito Santo nel battesimo ed è quindi il battesimo che rappresenta la consacrazione<br />

sacerdotale fondamentale. Il sacerdozio non può essere inteso come privilegio personale, che trova<br />

la sua espressione primaria nella preghiera corale e nella celebrazione delle messe private. L’unica<br />

distinzione legittima nella Chiesa è quella che è espressione di un ministero esercitato per la comu-<br />

nità, non può invece essere fondata su una differenza di potestà esistente prima ancora che vi sia<br />

l’esercizio di un concreto ministero. Una gerarchia autosufficiente, che non si dedica all’annuncio<br />

ma si basa soltanto sull’unzione sacerdotale, si trasforma infatti in struttura di dominio e in tirannia.<br />

Nel De captivitate babylonica si coglie con molta chiarezza la duplice linea argomentativa seguita<br />

da Lutero: contro la pretesa della superiorità dello stato clericale, la dottrina del sacerdozio univer-<br />

sale afferma l’uguaglianza di tutti i battezzati; contro una concezione del ministero ecclesiale come<br />

sacerdozio sacrificale, si afferma che esso non è definito correttamente con la categoria di sacerdo-<br />

tium, ma lo si deve concepire come ministerium verbi.<br />

La progressiva valorizzazione dell’uso neotestamentario della categoria di sacerdozio come norma<br />

per il linguaggio teologico, fino ad attribuirgli un valore normativo, corre parallela alla maturazione<br />

delle convinzioni teologiche fondamentali nei primi anni della sua attività accademica. Lutero in-<br />

contra il tema del sacerdozio in modo massiccio nelle lezioni sulla lettera agli Ebrei che tiene nel<br />

1517/1518. In questo contesto l’affermazione centrale è che Cristo è il nostro solo sacerdote, nel<br />

187


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

quale ha trovato compimento il sacerdozio dell’Antico Testamento; in lui possiamo dunque confida-<br />

re in vista del giudizio di Dio. Accanto a questo motivo cristologico si trova anche una esortazione<br />

all’imitazione: se Cristo è il sacerdote, al suo esempio deve ispirarsi la condotta dei sacerdoti; essi<br />

infatti non sono sacerdoti per sé ma per gli altri e devono avere per i fedeli la stessa cura che Cristo<br />

mostra per gli uomini 36 . Si può dunque osservare che la centralità del sacerdozio di Cristo è affer-<br />

mata, ma non è avvertita in contraddizione con l’attribuzione ai ministri della Chiesa della qualifica<br />

di sacerdoti. Si stabilisce anzi una relazione positiva tra sacerdozio di Cristo e ministri della Chiesa,<br />

che devono ispirarsi al suo esempio. Nel modo di descrivere la relazione con il sacerdozio di Cristo<br />

si può però notare già una chiara preferenza: tale relazione non è vista in termini ontologici, ma<br />

piuttosto operativi, non si basa su una unzione, ma sulla conformità a ciò che Cristo ha compiuto.<br />

Il tema del sacerdozio universale giunge alla sua maturazione negli scritti del 1520, dove il dato<br />

scoperto attraverso lo studio del Nuovo Testamento assume una nuova rilevanza nel contesto pole-<br />

mico. La regolazione del linguaggio teologico proposta nel Tractatus de libertate christiana (1520)<br />

rappresenta il punto di arrivo di questa progressiva valorizzazione del tema neotestamentario del sa-<br />

cerdozio: il sacerdotium definisce la condizione di tutti i battezzati, mentre il concetto di ministe-<br />

rium definisce coloro che sono chiamati al servizio della parola.<br />

In sintesi, la nozione di sacerdozio universale dei fedeli è una nozione complessa, nella quale si in-<br />

trecciano i seguenti elementi: a) davanti a Dio ogni cristiano ha la stessa dignità sacerdotale in forza<br />

del battesimo e della fede; b) reso partecipe dei beni di Cristo, il cristiano è sacerdote e non ha biso-<br />

gno di altro mediatore se non di Cristo per poter accedere a Dio; c) il sacerdozio dei fedeli abilita ed<br />

impegna a offrire sacrifici spirituali attraverso la personale mortificazione e il servizio della carità;<br />

d) in forza del sacerdozio ogni cristiano ha il compito di trasmettere il vangelo che ha ricevuto, così<br />

da permettere ad altri di credere. Si deve infine sottolineare che solo nell’ambito della communio<br />

sanctorum il sacerdozio universale dei fedeli è compreso adeguatamente e il suo esercizio è corretto.<br />

Non corrisponde invece al pensiero di Lutero la concezione del sacerdozio come un insieme di dirit-<br />

ti individuali spettanti alla persona considerata isolatamente.<br />

Per quanto riguarda il ministero (al singolare! si noti bene) e il suo fondamento occorre riconoscere<br />

che Lutero è passato attraverso a fasi diverse, anche in dipendenza dal mutare della situazione eccle-<br />

36 Scrive Lutero commentando Eb 2, 17: «Duo commendat in Christo, quae et in omni sacerdote exemplo Christi lucere<br />

debent, scl. ut sit misericors super populum et fidelis pro populo ad Deum. Per misericordiam enim debet exinanire seipsum<br />

et omnia subditorum mala facere sua nec alio effectu ea sentire, quam si ipse in illis versaretur. Per fidelitatem autem<br />

debet omnia bona sua impertiri illis» (WA 57, 136, 16).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

siale in cui la sua attività si esplica. Schematicamente si possono distinguere due impostazioni lega-<br />

te, la prima, alla polemica contro gli avversari romani e la loro concezione dell’autorità della Chiesa<br />

e la seconda, alla presa di distanza dall’ala radicale della Riforma e dalla relativizzazione da essa<br />

propugnata di tutti i mezzi esterni di salvezza. Negli scritti del periodo iniziale della Riforma preva-<br />

le una fondazione “ecclesiologica” del ministero. Egli afferma che la vita ecclesiale deve svolgersi<br />

in modo ordinato e quindi le funzioni che, in linea di principio, spettano a ciascuno dei membri del-<br />

la comunità devono essere compiute solo da chi è stato chiamato a esercitare pubblicamente il mini-<br />

stero. Successivamente Lutero, posto di fronte all’esigenza di dare un’organizzazione alle Chiese<br />

che avevano aderito alla Riforma, mette in risalto il fondamento cristologico e apostolico del mini-<br />

stero, il quale deriva dalla missione che Cristo ha affidato agli Apostoli ed è dotato di un’autorità<br />

che ha la sua origine dalla missione ricevuta. A questo mutamento di prospettiva corrisponde<br />

l’attribuzione del compito di selezionare i candidati al ministero e di ordinarli alle autorità centrali<br />

della Chiesa territoriale e non alla singola comunità locale. Se dunque nella prima fase il ministero<br />

tende ad essere considerato come rappresentante della comunità (an der Gemeinde statt), nella se-<br />

conda fase si trova in primo piano l’autorizzazione ricevuta da Cristo (an Christus statt). Oltre a<br />

questo aspetto, occorre ricordare che per Lutero c’è solo un ministero, che non prevede al suo inter-<br />

no gradi diversi; in altre parole non c’è alcuna differenza teologica (se non di diritto umano) tra ve-<br />

scovo e presbitero. Da ciò è conseguita una crisi nella forma episcopale di governo della Chiesa e<br />

l’interruzione della successione episcopale nell’ordinazione dei ministri. Questo in particolare anche<br />

perché egli dovette esperimentare che tutti i vescovi senza eccezioni impedivano l’attività dei predi-<br />

catori evangelici e si rifiutavano di ordinare coloro che avevano idee orientate nel senso della Ri-<br />

forma. Di fronte all’alternativa tra la fedeltà al messaggio scoperto e la conservazione della forma<br />

tradizionale di governo della Chiesa e di trasmissione del ministero, Lutero e gli altri Riformatori<br />

giudicarono decisiva l’apostolicità della dottrina e rinunciarono a un ministero inserito nella succes-<br />

sione episcopale. Per fare ciò si fondarono anche sull’opinione di Girolamo, secondo cui<br />

l’episcopato non differisce dal presbiterato dal punto di vista sacramentale. Ma ciò facendo, ci si<br />

concentrò sul pastore della comunità locale come figura principale e compiuta del ministero eccle-<br />

siale e sulla comunità locale come figura paradigmatica della Chiesa. In seguito le funzioni episco-<br />

pali vennero assunte dai “vescovi di emergenza” (Notbischöfe), ossia dai principi che si assunsero il<br />

compito di vigilare sulla realizzazione della Riforma nei loro territori e sul governo della Chiesa.<br />

È innegabile che la dottrina luterana del sacerdozio universale dei fedeli insieme a quella del mini-<br />

stero ecclesiale quale ministerium verbi introduce una novità rilevante rispetto alla concezione della<br />

Chiesa ereditata dal medioevo. Una teologia di ispirazione biblica, messa a servizio dell’intento di<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

riforma, porta infatti a prendere le distanze in modo deciso da una concezione del ministero eccle-<br />

siale imperniata sul sacerdozio e a superare la visione di ispirazione dionisiana che dominava<br />

l’<strong>ecclesiologia</strong> medievale e che poneva in primo piano la distinzione degli stati di vita e la relazione<br />

gerarchica esistente tra di essi 37 . L’attribuzione della qualifica sacerdotale a tutti i fedeli (e la conse-<br />

guente ridefinizione del ministero ecclesiale come «ministero della parola») non è però motivata<br />

soltanto dalla volontà di essere fedeli alle categorie bibliche; alla base sta la concezione luterana<br />

della giustificazione come unico elemento in grado di definire l’identità cristiana. Il tema del sacer-<br />

dozio rappresenta uno dei modi in cui Lutero descrive il risultato dell’azione della grazia divina ac-<br />

colta nella fede e permette di cogliere all’interno della teologia del Riformatore il punto di snodo tra<br />

l’antropologia e l’<strong>ecclesiologia</strong>.<br />

Se con la dottrina del sacerdozio universale dei fedeli Lutero opera una rottura rispetto alla tradizio-<br />

ne medievale, d’altra parte non si può negare che in questo modo egli abbia richiamato l’attenzione<br />

dell’<strong>ecclesiologia</strong> su elementi che hanno un fondamento biblico e sono attestati dalla Tradizione. In-<br />

fatti, nonostante l’unilateralità derivante dall’intento polemico della sua riflessione, egli ha sempre<br />

mantenuto la distinzione tra sacerdozio universale dei fedeli e ministero ecclesiale. Da questo punto<br />

di vista, i testi che sottolineano la responsabilità di tutti i membri della comunità per la parola di Dio<br />

e la conseguente responsabilità nella scelta dei pastori, possono essere visti come indicazione della<br />

convinzione, condivisa anche dall’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica, secondo cui tutti i battezzati sono soggetti<br />

della missione della Chiesa, la quale però si realizza secondo modalità diverse. Le tensioni presenti<br />

nel pensiero di Lutero tra l’accentuazione della responsabilità originaria della comunità in nome del<br />

sacerdozio universale e il riconoscimento del compito proprio dei pastori e dell’autorità ad essi spet-<br />

tante, pongono la questione circa il modo di articolare la missione di tutti i membri della Chiesa e la<br />

missione del ministero ordinato, una questione alla quale ogni <strong>ecclesiologia</strong> deve dare risposta.<br />

La dottrina luterana del sacerdozio universale, dunque, non equivale a una semplificazione in senso<br />

egualitaristico che eliminerebbe ogni distinzione all’interno della Chiesa; uguaglianza e distinzione<br />

sono invece collocate su piani distinti, quello della fondamentale identità cristiana e quello del mini-<br />

stero. L’elemento di distinzione si ritrova non solo nella relazione tra sacerdozio universale e mini-<br />

stero ordinato, ma anche nella considerazione della specifica condizione di vita che è propria di ogni<br />

battezzato. Sotto questo profilo è interessante l’evoluzione del concetto luterano di vocazione. Nella<br />

37 Sintomatica a questo proposito è la prospettiva assunta dai teologi controversisti nel confutare le tesi di Lutero circa il<br />

sacerdozio universale: la loro lettura dei dati biblici circa il sacerdozio e il ministero è condizionata in modo determinante<br />

dalla concezione dionisiana dell’ordine e della gerarchia.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

polemica contro i voti monastici, Lutero afferma che la vocazione monastica non può avanzare la<br />

pretesa di essere uno stato di salvezza privilegiato rispetto a quello degli altri cristiani 38 . In senso<br />

positivo invece egli valorizza la realtà secolare della professione (Beruf) attraverso cui il cristiano<br />

dà il suo contributo alla società ed esercita pure un dovere di carità. Anche in questo caso si può os-<br />

servare come la diversità non sia negata, ma sia collocata altrove, nell’ambito secolare, che è chia-<br />

ramente distinto da quello spirituale, ma non al punto da essere totalmente estraneo rispetto ad esso.<br />

d) La novità del peso teologico dato alla vocazione “profana” si coglie meglio se viene compresa al-<br />

la luce del tema più vasto (e complesso) dei due Regni. Le premesse remote indispensabili per com-<br />

prendere questa teoria, che struttura nel Luteranesimo il rapporto Chiesa/mondo, sono, da un lato, la<br />

crescita degli stati nazionali all’inizio del XVI secolo, che ha comportato il progressivo affievolirsi<br />

del potere papale 39 , dall’altro lato, il sentimento di estraneità nei confronti di Roma da parte di molti<br />

poteri civili — “Los von Rom” è un motto molto comune al tempo nei paesi germanici. Inoltre, la<br />

premessa prossima è costituita dall’atteggiamento di Lutero: egli da una parte, reagendo agli eccessi<br />

degli Schwärmer (= fanatici) — i quali avevano favorito un vero e proprio movimento iconoclastico<br />

di caccia ai preti (Pfaffensturm), di distruzione di immagini sacre… — più volte ribadisce che la Ri-<br />

forma sostiene la libertà, ma non la rivoluzione; d’altra parte, pure lui si trova nella necessità di af-<br />

frontare la questione del rapporto fra le due sfere o i due fori, il civile e l’ecclesiastico.<br />

In Lutero la teoria delle “due spade” diventa la teoria dei “due regni”. Causa immediata del ricorso<br />

di Lutero a tale teoria e alle sue immagini è la vicenda di Thomas Müntzer, secondo cui il principe<br />

era una figura teologicamente e politicamente irrilevante: se ogni sovranità è nelle mani del Cristo,<br />

allora i riformatori possono brandire la spada come novelli Gedeone contro il tiranno. Per Lutero,<br />

invece, la spada non poteva né doveva mai essere strumento di evangelizzazione. Egli, però, sapeva<br />

bene quale vantaggio poteva ricavare dall’appoggio della Ritterschaft (cavalleria) alla Riforma.<br />

Comincia così ad elaborare l’insegnamento dei due regni (o regimi) secondo cui la Chiesa non si i-<br />

dentifica col mondo, così come la sfera spirituale non si identifica con quella temporale. Con il suo<br />

Regiment, cioè con la sua obbedienza di fede all’ordinamento divino e quindi con il suo Vangelo e i<br />

suoi sacramenti, la Chiesa è nel mondo, mai dal medesimo separata e separabile. Attraverso il suo<br />

38 Cfr. De votis monasticis iudicium (1521), WA 8, 573-669.<br />

39 Bonifacio VIII e Giovanni XXII avevano preteso l’estensione del potere papale anche alla sfera temporale: in contrasto<br />

con la prassi e la dottrina consolidata, Bonifacio VIII aveva reinterpretato la teoria delle due spade, pretendendo che<br />

vi fosse una sola fonte di potere all’origine di tutti gli altri poteri, ed un solo capo, quello spirituale, che ne disponeva<br />

secondo la plenitudo potestatis. A queste teorie si contrapposero Marsilio da Padova e Gugliemo di Ockham, per i quali<br />

lo Stato ha nel popolo il suo legislator humanus ed ogni potere, anche ecclesiastico, ne dipende.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Regiment, lo spirituale scende nel temporale, ma non si fonde con esso. Essa è nel mondo, ma non<br />

del mondo: la Chiesa non è mai mondo, altrimenti non sarebbe Chiesa.<br />

Il punto di partenza della sua riflessione è la distinzione fra spirituale e temporale. Lo spirituale<br />

proviene e dipende dallo Spirito santo: perciò l’uomo spirituale non ha bisogno della legge, né del<br />

suo vindice, né di chi indichi o imponga le vie da seguire; egli giudica da sé e da nessuno viene giu-<br />

dicato (1Cor 2,15). In quanto spirituale non è soggetto alla legge né a chi la tutela con la spada e il<br />

diritto: per l’uomo spirituale l’unica guida e governo è la fede, cioè lo Spirito e la Parola 40 .<br />

Quindi c’è distinzione fra regno di Dio e regno temporale, ognuno dei quali obbedisce alla propria<br />

legge. Ma poiché entrambi provengono da Dio, non ci può essere antitesi fra loro: essi sono due di-<br />

stinte modulazioni del Regiment di Dio.<br />

Di fronte all’ordinamento papista, che riduce la Chiesa a regno e il papa a imperatore, trasformando<br />

così il vangelo in legge e riducendo la vita ecclesiastica a fatto puramente giuridico, Lutero distin-<br />

gue tra regno spirituale e regno temporale. Ma di fronte agli Schwärmer ribadisce invece che nean-<br />

che la legge è estranea a Dio ed egli continua a governare il mondo «in abscondito» servendosi non<br />

solo del Vangelo, ma anche degli ordinamenti mondani e della stessa spada. Quindi anche il regno<br />

temporale fa parte di un progetto divino: attraverso la mediazione dei governanti Dio si serve della<br />

spada per mantenere l’ordine creaturale, neutralizzando così l’efficacia devastante del peccato e le<br />

tendenze eversive che derivano. Essi però non possono intromettersi nell’ambito spirituale e dottri-<br />

nale, perché il regno di Dio è geystlich e quindi di esclusiva competenza ecclesiastica.<br />

Così tra i due regni non ci sono interferenze: anche se entrambi appartengono a Dio, ognuno ha un<br />

suo statuto ed un proprio ambito operativo. Con il Vangelo e il suo Spirito (e quindi non con il dirit-<br />

to canonico), Dio governa la Chiesa; con la legge e la spada governa il mondo. In effetti il mondo<br />

non è governabile con il solo Vangelo e così la spada è quasi una fatalità: come potrebbe, infatti, il<br />

cristiano combattere i Turchi se non opponendo la spada alla scimitarra?<br />

Il cristiano, però, non impugna le armi e combatte in quanto cristiano, ma in quanto soggetto<br />

all’autorità temporale; come cristiano, invece, oppone ai nemici soltanto preghiere e penitenza. E<br />

nel caso dovesse cadere prigioniero, rispetta l’autorità del suo vincitore — fa eccezione solo il caso<br />

in cui venisse costretto a combattere il vangelo o a perseguitare i cristiani.<br />

40 Di conseguenza non c’è alcuna realtà esteriore, pure ecclesiastica, che per se stessa abbia un valore “teologico”, anche<br />

se è di “istituzione divina”. L’apostolicità non è questione di “locus”…, perché solo la Parola è l’elemento apostolico. In<br />

fondo la Riforma è stata una rivolta contro la dimensione istituzionale dell’apostolicità, ritenuta derogatoria e offensiva<br />

nei confronti della sovranità di Dio. La logica dominante non è quella “apostolica”, ma quella “profetica” (Congar).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Il principe ha quindi l’obbligo, in quanto signore locale, di affrontare i nemici e di non ritirarsi dalla<br />

guerra per la difesa dei suoi sudditi. Si noti bene: i suoi sudditi, non la Chiesa o la fede. Egli, infatti,<br />

non è il capo della cristianità né il protettore del Vangelo. Questa è la ragione per cui al regno tem-<br />

porale non si deve chiedere nulla che esuli dal campo del secolo.<br />

Sullo sfondo di tale riflessione scorgiamo la consapevolezza acuta della presenza ed efficacia del<br />

peccato nel cristiano anche dopo il battesimo. Come il cristiano resta «simul» cittadino e battezzato,<br />

peccatore e giusto, così egli deve assoggettarsi alla legge e al vangelo, al regno temporale e al quello<br />

spirituale. Ma in questa simultaneità sta pure la ragione delle conseguenze pratiche che ne derivano:<br />

l’assoggettamento alla legge e al vangelo, al regno temporale e simul a quello spirituale.<br />

L’ineludibile presenza del peccato rende inevitabile la spada e il suo esercizio. Il cristiano, invero, è<br />

governato dalla parola, guidato dallo Spirito, nutrito dal Vangelo di fede e grazia; ma è peccatore,<br />

cioè ripiegato su se stesso, adoratore di sé… come tale soggetto alla giurisdizione dell’autorità civi-<br />

le, la quale non interviene per esautorare la Chiesa, ma per ovviare agli effetti nefasti del peccato,<br />

cioè per ristabilire l’ordine e la pace, per fronteggiare chi delinque e per tutelare i buoni. Se infatti il<br />

peccato non ci fosse, non ci sarebbe bisogno né della spada né del diritto.<br />

Il regno spirituale, che è privo di spada, invece, perviene al suo scopo non coercitivamente, bensì<br />

suasivamente. Il cristiano, in tal modo, è «subjectus Caesari per corpus», ma «subiectus Christo per<br />

fidem». Su tale differenza Lutero fonda il diritto alla resistenza non tanto contro il regno temporale,<br />

quanto contro il principe che governi con pregiudizio per la giustizia.<br />

Il cristiano è cittadino del regno temporale per la sua nascita, è invece cittadino di quello spirituale<br />

per la fede in Cristo. Peraltro egli deve far valere la sua libertà non solo nel regno spirituale, ma an-<br />

che in quello temporale. In particolare egli deve essere libero dai beni di questo mondo e dai suoi<br />

condizionamenti: anche quando è soggetto all’autorità del principe, è guidato dalla libertà e dal-<br />

l’amore. Per Lutero il superamento dei precetti nei consigli non è un ideale semplicemente monasti-<br />

co, ma di tutti coloro che sono al seguito e al servizio di Cristo.<br />

La dottrina dei due regimi ha contribuito non poco a riconoscere l’autonomia dell’agire politico-<br />

sociale nei confronti del Vangelo e il carattere secolare delle istituzioni del mondo. In ciò la rifles-<br />

sione di Lutero e più in generale l’esperienza del Protestantesimo si presenta da un lato come fattore<br />

accelerante la rottura del tradizionale schema cristiano quale si era espresso nella cristianità e,<br />

d’altro lato, come un processo di estensione alla struttura interna della organizzazione religiosa del<br />

principio di autonomia della società secolare dalla Chiesa o dal religioso-ecclesiastico.<br />

Il Protestantesimo ha indubbiamente accelerato il processo di degerarchizzazione. A parte la possi-<br />

bile solidarietà fra l’ascetismo contemplativo del monaco e l’ascetismo intramondano del-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

l’imprenditore, la Riforma, interpretando e valorizzando l’autonomia dell’individuo rispetto alla sua<br />

comunità di appartenenza, abbandona la visione integrativa dei rapporti fra il regno spirituale e il<br />

regno temporale per prospettare una visione tendenzialmente dualistica della realtà. Non soltanto<br />

Dio è Altro, e l’uomo può rapportarsi a Lui solo riconoscendo ciò che da Lui lo separa (e cioè la sua<br />

totale «caducità» di fronte alla maestà del Dio trascendente); ma anche il mondo è altro, luogo<br />

dell’impegno trasformativo dell’uomo da attuare nella serietà del dovere e della responsabilità, ep-<br />

pure luogo in qualche modo esteriore all’uomo, il cui operare non ha nulla a che vedere con il crede-<br />

re. Anche la Chiesa è esteriore: essa è «l’assemblea di tutti i credenti» (Confessione di Augusta,<br />

1530), o la «compagnia dei fedeli» (Confessione di La Rochelle, 1559) che si costituisce in forza<br />

della sola iniziativa di Dio: luogo necessario e obbligato per il cristiano in quanto lì impara, come in<br />

una scuola, ad essere cristiano, ma non luogo della fede e della santificazione e meno ancora istitu-<br />

zione di salvezza (la Chiesa empirica come tale è carnale… e non certo il corpo di Cristo!). In quan-<br />

to organizzazione ecclesiale, essa è, in fondo, un affare secolare; perciò appartiene al principe, che<br />

in quanto capo del popolo cristiano, è per ciò stesso il capo della Chiesa (esteriore).<br />

È indubbio che la Riforma aumentò la tensione fra l’ideale cristiano e la realtà del mondo proprio<br />

per il fatto che le vocazioni secolari furono poste su un piano di uguaglianza morale rispetto alla vi-<br />

ta religiosa: una tensione che va ben al di là di tale uguaglianza, stimolando la fede ad essere più in-<br />

teriore, più consapevole e più libera, ma rendendola più inquieta, più incerta, più indeterminata e,<br />

alla fine, rischiosamente soggetta o esposta al potere politico o alle circostanze storiche.<br />

È pure indubbio che la Riforma ha contribuito notevolmente alla diffusione della responsabilità e<br />

della partecipazione religiosa dei laici, attribuendo un nuovo e positivo valore religioso alla vita se-<br />

colare e familiarizzando vasti strati di laici con la Bibbia. Resta però in sospeso il senso di tale valo-<br />

rizzazione «religiosa» della vita secolare, posto che i rapporti sociali e le istituzioni, tra cui la stessa<br />

famiglia, sono in qualche modo estranei alla «religione», sottratti cioè alla legge del vangelo e asso-<br />

lutamente non perfettibili secondo la giustizia cristiana, ma solo secondo il «giusto» civile che non<br />

può riferirsi alla giustizia di Dio e quindi non giustifica di fronte a Dio. Pure fluido, e alla fine u-<br />

gualmente in sospeso, è il problema del rapporto tra i ministri e i laici. Non si possono dimenticare<br />

inoltre alcune incongruenze: il potere politico viene considerato, contro gli anabattisti (per Bucer e<br />

Calvino anche contro la rigida separazione di Lutero dei due regni), come un vero e proprio ministe-<br />

ro-magistero, prolungando una cristianità ormai desueta e dando origine al principio della Chiesa di<br />

Stato; gli «anziani», nella tradizione calvinista, sono contemporaneamente «laici» e «ministri» e i<br />

diaconi, voluti come un «ordine» da Lutero, diventano presto degli impiegati municipali; la comuni-<br />

tà ecclesiale appare poi costantemente divaricata fra la guida del pastore e la teologia dei teologi.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

e) Dall’insieme di questi tratti si può cogliere anche una precisa immagine di Chiesa. Notiamo che<br />

Lutero non amava la parola Kirche (= Chiesa), perché a suo dire per la gente semplice designava<br />

l’edificio di culto. Preferisce quindi esprimersi «in buon tedesco» ed affermare: «una comunità<br />

(Gemein[d]e) o riunione cristiana, o meglio ancora e nel modo più chiaro una cristianità santa» 41 .<br />

Ma questa congregatio, questo «santo popolo cristiano che crede in Cristo» («Von den Konziliis und<br />

Kirchen»: WA 50, 624, 29) non è il risultato di una libera associazione umana, bensì «creatura ver-<br />

bi». Vangelo, battesimo e pane sono i suoi segni di riconoscimento, e il vangelo — proclamato — è<br />

più importante di tutti 42 . Lutero può quindi dire che: «Tota vita et substantia ecclesiae est in verbo<br />

Dei, cum ecclesia verbo Dei nascatur, alatur, servetur et roboretur» (WA 7, 721). La Parola è lo<br />

strumento con cui lo Spirito santo si raccoglie un popolo santo, perché essa è santa e santifica.<br />

Dando maggior importanza ai credenti (congregatio fidelium) che alla dimensione istituzionale (in-<br />

stitutio salutaris), sostenendo che la Chiesa si realizza lì dove la Parola e i sacramenti sono posti in<br />

atto e non prevedendo un ordinamento ministeriale superiore al pastorato, ne consegue che per Lute-<br />

ro la realizzazione paradigmatica della Chiesa si attua a livello locale. Perciò egli ascrive alla singo-<br />

la comunità la capacità di giudicare e di decidere senza bisogno di ricorrere ad un’istanza superiore<br />

(cfr. il breve scritto del 1523: Che una assemblea o comunità cristiana ha il diritto e il potere di<br />

giudicare tutte le dottrine, di nominare, istituire e deporre tutti i dottori (WA 11, 408-416).<br />

Lutero, inoltre, insegna che la Chiesa è una realtà “nascosta”. Essa è infatti una realtà spirituale, ac-<br />

cessibile solo alla fede — è «un articolo della fede»: WA 50, 629,19; «est autem talis congregatio<br />

Ecclesia, quam nisi Spiritus sanctus revelavit, humana ratio non potest apprehendere» WA 39, II,<br />

148, 21. D’altra parte, essa è nascosta anche perché durante il suo pellegrinaggio terreno è inestrica-<br />

bilmente unita alla falsa Chiesa (WA 51, 477, 30) — infatti i papisti sono certamente «nella Chie-<br />

sa», ma non «della Chiesa o membri della Chiesa» (WA 505, 27, 30).<br />

Essa però non è una realtà evanescente: la Chiesa non è soltanto una realtà «interiore», è anche «e-<br />

steriore»; non è solo «spirituale», è anche «corporea» e «materiale». Essa partecipa profondamente<br />

della condizione del Verbo incarnato, il quale rivela Dio sub contrario. Nel Cristo umiliato e scher-<br />

nito Dio rivela la sua potenza sotto l’apparenza dell’estrema debolezza; in lui, la stoltezza di Dio, si<br />

rivela la sapienza di Dio; in lui, abbandonato alla morte, Dio rivela e nasconde la sua vittoria defini-<br />

tiva sul peccato e sulla morte. La chiesa, intesa come la comunità-comunione di tutti coloro che per<br />

41 Grande Catechismo, II, 3. articolo, in: BSLK, 656.<br />

42 In «Wider Hans Worst» i segni esterni sono più numerosi: Parola, Battesimo, Sacramento dell’altare, chiavi, ministero<br />

ecclesiale, preghiera, croce, confessione, rispetto dell’autorità, matrimonio (WA 51, 482, 17ss).<br />

195


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

la fede in Cristo sono giustificati (cioè, partecipano della redenzione da lui operata), prolunga nel<br />

mondo l’incarnazione del Verbo, riflettendo in tutto e per tutto il destino di Cristo. L’incarnazione<br />

del Verbo, compresa alla luce della theologia crucis, è perciò la premessa tematica e per così dire<br />

l’ambiente entro cui soltanto diventa comprensibile la realtà della chiesa in Lutero. L’incarnazione e<br />

la redenzione costituiscono un ephapax che ha però una sua continuità nella chiesa, in particolare<br />

nella predicazione della Parola e nei sacramenti. Nella sua connessione col Verbum (increatum et<br />

incarnatum et vocale) la chiesa si configura come «creatura Verbi et Spiritus sancti».<br />

Una buona sintesi della concezione luterana della Chiesa si ha nella Confessio Augustana (CA VII):<br />

«Allo stesso modo insegnano che la Chiesa una e santa sussisterà in perpetuo. Invero la Chiesa è<br />

l’assemblea dei santi (congregatio sanctorum) nella quale si insegna l’Evangelo nella sua purezza (pure<br />

docetur) e si amministrano correttamente (recte administrantur) i sacramenti. E per la vera unità<br />

della Chiesa è sufficiente l’accordo sull’insegnamento dell’Evangelo e sull’amministrazione dei sacramenti.<br />

L’unità non esige che si tengano ovunque le medesime cerimonie, istituite dagli uomini» 43 .<br />

È facile scorgere come la determinazione fondamentale della Chiesa sta nel riconoscimento che<br />

questa è una realtà permanente nella storia intera, una comunione dei fedeli, o dei santi. La Chiesa<br />

viene sufficientemente costituita, e lo è nella sua essenza, nella sua unità e nella sua attualità, dalla<br />

parola e dal sacramento. Questo servizio viene affidato al ministero ecclesiale (CA 5) che appartie-<br />

ne ai segni esterni della Chiesa ed è un suo elemento costitutivo, in quanto Dio e il Cristo lo hanno<br />

costituito mediante la missione affidata agli Apostoli perché eserciti l’annuncio pubblico del Vange-<br />

lo e l’amministrazione dei sacramenti conformemente alla loro istituzione. Esso è affidato pubbli-<br />

camente dalla Chiesa e non può essere assunto per iniziativa personale (CA 14); ha gradi diversi,<br />

anche se di diritto umano. Pertanto si vuole conservare il ministero episcopale (CA 28), il cui potere<br />

delle chiavi consiste appunto nel rendere un servizio alla parola e al sacramento. Espressamente si<br />

respinge la contaminazione del potere spirituale con quello terreno, si rifiuta la teoria delle due spa-<br />

de, si pone una chiara distinzione tra i due «regni», governi e autorità, e si mira così ad una decisa<br />

separazione tra imperium ed ecclesia. Inoltre si afferma che entrambi i ruoli ed autorità, in quanto<br />

massimi doni di Dio su questa terra devono essere tenuti in onore. Se i vescovi esercitano, o eserci-<br />

tavano una autorità terrena, questa deriva loro dai diritti degli imperatori e dei re — il contrario di<br />

ciò che pretendeva Bonifacio VIII. Con questa immagine di Chiesa, i riformatori non intendevano<br />

porsi al di fuori dell’antica Chiesa, ma piuttosto realizzare tali tratti nella compagine ecclesiale esi-<br />

stente e quindi assolvere l’impegno del rinnovamento procedendo dall’origine, dal nucleo e dal dato<br />

43 Confessio Augustana (versione tedesca), 1530, art. VII (BSLK, 61).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

principale: la Chiesa cristiana non consiste semplicemente in una comunione di cose e di segni este-<br />

riori, ma è innanzitutto una comunione della fede e dello Spirito santo nel cuore dei fedeli. Essa è il<br />

corpo di Cristo, che Cristo rinnova, santifica e governa col suo Spirito.<br />

«La Chiesa però non è una società costituita solo di segni e di riti esterni come le altre, ma è principalmente<br />

comunione interiore dei beni eterni nel cuore, dello Spirito Santo, della fede, del timore e<br />

dell’amore di Dio. La stessa Chiesa tuttavia ha dei segni esterni, dai quali la si riconosce, cioè dove la<br />

parola di Dio è annunciata rettamente e i sacramenti sono amministrati conformemente alla stessa parola,<br />

là vi sono i cristiani e la stessa Chiesa viene chiamata nella Scrittura Corpo di Cristo» 44 .<br />

Durante la lotta contro gli Schwärmer, Lutero si occupò anche del problema del governo della Chie-<br />

sa. Giunse alla soluzione, ritenuta provvisoria, che l’autorità secolare, cristiana, la quale avesse pro-<br />

fessato una fede secondo i princìpi della Riforma, dovesse assumere anche il governo dell’apparato<br />

esteriore della Chiesa, e che i signori territoriali, in quanto membri ragguardevoli della Chiesa, do-<br />

vessero garantire la cura religionis in qualità di «vescovi provvisori». Questa disciplina trovò la sua<br />

ultima e preoccupante articolazione nella pace religiosa di Augusta (1555): «cuius regio, eius reli-<br />

gio», o nella dizione originaria: «ubi unus Dominus, ibi una sit religio». Si tratta di una regola che<br />

doveva instaurare una disciplina tra le diverse confessioni di fede presenti nelle regioni dell’impero,<br />

ma che non poteva certo soddisfare le esigenze di libertà di coscienza cristiana.<br />

f) Con la concezione di fondo luterana della Chiesa concordano anche gli altri riformatori, special-<br />

mente Giovanni Calvino (1509-1564). Egli, appartenendo alla seconda generazione di riformatori,<br />

presenta, anche nella dottrina ecclesiologica, molti punti di contatto col pensiero di Lutero e giunge<br />

a una sintesi personale, rivelandosi miglior organizzatore di comunità rispetto al teologo sassone. I<br />

presupposti teologici operanti in Calvino sono i seguenti.<br />

(1) La concezione di Dio, in cui la trascendenza è identificata con l’insuperabile distanza e la libertà<br />

con l’arbitrarietà (nominalismo); la «giustificazione» per la misericordia di Dio, senza che l’uomo<br />

sia reso buono in sé, è la legge del rapporto tra il Creatore e la creatura; il «soli Deo gloria» non è<br />

mero principio morale, ma metafisico, in quanto esprime l’essere di Dio nella sua esclusività 45 .<br />

(2) La dottrina della Provvidenza e della predestinazione. Calvino rifiuta il concetto di «provviden-<br />

za universale» per salvaguardare la trascendenza di Dio; l’uomo deve sottomettersi alla sovranità<br />

assoluta (= arbitraria) di Dio, anche se appare ingiusta; da qui una duplice «predestinazione» come<br />

atto della volontà divina che determina coloro che si salvano e coloro che si dannano: «praedesti-<br />

44 Apologia Confessionis (versione tedesca), 1531, art. VII (BSLK, 234s).<br />

45 CONGAR, Calvin, in Catholicisme II (Paris 1949) col. 413ss.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

nationem vocamus aeternum Dei decretum, quod apud se constitutum habuit quid de uno quoque<br />

homine fieri vellet. Non enim pari conditione creantur omnes: sed aliis vita aeterna, aliis damnatio<br />

aeterna praeordinatur» 46 .<br />

(3) Si tratta della predestinazione di un popolo, di cui l’elezione è il momento intradivino, la voca-<br />

zione ne è la realizzazione nella storia; tale elezione/vocazione si realizza attraverso la predicazione<br />

del vangelo e l’illuminazione dello Spirito; pur essendo predicato a tutti, pochi possono salvarsi, il<br />

che è segno della gratuità della salvezza; la predestinazione vista nella volontà di Dio e nella volon-<br />

tà (colpevole) dell’uomo è considerata da Calvino innanzitutto nel Cristo; Dio elegge l’uomo in Cri-<br />

sto, Dio vuole salvi coloro che sono chiamati, coloro che sono stati illuminati dal Cristo e dal Cristo<br />

sono stati introdotti nella Chiesa.<br />

Da qui, con l’aggiunta di un certo biblicismo, è possibile scorgere gli elementi essenziali del-<br />

l’<strong>ecclesiologia</strong> del riformatore svizzero e del suo seguito.<br />

(1) La Chiesa nata dalla Parola e luogo della Parola: il rapporto Parola/Chiesa è fondamentale: il<br />

popolo di Dio — la Chiesa — ha fondamento, nascita e vita dalla volontà di Dio di farsi conoscere e<br />

accogliere (l’elezione/chiamata del popolo precede quella dell’individuo); l’azione della Parola che<br />

fonda la Chiesa è vista istituzionalizzata nella predicazione, pertanto egli intende la comunità come<br />

visibilizzazione della volontà salvifica di Dio, la quale è però più ampia (in quanto la predicazione è<br />

soltanto il mezzo ordinario). La forma visibile di questa Parola — la predicazione del Cristo testi-<br />

moniata dalla predicazione apostolica — è proseguita nel ministero stesso della predicazione, è luo-<br />

go e strumento in cui Dio continua oggi a fondare la sua Chiesa e a darle efficacia (fin dalla prima<br />

edizione dell’Istituzione, la dottrina ecclesiologica è cristocentrica e organica). Calvino chiama<br />

«Chiesa» gli uomini eletti, e anche gli uomini radunati ad accogliere la Parola; si tratta di due accen-<br />

tuazioni diverse: la prima è basata sull’atto trascendente e inconoscibile di Dio, la seconda basata<br />

sugli uomini radunati dalla Parola. Inoltre Calvino chiama «Chiesa» i mezzi di salvezza coi quali<br />

Dio ha deciso di radunare i suoi.<br />

(2) Chiesa visibile e Chiesa invisibile: per Calvino l’elezione divina è segreta e passa attraverso due<br />

fasi: la vocazione generale e la vocazione speciale. La vocazione generale è vera offerta di grazia,<br />

ma tra coloro che sono chiamati, Dio sceglie alcuni nei quali questa chiamata diventa efficace: vo-<br />

cazione speciale. La vocazione generale è l’elezione a essere popolo di Dio, a essere Chiesa (visibi-<br />

le), mentre la vocazione speciale è elezione a essere, nel suo popolo, il gruppo di coloro che appar-<br />

46 Christianae religionis Institutio III, 21, 5.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

tengono al Cristo, nei quali l’elezione diviene efficace (Chiesa invisibile). Secondo questa visione vi<br />

sono tre gruppi di persone: a. gli uomini non eletti: i dannati; b. uomini a cui è rivolta la predicazio-<br />

ne e offerta la salvezza, ma non efficacemente: anch’essi dannati; c. uomini chiamati ed eletti: i sal-<br />

vati; questi ultimi costituiscono, nella Chiesa (visibile), un piccolo gruppo (Chiesa invisibile). Non<br />

vi sono due chiese, ma un’unica Chiesa spirituale nella Chiesa visibile, quella visibile non è separa-<br />

bile da quella invisibile, anzi: le è indispensabile per la salvezza. Sappiamo così dov’è la Chiesa in-<br />

visibile («Ovunque riscontriamo la Parola di Dio essere predicata con purezza e ascoltata, i sacra-<br />

menti essere amministrati secondo l’istituzione di Cristo, non deve sussistere alcun dubbio che quivi<br />

sia la Chiesa»), ma non possiamo sapere chi ne fa parte («Solo Cristo conosce i suoi») 47 .<br />

(3) La Chiesa «corpo di Cristo»: per Calvino la Chiesa è «corpo di Cristo», egli intende l’unione<br />

cristiani/Cristo di «natura incomprensibile», una «mystica unio» e chiama Gesù Cristo «nostro capo<br />

e primogenito di molti fratelli». Commentando Rm 12, Calvino chiama «corpo di Cristo» i fedeli<br />

nella comunità, dove ognuno ha un suo dono e ruolo. La Chiesa si presenta quindi visibilmente co-<br />

me comunione di doni e di ministeri. Ma queste espressioni («corpo di Cristo», «inserimento in Cri-<br />

sto», «corpo della Chiesa») vogliono dire, per Calvino, la stessa cosa soltanto quando si tratta della<br />

Chiesa invisibile, quella dei predestinati.<br />

(4) I limiti della Chiesa: nel suo Catechismo, Calvino vede i limiti della Chiesa nei suoi rapporti con<br />

il Regno di Dio: la Chiesa annuncia il Regno, ma essa non è il Regno. La Chiesa è limitata non solo<br />

dal Regno a venire di Dio, ma anche dal Regno presente di Cristo. La Chiesa è limitata anche dallo<br />

Stato (che, secondo Rm 13, è di istituzione divina). Ne conseguono alcune condizioni di vita della<br />

Chiesa: il suo «governo» spetta unicamente a Cristo, il suo compito specifico non consiste nel dire<br />

qual è la vera filosofia o politica, bensì essere la custode dell’interesse vitale del mondo, compiendo<br />

così il ruolo specifico donatole da Dio.<br />

(5) L’ordinamento della Chiesa è determinato da una struttura che si articola secondo quattro mini-<br />

steri: pastori, dottori, diaconi, anziani. A differenza della riforma luterana in Calvino il ministero<br />

ecclesiale assume un’importanza decisiva nell’assicurare lo spazio in cui l’annuncio del Vangelo<br />

possa compiersi in modo debito e l’intera vita dei credenti si svolga in obbedienza alla volontà di<br />

Dio. In questo modo la competenza e l’autorità del ministero ecclesiale tendono a dilatarsi al di là<br />

dell’ambito della predicazione e dei sacramenti per comprendere l’insieme della vita della comunità<br />

sottoposta all’esercizio della disciplina ecclesiale.<br />

47 Christianae religionis Institutio IV, 1, 9.<br />

199


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Lo schema ecclesiologico calvinista sembra più chiaro e completo rispetto a quello luterano: meno<br />

‘medievale’ di Lutero, meno realista nelle sue posizioni sacramentarie, Calvino fonda certamente<br />

meglio il valore cristiano e la consistenza propria dell’ordine visibile della Chiesa. Inoltre, egli è sta-<br />

to più di Lutero un organizzatore di Chiesa.<br />

Di fronte alla Tradizione cattolica, sia orientale sia latina, rimane però una grave questione, che esi-<br />

ge una risposta senza ambiguità. «Si tratta di sapere se si prende sul serio l’unione al Cristo storico<br />

come causa di salvezza per gli uomini […]. Il protestantesimo è costantemente incline ad attribuire<br />

al cristianesimo uno stato profetico, che comporta cioè degli atti di Dio che, per rimanere veramente<br />

di Dio e liberi, siano privi di nesso con le operazioni umane ed ecclesiali» 48 .<br />

g) Nessun avvenimento nel corso della storia ha provocato la cristianità nel suo insieme più della<br />

Riforma. Come risultato finale abbiamo delle Chiese separate in confessioni, che contrapponevano<br />

altare ad altare e che credevano di poter realizzare soltanto in questo modo ciò che stava loro a cuo-<br />

re: il rinnovamento della Chiesa secondo la sua origine, natura, vocazione ed immagine vera. Tale<br />

conclusione contrasta apertamente contro i propositi iniziali. Non si fu in grado di conciliare i moti<br />

impetuosi e contrari originati dalla Riforma e di integrarli in un insieme più vasto. Da quello che<br />

all’inizio sembrava provvisorio si passò ad uno status; ciò che aveva un carattere regolativo assunse<br />

un tratto costitutivo. Ne derivarono le confessioni, separate nel dato di fede cristiana.<br />

La prima conseguenza fu che ogni confessione si caratterizzava proprio in ciò che la differenziava<br />

dall’altra. Una confessione era la negazione dell’altra.<br />

Questo condusse ad una seconda conseguenza, cioè che i tratti comuni presenti nelle diverse confes-<br />

sioni, non emersero più sufficientemente a livello di coscienza, ma vennero sempre più repressi.<br />

Cattolico non poteva più significare riformatore, né riformatore cattolico.<br />

In questa situazione il reciproco accostamento era caratterizzato dall’asprezza e dalla polemica,<br />

dall’ostilità oggettiva e personale, o almeno dalla controversia. Ciò però significò pure che si inse-<br />

gnava e si imparava il catechismo l’uno contro l’altro, che i contrasti venivano acutizzati, il più pos-<br />

sibile ingigantiti, al fine di articolare — come si diceva — la verità nei termini più chiari e così mo-<br />

tivare il diritto, l’obbligo e la necessità della separazione.<br />

Una terza conseguenza, forse la più radicale, sta nella comprensione “sacramentale” della chiesa,<br />

ossia nel ruolo che essa proprio in quanto istituzione svolge nella comunicazione della salvezza<br />

(non a caso questa differenza emerge in modo evidente nella diversa comprensione del ministero<br />

48 Y. CONGAR, Vera e falsa riforma nella Chiesa (Milano: Jaca Book, 1994 2 ) 332-333.<br />

200


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

ordinato e del significato che ad esso spetta nella celebrazione dei sacramenti): semplificando un<br />

po’ i termini si potrebbe dire che la teologia protestante in genere, mentre accetta che il sacramento<br />

e la realtà istituzionale della Chiesa siano un segno della grazia, tende a problematizzare la loro fun-<br />

zione di strumento effettivo della comunicazione della grazia: ciò recherebbe pregiudizio alla tra-<br />

scendenza e alla libertà di Dio e l’uomo diverrebbe “padrone” di Dio e della sua parola. “Frutto di<br />

salvezza” e “mezzo di salvezza” tendono a separarsi irrimediabilmente, per non correre il pericolo<br />

di dimenticare il carattere totalmente divino, gratuito e incondizionato del dono della salvezza e di<br />

vincolare la comunicazione di questo dono a mediazioni e condizioni inaccettabili. L’elemento di-<br />

scriminante di per sé quindi non è tanto il fatto che la Chiesa sia strumento nella comunicazione del-<br />

la salvezza, ma la natura di tale strumentalità. La tradizione cattolica accentua il carattere attivo del-<br />

la strumentalità ecclesiale, così che ad es. Karl Rahner può affermare che la Chiesa «attua se stessa»<br />

nella celebrazione dei sacramenti. La teologia evangelica invece può riconoscere una strumentalità<br />

della chiesa nell’annuncio della Parola e nella celebrazione dei sacramenti, ma, alla luce della dot-<br />

trina della giustificazione per la fede, le attribuisce un carattere passivo 49 .<br />

Una quarta conseguenza emerge dal confrontarsi di due posizioni ecclesiologiche di fondo sul rap-<br />

porto Scrittura e Chiesa. La norma della fede dei fedeli è la tradizione o la testimonianza della<br />

Chiesa, di cui il corpo episcopale è il custode, tradizione e testimonianza che si riferiscono al testo<br />

fondamentale e normativo delle Sacre Scritture, oppure questa norma è l’interpretazione diretta e<br />

personale di un testo che si potrebbe conservare e leggere al di fuori della tradizione della Chiesa?<br />

Se così fosse, ognuno potrebbe, come Lutero, senza missione e motu proprio, autonominarsi predi-<br />

catore di una nuova dottrina. Come Johann Adam Möhler noterà, non esiste fondatore di sette (o e-<br />

retico) che non abbia avuto la pretesa di giustificare la sua posizione coi testi della Bibbia. «Perciò<br />

l’appello alla Scrittura è necessariamente un appello a una certa lettura o interpretazione della Scrit-<br />

tura, e dunque, finalmente, un appello ai dottori» 50 .<br />

49 ANDRÉ BIRMELÉ individua qui la differenza fondamentale tra l’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica e quella protestante: «Alla scoperta<br />

riformatrice della giustificazione per la sola fede corrisponde nell’<strong>ecclesiologia</strong> che solo il Vangelo predicato (e<br />

non la Chiesa) dà al credente certezza di salvezza. La Chiesa e il suo ministero non hanno alcuna funzione mediatrice<br />

(Vermittlung) che superi la semplice comunicazione (Mitteilung) del Vangelo liberatore. L’<strong>ecclesiologia</strong> luterana contemporanea<br />

è, su questo punto, erede fedele della teologia del Riformatore… L’affermazione della giustificazione per la<br />

sola fede nella teologia luterana ha come corollario necessario l’affermazione di una strumentalità soteriologicamente<br />

passiva della Chiesa»: A. BIRMELÉ, Le salut en Jésus Christ dans les dialogues oecuméniques (Paris – Genève: Cerf –<br />

Labor et Fides, 1986) 246.250.<br />

50 CONGAR, Vera e falsa riforma nella Chiesa, op. cit., 394-395; cfr. J.A. MÖHLER, Simbolica (Milano 1984) §§ 39.42.<br />

201


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

2.3.3. L’<strong>ecclesiologia</strong> polemica e apologetica della Controriforma<br />

a) Questo stato di cose provocò nella Chiesa cattolica una risposta e reazione: la controriforma e il<br />

rinnovamento cattolico.<br />

Bisognerebbe scrivere la storia, illustrare il decorso e i risultati del concilio di Trento (1545-1563),<br />

il quale venne troppo tardi e quindi non fu più in grado di arrestare la separazione, ma soltanto di<br />

registrarla e di opporre una chiara e distanziata risposta cattolica ai novatores. Il concilio si era pre-<br />

fisso come compito quello di «debellare gli errori e conservare la purezza del vangelo» (DzH 1501).<br />

Nelle sue sessioni non affrontò, in un trattato, il tema della Chiesa — il papato temeva troppo rigur-<br />

giti di conciliarismo per metterlo all’ordine del giorno —, tuttavia discusse alcune tematiche impor-<br />

tanti per l’<strong>ecclesiologia</strong>: il problema dei rapporti fra Scrittura e Tradizione; il problema della Scrit-<br />

tura nella Chiesa in riferimento all’interpretazione della Bibbia ed all’individuazione del senso scrit-<br />

turistico; la dottrina della giustificazione nelle sue diverse implicazioni: santificazione, fede, opere,<br />

merito; la questione dei sacramenti, del loro numero ed istituzione; il problema dell’eucaristia con le<br />

sue componenti: transustanziazione, carattere sacrificale della messa, ordinazione e sacerdozio, dif-<br />

ferenza tra sacerdoti e laici; il problema della gerarchia; la dottrina sui santi, sul purgatorio e sulle<br />

indulgenze. Sono però da notare tre punti espressamente ecclesiologici: 1) il dibattito<br />

sull’episcopato — che si concentrò sull’origine della giurisdizione episcopale: proveniva immedia-<br />

tamente dal Cristo o derivava dal papa? La questione non venne risolta per mancanza di unanimità<br />

—; 2) l’idea di concilio — pur rifiutando le tendenze conciliariste, non si impose la concezione pu-<br />

ramente monarchica (Gaetano) di un concilio che riceveva tutta la sua autorità dal papa: in effetti i<br />

decreti di Trento sono decreti del concilio, non del papa con l’approvazione del concilio; anche se il<br />

presidente chiuse il concilio facendo approvare ai Padri una richiesta di conferma da parte del papa<br />

(COD 799) —; 3) la messa in opera di un apparato e l’inizio di un regime centralista — il XVI se-<br />

colo segna la fine della cristianità; di fronte e al di sopra delle nazionalità, la Chiesa cattolica realiz-<br />

za un’unità specifica, puramente religiosa, con il suo diritto, il suo ordine, le sue strutture e i suoi<br />

servizi; ne consegue anche una vera e propria centralizzazione. Non a caso, Trento affermando che<br />

il Cristo non è unicamente redentore, ma anche legislatore (DzH 1571 e 1620), ha favorito in tal<br />

modo la costruzione dell’ordine gerarchico, non attorno all’Eucaristia, ma secondo il regimen, di cui<br />

Roma occupa il centro e la sommità e ha aperto per l’<strong>ecclesiologia</strong> teorica un’era di giuridismo. Co-<br />

sì nella professione di fede tridentina (13 novembre 1564) possiamo leggere in sintesi: «Io riconosco<br />

la Chiesa santa, cattolica, apostolica e romana come madre e maestra di tutte le Chiese; prometto e<br />

giuro obbedienza al papa di Roma, successore di san Pietro, principe degli apostoli e vicario di Gesù<br />

Cristo» (DzH 1868).<br />

202


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

In queste direttrici ed accenti si delinea l’immagine di Chiesa che si voleva realizzare allora e nel<br />

periodo post-tridentino. Emerge un profilo controriformistico della Chiesa intesa come la custode di<br />

una fede vera e contenutisticamente intatta. Si tratta di una caratterizzazione della Chiesa mediante i<br />

sacramenti, in specie l’eucaristia, che viene intesa e celebrata come vero sacrificio. È la determina-<br />

zione della Chiesa per mezzo della gerarchia, del ministero, del sacerdozio, della sua autorità che si<br />

fonda sull’ordinazione, del suo potere specifico ed esclusivo in merito alla celebrazione della messa<br />

e all’amministrazione del sacramento della penitenza, della sua distinzione essenziale dal sacerdo-<br />

zio dei laici, dell’articolazione della visibilità e percepibilità della Chiesa che trova il suo vertice e<br />

la caratterizzazione più chiara nel papato, nella rappresentazione concreta del termine «communio<br />

sanctorum» nella forma della venerazione dei santi, e infine del grande onore dovuto alla Tradizione<br />

ed alle tradizioni. Passano invece in seconda linea quelle realtà ecclesiali che i riformatori, anche in<br />

modo non polemico, avevano sottolineato: la parola di Dio, l’ecclesia abscondita, la Scrittura intesa<br />

come istanza critica nei confronti della Tradizione, la theologia crucis, il sacerdozio dei battezzati.<br />

b) Di fronte ai sommovimenti socio-culturali ed alla contestazione protestante, la distinzione fra i<br />

pastori ed il gregge, o fra il clero e i laici, tende a diventare quasi una contrapposizione naturale in<br />

base a cui viene pensata ed organizzata la vita ecclesiale. I laici rischiano di essere considerati come<br />

non cristiani, in quanto troppo esposti all’influsso negativo di quella società che rivendica la propria<br />

autonomia e costruisce la vita associata quasi prescindendo dallo spirituale-ecclesiastico; per cui la<br />

Chiesa è sempre più assimilata al clero e l’azione pastorale poggerà sempre più sul clero come uni-<br />

co soggetto attivo a fronte di un gregge oggetto o destinatario passivo della sua cura pastorale.<br />

Non stupisce che, in quest’ottica, uno dei provvedimenti più efficaci della Controriforma sia la cre-<br />

azione dei seminari quali istituti specializzati per la formazione del clero: nella prospettiva propria<br />

del Concilio di Trento, l’esaltazione del sacerdozio e la cura della formazione dei sacerdoti sono la<br />

risposta pratica alla contestazione protestante del sacerdozio cattolico e alla negazione del primato<br />

dello spirituale-ecclesiastico da parte della società.<br />

Il Bellarmino, strenuo sostenitore dell’idea di Chiesa societas perfecta, non esita ad affermare:<br />

«Da qui [dall’etimologia: laós, popolo; kléros, porzione o eredità] sono così denominati i laici:<br />

come dire i plebei e gli appartenenti al popolo, ai quali non è stata affidata alcuna parte della funzione<br />

ecclesiastica. Clero, per contro, si usa quasi ad indicarlo come appannaggio ed eredità del<br />

Signore, chierici poi… si dicono quelli che, consacrati al culto divino, si sono addossati, per ordine<br />

di Dio stesso, la responsabilità e la preoccupazione di amministrare la religione e le cose sacre» 51 .<br />

51 R. BELLARMINO, De Membris Ecclesiae Militantis, I, De Clericis, in ID., Opera omnia, II (Neapolis 1857) 449.<br />

203


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Al di là della problematica teologica connessa alla potestas del ministro ed alla realtà sacramentale<br />

dell’ordinazione, la distinzione-separazione tra clero e laicato tende ad apparire quasi come costitu-<br />

tiva dell’essere della Chiesa, in quanto questa è concepita come un sistema «ierocratico» che si<br />

struttura e si organizza in base ad una rigida e netta separazione di sacro e profano. La sovradeter-<br />

minazione del prete e la crescente sua autonomia rispetto all’insieme dei fedeli sono a un tempo<br />

causa ed effetto di questa logica della differenza. A partire da essa si precisa — si costruisce e si le-<br />

gittima simbolicamente — l’identità del prete-pastore: come chierico, e cioè dotto, ha una visione<br />

dotta del mistero cristiano, in contrasto con le espressioni popolari ritenute superstiziose o paganeg-<br />

gianti; come clerico e cioè clero, è eletto, e la sua vocazione diventa l’unica vocazione, che esige<br />

una rottura anche di stile di vita con chi non gode del privilegio di una simile chiamata. Nella prati-<br />

ca pastorale questa logica consente al clero di personificare il collettivo e di rappresentare l’intera<br />

Chiesa: la categoria degli ecclesiastici è l’unico vero soggetto della Chiesa e dell’azione pastorale,<br />

in grado di risolvere ed assorbire in sé l’insieme della Chiesa e quindi di esigere un rapporto di su-<br />

bordinazione e di sottomissione da parte del gregge e dei «semplici» fedeli.<br />

La riforma del clero iniziata dal concilio di Trento — e via via attuata come automatica riforma del-<br />

la Chiesa — propone un modello di vita sacerdotale quale vita autonoma e separata che il clero deve<br />

assumere come suo progetto di vita; in quanto testimone ed artefice dell’autentica vita cristiana e<br />

come amministratore esclusivo della comunicazione del sacro, la sua identità e la legittimità del suo<br />

operare dipendono dall’appropriazione ed attuazione del modello. La sua superiorità rispetto ai<br />

«semplici» fedeli e la distanza da essi, sia nella vita quotidiana che nel modo di pensare, appaiono<br />

richieste, più che dalla volontà di dominio, dalla necessità di affermare la mediazione della Chiesa<br />

che deve respingere dottrine e prassi giudicate lesive dell’«istituzione» stessa. All’azzeramento della<br />

specificità dei religiosi e dei preti nella Riforma che accomuna ogni sorta di vocazione, la Controri-<br />

forma risponde esaltandone la specificità, fin quasi a dimenticare che nell’ambito della fede ciò che<br />

è proprio non è esclusivo e tantomeno monopolio riservato. Si attua così un processo di elevazione-<br />

claustrazione-recinzione sacra del clero che esige la sua separatezza rispetto ai fedeli e che comporta<br />

una scissione della religione, suo patrimonio, rispetto ai diversi aspetti della vita.<br />

La teologia, ormai scienza del clero più che della fede del popolo cristiano, è finalizzata alla forma-<br />

zione del clero e si esercita all’interno delle mura sacre, quelle degli istituti ecclesiastici, estranea<br />

alla cultura ambiente. Ma il processo è ben più vasto: ad esempio l’edificio chiesa diventa sempre<br />

più sacro e, al suo interno, si crea uno spazio riservato ancor più sacro, delimitato dalla balaustra.<br />

L’estetica liturgica si fa ieratica, la majestas del luogo e della celebrazione esige uno stile regale e i<br />

segni di un alto prestigio sociale. L’ascesi del prete è imperniata sul trascendimento della quotidia-<br />

204


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

nità e sul superamento delle apparenze legate alla vita quotidiana: uno stile di vita sublime, extra-<br />

quotidiano, straordinario, anche se poi nella pratica del sacerdozio la diversità è sfumata ed al prete<br />

si consente di svolgere i più diversi mestieri. La spiritualità sacerdotale si richiama sempre più ai<br />

nuovi ordini religiosi, come i Gesuiti e i Teatini, e il ministero sacerdotale viene sempre più assimi-<br />

lato allo stato di perfezione e vissuto come unica ed esclusiva forma di ministerialità. L’immediata<br />

identificazione del prete con Cristo (sacerdos alter Christus) fa del prete un super-cristiano, da cui<br />

dipende, secondo la tradizione sulpiziana (Olier, Tronson), tutta la vita della Chiesa: egli è il pastore<br />

di un gregge a lui affidato come oggetto della sua «cura», di cui ha la rappresentanza ufficiale e su<br />

cui ha la «potestà» piena che gli deriva, sulla scia della spiritualità dell’École française, dalla sua<br />

«potestà» su Dio stesso. Ritroviamo l’eco di questa concezione nelle prediche fatte in occasione del-<br />

le prime messe. Esemplare è quanto scrive il cardinale Katschthaler, arcivescovo di Salisburgo, in<br />

una lettera pastorale del 1905:<br />

«Voi sapete, carissimi, che il sacerdote cattolico ha il potere di rimettere i peccati… Per questo<br />

scopo e per questo momento Dio ha conferito la sua onnipotenza al suo rappresentante sulla terra,<br />

al sacerdote autorizzato… Dov’è in cielo un simile potere?… Cristo, l’unigenito Figlio di Dio Padre,<br />

grazie al quale sono stati creati il cielo e la terra e che porta l’intero universo cattolico, si trova<br />

in questo caso soggetto al volere del sacerdote cattolico» 52 .<br />

Nella misura in cui la clericalizzazione è più spinta, fino a fare del prete un «cristiano a parte», ne<br />

consegue la sottomissione del gregge ritenuto passivo, minore d’età, gregario, la cui vita deve essere<br />

regolata fin nei dettagli secondo la prospettiva clericale. L’«assolutezza» del clero, e rispettivamente<br />

della religione della Chiesa e della coscienza cristiana, è dunque all’origine della dipendenza del<br />

laico e della tendenziale separazione tra fede e vita, tra Chiesa ed esistenza personale, e più in gene-<br />

rale, fra coscienza cristiana e realtà storica. In una sorta di circolo vizioso più si accentua tale «asso-<br />

lutezza» più si estende il processo di secolarizzazione, per cui il clero tende ad isolarsi e a proteg-<br />

gersi come ceto che vive un particolare stile di vita in un milieu particolare, che elabora una cultura<br />

particolare e pretende di essere l’unico soggetto attivo dell’opera del regno di Dio.<br />

Se l’esaltazione del sacerdozio e la concentrazione nelle mani del sacerdote della complessiva realtà<br />

ecclesiale sono in gran parte dovute allo spirito controversistico, come difesa ad oltranza della me-<br />

diazione ecclesiale spesso massimalisticamente contestata, sembra pure possibile scorgere in questo<br />

processo di differenziazione-separazione del clero una certa congruenza od affinità con l’evoluzione<br />

socio-culturale che tende a rimarcare le differenze di vario genere all’interno del complessivo siste-<br />

52 La citazione si trova in G. SIEFER, , Der Priest, ein geweihter Mensch?, in Diakonia 2 (1969) 133 n. 21.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

ma societario. Basti accennare alla divaricazione che viene a crearsi tra la cultura scritta ed erudita<br />

da un lato e la cultura orale e tradizionale dall’altro, al distacco della nascente borghesia dalle masse<br />

rurali, alla scissione fra compiti direttivi e compiti esecutivi tra gli agenti dei processi produttivi e<br />

all’interno della vita politica. Non sembrano dunque affatto estranee alla dinamica sociale la tra-<br />

sformazione della teologia in sapere specialistico, la codificazione rigorosa e minuziosa della dottri-<br />

na e del culto, la centralizzazione della vita ecclesiale, la considerazione «aristocratica» degli eccle-<br />

siastici, la divisione fra la componente attiva e quella passiva all’interno della Chiesa.<br />

Anche i diversi e numerosi movimenti spirituali — dalle confraternite ai terz’ordini, dai begardi e<br />

dalle beghine alle diverse congregazioni — sembrano partecipare della stessa logica dello spazio<br />

proprio, del recinto particolare, anche quando evidente è l’intenzione di superare l’opacità della<br />

Chiesa clericale: la vita in comune tende spesso ad essere come una «riduzione», un microcosmo i-<br />

spirato da un lato a una perduta genuinità religiosa e dall’altro lato all’immagine escatologica o apo-<br />

calittica della nuova Gerusalemme. Anche in questi casi, se l’intento è di ricreare una vita religiosa<br />

più unitaria e più autentica, la pratica spesso risponde alla logica dell’autonomizzazione e della par-<br />

ticolarità, con un accresciuto distacco dalla realtà socio-culturale e dalla comune vita dei «semplici»<br />

fedeli, come se fosse ormai impossibile vivere in modo attendibile e significativo la vita cristiana<br />

nelle comuni condizioni di vita.<br />

c) L’espressione più lucida di questa <strong>ecclesiologia</strong> la troviamo espressa nelle Disputationes de con-<br />

troversiis christianae fidei di Roberto Bellarmino, il quale sviluppò e concentrò l’<strong>ecclesiologia</strong> pro-<br />

prio nei punti controversi e contro i quali si era indirizzato l’attacco dei riformatori, attento così a<br />

sottolineare al massimo le mediazioni visibili ed istituzionali della comunità ecclesiale in alternativa<br />

all’«invisibilismo», attribuito ai Riformatori 53 .<br />

Egli individua cinque fraintendimenti possibili dell’idea di Chiesa: il primo è quello che risolve<br />

l’<strong>ecclesiologia</strong> in teologia, concependo la Chiesa come comunità degli eletti («congregatio praede-<br />

stinatorum»), totalmente dipendente dall’arbitrio assoluto di Dio 54 . Il secondo è costituito dalla vi-<br />

sione pelagiana, che trasforma l’<strong>ecclesiologia</strong> in antropologia, identificando la Chiesa con la comu-<br />

53 Cfr. A. ANTÓN, El misterio de la Iglesia. Evolucion historica de las ideas eclesiologicas I (Madrid – Toledo: BAC,<br />

1986) 879-893; CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, cit., 369ss. Del Bellarmino cfr. specialmente<br />

le Disputationes de controversiis christianae fidei adversus huius temporis haereticos (Controversiae) (1586-1593) (Ingolstadt<br />

1601) t. II: Prima Controversia generalis, liber III: De Ecclesia militante, caput II: De definitione Ecclesiae.<br />

54 «De re ipsa quinque sunt haereticae sententiae. Prima, quod Ecclesia sit praedestinatorum congregatio, ita ut soli et<br />

omnes praedestinati sint de Ecclesia. Ita Johannes Wiclef…, Johannes Huss»: ibid., 74.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

nità dei perfetti, che grazie alle loro capacità e ai loro meriti ne sono i soli veri membri 55 . Il terzo<br />

fraintendimento — attribuito dal Bellarmino a Novaziano e ai Donatisti — si avvicina al preceden-<br />

te, restringendo però l’esigenza di perfezione al mantenimento della fede pura, e comprendendo di<br />

conseguenza giusti e peccatori nella comunità ecclesiale fino al momento in cui non abbandonino la<br />

vera dottrina 56 . In queste tre impostazioni è il monofisismo ecclesiologico ad emergere, la riduzione,<br />

cioè, della complessa tensione fra l’umano e il divino, che costituisce la Chiesa, a una sola delle due<br />

«nature» del mistero ecclesiale, o nel senso dell’assorbimento dell’umano nel divino, o in quello<br />

contrario della risoluzione del divino nelle sole possibilità umane.<br />

Gli ultimi due fraintendimenti segnalati dal Bellarmino richiamano invece una sorta di nestoriane-<br />

simo ecclesiologico, e cioè di separazione netta fra la componente umana e quella divina della Chie-<br />

sa, unite al più in un accordo morale fondato sulla fede. Il penultimo è quello caratteristico dell’ec-<br />

clesiologia dualista, che Bellarmino attribuisce ai Riformatori, per i quali la realtà ecclesiale sarebbe<br />

sdoppiata nella contrapposizione fra una Chiesa invisibile, costituita dalla «congregatio sanctorum»<br />

di quanti credono e obbediscono a Dio, nota solo agli occhi dell’Eterno, ed una Chiesa esterna, ri-<br />

conoscibile dalla professione dell’unico Credo e dalla partecipazione ai medesimi sacramenti, com-<br />

prendente giusti e peccatori 57 . Il quinto ed ultimo fraintendimento — caratterizzato parimenti dal<br />

dualismo ecclesiologico ed attribuito a Calvino — separa la Chiesa dei predestinati, eletta da Dio e<br />

solo a Lui nota, da quella visibile, in nulla garantita da Lui e risolta in pura forma antropologica: si<br />

mescolano qui tanto la riduzione teologica, quanto quella antropologica dell’<strong>ecclesiologia</strong> 58 .<br />

Contro questa complessa rete di equivoci, Bellarmino intende affermare l’unicità e l’oggettività del<br />

dono di Dio, che costituisce la Chiesa: egli afferma perciò che «la Chiesa è una sola, non due, e uni-<br />

ca e vera è la comunità degli uomini raccolti mediante la professione della vera fede, la comunione<br />

degli stessi sacramenti, sotto il governo dei legittimi pastori e principalmente dell’unico vicario di<br />

55<br />

«Secunda, quod Ecclesia sit hominum perfectorum nullum peccatum habentium multitudo»: ibid.<br />

56<br />

«Tertia, quod Ecclesia sit justorum congregatio, seu potius eorum, qui numquam lapsi sunt circa fidei confessionem»:<br />

ibid.<br />

57<br />

«Ipsi duas Ecclesias fingunt. Unam veram et ad quam pertinent privilegia, quae narrantur in Scripturis, et hanc esse<br />

sanctorum congregationem, qui vere credunt, et oboediunt Deo, et hanc non esse visibilem, nisi oculis fidei. Alteram externam<br />

quae nomine tantum est Ecclesia, et hanc esse congregationem hominum convenientium in doctrina fidei, et usu<br />

sacramentorum et in hac bonos et malos inveniri»: ibid.<br />

58<br />

«Quinta sententia est quasi conflata ex omnibus istis. Docet enim Ecclesiam constare ex solis justis praedestinatis. Ita<br />

Calvinus, qui tria docet. Primo, fidem semel habitam, numquam in aeternum perdi posse, et proinde omnem, qui habet<br />

fidem, necessario esse praedestinatum… Secundo docet, veram Ecclesiam a solo Deo cognosci posse, ejusque fundamentum<br />

esse divinam electionem… Tertio docet, esse praeterea quandam Ecclesiam externam, in qua sint boni et mali…»:<br />

ibid., 75.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Cristo sulla terra, il romano pontefice» 59 . Ciò che Bellarmino vuole rifiutare è ogni separazione di<br />

visibile ed invisibile nella Chiesa, quasi che il divino e l’umano possano incontrarsi solo per<br />

un’iniziativa di Dio che escluda ogni attiva partecipazione dell’uomo, o al contrario per un protago-<br />

nismo umano che non faccia spazio ad alcun intervento dall’alto. Nel primo caso la Chiesa sarebbe<br />

la comunità invisibile dei predestinati, nel secondo quella visibile dei perfetti. In realtà, nella coe-<br />

renza con la logica dell’incarnazione, la Chiesa è altrettanto visibile quanto lo è la missione del Fi-<br />

glio e l’appartenenza ad essa si misura sull’oggettiva esperienza del dono di Dio:<br />

«Perché qualcuno possa essere dichiarato membro di questa vera Chiesa, di cui parlano le Scritture,<br />

noi non pensiamo che sia da lui richiesta alcuna virtù interiore. Basta la professione esteriore<br />

della fede e della comunione dei sacramenti, cose che il senso stesso può constatare. La Chiesa infatti<br />

è una comunità di uomini così visibile e palpabile come la comunità del popolo romano, o il<br />

regno di Francia, o la repubblica di Venezia» 60 .<br />

Si avverte in queste parole l’influenza dello spirito del secolo in cui operò Bellarmino: «La mentali-<br />

tà barocca richiedeva che il soprannaturale fosse il più manifesto possibile e la teologia del tempo<br />

tentava di ridurre ogni cosa a idee chiare e distinte» 61 . La caratteristica di questa definizione è l’insi-<br />

stenza sull’inseparabilità dell’elemento umano e di quello divino nella Chiesa, motivata da un inten-<br />

to doppiamente polemico, contro ogni monofisismo e contro ogni nestorianesimo ecclesiologico.<br />

Qui sta il permanente contenuto di verità della sintesi bellarminiana: «“L’<strong>ecclesiologia</strong> della separa-<br />

zione” (nestorianesimo ecclesiologico) appare nel tentativo di dividere la Chiesa visibile da quella<br />

invisibile — cioè la “Chiesa del diritto” dalla “Chiesa dell’amore” — o anche semplicemente in un<br />

naturalismo volgare che considera la Chiesa come una semplice istituzione umana. L’“<strong>ecclesiologia</strong><br />

della mescolanza” (monofisismo ecclesiologico) si mostra nella tendenza a considerare la Chiesa<br />

come un fenomeno puramente divino, nel quale l’uomo viene assorbito…» 62 . In quanto si oppone a<br />

entrambi questi poli, «si fa un torto a Bellarmino se, basandosi sulla preponderanza dell’aspetto e-<br />

steriore e giuridico della Chiesa rilevabile dalla sua definizione, si vuole vedere in lui un miscono-<br />

59 «Nostra autem sententia est Ecclesiam unam tantum esse, non duas, et illam unam et veram esse coetum hominum ejusdem<br />

christianae fidei professione, et eorundem sacramentorum communione colligatum, sub regimine legitimorum pastorum,<br />

ac praecipue unius Christi in terris vicarii romani pontificis»: ibid.<br />

60 «Ut aliquis aliquo modo dici possit pars verae Ecclesiae, de qua Scripturae loquuntur, non putamus requiri ullam internam<br />

virtutem, sed tantum externam professionem fidei, et sacramentorum communionem, quae sensu ipso percipitur.<br />

Ecclesia enim est coetus hominum ita visibilis et palpabilis, ut est coetus populi romani, vel regnum Galliae, aut respublica<br />

Venetorum»: ibid.<br />

61 A. DULLES, Models of the Church (New York: Image Books – Doubleday, 1987 2 ) 16.<br />

62 H. MÜHLEN, Una Mystica Persona. La Chiesa come il mistero dello Spirito Santo in Cristo e nei cristiani: una per-<br />

sona in molte persone (Roma: Città Nuova, 1968) 690.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

scimento dell’essenza pneumatica della Chiesa» 63 . Resta vero tuttavia che l’accento è posto soprat-<br />

tutto sul rifiuto della concezione attribuita alla Riforma, e perciò sulla continuità fra il mistero<br />

dell’Incarnazione e la realtà storica della Chiesa, oltre che sulla visibilità e verificabilità empirica di<br />

una tale continuità. A questa esigenza risponde il modo in cui la struttura visibile della Chiesa viene<br />

concepita, perché sia storicamente riconoscibile: il «tutto» che è la Chiesa, unito dalla fede unica e<br />

dagli stessi sacramenti, si presenta articolato in parti o porzioni, collegate fra loro al vertice, cioè<br />

sotto la guida del Capo visibile della comunità ecclesiale, il Vescovo di Roma. La potestà dei ve-<br />

scovi locali proviene dal Papa e quindi non è una realtà sacramentale; d’altra parte Bellarmino inse-<br />

gna che ritenerli solo dei luogotenenti del Pastore universale è una vera e propria eresia 64 . Inoltre,<br />

pur affermando la primazia del potere spirituale su quello temporale, egli insegna che l’autorità spi-<br />

rituale non gode di un potere diretto sulle cose temporali, bensì solo di un potere indiretto (dottrina<br />

che resisterà fino al Vaticano II) che può giungere, in casi limite, fino a sospendere o a ritirare la sua<br />

autorità a un sovrano che viola i diritti dello spirituale, ma non permette neppure in questo caso<br />

all’autorità spirituale, fosse anche quella del Papa, di sostituirsi a lui e nemmeno di sostituirgli un<br />

altro che non sia il regolare successore della sua legittima autorità 65 .<br />

Data questa definizione della Chiesa, egli risolve anche la questione della sua appartenenza:<br />

«Da questa definizione si comprende facilmente chi appartiene alla chiesa e chi non appartiene ad<br />

essa. Tre, infatti, sono le parti di questa definizione: la professione della vera fede, la comunione<br />

dei sacramenti e la sottomissione al legittimo pastore, il Romano Pontefice. A motivo della prima<br />

parte sono esclusi tutti gli infedeli: sia quelli che mai sono stati nella chiesa, come i giudei, i turchi<br />

e i pagani, sia quelli che sono stati in essa e poi si sono da essa allontanati, come gli eretici e gli<br />

apostati. A motivo della seconda parte, sono esclusi i catecumeni e gli scomunicati, perché i primi<br />

non sono ammessi ai sacramenti e gli altri ne sono esclusi. A motivo della terza parte sono esclusi<br />

gli scismatici, i quali hanno la fede e i sacramenti, ma non sono sottomessi al legittimo pastore<br />

[…]. Sono inclusi invece tutti gli altri, anche se sono reprobi, delinquenti ed empi…».<br />

Il Bellarmino conosce però anche una definizione “teologica” della Chiesa: «la Chiesa è un corpo<br />

vivente composto di un’anima e un corpo». L’anima sono i doni dello Spirito santo, le virtù teologa-<br />

li…; il corpo sono la professione esterna della fede e la comunicazione dei sacramenti. Accade così<br />

che alcuni appartengano all’anima e al corpo della chiesa (i membri vivi per la fede e la carità), altri<br />

appartengano all’anima e non al corpo, come i catecumeni e gli scomunicati se, come può avvenire,<br />

hanno la fede e la carità, e altri appartengano al corpo ma non all’anima della chiesa, come quelli<br />

63 Ibid., 6.<br />

64 Controversia de Summo Pontifice, lib. II, cap. XXXI; ed. VIVES, Opera omnia, t. I, 1870, p. 614.<br />

65 Op. cit., lib. V, cc. vi e vii; ibid., t. 2, pp. 155ss.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

che non hanno nessuna virtù interiore, e tuttavia per speranza o per qualche timore temporale pro-<br />

fessano la fede e partecipano ai sacramenti sotto il governo dei pastori; essi sono «come i capelli o<br />

le unghie o i cattivi umori del corpo umano» 66 .<br />

La teologia della Chiesa diventa con Bellarmino una apologetica della Chiesa. Questa si definisce e<br />

si costituisce secondo le «notae». Egli ne enumera diciotto, più tardi ridotte a quattro, ossia quelle<br />

che il simbolo confessava come proprietà essenziali della Chiesa e che ora diventano note distintive.<br />

Esse devono offrire una prova argomentativa, dimostrare quale, tra quelle chiese che accampano la<br />

pretesa di essere la vera Chiesa di Gesù Cristo, effettivamente soddisfi ai requisiti necessari. Nella<br />

«demonstratio catholica», questa prova dev’essere prodotta nella forma di un preciso sillogismo.<br />

Questa concezione non è, peraltro, che l’estremo frutto di una serie di reazioni successive: contro il<br />

regalismo, tendente a subordinare il potere spirituale a quello temporale, si era sviluppata la teologia<br />

dei poteri gerarchici e della Chiesa come regno organizzato (Egidio Romano, ad esempio); contro le<br />

teorie conciliari, che subordinavano il ministero del Papa all’autorità del Concilio, si era accentuato<br />

il ruolo del primato papale; contro lo spiritualismo di Wyclif e di Hus la dimensione ecclesiastica e<br />

sociale del cristianesimo; contro la Riforma, si era voluto riaffermare il valore obiettivo dei mezzi di<br />

grazia, specie dei sacramenti e del ministero gerarchico. Anche dopo la sistemazione bellarminiana<br />

la concezione visibilista e giuridica della Chiesa verrà ulteriormente marcata sotto lo stimolo di<br />

nuove reazioni: contro il giansenismo, più o meno legato al gallicanismo episcopale e regalista, che<br />

tendeva a valorizzare le Chiese nazionali, saranno ribaditi i poteri del centralismo romano; contro il<br />

laicismo e l’assolutismo statale del XIX secolo si insisterà sulla Chiesa come società perfetta («so-<br />

cietas perfecta»), dotata di diritti e di mezzi propri e sufficienti; contro il modernismo, infine, si a-<br />

vrà l’affermazione vigorosa delle prerogative della Chiesa docente. L’insistenza su un solo aspetto<br />

della Chiesa — quello esterno e giuridico — comporterà il pericolo di smarrire l’equilibrio, ancora<br />

custodito nella sintesi del Bellarmino: «Nell’epoca immediatamente seguente, in cui dominò il pen-<br />

siero deistico dell’Illuminismo, questa particolare esposizione del mistero della Chiesa scivolò in<br />

uno spaventoso naturalismo, soprattutto nella teologia pratica… L’umano si fa così predominante<br />

nella coscienza, che il divino viene trascurato o non viene affatto preso in considerazione» 67 .<br />

66 Notiamo che Bellarmino pur riferendosi al Breviculus collationis, cap. III, di Agostino — una citazione che gli storici<br />

non sono mai riusciti a rintracciare —, modifica sensibilmente la dottrina agostiniana, secondo cui non si doveva distinguere<br />

nella Chiesa un’anima e un corpo, ma si doveva distinguere la modalità di appartenervi del singolo fedele: o col<br />

cuore o solo col corpo.<br />

67 H. MÜHLEN, Una Mystica Persona, op. cit., 6.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

d) Si è già parlato dell’impoverimento che la riflessione sulla Chiesa e la rappresentazione della re-<br />

altà ecclesiale hanno subito a causa di queste restrizioni apologetiche, allora intese come determina-<br />

zioni essenziali. Si è preso come teologia De Ecclesia «quello che era soltanto un capitolo polemico<br />

sui punti controversi» 68 . In questa prospettiva la Chiesa cattolica, la Chiesa di Gesù Cristo, venne<br />

con tutta naturalezza identificata semplicemente ed esclusivamente con la Chiesa cattolico-romana.<br />

Facendo leva sulla demonstratio catholica e sul carattere di esclusività che essa implica, si negava<br />

la qualità di Chiesa alle altre confessioni. Queste, dal canto loro, contribuivano al rafforzarsi di tale<br />

tendenza, dato che, in parte, rinunciavano al termine «Chiesa» e, dopo un rifiuto iniziale, concessero<br />

l’appellativo di «cattolica» alla Chiesa di Roma; quest’ultima poi, ormai caratterizzata come cattoli-<br />

co-romana, trasformò la qualifica di «cattolica» in una nota confessionale. A tale mutamento non si<br />

opposero le altre confessioni, che si affermavano come «riformate» o «luterane» 69 .<br />

La Chiesa, che a questo modo si identificava con la vera Chiesa, con la Chiesa di Gesù Cristo —<br />

questo è un secondo passo nel processo di restrizione — venne interpretata come Chiesa pontificia<br />

perché, come già abbiamo detto, qui il papa e il papato costituivano la dimensione essenziale ed allo<br />

stesso tempo l’aspetto più combattuto da parte dei riformatori.<br />

Questa Chiesa, che s’intende come Chiesa gerarchica, romana e pontificia e che conformemente si<br />

struttura, viene bollata dalle altre confessioni proprio con tali appellativi. E così si credette di aver<br />

proferito anche un giudizio teologico su di essa, una valutazione che giustificava la specificità della<br />

propria confessione e che vedeva nella frantumazione dell’unica Chiesa un imperativo promanante<br />

dalla verità e dalla fede. Una volta accettato l’accoppiamento di «romano» con «cattolico»,<br />

all’interno dell’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica la «romanitas» divenne un nuovo e limitante indizio di «cat-<br />

tolicità», anzi una nota che comprendeva in se stessa tutte le altre 70 .<br />

Le affermazioni di Roberto Bellarmino sulla Chiesa hanno influito notevolmente — e questo confe-<br />

risce loro una speciale rilevanza — sul periodo successivo; sono penetrate nella teologia, che ora va<br />

qualificata come post-tridentina, nei catechismi, quindi nelle stesse forme d’insegnamento impartito<br />

ai fedeli; e hanno sorretto, condizionato e definito anche l’immagine di Chiesa.<br />

e) La Controriforma e Riforma cattoliche riuscirono, sfruttando una iniziativa suggerita dal concilio<br />

di Trento e decisamente propugnata dai nuovi movimenti laicali e ordini religiosi sorti in Italia e in<br />

Spagna, soprattutto quello dei Gesuiti, con le loro figure più rappresentative (il motto «Ad majorem<br />

68 Y. CONGAR, “Chiesa”, in Dizionario di Teologia I (Brescia: Queriniana, 1969 3 ) 229-342.<br />

69 M. SECKLER, “Katholisch als Konfessionsbezeichnung”, in ThQ 145 (1965) 401-431.<br />

70 Ibid., 404; Y. CONGAR, “Romanité et catholicité”, in Église et papauté. Regards historiques (Paris: Cerf, 1994) 31ss.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Dei gloriam» venne assunto per indicare l’obbedienza al papa, vicario di Gesù Cristo, come obbligo<br />

del tutto specifico), a stabilizzare la Chiesa cattolica, ad affermarla nei propri territori e ad aiutarla a<br />

recuperare anche quelli perduti. La sequela del Christus praesens in ecclesia militante, il «sentire<br />

cum ecclesia», cioè «con la vera sposa di Cristo nostro Signore, la nostra santa madre, la Chiesa ge-<br />

rarchica», come pure l’entusiasmo ecclesiale, da cui non era estranea la mentalità del crociato e del<br />

cavaliere, sono tratti peculiari dell’ordine gesuitico, che non è tanto un risultato della Controriforma<br />

quanto piuttosto un frutto della Riforma cattolica. Il modo di concretare queste intenzioni, in un pe-<br />

riodo così particolare, doveva condurre ad una attività controriformatrice, antiprotestante 71 .<br />

Quando questi sforzi vennero poi coronati dal successo, acquistò nuova figura e vitalità anche il mo-<br />

tivo trionfalistico, col quale si rappresentava la Chiesa come la vera Chiesa di Gesù Cristo vittoriosa<br />

nelle sue battaglie. L’espressione artistica più imponente fu quella del barocco. Qui riemersero a li-<br />

vello di coscienza i tratti considerati più tipici del cattolicesimo: il motivo dell’«Ad majorem Dei<br />

gloriam», la sua concretizzazione nel venerare e adorare l’eucaristia, l’altare e il tabernacolo che as-<br />

sumono la forma di trono di Dio, l’edificio di culto che viene interpretato come la sala del trono di<br />

Dio e quindi lo si arricchisce di luce, di splendore, di sfarzo e di colori. La Chiesa terrena è avvertita<br />

come vestibolo della ecclesia caelestis, e tale convinzione viene ad esprimersi nel modo di raffigu-<br />

rare i santi, la comunione dei santi con gli apostoli, coi confessori, i martiri, i dottori della Chiesa, e<br />

con Maria al vertice. Vi si associa un nuovo motivo trionfalistico, appena acquisito: in vari modi la<br />

Chiesa cattolico-romana viene rappresentata come colei che trionfa sulle false dottrine, che avanza<br />

verso la vittoria, che troneggia sul furore impotente degli eretici, assisa sul carro trionfale. Questa<br />

vittoria poi viene interpretata, senza alcuna esitazione, come una vittoria di Dio stesso e quindi an-<br />

che come una dimostrazione visibile della vera Chiesa, una controprova imponente che «le porte<br />

dell’inferno non prevarranno su di essa (Chiesa)» e su Pietro. Questi elementi influiranno decisa-<br />

mente anche sulla spiritualità e pietà del cattolicesimo.<br />

71 B. SCHNEIDER, “La devozione di S. Ignazio di Loyola verso la Chiesa”, in: Sentire Ecclesiam 1, 505-560. Negli Esercizi<br />

spirituali di sant’Ignazio di Loyola, tra le diciotto regole per il vero criterio nella Chiesa, si trova anche la tredicesima<br />

regola, che è stata oggetto di molte discussioni: «Per non sbagliare, dobbiamo sempre ritenere che quel che vediamo<br />

bianco sia nero, se lo dice la Chiesa gerarchica. Perché crediamo che quello Spirito che ci governa e ci sorregge, per<br />

la salvezza delle nostre anime, sia lo stesso in Cristo nostro Signore, che è lo sposo, e nella Chiesa, che è la sua sposa.<br />

Infatti la nostra santa madre Chiesa è retta e governata dallo stesso Spirito e Signore nostro il quale dettò i dieci comandamenti»:<br />

IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali (Roma: Edizioni Paoline, 1980 5 ) 304-305. Per comprendere queste<br />

espressioni nel loro contesto e quindi nel loro vero significato si vedano le osservazioni di KEHL, La Chiesa, cit., 13ss.<br />

212


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

2.4. La chiesa nel contesto del conflitto con la modernità: Chiesa come società perfetta<br />

a) Tra molti problemi sociali, politici, economici, intellettuali e religiosi all’inizio dell’epoca mo-<br />

derna emerge un nuovo problema fondamentale che, per la comprensione della Chiesa, si rivelerà<br />

almeno altrettanto caratterizzante quanto la controversia confessionale: la relazione della fede cri-<br />

stiana con la modernità, la relazione della Chiesa con la società moderna secolarizzata e pluralista e<br />

con il suo frutto, il deismo e l’illuminismo. Nel XVII secolo, e ancora più chiaramente nel XVIII,<br />

l’annuncio ecclesiale in Francia si trova di fronte un nuovo tipo umano: la borghesia istruita o eco-<br />

nomicamente affermata, per cui la religione cristiana tradizionale, in rapporto alla vita moderna, ha<br />

perso la propria verità e rilevanza. Essa non è più necessaria per dare senso alla sua vita. Nel suo<br />

comportamento concreto non fa quasi differenza se egli la pensi in un modo o in un altro circa la ve-<br />

rità della fede cristiana. La religione ora deve diventare un elemento ragionevole e calcolabile, op-<br />

pure un affare strettamente privato.<br />

Questo periodo è contrassegnato dall’esaurimento, seguito alle controversie e soprattutto alle guerre<br />

di fede, di confessione e di religione, che apparentemente avevano condotto al trionfo della verità,<br />

ma con le quali s’intrecciavano ben altri motivi politici, e che di fatto non posero fine alla lacerazio-<br />

ne bensì la confermarono e consolidarono, sacrificando numerose vittime e mantenendo lo stato di<br />

ostilità. I segni dei tempi indicavano comunque il desiderio della pace. Una pace che, però, si pote-<br />

va raggiungere soltanto qualora si fosse riusciti a dimenticare, a omettere, ciò che divideva, per tro-<br />

vare un principio comune di fondo. Lo si conseguì quando si elevò a principio ermeneutico l’uomo,<br />

la natura, la sua ragione. Ne derivò che se prima il segno di genuinità e di veracità era il «confes-<br />

sionale», ora lo diviene l’«universale cristiano». Questo poi acquisì la sua dimensione più vasta<br />

quando venne interpretato come religione naturale, religione razionale, e quando si formularono le<br />

verità comuni a tutti gli uomini: Dio, l’immortalità, la libertà, la virtù e il suo premio, la beatitudine.<br />

Poiché era stato dimostrato che la verità, il dogma e le preoccupazioni di salvaguardarlo avevano<br />

creato sempre nuovi motivi di conflitto e di contesa, e ciò nella stessa misura in cui si moltiplicava-<br />

no gli articoli di fede (per Erasmo di Rotterdam «gli articoli aumentano, ma l’amore diminuisce»),<br />

ci si sentì stimolati a scoprire e a rendere fecondi l’ethos, l’agire, l’ortoprassi come forza unificante;<br />

impegnati a realizzare l’amore, la conciliazione, la virtù, la tolleranza, al fine di giungere ad un<br />

nuovo fondamento. Si raggiunse così un’intesa nel modo di comprendere sia le più fondamentali<br />

qualità ed istanze insite nel cristianesimo, sia le esigenze e bisogni tipici dell’uomo del tempo. Que-<br />

sta autocomprensione dell’uomo si tradusse nella forma dell’«illuminismo», che secondo le note af-<br />

fermazioni di Kant si intese come liberazione dell’uomo dal suo stato colpevole di minorità, come<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

coraggio «di servirsi della propria ragione» 72 , come fiducia nella forza critica della ragione, come<br />

rifiuto della superstizione, come un rivolgersi all’esperienza, un appellarsi alla libertà e alla virtù, un<br />

sentirsi impegnati nella tolleranza, nella fraternità, nella felicità terrena di tutti gli uomini.<br />

Da questi princìpi derivò una nuova interpretazione del dato cristiano, nel quale veniva a superarsi<br />

ogni elemento di separazione confessionale. Secondo lo scritto La religione entro i confini della<br />

semplice ragione (1793) di Kant, le affermazioni dogmatiche sulla grazia, giustificazione e salvezza<br />

devono essere spiegate come un tentativo di chiarificazione, purificazione e miglioramento<br />

dell’uomo. Gli altri dogmi vanno valutati secondo il criterio della loro valenza morale. I misteri, se<br />

intesi come dottrine misteriose, devono essere respinti. Secondo Kant il cammino storico appena i-<br />

niziato proseguirà passando attraverso le seguenti tappe: dalla fede ecclesiastica alla fede biblica, da<br />

questa all’universale fede di ragione, al vero regno di Dio. L’autentico servizio religioso — quello<br />

morale — è l’esercizio della virtù. Ed esso non richiede più alcuna dimensione religiosa, espressa-<br />

mente riferita a Dio. Nell’agire etico si onora Dio e tutte le speciali «cerimonie di corte» devono es-<br />

sere considerate come «illusioni religiose» e «superstizioni». Gesù Cristo però non è assente, ma<br />

viene riconosciuto come l’universale maestro dell’umanità, che ha reso accessibile all’uomo la sua<br />

determinazione umana e gli ha insegnato ad essere uomo umanamente, razionalmente. Virtù e mora-<br />

lità sono la vera sequela di Gesù.<br />

In questa concezione il dato cristiano non viene respinto, ma nel suo insieme e soprattutto nei suoi<br />

tratti peculiari recuperato mediante una nuova interpretazione, umana e morale, riferita all’agire; ac-<br />

quista la propria credibilità e forza e supera tutto ciò che suona ostile, tutto ciò che separa, tutto ciò<br />

che crea barriere confessionali; conduce alla conciliazione tra gli uomini e alla comunione fra i cri-<br />

stiani; si articola in quel tertium quid nel quale tutti possono essere una sola cosa e che al contempo<br />

offre la possibilità di un’unificazione tra gli uomini.<br />

b) Ne derivano anche — soprattutto nell’ambito della concezione cattolica — molteplici conse-<br />

guenze per l’immagine della Chiesa. Questa viene fortemente demitizzata e desacralizzata ed assu-<br />

me la forma di una istituzione morale, di un «corpus morale», di una società: «societas legalis inae-<br />

qualis secundum iuris naturae principia» (B. Stattler). Il che significa che il principio strutturale<br />

della Chiesa è quello di una società umana, di una istituzione fondata sui principi del diritto natura-<br />

le. L’idea di corpus Christi viene compresa proprio in questa dimensione sociologica. Il compito<br />

72 I. KANT, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo (1784), in Scritti politici e di filosofia della storia e del di-<br />

ritto (Torino: UTET, 1965) 141-149.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

della Chiesa consiste nell’educare gli uomini alla ragione, alla pace e alla virtù; l’annuncio del van-<br />

gelo si traduce nell’istruzione sui princìpi della morale, di cui il vangelo è la quintessenza. Nelle<br />

conseguenze derivanti da questi princìpi è implicita la necessità di semplificare le forme della pietà<br />

e della liturgia cristiane, di distanziarle dalle espressioni barocche, esuberanti e legate a dati leggen-<br />

dari, di renderle comprensibili ed accostarle al popolo: avendo cura della lingua madre e dei canti<br />

liturgici, risvegliando l’interesse per la Scrittura. Questi sforzi nell’ambito di un «illuminismo catto-<br />

lico» moderato sono stati fecondi per la Chiesa e per la sua comprensione e non hanno favorito sol-<br />

tanto una «estraneazione razionalistica» 73 . Ricordiamo l’importanza di autori come L.A. Muratori<br />

(Della regolata devozione de’ cristiani), J.M. Sailer e le grandi prospettive come pure gli esiti incer-<br />

ti del Sinodo di Pistoia (1786) e del Congresso di Ems (1786).<br />

c) È molto opportuno ricordare che questa Chiesa, la quale si affermava come «corpus morale» e<br />

«societas legalis», venne pure caratterizzata come «societas inaequalis». Essa è cioè una società<br />

nella quale devono esserci alcuni che hanno la preminenza sugli altri. Questi sono i capi, cui spette-<br />

rebbe il compito di vigilare sulla conservazione fedele delle leggi salutari; sono i giudici, che do-<br />

vrebbero comporre le diverse azioni dei loro sudditi con la norma della ragione e con le prescrizioni<br />

ereditate dal passato; i maestri, che dovrebbero essere in grado di analizzare i casi dubbi, di deter-<br />

minare i più gravi, di correggere quelli quotidiani e di stornare quelli più pericolosi; tutti ammini-<br />

stratori dei mezzi di salvezza, resi salvifici dal sangue del Redentore, e intenti ad applicarli alle per-<br />

sone ben disposte e a rifiutarli a coloro che non hanno tali sentimenti. Ciò significa che, nell’ambito<br />

di un’immagine desacralizzata della Chiesa, emerge una nuova forma di gerarcologia, di clericali-<br />

smo. Il chierico è propriamente il titolare e soggetto dell’agire ecclesiale, «il membro in senso pie-<br />

no», che si contrappone al popolo ecclesiale, ridotto alla funzione di mero ricettore, e ciò anche nel<br />

caso in cui venga qualificato soltanto come servitore della religione, come maestro. In queste condi-<br />

zioni si giunge pure ad una forma estrema di istituzionalizzazione, di ministerializzazione ed alla<br />

conseguente riduzione della libertà attribuita all’attività dello Spirito.<br />

In questa nuova sottolineatura della gerarchia svolge un ruolo importante anche una concezione ti-<br />

pica del deismo. Ricordiamo che caratteristica del clima teologico del secolo XVIII fu la scarsa at-<br />

tenzione data al soprannaturale della religione cristiana. Il deismo, anche ammettendo l’origine di-<br />

vina della creazione, rifiutò ogni altro intervento di Dio nel mondo delle sue creature. Nell’ambiente<br />

razionalista e illuminista i dogmi non erano che affermazioni della ragione umana e norme di con-<br />

73 G. SCHWAIGER, “L’illuminismo nella visione cattolica”, in Concilium (ed. it.) 7 (1967) 101-118.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

dotta per l’uomo. Due fattori influirono soprattutto in questo concetto di dogma: la creazione di una<br />

filosofia della storia profana e indipendente da ogni influsso teologico; l’equiparazione del cristia-<br />

nesimo, privato del suo carattere soprannaturale, con le altre religioni del mondo. Proprio in questo<br />

spirito sorge una concezione “deistica” della Chiesa, caratterizzata da Möhler con le note parole:<br />

«Dio creò (all’inizio) la gerarchia, ed ha provveduto più che abbastanza per la Chiesa, fino alla fine<br />

del mondo» 74 . Dio è attivo ed efficace solo agli inizi della Chiesa, in analogia al suo agire nella cre-<br />

azione; l’ulteriore svolgimento, il decorso della storia, si svolge seguendo leggi, strutture e funzioni<br />

autonome, immanenti alla Chiesa; legittima garante di questo svolgersi è la gerarchia.<br />

d) Se la Controriforma aveva sottolineato che la Chiesa era una società visibile come «l’assemblea<br />

del popolo romano, il regno di Francia o la repubblica di Venezia» (Bellarmino), era inevitabile che<br />

risorgesse un’antica questione: quali sono le relazioni di questa società al regno di Francia o alla re-<br />

pubblica di Venezia? Allo stesso tempo, la forte enfasi nel periodo successivo a Trento sulla Chiesa<br />

quale società gerarchicamente organizzata sotto i legittimi pastori fece rinascere un’altra questione:<br />

come sono organizzati i diritti e le responsabilità di questi pastori? L’impatto culturale e politico<br />

della crescita degli stati nazionali nell’Europa Occidentale offrì il contesto nel quale a queste do-<br />

mande si poteva rispondere in due modi: o si comprendeva la Chiesa come una società fortemente<br />

centralizzata con l’autorità posta primariamente in un papato modellato sulle monarchie assolute<br />

oppure si poteva vedere la Chiesa delimitata dai confini nazionali e così enfatizzare il ruolo delle<br />

gerarchie nazionali. È sintomatico che le discussioni ecclesiologiche fino al tempo della Rivoluzio-<br />

ne Francese furono concentrate proprio sulle questioni interconnesse della politica ecclesiastica (il<br />

“Gallicanesimo” episcopaliano in Francia; il “Febronianesimo” nei paesi di lingua tedesca) e le re-<br />

lazioni fra Chiesa e stato (il “Gallicanesimo” regalista in Francia; il “Giuseppinismo” in Austria).<br />

Il “Gallicanesimo” è un fenomeno complesso con radici molto antiche. La pretesa che la Chiesa in<br />

Francia fosse più o meno esente dall’autorità papale in ragione di vari privilegi collegati alla corona<br />

francese era stata asserita con vari gradi di forza fin dall’alto Medio Evo; aveva raggiunto il suo api-<br />

ce durante il Grande Scisma Occidentale in congiunzione con le dottrine conciliariste, ed era stata<br />

difesa storicamente, canonicamente e teologicamente da vari autori anche dopo il Concilio di Trento<br />

(ad es. Edmond Richer [1560-1631], Pierre de Marca [1594-1662]). Nello stesso tempo misure pra-<br />

tiche di Gallicanismo regalista cercarono di limitare il potere della sede di Roma nella Chiesa di<br />

74 ThQ 5 (1823) 497; sul tema J.R. GEISELMANN, “Chiesa e spiritualità nei movimenti spirituali della prima metà del sec.<br />

XIX”, in: Sentire Ecclesiam II, op. cit., 121-220.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Francia. La Prammatica Sanzione di Bourges (1438), in cui il clero francese asseriva che le proprie-<br />

tà ecclesiastiche e le nomine dei vescovi in Francia non erano soggette alla giurisdizione papale, era<br />

stata soppiantata dall’ancora più esteso Concordato di Bologna (1516) che riconosceva il diritto del-<br />

la corona di Francia a designare virtualmente tutti i vescovi e gli abati nei suoi domini. Poiché i de-<br />

creti del Concilio di Trento erano in conflitto con le provvisioni del Concordato, la monarchia fran-<br />

cese non permise la loro pubblicazione in Francia. Il cardinal Richelieu (1585-1642) aveva persino<br />

pensato alla formazione di un Patriarcato di Francia, equivalente in autorità ai patriarcati orientali,<br />

che avrebbe reso la chiesa di Francia virtualmente indipendente dalla sede papale. Nel 1663 la facol-<br />

tà della Sorbona, su sollecitazione del re, pubblicò una dichiarazione che affermava la libertà della<br />

corona dall’autorità papale, asseriva la supremazia dei concili ecumenici sul papato e rigettava<br />

l’infallibilità papale. La formulazione più semplice delle rivendicazioni gallicane sono i quattro Ar-<br />

ticoli Gallicani scritti da Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) ed accolti dall’assemblea del clero<br />

francese del 1682. Gli Articoli affermavano che il papa non ha alcun potere sulle questioni tempora-<br />

li e che perciò i re non sono soggetti all’autorità ecclesiastica in tali materie; che il papato non può<br />

né deporre un monarca né sciogliere i sudditi dal vincolo di fedeltà; che un concilio generale pos-<br />

siede un’autorità maggiore del papa; che le tradizionali libertà gallicane sono inviolabili; e che fin-<br />

ché non sono ratificati da un concilio generale, i decreti papali sono riformabili. In tal modo le due<br />

correnti del Gallicanesimo — quello regalista che asseriva l’indipendenza dei monarchi dall’autorità<br />

ecclesiastica, in specie quella papale, e quello episcopalista, che difendeva i diritti dei vescovi indi-<br />

viduali e delle gerarchie nazionali nei confronti della centralizzazione romana — confluirono l’uno<br />

nell’altro negli Articoli e si rafforzarono a vicenda. Sebbene questi Articoli furono condannati da<br />

Roma nel 1690 e ritirati da Luigi XIV nel 1693, la loro sostanza continuò ad essere oggetto di inse-<br />

gnamento nelle scuole e nei seminari francesi per tutto il diciottesimo secolo.<br />

Nei territori germanofoni la corrente episcopaliana trovò la sua più chiara espressione nel Febronia-<br />

nismo. Il nome viene da Justinus Febronius, lo pseudonimo di Nikolaus von Hontheim (1701-90),<br />

vescovo suffraganeo di Treviri, il quale nel 1763 pubblicò il De statu Ecclesiae et legitima potestate<br />

Romani Pontificis liber singularis, sui rapporti fra il vescovo locale e il papa. Seguendo i canonisti<br />

gallicani con cui aveva studiato in Belgio, Hontheim riteneva che il Cristo aveva conferito il potere<br />

delle chiavi alla Chiesa tutta, sebbene esso fosse esercitato dai vescovi individualmente e raccolti in<br />

un concilio generale. Il primato papale era puramente un primato di onore; il ruolo del papa era<br />

quello di un coordinatore che cercava di assicurare la pace e l’armonia nella Chiesa universale. Era<br />

richiesta un’approvazione episcopale, sia individuale che conciliare, per la validità di ogni direttiva<br />

papale. Il papa non aveva alcuna autorità per nominare o persino confermare i vescovi e certamente<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

non di deporli. Hontheim suggeriva un piano di azione con cui i vescovi tedeschi avrebbero potuto<br />

forzare il riconoscimento romano di ciò che egli riteneva l’ordine proprio della Chiesa. Ad un in-<br />

contro tenutosi nel 1786 a Bad Ems i rappresentanti delle maggiori sedi metropolitane di Germania<br />

emanarono una dichiarazione in ventitré articoli, la Punctatio di Ems, che essenzialmente incarnava<br />

il programma di Febronio e invitava l’imperatore a sollecitare un Concilio di tutti i vescovi tedeschi.<br />

Il corrispettivo tedesco del Gallicanesimo regalista fu il Giuseppinismo, dal nome dell’imperatore<br />

Giuseppe II (1741-90), un “despota illuminato”, che cercò di riformare l’Austria e la Chiesa secon-<br />

do i principi dell’Illuminismo. Il suo principio base era quello di ritenere che la Chiesa e i suoi mi-<br />

nistri erano subordinati all’autorità civile in tutte le materie che non toccavano direttamente la dot-<br />

trina, come per esempio la riforma delle pratiche liturgiche, la disciplina del clero, il regolamento<br />

delle scuole ecclesiastiche, la ristrutturazione dei confini delle diocesi e delle parrocchie… Egli ve-<br />

deva i vescovi e i parroci come amministratori civili che dovevano assecondare lo Stato, vera e uni-<br />

ca societas perfecta, nel suo compito di educazione complessiva dei sudditi.<br />

2.5. Il rinnovamento ecclesiologico del XIX secolo<br />

2.5.1. La Rivoluzione francese e le sue conseguenze<br />

a) Il periodo che segue all’illuminismo è in parte condizionato dall’immagine di Chiesa delineatasi<br />

in quest’epoca e rimane contrassegnato da alcuni avvenimenti storici.<br />

Innanzitutto bisogna ricordare la Rivoluzione Francese. In quanto abbattimento del sistema sociale<br />

del feudalesimo in nome della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità, e proclamazione dei diritti<br />

dell’uomo, insita nell’istanza dello stesso illuminismo francese, questa rivoluzione comportò — ad<br />

incominciare dalla Francia — la soppressione dei privilegi e dei poteri fino allora accordati al ceto<br />

clericale, soprattutto alle cerchie imparentate con la nobiltà. Ma significò pure la dissoluzione delle<br />

precedenti forme di organizzazione ecclesiastica e la separazione della Chiesa dallo stato, ora seco-<br />

larizzato, pienamente conscio della propria dignità e deciso a rivendicare i suoi pieni poteri anche in<br />

campo religioso. Questa nuova coscienza condusse in parte anche ad una ostilità aperta nei confronti<br />

della Chiesa, fino a sfociare nella persecuzione. In ogni caso la Chiesa dovette subire gravi umilia-<br />

zioni, alle quali contribuì in modo determinante anche il modo in cui Napoleone trattò il papa, con<br />

l’obiettivo di sottoporlo interamente al servizio del proprio disegno politico. Dal canto suo il papa<br />

fu costretto a creare un nuovo ordine di rapporti con lo stato e con gli stati servendosi a tale scopo<br />

dei concordati. Tuttavia il corso degli avvenimenti volle che il papa, così impotente, avvilito e umi-<br />

liato, conferisse anche un nuovo prestigio ed una crescente simpatia al proprio ministero.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

b) La secolarizzazione, strettamente connessa con l’illuminismo e con la rivoluzione francese, signi-<br />

ficò soprattutto per la Germania, con il bando della deputazione imperiale, la fine del potere clerica-<br />

le territoriale (1803), la confisca dei beni sino allora posseduti dalla Chiesa, specialmente da mona-<br />

steri e capitoli, a favore dei principi secolari; la fine dell’organizzazione ecclesiastica esistente e del-<br />

le sue forme, ma anche la fine dell’idea medievale dell’impero, del sacro romano impero della na-<br />

zione germanica. La secolarizzazione sottrasse alla Chiesa le sue basi economiche, le sue molteplici<br />

istituzioni e soprattutto il suo apparato di formazione, molto esteso e influente. Significò pure la fi-<br />

ne di quella funzione protettiva che il potere imperiale aveva svolto nei confronti della Chiesa.<br />

