ecclesiologia: 2010/2011 - Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
1. IL DISCORSO TEOLOGICO SULLA CHIESA<br />
APPUNTI DI ECCLESIOLOGIA<br />
Anno scolastico 2012/2013<br />
1.1. Il punto di partenza del trattato di <strong>ecclesiologia</strong><br />
1. È singolare che i manuali di <strong>ecclesiologia</strong> si moltiplichino in una situazione in cui le chiese si<br />
svuotano 1 : piena fioritura del “secolo della Chiesa” (O. DIBELIUS, Das Jahrhundert der Kirche, Ber-<br />
lin 1926) o disperato accanimento terapeutico su un malato terminale? Di certo, è la necessità da<br />
parte dei credenti di ripensare la Chiesa e la sua missione entro una cultura che, segnata dalla seco-<br />
larizzazione degli ambiti pubblici del vivere sociale e dal crescente pluralismo etico-religioso, ha<br />
rivoluzionato la presenza della Chiesa nel mondo: da chiave di volta del sistema sociale e culturale<br />
a realtà opzionale o al massimo “infermiera” degli scarti del progresso globalizzato. Quale che sia la<br />
situazione, questo è il contesto in cui deve avvenire il rendere ragione del “credo ecclesiam”.<br />
2. Oltre a ciò dopo il Vaticano II è cresciuta l’incertezza sulla struttura e sul metodo della ecclesio-<br />
logia sistematica 2 . Fino alla metà del secolo XX i manuali “De Ecclesia” impostavano la loro tratta-<br />
zione attorno alla categoria di “societas”: la Chiesa era presentata come “societas perfecta inaequa-<br />
lium”. L’approccio era condizionato chiaramente dalle controversia del passato: il manuale non era<br />
una riflessione sul “mistero” della Chiesa, ma una difesa delle sue istituzioni contestate ad ondate<br />
successive dagli “spiritualisti”, dai conciliaristi, dai protestanti, dal regalismo, dal pensiero laico.<br />
1 J. WERBICK, La Chiesa. Un progetto ecclesiologico per lo studio e per la prassi, Queriniana, Brescia 1998 (ed. or.<br />
1994) 5. Segnalo che in Italia di recente sono stati editi due manuali di considerevoli dimensioni e portata: S. DIANICH –<br />
S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Nuovo Corso di Teologia Sistematica 5, Queriniana, Brescia 2002; C. MILITELLO, La<br />
Chiesa «il corpo crismato», Corso di Teologia Sistematica 7, EDB, Bologna 2003. Per una valutazione della ricerca ecclesiologica<br />
nel Novecento sono molto utili gli articoli bilancio di J. FRISQUE, “L’<strong>ecclesiologia</strong> del XX secolo”, in Bilancio<br />
della teologia del XX secolo, III, Città Nuova, Roma 1972, 211-262 e di G. ZIVIANI – V. MARALDI, “Ecclesiologia”,<br />
in G. CANOBBIO – P. CODA (edd.), La Teologia del XX secolo un bilancio. 2. Prospettive sistematiche, Città Nuova,<br />
Roma 2003, 287-410.<br />
2 Per una panoramica sulle questioni di metodo in <strong>ecclesiologia</strong>: T. CITRINI, “Questioni di metodo dell’<strong>ecclesiologia</strong><br />
postconciliare”, in A.T.I., L’<strong>ecclesiologia</strong> contemporanea, a cura di D. Valentini, EMP, Padova 1994, 15-41; S. DIA-<br />
NICH, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1993; PONTIFICIA<br />
FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA MERIDIONALE SEZIONE SAN LUIGI, Sui problemi di metodo in <strong>ecclesiologia</strong>. In dialogo<br />
con Severino Dianich, a cura di A. Baruffo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2003; G. ROTA, “Dove va<br />
l’<strong>ecclesiologia</strong> in Italia? Un bilancio dei manuali di <strong>ecclesiologia</strong> alla svolta del millennio”, in Teologia 32 (2007) 71-<br />
91. È sintomatico che alcuni autori abbiano persino rinunciato ad adottare un proprio punto di vista sistematico sulla<br />
Chiesa, ma si siano accontentati di elencare i vari modelli ecclesiologici oppure si sono limitati a far interagire fra loro<br />
le varie metafore che nella Scrittura e nella tradizione sono state applicate alla Chiesa: A. DULLES, Modelli di Chiesa,<br />
Messaggero, Padova 2005 (ed. or. 1967; expanded edition 1987); B. MONDIN, Le nuove ecclesiologie, Paoline, Roma<br />
1980; J. WERBICK, La Chiesa, op. cit.<br />
1
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
Il manuale, perfezionatosi nel XIX secolo 3 , aveva però alle spalle una lunga tradizione, che affonda<br />
le sue radici nei primi saggi che studiano la realtà della Chiesa: cominciando dal De regimine cri-<br />
stiano di Giacomo da Viterbo (1301-1302) 4 , passando per il De ecclesiastica sive Summi Pontificis<br />
protestate di Egidio Romano (1316), per arrivare al Tractatus de ecclesia di Giovanni da Ragusa<br />
(1431-1449) e alla Summa de ecclesia di Giovanni da Torquemada (circa 1450). Tutte queste opere,<br />
che in qualche modo indicano la nascita dell’<strong>ecclesiologia</strong> come trattato autonomo, rivelano però<br />
un’indole non teologica: essi intendono difendere il potere papale contro conciliaristi e regalisti.<br />
Una ragione plausibile della mancanza di una riflessione teologica sulla Chiesa, può essere addebi-<br />
tata al fatto che il referente fondamentale della teologia medievale, il Liber Sententiarum di Pietro<br />
Lombardo, non fa spazio a una riflessione sulla Chiesa, demandando al diritto canonico o alla sa-<br />
cramentaria i temi propriamente ecclesiologici. Lo stesso accade anche nella Summa Theologiae di<br />
Tommaso d’Aquino 5 .<br />
Il trattato vero e proprio appartiene alla teologia post-tridentina, la quale è tutta preoccupata di pro-<br />
vare contro i protestanti che la Chiesa cattolico-romana è l’unica vera e visibile Chiesa di Cristo.<br />
L’esigenza non va liquidata come semplice autogiustificazione: in quei tempi confusi in cui più co-<br />
munità ecclesiali rivendicavano di essere la vera Chiesa di Cristo, si sentì la necessità di offrire al<br />
discernimento dei fedeli disorientati alcuni elementi empiricamente rilevabili che permettessero loro<br />
di verificare senza ambiguità la loro appartenenza alla vera comunità di salvezza. Ecco perché Ro-<br />
berto Bellarmino nel presentare la chiesa si concentrò solo sulla sua dimensione istituzionale, in<br />
3 G. COLOMBO. “Il dato e lo sviluppo storico della definizione di Chiesa nella costituzione dogmatica «Lumen gentium»”,<br />
in La costituzione dogmatica «De Ecclesia», Scuola di Pastorale per le Diocesi della Regione Emiliana, Parma<br />
1965, I, 13.<br />
4 È molto istruttivo riflettere sulla struttura dell’opera. Essa è divisa in due parti. La I Parte, intitolata “La gloria del regno<br />
ecclesiastico” è in sei capitoli: cap. 1. La Chiesa è definita un regno in modo opportuno e appropriato; cap. 2. Il regno<br />
della Chiesa è ortodosso, quindi giustamente glorioso. Le condizioni e l’essenza della sua gloria; cap. 3. Il regno<br />
della Chiesa è uno; cap. 4. Il regno della Chiesa è cattolico, cioè universale; cap. 5. Il regno della Chiesa è santo; cap. 6.<br />
Il regno della Chiesa è apostolico. La II parte, intitolata “Il potere di Cristo re e del suo Vicario”, si divide in dieci capitoli:<br />
cap. 1. Le molteplici forme del potere di Cristo; cap. 2. Il potere che Cristo comunicò agli uomini; cap. 3. Gli uomini<br />
ai quali è stato comunicato il potere di Cristo; cap. 4. Le differenze tra i poteri sacerdotale e regio nei prelati della<br />
Chiesa relativamente agli atti e ad altre forme di confronto; cap. 5. I gradi e le forme di disuguaglianza del potere sacerdotale<br />
e regio in chi li possiede. Il primato del Sommo Pontefice su tutte le Chiese e i loro reggenti; cap. 6. La differenza<br />
e l’uguaglianza delle due forme, spirituale e secolare, del potere regio; cap. 7. Ulteriori confronti tra il potere spirituale e<br />
temporale; cap. 8. Alcune riflessioni sui poteri già descritti; cap. 9. Il supremo potere spirituale detiene la pienezza del<br />
potere pontificio e regio; cap. 10. Alcune obiezioni alle affermazioni fatte e loro soluzione. Dell’opera di Giacomo da<br />
Viterbo esiste una traduzione italiana: Il governo della Chiesa, a cura di A. Rizzacasa e G.B.M. Marcoaldi (Firenze:<br />
Nardini Editore, 1993).<br />
5 Tommaso svolge le tesi teologiche riguardanti la chiesa nel quadro della grazia capitale di Cristo (gratia capitis):<br />
l’uomo Gesù, possedendo la pienezza della grazia, è allo stesso tempo la Testa dell’umanità e del corpo della Chiesa, di<br />
cui lo Spirito è (secondo la prospettiva di S. Agostino) l’anima; la chiesa è quindi l’ambito dell’influsso spirituale del<br />
Cristo (S. Th., III, q. 8).<br />
2
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
particolare sui tre elementi della professione esterna della fede, della partecipazione ai sacramenti e<br />
dell’obbedienza ai legittimi pastori in particolare al Papa, come condizioni necessarie e sufficienti<br />
per determinare l’appartenenza alla chiesa. Non che nella Chiesa non ci fossero lo Spirito, la vita di<br />
grazia, le virtù soprannaturali della fede, speranza e carità; ma queste realtà non si potevano visi-<br />
bilmente localizzare e quindi non consentivano un discernimento ecclesiale. Questa scelta ebbe però<br />
conseguenze decisive per il trattato di <strong>ecclesiologia</strong>. Abbandonata sul nascere l’alternativa di tema-<br />
tizzare la Chiesa a partire dal suo mistero, respinta polemicamente l’idea di una Chiesa invisibile e<br />
nascosta, cara alla teologia della Riforma, esasperato il conflitto tra “congregazione “ e istituzione a<br />
favore di quest’ultima, tra autorità ecclesiastica e autorità della Scrittura, la letteratura post-<br />
tridentina insisterà sulla dimensione esterna, giuridica della Chiesa, tacendone gli aspetti interiori e<br />
pneumatici. Ne deriverà una «<strong>ecclesiologia</strong> del potere gerarchico e soprattutto del potere papale» 6 .<br />
Nella teologia cattolica fu, in particolare, il Billuart ad adottare (prima metà del ‘700) il termine so-<br />
cietas nel suo preciso significato sociologico istituzionale come la fondamentale chiave ermeneutica<br />
dell’<strong>ecclesiologia</strong>. Questa idea ebbe tale successo che ancora nel 1950 il De Ecclesia di T. Zapelena<br />
sostanzialmente lo riprende. Il punto di partenza è l’idea che Gesù con la sua predicazione del Re-<br />
gno ha istituito la chiesa nella forma di una «vera e propria società»; cosa sia la società viene defini-<br />
to sul piano filosofico: è l’«unione stabile di molti che tendono con i loro atti a un fine comune». I<br />
molti ne costituiscono la causa materiale, l’unione morale la causa formale, lo scopo comune la cau-<br />
sa finale, l’autorità la sua causa efficiente 7 . Ora, è proprio l’autorità il principio decisivo per la com-<br />
prensione della Chiesa. Infatti, l’unione della massa dei fedeli sia pure nella forma di unità morale<br />
non ne è il principio interpretativo. La causa finale, che è la salvezza delle anime, risulta struttural-<br />
mente estrinseca alla chiesa, che ne è semplicemente lo strumento. Non resta che la causa efficiente:<br />
l’autorità investita di questo potere da Cristo stesso unisce i fedeli e li tiene uniti nella chiesa affin-<br />
ché vi trovino gli strumenti per salvarsi l’anima. E per dimostrare che così Dio ha voluto la chiesa,<br />
basterà provare, mediante Mt 16,18s, che Gesù ha conferito a Pietro una suprema autorità, capace di<br />
adunare gli uomini nella fede e mantenerli nell’unità sotto il suo governo 8 .<br />
3. La categoria di societas applicata alla Chiesa non ha cominciato a godere di cattiva fama solo a<br />
ridosso del Concilio Vaticano II. Già all’inizio del secolo XIX la scuola di Tübingen e segnatamente<br />
il suo esponente più illustre, Johann Adam Möhler, aveva stigmatizzato l’<strong>ecclesiologia</strong> societaria<br />
6 Y. CONGAR, “Bulletin d’ecclésiologie”, in Revue des sciences philosophiques et théologiques 31 (1947) 78.<br />
7 T. ZAPELENA, De ecclesia Christi. Pars apologetica, Università Gregoriana, Roma 1950, 68.<br />
8 Ibid., 73-78.<br />
3
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
come “deismo naturalistico”. Recensendo un saggio di storia ecclesiastica del Katerkamp, così sin-<br />
tetizzava tale concezione: «Dio creò (all’inizio) la gerarchia, ed ha provveduto più che a sufficienza<br />
per la Chiesa, fino alla fine del mondo» 9 . Dio è attivo ed efficace solo agli inizi della Chiesa, in ana-<br />
logia al suo agire nella creazione; l’ulteriore svolgimento, il decorso della storia, si svolge seguendo<br />
leggi, strutture e funzioni autonome, immanenti alla Chiesa; legittima garante di questo svolgersi è<br />
la gerarchia. Ora, questa visione dimentica che lo Spirito continua ad agire nella Chiesa, anzi a strut-<br />
turarla come il suo organismo, come il corpo di Cristo, la continuazione dell’incarnazione 10 .<br />
L’impulso dato da Möhler venne ripreso e diffuso dalla Scuola Romana 11 . Esso raggiungerà il suo<br />
apogeo nei primi decenni del XX secolo, quando riceverà poi la sua consacrazione con l’enciclica di<br />
Pio XII, Mystici corporis (1943), che presenterà la Chiesa proprio quale corpo mistico di Cristo. In<br />
quegli stessi anni, però, alcuni autori avevano preferito incentrare la riflessione sulla Chiesa sulla<br />
categoria di popolo di Dio, ritenendola più esauriente nel render conto della realtà della Chiesa che<br />
quella di corpo mistico 12 . La discussione fra queste due alternative ha contrassegnato per un po’ la<br />
riflessione teologica fino alla vigilia del Concilio Vaticano II attorno alla questione di una possibile<br />
definizione vera e propria della Chiesa, concludendosi però con la rinuncia a tale impresa, conside-<br />
rata la realtà di «mistero» della Chiesa: di essa se ne poteva dare solo una descrizione di tipo meta-<br />
forico o analogico 13 . In ogni caso, da allora la trattazione societaria ha dovuto cedere il passo<br />
all’approfondimento del carattere misterico (meglio ancora: trinitario 14 ) e storico salvifico della<br />
Chiesa. Nel frattempo un’altra proposta ecclesiologica si faceva strada, quella della “Chiesa sacra-<br />
mento”: essa sembrava in grado di salvaguardare nella realtà unitaria della Chiesa la distinzione e la<br />
9<br />
ThQ 5 (1823) 497; sul tema J.R. GEISELMANN, “Il mutamento della coscienza della chiesa e dell’ecclesialità nella teologia<br />
di Giovanni Adamo Möhler”, in J. DANIÉLOU – H. VORGRIMLER (edd.), Sentire Ecclesiam. La coscienza della<br />
Chiesa come forza plasmatrice della pietà, vol. II, Edizioni Paoline, Roma 1964 (ed. or. 1961), 221-459.<br />
10<br />
J.A. MÖHLER, L’unità nella Chiesa. Il principio del cattolicesimo nello spirito dei Padri della chiesa dei primi tre<br />
secoli, Città Nuova, Roma 1969 (ed. or. 1825); Simbolica o esposizione delle antitesi dogmatiche tra cattolici e protestanti<br />
secondo i loro scritti confessionali pubblici, Jaca Book, Milano 1984 (ed. or. 1832).<br />
11<br />
K.H. NEUFELD, “La scuola romana”, in R. FISICHELLA (ed.), Storia della teologia, III, EDB, Bologna – Roma 1996,<br />
267-285.<br />
12<br />
M.D. KOSTER, Ekklesiologie im Werden, Paderborn 1940.<br />
13<br />
Y. CONGAR, Sainte Église. Études et approches ecclésiologiques, Paris 1963. Un tentativo molto serio di individuare<br />
una formula ecclesiologica fondamentale si trova nel saggio di H. MÜHLEN, Una mystica persona. La Chiesa come il<br />
mistero dello Spirito Santo in Cristo e nei cristiani: una persona in molte persone, Città Nuova, Roma 1968 (ed. or.<br />
1964; 1967 2 ).<br />
14<br />
Un tema ancora molto presente nei manuali: M. KEHL, La Chiesa, op. cit, 57-95; B. FORTE, La Chiesa dalla Trinità.<br />
Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, San Paolo, Cinisello B. (Mi) 1995; G. CALABRESE, Per una <strong>ecclesiologia</strong><br />
trinitaria. Il mistero di Dio e il mistero della Chiesa per la salvezza dell’uomo, EDB, Bologna 1999. Recentemente<br />
è stato fatto anche il tentativo di determinare le caratteristiche della Chiesa a partire dalle proprietà personali<br />
“teologiche” ed “economiche” dello Spirito Santo: G. CISLAGHI, Per una <strong>ecclesiologia</strong> pneumatologica. Il Concilio Va-<br />
4
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
coappartenenza di dimensione giuridico-istituzionale e dimensione misterico-spirituale, che le pre-<br />
cedenti impostazioni della “Chiesa società” e della “Chiesa corpo mistico” tendevano a separare, la<br />
prima relegando gli aspetti teologali al trattato “De gratia” e la seconda contrapponendo la Chiesa<br />
del diritto alla Chiesa della carità. Questa impostazione, inoltre, superava un certo ecclesiocentri-<br />
smo, mettendo maggiormente in luce l’esistenza e il compito della chiesa nel mondo 15 .<br />
Tutte queste posizioni vennero accolte e miscelate nella costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen<br />
gentium del Concilio Vaticano II (1964), che non a caso intitolerà i primi due capitoli proprio «De<br />
ecclesiae mysterio» (il radicamento trinitario ed economico della Chiesa) e «De populo Dei» (la<br />
Chiesa quale “soggetto storico” presente nella storia in cammino verso il Regno di Dio compiuto).<br />
Per la prima volta il magistero della Chiesa si preoccupava non solo di difendere l’istituzione, ma di<br />
evidenziare il carattere teologico della realtà della chiesa.<br />
4. In verità i grandi orientamenti conciliari, dopo una prima fase di recezione “selvaggia” 16 , in cui la<br />
categoria di “popolo di Dio” dopo essere stata la chiave di volta della nuova riflessione ecclesiolo-<br />
gica, è caduta in oblio, anche in ragione di una sua rilettura secondo un’accezione sociologica e per-<br />
sino “rivoluzionaria” (teologia politica e teologia della liberazione 17 ) in alcune correnti vicine al<br />
pensiero marxista e quindi preoccupate del risvolto pratico del pensiero teologico 18 , verranno con-<br />
vogliati attorno alla categoria di “comunione”.<br />
Il sinodo straordinario dei vescovi del 1985 dedicato appositamente alla recezione del Vaticano II,<br />
ha favorito intenzionalmente la dissolvenza sulla categoria di popolo di Dio per ricentrare<br />
l’<strong>ecclesiologia</strong> attorno alla categoria di “comunione”. Nel documento finale, infatti, si dice espres-<br />
samente che «l’<strong>ecclesiologia</strong> di comunione è l’idea centrale e fondamentale dei documenti del con-<br />
ticano II e una proposta sistematica, Dissertatio Series Romana – 39, Pubblicazioni del Pontificio Seminario Lombardo<br />
in Roma – Glossa, Roma- Milano 2004.<br />
15 O. SEMMELROTH, La Chiesa sacramento di salvezza, Napoli 1965 (2 a ed. ted. 1955); E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento<br />
dell’incontro con Dio, Edizioni Paoline, Roma 1962 (ed. or. 1957); K. RAHNER, Chiesa e sacramenti, Morcelliana,<br />
Brescia 1965 (ed. or. 1960); J. AUER, La chiesa universale sacramento di salvezza, Cittadella, Assisi 1988 (ed.<br />
or. 1983). Ancora di recente utilizza la categoria di sacramento come chiave di volta dell’<strong>ecclesiologia</strong> W. SIMONIS, Die<br />
Kirche Christi. Ekklesiologie, Patmos, Düsseldorf 2005.<br />
16 J. RATZINGER - V. MESSORI, Rapporto sulla fede, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1985; G. COLOMBO, “Riprendere<br />
il cammino: il Vaticano II e il post-concilio”, in La Scuola cattolica 133 (2005) 3-18.<br />
17 L. BOFF, Ecclesiogenesi. Le comunità di base reinventano la chiesa, Borla, Roma 1978 (ed. or. 1977); ID., Chiesa:<br />
carisma e potere. Saggio di <strong>ecclesiologia</strong> militante, Borla, Roma 1984 (ed. or. 1981); J.A. ESTRADA, Da chiesa mistero<br />
a popolo di Dio, Cittadella, Assisi 1991 (ed. or. 1988).<br />
18 J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> del Vaticano II, in ID., Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo<br />
(Mi) 19879-32; ID., “L’<strong>ecclesiologia</strong> della Costituzione «Lumen Gentium»”, in Il Concilio Vaticano II. Recezione<br />
e attualità alla luce del Giubileo, a cura di R. Fisichella., San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000, 66-81, qui 69.<br />
5
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
cilio» 19 . Inoltre, la Congregazione per la dottrina della fede (1992) ha fatto sua, pur con alcuni di-<br />
stinguo, questa nozione di communio come «molto adeguata per esprimere il mistero della chiesa»<br />
così che «può certamente essere una chiave di lettura per una rinnovata <strong>ecclesiologia</strong> cattolica» 20 .<br />
Anche la 7 a assemblea generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Canberra 1991) nel docu-<br />
mento della commissione di Fede e costituzione, «L’unità della Chiesa come koinonia: dono e vo-<br />
cazione», ha proposto di considerare la communio come categoria chiave della visione della chie-<br />
sa 21 . In particolare questa nozione appare sempre più chiaramente come possibile formula di con-<br />
senso verso l’auspicato processo ecumenico di unione delle Chiese e come occasione per ristruttura-<br />
re i concreti rapporti intraecclesiali. Molti progetti ecclesiologici recenti hanno di conseguenza tro-<br />
vato quindi il loro asse centrale attorno alla categoria di comunione come capace di esprimere il ra-<br />
dicamento della Chiesa nella comunione trinitaria e allo stesso tempo la concreta forma dei rapporti<br />
intraecclesiali 22 .<br />
D’altra parte non mancano voci critiche nei confronti di questa nuova manualistica della comunio-<br />
ne: in essa vi vedono una Chiesa in cui viene sbiadita la prospettiva storica che il concilio con la ca-<br />
tegoria di popolo di Dio aveva messo in primo piano, una chiesa rinchiusa su se stessa e concentrata<br />
sui propri problemi di ristrutturazione delle istituzioni a livello universale come a livello locale, che<br />
ha smarrito il contatto con la cultura “postmoderna” 23 . Non solo, si evidenzia pure che il termine<br />
comunione non può significare la chiesa come un soggetto collettivo operante nella storia, ma solo<br />
la condizione particolare del rapporto che lega fra loro i suoi membri 24 . Pertanto, sta riprendendo<br />
fiato una riflessione ecclesiologica attenta alle acquisizioni della contemporanea filosofia sociale,<br />
che contesta le tendenze idealizzanti e riduzionistiche dell’<strong>ecclesiologia</strong> scaturita in seguito al Vati-<br />
19 SINODO DEI VESCOVI, II Assemblea straordinaria (1985), Relatio finalis, II, C, 1 = EV 9, § 1800. W. KASPER, Il futuro<br />
dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985, Queriniana, Brescia 1986.<br />
20 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera «communionis notio» su alcuni aspetti della Chiesa intesa<br />
come comunione, 1. Cfr. J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> della Costituzione «Lumen Gentium», art. cit., 69ss.<br />
21 Cfr. Il Regno. Documenti XXXVI (1991/7) 253. Incentrato sul tema della comunione è anche l’importante documento<br />
di FEDE E COSTITUZIONE, La natura e lo scopo della Chiesa, in Il Regno. Documenti XLIV (1999/9) 315-328, e quello<br />
del Gruppo di lavoro bilaterale della conferenza episcopale tedesca e della direzione della chiesa evangelica di Germania,<br />
Communio sanctorum. La chiesa come comunione dei santi, a cura di A. Maffeis, (Brescia: Morcelliana, 2003).<br />
22 Pioniere è stato J. HAMER, La Chiesa è una comunione, Morcelliana, Brescia 1964 (ed. or. 1962). Uno dei suoi sostenitori<br />
più convinti e convincenti J.-M. R. TILLARD, Chiesa di chiese. L’<strong>ecclesiologia</strong> di comunione, Queriniana, Brescia<br />
1989 (ed. or. 1987); ID., L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité, Cerf, Paris 1995. Su questa linea<br />
anche: S. DIANICH, La Chiesa mistero di comunione, Marietti, Genova 1975; M.M. GARIJO-GUEMBE, Gemeinschaft der<br />
Heiligen, Patmos, Düsseldorf 1988; M. KEHL, La Chiesa, op. cit.; B. FORTE, La Chiesa dalla Trinità, op. cit.; M. SE-<br />
MERARO, Mistero, comunione e missione. Manuale di <strong>ecclesiologia</strong>, EDB, Bologna 1996; J. RIGAL, L’ecclésiologie de<br />
communion. Son évolution historique et ses fondements, Cerf, Paris 1997.<br />
23 G. COLOMBO, “Il «popolo di Dio» e il «mistero» della chiesa nell’<strong>ecclesiologia</strong> postconciliare”, in Teologia 10 (1985)<br />
97-168; ID., “Riprendere il cammino: il Vaticano II e il post-concilio”, in La Scuola cattolica 133 (2005) 3-18.<br />
24 S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, op. cit., 152.<br />
6
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
cano II, che sarebbe molto a suo agio nel discettare con la Scrittura e la tradizione patristica della<br />
provenienza della Chiesa dalla Trinità, ma estremamente imbarazzata nell’utilizzare le contempora-<br />
nee riflessioni sociologiche per determinare concretamente identità e compiti della Chiesa quale re-<br />
altà sociale fra le altre 25 . Che la cosa stia cominciando a riscuotere un certo interesse, si vede anche<br />
in un’attenzione crescente alla filosofia sociale e ai suoi risvolti sulla dimensione istituzionale della<br />
Chiesa nei manuali più avvertiti 26 .<br />
1.2. Da dove partire?<br />
(1) Ciò considerato ci chiediamo quale sia il punto di partenza per una riflessione teologica sulla<br />
chiesa? La risposta “catechistica” suggerisce che l’intelligenza della fede qui in questione dovrebbe<br />
prendere in esame quell’articolo del Simbolo della fede che confessa: credo ecclesiam.<br />
Il suggerimento non è superficiale. Se, infatti, facciamo attenzione alla concreta esperienza della fe-<br />
de, rileviamo due punti di vista. Da una parte si diviene credenti solo perché altri hanno già vissuto<br />
questa fede in precedenza, l’hanno raccontata, annunciata e insegnata. Ognuno, dunque, impara la<br />
fede solo a condizione che prima di lui esista già una comunità di credenti e che egli stesso diventi<br />
parte di questa comunità. Dall’altra parte sembra che solo chi già crede possa comprendere effetti-<br />
vamente che cos’è la chiesa… Naturalmente si può studiare la chiesa dal punto di vista storico, so-<br />
ciologico e psicologico. Se però si interroga un credente convinto, egli dirà che tali indagini non<br />
hanno ancora colto il senso autentico, la dimensione profonda della chiesa.<br />
Questa doppia prospettiva ecclesiologica di base si ritrova codificata anche nei documenti fonda-<br />
mentali della fede cristiana, nelle confessioni della chiesa antica. Se infatti si comprende la profes-<br />
sione di fede trinitaria della chiesa antica come espressione della struttura fondamentale dell’espe-<br />
rienza cristiana di Dio, la chiesa appare collocata all’interno del contesto complessivo della fede cri-<br />
stiana e, più precisamente, in una duplice posizione: in primo luogo essa è soggetto della fede<br />
nell’introduzione della professione di fede ove dice «io credo» oppure «noi crediamo»; in secondo<br />
luogo essa appare come oggetto della fede nel terzo articolo: «Credo nello Spirito Santo, la santa<br />
chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vi-<br />
ta eterna» (Simbolo Apostolico: DzH, 10-30).<br />
25 C. DUQUOC, Chiese provvisorie. Saggio di <strong>ecclesiologia</strong> ecumenica, Queriniana, Brescia 1985 (ed. or. 1985); ID.,<br />
«Credo la Chiesa». Precarietà istituzionale e Regno di Dio, Queriniana, Brescia 2001 (ed. or. 1999); J.A. KOMON-<br />
CHACK, Foundations in Ecclesiology, Boston College, Boston 1995; N. ORMEROD, “The Structure of a Systematic Ecclesiology”,<br />
in Theological Studies 63 (2002) 3-30.<br />
26 M. KEHL, La Chiesa. Trattato sistematico di <strong>ecclesiologia</strong> cattolica, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1995 (ed. or.<br />
1992) 123-154, 373-385; S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, op. cit., 11-71.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
a) Chiesa come soggetto della fede<br />
A) Nel Credo la chiesa appare anzitutto come soggetto della fede. Certo, sono sempre i singoli cre-<br />
denti che dicono «io credo» o «noi crediamo»; se però si segue la spiegazione teologica della profes-<br />
sione di fede dell’antichità e del Medio Evo, è sempre la chiesa il vero soggetto che qui parla.<br />
B) In questa prospettiva la fede di ogni singolo è partecipazione alla fede della chiesa, fede nella<br />
chiesa. Nessuno inventa da sé la propria fede. La fede è possibile solo come credere-con e credere-<br />
dopo (imitazione). La comunità dei fedeli è il vero soggetto della fede e il modo proprio della tra-<br />
smissione di essa. In linea di principio solo nella comunità è possibile la fede.<br />
C) La chiesa non diviene soggetto della fede per propria decisione o per propria forza. Essa può di-<br />
venire soggetto nella misura in cui essa sa di essere, si professa e si comporta come popolo eletto e<br />
radunato da Dio, come forma della manifestazione storica del Risorto, costituita attraverso la parte-<br />
cipazione al corpo eucaristico di Cristo, e come nuova creazione realizzata dallo Spirito Santo.<br />
D) Da questo punto di vista però la chiesa non è solo oggetto dell’agire di Dio ma, in conseguenza e<br />
come significato di esso, è essa stessa soggetto di un’azione, cioè della chiamata alla comunione con<br />
Dio, della raccolta e della mediazione. In questa prospettiva la chiesa ha un determinato compito e<br />
una missione e perciò anche una certa struttura e forma di organizzazione.<br />
b) Chiesa come oggetto della fede<br />
A) Secondo il Credo, la chiesa è anche oggetto della fede e, in ultima analisi solo come tale è com-<br />
prensibile. Essa tuttavia non si trova sullo stesso piano dell’oggetto vero e proprio e del fondamento<br />
della fede, il Dio uno e trino. Se infatti la tradizione latina della professione di fede e della sua spie-<br />
gazione, a partire dal V secolo, all’unanimità ed espressamente ha distinto «io credo in Dio Padre…,<br />
in Gesù Cristo…, nello Spirito Santo…» (credo in Deum Patrem… in Jesum Christum… in Spiri-<br />
tum Sanctum) 27 da «io credo la chiesa» (credo Ecclesiam), voleva esprimere in questo modo la con-<br />
vinzione che nella sua essenza la fede è un convertirsi e un rivolgersi verso il Dio vivente stesso,<br />
che la fede, come risposta alla chiamata di Dio, è un essere in relazione con lui…, mentre questa fe-<br />
de può riferirsi alla chiesa solo in quanto essa fa parte delle opere e degli strumenti di cui Dio si ser-<br />
ve per chiamare l’umanità alla comunione con sé. Per questo il Catechismus ad Parochos del Con-<br />
cilio di Trento così spiega: «Noi crediamo nelle tre persone della Trinità, Padre, Figlio e Spirito san-<br />
27 La distinzione fra credere in Deum (incondizionata adesione e dedizione della vita e del cuore), credere Deo (credito<br />
dato all’autorità), credere Deum (accettazione di un dato oggettivo), è formulata classicamente da S. Agostino: In Joannem,<br />
29, 6; 48, 3: PL 35, 1631 e 1741; In Psalm., 77, 8: PL 36, 988s; 130,1: PL 37, 1704.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
to, così che proprio in loro collochiamo la nostra fede. Invece, mutando la forma del dire, noi pro-<br />
fessiamo di credere la santa chiesa e non nella santa chiesa, affinché con questo modo diverso di<br />
parlare si faccia distinzione fra Dio, autore di tutte le cose e le sue creature, e riconosciamo venuti<br />
dalla bontà divina tutti quei sublimi benefici che furono conferiti alla chiesa» (p. I, cap. x, n. 22).<br />
Si deve però riconoscere che nei simboli antichi si diceva pure: “credo nella chiesa”: si veda ad es.<br />
la recensione greca del Simbolo redatto al Costantinopolitano I: «heis mίan hagίan katholikèn kaì<br />
apostolikèn ekklesίan» (DzH 150). In proposito O. SEMMELROTH così commenta: «Credere in Dio<br />
come Dio di salvezza significa infatti incontrarlo nel contesto che lui stesso ha scelto per farsi<br />
Corpo e che già in Cristo comportava delle imperfezioni che lo rendevano motivo di scandalo (Mt<br />
11,6). Infine, questa è la kenosi di Dio, la quale prosegue nella sua incarnazione e nella quale il Signore<br />
glorificato percorre la storia: mediante il suo santo Spirito e nella Chiesa. Credere in Dio significa<br />
cercarlo nel corpo di Cristo, che è la Chiesa… È vero che la tradizione ha sempre esitato ad<br />
affermare una possibilità di credere “in ecclesiam”, mentre si è dimostrata più disposta ad affermare<br />
un “credo ecclesiam”, dove il credere-in veniva propriamente riservato a Dio soltanto. E tuttavia,<br />
siccome Dio, nel proseguimento della historia salutis, dopo la glorificazione di Cristo, ha voluto<br />
riuscirci accessibile nel sacramento della sua Chiesa, si può rettamente parlare anche di un “credo<br />
in ecclesiam”. Questa fede infatti si riferisce a Dio in quanto egli è presente ed attivo nella sua<br />
Chiesa mediante lo Spirito di Cristo. E si riferisce alla Chiesa in quanto essa è il corpo del Signore,<br />
il sacramento della salvezza, quindi segno e pegno di un Dio che si comunica agli uomini» (“Il<br />
nuovo popolo di Dio come sacramento della salvezza”, in Mysterium Salutis vol. VII, 379). Anche<br />
Tommaso spiega perché si può confessare un credere nella Chiesa: «Si dicatur: “in sanctam Ecclesiam<br />
catholicam”, est hoc intelligendum secundum quod fides nostra refertur ad Spiritum Sanctum,<br />
qui sanctificat Ecclesiam [“qui unificat Ecclesiam”: In 3 Sent., d. 25, q. 1, a. 2, ad 5m], ut sit sensus:<br />
“Credo in Spiritum Sanctum sanctificantem Ecclesiam”. Sed melius est, et secundum communiorem<br />
usum, ut non ponatur ibi in sed simpliciter dicatur “sanctam Ecclesiam catholicam”»<br />
(S.Th., II-II, q.1, a. 9, ad 5; cfr. H. DE LUBAC, Meditazione sulla Chiesa, Milano 1979, 14ss.).<br />
B) Chi fa propria la professione di fede dunque crede che la chiesa appartiene ai doni di salvezza del<br />
Dio vivente, ai “frutti” della redenzione e alla speranza escatologica dei cristiani; essa stessa però<br />
fonda la sua esistenza sulla fedeltà e sulla fidatezza del Dio uno e trino. Per questo è esclusa ogni<br />
idolatria della chiesa. In questa prospettiva, la chiesa, piuttosto, è sempre opera del libero agire divi-<br />
no di cui non si può disporre e anzitutto creatura e opera dello Spirito Santo (terzo articolo).<br />
C) Poiché si tratta della chiesa nel terzo articolo, dove si compie il passaggio tra la presenza della<br />
redenzione in Cristo e l’anticipazione del compimento nello Spirito santo, si trova qui anche<br />
l’indicazione del luogo dell’<strong>ecclesiologia</strong> all’interno della dogmatica.<br />
(2) Una volta individuato il luogo, occorre determinare anche il modo concreto di procedere. Una<br />
possibile via potrebbe essere quella di ripercorrere le tappe storiche che hanno portato al costituirsi<br />
del trattato per vedere a quali esigenze rispondeva in origine e come la sua impostazione è cambiata<br />
successivamente. Preferiamo evitare questa strada per due ragioni. La prima risiede nel fatto che<br />
l’<strong>ecclesiologia</strong> odierna non ha alle spalle qualcosa di simile a quanto possiede, ad es., la teologia<br />
trinitaria in un De Trinitate di Agostino (o una Summa Theologiae). Per quanto sia enorme la lette-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
ratura prodotta lungo i secoli sul nostro oggetto, l’unica vera e propria tradizione trattatistica<br />
dell’<strong>ecclesiologia</strong> è quella scolastica in tutte le sue accezioni, la quale però, più o meno, è sempre<br />
stata governata da preoccupazioni controversistiche ed apologetiche… poco teologiche. Inoltre que-<br />
sta via esige di riflettere su alcune scelte di impostazione del discorso ecclesiologico senza cono-<br />
scerne i contenuti. Per questi motivi, la scelta è caduta su una via diversa. Partiremo dall’osserva-<br />
zione del linguaggio con cui si parla della chiesa, cercando di evidenziarne i diversi significati.<br />
1.3. Il linguaggio<br />
In <strong>ecclesiologia</strong> ci troviamo di fronte al caso di un atto di fede che, invece di tendere esclusivamente<br />
verso Dio, è alle prese con questa “creatura” della Parola di Dio che è la chiesa. Il primo nodo da<br />
sciogliere in questa ricerca è allora quello di identificare che cosa sia la chiesa. A prima vista infatti<br />
sembra che il termine chiesa sia univoco e significhi una realtà dai contorni ben determinati, ma non<br />
è così. Tra le varie parti della teologia, quella che ha maggior difficoltà nell’identificare con esattez-<br />
za il proprio oggetto è proprio l’<strong>ecclesiologia</strong>.<br />
1.3.1. Le sue aporie<br />
In passato vigeva una regola ortografica, secondo cui si doveva scrivere Chiesa con la maiuscola per<br />
dire la società dei cristiani e chiesa con la minuscola per indicare l’edificio del culto. Ma in seguito<br />
è sorto il bisogno di declinare la Chiesa con la maiuscola anche al plurale. Infatti il discorso ecume-<br />
nico porta con sé la necessità di poter ragionare senza il tradizionale presupposto che ogni altra<br />
chiesa, diversa da quella intesa da noi, sia tanto inautentica da potersi reputare di fatto inesistente.<br />
Inoltre, anche nell’ambito più ristretto dell’<strong>ecclesiologia</strong> confessionale cattolica diventa necessario<br />
declinare la Chiesa al plurale, non appena si intende sfaccettare il concetto tradizionale dominante<br />
di chiesa universale nell’idea delle chiese locali… nonostante gli imbarazzi che possono sorgere nel<br />
dire «la chiesa di Milano»… superati o nel dire «la diocesi di Milano» o con gli arcaismi neotesta-<br />
mentari o patristici «la Chiesa che è in Milano» oppure «la chiesa pellegrina in Milano».<br />
Se usciamo dal recinto del linguaggio ecclesiastico, poi, molte cose cambiano. Persiste infatti<br />
l’abitudine di usare il termine «chiesa» per indicare esclusivamente il papa, i vescovi o qualche isti-<br />
tuzione ecclesiastica di altissimo livello. Questo avviene normalmente nei mezzi di comunicazione<br />
sociale e nei discorsi comuni della gente.<br />
Oltre a questi fenomeni più macroscopici, anche all’interno di alcuni luoghi classici del discorso ec-<br />
clesiologico è facile rilevare la presenza di ambiguità. Per esempio l’assioma «La chiesa fa l’euca-<br />
ristia e l’eucaristia fa la chiesa», presenta un differenziarsi di piani semantici. Infatti l’eucaristia è<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
soggetto (cioè «fa» la chiesa) sul piano dell’agire di Dio, mentre sul piano “empirico” ne è l’oggetto,<br />
dato che se per eucaristia si intende invece l’azione rituale, l’assioma è palesemente equivoco, poi-<br />
ché se non c’è una chiesa costituita che la celebri, semplicemente non si dà azione eucaristica. Se<br />
non si esercita un rigoroso controllo logico, può succedere che si discorra su due piani diversi come<br />
se ci si trovasse sul medesimo piano, con effetti devastanti per la sensatezza delle cose che si dico-<br />
no. Ciò accade per esempio, quando si consegna la chiesa e le sue imprese alla grazia del mistero<br />
per risolvere i problemi di carattere storico riguardanti la sua missione fra gli uomini… come quan-<br />
do si dice che per risolvere i problemi basta pregare ed essere santi… oppure quando si sostiene che<br />
la soluzione offerta al problema deve essere considerata valida solo perché è legittima ed è sostenuta<br />
dalla fede e dalla preghiera, indipendentemente dalla verifica della sua efficacia. Pensiamo anche a<br />
certe interpretazioni del potere di agire in persona Christi, dove il rapporto con Cristo è pensato ne-<br />
gli identici termini giuridici di una delega plenipotenziaria da un’autorità superiore a un’autorità in-<br />
feriore tutto sommato omogenee fra loro, quasi non intervenisse alcun salto di qualità nel rapporto<br />
fra Cristo e il ministro sulla terra. Può succedere inoltre che si parli di una sacramentalità della nor-<br />
mativa canonica, senza preoccuparsi di distinguerla nettamente dalla sacramentalità dell’ex opere<br />
operato, nella quale la grazia significata dal segno chiede di essere creduta per fede.<br />
Anche nella ricerca di un corretto rapporto con il mondo, cioè con gli uomini e con le istituzioni che<br />
non le appartengono, bisognerebbe guardarsi dalle ambiguità che possono derivare alla chiesa dalla<br />
sua consapevolezza di essere una grandezza trascendente e insieme immanente alla storia. Si pensi<br />
alla pretesa, che a volte si avanza, di sottrarre la chiesa al giudizio del mondo in nome dello Spirito<br />
che la guida, oppure, viceversa, di porla dentro la storia in competizione con le istituzioni mondane,<br />
quasi si trattasse di grandezze fra loro omologabili. La Parola, è vero, giudica e non tollera di essere<br />
giudicata; ma la chiesa che la porta, in quanto è un soggetto storico che agisce con gli uomini e fra<br />
gli uomini, non può sottrarsi al giudizio degli uomini stessi.<br />
Infine, il principio calcedonese della natura umana e divina unite fra di loro «senza confusione e<br />
mutamento, senza divisione e separazione» sarà sempre utilmente invocato in <strong>ecclesiologia</strong>, ma non<br />
si può parlare della chiesa utilizzando la communicatio idiomatum, che attinge la sua legittimità solo<br />
dall’unione ipostatica dell’umanità e della divinità di Cristo.<br />
1.3.2. I diversi piani semantici<br />
I paralogismi, nei quali così frequentemente ci imbattiamo quando parliamo della chiesa, in realtà<br />
non sono imputabili al termine in se stesso, che si presenta con un sufficiente carattere di univocità:<br />
è chiesa un insieme di persone convocate da Dio per vivere uniti in Cristo nella forza dello Spirito<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
santo. Il fatto è che il discorso sull’ekklesía si colloca su piani diversi, e il termine assume significati<br />
differenziati a seconda del piano sul quale viene adoperato. Sarà allora utile cercare di individuare<br />
con maggiore precisione i diversi piani sui quali il termine chiesa assume differenti significati.<br />
a) Il piano fenomenico<br />
Prima di tutto si può discorrere della chiesa come di un oggetto immediatamente raggiungibile nella<br />
pura e semplice osservazione dei fenomeni sociali quali di fatto si presentano a qualsiasi osservato-<br />
re. Chiunque può venire a sapere che in una certa città esiste un’aggregazione di persone le quali<br />
chiamano questo loro ritrovarsi insieme col nome di chiesa. Come questa entità si presenti ed agi-<br />
sca, lo si potrà rilevare attraverso gli strumenti che normalmente si utilizzano per conoscere un fe-<br />
nomeno sociale: dall’osservazione diretta alla notizia giornalistica alla documentazione storica…<br />
Non c’è da meravigliarsi, quindi, che su questo piano parlare della chiesa sia molto spesso la stessa<br />
cosa che parlare del papa, o della conferenza episcopale di un certo paese, o della curia romana.<br />
L’osservatore del fenomeno sociale, infatti, muovendosi sul proprio piano specifico, coglie<br />
all’interno della società civile forme di aggregazione determinate dall’attività economica, altre di<br />
natura politica o culturale, altre di carattere ludico e sportivo e infinite altre determinate dai fattori<br />
più diversi, e accanto a queste anche forme caratteristiche di strutturazione sociale dell’esperienza<br />
religiosa. Dal punto di vista della rilevazione del tessuto sociale quello della chiesa è un fenomeno<br />
registrabile accanto agli altri come fenomeno tipico della religione cristiana, nella quale si dà questo<br />
nome all’aggregazione sociale dei credenti… e dove il fattore gerarchico sembra risultare l’unico<br />
elemento determinante dal punto di vista storico e politico. Pretendere che tutti costoro intendano la<br />
chiesa in un’accezione diversa, per esempio come “sacramento”, cioè segno e strumento di<br />
un’azione salvifica di Dio (Lumen gentium 1), non sarebbe affatto ragionevole.<br />
b) Il piano misterico<br />
Chi guarda le cose con fede tende a scandalizzarsi della spregiudicatezza con cui si parla della chie-<br />
sa sul piano fenomenico, perché egli ha davanti a sé la dimensione profonda di ciò che la chiesa<br />
rappresenta per lui. Egli vorrebbe che mai si parlasse della chiesa senza tenerne conto. In tal modo<br />
però egli si colloca su un altro piano semantico, quello della fede.<br />
Solo attraverso l’atto di fede il discorso si sposta su un piano sul quale si possono dire, di cose stori-<br />
camente apparenti, le radici non storicamente apparenti. Il celebre e fondamentale nesso, dichiarato<br />
da Paolo in 1Cor 15, fra la morte di Cristo, fatto storicamente verificabile, e i nostri peccati, non<br />
può in alcun modo essere constatato empiricamente: è un nesso affermato solo in quanto creduto.<br />
Che in Gesù Cristo Dio abbia agito nella storia umana o che il Risorto sia all’opera nell’atto della<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
chiesa che battezza, sono affermazioni plausibili solo sul piano delle cose credute, anche se riguar-<br />
dano oggetti conosciuti fenomenicamente, come la storia di Gesù di Nazaret o la celebrazione di<br />
una liturgia battesimale in una comunità cristiana.<br />
Quando si passa su questo piano del discorso, parlare della chiesa diventa un’impresa molto più<br />
complessa e difficile. Che il Cristo sia presente alla sua chiesa, ad es., è un dato fondamentale del<br />
discorso credente. Però un dato di questo genere è dell’ordine del sapere della fede: non se ne dà né<br />
verifica empirica né argomentazione di pura ragione. Chi lo afferma e lo crede, lo fa in forza della<br />
sua libera decisione di accogliere come parola di Dio il messaggio apostolico che lo attesta. D’altra<br />
parte questa presenza di Cristo è creduta come presenza nel luogo stesso dell’empeiría ecclesiale,<br />
presenza a quella stessa realtà che il sociologo rileva attraverso le sue indagini e lo storico indaga<br />
con i suoi documenti. Il credente, quindi, deve riferirsi anche al piano fenomenico: non può eluder-<br />
lo, altrimenti non potrebbe dire, a proposito della presenza di Cristo, a chi e dove egli sia presente.<br />
c) Il piano escatologico<br />
Nel linguaggio della fede inoltre si parla della chiesa non solo come di un oggetto “esistente” solo<br />
dal momento in cui è apparso nella storia e solo là dove lo si può dire presente. Infatti se ne parla in<br />
un modo che sembra permettere di traslocare con assoluta disinvoltura l’oggetto chiesa lungo il<br />
tempo, in qualsiasi epoca, ed anche fuori del tempo. Su questo piano semantico la chiesa esiste nella<br />
mente eterna di Dio ed appare già, «in figura», nel consorzio di Adamo ed Eva segnato dalla grazia;<br />
essa inizia la sua storia ab Abel e nella storia di Israele. Naturalmente questo modo di discorrere non<br />
cancella l’interesse per una sua storia da intendersi nel senso più proprio e cronologicamente deter-<br />
minato: in tal caso si dirà che vi fu un tempo in cui la chiesa non c’era e che ancor oggi vi sono re-<br />
gioni del pianeta dove la chiesa non c’è. Il primo modo di parlare della chiesa non rende insensato il<br />
secondo, e viceversa. Ancora si parla della chiesa anche come di un’entità che andrà al di là della<br />
nostra stessa storia, per cui le si può attribuire l’aggettivo celeste. In conclusione: parlando del no-<br />
stro oggetto sul piano misterico il discorso si complessifica, in quanto comporta l’intersecarsi della<br />
dimensione storica e della dimensione escatologica. Occorrerà porvi grande attenzione. Per cui, se si<br />
afferma che la chiesa esisteva fin dall’inizio in Adamo ed Eva, non si può ignorare che i soggetti in-<br />
dividuali che componevano quella chiesa e la stessa chiesa di Israele sono (non solo materialmente,<br />
ma anche formalmente) altri dai soggetti che compongono la chiesa empirica storicamente determi-<br />
nata. E circa la chiesa celeste non è detto che tutti i membri della chiesa terrena vi apparterranno,<br />
mentre potranno appartenervi uomini e donne che sulla terra non l’hanno neppure conosciuta.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
d) Il piano confessionale<br />
Infine c’è un piano del discorso dove si parte dal presupposto che si diano storicamente diverse enti-<br />
tà che pretendono di essere la chiesa di Cristo, mentre in realtà solo una fra tutte lo è veramente. Si<br />
pensi a come ciascuna delle tre grandi conformazioni ecclesiastiche si sia qualificata, per distinguer-<br />
si, con un aggettivo del quale nessuna delle altre potrebbe in alcun modo fare a meno: è forse pen-<br />
sabile una chiesa che non voglia essere evangelica, o non pretenda di essere ortodossa, o che possa<br />
rinunciare a dirsi cattolica?<br />
Il presupposto è tutt’altro che privo di senso, dal momento che questa esistenza di “chiese”, al plura-<br />
le, è del tutto anomala, anzi da ogni cristiano è considerata come una situazione peccaminosa. È na-<br />
turale, quindi, che l’<strong>ecclesiologia</strong> si trovi aperto davanti anche questo piano di discorso per la sua<br />
riflessione. La questione centrale è quella della necessaria individuazione della vera chiesa. Anzi,<br />
nel quadro di una teologia controversistica e non ecumenica, questo è il problema decisivo di ogni<br />
possibile <strong>ecclesiologia</strong>. Non meraviglia che D. Palmieri abbia potuto dare al suo trattato un titolo<br />
siffatto: Tractatus de Romano Pontifice cum prolegomeno de Ecclesia (Romae 1877). L’apice della<br />
controversia confessionale, infatti, sta nella questione del papato. Non appena ci si collochi su que-<br />
sto piano, è evidente che non si potrà sviluppare un’<strong>ecclesiologia</strong> adeguata e corretta senza prima<br />
aver risolto (previamente) il problema del primato.<br />
Ugualmente significativa è l’impostazione di R. Bellarmino. Se la chiesa è l’insieme degli «eletti»,<br />
per cui nella chiesa visibile la vera chiesa resta nascosta e non se ne possono determinare i confini,<br />
come volevano i riformatori, è naturale che Bellarmino, ritenendo invece necessario definire un con-<br />
fine visibile al di fuori del quale non si può parlare di vera chiesa, volesse costruire un’<strong>ecclesiologia</strong><br />
che si muovesse esclusivamente sul piano della visibilità. Certamente egli non riteneva che potesse<br />
esistere un’autentica chiesa cristiana senza interiorità, senza la fede del cuore, la carità dell’anima<br />
cristiana e la presenza dello Spirito Santo. Ma il discorso necessario in quel momento era quello di<br />
un’<strong>ecclesiologia</strong> confessionale e bisognava elaborare una criteriologia per la possibile legittimazio-<br />
ne della chiesa empirica. L’appello al divino, in questo quadro, doveva restare sullo stesso piano:<br />
sarà la volontà, storicamente manifestata, del divino fondatore. Se Gesù ha voluto una chiesa dotata<br />
di una certa struttura, le condizioni da lui poste segnano i confini della vera chiesa. Che poi questo<br />
corpo di credenti abbia tutto un suo mondo interiore, misticamente ricco e carico di grazia, sarà un<br />
dato che non interesserà più l’<strong>ecclesiologia</strong>.<br />
Quando la riflessione teologica si svolge su questo piano, è logico che la dimensione misterica della<br />
chiesa non risulti determinante e che la prospettiva escatologica non interferisca. La stessa dinamica<br />
segno-grazia, esteriore-interiore, caratteristica del piano semantico sacramentale, non appare rile-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
vante. Ecco perché una tale impostazione ecclesiologica confessionale non appare più praticabile.<br />
Ma è possibile un’<strong>ecclesiologia</strong> che resti del tutto assente dal piano confessionale? Il libro di Hans<br />
Küng, La Chiesa 28 , era un tentativo interessante di elaborare un saggio di <strong>ecclesiologia</strong> ecumenica<br />
che tentava di accostarsi il più possibile all’ideale di un discorso transconfessionale grazie all’ap-<br />
porto biblico, inteso rigorosamente come l’elemento fondante e il principio critico di tutti gli svi-<br />
luppi successivi. Ma fino quando la divisione fra le chiese persiste, è possibile in <strong>ecclesiologia</strong> man-<br />
tenere la riflessione teologica sempre al di qua del piano confessionale? Il farlo significherebbe,<br />
come minimo, ignorare che c’è pure una manifestazione della volontà divina sulla forma empirica<br />
della chiesa e che questa forma empirica non costituisce una grandezza totalmente incommensurabi-<br />
le con il mistero dell’elezione e della grazia. Mantenendosi al di qua del piano confessionale<br />
l’oggetto dell’<strong>ecclesiologia</strong> verrebbe a scomparire: resterebbe da trattare in teologia dogmatica del<br />
mistero dell’elezione e della grazia e in teologia pratica dell’organizzazione dei credenti più adegua-<br />
ta per la predicazione del vangelo e la celebrazione dei sacramenti.<br />
e) Conclusione<br />
Osservando come il termine chiesa tenda sempre a scivolare da un piano semantico all’altro, diventa<br />
inevitabile l’interrogativo radicale: è mai possibile fare un’<strong>ecclesiologia</strong>? Se ci collochiamo sul pia-<br />
no fenomenico, potremmo studiare l’aggregazione dei cristiani dal punto di vista sociologico e sto-<br />
rico, oppure da quello di altre scienze umane… Se lo consideriamo sul piano del mistero, allora<br />
sconfineremmo nella teologia della grazia. Se sottolineiamo le valenze escatologiche, affronterem-<br />
mo le questioni cardine di una teologia della storia. Se invece consideriamo il problema delle divi-<br />
sioni confessionali, ci troveremmo nel settore dell’ecumenismo.<br />
C’è quindi un’unica possibilità di fare <strong>ecclesiologia</strong>: individuare un punto in cui i diversi piani se-<br />
mantici si intersecano, in modo che dello stesso identico oggetto si possa ragionare su ciascun pia-<br />
no. Non sarà certo l’abbandono di una o più prospettive possibili a garantire l’adeguatezza e l’uni-<br />
vocità della riflessione ecclesiologica. Né sarebbe facilmente accettabile la posizione fondamental-<br />
mente rinunciataria di chi, nell’ultima fase della neoscolastica, giustapponeva due trattati ecclesio-<br />
logici: quello apologetico, che trattava della chiesa dal punto di vista della sua struttura sociale, e<br />
quello dogmatico, che ne studiava il mistero 29 . Neppure si potrebbe garantire la correttezza del di-<br />
28 Brescia: Queriniana, 1969; orig. ted. 1967. Cfr. anche i lavori di H. SCHUTTE, La Chiesa nella comprensione ecumenica<br />
(Padova: Messaggero, 1993) e di G. CERETI, Per un’<strong>ecclesiologia</strong> ecumenica (Bologna: E.D.B., 1997).<br />
29 T. ZAPELENA, De ecclesia Christi. Pars apologetica. Editio quinta recognita et aucta (Roma: Università Gregoriana,<br />
1950); ID., De ecclesia Christi. Pars altera apologetico-dogmatica (Roma: Università Gregoriana, 1954).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
scorso ignorando la complessità del linguaggio e mescolando fra loro i diversi modi di parlare. Una<br />
condizione fondamentale, necessaria per parlare bene della chiesa, sarà invece quella di rendersi<br />
sempre consapevoli del piano sul quale il nostro linguaggio ha possibilità di essere sensato, per non<br />
passare da un piano all’altro senza mutare contemporaneamente i criteri del discorso.<br />
1.4. L’oggetto<br />
Il problema della complessità del parlare cristiano intorno alla chiesa non è consistito, lungo la sto-<br />
ria, semplicemente in una questione di parole; al contrario, esso si è imposto con prepotenza soprat-<br />
tutto nei momenti delle grandi crisi della chiesa. È l’interrogativo della coscienza cristiana sulla au-<br />
tenticità della realtà stessa nella quale il cristiano vive, che egli chiama “chiesa” e di cui si domanda<br />
se sia davvero la chiesa di Gesù Cristo.<br />
1.4.1. Un oggetto nascosto (la “vera” chiesa)<br />
Nell’antichità cristiana, prima di Gioacchino da Fiore (1130-1202), la posizione che tradizionalmen-<br />
te si teneva era quella antignostica di Ireneo (135/140-200), secondo cui la chiesa vera è semplice-<br />
mente quella che può vantare una discendenza diretta dalle istituzioni apostoliche. Nel secondo mil-<br />
lennio, invece, si cominciò a porre la questione della “vera” chiesa nella sua dimensione globale e si<br />
sollevò la domanda di fondo sulla stessa autenticità cristiana dell’esistenza ecclesiale.<br />
In particolare nella riflessione cattolica si riteneva che MARTIN LUTERO (1483-1546), andando alla<br />
ricerca della vera chiesa, avesse negato legittimità a tutte le forme storiche che pretendessero di ren-<br />
derla visibile agli uomini. La chiesa sarebbe stata quindi una realtà invisibile e inafferrabile.<br />
Nel pensiero poco sistematico di Lutero la riflessione teologica (non solo cattolica) rilevava almeno<br />
una costante: con il termine “Chiesa” Lutero comprendeva due realtà 30 : «La prima, che è naturale,<br />
fondamentale, essenziale e autentica, noi la chiameremo una cristianità spirituale, interiore; la se-<br />
conda, che è costruita ed esteriore, noi la chiameremo una cristianità corporale, esteriore…» 31 .<br />
I commentatori di Lutero hanno discusso nel corso dei secoli sulla questione di sapere se i termini<br />
«Chiesa visibile» e «Chiesa invisibile» designano due realtà separate o due aspetti distinti di una<br />
medesima realtà. Tutto dipende dall’interpretazione del seguito della citazione, che così prosegue:<br />
«non che noi intendiamo separare l’una dall’altra, ma è proprio come quando io discorro a proposito<br />
di un uomo e lo chiamo, secondo l’anima, un uomo spirituale, secondo il corpo, un uomo corpo-<br />
30 Questa costante è sottolineata da A. BIRMELÉ, “Église”, in Encyclopédie du protestantisme, Paris-Genève 1995, 488.<br />
31 LUTERO, Del Papato di Roma (1520), in ID., Scritti politici (Torino: U.T.E.T., 1968 2 ), 81.<br />
16
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
rale, o come l’Apostolo (Rm 7,22s) che ha l’abitudine di parlare dell’uomo interiore ed esteriore.<br />
Allo stesso modo anche l’assemblea cristiana, secondo l’anima, è una comunità che concorda in<br />
una medesima fede, benché, secondo il corpo, essa non possa essere raccolta in un medesimo luogo,<br />
mentre ciascun gruppo è raccolto nel suo luogo.<br />
Questa cristianità è governata dal diritto canonico e dai prelati stabiliti nella cristianità: di essa<br />
fanno parte tutti i papi, cardinali, vescovi, prelati, preti, monaci, suore e tutti coloro che, nello stato<br />
delle cose esteriori, sono reputati dei cristiani, che essi siano autentici e solidi cristiani o che non<br />
lo siano. In effetti, anche se questa comunità non fa un solo vero cristiano poiché tutti gli stati nominati<br />
possono esistere senza la fede, nondimeno mai essa rimane senza qualcuno che, inoltre, è<br />
anche autentico cristiano, proprio come il corpo non fa sì che l’anima viva, mentre l’anima sicuramente<br />
vive nel corpo e anche, sicuramente, senza il corpo. Ma coloro che sono senza fede e senza<br />
la prima comunità in seno a questa seconda comunità, allo sguardo di Dio sono morti, sono degli<br />
ipocriti…».<br />
Alcuni autori affermano di conseguenza che la Chiesa visibile e la Chiesa invisibile costituiscono<br />
«due realtà differenti», e quella che merita veramente il nome di Chiesa è la realtà interiore: «[non vi<br />
è] alcun dubbio che Lutero ha voluto mantenere integralmente la sua nozione di Chiesa, per essenza<br />
spirituale e invisibile come l’anima» 32 . Altri sottolineano al contrario che il punto di partenza di Lu-<br />
tero non è la comprensione dell’elezione e della separazione tra eletti e dannati, ma la constatazione<br />
che, seppur giustificato davanti a Dio, l’essere umano che vive in terra è cittadino di due regni, quel-<br />
lo di Dio e quello del mondo; perché egli è “simul iustus et peccator”. La distinzione non è quindi<br />
da operare tra le persone umane, ma all’interno di ciascuna di esse. «Ecclesiologicamente, ciò signi-<br />
fica che la comunione spirituale dei credenti è una comunità corporale terrestre e dunque visibile. Le<br />
coppie visibile-invisibile, esteriore-interiore o corporale-spirituale indicano che la necessaria distin-<br />
zione non separa due chiese esistenti per se stesse, ma descrivono due aspetti della realtà complessa<br />
della Chiesa unica» 33 .<br />
Si potrebbe perciò dire — seguendo l’analisi di Sergio Rostagno, che si iscrive nella seconda linea<br />
interpretativa — che per Lutero la chiesa non è una realtà invisibile, bensì una realtà “nascosta”:<br />
«Abscondita est ecclesia, latent sancti» 34 . La tesi di Lutero, insomma, non mirerebbe a separare già<br />
in questa terra la vera chiesa da quella falsa. Al contrario, essa sembra voler dire che qualunque<br />
strumento usassimo per scoprire la vera chiesa, mai potremmo raggiungere lo scopo. Si possono in-<br />
dividuare dei segni, che però non costituiscono un vero e proprio criterio discriminante. Per Lutero<br />
32 H. STROHL, La Pensée de la Réforme (Neuchâtel: Delachaux et Niestlé, 1951) 178. L’autore annota: «Dopo che i luterani<br />
moderni esaltano, a loro volta, la loro Chiesa visibile [essi hanno creduto di poter] discernere nello stesso Lutero<br />
l’esistenza tra le due cristianità del medesimo legame che c’è tra il corpo e l’anima. La Chiesa invisibile sarebbe dunque,<br />
come in certe teorie cattoliche, l’anima della Chiesa costituita. Ma il seguito [del testo di Lutero] vieta questa interpretazione».<br />
33 A. BIRMELÉ, “Église”, op. cit., 488.<br />
34 LUTERO, De servo arbitrio, WA 18, 652.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
infatti esistono tre tipi di società umane: quella secolare, quella ecclesiastica «delle cerimonie» e<br />
quella «quae in fide, spe et caritate ambulat, estque christiana». Di quest’ultima il papa certamente<br />
non è il capo, non sembrando egli camminare alla sua testa in fide, spe et caritate 35 .<br />
Questo non perché Lutero concepisca la chiesa dentro uno schema platonico, quasi che la realtà vi-<br />
sibile fosse umbratile e ingannevole mentre la realtà vera risiederebbe altrove, bensì perché<br />
l’essenza della chiesa deve consistere nella vita prodotta dallo Spirito santo, che solo la fede può<br />
percepire e che va colta al di là del valore morale delle opere che caratterizzano l’esistenza dei pa-<br />
stori e dei fedeli.<br />
Alla radice di questo modo di pensare sta Zwingli (1484-1531) che, a sua volta, si muoveva sulla<br />
linea di Agostino (354-430). Questi, provocato dalla controversia donatista, era giunto a parlare del-<br />
la chiesa come di un corpus verum atque permixtum o verum atque simulatum, in quanto «gli ipocri-<br />
ti» sembrano essere parte della chiesa mentre in realtà non appartengono al corpo di Cristo. Certa-<br />
mente, il corpo è unico «propter temporariam commixtionem et communionem sacramentorum»,<br />
però non si deve dimenticare che si tratta di un corpus permixtum 36 . Questa tematica fu sempre sol-<br />
lecitata dal bisogno di domandarsi se coloro che appartengono alla chiesa, quale la si vede e la si vi-<br />
ve nell’esperienza quotidiana, le appartengano fino in fondo oppure no. Nel caso di Lutero sarà, in-<br />
fatti, il detto di Mt 26,16 («Molti i chiamati pochi gli eletti») a farlo parlare della ecclesia abscondi-<br />
ta come del coetus electorum. Egli amerà distinguere fra una chiesa spirituale e una chiesa corpora-<br />
le, utilizzando questa concezione per dire che nell’insieme della chiesa corporale solo una parte è<br />
composta da eletti, mentre chi siano costoro nessun uomo lo può né decidere né discernere, poiché<br />
Dio dispensa i suoi doni come vuole, al punto da doversi aspettare che un giorno «gli ultimi saranno<br />
i primi e i primi gli ultimi» (Mt 20, 16).<br />
La chiesa resta una realtà nascosta solo in questo senso, cioè in quanto essa, come oggetto della fe-<br />
de, è il coetus electorum. Il corpo degli eletti, anche se resi tali per il dono imperscrutabile dello Spi-<br />
rito, non costituisce sic et simpliciter una realtà invisibile; è vero però che è impossibile tracciarne<br />
in maniera storicamente determinata i confini. Non si tratta, quindi, nel pensiero di Lutero, dell’esi-<br />
stenza di due realtà di chiesa, una vera e una falsa, ma piuttosto di due aspetti sotto i quali la mede-<br />
sima realtà ecclesiale deve essere sempre considerata.<br />
35 S. ROSTAGNO, «Ecclesia abscondita». Appunti su un concetto controverso, in Studi Ecumenici VI (1988) 183-192.<br />
36 AGOSTINO, De doctrina christiana, III, xxxii, 45, CCL 32, 104s.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
A proposito della <strong>ecclesiologia</strong> dei Riformatori, quindi, la questione de vera ecclesia andrebbe arti-<br />
colata distinguendo la chiesa nascosta, che è la “vera” chiesa in quanto distinta dalla chiesa in senso<br />
lato che è la comunità dei battezzati che si rifà alla Parola e al sacramento. Tuttavia se si vuole di-<br />
stinguere la “vera” chiesa da quella “falsa” lo si può fare solo a riguardo della chiesa in senso lato,<br />
cioè in ordine alla sua forma visibile. Ad ogni modo, dove c’è una chiesa visibile che si presenta in<br />
una forma autentica, lì è presente anche la chiesa nascosta. Se viceversa si possa dare una presenza<br />
della chiesa anche là dove la sua forma empirica non sia autentica, non andrebbe escluso come teo-<br />
logicamente impensabile, ma sarebbe un fatto contingente e passeggero. Attraverso queste distin-<br />
zioni ai Riformatori fu possibile attribuirsi il diritto di smantellare tutte quelle strutture della chiesa<br />
visibile che non erano chiaramente prescritte dal dettato della S. Scrittura, anzi della Sola Scriptura.<br />
Quale che sia il vero pensiero riformato, possiamo rilevare almeno diversi elementi significativi che<br />
convergono verso un orientamento comune.<br />
1) La questione della natura della Chiesa dipende dalla questione che concerne i membri della Chie-<br />
sa: chi ne fa parte? I peccatori sono inclusi nella sua unità essenziale? Unanimemente i riformati lo<br />
rifiutano mantenendo una nozione univoca di “membro della Chiesa” secondo cui solo i giusti ap-<br />
partengono veramente alla comunità di salvezza.<br />
2) La terminologia è ben stabilita. È nata la coppia Chiesa visibile, esteriore, constatabile con i sen-<br />
si, e Chiesa invisibile o nascosta, opera divina, interiore, inconoscibile.<br />
3) La relazione tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile è la grande questione ecclesiologica. Certi te-<br />
sti inclinano nel senso di una dualità stretta (separazione), mentre altri indicano un legame più forte<br />
ma che resta estrinseco. La chiesa visibile è una realtà che rimane umana, mentre la Chiesa invisibi-<br />
le è una pura realtà di grazia.<br />
È così che la teologia controversistica cattolica si è trovata a dover affrontare in maniera esplicita e<br />
in un neonato quadro confessionale il problema della molteplicità dei piani semantici del discorso<br />
ecclesiologico. Ormai la questione de vera ecclesia era stata sottratta al discorso sulla dimensione<br />
interiore della chiesa e non disponeva più di alcun piano sul quale poter essere posta, che non fosse<br />
quello della chiesa visibile. E su questo piano la teologia cattolica, con in testa il Bellarmino, la po-<br />
se. Nessuno ignorava le ricchezze interiori della chiesa. Se però si doveva discutere sul luogo in cui<br />
poterla trovare, dove raggiungerla, come appartenerle, non aveva senso parlare della sua interiorità:<br />
era necessario giudicare della verità della sua forma storica e della legittimità della sua struttura so-<br />
ciale. Fu così che il Bellarmino, per liberare il discorso dai possibili equivoci, poté affermare:<br />
«Perché uno possa dirsi in qualche modo parte della vera chiesa… non riteniamo necessaria alcuna<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
virtù interiore, ma soltanto l’esterna professione della fede e la comunione nei sacramenti, cose<br />
che i sensi possono percepire» 37 .<br />
Nonostante l’intenzione di contraddire le affermazioni ecclesiologiche dei protestanti, Bellarmino<br />
accetta di restringere la questione della definizione reale della Chiesa alla questione dei suoi membri<br />
— i protestanti considerano le condizioni di una piena appartenenza ecclesiale (i giusti), egli invece<br />
si attiene al minimo richiesto —, adoperando la medesima terminologia di Chiesa visibile e Chiesa<br />
invisibile e la concezione secondo cui esse sono fra loro separabili. Egli si giustificava, pensando di<br />
riproporre il pensiero di Agostino; ma si sbagliava: mentre questi infatti considerava l’appartenenza<br />
di ciascun membro «con il corpo e con il cuore» all’unica Chiesa, Bellarmino parla dell’apparte-<br />
nenza al corpo e al cuore (o all’anima) della Chiesa. Questa concezione sfocerà più tardi nell’idea<br />
ventilata nell’<strong>ecclesiologia</strong> della manualistica che esistono due comunità, di certo normalmente uni-<br />
te, ma che possono anche essere separate.<br />
1.4.2. Un oggetto sdoppiato<br />
Nella manualistica si è aperta così la strada ad una sorta di bilocazione dell’<strong>ecclesiologia</strong>: certamen-<br />
te, la definizione reale della Chiesa esprime l’assemblea di coloro che verificano la triade bellarmi-<br />
niana degli elementi esteriori (il corpo della Chiesa) e possiedono le virtù interiori (l’anima della<br />
Chiesa); per cui il corpo e l’anima della Chiesa sono inseparabili. Tuttavia ciò non si verifica di ne-<br />
cessità per il singolo individuo, il quale può appartenere al corpo senza appartenere all’anima — il<br />
caso dell’eretico occulto — e, reciprocamente, può appartenere all’anima e non al corpo — coloro<br />
che si trovano nel caso di errore o di ignoranza invincibile. Questa separabilità, limitata ai soli indi-<br />
vidui, influisce tuttavia sulla concezione della comunità nel suo insieme. Quest’ultima, in quanto vi-<br />
sibile, raccoglie gli uomini il cui comportamento sociale è conforme, e tra loro pure gli ipocriti. Il<br />
suo principio di unità è visibile e assicura una corporeità di tipo sociale-naturale. In quanto vivifica-<br />
ta soprannaturalmente, la Chiesa è invisibile; il suo principio di unità è, su questo piano, puramente<br />
interiore. Anche se è raramente esplicitato, questi due principi conducono a distinguere realmente,<br />
sebbene inadeguatamente, due comunità e non una sola 38 . Così all’inizio del XX secolo è comune-<br />
mente ammesso che: «Il corpo comprende l’elemento visibile o la società visibile alla quale si ap-<br />
37 Disputationum Roberti Bellarmini de controversiis tomus secundus, Venetiis 1721, 1 a controv., liber III, caput II, 53s.<br />
38 L’esempio più illuminante si trova in L. BILLOT, Tractatus de Ecclesia Christi (Prati 1903 3 ) 272: «Altra è la forma del<br />
corpo della chiesa secondo che essa è precisamente un corpo sociale, e altra è la sua forma secondo che essa è vivente<br />
della vita di grazia». Così un’incorporazione alla Chiesa non è di per se stessa un’incorporazione al Cristo (Ibid., 320-<br />
321).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
partiene mediante la professione esteriore della fede cattolica, la partecipazione ai sacramenti e la<br />
sottomissione ai legittimi pastori, e l’anima comprende l’elemento invisibile o la società invisibile,<br />
alla quale si appartiene per il fatto che si possiede i doni interiori della grazia» 39 .<br />
L’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica “classica” nella controversia controriformista accetta così di distinguere<br />
nella Chiesa un corpo e un’anima; questo “corpo” però non è più il “Corpo di Cristo” paolino, ma<br />
una realtà sociale naturale. In secondo luogo essa limita la visibilità della Chiesa alla sua corporeità<br />
così intesa. Ne risulta una concezione del visibile ecclesiale che non costituisce un segno indirizzato<br />
alla fede, ma una manifestazione puramente sociologica. Infine, se il visibile-naturale è separabile<br />
dall’invisibile-soprannaturale, essa non può ritenere, in coerenza col mistero del Verbo incarnato,<br />
che l’invisibile abiti nel visibile, vi si esprima e si comunichi per la sua mediazione. «Il pericolo di<br />
una simile visione è di lasciar credere che la Chiesa sia composta di due metà capaci di esistere se-<br />
paratamente, che si finirà per chiamare, l’una “Chiesa visibile” e l’altra “Chiesa invisibile”» 40 .<br />
Nell’<strong>ecclesiologia</strong> contemporanea nessuno ritiene di poter fare una teologia del mistero della chiesa<br />
senza tenere conto della sua forma sociale, né alcuno aspira a costruire un’<strong>ecclesiologia</strong> che possa<br />
ritenersi indipendente dalla riflessione sul mistero. Ciò però non significa che la meta di una eccle-<br />
siologia globale sia facilmente raggiungibile… come testimoniano diversi tentativi della teologia<br />
neoscolastica, la quale, nelle sue ultime produzioni, sotto la spinta della Mystici Corporis (1943) di<br />
Pio XII, affiancava al trattato sulla chiesa-società quello sulla chiesa-corpo di Cristo. Tale organiz-<br />
zazione era giustificata per ragioni di pura comodità. Ma gli stessi autori segnalavano che «sarebbe<br />
funesta se avesse la conseguenza di far pensare all’esistenza di due trattati teologici distinti, uno re-<br />
lativo all’organizzazione ecclesiastica (il trattato sulla chiesa), l’altro concernente la vita profonda<br />
delle membra di Cristo (il trattato sul corpo mistico). In tal caso essa porterebbe, di fatto, a scindere<br />
l’organizzazione gerarchica dall’organizzazione della carità, la chiesa dal corpo di Cristo» 41 .<br />
Così nell’<strong>ecclesiologia</strong> contemporanea si sono moltiplicate le voci che proclamano il superamento<br />
delle antitesi, tipiche del momento della Riforma, fra una chiesa invisibile e una chiesa visibile:<br />
«Colui che nella confessione di fede dice: credo Ecclesiam, non trascura con orgoglio, questo volto<br />
concreto della chiesa e confessando: credo resurrectionem carnis, non può più trascurare<br />
l’uomo reale tutto intero, che è corpo e anima, né la sua speranza, come se proprio a lui la resurrezione<br />
non fosse promessa. Ma egli non guarda attraverso e al di là di questo volto in maniera per<br />
così dire malinconica, come se non fosse che un aspetto trasparente, dietro il quale cercare altrove<br />
la chiesa. Esattamente come non può trascurare il volto più o meno avvenente del prossimo che gli<br />
39 E. DUBLANCHY, “Église”, in Dictionnaire de théologie catholique, tome IV (Paris 1911) col. 2154.<br />
40 CH. JOURNET, L’Église du Verbe incarné, t. 2. Structure interne et unité catholique (Paris 1951) 574.<br />
41 T. ZAPELENA, De ecclesia Christi. Pars altera apologetico-dogmatica, op. cit., 338s.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
è comandato di amare, né guardare al di là di questo volto! Il suo sguardo penetra nel visibile della<br />
chiesa — che è la realtà. Vedendo quello che è sotto gli occhi di tutti, egli vede — non a lato o dietro<br />
ma dentro — quello che tuttavia non è sotto gli occhi di tutti. Egli non si libera dunque del tutto<br />
da quello che c’è di visibile nella chiesa. Non lo sfugge per andare verso qualche paese delle<br />
meraviglie. Il credo Ecclesiam può e deve senza dubbio includere in lui molte distinzioni e molte<br />
domande, molta afflizione e vergogna. Può e deve essere senza alcun dubbio un credo molto critico.<br />
In relazione a tutto quello che c’è di visibile nella chiesa, può e deve esprimere semplicemente<br />
una speranza impaziente. Ma è proprio in tutta la sua visibilità, che è poi la sua esistenza storica<br />
sulla terra, che il credente la prende sul serio. Quel credo confessa la fede nell’invisibile che è proprio<br />
il mistero del visibile. Con la fede nella Ecclesia invisibilis l’uomo passa sul campo di lavoro<br />
e di lotta della Ecclesia visibilis. Senza fare questo, senza prendere parte, con discernimento ma<br />
con serietà, alla vita storica della comunità, alla sua attività, alla sua costruzione, alla sua missione,<br />
restando al livello di una ecclesialità teorica e astratta, non si è ancora ripetuto, dandogli tutto il<br />
suo senso, il credo Ecclesiam» 42 .<br />
Un’asserzione cui fa eco anche H. Küng, per il quale: «Non ci sono due chiese, una visibile e una<br />
invisibile. E non si può nemmeno dire, nello spirito del dualismo platonico e dello spiritualismo,<br />
che la chiesa visibile (in quanto “materiale” e terrena) è l’immagine della chiesa autentica, invisibile<br />
(spirituale e celeste). Come pure non è che l’invisibile sia l’essenza e il visibile la forma storica del-<br />
la chiesa. Ma l’unica chiesa è nella sua essenza e nella sua forma storica sempre contemporanea-<br />
mente visibile ed invisibile. La chiesa oggetto della fede è dunque un’unica chiesa: la chiesa invisi-<br />
bile nel visibile, o meglio nascosta nel visibile» 43 .<br />
Tutte queste riflessioni ci hanno mostrato l’insufficienza delle categorie e delle distinzioni utilizzate<br />
per districare la complessità dell’oggetto, con la pretesa di riuscire a distinguere l’aspetto empirico<br />
da quello misterico in modo tale da poter parlare del primo liberi dalle implicazioni del secondo, e<br />
viceversa. Se si vuole parlare davvero della chiesa, la sua forma empirica — anche quando sia il pu-<br />
ro apparato sociale dell’aggregazione dei cristiani, anche quando sia forma storica contingente e non<br />
essenziale all’idea di chiesa, anche quando sia piena di peccati — non accetta di essere svuotata del<br />
mistero della grazia che la costituisce. Così, al contrario, se l’<strong>ecclesiologia</strong> non deve ridursi a pura<br />
riflessione sul mistero della grazia, si può cogliere qualcosa del credo ecclesiam solo scrutando il<br />
mistero dentro la forma empirica della chiesa e nelle sue componenti puramente esteriori, per quan-<br />
to esse siano contingenti, inessenziali e segnate inevitabilmente dal peccato degli uomini.<br />
Da qui nasce il problema di come individuare l’azione della chiesa nella storia. In proposito Jac-<br />
ques Maritain nella sua famosa teoria sull’azione politica dei cristiani distingueva fra l’agire del cri-<br />
42 K. BARTH, Kirchliche Dogmatik, IV/I (Zürich: E.V.Z., 1953) 730 [trad. franc. IV/I ***, 12-13].<br />
43 H. KÜNG, La Chiesa, op. cit., 43.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
stiano «da cristiano» e l’agire del cristiano «in quanto cristiano» 44 . Secondo questa visione i credenti<br />
si possono impegnare nell’azione sociale e politica portandovi tutta la forza e tutti i valori della loro<br />
fede, ma senza che la loro azione debba essere considerata un’azione della chiesa e ne possa com-<br />
promettere le responsabilità: la chiesa, infatti, si muoverà sempre a un livello diverso, quello carat-<br />
terizzato non già dalla contingenza storica bensì dalla sua natura trascendente e divina. In modo si-<br />
mile la formula parallela che K. Rahner suggerisce risulta, ecclesiologicamente, ancora più netta.<br />
Egli afferma, infatti, che i laici nel campo dell’azione temporale agiscono christlich (cioè cristiana-<br />
mente), e non kirchlich (ecclesialmente), mentre solo la gerarchia agisce kirchlich 45 .<br />
Tale distinzione ha un effetto particolarmente significativo sull’<strong>ecclesiologia</strong>, in particolare a propo-<br />
sito del rapporto fra la chiesa e la storia. Da un lato il corpo cristiano sarebbe chiamato a esercitare<br />
un influsso decisivo sulla società, sulla sua vicenda politica e, quindi, sulla storia degli uomini, sen-<br />
za che tutto questo debba avere un qualche significato ecclesiologico, non essendone la chiesa il ve-<br />
ro soggetto. Dall’altro lato la storia dovrebbe registrare l’azione vera e propria della chiesa la quale,<br />
però, non ne condividerebbe le caratteristiche della contingenza e della fallibilità. Si tratterebbe<br />
quindi di processi storici che non si intreccerebbero con quelli degli altri soggetti e, più che apparte-<br />
nere alla storia, la attraverserebbero con il loro carattere di assoluta trascendenza. Ci domandiamo<br />
se, nella prospettiva maritainiana, si possa ancora fare una storia della chiesa, o se questa non debba<br />
ridursi all’agiografia, alla storia della liturgia e alla storia dell’episcopato e del papato 46 .<br />
La questione teologica, infatti, si ribalta inevitabilmente sulla disciplina storica che ha per oggetto la<br />
chiesa. In realtà una riduzione della storia della chiesa come quella che sembrerebbe doversi ipotiz-<br />
zare a partire dall’<strong>ecclesiologia</strong> di J. Maritain, non si è mai verificata in maniera riflessa e formale,<br />
anche se di fatto, non di rado, gli storici della chiesa vi si sono avvicinati. Oggi, poi, che il Vaticano<br />
II ha attribuito al popolo di Dio il ruolo di autentico soggetto storico della missione, lo storico della<br />
chiesa aspira esplicitamente ad allargare gli spazi della sua ricerca e a scrivere la «storia vissuta del<br />
popolo cristiano» 47 .<br />
44 J. MARITAIN, Umanesimo integrale (Roma: Borla, 1980) 307-320. Cfr. ID, La Chiesa del Cristo (Brescia: 1971).<br />
45 K. RAHNER, Grundstrukturen im heutigen Verhältnis der Kirche zur Welt, in F. ARNOLD - K. RAHNER, Handbuch der<br />
Pastoraltheologie, II/2 (Freiburg Basel Wien: Herder, 1966) 203-267.<br />
46 Cfr. quanto dice la Gaudium et spes al n. 40: «La chiesa condivide la stessa sorte terrena del mondo» e quanto poi è<br />
stato affermato a partire dalla Evangelii nuntiandi alla Christifideles laici, a proposito di una concezione della missione<br />
della chiesa, della quale fa parte, a tutti gli effetti, anche l’operare dei laici nell’ambito temporale.<br />
47 J. DELUMEAU (ed.), Storia vissuta del popolo cristiano (Torino: Sei, 1979).<br />
23
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
1.3.3. Un oggetto storico ambiguo<br />
La questione più importante all’interno del problema della individuazione dell’oggetto della storia<br />
della chiesa non riguarda più l’estensione materiale della “cosa” da studiare. La questione più inte-<br />
ressante è quella del suo oggetto formale: di qual genere sia la “cosa” su cui gli storici della chiesa<br />
devono interrogarsi e, quindi, di qual genere sia la scienza cui essi si stanno applicando.<br />
1) A partire dal Rinascimento, passando poi per l’Umanesimo e l’Illuminismo, la storia ecclesiastica<br />
si è emancipata dallo schema storico-salvifico-dogmatico in cui era stata situata classicamente da<br />
Eusebio, ma anche dalla sua funzione apologetica a servizio della dogmatica, come si era venuta a<br />
maturare, specialmente ad opera del Baronio, a partire dalla Riforma, e infine anche dalle specula-<br />
zioni condotte nell’alveo di una filosofia della storia, quelle che riscontriamo, ad esempio, nello spi-<br />
rito dell’idealismo tedesco… Si trattava insomma di descrivere «come erano andate effettivamente<br />
le cose». Ma quel che poteva sembrare pura oggettività, in effetti era l’affermarsi di una vera e pro-<br />
pria concezione del mondo, che parve inconciliabile col metodo dogmatico. La storia della chiesa<br />
divenne quindi il focolaio di tutti i pericoli cui la teologia sarebbe poi andata incontro (Döllinger e il<br />
Vaticano I; il modernismo…). D’altra parte la storia si è rivelata quale locus theologicus indispen-<br />
sabile anche per la stessa dogmatica, che «ai nostri giorni non è più concepita come una scienza a-<br />
prioristica deduttiva, ma piuttosto come una scienza ermeneutica che procede con metodo storico e<br />
che comprende i dogmi della chiesa partendo dalla loro genesi storica e quindi pure dal loro nesso<br />
storico» 48 (cfr. Optatam Totius 16). Questi sviluppi hanno fatto sorgere due tendenze negli storici<br />
della chiesa: per alcuni la storia della chiesa è solo una disciplina scientifica, mentre per altri la sto-<br />
ria della chiesa è una disciplina teologica.<br />
(a) Secondo una prima corrente (O. Köhler, G. Alberigo, E. Poulat, V. Conzemius) la storia della<br />
chiesa è teologicamente rilevante proprio in quanto è una storia seriamente approfondita e si affer-<br />
ma per sua stessa natura come disciplina storica autonoma. Se «la storia della chiesa è e deve rima-<br />
nere una disciplina storica», dovrà avere per oggetto la chiesa «assumendo questa espressione non<br />
nella sua accezione dogmatica, bensì in quella fenomenologica, intendendo cioè tutte le manifesta-<br />
zioni di vita, di pensiero, di organizzazione che si sono espressamente rifatte al cristianesimo, il cui<br />
statuto storico è uno statuto ecclesiale» 49 . La storia della chiesa è storia della salvezza nel suo in-<br />
48<br />
W. KASPER, “Storia della chiesa come teologia storica”, in Teologia e Chiesa (BTC 60; Brescia: Queriniana, 1989)<br />
104-120, qui 107.<br />
49<br />
G. ALBERIGO, “Nuove frontiere della storia della chiesa”, in Concilium 6 (1970/7) 82-102.<br />
24
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
sieme. Ma lo storico non è in grado di cogliere una storia nel suo insieme. A lui non resta che espor-<br />
re la storia della chiesa come storia profana, anche se «in conformità alla sua comprensione esisten-<br />
ziale dell’oggetto di cui tratta, deve prendere come punto di riferimento quella base che lo pone in<br />
relazione con l’evento», cioè la relazione della chiesa, nella sua storia, con la Sacra Scrittura, di cui<br />
la storia della chiesa è in qualche modo esposizione e interpretazione 50 .<br />
(b) Una seconda corrente (H. Jedin, J. Lortz, E. Iserloh, W. Brandmüller) sostiene una concezione<br />
teologica della storia, non per contestare le acquisizioni dell’età moderna. Essi intendono piuttosto<br />
integrare la storiografia, con la sua autonomia, in una più ampia concezione di teologia storica. Il<br />
problema, infatti non è quello di distinguere i diversi livelli di riflessione o valutare dal punto di vi-<br />
sta teologico dei fatti che precedentemente sono stati accertati in modo storico, dato che la scienza<br />
storica è sempre inevitabilmente condizionata dalla precomprensione dello storico. Non è possibile,<br />
per costoro, una lettura profonda dei fatti se non li si legge al livello superiore delle intenzioni: è co-<br />
sì che alla storia della chiesa si apre la possibilità di una scienza teologica, senza che con questo<br />
venga disattesa l’imponenza dei fatti. Per i cristiani il principio e la fine della storia sono veri e pro-<br />
pri dati di fede: l’epifania di Dio in Gesù Cristo è il dato determinante di tutta la storia e la sua paru-<br />
sia ne è il punto di arrivo. È Dio stesso, nella persona del Figlio, che non solo agisce sulla storia ma<br />
vive egli stesso una propria storia. La chiesa è il dispiegarsi di questo evento nel cammino comples-<br />
sivo della storia umana. Ecco perché la storia della chiesa presuppone un concetto di chiesa fondato<br />
sulla Scrittura e sulla prima tradizione. La chiesa infatti non può distanziarsi dalla sua origine. Per<br />
quanto sia difficile a delimitarsi, c’è quindi nella chiesa uno ius divinum, ed è nel ritorno alla forma<br />
evangelii che essa si fa creativa e si dà continuamente una forma nuova.<br />
2) Un’utile messa a punto del problema ci è offerta da Walter Kasper 51 , il quale chiarifica le que-<br />
stioni ermeneutiche ed epistemologiche sottostanti raccogliendole attorno a due punti di vista fon-<br />
damentali. Innanzitutto, egli precisa che la storia si costituisce con la «fusione dialettica tra<br />
l’avvenimento storico oggettivo e la sua interpretazione storica soggettiva». L’ideale di una scienza<br />
storica che faccia a meno di qualsiasi presupposto, sia neutrale rispetto ad ogni valore è una illusio-<br />
ne. In secondo luogo, «questa fusione continua, mai conclusa, tra soggetto e oggetto è possibile solo<br />
entro l’orizzonte di un’anticipazione del senso intero della storia».<br />
50 O. KÖLHER, “La chiesa come storia”, in My Sal VIII (Brescia: Queriniana, 1975) 651-729, qui 726-728.<br />
51 W. KASPER, “Storia della chiesa come teologia storica”, art. cit. Cfr. pure il bilancio storiografico di S. XERES, Storia<br />
della Chiesa, in G. CANOBBIO – P. CODA (edd.), La Teologia del XX secolo un bilancio, 1. Prospettive storiche, Città<br />
Nuova, Roma 2003, 203-247.<br />
25
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
Per cui, in primo luogo, occorre riconoscere il significato costitutivo del soggetto nel processo della<br />
comprensione storica. Il soggetto è insomma «l’unico accesso universale possibile al reale, il mezzo<br />
che consente una conoscenza oggettiva della realtà, per quanto sempre entro una certa prospettiva e<br />
per frammenti». Per cui una scienza senza presupposti è necessaria nel senso che lo studioso deve<br />
sempre porre sotto controllo le premesse da cui parte, renderle oggetto della sua critica; nella consa-<br />
pevolezza che le scienze dello spirito rimangono continuamente legate ad una determinata epoca<br />
storica, al grado di maturazione personale che lo studioso ha conseguito, come pure agli atteggia-<br />
menti di fondo in cui si traduce una certa visione del mondo e su cui si basa anche la sua compren-<br />
sione. «La virtù della scienza non si basa nell’assenza dei presupposti, bensì nell’autocritica dei<br />
fondamenti» (E. Spranger). Se poi si applica questa considerazione alla storia della chiesa, vediamo<br />
perché una comprensione secolarizzata della storia della chiesa è non meno pregiudiziale di una sua<br />
comprensione teologica, anzi è un pregiudizio ancor più pericoloso, perché oggi sembra affatto<br />
plausibile e quindi rimane a livello inconscio, non pone interrogativi critici. In realtà nemmeno i so-<br />
stenitori di una storia della chiesa non-teologica possono “fare” storia della chiesa senza presupposti<br />
di ordine teologico, perché «se invece di scrivere la storia della chiesa in modo “conformistico”, po-<br />
nendosi dalla parte dei “vincitori”, si preferisce fare una “storia degli eretici”, ci si espone ancora<br />
una volta, benché in altro modo, alla tentazione di trasferire le categorie dell’oggi nel passato… So-<br />
prattutto i grandi rivolgimenti storici ci inducono ad orientare lo sguardo verso i “profeti e precurso-<br />
ri” (V. Conzemius), che all’improvviso appaiono estremamente interessanti, quando per il passato<br />
non avevano goduto di molta attenzione. Qui si corre facilmente il rischio di una conclusione affret-<br />
tata, atta a confermare tendenze del momento» 52 . Una comprensione teologica della storia della<br />
chiesa ha il vantaggio di indicare chiaramente i presupposti da cui parte e di interpretare l’oggetto<br />
delle sue riflessioni proprio a partire da tali presupposti.<br />
In secondo luogo, si deve tener conto della struttura anticipatrice della storia. Perciò la precompren-<br />
sione teologica non è qualcosa che si inserisce nella storia in modo puramente esteriore e soggetti-<br />
vo, ma deriva dalla stessa dialettica di soggetto ed oggetto che costituisce la storia. Infatti la media-<br />
zione sempre frammentaria di soggetto e oggetto riesce possibile solo nell’orizzonte e nell’antici-<br />
pazione di un senso globale della storia. Proprio per la natura del circolo ermeneutico il singolo in-<br />
dividuo, che entra in rapporto con la storia, può essere compreso solo alla luce dell’intero, come vi-<br />
ceversa si può comprendere l’intero solo a partire dall’individuo. Ma siccome la storia si realizza<br />
52 K. SCHATZ, “Ist Kirchengeschichte Theologie?”, in Philosophie und Theologie 55 (1980) 481-513.<br />
26
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
interamente solo alla fine del suo corso, ogni comprensione di tipo storico rappresenta una anticipa-<br />
zione della totalità di senso della storia stessa. Proprio nel suo carattere frammentario la storia è<br />
permeata da una problematica, da una speranza, anzi da un tratto escatologico: i grandi errori e le<br />
confusioni della storia pongono il problema del senso della storia stessa, ed anche di una giustizia<br />
più piena. In tal modo la storia stessa solleva un problema che a sua volta introduce in una dimen-<br />
sione in cui il teologo risponde professando la propria fede in Dio, Signore della storia. Naturalmen-<br />
te è anche possibile omettere o lasciar aperta, dal punto di vista metodologico, una tale questione<br />
che motiva la scienza storica, ma pure la trascende, e limitarsi quindi volutamente alla storiografia,<br />
lasciando tutti gli altri problemi ai filosofi e ai teologi. In questo senso si può considerare la storia<br />
della chiesa come qualcosa di meramente profano. Ma quando si tematizza coscientemente il pro-<br />
blema e lo si vuol risolvere anche in chiave teologica, si farà della storia della chiesa una teologia<br />
storica, che è scienza di fede non soltanto per il proprio oggetto materiale, ma anche per quello for-<br />
male. In base a questi due presupposti Kasper può esporre la sua tesi.<br />
(a) Innanzi tutto occorre riconoscere come punto di partenza che la teologia parte dalla confessione<br />
di fede che in Gesù Cristo si è manifestato in modo escatologico definitivo il senso della storia. Essa<br />
intende la chiesa come segno sacramentale di questa salvezza in cui tutta la storia spera, senza però<br />
essere in grado di realizzarlo. Di conseguenza la storia della chiesa è la maturazione di ciò che la<br />
chiesa è nelle mutevoli costellazioni del processo storico.<br />
(b) Questa tesi si basa sull’enunciato teologico di fondo che Gesù Cristo è l’autocomunicazione di<br />
Dio all’uomo, l’autocomunicazione escatologica definitiva, in quanto per sua stessa natura non può<br />
essere storicamente superata. Ma questa vittoria escatologica della verità, giustizia, amore, è realtà<br />
storica soltanto quando viene assunta nella storia degli uomini storici, cioè laddove Dio trova degli<br />
esseri umani che credono e che pubblicamente attestano questa fede. La comunità di fede della chie-<br />
sa è dunque un momento intrinseco del compimento escatologico della storia salvifica in Gesù Cri-<br />
sto. Per la chiesa ciò significa che da un lato essa è la presenza vittoriosa della verità, dell’amore e<br />
della vita di Dio nella storia. Partecipa al carattere escatologico dell’avvenimento di Cristo, per cui<br />
non potrà mai perdere la verità di Gesù. Essa è il corpo di Cristo e il tempio costruito da Dio nello<br />
Spirito santo. D’altro canto la chiesa porta questo tesoro in vasi di creta. È la presenza del nuovo<br />
eone nelle condizioni dell’antico. È chiesa santa, ma al tempo stesso anche chiesa dei peccatori.<br />
(c) Ne consegue che al pari di qualsiasi soggetto storico, anche la chiesa ci riesce comprensibile sol-<br />
tanto se abbiamo compreso e seriamente assunto il suo modo di intendersi. Ma la chiesa non può<br />
non intendersi se non in termini storico-salvifici. Certo la storia della chiesa non può essere a sua<br />
27
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
volta storia della salvezza: avremmo un progresso storico salvifico che all’interno del processo sto-<br />
rico porta oltre lo stesso Gesù (cfr. la tesi di Gioacchino da Fiore della età dello Spirito contestata da<br />
S. Tommaso). Ma da questa precisazione non si può concludere che oggetto della storia della chiesa<br />
sarebbe soltanto la storia “mondana” della chiesa. Ci troveremmo di fronte a una concezione duali-<br />
stica, ad un’<strong>ecclesiologia</strong> dissociata, analoga alla cristologia dissociata dei nestoriani, in cui l’ele-<br />
mento terreno e quello celeste della chiesa verrebbero collegati tra loro in termini quantitativi e ad-<br />
ditivi. Al contrario in una concezione “sacramentale”, il visibile, l’umano e il terreno che c’è nella<br />
chiesa va concepito come attualizzazione simbolico-reale del Divino, dell’escatologicamente Defi-<br />
nitivo. Se si assume questa prospettiva sacramentale, si converrà che la chiesa ha la propria essenza<br />
teologica non accanto o dietro o al di sopra della storia, ma nella stessa storia. Così la storia della<br />
chiesa è la storia della sua essenza, e l’oggetto della storia ecclesiastica è la storicità dell’essenza<br />
della chiesa stessa. Ovvero la storia della chiesa, concepita come teologia storica, è teologia della<br />
realizzazione essenziale della chiesa all’interno di epoche e culture storiche in continuo mutamento.<br />
La storia della chiesa allora risponderà alla domanda: negli eventi della storia della chiesa, che cosa<br />
c’è di concretizzazione storica del Vangelo e che cosa è sua falsificazione e riduzione?<br />
3) In modo simile Gerhard Ebeling ha concepito la storia della chiesa come storia del-<br />
l’interpretazione della Sacra Scrittura 53 . Se per esegesi scritturistica si intende l’accezione più ampia<br />
in cui la esprime il modo cattolico di intendere la tradizione, tradizione che si attua non solo in for-<br />
mule teologiche, bensì in tutto «ciò che la chiesa fa, tutto ciò che la chiesa è ed in cui crede» (DV 8),<br />
allora la storia della chiesa sarà pure la riflessione sulla presenza dell’Evangelo della salvezza esca-<br />
tologica in Gesù Cristo nelle mutevoli costellazioni della storia. Nella consapevolezza che la storia<br />
dell’essenza della chiesa si svolge nelle condizioni di una storia umana, anzi di peccato, non conse-<br />
gue una strumentalizzazione apologetica (erroneamente intesa).<br />
1.4.4. Un oggetto “vissuto”<br />
Secondo M. Kehl (La Chiesa, 13-31) esiste un forte legame tra spiritualità ed <strong>ecclesiologia</strong>. A suo<br />
parere in molte controversie non entrano «in gioco soltanto dei fattori biografici e socio-psicologici,<br />
e neppure soltanto diverse posizioni ecclesiologiche e interessi di politica ecclesiale (elementi che<br />
senza dubbio concorrono in modo decisivo)», ma spesso alla base di tutto si trova «un’esperienza<br />
spirituale fondamentale della chiesa, una visione spirituale di essa e un’opzione che raggiungono gli<br />
53 G. EBELING, Kirchengeschichte als Geschichte der Auslegung der Heiligen Schrift (1947), in ID., Wort Gottes und<br />
Tradition. Studien zu einer Hermeneutik der Konfessionen (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1964) 9-27.<br />
28
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
strati emozionali profondi della fede». «Per esperienza spirituale della chiesa intendo un legame di<br />
carattere fondamentale tra il mio personale atto di fede e la comunità credente: quale significato esi-<br />
stenziale ha la chiesa (anche in quanto chiesa universale!) per la mia fede personale?». «A dispetto<br />
di molte tendenze attuali… nella propria spiritualità non basta concentrarsi esclusivamente su Gesù<br />
Cristo o sul regno di Dio; di entrambi, infatti, ogni tempo e ogni singolo individuo possono farsi fa-<br />
cilmente un’immagine che si adatta a loro. Alla concretezza e impegnatività della nostra sequela di<br />
Cristo e dell’intera nostra spiritualità appartiene una relazione spirituale con la chiesa» (ibid., 18).<br />
1.4. Conclusioni<br />
1.4.1. Essenza in forma storica<br />
Il concetto di chiesa è essenzialmente connotato dalla relativa forma storica della chiesa stessa. Cia-<br />
scun tempo ha una sua idea di chiesa, elaborata partendo da una particolare situazione storica, vissu-<br />
ta e strutturata da una particolare chiesa storica, tratteggiata concettualmente da particolari teologi<br />
nel corso della storia. Tuttavia, permane qualcosa di stabile, un’essenza imposta dalla sua origine,<br />
che permanentemente la determina. Quindi, nella storia della chiesa e della comprensione che essa<br />
ha di sé, c’è un elemento costante, che tuttavia si palesa solo in ciò che si muta. C’è qualcosa di i-<br />
dentico, ma solo nel variabile; un continuo, ma solo nell’evento; un’essenza della chiesa non in una<br />
immobilità metafisica, ma solo in una forma storica in continua trasformazione. Proprio per scorge-<br />
re questa originaria permanente essenza — in divenire dinamico —, si deve fare attenzione alla<br />
forma storica in perpetuo cambiamento. Anche il NT non comincia con una dottrina sulla chiesa,<br />
che si sarebbe realizzata in seguito, ma con la realtà della chiesa, che in seguito diviene oggetto di<br />
riflessione. La chiesa reale è in primo luogo un esserci, un fatto, un evento storico. L’essenza reale<br />
della chiesa si attua in forma storica. Si tenga presente, però, che:<br />
a) Non si deve separare l’essenza dalla forma: non si possono scindere l’essenza e la forma<br />
della chiesa, ma si devono vedere nella loro unità. La distinzione tra essenza e forma non è una di-<br />
stinzione reale, ma solo di ragione: in realtà non c’è e non ci fu mai un’essenza della chiesa “in sé”,<br />
separata, allo stato puro, estratta dal flusso delle forme storiche. Il mutabile e l’immutabile non si<br />
lasciano ripartire con precisione: ci sono costanti che permangono, ma non ci sono settori irrefor-<br />
mabili a priori (LG 48c; UR 6a). Un’essenza senza forma è informe e dunque irreale, così come ir-<br />
reale è una forma senza essenza, mancando appunto dell’essenza. Nonostante tutto ciò che vi è di<br />
relativo, la forma storica non deve essere considerata semplicemente irrilevante nei confronti di<br />
29
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
un’essenza sussistente da qualche parte “al di dentro” o “al di sopra”. Solo se si vede l’essenza della<br />
chiesa, non al di fuori né al di sopra, ma nella sua forma storica, si ha a che fare con la chiesa reale.<br />
b) Non si devono identificare essenza e forma. Essenza e forma non possono essere poste<br />
sullo stesso piano, devono anzi essere viste nella loro differenza. Anche se la distinzione che inter-<br />
corre tra essenza e forma è una distinzione di ragione, essa è tuttavia necessaria. Come potremmo<br />
altrimenti determinare ciò che permane nel divenire delle forme? Come potremmo, altrimenti, e-<br />
sprimere un giudizio sulla concreta forma storica? Come avere altrimenti un criterio, una norma per<br />
determinare ciò che è legittimo in una manifestazione storico-empirica della chiesa? Non esiste una<br />
forma della chiesa — neppure quella offerta dal NT — in grado di abbracciare l’essenza della chiesa<br />
così da averla come possesso definitivo. E neppure esiste una forma della chiesa — nemmeno quel-<br />
la del NT — che rispecchi perfettamente ed esaustivamente l’essenza della chiesa. Solo se, nel mu-<br />
tare delle forme, percepiamo come distinta l’essenza immutabile, ma sempre presente della chiesa,<br />
noi riusciamo a cogliere la chiesa reale.<br />
1.4.2. Essenza e non-essenza<br />
La distinzione fra essenza e forma, però, non basta a descrivere completamente la realtà della chie-<br />
sa. Infatti, in tutti gli elementi negativi a cui si appiglia la critica alla chiesa e che l’ammirazione su-<br />
perficiale non prende o prende non sufficientemente in considerazione, non si esprime solamente<br />
una “forma” storica della chiesa; neppure vi si esprime l’essenza buona — stabile e insieme mute-<br />
vole — della chiesa. Piuttosto qui si introduce il male nella chiesa, la non-essenza (Hans Küng parla<br />
di Unwesen nel senso di essenza pervertita). La non-essenza della chiesa è in contraddizione con<br />
l’essenza, benché le viva addosso: essa non è l’essenza genuina, legittima, è un’essenza pervertita,<br />
illegittima. Essa non è dovuta alla volontà di Dio, ma alla debolezza degli uomini che compongono<br />
la chiesa. Come un’ombra la non-essenza accompagna l’essenza della chiesa in tutte le sue forme<br />
storiche. L’essenza reale della chiesa si realizza nella non-essenza. Non solamente il suo carattere<br />
storico in generale, ma precisamente il fatto che la chiesa sia intaccata storicamente dal male deve<br />
essere per ogni <strong>ecclesiologia</strong> un dato fondamentale di cui tenere conto a priori e sempre senza alcu-<br />
na falsa apologetica. È per questo che l’<strong>ecclesiologia</strong> non potrà mai semplicemente prendere o addi-<br />
rittura giustificare, come norma, l’attuale status quo della chiesa. Essa contribuirà piuttosto con tutte<br />
le sue forze — a partire dal Vangelo — a quella purificazione critica che è premessa per il rinnova-<br />
mento continuamente necessario (LG 8; UR 6). La chiesa quale è realmente: l’essenza con la sua<br />
forma storica e contemporaneamente l’essenza con la non-essenza.<br />
30
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
1.4.3. La chiesa oggetto della fede<br />
Ciò che distingue dagli altri gli uomini che costituiscono la chiesa, e la costituiscono realmente, è<br />
che essi credono. Essi intendono essere una comunità di credenti (communio fidelium). Ciò che cre-<br />
dono e sperano per se stessi, intendono crederlo e sperarlo per gli altri. Ma essi sono convinti che li<br />
si conosce male, se si dimentica che essi sono una comunità di credenti. Essi pensano che si conosce<br />
male questa chiesa ogniqualvolta non la si capisce in quel che essa ha di più specifico. In quanto<br />
chiesa della fede, essa fa appello alla fede della chiesa. Non è dunque un caso storico, ma esatta-<br />
mente il fondamento dell’intelligenza di ciò che la chiesa è, che essa sia stata inserita nella confes-<br />
sione di fede. Solo con la fede la comprendiamo per quello che pretende di essere, ossia non come<br />
l’oggetto termine della fede (credo in Deum…), ma come il luogo in cui lo Spirito santo opera. Così<br />
per il cristiano la chiesa è anzitutto oggetto di fede. Quello che è importante non è ammirare o criti-<br />
care la chiesa ma crederla; credere che la chiesa, comunità di credenti, crede essa stessa (fede della<br />
chiesa, genitivo soggettivo: Ecclesia credens) e che l’uomo crede non nella chiesa, ma la chiesa (fe-<br />
de della chiesa, genitivo oggettivo: credens Ecclesiam).<br />
1) Che noi non crediamo nella chiesa significa:<br />
(a) che la chiesa non è Dio. Certamente il credente è convinto che nella chiesa e nel suo operato agi-<br />
sce Dio. Ma l’azione di Dio e quella della chiesa non sono identiche, né si implicano semplicemente<br />
l’una l’altra. Bisogna invece distinguerle. Ogni divinizzazione della chiesa resta così esclusa;<br />
(b) che noi siamo la chiesa: in quanto comunità di credenti la chiesa non è qualcosa di diverso da<br />
noi. Se noi siamo la chiesa, la chiesa è una chiesa pellegrina e segnata dal peccato. Di conseguenza<br />
ogni idealizzazione della chiesa è esclusa.<br />
2) Che noi crediamo la chiesa significa:<br />
(a) che la chiesa si fa in virtù della grazia di Dio attraverso la fede: una comunità che non crede, non<br />
è chiesa. La chiesa non esiste in sé ma negli uomini concreti che credono. La chiesa non procede<br />
semplicemente dalla disposizione di Dio, ma anche dalla decisione degli uomini destinati a costitui-<br />
re la chiesa, dalla loro decisione radicale per Dio e il suo regno. Questa decisione è la fede.<br />
(b) che la fede si realizza per grazia di Dio attraverso la chiesa: è Dio che chiama l’individuo alla<br />
fede. Ma senza la comunità che crede, neanche l’individuo arriva più alla fede; anche la fede non e-<br />
siste in sé, ma negli uomini concreti che credono. Ma non l’hanno neppure direttamente da Dio. Es-<br />
si l’hanno attraverso la comunità che loro annuncia, nella fede, il messaggio e che richiede la loro<br />
fede personale. Questo non vuol dire che il cristiano crede sempre a causa della chiesa. Può anche<br />
accadere che l’uomo creda piuttosto malgrado essa, come gli appare nella sua forma storica. Anzi<br />
31
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
può essere che la chiesa sia accettata semplicemente per la fede in Dio ed in colui che Dio ha invia-<br />
to. Eppure la chiesa, in quanto comunità di credenti, non è solo oggetto di fede, ma insieme luogo e<br />
patria della fede. La fede della comunità suscita e stimola la fede del singolo ed in seguito non cessa<br />
di abbracciarla e sostenerla. La fede dell’individuo partecipa così della fede della comunità e della<br />
verità comune. Insomma né la fede si può dedurre semplicemente dalla chiesa né la chiesa sempli-<br />
cemente dalla fede. La chiesa non esiste come dato oggettivo, indipendentemente dalla decisione di<br />
fede del singolo, né i credenti si uniscono alla chiesa da soli. Fede e chiesa rimandano l’una all’altra<br />
e si fecondano l’una l’altra in servizio reciproco; ma in ultima analisi si radicano non in se stesse, né<br />
l’una nell’altra, ma insieme nel misericordioso atto salvifico di Dio.<br />
1.4.4. Invisibile nel visibile<br />
Il credo Ecclesiam si riferisce alla chiesa reale. Precisamente la chiesa oggetto della fede non è una<br />
chiesa di spiriti, una chiesa spirituale, ma la chiesa degli uomini, accessibile ai sensi. La vecchia<br />
diatriba fra chi sostiene una Ecclesia invisibilis e chi sostiene una Ecclesia visibilis è oggi superata.<br />
1) I riformatori si opponevano ad una chiesa medievale in cui si rivelava un Imperium politico-<br />
spirituale, accentuando l’aspetto invisibile e nascosto della chiesa. Ma con ciò essi vollero rinnovare<br />
la chiesa visibile e non fondare una chiesa invisibile. Una chiesa puramente invisibile non è mai esi-<br />
stita né all’epoca della fondazione della chiesa né all’epoca della Riforma. Come potrebbe mai esse-<br />
re invisibile questa chiesa reale fatta di uomini reali? Il fedele cristiano, senza illusioni, sarà conscio<br />
con realismo che la chiesa che egli crede, esiste effettivamente, cioè, dato che questa chiesa è fatta<br />
di uomini, visibilmente. Certo, spesso può essere scandaloso, per il fedele cristiano, che questa chie-<br />
sa della fede, sul piano storico, psicologico e sociologico, non solo sia inequivocabilmente delimi-<br />
tabile, ma anche confrontabile ed esaminabile; e che perciò proprio questa chiesa della fede, che<br />
vuole essere formalmente differente, possa essere messa sullo stesso piano di raggruppamenti, di<br />
società, di organizzazioni secolari più o meno rispettabili. Ma è precisamente nella fede che il cri-<br />
stiano inquadrerà, o meglio accetterà, questa situazione, sapendo che la chiesa che egli crede non so-<br />
lamente è visibile, ma deve essere tale, poiché fatta dagli uomini e per gli uomini. Essa dunque è vi-<br />
sibile non contro la sua essenza, ma in conformità alla sua essenza.<br />
2) Da quello che finora si è detto risulta che la teologia cattolica della controriforma e del medioevo<br />
aveva fondamentalmente ragione quando, contro tutte le tendenze spiritualistiche, ha sostenuto la<br />
forma visibile della chiesa e, contro ogni fanatismo, ha difeso l’ordine della chiesa. Ma non si è po-<br />
tuto né si è voluto fondare una chiesa puramente visibile. Nella misura in cui la chiesa è riconoscibi-<br />
32
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
le «fide solum» 54 essa è nascosta, invisibile. La chiesa reale è quella che si crede nel visibile e perciò<br />
è una chiesa invisibile nel visibile. La sua visibilità perciò è di tipo tutto particolare: ha un aspetto<br />
intimo e invisibile che le è essenziale. La parte visibile della chiesa vive dell’invisibile, è coniata,<br />
marcata, dominata dall’invisibile. La chiesa dunque è essenzialmente di più di quello che è sul pia-<br />
no visibile: non solo un popolo, ma un popolo eletto; non un corpo qualsiasi, ma un corpo mistico;<br />
non un edificio qualsiasi, ma un edificio spirituale. Essa non può evitare d’essere percepita costan-<br />
temente nel mondo unicamente per quello che è visibilmente: un fenomeno sociologico come molti<br />
altri, un’organizzazione religiosa, da favorire, da combattere o da ignorare… Nel migliore dei casi<br />
essa può protestare e professare che essa è più di quello che è visibilmente. E soprattutto essa può<br />
cercare di vivere talmente di fede da diventare per gli uomini un problema senza posa inquietante:<br />
se non vi sia cioè in essa qualcosa di più di quello che è visibile. Guai invece alla chiesa che si perde<br />
nel visibile e che si mette al livello delle altre organizzazioni ritenendosi un “gruppo di pressione”<br />
fra i molti 55 . Una chiesa siffatta si condanna da sola. Nella visibilità le manca l’essenziale che la<br />
rende segretamente ciò che essa dovrebbe essere: lo Spirito che invisibilmente penetra il visibile e la<br />
rende spiritualmente viva, feconda e degna di fede. Oggi nessun cattolico che crede la chiesa reale,<br />
oserà dire come il Bellarmino che la chiesa è visibile come la repubblica di Venezia. Egli si atterrà<br />
al Catechismo Tridentino, secondo cui quello che c’è di essenziale nella chiesa è nascosto e «rico-<br />
noscibile solo con gli occhi della fede» 56 . Non ci sono due chiese, una visibile e una invisibile. E<br />
non si può nemmeno dire, nello spirito del dualismo platonico e dello spiritualismo, che la chiesa<br />
visibile (in quanto “materiale” e terrena) è l’immagine della chiesa autentica, invisibile (spirituale e<br />
54 Catech. Trid., I, 10, 21: «Che cosa dobbiamo credere nella Chiesa. Non gli uomini furono autori di questa chiesa, ma<br />
Dio stesso immortale che l’ha edificata sopra una pietra solidissima, come attesta il profeta: “L’altissimo stesso l’ha fondata”<br />
(Sal 86,5); perciò è chiamata eredità di Dio e popolo di Dio. Anche il potere che ha ricevuto non è umano, ma dovuto<br />
a un dono divino. Quindi, come non lo si può conquistare con le forze naturali, così pure solo con la fede noi comprendiamo<br />
che nella chiesa ci sono le chiavi del regno dei cieli, che ad essa è stato trasmesso il potere di rimettere i peccati,<br />
di pronunciare scomuniche e di consacrare il vero corpo di Cristo, e che i cittadini viventi in essa non hanno quaggiù<br />
una dimora permanente, ma cercano quella futura».<br />
55 «Quello che c’è di terribile nell’integrismo è che, nello scontro di due mentalità che evidentemente deve decidersi nel<br />
cristiano stesso con il massimo di coscienza… l’integrismo oppone chiesa visibile a non-chiesa visibile e su questo fronte<br />
rivendica per la chiesa (perché la battaglia si deciderà sul piano del mondo) proprio i mezzi della non-chiesa»: H.U.<br />
VON BALTHASAR, “Esperienza della chiesa in questo tempo”, in Sponsa Verbi, Morcelliana, Brescia 1985 3 , 14.<br />
56 Catech. Trid., I, 10, 20: «Perché il credere nella Chiesa di Cristo appartenga agli articoli di fede. In ultimo si dovrà<br />
spiegare perché entri negli articoli di fede il credere nella Chiesa. È vero infatti che ognuno con la ragione e con i sensi<br />
rileva che sulla terra c’è la Chiesa, ossia una società di uomini dedicati e consacrati a Cristo Signore; e a comprendere<br />
questo non c’è bisogno della fede, tant’è vero che non ne dubitano neppure i Giudei e i Turchi. Tuttavia soltanto la mente<br />
illuminata dalla fede, e non già convinta da ragioni, può intendere quei misteri che sono contenuti nella santa Chiesa<br />
di Dio… Poiché questo articolo, non meno di tutti gli altri, supera la facoltà e le forze della nostra intelligenza, a buon<br />
diritto professiamo che l’origine, i benefici e la dignità della Chiesa non li conosciamo con la ragione umana, ma li scorgiamo<br />
con gli occhi della fede».<br />
33
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
celeste). Come pure non è che l’invisibile sia l’essenza e il visibile la forma storica della chiesa. Ma<br />
l’unica chiesa è nella sua essenza e nella sua forma sempre contemporaneamente visibile ed invisi-<br />
bile (cfr. LG 8). La chiesa oggetto della fede è dunque un’unica chiesa: la chiesa invisibile nascosta<br />
nel visibile. Questa chiesa crede ed è creduta. Ma in chi crede questa comunità? da chi viene?<br />
1.4.5. L’origine della chiesa è data come criterio della sua “verità”<br />
L’<strong>ecclesiologia</strong> è essenzialmente storica, in quanto essa, come la chiesa stessa, è fatta dagli uomini e<br />
per gli uomini che vivono nel tempo e nel mondo, nell’irrepetibile nunc del loro mondo in continua<br />
trasformazione. L’essenza della chiesa esiste soltanto nella storia della chiesa. La chiesa reale non<br />
ha soltanto una storia, ma essa stessa esiste vivendo la sua storia. Non esiste quindi una dottrina del-<br />
la chiesa intesa come sistema immutabile, bensì soltanto una dottrina in rapporto con la storia della<br />
chiesa, del dogma, della teologia, cioè essenzialmente determinata dalla storia. Il condizionamento<br />
storico sempre nuovo di ogni <strong>ecclesiologia</strong>, che non preclude il riconoscimento di determinati tipi e<br />
stili ecclesiastici, è perciò un dato fondamentale che non ammette eccezioni. Non solo nel senso che<br />
ogni teologo vede la chiesa in una prospettiva diversa e da un punto di vista personale. Ma soprat-<br />
tutto ad un livello di rapporto pluralistico dove l’<strong>ecclesiologia</strong>, in quanto si realizza nel mondo, cui<br />
pure la chiesa appartiene, ha a che fare con un contesto storico concreto sempre nuovo, con un lin-<br />
guaggio che muta in continuità, con un rapporto chiesa-mondo sempre nuovo. La situazione storica<br />
in continuo mutamento, da cui l’<strong>ecclesiologia</strong> viene plasmata e in cui a sua volta si inserirà, stimola<br />
una sempre nuova, precisa configurazione e determinazione nella libertà. La dottrina sulla chiesa è<br />
assieme alla chiesa stessa necessariamente soggetta al continuo cambiamento e deve perciò essere<br />
sempre ripensata daccapo. Come la chiesa, così anche l’<strong>ecclesiologia</strong>, non può essere vincolata ad<br />
alcuna situazione particolare passata, presente o futura. Essa non può identificarsi completamente<br />
con i programmi e i miti … le categorie di un mondo e di un tempo particolari.<br />
Peraltro l’<strong>ecclesiologia</strong>, proprio in quanto storica, può e deve lasciarsi determinare da quella che è la<br />
sua origine: dalla chiesa. Questa origine non è semplicemente una situazione storica e meno ancora<br />
un “principio” trascendentale ideato dalla filosofia e che si esplica nella storia della chiesa. È invece<br />
un’origine “data”, “posta”, “costituita” in modo assolutamente concreto: secondo la fede della chie-<br />
sa, attraverso il grande intervento storico di Dio stesso in Gesù Cristo mediante lo Spirito Santo tra<br />
gli uomini, a favore degli uomini e quindi anche mediante gli uomini. L’origine della chiesa, fonda-<br />
ta sull’atto salvifico di Dio in Gesù Cristo, non determina soltanto il suo primo momento o la sua<br />
prima fase, bensì l’intera storia della chiesa in ogni suo momento, determina la chiesa nella sua es-<br />
senza. Così la chiesa reale non può mai lasciarsi indietro la sua origine, anzi non può mai separarsi<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
da essa. Dalla sua origine in poi si trova, in ogni forma storica, in ogni cambiamento, in ogni situa-<br />
zione concreta, una continuità nella verità, nella solidità. Alla chiesa la sua essenza non solo è stata<br />
data, ma le è stata anche affidata. La fedeltà all’essenza originaria (UR 6) nell’evolversi storico del<br />
mondo in funzione del quale la chiesa esiste, non è possibile però nella forma antiquaria<br />
dell’«immobilismo», ma soltanto nel dinamismo dell’«aggiornamento» (Giovanni XXIII).<br />
La stabilità della chiesa dipende dall’unione che essa ha con la sua origine: Gesù Cristo e il suo<br />
messaggio; dall’aderenza più o meno totale al fondamento della sua esistenza: l’atto salvifico di Dio<br />
in Cristo, valido una volta per tutte, presente in virtù dello Spirito Santo, il quale ha il compito di<br />
ricordare l’opera e la parola di Gesù Cristo, introducendoci così nella verità intera (Gv 14,26; 15,26;<br />
16,13s). Una riflessione retrospettiva sull’origine è quindi continuamente necessaria. Concretamente<br />
essa si attua riflettendo sopra la primitiva testimonianza di fede, cui la chiesa di ogni tempo è co-<br />
stantemente legata. In quanto originaria, questa testimonianza è unica nel suo genere, non superabi-<br />
le. E dato che essa è unica nel suo genere, irripetibile, essa obbliga vitalmente, è normativa per la<br />
chiesa di tutti i tempi. Noi troviamo la testimonianza e il messaggio originari negli scritti<br />
dell’Antico e del Nuovo Testamento. Cioè quegli scritti che la stessa comunità ecclesiale, in un<br />
complesso e secolare processo di discernimento, ha riconosciuto quale testimonianza originaria, au-<br />
tentica dell’azione che Dio ha compiuto in Gesù Cristo per gli uomini.<br />
(a) È nell’obbedienza che la chiesa ha riconosciuto la parola che la riguardava nella raccolta degli<br />
scritti del NT, nel loro legame con l’AT e nell’esclusione di speculazioni e di aggiunte fantastiche.<br />
Questo è stato il metro, la pietra di paragone, la linea di demarcazione del “canone” neotestamenta-<br />
rio. Proprio nella parola umana di questi scritti, la chiesa credente ha percepito la parola di Dio, qua-<br />
le è stata definitivamente proclamata a compimento dell’antica alleanza in Gesù Cristo. Il fatto che<br />
nella parola umana di questi scritti sia originariamente attestata la rivelazione divina, è dunque il<br />
motivo finale per cui la loro testimonianza è incomparabile, insuperabile, vincolante in maniera uni-<br />
ca e vitale. Ogni altra testimonianza della tradizione ecclesiastica non può in fondo che gravitare in-<br />
torno a questa originaria testimonianza sulla parola di Dio: nient’altro che interpretare, commentare,<br />
spiegare e applicare questo documento originario, a seconda della situazione storica, sempre diver-<br />
sa. Proprio per via della situazione sempre nuova della predicazione ecclesiale, delle questioni e del-<br />
le esigenze della vita concreta in continuo mutamento, questo documento primitivo viene scanda-<br />
gliato a profondità sempre nuove. Ma la Scrittura rimane la norma normans di una tradizione eccle-<br />
siale che, proprio perché norma normata, deve essere presa sul serio.<br />
35
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
Tuttavia nemmeno i testi neotestamentari sono semplicemente piovuti dal cielo, né sono documenti<br />
divini fuori del tempo; né scritti di estatici, la cui personalità e individualità è annullata dal divino<br />
invasamento…; essi testimoniano la parola di Dio in una parola autenticamente umana. Perciò que-<br />
ste testimonianze sono profondamente storiche. Nel caso dell’<strong>ecclesiologia</strong> ciò significa che la sto-<br />
ria della chiesa, come pure la storia della nozione di chiesa, non è cominciata solo dopo il NT, bensì<br />
nel NT, che a sua volta presuppone l’AT. Gli scritti del NT perciò non ci pongono solo premesse e<br />
basi per la storia della chiesa e dell’idea di chiesa, ma già le prime e decisive fasi della storia della<br />
chiesa e della sua autocoscienza. Non solo dopo il NT, ma già nel NT ci sono differenti concezioni<br />
di chiesa. E si può dire che le diverse accentuazioni, prospettive e tensioni che notiamo<br />
nell’<strong>ecclesiologia</strong> dei secoli seguenti, sovente riflettono accentuazioni, prospettive e tensioni presen-<br />
ti nello stesso NT. Dietro tutto questo non si cela solo l’indole particolare dei vari autori e delle tra-<br />
dizioni da questi accolte, ma anche i diversi orientamenti teologici degli autori e delle comunità re-<br />
trostanti e inoltre le diverse situazioni pastorali nel contesto delle quali questi scritti si inseriscono.<br />
(b) All’interno del NT ci sono testimonianze molto varie. Solo se si prende sul serio l’intero NT con<br />
tutti i suoi scritti quale positiva testimonianza del vangelo di Gesù Cristo, si sfugge a una dissocia-<br />
zione delle contrastanti affermazioni ecclesiologiche del NT, che porta a una semplificazione del<br />
messaggio neotestamentario, alla selezione e all’eresia, e che è un attentato all’unitarietà della Scrit-<br />
tura e all’unità della chiesa. Ma vale anche il contrario: solo se si prende sul serio l’intero NT con<br />
tutti i suoi scritti differenziati e con le rispettive caratteristiche, si evita quell’armonizzazione delle<br />
opposte affermazioni ecclesiologiche del NT che porta un livellamento del suo messaggio, che è un<br />
attentato alla varietà della Scrittura e della chiesa.<br />
(c) D’altra parte che la chiesa del NT sia l’origine normativa della chiesa non significa un ripristino<br />
antistorico, né una riproduzione della comunità neotestamentaria. La chiesa del NT non è un model-<br />
lo che si possa copiare con servilismo, senza tener conto del cambiamento dei tempi e delle situa-<br />
zioni sempre nuove. Neppure le parole di Gesù si devono pronunciare o riprodurre materialmente.<br />
La lettera uccide, è lo spirito che vivifica … E lo Spirito ricorda Gesù introducendo profeticamente<br />
nel futuro (Gv 16,13). Il suo compito sta nel riattualizzare la novità di Gesù proprio nel suo carattere<br />
di novità e nel renderla quindi spiritualmente affascinante. Egli attualizza il messaggio e l’opera di<br />
Gesù Cristo in modo da rispondere ai diversi “segni dei tempi” (GS 3, 10 passim). Di conseguenza,<br />
se la chiesa intende rimanere fedele alla propria natura, non può semplicemente conservare inaltera-<br />
to il proprio passato, ma deve cambiare proprio perché realtà storica. Ciò non significa che il NT au-<br />
torizzi ogni sviluppo a piacimento; ci sono evoluzioni storiche sbagliate e involuzioni. Infatti è il<br />
36
Ecclesiologia 2012/2013. Introduzione<br />
messaggio del NT, quale testimonianza originaria, l’istanza critica cui rifarsi col mutare del tempo.<br />
Esso è la norma critica cui la chiesa di ogni tempo deve riferirsi. Senza dimenticare però che<br />
l’istanza cui è affidata la comprensione della Scrittura è la chiesa: la Scrittura è il libro della chiesa.<br />
E l’interpretazione vissuta del vangelo di Cristo, in cui consiste la storia della chiesa non può essere<br />
trascurata nel tentativo di capire il significato del Vangelo (il senso della tradizione). Infine, occorre<br />
ricordare che è l’unico e medesimo Spirito che opera nei diversi suoi doni; per cui i diversi doni ed<br />
effetti dello Spirito dovranno integrarsi, interpretarsi e correggersi a vicenda. Criterio indispensabile<br />
per il discernimento degli spiriti è allora quello che mostra come l’unità dello Spirito risulti garanti-<br />
ta e la comunione ecclesiale non compromessa, bensì “edificata”. Il criterio della tradizione vera sta-<br />
rà allora nell’unanimità e nella sintonia con la fede della chiesa intera, di tutti i luoghi e di tutti i<br />
tempi. Proprio in vista di tale consenso, il Magistero svolgerà il proprio servizio (DV 8) 57 .<br />
1.4.6. Una <strong>ecclesiologia</strong> “cattolica”<br />
a) In quanto teologia ecclesiale ogni spiegazione della Sacra Scrittura, allora, si trova sempre già<br />
all’interno di un processo storico di interpretazione, la Tradizione quale «autotradizione di Dio at-<br />
traverso Gesù Cristo nello Spirito Santo per una presenza continua nella chiesa» (W. Kasper). Solo<br />
la reale partecipazione alla «storia degli effetti» della fede biblica all’interno della tradizione della<br />
fede ci dischiude il significato di questa fede perennemente salvifico e liberante allora come oggi. In<br />
questo senso la teologia dogmatica si comprende quale «trasmissione della fede come realtà presen-<br />
te ad ogni tempo» (Drey).<br />
b) All’interno di questo evento della tradizione, l’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica attribuisce un’importanza<br />
particolare proprio alle spiegazioni storiche della fede biblica che sono normative e rappresentano la<br />
chiesa universale: le professioni di fede ecclesiali, gli interventi magisteriali dei concili universali,<br />
dei papi e del collegio episcopale, ma anche di singoli vescovi … Accanto a queste testimonianze<br />
esplicite della tradizione ecclesiale della fede, sono importanti anche le forme di vita ecclesiale ac-<br />
quisite e riconosciute a livello regionale e universale nella liturgia, nell’annuncio e nel servizio. I-<br />
noltre, rilevanti sono poi le testimonianze dei santi, della spiritualità, dell’arte …<br />
c) Infine occorre prestare ascolto anche alle voci critiche e profetiche che in ogni fase della storia ri-<br />
chiamano la chiesa dalle sue deviazioni per ricondurla al centro della sua vocazione. Il modo in cui<br />
gli “altri” ci vedono non è affatto indifferente per la comprensione teologica della chiesa.<br />
57 K. LEHMANN, “Norma normans non normata? La Bibbia nel contesto fondante di teologia e magistero”, in Il Regno.<br />
Attualità 53 (2008/16) 563-572.<br />
37
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
I. L’ORIGINE DELLA CHIESA NELLA TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA<br />
1.0 Introduzione: il Gesù storico, una «memoria pericolosa» per la chiesa<br />
Quando noi ci interroghiamo sull’origine normativa della chiesa, che è fondamentale per la verità<br />
della chiesa nella sua autocomprensione e nel suo attuarsi, non basta presentare semplicemente il<br />
processo postpasquale attraverso il quale è sorta la chiesa oppure le differenti concezioni ecclesiolo-<br />
giche presenti negli scritti neotestamentari, per poi accertare l’esistenza di taluni punti che coinci-<br />
dono con la nostra chiesa e teologia attuali 1 . Decisiva per la normatività della chiesa primitiva e del-<br />
la sua teologia della chiesa è la dimostrazione del suo legame costitutivo con il Gesù Cristo storico<br />
che, proprio nella sua realtà storica, è il Salvatore assoluto (“escatologico”); fin dalla sua origine,<br />
infatti, la chiesa rivendica di essere corpo, popolo e sacramento di Cristo e di essere a servizio e-<br />
sclusivamente del suo rendersi presente. Ma di che genere è questo legame?<br />
L’accertamento del legame costitutivo della chiesa al Gesù storico non può limitarsi unicamente alla<br />
verifica di carattere apologetico di una “fondazione” di tale entità sociale e storica da parte di un<br />
“fondatore” (Gesù Cristo). Infatti il richiamo al Gesù storico per la chiesa non rappresenta una ricer-<br />
ca “di scuola” che possa essere condotta con distanza tipica dello studio storico, ma solleva numero-<br />
si interrogativi “provocatori” rivolti alla chiesa: essa vive effettivamente nella sequela, documenta-<br />
bile anche storicamente, di questo Gesù al quale costantemente si richiama?<br />
In effetti, la figura di Gesù rappresenta anzitutto una «memoria pericolosa» (J. B. Metz) per la chiesa<br />
e questo per diversi motivi:<br />
a) La chiesa è totalmente in relazione con il regno di Dio venuto e ancora da venire ed essa è a<br />
servizio del suo prendere forma nella storia come anticipazione della realtà definitiva. Ciò implica<br />
un monito nei confronti della tentazione delle istituzioni ecclesiali di assolutizzarsi divenendo fine a<br />
se stesse e di porre la propria stabilità come fine ultimo dell’agire salvifico di Dio nella storia.<br />
b) Con la sua critica nei confronti di alcuni aspetti disumani delle tradizioni religiose del suo po-<br />
polo (ad es. la comprensione del sabato: Mc 2,27s) Gesù ha stabilito un parametro sulla base del<br />
quale anche la chiesa deve lasciarsi misurare. Il criterio ultimamente decisivo per il suo annuncio e<br />
1 Abbiamo raccolto queste riflessioni introduttive da M. KEHL, La chiesa, op. cit., 257-258. Sul tema si veda anche<br />
l’equilibrata posizione della COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di Ecclesiologia (7 ottobre 1985):<br />
cap. I. “La fondazione della Chiesa ad opera di Gesù Cristo”, in EV IX, nn. 1683-1680.<br />
38
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
il suo ordinamento è perciò esclusivamente la salvezza degli uomini (cfr. CIC can. 1752). La chiesa<br />
deve mettersi al servizio di questa salvezza come segno anticipatore e strumento che la comunica.<br />
c) Gesù ha dato chiare istruzioni per la vita comune dei suoi discepoli (ad esempio, Mt 23,8-11;<br />
Lc 22,24-27) che con il loro gruppo devono rappresentare una sorta di modello del “vero Israele”.<br />
Le strutture giuridiche e di governo istituzionalizzate devono quindi differenziarsi profondamente<br />
da tutte le altre strutture di dominio: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le<br />
dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere<br />
grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Mc<br />
10,42-44).<br />
La verità e la credibilità della chiesa dipendono dalla sua disponibilità a esporsi sempre di nuovo al<br />
“pericolo” di questa memoria del Gesù storico, dalla sua disponibilità a “convertirsi” costantemente<br />
dalla tendenza a garantirsi semplicemente la propria sopravvivenza individuale e istituzionale e a<br />
mettersi a tutti i livelli in cammino sulla via di Gesù verso la comunione compiuta del regno di Dio.<br />
Solo a questa condizione essa può richiamarsi a Gesù come al suo fondatore senza suscitare<br />
l’impressione di operare una falsificazione ideologica della storia.<br />
1.0.1 Premesse ermeneutiche<br />
a) La questione della fondazione della chiesa<br />
a) Nella dottrina ecclesiale preconciliare condizionata dall’orientamento controriformistico (contro-<br />
versia e apologetica) e nella dogmatica neoscolastica la legittimità biblica della chiesa era riassunta,<br />
richiamandosi a determinati passi biblici, in una chiara asserzione storico-dogmatica: Gesù ha isti-<br />
tuito o fondato l’unica chiesa 2 . Tale affermazione si trova nella forma più chiara nel giuramento an-<br />
timodernista del 1910 di Pio X (sostituito solo nel 1967): «Credo fermamente che la chiesa custode<br />
e maestra della parola rivelata è stata istituita immediatamente e direttamente dallo stesso Cristo<br />
vero e storico, mentre era tra di noi, e che essa è stata edificata su Pietro, principe della gerarchia<br />
apostolica, e sui suoi successori per sempre» (DzH 3540).<br />
Affermare l’istituzione o la fondazione della chiesa da parte di Gesù significa qui che il Signore ter-<br />
reno e risorto ha posto in modo consapevole ed esplicito determinati atti giuridici formali attraverso<br />
i quali egli ha fondato la chiesa come una istituzione visibile e costituita giuridicamente dalla sua<br />
volontà nei suoi aspetti essenziali. Ciò implica che tutte le istituzioni ecclesiali essenziali risalgono<br />
2 S. WIEDENHOFER, La Chiesa. Lineamenti fondamentali di <strong>ecclesiologia</strong> (Cinisello Balsamo: San Paolo, 1994) 47-56.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
a Gesù stesso (cfr. Mt 16,18s; Mt 18,18; Gv 20,23; Lc 22,17-20 par.; Mt 28,18-20 e altri): il primato<br />
papale è fondato nell’istituzione della chiesa su Pietro, il collegio episcopale nella chiamata del col-<br />
legio apostolico, la gerarchia ecclesiastica e la sua triplice potestà nel conferimento della triplice po-<br />
testà di Cristo (ufficio magisteriale, pastorale e sacerdotale) agli apostoli e inoltre i sacramenti (in<br />
particolare l’eucaristia) e l’insegnamento della fede. In questa prospettiva la chiesa era compresa<br />
come organo di salvezza visibile, permanente e ordinato gerarchicamente, che può trasmettere la<br />
salvezza agli uomini poiché è stata dotata da Cristo di tutte le istituzioni necessarie e da lui ha rice-<br />
vuto anche i poteri necessari. In forza di questo essa stessa è una società perfetta, cioè possiede tutti<br />
i mezzi necessari per la salvezza ed è perciò distinta e indipendente rispetto a tutte le altre istituzio-<br />
ni. Tutte queste affermazioni relative alla fondazione della chiesa provengono da un contesto apolo-<br />
getico-polemico. Esse servono alla legittimazione e alla distinzione rispetto a determinati avversari.<br />
L’asserzione sull’istituzione dei sette sacramenti, ad esempio, è rivolta contro i riformatori (DzH<br />
1601); il discorso sull’istituzione del primato papale e sulla costituzione della chiesa contro le altre<br />
confessioni e contro la modernità (DzH 3055; cfr. 3050, 2997s); l’affermazione relativa alla fonda-<br />
zione della chiesa si rivolge contro il modernismo (DzH 3452-3457; 3540).<br />
b) Nell’esegesi recente questa concezione è diventata problematica per diverse ragioni. Dal punto di<br />
vista storico bisogna partire dal presupposto che i vangeli sono sorti nella situazione ecclesiale po-<br />
stpasquale. Ciò significa che essi trasmettono le parole di Gesù in modo già attualizzato in riferi-<br />
mento a questa situazione ecclesiale. Anche i due passi nei quali nei sinottici ricorre la parola «chie-<br />
sa» (ekklesía, Mt 16,18s e Mt 18,17) sembra abbiano origine con ogni probabilità dalla situazione<br />
post-pasquale. Di fatto però le situazioni prima e dopo la Pasqua sono assai diverse: i vangeli an-<br />
nunciano le parole e le azioni di Gesù in modo nuovo e sulla base di una nuova esperienza, quella<br />
della morte e risurrezione di Gesù e della comunità che a partire da essa si raccoglie e attende il ri-<br />
torno del Signore. In Gesù, invece, al centro sta qualcos’altro: anzitutto la sua predicazione escato-<br />
logica nella quale egli annuncia l’irrompere imminente del regno di Dio e, in secondo luogo, le sue<br />
azioni con carattere di segno nelle quali egli, in concrete situazioni di sventura, conferisce una for-<br />
ma percepibile nel nostro mondo all’amore incondizionato e senza limiti di Dio e alla sua miseri-<br />
cordia. Oltre a ciò, Gesù si rivolge all’intero Israele (senza escludere alcun gruppo). Il suo scopo è la<br />
raccolta, il rinnovamento e la preparazione dell’intero popolo in vista del regno di Dio che viene. In<br />
questa prospettiva Gesù non voleva né fondare una nuova comunità religiosa, né costituire un resto<br />
o una comunità particolare all’interno di Israele. Che da tale movimento di raccolta di fatto derivi<br />
una separazione non dipende perciò dalla volontà di Gesù ma dal rifiuto dei destinatari. In tale qua-<br />
dro una fondazione della chiesa secondo la comprensione tradizionale è perciò difficile da collocare.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
b) Orientamenti esplicativi<br />
a) Entrambe le risposte, quella apologetico-dogmatica e quella esegetica, tradiscono lacune e pro-<br />
blemi e necessitano quindi di una valutazione ermeneutica. La risposta apologetico-dogmatica è in-<br />
genua dal punto di vista storico, poiché essa riconosce la chiesa attuale senza alcun problema nelle<br />
allusioni bibliche, e arrischiata dal punto di vista pratico perché in questo modo finisce per legitti-<br />
mare tutti gli sviluppi successivi oppure, con la sua concentrazione sull’essenza della chiesa, li sot-<br />
trae alla critica. La corrente posizione storico-critica è ingenua dal punto di vista sistematico perché<br />
non tiene conto in maniera sufficiente dei suoi presupposti (la sua comprensione della storia, della<br />
società, della lingua, della comunicazione, della tradizione, della sua antropologia e ontologia) e<br />
della complessità dei suoi concetti generali o caratterizzazioni (chiesa, fondazione); e questo si ri-<br />
flette dal punto di vista pratico nella sua lettura dei fenomeni storici e sociali. Da entrambe le parti<br />
si devono perciò precisare le scelte ermeneutiche.<br />
b) Dal punto di vista dogmatico devono essere poste in relazione in maniera adeguata l’insuperabile<br />
ecclesialità della fede (che cos’è la chiesa si può sapere solo nella partecipazione all’autocompren-<br />
sione della chiesa stessa, non al di fuori di essa) e la canonicità della sacra Scrittura (ciò che è fede<br />
ecclesiale deve essere conforme alla testimonianza apostolica della Scrittura).<br />
Dal punto di vista teologico-dogmatico si può presupporre che una chiesa che trasmette la sacra<br />
Scrittura come propria legge fondamentale, in linea di principio sia in continuità con la sua origine<br />
biblica (senza chiesa non c’è Bibbia).<br />
Poiché tuttavia la chiesa non trasmette un proprio prodotto ma un bene che le è stato affidato,<br />
che, come norma della sua fede, la precede, essa può e deve anche essere interrogata criticamente<br />
sulla base di questa testimonianza biblica (la Bibbia come norma per la chiesa).<br />
c) Dal punto di vista esegetico devono essere collegate in maniera adeguata la fondatezza storica<br />
della fede («come è andata effettivamente») e la pluralità dei presupposti della conoscenza storica<br />
(la conoscenza storica è sempre legata a determinate supposizioni, attese, timori e pregiudizi e a<br />
servizio di determinati interessi, bisogni di legittimazione e strategie di azione).<br />
L’accesso storico-critico consente, attraverso il suo strumentario metodologico, di formulare i-<br />
potesi fondate su come si sono svolti effettivamente i fatti.<br />
L’affidabilità dell’ipotesi storica, però, cresce nella misura in cui l’approccio storico è anche<br />
oggetto di riflessione sistematica (in relazione ai suoi presupposti logico-ontologici, e alla sua uti-<br />
lizzazione dei concetti) e pratica (in relazione alla situazione della comunicazione e degli interessi).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
La comprensione apologetico-dogmatica dell’istituzione della chiesa è sorta in un contesto storico<br />
ben determinato ed è legata a problematiche e interessi precisi: tale visione della chiesa infatti si<br />
fonda nello sviluppo medioevale dell’<strong>ecclesiologia</strong>. Essa trova la sua elaborazione vera e propria nel<br />
periodo post-riformistico, in particolare nella distinzione e nella difesa nei confronti della Riforma.<br />
Solo verso la metà del XIX secolo però questa comprensione della chiesa diviene una dottrina teo-<br />
logica ed ecclesiale fissata. Fino alla metà del secolo XX essa ha determinato e dominato la visione<br />
teologico-dogmatica della chiesa. Una tale visione dell’istituzione della chiesa ha senso dunque solo<br />
in un quadro polemico-apologetico, legato alle controversie circa la legittimità. Questa comprensio-<br />
ne della fondazione della chiesa ha avuto effettivamente una certa funzione quando era in gioco la<br />
legittimazione della chiesa contro pretese concorrenti, quelle del potere regale medioevale prima e<br />
poi quelle delle altre confessioni, le quali rispondevano a questa questione in maniera opposta, ma<br />
nel quadro della medesima logica. Una tale visione inoltre ha senso soltanto entro una determinata<br />
forma di pensiero e di determinati presupposti, cioè nel quadro della dottrina aristotelica delle quat-<br />
tro cause e dell’utilizzo della Scrittura come testo di diritto. Di fatto, tutti i testi magisteriali sulla<br />
fondazione della chiesa anteriori al Vaticano II provengono da tali situazioni di legittimazione.<br />
Al passaggio da un’impostazione apologetica a un’impostazione teologica è collegato in maniera<br />
coerente nella teologia recente anche il passaggio linguistico dall’idea di «istituzione della chiesa»<br />
ai concetti di «origine della chiesa» o «inizio della chiesa». Sintomaticamente la Lumen gentium si<br />
esprime in questo modo: «Il mistero della santa chiesa si manifesta nella sua fondazione (in eiusdem<br />
fundatione). Il Signore Gesù, infatti, diede inizio alla sua chiesa (Ecclesiae suae initium fecit) predi-<br />
cando la buona novella, cioè la venuta del regno di Dio da secoli promesso nelle Scritture...» (LG 5).<br />
Anche la corrente interpretazione storico-critica della questione della fondazione della chiesa non è<br />
però priva di presupposti. In conseguenza della critica illuministica della legittimità delle istituzioni<br />
tradizionali (Stato, chiesa, diritto), essa unisce un interesse pratico “illuminato” nei confronti delle<br />
attuali istituzioni a una spiegazione storica della loro origine. La sua comprensione dell’istituzione<br />
della chiesa rigorosamente ha senso solo in un tale quadro di critica dell’istituzione.<br />
In particolare, il metodo storico-critico rischia di sottovalutare il fatto che la storia — il tentativo di<br />
conferire agli eventi passati il carattere del puramente passato — ha originariamente la forma di un<br />
racconto, per cui i contenuti obiettivi hanno la loro verità primariamente non come contenuti propo-<br />
sizionali fissati, ma come parti integranti di un atto linguistico (nel senso più ampio del termine) in<br />
cui essi solo difficilmente sono separabili dall’attitudine propriamente personale del tradente nella<br />
sua intenzione di incontrare l’orizzonte recettivo di coloro ai quali si rivolge.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
Inoltre il “metodo storico-critico” ha ricercato la verità dell’origine facendo astrazione dalla validità<br />
della tradizione, costituendosi chiaramente prima di tutto come antitesi alla tradizione. Ciò si può<br />
provare anche in relazione alla problematica della Leben-Jesu-Forschung. La prima fase di questa<br />
ricerca (da Reimarus fin quasi alla prima guerra mondiale) era segnata da una radicale ripulsa verso<br />
tutto ciò che si poteva identificare come aggiunta della tradizione all’«autentico Gesù storico». Sin-<br />
tomaticamente la tradizionale «ricerca sul Gesù storico» ha inteso le testimonianze nel senso di in-<br />
formazioni. Essa cerca questo Gesù per così dire “alle spalle” dei testimoni neotestamentari e perde<br />
di vista con ciò lo stesso atto della testimonianza nel quale, soltanto, l’incondizionato può essere<br />
storicamente portato come valore. Questo è ancora il caso in cui si cercano gli ipsissima verba et<br />
facta Jesu sulla via della ricerca della storia delle forme. Sebbene anche quelle originarie briciole<br />
dalle quali si potrebbe ricostruire lo scheletro del Gesù storico siano state riconosciute come confi-<br />
gurate kerigmaticamente come parte di un annuncio, ci si è nondimeno sforzati, astrazion fatta da<br />
questa configurazione operata dalle prime comunità, di impadronirsi del vero Gesù storico 3 .<br />
d) Dal punto di vista teologico-sistematico si deve inoltre considerare un altro aspetto. Alla que-<br />
stione se Gesù abbia fondato una chiesa non è facile dare risposta né dal punto di vista storico, né da<br />
quello sistematico. Prima di poter dare una risposta si deve chiarire che cosa si intenda precisamente<br />
con la domanda. Entrambi i concetti principali che in essa si trovano (chiesa e fondazione) si pre-<br />
stano a diverse interpretazioni. Essi possono avere un contenuto e un’ampiezza differenti.<br />
Se si utilizza “chiesa” in un senso molto stretto (= comunità dei fedeli che, sotto la guida del papa e<br />
dei vescovi, condividono la stessa fede ecclesiale e ricevono gli stessi sacramenti), alla questione se<br />
Gesù abbia fondato la chiesa è difficile dare una risposta affermativa in modo indifferenziato. Se al<br />
contrario si intende “chiesa” in un senso più ampio e aperto (= comunità suscitata da Cristo nello<br />
Spirito di coloro che accolgono le esigenze del Regno) una risposta positiva è invece senz’altro pos-<br />
sibile. Lo stesso vale per l’uso della parola “fondazione”. Vi sono infatti modelli culturali assai dif-<br />
ferenti per tali processi di fondazione, di istituzione. Il modello dipende dall’immagine dell’uomo e<br />
del mondo, dalla rappresentazione del tempo e da determinate condizioni di vita della società.<br />
e) Dal punto di vista filosofico-sistematico la spiegazione apologetico-dogmatica e quella storico-<br />
critica del sorgere della chiesa sono vincolate a un importante presupposto comune: un’accentuata<br />
3 Queste osservazioni pertinenti sono di H.-J. VERWEYEN in La Scuola Cattolica CXXV (1997) 517-538.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
riduzione ermeneutica del significato delle testimonianze storiche all’intenzione dell’autore, cioè a<br />
ciò che l’autore stesso con le sue espressioni ha inteso o voluto.<br />
Nell’apologetica tradizionale questa riduzione avveniva sotto l’influsso della teoria aristotelica della<br />
significazione, dominante nel pensiero occidentale. Secondo tale teoria, le parole sono segni delle<br />
rappresentazioni (mentali) e queste sono simili alle cose. La relazione significante (cioè la relazione<br />
tra parola e rappresentazione/significato/concetto oppure tra forma e contenuto della parola) è con-<br />
venzionale, cioè fissata storicamente e socialmente. I significati delle parole dipendono dunque dal<br />
loro uso effettivo all’interno di una comunità linguistica. Una teologia che si basa su tali presupposti<br />
perciò cercherà subito e in modo quasi esclusivo il contenuto proposizionale delle frasi (ciò che vie-<br />
ne affermato come vero o falso) o il contenuto dei concetti e, a causa della mancanza di senso stori-<br />
co e della pressione derivante dal bisogno di legittimazione, ritroverà anche sulla bocca di Gesù Cri-<br />
sto, il «fondatore della chiesa», il legame abituale tra la parola e la rappresentazione «chiesa».<br />
Nel metodo storico-critico tale riduzione avviene sotto l’influsso dell’ermeneutica romantica, la<br />
quale porta a compimento uno sviluppo già iniziato nell’epoca moderna. Per capirne la portata ne<br />
indichiamo le due fasi principali, che raccogliamo sotto i due nomi di Spinoza e di Schleiermacher.<br />
Con SPINOZA si introduce una nuova strategia interpretativa del testo sacro. L’esegesi patristica e<br />
medievale, infatti, era finalista: essa si basava sulla convinzione che la Scrittura era ispirata e quin-<br />
di conteneva la dottrina cristiana. Di conseguenza quei testi oscuri o ostici, in cui apparentemente si<br />
rilevava uno scarto dalla dottrina già posseduta, dovevano essere presi non in senso letterale ma in<br />
senso figurato (allegorico). I tempi moderni invece vedono la nascita di una nuova strategia inter-<br />
pretativa di tipo operazionale, dominato dalla filologia: nell’interpretazione della Bibbia la preoc-<br />
cupazione principale non è tanto quella di trovare il senso vero (o spirituale, conforme alla dottrina),<br />
bensì il vero senso, cioè quello che risulta dall’applicazione rigorosa al testo di un metodo scientifi-<br />
co di interpretazione. Questa rivoluzione nell’esegesi è opera di Baruch Spinoza col suo Trattato<br />
teologico-politico (1670). Secondo Spinoza, occorre distinguere radicalmente un discorso che pro-<br />
duce una conoscenza, dunque di tipo scientifico, che non può derivare che dalla ragione, da un di-<br />
scorso che mira a suscitare un’impressione e a indurre un comportamento, che oggi chiameremmo<br />
di tipo ideologico. Il discorso biblico, che mira a “muovere” le anime, appartiene al secondo tipo e<br />
quindi non pretende di condurre ad alcuna conoscenza razionale. Così la sua interpretazione non mi-<br />
rerà a scoprire la sua verità, ma il suo senso. L’innovazione di Spinoza è in apparenza minima: egli<br />
abolisce la separazione tra testi sacri (sensati e veri) e testi profani (sensati ma non necessariamente<br />
veri) e dichiara che non esiste alcun testo il cui senso sia necessariamente vero. Questo spostamento<br />
di frontiere, tuttavia, ha delle conseguenza capitali: non solo si tratta la Bibbia come qualsiasi altro<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
testo, ma si prende anche coscienza delle tecniche utilizzate tradizionalmente nell’interpretazione<br />
dei testi non sacri, e li si erige a programma, assumendo le loro implicazioni ideologiche. La conse-<br />
guenza è un’inversione dell’esegesi patristica: mentre quest’ultima non è libera dal senso del testo,<br />
il quale è dato in anticipo, ma è relativamente libera nel metodo, lasciato alla volontà dell’interprete,<br />
l’esegesi spinozista non presuppone alcun senso, che invece è da trovare liberamente, ma esercita la<br />
sua costrizione sul metodo il cui rigore non può essere attenuato. Questa costrizione sarà in partico-<br />
lare di ordine grammaticale: necessità di conoscere la lingua, strutturale: presupposizione della coe-<br />
renza del testo, storico: necessità di situare il testo nel contesto storico del suo autore.<br />
Se Spinoza fa il passo decisivo, una vera e propria ermeneutica filosofica generale, al cui interno si<br />
inserisce come una regione quella della Bibbia, è elaborata da Friedrich D.E. SCHLEIERMACHER, il<br />
quale persegue a più riprese il progetto di una Ermeneutica generale. Con lui l’ermeneutica filosofi-<br />
ca si interroga, per la prima volta, sulla comprensione del senso come tale e cerca di coglierne le re-<br />
gole globali fondate immediatamente sulla natura del pensiero e del linguaggio. L’idea feconda di<br />
Schleiermacher è di articolare il linguaggio o più precisamente il discorso al pensiero. Si abbandona<br />
definitivamente la concezione razionalista di una relazione univoca tra la parola (il segno) e il suo<br />
senso (la rappresentazione indipendente e comune a tutti gli uomini), a vantaggio di un insieme<br />
complesso in cui il senso non è più semplicemente fissato per convenzione linguistica, ma risulta<br />
anche dalla molteplicità degli usi individuali degli elementi linguistici. Schleiermacher si riferisce<br />
qui al «circolo ermeneutico» secondo cui la totalità del senso si comprende sempre a partire dai suoi<br />
elementi, mentre la comprensione di ciascun elemento suppone già che si sia colta una totalità sen-<br />
sata. La lingua o il discorso implica dunque nel suo centro una sorta di oscurità, o l’esistenza di una<br />
incomprensione spontanea che accede qui per la prima volta a uno statuto fondamentale. Essa ne-<br />
cessita allora la «comprensione», non più come esperienza spontanea, ma come un’arte metodica e<br />
generale. Inoltre, se il senso e il significato di un testo dipendono esclusivamente dall’atto creativo<br />
della loro produzione da parte di un determinato autore, allora sarà certo possibile comprendere uno<br />
scrittore meglio di quanto egli non abbia compreso se stesso, ma il comprendere è inteso quale ri-<br />
produzione dell’atto creativo originario dell’autore. Certamente rimane il difficile problema di come<br />
il lettore attuale possa divenire contemporaneo del lettore originale o dell’autore, ma il senso di un<br />
testo, da rilevare con il metodo storico-filologico, in questa prospettiva deve rimanere legato neces-<br />
sariamente all’intenzione originaria dell’autore. In questa traiettoria l’esegeta deve comprendere la<br />
questione dell’inizio della chiesa come questione delle testimonianze esplicite circa l’intenzione di<br />
Gesù di fondare la chiesa, soprattutto quando egli lega tale questione a quella circa la legittimità del-<br />
la chiesa in quanto tale oppure circa la legittimità di un determinato ordinamento ecclesiale.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
La recente filosofia del linguaggio (soprattutto di orientamento pragmatico e analitico) ha però con-<br />
dotto a un importante ampliamento nella comprensione del linguaggio e del testo e, corrisponden-<br />
temente, anche nell’ermeneutica della comprensione e interpretazione delle testimonianze linguisti-<br />
che o testuali. Secondo tale visione, il significato del testo non dipende solo dalla sua struttura sin-<br />
tattica e semantica (ad es., quali possibilità grammaticali o quali concetti e metafore sono stati uti-<br />
lizzati). Il significato dipende anche dalla struttura pragmatica (quale funzione aveva questa asser-<br />
zione in una determinata situazione comunicativa) 4 . Tale funzione può essere molteplice (affermare<br />
qualcosa, mettere di fronte a una decisione, chiedere riconoscimento, testimoniare qualcosa, produr-<br />
re una nuova relazione tra chi parla e chi ascolta…) e può essere assai complessa, nel caso che una<br />
funzione ne presupponga un’altra. Quando, ad es., Gesù, con il suo annuncio del regno di Dio, pone<br />
i suoi ascoltatori in una situazione escatologica di decisione, questo atto linguistico dell’appello im-<br />
plica anche l’affermazione di essere realmente l’inviato escatologico di Dio (anche nel caso che Ge-<br />
sù stesso non l’abbia esplicitamente affermato). Se da un punto di vista pragmatico ogni testo viene<br />
costituito dalla cooperazione tra chi parla e ascolta o autore e lettore, nessun testo è concluso. In o-<br />
gni caso, la reazione dell’ascoltatore è inseparabilmente legata all’azione di chi parla. Ciò che<br />
l’annuncio del regno di Dio da parte di Gesù significa non può essere perciò determinato indipen-<br />
dentemente dalla reazione dei suoi ascoltatori (certo non indipendentemente dalla sua intenzione).<br />
La storia degli effetti appartiene immediatamente al significato dell’annuncio di Gesù. D’altra parte,<br />
ogni espressione linguistica è possibile solo all’interno di un mondo linguistico già esistente e rego-<br />
lato (sintatticamente, semanticamente e pragmaticamente) in cui chi parla entra, che assume e solo<br />
con l’aiuto del quale egli può esprimersi. Se nell’annuncio o nell’agire di Gesù è fondata o inizia<br />
una chiesa, dipende dunque anche dal mondo linguistico nel quale Gesù si esprime.<br />
f) Se si assume come punto di partenza un’ermeneutica che integra le acquisizioni della semiotica<br />
o della pragmatica linguistica, il significato delle azioni linguistiche storiche non dipende solo<br />
dall’intenzione di chi parla ma anche dai modelli di azione e di linguaggio utilizzati (dal contesto<br />
4 J. Austin (How to Do Things with Words, London 1962) ha riconosciuto in un atto linguistico almeno tre aspetti:<br />
l’aspetto locutorio per il quale l’espressione ha un significato (dire qualcosa: esecuzione di un atto di dire qualcosa; è<br />
l’atto con cui emetto una serie di suoni articolati che, in una determinata lingua, assumono un certo significato);<br />
l’aspetto illocutorio per il quale l’espressione ha un valore o forza (compimento di un’azione che si fa parlando: esecuzione<br />
di un atto nel dire qualcosa; è l’atto con cui imprimo al mio atto linguistico una certa “tonalità” che può svariare<br />
dal consiglio al comando, dalla preghiera all’ammonimento, all’elogio...); aspetto perlocutorio per il quale l’espressione<br />
ha un effetto (produzione di alcuni effetti sulla situazione nella quale si parla o nel nostro interlocutore). Così<br />
un’espressione come «tu non puoi fare questo» produce: un atto locutorio — egli mi dice: «Tu non puoi fare questo»<br />
(senso dell’espressione); un atto illocutorio — egli protestò contro il mio atto (forza illocutoria dell’espressione); un atto<br />
perlocutorio — egli mi dissuase dal fare questo (effetto reale dell’espressione).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
antecedente di azione nel quale si muove colui che parla) come pure dall’interazione e ricezione (dal<br />
contesto conseguente di azione che chi parla mette in moto). Il significato (“fondatore” della chiesa)<br />
dell’agire del Gesù prepasquale deve dunque essere colto non solo a partire dall’intenzione di Gesù,<br />
ipoteticamente ricostruita, ma anche a partire dalla preistoria e dalla storia degli effetti di tale azio-<br />
ne, come pure dai suoi contesti sociali (in particolare la continuità dei gruppi portatori della tradi-<br />
zione o l’identità del gruppo dei discepoli). Su questo sfondo è opportuno distinguere diversi aspetti<br />
del formarsi della chiesa che possono essere così riassunti:<br />
Dato che la chiesa è connessa con un processo di separazione in Israele e ha nella celebrazione<br />
eucaristica il suo luogo proprio e il suo centro (Ekklesia come comunità cultuale cristiana) può es-<br />
serci chiesa in senso stretto solo dopo Pasqua o dopo Pentecoste. Solo a questo punto può realiz-<br />
zarsi anche la concreta istituzionalizzazione della nuova comunità di fede.<br />
D’altra parte questo sviluppo non è pensabile senza la storia del Gesù prepasquale. Il movimen-<br />
to escatologico di Gesù, orientato alla raccolta di Israele, e i segni della vicinanza del regno di Dio<br />
che creano comunione costituiscono il fondamento teologico-oggettivo e anche storico-sociologico<br />
dell’istituzionalizzazione postpasquale della chiesa.<br />
Poiché il movimento di raccolta di Gesù non è concepibile fuori di Israele, anche la storia d’Israele e<br />
il carattere sociale della sua fede sono parte integrante della preistoria fondatrice della chiesa.<br />
1.1. Il popolo di Dio nell’Antico Testamento<br />
1.1.1. Quale lettura “ecclesiologica” dell’AT ?<br />
Per investigare i fondamenti biblici dell’<strong>ecclesiologia</strong> cristiana dobbiamo studiare non solo le fonti<br />
neotestamentarie, quasi che la chiesa fosse un fenomeno nato all’improvviso, bensì anche quelli an-<br />
ticotestamentari e giudaici. L’Antico Testamento e il suo sviluppo estremo nell’epoca del giudaismo<br />
del secondo tempio, tracciano infatti delle linee storiche e teologiche che fanno da binario alla realtà<br />
storico-culturale della chiesa. Non vi è chiesa neotestamentaria, come fenomeno storico-culturale,<br />
senza le radici giudaiche 5 .<br />
Si tratta di determinare come si è arrivati, nel quadro della tradizione biblica a quella che in termini<br />
teologici si definisce la “nuova creazione” di Cristo, la chiesa. La questione implica due prospettive<br />
5 Riprendiamo alcune riflessioni di M. NOBILE, Ecclesiologia biblica. Traiettorie storico-culturali e teologiche (Bolo-<br />
gna: EDB, 1996) 5-12.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
complementari, una, che potremmo chiamare orizzontale, l’altra invece verticale. Riguardo alla<br />
prima, la chiesa può essere considerata come un’espressione socio-religiosa e culturale, inserita e<br />
leggibile in un tessuto storico tipico, che è la cosiddetta epoca di Gesù (I sec. a.C. - I sec. d.C.). Ciò<br />
implica la conoscenza della realtà geo-politica e religiosa del tempo; qual era il contesto storico<br />
prossimo e remoto, quali le espressioni sociali e culturali che lo caratterizzavano; che cosa si pensa-<br />
va e si voleva; come si viveva e che cosa si credeva. L’obbligatorietà di queste domande nasce dal<br />
fatto che la rivelazione biblica è storica e, quindi, mediata da una “lingua” di volta in volta ben pre-<br />
cisa e definita, appunto la “lingua della storia”, nel suo divenire ininterrotto e cangiante, nelle sue<br />
peculiarità epocali e culturali nuove, eppur sempre antiche, perché inserite nel «continuum» della<br />
storia 6 . La chiesa primitiva è espressione e frutto del giudaismo del secondo tempio, così come si è<br />
sviluppato in epoca ellenistica (dal IV sec. a.C. in poi) e così come esso ha sviluppato l’eredità di<br />
quello che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento.<br />
La seconda prospettiva della questione ecclesiologica consegue dalla precedente: il fondamento bi-<br />
blico della <strong>ecclesiologia</strong> non può limitarsi al piano orizzontale della letteratura neotestamentaria, ma<br />
deve investigare anche verticalmente l’AT e le idee religiose del giudaismo, inteso come l’erede<br />
delle Scritture ebraiche. A questo punto però bisogna stare attenti a non cadere nella trappola apolo-<br />
getica. Questo rischio è stato frequentemente corso anche dalla lettura ecclesiologica dell’AT.<br />
Di fatto l’interesse ecclesiologico del ricorso all’AT si è sviluppato in quattro tappe successive di<br />
crescente e progressiva profondità.<br />
1) Dapprima si è cercato di capire il significato di alcuni termini (come “chiesa”, “popolo di Dio”,<br />
“Israele di Dio”…) e di altre metafore, mediante l’analisi filologica. Per quanto ampio, questo stu-<br />
dio si limita a considerare l’AT come luogo ermeneutico per la comprensione del linguaggio del<br />
NT; anche se il presupposto di una certa continuità tra Israele e la chiesa costituisce un principio di<br />
grandi risonanze. Questa è la via già percorsa dai manuali De ecclesia.<br />
2) Un secondo passo viene compiuto quando si recupera l’ampiezza della lettura tipologica propria<br />
dei padri; allora tutto l’AT si trasfigura ed acquista senso, anche se questa strada aiuta ad evidenzia-<br />
re piuttosto la superiorità, la discontinuità, la novità della chiesa (cfr. J. Daniélou; H. Rahner) 7 .<br />
6 Questo non vuol dire che ciò che avviene nella storia sia sempre logico e conseguente o completamente razionale. Tuttavia,<br />
la conoscenza approfondita delle varie manifestazioni umane che caratterizzano un’epoca è una condizione ineliminabile,<br />
anche quando oggetto della ricerca è un tema non esauribile nelle coordinate storiche, qual è un tema teologico.<br />
L’attenzione a tale esigenza è coerente con il “tempo” e lo “spazio” entro cui si manifesta il trascendente.<br />
7 Cfr. H. RAHNER, Simboli della Chiesa. L’<strong>ecclesiologia</strong> dei Padri (Cinisello Balsamo - Milano: Edizioni San Paolo,<br />
1994 2 ; originale tedesco 1964). Pensiamo alle categorie di promessa-adempimento; Israele secondo la carne e Israele<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
3) Il terzo passo allarga la considerazione a tutta la storia; non solo alle figure o ai tipi, ma a tutto<br />
l’arco delle vicende del popolo d’Israele, legando la storia della chiesa a quella di Israele come fase<br />
successiva, nella continuità-discontinuità di un’unica storia della salvezza; in questo caso si può<br />
parlare di chiesa già presente nell’AT 8 .<br />
4) L’ultimo passo viene appena timidamente avanzato: anche il mistero della sopravvivenza degli<br />
ebrei tocca la riflessione sulla chiesa; la storia del popolo di Dio dell’AT ha qualche riflesso anche<br />
nella storia di quel popolo fino ad oggi; la chiesa deve leggersi ed interpretarsi anche in questa ulte-<br />
riore storia. Questo tipo di discorso teologico è appena abbozzato dal Concilio Vaticano II con la<br />
Dichiarazione Nostra aetate, cap. 4 9 .<br />
Orbene, la pregiudiziale apologetica scatta allorché si accentua in maniera impropria l’apporto di<br />
una metodologia caratterizzata da due elementi. Il primo consiste nella concezione statica del rap-<br />
porto tra AT e NT. In base a tale premessa, si compila una serie sistematica di figure o di testi presi<br />
dall’AT e li si dispone su di un dittico ideale e fisso, del quale occupano un campo; l’altro offre la<br />
serie corrispondente di immagini e di testi del NT. Quest’ultimo è la realizzazione piena del primo;<br />
l’Antico Testamento sta al Nuovo come l’ombra alla realtà, come la promessa al compimento, come<br />
l’imperfezione alla perfezione, come la verità fittizia alla verità “vera”. La concezione è sostenuta<br />
dal secondo elemento, che è la predisposizione ermeneutica. La convinzione della superiorità del<br />
NT sull’AT, da un lato offre al ricercatore un percorso scontato, un binario predeterminato che tra-<br />
sforma lo studio in un esercizio di pura quanto superflua erudizione, dall’altro, di conseguenza, in-<br />
debolisce il rigore della ricerca scientifica e la possibilità di autentiche scoperte: vale la pena di<br />
prendere sul serio il rigore oggettivo dell’esercizio scientifico e di “non fare finta” d’interessarsi alle<br />
radici veterotestamentarie e giudaiche della fenomenologia neotestamentaria. La predisposizione se-<br />
secondo lo Spirito; già e non ancora. Ricordiamo l’espressione di Agostino: «Novum Testamentum in Vetere latet, et Vetus<br />
in novo patet»: Quest. in Hept., 2, 73: PL 34, 623, espressione ripresa nella Dei Verbum al n. 16.<br />
8 L’antesignano è l’ottimo articolo di N. FÜGLISTER, “Strutture dell’<strong>ecclesiologia</strong> veterotestamentaria”, in MySal VII,<br />
23-113. Cfr. pure M. NOBILE, Ecclesiologia biblica, op. cit.; H. SIMIAN-YOFRE, La Chiesa dell’Antico Testamento. Costituzione<br />
crisi e speranza della comunità credente dell’Antico Testamento (Bologna: EDB, 1996); G. LOHFINK, Dio ha<br />
bisogno della Chiesa? Sulla teologia del popolo di Dio (Cinisello Balsamo – Milano: San Paolo, 1999).<br />
9 Questo nuovo approccio teologico è stato ripreso e approfondito da due documenti “pastorali” vaticani: SEGRETARIA-<br />
TO PER L’UNIONE DEI CRISTIANI, Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare “Nostra<br />
Aetate”, Roma, 1 dicembre 1974, in EV 5, 772-793; SEGRETARIATO PER L’UNIONE DEI CRISTIANI, Sussidi per una corretta<br />
presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, Roma, 24 giugno<br />
1985, in EV 9, 1615-1658. Un altro importante documento è quello della PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Il popolo<br />
ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, Città del Vaticano 2001. Sono poi da ricordare gli interventi<br />
di Giovanni Paolo II nelle sinagoghe di Magonza (1980) e di Roma (1986): cfr. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,<br />
2 (1980) 1274s; ibid., IX (1986) 1027s; come pure i discorsi tenuti da Benedetto XVI nella sinagoga di Colonia (2005)<br />
e di Roma (<strong>2010</strong>): cfr. Il Regno. Documenti, 50 (2005/15) 393-395 e 55 (<strong>2010</strong>/3) 71-73.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
ria avrà come risultato non solo un approfondimento della verità, che non è mai banale e scontata,<br />
ma sarà anche un buon apporto alla soluzione di un problema che attanaglia gli ebrei e i cristiani da<br />
duemila anni e che, a causa anche dei tremendi eventi della seconda guerra mondiale di cui tutti por-<br />
tiamo addosso una ferita, si è reso più pressante ai nostri giorni, in campo laico e in campo religio-<br />
so. Il problema è unico, ma costellato di varie domande: qual è la vera natura della relazione tra<br />
l’ebraismo e il cristianesimo? Il secondo è forse in un rapporto di successione e di sostituzione-<br />
negazione rispetto al primo? Se è così, la pretesa cristiana è fondata nello specifico teologico cri-<br />
stiano o si tratta piuttosto di una consolidata esagerazione di ordine psicologico? Se invece non si<br />
tratta di un banale rapporto di esclusione reciproca, si ripropone il problema della natura,<br />
dell’origine, dell’autentica parentela (che non minimizza le differenze) della relazione tra il giudai-<br />
smo e il cristianesimo. Conosceremo tanto meglio noi stessi, quanto più indagheremo nelle nostre<br />
radici comuni con il giudaismo, nella cui galassia si situa la nascita della chiesa cristiana.<br />
Oltre a ciò occorre considerare ancora due criteri ermeneutici. Un’indagine sulle radici veterotesta-<br />
mentarie della chiesa diviene di solito una ricerca tipologica: è un’esigenza che viene da lontano,<br />
dalla tradizione perenne del cristianesimo, che si radica nello stesso NT, ove le realtà nuove portate<br />
da Gesù Cristo vengono spesso presentate nella sequenza binaria di tipo-antitipo 10 .<br />
D’altra parte è un fatto che il metodo tipologico è stato contestato dagli interlocutori ebraici del dia-<br />
logo ebraico-cattolico; ciò è stato riconosciuto anche in un documento vaticano:<br />
Dall’unità del piano divino deriva il problema del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento. La<br />
Chiesa, sin dai tempi apostolici (cfr. 1Cor 10,11; Eb 10,1), e poi ininterrottamente nella sua tradizione,<br />
ha risolto questo problema soprattutto attraverso la tipologia, che sottolinea il valore fondamentale<br />
dell’Antico Testamento nella visione cristiana. Ma la tipologia suscita in molti un senso di<br />
disagio che è forse l’indizio di un problema non risolto 11 .<br />
Certamente, il criterio tipologico può e deve funzionare anche oggi. Tuttavia, bisogna chiarire in che<br />
senso e in che modo. Di sicuro non canonizzando un metodo esegetico temporaneo, perché legato al<br />
10 I dodici apostoli sono l’espressione delle nuove dodici tribù d’Israele, quindi del nuovo popolo di Dio (cfr. Gc 1,1:<br />
«Giacomo, servo di Dio e del signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che si trovano disseminate nel mondo: salute!»). Le<br />
due mogli di Abramo sono per Paolo il pretesto, legittimato dal tipo di esegesi del suo tempo, per un’argomentazione<br />
tipologica: «Ditemi voi che volete stare sotto la legge: non ascoltate ciò che dice la legge? È stato scritto infatti che Abramo<br />
ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello avuto dalla schiava, è nato secondo la carne,<br />
mentre quello avuto dalla donna libera è nato in virtù della promessa. Tali cose sono dette per allegoria (hatina estin allêgoroumena):<br />
le due donne sono le due alleanze, una proviene dal monte Sinai, genera i figli per la schiavitù ed è Agar.<br />
Ora, Agar significa il monte Sinai in Arabia e corrisponde alla Gerusalemme di adesso, che difatti si trova in stato di<br />
schiavitù con i suoi figli. La Gerusalemme celeste invece è libera. Essa è la nostra madre…» (Gal 4,21-26). Nell’esegesi<br />
di Paolo, quindi, Agar e Sara sono il tipo dell’antica e della nuova alleanza, dell’antico e del nuovo Israele.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
gusto di un’epoca, quale quello rabbinico di Paolo o quello allegorico dei padri della chiesa. Piutto-<br />
sto, è da considerare che cosa desse al NT prima e ai padri poi, la possibilità di adoperare tale meto-<br />
do. La possibilità è inscritta nella natura del linguaggio. Le realtà salvifiche, rappresentate dalla sto-<br />
ria d’Israele e delle sue istituzioni, sono venute a costituire una grammatica semantica idonea a dare<br />
nome e un nome specifico (storicamente definito e rilevante) al processo trascendente che la fede ha<br />
sempre visto in atto nella storia. La fede, sia giudaica che cristiana, ha poi dato rilevanza autorevole<br />
a tale “grammatica”, così che per parlare di quelle realtà soprannaturali, si potesse e si dovesse farlo<br />
prioritariamente solo per il tramite di quei termini semantici. Quando la chiesa primitiva parla di un<br />
nuovo Israele o di una nuova Gerusalemme, non inventa un modo d’interpretare il nuovo sulla base<br />
dell’antico: tale metodo era già diffuso da alcuni secoli nel giudaismo del secondo tempio, e quella<br />
della chiesa è stata un’esegesi dei fatti tra le tante altre (storicamente parlando) della galassia giu-<br />
daica. Quindi, cercare di capire i simboli e le immagini del NT sulla base della tipologia dell’AT,<br />
non significa innanzi tutto, in un’ermeneutica storica, giudizio negativo e fagocitamento o elimina-<br />
zione delle interpretazioni concorrenti, passate e contemporanee all’esegesi neotestamentaria.<br />
L’antico, infatti, rimane come figura del nuovo; il nuovo non sarebbe comprensibile senza l’antico,<br />
ma lo tras-figura. Il nuovo “riempie” l’antico: la narrazione biblica non progredisce se non con la<br />
ripresa incessantemente rinnovata delle figure antiche; ciò nell’Antico e nel Nuovo Testamento.<br />
Il secondo criterio ermeneutico, che deve sottendere la nostra ricerca, è la dipendenza intrinseca<br />
dell’<strong>ecclesiologia</strong> dalla cristologia. Non a caso il documento vaticano citato aggiunge:<br />
È importante anche sottolineare che l’interpretazione tipologica consiste nel leggere l’Antico Testamento<br />
come presentazione e, sotto certi aspetti, come il primo delinearsi e come l’annuncio del<br />
Nuovo (cfr. per es. Eb 5,5-10, ecc.). Cristo è oramai il riferimento-chiave delle Scritture: «quella<br />
roccia era il Cristo» (1Cor 10,4). È dunque vero, ed è bene sottolinearlo, che la Chiesa e i cristiani<br />
leggono l’Antico Testamento alla luce dell’avvenimento del Cristo morto e risorto e che, a questo<br />
titolo, esiste una lettura cristiana dell’Antico Testamento che non coincide necessariamente con la<br />
lettura ebraica. Identità cristiana e identità ebraica debbono essere pertanto accuratamente distinte<br />
nella loro rispettiva lettura della Bibbia. Ciò, tuttavia, nulla sottrae al valore dell’Antico Testamento<br />
nella Chiesa e non vieta che i cristiani possano, a loro volta, utilizzare con discernimento le tradizioni<br />
di lettura ebraica 12 .<br />
11 SEGRETARIATO PER L’UNIONE DEI CRISTIANI, Ebrei ed Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica.<br />
Sussidi per una corretta presentazione (Roma, 24 giugno 1985), in Enchiridion Vaticanum IX, n. 1627.<br />
12 Ibid., nn. 1629-1630. Sul tema cfr. anche PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella<br />
Chiesa, I.C.2. «Approccio mediante il ricorso alle tradizioni di interpretazione giudaiche», Città del Vaticano 1993; e<br />
PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, «Comprensione<br />
cristiana dei rapporti tra Antico e Nuovo Testamento», II.A.1-7.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
Per trattare lo specifico della chiesa cristiana, bisogna tenere sempre presente il suo fondamento sto-<br />
rico e teologico: l’evento di Gesù Cristo. Ma proprio nel correlarci costantemente al fondamento<br />
cristologico, verremo aiutati, nella nostra ricerca, a situare la chiesa nella scia di quelle traiettorie<br />
storico-teologiche che partono dall’Antico Testamento:<br />
«Del resto, lo stesso Nuovo Testamento esige parimenti di essere letto alla luce dell’Antico. La catechesi<br />
cristiana primitiva vi farà costantemente ricorso (cfr. ad es. 1Cor 5,6-8; 10,1-11)» 13 .<br />
1.1.2. Linee riassuntive dei dati biblici<br />
a) Dalla storia veterotestamentaria della fede provengono tanto le più importanti designazioni e im-<br />
magini della Chiesa quanto i più importanti modelli sociali dell’organizzazione ecclesiale. Ancora<br />
più rilevante però è il fatto che anche la struttura religiosa profonda della Chiesa cristiana ha trova-<br />
to la sua forma previa nell’esperienza religiosa della socialità del popolo di Israele. C’è perciò<br />
un’unità fondamentale tra il popolo di Dio veterotestamentario e neotestamentario. Senza questa u-<br />
nità la nascita della Chiesa cristiana rimarrebbe incomprensibile.<br />
b) L’autocomprensione di Israele come popolo eletto di Yhwh è da un lato segnata dalle diverse<br />
condizioni politiche e sociali della sua storia. Così, ad es., le denominazioni «popolo di Yhwh» (am<br />
Yhwh, laos theou o kyriou, Es 19,4-7; Dt 4; 7,6-12; 32,8ss) e «dodici tribù di Israele» (Gn 49,1-28;<br />
Dt 33) si riferiscono all’organizzazione delle tribù nel periodo anteriore alla costituzione dello Sta-<br />
to, con una federazione non rigida e decentralizzata di tribù, clan e famiglie e una strutturazione ge-<br />
nealogica. Qui Israele è per così dire la stirpe, la parentela, la truppa e l’esercito di Yhwh. Così le<br />
denominazioni «regno di Yhwh» o «regno di Dio» (malkut jhwh, basileia tou theou; cfr. Sal 102,19<br />
[LXX]; 144,11-13 [LXX]), «regno di Davide» (cfr. 2Sam 7; 23,1-7; 1Cr 17,17) e «le due case di I-<br />
sraele» (Is 8,14) rimandano alla forma di organizzazione come Stato territoriale del periodo monar-<br />
chico con la sua struttura sociale centralista. Le designazioni «resto santo» (schear o schearit; cfr.<br />
13 Ibid., n. 1631. Il documento della PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella<br />
Bibbia cristiana, n. 6 precisa: «L’Antico Testamento possiede in se stesso un immenso valore come Parola di Dio. Leggere<br />
l’Antico Testamento da cristiani non significa perciò volervi trovare dappertutto dei diretti riferimenti a Gesù e alle<br />
realtà cristiane. Certo, per i cristiani, tutta l’economia veterotestamentaria è in movimento verso Cristo; se si legge perciò<br />
l’Antico Testamento alla luce di Cristo è possibile, retrospettivamente, cogliere qualcosa di questo movimento. Ma<br />
dato che si tratta di un movimento, di un progressione lenta e difficile attraverso la storia, ogni evento e ogni testo si situano<br />
in un punto particolare del cammino e a una distanza più o meno grande dal suo compimento. Leggerli retrospettivamente,<br />
con occhi da cristiani, significa percepire al tempo stesso il movimento verso Cristo e la distanza del rapporto<br />
a Cristo, la prefigurazione e la dissomiglianza. Inversamente, il Nuovo Testamento può essere pienamente compreso solo<br />
alla luce dell’Antico Testamento».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
2Re 19,4; Is 1,9; Ez 9,8) e «diaspora» (diaspora; cfr. Is 49,6) presuppongono la dispersione tra i po-<br />
poli pagani, la situazione dell’esilio, mentre alla base delle espressioni «comunità cultuale» o «as-<br />
semblea di Israele» (q e hal jhwh, ekklesia kyriou; cfr. Dt 9,10; 23,2ss. 9; edat Yhwh, synagoge<br />
kyriou; cfr. Nm 27,17; 31,16; Sal 73,2 [LXX]) e «città santa», «Gerusalemme» o «Sion» (cfr. Is<br />
1,8s; 46,13; Sal 149,2) stanno gli sforzi di restaurazione post-esilica nel quadro di una forma orga-<br />
nizzativa prevalentemente familiare, con associazioni che hanno i loro punti di cristallizzazione nel-<br />
le sinagoghe. Tutte queste denominazioni e immagini sono già state sviluppate e trasformate dalla<br />
dinamica della fede in Yhwh e perciò esistono di fatto già con una pluralità di significati e di aspetti.<br />
Le espressioni che indicano la forma sociale della fede di Israele designano tanto (1) una realtà em-<br />
pirica, l’Israele concreto con le sue condizioni di vita storiche, politiche, sociali e culturali, come<br />
pure (2) una realtà ideale e normativa della fede, l’Israele di Yhwh; esse indicano infine anche (3)<br />
una realtà escatologica, la sperata e attesa nuova comunità di Yhwh.<br />
c) Dato che tutte queste designazioni e immagini sono state accolte nel canone dell’Antico Testa-<br />
mento, anche la forma sociale della fede di Israele viene affermata come una realtà multiforme e<br />
complessa, un cammino con diverse situazioni e tappe piuttosto che una forma unitaria e compiuta.<br />
La singolarità di Israele non consiste nella peculiarità della sua situazione politica o socioculturale<br />
ma nella particolare dinamica della sua esperienza di Dio: un Dio che non è la somma del mondo e<br />
delle sue forze, né la sorgente del mondo, da cui questo emanerebbe, ma piuttosto un “soggetto” Al-<br />
tro dal mondo, colui che crea il mondo e quindi non può identificarsi con esso, e il Signore della<br />
storia. Proprio questa esperienza unica conferisce al popolo la propria identità e gli fa inoltre supera-<br />
re e comprendere anche i tempi di crisi. In forza di questa esperienza di Yhwh, Israele ha compreso<br />
le grandi esperienze di redenzione e di salvezza come rivelazioni di Yhwh e, perciò, ha visto la pro-<br />
pria esistenza fondata nella liberazione dall’Egitto, nel dono della legge al Sinai o nell’elezione di<br />
Sion. In forza di questa esperienza di Yhwh i credenti di Israele hanno però compreso i tempi di cri-<br />
si della loro storia come una nuova e più profonda rivelazione della fedeltà e della potenza del loro<br />
Dio e, in tali situazioni, hanno imparato anche a comprendere se stessi in modo nuovo.<br />
d) In questo modo, ad es., la crisi della conquista assira nell’ultimo terzo dell’VIII secolo, sperimen-<br />
tata come giudizio, nella reinterpretazione profetica della fede diventa occasione per una trasforma-<br />
zione dell’immagine di Dio (con un’accentuazione della singolarità, trascendenza e santità di Dio<br />
accanto alla sua misericordia, bontà e vicinanza) e per la trasformazione dell’autocomprensione<br />
(con un’accentuazione della relazione individuale, soggettiva e personale con Dio) e insieme anche<br />
di una interiorizzazione, spiritualizzazione, soggettivizzazione e moralizzazione del modo di esiste-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
re politico, fino ad allora indifferenziato, del popolo. Su questo sfondo, nel VII secolo, avviene an-<br />
che la sintesi della Torah nel Deuteronomio la cui intenzione fondamentale ha trovato la sua espres-<br />
sione più bella nello «shema Israel» (ascolta Israele), che è entrato anche nella liturgia:<br />
«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con<br />
tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4-5).<br />
Relazione con Dio e relazione con se stessi sono qui inseriti in una struttura di reciproca determina-<br />
zione: nel momento in cui il popolo fedele, come conseguenza dell’affinarsi della coscienza religio-<br />
sa ad opera dei profeti, si riferisce totalmente alla unicità, santità e indisponibilità del Tu divino, si<br />
concentra e si approfondisce anche la coscienza di sé, o la coscienza della socialità, nella totalità del<br />
cuore, della persona e delle forze. E quanto più l’individuo credente o il popolo credente nello sfor-<br />
zo morale riesce a dare, attraverso l’amore verso Dio, unità e profondità alla propria vita, tanto più<br />
intensamente anche Dio diviene riconoscibile e sperimentabile nella sua unicità, santità e libertà.<br />
e) Ancora più radicale è la crisi del tempo dell’esilio. Dopo la perdita del tempio, della terra e del<br />
regno i credenti di Israele scoprono in maniera nuova la divinità di Yhwh, che ora include esplici-<br />
tamente il suo dominio universale sulla storia e la sua potenza creatrice, la sua insondabile libertà e<br />
onnipotenza. In questo modo il problema della mediazione si manifesta con estrema acutezza. Da<br />
una parte, il solco profondo tra il Dio trascendente e la storia terrena da ora in poi viene superato<br />
con l’aiuto di esseri divini con funzione mediatrice (parola di Dio, spirito di Dio, sapienza di Dio).<br />
Dall’altra parte, in questa situazione di miseria nella quale sembra che Yhwh abbia abbandonato il<br />
suo popolo, la speranza si lega a mediatori umani della salvezza, che intervengono come inviati di<br />
Yhwh a favore del popolo: Mosè, i profeti, il servo di Yhwh sofferente, il Messia. In questa espe-<br />
rienza di crisi il Deuteroisaia interpreta in maniera nuova anche l’idea di elezione e di conseguenza<br />
anche la funzione del popolo di Israele (soprattutto nella figura del servo sofferente come pure nella<br />
figura del re-messia pacifico). Il mezzo adeguato della signoria di Yhwh nel mondo non è l’affer-<br />
mazione di sé, la forza e la violenza ma la sofferenza vicaria, la non violenza e la pace. La vocazio-<br />
ne di Israele non è solo quella del testimone passivo della presenza di Yhwh nel mondo, ma anche<br />
quella di essere un centro salvifico tra i popoli del mondo, un portatore di benedizione che attraver-<br />
so il culto, nella forma dell’intercessione e della lode, si trasmette ai popoli. Inoltre la questione del-<br />
la mediazione viene affrontata anche attraverso un processo di istituzionalizzazione delle precedenti<br />
oggettivazioni della parola di Dio, mediante la sintesi della Torah, la messa per iscritto della tradi-<br />
zione sacra e la formazione del canone delle sacre Scritture.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
i) La socialità del popolo di Israele riceve una nuova struttura a partire dal III secolo nelle correnti<br />
apocalittiche che, nella situazione sempre più disperata della diaspora, con l’oppressione insoppor-<br />
tabile e la disastrosa perdita della fede, potevano trovare consolazione solo in un’ultima radicalizza-<br />
zione dell’antica idea dell’alleanza: solo l’unilaterale e gratuita fedeltà di Yhwh può ora rendere<br />
possibile la continuazione dell’esistenza del popolo. Solo se il corso della storia della salvezza non<br />
può essere minacciato da alcuna stoltezza e malvagità umana è possibile la speranza. Il compito<br />
dell’apocalittico è di spiegare la situazione storica come la realizzazione di un piano divino di sal-<br />
vezza concepito prima del tempo, che troverà il suo compimento alla fine della storia ormai immi-<br />
nente. In tal modo nel concetto della comunità di salvezza entra un ultimo elemento: la tensione tra<br />
la misera forma terrestre della comunità e la sua forma finale ricreata da Dio alla fine dei tempi.<br />
g) Soprattutto dopo la massiccia politica di ellenizzazione di Antioco IV Epifane (che governò dal<br />
176/175 fino al 164 a.C.), la comprensione giudaica del popolo di Israele si differenziò ulteriormen-<br />
te. Ognuno dei gruppi che si erano formati aveva le proprie idee su chi apparteneva a Yhwh e al suo<br />
popolo. Il giudaismo riformista radicale sosteneva la politica di ellenizzazione di Antioco IV poi-<br />
ché si era schierato non solo a favore di una «modernizzazione» del giudaismo, ma anche per una<br />
religione universale «illuminata» e «naturale». Per questa corrente il popolo di Dio è l’unica umanità<br />
nella misura in cui essa accetta il monoteismo etico. Il giudaismo riformista moderato, che si incon-<br />