Anche la secolarizzazione fu un modo di esprimere il distacco tra potere spirituale e potere terreno e<br />

comportò una depoliticizzazione della Chiesa. Tuttavia questa perdita in realtà fu un guadagno. Re-<br />

se infatti i vescovi liberi da ogni compromissione secolare, specialmente di ordine politico; li spo-<br />

gliò del loro ruolo di principi, di signori territoriali, di principi elettori, e li richiamò finalmente ai<br />

loro compiti e responsabilità spirituali e pastorali, da lungo tempo dimenticati o ritenuti di seconda-<br />

ria importanza. La nuova situazione costrinse la Chiesa a rinunciare al braccio secolare e ai mezzi<br />

che esso le metteva a disposizione; a contare soltanto sulle proprie forze, a basarsi e mantenersi sol-<br />

tanto sul fondamento della propria natura e missione, ad esprimere e a realizzare ciò che ad essa è<br />

proprio, che non può essere barattato con alcunché né può derivarle da altri. E questo le riuscì quan-<br />

to più chiaramente le circostanze l’aiutarono, od anche la costrinsero, a battere da sola tale cammi-<br />

no, senza lasciarsi coinvolgere in altri interessi e senza contare su aiuti estranei.<br />

2.5.2. Il Romanticismo<br />

Un altro avvenimento importante per l’immagine di Chiesa è il diffondersi di questa tendenza cultu-<br />

rale, che sorge come movimento diretto contro certi impulsi del razionalismo (illuminismo e dei-<br />

smo) e si diffonde in tutti i campi del sapere e dell’agire umano. Tale tendenza rimette in luce<br />

l’importanza della tradizione e della storia, risveglia una sensibilità nuova per le dimensioni del-<br />

l’interiorità, del sentimento (del cuore), per la realtà del popolo e della comunità e per gli elementi<br />

vitali su cui queste si fondano. Una vasta corrente romantica ha influenzato le impostazioni eccle-<br />

siologiche d’inizio ’800 e ha contribuito non poco all’evoluzione della dottrina ecclesiologica.<br />

Da questi impulsi deriva una nuova immagine di Chiesa che, se non è presente ovunque in senso<br />

geografico, è tuttavia determinante per la «geografia ecclesiologica» 75 . Dopo la rinascita religiosa e<br />

75 R. AUBERT, “La geografia ecclesiologica del XIX secolo”, in Sentire Ecclesiam II, op. cit., 47-120.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

teologica promossa da Trento, infatti, la teologia aveva conosciuto un certo ristagno e decadenza, e<br />

aveva visto la prevalenza di forme ripetitive di neo-scolastica postridentina, con un’impostazione<br />

ecclesiologica prevalentemente guidata da canoni socio-giuridici. Nella prima metà del XIX secolo<br />

vi è una certa fioritura teologica, quella che Congar chiama «rinnovamento della teologia del XIX<br />

secolo» 76 . Questa figura di Chiesa, ispirata dai motivi del romanticismo, si affermò soprattutto in<br />

Germania e in particolar modo nella scuola cattolica di Tubinga, dove J.M. Sailer segnò il passag-<br />

gio dall’illuminismo al romanticismo. L’esponente più importante della nuova <strong>ecclesiologia</strong>, accan-<br />

to a J.S. Drey, il fondatore, è Johann Adam Möhler<br />

a) Introduzione<br />

2.5.3. Fermenti di rinnovamento nell’<strong>ecclesiologia</strong> della Scuola di Tubinga<br />

Ai problemi posti dal razionalismo e dal liberalismo nella cultura e nella politica, e alle tendenze e-<br />

piscopaliste e giuseppiniste nelle relazioni tra vescovo e papa concernenti il governo della chiesa e<br />

tra le relazioni Chiesa-Stato, nell’ambito politico-ecclesiastico, risponde l’<strong>ecclesiologia</strong> ultramonta-<br />

na (cfr. infra § 2.5.4.) rafforzando l’autorità della chiesa e, concretamente, della gerarchia, tanto nel-<br />

la dimensione dottrinale come nelle sue relazioni con il potere temporale. Mentre questa immagine<br />

della chiesa, centrata dalla fine del sec. XVIII sugli aspetti dell’autorità, dominò nei circoli dei teo-<br />

logi e dei canonisti ultramontani e negli ambienti ufficiali della curia papale, fermenti di rinnova-<br />

mento dell’<strong>ecclesiologia</strong> e, di conseguenza, dell’immagine stessa della chiesa cercarono di farsi<br />

strada. Questi partivano dalla nozione teologica della chiesa come organismo vivo di quanti sono<br />

uniti tra di loro e con Cristo, anzitutto, mediante vincoli soprannaturali di grazia, inclusa, natural-<br />

mente, la sottomissione all’autorità gerarchica.<br />

Fondandosi su questa nozione di chiesa e tornando alle fonti della teologia, i rappresentanti più illu-<br />

stri della scuola di Tubinga (e poi della Scuola romana) si proponevano un autentico rinnovamento<br />

dell’<strong>ecclesiologia</strong> e una vera restaurazione della chiesa tam in capite quam in membris.<br />

b) L’opera ecclesiologica di J.A. Möhler (1796-1838)<br />

Esponente della Scuola cattolica di Tubinga, influenzata dal romanticismo, Johann Adam Möhler<br />

(1796-1838) è il teologo considerato ‘simbolista’ per eccellenza e anche precursore del pensiero e-<br />

cumenico in ambito cattolico. La sua teologia della Chiesa è presente principalmente in due opere:<br />

76 CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, op. cit., 417.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Die Einheit in der Kirche (L’unità nella Chiesa, cioè il principio del cattolicesimo nello spirito dei<br />

Padri della Chiesa dei primi tre secoli, 1825) e Symbolik (Simbolica o esposizione delle antitesi<br />

dogmatiche tra cattolici e protestanti secondo i loro scritti confessionali pubblici, 1832, 1838 5 ).<br />

Superando un’<strong>ecclesiologia</strong> condotta secondo criteri meramente esteriori, morali e socio-giuridici,<br />

egli si scosta dalle concezioni illuministiche, controversistiche e anche meramente spiritualistiche<br />

(presenti nel pietismo), si scosta dai modelli classici di tipo “somatico” e “politico”, optando per un<br />

modello pneumatologico: la Chiesa è vista come vita nello Spirito.<br />

Nella prima opera egli, alla scuola dei Padri, vede la radice dell’unità nella Chiesa nell’opera e crea-<br />

zione dello Spirito, dello Spirito di Cristo vivente nella comunità dei fedeli. Questa unità interiore,<br />

sorretta sempre dallo Spirito, crea un espressione conforme alla propria natura nell’unità del corpo<br />

della Chiesa: negli organi e nei ministeri della Chiesa, che a loro volta devono essere la traduzione<br />

corporea della realtà interiore, la manifestazione dello Spirito nella fede, nella speranza e nella cari-<br />

tà. Tale principio — che è la fede cristiana —, è anzitutto fede nella comunicazione della vita di Dio<br />

nello Spirito, dove «ogni individuo deve accettare in sé attraverso un’esperienza religiosa personale,<br />

la vita santa che esiste nella Chiesa. Egli deve trasformare e fare veramente propria nella sua con-<br />

templazione l’esperienza religiosa della comunità. Deve infine lasciare che si crei e si sviluppi in sé<br />

una vita tutta santa, in armonia con le disposizioni che la sua conoscenza del Cristianesimo avrà su-<br />

scitate». Così «la totalità dei doni dello Spirito sta soltanto nella totalità dei credenti».<br />

Parlando di Tradizione, Möhler dice che consiste nel Vangelo predicato cominciando dagli apostoli;<br />

osserva che il Vangelo scritto è posteriore al Vangelo vivo e predicato e riproduce quest’ultimo.<br />

Pertanto, l’interpretazione della Scrittura va respinta se non è conforme alla Tradizione viva che<br />

sussiste nella Chiesa.<br />

Oltre che radice dell’unità di fede e di tradizione, lo Spirito Santo è alla base anche dell’unità di go-<br />

verno della Chiesa, dal momento che il ministero episcopale sorge in forza di un’istanza pneumati-<br />

ca. Il nostro Autore argomenta così:<br />

«Appena il santo principio, formatore di unità, è divenuto attivo nell’anima dei fedeli, questi si<br />

sentono tanto attirati gli uni verso gli altri e tesi verso l’unione con tutti, che le loro aspirazioni<br />

profonde sono soddisfatte unicamente quando vedono la loro unità rappresentata, concretata in una<br />

figura. Il vescovo è, per un luogo determinato, la figura visibile dell’unione invisibile di tutti i cristiani.<br />

In lui è personificato l’amore degli uni per gli altri; egli è la manifestazione e il centro vivo<br />

dei sentimenti cristiani che aspirano all’unità […]. Egli è l’amore dei cristiani realizzato e pienamente<br />

cosciente. Inoltre egli è il mezzo migliore per alimentarlo e conservarlo in unità» 77 .<br />

77 J.A. MÖHLER, L’unità nella Chiesa (Roma: Città Nuova, 1969) 226.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

La vita dello Spirito, però, unisce i fedeli ben oltre i confini della diocesi; sono quindi necessarie al-<br />

tre personificazioni dell’unità interiore: i metropoliti e i patriarchi, i quali costituiscono non solo il<br />

centro, ma anche il frutto di una tensione ultradiocesana. Si giunge poi, al culmine supremo d’unità,<br />

al Pontefice Romano, che è la personificazione, il centro, il frutto dell’unità di tutta la chiesa. Così<br />

la vita cristiana, lo «spirito del cristianesimo» — effetto dello Spirito santo vivente nel cuore dei fe-<br />

deli e da loro ricevuto solo tramite la comunità — ha la sua massima manifestazione, garanzia ed<br />

esplicazione nella persona del papa, che è il frutto più maturo della carità di tutta la chiesa.<br />

La concentrazione pneumatica, che Möhler dà alla sua <strong>ecclesiologia</strong> in quest’opera, è controbilan-<br />

ciata dalla ripresa in Symbolik della dimensione cristologica — la quale gli consente meglio di op-<br />

porsi all’idea protestante di una Chiesa invisibile: il fondamento ultimo della visibilità della Chiesa<br />

sta nel Verbo incarnato. Quest’immagine di Chiesa fortemente cristocentrica e sacramentale lo porta<br />

a parlare della comunità dei credenti come una sorta di “incarnazione continuata”:<br />

«La Chiesa è il Figlio di Dio che si manifesta perennemente tra gli uomini in forma umana, che si<br />

rinnova continuamente e permane sempre immutabile, cioè la continua e perenne incarnazione del<br />

Figlio di Dio» 78 .<br />

L’aspetto esteriore della chiesa è fondato sull’autorità e sulla concretezza storica di Cristo; da lui<br />

promana la realtà sacramentale e gerarchica della chiesa. Non è solo l’azione unitaria dello Spirito<br />

che concretizza l’unità nei vescovi e nel papa, ma è anche l’autorità di Cristo, il quale li ha istituiti<br />

come continuatori della sua opera redentrice.<br />

Oltre a questo aspetto esteriore, vi è, però, l’aspetto interiore della chiesa, che è pur sempre basilare.<br />

Questo elemento interno ora però viene visto fondamentalmente in Cristo, Figlio di Dio fatto uomo.<br />

Con ciò non viene esclusa l’azione dello Spirito santo. Egli continua a vivere e ad agire nella chiesa;<br />

ma non si presenta più in modo indipendente, quasi assoluto; è sempre lo Spirito di Cristo, da Cristo<br />

mandato. La sua azione ecclesiale ubbidisce ora alla legge fondamentale dell’incarnazione.<br />

La chiesa non è tanto una continua Pentecoste, quanto una continua incarnazione; o meglio, è pur<br />

sempre considerata come una Pentecoste, ma tenendo presente che lo Spirito disceso dal cielo è lo<br />

Spirito del Verbo Incarnato, da lui inviato. Non per nulla ha preso un aspetto concreto, visibile,<br />

quando è disceso sugli apostoli sotto forma di lingue di fuoco: ciò è in piena consonanza con la vi-<br />

sibilità del Verbo Incarnato, la quale fonda la visibilità essenziale della chiesa. E l’azione dello Spi-<br />

rito continua a svolgersi per mezzo di elementi visibili: i segni visibili nei sacramenti; i predicatori,<br />

78 J.A. MÖHLER, Simbolica (Milano: Jaca Book, 1984) paragrafo 36.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

nell’annuncio della verità. La chiesa dunque non è solo la vita nuova che germoglia sotto l’azione<br />

dello Spirito santo, o la carità da lui promanante; essa è fondamentalmente la continuazione viva e<br />

perenne dell’opera redentrice del Cristo. La chiesa non è più l’unità nell’amore formata dallo Spirito<br />

santo, ma è l’istituzione salvifica fondata da Cristo e penetrata dalla potenza del Figlio di Dio fatto<br />

uomo; il Cristo redentore che continua a vivere e ad operare; è l’incarnazione sempre attuale del Fi-<br />

glio di Dio. Così il Papa non è più solo coronamento, ma anche fondamento dell’unità.<br />

Per cui Möhler può dire che «tutto il cristianesimo è fondato sul Figlio di Dio fatto uomo». Ecco<br />

perché la Scrittura ha chiamato i credenti corpo di Cristo. In modo analogo e vivente, essa è una co-<br />

pia dell’originale Cristo, in quanto in lei si dà tanto l’elemento divino che l’umano senza confusione<br />

e senza separazione. Tra il Verbo incarnato e la chiesa si dà un rapporto di vera analogia.<br />

Questa immagine non venne propugnata soltanto dal Möhler e dalla scuola di Tubinga, ma influì<br />

sull’intera teologia tedesca ed anche su quella straniera, come ad es., sulla “Scuola Romana” (cfr.<br />

infra 2.6.1.); anche se bisogna aggiungere che l’immagine della Chiesa, nella prima metà del sec.<br />

XIX, non è caratterizzata soltanto dal Möhler e dai suoi impulsi ecclesiologici.<br />

2.5.4. L’<strong>ecclesiologia</strong> ultramontana<br />

Nello stesso periodo si nota che, quanto più si riduce il potere terreno della Chiesa e lo stato eccle-<br />

siastico perde d’importanza, tanto più viene accentuato con unilateralità il dato gerarchico e soprat-<br />

tutto il ruolo pontificio. Questa sottolineatura della figura papale, l’articolazione della sua suprema-<br />

zia giurisdizionale con la prerogativa dell’infallibilità significano tanto una reazione alla sorte riser-<br />

vata ai pontefici del tempo quanto una risposta all’assoggettamento dei vescovi al potere dello stato,<br />

e quindi all’implicito pericolo dell’isolamento e frantumazione. Quasi di per se stesso il papato, in-<br />

teso come centro di unità, si offriva come il mezzo di difesa ed il garante della libertà.<br />

L’esponente di questo ultramontanesimo e papalismo in Francia, dove sopravviveva ancora un gal-<br />

licanesimo moderato, aspramente combattuto dalle cerchie ultramontaniste, fu JOSEPH DE MAISTRE,<br />

con la sua opera Du Pape (1819). Egli, facendo leva su ragioni politiche e mirando a una restaura-<br />

zione della sovranità monarchica, sosteneva che come al tempo del Medioevo così anche ora il papa<br />

era chiamato ad assolvere una missione europea, la quale necessariamente comportava il privilegio<br />

del primato e dell’infallibilità. In una lettera al conte di Blacas così sintetizzava la propria posizione:<br />

Il cristianesimo si fonda interamente sul papa. Per cui potremmo enunciare il principio ispiratore<br />

dell’ordinamento socio-politico […] con questa concatenazione: non si dà pubblica morale e<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

nemmeno carattere nazionale a prescindere dalla religione, come non c’è religione europea senza il<br />

cristianesimo, il cristianesimo senza il cattolicesimo, il cattolicesimo senza papa, e non c’è papa<br />

che non goda di sovranità 79 .<br />

È chiaro che al de Maistre interessava più la restaurazione della monarchia che la sorte del cattolice-<br />

simo. D’altra parte, dobbiamo riconoscergli un merito: egli si era accorto che una questione come<br />

quella dei rapporti tra il papa e la chiesa non si poteva risolvere unicamente rifacendosi alle situa-<br />

zioni esistenti nell’antichità cristiana, ma che era necessario considerare attentamente anche le con-<br />

dizioni attuali della chiesa (il principio dello sviluppo dogmatico).<br />

Un influsso maggiore soprattutto sui centri ecclesiastici fu quello di HUGO FELICITÉ ROBERT DE LA-<br />

MENNAIS [fino al 1834: de La Mennais]. Di fronte agli influssi liberali che cercavano di affermarsi<br />

al principio della restaurazione egli pensava che solo dalla chiesa, incarnata nel Papa, il re poteva<br />

ricevere un potere abbastanza forte per imporre l’ordine nella società; d’altra parte, soltanto un clero<br />

indipendente dallo stato e diretto da un papa infallibile, signore incontestato nella chiesa, poteva go-<br />

dere del prestigio morale necessario per salvare la libertà spirituale dal potere politico. L’ultra-<br />

montanismo di Lamennais non era propriamente parlando una fede nella superiorità soprannaturale<br />

del papa, ma piuttosto un metodo politico. Il successo del suo Saggio sull’indifferenza in materia di<br />

religione, fece sì che la sua campagna in favore dell’ultramontanesimo attirasse l’attenzione di un<br />

certo numero di giovani preti, preoccupati di rinnovare i metodi dell’apostolato. Questi formarono<br />

un nucleo di discepoli entusiasti (Gerbert Salmis, Guéranger 80 , Combelot, Rhorbacher) che non<br />

vennero meno neanche dopo la defezione di Lamennais a seguito della enciclica di Gregorio XVI<br />

Mirari vos (1832). In questo atteggiamento di fondo si staglia sempre più decisamente il fattore del-<br />

la «romanità», tipico dell’immagine di Chiesa delineatasi in quel periodo e secondo cui la realtà ec-<br />

clesiale deve essere innanzitutto compresa come chiesa pontificia ed ogni essere ed agire ecclesiali<br />

derivati dal papato e da questi determinati in modo centralistico. Non si era dunque tanto lontani da<br />

un culto al papa che rasentava persino la bestemmia: Louis Veuillot riferiva, ad es., alla persona<br />

stessa del pontefice il passo di Eb 7,6, che la lettera applica al Cristo, e l’inno «Veni sancte Spiri-<br />

tus».<br />

L’ultramontanismo ha i suoi esponenti anche in altri paesi. In Germania troviamo diverse «cerchie»:<br />

a Magonza (Liebermann), a Münster, a Monaco; in Austria, a Vienna (Hofbauer); in Inghilterra è<br />

79 J. DE MAISTRE, Lettre au Comte de Blacas, 22 Mai 1814, in Correspondances IV (Lyon 1821) 428.<br />

80 M.-H. DELOFFRE, Confesser l’Église. Introduction à l’ecclésiologie de dom Gueranger, Éd. de Solesmes, 2006.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

propugnato soprattutto dai convertiti, primo fra i quali il futuro cardinale Manning (è interessante<br />

notare la posizione ben diversa assunta invece da J.H. Newman).<br />

Questo tratto ecclesiale prese ancora più consistenza quando incominciò ad imporsi sempre più vi-<br />

gorosamente la teologia romana con la sua neoscolastica. Tale riflessione teologica non traeva le<br />

sue origini da un confronto creativo con lo spirito del tempo, come invece notiamo nei tentativi in-<br />

trapresi a Tubinga e in parte anche a Monaco (Döllinger), Bonn (Hermes) e Vienna (Günther), ma<br />

era preoccupata soltanto di difendersi contro il pensiero moderno e lo spirito del tempo, che si bol-<br />

lavano come incompatibili con la dottrina cristiana. Il suo sforzo si esauriva nel conservare il patri-<br />

monio ereditato dal passato — che si riteneva avesse trovato nella scolastica la sua articolazione ed<br />

esposizione insuperabile — e nel contrapporlo come un baluardo alle tempeste e ai turbamenti<br />

dell’epoca. Può essere sintomatico di questa mentalità il fatto che l’edilizia ecclesiastica non fu in<br />

grado di crearsi una propria e specifica espressione, ma si limitò ad un’opera restauratrice, a copiare<br />

il romanico e il gotico (ora neoromanico e neogotico), esaurendosi così nell’arte dei «nazareni».<br />

Questo impulso di fondo condiziona decisamente e globalmente anche l’immagine di Chiesa di quel<br />

periodo: la Chiesa è l’opposizione e contraddizione allo spirito del tempo perché, e negli stessi ter-<br />

mini in cui, questo spirito è opposizione e contraddizione alla fede e quindi alla mentalità dei cre-<br />

denti. Secondo la diagnosi stilata da questa teologia al fondo degli “errori moderni” ci sta il raziona-<br />

lismo, il culto della ragione autonoma, quella che affermando il suo primato rigetta qualsiasi altra<br />

autorità, anche l’autorità di Dio e della Chiesa. Inevitabilmente, quindi, il razionalismo porta alla<br />

negazione dell’esistenza di Dio e all’ateismo. Strettamente legato ad un atteggiamento del genere è<br />

il naturalismo, quel culto della pura mondanità che sostituisce la fede in Dio con la fede nel pro-<br />

gresso scientifico e sociale. Dal naturalismo e dall’empirismo seguirebbe poi il materialismo, il qua-<br />

le nega la natura spirituale dell’uomo. In tal modo, però, si viene a mettere in questione la stessa ra-<br />

gione e la sua capacità di verità. Relativismo e indifferentismo sarebbero gli effetti, mentre la radice<br />

di tutti i mali consisterebbe nella Riforma, nel cui nome il giudizio privato del singolo è stato inse-<br />

diato al posto dell’autorità della Chiesa. È qui che si vede il luogo di nascita della rivendicazione<br />

moderna dell’autonomia dell’uomo, della sua ragione, della sua libertà. E il liberalismo, che divulga<br />

sul terreno culturale e politico un’istanza del genere, altro non sarebbe che il rifiuto dell’autorità di<br />

Dio e della sua Chiesa. Contro questi errori occorre ingaggiare una battaglia senza quartiere. Ogni<br />

attività dev’essere pensata e ordinata ad un unico scopo: impedire l’irruzione dall’esterno delle for-<br />

ze nemiche e devastatrici, e rafforzare il fronte interno, renderlo compatto, aumentarne le possibilità<br />

difensive. Inoltre si pensa di poter raggiungere efficacemente questo obiettivo solo conferendo<br />

un’espressione chiara e univoca al contenuto della fede, e ciò mediante l’oggettivazione dei conte-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

nuti di fede nella forma di definizione dogmatica, di rifiuto deciso di ogni eresia, confusione, falso<br />

comportamento, chiaramente diagnosticati. Espressioni emblematiche di questa concezione di Chie-<br />

sa sono l’enciclica Mirari Vos di Gregorio XVI (autore come Mauro Cappellari dello scritto Trionfo<br />

della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori), il Sillabo di Pio IX (DzH 2901-<br />

2980) e il concilio Vaticano I (1869/70), il quale riassume tutti questi impulsi.<br />

L’obiettivo è quello di unificare il mondo cattolico, per produrre una dimostrazione eloquente della<br />

verità, che contraddica gli errori del tempo, e adeguare la disciplina ecclesiastica alla situazione.<br />

Notiamo che Gregorio XVI aveva avvertito l’appello alla riforma della chiesa come un attacco alla<br />

sua essenza, «quasi che questa possa essere esposta a delle carenze». L’appello al rinnovamento ed<br />

alla conversione doveva essere rivolto al mondo soltanto, perché la Chiesa era il «signum levatum in<br />

nationes», come affermerà il Vaticano I (Costituzione Dogmatica «Dei Filius», cap. 3; DzH 3014).<br />

In questo modo ecclesialità e antimodernità diventano praticamente identiche. La restaurazione di<br />

un cattolicesimo identificato di fatto con l’autorità papale e legato al centralismo romano costituisce<br />

lo sforzo dell’apologetica e della teologia della Chiesa nel XIX secolo e ancora nel XX. Questa ec-<br />

clesiologia ultramontana, dominante tra il 1850 e il 1950, trova la sua espressione peculiare nella<br />

comprensione della Chiesa come «società perfetta» (cioè indipendente). Questa nozione, nella sua<br />

intenzione basilare, ha di mira correttamente la libertà e l’indipendenza della Chiesa di fronte allo<br />

Stato. Sullo sfondo dell’<strong>ecclesiologia</strong> occidentale e collegata alla forma razionalistica di pensiero,<br />

all’apologetica antimoderna e alla fissazione della forma organizzativa centralistica dello Stato,<br />

questa autocomprensione tuttavia determina verso l’esterno una rigida chiusura rispetto alla cultura<br />

e alla società moderna e un recupero di forme di vita premoderne e, verso l’interno, mediante<br />

l’accentuazione dell’autorità e della gerarchia, una divisione chiara nella Chiesa fra chierici e laici e,<br />

dal punto di vista della forma costituzionale, un’uniformazione «ultramontana» e centralistica della<br />

Chiesa attraverso la liturgia e la disciplina romana, così che la Chiesa cattolica poteva apparire<br />

dall’esterno ormai solo come un’unica diocesi papale.<br />

I papi del XIX secolo, sullo sfondo di una tendenza diffusa alla restaurazione, contro la sovranità<br />

dello Stato moderno, contro la critica nei confronti della Chiesa, contro le tendenze episcopalistiche<br />

e gallicane e contro i primi tentativi di una teologia e di una vita religiosa adattate all’epoca moder-<br />

na, hanno ripreso con decisione l’antico programma della libertas Ecclesiae ma ormai nella consa-<br />

pevolezza dell’impossibilità di ridare vita a un ordine unitario di cristianità sacrale: la Chiesa è una<br />

societas perfecta che si distingue da tutte le altre società per il suo carattere soprannaturale, la sua<br />

struttura gerarchica che possiede nel papato il suo principio di unità, la sua pretesa di universalità<br />

(cfr. Pio IX, Sillabo 1864, prop. 19ss.: DzH nn. 2919ss). In tale prospettiva, il papato e la sua autori-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

tà divengono il perno dell’indipendenza e della libertà ecclesiale. Nella costituzione Pastor Aeter-<br />

nus del concilio Vaticano I (1870) questa <strong>ecclesiologia</strong> riceverà la sua sanzione magisteriale.<br />

2.6. L’<strong>ecclesiologia</strong> dal Vaticano I al Vaticano II<br />

La riflessione teologica sulla Chiesa ha seguito una traiettoria che possiamo dividere in quattro pe-<br />

riodi cronologicamente disuguali, ma ognuno con una concentrazione tematica distinta.<br />

Il primo periodo, partendo dal Vaticano I, comprende più o meno mezzo secolo. La riflessione sulla<br />

dottrina ecclesiologica avviene sotto il segno dell’<strong>ecclesiologia</strong> proposta nella costituzione dogmati-<br />

ca Pastor Aeternus del 18 luglio 1870. In questo periodo l’<strong>ecclesiologia</strong> procede con diligenza a<br />

consolidare gli elementi fondamentali acquisiti dal Vaticano I, mentre, nello stesso tempo si va a-<br />

prendo lentamente a nuove idee ecclesiologiche e soprattutto a nuovi impulsi di rinnovamento della<br />

vita ecclesiale. Questo primo periodo si può considerare chiuso verso la fine del secondo decennio<br />

del secolo XX.<br />

Verso il 1920 si inizia il secondo periodo con un risveglio euforico del senso della Chiesa nel cam-<br />

po teologico e in tutta la vita ecclesiale. Da questa nuova esperienza della Chiesa nasce un rinnova-<br />

mento ecclesiologico, che determina la traiettoria ascendente del progresso della <strong>ecclesiologia</strong> per<br />

quasi due decenni. Verso il 1937 questo rinnovamento dell’<strong>ecclesiologia</strong> incontra seri ostacoli che<br />

tentano di sviarla verso soluzioni estremiste e unilaterali.<br />

Il terzo periodo comprende più o meno gli anni dal 1940 al 1950 con la pubblicazione della encicli-<br />

ca Mystici Corporis (1943) di Pio XII come punto centrale di questa fase del rinnovamento ecclesio-<br />

logico sotto il segno della discussione diretta di posizioni ecclesiologiche diverse. Da questo incon-<br />

tro di opinioni e tendenze ecclesiologiche a prima vista inconciliabili, con l’aiuto dell’intervento del<br />

Magistero e di una critica sincera e aperta dopo l’enciclica Mystici Corporis, a quasi dieci anni dalla<br />

sua pubblicazione si delinearono già diversi indirizzi che avrebbero reso possibile in epoca concilia-<br />

re e post-conciliare una integrazione delle ecclesiologie del Corpo mistico con l’<strong>ecclesiologia</strong> del<br />

popolo di Dio.<br />

Il quarto e ultimo periodo comprende il decennio immediatamente antecedente il Vaticano II.<br />

2.6.1. Sviluppo della dottrina sulla Chiesa nel segno del Vaticano I<br />

Alla vigilia del Vaticano I l’<strong>ecclesiologia</strong> è centrata sull’autorità. Nel secolo XVIII dominavano in<br />

varie nazioni idee politiche, culturali e religiose, raggruppabili attorno al gallicanesimo, al gianseni-<br />

smo, al febronianismo, al giuseppinismo e all’episcopalismo. Questi movimenti di pensiero attacca-<br />

vano la Chiesa nella sua esistenza pubblica, cioè nella sua forma costituzionale e nel suo regime di<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

governo, provocando come reazione un’<strong>ecclesiologia</strong> centrata sull’autorità e sulla forma monarchica<br />

di governo ricevuta da Cristo. L’<strong>ecclesiologia</strong> perciò si sforzò di «definire la Chiesa come realtà che<br />

è non solo un’associazione spirituale, ma una società propriamente detta, visibile, istituzionalmente<br />

differenziata, gerarchica e indipendente, che ha da Dio un ordine proprio, dotata non solo di realtà<br />

spirituali, ma di mezzi visibili, esteriori, insomma una società perfetta; che inoltre possiede a titolo<br />

speciale non solo ministeri spirituali, che dirigono le coscienze personali verso l’autorità tutta spiri-<br />

tuale di Dio, ma anche ministeri propriamente gerarchici, che hanno ricevuto e rappresentano qui<br />

sulla terra in forma visibile e propriamente giuridica un’autorità soprannaturale conferita propria-<br />

mente da Dio. Autorità che esiste nei vescovi e che esiste soprattutto, per istituzione formale e spe-<br />

ciale di Dio, come autorità di governo supremo, sacerdozio e ministero nel Papa, successore di Pie-<br />

tro, vicario di Gesù Cristo, delegato dei suoi poteri» 81 . Alla vigilia del Vaticano I in Occidente, tran-<br />

ne che in pochi centri di resistenza, «credere nella Chiesa significava accettarne l’autorità» 82 .<br />

Le tendenze rinnovatrici dell’<strong>ecclesiologia</strong> manifestatesi nella scuola di Tubinga (J.A. Möhler) sono<br />

però recepite almeno dagli esponenti principali della “Scuola Romana”. Con questo nome si inten-<br />

dono i portavoce della teologia difesa nella Università Gregoriana, riaperta a Roma nel 1818 e uffi-<br />

cialmente affidata di nuovo da Leone XII alla Compagnia di Gesù nel 1824. I suoi rappresentanti<br />

più qualificati sono Giovanni Perrone (1794-1876), Carlo Passaglia (1812-1887), Clemens Schrader<br />

(1820-1875), Johannes Baptist Franzelin (1816-1886). Tuttavia solo Passaglia e Schrader sviluppa-<br />

no un programma teologico proprio, che non si inquadra nelle scuole teologiche tradizionali: essi<br />

infatti recuperano una teologia positiva secondo lo stile del Petavio, che prende i suoi dati dalla tra-<br />

dizione in tutta la sua ampiezza, ma particolarmente dalla Scrittura e dai Padri, e inserisce la scola-<br />

stica medievale entro il quadro di tutta la tradizione, nel medesimo tempo in cui si sforzano di porre<br />

le varie scienze ausiliarie al servizio della teologia.<br />

Perrone, invece, strettamente parlando, appartiene alla corrente apologetica della teologia scolastica<br />

post-tridentina, anche se nella sua sintesi ecclesiologica 83 incorporò non pochi elementi della<br />

Symbolica di Möhler, sebbene più attraverso Passaglia e Schrader che mediante un contatto diretto<br />

con il teologo di Tubinga. Secondo Perrone la Chiesa è una società, dunque una persona morale che,<br />

come un individuo, deve avere non soltanto un corpo composto dalla testa e dalle membra, ma u-<br />

81 Y. CONGAR, L’écclésiologie de la Révolution Française au Concile du Vatican, sous le signe de l’affermation de<br />

l’autorité, in L’Écclésiologie au XIX e siècle, Unam Sanctam 34 (Paris 1960) 90-91.<br />

82 Ibid., 100<br />

83 Le sue Praelectiones theologicae ebbero 35 edizioni, mentre il suo Compendium 47 edizioni.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

gualmente un’anima, cioè un principio vitale, una forza che la ispiri e la vivifichi. Questo principio<br />

è la grazia santificante. Però, continua dicendo:<br />

«Non mancano tuttavia alcuni a cui, andando più avanti, par di vedere nella Chiesa come la continuazione<br />

dell’Incarnazione. Per costoro Cristo, Dio-uomo, volle lasciare in essa la perfetta immagine<br />

e similitudine di se stesso, nella quale e per mezzo della quale egli stesso in qualche modo<br />

sembra vivere e dimorare con noi, anche dopo la sua visibile ascensione al cielo. Perciò la società,<br />

mostrando Cristo, come dicono costoro, è divino-umana, sussistendo nell’unità della persona con<br />

la comunicazione di entrambe le nature; in modo che l’elemento, che chiamano divino, pervada e<br />

penetri l’elemento umano, lo regga e lo diriga, lo nutra e quasi lo informi, e costituisca l’unità a<br />

partire dai due. E quell’elemento divino che dicono sia presente in questa persona morale o società,<br />

costituisce la sua parte intima o anima; mentre quell’elemento che chiamano umano, costituisce<br />

la sua forma esteriore e visibile ossia il corpo, grazie a cui come un organo l’anima si protende e si<br />

manifesta esteriormente… Purché queste cose siano intese in modo corretto…, non troviamo in essi<br />

niente che sia da riprovare, anzi riteniamo che l’idea contribuisca molto a spiegare la natura e la<br />

costituzione della Chiesa di modo che noi non ci rifiutiamo di adoperarla» 84 .<br />

Perrone difende Möhler dall’accusa di monofisismo ecclesiologico e ammette le espressioni di con-<br />

tinuatio incarnationis e corpus Christi mysticum, però solo in senso analogo e come immagini.<br />

Al contrario, Schrader e Franzelin le intesero come definizioni della Chiesa. Per Passaglia, il teolo-<br />

go più geniale della “Scuola Romana”, la Chiesa può ben chiamarsi Corpo mistico di Cristo, cioè la<br />

congregazione di tutti coloro, «in cui Cristo si manifesta e diffonde la sua vita, mediante cui si fa vi-<br />

sibile tra gli uomini e per cui continua ad offrire il frutto della sua economia salvifica» 85 .<br />

La nozione della Chiesa come Corpo mistico di Cristo passò per mezzo del suo discepolo Clemens<br />

Schrader nello Schema I de Ecclesia del Vaticano I (“Supremi pastoris”) 86 . Schrader adottò la no-<br />

zione di Corpo mistico di Cristo nel senso paolino di Ef 4,16.24 come definizione della Chiesa. La<br />

Deputatio de Fide sosteneva questa nozione per cinque ragioni:<br />

1) L’uso frequente nella Scrittura e la sua capacità di esprimere la relazione della Chiesa a Cristo.<br />

2) Una ragione di ordine metodologico che sarebbe stata decisiva per il rinnovamento del trattato<br />

“de Ecclesia”, cambiandone il punto di partenza. Si suggeriva che era conveniente che si partisse<br />

dall’essere intimo della Chiesa, dalla sua realtà spirituale. Escludendo ogni dicotomia, teorica e pra-<br />

84 G. PERRONE, Prael. theol., vol. II, pars I, cap. II, n. 44.<br />

85 C. PASSAGLIA, De Ecclesia Christi, vol. I (Ratisbonae 1853-1856).<br />

86 Lo schema prevedeva 15 cap.: I. La Chiesa è il corpo mistico di Cristo; II. La religione cristiana non si può coltivare<br />

che nella Chiesa e per mezzo della Chiesa fondata da Cristo; III. La Chiesa è una società perfetta, spirituale e soprannaturale;<br />

IV. La Chiesa è una società visibile; V. L’unità visibile della Chiesa; VI. La Chiesa è una società assolutamente<br />

necessaria per conseguire la salvezza; VII. Fuori della Chiesa nessuno si può salvare; VIII. L’indefettibilità della Chiesa;<br />

IX. L’infallibilità della Chiesa; X. La potestà della Chiesa; XI. Il primato del Romano Pontefice; XII. Il dominio temporale<br />

della Santa Sede; XIII. La concordia tra la Chiesa e la società civile; XIV. Il diritto e l’uso della potestà civile secondo<br />

la dottrina della Chiesa cattolica; XV. Alcuni diritti speciali della Chiesa in relazione alla società civile.<br />

229


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

tica, il punto di partenza dell’<strong>ecclesiologia</strong> (procedere dalla sua realtà misterica o dalla sua realtà<br />

sociale?) poteva determinare la costruzione di un trattato “de Ecclesia” di impronta teologico-<br />

dogmatica o apologetica. Sino al Vaticano I, tranne che per Möhler e Passaglia, il punto di partenza<br />

dell’<strong>ecclesiologia</strong> era stato indiscutibilmente l’istituzione.<br />

3) Si voleva correggere le esagerazioni dell’<strong>ecclesiologia</strong> della Controriforma evitando sterili pole-<br />

miche. L’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica non doveva dare adito al sospetto che il Cattolicesimo riducesse<br />

l’essere della Chiesa alla sua realtà sociale e visibile.<br />

4) Si riconosceva la priorità ontologica dell’aspetto soprannaturale e misterico della Chiesa e della<br />

sua vita intima e spirituale, per considerare poi le sue strutture visibili e la sua realtà esterna, indis-<br />

solubilmente unita alla realtà divina e spirituale, al fine di manifestarla e comunicarla agli uomini.<br />

5) L’ultima ragione era di convenienza pastorale. La situazione storica della Chiesa era cambiata.<br />

Nel secolo XIX l’esistenza della Chiesa era minacciata non tanto dall’eccessiva interiorizzazione,<br />

quanto dal disconoscimento dell’elemento soprannaturale.<br />

La proposta dello schema fu respinta dalla grande maggioranza dei vescovi. Questa opposizione co-<br />

sì decisa da parte dei vescovi non si spiega solo con la meraviglia e persino la sorpresa di imbattersi<br />

in una dottrina ecclesiologica per loro nuova. Le idee richiedevano tempo per maturare e il processo<br />

di maturazione era appena cominciato. In particolare, nei loro interventi i Padri conciliari reagivano<br />

contro un’<strong>ecclesiologia</strong> basata sul monopolio di una nozione ecclesiologica ad esclusione delle al-<br />

tre. Per loro la soluzione si doveva cercare integrando tutte le nozioni e immagini bibliche del mi-<br />

stero della Chiesa. Alcuni vescovi poi respingevano la nozione di Corpo di Cristo come troppo o-<br />

scura, imprecisa e metaforica. La definizione di Chiesa — disse Dupanloup — doveva partire «ab<br />

externis». Questi vescovi avevano ancora in mente la definizione bellarminiana di Chiesa. Altri ve-<br />

devano in questa nozione il pericolo di troppa interiorizzazione e persino di un ritorno alla Riforma,<br />

mentre la vera nozione della Chiesa doveva insistere sull’aspetto visibile. Per altri la nozione aveva<br />

sapore giansenista, poiché era stata l’espressione favorita negli scritti giansenisti (Sinodo di Pistoia).<br />

Respinto questo schema I, si impose la nozione di società perfetta. Lo schema II («Tametsi<br />

Deus» 87 ), redatto da Joseph Kleutgen, ricondusse a unità l’esposizione dottrinale secondo le indica-<br />

87 Lo schema aveva dieci capitoli: il cap. I afferma l’istituzione divina della Chiesa; il II descrive la Chiesa come coetus<br />

fidelium nel senso di vera societas e perfecta societas, la quale trascende ogni altra forma di società tra gli uomini e<br />

quindi è chiamata giustamente civitas Dei et regnum caelorum; il III cap. afferma l’esistenza nella Chiesa della potestà<br />

gerarchica di istituzione divina; il IV è dedicato al tema dell’episcopato; il V ai membri della Chiesa, ricorrendo alla distinzione<br />

tradizionale fra appartenenza al corpo e all’anima della Chiesa; il VI tratta il tema della necessità della Chiesa<br />

per la salvezza congiuntamente con quello della sua unità; il VII e l’VIII trattano del magistero e della giurisdizione ec-<br />

230


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

zione dei Padri, così che il risultato fu chiaramente un impoverimento della prospettiva mistica e un<br />

arricchimento della posizione societaria, che appariva meno giusnaturalistica: la chiesa non fu più<br />

vista come l’espansione del mistero di Cristo, ma come una società legale, ineguale e perfetta, isti-<br />

tuita da Cristo e da lui diretta mediante lo Spirito attraverso i pastori, la quale si identifica col regno<br />

di Cristo in terra e nella quale i fedeli partecipano a beni della «sanctorum communio».<br />

Il Concilio, mentre si stava rielaborando la costituzione sulla Chiesa, concentrò la sua discussione<br />

su quello che era stato solo un capitolo, l’XI, dello schema, dedicato al primato del Romano Ponte-<br />

fice, e ne fece una costituzione a se stante, la Constitutio prima de Ecclesia “Pastor Aeternus”,<br />

promulgata il 18 luglio 1870.<br />

La costituzione dogmatica «Pastor aeternus»<br />

aa) La problematica<br />

La costituzione dogmatica Pastor aeternus (DH 3050-3075), si divide in quattro capitoli, a ciascuno<br />

dei quali segue un canone. Essa è introdotta da un proemio che indica la finalità del primato, ossia<br />

l’unità e l’indivisione dell’episcopato, condizione dell’unità di fede e di comunione di tutti i creden-<br />

ti. Perciò il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è affermato essere perpetuo e visibile<br />

principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli.<br />

Capitolo I: «L’istituzione del primato apostolico nel beato Pietro». Il primato di Pietro è fondato su<br />

Mt 16,16-19 e Gv 21,15-17. Si insegna l’unicità della relazione tra Pietro e Cristo (uni Simoni Pe-<br />

tro; solum Petrum), la trasmissione immediata del primato a Pietro da parte di Cristo senza passare<br />

per la Chiesa e, infine, il carattere giurisdizionale (che non si situa a livello sacramentale, ma a li-<br />

vello di giurisdizione, o meglio di potestas pascendi) di questo primato che non è un semplice titolo<br />

onorifico. Secondo la costituzione questo è un insegnamento chiaro della Scrittura, che la chiesa<br />

cattolica ha sempre seguito (DH 3054). Questo capitolo, come il seguente, ebbe un largo consenso.<br />

Capitolo II: «La perpetuità del primato di Pietro nei Romani pontefici». Si citano le espressioni dei<br />

legati papali al concilio di Efeso (431), di papa Leone I, di Ireneo di Lione e di Ambrogio di Milano.<br />

Nel capitolo si insegna in primo luogo che la successione nel primato di Pietro sarebbe stata istituita<br />

da Cristo, cioè, è di diritto divino (ex ipsius Christi Domini institutione seu iure divino: DH 3058) e<br />

quindi un successore è necessario; in secondo luogo che tale successione si realizza in quella perso-<br />

na che succede a Pietro sulla cattedra di Roma. Il legame tra il successore di Pietro e la sede romana<br />

clesiastica; il IX parla della Chiesa che è verum regnum divinum, immutabile et sempiternum; mentre conclude col X<br />

che afferma che la vera Chiesa di Cristo non è altra rispetto alla Chiesa romana.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

dalla teologia del tempo era qualificato come un “fatto dogmatico”, precisamente originerebbe da<br />

una illuminazione divina ricevuta da Pietro. D’altra parte è da escludere la tesi secondo cui la con-<br />

nessione tra successione petrina e cattedra romana sarebbe di diritto divino. Essa infatti porterebbe<br />

con sé l’idea di un legame anche geografico con la città di Roma, la quale avrebbe così ricevuto la<br />

promessa di durare per sempre — una promessa che Cristo ha fatto solo alla Chiesa universale. Al<br />

contrario, anche se Roma scomparisse, non verrebbe meno il ministero petrino.<br />

Capitolo III: «Valore e natura del primato del Romano pontefice». Qui si cita alla lettera la defini-<br />

zione del concilio di Firenze (DH 1307). La potestà di giurisdizione del papa non è un semplice uf-<br />

ficio di ispezione o di direzione, ma è una potestà di giurisdizione piena e suprema (non può essere<br />

limitata da alcuna potestà ecclesiastica superiore, ma solo dal diritto naturale e dal diritto divino po-<br />

sitivo; ed inoltre egli la possiede riguardo a tutta la vita della Chiesa e su tutto ciò che questo com-<br />

porta: cfr. Giovanni Paolo II, Ut unum sint, 94), universale (è su tutti i pastori e fedeli, singoli e glo-<br />

balmente presi; da ciò origina un vincolo di obbedienza religiosa e di subordinazione gerarchica,<br />

che consente al papa di avere una libera comunicazione con tutti i fedeli e vescovi senza alcuna in-<br />

terferenza), ordinaria (e non delegata), immediata (non ha bisogno di altro “mezzo” per esercitarsi)<br />

ed episcopale (è della medesima natura di quella dei vescovi, perché non origina da un grado ulte-<br />

riore del sacramento dell’ordine; si noti però che nel canone corrispondente manca il termine epi-<br />

scopale: DH 3064). Si tratta poi la funzione dei vescovi nelle proprie diocesi.<br />

Capitolo IV: « II magistero infallibile del Romano pontefice». Si determinano le condizioni circa il<br />

soggetto, l’oggetto e l’atto in base a cui un insegnamento del papa è infallibile. Il testo rinvia alla<br />

dottrina di tre concili ecumenici: il IV concilio di Costantinopoli, il II concilio di Lione e il concilio<br />

di Firenze. Notiamo, però, che sono tre concili che le chiese ortodosse non considerano ecumenici.<br />

Inoltre il IV concilio di Costantinopoli venne poi sconfessato da Roma; ciò avvenne quando ci fu la<br />

riconciliazione tra Roma e Costantinopoli a seguito della disputa intorno a Fozio 88 .<br />

I primi due capitoli, il cui contenuto è patrimonio cattolico tradizionale, non sono stati oggetto di di-<br />

scussione; i due ultimi capitoli, invece, contengono i nuovi dogmi sul papa che sono stati vivace-<br />

mente discussi e infine definiti. Il punto controverso delle due definizioni dottrinali era<br />

l’inserimento del ministero papale nella Chiesa e nel collegio episcopale. I vescovi della minoranza<br />

(circa 140 su 700, dunque circa il 20 per cento) chiedevano in fondo soltanto questo: se queste dot-<br />

88 V. PERI, Il concilio di Costantinopoli dell’879-880 come problema filologico e storiografico, in Annuarium historiae<br />

conciliorum 9 (1977) 29-42.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

trine vengono definite, devono almeno essere introdotte esplicitamente nella definizione precise<br />

condizioni e limiti del primato di giurisdizione e dell’infallibilità, per non dare l’impressione che il<br />

papa possa esercitare il suo ufficio di governo e di magistero agendo in virtù di un arbitrio assoluti-<br />

stico e staccato dalla Chiesa. La maggioranza dei vescovi, che abbracciava tutte le sfumature, dai<br />

sostenitori moderati a quelli intransigenti, riteneva invece che si dovesse rinunciare a un’esplicita<br />

menzione di queste condizioni e limiti (che in sé erano accettati da molti di loro); altrimenti<br />

l’intento proprio delle definizioni, cioè di scongiurare definitivamente il gallicanesimo e permettere<br />

così di giungere nella Chiesa a decisioni rapide, assolutamente chiare, efficienti e tali da evitare ul-<br />

teriori conflitti, sarebbe stato di nuovo annacquato. Purtroppo, su questo punto, non si raggiunse<br />

l’unanimità tra i padri conciliari. L’opinione della minoranza trovò scarsa considerazione. Per que-<br />

sta ragione i vescovi della minoranza in gran parte erano già partiti prima della votazione finale.<br />

bb) Il contenuto dei due nuovi dogmi<br />

(I) Il primato di giurisdizione del papa (DzH 3059-3064)<br />

In questa parte della costituzione la funzione universale di governo del papa, che è stata praticata a<br />

partire dal Medioevo, è definita esplicitamente come dottrina della fede cattolica. La definizione<br />

pone fine alle lunghe discussioni con il conciliarismo (cioè: il concilio, come ultima istanza di ap-<br />

pello, è al di sopra del papa) quando stabilisce che il papa è l’istanza suprema nella Chiesa, al di so-<br />

pra della quale non ci si può appellare a nessun’altra. A lui spetta la «pienezza» (e non solo la «pre-<br />

minenza» come pensava il gallicanesimo) della suprema potestà in questioni attinenti alla fede, ai<br />

costumi, all’ordinamento e al governo di tutta la Chiesa. Questa potestà viene descritta come ordi-<br />

naria (spetta al papa in virtù del suo ufficio), immediata (non ha bisogno della mediazione dei ve-<br />

scovi locali) ed episcopale (è della stessa natura della potestà pastorale dei vescovi, ma si estende a<br />

tutta la Chiesa). Con questo, tuttavia, non si intende limitare la potestà dei singoli vescovi, che è u-<br />

gualmente affermata come ordinaria, immediata ed episcopale, nella loro diocesi, ma quest’ultima<br />

deve essere riconosciuta, rafforzata e difesa (DzH 3061).<br />

Con questa chiarificazione certamente, in linea di principio, si respinge teologicamente una forma di<br />

governo «assolutistica» della Chiesa 89 . Poiché, però, la concomitanza di potestà episcopale e papale<br />

non è né mediata teologicamente in maniera adeguata, né ancorata in modo giuridicamente vinco-<br />

lante nell’unica struttura suprema di governo della Chiesa, rimane di fatto aperta la possibilità di un<br />

89 Una posizione simile è sostenuta anche nella cosiddetta Dichiarazione collettiva dell’episcopato tedesco, approvata<br />

da Pio IX (1875): DzH 3112-3116.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

governo «assolutistico» della Chiesa da parte del papa. Queste riserve non hanno affatto l’intento di<br />

imporre al primato papale qualche limitazione semplicemente dall’esterno, puramente nella prospet-<br />

tiva del diritto costituzionale. Piuttosto devono essere evidenziate in modo più chiaro e formulate in<br />

termini giuridici le sue condizioni e i suoi limiti interni, dati eo ipso insieme alla natura del primato<br />

come servizio ecclesiale del governo e dell’unità.<br />

Il concilio Vaticano II ha incoraggiato la teologia a fare questo. Il concilio certo, da una parte, è in<br />

continuità con il Vaticano I e ne conferma espressamente la dottrina del primato di giurisdizione<br />

(LG 22; Nota praevia 3 e 4). D’altra parte, cerca di “riequilibrare” questa definizione con il recupe-<br />

ro della dottrina antica della Chiesa come communio e conseguentemente della collegialità del mini-<br />

stero episcopale (W. Kasper):<br />

«Se l’unità della Chiesa fosse fondata su un unico “principio”, essa dovrebbe diventare totalitaria.<br />

Se al contrario è fondata su “principi” relativamente differenti e sul loro accordo, la Chiesa è un<br />

sistema aperto» 90 .<br />

Proprio qui sta il senso autentico e permanente del dogma del primato di giurisdizione del papa: il<br />

vescovo di Roma significa e fonda in modo personalmente concreto e insieme sacramentalmente ef-<br />

ficace l’unità della Chiesa universale «nella fede e nella comunione» (Prologo della Pastor Aeter-<br />

nus). Questa unità, però, non ha il suo fondamento né nella volontà del popolo di Dio, né nella vo-<br />

lontà del papa; entrambi non sono «sovrani» nella Chiesa (come avviene, ad es., in una democrazia<br />

o in una monarchia). L’unità della Chiesa è invece fondata totalmente sull’amore di Gesù Cristo che<br />

nello Spirito Santo è donato a tutta la Chiesa. Il ministero petrino deve essere a servizio nel modo<br />

che gli è proprio, appunto sul piano della Chiesa universale, di questa unità della Chiesa che viene<br />

da Cristo. Esso perciò (come ogni ministero) è al tempo stesso nella Chiesa e di fronte a essa, per<br />

rappresentare in questo modo la volontà di unità di Cristo per tutta la Chiesa. Per questa è appunto<br />

decisivo che il contenuto teologico si esprima efficacemente in una forma empirico-istituzionale 91 .<br />

(II) L’infallibilità del magistero pontificio (DzH 3065-3075)<br />

Una dimensione decisiva di ogni servizio all’unità della Chiesa è costituita dal servizio all’unità e<br />

all’autenticità della sua fede. Proprio ciò si vuole affermare con la dottrina dell’infallibilità del papa.<br />

90 W. KASPER, Dienst an der Einheit und Freiheit der Kirche. Zür gegenwärtigen Diskussion um das Petrusamt, in A.<br />

BRANDEBURG – H.J. URBAN (edd.), Petrus und Papst, vol. II (Münster 1978) 126.<br />

91 Cfr. anche H. U. VON BALTHASAR, Il complesso antiromano. Come integrare il papato nella Chiesa universale (Bre-<br />

scia: Queriniana, 1974).<br />

234


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Dobbiamo dire anzitutto qualcosa sullo sfondo storico e teologico. Questa convinzione ha il suo<br />

primo punto di appoggio già nella Chiesa antica, per la quale la generale fedeltà della Chiesa roma-<br />

na alla tradizione rappresentava un criterio decisivo per la communio. Solo nel XIII secolo (in Bo-<br />

naventura e Pietro Olivi) questa concezione si concentra sul papa come vescovo della Chiesa roma-<br />

na e sull’autorità che gli consente di prendere singole decisioni dogmatiche «senza errore». Nel Me-<br />

dioevo è attribuita alle decisioni pontificie questa inerranza quando in esse è testimoniata la fede<br />

senza errori dell’intera Chiesa 92 .<br />

La generale inerranza della fede. Qui trova espressione la convinzione della Chiesa primitiva, già<br />

attestata nelle formule battesimali e nelle confessioni del I e II secolo, circa la regula fidei, che cioè<br />

l’assistenza promessa dello Spirito Santo, che è «Spirito di verità» (cfr. Gv 14,17; 15,26; 16,13),<br />

preserva la Chiesa dal cadere in un errore grave in asserzioni di fede fondamentali e nella professio-<br />

ne di fede stessa. In caso contrario, alla persona che nella fede e nel battesimo si affida «per la vita e<br />

per la morte» alla parola di Dio testimoniata e interpretata dalla Chiesa, essa potrebbe annunciare<br />

come importante per la salvezza qualcosa che in realtà non è pienamente «degno di fede». Questo,<br />

però, eliminerebbe il suo carattere escatologico di comunità definitiva di salvezza, che accoglie e<br />

trasmette fedelmente l’autocomunicazione di Dio in Gesù Cristo.<br />

Il servizio particolare del magistero. Questa promessa, fatta a tutta la Chiesa, di rimanere nella veri-<br />

tà della fede, nel corso dei primi secoli si concretizza sempre più nel ministero di annuncio e di in-<br />

segnamento dei vescovi, tra i quali proprio al vescovo di Roma spetta una posizione speciale. Il ra-<br />

dicamento di tutta la Chiesa nella verità della fede, operato dallo Spirito Santo, in questo modo,<br />

nell’annuncio del collegio episcopale e del ministero petrino assume una forma particolare, eccle-<br />

sialmente efficace, attraverso cui deve trovare espressione normativa il fatto che la fede della Chiesa<br />

non deriva da essa stessa ma è la risposta alla parola di Dio che la precede e di cui non può disporre.<br />

Difendere questa indisponibilità della parola di Dio e la verità della fede che a essa risponde da tutte<br />

le tentazioni di reinterpretazioni falsificanti è il senso del magistero nella Chiesa. Nella misura in<br />

cui adempie in modo adeguato questo servizio, esso partecipa dell’infallibilità della parola di Dio e<br />

della fede comune; in questo senso anch’esso può essere detto infallibile.<br />

92 Mentre nell’alto Medioevo era ancora corrente il concetto di «inerranza» («infallibilità» era riservato a Dio), nel tardo<br />

Medioevo i conciliaristi parlano dell’«infallibilità del concilio» e gli anticonciliaristi dell’«infallibilità del papa». A causa<br />

della notevole possibilità di fraintendimento si dovrebbe parlare piuttosto di «assenza di errore», di «impossibilità di<br />

ingannarsi», di «obbligatorietà definitiva» (H. Fries), di «affidabilità incondizionata» di determinate asserzioni ecclesiali<br />

di fede; cfr. K. RAHNER (ed.), Infallibile? Rahner - Congar - Sartori - Ratzinger – Schnackenburg e altri specialisti<br />

contro Hans Küng (Roma: Edizioni Paoline, 1971).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Magistero «vincolato». A questa salda vincolazione, solidamente attestata nella Tradizione, del ma-<br />

gistero, anche papale, all’annuncio e alla fede di tutta la Chiesa, si sono ripetutamente richiamati i<br />

vescovi della minoranza al Vaticano I. Essi richiamano alla memoria la terribile esperienza dello<br />

scisma d’Occidente con la presenza contemporanea, in alcuni momenti, di tre papi (1378-1417), una<br />

situazione in cui anche il papa, nel conflitto con una cristianità divisa al proprio interno e con il<br />

concilio, non poteva più garantire la certezza ultima per la verità della fede e l’unità della Chiesa.<br />

Anche se non si vuole essere conciliaristi nel senso del tardo Medioevo e non si sostiene neppure la<br />

validità dogmatica incondizionata, che va al di là della concreta situazione di emergenza provocata<br />

dallo scisma, del decreto Haec sancta del concilio di Costanza (1415) 93 , tuttavia, a partire da queste<br />

esperienze storiche e dai problemi teologici che sollevano, si dovrà trarre la conclusione che ogni<br />

tentativo di voler «mettere al sicuro» la fede della Chiesa ponendo al di sopra delle altre in modo i-<br />

solato un’unica concreta istanza — che sia il papa, il concilio, il collegio episcopale, ma anche la<br />

sacra Scrittura, la Tradizione o l’universale consenso di fede — è destinato al fallimento. Nella mi-<br />

sura in cui la Chiesa, confidando nello Spirito Santo, riesce a realizzare una cooperazione teologi-<br />

camente equilibrata e strutturata in modo relativamente chiaro dal punto di vista giuridico, essa ha<br />

fatto tutto ciò che sta in suo potere per evitare altre variazioni storiche della propria identità creden-<br />

te. Su questo può «fare affidamento incondizionatamente»; infatti questa certezza della fede, fondata<br />

in Dio e che si espone con fiducia ai continui mutamenti della storia, non ha nulla a che vedere con<br />

la sicurezza, spesso dominata dalla paura, del proprio voler sapere e possedere.<br />

L’intenzione della maggioranza conciliare. Ritorniamo al Vaticano I. Senza dubbio, anche la mag-<br />

gioranza (più moderata) del concilio non metteva affatto in questione in linea di principio il legame<br />

dell’autorità magisteriale del papa con la Chiesa. Tuttavia essa rifiutava (come per il primato di giu-<br />

risdizione) una sua descrizione giuridica più precisa all’interno della definizione. Essa venne incon-<br />

tro all’esigenza della minoranza esclusivamente introducendo prima della definizione vera e pro-<br />

pria, in forma di constatazione storica riguardante il passato (non però in modo normativo!),<br />

l’affermazione che i pontefici romani in precedenza nelle loro decisioni dottrinali si sono sempre<br />

serviti dei mezzi più diversi per riconoscere ciò che è in accordo con la sacra Scrittura e con la Tra-<br />

dizione apostolica. «Neppure ai successori di Pietro infatti lo Spirito Santo è promesso affinché, per<br />

sua rivelazione (revelatio), essi proclamino una nuova dottrina, ma perché con la sua assistenza (as-<br />

sistentia) custodiscano santamente ed espongano fedelmente la Rivelazione trasmessa per mezzo<br />

93 In questo decreto si dichiara solennemente la superiorità del concilio sul papa (COD 409-410).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

degli apostoli, cioè il deposito della fede (depositum fidei)» (DzH 3069s). La richiesta della mino-<br />

ranza di affermare che questo deve avvenire con esplicito riferimento alla Scrittura e alla Tradizione<br />

della Chiesa, ma anche al consenso di fede esistente, in particolare del collegio episcopale, fu re-<br />

spinta (a motivo dell’esperienza del gallicanesimo) per non diminuire la chiarezza e l’efficacia delle<br />

decisioni dottrinali papali nel garantire l’unità 94 .<br />

Quali sono dunque le asserzioni teologiche centrali della definizione?<br />

Decisioni «ex cathedra». L’infallibilità si riferisce soltanto a decisioni dottrinali ex cathedra, cioè al<br />

caso in cui il papa «esercitando il suo ufficio di pastore e maestro, in virtù della sua suprema autori-<br />

tà apostolica, definisce una dottrina riguardante la fede e i costumi da tenersi da tutta la Chiesa»<br />

(DzH 3074). Per distinguere questa forma «straordinaria» di insegnamento dalle altre forme del co-<br />

siddetto magistero «ordinario» del papa, con le quali pure egli parla in modo vincolante («autenti-<br />

co»), ma non con la pretesa di assenza di errori (ad esempio, nelle encicliche), il relatore ufficiale<br />

della costituzione, il vescovo Vinzenz Gasser, dichiarò nell’aula conciliare che nelle affermazioni<br />

dottrinali infallibili l’intenzione di fare un’affermazione di questo genere deve essere espressa chia-<br />

ramente. Questo finora è avvenuto solo una volta nei centoventi anni dopo il Vaticano I, nella defi-<br />

nizione dell’Assunzione corporea di Maria alla gloria celeste (1950). Quest’uso estremamente cauto<br />

del dogma dell’infallibilità mostra che il suo senso recepito nella Chiesa non consiste nel decidere<br />

continuamente con valore definitivo su singole questioni riguardanti la fede e i costumi. Evidente-<br />

mente, per una Chiesa che è messa a confronto con la coscienza moderna della storia, è più impor-<br />

tante che essa sia sicura di avere un concreto ultimo «punto di orientamento» che, all’interno di una<br />

coscienza di fede che muta più rapidamente che in precedenza, garantisce la fedeltà della Chiesa<br />

all’origine apostolica 95 .<br />

Infallibilità ecclesiale e pontificia. Nelle decisioni dottrinali ex cathedra al papa spetta<br />

quell’infallibilità «di cui il divino Redentore ha voluto fosse dotata la sua Chiesa nel definire la dot-<br />

trina intorno alla fede o ai costumi» (DzH 3074). Non si parla dunque di una infallibilità «privata»<br />

del papa, ma dell’infallibilità della fede della Chiesa che il papa testimonia in queste asserzioni dot-<br />

trinali definitive. I due aspetti sono in relazione reciproca: la particolare infallibilità del ministero<br />

94 Di fatto, negli unici casi in cui questo dogma ha trovato applicazione, nella definizione dell’Immacolata Concezione<br />

di Maria (1854) e dell’Assunzione di Maria (1950), in precedenza è stato interpellato l’intero episcopato.<br />

95 In questo senso W. Kasper sottolinea il carattere «straordinario» di questi pronunciamenti papali infallibili rispetto<br />

all’insegnamento normale, «ordinario» dell’intera Chiesa. «Sarebbe assai sconsiderato fare “irraggiare” nel modo più<br />

estensivo possibile la pretesa di infallibilità anche sull’insegnamento ordinario del papa. La spada potrebbe essere diven-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

petrino non fa altro se non dare espressione in modo concreto e rappresentativo all’universale infal-<br />

libilità della Chiesa nella fede. L’infallibilità della Chiesa nel credere, d’altra parte, ha bisogno di<br />

questa testimonianza che le sta di fronte per ricordarle che la verità della fede non proviene da lei,<br />

ad esempio dal suo consenso, ma dipende dall’ascolto della Parola di Dio. Perciò il papa realizza<br />

nella Chiesa e al tempo stesso di fronte a essa il compito che, secondo modalità proprie, spetta a o-<br />

gni ministero, cioè di rappresentare in persona Christi capitis la dipendenza della Chiesa dalla paro-<br />

la che le è annunciata.<br />

Infallibilità «ex sese». «Per questo tali definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili per se<br />

stesse (ex sese) e non già in virtù del consenso della Chiesa (non ex consensu Ecclesiae)» (DzH<br />

3074). Questa formulazione era diretta contro la concezione gallicana secondo cui le asserzioni dot-<br />

trinali papali sono irreformabili solo quando tutta la Chiesa abbia dato a esse il proprio assenso. Con<br />

l’espressione «ex sese», che si contrappone in modo marcato a questa concezione, non si dice che il<br />

papa sia infallibile «da se stesso»; la parola è riferita chiaramente alle sue definizioni dottrinali. Tan-<br />

tomeno questa formulazione significa che il papa non deve prestare ascolto alla fede della Tradizio-<br />

ne e della Chiesa attuale; è questa fede infatti (e non una qualsiasi opinione privata) che egli deve<br />

eventualmente testimoniare in modo normativo (si vedano i passaggi prima della definizione DzH<br />

3070). Con questa espressione non si vuole escludere neppure la necessaria recezione, che si compie<br />

attraverso un confronto attivo, da parte della Chiesa della dottrina proposta e la sua interpretazione.<br />

«È detto soltanto che tali decisioni per la loro normatività giuridico-formale non possono essere sot-<br />

toposte all’esame di un’istanza giuridica superiore, che dunque non ci si può appellare dal papa a un<br />

concilio generale. L’intento è di chiarire che il vangelo sta di fronte alla Chiesa senza che essa possa<br />

disporne» 96 . Questo tuttavia può avvenire in modo credibile solo se lo stesso ministero, prima di<br />

ogni intervento in materia dottrinale, ascolta il sensus fidelium e lo integra in modo determinante; in<br />

caso contrario, il suo annuncio non viene veramente ascoltato e recepito dal popolo di Dio, ma ri-<br />

mane in una condizione di validità puramente formale ed è privo di ogni efficacia salvante e liberan-<br />

te. Ma il senso dell’annuncio del vangelo non può essere questo.<br />

Recezione nel Vaticano II. Anche a questo proposito il concilio Vaticano II ha aperto la strada verso<br />

una comprensione più equilibrata dell’infallibilità. Mentre conferma la definizione del Vaticano I<br />

(LG 25), collega espressamente l’infallibilità del magistero papale (in modo simile all’orientamento<br />

tata incapace di tagliare proprio quando se ne ha veramente bisogno»: Dienst an der Einheit und Freiheit der Kirche,<br />

art. cit., 136s.<br />

96 W. KASPER, Dienst an der Einheit und Freiheit der Kirche, art. cit., 136.<br />

238


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

della minoranza di allora) alla Chiesa e al collegio episcopale. Nella parte sulla partecipazione<br />

dell’intero popolo di Dio al compito profetico di Cristo si afferma:<br />

La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito Santo (cfr. 1Gv 2,20 e 27) non può<br />

sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà che gli è particolare mediante il senso soprannaturale<br />

della fede (sensus fidei) in tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici»<br />

(Agostino) esprime l’universale suo consenso (consensus universalis) in materia di fede e di<br />

costumi. Infatti, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo<br />

di Dio, sotto la guida del sacro magistero… aderisce indefettibilmente «alla fede una volta per<br />

tutte trasmessa ai santi» (cfr. Gd 3)... (LG 12).<br />

Il capitolo sulla struttura gerarchica della Chiesa, poi, tratta in modo dettagliato dell’infallibilità del<br />

collegio episcopale la quale — nel suo modo proprio, cioè collegiale — ha la medesima struttura di<br />

quella del ministero petrino:<br />

Quantunque i singoli vescovi non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche<br />

dispersi per il mondo, ma conservanti il vincolo della comunione (nexus communionis) tra di loro e<br />

con il successore di Pietro, nel loro insegnamento autentico circa materie di fede e di morale si accordano<br />

su una dottrina da ritenersi come definitiva, propongono infallibilmente la dottrina di Cristo.<br />

E questo è ancora più manifesto quando, radunati in concilio ecumenico, sono per tutta la<br />

Chiesa dottori e giudici della fede e della morale; e alle loro definizioni si deve aderire in una sottomissione<br />

di fede (LG 25).<br />

Solo dopo queste affermazioni, si mette in rilievo l’infallibilità del papa, che non gli spetta come<br />

«persona privata» ma in forza del suo ministero di «capo del collegio episcopale» e di «supremo pa-<br />

store e dottore di tutti i fedeli» (LG 25). Il papa non rappresenta altro se non la concretizzazione per-<br />

sonale dell’universale infallibilità della Chiesa, che i vescovi insieme con lui possiedono in maniera<br />

collegiale. Si aggiunge esplicitamente anche che il papa e i vescovi nell’esercizio di tale funzione si<br />

fondano sulla Scrittura e sulla Tradizione, ma anche sul senso della fede di tutto il popolo di Dio<br />

(LG 12), e che al tempo stesso sono tenuti a utilizzare i «mezzi appropriati» per chiarificare e pre-<br />

sentare la Rivelazione (LG 25).<br />

La visione della Chiesa al Vaticano I<br />

Non si capisce lo sviluppo post-conciliare della dottrina sulla Chiesa senza una visione d’insieme<br />

dei caratteri principali dell’immagine di Chiesa lasciataci dal Vaticano I.<br />

1) Il primo tratto è l’autorità come elemento decisivo e centro di prospettiva ecclesiologica. Lo te-<br />

stimoniano le due costituzioni dogmatiche. Da una parte si fa fronte al razionalismo affermando<br />

l’autorità del Magistero divino, dato che è in termini di autorità che nella Dei Filius viene insegnato<br />

l’obbligo di credere ed è l’«auctoritas Dei revelantis» il motivo della fede. Dall’altra, la Pastor Ae-<br />

ternus fa un passo ulteriore stabilendo l’autorità docente del Magistero ecclesiastico e concretamen-<br />

239


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

te del magistero del Romano Pontefice con il suo carisma di infallibilità. All’origine di questo inte-<br />

resse troviamo una valutazione apocalittica della modernità, la quale, avendo disprezzato l’autorità,<br />

era sfociata addirittura nella messa in discussione degli stessi fondamenti della società e del vivere<br />

associato (come testimoniavano ampiamente la Rivoluzione francese e i moti del 1848). All’origine<br />

di questo fenomeno di degenerazione, la maggioranza dei padri conciliari vedeva il disprezzo<br />

dell’autorità del magistero del Concilio di Trento, che era sfociato nella canonizzazione protestante<br />

del giudizio privato, il quale aveva portato alla divisione dei gruppi ecclesiali usciti dalla Riforma e<br />

quindi ultimamente alla rovina della fede nel Cristo da parte di coloro che non accettano più il carat-<br />

tere divino della Sacra Scrittura (nascita del razionalismo e del naturalismo). In un secondo passo, si<br />

era ingaggiata una lotta tra la religione cristiana, realtà soprannaturale, e il naturalismo, che sostene-<br />

va contro il Regno di Cristo, unico Signore e Salvatore dei popoli, il regno della pura ragione e della<br />

natura. Infine, nel sec. XIX la ragione si era capovolta nel suo contrario, nel momento in cui, abban-<br />

donando la propria trascendenza, che tocca il legame che unisce i misteri della fede con il fine ulti-<br />

mo dell’uomo, era caduta nell’abisso del panteismo, del materialismo e dell’ateismo: negando la na-<br />

tura razionale l’uomo moderno abbandonava ogni regola del diritto e del giusto e distruggeva i fon-<br />

damenti della società. Il compito della Chiesa, madre e maestra, era quindi quello di difendere la so-<br />

cietà e la razionalità da se stesse, insegnando, grazie al magistero infallibile donatole da Cristo, la<br />

vera dottrina salvifica a cui si doveva l’obbligo di credere 97 .<br />

2) Il secondo carattere è la priorità data all’istituzione e all’aspetto sociale della Chiesa. La priorità<br />

dell’istituzionale sul misterico favorisce un’<strong>ecclesiologia</strong> estrinsecista e apologetica centrata sugli<br />

aspetti istituzionali e visibili della Chiesa più accessibili alla conoscenza empirica e capaci di dar<br />

fondamento razionale al «credo Ecclesiam» (cfr. DzH 3012).<br />

3) Il terzo carattere è il suo orientamento papalista. Il riconoscimento dell’autorità fu poi articolato<br />

con l’affermazione della forma monarchica di governo, al punto che si poté isolare il capitolo sul<br />

Primato Pontificio dal resto dello schema come un tema autonomo 98 .<br />

97 Si veda sintomaticamente quello che dice mons. Gasser nell’ultima relazione (16 luglio 1870) sulle modifiche apportate<br />

alla costituzione Pastor aeternus: «Non si può negare che la società umana è giunta al punto in cui i suoi ultimi fondamenti<br />

stanno vacillando. A causa di questa condizione così miserevole della società umana non può essere portato alcun<br />

rimedio se non dalla Chiesa di Dio, nella quale esiste un’autorità istituita da Dio e infallibile, tanto in tutto il corpo<br />

della Chiesa docente, quanto nella sua stessa testa. Perché gli occhi di tutti siano attirati verso questa roccia di fede contro<br />

la quale le porte innalzate dall’inferno non resisteranno, Dio ha voluto — io lo credo— che in questi giorni la dottrina<br />

dell’infallibilità del Romano Pontefice sia stata proposta al Concilio Vaticano»: MANSI, 52, 1317 B/C.<br />

98 Franzelin riferisce di aver inteso un canonista sostenere: «Romanum Pontificem non esse nec recte dici posse mem-<br />

brum Ecclesiae»! (cfr. Theses de Ecclesia, 360 n. 1).<br />

240


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

4) Il quarto carattere è la priorità teorica e pratica data alle strutture gerarchiche della Chiesa con il<br />

pericolo di deviare verso un’immagine della Chiesa troppo clericale.<br />

5) Il quinto carattere è di ordine metodologico: la scelta della visione societaria portò a una ecclesio-<br />

logia di impronta apologetica. La Chiesa era pensata non come un aspetto del mistero della fede,<br />

ma come mediatrice dei misteri (= dogmi); ed inoltre la sua relazione a Cristo era ridotta a quella di<br />

una istituzione al suo fondatore. In particolare è significativo che la Dei Filius consideri la Chiesa<br />

come dotata di note di credibilità nella sua realtà storica e visibile al punto che essa stessa è segno e<br />

argomento irrefragabile della sua credibilità. Si noti bene però che in questa prospettiva la realtà<br />

stessa della Chiesa non appartiene strettamente all’«obiectum formale» della fede, ma è solo una<br />

«conditio» per la quale la Rivelazione divina giunge a noi con la sua necessaria garanzia di autenti-<br />

cità. Essendo la testimonianza di Dio l’unico «motivum formale» della nostra fede, Dio deve garan-<br />

tire anche la fedeltà della sua parola nello strumento di trasmissione che, in ultima istanza, è la<br />

Chiesa. Si trattava quindi di legittimare esclusivamente la missione dottrinale della Chiesa nella sua<br />

trasmissione, e di tutelare l’interpretazione autentica della Rivelazione.<br />

6) Da ultimo notiamo l’assenza di una riflessione sulla dimensione pneumatologica e missionaria<br />

della Chiesa, come pure un’esposizione sulla dignità e il ruolo attivo dei laici. L’apertura ecumeni-<br />

ca, poi, non era minimamente considerata: il desiderio di unità era reale e si era manifestato<br />

nell’invito indirizzato agli ortodossi e ai protestanti a partecipare al concilio; si esprimeva però solo<br />

nei termini di un ritorno a Roma, così che fu da loro rispedito sdegnosamente al mittente.<br />

2.6.2. L’immagine della Chiesa dal Vaticano I al 1920<br />

Le linee fondamentali dell’<strong>ecclesiologia</strong> approvata al Vaticano I determinano lo sviluppo della dot-<br />

trina sulla Chiesa e la stessa immagine reale della Chiesa durante i decenni seguenti, dato che gli e-<br />

lementi del rinnovamento che si erano timidamente fatti avanti durante il Concilio rimasero lette-<br />

ralmente sepolti negli Atti del Concilio.<br />

In particolare ci fu uno sviluppo delle riflessioni sul carattere societario e gerarchico della Chiesa<br />

(ad es. D. PALMIERI, De romano pontifice cum prolegomeno de ecclesia, Prato 1891 2 ). Nello stesso<br />

tempo si portò a compimento quella tendenza a scindere la comunità di fede e di amore dalla società<br />

gerarchica. La comunione spirituale non ha alcuna consistenza giuridica, ma è ridotta all’ambito<br />

della interiorità mistica personale, come una pura realtà spirituale senza forma istituzionale, mentre<br />

la struttura della Chiesa è sottoposta a schemi puramente societari e gerarchici. In tal senso Louis<br />

Billot (Tractatus de ecclesia Christi, Roma 1903 2 ) abbandona la tesi della «divino-umanità» della<br />

Chiesa, tradizionale nei maestri suoi predecessori al Collegio Romano, a favore di una impostazione<br />

241


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

rigorosamente societaria, dato che l’aspetto interiore della Chiesa (ridotto alla grazia santificante e<br />

alle virtù infuse) non è proprio dell’essenza della Chiesa, perché riguarda i suoi membri e non il<br />

corpo sociale come tale; il trattato sulla Chiesa, se vuole presentarne l’intima costituzione, deve<br />

considerarla «reduplicative qua societas», dato che essa si distingue dalle altre società naturali per<br />

l’origine e per il fine soprannaturale ma non per la sua struttura interna.<br />

Infine, l’<strong>ecclesiologia</strong> dei manuali si accontentava di essere una esposizione apologetica delle strut-<br />

ture costituzionali della Chiesa, ormai dominate dalla tesi del primato papale. In sostanza i manuali<br />

esponevano sistematicamente una serie di questioni ereditate dalla polemica contro la Riforma (la<br />

visibilità della Chiesa e l’appartenenza ad essa, i poteri gerarchici e in specie il primato, il magiste-<br />

ro) e dalle rivendicazioni contro lo stato liberale (la chiesa società perfetta) con l’aggiunta, contro il<br />

modernismo, delle tesi circa la volontà di Gesù Cristo di istituire una Chiesa visibile e giuridica.<br />

In questo panorama occorre riconoscere che alcuni accenti originali e ricchi di futuro furono offerti<br />

dagli interventi di LEONE XIII, il quale nelle sue moltissime encicliche affrontò più volte sotto di-<br />

versi aspetti il tema della chiesa. In particolare il suo insegnamento si concentrò su tre temi princi-<br />

pali: la Chiesa in se stessa, il rapporto Chiesa e Stato, l’unionismo.<br />

1) L’insegnamento sulla Chiesa si raccoglie attorno a due punti: l’unità della Chiesa e il ruolo dello<br />

Spirito Santo. Nell’enciclica Satis cognitum (29 giugno 1896) Leone XIII, ispirandosi alla dottrina<br />

della Scuola Romana sulla natura teandrica della chiesa, corpo mistico di Cristo, ne dispiega<br />

l’origine trinitaria nel piano della salvezza e poi l’unione di visibile e invisibile che appartiene alla<br />

natura stessa della Chiesa. Tale unione ha la sua origine e il suo fondamento nel mistero del Verbo<br />

Incarnato. Per illustrare l’unità di visibile e invisibile, che non sono giustapposti, ma intimamente<br />

uniti seppur distinti, l’enciclica utilizza la nozione di Corpo di Cristo riferendo analogicamente il<br />

mistero della Chiesa al mistero dell’Incarnazione:<br />

«[La chiesa] poi, se si considera l’ultimo fine, a cui mira, e le cause prossime della santità, è certamente<br />

spirituale; ma se si considerano i membri che la compongono e i mezzi che conducono al<br />

conseguimento dei doni spirituali, è esterna e necessariamente visibile… Per queste ragioni le sacre<br />

Scritture, molto spesso, chiamano la Chiesa sia «corpo» sia anche «corpo di Cristo»: «Voi siete<br />

il corpo di Cristo» (1Cor 12,27). Per questo motivo, per il fatto che è corpo la Chiesa si percepisce<br />

con gli occhi; per il fatto che è corpo di Cristo, la Chiesa è corpo vivente, operoso e sano, dato che<br />

Cristo la salvaguarda e la alimenta. […] Come poi, nei viventi, il principio della vita è nascosto e,<br />

profondamente nascosto, è tuttavia rivelato e mostrato dal movimento e dall’azione delle membra<br />

così, nella Chiesa, il principio della vita soprannaturale si svela chiaramente da quanto è operato<br />

da essa. Da questo deriva che si trovano in un grande e, al tempo stesso, pericoloso errore coloro<br />

che si inventano una Chiesa a proprio piacimento e la immaginano come se fosse nascosta, per nulla<br />

manifesta. Parimenti cadono in errore coloro che, allo stesso modo, pensano la Chiesa come una<br />

qualche istituzione umana, con un certo ordinamento di governo e con riti esteriori, ma senza la<br />

perenne comunicazione dei doni della grazia divina, senza quanto garantisce con una quotidiana e<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

palese testimonianza una vita attinta da Dio. Senza dubbio ripugna che la Chiesa di Gesù Cristo<br />

possa essere solo una realtà nascosta o una pura istituzione umana: ripugna tanto quanto il ritenere<br />

che l’uomo sia composto del solo corpo o della sola anima. La composizione e la stretta unione di<br />

queste due realtà — quasi parti — è del tutto necessaria per la vera Chiesa così come, pressappoco,<br />

l’intima unione dell’anima e del corpo per la natura umana. La Chiesa non è qualcosa di inanimato<br />

ma è il Corpo di Cristo, dotato di vita soprannaturale. Come il Cristo, capo e modello, non<br />

è tutto se, in lui, si considera o la natura visibile in quanto solo umana, come fanno i fotiniani e i<br />

nestoriani, o la natura divina invisibile, come sogliono fare i monofisiti, ma è uno in forza di entrambe<br />

e in entrambe le nature, sia visibile che invisibile, così il suo corpo mistico non è la vera<br />

Chiesa se non per il fatto che le sue parti più insigni prendono forza e vita dai doni soprannaturali<br />

e da quelle altre realtà, in dipendenza dalle quali si sviluppa la loro specifica condotta e natura»<br />

(DzH 3300-3301).<br />

La Chiesa è quindi unica e una: «qui unicam condidit, is idem condidit unam». Così emerge anche la<br />

necessità di un principio esterno di autorità per conservare l’unità.<br />

Nella successiva enciclica Divinum illud munus (9 maggio 1897) Leone XIII, inoltre, vuole illustra-<br />

re l’azione dello Spirito Santo nella Chiesa. Collocata nell’opera comune della Trinità “ad extra”<br />

l’opera dello Spirito viene considerata in primis nell’Incarnazione del Figlio. Lo Spirito ha operato<br />

non solo la concezione umana del Verbo, ma anche la consacrazione della sua anima, la sua unzio-<br />

ne, in forza della quale tutte le azioni di Cristo avvengono nello Spirito. Ciò costituisce<br />

l’anticipazione di quella duplice missione dello Spirito che opera nella Chiesa e nell’anima dei sin-<br />

goli giusti. L’azione dello Spirito nella Chiesa consiste nella comunicazione di tutta la verità divina<br />

e nello sviluppo della dottrina. Lo Spirito è la garanzia che la Chiesa resti fedele alla verità di Cri-<br />

sto, la approfondisca sempre meglio e la annunci al mondo. Il luogo dove si manifesta questa azione<br />

dello Spirito è innanzi tutto il magistero e poi la multiforme ricchezza dei carismi. L’Enciclica, per<br />

sintetizzare la modalità di presenza e di azione dello Spirito, riprende l’immagine dell’Anima del<br />

Corpo Mistico, cara a sant’Agostino: «poiché Cristo è capo della Chiesa, lo Spirito Santo ne è<br />

l’anima: “ciò che l’anima è nel nostro corpo, questo lo Spirito Santo lo è nel Corpo di Cristo che è<br />

la Chiesa”» (DzH 3328. La citazione finale è di AGOSTINO, Sermo 267, 4,4: PL 38, 1231d).<br />

2) Il secondo tema sul quale Leone XIII ritornò a più riprese, fu quello delle relazioni fra Chiesa e<br />

stato nel nuovo contesto contemporaneo — che vede anche il nascere di un insegnamento sociale<br />

(Rerum Novarum). In quest’ambito Leone XIII rinnovò la dottrina ufficiale. Se, da una parte, egli<br />

continua la lotta dei suoi predecessori contro le pretese della società e degli Stati moderni di costitu-<br />

ire il tutto della vita degli uomini, ad esclusione di un ordine di vita soprannaturale — la Chiesa, in-<br />

fatti, è in se stessa una società perfetta di natura e di diritto —, d’altra parte, si distanzia dalle tesi<br />

ierocratiche, riprendendo la dottrina gelasiana, «Duo sunt quibus principaliter mundus hic regitur»,<br />

e la dottrina tomista della distinzione, non solo di due poteri nel quadro di un’unica società, ma di<br />

due società aventi ciascuna il suo fine specifico e il suo ambito proprio in quo sua cuiusque actio<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

iure proprio versetur (Litt. Enc. Immortale Dei, 1 nov. 1885: DzH 3168). Poiché le due vengono da<br />

Dio, l’una dalla natura, l’altra dal Cristo, esse sono coordinate, secondo il piano di Dio: in ragione<br />

del primato del fine e dell’ordine spirituale, la società temporale, per lo stesso suo bene…, deve es-<br />

sere sottomessa alla società spirituale. Questa visione globale, la quale rifiuta ogni emancipazione<br />

delle scienze o del potere civile dall’autorità divina, si fonda su una determinata concezione della<br />

natura, che qui emerge nel ruolo essenziale attribuito alla legge naturale, alla ragione naturale o<br />

retta ragione: essa consente il rispetto dei differenti ambiti e la loro iscrizione in uno schema gerar-<br />

chico di diritti, opposti all’anarchia della ragione emancipata dalla fede.<br />

3) Infine, di Leone XIII ricordiamo la preoccupazione molto viva per l’unità dei cristiani, anche se<br />

contrassegnata da un indirizzo palesemente unionista. Egli pubblicò circa 250 documenti ispirati a<br />

questo disegno e in particolare adottò delle misure per frenare il processo di latinizzazione delle<br />

Chiese orientali cattoliche (“Uniati”); a suo avviso esse dovevano ritornare ad essere un tramite ef-<br />

ficace tra la Chiesa cattolica di rito latino e le Chiese ortodosse, grazie alla loro duplice fedeltà. Un<br />

episodio particolarmente importante di questo interesse ecumenico è costituito dalla decisione di<br />

non riconoscere la validità delle ordinazioni anglicane per difetto di forma e di intenzione espresso<br />

nella Lettera Apostolicae curae del 13 settembre 1896 (cfr. DzH 3315-3319).<br />

2.6.3. Il rinnovamento della Chiesa e della <strong>ecclesiologia</strong> dal 1920 al 1940<br />

Verso il 1920, in coincidenza con la fine della prima guerra mondiale, si verificò una rinascita delle<br />

forze rinnovatrici sia nel campo teologico dell’<strong>ecclesiologia</strong> sia nel campo liturgico-sacramentale e<br />

pastorale della vita della Chiesa. In questo periodo si avviò «il risveglio della Chiesa nelle anime»<br />

(Guardini), tanto che molto presto si poté salutare questo secolo come il «secolo della Chiesa» 99 .<br />

a) Fattori del rinnovamento dell’<strong>ecclesiologia</strong><br />

1. Il risveglio del senso comunitario. In particolare in Germania dopo il 1918 ebbe luogo una poten-<br />

te reazione all’individualismo e al meccanicismo sociale, che pervase tutti i campi del pensiero e<br />

dell’azione. Questa scoperta in certe correnti assunse toni irrazionalisti e biologisti 100 ; ma essa av-<br />

99 O. DIBELIUS, Das Jahrhundert der Kirche (Berlin 1926).<br />

100 Ci si rifaceva al pensiero di F. Tönnies, che opponeva la «comunità» — che sorge dalla modalità organica e spontanea<br />

della volontà umana e si sostiene su vincoli relazionali di natura affettiva e di sangue — alla «società» — frutto dalla<br />

modalità riflessa e egocentrica degli individui e dei gruppi particolari e che si regge su istituzioni convenzionali.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

venne anche in chiave diversa, cioè personalista 101 . Questo movimento rappresentò l’atmosfera spi-<br />

rituale in cui il pensiero ecclesiologico tedesco poté accogliere l’idea di «comunità» come correttivo<br />

all’impostazione societaria ereditata dall’Ottocento. La Chiesa cessava di apparire come un’autorità<br />

solo esterna, per tornare ad essere un corpo vivente, al di fuori del quale la personalità del cristiano<br />

non poteva svilupparsi.<br />

2. La spiritualità cristocentrica e il contributo di Pio X al rinnovamento dell’<strong>ecclesiologia</strong> per mez-<br />

zo del suo programma di rinnovamento pastorale e, in concreto, eucaristico.<br />

3. L’apostolato dei laici e il risveglio del laicato alla sua corresponsabilità nella missione della<br />

Chiesa (Pio XI e l’Azione Cattolica). L’oblio quasi totale del ruolo proprio del laicato nella Chiesa<br />

aveva comportato l’indebolirsi del senso di comunità nei fedeli e, pertanto l’abbandono della sua<br />

corresponsabilità nella realizzazione della missione della Chiesa. Per la piena rivalutazione del lai-<br />

cato nella Chiesa mancavano però in quel momento alcuni presupposti ecclesiologici.<br />

4. Il rinnovamento liturgico. Viene superata la nozione sociologica e giuridica della Chiesa per una<br />

nozione di Chiesa come mistero, non solo nel senso gnoseologico della Dei Filius ossia di una veri-<br />

tà rivelata, ma nella sua accezione “paolina” di evento dell’incontro con il Padre per il Cristo nello<br />

Spirito, che realizza il suo disegno salvifico sull’uomo (Lambert Beauduin, Odo Casel).<br />

5. Il rinnovamento degli studi biblici e patristici.<br />

6. Il movimento ecumenico. In questi anni prendono avvio molteplici iniziative ecumeniche che por-<br />

tano alla creazione dei due organismi ecumenici maggiori (Life and Work: Stoccolma 1925; Faith<br />

and Order: Losanna, 1927), dai quali nel 1948 nascerà ad Amsterdam il Consiglio Ecumenico delle<br />

Chiese (con sede a Ginevra).<br />

b) Le tendenze ecclesiologiche nella teologia del corpo mistico<br />

Il tema su cui si concentrò fra le due guerre il confronto tra le tendenze ecclesiologiche fu quello del<br />

corpo mistico. Non si trattò solo di un dibattito teologico; fu anche una intensa corrente di vita spiri-<br />

tuale, che introdusse nel pensiero e nella pietà un tono «cristocentrico». Nell’unità di fondo del mo-<br />

vimento il dibattito permise di discernere diverse tendenze fondamentali.<br />

1) Interpretazione organologica e vitale. Rifacendosi all’idea di chiesa come «incarnazione conti-<br />

nuata» proposta da Möhler, Sheeben e dai teologi della Scuola romana nel secolo XIX e a una certa<br />

101 Determinante fu l’influsso di Max Scheler, che contrapponeva alla «società», di origine illuminista, e alla «comunità<br />

vitale», di ascendenza romantica, la «comunità di amore» o «persona collettiva complessa». Nel valore assoluto della<br />

persona egli fondava il superamento dell’individualismo e dell’organicismo a favore di una unità nella pluralità.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

interpretazione della teologia di Paolo e dei padri greci, questa tendenza accentuava l’idea di «orga-<br />

nismo» e di relazioni vitali dei membri tra di loro e con il Capo. Essa tendeva ad assimilare il corpo<br />

mistico a un organismo naturale, senza rispettare sempre i limiti imposti dall’analogia, cancellando<br />

le distanze sia tra Dio e le creature sia tra le persone nella comunità. In questo ordine di idee certi<br />

autori insistevano sulla qualità ontologica dell’unione di vita tra Cristo e il fedele, quasi una «unio<br />

secundum naturam», trovandone il fondamento nel carattere «pneumatico» del Risorto e nella sua<br />

onnipresenza somatica, e paragonandola così alla transustanziazione eucaristica. Emblematiche di<br />

questo orientamento sono gli scritti di Karl Pelz 102 e di Feliz Kastner 103 , anche se accenni a tale sen-<br />

tire si trovano anche in Feckes, Ternus e Wikenauser. Fu però nel campo pastorale e nella vita litur-<br />

gica e sacramentale che fu più decisivo l’influsso di queste interpretazioni unilaterali della forma di<br />

unione della Chiesa con Cristo in un orientamento chiaramente misticista e semi-quietista.<br />

2) Interpretazione personalista. Questa corrente sottolinea l’incontro libero e responsabile tra Dio e<br />

l’uomo, la relazione personale tra Cristo e i fedeli mediante le virtù, e i vincoli interpersonali tra i<br />

membri. L’unione tra Cristo e i cristiani non è un atto «naturale» ma «personale» ed esalta la natura<br />

spirituale e libera delle persone e il loro impegno creativo nella comunità. Questa è una vita comu-<br />

nitaria etica; è soprattutto un’unione d’amore. Il sentire cum Ecclesia comporta il superamento del-<br />

l’individualismo verso un’etica di comunione. Portavoce di questa tendenza fu Romano Guardini 104 ,<br />

mentre alla sua diffusione contribuì in modo decisivo l’opera di K. Adam 105 . Questa tendenza bene-<br />

ficiò dei risultati di quattro pubblicazioni fondamentali, perché gli autori, J. Anger 106 , Th.M. Käppe-<br />

li 107 , E. Mersch 108 , E. Mura 109 , investigarono le basi teologiche di questa nozione nella Scrittura, nei<br />

Padri e nei teologi e applicarono i dati acquisiti all’<strong>ecclesiologia</strong> e ai nuovi orientamenti pastorali.<br />

3) Interpretazione agostiniana del «Christus totus». Questa terza tendenza rischiava di sottovalutare<br />

l’elemento istituzionale nella Chiesa, a favore del suo elemento di grazia e santità. Il corpo mistico,<br />

cioè, era visto soprattutto come il dominio della grazia di Cristo, il «Christus totus» di impronta a-<br />

gostiniana; esso cioè costituiva la comunità invisibile di coloro che appartengono a Dio in virtù del-<br />

102<br />

Der Christ als Christus (Berlin 1939).<br />

103 2<br />

Marianische Christusgestaltung der Welt (Paderborn 1936).<br />

104<br />

Vom Sinn der Kirche (Mainz 1922).<br />

105<br />

Das Wesen des Katholizismus (Düsseldorf 1924).<br />

106<br />

La doctrine du Corps Mystique de Jésus-Christ d’après les principes de la théologie de S. Thomas (Paris 1929).<br />

107<br />

Zur Lehre des hl. Thomas von Aquin vom Corpus Christi Mystikum; mit einem kurzen Überblick über die wichtigsten<br />

Vertreter dieser Lehre (Freiburg-Paderborn 1931).<br />

108<br />

Le Corps Mystique du Christ. Etude de Théologie historique (Paris 1933); Morale et Corps Mystique (Paris-<br />

Bruxelles 1931); Le Corps Mystique du Christ. Sa nature et sa vie divine d’après S. Paul et la théologie, I-II (Paris<br />

1934).<br />

246


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

la grazia. Suoi membri erano tutte le creature razionali elevate allo stato soprannaturale, compresi<br />

gli angeli e i giusti dell’AT («Ecclesia ab Abel») 110 . La conclusione era che il corpo di Cristo non<br />

coincideva con la Chiesa visibile, ma si estendeva virtualmente tanto quanto la volontà salvifica di<br />

Dio. Perciò la Chiesa e il corpo mistico erano due realtà estremamente vicine e l’una conduceva<br />

all’altra, ma sulla terra non si identificavano perfettamente (E. Mersch). Di conseguenza il criterio<br />

di appartenenza al corpo mistico non coincideva con l’appartenenza alla Chiesa: suoi membri sono<br />

tutti quelli che sono in legame interiore e vitale con Cristo. Il ruolo pressoché esclusivo attribuito<br />

alla grazia nella costituzione del corpo mistico finiva, però, col separare l’aspetto mistico da quello<br />

istituzionale e col non rendere più conto della universale mediazione salvifica della Chiesa visibile.<br />

4) Interpretazione corporativista. Questa si contrappose polemicamente alle altre, dato che il termi-<br />

ne «corpo» per alcuni autori doveva essere inteso solo come una metafora che indicava l’aspetto so-<br />

cietario della Chiesa 111 . Altri autori, invece, conservavano un significato reale e soprannaturale, ma<br />

ritenevano che non la Chiesa dovesse essere concepita a partire dal corpo mistico (inteso come il<br />

dominio della grazia), bensì quest’ultimo a partire da quella come realtà visibile e gerarchica. Essi<br />

riprendevano la linea della Scuola romana circa la natura istituzionale della Chiesa e il carattere te-<br />

andrico della sua costituzione e delle sue operazioni. Il rappresentante maggiore della tendenza fu<br />

Sebastiaan Tromp 112 , la cui intenzione programmatica fu quella di considerare in primo luogo nella<br />

Chiesa non i nessi invisibili con Cristo ma l’organismo sociale e la sua struttura, che è insieme ge-<br />

rarchica e carismatica. La visibilità, infatti, entra nel mistero della Chiesa come entra nel mistero del<br />

Verbo incarnato: il corpo mistico, perciò, è la chiesa visibile in quanto organismo, ma un organismo<br />

vivificato dallo Spirito. Egli concludeva perciò che la Chiesa di Cristo sulla terra è una società reli-<br />

giosa da lui fondata e soggetta al papa; che il corpo mistico è la chiesa romana; che, infine, questa<br />

chiesa si chiama corpo mistico perché è un organismo istituito da Cristo e diretto visibilmente da lui<br />

nel suo vicario, ma anche perché tale organizzazione sociale è unificata, vivificata e unita a Cristo<br />

ed è a lui assimilata da un principio invisibile, immessovi da Cristo, cioè il suo Spirito.<br />

109<br />

Le Corps Mystique du Christ. Sa nature et sa vie divine d’après S. Paul et la théologie, I-II (Paris 1934).<br />

110<br />

Y. CONGAR, “Ecclesia ab Abel”, in M. REDING (ed.), Abhandlungen über Theologie und Kirche, (Düsseldorf 1952)<br />

79-108. Emblematico di questa corrente è E. MERSCH, La théologie du corps mystique, I-II (Paris-Tournai 4 1954).<br />

111<br />

M.D. KOSTER, Ekklesiologie im Werden (Paderborn 1940).<br />

112<br />

Corpus Christi quod est Ecclesia, I-III (Roma 1937ss).<br />

247


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

a) I prodromi<br />

2.6.4. La riflessione ecclesiologica attorno alla Mystici Corporis (1940-1950)<br />

Così come il movimento iniziato dal Bellarmino portò alla definizione del primato e della infallibili-<br />

tà pontificia nel Vaticano I, il movimento iniziato da Möhler culminò nell’enciclica Mystici Corpo-<br />

ris (29 giugno 1943) di Pio XII e nel Vaticano II.<br />

L’investigazione teologica nel decennio 1940-1950 si concentrò sulla tematica proposta dalla Mysti-<br />

ci Corporis ( = MC). Questo fatto è facilmente comprensibile se si tiene presente che l’enciclica co-<br />

ronò i lavori intrapresi nei vari campi della teologia da tutta una generazione di teologi, per cui<br />

l’idea del corpo mistico fu accettata come centro di unità dell’<strong>ecclesiologia</strong> e penetrò profondamen-<br />

te nella coscienza della comunità ecclesiale. Dall’altra parte, la MC si vide obbligata a frenare certe<br />

tendenze ecclesiologiche che, accentuando unilateralmente l’unione mistica dei membri tra di loro e<br />

con Cristo Capo, mettevano in pericolo la verità integrale del dogma ecclesiologico.<br />

b) L’<strong>ecclesiologia</strong> della Mystici Corporis (29 giugno 1943)<br />

1. Gli errori condannati dall’enciclica<br />

L’enciclica viene pubblicata contro gli errori ecclesiologici del razionalismo e naturalismo da una<br />

parte — che mirano a ridurre la Chiesa a mero prodotto umano e cioè a realtà meramente giuridica e<br />

sociologica —, e quelli di un esagerato misticismo dall’altra — che non rispetta le frontiere tra<br />

l’umano e il divino nella Chiesa, tanto da considerare «uniti e fusi in unica stessa persona fisica il<br />

Redentore divino e i membri della Chiesa…, attribuendo agli uomini cose divine, sottomettono Ge-<br />

sù Cristo a errori e debolezze umane» (DzH 3816). Inoltre l’enciclica scopre forme più moderate di<br />

misticismo ecclesiologico in quanti, accentuando con una certa esclusività gli aspetti interiori della<br />

Chiesa nell’unione dei suoi membri con Cristo e tra di loro, presentano una «Chiesa occulta e total-<br />

mente invisibile… Una società formata e sostenuta dalla carità, alla quale oppongono — con un cer-<br />

to disprezzo — un’altra che essi chiamano giuridica» (AAS 35 (1943) 223). Altri interpretano male<br />

l’unità della Chiesa dissociando la sua realtà interiore dalla esteriore: «si allontanano dalla verità di-<br />

vina quanti concepiscono la Chiesa come qualcosa di inaccessibile e che non si può vedere, quasi<br />

come si trattasse di una realtà pneumatica che consta di molte comunità di cristiani che, sebbene se-<br />

parati tra di loro, grazie alla fede sono uniti con un vincolo invisibile» (Ibid., 199-200).<br />

2. La dottrina ecclesiologica dell’enciclica<br />

Nella sua esposizione dottrinale l’enciclica segue i seguenti passi: (1) la Chiesa è un corpo; (2) la<br />

Chiesa è corpo di Cristo; (3) la Chiesa è corpo mistico di Cristo.<br />

248


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

(1) La Chiesa è un corpo (visibile e organico): per corpo si intende qui la comunità indivisa, visibi-<br />

le, organica e gerarchicamente costituita che abbraccia determinati membri e da cui non sono esclusi<br />

i peccatori. Alla ricerca di un sintesi fra la realtà invisibile e quella visibile della Chiesa, la MC, ap-<br />

poggiandosi alla Satis cognitum, adopera «corpo» in relazione diretta con il corpo umano e con ogni<br />

corporazione sociale, per significare non tanto l’indivisibilità e unicità della Chiesa nel senso paoli-<br />

no in modo che i molti formano un corpo (Rm 12,5), quanto la sua visibilità: «Poiché la Chiesa è un<br />

corpo, si percepisce con gli occhi» (Ibid., 199). Pertanto si deve rifiutare la concezione di una Chie-<br />

sa invisibile o pneumatica, in cui i suoi membri si considerano uniti mediante vincoli meramente<br />

spirituali. Quindi, mentre il peccato non separa necessariamente dal corpo della Chiesa — il pecca-<br />

tore è un membro infermo —, l’eresia, lo scisma, l’apostasia e la scomunica, ratificate nel foro e-<br />

sterno, implicano la perdita dell’appartenenza al corpo ecclesiale.<br />

La Chiesa poiché è un corpo, è anche un organismo gerarchizzato in relazione ai vari ministeri ge-<br />

rarchici e agli altri carismi di cui sono dotati i suoi membri per il bene della totalità.<br />

(2) La Chiesa è il corpo di Cristo: essa è stata fondata da Cristo e appartiene a lui. Dal parallelismo<br />

fra Incarnazione e Chiesa si conclude che la Chiesa è il corpo di Cristo. Però, per quanto intima sia<br />

l’unità di Cristo e della sua Chiesa, questa non è l’unione ipostatica che si dà tra la natura umana di<br />

Cristo e il Verbo. Perciò l’enciclica dichiara che la relazione di Cristo con il suo corpo è quella del<br />

Fondatore, Capo, Sostentatore e Salvatore. La Chiesa ha Cristo come suo Fondatore perché è ve-<br />

nuta all’esistenza attraverso tutto il processo degli eventi che costituiscono il Mysterium Christi,<br />

dall’incarnazione fino all’invio dello Spirito sopra il gruppo dei discepoli ed essa deve rendere pre-<br />

sente in modo efficace l’opera della redenzione agli uomini fino alla fine del tempo. Il Cristo inoltre<br />

è Capo del suo corpo, anche se l’unione tra i due non è l’unione ipostatica, ma piuttosto l’unione in<br />

ordine all’esercizio della missione di salvezza che Cristo realizzò sulla terra e, dopo la sua ascen-<br />

sione al cielo, come Capo della Chiesa continua tra gli uomini. D’altra parte, l’unione tra Cristo e i<br />

fedeli non è da pensarsi sul modello di una società umana: Cristo infatti è presente nella Chiesa e<br />

nei cristiani così da esserne il Sostentatore; ciò fa sì che la Chiesa esista quasi altera persona Chri-<br />

sti (Ibid., 218). Perciò è Cristo che battezza, offre il sacrificio al Padre, insegna e regge la comunità<br />

dei fedeli. In breve, Cristo sostenta la sua Chiesa visibilmente attraverso i suoi ministri gerarchici e<br />

invisibilmente per mezzo del dono dello Spirito. In specie Cristo sostenta la Chiesa in virtù della<br />

missione giuridica che egli comunicò ai discepoli e che non è diversa da quella che egli ricevette dal<br />

Padre, per la quale è sempre lui che battezza, insegna… per mezzo della Chiesa. Inoltre, lo Spirito è<br />

lo Spirito di Cristo, perché è il medesimo in Cristo e nei cristiani, benché partecipato in modo diffe-<br />

rente. Lo Spirito si può così chiamare anima della Chiesa. Perciò la presenza di Cristo alla Chiesa<br />

249


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

non è somatica, ma pneumatica. La MC adduce un quarto motivo per chiamare Cristo capo del cor-<br />

po mistico e la Chiesa corpo di Cristo e lo fa basandosi su Ef 5,23: «“Cristo è capo della Chiesa, lui<br />

che è il salvatore del suo corpo”. Egli è Salvatore di tutta l’umanità, però in modo speciale lo è dei<br />

fedeli che si è acquistato con il suo sangue per costituirli membri della Chiesa» (Ibid., 221).<br />

(3) La Chiesa è il corpo «mistico» di Cristo. La Chiesa non è un corpo naturale: mentre infatti in<br />

questo solo il tutto ha la sussistenza che dà alle parti, la Chiesa invece ha una moltitudine di membri<br />

che possiedono una personalità propria. Inoltre, mentre in un corpo vivente le parti sono destinate<br />

all’utilità del tutto, nella compagine della Chiesa il fine ultimo è il bene di ciascun membro. D’altra<br />

parte, la Chiesa non è nemmeno un corpo morale, perché anche avendo caratteristiche proprie della<br />

corporazione, la supera in modo essenziale. Nel corpo morale, infatti, ciò che unisce tutti i membri<br />

del corpo è un fine estrinseco a tutti loro che li congiunge in ordine al suo perseguimento sotto la di-<br />

rezione di un’autorità sociale. Tutto ciò si compie anche nella Chiesa, compagine unita dai vincoli<br />

giuridici istituiti da Cristo; in essa però si dà tra suoi membri un’unità più intima. Infatti la Chiesa<br />

ha come principio interno di unità lo Spirito Santo, che unifica i suoi membri in una medesima vita.<br />

Pio XII rigetta perciò ogni interpretazione naturalistica che vede nell’organismo ecclesiale solo una<br />

istituzione umana. Questo corpo che non è né fisico né morale si può allora chiamare «mistico».<br />

4) L’enciclica dedica poi la sua seconda parte a precisare l’unione dei membri con Cristo e tra di lo-<br />

ro nel corpo della Chiesa. A tal fine Pio XII identifica Chiesa cattolica e corpo mistico, affermando<br />

che tanto si estende il corpo mistico di Cristo quanto si estende la Chiesa cattolica; le due realtà si<br />

completano e si perfezionano a vicenda, e procedono da un solo e identico Salvatore. Quindi «tra i<br />

membri della chiesa bisogna annoverare esclusivamente (reapse) quelli che ricevettero il lavacro<br />

della rigenerazione, e professando la vera fede né da se stessi disgraziatamente si separarono dalla<br />

compagine di questo corpo, né per gravissime colpe commesse ne furono separati dalla legittima au-<br />

torità… Come dunque nel vero ceto dei fedeli si ha un solo corpo, un solo Spirito, un solo Signore e<br />

un solo battesimo, così non si può avere che una sola fede (Ef 4,5), sicché chi abbia ricusato di a-<br />

scoltare la chiesa, deve, secondo l’ordine di Dio, ritenersi come gentile e pubblicano (Mt 18,17).<br />

Perciò quelli che sono tra loro divisi per ragioni di fede e di governo, non possono vivere nell’unità<br />

di tale corpo e per conseguenza neppure nel suo divino Spirito». Quelli invece che non appartengo-<br />

no alla Chiesa visibile, non appartengono neppure al corpo mistico di Cristo, anche se «da un certo<br />

inconsapevole anelito e desiderio sono ordinati al mistico corpo del Redentore» (DzH 3821).<br />

La pubblicazione della MC segna indubbiamente una nuova tappa nella storia delle idee ecclesiolo-<br />

giche e costituisce un progresso innegabile, ossia il passaggio dalla considerazione sociologica o<br />

250


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

giuridica della Chiesa a quella propriamente teologica. Di fatto, la nozione di società perfetta come<br />

tale era ricavata dalla sociologia e dal diritto, non dalla rivelazione, mentre la nozione di corpo mi-<br />

stico si trovava in S. Paolo e in tal caso poteva essere di maggior aiuto per una definizione teologica<br />

della Chiesa. Tuttavia si deve osservare anche che l’enciclica adottò come punto di partenza la no-<br />

zione sociologica di corpo (la Chiesa è una corporazione sociale e come tale è visibile); ciò condi-<br />

zionò la soluzione che si diede ai vari problemi affrontati, ad es. l’identificazione del corpo mistico<br />

con la Chiesa cattolica romana e la questione dei criteri di appartenenza.<br />

In ogni caso l’enciclica fece sorgere parecchie discussioni. In primo luogo ci si chiedeva se la no-<br />

zione di corpo mistico di Cristo fosse da considerarsi una definizione della Chiesa in senso stretto.<br />

La discussione concluse che se questa non era da considerarsi l’unica definizione, tuttavia era da<br />

preferirsi rispetto alle altre (Malmberg; Holböck; Schmaus). In secondo luogo sorse una discussione<br />

sulla identificazione che la MC aveva operato fra corpo mistico e Chiesa cattolica romana — posi-<br />

zione che Pio XII confermò nella Humani Generis: AAS 42 (1950) 567-568 — e quindi sui criteri di<br />

appartenenza alla Chiesa. Alcuni si chiedevano infatti se il corpo mistico non si estendesse oltre le<br />

frontiere della Chiesa cattolica e dell’appartenenza alla Chiesa visibile. Altri parlavano di differenti<br />

gradi di appartenenza alla Chiesa, ricollegandosi a J.B. Franzelin, che ammetteva un’appartenenza<br />

«parziale» (ex parte); parlavano perciò, d’incorporazione in voto e d’incorporazione totale e pratica<br />

alla Chiesa (Y. Congar), di appartenenza visibile e d’appartenenza invisibile alla Chiesa (A. Liégé).<br />

Altri poi sottolineavano che il concetto di corpo di Cristo così inteso disconosceva la differenza fra<br />

il presente e la consumazione futura (Fincke). In terzo luogo la discussione si appuntò sul significa-<br />

to dell’aggettivo mistico, dato che esso non apparteneva al linguaggio paolino, ma gli era posteriore.<br />

Inoltre si faceva notare come il senso cristologico-soteriologico e sacramentale che Paolo aveva da-<br />

to all’espressione corpo di Cristo non era stato pienamente considerato dall’enciclica, interessata a<br />

sottolineare in essa soprattutto la visibilità e organicità della Chiesa.<br />

Di tutta questa ampia discussione possiamo fare nostro il bilancio conclusivo stilato da Antonio A-<br />

cerbi alla luce della “svolta” conciliare: «La teologia del corpo mistico concentrò il suo interesse<br />

proprio sul lato invisibile della Chiesa, sentito come quello essenziale per la sua comprensione. Ma<br />

non arrivò a coglierne il riflesso sulla dimensione istituzionale della Chiesa e confinò ancora la real-<br />

tà della “communio sanctorum” nei limiti del puramente spirituale, nella sfera extragiuridica del<br />

rapporto di amore e di grazia tra Cristo e i fedeli e tra questi ultimi. La tendenza fu, perciò, o a sva-<br />

lutare il dato istituzionale, negandogli rilevanza nel mistero della Chiesa o a mantenere intatta la<br />

prevalenza delle categorie istituzionali nella considerazione del lato visibile della Chiesa. Anche<br />

quando si sottolineava il servizio che tutti i membri della Chiesa sono chiamati a rendersi nella co-<br />

251


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

munione dei santi, e quando la realtà mistica della Chiesa era portata a fondamento e giustificazione<br />

della sua dimensione visibile, era pur sempre l’istituzione gerarchica il termine prevalente della<br />

considerazione. Si continuava ad avere, così, da un lato una comunità di fede (sentita come la realtà<br />

essenziale, ma senza consistenza giuridica e rilevanza strutturale) e dall’altro lato una società gerar-<br />

chica dotata di organi gerarchici (concepita ancora secondo gli schemi della società perfetta)» 113 .<br />

2.6.5. Le nuove prospettive dell’<strong>ecclesiologia</strong> tra il 1950 e il 1960<br />

Tra il 1950 e il 1960 si ebbe un approfondimento dei problemi ecclesiologici, con nuove prospettive<br />

grazie a uno studio più intenso della Sacra Scrittura e dei Padri. In particolare si pose l’accento sui<br />

temi che avrebbero costituito l’ossatura della Lumen Gentium, quali la Chiesa come sacramento di<br />

salvezza, come comunione, come popolo di Dio; se ne mise in risalto il carattere missionario; fu ap-<br />

profondito il posto dei laici nella Chiesa e la specificità della loro missione (la teologia del laicato);<br />

si posero in risalto gli elementi ecclesiali presenti nelle Chiese e comunità separate; si approfondì il<br />

carattere escatologico della Chiesa; furono meglio studiati i rapporti tra Maria e la Chiesa.<br />

In particolare la situazione della riflessione ecclesiologica al momento del Concilio risultava dalla<br />

confluenza di tre filoni teologici. Continuavano ad avere corso, soprattutto sul tema delle strutture<br />

gerarchiche, le soluzione giuridiste, tramandate attraverso i manuali di teologia e di diritto pubblico<br />

ecclesiastico. Accanto a queste apparivano recepiti e consolidati i risultati del rinnovamento eccle-<br />

siologico, che aveva fatto perno attorno al tema del «corpo di Cristo». Infine, cominciavano ad af-<br />

fermarsi nuovi spunti relativi al rapporto tra gli elementi costitutivi della dimensione storica e socia-<br />

le della Chiesa, cioè tra il dato gerarchico, quello sacramentale e quello comunitario della società<br />

ecclesiale. Ne venne che su molti temi si contrapponevano opinioni divergenti.<br />

a) Il «mistero» della Chiesa<br />

Una prima linea di spartiacque si manifestava nella questione della definizione (o descrizione) della<br />

Chiesa. Si trattava di sapere se la Chiesa andava definita facendo riferimento in primo luogo al «mi-<br />

stero» presente in essa più che alle caratteristiche societarie della sua manifestazione storica (subor-<br />

dinando, quindi, la realtà strutturata della Chiesa alla sua realtà mistica) oppure se doveva essere de-<br />

finita ricorrendo in primo luogo alle categorie filosofiche correnti per la definizione delle altre so-<br />

cietà umane (salvo affermarne la soprannaturalità dell’origine e del fine).<br />

1) La visione societaria della chiesa era ancora dominante in alcuni importanti manuali (Vellico;<br />

113 A. ACERBI, Due ecclesiologie (Bologna: EDB, 1975) 47-48.<br />

252


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Zapelena; Salaverri). Essa era difesa appassionatamente soprattutto in alcuni ambienti teologici nor-<br />

damericani (Fenton). Ma la riflessione teologica nel suo complesso aveva abbandonato la prospetti-<br />

va controversistica, facendo prevalere l’opinione che «la Chiesa è primariamente una realtà invisibi-<br />

le. Con ciò non si nega affatto la visibilità della Chiesa, anzi la si richiede a ragione del concetto di<br />

mistero, che significa una comunicazione della salvezza avvolta in forme visibili» 114 . Nel definire la<br />

Chiesa, perciò, deve emergere la comunione interiore di carità e la santità comunicatale da Cristo.<br />

La sensibilità al «mistero» della Chiesa permetteva di integrare meglio nella teologia della Chiesa la<br />

dimensione pneumatica: la Chiesa, infatti come comunione di vita e di santità, è una «comunione<br />

nello Spirito» 115 . Il richiamo al mistero dello Spirito serviva ad evitare il «monofisismo ecclesiale»:<br />

la Chiesa non è «incarnazione continuata»; essa ha un rapporto solo analogico col mistero della u-<br />

nione ipostatica, visto che l’unità in Cristo dei fedeli si realizza per la mediazione dello Spirito 116 .<br />

Questa rinnovata comprensione del carattere pneumatico della Chiesa trovava espressione nella ri-<br />

proposizione del tema tradizionale della «ecclesia de Trinitate»: la Chiesa è una comunità di perso-<br />

ne in comunione con le persone divine per la comunicazione fatta loro da Cristo nello Spirito della<br />

vita e dell’unità trinitaria 117 . Allo schema «cristologico» si affiancava così uno schema «trinitario».<br />

La sensibilità al «mistero» della Chiesa apriva anche all’idea che essa non fosse definibile in senso<br />

proprio, ma che se ne potesse dare solo una descrizione di tipo metaforico o analogico 118 . Questa<br />

consapevolezza rivalutò il valore teologico delle immagini e delle metafore, sia bibliche che patri-<br />

stiche, ed aprì a una più profonda comprensione della <strong>ecclesiologia</strong> dei Padri 119 .<br />

2) Il dono dello Spirito è il dono degli «ultimi tempi». La riflessione sul «mistero» della Chiesa non<br />

poté, perciò, andare disgiunta dalla considerazione del suo carattere escatologico. Nella prospettiva<br />

societaria l’istituzione non è in tensione né verso il passato (la Chiesa società perfetta non esisteva<br />

nell’AT) né verso il futuro (esso è irrilevante per l’istituzione, che non esisterà più nello stadio della<br />

Chiesa trionfante), ma è in se stessa conchiusa e perfetta, tutta realizzata nella volontà istitutiva del<br />

suo fondatore e nelle sue cause costitutive. Nella prospettiva comunionale, invece, la dimensione<br />

escatologica ritrovava piena rilevanza. La comunione con Dio, infatti, ha un’intrinseca tensione ver-<br />

114<br />

A. STOLZ, De ecclesia (Freiburg im Brisgau 1939) 15.<br />

115<br />

Y. CONGAR, La pneumatologie dans la théologie catholique, in RScPhTh 51 (1967) 250-258.<br />

116<br />

Y. CONGAR, Dogme christologique et ecclésiologique. Verité et limites d’un parallèle, in ID., Sainte Église. Études et<br />

approches ecclésiologiques (Paris 1964) 69-104.<br />

117<br />

Y. CONGAR, Chrétiens desunis. Principes d’un «oecumenisme» catholique (Paris 1937) 59-73; H. DE LUBAC, Méditation<br />

sur l’Église (Paris 1952).<br />

118<br />

Y. CONGAR, Sainte Église, 21 n. 1; A. STOLZ, De ecclesia, op. cit., 27.<br />

119<br />

H. RAHNER, Symbole der Kirche. Die Ekklesiologie der Väter (Salzburg 1964).<br />

253


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

so l’«eschaton» e l’istituzione non ha ragione e consistenza in sé medesima, ma la riceve da ciò cui<br />

è ordinata e che la sorpassa, la comunione di vita beata con Dio, ed ha valore nel suo rapporto di si-<br />

gnificazione e di servizio alla «res» di cui è segno nella storia umana. La comunione è anche una re-<br />

altà progressiva, in cui i diversi tempi dell’economia salvifica hanno un proprio significato… fino al<br />

culmine del regno, cui tutta la storia della salvezza è ordinata.<br />

La diversa sensibilità circa la natura escatologica della Chiesa trovava il suo primo campo di espres-<br />

sione nella considerazione dei rapporti tra la Chiesa e il regno di Dio. La tendenza prevalente tra i<br />

cattolici prima della crisi modernista era di identificare semplicemente Regno e Chiesa (cfr. ancora<br />

nel 1925 Pio XI nell’istituire la festa di Cristo Re). Più tardi, in reazione alla separazione totale che<br />

liberali e modernisti operavano tra i due, i cattolici iniziarono a distinguere tra le due realtà, anche<br />

se a malapena: la differenza ammessa riguardava più il modo che la natura. Alcuni studiosi comin-<br />

ciarono a distinguere tra i due anche quanto alla loro natura: la Chiesa non è il Regno, che sarà pre-<br />

sente solo nella comunione finale, ma ha strette relazioni col Regno 120 . La rivalutazione della di-<br />

mensione escatologica della Chiesa rappresentava anche una reazione all’indebita assimilazione del<br />

suo stadio terreno alla sua situazione celeste e alla accentuazione del suo carattere di «regnum im-<br />

mobile». La coscienza della sua natura escatologica relativizzava, invece, il dato istituzionale.<br />

b) La dimensione storica della Chiesa<br />

La Mystici Corporis aveva riaffermato la corporeità sociale e l’unità tra l’elemento spirituale e quel-<br />

lo istituzionale del Corpo mistico di Cristo, contro il rischio di restringere la Chiesa al dominio della<br />

grazia personale o di concepire la Chiesa solo in prospettiva personalista. Tuttavia la soluzione data<br />

si limitava ad affermare la compresenza e l’unità dei due elementi nella Chiesa (assumendo in senso<br />

corporativo l’idea di Corpo mistico) e a proporre il lato visibile della Chiesa in termini prevalente-<br />

mente societari. La riflessione successiva cercò, quindi, di chiarire il rapporto tra il dato mistico e<br />

quello sociale, con l’intento di superare sia l’univoca identificazione tra Corpo mistico e società, tra<br />

Chiesa e Chiesa romana, sia i limiti della visione societaria del lato visibile della Chiesa.<br />

1) Alcuni autori, tra le due guerre, avevano posto in tensione i due aspetti della Chiesa come legge<br />

intima della realtà ecclesiale: irriducibili come sono, essi fan sì che il mistero della Chiesa possa es-<br />

sere espresso solo con l’aiuto di due proposizioni in tensione dialettica fra di loro 121 . Tale concezio-<br />

ne induceva a una dualità difficilmente accettabile, ove questa fosse riposta sul piano strutturale. Ma<br />

120 R. SCHNACKENBURG, La Chiesa nel Nuovo Testamento (Brescia: Morcelliana, 1978; ed. or. 1961).<br />

121 K. FECKES, Das Mysterium der hl. Kirche (Paderborn 1934); Y. CONGAR, Chrétiens desunis, op. cit., 95-110.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

essa si manifestava adatta a dar ragione della non identità assoluta tra il Corpo mistico e la Chiesa<br />

romana, ove si considerassero i rapporti tra i due aspetti della Chiesa sul piano storico.<br />

2) Allo stesso scopo intese provvedere la concezione «sacramentale» della Chiesa, che riprese e si-<br />

stematizzò un concetto già presente tra le due guerre. Essa presenta Cristo come epifania di Dio nel-<br />

la sua umanità e come «sacramento primordiale»; la Chiesa lo è solo in senso derivato: essa è il sa-<br />

cramento di Cristo, come questi lo è nella sua umanità di Dio. I sette sacramenti sono a loro volta la<br />

manifestazione particolare dell’universale sacramentalità della Chiesa 122 . Questa concezione cerca-<br />

va un principio sintetico nella nozione di sacramento per spiegare l’unità, la distinzione e la com-<br />

plementarità dei due poli della realtà ecclesiale. La Chiesa non è solo un’istituzione (necessaria per<br />

precetto divino) per acquistare una grazia che non ha in sé relazione intima con la natura di tale ap-<br />

parato istituzionale, e nemmeno una fondazione che continua sulla terra l’opera di salvezza compiu-<br />

ta da Cristo; essa lo rende attualmente presente, essa assicura l’operazione attuale del Cristo tra gli<br />

uomini. D’altra parte, però, essa non è Cristo, ne è solo il «sacramento». Ciò comporta che il suo<br />

apparato istituzionale non è solo la manifestazione esteriore della comunione di grazia, che è il frut-<br />

to dell’azione salvifica attuale di Cristo, ma ne è anche la causa strumentale. Il rapporto tra la vita<br />

spirituale dei fedeli e la sua forma societaria è così chiaramente affermato in entrambi i sensi, ma<br />

nella stretta subordinazione della realtà sociale a quella spirituale. Questa concezione accoglieva<br />

l’esigenza fondamentale della Mystici Corporis, quella dell’unità tra il dato sociale e quello spiritua-<br />

le: nel «sacramentum», infatti, la «res» e il «signum» sono uniti necessariamente e sussistono in e in<br />

virtù di tale unione. Ma evitava l’identificazione univoca dei due dati: la «res» e il «signum» sono<br />

infatti formalmente distinti e uniti proprio in quanto distinti e correlati.<br />

3) Una nozione fondamentale nella Bibbia e rimessa recentemente in onore ad opera di esegeti, teo-<br />

logi e canonisti, era quella di «popolo di Dio» 123 . Raramente presente nei manuali, essa, quando lo<br />

era, veniva considerata come specificazione dell’idea generica di popolo in senso sociologico e fatta<br />

coincidere con l’idea di società. Una diversa considerazione cominciò ad aversi nella polemica sul<br />

Corpo mistico, inteso come puro regno della grazia. Rifiutando tale idea come incapace di fondare<br />

la visibilità della Chiesa, alcuni teologi proposero l’idea di «popolo di Dio» come più esauriente nel<br />

render conto della realtà della Chiesa che quella di corpo mistico. Ma decisivo fu il recupero della<br />

122 O. SEMMELROTH, La Chiesa sacramento di salvezza (Napoli 1965; 2 a ed. ted. 1955); E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento<br />

dell’incontro con Dio (Roma 1962; or. 1957); K. RAHNER, Chiesa e sacramenti (Brescia 1965; or. 1960).<br />

123 M.D. KOSTER, Ekklesiologie im Werden (Paderborn 1940); J. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino<br />

(Milano 1971; or. 1954) cfr. il primo numero della rivista Concilium 1 (1965).<br />

255


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

sua specificità biblica e patristica. L’ambito in cui essa andava situata era il mistero cristiano consi-<br />

derato come «storia della salvezza» in cui non è inteso primariamente il singolo nella sua unione<br />

mistica col Signore, ma la totalità dei chiamati a salvezza, «il popolo dell’Alleanza» (e solo nella to-<br />

talità il singolo) 124 . La Chiesa appare allora come l’«ekklesía», il popolo che Dio elegge e convoca<br />

con la sua parola ogni istante; la Chiesa è la «congregatio fidelium», ma è insieme anche la «convo-<br />

catio Dei». Essa è il popolo peregrinante, sorretto dalla fedeltà del Signore alle sue promesse ma<br />

soggetto anche alla miseria e alla infedeltà degli uomini. Infine, essa è il popolo di Dio universale:<br />

la cattolicità, però, è meno una questione quantitativa e più «la capacità dell’unità», per cui la Chie-<br />

sa assume tutte le esigenze dello spirito umano e dei popoli in cui si incarna 125 .<br />

4) Uno spostamento di accento si ebbe, poi, anche nell’idea di «corpo mistico», con la riscoperta del<br />

suo senso biblico e patristico. Gli esegeti misero in luce che in Paolo la nozione di «corpo» non ha<br />

primariamente un significato corporativo; essa indica piuttosto l’unione vitale del cristiano col Si-<br />

gnore risorto, di quanti nel battesimo e nell’eucaristia partecipano della sua vita e della sua morte 126 .<br />

Gli storici individuarono, a loro volta, un cambiamento fondamentale, avvenuto tra il XII e il XIV<br />

secolo, nel senso del termine. Per i Padri vi era un incrocio inscindibile tra il corpo eucaristico e<br />

quello ecclesiale di Cristo, cosicché la Chiesa non poteva intendersi «corpo di Cristo» se non per il<br />

suo riferimento all’eucaristia. Nel medioevo invece la nozione scivolò sul piano sociologico, diven-<br />

tando in sostanza una metafora per indicare la Chiesa come una corporazione 127 .<br />

In quanto «corpo di Cristo» la Chiesa è, allora, la comunità di coloro che celebrano la cena del Si-<br />

gnore, diventando essi stessi corpo del Signore. In questa accezione, veniva meno l’opposizione tra<br />

l’idea di «corpo mistico» e quella di «popolo di Dio», anzi ne appariva la profonda consonanza: la<br />

Chiesa è il popolo di Dio della nuova alleanza, che esiste come corpo di Cristo 128 .<br />

Le scelte operate nelle questioni dei rapporti tra il dato istituzionale e quello spirituale della Chiesa<br />

comportavano un corollario e una pietra di paragone nella questione dell’appartenenza alla Chiesa<br />

(e della sua necessità per la salvezza). Sostanzialmente d’accordo sui dati del problema (sulla esi-<br />

stenza e la natura dei vincoli interiori e sociali con la Chiesa esistenti nei cattolici e non cattolici), la<br />

divisione sopravveniva circa la loro rilevanza ecclesiologica; il che si riconduceva al significato che<br />

124<br />

H. DE LUBAC, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma (Roma 1964; or. 1938).<br />

125<br />

Si vedano i contenuti teologici di questa nozione in A. ANTON, El mistero de la Iglesia, II, op. cit., 729-753.<br />

126<br />

P. BENOIT, Corpo, capo, pleroma nelle lettere della prigionia, in Esegesi e teologia (Roma 1964) 399-460 [già in<br />

Revue Biblique 63 (1956) 5-44].<br />

127<br />

H. DE LUBAC, Corpus mysticum (Torino 1968; or. 1949).<br />

128 2<br />

J. RATZINGER, Kirche, in LThK , VI, 172-183; R. SCHNACKENBURG, La Chiesa del nuovo Testamento, op. cit., 160-<br />

187; L. CERFAUX, La teologia della chiesa secondo san Paolo (Roma 1968; or. 1965) 463-471.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

i teologi ponevano sotto il termine «Chiesa». Inoltre si poneva anche il problema dello statuto delle<br />

chiese e delle comunità non cattoliche.<br />

5) Infine la comprensione più articolata a livello biblico, patristico e storico del tema Chiesa, diede<br />

nuovi impulsi per ripensare la relazione fra la Chiesa e il mondo, caratterizzata a partire dal Medio<br />

Evo come confronto fra due potenze. Il ritorno alle fonti fece emergere il mondo come soggetto di<br />

una storia il cui senso è relativo al suo termine, cioè l’escatologia. La Chiesa così non veniva più<br />

concepita come potere rivale dell’altro potere; essa vedeva se stessa, lo stesso mondo e il proprio<br />

rapporto al mondo, in riferimento all’escatologia. Questa visione rinnovata fondava una maniera<br />

nuova, per la Chiesa, di esercitare il suo rapporto al temporale: non più pretesa di giurisdizione sulla<br />

città, ma influsso esercitato dai fedeli la cui coscienza è formata dalla Chiesa: in fondo era lo stesso<br />

statuto dell’Azione cattolica. I cattolici uscivano dal ghetto di un cattolicesimo strettamente confes-<br />

sionale e sociologico-politico, per fare, insieme con gli altri, la loro parte nel mondo «profano». In<br />

proposito si è spesso parlato di «fine dell’era costantiniana». Si accettava la laicità delle strutture di<br />

questo mondo che si trattava di «consacrare», non attraverso una sacralizzazione di tipo clericale ma<br />

attraverso una umanizzazione secondo Dio. Evidentemente ciò impegnava una antropologia ben di-<br />

versa da quella implicata nel Syllabo… L’uomo cristiano, ricreato nell’Azione cattolica e nei «mo-<br />

vimenti» paralleli, riprendeva il suo posto nella Chiesa.<br />

Il panorama delle tendenze ecclesiologiche a ridosso del Concilio — peraltro qui solo abbozzato —<br />

permette di cogliere la complessità della situazione, che fece da sfondo al dibattito conciliare. Le<br />

tendenze ecclesiologiche non si presentavano, infatti, ognuna come un dato unitario; anzi, neppure<br />

erano nettamente distinte, ma apparivano in parte sovrapposte, se si tien conto di alcuni problemi<br />

concreti. Se era quasi di pacifico possesso una considerazione mistica della chiesa, frutto del-<br />

l’approfondimento che su questo aspetto era stato operato dalla teologia del corpo mistico (cosicché<br />

su tale punto si realizzò con una certa facilità l’unanimità morale in Concilio), la riflessione sul-<br />

l’indole comunitaria della chiesa visibile conservava talora una certa fluidità di lineamenti e spartiva<br />

il campo con i ben più vigorosi temi in materia della <strong>ecclesiologia</strong> societaria. D’altra parte, i padri<br />

erano mossi soprattutto non da preoccupazioni di sistematica teologica, ma da intenti pastorali: il<br />

recupero di una capacità di presenza e di dialogo col mondo contemporaneo, l’ecumenismo, il rin-<br />

novamento della liturgia, l’equilibrio tra l’esercizio del primato e la funzione dell’episcopato,<br />

l’incarnazione della chiesa nelle civiltà non europee, per citarne solo alcuni. Il Concilio rappresentò<br />

un momento eccezionale di approfondimento della coscienza della chiesa attorno alla sua natura e<br />

alla sua missione; ma il problema ecclesiologico fu filtrato attraverso tali preoccupazioni dei padri.<br />

257


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

2.7. La comprensione della chiesa al Vaticano II<br />

L’intento di queste riflessioni è di offrire un’introduzione generale alla Costituzione Lumen Gen-<br />

tium. Si considereranno soprattutto due tematiche. Nella prima parte si ripercorreranno le tappe<br />

principali della redazione del testo per vedere attraverso quali passaggi si è giunti alla stesura defini-<br />

tiva; presteremo attenzione soprattutto alla struttura del testo che non è affatto un elemento seconda-<br />

rio, ma rivela l’impostazione del discorso ecclesiologico. Nella seconda parte invece cercheremo,<br />

alla luce degli elementi emersi mediante l’analisi della genesi del documento, di indicare alcuni cri-<br />

teri interpretativi che consentono di comprenderlo in maniera corretta.<br />

2.7.1. Le tappe principali della redazione della Lumen Gentium<br />

a) La composizione del primo schema e l’affermazione della tendenza giuridica<br />

Per quale ragione il Vaticano II ha elaborato un documento come la Lumen Gentium che riprende in<br />

termini complessivi il tema ecclesiologico? A differenza della situazione in cui si sono celebrati la<br />

maggior parte dei concili della storia della chiesa, nel caso del Vaticano II non ci si trovava nella<br />

necessità di precisare aspetti essenziali della fede mediante delle definizioni dogmatiche, ma piutto-<br />

sto si avvertiva il bisogno di rinnovamento della vita ecclesiale che si riteneva potesse derivare solo<br />

da una nuova esposizione dell’insegnamento cristiano e, in particolare, della dottrina sulla chiesa.<br />

Le ragioni che rendono necessario questo discorso e le finalità che esso si prefigge sono suggerite da<br />

Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio:<br />

«Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo<br />

unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la<br />

nostra età esige, proseguendo così il cammino, che la chiesa compie da quasi venti secoli.<br />

Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della<br />

dottrina fondamentale della Chiesa, in ripetizione diffusa dell’insegnamento dei Padri e dei Teologi<br />

antichi e moderni quale si suppone sempre ben presente e familiare allo spirito.<br />

Per questo non occorreva un concilio. Ma dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto<br />

l’insegnamento della chiesa nella sua interezza e precisione, quale ancora splende negli atti conciliari<br />

da Trento al Vaticano I, lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende<br />

un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze; è necessario<br />

che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e<br />

presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Est enim aliud ipsum depositum<br />

Fidei, [seu veritates, quae veneranda doctrina nostra continentur], aliud modus, quo eaedem enuntiantur<br />

[eodem tamen sensu eademque sententia]. Bisognerà attribuire molta importanza a<br />

questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione: e si dovrà<br />

ricorrere a un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il cui carattere è<br />

preminentemente pastorale» 129 .<br />

129 GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura del Concilio, 11 ottobre 1962; EV I, n. 53*-55*. Abbiamo scritto in parentesi<br />

quadra le aggiunte fatte, contro l’intenzione e lo scritto di papa Giovanni, dalla redazione ufficiale presente negli AAS.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

L’esecuzione di questo progetto fu tutt’altro che facile e la storia della redazione della LG mostra il<br />

percorso faticoso attraverso cui si è cercato di realizzare il programma delineato da Giovanni XXIII<br />

(senza dimenticare la Gaudium et Spes, il secondo pilastro del discorso conciliare sulla chiesa).<br />

Dopo l’annuncio del Concilio da parte di Giovanni XXIII (il primo annuncio pubblico venne fatto il<br />

25 gennaio 1959 nella basilica di S. Paolo fuori le mura) si intraprese una vasta consultazione tra<br />

tutti i vescovi, gli ordini religiosi e le università cattoliche circa i temi da trattare. Dall’esame di<br />

questo materiale vastissimo e di natura assai disparata vennero individuati alcuni temi più importan-<br />

ti meritevoli di trattazione. Tali temi furono affidati a delle commissioni per un primo approfondi-<br />

mento; alle commissioni venne affidato anche il compito di predisporre degli schemi che servissero<br />

da base per la discussione conciliare. La commissione De doctrina fidei et morum (sotto la presi-<br />

denza del card. Ottaviani, prefetto del S. Uffizio e con S. Tromp come segretario) si occupò delle<br />

questioni dottrinali. Essa si divise in sottocommissioni, una delle quali assunse il compito di prepa-<br />

rare lo schema De ecclesia. Fin dall’inizio si manifestò con molta chiarezza all’interno della sotto-<br />

commissione l’intenzione di preparare un testo che portasse il Concilio ad assumere l’impostazione<br />

della Mystici Corporis armonizzando gli aspetti giuridici e quelli mistici della realtà della chiesa. In<br />

tal modo si voleva completare la Costituzione Pastor Aeternus del Vaticano I servendosi del magi-<br />

stero di Pio XII. In particolare, l’intenzione dichiarata non era quella di elaborare una esposizione<br />

completa sulla Chiesa, bensì di affrontare alcuni problemi, ritenuti giunti a maturazione o più urgen-<br />

ti. La sottocommissione preparò quindi un primo schema che venne inviato ai Padri conciliari nel<br />

novembre 1962; esso si componeva di 11 capitoli e si intitolava Aeternus Unigeniti Pater.<br />

1) Natura della chiesa militante<br />

L’intento preciso del capitolo (redatto da U. Lattanzi) era quello di proporre l’identificazione reale tra il<br />

corpo mistico di Cristo in terra e la chiesa cattolica romana, tra la chiesa della carità e la società giuridi-<br />

camente organizzata, che attraverso la gerarchia esercita la potestà affidatale da Cristo. Pertanto, si con-<br />

cludeva, solo la chiesa cattolica romana aveva il diritto di chiamarsi chiesa. Il concilio doveva quindi<br />

consacrare la posizione della Mystici Corporis.<br />

2) I membri della chiesa militante e la necessità di questa per la salvezza<br />

Nella sottocommissione si confrontarono due tesi. La prima, sposando le idee della Mystici Corporis e<br />

della Humani Generis, sosteneva che l’appartenenza alla chiesa era una realtà univoca: o si è membri o<br />

non lo si è; inoltre, per esserlo, è necessaria e sufficiente l’integrità dei vincoli sociali (professione ester-<br />

na della fede, comunione sacramentale, soggezione all’autorità ecclesiastica). Perciò i non cattolici, an-<br />

che battezzati e in grazia, non appartengono ad alcun titolo alla chiesa e al corpo mistico, ma sono solo<br />

ordinati ad essa [Fenton, Brinktrine, Tromp]. Per l’altra posizione l’appartenenza alla chiesa è una realtà<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

complessa ed analoga: per la piena appartenenza non bastano i vincoli di incorporazione sociale, ma oc-<br />

corre anche il possesso della vita di Cristo e del suo Spirito. Di più, si può appartenere alla chiesa secon-<br />

do gradi, sia nell’ordine dei nessi visibili che di quelli invisibili. Da un lato, quindi, non si può separare<br />

l’appartenenza a Cristo e l’appartenenza al suo corpo, la Chiesa; d’altro lato, si danno membri in senso<br />

pieno e salutare (i cattolici in stato di giustizia interiore), membri a titolo non pieno, perché manca a loro<br />

qualche condizione di appartenenza (i cattolici senza la grazia e la carità; i battezzati non cattolici, che<br />

non sono privi di nessi anche visibili col corpo sociale della chiesa) e infine, i non cristiani in stato di<br />

grazia, i quali, oltre il legame spirituale, sono ordinati al corpo sociale della chiesa per il «votum ineundi<br />

ecclesiam visibilem» [Journet; Schmaus; Philips; Salaverri; Congar]. La radice della contrapposizione<br />

stava nell’opposta considerazione dell’elemento interno (la comunione di vita con Cristo mediante la<br />

grazia e le virtù) in ordine a definire la chiesa e a comprendere la verità che la chiesa cattolica e il corpo<br />

mistico non sono due cerchi che si ricoprono solo parzialmente, ma la loro estensione si identifica, sicché<br />

non si dà appartenenza al corpo mistico, come un’unione puramente invisibile di grazia, senza relazione<br />

al corpo sociale della chiesa. C’era poi anche la preoccupazione ecumenica, ossia quale significato eccle-<br />

siale riconoscere alle comunità non cattoliche. Il capitolo redatto da Tromp abbracciò la prima opinione.<br />

3) L’episcopato come grado supremo del sacramento dell’ordine e del sacerdozio<br />

Il capitolo, redatto da Lecuyer, aveva per scopo di proporre la dottrina della sacramentalità del-<br />

l’episcopato (un insegnamento condiviso da tutti i membri della commissione). Però il capitolo non col-<br />

legava al sacramento dell’episcopato il triplice munus episcopale. Anzi già la successione dei capitoli<br />

mostrava come si volesse separare il sacramento dalla giurisdizione episcopale.<br />

4) I vescovi residenziali<br />

Il capitolo, redatto da H. Schauf e da S. Tromp, era suddiviso in quattro numeri: la giurisdizione dei ve-<br />

scovi sulle singole diocesi (13); la loro dipendenza dal romano pontefice (14); la loro sollecitudine verso<br />

la chiesa universale (15); il collegio episcopale (16). Il collegio episcopale appariva solo in appendice ed<br />

era inteso come partecipazione ai poteri papali. Al contrario, nei «vota» inviati dai vescovi già si propo-<br />

neva la concezione collegiale dell’episcopato.<br />

5) Gli stati di perfezione evangelica<br />

Il capitolo, affidato a U. Betti, intendeva affrontare una questione particolare: non tanto manifestare il<br />

senso della vocazione e dello stato religioso nel mistero della chiesa né il ruolo dei religiosi nella struttu-<br />

ra di questa, quanto piuttosto di indicare i principi teologici su cui deve basarsi l’evoluzione della vita re-<br />

ligiosa e delle sue forme. Il capitolo dedicava più della metà della trattazione agli aspetti giuridici.<br />

6) I laici<br />

Il capitolo rappresenta una novità sia per l’argomento (parlare dei laici significa già di per sé parlare di<br />

un elemento non istituzionale, non gerarchico della chiesa e fissare l’attenzione meno sui poteri giurisdi-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

zionali e più sulla fondamentale unità, che deriva tra tutti i membri della chiesa dalla unità del battesimo<br />

e della missione) sia per l’impronta data dal suo redattore Gérard Philips. Il capitolo, in una prima parte,<br />

sottolinea fortemente l’unità della missione e la corresponsabilità di tutti i membri della chiesa. In una<br />

seconda parte, presentando la situazione dei laici nella chiesa, esso non insiste solo nella determinazione<br />

della loro posizione giuridica verso la gerarchia, ma propone la loro partecipazione al triplice munus di<br />

Cristo, in forza della loro partecipazione ai sacramenti cristiani ed esplicita l’indole ecclesiale della con-<br />

dizione e dell’attività dei laici, considerata secondo gli ambiti di intervento nella chiesa e nel mondo. Per<br />

questo, il capitolo fu quello che sostanzialmente subì le modifiche minori nel corso della rielaborazione<br />

successiva dello schema. Il testo però non dirimeva la questione della natura metaforica o meno del sa-<br />

cerdozio universale dei fedeli. Anche se la commissione teologica rielaborò il testo in modo che fosse<br />

chiara la natura sia metaforica sia analogica del sacerdozio battesimale, mentre rivendicò il titolo di sa-<br />

cerdozio vero e proprio per quello ministeriale (analogatum princeps).<br />

7) Il magistero della chiesa<br />

I due capitoli 7 e 8 sono apparentati, non solo perché scritti da un solo redattore, Carlo Colombo, ma an-<br />

che perché sono entrambi posti sotto il segno dell’autorità, quella magisteriale il primo, quella di gover-<br />

no il secondo. In particolare, l’intenzione fondamentale del capitolo 7 è pratica: riaffermare l’autorità del<br />

magistero, in specie quello ordinario, contro la tendenza a sottovalutare il suo valore obbligante, e ri-<br />

chiamare a questo scopo i principi teologici relativi. Si afferma una rigida distinzione fra «chiesa docen-<br />

te» e «chiesa discente». Inoltre, il problema dei rapporti tra l’infallibilità della chiesa e quella del magi-<br />

stero è risolto affermando solo la dipendenza della prima dalla seconda: il magistero, infatti, è presentato<br />

come la causa prossima dell’indefettibilità della chiesa nella fede (causa suprema è però lo Spirito santo),<br />

mentre è assente l’idea di una funzione soprannaturale positiva del «sensus» di tutti i fedeli nella com-<br />

prensione e nella stessa formulazione della verità di fede.<br />

8) Autorità e obbedienza nella chiesa<br />

L’intenzione dichiarata del capitolo ottavo è di ovviare alla crisi di autorità presente nel mondo e anche<br />

nella chiesa: «Il sacrosanto concilio… è colpito da veemente afflizione scorgendo la crisi di autorità che<br />

c’è nel mondo». Tutto il capitolo, perciò, è costruito in funzione polemica contro le idee antiautoritarie,<br />

carismatiche o democratiche presenti nella chiesa.<br />

9) Relazioni tra chiesa e stato<br />

I capitoli nono e decimo, redatti entrambi da R. Gagnebet, avrebbero trovato logicamente il loro posto<br />

più in un trattato di diritto pubblico ecclesiastico che in una costituzione dogmatica sulla chiesa. In spe-<br />

cie, il capitolo nono è la ripresa pura e semplice di alcune tesi «tradizionali» sui rapporti tra chiesa e sta-<br />

to, contenute nelle trattazioni correnti del diritto pubblico ecclesiastico o nei trattati sulla chiesa di più<br />

stretto tenore giuridico. Il capitolo, ricordata la natura di società perfetta della chiesa, si limita a ribadire<br />

la subordinazione del fine della società civile al fine della chiesa.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

10) Necessità per la chiesa di annunciare il vangelo a tutti i popoli e su tutta la terra<br />

Il capitolo, nonostante il titolo, non svolge una trattazione teologica della missione affidata da Cristo alla<br />

chiesa di annunciare il vangelo, ma è dedicato tutto quanto al diritto originario della chiesa rispetto a<br />

qualsiasi stato di annunciare il vangelo, e anzi al dovere di qualsiasi stato, cattolico o no, di favorire tale<br />

annuncio ai suoi cittadini, nonché al diritto preminente del papa alla evangelizzazione universale.<br />

11) L’ecumenismo<br />

L’intenzione fondamentale del capitolo è quella di negare qualsiasi valore alle comunità separate in<br />

quanto tali nel mistero della salvezza. Essa si palesa nel singolare capovolgimento, verificatosi nel corso<br />

delle successive redazioni del capitolo (inizialmente affidato al p. Witte, professore alla Gregoriana di<br />

teologia protestante ed ecumenica). Le prime, infatti, erano apertamente favorevoli all’idea di una rile-<br />

vanza ecclesiale delle comunità non cattoliche. Ma, via via, l’idea fu eliminata, cosicché la redazione de-<br />

finitiva riportò il capitolo in linea con l’impostazione dei primi due; anzi si approvava incondizionata-<br />

mente il proselitismo. La redazione definitiva esclude ogni significato salvifico delle comunità dissidenti<br />

e ogni loro riferimento come tali alla chiesa cattolica. Si dice solo che i dissidenti sono spinti all’unità<br />

non solo come singoli, ma anche uniti nelle loro comunità. Queste conservano, infatti, alcuni elementi<br />

della chiesa che spingono all’unità cattolica, ma in quanto li detengono separandoli dalla pienezza della<br />

rivelazione, le comunità come tali sono causa di divisione dell’eredità di Cristo.<br />

La lettura di questo primo schema mette in evidenza abbastanza chiaramente alcuni limiti:<br />

1. Appare come una sequenza di problemi a se stanti, legati da un nesso logico abbastanza labile.<br />

2. Lo schema è evidentemente sovraccarico e nello svolgimento successivo dei lavori conciliari ver-<br />

rà alleggerito di numerosi temi che saranno trattati in documenti autonomi; d’altra parte questa con-<br />

centrazione dimostra che già la commissione preparatoria comprendeva l’insegnamento sulla chiesa<br />

come il centro del concilio (e pure Paolo VI: cfr. i discorsi di apertura del II e del III periodo).<br />

3. L’immagine dominante della chiesa è sostanzialmente quella che si è affermata dopo il Vaticano I<br />

e che è caratterizzata da un atteggiamento difensivo nei confronti del mondo, contro il quale è ne-<br />

cessario far valere i propri diritti. Certamente vi sono stati dei fatti nuovi (si pensi all’introduzione<br />

del metodo storico-critico nella lettura della Bibbia, all’accettazione della democrazia, al nuovo ruo-<br />

lo assunto dai laici nell’Azione Cattolica, alla necessità di fare i conti con il movimento ecumenico),<br />

ma su questi problemi si vuole intervenire rimanendo nel solco tracciato dalla comprensione della<br />

chiesa che ha caratterizzato l’ultimo secolo. Lo schema intende realizzare un completamento della<br />

dottrina del Vaticano I e concepisce il Vaticano II come una “conclusione” del Vaticano I.<br />

4. La struttura portante dello schema è costituita dal magistero, soprattutto quello papale degli ultimi<br />

cento anni. Si ricorre ad encicliche, ma anche a documenti secondari (allocuzioni a gruppi particola-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

ri, lettere pontificie…) e ai documenti delle congregazioni romane, oltre che ai canoni del CJC del<br />

1917. La Scrittura e i Padri, quando sono citati, sono inseriti in un contesto che non è determinato<br />

da essi, ma dai documenti magisteriali. In azione troviamo quindi l’idea che al solo magistero attua-<br />

le e vivente compete la qualità di regola prossima della fede, mentre il compito della Scrittura e del-<br />

la tradizione consisterebbe nel rendergli testimonianza.<br />

b) La discussione dello schema durante la prima sessione (1-7 dicembre 1962)<br />

Lo schema approdò nell’aula conciliare verso la fine del primo periodo (1-7 dicembre 1962) e rac-<br />

colse da parte dei vescovi un’accoglienza non certo entusiasta. Anche perché nel frattempo alcuni<br />

interventi di Giovanni XXIII avevano allargato l’orizzonte. Nel radiomessaggio dell’11 settembre<br />

1962 e nel Discorso di apertura della sessione conciliare l’11 ottobre 1962, il papa precisò<br />

l’intenzione che voleva fosse posta a fondamento dei lavori conciliari. I due discorsi proponevano,<br />

da un lato, il tema della chiesa — vista nel suo aspetto «ad intra» come mistero della vita di Cristo<br />

nei suoi fedeli e nel suo aspetto «ad extra» come servizio al mondo — come il tema centrale dei la-<br />

vori conciliari; d’altro lato, anche un nuovo spirito, che il papa chiamava «pastorale» e si racchiu-<br />

deva nello sforzo di presentare all’uomo contemporaneo un’immagine comprensibile e amabile del-<br />

la chiesa. L’orizzonte in cui veniva inserita la costituzione sulla chiesa, diventava così tutta la pro-<br />

blematica religiosa, culturale e sociale dell’uomo contemporaneo, a cui il sinodo doveva prefiggersi<br />

di presentare la chiesa come risposta alle profonde esigenze dell’umanità.<br />

La prospettiva fu ripresa in aula conciliare da due interventi di grande portata, quelli dei cardinali<br />

Suenens e Montini. Il 4 dicembre il cardinale belga, richiamando il radiomessaggio dell’11 settem-<br />

bre, propose che il concilio assumesse il tema della chiesa «lumen gentium» come centrale e ordina-<br />

tore di tutti i suoi lavori. Si sarebbe, quindi, dovuto prima ricercare ed esporre la coscienza che la<br />

chiesa ha del suo mistero, rispondendo alla domanda del mondo: «che cosa dici di te stessa?»; poi,<br />

aprire il dialogo col mondo sui suoi problemi gravi ed urgenti: «Il Concilio sia un Concilio “de Ec-<br />

clesia”, e si articoli in due parti: de Ecclesia ad intra - de Ecclesia ad extra» (AS I/4, 223). Il giorno<br />

successivo il card. Montini fece sua la proposta di Suenens e suggerì che il Concilio si preoccupasse<br />

di rispondere alle due domande: «Che cos’è la chiesa? Che cosa fa la chiesa? Questi sono come i<br />

due cardini, intorno ai quali si devono disporre tutte le questioni di questo Concilio» (AS I/4, 292).<br />

Inoltre aggiunse che nella esposizione del mistero della chiesa si doveva dare maggiore risalto a<br />

Cristo: in realtà la chiesa non può far nulla da se stessa; essa non è soltanto una società fondata da<br />

Cristo, è la continuazione di Cristo e lo strumento attraverso cui egli agisce e salva oggi il mondo.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Nonostante gli elogi fatti al testo (in genere formule di cortesia) lo schema fu quindi oggetto di<br />

un’aspra critica. Le critiche consideravano sia il modo di esposizione sia il contenuto dello schema e<br />

riguardavano principalmente i seguenti punti.<br />

1. Lo schema mancava di coerenza logica e sembrava piuttosto una giustapposizione di diversi punti<br />

dottrinali che un insieme strutturato e coerente. (Cfr. per es. l’intervento del card. Montini);<br />

2. Si fece notare anche la differenza rispetto allo spirito del concilio, descritto da Giovanni XXIII<br />

nel suo discorso inaugurale. Il problema fondamentale era come realizzare l’esposizione “pastorale”<br />

da tutti auspicata. Alcuni pensavano a due documenti, uno di carattere dottrinale e uno pastorale; ma<br />

la maggioranza era contraria a questa soluzione perché riteneva che la missione dei pastori fosse<br />

quella di insegnare al popolo e che il Concilio non potesse rivolgersi solo ai teologi specialisti. Solo<br />

un’esposizione positiva e costruttiva, che superasse i limiti dell’apologetica, poteva dare un solido<br />

fondamento alla vita cristiana. Si trattava quindi di evitare gli anatemi e anche la semplice ripetizio-<br />

ne delle formule classiche per cercare un’esposizione della dottrina immutabile in maniera corri-<br />

spondente al nostro tempo (aggiornamento);<br />

3. Lo schema teneva in conto troppo limitatamente delle nuove prospettive sulla chiesa maturate<br />

nella teologia recente, che non necessariamente dovevano essere viste in contraddizione con le vec-<br />

chie (cfr. l’arcivescovo di Strasburgo Elchinger).<br />

4. lo schema era eccessivamente giuridico e identificava in modo troppo diretto il corpo mistico di<br />

Cristo con la chiesa cattolica romana; mancava la dimensione storico-salvifica della chiesa (cfr.<br />

l’intervento del card. Frings di Colonia).<br />

5. mancava completamente l’idea della chiesa umile, della chiesa povera (card. Lercaro), della chie-<br />

sa sofferente (un aspetto sottolineato soprattutto da vescovi provenienti dall’Europa Orientale).<br />

Indicativo della critica rivolta allo schema fu l’intervento del vescovo di Bruges, E. de Smedt. Il di-<br />

scorso aveva un carattere molto personale e le idee proposte non erano condivise da tutti i padri; es-<br />

so sembra però indicativo di una sensibilità diversa presente in numerosi padri conciliari rispetto a<br />

quella della commissione teologica e della curia romana in genere che lascia intravedere la svolta<br />

avvenuta in Concilio. Il vescovo di Bruges, pur riconosciuti i pregi dello schema, continuava:<br />

«Nonostante ciò si deve ammettere che lo schema è difettoso per molti aspetti. Vorrei dire qualcosa della<br />

concezione della chiesa sottostante a questi capitoli dello schema. Questa concezione mi sembra, da una<br />

parte, mancante nello spirito ecumenico e, dall’altra, lontana dal modo in cui la dottrina deve essere pro-<br />

posta dal Concilio ai maestri e ai predicatori della fede. Mi sia permesso sottoporre alla vostra riflessione<br />

la seguente questione: lo schema non deve essere emendato da un certo trionfalismo, da un certo clerica-<br />

lismo, da un certo giuridismo? Ecco le tre parti.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

1. Trionfalismo. Lo schema indulge troppo in quello stile pomposo, romantico cui siamo abituati<br />

nell’Osservatore Romano e in altri documenti romani. La vita della chiesa è presentata come se fosse una<br />

serie di trionfi della chiesa militante; p. es. già nel titolo stesso “la natura della chiesa militante” oppure a<br />

p. 10 nelle prime righe […].<br />

Questo stile è poco consono con la realtà, con la situazione reale del popolo di Dio che il Signore Gesù,<br />

umile, ha chiamato “piccolo gregge”. Tutto ciò è estraneo agli animi sereni e tranquilli dei fratelli orien-<br />

tali, è lontano dall’aspirazione alla pace di tutto il genere umano. Quanto poco concordano queste cose<br />

con ciò che si dovrebbe dire, ma non si dice, circa il gravissimo problema moderno della libertà religiosa!<br />

2. Clericalismo. Nei primi capitoli dello schema prevale l’immagine tradizionale della chiesa. Conoscete<br />

la piramide: papa, vescovi, sacerdoti, quelli che presiedono e che in forza dei poteri ricevuti insegnano,<br />

santificano, governano; mentre, alla base, il popolo cristiano è piuttosto in posizione recettiva e in certo<br />

modo sembra occupare un posto secondario nella chiesa.<br />

Si deve notare che la potestà gerarchica è solo qualcosa di transitorio. Appartiene a questa condizione di<br />

pellegrinaggio terreno. Nell’altra vita, nella condizione definitiva, non avrà più un oggetto perché gli e-<br />

letti saranno giunti alla perfezione, all’unità perfetta in Cristo. Ciò che rimane è il popolo di Dio; ciò che<br />

passa è il ministero della gerarchia.<br />

Nel popolo di Dio siamo tutti legati gli uni agli altri e abbiamo tutti gli stessi diritti e doveri fondamenta-<br />

li. Tutti partecipiamo del sacerdozio regale del popolo di Dio. Il papa è uno dei fedeli; vescovi, sacerdoti,<br />

laici, religiosi, tutti siamo fedeli. Abbiamo accesso agli stessi sacramenti tutti abbiamo bisogno della re-<br />

missione dei peccati, del pane eucaristico e della parola di Dio e, per la misericordia di Dio, camminiamo<br />

verso la stessa patria.<br />

Ma fino a quando il popolo di Dio è in cammino Cristo lo porta alla perfezione mediante il ministero del-<br />

la sacra gerarchia. Ogni potestà nella chiesa è per il servizio: il ministero della parola, il ministero della<br />

grazia, il ministero del governo. Non siamo venuti per essere serviti ma per servire.<br />

Nel parlare della chiesa dobbiamo evitare di cadere nel gerarchismo, nel clericalismo, nell’episcopolatria,<br />

nella papolatria. Ciò che ha maggior valore (praevalet) è il popolo di Dio. A questo popolo di Dio, a que-<br />

sta sposa del Verbo, a questo tempio vivo dello Spirito Santo la gerarchia deve prestare i suoi umili ser-<br />

vizi perché cresca e giunga alla piena maturità, alla pienezza di Cristo. La gerarchia è la madre buona di<br />

questa vita che cresce: Mater Ecclesia.<br />

3. Giuridismo. Dalle recenti discussioni storiche e teologiche risulta che la maternità della chiesa è stata<br />

come il centro della primitiva <strong>ecclesiologia</strong> cristiana. Nel nostro schema desideriamo un approfondimen-<br />

to di questi concetti teologici: chiesa madre; tutti i battezzati sono figli della chiesa; con il battesimo va-<br />

lido tutti i cristiani sono generati dalla madre chiesa. […]<br />

Concludo: trionfalismo, clericalismo, giuridismo: ecco tre punti tra gli altri che devono essere emendati<br />

in questo schema; ho detto all’inizio che questo schema contiene molte cose ottime; e in verità ritengo<br />

che questo schema, purificato dai difetti, esponga la materia della splendida costituzione de Ecclesia; per<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

questo chiedo che il concilio stabilisca che il presente schema sia rinviato alla commissione perché sia<br />

emendato» (AS I/4, 142-144).<br />

L’impatto dello schema con l’assemblea conciliare rivelò dunque che, accanto ai sostenitori (Ruffi-<br />

ni, Siri, Florit…) dell’<strong>ecclesiologia</strong> della società perfetta e del corpo mistico 130 che avevano il loro<br />

punto di riferimento nel Vaticano I, esisteva anche una parte consistente di padri aperti alle prospet-<br />

tive dell’<strong>ecclesiologia</strong> contemporanea. Essi erano mossi dal duplice intento di recuperare una tradi-<br />

zione più antica che generalmente era stata dimenticata dall’<strong>ecclesiologia</strong> postridentina preoccupata<br />

di controbattere le tesi del protestantesimo e del liberalismo (ressourcement) e, in secondo luogo, di<br />

elaborare un approccio pastorale adatto ai tempi (aggiornamento). Il dibattito conciliare vide la cre-<br />

scita progressiva dei consensi attorno a queste idee (si forma la cosiddetta “maggioranza”), mentre<br />

un gruppo più limitato era fermo su atteggiamenti di carattere difensivo, preoccupato della corret-<br />

tezza della formulazione dottrinale (è la “minoranza” conciliare che darà battaglia soprattutto sulla<br />

questione della collegialità episcopale).<br />

c) Il secondo schema (1963)<br />

A motivo delle critiche avanzate dall’assemblea lo schema De ecclesia venne ritirato e durante<br />

l’interruzione tra il primo e il secondo periodo del Concilio la commissione teologica si rimise al<br />

lavoro 131 . Come base venne assunto uno schema in 4 capitoli inviato ai Padri nell’estate del 1963:<br />

1) il mistero della chiesa;<br />

2) la struttura gerarchica della chiesa, in particolare l’episcopato;<br />

3) il popolo di Dio, specialmente i laici;<br />

4) la vocazione alla santità nella chiesa.<br />

Nella discussione, svoltasi dal 30 settembre al 31 ottobre 1963, lo schema fu accolto favorevolmen-<br />

te ed accettato unanimemente come base per la discussione.<br />

Prima dell’inizio del secondo periodo il card. Suenens aveva presentato per iscritto un emendamen-<br />

to nel quale proponeva di togliere dai capitoli I e III tutti i passaggi riguardanti il popolo di Dio nel<br />

suo insieme per formare un nuovo capitolo da inserire tra la descrizione del mistero della chiesa e<br />

130 Il p. Tromp calcolò che il numero degli intervenuti in aula contrari allo schema era stato inferiore a quello degli intervenuti<br />

a favore (40 a 55). Il destino dello schema era però ormai segnato: preparato in una prospettiva giuridica e<br />

apologetica, aveva il difetto fondamentale di non corrispondere allo scopo che il papa aveva assegnato al concilio.<br />

131 Furono presentati nel frattempo vari progetti per lo schema «de ecclesia»: il progetto Philips (ma rielaborato con<br />

l’intervento di mons. McGrath, Congar, Rahner, Lecuyer, e Colombo); il progetto tedesco (elaborato da Schmaus, Rahner,<br />

Ratzinger, Schnackenburg, Semmelroth, Grillmeier, Hirschmann, Wulf); il progetto Parente; il progetto francese<br />

(autori: Danielou, Philips, Thils, Hamer, Martimort e Lecuyer); il progetto cileno; il progetto Elchinger.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

prima del capitolo sulla gerarchia. La proposta venne accolta quasi all’unanimità. Questa modifica<br />

non era solo di carattere redazionale; si trattava al contrario di una proposta di grande importanza<br />

per la struttura della costituzione sulla chiesa. Essa iniziava con un capitolo sul mistero della chiesa<br />

cioè sulla sua derivazione dall’alto, dall’azione di Dio nella storia della salvezza, e continuava con<br />

un capitolo sul popolo di Dio che tratta della sua manifestazione sociale e storica. L’introduzione di<br />

questo secondo capitolo contribuì inoltre alla declericalizzazione dell’immagine della chiesa, dato<br />

che il discorso sui diversi ministeri, vocazioni e condizioni presenti all’interno della chiesa seguiva<br />

quello sull’uguaglianza fondamentale di tutti i membri del popolo di Dio.<br />

Nel corso della discussione (30 settembre - 10 ottobre 1963) avvenne anche un’ulteriore modifica-<br />

zione dello schema. Il IV capitolo sulla “vocazione alla santità nella chiesa” era dedicato per la<br />

maggior parte ai religiosi; a questa trattazione era stata premessa una breve introduzione circa la vo-<br />

cazione universale alla santità nella chiesa, con lo scopo di raccordare il discorso sui religiosi con<br />

quanto affermato in precedenza. Nella discussione però emersero dei malumori soprattutto da parte<br />

dei religiosi che espressero il timore che il tema della vita consacrata diventasse una “appendice” e<br />

il suo valore all’interno della chiesa venisse svalutato 132 .<br />

Restava un ultimo punto da decidere. Numerosi padri avevano auspicato che il previsto schema sul-<br />

la B.V. Maria venisse fatto rientrare in quello sulla Chiesa, di cui avrebbe costituito il coronamento,<br />

sottolineando gli stretti legami che uniscono Maria alla chiesa (molti proponevano di riconoscerle il<br />

titolo di «Madre della chiesa»). Ma altri padri, appassionatamente sostenuti da molti mariologi, par-<br />

ticolarmente numerosi nel mondo ispanico, ritenevano che relegare la Vergine alla fine dello sche-<br />

ma, dopo i laici, significasse farle un affronto. Si decise di procedere a una votazione di orientamen-<br />

to, per la cui preparazione il cardinale Santos, arcivescovo di Manila, e il cardinale Koenig il 26 ot-<br />

tobre presentarono i rispettivi argomenti a favore delle due diverse soluzioni. Fuori dell’assemblea,<br />

intanto, si tenevano numerose riunioni a sostegno dell’una o dell’altra tesi, e tra i padri vennero ab-<br />

bondantemente distribuiti opuscoli, nei quali si sosteneva in particolare che «votare per<br />

l’inserimento significa votare contro la Vergine». La votazione del 29 ottobre avvenne così in un<br />

clima carico di tensione. La tesi dell’inserimento la spuntò di stretta misura (1114 voti contro 1074).<br />

Questo venire meno, per la prima volta, del consenso generale provocò una sorta di costernazione.<br />

All’inizio di novembre una speciale sottocommissione fu incaricata di elaborare un testo capace di<br />

132 Al termine della discussione si trovò una soluzione di compromesso per modificare il titolo originario in «La santità<br />

nella chiesa e specialmente dei religiosi».<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

far ritrovare l’unanimità, ma le passioni non si erano spente e la sessione terminò senza raggiungere<br />

una soluzione soddisfacente. Il papa dedicò una parte notevole del discorso di chiusura al problema.<br />

d) Il terzo periodo (1964)<br />

L’argomento che dominò le ultime discussioni dello schema sulla Chiesa fu la collegialità dei ve-<br />

scovi. Era il punto nevralgico sul quale la minoranza conciliare si accaniva nell’intento di difendere<br />

il primato pontificio che credeva minacciato, e di conservarlo intatto ad ogni costo. Paolo VI, nel<br />

suo discorso inaugurale (14 settembre 1964), attirò l’attenzione su questo punto centrale, senza<br />

dubbio al fine di ridurre la resistenza degli ultimi esitanti. Il Vaticano II si era proposto esplicita-<br />

mente come scopo di completare la dottrina del concilio precedente, non già di contraddirla. Per il<br />

Vaticano I il tema principale era stato definire il primato e l’infallibilità del papa; di qui, molti catto-<br />

lici avevano indebitamente concluso che d’ora in poi i vescovi avrebbero avuto solo un ruolo molto<br />

subordinato, e per l’avvenire a stento si poteva pensare a un concilio generale. Ora, il codice di dirit-<br />

to canonico, can. 228 § 1, sanciva che «il concilio ecumenico ha la più alta giurisdizione sulla chie-<br />

sa universale». Paolo VI concludeva: «Questo Sinodo parimenti ecumenico si appresta a conferma-<br />

re, sì, la dottrina del precedente sulle prerogative del Romano Pontefice; ma avrà altresì e come suo<br />

scopo principale quello di descrivere e onorare le prerogative dell’Episcopato» (EV I, 255*).<br />

All’inizio delle discussioni del 1963 lo schema sulla chiesa contava solo quattro capitoli. In seguito<br />

ne ebbe sei, perché al «popolo di Dio» fu assegnata una trattazione apposita e un capitolo fu dedica-<br />

to ai religiosi. Finalmente nel 1964 la Costituzione conterà otto capitoli 133 , grazie all’inserzione del-<br />

lo schema sulla mariologia e, immediatamente prima di questo, all’introduzione di uno sviluppo<br />

sull’escatologia e i santi del cielo, un progetto accettato all’ultimo momento.<br />

Il cap. VII riaffermava l’importanza dell’escatologia per la comprensione della chiesa e trattava del-<br />

la comunione esistente tra la chiesa della terra e quella del cielo e dello scambio di beni spirituali<br />

che avviene nei due sensi. Anche se lo schema venne introdotto per rispondere a esigenze concrete<br />

(riaffermare la dottrina dei novissimi, spiegare il senso del culto dei santi), l’integrazione del capito-<br />

lo nella Costituzione è avvenuta in modo tutto sommato felice e tale da contribuire a illustrare<br />

un’importante dimensione della chiesa.<br />

133 Cap. I: «De ecclesiae mysterio»; cap. II «De populo Dei»; cap. III: «De constitutione hierarchica ecclesiae et in specie<br />

de episcopatu»; cap. IV: «De laicis»; cap. V: «De universali vocatione ad sanctitatem in ecclesia»; cap. VI: «De religiosis»;<br />

cap. VII: «De indole eschatologica ecclesiae peregrinantis eiusque unione cum ecclesia coelesti»; cap. VIII:<br />

«De Beata Maria Virgine Deipara in mysterio Christi et ecclesiae». Sulla divisione dei capitoli si vedano: G. PHILIPS,<br />

La chiesa e il suo mistero (Milano: Jaca Book, 1975) 56; L. SARTORI, La “Lumen Gentium”: traccia di studio (Padova:<br />

Messaggero, 1994) 26.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Nel terzo periodo si sviluppò anche la discussione sul capitolo dedicato alla Beata Vergine Maria; si<br />

trattava di un testo che aveva accompagnato la redazione della LG come documento autonomo e che<br />

poi si era deciso di inserire nella Costituzione sulla chiesa. Tale decisione non aveva però risolto la<br />

questione del modo in cui la trattazione del tema doveva essere svolta e nella discussione si con-<br />

frontavano due concezioni della mariologia: l’una legata alle fonti, l’altra che procedeva in modo<br />

deduttivo assumendo come punto di partenza i privilegi di Maria. Il testo proposto cercò di evitare<br />

sia il minimalismo sia gli eccessi e fu accolto senza entusiasmo da parte della assemblea conciliare.<br />

Ci sembra interessante presentare anche le valutazioni che i Padri diedero ai singoli capitoli. Il capitolo I,<br />

«De ecclesiae mysterio», riscosse un’approvazione plebiscitaria: 2114 sì, contro 11 no e 63 placet iuxta mo-<br />

dum. Anche il II capitolo, «De populo Dei», ricevette un’approvazione molto favorevole: mai più di 67 voti<br />

contrari. Tutti si aspettavano una lotta accanita sul capitolo III. Al fine di dissipare qualsiasi ombra di par-<br />

zialità e di assicurare a tutti la massima libertà di opinione, il segretario generale del concilio aveva diviso il<br />

testo del capitolo in non meno di 39 proposte che furono messe ai voti punto per punto 134 . Per arrivare a un<br />

consenso più ampio la maggioranza consentì a inserire un certo numero di proposizioni subordinate<br />

nell’esposizione sul collegio, sottolineando ogni volta che il primato pontificio restava intatto. Il capitolo fu<br />

poi diviso in due sezioni, che ricevettero rispettivamente questi voti: per la prima parte i votanti erano 2242,<br />

sì 1624, no 42, iuxta modum 572, nulli 4; per la seconda parte i votanti erano 2240, sì 1704, no 53, iuxta<br />

modum 481, nulli 2. Il capitolo sui laici (cap. IV) ottenne il più alto numero di suffragi mai registrato: sulle<br />

2236 schede depositate, solo 8 furono negative. Il capitolo VII venne approvato all’unanimità. Il capitolo<br />

VIII cercò di conciliare già nel titolo le due visioni, «cristotipica» ed «ecclesiotipica», che si erano manife-<br />

state durante le discussioni precedenti ed ottenne nella votazione finale 2096 sì e 23 no.<br />

e) La «settimana nera»<br />

Il 16 novembre, il Segretario generale del concilio, mons. Felici, lesse ai padri conciliari tre comuni-<br />

cazioni «da parte dell’autorità superiore», dunque del papa. Le due prime riguardavano soprattutto<br />

la minoranza; la terza si rivolgeva piuttosto alla maggioranza. La prima comunicazione confutava<br />

l’obiezione secondo cui la discussione sull’episcopato non avrebbe seguito la procedura prescritta.<br />

La seconda definiva il grado di autorità che bisognava accordare ai testi accettati; certuni non vole-<br />

vano vedere nella dichiarazione sul collegio dei vescovi altro che una direttiva pastorale, senza por-<br />

tata dogmatica. A questo proposito il papa fece leggere la risposta della commissione teologica re-<br />

134 La tesi sul collegio dei vescovi che diceva «L’ordine dei vescovi in comunione con il suo capo, il papa, di Roma, e<br />

mai senza di lui, è depositario della suprema autorità su tutta intera la Chiesa» ricevette 292 voti contrari. L’istituzione<br />

del collegio dei dodici apostoli ricevette il no di 191 padri. 322 padri si opponevano all’esistenza del collegio dei vescovi;<br />

325 rifiutarono di ammettere che la consacrazione episcopale conferisce la triplice funzione sacra nella chiesa.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

datta già da mesi in termini generali. È evidente, diceva la risposta, che il testo conciliare deve esse-<br />

re interpretato secondo le regole generali che tutti conoscono. Il santo sinodo considera «definiti»<br />

dalla chiesa solo quei punti di fede e di morale che esso indica esplicitamente come tali. Tutto il re-<br />

sto deve peraltro essere ammesso da tutti i fedeli, senza eccezione, nel senso che il sinodo gli dà,<br />

come dottrina del magistero supremo della chiesa, il che significa e garantisce il massimo di certez-<br />

za dopo la definizione infallibile. La terza comunicazione gettava lo scompiglio nell’animo di molti<br />

padri. Diceva il comunicato: la dottrina annunciata dal capitolo III della LG deve essere spiegata e<br />

intesa secondo lo spirito e la dichiarazione di questa Nota explicativa praevia. Il nervosismo crebbe<br />

ulteriormente a causa degli emendamenti introdotti per via di autorità all’ultimo momento nel decre-<br />

to sull’ecumenismo e per il rinvio della votazione sul decreto sulla libertà religiosa. Dopo di che,<br />

per i più era impossibile leggere la Nota con tutta serenità, con la necessaria obiettività, e analizzarla<br />

con calma. Tuttavia Philips (cfr. il suo commento, p. 64) fa notare come i quattro punti della Nota<br />

rispondono esattamente alla spiegazione ricca di sfumature che accompagnava le cinque questioni<br />

interlocutorie del 30 ottobre 1963 135 . Le precisazioni della nota fecero sì che alla votazione finale<br />

del 21 novembre 1964 rimasero soltanto 5 non placet. Quel giorno Paolo VI espresse la sua immen-<br />

sa soddisfazione circa il «Decreto sinodale». Nella stessa occasione, con un’allusione al capitolo<br />

VIII della LG, egli promulgò di propria iniziativa «Maria Madre della Chiesa». Agendo così Paolo<br />

VI ha voluto probabilmente addolcire l’impressione un po’ penosa rimasta in certi padri di fronte<br />

alla voluta sobrietà dell’esposizione mariologica del concilio. Probabilmente, con il suo intervento<br />

egli volle anche suggerire che, se da un lato l’infallibilità pontificia non escludeva il concilio,<br />

dall’altro la definizione del concilio non rendeva superfluo il magistero autentico del papa.<br />

La struttura finale della LG rivela un’impostazione del discorso ecclesiologico assai diversa rispetto<br />

a quella del primo schema. Si notino almeno tre elementi particolarmente evidenti.<br />

135 In quel giorno vennero proposti all’aula «cinque quesiti» perché si manifestasse l’orientamento della maggioranza su<br />

temi “caldi”: ossia 1) se la consacrazione episcopale costituisce il grado supremo dell’Ordine; 2) se ogni vescovo legittimamente<br />

consacrato, in comunione con gli altri vescovi e con il Papa che è il Capo e il principio della loro unità, è<br />

membro del corpo dei vescovi; 3) se il corpo o collegio dei vescovi succede al collegio degli apostoli nella sua missione<br />

di evangelizzazione, di santificazione e di governo, e se il corpo in unione con il suo capo, il pontefice romano, e mai<br />

senza questo suo capo (il cui diritto primaziale resta intatto e completo su tutti i pastori e fedeli), possiede il potere plenario<br />

e supremo sulla chiesa universale; 4) se questa autorità compete per diritto divino al collegio stesso dei vescovi<br />

unito al suo capo»; 5) se è opportuno restaurare il diaconato come grado separato e permanente della funzione sacra, secondo<br />

le necessità della chiesa nei diversi paesi. Le questioni terza e quarta vennero proposte ai Padri corredate di un<br />

annesso esplicativo: «Le note 3 e 4 significano quanto segue: a) L’esercizio attuale del potere del corpo dei vescovi è<br />

regolato secondo norme approvate dal sommo pontefice; b) non c’è vero atto collegiale del corpo dei vescovi senza<br />

l’invito o almeno la “libera accettazione” del sommo pontefice; c) il modo pratico e concreto secondo cui si esercita la<br />

duplice forma del potere sovrano nella chiesa riceverà in seguito una determinazione teologica e giuridica, fortificando<br />

lo Spirito santo in modo indefettibile l’armonia tra l’una e l’altra forma».<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

1. I capitoli si possono leggere come dittici: il primo dittico (cap. I-II) affronta la res del mistero che<br />

è la chiesa (nella sua essenza propria di mistero e nella sua forma storica) 136 ; il secondo (cap. III-IV)<br />

riguarda la struttura organica in cui si articola tale corporeità storica del popolo di Dio (i pastori e i<br />

laici); il terzo (cap. V-VI) alza lo sguardo sul fine specifico della chiesa (la santità e i religiosi che<br />

ne anticipano simbolicamente la dimensione escatologica); il quarto (cap. VII-VIII) tratteggia nel<br />

concreto (ossia nei modelli viventi: i santi e Maria) la fase finale ed eterna della chiesa.<br />

2. La prospettiva assunta è storico-salvifica: non ci si limita alla considerazione della realtà sociale<br />

attuale della chiesa (la chiesa militante), ma il punto di partenza è dato dalla riflessione sul mistero<br />

della chiesa, cioè sulla sua origine dalla Trinità che agisce nella storia della salvezza (cap. I). La<br />

chiesa poi viene considerata come soggetto storico (popolo di Dio; cap. II) e nel suo orientamento al<br />

regno di Dio (cap. VII).<br />

3. Per quanto riguarda la struttura interna della chiesa si può osservare che si afferma anzitutto<br />

l’uguaglianza fondamentale di tutti i membri del popolo di Dio e solo successivamente la diversità<br />

delle vocazioni: questo è evidente nel rapporto tra il capitolo II che nella prima parte delinea<br />

l’identità fondamentale del membro del popolo di Dio come partecipe del compito sacerdotale, pro-<br />

fetico e regale di Cristo e i cap. III e IV che considerano vocazioni particolari nella chiesa, ma anche<br />

nel rapporto tra cap. V che tratta della universale vocazione alla santità nella chiesa e il cap. VI che<br />

tratta della vita religiosa come una delle vie attraverso le quali trova realizzazione l’universale vo-<br />

cazione alla santità nella chiesa.<br />

2.7.2. Come interpretare i testi del Vaticano II?<br />

Il nostro accostamento al Vaticano II può essere di tipo assai diverso. Per molti di quelli che l’hanno<br />

vissuto, il tempo del Vaticano II ha costituito un’esperienza indimenticabile e un evento spirituale di<br />

grandissimo rilievo (l’idea di “Concilio” è evocatrice di una stagione particolarmente viva della vita<br />

ecclesiale). D’altra parte, a quasi quarant’anni da quell’epoca, i documenti del Vaticano II rimango-<br />

no in gran parte sconosciuti e suscitano in molti un senso di estraneità (le nuove generazioni cono-<br />

scono il Vaticano II attraverso i testi). Il processo di recezione del Vaticano II è a una svolta.<br />

136 Segnaliamo che la Commissione Dottrinale nello spiegare la struttura di LG ha precisato che con il capitolo secondo,<br />

“Il popolo di Dio”, il Concilio continuava l’esposizione del “Mistero della Chiesa” iniziato nel capitolo primo; solo che<br />

mentre il primo capitolo aveva discusso questo mistero nel piano divino dalla creazione alla consumazione, il secondo<br />

capitolo avrebbe ripreso lo stesso mistero nel tempo tra l’ascensione e la parusia, cioè nella storia. Era un singolo mistero<br />

ad essere rivelato, prima nelle sue dimensioni trascendenti e poi in quelle storiche; la commissione aveva spezzato il<br />

materiale in due capitoli semplicemente perché un singolo capitolo sarebbe stato troppo lungo: AS III/1, 209-10.<br />

271


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Possiamo distinguere tre fasi nella recezione del Vaticano II.<br />

1. La fase dell’esuberanza, nella quale il Concilio è percepito come evento liberante, come inizio assoluto;<br />

in questa prospettiva si tende a sottolineare soprattutto il dinamismo messo in atto dal Vaticano II e questo<br />

porta in alcuni casi a ritenere superati i suoi stessi testi (cfr. la riforma liturgica).<br />

2. Inevitabilmente segue la fase della delusione, sia perché molte delle attese relative alla nuova concezione<br />

della chiesa come communio non si sono realizzate, sia perché è mutato il clima generale nella chiesa e nella<br />

società e si manifesta una crisi profonda a livelli diversi. Così, se da una parte i riformatori “progressisti”<br />

lamentavano l’inerzia dell’istituzione chiesa, dall’altra i “conservatori” denunciavano fenomeni di decom-<br />

posizione. Da una parte la contestazione, dall’altra i tentativi di restaurazione 137 .<br />

3. Il Sinodo straordinario del 1985 ha riproposto la questione circa il significato del Concilio e ha almeno<br />

avuto l’effetto positivo di mostrare che il Concilio non può essere archiviato 138 . Si è entrati così nella terza<br />

fase del dibattito. Il nuovo dibattito vede la presenza di tendenze diverse:<br />

- è necessario andare oltre il Concilio per essere fedeli al dinamismo che esso ha messo in moto;<br />

- è necessario bloccare il movimento del Concilio perché compromette la identità cattolica romana;<br />

- si deve applicare rigorosamente il Concilio (“Solo il Concilio, ma il Concilio intero”).<br />

È evidente che le scelte ermeneutiche di partenza condizionano la spiegazione dei contenuti e porta-<br />

no a risultati necessariamente diversi. Ciò ha comportato che alla dinamica conciliare appartengano<br />

anche le resistenze per la sua attuazione e la polarizzazione da essa prodotta. L’applicazione del Va-<br />

ticano II esige quindi che si sia d’accordo sui principi da applicare nell’interpretazione dei suoi testi;<br />

l’ermeneutica del Vaticano II è uno dei compiti più urgenti che la teologia oggi è chiamata ad assol-<br />

vere. Questa ermeneutica però presenta delle difficoltà perché molte delle regole che sono state ela-<br />

borate per l’interpretazione dei testi magisteriali della tradizione ecclesiale non possono essere ap-<br />

plicate in modo puro e semplice al Vaticano II. Nei concili precedenti un criterio fondamentale è<br />

quello secondo cui la dottrina va interpretata alla luce degli errori che intendevano condannare (in-<br />

tenzione didattica). Il Vaticano II invece ha inteso 1) offrire un’esposizione positiva della verità, 2)<br />

secondo una finalità pastorale (Giovanni XXIII). Il concilio non ha prodotto definizioni dogmatiche,<br />

cioè delle precisazioni assolutamente normative (novità rispetto ai concili precedenti). S’aggiunga<br />

inoltre che il concilio distingue accuratamente fra il deposito della fede e la forma in cui esso viene<br />

enunciato. In particolare non si è raggiunto un consenso su che cosa si debba precisamente intendere<br />

137<br />

Cfr. D. MENOZZI, L’anticoncilio (1966-1984), in Il Vaticano II e la Chiesa, a cura di G. ALBERIGO – J.-P. JOSSUA<br />

(Brescia: Paideia, 1985) 433-464.<br />

138<br />

Cfr. H.J. POTTMEYER, Dal sinodo del 1985 al grande giubileo dell’anno 2000, in Il Concilio Vaticano II. Recezione<br />

e attualità alla luce del Giubileo, a cura di R. FISICHELLA (Cinisello Balsamo – Milano: San Paolo, 2000) 11-25.<br />

272


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

per “pastorale” e meno ancora sulla relativa ermeneutica. 3) Una terza difficoltà è che nei testi del<br />

Vaticano II ci si trova di fronte a degli enunciati di tipo “tradizionale”, spesso giustapposti ad altri di<br />

carattere “nuovo”. Così si parla di formule di “compromesso”. Al punto che qualcuno ha parlato di<br />

una giustapposizione, se non addirittura di un contrasto fra due ecclesiologie presenti nei testi conci-<br />

liari, cioè di una <strong>ecclesiologia</strong> gerarchica di stampo tradizionale e di un’altra nuova, o meglio rinno-<br />

vata, l’<strong>ecclesiologia</strong> della communio nello spirito della chiesa antica. In tal modo sia i “conservato-<br />

ri” che i “progressisti” possono dunque richiamarsi a degli enunciati conciliari.<br />

Tra i molti problemi che l’interpretazione del Vaticano II pone si segnalano due questioni fonda-<br />

mentali: 1) il rapporto tra novità e continuità con la tradizione; 2) l’interpretazione delle formule di<br />

compromesso che giustappongono affermazioni di orientamento diverso.<br />

Nessun Concilio può essere interpretato in modo radicale contro la tradizione ecclesiale perché non<br />

è pensabile che un Concilio si riunisca per operare un taglio netto rispetto alla tradizione precedente<br />

della chiesa. Questo d’altra parte non significa che il Concilio non dica nulla di nuovo; quello che si<br />

vuole escludere è che esso rappresenti una smentita radicale della tradizione precedente. Anche se<br />

nei testi del Vaticano II, molto più che nei testi di concili precedenti si avverte la presenza di novità,<br />

tali novità rappresentano spesso soltanto il recupero e l’attualizzazione di elementi della tradizione<br />

più antica. La contrapposizione tra prospettiva conservatrice e progressista rischia di essere fuorvi-<br />

ante. Piuttosto i testi conciliari sono testimonianza di uno sforzo di aggiornamento che affonda le<br />

sue radici nelle fonti della tradizione (ressourcement). La maggioranza conciliare aveva a cuore la<br />

tradizione più antica, la minoranza era preoccupata che non si tradisse la tradizione più recente (Va-<br />

ticano I); entrambe le esigenze sono legittime, anche se spesso non si è raggiunta una sintesi com-<br />

piuta e soddisfacente (come la maggior parte dei concili precedenti, anche l’ultimo ha assolto il suo<br />

compito non proponendo una teoria compiuta, ma fissando i limiti della posizione ecclesiale). Para-<br />

dossalmente si potrebbe dire che i padri conciliari “progressisti” erano in realtà più “conservatori”<br />

degli altri perché volevano un recupero della tradizione più antica (quella del primo millennio, co-<br />

mune a oriente e occidente) contro l’assolutizzazione degli sviluppi più recenti. Il recupero della<br />

tradizione nella sua globalità ha avuto un effetto liberante perché ha consentito di superare le restri-<br />

zioni che storicamente si erano determinate (ad es. in conseguenza della polemica antiprotestante).<br />

Come conciliare le diverse esigenze? I testi conciliari sono stati redatti da molte persone e spesso<br />

dopo interminabili dibattiti; perciò è logico attendersi che nei testi dogmatici si trovino sempre for-<br />

mule di compromesso. In alcuni casi il testo di partenza nel corso delle successive elaborazioni vie-<br />

ne arricchito dall’introduzione di punti di vista diversi; non di rado tuttavia le modifiche successive<br />

indeboliscono il testo, lo rendono meno chiaro, fino al punto da introdurre talvolta degli elementi<br />

273


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

contrastanti. Questo rende ovviamente difficile l’interpretazione: si deve privilegiare l’intenzione<br />

originaria del testo o le modifiche che ne indeboliscono il senso o correggono l’orientamento?<br />

Max Seckler ritiene che il Vaticano II ha introdotto un nuovo tipo di compromesso nelle formula-<br />

zioni dottrinali. Nella storia della elaborazione dottrinale si trovano due tipi di compromesso: il<br />

compromesso effettivo, che si raggiunge quando è possibile una affermazione comune, anche se li-<br />

mitata al denominatore comune, e il compromesso dilatorio che esprime l’impossibilità di decidere<br />

la questione al momento presente e la rimanda al futuro. Seckler ritiene che il Vaticano II, a motivo<br />

della caratterizzazione “pastorale” (e non dogmatica) attribuita al suo insegnamento, ha prodotto un<br />

nuovo tipo di compromesso che definisce contraddittorio: «mentre in un primo momento la mino-<br />

ranza conservatrice si schierò contro il carattere pastorale, battendosi a favore di un concilio dottri-<br />

nale, quando il pericolo di innovazioni dottrinali e dogmatiche da parte della maggioranza progres-<br />

sista si fece troppo forte, essa accentuò improvvisamente per parte sua l’impronta pratica e pastorale<br />

dei testi, allo scopo di indebolire i nuovi aspetti dogmatici. L’ambiguità manipolata divenne ancora<br />

maggiore allorché la maggioranza, allo scopo di ottenere l’affermazione delle proprie formulazioni<br />

progressiste, si richiamò a sua volta al carattere puramente pastorale del Concilio, ottenendo in tal<br />

modo su molti punti il parere favorevole della minoranza» 139 .<br />

L’interpretazione dei testi del Vaticano II dunque presenta delle difficoltà inedite per la teologia,<br />

non però a tal punto che le regole interpretative del linguaggio ecclesiale non abbiano più alcun va-<br />

lore. Possiamo indicare innanzi tutto due premesse:<br />

1) La convinzione fondamentale di fede secondo cui i concili sono un evento dello Spirito santo che<br />

governa la chiesa e i loro esiti, quindi, una norma vincolante per la chiesa stessa. Questa normatività<br />

va riconosciuta anche nel caso in cui — come al concilio Vaticano II — le decisioni prese non siano<br />

infallibili, cioè vincolanti in ultima istanza. Sarebbe formalmente sbagliato contrapporre l’inten-<br />

zione e il modo di esprimersi pastorale del concilio al significato dottrinale. La via della chiesa che<br />

s’inoltra nel futuro può essere battuta soltanto sul fondamento delle risoluzioni dell’ultimo concilio<br />

e della sua scrupolosa attuazione (cfr. Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 57). Una restau-<br />

razione intesa come ripristino della situazione pre-conciliare contraddirebbe gli stessi principi di<br />

quell’epoca, anch’essa convinta che i concili rappresentano l’autorità suprema nella chiesa.<br />

2) D’altra parte bisogna registrare che non tutti i concili validi nella storia della chiesa sono stati an-<br />

139 M. SECKLER, “Circa il compromesso in questioni dottrinali”, in ID., Teologia, scienza, chiesa. Saggi di teologia fon-<br />

damentale (Brescia: Morcelliana, 1988) 162.<br />

274


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

che concili fecondi, come ad es. il Lateranense V (1512-1517) che non fu in grado di dare un effica-<br />

ce contributo alla riforma della chiesa ed evitare la successiva divisione. Lo Spirito agisce attraverso<br />

degli uomini che possono anche resistere alle sue sollecitazioni. Nemmeno sul significato storico<br />

del Vaticano II è stata ancora detta l’ultima parola. Per la teologia ciò che è in questione, dunque,<br />

non è il concilio, ma la sua interpretazione e ricezione. Ora, a questo riguardo le opinioni divergono:<br />

dove gli uni vedono un rinnovamento, gli altri constatano un crollo ed una perdita di identità. Oc-<br />

corre ricordare che quasi tutti i concili hanno prodotto crisi e scuotimenti. La situazione attuale,<br />

quindi, è in certo qual modo normale. Si potrà arrivare ad una soluzione dei problemi soltanto se ci<br />

si accorderà sui principi di ermeneutica degli enunciati conciliari. Qui ne suggeriamo alcuni 140 .<br />

A) I testi del Vaticano II devono essere compresi e studiati in modo integrale; non ci si può limitare<br />

a prendere alcune proposizioni isolate dal contesto, ma anche la tensione tra affermazioni diverse<br />

rappresenta una sottolineatura del suo insegnamento.<br />

B) La conoscenza della storia della redazione è un presupposto necessario per l’interpretazione dei<br />

testi del Vaticano II, anche se non ci si può limitare a un’esegesi puramente filologica, ma si deve<br />

tendere a una lettura teologica d’insieme.<br />

C) Lettera e spirito del Concilio vanno intesi come un’unità: ogni enunciato si comprende solo alla<br />

luce dello spirito che anima l’insieme del discorso e, al tempo stesso, lo spirito dell’insieme si rica-<br />

va solo da un’esegesi accurata dei testi.<br />

D) Come ogni Concilio anche il Vaticano II deve essere compreso alla luce della tradizione più am-<br />

pia della chiesa; è quindi assurdo contrapporre una chiesa preconciliare e una chiesa postconciliare<br />

come se si trattasse di due realtà radicalmente diverse e come se fosse avvenuta una riscoperta del<br />

vangelo prima oscurato, oppure un tradimento totale della tradizione precedente.<br />

E) Per l’ultimo concilio la continuità della fede cattolica va intesa come unità fra la tradizione e la<br />

sua interpretazione viva e attuale rispetto alla situazione del presente qualificata da quanto è stato<br />

indicato come “segni dei tempi” 141 .<br />

140 Cfr. la Relazione finale del II Sinodo straordinario (9 dicembre 1985), in Il futuro dalla forza del Concilio. Documenti<br />

e commenti a cura di W. Kasper (Brescia: Queriniana, 1986) 18.<br />

141 Karl Lehmann suggerisce l’apertura di una quarta fase della ricezione del Vaticano II: K. LEHMANN, “Concilio ecumenico<br />

Vaticano II, 1962-2002. Il quarto tempo”, in Il Regno. Attualità XLVII (2002/18) 632-639. Cfr. pure: P. HÜ-<br />

NERMANN, “Il concilio Vaticano II come evento”, in Il Regno. Documenti XLII (1997/11) 376-384; H.J. POTTMEYER,<br />

“Una nuova fase della ricezione del Vaticano II. Vent’anni di ermeneutica del concilio”, in Il Vaticano II e la Chiesa,<br />

op. cit., 41-64; A.T.I., La Chiesa e il Vaticano II. Problemi di ermeneutica e recezione conciliare, a cura di M. Vergottini<br />

(Milano: Glossa, 2005); G. ROUTHIER, Il Concilio Vaticano II. Recezione ed ermeneutica (Milano: V&P, 2006). Per<br />

i problemi dell’ermeneutica degli enunciati pastorali cfr. W. KASPER, “La provocazione permanente del concilio Vaticano<br />

II. Per un’ermeneutica degli enunciati conciliari”, in ID., Teologia e chiesa (Brescia: Queriniana, 1989) 302-311.<br />

275


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

2.7.3. Commento ai primi due capitoli della Lumen Gentium<br />

Dopo aver ricostruito in modo sintetico il processo che ha portato alla redazione finale della LG, e-<br />

saminiamo ora più da vicino l’immagine della chiesa che emerge dalla costituzione conciliare. A<br />

questo scopo studieremo approfonditamente i primi due capitoli alla ricerca del concetto ecclesiolo-<br />

gico fondamentale del Vaticano II. Nei due capitoli si trovano due categorie fondamentali, richiama-<br />

te anche nei titoli: la chiesa mistero e la chiesa popolo di Dio. Cercheremo di verificare qual è il si-<br />

gnificato di queste due categorie, in che relazione stanno tra di loro e con altre categorie ecclesiolo-<br />

giche utilizzate nella LG oppure presenti nella tradizione precedente, se esiste una categoria eccle-<br />

siologica fondamentale e quali conseguenze derivano da questa presentazione della chiesa.<br />

A) Il mistero della Chiesa (cap. I)<br />

Secondo Gérard Philips «il primo capitolo si suddivide con tutta naturalezza in tre parti: la Chiesa e<br />

la Trinità (2-4); la rivelazione della Chiesa nella Scrittura (5-7); la Chiesa come comunità insieme<br />

visibile e spirituale (8)». Il tutto preceduto da un paragrafo (1), che indica «lo scopo della costitu-<br />

zione”» 142 . In particolare, alla luce dei richiami storici precedenti, l’intenzione del capitolo I sembra<br />

duplice «in quanto orientata ad affermare da un lato la continuità con l’<strong>ecclesiologia</strong> del passato,<br />

precisamente l’<strong>ecclesiologia</strong> del “Corpo mistico”, riportata però alla sua profondità “misterica”,<br />

contro l’interpretazione tendenzialmente giuridica; e, d’altro lato, a fondare l’<strong>ecclesiologia</strong> nuova,<br />

precisamente l’<strong>ecclesiologia</strong> del “popolo di Dio”» 143 .<br />

Aa) Il proemio (n. 1)<br />

Il primo capitolo tratta del mistero della chiesa e l’idea di mistero presupposta è chiaramente quella<br />

biblica e patristica. Le reazioni negative che nel corso del dibattito conciliare si sono registrate a<br />

proposito dell’uso ecclesiologico di questa categoria segnalano che ormai nel linguaggio ecclesiale<br />

era andato perduto il senso antico del concetto di mysterion come designazione del piano divino di<br />

salvezza e lo si intendeva quasi esclusivamente come “verità incomprensibile”. Il termine mysterion<br />

in latino si traduceva con i due termini sacramentum e mysterium, che inizialmente mantennero il<br />

significato globale del termine greco, cioè piano divino di salvezza in cui Dio si rivela e comunica<br />

se stesso, ma che successivamente si specializzarono e passarono ad indicare in modo esclusivo ri-<br />

142 G. PHILIPS, op. cit., 75.<br />

143 G. COLOMBO, “Il «popolo di Dio» e il «mistero» della chiesa nell’<strong>ecclesiologia</strong> postconciliare”, in Teologia 10<br />

(1985) 100.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

spettivamente i “sacramenti” e le “verità della fede”. Le reazioni negative suscitate dall’uso del ter-<br />

mine mistero per designare la chiesa derivano dal timore che si introducesse l’idea che la chiesa è<br />

incomprensibile oppure è una realtà invisibile (posizione classicamente attribuita ai Protestanti).<br />

Dire, quindi, che la Chiesa è mistero, non significa negarne la natura di società visibile, ma sottoli-<br />

neare che essa è una realtà che origina e fa parte dell’autocomunicazione salvifica di Dio al mondo.<br />

Perciò, la Chiesa non può essere ridotta a un fatto meramente sociale e politico, perché è una realtà<br />

teologale, d’ordine divino pur nella sua creaturalità. Questa visione della Chiesa come mistero ha<br />

una portata ecumenica, perché più vicina dell’<strong>ecclesiologia</strong> societaria alla teologia sia ortodossa che<br />

protestante, che accentuano l’aspetto misterico. Ha poi una portata pastorale, perché in tal modo la<br />

Chiesa si presenta al mondo non come una società in concorrenza con gli Stati o le altre società u-<br />

mane, ma come una realtà divina d’ordine spirituale: essa «costituisce in terra il germe e l’inizio»<br />

(LG 5) del Regno di Dio e non lo instaura perseguendo un progetto e un programma storico-sociale<br />

di configurazione della storia umana e sociale. «La missione propria che Cristo ha affidato alla sua<br />

Chiesa non è di ordine politico, economico e sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è di ordine re-<br />

ligioso» (GS 42) 144 . La stessa mediazione ecclesiale non coincide nemmeno con il semplice darsi<br />

storico effettivo del cristianesimo, ossia delle forme effettive della testimonianza ecclesiale. Anche<br />

là dove si edifica sul fondamento posto da Dio, rimane ancora da vedere come si edifica (1Cor 3,9).<br />

In LG 1 si trova anche un’altra categoria ecclesiologica che ha avuto grande successo nella teologia<br />

postconciliare: alla chiesa è applicata la categoria di sacramento anche se in senso lato (veluti sa-<br />

cramentum). Già in precedenza alcuni teologi avevano utilizzato il concetto di sacramento in senso<br />

ecclesiologico 145 e dopo il Concilio alcuni hanno letto nei pochi testi del Vaticano II che attribui-<br />

scono alla chiesa la qualifica di “sacramento” una conferma della concezione teologica che fa deri-<br />

vare i sacramenti dalla chiesa come sacramento radicale o fondamentale 146 . In realtà i testi conciliari<br />

non attribuiscono a questa categoria un significato particolarmente rilevante (ricorre piuttosto rara-<br />

mente e spesso accompagnata da espressioni che ne sfumano il significato) 147 . La presentazione del-<br />

144 Il testo del Concilio però prosegue così: «Eppure proprio da questa missione scaturiscono dei compiti, della luce e<br />

delle forze, che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina».<br />

145 O. SEMMELROTH, La Chiesa sacramento di salvezza (Napoli 1965; 2 a ed. ted. 1955); E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento<br />

dell’incontro con Dio (Roma: EP, 1962; or. 1957); K. RAHNER, Chiesa e sacramenti (Brescia: Morcelliana,<br />

1965; or. 1960). Per l’influsso di Rahner sulla LG cfr. G. WASSILOWSKY, Universales Heilssakrament Kirche. Karl<br />

Rahners Beitrag zur Ekklesiologie des II. Vatikanums (Innsbrucker theologische Studien, 59; Innsbruck, Tyrolia, 2001).<br />

146 K. RAHNER, Sulla teologia del simbolo, in ID., Saggi sui sacramenti e sull’escatologia (Roma: EP, 1965; or. 1962)<br />

51-107; L. BOFF, Die Kirche als Sakrament im Horizont der Welterfahrung (Paderborn: Bonifatius, 1972).<br />

147 Per limitarci alla LG, l’espressione ricorre in LG I, 1: «E poiché la chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e<br />

strumento dell’intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano…»; II, 9: «Dio ha convocato l’assemblea di<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

la chiesa come sacramento nella LG serve a descrivere il ruolo della chiesa “mistero” nella storia e<br />

nel mondo, esprimendo il suo carattere di “segno e strumento” visibile dell’azione di Dio e<br />

dell’unità a cui tutto il genere umano è chiamato. Questo ovviamente non preclude alla teologia la<br />

possibilità di costruire l’<strong>ecclesiologia</strong> fondandosi sulla nozione di sacramento, che però deve essere<br />

giustificata e non può semplicemente essere proposta fondandosi sull’autorità del Vaticano II.<br />

Proprio perché «mistero», la Chiesa è presentata come un «sacramento», cioè è un segno di un’altra<br />

realtà e strumento che “dona” realmente quello di cui è segno. In quanto mistero, la Chiesa è «in<br />

Cristo», vive di lui, in lui e per lui: è dunque sacramento di Cristo, come Cristo è sacramento di Dio.<br />

Ma in Cristo si compie il disegno di salvezza di Dio, che consiste nel portare gli uomini alla comu-<br />

nione con Dio e tra di loro. La Chiesa, perciò, «è in Cristo come un sacramento o un segno e stru-<br />

mento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). La Chiesa non pre-<br />

senta al mondo se stessa, ma Cristo, il quale significa in essa e compie per mezzo di essa il disegno<br />

della salvezza del Padre. «Significa in essa», perché con la sua unità la Chiesa è il segno dell’unità<br />

degli uomini con Dio e tra loro. «Compie per mezzo di essa», perché la comunione con Dio e tra gli<br />

uomini non si realizza senza l’azione della Chiesa. In altre parole, la Chiesa, in quanto «mistero» è<br />

«comunione»: comunione con Dio, anzitutto, ma anche comunione con tutti gli uomini.<br />

Secondo Walter Kasper il primo capitolo è stato fra i meno “recepiti” nelle riflessioni teologiche e<br />

pastorali del post-Concilio 148 . Al centro dell’attenzione si è posto l’aspetto istituzionale della Chie-<br />

sa, col rischio di passare sotto silenzio la sua dimensione mistica — non a caso la questione della<br />

spiritualità è stata privatizzata al punto da essere considerata come una questione di pertinenza della<br />

pratica della fede degli individui e dei piccoli gruppi. Perciò, da una parte, la Chiesa è stata identifi-<br />

cata con la sua dimensione sociale ed empirica (e la questione dell’essere-Chiesa con la ripartizione<br />

di competenze fra fedeli e istituzione gerarchica, fra Chiese locali e Sede romana…), mentre d’altra<br />

parte la spiritualità si è disancorata dal suo riferimento ecclesiale (con fenomeni di distorsione teo-<br />

logica e tendenze all’ideologizzazione nella pratica). In realtà, per la grande maggioranza dei cri-<br />

coloro che credono e guardano a Gesù autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha fatto la sua chiesa,<br />

perché sia per tutti e per ciascuno il sacramento visibile di questa unità salvifica»; VII, 48: «Risorgendo da morte [Cristo]<br />

infuse negli apostoli il suo Spirito vivificante, mediante il quale costituì la chiesa che è il suo corpo, quale sacramento<br />

universale di salvezza». Altri riferimenti alla categoria si trovano in AG 1. 5; GS 42. 45. Cfr. COLOMBO, art. cit.,<br />

127-134; Y. CONGAR, Un popolo messianico (BTC 27; Brescia: Queriniana, 1982 3 ) 13-24.<br />

148 W. KASPER, Le mystère de la Sainte Église. Un rappel ecclésiologique au soir d’un «siècle de l’Église», in M. DE-<br />

NEKEN (ed.), L’église à venir. Mélanges offerts à Joseph Hoffmann (Paris: Cerf, 1999) 309-344, qui 310. Considerazioni<br />

analoghe espresse l’allora card. Ratzinger nel corso del convegno sulla recezione del Vaticano II, organizzato dal<br />

Comitato Centrale del Grande Giubileo dell’Anno 2000: J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> della Costituzione «Lumen<br />

Gentium», in Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, op. cit., 66-81.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

stiani, la Chiesa viene identificata in modo puro e semplice con le strutture della Chiesa visibile. Ma<br />

ciò conduce a fraintendimenti ecclesiologici capitali, ad es. al fatto che si identifica l’appartenenza<br />

alla Chiesa e l’«essere Chiesa» soprattutto con la partecipazione al discorso tenuto a suo riguardo o<br />

con l’impegno e l’attività in seno alla sua «istituzione» (i veri cristiani sono quelli “impegnati”!?).<br />

Riaffermare con il primo capitolo della LG che la Chiesa è mistero non significa favorire una “mi-<br />

stificazione” che immunizza la Chiesa di fronte ai problemi strutturali della istituzione, ma essere<br />

consapevoli che solo nella misura in cui noi continuiamo a considerare la Chiesa come un mistero<br />

della fede, possiamo comprenderla correttamente anche come istituzione sociale, e che solamente<br />

alla luce della sua istituzione sociale noi possiamo parlare della Chiesa come un mistero della fede.<br />

Non è certo un caso che sia i sostenitori di una <strong>ecclesiologia</strong> conservatrice e trionfalista sia i sosteni-<br />

tori di una critica ecclesiale o anti-ecclesiale della Chiesa, temono che la descrizione della Chiesa<br />

come mistero della fede rappresenti una fuga verso una Chiesa invisibile, misteriosa, né percepibile<br />

né attaccabile. I tradizionalisti temono che la comprensione mistica della Chiesa rappresenti uno<br />

smantellamento delle sicurezze istituzionali, giuridiche e politiche; i progressisti vi sospettano<br />

l’erezione di un nuovo bastione soprannaturalista.<br />

Evidentemente questo rifiuto ha la sua radice in una comprensione unilaterale di ciò che si deve in-<br />

tendere dal punto di vista teologico con «mistero»: appunto la comprensione dottrinalista e gnoseo-<br />

logica della teologia moderna. In particolare, è stato Karl Rahner ad aver liberato il concetto di mi-<br />

stero dalle sue restrizioni gnoseologiche; «mistero» è infatti «ciò in vista di cui l’uomo oltrepassa se<br />

stesso nell’unità della sua trascendenza che consiste nel conoscere e nell’amare liberamente», «un<br />

aspetto primordiale, essenziale e permanente della realtà totale, nel senso che questa, come totale (e<br />

quindi come infinita), rinvia lo spirito finito, creato, secondo la sua natura “aperta” all’infinito». Per<br />

questo motivo, secondo Rahner esiste «un solo mistero: che l’incomprensibilità di Dio, nella quale<br />

egli è Dio, non è data solamente come di lontano e come l’orizzonte in seno al quale si muove la<br />

nostra esistenza, ma che questo Dio, che rimane incomprensibile, si dà a noi nell’immediatezza, co-<br />

sì che lui stesso diviene la realtà più interiore della nostra esistenza» 149 .<br />

Noi possiamo, quindi, parlare di «mysterium» secondo quattro aspetti, che devono essere pensati in-<br />

sieme quando parliamo di «mysterium» e in particolare di «mysterium» della Chiesa. «Mysterium»<br />

deve essere compreso 1) in riferimento al Dio Trinità stesso, a Dio che è il senso ultimo del mondo<br />

e che si rivolto nel suo amore verso di noi per la nostra salvezza; 2) in riferimento a Gesù Cristo, in<br />

149 Cfr. art. Mistero, in K. RAHNER – H. VORGRIMLER, Dizionario di Teologia (Roma – Brescia, 1968) 396-397.<br />

279


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

quanto è il sacramento originale di Dio, «signum et instrumentum» di questa autocomunicazione<br />

amante di Dio Trinità; 3) in riferimento all’umanità che è chiamata alla comunione con Dio e alla<br />

partecipazione alla sua salvezza, e che è “introdotta” (mystagogein) in questo mistero in modo tale<br />

che nel mistero dell’amore di Dio si apre il mistero della vita umana e vi si mostra secondo una<br />

comprensione globale della verità, la quale, tuttavia, 4) si sottrae ad ogni svelamento totale e ad ogni<br />

oggettivazione mediante la conoscenza.<br />

Se si vuole comprendere la Chiesa come «mysterium», occorre considerare distintamente e in unio-<br />

ne questi quattro aspetti. Nella teologia del concilio il concetto di «mysterium» della Chiesa si inse-<br />

risce in una teologia della storia della salvezza considerata in tutti i suoi aspetti. Per far questo, il<br />

concilio si riferisce alla comprensione biblica e patristica della Chiesa, e cerca di oltrepassare<br />

un’immagine della Chiesa unilateralmente giuridica e trionfalistica. La Chiesa è presentata come il<br />

«mysterium» della salvezza nascosto da tutta l’eternità, divenuto manifesto in maniera definitiva nel<br />

Cristo e che è presente stabilmente nel mondo. La rivelazione di Dio è la comunicazione di quel mi-<br />

stero che Dio stesso è e rimane nella sua donazione libera, graziosa e amante all’uomo. Quando Dio<br />

si rivela così all’uomo come mistero della libertà nell’amore e si comunica come salvezza definiti-<br />

va, il mistero di questo amore non è abolito, ma valorizzato in maniera definitiva. È in Cristo «luce<br />

delle genti» che il mistero dell’autocomunicazione storica di Dio si è costituito in maniera definitiva<br />

e insuperabile. Il Signore è, infatti, «la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana» (GS 10), è<br />

«l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine» (GS 45). In questo contesto del «myste-<br />

rium salutis» della storia della salvezza, che è quello della teologia della rivelazione, si può com-<br />

prendere il concetto di «mistero» della Chiesa: essa è «in Cristo veluti sacramentum, seu signum, et<br />

instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis» (LG 1; LG 48; GS 45).<br />

Con questo doppio concetto «mysterium/sacramentum», il concilio riprende l’uso linguistico dei<br />

Padri e oltrepassa la visione giuridica e canonica della Chiesa, centrata sull’istituzione, che era stata<br />

elaborata a partire dal Medio Evo. A un’<strong>ecclesiologia</strong> che separa la Chiesa di Gesù Cristo dal-<br />

l’istituzione visibile, il Vaticano II oppone la visibilità e la realtà sacramentale della Chiesa di Cristo<br />

nel mondo. Di fronte a una visione esclusivista della Chiesa, che afferma un’identità semplice e to-<br />

tale della Chiesa di Gesù Cristo con la Chiesa romana, il concilio afferma : «Questa Chiesa, in que-<br />

sto mondo costituita e organizzata come società, è presente [subsistit] nella Chiesa cattolica», «seb-<br />

bene al di fuori del suo organismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità,<br />

che, quali doni propri della chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica» (LG 8).<br />

Dunque, la Chiesa è mistero della fede secondo l’aspetto teologico in riferimento all’economia della<br />

salvezza e secondo l’aspetto cristologico e sacramentale. Ma essa è ugualmente mistero della sal-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

vezza anche secondo gli altri due aspetti, quello mistagogico e quello gnoseologico. Essa è infatti il<br />

luogo della fede, la sua tradizione è il contesto semantico della fede, la sua comunità è il contesto<br />

comunicativo e sociale di questa fede in cui ciò a cui la fede si riferisce si mostra come vero, come<br />

manifesto e come sacramentalmente donato. In quanto Corpo del Cristo e sacramento della comu-<br />

nione con Dio nello Spirito, mediante l’annuncio della Parola e la celebrazione dei sacramenti, co-<br />

me attraverso tutta la sua vita, la Chiesa dispiega nel mondo la salvezza che in lei è divenuta mani-<br />

festa ed essa introduce nella realtà della salvezza di Dio. Essa è quindi il “mistagogo” autentico dei<br />

misteri della salvezza di Dio. Essa non introduce in qualcosa che le sarebbe esteriore e estraneo, ma<br />

in ciò che per volontà di Dio essa designa sacramentalmente. E lo fa non in virtù di un potere e di<br />

una capacità propri e autonomi, e senza legame con ciò in cui essa introduce, ma in quanto media-<br />

zione sacramentale di Gesù Cristo, essa lo fa in virtù dello Spirito che il suo Signore e Capo le invia<br />

perpetuamente dal Padre. Perciò la Chiesa è il mistero mistagogico istituito dal Cristo nella storia.<br />

In quanto sacramento della trascendenza irriducibile di Dio che si comunica come mistero essa stes-<br />

sa rimane un mistero: il suo essere più intimo infatti è il mistero dell’amore di Dio che si dona vitto-<br />

riosamente all’uomo in Cristo. Tutte le forme storiche concrete della Chiesa, e quindi la sua stessa<br />

dimensione istituzionale, anche se si tratta di modi di esistere autentici della Chiesa di Gesù Cristo,<br />

non possono mai realizzarla integralmente e secondo un’identità ontologica semplice. La Chiesa di<br />

Gesù Cristo supera i limiti della nostra conoscenza oggettivante: essa è un’unica realtà complessa<br />

(LG 8) che si estende fin nella speranza dei defunti e nella gloria di coloro che sono stati accolti nel-<br />

la gloria di Dio. Questo carattere mistico implica allora che essa non possa mai essere totalmente<br />

manifesta a se stessa. È questo carattere di mistero che è inteso quando il concilio presenta Maria<br />

come «in fide et in caritate typus et exemplar spectantissimum» della Chiesa. Perché come Maria, la<br />

Chiesa è pellegrina nel cammino della fede, conservando e contemplando nel suo cuore il mistero<br />

che in lei è divenuto realtà, senza poterne in fin dei conti prenderne tutte le misure (LG 58).<br />

Ab) Ecclesia de Trinitate (nn. 2-4)<br />

La concezione della chiesa predominante nella teologia cattolica anteriore al concilio Vaticano II era<br />

caratterizzata da quello che Yves Congar descrive come «cristomonismo» 150 : l’espressione eviden-<br />

zia la privilegiata attenzione prestata agli aspetti visibili, «incarnazionistici» della chiesa. Il capitolo<br />

primo della LG rappresenta il recupero della profondità trinitaria della chiesa: «De unitate Patris et<br />

Filii et Spiritus Sancti plebs adunata» (san Cipriano), la chiesa viene dalla Trinità, è strutturata a<br />

150 Y. CONGAR, Pneumatologie ou “Christomonisme” dans la tradition latine?, in EThL 45 (1969) 394-416.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

immagine della Trinità e va verso il compimento trinitario della storia. Il capitolo I della LG è quin-<br />

di strutturato trinitariamente e secondo Bruno Forte 151 vorrebbe rispondere a tre domande: 1) da do-<br />

ve viene la chiesa?; 2) che cosa è la chiesa?; 3) dove va la chiesa?<br />

1) La chiesa viene dalla Trinità. Essa perciò procede dal disegno salvifico del Padre (n. 2), dalla<br />

missione del Figlio (n. 3) e dall’opera santificante dello Spirito santo (n. 4).<br />

2) La chiesa è icona della Trinità. Per una «non debole analogia» essa è paragonata al mistero del<br />

Verbo Incarnato (n. 7 e 8), nella dialettica del visibile e dell’invisibile, mentre la sua «comunione»,<br />

una nella varietà delle chiese locali e dei carismi e ministeri in esse, riflette la comunione trinitaria:<br />

«Questo è il sacro mistero dell’unità della chiesa, in Cristo e per mezzo di Cristo, mentre lo Spirito<br />

santo opera la varietà dei doni. Il supremo modello e il principio di questo mistero è l’unità nella<br />

trinità delle persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito Santo» (UR 2f) 152 .<br />