tra negli scritti di orientamento sapienziale della diaspora come pure in Filone e Giuseppe Flavio,<br />
mantiene l’idea di elezione di Israele e di alleanza, anche se le interpreta come paradigmi: Israele è<br />
il popolo eletto in quanto modello per il mondo, ma Israele è tale solo nella misura in cui esercita<br />
effettivamente la sua funzione esemplare. In tal modo si giunge qui a una chiara distinzione tra il<br />
popolo terreno e il popolo di Dio celeste. Per contro, la politica religiosa di Antioco IV suscitò an-<br />
che la resistenza dei credenti fedeli alla tradizione. L’orientamento teocratico e ierocratico dei Mac-<br />
cabei e degli Asmonei con l’idea di «guerra santa» perseguì una «de-modernizzazione» e una «de-<br />
ellenizzazione» del giudaismo, con lo scopo sacerdotale-cultuale di purificare il tempio santo e di<br />
restaurare Israele come una comunità cultuale riunita attorno al tempio di Gerusalemme e al sommo<br />
sacerdote. La sua comprensione del popolo di Dio è dichiaratamente particolaristica, esclusivistica e<br />
ierocratica. Con questa corrente collaborarono strettamente i sadducei, il partito conservatore forma-<br />
to dalla classe più elevata del sacerdozio del tempio di Gerusalemme, per il quale la priorità assoluta<br />
spettava alla celebrazione corretta del culto. La questione dell’identità viene risolta in modo diverso<br />
nel movimento pietistico-nomista dei chassidim, degli esseni e dei farisei. Mentre i chassidim e gli<br />
esseni, di orientamento escatologico o apocalittico, attendevano in comunità chiuse ed elitarie<br />
l’irruzione prossima della signoria di Dio, con un esplicito orientamento verso la fede retta, il culto<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
autentico, la rigorosa osservanza della legge e comprendevano se stessi come germe e avanguardia o<br />
come fondamento e nucleo del futuro compimento del popolo di Dio, ai farisei interessava in primo<br />
luogo una vita comunitaria ispirata alla legge della santità, con pasti comuni e momenti fissi di pre-<br />
ghiera, con lo scopo di realizzare l’obbedienza e la necessaria fedeltà in rappresentanza dell’intero<br />
Israele e, in secondo luogo, di rendere la Torah praticabile per tutto il popolo.<br />
h) Ne consegue che alla domanda radicale: «Chi appartiene a Israele?», nella coscienza credente<br />
del popolo si danno risposte diversificate. Ne elenchiamo, certamente semplificando, almeno tre.<br />
(1) Da una parte troviamo la prospettiva universale dal tempo della profezia recente, Deutero e Trito<br />
Isaia. Israele impara a comprendersi come testimone di Dio davanti a tutti i popoli. Israele si cono-<br />
sce come “popolo santo”, “regno di sacerdoti” (Es 19,6), che ha una funzione di mediazione tra il<br />
suo Dio e i popoli del mondo (Gen 12,3; Is 19,24-25; 55,5) 14 . Inoltre si ritiene che da questi popoli<br />
usciranno uomini che diventeranno membri di Israele assumendo su di sé il giogo della legge ed en-<br />
trando nell’ordinamento cultuale (Is 56,3.6-7; Est 9,27) 15 . Ma per tutti si attende nel futuro la rac-<br />
colta dei popoli attorno a Israele e Gerusalemme come centro. L’idea profetica del pellegrinaggio<br />
dei popoli verso Sion, enunciata per la prima volta in Is 2,1-5 16 e ampiamente illustrata in Is 60-65,<br />
fu un elemento centrale dell’attesa apocalittica del futuro: alla fine del tempo la salvezza che rifulge<br />
in Israele e da Sion raggiungerà tutti i popoli e tutti gli uomini.<br />
(2) A questa prospettiva universalistica si oppose la tendenza a sottolineare una distinzione interna a<br />
Israele stesso. Se il criterio di appartenenza a Israele è l’adesione alla torah e la fedeltà al Patto di<br />
Dio, chi non soddisfa tale criterio fa ancora parte del popolo di Dio? La tradizione vede il sorgere di<br />
14 Gen 12,3: «Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte<br />
le famiglie della terra»; Is 19,24-25: «In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in<br />
mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: “Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie<br />
mani e Israele mia eredità”»; Is 55,5: «Ecco tu chiamerai gente che non conoscevi; accorreranno a te popoli che non ti<br />
conoscevano a causa del Signore, tuo Dio, del Santo di Israele, perché egli ti ha onorato».<br />
15 Is 56,3: «Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: “Certo mi escluderà il Signore dal suo popolo!”». Is 56,6-7:<br />
«Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi, quanti si<br />
guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia<br />
nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare, perché il mio tempio si<br />
chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli»; Est 9,22: «I Giudei stabilirono e presero per sé, per la loro stirpe e per<br />
quanti si sarebbero aggiunti a loro, l’impegno inviolabile di celebrare ogni anno quei due giorni, secondo le disposizioni<br />
di quello scritto e alla data fissata».<br />
16 Is 2,1-5: «Ciò che Isaia, figlio di Amoz, vide riguardo a Giuda e a Gerusalemme. Alla fine dei giorni, il monte del<br />
tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno<br />
molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue<br />
vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.<br />
Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
questa domanda nell’annuncio che Yhwh fa ad Elia: «Io poi mi sono risparmiato in Israele settemila<br />
persone, quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal e quanti non l’hanno baciato con la bocca»<br />
(1Re 19,18). L’idea che Dio separerà dal popolo un resto di quelli che costituiscono il vero Israele e<br />
sono i portatori della salvezza, acquistò contorni sempre più precisi nella predicazione profetica (Am<br />
5,15; 9,8s; Is 1,9; 4,3; Zac 13,8) 17 , così da legarsi alla fine con la prospettiva sul giudizio venturo:<br />
«Or in quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Vi sarà un<br />
tempo di angoscia, come non c’era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel<br />
tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro» (Dan 12,1). Dunque, solo<br />
quelli che nell’elezione di Dio per la vita hanno stabilità, possono essere considerati Popolo di Dio.<br />
(3) Inoltre, trasversale alle due prospettive, al tempo del NT si nota anche la tendenza a recuperare<br />
una definizione di Israele su base etnica e statale. Questa tendenza si prepara nell’epoca postesilica<br />
mediante il ricordo vivo dell’antica forma di organizzazione nelle dodici tribù. Si ricostituiscono le<br />
genealogie, in cui si deve registrare chi vuole appartenere al popolo (Esd 2,59-63; Ne 7,5-7) 18 . Cia-<br />
scun israelita al tempo di Gesù era in grado di indicare il suo capostipite e sapeva a quale tribù ap-<br />
parteneva. Questa tendenza riconoscibile dal tempo di Esdra e Neemia si rafforzò in seguito alla<br />
grande crisi ellenistica sotto Antioco IV Epifane. A questo periodo appartiene anche il tentativo de-<br />
gli asmonei di ottenere un’indipendenza statale per la Giudea e di stabilire un regno sacerdotale<br />
(1Mac 13-16). Nel passaggio tra il secondo e il primo secolo a.C. essi intrapresero sistematicamente<br />
la rigiudaizzazione della Galilea insediando giudei immigrati fedeli alla legge. L’obiettivo era quel-<br />
popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra. Casa di Giacobbe,<br />
vieni, camminiamo nella luce del Signore».<br />
17 Am 5,15: «Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto; forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà<br />
pietà del resto di Giuseppe»; Am 9,8-10: «Ecco, lo sguardo del Signore Dio è rivolto contro il regno peccatore: io lo<br />
sterminerò dalla terra, ma non sterminerò del tutto la casa di Giacobbe, oracolo del Signore. Ecco infatti, io darò ordini<br />
e scuoterò, fra tutti i popoli, la casa d’Israele come si scuote il setaccio e non cade un sassolino per terra. Di spada periranno<br />
tutti i peccatori del mio popolo, essi che dicevano: “Non si avvicinerà, non giungerà fino a noi la sventura”»; Is<br />
1,9: «Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato un resto, già saremmo come Sodoma, simili a Gomorra»; Is 4,3:<br />
«Chi sarà rimasto in Sion e chi sarà superstite in Gerusalemme sarà chiamato santo, cioè quanti saranno iscritti per restare<br />
in vita in Gerusalemme»; Zac 13,8-9: «In tutto il paese, — oracolo del Signore — due terzi saranno sterminati e periranno;<br />
un terzo sarà conservato. Farò passare questo terzo per il fuoco e lo purificherò come si purifica l’argento; lo<br />
proverò come si prova l’oro. Invocherà il mio nome e io l’ascolterò; dirò: “Questo è il mio popolo”. Esso dirà: “Il Signore<br />
è il mio Dio”».<br />
18 Esd 2,59-63: «I seguenti rimpatriati da Tel-Melach, Tel-Carsa, Cherub-Addàn, Immer, non potevano dimostrare se il<br />
loro casato e la loro discendenza fossero d’Israele: figli di Delaia, figli di Tobia, figli di Nekodà: seicentoquarantadue.<br />
Tra i sacerdoti i seguenti: figli di Cobaià, figli di Akkoz, figli di Barzillài, il quale aveva preso in moglie una delle figlie<br />
di Barzillài il Galaadita e aveva assunto il suo nome, cercarono il loro registro genealogico, ma non lo trovarono; allora<br />
furono esclusi dal sacerdozio. Il governatore ordinò loro che non mangiassero le cose santissime, finché non si presentasse<br />
un sacerdote con Urim e Tummim»; Ne 7,5-6: «Il mio Dio mi ispirò di radunare i notabili, i magistrati e il popolo,<br />
per farne il censimento. Trovai il registro genealogico di quelli che erano tornati dall’esilio la prima volta e vi trovai<br />
scritto quanto segue…».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
lo di riguadagnare al popolo di Israele la terra di Israele nella sua estensione originaria. È probabile<br />
che proprio allora giungessero in Galilea gli antenati di Gesù, i quali si annoveravano nella famiglia<br />
di Davide (Rm 1,3; Mt 1,1). Questo sviluppo venne però interrotto molto presto già verso la fine del<br />
dominio asmoneo con l’inclusione della Palestina nell’area egemonica dell’impero romano (63<br />
a.C.), ma la tendenza ad identificare Popolo, Terra e Stato si rafforzò di nuovo, soprattutto nei grup-<br />
pi nazional-religiosi degli zeloti, e condusse Israele alla catastrofe del 70 d. C.<br />
i) In questo sviluppo protogiudaico della comprensione della comunità di fede quindi sono già e-<br />
splorate tutte le principali possibilità di comprensione del rapporto tra particolarità della comunità e<br />
promessa universale. Nella storia della Chiesa riappariranno tutti questi modelli fondamentali. An-<br />
che per ciò che riguarda le attuazioni fondamentali della comunità o i criteri essenziali di apparte-<br />
nenza in questo contesto sono già sperimentati tutti i modelli che successivamente avranno un ruolo<br />
anche nella storia della Chiesa. La terna farisaica dei segni che assicurano l’appartenenza al popolo<br />
di Dio: discendenza, circoncisione e comportamento etico, viene presupposta in tutti i gruppi giu-<br />
daici, anche se si attribuisce un peso diverso ai singoli elementi: l’appartenenza può essere fondata<br />
in modo primariamente etnico, cultuale o etico. In seguito alla trasformazione cristiana questi ele-<br />
menti diverranno i tre noti segni dell’appartenenza: fede in Cristo (professione), battesimo (sacra-<br />
mento) e comunione fraterna (etica), i quali pure sono valutati in modo assai diverso.<br />
Concludendo possiamo tracciare alcune linee sintetiche su tre punti sui quali i diversi prospetti di<br />
teologia biblica trovano una certa consonanza.<br />
1) Anzitutto si nota che la coscienza di Israele è venuta formandosi attraverso una serie successiva e<br />
molto varia di vicende storiche. Potremmo riassumerle così: Israele è dapprima passato attraverso<br />
una lunga situazione di nomadismo; e poi s’è trovato ad affrontare una ancora più lunga situazione<br />
di diaspora (che dura tutt’oggi). La terza situazione, che è intermedia tra le due precedenti, quella<br />
della stabilizzazione in un territorio e in una struttura politica (stato) che l’accomuna agli altri popo-<br />
li, è qualcosa di secondario, di precario, almeno nella prospettiva profonda di coscienza unitaria del<br />
popolo; tant’è vero che l’unità politica dura poco (sorgono i regni del nord e del sud, con storie<br />
spesso autonome) e la stessa forma politica monarchica deve subire una pesante critica soprattutto<br />
da parte dei profeti (cfr. la satira politica di Gdc 9,8-15, e la ben più pesante obiezione “religiosa” di<br />
1Sam 8,5-8…). Resta invece più duratura la fisionomia delle tribù, e l’unità nazionale tenuta desta<br />
dai profeti va al di là delle stesse divisioni delle tribù e dei regni, come pure il valore religioso e tra-<br />
scendente dell’esperienza dell’unità politica (Gerusalemme, Sion, tempio, regno…) viene percepito<br />
e celebrato dopo l’esperienza dolorosa dell’esilio, mediante una trasfigurazione in prospettiva spiri-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
tuale ed escatologica. L’esperienza base, dunque, è quella di un popolo privo di sicurezze umane, in<br />
balia al tempo stesso di Dio e degli altri popoli. La sua singolarità lo fa apparire centrato in se stes-<br />
so, ma in realtà vive decentrato, “eccentrico”, in quanto la sua esistenza è totalmente sospesa a ciò<br />
che sta sopra di lui o fuori di lui. Le due situazioni, di cui sopra, sono contrassegnate dalle due punte<br />
estreme dell’esodo e dell’esilio: due eventi forti, costitutivi della coscienza del popolo. Ambedue<br />
mettono a nudo il peso della schiavitù e l’anelito alla libertà, e disegnano Dio come colui che salva<br />
e libera, che trae dalla schiavitù o castiga con essa, per purificare e poi richiamare alla libertà: Egli è<br />
colui che finalmente “raccoglierà” Israele da tutti i popoli fra i quali è stato disperso e riconcilierà le<br />
fratture interne al popolo di Dio (Dt 30,1-6; Is 11,12s; Ez 37,21 …) 19 .<br />
2) La seconda riflessione della teologia biblica riguarda appunto il tipo di coscienza che è maturata<br />
nel popolo di Israele in seguito alle vicende di nomadismo (esodo, deserto) e di diaspora (esilio e<br />
post-esilio). Israele ha percepito progressivamente che l’unità sua più profonda era costituita dalla<br />
sua relazione unica con Dio: esso è un popolo nato dalla fede. E anche se in Israele la famiglia natu-<br />
rale e la parentela del sangue svolgono un ruolo del tutto particolare, la tradizione biblica, fin dai<br />
suoi inizi, conferma che l’esistenza del popolo di Dio non si regge sul sangue, sulla parentela natu-<br />
rale e tanto meno su un automatismo genealogico (cfr, ad es. il caso di Abramo in Gen 12 e 22). In<br />
questa prospettiva si comprendono la varietà e la ricchezza di temi, che, a seconda delle esperienze<br />
particolari, esprimono la relazione singolare d’Israele con Dio: popolo santo, sacerdotale, imparen-<br />
tato con Dio, vigna di Dio, gregge di Dio, tempio di Dio… Il tema più ricco e dominante sarà quello<br />
dell’alleanza (b e rît); ma va ricordato che solo progressivamente verrà data un’accentuazione<br />
all’aspetto di intimità tra Dio e il popolo e all’elevazione di questi al livello inaudito di partnership<br />
con Dio. Certamente questo approfondimento della coscienza unitaria di Israele comporta una mag-<br />
gior attenzione a problemi concreti di fedeltà e di adeguamento alla vocazione. Soprattutto<br />
l’esperienza dell’esilio indurrà a riflettere sulle condizioni di permanenza delle promesse e della fe-<br />
deltà di Dio al suo popolo, e si farà strada l’interpretazione spirituale ed escatologica di popolo di<br />
Dio, erede delle benedizioni dell’alleanza: il giudizio di Dio tocca anche Israele, scevera al suo in-<br />
terno, per riduzione progressiva, un resto santo, che evidenzierà il carattere di “povero-servo-figlio”<br />
di Dio, nel quale si riassume la dignità del popolo di Dio; e così le strutture storiche della teocrazia<br />
saranno superate, idealizzate, trasferite in prospettiva superiore e futura.<br />
19 Sul tema cfr. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa?, op. cit., 69-78. Egli osserva che lo stesso Gesù ha inteso riunire<br />
Israele in nome della sovranità di Dio (Mt 12,30; 23,37), e che, quando nell’ebraismo è rispuntata l’antica coscienza che<br />
Israele deve riunirsi, è risuonata la parola Kibbuz, dall’antico concetto teologico «qabaz » (= raccogliere, riunire), p. 77.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
Al tempo stesso la coscienza di Israele approfondisce l’altro aspetto della sua singolarità, che gli de-<br />
riva dal suo sperimentarsi in balia anche di tutti gli altri popoli (e non solo di Dio). Israele scopre,<br />
anzi, dalla sua vicinanza con Dio, dalla sua familiarità con lui, un impegno e una missione per tutto<br />
il mondo. Proprio la coscienza di rappresentare il luogo della presenza, della manifestazione e<br />
dell’azione di Dio nella storia (tramite Israele, Dio si rivela come l’“Emmanuele”, il “Dio con noi”),<br />
porta il popolo di Dio a sentirsi progressivamente gravato di una responsabilità singolare nei con-<br />
fronti di tutti gli altri popoli. Si può parlare di vocazione “missionaria” di Israele. L’esperienza<br />
dell’esilio e poi del ritorno dei dispersi alla città santa fa percepire l’orizzonte futuro di un ritorno<br />
all’unità di tutti i popoli, di un ritorno al Dio di cui è popolo santo l’Israele di Sion, della città santa;<br />
e Gerusalemme col suo tempio, nella sublimazione profetica, viene indicata come punto di raccolta<br />
di tutti i popoli della terra. È di questa comunione con tutta l’umanità che vive Israele; e non solo<br />
della comunione intima con Dio. Anzi, è proprio la comunione intima con Dio che apre questo alla<br />
comunione con gli altri popoli. La scelta di Dio è caduta su Israele a vantaggio dei popoli. Dio ha<br />
bisogno di avere nel mondo un testimone, un popolo nel quale poter rendere visibile la sua gloria.<br />
Perciò la scelta grava sul popolo eletto con tutto il suo peso. Essere eletti non è un privilegio, non è<br />
una preferenza sugli altri, ma un’esistenza per gli altri.<br />
Questi i tratti essenziali della coscienza di Israele. Ma l’interpretazione ulteriore di questa vocazione<br />
comporta accentuazioni varie, addirittura polarizzazione di tendenza. L’interpretazione spiritualiz-<br />
zante dovrà sempre tenere conto anche delle esigenze di unità storica, e quindi anche delle strutture<br />
sociologiche e giuridiche (riguardo al culto, alla politica, al territorio…). Alcune linee accentueran-<br />
no la prospettiva della “potenza”, anche in senso positivo e non automaticamente negativo (illustrata<br />
dal successo di guide e capi gloriosi, come i Giudici, Davide, i Maccabei); altre sottolineeranno la<br />
funzione dei profeti, la forza dell’evangelizzazione della parola di Dio (sull’esempio dei profeti: ec-<br />
co l’importanza delle sinagoghe, nella diaspora, dopo la distruzione del tempio); altre affermano<br />
l’importanza della mediazione cultuale, della preghiera e del sacrificio a favore dei popoli (il post-<br />
esilio evidenzierà il popolo di Dio come comunità cultuale, popolo sacerdotale). Difficile sarà, in<br />
ogni caso, interpretare il movimento di questa vocazione missionaria universalistica d’Israele: alcu-<br />
ni tenderanno a vederlo in direzione centripeta, come assorbimento degli altri dentro Israele; altri lo<br />
vedranno maggiormente in direzione teocentrica centrifuga (rispetto ad Israele), come cammino ver-<br />
so il regno di Dio escatologico, e come evento di novità che trasformerà lo stesso Israele.<br />
3) Il terzo punto che la teologia biblica sottolinea riguarda appunto il rimando ulteriore che la co-<br />
scienza messianica e missionaria di Israele opera per rapporto alla propria storia. Duplice rimando,<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
ossia duplice allargamento in orizzonte. Indietro, verso la storia anteriore ad Abramo, verso la pro-<br />
tologia per legare l’alleanza specifica tra Dio ed Israele con precedenti altre alleanze; Dio in tutta la<br />
storia si è manifestato Dio dell’alleanza con gli uomini; importante, nella preistoria (rispetto alla<br />
storia di Israele) è già l’alleanza paradisiaca con Adamo, ma emblematica è soprattutto l’alleanza<br />
dopo il diluvio. Rimando ed allargamento, poi, in avanti, per rapporto al futuro, al tempo successivo<br />
all’alleanza antica; già dentro l’antica alleanza si danno chiari cenni di una prospettiva di supera-<br />
mento, di novità ulteriore e superiore: nuova legge, nuovo tempio, nuovo patto, nuovi cieli e nuova<br />
terra, nuova lingua, nuova cittadinanza (cfr. Ger 31; Ez 36). La lettura di questa prospettiva sarà ov-<br />
viamente evidenziata dal NT (cfr. in particolare la simbolica dell’Apocalisse), e poi ampliata dalla<br />
riflessioni dei padri della chiesa. Sarà proprio questa coscienza del cristianesimo fin dai suoi inizi,<br />
di essere cioè il nuovo popolo di Dio, il nuovo Israele con tutto ciò che questo comporta, sarà questa<br />
coscienza che porterà al tempo stesso ad affermare la continuità e la discontinuità tra Israele e chie-<br />
sa, tra antico e nuovo popolo di Dio. La chiesa si trova quindi già prefigurata e in qualche modo ini-<br />
ziata prima della sua stessa apparizione storica nella vita e nella coscienza di Israele.<br />
1.2. Gesù e l’origine della chiesa<br />
È evidente che senza la Chiesa oggi non avremmo neppure i testi che ci parlano di Gesù. Il gruppo<br />
riunito attorno a Gesù, la comunità generata dalla sua parola è il soggetto portatore del suo messag-<br />
gio. Questo non ci è accessibile se non nel prisma della risposta credente dei discepoli. Già questo<br />
fatto dovrebbe renderci attenti contro le facili semplificazioni di chi afferma «Gesù sì, chiesa no!».<br />
La chiesa si presenta infatti come un prolungamento dell’azione e della parola di Gesù, ma la sua<br />
pretesa è “seconda” e “derivata” rispetto a quella originaria del Signore e può scadere nell'infedeltà<br />
che la storia ci testimonia. Per questo il suo essere segno del dono di Cristo deve essere sempre<br />
riaccolto nella fedeltà e nella libertà. Tuttavia tale fedeltà non dipende dalla libertà della risposta<br />
della chiesa, ma è sorretta dalla promessa di Cristo. La promessa di indefettibilità è assicurata dal<br />
Signore risorto. Ma Gesù ha effettivamente promesso così? Ossia: Gesù ha voluto la chiesa?<br />
«Gesù ha annunciato il Regno di Dio — insinuava Loisy all’inizio del secolo — e ne è venuta la<br />
chiesa!» Questo sospetto che la chiesa sia come il surrogato dell’intenzione di Gesù, il misero tra-<br />
dimento della sua predicazione sta sempre sullo sfondo della critica, ma non viene mai affrontato<br />
direttamente. Se al centro del messaggio di Gesù sta il regno di Dio, la chiesa in che relazione è po-<br />
sta con questo centro? La chiesa è compatibile col regno di Dio? Hans Conzelmann, ad es., afferma<br />
risolutamente l’incompatibilità delle due cose: con l’annuncio che Gesù fa di Dio «non si accorda la<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
fondazione di una comunità escatologica organizzata» 20 ; «l’autocoscienza escatologica di Gesù e-<br />
sclude l’idea di una chiesa presente» 21 . Il problema diviene più acuto se consideriamo i testi in cui<br />
Gesù parla dell’attesa imminente: «Se Gesù ha visto e annunciato come imminente l’avvento della<br />
signoria di Dio, allora sembra non ci possa essere posto per una “chiesa” che si costituisce nel<br />
“mondo”, progettata per durare nel tempo; ciò significherebbe, infatti, vedere in essa soltanto una<br />
soluzione provvisoria e un’istituzione ad interim, destinata a durare per un periodo di tempo calco-<br />
lato di stretta misura» 22 .<br />
Osserviamo quindi che la questione di una “fondazione” o “derivazione” di una chiesa dal Gesù<br />
prepasquale impone di considerare quale relazione ci sia fra l’interesse centrale dell’opera di Gesù,<br />
ossia l’annuncio del regno di Dio, e una eventuale realtà storico-sociale connessa con questo.<br />
1.2.1. Il messaggio di Gesù circa il regno di Dio<br />
Per la realizzazione della vera chiesa di Dio erano in concorrenza tra loro, al tempo di Gesù, diversi<br />
gruppi-comunità-chiese religiose e allo stesso tempo socio-politiche (tra cui i farisei, i sadducei, gli<br />
zeloti, gli esseni di Qumran, la comunità di Giovanni il Battista, gli ebrei della diaspora), non tanto<br />
con tendenze separatistiche miranti a rompere con la chiesa universale di Yhwh, quanto piuttosto<br />
nello sforzo di rinnovare nel suo insieme tale chiesa universale. L’identità dei diversi gruppi dipen-<br />
de non da ultimo dalle rispettive comprensioni di chiesa (con diversi atteggiamenti nei confronti del<br />
tempio, dell’osservanza della Torah, del paese, della potenza di occupazione…).<br />
a) La concentrazione di Gesù su Israele<br />
Proprio questo è il contesto in cui venne a trovarsi Gesù e in cui dovette prendere posizione sul pro-<br />
blema della chiesa; e lo ha fatto, anche se non è possibile dimostrare che abbia parlato di ekklesía o<br />
di qahal di Dio. Nel complesso è oggi indiscusso che Gesù abbia voluto dare avvio alla raccolta de-<br />
finitiva, escatologica, di tutto Israele e lo ha voluto come “messaggero escatologico” (cfr. Mc 12,6)<br />
e come sapienza di Dio 23 . Lo possiamo affermare in base ad alcuni indizi.<br />
20 a<br />
H. CONZELMANN, Eschatologie II, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart II, 3 ed. 1956-1965, 668.<br />
21<br />
H. CONZELMANN, Grundriss der Theologie des Neuen Testament (München 1968) 50.<br />
22<br />
W. TRILLING, «Ecclesiologia implicita». Proposta sul tema «Gesù e la Chiesa», in ID., L’annuncio di Gesù. Orientamenti<br />
esegetici (Brescia: Paideia, 1986) 73-97.<br />
23<br />
Mc 12,6: «Aveva ancora uno, il figlio prediletto: lo inviò loro per ultimo, dicendo: Avranno rispetto per mio figlio!»:<br />
Mt 12,41-42: «Quelli di Ninive si alzeranno a giudicare questa generazione e la condanneranno, perché essi si convertirono<br />
alla predicazione di Giona. Ecco, ora qui c'è più di Giona! La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione<br />
e la condannerà, perché essa venne dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c'è<br />
più di Salomone!».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
Come nel caso del Battista, così anche in quello di Gesù il messaggio e la prassi sono caratterizzati<br />
dall’attesa prossima: la situazione si è fatta grave; non c’è più tempo; bisogna prendere una decisio-<br />
ne definitiva. Per questo il Battista vuole riportare il popolo di Dio nella condizione dell’antico Isra-<br />
ele, affinché impari di nuovo a fidarsi del suo Dio; dal deserto, attraverso l’acqua del Giordano —<br />
proprio nel punto in cui, secondo la tradizione, Giosuè l’aveva fatto attraversare ai figli della gene-<br />
razione del deserto per introdurli nella terra promessa —, egli vuole fargli riattraversare i confini<br />
della terra promessa. L’intero Israele sta sotto la minaccia della collera di Dio, e non può rivendicare<br />
come garanzia di salvezza la propria appartenenza alla stirpe di Abramo (Mt 3,9). Soltanto un inizio<br />
totalmente nuovo, può salvare ancora il popolo di Dio.<br />
Pure Gesù si reca da Giovanni, entra nella situazione di deserto creata dal Battista e si lascia immer-<br />
gere nel Giordano. Tuttavia per lui ciò che è imminente non è il giudizio come nel Battista, bensì la<br />
salvezza. La basiléia di Dio si è avvicinata (Mc 1,15, Lc 10,9) 24 , e precisamente nel senso che di-<br />
venta già presente (Lc 11,20; 17,20s.) 25 . Questa escatologia del presente costituisce un’ulteriore dif-<br />
ferenza dal Battista. Naturalmente la presenza della salvezza non elimina l’imminenza, ciò che an-<br />
cora manca della salvezza. Perciò non solo nel Battista, bensì anche in Gesù la costellazione escato-<br />
logica spinge ad agire: Israele deve lasciarsi radunare nel vero popolo di Dio, perché il kairós è<br />
giunto; ma finché Israele non è “convertito”, non ha ancora preso la sua decisione “per” il Vangelo,<br />
la basiléia, sicuramente vicina, non è ancora del tutto presente (cfr. Lc 14,15-20).<br />
b) Gesù opera in territorio ebraico<br />
Prima di osservare da vicino i detti e i gesti di Gesù, osserviamo una caratteristica della sua missio-<br />
ne: nella sua attività egli si è concentrato sul territorio ebraico. Nazaret, Nain, Cana, Cafarnao, Cho-<br />
razin e Betsaida sono località da lungo tempo abitate da una popolazione ebraica. Non esiste neppu-<br />
re un solo motivo che induce a pensare che Gesù abbia mai abbandonato il territorio ebraico per de-<br />
dicarsi a insegnare tra i pagani. Quando egli abbandonò il territorio ebraico (Mc 5,1; 7,24; 8,27) 26 , in<br />
realtà dovrebbe aver lavorato tra gruppi ebrei marginali residenti in territori di confine. I relativi te-<br />
sti non dicono infatti sorprendentemente che egli sia entrato in Gerasa, Tiro o Cesarea di Filippi, ma<br />
24 Mc 1,15: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo»; Lc 10,9: «curate i malati<br />
che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio».<br />
25 Lc 11,20: «Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio»; 17,20-21: «Interrogato<br />
dai farisei: “Quando verrà il regno di Dio?”, rispose: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione,<br />
e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!”».<br />
26 Mc 5,1: «Intanto giunsero all’altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni»; 7,24: «Partito di là, andò nella regione<br />
di Tiro e di Sidone»; 8,27: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
parlano sempre del territorio delle campagne, che circondava ognuna di queste antiche città-stato.<br />
Ovviamente Gesù poteva imbattersi in pagani dappertutto, anche in territorio ebraico. In occasione<br />
di tali incontri egli ha più volte guarito anche pagani. Ma nella tradizione sinottica queste guarigioni<br />
di pagani sono espressamente narrate come eccezioni: tanto nella storia del centurione di Cafarnao<br />
(Lc 7,1-10) quanto in quella della sirofenicia (Mc 7,24-30) viene esplicitamente rilevato il riferi-<br />
mento a Israele: «Neanche in Israele ho trovato una fede così grande» (Lc 7,9); «Non è bene prende-<br />
re il pane dei figli [cioè di Israele] e gettarlo ai cagnolini» (Mc 7,27).<br />
In questo contesto non si può ignorare che, vicino ai luoghi dell’attività di Gesù, esistevano nume-<br />
rose città di tipo ellenistico con popolazione prevalentemente pagana o perlomeno forti gruppi di<br />
popolazione pagana: ad es. Sefforis, Scitopoli, Hyppos, Gadara, Gerasa, Cesarea di Filippi, Tiberia-<br />
de. Non sembra che Gesù abbia operato in alcuna di tali città. Forse durante la sua attività pubblica<br />
le ha addirittura evitate intenzionalmente. Viceversa sale a Gerusalemme, cioè là ove Israele è con-<br />
centrato e rappresentato. Chi voleva parlare a tutto Israele, doveva farlo in Gerusalemme.<br />
Tutto ciò non è un caso, ma mostra che Gesù ha consapevolmente operato solo in Israele (cf. Mt<br />
10,5-6). Una comparsa tra i pagani sarebbe stata certo possibile e forse sarebbe stata coronata da<br />
grande successo. Tuttavia Gesù si concentra su Israele, perché di fronte all’imminente basiléia deve<br />
radunare il popolo di Dio. È quanto dimostra in maniera chiarissima la seguente azione simbolica.<br />
c) La missione dei Dodici<br />
Da una cerchia più ampia di discepoli Gesù ne ha scelto dodici e li ha mandati a due a due: «Ne co-<br />
stituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di<br />
scacciare i demoni» (Mc 3,14; cfr. 6,7 e Mt 10,6). L’aoristo epoíesen indica un evento irripetibile,<br />
verificatosi in un luogo determinato e in un tempo determinato. Con un gesto dimostrativo, che ri-<br />
mane impresso nella memoria, Gesù costituisce un gruppo di dodici discepoli. Il numero dodici può<br />
riferirsi solo al numero delle tribù d’Israele. Ma le dodici tribù costituiscono un punto centrale della<br />
speranza escatologica d’Israele. Infatti anche se allora il sistema delle dodici tribù non esisteva più<br />
da lungo tempo — a parere dei contemporanei ormai sopravvivono solo due tribù e mezzo: Giuda,<br />
Beniamino e la metà di Levi —, si spera per il tempo salvifico escatologico la piena restituzione del<br />
popolo delle dodici tribù. Già la parte finale del libro di Ezechiele descrive in modo programmatico<br />
come le dodici tribù, richiamate in vita alla fine dei tempi, ricevono la parte definitiva della terra lo-<br />
ro destinata (37; 39,23-29; 40-48). Sullo sfondo di questa speranza la costituzione di dodici discepo-<br />
li da parte di Gesù può essere interpretata solo come un “gesto escatologico di compimento” posto<br />
consapevolmente. I Dodici illustrano la rinascita e il raduno d’Israele, avviati da Gesù, nel popolo<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
escatologico delle dodici tribù 27 . Simboleggiano tale raduno già per il fatto che sono costituiti come<br />
Dodici, ma poi anche perché poco dopo (o subito?) sono mandati a tutto Israele (Mc 6,7-13).<br />
Ma la costituzione e l’invio dei Dodici non simboleggiano solo la volontà di Gesù di radunare<br />
l’Israele escatologico. Tale azione simbolica va vista anche nel contesto del suo messaggio della ba-<br />
siléia. I Dodici devono infatti predicare il regno di Dio (Mc 3,14; Lc 9,12) e renderlo presente con la<br />
cacciata dei demoni (Mc 3,15; 6,7). Anzi, dobbiamo spingerci ancora più avanti: non solo la loro at-<br />
tività, bensì già essi stessi e il fatto della loro missione sono segni della basiléia che ora si sta mani-<br />
festando. Con la loro esistenza e la loro attività essi simboleggiano la pretesa di Dio su tutto Israele,<br />
e precisamente di un Israele che si sottomette completamente alla sua sovranità.<br />
Equivarrebbe naturalmente a sottovalutare in maniera grave la dimensione profonda di una simile<br />
azione simbolica, se la considerassimo solo come illustrazione o dimostrazione. Essa è certamente<br />
l’una e l’altra cosa. Ma oltre a ciò è un’azione che dà inizio al futuro, che si realizza anticipatamente<br />
già nel segno posto in maniera profetica e in tale sua realizzazione germinale prospetta già il futuro.<br />
Con la costituzione dei Dodici e con la loro predicazione del regno di Dio comincia già l’esistenza<br />
dell’Israele escatologico, in cui la sovranità di Dio abbraccerà tutto.<br />
Per il resto, nella creazione dei Dodici si manifesta quella correlazione tra regno di Dio e popolo di<br />
Dio, senza la quale non si comprende Gesù. La basiléia ha bisogno di un popolo in cui potersi im-<br />
porre e da cui poter irradiare. Altrimenti non sarebbe localizzabile.<br />
Se a proposito di Gesù possiamo parlare di una “istituzione” o “fondazione”, lo possiamo fare anzi-<br />
tutto in relazione alla “istituzione” e “creazione” dei Dodici. Tale azione simbolica, nel mentre e-<br />
sprime la pretesa di Gesù, possiede addirittura una dimensione giuridica. Soltanto che essa non si<br />
riferisce a una Chiesa di nuova fondazione, bensì all’Israele da radunare.<br />
d) Le parole di condanna su Israele<br />
I vangeli di Matteo e di Luca contengono un numero relativamente grande di parole di condanna<br />
pronunciate da Gesù su Israele. Tra di esse vanno annoverate la sentenza di Mt 8,11s., inoltre le sen-<br />
tenze contro Corazin e Betsaida (Lc 10,13s.), contro Cafarnao (Lc 10,15), contro Gerusalemme (Lc<br />
13,34s.) e soprattutto contro «questa generazione» (cfr. spec. Lc 11,29-32.49-51). Quasi tutte queste<br />
parole di condanna sono pervenute attraverso la fonte dei lóghia e dovrebbero aver avuto un preciso<br />
Sitz im Leben nella missione postpasquale verso Israele (più precisamente: nel suo fallimento). Ciò<br />
27 Si noti che il numero dodici non indica solo che tutto Israele è chiamato, bensì anche che ora si tratta di creare<br />
l’Israele escatologico, il quale tornerà ad essere un popolo di dodici tribù.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
non esclude naturalmente affatto che esse risalgano a Gesù stesso. Gli elementi loro comuni sono i<br />
seguenti. Se astraiamo da Lc 10,13-15ab, esse si riferiscono a tutto Israele. Particolarmente chiaro<br />
ciò risulta nelle parole su «questa generazione». «Questa generazione» indica la generazione<br />
d’Israele attualmente vivente, che è messa di fronte al messaggio e alla prassi escatologica di Gesù.<br />
Che si tratti del destino di tutto Israele risulta chiaro anche dal fatto che in Mt 8,11s.; Lc 10,13s. e Lc<br />
11,29-32 i pagani sono antiteticamente contrapposti al popolo di Dio.<br />
Queste parole di condanna fanno pensare a un ripudio definitivo d’Israele. Gesù non le ha sicura-<br />
mente pronunciate all’inizio della sua attività pubblica. Esse presuppongono una attività piuttosto<br />
lunga da parte sua, anzi sono state pronunciate verosimilmente nella situazione in cui si andava de-<br />
lineando la sua morte violenta. Esse mostrano che per Gesù Israele è entrato nella crisi decisiva del-<br />
la sua storia. Naturalmente la decisione del popolo non è ancora definitiva. C’è ancor sempre<br />
un’ultima speranza che gli uditori di Gesù comprendano i segni del tempo e si rendano conto della<br />
loro situazione 28 . Proprio per questo Gesù adotta anche la forma iperbolica del linguaggio di con-<br />
danna. La gravità della minaccia mira a provocare una conversione all’ultimo momento.<br />
Molto sorprendente è il modo e la frequenza con cui Gesù attacca singole città d’Israele o addirittura<br />
tutto il popolo come un collettivo. Non avrebbe dovuto distinguere più accuratamente tra la parte<br />
del popolo che opponeva un rifiuto, da un lato, e i suoi discepoli e simpatizzanti, dall’altro?<br />
L’universalità delle minacce non dovrebbe dipendere solo dal genere letterario, ma avere motivi più<br />
profondi. Questi dovrebbero consistere soprattutto nel fatto che Gesù ha a cuore appunto tutto Israe-<br />
le. Egli non vuole conquistare solo una parte del popolo, tanto meno fondare una comunità-resto;<br />
per lui tutto dipende dal fatto che tutto il popolo di Dio, inclusi i suoi capi, accolga la basiléia. Si<br />
tratta di una situazione simile a quella successiva di Paolo. Neppure costui si contenta che rimanga<br />
eletto un «resto» d’Israele. Tutto Israele deve essere salvato (Rm 11,26).<br />
e) I discepoli di Gesù<br />
Le parole di condanna contro Israele segnano chiaramente una cesura nell’azione di Gesù. Come<br />
sono andate le cose dopo? Gesù, una volta constatata l’indifferenza del popolo, ha modificato la fi-<br />
nalità della sua attività e da quel momento si è concentrato sul gruppo dei discepoli, per farne il nu-<br />
cleo di una futura Chiesa? Può certamente essere che alla fine Gesù si sia dedicato maggiormente<br />
28 Lc 12,54-57: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia<br />
lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai<br />
questo tempo non sapete giudicarlo?».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
all’istruzione dei discepoli. In tal modo però egli non mutò affatto l’essenza e il compito del loro<br />
gruppo. Durante il tempo di Gesù questo ebbe dall’inizio alla fine lo stesso compito. Quale? Ma<br />
prima ancora, chi sono questi discepoli?<br />
(1) Chi sono i discepoli.<br />
Tra gli abitanti di Israele che ascoltano Gesù e gli credono dobbiamo distinguere, in linea di princi-<br />
pio, due gruppi. Abbiamo anzitutto coloro che accolgono il messaggio di Gesù ma rimangono nel<br />
loro villaggio o nella loro città per attendervi il Regno di Dio, il gruppo dei “simpatizzanti sedenta-<br />
ri” 29 . Dove Gesù passa, lascia dei seguaci, che con le loro famiglie attendono il Regno e che accol-<br />
gono lui e i suoi messaggeri; si trovano in tutto il paese, soprattutto in Galilea, ma anche in Giudea,<br />
per es. a Betania e nella Decapoli («Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo<br />
pregava di permettergli di stare con lui. Non glielo permise, ma gli disse: “Va’ nella tua casa, dai<br />
tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato”. Egli se ne andò e<br />
si mise a proclamare per la Decàpoli ciò che Gesù gli aveva fatto»: Mc 5,18-20). Soprattutto però<br />
nei vangeli si trovano, accanto all’ethos radicale e senza compromessi dei discepoli che seguivano<br />
Gesù nei suoi spostamenti, anche segni di un comportamento morale che rispecchia chiaramente le<br />
condizioni di vita della famiglia, della professione, del vicinato e dei villaggi (cfr. Mc 10,2ss. 13ss;<br />
Mt 6,16; 23,1ss; 18,20). Di questi discepoli alcuni li conosciamo anche per nome, come ad esempio<br />
Giuseppe di Arimatea, un membro autorevole del sinedrio, di cui leggiamo che «aspettava il Regno<br />
di Dio» (Mc 15,43). Non lo faceva certamente a prescindere dal messaggio di Gesù. Deve aver ap-<br />
prezzato e rispettato Gesù, come mostra l’episodio del sepolcro (Mc 15,42-47). In questo contesto<br />
dobbiamo ricordare anche Zaccheo a Gerico, trasformato in un uomo nuovo dall’incontro con Gesù.<br />
Egli promette di dare in futuro la metà dei suoi beni ai poveri, e di restituire quattro volte tanto ciò<br />
che ha frodato; e Gesù parla della salvezza che è entrata «in questa casa», cioè in Zaccheo e nella<br />
sua famiglia (Lc 19,8s.). Ma l’esempio più bello di seguace «sedentario» di Gesù è Lazzaro, che abi-<br />
ta a Betania (Gv 11,1). Egli viene chiamato discepolo e amico di Gesù (Gv 11,11).<br />
Dai seguaci di questo tipo vanno invece distinti i «discepoli» in senso proprio. Il termine greco cor-<br />
rispondente (mathetés) dovrebbe essere tradotto propriamente con “allievo”; in questo modo appari-<br />
rebbe subito evidente che — almeno per quanto riguarda la terminologia — sullo sfondo c’è il rap-<br />
porto rabbinico maestro-allievo. Lo stesso vale del termine «seguire». Ogni volta che nel vangelo<br />
29 G. THEISSEN, Gesù e il suo movimento. Analisi sociologica della comunità cristiana primitiva (Torino: Claudiana,<br />
1979) 31-38.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
leggiamo che i discepoli «seguono» Gesù, la parola va intesa alla lettera: quando egli si spostava,<br />
essi camminavano alcuni passi dietro di lui, esattamente come gli allievi della Torah si muovevano<br />
dietro il loro rabbi, sempre a rispettosa distanza.<br />
Questo gruppo è composto da coloro che insieme con Gesù percorrono le strade polverose della Pa-<br />
lestina e che la contemporanea ricerca sociologica chiama «i carismatici itineranti» 30 . Essi sono<br />
quelli che hanno seguito la chiamata di Gesù e che per lui hanno lasciato case, campo, famiglia, la-<br />
voro e proprietà per andare insieme con Gesù sulle strade della Palestina e della Siria in un’evidente<br />
povertà, senza denaro, calzature, bastone e provviste e con un solo vestito (cfr. Mc 1,16ss; 3,21;<br />
10,28ss; Lc 5,1ss; 14,26; Mt 10,10). Quando in Mt 6,34 si dice: «Non affannatevi dunque per il do-<br />
mani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena», trova pro-<br />
babilmente espressione un’esperienza quotidiana normale per una comunità di persone senza patria<br />
e protezione e completamente libere.<br />
Questa cerchia di discepoli che seguono Gesù è un gruppo ben circoscritto. Quando un sabato i di-<br />
scepoli strappano delle spighe, viene chiesto a Gesù: «Vedi, perché essi fanno di sabato quel che<br />
non è permesso?» (Mc 2,24). Agli occhi dei sorveglianti Gesù è dunque responsabile dei propri di-<br />
scepoli come ogni dottore della legge è responsabile dei propri allievi.<br />
Tuttavia i discepoli di Gesù si distinguono sotto molti punti di vista da quelli dei rabbini. Non lo se-<br />
guono perché vogliono imparare la Torah, ma perché hanno udito il messaggio di Gesù sulla vici-<br />
nanza del Regno di Dio. Non sono loro a scegliersi il maestro come fanno di solito gli allievi dei<br />
rabbini; è Gesù che li chiama (Lc 9,59) 31 ; anzi, essi sono destinati a rimanere discepoli perché uno<br />
solo è il Maestro (Mt 23,10). Egli li chiama a una sequela che esige da loro la rinuncia al lavoro fi-<br />
nora condotto e l’abbandono della famiglia (cfr. Mc 1,16-20). La durezza di questa richiesta appare<br />
in piena luce in un detto di Gesù, che originariamente doveva suonare così (Mt 10,37 = Lc 14,26):<br />
«Chi non odia padre e madre non può essere mio discepolo. Chi non odia figlio e figlia non può es-<br />
sere mio discepolo». Gesù esige quindi dai suoi discepoli il distacco deciso dalla famiglia: questo<br />
vuol dire «odiare». Alla famiglia e ai legami finora coltivati subentra la comunione di vita con Gesù<br />
e con «chi compie la volontà di Dio» (Mc 3,35), ossia la nuova famiglia dei discepoli, ai quali «è<br />
stato confidato il mistero del regno di Dio» (Mc 4,10s). Questa comunione di vita significa qualcosa<br />
di più che un essere attorno al maestro per imparare la Torah in base ai suoi insegnamenti e al suo<br />
stile di vita. La comunione di vita con Gesù è comunione di destino. Essa arriva al punto che il di-<br />
30 THEISSEN, Gesù e il suo movimento, 20-30.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
scepolo deve essere pronto a subire la stessa sorte di Gesù, se è il caso perfino la persecuzione o<br />
l’esecuzione capitale: «Chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me» (Mt 10,38).<br />
Malgrado queste esigenze radicali, non dobbiamo immaginarci la cerchia dei discepoli di Gesù co-<br />
me un gruppo molto ridotto. In ogni caso, è più ampia del gruppo dei Dodici 32 . L’equivalenza tra di-<br />
scepoli e Dodici è una schematizzazione di Matteo. Conosciamo il nome di tre persone che apparte-<br />
nevano ai discepoli di Gesù, ma non ai Dodici: Cleofa (Lc 24,18), Giuseppe Barsabba e Mattia (At<br />
1,23). Sono pure conosciute nominalmente cinque donne che seguivano Gesù e lo assistevano con i<br />
loro beni: Maria di Magdala, Giovanna moglie di Cusa, Susanna, Maria madre di Giacomo e Salo-<br />
me (Lc 8,1-3; Mc 15,40s.). È dunque opportuno non ridurre troppo la cerchia dei discepoli di Gesù.<br />
(2) Qual è la funzione dei discepoli.<br />
Ma molto più importante è l’interrogativo seguente: perché Gesù, oltre ai Dodici, ha chiamato dei<br />
discepoli? La risposta migliore ci viene data da Lc 10,2 (par. Mt 9,37s.): «La messe è molta, ma gli<br />
operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe». Il<br />
«padrone della messe» è ovviamente Dio. La messe è un’immagine biblica antichissima per indicare<br />
il giudizio, ma anche per indicare il tempo salvifico escatologico. La raccolta della messe deve indi-<br />
care il raduno di Israele nel popolo di Dio degli ultimi tempi. Gli uomini che aiutano in questo mo-<br />
vimento di raduno, dice Gesù, non sono mai troppi. Poiché il tempo incalza come nei giorni della<br />
mietitura. Gesù ha perciò chiamato e inviato i discepoli al lavoro nella messe escatologica (Mc<br />
1,17). Essi sono collaboratori di Gesù nel raduno d’Israele di fronte all’imminente basiléia.<br />
Quando però Israele nel suo insieme rifiuta il messaggio di Gesù, alla cerchia dei discepoli viene as-<br />
segnata un’altra funzione. Essa riceve ora il compito di rappresentare simbolicamente nella loro esi-<br />
stenza, come singoli e come comunità, quanto deve avvenire in tutto Israele: la piena dedizione al<br />
vangelo del regno di Dio, la conversione radicale a uno stile nuovo di vita, la comunicazione non<br />
violenta e non dominante, il raduno in una comunità fraterna. Qui si dovrebbe propriamente esporre<br />
tutto l’insegnamento impartito da Gesù ai discepoli, cosa che ora non possiamo fare.<br />
Ci limiteremo a mettere in luce quattro elementi che qualificano la comunità dei discepoli.<br />
31 Lc 9,59: «A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”».<br />
32 In Luca il simbolismo è completato dal gruppo dei «settanta» o «settantadue», che rappresenta il cerchio più ampio dei<br />
discepoli (Lc 10,1-20). Poiché secondo l’antica tradizione con questo numero si indicava il numero dei popoli (non ebrei)<br />
del mondo (Gn 10; Es 1,5; Dt 32,8), questi settanta discepoli indicano l’esigenza che l’Israele escatologico abbracci<br />
tutti i popoli della terra. Il movimento di raccolta escatologica di Gesù avviene dunque in particolari, determinate comunità,<br />
ma in modo tale che esse rappresentino e significhino la totalità di Israele e dell’umanità.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
(I) È una comunità chiamata alla sequela. Che cosa sia il Regno di Dio non si dà in maniera preco-<br />
stituita facendo astrazione dalla risposta pratica di coloro che lo accolgono o rifiutano, ma solo nella<br />
mediazione della fede, che concorre a dare figura al messaggio stesso. Gesù infatti non annuncia il<br />
regno di Dio in generale, ma si indirizza a destinatari differenziati: i Dodici, i discepoli, la folla, i<br />
sommi sacerdoti, gli scribi, gli anziani. In questa differenza si situa anche la dinamica del diverso<br />
modo con cui il vangelo è offerto e accolto. Se tutte le risposte conferiscono a dare un volto al Re-<br />
gno e al suo annunciatore («è un profeta, è Elia, è Giovanni Battista, è un indemoniato, è un be-<br />
stemmiatore…»), solo chi è chiamato da Gesù e acconsente a vivere con lui può essere istruito sul-<br />
l’identità del Regno di cui parla e sul grado di implicazione di questo Regno con colui che lo porta<br />
(Mc 4,10). Ecco perché Gesù chiama a sé dei discepoli perché stiano con lui e per mandarli a predi-<br />
care (Mc 3,14). Notiamo che in questo atto sono già presenti le modalità del “prendere-con” di Gesù<br />
e dello “stare-con” lui, allo scopo di essere “mandati-per”. “Comunione” e “missione” sono già di-<br />
namiche presenti mentre Gesù è ancora all’opera nel suo ministero. La comunità credente non pro-<br />
lunga l’azione di Gesù una volta venuto meno lui, ma è all’opera mentre Gesù è presente e attivo.<br />
La prima caratteristica dice che la comunità dei discepoli è tutta concentrata su Gesù: «Salì poi sul<br />
monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con<br />
lui» (Mc 3,13-14). Lo stare con Gesù è dunque il momento fondante e permanente della comunità,<br />
non è un aspetto transitorio. Questo «stare con Gesù» presenta alcuni aspetti assai interessanti. Gesù<br />
chiama a sé quelli che vuole, come a dire che la chiamata è un dono libero del Signore. Ciò non<br />
mette in luce tanto l’arbitrarietà della chiamata, ma il fatto che il discepolo non può creare la rela-<br />
zione con Gesù, bensì riceverla in dono da lui, non può meritarla, ma essa è il frutto della libertà di<br />
chi chiama. Inoltre il discepolo vive continuamente alla presenza di Gesù, sta con lui, ascolta il ma-<br />
estro, lo segue ovunque vada, lo interroga e da lui viene istruito sulla qualità del vangelo (Mc 4,34).<br />
Lo stare con Gesù non può essere superato, non è un momento introduttivo, ma è una costante della<br />
comunità dei discepoli. Infine, il discepolo vive la sua relazione con Gesù con domande, dubbi, in-<br />
comprensioni, persino cadute e tradimenti. Egli ha intrapreso una strada di cui solo Gesù conosce la<br />
meta e possiede la capacità di giungere fino in fondo (Gesù annuncia che la croce è il destino del di-<br />
scepolo: Mc 8,34; d’altra parte, quando si profila questa eventualità, egli è il primo a dispensarne i<br />
discepoli: Gv 18,8). Questa è la regola essenziale della comunità: percepire il proprio stare con Gesù<br />
come il frutto di una chiamata sovranamente libera, che quindi deve essere sempre assunta respon-<br />
sabilmente e mai può essere lasciata alle spalle.<br />
(II) È una comunità inviata per l’annuncio. Il gruppo dei discepoli è costituito in vista della missio-<br />
ne. Questo avviene già all’inizio del ministero di Gesù, non quando egli vede ormai profilarsi<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
all’orizzonte la sua fine tragica. La missione dei discepoli cresce e si sviluppa con quella di Gesù,<br />
perché la missione della comunità non può superare Gesù, ma deve ricondurre a quell’ultima Parola<br />
che è la storia di Gesù che ci rivela la verità di Dio. Inoltre il compito affidato ai discepoli è descrit-<br />
to contenutisticamente negli stessi termini con i quali è presentata l’attività di Gesù: «E andò per<br />
tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,39). Queste due<br />
dimensioni della missione di Gesù, fatta di parole («predicando») e di azioni di salvezza («scac-<br />
ciando i demòni») sono le medesime che definiscono lo scopo per cui sono costituiti i Dodici. La<br />
comunità dei discepoli quindi rende presente la missione di Gesù. Infine, si deve notare una stretta<br />
relazione tra lo “stare-con-Gesù” e l’“essere-mandati-per”. Il primo momento della comunione dei<br />
discepoli con Gesù e tra di loro non viene superato e trasceso nel momento della missione. Ne è il<br />
momento costitutivo: l’attuazione del compito apostolico è resa possibile dallo “stare-con-Gesù”,<br />
dall’esperienza permanente dell’essere radicati in lui: solo lo stare con Gesù, il vedere e il toccare<br />
con mano «il Verbo della vita» (1Gv 1,1-3) consente di annunciare in maniera univoca ciò che una<br />
semplice istruzione verbale potrebbe fraintendere. Non è ammissibile un annuncio o un’azione di<br />
liberazione dal demonio senza una crescente esperienza della comunione con Gesù. Per questo lo<br />
stare con Gesù è il momento interno della missione apostolica.<br />
(III) È una comunità “trasparente”. Essa, infatti, deve rappresentare simbolicamente nella sua esi-<br />
stenza quanto deve avvenire in tutto Israele. La sequela, che caratterizza il gruppo dei discepoli e ne<br />
plasma l’esistenza, non lo chiude nei confronti del resto d’Israele. Infatti la radicalità di una nuova<br />
esistenza è richiesta a tutti in Israele, anche agli aderenti di Gesù che rimangono legati al luogo in<br />
cui risiedono. Diverse sono solo le forme concrete di tale radicalità, che debbono corrispondere alla<br />
rispettiva situazione delle singole vite. Gesù non ha chiamato tutti gli uomini d’Israele a divenire di-<br />
scepoli, però ha chiamato tutti a entrare pienamente nel regno di Dio. Il gruppo dei discepoli non si<br />
distingue quindi in linea di principio per una più grande radicalità del restante Israele, bensì solo per<br />
il fatto che vive la forma di esistenza sua specifica della sequela, o anche per il fatto che è entrato<br />
già ora in quella dedizione al regno di Dio, che tutto Israele deve vivere 33 . Inoltre, Gesù non presen-<br />
33 In tal senso, ad esempio, Helmut Merklein è piuttosto critico nei confronti dell’idea di un doppio ethos, quello dei carismatici<br />
itineranti e quello dei simpatizzanti residenti (che ripeterebbe sotto altri termini la distinzione fra un’etica delle<br />
vocazioni speciali — o etica dei consigli — e l’etica dei fedeli comuni — o etica dei precetti). Perciò suggerisce che:<br />
«l’ethos dei discepoli non è… un caso particolare, bensì soltanto un concreto caso speciale dell’ethos generale. Se ne ha<br />
conferma nella tradizione sinottica, nella quale le esigenze della sequela non appaiono come ethos particolare, ma sono<br />
tramandate come paradigmi della fede per la comunità. Ciò significa che in determinate situazioni quanto è richiesto al<br />
discepolo nella sua situazione concreta di messaggero della signoria di Dio può farsi critico anche per i fedeli residenti,<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
ta mai l’appartenenza alla cerchia dei suoi discepoli come condizione per entrare nel Regno di Dio.<br />
Perciò è chiaro che il gruppo dei discepoli non è il «santo resto» d’Israele e tanto meno è una nuova<br />
comunità all’interno o al di fuori del popolo di Dio, comunità che Gesù, una volta riscontrata una<br />
crescente opposizione, avrebbe fondato come surrogato o alternativa a Israele. Infatti, è sintomatico<br />
che Gesù, per interpretare il proprio modo di agire nei confronti del popolo di Dio, non abbia ripre-<br />
so l’idea di «resto» coniata da Isaia 34 . Egli continua a rivolgere il suo appello a tutto Israele. Perciò<br />
non è lecito intendere la comunità dei discepoli di Gesù sul modello di Qumran. Essa può essere ca-<br />
pita solo nel suo rapporto e nella sua funzione di segno nei confronti dell’insieme di Israele. Essa<br />
deve rappresentare come segno ciò che Israele dovrà diventare. In questo senso è — certo mai in<br />
maniera indipendente da Gesù, bensì sempre e solo in unione a lui — segno dell’imminente Regno.<br />
Questo perché la verità di Dio che salva può mostrarsi solo nella vita di un popolo che ne vive<br />
l’identità radicale fondandovi la propria esistenza. Per questo la legge del Vangelo ha un significato<br />
immediatamente teologico, non solo perché essa è motivata a partire dall’agire di Dio (Mt 5,44-45:<br />
«Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste,<br />
che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli in-<br />
giusti»), ma anche perché nel comportamento del discepolo è l’agire stesso di Dio che diviene visi-<br />
bile nel mondo (Mt 5,16: «risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini, perché vedano le vostre o-<br />
pere buone e rendano gloria al Padre che è nei cieli»; fino alla proclamazione estrema: «siate per-<br />
fetti come è perfetto il Padre vostro celeste»). Poiché la manifestazione della verità di Dio è insepa-<br />
rabile dalla sua appropriazione, la rivelazione di Dio in Gesù non riguarda solo la sua iniziativa, ma<br />
coinvolge gli interlocutori la cui reazione concorre a determinarne l’evidenza.<br />
(IV) La differenza di Gesù: nessuno è più del maestro. Se è vero che nell’agire del discepolo può<br />
essere riconosciuta l’identità di Dio, rimane vero che l’eccesso fra Dio e l’uomo è colmato solo da<br />
Gesù. Egli è il maestro che non può essere sostituito: solo lui vive dell’eccesso di Dio che è<br />
all’origine delle beatitudini, del comandamento dell’amore ai nemici…<br />
Esemplifichiamo il nostro assunto riferendoci emblematicamente a un episodio che testimonia alcu-<br />
ne tensioni all’interno del gruppo, e che torna ben due volte nel vangelo di Marco (9,33-37; 10,35-<br />
soprattutto quando l’adesione a tutti richiesta all’evento della signoria di Dio porta al conflitto con le norme sociali correnti»:<br />
ID, La signoria di Dio nell’annuncio di Gesù (Brescia: Paideia, 1994) 158.<br />
34 Proprio questa idea era di grande attualità ai tempi di Gesù. Gli esseni di Qumran interpretavano l’esistenza della loro<br />
comunità in mezzo a Israele sulla falsariga dell’idea del «resto»: erano convinti di essere il santo resto di Israele eletto<br />
da Dio; tutti gli altri giudei, che non appartenevano alla loro comunità e non si santificavano insieme con loro, erano<br />
considerati massa dannata. Gli esseni consideravano se stessi «figli della luce», tutti gli altri «figli delle tenebre».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
40): la discussione lungo la via su chi fosse il più grande (9,34); la pretesa di Giacomo e Giovanni<br />
di sedere nel Regno alla destra e alla sinistra di Gesù (10,35-37). Si tratta di tensioni all’interno del-<br />
la comunità, dove emergono invidie, gelosie, problemi di prestigio e di posto, di rango e di onore. Si<br />
noti che i due episodi sono situati dopo il secondo e il terzo annuncio del destino di Gesù e quindi<br />
appaiono in stridente contrasto con la missione di Gesù che va precisandosi con le caratteristiche del<br />
servo. L’incomprensione dei discepoli appare grande. Ma Gesù non si scoraggia, riprende il suo in-<br />
segnamento con un gesto profetico e con la parola che illumina.<br />
Nel primo episodio l’evangelista riprende: «Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno<br />
vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. E, preso un bambino, lo pose in mezzo e<br />
abbracciandolo disse loro: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi ac-<br />
coglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”» (9,35-37). Gesù compie l’azione profe-<br />
tica di porre nel mezzo un bambino, uno dei tanti piccoli, che egli stesso aveva accolto e indica la<br />
legge del servizio degli ultimi e di tutti. Si tratta di un servizio-accoglienza da compiere «nel suo<br />
nome», perché accogliendo così si accoglie Gesù come colui che è inviato da Dio. Nel secondo epi-<br />
sodio Gesù, dopo aver messo in guardia i due discepoli dal senso della loro richiesta risponde: «Al-<br />
lora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le<br />
dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere<br />
grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio<br />
dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per<br />
molti”» (10,41-45). Anche qui abbiamo una parola di Gesù, prima con un confronto in negativo, poi<br />
con un’indicazione in positivo e infine con la presentazione di una figura esemplare che qualifica il<br />
modo della missione di Gesù. Notiamo gli elementi essenziali presenti nelle due risposte di Gesù.<br />
La prima reazione di Gesù registra il fatto che il Signore riprende la chiamata originaria: «sedutosi,<br />
chiamò i Dodici» (9,35), «allora, chiamatili a sé» (10,41). Di fronte alle difficoltà, all’insorgere delle<br />
tensioni e discussioni Gesù li rinvia alla vocazione originaria. Le tensioni si risolvono ritornando al<br />
senso della vocazione di Gesù, approfondendo la chiamata, assumendo nuovi criteri di convivenza.<br />
La chiamata è progressiva, lo stare con Gesù prevede una crescita. Alla progressiva rivelazione del<br />
mistero di Gesù corrisponde la graduale comprensione della propria chiamata.<br />
Poi Gesù presenta la misura della grandezza dei discepoli, indicandola nel servizio alla comunità ri-<br />
volta verso tutti gli altri (cfr. 9,35; 10,43-44). Anzitutto Gesù non disprezza la domanda dei discepo-<br />
li, non demonizza il loro desiderio di essere primi e grandi, non reprime il senso della loro discus-<br />
sione. Gesù però introduce un orientamento diverso, educa il desiderio, orienta la volontà dei disce-<br />
poli: il principio regolatore e il criterio della grandezza sono il servizio della comunità.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
Del servizio viene indicato il movimento: questo servizio non sarà rivolto solo alla comunità, ma<br />
cominciando da essa dovrà poi irradiarsi verso tutti gli uomini (si noti il parallelismo in crescendo<br />
di 10,43-44 «chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi<br />
sarà il servo di tutti»). Il servizio che anima la comunità è segno e strumento di un servizio tenden-<br />
zialmente rivolto a tutti, che non può e non deve ripiegarsi sulla comunità. La comunità è così il se-<br />
gno di un dinamismo della carità che partendo dalla comunione non si rinchiude nel gruppo, ma si<br />
apre al mondo. Inoltre viene indicata la figura esemplare del servizio: prima in modo negativo, ri-<br />
cordando la maniera con cui i capi delle nazioni spadroneggiano sulle comunità che pure dovrebbe-<br />
ro servire ed escludendo qualsiasi contaminazione nella vita dei discepoli («Fra voi però non è co-<br />
sì»: si noti l’indicativo!); poi in modo positivo, mediante il gesto profetico di porre in mezzo il<br />
bambino. La cura gelosa dei piccoli e degli ultimi è il servizio esemplare e il criterio decisivo della<br />
comunità. Nei confronti di questi si deve assumere lo stesso atteggiamento di Dio che si prende cura<br />
dell’orfano e della vedova. Essi sono come la pupilla del suo occhio, sono al suo sguardo il bene più<br />
prezioso. Infatti, da questi non deriva alcuna gratificazione o applauso, ma un’assunzione di respon-<br />
sabilità. La cura dei piccoli non è quindi una forma di infantilismo o una tattica strumentale della<br />
comunità, ma un segno che rimanda a quella capacità di mettere in mezzo colui che è venuto per<br />
servire. Si può partire dai piccoli e dagli ultimi con il segreto desiderio di arrivare tra i primi!<br />
Per questo il piccolo è figura esemplare, ma non è criterio assoluto: esso deve essere accolto «nel<br />
suo nome», cioè nella sua forza salvifica, nel suo stile. Ma in tal modo si accoglie Gesù come rivela-<br />
tore del volto del Padre che ci dona-invia il Figlio suo. Solo Gesù dunque è il criterio assoluto del<br />
servizio alla e nella comunità rivolta a tutti. Quindi bisogna custodire gelosamente la “differenza”<br />
del servizio di Gesù. Perciò nel secondo testo (10,45) la figura esemplare è quella del servizio di<br />
Gesù che è venuto per servire e — in parallelo si spiega — dare la sua vita in riscatto per molti.<br />
I poveri li avremo sempre con noi, di piccoli saremo sempre circondati, gli ultimi saranno sempre ai<br />
margini di questa società, ma se non verremo evangelizzati dal gesto di Gesù, essi potranno gridare<br />
alla nostra porta ma noi non avremo orecchi per intendere. Perciò bisogna tenere in gran conto la fi-<br />
gura esemplare del servizio di Gesù, che «da ricco che era si è fatto povero per noi, per arricchire<br />
noi con la sua povertà» (2Cor 8,9). Per questo non bisogna temere — con la donna del vangelo —<br />
di sprecare l’olio preziosissimo per riconoscere il gesto di Gesù: «“Perché tutto questo spreco di olio<br />
profumato? Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri!” Ed e-<br />
rano infuriati contro di lei» (cfr. Mc 14,4-5). Senza questo spreco, senza questo gesto disinteressato<br />
che custodisce la differenza della carità di Gesù, che contempla la misura incalcolabile della sua de-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
dizione, i poveri potrebbero diventare il pretesto per la nostra carità. Per questo «dovunque, in tutto<br />
il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto».<br />
La storia di Gesù è la storia del costituirsi delle relazioni che la parola del Regno instaura e entro le<br />
quali Gesù si delinea come l’unico portatore dell’univocità del suo senso. Per i discepoli l’accesso al<br />
senso compiuto del Vangelo coincide con la conoscenza del legame che esso ha con la persona di<br />
Gesù. Registrando lo scarto tra Gesù e i discepoli, la narrazione evangelica illustra insieme la di-<br />
scontinuità e l’unità tra la fede pasquale e la storia di Gesù. L’unità è assicurata da Gesù, il quale an-<br />
ticipa ciò che i discepoli comprenderanno solo dopo. Dopo la lavanda dei piedi, Gesù chiede loro:<br />
«Sapete ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12). I discepoli non lo sanno e tantomeno comprendono, come<br />
risulta dalla resistenza di Pietro al gesto di Gesù. Egli però anticipa loro, iscrive nel loro cuore, ciò<br />
che solo dopo, mediante il travaglio della memoria, potranno capire: «Quello che io faccio, tu ora<br />
non lo capisci, ma lo capirai dopo» (Gv 13,7). Perciò i discepoli non prolungano la storia di Gesù,<br />
ma «dopo» accederanno alla comprensione della verità di Dio che Gesù, e solo lui, ha realizzato. Il<br />
superamento dello scarto che sigilla l’inaccessibilità teorico-pratica della verità del crocifisso sup-<br />
pone la nuova iniziativa di Dio: la manifestazione del Risorto. Questa introduce i discepoli nella ve-<br />
rità di Gesù realizzata sulla croce e anticipata da Lui nel gesto dell’ultima cena. Nel manifestarsi del<br />
Risorto Dio rivela se stesso rivelando che il crocifisso è la sua rivelazione, poiché mostra che la sua<br />
morte determina l’essere di Dio e ne condivide la permanente attualità. Nella manifestazione di Ge-<br />
sù da parte di Dio la morte di Gesù diviene reale anche per i discepoli nell’atto di Dio che ne comu-<br />
nica il senso. La morte di Gesù è attualmente presente poiché l’atto di Dio la mantiene come la for-<br />
ma della sua comunicazione all’uomo. L’evangelista Giovanni, dopo aver visto sgorgare dal fianco<br />
squarciato di Gesù sangue e acqua (Gv 19,34), può così commentare: «Chi ha visto ne dà testimo-<br />
nianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (19,35).<br />
Dalla morte di Cristo, nuovo Adamo, nasce come nuova Eva la Chiesa, la comunità dei credenti.<br />
La comunità credente deve allora continuamente lasciarsi evangelizzare dalla Pasqua di Gesù, deve<br />
custodire l’amore che vi si rivela, deve coltivare fedelmente il suo senso, mettendo al centro Gesù e<br />
la sua inaudita dedizione. Per questo il discepolo non può essere più del maestro, per questo la co-<br />
munità della sequela rimane per sempre concentrata sulla memoria di Gesù, per questo l’eucaristia<br />
— il gesto che custodisce gelosamente e insuperabilmente l’amore di Gesù — è il gesto centrale<br />
della comunità, la sua fonte, la sua misura e la sua meta. La chiesa-comunità non può andare al di là<br />
dell’eucaristia di Gesù: a essa deve ritornare, da essa deve partire, diversamente misconoscerebbe<br />
l’insuperabile differenza di «colui che mi/ci ha amato e ha dato se stesso per me/noi» (Gal 2,20).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
f) L’ultima cena<br />
In che rapporto sta l’ultima cena di Gesù con la sua prassi del regno di Dio? In questa cena Gesù è<br />
rimasto fedele alla sua dedizione a Israele oppure, di fronte alla propria morte, con l’istituzione del-<br />
l’eucaristia ha fondato qualcosa di nuovo, cioè la Chiesa (intesa come nuovo popolo di Dio)? 35<br />
La prima cosa che colpisce è che egli, malgrado la morte che vede incombere su di sé, persevera<br />
nella sua attesa del regno di Dio. Ce lo mostra la cosiddetta “prospettiva escatologica” di Mc 14,25<br />
par, Lc 22,16.18. Nella redazione marciana più breve essa suona: «In verità vi dico che non berrò<br />
più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio». Gesù rimane quindi<br />
convinto che quel banchetto della basiléia realizzata in misura piena, di cui aveva parlato in Mt<br />
8,11s. e Lc 14,16-24, avrà luogo. La prospettiva escatologica in Mc 14,25 non è soltanto una profe-<br />
zia della morte, bensì anche una conferma di tutto quello che egli aveva predicato sull’avvento della<br />
basiléia. Rimane solo da domandarsi: con quale popolo sarà celebrato il banchetto del regno di Dio?<br />
Per rispondere a tale domanda, d’importanza decisiva è la notizia tramandata in Mc 14,17, secondo<br />
cui Gesù ha celebrato l’ultima cena metà tòn dódeka. I Dodici erano infatti stati costituiti come sim-<br />
bolo reale dell’Israele escatologico da radunare. Quando ora, nella cornice dell’ultima cena, vengo-<br />
no loro offerti il pane e il vino, la rappresentazione d’Israele per loro mezzo raggiunge il suo ultimo<br />
spessore. Non ad essi privatamente, bensì ad essi quale simbolo reale di tutto Israele, Gesù, in pro-<br />
cinto di andare a morire, offre se stesso come dono salvifico porgendo loro il pane e il vino.<br />
Ma non è solo la scelta dei Dodici a commensali a mostrarci con quanta decisione Gesù orienti<br />
l’ultima cena a tutto Israele. Un indizio altrettanto importante in tal senso è l’applicazione della sua<br />
morte «per i molti», espressa nelle parole pronunciate sul vino (Mc 14,24) 36 . Con l’«hypèr pollòn »<br />
Gesù interpreta la sua morte imminente alla luce di Is 53,11s. come morte espiatrice vicaria 37 .<br />
35 È questa l’idea di Joseph Ratzinger: «Il Padre nostro era il primo indizio di una speciale comunità di preghiera con e a<br />
partire da Gesù. Inoltre nella notte, prima della passione, Gesù compie un altro passo in tale direzione quando trasforma<br />
la Pasqua di Israele in un culto talmente nuovo, che logicamente doveva portare fuori dalla comunità del tempio e con<br />
ciò fondare definitivamente un popolo della “nuova alleanza”», in ID., La Chiesa. Una comunità sempre in cammino<br />
(Cinisello Balsamo – Milano: Edizioni Paoline, 1991) 18.<br />
36 Mc 14,24: «Questo è il mio sangue dell’alleanza versato per molti»; Mt 26,28: «questo è il mio sangue dell’alleanza,<br />
versato per molti, in remissione dei peccati». Paolo e Luca riportano invece l’espressione «per voi» e la connettono il<br />
primo al pane (1Cor 11,24s.: «Questo è il mio corpo, che è per voi… Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue»)<br />
l’altro sia al pane sia al vino (Lc 22,19-20: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me…<br />
Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi»). È interessante notare come nella tradizione<br />
neotestamentaria appaiano due motivi esplicativi che illustrano le parole sul pane e sul calice: il motivo del patto e il<br />
motivo dell’espiazione. La redazione paolina collega il motivo dell’espiazione alla parola sul pane e il motivo dell’alleanza<br />
a quella sul calice; la versione marciana invece vincola i due motivi alla parola sul calice. A proposito del senso<br />
dell’alleanza come emerge nel detto esplicativo sul calice, riportiamo le riflessioni di Hegermann, il quale, dopo aver<br />
osservato come la forma testuale probabilmente più antica, quella marciana, «questo è il mio sangue dell’alleanza», ri-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
Ma chi sono i «molti», cui egli dedica la sua morte come dono salvifico espiatorio? Il più delle volte<br />
la risposta suona: tutti gli uomini. Questa concezione può rifarsi ai polloí di Is 52,14s. 38 e Mt 8,11 e<br />
inoltre alla forma giovannea delle parole pronunciate sul pane in Gv 6,5lc 39 . Essa ha buone ragioni a<br />
suo favore e in fondo è giusta. Solo che salta un gradino intermedio 40 . Tutta l’esistenza di Gesù fu<br />
anzitutto esistenza per Israele e solo attraverso questa esistenza per Israele esistenza per i popoli<br />
(cfr. Gv 11,50-52) 41 . Solo se tutto Israele trova la salvezza, pure i popoli possono trovarla. In questa<br />
luce è escluso che Gesù, nell’ora dell’ultima cena, abbia dimenticato il suo popolo, cui era diretta la<br />
sua missione, e abbia potuto parlare di salvezza per i popoli ignorando Israele. Se ciò fosse vero, la<br />
salvezza come dovrebbe pervenire ai popoli? E che ne sarebbe di Israele? Quanto abbiamo finora<br />
visto di Gesù domanda che i «molti» indichino anzitutto Israele e mediatamente attraverso Israele<br />
prenda alla lettera l’espressione del “detto esplicativo” di Es 24,8 (LXX) — «Ecco il sangue dell’alleanza che Yhwh ha<br />
stabilito per voi in base a tutte queste parole» —, così continua: «Questa ripresa di Es 24,8 era preparata in quanto il<br />
passo già prima del tempo di Gesù era inteso come rappresentazione di un atto di espiazione… Il riferimento a Es 24,8<br />
nel detto esplicativo sul calice può essere inteso soltanto tipologicamente: l’evento di espiazione nella morte di Gesù è<br />
interpretato come analogia che supera quell’evento veterotestamentario di espiazione. Non s’intende quindi un rinnovamento<br />
del patto del Sinai, bensì una garanzia di salvezza nuova, superiore, concessa da Dio nel “sangue”, cioè nella<br />
morte, di Gesù. La versione del detto del calice trasmessa da Paolo in 1Cor 11,25 (cfr. Lc 22,20) può essere giustamente<br />
considerata come esplicazione della versione marciana. Con le parole: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue” è<br />
senza dubbio ripreso Ger 31 (38),31-34, dove Yhwh proclama: “stringerò con la casa di Israele un patto nuovo”, un patto<br />
del tutto diverso al confronto di quello del Sinai (v. 32): il patto di obbligazione viene sostituito con un patto di promessa.<br />
Yhwh promette il perdono dei peccati e scriverà la sua disposizione nel cuore, in altri termini: darà un cuore<br />
nuovo, sicché il suo popolo faccia la volontà di Dio… Questa promessa viene proclamata come adempiuta nell’evento<br />
di Gesù»: H. HEGERMANN, diathêkê, in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento I (Brescia: Paideia, 1995) 793-794.<br />
37<br />
Is 53,11-12: «Il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le<br />
moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi,<br />
mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori». Merklein, rilevando come questo passo non avesse<br />
importanza per il pensiero teologico giudaico del tempo (non fu mai letto come dichiarazione sulla sofferenza e morte<br />
espiatoria di una figura messianica) e come nell’insieme delle prove scritturistiche di cui si serviva la comunità cristiana<br />
primitiva avesse una parte sorprendentemente limitata (gli strati più antichi della tradizione primitiva non lo citano come<br />
prova biblica in questo senso: cfr. At 8,32s.), suggerisce che forse fu proprio un segno della creatività singolare di Gesù,<br />
il quale interpretò la sua morte alla luce di Is 53 secondo il motivo della espiazione: MERKLEIN, La signoria di Dio, 171-<br />
172. Della stessa opinione è ROLOFF, Die Kirche im Neuen Testament, 55-56. Mentre di parere contrario è G. BARTH, Il<br />
significato della morte di Gesù. L’interpretazione del Nuovo Testamento (Torino: Claudiana, 1995) 84-88.<br />
38<br />
Is 52,14-15: «Come molti si stupirono di lui — tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua<br />
forma da quella dei figli dell’uomo — così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,<br />
poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito».<br />
39<br />
Gv 6,51: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è<br />
la mia carne per la vita del mondo».<br />
40<br />
R. PESCH, Voraussetzungen und Anfänge der urchristlichen Mission, in K. KERTELGE (ed.), Mission im Neuen Testament<br />
(Freiburg: Herder, 1982) 11-70, 41 osserva che alla morte espiatrice di Gesù non venne dato un valore esplicitamente<br />
universale fin dall’inizio già per il semplice fatto che, dopo la Pasqua, la comunità primitiva non ha praticato subito<br />
la missione tra i pagani.<br />
41<br />
Gv 11,50-52: «“Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo (laós) e<br />
non perisca la nazione (èthnos) intera”. Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò<br />
che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano<br />
dispersi». Cfr. Rm 15,8-9: «Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore della veracità di Dio,<br />
per compiere le promesse dei padri; le nazioni pagane invece glorificano Dio per la sua misericordia».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
tutti i popoli. Gesù avrebbe allora interpretato il dono della sua vita come un atto di espiazione e<br />
precisamente di espiazione per quell’Israele, che aveva rifiutato il suo messaggio e che ora si accin-<br />
geva a ucciderlo. Le posizioni esegetiche che affermano che lo schema dell’espiazione sarebbe stato<br />
introdotto come categoria esplicativa solo dalla comunità postpasquale e che non sarebbe conciliabi-<br />
le col messaggio della basiléia di Gesù, perché la salvezza della basiléia sarebbe già misericordia<br />
incondizionata che esclude ogni espiazione, non hanno capito quel che espiazione significa nella<br />
Bibbia 42 , né hanno compreso la storicità della basiléia che giunge su Israele. In Gesù la vicinanza<br />
della basiléia non è una vicinanza atemporale del semper et ubique (cfr. Gv 7,6: «Gesù allora disse:<br />
“Il mio tempo (kairós) non è ancora venuto, il vostro invece è sempre pronto”»); al contrario, la ba-<br />
siléia è irripetibile, va afferrata ora, non è ripetibile a piacimento, è appunto offerta escatologica di<br />
Dio. Se in Gerusalemme i rappresentanti d’Israele ripudiano Gesù, Israele rifiuta definitivamente la<br />
basiléia. Ma se esso rifiuta la basiléia, ha fallito il senso della sua esistenza, ha perso la salvezza per<br />
sé e per i popoli e dimostrato assurda l’elezione di Dio. La questione è quindi teologica: e cioè<br />
«opponendo a Gesù un rifiuto che era sì parziale, ma non meno rappresentativo, date le conseguenze<br />
che ne venivano per la maggioranza del popolo, non si portava grave pregiudizio all’elezione escatologica<br />
di Dio, nella sua qualità di evento divino, che Gesù aveva predicato per l’intero Israele,<br />
o addirittura, la si portava all’assurdo in quanto evento inefficace?» 43 .<br />
Solo così si spiega la paurosa serietà delle minacce pronunciate da Gesù verso la fine della sua atti-<br />
vità pubblica. Nel momento in cui Israele rifiuta definitivamente la basiléia respingendo Gesù, si<br />
crea una situazione in cui nulla è più come era all’inizio in Galilea e in cui Mc 1,15 («la basiléia è<br />
vicina») non può appunto essere più ripetuto. Il kairós è passato e passato inutilmente.<br />
42 G. Barth precisa che l’idea dell’espiazione sottende il nesso azione-esistenza, nel senso che ogni azione crea una “sfera<br />
di azione che produce un destino”, per cui il destino che tocca a chi compie un’azione non è una punizione sancita in<br />
una certa misura arbitrariamente in base a qualche norma eteronoma, ma è il “compimento”, ovvero il “ritorno” di ciò<br />
che egli stesso ha compiuto. Inoltre, questa concezione si inserisce nel quadro dell’idea di un ordine della creazione: per<br />
la salvaguardia di tale ordine, allora, risulta necessario che l’autore del male, che con la sua azione si è posto fuori dei<br />
limiti del cosmo, muoia. In tal senso, compiendo il giudizio sul malfattore e permettendo il realizzarsi della catena misfatto-disgrazia,<br />
Dio dimostra la sua fedeltà verso la propria creazione. L’AT non conosce la possibilità che un misfatto<br />
o un peccato sia considerato semplicemente come non avvenuto e che quindi esso semplicemente non venga imputato. Il<br />
misfatto, infatti, è un disturbo dell’ordine della creazione, che in una certa misura, mediante quest’azione negativa, è uscito<br />
dal suo equilibrio, e può ritornare perfettamente a filo solo quando il seguito di conseguenze, la disgrazia, si è pienamente<br />
attuato, oppure quando l’espiazione è stata compiuta. La possibilità dell’espiazione è l’unica via per liberare il<br />
peccatore dal suo intreccio di disgrazie. La grazia di Dio si dimostra proprio nel garantire al peccatore la possibilità<br />
dell’espiazione. In tal senso per Barth i testimoni neotestamentari (mentre non si pronuncia sull’intenzione di Gesù)<br />
hanno interpretato la morte di Gesù come espiazione vicaria, ossia nel senso che grazie alla sua morte, egli ha compiuto<br />
vicariamente per tutti gli esseri umani quell’unica espiazione che può liberare il mondo dal suo intreccio di colpa e disgrazia:<br />
cfr. G. BARTH, Il significato della morte di Gesù, 94-104.<br />
43 MERKLEIN, La signoria di Dio, 175.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
In questa situazione è di aiuto solo un atto salvifico di Dio, che di fronte al rifiuto opposto da Israele<br />
concede di nuovo la vita né meritata, né dovuta. Ma precisamente a un evento del genere si riferisce<br />
la Bibbia quando parla di «espiazione» 44 . L’idea di espiazione non contraddice il messaggio della<br />
basiléia di Gesù; al contrario la basiléia, in quanto salvezza che sopraggiunge storicamente ed è le-<br />
gata all’accoglienza da parte del popolo, esige in caso di rifiuto appunto l’atto di un’espiazione.<br />
«Nell’ultima cena… rifacendosi a Is 53 Gesù avrebbe interpretato la propria morte […] come espiazione<br />
per Israele, la cui maggioranza si disponeva chiaramente a respingerlo. Ciò garantiva che<br />
nemmeno il rifiuto fa recedere Dio dal proposito di offrire la salvezza escatologica, né mette in<br />
questione l’efficacia dell’elezione divina. Anzi, proprio nella morte del suo rappresentante l’azione<br />
escatologica di Dio appare come evento efficace, poiché Dio fa sì che la morte del suo inviato diventi<br />
un atto di espiazione… La morte espiatrice di Gesù, quindi, non fonda una nuova salvezza,<br />
né questa sta, anche soltanto lontanamente, in tensione con l’evento salvifico che fin dall’inizio del<br />
suo ministero Gesù ha proclamato e rappresentato. La salvezza della morte espiatrice di Gesù è<br />
una componente integrale di questo evento della signoria di Dio» 45 .<br />
Perciò, solo nella morte di Gesù si manifesta in maniera definitiva la vera essenza della basiléia, in<br />
quanto questa concede la vita anche nella situazione dell’annientamento del suo rappresentante e<br />
precisamente così si dimostra salvezza irrevocabilmente donata. Possiamo quindi dire: Gesù perse-<br />
vera nella sua dedizione a Israele anche di fronte alla morte sicura, anzi la dimostra in questo mo-<br />
mento in maniera più profonda e radicale di quanto abbia mai fatto prima. Ciò dimostra che le paro-<br />
le di condanna contro «questa generazione» sono stati tentativi estremi di guadagnare ancora il po-<br />
polo. Una volta falliti anche tali tentativi, rimane solo la via del servo di Dio, che si carica la colpa<br />
dei molti. Gesù, una volta che Israele oppone il suo rifiuto, non fonda una Chiesa come ripiego, ma<br />
porta a compimento la raccolta del popolo di Dio: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore,<br />
rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).<br />
g) Il risultato<br />
I testi che abbiamo esaminato ci offrono un quadro coerente:<br />
44 Un esempio suggestivo di cosa intendere per espiazione è offerto da G. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa?, op.<br />
cit., 232: «Dag Hammarskjöld — il secondo segretario generale dell’ONU, perito il 17 settembre 1961 in un incidente<br />
aereo in prossimità del Katanga mentre era impegnato a porre fine alla guerra civile nel Congo — ci ha lasciato un passo<br />
del suo diario, che può aiutarci a capire meglio quanto abbiamo appena cercato di spiegare: “Pasqua 1960. Il perdono<br />
spezza la catena delle cause, in quanto colui che — per amore — “perdona”, assume su di sé la responsabilità delle<br />
conseguenze di ciò che tu hai commesso. E questo comporta sempre sacrificio. Il prezzo per il tuo riscatto mediante il<br />
sacrificio di un altro, sta nel fatto che tu stesso sia disposto, allo stesso modo, a riscattare senza badare al rischio”.<br />
Questo testo illuminato… chiarisce la dimensione del concetto di “espiazione vicaria”: l’amore perdona. Ma le conseguenze<br />
del peccato nemmeno l’amore può cancellarle, poiché sono profondamente incise nella storia. La “catena delle<br />
cause”, messa in atto dal peccato, continua ad estendersi. Quando l’amore è vero, non si limita a perdonare, ma assume<br />
su di sé anche le conseguenze delle azioni degli altri. E questo ha il suo prezzo, non avviene senza sacrificio».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
1. Nella sua azione Gesù si è coscientemente concentrato sulla popolazione ebraica della Palestina.<br />
Le guarigioni di pagani sono rare e sono presentate come eccezioni. Una attività didattica specifica<br />
davanti a pagani non ci è tramandata da alcuna parte.<br />
2. In Gesù questa concentrazione è chiaramente motivata in maniera storico-salvifica: a Gesù sta a<br />
cuore il raduno escatologico d’Israele. Soprattutto la costituzione dei Dodici mostra in maniera pro-<br />
grammatica la rivendicazione che egli avanza sul popolo delle dodici tribù. Non si tratta del resto<br />
d’Israele e tanto meno di una comunità particolare all’interno o all’esterno di questo.<br />
3. La particolarità di questa concentrazione su Israele non esclude in alcun modo l’universalità, per-<br />
ché Gesù pensa secondo lo schema profetico secondo cui proprio la salvezza d’Israele renderà pos-<br />
sibile anche la salvezza dei popoli (cfr. però Mt 8,11s, par. Lc 13,28s 46 ). Gesù viene a Israele preci-<br />
samente perché la sua missione mira a tutto il mondo. Si tratta d’un universalismo rappresentativo.<br />
4. In Gesù constatiamo continuamente una salda correlazione fra la proclamazione del regno di Dio<br />
e il raduno d’Israele. La sua predicazione escatologica non esclude il raduno del popolo di Dio, al<br />
contrario lo esige più che mai. Come la basiléia ha il suo tempo, così ha anche il suo luogo. Essa ha<br />
bisogno di un popolo in cui potersi affermare.<br />
5. Come mostrano Lc 10,2 e 11,2, per Gesù il raduno d’Israele è l’opera escatologica di Dio, per la<br />
quale bisogna pregare. Ma contemporaneamente è anche lui che compie tale opera.<br />
6. Nell’opera del raduno d’Israele esiste una dialettica fra vecchio e nuovo: da un lato a Gesù sta a<br />
cuore il ripristino d’Israele. Nello stesso tempo il raduno del popolo di Dio è l’evento di una nuova<br />
creazione escatologica, per indicare la quale il concetto di raduno non è sufficiente (cfr. la parabola<br />
del seminatore). Perciò dobbiamo parlare anche della creazione del vero Israele quale comunità sal-<br />
vifica escatologica. Il discorso del nuovo popolo di Dio, riscontrabile spesso a partire da Barn 5,7 47 ,<br />
andrebbe tuttavia evitato, perché si presta ad essere frainteso nel senso di una sostituzione di Israele.<br />
7. Come il Battista, anche Gesù può parlare di una divisione che attraversa Israele (cfr. Lc 12,49-<br />
53). Tuttavia egli non utilizza la categoria della divisione per separare in maniera esteriormente vi-<br />
sibile il vero Israele dall’Israele incredulo. Il gruppo dei discepoli non ha la funzione di segnare una<br />
45 MERKLEIN, La signoria di Dio, 175.<br />
46 In questo logion Gesù istituisce un confronto tra ebrei e pagani e insegna che questi ultimi sederanno al posto dei primi<br />
nel banchetto escatologico del regno di Dio. Se negli antichi oracoli profetici il pellegrinaggio dei popoli al Monte<br />
Sion è la conseguenza della fedeltà di Israele al suo Dio (Is 2,2s; Zc 2,11, …), qui Gesù afferma che i popoli verranno<br />
anche se Israele, o la maggioranza di Israele, respingerà il suo messaggio.<br />
47 «Egli per abolire la morte e per provare la risurrezione dei morti doveva incarnarsi e soffrì. Per compiere la promessa<br />
fatta i padri, prepararsi un popolo nuovo e dimostrare, stando sulla terra, che egli stesso operando la risurrezione giudicherà»:<br />
Lettera di Barnaba, V, 6-7, in I Padri apostolici (Roma: Città Nuova, 1984 4 ) 192.<br />
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simile divisione. I discepoli piuttosto prefigurano tutto il popolo escatologico di Dio. Essi sono rife-<br />
riti a tutto Israele, e devono mantenere questa relazionalità.<br />
8. Gesù continua a indirizzarsi a tutto Israele anche di fronte alla morte, anzi conferma e approfon-<br />
disce ancor più tale suo orientamento: durante l’ultima cena interpreta la sua morte imminente come<br />
atto di espiazione posto da Dio per tutto Israele, atto che dischiude di nuovo al popolo la possibilità<br />
dell’accoglienza della basiléia.<br />
9. Il quadro risultante dalla nostra indagine non è solo in sé coerente, ma concorda anche con la vi-<br />
suale degli autori neotestamentari. L’unica differenza sta nel fatto che la teologia cristiana primitiva<br />
dovette riflettere pure sulla prosecuzione postpasquale del confronto fra vangelo e Israele e consta-<br />
tare un rifiuto rinnovato. In questo contesto, entro il NT si delinearono due posizioni diverse circa il<br />
ruolo definitivo dell’Israele recalcitrante: il giudizio negativo di Matteo (Mt 21,43; 28,15), da Luca<br />
(At 28,25-28) e dall’autore dell’Apocalisse (Ap 2,9; 3,9); il giudizio positivo di Paolo (Rm 11).<br />
h) Conclusioni<br />
Per tirare delle conclusioni corrette si devono tener presenti due presupposti:<br />
1) Innanzi tutto occorre ricordarsi che l’immagine ottenuta nella nostra “ricostruzione” storica non<br />
può essere utilizzata come normativa nei confronti delle diverse “cristologie” ed “ecclesiologie” ne-<br />
otestamentarie: utilizzare i tratti “storici”, così ricostruiti come criterio per l’originarietà dei diversi<br />
“credo” neotestamentari è procedimento scorretto, perché presuppone che l’immagine del Gesù<br />
“storico” coincida con la realtà del Gesù terreno. Ma la ricostruzione storica, necessaria e pur insuf-<br />
ficiente, ci dà al massimo un’immagine che contiene una “domanda direzionale”: «il compito del<br />
credente è quello di svelare, nella sua indagine storica, la vita di Gesù quale domanda direzionale,<br />
messa storicamente presente in modo tale da invitare al rifiuto o allo scandalo, oppure alla decisione<br />
di affidarsi con fede a questo Gesù» 48 . In questo senso l’immagine di Gesù frutto della ricerca stori-<br />
ca e l’immagine desunta dalla fede dei discepoli conferiscono in linea di principio alla identificazio-<br />
ne di quella “realtà” resasi presente nel Gesù terreno o della storia. Il sapere storico, che permette di<br />
ricostruire una serie di indizi e una immagine che li collega assieme, ci mette a disposizione un in-<br />
dicatore che spinge la nostra attenzione a percepire i contorni di Colui che è il criterio normativo<br />
per la proclamazione ecclesiastica e, inversamente, la stessa confessione di fede si mostra tale pro-<br />
prio in quanto si lascia determinare dalla priorità del Gesù reale: in quanto confessione essa è relati-<br />
48 E. SCHILLEBEECKX, Gesù la storia di un vivente (Brescia: Queriniana, 1976 2 ) 68.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
va alla realtà che riconosce. Per questo ricostruzione storica dell’itinerario della comprensione dei<br />
discepoli e confessione cristiana primitiva concorrono simultaneamente a mostrare la continuità, pur<br />
nella progressione e di là della cesura della morte, tra il Gesù pre- e post-pasquale.<br />
2) Inoltre, bisogna considerare la tensione tra origine e fondamento: ossia, se l’origine della cristo-<br />
logia si trova nell’opera e nella persona del Gesù prepasquale, il fondamento della cristologia poggia<br />
sulla fede pasquale della Chiesa. Infatti, se è fuori discussione che a fondare la fede cristiana ci sia<br />
la Pasqua, altrettanto indiscutibile è ormai il fatto che alla origine della cristologia ci stia la persona<br />
di Gesù di Nazareth, con la sua predicazione, la sua azione e la sua coscienza singolare. Tuttavia<br />
l’attuale enfasi sul momento prepasquale corre il rischio di intendere la ricostruzione storica come<br />
normativa della professione di fede e come tendenzialmente esaustiva della sua figura essenziale.<br />
La risurrezione non è solo la conferma esteriore di un’identità di Gesù, la quale sarebbe già nota<br />
prima di Pasqua: essa infatti è l’evento che per la prima volta e in modo definitivo consente<br />
l’accesso a questa identità. E ciò vale anche per la “sua” chiesa.<br />
Ciò considerato, possiamo affermare che il tema fondamentale sottostante alla nostra ricostruzione è<br />
che Gesù voleva radunare Israele nel popolo escatologico di Dio. Tale sua volontà non concorda so-<br />
lo col messaggio della basiléia, ma è addirittura il suo necessario correlato. Infatti Dio stabilisce la<br />
sua basiléia nella misura in cui essa dà forma a un popolo concreto. L’avvento del regno di Dio e la<br />
nuova creazione escatologica d’Israele sono indissolubili. Come Gesù non ha mai rinunciato a pro-<br />
clamare la basiléia, così non ha mai rinunciato a radunare Israele.<br />
1) Il cristiano dei nostri giorni può restare sorpreso nel vedere che Gesù non si è rivolto direttamente<br />
a lui, figlio dei gentili, ma con gran decisione ha interpellato Israele. E questo Israele, che Gesù pen-<br />
sava di radunare in prospettiva escatologica, nel frattempo ha vissuto una lunga storia al di fuori di<br />
questo movimento di raccolta.<br />
2) Inoltre un altro problema viene dall’attesa ravvicinata, che Gesù probabilmente condivideva. Es-<br />
so può forse essere attenuato sul piano teologico, pensando che a Gesù stesso interessasse non tanto<br />
annunciare la vicinanza cronologica, quanto piuttosto proclamare che con lui aveva inizio l’evento<br />
della signoria di Dio? Ma è poi effettivamente credibile l’annuncio di un evento che addirittura do-<br />
po quasi duemila anni non è ancora giunto al traguardo? Se Gesù condivideva un’attesa a breve<br />
termine, che è stata smentita dai fatti, perché non avrebbe potuto essere vittima di un errore sogget-<br />
tivo anche quando parlava di un’azione salvifica escatologica di Dio già in atto? E la morte di Gesù,<br />
la sua morte in croce, non è la prima dimostrazione che egli non può essere stato il rappresentante<br />
terreno dell’azione escatologica di Dio? Molti suoi contemporanei sono stati di questo parere.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
3) Eppure i discepoli di Gesù si sono attenuti al suo annuncio e dopo la sua morte non hanno tardato<br />
a raccogliersi in comunità; decisione, questa, per la quale si richiamavano alla pasqua e alla loro e-<br />
sperienza del Risorto. In realtà l’annuncio di Gesù resiste e cade con la professione di fede nel Ri-<br />
sorto. È questo che consente di restare fedeli alla validità dell’annuncio di Gesù e di diffonderlo an-<br />
che oltre la sua morte, in quanto si deve vedere l’agire escatologico di Dio, che fa risorgere e ricrea,<br />
nei riguardi di Gesù come conferma e prosecuzione dell’agire escatologico creatore ed elettivo di<br />
Dio in Gesù. La professione di fede pasquale è anche il motivo per cui l’evento della signoria di Dio<br />
proclamato da Gesù non può essere messo in dubbio, con una qualche legittimità teologica, né dalla<br />
delusione provocata dall’attesa ravvicinata né dal lungo periodo trascorso. Un simile dubbio non po-<br />
trebbe trovare giustificazione in quello che, secondo un criterio umano, apparirebbe come evento<br />
palesemente mancato. Proprio la risurrezione del Crocifisso fa respingere come teologicamente ina-<br />
deguata qualsiasi obiezione derivante dall’esperienza umana poiché essa esige e rende possibile<br />
credere che Dio dà la vita ai morti e chiama all’esistenza ciò che non è (Rm 4,17).<br />
In questa fede, del resto, nella risurrezione stessa di Gesù si mostra che l’evento della signoria di<br />
Dio da lui annunciato, è giunto al traguardo. In esso è già attuata la nuova creazione, obbiettivo a<br />
cui tende la signoria di Dio. Ciò che l’avvenire riserva a questo mondo in esso è già realtà. È quindi<br />
logico che il cristianesimo primitivo abbia sviluppato una cristologia e in Gesù abbia visto il Figlio<br />
dell’uomo che deve venire o il Messia in cui trova compimento la speranza d’Israele.<br />
Si comprende anche come ben presto si sia tentato di far emergere nella cristologia l’annuncio della<br />
signoria di Dio. Celebre è rimasta la frase di Marcione secondo cui nel vangelo il regno di Dio altro<br />
non è che Cristo stesso (Tertulliano, Adversus Marcionem 4,33,8). Origene parla di Cristo come<br />
dell’autobasileia (In Matthaeum commentarius 14,7 a Mt 18,23). Questa idea non è sbagliata se do-<br />
po pasqua la fede nella signoria di Dio può essere conservata solo nella fede in Cristo; ma identifi-<br />
care Cristo con la signoria di Dio e la cristologia con l’escatologia non è così semplice. Se anche il<br />
Nuovo Testamento si mostra al riguardo discreto (cfr. 1Cor 15,23-28), è per validi motivi. La cristo-<br />
logia, infatti, dispiega tutto il suo significato soltanto quando viene riferita a un’escatologia teologi-<br />
camente orientata, che vede tutti gli uomini e tutto il mondo raccolti intorno a Cristo, nel quale la<br />
signoria di Dio ha già raggiunto il proprio obbiettivo, affinché — per dirla con Paolo quando in<br />
1Cor 15,28 parafrasa concretamente l’idea della signoria di Dio — Dio sia tutto in tutti.<br />
4) Quando Gesù annuncia la signoria di Dio si rivolge anzitutto a Israele. Anche se i gentili non so-<br />
no esclusi dalla salvezza escatologica, la validità di questo annuncio continua a esser legata a Israe-<br />
le, suo primo destinatario. E quanto alla chiesa cristiana, essa può riferire a se stessa la promessa<br />
salvifica solo a condizione di essere in continuità con quell’Israele al quale Gesù l’ha annunciata.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
L’annuncio di Gesù, poi, aveva in vista tutto Israele, perché la promessa dell’elezione escatologica<br />
di Dio era data a tutto il popolo. Ma Gesù dovette sperimentare che il popolo, per il raduno del qua-<br />
le egli era stato inviato, respingeva in maggioranza il suo annuncio. E quando dopo pasqua<br />
l’annuncio di Gesù si trovò indissolubilmente legato alla professione di fede nel Crocifisso che da<br />
Dio era stato risuscitato e intronizzato come messia, queste esperienze continuarono per la comunità<br />
dei discepoli. Così dalla comunità comprendente tutto Israele si passò a quella costituita da una sola<br />
parte di esso. E se questa intese se stessa come il vero luogo di raccolta della comunità degli eletti,<br />
si trattò di un fatto teologicamente coerente e niente affatto singolare nella storia delle religioni.<br />
Qualcosa di simile era accaduto nel II secolo a.C., quando dal movimento degli asidei, che in prin-<br />
cipio aveva in vista tutto Israele, era sorta una serie di gruppi che consideravano Israele come co-<br />
munità degli eletti, ma in modi assai differenti o in parte pretendendo di essere ciascuno la vera co-<br />
munità degli eletti. L’assioma di Paolo secondo cui «non tutti quelli che provengono da Israele sono<br />
israeliti» (Rm 9,6b) non è affatto un adagio cristiano antigiudaico, ma solo l’adattamento cristiano di<br />
un teologumeno che in realtà aveva scosso il giudaismo già molto tempo prima di Paolo. Nel cri-<br />
stianesimo primitivo, d’altra parte, l’idea della vera comunità degli eletti non porta alla separazione<br />
esoterica come potrebbe essere quella di Qumran. La «comunità di Dio» (ekklesía tou Theou) esca-<br />
tologica, che a Gerusalemme si raccolse intorno ai Dodici, si adoperò anche — nello spirito del-<br />
l’annuncio di Gesù — al raduno dell’intero Israele.<br />
5) Una novità rispetto al primo giudaismo è costituita dall’avvio, nella comunità dei discepoli, della<br />
predicazione ai gentili, i cui pionieri — nella teologia e nei fatti — furono probabilmente gli «elle-<br />
nisti» raccolti intorno a Stefano (cfr. Atti 6). Furono questi i primi a riconoscere che la morte di Ge-<br />
sù, in quanto evento espiatorio escatologico, comportava la fine del culto nel tempio, di modo che<br />
anche le leggi rituali, difficili da accettare per i gentili (timorati di Dio), dovevano perdere valore.<br />
Di fatto sembra che gli «ellenisti» furono anche i primi a varcare i confini d’Israele (cfr. Atti 8,4-8;<br />
11,20s.). La loro teologia e prassi furono pure la base da cui Paolo partì per costruire, sul piano teo-<br />
logico, la dottrina della giustificazione del credente e, su quello pratico, la sua concezione della mis-<br />
sione ai gentili. Ciò nonostante non è da dimenticare che Paolo non rinunciò all’idea, fondamentale<br />
in Gesù, dell’elezione escatologica d’Israele. Il suo zelo nel promuovere la colletta per i «poveri» di<br />
Gerusalemme (Gal 2,10) non pare proprio nato da un compromesso con l’idea che a Gerusalemme<br />
andasse riconosciuto un diritto giuridico. È assai più probabile che in quella decisione — forse ri-<br />
chiamandosi alla tradizione del Trito-Isaia (cfr. Is 60,5-17; 61,6; 66,12) — Paolo abbia ravvisato<br />
l’inizio del pellegrinaggio escatologico dei popoli a Sion. In Rm 11 egli è persino guidato dalla vi-<br />
sione profetica della salvezza dei gentili, che — questa volta capovolgendo il motivo del pellegri-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
naggio dei popoli — muove Israele a gelosia (vv. 11.14), e dell’ingresso di tutti i gentili che avrebbe<br />
portato a salvezza l’intero Israele (vv. 25s.).<br />
Questa visione di Paolo non si è adempiuta. Ma per quanto attiene alla teologia l’idea non può esse-<br />
re trascurata da qualsiasi <strong>ecclesiologia</strong> che voglia salvaguardare la validità dell’annuncio di Gesù.<br />
Questo diverrebbe problematico, se l’elezione di Dio che esso proclama per Israele risultasse ineffi-<br />
cace proprio nei riguardi d’Israele. Per questo Paolo attribuisce tanta importanza al «resto» d’Israele<br />
che non si è chiuso al vangelo (Rm 11,5-7). Egli presenta la continuità con l’immagine della radice<br />
nella quale sono stati innestati anche i rami selvatici dell’ulivo pagano (Rm 11,16-18).<br />
6) La chiesa cristiana può pensarsi come popolo di Dio soltanto in continuità con quell’Israele che<br />
si è aperto all’elezione proclamata da Gesù. Da tale continuità essa sempre dipende. Ma dipende<br />
anche dall’altro Israele, da quella realtà etnica che storicamente sta in continuità con coloro che<br />
all’annuncio di Gesù e al vangelo hanno opposto un rifiuto. Perché l’elezione escatologica di Dio,<br />
alla quale anche la chiesa si richiama, può ridursi solo alla creazione di un resto d’Israele a cui spet-<br />
terebbe la funzione, storicamente limitata, di gettare un ponte per assicurare la continuità con la<br />
chiesa cristiana, costituita quasi tutta da gentili, mentre lo lascerebbe invece perdere in quanto popo-<br />
lo? La chiesa, dunque, non può perdere di vista neppure il popolo d’Israele, poiché la sua perfezione<br />
è legata alla speranza che i rami staccati vengano reinnestati sull’ulivo (Rm 11,24), la cui radice por-<br />
ta anche i rami della chiesa costituita dai gentili (Rm 11,18). La validità dell’annuncio di Gesù per-<br />
dura solo nella continuità con Israele, al quale egli ha predicato l’annuncio della signoria di Dio, e<br />
nella speranza della redenzione finale dell’Israele che ha respinto questo annuncio (cfr. Rm 11,25-<br />
27). La chiesa continua dunque a essere rimandata a Israele sia sul piano della storia della salvezza<br />
sia escatologicamente. Ma, posta questa condizione, la chiesa può e deve concepirsi anche come de-<br />
stinataria e al tempo stesso dispensatrice dell’annuncio di Gesù.<br />
7) Alla luce di questa premessa cristologica ed ecclesiologica, oggi ancora si può credere che<br />
l’evento della signoria di Dio proclamato da Gesù non ha abbandonato il mondo al proprio destino,<br />
ma — specie nella predicazione del vangelo — dispiega la sua efficacia divina (cfr. Rm 1,16s.) in<br />
un’opera creatrice che giustifica gli empi (cfr. Rm 4,5). Così la chiesa si presenta come il luogo in<br />
cui il popolo escatologico di Dio si raduna in attesa della liberazione del mondo (cfr. Rm 8,21). E<br />
nella misura in cui, proseguendo il compito affidato da Gesù ai discepoli (Lc 10,9 par.), con la paro-<br />
la e le opere annuncia questo evento di liberazione, la chiesa — analogamente a Gesù — può con-<br />
cepirsi come rappresentante e ministro della signoria di Dio. D’altra parte un’identificazione pura e<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
semplice della signoria di Dio con la chiesa deve essere esclusa. La chiesa infatti nella preghiera ne<br />
invoca la venuta come opera che solo Dio può instaurare (Mt 6,10).<br />
La chiesa rappresenta la signoria di Dio e deve concepirsi come tale se vuole essere all’altezza<br />
dell’incarico a lei affidato da Gesù, ma sempre e soltanto per incarico di Gesù e in analogia alla sua<br />
rappresentanza, salva restando la riserva escatologica. La chiesa e il singolo cristiano non possono<br />
mai avere la sicurezza di Gesù (cfr. Lc 11,20 par.; 9,49-50) nel qualificare un loro singolo atto come<br />
evento della signoria di Dio; piuttosto, possono avere la fiduciosa consapevolezza che l’evento di<br />
più ampia portata e preparato da Dio accade nel loro operare. In quale misura ciò che la chiesa e i<br />
cristiani fanno del tutto da sé sia realmente un evento in cui accade la signoria di Dio, sarà rivelato<br />
dal «giorno del Signore» (cfr. 1Cor. 3,13; 4,4). Se dunque da una parte non si può presumere che<br />
l’agire umano sia per se stesso l’evento della signoria di Dio, d’altra parte la riserva escatologica,<br />
che necessariamente accompagna questo agire, non deve indurre all’inattività, con il pretesto che in<br />
essa è all’opera Dio. Qui non è in questione se l’inattività umana possa mettere in forse l’avvento<br />
della signoria di Dio. Ma una chiesa che prega per la venuta della signoria di Dio ed è convinta che<br />
la signoria di Dio è un evento già presente, e si limitasse poi a predicare solo a parole, senza far nul-<br />
la e lasciando il mondo e l’uomo nella loro concreta miseria, si sarebbe già allontanata dalla propria<br />
fede. Se Gesù ha collegato l’incarico di predicare la signoria di Dio a quello di curare i malati (Lc<br />
10,9 par.), non lo ha fatto a caso; anche per la chiesa dei nostri giorni questo è essenziale, benché<br />
oggi essa non disponga più, comunemente, del potere di salvare per via carismatica e debba attende-<br />
re al suo compito di guarire in modi molto più semplici.<br />
Circa l’agire è ancora da ricordare un altro aspetto. In Gesù l’annuncio della signoria di Dio si situa-<br />
va nella sua prassi di misericordia, nella quale era possibile sperimentare l’elezione escatologica di<br />
Dio. La prassi di misericordia di Gesù è addirittura il luogo in cui il suo annuncio della signoria di<br />
Dio si fa concreto e grazie al quale i suoi precetti si mostrano nella loro portata e fattibilità.<br />
Quindi la chiesa, se non vuole sconfessarne l’annuncio, deve essere anch’essa luogo della miseri-<br />
cordia. E in realtà essa può esserlo, dal momento che di null’altro vive se non del perdono di Dio<br />
che l’ha eletta. Solo partendo dall’esperienza di questo spazio di misericordia è possibile attuare<br />
l’ethos escatologico di Gesù e proporlo al mondo come modello di condotta. Nonostante la speran-<br />
za, fondata sull’incarico ricevuto da Gesù, che l’evento della signoria di Dio accade nella sua predi-<br />
cazione e azione, la chiesa deve essere convinta di dover sempre pregare — anche per se stessa —<br />
con le parole: «Venga a noi la tua signoria regale!» e «Perdona a noi i nostri debiti...» (Lc 11,2.4).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
1.3. La riflessione sulla realtà della Chiesa nelle comunità ecclesiali post-pasquali<br />
Nello sviluppo successivo dell’<strong>ecclesiologia</strong> neotestamentaria si deve riconoscere anzitutto la plura-<br />
lità di realizzazioni ecclesiali e la diversità di accentuazioni nella comprensione della chiesa. Sono<br />
soprattutto due le questioni che approfondiremo, stabilendo un confronto tra le risposte che le diver-<br />
se tradizioni neotestamentarie danno in proposito:<br />
1. gli inizi post-pasquali della comprensione della Chiesa fra coscienza di continuità ed esperienza<br />
di novità (ossia come il discepolato di Gesù prepasquale diviene la Chiesa del Signore risorto);<br />
2. il passaggio dall’epoca apostolica a quella successiva (testimoniato dallo stesso NT), quando nel-<br />
la chiesa viene meno l’immediatezza della testimonianza apostolica e si comincia a porre il proble-<br />
ma della continuità come condizione che garantisce la fedeltà della chiesa alla propria identità. In<br />
questo contesto si precisano concetti importanti come quello di “tradizione” del messaggio apostoli-<br />
co e prendono forma le strutture ecclesiali (i ministeri) a servizio della tradizione (cfr. le lettere pa-<br />
storali, le lettere di Giovanni, l’opera lucana). Questo aspetto dell’<strong>ecclesiologia</strong> neotestamentaria è<br />
importante anzitutto perché è l’anello di congiunzione con l’evoluzione successiva della storia della<br />
chiesa, ma anche perché mostra la problematicità di certe attualizzazioni che pretendono di trasporre<br />
immediatamente dati neotestamentari (ad es. la comunità carismatica di Corinto) nel presente.<br />
1.3.1. Tra coscienza di continuità ed esperienza di novità.<br />
Inizi post-pasquali della comprensione della Chiesa<br />
a) Tentativo di individuare la direzione<br />
1. Il presupposto fondamentale che ci guida in questo breve percorso alla ricerca del sorgere e svi-<br />
lupparsi della Chiesa dopo Pasqua è costituito dal riconoscimento franco della reale connessione fra<br />
cristologia ed <strong>ecclesiologia</strong>. Come le apparizioni del risorto furono la condizione di possibilità del<br />
sorgere della fede in Gesù Signore, facendo sì che la Pasqua fosse il punto di partenza di una cristo-<br />
logia esplicita, così il fatto che degli uomini credano in Gesù di Nazaret come al Signore che Dio ha<br />
costituito e si trovino assieme nella confessione che dà espressione comune a chi Gesù è per loro, è<br />
la condizione di possibilità perché si dia una Chiesa. Per questo la fede in Cristo e la confessione di<br />
Cristo, che hanno la loro sorgente nella Pasqua, appartengono ai presupposti della Chiesa.<br />
2. Rileviamo inoltre che i primi testimoni non parlano in nessun luogo di una fondazione o di un i-<br />
nizio della Chiesa, mentre al contrario essi fissano in modo preciso il momento temporale del sorge-<br />
re della fede in Gesù: con le prime apparizioni di risurrezione a Simon Pietro e ai dodici (1Cor 15,5;<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
cfr. Lc 24,34), che verosimilmente ebbero luogo già due giorni dopo il venerdì santo, il primo gior-<br />
no della settimana successivo alla pasqua di morte (Gv 20,19). Non solo; notiamo che il sorgere del-<br />
la Chiesa non è mai collegato con queste apparizioni — cosa sorprendente, anche i testimoni neote-<br />
stamentari non ne parlano. Questo vale anche per il racconto lucano della Pentecoste (At 2), che a<br />
dire il vero spesso è considerato come racconto di fondazione, ma a un’osservazione più precisa sul<br />
merito è piuttosto ambivalente: per Atti questa non è l’ora in cui nasce la Chiesa — almeno nel sen-<br />
so che in questo momento per la prima volta verrebbe alla luce la comunità di Gesù Cristo; essa in-<br />
fatti esiste già: At 1,15 — bensì l’ora in cui viene dotata di quella «forza dall’alto» (Lc 24,49; At<br />
1,8), che sola la rende adeguata alla sua missione, alla sua azione salvifica nel mondo e le dona il<br />
mistero della sua esistenza escatologica. Questo silenzio sull’inizio della Chiesa difficilmente è solo<br />
casuale. Piuttosto può essere un indizio del fatto che lo sviluppo della comprensione della Chiesa<br />
era subordinato non solo obiettivamente, ma anche temporalmente allo sviluppo della cristologia.<br />
Per quanto concerne la cristologia, dobbiamo osservare che i suoi dati fondamentali si sono svilup-<br />
pati in maniera sorprendentemente rapida. La fase decisiva dura dai tre ai cinque anni; quelli che se-<br />
parano la morte di Gesù e la sua risurrezione dalla chiamata di Paolo. Martin Hengel ha giustamente<br />
parlato di un «impulso creativo incomparabilmente dinamico», che «si espresse nella riflessione cri-<br />
stologica», ed egli indica come motivo essenziale la presenza di inizi di una cristologia esplicita già<br />
nella predicazione di Gesù, inizi che sollecitarono uno sviluppo.<br />
Anche per l’<strong>ecclesiologia</strong> non mancano degli spunti nell’agire e nella predicazione di Gesù. Se però<br />
qui lo sviluppo si svolse diversamente, si deve al fatto che al suo inizio non stava l’esperienza di<br />
una svolta totale, ma piuttosto lo sforzo di mantenere una continuità. Le apparizioni pasquali comu-<br />
nicarono ai testimoni la certezza che oramai il grande cambiamento dei tempi era iniziato e che il<br />
nuovo mondo di Dio aveva fatto la sua irruzione. La riflessione cristologica fu il tentativo di com-<br />
prendere concettualmente questa situazione nuova determinata dalla intronizzazione di Gesù alla<br />
destra di Dio, in modo che gli inizi presenti nella sua predicazione fossero adeguati a sostenere la<br />
direzione del cammino. La comprensione della Chiesa del tempo iniziale quindi non fu in alcun<br />
modo innovativa. Il gruppo dei seguaci di Gesù si comprese in un primo tempo non come una nuova<br />
comunità fondata attraverso l’evento pasquale. Ciò che la riunì fu piuttosto l’incarico di continuare<br />
la raccolta prepasquale finale di Israele che Gesù aveva iniziato — questo certamente in una situa-<br />
zione nuova, creatasi per il fatto che l’agire di Dio aveva manifestato che Gesù era il Signore messi-<br />
anico di Israele. A questa continuità del compito segue anche la continuità della struttura della co-<br />
munione prepasquale di vita e di servizio con Gesù. La prima forma post-pasquale della Chiesa è in<br />
larga misura determinata da questa duplice continuità.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
3. Che e fino a che punto la novità dell’evento pasquale abbia fatto di questa comunità qualcosa di<br />
nuovo, divenne chiaro ai suoi stessi membri solo poco alla volta. Pasqua non è la data di fondazione<br />
della Chiesa, piuttosto la possibilità di scoprire la Chiesa. Questa scoperta si attuò in un processo<br />
progressivo di chiarificazione e di riflessione, che, iniziato a Pasqua, continua durante l’intero arco<br />
di tempo documentato nel Nuovo Testamento e giunge a compimento solo nella terza generazione<br />
cristiana, cioè fra l’80 e il 110. Per accelerarlo si ebbe bisogno di una serie di impulsi di diverso ge-<br />
nere, provocati da fattori sia esterni sia interni. Processi e sviluppi nell’ambiente della comunità ri-<br />
chiesero che si affrontasse e risolvesse tra l’altro il fatto decisivo che i Giudei nella stragrande mag-<br />
gioranza rifiutarono di raccogliersi attorno a Gesù come al Signore messianico di Israele. In seguito<br />
fu la missione indirizzata alla società ellenistica non formata ai valori giudaici, che suscitò diversi<br />
problemi ecclesiologici. Da ciò derivarono conflitti intercomunitari come pure la necessità di svi-<br />
luppare forme di vita comune per credenti provenienti da cerchie tradizionali differenziate.<br />
Paolo — sulla base della propria esperienza di apostolo dei gentili e di fondatore di comunità — fu<br />
il primo a riconoscere pienamente il peso teologico del tema “Chiesa” e a sviluppare indicazioni<br />
normative. Tutte le lettere paoline che ci sono pervenute derivano sicuramente dall’ultima fase<br />
dell’attività dell’Apostolo, quindi dal tempo della sua separazione dalla comunità di Antiochia (ca.<br />
49) fino alla sua morte. Eppure anche in esse non troviamo documentata una comprensione della<br />
Chiesa completamente rifinita; piuttosto una comprensione che è in processo dinamico di sviluppo.<br />
4. Da queste osservazioni risulta il nostro percorso. Intendiamo raccogliere quegli inizi e primi ele-<br />
menti della comprensione della Chiesa che si possono rintracciare nel tempo iniziale della fede in<br />
Cristo — quindi entro i due decenni che separano la risurrezione di Gesù dalle lettere paoline.<br />
b) La situazione di partenza: i «dodici» a Gerusalemme<br />
Nella nebbia della tradizione si delineano i contorni di due avvenimenti, che possono essere indicati<br />
a ragione come fattori scatenanti per la formazione della comunità primitiva: la ricostituzione del<br />
gruppo dei dodici e il suo ritorno a Gerusalemme.<br />
1. Dopo la catastrofe del venerdì santo i discepoli avevano abbandonato in fretta e furia Gerusa-<br />
lemme, per ritornare in Galilea, loro regione di origine 49 . Lì si verificarono, presumibilmente solo<br />
pochi giorni più tardi, le prime apparizioni del risorto. L’antica formula di fede di 1Cor 15,5 precisa<br />
anche il nome dei destinatari: «egli apparve a Cefa, poi ai dodici». È chiaro che queste apparizioni<br />
49 Cfr. G. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa?, op. cit., 237ss.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
non furono esperienze individuali di carattere estatico, che servivano ad accertare che Gesù era vivo<br />
presso Dio. Piuttosto in quel Gesù risorto apparve a loro il Signore messianico definitivo di Israele,<br />
costituito in questa condizione da Dio stesso. Se teniamo conto di questo fatto si chiarisce perché<br />
ritroviamo non solo in 1Cor 15,5, ma pure negli antichi resoconti di apparizione dei vangeli (Mt<br />
28,16-20; Lc 24,36-49; Gv 20,19-23), che trattano dell’apparizione del risorto al gruppo dei dodici,<br />
il motivo dell’invio e dell’incarico. Questo tema appartiene ai motivi centrali che qualificano la tra-<br />
dizione pasquale. Il contenuto dell’incarico è la proclamazione pubblica della potenza del risorto.<br />
Ne consegue però anche il peso particolare dato al fatto di nominare Pietro e i dodici come i primi<br />
testimoni. In questione è qui il rinnovamento dell’incarico specifico che i dodici avevano ricevuto<br />
già prima di Pasqua e che stava in relazione con la rappresentazione simbolica del popolo di Israele:<br />
essi devono diventare il punto di cristallizzazione di un Israele rinnovato, segno augurale della isti-<br />
tuzione di Gesù come Signore del tempo finale sul popolo di Dio. Con la ricostituzione dei dodici<br />
viene posto un segno del nuovo inizio di Dio con Israele. Si capisce allora anche il senso della tradi-<br />
zione, nel suo nucleo senza dubbio antica, del completamento del gruppo dei dodici con la scelta di<br />
Mattia (At 1,15-26). Se il gruppo doveva conservare il suo significato di simbolo del popolo di Dio<br />
nella sua totalità, era necessario completarlo, dopo che Giuda il traditore era venuto meno.<br />
2. Già Gesù era salito a Gerusalemme, per raggiungere da quel luogo simbolico tutto Israele e per<br />
chiamarlo alla scelta decisiva. La stessa cosa si ripeteva ora in coincidenza con gli avvenimenti di<br />
Pasqua. Se i dodici volevano che la loro missione abbracciasse tutto Israele, dovevano esercitarla in<br />
Gerusalemme, il centro e il punto di raccolta del popolo di Dio. Ecco perché essi ritornarono a Ge-<br />
rusalemme, presumibilmente accompagnati da una grossa schiera di discepoli di Gesù, alla succes-<br />
siva festa di pellegrinaggio, la Pentecoste che si celebrava cinquanta giorni dopo la Pasqua.<br />
Con la ricostituzione pasquale del gruppo dei dodici si dà nello stesso tempo il loro orientamento a<br />
Gerusalemme. Alla luce di questo fatto si chiarisce un po’ la tendenza della tradizione a spostare in<br />
Gerusalemme le stesse prime apparizioni pasquali (Lc 24,36-49; At 1,3-11; Gv 20,19-23), le quali<br />
storicamente ebbero luogo probabilmente in Galilea. Possiamo dire allora che a ragione Luca negli<br />
Atti ha considerato Gerusalemme come il solo luogo nel quale la prima comunità dei seguaci di Ge-<br />
sù aveva fatto la sua comparsa pubblica. È probabile che anche in città e villaggi della Galilea ci<br />
fossero gruppi di seguaci di Gesù che osservavano la dottrina del maestro di Nazaret e che fedel-<br />
mente la tramandavano, vedendo in lui il Signore che Dio aveva confermato attraverso l’evento del-<br />
la risurrezione. Ma questi gruppi non influenzarono quanto avvenne in Gerusalemme sotto gli occhi<br />
di tutto Israele grazie al gruppo dei dodici; Luca vi poté giustamente soprassedere nella sua seconda<br />
opera, che ha come tema la diffusione missionaria del vangelo.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
c) Pentecoste e la discesa dello Spirito santo<br />
Con la ricostituzione del gruppo dei dodici e il ritorno a Gerusalemme si collega un altro evento:<br />
l’esperienza della discesa dello Spirito di Dio. È vero che, considerando le condizioni della fonte,<br />
non possiamo tentare una ricostruzione storica degli avvenimenti di Pentecoste, tuttavia dietro i ri-<br />
tocchi del racconto lucano (At 2) sono ancora sufficientemente riconoscibili alcuni tratti precisi.<br />
1. Importante è anzitutto il contesto biblico. Nell’Antico Testamento, soprattutto negli scritti profe-<br />
tici recenti, l’attesa del rinnovamento definitivo di Israele è strettamente connessa con l’effusione<br />
dello Spirito di Dio. Ad es. in Ezechiele troviamo l’importante visione dello Spirito di Dio, che<br />
scende su una pianura piena di ossa aride — immagine drastica dell’Israele morto — e suscita nuo-<br />
va vita (Ez 37). Il tema di questa visione è il futuro ristabilimento del popolo di Dio. Ora in conse-<br />
guenza della discesa dello Spirito questo ristabilimento non sarà solo qualcosa di momentaneo e<br />
transitorio; al contrario ad esso viene assicurata una effettiva stabilità: «Allora non nasconderò più a<br />
loro il mio volto, perché diffonderò il mio spirito sulla casa di Israele» (Ez 39,29). In Is 59,21 Alle-<br />
anza e Spirito sono implicati in una relazione reciproca e immediata: «Quanto a me, ecco la mia al-<br />
leanza con essi, dice il Signore: il mio spirito che è sopra di te e le parole che ti ho messo in bocca<br />
non si allontaneranno dalla tua bocca né dalla bocca della tua discendenza né dalla bocca dei di-<br />
scendenti dei discendenti, dice il Signore, ora e sempre». In questo passo è in questione proprio<br />
l’istituzione dell’alleanza permanente e definitiva di Dio con il suo popolo. In tutte queste espres-<br />
sioni riconosciamo la comprensione fondamentale e anticotestamentaria dello Spirito (ruah) di Dio<br />
come del soffio che concede e conserva la vita e il respiro con una sottolineatura storico-salvifica: lo<br />
Spirito di Dio è quella forza creatrice di storia, in virtù di cui Dio è attivo in Israele. E precisamente<br />
è primariamente il popolo nella sua totalità che fa l’esperienza dell’efficacia di questo spirito. Tut-<br />
tavia gli effetti di questo spirito riguardano anche singole persone in Israele, e ciò secondo una du-<br />
plice modalità. Da un parte ci si attende dallo Spirito il rinnovamento morale del singolo, come dice<br />
Ez 36,26, dove analogamente a Is 59,21, Spirito e Alleanza sono immediatamente ordinati l’uno<br />
all’altro: «Io darò loro un cuore nuovo e metterò dentro di loro uno spirito nuovo; toglierò da loro il<br />
cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo<br />
i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi». Dall’altra parte il libro di Gioele<br />
annuncia che l’effusione dello Spirito susciterà nei singoli membri del popolo fenomeni profetico-<br />
estatici: «Dopo questo io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli<br />
e le vostre figlie, i vostri anziani faranno sogni e i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli<br />
schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito» (Gl 3,1s), compiendo così il deside-<br />
rio espresso da Mosè nel tempo fondatore del popolo: «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
volesse il Signore dare loro il suo spirito!» (Nm 11,20; cfr. in tal senso Luca intende probabilmente<br />
anche il logion gesuano della bestemmia contro lo Spirito santo: Lc 12,10).<br />
2. Su questo sfondo possiamo cogliere il significato dell’esperienza della effusione dello Spirito per<br />
i seguaci di Gesù: esso divenne il principio interpretativo della ricostituzione della cerchia dei dodi-<br />
ci. La rinnovata trasmissione dell’incarico di raccogliere Israele ottenne la propria interpretazione di<br />
senso attraverso la ricezione dello Spirito, poiché questo era la prova del fatto che Dio stesso oramai<br />
aveva iniziato il rinnovamento finale del suo popolo.<br />
Particolare attenzione merita in tale connessione la circostanza che secondo Atti 2,33 (cfr. Lc 24,49)<br />
è il Cristo risorto a effondere lo Spirito: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto<br />
dal Padre lo Spirito santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udi-<br />
re». In questo caso difficilmente si tratta di una costruzione lucana, perché il legame tra la risurre-<br />
zione e elevazione di Gesù e l’invio dello Spirito si rileva anche in alcuni testi neotestamentari di<br />
provenienza diversa. Si veda ad es. il racconto di apparizione di Gv 20,22s, in cui il risorto non solo<br />
raccoglie e incarica i discepoli, ma dona anche lo Spirito «alitando su di loro», cioè attraverso un di-<br />
retto trasferimento del respiro di vita di Dio; si veda inoltre Ef 4,7-12, come pure, almeno come te-<br />
stimonianza indiretta, 2Cor 3,17, dove Cristo e lo Spirito sono posti quasi in unità.<br />
Ulteriore elemento comune a questi testi è che essi, diversamente dalla maggior parte degli asserti<br />
successivi sullo Spirito, intendono lo Spirito non come dono individuale per i singoli cristiani, ma<br />
piuttosto per i discepoli nella loro totalità, cioè per la Chiesa. Perciò si potrebbe riconoscere alla lo-<br />
ro base una tradizione molto antica, che intende lo Spirito come effetto dell’avvenimento pasquale<br />
per la comunità dei discepoli e inoltre per l’intero popolo di Dio. Questa tradizione richiama di nuo-<br />
vo un’esperienza storica particolare del gruppo dei dodici; poiché non può essere tratta né dall’AT<br />
né dalle rappresentazioni giudaiche contemporanee dello Spirito. Secondo queste infatti il Messia è<br />
il “portatore” dello Spirito (Is 11,1s), ma mai colui che lo amministra.<br />
3. Ci si addentrerà solo brevemente nella questione del reperto storico che è ricavabile dal racconto<br />
lucano di Pentecoste (At 2). Luca invero dà a questo resoconto un grosso peso nello spazio della se-<br />
conda parte della sua opera storica, non solo per il modo in cui lo espone, ma soprattutto per i nu-<br />
merosi richiami (At 10,47; 11,15-17; 15,8) con cui contrassegna la Pentecoste come l’«inizio» del-<br />
l’azione apostolica. Egli tuttavia rende piuttosto complicato il tentativo di risalire al fatto che sta<br />
dietro. Già solo l’esposizione che libera molteplici associazioni su piani diversi, ci fa capire che At<br />
2,1-13 non è da intendersi come una riproduzione di un evento storico unico. Concepito letteraria-<br />
mente è per es. il triplice uso della parola «lingue», che dipende dalla duplicità di significato del<br />
termine (in greco glòssa può significare anche “linguaggio). Così lo Spirito appare in forma di «lin-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
gue di fuoco» (At 2,3), conduce a un parlare e udire in «lingue» differenti (At 2,5-11) e finalmente in<br />
At 2,12, il parlare è in connessione con la citazione di Gioele 3,1-5 sul “parlare in lingue” inarticola-<br />
to ed estatico, cioè sulla glossolalia. Persino la forma del miracolo delle lingue in sé è poco chiara.<br />
Basandosi su At 2,4 si potrebbe supporre che lo Spirito ha dato agli Apostoli la capacità di parlare<br />
nelle diverse lingue straniere; At 2,8 suggerisce però che fu piuttosto un miracolo di “ascolto”: cia-<br />
scuno era in grado di ascoltare gli apostoli parlare nella propria lingua. Qualcuno ha avanzato<br />
l’ipotesi che questa descrizione del miracolo di linguaggio o di ascolto, in collegamento con la tavo-<br />
la dei popoli (At 2,9-11), si riferisca all’esperienza di una primitiva fase della missione tra non giu-<br />
dei, interpretata in maniera teologica come effetto dello Spirito santo. Tale missione non venne e-<br />
sercitata dalla comunità primitiva in Gerusalemme, ma piuttosto dalla comunità di Antiochia. Luca<br />
avrebbe ricevuto il dato fondamentale della storia di Pentecoste dalla tradizione della comunità di<br />
Antiochia, dove costituiva il fondamento della missione tra i pagani. Le indicazioni di una glossola-<br />
lia estatica (At 2,12s), al contrario, potrebbero derivare da una interpretazione lucana.<br />
4. Che cosa si può dire sullo svolgimento dei fatti nel giorno di Pentecoste/festa della settimane?<br />
4.1. L’osservazione della stretta connessione tra risurrezione di Gesù e invio dello Spirito nella tra-<br />
dizione potrebbe avallare la supposizione che in quel giorno sarebbe avvenuta un’apparizione del<br />
risorto messa particolarmente in rilievo grazie ai suoi effetti. Di fatto si è cercato molte volte di i-<br />
dentificare l’evento di Pentecoste con l’apparizione «davanti a 500 fratelli» (1Cor 15,6) menzionata<br />
da Paolo. Questo è però inverosimile, poiché non solo At 2,1-13 è privo di qualsiasi accenno a<br />
un’apparizione del Risorto, ma inoltre le tradizioni più antiche separano in genere le apparizioni del<br />
risorto dalla ricezione dello Spirito: anche se queste erano ristrette a una cerchia ristretta di testimo-<br />
ni (1Cor 9,1; 15,8), per principio da nessuna Cristo era escluso (Gal 3,2ss; 1Cor 12-14).<br />
4.2. Spesso si suggerisce di collegare l’evento storico di Pentecoste con la festa delle Settimane, nel-<br />
la comprensione che ne avevano i giudei del tempo. Originariamente Pentecoste era una festa del<br />
raccolto, che iniziava sette settimane dall’inizio della mietitura (Dt 16,9s). Da questa datazione era<br />
derivato anche il nome «festa delle settimane» (hag shavuot). Il contenuto della festa era la presen-<br />
tazione solenne del raccolto nel santuario di Gerusalemme. Presto circoli sacerdotali collegarono il<br />
termine alla festa di Pasqua, secondo la testimonianza di Lv 23,15s: «dal giorno dopo il sabato [di<br />
Pasqua]… conterete sette settimane complete. Conterete cinquanta giorni fino all’indomani del set-<br />
timo sabato». Più tardi questo legame si rafforzò con un riferimento formale anche mediante il cal-<br />
colo farisaico delle date al sabato dopo il giorno di Pasqua. Perciò la festa delle settimane aveva<br />
luogo regolarmente il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, e di conseguenza nello stesso giorno<br />
della settimana, quale conclusione del tempo di Pasqua che si estendeva per cinquanta giorni. La<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
traduzione greca nel giudaismo ellenistico Pentekosté (il cinquantesimo [giorno dopo la Pasqua];<br />
Tob 2,1; 2Macc 12,32) rispecchia questo stato di cose.<br />
Durante il II secolo a.C., poi, questo sviluppo fece sì che alla festa della settimane si aggiunsero<br />
nuovi riferimenti teologici, che si sovrapposero all’originario carattere di festa del raccolto. Di fron-<br />
te alla minaccia che l’ellenismo portava all’identità del popolo giudaico, durante l’età maccabaica si<br />
cercò di salvaguardare le tradizioni dei padri ancorando più di quanto si era fatto fino ad allora gli<br />
eventi storico-salvifici significativi del tempo primitivo alle feste. Così il libro dei Giubilei — com-<br />
posto tra il 145 e 140 a. C. in uno dei gruppi sacerdotali di riforma sorto da poco del movimento a-<br />
sideo, che influì considerevolmente sul modo di pensare della comunità settaria di Qumran, di poco<br />
posteriore — interpreta la festa delle settimane come giorno di commemorazione delle passate sti-<br />
pulazioni dell’alleanza di Dio con Israele, e rispettivamente dell’alleanza con Noè (Jub. 6,15-18),<br />
del patto con Abramo (Jub. 6,19s; 14,10-20), come pure del patto di Mosè sul Sinai (Jub. 6,11), cer-<br />
tamente senza sopprimere del tutto la connessione con l’antica festa agraria. Si stabilì poi anche un<br />
dispositivo formale a favore di questa nuova interpretazione: il vecchio nome hag shavuot (= festa<br />
delle settimane) con una mutazione della vocalizzazione venne letto anche hag sh e vuot (= festa dei<br />
giuramenti). Fu possibile così riferirsi a quei giuramenti con cui Israele nel passato si era sottoposto<br />
all’istituzione del patto di Dio. La comunità di Qumran celebrava una festa annuale del rinnovamen-<br />
to del patto (1QS 1,8-2,18) che è una variante specifica della festa delle settimane israelitica. Questo<br />
sviluppo sfociò alla fine in una completa concentrazione della festa su quella conclusione del patto<br />
che, tra quelle accennate per la coscienza di identità e autocomprensione di Israele, aveva acquisito<br />
dopo la distruzione del tempio un significato decisivo, il patto di Mosè sul Sinai, al cui centro si<br />
trovava la Torà. Per questo dal secondo secolo d.C. la festa di Pentecoste veniva celebrata come<br />
giorno di commemorazione del dono della Legge sul Sinai e il racconto biblico connesso, Es 19, di-<br />
venne la pericope della festa.<br />
Questo stadio finale dello sviluppo non era ancora stato raggiunto nell’anno della morte di Gesù (30<br />
d.C.), ma abbiamo buoni motivi per supporre che i discepoli di Gesù appartenevano alla cerchia in<br />
cui si era imposta l’interpretazione storico-salvifica della festa di Pentecoste come rinnovamento<br />
dell’impegno del Patto di Israele. Se teniamo conto di questo fatto, diventa plausibile il loro corteo<br />
verso Gerusalemme a Pentecoste. In verità al tempo di Gesù l’osservanza del precetto del pellegri-<br />
naggio a Pentecoste era piuttosto trascurata dalla vasta massa del popolo. Tuttavia non mancavano<br />
persone, appartenenti a quei gruppi del popolo che condividevano questa interpretazione storico-<br />
salvifica, che facevano un pellegrinaggio a Gerusalemme. È possibile che i discepoli di Gesù, rico-<br />
stituiti come gruppo dei dodici dall’iniziativa del risorto, si rivolsero a costoro con l’intento di rac-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
coglierli come popolo di Dio del tempo finale. È probabile allora che questa offerta fosse compresa<br />
come compimento della speranza nel rinnovamento finale del patto di Dio col suo popolo.<br />
4.3. Così il gruppo dei dodici durante la festa di Pentecoste venne a Gerusalemme per predicare per<br />
la prima volta davanti a un vasto pubblico giudaico che Dio aveva risuscitato Gesù e lo aveva costi-<br />
tuito Signore definitivo del popolo di Dio. In quella occasione i suoi discepoli inoltre fecero<br />
l’esperienza della presenza dello Spirito di Dio, atteso per il tempo finale. È verosimile, anche se<br />
non del tutto sicuro, che si sia trattato di un’esperienza estatica particolare — almeno se ci riferiamo<br />
al significato che Gl 3,1-5 ha acquisito in At 2,17-21. Il fatto che si era riusciti a guadagnare alla fe-<br />
de in Gesù un numero considerevole di uomini provenienti da Israele aggregandoli al gruppo dei<br />
dodici, probabilmente fece sorgere anche la coscienza del compimento della promessa dello Spirito.<br />
Così i discepoli non solo ritennero che era ormai divenuta realtà lo sperato rinnovamento finale del<br />
Patto di Dio con Israele, ma si convinsero inoltre di aver sperimentato il tempo finale, la cui caratte-<br />
ristica essenziale era costituita proprio dall’effusione dello Spirito di Dio su tutto il popolo.<br />
4.4. Così la Pentecoste giudaica con la sua tematica del Patto costituì il motivo per la prima e costi-<br />
tutiva esperienza dello Spirito fatta dai discepoli di Gesù. Nello stesso tempo essa offrì anche il<br />
concreto luogo di nascita del tema del nuovo patto, un tema così importante per la comprensione<br />
della Chiesa. La presenza dello Spirito di Dio tra i discepoli fu per loro il segno che Dio era ormai<br />
pronto a rinnovare il suo patto con l’intero popolo (cfr. Is 59,21) collocandolo nell’orizzonte del<br />
tempo finale. Forse si chiarisce così anche la stretta connessione tra Spirito e patto, presupposta da<br />
Paolo in 2Cor 3,6. In ogni caso l’offerta del patto, legittimata attraverso la presenza dello Spirito,<br />
era rivolta a tutto Israele.<br />
Che sia così lo vediamo dal ruolo che ha giocato il gruppo dei dodici. La ricezione dello Spirito non<br />
era propriamente il segno che lo Spirito sarebbe stato partecipato ai singoli quale criterio della pro-<br />
pria appartenenza alla nuova comunità particolare che stava sorgendo. Piuttosto l’offerta dello Spiri-<br />
to era rivolta di principio al popolo di Dio nella sua totalità come segno dell’adempimento della<br />
promessa. La predica di Pentecoste di Pietro, sebbene elaborata da Luca, ne ha mantenuto il ricordo<br />
essenzialmente nella conclusione: «poiché per voi è la promessa e per i vostri figli, e per tutti quelli<br />
che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (At 2,39).<br />
Il significato della prima Pentecoste in Gerusalemme, perciò, congiungerebbe per il gruppo dei di-<br />
scepoli la presenza sperimentata dello Spirito di Dio come conseguenza immediata dell’elevazione<br />
di Gesù con il tema del rinnovamento del patto. Il tema del patto potrebbe aver acquisito allora la<br />
funzione di principio interpretativo dell’esperienza dello Spirito, poiché ne dischiuse il significato<br />
storico salvifico nell’orizzonte di Israele.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
La chiara coscienza di costituire la comunità escatologica, in cui l’effusione dello Spirito, promessa<br />
per gli ultimi tempi, è già divenuta realtà, è sottolineata negli Atti anche attraverso le descrizioni<br />
della vita dei primi cristiani (At 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16): esse mettono in luce che la promessa<br />
già formulata dalla Legge, «Non vi sarà in mezzo a te alcun bisognoso» (Dt 15,4), di fatto però non<br />
pienamente realizzata a causa della mancata corrispondenza del popolo (Dt 15,7.11), ora è divenuta<br />
realtà (At 4,34: «Non vi era nessun bisognoso in mezzo a loro») nella comunità santa suscitata<br />
dall’effusione dello Spirito 50 .<br />
d) Fondazione dell’identità attraverso il Battesimo<br />
Gli sviluppi storici non procedono quasi mai secondo un’unica linea. Questo vale anche per la for-<br />
mazione dell’autocomprensione della Chiesa. Sicuramente i discepoli di Gesù nel primo tempo<br />
post-pasquale hanno considerato come loro compito la raccolta finale di tutto Israele quale popolo<br />
di Dio. Essi rimangono così in continuità con il loro incarico pre-pasquale. Per questo Pentecoste<br />
non costituisce per loro un’esperienza di rottura. Pertanto solo a certe condizioni si può indicare la<br />
Pentecoste come il giorno della nascita della Chiesa. Ma se questa rappresentazione difficilmente<br />
può essere attribuita all’autocomprensione dei discepoli di Gesù, tuttavia è autorizzata da una retro-<br />
spettiva, che interpreta l’avvenimento di Pentecoste alla luce degli sviluppi che esso istituirà.<br />
Partendo dalla Pentecoste si delineano dei fattori che, se come tali in un primo tempo non fondarono<br />
alcuna identità di gruppo separato da Israele, tuttavia nel corso ulteriore costituirono gli inizi di una<br />
identità di gruppo in formazione. Dal punto di vista teologico determinante fu l’esperienza della no-<br />
vità escatologica, quale dono della presenza dello Spirito. Dal punto di vista sociologico i discepoli<br />
di Gesù fecero l’esperienza di un loro isolamento progressivamente più marcato in Israele. Quale<br />
che sia il motivo decisivo, è evidente che subito dopo Pentecoste essi non potevano sapere che<br />
l’annuncio dei seguaci di Gesù avrebbe raggiunto solo una minima percentuale di Ebrei. La raccolta<br />
di tutto Israele attorno al gruppo dei dodici come suo punto centrale non ebbe luogo. Perciò i segua-<br />
ci di Gesù divennero agli occhi del loro ambiente uno dei molti gruppi giudaici particolari, una hai-<br />
resis (At 24,5.14; 26,5), analogamente ai discepoli di Giovanni e alla comunità di Qumran. Inoltre<br />
essi diedero vita a una forma di vita di gruppo molto specifica, che li differenziò dal loro ambiente;<br />
cosa che in parte è da attribuire al fatto che provenivano in maggioranza dalla Galilea e alle difficili<br />
circostanze esteriori della loro esistenza in Gerusalemme.<br />
Il luogo in cui si concretizzò in modo primario l’esperienza teologica di novità, fu il battesimo. Esso<br />
appartiene fin dall’inizio alle condizioni base della fede in Gesù. Secondo At 2,38 i primi battesimi<br />
50 Cfr. V. FUSCO, Le prime comunità cristiane. Tradizioni e tendenze nel cristianesimo delle origini (Bologna: EDB,<br />
1995) 195.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
ebbero luogo a Pentecoste, e non abbiamo alcun motivo per mettere in dubbio questa notizia. In o-<br />
gni caso nel NT non ci sono tracce di una discussione sulla necessità del battesimo; esso viene pra-<br />
ticato fin dall’inizio in modo del tutto spontaneo. La cosa è tanto più sorprendente per il fatto che né<br />
Gesù ha battezzato né sono state tramandate delle istruzioni sue a riguardo del battesimo. Quali ra-<br />
gioni c’erano per una sua ripresa dopo Pasqua?<br />
1. Giovanni il Battista ne aveva rivendicato il significato di azione/segno escatologico: chi si con-<br />
vertiva e si faceva battezzare si sottometteva all’imminente agire finale di Dio verso il suo popolo;<br />
un agire che oramai stava per spuntare. Per questo ai discepoli, che raccogliendosi attorno a Gesù<br />
come al Salvatore definitivo del popolo si ritenevano i destinatari del dono della salvezza di Dio, fu<br />
possibile vedere nel battesimo il segno della sottomissione all’agire di Dio.<br />
2. Già per Giovanni Battista il Battesimo era connesso con lo Spirito. Chi si faceva battezzare, si<br />
preparava anche alla venuta del «più forte», il quale avrebbe battezzato con Spirito e fuoco (Mt<br />
3,11; Lc 3,16). I discepoli di Gesù, quindi, collegarono facilmente il compimento del tempo finale<br />
della promessa biblica dell’effusione dello Spirito di Dio per tutti in Israele con il segno del Batte-<br />
simo; tanto più che dichiarazioni bibliche come Is 44,3 e Gl 3,1s annunziavano la venuta dello Spi-<br />
rito utilizzando la metafora dell’acqua. Il battesimo divenne così un segno visibile dell’inserimento<br />
nell’ambito della salvezza presente; un ambito determinato dallo Spirito.<br />
3. Lo stesso Battesimo di Gesù deve aver giocato un ruolo essenziale per la fondazione del battesi-<br />
mo cristiano. È vero che nel resoconto sinottico del battesimo (Mc 1,9-11 e par.) mancano riferi-<br />
menti diretti alla prassi battesimale ecclesiale, tuttavia i riferimenti tematici alla teologia del batte-<br />
simo rendono verosimile una tale connessione. Così Gesù in virtù del battesimo è proclamato «por-<br />
tatore dello Spirito» (Mc 1,10), mentre la voce dal cielo lo dichiara Figlio di Dio. Allo stesso modo<br />
nel battesimo cristiano il conferimento dello Spirito è collegato con lo status di figli di Dio. Così per<br />
Paolo (Gal 4,5-6; Rm 8,15; cfr. Ef 1,5) il dono proprio del battesimo è il conferimento della filiazio-<br />
ne che si attua mediante lo Spirito. Per cui solo il battezzato, in forza dell’efficacia dello Spirito san-<br />
to, può nominare Dio “Padre”. Il racconto del Battesimo da una parte evidenzia che Gesù col suo<br />
farsi battezzare ha preso possesso del battesimo di Giovanni e gli ha conferito il proprio significato<br />
istituto da Dio. D’altra parte esso dà al battesimo di Gesù un riferimento tipologico alla vita dei cre-<br />
denti: come il battesimo si trova all’inizio della via di Gesù, così si trova pure all’inizio<br />
dell’esistenza cristiana. I credenti in virtù del battesimo sono in comunione con Gesù; essi si sotto-<br />
pongono come lui al compimento della rivendicazione della giustizia di Dio — cfr. Mt 3,15.<br />
4. I due aspetti si ritrovano nelle formule che riferiscono il battesimo a Gesù: «en tò onómati Iesou<br />
Christou» (At 10,48; cfr. 2,38: epi) e «eis tò ónoma tou kuríou Iesou» (At 8,16; 19,5; 1Cor 1,13.15;<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
cfr. 1Cor 10,2; Mt 28,19). La prima sottolinea che Gesù è l’autorità che ha istituito il battesimo.<br />
L’amministrazione avviene facendo ricorso ai suoi pieni poteri. Il battesimo di Giovanni infatti era<br />
collegato al potere del Battista che aveva ricevuto da Dio l’incarico di amministrarlo. Ormai però<br />
Gesù gli è subentrato. Siccome Gesù è colui da cui dipende la venuta dello Spirito di Dio del tempo<br />
finale, la subordinazione sotto la potenza dello Spirito può aver luogo solo mediante il battesimo<br />
amministrato “nel suo nome”. La seconda formula esprime invece il passaggio di proprietà. Se<br />
nell’AT Israele proclamando su di sé il nome di Dio si riconosceva come popolo di proprietà di Dio<br />
(Dt 28,10; Is 43,7), ora i credenti in Gesù confessando il suo nome sono incorporati alla Signoria<br />
presente dell’innalzato (Gc 2,7), che ha il suo “raggio di azione” nella comunità dei credenti.<br />
e) Il nuovo culto liturgico<br />
Il secondo luogo nel quale si concentra come centro nevralgico la novità teologica esperimentata del<br />
discepolato di Gesù, e che perciò divenne anche sociologicamente il principio per lo sviluppo di una<br />
specifica identità di gruppo, fu il culto liturgico. Ciò risulta dai resoconti degli Atti degli Apostoli<br />
sulla vita liturgica della prima comunità di Gerusalemme. Così noi leggiamo nel sommario di At<br />
2,46: «Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i<br />
pasti con letizia e semplicità di cuore». Mentre At 5,42 dice degli apostoli: «Ogni giorno nel tempio<br />
e a casa non cessavano di insegnare e di evangelizzare il Cristo Gesù». Di conseguenza, all’inizio<br />
c’erano due diversi tipi di assemblea liturgica, che si differenziavano considerevolmente non solo in<br />
riferimento al luogo, ma soprattutto a riguardo della loro configurazione.<br />
1. La prima era la partecipazione al servizio del tempio, ossia al servizio liturgico di tutto Israele.<br />
Poiché Gerusalemme era il centro di Israele e il luogo dell’attesa raccolta del popolo di Dio, il tem-<br />
pio poteva essere considerato come il centro di Gerusalemme e il centro della raccolta. Perciò la<br />
comunità dei seguaci di Gesù qualificava la sua presenza in Gerusalemme stando nel tempio. Essi<br />
prendevano parte alle tre ore di preghiera quotidiana (At 3,1) sfruttando inoltre l’occasione favore-<br />
vole alla predicazione missionaria data dal convenire in quel luogo di molti giudei (At 3,11-26).<br />
L’elemento centrale del servizio cultuale al tempio era sicuramente la celebrazione dei diversi sacri-<br />
fici quotidiani. Non dovremmo escludere a priori la possibilità che la comunità primitiva abbia pre-<br />
so parte ai sacrifici del tempio. Essa non condivideva i principi della comunità di Qumran, che boi-<br />
cottava come illegittimo il culto sacrificale, poiché considerava illegittimo e impuro il sacerdozio<br />
del tempio (cfr. 1QM 2,1ss). Gesù aveva avuto una relazione sostanzialmente positiva verso la pietà<br />
sacrificale giudaica (Mt 5,23; 8,4; 23,18), perlomeno di lui non ci viene tramandato alcun giudizio<br />
negativo definitivo sul sacrificio. L’unico fondamento per respingere il culto sacrificale poteva esse-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
re l’intuizione che la morte di Gesù era ormai l’unico sacrificio valido, che superava ed aboliva il<br />
sacrificio finora celebrato. Questa intuizione emerge già presto dalla riflessione teologica sulla cena<br />
del Signore, in primo luogo sulle parole di istituzione del dono della vita «per i molti» (Mc 14,24)<br />
[cfr. Rm 3,25]. È discutibile tuttavia che tale intuizione possa essere già presupposta per il tempo i-<br />
niziale. Se così stanno le cose, allora non fu di primo acchito la svalutazione del tempio e la critica<br />
al culto divino ivi celebrato, che indusse i discepoli di Gesù a sviluppare accanto a questo una pro-<br />
pria forma di servizio divino. Il motivo primario dovrebbe consistere piuttosto nell’intuizione che<br />
per seguire la volontà di Gesù si doveva continuare quella comunità di mensa che egli aveva istitui-<br />
to in modo permanente nella notte dell’addio.<br />
2. Ciò avviene nella forma di assemblee domestiche, che si tenevano nelle case dei membri della<br />
comunità. In proposito si suppone che la casa di Maria, la madre di Giovanni Marco (At 12,12), sia<br />
stata per il tempo iniziale un importante (e forse unico) luogo concreto di raccolta.<br />
Queste assemblee domestiche nel giudaismo gerosolimitano del tempo non erano affatto qualcosa di<br />
insolito, se consideriamo che questo è il tempo della crescita disordinata delle comunità sinagogali:<br />
secondo la tradizione talmudica (jMeg 73b) in Gerusalemme ci sarebbero state allora 480 sinago-<br />
ghe. Anche se questa cifra fosse esagerata, è evidente l’importanza del nuovo movimento per la rac-<br />
colta di piccoli gruppi, promosso principalmente dal fariseismo. Le sinagoghe erano in parte artico-<br />
late per gruppi di connazionali ed erano ospitate nelle case dei membri benestanti, dove si tenevano<br />
delle assemblee liturgiche, al cui centro c’erano l’istruzione sulla Torà e preghiere. Esternamente<br />
anche le assemblee domestiche della comunità originaria erano analoghe a questi culti sinagogali.<br />
Ciononostante solo in Gc 2,2 si applica ad un’adunanza cristiana il termine “sinagoga”. Il fenomeno<br />
linguistico documenta la coscienza della diversità contenutistica e della novità di queste assemblee.<br />
3. I segni distintivi di queste nuove assemblee sono descritte dal sommario proveniente da un’antica<br />
tradizione: At 2,42: «erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli, e nella κοινωνία,<br />
nella frazione del pane e nelle preghiere».<br />
3.1. La dottrina aveva qui il proprio luogo, esattamente come nelle sinagoghe. Ma non era più la<br />
Torah con la sua spiegazione e continuazione nella Halacha orale; piuttosto la dottrina degli aposto-<br />
li, che sicuramente comprendeva anche la trasmissione delle parole di Gesù, innanzi tutto le sue i-<br />
struzioni etiche (cfr. 1Cor 7,10.25), come pure l’interpretazione della sua storia alla luce del venerdì<br />
santo e della Pasqua. Già molto presto si sviluppò un modo peculiare di interpretare le Scritture, che<br />
cercava di mostrare come le promesse delle Scritture avevano ricevuto il loro adempimento<br />
nell’agire di Dio con Gesù. Se consideriamo che l’insegnamento della dottrina esige continuità, non<br />
è sbagliato immaginare che essa fosse rivolta a coloro che nel battesimo si erano sottomessi a un<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
impegno vincolante e quindi avevano un riferimento stretto alla comunità: coloro che mediante il<br />
battesimo erano stati incorporati nell’ambito della Signoria finale del Cristo innalzato, si trovavano<br />
uniti fra di loro in una relazione particolare. L’impegno vincolante della comunione con Cristo ave-<br />
va come conseguenza l’impegno vincolante dell’essere-con nella comunione dei battezzati.<br />
3.2. Un secondo segno distintivo è lo spezzare del pane (At 2,46; 20,7.11; 1Cor 10,16). Questo se-<br />
gno distintivo senza dubbio antico intende la cena del Signore, di cui mette in rilievo come pars pro<br />
toto l’elemento centrale dell’avvenimento della cena, attraverso cui si attua l’inclusione dei parteci-<br />
panti. Antichi sono anche i segni caratteristici che sottolineano il carattere di comunione: si parla di<br />
un «radunarsi assieme» (sunérchomai: 1Cor 11,17s.20.33s; 14,23) e di «essere assieme in un mede-<br />
simo luogo» (eínai epì tò autó: At 2,44; 1Cor 11,20; 14,23). Ora, uno degli elementi basilari della<br />
venuta della condizione escatologica era costituito proprio dal radunarsi del popolo di Dio disperso<br />
e, per estensione, di tutta l’umanità “in un medesimo luogo” intorno alla persona del Messia, perché<br />
si potesse attuare il giudizio del mondo e si stabilisse il regno di Dio 51 . Mediante la celebrazione<br />
della cena del discepolato, il Cristo rinnovava continuamente la sua comunione e dischiudeva la<br />
partecipazione alla salvezza finale. Nel primitivo tempo gerosolimitano la cena si celebrava «con<br />
giubilo» (en agalliásei: At 2,46), cioè in un’atmosfera escatologica, che si nutriva dell’esperienza<br />
della risurrezione. La certezza della comunione conviviale permanente con il risorto sfociava in<br />
un’attesa intensa del compimento escatologico creduto ormai prossimo.<br />
3.3. L’atmosfera di gioia e di speranza trovarono espressione immediata nelle forme liturgiche della<br />
celebrazione, cioè nelle preghiere. Il punto di partenza per lo sviluppo venne offerto dalle preghiere<br />
del pasto festivo giudaico, la preghiera di benedizione (berakah) sul pane al suo inizio e la preghiera<br />
di rendimento di grazie (kiddush) sul calice conclusivo (1Cor 10,16). Qui troviamo anche le radici<br />
per una indicazione come pars pro toto della cena come eucaristia, che se in verità è attestata espli-<br />
citamente solo attorno al passaggio al secondo secolo (Did. 9,1.5; Ign Ef 13,1; Phld 4; Sm 8,1), tut-<br />
tavia dovrebbe essere più antica. Come elemento integrante centrale della celebrazione della cena<br />
del Signore è tramandato il grido di invocazione aramaico: marana’ tha’ = «Signore nostro, vieni!»<br />
51 Il tema emerge qua e là nel vangelo: in Mt il regno di Dio è paragonato «a una rete gettata nel mare, che raduna ogni<br />
genere di pesci» (Mt 13,47), mentre, in termini ancor più espliciti, nella descrizione della parusia del Figlio dell’uomo<br />
leggiamo che, in quel giorno, «saranno radunate davanti a lui tutte le genti» (Mt 25,32). In Gv lo scopo della passione<br />
di Cristo e, per estensione, di tutta l’opera salvifica, non è solo la salvezza di Israele, «ma anche il radunare i figli di<br />
Dio che erano dispersi» (Gv 11,52). Non a caso Paolo offrendoci la più antica descrizione dell’eucaristia ci dice che la<br />
chiesa è riunita «in un medesimo luogo» (1Cor 11,20). Un riflesso del tema si ha già nella prima letteratura postapostolica;<br />
ad es. nella Didaché così si prega: «Come questo pane spezzato sui colli e radunato divenne una cosa sola,<br />
così la tua chiesa sia radunata dai confini della terra nel tuo regno» (9,4). Ecco perché si parla di sinassi eucaristica.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
(1Cor 16,22; cfr. Ap 22,17.20). Con questa invocazione la comunità implora (o confessa) la venuta<br />
presente del Signore innalzato alla comunione conviviale in attesa di partecipare con il Signore alla<br />
futura cena del compimento messianico, a cui la celebrazione attuale della cena rinvia come antici-<br />
pazione. Nell’orizzonte della cena si sviluppò quindi una particolare forma di preghiera cristiana 52 .<br />
4. Per quel che riusciamo a capire, la celebrazione della cena costituiva il motivo centrale per la rac-<br />
colta dei discepoli di Gesù. Ciò significa che la corrispondenza della comunità dei discepoli di Gesù<br />
con le comunità sinagogali giudaiche si limita all’aspetto sociologico 53 . È indubitabile quindi che la<br />
comunione di mensa sia stato il principio decisivo per la formazione della specifica autocompren-<br />
sione e coscienza di identità della primitiva comunità. Certamente questa coscienza di identità non<br />
comportava una delimitazione nei confronti di Israele. Le assemblee di mensa di Gerusalemme ave-<br />
vano luogo ancora all’ombra del tempio. Non che non ci fossero tensioni: i discepoli di Gesù ne e-<br />
rano consapevoli, e tuttavia speravano che si arrivasse a una soluzione prossima. Molto presto però<br />
si presenteranno dei fattori che muteranno la vicinanza in contrapposizione. Verosimilmente il pri-<br />
mo colpo venne sferrato dalla critica teologica al tempio dei giudeo-cristiani ellenistici della cerchia<br />
di Stefano (At 6,14), che riprese i motivi della polemica di Gesù contro il tempio e il culto del tem-<br />
pio erigendoli a principi fondamentali.<br />
f) Il nuovo stile di vita<br />
Dal punto di vista storico, l’ethos del cristianesimo delle origini si colloca tra ebraismo e paganesi-<br />
mo 54 . È l’ethos di un gruppo che deriva dall’ebraismo, ma che trovò la maggior parte dei suoi se-<br />
guaci nel paganesimo. L’ethos cristiano primitivo si distingue da quello ebraico solo per gradi, in-<br />
52 Rimane aperta la questione sulla frequenza della celebrazione della cena nella comunità originaria. Difficilmente si<br />
può ricavare da At 2,46 l’indicazione che essa fosse celebrata quotidianamente. Verosimilmente la celebrazione aveva<br />
luogo settimanalmente nel “primo giorno della settimana”, il “giorno del Signore” (At 20,7; cfr. Ap 1,10).<br />
53 Considerato il fatto che l’assemblea conviviale cristiana è orientata alla costituzione di una cerchia stabile di membri,<br />
cioè i battezzati, come pure la posizione centrale del pasto, qualcuno la mette in parallelo ai raduni dei gruppi farisaici<br />
(khaburot), che si impegnavano accanto allo studio della Legge a compiti caritativi. Anche i membri di queste khaburot<br />
si assegnavano degli obblighi stabili, e pare che essi celebrassero l’inizio del sabato con particolari tempi di pasto comuni<br />
(bEr 85b; bPes 101b). Ma a prescindere da ciò, per quel poco che ne sappiamo questi tempi di pasto in comune<br />
non avevano alcun significato costitutivo per la comunione. Il parallelo più vicino del giudaismo contemporaneo si ha<br />
nei pasti comunitari della comunità di Qumran, poiché anch’essa celebrava dei pasti liturgici di carattere fortemente escatologico<br />
che avevano un’importanza considerevole per l’autocomprensione del gruppo. Tuttavia a fronte di questa<br />
somiglianza, spicca la profonda differenza: i pasti di Qumran avevano un carattere sacerdotale, essi esprimevano visibilmente<br />
la separazione dal culto ufficiale del tempio. Al contrario, non troviamo un tale presupposto nelle assemblee<br />
conviviali precristiane. Il gruppo dei credenti in Gesù si radunava in queste assemblee conviviali non per sostituire il<br />
culto del tempio, bensì per obbedire al comando di Gesù e attestare così che erano sua proprietà. Se l’appartenenza era<br />
fondata sul battesimo; essa acquisiva la sua strutturazione mediante la celebrazione della cena.<br />
54 Ci ispiriamo per questa sezione alle riflessioni di G. THEISSEN, La religione dei primi cristiani. Una teoria sul cristianesimo<br />
delle origini (Torino: Claudiana, 2004) 93-158.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
tensificando e radicalizzando elementi già esistenti nell’ebraismo, con una tendenza a superarli in<br />
virtù di una «migliore giustizia» (Mt 5,20). Questa tendenza al superamento viene portata avanti<br />
nell’ambito pagano. In specie, il cristianesimo delle origini introduce nella società pagana due ele-<br />
menti provenienti dalla tradizione ebraica ma del tutto nuovi in questa forma: l’amore per il prossi-<br />
mo e l’umiltà. Il legame tra i due valori è il vero elemento innovatore all’interno del mondo pagano.<br />
Inoltre, essi si riferiscono a due dimensioni fondamentali dei rapporti sociali: l’amore concerne so-<br />
prattutto il rapporto tra chi si trova all’interno e chi all’esterno del gruppo. L’amore dei primi cri-<br />
stiani vuole superare questo confine. L’umiltà concerne, invece, il rapporto tra “alto” e “basso”.<br />
a) L’amore per il prossimo esiste già nell’AT e nell’ebraismo. Esso viene richiesto la prima volta<br />
nella Legge di santità: Lv 19,18 si riferisce all’amore nei confronti del vicino, che in linea di princi-<br />
pio gode del medesimo status. Questo amore per il prossimo si collega in Levitico 19 a un ethos o-<br />
rientale della carità abbastanza diffuso, che si riferisce ai deboli, alle vedove e agli orfani. Solo in<br />
Israele, però, la categoria di queste “persone miserevoli” viene estesa anche ai forestieri: Lv 19,34.<br />
Ora, l’ethos cristiano primitivo dell’amore per il prossimo è una radicalizzazione dell’ethos ebraico.<br />
Quel che c’è di nuovo è che il duplice comandamento dell’amore per Dio e per il prossimo si collo-<br />
ca al centro e viene esplicitamente definito come il più grande dei comandamenti. Anzi, in primo<br />
luogo, l’amore per il prossimo diviene amore per i nemici (Mt 5,43s). Si noti che qui il nemico non<br />
è soltanto il nemico personale: si parla infatti di «nemici» come di un gruppo che ha potere di perse-<br />
cuzione e di discriminazione. Perciò il comandamento non si rivolge ai singoli, bensì, al plurale, alla<br />
comunità: «amate i vostri nemici!».<br />
In secondo luogo, l’amore per il prossimo viene esteso fino a diventare amore per lo straniero (Lc<br />
10,25ss). Il samaritano della parabola si rivela essere il «prossimo» non perché abbia uno status che<br />
giustifichi tale definizione, ma per il suo comportamento.<br />
Infine, l’amore per il prossimo diventa amore per il peccatore (Lc 7,36ss).<br />
Questa estensione del concetto di amore si associa nella tradizione di Gesù a un rifiuto dell’amore<br />
nei confronti dei parenti più stretti: Lc 14,26. Ciò indica che l’amore si separa dal suo primo Sitz im<br />
Leben – l’amore all’interno del circolo parentale – per essere rivolto a coloro che in genere si trova-<br />
no al di fuori di questo gruppo ristretto: la “nuova famiglia di Dio” (Mc 3,31-35; par.). Non solo:<br />
con tale estensione, questo amore per il prossimo rischia di perdere la sua simmetria di principio.<br />
Quando Matteo distingue il comandamento dell’amore dei nemici da quello dell’amore per il pros-<br />
simo e rappresenta l’amore per il nemico come radicalizzazione dell’amore per il prossimo, egli<br />
omette, citando Lv 19,18, la “formula di equivalenza”. Egli non dice: «Avete inteso che fu scritto:<br />
ama il tuo prossimo come te stesso», ma soltanto «Ama il tuo prossimo» (Mt 5,43; diversamente in-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
vece Mt 19,19; 22,39). Matteo avverte giustamente che l’elemento dell’equivalenza deve venir me-<br />
no nell’amore per i nemici.<br />
Ciò nonostante, questa tendenza al riconoscimento dello stesso valore di altri esseri umani viene<br />
mantenuta. Soprattutto Luca vi si mostra molto sensibile: Lc 6,31; Lc 10,29ss; 7,47; 7,5…<br />
Gli sviluppi nel cristianesimo delle origini prendono però un’altra direzione: qui troviamo tendenze<br />
che vanno verso una certa restrizione del comandamento dell’amore. Ancora in 1Ts 3,12, Paolo<br />
mette sullo stesso piano l’«amore degli uni verso gli altri e verso tutti», ma in Gal 6,10 comincia<br />
gradualmente a fare alcune distinzioni: «Così, dunque, finché ne abbiamo l’opportunità, facciamo<br />
del bene a tutti, ma specialmente verso i fratelli nella fede». Giovanni va ancora oltre e sembra sca-<br />
vare un’opposizione tra il mondo e la comunità; qui l’amore è ormai solo «amore degli uni per gli<br />
altri» (Gv 13,34; 15,12.17) Nelle lettere di Giovanni, esso appare come «amore fraterno», ma limita-<br />
to alla comunità (1Gv 2, 10…). Tuttavia, non ci si deve ingannare: anche questo amore reciproco<br />
deve avere un effetto verso l’esterno. Esso dovrà essere un segno di distinzione dei discepoli di Ge-<br />
sù, che renderà possibile la loro identificazione da parte di tutti (Gv 13,35). Tutti sono potenzial-<br />
mente inclusi in questo amore, poiché Dio ha amato tutto il mondo e non solo gli eletti (Gv 3,16).<br />
Questa tendenza alla restrizione non è da interpretarsi semplicemente come perdita: il fatto che nella<br />
comunità l’amore sia sancito come nuovo Sitz im Leben, fa sì che anche la tendenza, in esso intrin-<br />
seca, all’uguaglianza fondamentale di tutti emerga in maniera più chiara, e ciò specialmente in Pao-<br />
lo, in Giacomo e in Giovanni: si vedano le esortazioni di Paolo ai forti nei confronti dei deboli<br />
(1Cor 8,9ss; Rm 14,15; Filem 16); Gc 2,1-11; l’episodio della lavanda dei piedi (Gv 13,1ss), in cui<br />
Gesù, il Signore e il Maestro, nell’esercitare il sevizio dello schiavo manifesta l’estremo dell’amore<br />
e rivela tutto ciò che il Padre gli ha rivelato, facendo dei discepoli i suoi amici (Gv 15,15).<br />
Troviamo quindi nell’elaborazione del comandamento dell’amore nel cristianesimo delle origini due<br />
tendenze: da una parte, il superamento dei confini tra gruppo esterno e gruppo interno; dall’altra, il<br />
superamento dei limiti gerarchici tra «alto» e «basso».<br />
b) Se l’amore per il prossimo si rivolge fondamentalmente al vicino e al prossimo ma riscontra o-<br />
vunque reali disuguaglianze, la relativizzazione e il superamento delle differenze di status devono<br />
necessariamente diventare un valore complementare. Nella tradizione biblica la rinuncia allo status<br />
corrisponde spesso a un innalzamento di status: umiliazione ed elevazione sono associate. Alcune<br />
particolarità dell’umiltà nel cristianesimo primitivo si evincono già da una breve analisi delle prin-<br />
cipali affermazioni al riguardo. Nel cristianesimo primitivo si può parlare di cambio di posizione<br />
come di scambio fra il primo e ultimo (cfr. Mc 10,31; Mt 19,30; 20,16; Lc 13,30) o di relazione in-<br />
terna tra umiliare ed elevare (Lc 14,11; 18,14; Mt 23,12; Fil 2,6ss; 2Cor 11,7; Gc 4,10). Ma la va-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
riante più caratteristica del cambio di posizione è soprattutto l’umiliazione di sé che mira<br />
all’elevazione di altri: Mc 10,43; cfr. 9,35 e Mt 23,11. È tipico del cristianesimo delle origini fare<br />
della rinuncia allo status una condizione per l’autorità all’interno della comunità. L’umiltà, normal-<br />
mente un atteggiamento degli schiavi e di chi è sottomesso, diventa così la caratteristica distintiva di<br />
coloro che vogliono assumere posizioni di guida nella comunità.<br />
Nella letteratura epistolare si invita all’umiltà come atteggiamento interiore, anzi all’umiltà recipro-<br />
ca (Fil 2,3; Rm 12,16; Ef 4,2; 1Pt 5,5).<br />
Come si giunse alla scoperta di questa nuova virtù sociale? Il primo passo si ha quando il timore di<br />
Dio diventa non solo espressione di timida paura di fronte all’arbitrio della divinità, ma immagine<br />
di speranza: cfr. il cantico di Anna (1Sam 2,6s). In secondo luogo questa virtù comincia ad essere<br />
inserita nell’ideale dei re: cfr. Zc 9,9. Il terzo passo fu compiuto solo in piccoli gruppi comunitari:<br />
cfr. già all’interno dei rotoli di Qumran (1Qs 2,23-25).<br />
L’ethos cristiano primitivo dell’umiltà porta fino in fondo questi tre presupposti, con due tendenze:<br />
nella tradizione sinottica l’assioma del cambio di posizione agisce insieme al richiamo alla rinuncia<br />
allo status; le esortazioni all’umiltà, come atteggiamento determinante per l’azione compaiono nella<br />
letteratura epistolare sotto la forma di umiltà reciproca, finché questa diverrà verso la fine<br />
dell’epoca cristiana primitiva un’umiltà della sottomissione unilaterale.<br />
Nei Sinottici troviamo nel Cantico di Maria la prima delle condizioni indicate: l’azione di Dio è in-<br />
terpretata come umiliazione salvifica ed elevazione (Lc, 1,52). Questo cambio di posizione si mani-<br />
festa in particolare nella nascita del Messia. Si trova nei Sinottici anche la seconda condizione: un<br />
ideale di regno umano, del quale fa parte l’autolimitazione del potere per via della rinuncia allo sta-<br />
tus. Gesù è colui che realizza questo ideale: egli è re umile che entra in Gerusalemme in groppa a un<br />
asino (Zc 9,9 = Mt 21,5; cfr. Gv 12,15). Egli è il sovrano Figlio di Dio, che potrebbe esercitare tutti i<br />
poteri divini, ma che vi rinuncia per percorrere il cammino fino all’estrema umiliazione sulla croce.<br />
Come Figlio dell’uomo che non è venuto per farsi servire ma per servire tutti con il sacrificio della<br />
propria vita, egli è allo stesso un esempio per i suoi discepoli (Mc 10,45) e una contro-immagine<br />
speculare dei sovrani della terra che opprimono i popoli e abusano del loro potere (Mc 10,42). Tra i<br />
discepoli, quindi, avrà autorità solo colui che è disposto a essere servo o schiavo di tutti. In questa<br />
tradizione sinottica, l’umiltà non è una virtù degli umili, che devono semplicemente accettare la<br />
propria posizione inferiore, bensì è l’imitazione del Signore dell’universo che rinuncia spontanea-<br />
mente al proprio status. L’umiltà è una virtù del potente.<br />
Nella letteratura epistolare cristiana primitiva prende inizio una nuova evoluzione: qui l’umiltà si<br />
lega alla terza condizione sopraccitata: al sua collocazione nelle comunità locali. Qui l’umiltà non è<br />
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un atteggiamento servile di fronte ai sovrani, bensì un comportamento da tenere nei confronti di<br />
chiunque, a prescindere dal suo status sociale. Essa è imitatio di colui che ha abbandonato il status<br />
superiore per portare la salvezza agli esseri umani attraverso l’umiliazione di se stesso.<br />
Rispetto alla tradizione sinottica qui si aggiunge un nuovo elemento: nelle comunità si pretendono<br />
reciprocamente l’umiltà e la rinuncia allo status. Il legame interno tra amore e umiltà si evince da<br />
Gal 5,13, dove Paolo esorta: «Per mezzo dell’amore siete a servizio gli uni gli altri»; cfr. Fil 2,2s;<br />
1Cor 13,5; Rm 12,9ss; Ef 4,2. Paolo poi lega l’ethos dell’umiltà reciproca a una visione critica delle<br />
autorità comunitarie: 1Cor 3,21-23; 2Cor 11,7.<br />
Questo tema si precisa nella 1 Pietro, in cui all’umiltà reciproca si aggiunge l’invito a sottomettersi<br />
agli anziani della comunità: 1Pt 5,5. La Prima Clementis va ancora oltre: in essa l’umiltà non è più<br />
un fatto di reciprocità, ma è il riconoscimento unilaterale delle autorità comunitarie (1Clem 56,1).<br />
c) Questi due valori fondamentali si riflettono poi sulle altre norme e valori. Qui accenneremo ai lo-<br />
ro riflessi su quattro ambiti: potere, proprietà, sapere e santità.<br />
- Circa il primo, il potere, notiamo che le tre caratteristiche che nei Salmi di Salomone (17) erano<br />
proiettate sul futuro re messianico – potere teocratico, realizzazione della pace, vittoria sui nemici –<br />
sono ora legate ai seguaci di Gesù, cioè a persone umili provenienti dal popolo; anzi la basileia di<br />
Dio viene aperta a tutti i pagani (Mt 8,11). L’attesa messianica tradizionale è stata trasformata in un<br />
messianismo di gruppo (il regno dei cieli appartiene ai poveri in spirito: Mt 5,3; i figli di Dio sono<br />
esentati dal pagamento di particolari imposte: Mt 17,24ss; i dodici giudicheranno le tribù di Israele:<br />
Mt 19,28; i cristiani regneranno con Cristo: Rm 5,17; giudicheranno gli angeli: 1Cor 6,3; i cristiani<br />
già regnano: 1Cor 4,8…), i cui nemici non sono le altre nazioni, ma Satana e i demoni (Mt 12,28).<br />
- Anche nei confronti della proprietà e della ricchezza è un fatto riconosciuto che la carità cristiana<br />
(rivolta di preferenza ai poveri e ai deboli) ha preso il posto dell’evergetismo antico. In proposito<br />
sono importanti i due passi: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35); e le opere di mise-<br />
ricordia di Mt 25,31ss. Questi atteggiamenti filantropici, che nell’antichità connotavano i compor-<br />
tamenti delle classi elevate, diventano ora condotte tipiche anche dei poveri (cfr. la vedova: Mc<br />
12,41-44). Per quanto, poi, riguarda le motivazioni psicologiche troviamo la moderata messa in<br />
guardia contro l’avidità o pleonexia (cfr. Mc 7,22; Lc 12,15; Col 3,5; Ef 5,3): essa fa parte<br />
dell’idolatria (Col 3,5; Ef 5,5) ed esclude dal regno di Dio (1Cor 6,10; Ef 5,5). Più radicale è<br />
l’esigenza contenuta nella tradizione sinottica di liberarsi anche dalle preoccupazioni per i bisogni<br />
elementari della vita, e non solo dal desiderio del superfluo: Mt 6,25ss. Il motivo di fondo sta<br />
nell’esempio dato dal Cristo stesso che, come ha rinunciato al potere di questo mondo, è divenuto<br />
prototipo della rinuncia alla povertà: 2Cor 8,9.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
- In modo simile le indicazioni precedenti valgono anche per la sapienza. Anche qui Cristo incarna<br />
il cambiamento radicale dei paradigmi: colui che è la sapienza stessa di Dio si fece follia (1Cor<br />
1,18ss). Notiamo innanzi tutto che nei sinottici Gesù ha trovato nuovi destinatari della sapienza di<br />
Dio, non i «sapienti e gli intelligenti» ma piuttosto i piccoli, coloro che sono gravati dal lavoro (Mt<br />
11,28ss; cfr. al contrario di Sir 38,24-39,11) e persino le donne (Lc 10,38-42). In Paolo questo pro-<br />
cesso di capovolgimento continua: la sapienza della croce di fronte al mondo sembra pazzia, ma in<br />
realtà è la vera sapienza (1Cor 1,26ss; cfr. Gc 3,13-18). Questa sapienza si concentra infine non nel-<br />
la torah, ma ultimamente nella persona di Gesù (Mt 12,42; Col 2,3; Gv 1,1ss): trasmessa da lui, essa<br />
diventa accessibile a tutti, in Israele e anche oltre i suoi confini (al contrario delle correnti apocalit-<br />
tiche che la riservano a pochi e rari visionari: Enoch etiopico, 42,1-2).<br />
- I potenti e i ricchi tendono a circondare la loro potenza e la loro ricchezza con l’aura del sacro e<br />
della legittimità. Sapienti e sacerdoti amministrano quest’aura, poiché il loro vero potere è quello<br />
della definizione: secondo Lv 10,8 ai sacerdoti spetta di discernere ciò che è santo da ciò che è pro-<br />
fano, ciò che è impuro da ciò che è puro. Ora, il mantenimento dello status proprio dei sacerdoti si<br />
otteneva in Israele attraverso una serie di restrizioni circa la discendenza, il comportamento matri-<br />
moniale e tramite l’irrigidimento dei tabù. Dall’altra parte, Israele è consapevole che a tutto il popo-<br />
lo Dio chiede: «Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv 19,2; 22,31ss). Tutto il<br />
popolo riceve la profezia: «sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa» (Es 19,6). Nel<br />
movimento di Gesù questa tendenza all’estensione della santità viene addirittura dilatata ai non e-<br />
brei, quando questi si convertono alla fede cristiana. Il mantenimento dello status sulla base della<br />
discendenza nel cristianesimo viene completamente eliminato (cfr. già la predicazione del Battista:<br />
Mt 3,9ss). Nel cristianesimo la potenza che conferisce la santità e la purità è lo Spirito santo, che ri-<br />
veste Gesù e in seguito inabita i cristiani, conferendo loro lo statuto di figli di Dio, indipendente-<br />
mente dalla discendenza e dalla loro origine (Rm 8,4; Gal 4,6). Tutti i battezzati sono «santi» (Rm<br />
1,7; 1Cor 1,12 passim): sono tutti nella condizione che prima apparteneva soltanto ai sacerdoti. Es-<br />
si, pertanto, devono comportarsi in maniera irreprensibile, poiché i loro corpi sono tempio dello Spi-<br />
rito Santo (1Cor 6,18s); è il loro corpo l’offerta vivente, santa e gradita che devono offrire a Dio<br />
(Rm 12,1). Mediante Cristo, tutti sono «lavati, santificati, giustificati» (1Cor 6,11): il battesimo<br />
quindi purifica, porta alla santificazione e conduce verso una nuova vita etica, fatta di giustizia. I<br />
cristiani formano in quanto comunità, un «edificio spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacri-<br />
fici spirituali» (1Pt 2,5); di conseguenza devono comportarsi in modo esemplare tra i pagani (1Pt<br />
2,11s). Questo ethos si fonda sull’evento della risurrezione di Gesù Cristo, la quale ha dato inizio a<br />
una nuova realtà in mezzo al vecchio mondo, aprendo nuove possibilità di comportamento.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
g) La formazione di una propria struttura organizzativa<br />
Ogni vita associata che non dipende dalla pura spontaneità del momento, ma piuttosto vuole essere<br />
stabile e continua, ha bisogno di strutture permanenti. I compiti devono essere ripartiti, le responsa-<br />
bilità devono essere delegate a persone o a gruppi di persone. A dire il vero noi conosciamo poco<br />
circa lo sviluppo della costituzione comunitaria e delle strutture di direzione in Gerusalemme. Dob-<br />
biamo affidarci a notizie più o meno incidentali presenti negli Atti e nelle lettere paoline. Quanto<br />
poi alle considerazioni teologiche e pratiche sottostanti a questo sviluppo ne sappiamo ancora meno.<br />
Qui noi non possiamo fare altro che offrire delle congetture. Tuttavia al fondo del materiale a dispo-<br />
sizione possiamo cogliere almeno due elementi comprensivi:<br />
(1) Nei primi due decenni fino al “concilio apostolico” (ca. 48) i rapporti all’interno della comunità<br />
cristiana furono in rapido mutamento. Si susseguirono e in parte esistettero l’uno accanto all’altro<br />
diversi modelli costitutivi. Qualcuno parla di una fase di esperimenti, in cui si cercò di rispondere<br />
convenientemente alle necessità esterne in divenire e nello stesso tempo di conferire all’auto-<br />
comprensione comunitaria ancora fluttuante un’espressione appropriata.<br />
(2) Se si cerca di ricondurre questo sviluppo a un denominatore comune, allora abbiamo a che fare<br />
con una crescente caratterizzazione istituzionale nei confronti del giudaismo. Da movimento escato-<br />
logico di raccolta di Israele oramai esso diviene la Chiesa di Gesù.<br />
Si può giungere ad un’appropriata comprensione della storia della costituzione della Chiesa primiti-<br />
va solo se si resiste alla tentazione ovvia di costringerla nel reticolo delle posizioni confessionali<br />
dell’età moderna. Queste sono inadeguate. Se sul versante cattolico si è sempre cercato di rintraccia-<br />
re nella comunità primitiva gli inizi di uno sviluppo organizzativo ininterrotto che avrebbe condotto<br />
all’ordinamento gerarchico posteriore, al contrario gli interpreti evangelici, che negavano tutto ciò,<br />
vi hanno trovato una conferma della propria posizione critica per principio nei confronti del ministe-<br />
ro: la comunità primitiva si sarebbe caratterizzata per una vita comune determinata solamente da<br />
una comunicazione spontanea e libera da strutture di ordinamento. La tesi di una costituzione «cari-<br />
smatico-democratica» senza persone speciali che detengono un ufficio, è sostenuta fino ad oggi dal-<br />
la teologia protestante, anche se in generale non più nella formulazione radicale di R. Sohm, il qua-<br />
le, prendendo a modello la comunità di Corinto, opponeva la «Chiesa dello spirito e della carità» al-<br />
la «Chiesa del diritto». Si vedano ad es. le riflessioni di H. von Campenhausen:<br />
«La comunità non è dunque vista in Paolo come una organizzazione sempre strutturata, gerarchizzata<br />
o stratificata, bensì come un cosmo vivente, unitario, di liberi doni spirituali che si servono e<br />
si integrano a vicenda e i cui depositari non possono mai elevarsi gli uni sopra gli altri o chiudersi<br />
gli uni agli altri. Dal momento che ogni costrizione, ogni potere permanente di comando è espressamente<br />
escluso, il quadro della comunità che così si presenta, se inteso nel senso di un ordina-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
mento sociale umano, è utopistico». E ancora: «Per un ufficio di direzione secondo il tipo del presbiterio<br />
o del posteriore episcopato monarchico, non c’è posto in Corinto, né in pratica, né in linea<br />
di principio» 55 .<br />
Ora, è certamente un errore pretendere che le comunità paoline avessero già un’organizzazione ca-<br />
nonica, visto che questa sorge da situazioni e prospettive posteriori. L’età apostolica gode di norme<br />
speciali, poiché l’«apostolo» in senso paolino, cioè l’«inviato di Gesù Cristo», chiamato personal-<br />
mente da Dio al suo servizio, è una figura eccezionale, così come il carismatico abilitato immedia-<br />
tamente dallo Spirito al suo servizio nella comunità. Questo ordinamento «apostolico» e «pneumati-<br />
co» è, però, essenzialmente diverso da quello «canonico» o «gerarchico»? Eduard Schweizer osserva<br />
giustamente che «libertà dello spirito e ordinamento giuridico» non si possono contrapporre e non si<br />
escludono a vicenda. Egli, però, presenta questo ordinamento nei seguenti termini:<br />
«È lo Spirito di Dio, che indica nella libertà quello che l’ordinamento della comunità poi riconosce:<br />
questo è dunque funzionale, regolativo, di servizio, non costitutivo; e proprio questo è determinante»<br />
56 .<br />
Rinviando a più oltre la questione decisiva, se un determinato ordinamento o costituzione fosse «co-<br />
stitutivo» già per la Chiesa primitiva, qui ci limitiamo a raccogliere i “dati” a disposizione.<br />
1. Nel tempo post-pasquale primitivo i dodici costituirono il centro attorno al quale si raccolse la<br />
comunità. Essi dal loro sorgere rappresentavano il simbolo kerigmatico di quella raccolta di tutto I-<br />
sraele a cui mirava Gesù. Per questo agli occhi delle persone che si univano a loro, essi erano prima-<br />
riamente i “testimoni” dell’innalzato, segni viventi del regno che viene e centro del popolo di Dio<br />
della fine dei tempi oramai in processo di raduno visibile. Osserviamo che i dodici non devono esse-<br />
re identificati in modo puro e semplice con la prima successiva cerchia degli apostoli e che come<br />
singoli non sembra abbiano esercitato un’attività missionaria al di fuori di Gerusalemme; piuttosto<br />
essi furono attivi con la loro comune testimonianza nella città santa.<br />
2. Pietro godeva nel gruppo dei dodici di una posizione di preminenza essendo il confidente più<br />
stretto di Gesù e il primo testimone della risurrezione (1Cor 15,5). Egli agiva anche in modo indi-<br />
pendente, precisamente sia come portavoce della comunità verso l’esterno (At 3,1-10; 5,15) e di<br />
fronte alle autorità giudaiche (At 3,11-26; 4,8-22) sia come colui che regolava le questioni interne<br />
(At 5,1-11). La tradizione lo presenta come un instancabile predicatore, che grazie al dono dello<br />
Spirito diventa un testimone coraggioso (At 2,14), e come una guida autorevole della comunità; at-<br />
55<br />
H.F. VON CAMPENHAUSEN, Kirchliches Amt und geistliche Vollmacht in den ersten drei Jahrhunderten (Tübingen<br />
1953) 69,71.<br />
56<br />
E. SCHWEIZER, Gemeinde und Gemeindeordnung im Neuen Testament (Zürich 1959) 186.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
traverso la sua parola lo Spirito interviene a liberare come pure a giudicare la vita della comunità (At<br />
5,1-11). Un ruolo simile, anche se in posizione inferiore, si può attribuire a Giovanni di Zebedeo e<br />
(presumibilmente) anche a suo fratello Giacomo (At 12,2).<br />
3. Il primo organo direttivo ecclesiale in senso proprio si incontra nel gruppo dei sette ellenisti at-<br />
torno a Stefano (At 6,5). Sebbene Luca ci informi solo in modo molto frammentario sulle circostan-<br />
ze e il retroterra da cui emerge questo gruppo, siamo in grado di ricostruirli in modo più o meno<br />
plausibile. Gli “ellenisti” sono Giudei di lingua greca, venuti dalla diaspora, che avevano aderito al-<br />
la fede in Gesù e tuttavia tenevano assemblee liturgiche proprie. Alla base di questo comportamento<br />
ci possono essere motivazioni linguistiche, anche se queste probabilmente non erano decisive: di<br />
fatto risulta anche che c’erano differenze teologiche, poiché gli ellenisti, diversamente dalla comu-<br />
nità di lingua aramaica, avevano una posizione critica nei confronti del culto del tempio. È chiaro<br />
che questi ellenisti non erano oppure non erano sufficientemente integrati nel sistema della assisten-<br />
za sociale e dei compensi finanziari, che erano stati istituiti nella comunità di lingua aramaica: que-<br />
sto dovrebbe essere l’elemento di verità della presentazione lucana che parla di un conflitto circa<br />
l’assistenza delle vedove degli ellenisti (At 6,1). Essi si trovarono perciò nella necessità di istituire<br />
un proprio sistema di assistenza, così come in fin dei conti accadeva in ciascuna comunità sinagoga-<br />
le. La costituzione organizzativa scelta da loro rientra totalmente all’interno del tradizionale mondo<br />
giudaico. L’organo dei sette corrispondeva cioè alla struttura di direzione delle comunità sinagogali<br />
locali, alle quali presiedeva un organismo di sette anziani con un compito analogo: all’esterno do-<br />
veva rappresentare la comunità e all’interno preoccuparsi dello svolgimento ordinato della sua vita.<br />
Così gli ellenisti per primi fecero l’esperienza che bisogni amministrativi e sociali potevano rendere<br />
necessaria la creazione di ministri.<br />
4. Presto il gruppo dei dodici si trasformò e si allargò al gruppo degli apostoli. Dopo che Giacomo<br />
di Zebedeo subì il martirio durante la persecuzione di Erode Agrippa nell’anno 44 (At 12,2) si ri-<br />
nunciò a indire un’elezione suppletiva: la potenza kerigmatica del numero dodici apparentemente<br />
aveva perso di incisività 57 . Questo fatto ci fa pensare all’inizio di un processo di cambiamento di pa-<br />
radigma: fino ad allora i fattori decisivi erano l’attesa imminente del Regno e con essa la raccolta e<br />
57 O forse come suggerisce Christian Grappe la missione dei Dodici, i quali costituiscono sia il nucleo dell’Israele del<br />
tempo finale sia i giudici futuri delle dodici tribù, non poteva che terminare con la morte. Pertanto, mentre l’apostasia di<br />
Giuda Iscariota creò un vuoto in seno al gruppo e costrinse i rimanenti a indire un’elezione suppletiva perché «la sua<br />
parte di eredità» (At 1,20) fosse attribuita ad altri cosicché non fossero messe in pericolo l’esistenza e il significato del<br />