3) La chiesa va verso la Trinità: è chiesa dei pellegrini, in cui nella perenne conversione e riforma,<br />

in comunione con la chiesa celeste, ci si prepara alla gloria finale (n. 8 cd; cfr. i cap. VII e VIII).<br />

Chiarito il senso storico-salvifico in cui si usa la nozione di mistero, risulta decifrabile anche l’arti-<br />

colazione del discorso sulla chiesa nel cap. I della LG. La descrizione della chiesa non assume più<br />

come punto di partenza la “chiesa militante” (l’organismo gerarchicamente strutturato) come nel<br />

primo schema, ma il piano di salvezza di Dio Padre che trova la sua realizzazione nella missione del<br />

Figlio e dello Spirito Santo (nn. 2-4); il punto di arrivo di questa sezione è la citazione di Cipriano<br />

secondo cui la chiesa «si presenta come un popolo adunato dall’unità (de unitate) del Padre, del Fi-<br />

glio e dello Spirito Santo» 153 . Questo approccio storico-salvifico non nega la visibilità storica della<br />

chiesa (LG 8), ma precisa che essa non è tutto e che una comprensione corretta della chiesa esige di<br />

considerare la sua origine trascendente, il suo essere “dall’alto” (fondata nella Trinità economica).<br />

Presentando la Chiesa come l’immagine dell’unità trinitaria, il concilio può ugualmente pensarla<br />

come «communio sanctorum», cioè come la comunità di coloro che sono santificati per il fatto che e<br />

151 B. FORTE, La chiesa icona della Trinità. Breve <strong>ecclesiologia</strong> (UT 9; Brescia: Queriniana, 1984); ID., La Chiesa della<br />

Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione (Cinisello Balsamo – Milano: EP, 1995).<br />

152 Sul tema si vedano però le osservazioni piuttosto caute di G. CANOBBIO, “Unità della Chiesa unità della Trinità”, in<br />

F. CHICA, S. PANIZZOLO, H. WAGNER (edd.), Ecclesia tertii millenni advenientis. Omaggio al P. Angel Antón (Casale<br />

Monferrato: Piemme, 1997) 29-45; ID., “La Trinità e la Chiesa”, in PONTIFICIA FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA ME-<br />

RIDIONALE – SEZIONE SAN LUIGI, La Trinità e la Chiesa. In dialogo con Giacomo Canobbio, a cura di O.F. Piazza (Cinisello<br />

Balsamo – MI: San Paolo, 2006) 25- 77.<br />

153 Philips così spiega il senso della preposizione “de”: «La preposizione latina “de” evoca simultaneamente l’idea di<br />

imitazione e quella di partecipazione: è “a partire” da questa unità tra ipostasi divine che si prolunga “l’unificazione”<br />

del popolo: unificandosi, questo partecipa a un’altra Unità; tanto che per san Cipriano l’unità della Chiesa non è più intelligibile<br />

senza quella della Trinità»: G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, 87 (cors. ns.).<br />

282


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

nella misura in cui essi hanno parte ai beni della salvezza di Cristo. La Chiesa, come immagine del-<br />

la «communio» trinitaria è così essa stessa «communio» in maniera costitutiva; essa è in una conti-<br />

nuità sacramentale e mistica con il mistero dell’amore realizzato nella libertà in Dio stesso, ed è così<br />

il segno e lo strumento dell’unità e della comunione dell’umanità chiamata da Dio alla libertà dei<br />

figli di Dio (LG 1, 45, 48, 52). Perciò la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica abbraccia tutti co-<br />

loro che, nel combattimento per la realizzazione dell’amore di Dio nel mondo (cfr. GS 13), come<br />

peccatori e come giusti, camminano «tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio» (LG<br />

8), ma pure coloro che sono glorificati nella loro unione con Dio, ed infine coloro la cui libertà<br />

nell’amore di Dio, nel corso della loro vita terrestre, è stata oscurata dal peccato, ma che, dopo la<br />

morte, si trovano sul cammino della comunione definitiva con Dio (LG 49).<br />

Ac) La rivelazione della chiesa nella Scrittura (nn. 5-6)<br />

I due numeri hanno una valenza “metodologica”. Il n. 5, superando le ristrettezze della posizione<br />

apologetica sulla “istituzione della Chiesa”, presenta la fondazione della chiesa in relazione alla<br />

predicazione del regno: «Il mistero della santa chiesa si manifesta nella sua fondazione. Il Signore<br />

Gesù, infatti, diede inizio alla sua chiesa predicando la buona novella, cioè la venuta del regno di<br />

Dio da secoli promesso nelle scritture». Si precisa, inoltre, che la chiesa non coincide col regno; an-<br />

zi, essa lo deve «annunziare ed instaurare in tutte le genti». D’altra parte essa non ne è solo una pal-<br />

lida prefigurazione, ma ne costituisce «in terra il germe e l’inizio» in attesa del suo compimento.<br />

Dopo aver chiuso con un nulla di fatto le discussioni dei decenni precedenti su una possibile “defi-<br />

nizione formale” della Chiesa, il Concilio ha preferito abbandonare questo tentativo e raccogliere<br />

nel n. 6 le metafore che la Scrittura adopera per descriverla. Proprio perché è mistero, essa non si la-<br />

scia costringere in una definizione propriamente detta; la maniera più giusta per coglierla nella sua<br />

realtà misterica è il ricorso alle metafore bibliche. Così, il concilio per descrivere la Chiesa presenta<br />

quattro campi semantici, che simbolicamente mettono in risalto l’uno o l’altro dei suoi aspetti. Nelle<br />

immagini prescelte — quelle della vita pastorale, della vita agricola, della edificazione e della spo-<br />

sa-madre — il risalto è dato a Cristo: donde il carattere cristologico, oltre che trinitario.<br />

Ad) La Chiesa corpo di Cristo (n. 7)<br />

L’immagine su cui il Concilio s’è soffermato più a lungo è quella del corpo, presentando un’ampia e<br />

organica teologia della Chiesa come corpo di Cristo 154 . È evidente l’influsso della Mystici Corporis<br />

154 Anzi la Commissione teologica precisò nella sua Relatio che «haec ultima expressio, scilicet Corporis mystici, plus<br />

quam imago est et profundius in Ecclesiae mysterio introducit»: AS III/I, 173.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

di Pio XII, cosicché si può parlare di continuità dottrinale tra questo documento e la LG. Ma ci sono<br />

anche diversità di prospettive e di contenuto. La LG propone quasi esclusivamente la dottrina di Pa-<br />

olo sul corpo di Cristo e in essa, in consonanza con la natura di mistero della Chiesa, dà risalto alla<br />

dimensione soteriologico-cristologica e sacramentale. Nella MC (e nel primo schema) si partiva da<br />

una visione organologico-societaria della Chiesa, che è un corpo visibile, organico, gerarchico; inol-<br />

tre la Chiesa veniva definita in modo appropriato come «il corpo mistico di Cristo»; infine, da tale<br />

definizione si traevano tutte le conseguenze per ciò che riguarda la sua visibilità, il governo e<br />

l’appartenenza. Nella LG, invece, la categoria «corpo» resta al livello d’immagine, anche se partico-<br />

larmente significativa; si precisa a livello terminologico che Cristo «comunicando il suo Spirito, co-<br />

stituisce misticamente [mystice] i suoi fratelli come suo corpo» (non si dice «corpus suum mysticum<br />

constituit»), perché Paolo non adopera l’espressione «corpo mistico»; s’insiste sul fatto che «in quel<br />

corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti, che attraverso i sacramenti si uniscono in modo ar-<br />

cano e reale a Cristo sofferente e glorioso». Ciò si verifica soprattutto nel battesimo e nella eucari-<br />

stia, con cui «siamo elevati alla comunione con Lui e tra di noi». È per questo aspetto comunionale<br />

che l’immagine del corpo gode d’una preferenza rispetto alle altre. L’altro motivo di preferenza è<br />

che più delle altre essa mette in risalto il primato di Cristo, in quanto capo del corpo mistico.<br />

Proprio lo sviluppo del tema di «Cristo capo» della Chiesa introduce la seconda parte del n. 7 (in<br />

coerenza con la distinzione che si nota sul tema nell’epistolario paolino: infatti, se Rom e 1Cor par-<br />

lano della Chiesa corpo di Cristo, Col ed Ef sviluppano il tema di Cristo Capo). Ora, la LG sviluppa<br />

il tema di Cristo Capo secondo quattro aspetti diversi: a) come Capo egli rende le sue membra con-<br />

formi a sé; b) anima la crescita vitale della Chiesa; c) con il suo Spirito, che esiste «unus et idem in<br />

Capite et in membris», la rinnova e unifica continuamente; d) infine, come Capo e Sposo ama Colei<br />

che è il suo corpo — indissolubilmente unito, ma non confuso, con Lui — e la rende sempre più<br />

perfetta, per farla accedere alla pienezza di Dio.<br />

Al n. 7g si accenna anche al tema dello «Spirito Santo anima della chiesa», appellandosi alle allu-<br />

sioni dei Padri. Si evita però di andare al di là del suo senso analogico — come facevano alcuni teo-<br />

logi che distinguevano l’anima increata e l’anima creata della Chiesa.<br />

Quanto allo schema del numero, si noti la successione dei paragrafi: si dà importanza, prima ai sa-<br />

cramenti (battesimo e soprattutto eucaristia); poi ai carismi (anche l’autorità dei pastori emerge qui<br />

dal loro interno e viene legata strettamente alla «carità»); poi si fa spazio al tema di Cristo capo del<br />

corpo; e al tema degli impegni che coinvolgono i soggetti umani nell’edificazione del corpo. Su tut-<br />

to, verso la fine, spicca di nuovo l’appello allo Spirito Santo che è nella Chiesa il principio di «vita,<br />

unità e moto» e l’ennesimo richiamo all’escatologia.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Ae) La Chiesa, strutturata in analogia al mistero del Verbo incarnato, è una realtà complessa (n. 8)<br />

Il n. 8 è intitolato La chiesa realtà visibile e spirituale. L’intenzione esplicita del numero è di riaf-<br />

fermare che la Chiesa, di cui il I cap. descrive l’intima e misteriosa natura, qui sulla terra si trova<br />

(«concrete inveniri») nella Chiesa cattolica (Relatio n. 8, AS III/1, 176). Questa Chiesa di cui si può<br />

fare esperienza concreta («Ecclesia empirica») rivela il mistero («mysterium revelat»), anche se non<br />

senza ombre nella sua esistenza storica, finché essa non sia condotta al perfetto compimento («do-<br />

nec ad plenum lumen adducatur»). Il numero si può suddividere in quattro punti principali: 1) il mi-<br />

stero della Chiesa è presente e manifestato in una concreta realtà sociale, la cui struttura essenziale è<br />

analoga al mistero del Verbo incarnato 155 ; 2) la Chiesa è unica e qui in terra è presente («adest»)<br />

nella Chiesa cattolica, anche se fuori del suo organismo visibile si trovano «elementa ecclesialia»;<br />

3) la manifestazione del mistero della Chiesa avviene contemporaneamente nella virtù e nella debo-<br />

lezza, a somiglianza della condizione di povertà e di umiltà del Cristo; 4) la Chiesa vince tutte que-<br />

ste difficoltà legate al suo cammino storico «per virtutem Christi et caritatem».<br />

In particolare, in relazione alla chiesa, il numero 8 affronta in due momenti il problema della sua re-<br />

altà complessa di mistero e società gerarchica: dapprima il problema dell’unità (con la conseguente<br />

esclusione di una reale divisione interna), e poi il problema dell’unicità (con l’esclusione di una<br />

moltiplicazione esterna). In breve: i due elementi costitutivi della chiesa, il divino e l’umano, sono<br />

realtà separate o fuse tra di loro? E poi, si può pensare a più chiese che, pur diverse fra loro e in op-<br />

posizione reciproca, siano egualmente vere e legittime?<br />

Il primo capoverso riflette sul problema dell’unità interna, precisando (in linea con la Mystici Cor-<br />

poris e per suo tramite con il Vaticano I) che la Chiesa è «strumento congiunto indissolubilmente»<br />

con Cristo; in analogia con il legame tra natura umana e natura divina nel mistero del Verbo incar-<br />

nato, è organo attraverso cui passa l’azione salvifica di Cristo.<br />

Il mistero della realtà divino-umana della Chiesa è espresso in LG 8a attraverso un triplice binomio:<br />

a) società gerarchica – Corpo Mistico di Cristo; b) assemblea visibile – comunità spirituale; c) Chie-<br />

sa terrena – Chiesa ormai in possesso dei beni celesti. I termini di ciascun binomio non vengono di-<br />

155 Nella tradizione dottrinale e teologica si era soliti applicare lo schema calcedonese per individuare i due rischi che<br />

l’<strong>ecclesiologia</strong> deve evitare: il nestorianesimo che divide (per cui la Chiesa è una pura istituzione umana) e il monofisismo<br />

che unisce troppo (la Chiesa è una realtà divina). Su questo classico tema si vedano: Y. CONGAR, “Dogma cristologico<br />

ed <strong>ecclesiologia</strong>. Verità e limiti di un parallelismo”, in ID., Santa Chiesa (Brescia: Morcelliana, 1967) 83-91; J.H.<br />

NICOLAS, “Le sens et la valeur en ecclésiologie du parallelisme de structure entre le Christ et l’Église”, in Angelicum 43<br />

(1966) 353-358; H. MÜLLER, “De analogia verbum incarnatum inter et ecclesiam (L.G. 8)”, in Periodica 66 (1977) 499-<br />

512; M. SEMERARO, “Spiritui Christi inservit. Storia ed esito di una analogia (Lumen Gentium 8)”, in Lateranum 52<br />

(1986) 343-398. Cfr. anche H. MÜHLEN, Una mystica persona. La chiesa come mistero dello Spirito santo in Cristo e<br />

nei cristiani: una persona in molte persone (Roma: Città Nuova, 1968).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

chiarati semplicemente identici, ma neppure giustapposti, quasi che uno indicasse l’umano e l’altro<br />

il divino («non ut duae res considerandae sunt»). Essi formano una realtà complessa risultante dalla<br />

unità dell’elemento umano e divino che sono distinti, non confusi, ma compresenti nella stessa<br />

Chiesa una. Notiamo che i due elementi (l’umano e il divino) mantengono il loro dinamismo nel<br />

formare l’unità («efformant»: verbo di azione al presente); di conseguenza, la realtà che ne risulta<br />

resta «complessa»; e c’è sempre bisogno dello Spirito Santo per dare vita e crescita al corpo.<br />

La visione che ne risulta ci sembra quindi equilibrata. Infatti l’insistenza sul carattere misterico della<br />

Chiesa non deve mettere in ombra il suo carattere visibile e storico. Cristo stesso ha costituito la<br />

Chiesa come comunità di fede, di speranza e di carità e come organismo visibile, attraverso il quale<br />

diffonde su tutti la verità e la grazia. Così il Concilio fa proprio l’insegnamento di Leone XIII nella<br />

Satis cognitum e di Pio XII nella Mystici Corporis, e mette in rilievo — rigettando ogni concezione<br />

dualistica della Chiesa (Chiesa carismatica e Chiesa istituzionale, Chiesa giuridica e Chiesa della<br />

carità) — l’unità che esiste, nell’unica Chiesa, tra l’elemento misterico e l’elemento visibile; si ri-<br />

chiama all’unità in Cristo della divinità e dell’umanità, ma insieme si ribadisce la subordinazione e<br />

la mediazione sacramentale dell’elemento visibile nei confronti di quello misterico.<br />

Il mistero di questa complessa realtà viene posto in relazione «ob non mediocrem analogiam» con il<br />

mistero del Verbo incarnato. Notiamo che le analogie sono due: con il mistero dell’Incarnazione e<br />

con la “strumentalità” dell’umanità di Cristo quale organo di salvezza. La natura umana che il Figlio<br />

di Dio ha assunto nell’unione ipostatica costituisce il «vivum organum salutis, Ei indissolubiliter<br />

unitum». «Non dissimili modo» la compagine sociale della Chiesa è al servizio dello Spirito di Cri-<br />

sto per la crescita del Corpo. L’attenta formulazione mette in guardia da interpretazioni o da appli-<br />

cazioni arbitrarie. Non si può parlare della Chiesa semplicemente come di una “Incarnazione conti-<br />

nuata”, o di una unione con Cristo di tipo ipostatico (l’errore di Pelz, condannato dalla MC). Come<br />

il dogma di Calcedonia (DzH 302) riguardo all’unione tra le due nature di Cristo parla di non confu-<br />

sione, di non divisione e di inseparabilità, così secondo un’analogia di proporzionalità si può parla-<br />

re di una non confusione e di una inseparabilità per l’unione tra la «compago socialis» della Chiesa<br />

e lo Spirito di Cristo. Non è il Logos in quanto tale che agisce nei singoli membri della Chiesa, ma è<br />

lo Spirito, presente «unus et idem in Capite et in membris» (LG 7g). L’analogia di LG 8a è però an-<br />

che un’analogia di attribuzione tra la “strumentalità” della natura umana di Cristo quale «organum<br />

salutis» del Verbo e la strumentalità della «compago socialis Ecclesiae» rispetto all’azione dello<br />

Spirito di Cristo. Proprio la presenza e l’azione dello Spirito di Cristo, «uno e lo stesso nel Capo e<br />

nei membri», è il fondamento ontologico della Chiesa sacramento universale della salvezza.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Af) La chiesa di Cristo sussiste nella chiesa cattolica<br />

Il secondo capoverso affronta il nodo dell’unicità. Si afferma, quasi come premessa, che la chiesa<br />

voluta da Cristo deve presentare necessariamente anche il tratto “apostolico”; essa, «radicata nella<br />

successione apostolica» (come preciserà alcuni anni più tardi al n. 16 la Dichiarazione della Con-<br />

gregazione per la dottrina della fede, Dominus Iesus, 6 agosto 2000), ha conservato la sua continuità<br />

e la sua integrità istituzionale nel tempo, fino ad oggi. Questa Chiesa di Cristo (proprio anche in<br />

quanto «società storica») si trova nella Chiesa cattolica:<br />

«È questa l’unica chiesa di Cristo che nel simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, e<br />

che il nostro Salvatore ha dato da pascere a Pietro dopo la risurrezione (cfr. Gv 21,17)…; egli l’ha<br />

eretta per sempre come colonna e fondamento della verità (cfr. 1Tm 3,15). Questa chiesa, costituita<br />

e organizzata in questo mondo come società, sussiste nella chiesa cattolica, governata dal successore<br />

di Pietro e dai vescovi che sono in comunione con lui, anche se numerosi elementi di santificazione<br />

e di verità si trovino anche fuori della sua compagine: elementi che, come doni propri<br />

della chiesa di Cristo, sospingono verso l’unità cattolica» (LG 8b).<br />

Va notata nell’ultimo periodo di questo testo l’affermazione di grande portata, secondo la quale non<br />

c’è identificazione esclusiva tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica: la Chiesa di Cristo non è<br />

(est) la Chiesa cattolica, ma sussiste in (subsistit in) essa, perché Chiese, comunità ed elementi ec-<br />

clesiali esistono anche oltre i confini visibili della Chiesa cattolica. In altre parole, la realtà della<br />

Chiesa di Cristo ricopre la realtà della Chiesa cattolica, cosicché questa è vera Chiesa di Cristo e lo<br />

è, come vedremo, nell’integrità delle sue mediazioni istituzionali; ma nello stesso tempo, la Chiesa<br />

di Cristo si estende al di là della Chiesa cattolica, comprendendo realtà ecclesiali, che visibilmente<br />

non fanno parte della Chiesa cattolica 156 . È così aperta la via a una considerazione propriamente<br />

«ecclesiale» delle Chiese e comunità cristiane, non cattoliche, senza che venga intaccata l’unicità<br />

della Chiesa o che si consideri questa come la somma delle Chiese e comunità ecclesiali.<br />

Pio XII, prima nell’enciclica Mystici Corporis (1943) e poi in Humani generis (1950), aveva asseri-<br />

to che il corpo mistico di Cristo e la chiesa cattolica romana sono un’unica e medesima cosa, con la<br />

conseguenza che solo i cattolici romani appartengono realmente (reapse) al Corpo di Cristo. Nello<br />

stesso senso andava anche il primo schema «de Ecclesia» (1962) che recitava: «La chiesa cattolica<br />

156 Luigi Sartori suggerisce che si è così passati dal concetto di assolutezza al concetto di pienezza: non si dice «solo la<br />

chiesa cattolica è» chiesa, ma «nella chiesa cattolica c’è in pienezza» la chiesa. C’è in pienezza tutto l’insieme delle mediazioni<br />

ecclesiali istituzionali: L. SARTORI, L’unità dei cristiani (Padova: Messaggero, 1992) 51. Secondo questa interpretazione<br />

sembra indirizzarsi l’importante enciclica di Giovanni Paolo II, Ut unum sint (25 maggio 1995), n. 13: «Oltre<br />

i limiti della Comunità cattolica non c’è il vuoto ecclesiale». Anzi, essa precisa: «Nella misura in cui tali elementi [di<br />

santificazione e di verità] si trovano nelle altre Comunità cristiane, l’unica Chiesa di Cristo ha in esse una presenza operante»<br />

(n. 11) —, anche se, d’altra parte, nella Chiesa cattolica è presente «la pienezza (plenitudo) degli strumenti di<br />

salvezza (n. 86).<br />

287


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

romana è (est) il corpo mistico di Cristo […] e solo quella che è cattolica romana ha il diritto di es-<br />

sere chiamata chiesa» (AS I/4, 15). Questa identificazione fu aspramente criticata durante la prima<br />

sessione del concilio. Tuttavia anche il secondo schema (1963) identificava come il precedente la<br />

chiesa cattolica (senza l’attributo “romana”) e il corpo mistico, anche se aggiungeva che «molti e-<br />

lementi di santificazione si possono trovare fuori della sua struttura totale» e che queste sono «cose<br />

appartenenti propriamente alla chiesa di Cristo» (AS II/1, 219-220). Quest’ultima frase implicava<br />

almeno che simili «elementi di santificazione» fossero ecclesiali per loro natura e suggeriva che<br />

qualche elemento ecclesiale è presente anche fuori dei confini della chiesa cattolica. In seguito, du-<br />

rante la revisione successiva alla seconda sessione, in seno alla stessa commissione teologica sorse<br />

la questione della coerenza fra le due affermazioni: come identificare la chiesa cattolica con il corpo<br />

mistico e nello stesso tempo riconoscere la presenza di elementi ecclesiali al di fuori di essa? La so-<br />

luzione fu trovata modificando il testo: anziché dire che la Chiesa di Cristo è la chiesa cattolica, si<br />

diceva che essa sussiste in essa. La spiegazione ufficiale, data ai padri per giustificare il cambiamen-<br />

to, fu questa: «Perché l’espressione possa meglio accordarsi con l’altra degli elementi ecclesiali che<br />

si trovano altrove» (AS III/1, 176s). Sfortunatamente per i commentatori, nessun’altra spiegazione<br />

venne offerta per precisare meglio come intendere correttamente la parola «sussistere».<br />

L’unico punto certo è che la scelta di non continuare a dire «è», rappresenta una innovazione nei<br />

confronti dell’affermazione di un’assoluta ed esclusiva identità fra la chiesa di Cristo e la chiesa cat-<br />

tolica. Il fatto che «molti elementi di santificazione e verità», sono esplicitamente riconosciuti come<br />

di natura «ecclesiale», fa pensare ovviamente che deve esserci qualcosa della chiesa al di fuori di es-<br />

sa; diversamente non ci sarebbe stata ragione di ricorrere alla nuova espressione «sussiste in», se es-<br />

sa avesse dovuto essere intesa in senso esclusivo (est).<br />

In ogni caso possiamo saperne di più considerando il decreto sull’ecumenismo, promulgato lo stesso<br />

giorno della LG (21 novembre 1964) e che secondo l’espressa dichiarazione di Paolo VI deve essere<br />

preso in considerazione per comprendere la dottrina della chiesa contenuta nella LG 157 . Orbene se-<br />

guendo questo suggerimento, occorre scartare quelle interpretazioni che leggono il subsistit in alla<br />

luce della nozione filosofica di sussistenza 158 . Su questa linea ci fu addirittura chi suggerì che la<br />

157 «Vogliamo anche sperare che la medesima dottrina della chiesa sarà benevolmente e favorevolmente considerata dai<br />

fratelli cristiani tuttora da noi separati; integrata tale dottrina dalle dichiarazioni contenute nello schema sull’ecumenismo»:<br />

AAS 56 (1964) 1012; EV I, § 293* (corsivo ns).<br />

158 Come se la chiesa cattolica fosse l’unica realizzazione della chiesa sulla terra: G. BAUM, “The Ecclesial Reality of<br />

the Other Churches”, in Concilium 4/1 (1965) 38; B. GHERARDINI, “Sulla Lettera Enciclica Ut Unum Sint di Papa Giovanni<br />

Paolo II”, in Divinitas XL (1997) 3-12. È questa anche la posizione dell’allora card. Ratzinger: «La parola subsistit<br />

deriva dall’antica filosofia ulteriormente sviluppatasi nella Scolastica… Subsistere è un caso speciale di esse. È<br />

288


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

chiesa cattolica sta alle altre comunità cristiane come l’esse subsistens sta agli enti creati 159 . Un altro<br />

approccio filosofico al problema è consistito nell’immaginare che la chiesa di Cristo si dovesse pen-<br />

sare come una specie di «idea platonica», la quale trova la sua «forma concreta di esistenza» nella<br />

chiesa cattolica. La maggior parte dei commentatori tuttavia rifiuta che l’espressione sia da inten-<br />

dersi in senso filosofico e sostiene che il termine va inteso secondo il senso del linguaggio corrente,<br />

per cui significa «stare ancora, stare, continuare, rimanere…» 160 . Con ciò il concilio affermerebbe<br />

che la Chiesa Cattolica è il luogo storico in cui la Chiesa di Cristo è presente e continua ad esistere<br />

con tutte le proprietà essenziali e con la pienezza dei mezzi di salvezza di cui Cristo l’ha dotata.<br />

La prova più convincente di tale interpretazione si ha proprio in due passi di UR:<br />

«così che per questa via, …, tutti i cristiani, in un’unica celebrazione dell’eucaristia, si riuniscano in<br />

quella unità dell’una e unica chiesa, che Cristo fin dall’inizio donò alla sua chiesa, e che crediamo<br />

sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella chiesa cattolica e che speriamo crescerà ogni<br />

giorno più fino alla fine dei secoli» (UR 4c).<br />

«Tuttavia i fratelli da noi separati, sia presi singolarmente sia le loro comunità e chiese, non godono<br />

di quell’unità, che Gesù Cristo ha voluto elargire a tutti quelli che ha rigenerato e vivificato insieme<br />

l’essere nella forma di un soggetto a sé stante. Qui si tratta proprio di questo. Il Concilio vuol dirci che la Chiesa di Gesù<br />

Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica. Ciò può avvenire solo una<br />

volta e la concezione secondo cui il subsistit sarebbe da moltiplicare non coglie proprio ciò che si intendeva dire. Con la<br />

parola subsistit il Concilio voleva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa cattolica: esiste la Chiesa<br />

come soggetto nella realtà storica»: L’<strong>ecclesiologia</strong> della Costituzione «Lumen Gentium», in Il Concilio Vaticano II,<br />

op. cit., 79. Questa interpretazione si ritrova anche nella Notificazione sul volume «Chiesa: carisma e potere» del P. Leonardo<br />

Boff: cfr. EV 9, § 1426 e nella nota 56 al n. 16 della Dichiarazione Dominus Iesus della Congregazione per la<br />

Dottrina della Fede. Karl Becker, sostenitore dell’identificazione fra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, ha però dimostrato<br />

con acribia come questa interpretazione non corrisponda a quanto inteso dalla Commissione dottrinale: K. BE-<br />

CKER, «Subsistit in» (Lumen gentium, 8), in L’Osservatore Romano, 5-6 dicembre 2005, 1.6-7. Notiamo, infatti, che la<br />

Commissione dottrinale, sintetizzando il contenuto di ciascun paragrafo del capitolo I scrisse: «Ecclesia est unica, et his<br />

in terris adest in Ecclesia catholica, licet extra eam inveniantur elementa ecclesialia»: AS III/1, 176; ora, adesse nella<br />

scolastica non è un sinonimo di subsistere. Si consideri poi che l’enciclica Ut unum sint non menziona l’interpretazione<br />

“filosofica” del “subsistit in”: UUS 10, 86; e così fa anche il recente documento della Congregazione della Dottrina della<br />

Fede, Risposte ad alcuni quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa, 29 giugno 2007.<br />

159 F. RICKEN, “Ecclesia … universale salutis sacramentum”, in Scholastik 40 (1965) 373.<br />

160 Cf. K. BECKER, art. cit.; U. Betti: «In un primo tempo, ancora nella redazione datata 25 novembre 1963, si diceva<br />

che la Chiesa di Cristo “è presente” (adest in) nella Chiesa Cattolica. Nella redazione successiva, che fu anche la definitiva,<br />

concordata in sede di Commissione dottrinale il giorno seguente 26 novembre, l’espressione “è presente” fu sostituita<br />

con l’espressione “sussiste” (subsistit in). L’intenzione e il significato, soggiacenti all’una e all’altra espressione,<br />

sono uguali. Si intendeva con esse affermare che l’unica Chiesa di Cristo ha con la Chiesa Cattolica un rapporto di totalità,<br />

nel senso che, in quanto società costituita in questo mondo, è presente o sussiste in essa: mentre il rapporto di ogni<br />

Chiesa o Comunità cristiana con la Chiesa di Cristo è un rapporto di parzialità, nella misura, cioè, degli elementi di santificazione<br />

e di verità che si trovano in ciascuna. C’è tuttavia tra le due espressioni una differenziazione di prospettiva.<br />

La “sussistenza” (subsistit in) indica presenza senza soluzione di continuità fin dalle origini, mentre la semplice “presenza”<br />

(adest in) indica solo una presenza in atto, senza necessario congiungimento storico con il passato», ID., “Chiesa di<br />

Cristo e Chiesa Cattolica. A proposito di un’espressione della Lumen Gentium”, in Antonianum 61 (1986) 738s. Cfr.<br />

anche l’importante spiegazione data dal card. Willebrands, allora segretario del SPUC: J. WILLEBRANDS, “Subsistit in”.<br />

Address to the National Workshop for Christian Unity, Atlanta, Georgia USA, May 5, 1987, in Information Service n.<br />

101 (1999/II-III) 143-149; cfr. la trad. it.: “Chiesa, Corpo di Cristo, comunione nel Concilio Vaticano II”, in ID., Una<br />

sfida ecumenica. La nuova Europa (Verrucchio – RN: Pazzini Editore, 1995) 83-98.<br />

289


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

per un sol corpo e per una vita nuova; unità che le sacre Scritture e la veneranda tradizione della<br />

chiesa apertamente dichiarano. Infatti, solo per mezzo della chiesa cattolica di Cristo, che è lo strumento<br />

generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà al solo<br />

collegio apostolico con a capo Pietro crediamo che il Signore ha affidato tutti i beni della nuova alleanza,<br />

per costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al quale bisogna che siano pienamente incorporati<br />

tutti quelli che in qualche modo appartengono già al popolo di Dio. E questo popolo, quantunque,<br />

finché dura il suo terreno pellegrinaggio, rimanga nei suoi membri esposto al peccato, cresce<br />

tuttavia in Cristo ed è soavemente condotto da Dio secondo i suoi arcani disegni, fino a che pervenga<br />

nella gioia a tutta la pienezza della gloria eterna nella celeste Gerusalemme» (UR 3e).<br />

Per cui secondo UR la chiesa di Cristo ha continuato ad esistere tuttora con quella unità e con tutti i<br />

mezzi di salvezza di cui Cristo l’ha dotata, ed è soltanto nella chiesa cattolica che essa continua ad<br />

esistere così. Naturalmente qui si tratta di integrità istituzionale, di pienezza di mezzi di salvezza.<br />

«Infatti, benché la chiesa cattolica sia stata arricchita da Dio di tutta la verità rivelata e di tutti i mezzi<br />

della grazia, tuttavia i suoi membri non se ne servono per vivere con tutto il dovuto fervore, per<br />

cui il volto della chiesa rifulge meno davanti ai fratelli da noi separati e al mondo intero e la crescita<br />

del regno di Dio ne è ritardata» (UR 4f).<br />

Resta quindi sempre la possibilità che una comunità non cattolica, forse molto manchevole in fatto<br />

di sacramenti, possa vivere la vita di Cristo in modo più fecondo di molte comunità cattoliche.<br />

Qual è il significato del cambiamento tra «è» e «sussiste in» per il nostro modo di pensare le altre<br />

comunità cristiane? Si noti che nell’immediato contesto di LG 8, il concilio parla solo di presenza di<br />

«parecchi (plura) elementi» (in UR 3 diventano «plurima et eximia») descritti come doni propri del-<br />

la chiesa di Cristo. Ma che importanza rivestono tali elementi nella mente del concilio? Si ammette<br />

la natura ecclesiale delle comunità non cattoliche? Ebbene già LG 15 dà alcune indicazioni:<br />

«Con coloro che sono battezzati e quindi insigniti del nome cristiano, ma non professano integralmente<br />

la fede o non conservano l’unità di comunione sotto il romano pontefice, la chiesa si sa congiunta<br />

per molteplici ragioni. Fra di loro ci sono infatti molti che onorano la sacra Scrittura come<br />

regola di fede e di vita, dimostrano di avere uno zelo religioso sincero, credono di cuore in Dio Padre<br />

onnipotente e in Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore, sono segnati dal battesimo che li unisce<br />

a Cristo, anzi riconoscono e accettano nelle proprie chiese o comunità ecclesiali anche altri<br />

sacramenti. Molti fra di loro hanno anche l’episcopato, celebrano la santa eucaristia e coltivano la<br />

pietà verso la vergine Madre di Dio. A tutto ciò si aggiunge la comunione nella preghiera e in altri<br />

benefici spirituali, anzi una certa vera congiunzione nello Spirito Santo, che anche in loro opera<br />

con la sua virtù santificatrice mediante doni e grazie; alcuni poi di loro li ha fortificati fino<br />

all’effusione del sangue».<br />

Si precisa che questi cristiani, consacrati a Cristo mediante il loro battesimo, riconoscono e ricevono<br />

anche altri sacramenti nelle loro proprie Chiese e comunità ecclesiali. Va osservato in particolare<br />

che quest’ultima frase fu aggiunta al testo — come dice la Relazione ufficiale — per rispondere alle<br />

molte richieste dei vescovi. Anzi la relazione aggiunge:<br />

290


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

«Gli elementi di cui si fa menzione riguardano non solo gli individui ma pure le loro comunità, e<br />

precisamente in questo fatto è posto il fondamento del movimento ecumenico. I documenti papali<br />

parlano abitualmente di Chiese separate d’Oriente. Per i protestanti i recenti pontefici hanno usato<br />

il termine “comunità cristiane”» (AS III/1, 204).<br />

Ma ben più chiaramente si esprime UR 3:<br />

«Inoltre, tra gli elementi o beni, dal complesso dei quali la stessa chiesa è edificata e vivificata, alcuni,<br />

anzi parecchi e segnalati, possono trovarsi fuori dei confini visibili della chiesa cattolica: la<br />

parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello<br />

Spirito Santo ed elementi visibili; tutte queste cose, che provengono da Cristo e a lui conducono,<br />

appartengono a buon diritto all’unica chiesa di Cristo. Anche non poche azioni sacre della religione<br />

cristiana vengono compiute dai fratelli da noi separati, e queste in vari modi, secondo la diversa<br />

condizione di ciascuna chiesa o comunità, possono senza dubbio produrre realmente la vita della<br />

grazia e si devono dire atte ad aprire l’ingresso nella comunione della salvezza. Perciò le stesse<br />

chiese e comunità separate, quantunque crediamo che abbiano delle carenze, nel mistero della<br />

salvezza non sono affatto prive di significato e di peso. Poiché lo Spirito di Cristo non ricusa [non<br />

renuit: per MC “renuit”: DzH 3808] di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, il cui valore<br />

deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità che è stata affidata alla chiesa cattolica».<br />

Alcuni vescovi osservarono che questo testo attribuiva una funzione salvifica non solo ai sacramenti<br />

che si trovano nelle comunità non cattoliche, ma anche a quelle chiese e comunità in quanto tali, e<br />

perciò suggerirono di correggere il testo in questo modo: «In tali comunità sono preservati mezzi di<br />

salvezza che lo Spirito santo non ha ricusato di usare…». La risposta della commissione fu però:<br />

«Dovunque si usano validi mezzi di salvezza che, come azioni sociali, caratterizzano quelle comunità<br />

come tali, è certo che lo Spirito santo sta usando quelle comunità come strumenti di salvezza»<br />

(AS III/7, 36).<br />

Anche il titolo dell’intero capitolo III di UR «Chiese e comunità ecclesiali separate dalla Sede apo-<br />

stolica romana» fu così spiegato:<br />

«La duplice espressione “Chiese e comunità ecclesiali” è stata approvata dal concilio ed è usata in<br />

modo totalmente legittimo. Difatti c’è solo un’unica chiesa universale, ma ci sono molte chiese locali<br />

e particolari. È consuetudine nella tradizione cattolica chiamare le comunità separate<br />

d’Oriente Chiese — quelle locali o particolari senza dubbio — e nel senso proprio del termine.<br />

Non è compito del concilio investigare e decidere quali delle altre comunità debbano essere chiamate<br />

Chiese in senso teologico» (AS III/7, 35).<br />

E per quanto riguarda le «comunità ecclesiali»? La distinzione non è chiarita in modo esplicito, ma<br />

sembra fondarsi su un principio di «<strong>ecclesiologia</strong> eucaristica»: vale a dire, non c’è piena realtà di<br />

chiesa dove non c’è piena realtà di eucaristia. Infatti in UR 22 il concilio usa intenzionalmente solo<br />

l’espressione «comunità ecclesiali»:<br />

«Le comunità ecclesiali da noi separate, quantunque manchi la loro piena unità con noi derivante<br />

dal battesimo e quantunque crediamo che esse, specialmente per la mancanza del sacramento<br />

dell’ordine, non hanno conservato la genuina e integrale sostanza del mistero eucaristico…».<br />

291


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Comunque anche ad esse è riconosciuto un carattere ecclesiale. La relazione infatti si esprime così:<br />

«Non va trascurato il fatto che le comunità che hanno avuto origine dalla separazione avvenuta in<br />

Occidente non sono la semplice somma o un aggregato di cristiani, ma sono costituite da elementi<br />

sociali ecclesiali, che essi hanno conservato dal nostro patrimonio comune, e conferiscono loro un<br />

vero carattere ecclesiale (characterem vere ecclesialem). In queste comunità l’unica chiesa di Cristo<br />

è presente, sebbene imperfettamente, in un modo che è alquanto simile alla sua presenza nelle<br />

chiese particolari e in esse la chiesa di Cristo è in qualche modo operante attraverso i mezzi dei loro<br />

elementi ecclesiali» (AS II/2, 335).<br />

Recentemente la Congregazione per la dottrina della fede nella Dichiarazione Dominus Iesus, n. 17<br />

ha così riassunto l’insegnamento della Chiesa cattolica romana sull’importante tema:<br />

«Esiste quindi un’unica Chiesa di Cristo, che sussiste nella Chiesa Cattolica, governata dal Successore<br />

di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui. Le Chiese che, pur non essendo in perfetta comunione<br />

con la Chiesa Cattolica, restano unite ad essa per mezzo di strettissimi vincoli, quali la<br />

successione apostolica e la valida Eucaristia, sono vere Chiese particolari. Perciò anche in queste<br />

Chiese è presente e operante la Chiesa di Cristo, sebbene manchi la piena comunione con la Chiesa<br />

cattolica, in quanto non accettano la dottrina cattolica del Primato che, secondo il volere di Dio, il<br />

Vescovo di Roma oggettivamente ha ed esercita su tutta la Chiesa. Invece le comunità ecclesiali<br />

che non hanno conservato l’Episcopato valido e la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico,<br />

non sono Chiese in senso proprio; tuttavia i battezzati in queste comunità sono dal Battesimo<br />

incorporati a Cristo e, perciò, sono in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa. Il<br />

Battesimo infatti di per sé tende al completo sviluppo della vita in Cristo mediante l’integra professione<br />

di fede, l’Eucaristia e la piena comunione nella Chiesa» 161 .<br />

Ag) La via di Cristo e della Chiesa<br />

Il terzo capoverso del n. 8 accoglie una tematica invocata da un folto gruppo di padri: quella della<br />

«chiesa dei poveri»; o della «povertà della chiesa e nella chiesa». Il tema qui è solo accennato; in se-<br />

guito sarà sviluppato dalle importanti Conferenze del CELAM a Medellin (1968) e a Puebla<br />

(1979) 162 . Un «a fortiori» domina la riflessione: se Cristo, in cui l’umano non fu sfiorato dall’ombra<br />

del peccato, ha battuto la via dell’umiltà e della povertà, a maggior ragione deve batterla la chiesa,<br />

che resta ancora dentro una storia di peccato. Ecco perché la chiesa è «santa ma sempre da purifica-<br />

re». Da ultimo, il capitolo si conclude con un richiamo all’escatologia: la Chiesa è in cammino, pel-<br />

legrina «tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio» (AG., De Civ. Dei, XVIII, 51, 2),<br />

protesa ad una «pienezza» che resta sempre più in là, più in avanti delle sue realizzazioni storiche.<br />

161 Cfr. però le importanti osservazioni di J. WICKS, La signification des «Communautés ecclésiales» de la Réforme, in<br />

Irénikon LXXIV (2001) 57-66; ID., De ecclesia. Risposte e domande, in Il Regno. Documenti LII (2007/15) 474-481.<br />

Cfr. pure F.A. SULLIVAN, “Sussiste” la Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica romana?, in R. LATOURELLE (ed.), Vaticano<br />

II: Bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987) (Assisi – Roma: Cittadella – PUG, 1987) 811-824.<br />

162 S. GALILEA, L’America Latina nelle conferenze di Medellin e Puebla. Un esempio di ricezione selettiva e creativa<br />

del concilio, in ALBERIGO - POTTMEYER (ed.), Il Vaticano II e la Chiesa, op. cit., 87-106; M. KEHL, La Chiesa, 78-81.<br />

292


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

B) Il popolo di Dio (cap. II)<br />

Il capitolo II della LG assume come idea-guida il concetto di popolo di Dio 163 . Descrivendo<br />

l’evoluzione dello schema della LG abbiamo visto che l’introduzione di un capitolo sul popolo di<br />

Dio nella struttura della Costituzione della chiesa era tutt’altro che ovvia e che, originariamente,<br />

questo concetto designava quei fedeli che non fanno parte della gerarchia 164 . Se questa accezione<br />

del concetto di popolo di Dio fosse stata accolta, si deve supporre che la categoria di “corpo di Cri-<br />

sto” sarebbe rimasta quella centrale nella descrizione dell’essenza della chiesa (secondo<br />

l’orientamento dell’enciclica Mystici Corporis).<br />

La collocazione del capitolo sul popolo di Dio subito dopo quello sul mistero della chiesa e prima di<br />

quello sulla gerarchia modifica invece anche il senso della nozione di popolo di Dio che ora non in-<br />

dica più coloro che non fanno parte della gerarchia, ma tutti i fedeli. Il concetto di popolo di Dio de-<br />

finisce la manifestazione storica e concreta del “mistero” della Chiesa. Anzi il Philips, osservando<br />

che il popolo di Dio non è enumerato tra le immagini della chiesa nella sezione della LG ad esse de-<br />

dicata (n. 6), conclude che «l’espressione “Popolo di Dio” non si può applicare alla Chiesa come<br />

una similitudine, perché designa la sua stessa essenza. Non si può dire: la Chiesa è simile a un po-<br />

polo di Dio come si direbbe: il Regno è simile a un grano di senapa. Bisogna invece affermare: la<br />

Chiesa è il popolo di Dio nella Nuova ed eterna Alleanza. Quindi non più figure, ma la piena e tota-<br />

le realtà» 165 . Lasciando in sospeso il problema della capacità dell’espressione “Popolo di Dio” di<br />

163 Così si esprime la Commissione <strong>Teologica</strong> Internazionale: «Si converrà facilmente che, senza il ricorso al paragone<br />

del “corpo di Cristo” applicato alla comunità dei discepoli di Gesù, è assolutamente impossibile cogliere la realtà della<br />

Chiesa… Tuttavia, benché ponga in giusto rilievo l’immagine della Chiesa “corpo di Cristo”, il concilio dà maggior risalto<br />

a quella di “popolo di Dio”, non fosse altro che per il fatto che esso dà il titolo al capitolo II della stessa costituzione.<br />

Anzi, l’espressione “popolo di Dio” ha finito per designare l’<strong>ecclesiologia</strong> conciliare. Di fatto, possiamo asserire che<br />

si è preferito “popolo di Dio” alle altre espressioni, cui il concilio ricorre per esprimere il medesimo mistero, quali “corpo<br />

di Cristo” o “tempio dello Spirito santo”»: Temi scelti di <strong>ecclesiologia</strong>, EV 9, § 1683. Sul tema si vedano gli articoli<br />

“bilancio” di G. COLOMBO, “Il «popolo di Dio» e il «mistero» della chiesa nell’<strong>ecclesiologia</strong> postconciliare”, in Teologia<br />

10 (1985) 97-169 e “Riprendere il cammino: il Vaticano II e il post-concilio”, in Il Regno. Attualità 50, n. 12 (2005)<br />

418-425; e di G. MAZZILLO, “«Popolo di Dio»: categoria teologica o metafora?”, in Rassegna di Teologia 36 (1995)<br />

553-587 e “Chiesa come «popolo di Dio» o Chiesa «comunione»?”, in A.T.I., La Chiesa e il Vaticano II, op. cit., 47-62.<br />

164 È significativo che Mazzillo suggerisca come una causa di natura storica, teologica e letteraria allo stesso tempo<br />

dell’oblio dell’espressione “popolo di Dio”, non soltanto l’eccessiva “materialità” dell’espressione a differenza di altre<br />

figure bibliche (corpo di Cristo, sposa di Cristo, casa o tempio di Dio e simili) che sembravano più idonee a salvaguardare<br />

il carattere trascendente della chiesa stessa (secondo l’ipotesi di O. SEMMELROTH, “La Chiesa nuovo «Popolo di<br />

Dio»”, in G. BARAÚNA (ed.), La Chiesa del Vaticano II (Firenze: Vallecchi, 1965) 439-452), ma soprattutto il cambiamento<br />

di prospettiva operato già dai primi padri latini, a partire da Tertulliano. «Con lui si era insinuata la prima concezione<br />

giuridico-legale della chiesa, del resto più consona all’animo latino, e si era prodotto un declassamento del significato<br />

originario di laos tou Theou, che diventava plebs o turba fidelium, una sempre più specifica denominazione di<br />

quanti non fossero stati insigniti di un ordo vero e proprio»: G. MAZZILLO, op. cit., 559. Da questo momento appare in<br />

modo inequivocabile che altro è l’ordine conferito ad alcuni nella chiesa, altra è la plebs.<br />

165 PHILIPS, op. cit., 99.<br />

293


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

designare «l’essenza stessa» della Chiesa, rileviamo piuttosto il significato che le attribuisce la LG.<br />

Sotto questo profilo, «il Popolo di Dio non è altro, in realtà, che la manifestazione terrestre del mi-<br />

stero della Chiesa» 166 , alla quale coerentemente dev’essere riconosciuta un’essenza «sovrastori-<br />

ca» 167 , non tanto nel senso di una concezione “platonica”, quanto più nella direzione del “simbolo<br />

reale”. Così che si può dire che «il “Popolo di Dio” esprime realmente la Chiesa, precisamente in<br />

quanto essa è esprimibile storicamente; fermo restando, d’altro lato, che l’espressione storica della<br />

Chiesa non esaurisce la realtà della Chiesa, la quale coerentemente vive “oltre” la storia» 168 .<br />

Il concetto di “popolo di Dio” non rappresenta una scoperta originale del Vaticano II. Questo con-<br />

cetto era già stato utilizzato dal teologo domenicano Mannes D. Koster (Ekklesiologie im Werden,<br />

Paderborn 1940). Koster polemizzando con l’euforia suscitata dall’idea di “corpo di Cristo” (soprat-<br />

tutto contro Karl Adam che aveva posto questa categoria al centro della sua opera Das Wesen des<br />

Katholizismus, Düsseldorf 1924), da buon tomista ricordava che esiste una differenza tra la metafo-<br />

ra e l’analogia: parlare della chiesa come “corpo di Cristo” significa utilizzare una metafora, mentre<br />

la categoria di “popolo di Dio” è più appropriata come descrizione della natura della chiesa. La<br />

pubblicazione nel 1943 della Mystici Corporis aveva però rafforzato l’idea di corpo di Cristo.<br />

L’idea di popolo di Dio tuttavia è rimasta sullo sfondo come possibile alternativa per la descrizione<br />

della chiesa, soprattutto perché era difficile accettare la posizione esclusivista della MC che distin-<br />

gueva fra l’incorporazione alla chiesa (solo per i cattolici mediante i tre vincoli) e l’ordinazione (an-<br />

che per i battezzati “acattolici”); lo stesso CJC, infatti, affermava che il Battesimo introduce nella<br />

Chiesa di Cristo. L’immagine del corpo non consentiva alternative: o si è membri o non lo si è; ep-<br />

pure nella realtà c’erano gradi intermedi, che il concetto di popolo di Dio poteva meglio ospitare.<br />

Ci sono altre tre componenti che spiegano la centralità che il Vaticano II ha attribuito al concetto di<br />

popolo di Dio. La prima è la consapevolezza maturata dall’esegesi che il concetto di “corpo di Cri-<br />

sto” non ha il medesimo senso “organologico” che gli era stato attribuito dalla Scuola di Tubinga e<br />

dalla teologia del XX secolo. La seconda componente è la comprensione, derivata dal dialogo con la<br />

teologia evangelica, che la Chiesa non si identifica con Cristo; essa gli sta di fronte. Alcune specu-<br />

lazioni sul corpo di Cristo infatti, presentavano la Chiesa come la “continuazione della Incarnazio-<br />

ne”, identificando così la Chiesa al Cristo. Con questa formula veniva attribuito ad ogni dire ed ope-<br />

rare ministeriale della Chiesa una definitività che faceva apparire ogni critica come un attacco a Cri-<br />

166 Ibid., 120.<br />

167 Ibid., 128<br />

168 COLOMBO, art. cit., 102-103.<br />

294


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

sto stesso, dimenticando di fatto l’elemento umano nella Chiesa. Doveva essere chiaramente evi-<br />

denziata la differenza cristologica: Cristo solo è senza peccato; la Chiesa, invece, è Chiesa di pecca-<br />

tori, che ha sempre bisogno di purificazione e di rinnovamento (LG 8). Così l’idea di riforma diven-<br />

ne un elemento decisivo del concetto di popolo di Dio. La terza componente è il recupero della di-<br />

mensione escatologica e quindi storico-salvifica della Chiesa: essa non è ancora giunta alla sua me-<br />

ta; inoltre essa fa parte dell’unica storia della salvezza, ciò che la congiunge con Israele.<br />

Seguendo la sintesi di J. Ratzinger, gli elementi rilevanti del concetto di Popolo di Dio, che il conci-<br />

lio ha voluto insegnare, sono pertanto: «il carattere storico della Chiesa, l’unità della storia di Dio<br />

con gli uomini, l’unità interna del popolo di Dio al di là anche delle frontiere degli stati di vita sa-<br />

cramentali, la provvisorietà e frammentarietà della Chiesa sempre bisognosa di rinnovamento e in-<br />

fine anche la dimensione ecumenica, cioè le diverse maniere nelle quali congiunzione e ordinazione<br />

alla Chiesa sono possibili e reali, anche al di là dei confini della Chiesa cattolica» 169 .<br />

Il capitolo II può essere diviso in due parti: la prima (nn. 9-12) affronta l’origine, la natura e la vita<br />

del nuovo Popolo di Dio che è reso partecipe del compito sacerdotale, profetico e regale di Cristo; la<br />

seconda (nn. 13-17), partendo dalla cattolicità della chiesa, sviluppa il discorso sui criteri di appar-<br />

tenenza alla chiesa e sulla relazione che esiste con i battezzati, con i credenti, con i non credenti.<br />

Il significato della nozione di popolo di Dio è illustrato all’inizio del capitolo II, al n. 9, che per certi<br />

versi è paragonabile alla sezione iniziale del cap. I. Qui si suggerisce che il senso della Chiesa nel<br />

disegno di Dio articola 1) la possibilità universale della relazione buona e quindi salvifica con Dio<br />

(la “volontà salvifica universale”: cfr. 1Tim 2,3-6); 2) la dimensione storica e quindi sociale, perché<br />

umana, di questa salvezza; 3) l’elezione particolare di un popolo che nella sua vicenda di fede vis-<br />

suta (riconoscimento e servizio) consente a Dio di rivelarsi come colui che è per l’uomo; 4) la rea-<br />

lizzazione effettiva dell’autocomunicazione salvifica di Dio nella concreta storia di fede del popolo<br />

di Israele come preparazione e figura della rivelazione salvifica definitiva di Cristo; 5) il quale nella<br />

sua morte è all’origine di quel dono dello Spirito che realizza effettivamente la possibilità universale<br />

della salvezza (Gal 3,26) superando l’inevitabile ambiguità e violenza presenti nell’elezione di Isra-<br />

ele (ad es. Is 43,3). Per schematizzare ulteriormente possiamo suggerire che in questo testo trovia-<br />

mo articolate le tre coordinate della storia della salvezza: la singolarità di Gesù, l’universalità della<br />

fede e della salvezza e la particolarità della testimonianza cristiana effettiva.<br />

169 J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> del Vaticano II, in ID., Chiesa, ecumenismo e politica (Cinisello Balsamo – Milano:<br />

Edizioni Paoline, 1987) 22.<br />

295


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Il piano di Dio per l’umanità è universale; esso assume quindi anche la dimensione “sociale”<br />

dell’uomo: Dio non intende salvare gli uomini come singoli, indipendentemente dal legame che sus-<br />

siste tra di loro, ma vuole fare di loro un popolo. Certamente la decisione di fede è individuale e o-<br />

gnuno è libero di fronte a Dio e questo implica che Dio non limiti la comunicazione della sua sal-<br />

vezza a determinati periodi della storia oppure la condizioni all’appartenenza a un popolo. Tuttavia<br />

l’agire salvifico di Dio nella storia si concentra nella formazione di una comunità di salvezza che<br />

raggiungerà la sua pienezza nel compimento escatologico quando comprenderà tutta l’umanità.<br />

Questa volontà divina ha portato prima all’elezione di Israele e poi alla costituzione di un popolo<br />

formato da ebrei e pagani. L’elemento comune tra l’antico e il nuovo popolo di Dio è l’idea di patto:<br />

dove si stabilisce un’alleanza con Dio sorge il popolo di Dio, dove si stabilisce il nuovo patto, sorge<br />

il nuovo popolo di Dio. Poiché Cristo è il fondatore della nuova alleanza egli è anche il capo del<br />

nuovo popolo. In modo sintetico in LG 9 si descrivono le caratteristiche costitutive di questo popolo<br />

di Dio: la libertà dei figli di Dio, il comandamento dell’amore come sua legge, l’orientamento al re-<br />

gno di Dio. Il popolo di Dio rappresenta perciò nella storia un «germe validissimo di unità, di spe-<br />

ranza e di salvezza»; anche se spesso è solo un piccolo gregge, è assunto da Cristo per essere stru-<br />

mento della redenzione di tutti e ha quindi un essenziale orientamento universale.<br />

Ba) Gli aspetti emergenti da questa espressione identificativa<br />

1) Il Concilio attraverso la categoria del “Popolo di Dio” ha voluto intenzionalmente esprimere e<br />

mettere in risalto l’indole storica della Chiesa, la sua dimensione di Chiesa «pellegrina», che vive<br />

nella tensione tra ciò che essa è «già» e ciò che «non è ancora», tra le promesse di Dio che già si so-<br />

no verificate in essa e il compimento di tali promesse che avverrà solo alla fine dei tempi.<br />

«Come già Israele secondo la carne in cammino nel deserto veniva chiamato Chiesa di Dio (cfr.<br />

2Esd 13,1; Nm 20,4; Dt 23,1ss), così pure il nuovo Israele che avanza nel tempo presente alla ricerca<br />

della città futura e stabile (cfr. Eb 13,14), si chiama Chiesa di Cristo (cfr. Mt 16,18)» (LG 9).<br />

Ma un popolo che vive e agisce nella storia, ha una propria storia; ciò significa che il suo cammino<br />

è condizionato da fattori esterni; il suo sviluppo non è rettilineo, ha momenti di splendore e di suc-<br />

cesso e momenti di crisi dolorose e di eclissi. Se quindi la Chiesa è un popolo, la sua vita e il suo<br />

sviluppo sono soggetti alle vicende della storia e sono condizionati dalla forza delle cose e dalla vo-<br />

lontà degli uomini; perciò, il volto della Chiesa avrà di volta in volta l’impronta del tempo in cui vi-<br />

ve e delle civiltà con cui viene in contatto. Se la Chiesa è un popolo in cammino verso la patria ce-<br />

leste, dove troverà il suo compimento e la sua perfezione, essa è esposta alle leggi della provvisorie-<br />

tà e dell’imperfezione; anch’essa, perciò, è soggetta a perpetuo rinnovamento (LG 48; UR 6).<br />

296


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Un invito ad approfondire proprio questo aspetto ci viene da G. Colombo, secondo cui ciò che ha<br />

indotto il Concilio a presentare la Chiesa come “nuovo Popolo di Dio” fa riferimento a una serie di<br />

esigenze legate alla considerazione della Chiesa “come soggetto storico”. Ciò che in questa prospet-<br />

tiva viene evidenziato come importante non è l’unità dell’aspetto visibile della Chiesa con la realtà<br />

invisibile del mistero (verità già acquisita prima del Concilio); non è neppure la questione se la<br />

Chiesa in quanto soggetto sia da intendere come Chiesa universale o come Chiesa locale; bensì la<br />

Chiesa come soggetto capace di fare storia, in quanto possiede la coscienza di essere “Popolo di Di-<br />

o”. Non, dunque, la Chiesa in quanto visibile, neppure la Chiesa in quanto soggetto, ma la Chiesa in<br />

quanto soggetto storico sembra essere il punto di polarizzazione della <strong>ecclesiologia</strong> conciliare del<br />

Popolo di Dio 170 . Anche l’<strong>ecclesiologia</strong> della societas perfecta permetteva l’identificazione della<br />

Chiesa come soggetto “storico”. Ma tale identificazione avveniva sul presupposto che mistero e sto-<br />

ria si escludessero almeno in partenza e, pertanto, l’identificazione non aveva come punto di riferi-<br />

mento il mistero, bensì la società in quanto tale, particolarmente lo Stato come analogatum prin-<br />

ceps. La LG, invece, intende identificare il soggetto storico a partire dal mistero della Chiesa, nella<br />

presupposizione che non solo i termini non si escludono, ma che — a partire dall’Antico Testamen-<br />

to — e compiutamente in Cristo, mistero e storia sono coimplicati. Cristo è mistero in quanto sog-<br />

getto storico, ed è soggetto storico in quanto mistero 171 . Pertanto Colombo può concludere che:<br />

«la questione dell’identità della Chiesa si risolve, da un lato nel suo riferimento intrinseco a Gesù<br />

Cristo, e conseguentemente dall’altro nella rilevazione del soggetto storico che lo “realizza”. Propriamente<br />

la nozione di “mistero” intende esprimere i due aspetti, entrambi costitutivi dell’identità<br />

della Chiesa, cioè il fondamentale e fondante riferimento a Gesù Cristo e il soggetto storico “derivato”<br />

da questo riferimento. Conseguentemente, acquisito che la Chiesa “in sé” è costituita dalla<br />

sua intrinseca “derivazione” da Gesù Cristo, col quale mantiene la relazione permanente e indisgiungibile,<br />

la ricerca sulla identità della Chiesa si puntualizza e si risolve nella determinazione del<br />

soggetto storico — e quindi delle sue caratteristiche proprie — nel quale la derivazione/relazione<br />

da Gesù Cristo si realizza» 172 .<br />

Quanto affermato mette quindi in luce l’importanza del genitivo di Dio o di Cristo e dell’aggettivo<br />

nuovo nell’espressione nuovo Popolo di Dio. La Chiesa è il nuovo Popolo di Dio non solo nel senso<br />

che qui vi si trovano delle strutture che non esistevano nel popolo di Israele. Le strutture permanenti<br />

della Chiesa (gerarchia, sacramenti, carismi, ministeri, parola di Dio), pur essendo visibili e in parte<br />

170 COLOMBO, art. cit., 159-168.<br />

171 COLOMBO, art. cit., 161. Già O. Semmelroth lo aveva fatto notare: «Ciò che si deve dire sulla realtà di popolo, lo si<br />

noti bene, riguarda sempre anche il suo rapporto con Dio, anzi da esso riceve la sua realizzazione e il suo senso determinante.<br />

E, al contrario, ciò che risulta dal suo rapporto con Dio costituisce anche il segno distintivo del popolo stesso con<br />

tutte le sue caratteristiche»: ID., La Chiesa nuovo “Popolo di Dio”, in G. BARAUNA, La Chiesa del Vaticano II, 12.<br />

172 COLOMBO, art. cit., 148.<br />

297


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

soggette ai mutamenti storici, non sono sufficienti — considerate in sé e per sé — a designare le ca-<br />

ratteristiche del nuovo Popolo di Dio in quanto soggetto storico. La storicità della Chiesa si pone a<br />

un livello più profondo. Se, infatti, è vero che la Chiesa può considerarsi come la fase definitiva<br />

dell’Alleanza che Dio ha stretto col suo popolo, non è meno vero che la Chiesa continua ad essere<br />

pellegrina nella storia, come il popolo eletto nel deserto, alla ricerca della città eterna. Questo signi-<br />

fica che il mistero della Chiesa, che è Cristo in quanto compimento delle promesse, non esclude la<br />

storia come movimento verso l’escatologia e il relativo senso di incompiutezza.<br />

Nel medesimo solco il documento della Commissione <strong>Teologica</strong> Internazionale che commemora i<br />

venti anni della fine del Concilio (1985), pur non trascurando gli altri temi e senza prendere posi-<br />

zioni precise, dedica ampio spazio prima di ogni altro tema a quello del Popolo di Dio e alla spiega-<br />

zione della Chiesa come “soggetto storico” 173 . L’espressione “Popolo di Dio” secondo il documento<br />

«mira a sottolineare il carattere sia di “mistero” sia di “soggetto storico” che in ogni circostanza la<br />

Chiesa attualizza e realizza in modo indissociabile. Il carattere di “mistero” designa la Chiesa in<br />

quanto procede dalla Trinità, mentre quello di “soggetto storico” le si addice in quanto essa agisce<br />

nella storia e contribuisce ad orientarla. […] Cosicché il mistero costituisce il soggetto storico e il<br />

soggetto storico rivela il mistero» (n. 3.1). Più propriamente: «Ciò che caratterizza fondamentalmen-<br />

te questo popolo e che lo distingue da ogni altro popolo è il fatto di vivere ponendo in esercizio la<br />

memoria e insieme l’attesa di Gesù Cristo», dalle quali esso riceve «un’identità storica, che con la<br />

sua stessa struttura lo preserva in qualsiasi circostanza dalla dispersione e dall’anonimato» e ap-<br />

prende «ciò che gli altri popoli non sanno né mai potranno sapere sul significato dell’esistenza e del-<br />

la storia degli uomini» (n. 3.2). Ne deriva la missione come azione specifica e come fine storico<br />

proprio del Popolo di Dio: «Non si tratta di un’azione tecnica, artistica o sociale, quanto piuttosto di<br />

un confronto dell’operare umano in ogni sua forma, con la speranza cristiana, o, per conservare il<br />

nostro vocabolario, con le esigenze della memoria e dell’attesa di Gesù Cristo» (n. 3.4). «Il nuovo<br />

Popolo di Dio non si contraddistingue quindi, per un modo di esistenza o una missione che dovreb-<br />

be sostituirsi a un’esistenza e a progetti umani già preesistenti. Al contrario, la memoria e l’attesa di<br />

Gesù Cristo convertiranno o trasformeranno dall’interno il modo di esistere e i progetti già vissuti in<br />

un gruppo di uomini. Si potrebbe affermare al riguardo che la memoria e l’attesa di Gesù Cristo, di<br />

cui vive il nuovo popolo di Dio, costituiscono come l’elemento “formale” (nel senso scolastico del<br />

termine) che struttura l’esistenza concreta degli uomini. Questa, che è come la “materia” (sempre in<br />

173 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di <strong>ecclesiologia</strong>, cap. 3; EV IX, §§ 1688-1698.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

senso scolastico), evidentemente responsabile e libera, riceve la tale o tal altra determinazione per<br />

costituire un modo di vita “secondo lo Spirito santo”. Tali modi di vita non esistono a priori e non<br />

possono essere determinati in anticipo; si manifestano in una multiforme varietà e sono perciò sem-<br />

pre imprevedibili, anche se si possono riferire all’azione costante di un unico Spirito santo» (n. 3.4).<br />

Qui appare la caratteristica della Chiesa che è soggetto storico, ma con caratteristiche proprie, che la<br />

distinguono dagli altri soggetti storici, e che derivano direttamente dal mistero che la costituisce.<br />

2) Un secondo aspetto dell’espressione «popolo di Dio» è che esso manifesta il mistero della predi-<br />

lezione di Dio per i poveri. Intenzionalmente nell’AT persone sofferenti e bisognose vengono indi-<br />

cate da Dio come suoi parenti e famigliari, nei confronti di altri Israeliti che non si trovano nel biso-<br />

gno, che anzi hanno causato forse la situazione di miseria dei loro concittadini. Uno di questi passi<br />

antichi potrebbe essere la proibizione della riscossione d’interesse, nel cosiddetto libro della allean-<br />

za. Esso inizia: «Quando presti denaro al mio ‘am (= al mio congiunto), al povero che è presso di te,<br />

allora…» (Es 22,24). Qui dunque, in una legge, si assicura protezione a un povero, in quanto fami-<br />

gliare di Dio, contro un ricco. Quest’uso della locuzione «famiglia di Jhwh» continua quindi nei li-<br />

bri profetici, nei quali si parla della «famiglia di Jhwh» quando si tratta di proteggere e difendere i<br />

diritti di Israeliti nei confronti di sacerdoti, funzionari, legislatori, re, e persino di falsi profeti. Basti<br />

un solo esempio, un oracolo di Isaia contro i funzionari in Giuda: «O mia famiglia, le tue guide ti<br />

traviano, ti allontanano dal retto cammino. Jhwh è pronto a tenere un giudizio; si è alzato per giudi-<br />

care le nazioni. Jhwh inizia il processo contro gli anziani della sua famiglia e contro i suoi principi.<br />

Avete devastato la vigna, le vostre case sono piene di ciò che avete rubato ai poveri. Come osate<br />

calpestare la mia famiglia? Voi malmenate il volto dei poveri» (Is 3,12-15). Il giudice dei popoli si<br />

volge sì contro il proprio popolo; ma più precisamente contro le cerchie in esso dominanti, davanti<br />

alle quali egli difende il popolo vero e proprio come sua famiglia. È proprio in questo testo che il<br />

termine ‘am viene utilizzato con le sue diverse possibilità di significato. Evidentemente, anche nella<br />

maggior parte dei passi profetici in questione è tutto quanto Israele a essere chiamato «famiglia di<br />

Jhwh»; corrisponde infatti alla volontà di Dio che Israele abbia strutture ed istituzioni, e che in esso<br />

ci sia un’autorità. L’espressione «famiglia di Jhwh» non intende contrapporsi a Israele in quanto<br />

struttura, ma più propriamente si riferisce al mistero della propensione divina verso i sofferenti, i<br />

poveri e gli oppressi. «Famiglia di Jhwh», sia nella sua origine che attraverso quasi tutto l’AT, non è<br />

un concetto ecclesiologico, ma soteriologico. La realtà da essa intesa viene ripresa nel NT nel modo<br />

più chiaro là dove Gesù si preoccupa dei poveri, degli ammalati, degli esclusi, e raccoglie attorno a<br />

sé un Israele nuovo. È come una traduzione dell’antica espressione in un linguaggio più comprensi-<br />

bile il fatto che Gesù parli a costoro del Padre dei cieli, di cui essi non devono diventare figli, per-<br />

299


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

ché lo sono sempre stati. Da qui deriva anche il carattere popolare e antielitario della Chiesa 174 .<br />

3) In terzo luogo, l’immagine di popolo mette in rilievo la dimensione comunitaria della salvezza.<br />

L’individuo nasce in un popolo, ne eredita la lingua e le tradizioni e ne porta i caratteri culturali e<br />

spirituali in modo indelebile. Perciò affermare che la Chiesa è il popolo di Dio equivale a dire che il<br />

cristiano si salva nella Chiesa e attraverso essa; egli, cioè, nasce alla vita della grazia nella Chiesa,<br />

che col battesimo lo genera e si fa garante della sua educazione; cresce e si sviluppa spiritualmente<br />

nutrendosi dei sacramenti e delle ricchezze spirituali della Chiesa; nella morte è da essa accompa-<br />

gnato e presentato a Dio. Così, la Chiesa costituisce per il cristiano l’ambito della sua vita spirituale.<br />

4) Infine, l’immagine di popolo applicata alla Chiesa fa emergere la sua organicità. Un popolo è un<br />

tutto organico, in cui nello stesso tempo c’è unità e diversità. Il popolo, infatti, è uno nel senso che<br />

tutti i cittadini sono eguali in dignità, hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, ma è nello stesso<br />

tempo diverso nel senso che non tutti fanno le stesse cose, hanno le stesse mansioni e collaborano<br />

alla stessa maniera al bene comune. Se la Chiesa è un popolo, tutti i cristiani saranno eguali in di-<br />

gnità, diritti e doveri; sotto questo aspetto, la Chiesa sarà una comunità fraterna, meglio ancora, una<br />

“comunione”. Nello stesso tempo, però, dovrà esserci nella Chiesa una diversità, sia perché tutti non<br />

hanno la medesima funzione, sia perché alcuni saranno investiti di autorità sacra (= di origine sa-<br />

cramentale) sugli altri; sotto questo aspetto la Chiesa sarà una comunità gerarchicamente strutturata.<br />

È chiaro però che il Concilio ha inteso applicare l’immagine di popolo alla Chiesa, nel senso che il<br />

termine “popolo” ha nella Scrittura, non nel senso che esso ha assunto nelle costituzioni moderne,<br />

profondamente segnate dalla concezione “democratica”. Per noi, infatti, popolo è sinonimo di so-<br />

vranità popolare, in quanto la sovranità risiede in esso ed è da esso delegata agli organi di governo.<br />

Noi, però, non possiamo applicare il concetto moderno di “popolo” alla Chiesa. Infatti, l’autorità<br />

nella Chiesa non risiede nel “popolo”, e non emana dalla “base”, ma risiede in Cristo ed emana da<br />

lui; è esercitata per il “popolo” e a suo servizio, ma non può essere controllata dal “popolo” 175 .<br />

174 In tal senso osserva Dianich: «Una comunità di soli adulti non può essere detta popolo, né si può presentare sotto<br />

forma di popolo un’aggregazione elitaria, alla quale si aderisce, solo per una decisione di fede adulta, perfettamente libera,<br />

personale e matura. In una chiesa siffatta non troverebbe posto non solo il bambino, ma neanche la personalità debole<br />

o immatura, l’handicappato mentale, il credente dubbioso o scarsamente impegnato. Ne potrebbe essere espulso<br />

non solo l’eretico, ma anche il peccatore, o semplicemente colui che non condivide il particolare stile di vita della sua<br />

comunità. […] Solo sottolineando l’assoluta nudità del battesimo e della più semplice forma di professione di fede […]<br />

come condizioni essenziali di appartenenza, si apre a porta alla possibile esistenza della chiesa in forma di popolo. E<br />

così si raggiunge ancora quell’indicazione semantica che vede in popolo un termine dalla forte valenza antielitaria»: S.<br />

DIANICH, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta (Cinisello Balsamo – Milano: Edizioni Paoline, 1993)<br />

246-247.<br />

175 J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> del Vaticano II, art. cit., 25-32, lamenta l’enfasi post-conciliare apposta<br />

all’espressione “popolo di Dio”, che sarebbe viziata da due tendenze fondamentali: il riduzionismo che mantiene<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Bb) Il popolo di Dio è sacerdotale, profetico, cattolico e missionario<br />

Passando a trattare dei caratteri del popolo di Dio, il Concilio ne ricorda quattro: il carattere sacer-<br />

dotale, il carattere profetico, il carattere cattolico, il carattere missionario.<br />

1) Il nuovo popolo di Dio è un popolo sacerdotale. LG 10 illustra il significato del sacerdozio co-<br />

mune dei battezzati riferendosi ai testi biblici (Ap 1,6; 5,9-10; 1Pt 2,4-10; Rm 12,1) che descrivono<br />

la condizione dei battezzati servendosi di categorie sacerdotali. Questi sono i compiti “sacerdotali”<br />

del popolo di Dio: preghiera, lode di Dio (At 2,42-47), la vita dei cristiani come «sacrificio vivente,<br />

santo e gradito a Dio» (Rm 12,1), la testimonianza resa a Cristo di fronte a coloro che chiedono con-<br />

to della nostra fede (1Pt 3,15). Il NT non utilizza la categoria di sacerdozio per descrivere i ministeri<br />

ecclesiali, ma solo come categoria soteriologica per indicare la nuova situazione salvifica dei cre-<br />

denti in Cristo (comprensibile quasi solo in un contesto giudaico) e per caratterizzare la vita dei cri-<br />

stiani come nuova attività sacerdotale. Paolo in Rm 12,1ss. presenta la vita e l’annuncio del vangelo<br />

dei cristiani come la loro logiké latreia (culto, adorazione di Dio “spirituale”).<br />

L’affermazione che tutta la chiesa partecipa del sacerdozio di Cristo è una novità rilevante<br />

nell’insegnamento magisteriale. Il Concilio ha chiuso su questo punto l’era della Controriforma. In-<br />

fatti, a motivo della negazione del sacerdozio ministeriale, la teologia cattolica, nella controversia<br />

con i protestanti, per meglio difendere il sacerdozio ministeriale aveva lasciato in ombra il sacerdo-<br />

zio comune dei fedeli, esaltato invece dai protestanti come unica forma di sacerdozio cristiano. Il<br />

Concilio di Trento (sess. XXIII, cap. IV) aveva affermato che «sbagliano coloro che affermano che<br />

tutti i cristiani, senza distinzione, sarebbero sacerdoti del NT e che disporrebbero tutti dello stesso<br />

potere spirituale» (DzH 1767). Tale affermazione si comprende nel contesto della polemica contro<br />

le posizioni della Riforma. Era avvenuto così, che nella coscienza del comune del popolo cristiano il<br />

sacerdozio dei fedeli era quasi scomparso o era interpretato all’interno di una concezione che consi-<br />

derava quello ministeriale come l’unico vero sacerdozio; se non di diritto, almeno di fatto. Il supe-<br />

ramento della polemica ha permesso anche alla tradizione cattolica di rivalutare questa dottrina che<br />

ha il suo fondamento nel NT e al Concilio di riequilibrare la situazione. Anche se in realtà, già Pio<br />

XI nell’enciclica Miserentissimus Redemptor (1928) e Pio XII, prima nell’enciclica Mediator Dei<br />

(1947) e poi nell’allocuzione Magnificate Dominum (1954), avevano parlato di questo sacerdozio,<br />

seppur tra virgolette. Indubbiamente, però, l’importanza attribuita dal Concilio al sacerdozio comu-<br />

dell’<strong>ecclesiologia</strong> conciliare solo questa categoria; la metamorfosi e l’ampliamento del suo significato nel senso di una<br />

sociologizzazione dell’idea di Chiesa. “Popolo” apparirebbe ormai come un concetto da elaborare in linea socio-politica<br />

301


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

ne, da una parte, ha liberato la Chiesa dal clericalismo, cioè dall’assorbimento della vita e<br />

dell’attività cristiana nel sacerdozio ministeriale; dall’altra, ha dato impulso a una spiritualità laicale<br />

fondata sul sacerdozio comune. In particolare, questa dottrina ha portato alla nascita dei ministeri<br />

laicali, quali il lettorato e l’accolitato, “istituiti” dalla Chiesa col motu proprio di Paolo VI Ministe-<br />

ria quaedam (15 agosto 1972); ha esteso ai laici la pratica — un tempo riservata al clero e ai religio-<br />

si — della “Liturgia delle Ore”; ha dato grande importanza alla “preghiera dei fedeli” nella celebra-<br />

zione eucaristica, «perché nella preghiera universale, o preghiera dei fedeli, il popolo, esercitando la<br />

sua funzione sacerdotale, prega per tutti gli uomini» (Institutio Generalis Missalis Romani, n. 45).<br />

In LG 11 si precisa il modo in cui i membri del popolo di Dio esercitano il proprio sacerdozio:<br />

«l’indole sacra e la struttura sacerdotale della comunità sacerdotale vengono attuate per mezzo dei<br />

sacramenti e delle virtù». Si indicano così i due ambiti fondamentali, i sacramenti (intesi qui come<br />

atti di culto) e la vita quotidiana, in cui il sacerdozio comune trova la sua realizzazione.<br />

In LG 10 però, mentre si riconosce la partecipazione di tutti i battezzati al sacerdozio di Cristo, si<br />

ribadisce anche che esiste una differenza tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio gerar-<br />

chico. Il sacerdozio comune è distinto rispetto al ministero gerarchico «essentia et non gradu tan-<br />

tum». Ciò significa che il sacerdozio ministeriale non può essere considerato di rango più elevato<br />

del sacerdozio comune, è piuttosto una realtà diversa, che si fonda sul sacerdozio comune e ha un<br />

riferimento ad esso perché entrambi sono partecipazione dell’unico sacerdozio di Cristo. Congar ri-<br />

tiene con molti altri interpreti del Vaticano II che la formula utilizzata in LG 10 non sia del tutto<br />

soddisfacente; essa però può essere interpretata correttamente: «Se il sacerdozio ministeriale diffe-<br />

risse da quello del battezzato per grado, farebbe di questo ministro un “supercristiano”. Ma il sacer-<br />

dozio ministeriale si situa non nella linea dell’ontologia costitutiva del cristiano, ma in quella del<br />

ministero. È una partecipazione funzionale, che comporta il suo fondamento ontologico, ma di una<br />

ontologia di funzione o di ministero» 176 .<br />

Il sacerdozio ministeriale o gerarchico ha dunque una funzione specifica all’interno del popolo sa-<br />

cerdotale; il ministro ordinato «con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacer-<br />

dotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio in nome di tutto il popo-<br />

lo»; sono dunque l’annuncio e l’amministrazione dei sacramenti che costituiscono l’essenza del mi-<br />

nistero sacerdotale. Il testo prosegue, però, sottolineando il ruolo attivo (e non solo recettivo) dei fe-<br />

e che veicola un’idea di chiesa antigerarchica e antisacrale.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

deli nella celebrazione eucaristica nella quale essi esercitano il loro sacerdozio: «i fedeli in virtù del<br />

regale loro sacerdozio, concorrono all’oblazione dell’eucaristia».<br />

2) Il secondo carattere del popolo di Dio, messo in evidenza dal Concilio, è quello profetico. Il po-<br />

polo di Dio è partecipe del compito profetico di Cristo e, in questo contesto, la LG parla del senso<br />

della fede e del consenso dei fedeli 177 . Nonostante l’importanza del tema del sensus fidei, nei testi<br />

conciliari esso non viene definito. L’unico accenno a una definizione si trova nella relazione della<br />

Commissione Dottrinale che, commentando LG 12, afferma: il senso della fede «è come una facoltà<br />

di tutta la chiesa, grazie alla quale essa nella sua fede riconosce la rivelazione tramandata, distin-<br />

guendo tra il vero e il falso nelle questioni di fede, e contemporaneamente penetra in essa più pro-<br />

fondamente e più pienamente l’applica nella vita» (AS III/1, 199). Il senso della fede è proprio dei<br />

singoli fedeli (benché in misura diversa, a seconda dei doni di grazia ricevuti e dell’accoglienza più<br />

o meno disponibile di tali doni) e del popolo di Dio nel suo insieme; è su questo secondo aspetto<br />

che LG 12 concentra la sua attenzione, mettendolo in relazione con l’infallibilità della chiesa:<br />

«La totalità dei fedeli, che hanno ricevuto l’unzione dal Santo (cfr. 1Gv 2,20.27) non può sbagliarsi<br />

nel credere e manifesta questa sua proprietà particolare mediante il senso soprannaturale della<br />

fede di tutto il popolo, quando dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici esprime l’universale suo<br />

consenso in materia di fede e di morale».<br />

La chiesa dunque, come totalità dei fedeli, che include ovviamente anche i pastori, è infallibile nel<br />

credere; l’organo di questa sua proprietà caratteristica, fondato sull’unzione dello Spirito Santo, è il<br />

soprannaturale senso della fede di tutto il popolo di Dio. La manifestazione di questa caratteristica<br />

si ha nel consenso dei fedeli.<br />

L’espressione infallibilitas in credendo che ricorre, anche se non alla lettera (in credendo falli ne-<br />

quit) in LG 12, probabilmente ha richiamato in molti padri l’idea assai diffusa al Vaticano I che il<br />

senso della fede e il consenso dei fedeli si riferiscano all’accoglienza della dottrina proclamata dal<br />

magistero, al quale soltanto spetta l’infallibilità attiva (infallibilitas in docendo). A ben vedere però<br />

LG non ripropone questo schema che presuppone una distinzione rigida tra chiesa docente e chiesa<br />

discente, collocando la prima in posizione attiva e la seconda in posizione solo passiva. Lo dimostra<br />

l’evoluzione significativa avvenuta nel corso della redazione del testo, nei tre schemi della LG.<br />

176 Y. CONGAR, “Quelques problèmes touchant les ministères”, in NRTh 93 (1971) 790; Cfr. R. TONONI, “Differenza di<br />

grado o di essenza? Un testo problematico del concilio Ecumenico Vaticano II”, in Gli stati di vita del cristiano, Quaderni<br />

teologici del Seminario di Brescia 5 (Brescia: Morcelliana, 1995) 181-211.<br />

177 Cfr. D. VITALI, Sensus fidelium. Una funzione ecclesiale di intelligenza della fede (Brescia: Morcelliana, 1993).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

1. Nel primo schema si affermava che il senso soprannaturale della fede fa sì che i fedeli (qui ancora distinti<br />

dai pastori) «accolgano con animo obbediente la dottrina proposta [dal magistero], rettamente la compren-<br />

dano e più profondamente la scrutino». Questa concezione puramente “passiva” e “recettiva” del senso della<br />

fede di fronte al magistero suscita però delle critiche che inducono a introdurre delle modificazioni.<br />

2. Nel secondo schema si dice: «Lo stesso senso della fede, suscitato dallo Spirito, sotto la sua assistenza,<br />

aderisce alla Parola di Dio scritta o trasmessa ed è guidato e sorretto dal magistero, a cui i credenti rispon-<br />

dono attivamente percependo più in profondità la verità della fede ed applicandola più fedelmente alla vita».<br />

3. Il testo definitivo, senza negare la relazione con il magistero (si veda l’espressione «sub ductu magiste-<br />

rii») accentua ancora di più il riferimento diretto alla Parola di Dio e il carattere attivo del senso della fede.<br />

In virtù di questo senso della fede infatti il popolo di Dio compie queste azioni:<br />

a) accoglie non la parola degli uomini, ma, qual è in realtà, la parola di Dio;<br />

b) aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi;<br />

c) con retto giudizio penetra in essa più a fondo;<br />

d) più pienamente l’applica alla vita.<br />

Da queste affermazioni risulta che il senso della fede, cui si attribuisce una funzione conoscitiva, di<br />

giudizio e operativa, non è suscitato dallo Spirito semplicemente perché il popolo di Dio presti il<br />

suo ossequio all’insegnamento del magistero; esso ha una certa “connaturalità” con la verità rivelata<br />

e trasmessa per cui è in grado di distinguere il vero dal falso nelle questioni di fede, di penetrare nel<br />

deposito della rivelazione comprendendolo in modo più approfondito e di applicarlo alla vita. Il<br />

consenso dei fedeli che manifesta il senso della fede di conseguenza non potrà essere interpretato<br />

come pura recettività nei confronti delle affermazioni magisteriali e la sua infallibilità non coincide<br />

con l’accoglienza delle affermazioni infallibili del magistero. Questa posizione ci sembra suggerita<br />

anche da DV 8, in cui si afferma che la tradizione apostolica progredisce nella Chiesa in tre modi:<br />

«Questa tradizione, che trae origine dagli apostoli, progredisce nella chiesa sotto l’assistenza dello<br />

Spirito Santo; cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia<br />

con la contemplazione e lo studio dei credenti, che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia<br />

con la profonda intelligenza delle cose spirituali di cui fanno esperienza (ex intima spiritualium<br />

rerum quam experiuntur intelligentia), sia con la predicazione di coloro che, con la successione<br />

episcopale, hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. La chiesa, in altre parole, nel corso dei secoli<br />

tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento<br />

le parole di Dio».<br />

Nonostante alcune difficoltà di traduzione 178 , l’«intima spiritualium rerum quam experiuntur intel-<br />

ligentia» corrisponde al sensus fidelium grazie a cui, si dice, cresce la stessa comprensione della tra-<br />

178 Cfr. D. VITALI, Sensus fidelium, op. cit., 263-266. La traduzione letterale suonerebbe: la comprensione cresce «mediante<br />

l’intelligenza intima delle cose spirituali, la quale [intelligenza] (i credenti) sperimentano».<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

dizione apostolica — naturalmente non senza l’apporto specifico della teologia e del magistero.<br />

Qual è, allora, il rapporto tra il senso della fede/consenso dei fedeli e l’autorità del magistero? Circa<br />

il senso della fede il primo schema definisce il rapporto con la formula authentico magisterio gu-<br />

bernatus; il secondo schema invece dice a Magisterio ducitur et sustentatur. Il testo finale, nono-<br />

stante alcuni interventi avessero proposto di accentuare la dipendenza del senso della fede dal magi-<br />

stero, si esprime in termini più sfumati: non è infatti il senso della fede (che è suscitato dallo Spiri-<br />

to) a dipendere direttamente dal magistero, ma piuttosto il popolo di Dio che «sotto la guida del sa-<br />

cro magistero, al quale fedelmente si conforma […] aderisce indefettibilmente alla fede», appunto in<br />

virtù di quel “senso della fede”.<br />

Riguardo al modo in cui il consenso dei fedeli si costituisce, si possono rilevare due tendenze oppo-<br />

ste emerse nel dibattito conciliare.<br />

1. La prima è quella espressa nel primo schema: il senso della fede del popolo cristiano «in ultima analisi è<br />

suscitato dallo Spirito Santo che, mentre assiste il magistero nel proporre la dottrina cattolica, lui stesso ope-<br />

ra nei fedeli perché accolgano con animo obbediente la dottrina proposta, rettamente la comprendano e più<br />

profondamente la scrutino…». Dietro questa prospettiva sta l’idea che il valore della chiesa discente dipende<br />

completamente dalla chiesa docente. Il senso della fede e il consenso dei fedeli si identificano quindi con<br />

l’accoglienza obbediente dell’insegnamento magisteriale. In questa linea si distingue anche una infallibilità<br />

attiva che è propria del magistero e una infallibilità passiva che è propria della chiesa discente; la infallibili-<br />

tà del magistero (in docendo) è causa dell’infallibilità del popolo di Dio (in credendo). È la tesi sostenuta<br />

dal card. Ruffini, arcivescovo di Palermo (cfr. AS II/2, 629).<br />

2. Altri padri invece sottolineavano il ruolo attivo del senso della fede del popolo di Dio nei confronti del<br />

magistero. In questa prospettiva il senso della fede non si riferisce solo all’insegnamento del magistero e il<br />

consenso dei fedeli non è soltanto l’acconsentire alle affermazioni magisteriali, ma è espressione di un sen-<br />

tire comune dei fedeli (pastori compresi), che può illuminare lo stesso magistero nell’annuncio della fede.<br />

Contro la tesi di Ruffini un intervento molto documentato di M. De Keyzer ricorda che i più grandi<br />

teologi postridentini (M. Cano, R. Bellarmino, G. de Valencia, F. Suarez, J. B. Gonet, Ch.-R. Bil-<br />

luart) procedono dall’infallibilità del popolo dei fedeli per giungere a quella della gerarchia, e non<br />

viceversa (Cfr. AS II/3, 441-443).<br />

Di fronte a queste diverse opinioni, tuttavia, LG 12 sembra non prendere posizione in maniera deci-<br />

sa: si limita ad affermare l’infallibilità del popolo di Dio, che è legata al sensus fidei e che si espri-<br />

me nel consenso universale, senza precisare la relazione tra infallibilità del popolo di Dio e infallibi-<br />

lità del magistero, accontentandosi dell’espressione abbastanza generica sub ductu magisterii.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Il problema è il riflesso di una questione ecclesiologica più vasta, quella cioè del rapporto tra chiesa<br />

e gerarchia e dell’attribuzione all’una o all’altra della precedenza: la chiesa dipende dalla gerarchia<br />

nel senso che Cristo ha istituito semplicemente la gerarchia (chiamando i Dodici) perché questa des-<br />

se origine alla chiesa (come sua causa efficiente), oppure la chiesa è voluta direttamente da Cristo il<br />

quale poi fa sorgere al suo interno la gerarchia, a servizio del popolo di Dio? Nonostante qualche<br />

incertezza, la struttura complessiva della LG, con la collocazione del capitolo sul popolo di Dio<br />

prima di quello sulla gerarchia, non lascia dubbi circa la scelta operata tra questi due modelli eccle-<br />

siologici. Alla luce di questa impostazione ecclesiologica generale, si può precisare anche il rappor-<br />

to tra il senso della fede/consenso dei fedeli, da una parte, e il magistero dall’altra. Il senso della fe-<br />

de è infatti un elemento che definisce la natura del popolo di Dio (appunto come popolo profetico)<br />

e, benché abbia un riferimento essenziale alla parola di Dio scritta e trasmessa e sia sottomesso alla<br />

guida del magistero della chiesa, non costituisce i fedeli semplicemente come destinatari puramente<br />

recettivi e totalmente passivi della testimonianza che il magistero rende alla parola di Dio.<br />

Si può affermare sulla base della precedenza riconosciuta al popolo di Dio la dipendenza del-<br />

l’infallibilità del magistero dall’infallibilità della chiesa? In caso di risposta positiva, come è conci-<br />

liabile questo con l’affermazione del Vaticano I secondo cui le definizioni del sommo pontefice so-<br />

no irreformabiles ex sese non autem ex consensu ecclesiae (DzH 3074)?<br />

In LG 25, nel contesto del discorso sul compito magisteriale del collegio episcopale e del papa si ri-<br />

prende la definizione dell’infallibilità del Vaticano I: «Perciò le sue [del Romano Pontefice] defini-<br />

zioni giustamente sono dette irreformabili per se stesse e non per il consenso della Chiesa, perché<br />

esse sono pronunciate con l’assistenza dello Spirito Santo, promessagli nel beato Pietro, per cui esse<br />

non abbisognano di alcuna approvazione di altri né ammettono appello alcuno ad altro giudizio».<br />

È interessante la spiegazione che nella relazione della Commissione Dottrinale è data del testo pro-<br />

posto: si dice che in esso viene presentata anzitutto la “ragione formale” dell’infallibilità di queste<br />

definizioni, cioè l’assistenza dello Spirito Santo, per indicare successivamente le due conseguenze<br />

che ne derivano: il fatto che non necessitano dell’approvazione successiva di altri e che non può es-<br />

serci appello contro di esse a un’altra istanza. Il fatto che si mantenga il termine irreformabiles e<br />

non si dica infallibiles indica che il senso dell’espressione deve essere cercato sul piano giuridico<br />

(cfr. G. Philips, op. cit., 288); ciò che si vuole escludere non è il rapporto tra le definizioni pontificie<br />

e il consenso della chiesa o consenso dei fedeli, bensì la necessità di una loro approvazione succes-<br />

siva. Per questo alcuni Padri suggerirono di correggere la formula e di dire et non ex consensu po-<br />

steriori (vel ulteriori) Ecclesiae; la proposta fu però respinta perché si tratta di una citazione del Va-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

ticano I. Se il senso della formula è giuridico, allora non è sufficiente, anzi non è opportuno, riferirsi<br />

ad essa per precisare dal punto di vista teologico il rapporto tra consenso dei fedeli e magistero.<br />

Questo rapporto si comprende meglio alla luce dell’affermazione che si legge in LG 25 secondo cui<br />

il sommo pontefice «gode di quell’infallibilità di cui Cristo ha voluto provvedere la sua chiesa».<br />

Benché si escluda una derivazione dell’infallibilità del papa (e di quella del collegio episcopale) dal<br />

popolo di Dio, intesa come una specie di delega proveniente dalla base, l’infallibilità del magistero<br />

non è una infallibilità separata dal popolo di Dio. Propriamente parlando è quindi l’unica infallibili-<br />

tà della chiesa che trova espressione nel consenso dei fedeli, e nell’esercizio dell’autorità magiste-<br />

riale (sia in forma personale da parte del papa, sia da parte del collegio). Questo significa che il ma-<br />

gistero non può definire che quella verità che è già presente nella fede della chiesa e di conseguenza<br />

che deve avvalersi dei «mezzi adeguati» al fine di poterla conoscere.<br />

In entrambi i passaggi si sottolinea con molta chiarezza che i membri del popolo di Dio hanno anzi-<br />

tutto una uguale dignità fondata su quello che definisce la loro identità cristiana, la quale deve tra-<br />

dursi anche operativamente (sacerdozio comune, senso della fede). Nel popolo di Dio poi il ministe-<br />

ro ordinato assume un compito specifico di servizio al sacerdozio universale dei fedeli e di testimo-<br />

nianza autorevole della tradizione apostolica, senza che questo collochi i membri della gerarchia al<br />

di fuori del popolo di Dio (essi rimangono parte della comunità ecclesiale, anche quando per il loro<br />

ministero si pongono di fronte ad essa con l’autorità di Gesù Cristo).<br />

Le considerazioni fatte a proposito di LG 10-12 lasciano intravedere una caratteristica essenziale del<br />

popolo di Dio, cioè il suo carattere strutturato, con la relazione fondamentale tra popolo di Dio e<br />

ministero ordinato. La tensione strutturale tra l’elemento comunitario (uguaglianza di tutti i fedeli) e<br />

l’elemento gerarchico non è un elemento estraneo rispetto alla comprensione trinitaria della chiesa<br />

che la LG assume come punto di partenza. Al contrario questa tensione strutturale è riconducibile<br />

alla tensione tra dimensione pneumatologica e cristologica della chiesa.<br />

C’è anzitutto un’uguaglianza di tutti i credenti, donata dallo Spirito Santo. Quest’uguaglianza di tut-<br />

ti nella fede operata dallo Spirito costituisce il fondamento di ogni ordinamento e struttura ecclesia-<br />

le. Il Vaticano II ha infranto la “dimenticanza dello Spirito” della chiesa occidentale sempre rimpro-<br />

verata dalle chiese orientali e ha posto intenzionalmente prima della riflessione sulla struttura gerar-<br />

chica della chiesa la fondamentale uguaglianza dei membri del popolo di Dio che deve determinare<br />

tutte le possibili differenziazioni all’interno di questa comunanza (LG 9-17). Questo non rappresen-<br />

ta affatto un cedimento alla moda del nostro tempo orientato in senso democratico, ma un ritorno<br />

alle autentiche fonti bibliche dell’autocomprensione della chiesa. In tal modo l’idea della chiesa<br />

come societas inaequalis è fondamentalmente superata. La comune dignità di membri del popolo di<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Dio precede tutte le distinzioni di ministeri, carismi e servizi. Perciò LG 32 può dire:<br />

«Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori<br />

per gli altri, tuttavia vige tra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a<br />

tutti i fedeli per l’edificazione del corpo di Cristo».<br />

Questa uguaglianza trova la sua espressione sul piano delle strutture istituzionali nella maggiore<br />

importanza che l’elemento sinodale ha incominciato di nuovo ad avere a tutti i livelli della chiesa<br />

(ad es. nella forma dei consigli pastorali parrocchiali e diocesani, dei consigli presbiterali, dei sinodi<br />

diocesani, dei sinodi episcopali ecc.). Il fatto che dopo secoli di processi decisionali avvenuti in mo-<br />

do puramente “gerarchico” questi tentativi presentino ancora dei limiti non deve meravigliare. Le<br />

difficoltà nel funzionamento di questi strumenti della comunione suscitano in alcuni cristiani la no-<br />

stalgia per i tempi andati, quando l’attribuzione alla gerarchia di una responsabilità esclusiva garan-<br />

tiva maggiore efficacia nell’azione. La vita ecclesiale strutturata in questo modo era così priva di<br />

complicazioni e pacifica (questa nostalgia si incontra spesso anche nei fedeli).<br />

Il prezzo pagato era però troppo alto: una comunità con questo atteggiamento passivo incoraggiava<br />

in molti membri una grande mancanza di autonomia nella fede e oggi non è più all’altezza delle sfi-<br />

de della attuale situazione culturale che esige credenti sempre più consapevoli e responsabili 179 .<br />

D’altra parte però non v’è alcun dubbio che lo stesso Spirito Santo che opera questa fondamentale<br />

uguaglianza dei fedeli, realizza in essi anche differenziazione e pluralità. Lo Spirito si manifesta<br />

quindi proprio nei molteplici carismi che dona ai membri del popolo di Dio (LG 12). Tra i diversi<br />

carismi il medesimo Spirito opera un’ulteriore distinzione che il Concilio esprime con la formula<br />

179 Giovanni Paolo II nella Tertio Millennio Adveniente (10 novembre 1994) ha sollecitato tutti i fedeli a ritornare sul<br />

tema conciliare della vocazione di tutti i membri del popolo di Dio, la fede dei quali dovrebbe essere approfondita in<br />

vista di una coscienza più matura della loro responsabilità per la Chiesa e la sua missione: suscitare in tutti i fedeli il desiderio<br />

di santità e una disponibilità all’azione dello Spirito per renderli pronti alla testimonianza (TMA, 18, 42). La riscoperta<br />

dell’azione dello Spirito nei diversi carismi, compiti e servizi, è un frutto del Vaticano II, che dovrebbe emergere<br />

più chiaramente nella vita della Chiesa. A prima vista questo potrebbe sembrare un approccio meramente pastorale,<br />

eppure si tratta, in realtà, della questione centrale dell’<strong>ecclesiologia</strong> di comunione, spesso nascosta dietro la discussione<br />

sulle strutture, ossia la questione riguardante i soggetti della comunione. Se già per la democrazia vale il principio che<br />

può funzionare soltanto quando i cittadini assumono la propria responsabilità democratica, tanto più nella Chiesa questo<br />

vale quando essa vuole realizzarsi come comunione, poiché essa può diventare una reale communio fidelium soltanto<br />

quando il maggior numero possibile dei suoi membri assume la propria vocazione cristiana, il carisma personale, diventando,<br />

così, soggetti responsabili nella Chiesa e condividendone la missione. Questa assunzione esige molto più della<br />

responsabilità democratica e dell’attività in ambiente politico. Essere un soggetto responsabile nella Chiesa richiede la<br />

correlativa disponibilità, dedizione e competenza, alla quale appartiene il conoscere e vivere la fede, l’ascoltare la voce<br />

dello Spirito e l’amare la Chiesa in ciò che la rende “mistero”. Se non si vive la comunione con Dio e quella con gli altri<br />

membri della Chiesa, nessuno può essere soggetto della communio fidelium. La mera pretesa alla partecipazione senza<br />

la correlativa competenza o la disponibilità ad acquisire tale competenza, non opera communio alcuna, bensì frustrazione<br />

e viene giustamente criticata come democraticismo. Il discorso sul popolo di Dio in quanto communio fidelium qualifica<br />

i suoi appartenenti come credenti che, dopo aver coscientemente accolto il loro battesimo, cercano anche di viverlo.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

«doni gerarchici e carismatici» (LG 4). Con il primo termine si intendono i “servizi” o “ministeri”<br />

che sono conferiti attraverso un atto sacramentale e che sono in modo particolare a servizio del-<br />

l’unità del popolo di Dio: i ministeri cioè del vescovo, del presbitero e del diacono. Coloro che eser-<br />

citano questo ministero sono al tempo stesso nella comunità e di fronte ad essa con l’autorità che<br />

ricevono da Gesù Cristo. Nel rapporto che essi stabiliscono con la loro comunità trova espressione<br />

la dipendenza di quest’ultima dal dono di grazia che continuamente essa riceve da Cristo (essa non<br />

può darsi la parola e i sacramenti, ma li riceve da Cristo mediante il ministro ordinato). Il discorso<br />

potrebbe continuare con l’illustrazione del significato che il ministero ordinato assume nella struttu-<br />

ra della chiesa, ma questo esigerebbe di sviluppare una teologia del ministero ordinato.<br />

Una delle novità del post-concilio è stata inoltre la scoperta del carattere carismatico del popolo di<br />

Dio, in virtù di quanto il Concilio aveva affermato a tale proposito:<br />

«Ma lo Spirito Santo non si limita a santificare il popolo di Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri,<br />

a guidarlo e ad adornarlo di virtù; ma distribuisce pure tra i fedeli di ogni ordine le sue grazie<br />

speciali, “dispensando a ciascuno i propri doni come piace a lui” (1Cor 12,11). Con essi egli<br />

rende i fedeli capaci e pronti ad assumersi responsabilità e uffici, utili al rinnovamento e al maggior<br />

sviluppo della Chiesa, secondo le parole: “A ciascuno… la manifestazione dello Spirito viene<br />

data per l’utilità comune” (1Cor 12,7). Questi carismi, dai più straordinari ai più semplici e ai più<br />

largamente diffusi, devono essere accolti con gratitudine e consolazione, perché sono innanzitutto<br />

appropriati e utili alle necessità della Chiesa» (LG 12).<br />

In realtà, la teologia dei carismi, sviluppata nei primi secoli sulla scia di quanto aveva detto Paolo,<br />

dopo la crisi montanista (II-III secolo), entrò in una specie di letargo che sarebbe durato sino alle<br />

porte del Vaticano II. Il motivo era duplice: da un lato, si riteneva che i “carismi” fossero solo doni<br />

rari e straordinari, come fare profezie e compiere miracoli, e non interessassero dunque la vita cri-<br />

stiana ed ecclesiale, non sembrando che avessero molta importanza per la santificazione personale e<br />

per lo sviluppo della Chiesa; dall’altro, tali doni erano di difficile discernimento, non essendo facile<br />

distinguere in essi quello che veniva realmente dallo Spirito Santo e quello che veniva invece<br />

dall’uomo o dal maligno; senza dire che spesso i carismatici, forti dei loro doni, veri o supposti, si<br />

ponevano in contrasto con la gerarchia. Tutto ciò ebbe come effetto che la teologia dei carismi non<br />

fu debitamente sviluppata, o rimase circondata da un alone di sospetto.<br />

Il Vaticano II ha avuto il merito di ridare vigore al fattore carismatico della Chiesa, sia allargando il<br />

significato del termine carisma anche ai doni comuni dello Spirito Santo, sia affermando che ognu-<br />

no nella Chiesa ha i propri doni che deve mettere a servizio della vita e dello sviluppo di essa. In tal<br />

modo, ha fatto scoprire a tutti i cristiani di poter partecipare attivamente — secondo i propri carismi<br />

— alla vita e all’apostolato della Chiesa; anzi, di doverlo fare, poiché lo Spirito distribuisce i suoi<br />

doni, non direttamente per il bene di colui che li riceve, ma l’edificazione di tutta la Chiesa.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

3) Il carattere cattolico del popolo di Dio<br />

I nn. 13-17 della LG trattano del popolo di Dio in mezzo ai popoli. Partendo dalla nozione di catto-<br />

licità della chiesa (n. 13), si sviluppa il discorso sui criteri di appartenenza alla chiesa e sulla rela-<br />

zione che esiste con i battezzati, con i credenti, con i non credenti.<br />

Affermando con molto vigore il carattere universale del popolo di Dio, il Concilio ha inteso far crol-<br />

lare il doppio muro che gli ultimi secoli avevano costruito intorno alla Chiesa: il muro di separazio-<br />

ne della Chiesa dal mondo, e il muro di separazione elevato tra la Chiesa cattolica da una parte e le<br />

Chiese cristiane e le religioni non cristiane dall’altra. Esso, infatti, ha affermato:<br />

«A questa cattolica unità del popolo di Dio che prefigura e promuove la pace universale, sono<br />

dunque chiamati tutti gli uomini; ad essa in vari modi appartengono, oppure ad essa sono ordinati<br />

sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, e sia infine tutti gli uomini che la grazia di Dio<br />

chiama alla salvezza» (LG 13).<br />

La Chiesa non è dunque una fortezza assediata da un mondo ostile; anzi essa deve operare affinché<br />

la sua destinazione universale possa sempre più risaltare nelle relazioni differenziate che intrattiene:<br />

«Tutti gli uomini sono chiamati a far parte del nuovo popolo di Dio. Perciò questo popolo, restando<br />

uno e unico, deve estendersi a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si compia il disegno della<br />

volontà di Dio, che in principio creò la natura umana una, e decise di raccogliere alla fine in unità<br />

i suoi figli dispersi (cfr. Gv 11,52)» (LG 13).<br />

Con tali parole, il Concilio ha aperto la via a due fenomeni, forse i più caratteristici del post-<br />

concilio. In primo luogo, la fine dell’eurocentrismo ecclesiale, cioè del modello europeo di Chiesa<br />

valido per tutti i popoli e a cui tutti i paesi dovevano adattarsi; per cui l’unità della Chiesa era vista<br />

come uniformità non solo dogmatica e sacramentale, ma anche teologica, liturgica e disciplinare. In<br />

secondo luogo, lo sforzo di inculturazione del cristianesimo.<br />

Grazie al suo carattere «cattolico», il popolo di Dio si colloca nel cuore del mondo e della storia,<br />

non certo per sete di dominio, bensì per essere per tutti i popoli sacramento d’unità con Dio e tra gli<br />

uomini e promotore di pace e di fraternità. Ad esso sono incorporati i fedeli cattolici:<br />

«Sono incorporati pienamente alla società della Chiesa coloro che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano<br />

l’intero ordinamento e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e dentro questo suo corpo<br />

visibile sono congiunti a Cristo mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del<br />

governo ecclesiastico e della comunione: organismo che Cristo dirige attraverso il sommo pontefice<br />

e i vescovi. Non si salva però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che non persevera nella<br />

carità, e rimane nella Chiesa soltanto col corpo ma non col cuore. Tutti i figli della Chiesa ricordino<br />

che la loro privilegiata condizione non si ascrive ai loro meriti, ma ad una grazia speciale di<br />

Cristo; se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, anziché essere salvati,<br />

saranno invece giudicati più severamente» (LG 14).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Ma a esso non sono estranei i non cattolici. Infatti, «con coloro che sono battezzati e quindi insigniti<br />

del nome cristiano, ma non professano integralmente la fede o non conservano l’unità di comunione<br />

sotto il romano pontefice, la Chiesa si sa congiunta per molteplici ragioni» (LG 15); e riconosce<br />

«anzi una certa vera congiunzione nello Spirito Santo, che anche in loro opera con la sua virtù santi-<br />

ficatrice mediante doni e grazie; alcuni poi di loro li ha fortificati fino all’effusione del sangue» (i-<br />

bid.). In modo ancora più preciso il decreto Unitatis Redintegratio n. 3 insegna:<br />

«Coloro… che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo sono costituiti in una<br />

certa comunione, sebbene imperfetta, con la chiesa cattolica. Non v’è dubbio che, per le divergenze<br />

che in vari modi esistono tra loro e la chiesa cattolica, sia nel campo della dottrina e talora anche<br />

della disciplina, sia circa la struttura della chiesa, impedimenti non pochi, e talvolta più gravi,<br />

si oppongono alla piena comunione ecclesiastica, al superamento dei quali tende appunto il movimento<br />

ecumenico. Nondimeno, giustificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo e<br />

perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani e dai figli della chiesa cattolica sono giustamente<br />

riconosciuti come fratelli nel Signore».<br />

Sono così poste le basi per lo sviluppo del movimento ecumenico e per la costituzione già all’inizio<br />

del Concilio per opera di papa Giovanni XXIII (Pentecoste 1960) del Segretariato per l’Unione dei<br />

Cristiani (ora Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei cristiani).<br />

Anche i non cristiani «in vari modi sono ordinati al popolo di Dio» (LG 16), sia per i valori religiosi<br />

di cui sono portatori e che li rendono più o meno vicini al cristianesimo, sia soprattutto perché sono<br />

inclusi anch’essi nel disegno di salvezza che Dio ha realizzato in Gesù Cristo e a cui tutti i popoli<br />

devono portare i propri doni. Del resto anche in essi agisce lo Spirito Santo:<br />

«Infatti coloro che ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa senza loro colpa, ma cercano sinceramente<br />

Dio, e sotto l’influsso della grazia si sforzano di compiere fattivamente la volontà di<br />

Dio conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza. Anche a coloro<br />

che senza colpa personale non sono ancora arrivati ad una conoscenza esplicita di Dio, ma si<br />

sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta, la provvidenza divina non rifiuta<br />

gli aiuti necessari alla salvezza. Infatti tutto ciò che di buono e di vero si trova presso di loro, la<br />

Chiesa lo considera come una preparazione evangelica, come un dono concesso da colui che illumina<br />

ogni uomo, perché abbia finalmente la vita» (LG 16).<br />

Con queste affermazioni — e le ulteriori precisazioni contenute nella dichiarazione Nostra Aetate<br />

— si sono poste le basi per il dialogo con le religioni non cristiane, che ha trovato la sua attuazione<br />

nell’istituzione da parte di Paolo VI (19 maggio 1964) del Segretariato per i Non Cristiani (ora Pon-<br />

tificio Consiglio per il Dialogo Inter-religioso).<br />

4) Dal fatto di essere sacramento universale di salvezza (LG 48), e quindi dal carattere di cattolicità,<br />

promana il carattere missionario del popolo di Dio. Certamente esso è missionario per un chiaro<br />

mandato di Cristo: «Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole» (Mt 28,19); ma più profon-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

damente, lo è perché «è spinto dallo Spirito Santo a cooperare affinché sia eseguito il piano di Dio,<br />

il quale ha costituito Cristo principio della salvezza per il mondo intero» e ha fatto della Chiesa, in<br />

quanto «sacramento di Cristo», il sacramento della salvezza per l’umanità intera:<br />

«Predicando il Vangelo, la Chiesa dispone gli uditori alla fede e alla confessione della fede, li prepara<br />

al battesimo, li sottrae alla schiavitù dell’errore e li incorpora a Cristo, perché mediante la carità<br />

abbiano a crescere in lui fino alla pienezza. Con la sua attività fa sì che ogni germe di bene che<br />

si trova nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo<br />

non vada perduto, ma sia purificato, elevato e portato a compimento per la gloria di Dio, la confusione<br />

del demonio e la felicità dell’uomo» (LG 17).<br />

La missione moderna, iniziata nel 1500 dopo la scoperta che intere popolazioni senza loro colpa<br />

non avevano sentito parlare del Vangelo, è passata attraverso tre fasi: nella prima (sec. XVI e XVII)<br />

la missione è affidata dalla Santa Sede ai regni cattolici di Spagna e Portogallo (solo il 6 gennaio<br />

1622 Gregorio XV istituirà la Sacra Congregazione de propaganda fide per la preparazione dei fu-<br />

turi missionari), i quali “esportano” la “civiltà cristiana” (di cui elemento caratteristico è il cristiane-<br />

simo) nei paesi di conquista, per salvare le anime dei singoli “infedeli” mediante il battesimo che li<br />

incorpora alla Chiesa (occidentale e latina) e li strappa alla civitas diaboli (le culture indigene, da<br />

distruggere perché idolatriche); nella seconda fase (dal 1850 fino alla seconda guerra mondiale), col<br />

venire meno delle potenze cattoliche e della cristianità, la missione non è più intesa come espansio-<br />

ne di civiltà, bensì come compito specificamente religioso condotto non solo da specialisti (gli ordi-<br />

ni religiosi) ma dal popolo di Dio sotto la guida dei suoi pastori (nascono istituti per la formazione<br />

di preti diocesani, ad es. il PIME; sorgono congregazioni missionarie femminili; grande è il coin-<br />

volgimento dei laici a mezzo stampa…; nascono anche le scuole di missiologia — ad es. di Münster<br />

e di Lovanio — che teorizzano che il fine della missione è non la salus animarum, ma la “plantatio<br />

ecclesiae” dove la Chiesa non c’è); la terza fase è segnata da alcuni fenomeni importanti come la<br />

decolonizzazione e l’accesso delle giovani nazioni all’indipendenza, la scristianizzazione delle na-<br />

zioni di antica evangelizzazione: ne segue, in primo luogo, che la missione non riguarda più solo i<br />

paesi “di missione”, ma è una dinamica essenziale di tutta la Chiesa nel suo servizio al Regno di<br />

Dio, e in secondo luogo emerge in tutta la sua rilevanza la sfida dell’inculturazione del Vangelo e la<br />

sua relazione alla promozione umana.<br />

Il Vaticano II ha promulgato in merito l’importante Decreto sull’attività missionaria della chiesa<br />

“Ad gentes”. Se è vero che i membri della Commissione non hanno mai saputo decidersi fra una<br />

concezione territoriale e giuridica della missione — la missione riguarda gli “altri” territori —, e<br />

una concezione teologica della missione — la missione è collocarsi nel solco della missione di Cri-<br />

sto, nel solco del venire del Figlio dal Padre all’umanità —, d’altra parte riconosciamo che il primo<br />

312


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

capitolo di Ad gentes fa sua una concezione cristologica, trinitaria, pneumatologica, escatologica<br />

della missione: la missione è il movimento di amore che da Dio scende verso gli uomini.<br />

Proseguendo questa traiettoria l’Evangelii Nuntiandi (8 XII 1975) di Paolo VI e la Redemptoris<br />

Missio (7 XII 1990) di Giovanni Paolo II hanno affrontato la necessità di una revisione dei metodi<br />

missionari e di una nuova visione dell’azione missionaria, che articoli il compito unitario della mis-<br />

sione affidato alla chiesa e le quattro dinamiche della sua realizzazione effettiva (cfr. RM cap. V).<br />

1) L’annuncio, che è innanzitutto la messa in atto di tutte quelle mediazioni — la Parola, il Sacra-<br />

mento, uno stile di vita etico misurato sulla dedizione di Gesù — attraverso cui il Cristo costituisce<br />

le persone come suoi discepoli.<br />

2) Il dialogo, che è il modo in cui l’annuncio va realizzato, perché ci conforma allo stile dialogico<br />

della rivelazione cristiana, in cui «Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad<br />

amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2). Il dialogo<br />

quindi non giustifica “di diritto” il relativismo religioso, in base al quale tutte le religioni o chiese<br />

sarebbero uguali o almeno complementari. Ciò significherebbe minare o almeno gettare un’ombra<br />

di dubbio o di insicurezza sulla convinzione di fede che la rivelazione cristiana e il mistero di Gesù<br />

Cristo e della Chiesa hanno un carattere di verità assoluta e di universalità salvifica (Congregazione<br />

per la Dottrina della fede, Dominus Iesus 4). D’altra parte, il dialogo non è semplicemente un espe-<br />

diente “tattico” con cui perseguire in modo più subdolo l’opera di proselitismo. Ecco perché, nello<br />

stile del Dio di Gesù Cristo, anche la Chiesa, rivolgendosi a tutti gli uomini in un «atteggiamento di<br />

comprensione» e in «un rapporto di conoscenza reciproca e di mutuo arricchimento, nell’obbedienza<br />

alla verità e nel rispetto della libertà» (Dominus Iesus 2), testimonia quel Vangelo che ad essa è sta-<br />

to affidato e di cui deve vivere e rispondere.<br />

3) L’inculturazione. Secondo Lumen Gentium n. 13 la missione della Chiesa deve ricondurre a Cri-<br />

sto le ricchezze di tutti i popoli — e in modo specifico la loro cultura. L’inculturazione è quindi il<br />

modo in cui il Vangelo si incarna nelle situazioni di un popolo per aprirle alla verità di Cristo: tra<br />

inculturazione e incarnazione si scorge perciò una non debole analogia.<br />

4) La liberazione. Il vangelo è vangelo di liberazione. Non si può annunciare il vangelo senza con-<br />

frontarsi anche ai temi della liberazione dell’uomo, di tutto l’uomo: cfr. Giacomo 2,15-16. Non c’è<br />

quindi evangelizzazione senza promozione umana (Evangelii nuntiandi, 9. 31).<br />

313


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

2.8. Le questioni ecclesiologiche nel periodo postconciliare<br />

2.8.1. Fattori di contrasto nell’<strong>ecclesiologia</strong> attuale<br />

«È raro che a un Concilio non segua una grande confusione» (Lettera a Mr. O’Neill Daunt, 7 VIII<br />

1870). Questa affermazione del cardinale Newman al termine del Vaticano I risulta appropriata an-<br />

che per il Vaticano II sia nel campo della riforma strutturale della Chiesa che nel rapporto con<br />

l’eredità dottrinale del Concilio, centrata sulla teologia della Chiesa. Nonostante ciò, la confusione<br />

e, in alcuni ambienti, le crisi che hanno poi condizionato lo sviluppo dell’<strong>ecclesiologia</strong> post-<br />

conciliare, sia nel metodo che nel contenuto, non si devono attribuire superficialmente al Concilio e<br />

alla dottrina ecclesiologica dei suoi decreti, benché questa abbia in sé alcune lacune ed anomalie ri-<br />

levanti che hanno motivato posizioni contrastanti sulla sua interpretazione.<br />

Non estranei a queste divergenze risultano alcuni fattori esterni ed interni alla dottrina ecclesiologi-<br />

ca del Vaticano II. Negli ultimi quarant’anni si sono verificate, nella società e nelle Chiese, trasfor-<br />

mazioni tali da creare seri ostacoli per la trasmissione del messaggio cristiano (soprattutto così come<br />

si era formato e strutturato nell’ambiente del pre-Concilio): l’espansione economica e scientifica ha<br />

seguito un ritmo vertiginoso; i modelli classici di società sono entrati in crisi; vaste aree del Terzo<br />

Mondo si sono sollevate contro ogni forma di neocolonialismo, mettendo in discussione la superio-<br />

rità del modello occidentale; nuovi fermenti culturali, come l’emancipazione della donna, il movi-<br />

mento ecologista, la crisi progressiva di ogni sistema totalitario, si sono affacciati prepotentemente<br />

sulla scena chiedendo una presa di posizione della Chiesa. All’interno questa ha dovuto rispondere<br />

alle esigenze di una maggiore partecipazione di tutti i suoi membri nella elaborazione e realizzazio-<br />

ne delle decisioni, alla necessità di instaurare un dialogo fecondo con le altre Chiese e religioni, e<br />

(soprattutto nella Chiesa del Terzo Mondo) alla sfida della povertà.<br />

La confusione ecclesiologica che si è diffusa dopo il Vaticano II si radica nell’indole stessa della<br />

dottrina conciliare, che non vuole, solitamente, prendere le difese di una sola corrente teologica, ma<br />

mira ad ottenere il massimo del consenso possibile, comportando di conseguenza delle concessioni<br />

da parte di tutti: il testo conciliare risulta così un mosaico di incisi, di distinguo, di precisazioni e at-<br />

tenuazioni. Inoltre il Vaticano II non ha voluto sciogliere in maniera definitiva alcuna questione og-<br />

getto di discussione teologica perseguendo un orientamento eminentemente pastorale. Avendo ri-<br />

nunciato a emettere definizioni dogmatiche vincolanti, il Concilio ha voluto perseguire un quadru-<br />

plice obiettivo: precisare con maggiore esattezza la «coscienza» della Chiesa; perseguire il rinno-<br />

vamento autentico della Chiesa; ristabilire l’unità fra tutti i cristiani; intensificare il dialogo della<br />

Chiesa con gli uomini della nostra epoca, tendendo una mano verso il mondo contemporaneo. Infi-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

ne la Chiesa post-conciliare ha concentrato tutte le sue energie nella riforma delle sue istituzioni sia<br />

a livello universale che locale (per esempio il riordino delle Conferenze Episcopali nazionali, il si-<br />

nodo dei vescovi, la riforma della Curia, la creazione di nuovi segretariati, la creazione di strutture<br />

di partecipazione a livello diocesano e parrocchiale come i consigli presbiterali e pastorali…). Circa<br />

i problemi sollevati da questo rinnovamento, pastori e teologi non hanno sempre trovato soluzioni<br />

in grado non solo di prevenire, ma a volte di seguire il ritmo vertiginoso con cui sono sorti conflitti<br />

nei diversi aspetti della vita ecclesiale. L’<strong>ecclesiologia</strong> in questi cinquant’anni è stata sfidata da<br />

nuovi problemi ai quali ha dovuto dare una nuova risposta rimanendo fedele alle opzioni ecclesiolo-<br />

giche di metodo e di contenuto adottate dal Vaticano II.<br />

2.8.2. Impostazione metodologica del Vaticano II<br />

Le opzioni metodologiche del Vaticano II fatte proprie dalla <strong>ecclesiologia</strong> post-conciliare sono:<br />

1) Il ritorno alle fonti della teologia, cioè alla parola di Dio viva nella Chiesa e trasmessa vitalmente<br />

con l’aiuto dello Spirito Santo nella dottrina dei Padri, dei Concili, del magistero ecclesiastico e nel-<br />

la testimonianza della liturgia e della vita cristiana (cfr. Dei Verbum e Sacrosanctum Concilium).<br />

2) Il punto di partenza della riflessione ecclesiologica costituito dal mistero stesso della Chiesa (ca-<br />

pitolo I della Lumen Gentium) e non più la tematica socio-giuridica dell’<strong>ecclesiologia</strong> apologetica<br />

pre-conciliare. Si sviluppa così una tematica autenticamente teologica che presenta la Chiesa come<br />

oggetto di fede il cui studio deve essere ispirato dalla fede.<br />

3) L’indirizzo storico-salvifico. La Chiesa appare come fructum salutis o creazione di Dio Padre<br />

mediante l’opera redentrice del Figlio nello Spirito Santo e, allo stesso tempo, come medium salutis<br />

attraverso cui Dio comunica la sua grazia all’uomo.<br />

4) La priorità nell’ordine della finalità del popolo di Dio profetico e sacerdotale nella sua totalità<br />

(Lumen Gentium II e V) rispetto alle varie categorie di persone che lo compongono (III, IV e VI).<br />

5) La consapevolezza della universalità della Chiesa (non più Chiesa occidentale, ma Chiesa vera-<br />

mente mondiale: Rahner), con la necessità di considerare tutte le legittime e feconde diversità senza<br />

tuttavia tradire l’unità della fede (il pluralismo sotto tutte le sue espressioni e ambiti possibili).<br />

Questi cambiamenti di ordine metodologico introdotti dal Vaticano II si sono però rivelati insuffi-<br />

cienti nella <strong>ecclesiologia</strong> post-conciliare. Il confronto tra l’<strong>ecclesiologia</strong> socio-giuridica, apologetica<br />

prevalente dalla Controriforma in poi e la nuova <strong>ecclesiologia</strong>, radicata nella Scrittura e nei Padri,<br />

storica e di comunione, che ha finito per imporsi nel Concilio, non ha permesso di arrivare alla sin-<br />

tesi desiderata, così che diversi teologi parlano di una giustapposizione delle due tendenze ecclesio-<br />

logiche nei documenti conciliari.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Il rapporto della Chiesa con il mondo insinuato solamente nella LG e descritto nella GS, oltre che<br />

per il suo intrinseco riferirsi ad un momento storico preciso e quindi datato, è stato criticato anche<br />

per il suo rispecchiare la situazione della Chiesa nel mondo economicamente sviluppato.<br />

Inoltre la ragione di alcune difficoltà presenti nello stato attuale della <strong>ecclesiologia</strong> sta in alcune<br />

ambiguità fondamentali dei testi conciliari. Tale ambiguità caratterizza i testi cruciali della ecclesio-<br />

logia conciliare poiché è stato più difficile trovare un compromesso che ottenesse il consenso più<br />

ampio possibile (ad es. i rapporti tra papato ed episcopato nella prospettiva di un esercizio del pri-<br />

mato che consideri tutte le implicazioni del principio di collegialità episcopale; oppure la discussio-<br />

ne sul posto dei laici nella Chiesa, con le conseguenze derivanti dalla vera aequalitas, seppur in va-<br />

rietate, tra pastori e laici). Ecco perché nell’immediato post-concilio si sono giustificate visioni ec-<br />

clesiologiche e scelte pastorali diverse basandosi sugli stessi documenti del Vaticano II (che a volte<br />

hanno raggiunto un accordo nei testi solo a livello di enunciati, ma non a livello di contenuti).<br />

Inoltre si deve notare la debole rilevanza e mancante precisione nel considerare l’opera che lo Spiri-<br />

to Santo svolge nel costituire e nel far vivere la Chiesa e di conseguenza la poco precisa coordina-<br />

zione fra i doni e i ministeri che Questi suscita nella vita e struttura della Chiesa (la considerazione<br />

conciliare ha sottolineato molto di più la dimensione cristologica e istituzionale).<br />

2.8.3. La chiesa mistero di comunione<br />

1) Il sinodo straordinario del 1985 ha affermato che: «l’<strong>ecclesiologia</strong> di comunione è l’idea centrale<br />

e fondamentale nei documenti del concilio» 180 . Inoltre la Congregazione per la dottrina della fede<br />

(1992) ha fatto sua, pur con alcuni distinguo, questa nozione di communio come «molto adeguata<br />

per esprimere il mistero della chiesa» così che «può certamente essere una chiave di lettura per una<br />

rinnovata <strong>ecclesiologia</strong> cattolica» 181 . Anche la 7 a assembla generale del Consiglio Ecumenico delle<br />

Chiese (Canberra 1991) nel documento della commissione di Fede e costituzione, «L’unità della<br />

Chiesa come koinonia: dono e vocazione», ha proposto di considerare la communio come categoria<br />

chiave della visione della chiesa 182 . In particolare questa nozione appare sempre più chiaramente<br />

come possibile formula di consenso verso l’auspicato processo ecumenico di unione delle Chiese e<br />

come occasione per ristrutturare i concreti rapporti intraecclesiali.<br />

180 SINODO DEI VESCOVI, II Assemblea straordinaria (1985), Relatio finalis, II, C, 1 = EV 9, n. 1800.<br />

181 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera «communionis notio» su alcuni aspetti della Chiesa intesa<br />

come comunione, 1. Cfr. J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> della Costituzione «Lumen Gentium», art. cit., 69ss.<br />

182 Cfr. Il Regno. Documenti XXXVI (1991/7) 253. Incentrato sul tema della comunione è anche l’importante documento<br />

di FEDE E COSTITUZIONE, La natura e lo scopo della Chiesa, in Il Regno. Documenti XLIV (1999/9) 315-328.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

Ora, questa immagine di chiesa dipende dalla riscoperta del Dio trinitario, sempre più inteso come<br />

communio di Padre, Figlio e Spirito Santo. Questo mutamento d’accento nell’immagine di Dio si<br />

ripercuote anche sull’attuale immagine di chiesa: considerata da un punto di vista teologico e spiri-<br />

tuale, essa può risultare una parabola di questo Dio trinitario e della sua communio di amore. Con<br />

una formula breve la si può descrivere come la comunità dei fedeli unita dallo Spirito santo, con-<br />

formata al Figlio Gesù Cristo e chiamata, con l’intera creazione, al Regno di Dio, il Padre. La rela-<br />

zione con lo Spirito dona alla chiesa la sua specifica forma di unità, cioè l’unità nella molteplicità;<br />

lo Spirito la rende “ecclesia”, assemblea del popolo di Dio. La relazione con Gesù Cristo dona alla<br />

chiesa il suo specifico contenuto, quello di essere chiesa alla sequela di Gesù: in questo modo essa<br />

diventa “corpo” e “sposa di Cristo”. La relazione col Padre definisce l’origine e il fine della chiesa,<br />

cioè la creazione e il regno di Dio; in quanto “popolo di Dio”, essa li unisce entrambi, nel senso di<br />

una comunità in cammino con tutte le creature verso la pienezza del Regno 183 .<br />

Tuttavia, di fronte a questa unanime e pubblica accoglienza, di fatto questa nozione sembra essersi<br />

trasformata in una formula di un “pio desiderio” o in un “alibi” per mitigare in modo eufemistico gli<br />

inconvenienti strutturali (al riparo di questo termine simpatico) oppure per immaginarsi romantica-<br />

mente una Chiesa “ideale”, ben diversa dalla chiesa concretamente esperita.<br />

Ma anche se ci si guarda dal cadere in questi abusi, sembra che la concezione della Chiesa come<br />

communio, riscoperta al Concilio Vaticano II sembra una visione che manca di fondamento. Di fat-<br />

to, una delle riscoperte ecclesiologiche più radicali del Vaticano II, ossia la uguale originarietà e va-<br />

lore della chiesa universale e della chiesa locale (LG 23; 26; CD 11), del principio gerarchico e del<br />

principio sinodale, non si vede come oggi concretamente abbia una sua concreta istituzionalizzazio-<br />

ne. Perché la teologia della communio con il suo asserto centrale della medesima originarietà di uni-<br />

tà e molteplicità, di primato e collegialità, di gerarchia e principio sinodale, possa veramente im-<br />

prontare il volto reale della chiesa cattolica, ha bisogno di un soggetto ecclesiale reale, che le con-<br />

senta di realizzarsi a livello di strutture della chiesa universale.<br />

2.8.4. Una chiesa - molte chiese<br />

Se infatti noi guardiamo il Vaticano II dobbiamo riconoscere che nella relazione una Chiesa-molte<br />

Chiese esso ha adottato come punto di partenza la realtà e la nozione di Chiesa universale o congre-<br />

183 M. KEHL, Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo, gdt 255, Queriniana, Brescia 1998, 83-84. Sul tema si<br />

vedano le riflessioni del medesimo autore nel suo manuale, La chiesa, 68-72, 139-150 e in «Communio» - eine verblassende<br />

Vision?, in Stimmen der Zeit 215,7 (1997) 448-456.<br />

317


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

gazione di tutti i fedeli in comunione con il Pastore supremo e con tutto il corpo episcopale. È chia-<br />

ro che la LG, quando ha rinunciato ad adottare come punto di partenza la teologia della Chiesa loca-<br />

le, non lo ha fatto per mettere in rilievo l’aspetto socio-istituzionale della Chiesa, ma piuttosto per<br />

centrare la sua <strong>ecclesiologia</strong> sul mistero stesso dell’organismo sociale reso vivo dallo Spirito e costi-<br />

tuito dai membri uniti nella più stretta comunione di vita spirituale. Questa impostazione però non è<br />

esente da un pericolo: l’uniformità e la centralizzazione intese come condizioni necessarie per la re-<br />

alizzazione dell’unità. Pertanto il compito della <strong>ecclesiologia</strong> post-conciliare è consistito nel-<br />

l’assumere gli spunti della teologia della communio presenti nei documenti conciliari per allontanare<br />

sempre più questo pericolo, spostando progressivamente il centro di gravità verso le Chiese locali.<br />

Nel cammino verso l’integrazione tra teologia della Chiesa universale e teologia della Chiesa locale<br />

sono risultati decisivi alcuni elementi presenti nel Concilio: l’esigenza di un’università reale della<br />

Chiesa di Cristo diffusa nei cinque continenti; gli elementi di una teologia della Chiesa come as-<br />

semblea eucaristica intorno all’altare del Signore con il suo legittimo pastore; le conseguenze di una<br />

attenzione più precisa all’ufficio pastorale dei vescovi, alle Chiese Orientali, all’attività missionaria.<br />

Il Concilio, insomma, ha posto i fondamenti teologici del modello della Chiesa - communio eccle-<br />

siarum, per cui le Chiese particolari non sono semplicemente parti o meri distretti amministrativi di<br />

una confederazione di Chiese, chiamata Chiesa universale, ma la stessa realtà suprema dell’unica<br />

Chiesa di Cristo presente e realmente attualizzata in un determinato luogo. Alla luce di questo prin-<br />

cipio ecclesiologico si comprendono le tensioni sorte in epoca post-conciliare tra «centro» e «perife-<br />

ria», tra «base» e «vertice» della Chiesa, che dovrebbero trovare una futura più armonica concilia-<br />

zione che componga le due dimensioni irrinunciabili 184 .<br />

2.8.5. Primato e collegialità<br />

Cercare la verità integrale e coerente sul primato e sull’episcopato è stato un compito irto di grandi<br />

difficoltà di ordine teorico e pratico non solo nelle discussioni in seno all’assemblea ma anche<br />

nell’<strong>ecclesiologia</strong> post-conciliare. Non meraviglia che l’attuazione della collegialità a tutti i livelli<br />

della Chiesa abbia costituito un focolaio di tensioni sia nel rapporto tra episcopato e primato sia tra<br />

le varie categorie di persone che compongono la Chiesa locale. Il Concilio non ha fatto nessuna op-<br />

184 Attualmente le molte chiese locali e regionali (ad es. Conferenze episcopali), le quali sarebbero i soggetti della teologia<br />

della communio a livello di chiesa universale, sono però strutturalmente indebolite dagli sviluppi culturali, sociali e<br />

politici contemporanei, al punto che in diversi luoghi esse sono appena in grado di sopravvivere; e questo molto spesso<br />

solo grazie al servizio di supplenza e di sostegno del ministero petrino. Esse sono così incapaci di salvaguardare con<br />

sufficiente efficacia questo loro ruolo: M. KEHL, «Communio» - eine verblassende Vision?, art. cit., 450-452.<br />

318


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

zione sostanziale sui punti più controversi, ma si è limitato a sottolineare l’intima unione esistente<br />

tra primato e collegialità dei vescovi come due verità emananti dalla stessa rivelazione divina. La<br />

posizione del Vaticano II che non ha opposto i termini del binomio «primato-episcopato» è chiara:<br />

come è inammissibile la concezione di vescovi intesi come semplici vicari e delegati del papa, così è<br />

ugualmente inaccettabile concepire il papa come vicario e delegato del Collegio episcopale. Cer-<br />

tamente le posizioni estreme non possono invocare a loro favore la dottrina ecclesiologica del Con-<br />

cilio. Ma fra i due estremi esistono posizioni centrali diverse e variegate che si muovono sull’arco di<br />

una stessa comunione. È all’interno di questa amplissima area che la ricerca ecclesiologica può e<br />

deve fondarsi ulteriormente sulla struttura fondamentale del binomio «primato-collegialità episcopa-<br />

le» e trarne le implicazioni pastorali per il governo centrale e periferico della Chiesa 185 .<br />

2.8.6. Rapporto tra gerarchia e laicato<br />

L’inserimento nella LG del capitolo secondo sul popolo di Dio ci dà la chiave per interpretare il po-<br />

sto e la missione dei laici nella Chiesa come facenti parte del mistero di quel popolo pellegrino che<br />

nel piano divino è ritenuto il fine, mentre il ministero gerarchico è un mezzo in ordine a tale fine.<br />

Con questa struttura definitiva della LG si dà priorità e si accentuano gli elementi comuni a tutte le<br />

categorie di persone: l’unità, la solidarietà, l’uguaglianza essenziale nell’ambito dell’esistenza cri-<br />

stiana, il mistero di comunione per il quale tutti siamo fratelli in Cristo. Il Concilio, tuttavia, non ha<br />

affrontato espressamente il problema di come promuovere questo principio di uguaglianza fonda-<br />

mentale — seppur nella diversità — tra pastori e semplici fedeli in ordine alla partecipazione attiva<br />

ed effettiva (non solo da semplici esecutori) di questi ultimi alla responsabilità per la Chiesa 186 .<br />

Queste difficoltà nascono dalla scarsa precisione degli stessi documenti conciliari su alcuni punti<br />

della teologia del laicato: innanzi tutto la stessa nozione descrittiva e puramente negativa di laico e<br />

l’inafferrabilità del concetto di «indole secolare» (di ordine sociologico più che teologico?) propria<br />

dei laici (LG 31). Il Concilio ha recepito i risultati delle ricerche di Congar nell’opera pionieristica<br />

Jalons pour une théologie du laicat (1953): «Il laico sarà dunque colui per il quale nell’opera stessa<br />

185 Certo è che attualmente la Curia romana sostituisce al suo livello il principio di collegialità, teoricamente riconosciuto<br />

al collegio episcopale, ma di fatto bloccato da problemi pratici. Così il grande apparato della organizzazione centrale<br />

del potere ecclesiastico, necessario a una chiesa mondiale, ha di fatto assunto su di sé i compiti di una collaborazione<br />

episcopale e collegiale col ministero petrino: M. KEHL, «Communio» - eine verblassende Vision?, art. cit., 450; J.R.<br />

QUINN, Per una riforma del papato, gdt 272, Queriniana, Brescia 2000; F. KÖNIG, Collegialità e centralismo, in Il Regno.<br />

Documenti XLIV (1999/9) 285-288.<br />

186 Laici nel ministero: la paura di dare un nome. Intervista con p. Bernard Sesboüé, in Il Regno. Attualità XLIII<br />

(1998/2) 12-16; B. SESBOÜÉ, N’ayez pas peur. Regards sur l’Église et les ministères aujourd’hui, Paris 1996; G. CA-<br />

319


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

che Dio gli ha affidato, la sostanza delle cose in se stesse esiste ed è interessante. Il chierico e ancor<br />

di più il monaco è uno per il quale le cose non sono veramente interessanti in se stesse, ma in rela-<br />

zione ad un altro, cioè nel rapporto che le lega a Dio, che esse fanno conoscere e possono aiutare a<br />

servire» 187 . Evidentemente questa concezione pensa le realtà di Chiesa e mondo come giustapposte,<br />

così che i chierici e i religiosi sono gli attori sulla scena ecclesiale, mentre ai laici viene assegnata la<br />

competenza di vivere la loro testimonianza cristiana nella sfera delle realtà secolari. Questa figura è<br />

l’esito di una concezione troppo schematica del rapporto Chiesa-mondo, che poggia sul presupposto<br />

della distinzione dei due ordini «soprannaturale e naturale». Il Concilio, pur utilizzando ancora que-<br />

sto vocabolario, nella LG ha però indirizzato la riflessione verso un’altra direzione: quella per cui<br />

ogni credente è per vocazione battesimale un christifidelis, che in ragione della sua appartenenza a<br />

Cristo deve in ogni situazione concreta del vivere testimoniare l’evangelo della carità.<br />

Sulla questione della “indole propria” del laico si sono poi sviluppate ulteriori questioni “pastorali”:<br />

la partecipazione laicale ai munera ecclesiastici, la sua possibilità di sostituire i ministri in alcune<br />

funzioni sacre (officia sacra) e la possibilità di dedicarsi completamente, chiamati dal vescovo, agli<br />

impegni apostolici (a che titolo?); i vari ministeri ecclesiali laicali.<br />

2.8.7. Chiesa - mondo<br />

Con i suoi tre anni di gestazione la GS è il documento del Vaticano II che riflette più fedelmente il<br />

progressivo cambiamento dei concetti teologici di «Chiesa» e di «mondo». Malgrado il grande entu-<br />

siasmo degli esperti e dei padri conciliari nell’affrontare il tema, essi si sono trovati come inermi e<br />

divisi non solo per la sua soluzione, ma anche per il piano di lavoro e di strutturazione da dare al<br />

documento 188 . La sua elaborazione, infatti, esigeva di prendere posizione sul problema tanto com-<br />

plesso del rapporto tra naturale e soprannaturale, Chiesa e mondo. Ma il Vaticano II non poteva elu-<br />

dere la propria responsabilità: era meglio correre il rischio di scrivere una dichiarazione incompleta,<br />

ma capace di fissare i principi dinamici contenuti nella rivelazione e di indicare alcuni punti di rife-<br />

NOBBIO, Laici dopo il Vaticano II, in Il Regno. Documenti LVI (<strong>2011</strong>/13) 419-427.<br />

187 Y. CONGAR, Per una teologia del laicato, Morcelliana, Brescia 1967, 39. Cfr. una buona sintesi in M. VERGOTTINI,<br />

La riflessione teologica sui laici. Da Lumen Gentium a Christifideles Laici, in C. GHIDELLI (ed.), A trent’anni dal Concilio.<br />

Memoria e profezia, Studium, Roma 1995, 131-159. Una riflessione più approfondita e attenta al lato canonico si<br />

può trovare in E. ZANETTI, «La nozione di “laico” nel dibattito preconciliare». Alle radici di una svolta significativa e<br />

problematica, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1998; G. ZAMBON, Laicato e tipologie ecclesiali. Ricerca<br />

storica sulla «Teologia del laicato» in Italia alla luce del Concilio Vaticano II (1950-1980), Editrice Pontificia Università<br />

Gregoriana, Roma 1996. Una proposta storico-sistematica è sviluppata invece da G. ANGELINI – G. AMBROSIO,<br />

Laico e cristiano. La fede e le condizioni comuni del vivere, Marietti, Genova 1987.<br />

188 Cfr. M. GERVASONI, Commento allo schema della Costituzione pastorale Gaudium et spes, in SCUOLA DI TEOLOGIA<br />

DEL SEMINARIO DI BERGAMO, Sulle tracce del Concilio, Bergamo 1996 2 , 133-138.<br />

320


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

rimento, piuttosto che retrocedere di fronte alla difficoltà di non poter elaborare un documento con-<br />

ciliare. Per superare la difficoltà si scelse di classificare la GS come Costituzione pastorale 189 .<br />

a) Senso e significato di mondo<br />

Per comprendere il senso di quanto prodotto dal Concilio sul tema occorre in un primo passo ri-<br />

chiamare, seguendo le indicazioni di Karl Rahner, la triplice classica accezione di mondo.<br />

1) «Sotto il profilo teologico il mondo designa anzitutto in un senso neutro la totalità della creazione<br />

come unita (nell’origine, nel destino e nello scopo, nelle strutture generali, nella reciproca dipen-<br />

denza di tutti da tutti), con l’inclusione dell’uomo oppure distinto da lui come suo “ambiente” come<br />

situazione da Dio precostituita della sua storia della salvezza».<br />

2) «In quanto questo mondo (soprattutto il mondo umano), a causa della colpa degli angeli e a causa<br />

di quella originale dell’uomo (peccato originale) e a causa della successiva storia della perdizione,<br />

possiede, sino nel profondo della realtà materiale, un’impronta antidivina e contraria alle proprie<br />

strutture e determinazioni ultime, mondo (biblicamente: “questo” cosmo, “questo” eone) significa<br />

l’insieme delle “forze e potestà” ostili a Dio, vale a dire tutto ciò che nel mondo esiste come spinta a<br />

una nuova colpa e come concretezza, corporeità afferrabile di questa colpa».<br />

3) «Ma, anche in quanto mondo peccatore, esso è ancora tuttavia il mondo amato da Dio, bisognoso,<br />

ma anche suscettibile di redenzione, già abbracciato dalla grazia di Dio nonostante la sua colpa e in<br />

essa, la cui storia avrà fine nel regno di Dio» 190 .<br />

Noi qui utilizziamo in particolare la terza accezione, ossia quella di mondo lontano da Dio e tuttavia<br />

amato da Dio, proprio in questa sua lontananza. Ma, in tanto è possibile questa accezione in quanto<br />

esiste un soggetto storico che media quell’amore di Dio per il mondo. Questo soggetto storico (Gesù<br />

e, alla sua sequela, la Chiesa) «produce» questo concetto di mondo nella misura in cui «produce»<br />

storicamente quella mediazione simbolica in cui il mondo è accolto: in Gesù di Nazaret con la cro-<br />

ce, in quanto riassuntiva della sua intera esistenza che è stato radicale accoglimento dell’altro ed es-<br />

sere-per-gli-altri; nella Chiesa, nella misura in cui si dà «santificazione» (1Pt 1,13-22).<br />

Ma allora è anche chiaro che Chiesa e mondo sempre nuovamente nella storia si rapportano secondo<br />

una varietà di figure che, ultimamente, vanno giudicate, in una prospettiva teologica cristiana, nella<br />

misura in cui in esse viene riprodotta la figura del rapporto che Gesù ha stabilito con il mondo. Al<br />

189 Sulla novità di un magistero “pastorale” cfr. K. RAHNER, “La problematica teologica di una «costituzione pastorale»”,<br />

in Nuovi Saggi III, Edizioni Paoline, Roma 1969, 693-721.<br />

190 K. RAHNER, Chiesa e mondo, in Sacramentum Mundi 2, 191-218; qui 194.<br />

321


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

tempo stesso questa considerazione comporta che, nel nostro tentativo attuale di delineare il giusto<br />

rapporto tra Chiesa e mondo, facciano sentire il loro peso tutte le figure storiche del passato: la<br />

«produzione» delle mediazioni attuali è solo una modifica delle mediazioni passate. Per questo è<br />

necessario sempre che la determinazione teorico/pratica attuale si radichi nella memoria storica. Nei<br />

limiti della nostra sintesi non possiamo ripercorrere l’intero arco delle figure del rapporto Chiesa-<br />

mondo, così come sono state prodotte nella storia. Ci limitiamo ad un aspetto di questo rapporto<br />

quale si è costituito in epoca moderna e che risulta decisivo anche nel momento attuale.<br />

b) Chiesa e mondo nella storia<br />

a) Fino al tardo medioevo era sembrato possibile, almeno a livello ideale, che la Chiesa si ponesse<br />

come fattore determinante di unificazione della società umana. Da questo disegno di unificazione<br />

restavano sostanzialmente esclusi i non cristiani, in particolare i «turchi», ma questo non sembrava<br />

disturbare eccessivamente la cristianità 191 .<br />

b) Ma è ormai anche questo che risulta impossibile nella congiuntura storica determinata in Europa<br />

dalle divisioni delle Chiese cristiane nel secolo XVI: epocalmente la fede cristiana non riesce a pro-<br />

durre una mediazione simbolica della unità della storia ed il mondo ricerca quindi altrove, nella e-<br />

sclusione delle Chiese, un fondamento unitario della propria convivenza. Infatti è all’interno della<br />

fede cristiana, nella figura che ha assunto nel XVI secolo, che si annida il germe della inimicizia so-<br />

ciale: i cristiani fanno guerra tra di loro e non possono proporsi come elemento di unità. Per trovare<br />

pace occorre mettere tra parentesi l’identità cristiano/confessionale e cercare un diverso punto di in-<br />

contro. Il mondo è costretto a ricercare una unità fuori dalla tutela della fede cristiana. Questo pro-<br />

cesso avviene a diversi livelli. In primo luogo è lo Stato che si pone come absolutus, sciolto dai vin-<br />

coli religiosi delle coscienze. Ma, più generalmente, si impone la necessità di costruire su una base<br />

secolarizzata i fondamenti della convivenza, anche nella «criminosa ipotesi che Dio non esista», etsi<br />

Deus non daretur. L’orizzonte mondano in epoca moderna si viene quindi a costituire progressiva-<br />

mente fuori dell’orizzonte ecclesiale, proprio in quell’elemento che è centrale per la fede cristiana:<br />

cioè rispetto alla capacità che dovrebbe possedere la Chiesa di indicare al mondo il cammino verso<br />

la riconciliazione finale. Sarebbe semplicistico pensare che la causa di questo fatto sia stata soltanto<br />

la divisione delle Chiese. Ma è certo che il divenire della coscienza occidentale (segnato dal lento<br />

191 Lo stesso Erasmo nella Querela pacis (1517) pone su un piano radicalmente diverso la guerra contro i turchi, vista<br />

come un male minore, e la guerra tra i cristiani, incompatibile in ogni caso con il vangelo di Cristo. Appare quindi come<br />

lo stesso ideale di unità della storia di cui si fanno carico i cristiani è, di fatto, già limitato alla storia interna al mondo<br />

occidentale cristiano.<br />

322


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

formarsi di un sapere scientifico autonomo, dal consolidarsi delle identità nazionali, dall’emergere<br />

di popoli nuovi fuori della cristianità, dallo sconvolgimento degli ordines medievali e dall’af-<br />

fermarsi di nuove classi sociali grazie alle nuove forme di produzione economica) trovò davanti a sé<br />

una Chiesa di fatto impreparata ed ancora attaccata ad un ideale di cristianità ormai tramontato.<br />

c) Di fronte alla esclusione le Chiese cristiane, e soprattutto la Chiesa cattolica, reagiscono con<br />

l’apologetica della inimicizia, differente da quella «fuga monastica» dal mondo che aveva segnato i<br />

secoli passati. Infatti la «fuga monastica» non avanzava pretese sul mondo, mentre l’inimicizia mo-<br />

derna della Chiesa nei confronti del mondo è tutta tesa a riguadagnare un posto nel mondo alla<br />

Chiesa, in quella posizione di privilegio a cui aveva sostanzialmente posto fine l’epoca delle guerre<br />

di religione, ma che la rivoluzione francese seppellirà per sempre sotto le macerie dell’Ancien Ré-<br />

gime. Sempre l’apologetica dell’inimicizia domina, nel secolo XIX, quella che è stata chiamata una<br />

«<strong>ecclesiologia</strong> sotto il segno dell’affermazione dell’autorità» 192 . Si tratta infatti di ristabilire<br />

quell’autorità della Chiesa sulla società che invece è negata da tutto l’evolversi della coscienza mo-<br />

derna. Questa pretesa viene giustificata con una lettura catastrofica della realtà mondana liberata<br />

dalla tutela religiosa: senza il legame religioso cristiano infatti la società non può che sfociare nella<br />

violenza e nella negazione di ogni autentico diritto 193 . E, se è vero che la società civile possiede i<br />

propri fini e gli strumenti adeguati a raggiungerli, è altresì vero che solo il fine soprannaturale pos-<br />

seduto dalla società perfetta Chiesa può «sanare» la sostanziale inadeguatezza della realtà mondana.<br />

d) L’esperienza cristiana e la stessa storia della teologia conoscono, tra il secolo XIX ed il secolo<br />

XX, esempi di un diverso rapporto da quello della inimicizia e dell’affermazione dell’autorità. Ma<br />

si tratta di fenomeni marginali che non riescono ad incidere nella coscienza dominante. È solo dopo<br />

la seconda guerra mondiale che, in campo teologico, si affermano diverse letture della realtà mon-<br />

dana che tentano un rapporto meno conflittuale tra Chiesa e mondo. Due furono le vie principali at-<br />

traverso le quali la teologia tentò di recuperare questo rapporto meno conflittuale. La prima tentò di<br />

sfruttare tutti quegli elementi del tradizionale pensiero filosofico cristiano che sottolineavano una<br />

giusta autonomia delle «realtà terrene» 194 . La seconda invece si impegnò in una lettura «amica» del<br />

192 Y. CONGAR, L’ecclésiologie de la Révolution française au Concile du Vatican, sous le signe de l’affirmation de<br />

l’autorité, in L’ecclésiologie au XIX siècle, Cerf, Paris 1960, 77-114.<br />

193 Significativa a tal proposito, la Quanta cura di Pio IX (DzH 2890); ma Pio IX non era isolato: si vedano i pareri espressi<br />

dai vescovi in preparazione al Vaticano I, raccolti in MANSI, Collectio conciliorum, vol. 49.<br />

194 Cfr. G. THILS, Teologia delle realtà terrene, Edizioni Paoline, Alba 1951. Negli anni Cinquanta nel mondo cattolico<br />

si scontrarono due correnti ecclesiologiche a proposito delle «realtà terrene»: una che, per correggere la visione troppo<br />

ottimistica del mondo, insiste sulla distinzione e sulle sue implicazioni come la presenza del peccato nel mondo, la realtà<br />

della Croce, la morte e la redenzione (linea escatologista); l’altra che, al contrario, si è proposta di evitare la visione pes-<br />

323


Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

processo di secolarizzazione 195 : questo processo infatti non è consono al cristianesimo stesso? Già<br />

la teologia dialettica aveva messo in crisi la funzione «religiosa» della fede cristiana come giustifi-<br />

cazione dell’ordine mondano 196 . Ma, per vie diverse, soprattutto Gogarten e Bonhoeffer ottennero<br />

quasi un consenso teologico sul carattere fondamentalmente «cristiano» del mondo secolarizzato 197 .<br />

e) Resta tuttavia una certa insoddisfazione rispetto a questi tentativi: un mondo secolarizzato, sem-<br />

pre più dominato dall’uomo (ominizzato) e libero da qualsiasi riferimento religioso, non rischia di<br />

diventare meno umano? E lo stesso processo di secolarizzazione non è ormai in crisi, affetto da<br />

quella crisi che attanaglia tutta la società occidentale nei suoi stessi valori fondanti? Ed ancora: una<br />

Chiesa che prende semplicemente atto di un mondo secolarizzato e cerca di modellare la sue pre-<br />

senza in conformità a questo mondo non rischia di diventare subalterna ad esso, giustificatrice delle<br />

sue scelte e incapace di svelare la differenza escatologica che costituisce lo statuto della esistenza<br />

mondana? La teologia attuale ha quindi cercato di elaborare modelli alternativi per la presenza della<br />

Chiesa nel mondo, dalla «nuova» teologia politica alle varie forme di teologie della liberazione, so-<br />

prattutto là dove, come in America Latina, l’esperienza vissuta dei cristiani ha suscitato, prima an-<br />

cora della teologia, forme inedite di coinvolgimento, lontane sia dal modello della cristianità che dal<br />

«patto» che in qualche modo sembra legare in Occidente Chiese cristiane e società borghese 198 .<br />

La situazione della coscienza ecclesiale e della coscienza teologica sembra quindi, in questo mo-<br />

mento, attraversare uno stato di «fluidità» e di incertezza nella determinazione del rapporto che deve<br />

legare l’esperienza della fede cristiana a «questo» mondo. Forse questa «fluidità» è, a sua volta, con-<br />

seguenza di quel detonatore dei rapporti tra Chiesa e mondo che è stato il Vaticano II 199 . Il concilio,<br />

infatti, ha recepito la svolta di atteggiamento nei confronti della storia, espressa nell’allocuzione in-<br />

simistica del mondo partendo dall’unità come implicazione dei dogmi della creazione, incarnazione e del dominio di<br />

Cristo sul mondo e sulla storia (linea incarnazionista). Sulla disputa cfr. G. COLOMBO, “Escatologismo e incarnazionismo”,<br />

in La Scuola Cattolica 87 (1959) 344-376; 401-424.<br />

195 Cfr. i saggi raccolti in H.-H. SCHREY (ed.), Säkularisierung, Darmstadt 1981.<br />

196 È sempre attuale e importante la lettura di K. BARTH, L’Epistola ai Romani (1922 2 ), Feltrinelli, Milano 1978.<br />

197 F. GOGARTEN, Der Mensch zwischen Gott und Welt, Heidelberg 1952; ID., Destino e speranza dell’epoca moderna,<br />

Morcelliana, Brescia 1972; D. BONHOEFFER, Resistenza e Resa, Paoline, Cinisello B. (Mi) 1988); ma altri nomi dovrebbero<br />

essere ugualmente citati e, in primo luogo, quello di Tillich, soprattutto per il suo influsso sulla teologia protestante<br />

nordamericana. Per i cattolici ci limitiamo a rimandare a K. RAHNER, Riflessioni teologiche sulla secolarizzazione, in<br />

Nuovi Saggi III, Ed Paoline, Roma 1969, 723-759.<br />

198 Cfr. J.B. METZ, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1974; ID., La fede nella storia e nella società, Queriniana,<br />

Brescia 1978; ID., Al di là della religione borghese, Queriniana, Brescia 1982; G. GUTIÉRREZ, Teologia della liberazione,<br />

Queriniana, Brescia 1972; M.-D. CHENU, La Parole de Dieu, 2. L’evangile dans le temps, Paris 1964 (trad.<br />

it. parziale, Il Vangelo nel tempo, AVE, Roma 1968).<br />

199 Solo adesso cominciano tentativi più solidi di interpretazione del Vaticano II, fondati su ricerca rigorosa del suo significato<br />

effettivo. In tale direzione cfr. G. ALBERIGO -J. P. JOSSUA, Il Vaticano II e la Chiesa, Brescia 1985. Con interesse<br />

più spiccatamente teologico si pongono invece R. LATOURELLE (ed.), Vaticano II: Bilancio e prospettive venticinque<br />

anni dopo (1962-1987), Cittadella, Assisi 1987 e Il Concilio venti anni dopo, 3 voll., AVE, Roma 1984-1986.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />

troduttoria Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII. Questa segnò, da parte ufficiale, un supera-<br />

mento di quel giudizio di condanna e di inimicizia nei confronti del mondo e della storia che aveva<br />

contraddistinto il magistero romano da Gregorio XVI a Pio XII 200 . Il concilio nella costituzione<br />

Gaudium et spes, stabilendo il principio della distinzione tra Chiesa e società umana, ha affermato<br />

l’autonomia relativa del temporale, ha imboccato la via del dialogo come metodo fondamentale per<br />

entrare in relazione con tutti gli “uomini di buona volontà” e ha formulato un giudizio positivo sul<br />

mondo e sulla storia 201 . D’altra parte nel suo giudizio non sempre è riuscito a distaccarsi da para-<br />

digmi culturali estranei a quel giudizio profetico che è proprio dell’evangelo ed il quale contiene ad<br />

un tempo l’accoglimento assoluto della storia e lo svelamento della sua distanza rispetto al Regno. Il<br />

concilio ha cercato di oltrepassare quella frattura che lo separava dal mondo — una frattura di carat-<br />

tere culturale, più che di carattere istituzionale e/o politico, come era accaduto a volte in passato —,<br />

avviando un’opera generale di aggiornamento delle modalità propositive del Vangelo, adattandone<br />

il linguaggio agli uomini del nostro tempo. Nel frattempo, però, ci si è accorti che il problema non si<br />

limitava al modo di proporre l’Evangelo, come se esso fosse un bene noto a monte delle forme cul-<br />

turali che ne permettono un’incarnazione effettiva.<br />

Il fatto è esploso durante il Sinodo dei vescovi del 1974, dedicato a «De evangelizatione mundi<br />

huius temporis»: i padri, incapaci di trovare un’articolazione fra “evangelizzazione” e “promozione<br />

umana”, non riuscirono a produrre un testo unitario, lasciandone il compito a Paolo VI. Egli nel-<br />

l’enciclica Evangelii Nuntiandi (1975) fornì non certo la soluzione quanto piuttosto un orientamen-<br />

to, indicando che la corretta nozione di evangelizzazione include la liberazione/promozione<br />

dell’uomo, senza ridursi ad essa. L’evangelizzazione diveniva così il compito precipuo della Chiesa,<br />

da intendersi però non come proclamazione verbale di un nucleo puro e immutabile del Vangelo in<br />

forme aggiornate, ma piuttosto come il processo storico mediante cui la Chiesa dà figura a quelle<br />

“forme di vita” che l’Evangelo suscita all’interno di una determinata cultura.<br />

200 Cfr. G. ALBERIGO, Dal bastone alla misericordia. Il magistero nel cattolicesimo contemporaneo (1830-1980), in<br />

Cristianesimo nella storia 2 (1981) 487-521; G. ALBERIGO - A. MELLONI, L’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni<br />

XXIII (11 ottobre 1962), in Fede Tradizione Profezia. Studi su Giovanni XXIII e sul Vaticano II, Brescia 1984,<br />

185-283.<br />

201 Sull’ottimismo del Concilio si veda però l’acuto commento di A. BERTULETTI: «Questo ottimismo non è propriamente<br />

teologico né pastorale, ma spirituale. È su questo piano che esso giustifica la “forma del dialogo” …, di un dialogo<br />

che non subordina la verità al dialogo, poiché comprende il dialogo come già iscritto nella qualità umana della verità. La<br />

qualità cristiana della verità esige il dialogo, poiché accredita a qualsiasi interlocutore la possibilità di istruire il credente<br />

sul senso del vangelo di Cristo»: ID., Il “magistero pastorale” di Giovanni XXIII, in Echi XX/1 (1999) 22; cfr. pure A.<br />

BERTULETTI, Giovanni XXIII e il Concilio, in Giovanni XXIII e il Vaticano II, Atti degli Incontri svoltisi presso il Seminario<br />

vescovile di Bergamo 1998-2001, a cura di G. CARZANIGA, San Paolo, Cinisello B. (Mi) 2003, 72-83.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

III. LA CHIESA COME POPOLO DI DIO<br />

Dopo aver presentato gli insegnamenti più importanti del Vaticano II sulla Chiesa, il passo succes-<br />

sivo porta a precisare la natura e il carattere proprio del popolo di Dio della nuova alleanza. A que-<br />

sto punto la nostra riflessione procederà in tre momenti. Nel primo, indichiamo che il “luogo” della<br />

Chiesa nella fede cristiana è quello della “mediazione testimoniale” 1 . Nel secondo, determineremo<br />

gli elementi essenziali della “struttura” della Chiesa nel dinamismo di “comunione/tradizione”. Nel<br />

terzo affronteremo le quattro proprietà che il Simbolo della fede confessa a proposito della Chiesa.<br />

3.1. Il “posto” della Chiesa nella fede cristiana: la “mediazione testimoniale”<br />

a) Senza Chiesa non c’è Gesù. Senza la Chiesa non sapremmo niente di Gesù, non avremmo neppu-<br />

re i testi che ci parlano di lui. Il gruppo riunito attorno a Gesù, la comunità generata dalla sua parola<br />

è il soggetto portatore del suo messaggio. Questo non ci è accessibile se non nel prisma della rispo-<br />

sta credente dei discepoli: infatti solo chi è stato testimone del Crocifisso e ha compreso in questa<br />

“forma” la stupefacente rivelazione di Dio, può riconoscere i tratti del Risorto e darne testimonianza<br />

(At 1,21-22). La Chiesa infatti è chiamata alla testimonianza, così che tutte le genti possano entrare<br />

in quella relazione salvifica con Gesù propria dei discepoli (Mt 28,19).<br />

b) Lo Spirito e la Sposa 2 . È lo Spirito però che costituisce e abilita la testimonianza della Chiesa (At<br />

1,8): ma questo può venire solo attraverso la vita, morte e risurrezione di Gesù. Il Vangelo non è<br />

quindi la proclamazione di una possibilità di cui l’uomo dispone indipendentemente dall’evento di<br />

Gesù e che si tratterebbe solo di risvegliare, ma l’annuncio dell’evento per il quale, soltanto, l’uomo<br />

ha accesso a Dio. Ecco perché la fede che precede il Cristo è essenzialmente anticipazione di lui, e<br />

dopo la sua venuta testimonianza di lui.<br />

Dopo la venuta del Cristo la presenza storica della verità di Dio è legata all’annuncio di Gesù. Solo<br />

questo gode di una univocità che permette di discernere nella sua determinatezza lo Spirito. In tal<br />

senso l’apostolo Paolo stabilisce una relazione precisa tra lo Spirito e la Chiesa: lo Spirito fa della<br />

1 Per un approfondimento sul tema si vedano: G. ROTA, La Chiesa nel disegno di Dio, in A. BERTULETTI ET AL., Credere<br />

da cristiani, Litostampa Istituto Grafico, Bergamo 1999, 29-58; G. ANGELINI, La testimonianza prima del “dialogo” e<br />

oltre, Ancora, Milano 2008; G. ANGELINI – S. UBBIALI (ed.), La testimonianza cristiana, Glossa, Milano 2009.<br />

2 Sul rapporto tra Spirito e Chiesa cfr. Y. CONGAR, “ Lo Spirito anima la Chiesa”, in ID., Credo nello Spirito Santo,<br />

Queriniana, Brescia 1998, 199-265; W. KASPER - G. SAUTER, La chiesa luogo dello Spirito. Linee di <strong>ecclesiologia</strong><br />

pneumatologica, Queriniana, Brescia 1980; I. TIEZZI, Il rapporto tra la pneumatologia e l’<strong>ecclesiologia</strong> nella teologia<br />

italiana post-conciliare, Pont. Univ. Gregoriana, Roma 1999; G. CISLAGHI, Per una <strong>ecclesiologia</strong> pneumatologica. Il<br />

Concilio Vaticano II e una proposta sistematica, Pubblicazioni del Pontificio Seminario Lombardo in Roma – Glossa,<br />

Roma- Milano 2004; D. DONNELLY – A. DENAUX – J. FAMERÉE (edd.), The Holy Spirit, the Church, and the Christian<br />

Unity. Proceedings of the consultation held at the monastery of Bose, Italy (14-20 october 2002), Peeters, Leuven 2005.<br />

325


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Chiesa il “corpo” del Cristo (1Cor 12,12-13). La Chiesa, infatti, mediante l’annuncio conferisce allo<br />

Spirito una visibilità storica; anzi, più radicalmente essa condivide il carattere di concretezza e sin-<br />

golarità che fa del Cristo il “corpo” dello Spirito. Non che lo Spirito sia presente esclusivamente<br />

all’interno della comunità: esso infatti è all’origine di quel grido inarticolato che sale dalla creazione<br />

intera (Rm 8,26-27) e suscita nel cuore di ogni uomo quell’intima inquietudine, cui la comunità, che<br />

conosce lo Spirito, è in grado di dare voce in modo consapevole. Così, mediante la testimonianza di<br />

un popolo, che attesta la destinazione universale della salvezza testimoniando Gesù, si rende mani-<br />

festa la rivelazione del disegno divino sulla storia.<br />

Lo Spirito garantisce quindi la contemporaneità di Gesù al tempo della Chiesa. È soprattutto il van-<br />

gelo di Giovanni che esprime l’inseparabilità e la reciprocità tra Gesù e lo Spirito: lo Spirito è il<br />

“rappresentante” del Cristo, non in quanto lo “sostituisce” ma in quanto lo “rende presente” («gli<br />

renderà testimonianza» Gv 15,26-27) dopo che Gesù è stato designato come il “testimone di Dio”<br />

(Gv 8,12-20). Esso abilita la Chiesa a testimoniare Gesù: «Egli mi renderà testimonianza e anche<br />

voi mi renderete testimonianza» (Gv 15,26-27). Lo Spirito non segue al Cristo, non gli aggiunge<br />

nulla, ma proprio per questo non lo ripete: lo rende presente effettivamente nella concretezza della<br />

storia in ogni tempo. Grazie appunto all’azione dello Spirito la decisione di credere, anche se non è<br />

cronologicamente contemporanea a quella degli apostoli, è immediata in rapporto a Gesù. Lo Spirito<br />

infatti garantisce che la dedizione salvifica di Gesù, il suo corpo donato, sia custodito per tutti nella<br />

forma di corpo scritturistico e corpo sacramentale dal corpo ecclesiale. Egli è infatti il principio<br />

dell’ispirazione del corpo delle Scritture che attestano la verità di Gesù; è invocato come il principio<br />

della santificazione di quel pane e di quel vino con cui si fa memoria dell’offerta di Gesù; è ricono-<br />

sciuto come colui che abilita all’esercizio del ministero apostolico e il principio dell’unità e del-<br />

l’indefettibilità della comunità di coloro che confessano che «Gesù è Signore» (1Cor 12,3). Le for-<br />

me obiettive dell’azione dello Spirito — che costituiscono il criterio di autenticità di ogni altra effu-<br />

sione — danno una concretezza e storicità obiettiva alla presenza di Gesù ed alla sua venuta dopo la<br />

sua partenza. Lo Spirito non completa la rivelazione di Gesù, ma, assicurando l’universalità sul pia-<br />

no storico di ciò che è e rimane singolare, è garante del realismo della fede di quelli che crederanno<br />

«pur non avendo visto» (Gv 20,29).<br />

c) La mediazione ecclesiale: la fede testimoniale<br />

(I) La Chiesa, in quanto comunione dei credenti, quindi, non è un’entità al di fuori dell’avvenimento<br />

della rivelazione e ad esso aggiunta solo in un secondo tempo. Appartiene invece all’accadimento<br />

della rivelazione cristologica come momento specifico ed essenziale. Nella tradizione teologica<br />

questo nesso viene affermato nella confessione «credo ecclesiam» presente nel Simbolo: la Chiesa<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

appartiene quindi all’evento della rivelazione cristologica come momento specifico ed essenziale e<br />

d’altra parte essa riconosce nei suoi confronti una strutturale asimmetria. Se volessimo poi qualifi-<br />

care più univocamente la natura intrinseca del nesso fra i due aspetti, potremmo dire che la Chiesa<br />

realizza una funzione di mediazione, la cui la dimensione specifica è quella della testimonianza.<br />

(II) I tratti della mediazione ecclesiale<br />

(1) La mediazione ecclesiale non è sostitutiva. Essa non implica alcuna incorporazione e supera-<br />

mento dell’incarnazione di Cristo nella appartenenza ecclesiastica e della rivelazione cristologica<br />

nella fede ecclesiastica (ortodossia). E quindi di Gesù Cristo nella Chiesa.<br />

Di conseguenza la Chiesa non è il “sostituto” o “surrogato” di Cristo durante questo tempo interme-<br />

dio ed essa neppure coincide con la millenaristica età dello Spirito in grado di dare figura storica<br />

compiuta al regno di Dio mediante l’incorporazione progressiva dello Spirito nella istituzione e del<br />

mondo nella Chiesa storica. Essa di questo Regno di Dio «costituisce in terra il germe e l’inizio»<br />

(LG 5) e non lo instaura perseguendo un progetto e un programma storico-sociale di configurazione<br />

della storia umana e sociale. La stessa mediazione ecclesiale infatti non coincide con il semplice<br />

darsi storico effettivo del cristianesimo, ossia delle forme effettive della testimonianza ecclesiale.<br />

Anche là dove si edifica sul fondamento posto da Dio, rimane ancora da vedere come si edifica<br />

(1Cor 3,9ss). La mediazione ecclesiale, che si concepisce formalmente quale esercizio storico-<br />

sociale della fede, così attesta immediatamente che la propria effettività storica e sociale non coinci-<br />

de né tantomeno sostituisce la presenza di Dio nella singolarità di Gesù (“solo il Figlio rivela il Pa-<br />

dre”) né la presenza di Dio nell’esistenza storica di ogni uomo che viene nel mondo (“lo Spirito sof-<br />

fia dove vuole”). Questo non implica che il riferimento alla chiesa confessionale quale grandezza<br />

socio-culturale sia accessorio: infatti senza la testimonianza ecclesiale non si dà presenza storica di<br />

Gesù qui e adesso.<br />

(2) La mediazione ecclesiale non è una semplice inter-mediazione. Essa non vuole suscitare una fe-<br />

de qualsiasi, perché vuole consentire e propiziare l’accesso all’insostituibile fondamento della fede<br />

teologale: la relazione con il Signore che si rivela la forma non ulteriormente mediabile del suo e-<br />

sercizio e della sua effettualità storica. Essa quindi custodisce e annuncia la possibilità universale<br />

della fede solo in ragione della storicità dell’evento della Rivelazione. D’altra parte della storicità di<br />

questo evento essa è anche il frutto e l’accesso storico effettivo: in tal senso la Chiesa non è come<br />

un semplice intermediario che media altro da sé, poiché la relazione col Signore (la “nuova allean-<br />

za”) ha come condizione ed effetto la stessa realtà ecclesiale (il “nuovo popolo”).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

(3) La mediazione ecclesiale è formalmente testimoniale. Essa, infatti, garantisce le condizioni o-<br />

biettive dell’accesso alla verità di Gesù. Le condizioni della fede apostolica, su questo punto preci-<br />

so, sono le stesse di ogni venire alla fede nella forma della testimonianza. La singolarità della espe-<br />

rienza degli apostoli, che non è ereditabile e riproducibile, è data dalla indeducibilità dell’evento<br />

cristologico e quindi dell’accadere della effettiva relazione storica con Gesù di Nazaret (il Gesù ri-<br />

sorto può mostrarsi solo ai discepoli, perché solo loro, mediante il travaglio della memoria, possono<br />

riconoscere i tratti del Crocifisso e simultaneamente cogliere la sua identità teologica). Ma la strut-<br />

tura in cui si compie il loro aver fede è certamente identica a quella di ogni possibile figura storica<br />

dell’aver fede: poiché sin dal primo istante essa è mediata dalla revisione della memoria storica di<br />

Gesù di Nazaret che riconosce in lui il fondamento vivente del dono dello Spirito e il referente ulti-<br />

mo per la decifrazione dei segni della presenza di Dio. La fede cristiana non può quindi essere ridot-<br />

ta alla figura di una fede “nella fede dell’altro”, a una “fede di seconda mano” che non dispone più<br />

della “rivelazione di Dio” e quindi senza possibilità di un rapporto diretto del singolo con Dio, nella<br />

forma di una vera e propria coscienza personale della propria attuale relazione con il Signore.<br />

La fede come incontro e relazione personale con il Signore che giunge al riconoscimento della sua<br />

verità teologica non è stata possibile soltanto per gli apostoli e per i primi discepoli, mentre per tutte<br />

le generazioni a venire la fede si è realizzata di fatto nel dare credito alla testimonianza degli aposto-<br />

li. La giusta affermazione della singolarità normativa della fede apostolica — come già accennato<br />

— non riguarda il piano della struttura della fede storica. La fede infatti si edifica sempre sulla base<br />

della persuasiva evidenza della rivelazione evangelica e si compie nella certezza della incarnazione<br />

del Figlio nel Signore Gesù morto e risuscitato. Essa sempre vive nella consapevolezza della pre-<br />

senza del Signore e nella effettività della relazione con Lui; diversamente coinciderebbe con la<br />

semplice adesione ideologica al modo cristiano di vedere le cose o di praticare la religione.<br />

L’annuncio, invece, concerne la possibilità di avere la stessa fede, e quindi la stessa relazione con il<br />

Signore. Anche perché ieri e oggi e sempre, rimane vero che nessuna relazione “fisica” con Gesù è<br />

in grado di propiziare l’infallibile certezza di una fede compiuta e di una relazione “effettiva” col<br />

Signore, dato che il testimone oculare non è ancora il discepolo e i segni del Regno possono essere<br />

letti come opere di Beelzebul. In questo senso non c’è nessun vantaggio per coloro che sono vissuti<br />

prima (Gv 20,29-31).<br />

Se è vero che la verità della relazione con il Signore si dà soltanto nella testimonianza e mediante la<br />

testimonianza, essa non ha per tema se stessa, bensì la rivelazione, la relazione, che ha per soggetto<br />

il Signore, il quale è assolutamente insostituibile. Le istituzioni ecclesiali della parola, dei sacramen-<br />

ti, il cui esercizio “pubblico” è affidato alla cura del ministero apostolico, vogliono appunto propi-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

ziare istituzionalmente la possibilità di accendere l’attenzione al passaggio del Signore nella vita di<br />

ogni uomo e di corrispondervi in modo salvifico effettivo.<br />

Come si esercita questa mediazione della Chiesa? Attraverso l’ordine simbolico cristiano.<br />

3.2. L’ordine simbolico cristiano<br />

Accedere all’identità cristiana è accedere alla fede in Gesù come Cristo, Signore, Figlio di Dio. È, di<br />

conseguenza, far propria la professione di fede da cui è nata la Chiesa 3 . Due precisazioni si impon-<br />

gono fin dall’inizio: la prima, a proposito della nozione d’identità; la seconda, a proposito del rap-<br />

porto tra l’identità personale di ognuno come cristiano e la Chiesa.<br />

- In primo luogo, parlare d’identità non è situarsi su un piano semplicemente giuridico o ammini-<br />

strativo. Certamente, non si dà identità se non attraverso un processo istituzionale che esige come<br />

minimo il conferimento di un nome riconosciuto da tutti, nome debitamente registrato allo stato ci-<br />

vile. Un processo come questo è molto più profondo che non un timbro ufficiale apposto alla tessera<br />

di adesione a un partito o a un club. Qui, infatti, è in gioco la possibilità stessa di esistere come sog-<br />

getti: un individuo senza identità, e soprattutto senza nome, non potrebbe che essere escluso dalla<br />

società e non potrebbe vivere come soggetto. Parlare d’identità soggettiva è toccare il punto più vi-<br />

vo di ciò che fa di un essere umano una persona. A maggior ragione si deve dire la stessa cosa<br />

quando si tratta d’identità cristiana. Diciamo così perché qui è in gioco il riconoscimento del cristia-<br />

no non soltanto come soggetto umano, ma come soggetto credente: la sua identità personale è legata<br />

alla professione di fede che egli fa sua, dunque al senso che, su questa base, egli dà alla propria vita.<br />

Il credente è coinvolto personalmente nella propria identità. Eppure, questa passa attraverso la Chie-<br />

sa come istituzione. Nessuno può accordare a se stesso l’identità di cristiano: a questo scopo è ne-<br />

cessario passare attraverso il battesimo; e nessuno può battezzare se stesso, ma ognuno è battezzato<br />

da un altro, che agisce come ministro della Chiesa, in nome di Gesù Cristo.<br />

- In secondo luogo, se un’identità del genere ha una dimensione personale, essa sorge però soltanto<br />

all’interno di un modello ecclesiale comune a tutti i cristiani. È questo modello che vogliamo ora<br />

analizzare. Esiste, infatti, un modello generale d’identità cristiana: impossibile dirsi cristiani se non<br />

si assimilano alcuni tratti che caratterizzano il cristiano. Tuttavia, questo modello non è un’unifor-<br />

me: le esperienze tramite cui si giunge alla fede sono molteplici. Perciò, se è vero che c’è un model-<br />

3 Ci ispiriamo qui alla proposta di L.M. CHAUVET, I sacramenti, Ancora, Milano 1993; ID., Simbolo e sacramento. Una<br />

rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, Elle Di Ci, Leumann (To),1990, 113-218.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

lo comune, è anche vero, però, che ciascuno può essere cristiano in modo personale. Questo model-<br />

lo comune è l’ordine simbolico proprio della Chiesa, cioè è una struttura che vogliamo analizzare.<br />

3.2.1. La struttura dell’identità cristiana<br />

Noi rintracceremo la struttura soprattutto nelle opere di Luca: il Vangelo e gli Atti degli Apostoli.<br />

a) Tre testi-matrice<br />

Alcuni testi di Luca, riguardanti l’accesso alla fede, sembrano costruiti su uno stesso modello. Si<br />

possono, in particolare, mettere in parallelo gli episodi dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), del<br />

battesimo dell’etiope (At 8,26-40) e il primo racconto della conversione di Saulo (At 9,1-20). Questi<br />

brani ci presentano una matrice comune.<br />

Nei tre casi, Luca ci situa nel tempo della Chiesa: secondo la sua teologia, dopo la risurrezione di<br />

Gesù, tutto parte da Gerusalemme per andare verso «tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi<br />

confini della terra» (At 1,8). Questo fatto viene indicato in Lc 24, nel movimento da Gerusalemme<br />

verso Emmaus (sebbene, in questo primo tempo, che è quello del primo riconoscimento del Risorto,<br />

vi sia ancora un ritorno verso Gerusalemme), in At 8 da Gerusalemme verso Gaza, in At 9 da Geru-<br />

salemme verso Damasco.<br />

Nei tre casi, si è in presenza di una iniziativa di Dio: attraverso il Cristo risorto in Lc 24, mentre gli<br />

occhi dei due discepoli sono chiusi; attraverso il suo Spirito in At 8, mentre è chiuso lo spirito del-<br />

l’etiope; ancora attraverso il Cristo risorto in At 9, quando stanno per chiudersi gli occhi di Saulo. È<br />

importante sottolineare che, nei tre casi, l’iniziativa divina, che sola permette ai discepoli di accede-<br />

re alla fede, giunge attraverso la mediazione della Chiesa. È questa, senza dubbio, una delle caratte-<br />

ristiche più rilevanti di questi racconti. Questa mediazione della Chiesa è attestata a tre livelli.<br />

- In primo luogo, tale mediazione è presente attraverso il kerigma, che annuncia la morte e la<br />

risurrezione di Gesù come chiave di lettura di «tutte le Scritture» (Lc 24,27), o nella grande pagina<br />

di Is 53 (il servo sofferente) che l’etiope legge senza capire, perché soltanto attraverso una guida<br />

può coglierne il senso (quella guida di lettura che è la Chiesa a fornire); quanto al racconto di At 9,<br />

vi è implicato questo stesso annuncio della risurrezione di Gesù crocifisso, dato che la voce dal cie-<br />

lo indica che egli vive nella sua Chiesa: «Io sono quel Gesù che tu perseguiti!» (At 9,5). Si può nota-<br />

re che, in tutti e tre i casi, questa iniziativa di Dio avvia un itinerario verso la fede che si traduce in<br />

una richiesta dei testimoni: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino» (Lc<br />

24,29); «Che cosa mi impedisce di essere battezzato?» (At 8,36); «Chi sei, o Signore?» (At 9,5).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

- In secondo luogo, questa fede rimane incompiuta finché non viene “informata” da un gesto<br />

sacramentale: quello dello spezzare il pane in Lc 24,30; del battesimo in At 8,38; dell’imposizione<br />

delle mani seguita dal battesimo (da parte di Anania) in At 9,17. È soltanto allora che «si aprirono i<br />

loro occhi» (cfr. Lc 24,31).<br />

- In terzo luogo, gli occhi si aprono, ma su un’assenza: il Risorto scompare appena riconosciu-<br />

to in Lc 24,31, mentre in At 8,39 il suo testimone, Filippo, è rapito dallo Spirito. Quest’assenza sa<br />

indubbiamente di essere ormai abitata da una presenza. Ed è proprio il fatto che questa presenza è<br />

divenuta “spirituale” 4 a spingere i testimoni a proclamarla nell’impegno missionario: i due discepoli<br />

in Lc 24, così come Saulo in At 9, ne sono ormai gli araldi e i testimoni, mentre in At 8,39 l’etiope<br />

«proseguì pieno di gioia il suo cammino», quella gioia così spesso ricordata da Luca e che, nel suo<br />

codice teologico, designa la gioia dei tempi messianici, la gioia della salvezza nella fede.<br />

b) Il capitolo 24 del Vangelo secondo Luca<br />

La matrice che genera alla fede, quale ci viene presentata nei testi precedenti, può essere analizzata<br />

in forma più approfondita a partire dal primo di essi. Non è inutile, a questo scopo, situare<br />

l’episodio di Emmaus nell’insieme del capitolo 24 entro il quale è collocato.<br />

Anche qui, vanno evidenziati numerosi paralleli fra le tre pericopi principali del capitolo:<br />

- L’annuncio della risurrezione alle donne venute al sepolcro (vv. 1-12).<br />

- L’episodio di Emmaus (vv. 13-35).<br />

- L’apparizione agli Undici (vv. 36-49).<br />

In tutti e tre i casi i personaggi partono da un desiderio di trovare, di vedere, di toccare:<br />

- Le donne, di fatto, «non trovarono il corpo del Signore Gesù» (v. 3), mentre Pietro «vide so-<br />

lo le bende» (v. 12).<br />

- I due discepoli raccontano che le donne non hanno trovato «il suo corpo» (v. 23), mentre i<br />

discepoli che sono andati a verificare la loro testimonianza «non l’hanno visto» (v. 24).<br />

- Gli Undici, presi da timore e dubbio, sono invitati dal Risorto a vedere e a toccare (v. 39)<br />

Per il momento, da questo insieme di rilievi fissiamo un punto: questi verbi riflettono una “isotopia”<br />

comune, cioè si ritrovano allo stesso livello o hanno un tratto similare: ci rimandano tutti al versante<br />

4 Paolo insegna che il corpo del Cristo risorto è un corpo spirituale (cfr. 1Cor 15). Ora, un corpo spirituale è pur sempre<br />

corpo e non spirito: la risurrezione quindi è per Gesù Cristo l’apice dell’incarnazione (At 13,33). Il corpo del Risorto è<br />

di natura misteriosa, “spirituale” (Cf 1Cor 15,45), ma non irreale; tutt’altro. La risurrezione quindi non è un ostacolo<br />

alla presenza di Cristo, ma la sua condizione, in quanto il corpo di Cristo, divenuto “Spirito vivificante” è diventato totalmente<br />

un essere-relazione, ed esercita la sua signoria facendo esistere in relazione.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

del cadavere di Gesù (che cosa si aspettavano di trovare o di vedere, se non il suo corpo morto?) o<br />

dei segni della sua morte (vedere le bende, toccare le sue piaghe).<br />

Più avanti, notiamo che la situazione dei testimoni si sblocca grazie al richiamo alle Scritture:<br />

- «Bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori…» (v. 7).<br />

- «Stolti e tardi di cuore! […] Non bisognava che…?» (vv. 25-26).<br />

- «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte…» (v. 44).<br />

Questi «Bisognava che…» vanno evidentemente letti dal punto di vista della rivelazione di Dio e<br />

del suo disegno di salvezza nelle Scritture: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti…» (v. 27),<br />

«Nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (v. 44). La rilettura cristiana dell’insieme delle Scrit-<br />

ture come annuncio della morte e risurrezione del Messia di Dio o, in senso inverso, la rilettura di<br />

questa morte-risurrezione come conforme alle Scritture, costituisce la chiave di interpretazione,<br />

l’ermeneutica (cfr. v. 27), l’apertura della mente «all’intelligenza delle Scritture» (v. 45), da cui è<br />

nata la Chiesa. Se dunque, come avviene nell’episodio di Emmaus, il gesto sacramentale dello spez-<br />

zare il pane, o, come nei due testi precedenti, quello del battesimo, svolge una funzione importante<br />

nell’accesso alla fede, è sempre sulla base di questa nuova interpretazione della parola di Dio nelle<br />

Scritture e della fede nei suoi confronti.<br />

c) L’episodio dei discepoli di Emmaus<br />

Sullo sfondo di questo episodio si staglia un interrogativo. Interrogativo che era quello dei due di-<br />

scepoli, uno dei quali di nome Cleopa, ma che è pure quello di ogni discepolo di Gesù, oggi come<br />

ieri: «Se è vero che Gesù è risorto ed è vivo, come mai non lo vediamo, come mai non possiamo<br />

vederlo, toccarlo, trovarlo?». A questo interrogativo, che è né più né meno quello della fede, Luca<br />

risponde con una catechesi in forma di racconto, che ha un valore esemplare per ogni credente.<br />

L’andata e ritorno tra Gerusalemme ed Emmaus può essere letto a tre livelli: anzitutto geografico;<br />

poi teologico: Luca concentra tutte le apparizioni di Gesù a Gerusalemme, fuoco e centro unico ver-<br />

so cui converge tutto il suo Vangelo e da cui tutto parte «fino agli estremi confini della terra» (At<br />

1,8), dopo la risurrezione e la Pentecoste; infine, simbolico: questa andata e ritorno geografici sono<br />

simbolo del capovolgimento interiore dei due discepoli, della loro conversione.<br />

Questa conversione costituisce una performance: quella del passaggio dalla non-fede alla fede, dagli<br />

occhi chiusi agli occhi aperti, dal misconoscimento al riconoscimento. Una tale performance corri-<br />

sponde a quella che ogni essere umano deve realizzare per diventare discepolo di Gesù il Cristo. Ma<br />

per poter realizzarla, Cleopa e il suo compagno devono ottenere la competenza necessaria.<br />

In questo racconto ci viene descritto l’episodio in cui i discepoli ottengono tale competenza. Esso è<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

segnato da tre indicatori temporali.<br />

- Una prima sosta per strada: «Si fermarono, col volto triste» (v. 17).<br />

- Il riposo a Emmaus: «Egli entrò per rimanere con loro» (v. 29).<br />

- Il ritorno a Gerusalemme: «Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme» (v. 33).<br />

a) Il primo indicatore temporale corrisponde all’inizio del dialogo tra i due discepoli e il personag-<br />

gio che si accompagna loro. Essi, pur sapendo tutto su Gesù, tuttavia non hanno capito nulla di lui.<br />

Certo, lo considerano un profeta, ma nulla più. Erano arrivati quasi a considerarlo il Messia — «Noi<br />

speravamo che fosse lui a liberare Israele» (v. 21) —, ma questa interpretazione politica del messia-<br />

nismo di Gesù li aveva messi su una falsa pista. Ancora, degli angeli hanno dichiarato ad alcune<br />

donne che egli era vivo; ma né loro, né i discepoli dopo di loro hanno visto lui in persona. Tutto è<br />

dunque bloccato nel loro spirito: essi si sono come lasciati rinchiudere nel sepolcro della morte in-<br />

sieme con Gesù, e le loro difficoltà sono pesanti come la pietra che chiudeva questo sepolcro.<br />

La situazione comincia a sbloccarsi nel momento in cui essi lasciano al personaggio l’iniziativa del-<br />

la parola, iniziativa contrassegnata dal richiamo alle Scritture. Infatti, egli propone loro una erme-<br />

neutica (διερμήνευσεν: spiegò loro), del tutto nuova delle Scritture nel loro insieme: «Mosè e tutti i<br />

profeti» (v. 27). Essa è riassunta da Luca in una sola frase: «Non bisognava che il Cristo sopportasse<br />

queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (v. 26). La morte e la risurrezione del Messia sono la<br />

chiave per comprendere tutto il disegno di Dio secondo l’insieme delle Scritture.<br />

Ora, è di capitale importanza discernere in filigrana, attraverso queste espressioni di Gesù estrema-<br />

mente sintetizzate da Luca, il discorso della Chiesa. Infatti, che cosa fa la Chiesa? Ogni «primo<br />

giorno della settimana» (cfr. 1Cor 16,2), essa legge, come si faceva nella sinagoga, due testi della<br />

Scrittura: un testo di Mosè, cioè della Torah, e un testo dei Profeti. Questi testi venivano in seguito<br />

spiegati nell’omelia, la quale, accostando i due brani e saldandoli a un altro passo della Scrittura (ad<br />

es., il versetto di un salmo che serviva da “apertura” a chi teneva l’omelia), puntava a evidenziare il<br />

senso sempre attuale della parola di Dio. Le prime comunità cristiane hanno adottato con naturalez-<br />

za, nelle loro assemblee, questa stessa tecnica rabbinica di lettura e di spiegazione delle Scritture.<br />

Tuttavia, se la tecnica è la stessa, nuova è l’interpretazione: «Mosè e i Profeti» (con l’aggiunta dei<br />

Salmi, al v. 44) sono ormai interpretati in funzione della morte e della risurrezione di Gesù, come<br />

mostrano in maniera esemplare i vv. 25-27.<br />

In questa prospettiva, se dietro il discorso di Gesù risorto sulle Scritture si deve percepire il discorso<br />

fondatore della Chiesa (il suo kerigma), si chiarisce il problema che comanda l’insieme del nostro<br />

racconto: «Voi non potete accedere al riconoscimento di Gesù risorto, se non rinunciate a vedere,<br />

toccare, trovare immediatamente con prove cogenti». La fede inizia proprio con questa rinuncia<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

all’immediatezza del vedere, sapere e con il consentimento alla mediazione della Chiesa: è lui infat-<br />

ti, il Signore, che parla attraverso la Chiesa ogni volta che questa legge e interpreta le Scritture in<br />

riferimento a lui o, in senso inverso, ogni volta che rilegge il suo destino di morte e di risurrezione<br />

come conforme alle Scritture. In altri termini, ogni volta che l’assemblea, la Chiesa, proclama e<br />

comprende le Scritture come la parola stessa di Gesù («È lui infatti che parla quando si leggono nel-<br />

la Chiesa le sante Scritture»: dirà il Vaticano II — Sacrosanctum concilium, n. 7 —, nel solco della<br />

Tradizione apostolica), essa è il suo portavoce, il suo luogotenente, quindi il suo sacramento.<br />

b) Ma questo non è ancora l’esito definitivo. Perché è solo attorno alla tavola a Emmaus, che avvie-<br />

ne l’apertura degli occhi. Allora Gesù «prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro»<br />

(v. 30). La successione di questi quattro verbi non è casuale: si tratta di quattro verbi tecnici, che ri-<br />

troviamo nei racconti della Cena. I destinatari del Vangelo di Luca non potevano non pensare al rac-<br />

conto della Cena, dal momento che questo, quale ci è trasmesso dal Nuovo Testamento (già dagli<br />

anni 50, cfr. 1Cor 11, dove Paolo intende trasmettere fedelmente ciò che ha ricevuto dalla tradizio-<br />

ne risalente al Signore), veniva recitato ogni domenica. Come in precedenza coglievano la propria<br />

pratica di lettura e di interpretazione ecclesiale delle Scritture in quel «Bisognava che…» di Gesù,<br />

qui comprendono, in maniera se possibile ancor più chiara, la propria pratica dell’eucarestia in me-<br />

moria di lui. La lezione è dunque dello stesso tipo di quella che in precedenza riguardava le Scrittu-<br />

re. Anche qui, bisogna vedere Gesù in filigrana attraverso la Chiesa: ogni volta — ci dice Luca —<br />

che la Chiesa prende il pane, pronuncia la benedizione, lo spezza e lo dona, facendo memoria del<br />

Signore Gesù, è lui a fare tutto questo attraverso di lei. I gesti che essa allora compie, le parole che<br />

pronuncia, sono gesti e parole di lui. Essa ne è, nel senso più forte del termine, il sacramento.<br />

La performance del passaggio dalla non fede alla fede esige lo stesso stacco che era prima richiesto<br />

nei confronti del desiderio di prova immediata e lo stesso consentimento alla mediazione della<br />

Chiesa. È nella Chiesa, che celebra l’eucaristia come preghiera e come azione di lui, così come è<br />

nella Chiesa che accoglie le Scritture come sua Parola, che lo si può riconoscere come il Vivente.<br />

c) Gli occhi dei due discepoli si sono aperti, ma su un’assenza: perché, appena riconosciuto, «lui<br />

sparì dalla loro vista» (v. 31). Tuttavia, questa assenza è ormai per essi piena di una presenza, che<br />

essi, nello stesso istante, cominciano ad annunciare. È impossibile riconoscere Gesù risuscitato sen-<br />

za essere “risuscitati” con lui in una novità di vita 5 , e dunque senza vedersi con ciò stesso incaricati<br />

5 L’espressione del v. 33: «alzandosi all’istante» (anastántes autè te hóra), dove il verbo anístemi che significa alzarsi è<br />

uno dei due verbi principali con cui il Nuovo Testamento parla della risurrezione di Gesù (egli si è alzato dai morti),<br />

contiene un’allusione a questo risorgere dei discepoli a vita nuova.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

di annunciarlo. D’altronde, lo schema classico dei racconti di manifestazione del Cristo nel Nuovo<br />

Testamento lo dicono: dopo aver sottolineato l’iniziativa del Risorto che si fa vedere, il suo ricono-<br />

scimento da parte dei testimoni che vedono in lui lo stesso Gesù crocifisso, ma “in altro modo”, si<br />

conclude sempre con una parola di invio in missione: «Andate a dire…, va’ a dire». Tornando quin-<br />

di a Gerusalemme, dove cominciano con l’accogliere la testimonianza analoga degli Undici, fondata<br />

su quella di Simone (v. 34), i discepoli ben presto partirono di lì.<br />

Ora, questa testimonianza missionaria presenta, nel Vangelo di Luca, ma soprattutto negli Atti, una<br />

dimensione etica importante. Infatti, nei piccoli sommari delle attività e dei comportamenti della<br />

prima comunità cristiana di Gerusalemme, che gli Atti ci abbozzano, la comunione tra fratelli occu-<br />

pa un posto importante: la metà di At 2,42-47 e i tre quarti di At 4,32-35. Questa comunione (koino-<br />

nía) era prima di tutto quella dei cuori uniti (cfr. At 2,44), unanimi (cfr. At 2,46), fondata sulla fede<br />

in Gesù. Tuttavia essa si traduceva concretamente in atteggiamenti e gesti di condivisione: se è vero<br />

che avevano «un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32), quest’unità si manifestava soprattutto nel fat-<br />

to che «ogni cosa era fra loro comune» (ibid.). È importante avvertire che questa etica della condivi-<br />

sione tra fratelli a favore dei più bisognosi non aveva per Luca un valore unicamente morale, ma<br />

teologale. Il fatto di non avere bisognosi in mezzo a loro assumeva valore di segno: «la promessa di<br />

Mosè si compiva a loro beneficio, essi sono la comunità messianica diventata realtà presente» 6 . In<br />

altri termini, nel codice teologico di Luca questa condivisione etica ha valore di testimonianza mis-<br />

sionaria resa alla risurrezione di Gesù.<br />

Nella teologia di Giovanni, questa dimensione teologale dell’etica del servizio agli altri ha una radi-<br />

camento ancora più consistente. Infatti, il quarto Vangelo sostituisce intenzionalmente la lavanda<br />

dei piedi all’istituzione dell’eucaristia: al posto del comandamento riguardante la memoria rituale<br />

del Signore («Fate questo in memoria di me»), che egli peraltro conosce (cfr. Gv 6), Giovanni pone<br />

un comandamento riguardante la memoria esistenziale: «Vi ho dato infatti l’esempio perché, come<br />

(kathòs) ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15). Basandosi sul senso molto forte che Giovanni<br />

dà abitualmente a kathòs, Léon-Dufour scrive: «È come se Gesù dicesse: “Agendo in questo modo,<br />

rendo anche voi capaci di agire allo stesso modo”» 7 . Non si tratta quindi semplicemente di imitare<br />

Gesù dal di fuori: è lui che dà ai discepoli la capacità di agire come lui, è lui che in questi discepoli<br />

6 J. DUPONT, Études sur les Actes des Apôtre, Cerf, Paris 1967, 510. L’Autore precisa (p. 508) che la comunione dei beni<br />

non significava certo un trasferimento giuridico di proprietà, bensì un metterli a servizio dei bisogni di tutti.<br />

7 X. LÉON-DUFOUR, Condividere il pane eucaristico, LDC, Torino 1983, 239.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

compie il servizio che deve caratterizzarli. La loro etica di servizio ha qualcosa di sacramentale nel-<br />

la misura in cui è portatrice del dono di sé che Gesù ha fatto.<br />

Ma anche a prescindere da questa rapida digressione sul Vangelo di Giovanni, la lezione teologica<br />

di Luca è chiara; egli dice ai suoi destinatari: «Non potete realizzare la performance del passaggio<br />

dalla non fede alla fede, cioè a quell’apertura degli occhi che vi permette di riconoscere Gesù come<br />

risorto e vivo per sempre, se non ricevete da lui la “competenza” per realizzarla. Perché è lui a spie-<br />

gare il senso delle Scritture, è lui a presiedere il gesto dello spezzare il pane, è lui che continua il<br />

suo servizio agli uomini attraverso i discepoli. A questo scopo, è necessario che vi stacchiate dal<br />

vostro desiderio (ben naturale) di prove immediate di lui. Se no, finite per ridurlo alla vostra ideolo-<br />

gia o ai vostri a priori: allora non è più per voi il Vivente (cfr. Lc 24,5). Piegandolo ai vostri deside-<br />

ri o alle vostre convinzioni acquisite, voi lo manipolate e rifate così di lui un cadavere, come sugge-<br />

risce l’isotopia dei verbi vedere, trovare, toccare, del capitolo 24. Per accedere alla fede in lui è stato<br />

davvero necessario che i due discepoli di Emmaus convertissero le loro convinzioni giudaiche, ac-<br />

cettando l’idea, mostruosa per ogni buon giudeo, di un Messia destinato alla morte. Dovete dunque<br />

convertire il vostro desiderio di immediatezza e accettare la mediazione della Chiesa».<br />

Ritornando al Padre, il Signore Gesù ha lasciato “libero il posto”, come indica il racconto del-<br />

l’Ascensione (At 1,6-11). Questo posto è ormai occupato dalla Chiesa in maniera simbolica, mante-<br />

nendo quindi la differenza radicale: la Chiesa non è il Cristo, ma il suo testimone simbolico. Ciò si-<br />

gnifica che la sua ragion d’essere originaria e costante è di rinviare a lui. Nella Chiesa si struttura la<br />

fede, perché la Chiesa ha il compito, in mezzo al mondo e per il mondo, di mantenere viva la me-<br />

moria di ciò per cui egli ha vissuto e del perché Dio lo ha risuscitato da morte; memoria attraverso<br />

le Scritture, lette e interpretate come parlanti di lui o come sua Parola viva; memoria attraverso i sa-<br />

cramenti (qui, lo spezzare il pane), riconosciuti come i suoi gesti salvifici; memoria attraverso la te-<br />

stimonianza etica della condivisione, vissuta come espressione del suo servizio agli uomini.<br />

3.2.2. La mediazione della chiesa<br />

Notiamo che stiamo parlando dell’identità cristiana, non della salvezza degli uomini. Non si dice:<br />

«Fuori della sfera della Chiesa non c’è salvezza», ma: «Al di fuori della Chiesa non c’è salvezza ri-<br />

conosciuta», cioè non c’è possibilità di professione di fede in Gesù come Cristo. Si può essere sal-<br />

vati senza essere cristiani, cioè senza appartenere alla Chiesa visibile (cfr. LG 16), ma non si può<br />

essere cristiani senza appartenere alla Chiesa, poiché l’identità cristiana inizia con la professione di<br />

fede in Gesù Cristo, professione che è originariamente costitutiva della Chiesa. In questo senso, non<br />

vi sono cristiani anonimi.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

D’altra parte, la Chiesa non è un ghetto, ma esiste e ha senso soltanto in rapporto al Regno che, nel<br />

mondo, è più ampio di essa (LG 5; RM 17-20). La Chiesa non è questo Regno, ne è soltanto il sa-<br />

cramento, ma per essere tale è necessario che ne sia il segno, quindi che ne presenti dei contrasse-<br />

gni. Questi contrassegni sono molteplici. Possiamo però ricondurli ai tre che già abbiamo fissato.<br />

In effetti, esiste una serie di azioni, che sono ufficialmente compiute da incaricati nella Chiesa o in<br />

nome della Chiesa e che sono così caratteristiche per la vita ecclesiale da essere compiute regolar-<br />

mente o in situazioni decisive da singoli membri o da gruppi di membri della Chiesa: predicazione,<br />

catechesi, culto, sacramenti, preghiera, amore del prossimo, servizio dei poveri, impegno sociale e<br />

politico… Tutte queste azioni risalgono in qualche modo a azioni strutturali esemplari della storia di<br />

Gesù o del popolo d’Israele. Nel corso della storia della teologia si sono fatti vari tentativi di rias-<br />

sumere questa molteplicità in alcuni atti fondamentali. L’articolazione più convincente ci sembra<br />

rifarsi a quella trilogia che abbiamo già segnalato: (1) predicazione e testimonianza, (2) culto, sa-<br />

cramenti e preghiera, (3) servizio per amore e comunione fraterna, o detto in termini neotestamenta-<br />

ri: «martyria» (martyría), «leiturghia» (leitourgía), «diakonia» (diakonía). Tale triplice suddivisio-<br />

ne dovrebbe essere quella più indovinata, perché riprende gli atti fondamentali della vita di Gesù e,<br />

nel medesimo tempo, gli aspetti fondamentali delle grandi assemblee del popolo d’Israele.<br />

Poiché gli aspetti fondamentali della storia e della missione di Gesù rimangono la norma e la misura<br />

sia dell’esistenza cristiana che di tutta la comunità di coloro che si sono lasciati coinvolgere in que-<br />

sta storia e in questa missione, essi apparvero subito anche come gli atti fondamentali della comuni-<br />

tà cristiana che si andava formando «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e<br />

nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42).<br />

Tali atti fondamentali, dal momento che strutturavano la missione e l’esistenza della comunità cri-<br />

stiana, dovevano anche trovare una realizzazione istituzionale storica nella Chiesa. Esistono pertan-<br />

to numerose forme storiche (anche desunte altrove e poi modificate), in cui nella testimonianza apo-<br />

stolica la funzione kerygmatica e testimoniale della Chiesa, la sua funzione cultuale e la sua funzio-<br />

ne diaconale e comunionale si sono istituzionalizzate e concretizzate. In fondo pero tali atti non so-<br />

no atti perché hanno dato vita a istituzioni importanti, ma perché denominano di volta in volta, con<br />

diversa accentuazione, il tutto della missione e dell’esistenza ecclesiale. I membri della Chiesa non<br />

predicano e non testimoniano solo mediante le forme speciali dell’insegnamento religioso, bensì an-<br />

che mediante azioni cultuali, mediante una vita veramente cristiana, mediante atti di amore del pros-<br />

simo, mediante rappresentazioni artistiche ecc. Né il culto si limita alle azioni liturgiche specifiche.<br />

Non solo la predicazione può essere una parte o una forma del culto, bensì anche la vita cristiana è<br />

una forma di liturgia. Pure l’elemento sacramentale è molto più ampio dei sette sacramenti della<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Chiesa. La presenza simbolica di Cristo si esplica in molte forme, dal ministero ordinato fino al ser-<br />

vizio dei poveri. In maniera simile neppure il momento diaconale della Chiesa si limita alla sua atti-<br />

vità assistenziale, sociale e caritativa, ma abbraccia, qualifica e norma tutte le altre sue attività. I tre<br />

atti menzionati sono quindi fondamentali in quanto si determinano, delimitano e spiegano a vicenda.<br />

Gli atti fondamentali - martyria, leiturghia, diakonia - sono funzioni della missione della Chiesa so-<br />

lo perché e in quanto è dapprima la Chiesa a essere il risultato di tali funzioni. La Chiesa ha il com-<br />

pito di predicare e di testimoniare perché e in quanto è a sua volta creatura della Parola di Dio. Essa<br />

ha il compito di celebrare il culto e i sacramenti perché è a sua volta di continuo costituita dalla par-<br />

tecipazione ai doni eucaristici. E ha il compito della diaconia e della comunione fraterna perché è a<br />

sua volta nata dal servizio di Gesù e dal servizio di quanti l’hanno seguito.<br />

b) La priorità del “noi” ecclesiale<br />

Quanto abbiamo esposto mostra che la Chiesa è prima degli individui: non sono i cristiani che riu-<br />

nendosi formano la Chiesa, ma è la Chiesa che fa i cristiani. Questa è una verità fondamentale. In<br />

altre parole, non ci sono uomini e donne che, innestati in qualche modo direttamente su Gesù Cristo,<br />

sarebbero cristiani ognuno per conto proprio, e la cui somma formerebbe la Chiesa. Per essere cri-<br />

stiani bisogna invece appartenere alla Chiesa. Il Vangelo è comunitario per natura, e credere in Cri-<br />

sto è automaticamente essere messi assieme da lui, professato come il nostro Signore comune.<br />

È ciò che risalta in forma eminente nel battesimo, che è precisamente il sacramento dell’ingresso<br />

nella Chiesa: qui infatti, come sottolinea san Paolo almeno a tre riprese, le barriere che separavano,<br />

secondo le rappresentazioni comuni della sua epoca, le due grandi parti dell’umanità (Giudei e Gre-<br />

ci), i due statuti sociali principali (schiavi e liberi) e i due sessi (con la sottomissione delle donne a-<br />

gli uomini resa visibile sul piano religioso dalla posizione “inferiore” che era loro assegnata sia nel<br />

Tempio di Gerusalemme sia nelle sinagoghe), sono superate (cfr. Gal 3,26-28; Col 3,10-11; 1Cor<br />

12,13). Cristo non è forse morto per abbattere il «muro di separazione» (Ef 2,14) e per «creare in se<br />

stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace» (Ef 2,15)? Il battesimo non è forse quel gesto<br />

della fede con cui «spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni» ci si riveste dell’uomo nuovo (cfr.<br />

Col 3,9-10)? Quell’uomo nuovo non designa soltanto il Cristo personale, ma anche il corpo di Cri-<br />

sto collettivo (come l’Adamo di Gn 2 designava l’uomo generico, l’uomo vecchio nel testo di Col<br />

3,9): «non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libe-<br />

ro, ma Cristo è tutto e in tutti» (Col 3,11). Le differenze non sono ormai più delle barriere: esse for-<br />

niscono invece al corpo di Cristo quella ricca diversità di membra e di funzioni di cui tutto il corpo<br />

ha bisogno; l’altro non va più considerato come un rivale di fatto o un nemico potenziale, special-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

mente sul piano religioso, ma va accolto come fratello.<br />

La creazione di questo nuovo noi in forza del battesimo si esprime particolarmente nell’eucaristia,<br />

dove ogni preghiera viene recitata alla prima persona plurale 8 : «Noi ti preghiamo», «Ti rendiamo<br />

grazie», «Ti supplichiamo», «Ti offriamo» ecc. Ora, come ci insegnano i linguisti, il pronome noi<br />

non designa una somma di io e di tu, ma forma in partenza «una persona complessa». Se dunque,<br />

sulla scia del Vaticano II, si sottolinea giustamente che attore della celebrazione è la Chiesa come<br />

tale, intesa nel suo senso primario di assemblea, non è per ideologia democratica, ma per una ragio-<br />

ne propriamente teologica: il sacerdote che presiede (tutti celebrano, ma uno solo presiede) manife-<br />

sta sacramentalmente o ministerialmente che è il Cristo stesso a presiedere e a esercitare, in mezzo<br />

all’assemblea e a suo favore, il suo sacerdozio unico; e proprio perché è il Cristo che presiede, tutte<br />

le membra del suo corpo sono attori con lui sulla base della fede e del battesimo. È quindi la comu-<br />

nità che agisce: agisce come corpo, come corpo costituito, come corpo di Cristo, anche se i ruoli e<br />

le funzioni, e in primo luogo quella del prete, sono distribuiti al suo interno in maniera diversificata.<br />

Di conseguenza, più si sottolinea che l’azione liturgica è l’azione del Cristo stesso risuscitato in for-<br />

za dello Spirito — come attesta appunto la presidenza del ministro ordinato —, più si è portati a sot-<br />

tolineare che l’assemblea, che forma il suo corpo umano attuale, è la mediazione sacramentale attiva<br />

della sua azione, specialmente della sua lode al Padre e della sua supplica per gli uomini suoi fratel-<br />

li. Nessuna verità è più radicata nella Tradizione, sebbene la si sia dimenticata a partire dal Medioe-<br />

vo. Lo stesso san Paolo ne è testimone in 1Cor 11,17-34, dove egli riferisce sempre la «cena del Si-<br />

gnore» al voi comunitario, e, nel capitolo 10, il soggetto che benedice la coppa e spezza il pane è il<br />

noi dell’assemblea (il che non impedisce affatto che essa venga presieduta da un ministro):<br />

Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il<br />

pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi,<br />

pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane (1Cor 10,16-17).<br />

Lex orandi, lex credendi: la Chiesa crede secondo il modo in cui essa celebra. La liturgia è quindi<br />

un “luogo teologico” di primaria importanza. Essa ci mostra a modo di agire simbolico che ognuno<br />

diventa cristiano soltanto perché preso dentro la matrice comunitaria della Chiesa. Perciò si può e si<br />

deve dire: «Non sono i cristiani che riunendosi formano la Chiesa, ma è la Chiesa che fa i cristiani».<br />

8 Due eccezioni confermano la regola: quella del “Confesso a Dio”, perché deriva da un’apologia personale del sacerdote<br />

nel Medioevo; e quella del “Credo in Dio”, perché viene dalla liturgia del battesimo, in cui ciascuno era tenuto a professare<br />

personalmente la sua fede.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Così la Chiesa costituisce per ognuno la mediazione concreta prioritaria del suo rapporto col Dio<br />

vivente rivelato in Gesù. Grande è la tentazione di cedere al desiderio di un rapporto immediato con<br />

Cristo o di una illuminazione diretta da parte dello Spirito Santo. L’incontro con Dio, ci dice la fede<br />

cristiana sulla base dell’incarnazione di Dio in Gesù, passa attraverso l’incontro con gli altri. La<br />

Chiesa, prima di tutto attraverso l’assemblea locale ne è l’espressione concreta. «Grande è il mistero<br />

della fede!» (cfr. 1Tm 3,16): prima di essere applicata all’eucaristia, questa espressione si applica<br />

all’assemblea concreta in quanto Chiesa. C’è del mistero e dello scandalo in questo. La cosa è<br />

tutt’altro che ovvia, e la difficoltà per l’intelligenza di credere nella presenza del Cristo rischia di<br />

fungere da falso ostacolo, se non si vive questo scandalo primario, che è di ordine esistenziale: quel-<br />

lo di un incontro con il Cristo vivente che non è possibile se non tramite la mediazione concreta di<br />

una Chiesa, santa, ma fatta di peccatori; corpo di Cristo, ma formata di membra divise; tempio dello<br />

Spirito, ma così poco missionaria. L’assemblea concreta di ogni domenica fa inciampare il cristiano<br />

nella dura realtà di questa mediazione che ognuno cerca di dimenticare.<br />

La pietra d’inciampo che la Chiesa costituisce indica chiaramente anche l’ostacolo che la fede deve<br />

superare: la tentazione della “immediatezza”, di essere cioè in relazione diretta con Cristo — Luca<br />

direbbe rinunciare all’immediatezza di un vedere, trovare, toccare.<br />

I cristiani sanno certamente di non poter essere in presa diretta con Cristo. Eppure… essi sono abita-<br />

ti dallo stesso desiderio fondamentale di immediatezza che muoveva i destinatari diretti del Vangelo<br />

di Luca. Questo desiderio può assumere mille forme, a volte molto sottili. Se ne possono connettere<br />

le tre forme principali ai tre poli della nostra struttura d’identità cristiana.<br />

- La sopravvalutazione del polo Scritture può portare a una tale venerazione della lettera della<br />

Bibbia da cadere nel fondamentalismo. In forma più sottile, la sopravvalutazione del polo della co-<br />

noscenza spinge alcuni cristiani a classificare gli altri in funzione del loro sapere teologico o della<br />

loro capacità di esprimere in maniera critica la loro relazione con Dio. In questa prospettiva, il mo-<br />

dello del cristiano sarebbe il teologo o il cristiano critico.<br />

- Se la prima tentazione si è sviluppata maggiormente nelle Chiese uscite dalla Riforma, la se-<br />

conda, che sopravvaluta il polo dei sacramenti, caratterizza più intensamente il mondo cattolico.<br />

Con la scusa che i sacramenti sono “mezzi di salvezza” e che agiscono ex opere operato, si pone in<br />

essi una tale fiducia che essi tendono a occupare l’intero campo della vita cristiana. In questa pro-<br />

spettiva, che rasenta la magia, il modello del cristiano è il praticante.<br />

- La tendenza a sopravvalutare il polo dell’etica è transconfessionale. Essa può assumere due<br />

forme principali: la prima, più “politica”, in cui il modello del cristiano è il militante che, attraverso<br />

il suo impegno per la giustizia, fa avanzare il regno di Dio sulla terra, e in cui l’ortodossia viene<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

giudicata sul metro dell’ortoprassi; la seconda, più “emotiva”, dove il modello del cristiano è il ca-<br />

rismatico, la cui testimonianza personale, facendo leva su quella fraterna del gruppo, annuncia in<br />

maniera convincente la presenza del Cristo risorto e l’azione dello Spirito.<br />

Aggrappato allora a questo “punto fisso” immaginario, il cristiano manipola Dio, Cristo o il Vange-<br />

lo. Egli fa così del Vangelo lo specchio dei propri desideri. Così fa di Dio un idolo e, senza accor-<br />

gersene, torna a fare di Cristo un cadavere, invece di lasciarlo essere il Vivente. Sono, questi, altret-<br />

tanti modi, spesso sottili, di mettere le mani su di lui (cfr. Mt 26,50).<br />

c) Mantenere la distanza<br />

Ora, la fede vive unicamente grazie allo scarto fra i tre poli. È precisamente questo scarto a mediare<br />

concretamente la distanza con Dio, il rispetto della sua differenza. Scarto scomodo, perché mantiene<br />

costantemente un’assenza. Ma questa assenza, che l’immaginario tende continuamente a colmare, è<br />

ciò che permette a Gesù di essere veramente presente nello Spirito come il Vivente, rispettando la<br />

sua signoria. È pure ciò che permette ai cristiani lo spazio della creatività personale. La buona salu-<br />

te della fede richiede perciò che il cristiano trovi un equilibrio su questo “tripode”.<br />

La lettura delle Scritture potrebbe, infatti, essere ancora cristiana, se non venisse riferita, da un lato<br />

alla liturgia, dove nell’atto della loro proclamazione nell’assemblea ecclesiale si attesta che esse so-<br />

no parola di Dio per oggi, e dall’altro alla vita etica, dove esigono di incarnarsi?<br />

Come potrebbe la partecipazione ai sacramenti essere cristiana, se non venisse riferita, da un lato al-<br />

le Scritture, sul cui fondamento la liturgia non è semplice celebrazione di Dio in generale, ma del<br />

Dio rivelato nella vita, morte e risurrezione di Gesù, e dall’altro alla vita etica, dove il cristiano è<br />

chiamato a verificare — cioè a rendere vero — ciò che ha celebrato e ricevuto nel sacramento?<br />

Infine, come potrebbe la pratica etica essere cristiana se, da un lato, non fosse confrontata alle Scrit-<br />

ture come alla propria fonte, e dall’altro radicata nella celebrazione liturgica? Precisiamo che ciò<br />

che fa della vita etica una realtà cristiana non è né il suo campo d’estensione (che è lo stesso per o-<br />

gni uomo), né il suo grado di affinamento (la massima «non fare ad altri ciò che non vorresti fosse<br />

fatto a te» era nota agli antichi e ai Giudei del tempo di Gesù), né il suo livello di generosità: questa<br />

può arrivare a «distribuire tutti i beni ai poveri» o persino a «farsi bruciare vivi» per una causa nobi-<br />

le, senza per questo essere un atto veramente cristiano (cfr. 1Cor 13). A renderla cristiana non è la<br />

sua materia, ma la forma che le dona l’amore inteso come risposta all’amore primo di Dio (ibid.).<br />

Ora, la liturgia è il luogo in cui si attesta questa priorità del dono gratuito di Dio (eucaristia). La vita<br />

etica, di servizio agli altri, trova la sua identità propriamente cristiana, soltanto nella misura in cui<br />

essa è vissuta come risposta a questo amore primo, e dunque si “abbevera” ai sacramenti.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

3.3. La Chiesa: comunione/tradizione<br />

Per determinare in modo più preciso la “struttura essenziale” della mediazione ecclesiale ci siamo<br />

riferiti ad alcuni racconti esemplari che ci hanno mostrato il nascere della Chiesa e il costituirsi si-<br />

multaneo dell’ordine simbolico cristiano, mediante il quale è offerto “oggettivamente” ad ogni per-<br />

sona la possibilità di divenire discepolo di Gesù Cristo (cfr. Mt 28,18-20). Sistematizzando queste<br />

indicazioni diciamo che la Chiesa nel momento in cui nasce si costituisce come comunione che sca-<br />

turisce dall’annuncio, un annuncio che ha come contenuto la storia di Gesù Cristo, una comunione<br />

che ha un carattere insuperabilmente interpersonale, cioè si realizza attraverso la condivisione<br />

dell’esperienza che si è fatta di Gesù Cristo. Tale comunione infine ha la sua origine e il suo fine<br />

nella comunione con Dio (cfr. 1Gv 1,1-4) 9 . La chiesa può essere dunque descritta come questo even-<br />

to della comunione, come quel popolo adunato «de unitate Patris et Filii et Spiritus» (LG 4).<br />

3.3.1. La dinamica testimoniale della fede cristiana<br />

1) Abbiamo finora individuato dentro il dato globale della chiesa la struttura dinamica dell’ordine<br />

simbolico cristiano: essa ci offre un modello euristico in grado di segnalare il complesso delle rela-<br />

zioni strutturali che dicono il sorgere e il perpetuarsi della chiesa stessa nella sua identità.<br />