gruppo, alla morte tragica di Giacomo non ci fu alcuna altra elezione: egli, infatti, aveva portato a termine la sua missione:<br />
C. GRAPPE, D’un temple à l’autre. Pierre et l’Eglise primitive de Jérusalem (Paris: PUF, 1992) 147.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
il compimento di tutto Israele, da ora diventano la legittimazione ricevuta dal Signore risorto e il<br />
compito di raccogliere missionariamente la comunità di salvezza.<br />
4.1. Per questo rileviamo che a Gerusalemme sono stati applicati rigorosi criteri per stabilire chi ap-<br />
parteneva alla cerchia degli apostoli. Infatti può rivendicare il titolo di apostolo solo chi «ha visto il<br />
Signore» (1Cor 9,1), cioè chi è stato testimone di un’apparizione del Risorto. Le apparizioni del Ri-<br />
sorto erano avvenute in un periodo cronologico relativamente ristretto; Paolo non solo presenta la<br />
sua cristofania, occorsagli all’incirca due anni dopo le apparizioni a Pietro, come l’ultima, ma la<br />
qualifica pure come un’eccezione (1Cor 15,8-11) — anche per la differenza cronologica dalle altre<br />
apparizioni. Per questo la “testimonianza” venne intesa in un senso contenutisticamente qualificato:<br />
decisiva infatti non era tanto la pura visione del Risorto, ma piuttosto l’aver ricevuto insieme con<br />
quella anche un incarico. Da una parte ciò trova la sua espressione nella struttura formale di quelle<br />
tradizioni pasquali delle apparizioni del Risorto davanti al gruppo dei discepoli che sfociano in una<br />
parola di incarico, che ha di mira la raccolta e la guida della comunità di salvezza nel nome di Gesù<br />
(Mt 28,16-20; Lc 24,36-49; At 1,3-8; Gv 20,19-23; Mc 16,9-20). D’altra parte anche Paolo nel reso-<br />
conto della sua vocazione in Gal 1,15 si richiama espressamente a un incarico conferitogli da Dio.<br />
4.2. Coloro che erano stati chiamati in questo modo compresero di essere stati personalmente costi-<br />
tuiti e inviati quali messaggeri, che dovevano rendere noto pubblicamente l’evento salvifico in vista<br />
della raccolta della comunità salvifica del tempo finale. La parola greca apóstolos, che divenne un<br />
termine apposito per designare questa funzione, è proprio di formazione cristiana: essa è sorta pro-<br />
babilmente come traduzione dell’espressione protogiudaica shaliah. L’espressione faceva parte del<br />
vocabolario del diritto di rappresentanza, le cui radici si trovano nell’antico diritto semitico del mes-<br />
saggero (cfr. 1Sam 25,40; 2Sam 10,1ss) e che al tempo rabbinico ha trovato la sua formulazione più<br />
pregnante nel principio: «l’inviato di un uomo è come lui stesso» (Ber. V,5). Ciò significa che<br />
l’incaricato è di diritto il rappresentante di colui che gli ha dato l’incarico. Egli, in virtù della mis-<br />
sione conferitagli, è autorizzato e obbligato a rappresentarne gli interessi. La missione vale solo in<br />
absentia e cessa alla presenza del ritorno di colui che lo ha inviato.<br />
4.3. Considerati i criteri richiesti, il gruppo degli apostoli in Gerusalemme era un gruppo stabile e<br />
chiuso; i suoi membri erano noti a tutti. Ciononostante non ci è più possibile dare un nome a tutti<br />
quelli che vi facevano parte — è verosimile che i dodici fossero annoverati tra gli apostoli, come pa-<br />
re dica 1Cor 15,5 («… ed apparve a Cefa, poi ai dodici»). Poiché se Cefa/Pietro, il portavoce del<br />
gruppo dei dodici era considerato apostolo in ragione della sua apparizione pasquale, lo stesso do-<br />
vrebbe valere anche per gli altri membri del gruppo. Probabilmente anche Giacomo, il fratello del<br />
Signore, era apostolo. Ciò risulta dall’espressione di Paolo formulata probabilmente in analogia in-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
tenzionale a 1Cor 15,5 «poi apparve a Giacomo, infine a tutti gli apostoli» (1Cor 15,7), che nomina<br />
le persone allora decisive nella comunità di Gerusalemme (cfr. Gal 1,18) e nello stesso tempo allude<br />
allo spostamento del rapporto di direzione; se all’inizio le persone determinanti erano stati i dodici<br />
e, come loro esponente, Pietro, oramai sono quelli attorno a Giacomo come uno degli apostoli.<br />
4.4. Gli apostoli, come già il gruppo dei dodici, inizialmente risiedevano ancora in prevalenza a Ge-<br />
rusalemme (cfr. Gal 1,17.19). La loro autocomprensione perciò non era ancora determinata dall’idea<br />
di un invio missionario esteso al mondo. Essi probabilmente ritenevano che il loro compito fosse<br />
quello di raccogliere la comunità di salvezza in Gerusalemme, il luogo dell’atteso compimento di<br />
Israele. E tuttavia con il passaggio dai dodici agli apostoli ebbe luogo un significativo spostamento<br />
di accenti: l’idea della ricostituzione dell’Israele delle dodici tribù nella pienezza attesa per il tempo<br />
finale retrocesse a favore della creazione di una comunità convocata su incarico di Gesù.<br />
4.5. Ma così è posto il fondamento per comprendere questa comunità come una comunità autonoma<br />
con confini ben delimitati. Se gli apostoli sono i portatori esclusivi legittimati da Gesù Cristo e, con<br />
la fine delle apparizioni del risorto, definitivi dell’annuncio salvifico, allora ciò che viene messo in<br />
rilievo e delimitato è l’ambito storico nel quale si può ascoltare l’annuncio di salvezza. Chi è «assi-<br />
duo all’insegnamento degli apostoli» (At 2,42), chi si unisce a loro e diviene membro della comuni-<br />
tà, si trova in una relazione vincolante di subordinazione all’evento salvifico attuatosi nell’agire di<br />
Dio in Cristo. Se il gruppo dei dodici era stato un simbolo pieno di speranza che anticipava la sal-<br />
vezza futura, allora nell’apostolato si esprime il riferimento vincolante all’agire salvifico di Dio già<br />
attuatosi e la possibilità di sottomettersi alla sua azione salvifica presente.<br />
4.6. Da questa comprensione del ministero apostolico come incarico missionario del risorto risultò<br />
uno sviluppo, nel corso del quale l’incarico missionario acquisì un significato centrale per<br />
l’autocomprensione degli apostoli. Il motore di questo sviluppo fu in primo luogo Pietro, che come<br />
primo membro del gruppo gerosolimitano degli apostoli operò missionariamente in Giudea e nella<br />
regione costiera (At 9,32-43), e con questa sua attività guadagnò alla comunità persino uomini che<br />
appartenevano ai cosiddetti “timorati di Dio” (At 10). In seguito fu Paolo che diede all’apostolato<br />
l’orientamento missionario univoco. Nella misura in cui l’azione degli apostoli si spostò verso<br />
l’esterno, si ridusse il loro significato per la direzione della comunità di Gerusalemme.<br />
5. In ogni caso constatiamo nella Gerusalemme degli anni 40 un mutamento significativo nella dire-<br />
zione della comunità. Il fatto che questo si attuò in una parziale continuità del personale direttivo,<br />
non deve far passare in secondo piano il cambiamento delle indicazioni della funzione poiché in es-<br />
so si esprime una nuova accentuazione della comprensione teologica delle funzioni direttive.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
5.1. Probabilmente in connessione con la persecuzione della comunità primitiva sotto Agrippa I, che<br />
mirava con la forza a una restaurazione giudaica nazionalistica (At 12,1), Pietro fu costretto a rinun-<br />
ciare alla direzione della comunità e almeno temporaneamente ad abbandonare la città. Forse egli si<br />
era screditato agli occhi dei rigoristi giudaici col suo comportamento lassista nei confronti della<br />
Legge; per questo per la comunità, che non voleva abbandonare la sua collocazione all’interno del<br />
giudaismo, era diventato persona ormai “compromessa”. Gli subentrò Giacomo il fratello del Signo-<br />
re (At 12,17). Lo incontriamo anche nel resoconto che Paolo fa del concilio apostolico, a dire il vero<br />
non espressamente come apostolo, ma come membro di un organismo direzionale a tre, nel quale<br />
c’erano anche Pietro e Giovanni di Zebedeo; un organismo che porta la duplice indicazione de «gli<br />
autorevoli» (oi dokountes) (Gal 2,2) e «le colonne» (oi stùloi) (Gal 2,9). La metafora «colonne» a-<br />
scrive a questo organismo a tre una funzione fondante e portante, sul cui sfondo possiamo intrave-<br />
dere la rappresentazione fondamentale per l’<strong>ecclesiologia</strong> della comunità santa come del tempio fi-<br />
nale di Dio (cfr. Ap 3,12). In Gerusalemme, la città del tempio antico, è già iniziata l’edificazione<br />
del nuovo e definitivo tempio di Dio: la comunità di salvezza, fondata e sostenuta dai tre uomini che<br />
Dio ha scelto per questo incarico. In ogni caso è chiaro che nella designazione «colonne» si esprime<br />
la coscienza di essere centro e autorità determinante della comunità di salvezza e, come pure la cer-<br />
tezza che questo centro ha il proprio luogo naturale ed ereditario esclusivamente in Gerusalemme.<br />
5.2. Questo ministero delle «colonne» non ebbe certo una lunga durata — Gal 2,9 è poco più che<br />
un’istantanea che fissa una fase transitoria di uno sviluppo in corso dello stabilirsi dell’autorità soli-<br />
taria di Giacomo. Già poco dopo il concilio apostolico Pietro probabilmente abbandonò per sempre<br />
la città, e anche le tracce di Giovanni si perdono. Rimase come unica figura normativa solo Giaco-<br />
mo. Paolo durante l’ultima sua visita a Gerusalemme lo incontrò come guida autorevole che pren-<br />
deva le decisioni con un potere individuale e pieno (At 21,18). Da dove gli derivava questa posizio-<br />
ne? Di certo dall’autorizzazione ricevuta dal Risorto; egli infatti era ritenuto un «apostolo» e una<br />
«colonna». In modo simile anche la sua parentela con Gesù deve aver avuto un ruolo importante. Se<br />
questo sicuramente contribuì a rafforzare il suo prestigio, tuttavia non fu l’unico motivo. Decisiva fu<br />
infine la sua autorità carismatica, con cui egli riuscì non solo a tenere assieme le forze e correnti dif-<br />
ferenti nella comunità gerosolimitana, ma persino ad esercitare un influsso considerevole anche<br />
all’interno di Gerusalemme. Lo stesso Paolo, con cui è probabile non ci fosse una sintonia teologica<br />
piena, nelle sue lettere non accenna mai ad una polemica contro Giacomo.<br />
5.3. A fianco di Giacomo troviamo un gruppo di anziani (At 15,2.4.22s; cfr. 21,18). Questo gruppo<br />
sta in una qualche analogia col primitivo sviluppo nei gruppi comunitari ellenistici del tempo, dove<br />
i sette costituivano già un organismo di anziani. La costituzione di anziani è caratteristica del-<br />
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l’ambito giudaico. Nella sinagoga gli anziani erano i rappresentanti della tradizione, che tramanda-<br />
vano la loro esperienza e la loro conoscenza della Legge, garantendo così la continuità della vita<br />
comunitaria. Ciò che qualificava l’anziano era la maturità e la sapienza di vita; ecco perché di regola<br />
essi erano uomini di età avanzata. Nella comunità primitiva le cose erano più o meno simili. Qui gli<br />
anziani erano dei cristiani provati, che come organismo dovevano decidere su precise questioni ri-<br />
guardanti la comunità e come singoli a seconda del bisogno offrivano aiuto e servizi amministrativi.<br />
In ogni caso gli anziani rappresentano un elemento di un ordinamento costituzionale. Questa imma-<br />
gine dell’ordinamento gerosolimitano del decennio tra il 50 e il 60 - Giacomo dotato di autorità ca-<br />
rismatica come guida spirituale di una Chiesa locale, in compagnia di un organismo di anziani, che<br />
tutelava gli interessi tecnico-amministrativi — con qualche precisazione potrebbe offrire l’anticipa-<br />
zione del modello del monoepiscopato, che pochi decenni più tardi si affermò in modo generale.<br />
g) Le autodesignazioni<br />
1. La più antica autodesignazione dei seguaci di Gesù in Gerusalemme è forse “discepoli” (matheta-<br />
í) (At 6,1s.7; 9,26; cfr. 9,10.19). Il termine esprime la coscienza della continuità con la cerchia della<br />
sequela del Gesù prepasquale. Decisiva qui non è la conoscenza diretta e personale di Gesù, ma<br />
piuttosto la relazione di fede in lui, che si esprime nell’impegno nei confronti della sua dottrina e<br />
nel legame alla struttura sociale da lui istituita.<br />
2. Altrettanto antica è la designazione, estremamente frequente nel NT (At 10,23; 11,1.12.29…; Rm<br />
1,13; 7,1; 1Cor 1,1), dei membri della comunità come “fratelli” (adelphoí). L’espressione non e-<br />
sprime il legame “verticale” con Gesù, bensì il vincolo “orizzontale” che connette fra loro i credenti,<br />
e che è dovuto al coinvolgimento nella stessa causa. In modo simile la designazione “fratelli” era<br />
corrente nella comunità settaria di Qumran (1QS 6,22; 1Qsa 1,18). Solo sporadicamente (Mt 28,10;<br />
Gv 20,17) traspare l’importanza di una relazione stretta simile a quella di una famiglia.<br />
3. In modo molto più vicino ai principi teologici dell’autocomprensione comunitaria si avvicina<br />
l’autodesignazione “i santi” (oi hágioi), che in verità si incontra di preferenza in Paolo (Rom 1,7;<br />
1Cor 1,2; 2Cor 1,1…), ma dovrebbe derivare da un antico uso gerosolimitano (At 9,13.32.41;<br />
26,10; cfr. 2Cor 8,4; 9,1.12). “Santo” è secondo l’uso linguistico anticotestamentario in primo luogo<br />
Dio stesso, e precisamente per la sua purezza, perfezione e separazione da ogni impurità e peccato,<br />
come pure anche tutto quello che appartiene alla sua sfera e alla sua presa quotidiana. In tal senso<br />
nei testi veterotestamentari posteriori (Dan 7,21; Tob 8,15; 12,15; 1Mac 1,46) anche degli uomini<br />
che appartengono a Dio possono essere chiamati “santi”. La parola poi è applicata, anche se rara-<br />
mente, a tutto Israele (Lev 19,2; 1Mac 1,49). Quando la comunità di Gerusalemme si denomina “i<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
santi”, esprime con ciò la sua illimitata appartenenza alla sfera di Dio, così come si è dischiusa<br />
nell’evento Cristo. Non che essa intenda rivendicare una perfezione già conseguita, ma piuttosto la<br />
sua illimitata disponibilità a Dio e alla sua causa. Dio in Cristo ha cominciato ad affermare la sua<br />
Signoria escatologica, mentre egli fa risaltare la santità del suo nome (Mt 6,9); la comunità dei di-<br />
scepoli confessa di essere l’ambito, in cui tutto questo oramai è iniziato e nello stesso tempo lo<br />
strumento di cui egli si serve per raggiungere questo suo scopo.<br />
4. Tuttavia l’autocomprensione della comunità dei discepoli post-pasquale trova la sua espressione<br />
più pregnante nella designazione: ekklesía tou Theou = Chiesa/comunità di Dio.<br />
4.1. Il significato del termine.<br />
Il concetto ecclesiologico neotestamentario con cui le comunità cristiane si autodesingano è ekkle-<br />
sía 58 . Per i primi cristiani, in particolare per gli ellenisti, questo termine era ben conosciuto perché<br />
corrente nel greco profano. Il sostantivo etimologicamente deriva da ek e kaléo e conseguentemente<br />
indicherebbe «(la totalità de)i chiamati fuori»; tuttavia questo significato originario a quanto pare<br />
non gioca più alcun ruolo nel nostro materiale. Esso è stato completamente rimosso da variazioni di<br />
senso che il termine ha subito nel corso di una lunga storia. Nella grecità classica come anche<br />
nell’ellenismo il vocabolo è divenuto un termine tecnico indicante l’assemblea popolare costituita<br />
da uomini liberi aventi diritto di voto. Questo uso linguistico politico si trova anche in At 19,39 do-<br />
ve indica «la regolare assemblea popolare» degli abitanti di Efeso 59 . Ma in un senso più ampio il<br />
vocabolo può venire adoperato anche per ogni riunione pubblica: così in At 19,32 esso indica un<br />
«assembramento tumultuoso» provocato nel teatro di Efeso dagli argentieri di quella città (cfr. an-<br />
che 19,40). Il termine era però corrente anche nell’uso linguistico veterotestamentario e giudaico;<br />
nei Settanta (III-II sec. a. C.) serve frequentemente come equivalente greco della parola ebraica qa-<br />
hal. In quest’uso distinguiamo due significati di ekklesía, che troveremo nel Nuovo Testamento. 1)<br />
In connessione con Israele il termine significa l’intero Israele (nella sua totalità esterna ed empirica),<br />
che si riunisce in un luogo o che è rappresentato da questa concreta assemblea; in particolare<br />
l’espressione «ekklesía di Dio» o «del Signore», che connota l’azione di Dio che convoca e raduna il<br />
suo popolo, definisce Israele come l’assemblea convocata da Dio. 2) Mentre l’uso linguistico elleni-<br />
58 Le 114 presenze sono ripartite nel NT in modo diseguale. Tra i sinottici soltanto in Mt se ne trovano tre (16,18; 18,17<br />
[bis]). In Gv il vocabolo manca del tutto. Il maggior numero di presenze si ha in Paolo (46, di cui 22 in 1Cor), nelle deuteropaoline<br />
(16) e in Atti (23). In Eb se ne trovano 2. Nelle lettere cattoliche il vocabolo compare solo in 3Gv (3 volte) e<br />
in Gc (1 volta). Delle 20 presenze in Ap, 19 si trovano nel contesto delle sette missive (Ap 1-3).<br />
59 At 19,39-41: «“Se poi desiderate qualche altra cosa, si deciderà nell’assemblea ( ) ordinaria. C’è il rischio di<br />
essere accusati di sedizione per l’accaduto di oggi, non essendoci alcun motivo per cui possiamo giustificare questo assembramento”.<br />
E con queste parole [il cancelliere] sciolse l’assemblea ( )».<br />
114
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
stico significherà la concreta assemblea di un popolo, di una pólis, di una comunità e non tanto<br />
(come nel giudaismo) il popolo di Dio nel suo insieme nel suo significato teologico.<br />
4.2. Il senso dell’espressione nel NT.<br />
Nella stragrande maggioranza dei passi neotestamentari in cui compare, il termine ekklesía ha un ca-<br />
rattere prettamente cristiano e va tradotto con comunità o assemblea della comunità o chiesa. Una<br />
ripartizione dei passi rispondente a queste varie accezioni è possibile soltanto entro certi limiti. In<br />
particolare occorre tener presente che la distinzione tra comunità come associazione dei cristiani di<br />
un determinato luogo e chiesa come società sovraccomunitaria del popolo di Dio o della totalità dei<br />
cristiani è del tutto estranea al NT, e ciò dipende dal fatto che il cristianesimo primitivo intende la<br />
ekklesía primariamente non come entità di carattere organizzativo, ma come entità teologica. Né la<br />
ecclesia universalis è soltanto un’associazione secondaria di singole chiese particolari autonome, né<br />
la comunità locale è soltanto un’unità di tipo organizzativo subalterna alla chiesa universale; sono<br />
invece entrambe — l’assemblea locale dei cristiani e la sovralocale comunità dei credenti — forme<br />
egualmente legittime della ekklesía costituita da Dio. È infine da sottolineare come i primi cristiani<br />
non ripresero la denominazione corrente delle assemblee giudaiche, synagogé, non tanto per la vo-<br />
lontà di distinguersi dal giudaismo (almeno fino a che non divenne completa la rottura fra i due mo-<br />
vimenti), ma «perché gli obiettivi e il senso delle assemblee, fissate dalla Legge e dai costumi ebrai-<br />
ci, non corrispondevano più a quelli delle assemblee cristiane. Occorreva un’altra designazione per<br />
segnalare, in primo luogo ai giudei, ciò che queste assemblee avevano di specifico» 60 . A disposizio-<br />
ne dei cristiani di lingua greca la Settanta fornì la parola necessaria con il termine cultuale ekklesía.<br />
4.3. Sull’origine della espressione nella prima comunità cristiana registriamo almeno due posizioni<br />
che se immediatamente non coincidono, nondimeno possono essere complementari: quella di Jür-<br />
gen Roloff e quella di Pierre Grelot 61 .<br />
- ROLOFF fonda la sua proposta su uno studio di una serie di passi, che rifletterebbero il più antico<br />
uso linguistico cristiano, in cui compare l’espressione ekklesía tou Theou, «comunità di Dio» (1Cor<br />
1,2; 10,32; 11,22; 15,9; 2Cor 1,1; Gal 1,13. — Plurale: 1Cor 11,16.22; 1Ts 2,14; 2Ts 1,4). Qui il<br />
genitivo «di Dio» non è un’aggiunta che determina in modo più preciso il precedente concetto co-<br />
munità, ma è parte costitutiva e integrale di una formulazione terminologica compatta. E questa per<br />
Roloff potrebbe essersi formata come traduzione dell’espressione q e hal ‘el (1 QM IV,10; 1 QS a I,25<br />
60 P. GRELOT, «Sur cette pierre je bâtirai mon Église», in NRTh 109 (1987) 642-643.<br />
61 J. ROLOFF, “Ekklesía”, in DENT I, 1092-1106; ID., Die Kirche im Neuen Testament (Göttingen: Vandenhoech & Ruprecht,<br />
1993) 82-85; P. GRELOT, «Sur cette pierre je bâtirai mon Église», in NRTh 109 (1987) 641-659.<br />
115
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
[em]) attestata nel giudaismo apocalittico, dove indicava la schiera di Dio della fine dei tempi 62 . Ro-<br />
loff ne deduce che l’espressione ekklesía tou Theou (q e hal ‘el) sia stata in primo luogo un’auto-<br />
designazione della primitiva comunità gerosolimitana in formazione dopo la pasqua. Essa vi si pre-<br />
stava perché corrispondeva esattamente al concetto escatologico che tale comunità aveva di sé. Que-<br />
sta aveva coscienza di essere la schiera eletta da Dio, da lui destinata a diventare centro e punto di<br />
cristallizzazione dell’Israele della fine dei tempi, al quale ora doveva essere rivolta la sua chiamata.<br />
I giudeocristiani ellenisti della cerchia di Stefano, gli etnicocristiani antiocheni (At 11,26; 13,1) e<br />
anche Paolo poterono senza difficoltà far propria questa denominazione, benché la loro concezione<br />
della legge fosse diversa da quella dei gerosolimitani; anzi la comune coscienza dei giudeocristiani<br />
e degli etnicocristiani di essere la comunità di Dio della fine dei tempi si mostrò infine come il vin-<br />
colo unificante senza il quale il fondamentale riconoscimento, nel concilio apostolico (Gal 2,6-10),<br />
dell’etnicocristianesimo, libero dalla legge, da parte del giudeocristianesimo, fedele alla legge, diffi-<br />
cilmente sarebbe stato immaginabile.<br />
- GRELOT, nota però che «né l’ebraico qahal e il suo equivalente aramaico, né il greco ekklesía figu-<br />
rano per designare l’assemblea religiosa di Israele in un contesto escatologico» 63 . Egli perciò ricava<br />
queste conclusioni:<br />
(1) La parola è biblica e non è una semplice trasposizione dell’ ekklesía civile.<br />
(2) L’assemblea cristiana è un compimento delle Scritture, ma non delle promesse profetiche, per-<br />
ché la parola qahal/ ekklesía non figura in un contesto originario orientato verso l’escatologia o<br />
in testi che il Giudaismo contemporaneo di Gesù avrebbe interpretato in prospettiva escatologica.<br />
62 Questo modo d’intendere per Roloff rivedrebbe la concezione tradizionale, secondo cui il termine cristiano ekklesía<br />
sarebbe stato tratto dai Settanta, che l’avrebbero introdotto come traduzione del veterotestamentario qahal, «assemblea,<br />
schiera del popolo di Dio». Una tale ripresa diretta dell’AT secondo Roloff è improbabile per vari motivi: 1) qahal nei<br />
Settanta non è tradotto soltanto con ekklesía, ma anche con synagogé, e proprio quest’ultimo è il concetto di gran lunga<br />
più profilato e più pieno di contenuto teologico per la designazione della comunità di salvezza. 2) I Settanta rendono q ehal<br />
jhwh con ekklesía (synagogé) kyriou, mentre il NT parla in prevalenza di ekklesía tou Theou. 3) Manca nel NT una<br />
prova scritturistica che parta dal concetto ekklesía (fatta eccezione forse per At 7,38), cosa insolita per un concetto di<br />
tale importanza tratto direttamente dall’AT. D’altra parte, si devono tuttavia far valere anche alcune considerazioni contrarie<br />
alla tesi (di Schrage) secondo cui il concetto di ekklesía sarebbe stato dapprima assunto come autodesignazione<br />
nella cerchia dei giudeocristiani ellenisti raccolti intorno a Stefano (At 6) e poi ulteriormente sviluppato da Paolo precisamente<br />
in antitesi polemica col concetto synagogé, già gravato di nomismo giudaico. Essa non regge, tra l’altro, per il<br />
fatto che in nessuna delle presenze in Paolo è riscontrabile una nota di critica alla legge, e anzi il concetto in Mt 16,18 si<br />
inserisce a pieno titolo nell’ambito della concezione giudeocristiana della legge propria della comunità di Mt. A ciò si<br />
aggiunge che Paolo in 1Ts 2,14 include nella designazione ekklesía tou Theou anche le antiche comunità giudaiche.<br />
63 P. GRELOT, Sur cette pierre, 644. E Ne 13,1 [= 2Esdra 23,1 LXX] sembrerebbe dargli ragione. Qui infatti si utilizza<br />
proprio l’espressione ekklesía tou Theou [q e hal elohîm] in un discorso che intende determinare le condizioni di appartenenza<br />
alla comunità di Israele, già fissate in Dt 23,4 [passo in cui si adopera invece l’espressione q e hal Yhwh = ekklesía<br />
tou Kyriou].<br />
116
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
(3) Inoltre non è da supporre un trasferimento alla comunità fondata da Gesù del titolo dato prece-<br />
dentemente all’assemblea cultuale di Israele, in particolare quella del deserto che aveva ricevuto<br />
il dono della Legge, perché più propriamente è la medesima ekklesía. Ci sarebbe, nella realizza-<br />
zione storica del disegno di Dio, una sola ekklesía, una sola “assemblea santa” riunita per assicu-<br />
rare il vero culto di Dio. Fondata nel deserto all’epoca dell’alleanza sinaitica e del dono della<br />
Legge, questa “assemblea santa” ha trovato il suo “compimento” supremo e la sua struttura defi-<br />
nitiva grazie al sangue della Croce, che è il “sangue dell’alleanza” (Mc-Mt) attraverso cui è stata<br />
realizzata “la nuova alleanza” (Lc-1Co), e mediante il dono dello Spirito promesso (Lc 24,29; At<br />
1,5.8; 2,1-36). La ekklesía allora non si sostituisce alla comunità di Israele riunita in vista del ve-<br />
ro culto di Dio. Essa ne è la fioritura finale.<br />
(4) Così l’ ekklesía di Israele, senza recidersi nessuna delle sue radici storiche, riceve da Dio la sua<br />
ultima mutazione. Non si tratta tanto di rimpiazzare una istituzione con un’altra. Il mutamento<br />
era stato abbozzato durante il ministero di Gesù dal gruppo di discepoli che egli aveva riunito at-<br />
torno a lui e si realizza pienamente dopo la sua risurrezione. Lo sviluppo della ekklesía così tra-<br />
sformata prosegue durante tutta l’epoca apostolica. Ma uno dei suoi elementi essenziali è la sua<br />
apertura a tutte le nazioni: cfr. Mt 28,19-20. In questo contesto non si tratta di creare un nuovo<br />
gruppo religioso accanto a Israele, in concorrenza con lui, ma di raccogliere Israele e le nazioni<br />
— o almeno coloro che avranno creduto in Israele e nelle nazioni — in seno al gruppo dei disce-<br />
poli di Gesù Cristo. Non sono quindi i discepoli che si organizzeranno in una ekklesía, per loro<br />
iniziativa, per fare concorrenza al giudaismo da cui il loro gruppo primitivo sarà escluso dopo<br />
aver sussistito a titolo particolare. Ma è Gesù Cristo, risuscitato tra i morti, che dà loro la missio-<br />
ne di condurre la ekklesía, già esistente in Israele, al suo compimento definitivo, in riferimento a<br />
ciò che egli ha detto e fatto fino alla sua morte e alla sua esaltazione suprema.<br />
(5) Il termine tecnico qahal / ekklesía è scelto esattamente, nel linguaggio religioso, per mostrare<br />
questa continuità dei due Testamenti attraverso la mutazione che la venuta, la morte e la risurre-<br />
zione di Gesù Cristo hanno introdotto nel popolo di Dio, per fare sì che il “regime di alleanza”,<br />
fondato sul Sinai e rifondato di nuovo dal Cristo, realizzi effettivamente la salvezza degli uomini.<br />
Ciò avverrà raggiungendo la totalità del genere umano, senza obbligarlo ad entrare nella “nazio-<br />
ne” giudaica. Gesù fu, personalmente, il solo “Resto” giusto dell’ ekklesía sinaitica, per far scop-<br />
piare i limiti di questa e farle raggiungere i limiti del genere umano tutto intero.<br />
Il vocabolo ekklesía da solo, dove compare come termine ecclesiologico, va inteso come abbrevia-<br />
zione dell’espressione originaria ekklesía tou Theou, va cioè sottintesa la precisazione «di Dio» co-<br />
117
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
me genitivus auctoris. Talvolta in Paolo anche Cristo è menzionato in connessione con la ekklesía,<br />
così in Rom 16,16: «Vi salutano tutte le chiese di Cristo». Tuttavia che qui Dio non sia stato affatto<br />
sostituito da Cristo come autore e iniziatore della comunità, risulta chiaro da 1Ts 1,14: «Infatti voi<br />
siete diventati imitatori delle chiese di Dio in Giudea in Gesù Cristo» («in Gesù Cristo» si riferisce<br />
alle «chiese di Dio» e non a «imitatori»). L’azione di Dio che fonda la chiesa è mediata da Cristo. La<br />
comunità in Tessalonica deve la sua esistenza, non diversamente dalle comunità in Giudea, a Gesù<br />
Cristo operante nella parola del vangelo. La medesima cosa è espressa in forma abbreviata in Gal<br />
1,22: «le chiese della Giudea in Cristo». «In Cristo» è qui non soltanto un’espressione convenziona-<br />
le che sostituisce l’aggettivo «cristiano» ancora mancante; una tale qualificazione non avrebbe senso<br />
poiché Paolo non conosce altra ekklesía che quella cristiana. Si fa piuttosto ancora una volta riferi-<br />
mento all’origine della comunità di Dio nell’evento di Cristo.<br />
4.4. Sintesi riassuntiva.<br />
(a) ekklesía è l’assemblea dei credenti e specialmente l’assemblea liturgica (1Cor 11,18.20): come<br />
Israele si sente «comunità di Dio» nella celebrazione pasquale, così pure la comunità cristiana<br />
nella celebrazione liturgica e in specie della cena del Signore si intende come la comunità esca-<br />
tologica che Dio ha raccolto mediante l’opera redentrice di Gesù Cristo;<br />
(b) ekklesía è la comunità locale concreta (1Cor, 1,2; 14,23; 2Cor 1,1; Rm 16,4; Gal 1,2; 1Ts 1,1;<br />
Flm 2): la singola comunità nonostante la sua limitatezza locale, è, nel concreto adempimento<br />
dell’obbedienza di fede, chiesa di Dio in senso pieno, non come singola entità isolata, ma in<br />
quanto in essa assume forma visibile l’operare di Dio, volto in tutto il mondo alla raccolta del<br />
popolo; essa è l’assemblea dei cittadini che, possedendo pieni diritti di cittadinanza alla nuova<br />
realtà sociale e salvifica istituita da Dio (Fil 3,20; Ef 2,19), sono veramente liberi (Gal 5); essa è<br />
il luogo in cui vengono prese decisioni determinanti come l’espulsione o la riammissione di un<br />
membro nella comunità (1Cor 5-6; 2Cor 2,5-11);<br />
(c) ekklesía è, infine, l’intera comunità dei credenti in Cristo (Gal 1,13; 1Cor 15,9; 12,28; At 20,28;<br />
Col 1,18.24; Ef 1,22; 3,10.21; 5,23-32), che si comprende come l’assemblea escatologica del<br />
popolo formato dai santi di Dio, la cui costituzione ha preso un inizio definitivo a partire dalla<br />
risurrezione di Gesù e dall’invio dello Spirito.<br />
Secondo i dati neotestamentari non c’è contraddizione tra l’uso locale e l’uso universale del termine<br />
ekklesía. Il primo uso privilegia il concetto paolino secondo cui la singola concreta assemblea dei<br />
credenti è chiesa in senso proprio; il secondo riprende soprattutto l’idea gerosolimitana (ripresa in<br />
Ef e Col) dell’unica Chiesa di Dio che comprende tutti i credenti.<br />
118
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
1.3.2. Il punto della situazione<br />
a) Chiesa come implicazione nell’agire di Gesù<br />
La nostra riflessione sulla relazione fra Gesù e Chiesa è giunta alla conclusione che la Chiesa è im-<br />
plicata in modo necessario (ossia “teologico”) nell’evento Gesù. Se quindi possiamo parlare di una<br />
cristologia implicita nel Gesù prepasquale, analogamente si può parlare di una <strong>ecclesiologia</strong> impli-<br />
cita. In entrambi i casi abbiamo parole e azioni di Gesù, che nelle condizioni mutate della situazione<br />
post-pasquale costituiscono il principio per una nuova comprensione. Come l’autotestimonianza e la<br />
rivendicazione di autorità di Gesù costituiscono gli impulsi iniziali insostituibili per la cristologia,<br />
così lo sono per la forma e l’autocomprensione della Chiesa il suo comportamento di convocazione<br />
e la figura sociale della cerchia dei suoi discepoli. Pertanto i seguenti impulsi provenienti da Gesù si<br />
ripercuotono come istruzioni direttive per il discorso neotestamentario sulla Chiesa:<br />
1. Nel segno dell’imminente Regno di Dio Gesù dà inizio alla raccolta della comunità salvifica degli<br />
ultimi tempi. Per Gesù, allora, Signoria di Dio e Popolo di Dio si coappartengono immediatamente.<br />
Qui troviamo il presupposto per cui la comunità post-pasquale dei discepoli, mentre comprese la ri-<br />
surrezione di Gesù come l’inizio dell’evento salvifico finale, nello stesso tempo imparò a compren-<br />
dere se stessa come inizio e nucleo del popolo di Dio definitivo. Perciò escatologia ed <strong>ecclesiologia</strong><br />
si trovano unite in una relazione mutua.<br />
2. Gesù manifesta la coscienza di essere inviato a Israele. La comunità salvifica, la cui raccolta egli<br />
cercò di realizzare, doveva essere nel suo nucleo il popolo delle dodici tribù compiuto e rinnovato.<br />
Questa missione di Gesù verso Israele durante la sua attività terrena non raggiunse un compimento<br />
visibile. Tuttavia essa rimase una norma vincolante per le prime due generazioni cristiane. Il pro-<br />
blema ecclesiologico fondamentale che si presentò fu che Gesù voleva raccogliere Israele, tuttavia<br />
ciò che ne venne fu la Chiesa dai giudei e dai pagani. Ma il fatto che, da una parte, Israele in mag-<br />
gioranza avesse rinunziato a credere in Gesù e che, d’altra parte, i pagani avessero accolto la chia-<br />
mata alla conversione e alla fede in lui, necessitava di un fondamento teologico. Questo è proprio il<br />
punto di partenza della riflessione ecclesiologica esplicita del cristianesimo primitivo: ossia la rela-<br />
zione tra la Chiesa — composta da ebrei e pagani — e Israele. Nonostante le differenti risposte, gli<br />
autori neotestamentari concordano sul fatto che la Chiesa si trova in una relazione indissolubile con<br />
Israele e che la chiamata alla salvezza è una conseguenza immediata della raccolta del popolo di Dio<br />
iniziata da Gesù. Ne deriverà come conseguenza permanente per la Chiesa di Gesù il suo legame<br />
canonico alle Scritture e alla storia di Israele, che diventano Antico Testamento.<br />
3. L’orientamento di Gesù a Israele più che “esclusivo”, fu “inclusivo”. Egli volle raccogliere per<br />
119
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
Dio e la sua Signoria non un resto santo, piuttosto l’intero popolo fino ai suoi margini più estremi<br />
— i pubblicani e i peccatori. Nel suo orizzonte entrano almeno indirettamente anche i pagani:<br />
l’Israele totale potrà così finalmente adempiere alla sua funzione di segno salvifico per i popoli del<br />
mondo. I discepoli riconobbero che Gesù aveva aperto definitivamente questa prospettiva inclusivi-<br />
sta nei confronti dei pagani soprattutto nelle parole pronunciate sul calice durante l’ultima cena (Mc<br />
14,24 par.), e riflettendo su di esse trovarono la legittimazione post-pasquale della missione ai pa-<br />
gani. Così la Chiesa di Gesù avrà come tratto essenziale la sua apertura universale: nessuna condi-<br />
zione etnica, sociale, culturale, religiosa può impedirne l’appartenenza (Gal 3,28).<br />
4. Gesù ha fatto sì che sorgesse una struttura sociale nuova nella cerchia degli uomini da lui raccol-<br />
ti. Questa si riferiva in primo luogo ai discepoli chiamati alla forma di vita della sequela, ma non è<br />
circoscrivibile ad essa. Tale struttura sociale era determinata dalla vicinanza del Regno di Dio e i<br />
suoi segni distintivi essenziali erano la rinuncia alla forza e al dominio, la disponibilità al servizio e<br />
la capacità di accogliersi nell’amore e nel perdono. Così la comunità dei discepoli divenne una “so-<br />
cietà di contrasto”, che attraverso la propria esistenza offriva un segno pubblico in grado di alimen-<br />
tare la speranza nella Signoria imminente di Dio 64 . Questo è un fattore centrale per l’auto-<br />
comprensione della Chiesa primitiva. Naturalmente esso rimase vivo soprattutto in gruppi fortemen-<br />
te determinati da una teologia apocalittica della storia (Apocalisse) e rispettivamente nelle comunità<br />
che si dovevano affermare come minoranze in un ambiente ostile (Matteo, 1 Pietro; scritti giovan-<br />
nei). Ma anche dove, nel quadro di un’apertura alla società non cristiana, questa coscienza di con-<br />
trasto perse di importanza (lettere pastorali), rimase tuttavia l’intuizione che la comunità cristiana è<br />
debitrice nei confronti della società della testimonianza di una condotta singolare.<br />
5. La nuova struttura sociale dei discepoli di Gesù si costituisce solo perché Gesù chiama a farvi<br />
parte e offre la sua comunione. È Gesù stesso che incarna la figura della nuova vita, determinata<br />
dalla vicinanza della Signoria di Dio; ma soprattutto è lui che apre l’accesso a questa vita — in<br />
modo ultimo e definitivo nell’orientamento del suo morire alla comunità dei discepoli durante<br />
l’ultima cena. La presenza di Gesù in mezzo alle persone che gli appartengono, il suo “esserci-per-<br />
loro” e “essere-con-loro”, è fin da allora un presupposto decisivo per l’esistenza della Chiesa.<br />
b) Le esperienze e le decisioni della generazione apostolica<br />
La generazione apostolica ha inoltre posto alcune pietre miliari per la comprensione della Chiesa.<br />
64 Sulle “norme di tavola” del regno di Dio, si veda G. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa?, op. cit., 203-215; cfr.<br />
anche ID., Gesù come voleva la sua comunità? (Cinisello Balsamo - Milano: EP, 1987) 61-102.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
1. In primo luogo emerge il peso centrale della escatologia. Senza dubbio la coscienza della Chiesa<br />
ha le sue origini nell’esperienza della presenza dello Spirito di Dio degli ultimi tempi nella comuni-<br />
tà post-pasquale dei discepoli. Questa imparò a comprendersi come strumento e punto di cristalliz-<br />
zazione per quel rinnovamento del popolo di Dio, il cui punto di partenza era l’elevazione di Gesù<br />
alla destra di Dio. La Pentecoste non significò alcuna rottura con la storia di Israele, piuttosto il suo<br />
compimento finale; era la conclusione e l’offerta escatologica della stipulazione del patto di Dio per<br />
il suo popolo. Così escatologia e storia della salvezza appaiono intrinsecamente connesse. La pre-<br />
senza della novità definitiva fu compresa come l’obiettivo ultimo dell’agire storico di Dio, il quale<br />
nel passato aveva sempre di nuovo chiamato, rinnovato e legato a sé il suo popolo.<br />
Questo legame tra escatologia e storia della salvezza — come appare anche terminologicamente<br />
nell’autodesignazione ekklesía tou Theou — fu pure determinante per l’intuizione della essenziale<br />
unità della Chiesa: come Israele era il popolo unico, al quale Dio aveva attestato nella storia il suo<br />
agire creatore, e che era il segno della sua Signoria, così anche il popolo più grande, attraverso cui<br />
Dio può attestare il proprio agire finale che ha di mira la totalità del mondo e della storia, e che è il<br />
segno presente della sua nuova creazione, può essere solamente uno. In virtù di questa intuizione la<br />
Chiesa dal tempo primitivo in poi ha resistito tenacemente a tutte le tentazioni ovvie di dar forma,<br />
analogamente alle altre comunità di culto, ad associazioni determinate esclusivamente da fattori re-<br />
gionali e culturali, indipendenti l’una dall’altra. La prova decisiva fu il concilio apostolico.<br />
2. Una decisione fondamentale fu quella di aprire la missione ai pagani. È probabile che in essa si<br />
vide il compimento delle parole pronunciate da Gesù sul calice nell’ultima cena (Mc 14,24), nella<br />
nuova interpretazione resa possibile dall’esperienza escatologica presente. La raccolta dei “molti”<br />
annunziata da Gesù come effetto del suo morire appariva come un dato reale deciso e perseguito in<br />
potenza da Dio stesso. Nella stessa direzione orientava anche la fede nella risurrezione e nell’eleva-<br />
zione di Gesù quale Signore definitivo del mondo e della storia: l’universalità della Signoria di Ge-<br />
sù Cristo aveva come segno manifesto la raccolta di un unico popolo per Dio in tutto il mondo.<br />
3. Altro elemento fondamentale fu la nuova interpretazione cristologica del Battesimo. Il battesimo<br />
fu inteso come quell’atto con cui Dio incorpora sia giudei sia pagani all’ambito della Signoria di<br />
Cristo nello Spirito, ossia al popolo di Dio degli ultimi tempi, la Chiesa. Sicuramente il battesimo<br />
fin dall’inizio fu compreso come l’evento, attraverso cui il singolo entra in connessione con Cristo,<br />
come atto di legame personale a lui e come inclusione nella salvezza da lui resa effettiva. Questo si<br />
esprime già nelle formule del Battesimo «sul nome di Cristo» e «nel suo nome». Così si intese il<br />
battesimo come la continuazione e la trasformazione della chiamata prepasquale di Gesù al suo di-<br />
scepolato nelle nuove condizioni della situazione post-pasquale. Come poi la chiamata al discepola-<br />
121
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
to non istituiva solo una relazione personale del chiamato a Gesù, ma nello stesso tempo anche<br />
l’appartenenza alla comunione dei discepoli di Gesù, così pure il battesimo divenne l’atto della in-<br />
corporazione nella comunione della Chiesa e pure un atto di iniziazione. Il battezzato veniva aggre-<br />
gato (At 2,41) alla comunità di quegli uomini, che già come concreta figura sociale, si sottoponeva-<br />
no all’ambito dell’evento salvifico del tempo finale. Tra il battezzato e la Chiesa si costituiva dun-<br />
que una relazione di legame mutuo. Proprio questa comprensione del battesimo come corrisponden-<br />
te post-pasquale alla chiamata di Gesù al discepolato, fornì il presupposto per cui tre dei quattro<br />
vangeli canonici — l’eccezione è Luca con la sua visione storicizzante — iscrissero completamente<br />
la loro immagine della Chiesa nello spazio della storia della comunità pre-pasquale dei discepoli.<br />
4. Paolo congiunge <strong>ecclesiologia</strong> e cristologia. Egli presenta la Chiesa come la comunione di coloro<br />
che sono riuniti nella koinonía dell’unico “corpo”, grazie alla partecipazione al dono che Gesù ha<br />
fatto di se stesso nella morte “per i molti”. La Chiesa per Paolo è quindi un organismo vivente; per-<br />
tanto le sue relazioni vitali sono determinate in modo costitutivo dal “principio Cristo” dell’essere a<br />
servizio gli uni per gli altri. Perciò Paolo attribuisce alla cena eucaristica la capacità di costituire la<br />
Chiesa. Il suo modello ecclesiologico fondamentale è la comunione liturgica a quella mensa che è il<br />
memoriale della cena del Signore, e che contemporaneamente è anche comunione di vita. Questo<br />
modello fondamentale trova la sua manifestazione concreta nell’assemblea locale, poiché solo qui è<br />
possibile esperimentare la coappartenenza di comunione eucaristica e di comunione di vita.<br />
Nell’esistere come assemblea locale, cioè come comunità, la Chiesa mantiene la fedeltà a ciò che la<br />
informa ossia l’essere l’uno con l’altro e l’uno per l’altro in virtù della comunione di mensa con Ge-<br />
sù. Solo perché essa vive come comunità che sorge dalla mensa eucaristica, la Chiesa è preservata<br />
dal comprendersi come associazione di opinioni religiose. Inoltre solo così essa può percepire la<br />
propria funzione, di essere segno dell’agire salvifico di Dio nel mondo di fronte alla società. Tutti i<br />
tentativi di sostituire la comunità locale concreta attraverso altre, sedicenti forme di organizzazione<br />
conformi ai dati sociali della moderna società, hanno contro di loro il veto teologico di Paolo.<br />
5. Poiché Paolo ha dato all’idea della forma sociale vincolante della Chiesa un profilo così netto,<br />
egli ha chiarito che la visibilità appartiene all’essenza della Chiesa. La sua forma sociale è impressa<br />
nella Chiesa per il fatto che essa diviene corpo di Cristo, organismo vivente, nel quale Gesù, il servo<br />
che ha dato se stesso, è continuamente presente e attivo. Ed essa è visibile, poiché la nuova creazio-<br />
ne di Dio, di cui Cristo è il primogenito, deve avere un segno pubblico in cui manifestarsi. Paolo e-<br />
sprime così a partire dal suo principio cristologico quello che finalmente è la convinzione di tutti gli<br />
scrittori neotestamentari. Egli su questo punto concorda pienamente con Matteo. Anche il primo e-<br />
vangelista sottolinea la forma sociale vincolante e nello stesso tempo la visibilità della Chiesa: essa<br />
122
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
è la comunione dei discepoli, che vive nella sequela di Gesù e nella radicale obbedienza ai suoi co-<br />
mandamenti e per questo costituisce per il mondo un segno di speranza della vicinanza di Dio.<br />
6. Sebbene Paolo abbia certamente istituito il modello interpretativo cristologico della Chiesa come<br />
“corpo” e per quanto gli abbia dato un peso fortissimo, non lo ha assolutizzato; piuttosto egli ha<br />
continuato nello stesso tempo il modello interpretativo tradizionale, che vedeva la Chiesa come po-<br />
polo di Dio degli ultimi tempi. Tuttavia l’insorgente bipolarità nella comprensione della Chiesa,<br />
non è espressione di irrisolutezza e incoerenza teologica, piuttosto deriva dall’intuizione che<br />
l’essenza della Chiesa non può essere sufficientemente compresa da un’unica prospettiva, ma ri-<br />
chiede una considerazione bidimensionale. Il modello interpretativo “popolo di Dio” fa risaltare la<br />
dimensione storico-salvifica e perciò anche escatologica della Chiesa. Esso mette in rilievo che la<br />
Chiesa è la realizzazione di quell’agire creatore di storia in forza del quale il Dio di Israele si è scel-<br />
to nella storia il suo popolo. A motivo di questo agire di Dio, essa è posta in una continuità perma-<br />
nente con Israele ed è perciò radicata nel passato. Proprio questo agire di Dio è però ciò in forza del<br />
quale essa è divenuta il segno di ciò che viene, del nuovo mondo di Dio. Con il modello interpreta-<br />
tivo “popolo di Dio” viene espressa per così dire l’orizzontalità storica dell’essenza della Chiesa, il<br />
suo essere in rapporto con la totalità della storia e del mondo. Il modello interpretativo cristologico<br />
con le sue metafore centrali “corpo” e “edificio”/“tempio” risponde invece alla verticalità della pre-<br />
senza di Cristo nello Spirito. Essa esprime che la Chiesa come realtà presente determina e visibil-<br />
mente produce i suoi effetti nella sua figura sociale come κοινωνία. Poiché Paolo accoglie entrambi<br />
i modelli interpretativi e si premura di connetterli fra loro — nonostante tensioni permanenti —, e-<br />
gli ha posto una norma vincolante, sulla quale tutti gli altri discorsi e riflessioni sulla Chiesa devono<br />
lasciarsi misurare. Perciò si può correttamente dire che la Chiesa è «popolo di Dio non altrimenti<br />
che a partire dal corpo di Cristo crocifisso e risorto»: J. RATZINGER, “L’<strong>ecclesiologia</strong> del Vaticano<br />
II”, in ID., Chiesa, ecumenismo e politica (Cinisello Balsamo: EP, 1987) 24.<br />
7. Tra i fattori significativi per la prima generazione si deve finalmente menzionare anche il ministe-<br />
ro dell’Apostolato. Nella specifica impronta che riceve soprattutto da Paolo, esso diviene l’anello di<br />
congiunzione personale tra Cristo e la Chiesa. L’apostolo è colui che porta e trasmette l’annuncio<br />
del vangelo, annuncio che ha di mira la raccolta del popolo di Dio degli ultimi tempi. Nello stesso<br />
tempo però egli è anche l’inviato di Cristo, che nella sua persona rappresenta la forma di esistenza<br />
determinata da Cristo, il Servo e colui che ha dato se stesso, in una maniera normativa per la vita<br />
della Chiesa. Questa immagine dell’Apostolo pone il principio per la comprensione del ministero di<br />
direzione delle comunità, come si sviluppò nelle comunità paoline.<br />
123
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
1.3.3. Il passaggio dall’epoca apostolica a quella post-apostolica<br />
a) L’era sub-apostolica nel Nuovo Testamento<br />
Se gli apostoli sono il fondamento solido su cui si appoggia la santa casa della Chiesa (Ef 2,20), co-<br />
sa è avvenuto quando l’ultimo testimone apostolico è morto, e la chiesa non poteva più fondarsi sul-<br />
la testimonianza di coloro che avevano visto il risorto? Anche solo dal punto di vista sociologico il<br />
problema della continuità e della successione sorge inevitabilmente con la scomparsa dei capi origi-<br />
nari di un movimento. La crisi si accentua quando questi capi hanno spinto innovativamente i loro<br />
seguaci lontano dai precedenti criteri di autorità. Dal tempo in cui morirono gli apostoli, le chiese si<br />
stavano allontanando o si erano già allontanate da gran parte di ciò che anteriormente costituiva<br />
l’autorità nel giudaismo; ma allora esse hanno dovuto sopravvivere senza la vivente tutela delle<br />
grandi figure della prima generazione. Come hanno pensato di affrontare la sfida della continuità<br />
con la testimonianza apostolica quale garanzia della fedeltà della chiesa alla propria identità? 65<br />
In passato si rispondeva a questa domanda volgendosi alle opere scritte dopo il NT, perché si pre-<br />
sumeva che il NT e l’era apostolica fossero confinanti. Si pensava che i libri del NT fossero stati<br />
scritti dagli apostoli e la fase storica successiva al NT fu chiamata «sub-apostolica». Nella tradizio-<br />
ne cattolica questa visione venne sintetizzata nell’assioma che la rivelazione si era chiusa con la<br />
morte dell’ultimo apostolo; ciò presupponeva che la composizione del NT si fosse completata prima<br />
della morte degli apostoli. Oggi, invece, si anticipa la fine del periodo apostolico all’interno della<br />
fase storica del NT. Così si può ragionevolmente ipotizzare che la maggior parte del NT nella for-<br />
ma finale in cui ci è pervenuto fu scritto dopo la morte dell’ultimo apostolo conosciuto 66 .<br />
65<br />
Raccogliamo qui alcune riflessioni di R. E. BROWN, Le Chiese degli Apostoli. Indagine esegetica sulle origini dell’<strong>ecclesiologia</strong><br />
(Casale Monferrato (Al): Piemme, 1992).<br />
66<br />
Forse quest’affermazione restrittiva ha bisogno di essere spiegata. Sebbene molti siano chiamati «apostoli» nel NT,<br />
noi ne conosciamo dettagliatamente soltanto tre. Se iniziamo dai dodici, la maggior parte di loro non sono altro che nomi.<br />
Escludendo Giuda Iscariota, ne emergono soltanto quattro, cioè le due coppie di fratelli: Pietro e Andrea, Giacomo e<br />
Giovanni. Anche se nei vangeli questi quattro apostoli vengono presentati spesso in compagnia di Gesù, nella storia che<br />
il NT dà della chiesa primitiva Andrea scompare; Giacomo viene martirizzato all’inizio degli anni 40 (At 12,2); e Giovanni<br />
è menzionato all’ombra di Pietro in pochi passi (3,1; 4,13; 8,14; Gal 2,9). La tradizione posteriore abbellì la biografia<br />
di Giovanni identificandolo con il discepolo prediletto della tradizione del IV Vangelo, ma una simile identificazione<br />
è tutt’altro che certa. Di conseguenza, Pietro è l’unico membro del collegio dei dodici sulla cui “carriera ecclesiastica”<br />
siamo oggettivamente informati, grazie alle lettere paoline ai Galati e ai Corinzi, grazie al libro degli Atti e alle<br />
lettere della tradizione petrina. All’infuori dei dodici conosciamo parecchie cose su Paolo, grazie alle tredici lettere attribuite<br />
a lui nel NT e grazie alle informazioni biografiche fornite dal libro degli Atti. Giacomo «il fratello del Signore»<br />
era probabilmente un apostolo, sebbene non fosse uno dei dodici. La sua importanza come guida della comunità di Gerusalemme<br />
ci è attestata sia nelle lettere paoline che nel libro degli Atti; una delle Lettere del NT è attribuita a lui, mentre<br />
nella lettera di Giuda l’autore si identifica in relazione con Giacomo. Secondo una tradizione attendibile, Pietro e<br />
Paolo morirono a Roma negli anni 60, e Giacomo morì a Gerusalemme nello stesso periodo. Così, entro l’anno 67 d.C. i<br />
tre apostoli di cui possediamo una conoscenza dettagliata erano spariti dalla scena.<br />
124
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
Si può, perciò, adottare una terminologia che distingua una «età apostolica», che si riferisce al peri-<br />
odo che va fino agli anni 60, dal periodo «sub-apostolico», che designa gli ultimi trent’anni del pri-<br />
mo secolo. Con l’eccezione delle indiscusse lettere di Paolo, forse la maggior parte del NT è stata<br />
scritta in questi ultimi trent’anni del primo secolo, un periodo in cui gli autori del NT scrivevano<br />
senza usare i loro nomi propri e a volte si celavano sotto il nome dei loro predecessori apostolici. La<br />
tradizione successiva tenderà ad assegnare un nome agli autori dei vangeli; ma le ricerche moderne<br />
hanno messo in discussione l’attendibilità di queste attribuzioni che, in ogni caso, possono essere<br />
intese come indizi sull’autorità che si trova dietro l’opera individuale, più che non sull’effettivo au-<br />
tore. Come per le epistole deutero-paoline (le pastorali, Ef, e Col) e le lettere cattoliche, la designa-<br />
zione degli autori come Paolo, Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda probabilmente rappresenta una<br />
pretesa di fedeltà agli apostoli piuttosto che una obiettiva designazione di paternità apostolica. In ve-<br />
rità, l’anonimato dei veri autori ben si adatta all’ambiente sub-apostolico, dove la fedeltà alla me-<br />
moria dei grandi apostoli era la caratteristica dominante.<br />
In questa terminologia il periodo «post-apostolico» comincia alla fine del primo secolo quando ab-<br />
biamo gli scritti cristiani che si fondano sulla propria autorità, ad esempio le lettere di Ignazio di<br />
Antiochia e la lettera della chiesa di Roma alla chiesa di Corinto, che noi conosciamo come la prima<br />
lettera di Clemente. Questi scritti della «terza generazione» muovevano dal presupposto di avere gli<br />
apostoli come fonte diretta 67 . Se l’episodio della morte dell’ultimo apostolo si può datare alla metà<br />
degli anni 60, il problema di sapere che cosa accade quando l’ultimo apostolo sparì dalla scena, ot-<br />
tiene una risposta già in gran parte del NT.<br />
b) Vari approcci al periodo sub-apostolico<br />
1. La risposta classica, già data nella prima lettera di Clemente (n. 42 e 44), è che come Gesù elesse<br />
gli apostoli (i dodici insieme a Paolo), così anche gli apostoli elessero i vescovi e i presbiteri che<br />
succedessero loro 68 . Di conseguenza, si formò l’idea di una ordinata successione di autorità nella fa-<br />
67 L’espressione «tre generazioni» per indicare i periodi “apostolico”, “sub-apostolico” e “post-apostolico” è una generalizzazione<br />
utile se non la si prende troppo alla lettera; la 2Pt evidentemente non rientrerebbe nella nostra divisione.<br />
68 1Clem., XLII. XLIV: «Gli apostoli predicarono il vangelo da parte del Signore Gesù Cristo che fu mandato da Dio.<br />
Cristo da Dio e gli apostoli da Cristo. Ambedue le cose ordinatamente dalla volontà di Dio. Ricevuto il mandato e pieni<br />
di certezza nella risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo e fiduciosi nella parola di Dio con l’assicurazione dello<br />
Spirito santo andarono ad annunciare che il regno di Dio era per venire. Predicavano per le campagne e le città e costituivano<br />
le loro primizie, provandole nello spirito, nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli. E questo non era nuovo; da<br />
molto tempo si era scritto intorno ai vescovi e ai diaconi. Così, infatti dice la Scrittura: “stabilirò i loro vescovi nella<br />
giustizia e i loro diaconi nella fede” [Is 60,17] (...) I nostri apostoli conoscevano da parte del Signore Gesù Cristo che ci<br />
sarebbe stata contesa sulla carica episcopale. Per questo motivo, prevedendo esattamente l’avvenire, istituirono quelli<br />
che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati...»: in I<br />
Padri apostolici (Roma: Città Nuova, 1984 4 ) 76-77,78.<br />
125
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
se sub-apostolica, sulla base di una chiesa unita, sfigurata soltanto dagli eretici. Queste tesi classiche<br />
cominciarono a essere rigettate al tempo della Riforma e sono state messe in discussione dagli studi<br />
moderni che hanno mostrato che l’immagine clementina era troppo semplice e non universale.<br />
2. Nel XIX secolo un’altra risposta fu data da F.C. Baur. Nella sua concezione hegeliana della storia<br />
della Chiesa, la tesi e l’antitesi erano rappresentate da Giacomo e Paolo: una concezione filo-<br />
giudaica in conflitto con una concezione filo-pagana del cristianesimo. Il secolo II vide la sintesi di<br />
ciò che precede, e l’immagine di Pietro fu invocata per simboleggiare un cristianesimo intermedio<br />
tra Paolo e Giacomo. Essenziale alla sua ipotesi era una datazione molto tardiva di alcuni documenti<br />
usati per sostenere tale sequenza, ad es. Atti. Gran parte degli studi moderni smentiscono tale data-<br />
zione e considerano come contemporanei i vari atteggiamenti cristiani osservati da Baur.<br />
3. Nel XX secolo sono state date altre risposte alla questione del cristianesimo sub-apostolico. Wal-<br />
ter Bauer sostenne che il periodo del NT e la sua immediata prosecuzione formarono un’era in cui<br />
non esisteva alcun cristianesimo standard o ortodosso: tra le tante diverse prospettive in antagoni-<br />
smo, una risultò vittoriosa e nel secondo secolo divenne l’ortodossia; quest’ortodossia si spostò da<br />
Roma verso est. La maggioranza degli studiosi ammettono alcune delle diversità che Bauer pone nel<br />
periodo del NT; ma recentemente c’è stato un crescente coro di obiezioni che rimproverano<br />
all’ipotesi di Bauer di essere troppo semplicistica e di lasciare senza risposta alcune domande fon-<br />
damentali. Ad es., la prospettiva che prevalse sulle altre era più fedele a ciò che Gesù insegnò, ri-<br />
spetto a quelle che erano state sconfitte? Dalla lettura di Bauer e della sua proposta si può avere<br />
l’impressione che tutte le diverse prospettive erano di uguale valore e ciò che emerse come ortodos-<br />
sia fu semplicemente un accidente storico, la sopravvivenza del più forte o del più adatto.<br />
4. Un’altra risposta è quella di Kirsopp Lake che ha interpretato il periodo sub-apostolico in termini<br />
di grandi centri cristiani rappresentati dalle città. Durante la vita di Gesù, il suo ministero si era<br />
svolto tra la Galilea e Gerusalemme. Nel periodo apostolico, se ci concentriamo sull’ovest, vediamo<br />
la fioritura di centri come Gerusalemme, Antiochia e Corinto. Nel periodo tardo-apostolico ed in<br />
quello sub-apostolico, secondo Lake, Efeso e Roma emersero come i grandi centri cristiani con i<br />
quali molti dei libri del NT possono essere associati. Roma era considerata come rappresentante del<br />
cristianesimo giudaico, più conservatore, sostenitore di un’<strong>ecclesiologia</strong> forte e di una cristologia<br />
debole 69 . Collegate a Roma sarebbero Rm, 1Pt, Eb, 1Clemente ed il Pastore di Erma. Sarebbero in-<br />
69 Cristologia forte significa una presentazione di Gesù che pone un accento più marcato sulla sua divinità ed il suo essere<br />
associato a Dio; la cristologia debole pone l’accento sull’itinerario umano di Gesù (senza necessariamente negare o<br />
omettere la sua divinità).<br />
126
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
vece collegate ad Efeso le lettere ai Col ed agli Ef, ed il IV Vangelo, opere di <strong>ecclesiologia</strong> debole,<br />
nel senso che pongono poca enfasi sulla struttura della chiesa, ma di alta cristologia, in quanto asso-<br />
ciano Cristo con la creazione. Recenti studi potrebbero trovare limitativa la concentrazione di Lake<br />
su due centri cristiani, perché certamente anche Antiochia ed Alessandria avevano un ruolo impor-<br />
tante nel periodo sub-apostolico e/o post-apostolico. Nonostante ciò, la sua osservazione di un cri-<br />
stianesimo più conservatore e più strettamente associato al giudaismo (Roma) e di un cristianesimo<br />
più instabile (Efeso) rimane una valida intuizione.<br />
Di fronte a queste varie prospettive, che non hanno ancora trovato una soluzione soddisfacente, pos-<br />
siamo almeno indicare alcuni elementi sui quali c’è un consenso crescente.<br />
c) Rivendicazione normativa e molteplicità storica<br />
1. Con un’osservazione molto generale rileviamo innanzi tutto che in tutti gli scritti e gruppi di<br />
scritti neotestamentari si delineano concezioni teologiche specifiche. Noi vi possiamo discernere<br />
rappresentazioni teologiche almeno abbozzate circa l’essenza, la funzione e la figura di Chiesa. Cer-<br />
tamente queste rappresentazioni hanno il loro luogo originario nella concreta esperienza della realtà<br />
ecclesiale; tuttavia non si può dire che vi si esauriscano del tutto: in connessione e opposizione alla<br />
propria esperienza pratica della Chiesa, si dovette pure comprendere che cosa è la Chiesa secondo la<br />
volontà di Dio e perciò che cosa essa deve anche essere. Perciò il discorso neotestamentario sulla<br />
Chiesa rivendica di essere un discorso normativo.<br />
2. Questa rivendicazione normativa sembra messa in questione dal fatto che nel NT troviamo l’una<br />
accanto all’altra molteplici rappresentazione della Chiesa. Oggi non è più possibile avvicinarsi al<br />
NT con l’aspettativa di trovarvi una dottrina unica sulla Chiesa, che come tale, poiché è conforme<br />
alla Scrittura, può essere trasferita senza mediazione nella nostra situazione presente. E questo è un<br />
bene, poiché di fatto questa procedura per lo più si concludeva col ritrovare nel NT solo la conferma<br />
di quelle rappresentazioni sull’essenza e figura della Chiesa, che erano valide per la propria tradi-<br />
zione confessionale. La ricerca storico critica opera qui come correttivo, che resiste al tentativo di<br />
“incassare” con troppa fretta a proprio vantaggio gli asserti neotestamentari. Essa ci svela la loro<br />
molteplicità e nello stesso tempo anche la loro estraneità, invitandoci così ad entrare in un processo<br />
di comprensione differenziato di fronte alla ricchezza del mondo neotestamentario.<br />
– Quando si tenta di usare queste testimonianze per ricostruire le situazioni della comunità nel peri-<br />
odo sub-apostolico, un serio problema metodologico è quello di accertare se i pensieri espressi siano<br />
peculiari all’autore o siano veramente condivisi da una comunità. Quando si tratta di epistole o di<br />
lettere, la situazione è spesso più facile da determinarsi. Nonostante ciò, per il fatto che tutti gli<br />
127
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
scritti sono stati conservati (e perfino accettati come canonici), siamo certi che almeno alcuni cri-<br />
stiani trovarono in essi una guida.<br />
– Un altro problema metodologico richiede cautela nel valutare il livello parziale in cui gli scritti ri-<br />
traggono le prospettive della comunità. Se le Pastorali pongono l’accento sulla struttura presbiterale<br />
e Col–Ef sottolineano il corpo di Cristo, questo non significa che i cristiani che ricevettero le Pasto-<br />
rali e l’autore che le scrisse ignorassero la teologia del corpo di Cristo, né che le persone coinvolte<br />
in Col–Ef fossero all’oscuro della struttura presbiterale. Si può soltanto essere certi della rilevanza<br />
positiva che i cristiani attribuivano ai temi che emergevano in uno scritto particolare.<br />
– Inoltre è chiaro che le differenti concezioni di Chiesa che noi rileviamo, non sono da intendere<br />
come rappresentazioni alternative, tra le quali possiamo scegliere a seconda del bisogno. Questa sa-<br />
rebbe una procedura possibile, nel caso che conoscessimo il riferimento preciso di ciascuno di que-<br />
sti abbozzi a una determinata situazione storica — situazione che in nessun caso è congruente con la<br />
nostra. Di fatto avviene spesso che noi ritroviamo nelle singole concezioni elementi che ci sono fa-<br />
miliari a partire dalle nostra tradizioni confessionali e che perciò ci piacciono particolarmente. Così<br />
c’è una chiara vicinanza della tradizione luterana alle lettere pastorali con la loro sobrietà, la loro<br />
accentuazione di confessione e tradizione come la loro comprensione del ministero come un compi-<br />
to di insegnamento (anche se alcuni tratti della comprensione del ministero delle Lettere Pastorali,<br />
innanzitutto il legame “retroattivo” personale del ministero all’Apostolo, sono estranei al Luterane-<br />
simo). Mentre ci fa pensare a un carattere “cattolico” in senso ampio la lettera agli Efesini, soprat-<br />
tutto con la sua comprensione della Chiesa come ambito e strumento della salvezza. Gruppi di chie-<br />
se libere con una rigorosa struttura interna o comunità monastiche al contrario si sentono meglio ga-<br />
rantite da Matteo. Ma proprio la coscienza di tale vicinanza a una determinata concezione dovrebbe<br />
essere ampliata attraverso la riflessione sulla totalità della testimonianza neotestamentaria della<br />
Chiesa come pure attraverso la riflessione critica sulle sue possibili riduzioni, unilateralità e deficit.<br />
– Di fronte al reperto esegetico differenziato sono inadeguate anche due “letture” determinate un<br />
poco dal moderno pensiero confessionale.<br />
Dal lato evangelico è la riduzione del principio scritturistico a un “centro della Scrittura” che si cer-<br />
ca nella testimonianza della prima generazione e soprattutto in Paolo. Proprio il considerevole e-<br />
mergere del tema Chiesa negli scritti posteriori — che di fatto costituiscono la parte predominante<br />
del canone neotestamentario — viene considerato volentieri come conferma del loro “protocatto-<br />
licesimo”. Ma a prescindere da ciò, il fatto che il tema Chiesa già in Paolo sia affrontato con una in-<br />
tensità sorprendente — almeno non sufficientemente presa in considerazione nella consueta tradi-<br />
zione interpretativa protestante —, dovrebbe chiarire che gli scritti posteriori con i loro asserti vo-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
gliono prendere posizione sui problemi che stavano sorgendo nell’età sub-apostolica: il problema<br />
della identità della Chiesa in una storia che continuava, della sua corretta relazione con l’eredità del<br />
tempo originario del vangelo come pure del rapporto della Chiesa alla società non cristiana. Ma<br />
proprio questi sono quei problemi per cui anche l’<strong>ecclesiologia</strong> odierna è alla ricerca di una soluzio-<br />
ne. In questo caso la conversazione con l’età sub-apostolica e con la sua comprensione della Chiesa<br />
ci può dare delle indicazioni importanti.<br />
Al contrario l’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica, che è in stretto rapporto con l’idea della crescita della cono-<br />
scenza della verità e della molteplice pienezza, è obbligata nell’uso che fa della Scrittura a seguire<br />
l’idea della pienezza e della conforme crescita organica della verità del vangelo. Poiché in questa<br />
tradizione l’<strong>ecclesiologia</strong> ha sempre giocato un ruolo centrale, essa inclina non solo a valorizzare gli<br />
scritti posteriori come testimonianza di una verità in sviluppo, piuttosto a leggervi uno sviluppo or-<br />
ganico, voluto da Dio, che conduce in modo più o meno lineare alle strutture di ordine e di ministe-<br />
ro della Chiesa antica. Questa visione però non considera adeguatamente la pluralità di questi scritti.<br />
d) Problemi e principi di soluzione dell’età sub-apostolica<br />
1. L’età sub-apostolica ha offerto un contributo importante e consistente alla <strong>ecclesiologia</strong> perché si<br />
è trovata ad affrontare due questioni decisive e vitali. Proprio riflettendo su di esse, essa ha cercato<br />
di rispondere alla questione più radicale su che cosa è la Chiesa: (1) la questione circa l’identità e la<br />
continuità del popolo di Dio nella storia che continuava e (2) la questione circa la sua relazione al<br />
mondo e alla società.<br />
2. La questione della identità e continuità si è posta alla Chiesa in conseguenza dell’esperienza che<br />
la storia continuava. Di fronte allo scemare dell’attesa della imminente parusia, l’autocomprensione<br />
della Chiesa come segno che preannunciava la raccolta definitiva del popolo di Dio, attuata e auto-<br />
rizzata da Gesù, in vista dell’imminente nuova creazione di Dio, se non si può dire che si mostrò i-<br />
nadeguata, almeno apparve come bisognosa di completamento. La Chiesa doveva riflettere sulla sua<br />
relazione alla storia. Essa di fronte ai mutamenti esterni, che si riflettevano nel suo interno — il più<br />
spettacolare dei quali fu il passaggio al mondo pagano —, doveva chiarirsi che cosa di quanto era<br />
apparso con Gesù e con la generazione dei primi testimoni rimaneva fondamentale e determinante<br />
per la sua esistenza nella storia. E nello stesso tempo essa doveva cercare di conservare questo fon-<br />
damento dandogli una figura vincolante affinché la sua permanente efficacia operativa fosse assicu-<br />
rata anche per il futuro. In altre parole: dall’esperienza della storia emerse il compito necessario e<br />
teologicamente legittimo della istituzionalizzazione, che già in Paolo emerge sintomaticamente nella<br />
cura prestata alla custodia della “tradizione”.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
3. La Tradizione come attuazione essenziale della Chiesa<br />
3.1. La parola tradizione fa pensare — come l’equivalente latino traditio — a un bene tradizionale,<br />
istituzionale, consolidato, secondario — una volta sospetto ai Riformatori come un’assolutizzazione<br />
umana, che agisce come uno sbarramento più che come apertura nei confronti della Parola di Dio e<br />
persino nei confronti dello stesso Spirito. Ma se studiamo il termine parádosis o meglio ancora il<br />
verbo paradidònai nel NT, ne ricaviamo un’immagine differenziata e di grosso spessore teologico.<br />
Nel linguaggio profano questi termini significano anzitutto l’atto giuridico di trasmettere degli oggetti<br />
o dei beni a un nuovo proprietario, spesso un’eredità al legittimo erede. Gli stessi termini sono<br />
applicati al processo mediante cui si perpetuano dottrine e pratiche religiose, tramandate da una<br />
generazione all’altra attraverso la parola e l’esempio vivente. Il termine è stato esteso poi<br />
all’insieme dei contenuti così comunicati. La riflessione rabbinica ha formalizzato il processo della<br />
tradizione e della recezione mediante le formule qibel (trasmettere) e masar (ricevere), che significano<br />
quei procedimenti che garantiscono una tradizione legittima e senza errore. Il movimento cristiano<br />
ha assunto questa idea e l’ha pure qualificata in senso cristologico e pneumatologico. Se Dio<br />
si è rivelato una volta per sempre nella storia di Gesù di Nazaret, manifestato nella sua risurrezione<br />
dai morti come il Cristo e il Figlio di Dio, per la salvezza di tutti gli uomini, allora il cristianesimo<br />
si vede confrontato, fin dalle sue origini, col problema della trasmissione missionaria di ciò che è<br />
stato rivelato. Gli apostoli sono in ciò i testimoni autentici, privilegiati, di questa tradizione prima,<br />
compresa sia come contenuto del Vangelo sia come azione di ricezione e di trasmissione, tanto più<br />
che essi hanno ricevuto lo Spirito santo (Lc 1,1-4; At 1,1-6.21). L’oggetto della tradizione è evidentemente<br />
il Cristo vivente: ciò conferisce al contenuto del vangelo il valore di una dottrina vera<br />
e propria (Rm 6,17) alla quale ciascuno deve conformarsi (2Ts 3,6), e di una regola di vita che richiede<br />
anche un comportamento preciso che i credenti possono “ricevere” e seguire solo in quanto<br />
è “trasmessa” dall’esempio dei missionari (cfr. 1Ts 4,1; Fil 4,9). Nelle Lettere pastorali l’aspetto<br />
dottrinale riceve un accento del tutto particolare. La tradizione si identifica allora con<br />
l’insegnamento apostolico verificato come tale (2Tim 1,12; 2,2), ed è «un deposito (parathèke)»<br />
che bisogna fedelmente conservare (1Tim 6,20), con l’aiuto dello Spirito che «abita» i credenti<br />
(2Tim 1,12ss). La genuinità (1Tim 1,10; 2Tim 4,3; Tt 1,9; 2,1; cfr. 2Pt 3,1s) e la sicurezza di questo<br />
deposito tradizionale si devono difendere, confondendo coloro che la contraddicono (Tt 1,9).<br />
La memoria collettiva della fede non è più recente: essa deve attraversare lo spazio di più generazioni.<br />
Così è vitale per le chiese che il deposito sia confidato a ministri sicuri, a presbiteri che esercitano<br />
l’«episkopé», cioè un’ispezione responsabile su di esse (Tt 1,9; cfr. At 20,28ss). Alla radice<br />
di questo processo di trasmissione il NT riconosce, però, l’atto di consegna di Gesù. Infatti il<br />
NT mostra di sapere molto bene che il termine παραδιδώναι non significa solo affidare, lasciare,<br />
trasmettere, ma pure consegnarsi (nel senso della dedizione a Dio) — a dire il vero anche tradere<br />
nel senso di consegnare e tradire.<br />
Se cerchiamo un passo centrale del NT in cui troviamo espresse le due dimensione della parádosis,<br />
ossia quella della consegna a Dio e quella di lascito testamentario agli uomini, siamo rinviati a Gv<br />
19,30, dove si dice che al momento della sua morte Gesù «parédoken to pneuma». Giovanni qui non<br />
vuole dire solo che Gesù «spirò», poiché in Mt (27,50) si dice: aphèken to pneuma; e in Mc (15,37)<br />
e Lc (23,46): exépneusen = esalò lo spirito, spirò. La presentazione giovannea della morte di Gesù<br />
libera molteplici strati semantici: infatti la morte in croce di Gesù costituisce nello stesso tempo il<br />
lascito testamentario dello Spirito, come pure il lascito dei sacramenti spirituali del Battesimo e<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
dell’Eucaristia e della vera celebrazione della Pasqua.<br />
Ma prima di procedere ulteriormente con Giovanni, vogliamo vedere qual è il significato teologico<br />
che Paolo ha dato ai termini “paradidònai” e “parádosis”: essi intendono esprimere (1) la consegna<br />
alla morte di Gesù e il suo effetto di riconciliazione con Dio, e in collegamento con questo anche (2)<br />
la trasmissione apostolica del messaggio della redenzione proveniente dall’opera di salvezza di Ge-<br />
sù, quale offerta della salvezza.<br />
Paolo presenta il primo significato in Gal 2,20: «Io vivo nella fede nel Figlio di Dio, che mi ha ama-<br />
to e ha dato se stesso per me». Cristo è qui chiamato: colui che ha dato/consegnato se stesso (o pa-<br />
radòn eautòn). Si può così dire che è Gesù stesso il contenuto e l’atto della parádosis.<br />
Questa dottrina di Paolo viene ulteriormente sviluppata in Ef 5. Così in Ef 5,2 si dice: «Camminate<br />
nella carità, come anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio come obla-<br />
zione e sacrificio di soave odore» (parèdoken eautòn hypèr hemon). La dimensione del “per noi” è<br />
così inseparabilmente collegata all’orientamento della dedizione sacrificale di Gesù a Dio. E in Ef<br />
5,25 il destinatario diretto di questa parádosis che Gesù ha fatto della sua vita è proprio la Chiesa: i<br />
mariti devono amare le proprie mogli «come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei,<br />
per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola». La parádosis che<br />
Gesù ha fatto di se stesso continua così a essere attiva nella Chiesa, in particolare nel Battesimo —<br />
il tema che si trova sullo sfondo dell’argomentazione sviluppata nel passo.<br />
3.2. La parádosis che Gesù ha fatto di sé sulla croce e la tradizione di Confessione di fede, Batte-<br />
simo ed Eucaristia in Paolo e Giovanni. Paolo fa uso di una nozione apparentemente tecnica della<br />
tradizione, che può essere parafrasata così: ciò che Cristo ha istituito una volta per la Chiesa, rag-<br />
giunge il singolo attraverso la mediazione della parádosis dell’Apostolo (e in seguito attraverso la<br />
successione di insegnamento e di direzione che origina dall’Apostolo nella Chiesa). Già Paolo, il<br />
quale a più riprese afferma che il suo apostolato gli è stato conferito direttamente da Cristo e non<br />
per la mediazione dei primi apostoli, si vede incorporato in una catena di trasmissione. Egli ricono-<br />
sce quindi che il processo della tradizione, nel quale egli si è lasciato incorporare, a riguardo della<br />
predicazione della dottrina, del Battesimo e della Eucaristia è già iniziato con i primi apostoli.<br />
(a) Le attuazioni fondamentali della tradizione ecclesiale secondo 1Cor 11,23ss e 1Cor 15,3ss. In<br />
due passi di 1Cor Paolo accenna al fatto che egli si trova in una catena di tradizione, che proviene<br />
dal Signore, e che egli ha trasmesso tale tradizione alla comunità di Corinto dalla sua fondazione<br />
come un ordinamento vincolante. Sono i passi di 1Cor 11,23 e 1Cor 15,3. Il primo si trova diretta-<br />
mente prima del racconto paolino della Cena con il comando di fare memoria di Gesù, quale moti-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
vazione della prassi della cena del Signore nella Chiesa. Così in 1Cor 11,23 si dice: «Poiché ho ri-<br />
cevuto dal Signore (parèlabon), ciò che vi ho trasmesso (parédoka)». Il testo prosegue con il ben<br />
noto racconto di istituzione: «Il Signore Gesù nella notte in cui fu consegnato prese del pane…».<br />
Nel secondo passo si tratta della tradizione della confessione della Chiesa con i suoi elementi essen-<br />
ziali: «morto per i nostri peccati» e «risorto il terzo giorno». Di nuovo Paolo all’inizio del v. 3 dice:<br />
«Poiché vi ho trasmesso (parédoka), anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto (parélabon)». Poi<br />
ammonisce i cristiani di Corinto a rimanere saldi in questa confessione di fede, perché da essa si ot-<br />
tiene la salvezza, se viene mantenuta «nella forma [tini lógo = in quella espressione]» in cui l’ha an-<br />
nunziata. E vi fa seguire il brano linguisticamente preformato: «Cristo è morto per i nostri peccati…<br />
è apparso a Cefa e quindi ai dodici». Paolo sta quindi citando un antico brano della tradizione (di<br />
Antiochia?); addirittura lo qualifica come «euangélion» (1Cor 15,1) e «kérygma» (15,11).<br />
La confessione ecclesiale con i contenuti essenziali della morte e della resurrezione di Gesù di 1Cor<br />
15,3-5 e la cena del Signore ricordata in 1Cor 11,23 costituiscono così le due “linee nodali” della<br />
tradizione. Sicuramente Paolo presuppone anche la tradizione del Battesimo e di fatto in 1Cor 12<br />
(cfr. Ef 5,25) offre una dettagliata esposizione degli effetti che derivano alla Chiesa quale Corpo di<br />
Cristo dal Battesimo, e in particolare considera i molteplici doni di grazia che lo Spirito conferisce<br />
mediante il Battesimo. Così il Battesimo può essere indicato come la terza “linea nodale” essenziale<br />
della tradizione apostolica proveniente da Cristo e vivente nello Spirito, grazie alla quale la Chiesa<br />
si attua sempre di nuovo in modo essenziale e totale.<br />
(b) La presentazione testamentaria della morte di Gesù e le sue implicazioni pneumatologiche e sa-<br />
cramentali nel vangelo di Giovanni. Dopo Paolo è Giovanni che mostra nel suo vangelo come con-<br />
tinua nella Chiesa la parádosis originaria che Gesù ha fatto di sé sulla croce anche come dono te-<br />
stamentario dello Spirito del Signore innalzato; in modo particolare essa continua a vivere in modo<br />
liturgico e concreto nei sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia, ma anche nella grande anamnesi<br />
di Cristo della notte pasquale, che porta a compimento nella comunità primitiva quello di cui i Giu-<br />
dei facevano memoria nella celebrazione della cena con un agnello pasquale immolato nel tempio.<br />
Notiamo innanzi tutto che Giovanni in alcuni passi del vangelo presenta la morte di Gesù come “e-<br />
levazione”: «Quando sarò innalzato da terra — Gv 12,32 — attirerò a me ogni cosa». E l’evangelista<br />
soggiunge: «Egli disse questo, per indicare di quale morte doveva morire». L’innalzamento sul sup-<br />
plizio della croce realizza visibilmente la parola/segno dell’elevazione; e le braccia aperte inchioda-<br />
te al legno della croce sono per Gv il segno della volontà salvifica con cui il Signore sulla croce ab-<br />
braccia l’umanità. Questa volontà salvifica si rende presente nella Chiesa e riceve la sua massima<br />
efficacia nell’Eucaristia. Non a caso la rappresentazione e le parole di Gesù in Gv 12,32 hanno avu-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
to un seguito liturgico molto importante. Già la Traditio di Ippolito, che ci offre la testimonianza<br />
della preghiera eucaristica più antica, attorno al 215, ha utilizzato nella liturgia il passo di Gv, per<br />
riassumere e presentare l’intera opera salvifica di Gesù con le parole: «Per compiere la tua (del Pa-<br />
dre) volontà e acquistarti un popolo santo, egli ha steso le braccia, quando patì, per liberare dalla<br />
passione, coloro che in lui credevano». E la seconda preghiera eucaristica romana, che imita conti-<br />
nuamente il modello della Traditio, ha evidenziato il riferimento a Gv 12,32 ancora più chiaramente<br />
di Ippolito e l’ha formulato nella maniera seguente: «Per compiere la tua volontà e acquistarti un<br />
popolo santo, ha steso le braccia sul legno della croce».<br />
Queste e altre interpretazioni teologiche della morte di Gesù in Gv — tra cui la descrizione mista-<br />
gogica della morte di Gesù in Gv 19,30-37 —, ci consentono di dire che anche la parola di Gv 19,30<br />
parèkoken to pneuma = rese lo Spirito, non significa solamente come nei passi paralleli di Mc e Lc:<br />
«spirare, esalare lo spirito». Qui viene espressa insieme alla dimensione della dedizione al Padre an-<br />
che una dimensione soteriologico-ecclesiologica, come si è indicato anche a proposito della dichia-<br />
razione «egli diede se stesso» (parèkoken eauton). La dimensione soteriologica ed ecclesiale in Gio-<br />
vanni è inoltre retta dalla dimensione pneumatologica. Così l’espressione: parèkoken to pneuma di<br />
Gv 19,30 compie nello stesso tempo ciò che secondo Gv 7,38 Gesù aveva promesso a gran voce nel<br />
grande giorno della festa della capanne, giorno in cui aveva luogo una processione lustrale: «Chi ha<br />
sete venga a me; e beva, chi crede in me. Dal suo (del Messia) seno scorreranno fiumi di acqua vi-<br />
va». E l’evangelista aggiunge: «questo egli disse riferendosi allo Spirito che i credenti in lui avreb-<br />
bero ricevuto: infatti non c’era ancora lo Spirito perché Gesù non era stato ancora glorificato».<br />
Quindi quando Gesù è stato innalzato e glorificato — entrambi gli aspetti formano un insieme unita-<br />
rio secondo Gv 12,23-28 e Gv 13,31-32 — ha luogo la parádosis dello Spirito, cioè lo Spirito è do-<br />
nato gratuitamente a coloro che credono. La relazione diretta del discepolo con il Gesù terreno come<br />
portatore messianico dello Spirito ora è resa possibile dal Paraclito che il Signore innalzato e glori-<br />
ficato manderà dal Padre. Osserviamo infine che questa dimensione pneumatologica della morte<br />
salvifica di Gesù è riconoscibile anche in Gv 19,34-35, come pure in 1Gv 5,6ss.<br />
In connessione immediata con la testimonianza della morte di Gesù, Giovanni sottolinea solenne-<br />
mente che dopo la morte del Signore uscirono dal fianco trafitto sangue ed acqua. Questo passo ha il<br />
suo corrispondente in 1Gv 5,6, secondo cui ci sono tre testimoni, che nella vita della Chiesa man-<br />
tengono presente in modo permanente ciò che in una modalità storico-salvifica e unica avvenne in<br />
questo mondo, ossia il venire di Gesù nell’acqua e nel sangue. Così 1Gv 5,8 dice espressamente:<br />
«Sono tre che danno testimonianza: lo Spirito e l’acqua e il sangue. E questi tre sono concordi». C’è<br />
quindi secondo 1Gv 5 una triplice parádosis nella Chiesa, nella quale sfocia quella parádosis che<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
Gesù ha fatto di sé in croce: il permanente effetto salvifico dello Spirito, congiunto con i due sacra-<br />
menti dello Spirito, il battesimo e la cena del Signore.<br />
Questa triplice parádosis nella Chiesa sarà ripresentata ancora nella concretezza liturgica, così come<br />
è tramandato dalla più antica prassi della comunità primitiva nella celebrazione della notte pasqua-<br />
le 70 , che, facendo l’anamnesi di Cristo, diviene il luogo centrale anche della confessione di fede cri-<br />
stiana. In essa culmina l’esperienza liturgica del mistero di Cristo: l’esperienza di come la Chiesa<br />
vive della parádosis che Gesù ha fatto di se stesso e dello Spirito che Gesù sulla croce ha “conse-<br />
gnato” e che come dono spirituale della parádosis “ispira” nella sua Chiesa (cfr. Gv 19,30; 20,22).<br />
3.3. L’importanza permanente delle tradizioni apostoliche centrali e le forme di attuazione liturgi-<br />
ca. Caratterizzeremo ora le tradizioni originarie, che abbiamo raccolto da Paolo e da Giovanni, della<br />
dottrina apostolica e delle attuazioni liturgico-sacramentali del tempo apostolico, che sono costituti-<br />
ve per l’identità della Chiesa in qualsiasi epoca. Se qui ci concentriamo sulle “linee nodali” della<br />
tradizione apostolica non è per negare il carattere apostolico di altre tradizioni. E ciò non è affatto<br />
insignificante per l’identità della Chiesa. Infatti parlando di tradizione “apostolica”, ipso facto è in<br />
gioco anche la continuità del ministero apostolico, la quale non si può separare dalla confessio nella<br />
Chiesa, dall’Eucaristia, dal Battesimo e dalla anamnesi di Cristo dell’anno liturgico.<br />
- La tradizione apostolica della confessio, che si rispecchia in 1Cor 15,3-5 e che Paolo contrassegna<br />
con la parola chiave parèdoka = io vi ho trasmesso, nell’epoca posteriore della Chiesa continua a<br />
vivere in una forma più concentrata prima nella confessione battesimale, poi nel Simbolo Apostoli-<br />
co, mentre quella forma di anamnesi (presupposta già in 1Cor 15,3-4) della storia della passione con<br />
l’attestazione della risurrezione troverà espressione compiuta nella forma del vangelo.<br />
- Il Battesimo è l’evento sacramentale della nascita dall’alto, dall’acqua e dallo Spirito santo (cfr.<br />
Gv 3,5), e dà inizio perciò alla vita nella Chiesa e con la Chiesa per chiunque giunge a credere in<br />
Cristo. Ma, come mostra la prassi battesimale della Chiesa fin dal suo inizio, in connessione con il<br />
Battesimo troviamo anche la confessione della fede cristiana nella sua totalità. Questa confessione<br />
se in un primo tempo era orientata a Gesù in quanto Cristo, nel tempo apostolico successivo si è<br />
70 Sarebbero qui da valutare anche gli aspetti di teologia pasquale presenti in Paolo (in 1Cor 5,7 Cristo è presentato come<br />
agnello pasquale; inoltre in 1Cor 10,1ss diversi avvenimenti dell’Esodo vengono presentati come compiuti nella storia<br />
salvifica nel mistero di Cristo del Battesimo, e tutto questo sullo sfondo di una celebrazione pasquale cristiana, che a<br />
Corinto è celebrata molto probabilmente come nella comunità primitiva di Gerusalemme) e nel quarto vangelo (si pensi<br />
solo al fatto che Giovanni caratterizza in posti decisivi del suo vangelo la morte di Gesù sulla croce — perciò la parádosis<br />
di se stesso all’interno della Chiesa — come morte sacrificale del “vero agnello pasquale”) e la tradizione apostolicoliturgica<br />
della celebrazione della liberazione della notte di pasqua.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
strutturata trinitariamente. La formulazione trinitaria del comando di battezzare in Mt 28,19s non ri-<br />
specchia una formula battesimale trinitaria con cui si amministra il sacramento, piuttosto è il riflesso<br />
di una confessione battesimale strutturata trinitariamente, che appare anche in Ef 4,4-6, e poi è do-<br />
cumentata in tutte le testimonianze battesimali che si sono conservate dei secoli III e IV — da Ippo-<br />
lito a Basilio —, dove la confessio costituisce nello stesso tempo anche la forma linguistica del Bat-<br />
tesimo, per il fatto che l’immersione è eseguita direttamente sulla confessione dei Battezzandi. Do-<br />
po che nel V secolo si giunge a una formula di amministrazione del ministro durante il Battesimo, la<br />
confessione dei battezzandi (in forma di domanda e risposta) precede immediatamente l’atto batte-<br />
simale e rimane ancora in questa forma semplicemente la confessione modello della fede ecclesiale.<br />
Possiamo quindi affermare che già nel tempo neotestamentario la prassi battesimale costituisce il<br />
luogo più importante della tradizione della confessio. Questa tradizione si continuerà poi nel colle-<br />
gamento tra Battesimo e confessio, che costituirà per i Padri di Nicea e di Costantinopoli la sorgente<br />
normativa da cui essi attingeranno i propri simboli.<br />
- Infine la cena del Signore non è da considerare solo come il terzo dei sette sacramenti. Se infatti se<br />
si rispetta l’istruzione data da Paolo in 1Cor 10,16s l’unico Pane e l’unico Calice, ai quale parteci-<br />
pano i credenti, sono semplicemente la causa dell’unico corpo ecclesiale di Cristo. E come è acca-<br />
duto per la tradizione battesimale, così anche la stessa celebrazione eucaristica appare nella sua tota-<br />
lità come una confessione di fede. Infatti le antiche preghiere eucaristiche — ad es. la preghiera di<br />
Ippolito —, la cui struttura contenutistica è già tracciata nelle eulogie ed eucaristie in Ef e Col, sono<br />
strutturate come un ringraziamento storico salvifico indirizzato a Dio, il Padre e come preghiera di<br />
domanda per la chiesa. Ma in questo esse abbracciano tutti i contenuti centrali della Cristologia e<br />
della Soteriologia, della pneumatologia e della <strong>ecclesiologia</strong>.<br />
Perciò la Confessio, il Battesimo e la tradizione della cena del Signore sono nella Chiesa fin dal<br />
tempo apostolico le linee nodali della tradizione apostolica e le attuazioni viventi della Chiesa che<br />
rendono presente l’opera salvifica di Cristo come pure articolano la fede della Chiesa.<br />
4. Il ministero ordinato<br />
Abbiamo già visto che sulla questione del ministero ordinato i conflitti confessionali dividono anco-<br />
ra la lettura dei testi del NT. Alcuni elementi condivisibili, però, si possono almeno individuare.<br />
4.1. L’intima struttura della Chiesa si differenzia da ogni comunità o società puramente umana. Essa<br />
sa di essere sottomessa al Signore glorificato che, con il suo Spirito, la dirige e la edifica, l’accresce<br />
di sempre nuovi fedeli: «Il Signore accresceva ogni giorno il numero di coloro che sarebbero stati<br />
salvati» (At 2,47; cfr. i passivi di 2,41; 5,14; 11,24); il successo della evangelizzazione è una cresci-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
ta della «parola di Dio» (At 6,7; 12,24; cfr. 19,20); la «mano del Signore» è con i missionari in An-<br />
tiochia, cosicché una grande moltitudine si converte alla fede nel Signore (11,21). Questa non è solo<br />
la concezione di Luca, visto che anche Paolo è convinto che gli è stata «aperta la porta» dal Signore<br />
(cfr. 1Cor 16,9; 2Cor 2,12; Col 4,3); che il Signore ha concesso a Pietro la grazia per l’apostolato<br />
tra i circoncisi e a lui tra i Gentili (Gal 2,8; cfr. 2Cor 3,5s), che Cristo opera attraverso di lui e attra-<br />
verso la sua parola per chiamare i pagani all’accettazione della fede, «per la potenza dei miracoli e<br />
dei segni, per la potenza dello Spirito (divino)» (Rm 15,17-19; cfr. 1Ts 1,5; 1Cor 2,3-5). La stessa<br />
edificazione interna delle comunità non è propriamente il frutto delle fatiche degli uomini, quanto<br />
piuttosto opera di Dio e dello Spirito Santo. Così Luca può asserire che: «La Chiesa in tutta la Giu-<br />
dea, la Galilea e la Samaria era in pace poiché era edificata e camminava nel timore del Signore, e si<br />
accresceva con il conforto dello Spirito Santo» (At 9,31). Paolo sviluppa una teologia della «cresci-<br />
ta» (1Cor 3,6s; Col 1,6.10) e della «edificazione» della Chiesa (1Cor 3,9-11; 14,5.12. 26; 2Cor<br />
12,19; Ef 2,21; 4,12-16), in cui il primato è attribuito a Dio e alla sua potenza. Così le persone inca-<br />
ricate di uffici e di servizi per la Chiesa, sono solo strumenti di Dio, ministri di Cristo, organi dello<br />
Spirito Santo (1Cor 4,1; 12,4-6), e quindi è loro inerente un carattere sostanzialmente diverso da<br />
quello di tutti i «funzionari» designati solo da un ordinamento e una costituzione umana.<br />
4.2. La legge che vige per tutti i membri della Chiesa, qualunque siano le funzioni esercitate nel-<br />
l’intero e per l’intero organismo, è quella del servizio e dell’amore, come Gesù stesso ha stabilito e<br />
richiesto per i suoi discepoli (cfr. Mc 10,42-45 par.) nel senso paradossale che «proprio chi si abbas-<br />
sa, sarà esaltato» (da Dio: Lc 14,11; Mt 23,12). Il contesto in cui queste massime sono inserite (cfr.<br />
Mt 23,8-10; Lc 22,24-27), mostra che la Chiesa primitiva era consapevole che questo «ordine nuo-<br />
vo» era normativo anche per la sua vita concreta. Sul tema sono particolarmente efficaci le parole<br />
con cui Paolo presenta il ministero apostolico (cfr. 1Cor 4,1s; 9-13; 2Cor 4,5.12.15; 6,4-10; Fil<br />
2,17). Il «servizio» cristiano non è paragonabile a quello richiesto nell’ambito della vita sociale,<br />
poiché nella Chiesa primitiva non è soltanto questione di un «bene comune» superiore (anche se<br />
questo aspetto non manca, cfr. 1Cor 12,7), ma anche di un ordinamento escatologico.<br />
4.3. Per questa ragione gli uffici e i ministeri che man mano compaiono nella comunità, il loro nu-<br />
mero, designazione e genere non sono determinanti, purché si conservi l’ordinamento voluto e sta-<br />
bilito da Dio (cfr. 1Cor 12,28; 14,33). La «storia della costituzione» del cristianesimo primitivo mi-<br />
surata con questo metro, appare di fatto non unitaria e mutevole. Anche la tanto dibattuta questione,<br />
se accanto agli uffici «carismatici», cioè a quelli che venivano assunti grazie a doni spirituali rico-<br />
noscibili, ve ne fossero degli altri «istituzionali» o «amministrativi», i cui detentori venivano costi-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
tuiti mediante semplice incarico e con vincolo locale, perde di importanza se ogni «ufficio» della<br />
Chiesa primitiva ha senso solo in quanto concesso da Dio e confermato dallo Spirito. Perciò anche<br />
la differenza tra uffici permanenti e uffici transitori è di scarsa importanza. Quello che importa è che<br />
si riconosca un ordinamento che viene da Dio, voluto da lui, mediante il quale Cristo permane il ca-<br />
po della sua comunità terrena che egli regge in forza dello Spirito. Rimane ancora discussa la que-<br />
stione se la Chiesa nel Nuovo Patto secondo la volontà di Dio e la disposizione di Gesù Cristo deb-<br />
ba avere nella sua struttura visibile un ordinamento articolato, graduato («gerarchico»), con potere<br />
di direzione in determinati organi, o se il «popolo santo di Dio» come tale sia depositario di ogni po-<br />
tere, e ogni necessario ordinamento debba essere stabilito di volta in volta solo dalla disposizione<br />
dello Spirito Santo (comunque essa si manifesti). Detto in breve: un determinato ordinamento fon-<br />
damentale è costitutivo per la Chiesa di Gesù Cristo?<br />
4.4. La visione protestante tradizionale opponeva il concetto di Chiesa della primitiva comunità di<br />
Gerusalemme a quello di Paolo. Nella comunità di Gerusalemme ci sarebbe stata fin dall’inizio la<br />
presenza di una regolare gerarchia, di un ordinamento divinamente stabilito, di un diritto ecclesia-<br />
stico divino, di una Chiesa come istituzione nella quale vengono accolti i singoli fedeli. Paolo, inve-<br />
ce, avrebbe avuto un concetto nuovo e del tutto diverso di Chiesa: per lui gli «apostoli», che in Ge-<br />
rusalemme godevano di una preminenza divina permanente, che li autorizzava alla direzione della<br />
comunità, sarebbero stati solo degli strumenti, ministri, annunciatori, ambasciatori di Cristo. In tal<br />
senso le persone come tali non avrebbero avuto grande importanza, mentre essenziale era piuttosto<br />
la testimonianza data al Cristo. Senza entrare nel difficile dibattito sulle relazioni fra Paolo e le «co-<br />
lonne» di Gerusalemme — notiamo che egli ha coscienza di essere apostolo come loro, chiamato<br />
direttamente da Dio e autorizzato dal Signore e tuttavia cerca continuamente il contatto e l’accordo<br />
con loro (cfr. Gal 1; 2,2-10; 1Cor 15,3.9-11) —, ci limitiamo a studiare il rapporto che egli in quan-<br />
to apostolo di Gesù Cristo intrattiene con le sue comunità. Ebbene di fronte ad esse, Paolo sa di ave-<br />
re un’autorità che include anche il potere di dirigere e di comandare. Paolo è conscio del «pieno po-<br />
tere» (exousía) che il Signore gli ha dato (2Cor 10,8; 13,10), anche se non vuole servirsene per la<br />
«distruzione», bensì per la «edificazione» della comunità. Egli non fa dipendere in alcun modo il<br />
suo potere dalla «libertà della comunità» nel seguirlo. Delicatamente, ma inequivocabilmente, egli<br />
chiede ai Corinti: «Cosa volete? Devo venire a voi con il bastone o con l’amore, in spirito di man-<br />
suetudine?» (1Cor 4,21). Nonostante la sua assenza da Corinto, egli ha già deciso il caso del-<br />
l’incestuoso e si attende che la comunità riunita, presso la quale si sente presente in spirito, esegua il<br />
giudizio di anatema: il passo, sintatticamente non chiaro (1Cor 5,3-5), manifesta chiaramente che<br />
l’Apostolo non accorda alla comunità alcuna libertà di decisione. Anche le istruzioni che dà sul cul-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
to hanno un tono autoritativo (cfr. 1Cor 11,17-33): egli non solo esorta, ma dà anche disposizioni<br />
concrete (diatásso; cfr. 1Cor 7,17; 16,1; Tit 1,5), adoperando lo stesso verbo con cui in 1Cor 9,14<br />
viene riferito un ordine del Signore. Certamente Paolo distingue un chiaro comando del Signore<br />
(1Cor 7,10) da una decisione che è solo sua (1Cor 7,12): egli però la prende con tale risolutezza da<br />
non tollerare obiezioni. Anche le istruzioni sulla condotta morale che dà «nel Signore Gesù» (1Ts<br />
4,2) sono precise e concrete (cfr. 1Ts 4,11; 2Ts 3,4.6.10.12). La comunità di Corinto deve aver rico-<br />
nosciuto questa direzione apostolica: altrimenti non si capirebbe perché gli abbia sottoposto deter-<br />
minate questioni (cfr. 1Cor 7,1: i capitoli successivi rispondono ai quesiti sottoposti). Paolo espres-<br />
samente nota: «Così io prescrivo per tutte le chiese» (1Cor 7,17).<br />
Con queste premesse, si può contestare la separazione che in genere si introduce fra le lettere pasto-<br />
rali e il Paolo delle lettere alle comunità, come se le prime fossero testimoni non soltanto di una e-<br />
voluzione della situazione, ma anche di una concezione del ministero totalmente diversa. Infatti, in<br />
primo luogo, non si può dire che le lettere alle comunità diano un quadro esaustivo dell’agire apo-<br />
stolico di Paolo, dell’organizzazione e delle prescrizioni che egli ha disposto per le sue neo-<br />
fondazioni. In secondo luogo, si deve notare che anche nelle lettere indirizzate a queste comunità<br />
sono menzionate delle persone che nella comunità hanno assunto compiti e funzioni organizzative e<br />
direttive; così già in 1Ts 5,12, inoltre 1Cor 12,28 (kybernéseis) 16,15s («siate loro sottoposti!»); Rm<br />
12,6-8. Anche se l’attività e le facoltà di tali ausiliari locali di Paolo nelle comunità (distinti dai suoi<br />
inviati) erano limitate (cura dei poveri, amministrazione, ma anche compiti pastorali), è tuttavia e-<br />
vidente che Paolo designa o riconosce queste persone, ne sostiene la posizione in seno alla comunità<br />
e la rafforza con la sua autorità: sebbene egli rimanga il padre e il capo delle comunità. In questo<br />
modo si dovrebbe intendere anche la nomina degli «anziani», cui accenna il resoconto di At 14,23.<br />
Perciò il quadro che le pastorali offrono del periodo di consolidamento delle comunità paoline è<br />
tutt’altro che inattendibile. Limitandoci a quanto detto, è chiaro che Paolo non è solo il predicatore<br />
della parola e il servitore delle sue comunità, bensì è anche l’Apostolo dotato di pieno potere, con-<br />
sapevole della sua autorità e del suo potere direttivo; anzi, quando è necessario, ne fa anche uso.<br />
4.5. Se consideriamo poi la testimonianza dei Vangeli — i quali, pur tenuto conto della importanza<br />
della «redazione» da parte degli Evangelisti, tramandano anche e soprattutto la conoscenza che la<br />
Chiesa primitiva aveva di sé, fondata sulla parola e sull’azione di Gesù — notiamo che essi ricorda-<br />
no che Gesù ha assegnato agli «inviati» una particolare dignità e potere. L’affermazione: «Chi ascol-<br />
ta voi, ascolta me; e chi rifiuta voi rifiuta me: chi poi rifiuta me, rifiuta colui che mi ha mandato»<br />
(Lc 10,16; cfr. Mt 10,40; Gv 13,20), enuncia il principio generale secondo cui vanno giudicati i<br />
messaggeri di Gesù: essi continuano la sua missione e partecipano corrispondentemente al suo<br />
138
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
mandato e al suo potere che viene da Dio. Secondo Mc 3,15; 6,7.11.17s e par. Lc 10,19, Gesù già<br />
durante la sua attività terrena ha concesso ai suoi discepoli una partecipazione alle sue facoltà e ai<br />
suoi poteri. Non è perciò corretto dire che i «Dodici» originariamente non avevano niente a che fare<br />
con l’ufficio apostolico posteriore (la designazione «apostoli» in Lc 6,13 è secondaria), ma che era-<br />
no solamente il gruppo di coloro che, accogliendo l’annuncio del Regno, vivevano nella sua luce ed<br />
erano suoi messaggeri, incaricati di chiamare tutto Israele alla conversione e un giorno suoi giudici<br />
nel Regno futuro. Secondo Mc 3,14s lo scopo dichiarato della elezione del Dodici da parte di Gesù è<br />
quello di «stare con lui» e di «mandarli a predicare (keryssein), e ad avere potere (échein exousían)<br />
di scacciare i demoni». Ma questo corrisponde alla stessa missione di Gesù: annunziare il Regno di<br />
Dio che si avvicina e renderlo visibile nella sua potenza (cfr. Mc 1,39). Mandato e attività dei «Do-<br />
dici» (Mc 6,7.13) sono dunque in linea con l’azione specifica di Gesù. Gli uomini scelti da lui, riu-<br />
niti intorno a lui e partecipi della sua opera, hanno un compito preciso nella formazione della comu-<br />
nità escatologica di salvezza. Essi non rivestono solo un significato simbolico (l’Israele completo<br />
del tempo escatologico), un compito di profezia per il presente (richiamo al popolo delle dodici tri-<br />
bù) e una funzione escatologica (giudici su Israele: cfr. Lc 22,30; Mt 19,28), bensì possiedono anche<br />
pieni poteri per raccogliere nel nome di Gesù l’attuale comunità di salvezza.<br />
In Matteo troviamo inoltre il detto sul potere di «legare e sciogliere» (Mt 18,18): anche se non ven-<br />
gono esplicitati i suoi destinatari, è difficile pensare che non siano i «Dodici», tanto più che<br />
l’espressione analoga di Gv 20,23 è rivolta solo a loro. Se il potere di legare e sciogliere abbraccia<br />
un’attività che consiste nell’annunciare e nell’insegnare autorevolmente, nell’obbligare, nell’orga-<br />
nizzare e nel giudicare, e principalmente il potere sacro di insegnare e di giudicare, è difficile sup-<br />
porre che sia la Chiesa in quanto totalità il soggetto di questo potere. Si veda in proposito quanto ri-<br />
portato dagli Atti (cfr. 5,1-11; 6,2-6; 15,6-29), come pure dalla coscienza apostolica di Paolo (cfr.<br />
sopra). Anche se la comunità è fatta partecipe di importanti decisioni (cfr. At 15; 1Cor 5), rimane<br />
però riconoscibile la guida autorevole dell’«Apostolo». L’assemblea che in Gerusalemme discute<br />
sulla necessità della circoncisione per i cristiani non giudei, si articola negli «apostoli e anziani in-<br />
sieme con tutta la comunità» (At 15,22; cfr. 6.12.23). Le comunità locali sono dirette da presbiteri<br />
(collegi di presbiteri) e solo ai capi della Chiesa di Efeso il Paolo degli Atti dice: «Vegliate su voi<br />
stessi e su tutto il gregge in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come ispettori (episko-<br />
pous) per pascere la Chiesa di Dio» (At 20,28). Alla base della concezione paolina di 1Cor 12,28 vi<br />
è l’immagine di una Chiesa articolata, distinta in gradi secondo le funzioni: «Vi sono alcuni che Dio<br />
ha costituito nella Chiesa, in primo luogo apostoli, in secondo luogo profeti, in terzo luogo dottori,<br />
poi quelli con la potenza dei miracoli, con il dono delle guarigioni, il dono di assistere, di governare,<br />
139
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
di parlare in varie lingue». Sebbene Paolo si preoccupi di correggere la stima eccessiva che i Corinti<br />
danno ai carismi — col rischio di stilare classifiche fra i fedeli —, esaltando invece la necessità<br />
dell’edificazione comune, egli non cancella le differenze e le articolazioni della costruzione, anzi fa<br />
risalire a Dio la designazione ai differenti uffici (cfr. Ef 4,11). La menzione degli «apostoli» al pri-<br />
mo posto, poi dei profeti e dei dottori (in Ef 4,11: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e dottori) non<br />
è casuale. Il quadro non corrisponde ancora alla posteriore «gerarchia», ma mostra il principio di un<br />
«ordinamento santo» che Dio ha dato alla sua Chiesa. Il santo popolo di Dio viene guidato anche da<br />
pastori umani che sono responsabili davanti al «Pastore supremo» (cfr. 1Pt 5,2-4). Diventa così evi-<br />
dente la composizione «apostolica» della Chiesa primitiva.<br />
4.6. L’attenzione al ministero ordinato come elemento che permette di garantire la continuità della<br />
Chiesa nella storia che procede ha avuto un grande peso soprattutto negli scritti vicini a Paolo e al<br />
paolinismo, in modo eminente nelle “pastorali”. Questo fatto è una conseguenza del significato che<br />
Paolo ha ascritto alla stretta correlazione fra Vangelo e Apostolo. È l’apostolo che, come persona<br />
inviata con una missione speciale dal Signore stesso, manifesta la struttura del Vangelo; e la Chiesa<br />
sorge e viene formata mediante questa testimonianza. Questa funzione di servizio al Vangelo asse-<br />
gnata personalmente venne raccolta e continuata nelle comunità paoline dopo la morte degli Apo-<br />
stoli dalle guide delle comunità. La teologia del ministero che si delinea in modo chiaro nelle lettere<br />
pastorali vuole fornire così uno strumento per la configurazione della continuità ecclesiale.<br />
Dedichiamo un’attenzione particolare alla figura del ministero ordinato quale appare nelle “pastora-<br />
li”. Esse, sebbene presentino ancora una strutturazione ancora un po’ fluida 71 , certamente anticipano<br />
quello che la Chiesa del secondo secolo ha riconosciuto essere un elemento essenziale che mantiene<br />
la Chiesa fedele alla sua “origine” e alla sua “essenza”.<br />
Le tre epistole “pastorali” (1 e 2Tm e Tt) costituiscono il più formale trattamento esplicito della con-<br />
tinuità sub-apostolica nel NT. Paolo trascorse gran parte della sua vita cristiana come missionario,<br />
accrescendo costantemente il numero di coloro che erano venuti alla fede in Gesù Cristo.<br />
71 La varietà dei titoli con cui nel NT ci si riferisce al ministero denota una evoluzione che a partire da un ministero specificamente<br />
apostolico sfocerà in un ministero “ecclesiale” con una forma sempre più istituzionalizzata: 1\ a Gerusalemme<br />
abbiamo i “dodici”, i “sette” ellenisti, poi i profeti, gli “anziani” (presbyteroi), i didascali (rabbi); 2\ a Cesarea un<br />
evangelista (Filippo), le cui figlie profetizzano; a Joppe ci sono delle vedove (Tabità); 3\ ad Antiochia, una triade pastorale<br />
in una strutturazione gerarchica: apostoli, profeti e didascali; 4\ a Efeso, un evangelista (Timoteo), gli episkopi; 5\ a<br />
Corinto la stessa triade di Antiochia; si parla anche di diaconi (Rm 1 e 2Cor) e di proistamenoi “presidenti” (cfr. Rom),<br />
6\ a Roma di hegoumenos, “dirigente” (Eb). L’evoluzione e la stabilizzazione dei ministeri si spiega: 1\ per la situazione<br />
della Chiesa di Gerusalemme, dalla Pentecoste alla guerra giudaica; 2\ per lo sviluppo della Chiesa (da 60.000 verso il<br />
60 d. C. fino a 240.000 verso l’80, di cui un quarto nella provincia di Asia); 3\ per la sparizione degli apostoli e dei ministri<br />
itineranti; 4\ per il ruolo della Chiesa di Roma, che si sostituisce a quella di Gerusalemme.<br />
140
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
L’ambientazione delle due lettere scritte a Timoteo e della lettera a Tito vede Paolo nell’ultimo pe-<br />
riodo della sua vita: «È giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia,<br />
ho terminato la mia corsa» (2Tm 4,6-7). In conformità a questo contesto i suoi pensieri si rivolgono<br />
ai cristiani che egli sta per lasciare. Come possono sopravvivere, specialmente con un pericolo e-<br />
norme rappresentato da falsi maestri che potrebbero traviarli (Tt 1,10; 1Tm 4,1-2; 2Tm 3,6; 4,3)? In<br />
altre parole, gli interessi di Paolo non sono più primariamente missionari ma pastorali; egli è preoc-<br />
cupato di curare il gregge già esistente. Naturalmente, un tale interesse non manca nelle sue prime<br />
lettere, ma giustamente queste tre lettere sono state designate «Pastorali» per eccellenza 72 .<br />
Il consiglio del Paolo alla fine della sua vita terrena sul come sopravvivere, dato a Timoteo e a Tito,<br />
e attraverso essi alle comunità cristiane, è in sintesi una risposta in termini di istituzione. Alcune<br />
delle comunità paoline non sono complete nel senso che esse non hanno autorità locali, ma adesso a<br />
tale carenza si deve rimediare, nominando in ogni città dei presbiteri-vescovi (Tt 1,5-7). La guida<br />
autorevole di questi uomini preserva le comunità ecclesiali locali dalla disintegrazione.<br />
Sebbene la parola presbyteros (comparativo di présbys «vecchio», che in greco significa «anziano»)<br />
si riferisca all’età, il costume di chiedere consigli agli uomini più anziani di una comunità implicò<br />
che «anziano» o «presbitero» finissero per designare un funzionario scelto idealmente per la sua<br />
saggezza, spesso più avanzato in età, ma non necessariamente. Le sinagoghe giudaiche avevano un<br />
gruppo di anziani o presbiteri che stabilivano la linea di condotta della sinagoga. I presbiteri cristia-<br />
ni, comunque, avevano un ruolo di sorveglianza pastorale che andava al di là del loro equivalente<br />
giudaico; perciò li troviamo designati con un secondo titolo, epískopos, «soprintendente, sorveglian-<br />
te, vescovo». La frequente pretesa che presbyteros sia un ruolo preso in prestito dal giudaismo men-<br />
tre epískopos sia preso in prestito dalla amministrazione secolare e religiosa dei pagani è troppo<br />
semplificata e non tiene conto delle testimonianze dei rotoli del Mar Morto. Nei 150 anni precedenti<br />
la nascita del cristianesimo gli Esseni descritti nei rotoli avevano, a parte i presbiteri, dei funzionari<br />
chiamati «sovrintendenti», con ruoli di insegnamento, di ammonizione e di amministrazione quasi<br />
72 Un cambiamento simile si trova nella figura di Pietro in Gv 21. I vangeli sinottici ricordano Pietro come il pescatore<br />
che si era trasformato in pescatore di uomini (Lc 5,10). Nella prima parte di Gv 21 (1-11) Pietro fa una pesca miracolosa<br />
e trascina verso la riva una rete carica di 153 grossi pesci. La scena cambia bruscamente quando Gesù tralascia il fatto<br />
dei pesci ed ordina a Pietro di nutrire i suoi agnelli e le sue pecore (Gv 21,15-17). Le immagini del mondo della pesca<br />
sono molto appropriate all’attività missionaria di condurre gli uomini dentro la comunità cristiana, ma non si prestano<br />
alla cura continua di coloro che sono stati accolti in essa. L’immagine canonizzata del NT per indicare la cura pastorale<br />
è il prendersi cura di un gregge; l’immagine dalla quale noi traiamo il termine «pastorale». Nella stessa maniera in cui il<br />
missionario Paolo, raffigurato come vicino alla morte, diventa primariamente Paolo il pastore che si prende cura di coloro<br />
che ha convertito, così in Gv 21 c’è un cambiamento di immagine: da Pietro il pescatore a Pietro il pastore. Nella «epistola<br />
pastorale» petrina, Pietro dà un consiglio sulla cura pastorale (1Pt 5,1-3).<br />
141
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
uguali a quelli dei vescovi delle Pastorali. I sovrintendenti della comunità religiosa degli Esseni era-<br />
no figurativamente descritti come «pastori», proprio come lo erano i vescovi cristiani (At 20,28-29;<br />
1Pt 5,1-3). Perciò, è plausibile che dalla sinagoga i cristiani presero un modello di gruppi di presbi-<br />
teri per ciascuna chiesa, mentre il ruolo di sorvegliante pastorale (epískopos) dato a tutti o a molti di<br />
questi presbiteri 73 proveniva dal modello organizzativo di gruppi giudaici, i cui componenti viveva-<br />
no in un rapporto di solidarietà molto stretta, come ad es. gli Esseni del Mar Morto. Non si dice nel-<br />
le Pastorali che i presbiteri-vescovi presiedessero l’eucaristia o il battesimo 74 . Non sappiamo neppu-<br />
re come venivano nominati i presbiteri-vescovi, sebbene dal tempo in cui furono scritti gli Atti Bar-<br />
naba e Paolo potessero essere descritti come coloro che nominavano presbiteri in ogni chiesa<br />
(14,23). Che questa immagine sia stata troppo semplificata è indicato da Tt 1,5 dove è chiaro che ci<br />
sono delle città di missione paolina senza presbiteri 75 . Secondo la Didaché 15,1 i cristiani erano in-<br />
vitati a nominare per se stessi vescovi e diaconi 76 .<br />
Una tale informazione di retroterra sui presbiteri-vescovi può essere utile, ma non dovrebbe disto-<br />
glierci da quelle funzioni dei presbiteri-vescovi che fanno di loro una risposta delle Pastorali al mo-<br />
do in cui le comunità paoline sopravvissero dopo la morte dell’apostolo.<br />
Il primo e più importante aspetto nelle Pastorali è che i presbiteri-vescovi devono essere i maestri<br />
ufficiali della comunità, ancorati alla sana dottrina ricevuta da Paolo attraverso Tito e Timoteo, e<br />
avversi ad ogni insegnamento nuovo o differente. Essi possono proteggere la comunità dall’errore<br />
perché hanno l’autorità di ridurre al silenzio i falsi maestri (Tt 1,9-2,1; 1Tm 4,1-11; 5,17). Essi de-<br />
vono custodire «il buon deposito» (2Tm 1,14; cfr. 1Tm 6,20; 2Tm 1,12). Essi lo possono fare in virtù<br />
del dono dello Spirito (2Tm 1,6: «ti ricordo di ravvivare il dono [chárisma] di Dio che è in te per<br />
l’imposizione delle mie mani») che hanno ricevuto mediante l’imposizione delle mani da parte del<br />
73<br />
Negli scritti di poco posteriori al 100 d.C., ad es. in quelli di Ignazio di Antiochia, viene attestato il modello ecclesiale<br />
che prevede un solo epískopos a presiedere su un gruppo di presbiteri (e diaconi). Il fatto che le Lettere Pastorali usino il<br />
termine presbyteros sia al singolare che al plurale, mentre epískopos è attestato (2 volte) solo al singolare, ha indotto alcuni<br />
studiosi a ritenere che l’organizzazione ecclesiale con un solo vescovo era già vigente quando le Pastorali vennero<br />
scritte (negli anni 80?). Tuttavia in Tt 1,5.7 i due termini sono interscambiabili, per cui c’erano anche diversi presbiterivescovi<br />
nella chiesa di una data città menzionata nelle Pastorali. Una osservazione in 1Tm 5,17 suggerisce,però, che non<br />
tutti i presbiteri esercitavano una funzione di controllo e di insegnamento; evidentemente la funzione episcopale di controllo<br />
stava diventando più stimata: J. SCHLOSSER, “Episkopos, Episkopé, Ekklesia nel Nuovo Testamento: quali relazioni?”,<br />
in La relazione fra il Vescovo e la Chiesa locale, Quaderni di studi ecumenici 14, Venezia 2007, 51-81.<br />
74<br />
Gc 5,14 mostra, però, che i presbiteri hanno un ruolo speciale nella preghiera sugli ammalati e nell’unzione. Dal tempo<br />
di Ignazio, la presidenza dell’eucaristia e del battesimo era affidata al (singolo) vescovo o ad un suo delegato.<br />
75<br />
«Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo<br />
le istruzioni che ti ho dato».<br />
76<br />
«Eleggetevi, dunque, vescovi e diaconi degni del Signore, uomini mansueti non desiderosi di denaro e provati. Essi<br />
esercitano per voi anche il ministero dei profeti e dei dottori»: in I Padri apostolici, op. cit., 38.<br />
142
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
presbytérion (1Tm 4,14: «Non trascurare il dono spirituale che è in te [tou en soi charismatos] e che<br />
ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte del collegio<br />
dei presbiteri») accompagnata da parole profetiche nel quadro di una celebrazione liturgica in cui<br />
l’assemblea cristiana gioca un ruolo di testimonianza (1Tm 1,18: «Questo è l’ordine che ti do, figlio<br />
mio Timoteo, in accordo con le profezie già fatte su di te…»; 1Tm 6,12: «Combatti la buona batta-<br />
glia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fat-<br />
to la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni»; 2Tm 2,2: «Le cose che hai udito da me<br />
in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a<br />
loro volta anche altri»). In proposito si può parlare di un “legame di successione di tipo dottorale”;<br />
anzi, siccome la trasmissione del deposito - che è l’elemento primo ed essenziale - non avviene al di<br />
fuori della catena dei ministri istituiti, si può persino parlare di “successione apostolica”.<br />
Il secondo aspetto è che, poiché la chiesa è «la casa di Dio» (1Tm 3,15; un confronto reso più signi-<br />
ficativo dal fatto che la chiesa si incontrava appunto in una casa), i presbiteri-vescovi devono essere<br />
simili ai padri che portano la responsabilità di una famiglia, ne amministrano i beni ed offrono e-<br />
sempio e disciplina. La stabilità e una stretta relazione simile a quella di una famiglia terranno la<br />
chiesa unita contro le forze disgregatrici che la circondano o la invadono. Le qualità richieste ad un<br />
presbitero-vescovo sono virtù istituzionali tali che sarebbero apprezzate in una organizzazione ri-<br />
stretta con una impostazione familiare 77 . Queste richieste riflettono l’emergere della chiesa come<br />
una società con delle norme prestabilite e con suoi funzionari ufficiali. Naturalmente, l’autore delle<br />
Pastorali spera che uomini con doni carismatici siano nominati presbiteri-vescovi, ma egli è dispo-<br />
sto a sacrificare le qualità carismatiche a favore di qualità più prosaiche che promuoveranno<br />
l’armonia nella comunità cristiana. L’istituzionalizzazione del movimento cristiano fu un aspetto di<br />
ciò che gli studiosi chiamano «proto-cattolicizzazione». Mentre il giudizio su quel termine e su<br />
quella tematica richiede delle sfumature, è certo che se la chiesa è una società, una normativa, costi-<br />
tutiva o meno, è un inevitabile sviluppo sociologico che è della natura nella chiesa.<br />
Il terzo aspetto che rivelano le pastorali è l’idea di conservare un’eredità apostolica contro idee e<br />
maestri radicali. Una forte stabilità e una solida continuità sono segni di una struttura istituzionale<br />
77 Egli deve essere irreprensibile, retto e santo; padrone di sé, non arrogante né avventato (Tt 1,7-9). Deve essere capace<br />
di condurre bene la propria famiglia e di vigilare sui suoi figli (1Tm 3,4). Ciò implica che egli debba essere capace di far<br />
quadrare il bilancio della sua casa; in particolare, non deve essere attaccato al denaro (1Tm 3,3-5); esigenze importantissime<br />
se, come si può ben sospettare dai paralleli dei rotoli del Mar Morto, il presbitero-vescovo doveva amministrare il<br />
denaro comune della comunità cristiana. Egli non può essere sposato più di una volta; non può essere un neo-convertito;<br />
i suoi figli devono essere cristiani (Tt 1,6; 1Tm 3,2-6).<br />
143
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
(presbiteri-vescovi e diaconi) destinata a conservare l’eredità apostolica. Le Pastorali hanno trovato<br />
un modo per evidenziare l’unicità dell’apostolo e nello stesso tempo per estendere la sua influenza<br />
al di là del tempo della sua vita. L’apostolicità è personificata in Paolo — nessun altro apostolo è<br />
menzionato e di nessun altro c’è bisogno — e questo apostolo provvede al tempo successivo alla<br />
sua dipartita trasferendo la sua eredità ai presbiteri-vescovi sotto la sovrintendenza di Timoteo e di<br />
Tito. Enfaticamente Paolo è un maestro, «un maestro delle nazioni» (1Tm 2,7; vedi anche 2Tm<br />
1,11); e la principale funzione dei suoi successori è di insegnare «la sana dottrina» (Tt 2,1), portando<br />
avanti le linee direttive date dall’apostolo ai suoi discepoli. Il vescovo deve «essere attaccato alla<br />
dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmesso» (Tt 1,9). Timoteo, che ha osservato il modo di<br />
insegnare di Paolo (2Tm 3,10), è ammonito: «Persevera in ciò che hai imparato e in cui hai ferma-<br />
mente creduto, sapendo da chi lo hai appreso» (3,14). Il nemico contro il quale questo avviso è di-<br />
retto sono i maestri che introducono nuove idee, un gruppo descritto come uomini insubordinati,<br />
vuoti ciarlatani e ingannatori 78 .<br />
Le circostanze storiche in cui le epistole pastorali furono scritte portavano con sé un grande pericolo<br />
per la forma del cristianesimo che alla fine sarebbe stata chiamata «ortodossia». I propagandisti del-<br />
lo gnosticismo (1Tm 6,20: ciò che è falsamente chiamata conoscenza [gnosis]) avevano già conqui-<br />
stato aderenti tra i cristiani 79 . Adesso comincia la lotta all’ultimo sangue che sarebbe culminata in-<br />
torno al 180 con l’Adversus haereses di Ireneo. Già il «Paolo» delle Pastorali aveva intuito che la<br />
migliore risposta ad una moltitudine di prospettive che pretendono di essere rivelate o perfino tradi-<br />
zionali era una tradizione con una genealogia sicura, che coinvolgeva legami tra la fase apostolica e<br />
i funzionari ecclesiastici approvati. Ireneo avrebbe soltanto perfezionato l’argomentazione quando si<br />
appellò ad una catena di vescovi dei grandi centri cristiani nella sua confutazione delle dottrine gno-<br />
stiche. La massima: «mantieni fermamente il sicuro insegnamento che hai ricevuto» (Tt 1,9) è stata<br />
un’arma essenziale nei tempi di maggiori crisi dottrinali: nei momenti in cui la libertà teologica ten-<br />
de a divenire anarchia, «la chiesa del Dio vivente, il sostengo e roccaforte della verità» (1Tm 3,15)<br />
ha il diritto di non lasciarsi distruggere dall’interno.<br />
4.7. Al termine della nostra riflessioni sul tema del ministero possiamo presentare due risultati. In<br />
primo luogo ci sembra legittimo concludere che la Chiesa primitiva sia nel suo complesso sia nelle<br />
sue singole comunità non fu mai priva di ordinamento, e questo non era un ordinamento che di volta<br />
78 Cfr. le varie descrizioni in 1Tm 1,3ss; 4,lss; 6,20-21; 2Tm 2,16-18; 3,1-9; 4,3-4; Tt 1,10-16; 3,9.<br />
79 In realtà non è chiaro il fatto che solo una forma di pensiero eretico fosse il bersaglio, poiché 1Tm 1,7 e Tt 1,10 considerano<br />
giudei e giudeo-cristiani come oppositori che potrebbero non equivalere agli gnostici.<br />
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in volta doveva essere stabilito dallo Spirito Santo e riconosciuto dalla comunità, ma era basato su<br />
una costituzione fondamentale della Chiesa, determinata da Dio e obbligante fin dall’inizio. Ciò non<br />
esclude la guida costante e anche le indicazioni immediate dello Spirito Santo, tanto meno esclude<br />
la cooperazione della comunità. Resta inoltre alla Chiesa spazio sufficiente per la configurazione<br />
concreta della sua costituzione e libertà sufficiente per la designazione di uffici e ministeri di volta<br />
in volta necessari. La Chiesa primitiva, tuttavia, non vede se stessa semplicemente come «popolo di<br />
Dio» che deve attendere e prestare ascolto alle direttive immediate del suo Signore celeste, ma piut-<br />
tosto come «gregge di Cristo», che il Signore ha provveduto sulla terra anche di pastori umani, i<br />
quali la governano e guidano nel suo nome.<br />
In secondo luogo non dovremmo generalizzare il modello di continuità presentato dalle «pastorali»<br />
applicandolo in modo puro e semplice alle altre chiese di tradizione non paolina; tuttavia questo<br />
modello a poco a poco venne accolto e riconosciuto come fondamentale dalla Chiesa antica e tra-<br />
smesso a noi come normativo. Perciò non è lecito pretendere di “reinventare” la Chiesa a partire da<br />
una ipotetica ricostruzione storica delle comunità cristiane custodi di altre tradizioni che presente-<br />
rebbero un’alternativa, ingiustamente soppressa nella storia della Chiesa, che attenderebbe dalla sua<br />
riscoperta un presente nella nostra storia. Meglio parlare più correttamente di istanze custodite dalla<br />
testimonianza neotestamentaria con cui la Chiesa attuale deve confrontarsi e su cui deve misurar-<br />
si… all’interno di un contesto storico e culturale ben diverso da quello con cui si dovevano confron-<br />
tare le comunità neotestamentarie. Proprio questa osservazione ci introduce alla seconda grave que-<br />
stione che dovette affrontare l’età sub-apostolica.<br />
5. La questione della relazione della Chiesa al mondo e alla società.<br />
I limiti della risposta offerta dall’età sub-apostolica a questa questione sono segnati da due posizioni<br />
estreme, difficilmente conciliabili.<br />
5.1. Da una parte si colloca l’Apocalisse di Giovanni, la cui comprensione della Chiesa deriva da<br />
una cristologia radicale della fine dei tempi. Secondo l’Apocalisse la Chiesa è coinvolta nella batta-<br />
glia finale di Cristo contro il suo avversario, le potenze politico-sociali. Poiché appartiene a Cristo e<br />
nello stesso tempo esiste nel mondo, analogamente a Cristo — il vero signore del mondo —, con la<br />
propria testimonianza non può che suscitare ostilità e sopportare tale ostilità con una condotta pas-<br />
siva-sofferente. In quest’ottica la Chiesa si trova in opposizione al mondo e alla società; anzi questa<br />
opposizione è intrinseca alla sua essenza — cioè di essere l’ambito della salvezza di Cristo — e<br />
perciò non è superabile in modo intramondano. Il motivo della “società di contrasto” trova qui la<br />
sua espressione estrema. Similmente, anche se in modo meno radicale, le lettere ai Colossesi e agli<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
Efesini intendono la Chiesa come lo strumento mediante il quale la Signoria finale di Cristo ricapi-<br />
tola a sé tutte le cose sottomettendo le potenze di questo mondo.<br />
5.2. L’altro estremo è segnato dalle lettere pastorali. Presupponendo la presenza permanente del<br />
vangelo del mondo in virtù e a partire dalla venuta di Gesù Cristo, esse intendono la testimonianza<br />
della Chiesa come la realizzazione della volontà salvifica di Dio, che ha di mira tutti gli uomini.<br />
Chiesa e società così non sono separate l’una di fronte all’altra, piuttosto secondo la volontà di Dio<br />
in relazione l’una all’altra; anzi viene riconosciuta pure una fondamentale disponibilità della società<br />
ad aprirsi all’annuncio della Chiesa. La Chiesa viene espressamente incoraggiata ad assecondare<br />
questa disponibilità in modo da avvicinarsi alle norme e ai modelli di pensiero della società. Luca<br />
non va così lontano come le lettere pastorali, ma si muove su posizioni vicine, quando negli Atti al-<br />
lude alla forma positiva della relazione fra Chiesa e Impero Romano e la sua società, come a una<br />
possibilità sperata.<br />
5.3. Se queste due posizioni non si possono conciliare con un semplice compromesso, tuttavia rico-<br />
nosciamo almeno un tratto comune e precipuo di tutte le testimonianze dell’età sub-apostolica che è<br />
in grado di coprire tutte l’arco delle posizioni: è la fiducia nella efficacia della condotta di vita pub-<br />
blica della comunità cristiana. La Chiesa mediante la testimonianza della sua condotta opera effica-<br />
cemente nel mondo — o per provocare la latente ostilità del mondo contro Cristo (Ap) oppure per<br />
dimostrare il compimento dell’ideale etico della società (Pastorali). Il compito centrale della Chiesa<br />
è di conseguenza, di rendere visibile l’alterità della Signoria di Dio nel suo Cristo evitando di adat-<br />
tare supinamente la propria condotta di vita ai costumi della società circostante: essa infatti vive<br />
come “società di contrasto” caratterizzata dal compito di servizio di Gesù nel mondo e nella società.<br />
e) Conseguenze<br />
Questa generazione cristiana non ha concluso una volta per sempre il discorso sulla Chiesa. Esso<br />
rimane aperto anche dopo. Il nostro compito è quello di proseguirlo. Noi lo possiamo fare perché<br />
possiamo abbracciare l’intera storia dell’esperienza ecclesiale e, almeno dopo il Vaticano II, anche<br />
la comprensione ecumenica contemporanea di quello che la Chiesa può essere.<br />
Il patrimonio neotestamentario, però, ci fornisce alcune istanze irrinunciabili. Senza pretendere di<br />
farne un inventario completo, segnaliamo alcune conseguenze che si possono trarre da queste istan-<br />
ze, allo scopo di suscitare anche una riflessione personale.<br />
1. Non si sono trattati qui i differenti modelli di chiesa che vengono offerti dal NT, perché nessuno<br />
degli autori biblici intendeva offrire un quadro complessivo di ciò che la chiesa dovrebbe essere. Se<br />
uno degli autori avesse voluto presentare un modello, potremmo essere certi che dai loro rispettivi<br />
146
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
scritti sarebbe emersa una <strong>ecclesiologia</strong> più completa e più ricca di sfumature. Non c’era alcuna te-<br />
stimonianza in queste opere che facesse emergere una <strong>ecclesiologia</strong> coerente o uniforme. Piuttosto,<br />
scritti indirizzati a diverse comunità neotestamentarie avevano degli accenti del tutto diversi 80 . An-<br />
che se ciascuna accentuazione poteva essere efficace nelle particolari circostanze dello scritto, cia-<br />
scuna aveva anche degli aspetti di manchevolezza che avrebbero costituito un pericolo se fossero<br />
state assolutizzate e ritenute valevoli per tutti i tempi. Prese globalmente, comunque, queste accen-<br />
tuazioni costituiscono una lezione notevole sulle idee del cristianesimo primitivo a proposito della<br />
vita delle comunità.<br />
2. Noi che viviamo nelle chiese del ventesimo secolo, che cosa possiamo ricavare da un tale studio?<br />
Ci sono cristiani che ancora rifiutano l’esistenza di diversità nel NT. Alcuni lo fanno a partire da<br />
una rigida concezione della divina ispirazione che svaluta la situazione umana degli scritti del NT<br />
ed insiste sul fatto che il loro messaggio deve essere uniforme perché solo la voce di Dio può essere<br />
ascoltata. Altri rigettano le diversità nel NT perché proiettano nel primo secolo una situazione ideale<br />
in cui Gesù aveva progettato la chiesa, gli apostoli concordavano tutti nel portare avanti le sue diret-<br />
tive, e gli unici che differivano erano gli agitatori condannati dagli autori del NT. Nessuna di queste<br />
obiezioni ultraconservatrici alle diversità del NT può reggere dinanzi alle testimonianze.<br />
D’altro lato, alcuni studiosi acutizzano le diversità riscontrabili nel NT in conflitti dialettici e posi-<br />
zioni contraddittorie. Nessuno può dimostrare che qualunque delle chiese qui studiate abbia rotto la<br />
koinonía con un’altra. Non è neppure verosimile che le chiese del NT di questo periodo sub-<br />
apostolico non avessero il senso della κοινωνία tra i cristiani e che fossero delle conventicole chiuse<br />
in se stesse che andavano ciascuna per la propria strada. Paolo è eloquente sull’importanza della<br />
koinonía, e nell’eredità paolina la preoccupazione per l’unità dei cristiani è visibile in Lc/At ed in<br />
Ef. Pietro è una figura ponte nel NT, ed il concetto di popolo di Dio in 1Pt richiede una compren-<br />
sione collettiva del cristianesimo. Con tutto il suo individualismo, il quarto vangelo sa di altre peco-<br />
re che non sono di quell’ovile e sa del desiderio di Gesù che esse siano riunite. Mt ha un concetto<br />
della chiesa, ed espande gli orizzonti del cristianesimo fino ad includere tutte le nazioni. La maggior<br />
parte del NT fu scritta prima delle maggiori rotture della κοινωνία riscontrabili nel secondo seco-<br />
80 Queste accentuazioni potrebbero essere contrarie e logicamente in uno stato di tensione reciproca, ma esse non sono<br />
contraddittorie; e non c’è alcuna testimonianza del fatto che qualunque comunità da noi studiata stesse escludendo (che<br />
è cosa diversa dal correggere) le sottolineature presenti nella tradizione di un’altra comunità. Può essere utile ripetere<br />
che noi non sappiamo se i cristiani di una chiesa specifica di quel periodo sapessero molto di preciso circa le opere del<br />
NT presso altre chiese, sebbene essi possono aver conosciuto le altre tradizioni cristiane e i loro stili di vita. I grandi a-<br />
147
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
lo 81 , e perciò le diversità del NT non si possono usare per giustificare le divisioni dei cristiani di og-<br />
gi. Noi cristiani moderni abbiamo rotto la koinonía; perché, esplicitamente o implicitamente, ci<br />
siamo scomunicati a vicenda e/o abbiamo stabilito che le altre chiese sono infedeli alla volontà di<br />
Cristo nelle sue esigenze più importanti. Ora, tale situazione di divisione non è approvata dal NT.<br />
3. Se non possiamo ignorare le differenze ecclesiologiche del NT né possiamo usarle per giustificare<br />
l’attuale status quo, in che modo possono esserci utili?<br />
Primo: esse ci rafforzano. Molti di noi appartengono ad una particolare chiesa cristiana, perché sia-<br />
mo nati in famiglie che facevano parte di quelle chiese. Tuttavia, quando siamo cresciuti, se siamo<br />
rimasti fedeli alla nostra chiesa di origine, è stato perché vi abbiamo trovato degli aspetti che ci por-<br />
tavano vicino a Cristo e all’amore di Dio. Così l’appartenenza ad una chiesa è divenuta una questio-<br />
ne di convinzione. Uno studio delle diverse sottolineature nelle chiese del NT può illustrarci le forze<br />
che noi ammiriamo nelle nostre chiese e può accrescere il nostro apprezzamento per come questa<br />
chiesa è rimasta fedele all’eredità biblica.<br />
Secondo: esse ci lanciano una sfida. Un uso del NT per rafforzare l’apprezzamento della propria<br />
chiesa, comunque, non è per nulla nuovo per il mondo cristiano. In una cristianità divisa, abbiamo<br />
avuto una lunga storia dell’uso delle Scritture teso a dimostrare di essere nel giusto, sia da parte del-<br />
le chiese che da parte dei singoli. Il contributo più grande dei moderni studi sul NT, perciò, può<br />
consistere nel mettere in evidenza quei modi in cui la Scrittura può sfidare costruttivamente. Un ri-<br />
conoscimento della gamma delle diversità ecclesiologiche del NT rende molto più complessa la pre-<br />
tesa di qualsiasi chiesa di essere assolutamente fedele alle Scritture. Noi siamo fedeli, ma nel modo<br />
che è a noi proprio; ed entrambi gli studi ecumenici e biblici dovrebbero portarci alla consapevolez-<br />
za che ci sono altri modi di essere fedeli, ai quali non abbiamo reso giustizia. In breve, uno studio<br />
postoli (Pietro, Paolo, Giacomo) erano in contatto reciproco, ma noi non siamo sicuri se i loro discepoli della successiva<br />
generazione fossero in frequente contatto gli uni gli altri.<br />
81 All’inizio del movimento cristiano non c’era un corpo dottrinale fissato ma una fede in Gesù che aveva bisogno di essere<br />
articolata. Di conseguenza il periodo neotestamentario implicò uno sviluppo di intuizioni e di formulazioni su Gesù<br />
e sulla comunità che conservava il suo nome, una crescita a cui diedero dei contributi decisivi le figure maggiori della<br />
prima generazione. Naturalmente, c’erano delle volte in cui Pietro, Paolo e Giacomo differivano tra loro; ma queste differenze<br />
non causarono una rottura di κοινωνία, per quanto possiamo sapere. Dalla fine del primo secolo, comunque, alcuni<br />
cristiani resistevano in maniera veramente forte agli sviluppi che avevano preso piede in altri gruppi, e i diversi<br />
punti di vista sostenuti riguardo ad importanti istanze cominciarono a diventare veramente contraddittori. È stato allora<br />
che probabilmente avvennero le più grosse fratture di κοινωνία, per esempio, nella comunità giovannea, come è attestato<br />
da 1Gv 2,19. Il secondo secolo vide un tentativo di determinare quale di queste contraddittorie visioni preservasse meglio<br />
la comprensione apostolica e quale la distorcesse maggiormente. Questa fu la questione dell’ortodossia e<br />
dell’eresia. È un travisamento affermare che questo punto di vista significhi che l’ortodossia non esistesse prima del tardo<br />
secondo secolo. L’eredità che alla fine fu riconosciuta come ortodossa esisteva fin dal tempo di Gesù, non in un modo<br />
statico ma in un modo dinamico.<br />
148
Ecclesiologia 2012/2013. Parte I: l’“origine” della Chiesa<br />
franco delle ecclesiologie del NT potrebbe provocare ogni comunità cristiana a chiedersi se essa sta<br />
trascurando parte delle testimonianze del NT. Se le chiese hanno accettato il canone della Bibbia,<br />
esse non possono permettere che le loro preferenze riducano al silenzio alcuna voce biblica.<br />
Terzo, per le chiese che vivono oggi in un orizzonte ecumenico sarà finalmente importante, che in-<br />
vece di perseverare nell’isolamento autosufficiente, comincino a prendere sul serio la verità<br />
dell’essenziale unità del popolo di Dio e che, invece di assicurarsi nei confronti del futuro che appa-<br />
re insicuro brandendo con preoccupazione le proprie posizioni confessionali e culturali a volte or-<br />
mai datate, arrischino confidando nella presenza dello Spirito santo procedendo coraggiosamente<br />
verso quella novità, che è stata promessa come opera dello Spirito.<br />
4. Dalle considerazioni sopra svolte emerge inoltre l’importanza decisiva del momento istituzionale:<br />
esso non si può semplicisticamente contrapporre allo Spirito. D’altra parte occorre verificare che le<br />
forme istituzionali non contraddicano l’opera dello Spirito. Solo così infatti si può essere evitare che<br />
l’istituzione Chiesa diventi un guscio vuoto e lo Spirito una spiritualità disincarnata.<br />
5. Importante è pure il motivo della chiesa come “società di contrasto”. Nel nostro contesto segnato<br />
dalla fine della “cristianità”, quale potrebbe essere la testimonianza che la Chiesa può dare alla so-<br />
cietà? Quale che essa sia, non dovrebbe mai rinnegare la forma “cristologica” del servizio per gli al-<br />
tri «come il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in<br />
riscatto per molti» (Mt 20,28), e della mutua accettazione, di cui il «Signore e Maestro» ha «dato<br />
l’esempio» così che come ha fatto lui così facciano anche i suoi discepoli (Gv 13,14s).<br />
149
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
II. L’AUTOCOMPRENSIONE DELLA CHIESA NELLA STORIA<br />
Avvertenza preliminare<br />
1) Questa parte dedicata all’illustrazione dello sviluppo storico della comprensione della chiesa vor-<br />
rebbe evitare di limitarsi alle dottrine teologiche sulla chiesa, per considerare la storia della chiesa in<br />
quanto tale come luogo in cui la chiesa rivela la comprensione di sé, non solo nella forma della ela-<br />
borazione dottrinale, ma anche con le concrete scelte storiche che le conferiscono una determinata<br />
forma. Ovviamente questo studio è possibile solo in modo assai limitato e per temi maggiori.<br />
2) Una descrizione del mutamento operatosi nell’immagine della Chiesa non deve ripetere quanto<br />
già esposto nelle presentazione teologico-biblica. Tuttavia l’oggetto, che con questo tema s’intende<br />
descrivere, si basa su quel fondamento. Ciò s’impone, se l’evento che la Scrittura attesta non costi-<br />
tuisce un puro inizio nel tempo ma è anche una origine permanente e normativa. Storia e storicità,<br />
inserite nell’orizzonte della rivelazione, della storia di salvezza, della fede e comunità dei credenti,<br />
quindi della Chiesa, svolgono la funzione di condurre l’«origine nella pienezza» (J.A. Möhler) ad<br />
effetto, alla maturazione ed alla concretizzazione sempre diversa nel tempo. Questo però non si ve-<br />
rifica né nel senso di un progresso inarrestabile e nemmeno in quello di una defezione, che sarebbe<br />
sopravvenuta subito dopo i primi inizi, bensì nei termini di una attualizzazione, condizionata tanto<br />
dalle possibilità e forza di realizzazione, quanto dalle remore, dalle opposizioni, dalla defettibilità<br />
dei credenti di ogni tempo e della comunità dei fedeli, sempre e variamente intessuta di nessi storici.<br />
Per questo motivo, nella storia e nel mutamento storico operatosi nel contesto della fede e della<br />
Chiesa, è presente e vitale la sua stessa origine, e in misura più o meno intensa anche fedeltà e cor-<br />
rispondenza. Qui si radicano anche — ne sono l’effetto — una istanza critica decisiva, di carattere<br />
storico e tradizionale, e un criterio teologico, atto a valutare i diversi momenti storici e la realizza-<br />
zione della fede e della Chiesa in essi prodotta.<br />
3) Alla base di una esposizione del mutamento verificatosi nell’immagine della Chiesa sta l’intero<br />
ambito in cui questa vive, si esprime e si articola: professione di fede, liturgia, spiritualità, riflessio-<br />
ne teologica, espressione simbolica ed artistica. Nelle riflessioni seguenti il nostro discorso non ver-<br />
terà dunque soprattutto su concetti di Chiesa, su una caratterizzazione essenziale della Chiesa cioè<br />
che risponda, di volta in volta, ai requisiti di una definizione, quanto piuttosto sulle immagini, nelle<br />
quali non si astrae affatto dal concreto ma, in quanto lo si espone, lo si implica pure.<br />
150
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
4) «Immagine della Chiesa» presenta una duplice accezione. Con essa s’intende, per un verso, (1)<br />
una raffigurazione vitale, una idea espressiva che la comunità dei credenti si fa di ciò che la Chiesa<br />
è e deve essere. Ma s’intende pure (2) la figura concreta che nelle diverse epoche la Chiesa presenta<br />
all’osservatore, che vive in essa o anche al di fuori delle sue cerchie. Queste due dimensioni si tro-<br />
vano in un rapporto di interazione e confluenza: la Chiesa concreta viene organizzata secondo<br />
l’immagine che di essa ci si fa e che si cerca nella concretizzazione storica del suo attuarsi. D’altra<br />
parte l’immagine che della Chiesa ci si fa, dipende dalla sua figura storica effettiva, e dalla sua real-<br />
tà concreta. Da questa combinazione ed intreccio inscindibili di idea e realtà originano delle tensio-<br />
ni, le quali però non costituiscono un danno per la Chiesa, ma sono la sua necessaria espressione, la<br />
figura che abbraccia tutte le sue dimensioni. In una storicità così compresa troviamo la ragione pro-<br />
fonda del fatto che, realmente e di necessità, esiste un mutamento nell’immagine della Chiesa.<br />
2.1. I primi tre secoli: la Chiesa come mistero<br />
2.1.1. Situazione storica<br />
1) Nei primi secoli non esiste ancora un’<strong>ecclesiologia</strong> autonoma. La Chiesa è compresa anzitutto<br />
come parte del piano divino di salvezza che è stato rivelato in Cristo e ora è annunciato a tutto il<br />
mondo. Dato che l’attenzione dei credenti di questo tempo si concentra completamente sull’evento<br />
della redenzione attuata da Dio in Gesù Cristo, anche la mediazione ecclesiale del mistero di sal-<br />
vezza viene compresa come parte dell’azione divina, come parte dell’economia della salvezza, co-<br />
me mistero della fede. D’altra parte, la Chiesa non è ancora divenuta oggetto diretto di riflessione,<br />
poiché essa in misura maggiore o minore si identifica con l’esperienza stessa della fede, con la stes-<br />
sa vita cristiana. Anche da questo punto di vista la Chiesa è soprattutto mistero della fede.<br />
2) Questa particolare visione della Chiesa, caratteristica dei primi secoli, dipende anche da una serie<br />
di presupposti e di condizioni storiche.<br />
Nonostante la rapida diffusione, i cristiani, ancora all’inizio del IV secolo, continuano a rimanere una mino-<br />
ranza nella società (forse il 12-15 per cento, anche se in alcune regioni raggiungono già la metà della popo-<br />
lazione complessiva). Fino alla svolta costantiniana le comunità cristiane rimangono un corpo estraneo<br />
all’interno del loro contesto socioculturale. Un gran numero di principi del loro stile di vita e del loro siste-<br />
ma di credenze si oppone direttamente ai principi della società ellenistico-romana: l’apertura universale del-<br />
la comunità che accoglie tutti coloro che credono (per cui accanto agli strati inferiori e medi della società<br />
sono rappresentati in essa anche la classe superiore e gli intellettuali) costituisce una messa in questione di<br />
fondo del carattere rigorosamente classista della società dell’impero (aristocrazia senatoriale, cavalieri, uffi-<br />
151
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
ciali dell’amministrazione, plebe, liberti, schiavi). La pretesa assoluta di verità della fede implica non solo<br />
esigenze etiche elevate, ma si contrappone anche all’atteggiamento sincretistico della cultura ellenistico-<br />
romana. Fino a quando l’ambiente è più forte, i cristiani si trovano perciò nella posizione di potenziale o a-<br />
cuto rifiuto e di persecuzione. In tale situazione non solo passa in primo piano il carattere comunitario e de-<br />
cisivo della fede, ma anche la sua alterità; la consapevolezza di essere quaggiù in una condizione di esilio e<br />
di avere il proprio punto di riferimento nell’aldilà, riceve costantemente una palese conferma.<br />
Come mostrano lo sviluppo del commercio e della tecnica, il progresso della civiltà urbana e la costruzione<br />
di numerosi splendidi edifici, la fioritura economica dell’ellenismo era proseguita in epoca imperiale. Essa<br />
però recava vantaggi solo alle classi più elevate e alla popolazione delle città. Già verso la fine del I secolo<br />
però cominciò ad annunciarsi in Italia una crisi economica che doveva estendersi rapidamente a tutto<br />
l’impero; tale situazione determinò un aumento della pressione statale sulla popolazione, fino a quando i di-<br />
sordini all’esterno e all’interno nel III secolo fecero sorgere una brutale dittatura militare con estorsione di<br />
tributi, confische e un peso fiscale insopportabile. Finché durarono lo sviluppo economico e la fase di con-<br />
quista politico-militare, il sincretismo religioso (politeismo) venne confermato nella sua funzione di integra-<br />
zione. Esso però cessò di essere utile politicamente quando, con la fine della politica di conquista e della pa-<br />
cificazione esterna, si trovarono in primo piano i conflitti interni e gli scontri di interessi. La macchina mili-<br />
tare da sola, a lungo termine, non poteva mantenere l’unità. L’unica possibilità di sopravvivenza era rappre-<br />
sentata da un mondo simbolico (religioso) unitario in grado di fondare il consenso e legittimare il potere. In<br />
tal modo si creava per il cristianesimo una nuova situazione politico-sociale: la pretesa di verità universale<br />
del monoteismo e lo stile di vita integro che fino ad allora avevano causato la sua emarginazione lo colloca-<br />
no ora in una posizione di vantaggio. Non appena, sotto la spinta di questa nuova plausibilità, saranno com-<br />
piuti i primi passi sulla via per divenire religione di Stato e verso una perdita della distinzione tra Chiesa e<br />
società (questo è accaduto in forma iniziale già prima della svolta costantiniana), ciò avrà immediatamente<br />
delle conseguenze per l’autocomprensione della Chiesa e la formazione delle proprie strutture.<br />
3) In questi primi secoli si sono sviluppati nei loro tratti essenziali i lineamenti fondamentali della<br />
Chiesa che permangono anche nei secoli successivi: le norme fondamentali della fede (canone della<br />
sacra Scrittura, confessione di fede, regola della fede), le forme fondamentali della liturgia (batte-<br />
simo ed eucaristia), della costituzione ecclesiale (ordinamento episcopale) e della trasmissione della<br />
fede (annuncio, catechesi, teologia); ciò tuttavia accade in connessione con queste concrete condi-<br />
zioni storiche e sociali. In tale situazione non era possibile giungere a una <strong>ecclesiologia</strong> unitaria.<br />
Piuttosto vi sono luoghi assai diversi dell’autocomprensione ecclesiale. Se si vuole sapere come la<br />
Chiesa antica si è compresa si devono dunque conoscere questi differenti luoghi della sua autocom-<br />
prensione nella loro diversità, nella loro influenza reciproca e nel loro sviluppo.<br />
152
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
2.1.2. Luoghi dell’autocomprensione ecclesiale e della riflessione ecclesiologica<br />
a) La Chiesa nel contesto della liturgia<br />
1) L’assemblea liturgica è stata fin dall’inizio uno dei luoghi centrali della formazione dell’auto-<br />
coscienza ecclesiale. Qui si incontra la Chiesa soprattutto come realtà spirituale e mistica, come<br />
mistero della fede. Qui infatti viene creduto e celebrato in segni e riti sacri il fatto che l’agire salvi-<br />
fico di Dio ha trovato una forma di apparizione storica ed escatologica nella concreta figura terrena<br />
della comunità di salvezza e, in particolare, nella sua assemblea liturgica. Questo contesto liturgico<br />
è significativo dal punto di vista ecclesiologico in primo luogo a motivo della connessione dell’idea<br />
storica di rivelazione e salvezza (soprattutto della ripresentazione anamnetica della morte e risurre-<br />
zione di Gesù Cristo) con le immagini arcaiche cosmiche e mitiche, con i segni, i simboli e i riti che<br />
toccano gli strati più profondi dell’anima. Nella liturgia battesimale, ad esempio, l’accoglienza nella<br />
comunità e il passaggio dalle tenebre alla luce, dalla sepoltura nelle acque della morte alla risurre-<br />
zione alla vera vita, formano un’intima unità. Ma questo contesto liturgico è significativo dal punto<br />
di vista ecclesiologico anche per il legame costitutivo tra culto e stile di vita: la comunità ecclesiale<br />
è costituita, per così dire, dall’unità di queste due forme della fede.<br />
2) Questa figura completa della comunità raccolta per il culto viene compromessa in diversi modi<br />
dai processi di differenziazione che hanno luogo nei primi quattro secoli.<br />
Con il crescere delle comunità e il manifestarsi del peccato all’interno di esse, si rende necessaria la<br />
strutturazione del catecumenato e della penitenza pubblica. In questo modo però, oltre alla delimi-<br />
tazione nei confronti dei pagani e degli ebrei, viene istituzionalizzata anche un’altra distinzione<br />
all’interno della comunità riunita per il culto (in particolare per la celebrazione eucaristica). Con lo<br />
sviluppo di dispute all’interno e il sorgere di movimenti eterodossi, diventano necessarie istanze<br />
normative a garanzia dell’unità ecclesiale (canone, regola della fede, confessione di fede, vescovo).<br />
Comunione ecclesiale e comunione eucaristica divengono così dipendenti reciprocamente in modo<br />
nuovo. Quanto più le comunità diventano numerose e la comunità ecclesiale si trasforma in società<br />
cristiana (a partire dal IV secolo), tanto più forte deve diventare la differenziazione all’interno della<br />
Chiesa (la formazione di una gerarchia di uffici e di ministeri con una chiara distinzione tra clero e<br />
laici 1 ). In tali circostanze, infatti, il battesimo e la fede battesimale non possono più essere la condi-<br />
1 Sembra che fu Tertulliano il primo a introdurre una sintomatica rilettura dell’espressione laos tou Theou nel senso di<br />
plebs o turba fidelium, ossia la specifica denominazione di quanti non sono stati insigniti di un ordo vero e proprio: cfr.<br />
G. MAZZILLO, “«Popolo di Dio»: categoria teologica o metafora?”, in Rassegna di Teologia 36 (1995) 553-587.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
zione sufficiente per avere accesso alla comunione eucaristica; ora si richiede in più l’ortodossia<br />
dottrinale e la comunione con i legittimi pastori della Chiesa e le loro comunità.<br />
3) Tuttavia la liturgia rimane il luogo in cui viene trasmessa un’autocomprensione spirituale e rela-<br />
zionale della Chiesa: un’autocomprensione che essa sa di ricevere esclusivamente dall’agire di Dio<br />
e a cui cerca di corrispondere nell’assemblea liturgica e nel comportamento quotidiano.<br />
In questo modo, la comunità si sperimenta nell’eucaristia non solo come popolo di Dio raccolto da<br />
tutti i popoli, ma anche come mistero del corpo di Cristo: attraverso la partecipazione all’unico pa-<br />
ne, la pluralità e la diversità dei suoi membri vengono unite per formare una comunità. Al tempo<br />
stesso, quello che viene celebrato nel segno liturgico, il dono redentivo del corpo di Gesù, deve es-<br />
sere reso presente ora nella storia, dal “suo corpo” che è la Chiesa. Come illustra S. Agostino:<br />
«Se vuoi comprendere il mistero del corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo che dice ai fedeli: voi siete il corpo<br />
di Cristo e sue membra (1Cor 12,27). Se dunque voi siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Si-<br />
gnore è deposto il mistero di voi: ricevete il mistero di voi. A ciò che siete rispondete: Amen e rispondendo<br />
lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: il corpo di Cristo, e tu rispondi: Amen. Sii membro del corpo di Cristo,<br />
perché sia veritiero il tuo Amen. Perché dunque il corpo di Cristo nel pane? Non vogliamo qui portare niente<br />
di nostro; ascoltiamo sempre l’Apostolo il quale, parlando di questo sacramento, dice: Pur essendo molti<br />
formiamo un solo pane, un solo corpo (1Cor 10,17). Cercate di capire ed esultate. Unità, verità, pietà, carità.<br />
Un solo pane: chi è questo unico pane? Pur essendo molti formiamo un solo corpo. Ricordate che il pane<br />
non è composto da un solo chicco di grano, ma da molti. Quando si facevano gli esorcismi su di voi veniva-<br />
te, per così dire, macinati; quando siete stati battezzati siete stati, per così dire, impastati; quando avete rice-<br />
vuto il fuoco dello Spirito Santo siete stati, per così dire, cotti. Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete» 2 .<br />
Nella comune lode di Dio, la comunità si sperimenta come comunità riempita dallo Spirito Santo,<br />
unita nella comunione del Dio trino, nell’unità di amore, per formare un cuore e un’anima sola.<br />
4) In questa prospettiva, la Chiesa rimane una realtà liturgico-sacramentale, o misterica, la forma<br />
simbolica attuale della vicinanza del Dio trino. Come segno vivente della bontà creatrice di Dio, del<br />
dono di Cristo e della forza trasformante dello Spirito di Dio, essa deve essere espressa anche in un<br />
grande numero di immagini prese dalla Bibbia o da altro contesto simbolico 3 .<br />
2 AGOSTINO, Serm. 272; Discorsi, IV/2, NBA vol. XXXII/2, Città Nuova, Roma 1984, 1042-1045.<br />
3 Notiamo che il simbolismo utilizzato dai Padri deriva da una temperie platonica, in cui è fondamentale il rapporto fra<br />
l’originale e l’immagine (eikon). La chiesa terrena viene osservata come una copia dell’immagine originaria e celeste, la<br />
quale porta in se stessa i contrassegni dell’autentico, del permanente e dell’eterno. La struttura e l’ordinamento della<br />
chiesa sono quindi una copia dell’ordinamento celeste; i segni, simboli, sacramenti e modi di agire della chiesa sono ri-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
(a) Immagini naturali: luna, piantagione, vite, paradiso, giardino. Una raffigurazione applicata alla<br />
chiesa, molto usata e feconda per la sua vasta possibilità di impiego, è quella del «mysterium luna-<br />
e» 4 . Ciò che si afferma è innanzitutto la verità fondamentale che la chiesa non vive e risplende di lu-<br />
ce propria, ma grazie a Cristo, che è la luce; la chiesa è luce da luce, luce ricevuta, e il suo splendore<br />
è un riflesso della luce ricevuta da Cristo. Come la luna nella notte, così anche la chiesa risplende,<br />
di luce riflessa, nelle tenebre del tempo, dell’ignoranza, della colpa, della perdizione. Come la luce<br />
della luna, anche quella della chiesa è una luce schermata, languida, rifratta, condizionata dalla ca-<br />
pacità riflettente, tipica delle condizioni naturali della luna. Mentre il sole (Cristo) irradia sempre<br />
con la stessa intensità la sua luce e il suo splendore, la luce della luna (chiesa) attraversa incessan-<br />
temente delle fasi alterne, ora crescendo ora calando, e questo sia rispetto alle sue dilatazioni este-<br />
riori e spaziali, sia al calore smisurato del suo interno; immagine molto appropriata per esprimere la<br />
variabilità del cammino ecclesiale. Un destino quello della luna che può sfociare fin quasi alla spa-<br />
rizione della sua luce: «donec auferatur luna». Questo tramonto però, che non conduce mai<br />
all’estinzione totale della sua luce, segna l’inizio della rinascita imminente, della fase crescente. La<br />
forza e la garanzia del rinnovamento stanno al centro della luce, sulla quale la luna traccia la propria<br />
via: il sole, Gesù Cristo, in cui essa tramonta per risorgere rinnovata e di nuovo splendente.<br />
(b) Immagini antropologiche: l’immagine della chiesa sposa di Cristo intende indicare allo stesso<br />
tempo la presenza interiore di Cristo nella chiesa e con la chiesa e al contempo la non-identità tra<br />
Cristo e chiesa, il carattere della contrapposizione personale e quindi anche la distanza tra Cristo,<br />
signore e sovrano, e la sua chiesa. Questa immagine non risponde soltanto alla domanda chi sia la<br />
chiesa 5 — a differenza dell’altro interrogativo, riferito all’istituzione, cioè che cosa sia la chiesa —<br />
produzioni delle realtà divine ed invisibili, che si manifestano agli uomini nelle forme visibili. Cfr. Y. CONGAR, “Chiesa”,<br />
in Dizionario di Teologia I, Queriniana, Brescia 1969 3 , 229-242; qui 230-231.<br />
4<br />
H. RAHNER, “Mysterium lunae”, in Simboli della Chiesa. L’<strong>ecclesiologia</strong> dei Padri, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo<br />
(Milano) 1994 2 , 145-287.<br />
5<br />
Secondo von Balthasar l’essere persona non è la condizione originaria dell’essere creato, bensì il risultato del suo incontro<br />
con la Persona assoluta: il soggetto non diviene persona che in questo scambio con Dio, lasciandosi attrarre al di<br />
là di sé stesso nel compimento di una “missione”. Così, il modello e l’archetipo della “persona” è il Cristo, perché egli è<br />
la persona singolare e concreta in cui si opera la congiunzione, da una parte del dono irrevocabile di Dio, che si impegna<br />
“di persona” nella temporalità, e d’altra parte dell’accoglienza di Dio da parte dell’uomo, come capacità di lasciarsi<br />
afferrare e guidare nel più completo dono di sé. Di conseguenza ogni soggetto diviene persona qualitativamente unica<br />
mediante la sua integrazione nella persona archetipica del Cristo, partecipando del Cristo. Similmente la Chiesa assume<br />
la sua personalità propria in coloro che — secondo gradi diversi — si avvicinano sempre di più a Dio e che divengono<br />
così animae ecclesiasticae. Spossessata di sé, gettata al di fuori dei limiti della propria sussistenza naturale, dilatata e<br />
aperta all’universale secondo un grado stabilito da Dio, l’anima ecclesiastica, assunta nella persona del Cristo, si unisce<br />
al Cristo sofferente per la salvezza dell’umanità, ed è perciò chiamata a vivere, in una perfetta disposizione di dono di<br />
sé, in vista dell’edificazione del Corpo che è la Chiesa. Queste persone singolari aprono lo spazio all’universale. La<br />
Chiesa è realizzata così (analogamente) in queste persone umane “ecclesializzate”; e solo loro, in definitiva, sono la per-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
ma rende anche chiaro che essa deve essere descritta a questo modo in quanto, nella sua condizione<br />
di chiesa storica e concreta, è chiesa dei peccatori.<br />
L’immagine della «casta meretrix» è un motivo ricorrente nella <strong>ecclesiologia</strong> dei Padri 6 , lo si esem-<br />
plifica con l’interpretazione allegorica della figura veterotestamentaria della meretrice Rahab, appli-<br />
cata alla chiesa. Analogamente vengono interpretate in chiave ecclesiologica anche le figure di Ta-<br />
mar, la donna di Osea (Gomer), e la Maddalena neotestamentaria, utilizzate per spiegare tanto il de-<br />
stino quanto la missione della chiesa. Secondo la stessa accezione s’interpretano pure le parole del<br />
Cantico: «Nigra sum, sed formosa» (1,5), per le quali si rivela determinante l’interpretazione che ne<br />
ha dato Origene nel suo commento, pure confermata dall’immagine di una chiesa senza macchia e<br />
senza rughe (Ef 5,27), della sposa «immacolata» (1Cor 11,2), e quindi una distinzione all’interno<br />
della stessa chiesa concreta: come élite dei santi e puri, dei perfetti, e come il gran numero di coloro<br />
che, per quanto vivano nella chiesa, non si adeguano al suo ideale. L’altra differenza, desunta dal<br />
passo suaccennato, distingue nella realtà della chiesa, la manifestazione esteriore e percepibile dalla<br />
sua dimensione profonda, che si lascia esperire soltanto in spirito 7 .<br />
sona-Chiesa. Al limite, la Chiesa non è persona realmente e adeguatamente che in Maria, la quale, come persona singolare<br />
infinitamente dilatata, aperta all’universale, viene a coincidere con la Chiesa stessa: H.U. VON BALTHASAR, “Chi è<br />
la chiesa?”, in Sponsa Verbi, Morcelliana, Brescia 1985, 139-187. L’autore ha sviluppato queste riflessioni in, Il complesso<br />
antiromano e in Teodrammatica, t. II: Le persone del dramma, vol. 2: Le persone nel Cristo. Se ne può trovare<br />
un’esposizione sintetica in J.-N. DOL, “«Qui est l’Église?» Hans Urs von Balthasar et la personnalité de l’Église”, in<br />
NRT 17 (1995) 376-395 e più approfondita in B. LEAHY, Il principio mariano nella Chiesa, Città Nuova, Roma 1999.<br />
6 H.U. VON BALTHASAR, “Casta meretrix”, in Sponsa Verbi, 189-283. Proprio nelle tre espressioni tipicamente femminili<br />
che Balthasar attribuisce alla missione della Chiesa — la verginità, la sponsalità e la maternità —, emerge che la perfezione<br />
di Maria supera quella della Chiesa: Maria è infatti perpetuamente vergine (cfr. anche la pienezza di grazia che si<br />
confessa dell’Immacolata Concezione), mentre la Chiesa è, sotto un certo aspetto, una prostituta a cui il Cristo ha reso la<br />
verginità; inoltre, la Chiesa è madre mediante la fede, che è la fede di Maria — il suo fiat, quale infinita disponibilità<br />
nelle mani di Dio, è come il terreno nel quale può germinare la Chiesa; Maria è infine la Nuova Eva associata al Nuovo<br />
Adamo — perché la Chiesa possa scaturire come sposa e non solamente come corpo di Cristo alla Croce, occorre che<br />
sia dato un sì personale, “nuziale”, ed è ancora Maria che lo dà a nome dell’umanità peccatrice (che essa rappresenta,<br />
benché preservata per la sua Immacolata Concezione): cfr. DOL, “«Qui est l’Église?»”, art. cit., 386.<br />
7 Agostino riprenderà questa intuizione e, associando il tema della Chiesa come “immaculata” (Ef 5,27) a quello della<br />
“columba mea” del Cantico (Ct 5,2), svilupperà la teologia della “columba”. Secondo questa visione la columba è quella<br />
parte della Chiesa che non è solo “oggettivamente” immacolata, ma che è anche comunione soggettivamente amante<br />
in maniera perfetta, è la sposa e il corpo di Cristo, che in collegamento perfetto con lui concorre ad attuare la sua opera<br />
della dedizione amorosa per la redenzione del mondo. Lo Spirito Santo donatole stabilmente a Pentecoste e che inabita<br />
nei santi foggia nel fuoco dell’amore quell’argentea columba, che in modo fecondo collabora a operare la remissione dei<br />
peccati: «Petra enim tenet, petra dimittit; columba tenet, columba dimittit, unitas tenet, unitas dimittit» (De Baptismo,<br />
III, xviii, 23). Il suo amore per il Cristo rende efficace il sacramento del perdono anche quando viene amministrato da<br />
un ministro indegno. Infatti è essa l’autentico soggetto ecclesiologico delle operazioni santificanti, e soprattutto del perdono<br />
dei peccati. Non che Agostino separi il ministero, che ha l’amministrazione del sacramento, da questa dimensione<br />
spirituale della Chiesa. Ma a Pietro vengono conferite le chiavi «in typo unitatis». Solo così Agostino può superare<br />
dall’interno il donatismo: la condizione per un efficace legare e sciogliere non è la santità personale del ministro insignito<br />
dell’ufficio, ma la santità personale della vera Chiesa, la columba, che lega e scioglie non senza il principio ministeriale<br />
dell’ufficio.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Anche l’immagine della chiesa-madre può ricollegarsi a motivi biblici. Comprendendosi come Ma-<br />
ter ecclesia, la chiesa vuole segnalare la proprietà che la qualifica, di essere cioè la mediatrice della<br />
verità e della salvezza. E lo è in quanto mediatrice di parola, sacramento e fede — specialmente nel<br />
battesimo, nell’eucaristia e nella penitenza — e colei alla quale è stata affidata anche la cura di pre-<br />
servare e custodire la prole che le è stata donata: Cipriano ad esempio afferma che nessuno può ave-<br />
re Dio per padre se non ha la chiesa per madre (De unitate ecclesiae, 23) 8 .<br />
L’immagine si concretizza nell’interpretazione di Eva e Maria secondo una tipologia ecclesiologi-<br />
ca. Il paragone tra la chiesa ed Eva ha condotto, nella patristica, alla diffusa concezione secondo cui<br />
la Chiesa sarebbe scaturita dal costato di Gesù Cristo, il secondo Adamo, stando al racconto di Gv<br />
19,34, dove si parla del sangue ed acqua che scaturiscono dal costato di Cristo. Sangue ed acqua fu-<br />
rono interpretati come simboli dei due sacramenti fondamentali: eucaristia e battesimo 9 .<br />
(c) Immagini storiche, tecniche o politiche: città, tempio, torre, arca, vascello. Un’immagine tipica<br />
del tempo dei Padri, molto usata, è desunta dal simbolismo nautico: la chiesa è come un vascello<br />
che solca il mare del mondo 10 . La ritroviamo in diverse varianti: la chiesa è una nave, fabbricata col<br />
legno della croce, il cui albero maestro si interseca con l’antenna e forma una croce; il suo nocchiero<br />
è Cristo. La sorte della chiesa-nave si ritrova espressa nella frase: «fluctuat, non mergitur». Qui si<br />
rispecchia anche la sua condizione di variabilità e di pericolo continuo, ma anche la certezza che<br />
l’affondamento è impossibile e l’approdo sicuro. L’equipaggiamento e l’attrezzatura della nave, il<br />
catalogo nautico e l’antico simbolismo marinaro, servono a descrivere la realtà della chiesa nel suo<br />
insieme: i suoi ministri, la sua organizzazione e la sua struttura. L’interpretazione della chiesa me-<br />
diante l’immagine dell’arca di Noè (1Pt 3,20) illustra come la chiesa, in mezzo al diluvio universa-<br />
le del tempo e del mondo, offra riparo, scampo, salvezza. Essa è l’arca della salvezza, non è possibi-<br />
le salvarsi senza di essa, è necessaria alla salvezza. Cristo, al pari di Noè il giusto, si trova nell’arca<br />
nella sua qualità di capostipite di un nuovo genere umano. Questa immagine spiega concretamente<br />
l’espressione «extra ecclesiam nulla salus», che già nel periodo patristico Cipriano aveva coniato e<br />
variamente illustrato (De unitate ecclesiae, 6), e la cui spiegazione e conseguenze da essa derivanti,<br />
principalmente in riferimento alla possibilità di salvarsi al di fuori della chiesa, avevano condotto a<br />
forti controversie e a non pochi malintesi fin dagli inizi (in concreto, con la questione se ammini-<br />
8 K. DELAHAYE, Per un rinnovamento della pastorale. La comunità madre dei credenti negli scritti dei padri dei primi<br />
tre secoli, Ecumenica, Bari 1974; H. DE LUBAC, Meditazione sulla chiesa, Jaca Book, Milano 1987, 161-192.<br />
9 H. RAHNER, “Flumina de ventre Christi”, in Simboli della Chiesa, 289-394.<br />
10 H. RAHNER, “Antenna crucis”, in Simboli della Chiesa, 395-966.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
strare o meno il battesimo agli eretici). L’immagine chiarisce ancora una volta la struttura dialettica<br />
della chiesa: questa è la chiesa dei peccatori, o in termini simbolici un’arca che accoglie anche gli<br />
animali impuri, ma che al contempo è l’unica chiesa dei salvati, ai quali la grazia della redenzione<br />
viene partecipata all’interno di questa imbarcazione. L’interpretazione della chiesa come barca di<br />
Pietro rimane nell’orizzonte di quanto già affermato. La situazione di pericolo deriva dalla storia<br />
stessa della chiesa; il felice esito di questo viaggio sta nella promessa. Il vascello è quello di Pietro<br />
pescatore (Lc 5,3), che, sotto la guida del nocchiero Cristo, è anche pilota dell’imbarcazione; a lui<br />
sono state indirizzate le parole di salvezza e di guida. Quest’immagine fu interpretata e specificata<br />
nel corso del tempo soprattutto nel senso che la posizione privilegiata di Pietro, il pescatore di uo-<br />
mini, comportava il primato romano: Gesù infatti insegna dalla barca di Pietro. Questa barca fu in-<br />
terpretata poi in chiave di politica ecclesiastica, fino a giungere all’identificazione: «navis Simonis<br />
est ecclesia Petri».<br />
In tutte queste immagini al centro sta l’essere una cosa sola della Chiesa con Cristo, che è l’espe-<br />
rienza fondamentale della comunità liturgica che è determinante nel formare l’identità della Chiesa.<br />
b) La Chiesa nel contesto della missione e dell’apologia<br />
1) Quando ci si rivolge all’esterno si parla della Chiesa in modo diverso. Nell’annuncio missionario<br />
e nella difesa della nuova fede cristiana dagli attacchi degli intellettuali pagani in primo piano non<br />
stanno né la liturgia né l’ordinamento ecclesiale, e neppure la Chiesa in quanto tale. Qui si tratta<br />
piuttosto, da un lato, della nuova situazione salvifica e liberante per l’umanità che è stata creata at-<br />
traverso l’incarnazione di Dio e nella quale entra chi crede in Cristo e vive secondo i suoi precetti.<br />
Dall’altro lato, si tratta proprio della prassi morale alternativa, verificabile empiricamente, che di-<br />
viene invito rivolto a coloro che stanno al di fuori. Il testo più caratteristico di questo modo di pen-<br />
sare è senz’altro costituito dalla Lettera a Diogneto.<br />
V. «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per regione, né per linguaggio, né per costumi. Infatti,<br />
non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La<br />
loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filo-<br />
sofica umana… Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del<br />
luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente pa-<br />
radossale. Vivono nella loro patria ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono di-<br />
staccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e<br />
generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma<br />
non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono<br />
conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti;<br />
mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e<br />
proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono pu-<br />
niti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come<br />
stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio».<br />
VI. «A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le<br />
parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abi-<br />
tano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si<br />
vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ri-<br />
cevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cri-<br />
stiani li odia perché si oppongono ai piaceri. L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani<br />
amano coloro che li odiano. L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono<br />
nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. L’anima immortale abita in una dimora mor-<br />
tale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei<br />
cieli. Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si<br />
moltiplicano. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare» 11 .<br />
2) Questo discorso apologetico sulla Chiesa opportunamente non utilizza né le immagini e le rap-<br />
presentazioni bibliche e liturgiche né le espressioni dell’autoesperienza immediata nella liturgia.<br />
Quando si deve spiegare all’esterno la particolarità di questa nuova comunità di fede è meglio ricol-<br />
legarsi a quei modelli di esperienza che sono più familiari al cittadino normale di una città romana.<br />
Tra di essi vi è certamente la pluralità di associazioni, consorzi, circoli, club, scuole, collegi (factio,<br />
secta, corpus, curia, coitio), che, a partire dal II secolo, esistevano in gran numero nell’impero ro-<br />
mano. Del medesimo genere era anche l’impatto con la comunità di fede per coloro che stavano<br />
all’esterno, come un tipo di associazione, con una cassa comune, con incontri regolari per il culto e<br />
pasti nelle feste, una direzione e un cimitero comune. Una descrizione apologetica che sottolineava<br />
questa analogia poteva, da una parte, dimostrare la normalità civile di questa nuova associazione e,<br />
dall’altra, attraverso la distinzione rispetto alle altre associazioni, cercare di mostrare la particolari-<br />
tà e singolarità della Chiesa. Con la sua pretesa universale essa ha, in certo modo, assorbito in sé<br />
tutte le finalità delle singole associazioni.<br />
11 A Diogneto, in I Padri apostolici, a cura di A. Quacquarelli, Città Nuova, Roma 1984 4 , 356-358.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Proprio così argomenta Tertulliano nel suo Apologeticum (197 d. C.) quando egli, da una parte, me-<br />
diante il rimando al carattere simile alle associazioni della comunità cristiana, vuole dimostrare la<br />
legittimità del cristianesimo, ma al tempo stesso sottolinea la particolarità religiosa e morale di que-<br />
sta “associazione”.<br />
«Ora esporrò lo scopo della comunità cristiana (negotia christianae factionis), affinché, dopo la confutazio-<br />
ne del male, vi mostri il bene. Noi formiamo un solo corpo mediante il vincolo di religione, l’unità della di-<br />
sciplina e della comune speranza… Preghiamo anche per gli imperatori, per i loro ministri e magistrati, per<br />
la conservazione del mondo, per la tranquillità dell’ordine, per il ritardo della catastrofe finale. Ci radunia-<br />
mo per leggere le divine Scritture… Certo, il nostro cibo sono le parole sante: con esse innalziamo la nostra<br />
fede, confermiamo la nostra speranza e nel contempo irrobustiamo la nostra disciplina inculcando i coman-<br />
damenti… Presiedono anziani già provati, che sono pervenuti a tanta dignità non col danaro ma per la testi-<br />
monianza della loro virtù, perché nessuna cosa di Dio è venale. Abbiamo pure una specie di cassa comune,<br />
ma non è costituita con elargizioni onorarie, come prezzo d’acquisto di una religione. Ciascuno, mensilmen-<br />
te, quando crede opportuno, se lo vuole e se lo può, offre un modesto contributo. Nessuno è costretto ma si<br />
offre spontaneamente. Queste offerte sono come il deposito della pietà (quasi deposita pietatis)…» 12 .<br />
In questa ottica missionaria, orientata verso il mondo esterno, la Chiesa è dunque a un tempo realtà<br />
escatologico-trascendente e realtà morale. I due aspetti sono strettamente collegati fra loro.<br />
c) La Chiesa nel contesto della questione circa l’unità e l’identità della fede<br />
1) Tra le esperienze fondamentali della fede cristiana, che determinano la sua struttura sociale, vi è<br />
anche quella dell’essere inviata nel mondo in modo che, come nuova comunità di salvezza, possa<br />
servire da testimonianza e da segno di fronte al mondo, affinché gli sia possibile aderire a questa via<br />
della fede portatrice di redenzione. Con questa fondamentale esperienza dell’essere inviata, la co-<br />
munità dei credenti assume una singolare caratteristica di soggetto. Tale caratteristica non si espri-<br />
me solo nei diversi atti dell’annuncio e della testimonianza, ma anche nelle azioni liturgiche e nel-<br />
l’attività sociale. Questa capacità di azione pubblica e unitaria assai presto si trovò a essere minac-<br />
ciata e messa in questione. Con la crescente distanza dall’origine e il passaggio in nuovi spazi so-<br />
cioculturali, la questione dell’identità, della continuità e dell’unità della fede divenne sempre più<br />
importante. Con l’aumento delle controversie teologiche, delle eresie e delle divisioni nelle comuni-<br />
tà, non era screditata solo la testimonianza unitaria di fronte al mondo, ma era messa in pericolo an-<br />
12 TERTULLIANO, L’Apologetico, 39, Edizioni Paoline, Roma 1950, 165-166.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
che la stabilità della comunità di fede. Perciò, in tale contesto, il carattere di soggetto capace di agire<br />
proprio della Chiesa deve essere tematizzato dal punto di vista teologico, spirituale e pratico.<br />
2) Questo avviene in primo luogo ponendo al centro la Chiesa come soggetto di azione nei contesti<br />
in cui opera: la Chiesa è il soggetto terreno, istituito da Dio, della mediazione della salvezza. Perciò<br />
devono rimanere uniti ad essa quanti cercano la salvezza. A lei infatti è stata donata da Dio la com-<br />
prensione della verità; essa, ripiena dello Spirito Santo, conserva la tradizione apostolica della fede;<br />
essa predica, insegna e trasmette la grazia e la nuova vita; essa è il luogo della verità, dell’amore,<br />
dello Spirito Santo, della comunione con Cristo, della pace e della salvezza. In secondo luogo, in<br />
questi contesti, deve essere indicato anche il concreto soggetto di azione che rappresenta<br />
l’istituzione ecclesiale e che in essa diviene segno e criterio dell’unità e dell’autenticità della fede: i<br />
vescovi come successori degli apostoli. Non appena divenne chiaro che nella tensione tra origine e<br />
presente la questione posta dalla precarietà dell’identità e della continuità non poteva più essere ri-<br />
solta solo con l’aiuto di un richiamo alla tradizione apostolica materiale e che anche le altre norme<br />
poste a garanzia dell’identità (canone della Scrittura, regola della fede, confessione di fede) non po-<br />
tevano risolvere tutti i problemi, il soggetto personale rappresentativo della tradizione (il ministero<br />
episcopale e, più tardi, i sinodi e il papato) dovette essere rafforzato e consolidato nella sua autorità.<br />
In determinate situazioni di crisi, infatti, solo le decisioni di queste istanze potevano garantire e con-<br />
servare la continuità e l’identità della fede nonostante la sua discontinuità storica ed sociale.<br />
Nell’opera Adversus haereses (circa 180 d. C.), con cui Ireneo di Lione cerca di confutare la gnosi,<br />
il concorrente che allora minacciava l’identità della fede cristiana, si può rilevare in modo evidente<br />
l’emergenza della Chiesa come soggetto di azione come pure la sua concretizzazione nel ministero<br />
episcopale. In particolare per Ireneo sono tre i criteri che permettono di discernere la vera chiesa in<br />
continuità con la chiesa degli apostoli: l’episcopato che, fondato dagli apostoli e continuato nei suc-<br />
cessori da loro istituiti, garantisce la validità della dottrina ecclesiale; il Nuovo Testamento che,<br />
scritto dagli apostoli, rappresenta la testimonianza autorevole e definitiva all’atto salvifico di Dio in<br />
Cristo; il “canone della verità” che, trasmesso dagli apostoli, provvede una concisa presentazione<br />
della fede in forma di credo. In tal senso egli così presenta l’intreccio delle varie norme della fede.<br />
«La predicazione della Chiesa è solida da ogni parte, rimane sempre uguale ed è sostenuta dalla testimo-<br />
nianza dei profeti, degli apostoli e di tutti i loro discepoli, come abbiamo dimostrato, in base “all’inizio, il<br />
mezzo e la fine”, e per mezzo di tutta l’economia di Dio e la sua opera sicura per la salvezza dell’uomo e che<br />
fonda la nostra fede. Questa l’abbiamo ricevuta dalla Chiesa e la custodiamo: essa per opera dello Spirito di<br />
Dio, come un deposito prezioso contenuto in un vaso di valore, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
il vaso che la contiene. Alla Chiesa infatti è stato affidato il Dono di Dio, come il soffio alla creatura pla-<br />
smata, affinché tutte le membra, partecipandone, siano vivificate; e in lei è stata deposta la comunione con<br />
Cristo, cioè lo Spirito Santo, arra di incorruttibilità, conferma della nostra fede e scala della nostra salita a<br />
Dio. Infatti “nella Chiesa — dice — Dio pose apostoli, profeti e dottori” (1Cor 12,28) e tutta la rimanente<br />
operazione dello Spirito. Di lui non sono partecipi quelli che non corrono alla Chiesa, ma si privano della<br />
vita a causa delle loro false dottrine e azioni perverse. Poiché dove è la Chiesa, lì è anche lo Spirito di Dio;<br />
e dove è lo Spirito di Dio, lì è la Chiesa e ogni grazia. Ora lo Spirito è Verità. Perciò quelli che non parteci-<br />
pano di lui non si nutrono alle mammelle della Madre per la vita, né attingono alla purissima sorgente che<br />
sgorga dal corpo di Cristo, ma “si scavano cisterne screpolate” (Ger 2,13)… [Il discepolo spirituale] giudica<br />
anche quelli che provocano scismi, che sono vuoti dell’amore di Dio e guardano al proprio interesse più che<br />
all’unità della Chiesa e per qualunque futile motivo tagliano e dividono il grande e glorioso corpo di Cristo e<br />
per quanto dipende da loro lo uccidono; parlano di pace e fanno la guerra, e veramente “scolano il mosceri-<br />
no e inghiottono il cammello” (Mt 23,24): perché da loro non può venire alcuna correzione che sia tanto<br />
grande, quanto è grande il danno dello scisma. Giudica anche tutti quelli che sono fuori della verità, cioè<br />
fuori della Chiesa. Ma lui non è giudicato da nessuno, perché tutto in lui è solido: la sua fede integra in un<br />
solo Dio onnipotente, dal quale vengono tutte le cose; e la sua adesione ferma al Figlio di Dio Gesù Cristo, il<br />
Signore nostro, per mezzo del quale vengono tutte le cose, e le sue economie per cui il Figlio di Dio si fece<br />
uomo; la vera gnosi nello Spirito di Dio, che dà la conoscenza della verità, che presenta le economie del Pa-<br />
dre e del Figlio, secondo ogni generazione, per gli uomini, come vuole il Padre: è la dottrina degli apostoli,<br />
l’antico organismo della Chiesa in tutto il mondo, il marchio del corpo di Cristo secondo le successioni dei<br />
vescovi, ai quali essi affidarono ogni Chiesa locale, la conservazione non finta delle Scritture giunta fino a<br />
noi, la raccolta completa senza aggiunta e senza sottrazione, una lettura senza frode e, conforme alle Scrittu-<br />
re, una spiegazione corretta, armoniosa, esente da pericolo e da bestemmia; e infine l’eminente dono della<br />
carità, che è più prezioso della gnosi, più glorioso della profezia e superiore a tutti gli altri carismi» 13 .<br />
Nel contesto dell’idea di missione e della salvaguardia dell’identità la Chiesa si colloca in primo pi-<br />
ano come il soggetto della mediazione della salvezza, dotato da Dio di tutti i doni necessari: essa ha<br />
la comprensione/intuizione della verità, conserva fedelmente la tradizione della fede, insegna, pre-<br />
dica e guida. Essa è il luogo della verità, dell’amore, della salvezza. Nel vescovo posto nella succes-<br />
sione apostolica la Chiesa si concretizza come soggetto di azione.<br />
3) Da questo contesto di azione è segnata pure la struttura costituzionale della Chiesa. Anche la<br />
Chiesa universale esiste nella forma di una comunione, una communio di Chiese locali autonome,<br />
ognuna delle quali rappresenta l’essenza integrale della Chiesa. Nel corso del II secolo il ministero<br />
13 IRENEO DI LIONE, Contro le eresie e gli altri scritti, Jaca Book, Milano 1981, 295-296, 377-378 [corsivo ns.].<br />
162
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
del vescovo monarchico (monoepiscopato) si è affermato in tutte le Chiese per diverse ragioni. Vi<br />
sono sicuramente motivi di ordine teologico-pratico: la migliore garanzia dell’unità della comunità.<br />
Vi sono ragioni di carattere teologico-sistematico, quali la rappresentanza dell’unico Dio o di Cri-<br />
sto, e motivi storico-teologici: l’idea della successione apostolica che assicura una catena personale<br />
di tradizione grazie alla quale si è legati all’origine. Soprattutto, è la rivendicazione da parte della<br />
nuova comunità di fede di un carattere universale e pubblico a rendere necessaria anche una rappre-<br />
sentanza pubblica del soggetto ecclesiale di azione nell’annuncio, nella liturgia e nella diaconia.<br />
In questa prospettiva, la comunità non si comprende secondo il modello di un’associazione, di un<br />
partito o di un circolo, ma secondo il modello della città antica e della sua amministrazione (polis,<br />
civitas, curia), che sa di essere responsabile per tutti gli aspetti della vita dei suoi membri. Se l’unità<br />
della Chiesa locale è garantita dal vescovo (insieme al collegio dei presbiteri e dei diaconi), l’unità<br />
della Chiesa universale lo è dal collegio dei vescovi. Nel corso del tempo questa unità troverà sem-<br />
pre più un punto fisso nel primato del vescovo di Roma. A partire dal III secolo c’è un’esplicita ri-<br />
vendicazione da parte dei vescovi di Roma di una preminenza sovraregionale e, successivamente,<br />
anche sulla Chiesa universale.<br />
Descrizione riassuntiva<br />
La Chiesa appare nei primi tre secoli, e anche oltre, primariamente come una realtà immediatamente<br />
connessa con la fede e in misura minore come risultato della riflessione teologica o dell’ordina-<br />
mento giuridico. Poiché il credente vede la sua esistenza interamente nella presenza dell’agire salvi-<br />
fico divino sempre attuale, la Chiesa gli appare anzitutto come realtà storico-escatologica e poi<br />
pneumatico-sacramentale. Solo in una mutata situazione storica e sociale avviene la prima tematiz-<br />
zazione di sé da parte della Chiesa, una differenziazione e un’acquisizione di autonomia che portano<br />
con sé subito degli spostamenti di accenti.<br />
163
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
2.2. La svolta costantiniana: la chiesa come dominio spirituale<br />
2.2.1. Situazione storica<br />
1) Nella Chiesa medioevale, il cui inizio in Occidente viene collocato tra il IV secolo (la svolta co-<br />
stantiniana) e l’VIII secolo (la scelta da parte dei papi dei re franchi e la nascita dello Stato pontifi-<br />
cio), e che si dissolve nel XVI secolo (con la Riforma), il contesto storico muta in maniera profon-<br />
da. Esso fa sì che ora al centro ci sia l’interesse per il lato sociale, politico e istituzionale della Chie-<br />
sa. All’inevitabile messa a tema di questi aspetti della Chiesa sono legati anche i primi inizi di<br />
un’<strong>ecclesiologia</strong> orientata in senso giuridico nella quale la gerarchia sta in primo piano. Il dominio<br />
spirituale è perciò la metafora fondamentale per la comprensione medioevale della Chiesa.<br />
2) I fattori storici responsabili di questo cambiamento sono di natura diversa. In seguito alla svolta<br />
costantiniana la Chiesa perseguitata diviene libera (editto di Milano: 313) e, ben presto, si trasforma<br />