Questo elemento particolare, perché potesse fungere da modello euristico, doveva avere le medesi-<br />

me qualità di fondo del dato globale e doveva essere un dato dinamico, capace di mostrare un com-<br />

plesso relazionale che dicesse, nell’insieme della storia, il passaggio fra il non-esserci e l’esserci<br />

della chiesa e, quindi, il dinamismo e gli elementi determinanti di questo passaggio. Non solo, era<br />

necessario pure che questo particolare fosse un evento che facesse da spartiacque fra la non-<br />

esistenza e l’esistenza della chiesa e che, per poter essere adeguatamente conosciuto, si situasse non<br />

solo al livello storico ma anche a quello misterico. Inoltre il dato poteva fungere da modello solo se<br />

era un evento per natura sua infinitamente riproducibile in forme e contesti diversi.<br />

Queste osservazioni preliminari ci hanno condotto a concentrare la nostra attenzione su quel dato<br />

dell’esistenza della chiesa che è stato il suo inizio. L’evento dell’inizio della chiesa, effettivamente,<br />

fu un accadimento storicamente registrabile e, allo stesso tempo, fu quello che fu solo perché fu vis-<br />

suto all’interno di una struttura di fede; anzi solo la libera apertura dei protagonisti all’irruzione del<br />

9 Ci ispiriamo con integrazioni alla proposta di S. DIANICH, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Cinisello<br />

Balsamo (Mi), Edizioni Paoline, 1993; cfr. S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 2002.<br />

342


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Regno nella loro vicenda storica lo rese possibile. Se non fosse stato vissuto in queste coordinate,<br />

non si sarebbe trattato dell’avvenimento della nascita della chiesa. Quell’accadimento inoltre è in-<br />

cessantemente riproducibile, perché dovunque e sempre è possibile che dei credenti testimonino la<br />

fede ad altri e così si verifichi di nuovo il germinare, in tempi nuovi e in spazi inediti, dello stesso<br />

accadimento. Ancora: è un fatto che si pone in essere come un complesso di relazioni, così da poter<br />

fungere da modello euristico e non da puro e semplice prototipo.<br />

La chiesa, infatti, nasce dall’annuncio del Vangelo apostolico 10 , «che viene comunicato nella Parola<br />

e nel sacramento ricevuto mediante la fede» 11 . L’annuncio del Vangelo non va quindi inteso sola-<br />

mente come annuncio “verbale”: esso ha le stesse qualità della rivelazione; ma questa, come insegna<br />

il Concilio (DV 2), avviene «con eventi e parole (gestis verbisque) intimamente connessi fra loro».<br />

L’atto con cui la chiesa genera alla fede nuovi credenti è quindi un atto complesso e qualificato dal-<br />

le tre dimensioni essenziali che abbiamo individuato nell’ordine simbolico cristiano: martyria, lei-<br />

turghia, diakonia. L’annuncio ha, quindi, fin dall’inizio e strutturalmente una forma sacramentale e<br />

una qualità etica. Esso è perciò un atto comunicativo performativo, capace cioè non solo di trasmet-<br />

tere una verità, ma anche di produrre una realtà nuova, ossia la nascita di un nuovo rapporto fra gli<br />

uomini, che è il germe della chiesa. Questa trasmissione della fede non è solo qualcosa che la Chie-<br />

sa fa, ma dice come la Chiesa è o, meglio, come la Chiesa si fa nella storia: «La chiesa nella sua dot-<br />

trina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è,<br />

tutto ciò che essa crede» (DV 8). Il fatto non si riprodurrà mai nella forma di una pura e semplice<br />

ripetizione. La chiesa con il suo dinamismo storico è sempre diversa, ma sempre vi si potrà ritrovare<br />

il complesso strutturale delle relazioni che ne compongono il momento germinale.<br />

10 «Il Vangelo… è per la chiesa principio di tutta la sua vita in ogni tempo»: LG 20a; «Il mezzo principale per questa<br />

fondazione (= implantatio) [della chiesa] è la predicazione del vangelo di Gesù Cristo»: AG 6c; «La chiesa nasce<br />

dall’azione evangelizzatrice di Gesù e dei Dodici… Nata, di conseguenza, dalla missione, la chiesa è, a sua volta, inviata<br />

da Gesù… Inviata ed evangelizzata, la chiesa, a sua volta, invia gli evangelizzatori… a predicare non le proprie persone<br />

o le loro idee personali, bensì un Vangelo di cui né essi, né essa sono padroni e proprietari assoluti per disporne a<br />

loro arbitrio, ma ministri per trasmetterlo con estrema fedeltà»: PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, n. 15.<br />

11 COMMISSIONE CONGIUNTA CATTOLICA ROMANA – EVANGELICA LUTERANA, Chiesa e giustificazione. La comprensione<br />

della chiesa alla luce della dottrina della giustificazione (11 IX 1993), n. 39, in EO III, §1269. Il documento, frutto del<br />

dialogo internazionale cattolico-luterano, prosegue ricordando che «la comunicazione del Vangelo nella Parola e nel sacramento<br />

implica il servizio della predicazione della Parola e dell’amministrazione dei sacramenti. Ciò corrisponde alla<br />

testimonianza biblica, secondo la quale il “servizio della riconciliazione” (2Cor 5,18ss) fa parte della parola di riconciliazione.<br />

Predicazione della Parola e amministrazione dei sacramenti non sono quindi solo atti momentanei, ma realtà<br />

fondamentali che caratterizzano la chiesa in modo permanente. Mentre tutti i fedeli, ognuno al suo posto, devono diffondere<br />

il vangelo, la predicazione della Parola e l’amministrazione dei sacramenti come atti pubblici [della Chiesa] dipendono<br />

in permanenza dal ministero istituito da Dio»: ibid., § 1270. Si veda in tal senso anche il bel testo del Gruppo<br />

di lavoro bilaterale della Conferenza Episcopale Tedesca e della Direzione della Chiesa Evangelica Luterana Unita di<br />

Germania, Communio sanctorum. La Chiesa come comunione dei santi, Morcelliana, Brescia 2003, §§ 35-38.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

In questo evento, intanto, si trova già la risposta alla prima e più semplice domanda: quando e come<br />

nacque e continuamente rinasce quell’aggregazione umana che chiamiamo chiesa? La comunicazio-<br />

ne della fede fatta da un credente e accolta da un nuovo credente — la dinamica “testimoniale” arti-<br />

colata nel nostro triplice polo — è senza dubbio la base e il punto di partenza di tutta la rete di rap-<br />

porti che lega fra loro i credenti e costituisce la chiesa. Così il fatto dell’«inizio» sembra portare in<br />

sé, sotto il segno della massima semplificazione, come in germe, tutta la complessiva dinamica<br />

dell’esistenza ecclesiale. Il complesso relazionale di questo evento potrà fornire, dentro il modello<br />

dell’«inizio», anche il «principio» dal quale far partire tutto il processo interpretativo.<br />

2) Questo evento fontale, che è davanti a noi come un dato di fatto accaduto all’inizio della storia<br />

della chiesa e che accade ogni volta che la chiesa si rigenera, occupa un posto assolutamente singo-<br />

lare nel dato globale della sua esistenza. Infatti qui siamo in presenza di un’azione che si presenta<br />

come l’atto fondamentale della missione della chiesa e, allo stesso tempo, come il luogo di origine<br />

della sua stessa esistenza. L’atto della “comunicazione” della fede risponde sia alla domanda: «La<br />

chiesa cosa fa?», sia alla domanda: «Cos’è che fa la chiesa?». Si tratta di un’azione storica, storica-<br />

mente constatabile, che colloca la chiesa al suo legittimo livello di realtà empirica e ci dice sia cosa<br />

faccia la chiesa nella storia, sia da cosa essa derivi. Allo stesso tempo, proprio nella comunicazione<br />

della fede, l’aggregazione dei credenti si crede creatura Verbi et Spiritus, per la precisa consapevo-<br />

lezza che la fede è azione di Dio in noi. E questo non solo all’inizio, ma lo è continuamente, ogni<br />

qual volta la chiesa si rigenera. Lo è sia quando in uno spazio umano, nel quale non esisteva, sta na-<br />

scendo una comunità cristiana, sia quando una chiesa ormai “piantata” si rigenera di generazione in<br />

generazione, perché l’annuncio viene tramandato, sia quando la comunità cristiana con la sua opera<br />

di evangelizzazione aggrega a sé nuovi credenti.<br />

La “trasmissione” della fede, inoltre, non solo è l’inizio in senso cronologico dell’esistenza della<br />

chiesa, ma ne è anche l’elemento costitutivo primordiale, l’essenziale principio dinamico. Tutta la<br />

dinamica complessiva della comunicazione della fede evidenzia il dinamismo fondamentale della<br />

Paradosis: l’apostolo che «trasmette» ciò che «ha ricevuto» dal Signore mette in moto un processo<br />

storico che ha raggiunto il nostro tempo e che noi crediamo, sulla parola del Signore, non si arreste-<br />

rà sino alla fine. La chiesa, in fondo, è nella storia questo processo storico. Né si tratta solo di una<br />

vicenda empiricamente definibile nei termini di un qualsiasi processo storico. Nel ricevere e tra-<br />

smettere la «buona notizia», infatti, i credenti sono consapevoli di essere mossi dallo Spirito Santo,<br />

perché senza di lui non si può proclamare che Gesù è il Signore (1Cor 12,3); vivono l’esperienza<br />

della pasqua narrando la morte di Cristo non come una storia triste, ma facendone «memoria»<br />

nell’eucaristia come di un evento glorioso e, annunciando il vangelo, si aprono alla comunicazione<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

universale, perché esso è Parola non più legata a una sola legge e a un solo popolo. In questo ormai<br />

bimillenario processo storico si riproduce continuamente la chiesa e nascono nella Catholica nuove<br />

chiese e si rinnova continuamente il Vangelo. Fra la chiesa e la storia sta così il principio dinamico<br />

della “comunicazione” della fede, capace di spiegare il carattere storico e, allo stesso tempo, il carat-<br />

tere misterico della chiesa, senza il quale essa resterebbe ignota nella sua dimensione autentica.<br />

3. Porre al principio di tutto il processo interpretativo della chiesa la dinamica testimoniale significa<br />

ritenere che dalla struttura di questo atto comunicativo possano venire comandati gli sviluppi essen-<br />

ziali della costituzione stessa della chiesa e del suo rapporto con il mondo, della sua missione.<br />

Verso la comunità — La realtà della chiesa si compone di molti elementi, ma essa non esisterebbe<br />

se non fosse mossa all’interno dal dinamismo della comunicazione della fede, liberamente trasmes-<br />

sa e accolta. Il suo inizio non si configura come l’origine di una stirpe: alla chiesa non si appartiene<br />

per nascita, né vi si è introdotti solo attraverso un rito iniziatico 12 . Ciò che fa la chiesa è l’annuncio<br />

che Gesù è risorto ed è Signore e l’accoglimento di questo annuncio, sigillato dalla condivisione<br />

della professione di fede e dalla ricezione del battesimo. Da questo atto comunicativo nasce quel<br />

fondamentale rapporto comunionale fra i credenti che costituisce la base della esistenza ecclesiale.<br />

Il prologo della 1Gv (1,1-4) ci dà una delle descrizioni più significative del primordiale evento del<br />

Vangelo: il testimone racconta la sua esperienza di fede, come abbia incontrato Gesù, lo abbia toc-<br />

cato con le proprie mani, visto con i propri occhi e creduto come Verbo della vita. Poiché questo<br />

racconto è accolto con fede, si crea fra il testimone e l’interlocutore una comunione. La comunione<br />

che l’annuncio della fede produce fra i protagonisti dell’evento non è un fattore nuovo e assoluta-<br />

mente originario, perché è partecipazione a quella comunione con Dio di cui già gode l’annun-<br />

ciatore, e, ultimamente, partecipazione alla comunione che lega fra loro il Padre e il Figlio.<br />

L’attestazione del prologo della 1Gv, rapportando l’annuncio alla comunione, non svela tanto una<br />

intenzione esplicitamente progettata dal testimone, ma piuttosto rivela una forza inscritta nella te-<br />

stimonianza ecclesiale stessa. L’affermazione, infatti, che Gesù è risorto ed è il Signore non indica<br />

esclusivamente un referente oggettivo, non dice semplicemente una cosa conosciuta: è una profes-<br />

sione di fede; il suo oggetto non è in alcun modo una semplice acquisizione intellettuale, che sareb-<br />

be possibile comunicare senza alcun coinvolgimento del soggetto stesso. Se si tratta di comunicare<br />

12 Gv 1,13: «non da sangue né da volere di carne». Non si dimentichi poi che il rito battesimale presuppone la fede accolta<br />

e professata; la stessa casistica postridentina imponeva, nel caso limite di un battesimo amministrato ad un bambino<br />

da un non credente, che il ministro avesse almeno l’intenzione di fare ciò che fa la chiesa, perché almeno attraverso<br />

questo esile filo il rito ricevesse senso dalla fede.<br />

345


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

ciò che si crede, non si può dimenticare che il creduto è oggetto e termine di una certezza profon-<br />

damente deliberata e liberamente scelta, voluta e amata. Perciò chi annuncia non trasmette sempli-<br />

cemente una notizia “neutrale”, ma dà all’altro, in qualche maniera, se stesso, divenendo con ciò un<br />

“testimone”. Se, allora, testimoniare la fede significa dar vita a un atto comunicativo di questo gene-<br />

re, è naturale che l’interlocutore, qualora non si rifiuti al consenso, venga immediatamente coinvolto<br />

nella stessa esperienza del testimone e così si instauri fra i due una comunione profonda.<br />

In tal modo appare chiaro perché il nostro prologo, descrivendo l’annuncio evangelico, lo veda sfo-<br />

ciare in una «comunione» che è «con il Padre e il suo Figlio Gesù Cristo». Infatti la comunicazione<br />

dell’esperienza di fede da parte dell’apostolo non coinvolge l’interlocutore in un rapporto con Cristo<br />

quale profeta defunto che ha istituito una chiesa di cui ora l’interlocutore è invitato a far parte: lo<br />

coinvolge invece in quel rapporto con Cristo che è operato in lui dallo Spirito e che lo pone in una<br />

comunione interiore con la stessa interiorità di Cristo, là dove Cristo è in comunione con il Padre.<br />

Grazie all’azione dello Spirito nel cuore dell’uomo, siamo quindi di fronte a una misteriosa parteci-<br />

pazione alla comunione esistente tra il Padre e il Figlio, e tutto il rapporto fra i credenti è intrecciato<br />

con il mistero del rapporto intercorrente fra le persone della Trinità (cfr. Gv 17,21).<br />

Così l’annuncio del Vangelo diventa principio di un’aggregazione di fede singolare e nuova anche<br />

rispetto alla tradizione di Israele. Se il principio è la fede e non la legge, è ovvio che ormai non con-<br />

ta più essere «né giudeo né greco…» (Gal 3,28; cfr. 1Cor 12,13; Col 3,11). Solo la fede in Gesù<br />

morto e risorto, suscitata dallo Spirito, personalmente testimoniata e liberamente accolta, lega i pro-<br />

tagonisti dell’evento in una profonda comunione interiore. Certo, la fonte della comunione è lo Spi-<br />

rito nella sua divina libertà e imprevedibilità. Però la sperimentabilità del suo dono al livello storico,<br />

l’aspetto verificabile della comunione, si dà attraverso il processo complessivo della testimonianza.<br />

Il rapporto fra le persone derivante dall’annuncio e fondante una nuova e singolare aggregazione re-<br />

ligiosa è un fatto di grazia, possibile solo mediante la fede dei suoi protagonisti, la quale a sua volta<br />

può essere soltanto dono dello Spirito. L’evento però si presenta con un suo carattere empirico e sto-<br />

rico, in quanto si compie dentro un fenomeno di comunicazione umana che accade nello spazio e<br />

nel tempo ed ha per protagonisti uomini concreti, storicamente situati: è un evento della storia uma-<br />

na. Certo: le sue dimensioni misteriche non sono percepibili empiricamente, né sono rilevabili da<br />

parte del sociologo e dello storico, però vengono credute e vissute dentro l’evento storico, e vi sono<br />

connesse a tal punto che, senza di esse, lo stesso evento storico non esisterebbe. Le sue implicazioni<br />

di carattere trascendente hanno senso solo per i credenti che vi si lasciano coinvolgere, ma il feno-<br />

meno storicamente verificabile della “testimonianza”, con tutte le sue conseguenze rilevabili sulla<br />

scena della storia, resta un fatto carico di senso anche per chi non vi è coinvolto.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

A questo livello il mistero di comunione portato dall’annuncio si concretizza nel sorgere di<br />

un’aggregazione sociale dotata di una precisa e determinata forma storica, che ha avuto fin da prin-<br />

cipio la preoccupazione di mantenersi fedele alla propria origine come condizione irrinunciabile<br />

della propria autenticità. Essa è un soggetto storico determinato che è destinato ad attraversare la<br />

storia ma restando fedele al proprio principio e conservando la propria identità.<br />

Dunque l’evento della comunicazione della fede che fa partecipare alla comunione «col Padre e col<br />

Figlio suo» dà origine alla chiesa perché non è limitato all’inizio, ma si riproduce nel tempo, mante-<br />

nendo la propria identità e le medesime caratteristiche. Questa identità è possibile grazie a delle me-<br />

diazioni, quali la Scrittura e i sacramenti affidate “istituzionalmente” al ministero apostolico; ma<br />

tali mediazioni non realizzano la comunione ecclesiale senza l’azione dello Spirito (che suscita la<br />

fede in ciò che la Scrittura annuncia, che opera ciò che i sacramenti intendono, che abilita all’eser-<br />

cizio del ministero). A questo proposito, al fine di comprendere la chiesa come comunione non solo<br />

occasionale, ma che ha una permanenza storica, pare fondamentale il concetto di Tradizione, cioè la<br />

trasmissione nel tempo della realtà totale della chiesa che mantiene una fondamentale identità con<br />

se stessa, nonostante i mutamenti storici. La nozione di tradizione è decisiva perché collega un lato<br />

esterno, una continuità storicamente percepibile e documentabile che permette di riconoscere la<br />

chiesa nelle diverse epoche storiche, e un’azione interiore dello Spirito che mantiene questa identità<br />

e collega il presente con l’origine normativa. In sintesi, la chiesa è insieme comunione e tradizione.<br />

Verso il mondo. Questo nostro principio ci permette di comprendere anche il rapporto della chiesa<br />

stessa con il mondo. La testimonianza avviene nel mondo e, come ogni altro avvenimento storico,<br />

produce nella storia dei processi di assestamento, che coinvolgono uomini, istituzioni e intere civil-<br />

tà. Questo è semplicemente un dato di fatto: certamente in molte cose la storia dell’umanità avrebbe<br />

seguito percorsi diversi, se non fosse accaduto che un giorno in Gerusalemme qualcuno avesse pro-<br />

clamato che Gesù era risorto e che, per salvarsi, bisognava ritenerlo l’unico Signore della storia. O-<br />

ra, l’enunciazione della fede e la sua proposizione centrale — «Gesù è risorto ed è il Signore» —<br />

sembrano appartenere decisamente a un linguaggio iniziatico, cioè a un tipo di discorso nel quale<br />

l’enunciazione ha senso solo per chi ritiene vero l’enunciato. Per chi si rifiuta di credere non ha al-<br />

cun senso l’affermazione che un uomo crocifisso è risuscitato e che oggi il destino del mondo è nel-<br />

le mani di un risorto da morte. Quando poi la chiesa esprime la sua fede attraverso la sua simbolica<br />

e i suoi riti, il suo discorso diventa sempre più incapace di entrare nella conversazione umana e di<br />

intrecciarsi con il discorso degli uomini. Le resta sempre la possibilità di chiamare gli uomini a cre-<br />

dere e ad appartenerle mediante la condivisione della sua fede. Ma con chi non accettasse l’invito la<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

conversazione rimarrebbe chiusa, oppure si riaprirebbe in forza della carità che «ci spinge» (urget<br />

nos: 2Cor 5,14) e di quel «Guai a me se non evangelizzassi» (1Cor 9,16).<br />

Ciò nonostante la chiesa non ha mai rinunciato alla conversazione mondana, ed oggi, finito il tempo<br />

della contrapposizione, è ancor più consapevole del dovere che le incombe di dialogare con il mon-<br />

do (cfr. GS cap. IV). Dialogare significa porre un atto comunicativo che abbia senso anche per chi<br />

non riterrà vero l’enunciato. Ebbene, la testimonianza cristiana intende essere un atto comunicativo<br />

del genere. Esso può avere senso per il non credente prima di tutto perché il soggetto della proposi-<br />

zione «Gesù è il Signore» non è «Dio», ma appunto «Gesù», cioè un soggetto storico. E se l’af-<br />

fermazione che Gesù è risorto risulta priva di senso per chi ritiene assurda l’idea di una risurrezione,<br />

le implicazioni dell’affermazione stessa, cioè che questo soggetto era morto ed era stato crocifisso<br />

per aver detto e fatto certe cose nel corso della sua vita, sono dotate di senso per chiunque. Sono una<br />

pagina della grande vicenda umana. C’è poi una seconda ragione della possibile universale sensa-<br />

tezza dell’annuncio: si tratta di un atto linguistico fortemente autoimplicativo. Uno dice ad altri che<br />

Gesù è il Signore solo se ci crede. Non può darsi alcun kérygma consistente nella pura e semplice<br />

enunciazione di un dato oggettivo. Non si può comunicare ad altri la notizia che Gesù è risorto se<br />

non si include nell’affermazione la narrazione della propria esperienza di fede. Per cui, se l’inter-<br />

locutore si rifiutasse di prendere in considerazione il mio asserto perché lo ritiene privo di senso, gli<br />

resterebbero la possibilità e il compito di valutare tutto ciò che la mia fede ha prodotto nella mia e-<br />

sistenza e nella mia opera di credente. Anche questa è una pagina della storia umana. Questa secon-<br />

da ragione può essere considerata anche nella sua dimensione macroscopica, collettiva. Che alcuni<br />

quel giorno a Gerusalemme abbiano cominciato a predicare in quel modo, può essere visto con gli<br />

occhi della fede oppure ritenuto un’insensatezza. Ma che da quella predicazione sia nato un soggetto<br />

storico, la chiesa, la quale ha sempre operato all’interno della vicenda umana ed ha esercitato un in-<br />

flusso decisivo sulla nostra storia, resterà un fatto conoscibile e giudicabile da chiunque.<br />

In conclusione: se da un lato la comunicazione della fede mostra la sua piena sensatezza solo quan-<br />

do, per la grazia dello Spirito, la fede stessa venga accolta e condivisa, l’evento complessivo della<br />

testimonianza ecclesiale ha una sua pluriforme dimensione storica che lo rende sic et simpliciter si-<br />

gnificativo per il mondo. Sul piano dunque di una narrazione difatti, dal quale il credente non può<br />

mai allontanarsi del tutto pur se vivesse la sua fede nella più radicale tensione mistica, il discorso<br />

della fede può essere sottoposto a ogni possibile valutazione: psicologica, sociologica, storica, poli-<br />

tica… La qualità testimoniale della fede, quindi, è il principio esplicativo non solo dello strutturarsi<br />

di una aggregazione sociale intorno all’annuncio, ma anche del suo difficile rapporto con il mondo.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

3.3.2. La comunione: sorgente e frutto dell’annuncio<br />

Senza dubbio la prima e fondamentale componente della chiesa è il dono della comunione che lega<br />

fra loro e con Dio i credenti. Ma che rapporto intercorre fra la dinamica testimoniale e la comunio-<br />

ne? Come, a partire dal Vangelo, la grazia della comunione prende forma storica nell’incontro inter-<br />

personale dei protagonisti dell’evento della comunicazione della fede?<br />

a) «Koinonía» nel Nuovo Testamento<br />

L’Antico Testamento ci ha portato la rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini e ha chiamato gli<br />

uomini ad amare Dio: basti ricordare lo Shema Israel. Né si possono dimenticare le grandi pagine<br />

mistiche, soprattutto presso i profeti, testimonianti l’intimo rapporto del credente con Dio. Ciò no-<br />

nostante gli esegeti hanno osservato 13 che nell’AT la radice hbr, che sarebbe alla base del lessico di<br />

comunione, oltre che poco usata, non è portatrice di un’idea importante della spiritualità di Israele.<br />

L’uomo in realtà non è il «compagno» (haber) di Dio, ne è piuttosto il servo (ebed Jhwh). Con Dio<br />

si dà un berît, un patto, non una habura, una comunione. Per stipulare l’alleanza con Dio «Mosè a-<br />

vanzerà solo verso il Signore, ma gli altri non si avvicineranno e il popolo non salirà con lui» (Es<br />

24,2). Nell’AT ci si avvicina all’esperienza della comunione con Dio nel quadro del banchetto sacro<br />

e della partecipazione al sacrificio. Ma anche il banchetto sacro è considerato più un «mangiare da-<br />

vanti a Dio» che non un vivere in comunione con lui (Dt 12,7.18). Non a caso Paolo distingue net-<br />

tamente ciò che avviene nel mondo pagano da quello che accade in Israele quando si mangiano le<br />

vittime offerte sull’altare: i pagani pretendono con i loro sacrifici di diventare koinonoì della divini-<br />

tà e così, in realtà, diventano koinonoì dei demoni; la comunione che si realizza in Israele è, più ri-<br />

spettosamente, solo una comunione con il Thysiastérion, cioè con l’altare (1Cor 10,18-21).<br />

Da tutto ciò sarebbe derivata la prevalenza del senso della legge sul senso della comunione, sia nel<br />

rapporto del fedele con Dio che nella compaginazione del popolo di Israele. Chi invece parlerà tran-<br />

quillamente di comunione con Dio sarà Filone (13 a.C. - 54 d.C.). E non a caso, in quanto egli rap-<br />

presenta il giudaismo inculturato nell’ambiente ellenistico 14 . Ma, considerati questi precedenti, pos-<br />

siamo misurare l’incredibile, consapevole audacia della seconda lettera di Pietro quando afferma<br />

che grazie ai «beni grandissimi e preziosi» che ci sono stati donati, noi cristiani siamo diventati<br />

«partecipi (koinonoì) della natura divina» (2Pt 1,4).<br />

13 Vedi, per esempio, F. HAUCK, Κοινων -, in GLNT V, Paideia, Brescia 1969, 703-706.<br />

14 L’uso del termine nel greco classico è frequente; per esempio Platone, parla di κοινωνία tra gli dei e gli uomini (Simposio,<br />

188 c), che le leggi devono preservare (Leggi, V, 729 c; XI, 921 c).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

(I) La dimensione teologica<br />

Nei testi del NT riguardanti il nostro tema la dimensione “verticale” della comunione, se non è mai<br />

solitaria, risulta senza dubbio del tutto eminente. Essa in ogni caso costituisce il principio del di-<br />

scorso. Nel NT la comunione è punto d’arrivo di un appello, di una chiamata. Chi ci chiama alla<br />

comunione è il Dio fedele. All’inizio della 1Cor Paolo esalta la ricchezza dei doni di Dio: la grazia,<br />

la parola e la scienza, la costanza con cui la fede è vissuta dalla sua comunità nell’attesa del ritorno<br />

del Signore. In questo contesto l’Apostolo confessa la sua indefettibile fiducia che: «Egli [Dio] vi<br />

confermerà sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo: fedele è Dio, dal<br />

quale siete stati chiamati alla koinonía del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro» (1Cor 1,8-9).<br />

Nell’esperienza originaria della chiesa, i discepoli di Gesù che ne fanno parte si sentono chiamati da<br />

Dio: l’ekklesía in cui si ritrovano è una convocazione che viene dall’alto, dal «Dio fedele».<br />

(II) La dimensione escatologica<br />

La chiamata alla comunione viene dal Padre e la comunione è con il Figlio. La nuova situazione in<br />

cui il credente si ritrova non è, però, un punto d’arrivo definitivo; è bensì un inserimento in una di-<br />

namica nuova. Paolo esorta alla fiducia che deriva dall’essere fondati nella speranza: la comunione<br />

con il Figlio sarà vissuta lungo un cammino che la condurrà al suo pieno compimento nel ritorno del<br />

Signore, quando essa sarà totale, perché allora Dio sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28). Il senso escato-<br />

logico della comunione è molto forte in Paolo: egli è consapevole di essere solo in cammino verso<br />

la meta finale. Però vi guarda con entusiasmo e certezza, al punto che egli, pur godendo di molte<br />

prerogative a motivo della sua origine, ha lasciato perdere tutte queste, che costituivano la sua glo-<br />

ria, pur di «guadagnare Cristo e di essere trovato in lui» (Fil 3,5s.8s.). La sua speranza di essere<br />

«trovato in Cristo» al sopraggiungere definitivo dell’éschaton è strettamente legata alla sua espe-<br />

rienza di fatica, di lotta e di martirio. La fede infatti gli dà la possibilità di «conoscere lui, la potenza<br />

della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze (koinonía ton pathemáton), diventando-<br />

gli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,10s).<br />

L’esperienza personale di Paolo si riflette poi sulla condizione di vita e sullo spirito della comunità:<br />

«Come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra<br />

consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confor-<br />

tati, è per la vostra consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime soffe-<br />

renze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è ben salda, convinti che<br />

come siete partecipi (koinonoì) delle sofferenze così lo siete anche della consolazione» (2Cor 1,5-<br />

7). Alla base di questo modo di sentire sta la dottrina sul battesimo, dal quale viene il principio qua-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

lificante della vita cristiana come esperienza di morte e risurrezione in Cristo. La comunione con il<br />

Figlio, alla quale Dio ci ha chiamati a cominciare dal battesimo, ci conduce, attraverso la condivi-<br />

sione delle sue sofferenze e nella ferma speranza della risurrezione, verso l’incontro finale con lui.<br />

(III) La dimensione trinitaria<br />

La grande e significativa assenza nell’AT dell’idea di una possibile comunione con Dio non poteva<br />

essere superata in maniera diretta: solo un profondo senso della mediazione di Gesù poteva consen-<br />

tirlo (cfr. 1Tim 2,5-6). Per questo nel discorso gioca un ruolo importante il senso del peccato e il<br />

simbolo del sangue: solo alla morte di Gesù si squarciò il velo del santuario, che non permetteva<br />

all’uomo di entrare nella comunione con Dio (Mc 15,38). Questo ci spiega l’accento posto da Paolo<br />

sulla comunione con Cristo nelle sue sofferenze, in rapporto alla speranza della risurrezione. Grazie<br />

all’esperienza eucaristica egli non teme di mettere a confronto la comunione con il sangue di Cristo<br />

e la comunione con gli idoli, che il pagano cerca di realizzare quando mangia la carne offerta in sa-<br />

crificio agli dèi. L’idolo è nulla: ma dietro la sua figura, segnata dalla nullità, Paolo scorge le poten-<br />

ze demoniache e perciò ordina categoricamente: «Non voglio che voi entriate in comunione con i<br />

demoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; non potete partecipare alla men-<br />

sa del Signore e alla mensa dei demoni» (1Cor 10,20s). In realtà Paolo è ben lontano dal mettere<br />

sullo stesso piano, quasi stessero in concorrenza, l’eucaristia e la partecipazione ai banchetti sacri<br />

dei pagani, o semplicemente il mangiare la carne sacrificata agli idoli. Egli sa benissimo che «non<br />

esiste alcun idolo al mondo» e che quindi, di fronte alle cose che i pagani ritengono sacre agli dèi, il<br />

cristiano gode di tutta la sua libertà: «Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi<br />

siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo<br />

per lui» (1Cor 8,4-6). Il cristiano dovrà rinunciare a tale libertà solo per amore dei fratelli più debo-<br />

li, i quali, non riuscendo a comprendere le ragioni della libertà cristiana, potrebbero restarne scanda-<br />

lizzati: «Ed ecco per la tua scienza va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto.<br />

Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo» (1Cor<br />

8,11s). Così pure chi partecipa della mensa del Signore si rende «reo del corpo e del sangue del Si-<br />

gnore» se, incapace di condividere con i fratelli il proprio cibo, getta «il disprezzo sulla chiesa di<br />

Dio» e fa «vergognare chi non ha niente» (1Cor 11,17-34). È la stessa logica. Gesù ha dato la vita e<br />

ha versato il sangue perché potessimo accostarci a Dio. Dio ci ha chiamati a vivere in comunione<br />

col suo Figlio: per entrare in questa comunione dobbiamo essere capaci di condividere le sue soffe-<br />

renze ed anche il suo amore e il suo rispetto per gli uomini (1Gv 1,6-7). In questo modo dal sacrifi-<br />

cio di Cristo al quale partecipiamo nell’eucaristia si dipana la rete della solidarietà e della carità.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

La comunione con Gesù, soprattutto nella partecipazione a quelle sue sofferenze dalle quali egli im-<br />

parò l’obbedienza al Padre, così come la speranza della risurrezione, hanno quindi il loro punto<br />

d’arrivo nell’incontro con il Padre. Tutto ciò appare in maniera evidente dai testi paolini sull’opera<br />

dello Spirito. Si veda il capitolo 8 della lettera ai Romani. Per «appartenere a Cristo» bisogna avere<br />

in sé lo Spirito Santo, che è detto «Spirito di Dio» come pure «Spirito di Cristo». Ora lo Spirito di<br />

Dio, come ha risuscitato Gesù dalla morte, così risuscita noi e ci dà una vita nuova. Di conseguenza,<br />

noi siamo uniti a Dio come figli e così siamo eredi del suo immenso patrimonio della vita: «Tutti<br />

quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevu-<br />

to uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per<br />

mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”» (Rm 8,14s.). Similmente pure il testo parallelo della let-<br />

tera ai Galati: «E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito<br />

del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,6). Il rapporto, quindi, che il credente ha con Dio, è<br />

quello di Gesù con il Padre, espresso con la metafora dell’adozione e gridato nella invocazione<br />

«Abbà!», che fu in bocca a Gesù nel Getsemani (Mc 14,36). Ed è il rapporto con Dio che solo lo<br />

Spirito riproduce nell’animo del credente. La koinonía, quindi, è detta da Paolo «comunione del<br />

Santo Spirito» (2Cor 13,13) non solo perché è partecipazione del credente alla vita dello Spirito<br />

Santo, né solo perché è dono infuso dallo Spirito nel credente, ma perché nello Spirito il credente<br />

realizza la totalità della propria esistenza come esistenza relazionale, come un esistere con Cristo,<br />

con il Padre e con gli uomini. Lo Spirito è quindi, nel pensiero di Paolo, il vincolo più intimo e pro-<br />

fondo della relazione personale tra il Padre e il Figlio e, quindi, tra Dio, il Cristo ed i cristiani: egli è<br />

il principio attivo e dinamico della koinonía.<br />

Allora si capisce come mai quella koinonía tou hagíou pnèumatos, che Paolo augura alla sua comu-<br />

nità di Corinto, debba andare insieme con la «grazia del Signore Gesù Cristo» e con l’«amore di Di-<br />

o». Il cerchio trinitario così si compie e si chiude. In esso il credente è chiamato e coinvolto. E den-<br />

tro di esso vivono e si muovono anche i rapporti dei cristiani fra loro. Così l’unione a Cristo,<br />

l’amore del Padre e la comunione dello Spirito costituiscono l’atmosfera vitale nella quale il cristia-<br />

no respira e vive i suoi rapporti con gli altri.<br />

In conclusione si può dire che il Padre chiama l’uomo alla comunione con il Figlio e il credente vi<br />

risponde grazie all’opera dello Spirito. Così egli vive in Cristo, animato dallo Spirito e orientato<br />

verso il Padre. La 1Gv semplifica il quadro ponendo in primo piano e in recto semplicemente la<br />

«comunione con il Padre» (1Gv 1,3), mentre la 2Pt sembra riassumere nella sua audace e brevissima<br />

formula: «partecipi (koinonoì) della natura divina», il senso di questi «preziosi e magnifici beni» che<br />

sono, appunto, la grazia di Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito (2Pt 1,4).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

La Trinità dunque non può essere ridotta, come a volte succede nella predicazione, a fungere da<br />

buon esempio per i cristiani, i quali dovrebbero amarsi ed essere uniti fra loro come sono uniti fra<br />

loro il Padre, il Figlio e lo Spirito. Il Padre, infatti, ci chiama alla comunione con il Figlio affinché<br />

con il Figlio incarnato possiamo condividere sofferenza e morte, consolazione e risurrezione così<br />

come esse appaiono nei segni eucaristici della «comunione del sangue di Cristo» e della «comunio-<br />

ne del corpo di Cristo» (1Cor 10,16). La comunione con il Figlio, a sua volta, ci immette nella stes-<br />

sa comunione che egli ha con il Padre: diventiamo partecipi della sua obbedienza, della sua oblazio-<br />

ne sacrificale e, quindi, del suo amore e della sua unità con il Padre. È facile capire, allora, che una<br />

κοινωνία di questa dimensione e profondità non può essere il semplice frutto di un’ascesi umana,<br />

ma solo opera dell’azione dello Spirito Santo.<br />

(IV) La dimensione ecclesiologica<br />

Abbiamo già visto come la dimensione “verticale” della comunione non si contrappone mai alla sua<br />

dimensione “orizzontale”, anzi il discorso sulla prima implica del tutto naturalmente la seconda.<br />

Questa implicazione avviene in forma estremamente concreta sia attraverso l’appello all’annuncio<br />

evangelico come fonte ed esito necessario dell’esperienza comunionale, sia attraverso il richiamo<br />

alle conseguenze di carattere interpersonale della celebrazione eucaristica, sia con la visione del<br />

rapporto inter- e intra-ecclesiale retto dalla grazia della κοινωνία.<br />

1/ Il vangelo — Il dono e la grazia dell’elezione sono frutto della incondizionata iniziativa del Padre<br />

e della libera azione dello Spirito. Il prologo della 1Gv, però, ce ne presenta un altro risvolto: la co-<br />

munione «con il Padre e il Figlio suo Gesù Cristo» si realizza all’interno di un nuovo rapporto uma-<br />

no che deriva dall’azione dei testimoni di Gesù, quando essi comunicano ad altri la loro esperienza<br />

del Signore. La chiamata del Padre e il dono dello Spirito raggiungono gli uomini attraverso la co-<br />

municazione dell’esperienza del Cristo da parte del testimone apostolico.<br />

In sintonia con ciò Paolo si rallegra con i suoi cristiani di Filippi perché li osserva koinonoì eis tò<br />

euangélion (Fil 1,5), impegnati «dal primo giorno fino al presente» nella comunicazione del Vange-<br />

lo in forza della quale espandono intorno a sé quella koinonía che li unisce tra di loro.<br />

Nell’espressione «dal primo giorno fino al presente» sembra riecheggiare la preoccupazione di Pao-<br />

lo per la fedeltà dei Galati al messaggio loro predicato all’origine, essendo essi tentati di tornare in-<br />

dietro verso posizioni giudaizzanti. Si veda la decisione con cui l’Apostolo dichiara anatema, sepa-<br />

rato, quindi in una situazione opposta a quella della comunione, chiunque — fosse pure lui stesso o<br />

addirittura un angelo — osasse sovvertire il «vangelo», o predicare «un altro vangelo» rispetto a<br />

quello che era stato predicato all’inizio (Gal 1,9). Una preoccupazione simile, anche se a partire da<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

una problematica diversa, Paolo rivela nei confronti dei Corinzi, quando, ricordando loro il vangelo<br />

sul quale si basa la loro esistenza («nel quale state») e dal quale essi possono sperare la salvezza,<br />

non manca di precisare che la condizione di tutto ciò è conservarlo tale quale lo hanno ricevuto 15 .<br />

Del resto il contesto di Filippesi 1,5 è proprio quello di un’esortazione alla perseveranza. La koino-<br />

nía eis tò euangélion implica il problema della fedeltà e allude germinalmente al grande tema della<br />

parádosis (= tradizione), cioè all’esigenza, vitale per la chiesa, di restare in comunione, di genera-<br />

zione in generazione, attraverso l’adesione all’evento dal quale all’inizio essa è stata costituita. Il<br />

tema si fa esplicito nella seconda lettera ai Tessalonicesi: «Fratelli, state saldi e mantenete le tradi-<br />

zioni che avete apprese». E anche qui non manca la dichiarazione di una separazione («tenetevi lon-<br />

tani») da coloro che si comportano «non secondo la tradizione» 16 . Non per nulla il primo sommario<br />

degli Atti, che descrive la comunità, ne sottolinea la perseveranza nell’ascolto dell’insegnamento<br />

degli apostoli, prima di nominare la κοινωνία che la caratterizza (At 2,42).<br />

Il tema della tradizione ritorna con forza nel prologo della 1Gv, dove la comunione è posta in stretto<br />

rapporto con «ciò che era fin da principio», che l’apostolo ha annunciato perché lo ha udito, veduto<br />

con i propri occhi, contemplato e toccato con mano (1Gv 1,1-4). La lettera sottolinea la necessità per<br />

tutti di restare fedeli alla testimonianza di coloro che hanno visto e toccato con mano. Quel «noi»,<br />

che fa da soggetto dell’annuncio, non indica necessariamente l’apostolo testimone oculare dei fatti.<br />

Secondo A. Dalbesio «con questo uso del plurale l’autore intende sottolineare in apertura della lette-<br />

ra il proprio carattere di portatore accreditato di quella genuina tradizione evangelica che sta per ri-<br />

proporre e difendere. Allo scopo egli si presenta come voce di un gruppo ben preciso, quello dei<br />

primi testimoni della suddetta tradizione». E proseguendo, Dalbesio precisa: «Egli nel reagire<br />

all’intimismo, [dei cristiani spiritualisti], che pretendeva un rapporto diretto con Dio prescindendo<br />

dal Cristo storico, e nel rifiuto del loro appellarsi allo Spirito per dar credito alle proprie posizioni<br />

(1Gv 4,1-6), parte dalla piattaforma opposta, rifacendosi alla persona storica di Cristo, sperimentata<br />

e testimoniata dai primi discepoli, quale unica chiave interpretativa della tradizione evangelica. In<br />

tal modo afferma che la vera interpretazione della fede cristiana è quella che si fonda sulla tradizio-<br />

ne radicata nei testimoni diretti e non su mere speculazioni astratte e soggettive. Nel contempo vie-<br />

ne a dire che la genuina testimonianza dello Spirito a favore di Cristo passa solo attraverso quella<br />

dei testimoni oculari. Ciò implica che per l’autore lo Spirito parli ora unicamente mediante i testi-<br />

15 1Cor 15,2:tíni lógo dice «nella forma in cui…», ma lógos è qui un termine forte, che potrebbe permettere anche una<br />

traduzione come «con quella formula con cui».<br />

16 Vedi tutta la pericope di 2Ts 2,13-3,15.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

moni qualificati del cui numero egli fa parte, in quanto essi, fedeli ai primi testimoni, sono i soli a<br />

partecipare della loro esperienza storica su Cristo» 17 . Sono questi autorevoli portatori della tradizio-<br />

ne, quindi, i soli che possono comunicare a coloro che intendono accogliere l’annuncio la genuina<br />

esperienza di Cristo che essi hanno vissuto: la comunione con il Padre e il Figlio. È la rivelazione<br />

stessa che consiste nel dono di sé da parte del Padre e del Figlio e, accogliendola, i credenti trovano<br />

la vita perché vengono a far parte della comunione divina. Non si tratta di un puro sentimento reli-<br />

gioso, né di una pura adesione di carattere dogmatico al Dio trinitario, bensì di una partecipazione<br />

reale alla vita divina e alla comunione che lega fra loro le persone divine. Ne segue la pratica<br />

dell’amore. Esso è una realtà spirituale e interiore che viene rivelata all’esterno dall’intreccio dei<br />

rapporti fraterni fra i cristiani. Però questa esperienza, che pure è un autentico «camminare nella lu-<br />

ce», in realtà non genera la comunione: si limita a rivelarla, poiché l’agape procede solo da Dio 18 .<br />

L’annuncio ininterrotto di questo evento, da parte di coloro che l’hanno vissuto come esperienza di<br />

comunione con Dio, prolunga l’evento stesso e coloro che accolgono il loro annuncio entrano<br />

nell’esperienza della medesima koinonía. La condizione, quindi, di salvezza è l’accoglienza del-<br />

l’annuncio qualificato e garantito all’interno della comunità dal “testimone apostolico”, con il con-<br />

seguente possesso di una comunione (koinonían échein), cioè di un vivo e profondo rapporto comu-<br />

nitario che attinge la profondità del mistero dell’unione con Dio Padre e il suo Figlio Gesù. È la<br />

grande idea dell’essere una cosa sola e della inabitazione del Padre e del Figlio nei credenti 19 .<br />

2/ L’eucaristia — I passi neotestamentari sulla cena eucaristica costituiscono dei luoghi significativi<br />

in cui risalta la duplice direzione della comunione, come relazione con Dio e con gli uomini. Lo<br />

suggerisce già il fatto che la celebrazione eucaristica assume in sé anche la figura della pattuizione<br />

dell’alleanza, in quanto questa fu insieme fondazione di una religione e creazione di un popolo.<br />

Grande è dunque la pregnanza di questi pochi versetti del capitolo 10 della prima lettera ai Corinzi,<br />

nei quali l’Apostolo chiede la rottura della comunione con i demoni, il distacco dalla loro «tavola».<br />

C’è dietro queste espressioni il senso della possibile contaminazione dell’uomo con il torbido miste-<br />

ro del male, che Paolo vede esaltato nei riti del culto pagano. Alla rottura di questa κοινωνία malva-<br />

gia corrisponde, sul fronte opposto, il sedersi alla «tavola del Signore», dove il credente, mangiando<br />

il pane e bevendo al calice, entra in comunione con il sangue del Signore crocifisso e con il suo cor-<br />

17<br />

A. DALBESIO, «Quello che abbiamo udito e veduto». L’esperienza cristiana nella prima lettera di Giovanni, EDB,<br />

Bologna 1990, 108.115.<br />

18<br />

1Gv 4,7-8.10.16; A. DALBESIO, op. cit., 132.<br />

19<br />

Cfr. R.E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, Cittadella, Assisi 1986, 219-271 e in particolare 247-269.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

po che è, ormai, allo stesso tempo, corpo glorioso del risorto e corpo della chiesa. Per questo, a vo-<br />

ler seguire le indicazioni precise dell’Apostolo, il cristiano, pur potendolo fare, si asterrà dal man-<br />

giare la carne immolata agli idoli, qualora questo suo gesto scandalizzasse un suo fratello «per il<br />

quale Cristo è morto!» (1Cor 8,7-13). Per la stessa ragione Paolo giudica tanto grave quel modo di<br />

radunarsi dei suoi cristiani — che, davvero, non ha nulla che fare con la cena del Signore —, quan-<br />

do alla stessa tavola «uno ha fame, l’altro è ubriaco» (1Cor 11,21) 20 . Atteggiamenti di questo gene-<br />

re, simili mancanze di carità e di solidarietà, sono un vero e proprio «gettare disprezzo sulla chiesa<br />

di Dio» e quindi equivalgono a un mangiare e bere «la propria condanna» (1Cor 11,22.29).<br />

Nell’eucaristia, infatti, il corpo escatologico (risorto) del Cristo incorpora i cristiani in un solo corpo<br />

(10,14-22). L’unità della comunione liturgica può essere fondata sull’unicità del pane solo in quanto<br />

questo pane, come dice 1Cor 10,16, è il corpo di Cristo. Questo corpo è il corpo stesso di Gesù Cri-<br />

sto crocifisso e risorto, per il fatto che egli «nella notte in cui fu consegnato» (1Cor 11,23), ha dato<br />

la sua vita e ha condiviso il pane non solo come segno per significare il senso salvifico del suo vive-<br />

re e del suo morire «per voi» (1Cor 11,24), bensì come mezzo efficace per aver parte a quella grazia<br />

escatologica, che la sua morte e la sua risurrezione significano. In questa grazia Gesù Cristo non dà<br />

qualcosa di sé, bensì se stesso, poiché con coloro, per i quali muore, egli si identifica nella potenza<br />

di Dio al punto che egli costituisce il loro «io» redento (Gal 2,19s). La comunione al corpo di Cristo<br />

quindi fa sì che noi diveniamo non tanto come questo corpo, bensì il corpo di Cristo: il nodo dina-<br />

mico qui inteso non sta tanto nell’affermazione che i cristiani costituiscono un corpo sociale uno e<br />

unico, ma che costituiscono il corpo proprio di Cristo (nel corso del tempo è avvenuto però lo spo-<br />

stamento dal registro sacramentale a quello giuridico: da corpo a corporazione di Cristo. Cfr. invece<br />

1Cor 12,12: «così anche Cristo»). La celebrazione eucaristica ha contribuito a rivelare a Paolo<br />

l’identificazione della comunione cristiana con il corpo proprio del Risorto («voi siete il corpo del<br />

Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte»: 1Cor 12,27). Nella cristologia paolina, il Cristo ce-<br />

leste, Signore e Spirito, si annette un corpo per realizzare la pienezza del suo essere, in particolare<br />

nel Battesimo (1Cor 12,12-13) e nell’Eucaristia in cui si effettua escatologicamente «la pienezza di<br />

colui che si realizza interamente in tutte le cose» (Ef 1,23) 21 .<br />

20 È interessante osservare che, secondo alcuni manoscritti, la colpa dei Corinzi è semplicemente indicata come un «non<br />

discernere il corpo», senza la specificazione «del Signore».<br />

21 Non è quindi un caso che il vocabolario della comunione (= fare la comunione) caratterizzi in modo eminente proprio<br />

l’Eucaristia: essa è il sacramento della communio; ricevere il Corpo e il Sangue del Cristo è communicare; essa non è<br />

celebrata che tra persone in communione. Sinteticamente Giovanni Damasceno può quindi dire: «Si dice anche<br />

[l’Eucaristia] koinonía, e lo è veramente, poiché per essa noi comunichiamo (koinoneín) con il Cristo e per essa noi comunichiamo<br />

(koinoneín) gli uni con gli altri»: La fede ortodossa, IV, 13, Città Nuova, Roma 1998, 271-272.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

3/ La koinonía ecclesiale — La pienezza della gioia, che il prologo di 1Gv vede come la meta desi-<br />

derata dell’annuncio, rappresenta il dono escatologico che si riceve accogliendo il Vangelo. Con<br />

questa decisione si entra quindi in una comunità aperta alla gioia e alla pace. L’eucaristia, poi, so-<br />

stenta continuamente l’unità di questo corpo ecclesiale, che è il corpo di Cristo. Perciò il secondo<br />

sommario di Atti ce la può descrivere come un’accolta di persone che formano un cuor solo e<br />

un’anima sola e in cui nessuno dichiarava suo ciò che gli apparteneva (At 4,32).<br />

Crescendo a partire dalla comunione con Gesù Cristo, la Chiesa non è né una comunione di interessi<br />

né un’associazione costituitasi per perseguire una finalità comune, bensì il popolo di Dio in Gesù<br />

Cristo, che egli congiunge non solo convocandolo e dandogli un incarico, bensì riempiendolo del<br />

suo Spirito, santificandolo e in futuro portandolo a compimento. La comunione dei credenti risulta<br />

dalla comune partecipazione all’amore che Dio aggiudica loro attraverso Gesù Cristo. Questa agape<br />

crea comunione (1Cor 13,4ss). Perciò la koinonía non si basa su interessi o esperienze comuni, ben-<br />

sì sulla elezione di Dio, non su un bilanciamento degli interessi o su compromessi, bensì sulla fede<br />

comune (Flm 6) nell’unico Dio e nell’unico Signore Gesù Cristo (1Cor 8,6), e neppure su un senti-<br />

mento di comunione o un’idea di comunione, come se la “comunione” fosse un valore in se stessa;<br />

bensì sulla coappartenenza delle creature tra di loro, che Dio porta a compimento nel Regno che<br />

viene e che fonda nell’ekklesía già al presente. È l’elezione che costituisce la koinonía ecclesiale,<br />

poiché nella medesima originarietà determina ciascun singolo «ad essere conformi all’immagine del<br />

Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29) e raduna l’intero popolo di Dio<br />

così che «la rivelazione dello Spirito viene data a ciascuno, per l’utilità comune» (1Cor 12,7).<br />

(a) La koinonía degli Apostoli<br />

Una dimensione essenziale della koinonía ecclesiale è la comunione degli apostoli tra di loro. Essa<br />

non è perseguita per se stessa, bensì a vantaggio della Chiesa intera, poiché secondo Paolo il compi-<br />

to/ministero dell’apostolo è di porre il fondamento dell’ekklesía, che non può essere altro che quello<br />

«che è posto»: Gesù Cristo (1Cor 3,11). Sigillare questa koinonía apostolica è stato per Paolo il ri-<br />

sultato essenziale del Concilio apostolico, che egli ha conseguito non solo nell’interesse degli etni-<br />

co-cristiani bensì a vantaggio dell’universalità dell’Evangelo (Gal 2,1-10; cf. At 15,11-32): le “co-<br />

lonne” - Giacomo, Cefa Giovanni - diedero «a me e a Barnaba la destra in segno di koinonía ». La<br />

stretta di mano non produce la koinonía, piuttosto la constata e con ciò la rafforza. La sua base è la<br />

missione, con cui Dio in Cristo ha affidato a «Pietro l’apostolato della circoncisione», mentre a Pao-<br />

lo «l’apostolato dell’incirconcisione» (Gal 2,8). In ciò si mostrano le dimensioni universali e la di-<br />

namica missionaria, contenuti in modo essenziale nell’evento cristologico fondamentale.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

La koinonía apostolica, come è richiesta da Paolo e riconosciuta da Gerusalemme, non mira solo a<br />

equiparare Paolo a Pietro, bensì i Giudei ai Pagani nella Chiesa e in ciascuna singola comunità<br />

(1Cor 12,13; Gal 3,28). Essa persegue quindi l’interesse di una sostanziale unità della Chiesa al di<br />

là dell’uniformità e della molteplicità delle realizzazioni ecclesiali, concentrandosi sul servizio<br />

all’Evangelo di Dio e sulla confessione fondamentale in un unico Dio e in un unico Signore.<br />

Quanto importante fosse questa comunione, lo illustra bene l’“incidente di Antiochia” (Gal 2,11-<br />

14). Infatti, quantunque Paolo secondo il proprio resoconto «si oppose in faccia a Cefa» (Gal 2,11),<br />

poiché quegli aveva tradito «la verità del Vangelo» (2,5.14), non giunse tuttavia alla rottura con lui.<br />

In realtà gli elementi comuni nella cristologia e nella soteriologia erano di grande spessore (1Cor<br />

15,1-11) e si estendevano anche all’ambito della giustificazione, visto che nessun esponente di rilie-<br />

vo della Chiesa di Gerusalemme ha legato la salvezza dei gentili alla circoncisione e alla osservanza<br />

della Legge, bensì alla “fides Christi” (cfr. Gal 2,14s). Senza la koinonía, sigillata a Gerusalemme,<br />

la Chiesa sarebbe andata a pezzi, le singole comunità sarebbero rimaste isolate e soprattutto il fon-<br />

damento, che Dio ha posto con Gesù Cristo mediante gli Apostoli, sarebbe stato intaccato.<br />

(b) La koinonía delle comunità e degli Apostoli<br />

La comunione deve però regnare anche tra le comunità e gli apostoli. Come mostra la corrisponden-<br />

za di Corinto, questa non era sempre assicurata, anzi a volte ha rischiato di andare persa nei conflitti<br />

sulla fede e dovette essere riguadagnata da Paolo tra fatiche e preoccupazioni (2Cor 1,3-11; 2,5-11;<br />

7,5-16). La comunione tra l’Apostolo e la comunità è una comunione «nel dare e avere» (Fil 4,11s)<br />

concretizzata fin nel sostegno finanziario (cfr. Gal 6,6), ma più ancora riferita allo scambio di beni<br />

spirituali (Rm 1,11), all’essere uno con l’altro nella sofferenza e nella consolazione della speranza<br />

(2Cor 1,7). La base di questa comunione è la comune accettazione dell’Apostolo come di tutti i cri-<br />

stiani in Gesù Cristo; essa si esprime nell’indirizzarsi reciproco come «fratelli» (e sorelle), nella<br />

comune confessione (Rm 10,9s) e nel connesso lavoro all’edificazione della Chiesa.<br />

Certamente questa comunione non è simmetrica: Paolo è il «padre» (1Ts 2,11) e la «madre» (1Ts<br />

2,7s) dei credenti (cfr. 2Cor 6,13); i cristiani devono imitare lui, come egli imita Cristo (1Cor 11,1;<br />

cfr. 4,16); egli è l’«architetto», che ha posto il fondamento, mentre essi con le loro diverse attitudini<br />

e capacità devono edificare sopra questo fondamento (1Cor 3,10-17).<br />

La comunione tra l’Apostolo e la comunità secondo la sua essenza consiste non da ultimo nel fatto<br />

che da una parte l’Apostolo esercita la libertà della fede (Gal 5), accresce il sapere dei cristiani, esi-<br />

ge, promuove e rispetta la loro competenza di giudizio, risveglia i carismi (1Cor 12; Rm 12,4-8) e<br />

sostiene i servizi (1Ts 5,12s; 1Cor 12,28ss), mentre d’altra parte i membri della comunità corri-<br />

spondono all’Apostolo come all’inviato di Gesù Cristo (2Cor 3-5), come all’annunciatore del Van-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

gelo pieno di potenza e degno di fede (1Ts 2,1-12), come guida della loro comunità e come modello<br />

nella fede (1Ts 1,6; 1Cor 4,16; 11,1). Da una parte c’è il riconoscimento che «uno e lo stesso Spirito<br />

partecipa a ciascuno il suo dono particolare» (1Cor 12,11), in modo che sorga una «comunione dello<br />

Spirito» (Fil 2,1); d’altra parte c’è il riconoscimento che nessuno può credere, se prima non ha a-<br />

scoltato, se nessuno gli ha predicato, e nessuno può predicare, se non è stato inviato (Rm 10,14s).<br />

Quando tutto va bene, Paolo scrive: «io rendo grazie a Dio… per la vostra κοινωνία all’Evangelo<br />

dal primo giorno fino ad oggi» (Fil 1,3.5). Egli intende qui la comunione dei Filippesi con<br />

l’Apostolo e dell’Apostolo con loro, che viene fondata tramite l’Evangelo; non solo attraverso con-<br />

vinzioni comuni, bensì mediante «la potenza di Dio per ciascun credente» (Rm 1,17).<br />

Quando ci sono dei problemi, Paolo si dà da fare per riguadagnare la comunione. Egli non si tira in-<br />

dietro nemmeno davanti alla polemica, al sarcasmo e alla critica. Ma egli è anche pronto anche a fa-<br />

re gesti magnanimi di perdono. Ciò che è decisivo è che la comunione venga di nuovo ristabilita.<br />

Essa si basa sullo stesso Vangelo e la stessa fede (1Cor 15,11); presuppone che i ruoli siano chiari e<br />

vengano accettati: quello dell’Apostolo come pure quello dei molti carismatici nella comunità; è o-<br />

rientata a che la comunità divenga non solo il luogo dell’esperienza di Dio e dell’adorazione di Dio,<br />

bensì renda il proprio servizio così che il mondo venga trasformato dallo Spirito di Dio.<br />

(c) La koinonía delle comunità tra di loro<br />

La koinonía ha il suo posto anche tra le diverse comunità. Non ultimo è il compito che l’Apostolo<br />

ha di allacciare i contatti tra le comunità. In Paolo lo spettro delle sue peregrinazioni missionarie si<br />

estende oltre i suoi viaggi pastorali e l’invio di collaboratori fino alla redazione delle sue lettere, at-<br />

traverso cui egli promuove lo scambio di esperienze e affina una coscienza di Chiesa universale.<br />

Di grande importanza è per lui l’organizzazione della “colletta” — che chiama anche κοινωνία: Rm<br />

15,26 — su cui ci si mise d’accordo al Concilio apostolico, in favore della chiesa di Gerusalemme<br />

(Gal 2,10; cfr. 1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Rm 15,25-29). Essa è una prova eminente di κοινωνία (2Cor<br />

8,4; Rm 15,26s), visto che non è solo un’azione caritativa, bensì anche un’azione-segno, che deve<br />

rendere visibile la consapevolezza delle comunità fondate di recente circa la loro appartenenza a<br />

Gerusalemme come pure l’accettazione senza riserve delle comunità di missione paolina da parte di<br />

Gerusalemme: «Avendo i pagani partecipato — ekoinónesan — ai loro beni spirituali, sono in debi-<br />

to di rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali» (Rm 15,27).<br />

La koinonía va ben oltre la solidarietà materiale, azioni comuni e scambio di informazioni, ma<br />

giunge in profondità nella spiritualità. Paolo ricorda ai Tessalonicesi, che soffrono diverse tribola-<br />

zioni, che essi nella loro sofferenza per l’Evangelo «imitano le comunità di Dio in Giudea, perché<br />

avete sofferto anche voi da parte dei vostri connazionali come loro da parte dei Giudei» (1Ts 1,14).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Naturalmente nel tempo neotestamentario non c’è ancora una struttura comunionale tra le comunità.<br />

Ma i forti e numerosi impulsi dell’Apostolo indicano però in modo duplice che: (1) appartiene alla<br />

vocazione delle singole comunità, di non isolarsi l’una dall’altra, bensì di formare tra di loro su tutti<br />

i piani quella comunione che corrisponde all’appartenenza all’unica Chiesa ed è dovuta alla sotto-<br />

missione sotto la signoria dell’unico Cristo; e (2) da parte sua questa κοινωνία è un’espressione tan-<br />

to dell’universalità come pure della presenza storica del vangelo hic et nunc.<br />

(d) La koinonía dei cristiani nelle comunità<br />

Da ultimo anche le relazioni intracomunitarie dei cristiani sono poste sotto il segno della koinonía.<br />

Paolo ricorda infatti che nelle comunità si corre il pericolo dell’isolamento e dell’edificazione indi-<br />

vidualistica (1Cor 14), della formazione di sette e di eresie (1Cor 1-2); in senso positivo occorre in-<br />

vece l’accoglienza reciproca, l’offerta di sostegno, una testimonianza comune, una comune celebra-<br />

zione del servizio liturgico, l’edificazione dell’ekklesía. La lettera ai Romani intende anche l’etica<br />

nell’orizzonte della koinonía. Paolo inizia la parte esortativa dello scritto, illustrando ciò che opera<br />

l’amore (Rm 12,9-21) — qualificato come il compimento della Legge (13,8ss). Essenziali sono<br />

l’«amore del fratello» e l’«ospitalità», il perdono e la costruzione della pace. La “koinonía” appar-<br />

tiene a tutto ciò. «Siate solidali (koinonountes) con i santi, siate ospitali» (Rm 12,13). L’esortazione<br />

mira a far sì che i cristiani di un luogo forniscano agli altri cristiani, che sono in viaggio, ad es. co-<br />

me Apostoli e Profeti, un tetto e del cibo e si sostengano in qualsiasi modo. Questa era una premes-<br />

sa essenziale per una missione feconda e una comunicazione tra le comunità. Parlando in questa<br />

connessione di koinonía, Paolo ricorda alla comunità che il sostegno materiale è espressione della<br />

comunione nella fede e consegue dalla comune partecipazione di tutti alla grazia di Gesù Cristo.<br />

Il fatto che il termine koinonía ricorra solo una volta, non deve ingannarci. Secondo la res essa è<br />

presente dovunque viene tematizzato “l’essere-con” e “l’essere-per” dei credenti. L’etica paolina è<br />

sintonizzata sulla koinonía ecclesiale, poiché la comunità è il luogo primo, in cui l’agape deve con-<br />

cretizzarsi: «operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede» (Gal 6,10; si veda<br />

pure Eb 13,16, dove si esortano similmente i cristiani a non dimenticarsi «della beneficenza e della<br />

κοινωνία»). Per quanto riguarda l’etica della koinonía, la lettera ai Romani chiarisce alcuni versetti<br />

dopo il riferimento alla parola koinonía: «piangete con quelli che piangono, gioite con quelli che so-<br />

no nella gioia» (Rm 12,15). La partecipazione al destino degli altri è più che segno di amicizia e di<br />

buon cuore. Essa è tutela e trasmissione della partecipazione di Gesù Cristo stesso al destino dei fi-<br />

gli di Adamo, che egli mediante il Vangelo vuole guadagnare alla fede e al Regno di Dio.<br />

L’utilizzo ecclesiale di questo principio etico rinvia alla metafora del Corpus Christi. Paolo vede<br />

l’unicità del corpo e la molteplicità delle membra nel fatto che «non ci fosse divisione nel corpo, ma<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra<br />

soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1Cor 12,25-26).<br />

(V) Conclusione<br />

Nonostante il salto di pensiero che, nel NT, fa dell’idea di comunione con Dio l’elemento di base<br />

dell’esistenza cristiana, mentre l’AT l’avrebbe guardata, a dir poco, con una certa diffidenza, biso-<br />

gna sottolineare la linea di continuità che va dall’idea anticotestamentaria dell’alleanza a quella neo-<br />

testamentaria della comunione. L’interiorizzazione della legge, preannunciata da Geremia (31,33) e<br />

da Ezechiele (36,26s), si compie nella conoscenza di Dio, vera comunione con lui, resa possibile<br />

dall’inabitazione della Parola nel credente, come principio dinamico del suo operare e della sua pu-<br />

rificazione dal peccato. Ma questa conoscenza di Dio, nel NT non è mai riducibile ad una gnosi. La<br />

comunione non sta al di là della storia, né isola il credente in una specie di solipsistica elevazione<br />

alla partecipazione della natura divina. Come ben ci ricorda 1Gv, la conoscenza di Dio è autentica<br />

solo quando è accompagnata dall’amore fraterno (4,7-8); che si dà una vera comunione con Dio so-<br />

lo se si mettono in pratica i comandamenti (2,3-5; 3,24) e si cammina nella luce (1,6-7), cioè<br />

nell’amore vicendevole (2,9-11); che si ama Dio solo se si ama il fratello (4,20-21).<br />

L’antica alleanza, che sulla base dell’elezione di Dio aveva fondato un popolo e ne aveva costruito<br />

la storia, continua così nella nuova: questa si compie nel dono del Padre il quale, mediante<br />

l’infusione dello Spirito, chiama alla comunione con il Figlio coloro che sono destinati a formare il<br />

suo popolo e ad animare la storia dell’umanità nel suo cammino verso il Regno.<br />

b) La Chiesa mistero di comunione<br />

Cerchiamo ora di riassumere i risultati della nostra analisi del NT. Se prendiamo come punto di rife-<br />

rimento i tre significati che in generale il termine koinonía possiede — 1) dare una parte, fare parte,<br />

mettere in comune; 2) partecipare, prendere parte; 3) la comunità che ne risulta —, la κοινωνία cri-<br />

stiana risulta caratterizzata dai seguenti tre elementi.<br />

1/ L’elemento primo della communio è il disegno di Dio di comunicare un bene che, non cessando<br />

di essere di Dio, diviene allora un bene comune a Dio e all’uomo. Vi è quindi primariamente una<br />

comunicazione, che è propriamente l’opera del Verbo incarnato e dello Spirito donato. Questo “be-<br />

ne” che Dio vuole comunicare è Dio stesso, la sua vita che è comunione. Questo bene divenuto co-<br />

mune a Dio e all’uomo non è quindi un’opera comune a Dio e all’uomo, ma è un dono.<br />

Più precisamente, la partecipazione offerta all’uomo è una partecipazione alla vita del Cristo:<br />

l’offerta divina raggiunge l’uomo mediante il Cristo (= la grazia è cristica); di conseguenza anche la<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

partecipazione alla comunione divina avviene in forma “incarnata” («verbis gestisque»: DV 2).<br />

2/ Il secondo elemento della communio è la recezione effettiva della grazia da parte dell’uomo. La<br />

grazia dona all’uomo che la riceve la capacità di corrispondere con un atto veramente suo all’offerta<br />

divina mediante la fede, la speranza e la carità, che gli consentono di partecipare a ciò che Dio è e<br />

fa, di vivere la stessa vita di Dio. Ora, come abbiamo più volte sottolineato, questa comunicazione<br />

effettiva si realizza nella mediazione della Chiesa ed ha come frutto l’edificazione della stessa Chie-<br />

sa e l’accrescersi di nuovi membri della Chiesa corpo di Cristo.<br />

3/ Il fare parte (di Dio) e il prendere parte (da parte dell’uomo) portano quindi al costituirsi di una<br />

comunità, fondata su un “avere” in comune, meglio ancora su un “essere” comune, ossia la confor-<br />

mazione a Cristo, nuovo Adamo, spirito datore di vita.<br />

La nozione ecclesiologica di communio intende quindi esprimere la comunità divina in quanto si<br />

dona per essere partecipata dall’uomo secondo l’economia cristica e cristoconformante per l’azione<br />

dello Spirito santo, mediata ministerialmente dalla Chiesa. In tal senso la Chiesa mediante la sua<br />

“testimonianza” (articolata nel “tripode” martyria, leiturghia, diakonia) offre ad ogni uomo la pos-<br />

sibilità di ricevere quella competenza necessaria per confessare nello Spirito che Gesù Cristo è<br />

l’autocomunicazione di Dio per la salvezza del mondo.<br />

La nozione ecclesiologica di communio segnala inoltre la qualità delle relazioni tra i membri e la<br />

Chiesa e tra di loro (Chiesa come communio fidelium). Alla forma comunionale della Chiesa devo-<br />

no quindi corrispondere le forme della comunicazione e della partecipazione a tutti i livelli: nella re-<br />

lazione fra le chiese (Chiesa come communio ecclesiarum), nel collegio episcopale, in un rapporto<br />

corretto tra primato e collegialità (la communio hierarchica); nella relazione tra il vescovo e i suoi<br />

presbiteri e diaconi; all’interno delle singole comunità in cui si deve dare spazio ai diversi carismi,<br />

compiti e ministeri che lo Spirito suscita per il bene della Chiesa tutta.<br />

Secondo l’espressione tradizionale la Chiesa è quindi chiamata a ragione communio sanctorum:<br />

«La comune partecipazione visibile ai beni della salvezza (le cose sante), specialmente<br />

all’Eucaristia, è radice della comunione invisibile tra i partecipanti (i santi). Questa comunione<br />

comporta una spirituale solidarietà tra i membri della Chiesa, in quanto membra di un medesimo<br />

Corpo, e tende alla loro effettiva unione nella carità costituendo «un solo cuore ed una sola anima».<br />

La comunione tende pure all’unione nella preghiera, ispirata in tutti da un medesimo Spirito,<br />

lo Spirito Santo «che riempie ed unisce tutta la Chiesa». Questa comunione, nei suoi elementi invisibili,<br />

esiste non solo tra i membri della Chiesa pellegrinante sulla terra, ma anche tra essi e tutti<br />

coloro che, passati da questo mondo nella grazia del Signore, fanno parte della Chiesa celeste o saranno<br />

incorporati ad essa dopo la loro piena purificazione» 22 .<br />

22 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, «Communionis notio» (28 maggio 1992), n. 6.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

a) La questione<br />

3.3.4. La comunità<br />

Come si passa dall’ineffabilità del dono della comunione alla verificabilità storica della chiesa nella<br />

sua forma empirica? Al di là della plurisecolare querelle, che vede contrapporsi la tesi di una chiesa<br />

nascosta nella sua vera essenza e manifesta solo nella sua contingenza empirica e la tesi di una fon-<br />

damentale coincidenza del dono di grazia con la forma storica della chiesa autentica, il problema<br />

può essere riformulato in modo leggermente diverso. Pur partendo dal presupposto che il dono di<br />

grazia è chiamata del Padre a entrare mediante lo Spirito nella comunione del suo Figlio venuto in<br />

carne umana e, quindi, raggiungibile solo attraverso la testimonianza e la mediazione della tradizio-<br />

ne, nella sua dimensione storica, è ancora necessario chiedersi: perché la comunione dovrebbe in-<br />

carnarsi storicamente in una forma di vita comunitaria dotata di una vera e propria, sia pur mini-<br />

ma, organizzazione sociale e istituzionale che le conferisca una precisa forma empirica ben ricono-<br />

scibile e il carattere della stabilità e della durata nel tempo? Perché la comunione non potrebbe ave-<br />

re la sua materializzazione storica nel puro e semplice incontro dei credenti, che si compie nel sem-<br />

plice atto della comunicazione della fede? Oppure: perché l’unione dei credenti, in forza della sua<br />

connaturale spinta escatologica, non dovrebbe concepirsi e realizzarsi proprio con un intento contra-<br />

rio e manifestarsi, quindi, in una forma organizzativa marcatamente contingente e provvisoria, quasi<br />

platealmente segnata dall’attesa di una imminente parousía? 23<br />

Più comunemente la questione viene posta in termini leggermente diversi: ci si interroga, cioè, sul<br />

rapporto che corre fra la comunione e l’istituzione. Forse è però preferibile proporre la domanda<br />

giocando sui termini comunione e comunità, perché la comunità è anteriore all’istituzione e perché<br />

in questi termini sembra riflettersi meglio un insieme di bisogni dell’<strong>ecclesiologia</strong> odierna. Fra<br />

l’evento comunionale, infatti, e la creazione dell’istituzione ecclesiastica trovano posto molte realtà<br />

intermedie: pensiamo solo al cammino di molte aggregazioni di cristiani, che si sono formate e han-<br />

23 È questa l’idea di Chiesa delle chiese congregazionaliste, soprattutto nelle loro forme recentemente più diffuse delle<br />

cosiddette “chiese libere”, nelle quali non si formalizza l’appartenenza, si riduce al minimo l’apparato istituzionale e<br />

l’esperienza ecclesiale è praticamente quella che si realizza di volta in volta nell’assemblea che si raccoglie di fatto intorno<br />

alla predicazione della parola di Dio. Su un altro versante anche la teologia barthiana è segnata da questa diffidenza<br />

nei confronti della chiesa come costruzione umana di una vera e propria aggregazione sociale: la «distretta della chiesa»<br />

è proprio quella di non poter fare a meno di esistere mentre in realtà non dovrebbe esistere: cfr. ID., L’Epistola ai<br />

Romani, Feltrinelli, Milano 1978, 314-315. In un testo del 1948 Karl Barth sosterrà che «è molto importante imparare di<br />

nuovo a interpretare la parola “chiesa” non solo come istituzione e la parola “comunità”… non solo come esistenza e<br />

persistenza di una società, ma tutti e due i termini come l’“evento di un riunirsi”: La chiesa. Comunità vivente di Gesù<br />

Cristo signore vivente, in ID., La chiesa, Città Nuova, Roma 1970, 45-69. 51.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

no operato a lungo, a volte per secoli, nella chiesa, dotate di una forma comunitaria stabile, compat-<br />

ta e del tutto determinata, ma prive di una vera e propria forma istituzionale che le inserisse for-<br />

malmente nel quadro complessivo dell’istituzione ecclesiastica quale è regolamentato dal diritto ca-<br />

nonico. D’altro lato, appare sempre più evidente che solo nel contesto romantico della contrapposi-<br />

zione fra comunità e società si è potuto pensare la comunità come un’aggregazione di credenti op-<br />

posta a quelle di tipo istituzionale, inquadrate nella rete del diritto e della legge. Non è detto che la<br />

comunità la quale non abbia ancora una vera e propria forma istituzionale, già non ordini la propria<br />

vita, oltre che sui principi della fede, anche su delle regole, magari non scritte, o addirittura sempli-<br />

cemente abitudinarie, che essa si dà e che già le danno la forma dell’istituzione. Anzi, là dove si in-<br />

sinuava la contrapposizione radicale fra comunità e istituzione, il discorso veniva ad arrestarsi assai<br />

presto, perché il termine comunità, se lo si vuole intendere nel senso di una realtà pura da ogni con-<br />

taminazione giuridico-convenzionale, ricade immediatamente nel campo semantico proprio del ter-<br />

mine comunione e, quindi, tende a identificarvisi; oppure va a vivere alla sua ombra, dove gli sem-<br />

bra di poter raccogliere quelle aggregazioni cristiane che si danno compattezza solo con la forza dei<br />

sentimenti, con l’entusiasmo della carità; in una parola: con la qualità etica dell’unione realizzata.<br />

Se davvero la classica opposizione fra comunità e società è entrata in crisi, è facile capire che già al<br />

primo dei due termini compete il significato di un’aggregazione sociale stabile e compatta, dotata di<br />

regole per la convivenza interna e per i rapporti con gli altri, che può dar vita a certe sue istituzioni.<br />

E queste istituzioni, se non derivano dal puro contratto sociale ma da un’autentica esperienza comu-<br />

nitaria, saranno certamente caratterizzate dal rispetto per la libertà delle persone, dall’importanza at-<br />

tribuita al rapporto interpersonale, dall’esaltazione della vita comunitaria, sentita come un valore in<br />

se stessa. Il bisogno di liberarsi dalla forma delle chiese di stato e, allo stesso tempo, di superare<br />

l’individualismo religioso della cultura illuministica e l’anonimato di strutture ecclesiastiche morti-<br />

ficanti le singole personalità dei credenti, ha dato vita a un impressionante pullulare di forme di ag-<br />

gregazione dei credenti, che hanno cercato di ritrovare il senso della chiesa in nuove esperienze di<br />

vita comunitaria, meno vincolate dalle esigenze più pesanti dell’istituzione ecclesiastica.<br />

Ma, dal punto di vista ecclesiologico, da tutto questo fenomeno non nasce alcun dato veramente<br />

nuovo; il problema di fondo resta il medesimo: perché il dono segreto e interiore della comunione<br />

deve sfociare nel fenomeno del costituirsi di una comunità, poco importa se questa assuma la forma<br />

più libera e provvisoria o la più carica di adempimenti istituzionali e canonici?<br />

A questo proposito è interessante notare un fenomeno assai curioso. In passato questo agitarsi intor-<br />

no all’aspetto visibile e a quello invisibile della chiesa era motivato dalla convinzione che i veri<br />

membri della chiesa fossero in realtà molto meno numerosi dei battezzati e dei praticanti. Al fondo<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

di tale modo di pensare c’era quel giudizio pessimistico sullo stato della chiesa e sulla fedeltà a Cri-<br />

sto dei suoi membri, che è caratteristico dei movimenti riformatori, anche se già Agostino, vedendo<br />

la forma empirica della chiesa tanto estesa da coprire tutto lo spazio dell’umanità conosciuta, si in-<br />

terrogava se tutti coloro che le appartenevano per la communio sacramentorum avessero davvero<br />

parte alla communio sanctorum. Le nostre ultime generazioni, invece, stanno ponendo il problema<br />

nella direzione opposta, poiché ora noi vediamo estremamente dilatati non già i confini della chiesa<br />

ma le dimensioni dell’umanità e, quindi, siamo inclini a chiederci se le innumerevoli persone e le<br />

immense popolazioni, alle quali la chiesa non è giunta, davvero non abbiano in sé alcun dono di<br />

comunione proveniente dallo Spirito che «soffia dove vuole». In questo senso si è mosso il Vaticano<br />

II quando definiva la chiesa «come un sacramento… dell’unità del genere umano», perché scorgeva<br />

la chiesa storica emergere dagli strati più profondi della vicenda umana, prefigurata fin dalle origini<br />

nel rapporto dei progenitori con Dio e fra loro, preparata nella storia di Israele e destinata a risolver-<br />

si nella innumerabile assemblea escatologica di tutti i salvati, da Abele in poi, anzi da Adamo, fino<br />

all’ultimo dei giusti. Così il concilio poteva parlare della comunione come di una realtà pluriforme<br />

che si estende in cerchi concentrici, fino ad abbracciare tutti gli uomini dalla coscienza retta 24 .<br />

Nonostante l’immensa vastità delle dimensioni della comunione e la sua incidenza sulla autoco-<br />

scienza del credente, coloro che hanno conosciuto Cristo per averne ricevuta la memoria attraverso<br />

la paradosis cristiana, che per loro si è concretizzata nelle persone effettive con le quali hanno vis-<br />

suto un’esperienza di comunicazione della fede, non possono non ritrovarsi legati a queste ultime<br />

per vivere insieme a loro la stessa esperienza di fede. Così, attraverso il concetto di communio salu-<br />

tis et gratiae, la chiesa sa che la sua comunione si estende ben oltre i propri confini spazio-<br />

temporali, mentre attraverso la communitas mediorum salutis, che comprende tutta la trama simbo-<br />

lica della comunicazione cristiana, dalla parola ai sacramenti, alle strutture, alle azioni, la chiesa si<br />

forma come un’aggregazione sociale visibile, stabile, organizzata e dalla forma ben determinata 25 .<br />

Il problema da porre, quindi, è quello del rapporto fra il carattere comunionale e quello comunitario<br />

della chiesa: perché dalla comunione viene la comunità? Perché alla communio sanctorum corri-<br />

sponde anche una aggregazione sociale, una chiesa che si istituzionalizza in una forma empirica?<br />

Allora la nostra questione, se posta in maniera radicale, non sta tanto nella querelle fra <strong>ecclesiologia</strong><br />

cattolica e protestante sul valore da attribuire alla forma empirica della chiesa, quanto piuttosto<br />

24 Lumen gentium, 1 e 2; 14-16; PAOLO VI, Ecclesiam Suam, III, in EV 2/201-210, EDB, Bologna 1976, 279-299.<br />

25 G. GHIRLANDA, «Hierarchica communio». Significato della formula nella Lumen gentium, Roma 1980, 178-190.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

nell’alternativa fra una concezione della comunione priva di una dimensione storica e un’idea della<br />

comunione che si risolve nella comunità, cioè in un vero e proprio soggetto storico collettivo, attra-<br />

verso il quale la comunione stessa si manifesta e influisce visibilmente sulla vicenda degli uomini.<br />

Se la vera comunione sia appannaggio di un coetus electorum più ristretto della chiesa visibile o se<br />

la communio sanctorum si estenda al di là dei confini della chiesa empirica, non è una questione ec-<br />

clesiologica di fondo. Lo è invece l’interrogativo sulla chiesa come soggetto storico: è possibile in-<br />

dividuare un soggetto storicamente verificabile e storicamente operante, nel quale il mistero della<br />

chiamata del Padre alla comunione del suo Figlio nello Spirito emerga al livello storico?<br />

Comunque sia non si può confondere la comunione con la realtà sociologica della comunità cristia-<br />

na. Oltre tutto, se così non fosse, non sarebbe possibile pensare una communio sanctorum che co-<br />

minci con Adamo e sia destinata ad approdare alla chiesa escatologica ab Abel mentre è evidente<br />

che l’esistenza delle comunità cristiane non si può datare prima di Cristo e della predicazione apo-<br />

stolica. Ma l’aggregazione sociale, in qualsiasi forma la si voglia intendere, è semplicemente<br />

l’effetto dell’evento-chiesa e non chiesa essa stessa? Questo è il punto cruciale della questione.<br />

b) La prospettiva sociologica<br />

Attualmente ciò che acuisce il nostro problema è il fenomeno della riscoperta della libertà e della<br />

decisionalità personale della fede, come elementi determinanti della aggregazione dei credenti. Su<br />

questo terreno nasce e vive l’aspirazione a realizzare nella chiesa un tipo di vita comunitaria che sia<br />

profondamente diverso da quello che si sperimenta nella società civile. Anzi per alcuni<br />

l’autocoscienza ecclesiale dovrebbe sviluppare sempre di più la sua tensione escatologica e la sua<br />

linea utopica, dando all’aggregazione cristiana addirittura la forma di una società di contrasto: una<br />

specie di contromodello delle forme di aggregazione sociale che si sperimentano nel mondo 26 .<br />

Riteniamo, però, che al di là della contrapposizione diffusa fra i concetti di comunità e di società, al<br />

di là di una certa mitizzazione dell’idea di chiesa come comunità, la questione radicale (non pura-<br />

mente teorica, ma anche eminentemente pratico-pastorale) che emerge per la Chiesa nella modernità<br />

sia quella delle diverse forme di appartenenza 27 . La prassi quasi bimillenaria del battesimo dei<br />

bambini è alla base di un processo di riproduzione della chiesa, nel quale gli elementi, pur decisivi,<br />

della libertà e della decisionalità personale dell’atto di fede sembrano risultare marginali. Invece il<br />

26 G. LOHFINK, Gesù come voleva la sua comunità? La chiesa quale dovrebbe essere, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo<br />

(Milano) 1987; ID., Dio ha bisogno della Chiesa? Sulla teologia del popolo di Dio, Edizioni San Paolo, Cinisello<br />

Balsamo (Milano) 1999, spec. 353-365.<br />

27 Si veda ad es. M. KEHL, Dove va la Chiesa?, op. cit., specialmente le pp. 117-187.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

nuovo senso della missione, legato alla consapevolezza dell’allargamento dell’area della non cre-<br />

denza anche in ambienti di antica tradizione cristiana, introduce criteri di appartenenza più liberi e<br />

personali. Ne deriva che il processo di riproduzione della chiesa può assumere a grandi linee due<br />

forme diverse, per cui possono darsi anche due diversi tipi di aggregazione ecclesiale. La differen-<br />

ziazione non coincide, di per sé, con la distinzione tra la forma di “società” e quella di “comunità”.<br />

Anche la società quale la definisce Max Weber può nascere da una decisione libera e personale dei<br />

suoi membri, giacché la società civile, alla quale si appartiene per nascita, non è l’unica forma di<br />

società. Viceversa non è detto che ad una comunità si appartenga sempre e solo per libera scelta: i<br />

figli ad es. non appartengono alla comunità famigliare in forza di una loro scelta personale.<br />

Il vero problema ecclesiologico, quindi, è duplice: quello del fondarsi della chiesa come aggrega-<br />

zione stabile sul dono della comunione e quello della forma di aggregazione che risulti a lei più<br />

congrua. Questo secondo aspetto sembra porci oggi di fronte ad una alternativa nuova: dalla comu-<br />

nicazione della fede, con il suo carattere fortemente personale, e dal dono dello Spirito, con le sue<br />

esigenze di libertà, deriva che la comunità cristiana debba avere la forma dell’aggregazione adulta e<br />

libera, oppure dall’annuncio evangelico nasce un popolo al quale si appartiene per generazione?<br />

c) La prospettiva del Nuovo Testamento<br />

Il termine comunità è assente dal Nuovo Testamento. C’è koinonía, che dice comunione, e c’è ek-<br />

klesía, che i romani hanno latinizzato, invece di tradurlo, in ecclesia. La parola poi è servita da co-<br />

nio per altre lingue, che ne hanno ricavato i termini chiesa, église, iglesia ecc.<br />

Le prime comunità cristiane hanno detto nel modo più completo la loro autoconsapevolezza chia-<br />

mandosi ekklesía, sia singolarmente che collettivamente. Come è noto, ekklesía è il termine con il<br />

quale i LXX avevano tradotto in greco il significato di q e hal jhwh (l’assemblea radunata del popolo<br />

di Israele) e che i greci usavano per indicare la riunione del popolo di una pólis. Il termine rendeva<br />

bene il carattere pubblico dell’aggregazione dei cristiani, in opposizione a quello segreto delle co-<br />

munità misteriche o delle associazioni di carattere privato. Il referente più conosciuto è quello del<br />

popolo o della pólis. Ma mentre nell’assemblea della pólis greca si radunavano solo gli uomini per<br />

prendere decisioni sulla comunità, l’assemblea cristiana si sente nata dalla decisione di Dio, il quale<br />

ha glorificato il suo Cristo e ha convocato tutti i credenti per la venuta del suo Regno. Il modello dei<br />

cristiani quindi è, piuttosto, il popolo di Israele che si raduna al completo, uomini, donne e bambini,<br />

per accogliere le decisioni di Dio: il qahal del Sinai.<br />

Abbiamo visto sopra come la comunione venga descritta dal NT in maniera fortemente oggettiva: è<br />

la comunione dei beni, dei bisogni, delle sofferenze, della gloria, del vangelo, del pane eucaristico,<br />

367


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

del Figlio, dello Spirito ecc. Alla fine è una comunione delle persone fra loro, dei soggetti che vi so-<br />

no stati chiamati dal Padre, per cui il gruppo dei credenti è segnalato da At 2,42 per la sua fedele as-<br />

siduità all’insegnamento degli apostoli, alla frazione del pane, alle preghiere e, in mezzo a queste<br />

altre cose, si cita anche l’assiduità alla comunione 28 . Per quanto il referente della riunione dei cri-<br />

stiani sia la convocazione di Israele, l’assiduità dei cristiani alla comunione si riferisce al rapporto<br />

con Gesù, al quale si sentono chiamati dal Padre nella forza dello Spirito. Ecco perché, se resta<br />

spontaneo e continuo il richiamo al qahal e, quindi, l’uso di chiamare ekklesía il proprio aggregarsi,<br />

mai viene usato con questo significato il termine synagogé (ad eccezione di Gc 2,2). Intanto la sina-<br />

goga è, nel suo senso più diffuso, l’edificio per la riunione dei giudei; i cristiani invece non hanno<br />

edifici di sorta nei quali riunirsi: si radunano nelle loro case. Poi il termine non può non evocare in<br />

loro sia la profezia di Gesù, sia la memoria di quanti fra loro nelle sinagoghe erano stati picchiati o<br />

ne erano stati cacciati (Mc 13,9; Lc 12,11; Gv 9,22; 12,42; 16,2; At 22,19). Il termine sinagoga,<br />

quindi, resterà ad indicare un altro tipo di convocazione di Israele, quella che avviene in forza della<br />

legge e della tradizione giudaica, nel suo contrapporsi ostilmente verso le nuove comunità.<br />

Quando questa tensione giungerà al culmine, l’Apocalisse demonizzerà il termine, parlando addirit-<br />

tura della «sinagoga di Satana» (Ap 2,9; 3,9). Fu quindi giocoforza, per le comunità cristiane<br />

dell’origine, appellarsi alla parola con la quale i LXX avevano tradotto il qahal di Jhwh e designato<br />

il popolo di Israele, convocato da Dio per vivere in alleanza con lui. L’uso più antico del termine<br />

chiesa potrebbe essere quello che rinveniamo per due volte in Matteo, in un contesto semiticamente<br />

caratterizzato, là dove si parla della fondazione della chiesa su Pietro e della disciplina della comu-<br />

nità (Mt 16,18; 18,17). Quel «legare e sciogliere» ha forti riferimenti alla legge, mentre il richiamo<br />

alle «porte degli inferi» contiene una precisa indicazione escatologica che ricollega l’ alla<br />

pasqua di Gesù: non per nulla egli la chiama «la mia chiesa».<br />

In Paolo è molto accentuato il carattere di evento, di convocazione della chiesa: è un riunirsi, un ri-<br />

trovarsi insieme che accade qua e là, in questa o quella città, come pure in casa di questo o di quel-<br />

lo. Un evento che è sentito profondamente come evento di grazia: i cristiani si riuniscono perché<br />

sono amati da Dio e si sentono «chiamati» a essere santi, consacrati a lui. Tant’è vero che della<br />

chiesa si dirà non solo che è «in Corinto» o in casa di Aquila e Prisca, ma anche «in Dio Padre e nel<br />

Signore Gesù Cristo» (Rm 1,6; 1Ts 1,1). Il pensiero paolino, però, solo con un’evidente forzatura<br />

28 Secondo F. HAUCK, Κοινων -, in GLNT V, Paideia, Brescia 1969, 709-723, con κοινωνία At 2,42 non intenderebbe la<br />

comunione dei beni, ma proprio la comunione nel suo senso più spirituale.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

potrebbe essere ridotto a un’idea radicalmente attualistica della chiesa, come se la sua consistenza<br />

stesse tutta nell’intimo della coscienza e nel disegno di Dio e si manifestasse qua e là, di volta in<br />

volta, solo quando dei credenti si ritrovano insieme. Già 1Cor 14,23 («Quando si raduna tutta la<br />

chiesa…») contraddirebbe decisamente una simile concezione, poiché il termine chiesa qui è sintat-<br />

ticamente il soggetto del radunarsi. Ma, ben al di là della struttura di questo asserto, non si può di-<br />

menticare che l’ ekklesía per Paolo è un soma, è il corpo di Cristo. Anzi, il soma dell’ ekklesía, cor-<br />

po che ha per capo Cristo, indica all’interno dell’universo uno spazio determinato e concreto nel<br />

quale appare stabilita e manifesta quella signoria di Gesù che a lui compete fin dal disegno origina-<br />

rio della creazione, ma che attende di affermarsi in maniera a tutti visibile, perché uomini e cose<br />

hanno ancora bisogno di essere riconciliati con Dio per mezzo di lui (Ef 1,3,23; Col 1,13-20). Così<br />

il termine chiesa, dopo aver significato la pura idea di un disegno divino percepito nella coscienza<br />

individuale, o l’idea di una convocazione divina che si manifesta rapsodicamente, giunge a veicola-<br />

re la concezione di una concreta e determinata aggregazione di persone saldamente unite fra loro, sì<br />

da poter essere immaginata come un organismo vivente, come un corpo. Non solo; Ef e Col vanno<br />

tanto oltre, da superare la visione delle varie chiese esistenti in questa o quella città, per sentire il<br />

soma di Cristo, oltre che come il grande collettivo delle comunità cristiane, anche come un organi-<br />

smo che si rapporta al senso globale di tutta la creazione sostenuta nell’esistenza dal Padre, attraver-<br />

so il Cristo che ne è il capo.<br />

Atti e Apocalisse usano poi ekklesía con grande scioltezza e forte senso storico. Si tratta delle co-<br />

munità cristiane che si stanno staccando o si sono definitivamente staccate dalle riunioni della sina-<br />

goga, costituite da credenti in Cristo provenienti dal giudaismo e dal paganesimo, per le quali con la<br />

morte e la risurrezione di Gesù si è realizzata la grande convocazione escatologica e nelle quali si<br />

attende il pieno compimento del Regno.<br />

In conclusione sembra di poter dire che nel NT i cristiani designano il loro aggregarsi nella fede in<br />

Gesù con il termine chiesa perché, pur essendo stati allontanati dalla sinagoga, sono convinti che<br />

nel loro radunarsi si compie in pienezza il mistero divino della convocazione di Israele. D’altra par-<br />

te essi non si sentono più convocati ai piedi del Sinai, bensì si trovano accostati «alla Gerusalemme<br />

celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa». Questo perché si sentono spalleggiati non<br />

dall’antico mediatore, bensì dal mediatore della nuova alleanza, che con il suo sangue, «più elo-<br />

quente di quello di Abele», li asperge per purificarli e renderli capaci di accostarsi a Dio (Eb 12,18-<br />

24). Questo testo di Ebrei ci fa capire il senso dell’entusiasmo della comunità cristiana nel suo con-<br />

frontarsi con l’esperienza di Israele, che non si intende affatto tradire ma si pensa di rivivere, enor-<br />

memente amplificata, nella forma totale del suo assoluto compimento. Questo i cristiani delle prime<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

generazioni volevano dire quando chiamavano chiesa la loro comunità. Questo sentivano di essere<br />

ogni volta che, anche nella forma più modesta, si riunivano e si rapportavano al grande mistero del<br />

mondo e del suo destino, consapevoli di costituire, nella concretezza della loro pur umile e povera<br />

presenza nella storia, il corpo di quel Cristo nel quale un giorno tutte le cose dovranno ricapitolarsi.<br />

Se chiesa sembrerà, a un certo punto, termine da interpretare, da completare, è perché l’una o l’altra<br />

delle molte dimensioni che ne compongono il significato verrà a prevaricare sulle altre. Accade, al-<br />

lora, che se al termine si dà una interpretazione eccessivamente mistica, si sente il bisogno di preci-<br />

sare che la chiesa è una società strutturata e organizzata; se gli si attribuisce un senso eccessivamen-<br />

te appiattito sul piano sociologico, si insiste sul fatto che essa è mistericamente corpo di Cristo; se<br />

con questo si dà l’impressione di voler mistificare una realtà semplice, o vedere la chiesa solo nella<br />

sua grande dimensione di mistero universale, si preme sul termine comunità, per ricordare che si<br />

tratta di persone in carne ed ossa. In questo senso non dobbiamo dimenticare che comunità pare og-<br />

gi come un termine particolarmente pregnante di significati solo perché lo leggiamo dentro la corni-<br />

ce della svolta ecclesiologica operata dal Vaticano II. Ma di per sé, o collocata sullo sfondo del NT,<br />

la parola non dice molto di più di ciò che si coglie semplicemente nel fatto che la comunione emer-<br />

ge e diventa storia nell’aggregazione dei credenti, che si rende presente nella vicenda degli uomini<br />

come un soggetto collettivo riconoscibile per certi suoi determinati valori. La questione della forma,<br />

o delle diverse forme che la comunità cristiana deve o può assumere, resta ancora del tutto aperta:<br />

bisognerà vedere qual genere di comunità è quella che ci sta davanti quando parliamo della chiesa.<br />

d) La prospettiva ecclesiologica<br />

La comunione viene da una chiamata del Padre che risuona nell’interiorità dell’uomo, è il frutto di<br />

un’azione interiore dello Spirito Santo, per cui la communio sanctorum non è storicamente percepi-<br />

bile né definibile, né l’appartenenza alla comunione è in alcun modo determinabile entro confini<br />

chiaramente percepibili. Per comunità invece intendiamo un aggregarsi di credenti che si riconosco-<br />

no in quanto tali e in quanto tali si fanno riconoscere. Parliamo di comunità, però, solo quando que-<br />

sto reciproco riconoscimento non è un fatto sporadico, ma si concretizza in una rete di rapporti di<br />

carattere stabile. Per cui non solo i singoli si riconoscono fra loro e si fanno riconoscere come cre-<br />

denti dal mondo circostante, ma anche il loro insieme si caratterizza come un insieme di credenti,<br />

che costituisce un soggetto storico collettivo, riconoscibile in quanto tale da un osservatore esterno.<br />

(I) Comunicazione e comunità<br />

Fra la realtà interiore della comunione e quella empiricamente rilevabile della comunità sta il feno-<br />

meno della comunicazione. Se il dono della comunione, come chiamata del Padre, non si fosse ma-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

nifestato nella vicenda storica di Gesù, sarebbe rimasta senza nome, non sarebbe stata simbolizzabi-<br />

le in una comunicazione, capace di rapportarne i protagonisti in una rete di relazioni sufficientemen-<br />

te definita, sì da rendere storicamente individuabile un certo soggetto collettivo che di questa comu-<br />

nione sarebbe stato l’effetto e il veicolo. Se, quindi, l’autodonazione del Padre non si fosse concre-<br />

tizzata nella vita e nella storia di Gesù, avrebbe rappresentato per gli uomini un principio di comu-<br />

nione, ma non avrebbe necessariamente dato origine a una chiesa.<br />

È la vicenda storica di Gesù di Nazareth che mette in moto un processo di comunicazione, che si<br />

concretizza in narrazioni vere e proprie dotate di una ineliminabile presunzione veritativa. Non è un<br />

caso che la questione dell’ortodossia si sia affacciata alla coscienza ecclesiale fin dall’inizio, nel NT<br />

stesso. La scorrettezza della comunicazione della fede, infatti, metteva radicalmente in crisi la vita<br />

della comunità. Non qualsiasi cosa si raccontasse di Gesù poteva fondare la rete comunionale nella<br />

quale vivevano i cristiani. Se era la fede, e non più la legge, il principio nuovo per il quale si senti-<br />

vano salvati, l’annuncio dal quale essa veniva non poteva sfuggire a un attento controllo. Paolo ne<br />

era ben consapevole: «Se anche noi stessi o un angelo del cielo vi predicasse un vangelo diverso da<br />

quello che vi abbiamo predicato, sia anatema. L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi<br />

predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema» 29 .<br />

(II) Tradizione e comunità<br />

Poche figure del NT ci danno in maniera così netta l’idea della formazione della chiesa come ce la<br />

dà la metafora architettonica della oikodomè, cioè della edificazione della comunità: con singolare<br />

chiarezza essa disegna il comporsi della aggregazione dei cristiani nella forma di una entità stabile,<br />

duratura, eretta per la gloria di Dio, nella quale si rende a lui il vero culto «spirituale» e si dà ospita-<br />

lità e sicurezza al credente. Ebbene, alla base della costruzione sta sempre la predicazione del Van-<br />

gelo. Basti citare Paolo che, preoccupato delle divisioni esistenti nella sua chiesa di Corinto, esorta a<br />

costruire la vita cristiana sulla base che egli ha posto «come sapiente architetto»: base che è solo<br />

Gesù Cristo, non il Gesù creato dalla sapienza umana bensì il crocifisso raccontato dai testimoni<br />

(1Cor 1,3). In Matteo è Gesù stesso che promette di «costruire» la sua chiesa e lo farà fondandola su<br />

Pietro, perché Pietro ha professato fede in lui come «Cristo» e «figlio del Dio vivente» (Mt 16,18).<br />

29 Gal 1,8s. Vedi anche lo scrupolo con cui l’Apostolo propone il contenuto della sua predicazione «alle persone più<br />

ragguardevoli» della chiesa di Gerusalemme, per non esporsi «al rischio di correre o di aver corso invano» (Gal 2,1s). In<br />

1Cor 15,1s Paolo pone come condizione precisa del compiersi della salvezza nel credente proprio quella di mantenere il<br />

vangelo nella medesima forma nella quale è stato ricevuto la prima volta.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Il fondamento della costruzione, certamente, è Cristo stesso (Mt 21,42; Cfr. At 4,11). Però a Pietro<br />

viene attribuita la figura della roccia di fondazione per la sua testimonianza della fede e Paolo è<br />

consapevole di essere stato lui stesso, con la sua predicazione, a gettare le fondazioni dell’edificio<br />

(1Cor 3,9-17). Questa consapevolezza è tanto forte che genera nell’Apostolo lo scrupolo di andare a<br />

predicare solo là dove ancora nessuno ha predicato, per non dare l’impressione di voler «costruire su<br />

un fondamento altrui» (Rm 15,20).<br />

Si veda poi come Paolo sia preoccupato per il dinamismo dei carismi nella comunità di Corinto e<br />

raccomandi di dare l’assoluta precedenza alla profezia rispetto alla glossolalia, perché la prima ser-<br />

ve all’edificazione della comunità (1Cor 14,4). Ancora, la mirabile unione di giudei e pagani, che si<br />

realizza nella comunità cristiana, è illustrata dall’Apostolo con la metafora della costruzione: Gesù<br />

ha demolito il muro della separazione, per cui i pagani che hanno creduto in lui non sono considerati<br />

come stranieri nella grande casa. Essa ha come pietra angolare Gesù e come fondamento gli apostoli<br />

assieme agli altri che hanno esercitato il carisma della profezia al servizio dei pagani (Ef 2,11-22). Il<br />

tema del culto entra nel discorso, ma con le sue caratteristiche assolutamente originali. Dalla fonda-<br />

zione della comunità, cioè, non si deduce che essa si concretizza in un complesso rituale, bensì che<br />

la sua stessa esistenza e le sue opere costituiscono, da sé sole, il vero culto da rendere a Dio. Infatti<br />

la comunità primitiva non costruisce un suo tempio per realizzarvi la propria autoidentificazione;<br />

essa non sente il bisogno di darsi un volto attraverso i suoi riti e le sue liturgie, anche se, ovviamen-<br />

te, in fedeltà al suo Signore Gesù celebra la cena e il battesimo. Essa sa che il suo sacerdozio è la<br />

sua vita stessa vissuta in Cristo. Le vittime da offrire in sacrificio sono «vittime spirituali» (1Pt 2,4-<br />

10), cioè le azioni compiute sotto l’ispirazione dello Spirito Santo; il culto gradito a Dio è l’offerta<br />

del proprio corpo, cioè della concreta esistenza del cristiano e quel sacrificio della lode cantata a<br />

Dio che è la dossologia della professione di fede (Rm 12,1; Eb 13,15). È interessante osservare che<br />

Paolo, quando intende descrivere in termini sacerdotali il suo ministero, non fa riferimento ad alcu-<br />

na celebrazione cultuale: il sacrificio che egli, da sacerdote, offre a Dio, è la fede delle comunità<br />

ch’egli ha fondato convertendo i pagani a credere in Cristo (Rm 15,16; cfr. 15,27).<br />

Da tutto ciò si evince che non corrisponde allo svolgimento reale dei fatti ritenere che la comunità<br />

cristiana sia nata e si sia stabilmente strutturata perché il nuovo culto creato da Gesù avrebbe richie-<br />

sto una organizzazione sacerdotale e un apparato rituale. Caso mai è vero esattamente il contrario: è<br />

la struttura cultuale che si è articolata sulle esigenze della trasmissione del vangelo. Si veda, per e-<br />

sempio, nelle lettere di Ignazio di Antiochia come il principio dell’unica eucaristia e della compe-<br />

tenza esclusiva del vescovo in ordine alla sua celebrazione si fondi sul fatto che solo il vescovo ga-<br />

rantisce alla chiesa la fedeltà alla predicazione apostolica (cfr. ad es. ad Fil 1-4). Il graduale struttu-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

rarsi dell’unione dei credenti in forme stabili e determinate viene proprio dalle esigenze di una di-<br />

sciplina del loro stare insieme, le quali, a loro volta, scaturiscono dal bisogno dei credenti stessi di<br />

garantirsi l’autenticità della loro fede nella fedeltà al messaggio che fu predicato all’inizio e sul qua-<br />

le essi fondano la loro esistenza personale e comunitaria.<br />

Che sia la paradosis l’elemento che è alla base dello strutturarsi della comunità, lo dimostra anche il<br />

fatto che il battesimo, l’atto cultuale che introduce nella chiesa, è sempre preceduto dalla professio-<br />

ne della fede. Lungo tutta la storia della chiesa non sarà tanto la condotta antievangelica a mettere in<br />

crisi l’appartenenza, quanto la deformazione della professione della fede con la quale ci si è dichia-<br />

rati credenti. Non è senza significato che la presa di coscienza dei fenomeni di divisione della chiesa<br />

e il formalizzarsi dell’idea di eresia avvengano con giudizi dati sulle parole. Il concilio di Nicea<br />

(325) condannerà «tous légontas …» («coloro che dicono che…») e, in seguito, la formula «si quis<br />

dixerit» diventerà il classico incipit della denuncia di chi avrà compromesso l’unità della chiesa. La<br />

parola non è certo più costitutiva della chiesa di quanto non lo siano i sentimenti, i fatti, le azioni, né<br />

la fede ne forma la sostanza più dell’amore. Ma la verità della parola, nel senso della sua fedeltà al<br />

compito di trasmettere una memoria, è così misurabile da poter costituire un criterio per la costru-<br />

zione di una convivenza e la strutturazione di una comunità. Il confronto degli asserti permette il<br />

giudizio sulla fedeltà alla paradosis. Essi non misurano la comunione intesa nel senso trascendente<br />

del dono dello Spirito vissuto nell’interiorità dei credenti, o del rapporto di amore vicendevole fra i<br />

credenti stessi. La professio fidei, però, è ciò che consente di costruire una comunità che possa dirsi<br />

chiesa, nel senso che chiunque vi può trovare l’autentica testimonianza apostolica.<br />

In conclusione sembra di poter dire che la comunione, attraverso la comunicazione della fede, pro-<br />

duce nella storia la comunità cristiana come il frutto e, allo stesso tempo, come il soggetto adeguato<br />

della paradosis. Naturalmente se la parola della ortodossa professione della fede si imponesse alla<br />

coscienza ecclesiale come l’unico e ultimo principio della chiesa, ignorando le sue dimensioni ulte-<br />

riori, la chiesa si ridurrebbe a un organo giuridico, deputato a conservare la dottrina cristiana. Quan-<br />

do questo accade, nella contraddizione della carità e nella prassi dell’intolleranza, il tradimento del<br />

vangelo si trasferisce dalle parole alle opere e la chiesa, pur dicendo correttamente la propria fede, la<br />

sua testimonianza diventa “vuota” (1Cor 13).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

3.3.5. «Popolo di Dio»: forma fondamentale della comunità cristiana<br />

In precedenza abbiamo studiato il rapporto fra la comunione e la comunità, senza comprometterci<br />

con nessun significato forte, riservandoci di interrogarci in seguito sulle possibilità di definire in ec-<br />

clesiologia la forma che l’aggregazione comunitaria dei credenti necessariamente assume.<br />

La domanda potrebbe apparire ingenua quanto è scontata la risposta: le forme dell’aggregazione ec-<br />

clesiale sono molte e diverse. Determinate circostanze storiche e geografiche, situazioni sociali e<br />

politiche diverse, contesti culturali differenziati, ispirazioni e carismi particolari di leader e di fon-<br />

datori di comunità, hanno dato lungo i tempi alle comunità cristiane molte forme, le più diverse.<br />

È legittimo però ipotizzare che, al di sotto delle molte differenze e delle infinite variabili, l’evento<br />

ecclesiale si presenti con alcune esigenze sostanziali, dalle quali derivi non già una forma di comu-<br />

nità che si imponga come unica e universale, ma un complesso di caratteri e di valori capaci di pro-<br />

durre una forma fondamentale di comunità, la quale costituisca un necessario punto di riferimento<br />

per tutte le altre forme che le varie aggregazioni cristiane intendessero assumere.<br />

Riteniamo che per rispondere a questa questione sia necessario considerare almeno questi elementi.<br />

1) In primo luogo, l’interrogativo sulla chiesa come soggetto storico. La comunione è un dato cre-<br />

duto, di dimensioni altissime e del tutto incommensurabile: da Agostino a Gregorio Magno si è pen-<br />

sato alla comunione come a una realtà implicante anche gli angeli 30 . Per questo motivo dovrebbe es-<br />

sere evidente che non è possibile comprendere la chiesa solamente a partire dall’alto, cioè dall’idea<br />

della comunione: è necessario, invece, considerare l’altezza e la immensità del dono e, insieme, la<br />

sua manifestazione nella storia. Dicevamo che la parola di salvezza vive storicamente nella comuni-<br />

cazione e che, mediante la comunicazione, la comunione termina alla creazione di una comunità.<br />

Però la categoria della comunità, come si è rilevato, è troppo modesta e povera per dire la ricchezza<br />

di grazia che c’è nell’ekklesía. Come poter dire allora con un’altra parola, che possa fare da soggetto<br />

in una proposizione che la riguardi, la stessa verità della chiesa, senza sollevarla alla indefinibile al-<br />

tezza della pura communio sanctorum e senza abbassarla a un’aggregazione sociale del tutto omolo-<br />

gabile alle altre comunità o alle altre società umane? In <strong>ecclesiologia</strong> si corre il rischio di sapere tut-<br />

to su come la chiesa è, sugli strumenti con cui la si può descrivere, senza mai pervenire a dire chi la<br />

chiesa è, a chi pensiamo quando diciamo: «La chiesa ha detto… la chiesa ha fatto…».<br />

2) In secondo luogo sta il problema, già incluso nel primo elemento indicato, della storicità della<br />

chiesa. Come realizzare l’auspicio di Paolo VI — espresso nel discorso agli osservatori invitati al<br />

30 Y. M.-J. CONGAR, L’église de saint Augustin à l’époque moderne, Cerf, Paris 1970, 33s.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

concilio (17.10.1963) — circa l’esigenza fondamentale di una <strong>ecclesiologia</strong> conciliare, ossia «stori-<br />

ca» e «concreta» 31 ; con quale categoria si può impostare una tale <strong>ecclesiologia</strong>?<br />

3) In terzo luogo, dopo aver mostrato che la comunione attraverso la comunicazione si risolve ne-<br />

cessariamente nella comunità, ci dobbiamo porre la questione sulla qualità della comunità ecclesia-<br />

le, senza sfuggire all’esigenza fondamentale di postulare una <strong>ecclesiologia</strong> che renda ragione della<br />

natura della chiesa che è, per natura sua, una aggregazione sociale aperta a tutti: chiunque può ac-<br />

cedervi e appartenervi. Ora questa qualità si può ricavare dalla identificazione della chiesa nel Po-<br />

polo di Dio, il quale appartiene a tutti i popoli in mezzo ai quali vive, intreccia la sua sorte e il suo<br />

impegno terreno con il loro e, ciò nonostante, conserva una sua identità e indipendenza.<br />

4) Un quarto elemento ci è suggerito soprattutto dagli esegeti: l’idea del popolo di Dio fu la cernie-<br />

ra portante del drammatico rapporto fra chiesa e sinagoga. È nella meditazione del destino riserva-<br />

to da Dio al suo popolo che le prime comunità cristiane hanno trovato la loro autoidentificazione in<br />

rapporto a Israele. È logico, quindi, chiedersi se questa problematica debba essere riservata all’inda-<br />

gine storico-esegetica, come propria ed esclusiva di una sola stagione della chiesa, o se abbia qual-<br />

cosa da dire anche oggi per le relazioni della chiesa con Israele e con tutti i popoli della terra.<br />

a) Il popolo di Dio nel Nuovo Testamento<br />

È stato osservato che nel NT l’espressione popolo di Dio è poco adoperata per parlare della chiesa e,<br />

ricorrendo per di più nel contesto di citazioni dell’AT, non sarebbe propria del linguaggio neotesta-<br />

mentario 32 . Ma questa giusta osservazione, più che detrarre qualcosa all’importanza dell’idea per<br />

l’<strong>ecclesiologia</strong> neotestamentaria, ci indica il «luogo» precipuo nel quale la chiesa rivela la sua co-<br />

scienza di essere il popolo di Dio. Questo «luogo» consiste nella novità che il vangelo porta nella<br />

concezione tradizionale del popolo di Dio: di esso ora fanno parte anche i gentili; per la fede, infatti,<br />

essi entrano in comunione con gli ebrei credenti in Cristo, costituendo il laòs ex ethnon (At 15,14) 33 .<br />

Di fronte al fenomeno nasce non tanto una curiosità, ma un bisogno profondo di capire come sia<br />

possibile una comunione fra ebrei e pagani e come solo così si possa realizzare il sogno messianico<br />

della convocazione escatologica del popolo di Dio. Questo è il senso del ricorso alle citazioni di Os<br />

31<br />

Si veda Civiltà Cattolica 114 (1963) IV 514-518.<br />

32<br />

At 15,14; 18,10; Rom 9,25s; 2Cor 6,16; Tit 2,14; Eb 4,9; 8,10; 1Pt 2,9s; Ap 18,4; 21,3. Cfr. J. RATZINGER, Il nuovo<br />

popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1971, 93.<br />

33<br />

Per J. DUPONT, Teologia della chiesa negli Atti degli apostoli, Dehoniane, Bologna 1984, 9, l’angolo visuale decisivo<br />

di tutta l’<strong>ecclesiologia</strong> lucana è proprio quello del rapporto della chiesa con Israele.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

2,25 in Rom 9,25 e di Ger 31,33 in Eb 8,6-12 34 .<br />

La convinzione di essere il popolo di Dio e il corpo di Cristo si afferma attraverso diverse fasi della<br />

presa di coscienza di sé. Prima di tutto si sperimenta il passaggio dall’estraneità alla partecipazione<br />

alla politeía di Israele: è l’esperienza di una aggregazione sociale che raduna giudei e pagani, cosa<br />

prima assolutamente impensabile. Qui compare la figura del corpo di Cristo, nel quale è lui il capo<br />

(non l’imperatore) dell’unità dei popoli nell’immenso impero 35 . Ma in questa singolare e nuova e-<br />

sperienza il cristiano vive il mistero della sua salvezza, cioè della partecipazione alla vita del Risor-<br />

to, il quale ha inaugurato la nuova e ultima epoca del mondo. Questo mistero si compie nella totalità<br />

del cosmo, con la vittoria del Cristo sopra le potenze (Col ed Ef): però il solo corpo visibile del Cri-<br />

sto ora è la chiesa; essa ne costituisce la evidente manifestazione, essendo l’unico popolo della terra<br />

che si costituisce attraverso l’abbattimento di tutte le barriere che dividono l’umanità.<br />

L’elemento dominante che viene messo in risalto da questa indagine è che il conflitto della chiesa<br />

con Israele non ebbe mai la forma di una chiusura settaria dei cristiani, come se questi avessero vo-<br />

luto isolarsi e, quindi, separarsi dalla popolazione giudaica. Esattamente al contrario, il conflitto ci<br />

fu perché le comunità dei discepoli di Gesù volevano abbattere i confini, rendendo tutti gli uomini<br />

partecipi della grande eredità della fede e della tradizione ebraica. Se dunque Israele sentiva di esse-<br />

re popolo di Dio, la chiesa doveva darsi una forma e un nome che non significasse una ulteriore re-<br />

strizione dei confini, bensì al contrario l’estensione universale di ciò che il popolo di Israele aveva<br />

rappresentato fra gli uomini, fino allora, nella sua esclusiva particolarità.<br />

b) Popolo di Dio e cristianesimo di massa<br />

Nonostante la scelta del Vaticano II, di porre in primo piano la categoria di popolo, l’<strong>ecclesiologia</strong><br />

posteriore non l’ha utilizzata tanto quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Probabilmente si è alimen-<br />

tata una certa diffidenza verso questa figura, sia perché la si è sentita molto vicina a quella sociolo-<br />

gica della società, sia perché se ne è temuta la contaminazione con le ideologie nazionalistiche, con<br />

il populismo e il marxismo. Inoltre, sotto questa denominazione si è pensato che si nascondesse la<br />

figura costantiniana della chiesa che aveva portato con sé la coincidenza, anzi la confusione, fra cri-<br />

stianesimo e cristianità, fra chiesa e società. Il tramonto di questa figura solleciterebbe pertanto la<br />

creazione di una forma aggregativa ecclesiale più personale.<br />

34 K. BERGER, Kirche. II. Neues Testament, in Theologische Realenzyklopädie 18, Gruyter, New York Berlin 1989, 211.<br />

35 K. BERGER, op. cit., 204-207, a proposito della figura dell’imperatore capo del corpo, cita Plutarco e Seneca.<br />

376


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

In effetti, da un punto di vista sociologico chiesa di popolo dice una situazione in cui l’appartenenza<br />

alla chiesa è di fatto legata all’appartenenza a un popolo, a una tradizione, a una cultura; qui l’essere<br />

chiesa trascende l’atomismo delle libere scelte degli individui per configurarsi come una apparte-<br />

nenza che si trasmette di generazione in generazione. Soprattutto nell’ambito occidentale segnato<br />

dalla modernità ci si chiede con preoccupazione se una tale forma di chiesa abbia ancora senso o<br />

non abbia più alcun futuro. Il calo della pratica religiosa, l’avvento di una società multietnica dovuto<br />

ai grandi movimenti migratori, la crisi dei modelli di trasmissione familiare della fede, il fenomeno<br />

crescente dell’abbandono di fatto della chiesa rendono legittima la domanda.<br />

In generale il problema si pone in tutti quei contesti, in cui il battesimo dei bambini si presenta co-<br />

me il titolo di appartenenza ufficiale, senza che si esiga un’ulteriore verifica dell’adesione di fede,<br />

che sola permette all’adulto lo sviluppo dell’esistenza ecclesiale che il battesimo aveva fondato 36 .<br />

Naturalmente il problema della qualità dell’appartenenza fu molto meno sentito in epoche nelle qua-<br />

li l’adesione alla fede cattolica caratterizzava in pieno l’intera popolazione di un territorio e<br />

l’appartenenza a un popolo coincideva sic et simpliciter con l’appartenenza al popolo di Dio. Il plu-<br />

ralismo tipico della civiltà moderna e il radicale superamento di quella che era stata la sua primitiva<br />

coartazione nel recepito assioma cuius regio eius et religio, l’avvento dello stato laico e l’imporsi<br />

della democrazia come sistema ideale di governo della società, tutto ciò ha reso sempre più com-<br />

plessa la questione dei rapporti fra una chiesa che non rinuncia al proprio carattere pubblico e una<br />

società che tenderebbe a relegare nel privato ogni questione di fede e l’organizzazione dei credenti.<br />

Infatti, finché la popolazione di un territorio era per continuità storica e culturale totalmente cristia-<br />

na, il battesimo dei bambini e la trasmissione della fede all’interno della famiglia, di generazione in<br />

generazione, costituivano un’appartenenza forte alla chiesa. Oggi invece questi stessi fattori, in for-<br />

za della situazione mutata, sembrano rendere debole questo tipo di appartenenza ecclesiale, in quan-<br />

to in una società pluralista aggregazioni forti sono quelle molto personalizzate, derivate dalla libera<br />

decisione dell’individuo e fortemente caratterizzanti la sua personalità.<br />

Poiché l’appartenenza fondata sull’incancellabile carattere battesimale è scarsamente sottoposta a<br />

discriminazioni da parte dell’autorità ecclesiastica, in teoria la si dovrebbe reputare un’appartenenza<br />

forte; in pratica però, nell’esperienza concreta dell’esistenza ecclesiale, essa svela una profonda de-<br />

36 H.U. von Balthasar considera la scelta di battezzare i bambini come «la decisione più gravida di conseguenze della<br />

storia della chiesa»: L’esperienza della chiesa in questo tempo, in ID., Sponsa Verbi (Brescia: Morcelliana 1969) 15-16.<br />

Cfr. pure P. COLOMBO, Il battesimo e la figura storica della chiesa, in G. ANGELINI ET AL., Il battesimo dei bambini.<br />

Questioni teologiche e strategie pastorali («Disputatio 11; Milano: Glossa, 1999) 195-210.<br />

377


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

bolezza, perché quel certo automatismo che caratterizza il battesimo dei bambini e la trasmissione<br />

familiare della fede sembra impoverirne il carattere personale. Il punto cruciale del problema sta<br />

quindi nella prassi tradizionale del battesimo dei bambini, che costituisce uno strumento di aggrega-<br />

zione ecclesiale coerente a una forma di trasmissione della fede legata alla tradizione culturale di un<br />

popolo, piuttosto che alle esigenze di una evangelizzazione calata nel contesto di una società, come<br />

la nostra, libera e pluralista, variegata ed estremamente mobile. Il battesimo dei bambini, infatti,<br />

corrisponde a un modello di esistenza cristiana che si trasmette di padre in figlio e aderisce a tutto il<br />

quadro culturale in cui vive la popolazione della città, del quartiere… Ne viene che oggi le apparte-<br />

nenze forti non sembrano più essere quelle tipiche di una chiesa di popolo, bensì quelle di comunità<br />

cristiane molto qualificate, come ad es. le comunità religiose o alcune particolari forme associative,<br />

alle quali si aggregano credenti dalla fede molto determinata e dallo stile di vita ben caratterizzato.<br />

Per parte sua il Codice di Diritto Canonico sembra quasi canonizzare quella forma di appartenenza<br />

che la situazione odierna ha reso debole: esso infatti conferma la prassi del battesimo dei bambini<br />

come prassi normale della chiesa, senza preoccuparsi di tutelarne la plausibilità attraverso un qual-<br />

che specifico strumento canonico, quale potrebbe essere l’attribuzione di una rilevanza giuridica a<br />

una qualche forma di professio fidei che il cristiano, da adulto, dovrebbe emettere come condizione<br />

necessaria per raggiungere un’appartenenza personale e responsabile. Un superamento radicale di<br />

questa situazione avverrebbe solo se si ritenesse superata e impraticabile la prassi dell’aggregazione<br />

alla chiesa mediante il “pedobattesimo”. Di fatto, seppur inconsciamente, sembrano compiere un ta-<br />

le superamento quei cristiani, che si aggregano a particolari comunità di associazioni, gruppi o mo-<br />

vimenti, ritenendo che solo così essi danno inizio, quasi ex nihilo, alla propria esistenza cristiana e<br />

mostrando così di reputare inautentica la loro precedente appartenenza ecclesiale.<br />

Ora, questo insieme di fenomeni che oggi accadono nella chiesa ci mettono in condizione di farci<br />

un’idea più precisa del bivio di fronte al quale la chiesa si trova: essere o non essere una «chiesa di<br />

popolo». Una comunità di soli adulti non può essere detta popolo, né si può presentare sotto forma<br />

di popolo un’aggregazione elitaria, cui si aderisce solo per una decisione di fede adulta.<br />

D’altra parte, definire la chiesa popolo di Dio non significa condannarla al compromesso con il<br />

mondo e alla rinuncia al radicalismo del messaggio evangelico, non significa destinarla ad un’esi-<br />

stenza oscura e povera di testimonianza. Se nessuno può dire: «Gesù Signore» se non nello Spirito<br />

Santo (1Cor 12,3), vuol dire che nessuno può giungere a essere credente se non in quanto è stato<br />

mosso e investito dallo Spirito. Ora, chi ha lo Spirito è per definizione un soggetto capace di arric-<br />

chire con i suoi doni la chiesa e contribuire alla missione di lei, quale che sia la sua maturità psichi-<br />

ca, le sue qualità intellettuali e il livello del suo impegno morale.<br />

378


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

c) «Popolo di Dio» in <strong>ecclesiologia</strong><br />

Giunti al termine di questa laboriosa analisi, ci resta da mostrare come la categoria di popolo di Dio<br />

costituisca uno strumento ermeneutico irrinunciabile in <strong>ecclesiologia</strong>. Il delicato e fondamentale<br />

rapporto, che abbiamo a lungo esaminato, fra il concetto di comunione e quello di comunità non ba-<br />

sta a chiudere il cerchio dell’interpretazione, né l’appello alle immagini, dalle più svariate metafore,<br />

ai simboli, alla figura del corpo di Cristo, basta a fornire una risposta alla domanda essenziale sulla<br />

forma fondamentale della comunità cristiana. Per parlare della chiesa includendovi tutti i cristiani, il<br />

Vaticano II ha sentito il bisogno di recuperare la categoria di popolo di Dio prima di trattare della<br />

gerarchia, dei religiosi, di questa o quella categoria particolare di credenti. Ciò che accadde nel con-<br />

cilio è molto significativo: non si può parlare della chiesa, cercando di coglierla come il soggetto<br />

della missione affidata da Cristo ai credenti, senza considerarla prima di tutto come il popolo di Di-<br />

o. Se molte sono le forme che le comunità cristiane possono assumere, questa è la forma fondamen-<br />

tale alla quale tutte le altre dovranno in qualche modo ricondursi. Per questo popolo di Dio non è<br />

uno strumento ermeneutico fra i tanti, che aggiunge un punto di vista in più per la comprensione<br />

della chiesa: è invece una categoria fondamentale e indispensabile per una corretta <strong>ecclesiologia</strong>.<br />

(I) Popolo e popolo di Dio<br />

Quando diciamo che la chiesa è un popolo, non pensiamo di utilizzare una metafora: osservando<br />

una grande assemblea liturgica, o le celebrazioni della festa patronale di un paese, a nessuno viene il<br />

sospetto che parlare di manifestazioni popolari potrebbe essere improprio. Qui la chiesa appare pa-<br />

lesemente come un’aggregazione di popolo: è un’aggregazione grande, aperta, alla quale chiunque<br />

può associarsi. Se uno lo vuole, può partecipare alla sua vita anche solo per una singola occasione;<br />

se poi intendesse appartenervi stabilmente, gli si porrebbe come condizione solo quella di credere in<br />

Gesù Cristo. Come accade in ogni popolo, i membri indegni non ne vengono espulsi, quelli poco ef-<br />

ficienti o poco disposti a cooperare ai compiti comuni non vengono emarginati. Si noti che la scar-<br />

sissima discrezionalità attribuita dal Codice (cfr. can. 843 § 1) ai preti in ordine alla concessione o<br />

al rifiuto dei sacramenti è una fondamentale garanzia di questo carattere di popolo della chiesa.<br />

Se ci limitiamo, però, a dire che si tratta di un’aggregazione di popolo, non abbiamo indicato alcun<br />

aspetto specifico della chiesa. Per questo la chiamiamo popolo di Dio. L’espressione «di Dio» non<br />

vuol dire che si tratta di un popolo religioso, ma che è un popolo voluto e fondato da Dio come «su-<br />

o», in forza della sua rivelazione che i credenti hanno accolto nella fede. Né con ciò la chiesa ritiene<br />

che gli altri uomini non appartengano a Dio o non siano da lui amati: come è stato svelato a Paolo<br />

per Corinto (At 18,9s), in tutte le città della terra Dio ha un popolo grande. E la chiesa va in ogni<br />

luogo a portare il vangelo, perché il popolo di Dio nascosto emerga alla luce della storia.<br />

379


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Naturalmente il linguaggio assume ora un andamento metaforico, perché dicendo che si tratta di un<br />

popolo convocato da Dio e che a lui appartiene, il concetto del convocare gli uomini e del possedere<br />

qualcosa come proprio può essere detto di Dio, solo con la coscienza che stiamo tentando di dire,<br />

con figure umane, un mistero ben più profondo di quanto le nostre immagini possano suggerire.<br />

Resta che quando individuiamo la chiesa nell’idea del popolo di Dio, noi acquisiamo un termine che<br />

può sostituire il termine chiesa, sia nella sua dimensione particolare sia in quella universale, e che<br />

può fungere da soggetto in una proposizione che la riguarda. Cosa che non può accadere né con co-<br />

munione, né con sacramento, né con comunità, né con la figura del corpo di Cristo, né con<br />

l’espressione communio sanctorum. Questo avviene anche perché della chiesa dobbiamo poter par-<br />

lare come di un vero e proprio soggetto storico. E un popolo è essenzialmente un facitore di storia.<br />

(II) Popolo nuovo<br />

Ogni popolo è diverso dagli altri, altrimenti non si parlerebbe di popoli al plurale. Però della chiesa<br />

non basta dire che è un popolo diverso: bisognerà sottolineare che è un popolo nuovo. Anche nel<br />

senso che contiene e propone elementi “escatologici” riguardanti tutta l’umanità: il Vaticano II la<br />

chiama «popolo messianico» (LG 9b). La sua dimensione escatologica si manifestò nel distacco da<br />

Israele: al centro era la questione della legge. Per i cristiani, pur essendo cosa santa (Rm 7,13), la<br />

legge non è il fondamento della loro unità e della loro esistenza collettiva. Questo fondamento è so-<br />

lo la fede in Gesù, risorto e Signore. Solo a questa condizione il cristianesimo può dar vita a un po-<br />

polo universale che non cancelli affatto il riconoscimento di leggi particolari, alle quali i cristiani<br />

sottostanno per la loro appartenenza a popoli diversi. Infatti il principio della fede, che si sostituisce<br />

a quello della legge, permette alle comunità cristiane di vivere sotto le più diverse leggi. Ciò signifi-<br />

ca anche la possibilità di inserirsi nelle più diverse culture e civiltà.<br />

Ne deriva che è pertinente attribuire alla chiesa il termine popolo, ma allo stesso tempo che è im-<br />

possibile omologare la chiesa ai popoli delle società civili e le sue strutture a quelle degli stati e dei<br />

loro governi. Questo popolo nuovo che nasce dalla fede non viene, per sua natura, a competere con<br />

nessuno. Anzi la sua proposta, inscritta nella stessa sua natura cattolica, è quella della riconciliazio-<br />

ne universale, della pace e della solidarietà fra tutti i popoli. La sua missione storica contiene fra gli<br />

altri questo aspetto come suo elemento essenziale. Anche per coerenza con questa sua vocazione il<br />

popolo cristiano, che non è limitato da identità etniche o nazionali, neppure può accettare delimita-<br />

zioni interne alla sua struttura: ogni uomo è chiamato ad appartenergli, indipendentemente dalla<br />

razza, dalla lingua, dalla nazione, dalla classe sociale, ed anche, paradossalmente, indipendentemen-<br />

te dalle sue qualità morali, poiché nella chiesa egli trova la via della penitenza, del perdono dei pec-<br />

cati e della conversione. L’unica condizione richiesta è quella della fede.<br />

380


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

(III) Caratteristiche della chiesa nella sua forma di popolo<br />

Dalla chiesa in quanto tale non si può essere espulsi, come invece può accadere, così come è previ-<br />

sto e regolato dal Codice di Diritto Canonico, per tutte le aggregazioni particolari interne alla chie-<br />

sa, quali il ceto clericale, gli ordini e le congregazioni religiose e le associazioni (cfr. Can. 1336 § 1,<br />

5; Can. 694; Can. 308). In realtà la scomunica, a dispetto del nome, non è un’espulsione dalla chie-<br />

sa, ma la privazione di alcuni diritti che il fedele normalmente può far valere nella chiesa 37 .<br />

Questo elemento, in apparenza banale, è invece molto significativo: se la chiesa fosse una federa-<br />

zione di comunità di vario genere, da quelle religiose a quelle dei gruppi e delle associazioni, un cri-<br />

stiano espulso dalla sua comunità sarebbe automaticamente escluso dalla chiesa. Se invece la chiesa<br />

è popolo, al quale si appartiene per chiamata di Dio, per grazia e in forza del battesimo, tutti legami<br />

che precedono i nostri meriti e demeriti, essa deve dotarsi anche di strutture tali che le permettano di<br />

offrire un sicuro punto di accoglienza e una garanzia di appartenenza anche a chi, per qualsiasi mo-<br />

tivo, venisse allontanato da aggregazioni ecclesiali particolari. Questo naturalmente significa che la<br />

comunità di base della chiesa è sempre quella che ha forma di popolo, che cioè non avanza alcuna<br />

ulteriore condizione di appartenenza all’infuori della pura e semplice professione di fede cattolica.<br />

Certamente la struttura parrocchiale 38 e quella diocesana, così come si sono venute formando lungo<br />

i secoli, hanno un evidente carattere di contingenza: così come sono nate, possono anche scompari-<br />

re. Non è pensabile, però, che la chiesa non si fornisca di determinate strutture che le diano il carat-<br />

tere di un’aggregazione di popolo, sì da poter albergare in sé infinite comunità di vario genere, le<br />

quali però non costituiranno mai la forma fondamentale sulla quale ogni cristiano fonderà la propria<br />

appartenenza alla chiesa. È ovvio che nessuno è cristiano e appartiene alla chiesa perché è frate del-<br />

l’ordine domenicano, o iscritto all’Azione Cattolica, o membro di una comunità neocatecumenale…<br />

Al contrario: solo in quanto uno è cristiano e appartiene alla chiesa, può anche essere aggregato a<br />

una delle tante sue possibili diverse comunità. Si tratta di appartenenze ulteriori radicate sulla appar-<br />

tenenza fondamentale, così come le tante particolari comunità rappresentano forme particolari ri-<br />

spetto alla forma fondamentale della chiesa, che è quella della comunità di popolo. Solo questa co-<br />

stituisce il luogo dell’appartenenza fondamentale, perché per entrarvi basta il battesimo e la condi-<br />

visione della fede cattolica, mentre l’appartenenza a particolari ulteriori forme di vita comunitaria<br />

37<br />

G. MONTINI, Scomunica e appartenenza alla chiesa, in L’appartenenza alla chiesa. Quaderni teologici del Seminario<br />

di Brescia, Morcelliana, Brescia 1991, 147-162.<br />

38<br />

F.G. BRAMBILLA, La parrocchia tra passato e futuro, in FONDAZIONE AMBROSIANEUM, Invito alla teologia III – La<br />

teologia e la questione pastorale, a cura di G. Angelini e M. Vergottini (Milano: Glossa, 2002) 95-114.<br />

381


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

esige la condivisione di un peculiare carisma, o l’accettazione di un determinato stato di vita, o la<br />

destinazione della propria attività a uno scopo particolare, quando addirittura non si esiga previa-<br />

mente di appartenere a una particolare categoria sociale, come accade per esempio per i gruppi gio-<br />

vanili, o per associazioni di tipo professionale, o per gli ordini e congregazioni religiose. Solo la<br />

comunità di popolo è capace di accogliere, come la chiesa deve essere capace di fare, anche i bam-<br />

bini e i disabili, anche i cristiani peccatori, i credenti non praticanti e quelli disimpegnati, i cattolici<br />

dubbiosi, i disobbedienti e i marginali. Così la comunità di popolo, normalmente delimitata da un<br />

perimetro territoriale, garantisce a ogni credente il diritto di appartenere alla chiesa, di riceverne i<br />

servizi e di parteciparvi con la propria collaborazione, senza che gli sia richiesta alcun’altra specifi-<br />

ca attitudine oltre alla sua fede in Cristo. Il criterio territoriale, proprio perché completamente ano-<br />

dino, caratterizza al meglio la forma fondamentale della comunità ecclesiale, in quanto offre ad ogni<br />

credente, per il solo fatto ch’egli è tale e abita in un certo territorio, la possibilità e il diritto di essere<br />

a tutti gli effetti membro della chiesa. Anzi gli appartenenti a comunità particolari sanno che, in<br />

qualsiasi momento e per qualsiasi motivo essi dovessero abbandonare la propria comunità o esserne<br />

espulsi, non per questo cesserebbero di appartenere alla chiesa.<br />

Normalmente questa forma fondamentale della comunità ecclesiale finora è realizzata dalla parroc-<br />

chia e dalla diocesi, le quali, prevedibilmente, saranno sottoposte ad ampia ristrutturazione 39 .<br />

d) Conclusione<br />

Il grande assioma paolino: «Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è uomo né<br />

donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28) può essere ritenuto il principio costitu-<br />

tivo del nuovo popolo di Dio: la chiesa non nasce ritagliandosi un suo spazio chiuso all’interno di<br />

un popolo, o di una categoria sociale, o di un qualsiasi gruppo umano particolarmente determinato.<br />

Al contrario, il dono della comunione penetra dovunque, oltre tutti i confini e, per la fede, si creano<br />

tra persone di popoli diversi dei legami assolutamente irriducibili a quelli del clan o della nazione.<br />

Ma ciò non basta: come il popolo di Dio non può identificarsi con una nazione, così non può né i-<br />

dentificarsi con una categoria sociale, né essere riservato a soli uomini o a sole donne, né seleziona-<br />

re i propri membri sulla base di alcun’altra condizione all’infuori della sola adesione di fede in Gesù<br />

Signore. Dire che la chiesa è popolo e popolo di Dio contiene tutto questo, mentre nessuna defini-<br />

zione di comunità potrebbe implicare da sé sola questo carattere di assoluta cattolicità.<br />

39 F.G. BRAMBILLA, La parrocchia oggi e domani (Assisi: Cittadella, 2003); L. BRESSAN, La parrocchia oggi. Identità,<br />

trasformazioni, sfide (Bologna: EDB, 2004).<br />

382


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

3.3.6. Tipi fondamentali della Chiesa nella sue realizzazione storica<br />

a) La Chiesa come complesso e comunione di Chiese e di comunità ecclesiali<br />

Il carattere locale della Chiesa è una delle più importanti riscoperte del Concilio Vaticano II. Rifa-<br />

cendosi alle fonti bibliche e patristiche esso ha riscoperto che le singole realizzazioni della Chiesa<br />

non sono semplicemente parti o elementi subordinati della Chiesa universale, perché la stessa Chie-<br />

sa universale è una communio ecclesiarum (cfr. LG 23). Tuttavia il Vaticano II non ha proposto<br />

un’<strong>ecclesiologia</strong> sistematica, ma, come si conviene a un concilio, ha dato alcuni orientamenti. Esso<br />

lo ha fatto in modo esemplare a proposito dell’ufficio episcopale e della Chiesa episcopale locale.<br />

Viceversa, non si è occupato in modo simile della comunità parrocchiale quale forma fondamentale<br />

di Chiesa. A maggior ragione ciò va detto per ciò riguarda la famiglia, la comunità personale e la<br />

comunità di base. Il nuovo principio è stato quindi illustrato soprattutto per quanto riguarda la Chie-<br />

sa locale episcopale e il suo rapporto con la Chiesa universale (cfr. SC 41; LG 23). Un’esposizione<br />

teologica sistematica però non può far a meno di applicare in maniera coerente e sistematica a tutta<br />

la realtà della Chiesa il principio evidenziato in Concilio.<br />

Un’esposizione dogmatica odierna deve perciò porre in maniera nuova in relazione fra di loro la<br />

tradizione della Chiesa e la sua realtà odierna, l’orizzonte attuale in cui bisogna esaminare i proble-<br />

mi e la struttura della fede. Se partiamo dalla storia complessiva della Chiesa, vediamo che essa si è<br />

realizzata in forme chiaramente diverse, in cui si è via via manifestata nella sua totalità, seppur in<br />

modo specifico. In ciò si rispecchiano la struttura fondamentale specifica della fede cristiana e le sue<br />

esperienze e reazioni storiche fondamentali: la concretezza, località, individualità e personalità sto-<br />

rica della fede, da un lato, e la sua collettività, socialità e universalità, dall’altro lato; la sua incarna-<br />

zione nelle forme storiche della socialità umana, da un lato, e la trasformazione da essa operata di<br />

queste forme sulla base dell’azione divina nel mondo e nella storia, dall’altro lato. Ciò significa che<br />

la comunità di fede si fonde da un lato con forme concrete della socialità umana (e si sviluppa a sua<br />

volta man mano che queste si sviluppano), che, dall’altro lato, abbraccia tutta la gamma della socia-<br />

lità umana e che infine trasforma, in misura più o meno grande, in virtù della propria esperienza<br />

fondamentale, singole forme e la forma complessiva di tale socialità.<br />

In questo modo diventano visibili, nel contesto di determinate condizioni storiche e sociali, alcuni<br />

tipi fondamentali di comunità ecclesiale: la Chiesa domestica, la comunità personale o la comunità<br />

di base; la comunità locale o parrocchiale; la Chiesa locale o Chiesa particolare episcopale e le sue<br />

associazioni (patriarcato, conferenza episcopale, Chiesa nazionale, Chiesa continentale); la Chiesa<br />

universale (universa). Esse, dal momento che trasformano forme fondamentali della socialità umana<br />

383


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

in luoghi specifici della comunione con Dio e quindi in nuove comunità (religiose), hanno un carat-<br />

tere strutturale, rappresentano le forme fondamentali della Chiesa, anche se la loro forma concreta è<br />

un prodotto delle condizioni storiche e sociali. Tali forme fondamentali sono perciò insostituibili e<br />

si condizionano necessariamente a vicenda. Inoltre, se devono essere forme fondamentali di realiz-<br />

zazione della Chiesa, devono necessariamente avere qualcosa in comune e devono presentare (al-<br />

meno in linea di principio) gli atti fondamentali della Chiesa e le sue proprietà fondamentali.<br />

Dall’altro lato ognuna di esse deve possedere una funzione sociale specifica all’interno del tutto.<br />

L’entità sociale «Chiesa» esiste solo come complesso e comunione di Chiese e comunità ecclesiali,<br />

che manifestano in maniera specifica la Chiesa e sono nel medesimo tempo fra loro correlate, anzi<br />

si determinano a vicenda. Ogni credente vive perciò contemporaneamente (anche se con diversa in-<br />

tensità) in seno a diverse forme fondamentali di Chiesa.<br />

b) La Chiesa come comunità domestica, comunità personale e comunità di base<br />

(I) Forme di comunità<br />

Il termine e la realtà della «comunità» sono balzati al centro della teologia e della prassi cattolica so-<br />

lo dopo il Vaticano II. Il Concilio da parte sua vi ha contribuito non tanto con una propria teologia<br />

della comunità, bensì piuttosto mediante una concezione complessivamente più personale della<br />

Chiesa, che tenta di recuperare una comunità ecclesiale oltre la tradizionale struttura parrocchiale.<br />

Ciò si è fatto anche richiamandosi a tutta una serie di modelli storici: la comunità domestica della<br />

Chiesa primitiva; la comunità personale monastica; le odierne comunità di base.<br />

A queste tradizioni si rifanno oggi tentativi teologici e anche magisteriali di concepire di nuovo la<br />

famiglia cristiana come una «Chiesa domestica» (ecclesia domestica). Dopo alcune prime indica-<br />

zioni date dal Concilio Vaticano II (LG 11; cfr. 35; AA 11), il tentativo più sistematico e completo<br />

fatto in questa direzione è costituito dall’esortazione apostolica Familiaris consortio (22.11.1981)<br />

di Giovanni Paolo II sui compiti della famiglia cristiana nel mondo d’oggi, esortazione in cui egli<br />

riassume i risultati del Sinodo dei vescovi del 1980. Qui la famiglia cristiana viene espressamente<br />

detta «Chiesa domestica», una «Chiesa in miniatura», cioè una determinata attualizzazione della<br />

Chiesa (n. 49). Come tale la famiglia ha un compito ecclesiale del tutto particolare e specifico: essa<br />

è un’intima comunità di vita e di amore (n. 50). Inoltre compie, con proprie specifiche accentuazio-<br />

ni, gli atti fondamentali della Chiesa: la predicazione del vangelo (nn. 51-54), il culto e la preghiera<br />

(nn. 57-62), la diaconia (nn. 63-64).<br />

384


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

(II) L’ecclesialità specifica delle comunità familiari e personali<br />

Comune a tutte le forme assai diverse di comunità domestiche, Chiese domestiche, gruppi spirituali<br />

e gruppi di base è il fatto che esse, ferma restando la spinta alla personalizzazione impressa dalla fe-<br />

de cristiana, fanno diventare l’esperienza di gruppo o di piccole comunità il punto di partenza<br />

dell’esperienza della Chiesa. Una simile prima forma di ecclesialità fa dell’esperienza di gruppo il<br />

luogo di una nuova comunione in virtù di Dio, in quanto attua anzitutto il carattere personale e co-<br />

munitario della fede e, in secondo luogo, in quanto può direttamente concretizzare le implicazioni<br />

sociali e politiche della fede nel proprio contesto vitale.<br />

Inoltre la riscoperta della famiglia quale Chiesa domestica ricorda come una separazione completa<br />

dell’uomo concepito in senso puramente personale, soggettivo e individuale dai suoi contesti natu-<br />

rali, materiali e genealogici rende patologica anche la socialità religiosa e comporta sia una demon-<br />

danizzazione della Chiesa, sia una deecclesializzazione del mondo.<br />

La riscoperta della famiglia come Chiesa domestica è importante, perché mette a frutto per la comu-<br />

nità ecclesiale le esperienze sociali derivanti dai legami naturali, materiali e genealogici dell’uomo,<br />

in quanto ne fa in una forma rinnovata luoghi della comunione con Dio.<br />

Come in tutta la socializzazione primaria l’apprendimento avviene anzitutto mediante l’imitazione,<br />

così in tutti i gruppi, che rappresentano anche una comunità di vita, la trasmissione della fede avvie-<br />

ne anzitutto mediante la comune prassi e il comune modo di vivere, che includono tutte le forme di<br />

comportamento e di azione. Quel che nella socializzazione religiosa esercita il maggior influsso,<br />

quel che unitamente alla necessaria fiducia originaria rende possibile l’identità del bambino è<br />

l’atteggiamento interiore reciproco dei genitori, l’amore cordiale e fiducioso che li lega l’uno<br />

all’altro. L’influsso diretto delle istituzioni ecclesiali vere e proprie è qui piuttosto esiguo. La fede<br />

cristiana si attua perciò nella famiglia cristiana, in un gruppo cristiano, in una comunità domestica o<br />

in una comunità di base primariamente come prassi ispirata dall’amore. Tutti gli atti ecclesiali fon-<br />

damentali sono qui influenzati da questo contesto vitale diretto. Di conseguenza essi sono qui sem-<br />

pre anche il risultato di una conoscenza esperienziale religiosa spontanea, che nasce dal contatto di-<br />

retto del credente con la realtà della vita (e che solo qui può nascere), il risultato, detto in termini te-<br />

ologici, del senso della fede (sensus fidei) del popolo di Dio, che poggia sulla partecipazione alla<br />

missione di Cristo e sull’azione dello Spirito Santo. Soggetto dell’azione ecclesiale è qui la comuni-<br />

tà familiare o personale in seno alla prassi comune di tutti i suoi membri.<br />

La fede ecclesiale si attua nella famiglia cristiana, in un gruppo cristiano, in una comunità domestica<br />

o in una comunità di base primariamente come prassi animata dall’amore e, per quanto riguarda gli<br />

atti ecclesiali fondamentali, come diaconia.<br />

385


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Già a questo primo livello la comunità diaconale ha bisogno di rapportarsi ad altre due forme, che<br />

sono in lei insite, e cioè al culto e alla preghiera, da un lato, e alla predicazione, alla catechesi e alla<br />

conoscenza della fede, dall’altro lato. Senza una costante fondazione nel culto qualsiasi prassi corre<br />

infatti il pericolo di perdere la conoscenza della differenza che passa tra culto di Dio e idolatria, e<br />

senza predicazione e conoscenza della fede si riduce a routine e a tradizione meccanica. Proprio sot-<br />

to tale aspetto questa prima forma di Chiesa dipende assolutamente dalle altre forme di Chiesa, vale<br />

a dire dalla comunità locale, dalla Chiesa locale episcopale e dalla Chiesa universale. Proprio nel<br />

contesto pluralistico della società moderna la famiglia è di regola posta di fronte a compiti per lei<br />

immani, se non è inserita in una comunità viva, che la sorregge anche in situazioni difficili. Le strut-<br />

ture patologiche della società influenzano infatti sempre anche le strutture della famiglia.<br />

Questa prima forma di ecclesialità rappresentata dalle famiglie e dai gruppi ha una funzione perma-<br />

nente nel complesso della Chiesa. Essa è insostituibile nella fase della missione e della maturazione<br />

cristiana e costituisce un correttivo critico permanente contro una forma burocratico-anonima della<br />

Chiesa locale e contro una forma di Chiesa posta sopra le persone (e lontana dalla società). La co-<br />

munione di fede, speranza e amore si realizza in modo speciale nella famiglia concretamente come<br />

riconciliazione dei sessi e come riconciliazione delle generazioni.<br />

c) La Chiesa come comunità locale e parrocchiale<br />

(I) Forme della comunità locale<br />

Sia per motivi storico-pratici che teologici la nuova comunità religiosa dei cristiani dovette necessa-<br />

riamente costituire una determinata forma di comunità e quindi una determinata forma di ecclesiali-<br />

tà anche sul piano della vita comunale locale (città, villaggio). Fu ancora una volta l’esperienza fon-<br />

damentale specifica della fede, qui anzitutto la totalità, il carattere pubblico, l’esclusività e l’unità di<br />

questa, a impedire che la nuova comunione si lasciasse completamente incapsulare nel modello so-<br />

ciale della famiglia, della parentela, dell’associazione. Fu proprio questa complessa e precisa espe-<br />

rienza della fede, che assieme a una serie di problemi e difficoltà pratiche delle prime comunità,<br />

condusse a far sì che il baricentro della Chiesa si spostasse molto rapidamente in seno alla comunità<br />

locale e a far sì che la famiglia e la comunità personale, quali forme di realizzazione della Chiesa,<br />

fossero relegate in secondo piano. Le condizioni della vita comunale locale (spazio vitale comune,<br />

carattere duraturo delle relazioni sociali, differenziazione sociale, vita pubblica abbracciante tutte le<br />

generazioni e tutte le manifestazioni di vita) e le condizioni della comunità di fede si influenzano<br />

ora a vicenda fino a formare una seconda forma di ecclesialità, la comunità locale, la quale a sua<br />

volta ha conosciuto nella storia della Chiesa importanti sviluppi.<br />

386


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Comune a tutte le forme di comunità ecclesiali locali e parrocchiali è la circostanza di fare<br />

dell’esperienza della vita comunale politica concreta (villaggio, città) e dell’esperienza di concrete<br />

assemblee politiche pubbliche il punto di partenza e il luogo dell’esperienza della Chiesa, in quanto,<br />

collegandosi ad esse, attualizzano soprattutto la pretesa della fede cristiana di essere una fede uni-<br />

versale e totalizzante, unitamente alla sua concretezza locale e alla sua continuità storica, e trasfor-<br />

mano così a loro volta la forma della comunità.<br />

(I) L’ecclesialità peculiare della comunità locale<br />

Il Concilio Vaticano II considera le Chiese particolari soprattutto sotto l’aspetto delle Chiese epi-<br />

scopali e vede le comunità locali in netta dipendenza dalla diocesi, tuttavia si trovano già alcune af-<br />

fermazioni orientate nel senso di una descrizione teologica della comunità locale.<br />

La comunità locale è già una forma relativamente compiuta di realizzazione della Chiesa ed è vera-<br />

mente, in quanto «comunità locale» (communitas localis), «Chiesa di Dio» (LG 28). Tuttavia essa lo<br />

è solo in costante e stretta unione con la diocesi e con il vescovo (LG 26.28). Bisogna perciò tener<br />

sempre presenti le due cose: la comunità locale non ha un’autonomia indipendente dal vescovo, ma<br />

non è neppure una semplice filiale o un organo amministrativo subordinato della diocesi. Il suo cen-<br />

tro è la celebrazione comunitaria dell’eucaristia, presieduta dal sacerdote: «L’assemblea eucaristica<br />

è dunque il centro della comunità dei cristiani presieduta dal presbitero» (PO 5; cfr. 6).<br />

A differenza della famiglia e del gruppo il mezzo socializzante vero e proprio nella comunità locale<br />

non è la prassi ispirata dalla fede comune, ma il culto pubblico comunitario, soprattutto la celebra-<br />

zione eucaristica domenicale.<br />

Il luogo primario dell’esperienza della fede e della trasmissione o mediazione della fede su questo<br />

secondo piano della Chiesa è perciò la liturgia. Nella lode comune delle grandi azioni di Dio,<br />

nell’ascolto comune della parola di Dio, nel compimento comune delle azioni simboliche sacre, nel-<br />

la preghiera e nel canto comune e nello scambio della professione di fede la comunità radunata,<br />

composta da molte famiglie e gruppi, da rappresentanti di varie professioni, da diverse classi sociali<br />

e da varie opinioni politiche, viene di nuovo costituita, nella sfera pubblica di questa assemblea,<br />

come popolo di Dio che va incontro con rinnovata speranza al proprio Signore e che, professando la<br />

propria fede, si impegna nel medesimo tempo a dare testimonianza nella propria vita di quanto ha<br />

sperimentato nel culto, a testimoniare cioè che l’amore di Dio, il quale ha risuscitato Gesù dai morti,<br />

e già in procinto di instaurare un mondo nuovo.<br />

Questa nuova condizione, costituita dalla sfera pubblica, determina quindi anche la funzione pecu-<br />

liare del ministero ufficiale del parroco quale presidente della comunità. In virtù della sua doppia<br />

funzione rappresentativa (rappresentanza di Cristo davanti e in seno alla comunità, rappresentanza<br />

387


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

della comunità in seno ad essa e verso l’esterno) a lui compete il governo della comunità. Diversa-<br />

mente si dissolverebbe la struttura sacramentale della Chiesa. Tale funzione però il presbitero la de-<br />

tiene come membro di un collegio il cui capo è il vescovo, il quale esercita il ministero apostolico di<br />

governo, e come membro della comunità in cui sono presenti molti carismi per la sua edificazione.<br />

Pure su questo piano la forma cultuale centrale di mediazione della fede ha bisogno del diretto e re-<br />

ciproco rapporto con altre due forme, insite nelle azioni liturgiche: di una nuova prassi ispirata dalla<br />

fede (fondata sulla partecipazione sacramentale alla prassi di Gesù Cristo) e di una nuova conoscen-<br />

za della fede (che ha il suo fondamento nella pretesa della fede di essere la vera fede). Alla media-<br />

zione cultuale simbolica della fede deve quindi corrispondere sia una corrispondente mediazione<br />

pratica, sia una corrispondente mediazione teoretica della fede. In questo modo la comunità locale è<br />

il luogo degli atti ecclesiali fondamentali incentrato sul culto comunitario, che si spinge al di là delle<br />

famiglie e dei gruppi, nonché il luogo della comunicazione con la Chiesa locale episcopale.<br />

La comunità locale è Chiesa di Dio in un luogo determinato. Questa seconda forma di ecclesialità ha<br />

una funzione permanente per tutta la Chiesa nel suo complesso. Essa non incarna solo la sua concre-<br />

tezza locale, il suo carattere pubblico, la sua durata e la sua pretesa di abbracciare tutti i rapporti so-<br />

ciali, bensì anche il suo carattere di assemblea.<br />

d) La Chiesa come Chiesa locale/Chiesa particolare diocesana<br />

La comunità locale è Chiesa solo come parte di una comunità più grande, della Chiesa locale o<br />

Chiesa particolare episcopale (diocesana). Su questo piano ulteriormente differenziato l’ecclesialità<br />

della Chiesa possiede ancora una volta uno specifico baricentro e uno specifico modello strutturale.<br />

(I) Forme della Chiesa locale/Chiesa particolare<br />

La terminologia del Concilio Vaticano II è oscillante: essa adopera otto volte l’espressione «Chiesa<br />

locale» (ecclesia localis), quattro volte per indicare la diocesi, una volta la diocesi nel suo contesto<br />

culturale, due volte una aggregazione di diocesi e una volta addirittura la parrocchia. Inoltre adopera<br />

ventiquattro volte l’espressione «Chiesa particolare» (ecclesia particularis), dodici volte per indica-<br />

re una diocesi, dodici volte la Chiesa nel suo ambiente culturale (cinque delle quali per indicare<br />

Chiese cattoliche di un rito non latino). Ma continua ad adoperare per ben novantaquattro volte il<br />

termine classico (e giuridico) di «diocesi». Il Codice di Diritto Canonico del 1983 si decide in favo-<br />

re dell’espressione «Chiesa particolare» (ecclesia particularis) (al posto del termine «diocesi»), pre-<br />

sumibilmente allo scopo di poter sussumere sotto un simile nuovo concetto ed espressione com-<br />

prensiva le diocesi, le prelature territoriali, le abbazie territoriali, i vicariati, le prefetture apostoliche<br />

e le circoscrizioni amministrative (cfr. can. 368). Ambedue le espressioni (Chiesa locale, Chiesa<br />

388


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

particolare) hanno i loro vantaggi e i loro svantaggi.<br />

La Chiesa locale o particolare episcopale (diocesana) ha una forma fondamentale ambivalente. Da<br />

un lato (vista dalla prospettiva della Ecclesia universa) essa è Chiesa in un determinato luogo e par-<br />

te concreta del tutto, dall’altro lato (vista dalla prospettiva della comunità domestica o della comuni-<br />

tà locale) è un’organizzazione superiore, che stabilisce e rappresenta il collegamento con il tutto. La<br />

medesima cosa si dica dell’ufficio episcopale: da un lato esso rappresenta il governo concreto della<br />

Chiesa locale, dall’altro lato porta una responsabilità nei confronti di tutta la Chiesa. Il motivo di<br />

questa ambivalenza sta in un processo storico-sociale: nella differenziazione della Chiesa verificata-<br />

si nei primi secoli, Chiesa che da comunità locale governata dal vescovo diventa la Chiesa locale<br />

episcopale abbracciante una molteplicità di comunità locali governate da presbiteri su mandato del<br />

vescovo. Tale ambivalenza si ripercuote sulla complicata storia occidentale del rapporto tra episco-<br />

pato e presbiterato, da un lato, e del rapporto tra episcopato e primato, dall’altro lato.<br />

La funzione ecclesiale particolare di questa fondamentale forma diocesana di Chiesa è sostanzial-<br />

mente determinata da colui che la presiede e la governa, dal vescovo, per cui bisogna parlare anche<br />

della Chiesa locale o particolare episcopale (Concilio Vaticano II, CD 11; cfr. CIC, can. 369).<br />

Una Chiesa locale o particolare episcopale nasce lì ove a una parte del popolo di Dio, quale forma<br />

autonoma della comunione ecclesiale, viene assegnato il ministero di un vescovo quale principio e<br />

fondamento visibile della sua unità. Da un lato il vescovo governa (assieme al suo presbiterio) que-<br />

sta Chiesa locale come pastore ordinario e diretto, la rappresenta e agisce giuridicamente in suo no-<br />

me. Dall’altro lato però, in qualità di membro del collegio episcopale, egli rappresenta di fronte ai<br />

suoi fedeli la Chiesa universa, che attraverso la mediazione del vescovo diventa presente nei suoi<br />

atti fondamentali nella Chiesa locale o particolare. Il vescovo diventa così teologicamente e giuridi-<br />

camente il punto di collegamento fra la Chiesa particolare e la Chiesa universa.<br />

(II) La peculiarità della Chiesa locale/Chiesa particolare diocesana<br />

La Chiesa locale episcopale è composta da molte parrocchie, comunità e gruppi. Essi vengono rag-<br />

gruppati nell’unità della Chiesa locale, amministrativamente mediante le istituzioni diocesane cen-<br />

trali, e rappresentativamente mediante il collegio presbiterale e soprattutto mediante il vescovo.<br />

La peculiarità della Chiesa locale o particolare è perciò, da un lato, la peculiarità dell’ufficio epi-<br />

scopale. Questa a sua volta consiste nel fatto che i vescovi compiono i tre atti fondamentali della<br />

Chiesa (predicazione, culto e comunione fraterna), che sono presenti in tutte le forme fondamentali<br />

di Chiesa, o (nel linguaggio del concilio) esercitano i tre uffici di Cristo (ufficio profetico, sacerdo-<br />

tale, pastorale, che devono essere esercitati da tutti), «quali successori degli apostoli» (LG 24), cioè<br />

in rappresentanza di Cristo e della Chiesa. In virtù infatti della missione divina e dell’incarico eccle-<br />

389


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

siale, il vescovo continua nella sua persona, nel modo del segno e della testimonianza, il ministero<br />

apostolico per il mondo (cfr. LG 18-21.24-27).<br />

Ove questa forma specifica del ministero ecclesiale (rappresentazione del ministero apostolico) non<br />

viene esercitata dalla Chiesa particolare, cioè dal vescovo, essa scompare per la Chiesa nel suo<br />

complesso, perché non è sostituibile su altri piani.<br />

Dall’altro lato la Chiesa locale ha anche una sua struttura carismatica, che l’ufficio episcopale non<br />

può sostituire o abolire. Rientra piuttosto nel compito dell’ufficio episcopale non solo controllare<br />

questi servizi; iniziative, doni e movimenti ecclesiali locali, bensì anche favorirli, appoggiarli e co-<br />

ordinarli, anzi far addirittura loro spazio limitando il proprio raggio di azione, affinché essi possano<br />

contribuire all’edificazione di tutta la Chiesa locale.<br />

L’ufficio episcopale deriva il proprio compito e la propria autorità particolare dal fatto di continuare<br />

il ministero dell’apostolo, in quanto rappresenta, nel proprio modo di agire nel tempo della Chiesa,<br />

Cristo e la Chiesa. Grazie alla missione e alla potestà loro conferita con il sacramento dell’ordine i<br />

vescovi sono perciò i presidenti della liturgia muniti dell’autorità e potestà di Cristo e quindi pastori<br />

e maestri, che devono testimoniare in maniera vincolante la fede autentica della Chiesa (cfr. LG 24-<br />

27). Tale rappresentanza ufficiale della Chiesa raggiunge però il suo scopo solo se far posto anche<br />

all’azione dello Spirito Santo nei molteplici carismi della comunità ecclesiale.<br />

e) La Chiesa come “Ecclesia universa 40 ”<br />

(I) Organi della Chiesa universale: papato e collegio episcopale<br />

La Chiesa universale (nel senso di universa) rappresenta una forma fondamentale specifica e inso-<br />

stituibile di Chiesa, perché la cattolicità e l’unità sono proprietà essenziali della Chiesa e perché la<br />

rivendicazione universale, avanzata dal vangelo, e la pienezza della rivelazione apparsa in Gesù<br />

Cristo possono essere udite e accettate nel modo giusto solo dalla totalità del mondo.<br />

Ogni Chiesa particolare e Chiesa nazionale corre il pericolo di assolutizzarsi e di identificare le pro-<br />

prie esperienze religiose con il vangelo, qualora non viva in continuo scambio con le altre Chiese<br />

particolari. Sotto questo aspetto la Chiesa universale è certamente lo scambio fra le Chiese partico-<br />

lari. Tale scambio deve avvenire a tutti i livelli delle Chiese locali e particolari. Ma l’ecclesialità u-<br />

40 Il Concilio Vaticano II utilizza due diverse espressioni per indicare ciò che noi intendiamo con “chiesa universale”:<br />

ecclesia universalis e ecclesia universa. Mentre la prima espressione designa tanto un soggetto chiesa localizzato quanto<br />

il soggetto chiesa ovunque diffuso e che può persino oltrepassare i confini della Chiesa istituita, visto che raccoglie tutti<br />

i giusti da Abele fino all’ultimo (LG 2), il secondo termine designa la chiesa intera, l’insieme di tutti i cristiani ed è quello<br />

di cui intendiamo parlare nel nostro paragrafo.<br />

390


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

niversale, l’unità e l’identità della Chiesa non sono riducibili a questo scambio, bensì hanno biso-<br />

gno, a motivo della struttura carismatica e ministeriale della Chiesa, di propri organi.<br />

Al fine di assolvere questo compito dell’assicurazione dell’identità e della conservazione dell’unità<br />

sul piano della Chiesa universa, nel corso della storia della Chiesa e attraverso un processo secolare<br />

furono istituiti degli organi che erano in grado di coordinare le Chiese particolari e di rappresentare<br />

e delimitare la Chiesa all’interno e all’esterno come una sola entità: si tratta del papato e delle as-<br />

semblee episcopali. Tale processo è però nel medesimo tempo una delle cause e dei sintomi essen-<br />

ziali delle grandi divisioni della Chiesa verificatesi nei secc. XI e XVI. La questione relativa al mo-<br />

do di garantire l’identità e l’unità della Chiesa universale e della fede rappresenta perciò fino ad og-<br />

gi uno dei punti più difficili del dialogo ecumenico.<br />

Secondo l’autocomprensione della Chiesa cattolica, nel corso della storia la Chiesa diviene sempre<br />

più consapevole di quel che essa è nella sua essenza: e cioè il soggetto della trasmissione della fede<br />

messo in moto, mediante la prima testimonianza degli apostoli, dall’autotestimonianza di Gesù e a-<br />

nimato dallo Spirito di Cristo. Nel corso della storia la Chiesa si scopre sempre più come il soggetto<br />

di quella mediazione umano-storica, attraverso cui l’autocomunicazione di Dio si mantiene presente<br />

nella storia. Tale scoperta storica di sé della Chiesa come di un soggetto operante unitariamente non<br />

si verifica solo in seguito all’autocomunicazione di Dio, che libera la libertà creaturale e la mette in<br />

grado di rispondere con amore (appunto come soggettività universale), ma si verifica concretamente<br />

anche all’interno del gioco combinato di determinati contesti culturali, sociali e politici.<br />

Così dalla prospettiva cattolica, nel primato giurisdizionale e magisteriale del papa, proclamato nel<br />

Concilio Vaticano I, si è espressa la coscienza esplicita del potere decisionale della Chiesa e quindi<br />

di una sua soggettività storicamente operante in un’unica persona. Dopo che questo processo di ap-<br />

prendimento, caratterizzante lo sviluppo occidentale della Chiesa, fu giunto in tal modo a compi-<br />

mento, nel Concilio Vaticano II fu possibile - tenendo presente il Vaticano I, ma riprendendo nel<br />

medesimo tempo le tradizioni della Chiesa orientale e le tradizioni sinodali e grazie a una loro rin-<br />

novata attualizzazione - estendere di nuovo più decisamente a tutta la Chiesa la coscienza del suo<br />

carattere di soggetto. Chiesa come soggetto significa qui: il popolo di Dio, che va insieme incontro<br />

al Signore; la comunione delle Chiese locali inculturate che, in un intenso scambio fra di loro, di-<br />

ventano un soggetto chiaramente specifico e tuttavia aperto della trasmissione della fede cristiana; e<br />

il complesso di quei segni e di quelle testimonianze, che si impegnano solidalmente affinché tutti<br />

diventino soggetto e rinnovano così il loro carattere di segno e di testimonianza.<br />

391


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

(II) Il servizio all’unità della Chiesa<br />

Un’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica ecumenica cercherà di aprire anzitutto prudentemente, alla luce di tutta la<br />

tradizione cattolica, gli ordinamenti oggi di fatto in vigore. Il ministero ecclesiale universale del pa-<br />

pa e del collegio episcopale potrebbe pertanto essere così interpretato in campo cattolico:<br />

(1) In una particolare situazione di emergenza della Chiesa universale il primato giurisdizionale e<br />

magisteriale del papa può essere visto come una specie di legge straordinaria: quando l’unità e<br />

l’identità necessaria della fede ecclesiale è così minacciata in questioni fondamentali della fede e<br />

della vita e anche l’unità e l’identità della stessa Chiesa sono di conseguenza così minacciate da<br />

rendere impossibile il raggiungimento di un consenso per altra via, allora esiste la possibilità di una<br />

decisione magisteriale definitiva del papa, decisione contro cui non è più possibile canonicamente<br />

appellarsi e che non ha bisogno di essere giuridicamente approvata da alcun altro organo.<br />

(2) Che si tratti di situazioni eccezionali di emergenza o di decisioni importanti nel campo della fe-<br />

de, che interessano tutta la Chiesa e sono prese in punti nodali dello sviluppo ecclesiale, in ambedue<br />

i casi, quando il papa prende una decisione definitiva ex cathedra o il collegio dei vescovi prende<br />

una decisione definitiva in un concilio ecumenico in materia di fede, oppure il collegio dei vescovi<br />

predica concordemente e in maniera definitivamente vincolante (senza radunarsi in un concilio) una<br />

determinata dottrina, sia il papa che il collegio episcopale fanno ciò in virtù della loro potestà e au-<br />

torità suprema, cioè in nome di Cristo e in nome della Chiesa, e godono perciò dell’assistenza dello<br />

Spirito Santo che, secondo la promessa di Cristo, conserverà la Chiesa nell’unità e nella verità della<br />

fede. Tali decisioni dottrinali sono perciò «infallibili», «definitive», «irreformabili» ed «esenti da er-<br />

rore» ed esigono l’obbedienza della fede da parte dei fedeli.<br />

Questo non significa però che esse sarebbero ottimali, che non avrebbero più bisogno di alcuna ulte-<br />

riore riflessione, completamento, spiegazione e miglioramento, o che esprimerebbero addirittura in<br />

maniera esauriente la verità di Dio. L’«infallibilità» significa solo, primo, che colui che dà il proprio<br />

assenso a tali decisioni in materia di fede può star certo di non essere sviato dalla verità di Dio, ben-<br />

sì di essere attendibilmente indirizzato sulla via di tale verità e, secondo, che colui che consapevol-<br />

mente, espressamente e pertinacemente afferma in pubblico in seno alla Chiesa il contrario di tali<br />

decisioni dottrinali deve seriamente temere di essersi separato dalla fede vincolante della Chiesa.<br />

Una simile decisione dottrinale infallibile presuppone la fede della Chiesa. Di conseguenza essa ri-<br />

mane legata alla precedente testimonianza della Sacra Scrittura e della tradizione vincolante della<br />

fede della Chiesa, nonché (nella misura in cui esiste) al consenso attuale della Chiesa. Il papa e il<br />

collegio episcopale sono perciò moralmente tenuti a impiegare tutti i mezzi adeguati dello studio,<br />

della riflessione e della consultazione per «apprendere» dapprima essi stessi la fede della Chiesa<br />

392


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

quale presupposto della loro decisione definitiva sulla retta comprensione di tale fede. Questo fati-<br />

coso processo di apprendimento e di formazione del consenso è stato possibile seguirlo in maniera<br />

particolarmente chiara nel corso del Concilio Vaticano II.<br />

(3) Nella situazione ecclesiale normale il fedele si trova di fronte all’insegnamento autentico, cioè<br />

vincolante ma non infallibile, del papa e dei vescovi. L’«ossequio religioso» dovuto al magistero au-<br />

tentico contiene anzitutto un momento di fiducia: di regola il credente può confidare nel magistero<br />

autentico della Chiesa. Chi segue tali indicazioni può di regola esser sicuro di non essere sviato dal-<br />

la verità di Dio, ma di essere condotto verso di essa. Accanto a questo è presente anche un momento<br />

di ammonimento: chi consapevolmente non segue le indicazioni del magistero rischia di sbagliare, e<br />

chi insegna il contrario si è già di regola separato dalla comprensione della fede della Chiesa.<br />

Sia nel concetto di ossequio religioso (che non è l’obbedienza della fede) che in quello di magistero<br />

autentico (ma non infallibile) è contenuta un’autolimitazione: il dissenso è possibile. Questa possi-<br />

bilità del dissenso è teologicamente fondata soprattutto sul carattere di comunione della Chiesa, sul-<br />

la sua struttura carismatica, sulla sua storicità, provvisorietà e peccaminosità. All’interno di una ec-<br />

clesiologia cattolica un dissenso del genere può legittimarsi solo come eccezione. Il consenso con il<br />

magistero è la regola. Un dissenso legittimo non presuppone perciò solo l’esistenza di motivi ogget-<br />

tivi chiari (richiamo alla fede della Chiesa o all’esigenza di una situazione particolare), bensì anche<br />

un comportamento «consensuale», il che significa che si esprime il proprio parere contrario solo per<br />

servire espressamente l’autenticità e la comunione della Chiesa. Un comportamento del genere do-<br />

vrebbe perciò includere perlomeno una seria disponibilità ad apprendere, apertura e disponibilità a<br />

rivedere la propria posizione, nonché il riconoscimento rispettoso della funzione, della responsabili-<br />

tà e dell’autorità del magistero.<br />

L’autorità delle decisioni del magistero ecclesiale non dipende dalla forza degli argomenti teologici<br />

addotti, ma poggia sulla potestà specifica della sua funzione di rappresentare Cristo e la Chiesa. Nel<br />

loro nucleo le enunciazioni magisteriali non sono perciò argomenti teologici, ma giudizi pratici. Es-<br />

se non riguardano la verità delle affermazioni relative alla fede in astratto, bensì nella loro impor-<br />

tanza e funzione ecclesiale. La decisione, il giudizio del magistero su affermazioni attinenti la fede<br />

scaturiscono sempre dalla prospettiva pastorale, dalla considerazione se una determinata idea teolo-<br />

gica serve o meno alla salvezza dei fedeli, all’unità e all’identità della Chiesa e all’efficacia e auten-<br />

ticità della predicazione ecclesiale. Dato che la conservazione dell’unità e identità della Chiesa è<br />

uno dei compiti principali del ministero ecclesiale, non stupisce che le decisioni magisteriali quali<br />

giudizi prudenziali presentino un carattere fondamentalmente “conservatore”, adottino cioè di rego-<br />

la la soluzione più sicura e si schierino in favore di norme già in vigore e di autori riconosciuti.<br />

393


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

L’infallibilità del dogma e l’obbedienza della fede del credente significano che colui che accetta con<br />

fede tali decisioni può star sicuro di non essere allontanato dalla verità di Dio, ma di essere attendi-<br />

bilmente instradato verso tale verità. L’insegnamento ecclesiale autentico del papa e dei vescovi e<br />

l’ossequio religioso del fedele significano che colui che accetta tale insegnamento può di regola es-<br />

ser certo di non essere allontanato dalla verità di Dio, bensì di essere guidato verso tale verità.<br />

Ma un’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica ecumenica deve anche mirare a un ripensamento della figura del papa-<br />

to secondo le indicazioni della enciclica Ut unum sint (25 maggio 1995) di Giovanni Paolo II, in cui<br />

ai nn. 88-96 si invoca la collaborazione di tutti per giungere ad individuare «una forma di esercizio<br />

del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una<br />

situazione nuova» (n. 95), affinché si possa cercare «evidentemente insieme, le forme nelle quali<br />

questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (ibid.).<br />

(1) Il papato, se vuole diventare ecumenicamente efficace, deve divenire più chiaramente di prima<br />

l’espressione della reale cattolicità della Chiesa, così come essa è stata riscoperta nel Vaticano II. Da<br />

un lato questo significherebbe che la struttura primaziale della Chiesa va più coerentemente inqua-<br />

drata in una struttura sinodale (senza rinunciare alla propria relativa autonomia) e che, abbandonata<br />

l’idea di un’unità uniformistica e monolitica, trova più spazio nella teoria e nella prassi alla conci-<br />

liarità (sinodalità) e alla ecclesialità locale della Chiesa. Dall’altro lato questo significherebbe che il<br />

primato del papa viene più chiaramente inquadrato nel primato del vangelo e ad esso sottoposto. Di<br />

conseguenza bisognerebbe definire in maniera più chiara anche i limiti della giurisdizione papale.<br />

Similmente bisognerebbe evitare la tentazione di esercitare un potere centralistico e totalitario.<br />

(2) Il papato dovrebbe diventare più chiaramente l’espressione dell’ecumenicità della Chiesa. Perciò<br />

il papa dovrebbe presentarsi non solo come il portavoce dell’eredità cristiana comune a tutte le<br />

Chiese e operare moralmente in rappresentanza di tutte le Chiese come il difensore della libertà e<br />

dei diritti dell’uomo, ma concepire il proprio ministero in favore dell’unità anche come un servizio<br />

in favore dell’unità di tutti i cristiani e di tutte le Chiese. In effetti Roma è l’unica sede episcopale<br />

che rivendica un primato universale, che ha esercitato e continua ad esercitare un tale ministero.<br />

Un simile servizio petrino «cattolicamente» ed «ecumenicamente» inteso è a lungo andare indispen-<br />

sabile per una cristianità riconciliata. Infatti, come l’ufficio apostolico ha bisogno di un segno e di<br />

una testimonianza personale visibile sul piano della Chiesa episcopale locale e anche sul piano della<br />

comunità locale, così ne ha anche bisogno a livello di Chiesa universale. Se tale funzione viene qui<br />

a mancare, non può essere sostituita su alcun altro piano. Pertanto l’identità e l’unità della Chiesa<br />

dipendono per una parte essenziale anche dall’adeguato esercizio di questa funzione.<br />

394


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

3.4. La chiesa è una, santa, cattolica e apostolica<br />

3.4.1. Le proprietà essenziali della chiesa nel simbolo di fede<br />

a) Il significato dell’inclusione dell’articolo sulla chiesa negli antichi simboli di fede<br />

Sappiamo che già in tempo antichissimo nel terzo articolo della confessione di fede battesimale era<br />

presente pure il credere «la chiesa» come sacramento dello Spirito, come elemento dell’intera eco-<br />

nomia della salvezza. Noi troviamo la menzione della Chiesa nel credo battesimale in uso a Roma<br />

attorno alla fine del secondo secolo. Sarebbe utile richiamare alla mente quel che conosciamo circa<br />

lo sviluppo delle primitive professioni di fede cristiana.<br />

La loro formulazione ha origine dalla professione di fede che i catecumeni dovevano fare durante il<br />

loro battesimo. Prima di ogni immersione al candidato era chiesto di dichiarare la sua fede: la prima<br />

volta in Dio Padre, la seconda nel Signore Gesù Cristo, la terza nello Spirito Santo. Le più antiche<br />

professioni di fede battesimali che abbiamo, sono in forma di tre domande alle quali il battezzato<br />

doveva rispondere: «Credo». Sembra pressoché certo che nella forma più primitiva, la terza doman-<br />

da chiedeva semplicemente: «Credi nello Spirito Santo?» Ma sappiamo dalla Tradizione apostolica<br />

di Ippolito, scritta all’incirca nel 215, che dalla fine del secondo secolo la domanda posta a ciascun<br />

battezzando nella Chiesa di Roma era: «Credi nello Spirito Santo nella santa Chiesa?» 1 .<br />

Dal III sec. in poi ogni simbolo battesimale a noi giunto sia nella formulazione più antica di doman-<br />

da e risposta, sia nella più tardiva forma dichiarativa come si presenta nel cosiddetto «Simbolo degli<br />

Apostoli», menziona la «santa Chiesa» dopo lo Spirito Santo (DzH 1, 10-11). In effetti la Chiesa<br />

non appare mai in un simbolo battesimale senza l’aggettivo «santa»; il Simbolo degli Apostoli ag-<br />

giunge «cattolica» (DzH 19ss) e fu il simbolo del Concilio di Costantinopoli nel 381 (DzH 150) a<br />

fissare definitivamente in quattro gli attributi che, nel credo battesimale di qualche Chiesa cristiana<br />

orientale, erano menzionati da tempo (i quattro attributi si trovano già nel Simbolo di S. Epifanio —<br />

DzH 42 —, il quale a sua volta avrebbe utilizzato quello di Cirillo di Gerusalemme — DzH 41).<br />

Se ci si chiede cosa spinse la Chiesa del II secolo a cominciare a richiedere che i candidati al batte-<br />

simo professassero la loro fede nella «santa Chiesa», la risposta più probabile sarebbe quella sugge-<br />

rita da Kelly 2 . All’incirca in questo periodo — come sappiamo dagli scritti di S. Ireneo — gli eretici<br />

gnostici, che avevano posto le più serie minacce alla vera fede, disprezzando la gente che apparte-<br />

1 IPPOLITO, La tradizione apostolica, 21.<br />

2 J.N.D. KELLY, I simboli della fede antica. Nascita, evoluzione e uso del credo (Napoli: Dehoniane, 1987).<br />

395


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

neva alle Chiese su cui presiedevano i vescovi, si vantavano di possedere una conoscenza della rive-<br />

lazione più alta, più perfetta di quella insegnata dai vescovi. Perciò si radunavano nei loro incontri<br />

privati, avendo in spregio la “grande” Chiesa e i loro capi. Contro gli gnostici S. Ireneo insiste che<br />

solo nella santa Chiesa si può trovare lo Spirito Santo e ricevere i suoi doni. In un simile clima si<br />

capisce perché, a quanti desideravano ricevere il battesimo, veniva chiesto di professare la loro fede<br />

«nello Spirito Santo nella santa Chiesa».<br />

Questi quattro termini vogliono indicare quattro aspetti essenziali del «mistero» della chiesa; di con-<br />

seguenza chi vuole cercare di capire cosa sia la chiesa è costretto anche a chiedersi che cosa si in-<br />

tenda esprimere con la professione di fede nella Chiesa una, santa cattolica e apostolica.<br />

b) Valore ecumenico della professione di fede nella chiesa una, santa, cattolica e apostolica.<br />

Quasi tutte le chiese e comunità ecclesiali cristiane accettano il credo Niceno-Costantinopolitano<br />

come normativo per la loro professione di fede 3 e credono quindi che la chiesa è una, santa, cattolica<br />

(evidentemente non nel senso confessionale di «romana», ma di «universale»), e apostolica. Ci sono<br />

però ancora delle difficoltà che impediscono una comprensione comune di queste quattro proprietà.<br />

Tuttavia questo simbolo della fede, sebbene a volte inteso diversamente, costituisce un valido punto<br />

di partenza per il dialogo ecumenico; in particolare, la confessione di fede nella Chiesa «una» mani-<br />

festa con forza che la situazione di divisione è contraria alla natura della chiesa di Cristo.<br />

c) L’uso apologetico delle quattro proprietà: la «via notarum»<br />

La riflessione su queste proprietà ha fatto il suo ingresso in <strong>ecclesiologia</strong> secondo un uso apologeti-<br />

co durante le dispute con gli hussiti (G. di Ragusa) e soprattutto con la Riforma, quando diverse<br />

comunità rivendicavano di essere la «vera» chiesa di Cristo ad esclusione delle altre. È sintomatico<br />

il fatto che, mentre nel Medioevo si parlava di «conditiones» 4 più che di «notae», nel XVI sec. tro-<br />

viamo qualitates, indoles, ratio, praerogativa, più spesso proprietates (cfr. il Catechismo romano),<br />

talvolta presi come equivalenti di notae. Sono poi questi due ultimi i termini che hanno prevalso.<br />

3 Per questo la proposta di un percorso di unità possibile fra le chiese ipotizzato da Fries e Rahner nello loro studio Unione<br />

delle chiese possibilità reale (Brescia: Morcelliana, 1986; ed. or. 1985) 23, pone come condizione prima di possibilità<br />

della futura Chiesa una l’adesione delle singole Chiese alle verità fondamentali come sono enunciate nella Sacra<br />

Scrittura, nel credo apostolico e in quelli di Nicea e Costantinopoli. In una simile direzione si è mossa pure la Commissione<br />

“Fede e Costituzione” del CEC, la quale nel 1990 ha pubblicato una spiegazione comune del Simbolo Niceno-<br />

Costantinopolitano: Confessing the One Faith. An Ecumenical Explication of the Apostolic Faith as it is Confessed in<br />

the Nicene-Constantinopolitan Creed (381) (Geneva: WCC Publications, 1991).<br />

4 Conditio nel senso di stato o qualità che fonda, per una data realtà, la verità di un predicato che le si attribuisce:<br />

Y. CONGAR, “Proprietà essenziali della Chiesa”, in Mysterium Salutis VII, 439.<br />

396


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

La necessità di criticare i segni distintivi rivendicati dai protestanti, poi la differenza di argomenta-<br />

zione secondo che si avevano di mira i protestanti o i libertini, porta alla distinzione tra segni, pro-<br />

prietà e note. Le note devono soddisfare a quattro condizioni: 1) essere più facilmente riconoscibili<br />

della Chiesa stessa (notiores ecclesia); 2) essere facilmente accessibili a tutti, anche alle persone<br />

semplici (obviae omnibus etiam rudioribus); 3) convenire soltanto alla vera Chiesa (propriae); 4)<br />

non essere separabili da essa (inseparabiles ab ecclesia). Le proprietà sono proprie alla Chiesa, ma<br />

non possono servire a farla riconoscere come l’istituzione divina a coloro che la vedono dal-<br />

l’esterno. In generale si enumerano fra queste proprietà il fatto di essere una società ineguale o ge-<br />

rarchica, la visibilità, la necessità (per la salvezza), la piena indipendenza di vita (“società perfetta”),<br />

l’indefettibilità, l’infallibilità, poi le nostre quattro note che sono anzitutto delle proprietà. Le note in<br />

effetti non sono che delle proprietà capaci di notificare o fare riconoscere la Chiesa.<br />

Per rendere la prova più stringata si limita anche il numero dei segni distintivi. Inizialmente questo<br />

oscilla fra i quattro e i cento, ma poi poco a poco si impone il numero quattro sulla scorta della pro-<br />

fessione di fede. Ma poiché non è più possibile giustificarlo richiamandosi alla professione di fede,<br />

si cerca di dedurlo come una necessità apriorica o per mezzo dello schema aristotelico della causali-<br />

tà o dal concetto di una società religiosa istituita da Dio o anche storicamente.<br />

Il metodo seguito presenta la forma di un sillogismo:<br />

- Maggiore: Cristo ha munito la sua Chiesa di quattro segni distintivi (quaestio iuris);<br />

- Minore: tali segni distintivi si ritrovano solo nella Chiesa cattolica (quaestio facti);<br />

- Conclusione: di conseguenza la Chiesa cattolica è l’unica vera Chiesa di Cristo.<br />

La maggiore si dimostra storicamente in base al Nuovo Testamento; la minore si prova empirica-<br />

mente, o in termini positivi mostrando che le quattro caratteristiche sono realizzate nella chiesa cat-<br />

tolica, oppure in termini negativi mostrando che esse mancano nelle altre chiese, o infine in termini<br />

comparativi confrontando le chiese fra loro.<br />

Se questa è l’impostazione della “via notarum”, si può capire perché nel 1937 Gustave Thils in uno<br />

studio storico sulle note conclude affermando che la «via notarum» è una via complessa, confusa,<br />

difettosa, un argomento inopportuno, o attualmente inefficace e in ogni caso superfluo 5 .<br />

5 G. THILS, Les notes de l’Église dans l’Apologetique Catholique depuis la Reforme (Gembloux 1937) 343ss. Si veda la<br />

discussione di questa problematica in H.J. POTTMEYER, “La questione della vera Chiesa”, in Corso di teologia fondamentale<br />

3. Trattato sulla Chiesa (Brescia: Queriniana, 1990) 243-278; M. SANCHEZ MONGE, “Las notas de la Iglesia en<br />

la eclesiología actual”, in F. CHICA, S. PANIZZOLO, H. WAGNER (edd.), Ecclesia tertii millenni advenientis. Omaggio al<br />

P. Angel Antón (Casale Monferrato: Piemme, 1997) 944-960.<br />

397


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

d) L’uso teologico delle quattro proprietà<br />

Il Vaticano II, presentando la chiesa come mistero e non più come motivo di credibilità (Vaticano I:<br />

DzH 3013), ha superato un’impostazione prevalentemente apologetica del trattato sulla Chiesa, con-<br />

sentendo il recupero della qualità dogmatica anche delle quattro proprietà professate nel Simbolo.<br />

Queste quattro proprietà si possono così intendere come le “condizioni” della comunione redentrice<br />

che, nonostante la condizione peccaminosa degli uomini, lo Spirito santo continua a produrre in<br />

mezzo ai suoi fedeli. In quanto doni di Dio alla sua chiesa, noi le confessiamo nel credo.<br />

«Se le proprietà fanno conoscere l’essenza della Chiesa con la quale sono realmente identiche, rivelano<br />

anche il rapporto intimo che la Chiesa intrattiene col mistero di Cristo. In verità esiste tra le<br />

due cose una continuità: la parola stessa “mistero”, nell’uso che ne fa S. Paolo, ingloba l’una e<br />

l’altra. È tutto il mistero del Cristo a essere così riflesso nella Chiesa, sua Sposa e suo Corpo. Ma<br />

si potrebbero utilmente considerare le nostre quattro proprietà come l’espressione, la conseguenza<br />

e il frutto dell’unica mediazione del Cristo nel senso in cui ne parla 1Tm 2,1-6a: unità perché esiste<br />

un solo mediatore; santità perché egli ci ristabilisce e introduce nella comunione col Dio santo;<br />

cattolicità perché è il sacramento efficace dell’amore salvifico di Dio per gli uomini e per tutto<br />

l’uomo (1Tm 2,4); apostolicità perché tutto procede da Cristo Gesù, “uomo che si è dato in riscatto<br />

per noi”. Veramente nella Chiesa si realizza e si svela il piano di benevolenza di Dio di cui parla<br />

Ef 1-3; Rom 16,25-27» 6 .<br />

Per questa ragione G. Thils, ha suggerito di non restringere più la riflessione sulle note alla teologia<br />

fondamentale, ma di aprirla alla teologia dogmatica con un’attenzione alle prospettive aperte<br />

dall’ecumenismo: in tal modo non si dovrebbe più parlare di chiesa vera e chiese false, bensì di<br />

«chiesa che verifica la totalità degli elementi costitutivi essenziali richiesti dalla Rivelazione» e<br />

«chiese che verificano più o meno queste esigenze». In tal modo egli può concludere che «le chiese<br />

cristiane stanno tutte in comunione reale, però questa comunione non è piena» 7 .<br />

e) Aspetti delle quattro proprietà: un dono ma anche un compito<br />

Nei testi del Vaticano II si insegna che esse sono: 1) proprietà indefettibili della chiesa (UR 4; LG<br />

39; LG 13; LG 20) — in tal senso sono un dono che Dio fa alla Chiesa e fanno quindi parte<br />

dell’oggetto della nostra confessione di fede; 2) d’altra parte, nella Chiesa pellegrinante esse sono<br />

solo imperfettamente realizzate (UR 1; LG 48; UR 4) — perciò costituiscono anche un compito per<br />

la Chiesa stessa e quindi una prova per la nostra fede. Con Moltmann perciò affermiamo che:<br />

«1. Gli enunciati che si fanno sulla chiesa sono una componente essenziale della confessione di fe-<br />

de. Sono prodotti dalla fede, e al di fuori di un contesto di fede perdono il loro senso. Sono parti in-<br />

6 Y. CONGAR, “Proprietà essenziali della Chiesa”, art. cit., 446-447.<br />

7 G. THILS, “Notes de l’Église”, in Catholicisme, vol. IX (1982) col. 1386.1388.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

tegranti della professione di fede nel Dio uno e trino e non possono venire isolati da questo contesto.<br />

Li ritroviamo nell’articolo di fede nello Spirito santo e risultano giustificati e comprensibili soltanto<br />

nel quadro dell’opera creatrice dello Spirito. Le cosiddette “note” della chiesa si distinguono dunque<br />

dalle note che caratterizzano un qualsiasi altro oggetto di esperienza. Si possono percepire come se-<br />

gno soltanto a livello di una conoscenza partecipe. Appaiono chiari soltanto quando la chiesa viene<br />

inquadrata nel contesto della storia di Dio, nello stesso contesto in cui si colloca anche la professio-<br />

ne di fede nel Dio uno e trino. Non sono soltanto dei segni-di-conoscenza ma anche ed allo stesso<br />

tempo segni-di-confessione. Non sono proprietà di un oggetto in sé, ma proprietà che questo oggetto<br />

riceve da altri e lungo una storia. La chiesa riceve questi predicati dall’agire di Cristo, nell’opera di<br />

Cristo, per il regno futuro. Ma situati in questi ampi nessi, tali predicati diventano i segni indispen-<br />

sabili per il riconoscimento della vera chiesa, cioè per la chiesa nella verità di Dio.<br />

2. Se la chiesa ha la propria esistenza dall’agire di Cristo, allora anche le sue proprietà saranno in-<br />

nanzi tutto proprietà dell’agire di Cristo. La professione di fede nella chiesa “una, santa, cattolica e<br />

apostolica” è la confessione della signoria unificante, santificante, universale e mandante di Cristo.<br />

Si tratta dunque di proposizioni di fede. L’unità della chiesa non è, in primo lungo, l’unità dei suoi<br />

membri bensì l’unità del Cristo che su loro agisce in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Cristo riunisce la<br />

propria comunità. Per cui questa comunità è una a motivo del suo agire unificante. Il risultato di<br />

questo agire è l’unità dei credenti in Cristo (Gal 3,28) e la loro unità nello Spirito (Ef 4,1ss). La san-<br />

tità della chiesa non è, in primo luogo, la santità dei suoi membri o delle cerimonie cultuali, bensì la<br />

santità di quel Cristo che agisce sui peccatori. Cristo santifica la propria comunità, giustificandola.<br />

Per cui la santità della comunità sta nel suo agire santificante. Il risultato di questo agire è la “comu-<br />

nità dei santi”. La cattolicità della chiesa non consiste, in primo luogo, nella sua dilatazione nello<br />

spazio o nella sua apertura di fondo alla realtà del mondo, bensì nella signoria sconfinata di Cristo,<br />

al quale “è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. C’è chiesa dove e fin dove Cristo esercita il<br />

proprio dominio. La chiesa ottiene la propria apertura al mondo nell’ampiezza della signoria di Cri-<br />

sto. Essa è cattolica in base alla cattolicità di Cristo che le è stata promessa. Anche la sua apostolici-<br />

tà dev’essere inquadrata nella missione di Cristo e nell’invio dello Spirito. Fondata sullo Spirito, per<br />

mezzo degli apostoli di Cristo, essa avrà come compito l’apostolato nel mondo. In quanto chiesa di<br />

Cristo, la chiesa è necessariamente una, santa, cattolica e apostolica.<br />

3. Se la chiesa deriva la propria esistenza dalla missione messianica di Cristo e dal dono escatologi-<br />

co dello Spirito, allora le sue proprietà saranno anche dei predicati messianici. Si tratterà allora di<br />

proposizioni di speranza. L’unità della comunità è un “predicato temporale-salvifico”, poiché<br />

nell’Antico Testamento il ripristino dell’unità del popolo di Dio e dell’unità del genere umano sono<br />

399


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

promesse profetiche. Il Messia degli ultimi tempi “radunerà” coloro che sono dispersi, unificherà<br />

coloro che sono divisi e porterà il regno della pace. Nella sua qualità di Messia del tempo della sal-<br />

vezza, Cristo unisce e unifica giudei e pagani, greci e barbari, signori e servi, uomini e donne, nel<br />

nuovo popolo, per l’unico regno. Secondo la promessa profetica, la santità rientra nella natura pro-<br />

fonda della gloria futura di Dio, la quale si estenderà su tutta la terra. Il “santo d’Israele” redimerà il<br />

suo popolo. Nel qualificare “santa” la comunità, il Nuovo Testamento intende dire che essa è diven-<br />

tata la nuova creazione in Cristo e quindi resa partecipe della santità di quella nuova creazione che il<br />

Dio santo opera mediante il suo Spirito. La chiesa è santa in quanto è “la comunità degli ultimi tem-<br />

pi”. Come il vangelo e l’evangelizzazione, così anche l’apostolato della chiesa e gli apostoli sono<br />

inscindibilmente congiunti con gli inizi dell’era messianica. Infine, la chiesa è cattolica in quanto<br />

partecipa della cattolicità del regno futuro. Nella sua apertura al regno di Dio essa è aperta al mon-<br />

do, e nella sua attività missionaria e nelle sue preghiere d’intercessione si estende fin dove s’estende<br />

la realtà mondana. In quanto predicati profetici della chiesa, queste quattro proprietà vanno dunque<br />

comprese entro la prospettiva del regno venturo, del regno per il quale essa esiste, che traduce nei<br />

propri lineamenti ed esprime attraverso la sua testimonianza.<br />

4. Se le proprietà della chiesa sono enunciati di fede e di speranza, allora conducono anche a propo-<br />

sizioni di azione. La chiesa è una in Cristo, quindi dev’essere una. Coloro che ricevono la propria<br />

unità in Cristo devono tendere all’unità. L’unico popolo dell’unico regno deve creare unità fra gli<br />

uomini. La chiesa è santa in Cristo, per cui i suoi membri dovranno combattere il peccato e santifi-<br />

care la loro vita mediante la giustizia. Essa è santificata dallo Spirito, per cui i suoi membri dovran-<br />

no santificare, nell’obbedienza e in vista della nuova creazione, tutte le cose. Essa è aperta al mondo<br />

in Cristo, per cui deve diventare cattolica e testimoniare ovunque il regno universale. Questa chiesa<br />

una, in quanto chiesa dello Spirito, è anche unità unificante. La chiesa santa è la comunità santifi-<br />

cante. La chiesa cattolica è portatrice di pace e quindi comunità nel senso più ampio del termine. La<br />

chiesa apostolica è la comunità che vive nel mondo portando la liberazione del vangelo.<br />

Stando a queste proprietà, l’essenza viene data, promessa ed affidata alla chiesa. Dalla fede, spe-<br />

ranza e azione si delinea nel mondo la figura che la chiesa assume nell’unità, santità, cattolicità ed<br />

apostolicità. La teologia non potrà quindi riproporre una “chiesa visibile”, una “chiesa del futuro”<br />

od una “chiesa di pure istanze”. Mediante la fede, la speranza e l’azione, la chiesa vive nell’una,<br />

santa, cattolica ed apostolica signoria di Cristo» 8 .<br />

8 J. MOLTMANN, La Chiesa nella forza dello Spirito (Brescia: Queriniana, 1976) 435-438.<br />

400


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

3.4.2. Credo la chiesa una<br />

Seguendo l’ordine presente nel Simbolo, anche noi consideriamo come prima tra le sue proprietà<br />

l’unità della Chiesa. La Chiesa è una. La tradizione teologica intende questa affermazione nel dupli-<br />

ce senso dell’unicità della Chiesa e della sua interiore compattezza. Che la Chiesa sia una suppone<br />

sempre ambedue queste affermazioni 9 .<br />

a) L’unità della chiesa e il fatto della divisione<br />

È un doloroso dato di fatto che nell’una e unica Chiesa di Cristo i cristiani sono divisi tra loro in di-<br />

verse confessioni cristiane. La storia della Chiesa ha conosciuto molto presto persone ed eventi che<br />

hanno vulnerato il mistero della sua unità.<br />

«Da Cristo Signore la chiesa infatti è stata fondata una e unica, eppure molte comunioni cristiane<br />

propongono se stesse agli uomini come la vera eredità di Gesù Cristo; tutti si professano di essere<br />

discepoli del Signore, ma la pensano diversamente e camminano per vie diverse, come se Cristo<br />

stesso fosse diviso. Tale divisione contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ed è di scandalo<br />

al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo a ogni creatura» (UR 1).<br />

Già il NT porta il segno delle tensioni all’interno della comunità dei discepoli di Gesù fra la ecclesia<br />

ex circumcisione e la ecclesia ex gentibus. Sono poi giunte sino ai nostri giorni le gravi lacerazioni<br />

fra i cristiani causate dalle grandi controversie cristologiche del IV secolo. Nello stesso periodo la<br />

divisione dell’impero romano nelle due grandi aree dell’oriente e dell’occidente avviò per la Chiesa<br />

in quelle medesime regioni delle storie separate che, con l’emergere sempre più insistente di diffi-<br />

denze e incomprensioni, culmineranno nelle reciproche scomuniche del 1054 fra il Patriarcato di<br />

Costantinopoli e la Chiesa di Roma. In questo grande dramma della separazione fra i cristiani<br />

l’intreccio di fattori teologici e non teologici di ordine linguistico, politico, etnico e culturale formò<br />

un nodo intricato che ancora oggi non si è riusciti a sciogliere. L’impoverimento causato dalla sepa-<br />

razione tra oriente e occidente fu ancora di più aggravato dall’altra grande lacerazione avvenuta in<br />

occidente con la Riforma nel XVI secolo. Sono queste le fratture più evidenti avvenute fra i cristiani<br />

nel secondo millennio.<br />

9 Questa distinzione appare esplicita per la prima volta nella bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, del 18 novembre<br />

1302 (cfr. DzH 870-872). In realtà unità e unicità si richiamano a vicenda. Dal fatto che la Chiesa è unica segue che essa<br />

è indivisa. Se invece fosse o potesse essere divisa in se stessa la Chiesa non sarebbe o non potrebbe essere unica. L’unità<br />

della Chiesa, dunque, nega che ci siano più chiese volute da Cristo e afferma che la Chiesa esiste in se stessa come indivisa.<br />

Nei documenti del Vaticano II la Chiesa è chiamata «unica» in LG 8, UR 2.3.18, DH 1. L’espressione «una e unica»<br />

è presente in LG 23 e UR 1.3.4.24.<br />

401


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Alle varie scissioni che hanno ferito l’unità del corpo di Cristo la tradizione teologica ha dato il no-<br />

me di scisma e di eresia. Ambedue i concetti hanno conosciuto una certa evoluzione nel corso della<br />

storia. Attualmente il Codice di Diritto Canonico li inserisce tra i «delitti contro la religione e l’unità<br />

della Chiesa» 10 . Lo scisma di per sé, in quanto distinto dall’eresia, non comporta direttamente un er-<br />

rore circa la dottrina della fede bensì una rottura della comunione al livello della Chiesa in quanto<br />

struttura visibile. Così inteso esso è il formale rifiuto, da parte di un battezzato nella Chiesa cattoli-<br />

ca 11 , di sottomettersi al romano pontefice o anche il ripudio della comunione con i membri della<br />

Chiesa a lui soggetti. Per eresia, invece, s’intende oggettivamente una falsa dottrina e soggettiva-<br />

mente l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di qualche verità che si deve credere per<br />

fede divina e cattolica 12 , ovvero anche il dubbio ostinato su di esse.<br />

Fatta questa distinzione occorre precisare che lo scisma e l’eresia non sono, per così dire, due con-<br />

cetti «chimicamente puri». Con san Girolamo si dirà invece: «Nullum schisma non sibi aliquam con-<br />

fingit haeresim, ut recte ab Ecclesia recessisse videatur» 13 . Uno scisma comporta sempre un aspetto<br />

dottrinale e dall’eresia consegue sempre una rottura della comunione. Entrambi pongono il soggetto<br />

o i soggetti che se ne rendono colpevoli fuori della communio sanctorum 14 .<br />

Con il Concilio Vaticano II, però, distinguiamo fra coloro che sono stati all’origine dello scisma e<br />

dell’eresia e coloro che sono semplicemente nati in questi chiese o comunità ecclesiali:<br />

«In questa chiesa di Dio una e unica sono sorte fin dai primissimi tempi alcune scissioni, che<br />

l’apostolo riprova con gravi parole come degne di condanna; ma nei secoli successivi sono nati<br />

dissensi più ampi e comunità non piccole si sono staccate dalla piena comunione della chiesa cattolica,<br />

talora non senza colpa di uomini d’entrambe le parti. Quelli poi che ora nascono e sono istruiti<br />

nella fede di Cristo in tali comunità non possono essere accusati del peccato di separazione,<br />

e la chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto e amore. Coloro infatti che credono in<br />

Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbene<br />

10 CIC, cann. 751 e 1364.<br />

11 Per il CIC, can. 1l, questi «delitti» (che sono cosa diversa dal relativo peccato) concernono le persone battezzate nella<br />

Chiesa cattolica o quelle accolte successivamente in essa. Perché abbiano rilevanza giuridica è necessario che in questi<br />

atti concorrano gli elementi essenziali, oggettivi e soggettivi, determinati dalla legge canonica (manifestazione esterna,<br />

piena responsabilità, notorietà).<br />

12 Con questa qualificazione teologica s’intendono tutte quelle verità che sono contenute nella parola di Dio scritta o trasmessa<br />

e che tramite un giudizio solenne, o il suo magistero ordinario e universale, vengono proposte dalla Chiesa come<br />

divinamente rivelate, cfr. Concilio Vaticano I. Cost. de fide catholica, c. 3: DzH 3011. Si farà attenzione ai mutamenti<br />

che la nozione di eresia ha conosciuto nel tempo. Sino al concilio di Trento si intendeva come eretico anche chi con il<br />

suo agire arrecava seri danni alla vita della Chiesa. La stessa espressione «verità di fede» aveva un senso più ampio rispetto<br />

a quello odierno.<br />

13 In Epist. ad Tit. 3: PL 26, 598.<br />

14 Tradizionalmente si diceva che sotto il profilo morale sia l’eresia che lo scisma provocano la perdita della grazia santificante.<br />

Considerandoli come peccati, si diceva che l’eresia distrugge la virtù soprannaturale della fede e fa perdere la<br />

grazia santificante; il peccato di scisma distrugge la carità, ma di per sé lascia sussistere, per quanto in maniera informe,<br />

la fede e la speranza.<br />

402


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

imperfetta, con la chiesa cattolica. Non v’è dubbio che, per le divergenze che in vari modi esistono<br />

tra loro e la chiesa cattolica, sia nel campo della dottrina e talora anche della disciplina, sia circa la<br />

struttura della chiesa, impedimenti non pochi, e talvolta più gravi, si oppongono alla piena comunione<br />

ecclesiastica, al superamento dei quali tende appunto il movimento ecumenico. Nondimeno,<br />

giustificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo e perciò sono a ragione insigniti del<br />

nome di cristiani e dai figli della chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel<br />

Signore» (Unitatis Redintegratio 3).<br />

Il Concilio precisa, poi, che secondo la dottrina cattolica, nonostante queste divisioni, la chiesa di<br />

Cristo è creduta essere indefettibilmente una: infatti, quell’unità «dell’una e unica chiesa, che Cristo<br />

fin dall’inizio donò alla sua chiesa» noi la «crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta,<br />

nella chiesa cattolica e… speriamo crescerà ogni giorno più fino alla fine dei secoli» (UR 4).<br />

Il Concilio precisa, infine, anche come si può correttamente conciliare questa asserzione di fede con<br />

l’apparente smentita proveniente dall’esperienza delle divisioni confessionali. Esso rifugge dalla<br />

tentazione (protestante) di proiettare l’unità nell’escatologia o nella pura dimensione interiore della<br />

realtà ecclesiale e pure dalla tentazione (cattolica e ortodossa) di identificare la propria esperienza<br />

confessionale con l’una e unica chiesa di Cristo, negando la qualità ecclesiale alle altre denomina-<br />

zioni cristiane. Infatti, il Concilio insegna in LG 8 e in UR 4 che l’una e unica chiesa di Cristo «sus-<br />

siste nella» (e non «è» la) Chiesa cattolica e riconosce l’esistenza non solo di numerosi elementi ec-<br />

clesiali al di fuori del suo organismo visibile, bensì pure di vere e proprie chiese e comunità eccle-<br />

siali, anche se non possono rivendicare l’integrità istituzionale della confessione di fede, dei sacra-<br />

menti e dei ministeri gerarchici della chiesa cattolica. Si potrebbe dire in sintesi che la chiesa di Cri-<br />

sto sussiste «in modo conclusivo, ma non esclusivo» nella chiesa cattolica romana (G. Pattaro).<br />

b) Le dimensioni dell’unità<br />

La chiesa è, quindi, essenzialmente e in modo decisivo una sola chiesa, un solo popolo di Dio, un<br />

solo corpo di Cristo, una sola creatura dello Spirito. L’intero messaggio del NT lo testimonia 15 .<br />

L’unità della chiesa dipende dalla sua origine e dal suo fine: l’unità e unicità di Dio che si comunica<br />

a lei. Questa unità si riflette anzitutto in quella della natura umana, la quale deve essere già vista nel<br />

quadro dell’unità del mondo. Il corpo mistico che è la Chiesa rappresenta la forma che l’unità della<br />

natura umana prende quando riflette perfettamente l’unità di Dio per il fatto di essere stata assunta<br />

15 I testi classici del NT sull’unità della chiesa sono noti: 1Cor 1,10-30 (messa in guardia di fronte alle fazioni ed esortazione<br />

all’unità sull’unico fondamento, Cristo); 1Cor 12 (unità dello Spirito nella diversità dei doni, un corpo in molte<br />

membra); Gal 3,27s (tutti, senza distinzione di razza, di posizione e di sesso, sono uno in Cristo); Rom 12,3-8 (i molti<br />

sono un corpo in Cristo); At 2,42 (perseveranza nella dottrina degli apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e<br />

nella preghiera); 4,32 (la massa dei convertiti forma un cuore e un’anima sola); Gv 10,16 (un pastore e un gregge);<br />

17,20-26 (tutti siano uno come il Padre e il Figlio); Ef 4,1-6, che riassume tutto ciò che fonda l’unità della chiesa.<br />

403


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

dal suo Figlio: assunzione che, compiuta nel Cristo, è applicata alle persone dai sacramenti dell’in-<br />

corporazione che sono il battesimo e l’eucaristia. Questa unità deve crescere sino alla perfezione e-<br />

scatologica (cfr. 1Cor 15,28), di cui l’unità attuale è non solo promessa, caparra, ma già inizio del<br />

definitivo. A servizio di questa unità “spirituale” il Cristo ha “istituito” quei mezzi che sono la con-<br />

fessione di fede, i sacramenti e l’autorità pastorale che regola la vita sociale dei cristiani. Tra il mez-<br />

zo e la realtà di grazia che il Cristo vuole procurare o alimentare si dà omogeneità e continuità (as-<br />

sicurata dalla identità del principio, che avendo istituito o garantito il mezzo, opera per tal mezzo<br />

ciò di cui egli sarà per sempre la sorgente), ma anche uno scarto: nella condizione terrena l’ideale è<br />

di avere una unità sia a livello dei mezzi esterni sia a livello di grazia, ma il carattere dialettico della<br />

condizione terrena comporta anche la possibilità di una disgiunzione fra i due livelli, al punto che è<br />

possibile conformarsi ai mezzi senza entrare nella vita profonda di cui essi sono gli strumenti, come<br />

pure raggiungere quella vita ignorando i mezzi istituiti per procurarla. Per questo si è potuto svilup-<br />

pare un concetto solo giuridico o solo spirituale della Chiesa, isolando ciò che invece dovrebbe es-<br />

sere congiunto pur nella distinzione (cfr. LG 8).<br />

L’<strong>ecclesiologia</strong> ha tradizionalmente riassunto gli strumenti che esprimono e manifestano visibil-<br />

mente l’unità della Chiesa richiamandosi a At 2,42: «Essi erano assidui all’insegnamento degli apo-<br />

stoli, fedeli alla comunione fraterna, alla frazione del pane e alle preghiere».<br />

L’intero testo di At 2,42-47 è articolato sulla nozione di κοινωνία quale tratto distintivo della vita<br />

comunitaria basata sull’insegnamento degli apostoli, manifestata nella condivisione dei beni e nella<br />

partecipazione unanime al culto del tempio e nella frazione del pane. In questa prospettiva l’unità<br />

della Chiesa implica la triplice comunione: nella professione della medesima fede, nella comune<br />

partecipazione del culto divino e partecipazione agli stessi mezzi di salvezza, nella fraterna concor-<br />

dia della famiglia di Dio e nella comunione di vita ecclesiastica. Essa si configura, dunque come u-<br />

nità di fede, di culto e sacramenti e di vita sociale. Questa triade talora viene indicata come vincu-<br />

lum symbolicum, vinculum liturgicum e vinculum sociale o hierarchicum.<br />

Questi tre vincoli della professione della fede, dei sacramenti, del regime ecclesiastico e della co-<br />

munione (LG 14 e UR 2) formano un tutt’uno e non possono separarsi l’uno dall’altro. Isolarli sa-<br />

rebbe deleterio. L’unità della fede si celebra nei sacramenti, essendo la liturgia culmine e fonte della<br />

vita cristiana. L’unità sociale nella Chiesa, poi, è fruttuosa solo se vissuta come risposta all’eterno<br />

amore che la Parola annuncia e la fede accoglie e che il sacramento rende presente nella storia.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

3.4.3. Credo la chiesa santa<br />

“Santa” è stato il primo attributo che si aggiunse alla parola “chiesa”. Lo troviamo all’inizio del II<br />

sec. nella formula di saluto della lettera di Ignazio di Antiochia ai Trallensi, in quella del Martyrium<br />

Polycarpi, poi tre volte nel Pastore di Erma. La lettera detta degli Apostoli, composta in Asia Mino-<br />

re verso il 160-170, menziona la santa chiesa fra i cinque articoli simboleggiati dai cinque pani di<br />

Mc 6,38 (DzH 1). Non c’è dubbio che l’attributo “santa” fosse applicato a “chiesa” nel simbolo bat-<br />

tesimale romano, almeno nei primi anni del III secolo (cfr. DzH 10). Nautin suggerisce che la for-<br />

mula introdotta da Ippolito era: «Credi allo Spirito santo nella santa chiesa?». Il nostro attributo si<br />

trova nel simbolo battesimale di Gerusalemme verso il 348 (DzH 41); in quello di S. Epifanio (DzH<br />

42); ed è entrato in quello di Nicea nella forma completata a Costantinopoli nel 381 (DzH 150).<br />

Nei testi del concilio Vaticano II troviamo che la chiesa è confessata essere «adornata di vera santi-<br />

tà, anche se imperfetta» (LG 48). Il fatto che la Chiesa in questo mondo sia «adornata di vera santi-<br />

tà» è vista come una conseguenza della sua «indole escatologica» (cap. VII). Mentre il fatto che la<br />

sua santità sia «imperfetta» consegue dal suo essere «Chiesa pellegrinante» (LG 48).<br />

Un’altra affermazione chiave del Vaticano II circa la santità della Chiesa si trova nel paragrafo in-<br />

troduttivo del cap. V di LG, che dice: «La chiesa, di cui il santo sinodo sta proponendo il mistero, è<br />

creduta indefettibilmente santa» (LG 39). Dunque il mistero della Chiesa, che è pure il mistero della<br />

sua santità, consiste in ciò che essa, in quanto è un popolo, formata di persone reali, è inevitabil-<br />

mente segnata dal peccato, ma, in quanto popolo di Dio, non può venir meno nella sua santità.<br />

a) Il senso biblico della santità<br />

A) Antico Testamento: La nozione cristiana di santità è derivata dalla Scrittura, nella quale Dio solo<br />

è riconosciuto come il vero Unico Santo; nella quale l’affermazione principale sulla santità di Dio è<br />

il grido dei serafini della visione di Isaia: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti» (Is 6,3); e<br />

nella quale la definizione data da Dio di se stesso è vista nel comando: «Voi sarete santi, perché io,<br />

il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv 19,2). La santità di Dio è ciò che lo fa essere Dio e lo diffe-<br />

renzia da ogni altra realtà esistente. Ne consegue che essere santo, per qualsiasi creatura, significa<br />

attingere, in qualche modo, la propria santità da Dio. Una persona o una cosa può essere santa solo<br />

in quanto viene santificata da Dio e per Dio. È Dio che santifica le creature, separandole da tutto il<br />

profano, o comunque non associato a Dio, e facendole entrare in qualche modo in relazione con lui<br />

stesso, e rendendole partecipi della sua santità. La nozione biblica di santità, dunque, implica un<br />

«essere separati» da ciò che non è Dio, così da appartenere in modo speciale a lui.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Perciò, pur sapendo che Dio è l’«Unico Santo», la Bibbia non esita a parlare di tempio santo, di as-<br />

semblea santa, di terra santa, di comandamenti santi. Tutte queste cose sono sante, ma solo in quan-<br />

to e per quanto Dio le santifica. Così la santità del popolo è dovuta all’iniziativa di Dio: «Tu infatti<br />

sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo<br />

privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra» (Dt 7,6). Il tempio e il sacerdote sono santi perché<br />

sono stati separati e consacrati al servizio e al culto di Dio; così Dio ha pure separato il suo popolo<br />

eletto per farlo diventare «un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,6).<br />

L’iniziativa viene sempre da Dio, ma esige una risposta dal popolo: «Il Signore disse ancora a Mo-<br />

sè: “Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vo-<br />

stro, sono santo. Ognuno rispetti sua madre e suo padre e osservi i miei sabati. Io sono il Signore,<br />

vostro Dio. Non rivolgetevi agli idoli, e non fatevi divinità di metallo fuso. Io sono il Signore, vo-<br />

stro Dio”» (Lv 19,1-4). La santità biblica, allora, è un dono dato da Dio, ma è anche un comanda-<br />

mento da rispettare; è un indicativo: «Voi siete santi», ma è anche un imperativo: «Voi sarete santi».<br />

B) Nuovo Testamento: ciò che è detto del popolo di Israele nel Nuovo Testamento è trasferito alla<br />

chiesa, mediante un riferimento alle realtà nuove che costituiscono precisamente il popolo di Dio<br />

nella sua novità: il Cristo e lo Spirito santo in quanto comunicato. Il Cristo infatti è santo, avendo la<br />

sua esistenza dallo Spirito santo (Lc 1,35; Mt 1,18.20) e in seguito alla sua consacrazione al ministe-<br />

ro da una nuova manifestazione celeste e dallo Spirito santo (Lc 3,22 e par.). Gesù è il “santo di Di-<br />

o” (Mc 1,24, Lc 1,35; 3, 34; Gv 6,69; At 3,14; 4,27.30; 1Gv 2,20; Ap 3,7).<br />

Per questo egli diventa l’origine e il centro di un nuovo popolo consacrato e santo. Ciò che è stato<br />

realizzato per noi nel Cristo ci è comunicato dallo Spirito santo (2Cor 13,13; Rm 5,5) a partire da un<br />

battesimo di Spirito santo (At 1,5; 2,38; 1Cor 12,13; Mt 3,11; Mc 1,8; Lc 3,16; Gv 1,33). Tutti i<br />

membri della comunità meritano perciò il nome di “santi” (prima i fedeli di Palestina: At<br />

9,13.32.41; Rm 15,26.31; 1Cor 15,1.15; 2Cor 8,4; 9,1.12; poi quelli di tutte le chiese: Rm 8,27;<br />

12,13; 16,2.15; 1Cor 6,1ss; 14,33; 2Cor 13,12; Ef 1,15; 3,18; 4,12; 6,8; Fil 4,21ss; Col 1,4; 1Tim<br />

5,10; Filem 5.7; Eb 6,10; 13,24; Gd 3). La santità è quindi un dono («santificati») e un compito<br />

(«chiamati ad essere santi»), come dice chiaramente Paolo in 1Cor 1,2: «alla Chiesa di Dio che è in<br />

Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi».<br />

b) I vari sensi nei quali si distingue la santità della chiesa<br />

Il Vaticano II ha precisato che la Chiesa è una «realtà complessa» (LG 8). Nessuna sorpresa, dun-<br />

que, se troviamo che pure la sua santità è complessa e che, allo scopo di darne un’adeguata spiega-<br />

zione, dobbiamo distinguere vari aspetti di questa santità, in relazione ai diversi aspetti della Chiesa<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

stessa. Seguendo il suggerimento di Francis A. Sullivan 16 , distinguiamo tre modi in cui la Chiesa è<br />

santa: primo, con l’oggettiva, efficace santità dei suoi elementi formali; secondo, con una santità di<br />

consacrazione quale popolo sacerdotale; e terzo, con una santità di grazia e virtù.<br />

(I) La Chiesa è santa a motivo della santità dei suoi elementi formali<br />

La Chiesa è giustamente definita popolo di Dio, e ciò significa che essa è composta da un certo nu-<br />

mero di uomini, donne e bambini. Ma la Chiesa non è una banale massa di gente; ciò che fa essere<br />

Chiesa cristiana una moltitudine di persone è il fatto che esse condividono la fede cristiana, sono<br />

battezzate, si riuniscono per celebrare l’Eucaristia e riconoscono alcune persone quali propri pastori.<br />