in Chiesa di Stato (editto di Tessalonica: 380); da Chiesa dei martiri e dei confessori diviene rapi-<br />
damente Chiesa di massa e impero cristiano o comunità dei popoli cristiani. Per raggiungere i propri<br />
obiettivi e svolgere le proprie funzioni, la chiesa si serve delle stesse articolazioni e strutture politi-<br />
che ed organizzative dello stato romano; utilizza i templi, costruisce veri e propri edifici cristiani. I<br />
vescovi sono equiparati agli alti funzionari dello stato, ai senatori, e ottengono insegne, onorificenze<br />
e privilegi. Con la crescente integrazione tra Chiesa e mondo la coscienza escatologica regredisce.<br />
Non si diventa più cristiani per decisione, ma per nascita. Il populus Dei diviene populus christia-<br />
nus, un concetto culturale, sociologico e politico. Anche la tentazione cui la Chiesa è esposta divie-<br />
ne meno spirituale e assume una forma geografica e politica identificabile: è il nemico che si trova<br />
al di fuori del popolo cristiano e che perciò deve essere combattuto (attraverso le crociate, la perse-<br />
cuzione degli ebrei e degli eretici e l’inquisizione). La triade ebrei, eretici e pagani come nemici del-<br />
la cristianità è una formula fissa della teologia e della predicazione tardomedievali 14 .<br />
14 «La chiesa crede fermamente, confessa e annuncia che “nessuno di quelli che sono fuori della chiesa cattolica, non<br />
solo i pagani [FULGENZIO DI RUSPE, De fide seu de regula fidei ad Petrum 38, n. 81]”, ma anche i giudei o gli eretici e<br />
gli scismatici, potranno raggiungere la vita eterna, ma andranno nel fuoco eterno, “preparato per il diavolo e per i suoi<br />
angeli” [Mt 25,41], se prima della morte non saranno stati ad essa riuniti»: CONCILIO DI FIRENZE, Bolla Cantate Domino,<br />
4 feb. 1442, in DzH 1351. Gli ebrei furono colpiti in modo peggiore perché combattere pagani ed eretici si era infatti<br />
rivelato assai difficile. A partire dalle crociate, l’ostilità verso gli ebrei sviluppatasi nella teologia si estende anche alla<br />
vita quotidiana, come mostrano le parole di Pietro di Cluny: «A che cosa serve cercare e combattere i nemici della fede<br />
cristiana in terre lontane se dissoluti e bestemmiatori ebrei, che sono di gran lunga più malvagi dei saraceni, non in terre<br />
lontane, ma qui in mezzo noi senza ostacoli e temerariamente oltraggiano impunemente, calpestano con i piedi e disprezzano<br />
Cristo e tutti i sacramenti cristiani? Come può lo zelo divino animare i figli di Dio se gli ebrei, i peggiori nemici<br />
di Cristo e dei cristiani, se la cavano impavidi?»: cit. in WIEDENHOFER, La Chiesa, op. cit., 115.<br />
164
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
In Oriente, l’imperatore ormai cristiano acquista un crescente influsso sulla Chiesa: egli, l’epìskopos<br />
ton ektòs («vescovo esterno») 15 , legifera in materia di regolamento ecclesiastico come in questioni<br />
dottrinali; convoca e dirige i concili; crea e modifica le circoscrizioni ecclesiastiche; nomina i ve-<br />
scovi delle sedi principali; dà alle decisioni dei concili valore di legge dell’impero. In lui l’impero<br />
cristiano sembra riflettere il regno di Dio incominciato. Questa tendenza verso il “cesaropapismo” 16<br />
fu sostenuta anche dal reclutamento dei vescovi esclusivamente tra le file dei monaci. Secondo le<br />
intenzioni, questa prassi doveva garantire il carattere spirituale dell’autorità ecclesiale, ma, di fatto<br />
ha condotto all’abbandono dei compiti giurisdizionali all’autorità imperiale.<br />
In Occidente, in condizioni diverse (mancanza dell’autorità imperiale, caduta della struttura statale<br />
antica, formazione di signorie territoriali e del sistema feudale, presenza e ruolo della Sede romana,<br />
differenziazione sociale e politica a partire dal XI/XII secolo) e non senza influssi riconducibili alla<br />
riflessione agostiniana (De civitate Dei), all’interno del popolo cristiano divampa la lotta per il pre-<br />
dominio tra papa e imperatore, tra il potere secolare ed ecclesiale. Contro la riduzione della chiesa a<br />
funzione della politica nel periodo dalla Chiesa imperiale sotto gli Ottoni, a partire dalla riforma<br />
gregoriana dell’XI secolo, la libertà e l’indipendenza di essa sono riaffermate con l’aiuto della ri-<br />
vendicazione papale della supremazia sul popolo cristiano, mediante cioè una sorta di monarchia<br />
papale. Nella Chiesa viene stabilita in modo sempre più chiaro la divisione tra chierici e laici. Que-<br />
sta è la nuova forma in cui l’antica tensione escatologica tra Chiesa e mondo si manifesta in una si-<br />
tuazione mutata: preti e monaci sono gli “uomini spirituali”, superiori ai laici che conducono la vita<br />
del mondo. Anche la struttura costituzionale della Chiesa cambia: dato che quasi tutto l’Occidente,<br />
seguendo l’idea carolingia di impero, fu incorporato nella liturgia romana e, in seguito alla missione<br />
anglosassone, integrato nell’amministrazione romana e poiché gli ordini mendicanti, che dipende-<br />
vano direttamente dal papa, esercitarono con successo una cura pastorale orientata in senso centrali-<br />
15 Eusebio racconta che Costantino avrebbe detto ai vescovi: «Voi siete stati creati vescovi da Dio per ciò che riguarda<br />
la situazione interna della chiesa. Io invece sono stato designato come vescovo per gli affari esterni»: Vita Constantini<br />
II, 17; GCS I, 84, 20-30.<br />
16 Occorre però sfumare l’accusa di cesaropapismo, perché 1) la cristianità bizantina non ha mai accettato che<br />
l’imperatore avesse autorità assoluta in materia di fede e di morale; 2) essa non ha evitato il cesaropapismo opponendo<br />
all’imperatore un’altra autorità opposta (quella del sacerdozio), ma riferendo ogni autorità direttamente a Dio (cfr. la<br />
sesta Novella di Giustiniano: «Le più grandi benedizioni del genere umano sono i doni di Dio che ci sono stati concessi<br />
dalla sua misericordia dall’alto — il sacerdozio e l’autorità imperiale. Il sacerdozio officia alle cose divine; l’autorità<br />
imperiale è posta sopra, e mostra diligenza nelle cose umane; ma entrambe procedono dall’una e la stessa sorgente, ed<br />
entrambe adornano la vita dell’uomo»); 3) l’imperatore ha un ruolo determinante nei concili ecumenici (e questo fino al<br />
concilio di Firenze del 1439); 4) gli stessi papi glielo riconoscono; anzi i papi si attendono il concorso del potere temporale<br />
per far trionfare la fede e riconoscono all’imperatore un ruolo unico nella cristianità: cfr. le osservazioni puntuali di<br />
J. MEYENDORFF, Rome, Constantinople, Moskow. Historical and Theological Studies, St. Vladimir’s Seminary Press,<br />
New York 1996, 174-175; E. LANNE, in Il primato del successore di Pietro, LEV, Città del Vaticano 1998, 220-221.<br />
165
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
stico, l’intera Chiesa latina viene per così dire assorbita nella Chiesa della città di Roma. L’unità<br />
della Chiesa come comunione delle diverse Chiese locali diventa sempre più l’uniformità della<br />
Chiesa nell’unica Chiesa romana. Secondo tale concezione esiste in fondo soltanto una Chiesa, cioè<br />
la Chiesa locale romana diffusa in tutto il mondo. Tutte le altre Chiese sono sue suffraganee che de-<br />
rivano da essa, sono permanentemente inserite in essa e da essa sono governate. I vescovi sono solo<br />
aiutanti e vicari del papa dal quale ricevono la potestà per partecipare alla cura della Chiesa univer-<br />
sale. Al papa soltanto è conferita la plenitudo potestatis; i vescovi sono chiamati solo in partem sol-<br />
licitudinis. Il plurale “le Chiese” in questo modo perde di fatto e teologicamente il suo contenuto 17 .<br />
Monasteri indipendenti (esenti) dai vescovi, che sono direttamente sottomessi al papa, sono impie-<br />
gati sempre più come strumenti per l’esercizio di una giurisdizione papale diretta nelle Chiese loca-<br />
li. La posizione dei legati pontifici è configurata in modo che essi sono posti al di sopra dei vescovi.<br />
3) Anche nel Medioevo latino vi sono luoghi diversi nei quali si sviluppa la comprensione della<br />
Chiesa; tuttavia la differenziazione politico-religiosa legata alla controversia tra papa e imperatore<br />
viene ad assumere la posizione centrale in modo così dominante che tutti gli altri luoghi dell’essere<br />
Chiesa e del suo articolarsi sono assorbiti nel vortice di questo movimento.<br />
2.2.2. Luoghi dell’autocomprensione ecclesiale e della riflessione ecclesiologica<br />
a) La chiesa nel contesto apologetico della controversia politico-religiosa<br />
1) L’evento della conversione di Costantino ha segnato in maniera indelebile la Chiesa: Eusebio ne<br />
parla quasi come fosse la realizzazione di un vecchio sogno, quello millenaristico (cfr. Ap 20): at-<br />
traverso la mediazione politica e istituzionale la legge del Vangelo diventa legge del mondo.<br />
Nell’epoca moderna diverrà facile criticare l’era costantiniana, l’alleanza tra Chiesa e Stato, come<br />
colpa originale che genererà i compromessi storici della Chiesa con le potenze politiche. Vi si è vi-<br />
sto la rottura con il Vangelo quale fermento che fa lievitare la pasta del mondo. Da ora in avanti, la<br />
potenza politica, sostenendo la parola di Dio con la sua efficacia sociale, sarà lo strumento per far<br />
accedere alla nuova fede le masse popolari. Si deve però, da una parte, capire l’entusiasmo che su-<br />
scitò questa conversione, la quale saldò un’alleanza fino allora ritenuta contro natura: il Regno vie-<br />
17 Poiché «la comunità della città di Roma incorpora tutto l’orbis latino nello spazio ristretto della sua urbis» ne consegue<br />
che «l’intero Occidente è per così dire solo più un’unica comunità locale e perde sempre più l’antica struttura<br />
dell’unità nella pluralità, la quale diventa infine del tutto incomprensibile»: J. RATZINGER, “Primato ed episcopato”, in<br />
ID., Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1984 3 , 148-149.<br />
166
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
ne finalmente in questo mondo, un mondo non destinato alla perdizione, ma a realizzare concreta-<br />
mente il sogno dei profeti di Israele e del messianismo di Gesù. D’altra parte dobbiamo considerare<br />
come i cristiani cercarono di definire il ruolo del politico nell’avvento del Regno: essi si rifecero al-<br />
le immagini veterotestamentarie, che evocavano l’unità politica del popolo eletto o persino delle na-<br />
zioni sotto l’autorità di Dio, rappresentata dal suo delegato: il re, di cui Davide costituiva il model-<br />
lo; in seguito il Messia regale. Gesù durante la sua missione non aveva esercitato queste due moda-<br />
lità di potere. Da risorto, non li aveva forse delegati a coloro che non separavano più la finalità del<br />
potere politico dall’utopia biblica di un Regno di giustizia e di pace? Chi sarebbe stato la guida di<br />
questo tentativo di iscrivere il Regno nelle istituzioni sociali, politiche e culturali: la Chiesa o<br />
l’autorità politica? In ogni caso, questo tentativo generoso di integrazione del politico alla finalità<br />
religiosa di iscrivere il Regno in questo mondo condusse ad assumere delle sanzioni che corrispon-<br />
devano ai modelli delle punizioni penali, cioè a considerare come delinquenti coloro che trasgredi-<br />
vano, con opinioni o azioni, le norme stabilite dalla legge ecclesiastica (cfr. l’inquisizione). Quale<br />
che sia l’intenzione, l’uso della violenza per costruire un regno di pace, di giustizia, mostra il carat-<br />
tere illusorio dell’impresa. La cristianità non è riuscita a bandire la violenza.<br />
Non solo, laddove l’intreccio tra religione/Chiesa e società/Stato è presupposto come ovvio contesto<br />
di esperienza e di azione, il concetto di Chiesa, automaticamente, subisce una dilatazione politico-<br />
culturale. Per quanto in Oriente e in Occidente si sia cercato ripetutamente di distinguere in linea di<br />
principio il potere spirituale da quello secolare e ciò sia anche riuscito, tuttavia in entrambi i mondi<br />
l’ambito politico ed ecclesiale, a causa della mescolanza di fatto e di modelli di pensiero arcaici che<br />
continuavano a far sentire la propria influenza, rimanevano legati a una concezione politico-<br />
religiosa unitaria che doveva portare a un contrasto interno alla Cristianità.<br />
2) Al seguito dei padri greci, in Oriente, la Chiesa viene compresa all’interno della storia salvifica<br />
che porta alla divinizzazione dell’uomo: nell’umanità di Cristo, Dio è diventato quello che noi sia-<br />
mo in modo che noi diveniamo quello che lui è. Perciò la Chiesa, come corpo di Cristo, è la totalità<br />
del mistero salvifico della nostra divinizzazione e abbraccia il cosmo, la storia e l’essere umano.<br />
Questo evento di divinizzazione si compie soprattutto nella sacra liturgia, in particolare nei sacra-<br />
menti, si riflette nell’architettura e iconografia come pure nella santità della vita (perciò i monaci,<br />
come gli autentici uomini spirituali hanno un ruolo centrale nella Chiesa). A questa visione mistica<br />
della Chiesa si lega l’idea di una profonda unità (sinfonia) tra Chiesa e Stato, che di fatto tende al<br />
cesaropapismo, anche se vi sono sempre stati tentativi di salvaguardare l’indipendenza della Chiesa.<br />
Sulla base di una <strong>ecclesiologia</strong> della comunione e di un attualismo pneumatologico, si respinge con<br />
decisione lo sviluppo occidentale dell’immagine della Chiesa. Nel XIII e XIV secolo ciò avviene at-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
traverso la resistenza contro il tentativo occidentale di unione e si esprime nella critica della monar-<br />
chia papale e nell’accentuazione del carattere collegiale e patriarcale dell’ordinamento ecclesiale.<br />
Nell’anno 1357 il greco Atanasio, di fronte al legato romano Pietro Tommaso, giustifica così la ri-<br />
chiesta greca di una struttura patriarcale collegiale:<br />
«Ho detto anche che gli apostoli sono dodici, lo so, ma essi non sono dodici capi della Chiesa.<br />
Come i fedeli, nonostante il loro numero, come noi affermiamo, formano la Chiesa e l’unico corpo<br />
di Cristo grazie all’identità del culto e della religione, allo stesso modo, comprendimi bene, anche<br />
gli apostoli, benché siano in numero di dodici, sono un unico capo della Chiesa, in forza<br />
dell’identica dignità e della uguale potestà spirituale» 18 .<br />
3) In Occidente, a partire da Gelasio I, si distingue l’autorità sacra dei papi (auctoritas sacrata pon-<br />
tificum) e il potere regale (regalis potestas) 19 . In Occidente rimane viva anche la tradizionale visione<br />
storico-salvifica e sociale della Chiesa. Nonostante questa differenziazione e il legame con la tradi-<br />
zione, però, i concetti teologici fondamentali vengono ora dilatati in senso politico. Così, il “popolo<br />
di Dio”, il popolo spirituale che Dio ha radunato da tutti i popoli, la cui vera patria è nei cieli, divie-<br />
ne una realtà politico-teologica, il popolo cristiano o la comunità dei popoli cristiani.<br />
Accanto ai concetti “Chiesa di Cristo” (ecclesia Christi) e “popolo di Dio” (populus Dei) (e talvolta<br />
in modo da sostituirli) compaiono ora in modo caratteristico i concetti di “cristianità” (christianitas)<br />
e di “popolo cristiano” (populus christianus). Anche il concetto “Chiesa universale” (ecclesia uni-<br />
versalis), che dai tempi di Agostino designava l’insieme dei giustificati dalla grazia di Cristo, com-<br />
prende ora sia l’aspetto spirituale che quello secolare.<br />
4) Lo stesso slittamento concettuale si può registrare anche nella comprensione della Chiesa come<br />
“corpo di Cristo”. La stretta connessione e il legame reciproco tra eucaristia e Chiesa si dissolvono<br />
sempre più. L’eucaristia diviene sempre più ricezione individuale della grazia nella comunione e<br />
presenza divina degna di adorazione. La Chiesa diviene sempre più istituzione di diritto divino, il<br />
cui ordinamento esige una costituzione rigorosamente giuridica e la cui unità è fondata sulla presen-<br />
za di un capo visibile, il pontefice romano. La Chiesa dunque è corpo di Cristo nel senso di un or-<br />
ganismo ordinato gerarchicamente a capo del quale si trova la Sede romana.<br />
18 Citato da Y.-M.-J. CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, Cerf, Paris: 1970, 265.<br />
19 Lettera di Gelasio I all’imperatore Anastasio del 494. La famosa teoria delle due spade subirà un certo sviluppo nel<br />
corso del medioevo: Gelasio infatti aveva detto che “due potenze si spartiscono l’impero eminente del mondo”; mentre<br />
al tempo di Pipino il Breve si dirà che “due potenze si spartiscono l’impero eminente del mondo o Chiesa”. La Chiesa<br />
passa quindi a designare l’insieme della società, ciò che noi chiamiamo «christianitas». La teologia soggiacente a questa<br />
prospettiva è quella della regalità universale di Cristo, in cui si trovano riunite le funzioni di re e sacerdote, mentre sulla<br />
terra — nella Chiesa — queste funzioni sono ripartite tra i due poteri.<br />
168
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
In tal senso è particolarmente istruttiva l’evoluzione della espressione “corpo mistico” (corpus<br />
mysticum). Essa compare nel IV secolo per significare il pane eucaristico consacrato oppure il corpo<br />
del Signore presente in forma sacramentale, attraverso il quale i fedeli sono trasformati nel vero<br />
corpo di Cristo (corpus verum), cioè la Chiesa. Questo uso linguistico si è mantenuto quasi univer-<br />
salmente nella teologia latina fino al IX secolo. Nell’XI secolo, in reazione alla controversia con Be-<br />
rengario di Tours, che tendeva verso una concezione puramente simbolica della presenza di Cristo<br />
nel sacramento, scompare la parola “corpus mysticum” riferita all’eucaristia. Verso la metà del XII<br />
secolo la coppia di concetti ricompare, ma con un rovesciamento del significato: per sottolineare il<br />
realismo sacramentale della presenza di Cristo nel sacramento dell’altare ora il corpo eucaristico<br />
viene designato come vero corpo di Cristo mentre la Chiesa è solo corpo mistico. Nel XIII secolo si<br />
afferma quest’uso linguistico e si parla comunemente del corpo mistico della Chiesa. Inoltre il con-<br />
cetto di corpus, che proviene dal contesto sacramentale, viene sempre più fortemente determinato<br />
dal concetto corporativo-sociologico di corpus, già corrente nella scienza canonistica del XII secolo.<br />
Chiesa come corpus mysticum significa ora il corpo dei cristiani il cui capo è il papa 20 .<br />
5) Una simile trasformazione si trova infine anche nella comprensione della Chiesa come «tempio<br />
dello Spirito Santo» o come comunità carismatica. Quanto più i canonisti si sforzavano di compren-<br />
dere l’autorità spirituale come controparte del diritto imperiale o regale, tanto più tendevano insen-<br />
sibilmente ad assimilare il diritto spirituale della Chiesa a quello secolare; comprendevano cioè<br />
l’autorità spirituale come una potestas che inoltre tendeva a diventare un dominium. Ora i laici, in<br />
quanto “non chierici”, vengono distinti dalla gerarchia che, grazie alla potestà spirituale a essa con-<br />
ferita, diviene il vero nucleo della Chiesa. A partire dall’XI secolo questa potestà spirituale non è<br />
più solo la potestà che l’ordinato riceve indipendentemente dalla comunità; essa si divide in una po-<br />
testà sacramentale di ordine, finalizzata all’amministrazione dei sacramenti, e in una potestà pasto-<br />
rale di carattere giuridico che serve per il governo della Chiesa. Al termine di questa evoluzione si<br />
può affermare semplicemente: «Il potere sacerdotale si distingue in potere di ordine e potere di giu-<br />
risdizione. Il potere di ordine attiene alla consacrazione del corpo reale del Signore nell’eucaristia, il<br />
potere di giurisdizione si riferisce invece al corpo mistico di Gesù Cristo e consiste nella capacità di<br />
governare e di guidare i fedeli verso la beatitudine celeste» 21 .<br />
20 Bonifacio VIII, Bolla Unam sanctam, 1302: «La sola e unica chiesa ha dunque un solo corpo, un solo capo, non due<br />
teste come un mostro, e cioè Cristo e il vicario di Cristo» (DzH, n. 872); Bartolomeo da Lucca, in Tommaso d’Aquino,<br />
De regimine principum, III, 10, verso il 1300, a cura di T. Mathis, Marietti, Torino-Roma 1948 2 , 49.<br />
21 L. ANDRIANOPOLI, Il catechismo romano commentato, Ares, Milano 1983, 274, 283.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
6) Nel momento in cui l’autorità spirituale non venne più compresa come ministerium, come servi-<br />
zio della comunità e nella comunità, ma come dominium, si giunse necessariamente anche a un con-<br />
flitto all’interno della stessa gerarchia. La differenza di funzioni tra papato ed episcopato, con questi<br />
presupposti, doveva condurre al conflitto tra le rivendicazioni dei due poteri più alti. Tanto più che<br />
l’insegnamento teologico corrente, pur continuando a veicolare una comprensione della chiesa ispi-<br />
rata alla Bibbia e ai Padri e principalmente incentrata sull’immagine del Corpo mistico, di fatto in-<br />
terpretava questa immagine caricandola di una connotazione di tipo corporativo, secondo cui la testa<br />
rappresenta il corpo, come riassumendolo in sé 22 . Si capisce allora perché, ad esempio Agostino<br />
Trionfo († 1328), appoggiandosi alle teorie gerarchiche dello Pseudo-Dionigi, può scrivere nella<br />
Summa de potestate ecclesiastica (1326) che «il papa è il capo di tutto il corpo mistico della chiesa<br />
in modo tale che egli non riceve nulla, quanto a forza e autorità, dalle membra, ma soltanto agisce<br />
sempre su di queste, perché egli è semplicemente il capo». D’altra parte, anche questi stessi autori,<br />
favorevoli alla monarchia papale assoluta, ammettevano un’eccezione alla regola che «prima sede a<br />
nemine iudicatur», ossia quando il papa fosse incorso in una deviazione dalla fede 23 . In questo caso<br />
il papa poteva essere giudicato dalla chiesa, cioè dal concilio, il quale, come rappresentante della<br />
chiesa universale, avrebbe contato più del papa da solo.<br />
Nell’epoca del grande scisma (1378-1417) si diffuse pure un’altra convinzione, ossia che solo un<br />
concilio era in grado di attuare la riforma della chiesa divenuta chiaramente necessaria «tam in capi-<br />
te quam in membris». Voci si erano alzate per denunciare gli abusi del sistema di finanziamento del<br />
papato in occasione delle nomine di vescovi e di abati e delle sanzioni che ne conseguivano. Ad e-<br />
sempio nel 1328 il papa Giovanni XXII aveva scomunicato 36 vescovi e 46 abati perché non aveva-<br />
no pagato le tasse a tempo debito. Agli occhi di molte persone pie era lo stesso papato che costituti-<br />
va il principale ostacolo alla riforma, o, secondo i termini di Jean Gerson al concilio di Costanza,<br />
«una tirannia che distrugge la chiesa». Proprio in queste traiettorie si collocavano altri teologi che,<br />
sensibili all’affermazione degli stati nazionali e quindi all’autonomia del potere temporale (pensia-<br />
mo all’influsso di Marsilio da Padova e di Guglielmo di Ockham), interpretando la congregatio fi-<br />
delium nel senso corporativo di tutto il popolo che è soggetto di vita e di potere, erano favorevoli ad<br />
una limitazione dell’autorità pontificia da parte della ecclesia e dei suoi rappresentanti.<br />
22 Non a caso la grande scolastica del XIII secolo svolgeva le tesi teologiche riguardanti la chiesa nel quadro della grazia<br />
capitale di Cristo (gratia capitis): per S. Tommaso (S. Th., III, q. 8) l’uomo Gesù, possedendo la pienezza della grazia, è<br />
allo stesso tempo la Testa dell’umanità e del corpo della Chiesa, di cui lo Spirito è (secondo la prospettiva di S. Agostino)<br />
l’anima: la chiesa è quindi l’ambito dell’influsso spirituale del Cristo.<br />
23 Cfr. GRAZIANO, Decreto I, dist. 40, p. III, c. XI.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Queste correnti alimenteranno il CONCILIARISMO, quando esso si presenterà come la sola maniera di<br />
uscire dall’impasse al momento del grande scisma d’Occidente. In questo caso il concilio non solo<br />
giudicò pure della legittimità dei papi che si opponevano fra di loro, ma si riunì pure senza essere<br />
stato convocato da uno di loro. Diversi teologi affermarono in questa occasione che la sopravviven-<br />
za dell’ecclesia esigeva che il potere di convocare un concilio generale appartenesse alla chiesa<br />
stessa (Pierre d’Ailly, Jean Gerson). L’idea conciliarista si trovava peraltro accreditata dal nuovo<br />
modello di funzionamento corporativo, quello delle città e delle università, sviluppatosi nel XIV se-<br />
colo. Questo modello di universitas fornì al medioevo — che fino al secolo XII conosceva soltanto<br />
la sovranità personale (re, duca, conte) in gerarchie graduate in cui gli inferiori sono sottoposti ai<br />
superiori, ma non derivano da questi, come dalla loro fonte, la loro autorità —, un nuovo modello di<br />
comunità. In queste corporazioni l’universitas, rappresentata da un organo eletto, deteneva il potere<br />
supremo (sovranità), in particolare quello legislativo. Il rector è al di sopra dei singoli membri, ma<br />
non dell’universitas: di cui è piuttosto il delegato e a cui deve rendere conto. Le differenti tesi con-<br />
ciliariste applicheranno questo modello ai rapporti tra papa e concilio. Si dice ad esempio che il pa-<br />
pa è al di sopra di tutti i membri della chiesa, ma non al di sopra della chiesa nella sua totalità; op-<br />
pure che il concilio ha il potere legislativo, il papa quello esecutivo; che il papa non possa essere<br />
giudicato da nessuno, significa «da nessuna persona individuale», ma non vale per la totalità della<br />
chiesa o per la sua rappresentanza in concilio ecumenico, che anzi può deporre il papa non soltanto<br />
per eresia, ma anche per altri gravi motivi.<br />
Questo influsso dei modelli politici del tempo non deve però oscurare il fatto che il conciliarismo<br />
veicolava pure l’antica <strong>ecclesiologia</strong> di comunione, soffocata nell’alto medio evo dall’influsso del<br />
modello feudale. Il tema agostiniano del potere delle chiavi date a Pietro, non come persona indivi-<br />
duale ma come personificante la chiesa, restava bene comune di teologi e canonisti.<br />
La dottrina conciliarista, almeno nella sua forma moderata, trova una formulazione netta nel decreto<br />
Haec sancta (6 aprile 1415) del concilio di Costanza (1414-1418):<br />
«Questo santo sinodo di Costanza, costituendo un concilio generale, legittimamente radunato nello Spirito<br />
santo a lode dell’onnipotente Dio, per estirpare il presente scisma e per realizzare l’unione e la riforma della<br />
Chiesa di Dio nel capo e nelle membra, con lo scopo di conseguire più facilmente, più sicuramente, più frut-<br />
tuosamente e più liberamente l’unione e la riforma della Chiesa di Dio ordina, definisce, stabilisce, giudica e<br />
dichiara quanto segue.<br />
Per prima cosa dichiara che questo sinodo, legittimamente radunato nello Spirito santo, costituendo un con-<br />
cilio generale e rappresentando la Chiesa cattolica militante, riceve la sua autorità direttamente da Cristo;<br />
chiunque, di qualunque condizione e dignità, fosse pure quella papale, è tenuto a obbedirgli in ciò che appar-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
tiene alla fede, alla estirpazione dello scisma già ricordato e all’universale riforma della stessa Chiesa di Di-<br />
o, nel capo e nelle membra.<br />
Ancora dichiara che chiunque, di qualunque condizione, stato, dignità, fosse pure quella papale, avrà con o-<br />
stinazione disprezzato l’obbedienza alle ingiunzioni, alle disposizioni o ordinamenti, ai comandi di questo<br />
sacro sinodo e di qualunque altro concilio generale legittimamente radunato, nelle materie richiamate sopra<br />
o ad esse attinenti, tanto quelle già decretate quanto quelle che lo saranno in futuro, se non si sarà ravveduto,<br />
sia sottomesso ad una penitenza proporzionata e sia debitamente punito ricorrendo, se necessario, anche ad<br />
altri strumenti del diritto» 24 .<br />
La portata di questo decreto non ha cessato di essere oggetto di discussione nella chiesa cattolica,<br />
soprattutto in seguito alla condanna ulteriore del conciliarismo e alle definizioni del Vaticano I sul<br />
primato del papa. Storicamente questo decreto non ha ricevuto l’approvazione formale dei papi, a<br />
cominciare da Martino V (1417-1431) che fu eletto a Costanza; ma, nota Yves Congar, la dottrina<br />
dell’epoca non lo richiedeva e il concilio non l’ha nemmeno cercato 25 . Le circostanze storiche non<br />
indicano la volontà di proporre una definizione dogmatica. Gli stessi Padri del concilio non hanno<br />
cercato di insistervi con i seguaci di Gregorio XII (e così pure quelli di Benedetto XIII), tanto che a<br />
questo papa venne consentito di convocare ancora una volta il concilio, prima di abdicare. A lui e ai<br />
suoi seguaci si concesse la norma giuridica, che solo con il loro ingresso il concilio aveva avuto ini-<br />
zio (e che perciò anche tutte le sedute precedenti, compresa quella in cui fu proclamato Haec san-<br />
cta, non erano ancora sedute valide) e si ascoltò pazientemente la bolla di convocazione. In certo<br />
qual modo, dunque, il concilio di Costanza ha relativizzato il principio conciliaristico, per la causa<br />
dell’unità. Resta che, nonostante questa portata limitata, il decreto conserva un significato ecclesio-<br />
logico durevole: ogni <strong>ecclesiologia</strong> che lega la Chiesa al papa, senza volere anche il contrario, viene<br />
confutata dall’esperienza storica del grande scisma e dagli eventi connessi.<br />
Da questa discussione tra il conciliarismo e la rivendicazione di autorità suprema da parte del papa-<br />
to, che ha segnato il XIV, XV e XVI secolo, nascono i primi trattati propriamente teologici «De Ec-<br />
clesia» (quelli di Giovanni Stojkovic da Ragusa e Giovanni da Torquemada) che, di conseguenza,<br />
trattano solo della gerarchia e la considerano esclusivamente dal punto di vista della potestà (pote-<br />
stas). In precedenza, la questione circa la vera Chiesa e la sua identificabilità esterna era già stata ar-<br />
ticolata nella presa di distanza rispetto ai movimenti settari ed eretici del secolo XII.<br />
24 Testo in G. CANOBBIO (ed.), I documenti dottrinali del magistero, Queriniana, Brescia 1996, nn. 548-550.<br />
25 Y. CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, op. cit., 326-327.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Se in Oriente si giunse a un tentativo di impossessarsi dell’ambito ecclesiale da parte di quello poli-<br />
tico, in Occidente, al contrario, si sviluppò piuttosto il tentativo di sottomettere l’ambito politico a<br />
quello ecclesiale. In Oriente perciò sorge una tendenziale teologizzazione della politica e una marca-<br />
ta sacralizzazione dell’impero, mentre in Occidente, al contrario, si determina una politicizzazione e<br />
giuridicizzazione della Chiesa e specialmente del papato. Nell’alto Medioevo perciò la Chiesa si in-<br />
contra soprattutto secondo il modello del «dominio sacro».<br />
7) Sotto l’influsso di questo contesto nell’alto Medioevo muta anche la presentazione iconografica<br />
della Chiesa. Certo, il motivo misterico radicato nella Scrittura e nei padri si ritrova anche durante il<br />
Medioevo, ma nel nuovo contesto subisce una profonda trasformazione: da vergine, sposa o madre<br />
presentata come partecipe del mistero di Cristo, la Chiesa diviene ora la dominatrice del mondo,<br />
presentata come signora incoronata e regina (domina et regnatrix, imperatrix) che, per incarico di-<br />
vino, vuole ordinare tutta l’ecumene secondo le leggi di Cristo.<br />
8) La differenziazione socio-politica ha determinato profondamente anche la struttura della Chiesa:<br />
uno dei risultati principali di questo processo di differenziazione infatti è che ora il popolo cristiano<br />
è composto dalla gerarchia e dai laici. In quanto rappresentanti della dimensione propria, spirituale<br />
della Chiesa e detentori della potestà spirituale, i chierici sono posti chiaramente al di sopra dei laici<br />
e talvolta identificati addirittura esplicitamente con la Chiesa 26 . Così Graziano può dire che:<br />
«Ci sono due tipi di cristiani. Il primo, in quanto incaricato di un servizio divino e dedito alla contemplazione<br />
e all’orazione, è conveniente che stia lontano da ogni tumulto delle cose temporali. Di<br />
esso fanno parte i chierici e coloro che sono dedicati a Dio e cioè i religiosi (conversi). […] L’altro<br />
tipo di cristiani è costituito dai laici, dal greco laós, che in latino significa popolo. A costoro è<br />
permesso possedere beni temporali, ma solo per l’uso. Non c’è nulla di più meschino che disprezzare<br />
Dio per la ricchezza. A costoro è concesso sposarsi, coltivare la terra, giudicare tra uomo e<br />
uomo, trattare cause in tribunale, deporre offerte sull’altare, pagare le decime: così potranno salvarsi,<br />
se però eviteranno il vizio e faranno del bene» (Decreto, can. 7, c. XII, q. 1).<br />
Per comprendere questo deprezzamento della condizione comune dei battezzati occorre considerare<br />
però due fatti. Da una parte, il periodo delle invasioni aveva causato un abbassamento generale della<br />
cultura, per cui di fronte alla stragrande maggioranza della popolazione, che era analfabeta, si trova-<br />
va una élite “clericale”, la quale, siccome possedeva la lingua scritta, il latino, era la sola categoria a<br />
scrivere e quindi a lasciarci il proprio punto di vista. La causa principale è stata però l’applicazione<br />
26 La Chiesa viene quindi paragonata a una piramide «perché la base, dove sono situati i carnali e gli sposati, è larga,<br />
mentre la parte superiore, dove la via stretta è proposta ai religiosi e agli ordinati, è appuntita»: GILBERTO DI LIMERICK,<br />
De institutione ecclesiastica, PL 159, 997 a.<br />
173
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
di criteri ascetici per gerarchizzare gli stati di vita. Un’etimologia della parola «aghios», nel senso di<br />
«separato dalla terra», ha attraversato tutto il Medio Evo, veicolando l’idea che il più perfetto è colui<br />
che è il più distaccato dai beni terrestri. Se si considera poi che erano spesso i monaci a diventare<br />
vescovi e Papi, si capisce perché si giunse a pensare che solo i viri spirituales potevano dirigere la<br />
Chiesa, mentre gli altri dovevano dedicarsi agli affari temporali. La prevalenza dei valori monastici<br />
produsse una svolta nel cristianesimo: riforme come quella cistercense svilupparono l’idea del con-<br />
temptus mundi, che non è solo il disprezzo dei suoi aspetti negativi come la violenza, ma piuttosto il<br />
rifiuto generalizzato della “carne”. In certi momenti si arrivò a pensare che solo i vergini potevano<br />
essere veramente santi, mentre gli sposati rimanevano in qualche modo invischiati nel peccato.<br />
Poiché il papato diviene il cardine di questa struttura e la Chiesa latina viene per così dire assorbita<br />
nella Chiesa romana («Chiesa cattolica» = «Chiesa romana»), al posto della struttura sinodale ed e-<br />
piscopale della Chiesa antica subentra ora un ordinamento papale centralistico. Egidio Romano<br />
(1244-1316) potrà così dire nel suo De ecclesiastica potestate: «Papa qui potest dici ecclesia» (c.<br />
13), e Bonifacio VIII concludere la sua bolla Unam sanctam (1302) con l’affermazione: «Porro su-<br />
besse Romano Pontifici omni humanae creaturae declaramus, dicimus, diffinimus omnino esse de<br />
necessitate salutis» (DzH 875). Un testimonianza particolarmente significativa di simile concezione<br />
è costituita dalle asserzioni di Gregorio VII nei Dictatus papae (1075):<br />
«1. La Chiesa romana è stata fondata soltanto da Dio; 2. Solo il pontefice romano si dica di diritto universa-<br />
le; 3. Egli solo abbia il potere di deporre e reintegrare i vescovi; 4. Durante un concilio il suo legato, anche<br />
se di grado inferiore, presieda a tutti i vescovi e possa pronunciare sentenza di deposizione contro di loro; 5.<br />
Il papa abbia il potere di deporre anche gli assenti; 6. Con chi è stato scomunicato da lui tra l’altro non dob-<br />
biamo nemmeno rimanere nella stessa casa; 7. Solo a lui sia lecito, a seconda delle necessità del momento,<br />
istituire nuove leggi, fondare nuove pievi, trasformare in abbazia una chiesa canonicale e viceversa, smem-<br />
brare un episcopato ricco ed aggregare quelli poveri; 8. Solo il papa possa far uso delle insegne imperiali; 9.<br />
Al papa e solo a lui spetta che tutti i principi bacino i piedi; 10. Solo il suo nome venga proferito nelle Chie-<br />
se; 11. Il suo nome è unico in tutto il mondo; 12. Gli sia lecito deporre gli imperatori; 13. Gli sia lecito, qua-<br />
lora la necessità lo imponga, trasferire i vescovi da una sede all’altra; 14. Egli abbia il potere di ordinare<br />
chierici in ogni Chiesa in qualsiasi momento lo voglia; 15. Chi è stato ordinato dal papa può essere preposto<br />
ad altra Chiesa, ma non prestarvi servizio; costui non deve ricevere da un altro vescovo un grado superiore;<br />
16. Nessun sinodo senza indicazione del papa deve essere chiamato generale; 17. Nessun canone e nessun<br />
libro siano da considerarsi canonici senza la sua autorità; 18. A nessuno sia lecito ritrattare le sue sentenze;<br />
lui solo possa ritrattare quelle di tutti; 19. Nessuno lo possa sottoporre a giudizio; 20. Nessuno osi condan-<br />
nare chi si appella alla sede apostolica; 21. Le cause di maggior importanza, di qualsiasi Chiesa, siano ri-<br />
messe alla sede apostolica; 22. La Chiesa romana non ha mai errato né potrà mai errare, come testimonia la<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Sacra Scrittura; 23. II pontefice romano, se è stato ordinato secondo i canoni, è indubitabilmente reso santo<br />
per i meriti del beato Pietro, come testimonia il vescovo di Pavia Ennodio, seguito in ciò dal parere di molti<br />
santi Padri e come è scritto nei decreti del beato papa Simmaco; 24. Per suo ordine o con il suo consenso sia<br />
lecito ai gradi inferiori presentare accuse (contro i superiori); 25. Egli abbia il potere di deporre e reintegrare<br />
i vescovi anche senza riunire il sinodo; 26. Non sia considerato cattolico chi non è d’accordo con la Chiesa<br />
romana; 27. II pontefice può sciogliere i sudditi dal vincolo di lealtà verso gli iniqui 27 .<br />
9) A questo sviluppo dell’ordinamento ecclesiale è legata anche la specifica problematica della<br />
Chiesa medioevale in Occidente. Si ricordi infatti che ciò che sembra un’esagerata affermazione di<br />
pretese da parte del papa, deve essere giudicato correttamente dal punto di vista storico come stru-<br />
mento per riaffermare la libertas Ecclesiae, cioè la liberazione della Chiesa dalla sua dipendenza<br />
dall’imperatore e dal suo invischiamento nell’«economia familiare» della società nobiliare feudale.<br />
Gregorio VII lottò duramente contro questa tradizione secolare di mescolanza tra impero, nobiltà e<br />
Chiesa. In questo egli è l’esponente di una nuova epoca della storia dell’occidente che può essere<br />
definita in modo pertinente «processo di differenziazione». L’unità ingenua e indistinta tra Chiesa e<br />
società va perduta; la Chiesa si crea un proprio spazio di libertà per poter adempiere il proprio spe-<br />
cifico compito spirituale senza impedimento. Questa delimitazione, però, avviene (a differenza del<br />
secolo V) non rispetto a una società pagana, ma a una società che almeno esternamente è ampia-<br />
mente cristianizzata. Per questo la formazione di strutture ecclesiastiche proprie porta quasi inevita-<br />
bilmente alla contrapposizione tra una cultura cristiano-clericale e una cultura cristiano-laicale. Se<br />
la Chiesa non vuole più essere semplicemente identica alla società cristiana in generale, stabilisce<br />
una differenziazione rispetto a quest’ultima diventando prevalentemente l’ambito definito dal papa<br />
e dai suoi vicari, i vescovi e i chierici. La clericalizzazione e la giuridicizzazione della Chiesa che<br />
inizia nel medioevo hanno qui una delle loro radici storiche più rilevanti. Infatti, lo sforzo di assicu-<br />
rare per mezzo di categorie politiche la libertà dell’autorità ecclesiale dall’intromissione secolare e<br />
di fondare il carattere non derivato dell’autorità papale e l’originalità e sovranità del diritto ecclesia-<br />
le, ha condotto, contro le intenzioni, a trasformare l’autorità ecclesiale praticamente e teoricamente<br />
in un’autorità secolare di ordine superiore. Perciò la rivendicazione da parte dei papi dell’alto Me-<br />
dioevo di una preminenza teorica del potere spirituale, in modo non intenzionale (ma logicamente),<br />
è stata tra le cause della secolarizzazione del potere spirituale tardomedioevale.<br />
27 Da Il papa e il sovrano. Gregorio VII ed Enrico IV nella lotta per le investiture, Europia, Novara 1985.<br />
175
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Il ministero petrino del vescovo di Roma in questo modo diviene sempre più un’istituzione ierocra-<br />
tica e un’istanza amministrativa centralistica. Il ministero episcopale, che dall’inizio del Medioevo è<br />
coinvolto nel processo di feudalizzazione (i vescovi diventano signori delle città, di Chiese proprie e<br />
signori con investitura regale), nella maggior parte dei casi verso la fine del Medioevo è diviso tra<br />
un vescovo nominale, che come signore secolare cura i suoi interessi mondani, e un vescovo ordina-<br />
to che, come aiutante episcopale, serve quando c’è un sacramento da amministrare.<br />
b) La chiesa nel contesto della liturgia<br />
1) Nell’ambito della liturgia ecclesiale e della sua spiegazione teologica e spirituale inizialmente<br />
l’autocomprensione della Chiesa antica rimane intatta. Anche lo stretto legame tra Chiesa e Cristo,<br />
in particolare tra Chiesa ed eucaristia, rimane pacifico nell’alto Medioevo: la Chiesa come comunità<br />
dei fedeli è frutto dell’eucaristia; l’unità del corpo di Cristo si realizza attraverso la comune parteci-<br />
pazione al corpo e sangue sacramentali di Cristo. L’eucaristia, a sua volta, è celebrazione e azione<br />
della totalità della Chiesa, compiuta in una responsabilità organicamente differenziata.<br />
«Si può dire che nel sacramento dell’altare ci sono due cose: il vero corpo di Cristo e ciò che egli<br />
significa, cioè il suo corpo mistico, che è la Chiesa. Ora, come un solo pane è fatto di molti chicchi,<br />
ed è prima bagnato, macinato e cotto per diventare pane, così il corpo mistico di Cristo, cioè la<br />
Chiesa, formata dall’unione di molte persone come da altrettanti chicchi di grano, è bagnata<br />
dall’acqua del battesimo, è macinata tra le due mole dei due testamenti, l’Antico e il Nuovo, oppure<br />
tra le due mole della speranza e del timore… è cotta infine con il fuoco della passione e della<br />
tribolazione, per meritare di essere il corpo di Cristo» (Simone di Tournai, De Sacramentis).<br />
La liturgia romana del primo millennio non conosce nessuna preghiera liturgica che non abbia come<br />
soggetto il «noi» della comunità (famuli tui, fideles tui, populus tuus, familia tua, grex tuus).<br />
Dal punto di vista iconografico, l’autocomprensione della Chiesa come custode e celebrante dei mi-<br />
steri di Cristo, caratteristica della Chiesa antica e della liturgia, continua anche nel Medioevo. La<br />
Chiesa viene rappresentata come colei che genera figli alla nuova vita nel lavacro battesimale, come<br />
colei che sotto la croce raccoglie il sangue del Salvatore dalla ferita del fianco per porgerlo ai fedeli.<br />
2) La clericalizzazione della Chiesa tuttavia non si arrestò neppure di fronte alla liturgia. Anzi, essa<br />
divenne sempre più un affare proprio del clero; il popolo venne degradato a spettatore passivo e alla<br />
fin fine poteva persino mancare del tutto. A partire dall’VIII secolo infatti la messa privata era dive-<br />
nuta, nei monasteri prima e poi anche presso il clero secolare, la regola, così che il suo rito (al più<br />
tardi nel XIII secolo) influenzò sempre più anche il rito della celebrazione normale. Alla individua-<br />
lizzazione della liturgia, in particolare dell’eucaristia (nello sviluppo dell’adorazione eucaristica),<br />
ancora una volta è legata una individualizzazione e una perdita del carattere misterico della Chiesa.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Nell’iconografia, il processo medioevale di dissoluzione della comprensione sacramentale (simboli-<br />
co-mistica) della Chiesa trova espressione in un nuovo realismo. La Chiesa assume sempre più an-<br />
che nella sua rappresentazione simbolica quella forma nella quale il fedele concretamente e attual-<br />
mente la incontra: la forma cioè di sacra istituzione di carattere amministrativo, giuridico e cultuale.<br />
c) La chiesa nel contesto del movimento (spirituale) di riforma<br />
1) A partire dal monachesimo del IV secolo, che aveva cercato di compensare la coincidenza tra<br />
Chiesa e mondo con una rinnovata e consapevole presa di distanza dal mondo, passando attraverso<br />
la chiesa monastica dei benedettini, gli ordini riformati del XII secolo e i movimenti ascetici popola-<br />
ri e pauperistici dall’XI al XIII secolo e fino ai movimenti evangelici del tardo Medioevo, che ave-<br />
vano sempre reagito a una Chiesa mondanizzata, in contrasto con la commistione di Chiesa e mon-<br />
do e con l’istituzionalizzazione, la giuridicizzazione, la politicizzazione e secolarizzazione della<br />
Chiesa, si sviluppò una rinnovata accentuazione dell’elemento carismatico e contemplativo, come<br />
pure una spiritualizzazione diretta o indiretta e una individualizzazione della comprensione della<br />
Chiesa (che perciò raggiunge ugualmente il suo vertice nel tardo Medioevo) 28 . Attraverso la borghe-<br />
sia cittadina, che dal XII-XIII secolo viene ad essere sempre più in primo piano, questa spiritualiz-<br />
zazione e individualizzazione della comprensione della Chiesa nel tardo Medioevo assume, per così<br />
dire, anche un significato direttamente sociale e politico. Infatti la borghesia, sempre più consapevo-<br />
le culturalmente, socialmente e politicamente che non poteva più trovare alcuno spazio e funzione<br />
in una Chiesa sempre più clericale, doveva (insieme ai suoi sostenitori ed esponenti clericali e mo-<br />
nastici) sviluppare un nuovo protagonismo nella “spiritualità della carità” (nella fondazione di ospe-<br />
dali, case di accoglienza per i pellegrini, confraternite…) ridefinendo in molti casi la Chiesa in ter-<br />
mini spiritualistici o individualistici per trovare in essa una nuova patria spirituale — questo avvie-<br />
ne, ad es., nei numerosi movimenti di riforma pratico-mistici del tardo Medioevo, in particolare nel-<br />
la devotio moderna («Imitatio Christi» di Tommaso da Kempis) — oppure attaccare frontalmente<br />
dal punto di vista teologico e politico l’istituzione ecclesiale clericalizzata; per questo Ockham,<br />
Wyclif, Girolamo da Praga, Hus e altri si sono richiamati con nuovo vigore e accenti sempre più<br />
forti alla Chiesa invisibile e autentica contro quella visibile e inautentica.<br />
2) Un tale impulso di riforma, di carattere carismatico e orientato al vangelo, nell’alto Medioevo po-<br />
teva ancora, come mostra l’esempio di Francesco di Assisi, sottomettersi in modo deciso e consape-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
vole all’ordinamento ecclesiale e ai suoi rappresentanti e così garantire la propria efficacia<br />
all’interno della chiesa. La teologia del primato fu sviluppata proprio dagli ordini mendicanti. Con-<br />
tro gli attacchi del clero secolare, che combattevano la nuova forma di vita degli ordini mendicanti<br />
come contraria al vangelo e alla tradizione precedente, i rappresentanti dei mendicanti legittimarono<br />
il loro movimento di riforma richiamandosi all’autorità del papa che, a nome della Chiesa, aveva<br />
canonizzato Francesco e Domenico e aveva preso sotto la sua protezione la nuova forma di vita.<br />
Ciò che era in questione, al di là delle dispute di territorio e di influenza, era la percezione tradizio-<br />
nale della chiesa come comunione di chiese locali. In effetti, collegandosi immediatamente al papa,<br />
i nuovi ordini davano corpo a una nuova forma di appartenenza alla cattolicità: la loro patria spiritu-<br />
ale non era più una chiesa locale quanto la chiesa universale. Accanto alla chiese legate alle strutture<br />
feudali e ai luoghi particolari, essi rappresentano la dimensione “missionaria”, la mobilità,<br />
l’estensione universale della chiesa. Ma, rivendicando la missione ricevuta dal papa, essi rafforza-<br />
vano l’influenza di questi e la rappresentazione della chiesa come una diocesi universale 29 .<br />
Nel tardo Medioevo tuttavia, in un contesto in cui si veniva a contatto con la Chiesa vista soprattut-<br />
to come centro di una burocrazia e di un fiscalismo mondanizzati, che impiegava i suoi mezzi spiri-<br />
tuali senza ritegno per fini politici o economici e che nello scisma d’Occidente si era rivelata pro-<br />
fondamente divisa al suo interno, un legame tra movimento spirituale di riforma e istituzione papale<br />
non rappresentava più una possibilità reale.<br />
2.2.3. Descrizione riassuntiva<br />
1) La Chiesa medioevale in Occidente si può rappresentare con la metafora del dominio spirituale.<br />
Questo significa che la Chiesa si attiene sì alla differenza di principio tra ambito spirituale e secola-<br />
re, ecclesiale e politico, ma che essa si esplica principalmente nel contesto del conflitto politico-<br />
religioso e per mezzo di una concezione del potere di tipo politico e giuridico. Se la Chiesa dei padri<br />
e della tradizione agostiniana si comprendeva come la parte della Chiesa celeste in cammino nella<br />
storia terrena, ora essa diviene la “Chiesa militante”, che conduce alla “Chiesa trionfante” del cielo.<br />
2) Sotto il peso prevalente del modello religioso-politico, che fonda la libertà della Chiesa sulla in-<br />
dipendenza e superiorità dell’ordinamento giuridico spirituale, si trasformano anche le rappresenta-<br />
28<br />
Pensiamo a Gioachino da Fiore (ca. 1130 – 1202), che nell’ecclesia spiritualis vede il futuro della chiesa attuale e che<br />
ne attende il compimento e la realizzazione nella nuova e imminente età dello Spirito.<br />
29<br />
Cfr. J. RATZINGER, “L’influsso della disputa degli ordini mendicanti sullo sviluppo della dottrina del primato”, in ID.,<br />
Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1984 3 , 55-80.<br />
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zioni, immagini e strutture dei rimanenti luoghi della comprensione della Chiesa. L’antica immagi-<br />
ne della mater Ecclesia, ad esempio, riceve nella riforma gregoriana un senso completamente nuovo<br />
rispetto a quello della patristica. Ora essa serve a esprimere il primato della Chiesa romana, la sua<br />
sovranità, la forza normativa universale e la sua autorità; l’immagine assume ora lo stesso significa-<br />
to di domina. I tentativi di riforma spirituale vengono assunti nella commistione di dominio spiritua-<br />
le e secolare; all’inizio del Medioevo le istituzioni monastiche sono integrate tanto nella struttura<br />
delle Chiese proprie come nella Chiesa del Re. Un’istituzione ascetica che vuole distanziarsi dal<br />
mondo diviene così il monastero della cultura, rivolto al mondo, nel quadro di una stretta simbiosi<br />
tra monachesimo e nobiltà. Analogamente, nel basso Medioevo, gli ordini mendicanti sono integrati<br />
nel centralismo papale. D’altra parte, i movimenti di riforma spirituale (soprattutto, nel tardo Me-<br />
dioevo), di fronte alla massiccia istituzionalizzazione della Chiesa e alle rivendicazioni dirette di<br />
dominio da parte della gerarchia, sono coinvolti in un processo di spiritualizzazione e di individua-<br />
lizzazione.<br />
3) Il processo di differenziazione tra lo spirituale e il secolare, il religioso e il sociale, l’ecclesiale e<br />
lo statale avvenuto in Occidente è ambivalente. Il duplice movimento, conclusosi in epoca moderna,<br />
di ecclesializzazione della religione e di statalizzazione della società e la fondamentale distinzione<br />
tra spirituale e secolare che in tale movimento si è affermata nella società e nella cultura ha proba-<br />
bilmente il suo presupposto più importante e il suo fondamento nella disputa medioevale tra papato<br />
e regno e nella lotta sostenuta per la libertà e l’autonomia della Chiesa. Senza tale differenziazione<br />
una correlazione critica delle due realtà non sarebbe possibile. Certo, il progresso fu ottenuto a caro<br />
prezzo: alla Chiesa formata dai chierici stava ora di fronte una società secolare formata da laici.<br />
Nel contesto complessivo dello sviluppo medioevale la Chiesa appare anzitutto come un’istituzione<br />
sacra, fondata da Cristo e che da lui ha ricevuto tutti gli organismi necessari alla sua vita e i rispetti-<br />
vi poteri e che, così armata, combatte nel mondo per la gloria di Dio.<br />
179
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
2.3. La Chiesa dell’epoca moderna: Chiesa come confessione<br />
2.3.1. Situazione storica: la “frantumazione” della Christianitas<br />
a) Per motivi tanto sociali che culturali, l’idea di ordo, dominante nel Medioevo, cioè l’idea di un<br />
ordinamento unitario divino del mondo, dal XIV secolo, e ancor più dal XV, cade in una profonda<br />
crisi. Pian piano si dissolve l’idea di christianitas universalis, di una Chiesa fino allora identificata<br />
con l’impero che si differenzia secondo le diverse nazioni e secondo il particolarismo che in queste<br />
affiora e che pone in questione, se non il cristianesimo come tale, certo però la sua compattezza,<br />
l’ecclesia universalis che trovava il proprio apice nel papato. Le grandi forze che muovono il conci-<br />
liarismo e che ispirano la critica alla Chiesa pontificia sono un altro chiaro sintomo del nuovo mo-<br />
mento storico. Nel contesto del processo di formazione dello Stato moderno, le rivendicazioni in<br />
concorrenza reciproca del potere delle corporazioni, dei patrizi e dei prìncipi indeboliscono in modo<br />
crescente la capacità di integrazione propria delle istanze superiori: regno, impero e Chiesa.<br />
Lo Stato moderno, infine, nasce in reazione diretta contro le guerre di religione. La conflittualità po-<br />
litica e sociale causata dall’insolubilità della questione della verità religiosa dovette in certo modo<br />
suggerire la soluzione assolutistica del problema della pace: la monopolizzazione della funzione di<br />
assicurare la pace da parte del sovrano che perciò deve essere dotato di un potere assoluto sopra tutti<br />
i soggetti; la creazione di un ambito pubblico di azione politica soprareligioso e sopramorale, pura-<br />
mente razionale, dal quale sono bandite coscienza, morale e fede come cause dei dissidi politici; la<br />
relegazione della religione e della morale nell’ambito privato della persona.<br />
b) Lo sforzo del nominalismo tardomedioevale di salvare l’indipendenza della fede rispetto alla ra-<br />
gione e di salvaguardare la divinità di Dio condusse non solo a una rigida distinzione tra fede e sa-<br />
pere, rivelazione e ragione, ma anche a un’immagine di Dio nella quale l’onnipotenza incomprensi-<br />
bile e la libertà illimitata erano così accentuate da rendere Dio un Dio nascosto per la ragione e da<br />
dissolvere l’ordine del mondo fondato nella creazione. Una ragione umana resa così abissalmente<br />
incerta doveva rovesciarsi nell’autoaffermazione e nella autofondazione sovrana. Si può così dire<br />
che caratteristica peculiare del periodo è proprio la progressiva emancipazione dell’individuo, del<br />
soggetto, della libertà personale, del pensiero, di una critica che — come si esprime la filosofia che<br />
verrà poi pensata da Descartes — eleva il dubbio a principio metodico («de omnibus dubitandum»);<br />
che riconosce nella certezza che il soggetto ha di se stesso («Cogito, ergo sum») il fondamento di<br />
ogni sicurezza ed accertamento; che nelle scienze naturali, che si vanno formando, scopre un ambito<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
di realtà autonomo e diverso da quello mediato dalla Chiesa — per quanto questa, come lo dimostra<br />
il caso Galilei, volesse disporre e decidere normativamente anche in tale sfera — ed accessibile<br />
all’uomo mediante la verifica metodica, tramite l’esperienza, l’esperimento e la regolarità delle leg-<br />
gi colta secondo schemi matematici. In questa nuova prospettiva s’inserisce direttamente il ritorno,<br />
iniziatosi con il rinascimento e l’umanesimo, all’antichità, riscoperta e riproposta nell’arte, nella let-<br />
teratura e nella filosofia, spogliata da ogni mediazione e integrazione ecclesiastica, presentata nella<br />
sua originalità e affermata nella sua autonomia. Si delinea così una nuova immagine dell’uomo, più<br />
emancipata, orientata verso il mondo di quaggiù, e questa a sua volta offre nuovi motivi per una cri-<br />
tica alla Chiesa ed al suo operare. Bisogna però anche aggiungere che in questo periodo proprio il<br />
papato si rivela come il difensore più eloquente e l’alleato più strenuo dello spirito nuovo. I papi del<br />
rinascimento e le loro imprese architettoniche ed artistiche, senza dubbio imponenti, di cui la più<br />
nota è la costruzione della basilica di S. Pietro a Roma, conferiscono all’immagine imperiale e<br />
trionfalistica della Chiesa una dimensione quasi anacronistica e scandalosa.<br />
c) Con la libertas Ecclesiae nella lotta per le investiture, la Chiesa ha preso le distanze dall’impero<br />
per evitare gli abusi causati dall’intromissione dell’imperatore negli affari ecclesiastici. In quanto<br />
ambito spirituale, la Chiesa viene rivendicata come realtà propria dagli ecclesiastici. La società, co-<br />
me organizzazione della sfera temporale, risulta despiritualizzata, e, in un certo senso, collocata al<br />
di fuori della Chiesa. Per accedere alla salvezza, e quindi far parte della Chiesa, la società deve rea-<br />
lizzare l’ordine cristiano sulla terra ponendosi sotto la direzione del potere spirituale; il sovrano<br />
temporale, per non essere extra Ecclesiam, non può che riconoscersi vassallo di Roma. Sembra que-<br />
sto, in termini sbrigativi, l’unico modo per ritrovare, attraverso la legittimazione del potere spiritua-<br />
le e l’obbedienza ad esso, la possibilità della salvezza. È l’unico guado consentito: la società, il po-<br />
tere temporale, i laici, la vita quotidiana, si trovano dall’altra sponda del fossato e potenzialmente al<br />
di fuori della salvezza, a meno di sottomettersi all’autorità clericale, la quale decide ratione salutis<br />
anche nella gestione degli affari del mondo. L’extra, infatti, evoca il mondo, il saeculum, inteso co-<br />
me spazio dell’errore e dell’iniquità. Così il tema della distinzione e separazione tra «spirituale» e<br />
«temporale» diventa fondamentale nella storia europea, con la continua ricerca di confini difficil-<br />
mente precisabili tra la Chiesa come realtà salvifica e il mondo come sfera del profano non redenta<br />
o persino assoggettata al male, e con un pensiero dicotomico, sia dei chierici con la loro cultura se-<br />
parata, sia da parte dei «laici» con la loro cultura critica della religione.<br />
Il superamento della complementarità gerarchica e la conseguente pretesa di subordinazione del<br />
temporale allo spirituale-ecclesiastico da parte dell’autorità religiosa, aprono una strada media al<br />
rapporto tra le due sfere, quella della progressiva “mondanizzazione” dell’ambito politico con la<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
corrispettiva “ecclesializzazione” del cristianesimo. Se le strutture ecclesiali, in quanto strutture cle-<br />
ricali, si autonomizzano nella forma istituzionale delle chiese, l’altra sponda potrà e dovrà organiz-<br />
zarsi in modo autonomo, con fondamenti non più spirituali, dando valore e dignità alla vita tempo-<br />
rale, magari recuperando il religioso al di là della identificazione con l’ecclesiastico.<br />
Sarà poi il coagularsi delle monarchie nazionali ad approfittare del distacco delle due sfere: in una<br />
logica di penetrazione in profondità e in intensità della collettività territorialmente determinata, il<br />
potere politico diventa veramente sovrano, tendendo al monopolio dell’appartenenza dei sudditi; e<br />
non mancherà di attuare una sacralizzazione sui generis della sfera temporale, in concorrenza con la<br />
sacralità clericale e in contrapposizione alla rivendicazione di supremazia del potere ecclesiastico.<br />
Così, superata la logica della complementarità gerarchica, il mondo appare sempre più come luogo<br />
di impegno per l’uomo, da trasformare, da costruire, attraverso la conoscenza e il dominio. Da un<br />
certo punto di vista il mutamento non avviene affatto all’insegna della laicizzazione, in quanto<br />
l’impegno di trasformazione del mondo o l’interesse per il secolo non negano il riferimento<br />
all’appello di Dio, tanto che possiamo notare una contemporanea crescita degli standards religiosi<br />
del clero secolare e degli ordini monastici, nonché degli standards etico-religiosi tra la popolazione<br />
laica impegnata ad agire responsabilmente in conformità con la volontà divina. Ciò che è nuovo è la<br />
simultaneità dell’impegno nel mondo e l’individualizzazione della fede: più l’investimento effettivo<br />
per l’aldiqua è seriamente considerato, vissuto ed assunto nella sua autonomia oggettiva, più<br />
l’impegno della fede si fa soggettivo. Tradizionalmente l’interesse per l’invisibile comportava un<br />
certo distacco dal visibile, o viceversa: era logico che in quest’ottica, la vita monastica rappresentas-<br />
se il livello più elevato di vita «religiosa». Ora l’idea è di far marciare l’uno con l’altro, anzi di far<br />
procedere l’uno attraverso l’altro: l’impegno e la conquista del mondo sono la risposta e la “verifi-<br />
ca” delle sollecitazioni suscitate dall’invisibile.<br />
Non è quindi una questione di scristianizzazione: il fattore religioso è ben vivo ed operante a livello<br />
di coscienza, anche se in parte dissimulato dietro ai duri dati del mondo; il valore religioso può es-<br />
sere, anzi, più concretamente vissuto nella storia. In questione è l’idea di “religione di Chiesa”, non<br />
solo per l’identificazione del religioso con l’ecclesiastico, ma anche per la complessiva mediazione<br />
ecclesiale; conseguentemente, e più in generale, sono in questione la condizione storica del cristiano<br />
e della comunità credente, e il senso dell’esperienza umana e della civiltà; in definitiva è in questio-<br />
ne l’idea o la concezione della fede cristiana nella realtà storica, sia ecclesiale che civile.<br />
182
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
2.3.2. La nuova immagine di chiesa che sorge nella Riforma<br />
a) L’avvenimento più decisivo per la nostra tematica è costituito comunque dalla Riforma. Come si<br />
sa, i motivi che ispirano il movimento sono i più diversi: essa ripropone l’istanza di un rinnovamen-<br />
to della Chiesa che si estenda dal capo a tutte le membra; ancora più appassionatamente esercita una<br />
critica agli abusi e alle carenze presenti nella Chiesa, addebitati non soltanto al fallimento soggetti-<br />
vo delle singole persone ma ascritti anche all’istituzione: papato, curia e vescovi, almeno nella figu-<br />
ra e nei tratti in cui concretamente si danno. La Riforma ha riconosciuto inoltre l’importanza e la<br />
forza delle Chiese “nazionali” che si emancipano dal papato e che a livello nazionale determinano le<br />
modalità di una alleanza tra Chiesa e mondo, tra Chiesa e popolo; ha riconosciuto di quale forza di-<br />
spongano i laici, coscienti della propria autonomia, soprattutto l’autorità civile.<br />
b) La Riforma, però, si fonda soprattutto sull’esperienza basilare, teologica e religiosa, che accom-<br />
pagnava di pari passo questi fattori e che era vissuta da singoli individui, dai riformatori, primo fra<br />
tutti Martin Lutero, il quale, mosso dall’interrogativo: «come posso essere accetto a Dio?», aveva<br />
scoperto il vangelo della giustificazione mediante la sola fede, senza le opere della legge: sola gra-<br />
tia, sola fide, sola Scriptura. Egli riscoprì la verità del sacerdozio di tutti i fedeli come fondamento<br />
della comunione dei credenti; fece la scelta radicale di una teologia della croce e del carattere nasco-<br />
sto della attività e presenza di Dio, rifiutando la «theologia gloriae». Si noti che Lutero condusse<br />
queste esperienze nell’ambito di quella Chiesa nella quale e nella cui tradizione era cresciuto, nella<br />
quale aveva vissuto da monaco agostiniano ed esercitato la professione di insegnante di teologia,<br />
della cui esistenza e necessità non dubitava, nella cui cerchia egli credeva di potere, anzi di dovere,<br />
proporre e realizzare la propria istanza come un contributo offerto alla reformatio ecclesiae, possibi-<br />
le solo all’interno di questa Chiesa e non al di fuori di essa.<br />
Questi processi di differenziazione si sono poi evoluti nel tempo e collegandosi a fattori anche ex-<br />
tra-teologici non hanno condotto alla riforma della Chiesa, ma di fatto hanno prodotto la divisione<br />
della Chiesa occidentale in diverse confessioni e corpi ecclesiali e a una pluralità di pretese di verità<br />
e di Chiese che si combattevano reciprocamente in modo sanguinoso.<br />
L’istanza teologica di Lutero, che non verteva sulla questione del papa e della Chiesa ma sul pro-<br />
blema della giustificazione e della salvezza, investiva però anche delle realtà ecclesiologiche che di<br />
fatto entrarono al centro della contestazione in un periodo successivo. Egli esaminò il problema del<br />
legare e sciogliere del papa, un potere che non veniva contestato in se stesso — al contrario,<br />
all’inizio Lutero annetteva la massima importanza al consenso del papa — ma nelle modalità della<br />
sua applicazione, più concretamente nella prassi delle indulgenze.<br />
183
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Lutero sollevò anche la questione del magistero, esigendo che si riconoscesse la Scrittura come uni-<br />
ca norma normans e che ci si lasciasse da essa interrogare e vagliare — essa è infatti «sui ipsius in-<br />
terpres» —, che si rispettasse l’istanza ultima del giudizio della coscienza (dieta di Worms, 1521).<br />
Egli affrontò la tesi secondo la quale i papi e i concili non possono errare ed esercitò una critica agli<br />
abusi della Chiesa, soprattutto nei termini che ritroviamo in quattro scritti decisivi del 1520: Sul Pa-<br />
pato di Roma, Sulla cattività babilonese della Chiesa, La libertà cristiana e Alla nobiltà cristiana<br />
della nazione tedesca. In quest’ultimo, che è il primo dei grandi scritti riformatori, Lutero si scaglia<br />
contro gli abusi introdotti nella Chiesa e individua soprattutto tre aspetti, giudicati inaccettabili per<br />
le differenze che introducono nella Chiesa. Si tratta delle «tre muraglie» innalzate dai «romanisti»<br />
che Lutero, come Giosuè davanti alle mura di Gerico, intende far crollare: l’esenzione del clero nel-<br />
le questioni temporali dalla sottomissione all’autorità civile (soprattutto in ambito giudiziario), mo-<br />
tivata con la superiorità dell’autorità ecclesiale rispetto a quella civile; l’aver riservato al papa la<br />
spiegazione autentica della Scrittura; l’aver riservato al papa la convocazione del concilio. Questa<br />
situazione di privilegio di cui il clero gode è inaccettabile, tanto più che i pastori si rivelano incapaci<br />
o non intenzionati a realizzare la necessaria riforma della Chiesa. Contro questi abusi Lutero affer-<br />
ma un duplice principio: anche il clero è «sottoposto alla spada» dell’autorità civile, la quale, essen-<br />
do istituita da Dio, può esigere la sottomissione di tutti nell’ambito di propria competenza; in se-<br />
condo luogo, tutti i cristiani, laici compresi, hanno il diritto e il dovere di dare il proprio contributo<br />
alla vita ecclesiale e, in concreto, di operare per la convocazione di un concilio cristiano (cfr. WA 6,<br />
413, 27-33) e per la riforma della Chiesa, dato che essa non viene attuata dagli ecclesiastici 30 .<br />
Lutero è così un caso singolare in cui confluiscono simultaneamente le tre correnti ecclesiologiche<br />
del Basso Medioevo: l’opposizione al papato; l’idea conciliarista della riforma (a cui in seguito ri-<br />
nunciò); la nozione spiritualistica di Chiesa come «communio sanctorum» (cfr. Wyclif, Hus).<br />
c) Su queste premesse, Lutero si creò uno spazio di libertà e di distanza nei confronti delle numero-<br />
se tradizioni ecclesiastiche e concezioni tradizionali che cozzavano contro la sua dottrina della giu-<br />
stificazione e che secondo la sua esperienza sminuivano la divinità di Dio.<br />
Questo atteggiamento lo condusse a riscoprire l’idea dell’uguaglianza dei fedeli fondata sul sacer-<br />
dozio battesimale. Solo la fede nella parola di Dio, infatti, può rendere l’uomo giusto e pio, cioè<br />
30 Sono abbastanza evidenti le ascendenze conciliariste di questa tesi di Lutero: quando nella Chiesa l’autorità competente<br />
non è in grado di compiere ciò che dovrebbe fare, devono subentrare le istanze inferiori. Non a caso Lutero giustifica<br />
spesso l’intervento dei laici nell’ambito che propriamente spetterebbe ai ministri richiamandosi alla «situazione di<br />
necessità», che si è determinata: Y. CONGAR, L’Église. De Saint Augustin à l’époque moderne, op. cit., 311.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
porlo nella corretta relazione con Dio, e al tempo stesso renderlo libero nei confronti delle opere<br />
della legge, perché solo la fede realizza l’unione dell’anima con Cristo, come «una sposa si unisce al<br />
suo sposo» 31 . L’unione, che si compie mediante la fede, si definisce per l’adesione a una parola pre-<br />
dicata e al Cristo annunciato mediante questa parola. Da questa unione l’uomo spirituale riceve nel-<br />
lo scambio di beni che avviene grazie all’unione sponsale con Cristo, i doni della «regalità» e del<br />
«sacerdozio». Lutero non intende questi due «munera» primariamente in termini funzionali, come<br />
abilitazione a compiere determinate attività, ma li qualifica espressamente come dignitates, come<br />
privilegi che sono propri del credente e che determinano una fondamentale uguaglianza all’interno<br />
della Chiesa. Proprio su questa base Lutero può riscoprire la verità del sacerdozio di tutti i fedeli<br />
come fondamento della comunione dei credenti 32 . In particolare egli riprende l’idea che nella Chiesa<br />
tutti sono sacerdoti per mostrare che è insostenibile la posizione di chi afferma l’esistenza di uno<br />
«stato ecclesiastico» al quale spetterebbero in maniera esclusiva determinate competenze:<br />
«Hanno avuto la trovata di chiamare ecclesiastici (geystlich stand) i papi, i vescovi, i preti e gli abitatori<br />
dei conventi, secolari (weltlich stand) invece i principi, i signori, i commercianti e i contadini;<br />
la qual cosa è una finissima ed ipocrita costumanza, ma nessuno si lasci abbindolare da essa,<br />
31 «Non soltanto la fede concede che l’anima divenga simile alla parola divina e cioè ripiena d’ogni grazia, libera e beata,<br />
ma unisce anche l’anima a Cristo, così come una sposa si unisce al suo sposo. Da questo matrimonio ne consegue,<br />
come dice S. Paolo (Ef 5, 3-32), che Cristo e l’anima divengono un corpo solo, uniti nella buona come nella cattiva sorte<br />
ed in tutte le cose, e ciò che Cristo possiede diviene proprio anche dell’anima credente, e ciò che l’anima possiede diviene<br />
proprio di Cristo. Così Cristo ha tutte le beatitudini ed i beni, ed essi divengono propri dell’anima. Così l’anima ha<br />
tutti i vizi e i peccati su di sé, ed essi divengono propri di Cristo. Si compie in tal modo l’amoroso scambio e la lieta disputa.<br />
Mentre Cristo è Dio e uomo che ancora non ha peccato, e la sua virtù è insuperabile, eterna ed onnipotente, ora<br />
nello scambiarsi l’anello nuziale, cioè la fede, con l’anima credente, fa propri tutti i peccati di lei e insomma altro non fa<br />
che apparire come se egli stesso li avesse commessi; ma avviene necessariamente che in lui questi peccati devono essere<br />
ingoiati e scomparire, perché la sua invincibile giustizia è assai più forte di qualsivoglia peccato; cosicché l’anima, grazie<br />
al dono nuziale, cioè alla sua fede, viene resa pura e libera di tutti i peccati e dotata dell’eterna giustizia di Cristo suo<br />
sposo»: Della libertà del cristiano: WA 7,25, 28-26, 5 (trad. it. in Scritti politici, op. cit., 373-374).<br />
32 Si capisce allora perché in diversi testi di teologia si trova l’affermazione che questa dottrina rappresenterebbe uno<br />
degli aspetti più caratteristici della teologia della Riforma. Nella maggior parte dei casi però questa tesi si riduce a una<br />
formula dal contenuto assai vago, aperta alle interpretazioni più diverse. Il tema del sacerdozio universale dei fedeli può<br />
diventare allora la cifra della visione della Chiesa proposta dalla Riforma, che si pone come alternativa radicale alla<br />
concezione cattolica basata su una mediazione sacerdotale, oppure la bandiera di una visione democratica della Chiesa e<br />
della società elevata contro le tendenze assolutiste della tradizione precedente: cfr. ad es. C. EASTWOOD, The Priesthood<br />
of All Believers. An Examination of the Doctrines from the Reformation to the Present Day (London: Epwort Press,<br />
1960) 1-65. Nella presentazione che ne fa l’autore, il tema del sacerdozio universale dei fedeli perde ogni contenuto<br />
specifico per diventare la cifra della teologia della Riforma che si oppone con forza all’eresia romana, caratterizzata<br />
dall’istituzionalismo, dalla pretesa di disporre della grazia mediante i sacramenti, dal pelagianesimo. In realtà, come riconosce<br />
H.M. Barth, nelle stesse Chiese nate dalla Riforma il tema del sacerdozio universale è stato sì usato frequentemente<br />
come slogan in funzione critica nei confronti di Roma e del clericalismo, ma non sempre se ne sono comprese a<br />
fondo le implicazioni ecclesiologiche. Cfr. H.M. BARTH, Einander Priester sein. Allgemeines Priestertum in ökumenischer<br />
Perspektive (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1990) 13-19. D’altra parte, pure in campo cattolico il sacerdozio<br />
dei fedeli è stato riscoperto anche prima del Vaticano II, ad es. nel movimento liturgico e nella riflessione<br />
sull’apostolato dei laici. A questo proposito si veda il testo di P. DABIN, Le sacerdoce royal des fidèles dans la tradition<br />
ancienne et moderne (Bruxelles-Paris: L’Edition Universelle – Desclée De Brouwer, 1950).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
e per le seguenti ragioni: i cristiani tutti appartengono allo stato ecclesiastico (geystlichs stands),<br />
né esiste tra loro differenza alcuna, se non quella dell’ufficio (ampt) proprio a ciascuno; come dice<br />
S. Paolo (1Cor 12), che noi siamo tutti un solo corpo, ma che ogni organo ha il suo compito<br />
(werck) particolare con cui essere utile agli altri; e ciò avviene perché tutti abbiamo uno stesso battesimo,<br />
uno stesso Vangelo, una stessa fede e siamo tutti cristiani allo stesso modo. Il battesimo, il<br />
Vangelo e la fede, infatti, ci fanno tutti spirituali (geystlich) e tutti cristiani. E la potestà ch’è del<br />
papa o del vescovo, cioè di ungere, ordinare, consacrare e vestirsi diversamente dai laici (leyen),<br />
può rendere uno fariseo o prete consacrato, giammai però serve a rendere uno cristiano o uomo<br />
spirituale (geystlichen menschen). Infatti tutti quanti siamo consacrati sacerdoti dal battesimo, come<br />
dice S. Pietro (1Pt 2,9): ‘Voi siete un sacerdozio regale ed un regno sacro’; e l’Apocalisse:<br />
‘Col tuo sangue ci hai fatti sacerdoti e re’ (Ap 1,6). Giacché, se non fosse in noi una consacrazione<br />
più alta di quella che ci dà il papa o il vescovo, giammai uno sarebbe fatto sacerdote con la sola<br />
consacrazione del papa o del vescovo, né potrebbe celebrare messa, predicare e assolvere» 33 .<br />
In questo testo il cardine su cui poggia tutta l’argomentazione è l’affermazione che ogni cristiano, in<br />
forza del battesimo, è membro a pieno diritto del popolo di Dio ed è geystlich, cioè spirituale-<br />
ecclesiastico 34 . L’autorità della Chiesa non può pretendere di porre una persona in uno stato che gli<br />
appartiene originariamente in forza del battesimo e non può neppure privare il battezzato della di-<br />
gnità e dei diritti che gli devono essere riconosciuti. L’attuale distinzione tra gli stati perciò equivale<br />
di fatto a un disconoscimento del valore del battesimo.<br />
Lutero non nega che, accanto alla fondamentale uguaglianza di tutti i cristiani, vi siano anche delle<br />
differenze. Tali differenze non riguardano però la dignità che spetta ai membri del popolo di Dio<br />
(geystlich stand), ma sono relative all’ufficio esercitato (des ampts odder wercks halben: WA 6,<br />
408, 28). L’attività di chi annuncia la parola non conferisce a questa persona una dignità maggiore<br />
rispetto a quella di chi fa l’artigiano, né si stabilisce alcun rapporto di subordinazione e di dominio,<br />
perché il senso del ministero è quello di essere a servizio degli altri. In particolare, per l’esercizio<br />
del ministero della predicazione e dell’amministrazione dei sacramenti, è necessario un mandato<br />
specifico (cfr. WA 6, 408, 11-17). La chiamata da parte della comunità all’esercizio di un ministero<br />
è dunque necessaria, ma non modifica lo stato spirituale di colui che è chiamato; è questa la ragione<br />
per cui Lutero rifiuta la dottrina medievale del charachter indelebilis 35 .<br />
33 Alla nobiltà cristiana…: WA 6, 407, 10-28; trad. it. in M. LUTERO, Scritti politici, (Torino: UTET, 1959 2 ) 130-131.<br />
34 Il termine geystlich letteralmente significa “spirituale”, ma è anche designazione corrente per i membri del clero ed è<br />
precisamente questa ambivalenza semantica che Lutero utilizza nella sua argomentazione.<br />
35 Lutero incontra il concetto di stato anzitutto nel suo significato giuridico: lo stato clericale e quello laicale differiscono<br />
tra di loro per le potestà che sono proprie del primo e mancano al secondo. Il concetto di stato ha però anche un significato<br />
sociologico: dal concetto giuridico si è infatti passati a ritenere che i due gruppi nella Chiesa costituiscano quasi<br />
due caste separate, due corpi a sé stanti. Lutero si oppone tanto al concetto giuridico di stato (riferito alla potestà),<br />
come a quello sociologico (che configura una casta sacerdotale) e a quello ascetico (proprio del monaco). Lutero assume<br />
invece un concetto teologico di stato, indicante la realtà ontologica, spirituale, interiore e soprannaturale, proveniente<br />
dalla ricezione del medesimo battesimo e dal possesso della stessa fede.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
La critica di Lutero non riguarda soltanto gli effetti che la distinzione rigida tra clero e laici deter-<br />
mina nella Chiesa, ma si rivolge anche contro la radice di questa concezione, cioè la teologia sacra-<br />
mentaria, che legittima questa distinzione affermando che il sacerdozio è conferito mediante l’ordi-<br />
nazione. Questo punto di vista è centrale nell’argomentazione sviluppata nella parte sull’Ordine del-<br />
lo scritto De captivitate babylonica ecclesiae praeludium, che si propone di verificare sulla base<br />
della Scrittura la dottrina romana dei sacramenti. È noto che la teologia medievale aveva definito il<br />
ministero ordinato a partire dal potere di consacrare l’eucaristia e, su tale base, si era stabilita una<br />
stretta connessione tra la concezione dell’eucaristia come sacrificio e il ministero inteso come sa-<br />
cerdozio finalizzato all’offerta del sacrificio. Lutero reagisce contro questa concezione e la critica<br />
sulla base della Scrittura, in primo luogo affermando che la Scrittura non utilizza il vocabolario sa-<br />
crificale per l’Eucaristia e quindi essa non è un sacrificio e il ministro di conseguenza non è un sa-<br />
crificatore; in secondo luogo precisando invece che la Chiesa è edificata dall’annuncio della parola<br />
di Dio e che quindi il ministero di coloro che sono chiamati a servizio della Parola è essenziale per<br />
la costituzione e la vita della Chiesa. In ogni caso il ministro è radicalmente eguale in dignità a qual-<br />
siasi battezzato, perché un’unzione corporea non può dare a un uomo un di più di sostanza spiritua-<br />
le, tale da conferirgli una dignità e una potestà superiore a quella dei laici. Tutti i cristiani infatti so-<br />
no unti dallo Spirito Santo nel battesimo ed è quindi il battesimo che rappresenta la consacrazione<br />
sacerdotale fondamentale. Il sacerdozio non può essere inteso come privilegio personale, che trova<br />
la sua espressione primaria nella preghiera corale e nella celebrazione delle messe private. L’unica<br />
distinzione legittima nella Chiesa è quella che è espressione di un ministero esercitato per la comu-<br />
nità, non può invece essere fondata su una differenza di potestà esistente prima ancora che vi sia<br />
l’esercizio di un concreto ministero. Una gerarchia autosufficiente, che non si dedica all’annuncio<br />
ma si basa soltanto sull’unzione sacerdotale, si trasforma infatti in struttura di dominio e in tirannia.<br />
Nel De captivitate babylonica si coglie con molta chiarezza la duplice linea argomentativa seguita<br />
da Lutero: contro la pretesa della superiorità dello stato clericale, la dottrina del sacerdozio univer-<br />
sale afferma l’uguaglianza di tutti i battezzati; contro una concezione del ministero ecclesiale come<br />
sacerdozio sacrificale, si afferma che esso non è definito correttamente con la categoria di sacerdo-<br />
tium, ma lo si deve concepire come ministerium verbi.<br />
La progressiva valorizzazione dell’uso neotestamentario della categoria di sacerdozio come norma<br />
per il linguaggio teologico, fino ad attribuirgli un valore normativo, corre parallela alla maturazione<br />
delle convinzioni teologiche fondamentali nei primi anni della sua attività accademica. Lutero in-<br />
contra il tema del sacerdozio in modo massiccio nelle lezioni sulla lettera agli Ebrei che tiene nel<br />
1517/1518. In questo contesto l’affermazione centrale è che Cristo è il nostro solo sacerdote, nel<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
quale ha trovato compimento il sacerdozio dell’Antico Testamento; in lui possiamo dunque confida-<br />
re in vista del giudizio di Dio. Accanto a questo motivo cristologico si trova anche una esortazione<br />
all’imitazione: se Cristo è il sacerdote, al suo esempio deve ispirarsi la condotta dei sacerdoti; essi<br />
infatti non sono sacerdoti per sé ma per gli altri e devono avere per i fedeli la stessa cura che Cristo<br />
mostra per gli uomini 36 . Si può dunque osservare che la centralità del sacerdozio di Cristo è affer-<br />
mata, ma non è avvertita in contraddizione con l’attribuzione ai ministri della Chiesa della qualifica<br />
di sacerdoti. Si stabilisce anzi una relazione positiva tra sacerdozio di Cristo e ministri della Chiesa,<br />
che devono ispirarsi al suo esempio. Nel modo di descrivere la relazione con il sacerdozio di Cristo<br />
si può però notare già una chiara preferenza: tale relazione non è vista in termini ontologici, ma<br />
piuttosto operativi, non si basa su una unzione, ma sulla conformità a ciò che Cristo ha compiuto.<br />
Il tema del sacerdozio universale giunge alla sua maturazione negli scritti del 1520, dove il dato<br />
scoperto attraverso lo studio del Nuovo Testamento assume una nuova rilevanza nel contesto pole-<br />
mico. La regolazione del linguaggio teologico proposta nel Tractatus de libertate christiana (1520)<br />
rappresenta il punto di arrivo di questa progressiva valorizzazione del tema neotestamentario del sa-<br />
cerdozio: il sacerdotium definisce la condizione di tutti i battezzati, mentre il concetto di ministe-<br />
rium definisce coloro che sono chiamati al servizio della parola.<br />
In sintesi, la nozione di sacerdozio universale dei fedeli è una nozione complessa, nella quale si in-<br />
trecciano i seguenti elementi: a) davanti a Dio ogni cristiano ha la stessa dignità sacerdotale in forza<br />
del battesimo e della fede; b) reso partecipe dei beni di Cristo, il cristiano è sacerdote e non ha biso-<br />
gno di altro mediatore se non di Cristo per poter accedere a Dio; c) il sacerdozio dei fedeli abilita ed<br />
impegna a offrire sacrifici spirituali attraverso la personale mortificazione e il servizio della carità;<br />
d) in forza del sacerdozio ogni cristiano ha il compito di trasmettere il vangelo che ha ricevuto, così<br />
da permettere ad altri di credere. Si deve infine sottolineare che solo nell’ambito della communio<br />
sanctorum il sacerdozio universale dei fedeli è compreso adeguatamente e il suo esercizio è corretto.<br />
Non corrisponde invece al pensiero di Lutero la concezione del sacerdozio come un insieme di dirit-<br />
ti individuali spettanti alla persona considerata isolatamente.<br />
Per quanto riguarda il ministero (al singolare! si noti bene) e il suo fondamento occorre riconoscere<br />
che Lutero è passato attraverso a fasi diverse, anche in dipendenza dal mutare della situazione eccle-<br />
36 Scrive Lutero commentando Eb 2, 17: «Duo commendat in Christo, quae et in omni sacerdote exemplo Christi lucere<br />
debent, scl. ut sit misericors super populum et fidelis pro populo ad Deum. Per misericordiam enim debet exinanire seipsum<br />
et omnia subditorum mala facere sua nec alio effectu ea sentire, quam si ipse in illis versaretur. Per fidelitatem autem<br />
debet omnia bona sua impertiri illis» (WA 57, 136, 16).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
siale in cui la sua attività si esplica. Schematicamente si possono distinguere due impostazioni lega-<br />
te, la prima, alla polemica contro gli avversari romani e la loro concezione dell’autorità della Chiesa<br />
e la seconda, alla presa di distanza dall’ala radicale della Riforma e dalla relativizzazione da essa<br />
propugnata di tutti i mezzi esterni di salvezza. Negli scritti del periodo iniziale della Riforma preva-<br />
le una fondazione “ecclesiologica” del ministero. Egli afferma che la vita ecclesiale deve svolgersi<br />
in modo ordinato e quindi le funzioni che, in linea di principio, spettano a ciascuno dei membri del-<br />
la comunità devono essere compiute solo da chi è stato chiamato a esercitare pubblicamente il mini-<br />
stero. Successivamente Lutero, posto di fronte all’esigenza di dare un’organizzazione alle Chiese<br />
che avevano aderito alla Riforma, mette in risalto il fondamento cristologico e apostolico del mini-<br />
stero, il quale deriva dalla missione che Cristo ha affidato agli Apostoli ed è dotato di un’autorità<br />
che ha la sua origine dalla missione ricevuta. A questo mutamento di prospettiva corrisponde<br />
l’attribuzione del compito di selezionare i candidati al ministero e di ordinarli alle autorità centrali<br />
della Chiesa territoriale e non alla singola comunità locale. Se dunque nella prima fase il ministero<br />
tende ad essere considerato come rappresentante della comunità (an der Gemeinde statt), nella se-<br />
conda fase si trova in primo piano l’autorizzazione ricevuta da Cristo (an Christus statt). Oltre a<br />
questo aspetto, occorre ricordare che per Lutero c’è solo un ministero, che non prevede al suo inter-<br />
no gradi diversi; in altre parole non c’è alcuna differenza teologica (se non di diritto umano) tra ve-<br />
scovo e presbitero. Da ciò è conseguita una crisi nella forma episcopale di governo della Chiesa e<br />
l’interruzione della successione episcopale nell’ordinazione dei ministri. Questo in particolare anche<br />
perché egli dovette esperimentare che tutti i vescovi senza eccezioni impedivano l’attività dei predi-<br />
catori evangelici e si rifiutavano di ordinare coloro che avevano idee orientate nel senso della Ri-<br />
forma. Di fronte all’alternativa tra la fedeltà al messaggio scoperto e la conservazione della forma<br />
tradizionale di governo della Chiesa e di trasmissione del ministero, Lutero e gli altri Riformatori<br />
giudicarono decisiva l’apostolicità della dottrina e rinunciarono a un ministero inserito nella succes-<br />
sione episcopale. Per fare ciò si fondarono anche sull’opinione di Girolamo, secondo cui<br />
l’episcopato non differisce dal presbiterato dal punto di vista sacramentale. Ma ciò facendo, ci si<br />
concentrò sul pastore della comunità locale come figura principale e compiuta del ministero eccle-<br />
siale e sulla comunità locale come figura paradigmatica della Chiesa. In seguito le funzioni episco-<br />
pali vennero assunte dai “vescovi di emergenza” (Notbischöfe), ossia dai principi che si assunsero il<br />
compito di vigilare sulla realizzazione della Riforma nei loro territori e sul governo della Chiesa.<br />
È innegabile che la dottrina luterana del sacerdozio universale dei fedeli insieme a quella del mini-<br />
stero ecclesiale quale ministerium verbi introduce una novità rilevante rispetto alla concezione della<br />
Chiesa ereditata dal medioevo. Una teologia di ispirazione biblica, messa a servizio dell’intento di<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
riforma, porta infatti a prendere le distanze in modo deciso da una concezione del ministero eccle-<br />
siale imperniata sul sacerdozio e a superare la visione di ispirazione dionisiana che dominava<br />
l’<strong>ecclesiologia</strong> medievale e che poneva in primo piano la distinzione degli stati di vita e la relazione<br />
gerarchica esistente tra di essi 37 . L’attribuzione della qualifica sacerdotale a tutti i fedeli (e la conse-<br />
guente ridefinizione del ministero ecclesiale come «ministero della parola») non è però motivata<br />
soltanto dalla volontà di essere fedeli alle categorie bibliche; alla base sta la concezione luterana<br />
della giustificazione come unico elemento in grado di definire l’identità cristiana. Il tema del sacer-<br />
dozio rappresenta uno dei modi in cui Lutero descrive il risultato dell’azione della grazia divina ac-<br />
colta nella fede e permette di cogliere all’interno della teologia del Riformatore il punto di snodo tra<br />
l’antropologia e l’<strong>ecclesiologia</strong>.<br />
Se con la dottrina del sacerdozio universale dei fedeli Lutero opera una rottura rispetto alla tradizio-<br />
ne medievale, d’altra parte non si può negare che in questo modo egli abbia richiamato l’attenzione<br />
dell’<strong>ecclesiologia</strong> su elementi che hanno un fondamento biblico e sono attestati dalla Tradizione. In-<br />
fatti, nonostante l’unilateralità derivante dall’intento polemico della sua riflessione, egli ha sempre<br />
mantenuto la distinzione tra sacerdozio universale dei fedeli e ministero ecclesiale. Da questo punto<br />
di vista, i testi che sottolineano la responsabilità di tutti i membri della comunità per la parola di Dio<br />
e la conseguente responsabilità nella scelta dei pastori, possono essere visti come indicazione della<br />
convinzione, condivisa anche dall’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica, secondo cui tutti i battezzati sono soggetti<br />
della missione della Chiesa, la quale però si realizza secondo modalità diverse. Le tensioni presenti<br />
nel pensiero di Lutero tra l’accentuazione della responsabilità originaria della comunità in nome del<br />
sacerdozio universale e il riconoscimento del compito proprio dei pastori e dell’autorità ad essi spet-<br />
tante, pongono la questione circa il modo di articolare la missione di tutti i membri della Chiesa e la<br />
missione del ministero ordinato, una questione alla quale ogni <strong>ecclesiologia</strong> deve dare risposta.<br />
La dottrina luterana del sacerdozio universale, dunque, non equivale a una semplificazione in senso<br />
egualitaristico che eliminerebbe ogni distinzione all’interno della Chiesa; uguaglianza e distinzione<br />
sono invece collocate su piani distinti, quello della fondamentale identità cristiana e quello del mini-<br />
stero. L’elemento di distinzione si ritrova non solo nella relazione tra sacerdozio universale e mini-<br />
stero ordinato, ma anche nella considerazione della specifica condizione di vita che è propria di ogni<br />
battezzato. Sotto questo profilo è interessante l’evoluzione del concetto luterano di vocazione. Nella<br />
37 Sintomatica a questo proposito è la prospettiva assunta dai teologi controversisti nel confutare le tesi di Lutero circa il<br />
sacerdozio universale: la loro lettura dei dati biblici circa il sacerdozio e il ministero è condizionata in modo determinante<br />
dalla concezione dionisiana dell’ordine e della gerarchia.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
polemica contro i voti monastici, Lutero afferma che la vocazione monastica non può avanzare la<br />
pretesa di essere uno stato di salvezza privilegiato rispetto a quello degli altri cristiani 38 . In senso<br />
positivo invece egli valorizza la realtà secolare della professione (Beruf) attraverso cui il cristiano<br />
dà il suo contributo alla società ed esercita pure un dovere di carità. Anche in questo caso si può os-<br />
servare come la diversità non sia negata, ma sia collocata altrove, nell’ambito secolare, che è chia-<br />
ramente distinto da quello spirituale, ma non al punto da essere totalmente estraneo rispetto ad esso.<br />
d) La novità del peso teologico dato alla vocazione “profana” si coglie meglio se viene compresa al-<br />
la luce del tema più vasto (e complesso) dei due Regni. Le premesse remote indispensabili per com-<br />
prendere questa teoria, che struttura nel Luteranesimo il rapporto Chiesa/mondo, sono, da un lato, la<br />
crescita degli stati nazionali all’inizio del XVI secolo, che ha comportato il progressivo affievolirsi<br />
del potere papale 39 , dall’altro lato, il sentimento di estraneità nei confronti di Roma da parte di molti<br />
poteri civili — “Los von Rom” è un motto molto comune al tempo nei paesi germanici. Inoltre, la<br />
premessa prossima è costituita dall’atteggiamento di Lutero: egli da una parte, reagendo agli eccessi<br />
degli Schwärmer (= fanatici) — i quali avevano favorito un vero e proprio movimento iconoclastico<br />
di caccia ai preti (Pfaffensturm), di distruzione di immagini sacre… — più volte ribadisce che la Ri-<br />
forma sostiene la libertà, ma non la rivoluzione; d’altra parte, pure lui si trova nella necessità di af-<br />
frontare la questione del rapporto fra le due sfere o i due fori, il civile e l’ecclesiastico.<br />
In Lutero la teoria delle “due spade” diventa la teoria dei “due regni”. Causa immediata del ricorso<br />
di Lutero a tale teoria e alle sue immagini è la vicenda di Thomas Müntzer, secondo cui il principe<br />
era una figura teologicamente e politicamente irrilevante: se ogni sovranità è nelle mani del Cristo,<br />
allora i riformatori possono brandire la spada come novelli Gedeone contro il tiranno. Per Lutero,<br />
invece, la spada non poteva né doveva mai essere strumento di evangelizzazione. Egli, però, sapeva<br />
bene quale vantaggio poteva ricavare dall’appoggio della Ritterschaft (cavalleria) alla Riforma.<br />
Comincia così ad elaborare l’insegnamento dei due regni (o regimi) secondo cui la Chiesa non si i-<br />
dentifica col mondo, così come la sfera spirituale non si identifica con quella temporale. Con il suo<br />
Regiment, cioè con la sua obbedienza di fede all’ordinamento divino e quindi con il suo Vangelo e i<br />
suoi sacramenti, la Chiesa è nel mondo, mai dal medesimo separata e separabile. Attraverso il suo<br />
38 Cfr. De votis monasticis iudicium (1521), WA 8, 573-669.<br />
39 Bonifacio VIII e Giovanni XXII avevano preteso l’estensione del potere papale anche alla sfera temporale: in contrasto<br />
con la prassi e la dottrina consolidata, Bonifacio VIII aveva reinterpretato la teoria delle due spade, pretendendo che<br />
vi fosse una sola fonte di potere all’origine di tutti gli altri poteri, ed un solo capo, quello spirituale, che ne disponeva<br />
secondo la plenitudo potestatis. A queste teorie si contrapposero Marsilio da Padova e Gugliemo di Ockham, per i quali<br />
lo Stato ha nel popolo il suo legislator humanus ed ogni potere, anche ecclesiastico, ne dipende.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Regiment, lo spirituale scende nel temporale, ma non si fonde con esso. Essa è nel mondo, ma non<br />
del mondo: la Chiesa non è mai mondo, altrimenti non sarebbe Chiesa.<br />
Il punto di partenza della sua riflessione è la distinzione fra spirituale e temporale. Lo spirituale<br />
proviene e dipende dallo Spirito santo: perciò l’uomo spirituale non ha bisogno della legge, né del<br />
suo vindice, né di chi indichi o imponga le vie da seguire; egli giudica da sé e da nessuno viene giu-<br />
dicato (1Cor 2,15). In quanto spirituale non è soggetto alla legge né a chi la tutela con la spada e il<br />
diritto: per l’uomo spirituale l’unica guida e governo è la fede, cioè lo Spirito e la Parola 40 .<br />
Quindi c’è distinzione fra regno di Dio e regno temporale, ognuno dei quali obbedisce alla propria<br />
legge. Ma poiché entrambi provengono da Dio, non ci può essere antitesi fra loro: essi sono due di-<br />
stinte modulazioni del Regiment di Dio.<br />
Di fronte all’ordinamento papista, che riduce la Chiesa a regno e il papa a imperatore, trasformando<br />
così il vangelo in legge e riducendo la vita ecclesiastica a fatto puramente giuridico, Lutero distin-<br />
gue tra regno spirituale e regno temporale. Ma di fronte agli Schwärmer ribadisce invece che nean-<br />
che la legge è estranea a Dio ed egli continua a governare il mondo «in abscondito» servendosi non<br />
solo del Vangelo, ma anche degli ordinamenti mondani e della stessa spada. Quindi anche il regno<br />
temporale fa parte di un progetto divino: attraverso la mediazione dei governanti Dio si serve della<br />
spada per mantenere l’ordine creaturale, neutralizzando così l’efficacia devastante del peccato e le<br />
tendenze eversive che derivano. Essi però non possono intromettersi nell’ambito spirituale e dottri-<br />
nale, perché il regno di Dio è geystlich e quindi di esclusiva competenza ecclesiastica.<br />
Così tra i due regni non ci sono interferenze: anche se entrambi appartengono a Dio, ognuno ha un<br />
suo statuto ed un proprio ambito operativo. Con il Vangelo e il suo Spirito (e quindi non con il dirit-<br />
to canonico), Dio governa la Chiesa; con la legge e la spada governa il mondo. In effetti il mondo<br />
non è governabile con il solo Vangelo e così la spada è quasi una fatalità: come potrebbe, infatti, il<br />
cristiano combattere i Turchi se non opponendo la spada alla scimitarra?<br />
Il cristiano, però, non impugna le armi e combatte in quanto cristiano, ma in quanto soggetto<br />
all’autorità temporale; come cristiano, invece, oppone ai nemici soltanto preghiere e penitenza. E<br />
nel caso dovesse cadere prigioniero, rispetta l’autorità del suo vincitore — fa eccezione solo il caso<br />
in cui venisse costretto a combattere il vangelo o a perseguitare i cristiani.<br />
40 Di conseguenza non c’è alcuna realtà esteriore, pure ecclesiastica, che per se stessa abbia un valore “teologico”, anche<br />
se è di “istituzione divina”. L’apostolicità non è questione di “locus”…, perché solo la Parola è l’elemento apostolico. In<br />
fondo la Riforma è stata una rivolta contro la dimensione istituzionale dell’apostolicità, ritenuta derogatoria e offensiva<br />
nei confronti della sovranità di Dio. La logica dominante non è quella “apostolica”, ma quella “profetica” (Congar).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Il principe ha quindi l’obbligo, in quanto signore locale, di affrontare i nemici e di non ritirarsi dalla<br />
guerra per la difesa dei suoi sudditi. Si noti bene: i suoi sudditi, non la Chiesa o la fede. Egli, infatti,<br />
non è il capo della cristianità né il protettore del Vangelo. Questa è la ragione per cui al regno tem-<br />
porale non si deve chiedere nulla che esuli dal campo del secolo.<br />
Sullo sfondo di tale riflessione scorgiamo la consapevolezza acuta della presenza ed efficacia del<br />
peccato nel cristiano anche dopo il battesimo. Come il cristiano resta «simul» cittadino e battezzato,<br />
peccatore e giusto, così egli deve assoggettarsi alla legge e al vangelo, al regno temporale e al quello<br />
spirituale. Ma in questa simultaneità sta pure la ragione delle conseguenze pratiche che ne derivano:<br />
l’assoggettamento alla legge e al vangelo, al regno temporale e simul a quello spirituale.<br />
L’ineludibile presenza del peccato rende inevitabile la spada e il suo esercizio. Il cristiano, invero, è<br />
governato dalla parola, guidato dallo Spirito, nutrito dal Vangelo di fede e grazia; ma è peccatore,<br />
cioè ripiegato su se stesso, adoratore di sé… come tale soggetto alla giurisdizione dell’autorità civi-<br />
le, la quale non interviene per esautorare la Chiesa, ma per ovviare agli effetti nefasti del peccato,<br />
cioè per ristabilire l’ordine e la pace, per fronteggiare chi delinque e per tutelare i buoni. Se infatti il<br />
peccato non ci fosse, non ci sarebbe bisogno né della spada né del diritto.<br />
Il regno spirituale, che è privo di spada, invece, perviene al suo scopo non coercitivamente, bensì<br />
suasivamente. Il cristiano, in tal modo, è «subjectus Caesari per corpus», ma «subiectus Christo per<br />
fidem». Su tale differenza Lutero fonda il diritto alla resistenza non tanto contro il regno temporale,<br />
quanto contro il principe che governi con pregiudizio per la giustizia.<br />
Il cristiano è cittadino del regno temporale per la sua nascita, è invece cittadino di quello spirituale<br />
per la fede in Cristo. Peraltro egli deve far valere la sua libertà non solo nel regno spirituale, ma an-<br />
che in quello temporale. In particolare egli deve essere libero dai beni di questo mondo e dai suoi<br />
condizionamenti: anche quando è soggetto all’autorità del principe, è guidato dalla libertà e dal-<br />
l’amore. Per Lutero il superamento dei precetti nei consigli non è un ideale semplicemente monasti-<br />
co, ma di tutti coloro che sono al seguito e al servizio di Cristo.<br />
La dottrina dei due regimi ha contribuito non poco a riconoscere l’autonomia dell’agire politico-<br />
sociale nei confronti del Vangelo e il carattere secolare delle istituzioni del mondo. In ciò la rifles-<br />
sione di Lutero e più in generale l’esperienza del Protestantesimo si presenta da un lato come fattore<br />
accelerante la rottura del tradizionale schema cristiano quale si era espresso nella cristianità e,<br />
d’altro lato, come un processo di estensione alla struttura interna della organizzazione religiosa del<br />
principio di autonomia della società secolare dalla Chiesa o dal religioso-ecclesiastico.<br />
Il Protestantesimo ha indubbiamente accelerato il processo di degerarchizzazione. A parte la possi-<br />
bile solidarietà fra l’ascetismo contemplativo del monaco e l’ascetismo intramondano del-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
l’imprenditore, la Riforma, interpretando e valorizzando l’autonomia dell’individuo rispetto alla sua<br />
comunità di appartenenza, abbandona la visione integrativa dei rapporti fra il regno spirituale e il<br />
regno temporale per prospettare una visione tendenzialmente dualistica della realtà. Non soltanto<br />
Dio è Altro, e l’uomo può rapportarsi a Lui solo riconoscendo ciò che da Lui lo separa (e cioè la sua<br />
totale «caducità» di fronte alla maestà del Dio trascendente); ma anche il mondo è altro, luogo<br />
dell’impegno trasformativo dell’uomo da attuare nella serietà del dovere e della responsabilità, ep-<br />
pure luogo in qualche modo esteriore all’uomo, il cui operare non ha nulla a che vedere con il crede-<br />
re. Anche la Chiesa è esteriore: essa è «l’assemblea di tutti i credenti» (Confessione di Augusta,<br />
1530), o la «compagnia dei fedeli» (Confessione di La Rochelle, 1559) che si costituisce in forza<br />
della sola iniziativa di Dio: luogo necessario e obbligato per il cristiano in quanto lì impara, come in<br />
una scuola, ad essere cristiano, ma non luogo della fede e della santificazione e meno ancora istitu-<br />
zione di salvezza (la Chiesa empirica come tale è carnale… e non certo il corpo di Cristo!). In quan-<br />
to organizzazione ecclesiale, essa è, in fondo, un affare secolare; perciò appartiene al principe, che<br />
in quanto capo del popolo cristiano, è per ciò stesso il capo della Chiesa (esteriore).<br />
È indubbio che la Riforma aumentò la tensione fra l’ideale cristiano e la realtà del mondo proprio<br />
per il fatto che le vocazioni secolari furono poste su un piano di uguaglianza morale rispetto alla vi-<br />
ta religiosa: una tensione che va ben al di là di tale uguaglianza, stimolando la fede ad essere più in-<br />
teriore, più consapevole e più libera, ma rendendola più inquieta, più incerta, più indeterminata e,<br />
alla fine, rischiosamente soggetta o esposta al potere politico o alle circostanze storiche.<br />
È pure indubbio che la Riforma ha contribuito notevolmente alla diffusione della responsabilità e<br />
della partecipazione religiosa dei laici, attribuendo un nuovo e positivo valore religioso alla vita se-<br />
colare e familiarizzando vasti strati di laici con la Bibbia. Resta però in sospeso il senso di tale valo-<br />
rizzazione «religiosa» della vita secolare, posto che i rapporti sociali e le istituzioni, tra cui la stessa<br />
famiglia, sono in qualche modo estranei alla «religione», sottratti cioè alla legge del vangelo e asso-<br />
lutamente non perfettibili secondo la giustizia cristiana, ma solo secondo il «giusto» civile che non<br />
può riferirsi alla giustizia di Dio e quindi non giustifica di fronte a Dio. Pure fluido, e alla fine u-<br />
gualmente in sospeso, è il problema del rapporto tra i ministri e i laici. Non si possono dimenticare<br />
inoltre alcune incongruenze: il potere politico viene considerato, contro gli anabattisti (per Bucer e<br />
Calvino anche contro la rigida separazione di Lutero dei due regni), come un vero e proprio ministe-<br />
ro-magistero, prolungando una cristianità ormai desueta e dando origine al principio della Chiesa di<br />
Stato; gli «anziani», nella tradizione calvinista, sono contemporaneamente «laici» e «ministri» e i<br />
diaconi, voluti come un «ordine» da Lutero, diventano presto degli impiegati municipali; la comuni-<br />
tà ecclesiale appare poi costantemente divaricata fra la guida del pastore e la teologia dei teologi.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
e) Dall’insieme di questi tratti si può cogliere anche una precisa immagine di Chiesa. Notiamo che<br />
Lutero non amava la parola Kirche (= Chiesa), perché a suo dire per la gente semplice designava<br />
l’edificio di culto. Preferisce quindi esprimersi «in buon tedesco» ed affermare: «una comunità<br />
(Gemein[d]e) o riunione cristiana, o meglio ancora e nel modo più chiaro una cristianità santa» 41 .<br />
Ma questa congregatio, questo «santo popolo cristiano che crede in Cristo» («Von den Konziliis und<br />
Kirchen»: WA 50, 624, 29) non è il risultato di una libera associazione umana, bensì «creatura ver-<br />
bi». Vangelo, battesimo e pane sono i suoi segni di riconoscimento, e il vangelo — proclamato — è<br />
più importante di tutti 42 . Lutero può quindi dire che: «Tota vita et substantia ecclesiae est in verbo<br />
Dei, cum ecclesia verbo Dei nascatur, alatur, servetur et roboretur» (WA 7, 721). La Parola è lo<br />
strumento con cui lo Spirito santo si raccoglie un popolo santo, perché essa è santa e santifica.<br />
Dando maggior importanza ai credenti (congregatio fidelium) che alla dimensione istituzionale (in-<br />
stitutio salutaris), sostenendo che la Chiesa si realizza lì dove la Parola e i sacramenti sono posti in<br />
atto e non prevedendo un ordinamento ministeriale superiore al pastorato, ne consegue che per Lute-<br />
ro la realizzazione paradigmatica della Chiesa si attua a livello locale. Perciò egli ascrive alla singo-<br />
la comunità la capacità di giudicare e di decidere senza bisogno di ricorrere ad un’istanza superiore<br />
(cfr. il breve scritto del 1523: Che una assemblea o comunità cristiana ha il diritto e il potere di<br />
giudicare tutte le dottrine, di nominare, istituire e deporre tutti i dottori (WA 11, 408-416).<br />
Lutero, inoltre, insegna che la Chiesa è una realtà “nascosta”. Essa è infatti una realtà spirituale, ac-<br />
cessibile solo alla fede — è «un articolo della fede»: WA 50, 629,19; «est autem talis congregatio<br />
Ecclesia, quam nisi Spiritus sanctus revelavit, humana ratio non potest apprehendere» WA 39, II,<br />
148, 21. D’altra parte, essa è nascosta anche perché durante il suo pellegrinaggio terreno è inestrica-<br />
bilmente unita alla falsa Chiesa (WA 51, 477, 30) — infatti i papisti sono certamente «nella Chie-<br />
sa», ma non «della Chiesa o membri della Chiesa» (WA 505, 27, 30).<br />
Essa però non è una realtà evanescente: la Chiesa non è soltanto una realtà «interiore», è anche «e-<br />
steriore»; non è solo «spirituale», è anche «corporea» e «materiale». Essa partecipa profondamente<br />
della condizione del Verbo incarnato, il quale rivela Dio sub contrario. Nel Cristo umiliato e scher-<br />
nito Dio rivela la sua potenza sotto l’apparenza dell’estrema debolezza; in lui, la stoltezza di Dio, si<br />
rivela la sapienza di Dio; in lui, abbandonato alla morte, Dio rivela e nasconde la sua vittoria defini-<br />
tiva sul peccato e sulla morte. La chiesa, intesa come la comunità-comunione di tutti coloro che per<br />
41 Grande Catechismo, II, 3. articolo, in: BSLK, 656.<br />
42 In «Wider Hans Worst» i segni esterni sono più numerosi: Parola, Battesimo, Sacramento dell’altare, chiavi, ministero<br />
ecclesiale, preghiera, croce, confessione, rispetto dell’autorità, matrimonio (WA 51, 482, 17ss).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
la fede in Cristo sono giustificati (cioè, partecipano della redenzione da lui operata), prolunga nel<br />
mondo l’incarnazione del Verbo, riflettendo in tutto e per tutto il destino di Cristo. L’incarnazione<br />
del Verbo, compresa alla luce della theologia crucis, è perciò la premessa tematica e per così dire<br />
l’ambiente entro cui soltanto diventa comprensibile la realtà della chiesa in Lutero. L’incarnazione e<br />
la redenzione costituiscono un ephapax che ha però una sua continuità nella chiesa, in particolare<br />
nella predicazione della Parola e nei sacramenti. Nella sua connessione col Verbum (increatum et<br />
incarnatum et vocale) la chiesa si configura come «creatura Verbi et Spiritus sancti».<br />
Una buona sintesi della concezione luterana della Chiesa si ha nella Confessio Augustana (CA VII):<br />
«Allo stesso modo insegnano che la Chiesa una e santa sussisterà in perpetuo. Invero la Chiesa è<br />
l’assemblea dei santi (congregatio sanctorum) nella quale si insegna l’Evangelo nella sua purezza (pure<br />
docetur) e si amministrano correttamente (recte administrantur) i sacramenti. E per la vera unità<br />
della Chiesa è sufficiente l’accordo sull’insegnamento dell’Evangelo e sull’amministrazione dei sacramenti.<br />
L’unità non esige che si tengano ovunque le medesime cerimonie, istituite dagli uomini» 43 .<br />
È facile scorgere come la determinazione fondamentale della Chiesa sta nel riconoscimento che<br />
questa è una realtà permanente nella storia intera, una comunione dei fedeli, o dei santi. La Chiesa<br />
viene sufficientemente costituita, e lo è nella sua essenza, nella sua unità e nella sua attualità, dalla<br />
parola e dal sacramento. Questo servizio viene affidato al ministero ecclesiale (CA 5) che appartie-<br />
ne ai segni esterni della Chiesa ed è un suo elemento costitutivo, in quanto Dio e il Cristo lo hanno<br />
costituito mediante la missione affidata agli Apostoli perché eserciti l’annuncio pubblico del Vange-<br />
lo e l’amministrazione dei sacramenti conformemente alla loro istituzione. Esso è affidato pubbli-<br />
camente dalla Chiesa e non può essere assunto per iniziativa personale (CA 14); ha gradi diversi,<br />
anche se di diritto umano. Pertanto si vuole conservare il ministero episcopale (CA 28), il cui potere<br />
delle chiavi consiste appunto nel rendere un servizio alla parola e al sacramento. Espressamente si<br />
respinge la contaminazione del potere spirituale con quello terreno, si rifiuta la teoria delle due spa-<br />
de, si pone una chiara distinzione tra i due «regni», governi e autorità, e si mira così ad una decisa<br />
separazione tra imperium ed ecclesia. Inoltre si afferma che entrambi i ruoli ed autorità, in quanto<br />
massimi doni di Dio su questa terra devono essere tenuti in onore. Se i vescovi esercitano, o eserci-<br />
tavano una autorità terrena, questa deriva loro dai diritti degli imperatori e dei re — il contrario di<br />
ciò che pretendeva Bonifacio VIII. Con questa immagine di Chiesa, i riformatori non intendevano<br />
porsi al di fuori dell’antica Chiesa, ma piuttosto realizzare tali tratti nella compagine ecclesiale esi-<br />
stente e quindi assolvere l’impegno del rinnovamento procedendo dall’origine, dal nucleo e dal dato<br />
43 Confessio Augustana (versione tedesca), 1530, art. VII (BSLK, 61).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
principale: la Chiesa cristiana non consiste semplicemente in una comunione di cose e di segni este-<br />
riori, ma è innanzitutto una comunione della fede e dello Spirito santo nel cuore dei fedeli. Essa è il<br />
corpo di Cristo, che Cristo rinnova, santifica e governa col suo Spirito.<br />
«La Chiesa però non è una società costituita solo di segni e di riti esterni come le altre, ma è principalmente<br />
comunione interiore dei beni eterni nel cuore, dello Spirito Santo, della fede, del timore e<br />
dell’amore di Dio. La stessa Chiesa tuttavia ha dei segni esterni, dai quali la si riconosce, cioè dove la<br />
parola di Dio è annunciata rettamente e i sacramenti sono amministrati conformemente alla stessa parola,<br />
là vi sono i cristiani e la stessa Chiesa viene chiamata nella Scrittura Corpo di Cristo» 44 .<br />
Durante la lotta contro gli Schwärmer, Lutero si occupò anche del problema del governo della Chie-<br />
sa. Giunse alla soluzione, ritenuta provvisoria, che l’autorità secolare, cristiana, la quale avesse pro-<br />
fessato una fede secondo i princìpi della Riforma, dovesse assumere anche il governo dell’apparato<br />
esteriore della Chiesa, e che i signori territoriali, in quanto membri ragguardevoli della Chiesa, do-<br />
vessero garantire la cura religionis in qualità di «vescovi provvisori». Questa disciplina trovò la sua<br />
ultima e preoccupante articolazione nella pace religiosa di Augusta (1555): «cuius regio, eius reli-<br />
gio», o nella dizione originaria: «ubi unus Dominus, ibi una sit religio». Si tratta di una regola che<br />
doveva instaurare una disciplina tra le diverse confessioni di fede presenti nelle regioni dell’impero,<br />
ma che non poteva certo soddisfare le esigenze di libertà di coscienza cristiana.<br />
f) Con la concezione di fondo luterana della Chiesa concordano anche gli altri riformatori, special-<br />
mente Giovanni Calvino (1509-1564). Egli, appartenendo alla seconda generazione di riformatori,<br />
presenta, anche nella dottrina ecclesiologica, molti punti di contatto col pensiero di Lutero e giunge<br />
a una sintesi personale, rivelandosi miglior organizzatore di comunità rispetto al teologo sassone. I<br />
presupposti teologici operanti in Calvino sono i seguenti.<br />
(1) La concezione di Dio, in cui la trascendenza è identificata con l’insuperabile distanza e la libertà<br />
con l’arbitrarietà (nominalismo); la «giustificazione» per la misericordia di Dio, senza che l’uomo<br />
sia reso buono in sé, è la legge del rapporto tra il Creatore e la creatura; il «soli Deo gloria» non è<br />
mero principio morale, ma metafisico, in quanto esprime l’essere di Dio nella sua esclusività 45 .<br />
(2) La dottrina della Provvidenza e della predestinazione. Calvino rifiuta il concetto di «provviden-<br />
za universale» per salvaguardare la trascendenza di Dio; l’uomo deve sottomettersi alla sovranità<br />
assoluta (= arbitraria) di Dio, anche se appare ingiusta; da qui una duplice «predestinazione» come<br />
atto della volontà divina che determina coloro che si salvano e coloro che si dannano: «praedesti-<br />
44 Apologia Confessionis (versione tedesca), 1531, art. VII (BSLK, 234s).<br />
45 CONGAR, Calvin, in Catholicisme II (Paris 1949) col. 413ss.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
nationem vocamus aeternum Dei decretum, quod apud se constitutum habuit quid de uno quoque<br />
homine fieri vellet. Non enim pari conditione creantur omnes: sed aliis vita aeterna, aliis damnatio<br />
aeterna praeordinatur» 46 .<br />
(3) Si tratta della predestinazione di un popolo, di cui l’elezione è il momento intradivino, la voca-<br />
zione ne è la realizzazione nella storia; tale elezione/vocazione si realizza attraverso la predicazione<br />
del vangelo e l’illuminazione dello Spirito; pur essendo predicato a tutti, pochi possono salvarsi, il<br />
che è segno della gratuità della salvezza; la predestinazione vista nella volontà di Dio e nella volon-<br />
tà (colpevole) dell’uomo è considerata da Calvino innanzitutto nel Cristo; Dio elegge l’uomo in Cri-<br />
sto, Dio vuole salvi coloro che sono chiamati, coloro che sono stati illuminati dal Cristo e dal Cristo<br />
sono stati introdotti nella Chiesa.<br />
Da qui, con l’aggiunta di un certo biblicismo, è possibile scorgere gli elementi essenziali del-<br />
l’<strong>ecclesiologia</strong> del riformatore svizzero e del suo seguito.<br />
(1) La Chiesa nata dalla Parola e luogo della Parola: il rapporto Parola/Chiesa è fondamentale: il<br />
popolo di Dio — la Chiesa — ha fondamento, nascita e vita dalla volontà di Dio di farsi conoscere e<br />
accogliere (l’elezione/chiamata del popolo precede quella dell’individuo); l’azione della Parola che<br />
fonda la Chiesa è vista istituzionalizzata nella predicazione, pertanto egli intende la comunità come<br />
visibilizzazione della volontà salvifica di Dio, la quale è però più ampia (in quanto la predicazione è<br />
soltanto il mezzo ordinario). La forma visibile di questa Parola — la predicazione del Cristo testi-<br />
moniata dalla predicazione apostolica — è proseguita nel ministero stesso della predicazione, è luo-<br />
go e strumento in cui Dio continua oggi a fondare la sua Chiesa e a darle efficacia (fin dalla prima<br />
edizione dell’Istituzione, la dottrina ecclesiologica è cristocentrica e organica). Calvino chiama<br />
«Chiesa» gli uomini eletti, e anche gli uomini radunati ad accogliere la Parola; si tratta di due accen-<br />
tuazioni diverse: la prima è basata sull’atto trascendente e inconoscibile di Dio, la seconda basata<br />
sugli uomini radunati dalla Parola. Inoltre Calvino chiama «Chiesa» i mezzi di salvezza coi quali<br />
Dio ha deciso di radunare i suoi.<br />
(2) Chiesa visibile e Chiesa invisibile: per Calvino l’elezione divina è segreta e passa attraverso due<br />
fasi: la vocazione generale e la vocazione speciale. La vocazione generale è vera offerta di grazia,<br />
ma tra coloro che sono chiamati, Dio sceglie alcuni nei quali questa chiamata diventa efficace: vo-<br />
cazione speciale. La vocazione generale è l’elezione a essere popolo di Dio, a essere Chiesa (visibi-<br />
le), mentre la vocazione speciale è elezione a essere, nel suo popolo, il gruppo di coloro che appar-<br />
46 Christianae religionis Institutio III, 21, 5.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
tengono al Cristo, nei quali l’elezione diviene efficace (Chiesa invisibile). Secondo questa visione vi<br />
sono tre gruppi di persone: a. gli uomini non eletti: i dannati; b. uomini a cui è rivolta la predicazio-<br />
ne e offerta la salvezza, ma non efficacemente: anch’essi dannati; c. uomini chiamati ed eletti: i sal-<br />
vati; questi ultimi costituiscono, nella Chiesa (visibile), un piccolo gruppo (Chiesa invisibile). Non<br />
vi sono due chiese, ma un’unica Chiesa spirituale nella Chiesa visibile, quella visibile non è separa-<br />
bile da quella invisibile, anzi: le è indispensabile per la salvezza. Sappiamo così dov’è la Chiesa in-<br />
visibile («Ovunque riscontriamo la Parola di Dio essere predicata con purezza e ascoltata, i sacra-<br />
menti essere amministrati secondo l’istituzione di Cristo, non deve sussistere alcun dubbio che quivi<br />
sia la Chiesa»), ma non possiamo sapere chi ne fa parte («Solo Cristo conosce i suoi») 47 .<br />
(3) La Chiesa «corpo di Cristo»: per Calvino la Chiesa è «corpo di Cristo», egli intende l’unione<br />
cristiani/Cristo di «natura incomprensibile», una «mystica unio» e chiama Gesù Cristo «nostro capo<br />
e primogenito di molti fratelli». Commentando Rm 12, Calvino chiama «corpo di Cristo» i fedeli<br />
nella comunità, dove ognuno ha un suo dono e ruolo. La Chiesa si presenta quindi visibilmente co-<br />
me comunione di doni e di ministeri. Ma queste espressioni («corpo di Cristo», «inserimento in Cri-<br />
sto», «corpo della Chiesa») vogliono dire, per Calvino, la stessa cosa soltanto quando si tratta della<br />
Chiesa invisibile, quella dei predestinati.<br />
(4) I limiti della Chiesa: nel suo Catechismo, Calvino vede i limiti della Chiesa nei suoi rapporti con<br />
il Regno di Dio: la Chiesa annuncia il Regno, ma essa non è il Regno. La Chiesa è limitata non solo<br />
dal Regno a venire di Dio, ma anche dal Regno presente di Cristo. La Chiesa è limitata anche dallo<br />
Stato (che, secondo Rm 13, è di istituzione divina). Ne conseguono alcune condizioni di vita della<br />
Chiesa: il suo «governo» spetta unicamente a Cristo, il suo compito specifico non consiste nel dire<br />
qual è la vera filosofia o politica, bensì essere la custode dell’interesse vitale del mondo, compiendo<br />
così il ruolo specifico donatole da Dio.<br />
(5) L’ordinamento della Chiesa è determinato da una struttura che si articola secondo quattro mini-<br />
steri: pastori, dottori, diaconi, anziani. A differenza della riforma luterana in Calvino il ministero<br />
ecclesiale assume un’importanza decisiva nell’assicurare lo spazio in cui l’annuncio del Vangelo<br />
possa compiersi in modo debito e l’intera vita dei credenti si svolga in obbedienza alla volontà di<br />
Dio. In questo modo la competenza e l’autorità del ministero ecclesiale tendono a dilatarsi al di là<br />
dell’ambito della predicazione e dei sacramenti per comprendere l’insieme della vita della comunità<br />
sottoposta all’esercizio della disciplina ecclesiale.<br />
47 Christianae religionis Institutio IV, 1, 9.<br />
199
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Lo schema ecclesiologico calvinista sembra più chiaro e completo rispetto a quello luterano: meno<br />
‘medievale’ di Lutero, meno realista nelle sue posizioni sacramentarie, Calvino fonda certamente<br />
meglio il valore cristiano e la consistenza propria dell’ordine visibile della Chiesa. Inoltre, egli è sta-<br />
to più di Lutero un organizzatore di Chiesa.<br />
Di fronte alla Tradizione cattolica, sia orientale sia latina, rimane però una grave questione, che esi-<br />
ge una risposta senza ambiguità. «Si tratta di sapere se si prende sul serio l’unione al Cristo storico<br />
come causa di salvezza per gli uomini […]. Il protestantesimo è costantemente incline ad attribuire<br />
al cristianesimo uno stato profetico, che comporta cioè degli atti di Dio che, per rimanere veramente<br />
di Dio e liberi, siano privi di nesso con le operazioni umane ed ecclesiali» 48 .<br />
g) Nessun avvenimento nel corso della storia ha provocato la cristianità nel suo insieme più della<br />
Riforma. Come risultato finale abbiamo delle Chiese separate in confessioni, che contrapponevano<br />
altare ad altare e che credevano di poter realizzare soltanto in questo modo ciò che stava loro a cuo-<br />
re: il rinnovamento della Chiesa secondo la sua origine, natura, vocazione ed immagine vera. Tale<br />
conclusione contrasta apertamente contro i propositi iniziali. Non si fu in grado di conciliare i moti<br />
impetuosi e contrari originati dalla Riforma e di integrarli in un insieme più vasto. Da quello che<br />
all’inizio sembrava provvisorio si passò ad uno status; ciò che aveva un carattere regolativo assunse<br />
un tratto costitutivo. Ne derivarono le confessioni, separate nel dato di fede cristiana.<br />
La prima conseguenza fu che ogni confessione si caratterizzava proprio in ciò che la differenziava<br />
dall’altra. Una confessione era la negazione dell’altra.<br />
Questo condusse ad una seconda conseguenza, cioè che i tratti comuni presenti nelle diverse confes-<br />
sioni, non emersero più sufficientemente a livello di coscienza, ma vennero sempre più repressi.<br />
Cattolico non poteva più significare riformatore, né riformatore cattolico.<br />
In questa situazione il reciproco accostamento era caratterizzato dall’asprezza e dalla polemica,<br />
dall’ostilità oggettiva e personale, o almeno dalla controversia. Ciò però significò pure che si inse-<br />
gnava e si imparava il catechismo l’uno contro l’altro, che i contrasti venivano acutizzati, il più pos-<br />
sibile ingigantiti, al fine di articolare — come si diceva — la verità nei termini più chiari e così mo-<br />
tivare il diritto, l’obbligo e la necessità della separazione.<br />
Una terza conseguenza, forse la più radicale, sta nella comprensione “sacramentale” della chiesa,<br />
ossia nel ruolo che essa proprio in quanto istituzione svolge nella comunicazione della salvezza<br />
(non a caso questa differenza emerge in modo evidente nella diversa comprensione del ministero<br />
48 Y. CONGAR, Vera e falsa riforma nella Chiesa (Milano: Jaca Book, 1994 2 ) 332-333.<br />
200
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
ordinato e del significato che ad esso spetta nella celebrazione dei sacramenti): semplificando un<br />
po’ i termini si potrebbe dire che la teologia protestante in genere, mentre accetta che il sacramento<br />
e la realtà istituzionale della Chiesa siano un segno della grazia, tende a problematizzare la loro fun-<br />
zione di strumento effettivo della comunicazione della grazia: ciò recherebbe pregiudizio alla tra-<br />
scendenza e alla libertà di Dio e l’uomo diverrebbe “padrone” di Dio e della sua parola. “Frutto di<br />
salvezza” e “mezzo di salvezza” tendono a separarsi irrimediabilmente, per non correre il pericolo<br />
di dimenticare il carattere totalmente divino, gratuito e incondizionato del dono della salvezza e di<br />
vincolare la comunicazione di questo dono a mediazioni e condizioni inaccettabili. L’elemento di-<br />
scriminante di per sé quindi non è tanto il fatto che la Chiesa sia strumento nella comunicazione del-<br />
la salvezza, ma la natura di tale strumentalità. La tradizione cattolica accentua il carattere attivo del-<br />
la strumentalità ecclesiale, così che ad es. Karl Rahner può affermare che la Chiesa «attua se stessa»<br />
nella celebrazione dei sacramenti. La teologia evangelica invece può riconoscere una strumentalità<br />
della chiesa nell’annuncio della Parola e nella celebrazione dei sacramenti, ma, alla luce della dot-<br />
trina della giustificazione per la fede, le attribuisce un carattere passivo 49 .<br />
Una quarta conseguenza emerge dal confrontarsi di due posizioni ecclesiologiche di fondo sul rap-<br />
porto Scrittura e Chiesa. La norma della fede dei fedeli è la tradizione o la testimonianza della<br />
Chiesa, di cui il corpo episcopale è il custode, tradizione e testimonianza che si riferiscono al testo<br />
fondamentale e normativo delle Sacre Scritture, oppure questa norma è l’interpretazione diretta e<br />
personale di un testo che si potrebbe conservare e leggere al di fuori della tradizione della Chiesa?<br />
Se così fosse, ognuno potrebbe, come Lutero, senza missione e motu proprio, autonominarsi predi-<br />
catore di una nuova dottrina. Come Johann Adam Möhler noterà, non esiste fondatore di sette (o e-<br />
retico) che non abbia avuto la pretesa di giustificare la sua posizione coi testi della Bibbia. «Perciò<br />
l’appello alla Scrittura è necessariamente un appello a una certa lettura o interpretazione della Scrit-<br />
tura, e dunque, finalmente, un appello ai dottori» 50 .<br />
49 ANDRÉ BIRMELÉ individua qui la differenza fondamentale tra l’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica e quella protestante: «Alla scoperta<br />
riformatrice della giustificazione per la sola fede corrisponde nell’<strong>ecclesiologia</strong> che solo il Vangelo predicato (e<br />
non la Chiesa) dà al credente certezza di salvezza. La Chiesa e il suo ministero non hanno alcuna funzione mediatrice<br />
(Vermittlung) che superi la semplice comunicazione (Mitteilung) del Vangelo liberatore. L’<strong>ecclesiologia</strong> luterana contemporanea<br />
è, su questo punto, erede fedele della teologia del Riformatore… L’affermazione della giustificazione per la<br />
sola fede nella teologia luterana ha come corollario necessario l’affermazione di una strumentalità soteriologicamente<br />
passiva della Chiesa»: A. BIRMELÉ, Le salut en Jésus Christ dans les dialogues oecuméniques (Paris – Genève: Cerf –<br />
Labor et Fides, 1986) 246.250.<br />
50 CONGAR, Vera e falsa riforma nella Chiesa, op. cit., 394-395; cfr. J.A. MÖHLER, Simbolica (Milano 1984) §§ 39.42.<br />
201
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
2.3.3. L’<strong>ecclesiologia</strong> polemica e apologetica della Controriforma<br />
a) Questo stato di cose provocò nella Chiesa cattolica una risposta e reazione: la controriforma e il<br />
rinnovamento cattolico.<br />
Bisognerebbe scrivere la storia, illustrare il decorso e i risultati del concilio di Trento (1545-1563),<br />
il quale venne troppo tardi e quindi non fu più in grado di arrestare la separazione, ma soltanto di<br />
registrarla e di opporre una chiara e distanziata risposta cattolica ai novatores. Il concilio si era pre-<br />
fisso come compito quello di «debellare gli errori e conservare la purezza del vangelo» (DzH 1501).<br />
Nelle sue sessioni non affrontò, in un trattato, il tema della Chiesa — il papato temeva troppo rigur-<br />
giti di conciliarismo per metterlo all’ordine del giorno —, tuttavia discusse alcune tematiche impor-<br />
tanti per l’<strong>ecclesiologia</strong>: il problema dei rapporti fra Scrittura e Tradizione; il problema della Scrit-<br />
tura nella Chiesa in riferimento all’interpretazione della Bibbia ed all’individuazione del senso scrit-<br />
turistico; la dottrina della giustificazione nelle sue diverse implicazioni: santificazione, fede, opere,<br />
merito; la questione dei sacramenti, del loro numero ed istituzione; il problema dell’eucaristia con le<br />
sue componenti: transustanziazione, carattere sacrificale della messa, ordinazione e sacerdozio, dif-<br />
ferenza tra sacerdoti e laici; il problema della gerarchia; la dottrina sui santi, sul purgatorio e sulle<br />
indulgenze. Sono però da notare tre punti espressamente ecclesiologici: 1) il dibattito<br />
sull’episcopato — che si concentrò sull’origine della giurisdizione episcopale: proveniva immedia-<br />
tamente dal Cristo o derivava dal papa? La questione non venne risolta per mancanza di unanimità<br />
—; 2) l’idea di concilio — pur rifiutando le tendenze conciliariste, non si impose la concezione pu-<br />
ramente monarchica (Gaetano) di un concilio che riceveva tutta la sua autorità dal papa: in effetti i<br />
decreti di Trento sono decreti del concilio, non del papa con l’approvazione del concilio; anche se il<br />
presidente chiuse il concilio facendo approvare ai Padri una richiesta di conferma da parte del papa<br />
(COD 799) —; 3) la messa in opera di un apparato e l’inizio di un regime centralista — il XVI se-<br />
colo segna la fine della cristianità; di fronte e al di sopra delle nazionalità, la Chiesa cattolica realiz-<br />
za un’unità specifica, puramente religiosa, con il suo diritto, il suo ordine, le sue strutture e i suoi<br />
servizi; ne consegue anche una vera e propria centralizzazione. Non a caso, Trento affermando che<br />
il Cristo non è unicamente redentore, ma anche legislatore (DzH 1571 e 1620), ha favorito in tal<br />
modo la costruzione dell’ordine gerarchico, non attorno all’Eucaristia, ma secondo il regimen, di cui<br />
Roma occupa il centro e la sommità e ha aperto per l’<strong>ecclesiologia</strong> teorica un’era di giuridismo. Co-<br />
sì nella professione di fede tridentina (13 novembre 1564) possiamo leggere in sintesi: «Io riconosco<br />
la Chiesa santa, cattolica, apostolica e romana come madre e maestra di tutte le Chiese; prometto e<br />
giuro obbedienza al papa di Roma, successore di san Pietro, principe degli apostoli e vicario di Gesù<br />
Cristo» (DzH 1868).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
In queste direttrici ed accenti si delinea l’immagine di Chiesa che si voleva realizzare allora e nel<br />
periodo post-tridentino. Emerge un profilo controriformistico della Chiesa intesa come la custode di<br />
una fede vera e contenutisticamente intatta. Si tratta di una caratterizzazione della Chiesa mediante i<br />
sacramenti, in specie l’eucaristia, che viene intesa e celebrata come vero sacrificio. È la determina-<br />
zione della Chiesa per mezzo della gerarchia, del ministero, del sacerdozio, della sua autorità che si<br />
fonda sull’ordinazione, del suo potere specifico ed esclusivo in merito alla celebrazione della messa<br />
e all’amministrazione del sacramento della penitenza, della sua distinzione essenziale dal sacerdo-<br />
zio dei laici, dell’articolazione della visibilità e percepibilità della Chiesa che trova il suo vertice e<br />
la caratterizzazione più chiara nel papato, nella rappresentazione concreta del termine «communio<br />
sanctorum» nella forma della venerazione dei santi, e infine del grande onore dovuto alla Tradizione<br />
ed alle tradizioni. Passano invece in seconda linea quelle realtà ecclesiali che i riformatori, anche in<br />
modo non polemico, avevano sottolineato: la parola di Dio, l’ecclesia abscondita, la Scrittura intesa<br />
come istanza critica nei confronti della Tradizione, la theologia crucis, il sacerdozio dei battezzati.<br />
b) Di fronte ai sommovimenti socio-culturali ed alla contestazione protestante, la distinzione fra i<br />
pastori ed il gregge, o fra il clero e i laici, tende a diventare quasi una contrapposizione naturale in<br />
base a cui viene pensata ed organizzata la vita ecclesiale. I laici rischiano di essere considerati come<br />
non cristiani, in quanto troppo esposti all’influsso negativo di quella società che rivendica la propria<br />
autonomia e costruisce la vita associata quasi prescindendo dallo spirituale-ecclesiastico; per cui la<br />
Chiesa è sempre più assimilata al clero e l’azione pastorale poggerà sempre più sul clero come uni-<br />
co soggetto attivo a fronte di un gregge oggetto o destinatario passivo della sua cura pastorale.<br />
Non stupisce che, in quest’ottica, uno dei provvedimenti più efficaci della Controriforma sia la cre-<br />
azione dei seminari quali istituti specializzati per la formazione del clero: nella prospettiva propria<br />
del Concilio di Trento, l’esaltazione del sacerdozio e la cura della formazione dei sacerdoti sono la<br />
risposta pratica alla contestazione protestante del sacerdozio cattolico e alla negazione del primato<br />
dello spirituale-ecclesiastico da parte della società.<br />
Il Bellarmino, strenuo sostenitore dell’idea di Chiesa societas perfecta, non esita ad affermare:<br />
«Da qui [dall’etimologia: laós, popolo; kléros, porzione o eredità] sono così denominati i laici:<br />
come dire i plebei e gli appartenenti al popolo, ai quali non è stata affidata alcuna parte della funzione<br />
ecclesiastica. Clero, per contro, si usa quasi ad indicarlo come appannaggio ed eredità del<br />
Signore, chierici poi… si dicono quelli che, consacrati al culto divino, si sono addossati, per ordine<br />
di Dio stesso, la responsabilità e la preoccupazione di amministrare la religione e le cose sacre» 51 .<br />
51 R. BELLARMINO, De Membris Ecclesiae Militantis, I, De Clericis, in ID., Opera omnia, II (Neapolis 1857) 449.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Al di là della problematica teologica connessa alla potestas del ministro ed alla realtà sacramentale<br />
dell’ordinazione, la distinzione-separazione tra clero e laicato tende ad apparire quasi come costitu-<br />
tiva dell’essere della Chiesa, in quanto questa è concepita come un sistema «ierocratico» che si<br />
struttura e si organizza in base ad una rigida e netta separazione di sacro e profano. La sovradeter-<br />
minazione del prete e la crescente sua autonomia rispetto all’insieme dei fedeli sono a un tempo<br />
causa ed effetto di questa logica della differenza. A partire da essa si precisa — si costruisce e si le-<br />
gittima simbolicamente — l’identità del prete-pastore: come chierico, e cioè dotto, ha una visione<br />
dotta del mistero cristiano, in contrasto con le espressioni popolari ritenute superstiziose o paganeg-<br />
gianti; come clerico e cioè clero, è eletto, e la sua vocazione diventa l’unica vocazione, che esige<br />
una rottura anche di stile di vita con chi non gode del privilegio di una simile chiamata. Nella prati-<br />
ca pastorale questa logica consente al clero di personificare il collettivo e di rappresentare l’intera<br />
Chiesa: la categoria degli ecclesiastici è l’unico vero soggetto della Chiesa e dell’azione pastorale,<br />
in grado di risolvere ed assorbire in sé l’insieme della Chiesa e quindi di esigere un rapporto di su-<br />
bordinazione e di sottomissione da parte del gregge e dei «semplici» fedeli.<br />
La riforma del clero iniziata dal concilio di Trento — e via via attuata come automatica riforma del-<br />
la Chiesa — propone un modello di vita sacerdotale quale vita autonoma e separata che il clero deve<br />
assumere come suo progetto di vita; in quanto testimone ed artefice dell’autentica vita cristiana e<br />
come amministratore esclusivo della comunicazione del sacro, la sua identità e la legittimità del suo<br />
operare dipendono dall’appropriazione ed attuazione del modello. La sua superiorità rispetto ai<br />
«semplici» fedeli e la distanza da essi, sia nella vita quotidiana che nel modo di pensare, appaiono<br />
richieste, più che dalla volontà di dominio, dalla necessità di affermare la mediazione della Chiesa<br />
che deve respingere dottrine e prassi giudicate lesive dell’«istituzione» stessa. All’azzeramento della<br />
specificità dei religiosi e dei preti nella Riforma che accomuna ogni sorta di vocazione, la Controri-<br />
forma risponde esaltandone la specificità, fin quasi a dimenticare che nell’ambito della fede ciò che<br />
è proprio non è esclusivo e tantomeno monopolio riservato. Si attua così un processo di elevazione-<br />
claustrazione-recinzione sacra del clero che esige la sua separatezza rispetto ai fedeli e che comporta<br />
una scissione della religione, suo patrimonio, rispetto ai diversi aspetti della vita.<br />
La teologia, ormai scienza del clero più che della fede del popolo cristiano, è finalizzata alla forma-<br />
zione del clero e si esercita all’interno delle mura sacre, quelle degli istituti ecclesiastici, estranea<br />
alla cultura ambiente. Ma il processo è ben più vasto: ad esempio l’edificio chiesa diventa sempre<br />
più sacro e, al suo interno, si crea uno spazio riservato ancor più sacro, delimitato dalla balaustra.<br />
L’estetica liturgica si fa ieratica, la majestas del luogo e della celebrazione esige uno stile regale e i<br />
segni di un alto prestigio sociale. L’ascesi del prete è imperniata sul trascendimento della quotidia-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
nità e sul superamento delle apparenze legate alla vita quotidiana: uno stile di vita sublime, extra-<br />
quotidiano, straordinario, anche se poi nella pratica del sacerdozio la diversità è sfumata ed al prete<br />
si consente di svolgere i più diversi mestieri. La spiritualità sacerdotale si richiama sempre più ai<br />
nuovi ordini religiosi, come i Gesuiti e i Teatini, e il ministero sacerdotale viene sempre più assimi-<br />
lato allo stato di perfezione e vissuto come unica ed esclusiva forma di ministerialità. L’immediata<br />
identificazione del prete con Cristo (sacerdos alter Christus) fa del prete un super-cristiano, da cui<br />
dipende, secondo la tradizione sulpiziana (Olier, Tronson), tutta la vita della Chiesa: egli è il pastore<br />
di un gregge a lui affidato come oggetto della sua «cura», di cui ha la rappresentanza ufficiale e su<br />
cui ha la «potestà» piena che gli deriva, sulla scia della spiritualità dell’École française, dalla sua<br />
«potestà» su Dio stesso. Ritroviamo l’eco di questa concezione nelle prediche fatte in occasione del-<br />
le prime messe. Esemplare è quanto scrive il cardinale Katschthaler, arcivescovo di Salisburgo, in<br />
una lettera pastorale del 1905:<br />
«Voi sapete, carissimi, che il sacerdote cattolico ha il potere di rimettere i peccati… Per questo<br />
scopo e per questo momento Dio ha conferito la sua onnipotenza al suo rappresentante sulla terra,<br />
al sacerdote autorizzato… Dov’è in cielo un simile potere?… Cristo, l’unigenito Figlio di Dio Padre,<br />
grazie al quale sono stati creati il cielo e la terra e che porta l’intero universo cattolico, si trova<br />
in questo caso soggetto al volere del sacerdote cattolico» 52 .<br />
Nella misura in cui la clericalizzazione è più spinta, fino a fare del prete un «cristiano a parte», ne<br />
consegue la sottomissione del gregge ritenuto passivo, minore d’età, gregario, la cui vita deve essere<br />
regolata fin nei dettagli secondo la prospettiva clericale. L’«assolutezza» del clero, e rispettivamente<br />
della religione della Chiesa e della coscienza cristiana, è dunque all’origine della dipendenza del<br />
laico e della tendenziale separazione tra fede e vita, tra Chiesa ed esistenza personale, e più in gene-<br />
rale, fra coscienza cristiana e realtà storica. In una sorta di circolo vizioso più si accentua tale «asso-<br />
lutezza» più si estende il processo di secolarizzazione, per cui il clero tende ad isolarsi e a proteg-<br />
gersi come ceto che vive un particolare stile di vita in un milieu particolare, che elabora una cultura<br />
particolare e pretende di essere l’unico soggetto attivo dell’opera del regno di Dio.<br />
Se l’esaltazione del sacerdozio e la concentrazione nelle mani del sacerdote della complessiva realtà<br />
ecclesiale sono in gran parte dovute allo spirito controversistico, come difesa ad oltranza della me-<br />
diazione ecclesiale spesso massimalisticamente contestata, sembra pure possibile scorgere in questo<br />
processo di differenziazione-separazione del clero una certa congruenza od affinità con l’evoluzione<br />
socio-culturale che tende a rimarcare le differenze di vario genere all’interno del complessivo siste-<br />
52 La citazione si trova in G. SIEFER, , Der Priest, ein geweihter Mensch?, in Diakonia 2 (1969) 133 n. 21.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
ma societario. Basti accennare alla divaricazione che viene a crearsi tra la cultura scritta ed erudita<br />
da un lato e la cultura orale e tradizionale dall’altro, al distacco della nascente borghesia dalle masse<br />
rurali, alla scissione fra compiti direttivi e compiti esecutivi tra gli agenti dei processi produttivi e<br />
all’interno della vita politica. Non sembrano dunque affatto estranee alla dinamica sociale la tra-<br />
sformazione della teologia in sapere specialistico, la codificazione rigorosa e minuziosa della dottri-<br />
na e del culto, la centralizzazione della vita ecclesiale, la considerazione «aristocratica» degli eccle-<br />
siastici, la divisione fra la componente attiva e quella passiva all’interno della Chiesa.<br />
Anche i diversi e numerosi movimenti spirituali — dalle confraternite ai terz’ordini, dai begardi e<br />
dalle beghine alle diverse congregazioni — sembrano partecipare della stessa logica dello spazio<br />
proprio, del recinto particolare, anche quando evidente è l’intenzione di superare l’opacità della<br />
Chiesa clericale: la vita in comune tende spesso ad essere come una «riduzione», un microcosmo i-<br />
spirato da un lato a una perduta genuinità religiosa e dall’altro lato all’immagine escatologica o apo-<br />
calittica della nuova Gerusalemme. Anche in questi casi, se l’intento è di ricreare una vita religiosa<br />
più unitaria e più autentica, la pratica spesso risponde alla logica dell’autonomizzazione e della par-<br />
ticolarità, con un accresciuto distacco dalla realtà socio-culturale e dalla comune vita dei «semplici»<br />
fedeli, come se fosse ormai impossibile vivere in modo attendibile e significativo la vita cristiana<br />
nelle comuni condizioni di vita.<br />
c) L’espressione più lucida di questa <strong>ecclesiologia</strong> la troviamo espressa nelle Disputationes de con-<br />
troversiis christianae fidei di Roberto Bellarmino, il quale sviluppò e concentrò l’<strong>ecclesiologia</strong> pro-<br />
prio nei punti controversi e contro i quali si era indirizzato l’attacco dei riformatori, attento così a<br />
sottolineare al massimo le mediazioni visibili ed istituzionali della comunità ecclesiale in alternativa<br />
all’«invisibilismo», attribuito ai Riformatori 53 .<br />
Egli individua cinque fraintendimenti possibili dell’idea di Chiesa: il primo è quello che risolve<br />
l’<strong>ecclesiologia</strong> in teologia, concependo la Chiesa come comunità degli eletti («congregatio praede-<br />
stinatorum»), totalmente dipendente dall’arbitrio assoluto di Dio 54 . Il secondo è costituito dalla vi-<br />
sione pelagiana, che trasforma l’<strong>ecclesiologia</strong> in antropologia, identificando la Chiesa con la comu-<br />
53 Cfr. A. ANTÓN, El misterio de la Iglesia. Evolucion historica de las ideas eclesiologicas I (Madrid – Toledo: BAC,<br />
1986) 879-893; CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, cit., 369ss. Del Bellarmino cfr. specialmente<br />
le Disputationes de controversiis christianae fidei adversus huius temporis haereticos (Controversiae) (1586-1593) (Ingolstadt<br />
1601) t. II: Prima Controversia generalis, liber III: De Ecclesia militante, caput II: De definitione Ecclesiae.<br />
54 «De re ipsa quinque sunt haereticae sententiae. Prima, quod Ecclesia sit praedestinatorum congregatio, ita ut soli et<br />
omnes praedestinati sint de Ecclesia. Ita Johannes Wiclef…, Johannes Huss»: ibid., 74.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
nità dei perfetti, che grazie alle loro capacità e ai loro meriti ne sono i soli veri membri 55 . Il terzo<br />
fraintendimento — attribuito dal Bellarmino a Novaziano e ai Donatisti — si avvicina al preceden-<br />
te, restringendo però l’esigenza di perfezione al mantenimento della fede pura, e comprendendo di<br />
conseguenza giusti e peccatori nella comunità ecclesiale fino al momento in cui non abbandonino la<br />
vera dottrina 56 . In queste tre impostazioni è il monofisismo ecclesiologico ad emergere, la riduzione,<br />
cioè, della complessa tensione fra l’umano e il divino, che costituisce la Chiesa, a una sola delle due<br />
«nature» del mistero ecclesiale, o nel senso dell’assorbimento dell’umano nel divino, o in quello<br />
contrario della risoluzione del divino nelle sole possibilità umane.<br />
Gli ultimi due fraintendimenti segnalati dal Bellarmino richiamano invece una sorta di nestoriane-<br />
simo ecclesiologico, e cioè di separazione netta fra la componente umana e quella divina della Chie-<br />
sa, unite al più in un accordo morale fondato sulla fede. Il penultimo è quello caratteristico dell’ec-<br />
clesiologia dualista, che Bellarmino attribuisce ai Riformatori, per i quali la realtà ecclesiale sarebbe<br />
sdoppiata nella contrapposizione fra una Chiesa invisibile, costituita dalla «congregatio sanctorum»<br />
di quanti credono e obbediscono a Dio, nota solo agli occhi dell’Eterno, ed una Chiesa esterna, ri-<br />
conoscibile dalla professione dell’unico Credo e dalla partecipazione ai medesimi sacramenti, com-<br />
prendente giusti e peccatori 57 . Il quinto ed ultimo fraintendimento — caratterizzato parimenti dal<br />
dualismo ecclesiologico ed attribuito a Calvino — separa la Chiesa dei predestinati, eletta da Dio e<br />
solo a Lui nota, da quella visibile, in nulla garantita da Lui e risolta in pura forma antropologica: si<br />
mescolano qui tanto la riduzione teologica, quanto quella antropologica dell’<strong>ecclesiologia</strong> 58 .<br />
Contro questa complessa rete di equivoci, Bellarmino intende affermare l’unicità e l’oggettività del<br />
dono di Dio, che costituisce la Chiesa: egli afferma perciò che «la Chiesa è una sola, non due, e uni-<br />
ca e vera è la comunità degli uomini raccolti mediante la professione della vera fede, la comunione<br />
degli stessi sacramenti, sotto il governo dei legittimi pastori e principalmente dell’unico vicario di<br />
55<br />
«Secunda, quod Ecclesia sit hominum perfectorum nullum peccatum habentium multitudo»: ibid.<br />
56<br />
«Tertia, quod Ecclesia sit justorum congregatio, seu potius eorum, qui numquam lapsi sunt circa fidei confessionem»:<br />
ibid.<br />
57<br />
«Ipsi duas Ecclesias fingunt. Unam veram et ad quam pertinent privilegia, quae narrantur in Scripturis, et hanc esse<br />
sanctorum congregationem, qui vere credunt, et oboediunt Deo, et hanc non esse visibilem, nisi oculis fidei. Alteram externam<br />
quae nomine tantum est Ecclesia, et hanc esse congregationem hominum convenientium in doctrina fidei, et usu<br />
sacramentorum et in hac bonos et malos inveniri»: ibid.<br />
58<br />
«Quinta sententia est quasi conflata ex omnibus istis. Docet enim Ecclesiam constare ex solis justis praedestinatis. Ita<br />
Calvinus, qui tria docet. Primo, fidem semel habitam, numquam in aeternum perdi posse, et proinde omnem, qui habet<br />
fidem, necessario esse praedestinatum… Secundo docet, veram Ecclesiam a solo Deo cognosci posse, ejusque fundamentum<br />
esse divinam electionem… Tertio docet, esse praeterea quandam Ecclesiam externam, in qua sint boni et mali…»:<br />
ibid., 75.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Cristo sulla terra, il romano pontefice» 59 . Ciò che Bellarmino vuole rifiutare è ogni separazione di<br />
visibile ed invisibile nella Chiesa, quasi che il divino e l’umano possano incontrarsi solo per<br />
un’iniziativa di Dio che escluda ogni attiva partecipazione dell’uomo, o al contrario per un protago-<br />
nismo umano che non faccia spazio ad alcun intervento dall’alto. Nel primo caso la Chiesa sarebbe<br />
la comunità invisibile dei predestinati, nel secondo quella visibile dei perfetti. In realtà, nella coe-<br />
renza con la logica dell’incarnazione, la Chiesa è altrettanto visibile quanto lo è la missione del Fi-<br />
glio e l’appartenenza ad essa si misura sull’oggettiva esperienza del dono di Dio:<br />
«Perché qualcuno possa essere dichiarato membro di questa vera Chiesa, di cui parlano le Scritture,<br />
noi non pensiamo che sia da lui richiesta alcuna virtù interiore. Basta la professione esteriore<br />
della fede e della comunione dei sacramenti, cose che il senso stesso può constatare. La Chiesa infatti<br />
è una comunità di uomini così visibile e palpabile come la comunità del popolo romano, o il<br />
regno di Francia, o la repubblica di Venezia» 60 .<br />
Si avverte in queste parole l’influenza dello spirito del secolo in cui operò Bellarmino: «La mentali-<br />
tà barocca richiedeva che il soprannaturale fosse il più manifesto possibile e la teologia del tempo<br />
tentava di ridurre ogni cosa a idee chiare e distinte» 61 . La caratteristica di questa definizione è l’insi-<br />
stenza sull’inseparabilità dell’elemento umano e di quello divino nella Chiesa, motivata da un inten-<br />
to doppiamente polemico, contro ogni monofisismo e contro ogni nestorianesimo ecclesiologico.<br />
Qui sta il permanente contenuto di verità della sintesi bellarminiana: «“L’<strong>ecclesiologia</strong> della separa-<br />
zione” (nestorianesimo ecclesiologico) appare nel tentativo di dividere la Chiesa visibile da quella<br />
invisibile — cioè la “Chiesa del diritto” dalla “Chiesa dell’amore” — o anche semplicemente in un<br />
naturalismo volgare che considera la Chiesa come una semplice istituzione umana. L’“<strong>ecclesiologia</strong><br />
della mescolanza” (monofisismo ecclesiologico) si mostra nella tendenza a considerare la Chiesa<br />
come un fenomeno puramente divino, nel quale l’uomo viene assorbito…» 62 . In quanto si oppone a<br />
entrambi questi poli, «si fa un torto a Bellarmino se, basandosi sulla preponderanza dell’aspetto e-<br />
steriore e giuridico della Chiesa rilevabile dalla sua definizione, si vuole vedere in lui un miscono-<br />
59 «Nostra autem sententia est Ecclesiam unam tantum esse, non duas, et illam unam et veram esse coetum hominum ejusdem<br />
christianae fidei professione, et eorundem sacramentorum communione colligatum, sub regimine legitimorum pastorum,<br />
ac praecipue unius Christi in terris vicarii romani pontificis»: ibid.<br />
60 «Ut aliquis aliquo modo dici possit pars verae Ecclesiae, de qua Scripturae loquuntur, non putamus requiri ullam internam<br />
virtutem, sed tantum externam professionem fidei, et sacramentorum communionem, quae sensu ipso percipitur.<br />
Ecclesia enim est coetus hominum ita visibilis et palpabilis, ut est coetus populi romani, vel regnum Galliae, aut respublica<br />
Venetorum»: ibid.<br />
61 A. DULLES, Models of the Church (New York: Image Books – Doubleday, 1987 2 ) 16.<br />
62 H. MÜHLEN, Una Mystica Persona. La Chiesa come il mistero dello Spirito Santo in Cristo e nei cristiani: una per-<br />
sona in molte persone (Roma: Città Nuova, 1968) 690.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
scimento dell’essenza pneumatica della Chiesa» 63 . Resta vero tuttavia che l’accento è posto soprat-<br />
tutto sul rifiuto della concezione attribuita alla Riforma, e perciò sulla continuità fra il mistero<br />
dell’Incarnazione e la realtà storica della Chiesa, oltre che sulla visibilità e verificabilità empirica di<br />
una tale continuità. A questa esigenza risponde il modo in cui la struttura visibile della Chiesa viene<br />
concepita, perché sia storicamente riconoscibile: il «tutto» che è la Chiesa, unito dalla fede unica e<br />
dagli stessi sacramenti, si presenta articolato in parti o porzioni, collegate fra loro al vertice, cioè<br />
sotto la guida del Capo visibile della comunità ecclesiale, il Vescovo di Roma. La potestà dei ve-<br />
scovi locali proviene dal Papa e quindi non è una realtà sacramentale; d’altra parte Bellarmino inse-<br />
gna che ritenerli solo dei luogotenenti del Pastore universale è una vera e propria eresia 64 . Inoltre,<br />
pur affermando la primazia del potere spirituale su quello temporale, egli insegna che l’autorità spi-<br />
rituale non gode di un potere diretto sulle cose temporali, bensì solo di un potere indiretto (dottrina<br />
che resisterà fino al Vaticano II) che può giungere, in casi limite, fino a sospendere o a ritirare la sua<br />
autorità a un sovrano che viola i diritti dello spirituale, ma non permette neppure in questo caso<br />
all’autorità spirituale, fosse anche quella del Papa, di sostituirsi a lui e nemmeno di sostituirgli un<br />
altro che non sia il regolare successore della sua legittima autorità 65 .<br />
Data questa definizione della Chiesa, egli risolve anche la questione della sua appartenenza:<br />
«Da questa definizione si comprende facilmente chi appartiene alla chiesa e chi non appartiene ad<br />
essa. Tre, infatti, sono le parti di questa definizione: la professione della vera fede, la comunione<br />
dei sacramenti e la sottomissione al legittimo pastore, il Romano Pontefice. A motivo della prima<br />
parte sono esclusi tutti gli infedeli: sia quelli che mai sono stati nella chiesa, come i giudei, i turchi<br />
e i pagani, sia quelli che sono stati in essa e poi si sono da essa allontanati, come gli eretici e gli<br />
apostati. A motivo della seconda parte, sono esclusi i catecumeni e gli scomunicati, perché i primi<br />
non sono ammessi ai sacramenti e gli altri ne sono esclusi. A motivo della terza parte sono esclusi<br />
gli scismatici, i quali hanno la fede e i sacramenti, ma non sono sottomessi al legittimo pastore<br />
[…]. Sono inclusi invece tutti gli altri, anche se sono reprobi, delinquenti ed empi…».<br />
Il Bellarmino conosce però anche una definizione “teologica” della Chiesa: «la Chiesa è un corpo<br />
vivente composto di un’anima e un corpo». L’anima sono i doni dello Spirito santo, le virtù teologa-<br />
li…; il corpo sono la professione esterna della fede e la comunicazione dei sacramenti. Accade così<br />
che alcuni appartengano all’anima e al corpo della chiesa (i membri vivi per la fede e la carità), altri<br />
appartengano all’anima e non al corpo, come i catecumeni e gli scomunicati se, come può avvenire,<br />
hanno la fede e la carità, e altri appartengano al corpo ma non all’anima della chiesa, come quelli<br />
63 Ibid., 6.<br />
64 Controversia de Summo Pontifice, lib. II, cap. XXXI; ed. VIVES, Opera omnia, t. I, 1870, p. 614.<br />
65 Op. cit., lib. V, cc. vi e vii; ibid., t. 2, pp. 155ss.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
che non hanno nessuna virtù interiore, e tuttavia per speranza o per qualche timore temporale pro-<br />
fessano la fede e partecipano ai sacramenti sotto il governo dei pastori; essi sono «come i capelli o<br />
le unghie o i cattivi umori del corpo umano» 66 .<br />
La teologia della Chiesa diventa con Bellarmino una apologetica della Chiesa. Questa si definisce e<br />
si costituisce secondo le «notae». Egli ne enumera diciotto, più tardi ridotte a quattro, ossia quelle<br />
che il simbolo confessava come proprietà essenziali della Chiesa e che ora diventano note distintive.<br />
Esse devono offrire una prova argomentativa, dimostrare quale, tra quelle chiese che accampano la<br />
pretesa di essere la vera Chiesa di Gesù Cristo, effettivamente soddisfi ai requisiti necessari. Nella<br />
«demonstratio catholica», questa prova dev’essere prodotta nella forma di un preciso sillogismo.<br />
Questa concezione non è, peraltro, che l’estremo frutto di una serie di reazioni successive: contro il<br />
regalismo, tendente a subordinare il potere spirituale a quello temporale, si era sviluppata la teologia<br />
dei poteri gerarchici e della Chiesa come regno organizzato (Egidio Romano, ad esempio); contro le<br />
teorie conciliari, che subordinavano il ministero del Papa all’autorità del Concilio, si era accentuato<br />
il ruolo del primato papale; contro lo spiritualismo di Wyclif e di Hus la dimensione ecclesiastica e<br />
sociale del cristianesimo; contro la Riforma, si era voluto riaffermare il valore obiettivo dei mezzi di<br />
grazia, specie dei sacramenti e del ministero gerarchico. Anche dopo la sistemazione bellarminiana<br />
la concezione visibilista e giuridica della Chiesa verrà ulteriormente marcata sotto lo stimolo di<br />
nuove reazioni: contro il giansenismo, più o meno legato al gallicanismo episcopale e regalista, che<br />
tendeva a valorizzare le Chiese nazionali, saranno ribaditi i poteri del centralismo romano; contro il<br />
laicismo e l’assolutismo statale del XIX secolo si insisterà sulla Chiesa come società perfetta («so-<br />
cietas perfecta»), dotata di diritti e di mezzi propri e sufficienti; contro il modernismo, infine, si a-<br />
vrà l’affermazione vigorosa delle prerogative della Chiesa docente. L’insistenza su un solo aspetto<br />
della Chiesa — quello esterno e giuridico — comporterà il pericolo di smarrire l’equilibrio, ancora<br />
custodito nella sintesi del Bellarmino: «Nell’epoca immediatamente seguente, in cui dominò il pen-<br />
siero deistico dell’Illuminismo, questa particolare esposizione del mistero della Chiesa scivolò in<br />
uno spaventoso naturalismo, soprattutto nella teologia pratica… L’umano si fa così predominante<br />
nella coscienza, che il divino viene trascurato o non viene affatto preso in considerazione» 67 .<br />
66 Notiamo che Bellarmino pur riferendosi al Breviculus collationis, cap. III, di Agostino — una citazione che gli storici<br />
non sono mai riusciti a rintracciare —, modifica sensibilmente la dottrina agostiniana, secondo cui non si doveva distinguere<br />
nella Chiesa un’anima e un corpo, ma si doveva distinguere la modalità di appartenervi del singolo fedele: o col<br />
cuore o solo col corpo.<br />
67 H. MÜHLEN, Una Mystica Persona, op. cit., 6.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
d) Si è già parlato dell’impoverimento che la riflessione sulla Chiesa e la rappresentazione della re-<br />
altà ecclesiale hanno subito a causa di queste restrizioni apologetiche, allora intese come determina-<br />
zioni essenziali. Si è preso come teologia De Ecclesia «quello che era soltanto un capitolo polemico<br />
sui punti controversi» 68 . In questa prospettiva la Chiesa cattolica, la Chiesa di Gesù Cristo, venne<br />
con tutta naturalezza identificata semplicemente ed esclusivamente con la Chiesa cattolico-romana.<br />
Facendo leva sulla demonstratio catholica e sul carattere di esclusività che essa implica, si negava<br />
la qualità di Chiesa alle altre confessioni. Queste, dal canto loro, contribuivano al rafforzarsi di tale<br />
tendenza, dato che, in parte, rinunciavano al termine «Chiesa» e, dopo un rifiuto iniziale, concessero<br />
l’appellativo di «cattolica» alla Chiesa di Roma; quest’ultima poi, ormai caratterizzata come cattoli-<br />
co-romana, trasformò la qualifica di «cattolica» in una nota confessionale. A tale mutamento non si<br />
opposero le altre confessioni, che si affermavano come «riformate» o «luterane» 69 .<br />
La Chiesa, che a questo modo si identificava con la vera Chiesa, con la Chiesa di Gesù Cristo —<br />
questo è un secondo passo nel processo di restrizione — venne interpretata come Chiesa pontificia<br />
perché, come già abbiamo detto, qui il papa e il papato costituivano la dimensione essenziale ed allo<br />
stesso tempo l’aspetto più combattuto da parte dei riformatori.<br />
Questa Chiesa, che s’intende come Chiesa gerarchica, romana e pontificia e che conformemente si<br />
struttura, viene bollata dalle altre confessioni proprio con tali appellativi. E così si credette di aver<br />
proferito anche un giudizio teologico su di essa, una valutazione che giustificava la specificità della<br />
propria confessione e che vedeva nella frantumazione dell’unica Chiesa un imperativo promanante<br />
dalla verità e dalla fede. Una volta accettato l’accoppiamento di «romano» con «cattolico»,<br />
all’interno dell’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica la «romanitas» divenne un nuovo e limitante indizio di «cat-<br />
tolicità», anzi una nota che comprendeva in se stessa tutte le altre 70 .<br />
Le affermazioni di Roberto Bellarmino sulla Chiesa hanno influito notevolmente — e questo confe-<br />
risce loro una speciale rilevanza — sul periodo successivo; sono penetrate nella teologia, che ora va<br />
qualificata come post-tridentina, nei catechismi, quindi nelle stesse forme d’insegnamento impartito<br />
ai fedeli; e hanno sorretto, condizionato e definito anche l’immagine di Chiesa.<br />
e) La Controriforma e Riforma cattoliche riuscirono, sfruttando una iniziativa suggerita dal concilio<br />
di Trento e decisamente propugnata dai nuovi movimenti laicali e ordini religiosi sorti in Italia e in<br />
Spagna, soprattutto quello dei Gesuiti, con le loro figure più rappresentative (il motto «Ad majorem<br />
68 Y. CONGAR, “Chiesa”, in Dizionario di Teologia I (Brescia: Queriniana, 1969 3 ) 229-342.<br />
69 M. SECKLER, “Katholisch als Konfessionsbezeichnung”, in ThQ 145 (1965) 401-431.<br />
70 Ibid., 404; Y. CONGAR, “Romanité et catholicité”, in Église et papauté. Regards historiques (Paris: Cerf, 1994) 31ss.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Dei gloriam» venne assunto per indicare l’obbedienza al papa, vicario di Gesù Cristo, come obbligo<br />
del tutto specifico), a stabilizzare la Chiesa cattolica, ad affermarla nei propri territori e ad aiutarla a<br />
recuperare anche quelli perduti. La sequela del Christus praesens in ecclesia militante, il «sentire<br />
cum ecclesia», cioè «con la vera sposa di Cristo nostro Signore, la nostra santa madre, la Chiesa ge-<br />
rarchica», come pure l’entusiasmo ecclesiale, da cui non era estranea la mentalità del crociato e del<br />
cavaliere, sono tratti peculiari dell’ordine gesuitico, che non è tanto un risultato della Controriforma<br />
quanto piuttosto un frutto della Riforma cattolica. Il modo di concretare queste intenzioni, in un pe-<br />
riodo così particolare, doveva condurre ad una attività controriformatrice, antiprotestante 71 .<br />
Quando questi sforzi vennero poi coronati dal successo, acquistò nuova figura e vitalità anche il mo-<br />
tivo trionfalistico, col quale si rappresentava la Chiesa come la vera Chiesa di Gesù Cristo vittoriosa<br />
nelle sue battaglie. L’espressione artistica più imponente fu quella del barocco. Qui riemersero a li-<br />
vello di coscienza i tratti considerati più tipici del cattolicesimo: il motivo dell’«Ad majorem Dei<br />
gloriam», la sua concretizzazione nel venerare e adorare l’eucaristia, l’altare e il tabernacolo che as-<br />
sumono la forma di trono di Dio, l’edificio di culto che viene interpretato come la sala del trono di<br />
Dio e quindi lo si arricchisce di luce, di splendore, di sfarzo e di colori. La Chiesa terrena è avvertita<br />
come vestibolo della ecclesia caelestis, e tale convinzione viene ad esprimersi nel modo di raffigu-<br />
rare i santi, la comunione dei santi con gli apostoli, coi confessori, i martiri, i dottori della Chiesa, e<br />
con Maria al vertice. Vi si associa un nuovo motivo trionfalistico, appena acquisito: in vari modi la<br />
Chiesa cattolico-romana viene rappresentata come colei che trionfa sulle false dottrine, che avanza<br />
verso la vittoria, che troneggia sul furore impotente degli eretici, assisa sul carro trionfale. Questa<br />
vittoria poi viene interpretata, senza alcuna esitazione, come una vittoria di Dio stesso e quindi an-<br />
che come una dimostrazione visibile della vera Chiesa, una controprova imponente che «le porte<br />
dell’inferno non prevarranno su di essa (Chiesa)» e su Pietro. Questi elementi influiranno decisa-<br />
mente anche sulla spiritualità e pietà del cattolicesimo.<br />
71 B. SCHNEIDER, “La devozione di S. Ignazio di Loyola verso la Chiesa”, in: Sentire Ecclesiam 1, 505-560. Negli Esercizi<br />
spirituali di sant’Ignazio di Loyola, tra le diciotto regole per il vero criterio nella Chiesa, si trova anche la tredicesima<br />
regola, che è stata oggetto di molte discussioni: «Per non sbagliare, dobbiamo sempre ritenere che quel che vediamo<br />
bianco sia nero, se lo dice la Chiesa gerarchica. Perché crediamo che quello Spirito che ci governa e ci sorregge, per<br />
la salvezza delle nostre anime, sia lo stesso in Cristo nostro Signore, che è lo sposo, e nella Chiesa, che è la sua sposa.<br />
Infatti la nostra santa madre Chiesa è retta e governata dallo stesso Spirito e Signore nostro il quale dettò i dieci comandamenti»:<br />
IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali (Roma: Edizioni Paoline, 1980 5 ) 304-305. Per comprendere queste<br />
espressioni nel loro contesto e quindi nel loro vero significato si vedano le osservazioni di KEHL, La Chiesa, cit., 13ss.<br />
212
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
2.4. La chiesa nel contesto del conflitto con la modernità: Chiesa come società perfetta<br />
a) Tra molti problemi sociali, politici, economici, intellettuali e religiosi all’inizio dell’epoca mo-<br />
derna emerge un nuovo problema fondamentale che, per la comprensione della Chiesa, si rivelerà<br />
almeno altrettanto caratterizzante quanto la controversia confessionale: la relazione della fede cri-<br />
stiana con la modernità, la relazione della Chiesa con la società moderna secolarizzata e pluralista e<br />
con il suo frutto, il deismo e l’illuminismo. Nel XVII secolo, e ancora più chiaramente nel XVIII,<br />
l’annuncio ecclesiale in Francia si trova di fronte un nuovo tipo umano: la borghesia istruita o eco-<br />
nomicamente affermata, per cui la religione cristiana tradizionale, in rapporto alla vita moderna, ha<br />
perso la propria verità e rilevanza. Essa non è più necessaria per dare senso alla sua vita. Nel suo<br />
comportamento concreto non fa quasi differenza se egli la pensi in un modo o in un altro circa la ve-<br />
rità della fede cristiana. La religione ora deve diventare un elemento ragionevole e calcolabile, op-<br />
pure un affare strettamente privato.<br />
Questo periodo è contrassegnato dall’esaurimento, seguito alle controversie e soprattutto alle guerre<br />
di fede, di confessione e di religione, che apparentemente avevano condotto al trionfo della verità,<br />
ma con le quali s’intrecciavano ben altri motivi politici, e che di fatto non posero fine alla lacerazio-<br />
ne bensì la confermarono e consolidarono, sacrificando numerose vittime e mantenendo lo stato di<br />
ostilità. I segni dei tempi indicavano comunque il desiderio della pace. Una pace che, però, si pote-<br />
va raggiungere soltanto qualora si fosse riusciti a dimenticare, a omettere, ciò che divideva, per tro-<br />
vare un principio comune di fondo. Lo si conseguì quando si elevò a principio ermeneutico l’uomo,<br />
la natura, la sua ragione. Ne derivò che se prima il segno di genuinità e di veracità era il «confes-<br />
sionale», ora lo diviene l’«universale cristiano». Questo poi acquisì la sua dimensione più vasta<br />
quando venne interpretato come religione naturale, religione razionale, e quando si formularono le<br />
verità comuni a tutti gli uomini: Dio, l’immortalità, la libertà, la virtù e il suo premio, la beatitudine.<br />
Poiché era stato dimostrato che la verità, il dogma e le preoccupazioni di salvaguardarlo avevano<br />
creato sempre nuovi motivi di conflitto e di contesa, e ciò nella stessa misura in cui si moltiplicava-<br />
no gli articoli di fede (per Erasmo di Rotterdam «gli articoli aumentano, ma l’amore diminuisce»),<br />
ci si sentì stimolati a scoprire e a rendere fecondi l’ethos, l’agire, l’ortoprassi come forza unificante;<br />
impegnati a realizzare l’amore, la conciliazione, la virtù, la tolleranza, al fine di giungere ad un<br />
nuovo fondamento. Si raggiunse così un’intesa nel modo di comprendere sia le più fondamentali<br />
qualità ed istanze insite nel cristianesimo, sia le esigenze e bisogni tipici dell’uomo del tempo. Que-<br />
sta autocomprensione dell’uomo si tradusse nella forma dell’«illuminismo», che secondo le note af-<br />
fermazioni di Kant si intese come liberazione dell’uomo dal suo stato colpevole di minorità, come<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
coraggio «di servirsi della propria ragione» 72 , come fiducia nella forza critica della ragione, come<br />
rifiuto della superstizione, come un rivolgersi all’esperienza, un appellarsi alla libertà e alla virtù, un<br />
sentirsi impegnati nella tolleranza, nella fraternità, nella felicità terrena di tutti gli uomini.<br />
Da questi princìpi derivò una nuova interpretazione del dato cristiano, nel quale veniva a superarsi<br />
ogni elemento di separazione confessionale. Secondo lo scritto La religione entro i confini della<br />
semplice ragione (1793) di Kant, le affermazioni dogmatiche sulla grazia, giustificazione e salvezza<br />
devono essere spiegate come un tentativo di chiarificazione, purificazione e miglioramento<br />
dell’uomo. Gli altri dogmi vanno valutati secondo il criterio della loro valenza morale. I misteri, se<br />
intesi come dottrine misteriose, devono essere respinti. Secondo Kant il cammino storico appena i-<br />
niziato proseguirà passando attraverso le seguenti tappe: dalla fede ecclesiastica alla fede biblica, da<br />
questa all’universale fede di ragione, al vero regno di Dio. L’autentico servizio religioso — quello<br />
morale — è l’esercizio della virtù. Ed esso non richiede più alcuna dimensione religiosa, espressa-<br />
mente riferita a Dio. Nell’agire etico si onora Dio e tutte le speciali «cerimonie di corte» devono es-<br />
sere considerate come «illusioni religiose» e «superstizioni». Gesù Cristo però non è assente, ma<br />
viene riconosciuto come l’universale maestro dell’umanità, che ha reso accessibile all’uomo la sua<br />
determinazione umana e gli ha insegnato ad essere uomo umanamente, razionalmente. Virtù e mora-<br />
lità sono la vera sequela di Gesù.<br />
In questa concezione il dato cristiano non viene respinto, ma nel suo insieme e soprattutto nei suoi<br />
tratti peculiari recuperato mediante una nuova interpretazione, umana e morale, riferita all’agire; ac-<br />
quista la propria credibilità e forza e supera tutto ciò che suona ostile, tutto ciò che separa, tutto ciò<br />
che crea barriere confessionali; conduce alla conciliazione tra gli uomini e alla comunione fra i cri-<br />
stiani; si articola in quel tertium quid nel quale tutti possono essere una sola cosa e che al contempo<br />
offre la possibilità di un’unificazione tra gli uomini.<br />
b) Ne derivano anche — soprattutto nell’ambito della concezione cattolica — molteplici conse-<br />
guenze per l’immagine della Chiesa. Questa viene fortemente demitizzata e desacralizzata ed assu-<br />
me la forma di una istituzione morale, di un «corpus morale», di una società: «societas legalis inae-<br />
qualis secundum iuris naturae principia» (B. Stattler). Il che significa che il principio strutturale<br />
della Chiesa è quello di una società umana, di una istituzione fondata sui principi del diritto natura-<br />
le. L’idea di corpus Christi viene compresa proprio in questa dimensione sociologica. Il compito<br />
72 I. KANT, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo (1784), in Scritti politici e di filosofia della storia e del di-<br />
ritto (Torino: UTET, 1965) 141-149.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
della Chiesa consiste nell’educare gli uomini alla ragione, alla pace e alla virtù; l’annuncio del van-<br />
gelo si traduce nell’istruzione sui princìpi della morale, di cui il vangelo è la quintessenza. Nelle<br />
conseguenze derivanti da questi princìpi è implicita la necessità di semplificare le forme della pietà<br />
e della liturgia cristiane, di distanziarle dalle espressioni barocche, esuberanti e legate a dati leggen-<br />
dari, di renderle comprensibili ed accostarle al popolo: avendo cura della lingua madre e dei canti<br />
liturgici, risvegliando l’interesse per la Scrittura. Questi sforzi nell’ambito di un «illuminismo catto-<br />
lico» moderato sono stati fecondi per la Chiesa e per la sua comprensione e non hanno favorito sol-<br />
tanto una «estraneazione razionalistica» 73 . Ricordiamo l’importanza di autori come L.A. Muratori<br />
(Della regolata devozione de’ cristiani), J.M. Sailer e le grandi prospettive come pure gli esiti incer-<br />
ti del Sinodo di Pistoia (1786) e del Congresso di Ems (1786).<br />
c) È molto opportuno ricordare che questa Chiesa, la quale si affermava come «corpus morale» e<br />
«societas legalis», venne pure caratterizzata come «societas inaequalis». Essa è cioè una società<br />
nella quale devono esserci alcuni che hanno la preminenza sugli altri. Questi sono i capi, cui spette-<br />
rebbe il compito di vigilare sulla conservazione fedele delle leggi salutari; sono i giudici, che do-<br />
vrebbero comporre le diverse azioni dei loro sudditi con la norma della ragione e con le prescrizioni<br />
ereditate dal passato; i maestri, che dovrebbero essere in grado di analizzare i casi dubbi, di deter-<br />
minare i più gravi, di correggere quelli quotidiani e di stornare quelli più pericolosi; tutti ammini-<br />
stratori dei mezzi di salvezza, resi salvifici dal sangue del Redentore, e intenti ad applicarli alle per-<br />
sone ben disposte e a rifiutarli a coloro che non hanno tali sentimenti. Ciò significa che, nell’ambito<br />
di un’immagine desacralizzata della Chiesa, emerge una nuova forma di gerarcologia, di clericali-<br />
smo. Il chierico è propriamente il titolare e soggetto dell’agire ecclesiale, «il membro in senso pie-<br />
no», che si contrappone al popolo ecclesiale, ridotto alla funzione di mero ricettore, e ciò anche nel<br />
caso in cui venga qualificato soltanto come servitore della religione, come maestro. In queste condi-<br />
zioni si giunge pure ad una forma estrema di istituzionalizzazione, di ministerializzazione ed alla<br />
conseguente riduzione della libertà attribuita all’attività dello Spirito.<br />
In questa nuova sottolineatura della gerarchia svolge un ruolo importante anche una concezione ti-<br />
pica del deismo. Ricordiamo che caratteristica del clima teologico del secolo XVIII fu la scarsa at-<br />
tenzione data al soprannaturale della religione cristiana. Il deismo, anche ammettendo l’origine di-<br />
vina della creazione, rifiutò ogni altro intervento di Dio nel mondo delle sue creature. Nell’ambiente<br />
razionalista e illuminista i dogmi non erano che affermazioni della ragione umana e norme di con-<br />
73 G. SCHWAIGER, “L’illuminismo nella visione cattolica”, in Concilium (ed. it.) 7 (1967) 101-118.<br />
215
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
dotta per l’uomo. Due fattori influirono soprattutto in questo concetto di dogma: la creazione di una<br />
filosofia della storia profana e indipendente da ogni influsso teologico; l’equiparazione del cristia-<br />
nesimo, privato del suo carattere soprannaturale, con le altre religioni del mondo. Proprio in questo<br />
spirito sorge una concezione “deistica” della Chiesa, caratterizzata da Möhler con le note parole:<br />
«Dio creò (all’inizio) la gerarchia, ed ha provveduto più che abbastanza per la Chiesa, fino alla fine<br />
del mondo» 74 . Dio è attivo ed efficace solo agli inizi della Chiesa, in analogia al suo agire nella cre-<br />
azione; l’ulteriore svolgimento, il decorso della storia, si svolge seguendo leggi, strutture e funzioni<br />
autonome, immanenti alla Chiesa; legittima garante di questo svolgersi è la gerarchia.<br />
d) Se la Controriforma aveva sottolineato che la Chiesa era una società visibile come «l’assemblea<br />
del popolo romano, il regno di Francia o la repubblica di Venezia» (Bellarmino), era inevitabile che<br />
risorgesse un’antica questione: quali sono le relazioni di questa società al regno di Francia o alla re-<br />
pubblica di Venezia? Allo stesso tempo, la forte enfasi nel periodo successivo a Trento sulla Chiesa<br />
quale società gerarchicamente organizzata sotto i legittimi pastori fece rinascere un’altra questione:<br />
come sono organizzati i diritti e le responsabilità di questi pastori? L’impatto culturale e politico<br />
della crescita degli stati nazionali nell’Europa Occidentale offrì il contesto nel quale a queste do-<br />
mande si poteva rispondere in due modi: o si comprendeva la Chiesa come una società fortemente<br />
centralizzata con l’autorità posta primariamente in un papato modellato sulle monarchie assolute<br />
oppure si poteva vedere la Chiesa delimitata dai confini nazionali e così enfatizzare il ruolo delle<br />
gerarchie nazionali. È sintomatico che le discussioni ecclesiologiche fino al tempo della Rivoluzio-<br />
ne Francese furono concentrate proprio sulle questioni interconnesse della politica ecclesiastica (il<br />
“Gallicanesimo” episcopaliano in Francia; il “Febronianesimo” nei paesi di lingua tedesca) e le re-<br />
lazioni fra Chiesa e stato (il “Gallicanesimo” regalista in Francia; il “Giuseppinismo” in Austria).<br />
Il “Gallicanesimo” è un fenomeno complesso con radici molto antiche. La pretesa che la Chiesa in<br />
Francia fosse più o meno esente dall’autorità papale in ragione di vari privilegi collegati alla corona<br />
francese era stata asserita con vari gradi di forza fin dall’alto Medio Evo; aveva raggiunto il suo api-<br />
ce durante il Grande Scisma Occidentale in congiunzione con le dottrine conciliariste, ed era stata<br />
difesa storicamente, canonicamente e teologicamente da vari autori anche dopo il Concilio di Trento<br />
(ad es. Edmond Richer [1560-1631], Pierre de Marca [1594-1662]). Nello stesso tempo misure pra-<br />
tiche di Gallicanismo regalista cercarono di limitare il potere della sede di Roma nella Chiesa di<br />
74 ThQ 5 (1823) 497; sul tema J.R. GEISELMANN, “Chiesa e spiritualità nei movimenti spirituali della prima metà del sec.<br />
XIX”, in: Sentire Ecclesiam II, op. cit., 121-220.<br />
216
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Francia. La Prammatica Sanzione di Bourges (1438), in cui il clero francese asseriva che le proprie-<br />
tà ecclesiastiche e le nomine dei vescovi in Francia non erano soggette alla giurisdizione papale, era<br />
stata soppiantata dall’ancora più esteso Concordato di Bologna (1516) che riconosceva il diritto del-<br />
la corona di Francia a designare virtualmente tutti i vescovi e gli abati nei suoi domini. Poiché i de-<br />
creti del Concilio di Trento erano in conflitto con le provvisioni del Concordato, la monarchia fran-<br />
cese non permise la loro pubblicazione in Francia. Il cardinal Richelieu (1585-1642) aveva persino<br />
pensato alla formazione di un Patriarcato di Francia, equivalente in autorità ai patriarcati orientali,<br />
che avrebbe reso la chiesa di Francia virtualmente indipendente dalla sede papale. Nel 1663 la facol-<br />
tà della Sorbona, su sollecitazione del re, pubblicò una dichiarazione che affermava la libertà della<br />
corona dall’autorità papale, asseriva la supremazia dei concili ecumenici sul papato e rigettava<br />
l’infallibilità papale. La formulazione più semplice delle rivendicazioni gallicane sono i quattro Ar-<br />
ticoli Gallicani scritti da Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) ed accolti dall’assemblea del clero<br />
francese del 1682. Gli Articoli affermavano che il papa non ha alcun potere sulle questioni tempora-<br />
li e che perciò i re non sono soggetti all’autorità ecclesiastica in tali materie; che il papato non può<br />
né deporre un monarca né sciogliere i sudditi dal vincolo di fedeltà; che un concilio generale pos-<br />
siede un’autorità maggiore del papa; che le tradizionali libertà gallicane sono inviolabili; e che fin-<br />
ché non sono ratificati da un concilio generale, i decreti papali sono riformabili. In tal modo le due<br />
correnti del Gallicanesimo — quello regalista che asseriva l’indipendenza dei monarchi dall’autorità<br />
ecclesiastica, in specie quella papale, e quello episcopalista, che difendeva i diritti dei vescovi indi-<br />
viduali e delle gerarchie nazionali nei confronti della centralizzazione romana — confluirono l’uno<br />
nell’altro negli Articoli e si rafforzarono a vicenda. Sebbene questi Articoli furono condannati da<br />
Roma nel 1690 e ritirati da Luigi XIV nel 1693, la loro sostanza continuò ad essere oggetto di inse-<br />
gnamento nelle scuole e nei seminari francesi per tutto il diciottesimo secolo.<br />
Nei territori germanofoni la corrente episcopaliana trovò la sua più chiara espressione nel Febronia-<br />
nismo. Il nome viene da Justinus Febronius, lo pseudonimo di Nikolaus von Hontheim (1701-90),<br />
vescovo suffraganeo di Treviri, il quale nel 1763 pubblicò il De statu Ecclesiae et legitima potestate<br />
Romani Pontificis liber singularis, sui rapporti fra il vescovo locale e il papa. Seguendo i canonisti<br />
gallicani con cui aveva studiato in Belgio, Hontheim riteneva che il Cristo aveva conferito il potere<br />
delle chiavi alla Chiesa tutta, sebbene esso fosse esercitato dai vescovi individualmente e raccolti in<br />
un concilio generale. Il primato papale era puramente un primato di onore; il ruolo del papa era<br />
quello di un coordinatore che cercava di assicurare la pace e l’armonia nella Chiesa universale. Era<br />
richiesta un’approvazione episcopale, sia individuale che conciliare, per la validità di ogni direttiva<br />
papale. Il papa non aveva alcuna autorità per nominare o persino confermare i vescovi e certamente<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
non di deporli. Hontheim suggeriva un piano di azione con cui i vescovi tedeschi avrebbero potuto<br />
forzare il riconoscimento romano di ciò che egli riteneva l’ordine proprio della Chiesa. Ad un in-<br />
contro tenutosi nel 1786 a Bad Ems i rappresentanti delle maggiori sedi metropolitane di Germania<br />
emanarono una dichiarazione in ventitré articoli, la Punctatio di Ems, che essenzialmente incarnava<br />
il programma di Febronio e invitava l’imperatore a sollecitare un Concilio di tutti i vescovi tedeschi.<br />
Il corrispettivo tedesco del Gallicanesimo regalista fu il Giuseppinismo, dal nome dell’imperatore<br />
Giuseppe II (1741-90), un “despota illuminato”, che cercò di riformare l’Austria e la Chiesa secon-<br />
do i principi dell’Illuminismo. Il suo principio base era quello di ritenere che la Chiesa e i suoi mi-<br />
nistri erano subordinati all’autorità civile in tutte le materie che non toccavano direttamente la dot-<br />
trina, come per esempio la riforma delle pratiche liturgiche, la disciplina del clero, il regolamento<br />
delle scuole ecclesiastiche, la ristrutturazione dei confini delle diocesi e delle parrocchie… Egli ve-<br />
deva i vescovi e i parroci come amministratori civili che dovevano assecondare lo Stato, vera e uni-<br />
ca societas perfecta, nel suo compito di educazione complessiva dei sudditi.<br />
2.5. Il rinnovamento ecclesiologico del XIX secolo<br />
2.5.1. La Rivoluzione francese e le sue conseguenze<br />
a) Il periodo che segue all’illuminismo è in parte condizionato dall’immagine di Chiesa delineatasi<br />
in quest’epoca e rimane contrassegnato da alcuni avvenimenti storici.<br />
Innanzitutto bisogna ricordare la Rivoluzione Francese. In quanto abbattimento del sistema sociale<br />
del feudalesimo in nome della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità, e proclamazione dei diritti<br />
dell’uomo, insita nell’istanza dello stesso illuminismo francese, questa rivoluzione comportò — ad<br />
incominciare dalla Francia — la soppressione dei privilegi e dei poteri fino allora accordati al ceto<br />
clericale, soprattutto alle cerchie imparentate con la nobiltà. Ma significò pure la dissoluzione delle<br />
precedenti forme di organizzazione ecclesiastica e la separazione della Chiesa dallo stato, ora seco-<br />
larizzato, pienamente conscio della propria dignità e deciso a rivendicare i suoi pieni poteri anche in<br />
campo religioso. Questa nuova coscienza condusse in parte anche ad una ostilità aperta nei confronti<br />
della Chiesa, fino a sfociare nella persecuzione. In ogni caso la Chiesa dovette subire gravi umilia-<br />
zioni, alle quali contribuì in modo determinante anche il modo in cui Napoleone trattò il papa, con<br />
l’obiettivo di sottoporlo interamente al servizio del proprio disegno politico. Dal canto suo il papa<br />
fu costretto a creare un nuovo ordine di rapporti con lo stato e con gli stati servendosi a tale scopo<br />
dei concordati. Tuttavia il corso degli avvenimenti volle che il papa, così impotente, avvilito e umi-<br />
liato, conferisse anche un nuovo prestigio ed una crescente simpatia al proprio ministero.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
b) La secolarizzazione, strettamente connessa con l’illuminismo e con la rivoluzione francese, signi-<br />
ficò soprattutto per la Germania, con il bando della deputazione imperiale, la fine del potere clerica-<br />
le territoriale (1803), la confisca dei beni sino allora posseduti dalla Chiesa, specialmente da mona-<br />
steri e capitoli, a favore dei principi secolari; la fine dell’organizzazione ecclesiastica esistente e del-<br />
le sue forme, ma anche la fine dell’idea medievale dell’impero, del sacro romano impero della na-<br />
zione germanica. La secolarizzazione sottrasse alla Chiesa le sue basi economiche, le sue molteplici<br />
istituzioni e soprattutto il suo apparato di formazione, molto esteso e influente. Significò pure la fi-<br />
ne di quella funzione protettiva che il potere imperiale aveva svolto nei confronti della Chiesa.<br />
Anche la secolarizzazione fu un modo di esprimere il distacco tra potere spirituale e potere terreno e<br />
comportò una depoliticizzazione della Chiesa. Tuttavia questa perdita in realtà fu un guadagno. Re-<br />
se infatti i vescovi liberi da ogni compromissione secolare, specialmente di ordine politico; li spo-<br />
gliò del loro ruolo di principi, di signori territoriali, di principi elettori, e li richiamò finalmente ai<br />
loro compiti e responsabilità spirituali e pastorali, da lungo tempo dimenticati o ritenuti di seconda-<br />
ria importanza. La nuova situazione costrinse la Chiesa a rinunciare al braccio secolare e ai mezzi<br />
che esso le metteva a disposizione; a contare soltanto sulle proprie forze, a basarsi e mantenersi sol-<br />
tanto sul fondamento della propria natura e missione, ad esprimere e a realizzare ciò che ad essa è<br />
proprio, che non può essere barattato con alcunché né può derivarle da altri. E questo le riuscì quan-<br />
to più chiaramente le circostanze l’aiutarono, od anche la costrinsero, a battere da sola tale cammi-<br />
no, senza lasciarsi coinvolgere in altri interessi e senza contare su aiuti estranei.<br />
2.5.2. Il Romanticismo<br />
Un altro avvenimento importante per l’immagine di Chiesa è il diffondersi di questa tendenza cultu-<br />
rale, che sorge come movimento diretto contro certi impulsi del razionalismo (illuminismo e dei-<br />
smo) e si diffonde in tutti i campi del sapere e dell’agire umano. Tale tendenza rimette in luce<br />
l’importanza della tradizione e della storia, risveglia una sensibilità nuova per le dimensioni del-<br />
l’interiorità, del sentimento (del cuore), per la realtà del popolo e della comunità e per gli elementi<br />
vitali su cui queste si fondano. Una vasta corrente romantica ha influenzato le impostazioni eccle-<br />
siologiche d’inizio ’800 e ha contribuito non poco all’evoluzione della dottrina ecclesiologica.<br />
Da questi impulsi deriva una nuova immagine di Chiesa che, se non è presente ovunque in senso<br />
geografico, è tuttavia determinante per la «geografia ecclesiologica» 75 . Dopo la rinascita religiosa e<br />
75 R. AUBERT, “La geografia ecclesiologica del XIX secolo”, in Sentire Ecclesiam II, op. cit., 47-120.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
teologica promossa da Trento, infatti, la teologia aveva conosciuto un certo ristagno e decadenza, e<br />
aveva visto la prevalenza di forme ripetitive di neo-scolastica postridentina, con un’impostazione<br />
ecclesiologica prevalentemente guidata da canoni socio-giuridici. Nella prima metà del XIX secolo<br />
vi è una certa fioritura teologica, quella che Congar chiama «rinnovamento della teologia del XIX<br />
secolo» 76 . Questa figura di Chiesa, ispirata dai motivi del romanticismo, si affermò soprattutto in<br />
Germania e in particolar modo nella scuola cattolica di Tubinga, dove J.M. Sailer segnò il passag-<br />
gio dall’illuminismo al romanticismo. L’esponente più importante della nuova <strong>ecclesiologia</strong>, accan-<br />
to a J.S. Drey, il fondatore, è Johann Adam Möhler<br />
a) Introduzione<br />
2.5.3. Fermenti di rinnovamento nell’<strong>ecclesiologia</strong> della Scuola di Tubinga<br />
Ai problemi posti dal razionalismo e dal liberalismo nella cultura e nella politica, e alle tendenze e-<br />
piscopaliste e giuseppiniste nelle relazioni tra vescovo e papa concernenti il governo della chiesa e<br />
tra le relazioni Chiesa-Stato, nell’ambito politico-ecclesiastico, risponde l’<strong>ecclesiologia</strong> ultramonta-<br />
na (cfr. infra § 2.5.4.) rafforzando l’autorità della chiesa e, concretamente, della gerarchia, tanto nel-<br />
la dimensione dottrinale come nelle sue relazioni con il potere temporale. Mentre questa immagine<br />
della chiesa, centrata dalla fine del sec. XVIII sugli aspetti dell’autorità, dominò nei circoli dei teo-<br />
logi e dei canonisti ultramontani e negli ambienti ufficiali della curia papale, fermenti di rinnova-<br />
mento dell’<strong>ecclesiologia</strong> e, di conseguenza, dell’immagine stessa della chiesa cercarono di farsi<br />
strada. Questi partivano dalla nozione teologica della chiesa come organismo vivo di quanti sono<br />
uniti tra di loro e con Cristo, anzitutto, mediante vincoli soprannaturali di grazia, inclusa, natural-<br />
mente, la sottomissione all’autorità gerarchica.<br />
Fondandosi su questa nozione di chiesa e tornando alle fonti della teologia, i rappresentanti più illu-<br />
stri della scuola di Tubinga (e poi della Scuola romana) si proponevano un autentico rinnovamento<br />
dell’<strong>ecclesiologia</strong> e una vera restaurazione della chiesa tam in capite quam in membris.<br />
b) L’opera ecclesiologica di J.A. Möhler (1796-1838)<br />
Esponente della Scuola cattolica di Tubinga, influenzata dal romanticismo, Johann Adam Möhler<br />
(1796-1838) è il teologo considerato ‘simbolista’ per eccellenza e anche precursore del pensiero e-<br />
cumenico in ambito cattolico. La sua teologia della Chiesa è presente principalmente in due opere:<br />
76 CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, op. cit., 417.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Die Einheit in der Kirche (L’unità nella Chiesa, cioè il principio del cattolicesimo nello spirito dei<br />
Padri della Chiesa dei primi tre secoli, 1825) e Symbolik (Simbolica o esposizione delle antitesi<br />
dogmatiche tra cattolici e protestanti secondo i loro scritti confessionali pubblici, 1832, 1838 5 ).<br />
Superando un’<strong>ecclesiologia</strong> condotta secondo criteri meramente esteriori, morali e socio-giuridici,<br />
egli si scosta dalle concezioni illuministiche, controversistiche e anche meramente spiritualistiche<br />
(presenti nel pietismo), si scosta dai modelli classici di tipo “somatico” e “politico”, optando per un<br />
modello pneumatologico: la Chiesa è vista come vita nello Spirito.<br />
Nella prima opera egli, alla scuola dei Padri, vede la radice dell’unità nella Chiesa nell’opera e crea-<br />
zione dello Spirito, dello Spirito di Cristo vivente nella comunità dei fedeli. Questa unità interiore,<br />
sorretta sempre dallo Spirito, crea un espressione conforme alla propria natura nell’unità del corpo<br />
della Chiesa: negli organi e nei ministeri della Chiesa, che a loro volta devono essere la traduzione<br />
corporea della realtà interiore, la manifestazione dello Spirito nella fede, nella speranza e nella cari-<br />
tà. Tale principio — che è la fede cristiana —, è anzitutto fede nella comunicazione della vita di Dio<br />
nello Spirito, dove «ogni individuo deve accettare in sé attraverso un’esperienza religiosa personale,<br />
la vita santa che esiste nella Chiesa. Egli deve trasformare e fare veramente propria nella sua con-<br />
templazione l’esperienza religiosa della comunità. Deve infine lasciare che si crei e si sviluppi in sé<br />
una vita tutta santa, in armonia con le disposizioni che la sua conoscenza del Cristianesimo avrà su-<br />
scitate». Così «la totalità dei doni dello Spirito sta soltanto nella totalità dei credenti».<br />
Parlando di Tradizione, Möhler dice che consiste nel Vangelo predicato cominciando dagli apostoli;<br />
osserva che il Vangelo scritto è posteriore al Vangelo vivo e predicato e riproduce quest’ultimo.<br />
Pertanto, l’interpretazione della Scrittura va respinta se non è conforme alla Tradizione viva che<br />
sussiste nella Chiesa.<br />
Oltre che radice dell’unità di fede e di tradizione, lo Spirito Santo è alla base anche dell’unità di go-<br />
verno della Chiesa, dal momento che il ministero episcopale sorge in forza di un’istanza pneumati-<br />
ca. Il nostro Autore argomenta così:<br />
«Appena il santo principio, formatore di unità, è divenuto attivo nell’anima dei fedeli, questi si<br />
sentono tanto attirati gli uni verso gli altri e tesi verso l’unione con tutti, che le loro aspirazioni<br />
profonde sono soddisfatte unicamente quando vedono la loro unità rappresentata, concretata in una<br />
figura. Il vescovo è, per un luogo determinato, la figura visibile dell’unione invisibile di tutti i cristiani.<br />
In lui è personificato l’amore degli uni per gli altri; egli è la manifestazione e il centro vivo<br />
dei sentimenti cristiani che aspirano all’unità […]. Egli è l’amore dei cristiani realizzato e pienamente<br />
cosciente. Inoltre egli è il mezzo migliore per alimentarlo e conservarlo in unità» 77 .<br />
77 J.A. MÖHLER, L’unità nella Chiesa (Roma: Città Nuova, 1969) 226.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
La vita dello Spirito, però, unisce i fedeli ben oltre i confini della diocesi; sono quindi necessarie al-<br />
tre personificazioni dell’unità interiore: i metropoliti e i patriarchi, i quali costituiscono non solo il<br />
centro, ma anche il frutto di una tensione ultradiocesana. Si giunge poi, al culmine supremo d’unità,<br />
al Pontefice Romano, che è la personificazione, il centro, il frutto dell’unità di tutta la chiesa. Così<br />
la vita cristiana, lo «spirito del cristianesimo» — effetto dello Spirito santo vivente nel cuore dei fe-<br />
deli e da loro ricevuto solo tramite la comunità — ha la sua massima manifestazione, garanzia ed<br />
esplicazione nella persona del papa, che è il frutto più maturo della carità di tutta la chiesa.<br />
La concentrazione pneumatica, che Möhler dà alla sua <strong>ecclesiologia</strong> in quest’opera, è controbilan-<br />
ciata dalla ripresa in Symbolik della dimensione cristologica — la quale gli consente meglio di op-<br />
porsi all’idea protestante di una Chiesa invisibile: il fondamento ultimo della visibilità della Chiesa<br />
sta nel Verbo incarnato. Quest’immagine di Chiesa fortemente cristocentrica e sacramentale lo porta<br />
a parlare della comunità dei credenti come una sorta di “incarnazione continuata”:<br />
«La Chiesa è il Figlio di Dio che si manifesta perennemente tra gli uomini in forma umana, che si<br />
rinnova continuamente e permane sempre immutabile, cioè la continua e perenne incarnazione del<br />
Figlio di Dio» 78 .<br />
L’aspetto esteriore della chiesa è fondato sull’autorità e sulla concretezza storica di Cristo; da lui<br />
promana la realtà sacramentale e gerarchica della chiesa. Non è solo l’azione unitaria dello Spirito<br />
che concretizza l’unità nei vescovi e nel papa, ma è anche l’autorità di Cristo, il quale li ha istituiti<br />
come continuatori della sua opera redentrice.<br />
Oltre a questo aspetto esteriore, vi è, però, l’aspetto interiore della chiesa, che è pur sempre basilare.<br />
Questo elemento interno ora però viene visto fondamentalmente in Cristo, Figlio di Dio fatto uomo.<br />
Con ciò non viene esclusa l’azione dello Spirito santo. Egli continua a vivere e ad agire nella chiesa;<br />
ma non si presenta più in modo indipendente, quasi assoluto; è sempre lo Spirito di Cristo, da Cristo<br />
mandato. La sua azione ecclesiale ubbidisce ora alla legge fondamentale dell’incarnazione.<br />
La chiesa non è tanto una continua Pentecoste, quanto una continua incarnazione; o meglio, è pur<br />
sempre considerata come una Pentecoste, ma tenendo presente che lo Spirito disceso dal cielo è lo<br />
Spirito del Verbo Incarnato, da lui inviato. Non per nulla ha preso un aspetto concreto, visibile,<br />
quando è disceso sugli apostoli sotto forma di lingue di fuoco: ciò è in piena consonanza con la vi-<br />
sibilità del Verbo Incarnato, la quale fonda la visibilità essenziale della chiesa. E l’azione dello Spi-<br />
rito continua a svolgersi per mezzo di elementi visibili: i segni visibili nei sacramenti; i predicatori,<br />
78 J.A. MÖHLER, Simbolica (Milano: Jaca Book, 1984) paragrafo 36.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
nell’annuncio della verità. La chiesa dunque non è solo la vita nuova che germoglia sotto l’azione<br />
dello Spirito santo, o la carità da lui promanante; essa è fondamentalmente la continuazione viva e<br />
perenne dell’opera redentrice del Cristo. La chiesa non è più l’unità nell’amore formata dallo Spirito<br />
santo, ma è l’istituzione salvifica fondata da Cristo e penetrata dalla potenza del Figlio di Dio fatto<br />
uomo; il Cristo redentore che continua a vivere e ad operare; è l’incarnazione sempre attuale del Fi-<br />
glio di Dio. Così il Papa non è più solo coronamento, ma anche fondamento dell’unità.<br />
Per cui Möhler può dire che «tutto il cristianesimo è fondato sul Figlio di Dio fatto uomo». Ecco<br />
perché la Scrittura ha chiamato i credenti corpo di Cristo. In modo analogo e vivente, essa è una co-<br />
pia dell’originale Cristo, in quanto in lei si dà tanto l’elemento divino che l’umano senza confusione<br />
e senza separazione. Tra il Verbo incarnato e la chiesa si dà un rapporto di vera analogia.<br />
Questa immagine non venne propugnata soltanto dal Möhler e dalla scuola di Tubinga, ma influì<br />
sull’intera teologia tedesca ed anche su quella straniera, come ad es., sulla “Scuola Romana” (cfr.<br />
infra 2.6.1.); anche se bisogna aggiungere che l’immagine della Chiesa, nella prima metà del sec.<br />
XIX, non è caratterizzata soltanto dal Möhler e dai suoi impulsi ecclesiologici.<br />
2.5.4. L’<strong>ecclesiologia</strong> ultramontana<br />
Nello stesso periodo si nota che, quanto più si riduce il potere terreno della Chiesa e lo stato eccle-<br />
siastico perde d’importanza, tanto più viene accentuato con unilateralità il dato gerarchico e soprat-<br />
tutto il ruolo pontificio. Questa sottolineatura della figura papale, l’articolazione della sua suprema-<br />
zia giurisdizionale con la prerogativa dell’infallibilità significano tanto una reazione alla sorte riser-<br />
vata ai pontefici del tempo quanto una risposta all’assoggettamento dei vescovi al potere dello stato,<br />
e quindi all’implicito pericolo dell’isolamento e frantumazione. Quasi di per se stesso il papato, in-<br />
teso come centro di unità, si offriva come il mezzo di difesa ed il garante della libertà.<br />
L’esponente di questo ultramontanesimo e papalismo in Francia, dove sopravviveva ancora un gal-<br />
licanesimo moderato, aspramente combattuto dalle cerchie ultramontaniste, fu JOSEPH DE MAISTRE,<br />
con la sua opera Du Pape (1819). Egli, facendo leva su ragioni politiche e mirando a una restaura-<br />
zione della sovranità monarchica, sosteneva che come al tempo del Medioevo così anche ora il papa<br />
era chiamato ad assolvere una missione europea, la quale necessariamente comportava il privilegio<br />
del primato e dell’infallibilità. In una lettera al conte di Blacas così sintetizzava la propria posizione:<br />
Il cristianesimo si fonda interamente sul papa. Per cui potremmo enunciare il principio ispiratore<br />
dell’ordinamento socio-politico […] con questa concatenazione: non si dà pubblica morale e<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
nemmeno carattere nazionale a prescindere dalla religione, come non c’è religione europea senza il<br />
cristianesimo, il cristianesimo senza il cattolicesimo, il cattolicesimo senza papa, e non c’è papa<br />
che non goda di sovranità 79 .<br />
È chiaro che al de Maistre interessava più la restaurazione della monarchia che la sorte del cattolice-<br />
simo. D’altra parte, dobbiamo riconoscergli un merito: egli si era accorto che una questione come<br />
quella dei rapporti tra il papa e la chiesa non si poteva risolvere unicamente rifacendosi alle situa-<br />
zioni esistenti nell’antichità cristiana, ma che era necessario considerare attentamente anche le con-<br />
dizioni attuali della chiesa (il principio dello sviluppo dogmatico).<br />
Un influsso maggiore soprattutto sui centri ecclesiastici fu quello di HUGO FELICITÉ ROBERT DE LA-<br />
MENNAIS [fino al 1834: de La Mennais]. Di fronte agli influssi liberali che cercavano di affermarsi<br />
al principio della restaurazione egli pensava che solo dalla chiesa, incarnata nel Papa, il re poteva<br />
ricevere un potere abbastanza forte per imporre l’ordine nella società; d’altra parte, soltanto un clero<br />
indipendente dallo stato e diretto da un papa infallibile, signore incontestato nella chiesa, poteva go-<br />
dere del prestigio morale necessario per salvare la libertà spirituale dal potere politico. L’ultra-<br />
montanismo di Lamennais non era propriamente parlando una fede nella superiorità soprannaturale<br />
del papa, ma piuttosto un metodo politico. Il successo del suo Saggio sull’indifferenza in materia di<br />
religione, fece sì che la sua campagna in favore dell’ultramontanesimo attirasse l’attenzione di un<br />
certo numero di giovani preti, preoccupati di rinnovare i metodi dell’apostolato. Questi formarono<br />
un nucleo di discepoli entusiasti (Gerbert Salmis, Guéranger 80 , Combelot, Rhorbacher) che non<br />
vennero meno neanche dopo la defezione di Lamennais a seguito della enciclica di Gregorio XVI<br />
Mirari vos (1832). In questo atteggiamento di fondo si staglia sempre più decisamente il fattore del-<br />
la «romanità», tipico dell’immagine di Chiesa delineatasi in quel periodo e secondo cui la realtà ec-<br />
clesiale deve essere innanzitutto compresa come chiesa pontificia ed ogni essere ed agire ecclesiali<br />
derivati dal papato e da questi determinati in modo centralistico. Non si era dunque tanto lontani da<br />
un culto al papa che rasentava persino la bestemmia: Louis Veuillot riferiva, ad es., alla persona<br />
stessa del pontefice il passo di Eb 7,6, che la lettera applica al Cristo, e l’inno «Veni sancte Spiri-<br />
tus».<br />
L’ultramontanismo ha i suoi esponenti anche in altri paesi. In Germania troviamo diverse «cerchie»:<br />
a Magonza (Liebermann), a Münster, a Monaco; in Austria, a Vienna (Hofbauer); in Inghilterra è<br />
79 J. DE MAISTRE, Lettre au Comte de Blacas, 22 Mai 1814, in Correspondances IV (Lyon 1821) 428.<br />
80 M.-H. DELOFFRE, Confesser l’Église. Introduction à l’ecclésiologie de dom Gueranger, Éd. de Solesmes, 2006.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
propugnato soprattutto dai convertiti, primo fra i quali il futuro cardinale Manning (è interessante<br />
notare la posizione ben diversa assunta invece da J.H. Newman).<br />
Questo tratto ecclesiale prese ancora più consistenza quando incominciò ad imporsi sempre più vi-<br />
gorosamente la teologia romana con la sua neoscolastica. Tale riflessione teologica non traeva le<br />
sue origini da un confronto creativo con lo spirito del tempo, come invece notiamo nei tentativi in-<br />
trapresi a Tubinga e in parte anche a Monaco (Döllinger), Bonn (Hermes) e Vienna (Günther), ma<br />
era preoccupata soltanto di difendersi contro il pensiero moderno e lo spirito del tempo, che si bol-<br />
lavano come incompatibili con la dottrina cristiana. Il suo sforzo si esauriva nel conservare il patri-<br />
monio ereditato dal passato — che si riteneva avesse trovato nella scolastica la sua articolazione ed<br />
esposizione insuperabile — e nel contrapporlo come un baluardo alle tempeste e ai turbamenti<br />
dell’epoca. Può essere sintomatico di questa mentalità il fatto che l’edilizia ecclesiastica non fu in<br />
grado di crearsi una propria e specifica espressione, ma si limitò ad un’opera restauratrice, a copiare<br />
il romanico e il gotico (ora neoromanico e neogotico), esaurendosi così nell’arte dei «nazareni».<br />
Questo impulso di fondo condiziona decisamente e globalmente anche l’immagine di Chiesa di quel<br />
periodo: la Chiesa è l’opposizione e contraddizione allo spirito del tempo perché, e negli stessi ter-<br />
mini in cui, questo spirito è opposizione e contraddizione alla fede e quindi alla mentalità dei cre-<br />
denti. Secondo la diagnosi stilata da questa teologia al fondo degli “errori moderni” ci sta il raziona-<br />
lismo, il culto della ragione autonoma, quella che affermando il suo primato rigetta qualsiasi altra<br />
autorità, anche l’autorità di Dio e della Chiesa. Inevitabilmente, quindi, il razionalismo porta alla<br />
negazione dell’esistenza di Dio e all’ateismo. Strettamente legato ad un atteggiamento del genere è<br />
il naturalismo, quel culto della pura mondanità che sostituisce la fede in Dio con la fede nel pro-<br />
gresso scientifico e sociale. Dal naturalismo e dall’empirismo seguirebbe poi il materialismo, il qua-<br />
le nega la natura spirituale dell’uomo. In tal modo, però, si viene a mettere in questione la stessa ra-<br />
gione e la sua capacità di verità. Relativismo e indifferentismo sarebbero gli effetti, mentre la radice<br />
di tutti i mali consisterebbe nella Riforma, nel cui nome il giudizio privato del singolo è stato inse-<br />
diato al posto dell’autorità della Chiesa. È qui che si vede il luogo di nascita della rivendicazione<br />
moderna dell’autonomia dell’uomo, della sua ragione, della sua libertà. E il liberalismo, che divulga<br />
sul terreno culturale e politico un’istanza del genere, altro non sarebbe che il rifiuto dell’autorità di<br />
Dio e della sua Chiesa. Contro questi errori occorre ingaggiare una battaglia senza quartiere. Ogni<br />
attività dev’essere pensata e ordinata ad un unico scopo: impedire l’irruzione dall’esterno delle for-<br />
ze nemiche e devastatrici, e rafforzare il fronte interno, renderlo compatto, aumentarne le possibilità<br />
difensive. Inoltre si pensa di poter raggiungere efficacemente questo obiettivo solo conferendo<br />
un’espressione chiara e univoca al contenuto della fede, e ciò mediante l’oggettivazione dei conte-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
nuti di fede nella forma di definizione dogmatica, di rifiuto deciso di ogni eresia, confusione, falso<br />
comportamento, chiaramente diagnosticati. Espressioni emblematiche di questa concezione di Chie-<br />
sa sono l’enciclica Mirari Vos di Gregorio XVI (autore come Mauro Cappellari dello scritto Trionfo<br />
della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori), il Sillabo di Pio IX (DzH 2901-<br />
2980) e il concilio Vaticano I (1869/70), il quale riassume tutti questi impulsi.<br />
L’obiettivo è quello di unificare il mondo cattolico, per produrre una dimostrazione eloquente della<br />
verità, che contraddica gli errori del tempo, e adeguare la disciplina ecclesiastica alla situazione.<br />
Notiamo che Gregorio XVI aveva avvertito l’appello alla riforma della chiesa come un attacco alla<br />
sua essenza, «quasi che questa possa essere esposta a delle carenze». L’appello al rinnovamento ed<br />
alla conversione doveva essere rivolto al mondo soltanto, perché la Chiesa era il «signum levatum in<br />
nationes», come affermerà il Vaticano I (Costituzione Dogmatica «Dei Filius», cap. 3; DzH 3014).<br />
In questo modo ecclesialità e antimodernità diventano praticamente identiche. La restaurazione di<br />
un cattolicesimo identificato di fatto con l’autorità papale e legato al centralismo romano costituisce<br />
lo sforzo dell’apologetica e della teologia della Chiesa nel XIX secolo e ancora nel XX. Questa ec-<br />
clesiologia ultramontana, dominante tra il 1850 e il 1950, trova la sua espressione peculiare nella<br />
comprensione della Chiesa come «società perfetta» (cioè indipendente). Questa nozione, nella sua<br />
intenzione basilare, ha di mira correttamente la libertà e l’indipendenza della Chiesa di fronte allo<br />
Stato. Sullo sfondo dell’<strong>ecclesiologia</strong> occidentale e collegata alla forma razionalistica di pensiero,<br />
all’apologetica antimoderna e alla fissazione della forma organizzativa centralistica dello Stato,<br />
questa autocomprensione tuttavia determina verso l’esterno una rigida chiusura rispetto alla cultura<br />
e alla società moderna e un recupero di forme di vita premoderne e, verso l’interno, mediante<br />
l’accentuazione dell’autorità e della gerarchia, una divisione chiara nella Chiesa fra chierici e laici e,<br />
dal punto di vista della forma costituzionale, un’uniformazione «ultramontana» e centralistica della<br />
Chiesa attraverso la liturgia e la disciplina romana, così che la Chiesa cattolica poteva apparire<br />
dall’esterno ormai solo come un’unica diocesi papale.<br />
I papi del XIX secolo, sullo sfondo di una tendenza diffusa alla restaurazione, contro la sovranità<br />
dello Stato moderno, contro la critica nei confronti della Chiesa, contro le tendenze episcopalistiche<br />
e gallicane e contro i primi tentativi di una teologia e di una vita religiosa adattate all’epoca moder-<br />
na, hanno ripreso con decisione l’antico programma della libertas Ecclesiae ma ormai nella consa-<br />
pevolezza dell’impossibilità di ridare vita a un ordine unitario di cristianità sacrale: la Chiesa è una<br />
societas perfecta che si distingue da tutte le altre società per il suo carattere soprannaturale, la sua<br />
struttura gerarchica che possiede nel papato il suo principio di unità, la sua pretesa di universalità<br />
(cfr. Pio IX, Sillabo 1864, prop. 19ss.: DzH nn. 2919ss). In tale prospettiva, il papato e la sua autori-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
tà divengono il perno dell’indipendenza e della libertà ecclesiale. Nella costituzione Pastor Aeter-<br />
nus del concilio Vaticano I (1870) questa <strong>ecclesiologia</strong> riceverà la sua sanzione magisteriale.<br />
2.6. L’<strong>ecclesiologia</strong> dal Vaticano I al Vaticano II<br />
La riflessione teologica sulla Chiesa ha seguito una traiettoria che possiamo dividere in quattro pe-<br />
riodi cronologicamente disuguali, ma ognuno con una concentrazione tematica distinta.<br />
Il primo periodo, partendo dal Vaticano I, comprende più o meno mezzo secolo. La riflessione sulla<br />
dottrina ecclesiologica avviene sotto il segno dell’<strong>ecclesiologia</strong> proposta nella costituzione dogmati-<br />
ca Pastor Aeternus del 18 luglio 1870. In questo periodo l’<strong>ecclesiologia</strong> procede con diligenza a<br />
consolidare gli elementi fondamentali acquisiti dal Vaticano I, mentre, nello stesso tempo si va a-<br />
prendo lentamente a nuove idee ecclesiologiche e soprattutto a nuovi impulsi di rinnovamento della<br />
vita ecclesiale. Questo primo periodo si può considerare chiuso verso la fine del secondo decennio<br />
del secolo XX.<br />
Verso il 1920 si inizia il secondo periodo con un risveglio euforico del senso della Chiesa nel cam-<br />
po teologico e in tutta la vita ecclesiale. Da questa nuova esperienza della Chiesa nasce un rinnova-<br />
mento ecclesiologico, che determina la traiettoria ascendente del progresso della <strong>ecclesiologia</strong> per<br />
quasi due decenni. Verso il 1937 questo rinnovamento dell’<strong>ecclesiologia</strong> incontra seri ostacoli che<br />
tentano di sviarla verso soluzioni estremiste e unilaterali.<br />
Il terzo periodo comprende più o meno gli anni dal 1940 al 1950 con la pubblicazione della encicli-<br />
ca Mystici Corporis (1943) di Pio XII come punto centrale di questa fase del rinnovamento ecclesio-<br />
logico sotto il segno della discussione diretta di posizioni ecclesiologiche diverse. Da questo incon-<br />
tro di opinioni e tendenze ecclesiologiche a prima vista inconciliabili, con l’aiuto dell’intervento del<br />
Magistero e di una critica sincera e aperta dopo l’enciclica Mystici Corporis, a quasi dieci anni dalla<br />
sua pubblicazione si delinearono già diversi indirizzi che avrebbero reso possibile in epoca concilia-<br />
re e post-conciliare una integrazione delle ecclesiologie del Corpo mistico con l’<strong>ecclesiologia</strong> del<br />
popolo di Dio.<br />
Il quarto e ultimo periodo comprende il decennio immediatamente antecedente il Vaticano II.<br />
2.6.1. Sviluppo della dottrina sulla Chiesa nel segno del Vaticano I<br />
Alla vigilia del Vaticano I l’<strong>ecclesiologia</strong> è centrata sull’autorità. Nel secolo XVIII dominavano in<br />
varie nazioni idee politiche, culturali e religiose, raggruppabili attorno al gallicanesimo, al gianseni-<br />
smo, al febronianismo, al giuseppinismo e all’episcopalismo. Questi movimenti di pensiero attacca-<br />
vano la Chiesa nella sua esistenza pubblica, cioè nella sua forma costituzionale e nel suo regime di<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
governo, provocando come reazione un’<strong>ecclesiologia</strong> centrata sull’autorità e sulla forma monarchica<br />
di governo ricevuta da Cristo. L’<strong>ecclesiologia</strong> perciò si sforzò di «definire la Chiesa come realtà che<br />
è non solo un’associazione spirituale, ma una società propriamente detta, visibile, istituzionalmente<br />
differenziata, gerarchica e indipendente, che ha da Dio un ordine proprio, dotata non solo di realtà<br />
spirituali, ma di mezzi visibili, esteriori, insomma una società perfetta; che inoltre possiede a titolo<br />
speciale non solo ministeri spirituali, che dirigono le coscienze personali verso l’autorità tutta spiri-<br />
tuale di Dio, ma anche ministeri propriamente gerarchici, che hanno ricevuto e rappresentano qui<br />
sulla terra in forma visibile e propriamente giuridica un’autorità soprannaturale conferita propria-<br />
mente da Dio. Autorità che esiste nei vescovi e che esiste soprattutto, per istituzione formale e spe-<br />
ciale di Dio, come autorità di governo supremo, sacerdozio e ministero nel Papa, successore di Pie-<br />
tro, vicario di Gesù Cristo, delegato dei suoi poteri» 81 . Alla vigilia del Vaticano I in Occidente, tran-<br />
ne che in pochi centri di resistenza, «credere nella Chiesa significava accettarne l’autorità» 82 .<br />
Le tendenze rinnovatrici dell’<strong>ecclesiologia</strong> manifestatesi nella scuola di Tubinga (J.A. Möhler) sono<br />
però recepite almeno dagli esponenti principali della “Scuola Romana”. Con questo nome si inten-<br />
dono i portavoce della teologia difesa nella Università Gregoriana, riaperta a Roma nel 1818 e uffi-<br />
cialmente affidata di nuovo da Leone XII alla Compagnia di Gesù nel 1824. I suoi rappresentanti<br />
più qualificati sono Giovanni Perrone (1794-1876), Carlo Passaglia (1812-1887), Clemens Schrader<br />
(1820-1875), Johannes Baptist Franzelin (1816-1886). Tuttavia solo Passaglia e Schrader sviluppa-<br />
no un programma teologico proprio, che non si inquadra nelle scuole teologiche tradizionali: essi<br />
infatti recuperano una teologia positiva secondo lo stile del Petavio, che prende i suoi dati dalla tra-<br />
dizione in tutta la sua ampiezza, ma particolarmente dalla Scrittura e dai Padri, e inserisce la scola-<br />
stica medievale entro il quadro di tutta la tradizione, nel medesimo tempo in cui si sforzano di porre<br />
le varie scienze ausiliarie al servizio della teologia.<br />
Perrone, invece, strettamente parlando, appartiene alla corrente apologetica della teologia scolastica<br />
post-tridentina, anche se nella sua sintesi ecclesiologica 83 incorporò non pochi elementi della<br />
Symbolica di Möhler, sebbene più attraverso Passaglia e Schrader che mediante un contatto diretto<br />
con il teologo di Tubinga. Secondo Perrone la Chiesa è una società, dunque una persona morale che,<br />
come un individuo, deve avere non soltanto un corpo composto dalla testa e dalle membra, ma u-<br />
81 Y. CONGAR, L’écclésiologie de la Révolution Française au Concile du Vatican, sous le signe de l’affermation de<br />
l’autorité, in L’Écclésiologie au XIX e siècle, Unam Sanctam 34 (Paris 1960) 90-91.<br />
82 Ibid., 100<br />
83 Le sue Praelectiones theologicae ebbero 35 edizioni, mentre il suo Compendium 47 edizioni.<br />
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gualmente un’anima, cioè un principio vitale, una forza che la ispiri e la vivifichi. Questo principio<br />
è la grazia santificante. Però, continua dicendo:<br />
«Non mancano tuttavia alcuni a cui, andando più avanti, par di vedere nella Chiesa come la continuazione<br />
dell’Incarnazione. Per costoro Cristo, Dio-uomo, volle lasciare in essa la perfetta immagine<br />
e similitudine di se stesso, nella quale e per mezzo della quale egli stesso in qualche modo<br />
sembra vivere e dimorare con noi, anche dopo la sua visibile ascensione al cielo. Perciò la società,<br />
mostrando Cristo, come dicono costoro, è divino-umana, sussistendo nell’unità della persona con<br />
la comunicazione di entrambe le nature; in modo che l’elemento, che chiamano divino, pervada e<br />
penetri l’elemento umano, lo regga e lo diriga, lo nutra e quasi lo informi, e costituisca l’unità a<br />
partire dai due. E quell’elemento divino che dicono sia presente in questa persona morale o società,<br />
costituisce la sua parte intima o anima; mentre quell’elemento che chiamano umano, costituisce<br />
la sua forma esteriore e visibile ossia il corpo, grazie a cui come un organo l’anima si protende e si<br />
manifesta esteriormente… Purché queste cose siano intese in modo corretto…, non troviamo in essi<br />
niente che sia da riprovare, anzi riteniamo che l’idea contribuisca molto a spiegare la natura e la<br />
costituzione della Chiesa di modo che noi non ci rifiutiamo di adoperarla» 84 .<br />
Perrone difende Möhler dall’accusa di monofisismo ecclesiologico e ammette le espressioni di con-<br />
tinuatio incarnationis e corpus Christi mysticum, però solo in senso analogo e come immagini.<br />
Al contrario, Schrader e Franzelin le intesero come definizioni della Chiesa. Per Passaglia, il teolo-<br />
go più geniale della “Scuola Romana”, la Chiesa può ben chiamarsi Corpo mistico di Cristo, cioè la<br />
congregazione di tutti coloro, «in cui Cristo si manifesta e diffonde la sua vita, mediante cui si fa vi-<br />
sibile tra gli uomini e per cui continua ad offrire il frutto della sua economia salvifica» 85 .<br />
La nozione della Chiesa come Corpo mistico di Cristo passò per mezzo del suo discepolo Clemens<br />
Schrader nello Schema I de Ecclesia del Vaticano I (“Supremi pastoris”) 86 . Schrader adottò la no-<br />
zione di Corpo mistico di Cristo nel senso paolino di Ef 4,16.24 come definizione della Chiesa. La<br />
Deputatio de Fide sosteneva questa nozione per cinque ragioni:<br />
1) L’uso frequente nella Scrittura e la sua capacità di esprimere la relazione della Chiesa a Cristo.<br />
2) Una ragione di ordine metodologico che sarebbe stata decisiva per il rinnovamento del trattato<br />
“de Ecclesia”, cambiandone il punto di partenza. Si suggeriva che era conveniente che si partisse<br />
dall’essere intimo della Chiesa, dalla sua realtà spirituale. Escludendo ogni dicotomia, teorica e pra-<br />
84 G. PERRONE, Prael. theol., vol. II, pars I, cap. II, n. 44.<br />
85 C. PASSAGLIA, De Ecclesia Christi, vol. I (Ratisbonae 1853-1856).<br />
86 Lo schema prevedeva 15 cap.: I. La Chiesa è il corpo mistico di Cristo; II. La religione cristiana non si può coltivare<br />
che nella Chiesa e per mezzo della Chiesa fondata da Cristo; III. La Chiesa è una società perfetta, spirituale e soprannaturale;<br />
IV. La Chiesa è una società visibile; V. L’unità visibile della Chiesa; VI. La Chiesa è una società assolutamente<br />
necessaria per conseguire la salvezza; VII. Fuori della Chiesa nessuno si può salvare; VIII. L’indefettibilità della Chiesa;<br />
IX. L’infallibilità della Chiesa; X. La potestà della Chiesa; XI. Il primato del Romano Pontefice; XII. Il dominio temporale<br />
della Santa Sede; XIII. La concordia tra la Chiesa e la società civile; XIV. Il diritto e l’uso della potestà civile secondo<br />
la dottrina della Chiesa cattolica; XV. Alcuni diritti speciali della Chiesa in relazione alla società civile.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
tica, il punto di partenza dell’<strong>ecclesiologia</strong> (procedere dalla sua realtà misterica o dalla sua realtà<br />
sociale?) poteva determinare la costruzione di un trattato “de Ecclesia” di impronta teologico-<br />
dogmatica o apologetica. Sino al Vaticano I, tranne che per Möhler e Passaglia, il punto di partenza<br />
dell’<strong>ecclesiologia</strong> era stato indiscutibilmente l’istituzione.<br />
3) Si voleva correggere le esagerazioni dell’<strong>ecclesiologia</strong> della Controriforma evitando sterili pole-<br />
miche. L’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica non doveva dare adito al sospetto che il Cattolicesimo riducesse<br />
l’essere della Chiesa alla sua realtà sociale e visibile.<br />
4) Si riconosceva la priorità ontologica dell’aspetto soprannaturale e misterico della Chiesa e della<br />
sua vita intima e spirituale, per considerare poi le sue strutture visibili e la sua realtà esterna, indis-<br />
solubilmente unita alla realtà divina e spirituale, al fine di manifestarla e comunicarla agli uomini.<br />
5) L’ultima ragione era di convenienza pastorale. La situazione storica della Chiesa era cambiata.<br />
Nel secolo XIX l’esistenza della Chiesa era minacciata non tanto dall’eccessiva interiorizzazione,<br />
quanto dal disconoscimento dell’elemento soprannaturale.<br />
La proposta dello schema fu respinta dalla grande maggioranza dei vescovi. Questa opposizione co-<br />
sì decisa da parte dei vescovi non si spiega solo con la meraviglia e persino la sorpresa di imbattersi<br />
in una dottrina ecclesiologica per loro nuova. Le idee richiedevano tempo per maturare e il processo<br />
di maturazione era appena cominciato. In particolare, nei loro interventi i Padri conciliari reagivano<br />
contro un’<strong>ecclesiologia</strong> basata sul monopolio di una nozione ecclesiologica ad esclusione delle al-<br />
tre. Per loro la soluzione si doveva cercare integrando tutte le nozioni e immagini bibliche del mi-<br />
stero della Chiesa. Alcuni vescovi poi respingevano la nozione di Corpo di Cristo come troppo o-<br />
scura, imprecisa e metaforica. La definizione di Chiesa — disse Dupanloup — doveva partire «ab<br />
externis». Questi vescovi avevano ancora in mente la definizione bellarminiana di Chiesa. Altri ve-<br />
devano in questa nozione il pericolo di troppa interiorizzazione e persino di un ritorno alla Riforma,<br />
mentre la vera nozione della Chiesa doveva insistere sull’aspetto visibile. Per altri la nozione aveva<br />
sapore giansenista, poiché era stata l’espressione favorita negli scritti giansenisti (Sinodo di Pistoia).<br />
Respinto questo schema I, si impose la nozione di società perfetta. Lo schema II («Tametsi<br />
Deus» 87 ), redatto da Joseph Kleutgen, ricondusse a unità l’esposizione dottrinale secondo le indica-<br />
87 Lo schema aveva dieci capitoli: il cap. I afferma l’istituzione divina della Chiesa; il II descrive la Chiesa come coetus<br />
fidelium nel senso di vera societas e perfecta societas, la quale trascende ogni altra forma di società tra gli uomini e<br />
quindi è chiamata giustamente civitas Dei et regnum caelorum; il III cap. afferma l’esistenza nella Chiesa della potestà<br />
gerarchica di istituzione divina; il IV è dedicato al tema dell’episcopato; il V ai membri della Chiesa, ricorrendo alla distinzione<br />
tradizionale fra appartenenza al corpo e all’anima della Chiesa; il VI tratta il tema della necessità della Chiesa<br />
per la salvezza congiuntamente con quello della sua unità; il VII e l’VIII trattano del magistero e della giurisdizione ec-<br />
230
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
zione dei Padri, così che il risultato fu chiaramente un impoverimento della prospettiva mistica e un<br />
arricchimento della posizione societaria, che appariva meno giusnaturalistica: la chiesa non fu più<br />
vista come l’espansione del mistero di Cristo, ma come una società legale, ineguale e perfetta, isti-<br />
tuita da Cristo e da lui diretta mediante lo Spirito attraverso i pastori, la quale si identifica col regno<br />
di Cristo in terra e nella quale i fedeli partecipano a beni della «sanctorum communio».<br />
Il Concilio, mentre si stava rielaborando la costituzione sulla Chiesa, concentrò la sua discussione<br />
su quello che era stato solo un capitolo, l’XI, dello schema, dedicato al primato del Romano Ponte-<br />
fice, e ne fece una costituzione a se stante, la Constitutio prima de Ecclesia “Pastor Aeternus”,<br />
promulgata il 18 luglio 1870.<br />
La costituzione dogmatica «Pastor aeternus»<br />
aa) La problematica<br />
La costituzione dogmatica Pastor aeternus (DH 3050-3075), si divide in quattro capitoli, a ciascuno<br />
dei quali segue un canone. Essa è introdotta da un proemio che indica la finalità del primato, ossia<br />
l’unità e l’indivisione dell’episcopato, condizione dell’unità di fede e di comunione di tutti i creden-<br />
ti. Perciò il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è affermato essere perpetuo e visibile<br />
principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli.<br />
Capitolo I: «L’istituzione del primato apostolico nel beato Pietro». Il primato di Pietro è fondato su<br />
Mt 16,16-19 e Gv 21,15-17. Si insegna l’unicità della relazione tra Pietro e Cristo (uni Simoni Pe-<br />
tro; solum Petrum), la trasmissione immediata del primato a Pietro da parte di Cristo senza passare<br />
per la Chiesa e, infine, il carattere giurisdizionale (che non si situa a livello sacramentale, ma a li-<br />
vello di giurisdizione, o meglio di potestas pascendi) di questo primato che non è un semplice titolo<br />
onorifico. Secondo la costituzione questo è un insegnamento chiaro della Scrittura, che la chiesa<br />
cattolica ha sempre seguito (DH 3054). Questo capitolo, come il seguente, ebbe un largo consenso.<br />
Capitolo II: «La perpetuità del primato di Pietro nei Romani pontefici». Si citano le espressioni dei<br />
legati papali al concilio di Efeso (431), di papa Leone I, di Ireneo di Lione e di Ambrogio di Milano.<br />
Nel capitolo si insegna in primo luogo che la successione nel primato di Pietro sarebbe stata istituita<br />
da Cristo, cioè, è di diritto divino (ex ipsius Christi Domini institutione seu iure divino: DH 3058) e<br />
quindi un successore è necessario; in secondo luogo che tale successione si realizza in quella perso-<br />
na che succede a Pietro sulla cattedra di Roma. Il legame tra il successore di Pietro e la sede romana<br />
clesiastica; il IX parla della Chiesa che è verum regnum divinum, immutabile et sempiternum; mentre conclude col X<br />
che afferma che la vera Chiesa di Cristo non è altra rispetto alla Chiesa romana.<br />
231
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
dalla teologia del tempo era qualificato come un “fatto dogmatico”, precisamente originerebbe da<br />
una illuminazione divina ricevuta da Pietro. D’altra parte è da escludere la tesi secondo cui la con-<br />
nessione tra successione petrina e cattedra romana sarebbe di diritto divino. Essa infatti porterebbe<br />
con sé l’idea di un legame anche geografico con la città di Roma, la quale avrebbe così ricevuto la<br />
promessa di durare per sempre — una promessa che Cristo ha fatto solo alla Chiesa universale. Al<br />
contrario, anche se Roma scomparisse, non verrebbe meno il ministero petrino.<br />
Capitolo III: «Valore e natura del primato del Romano pontefice». Qui si cita alla lettera la defini-<br />
zione del concilio di Firenze (DH 1307). La potestà di giurisdizione del papa non è un semplice uf-<br />
ficio di ispezione o di direzione, ma è una potestà di giurisdizione piena e suprema (non può essere<br />
limitata da alcuna potestà ecclesiastica superiore, ma solo dal diritto naturale e dal diritto divino po-<br />
sitivo; ed inoltre egli la possiede riguardo a tutta la vita della Chiesa e su tutto ciò che questo com-<br />
porta: cfr. Giovanni Paolo II, Ut unum sint, 94), universale (è su tutti i pastori e fedeli, singoli e glo-<br />
balmente presi; da ciò origina un vincolo di obbedienza religiosa e di subordinazione gerarchica,<br />
che consente al papa di avere una libera comunicazione con tutti i fedeli e vescovi senza alcuna in-<br />
terferenza), ordinaria (e non delegata), immediata (non ha bisogno di altro “mezzo” per esercitarsi)<br />
ed episcopale (è della medesima natura di quella dei vescovi, perché non origina da un grado ulte-<br />
riore del sacramento dell’ordine; si noti però che nel canone corrispondente manca il termine epi-<br />
scopale: DH 3064). Si tratta poi la funzione dei vescovi nelle proprie diocesi.<br />
Capitolo IV: « II magistero infallibile del Romano pontefice». Si determinano le condizioni circa il<br />
soggetto, l’oggetto e l’atto in base a cui un insegnamento del papa è infallibile. Il testo rinvia alla<br />
dottrina di tre concili ecumenici: il IV concilio di Costantinopoli, il II concilio di Lione e il concilio<br />
di Firenze. Notiamo, però, che sono tre concili che le chiese ortodosse non considerano ecumenici.<br />
Inoltre il IV concilio di Costantinopoli venne poi sconfessato da Roma; ciò avvenne quando ci fu la<br />
riconciliazione tra Roma e Costantinopoli a seguito della disputa intorno a Fozio 88 .<br />
I primi due capitoli, il cui contenuto è patrimonio cattolico tradizionale, non sono stati oggetto di di-<br />
scussione; i due ultimi capitoli, invece, contengono i nuovi dogmi sul papa che sono stati vivace-<br />
mente discussi e infine definiti. Il punto controverso delle due definizioni dottrinali era<br />
l’inserimento del ministero papale nella Chiesa e nel collegio episcopale. I vescovi della minoranza<br />
(circa 140 su 700, dunque circa il 20 per cento) chiedevano in fondo soltanto questo: se queste dot-<br />
88 V. PERI, Il concilio di Costantinopoli dell’879-880 come problema filologico e storiografico, in Annuarium historiae<br />
conciliorum 9 (1977) 29-42.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
trine vengono definite, devono almeno essere introdotte esplicitamente nella definizione precise<br />
condizioni e limiti del primato di giurisdizione e dell’infallibilità, per non dare l’impressione che il<br />
papa possa esercitare il suo ufficio di governo e di magistero agendo in virtù di un arbitrio assoluti-<br />
stico e staccato dalla Chiesa. La maggioranza dei vescovi, che abbracciava tutte le sfumature, dai<br />
sostenitori moderati a quelli intransigenti, riteneva invece che si dovesse rinunciare a un’esplicita<br />
menzione di queste condizioni e limiti (che in sé erano accettati da molti di loro); altrimenti<br />
l’intento proprio delle definizioni, cioè di scongiurare definitivamente il gallicanesimo e permettere<br />
così di giungere nella Chiesa a decisioni rapide, assolutamente chiare, efficienti e tali da evitare ul-<br />
teriori conflitti, sarebbe stato di nuovo annacquato. Purtroppo, su questo punto, non si raggiunse<br />
l’unanimità tra i padri conciliari. L’opinione della minoranza trovò scarsa considerazione. Per que-<br />
sta ragione i vescovi della minoranza in gran parte erano già partiti prima della votazione finale.<br />
bb) Il contenuto dei due nuovi dogmi<br />
(I) Il primato di giurisdizione del papa (DzH 3059-3064)<br />
In questa parte della costituzione la funzione universale di governo del papa, che è stata praticata a<br />
partire dal Medioevo, è definita esplicitamente come dottrina della fede cattolica. La definizione<br />
pone fine alle lunghe discussioni con il conciliarismo (cioè: il concilio, come ultima istanza di ap-<br />
pello, è al di sopra del papa) quando stabilisce che il papa è l’istanza suprema nella Chiesa, al di so-<br />
pra della quale non ci si può appellare a nessun’altra. A lui spetta la «pienezza» (e non solo la «pre-<br />
minenza» come pensava il gallicanesimo) della suprema potestà in questioni attinenti alla fede, ai<br />
costumi, all’ordinamento e al governo di tutta la Chiesa. Questa potestà viene descritta come ordi-<br />
naria (spetta al papa in virtù del suo ufficio), immediata (non ha bisogno della mediazione dei ve-<br />
scovi locali) ed episcopale (è della stessa natura della potestà pastorale dei vescovi, ma si estende a<br />
tutta la Chiesa). Con questo, tuttavia, non si intende limitare la potestà dei singoli vescovi, che è u-<br />
gualmente affermata come ordinaria, immediata ed episcopale, nella loro diocesi, ma quest’ultima<br />
deve essere riconosciuta, rafforzata e difesa (DzH 3061).<br />
Con questa chiarificazione certamente, in linea di principio, si respinge teologicamente una forma di<br />
governo «assolutistica» della Chiesa 89 . Poiché, però, la concomitanza di potestà episcopale e papale<br />
non è né mediata teologicamente in maniera adeguata, né ancorata in modo giuridicamente vinco-<br />
lante nell’unica struttura suprema di governo della Chiesa, rimane di fatto aperta la possibilità di un<br />
89 Una posizione simile è sostenuta anche nella cosiddetta Dichiarazione collettiva dell’episcopato tedesco, approvata<br />
da Pio IX (1875): DzH 3112-3116.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
governo «assolutistico» della Chiesa da parte del papa. Queste riserve non hanno affatto l’intento di<br />
imporre al primato papale qualche limitazione semplicemente dall’esterno, puramente nella prospet-<br />
tiva del diritto costituzionale. Piuttosto devono essere evidenziate in modo più chiaro e formulate in<br />
termini giuridici le sue condizioni e i suoi limiti interni, dati eo ipso insieme alla natura del primato<br />
come servizio ecclesiale del governo e dell’unità.<br />
Il concilio Vaticano II ha incoraggiato la teologia a fare questo. Il concilio certo, da una parte, è in<br />
continuità con il Vaticano I e ne conferma espressamente la dottrina del primato di giurisdizione<br />
(LG 22; Nota praevia 3 e 4). D’altra parte, cerca di “riequilibrare” questa definizione con il recupe-<br />
ro della dottrina antica della Chiesa come communio e conseguentemente della collegialità del mini-<br />
stero episcopale (W. Kasper):<br />
«Se l’unità della Chiesa fosse fondata su un unico “principio”, essa dovrebbe diventare totalitaria.<br />
Se al contrario è fondata su “principi” relativamente differenti e sul loro accordo, la Chiesa è un<br />
sistema aperto» 90 .<br />
Proprio qui sta il senso autentico e permanente del dogma del primato di giurisdizione del papa: il<br />
vescovo di Roma significa e fonda in modo personalmente concreto e insieme sacramentalmente ef-<br />
ficace l’unità della Chiesa universale «nella fede e nella comunione» (Prologo della Pastor Aeter-<br />
nus). Questa unità, però, non ha il suo fondamento né nella volontà del popolo di Dio, né nella vo-<br />
lontà del papa; entrambi non sono «sovrani» nella Chiesa (come avviene, ad es., in una democrazia<br />
o in una monarchia). L’unità della Chiesa è invece fondata totalmente sull’amore di Gesù Cristo che<br />
nello Spirito Santo è donato a tutta la Chiesa. Il ministero petrino deve essere a servizio nel modo<br />
che gli è proprio, appunto sul piano della Chiesa universale, di questa unità della Chiesa che viene<br />
da Cristo. Esso perciò (come ogni ministero) è al tempo stesso nella Chiesa e di fronte a essa, per<br />
rappresentare in questo modo la volontà di unità di Cristo per tutta la Chiesa. Per questa è appunto<br />
decisivo che il contenuto teologico si esprima efficacemente in una forma empirico-istituzionale 91 .<br />
(II) L’infallibilità del magistero pontificio (DzH 3065-3075)<br />
Una dimensione decisiva di ogni servizio all’unità della Chiesa è costituita dal servizio all’unità e<br />
all’autenticità della sua fede. Proprio ciò si vuole affermare con la dottrina dell’infallibilità del papa.<br />
90 W. KASPER, Dienst an der Einheit und Freiheit der Kirche. Zür gegenwärtigen Diskussion um das Petrusamt, in A.<br />
BRANDEBURG – H.J. URBAN (edd.), Petrus und Papst, vol. II (Münster 1978) 126.<br />
91 Cfr. anche H. U. VON BALTHASAR, Il complesso antiromano. Come integrare il papato nella Chiesa universale (Bre-<br />
scia: Queriniana, 1974).<br />
234
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Dobbiamo dire anzitutto qualcosa sullo sfondo storico e teologico. Questa convinzione ha il suo<br />
primo punto di appoggio già nella Chiesa antica, per la quale la generale fedeltà della Chiesa roma-<br />
na alla tradizione rappresentava un criterio decisivo per la communio. Solo nel XIII secolo (in Bo-<br />
naventura e Pietro Olivi) questa concezione si concentra sul papa come vescovo della Chiesa roma-<br />
na e sull’autorità che gli consente di prendere singole decisioni dogmatiche «senza errore». Nel Me-<br />
dioevo è attribuita alle decisioni pontificie questa inerranza quando in esse è testimoniata la fede<br />
senza errori dell’intera Chiesa 92 .<br />
La generale inerranza della fede. Qui trova espressione la convinzione della Chiesa primitiva, già<br />
attestata nelle formule battesimali e nelle confessioni del I e II secolo, circa la regula fidei, che cioè<br />
l’assistenza promessa dello Spirito Santo, che è «Spirito di verità» (cfr. Gv 14,17; 15,26; 16,13),<br />
preserva la Chiesa dal cadere in un errore grave in asserzioni di fede fondamentali e nella professio-<br />
ne di fede stessa. In caso contrario, alla persona che nella fede e nel battesimo si affida «per la vita e<br />
per la morte» alla parola di Dio testimoniata e interpretata dalla Chiesa, essa potrebbe annunciare<br />
come importante per la salvezza qualcosa che in realtà non è pienamente «degno di fede». Questo,<br />
però, eliminerebbe il suo carattere escatologico di comunità definitiva di salvezza, che accoglie e<br />
trasmette fedelmente l’autocomunicazione di Dio in Gesù Cristo.<br />
Il servizio particolare del magistero. Questa promessa, fatta a tutta la Chiesa, di rimanere nella veri-<br />
tà della fede, nel corso dei primi secoli si concretizza sempre più nel ministero di annuncio e di in-<br />
segnamento dei vescovi, tra i quali proprio al vescovo di Roma spetta una posizione speciale. Il ra-<br />
dicamento di tutta la Chiesa nella verità della fede, operato dallo Spirito Santo, in questo modo,<br />
nell’annuncio del collegio episcopale e del ministero petrino assume una forma particolare, eccle-<br />
sialmente efficace, attraverso cui deve trovare espressione normativa il fatto che la fede della Chiesa<br />
non deriva da essa stessa ma è la risposta alla parola di Dio che la precede e di cui non può disporre.<br />
Difendere questa indisponibilità della parola di Dio e la verità della fede che a essa risponde da tutte<br />
le tentazioni di reinterpretazioni falsificanti è il senso del magistero nella Chiesa. Nella misura in<br />
cui adempie in modo adeguato questo servizio, esso partecipa dell’infallibilità della parola di Dio e<br />
della fede comune; in questo senso anch’esso può essere detto infallibile.<br />
92 Mentre nell’alto Medioevo era ancora corrente il concetto di «inerranza» («infallibilità» era riservato a Dio), nel tardo<br />
Medioevo i conciliaristi parlano dell’«infallibilità del concilio» e gli anticonciliaristi dell’«infallibilità del papa». A causa<br />
della notevole possibilità di fraintendimento si dovrebbe parlare piuttosto di «assenza di errore», di «impossibilità di<br />
ingannarsi», di «obbligatorietà definitiva» (H. Fries), di «affidabilità incondizionata» di determinate asserzioni ecclesiali<br />
di fede; cfr. K. RAHNER (ed.), Infallibile? Rahner - Congar - Sartori - Ratzinger – Schnackenburg e altri specialisti<br />
contro Hans Küng (Roma: Edizioni Paoline, 1971).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Magistero «vincolato». A questa salda vincolazione, solidamente attestata nella Tradizione, del ma-<br />
gistero, anche papale, all’annuncio e alla fede di tutta la Chiesa, si sono ripetutamente richiamati i<br />
vescovi della minoranza al Vaticano I. Essi richiamano alla memoria la terribile esperienza dello<br />
scisma d’Occidente con la presenza contemporanea, in alcuni momenti, di tre papi (1378-1417), una<br />
situazione in cui anche il papa, nel conflitto con una cristianità divisa al proprio interno e con il<br />
concilio, non poteva più garantire la certezza ultima per la verità della fede e l’unità della Chiesa.<br />
Anche se non si vuole essere conciliaristi nel senso del tardo Medioevo e non si sostiene neppure la<br />
validità dogmatica incondizionata, che va al di là della concreta situazione di emergenza provocata<br />
dallo scisma, del decreto Haec sancta del concilio di Costanza (1415) 93 , tuttavia, a partire da queste<br />
esperienze storiche e dai problemi teologici che sollevano, si dovrà trarre la conclusione che ogni<br />
tentativo di voler «mettere al sicuro» la fede della Chiesa ponendo al di sopra delle altre in modo i-<br />
solato un’unica concreta istanza — che sia il papa, il concilio, il collegio episcopale, ma anche la<br />
sacra Scrittura, la Tradizione o l’universale consenso di fede — è destinato al fallimento. Nella mi-<br />
sura in cui la Chiesa, confidando nello Spirito Santo, riesce a realizzare una cooperazione teologi-<br />
camente equilibrata e strutturata in modo relativamente chiaro dal punto di vista giuridico, essa ha<br />
fatto tutto ciò che sta in suo potere per evitare altre variazioni storiche della propria identità creden-<br />
te. Su questo può «fare affidamento incondizionatamente»; infatti questa certezza della fede, fondata<br />
in Dio e che si espone con fiducia ai continui mutamenti della storia, non ha nulla a che vedere con<br />
la sicurezza, spesso dominata dalla paura, del proprio voler sapere e possedere.<br />
L’intenzione della maggioranza conciliare. Ritorniamo al Vaticano I. Senza dubbio, anche la mag-<br />
gioranza (più moderata) del concilio non metteva affatto in questione in linea di principio il legame<br />
dell’autorità magisteriale del papa con la Chiesa. Tuttavia essa rifiutava (come per il primato di giu-<br />
risdizione) una sua descrizione giuridica più precisa all’interno della definizione. Essa venne incon-<br />
tro all’esigenza della minoranza esclusivamente introducendo prima della definizione vera e pro-<br />
pria, in forma di constatazione storica riguardante il passato (non però in modo normativo!),<br />
l’affermazione che i pontefici romani in precedenza nelle loro decisioni dottrinali si sono sempre<br />
serviti dei mezzi più diversi per riconoscere ciò che è in accordo con la sacra Scrittura e con la Tra-<br />
dizione apostolica. «Neppure ai successori di Pietro infatti lo Spirito Santo è promesso affinché, per<br />
sua rivelazione (revelatio), essi proclamino una nuova dottrina, ma perché con la sua assistenza (as-<br />
sistentia) custodiscano santamente ed espongano fedelmente la Rivelazione trasmessa per mezzo<br />
93 In questo decreto si dichiara solennemente la superiorità del concilio sul papa (COD 409-410).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
degli apostoli, cioè il deposito della fede (depositum fidei)» (DzH 3069s). La richiesta della mino-<br />
ranza di affermare che questo deve avvenire con esplicito riferimento alla Scrittura e alla Tradizione<br />
della Chiesa, ma anche al consenso di fede esistente, in particolare del collegio episcopale, fu re-<br />
spinta (a motivo dell’esperienza del gallicanesimo) per non diminuire la chiarezza e l’efficacia delle<br />
decisioni dottrinali papali nel garantire l’unità 94 .<br />
Quali sono dunque le asserzioni teologiche centrali della definizione?<br />
Decisioni «ex cathedra». L’infallibilità si riferisce soltanto a decisioni dottrinali ex cathedra, cioè al<br />
caso in cui il papa «esercitando il suo ufficio di pastore e maestro, in virtù della sua suprema autori-<br />
tà apostolica, definisce una dottrina riguardante la fede e i costumi da tenersi da tutta la Chiesa»<br />
(DzH 3074). Per distinguere questa forma «straordinaria» di insegnamento dalle altre forme del co-<br />
siddetto magistero «ordinario» del papa, con le quali pure egli parla in modo vincolante («autenti-<br />
co»), ma non con la pretesa di assenza di errori (ad esempio, nelle encicliche), il relatore ufficiale<br />
della costituzione, il vescovo Vinzenz Gasser, dichiarò nell’aula conciliare che nelle affermazioni<br />
dottrinali infallibili l’intenzione di fare un’affermazione di questo genere deve essere espressa chia-<br />
ramente. Questo finora è avvenuto solo una volta nei centoventi anni dopo il Vaticano I, nella defi-<br />
nizione dell’Assunzione corporea di Maria alla gloria celeste (1950). Quest’uso estremamente cauto<br />
del dogma dell’infallibilità mostra che il suo senso recepito nella Chiesa non consiste nel decidere<br />
continuamente con valore definitivo su singole questioni riguardanti la fede e i costumi. Evidente-<br />
mente, per una Chiesa che è messa a confronto con la coscienza moderna della storia, è più impor-<br />
tante che essa sia sicura di avere un concreto ultimo «punto di orientamento» che, all’interno di una<br />
coscienza di fede che muta più rapidamente che in precedenza, garantisce la fedeltà della Chiesa<br />
all’origine apostolica 95 .<br />
Infallibilità ecclesiale e pontificia. Nelle decisioni dottrinali ex cathedra al papa spetta<br />
quell’infallibilità «di cui il divino Redentore ha voluto fosse dotata la sua Chiesa nel definire la dot-<br />
trina intorno alla fede o ai costumi» (DzH 3074). Non si parla dunque di una infallibilità «privata»<br />
del papa, ma dell’infallibilità della fede della Chiesa che il papa testimonia in queste asserzioni dot-<br />
trinali definitive. I due aspetti sono in relazione reciproca: la particolare infallibilità del ministero<br />
94 Di fatto, negli unici casi in cui questo dogma ha trovato applicazione, nella definizione dell’Immacolata Concezione<br />
di Maria (1854) e dell’Assunzione di Maria (1950), in precedenza è stato interpellato l’intero episcopato.<br />
95 In questo senso W. Kasper sottolinea il carattere «straordinario» di questi pronunciamenti papali infallibili rispetto<br />
all’insegnamento normale, «ordinario» dell’intera Chiesa. «Sarebbe assai sconsiderato fare “irraggiare” nel modo più<br />
estensivo possibile la pretesa di infallibilità anche sull’insegnamento ordinario del papa. La spada potrebbe essere diven-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
petrino non fa altro se non dare espressione in modo concreto e rappresentativo all’universale infal-<br />
libilità della Chiesa nella fede. L’infallibilità della Chiesa nel credere, d’altra parte, ha bisogno di<br />
questa testimonianza che le sta di fronte per ricordarle che la verità della fede non proviene da lei,<br />
ad esempio dal suo consenso, ma dipende dall’ascolto della Parola di Dio. Perciò il papa realizza<br />
nella Chiesa e al tempo stesso di fronte a essa il compito che, secondo modalità proprie, spetta a o-<br />
gni ministero, cioè di rappresentare in persona Christi capitis la dipendenza della Chiesa dalla paro-<br />
la che le è annunciata.<br />
Infallibilità «ex sese». «Per questo tali definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili per se<br />
stesse (ex sese) e non già in virtù del consenso della Chiesa (non ex consensu Ecclesiae)» (DzH<br />
3074). Questa formulazione era diretta contro la concezione gallicana secondo cui le asserzioni dot-<br />
trinali papali sono irreformabili solo quando tutta la Chiesa abbia dato a esse il proprio assenso. Con<br />
l’espressione «ex sese», che si contrappone in modo marcato a questa concezione, non si dice che il<br />
papa sia infallibile «da se stesso»; la parola è riferita chiaramente alle sue definizioni dottrinali. Tan-<br />
tomeno questa formulazione significa che il papa non deve prestare ascolto alla fede della Tradizio-<br />
ne e della Chiesa attuale; è questa fede infatti (e non una qualsiasi opinione privata) che egli deve<br />
eventualmente testimoniare in modo normativo (si vedano i passaggi prima della definizione DzH<br />
3070). Con questa espressione non si vuole escludere neppure la necessaria recezione, che si compie<br />
attraverso un confronto attivo, da parte della Chiesa della dottrina proposta e la sua interpretazione.<br />
«È detto soltanto che tali decisioni per la loro normatività giuridico-formale non possono essere sot-<br />
toposte all’esame di un’istanza giuridica superiore, che dunque non ci si può appellare dal papa a un<br />
concilio generale. L’intento è di chiarire che il vangelo sta di fronte alla Chiesa senza che essa possa<br />
disporne» 96 . Questo tuttavia può avvenire in modo credibile solo se lo stesso ministero, prima di<br />
ogni intervento in materia dottrinale, ascolta il sensus fidelium e lo integra in modo determinante; in<br />
caso contrario, il suo annuncio non viene veramente ascoltato e recepito dal popolo di Dio, ma ri-<br />
mane in una condizione di validità puramente formale ed è privo di ogni efficacia salvante e liberan-<br />
te. Ma il senso dell’annuncio del vangelo non può essere questo.<br />
Recezione nel Vaticano II. Anche a questo proposito il concilio Vaticano II ha aperto la strada verso<br />
una comprensione più equilibrata dell’infallibilità. Mentre conferma la definizione del Vaticano I<br />
(LG 25), collega espressamente l’infallibilità del magistero papale (in modo simile all’orientamento<br />
tata incapace di tagliare proprio quando se ne ha veramente bisogno»: Dienst an der Einheit und Freiheit der Kirche,<br />
art. cit., 136s.<br />
96 W. KASPER, Dienst an der Einheit und Freiheit der Kirche, art. cit., 136.<br />
238
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
della minoranza di allora) alla Chiesa e al collegio episcopale. Nella parte sulla partecipazione<br />
dell’intero popolo di Dio al compito profetico di Cristo si afferma:<br />
La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito Santo (cfr. 1Gv 2,20 e 27) non può<br />
sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà che gli è particolare mediante il senso soprannaturale<br />
della fede (sensus fidei) in tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici»<br />
(Agostino) esprime l’universale suo consenso (consensus universalis) in materia di fede e di<br />
costumi. Infatti, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo<br />
di Dio, sotto la guida del sacro magistero… aderisce indefettibilmente «alla fede una volta per<br />
tutte trasmessa ai santi» (cfr. Gd 3)... (LG 12).<br />
Il capitolo sulla struttura gerarchica della Chiesa, poi, tratta in modo dettagliato dell’infallibilità del<br />
collegio episcopale la quale — nel suo modo proprio, cioè collegiale — ha la medesima struttura di<br />
quella del ministero petrino:<br />
Quantunque i singoli vescovi non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche<br />
dispersi per il mondo, ma conservanti il vincolo della comunione (nexus communionis) tra di loro e<br />
con il successore di Pietro, nel loro insegnamento autentico circa materie di fede e di morale si accordano<br />
su una dottrina da ritenersi come definitiva, propongono infallibilmente la dottrina di Cristo.<br />
E questo è ancora più manifesto quando, radunati in concilio ecumenico, sono per tutta la<br />
Chiesa dottori e giudici della fede e della morale; e alle loro definizioni si deve aderire in una sottomissione<br />
di fede (LG 25).<br />
Solo dopo queste affermazioni, si mette in rilievo l’infallibilità del papa, che non gli spetta come<br />
«persona privata» ma in forza del suo ministero di «capo del collegio episcopale» e di «supremo pa-<br />
store e dottore di tutti i fedeli» (LG 25). Il papa non rappresenta altro se non la concretizzazione per-<br />
sonale dell’universale infallibilità della Chiesa, che i vescovi insieme con lui possiedono in maniera<br />
collegiale. Si aggiunge esplicitamente anche che il papa e i vescovi nell’esercizio di tale funzione si<br />
fondano sulla Scrittura e sulla Tradizione, ma anche sul senso della fede di tutto il popolo di Dio<br />
(LG 12), e che al tempo stesso sono tenuti a utilizzare i «mezzi appropriati» per chiarificare e pre-<br />
sentare la Rivelazione (LG 25).<br />
La visione della Chiesa al Vaticano I<br />
Non si capisce lo sviluppo post-conciliare della dottrina sulla Chiesa senza una visione d’insieme<br />
dei caratteri principali dell’immagine di Chiesa lasciataci dal Vaticano I.<br />
1) Il primo tratto è l’autorità come elemento decisivo e centro di prospettiva ecclesiologica. Lo te-<br />
stimoniano le due costituzioni dogmatiche. Da una parte si fa fronte al razionalismo affermando<br />
l’autorità del Magistero divino, dato che è in termini di autorità che nella Dei Filius viene insegnato<br />
l’obbligo di credere ed è l’«auctoritas Dei revelantis» il motivo della fede. Dall’altra, la Pastor Ae-<br />
ternus fa un passo ulteriore stabilendo l’autorità docente del Magistero ecclesiastico e concretamen-<br />
239
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
te del magistero del Romano Pontefice con il suo carisma di infallibilità. All’origine di questo inte-<br />
resse troviamo una valutazione apocalittica della modernità, la quale, avendo disprezzato l’autorità,<br />
era sfociata addirittura nella messa in discussione degli stessi fondamenti della società e del vivere<br />
associato (come testimoniavano ampiamente la Rivoluzione francese e i moti del 1848). All’origine<br />
di questo fenomeno di degenerazione, la maggioranza dei padri conciliari vedeva il disprezzo<br />
dell’autorità del magistero del Concilio di Trento, che era sfociato nella canonizzazione protestante<br />
del giudizio privato, il quale aveva portato alla divisione dei gruppi ecclesiali usciti dalla Riforma e<br />
quindi ultimamente alla rovina della fede nel Cristo da parte di coloro che non accettano più il carat-<br />
tere divino della Sacra Scrittura (nascita del razionalismo e del naturalismo). In un secondo passo, si<br />
era ingaggiata una lotta tra la religione cristiana, realtà soprannaturale, e il naturalismo, che sostene-<br />
va contro il Regno di Cristo, unico Signore e Salvatore dei popoli, il regno della pura ragione e della<br />
natura. Infine, nel sec. XIX la ragione si era capovolta nel suo contrario, nel momento in cui, abban-<br />
donando la propria trascendenza, che tocca il legame che unisce i misteri della fede con il fine ulti-<br />
mo dell’uomo, era caduta nell’abisso del panteismo, del materialismo e dell’ateismo: negando la na-<br />
tura razionale l’uomo moderno abbandonava ogni regola del diritto e del giusto e distruggeva i fon-<br />
damenti della società. Il compito della Chiesa, madre e maestra, era quindi quello di difendere la so-<br />
cietà e la razionalità da se stesse, insegnando, grazie al magistero infallibile donatole da Cristo, la<br />
vera dottrina salvifica a cui si doveva l’obbligo di credere 97 .<br />
2) Il secondo carattere è la priorità data all’istituzione e all’aspetto sociale della Chiesa. La priorità<br />
dell’istituzionale sul misterico favorisce un’<strong>ecclesiologia</strong> estrinsecista e apologetica centrata sugli<br />
aspetti istituzionali e visibili della Chiesa più accessibili alla conoscenza empirica e capaci di dar<br />
fondamento razionale al «credo Ecclesiam» (cfr. DzH 3012).<br />
3) Il terzo carattere è il suo orientamento papalista. Il riconoscimento dell’autorità fu poi articolato<br />
con l’affermazione della forma monarchica di governo, al punto che si poté isolare il capitolo sul<br />
Primato Pontificio dal resto dello schema come un tema autonomo 98 .<br />
97 Si veda sintomaticamente quello che dice mons. Gasser nell’ultima relazione (16 luglio 1870) sulle modifiche apportate<br />
alla costituzione Pastor aeternus: «Non si può negare che la società umana è giunta al punto in cui i suoi ultimi fondamenti<br />
stanno vacillando. A causa di questa condizione così miserevole della società umana non può essere portato alcun<br />
rimedio se non dalla Chiesa di Dio, nella quale esiste un’autorità istituita da Dio e infallibile, tanto in tutto il corpo<br />
della Chiesa docente, quanto nella sua stessa testa. Perché gli occhi di tutti siano attirati verso questa roccia di fede contro<br />
la quale le porte innalzate dall’inferno non resisteranno, Dio ha voluto — io lo credo— che in questi giorni la dottrina<br />
dell’infallibilità del Romano Pontefice sia stata proposta al Concilio Vaticano»: MANSI, 52, 1317 B/C.<br />
98 Franzelin riferisce di aver inteso un canonista sostenere: «Romanum Pontificem non esse nec recte dici posse mem-<br />
brum Ecclesiae»! (cfr. Theses de Ecclesia, 360 n. 1).<br />
240
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
4) Il quarto carattere è la priorità teorica e pratica data alle strutture gerarchiche della Chiesa con il<br />
pericolo di deviare verso un’immagine della Chiesa troppo clericale.<br />
5) Il quinto carattere è di ordine metodologico: la scelta della visione societaria portò a una ecclesio-<br />
logia di impronta apologetica. La Chiesa era pensata non come un aspetto del mistero della fede,<br />
ma come mediatrice dei misteri (= dogmi); ed inoltre la sua relazione a Cristo era ridotta a quella di<br />
una istituzione al suo fondatore. In particolare è significativo che la Dei Filius consideri la Chiesa<br />
come dotata di note di credibilità nella sua realtà storica e visibile al punto che essa stessa è segno e<br />
argomento irrefragabile della sua credibilità. Si noti bene però che in questa prospettiva la realtà<br />
stessa della Chiesa non appartiene strettamente all’«obiectum formale» della fede, ma è solo una<br />
«conditio» per la quale la Rivelazione divina giunge a noi con la sua necessaria garanzia di autenti-<br />
cità. Essendo la testimonianza di Dio l’unico «motivum formale» della nostra fede, Dio deve garan-<br />
tire anche la fedeltà della sua parola nello strumento di trasmissione che, in ultima istanza, è la<br />
Chiesa. Si trattava quindi di legittimare esclusivamente la missione dottrinale della Chiesa nella sua<br />
trasmissione, e di tutelare l’interpretazione autentica della Rivelazione.<br />
6) Da ultimo notiamo l’assenza di una riflessione sulla dimensione pneumatologica e missionaria<br />
della Chiesa, come pure un’esposizione sulla dignità e il ruolo attivo dei laici. L’apertura ecumeni-<br />
ca, poi, non era minimamente considerata: il desiderio di unità era reale e si era manifestato<br />
nell’invito indirizzato agli ortodossi e ai protestanti a partecipare al concilio; si esprimeva però solo<br />
nei termini di un ritorno a Roma, così che fu da loro rispedito sdegnosamente al mittente.<br />
2.6.2. L’immagine della Chiesa dal Vaticano I al 1920<br />
Le linee fondamentali dell’<strong>ecclesiologia</strong> approvata al Vaticano I determinano lo sviluppo della dot-<br />
trina sulla Chiesa e la stessa immagine reale della Chiesa durante i decenni seguenti, dato che gli e-<br />
lementi del rinnovamento che si erano timidamente fatti avanti durante il Concilio rimasero lette-<br />
ralmente sepolti negli Atti del Concilio.<br />
In particolare ci fu uno sviluppo delle riflessioni sul carattere societario e gerarchico della Chiesa<br />
(ad es. D. PALMIERI, De romano pontifice cum prolegomeno de ecclesia, Prato 1891 2 ). Nello stesso<br />
tempo si portò a compimento quella tendenza a scindere la comunità di fede e di amore dalla società<br />
gerarchica. La comunione spirituale non ha alcuna consistenza giuridica, ma è ridotta all’ambito<br />
della interiorità mistica personale, come una pura realtà spirituale senza forma istituzionale, mentre<br />
la struttura della Chiesa è sottoposta a schemi puramente societari e gerarchici. In tal senso Louis<br />
Billot (Tractatus de ecclesia Christi, Roma 1903 2 ) abbandona la tesi della «divino-umanità» della<br />
Chiesa, tradizionale nei maestri suoi predecessori al Collegio Romano, a favore di una impostazione<br />
241
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
rigorosamente societaria, dato che l’aspetto interiore della Chiesa (ridotto alla grazia santificante e<br />
alle virtù infuse) non è proprio dell’essenza della Chiesa, perché riguarda i suoi membri e non il<br />
corpo sociale come tale; il trattato sulla Chiesa, se vuole presentarne l’intima costituzione, deve<br />
considerarla «reduplicative qua societas», dato che essa si distingue dalle altre società naturali per<br />
l’origine e per il fine soprannaturale ma non per la sua struttura interna.<br />
Infine, l’<strong>ecclesiologia</strong> dei manuali si accontentava di essere una esposizione apologetica delle strut-<br />
ture costituzionali della Chiesa, ormai dominate dalla tesi del primato papale. In sostanza i manuali<br />
esponevano sistematicamente una serie di questioni ereditate dalla polemica contro la Riforma (la<br />
visibilità della Chiesa e l’appartenenza ad essa, i poteri gerarchici e in specie il primato, il magiste-<br />
ro) e dalle rivendicazioni contro lo stato liberale (la chiesa società perfetta) con l’aggiunta, contro il<br />
modernismo, delle tesi circa la volontà di Gesù Cristo di istituire una Chiesa visibile e giuridica.<br />
In questo panorama occorre riconoscere che alcuni accenti originali e ricchi di futuro furono offerti<br />
dagli interventi di LEONE XIII, il quale nelle sue moltissime encicliche affrontò più volte sotto di-<br />
versi aspetti il tema della chiesa. In particolare il suo insegnamento si concentrò su tre temi princi-<br />
pali: la Chiesa in se stessa, il rapporto Chiesa e Stato, l’unionismo.<br />
1) L’insegnamento sulla Chiesa si raccoglie attorno a due punti: l’unità della Chiesa e il ruolo dello<br />
Spirito Santo. Nell’enciclica Satis cognitum (29 giugno 1896) Leone XIII, ispirandosi alla dottrina<br />
della Scuola Romana sulla natura teandrica della chiesa, corpo mistico di Cristo, ne dispiega<br />
l’origine trinitaria nel piano della salvezza e poi l’unione di visibile e invisibile che appartiene alla<br />
natura stessa della Chiesa. Tale unione ha la sua origine e il suo fondamento nel mistero del Verbo<br />
Incarnato. Per illustrare l’unità di visibile e invisibile, che non sono giustapposti, ma intimamente<br />
uniti seppur distinti, l’enciclica utilizza la nozione di Corpo di Cristo riferendo analogicamente il<br />
mistero della Chiesa al mistero dell’Incarnazione:<br />
«[La chiesa] poi, se si considera l’ultimo fine, a cui mira, e le cause prossime della santità, è certamente<br />
spirituale; ma se si considerano i membri che la compongono e i mezzi che conducono al<br />
conseguimento dei doni spirituali, è esterna e necessariamente visibile… Per queste ragioni le sacre<br />
Scritture, molto spesso, chiamano la Chiesa sia «corpo» sia anche «corpo di Cristo»: «Voi siete<br />
il corpo di Cristo» (1Cor 12,27). Per questo motivo, per il fatto che è corpo la Chiesa si percepisce<br />
con gli occhi; per il fatto che è corpo di Cristo, la Chiesa è corpo vivente, operoso e sano, dato che<br />
Cristo la salvaguarda e la alimenta. […] Come poi, nei viventi, il principio della vita è nascosto e,<br />
profondamente nascosto, è tuttavia rivelato e mostrato dal movimento e dall’azione delle membra<br />
così, nella Chiesa, il principio della vita soprannaturale si svela chiaramente da quanto è operato<br />
da essa. Da questo deriva che si trovano in un grande e, al tempo stesso, pericoloso errore coloro<br />
che si inventano una Chiesa a proprio piacimento e la immaginano come se fosse nascosta, per nulla<br />
manifesta. Parimenti cadono in errore coloro che, allo stesso modo, pensano la Chiesa come una<br />
qualche istituzione umana, con un certo ordinamento di governo e con riti esteriori, ma senza la<br />
perenne comunicazione dei doni della grazia divina, senza quanto garantisce con una quotidiana e<br />
242
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
palese testimonianza una vita attinta da Dio. Senza dubbio ripugna che la Chiesa di Gesù Cristo<br />
possa essere solo una realtà nascosta o una pura istituzione umana: ripugna tanto quanto il ritenere<br />
che l’uomo sia composto del solo corpo o della sola anima. La composizione e la stretta unione di<br />
queste due realtà — quasi parti — è del tutto necessaria per la vera Chiesa così come, pressappoco,<br />
l’intima unione dell’anima e del corpo per la natura umana. La Chiesa non è qualcosa di inanimato<br />
ma è il Corpo di Cristo, dotato di vita soprannaturale. Come il Cristo, capo e modello, non<br />
è tutto se, in lui, si considera o la natura visibile in quanto solo umana, come fanno i fotiniani e i<br />
nestoriani, o la natura divina invisibile, come sogliono fare i monofisiti, ma è uno in forza di entrambe<br />
e in entrambe le nature, sia visibile che invisibile, così il suo corpo mistico non è la vera<br />
Chiesa se non per il fatto che le sue parti più insigni prendono forza e vita dai doni soprannaturali<br />
e da quelle altre realtà, in dipendenza dalle quali si sviluppa la loro specifica condotta e natura»<br />
(DzH 3300-3301).<br />
La Chiesa è quindi unica e una: «qui unicam condidit, is idem condidit unam». Così emerge anche la<br />
necessità di un principio esterno di autorità per conservare l’unità.<br />
Nella successiva enciclica Divinum illud munus (9 maggio 1897) Leone XIII, inoltre, vuole illustra-<br />
re l’azione dello Spirito Santo nella Chiesa. Collocata nell’opera comune della Trinità “ad extra”<br />
l’opera dello Spirito viene considerata in primis nell’Incarnazione del Figlio. Lo Spirito ha operato<br />
non solo la concezione umana del Verbo, ma anche la consacrazione della sua anima, la sua unzio-<br />
ne, in forza della quale tutte le azioni di Cristo avvengono nello Spirito. Ciò costituisce<br />
l’anticipazione di quella duplice missione dello Spirito che opera nella Chiesa e nell’anima dei sin-<br />
goli giusti. L’azione dello Spirito nella Chiesa consiste nella comunicazione di tutta la verità divina<br />
e nello sviluppo della dottrina. Lo Spirito è la garanzia che la Chiesa resti fedele alla verità di Cri-<br />
sto, la approfondisca sempre meglio e la annunci al mondo. Il luogo dove si manifesta questa azione<br />
dello Spirito è innanzi tutto il magistero e poi la multiforme ricchezza dei carismi. L’Enciclica, per<br />
sintetizzare la modalità di presenza e di azione dello Spirito, riprende l’immagine dell’Anima del<br />
Corpo Mistico, cara a sant’Agostino: «poiché Cristo è capo della Chiesa, lo Spirito Santo ne è<br />
l’anima: “ciò che l’anima è nel nostro corpo, questo lo Spirito Santo lo è nel Corpo di Cristo che è<br />
la Chiesa”» (DzH 3328. La citazione finale è di AGOSTINO, Sermo 267, 4,4: PL 38, 1231d).<br />
2) Il secondo tema sul quale Leone XIII ritornò a più riprese, fu quello delle relazioni fra Chiesa e<br />
stato nel nuovo contesto contemporaneo — che vede anche il nascere di un insegnamento sociale<br />
(Rerum Novarum). In quest’ambito Leone XIII rinnovò la dottrina ufficiale. Se, da una parte, egli<br />
continua la lotta dei suoi predecessori contro le pretese della società e degli Stati moderni di costitu-<br />
ire il tutto della vita degli uomini, ad esclusione di un ordine di vita soprannaturale — la Chiesa, in-<br />
fatti, è in se stessa una società perfetta di natura e di diritto —, d’altra parte, si distanzia dalle tesi<br />
ierocratiche, riprendendo la dottrina gelasiana, «Duo sunt quibus principaliter mundus hic regitur»,<br />
e la dottrina tomista della distinzione, non solo di due poteri nel quadro di un’unica società, ma di<br />
due società aventi ciascuna il suo fine specifico e il suo ambito proprio in quo sua cuiusque actio<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
iure proprio versetur (Litt. Enc. Immortale Dei, 1 nov. 1885: DzH 3168). Poiché le due vengono da<br />
Dio, l’una dalla natura, l’altra dal Cristo, esse sono coordinate, secondo il piano di Dio: in ragione<br />
del primato del fine e dell’ordine spirituale, la società temporale, per lo stesso suo bene…, deve es-<br />
sere sottomessa alla società spirituale. Questa visione globale, la quale rifiuta ogni emancipazione<br />
delle scienze o del potere civile dall’autorità divina, si fonda su una determinata concezione della<br />
natura, che qui emerge nel ruolo essenziale attribuito alla legge naturale, alla ragione naturale o<br />
retta ragione: essa consente il rispetto dei differenti ambiti e la loro iscrizione in uno schema gerar-<br />
chico di diritti, opposti all’anarchia della ragione emancipata dalla fede.<br />
3) Infine, di Leone XIII ricordiamo la preoccupazione molto viva per l’unità dei cristiani, anche se<br />
contrassegnata da un indirizzo palesemente unionista. Egli pubblicò circa 250 documenti ispirati a<br />
questo disegno e in particolare adottò delle misure per frenare il processo di latinizzazione delle<br />
Chiese orientali cattoliche (“Uniati”); a suo avviso esse dovevano ritornare ad essere un tramite ef-<br />
ficace tra la Chiesa cattolica di rito latino e le Chiese ortodosse, grazie alla loro duplice fedeltà. Un<br />
episodio particolarmente importante di questo interesse ecumenico è costituito dalla decisione di<br />
non riconoscere la validità delle ordinazioni anglicane per difetto di forma e di intenzione espresso<br />
nella Lettera Apostolicae curae del 13 settembre 1896 (cfr. DzH 3315-3319).<br />
2.6.3. Il rinnovamento della Chiesa e della <strong>ecclesiologia</strong> dal 1920 al 1940<br />
Verso il 1920, in coincidenza con la fine della prima guerra mondiale, si verificò una rinascita delle<br />
forze rinnovatrici sia nel campo teologico dell’<strong>ecclesiologia</strong> sia nel campo liturgico-sacramentale e<br />
pastorale della vita della Chiesa. In questo periodo si avviò «il risveglio della Chiesa nelle anime»<br />
(Guardini), tanto che molto presto si poté salutare questo secolo come il «secolo della Chiesa» 99 .<br />
a) Fattori del rinnovamento dell’<strong>ecclesiologia</strong><br />
1. Il risveglio del senso comunitario. In particolare in Germania dopo il 1918 ebbe luogo una poten-<br />
te reazione all’individualismo e al meccanicismo sociale, che pervase tutti i campi del pensiero e<br />
dell’azione. Questa scoperta in certe correnti assunse toni irrazionalisti e biologisti 100 ; ma essa av-<br />
99 O. DIBELIUS, Das Jahrhundert der Kirche (Berlin 1926).<br />
100 Ci si rifaceva al pensiero di F. Tönnies, che opponeva la «comunità» — che sorge dalla modalità organica e spontanea<br />
della volontà umana e si sostiene su vincoli relazionali di natura affettiva e di sangue — alla «società» — frutto dalla<br />
modalità riflessa e egocentrica degli individui e dei gruppi particolari e che si regge su istituzioni convenzionali.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
venne anche in chiave diversa, cioè personalista 101 . Questo movimento rappresentò l’atmosfera spi-<br />
rituale in cui il pensiero ecclesiologico tedesco poté accogliere l’idea di «comunità» come correttivo<br />
all’impostazione societaria ereditata dall’Ottocento. La Chiesa cessava di apparire come un’autorità<br />
solo esterna, per tornare ad essere un corpo vivente, al di fuori del quale la personalità del cristiano<br />
non poteva svilupparsi.<br />
2. La spiritualità cristocentrica e il contributo di Pio X al rinnovamento dell’<strong>ecclesiologia</strong> per mez-<br />
zo del suo programma di rinnovamento pastorale e, in concreto, eucaristico.<br />
3. L’apostolato dei laici e il risveglio del laicato alla sua corresponsabilità nella missione della<br />
Chiesa (Pio XI e l’Azione Cattolica). L’oblio quasi totale del ruolo proprio del laicato nella Chiesa<br />
aveva comportato l’indebolirsi del senso di comunità nei fedeli e, pertanto l’abbandono della sua<br />
corresponsabilità nella realizzazione della missione della Chiesa. Per la piena rivalutazione del lai-<br />
cato nella Chiesa mancavano però in quel momento alcuni presupposti ecclesiologici.<br />
4. Il rinnovamento liturgico. Viene superata la nozione sociologica e giuridica della Chiesa per una<br />
nozione di Chiesa come mistero, non solo nel senso gnoseologico della Dei Filius ossia di una veri-<br />
tà rivelata, ma nella sua accezione “paolina” di evento dell’incontro con il Padre per il Cristo nello<br />
Spirito, che realizza il suo disegno salvifico sull’uomo (Lambert Beauduin, Odo Casel).<br />
5. Il rinnovamento degli studi biblici e patristici.<br />
6. Il movimento ecumenico. In questi anni prendono avvio molteplici iniziative ecumeniche che por-<br />
tano alla creazione dei due organismi ecumenici maggiori (Life and Work: Stoccolma 1925; Faith<br />
and Order: Losanna, 1927), dai quali nel 1948 nascerà ad Amsterdam il Consiglio Ecumenico delle<br />
Chiese (con sede a Ginevra).<br />
b) Le tendenze ecclesiologiche nella teologia del corpo mistico<br />
Il tema su cui si concentrò fra le due guerre il confronto tra le tendenze ecclesiologiche fu quello del<br />
corpo mistico. Non si trattò solo di un dibattito teologico; fu anche una intensa corrente di vita spiri-<br />
tuale, che introdusse nel pensiero e nella pietà un tono «cristocentrico». Nell’unità di fondo del mo-<br />
vimento il dibattito permise di discernere diverse tendenze fondamentali.<br />
1) Interpretazione organologica e vitale. Rifacendosi all’idea di chiesa come «incarnazione conti-<br />
nuata» proposta da Möhler, Sheeben e dai teologi della Scuola romana nel secolo XIX e a una certa<br />
101 Determinante fu l’influsso di Max Scheler, che contrapponeva alla «società», di origine illuminista, e alla «comunità<br />
vitale», di ascendenza romantica, la «comunità di amore» o «persona collettiva complessa». Nel valore assoluto della<br />
persona egli fondava il superamento dell’individualismo e dell’organicismo a favore di una unità nella pluralità.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
interpretazione della teologia di Paolo e dei padri greci, questa tendenza accentuava l’idea di «orga-<br />
nismo» e di relazioni vitali dei membri tra di loro e con il Capo. Essa tendeva ad assimilare il corpo<br />
mistico a un organismo naturale, senza rispettare sempre i limiti imposti dall’analogia, cancellando<br />
le distanze sia tra Dio e le creature sia tra le persone nella comunità. In questo ordine di idee certi<br />
autori insistevano sulla qualità ontologica dell’unione di vita tra Cristo e il fedele, quasi una «unio<br />
secundum naturam», trovandone il fondamento nel carattere «pneumatico» del Risorto e nella sua<br />
onnipresenza somatica, e paragonandola così alla transustanziazione eucaristica. Emblematiche di<br />
questo orientamento sono gli scritti di Karl Pelz 102 e di Feliz Kastner 103 , anche se accenni a tale sen-<br />
tire si trovano anche in Feckes, Ternus e Wikenauser. Fu però nel campo pastorale e nella vita litur-<br />
gica e sacramentale che fu più decisivo l’influsso di queste interpretazioni unilaterali della forma di<br />
unione della Chiesa con Cristo in un orientamento chiaramente misticista e semi-quietista.<br />
2) Interpretazione personalista. Questa corrente sottolinea l’incontro libero e responsabile tra Dio e<br />
l’uomo, la relazione personale tra Cristo e i fedeli mediante le virtù, e i vincoli interpersonali tra i<br />
membri. L’unione tra Cristo e i cristiani non è un atto «naturale» ma «personale» ed esalta la natura<br />
spirituale e libera delle persone e il loro impegno creativo nella comunità. Questa è una vita comu-<br />
nitaria etica; è soprattutto un’unione d’amore. Il sentire cum Ecclesia comporta il superamento del-<br />
l’individualismo verso un’etica di comunione. Portavoce di questa tendenza fu Romano Guardini 104 ,<br />
mentre alla sua diffusione contribuì in modo decisivo l’opera di K. Adam 105 . Questa tendenza bene-<br />
ficiò dei risultati di quattro pubblicazioni fondamentali, perché gli autori, J. Anger 106 , Th.M. Käppe-<br />
li 107 , E. Mersch 108 , E. Mura 109 , investigarono le basi teologiche di questa nozione nella Scrittura, nei<br />
Padri e nei teologi e applicarono i dati acquisiti all’<strong>ecclesiologia</strong> e ai nuovi orientamenti pastorali.<br />
3) Interpretazione agostiniana del «Christus totus». Questa terza tendenza rischiava di sottovalutare<br />
l’elemento istituzionale nella Chiesa, a favore del suo elemento di grazia e santità. Il corpo mistico,<br />
cioè, era visto soprattutto come il dominio della grazia di Cristo, il «Christus totus» di impronta a-<br />
gostiniana; esso cioè costituiva la comunità invisibile di coloro che appartengono a Dio in virtù del-<br />
102<br />
Der Christ als Christus (Berlin 1939).<br />
103 2<br />
Marianische Christusgestaltung der Welt (Paderborn 1936).<br />
104<br />
Vom Sinn der Kirche (Mainz 1922).<br />
105<br />
Das Wesen des Katholizismus (Düsseldorf 1924).<br />
106<br />
La doctrine du Corps Mystique de Jésus-Christ d’après les principes de la théologie de S. Thomas (Paris 1929).<br />
107<br />
Zur Lehre des hl. Thomas von Aquin vom Corpus Christi Mystikum; mit einem kurzen Überblick über die wichtigsten<br />
Vertreter dieser Lehre (Freiburg-Paderborn 1931).<br />
108<br />
Le Corps Mystique du Christ. Etude de Théologie historique (Paris 1933); Morale et Corps Mystique (Paris-<br />
Bruxelles 1931); Le Corps Mystique du Christ. Sa nature et sa vie divine d’après S. Paul et la théologie, I-II (Paris<br />
1934).<br />
246
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
la grazia. Suoi membri erano tutte le creature razionali elevate allo stato soprannaturale, compresi<br />
gli angeli e i giusti dell’AT («Ecclesia ab Abel») 110 . La conclusione era che il corpo di Cristo non<br />
coincideva con la Chiesa visibile, ma si estendeva virtualmente tanto quanto la volontà salvifica di<br />
Dio. Perciò la Chiesa e il corpo mistico erano due realtà estremamente vicine e l’una conduceva<br />
all’altra, ma sulla terra non si identificavano perfettamente (E. Mersch). Di conseguenza il criterio<br />
di appartenenza al corpo mistico non coincideva con l’appartenenza alla Chiesa: suoi membri sono<br />
tutti quelli che sono in legame interiore e vitale con Cristo. Il ruolo pressoché esclusivo attribuito<br />
alla grazia nella costituzione del corpo mistico finiva, però, col separare l’aspetto mistico da quello<br />
istituzionale e col non rendere più conto della universale mediazione salvifica della Chiesa visibile.<br />
4) Interpretazione corporativista. Questa si contrappose polemicamente alle altre, dato che il termi-<br />
ne «corpo» per alcuni autori doveva essere inteso solo come una metafora che indicava l’aspetto so-<br />
cietario della Chiesa 111 . Altri autori, invece, conservavano un significato reale e soprannaturale, ma<br />
ritenevano che non la Chiesa dovesse essere concepita a partire dal corpo mistico (inteso come il<br />
dominio della grazia), bensì quest’ultimo a partire da quella come realtà visibile e gerarchica. Essi<br />
riprendevano la linea della Scuola romana circa la natura istituzionale della Chiesa e il carattere te-<br />
andrico della sua costituzione e delle sue operazioni. Il rappresentante maggiore della tendenza fu<br />
Sebastiaan Tromp 112 , la cui intenzione programmatica fu quella di considerare in primo luogo nella<br />
Chiesa non i nessi invisibili con Cristo ma l’organismo sociale e la sua struttura, che è insieme ge-<br />
rarchica e carismatica. La visibilità, infatti, entra nel mistero della Chiesa come entra nel mistero del<br />
Verbo incarnato: il corpo mistico, perciò, è la chiesa visibile in quanto organismo, ma un organismo<br />
vivificato dallo Spirito. Egli concludeva perciò che la Chiesa di Cristo sulla terra è una società reli-<br />
giosa da lui fondata e soggetta al papa; che il corpo mistico è la chiesa romana; che, infine, questa<br />
chiesa si chiama corpo mistico perché è un organismo istituito da Cristo e diretto visibilmente da lui<br />
nel suo vicario, ma anche perché tale organizzazione sociale è unificata, vivificata e unita a Cristo<br />
ed è a lui assimilata da un principio invisibile, immessovi da Cristo, cioè il suo Spirito.<br />
109<br />
Le Corps Mystique du Christ. Sa nature et sa vie divine d’après S. Paul et la théologie, I-II (Paris 1934).<br />
110<br />
Y. CONGAR, “Ecclesia ab Abel”, in M. REDING (ed.), Abhandlungen über Theologie und Kirche, (Düsseldorf 1952)<br />
79-108. Emblematico di questa corrente è E. MERSCH, La théologie du corps mystique, I-II (Paris-Tournai 4 1954).<br />
111<br />
M.D. KOSTER, Ekklesiologie im Werden (Paderborn 1940).<br />
112<br />
Corpus Christi quod est Ecclesia, I-III (Roma 1937ss).<br />
247
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
a) I prodromi<br />
2.6.4. La riflessione ecclesiologica attorno alla Mystici Corporis (1940-1950)<br />
Così come il movimento iniziato dal Bellarmino portò alla definizione del primato e della infallibili-<br />
tà pontificia nel Vaticano I, il movimento iniziato da Möhler culminò nell’enciclica Mystici Corpo-<br />
ris (29 giugno 1943) di Pio XII e nel Vaticano II.<br />
L’investigazione teologica nel decennio 1940-1950 si concentrò sulla tematica proposta dalla Mysti-<br />
ci Corporis ( = MC). Questo fatto è facilmente comprensibile se si tiene presente che l’enciclica co-<br />
ronò i lavori intrapresi nei vari campi della teologia da tutta una generazione di teologi, per cui<br />
l’idea del corpo mistico fu accettata come centro di unità dell’<strong>ecclesiologia</strong> e penetrò profondamen-<br />
te nella coscienza della comunità ecclesiale. Dall’altra parte, la MC si vide obbligata a frenare certe<br />
tendenze ecclesiologiche che, accentuando unilateralmente l’unione mistica dei membri tra di loro e<br />
con Cristo Capo, mettevano in pericolo la verità integrale del dogma ecclesiologico.<br />
b) L’<strong>ecclesiologia</strong> della Mystici Corporis (29 giugno 1943)<br />
1. Gli errori condannati dall’enciclica<br />
L’enciclica viene pubblicata contro gli errori ecclesiologici del razionalismo e naturalismo da una<br />
parte — che mirano a ridurre la Chiesa a mero prodotto umano e cioè a realtà meramente giuridica e<br />
sociologica —, e quelli di un esagerato misticismo dall’altra — che non rispetta le frontiere tra<br />
l’umano e il divino nella Chiesa, tanto da considerare «uniti e fusi in unica stessa persona fisica il<br />
Redentore divino e i membri della Chiesa…, attribuendo agli uomini cose divine, sottomettono Ge-<br />
sù Cristo a errori e debolezze umane» (DzH 3816). Inoltre l’enciclica scopre forme più moderate di<br />
misticismo ecclesiologico in quanti, accentuando con una certa esclusività gli aspetti interiori della<br />
Chiesa nell’unione dei suoi membri con Cristo e tra di loro, presentano una «Chiesa occulta e total-<br />
mente invisibile… Una società formata e sostenuta dalla carità, alla quale oppongono — con un cer-<br />
to disprezzo — un’altra che essi chiamano giuridica» (AAS 35 (1943) 223). Altri interpretano male<br />
l’unità della Chiesa dissociando la sua realtà interiore dalla esteriore: «si allontanano dalla verità di-<br />
vina quanti concepiscono la Chiesa come qualcosa di inaccessibile e che non si può vedere, quasi<br />
come si trattasse di una realtà pneumatica che consta di molte comunità di cristiani che, sebbene se-<br />
parati tra di loro, grazie alla fede sono uniti con un vincolo invisibile» (Ibid., 199-200).<br />
2. La dottrina ecclesiologica dell’enciclica<br />
Nella sua esposizione dottrinale l’enciclica segue i seguenti passi: (1) la Chiesa è un corpo; (2) la<br />
Chiesa è corpo di Cristo; (3) la Chiesa è corpo mistico di Cristo.<br />
248
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
(1) La Chiesa è un corpo (visibile e organico): per corpo si intende qui la comunità indivisa, visibi-<br />
le, organica e gerarchicamente costituita che abbraccia determinati membri e da cui non sono esclusi<br />
i peccatori. Alla ricerca di un sintesi fra la realtà invisibile e quella visibile della Chiesa, la MC, ap-<br />
poggiandosi alla Satis cognitum, adopera «corpo» in relazione diretta con il corpo umano e con ogni<br />
corporazione sociale, per significare non tanto l’indivisibilità e unicità della Chiesa nel senso paoli-<br />
no in modo che i molti formano un corpo (Rm 12,5), quanto la sua visibilità: «Poiché la Chiesa è un<br />
corpo, si percepisce con gli occhi» (Ibid., 199). Pertanto si deve rifiutare la concezione di una Chie-<br />
sa invisibile o pneumatica, in cui i suoi membri si considerano uniti mediante vincoli meramente<br />
spirituali. Quindi, mentre il peccato non separa necessariamente dal corpo della Chiesa — il pecca-<br />
tore è un membro infermo —, l’eresia, lo scisma, l’apostasia e la scomunica, ratificate nel foro e-<br />
sterno, implicano la perdita dell’appartenenza al corpo ecclesiale.<br />
La Chiesa poiché è un corpo, è anche un organismo gerarchizzato in relazione ai vari ministeri ge-<br />
rarchici e agli altri carismi di cui sono dotati i suoi membri per il bene della totalità.<br />
(2) La Chiesa è il corpo di Cristo: essa è stata fondata da Cristo e appartiene a lui. Dal parallelismo<br />
fra Incarnazione e Chiesa si conclude che la Chiesa è il corpo di Cristo. Però, per quanto intima sia<br />
l’unità di Cristo e della sua Chiesa, questa non è l’unione ipostatica che si dà tra la natura umana di<br />
Cristo e il Verbo. Perciò l’enciclica dichiara che la relazione di Cristo con il suo corpo è quella del<br />
Fondatore, Capo, Sostentatore e Salvatore. La Chiesa ha Cristo come suo Fondatore perché è ve-<br />
nuta all’esistenza attraverso tutto il processo degli eventi che costituiscono il Mysterium Christi,<br />
dall’incarnazione fino all’invio dello Spirito sopra il gruppo dei discepoli ed essa deve rendere pre-<br />
sente in modo efficace l’opera della redenzione agli uomini fino alla fine del tempo. Il Cristo inoltre<br />
è Capo del suo corpo, anche se l’unione tra i due non è l’unione ipostatica, ma piuttosto l’unione in<br />
ordine all’esercizio della missione di salvezza che Cristo realizzò sulla terra e, dopo la sua ascen-<br />
sione al cielo, come Capo della Chiesa continua tra gli uomini. D’altra parte, l’unione tra Cristo e i<br />
fedeli non è da pensarsi sul modello di una società umana: Cristo infatti è presente nella Chiesa e<br />
nei cristiani così da esserne il Sostentatore; ciò fa sì che la Chiesa esista quasi altera persona Chri-<br />
sti (Ibid., 218). Perciò è Cristo che battezza, offre il sacrificio al Padre, insegna e regge la comunità<br />
dei fedeli. In breve, Cristo sostenta la sua Chiesa visibilmente attraverso i suoi ministri gerarchici e<br />
invisibilmente per mezzo del dono dello Spirito. In specie Cristo sostenta la Chiesa in virtù della<br />
missione giuridica che egli comunicò ai discepoli e che non è diversa da quella che egli ricevette dal<br />
Padre, per la quale è sempre lui che battezza, insegna… per mezzo della Chiesa. Inoltre, lo Spirito è<br />
lo Spirito di Cristo, perché è il medesimo in Cristo e nei cristiani, benché partecipato in modo diffe-<br />
rente. Lo Spirito si può così chiamare anima della Chiesa. Perciò la presenza di Cristo alla Chiesa<br />
249
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
non è somatica, ma pneumatica. La MC adduce un quarto motivo per chiamare Cristo capo del cor-<br />
po mistico e la Chiesa corpo di Cristo e lo fa basandosi su Ef 5,23: «“Cristo è capo della Chiesa, lui<br />
che è il salvatore del suo corpo”. Egli è Salvatore di tutta l’umanità, però in modo speciale lo è dei<br />
fedeli che si è acquistato con il suo sangue per costituirli membri della Chiesa» (Ibid., 221).<br />
(3) La Chiesa è il corpo «mistico» di Cristo. La Chiesa non è un corpo naturale: mentre infatti in<br />
questo solo il tutto ha la sussistenza che dà alle parti, la Chiesa invece ha una moltitudine di membri<br />
che possiedono una personalità propria. Inoltre, mentre in un corpo vivente le parti sono destinate<br />
all’utilità del tutto, nella compagine della Chiesa il fine ultimo è il bene di ciascun membro. D’altra<br />
parte, la Chiesa non è nemmeno un corpo morale, perché anche avendo caratteristiche proprie della<br />
corporazione, la supera in modo essenziale. Nel corpo morale, infatti, ciò che unisce tutti i membri<br />
del corpo è un fine estrinseco a tutti loro che li congiunge in ordine al suo perseguimento sotto la di-<br />
rezione di un’autorità sociale. Tutto ciò si compie anche nella Chiesa, compagine unita dai vincoli<br />
giuridici istituiti da Cristo; in essa però si dà tra suoi membri un’unità più intima. Infatti la Chiesa<br />
ha come principio interno di unità lo Spirito Santo, che unifica i suoi membri in una medesima vita.<br />
Pio XII rigetta perciò ogni interpretazione naturalistica che vede nell’organismo ecclesiale solo una<br />
istituzione umana. Questo corpo che non è né fisico né morale si può allora chiamare «mistico».<br />
4) L’enciclica dedica poi la sua seconda parte a precisare l’unione dei membri con Cristo e tra di lo-<br />
ro nel corpo della Chiesa. A tal fine Pio XII identifica Chiesa cattolica e corpo mistico, affermando<br />
che tanto si estende il corpo mistico di Cristo quanto si estende la Chiesa cattolica; le due realtà si<br />
completano e si perfezionano a vicenda, e procedono da un solo e identico Salvatore. Quindi «tra i<br />
membri della chiesa bisogna annoverare esclusivamente (reapse) quelli che ricevettero il lavacro<br />
della rigenerazione, e professando la vera fede né da se stessi disgraziatamente si separarono dalla<br />
compagine di questo corpo, né per gravissime colpe commesse ne furono separati dalla legittima au-<br />
torità… Come dunque nel vero ceto dei fedeli si ha un solo corpo, un solo Spirito, un solo Signore e<br />
un solo battesimo, così non si può avere che una sola fede (Ef 4,5), sicché chi abbia ricusato di a-<br />
scoltare la chiesa, deve, secondo l’ordine di Dio, ritenersi come gentile e pubblicano (Mt 18,17).<br />
Perciò quelli che sono tra loro divisi per ragioni di fede e di governo, non possono vivere nell’unità<br />
di tale corpo e per conseguenza neppure nel suo divino Spirito». Quelli invece che non appartengo-<br />
no alla Chiesa visibile, non appartengono neppure al corpo mistico di Cristo, anche se «da un certo<br />
inconsapevole anelito e desiderio sono ordinati al mistico corpo del Redentore» (DzH 3821).<br />
La pubblicazione della MC segna indubbiamente una nuova tappa nella storia delle idee ecclesiolo-<br />
giche e costituisce un progresso innegabile, ossia il passaggio dalla considerazione sociologica o<br />
250
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
giuridica della Chiesa a quella propriamente teologica. Di fatto, la nozione di società perfetta come<br />
tale era ricavata dalla sociologia e dal diritto, non dalla rivelazione, mentre la nozione di corpo mi-<br />
stico si trovava in S. Paolo e in tal caso poteva essere di maggior aiuto per una definizione teologica<br />
della Chiesa. Tuttavia si deve osservare anche che l’enciclica adottò come punto di partenza la no-<br />
zione sociologica di corpo (la Chiesa è una corporazione sociale e come tale è visibile); ciò condi-<br />
zionò la soluzione che si diede ai vari problemi affrontati, ad es. l’identificazione del corpo mistico<br />
con la Chiesa cattolica romana e la questione dei criteri di appartenenza.<br />
In ogni caso l’enciclica fece sorgere parecchie discussioni. In primo luogo ci si chiedeva se la no-<br />
zione di corpo mistico di Cristo fosse da considerarsi una definizione della Chiesa in senso stretto.<br />
La discussione concluse che se questa non era da considerarsi l’unica definizione, tuttavia era da<br />
preferirsi rispetto alle altre (Malmberg; Holböck; Schmaus). In secondo luogo sorse una discussione<br />
sulla identificazione che la MC aveva operato fra corpo mistico e Chiesa cattolica romana — posi-<br />
zione che Pio XII confermò nella Humani Generis: AAS 42 (1950) 567-568 — e quindi sui criteri di<br />
appartenenza alla Chiesa. Alcuni si chiedevano infatti se il corpo mistico non si estendesse oltre le<br />
frontiere della Chiesa cattolica e dell’appartenenza alla Chiesa visibile. Altri parlavano di differenti<br />
gradi di appartenenza alla Chiesa, ricollegandosi a J.B. Franzelin, che ammetteva un’appartenenza<br />
«parziale» (ex parte); parlavano perciò, d’incorporazione in voto e d’incorporazione totale e pratica<br />
alla Chiesa (Y. Congar), di appartenenza visibile e d’appartenenza invisibile alla Chiesa (A. Liégé).<br />
Altri poi sottolineavano che il concetto di corpo di Cristo così inteso disconosceva la differenza fra<br />
il presente e la consumazione futura (Fincke). In terzo luogo la discussione si appuntò sul significa-<br />
to dell’aggettivo mistico, dato che esso non apparteneva al linguaggio paolino, ma gli era posteriore.<br />
Inoltre si faceva notare come il senso cristologico-soteriologico e sacramentale che Paolo aveva da-<br />
to all’espressione corpo di Cristo non era stato pienamente considerato dall’enciclica, interessata a<br />
sottolineare in essa soprattutto la visibilità e organicità della Chiesa.<br />
Di tutta questa ampia discussione possiamo fare nostro il bilancio conclusivo stilato da Antonio A-<br />
cerbi alla luce della “svolta” conciliare: «La teologia del corpo mistico concentrò il suo interesse<br />
proprio sul lato invisibile della Chiesa, sentito come quello essenziale per la sua comprensione. Ma<br />
non arrivò a coglierne il riflesso sulla dimensione istituzionale della Chiesa e confinò ancora la real-<br />
tà della “communio sanctorum” nei limiti del puramente spirituale, nella sfera extragiuridica del<br />
rapporto di amore e di grazia tra Cristo e i fedeli e tra questi ultimi. La tendenza fu, perciò, o a sva-<br />
lutare il dato istituzionale, negandogli rilevanza nel mistero della Chiesa o a mantenere intatta la<br />
prevalenza delle categorie istituzionali nella considerazione del lato visibile della Chiesa. Anche<br />
quando si sottolineava il servizio che tutti i membri della Chiesa sono chiamati a rendersi nella co-<br />
251
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
munione dei santi, e quando la realtà mistica della Chiesa era portata a fondamento e giustificazione<br />
della sua dimensione visibile, era pur sempre l’istituzione gerarchica il termine prevalente della<br />
considerazione. Si continuava ad avere, così, da un lato una comunità di fede (sentita come la realtà<br />
essenziale, ma senza consistenza giuridica e rilevanza strutturale) e dall’altro lato una società gerar-<br />
chica dotata di organi gerarchici (concepita ancora secondo gli schemi della società perfetta)» 113 .<br />
2.6.5. Le nuove prospettive dell’<strong>ecclesiologia</strong> tra il 1950 e il 1960<br />
Tra il 1950 e il 1960 si ebbe un approfondimento dei problemi ecclesiologici, con nuove prospettive<br />
grazie a uno studio più intenso della Sacra Scrittura e dei Padri. In particolare si pose l’accento sui<br />
temi che avrebbero costituito l’ossatura della Lumen Gentium, quali la Chiesa come sacramento di<br />
salvezza, come comunione, come popolo di Dio; se ne mise in risalto il carattere missionario; fu ap-<br />
profondito il posto dei laici nella Chiesa e la specificità della loro missione (la teologia del laicato);<br />
si posero in risalto gli elementi ecclesiali presenti nelle Chiese e comunità separate; si approfondì il<br />
carattere escatologico della Chiesa; furono meglio studiati i rapporti tra Maria e la Chiesa.<br />
In particolare la situazione della riflessione ecclesiologica al momento del Concilio risultava dalla<br />
confluenza di tre filoni teologici. Continuavano ad avere corso, soprattutto sul tema delle strutture<br />
gerarchiche, le soluzione giuridiste, tramandate attraverso i manuali di teologia e di diritto pubblico<br />
ecclesiastico. Accanto a queste apparivano recepiti e consolidati i risultati del rinnovamento eccle-<br />
siologico, che aveva fatto perno attorno al tema del «corpo di Cristo». Infine, cominciavano ad af-<br />
fermarsi nuovi spunti relativi al rapporto tra gli elementi costitutivi della dimensione storica e socia-<br />
le della Chiesa, cioè tra il dato gerarchico, quello sacramentale e quello comunitario della società<br />
ecclesiale. Ne venne che su molti temi si contrapponevano opinioni divergenti.<br />
a) Il «mistero» della Chiesa<br />
Una prima linea di spartiacque si manifestava nella questione della definizione (o descrizione) della<br />
Chiesa. Si trattava di sapere se la Chiesa andava definita facendo riferimento in primo luogo al «mi-<br />
stero» presente in essa più che alle caratteristiche societarie della sua manifestazione storica (subor-<br />
dinando, quindi, la realtà strutturata della Chiesa alla sua realtà mistica) oppure se doveva essere de-<br />
finita ricorrendo in primo luogo alle categorie filosofiche correnti per la definizione delle altre so-<br />
cietà umane (salvo affermarne la soprannaturalità dell’origine e del fine).<br />
1) La visione societaria della chiesa era ancora dominante in alcuni importanti manuali (Vellico;<br />
113 A. ACERBI, Due ecclesiologie (Bologna: EDB, 1975) 47-48.<br />
252
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Zapelena; Salaverri). Essa era difesa appassionatamente soprattutto in alcuni ambienti teologici nor-<br />
damericani (Fenton). Ma la riflessione teologica nel suo complesso aveva abbandonato la prospetti-<br />
va controversistica, facendo prevalere l’opinione che «la Chiesa è primariamente una realtà invisibi-<br />
le. Con ciò non si nega affatto la visibilità della Chiesa, anzi la si richiede a ragione del concetto di<br />
mistero, che significa una comunicazione della salvezza avvolta in forme visibili» 114 . Nel definire la<br />
Chiesa, perciò, deve emergere la comunione interiore di carità e la santità comunicatale da Cristo.<br />
La sensibilità al «mistero» della Chiesa permetteva di integrare meglio nella teologia della Chiesa la<br />
dimensione pneumatica: la Chiesa, infatti come comunione di vita e di santità, è una «comunione<br />
nello Spirito» 115 . Il richiamo al mistero dello Spirito serviva ad evitare il «monofisismo ecclesiale»:<br />
la Chiesa non è «incarnazione continuata»; essa ha un rapporto solo analogico col mistero della u-<br />
nione ipostatica, visto che l’unità in Cristo dei fedeli si realizza per la mediazione dello Spirito 116 .<br />
Questa rinnovata comprensione del carattere pneumatico della Chiesa trovava espressione nella ri-<br />
proposizione del tema tradizionale della «ecclesia de Trinitate»: la Chiesa è una comunità di perso-<br />
ne in comunione con le persone divine per la comunicazione fatta loro da Cristo nello Spirito della<br />
vita e dell’unità trinitaria 117 . Allo schema «cristologico» si affiancava così uno schema «trinitario».<br />
La sensibilità al «mistero» della Chiesa apriva anche all’idea che essa non fosse definibile in senso<br />
proprio, ma che se ne potesse dare solo una descrizione di tipo metaforico o analogico 118 . Questa<br />
consapevolezza rivalutò il valore teologico delle immagini e delle metafore, sia bibliche che patri-<br />
stiche, ed aprì a una più profonda comprensione della <strong>ecclesiologia</strong> dei Padri 119 .<br />
2) Il dono dello Spirito è il dono degli «ultimi tempi». La riflessione sul «mistero» della Chiesa non<br />
poté, perciò, andare disgiunta dalla considerazione del suo carattere escatologico. Nella prospettiva<br />
societaria l’istituzione non è in tensione né verso il passato (la Chiesa società perfetta non esisteva<br />
nell’AT) né verso il futuro (esso è irrilevante per l’istituzione, che non esisterà più nello stadio della<br />
Chiesa trionfante), ma è in se stessa conchiusa e perfetta, tutta realizzata nella volontà istitutiva del<br />
suo fondatore e nelle sue cause costitutive. Nella prospettiva comunionale, invece, la dimensione<br />
escatologica ritrovava piena rilevanza. La comunione con Dio, infatti, ha un’intrinseca tensione ver-<br />
114<br />
A. STOLZ, De ecclesia (Freiburg im Brisgau 1939) 15.<br />
115<br />
Y. CONGAR, La pneumatologie dans la théologie catholique, in RScPhTh 51 (1967) 250-258.<br />
116<br />
Y. CONGAR, Dogme christologique et ecclésiologique. Verité et limites d’un parallèle, in ID., Sainte Église. Études et<br />
approches ecclésiologiques (Paris 1964) 69-104.<br />
117<br />
Y. CONGAR, Chrétiens desunis. Principes d’un «oecumenisme» catholique (Paris 1937) 59-73; H. DE LUBAC, Méditation<br />
sur l’Église (Paris 1952).<br />
118<br />
Y. CONGAR, Sainte Église, 21 n. 1; A. STOLZ, De ecclesia, op. cit., 27.<br />
119<br />
H. RAHNER, Symbole der Kirche. Die Ekklesiologie der Väter (Salzburg 1964).<br />
253
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
so l’«eschaton» e l’istituzione non ha ragione e consistenza in sé medesima, ma la riceve da ciò cui<br />
è ordinata e che la sorpassa, la comunione di vita beata con Dio, ed ha valore nel suo rapporto di si-<br />
gnificazione e di servizio alla «res» di cui è segno nella storia umana. La comunione è anche una re-<br />
altà progressiva, in cui i diversi tempi dell’economia salvifica hanno un proprio significato… fino al<br />
culmine del regno, cui tutta la storia della salvezza è ordinata.<br />
La diversa sensibilità circa la natura escatologica della Chiesa trovava il suo primo campo di espres-<br />
sione nella considerazione dei rapporti tra la Chiesa e il regno di Dio. La tendenza prevalente tra i<br />
cattolici prima della crisi modernista era di identificare semplicemente Regno e Chiesa (cfr. ancora<br />
nel 1925 Pio XI nell’istituire la festa di Cristo Re). Più tardi, in reazione alla separazione totale che<br />
liberali e modernisti operavano tra i due, i cattolici iniziarono a distinguere tra le due realtà, anche<br />
se a malapena: la differenza ammessa riguardava più il modo che la natura. Alcuni studiosi comin-<br />
ciarono a distinguere tra i due anche quanto alla loro natura: la Chiesa non è il Regno, che sarà pre-<br />
sente solo nella comunione finale, ma ha strette relazioni col Regno 120 . La rivalutazione della di-<br />
mensione escatologica della Chiesa rappresentava anche una reazione all’indebita assimilazione del<br />
suo stadio terreno alla sua situazione celeste e alla accentuazione del suo carattere di «regnum im-<br />
mobile». La coscienza della sua natura escatologica relativizzava, invece, il dato istituzionale.<br />
b) La dimensione storica della Chiesa<br />
La Mystici Corporis aveva riaffermato la corporeità sociale e l’unità tra l’elemento spirituale e quel-<br />
lo istituzionale del Corpo mistico di Cristo, contro il rischio di restringere la Chiesa al dominio della<br />
grazia personale o di concepire la Chiesa solo in prospettiva personalista. Tuttavia la soluzione data<br />
si limitava ad affermare la compresenza e l’unità dei due elementi nella Chiesa (assumendo in senso<br />
corporativo l’idea di Corpo mistico) e a proporre il lato visibile della Chiesa in termini prevalente-<br />
mente societari. La riflessione successiva cercò, quindi, di chiarire il rapporto tra il dato mistico e<br />
quello sociale, con l’intento di superare sia l’univoca identificazione tra Corpo mistico e società, tra<br />
Chiesa e Chiesa romana, sia i limiti della visione societaria del lato visibile della Chiesa.<br />
1) Alcuni autori, tra le due guerre, avevano posto in tensione i due aspetti della Chiesa come legge<br />
intima della realtà ecclesiale: irriducibili come sono, essi fan sì che il mistero della Chiesa possa es-<br />
sere espresso solo con l’aiuto di due proposizioni in tensione dialettica fra di loro 121 . Tale concezio-<br />
ne induceva a una dualità difficilmente accettabile, ove questa fosse riposta sul piano strutturale. Ma<br />
120 R. SCHNACKENBURG, La Chiesa nel Nuovo Testamento (Brescia: Morcelliana, 1978; ed. or. 1961).<br />
121 K. FECKES, Das Mysterium der hl. Kirche (Paderborn 1934); Y. CONGAR, Chrétiens desunis, op. cit., 95-110.<br />
254
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
essa si manifestava adatta a dar ragione della non identità assoluta tra il Corpo mistico e la Chiesa<br />
romana, ove si considerassero i rapporti tra i due aspetti della Chiesa sul piano storico.<br />
2) Allo stesso scopo intese provvedere la concezione «sacramentale» della Chiesa, che riprese e si-<br />
stematizzò un concetto già presente tra le due guerre. Essa presenta Cristo come epifania di Dio nel-<br />
la sua umanità e come «sacramento primordiale»; la Chiesa lo è solo in senso derivato: essa è il sa-<br />
cramento di Cristo, come questi lo è nella sua umanità di Dio. I sette sacramenti sono a loro volta la<br />
manifestazione particolare dell’universale sacramentalità della Chiesa 122 . Questa concezione cerca-<br />
va un principio sintetico nella nozione di sacramento per spiegare l’unità, la distinzione e la com-<br />
plementarità dei due poli della realtà ecclesiale. La Chiesa non è solo un’istituzione (necessaria per<br />
precetto divino) per acquistare una grazia che non ha in sé relazione intima con la natura di tale ap-<br />
parato istituzionale, e nemmeno una fondazione che continua sulla terra l’opera di salvezza compiu-<br />
ta da Cristo; essa lo rende attualmente presente, essa assicura l’operazione attuale del Cristo tra gli<br />
uomini. D’altra parte, però, essa non è Cristo, ne è solo il «sacramento». Ciò comporta che il suo<br />
apparato istituzionale non è solo la manifestazione esteriore della comunione di grazia, che è il frut-<br />
to dell’azione salvifica attuale di Cristo, ma ne è anche la causa strumentale. Il rapporto tra la vita<br />
spirituale dei fedeli e la sua forma societaria è così chiaramente affermato in entrambi i sensi, ma<br />
nella stretta subordinazione della realtà sociale a quella spirituale. Questa concezione accoglieva<br />
l’esigenza fondamentale della Mystici Corporis, quella dell’unità tra il dato sociale e quello spiritua-<br />
le: nel «sacramentum», infatti, la «res» e il «signum» sono uniti necessariamente e sussistono in e in<br />
virtù di tale unione. Ma evitava l’identificazione univoca dei due dati: la «res» e il «signum» sono<br />
infatti formalmente distinti e uniti proprio in quanto distinti e correlati.<br />
3) Una nozione fondamentale nella Bibbia e rimessa recentemente in onore ad opera di esegeti, teo-<br />
logi e canonisti, era quella di «popolo di Dio» 123 . Raramente presente nei manuali, essa, quando lo<br />
era, veniva considerata come specificazione dell’idea generica di popolo in senso sociologico e fatta<br />
coincidere con l’idea di società. Una diversa considerazione cominciò ad aversi nella polemica sul<br />
Corpo mistico, inteso come puro regno della grazia. Rifiutando tale idea come incapace di fondare<br />
la visibilità della Chiesa, alcuni teologi proposero l’idea di «popolo di Dio» come più esauriente nel<br />
render conto della realtà della Chiesa che quella di corpo mistico. Ma decisivo fu il recupero della<br />
122 O. SEMMELROTH, La Chiesa sacramento di salvezza (Napoli 1965; 2 a ed. ted. 1955); E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento<br />
dell’incontro con Dio (Roma 1962; or. 1957); K. RAHNER, Chiesa e sacramenti (Brescia 1965; or. 1960).<br />
123 M.D. KOSTER, Ekklesiologie im Werden (Paderborn 1940); J. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino<br />
(Milano 1971; or. 1954) cfr. il primo numero della rivista Concilium 1 (1965).<br />
255
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
sua specificità biblica e patristica. L’ambito in cui essa andava situata era il mistero cristiano consi-<br />
derato come «storia della salvezza» in cui non è inteso primariamente il singolo nella sua unione<br />
mistica col Signore, ma la totalità dei chiamati a salvezza, «il popolo dell’Alleanza» (e solo nella to-<br />
talità il singolo) 124 . La Chiesa appare allora come l’«ekklesía», il popolo che Dio elegge e convoca<br />
con la sua parola ogni istante; la Chiesa è la «congregatio fidelium», ma è insieme anche la «convo-<br />
catio Dei». Essa è il popolo peregrinante, sorretto dalla fedeltà del Signore alle sue promesse ma<br />
soggetto anche alla miseria e alla infedeltà degli uomini. Infine, essa è il popolo di Dio universale:<br />
la cattolicità, però, è meno una questione quantitativa e più «la capacità dell’unità», per cui la Chie-<br />
sa assume tutte le esigenze dello spirito umano e dei popoli in cui si incarna 125 .<br />
4) Uno spostamento di accento si ebbe, poi, anche nell’idea di «corpo mistico», con la riscoperta del<br />
suo senso biblico e patristico. Gli esegeti misero in luce che in Paolo la nozione di «corpo» non ha<br />
primariamente un significato corporativo; essa indica piuttosto l’unione vitale del cristiano col Si-<br />
gnore risorto, di quanti nel battesimo e nell’eucaristia partecipano della sua vita e della sua morte 126 .<br />
Gli storici individuarono, a loro volta, un cambiamento fondamentale, avvenuto tra il XII e il XIV<br />
secolo, nel senso del termine. Per i Padri vi era un incrocio inscindibile tra il corpo eucaristico e<br />
quello ecclesiale di Cristo, cosicché la Chiesa non poteva intendersi «corpo di Cristo» se non per il<br />
suo riferimento all’eucaristia. Nel medioevo invece la nozione scivolò sul piano sociologico, diven-<br />
tando in sostanza una metafora per indicare la Chiesa come una corporazione 127 .<br />
In quanto «corpo di Cristo» la Chiesa è, allora, la comunità di coloro che celebrano la cena del Si-<br />
gnore, diventando essi stessi corpo del Signore. In questa accezione, veniva meno l’opposizione tra<br />
l’idea di «corpo mistico» e quella di «popolo di Dio», anzi ne appariva la profonda consonanza: la<br />
Chiesa è il popolo di Dio della nuova alleanza, che esiste come corpo di Cristo 128 .<br />
Le scelte operate nelle questioni dei rapporti tra il dato istituzionale e quello spirituale della Chiesa<br />
comportavano un corollario e una pietra di paragone nella questione dell’appartenenza alla Chiesa<br />
(e della sua necessità per la salvezza). Sostanzialmente d’accordo sui dati del problema (sulla esi-<br />
stenza e la natura dei vincoli interiori e sociali con la Chiesa esistenti nei cattolici e non cattolici), la<br />
divisione sopravveniva circa la loro rilevanza ecclesiologica; il che si riconduceva al significato che<br />
124<br />
H. DE LUBAC, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma (Roma 1964; or. 1938).<br />
125<br />
Si vedano i contenuti teologici di questa nozione in A. ANTON, El mistero de la Iglesia, II, op. cit., 729-753.<br />
126<br />
P. BENOIT, Corpo, capo, pleroma nelle lettere della prigionia, in Esegesi e teologia (Roma 1964) 399-460 [già in<br />
Revue Biblique 63 (1956) 5-44].<br />
127<br />
H. DE LUBAC, Corpus mysticum (Torino 1968; or. 1949).<br />
128 2<br />
J. RATZINGER, Kirche, in LThK , VI, 172-183; R. SCHNACKENBURG, La Chiesa del nuovo Testamento, op. cit., 160-<br />
187; L. CERFAUX, La teologia della chiesa secondo san Paolo (Roma 1968; or. 1965) 463-471.<br />
256
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
i teologi ponevano sotto il termine «Chiesa». Inoltre si poneva anche il problema dello statuto delle<br />
chiese e delle comunità non cattoliche.<br />
5) Infine la comprensione più articolata a livello biblico, patristico e storico del tema Chiesa, diede<br />
nuovi impulsi per ripensare la relazione fra la Chiesa e il mondo, caratterizzata a partire dal Medio<br />
Evo come confronto fra due potenze. Il ritorno alle fonti fece emergere il mondo come soggetto di<br />
una storia il cui senso è relativo al suo termine, cioè l’escatologia. La Chiesa così non veniva più<br />
concepita come potere rivale dell’altro potere; essa vedeva se stessa, lo stesso mondo e il proprio<br />
rapporto al mondo, in riferimento all’escatologia. Questa visione rinnovata fondava una maniera<br />
nuova, per la Chiesa, di esercitare il suo rapporto al temporale: non più pretesa di giurisdizione sulla<br />
città, ma influsso esercitato dai fedeli la cui coscienza è formata dalla Chiesa: in fondo era lo stesso<br />
statuto dell’Azione cattolica. I cattolici uscivano dal ghetto di un cattolicesimo strettamente confes-<br />
sionale e sociologico-politico, per fare, insieme con gli altri, la loro parte nel mondo «profano». In<br />
proposito si è spesso parlato di «fine dell’era costantiniana». Si accettava la laicità delle strutture di<br />
questo mondo che si trattava di «consacrare», non attraverso una sacralizzazione di tipo clericale ma<br />
attraverso una umanizzazione secondo Dio. Evidentemente ciò impegnava una antropologia ben di-<br />
versa da quella implicata nel Syllabo… L’uomo cristiano, ricreato nell’Azione cattolica e nei «mo-<br />
vimenti» paralleli, riprendeva il suo posto nella Chiesa.<br />
Il panorama delle tendenze ecclesiologiche a ridosso del Concilio — peraltro qui solo abbozzato —<br />
permette di cogliere la complessità della situazione, che fece da sfondo al dibattito conciliare. Le<br />
tendenze ecclesiologiche non si presentavano, infatti, ognuna come un dato unitario; anzi, neppure<br />
erano nettamente distinte, ma apparivano in parte sovrapposte, se si tien conto di alcuni problemi<br />
concreti. Se era quasi di pacifico possesso una considerazione mistica della chiesa, frutto del-<br />
l’approfondimento che su questo aspetto era stato operato dalla teologia del corpo mistico (cosicché<br />
su tale punto si realizzò con una certa facilità l’unanimità morale in Concilio), la riflessione sul-<br />
l’indole comunitaria della chiesa visibile conservava talora una certa fluidità di lineamenti e spartiva<br />
il campo con i ben più vigorosi temi in materia della <strong>ecclesiologia</strong> societaria. D’altra parte, i padri<br />
erano mossi soprattutto non da preoccupazioni di sistematica teologica, ma da intenti pastorali: il<br />
recupero di una capacità di presenza e di dialogo col mondo contemporaneo, l’ecumenismo, il rin-<br />
novamento della liturgia, l’equilibrio tra l’esercizio del primato e la funzione dell’episcopato,<br />
l’incarnazione della chiesa nelle civiltà non europee, per citarne solo alcuni. Il Concilio rappresentò<br />
un momento eccezionale di approfondimento della coscienza della chiesa attorno alla sua natura e<br />
alla sua missione; ma il problema ecclesiologico fu filtrato attraverso tali preoccupazioni dei padri.<br />
257
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
2.7. La comprensione della chiesa al Vaticano II<br />
L’intento di queste riflessioni è di offrire un’introduzione generale alla Costituzione Lumen Gen-<br />
tium. Si considereranno soprattutto due tematiche. Nella prima parte si ripercorreranno le tappe<br />
principali della redazione del testo per vedere attraverso quali passaggi si è giunti alla stesura defini-<br />
tiva; presteremo attenzione soprattutto alla struttura del testo che non è affatto un elemento seconda-<br />
rio, ma rivela l’impostazione del discorso ecclesiologico. Nella seconda parte invece cercheremo,<br />
alla luce degli elementi emersi mediante l’analisi della genesi del documento, di indicare alcuni cri-<br />
teri interpretativi che consentono di comprenderlo in maniera corretta.<br />
2.7.1. Le tappe principali della redazione della Lumen Gentium<br />
a) La composizione del primo schema e l’affermazione della tendenza giuridica<br />
Per quale ragione il Vaticano II ha elaborato un documento come la Lumen Gentium che riprende in<br />
termini complessivi il tema ecclesiologico? A differenza della situazione in cui si sono celebrati la<br />
maggior parte dei concili della storia della chiesa, nel caso del Vaticano II non ci si trovava nella<br />
necessità di precisare aspetti essenziali della fede mediante delle definizioni dogmatiche, ma piutto-<br />
sto si avvertiva il bisogno di rinnovamento della vita ecclesiale che si riteneva potesse derivare solo<br />
da una nuova esposizione dell’insegnamento cristiano e, in particolare, della dottrina sulla chiesa.<br />
Le ragioni che rendono necessario questo discorso e le finalità che esso si prefigge sono suggerite da<br />
Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio:<br />
«Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo<br />
unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la<br />
nostra età esige, proseguendo così il cammino, che la chiesa compie da quasi venti secoli.<br />
Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della<br />
dottrina fondamentale della Chiesa, in ripetizione diffusa dell’insegnamento dei Padri e dei Teologi<br />
antichi e moderni quale si suppone sempre ben presente e familiare allo spirito.<br />
Per questo non occorreva un concilio. Ma dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto<br />
l’insegnamento della chiesa nella sua interezza e precisione, quale ancora splende negli atti conciliari<br />
da Trento al Vaticano I, lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende<br />
un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze; è necessario<br />
che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e<br />
presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Est enim aliud ipsum depositum<br />
Fidei, [seu veritates, quae veneranda doctrina nostra continentur], aliud modus, quo eaedem enuntiantur<br />
[eodem tamen sensu eademque sententia]. Bisognerà attribuire molta importanza a<br />
questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione: e si dovrà<br />
ricorrere a un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il cui carattere è<br />
preminentemente pastorale» 129 .<br />
129 GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura del Concilio, 11 ottobre 1962; EV I, n. 53*-55*. Abbiamo scritto in parentesi<br />
quadra le aggiunte fatte, contro l’intenzione e lo scritto di papa Giovanni, dalla redazione ufficiale presente negli AAS.<br />
258
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
L’esecuzione di questo progetto fu tutt’altro che facile e la storia della redazione della LG mostra il<br />
percorso faticoso attraverso cui si è cercato di realizzare il programma delineato da Giovanni XXIII<br />
(senza dimenticare la Gaudium et Spes, il secondo pilastro del discorso conciliare sulla chiesa).<br />
Dopo l’annuncio del Concilio da parte di Giovanni XXIII (il primo annuncio pubblico venne fatto il<br />
25 gennaio 1959 nella basilica di S. Paolo fuori le mura) si intraprese una vasta consultazione tra<br />
tutti i vescovi, gli ordini religiosi e le università cattoliche circa i temi da trattare. Dall’esame di<br />
questo materiale vastissimo e di natura assai disparata vennero individuati alcuni temi più importan-<br />
ti meritevoli di trattazione. Tali temi furono affidati a delle commissioni per un primo approfondi-<br />
mento; alle commissioni venne affidato anche il compito di predisporre degli schemi che servissero<br />
da base per la discussione conciliare. La commissione De doctrina fidei et morum (sotto la presi-<br />
denza del card. Ottaviani, prefetto del S. Uffizio e con S. Tromp come segretario) si occupò delle<br />
questioni dottrinali. Essa si divise in sottocommissioni, una delle quali assunse il compito di prepa-<br />
rare lo schema De ecclesia. Fin dall’inizio si manifestò con molta chiarezza all’interno della sotto-<br />
commissione l’intenzione di preparare un testo che portasse il Concilio ad assumere l’impostazione<br />
della Mystici Corporis armonizzando gli aspetti giuridici e quelli mistici della realtà della chiesa. In<br />
tal modo si voleva completare la Costituzione Pastor Aeternus del Vaticano I servendosi del magi-<br />
stero di Pio XII. In particolare, l’intenzione dichiarata non era quella di elaborare una esposizione<br />
completa sulla Chiesa, bensì di affrontare alcuni problemi, ritenuti giunti a maturazione o più urgen-<br />
ti. La sottocommissione preparò quindi un primo schema che venne inviato ai Padri conciliari nel<br />
novembre 1962; esso si componeva di 11 capitoli e si intitolava Aeternus Unigeniti Pater.<br />
1) Natura della chiesa militante<br />
L’intento preciso del capitolo (redatto da U. Lattanzi) era quello di proporre l’identificazione reale tra il<br />
corpo mistico di Cristo in terra e la chiesa cattolica romana, tra la chiesa della carità e la società giuridi-<br />
camente organizzata, che attraverso la gerarchia esercita la potestà affidatale da Cristo. Pertanto, si con-<br />
cludeva, solo la chiesa cattolica romana aveva il diritto di chiamarsi chiesa. Il concilio doveva quindi<br />
consacrare la posizione della Mystici Corporis.<br />
2) I membri della chiesa militante e la necessità di questa per la salvezza<br />
Nella sottocommissione si confrontarono due tesi. La prima, sposando le idee della Mystici Corporis e<br />
della Humani Generis, sosteneva che l’appartenenza alla chiesa era una realtà univoca: o si è membri o<br />
non lo si è; inoltre, per esserlo, è necessaria e sufficiente l’integrità dei vincoli sociali (professione ester-<br />
na della fede, comunione sacramentale, soggezione all’autorità ecclesiastica). Perciò i non cattolici, an-<br />
che battezzati e in grazia, non appartengono ad alcun titolo alla chiesa e al corpo mistico, ma sono solo<br />
ordinati ad essa [Fenton, Brinktrine, Tromp]. Per l’altra posizione l’appartenenza alla chiesa è una realtà<br />
259
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
complessa ed analoga: per la piena appartenenza non bastano i vincoli di incorporazione sociale, ma oc-<br />
corre anche il possesso della vita di Cristo e del suo Spirito. Di più, si può appartenere alla chiesa secon-<br />
do gradi, sia nell’ordine dei nessi visibili che di quelli invisibili. Da un lato, quindi, non si può separare<br />
l’appartenenza a Cristo e l’appartenenza al suo corpo, la Chiesa; d’altro lato, si danno membri in senso<br />
pieno e salutare (i cattolici in stato di giustizia interiore), membri a titolo non pieno, perché manca a loro<br />
qualche condizione di appartenenza (i cattolici senza la grazia e la carità; i battezzati non cattolici, che<br />
non sono privi di nessi anche visibili col corpo sociale della chiesa) e infine, i non cristiani in stato di<br />
grazia, i quali, oltre il legame spirituale, sono ordinati al corpo sociale della chiesa per il «votum ineundi<br />
ecclesiam visibilem» [Journet; Schmaus; Philips; Salaverri; Congar]. La radice della contrapposizione<br />
stava nell’opposta considerazione dell’elemento interno (la comunione di vita con Cristo mediante la<br />
grazia e le virtù) in ordine a definire la chiesa e a comprendere la verità che la chiesa cattolica e il corpo<br />
mistico non sono due cerchi che si ricoprono solo parzialmente, ma la loro estensione si identifica, sicché<br />
non si dà appartenenza al corpo mistico, come un’unione puramente invisibile di grazia, senza relazione<br />
al corpo sociale della chiesa. C’era poi anche la preoccupazione ecumenica, ossia quale significato eccle-<br />
siale riconoscere alle comunità non cattoliche. Il capitolo redatto da Tromp abbracciò la prima opinione.<br />
3) L’episcopato come grado supremo del sacramento dell’ordine e del sacerdozio<br />
Il capitolo, redatto da Lecuyer, aveva per scopo di proporre la dottrina della sacramentalità del-<br />
l’episcopato (un insegnamento condiviso da tutti i membri della commissione). Però il capitolo non col-<br />
legava al sacramento dell’episcopato il triplice munus episcopale. Anzi già la successione dei capitoli<br />
mostrava come si volesse separare il sacramento dalla giurisdizione episcopale.<br />
4) I vescovi residenziali<br />
Il capitolo, redatto da H. Schauf e da S. Tromp, era suddiviso in quattro numeri: la giurisdizione dei ve-<br />
scovi sulle singole diocesi (13); la loro dipendenza dal romano pontefice (14); la loro sollecitudine verso<br />
la chiesa universale (15); il collegio episcopale (16). Il collegio episcopale appariva solo in appendice ed<br />
era inteso come partecipazione ai poteri papali. Al contrario, nei «vota» inviati dai vescovi già si propo-<br />
neva la concezione collegiale dell’episcopato.<br />
5) Gli stati di perfezione evangelica<br />
Il capitolo, affidato a U. Betti, intendeva affrontare una questione particolare: non tanto manifestare il<br />
senso della vocazione e dello stato religioso nel mistero della chiesa né il ruolo dei religiosi nella struttu-<br />
ra di questa, quanto piuttosto di indicare i principi teologici su cui deve basarsi l’evoluzione della vita re-<br />
ligiosa e delle sue forme. Il capitolo dedicava più della metà della trattazione agli aspetti giuridici.<br />
6) I laici<br />
Il capitolo rappresenta una novità sia per l’argomento (parlare dei laici significa già di per sé parlare di<br />
un elemento non istituzionale, non gerarchico della chiesa e fissare l’attenzione meno sui poteri giurisdi-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
zionali e più sulla fondamentale unità, che deriva tra tutti i membri della chiesa dalla unità del battesimo<br />
e della missione) sia per l’impronta data dal suo redattore Gérard Philips. Il capitolo, in una prima parte,<br />
sottolinea fortemente l’unità della missione e la corresponsabilità di tutti i membri della chiesa. In una<br />
seconda parte, presentando la situazione dei laici nella chiesa, esso non insiste solo nella determinazione<br />
della loro posizione giuridica verso la gerarchia, ma propone la loro partecipazione al triplice munus di<br />
Cristo, in forza della loro partecipazione ai sacramenti cristiani ed esplicita l’indole ecclesiale della con-<br />
dizione e dell’attività dei laici, considerata secondo gli ambiti di intervento nella chiesa e nel mondo. Per<br />
questo, il capitolo fu quello che sostanzialmente subì le modifiche minori nel corso della rielaborazione<br />
successiva dello schema. Il testo però non dirimeva la questione della natura metaforica o meno del sa-<br />
cerdozio universale dei fedeli. Anche se la commissione teologica rielaborò il testo in modo che fosse<br />
chiara la natura sia metaforica sia analogica del sacerdozio battesimale, mentre rivendicò il titolo di sa-<br />
cerdozio vero e proprio per quello ministeriale (analogatum princeps).<br />
7) Il magistero della chiesa<br />
I due capitoli 7 e 8 sono apparentati, non solo perché scritti da un solo redattore, Carlo Colombo, ma an-<br />
che perché sono entrambi posti sotto il segno dell’autorità, quella magisteriale il primo, quella di gover-<br />
no il secondo. In particolare, l’intenzione fondamentale del capitolo 7 è pratica: riaffermare l’autorità del<br />
magistero, in specie quello ordinario, contro la tendenza a sottovalutare il suo valore obbligante, e ri-<br />
chiamare a questo scopo i principi teologici relativi. Si afferma una rigida distinzione fra «chiesa docen-<br />
te» e «chiesa discente». Inoltre, il problema dei rapporti tra l’infallibilità della chiesa e quella del magi-<br />
stero è risolto affermando solo la dipendenza della prima dalla seconda: il magistero, infatti, è presentato<br />
come la causa prossima dell’indefettibilità della chiesa nella fede (causa suprema è però lo Spirito santo),<br />
mentre è assente l’idea di una funzione soprannaturale positiva del «sensus» di tutti i fedeli nella com-<br />
prensione e nella stessa formulazione della verità di fede.<br />
8) Autorità e obbedienza nella chiesa<br />
L’intenzione dichiarata del capitolo ottavo è di ovviare alla crisi di autorità presente nel mondo e anche<br />
nella chiesa: «Il sacrosanto concilio… è colpito da veemente afflizione scorgendo la crisi di autorità che<br />
c’è nel mondo». Tutto il capitolo, perciò, è costruito in funzione polemica contro le idee antiautoritarie,<br />
carismatiche o democratiche presenti nella chiesa.<br />
9) Relazioni tra chiesa e stato<br />
I capitoli nono e decimo, redatti entrambi da R. Gagnebet, avrebbero trovato logicamente il loro posto<br />
più in un trattato di diritto pubblico ecclesiastico che in una costituzione dogmatica sulla chiesa. In spe-<br />
cie, il capitolo nono è la ripresa pura e semplice di alcune tesi «tradizionali» sui rapporti tra chiesa e sta-<br />
to, contenute nelle trattazioni correnti del diritto pubblico ecclesiastico o nei trattati sulla chiesa di più<br />
stretto tenore giuridico. Il capitolo, ricordata la natura di società perfetta della chiesa, si limita a ribadire<br />
la subordinazione del fine della società civile al fine della chiesa.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
10) Necessità per la chiesa di annunciare il vangelo a tutti i popoli e su tutta la terra<br />
Il capitolo, nonostante il titolo, non svolge una trattazione teologica della missione affidata da Cristo alla<br />
chiesa di annunciare il vangelo, ma è dedicato tutto quanto al diritto originario della chiesa rispetto a<br />
qualsiasi stato di annunciare il vangelo, e anzi al dovere di qualsiasi stato, cattolico o no, di favorire tale<br />
annuncio ai suoi cittadini, nonché al diritto preminente del papa alla evangelizzazione universale.<br />
11) L’ecumenismo<br />
L’intenzione fondamentale del capitolo è quella di negare qualsiasi valore alle comunità separate in<br />
quanto tali nel mistero della salvezza. Essa si palesa nel singolare capovolgimento, verificatosi nel corso<br />
delle successive redazioni del capitolo (inizialmente affidato al p. Witte, professore alla Gregoriana di<br />
teologia protestante ed ecumenica). Le prime, infatti, erano apertamente favorevoli all’idea di una rile-<br />
vanza ecclesiale delle comunità non cattoliche. Ma, via via, l’idea fu eliminata, cosicché la redazione de-<br />
finitiva riportò il capitolo in linea con l’impostazione dei primi due; anzi si approvava incondizionata-<br />
mente il proselitismo. La redazione definitiva esclude ogni significato salvifico delle comunità dissidenti<br />
e ogni loro riferimento come tali alla chiesa cattolica. Si dice solo che i dissidenti sono spinti all’unità<br />
non solo come singoli, ma anche uniti nelle loro comunità. Queste conservano, infatti, alcuni elementi<br />
della chiesa che spingono all’unità cattolica, ma in quanto li detengono separandoli dalla pienezza della<br />
rivelazione, le comunità come tali sono causa di divisione dell’eredità di Cristo.<br />
La lettura di questo primo schema mette in evidenza abbastanza chiaramente alcuni limiti:<br />
1. Appare come una sequenza di problemi a se stanti, legati da un nesso logico abbastanza labile.<br />
2. Lo schema è evidentemente sovraccarico e nello svolgimento successivo dei lavori conciliari ver-<br />
rà alleggerito di numerosi temi che saranno trattati in documenti autonomi; d’altra parte questa con-<br />
centrazione dimostra che già la commissione preparatoria comprendeva l’insegnamento sulla chiesa<br />
come il centro del concilio (e pure Paolo VI: cfr. i discorsi di apertura del II e del III periodo).<br />
3. L’immagine dominante della chiesa è sostanzialmente quella che si è affermata dopo il Vaticano I<br />
e che è caratterizzata da un atteggiamento difensivo nei confronti del mondo, contro il quale è ne-<br />
cessario far valere i propri diritti. Certamente vi sono stati dei fatti nuovi (si pensi all’introduzione<br />
del metodo storico-critico nella lettura della Bibbia, all’accettazione della democrazia, al nuovo ruo-<br />
lo assunto dai laici nell’Azione Cattolica, alla necessità di fare i conti con il movimento ecumenico),<br />
ma su questi problemi si vuole intervenire rimanendo nel solco tracciato dalla comprensione della<br />
chiesa che ha caratterizzato l’ultimo secolo. Lo schema intende realizzare un completamento della<br />
dottrina del Vaticano I e concepisce il Vaticano II come una “conclusione” del Vaticano I.<br />
4. La struttura portante dello schema è costituita dal magistero, soprattutto quello papale degli ultimi<br />
cento anni. Si ricorre ad encicliche, ma anche a documenti secondari (allocuzioni a gruppi particola-<br />
262
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
ri, lettere pontificie…) e ai documenti delle congregazioni romane, oltre che ai canoni del CJC del<br />
1917. La Scrittura e i Padri, quando sono citati, sono inseriti in un contesto che non è determinato<br />
da essi, ma dai documenti magisteriali. In azione troviamo quindi l’idea che al solo magistero attua-<br />
le e vivente compete la qualità di regola prossima della fede, mentre il compito della Scrittura e del-<br />
la tradizione consisterebbe nel rendergli testimonianza.<br />
b) La discussione dello schema durante la prima sessione (1-7 dicembre 1962)<br />
Lo schema approdò nell’aula conciliare verso la fine del primo periodo (1-7 dicembre 1962) e rac-<br />
colse da parte dei vescovi un’accoglienza non certo entusiasta. Anche perché nel frattempo alcuni<br />
interventi di Giovanni XXIII avevano allargato l’orizzonte. Nel radiomessaggio dell’11 settembre<br />
1962 e nel Discorso di apertura della sessione conciliare l’11 ottobre 1962, il papa precisò<br />
l’intenzione che voleva fosse posta a fondamento dei lavori conciliari. I due discorsi proponevano,<br />
da un lato, il tema della chiesa — vista nel suo aspetto «ad intra» come mistero della vita di Cristo<br />
nei suoi fedeli e nel suo aspetto «ad extra» come servizio al mondo — come il tema centrale dei la-<br />
vori conciliari; d’altro lato, anche un nuovo spirito, che il papa chiamava «pastorale» e si racchiu-<br />
deva nello sforzo di presentare all’uomo contemporaneo un’immagine comprensibile e amabile del-<br />
la chiesa. L’orizzonte in cui veniva inserita la costituzione sulla chiesa, diventava così tutta la pro-<br />
blematica religiosa, culturale e sociale dell’uomo contemporaneo, a cui il sinodo doveva prefiggersi<br />
di presentare la chiesa come risposta alle profonde esigenze dell’umanità.<br />
La prospettiva fu ripresa in aula conciliare da due interventi di grande portata, quelli dei cardinali<br />
Suenens e Montini. Il 4 dicembre il cardinale belga, richiamando il radiomessaggio dell’11 settem-<br />
bre, propose che il concilio assumesse il tema della chiesa «lumen gentium» come centrale e ordina-<br />
tore di tutti i suoi lavori. Si sarebbe, quindi, dovuto prima ricercare ed esporre la coscienza che la<br />
chiesa ha del suo mistero, rispondendo alla domanda del mondo: «che cosa dici di te stessa?»; poi,<br />
aprire il dialogo col mondo sui suoi problemi gravi ed urgenti: «Il Concilio sia un Concilio “de Ec-<br />
clesia”, e si articoli in due parti: de Ecclesia ad intra - de Ecclesia ad extra» (AS I/4, 223). Il giorno<br />
successivo il card. Montini fece sua la proposta di Suenens e suggerì che il Concilio si preoccupasse<br />
di rispondere alle due domande: «Che cos’è la chiesa? Che cosa fa la chiesa? Questi sono come i<br />
due cardini, intorno ai quali si devono disporre tutte le questioni di questo Concilio» (AS I/4, 292).<br />
Inoltre aggiunse che nella esposizione del mistero della chiesa si doveva dare maggiore risalto a<br />
Cristo: in realtà la chiesa non può far nulla da se stessa; essa non è soltanto una società fondata da<br />
Cristo, è la continuazione di Cristo e lo strumento attraverso cui egli agisce e salva oggi il mondo.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Nonostante gli elogi fatti al testo (in genere formule di cortesia) lo schema fu quindi oggetto di<br />
un’aspra critica. Le critiche consideravano sia il modo di esposizione sia il contenuto dello schema e<br />
riguardavano principalmente i seguenti punti.<br />
1. Lo schema mancava di coerenza logica e sembrava piuttosto una giustapposizione di diversi punti<br />
dottrinali che un insieme strutturato e coerente. (Cfr. per es. l’intervento del card. Montini);<br />
2. Si fece notare anche la differenza rispetto allo spirito del concilio, descritto da Giovanni XXIII<br />
nel suo discorso inaugurale. Il problema fondamentale era come realizzare l’esposizione “pastorale”<br />
da tutti auspicata. Alcuni pensavano a due documenti, uno di carattere dottrinale e uno pastorale; ma<br />
la maggioranza era contraria a questa soluzione perché riteneva che la missione dei pastori fosse<br />
quella di insegnare al popolo e che il Concilio non potesse rivolgersi solo ai teologi specialisti. Solo<br />
un’esposizione positiva e costruttiva, che superasse i limiti dell’apologetica, poteva dare un solido<br />
fondamento alla vita cristiana. Si trattava quindi di evitare gli anatemi e anche la semplice ripetizio-<br />
ne delle formule classiche per cercare un’esposizione della dottrina immutabile in maniera corri-<br />
spondente al nostro tempo (aggiornamento);<br />
3. Lo schema teneva in conto troppo limitatamente delle nuove prospettive sulla chiesa maturate<br />
nella teologia recente, che non necessariamente dovevano essere viste in contraddizione con le vec-<br />
chie (cfr. l’arcivescovo di Strasburgo Elchinger).<br />
4. lo schema era eccessivamente giuridico e identificava in modo troppo diretto il corpo mistico di<br />
Cristo con la chiesa cattolica romana; mancava la dimensione storico-salvifica della chiesa (cfr.<br />
l’intervento del card. Frings di Colonia).<br />
5. mancava completamente l’idea della chiesa umile, della chiesa povera (card. Lercaro), della chie-<br />
sa sofferente (un aspetto sottolineato soprattutto da vescovi provenienti dall’Europa Orientale).<br />
Indicativo della critica rivolta allo schema fu l’intervento del vescovo di Bruges, E. de Smedt. Il di-<br />
scorso aveva un carattere molto personale e le idee proposte non erano condivise da tutti i padri; es-<br />
so sembra però indicativo di una sensibilità diversa presente in numerosi padri conciliari rispetto a<br />
quella della commissione teologica e della curia romana in genere che lascia intravedere la svolta<br />
avvenuta in Concilio. Il vescovo di Bruges, pur riconosciuti i pregi dello schema, continuava:<br />
«Nonostante ciò si deve ammettere che lo schema è difettoso per molti aspetti. Vorrei dire qualcosa della<br />
concezione della chiesa sottostante a questi capitoli dello schema. Questa concezione mi sembra, da una<br />
parte, mancante nello spirito ecumenico e, dall’altra, lontana dal modo in cui la dottrina deve essere pro-<br />
posta dal Concilio ai maestri e ai predicatori della fede. Mi sia permesso sottoporre alla vostra riflessione<br />
la seguente questione: lo schema non deve essere emendato da un certo trionfalismo, da un certo clerica-<br />
lismo, da un certo giuridismo? Ecco le tre parti.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
1. Trionfalismo. Lo schema indulge troppo in quello stile pomposo, romantico cui siamo abituati<br />
nell’Osservatore Romano e in altri documenti romani. La vita della chiesa è presentata come se fosse una<br />
serie di trionfi della chiesa militante; p. es. già nel titolo stesso “la natura della chiesa militante” oppure a<br />
p. 10 nelle prime righe […].<br />
Questo stile è poco consono con la realtà, con la situazione reale del popolo di Dio che il Signore Gesù,<br />
umile, ha chiamato “piccolo gregge”. Tutto ciò è estraneo agli animi sereni e tranquilli dei fratelli orien-<br />
tali, è lontano dall’aspirazione alla pace di tutto il genere umano. Quanto poco concordano queste cose<br />
con ciò che si dovrebbe dire, ma non si dice, circa il gravissimo problema moderno della libertà religiosa!<br />
2. Clericalismo. Nei primi capitoli dello schema prevale l’immagine tradizionale della chiesa. Conoscete<br />
la piramide: papa, vescovi, sacerdoti, quelli che presiedono e che in forza dei poteri ricevuti insegnano,<br />
santificano, governano; mentre, alla base, il popolo cristiano è piuttosto in posizione recettiva e in certo<br />
modo sembra occupare un posto secondario nella chiesa.<br />
Si deve notare che la potestà gerarchica è solo qualcosa di transitorio. Appartiene a questa condizione di<br />
pellegrinaggio terreno. Nell’altra vita, nella condizione definitiva, non avrà più un oggetto perché gli e-<br />
letti saranno giunti alla perfezione, all’unità perfetta in Cristo. Ciò che rimane è il popolo di Dio; ciò che<br />
passa è il ministero della gerarchia.<br />
Nel popolo di Dio siamo tutti legati gli uni agli altri e abbiamo tutti gli stessi diritti e doveri fondamenta-<br />
li. Tutti partecipiamo del sacerdozio regale del popolo di Dio. Il papa è uno dei fedeli; vescovi, sacerdoti,<br />
laici, religiosi, tutti siamo fedeli. Abbiamo accesso agli stessi sacramenti tutti abbiamo bisogno della re-<br />
missione dei peccati, del pane eucaristico e della parola di Dio e, per la misericordia di Dio, camminiamo<br />
verso la stessa patria.<br />
Ma fino a quando il popolo di Dio è in cammino Cristo lo porta alla perfezione mediante il ministero del-<br />
la sacra gerarchia. Ogni potestà nella chiesa è per il servizio: il ministero della parola, il ministero della<br />
grazia, il ministero del governo. Non siamo venuti per essere serviti ma per servire.<br />
Nel parlare della chiesa dobbiamo evitare di cadere nel gerarchismo, nel clericalismo, nell’episcopolatria,<br />
nella papolatria. Ciò che ha maggior valore (praevalet) è il popolo di Dio. A questo popolo di Dio, a que-<br />
sta sposa del Verbo, a questo tempio vivo dello Spirito Santo la gerarchia deve prestare i suoi umili ser-<br />
vizi perché cresca e giunga alla piena maturità, alla pienezza di Cristo. La gerarchia è la madre buona di<br />
questa vita che cresce: Mater Ecclesia.<br />
3. Giuridismo. Dalle recenti discussioni storiche e teologiche risulta che la maternità della chiesa è stata<br />
come il centro della primitiva <strong>ecclesiologia</strong> cristiana. Nel nostro schema desideriamo un approfondimen-<br />
to di questi concetti teologici: chiesa madre; tutti i battezzati sono figli della chiesa; con il battesimo va-<br />
lido tutti i cristiani sono generati dalla madre chiesa. […]<br />
Concludo: trionfalismo, clericalismo, giuridismo: ecco tre punti tra gli altri che devono essere emendati<br />
in questo schema; ho detto all’inizio che questo schema contiene molte cose ottime; e in verità ritengo<br />
che questo schema, purificato dai difetti, esponga la materia della splendida costituzione de Ecclesia; per<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
questo chiedo che il concilio stabilisca che il presente schema sia rinviato alla commissione perché sia<br />
emendato» (AS I/4, 142-144).<br />
L’impatto dello schema con l’assemblea conciliare rivelò dunque che, accanto ai sostenitori (Ruffi-<br />
ni, Siri, Florit…) dell’<strong>ecclesiologia</strong> della società perfetta e del corpo mistico 130 che avevano il loro<br />
punto di riferimento nel Vaticano I, esisteva anche una parte consistente di padri aperti alle prospet-<br />
tive dell’<strong>ecclesiologia</strong> contemporanea. Essi erano mossi dal duplice intento di recuperare una tradi-<br />
zione più antica che generalmente era stata dimenticata dall’<strong>ecclesiologia</strong> postridentina preoccupata<br />
di controbattere le tesi del protestantesimo e del liberalismo (ressourcement) e, in secondo luogo, di<br />
elaborare un approccio pastorale adatto ai tempi (aggiornamento). Il dibattito conciliare vide la cre-<br />
scita progressiva dei consensi attorno a queste idee (si forma la cosiddetta “maggioranza”), mentre<br />
un gruppo più limitato era fermo su atteggiamenti di carattere difensivo, preoccupato della corret-<br />
tezza della formulazione dottrinale (è la “minoranza” conciliare che darà battaglia soprattutto sulla<br />
questione della collegialità episcopale).<br />
c) Il secondo schema (1963)<br />
A motivo delle critiche avanzate dall’assemblea lo schema De ecclesia venne ritirato e durante<br />
l’interruzione tra il primo e il secondo periodo del Concilio la commissione teologica si rimise al<br />
lavoro 131 . Come base venne assunto uno schema in 4 capitoli inviato ai Padri nell’estate del 1963:<br />
1) il mistero della chiesa;<br />
2) la struttura gerarchica della chiesa, in particolare l’episcopato;<br />
3) il popolo di Dio, specialmente i laici;<br />
4) la vocazione alla santità nella chiesa.<br />
Nella discussione, svoltasi dal 30 settembre al 31 ottobre 1963, lo schema fu accolto favorevolmen-<br />
te ed accettato unanimemente come base per la discussione.<br />
Prima dell’inizio del secondo periodo il card. Suenens aveva presentato per iscritto un emendamen-<br />
to nel quale proponeva di togliere dai capitoli I e III tutti i passaggi riguardanti il popolo di Dio nel<br />
suo insieme per formare un nuovo capitolo da inserire tra la descrizione del mistero della chiesa e<br />
130 Il p. Tromp calcolò che il numero degli intervenuti in aula contrari allo schema era stato inferiore a quello degli intervenuti<br />
a favore (40 a 55). Il destino dello schema era però ormai segnato: preparato in una prospettiva giuridica e<br />
apologetica, aveva il difetto fondamentale di non corrispondere allo scopo che il papa aveva assegnato al concilio.<br />
131 Furono presentati nel frattempo vari progetti per lo schema «de ecclesia»: il progetto Philips (ma rielaborato con<br />
l’intervento di mons. McGrath, Congar, Rahner, Lecuyer, e Colombo); il progetto tedesco (elaborato da Schmaus, Rahner,<br />
Ratzinger, Schnackenburg, Semmelroth, Grillmeier, Hirschmann, Wulf); il progetto Parente; il progetto francese<br />
(autori: Danielou, Philips, Thils, Hamer, Martimort e Lecuyer); il progetto cileno; il progetto Elchinger.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
prima del capitolo sulla gerarchia. La proposta venne accolta quasi all’unanimità. Questa modifica<br />
non era solo di carattere redazionale; si trattava al contrario di una proposta di grande importanza<br />
per la struttura della costituzione sulla chiesa. Essa iniziava con un capitolo sul mistero della chiesa<br />
cioè sulla sua derivazione dall’alto, dall’azione di Dio nella storia della salvezza, e continuava con<br />
un capitolo sul popolo di Dio che tratta della sua manifestazione sociale e storica. L’introduzione di<br />
questo secondo capitolo contribuì inoltre alla declericalizzazione dell’immagine della chiesa, dato<br />
che il discorso sui diversi ministeri, vocazioni e condizioni presenti all’interno della chiesa seguiva<br />
quello sull’uguaglianza fondamentale di tutti i membri del popolo di Dio.<br />
Nel corso della discussione (30 settembre - 10 ottobre 1963) avvenne anche un’ulteriore modifica-<br />
zione dello schema. Il IV capitolo sulla “vocazione alla santità nella chiesa” era dedicato per la<br />
maggior parte ai religiosi; a questa trattazione era stata premessa una breve introduzione circa la vo-<br />
cazione universale alla santità nella chiesa, con lo scopo di raccordare il discorso sui religiosi con<br />
quanto affermato in precedenza. Nella discussione però emersero dei malumori soprattutto da parte<br />
dei religiosi che espressero il timore che il tema della vita consacrata diventasse una “appendice” e<br />
il suo valore all’interno della chiesa venisse svalutato 132 .<br />
Restava un ultimo punto da decidere. Numerosi padri avevano auspicato che il previsto schema sul-<br />
la B.V. Maria venisse fatto rientrare in quello sulla Chiesa, di cui avrebbe costituito il coronamento,<br />
sottolineando gli stretti legami che uniscono Maria alla chiesa (molti proponevano di riconoscerle il<br />
titolo di «Madre della chiesa»). Ma altri padri, appassionatamente sostenuti da molti mariologi, par-<br />
ticolarmente numerosi nel mondo ispanico, ritenevano che relegare la Vergine alla fine dello sche-<br />
ma, dopo i laici, significasse farle un affronto. Si decise di procedere a una votazione di orientamen-<br />
to, per la cui preparazione il cardinale Santos, arcivescovo di Manila, e il cardinale Koenig il 26 ot-<br />
tobre presentarono i rispettivi argomenti a favore delle due diverse soluzioni. Fuori dell’assemblea,<br />
intanto, si tenevano numerose riunioni a sostegno dell’una o dell’altra tesi, e tra i padri vennero ab-<br />
bondantemente distribuiti opuscoli, nei quali si sosteneva in particolare che «votare per<br />
l’inserimento significa votare contro la Vergine». La votazione del 29 ottobre avvenne così in un<br />
clima carico di tensione. La tesi dell’inserimento la spuntò di stretta misura (1114 voti contro 1074).<br />
Questo venire meno, per la prima volta, del consenso generale provocò una sorta di costernazione.<br />
All’inizio di novembre una speciale sottocommissione fu incaricata di elaborare un testo capace di<br />
132 Al termine della discussione si trovò una soluzione di compromesso per modificare il titolo originario in «La santità<br />
nella chiesa e specialmente dei religiosi».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
far ritrovare l’unanimità, ma le passioni non si erano spente e la sessione terminò senza raggiungere<br />
una soluzione soddisfacente. Il papa dedicò una parte notevole del discorso di chiusura al problema.<br />
d) Il terzo periodo (1964)<br />
L’argomento che dominò le ultime discussioni dello schema sulla Chiesa fu la collegialità dei ve-<br />
scovi. Era il punto nevralgico sul quale la minoranza conciliare si accaniva nell’intento di difendere<br />
il primato pontificio che credeva minacciato, e di conservarlo intatto ad ogni costo. Paolo VI, nel<br />
suo discorso inaugurale (14 settembre 1964), attirò l’attenzione su questo punto centrale, senza<br />
dubbio al fine di ridurre la resistenza degli ultimi esitanti. Il Vaticano II si era proposto esplicita-<br />
mente come scopo di completare la dottrina del concilio precedente, non già di contraddirla. Per il<br />
Vaticano I il tema principale era stato definire il primato e l’infallibilità del papa; di qui, molti catto-<br />
lici avevano indebitamente concluso che d’ora in poi i vescovi avrebbero avuto solo un ruolo molto<br />
subordinato, e per l’avvenire a stento si poteva pensare a un concilio generale. Ora, il codice di dirit-<br />
to canonico, can. 228 § 1, sanciva che «il concilio ecumenico ha la più alta giurisdizione sulla chie-<br />
sa universale». Paolo VI concludeva: «Questo Sinodo parimenti ecumenico si appresta a conferma-<br />
re, sì, la dottrina del precedente sulle prerogative del Romano Pontefice; ma avrà altresì e come suo<br />
scopo principale quello di descrivere e onorare le prerogative dell’Episcopato» (EV I, 255*).<br />
All’inizio delle discussioni del 1963 lo schema sulla chiesa contava solo quattro capitoli. In seguito<br />
ne ebbe sei, perché al «popolo di Dio» fu assegnata una trattazione apposita e un capitolo fu dedica-<br />
to ai religiosi. Finalmente nel 1964 la Costituzione conterà otto capitoli 133 , grazie all’inserzione del-<br />
lo schema sulla mariologia e, immediatamente prima di questo, all’introduzione di uno sviluppo<br />
sull’escatologia e i santi del cielo, un progetto accettato all’ultimo momento.<br />
Il cap. VII riaffermava l’importanza dell’escatologia per la comprensione della chiesa e trattava del-<br />
la comunione esistente tra la chiesa della terra e quella del cielo e dello scambio di beni spirituali<br />
che avviene nei due sensi. Anche se lo schema venne introdotto per rispondere a esigenze concrete<br />
(riaffermare la dottrina dei novissimi, spiegare il senso del culto dei santi), l’integrazione del capito-<br />
lo nella Costituzione è avvenuta in modo tutto sommato felice e tale da contribuire a illustrare<br />
un’importante dimensione della chiesa.<br />
133 Cap. I: «De ecclesiae mysterio»; cap. II «De populo Dei»; cap. III: «De constitutione hierarchica ecclesiae et in specie<br />
de episcopatu»; cap. IV: «De laicis»; cap. V: «De universali vocatione ad sanctitatem in ecclesia»; cap. VI: «De religiosis»;<br />
cap. VII: «De indole eschatologica ecclesiae peregrinantis eiusque unione cum ecclesia coelesti»; cap. VIII:<br />
«De Beata Maria Virgine Deipara in mysterio Christi et ecclesiae». Sulla divisione dei capitoli si vedano: G. PHILIPS,<br />
La chiesa e il suo mistero (Milano: Jaca Book, 1975) 56; L. SARTORI, La “Lumen Gentium”: traccia di studio (Padova:<br />
Messaggero, 1994) 26.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Nel terzo periodo si sviluppò anche la discussione sul capitolo dedicato alla Beata Vergine Maria; si<br />
trattava di un testo che aveva accompagnato la redazione della LG come documento autonomo e che<br />
poi si era deciso di inserire nella Costituzione sulla chiesa. Tale decisione non aveva però risolto la<br />
questione del modo in cui la trattazione del tema doveva essere svolta e nella discussione si con-<br />
frontavano due concezioni della mariologia: l’una legata alle fonti, l’altra che procedeva in modo<br />
deduttivo assumendo come punto di partenza i privilegi di Maria. Il testo proposto cercò di evitare<br />
sia il minimalismo sia gli eccessi e fu accolto senza entusiasmo da parte della assemblea conciliare.<br />
Ci sembra interessante presentare anche le valutazioni che i Padri diedero ai singoli capitoli. Il capitolo I,<br />
«De ecclesiae mysterio», riscosse un’approvazione plebiscitaria: 2114 sì, contro 11 no e 63 placet iuxta mo-<br />
dum. Anche il II capitolo, «De populo Dei», ricevette un’approvazione molto favorevole: mai più di 67 voti<br />
contrari. Tutti si aspettavano una lotta accanita sul capitolo III. Al fine di dissipare qualsiasi ombra di par-<br />
zialità e di assicurare a tutti la massima libertà di opinione, il segretario generale del concilio aveva diviso il<br />
testo del capitolo in non meno di 39 proposte che furono messe ai voti punto per punto 134 . Per arrivare a un<br />
consenso più ampio la maggioranza consentì a inserire un certo numero di proposizioni subordinate<br />
nell’esposizione sul collegio, sottolineando ogni volta che il primato pontificio restava intatto. Il capitolo fu<br />
poi diviso in due sezioni, che ricevettero rispettivamente questi voti: per la prima parte i votanti erano 2242,<br />
sì 1624, no 42, iuxta modum 572, nulli 4; per la seconda parte i votanti erano 2240, sì 1704, no 53, iuxta<br />
modum 481, nulli 2. Il capitolo sui laici (cap. IV) ottenne il più alto numero di suffragi mai registrato: sulle<br />
2236 schede depositate, solo 8 furono negative. Il capitolo VII venne approvato all’unanimità. Il capitolo<br />
VIII cercò di conciliare già nel titolo le due visioni, «cristotipica» ed «ecclesiotipica», che si erano manife-<br />
state durante le discussioni precedenti ed ottenne nella votazione finale 2096 sì e 23 no.<br />
e) La «settimana nera»<br />
Il 16 novembre, il Segretario generale del concilio, mons. Felici, lesse ai padri conciliari tre comuni-<br />
cazioni «da parte dell’autorità superiore», dunque del papa. Le due prime riguardavano soprattutto<br />
la minoranza; la terza si rivolgeva piuttosto alla maggioranza. La prima comunicazione confutava<br />
l’obiezione secondo cui la discussione sull’episcopato non avrebbe seguito la procedura prescritta.<br />
La seconda definiva il grado di autorità che bisognava accordare ai testi accettati; certuni non vole-<br />
vano vedere nella dichiarazione sul collegio dei vescovi altro che una direttiva pastorale, senza por-<br />
tata dogmatica. A questo proposito il papa fece leggere la risposta della commissione teologica re-<br />
134 La tesi sul collegio dei vescovi che diceva «L’ordine dei vescovi in comunione con il suo capo, il papa, di Roma, e<br />
mai senza di lui, è depositario della suprema autorità su tutta intera la Chiesa» ricevette 292 voti contrari. L’istituzione<br />
del collegio dei dodici apostoli ricevette il no di 191 padri. 322 padri si opponevano all’esistenza del collegio dei vescovi;<br />
325 rifiutarono di ammettere che la consacrazione episcopale conferisce la triplice funzione sacra nella chiesa.<br />
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datta già da mesi in termini generali. È evidente, diceva la risposta, che il testo conciliare deve esse-<br />
re interpretato secondo le regole generali che tutti conoscono. Il santo sinodo considera «definiti»<br />
dalla chiesa solo quei punti di fede e di morale che esso indica esplicitamente come tali. Tutto il re-<br />
sto deve peraltro essere ammesso da tutti i fedeli, senza eccezione, nel senso che il sinodo gli dà,<br />
come dottrina del magistero supremo della chiesa, il che significa e garantisce il massimo di certez-<br />
za dopo la definizione infallibile. La terza comunicazione gettava lo scompiglio nell’animo di molti<br />
padri. Diceva il comunicato: la dottrina annunciata dal capitolo III della LG deve essere spiegata e<br />
intesa secondo lo spirito e la dichiarazione di questa Nota explicativa praevia. Il nervosismo crebbe<br />
ulteriormente a causa degli emendamenti introdotti per via di autorità all’ultimo momento nel decre-<br />
to sull’ecumenismo e per il rinvio della votazione sul decreto sulla libertà religiosa. Dopo di che,<br />
per i più era impossibile leggere la Nota con tutta serenità, con la necessaria obiettività, e analizzarla<br />
con calma. Tuttavia Philips (cfr. il suo commento, p. 64) fa notare come i quattro punti della Nota<br />
rispondono esattamente alla spiegazione ricca di sfumature che accompagnava le cinque questioni<br />
interlocutorie del 30 ottobre 1963 135 . Le precisazioni della nota fecero sì che alla votazione finale<br />
del 21 novembre 1964 rimasero soltanto 5 non placet. Quel giorno Paolo VI espresse la sua immen-<br />
sa soddisfazione circa il «Decreto sinodale». Nella stessa occasione, con un’allusione al capitolo<br />
VIII della LG, egli promulgò di propria iniziativa «Maria Madre della Chiesa». Agendo così Paolo<br />
VI ha voluto probabilmente addolcire l’impressione un po’ penosa rimasta in certi padri di fronte<br />
alla voluta sobrietà dell’esposizione mariologica del concilio. Probabilmente, con il suo intervento<br />
egli volle anche suggerire che, se da un lato l’infallibilità pontificia non escludeva il concilio,<br />
dall’altro la definizione del concilio non rendeva superfluo il magistero autentico del papa.<br />
La struttura finale della LG rivela un’impostazione del discorso ecclesiologico assai diversa rispetto<br />
a quella del primo schema. Si notino almeno tre elementi particolarmente evidenti.<br />
135 In quel giorno vennero proposti all’aula «cinque quesiti» perché si manifestasse l’orientamento della maggioranza su<br />
temi “caldi”: ossia 1) se la consacrazione episcopale costituisce il grado supremo dell’Ordine; 2) se ogni vescovo legittimamente<br />
consacrato, in comunione con gli altri vescovi e con il Papa che è il Capo e il principio della loro unità, è<br />
membro del corpo dei vescovi; 3) se il corpo o collegio dei vescovi succede al collegio degli apostoli nella sua missione<br />
di evangelizzazione, di santificazione e di governo, e se il corpo in unione con il suo capo, il pontefice romano, e mai<br />
senza questo suo capo (il cui diritto primaziale resta intatto e completo su tutti i pastori e fedeli), possiede il potere plenario<br />
e supremo sulla chiesa universale; 4) se questa autorità compete per diritto divino al collegio stesso dei vescovi<br />
unito al suo capo»; 5) se è opportuno restaurare il diaconato come grado separato e permanente della funzione sacra, secondo<br />
le necessità della chiesa nei diversi paesi. Le questioni terza e quarta vennero proposte ai Padri corredate di un<br />
annesso esplicativo: «Le note 3 e 4 significano quanto segue: a) L’esercizio attuale del potere del corpo dei vescovi è<br />
regolato secondo norme approvate dal sommo pontefice; b) non c’è vero atto collegiale del corpo dei vescovi senza<br />
l’invito o almeno la “libera accettazione” del sommo pontefice; c) il modo pratico e concreto secondo cui si esercita la<br />
duplice forma del potere sovrano nella chiesa riceverà in seguito una determinazione teologica e giuridica, fortificando<br />
lo Spirito santo in modo indefettibile l’armonia tra l’una e l’altra forma».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
1. I capitoli si possono leggere come dittici: il primo dittico (cap. I-II) affronta la res del mistero che<br />
è la chiesa (nella sua essenza propria di mistero e nella sua forma storica) 136 ; il secondo (cap. III-IV)<br />
riguarda la struttura organica in cui si articola tale corporeità storica del popolo di Dio (i pastori e i<br />
laici); il terzo (cap. V-VI) alza lo sguardo sul fine specifico della chiesa (la santità e i religiosi che<br />
ne anticipano simbolicamente la dimensione escatologica); il quarto (cap. VII-VIII) tratteggia nel<br />
concreto (ossia nei modelli viventi: i santi e Maria) la fase finale ed eterna della chiesa.<br />
2. La prospettiva assunta è storico-salvifica: non ci si limita alla considerazione della realtà sociale<br />
attuale della chiesa (la chiesa militante), ma il punto di partenza è dato dalla riflessione sul mistero<br />
della chiesa, cioè sulla sua origine dalla Trinità che agisce nella storia della salvezza (cap. I). La<br />
chiesa poi viene considerata come soggetto storico (popolo di Dio; cap. II) e nel suo orientamento al<br />
regno di Dio (cap. VII).<br />
3. Per quanto riguarda la struttura interna della chiesa si può osservare che si afferma anzitutto<br />
l’uguaglianza fondamentale di tutti i membri del popolo di Dio e solo successivamente la diversità<br />
delle vocazioni: questo è evidente nel rapporto tra il capitolo II che nella prima parte delinea<br />
l’identità fondamentale del membro del popolo di Dio come partecipe del compito sacerdotale, pro-<br />
fetico e regale di Cristo e i cap. III e IV che considerano vocazioni particolari nella chiesa, ma anche<br />
nel rapporto tra cap. V che tratta della universale vocazione alla santità nella chiesa e il cap. VI che<br />
tratta della vita religiosa come una delle vie attraverso le quali trova realizzazione l’universale vo-<br />
cazione alla santità nella chiesa.<br />
2.7.2. Come interpretare i testi del Vaticano II?<br />
Il nostro accostamento al Vaticano II può essere di tipo assai diverso. Per molti di quelli che l’hanno<br />
vissuto, il tempo del Vaticano II ha costituito un’esperienza indimenticabile e un evento spirituale di<br />
grandissimo rilievo (l’idea di “Concilio” è evocatrice di una stagione particolarmente viva della vita<br />
ecclesiale). D’altra parte, a quasi quarant’anni da quell’epoca, i documenti del Vaticano II rimango-<br />
no in gran parte sconosciuti e suscitano in molti un senso di estraneità (le nuove generazioni cono-<br />
scono il Vaticano II attraverso i testi). Il processo di recezione del Vaticano II è a una svolta.<br />
136 Segnaliamo che la Commissione Dottrinale nello spiegare la struttura di LG ha precisato che con il capitolo secondo,<br />
“Il popolo di Dio”, il Concilio continuava l’esposizione del “Mistero della Chiesa” iniziato nel capitolo primo; solo che<br />
mentre il primo capitolo aveva discusso questo mistero nel piano divino dalla creazione alla consumazione, il secondo<br />
capitolo avrebbe ripreso lo stesso mistero nel tempo tra l’ascensione e la parusia, cioè nella storia. Era un singolo mistero<br />
ad essere rivelato, prima nelle sue dimensioni trascendenti e poi in quelle storiche; la commissione aveva spezzato il<br />
materiale in due capitoli semplicemente perché un singolo capitolo sarebbe stato troppo lungo: AS III/1, 209-10.<br />
271
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Possiamo distinguere tre fasi nella recezione del Vaticano II.<br />
1. La fase dell’esuberanza, nella quale il Concilio è percepito come evento liberante, come inizio assoluto;<br />
in questa prospettiva si tende a sottolineare soprattutto il dinamismo messo in atto dal Vaticano II e questo<br />
porta in alcuni casi a ritenere superati i suoi stessi testi (cfr. la riforma liturgica).<br />
2. Inevitabilmente segue la fase della delusione, sia perché molte delle attese relative alla nuova concezione<br />
della chiesa come communio non si sono realizzate, sia perché è mutato il clima generale nella chiesa e nella<br />
società e si manifesta una crisi profonda a livelli diversi. Così, se da una parte i riformatori “progressisti”<br />
lamentavano l’inerzia dell’istituzione chiesa, dall’altra i “conservatori” denunciavano fenomeni di decom-<br />
posizione. Da una parte la contestazione, dall’altra i tentativi di restaurazione 137 .<br />
3. Il Sinodo straordinario del 1985 ha riproposto la questione circa il significato del Concilio e ha almeno<br />
avuto l’effetto positivo di mostrare che il Concilio non può essere archiviato 138 . Si è entrati così nella terza<br />
fase del dibattito. Il nuovo dibattito vede la presenza di tendenze diverse:<br />
- è necessario andare oltre il Concilio per essere fedeli al dinamismo che esso ha messo in moto;<br />
- è necessario bloccare il movimento del Concilio perché compromette la identità cattolica romana;<br />
- si deve applicare rigorosamente il Concilio (“Solo il Concilio, ma il Concilio intero”).<br />
È evidente che le scelte ermeneutiche di partenza condizionano la spiegazione dei contenuti e porta-<br />
no a risultati necessariamente diversi. Ciò ha comportato che alla dinamica conciliare appartengano<br />
anche le resistenze per la sua attuazione e la polarizzazione da essa prodotta. L’applicazione del Va-<br />
ticano II esige quindi che si sia d’accordo sui principi da applicare nell’interpretazione dei suoi testi;<br />
l’ermeneutica del Vaticano II è uno dei compiti più urgenti che la teologia oggi è chiamata ad assol-<br />
vere. Questa ermeneutica però presenta delle difficoltà perché molte delle regole che sono state ela-<br />
borate per l’interpretazione dei testi magisteriali della tradizione ecclesiale non possono essere ap-<br />
plicate in modo puro e semplice al Vaticano II. Nei concili precedenti un criterio fondamentale è<br />
quello secondo cui la dottrina va interpretata alla luce degli errori che intendevano condannare (in-<br />
tenzione didattica). Il Vaticano II invece ha inteso 1) offrire un’esposizione positiva della verità, 2)<br />
secondo una finalità pastorale (Giovanni XXIII). Il concilio non ha prodotto definizioni dogmatiche,<br />
cioè delle precisazioni assolutamente normative (novità rispetto ai concili precedenti). S’aggiunga<br />
inoltre che il concilio distingue accuratamente fra il deposito della fede e la forma in cui esso viene<br />
enunciato. In particolare non si è raggiunto un consenso su che cosa si debba precisamente intendere<br />
137<br />
Cfr. D. MENOZZI, L’anticoncilio (1966-1984), in Il Vaticano II e la Chiesa, a cura di G. ALBERIGO – J.-P. JOSSUA<br />
(Brescia: Paideia, 1985) 433-464.<br />
138<br />
Cfr. H.J. POTTMEYER, Dal sinodo del 1985 al grande giubileo dell’anno 2000, in Il Concilio Vaticano II. Recezione<br />
e attualità alla luce del Giubileo, a cura di R. FISICHELLA (Cinisello Balsamo – Milano: San Paolo, 2000) 11-25.<br />
272
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
per “pastorale” e meno ancora sulla relativa ermeneutica. 3) Una terza difficoltà è che nei testi del<br />
Vaticano II ci si trova di fronte a degli enunciati di tipo “tradizionale”, spesso giustapposti ad altri di<br />
carattere “nuovo”. Così si parla di formule di “compromesso”. Al punto che qualcuno ha parlato di<br />
una giustapposizione, se non addirittura di un contrasto fra due ecclesiologie presenti nei testi conci-<br />
liari, cioè di una <strong>ecclesiologia</strong> gerarchica di stampo tradizionale e di un’altra nuova, o meglio rinno-<br />
vata, l’<strong>ecclesiologia</strong> della communio nello spirito della chiesa antica. In tal modo sia i “conservato-<br />
ri” che i “progressisti” possono dunque richiamarsi a degli enunciati conciliari.<br />
Tra i molti problemi che l’interpretazione del Vaticano II pone si segnalano due questioni fonda-<br />
mentali: 1) il rapporto tra novità e continuità con la tradizione; 2) l’interpretazione delle formule di<br />
compromesso che giustappongono affermazioni di orientamento diverso.<br />
Nessun Concilio può essere interpretato in modo radicale contro la tradizione ecclesiale perché non<br />
è pensabile che un Concilio si riunisca per operare un taglio netto rispetto alla tradizione precedente<br />
della chiesa. Questo d’altra parte non significa che il Concilio non dica nulla di nuovo; quello che si<br />
vuole escludere è che esso rappresenti una smentita radicale della tradizione precedente. Anche se<br />
nei testi del Vaticano II, molto più che nei testi di concili precedenti si avverte la presenza di novità,<br />
tali novità rappresentano spesso soltanto il recupero e l’attualizzazione di elementi della tradizione<br />
più antica. La contrapposizione tra prospettiva conservatrice e progressista rischia di essere fuorvi-<br />
ante. Piuttosto i testi conciliari sono testimonianza di uno sforzo di aggiornamento che affonda le<br />
sue radici nelle fonti della tradizione (ressourcement). La maggioranza conciliare aveva a cuore la<br />
tradizione più antica, la minoranza era preoccupata che non si tradisse la tradizione più recente (Va-<br />
ticano I); entrambe le esigenze sono legittime, anche se spesso non si è raggiunta una sintesi com-<br />
piuta e soddisfacente (come la maggior parte dei concili precedenti, anche l’ultimo ha assolto il suo<br />
compito non proponendo una teoria compiuta, ma fissando i limiti della posizione ecclesiale). Para-<br />
dossalmente si potrebbe dire che i padri conciliari “progressisti” erano in realtà più “conservatori”<br />
degli altri perché volevano un recupero della tradizione più antica (quella del primo millennio, co-<br />
mune a oriente e occidente) contro l’assolutizzazione degli sviluppi più recenti. Il recupero della<br />
tradizione nella sua globalità ha avuto un effetto liberante perché ha consentito di superare le restri-<br />
zioni che storicamente si erano determinate (ad es. in conseguenza della polemica antiprotestante).<br />
Come conciliare le diverse esigenze? I testi conciliari sono stati redatti da molte persone e spesso<br />
dopo interminabili dibattiti; perciò è logico attendersi che nei testi dogmatici si trovino sempre for-<br />
mule di compromesso. In alcuni casi il testo di partenza nel corso delle successive elaborazioni vie-<br />
ne arricchito dall’introduzione di punti di vista diversi; non di rado tuttavia le modifiche successive<br />
indeboliscono il testo, lo rendono meno chiaro, fino al punto da introdurre talvolta degli elementi<br />
273
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
contrastanti. Questo rende ovviamente difficile l’interpretazione: si deve privilegiare l’intenzione<br />
originaria del testo o le modifiche che ne indeboliscono il senso o correggono l’orientamento?<br />
Max Seckler ritiene che il Vaticano II ha introdotto un nuovo tipo di compromesso nelle formula-<br />
zioni dottrinali. Nella storia della elaborazione dottrinale si trovano due tipi di compromesso: il<br />
compromesso effettivo, che si raggiunge quando è possibile una affermazione comune, anche se li-<br />
mitata al denominatore comune, e il compromesso dilatorio che esprime l’impossibilità di decidere<br />
la questione al momento presente e la rimanda al futuro. Seckler ritiene che il Vaticano II, a motivo<br />
della caratterizzazione “pastorale” (e non dogmatica) attribuita al suo insegnamento, ha prodotto un<br />
nuovo tipo di compromesso che definisce contraddittorio: «mentre in un primo momento la mino-<br />
ranza conservatrice si schierò contro il carattere pastorale, battendosi a favore di un concilio dottri-<br />
nale, quando il pericolo di innovazioni dottrinali e dogmatiche da parte della maggioranza progres-<br />
sista si fece troppo forte, essa accentuò improvvisamente per parte sua l’impronta pratica e pastorale<br />
dei testi, allo scopo di indebolire i nuovi aspetti dogmatici. L’ambiguità manipolata divenne ancora<br />
maggiore allorché la maggioranza, allo scopo di ottenere l’affermazione delle proprie formulazioni<br />
progressiste, si richiamò a sua volta al carattere puramente pastorale del Concilio, ottenendo in tal<br />
modo su molti punti il parere favorevole della minoranza» 139 .<br />
L’interpretazione dei testi del Vaticano II dunque presenta delle difficoltà inedite per la teologia,<br />
non però a tal punto che le regole interpretative del linguaggio ecclesiale non abbiano più alcun va-<br />
lore. Possiamo indicare innanzi tutto due premesse:<br />
1) La convinzione fondamentale di fede secondo cui i concili sono un evento dello Spirito santo che<br />
governa la chiesa e i loro esiti, quindi, una norma vincolante per la chiesa stessa. Questa normatività<br />
va riconosciuta anche nel caso in cui — come al concilio Vaticano II — le decisioni prese non siano<br />