Una Chiesa cristiana è un popolo strutturato: strutturato da elementi formali costitutivi, quali la fe-<br />

de cristiana, i sacramenti, e i doni carismatici e gerarchici che rendono le persone idonee per il mini-<br />

stero. Quando diciamo che la Chiesa deve la sua istituzione a Cristo, intendiamo dire che questi e-<br />

lementi formali non sono solo un prodotto dell’ingegno umano; piuttosto, essi sono il frutto del mi-<br />

nistero di Cristo, della sua passione, morte e risurrezione, e della discesa dello Spirito Santo. Questi<br />

sono i doni che Cristo ha concesso alla sua Chiesa per renderla uno strumento efficace di grazia e di<br />

salvezza. Essi costituiscono «la santità della Chiesa» (Memoria e riconciliazione, 3.2).<br />

Con ciò intendiamo dire che la Chiesa è santa in ragione dell’oggettiva, efficace santità di questi e-<br />

lementi formali. Tali cose — la parola di Dio, i sacramenti, i carismi che apprestano le persone al<br />

ministero — sono sante in se stesse, perché sono doni di Cristo e derivano da lui la propria santità.<br />

Esse sono oggettivamente sante, in quanto la loro santità non dipende dalla santità soggettiva della<br />

persona che predica la parola o amministra i sacramenti. E sono efficacemente sante in quanto sono<br />

i doni per mezzo dei quali la Chiesa viene abilitata a collaborare con lo Spirito Santo<br />

nell’edificazione di un popolo santo per il Signore. La parola di Dio resta santa anche se il predica-<br />

tore o l’ascoltatore non lo sono. I sacramenti sono santi anche se una persona può amministrarli o<br />

riceverli indegnamente. In questo senso essi godono di una indefettibile santità, che la peccaminosi-<br />

tà umana non può diminuire, né distruggere. E poiché questi elementi formali sono costitutivi della<br />

Chiesa, la Chiesa stessa è indefettibilmente santa. Tale indefettibile santità caratterizza la Chiesa<br />

proprio come sacramento di salvezza costituito da Dio, perché i suoi elementi formali la rendono<br />

capace di essere uno strumento efficace della grazia e della santità nel mondo.<br />

16 F.A. SULLIVAN, Noi crediamo la Chiesa. Lineamenti di <strong>ecclesiologia</strong> sistematica (Casale Monferrato – Al.: Piemme,<br />

1990) 74ss. Cfr. pure COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del<br />

passato (Città del Vaticano: LEV, 2000) n. 3.2.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Ma naturalmente la Chiesa non consiste solo dei suoi elementi formali. Sebbene si possa dire con<br />

S. Tommaso che la Chiesa è costituita da fede e sacramenti 17 , essa non si compone solo di questi,<br />

ma piuttosto di persone che vengono costituite in una Chiesa, da fede e sacramenti. Perché la Chiesa<br />

sia santa non basta che i suoi elementi formali siano santi; essa deve essere un popolo santo: «Alla<br />

santità della chiesa deve corrispondere la santità nella chiesa» (Memoria e riconciliazione, 3.2).<br />

(II) Santità di consacrazione<br />

Come si è visto, il concetto biblico di santità implica una segregazione, in modo tale da essere più<br />

strettamente uniti a Dio. Una simile santità viene attribuita a persone e a cose separate e dedicate al<br />

culto divino, quali il tempio, il suo altare e le sue suppellettili, e soprattutto i sacerdoti che offrono<br />

preghiere e sacrifici a Dio a favore del popolo. Questa è la santità di consacrazione: una santità che<br />

segna una persona per il fatto di essere chiamata e separata per il ministero sacerdotale. Essa esige<br />

pure la santità personale di vita da parte di chi è così intimamente coinvolto nel culto del Dio santo.<br />

Ma la santità di consacrazione non dipende o consiste nella virtù personale; risulta piuttosto dal fat-<br />

to che la persona è stata separata, unta, e «resa sacra» (consacrata) per il culto e il servizio di Dio.<br />

La Bibbia attribuisce una tale santità sacerdotale non solo a certi individui, come Aronne, ma<br />

all’intero popolo di Israele. Così, attraverso Mosè, Dio dice al suo popolo: «Ora, se vorrete ascoltare<br />

la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia<br />

è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,5-6). Ugualmen-<br />

te, nel libro del profeta Isaia, si promette: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del<br />

nostro Dio sarete detti» (Is 61,6).<br />

Gli autori del NT attribuiscono alla Chiesa tutti quei termini che avevano definito la santità del po-<br />

polo di Dio dell’AT, inclusa la santità di consacrazione al servizio sacerdotale di Dio. Perciò la 1Pt<br />

esorta i suoi lettori dicendo: «Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un<br />

edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di<br />

Gesù Cristo». Un poco più oltre egli li definisce «La stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione<br />

santa, il popolo che Dio si è acquistato» (1Pt 2,5.9; cfr. Ap 1,5-6; 5,9-10). Tradizionalmente si dice<br />

che il sacerdozio di tutti i fedeli, conferito per mezzo del battesimo e della cresima, è una partecipa-<br />

zione all’unico sacerdozio di Cristo (LG 10b). L’associazione al sacerdozio di Cristo è un’ulteriore<br />

aspetto della santità di consacrazione, assicurata dai sacramenti dell’iniziazione cristiana.<br />

17 S. Th., III, q. 64, a. 2, ad 3.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

La teologia cattolica tradizionale intende la partecipazione al sacerdozio di Cristo come qualcosa<br />

che caratterizza i battezzati in modo permanente. A differenza del dono della grazia santificante e<br />

dell’inabitazione dello Spirito Santo, essa non viene perduta da una persona che commette un pec-<br />

cato grave. Si tratta di un «carattere» o di un «segno spirituale» che distingue i battezzati come per-<br />

sone consacrate a Cristo e partecipanti al suo sacerdozio. Essi mantengono la santità di consacrazio-<br />

ne, nonostante qualche possibile infedeltà alla loro vocazione.<br />

Poiché la Chiesa si compone di battezzati credenti in Cristo, l’intera Chiesa è contrassegnata dalla<br />

santità di consacrazione quale popolo sacerdotale. Quindi, questa è una santità indefettibile del-<br />

l’intera Chiesa. Superfluo a dirsi, essa esige la risposta personale di un santo tenore di vita. Ma che i<br />

singoli cristiani vivano nella fedeltà alla loro vocazione oppure no, tutta la Chiesa rimane sempre un<br />

popolo consacrato al culto di Dio, un «tempio spirituale e un sacerdozio santo». In questo senso, al-<br />

lora, la Chiesa è indefettibilmente santa, quale popolo sacerdotale.<br />

(III) Santità di grazia e di virtù<br />

Sebbene la santità sia sempre dovuta all’iniziativa di Dio, e sia suo dono, essa richiede pure una ri-<br />

sposta da parte di coloro che sono chiamati ad una più stretta relazione con Dio: è loro dovere vive-<br />

re coerentemente con la propria chiamata a condurre una vita santa. Come si esprime S. Paolo<br />

all’inizio della sua prima lettera ai Corinzi, i cristiani sono stati «santificati in Cristo Gesù», ma an-<br />

che «chiamati ad essere santi».<br />

Sinteticamente possiamo dire che la santità consiste nell’osservanza dei due grandi comandamenti:<br />

l’amore verso Dio e l’amore del prossimo. In realtà, tale amore è in primo luogo un dono concesso<br />

nel battesimo. S. Paolo lo interpreta così: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mez-<br />

zo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). L’inabitante presenza dello Spirito Santo è in-<br />

separabile dalla capacità soprannaturale di amare Dio e il nostro prossimo, che è frutto della virtù<br />

infusa della carità. È altrettanto inseparabile dalla libertà da ogni peccato grave, nonché<br />

dall’amicizia con Dio, che si intende con l’espressione «essere in stato di grazia».<br />

La santità, allora, riguarda «il camminare nella carità» (Ef 5,2). Tutta la crescita in santità interessa<br />

l’impegno per «la perfezione della carità». D’altra parte, è un fatto che noi commettiamo peccati,<br />

tanto che ogni giorno dobbiamo elevare una preghiera per il perdono dei nostri peccati. Anche se la<br />

convinzione cattolica ritiene che il peccato «veniale» non ci priva della santità dello «stato di gra-<br />

zia» e del possesso dello Spirito Santo che mantiene in noi la virtù infusa della carità.<br />

È importante riconoscere il fatto che chiunque è dimora dello Spirito Santo è una persona santa, è<br />

davvero un «santo» nel senso in cui S. Paolo usa questo termine. Al tempo stesso, ricordiamo che il<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

concilio parla di certi cristiani, i quali «rimangono sì in seno alla Chiesa col “corpo”, ma non col<br />

“cuore”» (cfr. LG 14): sono quelli che vivono impenitenti nello stato di peccato grave. Secondo<br />

l’insegnamento cattolico, rimanere in un tale stato priva la persona dell’inabitante presenza dello<br />

Spirito Santo, e perciò della santità di grazia e carità. Ma, come stabilisce il testo conciliare, i catto-<br />

lici privi di tale santità possono rimanere ugualmente incorporati alla Chiesa, a meno che il loro<br />

peccato non comporti il rifiuto della fede cristiana o della comunione con la Chiesa. In conseguenza<br />

di ciò, secondo LG 14, si debbono distinguere due tipi di cattolici: quelli «in possesso dello Spirito<br />

di Cristo» che sono pienamente incorporati nella Chiesa; e quelli che «non perseverando nella cari-<br />

tà», rimangono nella Chiesa ma non ne sono pienamente membri. Questi ultimi mantengono la san-<br />

tità del carattere battesimale, ma non hanno più la santità della grazia santificante.<br />

Qual è la conseguenza di questa situazione per la santità della Chiesa? Se la Chiesa è realmente il<br />

popolo di Dio, la sua santità non può essere indipendente da quella degli uomini e delle donne che<br />

ne fanno parte. La conclusione è inevitabile: come la santità di chi vive in stato di grazia torna a<br />

vantaggio della santità della Chiesa, così la peccaminosità dei suoi membri deve pure diminuire la<br />

santità del popolo di cui essi restano parte. Presumibilmente il concilio aveva in mente proprio que-<br />

sto quando affermava che su questa terra la Chiesa è segnata da una santità imperfetta.<br />

Al tempo stesso il concilio definisce la Chiesa come indefettibilmente santa (LG 39). Sembra ovvio<br />

che con «indefettibilmente» i Padri conciliari non intendono dire «perfettamente». L’indefettibile<br />

santità non è tale da escludere ogni difetto o imperfezione, ma esclude la perdita della santità, la<br />

possibilità che la Chiesa un giorno cessi di essere veramente santa.<br />

La questione che ora dobbiamo prendere in considerazione è se la Chiesa può essere detta indefetti-<br />

bilmente santa non solo nei suoi elementi formali e nella sua consacrazione sacerdotale, ma anche<br />

per la santità di grazia e carità. In altre parole, dobbiamo chiederci se c’è una garanzia che la Chiesa<br />

sarà sempre un popolo santo, un popolo «che cammina nell’amore».<br />

Il problema è che nessun membro individuale della Chiesa è indefettibilmente santo in questo senso.<br />

I battezzati non possono perdere la santità della loro partecipazione del sacerdozio di Cristo, ma<br />

possono mancare nella perseveranza nella carità e quindi perdere la santità della grazia santificante e<br />

l’inabitazione dello Spirito Santo. Nessun singolo cristiano ha la garanzia di perseverare nella carità.<br />

Il problema, dunque, è questo: possiamo dire della Chiesa qualcosa che non possiamo riferire a cia-<br />

scun singolo membro di essa? Possiamo affermare che, anche se nessun singolo membro è indefet-<br />

tibilmente santo, la Chiesa invece sì? Che, se ogni membro ha la possibilità di venir meno nella per-<br />

severanza nella carità, la Chiesa invece no? E che, se un individuo può non essere più tempio dello<br />

Spirito Santo, lo stesso non può invece accadere alla Chiesa?<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Queste domande sembrerebbero esigere una risposta positiva. Infatti sembra assurdo pensare che la<br />

Chiesa di Cristo possa perdere il dono dello Spirito di Cristo risorto. Ma ci chiediamo: è possibile<br />

affermare qualcosa del popolo di Dio che non si può affermare di nessuno dei suoi membri?<br />

Per rispondere alla questione, è utile richiamare alla mente ciò che S. Tommaso diceva a proposito<br />

della fede della Chiesa, utilizzando il termine «fede» per indicare non ciò che la Chiesa crede, ma<br />

l’atteggiamento o virtù della fede. Quando parla della fede dei singoli cristiani, egli distingue tra la<br />

fede «formata dalla carità» e la fede «non formata»; quest’ultima è il tipo di fede che può rimanere<br />

anche quando una persona ha perduto la virtù della carità per un peccato grave. Di nessun membro<br />

della Chiesa si può dire che la sua fede sarà sempre formata dalla carità; difatti non sarebbe realisti-<br />

co pretendere che in ogni momento la fede di tutti i membri della Chiesa sia formata dalla carità.<br />

Nondimeno, S. Tommaso asserisce nettamente che la fede della Chiesa è formata dalla carità 18 . Ci si<br />

potrebbe chiedere se nel dirlo egli stava pensando alla Chiesa come ad una «mistica persona» distin-<br />

ta dallo storico, concreto popolo di Dio. Dalla spiegazione che ne dà, è evidente che questo non<br />

rientrava nelle sue intenzioni. A suo avviso, la ragione per cui la fede della Chiesa risulta formata<br />

dalla carità è che essa viene posseduta da quelli che appartengono alla Chiesa «per numero e per<br />

merito». Questa frase necessita di qualche spiegazione. Appartenere alla Chiesa solo per numero si-<br />

gnifica essere annoverati tra i suoi membri, ma mancare della carità. Appartenere «per merito» è vi-<br />

vere la vita di grazia. Sono i membri di questo genere quelli la cui fede è formata dalla carità. Si può<br />

notare che, pur con una terminologia differente, S. Tommaso sta facendo la stessa distinzione del<br />

Vaticano II tra quei cattolici che «avendo lo Spirito Santo», sono pienamente incorporati alla Chie-<br />

sa; e quegli altri che, non avendo perseverato nella carità, non sono perciò pienamente incorporati,<br />

mancando il fondamentale vincolo della comunione spirituale con la Chiesa (LG 14).<br />

Alla luce della spiegazione fornita da S. Tommaso per affermare che la fede della Chiesa è formata<br />

dalla carità, possiamo tirare due conclusioni sul suo pensiero:<br />

1. la Chiesa si identifica con la «comunità dei fedeli», e la fede della Chiesa è la fede di questo con-<br />

creto popolo, non di una qualche mistica persona;<br />

2. è corretto predicare della Chiesa ciò che è attualmente vero di quelli che stanno realmente viven-<br />

do la vita di lei, o, come dice il Vaticano II, dei suoi membri pienamente incorporati.<br />

La «fede formata dalla carità» è giustamente vista come un attributo della Chiesa, perché si può giu-<br />

stamente caratterizzare un corpo organico per le qualità di chi ne fa pienamente parte. In altre paro-<br />

18 S. Th., II-II, q. 1, a. 9, ad 3.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

le, per definire la Chiesa come una comunità di fede viva, non è necessario che ogni singola persona<br />

che le appartiene abbia una fede viva; è sufficiente che chi è suo membro in modo pieno, abbia tale<br />

fede. Poiché avere una fede formata dalla carità è l’essenza di ciò che significa essere santi, appli-<br />

cando il pensiero di S. Tommaso alla nostra questione, siamo in grado di affermare che la Chiesa<br />

può essere chiamata «popolo santo», perché quanti sono pienamente incorporati in lei sono santi.<br />

Affermare che la Chiesa è «indefettibilmente santa», allora, vuol dire che essa non può mai cessare<br />

di essere un «popolo santo» e che perciò non le mancheranno mai membri pienamente incorporati<br />

che vivono la vita di grazia e carità. Non sembra indispensabile che tali membri costituiscano sem-<br />

pre e necessariamente la maggioranza numerica della Chiesa. S. Tommaso non dice nulla che lasci<br />

presumere una cosa del genere. Tuttavia, per parlare realisticamente della Chiesa come «popolo san-<br />

to», sembra necessario che quanti vivono effettivamente una vita santa, costituiscano una parte con-<br />

siderevole del tutto. Quale sia esattamente questa parte, pare una domanda senza risposta.<br />

Comunque rimane ancora in piedi una questione importante. Abbiamo detto che la Chiesa, per esse-<br />

re un popolo indefettibilmente santo, dovrebbe essere costituita, in proporzione adeguata, di membri<br />

che, pienamente incorporati, abbiano una fede formata dalla carità. La domanda è: quali motivi ab-<br />

biamo per credere che la Chiesa non cesserà mai di essere un tale popolo santo?<br />

c) La causa della santità indefettibile della chiesa<br />

Le ragioni di tale convinzione sono succintamente riportate all’inizio del capitolo della Lumen gen-<br />

tium sull’universale vocazione alla santità: «La Chiesa, il cui mistero è esposto nel sacro Concilio, è<br />

per fede creduta indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è<br />

proclamato “il solo Santo”, amò la sua Chiesa come sua sposa e diede se stesso per essa, al fine di<br />

santificarla (cfr. Ef 5,25-26) e la congiunse a sé come suo corpo, e l’ha riempita col dono dello Spi-<br />

rito Santo, per la gloria di Dio» (LG 39). Sulla scorta di questo testo, possiamo distinguere almeno<br />

tre ragioni per la nostra fiducia che la Chiesa di Cristo non cesserà mai di essere un popolo santo:<br />

1. perché la sua santità è il frutto del sacrificio escatologico di Cristo: diversamente le potenze del<br />

male avrebbero prevalso sull’opera di Gesù Cristo;<br />

2. perché Cristo ha unito indissolubilmente a sé la sua Chiesa come sua sposa: la nuova alleanza è<br />

definitiva;<br />

3. perché Cristo ha dotato il suo corpo con lo stabile dono dello Spirito Santo: lo Spirito Santo non<br />

può abbandonare la Chiesa o dimorare in essa senza realmente causare la santità del popolo.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

d) La santa chiesa è anche “peccatrice”?<br />

A questa questione sono state offerte diverse soluzioni: alcuni, infatti, distinguono la santità della<br />

Chiesa dalla situazione personale dei suoi membri (questi ne fanno parte solo nella misura in cui<br />

sono santi) e parlano di una «Sancta Ecclesia sanctorum»; altri, invece, ritengono che il peccato in<br />

qualche modo entri nella Chiesa e parlano allora di una «Sancta Ecclesia peccatorum»; altri, infine,<br />

pensano che si possa considerare la Chiesa come «Sancta et peccatrix».<br />

(I) Sancta Ecclesia sanctorum<br />

Il teologo Charles Journet, nella sua vastissima opera ecclesiologica 19 , ha posto i fondamenti di que-<br />

sta linea, seguita poi da molti altri.<br />

Egli riconosce che i peccatori appartengono in qualche maniera alla Chiesa, ma vi appartengono<br />

precisamente non in quanto peccatori, bensì nella misura della loro santità 20 . È possibile arrivare, a<br />

suo parere, a due definizioni di Chiesa tra esse incompatibili 21 . Se definiamo la Chiesa dal punto di<br />

vista materiale, allora dobbiamo dire che la Chiesa non è pura e santa, ma peccatrice e che perfino<br />

Cristo stesso (essendo in quanto «Cristo totale» capo e corpo insieme) pecca nelle sue membra pec-<br />

catrici; se invece la definiamo formalmente, come deve essere, allora diciamo che comprende nume-<br />

rosi peccatori ma essa stessa non pecca. Infatti è formata da quella parte di noi che è santa: «le sue<br />

frontiere proprie, precise e vere, non circoscrivono che ciò che è puro e buono nei suoi membri, giu-<br />

sti e peccatori, prendendo al suo interno tutto ciò che è santo, persino nei peccatori, lasciando al di<br />

fuori tutto ciò che è impuro, persino nei giusti» 22 . I confini tra Chiesa e mondo, dunque, passano<br />

all’interno di ogni battezzato: «è proprio nel nostro comportamento, nella nostra vita, nel nostro<br />

cuore che si affrontano la Chiesa e il mondo, il Cristo e Belial, la luce e le tenebre» 23 . Non basta di-<br />

re, quindi, che la Chiesa è santa nel suo principio (Cristo Capo) o nei suoi mezzi (dottrina, sacra-<br />

menti, ministeri): occorre dire che essa è santa in se stessa e nei suoi membri. È la tesi della «Chiesa<br />

19 C. JOURNET, L’Église du Verbe incarné. Essai de théologie spéculative. II. Sa structure interne et son unité catholique<br />

(Paris: Desclée de Brouwer, 1951). Per il nostro tema si veda anche ID., La cause finale et la sainteté de l’Église, in<br />

Nova et Vetera 60 (1985) 185-216.<br />

20 «La Chiesa, pur comprendendo una moltitudine di peccatori, che le appartengono corporalmente, nondimeno è senza<br />

peccato»: (L’Église du Verbe incarné, p. 903). «Invece di dire, come si è fatto: Santità e peccato nella Chiesa, noi diremmo:<br />

Santità e peccatori nella Chiesa» (Ibid., nota 4). «La Chiesa non è senza peccatori (…) Ma la Chiesa, considerata<br />

teologicamente, è senza peccato» (Ibid., p. 904). Dopo aver citato Ef 5, 25-27, che «concerne direttamente la Chiesa<br />

presente» (Ibid.), l’autore conclude: «I peccatori appartengono alla Chiesa non certo per il loro peccato, ma per i valori<br />

di santità che portano in sé e che li unisce alla Chiesa» (Ibid., p. 905).<br />

21 Cfr. Ibid., p. 911-915.<br />

22 Ibid., p. 914.<br />

23 Ibid., pp. 914-915.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

immacolata», così riassunta dallo stesso autore: «la Chiesa è santa in tutti i suoi membri per quanto<br />

essi sono suoi membri, la Chiesa è santa perché essa rende santi tutti coloro che le appartengono per<br />

quanto le appartengono» 24 . È per questo che non sembra forzato riassumere la posizione di Journet<br />

con l’espressione «Sancta Ecclesia sanctorum»: pur ammettendo una qualche appartenenza dei pec-<br />

catori alla Chiesa, infatti, essa risulta composta della sola «parte santa» dei battezzati. Ciascuno è,<br />

per così dire, sezionato verticalmente di modo che la sua parte peccatrice appartiene al mondo e<br />

quella santa va a formare la Chiesa.<br />

Come mai, si chiede poi Journet, alcuni testi della tradizione patristica e liturgica presentano una<br />

Chiesa che si pente, chiede perdono, si converte e fa penitenza? Se la Chiesa è santa, come può fare<br />

tutto questo? Egli risponde: mentre Cristo, che era senza peccato, poteva espiare ma non pentirsi né<br />

fare penitenza, la Chiesa, che è senza peccato ma ha dei figli peccatori, chiede perdono e fa peniten-<br />

za per i loro peccati e non per i suoi: «La Chiesa come persona prende quindi la responsabilità della<br />

penitenza. Essa non prende la responsabilità del peccato» 25 . Non si dovrà dunque, in questa impo-<br />

stazione, parlare di rinnovamento o riforma «della Chiesa» e neppure «nella Chiesa», bensì solo «nei<br />

membri (peccatori) della Chiesa» 26 .<br />

(II) Sancta Ecclesia peccatorum<br />

Alcuni teologi parlano esplicitamente di una «santa Chiesa di peccatori». Essi partono generalmente<br />

da una critica alle tesi di Journet, imputandogli un’<strong>ecclesiologia</strong> idealistica 27 , che considera cioè la<br />

Chiesa solo nei suoi principi formali e ne trascura la storicità e la concretezza 28 , con l’esito di una<br />

24 Ibid., p. 916. Journet respinge quella che egli chiama «definizione materiale di Chiesa perché rischia, a suo parere, il<br />

platonismo, distinguendo un cristianesimo ideale da un cristianesimo storico (cfr. Ibid.).<br />

25 Ibid., p. 907.<br />

26 La linea di Journet ha guidato o ispirato non pochi altri teologi che si sono espressi anche dopo il Vaticano II: ricordiamo<br />

almeno B. Gherardini, per il quale la Chiesa «è santa nonostante il peccato e la conseguente realtà dei peccatori;<br />

tale è infatti perché tutti i suoi figli sono “peccatori-graziati” e perché il peccato attuale che è in essa non è suo ma dei<br />

singoli peccatori che lo compiono e ai quali viene imputato, restando in tal modo ben lontano dal deturpare il volto di lei<br />

“senza ruga e senza macchia”»: B. GHERARDINI, La Chiesa arca dell’alleanza (Roma: Città Nuova, 1971) 182; cfr. A.<br />

BENI, La nostra Chiesa (Firenze: LEF, 1967) p. 224; B. MONDIN, Le nuove ecclesiologie. Un’immagine attuale della<br />

Chiesa (Roma: Paoline, 1980) pp. 324-325; ID., La Chiesa primizia del Regno (Bologna: EDB, 1986) pp. 282-283.<br />

27 Cfr. K. RAHNER, Chiesa di peccatori, in Nuovi Saggi I (Roma: Paoline, 1968) 415-441.<br />

28 «È certo inoltre che la Chiesa, per i suoi principi formali e costitutivi, è tutta pura. Ma basterà considerarla nei suoi<br />

principi formali? Essa è una realtà storica, concreta: gli uomini ne sono la materia, e sono peccatori, spiritualmente ciechi<br />

e opachi, imperfetti in mille modi» (Y. CONGAR, La Chiesa è santa, in MySal VII, 566). «La posizione dello Journet<br />

non si distacca da quella tradizionale anche se si presenta in modo più elaborato. Ci sembra, però, che tale posizione non<br />

tenga conto della Chiesa reale, della Chiesa popolo di Dio, composta, cioè da membri che sono peccatori e il cui peccato,<br />

come riconosce lo stesso Vaticano II, macchia la Chiesa stessa»: V. MONDELLO, La Chiesa del Dio trino (Napoli:<br />

Dehoniane, 1978) 473. «La Chiesa reale è una Chiesa peccatrice»: H. KÜNG, La Chiesa, op. cit., 369. Tuttavia davanti a<br />

questo spiacevole fatto si sono inventate alcune «scappatoie»: 1) la segregazione di membri santi (gnostici, novaziani,<br />

donatisti, montanisti, ecc.); 2) la distinzione tra Chiesa santa e membri peccatori; 3) la distinzione tra parte santa e parte<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

netta separazione, alla maniera nestoriana, tra elemento umano e divino nella Chiesa 29 ; a Journet,<br />

inoltre, essi rimproverano un’antropologia inadeguata: la separazione verticale tra parte santa e parte<br />

peccatrice nel battezzato non corrisponde alla visione cristiana dell’uomo peccatore nel «cuore»,<br />

cioè nel centro della sua persona, e lì raggiunto dalla grazia che giustifica 30 .<br />

peccatrice nel cristiano. Circa la seconda e la terza: «La distinzione tra la Chiesa “santa” e i membri peccatori. — Per<br />

non compromettere la santità della Chiesa si è più volte fatta distinzione tra i membri che sono peccatori e la Chiesa che<br />

resta ciononostante senza peccato. Qualunque cosa faccia il singolo cristiano, non lo fa mai per suo personale vantaggio<br />

o danno. Lo fa piuttosto, nel bene e nel male, in quanto membro pienamente responsabile della Chiesa. Nella realtà concreta<br />

non c’è una Chiesa che stia come sospesa sulla testa degli uomini (…). E questi uomini, come è stato sempre sostenuto<br />

nella Chiesa nel corso dei secoli, restano, anche come peccatori, membri della Chiesa. Non sono i peccatori, ma<br />

solo la mancanza di fede, che separa dalla comunità dei credenti» (Ibid., p. 373). «La distinzione tra la parte “santa” e<br />

quella peccatrice del cristiano — Di nuovo continua Küng: «Tutte le scappatoie qui non servono a nulla. Bisogna guardare<br />

in faccia la realtà: la Chiesa è una Chiesa di peccatori. E poiché questi peccatori sono veri membri della Chiesa,<br />

l’Ekklesía stessa ne viene gravata, il corpo stesso di Cristo ne viene macchiato, il tempio stesso dello Spirito Santo ne<br />

viene scosso e il popolo stesso di Dio ne viene ferito. La Chiesa stessa! Proprio perché la Chiesa non è una sostanza pura,<br />

idealizzata, ipostatizzata e separata da tutti gli uomini, ma è la comunione degli uomini credenti, proprio per questo<br />

— certo non per colpa di Dio, di Cristo o dello Spirito Santo, ma proprio per colpa dei suoi membri peccatori — essa è<br />

una Chiesa peccatrice» (Ibid., pp. 373-374).<br />

29 «Nell’<strong>ecclesiologia</strong> come nella cristologia, noi dobbiamo sempre evitare il duplice errore che in cristologia è stato introdotto<br />

e sempre minaccia di introdursi, del monofisismo e del nestorianesimo: sia che si assorba l’umano nel divino al<br />

punto di annientarlo, sia che si distinguano ma separandoli in modo artificioso. Infatti è troppo facile dire che la chiesa<br />

rimane immutabilmente santa nei suoi strumenti di grazia: il ministero apostolico, la predicazione della fede, la celebrazione<br />

dei sacramenti, mentre rimane peccatrice nella vita individuale dei suoi membri. L’obiezione è immediata: da una<br />

parte, che cosa sarebbe questa santità oggettiva della Chiesa se non si traducesse in una santificazione soggettiva degli<br />

uomini che ne fanno parte?; e dall’altra il ministero, la predicazione, gli stessi sacramenti, che ci offrono della grazia, la<br />

vita dello Spirito attinta alla sorgente, soltanto tramite canali essenzialmente umani, come potrebbero, nel loro esercizio,<br />

non subire nessuna influenza dal peccato degli uomini?»: L. BOUYER, La Chiesa di Dio (Assisi: Cittadella, 1971) 580<br />

581. «Alcuni pensatori idealisti crederanno di dovere al loro saggio modo di concepire la Chiesa il fatto (…) di poter<br />

distinguere tra “chiesa” sposa amata dell’Agnello e “cristiani” nella chiesa, poveri e malvagi rinunciatari (cfr. Ch. JOUR-<br />

NET, Théologie de l’Eglise, Paris 1958, 236). Con ciò, tuttavia, verrebbe introdotta una separazione tra il “corpo mistico<br />

di Cristo” e il “nuovo popolo di Dio” che condurrebbe necessariamente a una “immagine nestoriana e falsa di chiesa” e<br />

facilmente non coglierebbe la realtà della chiesa proprio come Nestorio che col suo pensiero ha distrutto la realtà del<br />

Cristo storico»: J. AUER, La Chiesa sacramento universale di salvezza (Assisi: Cittadella, 1988) 590.<br />

30 Dei peccatori «lo Journet (…) dice: in quanto sono tutto questo non sono la Chiesa; bisogna vederli come sezionati<br />

verticalmente e divisi tra la Chiesa e il mondo. Ma questo non è forse reificare un punto di vista formale? Gli uomini<br />

non sono affatto sezionati verticalmente in due; semplicemente, l’irradiamento della santità è in essi, ed è, mediante loro,<br />

per la Chiesa storica e concreta, limitato e ostacolato. Quei peccatori che noi siamo appartengono interamente alla Chiesa,<br />

ma con una vita cristiana o una santità molto imperfetta. I loro peccati come tali cadono fuori della Chiesa, ma coloro<br />

che li commettono sono nella Chiesa e vi sono nella loro qualità di peccatori, vincolati mediante la fede all’istituzione<br />

della grazia, offerti alla penitenza e alla santificazione. Quanto alla Chiesa, per sé tutta santa, pura nei suoi principi formali<br />

e tesa, per la sua logica profonda, alla purezza totale, essa è così, in virtù dei suoi membri, portata a realizzazioni<br />

storiche e concrete imperfette di quello stesso che essa è fondamentalmente e che ispira ad essere. Questa dottrina è essenzialmente<br />

quella dei padri, dei grandi scolastici e del magistero»: Y. CONGAR, La Chiesa è santa, 566. «Per non<br />

compromettere la santità della Chiesa, si è a volte diviso perfino il cristiano concreto: in quanto l’uomo è puro appartiene<br />

alla Chiesa, in quanto è peccatore non vi appartiene. Ma così si può operare solo con fantasia. L’uomo concreto si<br />

oppone invece a una tale divisione. Sarebbe certamente molto piacevole per l’uomo poter scindere con tutta semplicità il<br />

suo essere peccatore, ed essere così, almeno nella Chiesa, del tutto puro. Costituisce invece la sua miseria il fatto che<br />

egli non possa assolutamente sbarazzarsi della propria malizia e del suo lato peccatore, che in questo campo non gli è<br />

proprio possibile far conto su nessuna divisione quantitativa (…). Proprio in quanto uno è indissolubile nel suo io uno e<br />

indivisibile, anche il cristiano è un uomo peccatore. E così, in questa sua totale miserabilità, egli è membro della Chiesa»:<br />

H. KÜNG, La Chiesa, 373.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

I teologi che propongono la formula «santa Chiesa di peccatori» mettono diverse gradazioni<br />

nell’appartenenza alla Chiesa: ma non le proporzionano solamente al grado di santità del singolo fe-<br />

dele, bensì anche all’adesione agli strumenti di santità: parola di Dio, sacramenti, ministeri. Non è<br />

«una parte» (quella santa) del battezzato che appartiene interamente alla Chiesa bensì è «tutto» il<br />

battezzato che appartiene in un certo grado alla Chiesa.<br />

Viene così introdotta la distinzione tra appartenenza «piena» e «non piena» alla Chiesa; appartenen-<br />

za che si decide sulla base del criterio della santità («Spiritum Christi habentes») insieme a quello<br />

del triplice vincolo istituzionale (parola, sacramenti, gerarchia). Secondo questa visione, dunque, il<br />

peccato dei battezzati danneggia in qual modo la Chiesa e ricade su di essa, in quanto i peccatori<br />

nella loro intera persona vi appartengono in una certa misura (anche se non «pienamente»).<br />

Karl Rahner è il più noto sostenitore della «Sancta Ecclesia peccatorum» 31 . Che i peccatori appar-<br />

tengano alla Chiesa è verità di fede ribadita più volte nella storia: nell’epoca patristica contro i mon-<br />

tanisti, i novaziani e i donatisti; nell’epoca medievale contro gli albigesi, i fraticelli, Wyclif e Hus;<br />

nell’epoca moderna contro i riformatori e i giansenisti. Il motivo di fondo dell’appartenenza dei<br />

peccatori alla Chiesa tocca la struttura della Chiesa stessa: se essa fosse semplice aggregazione di<br />

uomini che hanno aderito «interiormente» al Vangelo, allora interiore sarebbe anche l’unico criterio<br />

di appartenenza; ma la Chiesa è anche visibilità, sacramentalità. Il principio interiore-invisibile va<br />

dunque composto con un’adesione alla struttura esterna-visibile (il triplice vincolo). È vero, però —<br />

riconosce Rahner — che il peccatore appartiene alla Chiesa in misura minore rispetto al giusto; il<br />

peccatore, non possedendo lo Spirito, non appartiene interamente alla Chiesa, poiché non è in co-<br />

munione con la sua dimensione invisibile. Non c’è contraddizione tra le due affermazioni, perché la<br />

Chiesa è sia comunità visibile, che comunità animata dallo Spirito. Come nel sacramento si distin-<br />

gue la validità dalla fruttuosità, così nella Chiesa, «Ursakrament», si può distinguere un’apparte-<br />

nenza solamente «valida» da una anche «fruttuosa» 32 .<br />

31 K. RAHNER, La Chiesa peccatrice nei decreti del Vaticano II, in Nuovi Saggi, vol. I (Roma: Paoline, 1968) pp. 443-<br />

478; ID., Il peccato nella Chiesa, in G. BARAUNA, ed., La Chiesa del Vaticano II (Firenze: Vallecchi, 1965) 419-435.<br />

32 Y. Congar (nell’articolo citato) sostiene una posizione molto simile a quella di Rahner. Anch’egli sottolinea che già<br />

nelle questioni montanista e donatista la Chiesa riconosceva definitivamente di essere una Chiesa di peccatori: punto<br />

confermato in seguito contro diversi tentativi di conservarla solamente come Chiesa dei santi. Ciò non ne intaccava la<br />

professione della santità, infatti: nella misura in cui è di Dio, la Chiesa è assolutamente santa. Ma essa è fatta di uomini,<br />

e per essa è essenziale includere la libera risposta che i “santi per vocazione” danno alla chiamata di Dio e alla offerta<br />

della sua grazia. Vi sono più chiamati che eletti. Esiste dunque nella Chiesa, dal punto di vista della santità, una certa<br />

dialettica tra ciò che è dato da Dio e ciò che è ricevuto e realizzato dagli uomini. Vi si può vedere un’applicazione della<br />

dialettica del già e del non ancora che costituisce lo statuto d’esistenza della Chiesa nel suo stato itinerante. Ciò introduce<br />

nella Chiesa una tensione in virtù della quale essa deve tendere senza tregua a essere adeguata al dono di Dio. Questo<br />

dono è già fatto ed è assicurato alla Chiesa in virtù della fedeltà di Dio alla sua alleanza. Anche L. Bouyer riconosce<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

(III) Sancta et peccatrix Ecclesia<br />

Tutti i teologi che applicano l’appellativo di «peccatrice» alla Chiesa ammettono, ovviamente, an-<br />

che l’espressione «santa Chiesa di peccatori», ma non viceversa. Infatti alcuni di coloro che parlano<br />

di «sancta Ecclesia peccatorum» non intendono spingersi a dire «sancta et peccatrix Ecclesia».<br />

L. Bouyer, per esempio, alla domanda se «si possa e si debba dire che la Chiesa è peccatrice e che è<br />

santa» — dopo aver notato che «in reazione contro un atteggiamento senza dubbio troppo idealista,<br />

che accettava di vedere nella Chiesa soltanto la santità del Cristo presente in lei, molti sono tentati, e<br />

più che tentati, di ammetterlo» — risponde che la trasposizione diretta dell’aggettivo «peccatrice»<br />

dall’anima del battezzato alla Chiesa non tiene conto di un fatto «di capitale importanza: mentre o-<br />

gni individuo cristiano, fin quando è terminata la prova della sua vita terrestre», può «alla fine per-<br />

dersi, la Chiesa è sicura di giungere alla vita eterna. Essa è indefettibile» 33 .<br />

Altri sostenitori della «Ecclesia peccatorum» non hanno, invece, alcuna difficoltà a parlare anche di<br />

«Ecclesia peccatrix» 34 . Tra questi in primo luogo K. Rahner, che considera in fondo coestensive le<br />

due espressioni. Se la Chiesa è «santa» nella sua verità più profonda (Rahner accetta e ricorda sia la<br />

santità oggettiva che quella soggettiva), essa è però anche «peccatrice» perché — se e vero che la<br />

Chiesa come «sacramento» ha anche una dimensione umana-visibile — i peccati dei suoi membri<br />

non sono indifferenti ad essa. Santa e peccatrice insieme, la Chiesa non è però l’una e l’altra cosa<br />

allo stesso modo e nello stesso senso: la santità, infatti, corrisponde a ciò che essa è e rimarrà nel<br />

che la Chiesa è una Chiesa di peccatori, certo in via di santificazione, ma ben lontana dall’averla pienamente e definitivamente<br />

raggiunta. Ovviamente, continua Bouyer, la Chiesa è per sempre santa sia nel senso oggettivo (presenza di Cristo<br />

attraverso i sacramenti, la parola, il ministero) sia nel senso soggettivo (frutti effettivi di santità personale): tuttavia la<br />

chiesa resta sempre e resterà sempre macchiata, fino all’ultimo giorno, dagli innumerevoli peccati dei suoi ministri e dei<br />

suoi fedeli, anzi tradita dalla defezione, sempre possibile, non soltanto di tutti i suoi membri individualmente, intesi uno<br />

ad uno, ma di tutte le Chiese particolari, prese una ad una, senza le quali essa non esiste. Di qui deriva alla Chiesa la necessità<br />

di lottare contro il peccato, non soltanto come un male estraneo ad essa, che sia soltanto del mondo e nel mondo,<br />

ma soprattutto come un male che non cessa di portare in sé: il male della sua “carne” non ancora trasfigurata dallo Spirito<br />

della risurrezione. Per questo si può dire con verità: «Ecclesia semper reformanda».<br />

33 L. BOUYER, La Chiesa di Dio, op. cit., 575-576.<br />

34 Per inciso ricordiamo che una volta Paolo VI ha chiamato la Chiesa peccatrice: «Sì, gli uomini che compongono la<br />

Chiesa son fatti dell’argilla d’Adamo e possono essere, e spesso lo sono, peccatori. La Chiesa è santa nelle sue strutture,<br />

e può essere peccatrice nelle sue membra umane (…); è santa e penitente insieme, è santa in se stessa, inferma negli uomini<br />

che le appartengono»: Insegnamenti di Paolo VI, III, 1071. Anche il documento della CTI Memoria e riconciliazione<br />

presenta questo tema al n. 3.4 nei seguenti termini: «La santità e il peccato nella Chiesa si riflettono dunque nei<br />

loro effetti sulla Chiesa intera, anche se è convinzione della fede che la santità sia più forte del peccato in quanto frutto<br />

della grazia divina: ne sono prova luminosa le figure dei santi, riconosciuti come modello e aiuto per tutti! Fra la grazia<br />

e il peccato non c’è un parallelismo, e neppure una sorta di simmetria o di rapporto dialettico: l’influsso del male non<br />

potrà mai vincere la forza della grazia e l’irradiazione del bene, anche il più nascosto! In questo senso la Chiesa si riconosce<br />

esistenzialmente santa nei suoi santi: mentre però si rallegra di questa santità e ne avverte il beneficio, si confessa<br />

non di meno peccatrice, non in quanto soggetto del peccato, ma in quanto assume con solidarietà materna il peso delle<br />

colpe dei suoi figli, per cooperare al loro superamento sulla via della penitenza e della novità di vita».<br />

417


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

profondo fino alla fine: presenza di Dio e della sua grazia nel mondo; il peccato, invece, le appartie-<br />

ne per contrasto, in quanto contraddice ciò che essa è nella sua autentica natura.<br />

Sposa interamente la posizione di Rahner H. Küng, il quale arriva a parlare della Chiesa non solo<br />

come communio sanctorum ma anche come communio peccatorum. Dopo aver criticato le visioni a<br />

suo parere inadeguate di Chiesa, che non tengono conto né della sua realtà storico-concreta né<br />

dell’impossibilità di sezionare il battezzato attribuendone la parte santa alla Chiesa e la parte pecca-<br />

trice al mondo, egli così conclude: «la Chiesa degli uomini, che è nello stesso tempo la Chiesa di<br />

Dio, scaturita dalla sua grazia, si manifesta come la comunità che, malgrado tutto ciò che di pecca-<br />

minoso è in essa, è allo stesso tempo santa, e che, malgrado tutta la sua santità, è nello stesso tempo<br />

peccatrice. Questo è l’ecclesiologico “simul iustus et peccator”: una “communio peccatorum” che,<br />

per la grazia del perdono di Dio, è realmente e autenticamente una communio sanctorum» 35 . Come<br />

Rahner, anche Küng ribadisce però che la Chiesa è «santa» e «peccatrice» a due livelli molto diversi<br />

di profondità, perché la santità appartiene alla sua vocazione autentica (ma che si compirà solo<br />

nell’eternità) e il peccato la contraddice. Di qui alla Chiesa pellegrinante deriva il dovere di una pe-<br />

renne riforma: «poiché la Chiesa è sempre fatta di uomini, e di uomini peccatori, poiché la Chiesa<br />

sarà sempre deformata dalla limitatezza e dalla peccaminosità umana, essa deve riformarsi conti-<br />

nuamente, secondo il Vangelo di Gesù Cristo, resa a ciò capace e potente dalla graziosa benevolen-<br />

za di Dio: Ecclesia semper reformanda!» 36 .<br />

(IV) Riflessioni conclusive<br />

Nelle conclusioni ci rifacciamo alla proposta di M. Kehl 37 . Egli nel considerare la Chiesa segue una<br />

duplice prospettiva: la Chiesa, infatti, è insieme per i singoli e a partire dai singoli credenti; essa<br />

dunque è tanto la Chiesa che precede i singoli e li “santifica” mediante la parola e i sacramenti, co-<br />

me pure la “Chiesa dei santi” che si edifica a partire dai singoli che sono stati santificati in questo<br />

modo. In quanto “noi” dei credenti, perciò, la Chiesa rappresenta sempre anche la forma espressiva<br />

comune, che porta il segno dei singoli credenti e della fede personale di ciascuno di loro.<br />

Poiché tuttavia i credenti sono al tempo stesso anche peccatori, cioè uomini che, nonostante il sì<br />

fondamentale testimoniato nel battesimo e nella fede, non si affidano completamente alla grazia, ma<br />

si chiudono parzialmente a essa e non le permettono di esplicare tutta la sua efficacia in una vita<br />

35 La Chiesa, op. cit., 379.<br />

36 Ibid., 390.<br />

37 M. KEHL, La Chiesa, op. cit., 387-391.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

vissuta nella fede, nella speranza e nella carità; per queste ragioni la fede così deficiente dei pecca-<br />

tori segna anche la forma comune della loro fede, appunto la Chiesa. Di conseguenza il peccato non<br />

è soltanto una realtà presente nella Chiesa, dato che i singoli sono anche peccatori, ma una realtà<br />

della Chiesa stessa, poiché essa in quanto comunità di peccatori non esiste al sicuro, al di sopra de-<br />

gli uomini concreti, ma viene deturpata dal loro peccato.<br />

Certamente il peccato dei singoli e la peccaminosità della Chiesa hanno una struttura formale diver-<br />

sa: il singolo è il soggetto personale, il “da dove” del peccato; esso ha origine dalla sua libertà. La<br />

Chiesa invece costituisce la forma oggettivata comunitaria di questa fede che è danneggiata dal pec-<br />

cato dei singoli; in essa si manifesta il “risultato” sociale del peccato dei singoli soggetti.<br />

Questo lato della Chiesa legato ai soggetti (Chiesa a partire dai singoli peccatori) non può però es-<br />

sere separato (certo però distinto!) dall’altro lato, quello per cui essa — a partire da Cristo, sua ori-<br />

gine personale, e da Maria, suo modello originario personificato — costituisce il dono precedente,<br />

santo e “oggettivo” della salvezza per i singoli. In un’unità «senza confusione e senza separazione»,<br />

la Chiesa concretamente esistente rappresenta sempre entrambi i lati. Per questo il suo essere segna-<br />

ta dal peccato a causa del peccato dei singoli riguarda anche la sua dimensione di previa condizione<br />

di possibilità per la fede; questo significa che anche i suoi doni più santi, appunto la parola e i sa-<br />

cramenti, non sono collocati al sicuro al di là degli uomini peccatori, ma sono condizionati da essi<br />

(che sia colui che li riceve o il ministro che li amministra). Perciò anche lo stesso spazio vitale pre-<br />

cedente (il “dove”) della fede può diventare per i singoli occasione di peccato personale, al modo di<br />

una struttura che inclina al peccato. Se la Chiesa come “noi” dei credenti non può esistere in forma<br />

ipostatizzata, indipendentemente dai singoli credenti, allora inevitabilmente ne deriva questa influ-<br />

enza reciproca tra il dato previo “oggettivo” e l’appropriazione “soggettiva” della fede comune, e<br />

questo non solo per quanto riguarda la santità, ma anche per il peccato. Perciò essa stessa in quanto<br />

Chiesa (e non solo ogni singolo al suo interno) deve quotidianamente invocare il perdono e il rinno-<br />

vamento (ad esempio, nel Padre nostro, nella confessione dei peccati durante la celebrazione eucari-<br />

stica, in diverse orazioni della messa e nelle intercessioni).<br />

D’altra parte, quando si parla di Chiesa santa e peccatrice, questo «e» non significa la somma di due<br />

proprietà, certamente opposte, ma che per il resto si trovano sullo stesso piano “ontologico”. Al con-<br />

trario, dove la Chiesa nei singoli credenti e nella sua struttura sociale lascia spazio all’azione santi-<br />

ficante dello Spirito di Dio, si manifesta la sua vera natura, la sua vocazione e missione ricevuta da<br />

Dio come Chiesa “santa”. Dove invece essa si chiude a questo Spirito e diviene così Chiesa pecca-<br />

trice, si manifesta in essa “soltanto” l’opposizione, che rimane presente all’interno della storia e tut-<br />

tavia è già sconfitta “in linea di principio” da Cristo e quindi in ultima analisi ridotta all’impotenza,<br />

419


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

degli uomini (come singoli e come comunità) contro la santità operata dallo Spirito. Per questo la<br />

Chiesa non è affatto il «puro paradosso di un’unità tra peccato visibile e grazia nascosta» (Rahner).<br />

La sua identità teologica propria consiste piuttosto nel fatto che essa rappresenta la risposta visibile,<br />

resa conforme al Figlio Gesù Cristo dallo Spirito Santo, all’autocomunicazione definitiva di Dio<br />

nella storia e che essa nelle sue azioni fondamentali partecipa nel modo dell’accoglienza, della ri-<br />

sposta e della sequela, all’amore incondizionatamente salvante di Gesù Cristo verso il Padre e verso<br />

gli uomini e quindi è da lui mantenuta indistruttibilmente nella santità che le è donata. Per quanto la<br />

contraddizione della Chiesa derivante dal peccato possa deformarne spesso l’identità fino a renderla<br />

irriconoscibile, la Chiesa tuttavia confida che il peccato non potrà mai prevalere sull’azione dello<br />

Spirito nella Chiesa e perciò non potrà distruggere la comunità santa di Dio.<br />

Questa certezza ultima della salvezza, d’altra parte, si riferisce solo alla Chiesa nella sua totalità e<br />

non a ogni singolo o a singoli gruppi al suo interno. Per quanto riguarda i singoli, la questione della<br />

salvezza definitiva o della perdizione, dal nostro punto di vista, rimane aperta; il loro peccato, infat-<br />

ti, può separarli in modo definitivo da Dio. Il fatto che questo non possa valere allo stesso modo per<br />

la Chiesa mostra con chiarezza che essa è più della somma dei suoi membri peccatori. Se la que-<br />

stione della salvezza anche per la Chiesa nella sua totalità rimanesse aperta, allora verrebbe meno<br />

proprio la peculiarità di questa alleanza nuova e definitiva che Dio in Gesù Cristo ha stabilito con il<br />

suo popolo (e per mezzo di esso con tutta l’umanità). In questo caso, infatti, anche questa alleanza<br />

potrebbe essere infranta e distrutta di nuovo dal peccato del popolo. Questo però significherebbe che<br />

il male otterrebbe retroattivamente la vittoria sul Cristo crocifisso e risorto e sul regno di Dio che in<br />

lui è venuto in modo definitivo. L’intero messaggio neotestamentario della salvezza di Dio escato-<br />

logica, cioè apparsa definitivamente, perderebbe di conseguenza la sua verità e la sua credibilità.<br />

Poiché tuttavia la potenza salvante di Dio, cioè il suo Spirito, rimane presente nella Chiesa (cfr. Gv<br />

14,16-18; 16,7-15; Mt 16,18; 28,20; Rm 8,34-39 e altri), possiamo confidare fiduciosamente che il<br />

peccato del popolo di Dio non è più in grado di annullare l’incondizionata volontà di salvezza di<br />

Dio. Questa fiducia trova i suoi sicuri punti d’appoggio primariamente nei santi i quali rendono tra-<br />

sparente in modo indubitabile l’amore di Dio, ma anche nella struttura sacramentale-oggettiva della<br />

Chiesa: tanto l’annuncio della parola di Dio come l’amministrazione dei sacramenti sono per la<br />

Chiesa segni infallibili che lo Spirito mantiene in modo definitivo la Chiesa nella verità della fede e<br />

nella santità dell’amore.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

3.4.4. Credo la chiesa cattolica<br />

a) Storia e significato della parola “katholiké”<br />

Il termine “cattolico” non si trova né nei LXX né nel NT (c’è in At 4,18, dove significa “totalmen-<br />

te”). Nel greco profano esso era inteso come composto da due parole, kath’hólou = “secondo il tut-<br />

to”. Ciò è da intendersi non già nel senso di una somma bensì di una totalità, di un «tutt’uno». Per<br />

questo, non di rado, il qualificativo cattolico era predicato di concetti come la verità e la bellezza, in<br />

quanto distinti dagli oggetti particolari, buoni e belli, che sono esempi concreti di tale universalità.<br />

La più antica applicazione del termine alla chiesa si trova nella lettera di S. Ignazio di Antiochia alla<br />

chiesa di Smirne, in cui si scrive: «Dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è<br />

Gesù Cristo ivi è la chiesa cattolica» (8, 2). Delle molte interpretazioni date a questa sentenza, la più<br />

probabile sembra essere quella che Ignazio qui sta distinguendo tra l’assemblea eucaristica locale e<br />

la chiesa come un tutto, nella sua interezza.<br />

Nel racconto del martirio di S. Policarpo, vescovo di Smirne, si trovano quattro ricorrenze del ter-<br />

mine in riferimento alla chiesa. Il racconto si apre con un saluto a «tutte le comunità della santa<br />

chiesa cattolica di ogni luogo». Esso riferisce come Policarpo, dopo il suo arresto, ha pregato «per<br />

tutta la chiesa cattolica sparsa nel mondo» (8, 1). Definisce Gesù Cristo come «pastore della chiesa<br />

cattolica diffusa su tutta la terra» (19, 2). In questi casi, la parola “cattolica” sembrerebbe essere usa-<br />

ta nel senso di “universale” in opposizione a “locale” o “particolare”. Comunque, anche qui “catto-<br />

lica” non è semplicemente sinonimo di “geograficamente universale”, poiché il termine contiene,<br />

più o meno latente, l’ulteriore idea dell’unità, dell’unicità. Per essere veramente “cattolica”, deve<br />

essere una e la stessa chiesa in tutto il mondo. Il quarto uso di “cattolica” nel Martirio introduce una<br />

nuova applicazione della parola: Policarpo è definito «vescovo della chiesa cattolica di Smirne» (16,<br />

2). Qui chiaramente è la chiesa locale di Smirne ad essere indicata come “cattolica”. In che senso<br />

una chiesa locale può essere designata da un aggettivo il cui significato originario è “universale”?<br />

Perché nel corso del II secolo i cristiani ortodossi cominciarono a distinguere le loro chiese dalle<br />

numerose sette scismatiche ed eretiche sulla base dell’unità e universalità della vera chiesa, in oppo-<br />

sizione alla molteplicità e alla natura localmente limitata delle sette. Così la cattolicità venne ad es-<br />

sere riconosciuta come un criterio di ortodossia. Secondo Kelly questo è il significato dominante di<br />

“cattolica” dalla seconda metà del secolo in poi, in Oriente come in Occidente; esso denota l’unica,<br />

vera chiesa di Cristo come contrapposta a tutti i gruppi eretici e scismatici, ed indica l’universalità<br />

di quella come garanzia di autenticità. “Cattolico” passò a significare “ortodosso” o, come suggeriva<br />

Vincenzo di Lerino, «ciò che è stato creduto dovunque, sempre e da tutti» (Commonitorium, I, 2).<br />

421


Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Meno di frequente si ritrova il termine “cattolica” usato col significato di “totalità” o “pienezza”.<br />

Cirillo di Gerusalemme spiega che la chiesa è chiamata “cattolica” «perché si diffonde per tutto il<br />

mondo da un confine all’altro della terra; perché insegna universalmente e con esattezza tutti i prin-<br />

cipi che giovano alla conoscenza degli uomini nelle cose visibili e invisibili, celesti e terrestri; per-<br />

ché è subordinato al suo culto tutto il genere umano...; perché sana e cura dappertutto ogni genere di<br />

peccato dell’anima e del corpo commesso. Essa ha in sé ogni conclamata virtù nelle opere, nelle pa-<br />

role e in ogni carisma spirituale» (Catechesi XVIII prebattesimale, 23).<br />

L’espressione non è stata assunta subito nei simboli: se quello di Nicea non lo fa ancora, la cosa pe-<br />

rò è acquisita nel corso del IV secolo e recepita nel simbolo Niceno-costantinopolitano.<br />

Con la Riforma fu messa in questione l’unità, e di conseguenza anche la cattolicità della Chiesa.<br />

Nella polemica confessionale si è potuto vedere la “chiesa cattolica” come chiesa ortodossa, oppure<br />

per estensione come la chiesa diffusa su tutta la terra e che perciò abbraccia popoli, lingue e culture<br />

diverse, la chiesa numericamente più grande che dura al di là del tempo. I riformatori intendevano la<br />

cattolicità soprattutto nel senso dottrinale: è cattolico ciò che è stato creduto dovunque, sempre e da<br />

tutti conformemente alle Scritture. I polemisti cattolici hanno reclamato non soltanto la cattolicità<br />

della dottrina, ma anche dello spazio, del numero e del tempo.<br />

Con il Vaticano II la chiesa cattolica, oltre alla classica prospettiva “quantitativa” della cattolicità,<br />

ha recuperato anche la prospettiva “qualitativa”, connessa all’idea di totalità e di pienezza in ordine<br />

alla mediazione della salvezza. In LG 13 il riconoscimento della origine trinitaria della cattolicità e<br />

la sua comprensione come universalità di razze, nazioni, culture, permettono di collegare la cattoli-<br />

cità a un’idea di unità ricca di differenze e di collocarla in relazione con tutta l’umanità chiamata ad<br />

essere il popolo di Dio unico ed universale.<br />

Il termine “cattolicità” è stato quindi protagonista di una lunga storia di interpretazioni. In una pro-<br />

spettiva sintetica possiamo individuare cinque piani fondamentali intorno ai quali organizzarne il<br />

contenuto semantico: “cattolicità” indica, in senso descrittivo, l’universitas christianorum e il cor-<br />

pus ecclesiarum; in senso qualitativo, la destinazione universale della chiesa; in senso geografico e<br />

quantitativo, l’estensione su tutta la terra; in senso polemico, la forma “confessionale” della chiesa<br />

romana; in senso antropologico-cosmico, il dono escatologico.<br />

Alla luce di tutti questi dati possiamo dire che «l’Ekklesía nella sua forma storica si dà sempre do-<br />

vunque essenzialmente come comunità locale, come chiesa locale. Ma queste chiese locali sono<br />

chiese solo in quanto sono manifestazione, rappresentazione e realizzazione dell’unica chiesa totale,<br />

completa e universale, cioè della chiesa tutta intera. Benché la chiesa locale sia in sé totalmente<br />

chiesa, non è tuttavia la chiesa totale. Soltanto tutte le chiese locali sono la chiesa totale, e ciò non<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

in quanto addizionate e associate esternamente, ma in quanto interiormente unite nello stesso Dio,<br />

Signore e Spirito, lo stesso vangelo, lo stesso battesimo, lo stesso banchetto eucaristico e la stessa<br />

fede (Ef 4,4-6). La chiesa nella sua interezza è la chiesa manifestata, rappresentata e realizzata nelle<br />

chiese locali. Se è vero che la chiesa, in questo senso di chiesa nella sua interezza, è la chiesa totale,<br />

essa può chiamarsi, secondo l’uso linguistico originario, la chiesa cattolica, cioè la chiesa totale, u-<br />

niversale e completa. La cattolicità consiste essenzialmente nella totalità. Ma nella misura in cui<br />

ogni chiesa locale rende presente questa chiesa totale, può anch’essa venir chiamata cattolica. Una<br />

chiesa non perde la sua cattolicità per il fatto di essere una chiesa localmente limitata, ma per il fatto<br />

che essa, localmente delimitata, si stacca dalle altre chiese, e con ciò dalla chiesa totale e intera, e si<br />

fissa e si concentra su se stessa nella propria fede e nella propria vita, pretendendo così di bastare a<br />

se stessa. Non cattolica è soltanto la chiesa particolaristica: quella che si separa (“scismatica”) dalla<br />

fede e dalla vita della chiesa intera, si singolarizza (“eretica”) o forse persino rinnega (“apostata”).<br />

Una chiesa non è cattolica semplicemente per la sua estensione territoriale: la cattolicità non è pri-<br />

mariamente un concetto geografico. Una chiesa non è cattolica soltanto per quantità numerica: la<br />

cattolicità non è primariamente un concetto statistico… Una chiesa non è cattolica semplicemente<br />

per la varietà socioculturale: la cattolicità non è primariamente un concetto sociologico… Una<br />

chiesa non è cattolica semplicemente per la sua continuità temporale: la cattolicità non è primaria-<br />

mente un concetto storico… Anche la chiesa più internazionale, più vasta, più multiforme e più an-<br />

tica può dunque alienarsi: allora essa non è più la stessa, si è allontanata dalla sua essenza più inti-<br />

ma, è deviata dal suo cammino più proprio. Certo, la chiesa deve muoversi, deve costantemente mu-<br />

tare: essendo storica, non può fare diversamente. Ma in nessun modo essa deve diventare un’altra,<br />

estranea a se stessa. La chiesa è cattolica solo in ragione di un’identità completa: vale a dire che,<br />

nonostante tutti i cambiamenti di tempo e forma continuamente necessari e nonostante ogni imper-<br />

fezione e fragilità, essa è, deve essere e vuole essere essenzialmente la stessa dovunque, sotto ogni<br />

forma e in ogni tempo, di modo che “sempre, dovunque e da tutti” venga conservata, rafforzata e re-<br />

sa credibile la stessa essenza della chiesa. Solo con il presupposto di questa identità, la chiesa si di-<br />

mostra come la chiesa integralmente totale, genuinamente universale, indivisamente completa: co-<br />

me la chiesa veramente cattolica… L’identità è il fondamento della cattolicità… Ma per la sua ori-<br />

gine ed essenza, la chiesa è universale… L’universalità è la conseguenza della cattolicità» 38 .<br />

38 H. KÜNG, La Chiesa, op. cit., 347-350. Cfr. H. DE LUBAC, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma (Roma: Stu-<br />

dium, 1964) 39.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

3.4.5. Credo la chiesa apostolica<br />

a) Sul fondamento degli apostoli<br />

«Ci siamo interrogati sull’unità nella pluralità, sulla cattolicità nell’identità, sulla santità nella pec-<br />

caminosità, e sempre si è posta la questione del criterio: dove e in quale misura abbiamo a che fare<br />

con la chiesa una, santa e cattolica? Che cos’è la vera unità, la vera cattolicità, la vera santità? Il<br />

quarto attributo della chiesa dona espressamente un criterio decisivo: una chiesa è veramente una,<br />

santa e cattolica, solo quando essa è in tutto ciò apostolica. Non si tratta di un’unità, santità e catto-<br />

licità qualunque, bensì tale da riferirsi agli apostoli e da essere in questo senso apostolica» 39 .<br />

Nello sviluppo dell’articolo sulla chiesa nel simbolo battesimale della chiesa primitiva, “apostolica”<br />

fu l’ultima delle quattro proprietà ad essere aggiunta. Il credo battesimale della chiesa d’occidente<br />

— il Simbolo degli Apostoli — menziona solo due attributi: “santa” e “cattolica”. Verso la metà del<br />

IV secolo il credo battesimale diffuso a Gerusalemme, come sappiamo dalle catechesi di Cirillo ve-<br />

scovo, definisce la chiesa “una, santa e cattolica”. Il primo simbolo battesimale che ha aggiunto<br />

l’attributo “apostolica” è quello della chiesa di Salamina a Cipro, nella seconda metà del IV secolo.<br />

Sant’Epifanio, vescovo di quella città, ci fornisce il testo di quel simbolo nel suo scritto Ancoratus<br />

dell’anno 374. È stato questo credo, o una formula battesimale orientale analoga, che il concilio di<br />

Costantinopoli ha seguito per definire la chiesa una, santa, cattolica e apostolica nel simbolo che è<br />

divenuto il credo liturgico comune alla maggior parte delle chiese cristiane.<br />

Sebbene il termine “apostolica” sia entrato tardi nei simboli cristiani ufficiali, ciò non vuol dire che<br />

la parola sia sconosciuta al vocabolario cristiano. La troviamo per la prima volta già nel II secolo<br />

nella lettera ai Tralliani di S. Ignazio di Antiochia («Ignazio, Teoforo, a quella che è amata da Dio,<br />

il Padre di Gesù Cristo, la chiesa santa che è in Tralli dell’Asia, eletta e degna di Dio... il saluto nel-<br />

la pienezza del carattere apostolico e l’augurio di ogni bene»: saluto). Alla metà del II secolo, i pre-<br />

sbiteri della chiesa di Smirne, raccontando il martirio del vescovo Policarpo, lo descrivono come un<br />

“maestro apostolico e profetico” (n. 16). Il termine si rinviene esclusivamente nella letteratura cri-<br />

stiana e con una varietà di significati specifici, ma con un denominatore comune: l’espressione di<br />

una relazione agli apostoli tanto di origine, di somiglianza, fedeltà, o successione come di qualche<br />

altro modo per cui le persone o le cose sarebbero “degli apostoli” o “simili agli apostoli” 40 .<br />

39 H. KÜNG, La Chiesa, op. cit., 399.<br />

40 F. SULLIVAN, Noi crediamo la Chiesa, op. cit., 153-154.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

«Però, già dai secoli II e III, “apostolico” acquista anche un significato ascetico, e designa allora:<br />

“simile agli apostoli”; sia certe sette dell’antichità e del medioevo (le “apostoliche”), sia l’antica let-<br />

teratura monastica usano la parola in questo senso e intendono con ciò la rinuncia alla proprietà e al<br />

matrimonio. Solo relativamente tardi la parola acquista in primo luogo un significato pastorale atti-<br />

vo (in opposizione alla contemplazione)» 41 e in genere missionario.<br />

b) Chi erano gli apostoli?<br />

1. Gli storici delle origini cristiane si accordano nell’attribuire all’apostolato cristiano una origine<br />

post-pasquale 42 . Esso è fondato sulle apparizioni del Cristo risorto (1Cor 9,1; 15,5-11). Ma non tutti<br />

i testimoni della risurrezione erano considerati apostoli. Solamente le apparizioni che possedevano<br />

un carattere di appello e di missione potevano legittimare il loro destinatario, di fronte alla Chiesa di<br />

Gerusalemme, come un inviato plenipotenziario di Gesù Cristo. È perché Paolo soddisfaceva chia-<br />

ramente questo criterio che fu riconosciuto come l’ultimo apostolo chiamato (1Cor 15,9-11).<br />

2. Oltre a questo tipo di apostolato chiaramente definito, quale era rappresentato a Gerusalemme, si<br />

trovano ad Antiochia e nel retroterra siriano le tracce di un apostolato più aperto, di carattere pneu-<br />

matico e carismatico. Il fattore determinante qui non è il mandato di Cristo risorto, ma un’istruzione<br />

dello Spirito. Secondo la tradizione antica ripresa in At 13,1-3; 14,4.14, Paolo e Barnaba, grazie a<br />

una testimonianza profetica ispirata dallo Spirito, furono investiti del compito di inviati missionari<br />

della comunità di Antiochia e considerati a questo titolo come degli apostoli. L’origine di questo se-<br />

condo tipo di apostolato resta oscura, ma si può supporre che essa si radichi nella cerchia dei mis-<br />

sionari itineranti galileo-siriani usciti dalla comunità cristiane prepasquale, alla quale si collega la<br />

fonte Q, o fonte dei logia (Mt 10,5-15 par.; Lc 10,1-12). Così la Didaché (11,3-6) attesta ancora<br />

l’esistenza nella Siria dell’inizio del II secolo la presenza di predicatori carismatici itineranti, che<br />

erano considerati come degli apostoli. Forse è tra di loro che bisogna cercare gli avversari designati<br />

da Paolo in 2 Corinti come «superapostoli» (2Cor 11,5; 12,11) o come «falsi apostoli» (2Cor<br />

11,13), che legittimavano il loro mandato spirituale con la parola ispirata (2Cor 10,10; 11,6), obbli-<br />

gando Paolo a paragonarsi a loro per le visioni (2Cor 12,1) e i «segni distintivi dell’apostolato»<br />

(2Cor 12,12) — così come i falsi apostoli di Efeso evocati (in epoca postpaolina) in Ap 2,2.<br />

41 H. KÜNG, La Chiesa, op. cit., 399.<br />

42 KEHL, La Chiesa, op. cit., 293-305; KÜNG, La Chiesa, op. cit., 400-409; CONGAR, art. cit., in MySal VII, 639-641;<br />

SULLIVAN, Noi crediamo la Chiesa, op. cit., 154-169; ID., From Apostles to Bishops. The Development of the Episcopacy<br />

in the Early Church (New York/Mahwah, N.J.: The Newman Press, 2001); TH. SCHNEIDER – G. WENZ (edd.). Das<br />

kirchliche Amt in apostolischer Nachfolge, I: Grundlagen und Grundfragen (Freiburg: Herder; V&R: Göttingen, 2004).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

3. È Paolo che ha il merito di aver approfondito e sviluppato con una vasta riflessione teologica la<br />

comprensione dell’apostolato. Dai suoi scritti possiamo estrapolare i criteri base che doveva avere<br />

un apostolo di Gesù Cristo: 1) aver visto il Cristo risorto; 2) aver ricevuto da lui la missione di pre-<br />

dicare il Vangelo; 3) avere il compito di raccogliere la comunità di salvezza formata da giudei e pa-<br />

gani, per farne il luogo di esistenza del Vangelo nella storia. Paolo è convinto di essere stato chia-<br />

mato e inviato per suscitare «l’obbedienza della fede tra tutte le nazioni» (Rm 1,1-7). Ecco perché il<br />

ministero dell’apostolo ha la precedenza su tutti gli altri ministeri comunitari (1Cor 3,9-17): è lui<br />

che pone il fondamento dell’edificio sacro della Chiesa, sul quale gli altri costruiranno (1Cor 3,9-<br />

17); è lui il padre che, portando il Vangelo, ha generato la Chiesa (1Cor 4,15; Gal 4,12-20). In con-<br />

formità a questa funzione fondatrice, il compito apostolico non è limitato a una comunità particola-<br />

re, ma si rapporta alla Chiesa universale.<br />

4. L’altra riflessione forte sul ministero apostolico è quella sviluppata da Luca, il quale lega<br />

l’apostolato alla missione (prima e dopo Pasqua: Lc 24,44-49; At 1,8; cfr. Mt 28, 18-20; Mc 16, 15-<br />

16; Gv 20, 21-23) che il Cristo ha affidato ai dodici, costituendoli così come gli iniziatori e i garanti<br />

della tradizione alla quale la Chiesa deve conformarsi (At 2,42). Questo mandato, oltre all’incarico<br />

di “predicare il Vangelo ad ogni creatura”, implica un ruolo di autorità nella comunità dei discepoli<br />

formata dalla loro predicazione.<br />

5. Come abbiamo visto già nella parte biblica già all’interno del NT si configura il trapasso dal tem-<br />

po apostolico a quello post-apostolico, dove si vede che il ministero apostolico, unico e singolare,<br />

non prevede successori agli apostoli. Ma al ministero apostolico si legano i compiti dell’annuncio,<br />

della fondazione e del governo della chiesa, compiti che dovranno pur continuare, per cui riconosce-<br />

remo anche un ministero apostolico che continua e che per la chiesa rimane necessario, per il suo<br />

riferimento permanente a quel ministero pur singolare affidato ai soli apostoli. Nel NT questi mini-<br />

steri apostolici non si spiegano come istituzioni puramente umane, ma quali carismi, realtà prodotte<br />

e donate dallo Spirito Santo (At 20,28), e che vengono conferite con l’imposizione delle mani e la<br />

preghiera (1Tim 4,14; 2Tim 1,6; Tt 1,5; cfr. At 14,23). Stando all’enunciato riassuntivo di Ef 4,10-<br />

12, è lo stesso Signore glorificato ad inviare dal cielo alla chiesa e per la sua edificazione questi mi-<br />

nisteri in dono. Questa è la stessa impostazione che troviamo nel mandato missionario che si pone<br />

in bocca a Gesù a conclusione dei vangeli sinottici e all’inizio degli Atti (Mt 28,20; cfr. Mc 16,15;<br />

Lc 24,47s; At 1,8): il vangelo di Gesù Cristo deve essere testimoniato a tutti i popoli e in tutti i tem-<br />

pi; questo compito missionario va oltre il tempo compreso nella vita dei primi testimoni e assume<br />

un certo qual carattere istituzionale. Dopo la morte dei primi testimoni, dei testimoni originari, ci<br />

saranno sempre degli uomini che garantiranno tale missione. Ma allora la successione non andrà in-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

tesa nel senso lineare di una catena che lega tra loro, come anelli, i capi ministeriali che si succedo-<br />

no, ma piuttosto come una cooptazione ed incorporazione di nuovi membri nel collegio apostolico<br />

ed in una missione che deve continuare anche nel futuro. Emerge così l’aspetto decisivo: la succes-<br />

sione apostolica non è qualcosa di importante per se stessa, ma è interamente a servizio del vangelo<br />

di Gesù Cristo e nel vangelo trova la sua norma. La successione apostolica va intesa come succes-<br />

sione nella dottrina e nella vita degli apostoli: nella sua dimensione istituzionale ma anche in quella<br />

esistenziale. La successione apostolica è quindi la figura concreta in cui e mediante cui Gesù Cristo<br />

rimane con noi, nello Spirito santo, permanentemente, fino alla fine dei tempi. È la figura concreta<br />

in cui la Traditio che Gesù ha fatto di sé una volta per sempre si comunica a noi, garantisce una pre-<br />

senza che continuamente si rinnova.<br />

6. È solo nel periodo post-neotestamentario che troviamo un vescovo singolo in ciascuna chiesa.<br />

Ciò che possiamo affermare con una ragionevole certezza è che dalla fine del secondo secolo in poi,<br />

ciascuna chiesa veniva guidata da un vescovo singolo e che questi vescovi erano riconosciuti come<br />

successori degli apostoli nel loro ministero pastorale. Questo riconoscimento, che solo gli gnostici<br />

rifiutarono di dare, fu un elemento cruciale nella coscienza della chiesa della sua apostolicità.<br />

c) L’apostolicità della chiesa post-neotestamentaria<br />

Nella chiesa antica la successio non viene mai scissa dalla traditio, ma nemmeno isolata dalla com-<br />

munio. Infatti la successio è a servizio della traditio; d’altra parte la traditio ci viene resa disponibi-<br />

le soltanto nel modo della successio. Sullo sfondo di questo rapporto fra tradizione e successione<br />

apostolica sta un certo modo, quello sacramentale, di intendere la chiesa e i suoi ministeri quali se-<br />

gni e strumenti della salvezza. Anche la successione ministeriale, quindi, si articola in segni e stru-<br />

menti della “realtà” vera e propria, il vangelo da trasmettere. L’apostolicità intesa come continuità<br />

storica, è a servizio della apostolicità intesa come identità, contenuto vero e proprio del messaggio<br />

apostolico. D’altra parte la trasmissione del ministero apostolico avviene all’interno della communio<br />

dei fedeli (essi partecipano alla elezione del vescovo e alla sua ordinazione) e dell’ordo dei vescovi.<br />

Il singolo vescovo non entra a far parte della successione apostolica perché si salderebbe, quale a-<br />

nello di una catena ininterrotta, ai suoi predecessori, fino all’apostolo, ma perché è in comunione<br />

con l’intero ordo episcoporum, che a sua volta succede al collegio degli apostoli e partecipa della<br />

sua missione. Da questo legame tra traditio, successio e communio non discende alcun automatismo<br />

e meccanismo: la successione è un segno, non una qualche garanzia della tradizione vera. Il singolo<br />

o i singoli vescovi possono anche rinnegare la tradizione, escludendosi in tal modo dalla comunio-<br />

ne. In questo caso non si dovrà loro alcuna obbedienza. Il segno della successione, quindi, non ga-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

rantisce in ogni caso la “realtà” significata, la vera tradizione. D’altra parte notiamo che per arrivare<br />

ad un’altra convinzione, ossia che lo Spirito, il quale garantisce la vera traditio, possa darsi anche<br />

laddove, per una qualche ragione, manchi o in parte difetti il segno — della successio o della com-<br />

munio — la chiesa e la teologia hanno impiegato più tempo. Sarà il Concilio Vaticano II a corregge-<br />

re l’impostazione agostiniana che qui faceva sentire tutto il suo peso (cfr. LG 8.15; UR 2s). La suc-<br />

cessio, intesa come segno, e la traditio, come la cosa da essa significata e testimoniata, in concreto<br />

potrebbero anche conoscere una dissociazione. Ma il caso limite non può essere fatto passare per<br />

norma. Se muoviamo nell’ottica della chiesa antica dovremo piuttosto convenire che traditio, suc-<br />

cessio e communio sono fondamentalmente riferite l’una all’altra.<br />

d) La divaricazione fra traditio e successio nel medioevo e nella Riforma<br />

Nel medioevo si affievolì la consapevolezza dell’intimo nesso esiste fra traditio, successio e com-<br />

munio. Le ragioni del fenomeno sono diverse e lo sviluppo cui esso dette origine è molto comples-<br />

so. D’importanza decisiva fu la perdita dell’antica visione sacramentale della chiesa in seguito alla<br />

seconda disputa sull’eucaristia (sec. XI). Ora la chiesa veniva considerata spesso come mero appara-<br />

to giuridico e l’autorità ministeriale concepita non più come repraesentatio sacramentale ad opera<br />

dello Spirito bensì quale potestas conferita al singolo pastore come sua propria, e non più necessa-<br />

riamente riferita alla communio in un sistema che prevedeva ordinazioni “assolute”, cioè disancorate<br />

dalla chiesa locale concreta. L’ordine sacro tendeva ad assumere il carattere di un rito consacratorio<br />

a sé stante, quello del sacramento di ordinazione al sacerdozio, mentre il ministero episcopale non si<br />

inquadrava più nel suo contesto sacramentale e il vescovo si contrapponeva al semplice “presbite-<br />

ro”, perché dotato di una maggior potestas (iurisdictio) e dignitas all’interno della chiesa.<br />

Su questo sfondo nel tardo medioevo anche a singoli non-vescovi, cioè semplici preti, poté essere<br />

conferita, attraverso la giurisdizione pontificia, la pienezza della potestas. La cosiddetta successione<br />

presbiterale, dunque, non è un surrogato e un’alternativa alla successione episcopale ma una figura<br />

in cui la successione stessa si articola. Ma a quali inquietanti conseguenze potesse condurre<br />

l’angusta prospettiva medievale ce lo mostra il fatto che per es. a Colonia diversi arcivescovi non<br />

avevano nemmeno ricevuto l’ordinazione episcopale: mancava ormai la consapevolezza dello stret-<br />

to nesso esistente fra successio, traditio e communio. Anche a motivo di tali disfunzioni e di tante<br />

altre ancora oggi quasi inimmaginabili, la chiesa non veniva più percepita da molti nella sua confi-<br />

gurazione esteriore, quale segno di salvezza e di verità.<br />

Se teniamo conto di un quadro del genere possiamo capire anche l’aspra critica che i movimenti ri-<br />

formatori muovevano alla chiesa ed al ministero, indirizzandola contro un sacerdozio ordinato com-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

preso entro una visione sacramentale molto angusta e unilaterale, spesso slegato da ogni riferimento<br />

all’annuncio della Parola ed al servizio della comunità, e contro un ministero episcopale e pontificio<br />

avvertito come una tirannia. Non per questo la Riforma escludeva un nesso con il ministero episco-<br />

pale nella sua successione storica, se i vescovi fossero stati vescovi e la predicazione del vangelo si<br />

fosse ispirata alla dottrina riformatrice della giustificazione. Nessun vescovo però fu disposto a pas-<br />

sare nel campo riformato ed a nominare ministri per le comunità che avevano fatto tale scelta, per<br />

cui si provvide a nominare propri ministri ed a giustificare la decisione come un “provvedimento di<br />

emergenza”. Ci si considerava legittimati a farlo sia perché, richiamandosi a Girolamo, si equipara-<br />

va il ministero di parroco sostanzialmente a quello di vescovo, sia perché si era convinti che l’intera<br />

chiesa meritasse la qualifica di apostolica e quindi fosse legittimata a nominare i propri ministri.<br />

Soprattutto per quest’ultima motivazione appare abbastanza fragile la tesi secondo cui la critica ri-<br />

formatrice riguardava esclusivamente le disfunzioni e gli abusi, per poi sviluppare anche una eccle-<br />

siologia di emergenza. Facendo leva sull’esperienza dello scarto esistente tra vangelo originario e<br />

chiesa di fatto, i Riformatori ponevano l’accento sulla libertà e superiorità che il vangelo vanta sulla<br />

chiesa concreta. E proprio per questa “contrapposizione” essi confidavano che il vangelo si sarebbe<br />

imposto nello Spirito e avrebbe trovato ascolto nella chiesa, senza essere costretti a legarsi a deter-<br />

minati ministeri e persone (Cfr. ApolCA 7,22; Calvino, Ist. IV,2,3). La vera successione, dunque, sta<br />

proprio nel vangelo che continua ad essere proclamato 43 .<br />

Così il problema di un aggancio al ministero, in successione presbiterale od episcopale, diventò<br />

questione di diritto puramente umano, dove pare che il nesso fra traditio e successio, od anche tra<br />

vangelo e chiesa concreta, quello che la chiesa antica considerava intrinseco, non venisse più rico-<br />

nosciuto, e non soltanto in qualche sporadico caso, ma in linea di principio. E lo si rileva fin nei più<br />

recenti “documenti di convergenza”, dove la successione nel ministero episcopale è considerata au-<br />

spicabile e consigliabile, non però irrinunciabile sul piano teologico. Questa scelta dei Riformatori<br />

poneva e continua a porre in discussione non soltanto un problema fra i tanti, ma la stessa visione<br />

globale della chiesa, in altre parole la combinazione simbolico-sacramentale degli elementi visibili<br />

43 Cfr. WA 39, 1,191,28: «Haec est vera definitio Ecclesiae: non quae succedit Apostolis: sed quae confitetur quod Christus<br />

sit filius Dei». 39, 11,1765; 177,1: «Successio ad Evangelium est alligata… Bisogna vedere dov’è la Parola… Ubi<br />

est verbum, ibi est Ecclesia… Credendum est episcopo, non quia succedit episcopo huius loci; sed quia docet Evangelium.<br />

Successione significa Vangelo». CALVINO, Ist. IV, 2,2: «L’obiezione della successione (dei vescovi) non ha senso<br />

quando i successori… non conservano intatta la verità di Cristo ed in essa non perseverano senza cedimenti»; IV 2,4: ciò<br />

che caratterizza la chiesa è la parola di Dio. «Se c’è questa nota caratteristica, non ci si può sbagliare, perché sicuramente<br />

qui c’è anche chiesa; dove, invece, questa nota mancasse, non ci sarebbe nemmeno una qualche indicazione di presenza<br />

di chiesa».<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

della chiesa con la sua essenza spirituale, percepibile soltanto per fede. Quando parlavano del “na-<br />

scondimento della chiesa” i Riformatori non intendevano certo una civitas platonica (Cfr. ApolCA<br />

7,20). Essi non volevano confondersi con i “fanatici” e nella Parola e nel Sacramento, come del re-<br />

sto anche nei ministeri, coglievano certi elementi visibili presenti nella chiesa (Cfr. CA 5; Heidel-<br />

bergerKatechismus, quest. 65s.; CALVINO, Ist. IV 1,1.5s.; 2,1; 8,13). Ciò non comporta che dalla lo-<br />

ro impostazione traspaia anche un chiaro riconoscimento del fatto che la salvezza, donataci una vol-<br />

ta per tutte, venga mediata dalla chiesa. La frattura si operò, in prima istanza, non per il disconosci-<br />

mento di una successione ininterrotta, ma per l’affermarsi di una nuova concezione di chiesa nel suo<br />

rapporto con il vangelo della salvezza in Gesù Cristo. F. Schleiermacher ha accentuato un po’ trop-<br />

po questa differenza, ma la formula da lui coniata coglie comunque nel segno: il protestantesimo «fa<br />

dipendere il rapporto del singolo con la chiesa dal suo rapporto con Cristo», mentre al contrario il<br />

cattolicesimo «fa dipendere il rapporto del singolo con Cristo dal suo rapporto con la chiesa» 44 . Si<br />

tratta soltanto di sapere, naturalmente, se la posizione protestante derivi da una situazione di emer-<br />

genza ancora perdurante o se lo stato di necessità che a quel tempo si diagnosticava assuma un ca-<br />

rattere stabile, costitutivo. Le risposte che oggi si danno nel protestantesimo contemporaneo sem-<br />

brano differenziarsi notevolmente.<br />

Difficile la risposta che il concilio di Trento era chiamato a dare. Da una parte la teologia cattolica<br />

del tempo aveva ormai smarrito la coscienza viva del carattere sacramentale della chiesa, oltre che<br />

dell’intima relazione fra traditio e successio; dall’altra i Riformatori ponevano in termini nuovi il<br />

problema della tradizione e successione. In un contesto del genere Trento, nella sua quarta sessione,<br />

stabiliva il rapporto da riconoscere tra vangelo e chiesa, tra Scrittura e tradizione, ma anche il carat-<br />

tere normativo dell’esegesi biblica ad opera della chiesa (DzH 1501.1507). Nell’esporre la dottrina<br />

dei sacramenti il concilio respingeva alcune sottolineature presenti nella concezione riformatrice del<br />

ministero, per attenersi alla successione apostolica dei vescovi e alla loro superiorità sui presbiteri<br />

(DzH 1768). In tal modo si ribadiva l’antica concezione ecclesiale che nella chiesa strutturata epi-<br />

scopalmente vedeva il segno e lo strumento del vangelo, senza pero lasciar trasparire anche l’intimo<br />

nesso sacramentale. Di più, per controbattere la contestazione riformatrice della struttura esteriore,<br />

giuridica della chiesa e della sua mediazione salvifica, in seguito si scadrà in posizioni riduttive di<br />

tipo giuridico, animate da spirito polemico e comunque estranee alla chiesa antica e medievale.<br />

44 F.D.E. SCHLEIERMACHER, Der christliche Glaube, a cura di M. Redeker, Berlin 1960, § 24, p. 137.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Anche dal modo in cui si valutarono le ordinazioni nella Riforma possiamo cogliere una mentalità<br />

articolata quasi esclusivamente secondo categorie di stampo giuridico. Per il concilio i ministri non<br />

regolarmente (rite) ordinati e inviati dall’autorità ecclesiastica e canonica (ecclesiastica et canonica<br />

potestate), sono da considerarsi ministri illegittimi della parola e dei sacramenti (DzH 1777; cfr.<br />

1769). Il problema della successione diventava così problema della legittimità del ministero, non<br />

più realtà da inquadrare in una visione sacramentale della chiesa. Una prospettiva, dunque, abba-<br />

stanza angusta, che però mostrava una certa apertura, una disponibilità quando si tratta di riconosce-<br />

re i ministeri delle chiese nate dalla Riforma. Infatti quando dichiara l’illegittimità di ministeri che<br />

certuni «si attribuiscono in forza della propria temerità» (DzH 1769), il concilio di Trento non pren-<br />

de espressamente posizione riguardo al problema della validità del ministero conferito secondo le<br />

disposizioni impartite da chiese separate: per risolvere una questione del genere bisogna muoversi<br />

in un contesto più ampio, quello di una visione sacramentale di chiesa.<br />

e) Il Concilio Vaticano II: avvicinamenti e differenze che permangono<br />

Contando su tutto un lavoro teologico di preparazione, il Vaticano II riproporrà la visione sacramen-<br />

tale della chiesa (LG 1.9.48.59 e passim), l’idea quindi che la chiesa è una realtà complessa, fatta di<br />

elementi umani, visibili e istituzionali, da un lato, e da un elemento spirituale e divino, dall’altro,<br />

quest’ultimo percepibile soltanto per fede (LG 8). E in tale contesto il concilio non ha inquadrato<br />

soltanto il carattere sacramentale dell’ordinazione dei vescovi (LG 21), ma anche l’intimo nesso da<br />

riconoscere fra successio, traditio e communio (LG 20). Se il modo in cui la Costituzione sulla chie-<br />

sa si esprime potrebbe dare l’idea che qui la successione apostolica verrebbe concepita in termini<br />

ancora troppo unilaterali, come successione ininterrotta nel ministero, la Costituzione sulla divina<br />

rivelazione stabilisce chiaramente il nesso esistente tra la missione degli apostoli e l’assistenza dello<br />

Spirito loro promessa, tra la chiesa che crede e lo Spirito Santo che in essa vive, tra la successione<br />

apostolica e la guida che lo Spirito di verità le assicura (DV 8s.). È una concezione pneumatologica<br />

che troviamo organicamente affermata soprattutto Decreto sulle missioni (AG 4). Dopo le unilatera-<br />

lità che avevano accompagnato la riflessione teologica dei secoli precedenti, ora il concilio ripropo-<br />

ne con chiarezza il contesto pneumatologico ed ecclesiologico entro cui inquadrare anche la succes-<br />

sione apostolica, quell’antica prospettiva ecclesiale che meglio di ogni altra favorisce un dialogo<br />

ecumenico sul tema del ministero e della sua successione.<br />

Sono soprattutto due punti che ci mostrano con quanta elasticità i padri conciliari si siano mossi<br />

all’interno del nuovo contesto e abbiano fatto i conti con la complessità del dato storico. (1) Il con-<br />

cilio dice semplicemente che tra i vari ministeri che fin dai primi tempi si esercitarono nella chiesa,<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

il primo posto spetta all’ufficio episcopale, che i vescovi garantiscono insieme ai presbiteri ed ai<br />

diaconi (LG 20). Esso non dice che la tripartizione gerarchica in ministero episcopale, presbiterale e<br />

diaconale poggerebbe direttamente su un’istituzione divina, ma semplicemente “fin dai primi tem-<br />

pi” (ab antiquo) un ministero veniva esercitato in questa triplice figura (LG 28). È un modo di e-<br />

sprimersi più aperto, che tiene conto delle problematiche storiche e viene incontro alla posizione as-<br />

sunta dalle chiese della Riforma, per le quali all’origine il ministero dei presbiteri coincideva con<br />

quello dei vescovi. (2) Intenzionalmente il concilio non dice che soltanto i vescovi possono acco-<br />

gliere nel proprio collegio episcopale nuovi membri, non volendo dirimere questione né di diritto né<br />

di fatto, ma semplicemente stabilisce che «è proprio dei vescovi assumere, con il sacramento<br />

dell’ordine, nuovi eletti nel corpo ecclesiale» (LG 21). In tal modo si allude, se non altro, alla possi-<br />

bilità che all’interno dell’Una sancta non debbano per forza valere un’unica forma ed un unico mo-<br />

do di vedere la successione apostolica.<br />

Anche se soltanto incidentalmente, il concilio prende comunque posizione sul modo protestante<br />

d’intendere i ministeri, e parla di una «mancanza del sacramento dell’ordine» (defectus ordinis) nel-<br />

le chiese della Riforma (UR 22). Ma che cosa intende dire? Dopo il concilio si è osservato che de-<br />

fectus non necessariamente significa “mancanza”, ma potrebbe voler dire anche “difettosità”. Non<br />

basta certo il lessico o l’acume filosofico a dirimere una questione così importante: la soluzione teo-<br />

logica del problema va cercata all’interno del contesto nel quale s’inquadrano gli asserti conciliari.<br />

Ebbene, il concilio ha detto chiaramente che la chiesa di Cristo sussiste nella chiesa cattolica, ma<br />

che anche al di fuori di essa si trovano elementi di vera chiesa (LG 8), motivo per cui lo Spirito di<br />

Dio si serve delle chiese non cattoliche e delle comunità ecclesiali separate come di strumenti per<br />

salvare i fedeli che in esse vivono (UR 3). Ma dato che tali chiese e comunità operano, in concreto,<br />

mediante i loro ministeri, un riconoscimento del genere equivale ad una valutazione degli stessi mi-<br />

nisteri esercitati nelle chiese non cattoliche e nelle comunità separate. Delle comunità ortodosse, si<br />

dice espressamente che dispongono di un ministero episcopale e presbiterale valido (UR 15), mentre<br />

solo implicitamente si dà pure un giudizio sul ministero esercitato nelle altre chiese e comunità ec-<br />

clesiali. Tuttavia, dopo ciò che si è detto, converremo che anche qui si riconoscono degli elementi di<br />

vero ministero. Per motivi logici, dunque, e non soltanto linguistici concluderemo che il «defectus<br />

ordinis» di cui parla il concilio non è una mancanza totale ma una difettosità di ministero pieno.<br />

Laddove stia tale difettosità il concilio non lo dice, ma stando a quel che siamo venuti fin qui ad il-<br />

lustrare essa non risiede soltanto nella rottura della successione apostolica nel ministero episcopale,<br />

un fatto che non è certo isolato, ma da inquadrare, in definitiva, in una diversa concezione di chiesa,<br />

in un diverso modo d’intendere vangelo e chiesa. E su questo piano il dissenso rimane. È vero che il<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Vaticano II sosteneva che il magistero della chiesa non sta al di sopra della parola di Dio, ma al suo<br />

servizio; non ha però contrapposto il vangelo alla chiesa, né ha parlato di una fondamentale funzio-<br />

ne critica che la Scrittura svolge nei confronti della chiesa e della tradizione, ma al contrario ha as-<br />

serito che la chiesa attinge la propria certezza sulle cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura (DV<br />

9) e ha sottolineato fortemente l’unità e interdipendenza di tradizione, Scrittura e magistero eccle-<br />

siastico (DV 10). Ciò spiega anche perché all’interno del lavoro ecumenico non si riesce ancora ad<br />

acquisire un consenso pieno riguardo la funzione critica che la Scrittura esercita nei confronti della<br />

chiesa, il suo insegnamento e la sua prassi. A rendere ancor più ardua l’intesa sta soprattutto la dot-<br />

trina del carattere infallibile di certe decisioni ecclesiastiche. Al di là del consenso ormai conseguito<br />

o che si spera di conseguire, tra le chiese separate un dissenso di fondo rimane. Ridotto all’osso, non<br />

si tratta del rapporto “vangelo – chiesa” e nemmeno della validità delle ordinazioni per mano di mi-<br />

nistri non-vescovi. La questione sostanziale sta nel sapere se e fino a che punto la chiesa concreta<br />

sia luogo, segno e strumento del vangelo di Gesù Cristo.<br />

f) Il fine: diversità riconciliata nella concezione della successione apostolica<br />

Da quanto siamo venuti fin qui dicendo il reciproco riconoscimento nei ministeri che ci attendiamo<br />

per il futuro dovrebbe articolarsi nei tre seguenti passaggi. (1) Il punto di vista non dev’essere quello<br />

del “o tutto o niente”. Bisognerà piuttosto ammettere che la via del riconoscimento passa attraverso<br />

tutta una serie di momenti. Il solo ammettere che il ministero non è esercitato in tutta pienezza im-<br />

plica un certo grado di riconoscimento. E del resto questo riconoscimento parziale esprime lo stesso<br />

punto di vista dei primi Riformatori che consideravano le ordinazioni fatte al di fuori della succes-<br />

sione apostolica una “misura d’emergenza”. (2) Quella del riconoscimento dei ministeri non è una<br />

questione da risolvere come problema isolato, ma va inquadrata in un contesto in cui intervengono<br />

Spirito - chiesa - Parola - sacramenti - ministeri. (3) Dal primo e secondo momento dovremo allora<br />

concludere che il reciproco riconoscimento è un processo che avanza nella misura in cui le chiese,<br />

che attualmente si trovano a vivere in una comunione imperfetta, progrediscono verso la comunione<br />

piena, quella che alla fine sarà totale. Il riconoscimento dei ministeri si impone, dunque, nella misu-<br />

ra in cui si raggiunge anche un’intesa per quanto riguarda la concezione della chiesa ed il modo<br />

d’intendere Parola e sacramento, che la fondano ed edificano.<br />

Naturalmente si tratta di un processo di ricezione che nelle chiese separate denuncia una certa a-<br />

simmetria, dato che queste chiese e comunità presentano differenti carismi e diversi apporti ad una<br />

comunione piena. L’apostolicità, intesa come successione nel ministero episcopale, può essere ga-<br />

rantita soltanto da una chiesa come quella cattolica, che la possiede e che è chiesa in cui la ecclesia<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

apostolica sussiste. Il che non significa che la strada da percorrere sarebbe a senso unico e che ci sia<br />

spazio soltanto per un “ecumenismo di ritorno”. Dalle chiese della Riforma i cattolici non si arric-<br />

chiscono soltanto di tutta una serie di elementi apostolici: i protestanti che entrassero nella succes-<br />

sione apostolica arricchirebbero la chiesa cattolica di una cattolicità più piena e concreta (cfr. UR 4),<br />

anche se la cattolicità ed apostolicità saranno vissute in pienezza soltanto nei tempi escatologici.<br />

La successione apostolica nel ministero episcopale, quella che dovrà portare la chiesa cattolica ad<br />

una vita in pienezza, sta a significare in primo luogo che la chiesa, anche perché apostolica, è una<br />

realtà non soltanto spirituale o ideale, ma anche storicamente percepibile. La questione che gli e-<br />

vangelici invece si pongono sul significato da attribuire a questa serie di “mediazioni” deve farci ri-<br />

flettere sul fatto che non serve a nulla una successione nel ministero se poi la chiesa non vive la se-<br />

quela di Cristo nella fede e nello spirito degli apostoli. Se la tradizione cattolica ricorda il carattere<br />

normativo e concreto della chiesa e della sua dottrina, la tradizione della Riforma sottolinea invece<br />

la funzione critica e innovante propria del Vangelo. Finora non si è stati capaci di comporre le due<br />

tendenze, sul piano teologico e su quello istituzionale, in modo soddisfacente. Ma questo tentativo<br />

di conciliazione non dovrebbe necessariamente mirare ad una comune struttura in cui articolare il<br />

ministero e la successione. In modo intelligente su questo punto il Vaticano II, ma ancor prima la<br />

Scrittura e la tradizione della chiesa antica, lascia alcuni problemi aperti. Ciò che maggiormente in-<br />

teressa è una comune valutazione teologica delle strutture istituzionali nel loro rapporto con la Paro-<br />

la e lo Spirito, è la capacità di coniugare la libertà del vangelo e dello Spirito, che soffia quando e<br />

dove vuole (cfr. Gv 3,8), con quel Dio, con quello Spirito che si è voluto legare alla chiesa concreta.<br />

La visione entro cui si muovono le chiese ortodosse potrebbe forse aiutarci a risolvere questo pro-<br />

blema. Esse infatti convengono, sostanzialmente, con la chiesa cattolica nel modo di intendere la<br />

successio apostolica nel ministero episcopale e nel considerare la chiesa concreta strutturata episco-<br />

palmente come il luogo, il segno e lo strumento dello Spirito di Dio. Ma per certi versi anticipano,<br />

seppure in termini diversi anche un’istanza importante degli stessi Riformatori. Più ancora della tra-<br />

dizione occidentale esse motivano la struttura episcopale in chiave pneumatologica e la inquadrano<br />

lucidamente nel complesso di una chiesa-comunione. Il ministero apostolico qui non viene più con-<br />

cepito secondo uno schema lineare, storico, ma come rimesso continuamente in moto nello Spirito<br />

Santo, e continuamente accolto e riconosciuto dalla chiesa. L’evento dello Spirito rifonda in modo<br />

sempre nuovo l’istituzione. Ma se si riconosce la libertà dello Spirito che opera all’interno della<br />

struttura sacramentale della chiesa, in linea di principio si è poi forse capaci di riconoscere come va-<br />

lidi anche ministeri che, valutati in base a criteri meramente istituzionali non si possono accettare,<br />

ma che apprezzati in quadro spirituale risultano invece legittimi e spiritualmente fecondi.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

Se nel dialogo tra cattolici ed evangelici si fosse fatto leva sulla posizione ortodossa si sarebbe forse<br />

riusciti, in vista di una futura intesa, a riprendere coscienza di una tradizione più comprensiva, quel-<br />

la che la chiesa antica fondava sulla Scrittura e cui fanno riferimento tutte le tradizioni ecclesiali.<br />

Ma a tanta ampiezza e libertà originarie si arriva soltanto se si approfondisce la vera natura della<br />

continuità di cui la chiesa gode: quella che in prima istanza è lo Spirito a garantire e soltanto secon-<br />

dariamente l’istituzione simbolico-sacramentale. In altre parole, l’istituzione va concepita come<br />

funzione dello Spirito, l’<strong>ecclesiologia</strong> come funzione della pneumatologia. Si è già visto che alcuni<br />

spunti in tale direzione sono presenti anche in testi del concilio Vaticano Il: si tratta di approfondirli.<br />

Una volta raggiunta l’intesa su questo punto, perde poi d’importanza la questione del modo in cui<br />

cooptare nella successione piena, quella intesa come successione nei ministeri.<br />

Volendo riassumere brevemente il risultato di queste nostre riflessioni, diremo che per poter prose-<br />

guire sulla via di una migliore consapevolezza e del reciproco riconoscimento dei ministeri, il pre-<br />

supposto più importante è che maturi un accordo sul modo d’intendere la chiesa nella sua natura,<br />

struttura sacramentale e mediazione di salvezza. Come già si è visto, questo impegno non è stato<br />

avvertito con sufficiente chiarezza: né nelle prese di posizione nel sec. XVI, ma nemmeno nei suc-<br />

cessivi “documenti di convergenza”. Ed è proprio in questo più ampio contesto che riusciremo a co-<br />

gliere la reale portata dei consensi e delle convergenze finora raggiunti. Infatti potremo dire se e fino<br />

a che punto le differenze che ancora permangono od i consensi non ancora pieni rappresentino o<br />

meno dei fattori di divisione nelle chiese soltanto se concorderemo nel dire ciò che la chiesa è ed in<br />

che cosa consista la sua unità, ciò che è necessario e ciò che indispensabile non è. Il compito, di<br />

gran lunga il più importante ed ancora inattuato, quello che il dialogo ecumenico del futuro<br />

c’impone, rimane dunque l’approfondimento della natura della chiesa.<br />

g) Le differenze fra apostolato ed episcopato<br />

(1) Gli apostoli hanno adempiuto due funzioni: (I) erano testimoni oculari di ciò che il Signore Gesù<br />

ha fatto per la nostra salvezza e soprattutto testimoni della sua risurrezione; in quanto tali avevano<br />

ricevuto il mandato di fondare le chiese mediante l’annuncio del Vangelo. (II) Gli apostoli erano<br />

maestri e pastori nelle chiese da loro fondate. Secondo la prima funzione, i vescovi non sono suc-<br />

cessori degli apostoli. Questa infatti era legata alla persona degli apostoli. Esistono successori sol-<br />

tanto a livello della seconda funzione; ma anche qui non sul piano di assoluta parità. In senso stret-<br />

to, più che successori degli apostoli in quanto tali, i vescovi sono successori dei primi capi ministe-<br />

riali, costituiti tali dagli apostoli (o da un apostolo), perché guidassero le chiese da loro fondate.<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

(2) Anche nella successione del ministero, non vi è affatto parità. Infatti i vescovi, anche considerati<br />

come collegio, non hanno il carisma di rivelazione che permette agli apostoli di costituire una Tra-<br />

dizione normativa. Essi sono sottoposti alla Tradizione.<br />

(3) Un vescovo singolo non succede a un apostolo singolo — eccetto il vescovo di Roma a Pietro e,<br />

per un piccolo numero di casi, nel senso storico della parola: il vescovo di Gerusalemme a Giaco-<br />

mo, quello di Alessandria a Marco… La successione (nell’autorità del ministero) è una successione<br />

da collegio a collegio, da gruppo stabile e strutturato a gruppo costituito (LG 22).<br />

(4) L’episcopato e l’apostolato hanno in comune di rispondere a una missione e si riferiscono a una<br />

condizione di assenza: devono l’uno e l’altro rendere presente il Signore assente, allorché è già ve-<br />

nuto in un certo modo, e in vista del suo ritorno.... anche se in condizioni diverse.<br />

h) Le componenti della successione apostolica<br />

(1) Ciò che la successione apostolica non è. Non è la semplice ininterruzione nell’occupazione di<br />

una sede: questo sarebbe al massimo una successione materiale o storica, che si verificherebbe an-<br />

che nel caso di una usurpazione o di un passaggio all’eresia. La successione apostolica non è un pu-<br />

ro fatto di validità sacramentale. La successione sarebbe concepita come fluido che passerebbe da<br />

consacratore validamente consacrato a consacrato. Colui al quale si succede è scomparso e si è con-<br />

sacrati da altri che rappresentano il collegio e la comunione universale. Il compito di costoro consi-<br />

ste nell’abilitare il nuovo soggetto nell’assumere la funzione, la carica e la missione, identicamente<br />

le stesse, che i suoi predecessori hanno assunto dopo il primo della serie. La successione apostolica<br />

è successione nella carica; consiste formalmente nell’identità della funzione (così si spiega anche<br />

l’interdizione delle ordinazioni assolute); la sua prima condizione è l’identità di fede. Ora, la carica<br />

di una comunità suppone o esige la comunione con tutta la chiesa, di cui ciascuna comunità partico-<br />

lare realizza localmente il mistero.<br />

(2) La successione apostolica si opera mediante la consacrazione e l’imposizione delle mani. La<br />

successione suppone la consacrazione. Essere stabilito nell’episcopato significa essere eletto e ordi-<br />

nato; dato che la successione non ha per scopo soltanto di assicurare la purezza e l’identità della<br />

dottrina, ma anche il vero culto sacramentale.<br />

(3) Tuttavia la successione apostolica è costituita, come apostolicità formale, dalla conservazione<br />

della dottrina trasmessa dal tempo degli apostoli (2Tim 2,2). La successione è essenzialmente suc-<br />

cessione in una carica: dal secolo II il termine cathedra stesso designa l’episcopato, la funzione e il<br />

potere che il vescovo detiene nella chiesa in virtù della successione apostolica. La caratteristica<br />

formale della successione apostolica è l’unità di missione; il suo cuore è l’identità di dottrina, per-<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

ché la chiesa è essenzialmente l’assemblea dei fedeli e la sua identità sussiste nell’identità di fede.<br />

Per questo ogni funzione d’autorità nella chiesa esige che sia fatta anzitutto una professione di fe-<br />

de... in fedeltà alla Tradizione degli apostoli, viva e attualizzata nella storia mediante lo Spirito san-<br />

to. In tal senso la successione apostolica è inseparabile dall’apostolicità della chiesa: esse si condi-<br />

zionano e si garantiscono a vicenda.<br />

(4) Così apostolicità di dottrina e apostolicità di ministero devono essere tenute congiunte nella teo-<br />

logia dell’apostolicità. Gli apostoli sono stati fonte; i loro successori non lo sono. Rientrano in una<br />

corrente di cui non sono gli iniziatori. Non trasmettono se non in quanto ricevono. Per questo la<br />

consacrazione per la quale si entra nella catena della successione suppone la professione di fede de-<br />

gli apostoli. Se la successione è legata all’ordinazione, lo è all’ordinazione legittima nella comunio-<br />

ne cattolica. A sua volta l’ordinazione fa sì che non vi sia semplicemente un maestro con dei disce-<br />

poli, ma una chiesa. Essa stabilisce nella carica e nell’autorità di capo entro il popolo di Dio, con la<br />

grazia corrispondente. Quindi l’insegnamento del vescovo non è semplicemente quello che propone<br />

un dottore: certo, resta legato alle Scritture canoniche, al Simbolo, alla Tradizione degli apostoli; ma<br />

non si può mettere la Regola di fede fuori della chiesa, che la giudicherebbe dall’esterno. Vi è una<br />

congiunzione del criterio oggettivo e dell’istituzione o della funzione. Questa congiunzione non è<br />

assicurata in tutti i casi particolari, ma lo è alla chiesa come tale e agli atti che la impegnano in mo-<br />

do decisivo. Perciò la conservazione della Tradizione e della professione della vera fede poggiano<br />

sul ministero istituito: cfr. 1Gv 4,3.6; per Ireneo la trasmissione senza alterazione della Tradizione è<br />

assicurata dalla successione (parádosis katà diadochên).<br />

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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />

CONCLUSIONE<br />

Per concludere questo nostro percorso, sembra appropriata una pagina di un’opera giovanile di Die-<br />

trich Bonhoeffer. Nel clima particolare del protestantesimo tedesco della fine degli anni ’20, egli<br />

scriveva: «Il vero amore genuino per la Chiesa condividerà e amerà la sua impurità e imperfezione;<br />

poiché è in seno a questa chiesa empirica che cresce il tempio di Dio, la sua comunità. Sono stati in-<br />

trapresi diversi presuntuosi tentativi di purificazione della Chiesa nel corso della storia; a partire<br />

dalle sette perfezionistiche della Chiesa antica, fino all’anabattismo, al pietismo, all’illuminismo e a<br />

Kant con il suo concetto secolarizzato del Regno di Dio, e poi alle prime forme di attesa socialista<br />

del Regno di Dio, dal conte Saint-Simon passando attraverso Tolstoj, per arrivare al movimento<br />

giovanile religioso-sociale dei nostri giorni. In tutti questi movimenti si riscontra il tentativo di ave-<br />

re finalmente il Regno di Dio, non più solo nella fede, ma presente e visibile, non velato nella “se-<br />

gregatezza” di una Chiesa cristiana, ma che si manifesti chiaramente nella moralità e santità delle<br />

persone, oltre che in una soluzione ideale di tutti i problemi storici e sociali. Manca in tali dottrine<br />

quella sensibilità e quell’amore che sono le condizioni necessarie per comprendere e vedere che la<br />

rivelazione di Dio si compie realmente nella storia, cioè in maniera ancora “velata”, che questo<br />

mondo rimane un mondo di peccato e di morte, cioè anche di storia, e che tale storia diventa santa<br />

dal momento che Dio l’ha fatta ed è entrato in essa» 45 .<br />

45 D. BONHOEFFER, Sanctorum Communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della chiesa (Brescia: Queriniana,<br />

1994) 141.<br />

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