infallibili, cioè vincolanti in ultima istanza. Sarebbe formalmente sbagliato contrapporre l’inten-<br />
zione e il modo di esprimersi pastorale del concilio al significato dottrinale. La via della chiesa che<br />
s’inoltra nel futuro può essere battuta soltanto sul fondamento delle risoluzioni dell’ultimo concilio<br />
e della sua scrupolosa attuazione (cfr. Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 57). Una restau-<br />
razione intesa come ripristino della situazione pre-conciliare contraddirebbe gli stessi principi di<br />
quell’epoca, anch’essa convinta che i concili rappresentano l’autorità suprema nella chiesa.<br />
2) D’altra parte bisogna registrare che non tutti i concili validi nella storia della chiesa sono stati an-<br />
139 M. SECKLER, “Circa il compromesso in questioni dottrinali”, in ID., Teologia, scienza, chiesa. Saggi di teologia fon-<br />
damentale (Brescia: Morcelliana, 1988) 162.<br />
274
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
che concili fecondi, come ad es. il Lateranense V (1512-1517) che non fu in grado di dare un effica-<br />
ce contributo alla riforma della chiesa ed evitare la successiva divisione. Lo Spirito agisce attraverso<br />
degli uomini che possono anche resistere alle sue sollecitazioni. Nemmeno sul significato storico<br />
del Vaticano II è stata ancora detta l’ultima parola. Per la teologia ciò che è in questione, dunque,<br />
non è il concilio, ma la sua interpretazione e ricezione. Ora, a questo riguardo le opinioni divergono:<br />
dove gli uni vedono un rinnovamento, gli altri constatano un crollo ed una perdita di identità. Oc-<br />
corre ricordare che quasi tutti i concili hanno prodotto crisi e scuotimenti. La situazione attuale,<br />
quindi, è in certo qual modo normale. Si potrà arrivare ad una soluzione dei problemi soltanto se ci<br />
si accorderà sui principi di ermeneutica degli enunciati conciliari. Qui ne suggeriamo alcuni 140 .<br />
A) I testi del Vaticano II devono essere compresi e studiati in modo integrale; non ci si può limitare<br />
a prendere alcune proposizioni isolate dal contesto, ma anche la tensione tra affermazioni diverse<br />
rappresenta una sottolineatura del suo insegnamento.<br />
B) La conoscenza della storia della redazione è un presupposto necessario per l’interpretazione dei<br />
testi del Vaticano II, anche se non ci si può limitare a un’esegesi puramente filologica, ma si deve<br />
tendere a una lettura teologica d’insieme.<br />
C) Lettera e spirito del Concilio vanno intesi come un’unità: ogni enunciato si comprende solo alla<br />
luce dello spirito che anima l’insieme del discorso e, al tempo stesso, lo spirito dell’insieme si rica-<br />
va solo da un’esegesi accurata dei testi.<br />
D) Come ogni Concilio anche il Vaticano II deve essere compreso alla luce della tradizione più am-<br />
pia della chiesa; è quindi assurdo contrapporre una chiesa preconciliare e una chiesa postconciliare<br />
come se si trattasse di due realtà radicalmente diverse e come se fosse avvenuta una riscoperta del<br />
vangelo prima oscurato, oppure un tradimento totale della tradizione precedente.<br />
E) Per l’ultimo concilio la continuità della fede cattolica va intesa come unità fra la tradizione e la<br />
sua interpretazione viva e attuale rispetto alla situazione del presente qualificata da quanto è stato<br />
indicato come “segni dei tempi” 141 .<br />
140 Cfr. la Relazione finale del II Sinodo straordinario (9 dicembre 1985), in Il futuro dalla forza del Concilio. Documenti<br />
e commenti a cura di W. Kasper (Brescia: Queriniana, 1986) 18.<br />
141 Karl Lehmann suggerisce l’apertura di una quarta fase della ricezione del Vaticano II: K. LEHMANN, “Concilio ecumenico<br />
Vaticano II, 1962-2002. Il quarto tempo”, in Il Regno. Attualità XLVII (2002/18) 632-639. Cfr. pure: P. HÜ-<br />
NERMANN, “Il concilio Vaticano II come evento”, in Il Regno. Documenti XLII (1997/11) 376-384; H.J. POTTMEYER,<br />
“Una nuova fase della ricezione del Vaticano II. Vent’anni di ermeneutica del concilio”, in Il Vaticano II e la Chiesa,<br />
op. cit., 41-64; A.T.I., La Chiesa e il Vaticano II. Problemi di ermeneutica e recezione conciliare, a cura di M. Vergottini<br />
(Milano: Glossa, 2005); G. ROUTHIER, Il Concilio Vaticano II. Recezione ed ermeneutica (Milano: V&P, 2006). Per<br />
i problemi dell’ermeneutica degli enunciati pastorali cfr. W. KASPER, “La provocazione permanente del concilio Vaticano<br />
II. Per un’ermeneutica degli enunciati conciliari”, in ID., Teologia e chiesa (Brescia: Queriniana, 1989) 302-311.<br />
275
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
2.7.3. Commento ai primi due capitoli della Lumen Gentium<br />
Dopo aver ricostruito in modo sintetico il processo che ha portato alla redazione finale della LG, e-<br />
saminiamo ora più da vicino l’immagine della chiesa che emerge dalla costituzione conciliare. A<br />
questo scopo studieremo approfonditamente i primi due capitoli alla ricerca del concetto ecclesiolo-<br />
gico fondamentale del Vaticano II. Nei due capitoli si trovano due categorie fondamentali, richiama-<br />
te anche nei titoli: la chiesa mistero e la chiesa popolo di Dio. Cercheremo di verificare qual è il si-<br />
gnificato di queste due categorie, in che relazione stanno tra di loro e con altre categorie ecclesiolo-<br />
giche utilizzate nella LG oppure presenti nella tradizione precedente, se esiste una categoria eccle-<br />
siologica fondamentale e quali conseguenze derivano da questa presentazione della chiesa.<br />
A) Il mistero della Chiesa (cap. I)<br />
Secondo Gérard Philips «il primo capitolo si suddivide con tutta naturalezza in tre parti: la Chiesa e<br />
la Trinità (2-4); la rivelazione della Chiesa nella Scrittura (5-7); la Chiesa come comunità insieme<br />
visibile e spirituale (8)». Il tutto preceduto da un paragrafo (1), che indica «lo scopo della costitu-<br />
zione”» 142 . In particolare, alla luce dei richiami storici precedenti, l’intenzione del capitolo I sembra<br />
duplice «in quanto orientata ad affermare da un lato la continuità con l’<strong>ecclesiologia</strong> del passato,<br />
precisamente l’<strong>ecclesiologia</strong> del “Corpo mistico”, riportata però alla sua profondità “misterica”,<br />
contro l’interpretazione tendenzialmente giuridica; e, d’altro lato, a fondare l’<strong>ecclesiologia</strong> nuova,<br />
precisamente l’<strong>ecclesiologia</strong> del “popolo di Dio”» 143 .<br />
Aa) Il proemio (n. 1)<br />
Il primo capitolo tratta del mistero della chiesa e l’idea di mistero presupposta è chiaramente quella<br />
biblica e patristica. Le reazioni negative che nel corso del dibattito conciliare si sono registrate a<br />
proposito dell’uso ecclesiologico di questa categoria segnalano che ormai nel linguaggio ecclesiale<br />
era andato perduto il senso antico del concetto di mysterion come designazione del piano divino di<br />
salvezza e lo si intendeva quasi esclusivamente come “verità incomprensibile”. Il termine mysterion<br />
in latino si traduceva con i due termini sacramentum e mysterium, che inizialmente mantennero il<br />
significato globale del termine greco, cioè piano divino di salvezza in cui Dio si rivela e comunica<br />
se stesso, ma che successivamente si specializzarono e passarono ad indicare in modo esclusivo ri-<br />
142 G. PHILIPS, op. cit., 75.<br />
143 G. COLOMBO, “Il «popolo di Dio» e il «mistero» della chiesa nell’<strong>ecclesiologia</strong> postconciliare”, in Teologia 10<br />
(1985) 100.<br />
276
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
spettivamente i “sacramenti” e le “verità della fede”. Le reazioni negative suscitate dall’uso del ter-<br />
mine mistero per designare la chiesa derivano dal timore che si introducesse l’idea che la chiesa è<br />
incomprensibile oppure è una realtà invisibile (posizione classicamente attribuita ai Protestanti).<br />
Dire, quindi, che la Chiesa è mistero, non significa negarne la natura di società visibile, ma sottoli-<br />
neare che essa è una realtà che origina e fa parte dell’autocomunicazione salvifica di Dio al mondo.<br />
Perciò, la Chiesa non può essere ridotta a un fatto meramente sociale e politico, perché è una realtà<br />
teologale, d’ordine divino pur nella sua creaturalità. Questa visione della Chiesa come mistero ha<br />
una portata ecumenica, perché più vicina dell’<strong>ecclesiologia</strong> societaria alla teologia sia ortodossa che<br />
protestante, che accentuano l’aspetto misterico. Ha poi una portata pastorale, perché in tal modo la<br />
Chiesa si presenta al mondo non come una società in concorrenza con gli Stati o le altre società u-<br />
mane, ma come una realtà divina d’ordine spirituale: essa «costituisce in terra il germe e l’inizio»<br />
(LG 5) del Regno di Dio e non lo instaura perseguendo un progetto e un programma storico-sociale<br />
di configurazione della storia umana e sociale. «La missione propria che Cristo ha affidato alla sua<br />
Chiesa non è di ordine politico, economico e sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è di ordine re-<br />
ligioso» (GS 42) 144 . La stessa mediazione ecclesiale non coincide nemmeno con il semplice darsi<br />
storico effettivo del cristianesimo, ossia delle forme effettive della testimonianza ecclesiale. Anche<br />
là dove si edifica sul fondamento posto da Dio, rimane ancora da vedere come si edifica (1Cor 3,9).<br />
In LG 1 si trova anche un’altra categoria ecclesiologica che ha avuto grande successo nella teologia<br />
postconciliare: alla chiesa è applicata la categoria di sacramento anche se in senso lato (veluti sa-<br />
cramentum). Già in precedenza alcuni teologi avevano utilizzato il concetto di sacramento in senso<br />
ecclesiologico 145 e dopo il Concilio alcuni hanno letto nei pochi testi del Vaticano II che attribui-<br />
scono alla chiesa la qualifica di “sacramento” una conferma della concezione teologica che fa deri-<br />
vare i sacramenti dalla chiesa come sacramento radicale o fondamentale 146 . In realtà i testi conciliari<br />
non attribuiscono a questa categoria un significato particolarmente rilevante (ricorre piuttosto rara-<br />
mente e spesso accompagnata da espressioni che ne sfumano il significato) 147 . La presentazione del-<br />
144 Il testo del Concilio però prosegue così: «Eppure proprio da questa missione scaturiscono dei compiti, della luce e<br />
delle forze, che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina».<br />
145 O. SEMMELROTH, La Chiesa sacramento di salvezza (Napoli 1965; 2 a ed. ted. 1955); E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento<br />
dell’incontro con Dio (Roma: EP, 1962; or. 1957); K. RAHNER, Chiesa e sacramenti (Brescia: Morcelliana,<br />
1965; or. 1960). Per l’influsso di Rahner sulla LG cfr. G. WASSILOWSKY, Universales Heilssakrament Kirche. Karl<br />
Rahners Beitrag zur Ekklesiologie des II. Vatikanums (Innsbrucker theologische Studien, 59; Innsbruck, Tyrolia, 2001).<br />
146 K. RAHNER, Sulla teologia del simbolo, in ID., Saggi sui sacramenti e sull’escatologia (Roma: EP, 1965; or. 1962)<br />
51-107; L. BOFF, Die Kirche als Sakrament im Horizont der Welterfahrung (Paderborn: Bonifatius, 1972).<br />
147 Per limitarci alla LG, l’espressione ricorre in LG I, 1: «E poiché la chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e<br />
strumento dell’intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano…»; II, 9: «Dio ha convocato l’assemblea di<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
la chiesa come sacramento nella LG serve a descrivere il ruolo della chiesa “mistero” nella storia e<br />
nel mondo, esprimendo il suo carattere di “segno e strumento” visibile dell’azione di Dio e<br />
dell’unità a cui tutto il genere umano è chiamato. Questo ovviamente non preclude alla teologia la<br />
possibilità di costruire l’<strong>ecclesiologia</strong> fondandosi sulla nozione di sacramento, che però deve essere<br />
giustificata e non può semplicemente essere proposta fondandosi sull’autorità del Vaticano II.<br />
Proprio perché «mistero», la Chiesa è presentata come un «sacramento», cioè è un segno di un’altra<br />
realtà e strumento che “dona” realmente quello di cui è segno. In quanto mistero, la Chiesa è «in<br />
Cristo», vive di lui, in lui e per lui: è dunque sacramento di Cristo, come Cristo è sacramento di Dio.<br />
Ma in Cristo si compie il disegno di salvezza di Dio, che consiste nel portare gli uomini alla comu-<br />
nione con Dio e tra di loro. La Chiesa, perciò, «è in Cristo come un sacramento o un segno e stru-<br />
mento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). La Chiesa non pre-<br />
senta al mondo se stessa, ma Cristo, il quale significa in essa e compie per mezzo di essa il disegno<br />
della salvezza del Padre. «Significa in essa», perché con la sua unità la Chiesa è il segno dell’unità<br />
degli uomini con Dio e tra loro. «Compie per mezzo di essa», perché la comunione con Dio e tra gli<br />
uomini non si realizza senza l’azione della Chiesa. In altre parole, la Chiesa, in quanto «mistero» è<br />
«comunione»: comunione con Dio, anzitutto, ma anche comunione con tutti gli uomini.<br />
Secondo Walter Kasper il primo capitolo è stato fra i meno “recepiti” nelle riflessioni teologiche e<br />
pastorali del post-Concilio 148 . Al centro dell’attenzione si è posto l’aspetto istituzionale della Chie-<br />
sa, col rischio di passare sotto silenzio la sua dimensione mistica — non a caso la questione della<br />
spiritualità è stata privatizzata al punto da essere considerata come una questione di pertinenza della<br />
pratica della fede degli individui e dei piccoli gruppi. Perciò, da una parte, la Chiesa è stata identifi-<br />
cata con la sua dimensione sociale ed empirica (e la questione dell’essere-Chiesa con la ripartizione<br />
di competenze fra fedeli e istituzione gerarchica, fra Chiese locali e Sede romana…), mentre d’altra<br />
parte la spiritualità si è disancorata dal suo riferimento ecclesiale (con fenomeni di distorsione teo-<br />
logica e tendenze all’ideologizzazione nella pratica). In realtà, per la grande maggioranza dei cri-<br />
coloro che credono e guardano a Gesù autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha fatto la sua chiesa,<br />
perché sia per tutti e per ciascuno il sacramento visibile di questa unità salvifica»; VII, 48: «Risorgendo da morte [Cristo]<br />
infuse negli apostoli il suo Spirito vivificante, mediante il quale costituì la chiesa che è il suo corpo, quale sacramento<br />
universale di salvezza». Altri riferimenti alla categoria si trovano in AG 1. 5; GS 42. 45. Cfr. COLOMBO, art. cit.,<br />
127-134; Y. CONGAR, Un popolo messianico (BTC 27; Brescia: Queriniana, 1982 3 ) 13-24.<br />
148 W. KASPER, Le mystère de la Sainte Église. Un rappel ecclésiologique au soir d’un «siècle de l’Église», in M. DE-<br />
NEKEN (ed.), L’église à venir. Mélanges offerts à Joseph Hoffmann (Paris: Cerf, 1999) 309-344, qui 310. Considerazioni<br />
analoghe espresse l’allora card. Ratzinger nel corso del convegno sulla recezione del Vaticano II, organizzato dal<br />
Comitato Centrale del Grande Giubileo dell’Anno 2000: J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> della Costituzione «Lumen<br />
Gentium», in Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, op. cit., 66-81.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
stiani, la Chiesa viene identificata in modo puro e semplice con le strutture della Chiesa visibile. Ma<br />
ciò conduce a fraintendimenti ecclesiologici capitali, ad es. al fatto che si identifica l’appartenenza<br />
alla Chiesa e l’«essere Chiesa» soprattutto con la partecipazione al discorso tenuto a suo riguardo o<br />
con l’impegno e l’attività in seno alla sua «istituzione» (i veri cristiani sono quelli “impegnati”!?).<br />
Riaffermare con il primo capitolo della LG che la Chiesa è mistero non significa favorire una “mi-<br />
stificazione” che immunizza la Chiesa di fronte ai problemi strutturali della istituzione, ma essere<br />
consapevoli che solo nella misura in cui noi continuiamo a considerare la Chiesa come un mistero<br />
della fede, possiamo comprenderla correttamente anche come istituzione sociale, e che solamente<br />
alla luce della sua istituzione sociale noi possiamo parlare della Chiesa come un mistero della fede.<br />
Non è certo un caso che sia i sostenitori di una <strong>ecclesiologia</strong> conservatrice e trionfalista sia i sosteni-<br />
tori di una critica ecclesiale o anti-ecclesiale della Chiesa, temono che la descrizione della Chiesa<br />
come mistero della fede rappresenti una fuga verso una Chiesa invisibile, misteriosa, né percepibile<br />
né attaccabile. I tradizionalisti temono che la comprensione mistica della Chiesa rappresenti uno<br />
smantellamento delle sicurezze istituzionali, giuridiche e politiche; i progressisti vi sospettano<br />
l’erezione di un nuovo bastione soprannaturalista.<br />
Evidentemente questo rifiuto ha la sua radice in una comprensione unilaterale di ciò che si deve in-<br />
tendere dal punto di vista teologico con «mistero»: appunto la comprensione dottrinalista e gnoseo-<br />
logica della teologia moderna. In particolare, è stato Karl Rahner ad aver liberato il concetto di mi-<br />
stero dalle sue restrizioni gnoseologiche; «mistero» è infatti «ciò in vista di cui l’uomo oltrepassa se<br />
stesso nell’unità della sua trascendenza che consiste nel conoscere e nell’amare liberamente», «un<br />
aspetto primordiale, essenziale e permanente della realtà totale, nel senso che questa, come totale (e<br />
quindi come infinita), rinvia lo spirito finito, creato, secondo la sua natura “aperta” all’infinito». Per<br />
questo motivo, secondo Rahner esiste «un solo mistero: che l’incomprensibilità di Dio, nella quale<br />
egli è Dio, non è data solamente come di lontano e come l’orizzonte in seno al quale si muove la<br />
nostra esistenza, ma che questo Dio, che rimane incomprensibile, si dà a noi nell’immediatezza, co-<br />
sì che lui stesso diviene la realtà più interiore della nostra esistenza» 149 .<br />
Noi possiamo, quindi, parlare di «mysterium» secondo quattro aspetti, che devono essere pensati in-<br />
sieme quando parliamo di «mysterium» e in particolare di «mysterium» della Chiesa. «Mysterium»<br />
deve essere compreso 1) in riferimento al Dio Trinità stesso, a Dio che è il senso ultimo del mondo<br />
e che si rivolto nel suo amore verso di noi per la nostra salvezza; 2) in riferimento a Gesù Cristo, in<br />
149 Cfr. art. Mistero, in K. RAHNER – H. VORGRIMLER, Dizionario di Teologia (Roma – Brescia, 1968) 396-397.<br />
279
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
quanto è il sacramento originale di Dio, «signum et instrumentum» di questa autocomunicazione<br />
amante di Dio Trinità; 3) in riferimento all’umanità che è chiamata alla comunione con Dio e alla<br />
partecipazione alla sua salvezza, e che è “introdotta” (mystagogein) in questo mistero in modo tale<br />
che nel mistero dell’amore di Dio si apre il mistero della vita umana e vi si mostra secondo una<br />
comprensione globale della verità, la quale, tuttavia, 4) si sottrae ad ogni svelamento totale e ad ogni<br />
oggettivazione mediante la conoscenza.<br />
Se si vuole comprendere la Chiesa come «mysterium», occorre considerare distintamente e in unio-<br />
ne questi quattro aspetti. Nella teologia del concilio il concetto di «mysterium» della Chiesa si inse-<br />
risce in una teologia della storia della salvezza considerata in tutti i suoi aspetti. Per far questo, il<br />
concilio si riferisce alla comprensione biblica e patristica della Chiesa, e cerca di oltrepassare<br />
un’immagine della Chiesa unilateralmente giuridica e trionfalistica. La Chiesa è presentata come il<br />
«mysterium» della salvezza nascosto da tutta l’eternità, divenuto manifesto in maniera definitiva nel<br />
Cristo e che è presente stabilmente nel mondo. La rivelazione di Dio è la comunicazione di quel mi-<br />
stero che Dio stesso è e rimane nella sua donazione libera, graziosa e amante all’uomo. Quando Dio<br />
si rivela così all’uomo come mistero della libertà nell’amore e si comunica come salvezza definiti-<br />
va, il mistero di questo amore non è abolito, ma valorizzato in maniera definitiva. È in Cristo «luce<br />
delle genti» che il mistero dell’autocomunicazione storica di Dio si è costituito in maniera definitiva<br />
e insuperabile. Il Signore è, infatti, «la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana» (GS 10), è<br />
«l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine» (GS 45). In questo contesto del «myste-<br />
rium salutis» della storia della salvezza, che è quello della teologia della rivelazione, si può com-<br />
prendere il concetto di «mistero» della Chiesa: essa è «in Cristo veluti sacramentum, seu signum, et<br />
instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis» (LG 1; LG 48; GS 45).<br />
Con questo doppio concetto «mysterium/sacramentum», il concilio riprende l’uso linguistico dei<br />
Padri e oltrepassa la visione giuridica e canonica della Chiesa, centrata sull’istituzione, che era stata<br />
elaborata a partire dal Medio Evo. A un’<strong>ecclesiologia</strong> che separa la Chiesa di Gesù Cristo dal-<br />
l’istituzione visibile, il Vaticano II oppone la visibilità e la realtà sacramentale della Chiesa di Cristo<br />
nel mondo. Di fronte a una visione esclusivista della Chiesa, che afferma un’identità semplice e to-<br />
tale della Chiesa di Gesù Cristo con la Chiesa romana, il concilio afferma : «Questa Chiesa, in que-<br />
sto mondo costituita e organizzata come società, è presente [subsistit] nella Chiesa cattolica», «seb-<br />
bene al di fuori del suo organismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità,<br />
che, quali doni propri della chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica» (LG 8).<br />
Dunque, la Chiesa è mistero della fede secondo l’aspetto teologico in riferimento all’economia della<br />
salvezza e secondo l’aspetto cristologico e sacramentale. Ma essa è ugualmente mistero della sal-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
vezza anche secondo gli altri due aspetti, quello mistagogico e quello gnoseologico. Essa è infatti il<br />
luogo della fede, la sua tradizione è il contesto semantico della fede, la sua comunità è il contesto<br />
comunicativo e sociale di questa fede in cui ciò a cui la fede si riferisce si mostra come vero, come<br />
manifesto e come sacramentalmente donato. In quanto Corpo del Cristo e sacramento della comu-<br />
nione con Dio nello Spirito, mediante l’annuncio della Parola e la celebrazione dei sacramenti, co-<br />
me attraverso tutta la sua vita, la Chiesa dispiega nel mondo la salvezza che in lei è divenuta mani-<br />
festa ed essa introduce nella realtà della salvezza di Dio. Essa è quindi il “mistagogo” autentico dei<br />
misteri della salvezza di Dio. Essa non introduce in qualcosa che le sarebbe esteriore e estraneo, ma<br />
in ciò che per volontà di Dio essa designa sacramentalmente. E lo fa non in virtù di un potere e di<br />
una capacità propri e autonomi, e senza legame con ciò in cui essa introduce, ma in quanto media-<br />
zione sacramentale di Gesù Cristo, essa lo fa in virtù dello Spirito che il suo Signore e Capo le invia<br />
perpetuamente dal Padre. Perciò la Chiesa è il mistero mistagogico istituito dal Cristo nella storia.<br />
In quanto sacramento della trascendenza irriducibile di Dio che si comunica come mistero essa stes-<br />
sa rimane un mistero: il suo essere più intimo infatti è il mistero dell’amore di Dio che si dona vitto-<br />
riosamente all’uomo in Cristo. Tutte le forme storiche concrete della Chiesa, e quindi la sua stessa<br />
dimensione istituzionale, anche se si tratta di modi di esistere autentici della Chiesa di Gesù Cristo,<br />
non possono mai realizzarla integralmente e secondo un’identità ontologica semplice. La Chiesa di<br />
Gesù Cristo supera i limiti della nostra conoscenza oggettivante: essa è un’unica realtà complessa<br />
(LG 8) che si estende fin nella speranza dei defunti e nella gloria di coloro che sono stati accolti nel-<br />
la gloria di Dio. Questo carattere mistico implica allora che essa non possa mai essere totalmente<br />
manifesta a se stessa. È questo carattere di mistero che è inteso quando il concilio presenta Maria<br />
come «in fide et in caritate typus et exemplar spectantissimum» della Chiesa. Perché come Maria, la<br />
Chiesa è pellegrina nel cammino della fede, conservando e contemplando nel suo cuore il mistero<br />
che in lei è divenuto realtà, senza poterne in fin dei conti prenderne tutte le misure (LG 58).<br />
Ab) Ecclesia de Trinitate (nn. 2-4)<br />
La concezione della chiesa predominante nella teologia cattolica anteriore al concilio Vaticano II era<br />
caratterizzata da quello che Yves Congar descrive come «cristomonismo» 150 : l’espressione eviden-<br />
zia la privilegiata attenzione prestata agli aspetti visibili, «incarnazionistici» della chiesa. Il capitolo<br />
primo della LG rappresenta il recupero della profondità trinitaria della chiesa: «De unitate Patris et<br />
Filii et Spiritus Sancti plebs adunata» (san Cipriano), la chiesa viene dalla Trinità, è strutturata a<br />
150 Y. CONGAR, Pneumatologie ou “Christomonisme” dans la tradition latine?, in EThL 45 (1969) 394-416.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
immagine della Trinità e va verso il compimento trinitario della storia. Il capitolo I della LG è quin-<br />
di strutturato trinitariamente e secondo Bruno Forte 151 vorrebbe rispondere a tre domande: 1) da do-<br />
ve viene la chiesa?; 2) che cosa è la chiesa?; 3) dove va la chiesa?<br />
1) La chiesa viene dalla Trinità. Essa perciò procede dal disegno salvifico del Padre (n. 2), dalla<br />
missione del Figlio (n. 3) e dall’opera santificante dello Spirito santo (n. 4).<br />
2) La chiesa è icona della Trinità. Per una «non debole analogia» essa è paragonata al mistero del<br />
Verbo Incarnato (n. 7 e 8), nella dialettica del visibile e dell’invisibile, mentre la sua «comunione»,<br />
una nella varietà delle chiese locali e dei carismi e ministeri in esse, riflette la comunione trinitaria:<br />
«Questo è il sacro mistero dell’unità della chiesa, in Cristo e per mezzo di Cristo, mentre lo Spirito<br />
santo opera la varietà dei doni. Il supremo modello e il principio di questo mistero è l’unità nella<br />
trinità delle persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito Santo» (UR 2f) 152 .<br />
3) La chiesa va verso la Trinità: è chiesa dei pellegrini, in cui nella perenne conversione e riforma,<br />
in comunione con la chiesa celeste, ci si prepara alla gloria finale (n. 8 cd; cfr. i cap. VII e VIII).<br />
Chiarito il senso storico-salvifico in cui si usa la nozione di mistero, risulta decifrabile anche l’arti-<br />
colazione del discorso sulla chiesa nel cap. I della LG. La descrizione della chiesa non assume più<br />
come punto di partenza la “chiesa militante” (l’organismo gerarchicamente strutturato) come nel<br />
primo schema, ma il piano di salvezza di Dio Padre che trova la sua realizzazione nella missione del<br />
Figlio e dello Spirito Santo (nn. 2-4); il punto di arrivo di questa sezione è la citazione di Cipriano<br />
secondo cui la chiesa «si presenta come un popolo adunato dall’unità (de unitate) del Padre, del Fi-<br />
glio e dello Spirito Santo» 153 . Questo approccio storico-salvifico non nega la visibilità storica della<br />
chiesa (LG 8), ma precisa che essa non è tutto e che una comprensione corretta della chiesa esige di<br />
considerare la sua origine trascendente, il suo essere “dall’alto” (fondata nella Trinità economica).<br />
Presentando la Chiesa come l’immagine dell’unità trinitaria, il concilio può ugualmente pensarla<br />
come «communio sanctorum», cioè come la comunità di coloro che sono santificati per il fatto che e<br />
151 B. FORTE, La chiesa icona della Trinità. Breve <strong>ecclesiologia</strong> (UT 9; Brescia: Queriniana, 1984); ID., La Chiesa della<br />
Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione (Cinisello Balsamo – Milano: EP, 1995).<br />
152 Sul tema si vedano però le osservazioni piuttosto caute di G. CANOBBIO, “Unità della Chiesa unità della Trinità”, in<br />
F. CHICA, S. PANIZZOLO, H. WAGNER (edd.), Ecclesia tertii millenni advenientis. Omaggio al P. Angel Antón (Casale<br />
Monferrato: Piemme, 1997) 29-45; ID., “La Trinità e la Chiesa”, in PONTIFICIA FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA ME-<br />
RIDIONALE – SEZIONE SAN LUIGI, La Trinità e la Chiesa. In dialogo con Giacomo Canobbio, a cura di O.F. Piazza (Cinisello<br />
Balsamo – MI: San Paolo, 2006) 25- 77.<br />
153 Philips così spiega il senso della preposizione “de”: «La preposizione latina “de” evoca simultaneamente l’idea di<br />
imitazione e quella di partecipazione: è “a partire” da questa unità tra ipostasi divine che si prolunga “l’unificazione”<br />
del popolo: unificandosi, questo partecipa a un’altra Unità; tanto che per san Cipriano l’unità della Chiesa non è più intelligibile<br />
senza quella della Trinità»: G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, 87 (cors. ns.).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
nella misura in cui essi hanno parte ai beni della salvezza di Cristo. La Chiesa, come immagine del-<br />
la «communio» trinitaria è così essa stessa «communio» in maniera costitutiva; essa è in una conti-<br />
nuità sacramentale e mistica con il mistero dell’amore realizzato nella libertà in Dio stesso, ed è così<br />
il segno e lo strumento dell’unità e della comunione dell’umanità chiamata da Dio alla libertà dei<br />
figli di Dio (LG 1, 45, 48, 52). Perciò la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica abbraccia tutti co-<br />
loro che, nel combattimento per la realizzazione dell’amore di Dio nel mondo (cfr. GS 13), come<br />
peccatori e come giusti, camminano «tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio» (LG<br />
8), ma pure coloro che sono glorificati nella loro unione con Dio, ed infine coloro la cui libertà<br />
nell’amore di Dio, nel corso della loro vita terrestre, è stata oscurata dal peccato, ma che, dopo la<br />
morte, si trovano sul cammino della comunione definitiva con Dio (LG 49).<br />
Ac) La rivelazione della chiesa nella Scrittura (nn. 5-6)<br />
I due numeri hanno una valenza “metodologica”. Il n. 5, superando le ristrettezze della posizione<br />
apologetica sulla “istituzione della Chiesa”, presenta la fondazione della chiesa in relazione alla<br />
predicazione del regno: «Il mistero della santa chiesa si manifesta nella sua fondazione. Il Signore<br />
Gesù, infatti, diede inizio alla sua chiesa predicando la buona novella, cioè la venuta del regno di<br />
Dio da secoli promesso nelle scritture». Si precisa, inoltre, che la chiesa non coincide col regno; an-<br />
zi, essa lo deve «annunziare ed instaurare in tutte le genti». D’altra parte essa non ne è solo una pal-<br />
lida prefigurazione, ma ne costituisce «in terra il germe e l’inizio» in attesa del suo compimento.<br />
Dopo aver chiuso con un nulla di fatto le discussioni dei decenni precedenti su una possibile “defi-<br />
nizione formale” della Chiesa, il Concilio ha preferito abbandonare questo tentativo e raccogliere<br />
nel n. 6 le metafore che la Scrittura adopera per descriverla. Proprio perché è mistero, essa non si la-<br />
scia costringere in una definizione propriamente detta; la maniera più giusta per coglierla nella sua<br />
realtà misterica è il ricorso alle metafore bibliche. Così, il concilio per descrivere la Chiesa presenta<br />
quattro campi semantici, che simbolicamente mettono in risalto l’uno o l’altro dei suoi aspetti. Nelle<br />
immagini prescelte — quelle della vita pastorale, della vita agricola, della edificazione e della spo-<br />
sa-madre — il risalto è dato a Cristo: donde il carattere cristologico, oltre che trinitario.<br />
Ad) La Chiesa corpo di Cristo (n. 7)<br />
L’immagine su cui il Concilio s’è soffermato più a lungo è quella del corpo, presentando un’ampia e<br />
organica teologia della Chiesa come corpo di Cristo 154 . È evidente l’influsso della Mystici Corporis<br />
154 Anzi la Commissione teologica precisò nella sua Relatio che «haec ultima expressio, scilicet Corporis mystici, plus<br />
quam imago est et profundius in Ecclesiae mysterio introducit»: AS III/I, 173.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
di Pio XII, cosicché si può parlare di continuità dottrinale tra questo documento e la LG. Ma ci sono<br />
anche diversità di prospettive e di contenuto. La LG propone quasi esclusivamente la dottrina di Pa-<br />
olo sul corpo di Cristo e in essa, in consonanza con la natura di mistero della Chiesa, dà risalto alla<br />
dimensione soteriologico-cristologica e sacramentale. Nella MC (e nel primo schema) si partiva da<br />
una visione organologico-societaria della Chiesa, che è un corpo visibile, organico, gerarchico; inol-<br />
tre la Chiesa veniva definita in modo appropriato come «il corpo mistico di Cristo»; infine, da tale<br />
definizione si traevano tutte le conseguenze per ciò che riguarda la sua visibilità, il governo e<br />
l’appartenenza. Nella LG, invece, la categoria «corpo» resta al livello d’immagine, anche se partico-<br />
larmente significativa; si precisa a livello terminologico che Cristo «comunicando il suo Spirito, co-<br />
stituisce misticamente [mystice] i suoi fratelli come suo corpo» (non si dice «corpus suum mysticum<br />
constituit»), perché Paolo non adopera l’espressione «corpo mistico»; s’insiste sul fatto che «in quel<br />
corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti, che attraverso i sacramenti si uniscono in modo ar-<br />
cano e reale a Cristo sofferente e glorioso». Ciò si verifica soprattutto nel battesimo e nella eucari-<br />
stia, con cui «siamo elevati alla comunione con Lui e tra di noi». È per questo aspetto comunionale<br />
che l’immagine del corpo gode d’una preferenza rispetto alle altre. L’altro motivo di preferenza è<br />
che più delle altre essa mette in risalto il primato di Cristo, in quanto capo del corpo mistico.<br />
Proprio lo sviluppo del tema di «Cristo capo» della Chiesa introduce la seconda parte del n. 7 (in<br />
coerenza con la distinzione che si nota sul tema nell’epistolario paolino: infatti, se Rom e 1Cor par-<br />
lano della Chiesa corpo di Cristo, Col ed Ef sviluppano il tema di Cristo Capo). Ora, la LG sviluppa<br />
il tema di Cristo Capo secondo quattro aspetti diversi: a) come Capo egli rende le sue membra con-<br />
formi a sé; b) anima la crescita vitale della Chiesa; c) con il suo Spirito, che esiste «unus et idem in<br />
Capite et in membris», la rinnova e unifica continuamente; d) infine, come Capo e Sposo ama Colei<br />
che è il suo corpo — indissolubilmente unito, ma non confuso, con Lui — e la rende sempre più<br />
perfetta, per farla accedere alla pienezza di Dio.<br />
Al n. 7g si accenna anche al tema dello «Spirito Santo anima della chiesa», appellandosi alle allu-<br />
sioni dei Padri. Si evita però di andare al di là del suo senso analogico — come facevano alcuni teo-<br />
logi che distinguevano l’anima increata e l’anima creata della Chiesa.<br />
Quanto allo schema del numero, si noti la successione dei paragrafi: si dà importanza, prima ai sa-<br />
cramenti (battesimo e soprattutto eucaristia); poi ai carismi (anche l’autorità dei pastori emerge qui<br />
dal loro interno e viene legata strettamente alla «carità»); poi si fa spazio al tema di Cristo capo del<br />
corpo; e al tema degli impegni che coinvolgono i soggetti umani nell’edificazione del corpo. Su tut-<br />
to, verso la fine, spicca di nuovo l’appello allo Spirito Santo che è nella Chiesa il principio di «vita,<br />
unità e moto» e l’ennesimo richiamo all’escatologia.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Ae) La Chiesa, strutturata in analogia al mistero del Verbo incarnato, è una realtà complessa (n. 8)<br />
Il n. 8 è intitolato La chiesa realtà visibile e spirituale. L’intenzione esplicita del numero è di riaf-<br />
fermare che la Chiesa, di cui il I cap. descrive l’intima e misteriosa natura, qui sulla terra si trova<br />
(«concrete inveniri») nella Chiesa cattolica (Relatio n. 8, AS III/1, 176). Questa Chiesa di cui si può<br />
fare esperienza concreta («Ecclesia empirica») rivela il mistero («mysterium revelat»), anche se non<br />
senza ombre nella sua esistenza storica, finché essa non sia condotta al perfetto compimento («do-<br />
nec ad plenum lumen adducatur»). Il numero si può suddividere in quattro punti principali: 1) il mi-<br />
stero della Chiesa è presente e manifestato in una concreta realtà sociale, la cui struttura essenziale è<br />
analoga al mistero del Verbo incarnato 155 ; 2) la Chiesa è unica e qui in terra è presente («adest»)<br />
nella Chiesa cattolica, anche se fuori del suo organismo visibile si trovano «elementa ecclesialia»;<br />
3) la manifestazione del mistero della Chiesa avviene contemporaneamente nella virtù e nella debo-<br />
lezza, a somiglianza della condizione di povertà e di umiltà del Cristo; 4) la Chiesa vince tutte que-<br />
ste difficoltà legate al suo cammino storico «per virtutem Christi et caritatem».<br />
In particolare, in relazione alla chiesa, il numero 8 affronta in due momenti il problema della sua re-<br />
altà complessa di mistero e società gerarchica: dapprima il problema dell’unità (con la conseguente<br />
esclusione di una reale divisione interna), e poi il problema dell’unicità (con l’esclusione di una<br />
moltiplicazione esterna). In breve: i due elementi costitutivi della chiesa, il divino e l’umano, sono<br />
realtà separate o fuse tra di loro? E poi, si può pensare a più chiese che, pur diverse fra loro e in op-<br />
posizione reciproca, siano egualmente vere e legittime?<br />
Il primo capoverso riflette sul problema dell’unità interna, precisando (in linea con la Mystici Cor-<br />
poris e per suo tramite con il Vaticano I) che la Chiesa è «strumento congiunto indissolubilmente»<br />
con Cristo; in analogia con il legame tra natura umana e natura divina nel mistero del Verbo incar-<br />
nato, è organo attraverso cui passa l’azione salvifica di Cristo.<br />
Il mistero della realtà divino-umana della Chiesa è espresso in LG 8a attraverso un triplice binomio:<br />
a) società gerarchica – Corpo Mistico di Cristo; b) assemblea visibile – comunità spirituale; c) Chie-<br />
sa terrena – Chiesa ormai in possesso dei beni celesti. I termini di ciascun binomio non vengono di-<br />
155 Nella tradizione dottrinale e teologica si era soliti applicare lo schema calcedonese per individuare i due rischi che<br />
l’<strong>ecclesiologia</strong> deve evitare: il nestorianesimo che divide (per cui la Chiesa è una pura istituzione umana) e il monofisismo<br />
che unisce troppo (la Chiesa è una realtà divina). Su questo classico tema si vedano: Y. CONGAR, “Dogma cristologico<br />
ed <strong>ecclesiologia</strong>. Verità e limiti di un parallelismo”, in ID., Santa Chiesa (Brescia: Morcelliana, 1967) 83-91; J.H.<br />
NICOLAS, “Le sens et la valeur en ecclésiologie du parallelisme de structure entre le Christ et l’Église”, in Angelicum 43<br />
(1966) 353-358; H. MÜLLER, “De analogia verbum incarnatum inter et ecclesiam (L.G. 8)”, in Periodica 66 (1977) 499-<br />
512; M. SEMERARO, “Spiritui Christi inservit. Storia ed esito di una analogia (Lumen Gentium 8)”, in Lateranum 52<br />
(1986) 343-398. Cfr. anche H. MÜHLEN, Una mystica persona. La chiesa come mistero dello Spirito santo in Cristo e<br />
nei cristiani: una persona in molte persone (Roma: Città Nuova, 1968).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
chiarati semplicemente identici, ma neppure giustapposti, quasi che uno indicasse l’umano e l’altro<br />
il divino («non ut duae res considerandae sunt»). Essi formano una realtà complessa risultante dalla<br />
unità dell’elemento umano e divino che sono distinti, non confusi, ma compresenti nella stessa<br />
Chiesa una. Notiamo che i due elementi (l’umano e il divino) mantengono il loro dinamismo nel<br />
formare l’unità («efformant»: verbo di azione al presente); di conseguenza, la realtà che ne risulta<br />
resta «complessa»; e c’è sempre bisogno dello Spirito Santo per dare vita e crescita al corpo.<br />
La visione che ne risulta ci sembra quindi equilibrata. Infatti l’insistenza sul carattere misterico della<br />
Chiesa non deve mettere in ombra il suo carattere visibile e storico. Cristo stesso ha costituito la<br />
Chiesa come comunità di fede, di speranza e di carità e come organismo visibile, attraverso il quale<br />
diffonde su tutti la verità e la grazia. Così il Concilio fa proprio l’insegnamento di Leone XIII nella<br />
Satis cognitum e di Pio XII nella Mystici Corporis, e mette in rilievo — rigettando ogni concezione<br />
dualistica della Chiesa (Chiesa carismatica e Chiesa istituzionale, Chiesa giuridica e Chiesa della<br />
carità) — l’unità che esiste, nell’unica Chiesa, tra l’elemento misterico e l’elemento visibile; si ri-<br />
chiama all’unità in Cristo della divinità e dell’umanità, ma insieme si ribadisce la subordinazione e<br />
la mediazione sacramentale dell’elemento visibile nei confronti di quello misterico.<br />
Il mistero di questa complessa realtà viene posto in relazione «ob non mediocrem analogiam» con il<br />
mistero del Verbo incarnato. Notiamo che le analogie sono due: con il mistero dell’Incarnazione e<br />
con la “strumentalità” dell’umanità di Cristo quale organo di salvezza. La natura umana che il Figlio<br />
di Dio ha assunto nell’unione ipostatica costituisce il «vivum organum salutis, Ei indissolubiliter<br />
unitum». «Non dissimili modo» la compagine sociale della Chiesa è al servizio dello Spirito di Cri-<br />
sto per la crescita del Corpo. L’attenta formulazione mette in guardia da interpretazioni o da appli-<br />
cazioni arbitrarie. Non si può parlare della Chiesa semplicemente come di una “Incarnazione conti-<br />
nuata”, o di una unione con Cristo di tipo ipostatico (l’errore di Pelz, condannato dalla MC). Come<br />
il dogma di Calcedonia (DzH 302) riguardo all’unione tra le due nature di Cristo parla di non confu-<br />
sione, di non divisione e di inseparabilità, così secondo un’analogia di proporzionalità si può parla-<br />
re di una non confusione e di una inseparabilità per l’unione tra la «compago socialis» della Chiesa<br />
e lo Spirito di Cristo. Non è il Logos in quanto tale che agisce nei singoli membri della Chiesa, ma è<br />
lo Spirito, presente «unus et idem in Capite et in membris» (LG 7g). L’analogia di LG 8a è però an-<br />
che un’analogia di attribuzione tra la “strumentalità” della natura umana di Cristo quale «organum<br />
salutis» del Verbo e la strumentalità della «compago socialis Ecclesiae» rispetto all’azione dello<br />
Spirito di Cristo. Proprio la presenza e l’azione dello Spirito di Cristo, «uno e lo stesso nel Capo e<br />
nei membri», è il fondamento ontologico della Chiesa sacramento universale della salvezza.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Af) La chiesa di Cristo sussiste nella chiesa cattolica<br />
Il secondo capoverso affronta il nodo dell’unicità. Si afferma, quasi come premessa, che la chiesa<br />
voluta da Cristo deve presentare necessariamente anche il tratto “apostolico”; essa, «radicata nella<br />
successione apostolica» (come preciserà alcuni anni più tardi al n. 16 la Dichiarazione della Con-<br />
gregazione per la dottrina della fede, Dominus Iesus, 6 agosto 2000), ha conservato la sua continuità<br />
e la sua integrità istituzionale nel tempo, fino ad oggi. Questa Chiesa di Cristo (proprio anche in<br />
quanto «società storica») si trova nella Chiesa cattolica:<br />
«È questa l’unica chiesa di Cristo che nel simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, e<br />
che il nostro Salvatore ha dato da pascere a Pietro dopo la risurrezione (cfr. Gv 21,17)…; egli l’ha<br />
eretta per sempre come colonna e fondamento della verità (cfr. 1Tm 3,15). Questa chiesa, costituita<br />
e organizzata in questo mondo come società, sussiste nella chiesa cattolica, governata dal successore<br />
di Pietro e dai vescovi che sono in comunione con lui, anche se numerosi elementi di santificazione<br />
e di verità si trovino anche fuori della sua compagine: elementi che, come doni propri<br />
della chiesa di Cristo, sospingono verso l’unità cattolica» (LG 8b).<br />
Va notata nell’ultimo periodo di questo testo l’affermazione di grande portata, secondo la quale non<br />
c’è identificazione esclusiva tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica: la Chiesa di Cristo non è<br />
(est) la Chiesa cattolica, ma sussiste in (subsistit in) essa, perché Chiese, comunità ed elementi ec-<br />
clesiali esistono anche oltre i confini visibili della Chiesa cattolica. In altre parole, la realtà della<br />
Chiesa di Cristo ricopre la realtà della Chiesa cattolica, cosicché questa è vera Chiesa di Cristo e lo<br />
è, come vedremo, nell’integrità delle sue mediazioni istituzionali; ma nello stesso tempo, la Chiesa<br />
di Cristo si estende al di là della Chiesa cattolica, comprendendo realtà ecclesiali, che visibilmente<br />
non fanno parte della Chiesa cattolica 156 . È così aperta la via a una considerazione propriamente<br />
«ecclesiale» delle Chiese e comunità cristiane, non cattoliche, senza che venga intaccata l’unicità<br />
della Chiesa o che si consideri questa come la somma delle Chiese e comunità ecclesiali.<br />
Pio XII, prima nell’enciclica Mystici Corporis (1943) e poi in Humani generis (1950), aveva asseri-<br />
to che il corpo mistico di Cristo e la chiesa cattolica romana sono un’unica e medesima cosa, con la<br />
conseguenza che solo i cattolici romani appartengono realmente (reapse) al Corpo di Cristo. Nello<br />
stesso senso andava anche il primo schema «de Ecclesia» (1962) che recitava: «La chiesa cattolica<br />
156 Luigi Sartori suggerisce che si è così passati dal concetto di assolutezza al concetto di pienezza: non si dice «solo la<br />
chiesa cattolica è» chiesa, ma «nella chiesa cattolica c’è in pienezza» la chiesa. C’è in pienezza tutto l’insieme delle mediazioni<br />
ecclesiali istituzionali: L. SARTORI, L’unità dei cristiani (Padova: Messaggero, 1992) 51. Secondo questa interpretazione<br />
sembra indirizzarsi l’importante enciclica di Giovanni Paolo II, Ut unum sint (25 maggio 1995), n. 13: «Oltre<br />
i limiti della Comunità cattolica non c’è il vuoto ecclesiale». Anzi, essa precisa: «Nella misura in cui tali elementi [di<br />
santificazione e di verità] si trovano nelle altre Comunità cristiane, l’unica Chiesa di Cristo ha in esse una presenza operante»<br />
(n. 11) —, anche se, d’altra parte, nella Chiesa cattolica è presente «la pienezza (plenitudo) degli strumenti di<br />
salvezza (n. 86).<br />
287
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
romana è (est) il corpo mistico di Cristo […] e solo quella che è cattolica romana ha il diritto di es-<br />
sere chiamata chiesa» (AS I/4, 15). Questa identificazione fu aspramente criticata durante la prima<br />
sessione del concilio. Tuttavia anche il secondo schema (1963) identificava come il precedente la<br />
chiesa cattolica (senza l’attributo “romana”) e il corpo mistico, anche se aggiungeva che «molti e-<br />
lementi di santificazione si possono trovare fuori della sua struttura totale» e che queste sono «cose<br />
appartenenti propriamente alla chiesa di Cristo» (AS II/1, 219-220). Quest’ultima frase implicava<br />
almeno che simili «elementi di santificazione» fossero ecclesiali per loro natura e suggeriva che<br />
qualche elemento ecclesiale è presente anche fuori dei confini della chiesa cattolica. In seguito, du-<br />
rante la revisione successiva alla seconda sessione, in seno alla stessa commissione teologica sorse<br />
la questione della coerenza fra le due affermazioni: come identificare la chiesa cattolica con il corpo<br />
mistico e nello stesso tempo riconoscere la presenza di elementi ecclesiali al di fuori di essa? La so-<br />
luzione fu trovata modificando il testo: anziché dire che la Chiesa di Cristo è la chiesa cattolica, si<br />
diceva che essa sussiste in essa. La spiegazione ufficiale, data ai padri per giustificare il cambiamen-<br />
to, fu questa: «Perché l’espressione possa meglio accordarsi con l’altra degli elementi ecclesiali che<br />
si trovano altrove» (AS III/1, 176s). Sfortunatamente per i commentatori, nessun’altra spiegazione<br />
venne offerta per precisare meglio come intendere correttamente la parola «sussistere».<br />
L’unico punto certo è che la scelta di non continuare a dire «è», rappresenta una innovazione nei<br />
confronti dell’affermazione di un’assoluta ed esclusiva identità fra la chiesa di Cristo e la chiesa cat-<br />
tolica. Il fatto che «molti elementi di santificazione e verità», sono esplicitamente riconosciuti come<br />
di natura «ecclesiale», fa pensare ovviamente che deve esserci qualcosa della chiesa al di fuori di es-<br />
sa; diversamente non ci sarebbe stata ragione di ricorrere alla nuova espressione «sussiste in», se es-<br />
sa avesse dovuto essere intesa in senso esclusivo (est).<br />
In ogni caso possiamo saperne di più considerando il decreto sull’ecumenismo, promulgato lo stesso<br />
giorno della LG (21 novembre 1964) e che secondo l’espressa dichiarazione di Paolo VI deve essere<br />
preso in considerazione per comprendere la dottrina della chiesa contenuta nella LG 157 . Orbene se-<br />
guendo questo suggerimento, occorre scartare quelle interpretazioni che leggono il subsistit in alla<br />
luce della nozione filosofica di sussistenza 158 . Su questa linea ci fu addirittura chi suggerì che la<br />
157 «Vogliamo anche sperare che la medesima dottrina della chiesa sarà benevolmente e favorevolmente considerata dai<br />
fratelli cristiani tuttora da noi separati; integrata tale dottrina dalle dichiarazioni contenute nello schema sull’ecumenismo»:<br />
AAS 56 (1964) 1012; EV I, § 293* (corsivo ns).<br />
158 Come se la chiesa cattolica fosse l’unica realizzazione della chiesa sulla terra: G. BAUM, “The Ecclesial Reality of<br />
the Other Churches”, in Concilium 4/1 (1965) 38; B. GHERARDINI, “Sulla Lettera Enciclica Ut Unum Sint di Papa Giovanni<br />
Paolo II”, in Divinitas XL (1997) 3-12. È questa anche la posizione dell’allora card. Ratzinger: «La parola subsistit<br />
deriva dall’antica filosofia ulteriormente sviluppatasi nella Scolastica… Subsistere è un caso speciale di esse. È<br />
288
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
chiesa cattolica sta alle altre comunità cristiane come l’esse subsistens sta agli enti creati 159 . Un altro<br />
approccio filosofico al problema è consistito nell’immaginare che la chiesa di Cristo si dovesse pen-<br />
sare come una specie di «idea platonica», la quale trova la sua «forma concreta di esistenza» nella<br />
chiesa cattolica. La maggior parte dei commentatori tuttavia rifiuta che l’espressione sia da inten-<br />
dersi in senso filosofico e sostiene che il termine va inteso secondo il senso del linguaggio corrente,<br />
per cui significa «stare ancora, stare, continuare, rimanere…» 160 . Con ciò il concilio affermerebbe<br />
che la Chiesa Cattolica è il luogo storico in cui la Chiesa di Cristo è presente e continua ad esistere<br />
con tutte le proprietà essenziali e con la pienezza dei mezzi di salvezza di cui Cristo l’ha dotata.<br />
La prova più convincente di tale interpretazione si ha proprio in due passi di UR:<br />
«così che per questa via, …, tutti i cristiani, in un’unica celebrazione dell’eucaristia, si riuniscano in<br />
quella unità dell’una e unica chiesa, che Cristo fin dall’inizio donò alla sua chiesa, e che crediamo<br />
sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella chiesa cattolica e che speriamo crescerà ogni<br />
giorno più fino alla fine dei secoli» (UR 4c).<br />
«Tuttavia i fratelli da noi separati, sia presi singolarmente sia le loro comunità e chiese, non godono<br />
di quell’unità, che Gesù Cristo ha voluto elargire a tutti quelli che ha rigenerato e vivificato insieme<br />
l’essere nella forma di un soggetto a sé stante. Qui si tratta proprio di questo. Il Concilio vuol dirci che la Chiesa di Gesù<br />
Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica. Ciò può avvenire solo una<br />
volta e la concezione secondo cui il subsistit sarebbe da moltiplicare non coglie proprio ciò che si intendeva dire. Con la<br />
parola subsistit il Concilio voleva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa cattolica: esiste la Chiesa<br />
come soggetto nella realtà storica»: L’<strong>ecclesiologia</strong> della Costituzione «Lumen Gentium», in Il Concilio Vaticano II,<br />
op. cit., 79. Questa interpretazione si ritrova anche nella Notificazione sul volume «Chiesa: carisma e potere» del P. Leonardo<br />
Boff: cfr. EV 9, § 1426 e nella nota 56 al n. 16 della Dichiarazione Dominus Iesus della Congregazione per la<br />
Dottrina della Fede. Karl Becker, sostenitore dell’identificazione fra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, ha però dimostrato<br />
con acribia come questa interpretazione non corrisponda a quanto inteso dalla Commissione dottrinale: K. BE-<br />
CKER, «Subsistit in» (Lumen gentium, 8), in L’Osservatore Romano, 5-6 dicembre 2005, 1.6-7. Notiamo, infatti, che la<br />
Commissione dottrinale, sintetizzando il contenuto di ciascun paragrafo del capitolo I scrisse: «Ecclesia est unica, et his<br />
in terris adest in Ecclesia catholica, licet extra eam inveniantur elementa ecclesialia»: AS III/1, 176; ora, adesse nella<br />
scolastica non è un sinonimo di subsistere. Si consideri poi che l’enciclica Ut unum sint non menziona l’interpretazione<br />
“filosofica” del “subsistit in”: UUS 10, 86; e così fa anche il recente documento della Congregazione della Dottrina della<br />
Fede, Risposte ad alcuni quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa, 29 giugno 2007.<br />
159 F. RICKEN, “Ecclesia … universale salutis sacramentum”, in Scholastik 40 (1965) 373.<br />
160 Cf. K. BECKER, art. cit.; U. Betti: «In un primo tempo, ancora nella redazione datata 25 novembre 1963, si diceva<br />
che la Chiesa di Cristo “è presente” (adest in) nella Chiesa Cattolica. Nella redazione successiva, che fu anche la definitiva,<br />
concordata in sede di Commissione dottrinale il giorno seguente 26 novembre, l’espressione “è presente” fu sostituita<br />
con l’espressione “sussiste” (subsistit in). L’intenzione e il significato, soggiacenti all’una e all’altra espressione,<br />
sono uguali. Si intendeva con esse affermare che l’unica Chiesa di Cristo ha con la Chiesa Cattolica un rapporto di totalità,<br />
nel senso che, in quanto società costituita in questo mondo, è presente o sussiste in essa: mentre il rapporto di ogni<br />
Chiesa o Comunità cristiana con la Chiesa di Cristo è un rapporto di parzialità, nella misura, cioè, degli elementi di santificazione<br />
e di verità che si trovano in ciascuna. C’è tuttavia tra le due espressioni una differenziazione di prospettiva.<br />
La “sussistenza” (subsistit in) indica presenza senza soluzione di continuità fin dalle origini, mentre la semplice “presenza”<br />
(adest in) indica solo una presenza in atto, senza necessario congiungimento storico con il passato», ID., “Chiesa di<br />
Cristo e Chiesa Cattolica. A proposito di un’espressione della Lumen Gentium”, in Antonianum 61 (1986) 738s. Cfr.<br />
anche l’importante spiegazione data dal card. Willebrands, allora segretario del SPUC: J. WILLEBRANDS, “Subsistit in”.<br />
Address to the National Workshop for Christian Unity, Atlanta, Georgia USA, May 5, 1987, in Information Service n.<br />
101 (1999/II-III) 143-149; cfr. la trad. it.: “Chiesa, Corpo di Cristo, comunione nel Concilio Vaticano II”, in ID., Una<br />
sfida ecumenica. La nuova Europa (Verrucchio – RN: Pazzini Editore, 1995) 83-98.<br />
289
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
per un sol corpo e per una vita nuova; unità che le sacre Scritture e la veneranda tradizione della<br />
chiesa apertamente dichiarano. Infatti, solo per mezzo della chiesa cattolica di Cristo, che è lo strumento<br />
generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà al solo<br />
collegio apostolico con a capo Pietro crediamo che il Signore ha affidato tutti i beni della nuova alleanza,<br />
per costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al quale bisogna che siano pienamente incorporati<br />
tutti quelli che in qualche modo appartengono già al popolo di Dio. E questo popolo, quantunque,<br />
finché dura il suo terreno pellegrinaggio, rimanga nei suoi membri esposto al peccato, cresce<br />
tuttavia in Cristo ed è soavemente condotto da Dio secondo i suoi arcani disegni, fino a che pervenga<br />
nella gioia a tutta la pienezza della gloria eterna nella celeste Gerusalemme» (UR 3e).<br />
Per cui secondo UR la chiesa di Cristo ha continuato ad esistere tuttora con quella unità e con tutti i<br />
mezzi di salvezza di cui Cristo l’ha dotata, ed è soltanto nella chiesa cattolica che essa continua ad<br />
esistere così. Naturalmente qui si tratta di integrità istituzionale, di pienezza di mezzi di salvezza.<br />
«Infatti, benché la chiesa cattolica sia stata arricchita da Dio di tutta la verità rivelata e di tutti i mezzi<br />
della grazia, tuttavia i suoi membri non se ne servono per vivere con tutto il dovuto fervore, per<br />
cui il volto della chiesa rifulge meno davanti ai fratelli da noi separati e al mondo intero e la crescita<br />
del regno di Dio ne è ritardata» (UR 4f).<br />
Resta quindi sempre la possibilità che una comunità non cattolica, forse molto manchevole in fatto<br />
di sacramenti, possa vivere la vita di Cristo in modo più fecondo di molte comunità cattoliche.<br />
Qual è il significato del cambiamento tra «è» e «sussiste in» per il nostro modo di pensare le altre<br />
comunità cristiane? Si noti che nell’immediato contesto di LG 8, il concilio parla solo di presenza di<br />
«parecchi (plura) elementi» (in UR 3 diventano «plurima et eximia») descritti come doni propri del-<br />
la chiesa di Cristo. Ma che importanza rivestono tali elementi nella mente del concilio? Si ammette<br />
la natura ecclesiale delle comunità non cattoliche? Ebbene già LG 15 dà alcune indicazioni:<br />
«Con coloro che sono battezzati e quindi insigniti del nome cristiano, ma non professano integralmente<br />
la fede o non conservano l’unità di comunione sotto il romano pontefice, la chiesa si sa congiunta<br />
per molteplici ragioni. Fra di loro ci sono infatti molti che onorano la sacra Scrittura come<br />
regola di fede e di vita, dimostrano di avere uno zelo religioso sincero, credono di cuore in Dio Padre<br />
onnipotente e in Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore, sono segnati dal battesimo che li unisce<br />
a Cristo, anzi riconoscono e accettano nelle proprie chiese o comunità ecclesiali anche altri<br />
sacramenti. Molti fra di loro hanno anche l’episcopato, celebrano la santa eucaristia e coltivano la<br />
pietà verso la vergine Madre di Dio. A tutto ciò si aggiunge la comunione nella preghiera e in altri<br />
benefici spirituali, anzi una certa vera congiunzione nello Spirito Santo, che anche in loro opera<br />
con la sua virtù santificatrice mediante doni e grazie; alcuni poi di loro li ha fortificati fino<br />
all’effusione del sangue».<br />
Si precisa che questi cristiani, consacrati a Cristo mediante il loro battesimo, riconoscono e ricevono<br />
anche altri sacramenti nelle loro proprie Chiese e comunità ecclesiali. Va osservato in particolare<br />
che quest’ultima frase fu aggiunta al testo — come dice la Relazione ufficiale — per rispondere alle<br />
molte richieste dei vescovi. Anzi la relazione aggiunge:<br />
290
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
«Gli elementi di cui si fa menzione riguardano non solo gli individui ma pure le loro comunità, e<br />
precisamente in questo fatto è posto il fondamento del movimento ecumenico. I documenti papali<br />
parlano abitualmente di Chiese separate d’Oriente. Per i protestanti i recenti pontefici hanno usato<br />
il termine “comunità cristiane”» (AS III/1, 204).<br />
Ma ben più chiaramente si esprime UR 3:<br />
«Inoltre, tra gli elementi o beni, dal complesso dei quali la stessa chiesa è edificata e vivificata, alcuni,<br />
anzi parecchi e segnalati, possono trovarsi fuori dei confini visibili della chiesa cattolica: la<br />
parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello<br />
Spirito Santo ed elementi visibili; tutte queste cose, che provengono da Cristo e a lui conducono,<br />
appartengono a buon diritto all’unica chiesa di Cristo. Anche non poche azioni sacre della religione<br />
cristiana vengono compiute dai fratelli da noi separati, e queste in vari modi, secondo la diversa<br />
condizione di ciascuna chiesa o comunità, possono senza dubbio produrre realmente la vita della<br />
grazia e si devono dire atte ad aprire l’ingresso nella comunione della salvezza. Perciò le stesse<br />
chiese e comunità separate, quantunque crediamo che abbiano delle carenze, nel mistero della<br />
salvezza non sono affatto prive di significato e di peso. Poiché lo Spirito di Cristo non ricusa [non<br />
renuit: per MC “renuit”: DzH 3808] di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, il cui valore<br />
deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità che è stata affidata alla chiesa cattolica».<br />
Alcuni vescovi osservarono che questo testo attribuiva una funzione salvifica non solo ai sacramenti<br />
che si trovano nelle comunità non cattoliche, ma anche a quelle chiese e comunità in quanto tali, e<br />
perciò suggerirono di correggere il testo in questo modo: «In tali comunità sono preservati mezzi di<br />
salvezza che lo Spirito santo non ha ricusato di usare…». La risposta della commissione fu però:<br />
«Dovunque si usano validi mezzi di salvezza che, come azioni sociali, caratterizzano quelle comunità<br />
come tali, è certo che lo Spirito santo sta usando quelle comunità come strumenti di salvezza»<br />
(AS III/7, 36).<br />
Anche il titolo dell’intero capitolo III di UR «Chiese e comunità ecclesiali separate dalla Sede apo-<br />
stolica romana» fu così spiegato:<br />
«La duplice espressione “Chiese e comunità ecclesiali” è stata approvata dal concilio ed è usata in<br />
modo totalmente legittimo. Difatti c’è solo un’unica chiesa universale, ma ci sono molte chiese locali<br />
e particolari. È consuetudine nella tradizione cattolica chiamare le comunità separate<br />
d’Oriente Chiese — quelle locali o particolari senza dubbio — e nel senso proprio del termine.<br />
Non è compito del concilio investigare e decidere quali delle altre comunità debbano essere chiamate<br />
Chiese in senso teologico» (AS III/7, 35).<br />
E per quanto riguarda le «comunità ecclesiali»? La distinzione non è chiarita in modo esplicito, ma<br />
sembra fondarsi su un principio di «<strong>ecclesiologia</strong> eucaristica»: vale a dire, non c’è piena realtà di<br />
chiesa dove non c’è piena realtà di eucaristia. Infatti in UR 22 il concilio usa intenzionalmente solo<br />
l’espressione «comunità ecclesiali»:<br />
«Le comunità ecclesiali da noi separate, quantunque manchi la loro piena unità con noi derivante<br />
dal battesimo e quantunque crediamo che esse, specialmente per la mancanza del sacramento<br />
dell’ordine, non hanno conservato la genuina e integrale sostanza del mistero eucaristico…».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Comunque anche ad esse è riconosciuto un carattere ecclesiale. La relazione infatti si esprime così:<br />
«Non va trascurato il fatto che le comunità che hanno avuto origine dalla separazione avvenuta in<br />
Occidente non sono la semplice somma o un aggregato di cristiani, ma sono costituite da elementi<br />
sociali ecclesiali, che essi hanno conservato dal nostro patrimonio comune, e conferiscono loro un<br />
vero carattere ecclesiale (characterem vere ecclesialem). In queste comunità l’unica chiesa di Cristo<br />
è presente, sebbene imperfettamente, in un modo che è alquanto simile alla sua presenza nelle<br />
chiese particolari e in esse la chiesa di Cristo è in qualche modo operante attraverso i mezzi dei loro<br />
elementi ecclesiali» (AS II/2, 335).<br />
Recentemente la Congregazione per la dottrina della fede nella Dichiarazione Dominus Iesus, n. 17<br />
ha così riassunto l’insegnamento della Chiesa cattolica romana sull’importante tema:<br />
«Esiste quindi un’unica Chiesa di Cristo, che sussiste nella Chiesa Cattolica, governata dal Successore<br />
di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui. Le Chiese che, pur non essendo in perfetta comunione<br />
con la Chiesa Cattolica, restano unite ad essa per mezzo di strettissimi vincoli, quali la<br />
successione apostolica e la valida Eucaristia, sono vere Chiese particolari. Perciò anche in queste<br />
Chiese è presente e operante la Chiesa di Cristo, sebbene manchi la piena comunione con la Chiesa<br />
cattolica, in quanto non accettano la dottrina cattolica del Primato che, secondo il volere di Dio, il<br />
Vescovo di Roma oggettivamente ha ed esercita su tutta la Chiesa. Invece le comunità ecclesiali<br />
che non hanno conservato l’Episcopato valido e la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico,<br />
non sono Chiese in senso proprio; tuttavia i battezzati in queste comunità sono dal Battesimo<br />
incorporati a Cristo e, perciò, sono in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa. Il<br />
Battesimo infatti di per sé tende al completo sviluppo della vita in Cristo mediante l’integra professione<br />
di fede, l’Eucaristia e la piena comunione nella Chiesa» 161 .<br />
Ag) La via di Cristo e della Chiesa<br />
Il terzo capoverso del n. 8 accoglie una tematica invocata da un folto gruppo di padri: quella della<br />
«chiesa dei poveri»; o della «povertà della chiesa e nella chiesa». Il tema qui è solo accennato; in se-<br />
guito sarà sviluppato dalle importanti Conferenze del CELAM a Medellin (1968) e a Puebla<br />
(1979) 162 . Un «a fortiori» domina la riflessione: se Cristo, in cui l’umano non fu sfiorato dall’ombra<br />
del peccato, ha battuto la via dell’umiltà e della povertà, a maggior ragione deve batterla la chiesa,<br />
che resta ancora dentro una storia di peccato. Ecco perché la chiesa è «santa ma sempre da purifica-<br />
re». Da ultimo, il capitolo si conclude con un richiamo all’escatologia: la Chiesa è in cammino, pel-<br />
legrina «tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio» (AG., De Civ. Dei, XVIII, 51, 2),<br />
protesa ad una «pienezza» che resta sempre più in là, più in avanti delle sue realizzazioni storiche.<br />
161 Cfr. però le importanti osservazioni di J. WICKS, La signification des «Communautés ecclésiales» de la Réforme, in<br />
Irénikon LXXIV (2001) 57-66; ID., De ecclesia. Risposte e domande, in Il Regno. Documenti LII (2007/15) 474-481.<br />
Cfr. pure F.A. SULLIVAN, “Sussiste” la Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica romana?, in R. LATOURELLE (ed.), Vaticano<br />
II: Bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987) (Assisi – Roma: Cittadella – PUG, 1987) 811-824.<br />
162 S. GALILEA, L’America Latina nelle conferenze di Medellin e Puebla. Un esempio di ricezione selettiva e creativa<br />
del concilio, in ALBERIGO - POTTMEYER (ed.), Il Vaticano II e la Chiesa, op. cit., 87-106; M. KEHL, La Chiesa, 78-81.<br />
292
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
B) Il popolo di Dio (cap. II)<br />
Il capitolo II della LG assume come idea-guida il concetto di popolo di Dio 163 . Descrivendo<br />
l’evoluzione dello schema della LG abbiamo visto che l’introduzione di un capitolo sul popolo di<br />
Dio nella struttura della Costituzione della chiesa era tutt’altro che ovvia e che, originariamente,<br />
questo concetto designava quei fedeli che non fanno parte della gerarchia 164 . Se questa accezione<br />
del concetto di popolo di Dio fosse stata accolta, si deve supporre che la categoria di “corpo di Cri-<br />
sto” sarebbe rimasta quella centrale nella descrizione dell’essenza della chiesa (secondo<br />
l’orientamento dell’enciclica Mystici Corporis).<br />
La collocazione del capitolo sul popolo di Dio subito dopo quello sul mistero della chiesa e prima di<br />
quello sulla gerarchia modifica invece anche il senso della nozione di popolo di Dio che ora non in-<br />
dica più coloro che non fanno parte della gerarchia, ma tutti i fedeli. Il concetto di popolo di Dio de-<br />
finisce la manifestazione storica e concreta del “mistero” della Chiesa. Anzi il Philips, osservando<br />
che il popolo di Dio non è enumerato tra le immagini della chiesa nella sezione della LG ad esse de-<br />
dicata (n. 6), conclude che «l’espressione “Popolo di Dio” non si può applicare alla Chiesa come<br />
una similitudine, perché designa la sua stessa essenza. Non si può dire: la Chiesa è simile a un po-<br />
polo di Dio come si direbbe: il Regno è simile a un grano di senapa. Bisogna invece affermare: la<br />
Chiesa è il popolo di Dio nella Nuova ed eterna Alleanza. Quindi non più figure, ma la piena e tota-<br />
le realtà» 165 . Lasciando in sospeso il problema della capacità dell’espressione “Popolo di Dio” di<br />
163 Così si esprime la Commissione <strong>Teologica</strong> Internazionale: «Si converrà facilmente che, senza il ricorso al paragone<br />
del “corpo di Cristo” applicato alla comunità dei discepoli di Gesù, è assolutamente impossibile cogliere la realtà della<br />
Chiesa… Tuttavia, benché ponga in giusto rilievo l’immagine della Chiesa “corpo di Cristo”, il concilio dà maggior risalto<br />
a quella di “popolo di Dio”, non fosse altro che per il fatto che esso dà il titolo al capitolo II della stessa costituzione.<br />
Anzi, l’espressione “popolo di Dio” ha finito per designare l’<strong>ecclesiologia</strong> conciliare. Di fatto, possiamo asserire che<br />
si è preferito “popolo di Dio” alle altre espressioni, cui il concilio ricorre per esprimere il medesimo mistero, quali “corpo<br />
di Cristo” o “tempio dello Spirito santo”»: Temi scelti di <strong>ecclesiologia</strong>, EV 9, § 1683. Sul tema si vedano gli articoli<br />
“bilancio” di G. COLOMBO, “Il «popolo di Dio» e il «mistero» della chiesa nell’<strong>ecclesiologia</strong> postconciliare”, in Teologia<br />
10 (1985) 97-169 e “Riprendere il cammino: il Vaticano II e il post-concilio”, in Il Regno. Attualità 50, n. 12 (2005)<br />
418-425; e di G. MAZZILLO, “«Popolo di Dio»: categoria teologica o metafora?”, in Rassegna di Teologia 36 (1995)<br />
553-587 e “Chiesa come «popolo di Dio» o Chiesa «comunione»?”, in A.T.I., La Chiesa e il Vaticano II, op. cit., 47-62.<br />
164 È significativo che Mazzillo suggerisca come una causa di natura storica, teologica e letteraria allo stesso tempo<br />
dell’oblio dell’espressione “popolo di Dio”, non soltanto l’eccessiva “materialità” dell’espressione a differenza di altre<br />
figure bibliche (corpo di Cristo, sposa di Cristo, casa o tempio di Dio e simili) che sembravano più idonee a salvaguardare<br />
il carattere trascendente della chiesa stessa (secondo l’ipotesi di O. SEMMELROTH, “La Chiesa nuovo «Popolo di<br />
Dio»”, in G. BARAÚNA (ed.), La Chiesa del Vaticano II (Firenze: Vallecchi, 1965) 439-452), ma soprattutto il cambiamento<br />
di prospettiva operato già dai primi padri latini, a partire da Tertulliano. «Con lui si era insinuata la prima concezione<br />
giuridico-legale della chiesa, del resto più consona all’animo latino, e si era prodotto un declassamento del significato<br />
originario di laos tou Theou, che diventava plebs o turba fidelium, una sempre più specifica denominazione di<br />
quanti non fossero stati insigniti di un ordo vero e proprio»: G. MAZZILLO, op. cit., 559. Da questo momento appare in<br />
modo inequivocabile che altro è l’ordine conferito ad alcuni nella chiesa, altra è la plebs.<br />
165 PHILIPS, op. cit., 99.<br />
293
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
designare «l’essenza stessa» della Chiesa, rileviamo piuttosto il significato che le attribuisce la LG.<br />
Sotto questo profilo, «il Popolo di Dio non è altro, in realtà, che la manifestazione terrestre del mi-<br />
stero della Chiesa» 166 , alla quale coerentemente dev’essere riconosciuta un’essenza «sovrastori-<br />
ca» 167 , non tanto nel senso di una concezione “platonica”, quanto più nella direzione del “simbolo<br />
reale”. Così che si può dire che «il “Popolo di Dio” esprime realmente la Chiesa, precisamente in<br />
quanto essa è esprimibile storicamente; fermo restando, d’altro lato, che l’espressione storica della<br />
Chiesa non esaurisce la realtà della Chiesa, la quale coerentemente vive “oltre” la storia» 168 .<br />
Il concetto di “popolo di Dio” non rappresenta una scoperta originale del Vaticano II. Questo con-<br />
cetto era già stato utilizzato dal teologo domenicano Mannes D. Koster (Ekklesiologie im Werden,<br />
Paderborn 1940). Koster polemizzando con l’euforia suscitata dall’idea di “corpo di Cristo” (soprat-<br />
tutto contro Karl Adam che aveva posto questa categoria al centro della sua opera Das Wesen des<br />
Katholizismus, Düsseldorf 1924), da buon tomista ricordava che esiste una differenza tra la metafo-<br />
ra e l’analogia: parlare della chiesa come “corpo di Cristo” significa utilizzare una metafora, mentre<br />
la categoria di “popolo di Dio” è più appropriata come descrizione della natura della chiesa. La<br />
pubblicazione nel 1943 della Mystici Corporis aveva però rafforzato l’idea di corpo di Cristo.<br />
L’idea di popolo di Dio tuttavia è rimasta sullo sfondo come possibile alternativa per la descrizione<br />
della chiesa, soprattutto perché era difficile accettare la posizione esclusivista della MC che distin-<br />
gueva fra l’incorporazione alla chiesa (solo per i cattolici mediante i tre vincoli) e l’ordinazione (an-<br />
che per i battezzati “acattolici”); lo stesso CJC, infatti, affermava che il Battesimo introduce nella<br />
Chiesa di Cristo. L’immagine del corpo non consentiva alternative: o si è membri o non lo si è; ep-<br />
pure nella realtà c’erano gradi intermedi, che il concetto di popolo di Dio poteva meglio ospitare.<br />
Ci sono altre tre componenti che spiegano la centralità che il Vaticano II ha attribuito al concetto di<br />
popolo di Dio. La prima è la consapevolezza maturata dall’esegesi che il concetto di “corpo di Cri-<br />
sto” non ha il medesimo senso “organologico” che gli era stato attribuito dalla Scuola di Tubinga e<br />
dalla teologia del XX secolo. La seconda componente è la comprensione, derivata dal dialogo con la<br />
teologia evangelica, che la Chiesa non si identifica con Cristo; essa gli sta di fronte. Alcune specu-<br />
lazioni sul corpo di Cristo infatti, presentavano la Chiesa come la “continuazione della Incarnazio-<br />
ne”, identificando così la Chiesa al Cristo. Con questa formula veniva attribuito ad ogni dire ed ope-<br />
rare ministeriale della Chiesa una definitività che faceva apparire ogni critica come un attacco a Cri-<br />
166 Ibid., 120.<br />
167 Ibid., 128<br />
168 COLOMBO, art. cit., 102-103.<br />
294
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
sto stesso, dimenticando di fatto l’elemento umano nella Chiesa. Doveva essere chiaramente evi-<br />
denziata la differenza cristologica: Cristo solo è senza peccato; la Chiesa, invece, è Chiesa di pecca-<br />
tori, che ha sempre bisogno di purificazione e di rinnovamento (LG 8). Così l’idea di riforma diven-<br />
ne un elemento decisivo del concetto di popolo di Dio. La terza componente è il recupero della di-<br />
mensione escatologica e quindi storico-salvifica della Chiesa: essa non è ancora giunta alla sua me-<br />
ta; inoltre essa fa parte dell’unica storia della salvezza, ciò che la congiunge con Israele.<br />
Seguendo la sintesi di J. Ratzinger, gli elementi rilevanti del concetto di Popolo di Dio, che il conci-<br />
lio ha voluto insegnare, sono pertanto: «il carattere storico della Chiesa, l’unità della storia di Dio<br />
con gli uomini, l’unità interna del popolo di Dio al di là anche delle frontiere degli stati di vita sa-<br />
cramentali, la provvisorietà e frammentarietà della Chiesa sempre bisognosa di rinnovamento e in-<br />
fine anche la dimensione ecumenica, cioè le diverse maniere nelle quali congiunzione e ordinazione<br />
alla Chiesa sono possibili e reali, anche al di là dei confini della Chiesa cattolica» 169 .<br />
Il capitolo II può essere diviso in due parti: la prima (nn. 9-12) affronta l’origine, la natura e la vita<br />
del nuovo Popolo di Dio che è reso partecipe del compito sacerdotale, profetico e regale di Cristo; la<br />
seconda (nn. 13-17), partendo dalla cattolicità della chiesa, sviluppa il discorso sui criteri di appar-<br />
tenenza alla chiesa e sulla relazione che esiste con i battezzati, con i credenti, con i non credenti.<br />
Il significato della nozione di popolo di Dio è illustrato all’inizio del capitolo II, al n. 9, che per certi<br />
versi è paragonabile alla sezione iniziale del cap. I. Qui si suggerisce che il senso della Chiesa nel<br />
disegno di Dio articola 1) la possibilità universale della relazione buona e quindi salvifica con Dio<br />
(la “volontà salvifica universale”: cfr. 1Tim 2,3-6); 2) la dimensione storica e quindi sociale, perché<br />
umana, di questa salvezza; 3) l’elezione particolare di un popolo che nella sua vicenda di fede vis-<br />
suta (riconoscimento e servizio) consente a Dio di rivelarsi come colui che è per l’uomo; 4) la rea-<br />
lizzazione effettiva dell’autocomunicazione salvifica di Dio nella concreta storia di fede del popolo<br />
di Israele come preparazione e figura della rivelazione salvifica definitiva di Cristo; 5) il quale nella<br />
sua morte è all’origine di quel dono dello Spirito che realizza effettivamente la possibilità universale<br />
della salvezza (Gal 3,26) superando l’inevitabile ambiguità e violenza presenti nell’elezione di Isra-<br />
ele (ad es. Is 43,3). Per schematizzare ulteriormente possiamo suggerire che in questo testo trovia-<br />
mo articolate le tre coordinate della storia della salvezza: la singolarità di Gesù, l’universalità della<br />
fede e della salvezza e la particolarità della testimonianza cristiana effettiva.<br />
169 J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> del Vaticano II, in ID., Chiesa, ecumenismo e politica (Cinisello Balsamo – Milano:<br />
Edizioni Paoline, 1987) 22.<br />
295
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Il piano di Dio per l’umanità è universale; esso assume quindi anche la dimensione “sociale”<br />
dell’uomo: Dio non intende salvare gli uomini come singoli, indipendentemente dal legame che sus-<br />
siste tra di loro, ma vuole fare di loro un popolo. Certamente la decisione di fede è individuale e o-<br />
gnuno è libero di fronte a Dio e questo implica che Dio non limiti la comunicazione della sua sal-<br />
vezza a determinati periodi della storia oppure la condizioni all’appartenenza a un popolo. Tuttavia<br />
l’agire salvifico di Dio nella storia si concentra nella formazione di una comunità di salvezza che<br />
raggiungerà la sua pienezza nel compimento escatologico quando comprenderà tutta l’umanità.<br />
Questa volontà divina ha portato prima all’elezione di Israele e poi alla costituzione di un popolo<br />
formato da ebrei e pagani. L’elemento comune tra l’antico e il nuovo popolo di Dio è l’idea di patto:<br />
dove si stabilisce un’alleanza con Dio sorge il popolo di Dio, dove si stabilisce il nuovo patto, sorge<br />
il nuovo popolo di Dio. Poiché Cristo è il fondatore della nuova alleanza egli è anche il capo del<br />
nuovo popolo. In modo sintetico in LG 9 si descrivono le caratteristiche costitutive di questo popolo<br />
di Dio: la libertà dei figli di Dio, il comandamento dell’amore come sua legge, l’orientamento al re-<br />
gno di Dio. Il popolo di Dio rappresenta perciò nella storia un «germe validissimo di unità, di spe-<br />
ranza e di salvezza»; anche se spesso è solo un piccolo gregge, è assunto da Cristo per essere stru-<br />
mento della redenzione di tutti e ha quindi un essenziale orientamento universale.<br />
Ba) Gli aspetti emergenti da questa espressione identificativa<br />
1) Il Concilio attraverso la categoria del “Popolo di Dio” ha voluto intenzionalmente esprimere e<br />
mettere in risalto l’indole storica della Chiesa, la sua dimensione di Chiesa «pellegrina», che vive<br />
nella tensione tra ciò che essa è «già» e ciò che «non è ancora», tra le promesse di Dio che già si so-<br />
no verificate in essa e il compimento di tali promesse che avverrà solo alla fine dei tempi.<br />
«Come già Israele secondo la carne in cammino nel deserto veniva chiamato Chiesa di Dio (cfr.<br />
2Esd 13,1; Nm 20,4; Dt 23,1ss), così pure il nuovo Israele che avanza nel tempo presente alla ricerca<br />
della città futura e stabile (cfr. Eb 13,14), si chiama Chiesa di Cristo (cfr. Mt 16,18)» (LG 9).<br />
Ma un popolo che vive e agisce nella storia, ha una propria storia; ciò significa che il suo cammino<br />
è condizionato da fattori esterni; il suo sviluppo non è rettilineo, ha momenti di splendore e di suc-<br />
cesso e momenti di crisi dolorose e di eclissi. Se quindi la Chiesa è un popolo, la sua vita e il suo<br />
sviluppo sono soggetti alle vicende della storia e sono condizionati dalla forza delle cose e dalla vo-<br />
lontà degli uomini; perciò, il volto della Chiesa avrà di volta in volta l’impronta del tempo in cui vi-<br />
ve e delle civiltà con cui viene in contatto. Se la Chiesa è un popolo in cammino verso la patria ce-<br />
leste, dove troverà il suo compimento e la sua perfezione, essa è esposta alle leggi della provvisorie-<br />
tà e dell’imperfezione; anch’essa, perciò, è soggetta a perpetuo rinnovamento (LG 48; UR 6).<br />
296
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Un invito ad approfondire proprio questo aspetto ci viene da G. Colombo, secondo cui ciò che ha<br />
indotto il Concilio a presentare la Chiesa come “nuovo Popolo di Dio” fa riferimento a una serie di<br />
esigenze legate alla considerazione della Chiesa “come soggetto storico”. Ciò che in questa prospet-<br />
tiva viene evidenziato come importante non è l’unità dell’aspetto visibile della Chiesa con la realtà<br />
invisibile del mistero (verità già acquisita prima del Concilio); non è neppure la questione se la<br />
Chiesa in quanto soggetto sia da intendere come Chiesa universale o come Chiesa locale; bensì la<br />
Chiesa come soggetto capace di fare storia, in quanto possiede la coscienza di essere “Popolo di Di-<br />
o”. Non, dunque, la Chiesa in quanto visibile, neppure la Chiesa in quanto soggetto, ma la Chiesa in<br />
quanto soggetto storico sembra essere il punto di polarizzazione della <strong>ecclesiologia</strong> conciliare del<br />
Popolo di Dio 170 . Anche l’<strong>ecclesiologia</strong> della societas perfecta permetteva l’identificazione della<br />
Chiesa come soggetto “storico”. Ma tale identificazione avveniva sul presupposto che mistero e sto-<br />
ria si escludessero almeno in partenza e, pertanto, l’identificazione non aveva come punto di riferi-<br />
mento il mistero, bensì la società in quanto tale, particolarmente lo Stato come analogatum prin-<br />
ceps. La LG, invece, intende identificare il soggetto storico a partire dal mistero della Chiesa, nella<br />
presupposizione che non solo i termini non si escludono, ma che — a partire dall’Antico Testamen-<br />
to — e compiutamente in Cristo, mistero e storia sono coimplicati. Cristo è mistero in quanto sog-<br />
getto storico, ed è soggetto storico in quanto mistero 171 . Pertanto Colombo può concludere che:<br />
«la questione dell’identità della Chiesa si risolve, da un lato nel suo riferimento intrinseco a Gesù<br />
Cristo, e conseguentemente dall’altro nella rilevazione del soggetto storico che lo “realizza”. Propriamente<br />
la nozione di “mistero” intende esprimere i due aspetti, entrambi costitutivi dell’identità<br />
della Chiesa, cioè il fondamentale e fondante riferimento a Gesù Cristo e il soggetto storico “derivato”<br />
da questo riferimento. Conseguentemente, acquisito che la Chiesa “in sé” è costituita dalla<br />
sua intrinseca “derivazione” da Gesù Cristo, col quale mantiene la relazione permanente e indisgiungibile,<br />
la ricerca sulla identità della Chiesa si puntualizza e si risolve nella determinazione del<br />
soggetto storico — e quindi delle sue caratteristiche proprie — nel quale la derivazione/relazione<br />
da Gesù Cristo si realizza» 172 .<br />
Quanto affermato mette quindi in luce l’importanza del genitivo di Dio o di Cristo e dell’aggettivo<br />
nuovo nell’espressione nuovo Popolo di Dio. La Chiesa è il nuovo Popolo di Dio non solo nel senso<br />
che qui vi si trovano delle strutture che non esistevano nel popolo di Israele. Le strutture permanenti<br />
della Chiesa (gerarchia, sacramenti, carismi, ministeri, parola di Dio), pur essendo visibili e in parte<br />
170 COLOMBO, art. cit., 159-168.<br />
171 COLOMBO, art. cit., 161. Già O. Semmelroth lo aveva fatto notare: «Ciò che si deve dire sulla realtà di popolo, lo si<br />
noti bene, riguarda sempre anche il suo rapporto con Dio, anzi da esso riceve la sua realizzazione e il suo senso determinante.<br />
E, al contrario, ciò che risulta dal suo rapporto con Dio costituisce anche il segno distintivo del popolo stesso con<br />
tutte le sue caratteristiche»: ID., La Chiesa nuovo “Popolo di Dio”, in G. BARAUNA, La Chiesa del Vaticano II, 12.<br />
172 COLOMBO, art. cit., 148.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
soggette ai mutamenti storici, non sono sufficienti — considerate in sé e per sé — a designare le ca-<br />
ratteristiche del nuovo Popolo di Dio in quanto soggetto storico. La storicità della Chiesa si pone a<br />
un livello più profondo. Se, infatti, è vero che la Chiesa può considerarsi come la fase definitiva<br />
dell’Alleanza che Dio ha stretto col suo popolo, non è meno vero che la Chiesa continua ad essere<br />
pellegrina nella storia, come il popolo eletto nel deserto, alla ricerca della città eterna. Questo signi-<br />
fica che il mistero della Chiesa, che è Cristo in quanto compimento delle promesse, non esclude la<br />
storia come movimento verso l’escatologia e il relativo senso di incompiutezza.<br />
Nel medesimo solco il documento della Commissione <strong>Teologica</strong> Internazionale che commemora i<br />
venti anni della fine del Concilio (1985), pur non trascurando gli altri temi e senza prendere posi-<br />
zioni precise, dedica ampio spazio prima di ogni altro tema a quello del Popolo di Dio e alla spiega-<br />
zione della Chiesa come “soggetto storico” 173 . L’espressione “Popolo di Dio” secondo il documento<br />
«mira a sottolineare il carattere sia di “mistero” sia di “soggetto storico” che in ogni circostanza la<br />
Chiesa attualizza e realizza in modo indissociabile. Il carattere di “mistero” designa la Chiesa in<br />
quanto procede dalla Trinità, mentre quello di “soggetto storico” le si addice in quanto essa agisce<br />
nella storia e contribuisce ad orientarla. […] Cosicché il mistero costituisce il soggetto storico e il<br />
soggetto storico rivela il mistero» (n. 3.1). Più propriamente: «Ciò che caratterizza fondamentalmen-<br />
te questo popolo e che lo distingue da ogni altro popolo è il fatto di vivere ponendo in esercizio la<br />
memoria e insieme l’attesa di Gesù Cristo», dalle quali esso riceve «un’identità storica, che con la<br />
sua stessa struttura lo preserva in qualsiasi circostanza dalla dispersione e dall’anonimato» e ap-<br />
prende «ciò che gli altri popoli non sanno né mai potranno sapere sul significato dell’esistenza e del-<br />
la storia degli uomini» (n. 3.2). Ne deriva la missione come azione specifica e come fine storico<br />
proprio del Popolo di Dio: «Non si tratta di un’azione tecnica, artistica o sociale, quanto piuttosto di<br />
un confronto dell’operare umano in ogni sua forma, con la speranza cristiana, o, per conservare il<br />
nostro vocabolario, con le esigenze della memoria e dell’attesa di Gesù Cristo» (n. 3.4). «Il nuovo<br />
Popolo di Dio non si contraddistingue quindi, per un modo di esistenza o una missione che dovreb-<br />
be sostituirsi a un’esistenza e a progetti umani già preesistenti. Al contrario, la memoria e l’attesa di<br />
Gesù Cristo convertiranno o trasformeranno dall’interno il modo di esistere e i progetti già vissuti in<br />
un gruppo di uomini. Si potrebbe affermare al riguardo che la memoria e l’attesa di Gesù Cristo, di<br />
cui vive il nuovo popolo di Dio, costituiscono come l’elemento “formale” (nel senso scolastico del<br />
termine) che struttura l’esistenza concreta degli uomini. Questa, che è come la “materia” (sempre in<br />
173 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di <strong>ecclesiologia</strong>, cap. 3; EV IX, §§ 1688-1698.<br />
298
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
senso scolastico), evidentemente responsabile e libera, riceve la tale o tal altra determinazione per<br />
costituire un modo di vita “secondo lo Spirito santo”. Tali modi di vita non esistono a priori e non<br />
possono essere determinati in anticipo; si manifestano in una multiforme varietà e sono perciò sem-<br />
pre imprevedibili, anche se si possono riferire all’azione costante di un unico Spirito santo» (n. 3.4).<br />
Qui appare la caratteristica della Chiesa che è soggetto storico, ma con caratteristiche proprie, che la<br />
distinguono dagli altri soggetti storici, e che derivano direttamente dal mistero che la costituisce.<br />
2) Un secondo aspetto dell’espressione «popolo di Dio» è che esso manifesta il mistero della predi-<br />
lezione di Dio per i poveri. Intenzionalmente nell’AT persone sofferenti e bisognose vengono indi-<br />
cate da Dio come suoi parenti e famigliari, nei confronti di altri Israeliti che non si trovano nel biso-<br />
gno, che anzi hanno causato forse la situazione di miseria dei loro concittadini. Uno di questi passi<br />
antichi potrebbe essere la proibizione della riscossione d’interesse, nel cosiddetto libro della allean-<br />
za. Esso inizia: «Quando presti denaro al mio ‘am (= al mio congiunto), al povero che è presso di te,<br />
allora…» (Es 22,24). Qui dunque, in una legge, si assicura protezione a un povero, in quanto fami-<br />
gliare di Dio, contro un ricco. Quest’uso della locuzione «famiglia di Jhwh» continua quindi nei li-<br />
bri profetici, nei quali si parla della «famiglia di Jhwh» quando si tratta di proteggere e difendere i<br />
diritti di Israeliti nei confronti di sacerdoti, funzionari, legislatori, re, e persino di falsi profeti. Basti<br />
un solo esempio, un oracolo di Isaia contro i funzionari in Giuda: «O mia famiglia, le tue guide ti<br />
traviano, ti allontanano dal retto cammino. Jhwh è pronto a tenere un giudizio; si è alzato per giudi-<br />
care le nazioni. Jhwh inizia il processo contro gli anziani della sua famiglia e contro i suoi principi.<br />
Avete devastato la vigna, le vostre case sono piene di ciò che avete rubato ai poveri. Come osate<br />
calpestare la mia famiglia? Voi malmenate il volto dei poveri» (Is 3,12-15). Il giudice dei popoli si<br />
volge sì contro il proprio popolo; ma più precisamente contro le cerchie in esso dominanti, davanti<br />
alle quali egli difende il popolo vero e proprio come sua famiglia. È proprio in questo testo che il<br />
termine ‘am viene utilizzato con le sue diverse possibilità di significato. Evidentemente, anche nella<br />
maggior parte dei passi profetici in questione è tutto quanto Israele a essere chiamato «famiglia di<br />
Jhwh»; corrisponde infatti alla volontà di Dio che Israele abbia strutture ed istituzioni, e che in esso<br />
ci sia un’autorità. L’espressione «famiglia di Jhwh» non intende contrapporsi a Israele in quanto<br />
struttura, ma più propriamente si riferisce al mistero della propensione divina verso i sofferenti, i<br />
poveri e gli oppressi. «Famiglia di Jhwh», sia nella sua origine che attraverso quasi tutto l’AT, non è<br />
un concetto ecclesiologico, ma soteriologico. La realtà da essa intesa viene ripresa nel NT nel modo<br />
più chiaro là dove Gesù si preoccupa dei poveri, degli ammalati, degli esclusi, e raccoglie attorno a<br />
sé un Israele nuovo. È come una traduzione dell’antica espressione in un linguaggio più comprensi-<br />
bile il fatto che Gesù parli a costoro del Padre dei cieli, di cui essi non devono diventare figli, per-<br />
299
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
ché lo sono sempre stati. Da qui deriva anche il carattere popolare e antielitario della Chiesa 174 .<br />
3) In terzo luogo, l’immagine di popolo mette in rilievo la dimensione comunitaria della salvezza.<br />
L’individuo nasce in un popolo, ne eredita la lingua e le tradizioni e ne porta i caratteri culturali e<br />
spirituali in modo indelebile. Perciò affermare che la Chiesa è il popolo di Dio equivale a dire che il<br />
cristiano si salva nella Chiesa e attraverso essa; egli, cioè, nasce alla vita della grazia nella Chiesa,<br />
che col battesimo lo genera e si fa garante della sua educazione; cresce e si sviluppa spiritualmente<br />
nutrendosi dei sacramenti e delle ricchezze spirituali della Chiesa; nella morte è da essa accompa-<br />
gnato e presentato a Dio. Così, la Chiesa costituisce per il cristiano l’ambito della sua vita spirituale.<br />
4) Infine, l’immagine di popolo applicata alla Chiesa fa emergere la sua organicità. Un popolo è un<br />
tutto organico, in cui nello stesso tempo c’è unità e diversità. Il popolo, infatti, è uno nel senso che<br />
tutti i cittadini sono eguali in dignità, hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, ma è nello stesso<br />
tempo diverso nel senso che non tutti fanno le stesse cose, hanno le stesse mansioni e collaborano<br />
alla stessa maniera al bene comune. Se la Chiesa è un popolo, tutti i cristiani saranno eguali in di-<br />
gnità, diritti e doveri; sotto questo aspetto, la Chiesa sarà una comunità fraterna, meglio ancora, una<br />
“comunione”. Nello stesso tempo, però, dovrà esserci nella Chiesa una diversità, sia perché tutti non<br />
hanno la medesima funzione, sia perché alcuni saranno investiti di autorità sacra (= di origine sa-<br />
cramentale) sugli altri; sotto questo aspetto la Chiesa sarà una comunità gerarchicamente strutturata.<br />
È chiaro però che il Concilio ha inteso applicare l’immagine di popolo alla Chiesa, nel senso che il<br />
termine “popolo” ha nella Scrittura, non nel senso che esso ha assunto nelle costituzioni moderne,<br />
profondamente segnate dalla concezione “democratica”. Per noi, infatti, popolo è sinonimo di so-<br />
vranità popolare, in quanto la sovranità risiede in esso ed è da esso delegata agli organi di governo.<br />
Noi, però, non possiamo applicare il concetto moderno di “popolo” alla Chiesa. Infatti, l’autorità<br />
nella Chiesa non risiede nel “popolo”, e non emana dalla “base”, ma risiede in Cristo ed emana da<br />
lui; è esercitata per il “popolo” e a suo servizio, ma non può essere controllata dal “popolo” 175 .<br />
174 In tal senso osserva Dianich: «Una comunità di soli adulti non può essere detta popolo, né si può presentare sotto<br />
forma di popolo un’aggregazione elitaria, alla quale si aderisce, solo per una decisione di fede adulta, perfettamente libera,<br />
personale e matura. In una chiesa siffatta non troverebbe posto non solo il bambino, ma neanche la personalità debole<br />
o immatura, l’handicappato mentale, il credente dubbioso o scarsamente impegnato. Ne potrebbe essere espulso<br />
non solo l’eretico, ma anche il peccatore, o semplicemente colui che non condivide il particolare stile di vita della sua<br />
comunità. […] Solo sottolineando l’assoluta nudità del battesimo e della più semplice forma di professione di fede […]<br />
come condizioni essenziali di appartenenza, si apre a porta alla possibile esistenza della chiesa in forma di popolo. E<br />
così si raggiunge ancora quell’indicazione semantica che vede in popolo un termine dalla forte valenza antielitaria»: S.<br />
DIANICH, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta (Cinisello Balsamo – Milano: Edizioni Paoline, 1993)<br />
246-247.<br />
175 J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> del Vaticano II, art. cit., 25-32, lamenta l’enfasi post-conciliare apposta<br />
all’espressione “popolo di Dio”, che sarebbe viziata da due tendenze fondamentali: il riduzionismo che mantiene<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Bb) Il popolo di Dio è sacerdotale, profetico, cattolico e missionario<br />
Passando a trattare dei caratteri del popolo di Dio, il Concilio ne ricorda quattro: il carattere sacer-<br />
dotale, il carattere profetico, il carattere cattolico, il carattere missionario.<br />
1) Il nuovo popolo di Dio è un popolo sacerdotale. LG 10 illustra il significato del sacerdozio co-<br />
mune dei battezzati riferendosi ai testi biblici (Ap 1,6; 5,9-10; 1Pt 2,4-10; Rm 12,1) che descrivono<br />
la condizione dei battezzati servendosi di categorie sacerdotali. Questi sono i compiti “sacerdotali”<br />
del popolo di Dio: preghiera, lode di Dio (At 2,42-47), la vita dei cristiani come «sacrificio vivente,<br />
santo e gradito a Dio» (Rm 12,1), la testimonianza resa a Cristo di fronte a coloro che chiedono con-<br />
to della nostra fede (1Pt 3,15). Il NT non utilizza la categoria di sacerdozio per descrivere i ministeri<br />
ecclesiali, ma solo come categoria soteriologica per indicare la nuova situazione salvifica dei cre-<br />
denti in Cristo (comprensibile quasi solo in un contesto giudaico) e per caratterizzare la vita dei cri-<br />
stiani come nuova attività sacerdotale. Paolo in Rm 12,1ss. presenta la vita e l’annuncio del vangelo<br />
dei cristiani come la loro logiké latreia (culto, adorazione di Dio “spirituale”).<br />
L’affermazione che tutta la chiesa partecipa del sacerdozio di Cristo è una novità rilevante<br />
nell’insegnamento magisteriale. Il Concilio ha chiuso su questo punto l’era della Controriforma. In-<br />
fatti, a motivo della negazione del sacerdozio ministeriale, la teologia cattolica, nella controversia<br />
con i protestanti, per meglio difendere il sacerdozio ministeriale aveva lasciato in ombra il sacerdo-<br />
zio comune dei fedeli, esaltato invece dai protestanti come unica forma di sacerdozio cristiano. Il<br />
Concilio di Trento (sess. XXIII, cap. IV) aveva affermato che «sbagliano coloro che affermano che<br />
tutti i cristiani, senza distinzione, sarebbero sacerdoti del NT e che disporrebbero tutti dello stesso<br />
potere spirituale» (DzH 1767). Tale affermazione si comprende nel contesto della polemica contro<br />
le posizioni della Riforma. Era avvenuto così, che nella coscienza del comune del popolo cristiano il<br />
sacerdozio dei fedeli era quasi scomparso o era interpretato all’interno di una concezione che consi-<br />
derava quello ministeriale come l’unico vero sacerdozio; se non di diritto, almeno di fatto. Il supe-<br />
ramento della polemica ha permesso anche alla tradizione cattolica di rivalutare questa dottrina che<br />
ha il suo fondamento nel NT e al Concilio di riequilibrare la situazione. Anche se in realtà, già Pio<br />
XI nell’enciclica Miserentissimus Redemptor (1928) e Pio XII, prima nell’enciclica Mediator Dei<br />
(1947) e poi nell’allocuzione Magnificate Dominum (1954), avevano parlato di questo sacerdozio,<br />
seppur tra virgolette. Indubbiamente, però, l’importanza attribuita dal Concilio al sacerdozio comu-<br />
dell’<strong>ecclesiologia</strong> conciliare solo questa categoria; la metamorfosi e l’ampliamento del suo significato nel senso di una<br />
sociologizzazione dell’idea di Chiesa. “Popolo” apparirebbe ormai come un concetto da elaborare in linea socio-politica<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
ne, da una parte, ha liberato la Chiesa dal clericalismo, cioè dall’assorbimento della vita e<br />
dell’attività cristiana nel sacerdozio ministeriale; dall’altra, ha dato impulso a una spiritualità laicale<br />
fondata sul sacerdozio comune. In particolare, questa dottrina ha portato alla nascita dei ministeri<br />
laicali, quali il lettorato e l’accolitato, “istituiti” dalla Chiesa col motu proprio di Paolo VI Ministe-<br />
ria quaedam (15 agosto 1972); ha esteso ai laici la pratica — un tempo riservata al clero e ai religio-<br />
si — della “Liturgia delle Ore”; ha dato grande importanza alla “preghiera dei fedeli” nella celebra-<br />
zione eucaristica, «perché nella preghiera universale, o preghiera dei fedeli, il popolo, esercitando la<br />
sua funzione sacerdotale, prega per tutti gli uomini» (Institutio Generalis Missalis Romani, n. 45).<br />
In LG 11 si precisa il modo in cui i membri del popolo di Dio esercitano il proprio sacerdozio:<br />
«l’indole sacra e la struttura sacerdotale della comunità sacerdotale vengono attuate per mezzo dei<br />
sacramenti e delle virtù». Si indicano così i due ambiti fondamentali, i sacramenti (intesi qui come<br />
atti di culto) e la vita quotidiana, in cui il sacerdozio comune trova la sua realizzazione.<br />
In LG 10 però, mentre si riconosce la partecipazione di tutti i battezzati al sacerdozio di Cristo, si<br />
ribadisce anche che esiste una differenza tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio gerar-<br />
chico. Il sacerdozio comune è distinto rispetto al ministero gerarchico «essentia et non gradu tan-<br />
tum». Ciò significa che il sacerdozio ministeriale non può essere considerato di rango più elevato<br />
del sacerdozio comune, è piuttosto una realtà diversa, che si fonda sul sacerdozio comune e ha un<br />
riferimento ad esso perché entrambi sono partecipazione dell’unico sacerdozio di Cristo. Congar ri-<br />
tiene con molti altri interpreti del Vaticano II che la formula utilizzata in LG 10 non sia del tutto<br />
soddisfacente; essa però può essere interpretata correttamente: «Se il sacerdozio ministeriale diffe-<br />
risse da quello del battezzato per grado, farebbe di questo ministro un “supercristiano”. Ma il sacer-<br />
dozio ministeriale si situa non nella linea dell’ontologia costitutiva del cristiano, ma in quella del<br />
ministero. È una partecipazione funzionale, che comporta il suo fondamento ontologico, ma di una<br />
ontologia di funzione o di ministero» 176 .<br />
Il sacerdozio ministeriale o gerarchico ha dunque una funzione specifica all’interno del popolo sa-<br />
cerdotale; il ministro ordinato «con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacer-<br />
dotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio in nome di tutto il popo-<br />
lo»; sono dunque l’annuncio e l’amministrazione dei sacramenti che costituiscono l’essenza del mi-<br />
nistero sacerdotale. Il testo prosegue, però, sottolineando il ruolo attivo (e non solo recettivo) dei fe-<br />
e che veicola un’idea di chiesa antigerarchica e antisacrale.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
deli nella celebrazione eucaristica nella quale essi esercitano il loro sacerdozio: «i fedeli in virtù del<br />
regale loro sacerdozio, concorrono all’oblazione dell’eucaristia».<br />
2) Il secondo carattere del popolo di Dio, messo in evidenza dal Concilio, è quello profetico. Il po-<br />
polo di Dio è partecipe del compito profetico di Cristo e, in questo contesto, la LG parla del senso<br />
della fede e del consenso dei fedeli 177 . Nonostante l’importanza del tema del sensus fidei, nei testi<br />
conciliari esso non viene definito. L’unico accenno a una definizione si trova nella relazione della<br />
Commissione Dottrinale che, commentando LG 12, afferma: il senso della fede «è come una facoltà<br />
di tutta la chiesa, grazie alla quale essa nella sua fede riconosce la rivelazione tramandata, distin-<br />
guendo tra il vero e il falso nelle questioni di fede, e contemporaneamente penetra in essa più pro-<br />
fondamente e più pienamente l’applica nella vita» (AS III/1, 199). Il senso della fede è proprio dei<br />
singoli fedeli (benché in misura diversa, a seconda dei doni di grazia ricevuti e dell’accoglienza più<br />
o meno disponibile di tali doni) e del popolo di Dio nel suo insieme; è su questo secondo aspetto<br />
che LG 12 concentra la sua attenzione, mettendolo in relazione con l’infallibilità della chiesa:<br />
«La totalità dei fedeli, che hanno ricevuto l’unzione dal Santo (cfr. 1Gv 2,20.27) non può sbagliarsi<br />
nel credere e manifesta questa sua proprietà particolare mediante il senso soprannaturale della<br />
fede di tutto il popolo, quando dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici esprime l’universale suo<br />
consenso in materia di fede e di morale».<br />
La chiesa dunque, come totalità dei fedeli, che include ovviamente anche i pastori, è infallibile nel<br />
credere; l’organo di questa sua proprietà caratteristica, fondato sull’unzione dello Spirito Santo, è il<br />
soprannaturale senso della fede di tutto il popolo di Dio. La manifestazione di questa caratteristica<br />
si ha nel consenso dei fedeli.<br />
L’espressione infallibilitas in credendo che ricorre, anche se non alla lettera (in credendo falli ne-<br />
quit) in LG 12, probabilmente ha richiamato in molti padri l’idea assai diffusa al Vaticano I che il<br />
senso della fede e il consenso dei fedeli si riferiscano all’accoglienza della dottrina proclamata dal<br />
magistero, al quale soltanto spetta l’infallibilità attiva (infallibilitas in docendo). A ben vedere però<br />
LG non ripropone questo schema che presuppone una distinzione rigida tra chiesa docente e chiesa<br />
discente, collocando la prima in posizione attiva e la seconda in posizione solo passiva. Lo dimostra<br />
l’evoluzione significativa avvenuta nel corso della redazione del testo, nei tre schemi della LG.<br />
176 Y. CONGAR, “Quelques problèmes touchant les ministères”, in NRTh 93 (1971) 790; Cfr. R. TONONI, “Differenza di<br />
grado o di essenza? Un testo problematico del concilio Ecumenico Vaticano II”, in Gli stati di vita del cristiano, Quaderni<br />
teologici del Seminario di Brescia 5 (Brescia: Morcelliana, 1995) 181-211.<br />
177 Cfr. D. VITALI, Sensus fidelium. Una funzione ecclesiale di intelligenza della fede (Brescia: Morcelliana, 1993).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
1. Nel primo schema si affermava che il senso soprannaturale della fede fa sì che i fedeli (qui ancora distinti<br />
dai pastori) «accolgano con animo obbediente la dottrina proposta [dal magistero], rettamente la compren-<br />
dano e più profondamente la scrutino». Questa concezione puramente “passiva” e “recettiva” del senso della<br />
fede di fronte al magistero suscita però delle critiche che inducono a introdurre delle modificazioni.<br />
2. Nel secondo schema si dice: «Lo stesso senso della fede, suscitato dallo Spirito, sotto la sua assistenza,<br />
aderisce alla Parola di Dio scritta o trasmessa ed è guidato e sorretto dal magistero, a cui i credenti rispon-<br />
dono attivamente percependo più in profondità la verità della fede ed applicandola più fedelmente alla vita».<br />
3. Il testo definitivo, senza negare la relazione con il magistero (si veda l’espressione «sub ductu magiste-<br />
rii») accentua ancora di più il riferimento diretto alla Parola di Dio e il carattere attivo del senso della fede.<br />
In virtù di questo senso della fede infatti il popolo di Dio compie queste azioni:<br />
a) accoglie non la parola degli uomini, ma, qual è in realtà, la parola di Dio;<br />
b) aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi;<br />
c) con retto giudizio penetra in essa più a fondo;<br />
d) più pienamente l’applica alla vita.<br />
Da queste affermazioni risulta che il senso della fede, cui si attribuisce una funzione conoscitiva, di<br />
giudizio e operativa, non è suscitato dallo Spirito semplicemente perché il popolo di Dio presti il<br />
suo ossequio all’insegnamento del magistero; esso ha una certa “connaturalità” con la verità rivelata<br />
e trasmessa per cui è in grado di distinguere il vero dal falso nelle questioni di fede, di penetrare nel<br />
deposito della rivelazione comprendendolo in modo più approfondito e di applicarlo alla vita. Il<br />
consenso dei fedeli che manifesta il senso della fede di conseguenza non potrà essere interpretato<br />
come pura recettività nei confronti delle affermazioni magisteriali e la sua infallibilità non coincide<br />
con l’accoglienza delle affermazioni infallibili del magistero. Questa posizione ci sembra suggerita<br />
anche da DV 8, in cui si afferma che la tradizione apostolica progredisce nella Chiesa in tre modi:<br />
«Questa tradizione, che trae origine dagli apostoli, progredisce nella chiesa sotto l’assistenza dello<br />
Spirito Santo; cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia<br />
con la contemplazione e lo studio dei credenti, che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia<br />
con la profonda intelligenza delle cose spirituali di cui fanno esperienza (ex intima spiritualium<br />
rerum quam experiuntur intelligentia), sia con la predicazione di coloro che, con la successione<br />
episcopale, hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. La chiesa, in altre parole, nel corso dei secoli<br />
tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento<br />
le parole di Dio».<br />
Nonostante alcune difficoltà di traduzione 178 , l’«intima spiritualium rerum quam experiuntur intel-<br />
ligentia» corrisponde al sensus fidelium grazie a cui, si dice, cresce la stessa comprensione della tra-<br />
178 Cfr. D. VITALI, Sensus fidelium, op. cit., 263-266. La traduzione letterale suonerebbe: la comprensione cresce «mediante<br />
l’intelligenza intima delle cose spirituali, la quale [intelligenza] (i credenti) sperimentano».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
dizione apostolica — naturalmente non senza l’apporto specifico della teologia e del magistero.<br />
Qual è, allora, il rapporto tra il senso della fede/consenso dei fedeli e l’autorità del magistero? Circa<br />
il senso della fede il primo schema definisce il rapporto con la formula authentico magisterio gu-<br />
bernatus; il secondo schema invece dice a Magisterio ducitur et sustentatur. Il testo finale, nono-<br />
stante alcuni interventi avessero proposto di accentuare la dipendenza del senso della fede dal magi-<br />
stero, si esprime in termini più sfumati: non è infatti il senso della fede (che è suscitato dallo Spiri-<br />
to) a dipendere direttamente dal magistero, ma piuttosto il popolo di Dio che «sotto la guida del sa-<br />
cro magistero, al quale fedelmente si conforma […] aderisce indefettibilmente alla fede», appunto in<br />
virtù di quel “senso della fede”.<br />
Riguardo al modo in cui il consenso dei fedeli si costituisce, si possono rilevare due tendenze oppo-<br />
ste emerse nel dibattito conciliare.<br />
1. La prima è quella espressa nel primo schema: il senso della fede del popolo cristiano «in ultima analisi è<br />
suscitato dallo Spirito Santo che, mentre assiste il magistero nel proporre la dottrina cattolica, lui stesso ope-<br />
ra nei fedeli perché accolgano con animo obbediente la dottrina proposta, rettamente la comprendano e più<br />
profondamente la scrutino…». Dietro questa prospettiva sta l’idea che il valore della chiesa discente dipende<br />
completamente dalla chiesa docente. Il senso della fede e il consenso dei fedeli si identificano quindi con<br />
l’accoglienza obbediente dell’insegnamento magisteriale. In questa linea si distingue anche una infallibilità<br />
attiva che è propria del magistero e una infallibilità passiva che è propria della chiesa discente; la infallibili-<br />
tà del magistero (in docendo) è causa dell’infallibilità del popolo di Dio (in credendo). È la tesi sostenuta<br />
dal card. Ruffini, arcivescovo di Palermo (cfr. AS II/2, 629).<br />
2. Altri padri invece sottolineavano il ruolo attivo del senso della fede del popolo di Dio nei confronti del<br />
magistero. In questa prospettiva il senso della fede non si riferisce solo all’insegnamento del magistero e il<br />
consenso dei fedeli non è soltanto l’acconsentire alle affermazioni magisteriali, ma è espressione di un sen-<br />
tire comune dei fedeli (pastori compresi), che può illuminare lo stesso magistero nell’annuncio della fede.<br />
Contro la tesi di Ruffini un intervento molto documentato di M. De Keyzer ricorda che i più grandi<br />
teologi postridentini (M. Cano, R. Bellarmino, G. de Valencia, F. Suarez, J. B. Gonet, Ch.-R. Bil-<br />
luart) procedono dall’infallibilità del popolo dei fedeli per giungere a quella della gerarchia, e non<br />
viceversa (Cfr. AS II/3, 441-443).<br />
Di fronte a queste diverse opinioni, tuttavia, LG 12 sembra non prendere posizione in maniera deci-<br />
sa: si limita ad affermare l’infallibilità del popolo di Dio, che è legata al sensus fidei e che si espri-<br />
me nel consenso universale, senza precisare la relazione tra infallibilità del popolo di Dio e infallibi-<br />
lità del magistero, accontentandosi dell’espressione abbastanza generica sub ductu magisterii.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Il problema è il riflesso di una questione ecclesiologica più vasta, quella cioè del rapporto tra chiesa<br />
e gerarchia e dell’attribuzione all’una o all’altra della precedenza: la chiesa dipende dalla gerarchia<br />
nel senso che Cristo ha istituito semplicemente la gerarchia (chiamando i Dodici) perché questa des-<br />
se origine alla chiesa (come sua causa efficiente), oppure la chiesa è voluta direttamente da Cristo il<br />
quale poi fa sorgere al suo interno la gerarchia, a servizio del popolo di Dio? Nonostante qualche<br />
incertezza, la struttura complessiva della LG, con la collocazione del capitolo sul popolo di Dio<br />
prima di quello sulla gerarchia, non lascia dubbi circa la scelta operata tra questi due modelli eccle-<br />
siologici. Alla luce di questa impostazione ecclesiologica generale, si può precisare anche il rappor-<br />
to tra il senso della fede/consenso dei fedeli, da una parte, e il magistero dall’altra. Il senso della fe-<br />
de è infatti un elemento che definisce la natura del popolo di Dio (appunto come popolo profetico)<br />
e, benché abbia un riferimento essenziale alla parola di Dio scritta e trasmessa e sia sottomesso alla<br />
guida del magistero della chiesa, non costituisce i fedeli semplicemente come destinatari puramente<br />
recettivi e totalmente passivi della testimonianza che il magistero rende alla parola di Dio.<br />
Si può affermare sulla base della precedenza riconosciuta al popolo di Dio la dipendenza del-<br />
l’infallibilità del magistero dall’infallibilità della chiesa? In caso di risposta positiva, come è conci-<br />
liabile questo con l’affermazione del Vaticano I secondo cui le definizioni del sommo pontefice so-<br />
no irreformabiles ex sese non autem ex consensu ecclesiae (DzH 3074)?<br />
In LG 25, nel contesto del discorso sul compito magisteriale del collegio episcopale e del papa si ri-<br />
prende la definizione dell’infallibilità del Vaticano I: «Perciò le sue [del Romano Pontefice] defini-<br />
zioni giustamente sono dette irreformabili per se stesse e non per il consenso della Chiesa, perché<br />
esse sono pronunciate con l’assistenza dello Spirito Santo, promessagli nel beato Pietro, per cui esse<br />
non abbisognano di alcuna approvazione di altri né ammettono appello alcuno ad altro giudizio».<br />
È interessante la spiegazione che nella relazione della Commissione Dottrinale è data del testo pro-<br />
posto: si dice che in esso viene presentata anzitutto la “ragione formale” dell’infallibilità di queste<br />
definizioni, cioè l’assistenza dello Spirito Santo, per indicare successivamente le due conseguenze<br />
che ne derivano: il fatto che non necessitano dell’approvazione successiva di altri e che non può es-<br />
serci appello contro di esse a un’altra istanza. Il fatto che si mantenga il termine irreformabiles e<br />
non si dica infallibiles indica che il senso dell’espressione deve essere cercato sul piano giuridico<br />
(cfr. G. Philips, op. cit., 288); ciò che si vuole escludere non è il rapporto tra le definizioni pontificie<br />
e il consenso della chiesa o consenso dei fedeli, bensì la necessità di una loro approvazione succes-<br />
siva. Per questo alcuni Padri suggerirono di correggere la formula e di dire et non ex consensu po-<br />
steriori (vel ulteriori) Ecclesiae; la proposta fu però respinta perché si tratta di una citazione del Va-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
ticano I. Se il senso della formula è giuridico, allora non è sufficiente, anzi non è opportuno, riferirsi<br />
ad essa per precisare dal punto di vista teologico il rapporto tra consenso dei fedeli e magistero.<br />
Questo rapporto si comprende meglio alla luce dell’affermazione che si legge in LG 25 secondo cui<br />
il sommo pontefice «gode di quell’infallibilità di cui Cristo ha voluto provvedere la sua chiesa».<br />
Benché si escluda una derivazione dell’infallibilità del papa (e di quella del collegio episcopale) dal<br />
popolo di Dio, intesa come una specie di delega proveniente dalla base, l’infallibilità del magistero<br />
non è una infallibilità separata dal popolo di Dio. Propriamente parlando è quindi l’unica infallibili-<br />
tà della chiesa che trova espressione nel consenso dei fedeli, e nell’esercizio dell’autorità magiste-<br />
riale (sia in forma personale da parte del papa, sia da parte del collegio). Questo significa che il ma-<br />
gistero non può definire che quella verità che è già presente nella fede della chiesa e di conseguenza<br />
che deve avvalersi dei «mezzi adeguati» al fine di poterla conoscere.<br />
In entrambi i passaggi si sottolinea con molta chiarezza che i membri del popolo di Dio hanno anzi-<br />
tutto una uguale dignità fondata su quello che definisce la loro identità cristiana, la quale deve tra-<br />
dursi anche operativamente (sacerdozio comune, senso della fede). Nel popolo di Dio poi il ministe-<br />
ro ordinato assume un compito specifico di servizio al sacerdozio universale dei fedeli e di testimo-<br />
nianza autorevole della tradizione apostolica, senza che questo collochi i membri della gerarchia al<br />
di fuori del popolo di Dio (essi rimangono parte della comunità ecclesiale, anche quando per il loro<br />
ministero si pongono di fronte ad essa con l’autorità di Gesù Cristo).<br />
Le considerazioni fatte a proposito di LG 10-12 lasciano intravedere una caratteristica essenziale del<br />
popolo di Dio, cioè il suo carattere strutturato, con la relazione fondamentale tra popolo di Dio e<br />
ministero ordinato. La tensione strutturale tra l’elemento comunitario (uguaglianza di tutti i fedeli) e<br />
l’elemento gerarchico non è un elemento estraneo rispetto alla comprensione trinitaria della chiesa<br />
che la LG assume come punto di partenza. Al contrario questa tensione strutturale è riconducibile<br />
alla tensione tra dimensione pneumatologica e cristologica della chiesa.<br />
C’è anzitutto un’uguaglianza di tutti i credenti, donata dallo Spirito Santo. Quest’uguaglianza di tut-<br />
ti nella fede operata dallo Spirito costituisce il fondamento di ogni ordinamento e struttura ecclesia-<br />
le. Il Vaticano II ha infranto la “dimenticanza dello Spirito” della chiesa occidentale sempre rimpro-<br />
verata dalle chiese orientali e ha posto intenzionalmente prima della riflessione sulla struttura gerar-<br />
chica della chiesa la fondamentale uguaglianza dei membri del popolo di Dio che deve determinare<br />
tutte le possibili differenziazioni all’interno di questa comunanza (LG 9-17). Questo non rappresen-<br />
ta affatto un cedimento alla moda del nostro tempo orientato in senso democratico, ma un ritorno<br />
alle autentiche fonti bibliche dell’autocomprensione della chiesa. In tal modo l’idea della chiesa<br />
come societas inaequalis è fondamentalmente superata. La comune dignità di membri del popolo di<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Dio precede tutte le distinzioni di ministeri, carismi e servizi. Perciò LG 32 può dire:<br />
«Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori<br />
per gli altri, tuttavia vige tra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a<br />
tutti i fedeli per l’edificazione del corpo di Cristo».<br />
Questa uguaglianza trova la sua espressione sul piano delle strutture istituzionali nella maggiore<br />
importanza che l’elemento sinodale ha incominciato di nuovo ad avere a tutti i livelli della chiesa<br />
(ad es. nella forma dei consigli pastorali parrocchiali e diocesani, dei consigli presbiterali, dei sinodi<br />
diocesani, dei sinodi episcopali ecc.). Il fatto che dopo secoli di processi decisionali avvenuti in mo-<br />
do puramente “gerarchico” questi tentativi presentino ancora dei limiti non deve meravigliare. Le<br />
difficoltà nel funzionamento di questi strumenti della comunione suscitano in alcuni cristiani la no-<br />
stalgia per i tempi andati, quando l’attribuzione alla gerarchia di una responsabilità esclusiva garan-<br />
tiva maggiore efficacia nell’azione. La vita ecclesiale strutturata in questo modo era così priva di<br />
complicazioni e pacifica (questa nostalgia si incontra spesso anche nei fedeli).<br />
Il prezzo pagato era però troppo alto: una comunità con questo atteggiamento passivo incoraggiava<br />
in molti membri una grande mancanza di autonomia nella fede e oggi non è più all’altezza delle sfi-<br />
de della attuale situazione culturale che esige credenti sempre più consapevoli e responsabili 179 .<br />
D’altra parte però non v’è alcun dubbio che lo stesso Spirito Santo che opera questa fondamentale<br />
uguaglianza dei fedeli, realizza in essi anche differenziazione e pluralità. Lo Spirito si manifesta<br />
quindi proprio nei molteplici carismi che dona ai membri del popolo di Dio (LG 12). Tra i diversi<br />
carismi il medesimo Spirito opera un’ulteriore distinzione che il Concilio esprime con la formula<br />
179 Giovanni Paolo II nella Tertio Millennio Adveniente (10 novembre 1994) ha sollecitato tutti i fedeli a ritornare sul<br />
tema conciliare della vocazione di tutti i membri del popolo di Dio, la fede dei quali dovrebbe essere approfondita in<br />
vista di una coscienza più matura della loro responsabilità per la Chiesa e la sua missione: suscitare in tutti i fedeli il desiderio<br />
di santità e una disponibilità all’azione dello Spirito per renderli pronti alla testimonianza (TMA, 18, 42). La riscoperta<br />
dell’azione dello Spirito nei diversi carismi, compiti e servizi, è un frutto del Vaticano II, che dovrebbe emergere<br />
più chiaramente nella vita della Chiesa. A prima vista questo potrebbe sembrare un approccio meramente pastorale,<br />
eppure si tratta, in realtà, della questione centrale dell’<strong>ecclesiologia</strong> di comunione, spesso nascosta dietro la discussione<br />
sulle strutture, ossia la questione riguardante i soggetti della comunione. Se già per la democrazia vale il principio che<br />
può funzionare soltanto quando i cittadini assumono la propria responsabilità democratica, tanto più nella Chiesa questo<br />
vale quando essa vuole realizzarsi come comunione, poiché essa può diventare una reale communio fidelium soltanto<br />
quando il maggior numero possibile dei suoi membri assume la propria vocazione cristiana, il carisma personale, diventando,<br />
così, soggetti responsabili nella Chiesa e condividendone la missione. Questa assunzione esige molto più della<br />
responsabilità democratica e dell’attività in ambiente politico. Essere un soggetto responsabile nella Chiesa richiede la<br />
correlativa disponibilità, dedizione e competenza, alla quale appartiene il conoscere e vivere la fede, l’ascoltare la voce<br />
dello Spirito e l’amare la Chiesa in ciò che la rende “mistero”. Se non si vive la comunione con Dio e quella con gli altri<br />
membri della Chiesa, nessuno può essere soggetto della communio fidelium. La mera pretesa alla partecipazione senza<br />
la correlativa competenza o la disponibilità ad acquisire tale competenza, non opera communio alcuna, bensì frustrazione<br />
e viene giustamente criticata come democraticismo. Il discorso sul popolo di Dio in quanto communio fidelium qualifica<br />
i suoi appartenenti come credenti che, dopo aver coscientemente accolto il loro battesimo, cercano anche di viverlo.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
«doni gerarchici e carismatici» (LG 4). Con il primo termine si intendono i “servizi” o “ministeri”<br />
che sono conferiti attraverso un atto sacramentale e che sono in modo particolare a servizio del-<br />
l’unità del popolo di Dio: i ministeri cioè del vescovo, del presbitero e del diacono. Coloro che eser-<br />
citano questo ministero sono al tempo stesso nella comunità e di fronte ad essa con l’autorità che<br />
ricevono da Gesù Cristo. Nel rapporto che essi stabiliscono con la loro comunità trova espressione<br />
la dipendenza di quest’ultima dal dono di grazia che continuamente essa riceve da Cristo (essa non<br />
può darsi la parola e i sacramenti, ma li riceve da Cristo mediante il ministro ordinato). Il discorso<br />
potrebbe continuare con l’illustrazione del significato che il ministero ordinato assume nella struttu-<br />
ra della chiesa, ma questo esigerebbe di sviluppare una teologia del ministero ordinato.<br />
Una delle novità del post-concilio è stata inoltre la scoperta del carattere carismatico del popolo di<br />
Dio, in virtù di quanto il Concilio aveva affermato a tale proposito:<br />
«Ma lo Spirito Santo non si limita a santificare il popolo di Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri,<br />
a guidarlo e ad adornarlo di virtù; ma distribuisce pure tra i fedeli di ogni ordine le sue grazie<br />
speciali, “dispensando a ciascuno i propri doni come piace a lui” (1Cor 12,11). Con essi egli<br />
rende i fedeli capaci e pronti ad assumersi responsabilità e uffici, utili al rinnovamento e al maggior<br />
sviluppo della Chiesa, secondo le parole: “A ciascuno… la manifestazione dello Spirito viene<br />
data per l’utilità comune” (1Cor 12,7). Questi carismi, dai più straordinari ai più semplici e ai più<br />
largamente diffusi, devono essere accolti con gratitudine e consolazione, perché sono innanzitutto<br />
appropriati e utili alle necessità della Chiesa» (LG 12).<br />
In realtà, la teologia dei carismi, sviluppata nei primi secoli sulla scia di quanto aveva detto Paolo,<br />
dopo la crisi montanista (II-III secolo), entrò in una specie di letargo che sarebbe durato sino alle<br />
porte del Vaticano II. Il motivo era duplice: da un lato, si riteneva che i “carismi” fossero solo doni<br />
rari e straordinari, come fare profezie e compiere miracoli, e non interessassero dunque la vita cri-<br />
stiana ed ecclesiale, non sembrando che avessero molta importanza per la santificazione personale e<br />
per lo sviluppo della Chiesa; dall’altro, tali doni erano di difficile discernimento, non essendo facile<br />
distinguere in essi quello che veniva realmente dallo Spirito Santo e quello che veniva invece<br />
dall’uomo o dal maligno; senza dire che spesso i carismatici, forti dei loro doni, veri o supposti, si<br />
ponevano in contrasto con la gerarchia. Tutto ciò ebbe come effetto che la teologia dei carismi non<br />
fu debitamente sviluppata, o rimase circondata da un alone di sospetto.<br />
Il Vaticano II ha avuto il merito di ridare vigore al fattore carismatico della Chiesa, sia allargando il<br />
significato del termine carisma anche ai doni comuni dello Spirito Santo, sia affermando che ognu-<br />
no nella Chiesa ha i propri doni che deve mettere a servizio della vita e dello sviluppo di essa. In tal<br />
modo, ha fatto scoprire a tutti i cristiani di poter partecipare attivamente — secondo i propri carismi<br />
— alla vita e all’apostolato della Chiesa; anzi, di doverlo fare, poiché lo Spirito distribuisce i suoi<br />
doni, non direttamente per il bene di colui che li riceve, ma l’edificazione di tutta la Chiesa.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
3) Il carattere cattolico del popolo di Dio<br />
I nn. 13-17 della LG trattano del popolo di Dio in mezzo ai popoli. Partendo dalla nozione di catto-<br />
licità della chiesa (n. 13), si sviluppa il discorso sui criteri di appartenenza alla chiesa e sulla rela-<br />
zione che esiste con i battezzati, con i credenti, con i non credenti.<br />
Affermando con molto vigore il carattere universale del popolo di Dio, il Concilio ha inteso far crol-<br />
lare il doppio muro che gli ultimi secoli avevano costruito intorno alla Chiesa: il muro di separazio-<br />
ne della Chiesa dal mondo, e il muro di separazione elevato tra la Chiesa cattolica da una parte e le<br />
Chiese cristiane e le religioni non cristiane dall’altra. Esso, infatti, ha affermato:<br />
«A questa cattolica unità del popolo di Dio che prefigura e promuove la pace universale, sono<br />
dunque chiamati tutti gli uomini; ad essa in vari modi appartengono, oppure ad essa sono ordinati<br />
sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, e sia infine tutti gli uomini che la grazia di Dio<br />
chiama alla salvezza» (LG 13).<br />
La Chiesa non è dunque una fortezza assediata da un mondo ostile; anzi essa deve operare affinché<br />
la sua destinazione universale possa sempre più risaltare nelle relazioni differenziate che intrattiene:<br />
«Tutti gli uomini sono chiamati a far parte del nuovo popolo di Dio. Perciò questo popolo, restando<br />
uno e unico, deve estendersi a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si compia il disegno della<br />
volontà di Dio, che in principio creò la natura umana una, e decise di raccogliere alla fine in unità<br />
i suoi figli dispersi (cfr. Gv 11,52)» (LG 13).<br />
Con tali parole, il Concilio ha aperto la via a due fenomeni, forse i più caratteristici del post-<br />
concilio. In primo luogo, la fine dell’eurocentrismo ecclesiale, cioè del modello europeo di Chiesa<br />
valido per tutti i popoli e a cui tutti i paesi dovevano adattarsi; per cui l’unità della Chiesa era vista<br />
come uniformità non solo dogmatica e sacramentale, ma anche teologica, liturgica e disciplinare. In<br />
secondo luogo, lo sforzo di inculturazione del cristianesimo.<br />
Grazie al suo carattere «cattolico», il popolo di Dio si colloca nel cuore del mondo e della storia,<br />
non certo per sete di dominio, bensì per essere per tutti i popoli sacramento d’unità con Dio e tra gli<br />
uomini e promotore di pace e di fraternità. Ad esso sono incorporati i fedeli cattolici:<br />
«Sono incorporati pienamente alla società della Chiesa coloro che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano<br />
l’intero ordinamento e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e dentro questo suo corpo<br />
visibile sono congiunti a Cristo mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del<br />
governo ecclesiastico e della comunione: organismo che Cristo dirige attraverso il sommo pontefice<br />
e i vescovi. Non si salva però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che non persevera nella<br />
carità, e rimane nella Chiesa soltanto col corpo ma non col cuore. Tutti i figli della Chiesa ricordino<br />
che la loro privilegiata condizione non si ascrive ai loro meriti, ma ad una grazia speciale di<br />
Cristo; se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, anziché essere salvati,<br />
saranno invece giudicati più severamente» (LG 14).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Ma a esso non sono estranei i non cattolici. Infatti, «con coloro che sono battezzati e quindi insigniti<br />
del nome cristiano, ma non professano integralmente la fede o non conservano l’unità di comunione<br />
sotto il romano pontefice, la Chiesa si sa congiunta per molteplici ragioni» (LG 15); e riconosce<br />
«anzi una certa vera congiunzione nello Spirito Santo, che anche in loro opera con la sua virtù santi-<br />
ficatrice mediante doni e grazie; alcuni poi di loro li ha fortificati fino all’effusione del sangue» (i-<br />
bid.). In modo ancora più preciso il decreto Unitatis Redintegratio n. 3 insegna:<br />
«Coloro… che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo sono costituiti in una<br />
certa comunione, sebbene imperfetta, con la chiesa cattolica. Non v’è dubbio che, per le divergenze<br />
che in vari modi esistono tra loro e la chiesa cattolica, sia nel campo della dottrina e talora anche<br />
della disciplina, sia circa la struttura della chiesa, impedimenti non pochi, e talvolta più gravi,<br />
si oppongono alla piena comunione ecclesiastica, al superamento dei quali tende appunto il movimento<br />
ecumenico. Nondimeno, giustificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo e<br />
perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani e dai figli della chiesa cattolica sono giustamente<br />
riconosciuti come fratelli nel Signore».<br />
Sono così poste le basi per lo sviluppo del movimento ecumenico e per la costituzione già all’inizio<br />
del Concilio per opera di papa Giovanni XXIII (Pentecoste 1960) del Segretariato per l’Unione dei<br />
Cristiani (ora Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei cristiani).<br />
Anche i non cristiani «in vari modi sono ordinati al popolo di Dio» (LG 16), sia per i valori religiosi<br />
di cui sono portatori e che li rendono più o meno vicini al cristianesimo, sia soprattutto perché sono<br />
inclusi anch’essi nel disegno di salvezza che Dio ha realizzato in Gesù Cristo e a cui tutti i popoli<br />
devono portare i propri doni. Del resto anche in essi agisce lo Spirito Santo:<br />
«Infatti coloro che ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa senza loro colpa, ma cercano sinceramente<br />
Dio, e sotto l’influsso della grazia si sforzano di compiere fattivamente la volontà di<br />
Dio conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza. Anche a coloro<br />
che senza colpa personale non sono ancora arrivati ad una conoscenza esplicita di Dio, ma si<br />
sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta, la provvidenza divina non rifiuta<br />
gli aiuti necessari alla salvezza. Infatti tutto ciò che di buono e di vero si trova presso di loro, la<br />
Chiesa lo considera come una preparazione evangelica, come un dono concesso da colui che illumina<br />
ogni uomo, perché abbia finalmente la vita» (LG 16).<br />
Con queste affermazioni — e le ulteriori precisazioni contenute nella dichiarazione Nostra Aetate<br />
— si sono poste le basi per il dialogo con le religioni non cristiane, che ha trovato la sua attuazione<br />
nell’istituzione da parte di Paolo VI (19 maggio 1964) del Segretariato per i Non Cristiani (ora Pon-<br />
tificio Consiglio per il Dialogo Inter-religioso).<br />
4) Dal fatto di essere sacramento universale di salvezza (LG 48), e quindi dal carattere di cattolicità,<br />
promana il carattere missionario del popolo di Dio. Certamente esso è missionario per un chiaro<br />
mandato di Cristo: «Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole» (Mt 28,19); ma più profon-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
damente, lo è perché «è spinto dallo Spirito Santo a cooperare affinché sia eseguito il piano di Dio,<br />
il quale ha costituito Cristo principio della salvezza per il mondo intero» e ha fatto della Chiesa, in<br />
quanto «sacramento di Cristo», il sacramento della salvezza per l’umanità intera:<br />
«Predicando il Vangelo, la Chiesa dispone gli uditori alla fede e alla confessione della fede, li prepara<br />
al battesimo, li sottrae alla schiavitù dell’errore e li incorpora a Cristo, perché mediante la carità<br />
abbiano a crescere in lui fino alla pienezza. Con la sua attività fa sì che ogni germe di bene che<br />
si trova nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo<br />
non vada perduto, ma sia purificato, elevato e portato a compimento per la gloria di Dio, la confusione<br />
del demonio e la felicità dell’uomo» (LG 17).<br />
La missione moderna, iniziata nel 1500 dopo la scoperta che intere popolazioni senza loro colpa<br />
non avevano sentito parlare del Vangelo, è passata attraverso tre fasi: nella prima (sec. XVI e XVII)<br />
la missione è affidata dalla Santa Sede ai regni cattolici di Spagna e Portogallo (solo il 6 gennaio<br />
1622 Gregorio XV istituirà la Sacra Congregazione de propaganda fide per la preparazione dei fu-<br />
turi missionari), i quali “esportano” la “civiltà cristiana” (di cui elemento caratteristico è il cristiane-<br />
simo) nei paesi di conquista, per salvare le anime dei singoli “infedeli” mediante il battesimo che li<br />
incorpora alla Chiesa (occidentale e latina) e li strappa alla civitas diaboli (le culture indigene, da<br />
distruggere perché idolatriche); nella seconda fase (dal 1850 fino alla seconda guerra mondiale), col<br />
venire meno delle potenze cattoliche e della cristianità, la missione non è più intesa come espansio-<br />
ne di civiltà, bensì come compito specificamente religioso condotto non solo da specialisti (gli ordi-<br />
ni religiosi) ma dal popolo di Dio sotto la guida dei suoi pastori (nascono istituti per la formazione<br />
di preti diocesani, ad es. il PIME; sorgono congregazioni missionarie femminili; grande è il coin-<br />
volgimento dei laici a mezzo stampa…; nascono anche le scuole di missiologia — ad es. di Münster<br />
e di Lovanio — che teorizzano che il fine della missione è non la salus animarum, ma la “plantatio<br />
ecclesiae” dove la Chiesa non c’è); la terza fase è segnata da alcuni fenomeni importanti come la<br />
decolonizzazione e l’accesso delle giovani nazioni all’indipendenza, la scristianizzazione delle na-<br />
zioni di antica evangelizzazione: ne segue, in primo luogo, che la missione non riguarda più solo i<br />
paesi “di missione”, ma è una dinamica essenziale di tutta la Chiesa nel suo servizio al Regno di<br />
Dio, e in secondo luogo emerge in tutta la sua rilevanza la sfida dell’inculturazione del Vangelo e la<br />
sua relazione alla promozione umana.<br />
Il Vaticano II ha promulgato in merito l’importante Decreto sull’attività missionaria della chiesa<br />
“Ad gentes”. Se è vero che i membri della Commissione non hanno mai saputo decidersi fra una<br />
concezione territoriale e giuridica della missione — la missione riguarda gli “altri” territori —, e<br />
una concezione teologica della missione — la missione è collocarsi nel solco della missione di Cri-<br />
sto, nel solco del venire del Figlio dal Padre all’umanità —, d’altra parte riconosciamo che il primo<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
capitolo di Ad gentes fa sua una concezione cristologica, trinitaria, pneumatologica, escatologica<br />
della missione: la missione è il movimento di amore che da Dio scende verso gli uomini.<br />
Proseguendo questa traiettoria l’Evangelii Nuntiandi (8 XII 1975) di Paolo VI e la Redemptoris<br />
Missio (7 XII 1990) di Giovanni Paolo II hanno affrontato la necessità di una revisione dei metodi<br />
missionari e di una nuova visione dell’azione missionaria, che articoli il compito unitario della mis-<br />
sione affidato alla chiesa e le quattro dinamiche della sua realizzazione effettiva (cfr. RM cap. V).<br />
1) L’annuncio, che è innanzitutto la messa in atto di tutte quelle mediazioni — la Parola, il Sacra-<br />
mento, uno stile di vita etico misurato sulla dedizione di Gesù — attraverso cui il Cristo costituisce<br />
le persone come suoi discepoli.<br />
2) Il dialogo, che è il modo in cui l’annuncio va realizzato, perché ci conforma allo stile dialogico<br />
della rivelazione cristiana, in cui «Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad<br />
amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2). Il dialogo<br />
quindi non giustifica “di diritto” il relativismo religioso, in base al quale tutte le religioni o chiese<br />
sarebbero uguali o almeno complementari. Ciò significherebbe minare o almeno gettare un’ombra<br />
di dubbio o di insicurezza sulla convinzione di fede che la rivelazione cristiana e il mistero di Gesù<br />
Cristo e della Chiesa hanno un carattere di verità assoluta e di universalità salvifica (Congregazione<br />
per la Dottrina della fede, Dominus Iesus 4). D’altra parte, il dialogo non è semplicemente un espe-<br />
diente “tattico” con cui perseguire in modo più subdolo l’opera di proselitismo. Ecco perché, nello<br />
stile del Dio di Gesù Cristo, anche la Chiesa, rivolgendosi a tutti gli uomini in un «atteggiamento di<br />
comprensione» e in «un rapporto di conoscenza reciproca e di mutuo arricchimento, nell’obbedienza<br />
alla verità e nel rispetto della libertà» (Dominus Iesus 2), testimonia quel Vangelo che ad essa è sta-<br />
to affidato e di cui deve vivere e rispondere.<br />
3) L’inculturazione. Secondo Lumen Gentium n. 13 la missione della Chiesa deve ricondurre a Cri-<br />
sto le ricchezze di tutti i popoli — e in modo specifico la loro cultura. L’inculturazione è quindi il<br />
modo in cui il Vangelo si incarna nelle situazioni di un popolo per aprirle alla verità di Cristo: tra<br />
inculturazione e incarnazione si scorge perciò una non debole analogia.<br />
4) La liberazione. Il vangelo è vangelo di liberazione. Non si può annunciare il vangelo senza con-<br />
frontarsi anche ai temi della liberazione dell’uomo, di tutto l’uomo: cfr. Giacomo 2,15-16. Non c’è<br />
quindi evangelizzazione senza promozione umana (Evangelii nuntiandi, 9. 31).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
2.8. Le questioni ecclesiologiche nel periodo postconciliare<br />
2.8.1. Fattori di contrasto nell’<strong>ecclesiologia</strong> attuale<br />
«È raro che a un Concilio non segua una grande confusione» (Lettera a Mr. O’Neill Daunt, 7 VIII<br />
1870). Questa affermazione del cardinale Newman al termine del Vaticano I risulta appropriata an-<br />
che per il Vaticano II sia nel campo della riforma strutturale della Chiesa che nel rapporto con<br />
l’eredità dottrinale del Concilio, centrata sulla teologia della Chiesa. Nonostante ciò, la confusione<br />
e, in alcuni ambienti, le crisi che hanno poi condizionato lo sviluppo dell’<strong>ecclesiologia</strong> post-<br />
conciliare, sia nel metodo che nel contenuto, non si devono attribuire superficialmente al Concilio e<br />
alla dottrina ecclesiologica dei suoi decreti, benché questa abbia in sé alcune lacune ed anomalie ri-<br />
levanti che hanno motivato posizioni contrastanti sulla sua interpretazione.<br />
Non estranei a queste divergenze risultano alcuni fattori esterni ed interni alla dottrina ecclesiologi-<br />
ca del Vaticano II. Negli ultimi quarant’anni si sono verificate, nella società e nelle Chiese, trasfor-<br />
mazioni tali da creare seri ostacoli per la trasmissione del messaggio cristiano (soprattutto così come<br />
si era formato e strutturato nell’ambiente del pre-Concilio): l’espansione economica e scientifica ha<br />
seguito un ritmo vertiginoso; i modelli classici di società sono entrati in crisi; vaste aree del Terzo<br />
Mondo si sono sollevate contro ogni forma di neocolonialismo, mettendo in discussione la superio-<br />
rità del modello occidentale; nuovi fermenti culturali, come l’emancipazione della donna, il movi-<br />
mento ecologista, la crisi progressiva di ogni sistema totalitario, si sono affacciati prepotentemente<br />
sulla scena chiedendo una presa di posizione della Chiesa. All’interno questa ha dovuto rispondere<br />
alle esigenze di una maggiore partecipazione di tutti i suoi membri nella elaborazione e realizzazio-<br />
ne delle decisioni, alla necessità di instaurare un dialogo fecondo con le altre Chiese e religioni, e<br />
(soprattutto nella Chiesa del Terzo Mondo) alla sfida della povertà.<br />
La confusione ecclesiologica che si è diffusa dopo il Vaticano II si radica nell’indole stessa della<br />
dottrina conciliare, che non vuole, solitamente, prendere le difese di una sola corrente teologica, ma<br />
mira ad ottenere il massimo del consenso possibile, comportando di conseguenza delle concessioni<br />
da parte di tutti: il testo conciliare risulta così un mosaico di incisi, di distinguo, di precisazioni e at-<br />
tenuazioni. Inoltre il Vaticano II non ha voluto sciogliere in maniera definitiva alcuna questione og-<br />
getto di discussione teologica perseguendo un orientamento eminentemente pastorale. Avendo ri-<br />
nunciato a emettere definizioni dogmatiche vincolanti, il Concilio ha voluto perseguire un quadru-<br />
plice obiettivo: precisare con maggiore esattezza la «coscienza» della Chiesa; perseguire il rinno-<br />
vamento autentico della Chiesa; ristabilire l’unità fra tutti i cristiani; intensificare il dialogo della<br />
Chiesa con gli uomini della nostra epoca, tendendo una mano verso il mondo contemporaneo. Infi-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
ne la Chiesa post-conciliare ha concentrato tutte le sue energie nella riforma delle sue istituzioni sia<br />
a livello universale che locale (per esempio il riordino delle Conferenze Episcopali nazionali, il si-<br />
nodo dei vescovi, la riforma della Curia, la creazione di nuovi segretariati, la creazione di strutture<br />
di partecipazione a livello diocesano e parrocchiale come i consigli presbiterali e pastorali…). Circa<br />
i problemi sollevati da questo rinnovamento, pastori e teologi non hanno sempre trovato soluzioni<br />
in grado non solo di prevenire, ma a volte di seguire il ritmo vertiginoso con cui sono sorti conflitti<br />
nei diversi aspetti della vita ecclesiale. L’<strong>ecclesiologia</strong> in questi cinquant’anni è stata sfidata da<br />
nuovi problemi ai quali ha dovuto dare una nuova risposta rimanendo fedele alle opzioni ecclesiolo-<br />
giche di metodo e di contenuto adottate dal Vaticano II.<br />
2.8.2. Impostazione metodologica del Vaticano II<br />
Le opzioni metodologiche del Vaticano II fatte proprie dalla <strong>ecclesiologia</strong> post-conciliare sono:<br />
1) Il ritorno alle fonti della teologia, cioè alla parola di Dio viva nella Chiesa e trasmessa vitalmente<br />
con l’aiuto dello Spirito Santo nella dottrina dei Padri, dei Concili, del magistero ecclesiastico e nel-<br />
la testimonianza della liturgia e della vita cristiana (cfr. Dei Verbum e Sacrosanctum Concilium).<br />
2) Il punto di partenza della riflessione ecclesiologica costituito dal mistero stesso della Chiesa (ca-<br />
pitolo I della Lumen Gentium) e non più la tematica socio-giuridica dell’<strong>ecclesiologia</strong> apologetica<br />
pre-conciliare. Si sviluppa così una tematica autenticamente teologica che presenta la Chiesa come<br />
oggetto di fede il cui studio deve essere ispirato dalla fede.<br />
3) L’indirizzo storico-salvifico. La Chiesa appare come fructum salutis o creazione di Dio Padre<br />
mediante l’opera redentrice del Figlio nello Spirito Santo e, allo stesso tempo, come medium salutis<br />
attraverso cui Dio comunica la sua grazia all’uomo.<br />
4) La priorità nell’ordine della finalità del popolo di Dio profetico e sacerdotale nella sua totalità<br />
(Lumen Gentium II e V) rispetto alle varie categorie di persone che lo compongono (III, IV e VI).<br />
5) La consapevolezza della universalità della Chiesa (non più Chiesa occidentale, ma Chiesa vera-<br />
mente mondiale: Rahner), con la necessità di considerare tutte le legittime e feconde diversità senza<br />
tuttavia tradire l’unità della fede (il pluralismo sotto tutte le sue espressioni e ambiti possibili).<br />
Questi cambiamenti di ordine metodologico introdotti dal Vaticano II si sono però rivelati insuffi-<br />
cienti nella <strong>ecclesiologia</strong> post-conciliare. Il confronto tra l’<strong>ecclesiologia</strong> socio-giuridica, apologetica<br />
prevalente dalla Controriforma in poi e la nuova <strong>ecclesiologia</strong>, radicata nella Scrittura e nei Padri,<br />
storica e di comunione, che ha finito per imporsi nel Concilio, non ha permesso di arrivare alla sin-<br />
tesi desiderata, così che diversi teologi parlano di una giustapposizione delle due tendenze ecclesio-<br />
logiche nei documenti conciliari.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Il rapporto della Chiesa con il mondo insinuato solamente nella LG e descritto nella GS, oltre che<br />
per il suo intrinseco riferirsi ad un momento storico preciso e quindi datato, è stato criticato anche<br />
per il suo rispecchiare la situazione della Chiesa nel mondo economicamente sviluppato.<br />
Inoltre la ragione di alcune difficoltà presenti nello stato attuale della <strong>ecclesiologia</strong> sta in alcune<br />
ambiguità fondamentali dei testi conciliari. Tale ambiguità caratterizza i testi cruciali della ecclesio-<br />
logia conciliare poiché è stato più difficile trovare un compromesso che ottenesse il consenso più<br />
ampio possibile (ad es. i rapporti tra papato ed episcopato nella prospettiva di un esercizio del pri-<br />
mato che consideri tutte le implicazioni del principio di collegialità episcopale; oppure la discussio-<br />
ne sul posto dei laici nella Chiesa, con le conseguenze derivanti dalla vera aequalitas, seppur in va-<br />
rietate, tra pastori e laici). Ecco perché nell’immediato post-concilio si sono giustificate visioni ec-<br />
clesiologiche e scelte pastorali diverse basandosi sugli stessi documenti del Vaticano II (che a volte<br />
hanno raggiunto un accordo nei testi solo a livello di enunciati, ma non a livello di contenuti).<br />
Inoltre si deve notare la debole rilevanza e mancante precisione nel considerare l’opera che lo Spiri-<br />
to Santo svolge nel costituire e nel far vivere la Chiesa e di conseguenza la poco precisa coordina-<br />
zione fra i doni e i ministeri che Questi suscita nella vita e struttura della Chiesa (la considerazione<br />
conciliare ha sottolineato molto di più la dimensione cristologica e istituzionale).<br />
2.8.3. La chiesa mistero di comunione<br />
1) Il sinodo straordinario del 1985 ha affermato che: «l’<strong>ecclesiologia</strong> di comunione è l’idea centrale<br />
e fondamentale nei documenti del concilio» 180 . Inoltre la Congregazione per la dottrina della fede<br />
(1992) ha fatto sua, pur con alcuni distinguo, questa nozione di communio come «molto adeguata<br />
per esprimere il mistero della chiesa» così che «può certamente essere una chiave di lettura per una<br />
rinnovata <strong>ecclesiologia</strong> cattolica» 181 . Anche la 7 a assembla generale del Consiglio Ecumenico delle<br />
Chiese (Canberra 1991) nel documento della commissione di Fede e costituzione, «L’unità della<br />
Chiesa come koinonia: dono e vocazione», ha proposto di considerare la communio come categoria<br />
chiave della visione della chiesa 182 . In particolare questa nozione appare sempre più chiaramente<br />
come possibile formula di consenso verso l’auspicato processo ecumenico di unione delle Chiese e<br />
come occasione per ristrutturare i concreti rapporti intraecclesiali.<br />
180 SINODO DEI VESCOVI, II Assemblea straordinaria (1985), Relatio finalis, II, C, 1 = EV 9, n. 1800.<br />
181 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera «communionis notio» su alcuni aspetti della Chiesa intesa<br />
come comunione, 1. Cfr. J. RATZINGER, L’<strong>ecclesiologia</strong> della Costituzione «Lumen Gentium», art. cit., 69ss.<br />
182 Cfr. Il Regno. Documenti XXXVI (1991/7) 253. Incentrato sul tema della comunione è anche l’importante documento<br />
di FEDE E COSTITUZIONE, La natura e lo scopo della Chiesa, in Il Regno. Documenti XLIV (1999/9) 315-328.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
Ora, questa immagine di chiesa dipende dalla riscoperta del Dio trinitario, sempre più inteso come<br />
communio di Padre, Figlio e Spirito Santo. Questo mutamento d’accento nell’immagine di Dio si<br />
ripercuote anche sull’attuale immagine di chiesa: considerata da un punto di vista teologico e spiri-<br />
tuale, essa può risultare una parabola di questo Dio trinitario e della sua communio di amore. Con<br />
una formula breve la si può descrivere come la comunità dei fedeli unita dallo Spirito santo, con-<br />
formata al Figlio Gesù Cristo e chiamata, con l’intera creazione, al Regno di Dio, il Padre. La rela-<br />
zione con lo Spirito dona alla chiesa la sua specifica forma di unità, cioè l’unità nella molteplicità;<br />
lo Spirito la rende “ecclesia”, assemblea del popolo di Dio. La relazione con Gesù Cristo dona alla<br />
chiesa il suo specifico contenuto, quello di essere chiesa alla sequela di Gesù: in questo modo essa<br />
diventa “corpo” e “sposa di Cristo”. La relazione col Padre definisce l’origine e il fine della chiesa,<br />
cioè la creazione e il regno di Dio; in quanto “popolo di Dio”, essa li unisce entrambi, nel senso di<br />
una comunità in cammino con tutte le creature verso la pienezza del Regno 183 .<br />
Tuttavia, di fronte a questa unanime e pubblica accoglienza, di fatto questa nozione sembra essersi<br />
trasformata in una formula di un “pio desiderio” o in un “alibi” per mitigare in modo eufemistico gli<br />
inconvenienti strutturali (al riparo di questo termine simpatico) oppure per immaginarsi romantica-<br />
mente una Chiesa “ideale”, ben diversa dalla chiesa concretamente esperita.<br />
Ma anche se ci si guarda dal cadere in questi abusi, sembra che la concezione della Chiesa come<br />
communio, riscoperta al Concilio Vaticano II sembra una visione che manca di fondamento. Di fat-<br />
to, una delle riscoperte ecclesiologiche più radicali del Vaticano II, ossia la uguale originarietà e va-<br />
lore della chiesa universale e della chiesa locale (LG 23; 26; CD 11), del principio gerarchico e del<br />
principio sinodale, non si vede come oggi concretamente abbia una sua concreta istituzionalizzazio-<br />
ne. Perché la teologia della communio con il suo asserto centrale della medesima originarietà di uni-<br />
tà e molteplicità, di primato e collegialità, di gerarchia e principio sinodale, possa veramente im-<br />
prontare il volto reale della chiesa cattolica, ha bisogno di un soggetto ecclesiale reale, che le con-<br />
senta di realizzarsi a livello di strutture della chiesa universale.<br />
2.8.4. Una chiesa - molte chiese<br />
Se infatti noi guardiamo il Vaticano II dobbiamo riconoscere che nella relazione una Chiesa-molte<br />
Chiese esso ha adottato come punto di partenza la realtà e la nozione di Chiesa universale o congre-<br />
183 M. KEHL, Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo, gdt 255, Queriniana, Brescia 1998, 83-84. Sul tema si<br />
vedano le riflessioni del medesimo autore nel suo manuale, La chiesa, 68-72, 139-150 e in «Communio» - eine verblassende<br />
Vision?, in Stimmen der Zeit 215,7 (1997) 448-456.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
gazione di tutti i fedeli in comunione con il Pastore supremo e con tutto il corpo episcopale. È chia-<br />
ro che la LG, quando ha rinunciato ad adottare come punto di partenza la teologia della Chiesa loca-<br />
le, non lo ha fatto per mettere in rilievo l’aspetto socio-istituzionale della Chiesa, ma piuttosto per<br />
centrare la sua <strong>ecclesiologia</strong> sul mistero stesso dell’organismo sociale reso vivo dallo Spirito e costi-<br />
tuito dai membri uniti nella più stretta comunione di vita spirituale. Questa impostazione però non è<br />
esente da un pericolo: l’uniformità e la centralizzazione intese come condizioni necessarie per la re-<br />
alizzazione dell’unità. Pertanto il compito della <strong>ecclesiologia</strong> post-conciliare è consistito nel-<br />
l’assumere gli spunti della teologia della communio presenti nei documenti conciliari per allontanare<br />
sempre più questo pericolo, spostando progressivamente il centro di gravità verso le Chiese locali.<br />
Nel cammino verso l’integrazione tra teologia della Chiesa universale e teologia della Chiesa locale<br />
sono risultati decisivi alcuni elementi presenti nel Concilio: l’esigenza di un’università reale della<br />
Chiesa di Cristo diffusa nei cinque continenti; gli elementi di una teologia della Chiesa come as-<br />
semblea eucaristica intorno all’altare del Signore con il suo legittimo pastore; le conseguenze di una<br />
attenzione più precisa all’ufficio pastorale dei vescovi, alle Chiese Orientali, all’attività missionaria.<br />
Il Concilio, insomma, ha posto i fondamenti teologici del modello della Chiesa - communio eccle-<br />
siarum, per cui le Chiese particolari non sono semplicemente parti o meri distretti amministrativi di<br />
una confederazione di Chiese, chiamata Chiesa universale, ma la stessa realtà suprema dell’unica<br />
Chiesa di Cristo presente e realmente attualizzata in un determinato luogo. Alla luce di questo prin-<br />
cipio ecclesiologico si comprendono le tensioni sorte in epoca post-conciliare tra «centro» e «perife-<br />
ria», tra «base» e «vertice» della Chiesa, che dovrebbero trovare una futura più armonica concilia-<br />
zione che componga le due dimensioni irrinunciabili 184 .<br />
2.8.5. Primato e collegialità<br />
Cercare la verità integrale e coerente sul primato e sull’episcopato è stato un compito irto di grandi<br />
difficoltà di ordine teorico e pratico non solo nelle discussioni in seno all’assemblea ma anche<br />
nell’<strong>ecclesiologia</strong> post-conciliare. Non meraviglia che l’attuazione della collegialità a tutti i livelli<br />
della Chiesa abbia costituito un focolaio di tensioni sia nel rapporto tra episcopato e primato sia tra<br />
le varie categorie di persone che compongono la Chiesa locale. Il Concilio non ha fatto nessuna op-<br />
184 Attualmente le molte chiese locali e regionali (ad es. Conferenze episcopali), le quali sarebbero i soggetti della teologia<br />
della communio a livello di chiesa universale, sono però strutturalmente indebolite dagli sviluppi culturali, sociali e<br />
politici contemporanei, al punto che in diversi luoghi esse sono appena in grado di sopravvivere; e questo molto spesso<br />
solo grazie al servizio di supplenza e di sostegno del ministero petrino. Esse sono così incapaci di salvaguardare con<br />
sufficiente efficacia questo loro ruolo: M. KEHL, «Communio» - eine verblassende Vision?, art. cit., 450-452.<br />
318
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
zione sostanziale sui punti più controversi, ma si è limitato a sottolineare l’intima unione esistente<br />
tra primato e collegialità dei vescovi come due verità emananti dalla stessa rivelazione divina. La<br />
posizione del Vaticano II che non ha opposto i termini del binomio «primato-episcopato» è chiara:<br />
come è inammissibile la concezione di vescovi intesi come semplici vicari e delegati del papa, così è<br />
ugualmente inaccettabile concepire il papa come vicario e delegato del Collegio episcopale. Cer-<br />
tamente le posizioni estreme non possono invocare a loro favore la dottrina ecclesiologica del Con-<br />
cilio. Ma fra i due estremi esistono posizioni centrali diverse e variegate che si muovono sull’arco di<br />
una stessa comunione. È all’interno di questa amplissima area che la ricerca ecclesiologica può e<br />
deve fondarsi ulteriormente sulla struttura fondamentale del binomio «primato-collegialità episcopa-<br />
le» e trarne le implicazioni pastorali per il governo centrale e periferico della Chiesa 185 .<br />
2.8.6. Rapporto tra gerarchia e laicato<br />
L’inserimento nella LG del capitolo secondo sul popolo di Dio ci dà la chiave per interpretare il po-<br />
sto e la missione dei laici nella Chiesa come facenti parte del mistero di quel popolo pellegrino che<br />
nel piano divino è ritenuto il fine, mentre il ministero gerarchico è un mezzo in ordine a tale fine.<br />
Con questa struttura definitiva della LG si dà priorità e si accentuano gli elementi comuni a tutte le<br />
categorie di persone: l’unità, la solidarietà, l’uguaglianza essenziale nell’ambito dell’esistenza cri-<br />
stiana, il mistero di comunione per il quale tutti siamo fratelli in Cristo. Il Concilio, tuttavia, non ha<br />
affrontato espressamente il problema di come promuovere questo principio di uguaglianza fonda-<br />
mentale — seppur nella diversità — tra pastori e semplici fedeli in ordine alla partecipazione attiva<br />
ed effettiva (non solo da semplici esecutori) di questi ultimi alla responsabilità per la Chiesa 186 .<br />
Queste difficoltà nascono dalla scarsa precisione degli stessi documenti conciliari su alcuni punti<br />
della teologia del laicato: innanzi tutto la stessa nozione descrittiva e puramente negativa di laico e<br />
l’inafferrabilità del concetto di «indole secolare» (di ordine sociologico più che teologico?) propria<br />
dei laici (LG 31). Il Concilio ha recepito i risultati delle ricerche di Congar nell’opera pionieristica<br />
Jalons pour une théologie du laicat (1953): «Il laico sarà dunque colui per il quale nell’opera stessa<br />
185 Certo è che attualmente la Curia romana sostituisce al suo livello il principio di collegialità, teoricamente riconosciuto<br />
al collegio episcopale, ma di fatto bloccato da problemi pratici. Così il grande apparato della organizzazione centrale<br />
del potere ecclesiastico, necessario a una chiesa mondiale, ha di fatto assunto su di sé i compiti di una collaborazione<br />
episcopale e collegiale col ministero petrino: M. KEHL, «Communio» - eine verblassende Vision?, art. cit., 450; J.R.<br />
QUINN, Per una riforma del papato, gdt 272, Queriniana, Brescia 2000; F. KÖNIG, Collegialità e centralismo, in Il Regno.<br />
Documenti XLIV (1999/9) 285-288.<br />
186 Laici nel ministero: la paura di dare un nome. Intervista con p. Bernard Sesboüé, in Il Regno. Attualità XLIII<br />
(1998/2) 12-16; B. SESBOÜÉ, N’ayez pas peur. Regards sur l’Église et les ministères aujourd’hui, Paris 1996; G. CA-<br />
319
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
che Dio gli ha affidato, la sostanza delle cose in se stesse esiste ed è interessante. Il chierico e ancor<br />
di più il monaco è uno per il quale le cose non sono veramente interessanti in se stesse, ma in rela-<br />
zione ad un altro, cioè nel rapporto che le lega a Dio, che esse fanno conoscere e possono aiutare a<br />
servire» 187 . Evidentemente questa concezione pensa le realtà di Chiesa e mondo come giustapposte,<br />
così che i chierici e i religiosi sono gli attori sulla scena ecclesiale, mentre ai laici viene assegnata la<br />
competenza di vivere la loro testimonianza cristiana nella sfera delle realtà secolari. Questa figura è<br />
l’esito di una concezione troppo schematica del rapporto Chiesa-mondo, che poggia sul presupposto<br />
della distinzione dei due ordini «soprannaturale e naturale». Il Concilio, pur utilizzando ancora que-<br />
sto vocabolario, nella LG ha però indirizzato la riflessione verso un’altra direzione: quella per cui<br />
ogni credente è per vocazione battesimale un christifidelis, che in ragione della sua appartenenza a<br />
Cristo deve in ogni situazione concreta del vivere testimoniare l’evangelo della carità.<br />
Sulla questione della “indole propria” del laico si sono poi sviluppate ulteriori questioni “pastorali”:<br />
la partecipazione laicale ai munera ecclesiastici, la sua possibilità di sostituire i ministri in alcune<br />
funzioni sacre (officia sacra) e la possibilità di dedicarsi completamente, chiamati dal vescovo, agli<br />
impegni apostolici (a che titolo?); i vari ministeri ecclesiali laicali.<br />
2.8.7. Chiesa - mondo<br />
Con i suoi tre anni di gestazione la GS è il documento del Vaticano II che riflette più fedelmente il<br />
progressivo cambiamento dei concetti teologici di «Chiesa» e di «mondo». Malgrado il grande entu-<br />
siasmo degli esperti e dei padri conciliari nell’affrontare il tema, essi si sono trovati come inermi e<br />
divisi non solo per la sua soluzione, ma anche per il piano di lavoro e di strutturazione da dare al<br />
documento 188 . La sua elaborazione, infatti, esigeva di prendere posizione sul problema tanto com-<br />
plesso del rapporto tra naturale e soprannaturale, Chiesa e mondo. Ma il Vaticano II non poteva elu-<br />
dere la propria responsabilità: era meglio correre il rischio di scrivere una dichiarazione incompleta,<br />
ma capace di fissare i principi dinamici contenuti nella rivelazione e di indicare alcuni punti di rife-<br />
NOBBIO, Laici dopo il Vaticano II, in Il Regno. Documenti LVI (<strong>2011</strong>/13) 419-427.<br />
187 Y. CONGAR, Per una teologia del laicato, Morcelliana, Brescia 1967, 39. Cfr. una buona sintesi in M. VERGOTTINI,<br />
La riflessione teologica sui laici. Da Lumen Gentium a Christifideles Laici, in C. GHIDELLI (ed.), A trent’anni dal Concilio.<br />
Memoria e profezia, Studium, Roma 1995, 131-159. Una riflessione più approfondita e attenta al lato canonico si<br />
può trovare in E. ZANETTI, «La nozione di “laico” nel dibattito preconciliare». Alle radici di una svolta significativa e<br />
problematica, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1998; G. ZAMBON, Laicato e tipologie ecclesiali. Ricerca<br />
storica sulla «Teologia del laicato» in Italia alla luce del Concilio Vaticano II (1950-1980), Editrice Pontificia Università<br />
Gregoriana, Roma 1996. Una proposta storico-sistematica è sviluppata invece da G. ANGELINI – G. AMBROSIO,<br />
Laico e cristiano. La fede e le condizioni comuni del vivere, Marietti, Genova 1987.<br />
188 Cfr. M. GERVASONI, Commento allo schema della Costituzione pastorale Gaudium et spes, in SCUOLA DI TEOLOGIA<br />
DEL SEMINARIO DI BERGAMO, Sulle tracce del Concilio, Bergamo 1996 2 , 133-138.<br />
320
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
rimento, piuttosto che retrocedere di fronte alla difficoltà di non poter elaborare un documento con-<br />
ciliare. Per superare la difficoltà si scelse di classificare la GS come Costituzione pastorale 189 .<br />
a) Senso e significato di mondo<br />
Per comprendere il senso di quanto prodotto dal Concilio sul tema occorre in un primo passo ri-<br />
chiamare, seguendo le indicazioni di Karl Rahner, la triplice classica accezione di mondo.<br />
1) «Sotto il profilo teologico il mondo designa anzitutto in un senso neutro la totalità della creazione<br />
come unita (nell’origine, nel destino e nello scopo, nelle strutture generali, nella reciproca dipen-<br />
denza di tutti da tutti), con l’inclusione dell’uomo oppure distinto da lui come suo “ambiente” come<br />
situazione da Dio precostituita della sua storia della salvezza».<br />
2) «In quanto questo mondo (soprattutto il mondo umano), a causa della colpa degli angeli e a causa<br />
di quella originale dell’uomo (peccato originale) e a causa della successiva storia della perdizione,<br />
possiede, sino nel profondo della realtà materiale, un’impronta antidivina e contraria alle proprie<br />
strutture e determinazioni ultime, mondo (biblicamente: “questo” cosmo, “questo” eone) significa<br />
l’insieme delle “forze e potestà” ostili a Dio, vale a dire tutto ciò che nel mondo esiste come spinta a<br />
una nuova colpa e come concretezza, corporeità afferrabile di questa colpa».<br />
3) «Ma, anche in quanto mondo peccatore, esso è ancora tuttavia il mondo amato da Dio, bisognoso,<br />
ma anche suscettibile di redenzione, già abbracciato dalla grazia di Dio nonostante la sua colpa e in<br />
essa, la cui storia avrà fine nel regno di Dio» 190 .<br />
Noi qui utilizziamo in particolare la terza accezione, ossia quella di mondo lontano da Dio e tuttavia<br />
amato da Dio, proprio in questa sua lontananza. Ma, in tanto è possibile questa accezione in quanto<br />
esiste un soggetto storico che media quell’amore di Dio per il mondo. Questo soggetto storico (Gesù<br />
e, alla sua sequela, la Chiesa) «produce» questo concetto di mondo nella misura in cui «produce»<br />
storicamente quella mediazione simbolica in cui il mondo è accolto: in Gesù di Nazaret con la cro-<br />
ce, in quanto riassuntiva della sua intera esistenza che è stato radicale accoglimento dell’altro ed es-<br />
sere-per-gli-altri; nella Chiesa, nella misura in cui si dà «santificazione» (1Pt 1,13-22).<br />
Ma allora è anche chiaro che Chiesa e mondo sempre nuovamente nella storia si rapportano secondo<br />
una varietà di figure che, ultimamente, vanno giudicate, in una prospettiva teologica cristiana, nella<br />
misura in cui in esse viene riprodotta la figura del rapporto che Gesù ha stabilito con il mondo. Al<br />
189 Sulla novità di un magistero “pastorale” cfr. K. RAHNER, “La problematica teologica di una «costituzione pastorale»”,<br />
in Nuovi Saggi III, Edizioni Paoline, Roma 1969, 693-721.<br />
190 K. RAHNER, Chiesa e mondo, in Sacramentum Mundi 2, 191-218; qui 194.<br />
321
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
tempo stesso questa considerazione comporta che, nel nostro tentativo attuale di delineare il giusto<br />
rapporto tra Chiesa e mondo, facciano sentire il loro peso tutte le figure storiche del passato: la<br />
«produzione» delle mediazioni attuali è solo una modifica delle mediazioni passate. Per questo è<br />
necessario sempre che la determinazione teorico/pratica attuale si radichi nella memoria storica. Nei<br />
limiti della nostra sintesi non possiamo ripercorrere l’intero arco delle figure del rapporto Chiesa-<br />
mondo, così come sono state prodotte nella storia. Ci limitiamo ad un aspetto di questo rapporto<br />
quale si è costituito in epoca moderna e che risulta decisivo anche nel momento attuale.<br />
b) Chiesa e mondo nella storia<br />
a) Fino al tardo medioevo era sembrato possibile, almeno a livello ideale, che la Chiesa si ponesse<br />
come fattore determinante di unificazione della società umana. Da questo disegno di unificazione<br />
restavano sostanzialmente esclusi i non cristiani, in particolare i «turchi», ma questo non sembrava<br />
disturbare eccessivamente la cristianità 191 .<br />
b) Ma è ormai anche questo che risulta impossibile nella congiuntura storica determinata in Europa<br />
dalle divisioni delle Chiese cristiane nel secolo XVI: epocalmente la fede cristiana non riesce a pro-<br />
durre una mediazione simbolica della unità della storia ed il mondo ricerca quindi altrove, nella e-<br />
sclusione delle Chiese, un fondamento unitario della propria convivenza. Infatti è all’interno della<br />
fede cristiana, nella figura che ha assunto nel XVI secolo, che si annida il germe della inimicizia so-<br />
ciale: i cristiani fanno guerra tra di loro e non possono proporsi come elemento di unità. Per trovare<br />
pace occorre mettere tra parentesi l’identità cristiano/confessionale e cercare un diverso punto di in-<br />
contro. Il mondo è costretto a ricercare una unità fuori dalla tutela della fede cristiana. Questo pro-<br />
cesso avviene a diversi livelli. In primo luogo è lo Stato che si pone come absolutus, sciolto dai vin-<br />
coli religiosi delle coscienze. Ma, più generalmente, si impone la necessità di costruire su una base<br />
secolarizzata i fondamenti della convivenza, anche nella «criminosa ipotesi che Dio non esista», etsi<br />
Deus non daretur. L’orizzonte mondano in epoca moderna si viene quindi a costituire progressiva-<br />
mente fuori dell’orizzonte ecclesiale, proprio in quell’elemento che è centrale per la fede cristiana:<br />
cioè rispetto alla capacità che dovrebbe possedere la Chiesa di indicare al mondo il cammino verso<br />
la riconciliazione finale. Sarebbe semplicistico pensare che la causa di questo fatto sia stata soltanto<br />
la divisione delle Chiese. Ma è certo che il divenire della coscienza occidentale (segnato dal lento<br />
191 Lo stesso Erasmo nella Querela pacis (1517) pone su un piano radicalmente diverso la guerra contro i turchi, vista<br />
come un male minore, e la guerra tra i cristiani, incompatibile in ogni caso con il vangelo di Cristo. Appare quindi come<br />
lo stesso ideale di unità della storia di cui si fanno carico i cristiani è, di fatto, già limitato alla storia interna al mondo<br />
occidentale cristiano.<br />
322
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
formarsi di un sapere scientifico autonomo, dal consolidarsi delle identità nazionali, dall’emergere<br />
di popoli nuovi fuori della cristianità, dallo sconvolgimento degli ordines medievali e dall’af-<br />
fermarsi di nuove classi sociali grazie alle nuove forme di produzione economica) trovò davanti a sé<br />
una Chiesa di fatto impreparata ed ancora attaccata ad un ideale di cristianità ormai tramontato.<br />
c) Di fronte alla esclusione le Chiese cristiane, e soprattutto la Chiesa cattolica, reagiscono con<br />
l’apologetica della inimicizia, differente da quella «fuga monastica» dal mondo che aveva segnato i<br />
secoli passati. Infatti la «fuga monastica» non avanzava pretese sul mondo, mentre l’inimicizia mo-<br />
derna della Chiesa nei confronti del mondo è tutta tesa a riguadagnare un posto nel mondo alla<br />
Chiesa, in quella posizione di privilegio a cui aveva sostanzialmente posto fine l’epoca delle guerre<br />
di religione, ma che la rivoluzione francese seppellirà per sempre sotto le macerie dell’Ancien Ré-<br />
gime. Sempre l’apologetica dell’inimicizia domina, nel secolo XIX, quella che è stata chiamata una<br />
«<strong>ecclesiologia</strong> sotto il segno dell’affermazione dell’autorità» 192 . Si tratta infatti di ristabilire<br />
quell’autorità della Chiesa sulla società che invece è negata da tutto l’evolversi della coscienza mo-<br />
derna. Questa pretesa viene giustificata con una lettura catastrofica della realtà mondana liberata<br />
dalla tutela religiosa: senza il legame religioso cristiano infatti la società non può che sfociare nella<br />
violenza e nella negazione di ogni autentico diritto 193 . E, se è vero che la società civile possiede i<br />
propri fini e gli strumenti adeguati a raggiungerli, è altresì vero che solo il fine soprannaturale pos-<br />
seduto dalla società perfetta Chiesa può «sanare» la sostanziale inadeguatezza della realtà mondana.<br />
d) L’esperienza cristiana e la stessa storia della teologia conoscono, tra il secolo XIX ed il secolo<br />
XX, esempi di un diverso rapporto da quello della inimicizia e dell’affermazione dell’autorità. Ma<br />
si tratta di fenomeni marginali che non riescono ad incidere nella coscienza dominante. È solo dopo<br />
la seconda guerra mondiale che, in campo teologico, si affermano diverse letture della realtà mon-<br />
dana che tentano un rapporto meno conflittuale tra Chiesa e mondo. Due furono le vie principali at-<br />
traverso le quali la teologia tentò di recuperare questo rapporto meno conflittuale. La prima tentò di<br />
sfruttare tutti quegli elementi del tradizionale pensiero filosofico cristiano che sottolineavano una<br />
giusta autonomia delle «realtà terrene» 194 . La seconda invece si impegnò in una lettura «amica» del<br />
192 Y. CONGAR, L’ecclésiologie de la Révolution française au Concile du Vatican, sous le signe de l’affirmation de<br />
l’autorité, in L’ecclésiologie au XIX siècle, Cerf, Paris 1960, 77-114.<br />
193 Significativa a tal proposito, la Quanta cura di Pio IX (DzH 2890); ma Pio IX non era isolato: si vedano i pareri espressi<br />
dai vescovi in preparazione al Vaticano I, raccolti in MANSI, Collectio conciliorum, vol. 49.<br />
194 Cfr. G. THILS, Teologia delle realtà terrene, Edizioni Paoline, Alba 1951. Negli anni Cinquanta nel mondo cattolico<br />
si scontrarono due correnti ecclesiologiche a proposito delle «realtà terrene»: una che, per correggere la visione troppo<br />
ottimistica del mondo, insiste sulla distinzione e sulle sue implicazioni come la presenza del peccato nel mondo, la realtà<br />
della Croce, la morte e la redenzione (linea escatologista); l’altra che, al contrario, si è proposta di evitare la visione pes-<br />
323
Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
processo di secolarizzazione 195 : questo processo infatti non è consono al cristianesimo stesso? Già<br />
la teologia dialettica aveva messo in crisi la funzione «religiosa» della fede cristiana come giustifi-<br />
cazione dell’ordine mondano 196 . Ma, per vie diverse, soprattutto Gogarten e Bonhoeffer ottennero<br />
quasi un consenso teologico sul carattere fondamentalmente «cristiano» del mondo secolarizzato 197 .<br />
e) Resta tuttavia una certa insoddisfazione rispetto a questi tentativi: un mondo secolarizzato, sem-<br />
pre più dominato dall’uomo (ominizzato) e libero da qualsiasi riferimento religioso, non rischia di<br />
diventare meno umano? E lo stesso processo di secolarizzazione non è ormai in crisi, affetto da<br />
quella crisi che attanaglia tutta la società occidentale nei suoi stessi valori fondanti? Ed ancora: una<br />
Chiesa che prende semplicemente atto di un mondo secolarizzato e cerca di modellare la sue pre-<br />
senza in conformità a questo mondo non rischia di diventare subalterna ad esso, giustificatrice delle<br />
sue scelte e incapace di svelare la differenza escatologica che costituisce lo statuto della esistenza<br />
mondana? La teologia attuale ha quindi cercato di elaborare modelli alternativi per la presenza della<br />
Chiesa nel mondo, dalla «nuova» teologia politica alle varie forme di teologie della liberazione, so-<br />
prattutto là dove, come in America Latina, l’esperienza vissuta dei cristiani ha suscitato, prima an-<br />
cora della teologia, forme inedite di coinvolgimento, lontane sia dal modello della cristianità che dal<br />
«patto» che in qualche modo sembra legare in Occidente Chiese cristiane e società borghese 198 .<br />
La situazione della coscienza ecclesiale e della coscienza teologica sembra quindi, in questo mo-<br />
mento, attraversare uno stato di «fluidità» e di incertezza nella determinazione del rapporto che deve<br />
legare l’esperienza della fede cristiana a «questo» mondo. Forse questa «fluidità» è, a sua volta, con-<br />
seguenza di quel detonatore dei rapporti tra Chiesa e mondo che è stato il Vaticano II 199 . Il concilio,<br />
infatti, ha recepito la svolta di atteggiamento nei confronti della storia, espressa nell’allocuzione in-<br />
simistica del mondo partendo dall’unità come implicazione dei dogmi della creazione, incarnazione e del dominio di<br />
Cristo sul mondo e sulla storia (linea incarnazionista). Sulla disputa cfr. G. COLOMBO, “Escatologismo e incarnazionismo”,<br />
in La Scuola Cattolica 87 (1959) 344-376; 401-424.<br />
195 Cfr. i saggi raccolti in H.-H. SCHREY (ed.), Säkularisierung, Darmstadt 1981.<br />
196 È sempre attuale e importante la lettura di K. BARTH, L’Epistola ai Romani (1922 2 ), Feltrinelli, Milano 1978.<br />
197 F. GOGARTEN, Der Mensch zwischen Gott und Welt, Heidelberg 1952; ID., Destino e speranza dell’epoca moderna,<br />
Morcelliana, Brescia 1972; D. BONHOEFFER, Resistenza e Resa, Paoline, Cinisello B. (Mi) 1988); ma altri nomi dovrebbero<br />
essere ugualmente citati e, in primo luogo, quello di Tillich, soprattutto per il suo influsso sulla teologia protestante<br />
nordamericana. Per i cattolici ci limitiamo a rimandare a K. RAHNER, Riflessioni teologiche sulla secolarizzazione, in<br />
Nuovi Saggi III, Ed Paoline, Roma 1969, 723-759.<br />
198 Cfr. J.B. METZ, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1974; ID., La fede nella storia e nella società, Queriniana,<br />
Brescia 1978; ID., Al di là della religione borghese, Queriniana, Brescia 1982; G. GUTIÉRREZ, Teologia della liberazione,<br />
Queriniana, Brescia 1972; M.-D. CHENU, La Parole de Dieu, 2. L’evangile dans le temps, Paris 1964 (trad.<br />
it. parziale, Il Vangelo nel tempo, AVE, Roma 1968).<br />
199 Solo adesso cominciano tentativi più solidi di interpretazione del Vaticano II, fondati su ricerca rigorosa del suo significato<br />
effettivo. In tale direzione cfr. G. ALBERIGO -J. P. JOSSUA, Il Vaticano II e la Chiesa, Brescia 1985. Con interesse<br />
più spiccatamente teologico si pongono invece R. LATOURELLE (ed.), Vaticano II: Bilancio e prospettive venticinque<br />
anni dopo (1962-1987), Cittadella, Assisi 1987 e Il Concilio venti anni dopo, 3 voll., AVE, Roma 1984-1986.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte II: l’autocomprensione della Chiesa nella storia<br />
troduttoria Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII. Questa segnò, da parte ufficiale, un supera-<br />
mento di quel giudizio di condanna e di inimicizia nei confronti del mondo e della storia che aveva<br />
contraddistinto il magistero romano da Gregorio XVI a Pio XII 200 . Il concilio nella costituzione<br />
Gaudium et spes, stabilendo il principio della distinzione tra Chiesa e società umana, ha affermato<br />
l’autonomia relativa del temporale, ha imboccato la via del dialogo come metodo fondamentale per<br />
entrare in relazione con tutti gli “uomini di buona volontà” e ha formulato un giudizio positivo sul<br />
mondo e sulla storia 201 . D’altra parte nel suo giudizio non sempre è riuscito a distaccarsi da para-<br />
digmi culturali estranei a quel giudizio profetico che è proprio dell’evangelo ed il quale contiene ad<br />
un tempo l’accoglimento assoluto della storia e lo svelamento della sua distanza rispetto al Regno. Il<br />
concilio ha cercato di oltrepassare quella frattura che lo separava dal mondo — una frattura di carat-<br />
tere culturale, più che di carattere istituzionale e/o politico, come era accaduto a volte in passato —,<br />
avviando un’opera generale di aggiornamento delle modalità propositive del Vangelo, adattandone<br />
il linguaggio agli uomini del nostro tempo. Nel frattempo, però, ci si è accorti che il problema non si<br />
limitava al modo di proporre l’Evangelo, come se esso fosse un bene noto a monte delle forme cul-<br />
turali che ne permettono un’incarnazione effettiva.<br />
Il fatto è esploso durante il Sinodo dei vescovi del 1974, dedicato a «De evangelizatione mundi<br />
huius temporis»: i padri, incapaci di trovare un’articolazione fra “evangelizzazione” e “promozione<br />
umana”, non riuscirono a produrre un testo unitario, lasciandone il compito a Paolo VI. Egli nel-<br />
l’enciclica Evangelii Nuntiandi (1975) fornì non certo la soluzione quanto piuttosto un orientamen-<br />
to, indicando che la corretta nozione di evangelizzazione include la liberazione/promozione<br />
dell’uomo, senza ridursi ad essa. L’evangelizzazione diveniva così il compito precipuo della Chiesa,<br />
da intendersi però non come proclamazione verbale di un nucleo puro e immutabile del Vangelo in<br />
forme aggiornate, ma piuttosto come il processo storico mediante cui la Chiesa dà figura a quelle<br />
“forme di vita” che l’Evangelo suscita all’interno di una determinata cultura.<br />
200 Cfr. G. ALBERIGO, Dal bastone alla misericordia. Il magistero nel cattolicesimo contemporaneo (1830-1980), in<br />
Cristianesimo nella storia 2 (1981) 487-521; G. ALBERIGO - A. MELLONI, L’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni<br />
XXIII (11 ottobre 1962), in Fede Tradizione Profezia. Studi su Giovanni XXIII e sul Vaticano II, Brescia 1984,<br />
185-283.<br />
201 Sull’ottimismo del Concilio si veda però l’acuto commento di A. BERTULETTI: «Questo ottimismo non è propriamente<br />
teologico né pastorale, ma spirituale. È su questo piano che esso giustifica la “forma del dialogo” …, di un dialogo<br />
che non subordina la verità al dialogo, poiché comprende il dialogo come già iscritto nella qualità umana della verità. La<br />
qualità cristiana della verità esige il dialogo, poiché accredita a qualsiasi interlocutore la possibilità di istruire il credente<br />
sul senso del vangelo di Cristo»: ID., Il “magistero pastorale” di Giovanni XXIII, in Echi XX/1 (1999) 22; cfr. pure A.<br />
BERTULETTI, Giovanni XXIII e il Concilio, in Giovanni XXIII e il Vaticano II, Atti degli Incontri svoltisi presso il Seminario<br />
vescovile di Bergamo 1998-2001, a cura di G. CARZANIGA, San Paolo, Cinisello B. (Mi) 2003, 72-83.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
III. LA CHIESA COME POPOLO DI DIO<br />
Dopo aver presentato gli insegnamenti più importanti del Vaticano II sulla Chiesa, il passo succes-<br />
sivo porta a precisare la natura e il carattere proprio del popolo di Dio della nuova alleanza. A que-<br />
sto punto la nostra riflessione procederà in tre momenti. Nel primo, indichiamo che il “luogo” della<br />
Chiesa nella fede cristiana è quello della “mediazione testimoniale” 1 . Nel secondo, determineremo<br />
gli elementi essenziali della “struttura” della Chiesa nel dinamismo di “comunione/tradizione”. Nel<br />
terzo affronteremo le quattro proprietà che il Simbolo della fede confessa a proposito della Chiesa.<br />
3.1. Il “posto” della Chiesa nella fede cristiana: la “mediazione testimoniale”<br />
a) Senza Chiesa non c’è Gesù. Senza la Chiesa non sapremmo niente di Gesù, non avremmo neppu-<br />
re i testi che ci parlano di lui. Il gruppo riunito attorno a Gesù, la comunità generata dalla sua parola<br />
è il soggetto portatore del suo messaggio. Questo non ci è accessibile se non nel prisma della rispo-<br />
sta credente dei discepoli: infatti solo chi è stato testimone del Crocifisso e ha compreso in questa<br />
“forma” la stupefacente rivelazione di Dio, può riconoscere i tratti del Risorto e darne testimonianza<br />
(At 1,21-22). La Chiesa infatti è chiamata alla testimonianza, così che tutte le genti possano entrare<br />
in quella relazione salvifica con Gesù propria dei discepoli (Mt 28,19).<br />
b) Lo Spirito e la Sposa 2 . È lo Spirito però che costituisce e abilita la testimonianza della Chiesa (At<br />
1,8): ma questo può venire solo attraverso la vita, morte e risurrezione di Gesù. Il Vangelo non è<br />
quindi la proclamazione di una possibilità di cui l’uomo dispone indipendentemente dall’evento di<br />
Gesù e che si tratterebbe solo di risvegliare, ma l’annuncio dell’evento per il quale, soltanto, l’uomo<br />
ha accesso a Dio. Ecco perché la fede che precede il Cristo è essenzialmente anticipazione di lui, e<br />
dopo la sua venuta testimonianza di lui.<br />
Dopo la venuta del Cristo la presenza storica della verità di Dio è legata all’annuncio di Gesù. Solo<br />
questo gode di una univocità che permette di discernere nella sua determinatezza lo Spirito. In tal<br />
senso l’apostolo Paolo stabilisce una relazione precisa tra lo Spirito e la Chiesa: lo Spirito fa della<br />
1 Per un approfondimento sul tema si vedano: G. ROTA, La Chiesa nel disegno di Dio, in A. BERTULETTI ET AL., Credere<br />
da cristiani, Litostampa Istituto Grafico, Bergamo 1999, 29-58; G. ANGELINI, La testimonianza prima del “dialogo” e<br />
oltre, Ancora, Milano 2008; G. ANGELINI – S. UBBIALI (ed.), La testimonianza cristiana, Glossa, Milano 2009.<br />
2 Sul rapporto tra Spirito e Chiesa cfr. Y. CONGAR, “ Lo Spirito anima la Chiesa”, in ID., Credo nello Spirito Santo,<br />
Queriniana, Brescia 1998, 199-265; W. KASPER - G. SAUTER, La chiesa luogo dello Spirito. Linee di <strong>ecclesiologia</strong><br />
pneumatologica, Queriniana, Brescia 1980; I. TIEZZI, Il rapporto tra la pneumatologia e l’<strong>ecclesiologia</strong> nella teologia<br />
italiana post-conciliare, Pont. Univ. Gregoriana, Roma 1999; G. CISLAGHI, Per una <strong>ecclesiologia</strong> pneumatologica. Il<br />
Concilio Vaticano II e una proposta sistematica, Pubblicazioni del Pontificio Seminario Lombardo in Roma – Glossa,<br />
Roma- Milano 2004; D. DONNELLY – A. DENAUX – J. FAMERÉE (edd.), The Holy Spirit, the Church, and the Christian<br />
Unity. Proceedings of the consultation held at the monastery of Bose, Italy (14-20 october 2002), Peeters, Leuven 2005.<br />
325
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Chiesa il “corpo” del Cristo (1Cor 12,12-13). La Chiesa, infatti, mediante l’annuncio conferisce allo<br />
Spirito una visibilità storica; anzi, più radicalmente essa condivide il carattere di concretezza e sin-<br />
golarità che fa del Cristo il “corpo” dello Spirito. Non che lo Spirito sia presente esclusivamente<br />
all’interno della comunità: esso infatti è all’origine di quel grido inarticolato che sale dalla creazione<br />
intera (Rm 8,26-27) e suscita nel cuore di ogni uomo quell’intima inquietudine, cui la comunità, che<br />
conosce lo Spirito, è in grado di dare voce in modo consapevole. Così, mediante la testimonianza di<br />
un popolo, che attesta la destinazione universale della salvezza testimoniando Gesù, si rende mani-<br />
festa la rivelazione del disegno divino sulla storia.<br />
Lo Spirito garantisce quindi la contemporaneità di Gesù al tempo della Chiesa. È soprattutto il van-<br />
gelo di Giovanni che esprime l’inseparabilità e la reciprocità tra Gesù e lo Spirito: lo Spirito è il<br />
“rappresentante” del Cristo, non in quanto lo “sostituisce” ma in quanto lo “rende presente” («gli<br />
renderà testimonianza» Gv 15,26-27) dopo che Gesù è stato designato come il “testimone di Dio”<br />
(Gv 8,12-20). Esso abilita la Chiesa a testimoniare Gesù: «Egli mi renderà testimonianza e anche<br />
voi mi renderete testimonianza» (Gv 15,26-27). Lo Spirito non segue al Cristo, non gli aggiunge<br />
nulla, ma proprio per questo non lo ripete: lo rende presente effettivamente nella concretezza della<br />
storia in ogni tempo. Grazie appunto all’azione dello Spirito la decisione di credere, anche se non è<br />
cronologicamente contemporanea a quella degli apostoli, è immediata in rapporto a Gesù. Lo Spirito<br />
infatti garantisce che la dedizione salvifica di Gesù, il suo corpo donato, sia custodito per tutti nella<br />
forma di corpo scritturistico e corpo sacramentale dal corpo ecclesiale. Egli è infatti il principio<br />
dell’ispirazione del corpo delle Scritture che attestano la verità di Gesù; è invocato come il principio<br />
della santificazione di quel pane e di quel vino con cui si fa memoria dell’offerta di Gesù; è ricono-<br />
sciuto come colui che abilita all’esercizio del ministero apostolico e il principio dell’unità e del-<br />
l’indefettibilità della comunità di coloro che confessano che «Gesù è Signore» (1Cor 12,3). Le for-<br />
me obiettive dell’azione dello Spirito — che costituiscono il criterio di autenticità di ogni altra effu-<br />
sione — danno una concretezza e storicità obiettiva alla presenza di Gesù ed alla sua venuta dopo la<br />
sua partenza. Lo Spirito non completa la rivelazione di Gesù, ma, assicurando l’universalità sul pia-<br />
no storico di ciò che è e rimane singolare, è garante del realismo della fede di quelli che crederanno<br />
«pur non avendo visto» (Gv 20,29).<br />
c) La mediazione ecclesiale: la fede testimoniale<br />
(I) La Chiesa, in quanto comunione dei credenti, quindi, non è un’entità al di fuori dell’avvenimento<br />
della rivelazione e ad esso aggiunta solo in un secondo tempo. Appartiene invece all’accadimento<br />
della rivelazione cristologica come momento specifico ed essenziale. Nella tradizione teologica<br />
questo nesso viene affermato nella confessione «credo ecclesiam» presente nel Simbolo: la Chiesa<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
appartiene quindi all’evento della rivelazione cristologica come momento specifico ed essenziale e<br />
d’altra parte essa riconosce nei suoi confronti una strutturale asimmetria. Se volessimo poi qualifi-<br />
care più univocamente la natura intrinseca del nesso fra i due aspetti, potremmo dire che la Chiesa<br />
realizza una funzione di mediazione, la cui la dimensione specifica è quella della testimonianza.<br />
(II) I tratti della mediazione ecclesiale<br />
(1) La mediazione ecclesiale non è sostitutiva. Essa non implica alcuna incorporazione e supera-<br />
mento dell’incarnazione di Cristo nella appartenenza ecclesiastica e della rivelazione cristologica<br />
nella fede ecclesiastica (ortodossia). E quindi di Gesù Cristo nella Chiesa.<br />
Di conseguenza la Chiesa non è il “sostituto” o “surrogato” di Cristo durante questo tempo interme-<br />
dio ed essa neppure coincide con la millenaristica età dello Spirito in grado di dare figura storica<br />
compiuta al regno di Dio mediante l’incorporazione progressiva dello Spirito nella istituzione e del<br />
mondo nella Chiesa storica. Essa di questo Regno di Dio «costituisce in terra il germe e l’inizio»<br />
(LG 5) e non lo instaura perseguendo un progetto e un programma storico-sociale di configurazione<br />
della storia umana e sociale. La stessa mediazione ecclesiale infatti non coincide con il semplice<br />
darsi storico effettivo del cristianesimo, ossia delle forme effettive della testimonianza ecclesiale.<br />
Anche là dove si edifica sul fondamento posto da Dio, rimane ancora da vedere come si edifica<br />
(1Cor 3,9ss). La mediazione ecclesiale, che si concepisce formalmente quale esercizio storico-<br />
sociale della fede, così attesta immediatamente che la propria effettività storica e sociale non coinci-<br />
de né tantomeno sostituisce la presenza di Dio nella singolarità di Gesù (“solo il Figlio rivela il Pa-<br />
dre”) né la presenza di Dio nell’esistenza storica di ogni uomo che viene nel mondo (“lo Spirito sof-<br />
fia dove vuole”). Questo non implica che il riferimento alla chiesa confessionale quale grandezza<br />
socio-culturale sia accessorio: infatti senza la testimonianza ecclesiale non si dà presenza storica di<br />
Gesù qui e adesso.<br />
(2) La mediazione ecclesiale non è una semplice inter-mediazione. Essa non vuole suscitare una fe-<br />
de qualsiasi, perché vuole consentire e propiziare l’accesso all’insostituibile fondamento della fede<br />
teologale: la relazione con il Signore che si rivela la forma non ulteriormente mediabile del suo e-<br />
sercizio e della sua effettualità storica. Essa quindi custodisce e annuncia la possibilità universale<br />
della fede solo in ragione della storicità dell’evento della Rivelazione. D’altra parte della storicità di<br />
questo evento essa è anche il frutto e l’accesso storico effettivo: in tal senso la Chiesa non è come<br />
un semplice intermediario che media altro da sé, poiché la relazione col Signore (la “nuova allean-<br />
za”) ha come condizione ed effetto la stessa realtà ecclesiale (il “nuovo popolo”).<br />
327
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
(3) La mediazione ecclesiale è formalmente testimoniale. Essa, infatti, garantisce le condizioni o-<br />
biettive dell’accesso alla verità di Gesù. Le condizioni della fede apostolica, su questo punto preci-<br />
so, sono le stesse di ogni venire alla fede nella forma della testimonianza. La singolarità della espe-<br />
rienza degli apostoli, che non è ereditabile e riproducibile, è data dalla indeducibilità dell’evento<br />
cristologico e quindi dell’accadere della effettiva relazione storica con Gesù di Nazaret (il Gesù ri-<br />
sorto può mostrarsi solo ai discepoli, perché solo loro, mediante il travaglio della memoria, possono<br />
riconoscere i tratti del Crocifisso e simultaneamente cogliere la sua identità teologica). Ma la strut-<br />
tura in cui si compie il loro aver fede è certamente identica a quella di ogni possibile figura storica<br />
dell’aver fede: poiché sin dal primo istante essa è mediata dalla revisione della memoria storica di<br />
Gesù di Nazaret che riconosce in lui il fondamento vivente del dono dello Spirito e il referente ulti-<br />
mo per la decifrazione dei segni della presenza di Dio. La fede cristiana non può quindi essere ridot-<br />
ta alla figura di una fede “nella fede dell’altro”, a una “fede di seconda mano” che non dispone più<br />
della “rivelazione di Dio” e quindi senza possibilità di un rapporto diretto del singolo con Dio, nella<br />
forma di una vera e propria coscienza personale della propria attuale relazione con il Signore.<br />
La fede come incontro e relazione personale con il Signore che giunge al riconoscimento della sua<br />
verità teologica non è stata possibile soltanto per gli apostoli e per i primi discepoli, mentre per tutte<br />
le generazioni a venire la fede si è realizzata di fatto nel dare credito alla testimonianza degli aposto-<br />
li. La giusta affermazione della singolarità normativa della fede apostolica — come già accennato<br />
— non riguarda il piano della struttura della fede storica. La fede infatti si edifica sempre sulla base<br />
della persuasiva evidenza della rivelazione evangelica e si compie nella certezza della incarnazione<br />
del Figlio nel Signore Gesù morto e risuscitato. Essa sempre vive nella consapevolezza della pre-<br />
senza del Signore e nella effettività della relazione con Lui; diversamente coinciderebbe con la<br />
semplice adesione ideologica al modo cristiano di vedere le cose o di praticare la religione.<br />
L’annuncio, invece, concerne la possibilità di avere la stessa fede, e quindi la stessa relazione con il<br />
Signore. Anche perché ieri e oggi e sempre, rimane vero che nessuna relazione “fisica” con Gesù è<br />
in grado di propiziare l’infallibile certezza di una fede compiuta e di una relazione “effettiva” col<br />
Signore, dato che il testimone oculare non è ancora il discepolo e i segni del Regno possono essere<br />
letti come opere di Beelzebul. In questo senso non c’è nessun vantaggio per coloro che sono vissuti<br />
prima (Gv 20,29-31).<br />
Se è vero che la verità della relazione con il Signore si dà soltanto nella testimonianza e mediante la<br />
testimonianza, essa non ha per tema se stessa, bensì la rivelazione, la relazione, che ha per soggetto<br />
il Signore, il quale è assolutamente insostituibile. Le istituzioni ecclesiali della parola, dei sacramen-<br />
ti, il cui esercizio “pubblico” è affidato alla cura del ministero apostolico, vogliono appunto propi-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
ziare istituzionalmente la possibilità di accendere l’attenzione al passaggio del Signore nella vita di<br />
ogni uomo e di corrispondervi in modo salvifico effettivo.<br />
Come si esercita questa mediazione della Chiesa? Attraverso l’ordine simbolico cristiano.<br />
3.2. L’ordine simbolico cristiano<br />
Accedere all’identità cristiana è accedere alla fede in Gesù come Cristo, Signore, Figlio di Dio. È, di<br />
conseguenza, far propria la professione di fede da cui è nata la Chiesa 3 . Due precisazioni si impon-<br />
gono fin dall’inizio: la prima, a proposito della nozione d’identità; la seconda, a proposito del rap-<br />
porto tra l’identità personale di ognuno come cristiano e la Chiesa.<br />
- In primo luogo, parlare d’identità non è situarsi su un piano semplicemente giuridico o ammini-<br />
strativo. Certamente, non si dà identità se non attraverso un processo istituzionale che esige come<br />
minimo il conferimento di un nome riconosciuto da tutti, nome debitamente registrato allo stato ci-<br />
vile. Un processo come questo è molto più profondo che non un timbro ufficiale apposto alla tessera<br />
di adesione a un partito o a un club. Qui, infatti, è in gioco la possibilità stessa di esistere come sog-<br />
getti: un individuo senza identità, e soprattutto senza nome, non potrebbe che essere escluso dalla<br />
società e non potrebbe vivere come soggetto. Parlare d’identità soggettiva è toccare il punto più vi-<br />
vo di ciò che fa di un essere umano una persona. A maggior ragione si deve dire la stessa cosa<br />
quando si tratta d’identità cristiana. Diciamo così perché qui è in gioco il riconoscimento del cristia-<br />
no non soltanto come soggetto umano, ma come soggetto credente: la sua identità personale è legata<br />
alla professione di fede che egli fa sua, dunque al senso che, su questa base, egli dà alla propria vita.<br />
Il credente è coinvolto personalmente nella propria identità. Eppure, questa passa attraverso la Chie-<br />
sa come istituzione. Nessuno può accordare a se stesso l’identità di cristiano: a questo scopo è ne-<br />
cessario passare attraverso il battesimo; e nessuno può battezzare se stesso, ma ognuno è battezzato<br />
da un altro, che agisce come ministro della Chiesa, in nome di Gesù Cristo.<br />
- In secondo luogo, se un’identità del genere ha una dimensione personale, essa sorge però soltanto<br />
all’interno di un modello ecclesiale comune a tutti i cristiani. È questo modello che vogliamo ora<br />
analizzare. Esiste, infatti, un modello generale d’identità cristiana: impossibile dirsi cristiani se non<br />
si assimilano alcuni tratti che caratterizzano il cristiano. Tuttavia, questo modello non è un’unifor-<br />
me: le esperienze tramite cui si giunge alla fede sono molteplici. Perciò, se è vero che c’è un model-<br />
3 Ci ispiriamo qui alla proposta di L.M. CHAUVET, I sacramenti, Ancora, Milano 1993; ID., Simbolo e sacramento. Una<br />
rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, Elle Di Ci, Leumann (To),1990, 113-218.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
lo comune, è anche vero, però, che ciascuno può essere cristiano in modo personale. Questo model-<br />
lo comune è l’ordine simbolico proprio della Chiesa, cioè è una struttura che vogliamo analizzare.<br />
3.2.1. La struttura dell’identità cristiana<br />
Noi rintracceremo la struttura soprattutto nelle opere di Luca: il Vangelo e gli Atti degli Apostoli.<br />
a) Tre testi-matrice<br />
Alcuni testi di Luca, riguardanti l’accesso alla fede, sembrano costruiti su uno stesso modello. Si<br />
possono, in particolare, mettere in parallelo gli episodi dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), del<br />
battesimo dell’etiope (At 8,26-40) e il primo racconto della conversione di Saulo (At 9,1-20). Questi<br />
brani ci presentano una matrice comune.<br />
Nei tre casi, Luca ci situa nel tempo della Chiesa: secondo la sua teologia, dopo la risurrezione di<br />
Gesù, tutto parte da Gerusalemme per andare verso «tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi<br />
confini della terra» (At 1,8). Questo fatto viene indicato in Lc 24, nel movimento da Gerusalemme<br />
verso Emmaus (sebbene, in questo primo tempo, che è quello del primo riconoscimento del Risorto,<br />
vi sia ancora un ritorno verso Gerusalemme), in At 8 da Gerusalemme verso Gaza, in At 9 da Geru-<br />
salemme verso Damasco.<br />
Nei tre casi, si è in presenza di una iniziativa di Dio: attraverso il Cristo risorto in Lc 24, mentre gli<br />
occhi dei due discepoli sono chiusi; attraverso il suo Spirito in At 8, mentre è chiuso lo spirito del-<br />
l’etiope; ancora attraverso il Cristo risorto in At 9, quando stanno per chiudersi gli occhi di Saulo. È<br />
importante sottolineare che, nei tre casi, l’iniziativa divina, che sola permette ai discepoli di accede-<br />
re alla fede, giunge attraverso la mediazione della Chiesa. È questa, senza dubbio, una delle caratte-<br />
ristiche più rilevanti di questi racconti. Questa mediazione della Chiesa è attestata a tre livelli.<br />
- In primo luogo, tale mediazione è presente attraverso il kerigma, che annuncia la morte e la<br />
risurrezione di Gesù come chiave di lettura di «tutte le Scritture» (Lc 24,27), o nella grande pagina<br />
di Is 53 (il servo sofferente) che l’etiope legge senza capire, perché soltanto attraverso una guida<br />
può coglierne il senso (quella guida di lettura che è la Chiesa a fornire); quanto al racconto di At 9,<br />
vi è implicato questo stesso annuncio della risurrezione di Gesù crocifisso, dato che la voce dal cie-<br />
lo indica che egli vive nella sua Chiesa: «Io sono quel Gesù che tu perseguiti!» (At 9,5). Si può nota-<br />
re che, in tutti e tre i casi, questa iniziativa di Dio avvia un itinerario verso la fede che si traduce in<br />
una richiesta dei testimoni: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino» (Lc<br />
24,29); «Che cosa mi impedisce di essere battezzato?» (At 8,36); «Chi sei, o Signore?» (At 9,5).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
- In secondo luogo, questa fede rimane incompiuta finché non viene “informata” da un gesto<br />
sacramentale: quello dello spezzare il pane in Lc 24,30; del battesimo in At 8,38; dell’imposizione<br />
delle mani seguita dal battesimo (da parte di Anania) in At 9,17. È soltanto allora che «si aprirono i<br />
loro occhi» (cfr. Lc 24,31).<br />
- In terzo luogo, gli occhi si aprono, ma su un’assenza: il Risorto scompare appena riconosciu-<br />
to in Lc 24,31, mentre in At 8,39 il suo testimone, Filippo, è rapito dallo Spirito. Quest’assenza sa<br />
indubbiamente di essere ormai abitata da una presenza. Ed è proprio il fatto che questa presenza è<br />
divenuta “spirituale” 4 a spingere i testimoni a proclamarla nell’impegno missionario: i due discepoli<br />
in Lc 24, così come Saulo in At 9, ne sono ormai gli araldi e i testimoni, mentre in At 8,39 l’etiope<br />
«proseguì pieno di gioia il suo cammino», quella gioia così spesso ricordata da Luca e che, nel suo<br />
codice teologico, designa la gioia dei tempi messianici, la gioia della salvezza nella fede.<br />
b) Il capitolo 24 del Vangelo secondo Luca<br />
La matrice che genera alla fede, quale ci viene presentata nei testi precedenti, può essere analizzata<br />
in forma più approfondita a partire dal primo di essi. Non è inutile, a questo scopo, situare<br />
l’episodio di Emmaus nell’insieme del capitolo 24 entro il quale è collocato.<br />
Anche qui, vanno evidenziati numerosi paralleli fra le tre pericopi principali del capitolo:<br />
- L’annuncio della risurrezione alle donne venute al sepolcro (vv. 1-12).<br />
- L’episodio di Emmaus (vv. 13-35).<br />
- L’apparizione agli Undici (vv. 36-49).<br />
In tutti e tre i casi i personaggi partono da un desiderio di trovare, di vedere, di toccare:<br />
- Le donne, di fatto, «non trovarono il corpo del Signore Gesù» (v. 3), mentre Pietro «vide so-<br />
lo le bende» (v. 12).<br />
- I due discepoli raccontano che le donne non hanno trovato «il suo corpo» (v. 23), mentre i<br />
discepoli che sono andati a verificare la loro testimonianza «non l’hanno visto» (v. 24).<br />
- Gli Undici, presi da timore e dubbio, sono invitati dal Risorto a vedere e a toccare (v. 39)<br />
Per il momento, da questo insieme di rilievi fissiamo un punto: questi verbi riflettono una “isotopia”<br />
comune, cioè si ritrovano allo stesso livello o hanno un tratto similare: ci rimandano tutti al versante<br />
4 Paolo insegna che il corpo del Cristo risorto è un corpo spirituale (cfr. 1Cor 15). Ora, un corpo spirituale è pur sempre<br />
corpo e non spirito: la risurrezione quindi è per Gesù Cristo l’apice dell’incarnazione (At 13,33). Il corpo del Risorto è<br />
di natura misteriosa, “spirituale” (Cf 1Cor 15,45), ma non irreale; tutt’altro. La risurrezione quindi non è un ostacolo<br />
alla presenza di Cristo, ma la sua condizione, in quanto il corpo di Cristo, divenuto “Spirito vivificante” è diventato totalmente<br />
un essere-relazione, ed esercita la sua signoria facendo esistere in relazione.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
del cadavere di Gesù (che cosa si aspettavano di trovare o di vedere, se non il suo corpo morto?) o<br />
dei segni della sua morte (vedere le bende, toccare le sue piaghe).<br />
Più avanti, notiamo che la situazione dei testimoni si sblocca grazie al richiamo alle Scritture:<br />
- «Bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori…» (v. 7).<br />
- «Stolti e tardi di cuore! […] Non bisognava che…?» (vv. 25-26).<br />
- «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte…» (v. 44).<br />
Questi «Bisognava che…» vanno evidentemente letti dal punto di vista della rivelazione di Dio e<br />
del suo disegno di salvezza nelle Scritture: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti…» (v. 27),<br />
«Nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (v. 44). La rilettura cristiana dell’insieme delle Scrit-<br />
ture come annuncio della morte e risurrezione del Messia di Dio o, in senso inverso, la rilettura di<br />
questa morte-risurrezione come conforme alle Scritture, costituisce la chiave di interpretazione,<br />
l’ermeneutica (cfr. v. 27), l’apertura della mente «all’intelligenza delle Scritture» (v. 45), da cui è<br />
nata la Chiesa. Se dunque, come avviene nell’episodio di Emmaus, il gesto sacramentale dello spez-<br />
zare il pane, o, come nei due testi precedenti, quello del battesimo, svolge una funzione importante<br />
nell’accesso alla fede, è sempre sulla base di questa nuova interpretazione della parola di Dio nelle<br />
Scritture e della fede nei suoi confronti.<br />
c) L’episodio dei discepoli di Emmaus<br />
Sullo sfondo di questo episodio si staglia un interrogativo. Interrogativo che era quello dei due di-<br />
scepoli, uno dei quali di nome Cleopa, ma che è pure quello di ogni discepolo di Gesù, oggi come<br />
ieri: «Se è vero che Gesù è risorto ed è vivo, come mai non lo vediamo, come mai non possiamo<br />
vederlo, toccarlo, trovarlo?». A questo interrogativo, che è né più né meno quello della fede, Luca<br />
risponde con una catechesi in forma di racconto, che ha un valore esemplare per ogni credente.<br />
L’andata e ritorno tra Gerusalemme ed Emmaus può essere letto a tre livelli: anzitutto geografico;<br />
poi teologico: Luca concentra tutte le apparizioni di Gesù a Gerusalemme, fuoco e centro unico ver-<br />
so cui converge tutto il suo Vangelo e da cui tutto parte «fino agli estremi confini della terra» (At<br />
1,8), dopo la risurrezione e la Pentecoste; infine, simbolico: questa andata e ritorno geografici sono<br />
simbolo del capovolgimento interiore dei due discepoli, della loro conversione.<br />
Questa conversione costituisce una performance: quella del passaggio dalla non-fede alla fede, dagli<br />
occhi chiusi agli occhi aperti, dal misconoscimento al riconoscimento. Una tale performance corri-<br />
sponde a quella che ogni essere umano deve realizzare per diventare discepolo di Gesù il Cristo. Ma<br />
per poter realizzarla, Cleopa e il suo compagno devono ottenere la competenza necessaria.<br />
In questo racconto ci viene descritto l’episodio in cui i discepoli ottengono tale competenza. Esso è<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
segnato da tre indicatori temporali.<br />
- Una prima sosta per strada: «Si fermarono, col volto triste» (v. 17).<br />
- Il riposo a Emmaus: «Egli entrò per rimanere con loro» (v. 29).<br />
- Il ritorno a Gerusalemme: «Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme» (v. 33).<br />
a) Il primo indicatore temporale corrisponde all’inizio del dialogo tra i due discepoli e il personag-<br />
gio che si accompagna loro. Essi, pur sapendo tutto su Gesù, tuttavia non hanno capito nulla di lui.<br />
Certo, lo considerano un profeta, ma nulla più. Erano arrivati quasi a considerarlo il Messia — «Noi<br />
speravamo che fosse lui a liberare Israele» (v. 21) —, ma questa interpretazione politica del messia-<br />
nismo di Gesù li aveva messi su una falsa pista. Ancora, degli angeli hanno dichiarato ad alcune<br />
donne che egli era vivo; ma né loro, né i discepoli dopo di loro hanno visto lui in persona. Tutto è<br />
dunque bloccato nel loro spirito: essi si sono come lasciati rinchiudere nel sepolcro della morte in-<br />
sieme con Gesù, e le loro difficoltà sono pesanti come la pietra che chiudeva questo sepolcro.<br />
La situazione comincia a sbloccarsi nel momento in cui essi lasciano al personaggio l’iniziativa del-<br />
la parola, iniziativa contrassegnata dal richiamo alle Scritture. Infatti, egli propone loro una erme-<br />
neutica (διερμήνευσεν: spiegò loro), del tutto nuova delle Scritture nel loro insieme: «Mosè e tutti i<br />
profeti» (v. 27). Essa è riassunta da Luca in una sola frase: «Non bisognava che il Cristo sopportasse<br />
queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (v. 26). La morte e la risurrezione del Messia sono la<br />
chiave per comprendere tutto il disegno di Dio secondo l’insieme delle Scritture.<br />
Ora, è di capitale importanza discernere in filigrana, attraverso queste espressioni di Gesù estrema-<br />
mente sintetizzate da Luca, il discorso della Chiesa. Infatti, che cosa fa la Chiesa? Ogni «primo<br />
giorno della settimana» (cfr. 1Cor 16,2), essa legge, come si faceva nella sinagoga, due testi della<br />
Scrittura: un testo di Mosè, cioè della Torah, e un testo dei Profeti. Questi testi venivano in seguito<br />
spiegati nell’omelia, la quale, accostando i due brani e saldandoli a un altro passo della Scrittura (ad<br />
es., il versetto di un salmo che serviva da “apertura” a chi teneva l’omelia), puntava a evidenziare il<br />
senso sempre attuale della parola di Dio. Le prime comunità cristiane hanno adottato con naturalez-<br />
za, nelle loro assemblee, questa stessa tecnica rabbinica di lettura e di spiegazione delle Scritture.<br />
Tuttavia, se la tecnica è la stessa, nuova è l’interpretazione: «Mosè e i Profeti» (con l’aggiunta dei<br />
Salmi, al v. 44) sono ormai interpretati in funzione della morte e della risurrezione di Gesù, come<br />
mostrano in maniera esemplare i vv. 25-27.<br />
In questa prospettiva, se dietro il discorso di Gesù risorto sulle Scritture si deve percepire il discorso<br />
fondatore della Chiesa (il suo kerigma), si chiarisce il problema che comanda l’insieme del nostro<br />
racconto: «Voi non potete accedere al riconoscimento di Gesù risorto, se non rinunciate a vedere,<br />
toccare, trovare immediatamente con prove cogenti». La fede inizia proprio con questa rinuncia<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
all’immediatezza del vedere, sapere e con il consentimento alla mediazione della Chiesa: è lui infat-<br />
ti, il Signore, che parla attraverso la Chiesa ogni volta che questa legge e interpreta le Scritture in<br />
riferimento a lui o, in senso inverso, ogni volta che rilegge il suo destino di morte e di risurrezione<br />
come conforme alle Scritture. In altri termini, ogni volta che l’assemblea, la Chiesa, proclama e<br />
comprende le Scritture come la parola stessa di Gesù («È lui infatti che parla quando si leggono nel-<br />
la Chiesa le sante Scritture»: dirà il Vaticano II — Sacrosanctum concilium, n. 7 —, nel solco della<br />
Tradizione apostolica), essa è il suo portavoce, il suo luogotenente, quindi il suo sacramento.<br />
b) Ma questo non è ancora l’esito definitivo. Perché è solo attorno alla tavola a Emmaus, che avvie-<br />
ne l’apertura degli occhi. Allora Gesù «prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro»<br />
(v. 30). La successione di questi quattro verbi non è casuale: si tratta di quattro verbi tecnici, che ri-<br />
troviamo nei racconti della Cena. I destinatari del Vangelo di Luca non potevano non pensare al rac-<br />
conto della Cena, dal momento che questo, quale ci è trasmesso dal Nuovo Testamento (già dagli<br />
anni 50, cfr. 1Cor 11, dove Paolo intende trasmettere fedelmente ciò che ha ricevuto dalla tradizio-<br />
ne risalente al Signore), veniva recitato ogni domenica. Come in precedenza coglievano la propria<br />
pratica di lettura e di interpretazione ecclesiale delle Scritture in quel «Bisognava che…» di Gesù,<br />
qui comprendono, in maniera se possibile ancor più chiara, la propria pratica dell’eucarestia in me-<br />
moria di lui. La lezione è dunque dello stesso tipo di quella che in precedenza riguardava le Scrittu-<br />
re. Anche qui, bisogna vedere Gesù in filigrana attraverso la Chiesa: ogni volta — ci dice Luca —<br />
che la Chiesa prende il pane, pronuncia la benedizione, lo spezza e lo dona, facendo memoria del<br />
Signore Gesù, è lui a fare tutto questo attraverso di lei. I gesti che essa allora compie, le parole che<br />
pronuncia, sono gesti e parole di lui. Essa ne è, nel senso più forte del termine, il sacramento.<br />
La performance del passaggio dalla non fede alla fede esige lo stesso stacco che era prima richiesto<br />
nei confronti del desiderio di prova immediata e lo stesso consentimento alla mediazione della<br />
Chiesa. È nella Chiesa, che celebra l’eucaristia come preghiera e come azione di lui, così come è<br />
nella Chiesa che accoglie le Scritture come sua Parola, che lo si può riconoscere come il Vivente.<br />
c) Gli occhi dei due discepoli si sono aperti, ma su un’assenza: perché, appena riconosciuto, «lui<br />
sparì dalla loro vista» (v. 31). Tuttavia, questa assenza è ormai per essi piena di una presenza, che<br />
essi, nello stesso istante, cominciano ad annunciare. È impossibile riconoscere Gesù risuscitato sen-<br />
za essere “risuscitati” con lui in una novità di vita 5 , e dunque senza vedersi con ciò stesso incaricati<br />
5 L’espressione del v. 33: «alzandosi all’istante» (anastántes autè te hóra), dove il verbo anístemi che significa alzarsi è<br />
uno dei due verbi principali con cui il Nuovo Testamento parla della risurrezione di Gesù (egli si è alzato dai morti),<br />
contiene un’allusione a questo risorgere dei discepoli a vita nuova.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
di annunciarlo. D’altronde, lo schema classico dei racconti di manifestazione del Cristo nel Nuovo<br />
Testamento lo dicono: dopo aver sottolineato l’iniziativa del Risorto che si fa vedere, il suo ricono-<br />
scimento da parte dei testimoni che vedono in lui lo stesso Gesù crocifisso, ma “in altro modo”, si<br />
conclude sempre con una parola di invio in missione: «Andate a dire…, va’ a dire». Tornando quin-<br />
di a Gerusalemme, dove cominciano con l’accogliere la testimonianza analoga degli Undici, fondata<br />
su quella di Simone (v. 34), i discepoli ben presto partirono di lì.<br />
Ora, questa testimonianza missionaria presenta, nel Vangelo di Luca, ma soprattutto negli Atti, una<br />
dimensione etica importante. Infatti, nei piccoli sommari delle attività e dei comportamenti della<br />
prima comunità cristiana di Gerusalemme, che gli Atti ci abbozzano, la comunione tra fratelli occu-<br />
pa un posto importante: la metà di At 2,42-47 e i tre quarti di At 4,32-35. Questa comunione (koino-<br />
nía) era prima di tutto quella dei cuori uniti (cfr. At 2,44), unanimi (cfr. At 2,46), fondata sulla fede<br />
in Gesù. Tuttavia essa si traduceva concretamente in atteggiamenti e gesti di condivisione: se è vero<br />
che avevano «un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32), quest’unità si manifestava soprattutto nel fat-<br />
to che «ogni cosa era fra loro comune» (ibid.). È importante avvertire che questa etica della condivi-<br />
sione tra fratelli a favore dei più bisognosi non aveva per Luca un valore unicamente morale, ma<br />
teologale. Il fatto di non avere bisognosi in mezzo a loro assumeva valore di segno: «la promessa di<br />
Mosè si compiva a loro beneficio, essi sono la comunità messianica diventata realtà presente» 6 . In<br />
altri termini, nel codice teologico di Luca questa condivisione etica ha valore di testimonianza mis-<br />
sionaria resa alla risurrezione di Gesù.<br />
Nella teologia di Giovanni, questa dimensione teologale dell’etica del servizio agli altri ha una radi-<br />
camento ancora più consistente. Infatti, il quarto Vangelo sostituisce intenzionalmente la lavanda<br />
dei piedi all’istituzione dell’eucaristia: al posto del comandamento riguardante la memoria rituale<br />
del Signore («Fate questo in memoria di me»), che egli peraltro conosce (cfr. Gv 6), Giovanni pone<br />
un comandamento riguardante la memoria esistenziale: «Vi ho dato infatti l’esempio perché, come<br />
(kathòs) ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15). Basandosi sul senso molto forte che Giovanni<br />
dà abitualmente a kathòs, Léon-Dufour scrive: «È come se Gesù dicesse: “Agendo in questo modo,<br />
rendo anche voi capaci di agire allo stesso modo”» 7 . Non si tratta quindi semplicemente di imitare<br />
Gesù dal di fuori: è lui che dà ai discepoli la capacità di agire come lui, è lui che in questi discepoli<br />
6 J. DUPONT, Études sur les Actes des Apôtre, Cerf, Paris 1967, 510. L’Autore precisa (p. 508) che la comunione dei beni<br />
non significava certo un trasferimento giuridico di proprietà, bensì un metterli a servizio dei bisogni di tutti.<br />
7 X. LÉON-DUFOUR, Condividere il pane eucaristico, LDC, Torino 1983, 239.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
compie il servizio che deve caratterizzarli. La loro etica di servizio ha qualcosa di sacramentale nel-<br />
la misura in cui è portatrice del dono di sé che Gesù ha fatto.<br />
Ma anche a prescindere da questa rapida digressione sul Vangelo di Giovanni, la lezione teologica<br />
di Luca è chiara; egli dice ai suoi destinatari: «Non potete realizzare la performance del passaggio<br />
dalla non fede alla fede, cioè a quell’apertura degli occhi che vi permette di riconoscere Gesù come<br />
risorto e vivo per sempre, se non ricevete da lui la “competenza” per realizzarla. Perché è lui a spie-<br />
gare il senso delle Scritture, è lui a presiedere il gesto dello spezzare il pane, è lui che continua il<br />
suo servizio agli uomini attraverso i discepoli. A questo scopo, è necessario che vi stacchiate dal<br />
vostro desiderio (ben naturale) di prove immediate di lui. Se no, finite per ridurlo alla vostra ideolo-<br />
gia o ai vostri a priori: allora non è più per voi il Vivente (cfr. Lc 24,5). Piegandolo ai vostri deside-<br />
ri o alle vostre convinzioni acquisite, voi lo manipolate e rifate così di lui un cadavere, come sugge-<br />
risce l’isotopia dei verbi vedere, trovare, toccare, del capitolo 24. Per accedere alla fede in lui è stato<br />
davvero necessario che i due discepoli di Emmaus convertissero le loro convinzioni giudaiche, ac-<br />
cettando l’idea, mostruosa per ogni buon giudeo, di un Messia destinato alla morte. Dovete dunque<br />
convertire il vostro desiderio di immediatezza e accettare la mediazione della Chiesa».<br />
Ritornando al Padre, il Signore Gesù ha lasciato “libero il posto”, come indica il racconto del-<br />
l’Ascensione (At 1,6-11). Questo posto è ormai occupato dalla Chiesa in maniera simbolica, mante-<br />
nendo quindi la differenza radicale: la Chiesa non è il Cristo, ma il suo testimone simbolico. Ciò si-<br />
gnifica che la sua ragion d’essere originaria e costante è di rinviare a lui. Nella Chiesa si struttura la<br />
fede, perché la Chiesa ha il compito, in mezzo al mondo e per il mondo, di mantenere viva la me-<br />
moria di ciò per cui egli ha vissuto e del perché Dio lo ha risuscitato da morte; memoria attraverso<br />
le Scritture, lette e interpretate come parlanti di lui o come sua Parola viva; memoria attraverso i sa-<br />
cramenti (qui, lo spezzare il pane), riconosciuti come i suoi gesti salvifici; memoria attraverso la te-<br />
stimonianza etica della condivisione, vissuta come espressione del suo servizio agli uomini.<br />
3.2.2. La mediazione della chiesa<br />
Notiamo che stiamo parlando dell’identità cristiana, non della salvezza degli uomini. Non si dice:<br />
«Fuori della sfera della Chiesa non c’è salvezza», ma: «Al di fuori della Chiesa non c’è salvezza ri-<br />
conosciuta», cioè non c’è possibilità di professione di fede in Gesù come Cristo. Si può essere sal-<br />
vati senza essere cristiani, cioè senza appartenere alla Chiesa visibile (cfr. LG 16), ma non si può<br />
essere cristiani senza appartenere alla Chiesa, poiché l’identità cristiana inizia con la professione di<br />
fede in Gesù Cristo, professione che è originariamente costitutiva della Chiesa. In questo senso, non<br />
vi sono cristiani anonimi.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
D’altra parte, la Chiesa non è un ghetto, ma esiste e ha senso soltanto in rapporto al Regno che, nel<br />
mondo, è più ampio di essa (LG 5; RM 17-20). La Chiesa non è questo Regno, ne è soltanto il sa-<br />
cramento, ma per essere tale è necessario che ne sia il segno, quindi che ne presenti dei contrasse-<br />
gni. Questi contrassegni sono molteplici. Possiamo però ricondurli ai tre che già abbiamo fissato.<br />
In effetti, esiste una serie di azioni, che sono ufficialmente compiute da incaricati nella Chiesa o in<br />
nome della Chiesa e che sono così caratteristiche per la vita ecclesiale da essere compiute regolar-<br />
mente o in situazioni decisive da singoli membri o da gruppi di membri della Chiesa: predicazione,<br />
catechesi, culto, sacramenti, preghiera, amore del prossimo, servizio dei poveri, impegno sociale e<br />
politico… Tutte queste azioni risalgono in qualche modo a azioni strutturali esemplari della storia di<br />
Gesù o del popolo d’Israele. Nel corso della storia della teologia si sono fatti vari tentativi di rias-<br />
sumere questa molteplicità in alcuni atti fondamentali. L’articolazione più convincente ci sembra<br />
rifarsi a quella trilogia che abbiamo già segnalato: (1) predicazione e testimonianza, (2) culto, sa-<br />
cramenti e preghiera, (3) servizio per amore e comunione fraterna, o detto in termini neotestamenta-<br />
ri: «martyria» (martyría), «leiturghia» (leitourgía), «diakonia» (diakonía). Tale triplice suddivisio-<br />
ne dovrebbe essere quella più indovinata, perché riprende gli atti fondamentali della vita di Gesù e,<br />
nel medesimo tempo, gli aspetti fondamentali delle grandi assemblee del popolo d’Israele.<br />
Poiché gli aspetti fondamentali della storia e della missione di Gesù rimangono la norma e la misura<br />
sia dell’esistenza cristiana che di tutta la comunità di coloro che si sono lasciati coinvolgere in que-<br />
sta storia e in questa missione, essi apparvero subito anche come gli atti fondamentali della comuni-<br />
tà cristiana che si andava formando «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e<br />
nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42).<br />
Tali atti fondamentali, dal momento che strutturavano la missione e l’esistenza della comunità cri-<br />
stiana, dovevano anche trovare una realizzazione istituzionale storica nella Chiesa. Esistono pertan-<br />
to numerose forme storiche (anche desunte altrove e poi modificate), in cui nella testimonianza apo-<br />
stolica la funzione kerygmatica e testimoniale della Chiesa, la sua funzione cultuale e la sua funzio-<br />
ne diaconale e comunionale si sono istituzionalizzate e concretizzate. In fondo pero tali atti non so-<br />
no atti perché hanno dato vita a istituzioni importanti, ma perché denominano di volta in volta, con<br />
diversa accentuazione, il tutto della missione e dell’esistenza ecclesiale. I membri della Chiesa non<br />
predicano e non testimoniano solo mediante le forme speciali dell’insegnamento religioso, bensì an-<br />
che mediante azioni cultuali, mediante una vita veramente cristiana, mediante atti di amore del pros-<br />
simo, mediante rappresentazioni artistiche ecc. Né il culto si limita alle azioni liturgiche specifiche.<br />
Non solo la predicazione può essere una parte o una forma del culto, bensì anche la vita cristiana è<br />
una forma di liturgia. Pure l’elemento sacramentale è molto più ampio dei sette sacramenti della<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Chiesa. La presenza simbolica di Cristo si esplica in molte forme, dal ministero ordinato fino al ser-<br />
vizio dei poveri. In maniera simile neppure il momento diaconale della Chiesa si limita alla sua atti-<br />
vità assistenziale, sociale e caritativa, ma abbraccia, qualifica e norma tutte le altre sue attività. I tre<br />
atti menzionati sono quindi fondamentali in quanto si determinano, delimitano e spiegano a vicenda.<br />
Gli atti fondamentali - martyria, leiturghia, diakonia - sono funzioni della missione della Chiesa so-<br />
lo perché e in quanto è dapprima la Chiesa a essere il risultato di tali funzioni. La Chiesa ha il com-<br />
pito di predicare e di testimoniare perché e in quanto è a sua volta creatura della Parola di Dio. Essa<br />
ha il compito di celebrare il culto e i sacramenti perché è a sua volta di continuo costituita dalla par-<br />
tecipazione ai doni eucaristici. E ha il compito della diaconia e della comunione fraterna perché è a<br />
sua volta nata dal servizio di Gesù e dal servizio di quanti l’hanno seguito.<br />
b) La priorità del “noi” ecclesiale<br />
Quanto abbiamo esposto mostra che la Chiesa è prima degli individui: non sono i cristiani che riu-<br />
nendosi formano la Chiesa, ma è la Chiesa che fa i cristiani. Questa è una verità fondamentale. In<br />
altre parole, non ci sono uomini e donne che, innestati in qualche modo direttamente su Gesù Cristo,<br />
sarebbero cristiani ognuno per conto proprio, e la cui somma formerebbe la Chiesa. Per essere cri-<br />
stiani bisogna invece appartenere alla Chiesa. Il Vangelo è comunitario per natura, e credere in Cri-<br />
sto è automaticamente essere messi assieme da lui, professato come il nostro Signore comune.<br />
È ciò che risalta in forma eminente nel battesimo, che è precisamente il sacramento dell’ingresso<br />
nella Chiesa: qui infatti, come sottolinea san Paolo almeno a tre riprese, le barriere che separavano,<br />
secondo le rappresentazioni comuni della sua epoca, le due grandi parti dell’umanità (Giudei e Gre-<br />
ci), i due statuti sociali principali (schiavi e liberi) e i due sessi (con la sottomissione delle donne a-<br />
gli uomini resa visibile sul piano religioso dalla posizione “inferiore” che era loro assegnata sia nel<br />
Tempio di Gerusalemme sia nelle sinagoghe), sono superate (cfr. Gal 3,26-28; Col 3,10-11; 1Cor<br />
12,13). Cristo non è forse morto per abbattere il «muro di separazione» (Ef 2,14) e per «creare in se<br />
stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace» (Ef 2,15)? Il battesimo non è forse quel gesto<br />
della fede con cui «spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni» ci si riveste dell’uomo nuovo (cfr.<br />
Col 3,9-10)? Quell’uomo nuovo non designa soltanto il Cristo personale, ma anche il corpo di Cri-<br />
sto collettivo (come l’Adamo di Gn 2 designava l’uomo generico, l’uomo vecchio nel testo di Col<br />
3,9): «non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libe-<br />
ro, ma Cristo è tutto e in tutti» (Col 3,11). Le differenze non sono ormai più delle barriere: esse for-<br />
niscono invece al corpo di Cristo quella ricca diversità di membra e di funzioni di cui tutto il corpo<br />
ha bisogno; l’altro non va più considerato come un rivale di fatto o un nemico potenziale, special-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
mente sul piano religioso, ma va accolto come fratello.<br />
La creazione di questo nuovo noi in forza del battesimo si esprime particolarmente nell’eucaristia,<br />
dove ogni preghiera viene recitata alla prima persona plurale 8 : «Noi ti preghiamo», «Ti rendiamo<br />
grazie», «Ti supplichiamo», «Ti offriamo» ecc. Ora, come ci insegnano i linguisti, il pronome noi<br />
non designa una somma di io e di tu, ma forma in partenza «una persona complessa». Se dunque,<br />
sulla scia del Vaticano II, si sottolinea giustamente che attore della celebrazione è la Chiesa come<br />
tale, intesa nel suo senso primario di assemblea, non è per ideologia democratica, ma per una ragio-<br />
ne propriamente teologica: il sacerdote che presiede (tutti celebrano, ma uno solo presiede) manife-<br />
sta sacramentalmente o ministerialmente che è il Cristo stesso a presiedere e a esercitare, in mezzo<br />
all’assemblea e a suo favore, il suo sacerdozio unico; e proprio perché è il Cristo che presiede, tutte<br />
le membra del suo corpo sono attori con lui sulla base della fede e del battesimo. È quindi la comu-<br />
nità che agisce: agisce come corpo, come corpo costituito, come corpo di Cristo, anche se i ruoli e<br />
le funzioni, e in primo luogo quella del prete, sono distribuiti al suo interno in maniera diversificata.<br />
Di conseguenza, più si sottolinea che l’azione liturgica è l’azione del Cristo stesso risuscitato in for-<br />
za dello Spirito — come attesta appunto la presidenza del ministro ordinato —, più si è portati a sot-<br />
tolineare che l’assemblea, che forma il suo corpo umano attuale, è la mediazione sacramentale attiva<br />
della sua azione, specialmente della sua lode al Padre e della sua supplica per gli uomini suoi fratel-<br />
li. Nessuna verità è più radicata nella Tradizione, sebbene la si sia dimenticata a partire dal Medioe-<br />
vo. Lo stesso san Paolo ne è testimone in 1Cor 11,17-34, dove egli riferisce sempre la «cena del Si-<br />
gnore» al voi comunitario, e, nel capitolo 10, il soggetto che benedice la coppa e spezza il pane è il<br />
noi dell’assemblea (il che non impedisce affatto che essa venga presieduta da un ministro):<br />
Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il<br />
pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi,<br />
pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane (1Cor 10,16-17).<br />
Lex orandi, lex credendi: la Chiesa crede secondo il modo in cui essa celebra. La liturgia è quindi<br />
un “luogo teologico” di primaria importanza. Essa ci mostra a modo di agire simbolico che ognuno<br />
diventa cristiano soltanto perché preso dentro la matrice comunitaria della Chiesa. Perciò si può e si<br />
deve dire: «Non sono i cristiani che riunendosi formano la Chiesa, ma è la Chiesa che fa i cristiani».<br />
8 Due eccezioni confermano la regola: quella del “Confesso a Dio”, perché deriva da un’apologia personale del sacerdote<br />
nel Medioevo; e quella del “Credo in Dio”, perché viene dalla liturgia del battesimo, in cui ciascuno era tenuto a professare<br />
personalmente la sua fede.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Così la Chiesa costituisce per ognuno la mediazione concreta prioritaria del suo rapporto col Dio<br />
vivente rivelato in Gesù. Grande è la tentazione di cedere al desiderio di un rapporto immediato con<br />
Cristo o di una illuminazione diretta da parte dello Spirito Santo. L’incontro con Dio, ci dice la fede<br />
cristiana sulla base dell’incarnazione di Dio in Gesù, passa attraverso l’incontro con gli altri. La<br />
Chiesa, prima di tutto attraverso l’assemblea locale ne è l’espressione concreta. «Grande è il mistero<br />
della fede!» (cfr. 1Tm 3,16): prima di essere applicata all’eucaristia, questa espressione si applica<br />
all’assemblea concreta in quanto Chiesa. C’è del mistero e dello scandalo in questo. La cosa è<br />
tutt’altro che ovvia, e la difficoltà per l’intelligenza di credere nella presenza del Cristo rischia di<br />
fungere da falso ostacolo, se non si vive questo scandalo primario, che è di ordine esistenziale: quel-<br />
lo di un incontro con il Cristo vivente che non è possibile se non tramite la mediazione concreta di<br />
una Chiesa, santa, ma fatta di peccatori; corpo di Cristo, ma formata di membra divise; tempio dello<br />
Spirito, ma così poco missionaria. L’assemblea concreta di ogni domenica fa inciampare il cristiano<br />
nella dura realtà di questa mediazione che ognuno cerca di dimenticare.<br />
La pietra d’inciampo che la Chiesa costituisce indica chiaramente anche l’ostacolo che la fede deve<br />
superare: la tentazione della “immediatezza”, di essere cioè in relazione diretta con Cristo — Luca<br />
direbbe rinunciare all’immediatezza di un vedere, trovare, toccare.<br />
I cristiani sanno certamente di non poter essere in presa diretta con Cristo. Eppure… essi sono abita-<br />
ti dallo stesso desiderio fondamentale di immediatezza che muoveva i destinatari diretti del Vangelo<br />
di Luca. Questo desiderio può assumere mille forme, a volte molto sottili. Se ne possono connettere<br />
le tre forme principali ai tre poli della nostra struttura d’identità cristiana.<br />
- La sopravvalutazione del polo Scritture può portare a una tale venerazione della lettera della<br />
Bibbia da cadere nel fondamentalismo. In forma più sottile, la sopravvalutazione del polo della co-<br />
noscenza spinge alcuni cristiani a classificare gli altri in funzione del loro sapere teologico o della<br />
loro capacità di esprimere in maniera critica la loro relazione con Dio. In questa prospettiva, il mo-<br />
dello del cristiano sarebbe il teologo o il cristiano critico.<br />
- Se la prima tentazione si è sviluppata maggiormente nelle Chiese uscite dalla Riforma, la se-<br />
conda, che sopravvaluta il polo dei sacramenti, caratterizza più intensamente il mondo cattolico.<br />
Con la scusa che i sacramenti sono “mezzi di salvezza” e che agiscono ex opere operato, si pone in<br />
essi una tale fiducia che essi tendono a occupare l’intero campo della vita cristiana. In questa pro-<br />
spettiva, che rasenta la magia, il modello del cristiano è il praticante.<br />
- La tendenza a sopravvalutare il polo dell’etica è transconfessionale. Essa può assumere due<br />
forme principali: la prima, più “politica”, in cui il modello del cristiano è il militante che, attraverso<br />
il suo impegno per la giustizia, fa avanzare il regno di Dio sulla terra, e in cui l’ortodossia viene<br />
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giudicata sul metro dell’ortoprassi; la seconda, più “emotiva”, dove il modello del cristiano è il ca-<br />
rismatico, la cui testimonianza personale, facendo leva su quella fraterna del gruppo, annuncia in<br />
maniera convincente la presenza del Cristo risorto e l’azione dello Spirito.<br />
Aggrappato allora a questo “punto fisso” immaginario, il cristiano manipola Dio, Cristo o il Vange-<br />
lo. Egli fa così del Vangelo lo specchio dei propri desideri. Così fa di Dio un idolo e, senza accor-<br />
gersene, torna a fare di Cristo un cadavere, invece di lasciarlo essere il Vivente. Sono, questi, altret-<br />
tanti modi, spesso sottili, di mettere le mani su di lui (cfr. Mt 26,50).<br />
c) Mantenere la distanza<br />
Ora, la fede vive unicamente grazie allo scarto fra i tre poli. È precisamente questo scarto a mediare<br />
concretamente la distanza con Dio, il rispetto della sua differenza. Scarto scomodo, perché mantiene<br />
costantemente un’assenza. Ma questa assenza, che l’immaginario tende continuamente a colmare, è<br />
ciò che permette a Gesù di essere veramente presente nello Spirito come il Vivente, rispettando la<br />
sua signoria. È pure ciò che permette ai cristiani lo spazio della creatività personale. La buona salu-<br />
te della fede richiede perciò che il cristiano trovi un equilibrio su questo “tripode”.<br />
La lettura delle Scritture potrebbe, infatti, essere ancora cristiana, se non venisse riferita, da un lato<br />
alla liturgia, dove nell’atto della loro proclamazione nell’assemblea ecclesiale si attesta che esse so-<br />
no parola di Dio per oggi, e dall’altro alla vita etica, dove esigono di incarnarsi?<br />
Come potrebbe la partecipazione ai sacramenti essere cristiana, se non venisse riferita, da un lato al-<br />
le Scritture, sul cui fondamento la liturgia non è semplice celebrazione di Dio in generale, ma del<br />
Dio rivelato nella vita, morte e risurrezione di Gesù, e dall’altro alla vita etica, dove il cristiano è<br />
chiamato a verificare — cioè a rendere vero — ciò che ha celebrato e ricevuto nel sacramento?<br />
Infine, come potrebbe la pratica etica essere cristiana se, da un lato, non fosse confrontata alle Scrit-<br />
ture come alla propria fonte, e dall’altro radicata nella celebrazione liturgica? Precisiamo che ciò<br />
che fa della vita etica una realtà cristiana non è né il suo campo d’estensione (che è lo stesso per o-<br />
gni uomo), né il suo grado di affinamento (la massima «non fare ad altri ciò che non vorresti fosse<br />
fatto a te» era nota agli antichi e ai Giudei del tempo di Gesù), né il suo livello di generosità: questa<br />
può arrivare a «distribuire tutti i beni ai poveri» o persino a «farsi bruciare vivi» per una causa nobi-<br />
le, senza per questo essere un atto veramente cristiano (cfr. 1Cor 13). A renderla cristiana non è la<br />
sua materia, ma la forma che le dona l’amore inteso come risposta all’amore primo di Dio (ibid.).<br />
Ora, la liturgia è il luogo in cui si attesta questa priorità del dono gratuito di Dio (eucaristia). La vita<br />
etica, di servizio agli altri, trova la sua identità propriamente cristiana, soltanto nella misura in cui<br />
essa è vissuta come risposta a questo amore primo, e dunque si “abbevera” ai sacramenti.<br />
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3.3. La Chiesa: comunione/tradizione<br />
Per determinare in modo più preciso la “struttura essenziale” della mediazione ecclesiale ci siamo<br />
riferiti ad alcuni racconti esemplari che ci hanno mostrato il nascere della Chiesa e il costituirsi si-<br />
multaneo dell’ordine simbolico cristiano, mediante il quale è offerto “oggettivamente” ad ogni per-<br />
sona la possibilità di divenire discepolo di Gesù Cristo (cfr. Mt 28,18-20). Sistematizzando queste<br />
indicazioni diciamo che la Chiesa nel momento in cui nasce si costituisce come comunione che sca-<br />
turisce dall’annuncio, un annuncio che ha come contenuto la storia di Gesù Cristo, una comunione<br />
che ha un carattere insuperabilmente interpersonale, cioè si realizza attraverso la condivisione<br />
dell’esperienza che si è fatta di Gesù Cristo. Tale comunione infine ha la sua origine e il suo fine<br />
nella comunione con Dio (cfr. 1Gv 1,1-4) 9 . La chiesa può essere dunque descritta come questo even-<br />
to della comunione, come quel popolo adunato «de unitate Patris et Filii et Spiritus» (LG 4).<br />
3.3.1. La dinamica testimoniale della fede cristiana<br />
1) Abbiamo finora individuato dentro il dato globale della chiesa la struttura dinamica dell’ordine<br />
simbolico cristiano: essa ci offre un modello euristico in grado di segnalare il complesso delle rela-<br />
zioni strutturali che dicono il sorgere e il perpetuarsi della chiesa stessa nella sua identità.<br />
Questo elemento particolare, perché potesse fungere da modello euristico, doveva avere le medesi-<br />
me qualità di fondo del dato globale e doveva essere un dato dinamico, capace di mostrare un com-<br />
plesso relazionale che dicesse, nell’insieme della storia, il passaggio fra il non-esserci e l’esserci<br />
della chiesa e, quindi, il dinamismo e gli elementi determinanti di questo passaggio. Non solo, era<br />
necessario pure che questo particolare fosse un evento che facesse da spartiacque fra la non-<br />
esistenza e l’esistenza della chiesa e che, per poter essere adeguatamente conosciuto, si situasse non<br />
solo al livello storico ma anche a quello misterico. Inoltre il dato poteva fungere da modello solo se<br />
era un evento per natura sua infinitamente riproducibile in forme e contesti diversi.<br />
Queste osservazioni preliminari ci hanno condotto a concentrare la nostra attenzione su quel dato<br />
dell’esistenza della chiesa che è stato il suo inizio. L’evento dell’inizio della chiesa, effettivamente,<br />
fu un accadimento storicamente registrabile e, allo stesso tempo, fu quello che fu solo perché fu vis-<br />
suto all’interno di una struttura di fede; anzi solo la libera apertura dei protagonisti all’irruzione del<br />
9 Ci ispiriamo con integrazioni alla proposta di S. DIANICH, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Cinisello<br />
Balsamo (Mi), Edizioni Paoline, 1993; cfr. S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 2002.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Regno nella loro vicenda storica lo rese possibile. Se non fosse stato vissuto in queste coordinate,<br />
non si sarebbe trattato dell’avvenimento della nascita della chiesa. Quell’accadimento inoltre è in-<br />
cessantemente riproducibile, perché dovunque e sempre è possibile che dei credenti testimonino la<br />
fede ad altri e così si verifichi di nuovo il germinare, in tempi nuovi e in spazi inediti, dello stesso<br />
accadimento. Ancora: è un fatto che si pone in essere come un complesso di relazioni, così da poter<br />
fungere da modello euristico e non da puro e semplice prototipo.<br />
La chiesa, infatti, nasce dall’annuncio del Vangelo apostolico 10 , «che viene comunicato nella Parola<br />
e nel sacramento ricevuto mediante la fede» 11 . L’annuncio del Vangelo non va quindi inteso sola-<br />
mente come annuncio “verbale”: esso ha le stesse qualità della rivelazione; ma questa, come insegna<br />
il Concilio (DV 2), avviene «con eventi e parole (gestis verbisque) intimamente connessi fra loro».<br />
L’atto con cui la chiesa genera alla fede nuovi credenti è quindi un atto complesso e qualificato dal-<br />
le tre dimensioni essenziali che abbiamo individuato nell’ordine simbolico cristiano: martyria, lei-<br />
turghia, diakonia. L’annuncio ha, quindi, fin dall’inizio e strutturalmente una forma sacramentale e<br />
una qualità etica. Esso è perciò un atto comunicativo performativo, capace cioè non solo di trasmet-<br />
tere una verità, ma anche di produrre una realtà nuova, ossia la nascita di un nuovo rapporto fra gli<br />
uomini, che è il germe della chiesa. Questa trasmissione della fede non è solo qualcosa che la Chie-<br />
sa fa, ma dice come la Chiesa è o, meglio, come la Chiesa si fa nella storia: «La chiesa nella sua dot-<br />
trina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è,<br />
tutto ciò che essa crede» (DV 8). Il fatto non si riprodurrà mai nella forma di una pura e semplice<br />
ripetizione. La chiesa con il suo dinamismo storico è sempre diversa, ma sempre vi si potrà ritrovare<br />
il complesso strutturale delle relazioni che ne compongono il momento germinale.<br />
10 «Il Vangelo… è per la chiesa principio di tutta la sua vita in ogni tempo»: LG 20a; «Il mezzo principale per questa<br />
fondazione (= implantatio) [della chiesa] è la predicazione del vangelo di Gesù Cristo»: AG 6c; «La chiesa nasce<br />
dall’azione evangelizzatrice di Gesù e dei Dodici… Nata, di conseguenza, dalla missione, la chiesa è, a sua volta, inviata<br />
da Gesù… Inviata ed evangelizzata, la chiesa, a sua volta, invia gli evangelizzatori… a predicare non le proprie persone<br />
o le loro idee personali, bensì un Vangelo di cui né essi, né essa sono padroni e proprietari assoluti per disporne a<br />
loro arbitrio, ma ministri per trasmetterlo con estrema fedeltà»: PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, n. 15.<br />
11 COMMISSIONE CONGIUNTA CATTOLICA ROMANA – EVANGELICA LUTERANA, Chiesa e giustificazione. La comprensione<br />
della chiesa alla luce della dottrina della giustificazione (11 IX 1993), n. 39, in EO III, §1269. Il documento, frutto del<br />
dialogo internazionale cattolico-luterano, prosegue ricordando che «la comunicazione del Vangelo nella Parola e nel sacramento<br />
implica il servizio della predicazione della Parola e dell’amministrazione dei sacramenti. Ciò corrisponde alla<br />
testimonianza biblica, secondo la quale il “servizio della riconciliazione” (2Cor 5,18ss) fa parte della parola di riconciliazione.<br />
Predicazione della Parola e amministrazione dei sacramenti non sono quindi solo atti momentanei, ma realtà<br />
fondamentali che caratterizzano la chiesa in modo permanente. Mentre tutti i fedeli, ognuno al suo posto, devono diffondere<br />
il vangelo, la predicazione della Parola e l’amministrazione dei sacramenti come atti pubblici [della Chiesa] dipendono<br />
in permanenza dal ministero istituito da Dio»: ibid., § 1270. Si veda in tal senso anche il bel testo del Gruppo<br />
di lavoro bilaterale della Conferenza Episcopale Tedesca e della Direzione della Chiesa Evangelica Luterana Unita di<br />
Germania, Communio sanctorum. La Chiesa come comunione dei santi, Morcelliana, Brescia 2003, §§ 35-38.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
In questo evento, intanto, si trova già la risposta alla prima e più semplice domanda: quando e come<br />
nacque e continuamente rinasce quell’aggregazione umana che chiamiamo chiesa? La comunicazio-<br />
ne della fede fatta da un credente e accolta da un nuovo credente — la dinamica “testimoniale” arti-<br />
colata nel nostro triplice polo — è senza dubbio la base e il punto di partenza di tutta la rete di rap-<br />
porti che lega fra loro i credenti e costituisce la chiesa. Così il fatto dell’«inizio» sembra portare in<br />
sé, sotto il segno della massima semplificazione, come in germe, tutta la complessiva dinamica<br />
dell’esistenza ecclesiale. Il complesso relazionale di questo evento potrà fornire, dentro il modello<br />
dell’«inizio», anche il «principio» dal quale far partire tutto il processo interpretativo.<br />
2) Questo evento fontale, che è davanti a noi come un dato di fatto accaduto all’inizio della storia<br />
della chiesa e che accade ogni volta che la chiesa si rigenera, occupa un posto assolutamente singo-<br />
lare nel dato globale della sua esistenza. Infatti qui siamo in presenza di un’azione che si presenta<br />
come l’atto fondamentale della missione della chiesa e, allo stesso tempo, come il luogo di origine<br />
della sua stessa esistenza. L’atto della “comunicazione” della fede risponde sia alla domanda: «La<br />
chiesa cosa fa?», sia alla domanda: «Cos’è che fa la chiesa?». Si tratta di un’azione storica, storica-<br />
mente constatabile, che colloca la chiesa al suo legittimo livello di realtà empirica e ci dice sia cosa<br />
faccia la chiesa nella storia, sia da cosa essa derivi. Allo stesso tempo, proprio nella comunicazione<br />
della fede, l’aggregazione dei credenti si crede creatura Verbi et Spiritus, per la precisa consapevo-<br />
lezza che la fede è azione di Dio in noi. E questo non solo all’inizio, ma lo è continuamente, ogni<br />
qual volta la chiesa si rigenera. Lo è sia quando in uno spazio umano, nel quale non esisteva, sta na-<br />
scendo una comunità cristiana, sia quando una chiesa ormai “piantata” si rigenera di generazione in<br />
generazione, perché l’annuncio viene tramandato, sia quando la comunità cristiana con la sua opera<br />
di evangelizzazione aggrega a sé nuovi credenti.<br />
La “trasmissione” della fede, inoltre, non solo è l’inizio in senso cronologico dell’esistenza della<br />
chiesa, ma ne è anche l’elemento costitutivo primordiale, l’essenziale principio dinamico. Tutta la<br />
dinamica complessiva della comunicazione della fede evidenzia il dinamismo fondamentale della<br />
Paradosis: l’apostolo che «trasmette» ciò che «ha ricevuto» dal Signore mette in moto un processo<br />
storico che ha raggiunto il nostro tempo e che noi crediamo, sulla parola del Signore, non si arreste-<br />
rà sino alla fine. La chiesa, in fondo, è nella storia questo processo storico. Né si tratta solo di una<br />
vicenda empiricamente definibile nei termini di un qualsiasi processo storico. Nel ricevere e tra-<br />
smettere la «buona notizia», infatti, i credenti sono consapevoli di essere mossi dallo Spirito Santo,<br />
perché senza di lui non si può proclamare che Gesù è il Signore (1Cor 12,3); vivono l’esperienza<br />
della pasqua narrando la morte di Cristo non come una storia triste, ma facendone «memoria»<br />
nell’eucaristia come di un evento glorioso e, annunciando il vangelo, si aprono alla comunicazione<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
universale, perché esso è Parola non più legata a una sola legge e a un solo popolo. In questo ormai<br />
bimillenario processo storico si riproduce continuamente la chiesa e nascono nella Catholica nuove<br />
chiese e si rinnova continuamente il Vangelo. Fra la chiesa e la storia sta così il principio dinamico<br />
della “comunicazione” della fede, capace di spiegare il carattere storico e, allo stesso tempo, il carat-<br />
tere misterico della chiesa, senza il quale essa resterebbe ignota nella sua dimensione autentica.<br />
3. Porre al principio di tutto il processo interpretativo della chiesa la dinamica testimoniale significa<br />
ritenere che dalla struttura di questo atto comunicativo possano venire comandati gli sviluppi essen-<br />
ziali della costituzione stessa della chiesa e del suo rapporto con il mondo, della sua missione.<br />
Verso la comunità — La realtà della chiesa si compone di molti elementi, ma essa non esisterebbe<br />
se non fosse mossa all’interno dal dinamismo della comunicazione della fede, liberamente trasmes-<br />
sa e accolta. Il suo inizio non si configura come l’origine di una stirpe: alla chiesa non si appartiene<br />
per nascita, né vi si è introdotti solo attraverso un rito iniziatico 12 . Ciò che fa la chiesa è l’annuncio<br />
che Gesù è risorto ed è Signore e l’accoglimento di questo annuncio, sigillato dalla condivisione<br />
della professione di fede e dalla ricezione del battesimo. Da questo atto comunicativo nasce quel<br />
fondamentale rapporto comunionale fra i credenti che costituisce la base della esistenza ecclesiale.<br />
Il prologo della 1Gv (1,1-4) ci dà una delle descrizioni più significative del primordiale evento del<br />
Vangelo: il testimone racconta la sua esperienza di fede, come abbia incontrato Gesù, lo abbia toc-<br />
cato con le proprie mani, visto con i propri occhi e creduto come Verbo della vita. Poiché questo<br />
racconto è accolto con fede, si crea fra il testimone e l’interlocutore una comunione. La comunione<br />
che l’annuncio della fede produce fra i protagonisti dell’evento non è un fattore nuovo e assoluta-<br />
mente originario, perché è partecipazione a quella comunione con Dio di cui già gode l’annun-<br />
ciatore, e, ultimamente, partecipazione alla comunione che lega fra loro il Padre e il Figlio.<br />
L’attestazione del prologo della 1Gv, rapportando l’annuncio alla comunione, non svela tanto una<br />
intenzione esplicitamente progettata dal testimone, ma piuttosto rivela una forza inscritta nella te-<br />
stimonianza ecclesiale stessa. L’affermazione, infatti, che Gesù è risorto ed è il Signore non indica<br />
esclusivamente un referente oggettivo, non dice semplicemente una cosa conosciuta: è una profes-<br />
sione di fede; il suo oggetto non è in alcun modo una semplice acquisizione intellettuale, che sareb-<br />
be possibile comunicare senza alcun coinvolgimento del soggetto stesso. Se si tratta di comunicare<br />
12 Gv 1,13: «non da sangue né da volere di carne». Non si dimentichi poi che il rito battesimale presuppone la fede accolta<br />
e professata; la stessa casistica postridentina imponeva, nel caso limite di un battesimo amministrato ad un bambino<br />
da un non credente, che il ministro avesse almeno l’intenzione di fare ciò che fa la chiesa, perché almeno attraverso<br />
questo esile filo il rito ricevesse senso dalla fede.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
ciò che si crede, non si può dimenticare che il creduto è oggetto e termine di una certezza profon-<br />
damente deliberata e liberamente scelta, voluta e amata. Perciò chi annuncia non trasmette sempli-<br />
cemente una notizia “neutrale”, ma dà all’altro, in qualche maniera, se stesso, divenendo con ciò un<br />
“testimone”. Se, allora, testimoniare la fede significa dar vita a un atto comunicativo di questo gene-<br />
re, è naturale che l’interlocutore, qualora non si rifiuti al consenso, venga immediatamente coinvolto<br />
nella stessa esperienza del testimone e così si instauri fra i due una comunione profonda.<br />
In tal modo appare chiaro perché il nostro prologo, descrivendo l’annuncio evangelico, lo veda sfo-<br />
ciare in una «comunione» che è «con il Padre e il suo Figlio Gesù Cristo». Infatti la comunicazione<br />
dell’esperienza di fede da parte dell’apostolo non coinvolge l’interlocutore in un rapporto con Cristo<br />
quale profeta defunto che ha istituito una chiesa di cui ora l’interlocutore è invitato a far parte: lo<br />
coinvolge invece in quel rapporto con Cristo che è operato in lui dallo Spirito e che lo pone in una<br />
comunione interiore con la stessa interiorità di Cristo, là dove Cristo è in comunione con il Padre.<br />
Grazie all’azione dello Spirito nel cuore dell’uomo, siamo quindi di fronte a una misteriosa parteci-<br />
pazione alla comunione esistente tra il Padre e il Figlio, e tutto il rapporto fra i credenti è intrecciato<br />
con il mistero del rapporto intercorrente fra le persone della Trinità (cfr. Gv 17,21).<br />
Così l’annuncio del Vangelo diventa principio di un’aggregazione di fede singolare e nuova anche<br />
rispetto alla tradizione di Israele. Se il principio è la fede e non la legge, è ovvio che ormai non con-<br />
ta più essere «né giudeo né greco…» (Gal 3,28; cfr. 1Cor 12,13; Col 3,11). Solo la fede in Gesù<br />
morto e risorto, suscitata dallo Spirito, personalmente testimoniata e liberamente accolta, lega i pro-<br />
tagonisti dell’evento in una profonda comunione interiore. Certo, la fonte della comunione è lo Spi-<br />
rito nella sua divina libertà e imprevedibilità. Però la sperimentabilità del suo dono al livello storico,<br />
l’aspetto verificabile della comunione, si dà attraverso il processo complessivo della testimonianza.<br />
Il rapporto fra le persone derivante dall’annuncio e fondante una nuova e singolare aggregazione re-<br />
ligiosa è un fatto di grazia, possibile solo mediante la fede dei suoi protagonisti, la quale a sua volta<br />
può essere soltanto dono dello Spirito. L’evento però si presenta con un suo carattere empirico e sto-<br />
rico, in quanto si compie dentro un fenomeno di comunicazione umana che accade nello spazio e<br />
nel tempo ed ha per protagonisti uomini concreti, storicamente situati: è un evento della storia uma-<br />
na. Certo: le sue dimensioni misteriche non sono percepibili empiricamente, né sono rilevabili da<br />
parte del sociologo e dello storico, però vengono credute e vissute dentro l’evento storico, e vi sono<br />
connesse a tal punto che, senza di esse, lo stesso evento storico non esisterebbe. Le sue implicazioni<br />
di carattere trascendente hanno senso solo per i credenti che vi si lasciano coinvolgere, ma il feno-<br />
meno storicamente verificabile della “testimonianza”, con tutte le sue conseguenze rilevabili sulla<br />
scena della storia, resta un fatto carico di senso anche per chi non vi è coinvolto.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
A questo livello il mistero di comunione portato dall’annuncio si concretizza nel sorgere di<br />
un’aggregazione sociale dotata di una precisa e determinata forma storica, che ha avuto fin da prin-<br />
cipio la preoccupazione di mantenersi fedele alla propria origine come condizione irrinunciabile<br />
della propria autenticità. Essa è un soggetto storico determinato che è destinato ad attraversare la<br />
storia ma restando fedele al proprio principio e conservando la propria identità.<br />
Dunque l’evento della comunicazione della fede che fa partecipare alla comunione «col Padre e col<br />
Figlio suo» dà origine alla chiesa perché non è limitato all’inizio, ma si riproduce nel tempo, mante-<br />
nendo la propria identità e le medesime caratteristiche. Questa identità è possibile grazie a delle me-<br />
diazioni, quali la Scrittura e i sacramenti affidate “istituzionalmente” al ministero apostolico; ma<br />
tali mediazioni non realizzano la comunione ecclesiale senza l’azione dello Spirito (che suscita la<br />
fede in ciò che la Scrittura annuncia, che opera ciò che i sacramenti intendono, che abilita all’eser-<br />
cizio del ministero). A questo proposito, al fine di comprendere la chiesa come comunione non solo<br />
occasionale, ma che ha una permanenza storica, pare fondamentale il concetto di Tradizione, cioè la<br />
trasmissione nel tempo della realtà totale della chiesa che mantiene una fondamentale identità con<br />
se stessa, nonostante i mutamenti storici. La nozione di tradizione è decisiva perché collega un lato<br />
esterno, una continuità storicamente percepibile e documentabile che permette di riconoscere la<br />
chiesa nelle diverse epoche storiche, e un’azione interiore dello Spirito che mantiene questa identità<br />
e collega il presente con l’origine normativa. In sintesi, la chiesa è insieme comunione e tradizione.<br />
Verso il mondo. Questo nostro principio ci permette di comprendere anche il rapporto della chiesa<br />
stessa con il mondo. La testimonianza avviene nel mondo e, come ogni altro avvenimento storico,<br />
produce nella storia dei processi di assestamento, che coinvolgono uomini, istituzioni e intere civil-<br />
tà. Questo è semplicemente un dato di fatto: certamente in molte cose la storia dell’umanità avrebbe<br />
seguito percorsi diversi, se non fosse accaduto che un giorno in Gerusalemme qualcuno avesse pro-<br />
clamato che Gesù era risorto e che, per salvarsi, bisognava ritenerlo l’unico Signore della storia. O-<br />
ra, l’enunciazione della fede e la sua proposizione centrale — «Gesù è risorto ed è il Signore» —<br />
sembrano appartenere decisamente a un linguaggio iniziatico, cioè a un tipo di discorso nel quale<br />
l’enunciazione ha senso solo per chi ritiene vero l’enunciato. Per chi si rifiuta di credere non ha al-<br />
cun senso l’affermazione che un uomo crocifisso è risuscitato e che oggi il destino del mondo è nel-<br />
le mani di un risorto da morte. Quando poi la chiesa esprime la sua fede attraverso la sua simbolica<br />
e i suoi riti, il suo discorso diventa sempre più incapace di entrare nella conversazione umana e di<br />
intrecciarsi con il discorso degli uomini. Le resta sempre la possibilità di chiamare gli uomini a cre-<br />
dere e ad appartenerle mediante la condivisione della sua fede. Ma con chi non accettasse l’invito la<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
conversazione rimarrebbe chiusa, oppure si riaprirebbe in forza della carità che «ci spinge» (urget<br />
nos: 2Cor 5,14) e di quel «Guai a me se non evangelizzassi» (1Cor 9,16).<br />
Ciò nonostante la chiesa non ha mai rinunciato alla conversazione mondana, ed oggi, finito il tempo<br />
della contrapposizione, è ancor più consapevole del dovere che le incombe di dialogare con il mon-<br />
do (cfr. GS cap. IV). Dialogare significa porre un atto comunicativo che abbia senso anche per chi<br />
non riterrà vero l’enunciato. Ebbene, la testimonianza cristiana intende essere un atto comunicativo<br />
del genere. Esso può avere senso per il non credente prima di tutto perché il soggetto della proposi-<br />
zione «Gesù è il Signore» non è «Dio», ma appunto «Gesù», cioè un soggetto storico. E se l’af-<br />
fermazione che Gesù è risorto risulta priva di senso per chi ritiene assurda l’idea di una risurrezione,<br />
le implicazioni dell’affermazione stessa, cioè che questo soggetto era morto ed era stato crocifisso<br />
per aver detto e fatto certe cose nel corso della sua vita, sono dotate di senso per chiunque. Sono una<br />
pagina della grande vicenda umana. C’è poi una seconda ragione della possibile universale sensa-<br />
tezza dell’annuncio: si tratta di un atto linguistico fortemente autoimplicativo. Uno dice ad altri che<br />
Gesù è il Signore solo se ci crede. Non può darsi alcun kérygma consistente nella pura e semplice<br />
enunciazione di un dato oggettivo. Non si può comunicare ad altri la notizia che Gesù è risorto se<br />
non si include nell’affermazione la narrazione della propria esperienza di fede. Per cui, se l’inter-<br />
locutore si rifiutasse di prendere in considerazione il mio asserto perché lo ritiene privo di senso, gli<br />
resterebbero la possibilità e il compito di valutare tutto ciò che la mia fede ha prodotto nella mia e-<br />
sistenza e nella mia opera di credente. Anche questa è una pagina della storia umana. Questa secon-<br />
da ragione può essere considerata anche nella sua dimensione macroscopica, collettiva. Che alcuni<br />
quel giorno a Gerusalemme abbiano cominciato a predicare in quel modo, può essere visto con gli<br />
occhi della fede oppure ritenuto un’insensatezza. Ma che da quella predicazione sia nato un soggetto<br />
storico, la chiesa, la quale ha sempre operato all’interno della vicenda umana ed ha esercitato un in-<br />
flusso decisivo sulla nostra storia, resterà un fatto conoscibile e giudicabile da chiunque.<br />
In conclusione: se da un lato la comunicazione della fede mostra la sua piena sensatezza solo quan-<br />
do, per la grazia dello Spirito, la fede stessa venga accolta e condivisa, l’evento complessivo della<br />
testimonianza ecclesiale ha una sua pluriforme dimensione storica che lo rende sic et simpliciter si-<br />
gnificativo per il mondo. Sul piano dunque di una narrazione difatti, dal quale il credente non può<br />
mai allontanarsi del tutto pur se vivesse la sua fede nella più radicale tensione mistica, il discorso<br />
della fede può essere sottoposto a ogni possibile valutazione: psicologica, sociologica, storica, poli-<br />
tica… La qualità testimoniale della fede, quindi, è il principio esplicativo non solo dello strutturarsi<br />
di una aggregazione sociale intorno all’annuncio, ma anche del suo difficile rapporto con il mondo.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
3.3.2. La comunione: sorgente e frutto dell’annuncio<br />
Senza dubbio la prima e fondamentale componente della chiesa è il dono della comunione che lega<br />
fra loro e con Dio i credenti. Ma che rapporto intercorre fra la dinamica testimoniale e la comunio-<br />
ne? Come, a partire dal Vangelo, la grazia della comunione prende forma storica nell’incontro inter-<br />
personale dei protagonisti dell’evento della comunicazione della fede?<br />
a) «Koinonía» nel Nuovo Testamento<br />
L’Antico Testamento ci ha portato la rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini e ha chiamato gli<br />
uomini ad amare Dio: basti ricordare lo Shema Israel. Né si possono dimenticare le grandi pagine<br />
mistiche, soprattutto presso i profeti, testimonianti l’intimo rapporto del credente con Dio. Ciò no-<br />
nostante gli esegeti hanno osservato 13 che nell’AT la radice hbr, che sarebbe alla base del lessico di<br />
comunione, oltre che poco usata, non è portatrice di un’idea importante della spiritualità di Israele.<br />
L’uomo in realtà non è il «compagno» (haber) di Dio, ne è piuttosto il servo (ebed Jhwh). Con Dio<br />
si dà un berît, un patto, non una habura, una comunione. Per stipulare l’alleanza con Dio «Mosè a-<br />
vanzerà solo verso il Signore, ma gli altri non si avvicineranno e il popolo non salirà con lui» (Es<br />
24,2). Nell’AT ci si avvicina all’esperienza della comunione con Dio nel quadro del banchetto sacro<br />
e della partecipazione al sacrificio. Ma anche il banchetto sacro è considerato più un «mangiare da-<br />
vanti a Dio» che non un vivere in comunione con lui (Dt 12,7.18). Non a caso Paolo distingue net-<br />
tamente ciò che avviene nel mondo pagano da quello che accade in Israele quando si mangiano le<br />
vittime offerte sull’altare: i pagani pretendono con i loro sacrifici di diventare koinonoì della divini-<br />
tà e così, in realtà, diventano koinonoì dei demoni; la comunione che si realizza in Israele è, più ri-<br />
spettosamente, solo una comunione con il Thysiastérion, cioè con l’altare (1Cor 10,18-21).<br />
Da tutto ciò sarebbe derivata la prevalenza del senso della legge sul senso della comunione, sia nel<br />
rapporto del fedele con Dio che nella compaginazione del popolo di Israele. Chi invece parlerà tran-<br />
quillamente di comunione con Dio sarà Filone (13 a.C. - 54 d.C.). E non a caso, in quanto egli rap-<br />
presenta il giudaismo inculturato nell’ambiente ellenistico 14 . Ma, considerati questi precedenti, pos-<br />
siamo misurare l’incredibile, consapevole audacia della seconda lettera di Pietro quando afferma<br />
che grazie ai «beni grandissimi e preziosi» che ci sono stati donati, noi cristiani siamo diventati<br />
«partecipi (koinonoì) della natura divina» (2Pt 1,4).<br />
13 Vedi, per esempio, F. HAUCK, Κοινων -, in GLNT V, Paideia, Brescia 1969, 703-706.<br />
14 L’uso del termine nel greco classico è frequente; per esempio Platone, parla di κοινωνία tra gli dei e gli uomini (Simposio,<br />
188 c), che le leggi devono preservare (Leggi, V, 729 c; XI, 921 c).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
(I) La dimensione teologica<br />
Nei testi del NT riguardanti il nostro tema la dimensione “verticale” della comunione, se non è mai<br />
solitaria, risulta senza dubbio del tutto eminente. Essa in ogni caso costituisce il principio del di-<br />
scorso. Nel NT la comunione è punto d’arrivo di un appello, di una chiamata. Chi ci chiama alla<br />
comunione è il Dio fedele. All’inizio della 1Cor Paolo esalta la ricchezza dei doni di Dio: la grazia,<br />
la parola e la scienza, la costanza con cui la fede è vissuta dalla sua comunità nell’attesa del ritorno<br />
del Signore. In questo contesto l’Apostolo confessa la sua indefettibile fiducia che: «Egli [Dio] vi<br />
confermerà sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo: fedele è Dio, dal<br />
quale siete stati chiamati alla koinonía del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro» (1Cor 1,8-9).<br />
Nell’esperienza originaria della chiesa, i discepoli di Gesù che ne fanno parte si sentono chiamati da<br />
Dio: l’ekklesía in cui si ritrovano è una convocazione che viene dall’alto, dal «Dio fedele».<br />
(II) La dimensione escatologica<br />
La chiamata alla comunione viene dal Padre e la comunione è con il Figlio. La nuova situazione in<br />
cui il credente si ritrova non è, però, un punto d’arrivo definitivo; è bensì un inserimento in una di-<br />
namica nuova. Paolo esorta alla fiducia che deriva dall’essere fondati nella speranza: la comunione<br />
con il Figlio sarà vissuta lungo un cammino che la condurrà al suo pieno compimento nel ritorno del<br />
Signore, quando essa sarà totale, perché allora Dio sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28). Il senso escato-<br />
logico della comunione è molto forte in Paolo: egli è consapevole di essere solo in cammino verso<br />
la meta finale. Però vi guarda con entusiasmo e certezza, al punto che egli, pur godendo di molte<br />
prerogative a motivo della sua origine, ha lasciato perdere tutte queste, che costituivano la sua glo-<br />
ria, pur di «guadagnare Cristo e di essere trovato in lui» (Fil 3,5s.8s.). La sua speranza di essere<br />
«trovato in Cristo» al sopraggiungere definitivo dell’éschaton è strettamente legata alla sua espe-<br />
rienza di fatica, di lotta e di martirio. La fede infatti gli dà la possibilità di «conoscere lui, la potenza<br />
della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze (koinonía ton pathemáton), diventando-<br />
gli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,10s).<br />
L’esperienza personale di Paolo si riflette poi sulla condizione di vita e sullo spirito della comunità:<br />
«Come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra<br />
consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confor-<br />
tati, è per la vostra consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime soffe-<br />
renze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è ben salda, convinti che<br />
come siete partecipi (koinonoì) delle sofferenze così lo siete anche della consolazione» (2Cor 1,5-<br />
7). Alla base di questo modo di sentire sta la dottrina sul battesimo, dal quale viene il principio qua-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
lificante della vita cristiana come esperienza di morte e risurrezione in Cristo. La comunione con il<br />
Figlio, alla quale Dio ci ha chiamati a cominciare dal battesimo, ci conduce, attraverso la condivi-<br />
sione delle sue sofferenze e nella ferma speranza della risurrezione, verso l’incontro finale con lui.<br />
(III) La dimensione trinitaria<br />
La grande e significativa assenza nell’AT dell’idea di una possibile comunione con Dio non poteva<br />
essere superata in maniera diretta: solo un profondo senso della mediazione di Gesù poteva consen-<br />
tirlo (cfr. 1Tim 2,5-6). Per questo nel discorso gioca un ruolo importante il senso del peccato e il<br />
simbolo del sangue: solo alla morte di Gesù si squarciò il velo del santuario, che non permetteva<br />
all’uomo di entrare nella comunione con Dio (Mc 15,38). Questo ci spiega l’accento posto da Paolo<br />
sulla comunione con Cristo nelle sue sofferenze, in rapporto alla speranza della risurrezione. Grazie<br />
all’esperienza eucaristica egli non teme di mettere a confronto la comunione con il sangue di Cristo<br />
e la comunione con gli idoli, che il pagano cerca di realizzare quando mangia la carne offerta in sa-<br />
crificio agli dèi. L’idolo è nulla: ma dietro la sua figura, segnata dalla nullità, Paolo scorge le poten-<br />
ze demoniache e perciò ordina categoricamente: «Non voglio che voi entriate in comunione con i<br />
demoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; non potete partecipare alla men-<br />
sa del Signore e alla mensa dei demoni» (1Cor 10,20s). In realtà Paolo è ben lontano dal mettere<br />
sullo stesso piano, quasi stessero in concorrenza, l’eucaristia e la partecipazione ai banchetti sacri<br />
dei pagani, o semplicemente il mangiare la carne sacrificata agli idoli. Egli sa benissimo che «non<br />
esiste alcun idolo al mondo» e che quindi, di fronte alle cose che i pagani ritengono sacre agli dèi, il<br />
cristiano gode di tutta la sua libertà: «Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi<br />
siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo<br />
per lui» (1Cor 8,4-6). Il cristiano dovrà rinunciare a tale libertà solo per amore dei fratelli più debo-<br />
li, i quali, non riuscendo a comprendere le ragioni della libertà cristiana, potrebbero restarne scanda-<br />
lizzati: «Ed ecco per la tua scienza va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto.<br />
Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo» (1Cor<br />
8,11s). Così pure chi partecipa della mensa del Signore si rende «reo del corpo e del sangue del Si-<br />
gnore» se, incapace di condividere con i fratelli il proprio cibo, getta «il disprezzo sulla chiesa di<br />
Dio» e fa «vergognare chi non ha niente» (1Cor 11,17-34). È la stessa logica. Gesù ha dato la vita e<br />
ha versato il sangue perché potessimo accostarci a Dio. Dio ci ha chiamati a vivere in comunione<br />
col suo Figlio: per entrare in questa comunione dobbiamo essere capaci di condividere le sue soffe-<br />
renze ed anche il suo amore e il suo rispetto per gli uomini (1Gv 1,6-7). In questo modo dal sacrifi-<br />
cio di Cristo al quale partecipiamo nell’eucaristia si dipana la rete della solidarietà e della carità.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
La comunione con Gesù, soprattutto nella partecipazione a quelle sue sofferenze dalle quali egli im-<br />
parò l’obbedienza al Padre, così come la speranza della risurrezione, hanno quindi il loro punto<br />
d’arrivo nell’incontro con il Padre. Tutto ciò appare in maniera evidente dai testi paolini sull’opera<br />
dello Spirito. Si veda il capitolo 8 della lettera ai Romani. Per «appartenere a Cristo» bisogna avere<br />
in sé lo Spirito Santo, che è detto «Spirito di Dio» come pure «Spirito di Cristo». Ora lo Spirito di<br />
Dio, come ha risuscitato Gesù dalla morte, così risuscita noi e ci dà una vita nuova. Di conseguenza,<br />
noi siamo uniti a Dio come figli e così siamo eredi del suo immenso patrimonio della vita: «Tutti<br />
quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevu-<br />
to uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per<br />
mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”» (Rm 8,14s.). Similmente pure il testo parallelo della let-<br />
tera ai Galati: «E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito<br />
del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,6). Il rapporto, quindi, che il credente ha con Dio, è<br />
quello di Gesù con il Padre, espresso con la metafora dell’adozione e gridato nella invocazione<br />
«Abbà!», che fu in bocca a Gesù nel Getsemani (Mc 14,36). Ed è il rapporto con Dio che solo lo<br />
Spirito riproduce nell’animo del credente. La koinonía, quindi, è detta da Paolo «comunione del<br />
Santo Spirito» (2Cor 13,13) non solo perché è partecipazione del credente alla vita dello Spirito<br />
Santo, né solo perché è dono infuso dallo Spirito nel credente, ma perché nello Spirito il credente<br />
realizza la totalità della propria esistenza come esistenza relazionale, come un esistere con Cristo,<br />
con il Padre e con gli uomini. Lo Spirito è quindi, nel pensiero di Paolo, il vincolo più intimo e pro-<br />
fondo della relazione personale tra il Padre e il Figlio e, quindi, tra Dio, il Cristo ed i cristiani: egli è<br />
il principio attivo e dinamico della koinonía.<br />
Allora si capisce come mai quella koinonía tou hagíou pnèumatos, che Paolo augura alla sua comu-<br />
nità di Corinto, debba andare insieme con la «grazia del Signore Gesù Cristo» e con l’«amore di Di-<br />
o». Il cerchio trinitario così si compie e si chiude. In esso il credente è chiamato e coinvolto. E den-<br />
tro di esso vivono e si muovono anche i rapporti dei cristiani fra loro. Così l’unione a Cristo,<br />
l’amore del Padre e la comunione dello Spirito costituiscono l’atmosfera vitale nella quale il cristia-<br />
no respira e vive i suoi rapporti con gli altri.<br />
In conclusione si può dire che il Padre chiama l’uomo alla comunione con il Figlio e il credente vi<br />
risponde grazie all’opera dello Spirito. Così egli vive in Cristo, animato dallo Spirito e orientato<br />
verso il Padre. La 1Gv semplifica il quadro ponendo in primo piano e in recto semplicemente la<br />
«comunione con il Padre» (1Gv 1,3), mentre la 2Pt sembra riassumere nella sua audace e brevissima<br />
formula: «partecipi (koinonoì) della natura divina», il senso di questi «preziosi e magnifici beni» che<br />
sono, appunto, la grazia di Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito (2Pt 1,4).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
La Trinità dunque non può essere ridotta, come a volte succede nella predicazione, a fungere da<br />
buon esempio per i cristiani, i quali dovrebbero amarsi ed essere uniti fra loro come sono uniti fra<br />
loro il Padre, il Figlio e lo Spirito. Il Padre, infatti, ci chiama alla comunione con il Figlio affinché<br />
con il Figlio incarnato possiamo condividere sofferenza e morte, consolazione e risurrezione così<br />
come esse appaiono nei segni eucaristici della «comunione del sangue di Cristo» e della «comunio-<br />
ne del corpo di Cristo» (1Cor 10,16). La comunione con il Figlio, a sua volta, ci immette nella stes-<br />
sa comunione che egli ha con il Padre: diventiamo partecipi della sua obbedienza, della sua oblazio-<br />
ne sacrificale e, quindi, del suo amore e della sua unità con il Padre. È facile capire, allora, che una<br />
κοινωνία di questa dimensione e profondità non può essere il semplice frutto di un’ascesi umana,<br />
ma solo opera dell’azione dello Spirito Santo.<br />
(IV) La dimensione ecclesiologica<br />
Abbiamo già visto come la dimensione “verticale” della comunione non si contrappone mai alla sua<br />
dimensione “orizzontale”, anzi il discorso sulla prima implica del tutto naturalmente la seconda.<br />
Questa implicazione avviene in forma estremamente concreta sia attraverso l’appello all’annuncio<br />
evangelico come fonte ed esito necessario dell’esperienza comunionale, sia attraverso il richiamo<br />
alle conseguenze di carattere interpersonale della celebrazione eucaristica, sia con la visione del<br />
rapporto inter- e intra-ecclesiale retto dalla grazia della κοινωνία.<br />
1/ Il vangelo — Il dono e la grazia dell’elezione sono frutto della incondizionata iniziativa del Padre<br />
e della libera azione dello Spirito. Il prologo della 1Gv, però, ce ne presenta un altro risvolto: la co-<br />
munione «con il Padre e il Figlio suo Gesù Cristo» si realizza all’interno di un nuovo rapporto uma-<br />
no che deriva dall’azione dei testimoni di Gesù, quando essi comunicano ad altri la loro esperienza<br />
del Signore. La chiamata del Padre e il dono dello Spirito raggiungono gli uomini attraverso la co-<br />
municazione dell’esperienza del Cristo da parte del testimone apostolico.<br />
In sintonia con ciò Paolo si rallegra con i suoi cristiani di Filippi perché li osserva koinonoì eis tò<br />
euangélion (Fil 1,5), impegnati «dal primo giorno fino al presente» nella comunicazione del Vange-<br />
lo in forza della quale espandono intorno a sé quella koinonía che li unisce tra di loro.<br />
Nell’espressione «dal primo giorno fino al presente» sembra riecheggiare la preoccupazione di Pao-<br />
lo per la fedeltà dei Galati al messaggio loro predicato all’origine, essendo essi tentati di tornare in-<br />
dietro verso posizioni giudaizzanti. Si veda la decisione con cui l’Apostolo dichiara anatema, sepa-<br />
rato, quindi in una situazione opposta a quella della comunione, chiunque — fosse pure lui stesso o<br />
addirittura un angelo — osasse sovvertire il «vangelo», o predicare «un altro vangelo» rispetto a<br />
quello che era stato predicato all’inizio (Gal 1,9). Una preoccupazione simile, anche se a partire da<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
una problematica diversa, Paolo rivela nei confronti dei Corinzi, quando, ricordando loro il vangelo<br />
sul quale si basa la loro esistenza («nel quale state») e dal quale essi possono sperare la salvezza,<br />
non manca di precisare che la condizione di tutto ciò è conservarlo tale quale lo hanno ricevuto 15 .<br />
Del resto il contesto di Filippesi 1,5 è proprio quello di un’esortazione alla perseveranza. La koino-<br />
nía eis tò euangélion implica il problema della fedeltà e allude germinalmente al grande tema della<br />
parádosis (= tradizione), cioè all’esigenza, vitale per la chiesa, di restare in comunione, di genera-<br />
zione in generazione, attraverso l’adesione all’evento dal quale all’inizio essa è stata costituita. Il<br />
tema si fa esplicito nella seconda lettera ai Tessalonicesi: «Fratelli, state saldi e mantenete le tradi-<br />
zioni che avete apprese». E anche qui non manca la dichiarazione di una separazione («tenetevi lon-<br />
tani») da coloro che si comportano «non secondo la tradizione» 16 . Non per nulla il primo sommario<br />
degli Atti, che descrive la comunità, ne sottolinea la perseveranza nell’ascolto dell’insegnamento<br />
degli apostoli, prima di nominare la κοινωνία che la caratterizza (At 2,42).<br />
Il tema della tradizione ritorna con forza nel prologo della 1Gv, dove la comunione è posta in stretto<br />
rapporto con «ciò che era fin da principio», che l’apostolo ha annunciato perché lo ha udito, veduto<br />
con i propri occhi, contemplato e toccato con mano (1Gv 1,1-4). La lettera sottolinea la necessità per<br />
tutti di restare fedeli alla testimonianza di coloro che hanno visto e toccato con mano. Quel «noi»,<br />
che fa da soggetto dell’annuncio, non indica necessariamente l’apostolo testimone oculare dei fatti.<br />
Secondo A. Dalbesio «con questo uso del plurale l’autore intende sottolineare in apertura della lette-<br />
ra il proprio carattere di portatore accreditato di quella genuina tradizione evangelica che sta per ri-<br />
proporre e difendere. Allo scopo egli si presenta come voce di un gruppo ben preciso, quello dei<br />
primi testimoni della suddetta tradizione». E proseguendo, Dalbesio precisa: «Egli nel reagire<br />
all’intimismo, [dei cristiani spiritualisti], che pretendeva un rapporto diretto con Dio prescindendo<br />
dal Cristo storico, e nel rifiuto del loro appellarsi allo Spirito per dar credito alle proprie posizioni<br />
(1Gv 4,1-6), parte dalla piattaforma opposta, rifacendosi alla persona storica di Cristo, sperimentata<br />
e testimoniata dai primi discepoli, quale unica chiave interpretativa della tradizione evangelica. In<br />
tal modo afferma che la vera interpretazione della fede cristiana è quella che si fonda sulla tradizio-<br />
ne radicata nei testimoni diretti e non su mere speculazioni astratte e soggettive. Nel contempo vie-<br />
ne a dire che la genuina testimonianza dello Spirito a favore di Cristo passa solo attraverso quella<br />
dei testimoni oculari. Ciò implica che per l’autore lo Spirito parli ora unicamente mediante i testi-<br />
15 1Cor 15,2:tíni lógo dice «nella forma in cui…», ma lógos è qui un termine forte, che potrebbe permettere anche una<br />
traduzione come «con quella formula con cui».<br />
16 Vedi tutta la pericope di 2Ts 2,13-3,15.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
moni qualificati del cui numero egli fa parte, in quanto essi, fedeli ai primi testimoni, sono i soli a<br />
partecipare della loro esperienza storica su Cristo» 17 . Sono questi autorevoli portatori della tradizio-<br />
ne, quindi, i soli che possono comunicare a coloro che intendono accogliere l’annuncio la genuina<br />
esperienza di Cristo che essi hanno vissuto: la comunione con il Padre e il Figlio. È la rivelazione<br />
stessa che consiste nel dono di sé da parte del Padre e del Figlio e, accogliendola, i credenti trovano<br />
la vita perché vengono a far parte della comunione divina. Non si tratta di un puro sentimento reli-<br />
gioso, né di una pura adesione di carattere dogmatico al Dio trinitario, bensì di una partecipazione<br />
reale alla vita divina e alla comunione che lega fra loro le persone divine. Ne segue la pratica<br />
dell’amore. Esso è una realtà spirituale e interiore che viene rivelata all’esterno dall’intreccio dei<br />
rapporti fraterni fra i cristiani. Però questa esperienza, che pure è un autentico «camminare nella lu-<br />
ce», in realtà non genera la comunione: si limita a rivelarla, poiché l’agape procede solo da Dio 18 .<br />
L’annuncio ininterrotto di questo evento, da parte di coloro che l’hanno vissuto come esperienza di<br />
comunione con Dio, prolunga l’evento stesso e coloro che accolgono il loro annuncio entrano<br />
nell’esperienza della medesima koinonía. La condizione, quindi, di salvezza è l’accoglienza del-<br />
l’annuncio qualificato e garantito all’interno della comunità dal “testimone apostolico”, con il con-<br />
seguente possesso di una comunione (koinonían échein), cioè di un vivo e profondo rapporto comu-<br />
nitario che attinge la profondità del mistero dell’unione con Dio Padre e il suo Figlio Gesù. È la<br />
grande idea dell’essere una cosa sola e della inabitazione del Padre e del Figlio nei credenti 19 .<br />
2/ L’eucaristia — I passi neotestamentari sulla cena eucaristica costituiscono dei luoghi significativi<br />
in cui risalta la duplice direzione della comunione, come relazione con Dio e con gli uomini. Lo<br />
suggerisce già il fatto che la celebrazione eucaristica assume in sé anche la figura della pattuizione<br />
dell’alleanza, in quanto questa fu insieme fondazione di una religione e creazione di un popolo.<br />
Grande è dunque la pregnanza di questi pochi versetti del capitolo 10 della prima lettera ai Corinzi,<br />
nei quali l’Apostolo chiede la rottura della comunione con i demoni, il distacco dalla loro «tavola».<br />
C’è dietro queste espressioni il senso della possibile contaminazione dell’uomo con il torbido miste-<br />
ro del male, che Paolo vede esaltato nei riti del culto pagano. Alla rottura di questa κοινωνία malva-<br />
gia corrisponde, sul fronte opposto, il sedersi alla «tavola del Signore», dove il credente, mangiando<br />
il pane e bevendo al calice, entra in comunione con il sangue del Signore crocifisso e con il suo cor-<br />
17<br />
A. DALBESIO, «Quello che abbiamo udito e veduto». L’esperienza cristiana nella prima lettera di Giovanni, EDB,<br />
Bologna 1990, 108.115.<br />
18<br />
1Gv 4,7-8.10.16; A. DALBESIO, op. cit., 132.<br />
19<br />
Cfr. R.E. BROWN, Le Lettere di Giovanni, Cittadella, Assisi 1986, 219-271 e in particolare 247-269.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
po che è, ormai, allo stesso tempo, corpo glorioso del risorto e corpo della chiesa. Per questo, a vo-<br />
ler seguire le indicazioni precise dell’Apostolo, il cristiano, pur potendolo fare, si asterrà dal man-<br />
giare la carne immolata agli idoli, qualora questo suo gesto scandalizzasse un suo fratello «per il<br />
quale Cristo è morto!» (1Cor 8,7-13). Per la stessa ragione Paolo giudica tanto grave quel modo di<br />
radunarsi dei suoi cristiani — che, davvero, non ha nulla che fare con la cena del Signore —, quan-<br />
do alla stessa tavola «uno ha fame, l’altro è ubriaco» (1Cor 11,21) 20 . Atteggiamenti di questo gene-<br />
re, simili mancanze di carità e di solidarietà, sono un vero e proprio «gettare disprezzo sulla chiesa<br />
di Dio» e quindi equivalgono a un mangiare e bere «la propria condanna» (1Cor 11,22.29).<br />
Nell’eucaristia, infatti, il corpo escatologico (risorto) del Cristo incorpora i cristiani in un solo corpo<br />
(10,14-22). L’unità della comunione liturgica può essere fondata sull’unicità del pane solo in quanto<br />
questo pane, come dice 1Cor 10,16, è il corpo di Cristo. Questo corpo è il corpo stesso di Gesù Cri-<br />
sto crocifisso e risorto, per il fatto che egli «nella notte in cui fu consegnato» (1Cor 11,23), ha dato<br />
la sua vita e ha condiviso il pane non solo come segno per significare il senso salvifico del suo vive-<br />
re e del suo morire «per voi» (1Cor 11,24), bensì come mezzo efficace per aver parte a quella grazia<br />
escatologica, che la sua morte e la sua risurrezione significano. In questa grazia Gesù Cristo non dà<br />
qualcosa di sé, bensì se stesso, poiché con coloro, per i quali muore, egli si identifica nella potenza<br />
di Dio al punto che egli costituisce il loro «io» redento (Gal 2,19s). La comunione al corpo di Cristo<br />
quindi fa sì che noi diveniamo non tanto come questo corpo, bensì il corpo di Cristo: il nodo dina-<br />
mico qui inteso non sta tanto nell’affermazione che i cristiani costituiscono un corpo sociale uno e<br />
unico, ma che costituiscono il corpo proprio di Cristo (nel corso del tempo è avvenuto però lo spo-<br />
stamento dal registro sacramentale a quello giuridico: da corpo a corporazione di Cristo. Cfr. invece<br />
1Cor 12,12: «così anche Cristo»). La celebrazione eucaristica ha contribuito a rivelare a Paolo<br />
l’identificazione della comunione cristiana con il corpo proprio del Risorto («voi siete il corpo del<br />
Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte»: 1Cor 12,27). Nella cristologia paolina, il Cristo ce-<br />
leste, Signore e Spirito, si annette un corpo per realizzare la pienezza del suo essere, in particolare<br />
nel Battesimo (1Cor 12,12-13) e nell’Eucaristia in cui si effettua escatologicamente «la pienezza di<br />
colui che si realizza interamente in tutte le cose» (Ef 1,23) 21 .<br />
20 È interessante osservare che, secondo alcuni manoscritti, la colpa dei Corinzi è semplicemente indicata come un «non<br />
discernere il corpo», senza la specificazione «del Signore».<br />
21 Non è quindi un caso che il vocabolario della comunione (= fare la comunione) caratterizzi in modo eminente proprio<br />
l’Eucaristia: essa è il sacramento della communio; ricevere il Corpo e il Sangue del Cristo è communicare; essa non è<br />
celebrata che tra persone in communione. Sinteticamente Giovanni Damasceno può quindi dire: «Si dice anche<br />
[l’Eucaristia] koinonía, e lo è veramente, poiché per essa noi comunichiamo (koinoneín) con il Cristo e per essa noi comunichiamo<br />
(koinoneín) gli uni con gli altri»: La fede ortodossa, IV, 13, Città Nuova, Roma 1998, 271-272.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
3/ La koinonía ecclesiale — La pienezza della gioia, che il prologo di 1Gv vede come la meta desi-<br />
derata dell’annuncio, rappresenta il dono escatologico che si riceve accogliendo il Vangelo. Con<br />
questa decisione si entra quindi in una comunità aperta alla gioia e alla pace. L’eucaristia, poi, so-<br />
stenta continuamente l’unità di questo corpo ecclesiale, che è il corpo di Cristo. Perciò il secondo<br />
sommario di Atti ce la può descrivere come un’accolta di persone che formano un cuor solo e<br />
un’anima sola e in cui nessuno dichiarava suo ciò che gli apparteneva (At 4,32).<br />
Crescendo a partire dalla comunione con Gesù Cristo, la Chiesa non è né una comunione di interessi<br />
né un’associazione costituitasi per perseguire una finalità comune, bensì il popolo di Dio in Gesù<br />
Cristo, che egli congiunge non solo convocandolo e dandogli un incarico, bensì riempiendolo del<br />
suo Spirito, santificandolo e in futuro portandolo a compimento. La comunione dei credenti risulta<br />
dalla comune partecipazione all’amore che Dio aggiudica loro attraverso Gesù Cristo. Questa agape<br />
crea comunione (1Cor 13,4ss). Perciò la koinonía non si basa su interessi o esperienze comuni, ben-<br />
sì sulla elezione di Dio, non su un bilanciamento degli interessi o su compromessi, bensì sulla fede<br />
comune (Flm 6) nell’unico Dio e nell’unico Signore Gesù Cristo (1Cor 8,6), e neppure su un senti-<br />
mento di comunione o un’idea di comunione, come se la “comunione” fosse un valore in se stessa;<br />
bensì sulla coappartenenza delle creature tra di loro, che Dio porta a compimento nel Regno che<br />
viene e che fonda nell’ekklesía già al presente. È l’elezione che costituisce la koinonía ecclesiale,<br />
poiché nella medesima originarietà determina ciascun singolo «ad essere conformi all’immagine del<br />
Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29) e raduna l’intero popolo di Dio<br />
così che «la rivelazione dello Spirito viene data a ciascuno, per l’utilità comune» (1Cor 12,7).<br />
(a) La koinonía degli Apostoli<br />
Una dimensione essenziale della koinonía ecclesiale è la comunione degli apostoli tra di loro. Essa<br />
non è perseguita per se stessa, bensì a vantaggio della Chiesa intera, poiché secondo Paolo il compi-<br />
to/ministero dell’apostolo è di porre il fondamento dell’ekklesía, che non può essere altro che quello<br />
«che è posto»: Gesù Cristo (1Cor 3,11). Sigillare questa koinonía apostolica è stato per Paolo il ri-<br />
sultato essenziale del Concilio apostolico, che egli ha conseguito non solo nell’interesse degli etni-<br />
co-cristiani bensì a vantaggio dell’universalità dell’Evangelo (Gal 2,1-10; cf. At 15,11-32): le “co-<br />
lonne” - Giacomo, Cefa Giovanni - diedero «a me e a Barnaba la destra in segno di koinonía ». La<br />
stretta di mano non produce la koinonía, piuttosto la constata e con ciò la rafforza. La sua base è la<br />
missione, con cui Dio in Cristo ha affidato a «Pietro l’apostolato della circoncisione», mentre a Pao-<br />
lo «l’apostolato dell’incirconcisione» (Gal 2,8). In ciò si mostrano le dimensioni universali e la di-<br />
namica missionaria, contenuti in modo essenziale nell’evento cristologico fondamentale.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
La koinonía apostolica, come è richiesta da Paolo e riconosciuta da Gerusalemme, non mira solo a<br />
equiparare Paolo a Pietro, bensì i Giudei ai Pagani nella Chiesa e in ciascuna singola comunità<br />
(1Cor 12,13; Gal 3,28). Essa persegue quindi l’interesse di una sostanziale unità della Chiesa al di<br />
là dell’uniformità e della molteplicità delle realizzazioni ecclesiali, concentrandosi sul servizio<br />
all’Evangelo di Dio e sulla confessione fondamentale in un unico Dio e in un unico Signore.<br />
Quanto importante fosse questa comunione, lo illustra bene l’“incidente di Antiochia” (Gal 2,11-<br />
14). Infatti, quantunque Paolo secondo il proprio resoconto «si oppose in faccia a Cefa» (Gal 2,11),<br />
poiché quegli aveva tradito «la verità del Vangelo» (2,5.14), non giunse tuttavia alla rottura con lui.<br />
In realtà gli elementi comuni nella cristologia e nella soteriologia erano di grande spessore (1Cor<br />
15,1-11) e si estendevano anche all’ambito della giustificazione, visto che nessun esponente di rilie-<br />
vo della Chiesa di Gerusalemme ha legato la salvezza dei gentili alla circoncisione e alla osservanza<br />
della Legge, bensì alla “fides Christi” (cfr. Gal 2,14s). Senza la koinonía, sigillata a Gerusalemme,<br />
la Chiesa sarebbe andata a pezzi, le singole comunità sarebbero rimaste isolate e soprattutto il fon-<br />
damento, che Dio ha posto con Gesù Cristo mediante gli Apostoli, sarebbe stato intaccato.<br />
(b) La koinonía delle comunità e degli Apostoli<br />
La comunione deve però regnare anche tra le comunità e gli apostoli. Come mostra la corrisponden-<br />
za di Corinto, questa non era sempre assicurata, anzi a volte ha rischiato di andare persa nei conflitti<br />
sulla fede e dovette essere riguadagnata da Paolo tra fatiche e preoccupazioni (2Cor 1,3-11; 2,5-11;<br />
7,5-16). La comunione tra l’Apostolo e la comunità è una comunione «nel dare e avere» (Fil 4,11s)<br />
concretizzata fin nel sostegno finanziario (cfr. Gal 6,6), ma più ancora riferita allo scambio di beni<br />
spirituali (Rm 1,11), all’essere uno con l’altro nella sofferenza e nella consolazione della speranza<br />
(2Cor 1,7). La base di questa comunione è la comune accettazione dell’Apostolo come di tutti i cri-<br />
stiani in Gesù Cristo; essa si esprime nell’indirizzarsi reciproco come «fratelli» (e sorelle), nella<br />
comune confessione (Rm 10,9s) e nel connesso lavoro all’edificazione della Chiesa.<br />
Certamente questa comunione non è simmetrica: Paolo è il «padre» (1Ts 2,11) e la «madre» (1Ts<br />
2,7s) dei credenti (cfr. 2Cor 6,13); i cristiani devono imitare lui, come egli imita Cristo (1Cor 11,1;<br />
cfr. 4,16); egli è l’«architetto», che ha posto il fondamento, mentre essi con le loro diverse attitudini<br />
e capacità devono edificare sopra questo fondamento (1Cor 3,10-17).<br />
La comunione tra l’Apostolo e la comunità secondo la sua essenza consiste non da ultimo nel fatto<br />
che da una parte l’Apostolo esercita la libertà della fede (Gal 5), accresce il sapere dei cristiani, esi-<br />
ge, promuove e rispetta la loro competenza di giudizio, risveglia i carismi (1Cor 12; Rm 12,4-8) e<br />
sostiene i servizi (1Ts 5,12s; 1Cor 12,28ss), mentre d’altra parte i membri della comunità corri-<br />
spondono all’Apostolo come all’inviato di Gesù Cristo (2Cor 3-5), come all’annunciatore del Van-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
gelo pieno di potenza e degno di fede (1Ts 2,1-12), come guida della loro comunità e come modello<br />
nella fede (1Ts 1,6; 1Cor 4,16; 11,1). Da una parte c’è il riconoscimento che «uno e lo stesso Spirito<br />
partecipa a ciascuno il suo dono particolare» (1Cor 12,11), in modo che sorga una «comunione dello<br />
Spirito» (Fil 2,1); d’altra parte c’è il riconoscimento che nessuno può credere, se prima non ha a-<br />
scoltato, se nessuno gli ha predicato, e nessuno può predicare, se non è stato inviato (Rm 10,14s).<br />
Quando tutto va bene, Paolo scrive: «io rendo grazie a Dio… per la vostra κοινωνία all’Evangelo<br />
dal primo giorno fino ad oggi» (Fil 1,3.5). Egli intende qui la comunione dei Filippesi con<br />
l’Apostolo e dell’Apostolo con loro, che viene fondata tramite l’Evangelo; non solo attraverso con-<br />
vinzioni comuni, bensì mediante «la potenza di Dio per ciascun credente» (Rm 1,17).<br />
Quando ci sono dei problemi, Paolo si dà da fare per riguadagnare la comunione. Egli non si tira in-<br />
dietro nemmeno davanti alla polemica, al sarcasmo e alla critica. Ma egli è anche pronto anche a fa-<br />
re gesti magnanimi di perdono. Ciò che è decisivo è che la comunione venga di nuovo ristabilita.<br />
Essa si basa sullo stesso Vangelo e la stessa fede (1Cor 15,11); presuppone che i ruoli siano chiari e<br />
vengano accettati: quello dell’Apostolo come pure quello dei molti carismatici nella comunità; è o-<br />
rientata a che la comunità divenga non solo il luogo dell’esperienza di Dio e dell’adorazione di Dio,<br />
bensì renda il proprio servizio così che il mondo venga trasformato dallo Spirito di Dio.<br />
(c) La koinonía delle comunità tra di loro<br />
La koinonía ha il suo posto anche tra le diverse comunità. Non ultimo è il compito che l’Apostolo<br />
ha di allacciare i contatti tra le comunità. In Paolo lo spettro delle sue peregrinazioni missionarie si<br />
estende oltre i suoi viaggi pastorali e l’invio di collaboratori fino alla redazione delle sue lettere, at-<br />
traverso cui egli promuove lo scambio di esperienze e affina una coscienza di Chiesa universale.<br />
Di grande importanza è per lui l’organizzazione della “colletta” — che chiama anche κοινωνία: Rm<br />
15,26 — su cui ci si mise d’accordo al Concilio apostolico, in favore della chiesa di Gerusalemme<br />
(Gal 2,10; cfr. 1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Rm 15,25-29). Essa è una prova eminente di κοινωνία (2Cor<br />
8,4; Rm 15,26s), visto che non è solo un’azione caritativa, bensì anche un’azione-segno, che deve<br />
rendere visibile la consapevolezza delle comunità fondate di recente circa la loro appartenenza a<br />
Gerusalemme come pure l’accettazione senza riserve delle comunità di missione paolina da parte di<br />
Gerusalemme: «Avendo i pagani partecipato — ekoinónesan — ai loro beni spirituali, sono in debi-<br />
to di rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali» (Rm 15,27).<br />
La koinonía va ben oltre la solidarietà materiale, azioni comuni e scambio di informazioni, ma<br />
giunge in profondità nella spiritualità. Paolo ricorda ai Tessalonicesi, che soffrono diverse tribola-<br />
zioni, che essi nella loro sofferenza per l’Evangelo «imitano le comunità di Dio in Giudea, perché<br />
avete sofferto anche voi da parte dei vostri connazionali come loro da parte dei Giudei» (1Ts 1,14).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Naturalmente nel tempo neotestamentario non c’è ancora una struttura comunionale tra le comunità.<br />
Ma i forti e numerosi impulsi dell’Apostolo indicano però in modo duplice che: (1) appartiene alla<br />
vocazione delle singole comunità, di non isolarsi l’una dall’altra, bensì di formare tra di loro su tutti<br />
i piani quella comunione che corrisponde all’appartenenza all’unica Chiesa ed è dovuta alla sotto-<br />
missione sotto la signoria dell’unico Cristo; e (2) da parte sua questa κοινωνία è un’espressione tan-<br />
to dell’universalità come pure della presenza storica del vangelo hic et nunc.<br />
(d) La koinonía dei cristiani nelle comunità<br />
Da ultimo anche le relazioni intracomunitarie dei cristiani sono poste sotto il segno della koinonía.<br />
Paolo ricorda infatti che nelle comunità si corre il pericolo dell’isolamento e dell’edificazione indi-<br />
vidualistica (1Cor 14), della formazione di sette e di eresie (1Cor 1-2); in senso positivo occorre in-<br />
vece l’accoglienza reciproca, l’offerta di sostegno, una testimonianza comune, una comune celebra-<br />
zione del servizio liturgico, l’edificazione dell’ekklesía. La lettera ai Romani intende anche l’etica<br />
nell’orizzonte della koinonía. Paolo inizia la parte esortativa dello scritto, illustrando ciò che opera<br />
l’amore (Rm 12,9-21) — qualificato come il compimento della Legge (13,8ss). Essenziali sono<br />
l’«amore del fratello» e l’«ospitalità», il perdono e la costruzione della pace. La “koinonía” appar-<br />
tiene a tutto ciò. «Siate solidali (koinonountes) con i santi, siate ospitali» (Rm 12,13). L’esortazione<br />
mira a far sì che i cristiani di un luogo forniscano agli altri cristiani, che sono in viaggio, ad es. co-<br />
me Apostoli e Profeti, un tetto e del cibo e si sostengano in qualsiasi modo. Questa era una premes-<br />
sa essenziale per una missione feconda e una comunicazione tra le comunità. Parlando in questa<br />
connessione di koinonía, Paolo ricorda alla comunità che il sostegno materiale è espressione della<br />
comunione nella fede e consegue dalla comune partecipazione di tutti alla grazia di Gesù Cristo.<br />
Il fatto che il termine koinonía ricorra solo una volta, non deve ingannarci. Secondo la res essa è<br />
presente dovunque viene tematizzato “l’essere-con” e “l’essere-per” dei credenti. L’etica paolina è<br />
sintonizzata sulla koinonía ecclesiale, poiché la comunità è il luogo primo, in cui l’agape deve con-<br />
cretizzarsi: «operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede» (Gal 6,10; si veda<br />
pure Eb 13,16, dove si esortano similmente i cristiani a non dimenticarsi «della beneficenza e della<br />
κοινωνία»). Per quanto riguarda l’etica della koinonía, la lettera ai Romani chiarisce alcuni versetti<br />
dopo il riferimento alla parola koinonía: «piangete con quelli che piangono, gioite con quelli che so-<br />
no nella gioia» (Rm 12,15). La partecipazione al destino degli altri è più che segno di amicizia e di<br />
buon cuore. Essa è tutela e trasmissione della partecipazione di Gesù Cristo stesso al destino dei fi-<br />
gli di Adamo, che egli mediante il Vangelo vuole guadagnare alla fede e al Regno di Dio.<br />
L’utilizzo ecclesiale di questo principio etico rinvia alla metafora del Corpus Christi. Paolo vede<br />
l’unicità del corpo e la molteplicità delle membra nel fatto che «non ci fosse divisione nel corpo, ma<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra<br />
soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1Cor 12,25-26).<br />
(V) Conclusione<br />
Nonostante il salto di pensiero che, nel NT, fa dell’idea di comunione con Dio l’elemento di base<br />
dell’esistenza cristiana, mentre l’AT l’avrebbe guardata, a dir poco, con una certa diffidenza, biso-<br />
gna sottolineare la linea di continuità che va dall’idea anticotestamentaria dell’alleanza a quella neo-<br />
testamentaria della comunione. L’interiorizzazione della legge, preannunciata da Geremia (31,33) e<br />
da Ezechiele (36,26s), si compie nella conoscenza di Dio, vera comunione con lui, resa possibile<br />
dall’inabitazione della Parola nel credente, come principio dinamico del suo operare e della sua pu-<br />
rificazione dal peccato. Ma questa conoscenza di Dio, nel NT non è mai riducibile ad una gnosi. La<br />
comunione non sta al di là della storia, né isola il credente in una specie di solipsistica elevazione<br />
alla partecipazione della natura divina. Come ben ci ricorda 1Gv, la conoscenza di Dio è autentica<br />
solo quando è accompagnata dall’amore fraterno (4,7-8); che si dà una vera comunione con Dio so-<br />
lo se si mettono in pratica i comandamenti (2,3-5; 3,24) e si cammina nella luce (1,6-7), cioè<br />
nell’amore vicendevole (2,9-11); che si ama Dio solo se si ama il fratello (4,20-21).<br />
L’antica alleanza, che sulla base dell’elezione di Dio aveva fondato un popolo e ne aveva costruito<br />
la storia, continua così nella nuova: questa si compie nel dono del Padre il quale, mediante<br />
l’infusione dello Spirito, chiama alla comunione con il Figlio coloro che sono destinati a formare il<br />
suo popolo e ad animare la storia dell’umanità nel suo cammino verso il Regno.<br />
b) La Chiesa mistero di comunione<br />
Cerchiamo ora di riassumere i risultati della nostra analisi del NT. Se prendiamo come punto di rife-<br />
rimento i tre significati che in generale il termine koinonía possiede — 1) dare una parte, fare parte,<br />
mettere in comune; 2) partecipare, prendere parte; 3) la comunità che ne risulta —, la κοινωνία cri-<br />
stiana risulta caratterizzata dai seguenti tre elementi.<br />
1/ L’elemento primo della communio è il disegno di Dio di comunicare un bene che, non cessando<br />
di essere di Dio, diviene allora un bene comune a Dio e all’uomo. Vi è quindi primariamente una<br />
comunicazione, che è propriamente l’opera del Verbo incarnato e dello Spirito donato. Questo “be-<br />
ne” che Dio vuole comunicare è Dio stesso, la sua vita che è comunione. Questo bene divenuto co-<br />
mune a Dio e all’uomo non è quindi un’opera comune a Dio e all’uomo, ma è un dono.<br />
Più precisamente, la partecipazione offerta all’uomo è una partecipazione alla vita del Cristo:<br />
l’offerta divina raggiunge l’uomo mediante il Cristo (= la grazia è cristica); di conseguenza anche la<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
partecipazione alla comunione divina avviene in forma “incarnata” («verbis gestisque»: DV 2).<br />
2/ Il secondo elemento della communio è la recezione effettiva della grazia da parte dell’uomo. La<br />
grazia dona all’uomo che la riceve la capacità di corrispondere con un atto veramente suo all’offerta<br />
divina mediante la fede, la speranza e la carità, che gli consentono di partecipare a ciò che Dio è e<br />
fa, di vivere la stessa vita di Dio. Ora, come abbiamo più volte sottolineato, questa comunicazione<br />
effettiva si realizza nella mediazione della Chiesa ed ha come frutto l’edificazione della stessa Chie-<br />
sa e l’accrescersi di nuovi membri della Chiesa corpo di Cristo.<br />
3/ Il fare parte (di Dio) e il prendere parte (da parte dell’uomo) portano quindi al costituirsi di una<br />
comunità, fondata su un “avere” in comune, meglio ancora su un “essere” comune, ossia la confor-<br />
mazione a Cristo, nuovo Adamo, spirito datore di vita.<br />
La nozione ecclesiologica di communio intende quindi esprimere la comunità divina in quanto si<br />
dona per essere partecipata dall’uomo secondo l’economia cristica e cristoconformante per l’azione<br />
dello Spirito santo, mediata ministerialmente dalla Chiesa. In tal senso la Chiesa mediante la sua<br />
“testimonianza” (articolata nel “tripode” martyria, leiturghia, diakonia) offre ad ogni uomo la pos-<br />
sibilità di ricevere quella competenza necessaria per confessare nello Spirito che Gesù Cristo è<br />
l’autocomunicazione di Dio per la salvezza del mondo.<br />
La nozione ecclesiologica di communio segnala inoltre la qualità delle relazioni tra i membri e la<br />
Chiesa e tra di loro (Chiesa come communio fidelium). Alla forma comunionale della Chiesa devo-<br />
no quindi corrispondere le forme della comunicazione e della partecipazione a tutti i livelli: nella re-<br />
lazione fra le chiese (Chiesa come communio ecclesiarum), nel collegio episcopale, in un rapporto<br />
corretto tra primato e collegialità (la communio hierarchica); nella relazione tra il vescovo e i suoi<br />
presbiteri e diaconi; all’interno delle singole comunità in cui si deve dare spazio ai diversi carismi,<br />
compiti e ministeri che lo Spirito suscita per il bene della Chiesa tutta.<br />
Secondo l’espressione tradizionale la Chiesa è quindi chiamata a ragione communio sanctorum:<br />
«La comune partecipazione visibile ai beni della salvezza (le cose sante), specialmente<br />
all’Eucaristia, è radice della comunione invisibile tra i partecipanti (i santi). Questa comunione<br />
comporta una spirituale solidarietà tra i membri della Chiesa, in quanto membra di un medesimo<br />
Corpo, e tende alla loro effettiva unione nella carità costituendo «un solo cuore ed una sola anima».<br />
La comunione tende pure all’unione nella preghiera, ispirata in tutti da un medesimo Spirito,<br />
lo Spirito Santo «che riempie ed unisce tutta la Chiesa». Questa comunione, nei suoi elementi invisibili,<br />
esiste non solo tra i membri della Chiesa pellegrinante sulla terra, ma anche tra essi e tutti<br />
coloro che, passati da questo mondo nella grazia del Signore, fanno parte della Chiesa celeste o saranno<br />
incorporati ad essa dopo la loro piena purificazione» 22 .<br />
22 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, «Communionis notio» (28 maggio 1992), n. 6.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
a) La questione<br />
3.3.4. La comunità<br />
Come si passa dall’ineffabilità del dono della comunione alla verificabilità storica della chiesa nella<br />
sua forma empirica? Al di là della plurisecolare querelle, che vede contrapporsi la tesi di una chiesa<br />
nascosta nella sua vera essenza e manifesta solo nella sua contingenza empirica e la tesi di una fon-<br />
damentale coincidenza del dono di grazia con la forma storica della chiesa autentica, il problema<br />
può essere riformulato in modo leggermente diverso. Pur partendo dal presupposto che il dono di<br />
grazia è chiamata del Padre a entrare mediante lo Spirito nella comunione del suo Figlio venuto in<br />
carne umana e, quindi, raggiungibile solo attraverso la testimonianza e la mediazione della tradizio-<br />
ne, nella sua dimensione storica, è ancora necessario chiedersi: perché la comunione dovrebbe in-<br />
carnarsi storicamente in una forma di vita comunitaria dotata di una vera e propria, sia pur mini-<br />
ma, organizzazione sociale e istituzionale che le conferisca una precisa forma empirica ben ricono-<br />
scibile e il carattere della stabilità e della durata nel tempo? Perché la comunione non potrebbe ave-<br />
re la sua materializzazione storica nel puro e semplice incontro dei credenti, che si compie nel sem-<br />
plice atto della comunicazione della fede? Oppure: perché l’unione dei credenti, in forza della sua<br />
connaturale spinta escatologica, non dovrebbe concepirsi e realizzarsi proprio con un intento contra-<br />
rio e manifestarsi, quindi, in una forma organizzativa marcatamente contingente e provvisoria, quasi<br />
platealmente segnata dall’attesa di una imminente parousía? 23<br />
Più comunemente la questione viene posta in termini leggermente diversi: ci si interroga, cioè, sul<br />
rapporto che corre fra la comunione e l’istituzione. Forse è però preferibile proporre la domanda<br />
giocando sui termini comunione e comunità, perché la comunità è anteriore all’istituzione e perché<br />
in questi termini sembra riflettersi meglio un insieme di bisogni dell’<strong>ecclesiologia</strong> odierna. Fra<br />
l’evento comunionale, infatti, e la creazione dell’istituzione ecclesiastica trovano posto molte realtà<br />
intermedie: pensiamo solo al cammino di molte aggregazioni di cristiani, che si sono formate e han-<br />
23 È questa l’idea di Chiesa delle chiese congregazionaliste, soprattutto nelle loro forme recentemente più diffuse delle<br />
cosiddette “chiese libere”, nelle quali non si formalizza l’appartenenza, si riduce al minimo l’apparato istituzionale e<br />
l’esperienza ecclesiale è praticamente quella che si realizza di volta in volta nell’assemblea che si raccoglie di fatto intorno<br />
alla predicazione della parola di Dio. Su un altro versante anche la teologia barthiana è segnata da questa diffidenza<br />
nei confronti della chiesa come costruzione umana di una vera e propria aggregazione sociale: la «distretta della chiesa»<br />
è proprio quella di non poter fare a meno di esistere mentre in realtà non dovrebbe esistere: cfr. ID., L’Epistola ai<br />
Romani, Feltrinelli, Milano 1978, 314-315. In un testo del 1948 Karl Barth sosterrà che «è molto importante imparare di<br />
nuovo a interpretare la parola “chiesa” non solo come istituzione e la parola “comunità”… non solo come esistenza e<br />
persistenza di una società, ma tutti e due i termini come l’“evento di un riunirsi”: La chiesa. Comunità vivente di Gesù<br />
Cristo signore vivente, in ID., La chiesa, Città Nuova, Roma 1970, 45-69. 51.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
no operato a lungo, a volte per secoli, nella chiesa, dotate di una forma comunitaria stabile, compat-<br />
ta e del tutto determinata, ma prive di una vera e propria forma istituzionale che le inserisse for-<br />
malmente nel quadro complessivo dell’istituzione ecclesiastica quale è regolamentato dal diritto ca-<br />
nonico. D’altro lato, appare sempre più evidente che solo nel contesto romantico della contrapposi-<br />
zione fra comunità e società si è potuto pensare la comunità come un’aggregazione di credenti op-<br />
posta a quelle di tipo istituzionale, inquadrate nella rete del diritto e della legge. Non è detto che la<br />
comunità la quale non abbia ancora una vera e propria forma istituzionale, già non ordini la propria<br />
vita, oltre che sui principi della fede, anche su delle regole, magari non scritte, o addirittura sempli-<br />
cemente abitudinarie, che essa si dà e che già le danno la forma dell’istituzione. Anzi, là dove si in-<br />
sinuava la contrapposizione radicale fra comunità e istituzione, il discorso veniva ad arrestarsi assai<br />
presto, perché il termine comunità, se lo si vuole intendere nel senso di una realtà pura da ogni con-<br />
taminazione giuridico-convenzionale, ricade immediatamente nel campo semantico proprio del ter-<br />
mine comunione e, quindi, tende a identificarvisi; oppure va a vivere alla sua ombra, dove gli sem-<br />
bra di poter raccogliere quelle aggregazioni cristiane che si danno compattezza solo con la forza dei<br />
sentimenti, con l’entusiasmo della carità; in una parola: con la qualità etica dell’unione realizzata.<br />
Se davvero la classica opposizione fra comunità e società è entrata in crisi, è facile capire che già al<br />
primo dei due termini compete il significato di un’aggregazione sociale stabile e compatta, dotata di<br />
regole per la convivenza interna e per i rapporti con gli altri, che può dar vita a certe sue istituzioni.<br />
E queste istituzioni, se non derivano dal puro contratto sociale ma da un’autentica esperienza comu-<br />
nitaria, saranno certamente caratterizzate dal rispetto per la libertà delle persone, dall’importanza at-<br />
tribuita al rapporto interpersonale, dall’esaltazione della vita comunitaria, sentita come un valore in<br />
se stessa. Il bisogno di liberarsi dalla forma delle chiese di stato e, allo stesso tempo, di superare<br />
l’individualismo religioso della cultura illuministica e l’anonimato di strutture ecclesiastiche morti-<br />
ficanti le singole personalità dei credenti, ha dato vita a un impressionante pullulare di forme di ag-<br />
gregazione dei credenti, che hanno cercato di ritrovare il senso della chiesa in nuove esperienze di<br />
vita comunitaria, meno vincolate dalle esigenze più pesanti dell’istituzione ecclesiastica.<br />
Ma, dal punto di vista ecclesiologico, da tutto questo fenomeno non nasce alcun dato veramente<br />
nuovo; il problema di fondo resta il medesimo: perché il dono segreto e interiore della comunione<br />
deve sfociare nel fenomeno del costituirsi di una comunità, poco importa se questa assuma la forma<br />
più libera e provvisoria o la più carica di adempimenti istituzionali e canonici?<br />
A questo proposito è interessante notare un fenomeno assai curioso. In passato questo agitarsi intor-<br />
no all’aspetto visibile e a quello invisibile della chiesa era motivato dalla convinzione che i veri<br />
membri della chiesa fossero in realtà molto meno numerosi dei battezzati e dei praticanti. Al fondo<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
di tale modo di pensare c’era quel giudizio pessimistico sullo stato della chiesa e sulla fedeltà a Cri-<br />
sto dei suoi membri, che è caratteristico dei movimenti riformatori, anche se già Agostino, vedendo<br />
la forma empirica della chiesa tanto estesa da coprire tutto lo spazio dell’umanità conosciuta, si in-<br />
terrogava se tutti coloro che le appartenevano per la communio sacramentorum avessero davvero<br />
parte alla communio sanctorum. Le nostre ultime generazioni, invece, stanno ponendo il problema<br />
nella direzione opposta, poiché ora noi vediamo estremamente dilatati non già i confini della chiesa<br />
ma le dimensioni dell’umanità e, quindi, siamo inclini a chiederci se le innumerevoli persone e le<br />
immense popolazioni, alle quali la chiesa non è giunta, davvero non abbiano in sé alcun dono di<br />
comunione proveniente dallo Spirito che «soffia dove vuole». In questo senso si è mosso il Vaticano<br />
II quando definiva la chiesa «come un sacramento… dell’unità del genere umano», perché scorgeva<br />
la chiesa storica emergere dagli strati più profondi della vicenda umana, prefigurata fin dalle origini<br />
nel rapporto dei progenitori con Dio e fra loro, preparata nella storia di Israele e destinata a risolver-<br />
si nella innumerabile assemblea escatologica di tutti i salvati, da Abele in poi, anzi da Adamo, fino<br />
all’ultimo dei giusti. Così il concilio poteva parlare della comunione come di una realtà pluriforme<br />
che si estende in cerchi concentrici, fino ad abbracciare tutti gli uomini dalla coscienza retta 24 .<br />
Nonostante l’immensa vastità delle dimensioni della comunione e la sua incidenza sulla autoco-<br />
scienza del credente, coloro che hanno conosciuto Cristo per averne ricevuta la memoria attraverso<br />
la paradosis cristiana, che per loro si è concretizzata nelle persone effettive con le quali hanno vis-<br />
suto un’esperienza di comunicazione della fede, non possono non ritrovarsi legati a queste ultime<br />
per vivere insieme a loro la stessa esperienza di fede. Così, attraverso il concetto di communio salu-<br />
tis et gratiae, la chiesa sa che la sua comunione si estende ben oltre i propri confini spazio-<br />
temporali, mentre attraverso la communitas mediorum salutis, che comprende tutta la trama simbo-<br />
lica della comunicazione cristiana, dalla parola ai sacramenti, alle strutture, alle azioni, la chiesa si<br />
forma come un’aggregazione sociale visibile, stabile, organizzata e dalla forma ben determinata 25 .<br />
Il problema da porre, quindi, è quello del rapporto fra il carattere comunionale e quello comunitario<br />
della chiesa: perché dalla comunione viene la comunità? Perché alla communio sanctorum corri-<br />
sponde anche una aggregazione sociale, una chiesa che si istituzionalizza in una forma empirica?<br />
Allora la nostra questione, se posta in maniera radicale, non sta tanto nella querelle fra <strong>ecclesiologia</strong><br />
cattolica e protestante sul valore da attribuire alla forma empirica della chiesa, quanto piuttosto<br />
24 Lumen gentium, 1 e 2; 14-16; PAOLO VI, Ecclesiam Suam, III, in EV 2/201-210, EDB, Bologna 1976, 279-299.<br />
25 G. GHIRLANDA, «Hierarchica communio». Significato della formula nella Lumen gentium, Roma 1980, 178-190.<br />
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nell’alternativa fra una concezione della comunione priva di una dimensione storica e un’idea della<br />
comunione che si risolve nella comunità, cioè in un vero e proprio soggetto storico collettivo, attra-<br />
verso il quale la comunione stessa si manifesta e influisce visibilmente sulla vicenda degli uomini.<br />
Se la vera comunione sia appannaggio di un coetus electorum più ristretto della chiesa visibile o se<br />
la communio sanctorum si estenda al di là dei confini della chiesa empirica, non è una questione ec-<br />
clesiologica di fondo. Lo è invece l’interrogativo sulla chiesa come soggetto storico: è possibile in-<br />
dividuare un soggetto storicamente verificabile e storicamente operante, nel quale il mistero della<br />
chiamata del Padre alla comunione del suo Figlio nello Spirito emerga al livello storico?<br />
Comunque sia non si può confondere la comunione con la realtà sociologica della comunità cristia-<br />
na. Oltre tutto, se così non fosse, non sarebbe possibile pensare una communio sanctorum che co-<br />
minci con Adamo e sia destinata ad approdare alla chiesa escatologica ab Abel mentre è evidente<br />
che l’esistenza delle comunità cristiane non si può datare prima di Cristo e della predicazione apo-<br />
stolica. Ma l’aggregazione sociale, in qualsiasi forma la si voglia intendere, è semplicemente<br />
l’effetto dell’evento-chiesa e non chiesa essa stessa? Questo è il punto cruciale della questione.<br />
b) La prospettiva sociologica<br />
Attualmente ciò che acuisce il nostro problema è il fenomeno della riscoperta della libertà e della<br />
decisionalità personale della fede, come elementi determinanti della aggregazione dei credenti. Su<br />
questo terreno nasce e vive l’aspirazione a realizzare nella chiesa un tipo di vita comunitaria che sia<br />
profondamente diverso da quello che si sperimenta nella società civile. Anzi per alcuni<br />
l’autocoscienza ecclesiale dovrebbe sviluppare sempre di più la sua tensione escatologica e la sua<br />
linea utopica, dando all’aggregazione cristiana addirittura la forma di una società di contrasto: una<br />
specie di contromodello delle forme di aggregazione sociale che si sperimentano nel mondo 26 .<br />
Riteniamo, però, che al di là della contrapposizione diffusa fra i concetti di comunità e di società, al<br />
di là di una certa mitizzazione dell’idea di chiesa come comunità, la questione radicale (non pura-<br />
mente teorica, ma anche eminentemente pratico-pastorale) che emerge per la Chiesa nella modernità<br />
sia quella delle diverse forme di appartenenza 27 . La prassi quasi bimillenaria del battesimo dei<br />
bambini è alla base di un processo di riproduzione della chiesa, nel quale gli elementi, pur decisivi,<br />
della libertà e della decisionalità personale dell’atto di fede sembrano risultare marginali. Invece il<br />
26 G. LOHFINK, Gesù come voleva la sua comunità? La chiesa quale dovrebbe essere, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo<br />
(Milano) 1987; ID., Dio ha bisogno della Chiesa? Sulla teologia del popolo di Dio, Edizioni San Paolo, Cinisello<br />
Balsamo (Milano) 1999, spec. 353-365.<br />
27 Si veda ad es. M. KEHL, Dove va la Chiesa?, op. cit., specialmente le pp. 117-187.<br />
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nuovo senso della missione, legato alla consapevolezza dell’allargamento dell’area della non cre-<br />
denza anche in ambienti di antica tradizione cristiana, introduce criteri di appartenenza più liberi e<br />
personali. Ne deriva che il processo di riproduzione della chiesa può assumere a grandi linee due<br />
forme diverse, per cui possono darsi anche due diversi tipi di aggregazione ecclesiale. La differen-<br />
ziazione non coincide, di per sé, con la distinzione tra la forma di “società” e quella di “comunità”.<br />
Anche la società quale la definisce Max Weber può nascere da una decisione libera e personale dei<br />
suoi membri, giacché la società civile, alla quale si appartiene per nascita, non è l’unica forma di<br />
società. Viceversa non è detto che ad una comunità si appartenga sempre e solo per libera scelta: i<br />
figli ad es. non appartengono alla comunità famigliare in forza di una loro scelta personale.<br />
Il vero problema ecclesiologico, quindi, è duplice: quello del fondarsi della chiesa come aggrega-<br />
zione stabile sul dono della comunione e quello della forma di aggregazione che risulti a lei più<br />
congrua. Questo secondo aspetto sembra porci oggi di fronte ad una alternativa nuova: dalla comu-<br />
nicazione della fede, con il suo carattere fortemente personale, e dal dono dello Spirito, con le sue<br />
esigenze di libertà, deriva che la comunità cristiana debba avere la forma dell’aggregazione adulta e<br />
libera, oppure dall’annuncio evangelico nasce un popolo al quale si appartiene per generazione?<br />
c) La prospettiva del Nuovo Testamento<br />
Il termine comunità è assente dal Nuovo Testamento. C’è koinonía, che dice comunione, e c’è ek-<br />
klesía, che i romani hanno latinizzato, invece di tradurlo, in ecclesia. La parola poi è servita da co-<br />
nio per altre lingue, che ne hanno ricavato i termini chiesa, église, iglesia ecc.<br />
Le prime comunità cristiane hanno detto nel modo più completo la loro autoconsapevolezza chia-<br />
mandosi ekklesía, sia singolarmente che collettivamente. Come è noto, ekklesía è il termine con il<br />
quale i LXX avevano tradotto in greco il significato di q e hal jhwh (l’assemblea radunata del popolo<br />
di Israele) e che i greci usavano per indicare la riunione del popolo di una pólis. Il termine rendeva<br />
bene il carattere pubblico dell’aggregazione dei cristiani, in opposizione a quello segreto delle co-<br />
munità misteriche o delle associazioni di carattere privato. Il referente più conosciuto è quello del<br />
popolo o della pólis. Ma mentre nell’assemblea della pólis greca si radunavano solo gli uomini per<br />
prendere decisioni sulla comunità, l’assemblea cristiana si sente nata dalla decisione di Dio, il quale<br />
ha glorificato il suo Cristo e ha convocato tutti i credenti per la venuta del suo Regno. Il modello dei<br />
cristiani quindi è, piuttosto, il popolo di Israele che si raduna al completo, uomini, donne e bambini,<br />
per accogliere le decisioni di Dio: il qahal del Sinai.<br />
Abbiamo visto sopra come la comunione venga descritta dal NT in maniera fortemente oggettiva: è<br />
la comunione dei beni, dei bisogni, delle sofferenze, della gloria, del vangelo, del pane eucaristico,<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
del Figlio, dello Spirito ecc. Alla fine è una comunione delle persone fra loro, dei soggetti che vi so-<br />
no stati chiamati dal Padre, per cui il gruppo dei credenti è segnalato da At 2,42 per la sua fedele as-<br />
siduità all’insegnamento degli apostoli, alla frazione del pane, alle preghiere e, in mezzo a queste<br />
altre cose, si cita anche l’assiduità alla comunione 28 . Per quanto il referente della riunione dei cri-<br />
stiani sia la convocazione di Israele, l’assiduità dei cristiani alla comunione si riferisce al rapporto<br />
con Gesù, al quale si sentono chiamati dal Padre nella forza dello Spirito. Ecco perché, se resta<br />
spontaneo e continuo il richiamo al qahal e, quindi, l’uso di chiamare ekklesía il proprio aggregarsi,<br />
mai viene usato con questo significato il termine synagogé (ad eccezione di Gc 2,2). Intanto la sina-<br />
goga è, nel suo senso più diffuso, l’edificio per la riunione dei giudei; i cristiani invece non hanno<br />
edifici di sorta nei quali riunirsi: si radunano nelle loro case. Poi il termine non può non evocare in<br />
loro sia la profezia di Gesù, sia la memoria di quanti fra loro nelle sinagoghe erano stati picchiati o<br />
ne erano stati cacciati (Mc 13,9; Lc 12,11; Gv 9,22; 12,42; 16,2; At 22,19). Il termine sinagoga,<br />
quindi, resterà ad indicare un altro tipo di convocazione di Israele, quella che avviene in forza della<br />
legge e della tradizione giudaica, nel suo contrapporsi ostilmente verso le nuove comunità.<br />
Quando questa tensione giungerà al culmine, l’Apocalisse demonizzerà il termine, parlando addirit-<br />
tura della «sinagoga di Satana» (Ap 2,9; 3,9). Fu quindi giocoforza, per le comunità cristiane<br />
dell’origine, appellarsi alla parola con la quale i LXX avevano tradotto il qahal di Jhwh e designato<br />
il popolo di Israele, convocato da Dio per vivere in alleanza con lui. L’uso più antico del termine<br />
chiesa potrebbe essere quello che rinveniamo per due volte in Matteo, in un contesto semiticamente<br />
caratterizzato, là dove si parla della fondazione della chiesa su Pietro e della disciplina della comu-<br />
nità (Mt 16,18; 18,17). Quel «legare e sciogliere» ha forti riferimenti alla legge, mentre il richiamo<br />
alle «porte degli inferi» contiene una precisa indicazione escatologica che ricollega l’ alla<br />
pasqua di Gesù: non per nulla egli la chiama «la mia chiesa».<br />
In Paolo è molto accentuato il carattere di evento, di convocazione della chiesa: è un riunirsi, un ri-<br />
trovarsi insieme che accade qua e là, in questa o quella città, come pure in casa di questo o di quel-<br />
lo. Un evento che è sentito profondamente come evento di grazia: i cristiani si riuniscono perché<br />
sono amati da Dio e si sentono «chiamati» a essere santi, consacrati a lui. Tant’è vero che della<br />
chiesa si dirà non solo che è «in Corinto» o in casa di Aquila e Prisca, ma anche «in Dio Padre e nel<br />
Signore Gesù Cristo» (Rm 1,6; 1Ts 1,1). Il pensiero paolino, però, solo con un’evidente forzatura<br />
28 Secondo F. HAUCK, Κοινων -, in GLNT V, Paideia, Brescia 1969, 709-723, con κοινωνία At 2,42 non intenderebbe la<br />
comunione dei beni, ma proprio la comunione nel suo senso più spirituale.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
potrebbe essere ridotto a un’idea radicalmente attualistica della chiesa, come se la sua consistenza<br />
stesse tutta nell’intimo della coscienza e nel disegno di Dio e si manifestasse qua e là, di volta in<br />
volta, solo quando dei credenti si ritrovano insieme. Già 1Cor 14,23 («Quando si raduna tutta la<br />
chiesa…») contraddirebbe decisamente una simile concezione, poiché il termine chiesa qui è sintat-<br />
ticamente il soggetto del radunarsi. Ma, ben al di là della struttura di questo asserto, non si può di-<br />
menticare che l’ ekklesía per Paolo è un soma, è il corpo di Cristo. Anzi, il soma dell’ ekklesía, cor-<br />
po che ha per capo Cristo, indica all’interno dell’universo uno spazio determinato e concreto nel<br />
quale appare stabilita e manifesta quella signoria di Gesù che a lui compete fin dal disegno origina-<br />
rio della creazione, ma che attende di affermarsi in maniera a tutti visibile, perché uomini e cose<br />
hanno ancora bisogno di essere riconciliati con Dio per mezzo di lui (Ef 1,3,23; Col 1,13-20). Così<br />
il termine chiesa, dopo aver significato la pura idea di un disegno divino percepito nella coscienza<br />
individuale, o l’idea di una convocazione divina che si manifesta rapsodicamente, giunge a veicola-<br />
re la concezione di una concreta e determinata aggregazione di persone saldamente unite fra loro, sì<br />
da poter essere immaginata come un organismo vivente, come un corpo. Non solo; Ef e Col vanno<br />
tanto oltre, da superare la visione delle varie chiese esistenti in questa o quella città, per sentire il<br />
soma di Cristo, oltre che come il grande collettivo delle comunità cristiane, anche come un organi-<br />
smo che si rapporta al senso globale di tutta la creazione sostenuta nell’esistenza dal Padre, attraver-<br />
so il Cristo che ne è il capo.<br />
Atti e Apocalisse usano poi ekklesía con grande scioltezza e forte senso storico. Si tratta delle co-<br />
munità cristiane che si stanno staccando o si sono definitivamente staccate dalle riunioni della sina-<br />
goga, costituite da credenti in Cristo provenienti dal giudaismo e dal paganesimo, per le quali con la<br />
morte e la risurrezione di Gesù si è realizzata la grande convocazione escatologica e nelle quali si<br />
attende il pieno compimento del Regno.<br />
In conclusione sembra di poter dire che nel NT i cristiani designano il loro aggregarsi nella fede in<br />
Gesù con il termine chiesa perché, pur essendo stati allontanati dalla sinagoga, sono convinti che<br />
nel loro radunarsi si compie in pienezza il mistero divino della convocazione di Israele. D’altra par-<br />
te essi non si sentono più convocati ai piedi del Sinai, bensì si trovano accostati «alla Gerusalemme<br />
celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa». Questo perché si sentono spalleggiati non<br />
dall’antico mediatore, bensì dal mediatore della nuova alleanza, che con il suo sangue, «più elo-<br />
quente di quello di Abele», li asperge per purificarli e renderli capaci di accostarsi a Dio (Eb 12,18-<br />
24). Questo testo di Ebrei ci fa capire il senso dell’entusiasmo della comunità cristiana nel suo con-<br />
frontarsi con l’esperienza di Israele, che non si intende affatto tradire ma si pensa di rivivere, enor-<br />
memente amplificata, nella forma totale del suo assoluto compimento. Questo i cristiani delle prime<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
generazioni volevano dire quando chiamavano chiesa la loro comunità. Questo sentivano di essere<br />
ogni volta che, anche nella forma più modesta, si riunivano e si rapportavano al grande mistero del<br />
mondo e del suo destino, consapevoli di costituire, nella concretezza della loro pur umile e povera<br />
presenza nella storia, il corpo di quel Cristo nel quale un giorno tutte le cose dovranno ricapitolarsi.<br />
Se chiesa sembrerà, a un certo punto, termine da interpretare, da completare, è perché l’una o l’altra<br />
delle molte dimensioni che ne compongono il significato verrà a prevaricare sulle altre. Accade, al-<br />
lora, che se al termine si dà una interpretazione eccessivamente mistica, si sente il bisogno di preci-<br />
sare che la chiesa è una società strutturata e organizzata; se gli si attribuisce un senso eccessivamen-<br />
te appiattito sul piano sociologico, si insiste sul fatto che essa è mistericamente corpo di Cristo; se<br />
con questo si dà l’impressione di voler mistificare una realtà semplice, o vedere la chiesa solo nella<br />
sua grande dimensione di mistero universale, si preme sul termine comunità, per ricordare che si<br />
tratta di persone in carne ed ossa. In questo senso non dobbiamo dimenticare che comunità pare og-<br />
gi come un termine particolarmente pregnante di significati solo perché lo leggiamo dentro la corni-<br />
ce della svolta ecclesiologica operata dal Vaticano II. Ma di per sé, o collocata sullo sfondo del NT,<br />
la parola non dice molto di più di ciò che si coglie semplicemente nel fatto che la comunione emer-<br />
ge e diventa storia nell’aggregazione dei credenti, che si rende presente nella vicenda degli uomini<br />
come un soggetto collettivo riconoscibile per certi suoi determinati valori. La questione della forma,<br />
o delle diverse forme che la comunità cristiana deve o può assumere, resta ancora del tutto aperta:<br />
bisognerà vedere qual genere di comunità è quella che ci sta davanti quando parliamo della chiesa.<br />
d) La prospettiva ecclesiologica<br />
La comunione viene da una chiamata del Padre che risuona nell’interiorità dell’uomo, è il frutto di<br />
un’azione interiore dello Spirito Santo, per cui la communio sanctorum non è storicamente percepi-<br />
bile né definibile, né l’appartenenza alla comunione è in alcun modo determinabile entro confini<br />
chiaramente percepibili. Per comunità invece intendiamo un aggregarsi di credenti che si riconosco-<br />
no in quanto tali e in quanto tali si fanno riconoscere. Parliamo di comunità, però, solo quando que-<br />
sto reciproco riconoscimento non è un fatto sporadico, ma si concretizza in una rete di rapporti di<br />
carattere stabile. Per cui non solo i singoli si riconoscono fra loro e si fanno riconoscere come cre-<br />
denti dal mondo circostante, ma anche il loro insieme si caratterizza come un insieme di credenti,<br />
che costituisce un soggetto storico collettivo, riconoscibile in quanto tale da un osservatore esterno.<br />
(I) Comunicazione e comunità<br />
Fra la realtà interiore della comunione e quella empiricamente rilevabile della comunità sta il feno-<br />
meno della comunicazione. Se il dono della comunione, come chiamata del Padre, non si fosse ma-<br />
370
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
nifestato nella vicenda storica di Gesù, sarebbe rimasta senza nome, non sarebbe stata simbolizzabi-<br />
le in una comunicazione, capace di rapportarne i protagonisti in una rete di relazioni sufficientemen-<br />
te definita, sì da rendere storicamente individuabile un certo soggetto collettivo che di questa comu-<br />
nione sarebbe stato l’effetto e il veicolo. Se, quindi, l’autodonazione del Padre non si fosse concre-<br />
tizzata nella vita e nella storia di Gesù, avrebbe rappresentato per gli uomini un principio di comu-<br />
nione, ma non avrebbe necessariamente dato origine a una chiesa.<br />
È la vicenda storica di Gesù di Nazareth che mette in moto un processo di comunicazione, che si<br />
concretizza in narrazioni vere e proprie dotate di una ineliminabile presunzione veritativa. Non è un<br />
caso che la questione dell’ortodossia si sia affacciata alla coscienza ecclesiale fin dall’inizio, nel NT<br />
stesso. La scorrettezza della comunicazione della fede, infatti, metteva radicalmente in crisi la vita<br />
della comunità. Non qualsiasi cosa si raccontasse di Gesù poteva fondare la rete comunionale nella<br />
quale vivevano i cristiani. Se era la fede, e non più la legge, il principio nuovo per il quale si senti-<br />
vano salvati, l’annuncio dal quale essa veniva non poteva sfuggire a un attento controllo. Paolo ne<br />
era ben consapevole: «Se anche noi stessi o un angelo del cielo vi predicasse un vangelo diverso da<br />
quello che vi abbiamo predicato, sia anatema. L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi<br />
predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema» 29 .<br />
(II) Tradizione e comunità<br />
Poche figure del NT ci danno in maniera così netta l’idea della formazione della chiesa come ce la<br />
dà la metafora architettonica della oikodomè, cioè della edificazione della comunità: con singolare<br />
chiarezza essa disegna il comporsi della aggregazione dei cristiani nella forma di una entità stabile,<br />
duratura, eretta per la gloria di Dio, nella quale si rende a lui il vero culto «spirituale» e si dà ospita-<br />
lità e sicurezza al credente. Ebbene, alla base della costruzione sta sempre la predicazione del Van-<br />
gelo. Basti citare Paolo che, preoccupato delle divisioni esistenti nella sua chiesa di Corinto, esorta a<br />
costruire la vita cristiana sulla base che egli ha posto «come sapiente architetto»: base che è solo<br />
Gesù Cristo, non il Gesù creato dalla sapienza umana bensì il crocifisso raccontato dai testimoni<br />
(1Cor 1,3). In Matteo è Gesù stesso che promette di «costruire» la sua chiesa e lo farà fondandola su<br />
Pietro, perché Pietro ha professato fede in lui come «Cristo» e «figlio del Dio vivente» (Mt 16,18).<br />
29 Gal 1,8s. Vedi anche lo scrupolo con cui l’Apostolo propone il contenuto della sua predicazione «alle persone più<br />
ragguardevoli» della chiesa di Gerusalemme, per non esporsi «al rischio di correre o di aver corso invano» (Gal 2,1s). In<br />
1Cor 15,1s Paolo pone come condizione precisa del compiersi della salvezza nel credente proprio quella di mantenere il<br />
vangelo nella medesima forma nella quale è stato ricevuto la prima volta.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Il fondamento della costruzione, certamente, è Cristo stesso (Mt 21,42; Cfr. At 4,11). Però a Pietro<br />
viene attribuita la figura della roccia di fondazione per la sua testimonianza della fede e Paolo è<br />
consapevole di essere stato lui stesso, con la sua predicazione, a gettare le fondazioni dell’edificio<br />
(1Cor 3,9-17). Questa consapevolezza è tanto forte che genera nell’Apostolo lo scrupolo di andare a<br />
predicare solo là dove ancora nessuno ha predicato, per non dare l’impressione di voler «costruire su<br />
un fondamento altrui» (Rm 15,20).<br />
Si veda poi come Paolo sia preoccupato per il dinamismo dei carismi nella comunità di Corinto e<br />
raccomandi di dare l’assoluta precedenza alla profezia rispetto alla glossolalia, perché la prima ser-<br />
ve all’edificazione della comunità (1Cor 14,4). Ancora, la mirabile unione di giudei e pagani, che si<br />
realizza nella comunità cristiana, è illustrata dall’Apostolo con la metafora della costruzione: Gesù<br />
ha demolito il muro della separazione, per cui i pagani che hanno creduto in lui non sono considerati<br />
come stranieri nella grande casa. Essa ha come pietra angolare Gesù e come fondamento gli apostoli<br />
assieme agli altri che hanno esercitato il carisma della profezia al servizio dei pagani (Ef 2,11-22). Il<br />
tema del culto entra nel discorso, ma con le sue caratteristiche assolutamente originali. Dalla fonda-<br />
zione della comunità, cioè, non si deduce che essa si concretizza in un complesso rituale, bensì che<br />
la sua stessa esistenza e le sue opere costituiscono, da sé sole, il vero culto da rendere a Dio. Infatti<br />
la comunità primitiva non costruisce un suo tempio per realizzarvi la propria autoidentificazione;<br />
essa non sente il bisogno di darsi un volto attraverso i suoi riti e le sue liturgie, anche se, ovviamen-<br />
te, in fedeltà al suo Signore Gesù celebra la cena e il battesimo. Essa sa che il suo sacerdozio è la<br />
sua vita stessa vissuta in Cristo. Le vittime da offrire in sacrificio sono «vittime spirituali» (1Pt 2,4-<br />
10), cioè le azioni compiute sotto l’ispirazione dello Spirito Santo; il culto gradito a Dio è l’offerta<br />
del proprio corpo, cioè della concreta esistenza del cristiano e quel sacrificio della lode cantata a<br />
Dio che è la dossologia della professione di fede (Rm 12,1; Eb 13,15). È interessante osservare che<br />
Paolo, quando intende descrivere in termini sacerdotali il suo ministero, non fa riferimento ad alcu-<br />
na celebrazione cultuale: il sacrificio che egli, da sacerdote, offre a Dio, è la fede delle comunità<br />
ch’egli ha fondato convertendo i pagani a credere in Cristo (Rm 15,16; cfr. 15,27).<br />
Da tutto ciò si evince che non corrisponde allo svolgimento reale dei fatti ritenere che la comunità<br />
cristiana sia nata e si sia stabilmente strutturata perché il nuovo culto creato da Gesù avrebbe richie-<br />
sto una organizzazione sacerdotale e un apparato rituale. Caso mai è vero esattamente il contrario: è<br />
la struttura cultuale che si è articolata sulle esigenze della trasmissione del vangelo. Si veda, per e-<br />
sempio, nelle lettere di Ignazio di Antiochia come il principio dell’unica eucaristia e della compe-<br />
tenza esclusiva del vescovo in ordine alla sua celebrazione si fondi sul fatto che solo il vescovo ga-<br />
rantisce alla chiesa la fedeltà alla predicazione apostolica (cfr. ad es. ad Fil 1-4). Il graduale struttu-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
rarsi dell’unione dei credenti in forme stabili e determinate viene proprio dalle esigenze di una di-<br />
sciplina del loro stare insieme, le quali, a loro volta, scaturiscono dal bisogno dei credenti stessi di<br />
garantirsi l’autenticità della loro fede nella fedeltà al messaggio che fu predicato all’inizio e sul qua-<br />
le essi fondano la loro esistenza personale e comunitaria.<br />
Che sia la paradosis l’elemento che è alla base dello strutturarsi della comunità, lo dimostra anche il<br />
fatto che il battesimo, l’atto cultuale che introduce nella chiesa, è sempre preceduto dalla professio-<br />
ne della fede. Lungo tutta la storia della chiesa non sarà tanto la condotta antievangelica a mettere in<br />
crisi l’appartenenza, quanto la deformazione della professione della fede con la quale ci si è dichia-<br />
rati credenti. Non è senza significato che la presa di coscienza dei fenomeni di divisione della chiesa<br />
e il formalizzarsi dell’idea di eresia avvengano con giudizi dati sulle parole. Il concilio di Nicea<br />
(325) condannerà «tous légontas …» («coloro che dicono che…») e, in seguito, la formula «si quis<br />
dixerit» diventerà il classico incipit della denuncia di chi avrà compromesso l’unità della chiesa. La<br />
parola non è certo più costitutiva della chiesa di quanto non lo siano i sentimenti, i fatti, le azioni, né<br />
la fede ne forma la sostanza più dell’amore. Ma la verità della parola, nel senso della sua fedeltà al<br />
compito di trasmettere una memoria, è così misurabile da poter costituire un criterio per la costru-<br />
zione di una convivenza e la strutturazione di una comunità. Il confronto degli asserti permette il<br />
giudizio sulla fedeltà alla paradosis. Essi non misurano la comunione intesa nel senso trascendente<br />
del dono dello Spirito vissuto nell’interiorità dei credenti, o del rapporto di amore vicendevole fra i<br />
credenti stessi. La professio fidei, però, è ciò che consente di costruire una comunità che possa dirsi<br />
chiesa, nel senso che chiunque vi può trovare l’autentica testimonianza apostolica.<br />
In conclusione sembra di poter dire che la comunione, attraverso la comunicazione della fede, pro-<br />
duce nella storia la comunità cristiana come il frutto e, allo stesso tempo, come il soggetto adeguato<br />
della paradosis. Naturalmente se la parola della ortodossa professione della fede si imponesse alla<br />
coscienza ecclesiale come l’unico e ultimo principio della chiesa, ignorando le sue dimensioni ulte-<br />
riori, la chiesa si ridurrebbe a un organo giuridico, deputato a conservare la dottrina cristiana. Quan-<br />
do questo accade, nella contraddizione della carità e nella prassi dell’intolleranza, il tradimento del<br />
vangelo si trasferisce dalle parole alle opere e la chiesa, pur dicendo correttamente la propria fede, la<br />
sua testimonianza diventa “vuota” (1Cor 13).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
3.3.5. «Popolo di Dio»: forma fondamentale della comunità cristiana<br />
In precedenza abbiamo studiato il rapporto fra la comunione e la comunità, senza comprometterci<br />
con nessun significato forte, riservandoci di interrogarci in seguito sulle possibilità di definire in ec-<br />
clesiologia la forma che l’aggregazione comunitaria dei credenti necessariamente assume.<br />
La domanda potrebbe apparire ingenua quanto è scontata la risposta: le forme dell’aggregazione ec-<br />
clesiale sono molte e diverse. Determinate circostanze storiche e geografiche, situazioni sociali e<br />
politiche diverse, contesti culturali differenziati, ispirazioni e carismi particolari di leader e di fon-<br />
datori di comunità, hanno dato lungo i tempi alle comunità cristiane molte forme, le più diverse.<br />
È legittimo però ipotizzare che, al di sotto delle molte differenze e delle infinite variabili, l’evento<br />
ecclesiale si presenti con alcune esigenze sostanziali, dalle quali derivi non già una forma di comu-<br />
nità che si imponga come unica e universale, ma un complesso di caratteri e di valori capaci di pro-<br />
durre una forma fondamentale di comunità, la quale costituisca un necessario punto di riferimento<br />
per tutte le altre forme che le varie aggregazioni cristiane intendessero assumere.<br />
Riteniamo che per rispondere a questa questione sia necessario considerare almeno questi elementi.<br />
1) In primo luogo, l’interrogativo sulla chiesa come soggetto storico. La comunione è un dato cre-<br />
duto, di dimensioni altissime e del tutto incommensurabile: da Agostino a Gregorio Magno si è pen-<br />
sato alla comunione come a una realtà implicante anche gli angeli 30 . Per questo motivo dovrebbe es-<br />
sere evidente che non è possibile comprendere la chiesa solamente a partire dall’alto, cioè dall’idea<br />
della comunione: è necessario, invece, considerare l’altezza e la immensità del dono e, insieme, la<br />
sua manifestazione nella storia. Dicevamo che la parola di salvezza vive storicamente nella comuni-<br />
cazione e che, mediante la comunicazione, la comunione termina alla creazione di una comunità.<br />
Però la categoria della comunità, come si è rilevato, è troppo modesta e povera per dire la ricchezza<br />
di grazia che c’è nell’ekklesía. Come poter dire allora con un’altra parola, che possa fare da soggetto<br />
in una proposizione che la riguardi, la stessa verità della chiesa, senza sollevarla alla indefinibile al-<br />
tezza della pura communio sanctorum e senza abbassarla a un’aggregazione sociale del tutto omolo-<br />
gabile alle altre comunità o alle altre società umane? In <strong>ecclesiologia</strong> si corre il rischio di sapere tut-<br />
to su come la chiesa è, sugli strumenti con cui la si può descrivere, senza mai pervenire a dire chi la<br />
chiesa è, a chi pensiamo quando diciamo: «La chiesa ha detto… la chiesa ha fatto…».<br />
2) In secondo luogo sta il problema, già incluso nel primo elemento indicato, della storicità della<br />
chiesa. Come realizzare l’auspicio di Paolo VI — espresso nel discorso agli osservatori invitati al<br />
30 Y. M.-J. CONGAR, L’église de saint Augustin à l’époque moderne, Cerf, Paris 1970, 33s.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
concilio (17.10.1963) — circa l’esigenza fondamentale di una <strong>ecclesiologia</strong> conciliare, ossia «stori-<br />
ca» e «concreta» 31 ; con quale categoria si può impostare una tale <strong>ecclesiologia</strong>?<br />
3) In terzo luogo, dopo aver mostrato che la comunione attraverso la comunicazione si risolve ne-<br />
cessariamente nella comunità, ci dobbiamo porre la questione sulla qualità della comunità ecclesia-<br />
le, senza sfuggire all’esigenza fondamentale di postulare una <strong>ecclesiologia</strong> che renda ragione della<br />
natura della chiesa che è, per natura sua, una aggregazione sociale aperta a tutti: chiunque può ac-<br />
cedervi e appartenervi. Ora questa qualità si può ricavare dalla identificazione della chiesa nel Po-<br />
polo di Dio, il quale appartiene a tutti i popoli in mezzo ai quali vive, intreccia la sua sorte e il suo<br />
impegno terreno con il loro e, ciò nonostante, conserva una sua identità e indipendenza.<br />
4) Un quarto elemento ci è suggerito soprattutto dagli esegeti: l’idea del popolo di Dio fu la cernie-<br />
ra portante del drammatico rapporto fra chiesa e sinagoga. È nella meditazione del destino riserva-<br />
to da Dio al suo popolo che le prime comunità cristiane hanno trovato la loro autoidentificazione in<br />
rapporto a Israele. È logico, quindi, chiedersi se questa problematica debba essere riservata all’inda-<br />
gine storico-esegetica, come propria ed esclusiva di una sola stagione della chiesa, o se abbia qual-<br />
cosa da dire anche oggi per le relazioni della chiesa con Israele e con tutti i popoli della terra.<br />
a) Il popolo di Dio nel Nuovo Testamento<br />
È stato osservato che nel NT l’espressione popolo di Dio è poco adoperata per parlare della chiesa e,<br />
ricorrendo per di più nel contesto di citazioni dell’AT, non sarebbe propria del linguaggio neotesta-<br />
mentario 32 . Ma questa giusta osservazione, più che detrarre qualcosa all’importanza dell’idea per<br />
l’<strong>ecclesiologia</strong> neotestamentaria, ci indica il «luogo» precipuo nel quale la chiesa rivela la sua co-<br />
scienza di essere il popolo di Dio. Questo «luogo» consiste nella novità che il vangelo porta nella<br />
concezione tradizionale del popolo di Dio: di esso ora fanno parte anche i gentili; per la fede, infatti,<br />
essi entrano in comunione con gli ebrei credenti in Cristo, costituendo il laòs ex ethnon (At 15,14) 33 .<br />
Di fronte al fenomeno nasce non tanto una curiosità, ma un bisogno profondo di capire come sia<br />
possibile una comunione fra ebrei e pagani e come solo così si possa realizzare il sogno messianico<br />
della convocazione escatologica del popolo di Dio. Questo è il senso del ricorso alle citazioni di Os<br />
31<br />
Si veda Civiltà Cattolica 114 (1963) IV 514-518.<br />
32<br />
At 15,14; 18,10; Rom 9,25s; 2Cor 6,16; Tit 2,14; Eb 4,9; 8,10; 1Pt 2,9s; Ap 18,4; 21,3. Cfr. J. RATZINGER, Il nuovo<br />
popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1971, 93.<br />
33<br />
Per J. DUPONT, Teologia della chiesa negli Atti degli apostoli, Dehoniane, Bologna 1984, 9, l’angolo visuale decisivo<br />
di tutta l’<strong>ecclesiologia</strong> lucana è proprio quello del rapporto della chiesa con Israele.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
2,25 in Rom 9,25 e di Ger 31,33 in Eb 8,6-12 34 .<br />
La convinzione di essere il popolo di Dio e il corpo di Cristo si afferma attraverso diverse fasi della<br />
presa di coscienza di sé. Prima di tutto si sperimenta il passaggio dall’estraneità alla partecipazione<br />
alla politeía di Israele: è l’esperienza di una aggregazione sociale che raduna giudei e pagani, cosa<br />
prima assolutamente impensabile. Qui compare la figura del corpo di Cristo, nel quale è lui il capo<br />
(non l’imperatore) dell’unità dei popoli nell’immenso impero 35 . Ma in questa singolare e nuova e-<br />
sperienza il cristiano vive il mistero della sua salvezza, cioè della partecipazione alla vita del Risor-<br />
to, il quale ha inaugurato la nuova e ultima epoca del mondo. Questo mistero si compie nella totalità<br />
del cosmo, con la vittoria del Cristo sopra le potenze (Col ed Ef): però il solo corpo visibile del Cri-<br />
sto ora è la chiesa; essa ne costituisce la evidente manifestazione, essendo l’unico popolo della terra<br />
che si costituisce attraverso l’abbattimento di tutte le barriere che dividono l’umanità.<br />
L’elemento dominante che viene messo in risalto da questa indagine è che il conflitto della chiesa<br />
con Israele non ebbe mai la forma di una chiusura settaria dei cristiani, come se questi avessero vo-<br />
luto isolarsi e, quindi, separarsi dalla popolazione giudaica. Esattamente al contrario, il conflitto ci<br />
fu perché le comunità dei discepoli di Gesù volevano abbattere i confini, rendendo tutti gli uomini<br />
partecipi della grande eredità della fede e della tradizione ebraica. Se dunque Israele sentiva di esse-<br />
re popolo di Dio, la chiesa doveva darsi una forma e un nome che non significasse una ulteriore re-<br />
strizione dei confini, bensì al contrario l’estensione universale di ciò che il popolo di Israele aveva<br />
rappresentato fra gli uomini, fino allora, nella sua esclusiva particolarità.<br />
b) Popolo di Dio e cristianesimo di massa<br />
Nonostante la scelta del Vaticano II, di porre in primo piano la categoria di popolo, l’<strong>ecclesiologia</strong><br />
posteriore non l’ha utilizzata tanto quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Probabilmente si è alimen-<br />
tata una certa diffidenza verso questa figura, sia perché la si è sentita molto vicina a quella sociolo-<br />
gica della società, sia perché se ne è temuta la contaminazione con le ideologie nazionalistiche, con<br />
il populismo e il marxismo. Inoltre, sotto questa denominazione si è pensato che si nascondesse la<br />
figura costantiniana della chiesa che aveva portato con sé la coincidenza, anzi la confusione, fra cri-<br />
stianesimo e cristianità, fra chiesa e società. Il tramonto di questa figura solleciterebbe pertanto la<br />
creazione di una forma aggregativa ecclesiale più personale.<br />
34 K. BERGER, Kirche. II. Neues Testament, in Theologische Realenzyklopädie 18, Gruyter, New York Berlin 1989, 211.<br />
35 K. BERGER, op. cit., 204-207, a proposito della figura dell’imperatore capo del corpo, cita Plutarco e Seneca.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
In effetti, da un punto di vista sociologico chiesa di popolo dice una situazione in cui l’appartenenza<br />
alla chiesa è di fatto legata all’appartenenza a un popolo, a una tradizione, a una cultura; qui l’essere<br />
chiesa trascende l’atomismo delle libere scelte degli individui per configurarsi come una apparte-<br />
nenza che si trasmette di generazione in generazione. Soprattutto nell’ambito occidentale segnato<br />
dalla modernità ci si chiede con preoccupazione se una tale forma di chiesa abbia ancora senso o<br />
non abbia più alcun futuro. Il calo della pratica religiosa, l’avvento di una società multietnica dovuto<br />
ai grandi movimenti migratori, la crisi dei modelli di trasmissione familiare della fede, il fenomeno<br />
crescente dell’abbandono di fatto della chiesa rendono legittima la domanda.<br />
In generale il problema si pone in tutti quei contesti, in cui il battesimo dei bambini si presenta co-<br />
me il titolo di appartenenza ufficiale, senza che si esiga un’ulteriore verifica dell’adesione di fede,<br />
che sola permette all’adulto lo sviluppo dell’esistenza ecclesiale che il battesimo aveva fondato 36 .<br />
Naturalmente il problema della qualità dell’appartenenza fu molto meno sentito in epoche nelle qua-<br />
li l’adesione alla fede cattolica caratterizzava in pieno l’intera popolazione di un territorio e<br />
l’appartenenza a un popolo coincideva sic et simpliciter con l’appartenenza al popolo di Dio. Il plu-<br />
ralismo tipico della civiltà moderna e il radicale superamento di quella che era stata la sua primitiva<br />
coartazione nel recepito assioma cuius regio eius et religio, l’avvento dello stato laico e l’imporsi<br />
della democrazia come sistema ideale di governo della società, tutto ciò ha reso sempre più com-<br />
plessa la questione dei rapporti fra una chiesa che non rinuncia al proprio carattere pubblico e una<br />
società che tenderebbe a relegare nel privato ogni questione di fede e l’organizzazione dei credenti.<br />
Infatti, finché la popolazione di un territorio era per continuità storica e culturale totalmente cristia-<br />
na, il battesimo dei bambini e la trasmissione della fede all’interno della famiglia, di generazione in<br />
generazione, costituivano un’appartenenza forte alla chiesa. Oggi invece questi stessi fattori, in for-<br />
za della situazione mutata, sembrano rendere debole questo tipo di appartenenza ecclesiale, in quan-<br />
to in una società pluralista aggregazioni forti sono quelle molto personalizzate, derivate dalla libera<br />
decisione dell’individuo e fortemente caratterizzanti la sua personalità.<br />
Poiché l’appartenenza fondata sull’incancellabile carattere battesimale è scarsamente sottoposta a<br />
discriminazioni da parte dell’autorità ecclesiastica, in teoria la si dovrebbe reputare un’appartenenza<br />
forte; in pratica però, nell’esperienza concreta dell’esistenza ecclesiale, essa svela una profonda de-<br />
36 H.U. von Balthasar considera la scelta di battezzare i bambini come «la decisione più gravida di conseguenze della<br />
storia della chiesa»: L’esperienza della chiesa in questo tempo, in ID., Sponsa Verbi (Brescia: Morcelliana 1969) 15-16.<br />
Cfr. pure P. COLOMBO, Il battesimo e la figura storica della chiesa, in G. ANGELINI ET AL., Il battesimo dei bambini.<br />
Questioni teologiche e strategie pastorali («Disputatio 11; Milano: Glossa, 1999) 195-210.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
bolezza, perché quel certo automatismo che caratterizza il battesimo dei bambini e la trasmissione<br />
familiare della fede sembra impoverirne il carattere personale. Il punto cruciale del problema sta<br />
quindi nella prassi tradizionale del battesimo dei bambini, che costituisce uno strumento di aggrega-<br />
zione ecclesiale coerente a una forma di trasmissione della fede legata alla tradizione culturale di un<br />
popolo, piuttosto che alle esigenze di una evangelizzazione calata nel contesto di una società, come<br />
la nostra, libera e pluralista, variegata ed estremamente mobile. Il battesimo dei bambini, infatti,<br />
corrisponde a un modello di esistenza cristiana che si trasmette di padre in figlio e aderisce a tutto il<br />
quadro culturale in cui vive la popolazione della città, del quartiere… Ne viene che oggi le apparte-<br />
nenze forti non sembrano più essere quelle tipiche di una chiesa di popolo, bensì quelle di comunità<br />
cristiane molto qualificate, come ad es. le comunità religiose o alcune particolari forme associative,<br />
alle quali si aggregano credenti dalla fede molto determinata e dallo stile di vita ben caratterizzato.<br />
Per parte sua il Codice di Diritto Canonico sembra quasi canonizzare quella forma di appartenenza<br />
che la situazione odierna ha reso debole: esso infatti conferma la prassi del battesimo dei bambini<br />
come prassi normale della chiesa, senza preoccuparsi di tutelarne la plausibilità attraverso un qual-<br />
che specifico strumento canonico, quale potrebbe essere l’attribuzione di una rilevanza giuridica a<br />
una qualche forma di professio fidei che il cristiano, da adulto, dovrebbe emettere come condizione<br />
necessaria per raggiungere un’appartenenza personale e responsabile. Un superamento radicale di<br />
questa situazione avverrebbe solo se si ritenesse superata e impraticabile la prassi dell’aggregazione<br />
alla chiesa mediante il “pedobattesimo”. Di fatto, seppur inconsciamente, sembrano compiere un ta-<br />
le superamento quei cristiani, che si aggregano a particolari comunità di associazioni, gruppi o mo-<br />
vimenti, ritenendo che solo così essi danno inizio, quasi ex nihilo, alla propria esistenza cristiana e<br />
mostrando così di reputare inautentica la loro precedente appartenenza ecclesiale.<br />
Ora, questo insieme di fenomeni che oggi accadono nella chiesa ci mettono in condizione di farci<br />
un’idea più precisa del bivio di fronte al quale la chiesa si trova: essere o non essere una «chiesa di<br />
popolo». Una comunità di soli adulti non può essere detta popolo, né si può presentare sotto forma<br />
di popolo un’aggregazione elitaria, cui si aderisce solo per una decisione di fede adulta.<br />
D’altra parte, definire la chiesa popolo di Dio non significa condannarla al compromesso con il<br />
mondo e alla rinuncia al radicalismo del messaggio evangelico, non significa destinarla ad un’esi-<br />
stenza oscura e povera di testimonianza. Se nessuno può dire: «Gesù Signore» se non nello Spirito<br />
Santo (1Cor 12,3), vuol dire che nessuno può giungere a essere credente se non in quanto è stato<br />
mosso e investito dallo Spirito. Ora, chi ha lo Spirito è per definizione un soggetto capace di arric-<br />
chire con i suoi doni la chiesa e contribuire alla missione di lei, quale che sia la sua maturità psichi-<br />
ca, le sue qualità intellettuali e il livello del suo impegno morale.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
c) «Popolo di Dio» in <strong>ecclesiologia</strong><br />
Giunti al termine di questa laboriosa analisi, ci resta da mostrare come la categoria di popolo di Dio<br />
costituisca uno strumento ermeneutico irrinunciabile in <strong>ecclesiologia</strong>. Il delicato e fondamentale<br />
rapporto, che abbiamo a lungo esaminato, fra il concetto di comunione e quello di comunità non ba-<br />
sta a chiudere il cerchio dell’interpretazione, né l’appello alle immagini, dalle più svariate metafore,<br />
ai simboli, alla figura del corpo di Cristo, basta a fornire una risposta alla domanda essenziale sulla<br />
forma fondamentale della comunità cristiana. Per parlare della chiesa includendovi tutti i cristiani, il<br />
Vaticano II ha sentito il bisogno di recuperare la categoria di popolo di Dio prima di trattare della<br />
gerarchia, dei religiosi, di questa o quella categoria particolare di credenti. Ciò che accadde nel con-<br />
cilio è molto significativo: non si può parlare della chiesa, cercando di coglierla come il soggetto<br />
della missione affidata da Cristo ai credenti, senza considerarla prima di tutto come il popolo di Di-<br />
o. Se molte sono le forme che le comunità cristiane possono assumere, questa è la forma fondamen-<br />
tale alla quale tutte le altre dovranno in qualche modo ricondursi. Per questo popolo di Dio non è<br />
uno strumento ermeneutico fra i tanti, che aggiunge un punto di vista in più per la comprensione<br />
della chiesa: è invece una categoria fondamentale e indispensabile per una corretta <strong>ecclesiologia</strong>.<br />
(I) Popolo e popolo di Dio<br />
Quando diciamo che la chiesa è un popolo, non pensiamo di utilizzare una metafora: osservando<br />
una grande assemblea liturgica, o le celebrazioni della festa patronale di un paese, a nessuno viene il<br />
sospetto che parlare di manifestazioni popolari potrebbe essere improprio. Qui la chiesa appare pa-<br />
lesemente come un’aggregazione di popolo: è un’aggregazione grande, aperta, alla quale chiunque<br />
può associarsi. Se uno lo vuole, può partecipare alla sua vita anche solo per una singola occasione;<br />
se poi intendesse appartenervi stabilmente, gli si porrebbe come condizione solo quella di credere in<br />
Gesù Cristo. Come accade in ogni popolo, i membri indegni non ne vengono espulsi, quelli poco ef-<br />
ficienti o poco disposti a cooperare ai compiti comuni non vengono emarginati. Si noti che la scar-<br />
sissima discrezionalità attribuita dal Codice (cfr. can. 843 § 1) ai preti in ordine alla concessione o<br />
al rifiuto dei sacramenti è una fondamentale garanzia di questo carattere di popolo della chiesa.<br />
Se ci limitiamo, però, a dire che si tratta di un’aggregazione di popolo, non abbiamo indicato alcun<br />
aspetto specifico della chiesa. Per questo la chiamiamo popolo di Dio. L’espressione «di Dio» non<br />
vuol dire che si tratta di un popolo religioso, ma che è un popolo voluto e fondato da Dio come «su-<br />
o», in forza della sua rivelazione che i credenti hanno accolto nella fede. Né con ciò la chiesa ritiene<br />
che gli altri uomini non appartengano a Dio o non siano da lui amati: come è stato svelato a Paolo<br />
per Corinto (At 18,9s), in tutte le città della terra Dio ha un popolo grande. E la chiesa va in ogni<br />
luogo a portare il vangelo, perché il popolo di Dio nascosto emerga alla luce della storia.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Naturalmente il linguaggio assume ora un andamento metaforico, perché dicendo che si tratta di un<br />
popolo convocato da Dio e che a lui appartiene, il concetto del convocare gli uomini e del possedere<br />
qualcosa come proprio può essere detto di Dio, solo con la coscienza che stiamo tentando di dire,<br />
con figure umane, un mistero ben più profondo di quanto le nostre immagini possano suggerire.<br />
Resta che quando individuiamo la chiesa nell’idea del popolo di Dio, noi acquisiamo un termine che<br />
può sostituire il termine chiesa, sia nella sua dimensione particolare sia in quella universale, e che<br />
può fungere da soggetto in una proposizione che la riguarda. Cosa che non può accadere né con co-<br />
munione, né con sacramento, né con comunità, né con la figura del corpo di Cristo, né con<br />
l’espressione communio sanctorum. Questo avviene anche perché della chiesa dobbiamo poter par-<br />
lare come di un vero e proprio soggetto storico. E un popolo è essenzialmente un facitore di storia.<br />
(II) Popolo nuovo<br />
Ogni popolo è diverso dagli altri, altrimenti non si parlerebbe di popoli al plurale. Però della chiesa<br />
non basta dire che è un popolo diverso: bisognerà sottolineare che è un popolo nuovo. Anche nel<br />
senso che contiene e propone elementi “escatologici” riguardanti tutta l’umanità: il Vaticano II la<br />
chiama «popolo messianico» (LG 9b). La sua dimensione escatologica si manifestò nel distacco da<br />
Israele: al centro era la questione della legge. Per i cristiani, pur essendo cosa santa (Rm 7,13), la<br />
legge non è il fondamento della loro unità e della loro esistenza collettiva. Questo fondamento è so-<br />
lo la fede in Gesù, risorto e Signore. Solo a questa condizione il cristianesimo può dar vita a un po-<br />
polo universale che non cancelli affatto il riconoscimento di leggi particolari, alle quali i cristiani<br />
sottostanno per la loro appartenenza a popoli diversi. Infatti il principio della fede, che si sostituisce<br />
a quello della legge, permette alle comunità cristiane di vivere sotto le più diverse leggi. Ciò signifi-<br />
ca anche la possibilità di inserirsi nelle più diverse culture e civiltà.<br />
Ne deriva che è pertinente attribuire alla chiesa il termine popolo, ma allo stesso tempo che è im-<br />
possibile omologare la chiesa ai popoli delle società civili e le sue strutture a quelle degli stati e dei<br />
loro governi. Questo popolo nuovo che nasce dalla fede non viene, per sua natura, a competere con<br />
nessuno. Anzi la sua proposta, inscritta nella stessa sua natura cattolica, è quella della riconciliazio-<br />
ne universale, della pace e della solidarietà fra tutti i popoli. La sua missione storica contiene fra gli<br />
altri questo aspetto come suo elemento essenziale. Anche per coerenza con questa sua vocazione il<br />
popolo cristiano, che non è limitato da identità etniche o nazionali, neppure può accettare delimita-<br />
zioni interne alla sua struttura: ogni uomo è chiamato ad appartenergli, indipendentemente dalla<br />
razza, dalla lingua, dalla nazione, dalla classe sociale, ed anche, paradossalmente, indipendentemen-<br />
te dalle sue qualità morali, poiché nella chiesa egli trova la via della penitenza, del perdono dei pec-<br />
cati e della conversione. L’unica condizione richiesta è quella della fede.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
(III) Caratteristiche della chiesa nella sua forma di popolo<br />
Dalla chiesa in quanto tale non si può essere espulsi, come invece può accadere, così come è previ-<br />
sto e regolato dal Codice di Diritto Canonico, per tutte le aggregazioni particolari interne alla chie-<br />
sa, quali il ceto clericale, gli ordini e le congregazioni religiose e le associazioni (cfr. Can. 1336 § 1,<br />
5; Can. 694; Can. 308). In realtà la scomunica, a dispetto del nome, non è un’espulsione dalla chie-<br />
sa, ma la privazione di alcuni diritti che il fedele normalmente può far valere nella chiesa 37 .<br />
Questo elemento, in apparenza banale, è invece molto significativo: se la chiesa fosse una federa-<br />
zione di comunità di vario genere, da quelle religiose a quelle dei gruppi e delle associazioni, un cri-<br />
stiano espulso dalla sua comunità sarebbe automaticamente escluso dalla chiesa. Se invece la chiesa<br />
è popolo, al quale si appartiene per chiamata di Dio, per grazia e in forza del battesimo, tutti legami<br />
che precedono i nostri meriti e demeriti, essa deve dotarsi anche di strutture tali che le permettano di<br />
offrire un sicuro punto di accoglienza e una garanzia di appartenenza anche a chi, per qualsiasi mo-<br />
tivo, venisse allontanato da aggregazioni ecclesiali particolari. Questo naturalmente significa che la<br />
comunità di base della chiesa è sempre quella che ha forma di popolo, che cioè non avanza alcuna<br />
ulteriore condizione di appartenenza all’infuori della pura e semplice professione di fede cattolica.<br />
Certamente la struttura parrocchiale 38 e quella diocesana, così come si sono venute formando lungo<br />
i secoli, hanno un evidente carattere di contingenza: così come sono nate, possono anche scompari-<br />
re. Non è pensabile, però, che la chiesa non si fornisca di determinate strutture che le diano il carat-<br />
tere di un’aggregazione di popolo, sì da poter albergare in sé infinite comunità di vario genere, le<br />
quali però non costituiranno mai la forma fondamentale sulla quale ogni cristiano fonderà la propria<br />
appartenenza alla chiesa. È ovvio che nessuno è cristiano e appartiene alla chiesa perché è frate del-<br />
l’ordine domenicano, o iscritto all’Azione Cattolica, o membro di una comunità neocatecumenale…<br />
Al contrario: solo in quanto uno è cristiano e appartiene alla chiesa, può anche essere aggregato a<br />
una delle tante sue possibili diverse comunità. Si tratta di appartenenze ulteriori radicate sulla appar-<br />
tenenza fondamentale, così come le tante particolari comunità rappresentano forme particolari ri-<br />
spetto alla forma fondamentale della chiesa, che è quella della comunità di popolo. Solo questa co-<br />
stituisce il luogo dell’appartenenza fondamentale, perché per entrarvi basta il battesimo e la condi-<br />
visione della fede cattolica, mentre l’appartenenza a particolari ulteriori forme di vita comunitaria<br />
37<br />
G. MONTINI, Scomunica e appartenenza alla chiesa, in L’appartenenza alla chiesa. Quaderni teologici del Seminario<br />
di Brescia, Morcelliana, Brescia 1991, 147-162.<br />
38<br />
F.G. BRAMBILLA, La parrocchia tra passato e futuro, in FONDAZIONE AMBROSIANEUM, Invito alla teologia III – La<br />
teologia e la questione pastorale, a cura di G. Angelini e M. Vergottini (Milano: Glossa, 2002) 95-114.<br />
381
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
esige la condivisione di un peculiare carisma, o l’accettazione di un determinato stato di vita, o la<br />
destinazione della propria attività a uno scopo particolare, quando addirittura non si esiga previa-<br />
mente di appartenere a una particolare categoria sociale, come accade per esempio per i gruppi gio-<br />
vanili, o per associazioni di tipo professionale, o per gli ordini e congregazioni religiose. Solo la<br />
comunità di popolo è capace di accogliere, come la chiesa deve essere capace di fare, anche i bam-<br />
bini e i disabili, anche i cristiani peccatori, i credenti non praticanti e quelli disimpegnati, i cattolici<br />
dubbiosi, i disobbedienti e i marginali. Così la comunità di popolo, normalmente delimitata da un<br />
perimetro territoriale, garantisce a ogni credente il diritto di appartenere alla chiesa, di riceverne i<br />
servizi e di parteciparvi con la propria collaborazione, senza che gli sia richiesta alcun’altra specifi-<br />
ca attitudine oltre alla sua fede in Cristo. Il criterio territoriale, proprio perché completamente ano-<br />
dino, caratterizza al meglio la forma fondamentale della comunità ecclesiale, in quanto offre ad ogni<br />
credente, per il solo fatto ch’egli è tale e abita in un certo territorio, la possibilità e il diritto di essere<br />
a tutti gli effetti membro della chiesa. Anzi gli appartenenti a comunità particolari sanno che, in<br />
qualsiasi momento e per qualsiasi motivo essi dovessero abbandonare la propria comunità o esserne<br />
espulsi, non per questo cesserebbero di appartenere alla chiesa.<br />
Normalmente questa forma fondamentale della comunità ecclesiale finora è realizzata dalla parroc-<br />
chia e dalla diocesi, le quali, prevedibilmente, saranno sottoposte ad ampia ristrutturazione 39 .<br />
d) Conclusione<br />
Il grande assioma paolino: «Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è uomo né<br />
donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28) può essere ritenuto il principio costitu-<br />
tivo del nuovo popolo di Dio: la chiesa non nasce ritagliandosi un suo spazio chiuso all’interno di<br />
un popolo, o di una categoria sociale, o di un qualsiasi gruppo umano particolarmente determinato.<br />
Al contrario, il dono della comunione penetra dovunque, oltre tutti i confini e, per la fede, si creano<br />
tra persone di popoli diversi dei legami assolutamente irriducibili a quelli del clan o della nazione.<br />
Ma ciò non basta: come il popolo di Dio non può identificarsi con una nazione, così non può né i-<br />
dentificarsi con una categoria sociale, né essere riservato a soli uomini o a sole donne, né seleziona-<br />
re i propri membri sulla base di alcun’altra condizione all’infuori della sola adesione di fede in Gesù<br />
Signore. Dire che la chiesa è popolo e popolo di Dio contiene tutto questo, mentre nessuna defini-<br />
zione di comunità potrebbe implicare da sé sola questo carattere di assoluta cattolicità.<br />
39 F.G. BRAMBILLA, La parrocchia oggi e domani (Assisi: Cittadella, 2003); L. BRESSAN, La parrocchia oggi. Identità,<br />
trasformazioni, sfide (Bologna: EDB, 2004).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
3.3.6. Tipi fondamentali della Chiesa nella sue realizzazione storica<br />
a) La Chiesa come complesso e comunione di Chiese e di comunità ecclesiali<br />
Il carattere locale della Chiesa è una delle più importanti riscoperte del Concilio Vaticano II. Rifa-<br />
cendosi alle fonti bibliche e patristiche esso ha riscoperto che le singole realizzazioni della Chiesa<br />
non sono semplicemente parti o elementi subordinati della Chiesa universale, perché la stessa Chie-<br />
sa universale è una communio ecclesiarum (cfr. LG 23). Tuttavia il Vaticano II non ha proposto<br />
un’<strong>ecclesiologia</strong> sistematica, ma, come si conviene a un concilio, ha dato alcuni orientamenti. Esso<br />
lo ha fatto in modo esemplare a proposito dell’ufficio episcopale e della Chiesa episcopale locale.<br />
Viceversa, non si è occupato in modo simile della comunità parrocchiale quale forma fondamentale<br />
di Chiesa. A maggior ragione ciò va detto per ciò riguarda la famiglia, la comunità personale e la<br />
comunità di base. Il nuovo principio è stato quindi illustrato soprattutto per quanto riguarda la Chie-<br />
sa locale episcopale e il suo rapporto con la Chiesa universale (cfr. SC 41; LG 23). Un’esposizione<br />
teologica sistematica però non può far a meno di applicare in maniera coerente e sistematica a tutta<br />
la realtà della Chiesa il principio evidenziato in Concilio.<br />
Un’esposizione dogmatica odierna deve perciò porre in maniera nuova in relazione fra di loro la<br />
tradizione della Chiesa e la sua realtà odierna, l’orizzonte attuale in cui bisogna esaminare i proble-<br />
mi e la struttura della fede. Se partiamo dalla storia complessiva della Chiesa, vediamo che essa si è<br />
realizzata in forme chiaramente diverse, in cui si è via via manifestata nella sua totalità, seppur in<br />
modo specifico. In ciò si rispecchiano la struttura fondamentale specifica della fede cristiana e le sue<br />
esperienze e reazioni storiche fondamentali: la concretezza, località, individualità e personalità sto-<br />
rica della fede, da un lato, e la sua collettività, socialità e universalità, dall’altro lato; la sua incarna-<br />
zione nelle forme storiche della socialità umana, da un lato, e la trasformazione da essa operata di<br />
queste forme sulla base dell’azione divina nel mondo e nella storia, dall’altro lato. Ciò significa che<br />
la comunità di fede si fonde da un lato con forme concrete della socialità umana (e si sviluppa a sua<br />
volta man mano che queste si sviluppano), che, dall’altro lato, abbraccia tutta la gamma della socia-<br />
lità umana e che infine trasforma, in misura più o meno grande, in virtù della propria esperienza<br />
fondamentale, singole forme e la forma complessiva di tale socialità.<br />
In questo modo diventano visibili, nel contesto di determinate condizioni storiche e sociali, alcuni<br />
tipi fondamentali di comunità ecclesiale: la Chiesa domestica, la comunità personale o la comunità<br />
di base; la comunità locale o parrocchiale; la Chiesa locale o Chiesa particolare episcopale e le sue<br />
associazioni (patriarcato, conferenza episcopale, Chiesa nazionale, Chiesa continentale); la Chiesa<br />
universale (universa). Esse, dal momento che trasformano forme fondamentali della socialità umana<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
in luoghi specifici della comunione con Dio e quindi in nuove comunità (religiose), hanno un carat-<br />
tere strutturale, rappresentano le forme fondamentali della Chiesa, anche se la loro forma concreta è<br />
un prodotto delle condizioni storiche e sociali. Tali forme fondamentali sono perciò insostituibili e<br />
si condizionano necessariamente a vicenda. Inoltre, se devono essere forme fondamentali di realiz-<br />
zazione della Chiesa, devono necessariamente avere qualcosa in comune e devono presentare (al-<br />
meno in linea di principio) gli atti fondamentali della Chiesa e le sue proprietà fondamentali.<br />
Dall’altro lato ognuna di esse deve possedere una funzione sociale specifica all’interno del tutto.<br />
L’entità sociale «Chiesa» esiste solo come complesso e comunione di Chiese e comunità ecclesiali,<br />
che manifestano in maniera specifica la Chiesa e sono nel medesimo tempo fra loro correlate, anzi<br />
si determinano a vicenda. Ogni credente vive perciò contemporaneamente (anche se con diversa in-<br />
tensità) in seno a diverse forme fondamentali di Chiesa.<br />
b) La Chiesa come comunità domestica, comunità personale e comunità di base<br />
(I) Forme di comunità<br />
Il termine e la realtà della «comunità» sono balzati al centro della teologia e della prassi cattolica so-<br />
lo dopo il Vaticano II. Il Concilio da parte sua vi ha contribuito non tanto con una propria teologia<br />
della comunità, bensì piuttosto mediante una concezione complessivamente più personale della<br />
Chiesa, che tenta di recuperare una comunità ecclesiale oltre la tradizionale struttura parrocchiale.<br />
Ciò si è fatto anche richiamandosi a tutta una serie di modelli storici: la comunità domestica della<br />
Chiesa primitiva; la comunità personale monastica; le odierne comunità di base.<br />
A queste tradizioni si rifanno oggi tentativi teologici e anche magisteriali di concepire di nuovo la<br />
famiglia cristiana come una «Chiesa domestica» (ecclesia domestica). Dopo alcune prime indica-<br />
zioni date dal Concilio Vaticano II (LG 11; cfr. 35; AA 11), il tentativo più sistematico e completo<br />
fatto in questa direzione è costituito dall’esortazione apostolica Familiaris consortio (22.11.1981)<br />
di Giovanni Paolo II sui compiti della famiglia cristiana nel mondo d’oggi, esortazione in cui egli<br />
riassume i risultati del Sinodo dei vescovi del 1980. Qui la famiglia cristiana viene espressamente<br />
detta «Chiesa domestica», una «Chiesa in miniatura», cioè una determinata attualizzazione della<br />
Chiesa (n. 49). Come tale la famiglia ha un compito ecclesiale del tutto particolare e specifico: essa<br />
è un’intima comunità di vita e di amore (n. 50). Inoltre compie, con proprie specifiche accentuazio-<br />
ni, gli atti fondamentali della Chiesa: la predicazione del vangelo (nn. 51-54), il culto e la preghiera<br />
(nn. 57-62), la diaconia (nn. 63-64).<br />
384
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
(II) L’ecclesialità specifica delle comunità familiari e personali<br />
Comune a tutte le forme assai diverse di comunità domestiche, Chiese domestiche, gruppi spirituali<br />
e gruppi di base è il fatto che esse, ferma restando la spinta alla personalizzazione impressa dalla fe-<br />
de cristiana, fanno diventare l’esperienza di gruppo o di piccole comunità il punto di partenza<br />
dell’esperienza della Chiesa. Una simile prima forma di ecclesialità fa dell’esperienza di gruppo il<br />
luogo di una nuova comunione in virtù di Dio, in quanto attua anzitutto il carattere personale e co-<br />
munitario della fede e, in secondo luogo, in quanto può direttamente concretizzare le implicazioni<br />
sociali e politiche della fede nel proprio contesto vitale.<br />
Inoltre la riscoperta della famiglia quale Chiesa domestica ricorda come una separazione completa<br />
dell’uomo concepito in senso puramente personale, soggettivo e individuale dai suoi contesti natu-<br />
rali, materiali e genealogici rende patologica anche la socialità religiosa e comporta sia una demon-<br />
danizzazione della Chiesa, sia una deecclesializzazione del mondo.<br />
La riscoperta della famiglia come Chiesa domestica è importante, perché mette a frutto per la comu-<br />
nità ecclesiale le esperienze sociali derivanti dai legami naturali, materiali e genealogici dell’uomo,<br />
in quanto ne fa in una forma rinnovata luoghi della comunione con Dio.<br />
Come in tutta la socializzazione primaria l’apprendimento avviene anzitutto mediante l’imitazione,<br />
così in tutti i gruppi, che rappresentano anche una comunità di vita, la trasmissione della fede avvie-<br />
ne anzitutto mediante la comune prassi e il comune modo di vivere, che includono tutte le forme di<br />
comportamento e di azione. Quel che nella socializzazione religiosa esercita il maggior influsso,<br />
quel che unitamente alla necessaria fiducia originaria rende possibile l’identità del bambino è<br />
l’atteggiamento interiore reciproco dei genitori, l’amore cordiale e fiducioso che li lega l’uno<br />
all’altro. L’influsso diretto delle istituzioni ecclesiali vere e proprie è qui piuttosto esiguo. La fede<br />
cristiana si attua perciò nella famiglia cristiana, in un gruppo cristiano, in una comunità domestica o<br />
in una comunità di base primariamente come prassi ispirata dall’amore. Tutti gli atti ecclesiali fon-<br />
damentali sono qui influenzati da questo contesto vitale diretto. Di conseguenza essi sono qui sem-<br />
pre anche il risultato di una conoscenza esperienziale religiosa spontanea, che nasce dal contatto di-<br />
retto del credente con la realtà della vita (e che solo qui può nascere), il risultato, detto in termini te-<br />
ologici, del senso della fede (sensus fidei) del popolo di Dio, che poggia sulla partecipazione alla<br />
missione di Cristo e sull’azione dello Spirito Santo. Soggetto dell’azione ecclesiale è qui la comuni-<br />
tà familiare o personale in seno alla prassi comune di tutti i suoi membri.<br />
La fede ecclesiale si attua nella famiglia cristiana, in un gruppo cristiano, in una comunità domestica<br />
o in una comunità di base primariamente come prassi animata dall’amore e, per quanto riguarda gli<br />
atti ecclesiali fondamentali, come diaconia.<br />
385
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Già a questo primo livello la comunità diaconale ha bisogno di rapportarsi ad altre due forme, che<br />
sono in lei insite, e cioè al culto e alla preghiera, da un lato, e alla predicazione, alla catechesi e alla<br />
conoscenza della fede, dall’altro lato. Senza una costante fondazione nel culto qualsiasi prassi corre<br />
infatti il pericolo di perdere la conoscenza della differenza che passa tra culto di Dio e idolatria, e<br />
senza predicazione e conoscenza della fede si riduce a routine e a tradizione meccanica. Proprio sot-<br />
to tale aspetto questa prima forma di Chiesa dipende assolutamente dalle altre forme di Chiesa, vale<br />
a dire dalla comunità locale, dalla Chiesa locale episcopale e dalla Chiesa universale. Proprio nel<br />
contesto pluralistico della società moderna la famiglia è di regola posta di fronte a compiti per lei<br />
immani, se non è inserita in una comunità viva, che la sorregge anche in situazioni difficili. Le strut-<br />
ture patologiche della società influenzano infatti sempre anche le strutture della famiglia.<br />
Questa prima forma di ecclesialità rappresentata dalle famiglie e dai gruppi ha una funzione perma-<br />
nente nel complesso della Chiesa. Essa è insostituibile nella fase della missione e della maturazione<br />
cristiana e costituisce un correttivo critico permanente contro una forma burocratico-anonima della<br />
Chiesa locale e contro una forma di Chiesa posta sopra le persone (e lontana dalla società). La co-<br />
munione di fede, speranza e amore si realizza in modo speciale nella famiglia concretamente come<br />
riconciliazione dei sessi e come riconciliazione delle generazioni.<br />
c) La Chiesa come comunità locale e parrocchiale<br />
(I) Forme della comunità locale<br />
Sia per motivi storico-pratici che teologici la nuova comunità religiosa dei cristiani dovette necessa-<br />
riamente costituire una determinata forma di comunità e quindi una determinata forma di ecclesiali-<br />
tà anche sul piano della vita comunale locale (città, villaggio). Fu ancora una volta l’esperienza fon-<br />
damentale specifica della fede, qui anzitutto la totalità, il carattere pubblico, l’esclusività e l’unità di<br />
questa, a impedire che la nuova comunione si lasciasse completamente incapsulare nel modello so-<br />
ciale della famiglia, della parentela, dell’associazione. Fu proprio questa complessa e precisa espe-<br />
rienza della fede, che assieme a una serie di problemi e difficoltà pratiche delle prime comunità,<br />
condusse a far sì che il baricentro della Chiesa si spostasse molto rapidamente in seno alla comunità<br />
locale e a far sì che la famiglia e la comunità personale, quali forme di realizzazione della Chiesa,<br />
fossero relegate in secondo piano. Le condizioni della vita comunale locale (spazio vitale comune,<br />
carattere duraturo delle relazioni sociali, differenziazione sociale, vita pubblica abbracciante tutte le<br />
generazioni e tutte le manifestazioni di vita) e le condizioni della comunità di fede si influenzano<br />
ora a vicenda fino a formare una seconda forma di ecclesialità, la comunità locale, la quale a sua<br />
volta ha conosciuto nella storia della Chiesa importanti sviluppi.<br />
386
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Comune a tutte le forme di comunità ecclesiali locali e parrocchiali è la circostanza di fare<br />
dell’esperienza della vita comunale politica concreta (villaggio, città) e dell’esperienza di concrete<br />
assemblee politiche pubbliche il punto di partenza e il luogo dell’esperienza della Chiesa, in quanto,<br />
collegandosi ad esse, attualizzano soprattutto la pretesa della fede cristiana di essere una fede uni-<br />
versale e totalizzante, unitamente alla sua concretezza locale e alla sua continuità storica, e trasfor-<br />
mano così a loro volta la forma della comunità.<br />
(I) L’ecclesialità peculiare della comunità locale<br />
Il Concilio Vaticano II considera le Chiese particolari soprattutto sotto l’aspetto delle Chiese epi-<br />
scopali e vede le comunità locali in netta dipendenza dalla diocesi, tuttavia si trovano già alcune af-<br />
fermazioni orientate nel senso di una descrizione teologica della comunità locale.<br />
La comunità locale è già una forma relativamente compiuta di realizzazione della Chiesa ed è vera-<br />
mente, in quanto «comunità locale» (communitas localis), «Chiesa di Dio» (LG 28). Tuttavia essa lo<br />
è solo in costante e stretta unione con la diocesi e con il vescovo (LG 26.28). Bisogna perciò tener<br />
sempre presenti le due cose: la comunità locale non ha un’autonomia indipendente dal vescovo, ma<br />
non è neppure una semplice filiale o un organo amministrativo subordinato della diocesi. Il suo cen-<br />
tro è la celebrazione comunitaria dell’eucaristia, presieduta dal sacerdote: «L’assemblea eucaristica<br />
è dunque il centro della comunità dei cristiani presieduta dal presbitero» (PO 5; cfr. 6).<br />
A differenza della famiglia e del gruppo il mezzo socializzante vero e proprio nella comunità locale<br />
non è la prassi ispirata dalla fede comune, ma il culto pubblico comunitario, soprattutto la celebra-<br />
zione eucaristica domenicale.<br />
Il luogo primario dell’esperienza della fede e della trasmissione o mediazione della fede su questo<br />
secondo piano della Chiesa è perciò la liturgia. Nella lode comune delle grandi azioni di Dio,<br />
nell’ascolto comune della parola di Dio, nel compimento comune delle azioni simboliche sacre, nel-<br />
la preghiera e nel canto comune e nello scambio della professione di fede la comunità radunata,<br />
composta da molte famiglie e gruppi, da rappresentanti di varie professioni, da diverse classi sociali<br />
e da varie opinioni politiche, viene di nuovo costituita, nella sfera pubblica di questa assemblea,<br />
come popolo di Dio che va incontro con rinnovata speranza al proprio Signore e che, professando la<br />
propria fede, si impegna nel medesimo tempo a dare testimonianza nella propria vita di quanto ha<br />
sperimentato nel culto, a testimoniare cioè che l’amore di Dio, il quale ha risuscitato Gesù dai morti,<br />
e già in procinto di instaurare un mondo nuovo.<br />
Questa nuova condizione, costituita dalla sfera pubblica, determina quindi anche la funzione pecu-<br />
liare del ministero ufficiale del parroco quale presidente della comunità. In virtù della sua doppia<br />
funzione rappresentativa (rappresentanza di Cristo davanti e in seno alla comunità, rappresentanza<br />
387
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
della comunità in seno ad essa e verso l’esterno) a lui compete il governo della comunità. Diversa-<br />
mente si dissolverebbe la struttura sacramentale della Chiesa. Tale funzione però il presbitero la de-<br />
tiene come membro di un collegio il cui capo è il vescovo, il quale esercita il ministero apostolico di<br />
governo, e come membro della comunità in cui sono presenti molti carismi per la sua edificazione.<br />
Pure su questo piano la forma cultuale centrale di mediazione della fede ha bisogno del diretto e re-<br />
ciproco rapporto con altre due forme, insite nelle azioni liturgiche: di una nuova prassi ispirata dalla<br />
fede (fondata sulla partecipazione sacramentale alla prassi di Gesù Cristo) e di una nuova conoscen-<br />
za della fede (che ha il suo fondamento nella pretesa della fede di essere la vera fede). Alla media-<br />
zione cultuale simbolica della fede deve quindi corrispondere sia una corrispondente mediazione<br />
pratica, sia una corrispondente mediazione teoretica della fede. In questo modo la comunità locale è<br />
il luogo degli atti ecclesiali fondamentali incentrato sul culto comunitario, che si spinge al di là delle<br />
famiglie e dei gruppi, nonché il luogo della comunicazione con la Chiesa locale episcopale.<br />
La comunità locale è Chiesa di Dio in un luogo determinato. Questa seconda forma di ecclesialità ha<br />
una funzione permanente per tutta la Chiesa nel suo complesso. Essa non incarna solo la sua concre-<br />
tezza locale, il suo carattere pubblico, la sua durata e la sua pretesa di abbracciare tutti i rapporti so-<br />
ciali, bensì anche il suo carattere di assemblea.<br />
d) La Chiesa come Chiesa locale/Chiesa particolare diocesana<br />
La comunità locale è Chiesa solo come parte di una comunità più grande, della Chiesa locale o<br />
Chiesa particolare episcopale (diocesana). Su questo piano ulteriormente differenziato l’ecclesialità<br />
della Chiesa possiede ancora una volta uno specifico baricentro e uno specifico modello strutturale.<br />
(I) Forme della Chiesa locale/Chiesa particolare<br />
La terminologia del Concilio Vaticano II è oscillante: essa adopera otto volte l’espressione «Chiesa<br />
locale» (ecclesia localis), quattro volte per indicare la diocesi, una volta la diocesi nel suo contesto<br />
culturale, due volte una aggregazione di diocesi e una volta addirittura la parrocchia. Inoltre adopera<br />
ventiquattro volte l’espressione «Chiesa particolare» (ecclesia particularis), dodici volte per indica-<br />
re una diocesi, dodici volte la Chiesa nel suo ambiente culturale (cinque delle quali per indicare<br />
Chiese cattoliche di un rito non latino). Ma continua ad adoperare per ben novantaquattro volte il<br />
termine classico (e giuridico) di «diocesi». Il Codice di Diritto Canonico del 1983 si decide in favo-<br />
re dell’espressione «Chiesa particolare» (ecclesia particularis) (al posto del termine «diocesi»), pre-<br />
sumibilmente allo scopo di poter sussumere sotto un simile nuovo concetto ed espressione com-<br />
prensiva le diocesi, le prelature territoriali, le abbazie territoriali, i vicariati, le prefetture apostoliche<br />
e le circoscrizioni amministrative (cfr. can. 368). Ambedue le espressioni (Chiesa locale, Chiesa<br />
388
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
particolare) hanno i loro vantaggi e i loro svantaggi.<br />
La Chiesa locale o particolare episcopale (diocesana) ha una forma fondamentale ambivalente. Da<br />
un lato (vista dalla prospettiva della Ecclesia universa) essa è Chiesa in un determinato luogo e par-<br />
te concreta del tutto, dall’altro lato (vista dalla prospettiva della comunità domestica o della comuni-<br />
tà locale) è un’organizzazione superiore, che stabilisce e rappresenta il collegamento con il tutto. La<br />
medesima cosa si dica dell’ufficio episcopale: da un lato esso rappresenta il governo concreto della<br />
Chiesa locale, dall’altro lato porta una responsabilità nei confronti di tutta la Chiesa. Il motivo di<br />
questa ambivalenza sta in un processo storico-sociale: nella differenziazione della Chiesa verificata-<br />
si nei primi secoli, Chiesa che da comunità locale governata dal vescovo diventa la Chiesa locale<br />
episcopale abbracciante una molteplicità di comunità locali governate da presbiteri su mandato del<br />
vescovo. Tale ambivalenza si ripercuote sulla complicata storia occidentale del rapporto tra episco-<br />
pato e presbiterato, da un lato, e del rapporto tra episcopato e primato, dall’altro lato.<br />
La funzione ecclesiale particolare di questa fondamentale forma diocesana di Chiesa è sostanzial-<br />
mente determinata da colui che la presiede e la governa, dal vescovo, per cui bisogna parlare anche<br />
della Chiesa locale o particolare episcopale (Concilio Vaticano II, CD 11; cfr. CIC, can. 369).<br />
Una Chiesa locale o particolare episcopale nasce lì ove a una parte del popolo di Dio, quale forma<br />
autonoma della comunione ecclesiale, viene assegnato il ministero di un vescovo quale principio e<br />
fondamento visibile della sua unità. Da un lato il vescovo governa (assieme al suo presbiterio) que-<br />
sta Chiesa locale come pastore ordinario e diretto, la rappresenta e agisce giuridicamente in suo no-<br />
me. Dall’altro lato però, in qualità di membro del collegio episcopale, egli rappresenta di fronte ai<br />
suoi fedeli la Chiesa universa, che attraverso la mediazione del vescovo diventa presente nei suoi<br />
atti fondamentali nella Chiesa locale o particolare. Il vescovo diventa così teologicamente e giuridi-<br />
camente il punto di collegamento fra la Chiesa particolare e la Chiesa universa.<br />
(II) La peculiarità della Chiesa locale/Chiesa particolare diocesana<br />
La Chiesa locale episcopale è composta da molte parrocchie, comunità e gruppi. Essi vengono rag-<br />
gruppati nell’unità della Chiesa locale, amministrativamente mediante le istituzioni diocesane cen-<br />
trali, e rappresentativamente mediante il collegio presbiterale e soprattutto mediante il vescovo.<br />
La peculiarità della Chiesa locale o particolare è perciò, da un lato, la peculiarità dell’ufficio epi-<br />
scopale. Questa a sua volta consiste nel fatto che i vescovi compiono i tre atti fondamentali della<br />
Chiesa (predicazione, culto e comunione fraterna), che sono presenti in tutte le forme fondamentali<br />
di Chiesa, o (nel linguaggio del concilio) esercitano i tre uffici di Cristo (ufficio profetico, sacerdo-<br />
tale, pastorale, che devono essere esercitati da tutti), «quali successori degli apostoli» (LG 24), cioè<br />
in rappresentanza di Cristo e della Chiesa. In virtù infatti della missione divina e dell’incarico eccle-<br />
389
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
siale, il vescovo continua nella sua persona, nel modo del segno e della testimonianza, il ministero<br />
apostolico per il mondo (cfr. LG 18-21.24-27).<br />
Ove questa forma specifica del ministero ecclesiale (rappresentazione del ministero apostolico) non<br />
viene esercitata dalla Chiesa particolare, cioè dal vescovo, essa scompare per la Chiesa nel suo<br />
complesso, perché non è sostituibile su altri piani.<br />
Dall’altro lato la Chiesa locale ha anche una sua struttura carismatica, che l’ufficio episcopale non<br />
può sostituire o abolire. Rientra piuttosto nel compito dell’ufficio episcopale non solo controllare<br />
questi servizi; iniziative, doni e movimenti ecclesiali locali, bensì anche favorirli, appoggiarli e co-<br />
ordinarli, anzi far addirittura loro spazio limitando il proprio raggio di azione, affinché essi possano<br />
contribuire all’edificazione di tutta la Chiesa locale.<br />
L’ufficio episcopale deriva il proprio compito e la propria autorità particolare dal fatto di continuare<br />
il ministero dell’apostolo, in quanto rappresenta, nel proprio modo di agire nel tempo della Chiesa,<br />
Cristo e la Chiesa. Grazie alla missione e alla potestà loro conferita con il sacramento dell’ordine i<br />
vescovi sono perciò i presidenti della liturgia muniti dell’autorità e potestà di Cristo e quindi pastori<br />
e maestri, che devono testimoniare in maniera vincolante la fede autentica della Chiesa (cfr. LG 24-<br />
27). Tale rappresentanza ufficiale della Chiesa raggiunge però il suo scopo solo se far posto anche<br />
all’azione dello Spirito Santo nei molteplici carismi della comunità ecclesiale.<br />
e) La Chiesa come “Ecclesia universa 40 ”<br />
(I) Organi della Chiesa universale: papato e collegio episcopale<br />
La Chiesa universale (nel senso di universa) rappresenta una forma fondamentale specifica e inso-<br />
stituibile di Chiesa, perché la cattolicità e l’unità sono proprietà essenziali della Chiesa e perché la<br />
rivendicazione universale, avanzata dal vangelo, e la pienezza della rivelazione apparsa in Gesù<br />
Cristo possono essere udite e accettate nel modo giusto solo dalla totalità del mondo.<br />
Ogni Chiesa particolare e Chiesa nazionale corre il pericolo di assolutizzarsi e di identificare le pro-<br />
prie esperienze religiose con il vangelo, qualora non viva in continuo scambio con le altre Chiese<br />
particolari. Sotto questo aspetto la Chiesa universale è certamente lo scambio fra le Chiese partico-<br />
lari. Tale scambio deve avvenire a tutti i livelli delle Chiese locali e particolari. Ma l’ecclesialità u-<br />
40 Il Concilio Vaticano II utilizza due diverse espressioni per indicare ciò che noi intendiamo con “chiesa universale”:<br />
ecclesia universalis e ecclesia universa. Mentre la prima espressione designa tanto un soggetto chiesa localizzato quanto<br />
il soggetto chiesa ovunque diffuso e che può persino oltrepassare i confini della Chiesa istituita, visto che raccoglie tutti<br />
i giusti da Abele fino all’ultimo (LG 2), il secondo termine designa la chiesa intera, l’insieme di tutti i cristiani ed è quello<br />
di cui intendiamo parlare nel nostro paragrafo.<br />
390
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
niversale, l’unità e l’identità della Chiesa non sono riducibili a questo scambio, bensì hanno biso-<br />
gno, a motivo della struttura carismatica e ministeriale della Chiesa, di propri organi.<br />
Al fine di assolvere questo compito dell’assicurazione dell’identità e della conservazione dell’unità<br />
sul piano della Chiesa universa, nel corso della storia della Chiesa e attraverso un processo secolare<br />
furono istituiti degli organi che erano in grado di coordinare le Chiese particolari e di rappresentare<br />
e delimitare la Chiesa all’interno e all’esterno come una sola entità: si tratta del papato e delle as-<br />
semblee episcopali. Tale processo è però nel medesimo tempo una delle cause e dei sintomi essen-<br />
ziali delle grandi divisioni della Chiesa verificatesi nei secc. XI e XVI. La questione relativa al mo-<br />
do di garantire l’identità e l’unità della Chiesa universale e della fede rappresenta perciò fino ad og-<br />
gi uno dei punti più difficili del dialogo ecumenico.<br />
Secondo l’autocomprensione della Chiesa cattolica, nel corso della storia la Chiesa diviene sempre<br />
più consapevole di quel che essa è nella sua essenza: e cioè il soggetto della trasmissione della fede<br />
messo in moto, mediante la prima testimonianza degli apostoli, dall’autotestimonianza di Gesù e a-<br />
nimato dallo Spirito di Cristo. Nel corso della storia la Chiesa si scopre sempre più come il soggetto<br />
di quella mediazione umano-storica, attraverso cui l’autocomunicazione di Dio si mantiene presente<br />
nella storia. Tale scoperta storica di sé della Chiesa come di un soggetto operante unitariamente non<br />
si verifica solo in seguito all’autocomunicazione di Dio, che libera la libertà creaturale e la mette in<br />
grado di rispondere con amore (appunto come soggettività universale), ma si verifica concretamente<br />
anche all’interno del gioco combinato di determinati contesti culturali, sociali e politici.<br />
Così dalla prospettiva cattolica, nel primato giurisdizionale e magisteriale del papa, proclamato nel<br />
Concilio Vaticano I, si è espressa la coscienza esplicita del potere decisionale della Chiesa e quindi<br />
di una sua soggettività storicamente operante in un’unica persona. Dopo che questo processo di ap-<br />
prendimento, caratterizzante lo sviluppo occidentale della Chiesa, fu giunto in tal modo a compi-<br />
mento, nel Concilio Vaticano II fu possibile - tenendo presente il Vaticano I, ma riprendendo nel<br />
medesimo tempo le tradizioni della Chiesa orientale e le tradizioni sinodali e grazie a una loro rin-<br />
novata attualizzazione - estendere di nuovo più decisamente a tutta la Chiesa la coscienza del suo<br />
carattere di soggetto. Chiesa come soggetto significa qui: il popolo di Dio, che va insieme incontro<br />
al Signore; la comunione delle Chiese locali inculturate che, in un intenso scambio fra di loro, di-<br />
ventano un soggetto chiaramente specifico e tuttavia aperto della trasmissione della fede cristiana; e<br />
il complesso di quei segni e di quelle testimonianze, che si impegnano solidalmente affinché tutti<br />
diventino soggetto e rinnovano così il loro carattere di segno e di testimonianza.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
(II) Il servizio all’unità della Chiesa<br />
Un’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica ecumenica cercherà di aprire anzitutto prudentemente, alla luce di tutta la<br />
tradizione cattolica, gli ordinamenti oggi di fatto in vigore. Il ministero ecclesiale universale del pa-<br />
pa e del collegio episcopale potrebbe pertanto essere così interpretato in campo cattolico:<br />
(1) In una particolare situazione di emergenza della Chiesa universale il primato giurisdizionale e<br />
magisteriale del papa può essere visto come una specie di legge straordinaria: quando l’unità e<br />
l’identità necessaria della fede ecclesiale è così minacciata in questioni fondamentali della fede e<br />
della vita e anche l’unità e l’identità della stessa Chiesa sono di conseguenza così minacciate da<br />
rendere impossibile il raggiungimento di un consenso per altra via, allora esiste la possibilità di una<br />
decisione magisteriale definitiva del papa, decisione contro cui non è più possibile canonicamente<br />
appellarsi e che non ha bisogno di essere giuridicamente approvata da alcun altro organo.<br />
(2) Che si tratti di situazioni eccezionali di emergenza o di decisioni importanti nel campo della fe-<br />
de, che interessano tutta la Chiesa e sono prese in punti nodali dello sviluppo ecclesiale, in ambedue<br />
i casi, quando il papa prende una decisione definitiva ex cathedra o il collegio dei vescovi prende<br />
una decisione definitiva in un concilio ecumenico in materia di fede, oppure il collegio dei vescovi<br />
predica concordemente e in maniera definitivamente vincolante (senza radunarsi in un concilio) una<br />
determinata dottrina, sia il papa che il collegio episcopale fanno ciò in virtù della loro potestà e au-<br />
torità suprema, cioè in nome di Cristo e in nome della Chiesa, e godono perciò dell’assistenza dello<br />
Spirito Santo che, secondo la promessa di Cristo, conserverà la Chiesa nell’unità e nella verità della<br />
fede. Tali decisioni dottrinali sono perciò «infallibili», «definitive», «irreformabili» ed «esenti da er-<br />
rore» ed esigono l’obbedienza della fede da parte dei fedeli.<br />
Questo non significa però che esse sarebbero ottimali, che non avrebbero più bisogno di alcuna ulte-<br />
riore riflessione, completamento, spiegazione e miglioramento, o che esprimerebbero addirittura in<br />
maniera esauriente la verità di Dio. L’«infallibilità» significa solo, primo, che colui che dà il proprio<br />
assenso a tali decisioni in materia di fede può star certo di non essere sviato dalla verità di Dio, ben-<br />
sì di essere attendibilmente indirizzato sulla via di tale verità e, secondo, che colui che consapevol-<br />
mente, espressamente e pertinacemente afferma in pubblico in seno alla Chiesa il contrario di tali<br />
decisioni dottrinali deve seriamente temere di essersi separato dalla fede vincolante della Chiesa.<br />
Una simile decisione dottrinale infallibile presuppone la fede della Chiesa. Di conseguenza essa ri-<br />
mane legata alla precedente testimonianza della Sacra Scrittura e della tradizione vincolante della<br />
fede della Chiesa, nonché (nella misura in cui esiste) al consenso attuale della Chiesa. Il papa e il<br />
collegio episcopale sono perciò moralmente tenuti a impiegare tutti i mezzi adeguati dello studio,<br />
della riflessione e della consultazione per «apprendere» dapprima essi stessi la fede della Chiesa<br />
392
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
quale presupposto della loro decisione definitiva sulla retta comprensione di tale fede. Questo fati-<br />
coso processo di apprendimento e di formazione del consenso è stato possibile seguirlo in maniera<br />
particolarmente chiara nel corso del Concilio Vaticano II.<br />
(3) Nella situazione ecclesiale normale il fedele si trova di fronte all’insegnamento autentico, cioè<br />
vincolante ma non infallibile, del papa e dei vescovi. L’«ossequio religioso» dovuto al magistero au-<br />
tentico contiene anzitutto un momento di fiducia: di regola il credente può confidare nel magistero<br />
autentico della Chiesa. Chi segue tali indicazioni può di regola esser sicuro di non essere sviato dal-<br />
la verità di Dio, ma di essere condotto verso di essa. Accanto a questo è presente anche un momento<br />
di ammonimento: chi consapevolmente non segue le indicazioni del magistero rischia di sbagliare, e<br />
chi insegna il contrario si è già di regola separato dalla comprensione della fede della Chiesa.<br />
Sia nel concetto di ossequio religioso (che non è l’obbedienza della fede) che in quello di magistero<br />
autentico (ma non infallibile) è contenuta un’autolimitazione: il dissenso è possibile. Questa possi-<br />
bilità del dissenso è teologicamente fondata soprattutto sul carattere di comunione della Chiesa, sul-<br />
la sua struttura carismatica, sulla sua storicità, provvisorietà e peccaminosità. All’interno di una ec-<br />
clesiologia cattolica un dissenso del genere può legittimarsi solo come eccezione. Il consenso con il<br />
magistero è la regola. Un dissenso legittimo non presuppone perciò solo l’esistenza di motivi ogget-<br />
tivi chiari (richiamo alla fede della Chiesa o all’esigenza di una situazione particolare), bensì anche<br />
un comportamento «consensuale», il che significa che si esprime il proprio parere contrario solo per<br />
servire espressamente l’autenticità e la comunione della Chiesa. Un comportamento del genere do-<br />
vrebbe perciò includere perlomeno una seria disponibilità ad apprendere, apertura e disponibilità a<br />
rivedere la propria posizione, nonché il riconoscimento rispettoso della funzione, della responsabili-<br />
tà e dell’autorità del magistero.<br />
L’autorità delle decisioni del magistero ecclesiale non dipende dalla forza degli argomenti teologici<br />
addotti, ma poggia sulla potestà specifica della sua funzione di rappresentare Cristo e la Chiesa. Nel<br />
loro nucleo le enunciazioni magisteriali non sono perciò argomenti teologici, ma giudizi pratici. Es-<br />
se non riguardano la verità delle affermazioni relative alla fede in astratto, bensì nella loro impor-<br />
tanza e funzione ecclesiale. La decisione, il giudizio del magistero su affermazioni attinenti la fede<br />
scaturiscono sempre dalla prospettiva pastorale, dalla considerazione se una determinata idea teolo-<br />
gica serve o meno alla salvezza dei fedeli, all’unità e all’identità della Chiesa e all’efficacia e auten-<br />
ticità della predicazione ecclesiale. Dato che la conservazione dell’unità e identità della Chiesa è<br />
uno dei compiti principali del ministero ecclesiale, non stupisce che le decisioni magisteriali quali<br />
giudizi prudenziali presentino un carattere fondamentalmente “conservatore”, adottino cioè di rego-<br />
la la soluzione più sicura e si schierino in favore di norme già in vigore e di autori riconosciuti.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
L’infallibilità del dogma e l’obbedienza della fede del credente significano che colui che accetta con<br />
fede tali decisioni può star sicuro di non essere allontanato dalla verità di Dio, ma di essere attendi-<br />
bilmente instradato verso tale verità. L’insegnamento ecclesiale autentico del papa e dei vescovi e<br />
l’ossequio religioso del fedele significano che colui che accetta tale insegnamento può di regola es-<br />
ser certo di non essere allontanato dalla verità di Dio, bensì di essere guidato verso tale verità.<br />
Ma un’<strong>ecclesiologia</strong> cattolica ecumenica deve anche mirare a un ripensamento della figura del papa-<br />
to secondo le indicazioni della enciclica Ut unum sint (25 maggio 1995) di Giovanni Paolo II, in cui<br />
ai nn. 88-96 si invoca la collaborazione di tutti per giungere ad individuare «una forma di esercizio<br />
del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una<br />
situazione nuova» (n. 95), affinché si possa cercare «evidentemente insieme, le forme nelle quali<br />
questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (ibid.).<br />
(1) Il papato, se vuole diventare ecumenicamente efficace, deve divenire più chiaramente di prima<br />
l’espressione della reale cattolicità della Chiesa, così come essa è stata riscoperta nel Vaticano II. Da<br />
un lato questo significherebbe che la struttura primaziale della Chiesa va più coerentemente inqua-<br />
drata in una struttura sinodale (senza rinunciare alla propria relativa autonomia) e che, abbandonata<br />
l’idea di un’unità uniformistica e monolitica, trova più spazio nella teoria e nella prassi alla conci-<br />
liarità (sinodalità) e alla ecclesialità locale della Chiesa. Dall’altro lato questo significherebbe che il<br />
primato del papa viene più chiaramente inquadrato nel primato del vangelo e ad esso sottoposto. Di<br />
conseguenza bisognerebbe definire in maniera più chiara anche i limiti della giurisdizione papale.<br />
Similmente bisognerebbe evitare la tentazione di esercitare un potere centralistico e totalitario.<br />
(2) Il papato dovrebbe diventare più chiaramente l’espressione dell’ecumenicità della Chiesa. Perciò<br />
il papa dovrebbe presentarsi non solo come il portavoce dell’eredità cristiana comune a tutte le<br />
Chiese e operare moralmente in rappresentanza di tutte le Chiese come il difensore della libertà e<br />
dei diritti dell’uomo, ma concepire il proprio ministero in favore dell’unità anche come un servizio<br />
in favore dell’unità di tutti i cristiani e di tutte le Chiese. In effetti Roma è l’unica sede episcopale<br />
che rivendica un primato universale, che ha esercitato e continua ad esercitare un tale ministero.<br />
Un simile servizio petrino «cattolicamente» ed «ecumenicamente» inteso è a lungo andare indispen-<br />
sabile per una cristianità riconciliata. Infatti, come l’ufficio apostolico ha bisogno di un segno e di<br />
una testimonianza personale visibile sul piano della Chiesa episcopale locale e anche sul piano della<br />
comunità locale, così ne ha anche bisogno a livello di Chiesa universale. Se tale funzione viene qui<br />
a mancare, non può essere sostituita su alcun altro piano. Pertanto l’identità e l’unità della Chiesa<br />
dipendono per una parte essenziale anche dall’adeguato esercizio di questa funzione.<br />
394
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
3.4. La chiesa è una, santa, cattolica e apostolica<br />
3.4.1. Le proprietà essenziali della chiesa nel simbolo di fede<br />
a) Il significato dell’inclusione dell’articolo sulla chiesa negli antichi simboli di fede<br />
Sappiamo che già in tempo antichissimo nel terzo articolo della confessione di fede battesimale era<br />
presente pure il credere «la chiesa» come sacramento dello Spirito, come elemento dell’intera eco-<br />
nomia della salvezza. Noi troviamo la menzione della Chiesa nel credo battesimale in uso a Roma<br />
attorno alla fine del secondo secolo. Sarebbe utile richiamare alla mente quel che conosciamo circa<br />
lo sviluppo delle primitive professioni di fede cristiana.<br />
La loro formulazione ha origine dalla professione di fede che i catecumeni dovevano fare durante il<br />
loro battesimo. Prima di ogni immersione al candidato era chiesto di dichiarare la sua fede: la prima<br />
volta in Dio Padre, la seconda nel Signore Gesù Cristo, la terza nello Spirito Santo. Le più antiche<br />
professioni di fede battesimali che abbiamo, sono in forma di tre domande alle quali il battezzato<br />
doveva rispondere: «Credo». Sembra pressoché certo che nella forma più primitiva, la terza doman-<br />
da chiedeva semplicemente: «Credi nello Spirito Santo?» Ma sappiamo dalla Tradizione apostolica<br />
di Ippolito, scritta all’incirca nel 215, che dalla fine del secondo secolo la domanda posta a ciascun<br />
battezzando nella Chiesa di Roma era: «Credi nello Spirito Santo nella santa Chiesa?» 1 .<br />
Dal III sec. in poi ogni simbolo battesimale a noi giunto sia nella formulazione più antica di doman-<br />
da e risposta, sia nella più tardiva forma dichiarativa come si presenta nel cosiddetto «Simbolo degli<br />
Apostoli», menziona la «santa Chiesa» dopo lo Spirito Santo (DzH 1, 10-11). In effetti la Chiesa<br />
non appare mai in un simbolo battesimale senza l’aggettivo «santa»; il Simbolo degli Apostoli ag-<br />
giunge «cattolica» (DzH 19ss) e fu il simbolo del Concilio di Costantinopoli nel 381 (DzH 150) a<br />
fissare definitivamente in quattro gli attributi che, nel credo battesimale di qualche Chiesa cristiana<br />
orientale, erano menzionati da tempo (i quattro attributi si trovano già nel Simbolo di S. Epifanio —<br />
DzH 42 —, il quale a sua volta avrebbe utilizzato quello di Cirillo di Gerusalemme — DzH 41).<br />
Se ci si chiede cosa spinse la Chiesa del II secolo a cominciare a richiedere che i candidati al batte-<br />
simo professassero la loro fede nella «santa Chiesa», la risposta più probabile sarebbe quella sugge-<br />
rita da Kelly 2 . All’incirca in questo periodo — come sappiamo dagli scritti di S. Ireneo — gli eretici<br />
gnostici, che avevano posto le più serie minacce alla vera fede, disprezzando la gente che apparte-<br />
1 IPPOLITO, La tradizione apostolica, 21.<br />
2 J.N.D. KELLY, I simboli della fede antica. Nascita, evoluzione e uso del credo (Napoli: Dehoniane, 1987).<br />
395
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
neva alle Chiese su cui presiedevano i vescovi, si vantavano di possedere una conoscenza della rive-<br />
lazione più alta, più perfetta di quella insegnata dai vescovi. Perciò si radunavano nei loro incontri<br />
privati, avendo in spregio la “grande” Chiesa e i loro capi. Contro gli gnostici S. Ireneo insiste che<br />
solo nella santa Chiesa si può trovare lo Spirito Santo e ricevere i suoi doni. In un simile clima si<br />
capisce perché, a quanti desideravano ricevere il battesimo, veniva chiesto di professare la loro fede<br />
«nello Spirito Santo nella santa Chiesa».<br />
Questi quattro termini vogliono indicare quattro aspetti essenziali del «mistero» della chiesa; di con-<br />
seguenza chi vuole cercare di capire cosa sia la chiesa è costretto anche a chiedersi che cosa si in-<br />
tenda esprimere con la professione di fede nella Chiesa una, santa cattolica e apostolica.<br />
b) Valore ecumenico della professione di fede nella chiesa una, santa, cattolica e apostolica.<br />
Quasi tutte le chiese e comunità ecclesiali cristiane accettano il credo Niceno-Costantinopolitano<br />
come normativo per la loro professione di fede 3 e credono quindi che la chiesa è una, santa, cattolica<br />
(evidentemente non nel senso confessionale di «romana», ma di «universale»), e apostolica. Ci sono<br />
però ancora delle difficoltà che impediscono una comprensione comune di queste quattro proprietà.<br />
Tuttavia questo simbolo della fede, sebbene a volte inteso diversamente, costituisce un valido punto<br />
di partenza per il dialogo ecumenico; in particolare, la confessione di fede nella Chiesa «una» mani-<br />
festa con forza che la situazione di divisione è contraria alla natura della chiesa di Cristo.<br />
c) L’uso apologetico delle quattro proprietà: la «via notarum»<br />
La riflessione su queste proprietà ha fatto il suo ingresso in <strong>ecclesiologia</strong> secondo un uso apologeti-<br />
co durante le dispute con gli hussiti (G. di Ragusa) e soprattutto con la Riforma, quando diverse<br />
comunità rivendicavano di essere la «vera» chiesa di Cristo ad esclusione delle altre. È sintomatico<br />
il fatto che, mentre nel Medioevo si parlava di «conditiones» 4 più che di «notae», nel XVI sec. tro-<br />
viamo qualitates, indoles, ratio, praerogativa, più spesso proprietates (cfr. il Catechismo romano),<br />
talvolta presi come equivalenti di notae. Sono poi questi due ultimi i termini che hanno prevalso.<br />
3 Per questo la proposta di un percorso di unità possibile fra le chiese ipotizzato da Fries e Rahner nello loro studio Unione<br />
delle chiese possibilità reale (Brescia: Morcelliana, 1986; ed. or. 1985) 23, pone come condizione prima di possibilità<br />
della futura Chiesa una l’adesione delle singole Chiese alle verità fondamentali come sono enunciate nella Sacra<br />
Scrittura, nel credo apostolico e in quelli di Nicea e Costantinopoli. In una simile direzione si è mossa pure la Commissione<br />
“Fede e Costituzione” del CEC, la quale nel 1990 ha pubblicato una spiegazione comune del Simbolo Niceno-<br />
Costantinopolitano: Confessing the One Faith. An Ecumenical Explication of the Apostolic Faith as it is Confessed in<br />
the Nicene-Constantinopolitan Creed (381) (Geneva: WCC Publications, 1991).<br />
4 Conditio nel senso di stato o qualità che fonda, per una data realtà, la verità di un predicato che le si attribuisce:<br />
Y. CONGAR, “Proprietà essenziali della Chiesa”, in Mysterium Salutis VII, 439.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
La necessità di criticare i segni distintivi rivendicati dai protestanti, poi la differenza di argomenta-<br />
zione secondo che si avevano di mira i protestanti o i libertini, porta alla distinzione tra segni, pro-<br />
prietà e note. Le note devono soddisfare a quattro condizioni: 1) essere più facilmente riconoscibili<br />
della Chiesa stessa (notiores ecclesia); 2) essere facilmente accessibili a tutti, anche alle persone<br />
semplici (obviae omnibus etiam rudioribus); 3) convenire soltanto alla vera Chiesa (propriae); 4)<br />
non essere separabili da essa (inseparabiles ab ecclesia). Le proprietà sono proprie alla Chiesa, ma<br />
non possono servire a farla riconoscere come l’istituzione divina a coloro che la vedono dal-<br />
l’esterno. In generale si enumerano fra queste proprietà il fatto di essere una società ineguale o ge-<br />
rarchica, la visibilità, la necessità (per la salvezza), la piena indipendenza di vita (“società perfetta”),<br />
l’indefettibilità, l’infallibilità, poi le nostre quattro note che sono anzitutto delle proprietà. Le note in<br />
effetti non sono che delle proprietà capaci di notificare o fare riconoscere la Chiesa.<br />
Per rendere la prova più stringata si limita anche il numero dei segni distintivi. Inizialmente questo<br />
oscilla fra i quattro e i cento, ma poi poco a poco si impone il numero quattro sulla scorta della pro-<br />
fessione di fede. Ma poiché non è più possibile giustificarlo richiamandosi alla professione di fede,<br />
si cerca di dedurlo come una necessità apriorica o per mezzo dello schema aristotelico della causali-<br />
tà o dal concetto di una società religiosa istituita da Dio o anche storicamente.<br />
Il metodo seguito presenta la forma di un sillogismo:<br />
- Maggiore: Cristo ha munito la sua Chiesa di quattro segni distintivi (quaestio iuris);<br />
- Minore: tali segni distintivi si ritrovano solo nella Chiesa cattolica (quaestio facti);<br />
- Conclusione: di conseguenza la Chiesa cattolica è l’unica vera Chiesa di Cristo.<br />
La maggiore si dimostra storicamente in base al Nuovo Testamento; la minore si prova empirica-<br />
mente, o in termini positivi mostrando che le quattro caratteristiche sono realizzate nella chiesa cat-<br />
tolica, oppure in termini negativi mostrando che esse mancano nelle altre chiese, o infine in termini<br />
comparativi confrontando le chiese fra loro.<br />
Se questa è l’impostazione della “via notarum”, si può capire perché nel 1937 Gustave Thils in uno<br />
studio storico sulle note conclude affermando che la «via notarum» è una via complessa, confusa,<br />
difettosa, un argomento inopportuno, o attualmente inefficace e in ogni caso superfluo 5 .<br />
5 G. THILS, Les notes de l’Église dans l’Apologetique Catholique depuis la Reforme (Gembloux 1937) 343ss. Si veda la<br />
discussione di questa problematica in H.J. POTTMEYER, “La questione della vera Chiesa”, in Corso di teologia fondamentale<br />
3. Trattato sulla Chiesa (Brescia: Queriniana, 1990) 243-278; M. SANCHEZ MONGE, “Las notas de la Iglesia en<br />
la eclesiología actual”, in F. CHICA, S. PANIZZOLO, H. WAGNER (edd.), Ecclesia tertii millenni advenientis. Omaggio al<br />
P. Angel Antón (Casale Monferrato: Piemme, 1997) 944-960.<br />
397
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
d) L’uso teologico delle quattro proprietà<br />
Il Vaticano II, presentando la chiesa come mistero e non più come motivo di credibilità (Vaticano I:<br />
DzH 3013), ha superato un’impostazione prevalentemente apologetica del trattato sulla Chiesa, con-<br />
sentendo il recupero della qualità dogmatica anche delle quattro proprietà professate nel Simbolo.<br />
Queste quattro proprietà si possono così intendere come le “condizioni” della comunione redentrice<br />
che, nonostante la condizione peccaminosa degli uomini, lo Spirito santo continua a produrre in<br />
mezzo ai suoi fedeli. In quanto doni di Dio alla sua chiesa, noi le confessiamo nel credo.<br />
«Se le proprietà fanno conoscere l’essenza della Chiesa con la quale sono realmente identiche, rivelano<br />
anche il rapporto intimo che la Chiesa intrattiene col mistero di Cristo. In verità esiste tra le<br />
due cose una continuità: la parola stessa “mistero”, nell’uso che ne fa S. Paolo, ingloba l’una e<br />
l’altra. È tutto il mistero del Cristo a essere così riflesso nella Chiesa, sua Sposa e suo Corpo. Ma<br />
si potrebbero utilmente considerare le nostre quattro proprietà come l’espressione, la conseguenza<br />
e il frutto dell’unica mediazione del Cristo nel senso in cui ne parla 1Tm 2,1-6a: unità perché esiste<br />
un solo mediatore; santità perché egli ci ristabilisce e introduce nella comunione col Dio santo;<br />
cattolicità perché è il sacramento efficace dell’amore salvifico di Dio per gli uomini e per tutto<br />
l’uomo (1Tm 2,4); apostolicità perché tutto procede da Cristo Gesù, “uomo che si è dato in riscatto<br />
per noi”. Veramente nella Chiesa si realizza e si svela il piano di benevolenza di Dio di cui parla<br />
Ef 1-3; Rom 16,25-27» 6 .<br />
Per questa ragione G. Thils, ha suggerito di non restringere più la riflessione sulle note alla teologia<br />
fondamentale, ma di aprirla alla teologia dogmatica con un’attenzione alle prospettive aperte<br />
dall’ecumenismo: in tal modo non si dovrebbe più parlare di chiesa vera e chiese false, bensì di<br />
«chiesa che verifica la totalità degli elementi costitutivi essenziali richiesti dalla Rivelazione» e<br />
«chiese che verificano più o meno queste esigenze». In tal modo egli può concludere che «le chiese<br />
cristiane stanno tutte in comunione reale, però questa comunione non è piena» 7 .<br />
e) Aspetti delle quattro proprietà: un dono ma anche un compito<br />
Nei testi del Vaticano II si insegna che esse sono: 1) proprietà indefettibili della chiesa (UR 4; LG<br />
39; LG 13; LG 20) — in tal senso sono un dono che Dio fa alla Chiesa e fanno quindi parte<br />
dell’oggetto della nostra confessione di fede; 2) d’altra parte, nella Chiesa pellegrinante esse sono<br />
solo imperfettamente realizzate (UR 1; LG 48; UR 4) — perciò costituiscono anche un compito per<br />
la Chiesa stessa e quindi una prova per la nostra fede. Con Moltmann perciò affermiamo che:<br />
«1. Gli enunciati che si fanno sulla chiesa sono una componente essenziale della confessione di fe-<br />
de. Sono prodotti dalla fede, e al di fuori di un contesto di fede perdono il loro senso. Sono parti in-<br />
6 Y. CONGAR, “Proprietà essenziali della Chiesa”, art. cit., 446-447.<br />
7 G. THILS, “Notes de l’Église”, in Catholicisme, vol. IX (1982) col. 1386.1388.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
tegranti della professione di fede nel Dio uno e trino e non possono venire isolati da questo contesto.<br />
Li ritroviamo nell’articolo di fede nello Spirito santo e risultano giustificati e comprensibili soltanto<br />
nel quadro dell’opera creatrice dello Spirito. Le cosiddette “note” della chiesa si distinguono dunque<br />
dalle note che caratterizzano un qualsiasi altro oggetto di esperienza. Si possono percepire come se-<br />
gno soltanto a livello di una conoscenza partecipe. Appaiono chiari soltanto quando la chiesa viene<br />
inquadrata nel contesto della storia di Dio, nello stesso contesto in cui si colloca anche la professio-<br />
ne di fede nel Dio uno e trino. Non sono soltanto dei segni-di-conoscenza ma anche ed allo stesso<br />
tempo segni-di-confessione. Non sono proprietà di un oggetto in sé, ma proprietà che questo oggetto<br />
riceve da altri e lungo una storia. La chiesa riceve questi predicati dall’agire di Cristo, nell’opera di<br />
Cristo, per il regno futuro. Ma situati in questi ampi nessi, tali predicati diventano i segni indispen-<br />
sabili per il riconoscimento della vera chiesa, cioè per la chiesa nella verità di Dio.<br />
2. Se la chiesa ha la propria esistenza dall’agire di Cristo, allora anche le sue proprietà saranno in-<br />
nanzi tutto proprietà dell’agire di Cristo. La professione di fede nella chiesa “una, santa, cattolica e<br />
apostolica” è la confessione della signoria unificante, santificante, universale e mandante di Cristo.<br />
Si tratta dunque di proposizioni di fede. L’unità della chiesa non è, in primo lungo, l’unità dei suoi<br />
membri bensì l’unità del Cristo che su loro agisce in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Cristo riunisce la<br />
propria comunità. Per cui questa comunità è una a motivo del suo agire unificante. Il risultato di<br />
questo agire è l’unità dei credenti in Cristo (Gal 3,28) e la loro unità nello Spirito (Ef 4,1ss). La san-<br />
tità della chiesa non è, in primo luogo, la santità dei suoi membri o delle cerimonie cultuali, bensì la<br />
santità di quel Cristo che agisce sui peccatori. Cristo santifica la propria comunità, giustificandola.<br />
Per cui la santità della comunità sta nel suo agire santificante. Il risultato di questo agire è la “comu-<br />
nità dei santi”. La cattolicità della chiesa non consiste, in primo luogo, nella sua dilatazione nello<br />
spazio o nella sua apertura di fondo alla realtà del mondo, bensì nella signoria sconfinata di Cristo,<br />
al quale “è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. C’è chiesa dove e fin dove Cristo esercita il<br />
proprio dominio. La chiesa ottiene la propria apertura al mondo nell’ampiezza della signoria di Cri-<br />
sto. Essa è cattolica in base alla cattolicità di Cristo che le è stata promessa. Anche la sua apostolici-<br />
tà dev’essere inquadrata nella missione di Cristo e nell’invio dello Spirito. Fondata sullo Spirito, per<br />
mezzo degli apostoli di Cristo, essa avrà come compito l’apostolato nel mondo. In quanto chiesa di<br />
Cristo, la chiesa è necessariamente una, santa, cattolica e apostolica.<br />
3. Se la chiesa deriva la propria esistenza dalla missione messianica di Cristo e dal dono escatologi-<br />
co dello Spirito, allora le sue proprietà saranno anche dei predicati messianici. Si tratterà allora di<br />
proposizioni di speranza. L’unità della comunità è un “predicato temporale-salvifico”, poiché<br />
nell’Antico Testamento il ripristino dell’unità del popolo di Dio e dell’unità del genere umano sono<br />
399
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
promesse profetiche. Il Messia degli ultimi tempi “radunerà” coloro che sono dispersi, unificherà<br />
coloro che sono divisi e porterà il regno della pace. Nella sua qualità di Messia del tempo della sal-<br />
vezza, Cristo unisce e unifica giudei e pagani, greci e barbari, signori e servi, uomini e donne, nel<br />
nuovo popolo, per l’unico regno. Secondo la promessa profetica, la santità rientra nella natura pro-<br />
fonda della gloria futura di Dio, la quale si estenderà su tutta la terra. Il “santo d’Israele” redimerà il<br />
suo popolo. Nel qualificare “santa” la comunità, il Nuovo Testamento intende dire che essa è diven-<br />
tata la nuova creazione in Cristo e quindi resa partecipe della santità di quella nuova creazione che il<br />
Dio santo opera mediante il suo Spirito. La chiesa è santa in quanto è “la comunità degli ultimi tem-<br />
pi”. Come il vangelo e l’evangelizzazione, così anche l’apostolato della chiesa e gli apostoli sono<br />
inscindibilmente congiunti con gli inizi dell’era messianica. Infine, la chiesa è cattolica in quanto<br />
partecipa della cattolicità del regno futuro. Nella sua apertura al regno di Dio essa è aperta al mon-<br />
do, e nella sua attività missionaria e nelle sue preghiere d’intercessione si estende fin dove s’estende<br />
la realtà mondana. In quanto predicati profetici della chiesa, queste quattro proprietà vanno dunque<br />
comprese entro la prospettiva del regno venturo, del regno per il quale essa esiste, che traduce nei<br />
propri lineamenti ed esprime attraverso la sua testimonianza.<br />
4. Se le proprietà della chiesa sono enunciati di fede e di speranza, allora conducono anche a propo-<br />
sizioni di azione. La chiesa è una in Cristo, quindi dev’essere una. Coloro che ricevono la propria<br />
unità in Cristo devono tendere all’unità. L’unico popolo dell’unico regno deve creare unità fra gli<br />
uomini. La chiesa è santa in Cristo, per cui i suoi membri dovranno combattere il peccato e santifi-<br />
care la loro vita mediante la giustizia. Essa è santificata dallo Spirito, per cui i suoi membri dovran-<br />
no santificare, nell’obbedienza e in vista della nuova creazione, tutte le cose. Essa è aperta al mondo<br />
in Cristo, per cui deve diventare cattolica e testimoniare ovunque il regno universale. Questa chiesa<br />
una, in quanto chiesa dello Spirito, è anche unità unificante. La chiesa santa è la comunità santifi-<br />
cante. La chiesa cattolica è portatrice di pace e quindi comunità nel senso più ampio del termine. La<br />
chiesa apostolica è la comunità che vive nel mondo portando la liberazione del vangelo.<br />
Stando a queste proprietà, l’essenza viene data, promessa ed affidata alla chiesa. Dalla fede, spe-<br />
ranza e azione si delinea nel mondo la figura che la chiesa assume nell’unità, santità, cattolicità ed<br />
apostolicità. La teologia non potrà quindi riproporre una “chiesa visibile”, una “chiesa del futuro”<br />
od una “chiesa di pure istanze”. Mediante la fede, la speranza e l’azione, la chiesa vive nell’una,<br />
santa, cattolica ed apostolica signoria di Cristo» 8 .<br />
8 J. MOLTMANN, La Chiesa nella forza dello Spirito (Brescia: Queriniana, 1976) 435-438.<br />
400
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
3.4.2. Credo la chiesa una<br />
Seguendo l’ordine presente nel Simbolo, anche noi consideriamo come prima tra le sue proprietà<br />
l’unità della Chiesa. La Chiesa è una. La tradizione teologica intende questa affermazione nel dupli-<br />
ce senso dell’unicità della Chiesa e della sua interiore compattezza. Che la Chiesa sia una suppone<br />
sempre ambedue queste affermazioni 9 .<br />
a) L’unità della chiesa e il fatto della divisione<br />
È un doloroso dato di fatto che nell’una e unica Chiesa di Cristo i cristiani sono divisi tra loro in di-<br />
verse confessioni cristiane. La storia della Chiesa ha conosciuto molto presto persone ed eventi che<br />
hanno vulnerato il mistero della sua unità.<br />
«Da Cristo Signore la chiesa infatti è stata fondata una e unica, eppure molte comunioni cristiane<br />
propongono se stesse agli uomini come la vera eredità di Gesù Cristo; tutti si professano di essere<br />
discepoli del Signore, ma la pensano diversamente e camminano per vie diverse, come se Cristo<br />
stesso fosse diviso. Tale divisione contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ed è di scandalo<br />
al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo a ogni creatura» (UR 1).<br />
Già il NT porta il segno delle tensioni all’interno della comunità dei discepoli di Gesù fra la ecclesia<br />
ex circumcisione e la ecclesia ex gentibus. Sono poi giunte sino ai nostri giorni le gravi lacerazioni<br />
fra i cristiani causate dalle grandi controversie cristologiche del IV secolo. Nello stesso periodo la<br />
divisione dell’impero romano nelle due grandi aree dell’oriente e dell’occidente avviò per la Chiesa<br />
in quelle medesime regioni delle storie separate che, con l’emergere sempre più insistente di diffi-<br />
denze e incomprensioni, culmineranno nelle reciproche scomuniche del 1054 fra il Patriarcato di<br />
Costantinopoli e la Chiesa di Roma. In questo grande dramma della separazione fra i cristiani<br />
l’intreccio di fattori teologici e non teologici di ordine linguistico, politico, etnico e culturale formò<br />
un nodo intricato che ancora oggi non si è riusciti a sciogliere. L’impoverimento causato dalla sepa-<br />
razione tra oriente e occidente fu ancora di più aggravato dall’altra grande lacerazione avvenuta in<br />
occidente con la Riforma nel XVI secolo. Sono queste le fratture più evidenti avvenute fra i cristiani<br />
nel secondo millennio.<br />
9 Questa distinzione appare esplicita per la prima volta nella bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, del 18 novembre<br />
1302 (cfr. DzH 870-872). In realtà unità e unicità si richiamano a vicenda. Dal fatto che la Chiesa è unica segue che essa<br />
è indivisa. Se invece fosse o potesse essere divisa in se stessa la Chiesa non sarebbe o non potrebbe essere unica. L’unità<br />
della Chiesa, dunque, nega che ci siano più chiese volute da Cristo e afferma che la Chiesa esiste in se stessa come indivisa.<br />
Nei documenti del Vaticano II la Chiesa è chiamata «unica» in LG 8, UR 2.3.18, DH 1. L’espressione «una e unica»<br />
è presente in LG 23 e UR 1.3.4.24.<br />
401
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Alle varie scissioni che hanno ferito l’unità del corpo di Cristo la tradizione teologica ha dato il no-<br />
me di scisma e di eresia. Ambedue i concetti hanno conosciuto una certa evoluzione nel corso della<br />
storia. Attualmente il Codice di Diritto Canonico li inserisce tra i «delitti contro la religione e l’unità<br />
della Chiesa» 10 . Lo scisma di per sé, in quanto distinto dall’eresia, non comporta direttamente un er-<br />
rore circa la dottrina della fede bensì una rottura della comunione al livello della Chiesa in quanto<br />
struttura visibile. Così inteso esso è il formale rifiuto, da parte di un battezzato nella Chiesa cattoli-<br />
ca 11 , di sottomettersi al romano pontefice o anche il ripudio della comunione con i membri della<br />
Chiesa a lui soggetti. Per eresia, invece, s’intende oggettivamente una falsa dottrina e soggettiva-<br />
mente l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di qualche verità che si deve credere per<br />
fede divina e cattolica 12 , ovvero anche il dubbio ostinato su di esse.<br />
Fatta questa distinzione occorre precisare che lo scisma e l’eresia non sono, per così dire, due con-<br />
cetti «chimicamente puri». Con san Girolamo si dirà invece: «Nullum schisma non sibi aliquam con-<br />
fingit haeresim, ut recte ab Ecclesia recessisse videatur» 13 . Uno scisma comporta sempre un aspetto<br />
dottrinale e dall’eresia consegue sempre una rottura della comunione. Entrambi pongono il soggetto<br />
o i soggetti che se ne rendono colpevoli fuori della communio sanctorum 14 .<br />
Con il Concilio Vaticano II, però, distinguiamo fra coloro che sono stati all’origine dello scisma e<br />
dell’eresia e coloro che sono semplicemente nati in questi chiese o comunità ecclesiali:<br />
«In questa chiesa di Dio una e unica sono sorte fin dai primissimi tempi alcune scissioni, che<br />
l’apostolo riprova con gravi parole come degne di condanna; ma nei secoli successivi sono nati<br />
dissensi più ampi e comunità non piccole si sono staccate dalla piena comunione della chiesa cattolica,<br />
talora non senza colpa di uomini d’entrambe le parti. Quelli poi che ora nascono e sono istruiti<br />
nella fede di Cristo in tali comunità non possono essere accusati del peccato di separazione,<br />
e la chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto e amore. Coloro infatti che credono in<br />
Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbene<br />
10 CIC, cann. 751 e 1364.<br />
11 Per il CIC, can. 1l, questi «delitti» (che sono cosa diversa dal relativo peccato) concernono le persone battezzate nella<br />
Chiesa cattolica o quelle accolte successivamente in essa. Perché abbiano rilevanza giuridica è necessario che in questi<br />
atti concorrano gli elementi essenziali, oggettivi e soggettivi, determinati dalla legge canonica (manifestazione esterna,<br />
piena responsabilità, notorietà).<br />
12 Con questa qualificazione teologica s’intendono tutte quelle verità che sono contenute nella parola di Dio scritta o trasmessa<br />
e che tramite un giudizio solenne, o il suo magistero ordinario e universale, vengono proposte dalla Chiesa come<br />
divinamente rivelate, cfr. Concilio Vaticano I. Cost. de fide catholica, c. 3: DzH 3011. Si farà attenzione ai mutamenti<br />
che la nozione di eresia ha conosciuto nel tempo. Sino al concilio di Trento si intendeva come eretico anche chi con il<br />
suo agire arrecava seri danni alla vita della Chiesa. La stessa espressione «verità di fede» aveva un senso più ampio rispetto<br />
a quello odierno.<br />
13 In Epist. ad Tit. 3: PL 26, 598.<br />
14 Tradizionalmente si diceva che sotto il profilo morale sia l’eresia che lo scisma provocano la perdita della grazia santificante.<br />
Considerandoli come peccati, si diceva che l’eresia distrugge la virtù soprannaturale della fede e fa perdere la<br />
grazia santificante; il peccato di scisma distrugge la carità, ma di per sé lascia sussistere, per quanto in maniera informe,<br />
la fede e la speranza.<br />
402
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
imperfetta, con la chiesa cattolica. Non v’è dubbio che, per le divergenze che in vari modi esistono<br />
tra loro e la chiesa cattolica, sia nel campo della dottrina e talora anche della disciplina, sia circa la<br />
struttura della chiesa, impedimenti non pochi, e talvolta più gravi, si oppongono alla piena comunione<br />
ecclesiastica, al superamento dei quali tende appunto il movimento ecumenico. Nondimeno,<br />
giustificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo e perciò sono a ragione insigniti del<br />
nome di cristiani e dai figli della chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel<br />
Signore» (Unitatis Redintegratio 3).<br />
Il Concilio precisa, poi, che secondo la dottrina cattolica, nonostante queste divisioni, la chiesa di<br />
Cristo è creduta essere indefettibilmente una: infatti, quell’unità «dell’una e unica chiesa, che Cristo<br />
fin dall’inizio donò alla sua chiesa» noi la «crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta,<br />
nella chiesa cattolica e… speriamo crescerà ogni giorno più fino alla fine dei secoli» (UR 4).<br />
Il Concilio precisa, infine, anche come si può correttamente conciliare questa asserzione di fede con<br />
l’apparente smentita proveniente dall’esperienza delle divisioni confessionali. Esso rifugge dalla<br />
tentazione (protestante) di proiettare l’unità nell’escatologia o nella pura dimensione interiore della<br />
realtà ecclesiale e pure dalla tentazione (cattolica e ortodossa) di identificare la propria esperienza<br />
confessionale con l’una e unica chiesa di Cristo, negando la qualità ecclesiale alle altre denomina-<br />
zioni cristiane. Infatti, il Concilio insegna in LG 8 e in UR 4 che l’una e unica chiesa di Cristo «sus-<br />
siste nella» (e non «è» la) Chiesa cattolica e riconosce l’esistenza non solo di numerosi elementi ec-<br />
clesiali al di fuori del suo organismo visibile, bensì pure di vere e proprie chiese e comunità eccle-<br />
siali, anche se non possono rivendicare l’integrità istituzionale della confessione di fede, dei sacra-<br />
menti e dei ministeri gerarchici della chiesa cattolica. Si potrebbe dire in sintesi che la chiesa di Cri-<br />
sto sussiste «in modo conclusivo, ma non esclusivo» nella chiesa cattolica romana (G. Pattaro).<br />
b) Le dimensioni dell’unità<br />
La chiesa è, quindi, essenzialmente e in modo decisivo una sola chiesa, un solo popolo di Dio, un<br />
solo corpo di Cristo, una sola creatura dello Spirito. L’intero messaggio del NT lo testimonia 15 .<br />
L’unità della chiesa dipende dalla sua origine e dal suo fine: l’unità e unicità di Dio che si comunica<br />
a lei. Questa unità si riflette anzitutto in quella della natura umana, la quale deve essere già vista nel<br />
quadro dell’unità del mondo. Il corpo mistico che è la Chiesa rappresenta la forma che l’unità della<br />
natura umana prende quando riflette perfettamente l’unità di Dio per il fatto di essere stata assunta<br />
15 I testi classici del NT sull’unità della chiesa sono noti: 1Cor 1,10-30 (messa in guardia di fronte alle fazioni ed esortazione<br />
all’unità sull’unico fondamento, Cristo); 1Cor 12 (unità dello Spirito nella diversità dei doni, un corpo in molte<br />
membra); Gal 3,27s (tutti, senza distinzione di razza, di posizione e di sesso, sono uno in Cristo); Rom 12,3-8 (i molti<br />
sono un corpo in Cristo); At 2,42 (perseveranza nella dottrina degli apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e<br />
nella preghiera); 4,32 (la massa dei convertiti forma un cuore e un’anima sola); Gv 10,16 (un pastore e un gregge);<br />
17,20-26 (tutti siano uno come il Padre e il Figlio); Ef 4,1-6, che riassume tutto ciò che fonda l’unità della chiesa.<br />
403
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
dal suo Figlio: assunzione che, compiuta nel Cristo, è applicata alle persone dai sacramenti dell’in-<br />
corporazione che sono il battesimo e l’eucaristia. Questa unità deve crescere sino alla perfezione e-<br />
scatologica (cfr. 1Cor 15,28), di cui l’unità attuale è non solo promessa, caparra, ma già inizio del<br />
definitivo. A servizio di questa unità “spirituale” il Cristo ha “istituito” quei mezzi che sono la con-<br />
fessione di fede, i sacramenti e l’autorità pastorale che regola la vita sociale dei cristiani. Tra il mez-<br />
zo e la realtà di grazia che il Cristo vuole procurare o alimentare si dà omogeneità e continuità (as-<br />
sicurata dalla identità del principio, che avendo istituito o garantito il mezzo, opera per tal mezzo<br />
ciò di cui egli sarà per sempre la sorgente), ma anche uno scarto: nella condizione terrena l’ideale è<br />
di avere una unità sia a livello dei mezzi esterni sia a livello di grazia, ma il carattere dialettico della<br />
condizione terrena comporta anche la possibilità di una disgiunzione fra i due livelli, al punto che è<br />
possibile conformarsi ai mezzi senza entrare nella vita profonda di cui essi sono gli strumenti, come<br />
pure raggiungere quella vita ignorando i mezzi istituiti per procurarla. Per questo si è potuto svilup-<br />
pare un concetto solo giuridico o solo spirituale della Chiesa, isolando ciò che invece dovrebbe es-<br />
sere congiunto pur nella distinzione (cfr. LG 8).<br />
L’<strong>ecclesiologia</strong> ha tradizionalmente riassunto gli strumenti che esprimono e manifestano visibil-<br />
mente l’unità della Chiesa richiamandosi a At 2,42: «Essi erano assidui all’insegnamento degli apo-<br />
stoli, fedeli alla comunione fraterna, alla frazione del pane e alle preghiere».<br />
L’intero testo di At 2,42-47 è articolato sulla nozione di κοινωνία quale tratto distintivo della vita<br />
comunitaria basata sull’insegnamento degli apostoli, manifestata nella condivisione dei beni e nella<br />
partecipazione unanime al culto del tempio e nella frazione del pane. In questa prospettiva l’unità<br />
della Chiesa implica la triplice comunione: nella professione della medesima fede, nella comune<br />
partecipazione del culto divino e partecipazione agli stessi mezzi di salvezza, nella fraterna concor-<br />
dia della famiglia di Dio e nella comunione di vita ecclesiastica. Essa si configura, dunque come u-<br />
nità di fede, di culto e sacramenti e di vita sociale. Questa triade talora viene indicata come vincu-<br />
lum symbolicum, vinculum liturgicum e vinculum sociale o hierarchicum.<br />
Questi tre vincoli della professione della fede, dei sacramenti, del regime ecclesiastico e della co-<br />
munione (LG 14 e UR 2) formano un tutt’uno e non possono separarsi l’uno dall’altro. Isolarli sa-<br />
rebbe deleterio. L’unità della fede si celebra nei sacramenti, essendo la liturgia culmine e fonte della<br />
vita cristiana. L’unità sociale nella Chiesa, poi, è fruttuosa solo se vissuta come risposta all’eterno<br />
amore che la Parola annuncia e la fede accoglie e che il sacramento rende presente nella storia.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
3.4.3. Credo la chiesa santa<br />
“Santa” è stato il primo attributo che si aggiunse alla parola “chiesa”. Lo troviamo all’inizio del II<br />
sec. nella formula di saluto della lettera di Ignazio di Antiochia ai Trallensi, in quella del Martyrium<br />
Polycarpi, poi tre volte nel Pastore di Erma. La lettera detta degli Apostoli, composta in Asia Mino-<br />
re verso il 160-170, menziona la santa chiesa fra i cinque articoli simboleggiati dai cinque pani di<br />
Mc 6,38 (DzH 1). Non c’è dubbio che l’attributo “santa” fosse applicato a “chiesa” nel simbolo bat-<br />
tesimale romano, almeno nei primi anni del III secolo (cfr. DzH 10). Nautin suggerisce che la for-<br />
mula introdotta da Ippolito era: «Credi allo Spirito santo nella santa chiesa?». Il nostro attributo si<br />
trova nel simbolo battesimale di Gerusalemme verso il 348 (DzH 41); in quello di S. Epifanio (DzH<br />
42); ed è entrato in quello di Nicea nella forma completata a Costantinopoli nel 381 (DzH 150).<br />
Nei testi del concilio Vaticano II troviamo che la chiesa è confessata essere «adornata di vera santi-<br />
tà, anche se imperfetta» (LG 48). Il fatto che la Chiesa in questo mondo sia «adornata di vera santi-<br />
tà» è vista come una conseguenza della sua «indole escatologica» (cap. VII). Mentre il fatto che la<br />
sua santità sia «imperfetta» consegue dal suo essere «Chiesa pellegrinante» (LG 48).<br />
Un’altra affermazione chiave del Vaticano II circa la santità della Chiesa si trova nel paragrafo in-<br />
troduttivo del cap. V di LG, che dice: «La chiesa, di cui il santo sinodo sta proponendo il mistero, è<br />
creduta indefettibilmente santa» (LG 39). Dunque il mistero della Chiesa, che è pure il mistero della<br />
sua santità, consiste in ciò che essa, in quanto è un popolo, formata di persone reali, è inevitabil-<br />
mente segnata dal peccato, ma, in quanto popolo di Dio, non può venir meno nella sua santità.<br />
a) Il senso biblico della santità<br />
A) Antico Testamento: La nozione cristiana di santità è derivata dalla Scrittura, nella quale Dio solo<br />
è riconosciuto come il vero Unico Santo; nella quale l’affermazione principale sulla santità di Dio è<br />
il grido dei serafini della visione di Isaia: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti» (Is 6,3); e<br />
nella quale la definizione data da Dio di se stesso è vista nel comando: «Voi sarete santi, perché io,<br />
il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv 19,2). La santità di Dio è ciò che lo fa essere Dio e lo diffe-<br />
renzia da ogni altra realtà esistente. Ne consegue che essere santo, per qualsiasi creatura, significa<br />
attingere, in qualche modo, la propria santità da Dio. Una persona o una cosa può essere santa solo<br />
in quanto viene santificata da Dio e per Dio. È Dio che santifica le creature, separandole da tutto il<br />
profano, o comunque non associato a Dio, e facendole entrare in qualche modo in relazione con lui<br />
stesso, e rendendole partecipi della sua santità. La nozione biblica di santità, dunque, implica un<br />
«essere separati» da ciò che non è Dio, così da appartenere in modo speciale a lui.<br />
405
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Perciò, pur sapendo che Dio è l’«Unico Santo», la Bibbia non esita a parlare di tempio santo, di as-<br />
semblea santa, di terra santa, di comandamenti santi. Tutte queste cose sono sante, ma solo in quan-<br />
to e per quanto Dio le santifica. Così la santità del popolo è dovuta all’iniziativa di Dio: «Tu infatti<br />
sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo<br />
privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra» (Dt 7,6). Il tempio e il sacerdote sono santi perché<br />
sono stati separati e consacrati al servizio e al culto di Dio; così Dio ha pure separato il suo popolo<br />
eletto per farlo diventare «un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,6).<br />
L’iniziativa viene sempre da Dio, ma esige una risposta dal popolo: «Il Signore disse ancora a Mo-<br />
sè: “Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vo-<br />
stro, sono santo. Ognuno rispetti sua madre e suo padre e osservi i miei sabati. Io sono il Signore,<br />
vostro Dio. Non rivolgetevi agli idoli, e non fatevi divinità di metallo fuso. Io sono il Signore, vo-<br />
stro Dio”» (Lv 19,1-4). La santità biblica, allora, è un dono dato da Dio, ma è anche un comanda-<br />
mento da rispettare; è un indicativo: «Voi siete santi», ma è anche un imperativo: «Voi sarete santi».<br />
B) Nuovo Testamento: ciò che è detto del popolo di Israele nel Nuovo Testamento è trasferito alla<br />
chiesa, mediante un riferimento alle realtà nuove che costituiscono precisamente il popolo di Dio<br />
nella sua novità: il Cristo e lo Spirito santo in quanto comunicato. Il Cristo infatti è santo, avendo la<br />
sua esistenza dallo Spirito santo (Lc 1,35; Mt 1,18.20) e in seguito alla sua consacrazione al ministe-<br />
ro da una nuova manifestazione celeste e dallo Spirito santo (Lc 3,22 e par.). Gesù è il “santo di Di-<br />
o” (Mc 1,24, Lc 1,35; 3, 34; Gv 6,69; At 3,14; 4,27.30; 1Gv 2,20; Ap 3,7).<br />
Per questo egli diventa l’origine e il centro di un nuovo popolo consacrato e santo. Ciò che è stato<br />
realizzato per noi nel Cristo ci è comunicato dallo Spirito santo (2Cor 13,13; Rm 5,5) a partire da un<br />
battesimo di Spirito santo (At 1,5; 2,38; 1Cor 12,13; Mt 3,11; Mc 1,8; Lc 3,16; Gv 1,33). Tutti i<br />
membri della comunità meritano perciò il nome di “santi” (prima i fedeli di Palestina: At<br />
9,13.32.41; Rm 15,26.31; 1Cor 15,1.15; 2Cor 8,4; 9,1.12; poi quelli di tutte le chiese: Rm 8,27;<br />
12,13; 16,2.15; 1Cor 6,1ss; 14,33; 2Cor 13,12; Ef 1,15; 3,18; 4,12; 6,8; Fil 4,21ss; Col 1,4; 1Tim<br />
5,10; Filem 5.7; Eb 6,10; 13,24; Gd 3). La santità è quindi un dono («santificati») e un compito<br />
(«chiamati ad essere santi»), come dice chiaramente Paolo in 1Cor 1,2: «alla Chiesa di Dio che è in<br />
Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi».<br />
b) I vari sensi nei quali si distingue la santità della chiesa<br />
Il Vaticano II ha precisato che la Chiesa è una «realtà complessa» (LG 8). Nessuna sorpresa, dun-<br />
que, se troviamo che pure la sua santità è complessa e che, allo scopo di darne un’adeguata spiega-<br />
zione, dobbiamo distinguere vari aspetti di questa santità, in relazione ai diversi aspetti della Chiesa<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
stessa. Seguendo il suggerimento di Francis A. Sullivan 16 , distinguiamo tre modi in cui la Chiesa è<br />
santa: primo, con l’oggettiva, efficace santità dei suoi elementi formali; secondo, con una santità di<br />
consacrazione quale popolo sacerdotale; e terzo, con una santità di grazia e virtù.<br />
(I) La Chiesa è santa a motivo della santità dei suoi elementi formali<br />
La Chiesa è giustamente definita popolo di Dio, e ciò significa che essa è composta da un certo nu-<br />
mero di uomini, donne e bambini. Ma la Chiesa non è una banale massa di gente; ciò che fa essere<br />
Chiesa cristiana una moltitudine di persone è il fatto che esse condividono la fede cristiana, sono<br />
battezzate, si riuniscono per celebrare l’Eucaristia e riconoscono alcune persone quali propri pastori.<br />
Una Chiesa cristiana è un popolo strutturato: strutturato da elementi formali costitutivi, quali la fe-<br />
de cristiana, i sacramenti, e i doni carismatici e gerarchici che rendono le persone idonee per il mini-<br />
stero. Quando diciamo che la Chiesa deve la sua istituzione a Cristo, intendiamo dire che questi e-<br />
lementi formali non sono solo un prodotto dell’ingegno umano; piuttosto, essi sono il frutto del mi-<br />
nistero di Cristo, della sua passione, morte e risurrezione, e della discesa dello Spirito Santo. Questi<br />
sono i doni che Cristo ha concesso alla sua Chiesa per renderla uno strumento efficace di grazia e di<br />
salvezza. Essi costituiscono «la santità della Chiesa» (Memoria e riconciliazione, 3.2).<br />
Con ciò intendiamo dire che la Chiesa è santa in ragione dell’oggettiva, efficace santità di questi e-<br />
lementi formali. Tali cose — la parola di Dio, i sacramenti, i carismi che apprestano le persone al<br />
ministero — sono sante in se stesse, perché sono doni di Cristo e derivano da lui la propria santità.<br />
Esse sono oggettivamente sante, in quanto la loro santità non dipende dalla santità soggettiva della<br />
persona che predica la parola o amministra i sacramenti. E sono efficacemente sante in quanto sono<br />
i doni per mezzo dei quali la Chiesa viene abilitata a collaborare con lo Spirito Santo<br />
nell’edificazione di un popolo santo per il Signore. La parola di Dio resta santa anche se il predica-<br />
tore o l’ascoltatore non lo sono. I sacramenti sono santi anche se una persona può amministrarli o<br />
riceverli indegnamente. In questo senso essi godono di una indefettibile santità, che la peccaminosi-<br />
tà umana non può diminuire, né distruggere. E poiché questi elementi formali sono costitutivi della<br />
Chiesa, la Chiesa stessa è indefettibilmente santa. Tale indefettibile santità caratterizza la Chiesa<br />
proprio come sacramento di salvezza costituito da Dio, perché i suoi elementi formali la rendono<br />
capace di essere uno strumento efficace della grazia e della santità nel mondo.<br />
16 F.A. SULLIVAN, Noi crediamo la Chiesa. Lineamenti di <strong>ecclesiologia</strong> sistematica (Casale Monferrato – Al.: Piemme,<br />
1990) 74ss. Cfr. pure COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del<br />
passato (Città del Vaticano: LEV, 2000) n. 3.2.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Ma naturalmente la Chiesa non consiste solo dei suoi elementi formali. Sebbene si possa dire con<br />
S. Tommaso che la Chiesa è costituita da fede e sacramenti 17 , essa non si compone solo di questi,<br />
ma piuttosto di persone che vengono costituite in una Chiesa, da fede e sacramenti. Perché la Chiesa<br />
sia santa non basta che i suoi elementi formali siano santi; essa deve essere un popolo santo: «Alla<br />
santità della chiesa deve corrispondere la santità nella chiesa» (Memoria e riconciliazione, 3.2).<br />
(II) Santità di consacrazione<br />
Come si è visto, il concetto biblico di santità implica una segregazione, in modo tale da essere più<br />
strettamente uniti a Dio. Una simile santità viene attribuita a persone e a cose separate e dedicate al<br />
culto divino, quali il tempio, il suo altare e le sue suppellettili, e soprattutto i sacerdoti che offrono<br />
preghiere e sacrifici a Dio a favore del popolo. Questa è la santità di consacrazione: una santità che<br />
segna una persona per il fatto di essere chiamata e separata per il ministero sacerdotale. Essa esige<br />
pure la santità personale di vita da parte di chi è così intimamente coinvolto nel culto del Dio santo.<br />
Ma la santità di consacrazione non dipende o consiste nella virtù personale; risulta piuttosto dal fat-<br />
to che la persona è stata separata, unta, e «resa sacra» (consacrata) per il culto e il servizio di Dio.<br />
La Bibbia attribuisce una tale santità sacerdotale non solo a certi individui, come Aronne, ma<br />
all’intero popolo di Israele. Così, attraverso Mosè, Dio dice al suo popolo: «Ora, se vorrete ascoltare<br />
la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia<br />
è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,5-6). Ugualmen-<br />
te, nel libro del profeta Isaia, si promette: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del<br />
nostro Dio sarete detti» (Is 61,6).<br />
Gli autori del NT attribuiscono alla Chiesa tutti quei termini che avevano definito la santità del po-<br />
polo di Dio dell’AT, inclusa la santità di consacrazione al servizio sacerdotale di Dio. Perciò la 1Pt<br />
esorta i suoi lettori dicendo: «Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un<br />
edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di<br />
Gesù Cristo». Un poco più oltre egli li definisce «La stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione<br />
santa, il popolo che Dio si è acquistato» (1Pt 2,5.9; cfr. Ap 1,5-6; 5,9-10). Tradizionalmente si dice<br />
che il sacerdozio di tutti i fedeli, conferito per mezzo del battesimo e della cresima, è una partecipa-<br />
zione all’unico sacerdozio di Cristo (LG 10b). L’associazione al sacerdozio di Cristo è un’ulteriore<br />
aspetto della santità di consacrazione, assicurata dai sacramenti dell’iniziazione cristiana.<br />
17 S. Th., III, q. 64, a. 2, ad 3.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
La teologia cattolica tradizionale intende la partecipazione al sacerdozio di Cristo come qualcosa<br />
che caratterizza i battezzati in modo permanente. A differenza del dono della grazia santificante e<br />
dell’inabitazione dello Spirito Santo, essa non viene perduta da una persona che commette un pec-<br />
cato grave. Si tratta di un «carattere» o di un «segno spirituale» che distingue i battezzati come per-<br />
sone consacrate a Cristo e partecipanti al suo sacerdozio. Essi mantengono la santità di consacrazio-<br />
ne, nonostante qualche possibile infedeltà alla loro vocazione.<br />
Poiché la Chiesa si compone di battezzati credenti in Cristo, l’intera Chiesa è contrassegnata dalla<br />
santità di consacrazione quale popolo sacerdotale. Quindi, questa è una santità indefettibile del-<br />
l’intera Chiesa. Superfluo a dirsi, essa esige la risposta personale di un santo tenore di vita. Ma che i<br />
singoli cristiani vivano nella fedeltà alla loro vocazione oppure no, tutta la Chiesa rimane sempre un<br />
popolo consacrato al culto di Dio, un «tempio spirituale e un sacerdozio santo». In questo senso, al-<br />
lora, la Chiesa è indefettibilmente santa, quale popolo sacerdotale.<br />
(III) Santità di grazia e di virtù<br />
Sebbene la santità sia sempre dovuta all’iniziativa di Dio, e sia suo dono, essa richiede pure una ri-<br />
sposta da parte di coloro che sono chiamati ad una più stretta relazione con Dio: è loro dovere vive-<br />
re coerentemente con la propria chiamata a condurre una vita santa. Come si esprime S. Paolo<br />
all’inizio della sua prima lettera ai Corinzi, i cristiani sono stati «santificati in Cristo Gesù», ma an-<br />
che «chiamati ad essere santi».<br />
Sinteticamente possiamo dire che la santità consiste nell’osservanza dei due grandi comandamenti:<br />
l’amore verso Dio e l’amore del prossimo. In realtà, tale amore è in primo luogo un dono concesso<br />
nel battesimo. S. Paolo lo interpreta così: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mez-<br />
zo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). L’inabitante presenza dello Spirito Santo è in-<br />
separabile dalla capacità soprannaturale di amare Dio e il nostro prossimo, che è frutto della virtù<br />
infusa della carità. È altrettanto inseparabile dalla libertà da ogni peccato grave, nonché<br />
dall’amicizia con Dio, che si intende con l’espressione «essere in stato di grazia».<br />
La santità, allora, riguarda «il camminare nella carità» (Ef 5,2). Tutta la crescita in santità interessa<br />
l’impegno per «la perfezione della carità». D’altra parte, è un fatto che noi commettiamo peccati,<br />
tanto che ogni giorno dobbiamo elevare una preghiera per il perdono dei nostri peccati. Anche se la<br />
convinzione cattolica ritiene che il peccato «veniale» non ci priva della santità dello «stato di gra-<br />
zia» e del possesso dello Spirito Santo che mantiene in noi la virtù infusa della carità.<br />
È importante riconoscere il fatto che chiunque è dimora dello Spirito Santo è una persona santa, è<br />
davvero un «santo» nel senso in cui S. Paolo usa questo termine. Al tempo stesso, ricordiamo che il<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
concilio parla di certi cristiani, i quali «rimangono sì in seno alla Chiesa col “corpo”, ma non col<br />
“cuore”» (cfr. LG 14): sono quelli che vivono impenitenti nello stato di peccato grave. Secondo<br />
l’insegnamento cattolico, rimanere in un tale stato priva la persona dell’inabitante presenza dello<br />
Spirito Santo, e perciò della santità di grazia e carità. Ma, come stabilisce il testo conciliare, i catto-<br />
lici privi di tale santità possono rimanere ugualmente incorporati alla Chiesa, a meno che il loro<br />
peccato non comporti il rifiuto della fede cristiana o della comunione con la Chiesa. In conseguenza<br />
di ciò, secondo LG 14, si debbono distinguere due tipi di cattolici: quelli «in possesso dello Spirito<br />
di Cristo» che sono pienamente incorporati nella Chiesa; e quelli che «non perseverando nella cari-<br />
tà», rimangono nella Chiesa ma non ne sono pienamente membri. Questi ultimi mantengono la san-<br />
tità del carattere battesimale, ma non hanno più la santità della grazia santificante.<br />
Qual è la conseguenza di questa situazione per la santità della Chiesa? Se la Chiesa è realmente il<br />
popolo di Dio, la sua santità non può essere indipendente da quella degli uomini e delle donne che<br />
ne fanno parte. La conclusione è inevitabile: come la santità di chi vive in stato di grazia torna a<br />
vantaggio della santità della Chiesa, così la peccaminosità dei suoi membri deve pure diminuire la<br />
santità del popolo di cui essi restano parte. Presumibilmente il concilio aveva in mente proprio que-<br />
sto quando affermava che su questa terra la Chiesa è segnata da una santità imperfetta.<br />
Al tempo stesso il concilio definisce la Chiesa come indefettibilmente santa (LG 39). Sembra ovvio<br />
che con «indefettibilmente» i Padri conciliari non intendono dire «perfettamente». L’indefettibile<br />
santità non è tale da escludere ogni difetto o imperfezione, ma esclude la perdita della santità, la<br />
possibilità che la Chiesa un giorno cessi di essere veramente santa.<br />
La questione che ora dobbiamo prendere in considerazione è se la Chiesa può essere detta indefetti-<br />
bilmente santa non solo nei suoi elementi formali e nella sua consacrazione sacerdotale, ma anche<br />
per la santità di grazia e carità. In altre parole, dobbiamo chiederci se c’è una garanzia che la Chiesa<br />
sarà sempre un popolo santo, un popolo «che cammina nell’amore».<br />
Il problema è che nessun membro individuale della Chiesa è indefettibilmente santo in questo senso.<br />
I battezzati non possono perdere la santità della loro partecipazione del sacerdozio di Cristo, ma<br />
possono mancare nella perseveranza nella carità e quindi perdere la santità della grazia santificante e<br />
l’inabitazione dello Spirito Santo. Nessun singolo cristiano ha la garanzia di perseverare nella carità.<br />
Il problema, dunque, è questo: possiamo dire della Chiesa qualcosa che non possiamo riferire a cia-<br />
scun singolo membro di essa? Possiamo affermare che, anche se nessun singolo membro è indefet-<br />
tibilmente santo, la Chiesa invece sì? Che, se ogni membro ha la possibilità di venir meno nella per-<br />
severanza nella carità, la Chiesa invece no? E che, se un individuo può non essere più tempio dello<br />
Spirito Santo, lo stesso non può invece accadere alla Chiesa?<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Queste domande sembrerebbero esigere una risposta positiva. Infatti sembra assurdo pensare che la<br />
Chiesa di Cristo possa perdere il dono dello Spirito di Cristo risorto. Ma ci chiediamo: è possibile<br />
affermare qualcosa del popolo di Dio che non si può affermare di nessuno dei suoi membri?<br />
Per rispondere alla questione, è utile richiamare alla mente ciò che S. Tommaso diceva a proposito<br />
della fede della Chiesa, utilizzando il termine «fede» per indicare non ciò che la Chiesa crede, ma<br />
l’atteggiamento o virtù della fede. Quando parla della fede dei singoli cristiani, egli distingue tra la<br />
fede «formata dalla carità» e la fede «non formata»; quest’ultima è il tipo di fede che può rimanere<br />
anche quando una persona ha perduto la virtù della carità per un peccato grave. Di nessun membro<br />
della Chiesa si può dire che la sua fede sarà sempre formata dalla carità; difatti non sarebbe realisti-<br />
co pretendere che in ogni momento la fede di tutti i membri della Chiesa sia formata dalla carità.<br />
Nondimeno, S. Tommaso asserisce nettamente che la fede della Chiesa è formata dalla carità 18 . Ci si<br />
potrebbe chiedere se nel dirlo egli stava pensando alla Chiesa come ad una «mistica persona» distin-<br />
ta dallo storico, concreto popolo di Dio. Dalla spiegazione che ne dà, è evidente che questo non<br />
rientrava nelle sue intenzioni. A suo avviso, la ragione per cui la fede della Chiesa risulta formata<br />
dalla carità è che essa viene posseduta da quelli che appartengono alla Chiesa «per numero e per<br />
merito». Questa frase necessita di qualche spiegazione. Appartenere alla Chiesa solo per numero si-<br />
gnifica essere annoverati tra i suoi membri, ma mancare della carità. Appartenere «per merito» è vi-<br />
vere la vita di grazia. Sono i membri di questo genere quelli la cui fede è formata dalla carità. Si può<br />
notare che, pur con una terminologia differente, S. Tommaso sta facendo la stessa distinzione del<br />
Vaticano II tra quei cattolici che «avendo lo Spirito Santo», sono pienamente incorporati alla Chie-<br />
sa; e quegli altri che, non avendo perseverato nella carità, non sono perciò pienamente incorporati,<br />
mancando il fondamentale vincolo della comunione spirituale con la Chiesa (LG 14).<br />
Alla luce della spiegazione fornita da S. Tommaso per affermare che la fede della Chiesa è formata<br />
dalla carità, possiamo tirare due conclusioni sul suo pensiero:<br />
1. la Chiesa si identifica con la «comunità dei fedeli», e la fede della Chiesa è la fede di questo con-<br />
creto popolo, non di una qualche mistica persona;<br />
2. è corretto predicare della Chiesa ciò che è attualmente vero di quelli che stanno realmente viven-<br />
do la vita di lei, o, come dice il Vaticano II, dei suoi membri pienamente incorporati.<br />
La «fede formata dalla carità» è giustamente vista come un attributo della Chiesa, perché si può giu-<br />
stamente caratterizzare un corpo organico per le qualità di chi ne fa pienamente parte. In altre paro-<br />
18 S. Th., II-II, q. 1, a. 9, ad 3.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
le, per definire la Chiesa come una comunità di fede viva, non è necessario che ogni singola persona<br />
che le appartiene abbia una fede viva; è sufficiente che chi è suo membro in modo pieno, abbia tale<br />
fede. Poiché avere una fede formata dalla carità è l’essenza di ciò che significa essere santi, appli-<br />
cando il pensiero di S. Tommaso alla nostra questione, siamo in grado di affermare che la Chiesa<br />
può essere chiamata «popolo santo», perché quanti sono pienamente incorporati in lei sono santi.<br />
Affermare che la Chiesa è «indefettibilmente santa», allora, vuol dire che essa non può mai cessare<br />
di essere un «popolo santo» e che perciò non le mancheranno mai membri pienamente incorporati<br />
che vivono la vita di grazia e carità. Non sembra indispensabile che tali membri costituiscano sem-<br />
pre e necessariamente la maggioranza numerica della Chiesa. S. Tommaso non dice nulla che lasci<br />
presumere una cosa del genere. Tuttavia, per parlare realisticamente della Chiesa come «popolo san-<br />
to», sembra necessario che quanti vivono effettivamente una vita santa, costituiscano una parte con-<br />
siderevole del tutto. Quale sia esattamente questa parte, pare una domanda senza risposta.<br />
Comunque rimane ancora in piedi una questione importante. Abbiamo detto che la Chiesa, per esse-<br />
re un popolo indefettibilmente santo, dovrebbe essere costituita, in proporzione adeguata, di membri<br />
che, pienamente incorporati, abbiano una fede formata dalla carità. La domanda è: quali motivi ab-<br />
biamo per credere che la Chiesa non cesserà mai di essere un tale popolo santo?<br />
c) La causa della santità indefettibile della chiesa<br />
Le ragioni di tale convinzione sono succintamente riportate all’inizio del capitolo della Lumen gen-<br />
tium sull’universale vocazione alla santità: «La Chiesa, il cui mistero è esposto nel sacro Concilio, è<br />
per fede creduta indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è<br />
proclamato “il solo Santo”, amò la sua Chiesa come sua sposa e diede se stesso per essa, al fine di<br />
santificarla (cfr. Ef 5,25-26) e la congiunse a sé come suo corpo, e l’ha riempita col dono dello Spi-<br />
rito Santo, per la gloria di Dio» (LG 39). Sulla scorta di questo testo, possiamo distinguere almeno<br />
tre ragioni per la nostra fiducia che la Chiesa di Cristo non cesserà mai di essere un popolo santo:<br />
1. perché la sua santità è il frutto del sacrificio escatologico di Cristo: diversamente le potenze del<br />
male avrebbero prevalso sull’opera di Gesù Cristo;<br />
2. perché Cristo ha unito indissolubilmente a sé la sua Chiesa come sua sposa: la nuova alleanza è<br />
definitiva;<br />
3. perché Cristo ha dotato il suo corpo con lo stabile dono dello Spirito Santo: lo Spirito Santo non<br />
può abbandonare la Chiesa o dimorare in essa senza realmente causare la santità del popolo.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
d) La santa chiesa è anche “peccatrice”?<br />
A questa questione sono state offerte diverse soluzioni: alcuni, infatti, distinguono la santità della<br />
Chiesa dalla situazione personale dei suoi membri (questi ne fanno parte solo nella misura in cui<br />
sono santi) e parlano di una «Sancta Ecclesia sanctorum»; altri, invece, ritengono che il peccato in<br />
qualche modo entri nella Chiesa e parlano allora di una «Sancta Ecclesia peccatorum»; altri, infine,<br />
pensano che si possa considerare la Chiesa come «Sancta et peccatrix».<br />
(I) Sancta Ecclesia sanctorum<br />
Il teologo Charles Journet, nella sua vastissima opera ecclesiologica 19 , ha posto i fondamenti di que-<br />
sta linea, seguita poi da molti altri.<br />
Egli riconosce che i peccatori appartengono in qualche maniera alla Chiesa, ma vi appartengono<br />
precisamente non in quanto peccatori, bensì nella misura della loro santità 20 . È possibile arrivare, a<br />
suo parere, a due definizioni di Chiesa tra esse incompatibili 21 . Se definiamo la Chiesa dal punto di<br />
vista materiale, allora dobbiamo dire che la Chiesa non è pura e santa, ma peccatrice e che perfino<br />
Cristo stesso (essendo in quanto «Cristo totale» capo e corpo insieme) pecca nelle sue membra pec-<br />
catrici; se invece la definiamo formalmente, come deve essere, allora diciamo che comprende nume-<br />
rosi peccatori ma essa stessa non pecca. Infatti è formata da quella parte di noi che è santa: «le sue<br />
frontiere proprie, precise e vere, non circoscrivono che ciò che è puro e buono nei suoi membri, giu-<br />
sti e peccatori, prendendo al suo interno tutto ciò che è santo, persino nei peccatori, lasciando al di<br />
fuori tutto ciò che è impuro, persino nei giusti» 22 . I confini tra Chiesa e mondo, dunque, passano<br />
all’interno di ogni battezzato: «è proprio nel nostro comportamento, nella nostra vita, nel nostro<br />
cuore che si affrontano la Chiesa e il mondo, il Cristo e Belial, la luce e le tenebre» 23 . Non basta di-<br />
re, quindi, che la Chiesa è santa nel suo principio (Cristo Capo) o nei suoi mezzi (dottrina, sacra-<br />
menti, ministeri): occorre dire che essa è santa in se stessa e nei suoi membri. È la tesi della «Chiesa<br />
19 C. JOURNET, L’Église du Verbe incarné. Essai de théologie spéculative. II. Sa structure interne et son unité catholique<br />
(Paris: Desclée de Brouwer, 1951). Per il nostro tema si veda anche ID., La cause finale et la sainteté de l’Église, in<br />
Nova et Vetera 60 (1985) 185-216.<br />
20 «La Chiesa, pur comprendendo una moltitudine di peccatori, che le appartengono corporalmente, nondimeno è senza<br />
peccato»: (L’Église du Verbe incarné, p. 903). «Invece di dire, come si è fatto: Santità e peccato nella Chiesa, noi diremmo:<br />
Santità e peccatori nella Chiesa» (Ibid., nota 4). «La Chiesa non è senza peccatori (…) Ma la Chiesa, considerata<br />
teologicamente, è senza peccato» (Ibid., p. 904). Dopo aver citato Ef 5, 25-27, che «concerne direttamente la Chiesa<br />
presente» (Ibid.), l’autore conclude: «I peccatori appartengono alla Chiesa non certo per il loro peccato, ma per i valori<br />
di santità che portano in sé e che li unisce alla Chiesa» (Ibid., p. 905).<br />
21 Cfr. Ibid., p. 911-915.<br />
22 Ibid., p. 914.<br />
23 Ibid., pp. 914-915.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
immacolata», così riassunta dallo stesso autore: «la Chiesa è santa in tutti i suoi membri per quanto<br />
essi sono suoi membri, la Chiesa è santa perché essa rende santi tutti coloro che le appartengono per<br />
quanto le appartengono» 24 . È per questo che non sembra forzato riassumere la posizione di Journet<br />
con l’espressione «Sancta Ecclesia sanctorum»: pur ammettendo una qualche appartenenza dei pec-<br />
catori alla Chiesa, infatti, essa risulta composta della sola «parte santa» dei battezzati. Ciascuno è,<br />
per così dire, sezionato verticalmente di modo che la sua parte peccatrice appartiene al mondo e<br />
quella santa va a formare la Chiesa.<br />
Come mai, si chiede poi Journet, alcuni testi della tradizione patristica e liturgica presentano una<br />
Chiesa che si pente, chiede perdono, si converte e fa penitenza? Se la Chiesa è santa, come può fare<br />
tutto questo? Egli risponde: mentre Cristo, che era senza peccato, poteva espiare ma non pentirsi né<br />
fare penitenza, la Chiesa, che è senza peccato ma ha dei figli peccatori, chiede perdono e fa peniten-<br />
za per i loro peccati e non per i suoi: «La Chiesa come persona prende quindi la responsabilità della<br />
penitenza. Essa non prende la responsabilità del peccato» 25 . Non si dovrà dunque, in questa impo-<br />
stazione, parlare di rinnovamento o riforma «della Chiesa» e neppure «nella Chiesa», bensì solo «nei<br />
membri (peccatori) della Chiesa» 26 .<br />
(II) Sancta Ecclesia peccatorum<br />
Alcuni teologi parlano esplicitamente di una «santa Chiesa di peccatori». Essi partono generalmente<br />
da una critica alle tesi di Journet, imputandogli un’<strong>ecclesiologia</strong> idealistica 27 , che considera cioè la<br />
Chiesa solo nei suoi principi formali e ne trascura la storicità e la concretezza 28 , con l’esito di una<br />
24 Ibid., p. 916. Journet respinge quella che egli chiama «definizione materiale di Chiesa perché rischia, a suo parere, il<br />
platonismo, distinguendo un cristianesimo ideale da un cristianesimo storico (cfr. Ibid.).<br />
25 Ibid., p. 907.<br />
26 La linea di Journet ha guidato o ispirato non pochi altri teologi che si sono espressi anche dopo il Vaticano II: ricordiamo<br />
almeno B. Gherardini, per il quale la Chiesa «è santa nonostante il peccato e la conseguente realtà dei peccatori;<br />
tale è infatti perché tutti i suoi figli sono “peccatori-graziati” e perché il peccato attuale che è in essa non è suo ma dei<br />
singoli peccatori che lo compiono e ai quali viene imputato, restando in tal modo ben lontano dal deturpare il volto di lei<br />
“senza ruga e senza macchia”»: B. GHERARDINI, La Chiesa arca dell’alleanza (Roma: Città Nuova, 1971) 182; cfr. A.<br />
BENI, La nostra Chiesa (Firenze: LEF, 1967) p. 224; B. MONDIN, Le nuove ecclesiologie. Un’immagine attuale della<br />
Chiesa (Roma: Paoline, 1980) pp. 324-325; ID., La Chiesa primizia del Regno (Bologna: EDB, 1986) pp. 282-283.<br />
27 Cfr. K. RAHNER, Chiesa di peccatori, in Nuovi Saggi I (Roma: Paoline, 1968) 415-441.<br />
28 «È certo inoltre che la Chiesa, per i suoi principi formali e costitutivi, è tutta pura. Ma basterà considerarla nei suoi<br />
principi formali? Essa è una realtà storica, concreta: gli uomini ne sono la materia, e sono peccatori, spiritualmente ciechi<br />
e opachi, imperfetti in mille modi» (Y. CONGAR, La Chiesa è santa, in MySal VII, 566). «La posizione dello Journet<br />
non si distacca da quella tradizionale anche se si presenta in modo più elaborato. Ci sembra, però, che tale posizione non<br />
tenga conto della Chiesa reale, della Chiesa popolo di Dio, composta, cioè da membri che sono peccatori e il cui peccato,<br />
come riconosce lo stesso Vaticano II, macchia la Chiesa stessa»: V. MONDELLO, La Chiesa del Dio trino (Napoli:<br />
Dehoniane, 1978) 473. «La Chiesa reale è una Chiesa peccatrice»: H. KÜNG, La Chiesa, op. cit., 369. Tuttavia davanti a<br />
questo spiacevole fatto si sono inventate alcune «scappatoie»: 1) la segregazione di membri santi (gnostici, novaziani,<br />
donatisti, montanisti, ecc.); 2) la distinzione tra Chiesa santa e membri peccatori; 3) la distinzione tra parte santa e parte<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
netta separazione, alla maniera nestoriana, tra elemento umano e divino nella Chiesa 29 ; a Journet,<br />
inoltre, essi rimproverano un’antropologia inadeguata: la separazione verticale tra parte santa e parte<br />
peccatrice nel battezzato non corrisponde alla visione cristiana dell’uomo peccatore nel «cuore»,<br />
cioè nel centro della sua persona, e lì raggiunto dalla grazia che giustifica 30 .<br />
peccatrice nel cristiano. Circa la seconda e la terza: «La distinzione tra la Chiesa “santa” e i membri peccatori. — Per<br />
non compromettere la santità della Chiesa si è più volte fatta distinzione tra i membri che sono peccatori e la Chiesa che<br />
resta ciononostante senza peccato. Qualunque cosa faccia il singolo cristiano, non lo fa mai per suo personale vantaggio<br />
o danno. Lo fa piuttosto, nel bene e nel male, in quanto membro pienamente responsabile della Chiesa. Nella realtà concreta<br />
non c’è una Chiesa che stia come sospesa sulla testa degli uomini (…). E questi uomini, come è stato sempre sostenuto<br />
nella Chiesa nel corso dei secoli, restano, anche come peccatori, membri della Chiesa. Non sono i peccatori, ma<br />
solo la mancanza di fede, che separa dalla comunità dei credenti» (Ibid., p. 373). «La distinzione tra la parte “santa” e<br />
quella peccatrice del cristiano — Di nuovo continua Küng: «Tutte le scappatoie qui non servono a nulla. Bisogna guardare<br />
in faccia la realtà: la Chiesa è una Chiesa di peccatori. E poiché questi peccatori sono veri membri della Chiesa,<br />
l’Ekklesía stessa ne viene gravata, il corpo stesso di Cristo ne viene macchiato, il tempio stesso dello Spirito Santo ne<br />
viene scosso e il popolo stesso di Dio ne viene ferito. La Chiesa stessa! Proprio perché la Chiesa non è una sostanza pura,<br />
idealizzata, ipostatizzata e separata da tutti gli uomini, ma è la comunione degli uomini credenti, proprio per questo<br />
— certo non per colpa di Dio, di Cristo o dello Spirito Santo, ma proprio per colpa dei suoi membri peccatori — essa è<br />
una Chiesa peccatrice» (Ibid., pp. 373-374).<br />
29 «Nell’<strong>ecclesiologia</strong> come nella cristologia, noi dobbiamo sempre evitare il duplice errore che in cristologia è stato introdotto<br />
e sempre minaccia di introdursi, del monofisismo e del nestorianesimo: sia che si assorba l’umano nel divino al<br />
punto di annientarlo, sia che si distinguano ma separandoli in modo artificioso. Infatti è troppo facile dire che la chiesa<br />
rimane immutabilmente santa nei suoi strumenti di grazia: il ministero apostolico, la predicazione della fede, la celebrazione<br />
dei sacramenti, mentre rimane peccatrice nella vita individuale dei suoi membri. L’obiezione è immediata: da una<br />
parte, che cosa sarebbe questa santità oggettiva della Chiesa se non si traducesse in una santificazione soggettiva degli<br />
uomini che ne fanno parte?; e dall’altra il ministero, la predicazione, gli stessi sacramenti, che ci offrono della grazia, la<br />
vita dello Spirito attinta alla sorgente, soltanto tramite canali essenzialmente umani, come potrebbero, nel loro esercizio,<br />
non subire nessuna influenza dal peccato degli uomini?»: L. BOUYER, La Chiesa di Dio (Assisi: Cittadella, 1971) 580<br />
581. «Alcuni pensatori idealisti crederanno di dovere al loro saggio modo di concepire la Chiesa il fatto (…) di poter<br />
distinguere tra “chiesa” sposa amata dell’Agnello e “cristiani” nella chiesa, poveri e malvagi rinunciatari (cfr. Ch. JOUR-<br />
NET, Théologie de l’Eglise, Paris 1958, 236). Con ciò, tuttavia, verrebbe introdotta una separazione tra il “corpo mistico<br />
di Cristo” e il “nuovo popolo di Dio” che condurrebbe necessariamente a una “immagine nestoriana e falsa di chiesa” e<br />
facilmente non coglierebbe la realtà della chiesa proprio come Nestorio che col suo pensiero ha distrutto la realtà del<br />
Cristo storico»: J. AUER, La Chiesa sacramento universale di salvezza (Assisi: Cittadella, 1988) 590.<br />
30 Dei peccatori «lo Journet (…) dice: in quanto sono tutto questo non sono la Chiesa; bisogna vederli come sezionati<br />
verticalmente e divisi tra la Chiesa e il mondo. Ma questo non è forse reificare un punto di vista formale? Gli uomini<br />
non sono affatto sezionati verticalmente in due; semplicemente, l’irradiamento della santità è in essi, ed è, mediante loro,<br />
per la Chiesa storica e concreta, limitato e ostacolato. Quei peccatori che noi siamo appartengono interamente alla Chiesa,<br />
ma con una vita cristiana o una santità molto imperfetta. I loro peccati come tali cadono fuori della Chiesa, ma coloro<br />
che li commettono sono nella Chiesa e vi sono nella loro qualità di peccatori, vincolati mediante la fede all’istituzione<br />
della grazia, offerti alla penitenza e alla santificazione. Quanto alla Chiesa, per sé tutta santa, pura nei suoi principi formali<br />
e tesa, per la sua logica profonda, alla purezza totale, essa è così, in virtù dei suoi membri, portata a realizzazioni<br />
storiche e concrete imperfette di quello stesso che essa è fondamentalmente e che ispira ad essere. Questa dottrina è essenzialmente<br />
quella dei padri, dei grandi scolastici e del magistero»: Y. CONGAR, La Chiesa è santa, 566. «Per non<br />
compromettere la santità della Chiesa, si è a volte diviso perfino il cristiano concreto: in quanto l’uomo è puro appartiene<br />
alla Chiesa, in quanto è peccatore non vi appartiene. Ma così si può operare solo con fantasia. L’uomo concreto si<br />
oppone invece a una tale divisione. Sarebbe certamente molto piacevole per l’uomo poter scindere con tutta semplicità il<br />
suo essere peccatore, ed essere così, almeno nella Chiesa, del tutto puro. Costituisce invece la sua miseria il fatto che<br />
egli non possa assolutamente sbarazzarsi della propria malizia e del suo lato peccatore, che in questo campo non gli è<br />
proprio possibile far conto su nessuna divisione quantitativa (…). Proprio in quanto uno è indissolubile nel suo io uno e<br />
indivisibile, anche il cristiano è un uomo peccatore. E così, in questa sua totale miserabilità, egli è membro della Chiesa»:<br />
H. KÜNG, La Chiesa, 373.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
I teologi che propongono la formula «santa Chiesa di peccatori» mettono diverse gradazioni<br />
nell’appartenenza alla Chiesa: ma non le proporzionano solamente al grado di santità del singolo fe-<br />
dele, bensì anche all’adesione agli strumenti di santità: parola di Dio, sacramenti, ministeri. Non è<br />
«una parte» (quella santa) del battezzato che appartiene interamente alla Chiesa bensì è «tutto» il<br />
battezzato che appartiene in un certo grado alla Chiesa.<br />
Viene così introdotta la distinzione tra appartenenza «piena» e «non piena» alla Chiesa; appartenen-<br />
za che si decide sulla base del criterio della santità («Spiritum Christi habentes») insieme a quello<br />
del triplice vincolo istituzionale (parola, sacramenti, gerarchia). Secondo questa visione, dunque, il<br />
peccato dei battezzati danneggia in qual modo la Chiesa e ricade su di essa, in quanto i peccatori<br />
nella loro intera persona vi appartengono in una certa misura (anche se non «pienamente»).<br />
Karl Rahner è il più noto sostenitore della «Sancta Ecclesia peccatorum» 31 . Che i peccatori appar-<br />
tengano alla Chiesa è verità di fede ribadita più volte nella storia: nell’epoca patristica contro i mon-<br />
tanisti, i novaziani e i donatisti; nell’epoca medievale contro gli albigesi, i fraticelli, Wyclif e Hus;<br />
nell’epoca moderna contro i riformatori e i giansenisti. Il motivo di fondo dell’appartenenza dei<br />
peccatori alla Chiesa tocca la struttura della Chiesa stessa: se essa fosse semplice aggregazione di<br />
uomini che hanno aderito «interiormente» al Vangelo, allora interiore sarebbe anche l’unico criterio<br />
di appartenenza; ma la Chiesa è anche visibilità, sacramentalità. Il principio interiore-invisibile va<br />
dunque composto con un’adesione alla struttura esterna-visibile (il triplice vincolo). È vero, però —<br />
riconosce Rahner — che il peccatore appartiene alla Chiesa in misura minore rispetto al giusto; il<br />
peccatore, non possedendo lo Spirito, non appartiene interamente alla Chiesa, poiché non è in co-<br />
munione con la sua dimensione invisibile. Non c’è contraddizione tra le due affermazioni, perché la<br />
Chiesa è sia comunità visibile, che comunità animata dallo Spirito. Come nel sacramento si distin-<br />
gue la validità dalla fruttuosità, così nella Chiesa, «Ursakrament», si può distinguere un’apparte-<br />
nenza solamente «valida» da una anche «fruttuosa» 32 .<br />
31 K. RAHNER, La Chiesa peccatrice nei decreti del Vaticano II, in Nuovi Saggi, vol. I (Roma: Paoline, 1968) pp. 443-<br />
478; ID., Il peccato nella Chiesa, in G. BARAUNA, ed., La Chiesa del Vaticano II (Firenze: Vallecchi, 1965) 419-435.<br />
32 Y. Congar (nell’articolo citato) sostiene una posizione molto simile a quella di Rahner. Anch’egli sottolinea che già<br />
nelle questioni montanista e donatista la Chiesa riconosceva definitivamente di essere una Chiesa di peccatori: punto<br />
confermato in seguito contro diversi tentativi di conservarla solamente come Chiesa dei santi. Ciò non ne intaccava la<br />
professione della santità, infatti: nella misura in cui è di Dio, la Chiesa è assolutamente santa. Ma essa è fatta di uomini,<br />
e per essa è essenziale includere la libera risposta che i “santi per vocazione” danno alla chiamata di Dio e alla offerta<br />
della sua grazia. Vi sono più chiamati che eletti. Esiste dunque nella Chiesa, dal punto di vista della santità, una certa<br />
dialettica tra ciò che è dato da Dio e ciò che è ricevuto e realizzato dagli uomini. Vi si può vedere un’applicazione della<br />
dialettica del già e del non ancora che costituisce lo statuto d’esistenza della Chiesa nel suo stato itinerante. Ciò introduce<br />
nella Chiesa una tensione in virtù della quale essa deve tendere senza tregua a essere adeguata al dono di Dio. Questo<br />
dono è già fatto ed è assicurato alla Chiesa in virtù della fedeltà di Dio alla sua alleanza. Anche L. Bouyer riconosce<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
(III) Sancta et peccatrix Ecclesia<br />
Tutti i teologi che applicano l’appellativo di «peccatrice» alla Chiesa ammettono, ovviamente, an-<br />
che l’espressione «santa Chiesa di peccatori», ma non viceversa. Infatti alcuni di coloro che parlano<br />
di «sancta Ecclesia peccatorum» non intendono spingersi a dire «sancta et peccatrix Ecclesia».<br />
L. Bouyer, per esempio, alla domanda se «si possa e si debba dire che la Chiesa è peccatrice e che è<br />
santa» — dopo aver notato che «in reazione contro un atteggiamento senza dubbio troppo idealista,<br />
che accettava di vedere nella Chiesa soltanto la santità del Cristo presente in lei, molti sono tentati, e<br />
più che tentati, di ammetterlo» — risponde che la trasposizione diretta dell’aggettivo «peccatrice»<br />
dall’anima del battezzato alla Chiesa non tiene conto di un fatto «di capitale importanza: mentre o-<br />
gni individuo cristiano, fin quando è terminata la prova della sua vita terrestre», può «alla fine per-<br />
dersi, la Chiesa è sicura di giungere alla vita eterna. Essa è indefettibile» 33 .<br />
Altri sostenitori della «Ecclesia peccatorum» non hanno, invece, alcuna difficoltà a parlare anche di<br />
«Ecclesia peccatrix» 34 . Tra questi in primo luogo K. Rahner, che considera in fondo coestensive le<br />
due espressioni. Se la Chiesa è «santa» nella sua verità più profonda (Rahner accetta e ricorda sia la<br />
santità oggettiva che quella soggettiva), essa è però anche «peccatrice» perché — se e vero che la<br />
Chiesa come «sacramento» ha anche una dimensione umana-visibile — i peccati dei suoi membri<br />
non sono indifferenti ad essa. Santa e peccatrice insieme, la Chiesa non è però l’una e l’altra cosa<br />
allo stesso modo e nello stesso senso: la santità, infatti, corrisponde a ciò che essa è e rimarrà nel<br />
che la Chiesa è una Chiesa di peccatori, certo in via di santificazione, ma ben lontana dall’averla pienamente e definitivamente<br />
raggiunta. Ovviamente, continua Bouyer, la Chiesa è per sempre santa sia nel senso oggettivo (presenza di Cristo<br />
attraverso i sacramenti, la parola, il ministero) sia nel senso soggettivo (frutti effettivi di santità personale): tuttavia la<br />
chiesa resta sempre e resterà sempre macchiata, fino all’ultimo giorno, dagli innumerevoli peccati dei suoi ministri e dei<br />
suoi fedeli, anzi tradita dalla defezione, sempre possibile, non soltanto di tutti i suoi membri individualmente, intesi uno<br />
ad uno, ma di tutte le Chiese particolari, prese una ad una, senza le quali essa non esiste. Di qui deriva alla Chiesa la necessità<br />
di lottare contro il peccato, non soltanto come un male estraneo ad essa, che sia soltanto del mondo e nel mondo,<br />
ma soprattutto come un male che non cessa di portare in sé: il male della sua “carne” non ancora trasfigurata dallo Spirito<br />
della risurrezione. Per questo si può dire con verità: «Ecclesia semper reformanda».<br />
33 L. BOUYER, La Chiesa di Dio, op. cit., 575-576.<br />
34 Per inciso ricordiamo che una volta Paolo VI ha chiamato la Chiesa peccatrice: «Sì, gli uomini che compongono la<br />
Chiesa son fatti dell’argilla d’Adamo e possono essere, e spesso lo sono, peccatori. La Chiesa è santa nelle sue strutture,<br />
e può essere peccatrice nelle sue membra umane (…); è santa e penitente insieme, è santa in se stessa, inferma negli uomini<br />
che le appartengono»: Insegnamenti di Paolo VI, III, 1071. Anche il documento della CTI Memoria e riconciliazione<br />
presenta questo tema al n. 3.4 nei seguenti termini: «La santità e il peccato nella Chiesa si riflettono dunque nei<br />
loro effetti sulla Chiesa intera, anche se è convinzione della fede che la santità sia più forte del peccato in quanto frutto<br />
della grazia divina: ne sono prova luminosa le figure dei santi, riconosciuti come modello e aiuto per tutti! Fra la grazia<br />
e il peccato non c’è un parallelismo, e neppure una sorta di simmetria o di rapporto dialettico: l’influsso del male non<br />
potrà mai vincere la forza della grazia e l’irradiazione del bene, anche il più nascosto! In questo senso la Chiesa si riconosce<br />
esistenzialmente santa nei suoi santi: mentre però si rallegra di questa santità e ne avverte il beneficio, si confessa<br />
non di meno peccatrice, non in quanto soggetto del peccato, ma in quanto assume con solidarietà materna il peso delle<br />
colpe dei suoi figli, per cooperare al loro superamento sulla via della penitenza e della novità di vita».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
profondo fino alla fine: presenza di Dio e della sua grazia nel mondo; il peccato, invece, le appartie-<br />
ne per contrasto, in quanto contraddice ciò che essa è nella sua autentica natura.<br />
Sposa interamente la posizione di Rahner H. Küng, il quale arriva a parlare della Chiesa non solo<br />
come communio sanctorum ma anche come communio peccatorum. Dopo aver criticato le visioni a<br />
suo parere inadeguate di Chiesa, che non tengono conto né della sua realtà storico-concreta né<br />
dell’impossibilità di sezionare il battezzato attribuendone la parte santa alla Chiesa e la parte pecca-<br />
trice al mondo, egli così conclude: «la Chiesa degli uomini, che è nello stesso tempo la Chiesa di<br />
Dio, scaturita dalla sua grazia, si manifesta come la comunità che, malgrado tutto ciò che di pecca-<br />
minoso è in essa, è allo stesso tempo santa, e che, malgrado tutta la sua santità, è nello stesso tempo<br />
peccatrice. Questo è l’ecclesiologico “simul iustus et peccator”: una “communio peccatorum” che,<br />
per la grazia del perdono di Dio, è realmente e autenticamente una communio sanctorum» 35 . Come<br />
Rahner, anche Küng ribadisce però che la Chiesa è «santa» e «peccatrice» a due livelli molto diversi<br />
di profondità, perché la santità appartiene alla sua vocazione autentica (ma che si compirà solo<br />
nell’eternità) e il peccato la contraddice. Di qui alla Chiesa pellegrinante deriva il dovere di una pe-<br />
renne riforma: «poiché la Chiesa è sempre fatta di uomini, e di uomini peccatori, poiché la Chiesa<br />
sarà sempre deformata dalla limitatezza e dalla peccaminosità umana, essa deve riformarsi conti-<br />
nuamente, secondo il Vangelo di Gesù Cristo, resa a ciò capace e potente dalla graziosa benevolen-<br />
za di Dio: Ecclesia semper reformanda!» 36 .<br />
(IV) Riflessioni conclusive<br />
Nelle conclusioni ci rifacciamo alla proposta di M. Kehl 37 . Egli nel considerare la Chiesa segue una<br />
duplice prospettiva: la Chiesa, infatti, è insieme per i singoli e a partire dai singoli credenti; essa<br />
dunque è tanto la Chiesa che precede i singoli e li “santifica” mediante la parola e i sacramenti, co-<br />
me pure la “Chiesa dei santi” che si edifica a partire dai singoli che sono stati santificati in questo<br />
modo. In quanto “noi” dei credenti, perciò, la Chiesa rappresenta sempre anche la forma espressiva<br />
comune, che porta il segno dei singoli credenti e della fede personale di ciascuno di loro.<br />
Poiché tuttavia i credenti sono al tempo stesso anche peccatori, cioè uomini che, nonostante il sì<br />
fondamentale testimoniato nel battesimo e nella fede, non si affidano completamente alla grazia, ma<br />
si chiudono parzialmente a essa e non le permettono di esplicare tutta la sua efficacia in una vita<br />
35 La Chiesa, op. cit., 379.<br />
36 Ibid., 390.<br />
37 M. KEHL, La Chiesa, op. cit., 387-391.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
vissuta nella fede, nella speranza e nella carità; per queste ragioni la fede così deficiente dei pecca-<br />
tori segna anche la forma comune della loro fede, appunto la Chiesa. Di conseguenza il peccato non<br />
è soltanto una realtà presente nella Chiesa, dato che i singoli sono anche peccatori, ma una realtà<br />
della Chiesa stessa, poiché essa in quanto comunità di peccatori non esiste al sicuro, al di sopra de-<br />
gli uomini concreti, ma viene deturpata dal loro peccato.<br />
Certamente il peccato dei singoli e la peccaminosità della Chiesa hanno una struttura formale diver-<br />
sa: il singolo è il soggetto personale, il “da dove” del peccato; esso ha origine dalla sua libertà. La<br />
Chiesa invece costituisce la forma oggettivata comunitaria di questa fede che è danneggiata dal pec-<br />
cato dei singoli; in essa si manifesta il “risultato” sociale del peccato dei singoli soggetti.<br />
Questo lato della Chiesa legato ai soggetti (Chiesa a partire dai singoli peccatori) non può però es-<br />
sere separato (certo però distinto!) dall’altro lato, quello per cui essa — a partire da Cristo, sua ori-<br />
gine personale, e da Maria, suo modello originario personificato — costituisce il dono precedente,<br />
santo e “oggettivo” della salvezza per i singoli. In un’unità «senza confusione e senza separazione»,<br />
la Chiesa concretamente esistente rappresenta sempre entrambi i lati. Per questo il suo essere segna-<br />
ta dal peccato a causa del peccato dei singoli riguarda anche la sua dimensione di previa condizione<br />
di possibilità per la fede; questo significa che anche i suoi doni più santi, appunto la parola e i sa-<br />
cramenti, non sono collocati al sicuro al di là degli uomini peccatori, ma sono condizionati da essi<br />
(che sia colui che li riceve o il ministro che li amministra). Perciò anche lo stesso spazio vitale pre-<br />
cedente (il “dove”) della fede può diventare per i singoli occasione di peccato personale, al modo di<br />
una struttura che inclina al peccato. Se la Chiesa come “noi” dei credenti non può esistere in forma<br />
ipostatizzata, indipendentemente dai singoli credenti, allora inevitabilmente ne deriva questa influ-<br />
enza reciproca tra il dato previo “oggettivo” e l’appropriazione “soggettiva” della fede comune, e<br />
questo non solo per quanto riguarda la santità, ma anche per il peccato. Perciò essa stessa in quanto<br />
Chiesa (e non solo ogni singolo al suo interno) deve quotidianamente invocare il perdono e il rinno-<br />
vamento (ad esempio, nel Padre nostro, nella confessione dei peccati durante la celebrazione eucari-<br />
stica, in diverse orazioni della messa e nelle intercessioni).<br />
D’altra parte, quando si parla di Chiesa santa e peccatrice, questo «e» non significa la somma di due<br />
proprietà, certamente opposte, ma che per il resto si trovano sullo stesso piano “ontologico”. Al con-<br />
trario, dove la Chiesa nei singoli credenti e nella sua struttura sociale lascia spazio all’azione santi-<br />
ficante dello Spirito di Dio, si manifesta la sua vera natura, la sua vocazione e missione ricevuta da<br />
Dio come Chiesa “santa”. Dove invece essa si chiude a questo Spirito e diviene così Chiesa pecca-<br />
trice, si manifesta in essa “soltanto” l’opposizione, che rimane presente all’interno della storia e tut-<br />
tavia è già sconfitta “in linea di principio” da Cristo e quindi in ultima analisi ridotta all’impotenza,<br />
419
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
degli uomini (come singoli e come comunità) contro la santità operata dallo Spirito. Per questo la<br />
Chiesa non è affatto il «puro paradosso di un’unità tra peccato visibile e grazia nascosta» (Rahner).<br />
La sua identità teologica propria consiste piuttosto nel fatto che essa rappresenta la risposta visibile,<br />
resa conforme al Figlio Gesù Cristo dallo Spirito Santo, all’autocomunicazione definitiva di Dio<br />
nella storia e che essa nelle sue azioni fondamentali partecipa nel modo dell’accoglienza, della ri-<br />
sposta e della sequela, all’amore incondizionatamente salvante di Gesù Cristo verso il Padre e verso<br />
gli uomini e quindi è da lui mantenuta indistruttibilmente nella santità che le è donata. Per quanto la<br />
contraddizione della Chiesa derivante dal peccato possa deformarne spesso l’identità fino a renderla<br />
irriconoscibile, la Chiesa tuttavia confida che il peccato non potrà mai prevalere sull’azione dello<br />
Spirito nella Chiesa e perciò non potrà distruggere la comunità santa di Dio.<br />
Questa certezza ultima della salvezza, d’altra parte, si riferisce solo alla Chiesa nella sua totalità e<br />
non a ogni singolo o a singoli gruppi al suo interno. Per quanto riguarda i singoli, la questione della<br />
salvezza definitiva o della perdizione, dal nostro punto di vista, rimane aperta; il loro peccato, infat-<br />
ti, può separarli in modo definitivo da Dio. Il fatto che questo non possa valere allo stesso modo per<br />
la Chiesa mostra con chiarezza che essa è più della somma dei suoi membri peccatori. Se la que-<br />
stione della salvezza anche per la Chiesa nella sua totalità rimanesse aperta, allora verrebbe meno<br />
proprio la peculiarità di questa alleanza nuova e definitiva che Dio in Gesù Cristo ha stabilito con il<br />
suo popolo (e per mezzo di esso con tutta l’umanità). In questo caso, infatti, anche questa alleanza<br />
potrebbe essere infranta e distrutta di nuovo dal peccato del popolo. Questo però significherebbe che<br />
il male otterrebbe retroattivamente la vittoria sul Cristo crocifisso e risorto e sul regno di Dio che in<br />
lui è venuto in modo definitivo. L’intero messaggio neotestamentario della salvezza di Dio escato-<br />
logica, cioè apparsa definitivamente, perderebbe di conseguenza la sua verità e la sua credibilità.<br />
Poiché tuttavia la potenza salvante di Dio, cioè il suo Spirito, rimane presente nella Chiesa (cfr. Gv<br />
14,16-18; 16,7-15; Mt 16,18; 28,20; Rm 8,34-39 e altri), possiamo confidare fiduciosamente che il<br />
peccato del popolo di Dio non è più in grado di annullare l’incondizionata volontà di salvezza di<br />
Dio. Questa fiducia trova i suoi sicuri punti d’appoggio primariamente nei santi i quali rendono tra-<br />
sparente in modo indubitabile l’amore di Dio, ma anche nella struttura sacramentale-oggettiva della<br />
Chiesa: tanto l’annuncio della parola di Dio come l’amministrazione dei sacramenti sono per la<br />
Chiesa segni infallibili che lo Spirito mantiene in modo definitivo la Chiesa nella verità della fede e<br />
nella santità dell’amore.<br />
420
Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
3.4.4. Credo la chiesa cattolica<br />
a) Storia e significato della parola “katholiké”<br />
Il termine “cattolico” non si trova né nei LXX né nel NT (c’è in At 4,18, dove significa “totalmen-<br />
te”). Nel greco profano esso era inteso come composto da due parole, kath’hólou = “secondo il tut-<br />
to”. Ciò è da intendersi non già nel senso di una somma bensì di una totalità, di un «tutt’uno». Per<br />
questo, non di rado, il qualificativo cattolico era predicato di concetti come la verità e la bellezza, in<br />
quanto distinti dagli oggetti particolari, buoni e belli, che sono esempi concreti di tale universalità.<br />
La più antica applicazione del termine alla chiesa si trova nella lettera di S. Ignazio di Antiochia alla<br />
chiesa di Smirne, in cui si scrive: «Dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è<br />
Gesù Cristo ivi è la chiesa cattolica» (8, 2). Delle molte interpretazioni date a questa sentenza, la più<br />
probabile sembra essere quella che Ignazio qui sta distinguendo tra l’assemblea eucaristica locale e<br />
la chiesa come un tutto, nella sua interezza.<br />
Nel racconto del martirio di S. Policarpo, vescovo di Smirne, si trovano quattro ricorrenze del ter-<br />
mine in riferimento alla chiesa. Il racconto si apre con un saluto a «tutte le comunità della santa<br />
chiesa cattolica di ogni luogo». Esso riferisce come Policarpo, dopo il suo arresto, ha pregato «per<br />
tutta la chiesa cattolica sparsa nel mondo» (8, 1). Definisce Gesù Cristo come «pastore della chiesa<br />
cattolica diffusa su tutta la terra» (19, 2). In questi casi, la parola “cattolica” sembrerebbe essere usa-<br />
ta nel senso di “universale” in opposizione a “locale” o “particolare”. Comunque, anche qui “catto-<br />
lica” non è semplicemente sinonimo di “geograficamente universale”, poiché il termine contiene,<br />
più o meno latente, l’ulteriore idea dell’unità, dell’unicità. Per essere veramente “cattolica”, deve<br />
essere una e la stessa chiesa in tutto il mondo. Il quarto uso di “cattolica” nel Martirio introduce una<br />
nuova applicazione della parola: Policarpo è definito «vescovo della chiesa cattolica di Smirne» (16,<br />
2). Qui chiaramente è la chiesa locale di Smirne ad essere indicata come “cattolica”. In che senso<br />
una chiesa locale può essere designata da un aggettivo il cui significato originario è “universale”?<br />
Perché nel corso del II secolo i cristiani ortodossi cominciarono a distinguere le loro chiese dalle<br />
numerose sette scismatiche ed eretiche sulla base dell’unità e universalità della vera chiesa, in oppo-<br />
sizione alla molteplicità e alla natura localmente limitata delle sette. Così la cattolicità venne ad es-<br />
sere riconosciuta come un criterio di ortodossia. Secondo Kelly questo è il significato dominante di<br />
“cattolica” dalla seconda metà del secolo in poi, in Oriente come in Occidente; esso denota l’unica,<br />
vera chiesa di Cristo come contrapposta a tutti i gruppi eretici e scismatici, ed indica l’universalità<br />
di quella come garanzia di autenticità. “Cattolico” passò a significare “ortodosso” o, come suggeriva<br />
Vincenzo di Lerino, «ciò che è stato creduto dovunque, sempre e da tutti» (Commonitorium, I, 2).<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Meno di frequente si ritrova il termine “cattolica” usato col significato di “totalità” o “pienezza”.<br />
Cirillo di Gerusalemme spiega che la chiesa è chiamata “cattolica” «perché si diffonde per tutto il<br />
mondo da un confine all’altro della terra; perché insegna universalmente e con esattezza tutti i prin-<br />
cipi che giovano alla conoscenza degli uomini nelle cose visibili e invisibili, celesti e terrestri; per-<br />
ché è subordinato al suo culto tutto il genere umano...; perché sana e cura dappertutto ogni genere di<br />
peccato dell’anima e del corpo commesso. Essa ha in sé ogni conclamata virtù nelle opere, nelle pa-<br />
role e in ogni carisma spirituale» (Catechesi XVIII prebattesimale, 23).<br />
L’espressione non è stata assunta subito nei simboli: se quello di Nicea non lo fa ancora, la cosa pe-<br />
rò è acquisita nel corso del IV secolo e recepita nel simbolo Niceno-costantinopolitano.<br />
Con la Riforma fu messa in questione l’unità, e di conseguenza anche la cattolicità della Chiesa.<br />
Nella polemica confessionale si è potuto vedere la “chiesa cattolica” come chiesa ortodossa, oppure<br />
per estensione come la chiesa diffusa su tutta la terra e che perciò abbraccia popoli, lingue e culture<br />
diverse, la chiesa numericamente più grande che dura al di là del tempo. I riformatori intendevano la<br />
cattolicità soprattutto nel senso dottrinale: è cattolico ciò che è stato creduto dovunque, sempre e da<br />
tutti conformemente alle Scritture. I polemisti cattolici hanno reclamato non soltanto la cattolicità<br />
della dottrina, ma anche dello spazio, del numero e del tempo.<br />
Con il Vaticano II la chiesa cattolica, oltre alla classica prospettiva “quantitativa” della cattolicità,<br />
ha recuperato anche la prospettiva “qualitativa”, connessa all’idea di totalità e di pienezza in ordine<br />
alla mediazione della salvezza. In LG 13 il riconoscimento della origine trinitaria della cattolicità e<br />
la sua comprensione come universalità di razze, nazioni, culture, permettono di collegare la cattoli-<br />
cità a un’idea di unità ricca di differenze e di collocarla in relazione con tutta l’umanità chiamata ad<br />
essere il popolo di Dio unico ed universale.<br />
Il termine “cattolicità” è stato quindi protagonista di una lunga storia di interpretazioni. In una pro-<br />
spettiva sintetica possiamo individuare cinque piani fondamentali intorno ai quali organizzarne il<br />
contenuto semantico: “cattolicità” indica, in senso descrittivo, l’universitas christianorum e il cor-<br />
pus ecclesiarum; in senso qualitativo, la destinazione universale della chiesa; in senso geografico e<br />
quantitativo, l’estensione su tutta la terra; in senso polemico, la forma “confessionale” della chiesa<br />
romana; in senso antropologico-cosmico, il dono escatologico.<br />
Alla luce di tutti questi dati possiamo dire che «l’Ekklesía nella sua forma storica si dà sempre do-<br />
vunque essenzialmente come comunità locale, come chiesa locale. Ma queste chiese locali sono<br />
chiese solo in quanto sono manifestazione, rappresentazione e realizzazione dell’unica chiesa totale,<br />
completa e universale, cioè della chiesa tutta intera. Benché la chiesa locale sia in sé totalmente<br />
chiesa, non è tuttavia la chiesa totale. Soltanto tutte le chiese locali sono la chiesa totale, e ciò non<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
in quanto addizionate e associate esternamente, ma in quanto interiormente unite nello stesso Dio,<br />
Signore e Spirito, lo stesso vangelo, lo stesso battesimo, lo stesso banchetto eucaristico e la stessa<br />
fede (Ef 4,4-6). La chiesa nella sua interezza è la chiesa manifestata, rappresentata e realizzata nelle<br />
chiese locali. Se è vero che la chiesa, in questo senso di chiesa nella sua interezza, è la chiesa totale,<br />
essa può chiamarsi, secondo l’uso linguistico originario, la chiesa cattolica, cioè la chiesa totale, u-<br />
niversale e completa. La cattolicità consiste essenzialmente nella totalità. Ma nella misura in cui<br />
ogni chiesa locale rende presente questa chiesa totale, può anch’essa venir chiamata cattolica. Una<br />
chiesa non perde la sua cattolicità per il fatto di essere una chiesa localmente limitata, ma per il fatto<br />
che essa, localmente delimitata, si stacca dalle altre chiese, e con ciò dalla chiesa totale e intera, e si<br />
fissa e si concentra su se stessa nella propria fede e nella propria vita, pretendendo così di bastare a<br />
se stessa. Non cattolica è soltanto la chiesa particolaristica: quella che si separa (“scismatica”) dalla<br />
fede e dalla vita della chiesa intera, si singolarizza (“eretica”) o forse persino rinnega (“apostata”).<br />
Una chiesa non è cattolica semplicemente per la sua estensione territoriale: la cattolicità non è pri-<br />
mariamente un concetto geografico. Una chiesa non è cattolica soltanto per quantità numerica: la<br />
cattolicità non è primariamente un concetto statistico… Una chiesa non è cattolica semplicemente<br />
per la varietà socioculturale: la cattolicità non è primariamente un concetto sociologico… Una<br />
chiesa non è cattolica semplicemente per la sua continuità temporale: la cattolicità non è primaria-<br />
mente un concetto storico… Anche la chiesa più internazionale, più vasta, più multiforme e più an-<br />
tica può dunque alienarsi: allora essa non è più la stessa, si è allontanata dalla sua essenza più inti-<br />
ma, è deviata dal suo cammino più proprio. Certo, la chiesa deve muoversi, deve costantemente mu-<br />
tare: essendo storica, non può fare diversamente. Ma in nessun modo essa deve diventare un’altra,<br />
estranea a se stessa. La chiesa è cattolica solo in ragione di un’identità completa: vale a dire che,<br />
nonostante tutti i cambiamenti di tempo e forma continuamente necessari e nonostante ogni imper-<br />
fezione e fragilità, essa è, deve essere e vuole essere essenzialmente la stessa dovunque, sotto ogni<br />
forma e in ogni tempo, di modo che “sempre, dovunque e da tutti” venga conservata, rafforzata e re-<br />
sa credibile la stessa essenza della chiesa. Solo con il presupposto di questa identità, la chiesa si di-<br />
mostra come la chiesa integralmente totale, genuinamente universale, indivisamente completa: co-<br />
me la chiesa veramente cattolica… L’identità è il fondamento della cattolicità… Ma per la sua ori-<br />
gine ed essenza, la chiesa è universale… L’universalità è la conseguenza della cattolicità» 38 .<br />
38 H. KÜNG, La Chiesa, op. cit., 347-350. Cfr. H. DE LUBAC, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma (Roma: Stu-<br />
dium, 1964) 39.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
3.4.5. Credo la chiesa apostolica<br />
a) Sul fondamento degli apostoli<br />
«Ci siamo interrogati sull’unità nella pluralità, sulla cattolicità nell’identità, sulla santità nella pec-<br />
caminosità, e sempre si è posta la questione del criterio: dove e in quale misura abbiamo a che fare<br />
con la chiesa una, santa e cattolica? Che cos’è la vera unità, la vera cattolicità, la vera santità? Il<br />
quarto attributo della chiesa dona espressamente un criterio decisivo: una chiesa è veramente una,<br />
santa e cattolica, solo quando essa è in tutto ciò apostolica. Non si tratta di un’unità, santità e catto-<br />
licità qualunque, bensì tale da riferirsi agli apostoli e da essere in questo senso apostolica» 39 .<br />
Nello sviluppo dell’articolo sulla chiesa nel simbolo battesimale della chiesa primitiva, “apostolica”<br />
fu l’ultima delle quattro proprietà ad essere aggiunta. Il credo battesimale della chiesa d’occidente<br />
— il Simbolo degli Apostoli — menziona solo due attributi: “santa” e “cattolica”. Verso la metà del<br />
IV secolo il credo battesimale diffuso a Gerusalemme, come sappiamo dalle catechesi di Cirillo ve-<br />
scovo, definisce la chiesa “una, santa e cattolica”. Il primo simbolo battesimale che ha aggiunto<br />
l’attributo “apostolica” è quello della chiesa di Salamina a Cipro, nella seconda metà del IV secolo.<br />
Sant’Epifanio, vescovo di quella città, ci fornisce il testo di quel simbolo nel suo scritto Ancoratus<br />
dell’anno 374. È stato questo credo, o una formula battesimale orientale analoga, che il concilio di<br />
Costantinopoli ha seguito per definire la chiesa una, santa, cattolica e apostolica nel simbolo che è<br />
divenuto il credo liturgico comune alla maggior parte delle chiese cristiane.<br />
Sebbene il termine “apostolica” sia entrato tardi nei simboli cristiani ufficiali, ciò non vuol dire che<br />
la parola sia sconosciuta al vocabolario cristiano. La troviamo per la prima volta già nel II secolo<br />
nella lettera ai Tralliani di S. Ignazio di Antiochia («Ignazio, Teoforo, a quella che è amata da Dio,<br />
il Padre di Gesù Cristo, la chiesa santa che è in Tralli dell’Asia, eletta e degna di Dio... il saluto nel-<br />
la pienezza del carattere apostolico e l’augurio di ogni bene»: saluto). Alla metà del II secolo, i pre-<br />
sbiteri della chiesa di Smirne, raccontando il martirio del vescovo Policarpo, lo descrivono come un<br />
“maestro apostolico e profetico” (n. 16). Il termine si rinviene esclusivamente nella letteratura cri-<br />
stiana e con una varietà di significati specifici, ma con un denominatore comune: l’espressione di<br />
una relazione agli apostoli tanto di origine, di somiglianza, fedeltà, o successione come di qualche<br />
altro modo per cui le persone o le cose sarebbero “degli apostoli” o “simili agli apostoli” 40 .<br />
39 H. KÜNG, La Chiesa, op. cit., 399.<br />
40 F. SULLIVAN, Noi crediamo la Chiesa, op. cit., 153-154.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
«Però, già dai secoli II e III, “apostolico” acquista anche un significato ascetico, e designa allora:<br />
“simile agli apostoli”; sia certe sette dell’antichità e del medioevo (le “apostoliche”), sia l’antica let-<br />
teratura monastica usano la parola in questo senso e intendono con ciò la rinuncia alla proprietà e al<br />
matrimonio. Solo relativamente tardi la parola acquista in primo luogo un significato pastorale atti-<br />
vo (in opposizione alla contemplazione)» 41 e in genere missionario.<br />
b) Chi erano gli apostoli?<br />
1. Gli storici delle origini cristiane si accordano nell’attribuire all’apostolato cristiano una origine<br />
post-pasquale 42 . Esso è fondato sulle apparizioni del Cristo risorto (1Cor 9,1; 15,5-11). Ma non tutti<br />
i testimoni della risurrezione erano considerati apostoli. Solamente le apparizioni che possedevano<br />
un carattere di appello e di missione potevano legittimare il loro destinatario, di fronte alla Chiesa di<br />
Gerusalemme, come un inviato plenipotenziario di Gesù Cristo. È perché Paolo soddisfaceva chia-<br />
ramente questo criterio che fu riconosciuto come l’ultimo apostolo chiamato (1Cor 15,9-11).<br />
2. Oltre a questo tipo di apostolato chiaramente definito, quale era rappresentato a Gerusalemme, si<br />
trovano ad Antiochia e nel retroterra siriano le tracce di un apostolato più aperto, di carattere pneu-<br />
matico e carismatico. Il fattore determinante qui non è il mandato di Cristo risorto, ma un’istruzione<br />
dello Spirito. Secondo la tradizione antica ripresa in At 13,1-3; 14,4.14, Paolo e Barnaba, grazie a<br />
una testimonianza profetica ispirata dallo Spirito, furono investiti del compito di inviati missionari<br />
della comunità di Antiochia e considerati a questo titolo come degli apostoli. L’origine di questo se-<br />
condo tipo di apostolato resta oscura, ma si può supporre che essa si radichi nella cerchia dei mis-<br />
sionari itineranti galileo-siriani usciti dalla comunità cristiane prepasquale, alla quale si collega la<br />
fonte Q, o fonte dei logia (Mt 10,5-15 par.; Lc 10,1-12). Così la Didaché (11,3-6) attesta ancora<br />
l’esistenza nella Siria dell’inizio del II secolo la presenza di predicatori carismatici itineranti, che<br />
erano considerati come degli apostoli. Forse è tra di loro che bisogna cercare gli avversari designati<br />
da Paolo in 2 Corinti come «superapostoli» (2Cor 11,5; 12,11) o come «falsi apostoli» (2Cor<br />
11,13), che legittimavano il loro mandato spirituale con la parola ispirata (2Cor 10,10; 11,6), obbli-<br />
gando Paolo a paragonarsi a loro per le visioni (2Cor 12,1) e i «segni distintivi dell’apostolato»<br />
(2Cor 12,12) — così come i falsi apostoli di Efeso evocati (in epoca postpaolina) in Ap 2,2.<br />
41 H. KÜNG, La Chiesa, op. cit., 399.<br />
42 KEHL, La Chiesa, op. cit., 293-305; KÜNG, La Chiesa, op. cit., 400-409; CONGAR, art. cit., in MySal VII, 639-641;<br />
SULLIVAN, Noi crediamo la Chiesa, op. cit., 154-169; ID., From Apostles to Bishops. The Development of the Episcopacy<br />
in the Early Church (New York/Mahwah, N.J.: The Newman Press, 2001); TH. SCHNEIDER – G. WENZ (edd.). Das<br />
kirchliche Amt in apostolischer Nachfolge, I: Grundlagen und Grundfragen (Freiburg: Herder; V&R: Göttingen, 2004).<br />
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3. È Paolo che ha il merito di aver approfondito e sviluppato con una vasta riflessione teologica la<br />
comprensione dell’apostolato. Dai suoi scritti possiamo estrapolare i criteri base che doveva avere<br />
un apostolo di Gesù Cristo: 1) aver visto il Cristo risorto; 2) aver ricevuto da lui la missione di pre-<br />
dicare il Vangelo; 3) avere il compito di raccogliere la comunità di salvezza formata da giudei e pa-<br />
gani, per farne il luogo di esistenza del Vangelo nella storia. Paolo è convinto di essere stato chia-<br />
mato e inviato per suscitare «l’obbedienza della fede tra tutte le nazioni» (Rm 1,1-7). Ecco perché il<br />
ministero dell’apostolo ha la precedenza su tutti gli altri ministeri comunitari (1Cor 3,9-17): è lui<br />
che pone il fondamento dell’edificio sacro della Chiesa, sul quale gli altri costruiranno (1Cor 3,9-<br />
17); è lui il padre che, portando il Vangelo, ha generato la Chiesa (1Cor 4,15; Gal 4,12-20). In con-<br />
formità a questa funzione fondatrice, il compito apostolico non è limitato a una comunità particola-<br />
re, ma si rapporta alla Chiesa universale.<br />
4. L’altra riflessione forte sul ministero apostolico è quella sviluppata da Luca, il quale lega<br />
l’apostolato alla missione (prima e dopo Pasqua: Lc 24,44-49; At 1,8; cfr. Mt 28, 18-20; Mc 16, 15-<br />
16; Gv 20, 21-23) che il Cristo ha affidato ai dodici, costituendoli così come gli iniziatori e i garanti<br />
della tradizione alla quale la Chiesa deve conformarsi (At 2,42). Questo mandato, oltre all’incarico<br />
di “predicare il Vangelo ad ogni creatura”, implica un ruolo di autorità nella comunità dei discepoli<br />
formata dalla loro predicazione.<br />
5. Come abbiamo visto già nella parte biblica già all’interno del NT si configura il trapasso dal tem-<br />
po apostolico a quello post-apostolico, dove si vede che il ministero apostolico, unico e singolare,<br />
non prevede successori agli apostoli. Ma al ministero apostolico si legano i compiti dell’annuncio,<br />
della fondazione e del governo della chiesa, compiti che dovranno pur continuare, per cui riconosce-<br />
remo anche un ministero apostolico che continua e che per la chiesa rimane necessario, per il suo<br />
riferimento permanente a quel ministero pur singolare affidato ai soli apostoli. Nel NT questi mini-<br />
steri apostolici non si spiegano come istituzioni puramente umane, ma quali carismi, realtà prodotte<br />
e donate dallo Spirito Santo (At 20,28), e che vengono conferite con l’imposizione delle mani e la<br />
preghiera (1Tim 4,14; 2Tim 1,6; Tt 1,5; cfr. At 14,23). Stando all’enunciato riassuntivo di Ef 4,10-<br />
12, è lo stesso Signore glorificato ad inviare dal cielo alla chiesa e per la sua edificazione questi mi-<br />
nisteri in dono. Questa è la stessa impostazione che troviamo nel mandato missionario che si pone<br />
in bocca a Gesù a conclusione dei vangeli sinottici e all’inizio degli Atti (Mt 28,20; cfr. Mc 16,15;<br />
Lc 24,47s; At 1,8): il vangelo di Gesù Cristo deve essere testimoniato a tutti i popoli e in tutti i tem-<br />
pi; questo compito missionario va oltre il tempo compreso nella vita dei primi testimoni e assume<br />
un certo qual carattere istituzionale. Dopo la morte dei primi testimoni, dei testimoni originari, ci<br />
saranno sempre degli uomini che garantiranno tale missione. Ma allora la successione non andrà in-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
tesa nel senso lineare di una catena che lega tra loro, come anelli, i capi ministeriali che si succedo-<br />
no, ma piuttosto come una cooptazione ed incorporazione di nuovi membri nel collegio apostolico<br />
ed in una missione che deve continuare anche nel futuro. Emerge così l’aspetto decisivo: la succes-<br />
sione apostolica non è qualcosa di importante per se stessa, ma è interamente a servizio del vangelo<br />
di Gesù Cristo e nel vangelo trova la sua norma. La successione apostolica va intesa come succes-<br />
sione nella dottrina e nella vita degli apostoli: nella sua dimensione istituzionale ma anche in quella<br />
esistenziale. La successione apostolica è quindi la figura concreta in cui e mediante cui Gesù Cristo<br />
rimane con noi, nello Spirito santo, permanentemente, fino alla fine dei tempi. È la figura concreta<br />
in cui la Traditio che Gesù ha fatto di sé una volta per sempre si comunica a noi, garantisce una pre-<br />
senza che continuamente si rinnova.<br />
6. È solo nel periodo post-neotestamentario che troviamo un vescovo singolo in ciascuna chiesa.<br />
Ciò che possiamo affermare con una ragionevole certezza è che dalla fine del secondo secolo in poi,<br />
ciascuna chiesa veniva guidata da un vescovo singolo e che questi vescovi erano riconosciuti come<br />
successori degli apostoli nel loro ministero pastorale. Questo riconoscimento, che solo gli gnostici<br />
rifiutarono di dare, fu un elemento cruciale nella coscienza della chiesa della sua apostolicità.<br />
c) L’apostolicità della chiesa post-neotestamentaria<br />
Nella chiesa antica la successio non viene mai scissa dalla traditio, ma nemmeno isolata dalla com-<br />
munio. Infatti la successio è a servizio della traditio; d’altra parte la traditio ci viene resa disponibi-<br />
le soltanto nel modo della successio. Sullo sfondo di questo rapporto fra tradizione e successione<br />
apostolica sta un certo modo, quello sacramentale, di intendere la chiesa e i suoi ministeri quali se-<br />
gni e strumenti della salvezza. Anche la successione ministeriale, quindi, si articola in segni e stru-<br />
menti della “realtà” vera e propria, il vangelo da trasmettere. L’apostolicità intesa come continuità<br />
storica, è a servizio della apostolicità intesa come identità, contenuto vero e proprio del messaggio<br />
apostolico. D’altra parte la trasmissione del ministero apostolico avviene all’interno della communio<br />
dei fedeli (essi partecipano alla elezione del vescovo e alla sua ordinazione) e dell’ordo dei vescovi.<br />
Il singolo vescovo non entra a far parte della successione apostolica perché si salderebbe, quale a-<br />
nello di una catena ininterrotta, ai suoi predecessori, fino all’apostolo, ma perché è in comunione<br />
con l’intero ordo episcoporum, che a sua volta succede al collegio degli apostoli e partecipa della<br />
sua missione. Da questo legame tra traditio, successio e communio non discende alcun automatismo<br />
e meccanismo: la successione è un segno, non una qualche garanzia della tradizione vera. Il singolo<br />
o i singoli vescovi possono anche rinnegare la tradizione, escludendosi in tal modo dalla comunio-<br />
ne. In questo caso non si dovrà loro alcuna obbedienza. Il segno della successione, quindi, non ga-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
rantisce in ogni caso la “realtà” significata, la vera tradizione. D’altra parte notiamo che per arrivare<br />
ad un’altra convinzione, ossia che lo Spirito, il quale garantisce la vera traditio, possa darsi anche<br />
laddove, per una qualche ragione, manchi o in parte difetti il segno — della successio o della com-<br />
munio — la chiesa e la teologia hanno impiegato più tempo. Sarà il Concilio Vaticano II a corregge-<br />
re l’impostazione agostiniana che qui faceva sentire tutto il suo peso (cfr. LG 8.15; UR 2s). La suc-<br />
cessio, intesa come segno, e la traditio, come la cosa da essa significata e testimoniata, in concreto<br />
potrebbero anche conoscere una dissociazione. Ma il caso limite non può essere fatto passare per<br />
norma. Se muoviamo nell’ottica della chiesa antica dovremo piuttosto convenire che traditio, suc-<br />
cessio e communio sono fondamentalmente riferite l’una all’altra.<br />
d) La divaricazione fra traditio e successio nel medioevo e nella Riforma<br />
Nel medioevo si affievolì la consapevolezza dell’intimo nesso esiste fra traditio, successio e com-<br />
munio. Le ragioni del fenomeno sono diverse e lo sviluppo cui esso dette origine è molto comples-<br />
so. D’importanza decisiva fu la perdita dell’antica visione sacramentale della chiesa in seguito alla<br />
seconda disputa sull’eucaristia (sec. XI). Ora la chiesa veniva considerata spesso come mero appara-<br />
to giuridico e l’autorità ministeriale concepita non più come repraesentatio sacramentale ad opera<br />
dello Spirito bensì quale potestas conferita al singolo pastore come sua propria, e non più necessa-<br />
riamente riferita alla communio in un sistema che prevedeva ordinazioni “assolute”, cioè disancorate<br />
dalla chiesa locale concreta. L’ordine sacro tendeva ad assumere il carattere di un rito consacratorio<br />
a sé stante, quello del sacramento di ordinazione al sacerdozio, mentre il ministero episcopale non si<br />
inquadrava più nel suo contesto sacramentale e il vescovo si contrapponeva al semplice “presbite-<br />
ro”, perché dotato di una maggior potestas (iurisdictio) e dignitas all’interno della chiesa.<br />
Su questo sfondo nel tardo medioevo anche a singoli non-vescovi, cioè semplici preti, poté essere<br />
conferita, attraverso la giurisdizione pontificia, la pienezza della potestas. La cosiddetta successione<br />
presbiterale, dunque, non è un surrogato e un’alternativa alla successione episcopale ma una figura<br />
in cui la successione stessa si articola. Ma a quali inquietanti conseguenze potesse condurre<br />
l’angusta prospettiva medievale ce lo mostra il fatto che per es. a Colonia diversi arcivescovi non<br />
avevano nemmeno ricevuto l’ordinazione episcopale: mancava ormai la consapevolezza dello stret-<br />
to nesso esistente fra successio, traditio e communio. Anche a motivo di tali disfunzioni e di tante<br />
altre ancora oggi quasi inimmaginabili, la chiesa non veniva più percepita da molti nella sua confi-<br />
gurazione esteriore, quale segno di salvezza e di verità.<br />
Se teniamo conto di un quadro del genere possiamo capire anche l’aspra critica che i movimenti ri-<br />
formatori muovevano alla chiesa ed al ministero, indirizzandola contro un sacerdozio ordinato com-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
preso entro una visione sacramentale molto angusta e unilaterale, spesso slegato da ogni riferimento<br />
all’annuncio della Parola ed al servizio della comunità, e contro un ministero episcopale e pontificio<br />
avvertito come una tirannia. Non per questo la Riforma escludeva un nesso con il ministero episco-<br />
pale nella sua successione storica, se i vescovi fossero stati vescovi e la predicazione del vangelo si<br />
fosse ispirata alla dottrina riformatrice della giustificazione. Nessun vescovo però fu disposto a pas-<br />
sare nel campo riformato ed a nominare ministri per le comunità che avevano fatto tale scelta, per<br />
cui si provvide a nominare propri ministri ed a giustificare la decisione come un “provvedimento di<br />
emergenza”. Ci si considerava legittimati a farlo sia perché, richiamandosi a Girolamo, si equipara-<br />
va il ministero di parroco sostanzialmente a quello di vescovo, sia perché si era convinti che l’intera<br />
chiesa meritasse la qualifica di apostolica e quindi fosse legittimata a nominare i propri ministri.<br />
Soprattutto per quest’ultima motivazione appare abbastanza fragile la tesi secondo cui la critica ri-<br />
formatrice riguardava esclusivamente le disfunzioni e gli abusi, per poi sviluppare anche una eccle-<br />
siologia di emergenza. Facendo leva sull’esperienza dello scarto esistente tra vangelo originario e<br />
chiesa di fatto, i Riformatori ponevano l’accento sulla libertà e superiorità che il vangelo vanta sulla<br />
chiesa concreta. E proprio per questa “contrapposizione” essi confidavano che il vangelo si sarebbe<br />
imposto nello Spirito e avrebbe trovato ascolto nella chiesa, senza essere costretti a legarsi a deter-<br />
minati ministeri e persone (Cfr. ApolCA 7,22; Calvino, Ist. IV,2,3). La vera successione, dunque, sta<br />
proprio nel vangelo che continua ad essere proclamato 43 .<br />
Così il problema di un aggancio al ministero, in successione presbiterale od episcopale, diventò<br />
questione di diritto puramente umano, dove pare che il nesso fra traditio e successio, od anche tra<br />
vangelo e chiesa concreta, quello che la chiesa antica considerava intrinseco, non venisse più rico-<br />
nosciuto, e non soltanto in qualche sporadico caso, ma in linea di principio. E lo si rileva fin nei più<br />
recenti “documenti di convergenza”, dove la successione nel ministero episcopale è considerata au-<br />
spicabile e consigliabile, non però irrinunciabile sul piano teologico. Questa scelta dei Riformatori<br />
poneva e continua a porre in discussione non soltanto un problema fra i tanti, ma la stessa visione<br />
globale della chiesa, in altre parole la combinazione simbolico-sacramentale degli elementi visibili<br />
43 Cfr. WA 39, 1,191,28: «Haec est vera definitio Ecclesiae: non quae succedit Apostolis: sed quae confitetur quod Christus<br />
sit filius Dei». 39, 11,1765; 177,1: «Successio ad Evangelium est alligata… Bisogna vedere dov’è la Parola… Ubi<br />
est verbum, ibi est Ecclesia… Credendum est episcopo, non quia succedit episcopo huius loci; sed quia docet Evangelium.<br />
Successione significa Vangelo». CALVINO, Ist. IV, 2,2: «L’obiezione della successione (dei vescovi) non ha senso<br />
quando i successori… non conservano intatta la verità di Cristo ed in essa non perseverano senza cedimenti»; IV 2,4: ciò<br />
che caratterizza la chiesa è la parola di Dio. «Se c’è questa nota caratteristica, non ci si può sbagliare, perché sicuramente<br />
qui c’è anche chiesa; dove, invece, questa nota mancasse, non ci sarebbe nemmeno una qualche indicazione di presenza<br />
di chiesa».<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
della chiesa con la sua essenza spirituale, percepibile soltanto per fede. Quando parlavano del “na-<br />
scondimento della chiesa” i Riformatori non intendevano certo una civitas platonica (Cfr. ApolCA<br />
7,20). Essi non volevano confondersi con i “fanatici” e nella Parola e nel Sacramento, come del re-<br />
sto anche nei ministeri, coglievano certi elementi visibili presenti nella chiesa (Cfr. CA 5; Heidel-<br />
bergerKatechismus, quest. 65s.; CALVINO, Ist. IV 1,1.5s.; 2,1; 8,13). Ciò non comporta che dalla lo-<br />
ro impostazione traspaia anche un chiaro riconoscimento del fatto che la salvezza, donataci una vol-<br />
ta per tutte, venga mediata dalla chiesa. La frattura si operò, in prima istanza, non per il disconosci-<br />
mento di una successione ininterrotta, ma per l’affermarsi di una nuova concezione di chiesa nel suo<br />
rapporto con il vangelo della salvezza in Gesù Cristo. F. Schleiermacher ha accentuato un po’ trop-<br />
po questa differenza, ma la formula da lui coniata coglie comunque nel segno: il protestantesimo «fa<br />
dipendere il rapporto del singolo con la chiesa dal suo rapporto con Cristo», mentre al contrario il<br />
cattolicesimo «fa dipendere il rapporto del singolo con Cristo dal suo rapporto con la chiesa» 44 . Si<br />
tratta soltanto di sapere, naturalmente, se la posizione protestante derivi da una situazione di emer-<br />
genza ancora perdurante o se lo stato di necessità che a quel tempo si diagnosticava assuma un ca-<br />
rattere stabile, costitutivo. Le risposte che oggi si danno nel protestantesimo contemporaneo sem-<br />
brano differenziarsi notevolmente.<br />
Difficile la risposta che il concilio di Trento era chiamato a dare. Da una parte la teologia cattolica<br />
del tempo aveva ormai smarrito la coscienza viva del carattere sacramentale della chiesa, oltre che<br />
dell’intima relazione fra traditio e successio; dall’altra i Riformatori ponevano in termini nuovi il<br />
problema della tradizione e successione. In un contesto del genere Trento, nella sua quarta sessione,<br />
stabiliva il rapporto da riconoscere tra vangelo e chiesa, tra Scrittura e tradizione, ma anche il carat-<br />
tere normativo dell’esegesi biblica ad opera della chiesa (DzH 1501.1507). Nell’esporre la dottrina<br />
dei sacramenti il concilio respingeva alcune sottolineature presenti nella concezione riformatrice del<br />
ministero, per attenersi alla successione apostolica dei vescovi e alla loro superiorità sui presbiteri<br />
(DzH 1768). In tal modo si ribadiva l’antica concezione ecclesiale che nella chiesa strutturata epi-<br />
scopalmente vedeva il segno e lo strumento del vangelo, senza pero lasciar trasparire anche l’intimo<br />
nesso sacramentale. Di più, per controbattere la contestazione riformatrice della struttura esteriore,<br />
giuridica della chiesa e della sua mediazione salvifica, in seguito si scadrà in posizioni riduttive di<br />
tipo giuridico, animate da spirito polemico e comunque estranee alla chiesa antica e medievale.<br />
44 F.D.E. SCHLEIERMACHER, Der christliche Glaube, a cura di M. Redeker, Berlin 1960, § 24, p. 137.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Anche dal modo in cui si valutarono le ordinazioni nella Riforma possiamo cogliere una mentalità<br />
articolata quasi esclusivamente secondo categorie di stampo giuridico. Per il concilio i ministri non<br />
regolarmente (rite) ordinati e inviati dall’autorità ecclesiastica e canonica (ecclesiastica et canonica<br />
potestate), sono da considerarsi ministri illegittimi della parola e dei sacramenti (DzH 1777; cfr.<br />
1769). Il problema della successione diventava così problema della legittimità del ministero, non<br />
più realtà da inquadrare in una visione sacramentale della chiesa. Una prospettiva, dunque, abba-<br />
stanza angusta, che però mostrava una certa apertura, una disponibilità quando si tratta di riconosce-<br />
re i ministeri delle chiese nate dalla Riforma. Infatti quando dichiara l’illegittimità di ministeri che<br />
certuni «si attribuiscono in forza della propria temerità» (DzH 1769), il concilio di Trento non pren-<br />
de espressamente posizione riguardo al problema della validità del ministero conferito secondo le<br />
disposizioni impartite da chiese separate: per risolvere una questione del genere bisogna muoversi<br />
in un contesto più ampio, quello di una visione sacramentale di chiesa.<br />
e) Il Concilio Vaticano II: avvicinamenti e differenze che permangono<br />
Contando su tutto un lavoro teologico di preparazione, il Vaticano II riproporrà la visione sacramen-<br />
tale della chiesa (LG 1.9.48.59 e passim), l’idea quindi che la chiesa è una realtà complessa, fatta di<br />
elementi umani, visibili e istituzionali, da un lato, e da un elemento spirituale e divino, dall’altro,<br />
quest’ultimo percepibile soltanto per fede (LG 8). E in tale contesto il concilio non ha inquadrato<br />
soltanto il carattere sacramentale dell’ordinazione dei vescovi (LG 21), ma anche l’intimo nesso da<br />
riconoscere fra successio, traditio e communio (LG 20). Se il modo in cui la Costituzione sulla chie-<br />
sa si esprime potrebbe dare l’idea che qui la successione apostolica verrebbe concepita in termini<br />
ancora troppo unilaterali, come successione ininterrotta nel ministero, la Costituzione sulla divina<br />
rivelazione stabilisce chiaramente il nesso esistente tra la missione degli apostoli e l’assistenza dello<br />
Spirito loro promessa, tra la chiesa che crede e lo Spirito Santo che in essa vive, tra la successione<br />
apostolica e la guida che lo Spirito di verità le assicura (DV 8s.). È una concezione pneumatologica<br />
che troviamo organicamente affermata soprattutto Decreto sulle missioni (AG 4). Dopo le unilatera-<br />
lità che avevano accompagnato la riflessione teologica dei secoli precedenti, ora il concilio ripropo-<br />
ne con chiarezza il contesto pneumatologico ed ecclesiologico entro cui inquadrare anche la succes-<br />
sione apostolica, quell’antica prospettiva ecclesiale che meglio di ogni altra favorisce un dialogo<br />
ecumenico sul tema del ministero e della sua successione.<br />
Sono soprattutto due punti che ci mostrano con quanta elasticità i padri conciliari si siano mossi<br />
all’interno del nuovo contesto e abbiano fatto i conti con la complessità del dato storico. (1) Il con-<br />
cilio dice semplicemente che tra i vari ministeri che fin dai primi tempi si esercitarono nella chiesa,<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
il primo posto spetta all’ufficio episcopale, che i vescovi garantiscono insieme ai presbiteri ed ai<br />
diaconi (LG 20). Esso non dice che la tripartizione gerarchica in ministero episcopale, presbiterale e<br />
diaconale poggerebbe direttamente su un’istituzione divina, ma semplicemente “fin dai primi tem-<br />
pi” (ab antiquo) un ministero veniva esercitato in questa triplice figura (LG 28). È un modo di e-<br />
sprimersi più aperto, che tiene conto delle problematiche storiche e viene incontro alla posizione as-<br />
sunta dalle chiese della Riforma, per le quali all’origine il ministero dei presbiteri coincideva con<br />
quello dei vescovi. (2) Intenzionalmente il concilio non dice che soltanto i vescovi possono acco-<br />
gliere nel proprio collegio episcopale nuovi membri, non volendo dirimere questione né di diritto né<br />
di fatto, ma semplicemente stabilisce che «è proprio dei vescovi assumere, con il sacramento<br />
dell’ordine, nuovi eletti nel corpo ecclesiale» (LG 21). In tal modo si allude, se non altro, alla possi-<br />
bilità che all’interno dell’Una sancta non debbano per forza valere un’unica forma ed un unico mo-<br />
do di vedere la successione apostolica.<br />
Anche se soltanto incidentalmente, il concilio prende comunque posizione sul modo protestante<br />
d’intendere i ministeri, e parla di una «mancanza del sacramento dell’ordine» (defectus ordinis) nel-<br />
le chiese della Riforma (UR 22). Ma che cosa intende dire? Dopo il concilio si è osservato che de-<br />
fectus non necessariamente significa “mancanza”, ma potrebbe voler dire anche “difettosità”. Non<br />
basta certo il lessico o l’acume filosofico a dirimere una questione così importante: la soluzione teo-<br />
logica del problema va cercata all’interno del contesto nel quale s’inquadrano gli asserti conciliari.<br />
Ebbene, il concilio ha detto chiaramente che la chiesa di Cristo sussiste nella chiesa cattolica, ma<br />
che anche al di fuori di essa si trovano elementi di vera chiesa (LG 8), motivo per cui lo Spirito di<br />
Dio si serve delle chiese non cattoliche e delle comunità ecclesiali separate come di strumenti per<br />
salvare i fedeli che in esse vivono (UR 3). Ma dato che tali chiese e comunità operano, in concreto,<br />
mediante i loro ministeri, un riconoscimento del genere equivale ad una valutazione degli stessi mi-<br />
nisteri esercitati nelle chiese non cattoliche e nelle comunità separate. Delle comunità ortodosse, si<br />
dice espressamente che dispongono di un ministero episcopale e presbiterale valido (UR 15), mentre<br />
solo implicitamente si dà pure un giudizio sul ministero esercitato nelle altre chiese e comunità ec-<br />
clesiali. Tuttavia, dopo ciò che si è detto, converremo che anche qui si riconoscono degli elementi di<br />
vero ministero. Per motivi logici, dunque, e non soltanto linguistici concluderemo che il «defectus<br />
ordinis» di cui parla il concilio non è una mancanza totale ma una difettosità di ministero pieno.<br />
Laddove stia tale difettosità il concilio non lo dice, ma stando a quel che siamo venuti fin qui ad il-<br />
lustrare essa non risiede soltanto nella rottura della successione apostolica nel ministero episcopale,<br />
un fatto che non è certo isolato, ma da inquadrare, in definitiva, in una diversa concezione di chiesa,<br />
in un diverso modo d’intendere vangelo e chiesa. E su questo piano il dissenso rimane. È vero che il<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Vaticano II sosteneva che il magistero della chiesa non sta al di sopra della parola di Dio, ma al suo<br />
servizio; non ha però contrapposto il vangelo alla chiesa, né ha parlato di una fondamentale funzio-<br />
ne critica che la Scrittura svolge nei confronti della chiesa e della tradizione, ma al contrario ha as-<br />
serito che la chiesa attinge la propria certezza sulle cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura (DV<br />
9) e ha sottolineato fortemente l’unità e interdipendenza di tradizione, Scrittura e magistero eccle-<br />
siastico (DV 10). Ciò spiega anche perché all’interno del lavoro ecumenico non si riesce ancora ad<br />
acquisire un consenso pieno riguardo la funzione critica che la Scrittura esercita nei confronti della<br />
chiesa, il suo insegnamento e la sua prassi. A rendere ancor più ardua l’intesa sta soprattutto la dot-<br />
trina del carattere infallibile di certe decisioni ecclesiastiche. Al di là del consenso ormai conseguito<br />
o che si spera di conseguire, tra le chiese separate un dissenso di fondo rimane. Ridotto all’osso, non<br />
si tratta del rapporto “vangelo – chiesa” e nemmeno della validità delle ordinazioni per mano di mi-<br />
nistri non-vescovi. La questione sostanziale sta nel sapere se e fino a che punto la chiesa concreta<br />
sia luogo, segno e strumento del vangelo di Gesù Cristo.<br />
f) Il fine: diversità riconciliata nella concezione della successione apostolica<br />
Da quanto siamo venuti fin qui dicendo il reciproco riconoscimento nei ministeri che ci attendiamo<br />
per il futuro dovrebbe articolarsi nei tre seguenti passaggi. (1) Il punto di vista non dev’essere quello<br />
del “o tutto o niente”. Bisognerà piuttosto ammettere che la via del riconoscimento passa attraverso<br />
tutta una serie di momenti. Il solo ammettere che il ministero non è esercitato in tutta pienezza im-<br />
plica un certo grado di riconoscimento. E del resto questo riconoscimento parziale esprime lo stesso<br />
punto di vista dei primi Riformatori che consideravano le ordinazioni fatte al di fuori della succes-<br />
sione apostolica una “misura d’emergenza”. (2) Quella del riconoscimento dei ministeri non è una<br />
questione da risolvere come problema isolato, ma va inquadrata in un contesto in cui intervengono<br />
Spirito - chiesa - Parola - sacramenti - ministeri. (3) Dal primo e secondo momento dovremo allora<br />
concludere che il reciproco riconoscimento è un processo che avanza nella misura in cui le chiese,<br />
che attualmente si trovano a vivere in una comunione imperfetta, progrediscono verso la comunione<br />
piena, quella che alla fine sarà totale. Il riconoscimento dei ministeri si impone, dunque, nella misu-<br />
ra in cui si raggiunge anche un’intesa per quanto riguarda la concezione della chiesa ed il modo<br />
d’intendere Parola e sacramento, che la fondano ed edificano.<br />
Naturalmente si tratta di un processo di ricezione che nelle chiese separate denuncia una certa a-<br />
simmetria, dato che queste chiese e comunità presentano differenti carismi e diversi apporti ad una<br />
comunione piena. L’apostolicità, intesa come successione nel ministero episcopale, può essere ga-<br />
rantita soltanto da una chiesa come quella cattolica, che la possiede e che è chiesa in cui la ecclesia<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
apostolica sussiste. Il che non significa che la strada da percorrere sarebbe a senso unico e che ci sia<br />
spazio soltanto per un “ecumenismo di ritorno”. Dalle chiese della Riforma i cattolici non si arric-<br />
chiscono soltanto di tutta una serie di elementi apostolici: i protestanti che entrassero nella succes-<br />
sione apostolica arricchirebbero la chiesa cattolica di una cattolicità più piena e concreta (cfr. UR 4),<br />
anche se la cattolicità ed apostolicità saranno vissute in pienezza soltanto nei tempi escatologici.<br />
La successione apostolica nel ministero episcopale, quella che dovrà portare la chiesa cattolica ad<br />
una vita in pienezza, sta a significare in primo luogo che la chiesa, anche perché apostolica, è una<br />
realtà non soltanto spirituale o ideale, ma anche storicamente percepibile. La questione che gli e-<br />
vangelici invece si pongono sul significato da attribuire a questa serie di “mediazioni” deve farci ri-<br />
flettere sul fatto che non serve a nulla una successione nel ministero se poi la chiesa non vive la se-<br />
quela di Cristo nella fede e nello spirito degli apostoli. Se la tradizione cattolica ricorda il carattere<br />
normativo e concreto della chiesa e della sua dottrina, la tradizione della Riforma sottolinea invece<br />
la funzione critica e innovante propria del Vangelo. Finora non si è stati capaci di comporre le due<br />
tendenze, sul piano teologico e su quello istituzionale, in modo soddisfacente. Ma questo tentativo<br />
di conciliazione non dovrebbe necessariamente mirare ad una comune struttura in cui articolare il<br />
ministero e la successione. In modo intelligente su questo punto il Vaticano II, ma ancor prima la<br />
Scrittura e la tradizione della chiesa antica, lascia alcuni problemi aperti. Ciò che maggiormente in-<br />
teressa è una comune valutazione teologica delle strutture istituzionali nel loro rapporto con la Paro-<br />
la e lo Spirito, è la capacità di coniugare la libertà del vangelo e dello Spirito, che soffia quando e<br />
dove vuole (cfr. Gv 3,8), con quel Dio, con quello Spirito che si è voluto legare alla chiesa concreta.<br />
La visione entro cui si muovono le chiese ortodosse potrebbe forse aiutarci a risolvere questo pro-<br />
blema. Esse infatti convengono, sostanzialmente, con la chiesa cattolica nel modo di intendere la<br />
successio apostolica nel ministero episcopale e nel considerare la chiesa concreta strutturata episco-<br />
palmente come il luogo, il segno e lo strumento dello Spirito di Dio. Ma per certi versi anticipano,<br />
seppure in termini diversi anche un’istanza importante degli stessi Riformatori. Più ancora della tra-<br />
dizione occidentale esse motivano la struttura episcopale in chiave pneumatologica e la inquadrano<br />
lucidamente nel complesso di una chiesa-comunione. Il ministero apostolico qui non viene più con-<br />
cepito secondo uno schema lineare, storico, ma come rimesso continuamente in moto nello Spirito<br />
Santo, e continuamente accolto e riconosciuto dalla chiesa. L’evento dello Spirito rifonda in modo<br />
sempre nuovo l’istituzione. Ma se si riconosce la libertà dello Spirito che opera all’interno della<br />
struttura sacramentale della chiesa, in linea di principio si è poi forse capaci di riconoscere come va-<br />
lidi anche ministeri che, valutati in base a criteri meramente istituzionali non si possono accettare,<br />
ma che apprezzati in quadro spirituale risultano invece legittimi e spiritualmente fecondi.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
Se nel dialogo tra cattolici ed evangelici si fosse fatto leva sulla posizione ortodossa si sarebbe forse<br />
riusciti, in vista di una futura intesa, a riprendere coscienza di una tradizione più comprensiva, quel-<br />
la che la chiesa antica fondava sulla Scrittura e cui fanno riferimento tutte le tradizioni ecclesiali.<br />
Ma a tanta ampiezza e libertà originarie si arriva soltanto se si approfondisce la vera natura della<br />
continuità di cui la chiesa gode: quella che in prima istanza è lo Spirito a garantire e soltanto secon-<br />
dariamente l’istituzione simbolico-sacramentale. In altre parole, l’istituzione va concepita come<br />
funzione dello Spirito, l’<strong>ecclesiologia</strong> come funzione della pneumatologia. Si è già visto che alcuni<br />
spunti in tale direzione sono presenti anche in testi del concilio Vaticano Il: si tratta di approfondirli.<br />
Una volta raggiunta l’intesa su questo punto, perde poi d’importanza la questione del modo in cui<br />
cooptare nella successione piena, quella intesa come successione nei ministeri.<br />
Volendo riassumere brevemente il risultato di queste nostre riflessioni, diremo che per poter prose-<br />
guire sulla via di una migliore consapevolezza e del reciproco riconoscimento dei ministeri, il pre-<br />
supposto più importante è che maturi un accordo sul modo d’intendere la chiesa nella sua natura,<br />
struttura sacramentale e mediazione di salvezza. Come già si è visto, questo impegno non è stato<br />
avvertito con sufficiente chiarezza: né nelle prese di posizione nel sec. XVI, ma nemmeno nei suc-<br />
cessivi “documenti di convergenza”. Ed è proprio in questo più ampio contesto che riusciremo a co-<br />
gliere la reale portata dei consensi e delle convergenze finora raggiunti. Infatti potremo dire se e fino<br />
a che punto le differenze che ancora permangono od i consensi non ancora pieni rappresentino o<br />
meno dei fattori di divisione nelle chiese soltanto se concorderemo nel dire ciò che la chiesa è ed in<br />
che cosa consista la sua unità, ciò che è necessario e ciò che indispensabile non è. Il compito, di<br />
gran lunga il più importante ed ancora inattuato, quello che il dialogo ecumenico del futuro<br />
c’impone, rimane dunque l’approfondimento della natura della chiesa.<br />
g) Le differenze fra apostolato ed episcopato<br />
(1) Gli apostoli hanno adempiuto due funzioni: (I) erano testimoni oculari di ciò che il Signore Gesù<br />
ha fatto per la nostra salvezza e soprattutto testimoni della sua risurrezione; in quanto tali avevano<br />
ricevuto il mandato di fondare le chiese mediante l’annuncio del Vangelo. (II) Gli apostoli erano<br />
maestri e pastori nelle chiese da loro fondate. Secondo la prima funzione, i vescovi non sono suc-<br />
cessori degli apostoli. Questa infatti era legata alla persona degli apostoli. Esistono successori sol-<br />
tanto a livello della seconda funzione; ma anche qui non sul piano di assoluta parità. In senso stret-<br />
to, più che successori degli apostoli in quanto tali, i vescovi sono successori dei primi capi ministe-<br />
riali, costituiti tali dagli apostoli (o da un apostolo), perché guidassero le chiese da loro fondate.<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
(2) Anche nella successione del ministero, non vi è affatto parità. Infatti i vescovi, anche considerati<br />
come collegio, non hanno il carisma di rivelazione che permette agli apostoli di costituire una Tra-<br />
dizione normativa. Essi sono sottoposti alla Tradizione.<br />
(3) Un vescovo singolo non succede a un apostolo singolo — eccetto il vescovo di Roma a Pietro e,<br />
per un piccolo numero di casi, nel senso storico della parola: il vescovo di Gerusalemme a Giaco-<br />
mo, quello di Alessandria a Marco… La successione (nell’autorità del ministero) è una successione<br />
da collegio a collegio, da gruppo stabile e strutturato a gruppo costituito (LG 22).<br />
(4) L’episcopato e l’apostolato hanno in comune di rispondere a una missione e si riferiscono a una<br />
condizione di assenza: devono l’uno e l’altro rendere presente il Signore assente, allorché è già ve-<br />
nuto in un certo modo, e in vista del suo ritorno.... anche se in condizioni diverse.<br />
h) Le componenti della successione apostolica<br />
(1) Ciò che la successione apostolica non è. Non è la semplice ininterruzione nell’occupazione di<br />
una sede: questo sarebbe al massimo una successione materiale o storica, che si verificherebbe an-<br />
che nel caso di una usurpazione o di un passaggio all’eresia. La successione apostolica non è un pu-<br />
ro fatto di validità sacramentale. La successione sarebbe concepita come fluido che passerebbe da<br />
consacratore validamente consacrato a consacrato. Colui al quale si succede è scomparso e si è con-<br />
sacrati da altri che rappresentano il collegio e la comunione universale. Il compito di costoro consi-<br />
ste nell’abilitare il nuovo soggetto nell’assumere la funzione, la carica e la missione, identicamente<br />
le stesse, che i suoi predecessori hanno assunto dopo il primo della serie. La successione apostolica<br />
è successione nella carica; consiste formalmente nell’identità della funzione (così si spiega anche<br />
l’interdizione delle ordinazioni assolute); la sua prima condizione è l’identità di fede. Ora, la carica<br />
di una comunità suppone o esige la comunione con tutta la chiesa, di cui ciascuna comunità partico-<br />
lare realizza localmente il mistero.<br />
(2) La successione apostolica si opera mediante la consacrazione e l’imposizione delle mani. La<br />
successione suppone la consacrazione. Essere stabilito nell’episcopato significa essere eletto e ordi-<br />
nato; dato che la successione non ha per scopo soltanto di assicurare la purezza e l’identità della<br />
dottrina, ma anche il vero culto sacramentale.<br />
(3) Tuttavia la successione apostolica è costituita, come apostolicità formale, dalla conservazione<br />
della dottrina trasmessa dal tempo degli apostoli (2Tim 2,2). La successione è essenzialmente suc-<br />
cessione in una carica: dal secolo II il termine cathedra stesso designa l’episcopato, la funzione e il<br />
potere che il vescovo detiene nella chiesa in virtù della successione apostolica. La caratteristica<br />
formale della successione apostolica è l’unità di missione; il suo cuore è l’identità di dottrina, per-<br />
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Ecclesiologia 2012/2013. Parte III: la Chiesa come popolo di Dio<br />
ché la chiesa è essenzialmente l’assemblea dei fedeli e la sua identità sussiste nell’identità di fede.<br />
Per questo ogni funzione d’autorità nella chiesa esige che sia fatta anzitutto una professione di fe-<br />
de... in fedeltà alla Tradizione degli apostoli, viva e attualizzata nella storia mediante lo Spirito san-<br />
to. In tal senso la successione apostolica è inseparabile dall’apostolicità della chiesa: esse si condi-<br />
zionano e si garantiscono a vicenda.<br />
(4) Così apostolicità di dottrina e apostolicità di ministero devono essere tenute congiunte nella teo-<br />
logia dell’apostolicità. Gli apostoli sono stati fonte; i loro successori non lo sono. Rientrano in una<br />
corrente di cui non sono gli iniziatori. Non trasmettono se non in quanto ricevono. Per questo la<br />
consacrazione per la quale si entra nella catena della successione suppone la professione di fede de-<br />
gli apostoli. Se la successione è legata all’ordinazione, lo è all’ordinazione legittima nella comunio-<br />
ne cattolica. A sua volta l’ordinazione fa sì che non vi sia semplicemente un maestro con dei disce-<br />
poli, ma una chiesa. Essa stabilisce nella carica e nell’autorità di capo entro il popolo di Dio, con la<br />
grazia corrispondente. Quindi l’insegnamento del vescovo non è semplicemente quello che propone<br />
un dottore: certo, resta legato alle Scritture canoniche, al Simbolo, alla Tradizione degli apostoli; ma<br />
non si può mettere la Regola di fede fuori della chiesa, che la giudicherebbe dall’esterno. Vi è una<br />
congiunzione del criterio oggettivo e dell’istituzione o della funzione. Questa congiunzione non è<br />
assicurata in tutti i casi particolari, ma lo è alla chiesa come tale e agli atti che la impegnano in mo-<br />
do decisivo. Perciò la conservazione della Tradizione e della professione della vera fede poggiano<br />
sul ministero istituito: cfr. 1Gv 4,3.6; per Ireneo la trasmissione senza alterazione della Tradizione è<br />
assicurata dalla successione (parádosis katà diadochên).<br />
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CONCLUSIONE<br />
Per concludere questo nostro percorso, sembra appropriata una pagina di un’opera giovanile di Die-<br />
trich Bonhoeffer. Nel clima particolare del protestantesimo tedesco della fine degli anni ’20, egli<br />
scriveva: «Il vero amore genuino per la Chiesa condividerà e amerà la sua impurità e imperfezione;<br />
poiché è in seno a questa chiesa empirica che cresce il tempio di Dio, la sua comunità. Sono stati in-<br />
trapresi diversi presuntuosi tentativi di purificazione della Chiesa nel corso della storia; a partire<br />
dalle sette perfezionistiche della Chiesa antica, fino all’anabattismo, al pietismo, all’illuminismo e a<br />
Kant con il suo concetto secolarizzato del Regno di Dio, e poi alle prime forme di attesa socialista<br />
del Regno di Dio, dal conte Saint-Simon passando attraverso Tolstoj, per arrivare al movimento<br />
giovanile religioso-sociale dei nostri giorni. In tutti questi movimenti si riscontra il tentativo di ave-<br />
re finalmente il Regno di Dio, non più solo nella fede, ma presente e visibile, non velato nella “se-<br />
gregatezza” di una Chiesa cristiana, ma che si manifesti chiaramente nella moralità e santità delle<br />
persone, oltre che in una soluzione ideale di tutti i problemi storici e sociali. Manca in tali dottrine<br />
quella sensibilità e quell’amore che sono le condizioni necessarie per comprendere e vedere che la<br />
rivelazione di Dio si compie realmente nella storia, cioè in maniera ancora “velata”, che questo<br />
mondo rimane un mondo di peccato e di morte, cioè anche di storia, e che tale storia diventa santa<br />
dal momento che Dio l’ha fatta ed è entrato in essa» 45 .<br />
45 D. BONHOEFFER, Sanctorum Communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della chiesa (Brescia: Queriniana,<br />
1994) 141.<br />
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