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1<br />

Associazione culturale umanistica<br />

“ All’ombra del Monviso “<br />

“I.N.R.I.”<br />

ambiguità dell’apparenza/apparenza dell’ambiguità<br />

Racconigi, 23 giugno 2012


In copertina: C. Sismonda “La Cattedrale di Strasburgo”, 2005, olio su tela<br />

2


Imponente ma fragile, svettante verso l’infinito ma trattenuta e quasi<br />

compromessa dall’ineludibile contatto con la terra: la Cattedrale di<br />

Strasburgo di Carlo Sismonda, un intenso dipinto del 2005 scelto<br />

come immagine–guida di questo convegno, dimostra in pochi tratti<br />

tutta l’immensa libertà conquistata dell’artista cuneese alla fine del<br />

suo cinquantennale percorso. Scartato a priori il possibile, anzi<br />

incombente, modello offerto dalle cinquanta e più varianti della<br />

Cattedrale di Rouen di Monet, con cui non ha molto da spartire,<br />

Sismonda non disdegna invece il ricordo della Cattedrale di Auvers<br />

dell’amatissimo van Gogh, da cui deduce forse certi tratti, obliqui e<br />

come appesantiti, e quel senso di generale incertezza che assedia gli<br />

edifici come l’esistenza e la coscienza dell’uomo. Ma personalissimo<br />

è, infine, quel corpo ottuso che ci appare grande e piccolo insieme,<br />

un giocattolo compresso dalla profondità eppure capace di<br />

dominare il paesaggio, vibrando l’acuto del campanile come un<br />

dardo nel cielo infuocato di colore. Colpito, infatti, il cielo sembra<br />

ritrarsi in curve e spirali che assecondano i profili del corpo<br />

dell’edificio, inquieto, accompagnandone il peso con l’elegante<br />

leggerezza di nubi dai colori esuberanti, annegate nel colore vivo di<br />

un tramonto quasi temporalesco.<br />

Il naturalismo, è chiaro, è appena una memoria lontanissima e,<br />

tuttavia, Sismonda riesce a rendere visibile la forza e la bellezza di un<br />

istante, il cielo già gravido di notte, il senso irrecuperabile dell’attimo<br />

sgargiante dell’ultima luce cui lo sguardo vorrebbe aggrapparsi e che<br />

invece, inesorabilmente e rapidamente, trascorre.<br />

La stessa mole della cattedrale, illuminata dallo squillo dei tetti rossi,<br />

sembra resa vibrante e viva dalla sensibilità dell’artista: una<br />

sensibilità che sempre ha cercato di rispecchiarsi in ogni oggetto, in<br />

ogni paesaggio, in ogni ambiente dipinto, facendone ogni volta una<br />

specie di specchio infedele capace di riflettere, oltre alla natura<br />

visibile, la mente e l’occhio, invisibili ma sempre presenti<br />

Martina Corgnati<br />

5


7<br />

Associazione culturale umanistica<br />

“ All’ombra del Monviso “<br />

“I.N.R.I.”<br />

ambiguità dell’apparenza/apparenza dell’ambiguità<br />

Contributi di<br />

Mario Abrate Ezio Albrile Beppe Artuffo Umberto Casale<br />

Ivan e Natascia Chiarlo Renato Coda Martina Corgnati<br />

Michele Emmer Piero Flecchia Ezio Fulcheri Giorgio Giacosa<br />

Lino Lantermino Beppe Mariano Massimo Martinelli Lorenzo<br />

Orione Vanna Pescatori Gianni Rabbia Daniela Ribetto Savino<br />

Roggia Franco Russo Sergio Soave Ugo Volli<br />

Racconigi, 25 giugno 2011


8<br />

Patrocini<br />

Provincia di Cuneo<br />

Città di Racconigi<br />

Città di Savigliano<br />

Città di Torre San Giorgio<br />

ASL CN 1<br />

L’associazione culturale umanistica “All’ombra del Monviso”, nella<br />

persona del Presidente dott. Mario Abrate, ringrazia per il sostegno<br />

alla pubblicazione degli atti del convegno<br />

“I.N.R.I.”<br />

ambiguità dell’apparenza/apparenza dell’ambiguità<br />

la Provincia di Cuneo nella persona del Presidente<br />

sig.ra Gianna Gancia,<br />

la Città di Racconigi nella persona del Sindaco<br />

sig. Gianpiero Brunetti,<br />

la Città di Savigliano nella persona del Sindaco<br />

prof Sergio Soave<br />

la Città di Torre San Giorgio nella persona del Sindaco<br />

geom. Mario Monge,<br />

l’ASL CN 1 nella persona del Direttore Generale<br />

dott. Gianni Bonelli,<br />

gli Autori dei contributi,<br />

il “Centro cicogne” di Racconigi nella persona del<br />

dott.ssa Lorenza Vaschetti,<br />

il dott. Ilario Bruno, per la collaborazione all’organizzazione del<br />

convegno;<br />

il prof. Gabriele Abrate, per la precisione nella correzione delle<br />

bozze.<br />

Con l’edizione del volume, l’Associazione “All’ombra del Monviso”<br />

ha promosso anche l’edizione della stampa “Cattedrale di<br />

Strasburgo” del Maestro Carlo Sismonda, tirata in 150 esemplari


I.N.R.I.<br />

Apparenza dell’ambiguità / ambiguità dell’apparenza<br />

Intorno a nessun altro spazio concettuale, quale quello<br />

dell’ambiguità, si individua l’irriducibile opposizione, entro la<br />

tradizione occidentale, delle sue componenti fondative, per la cui<br />

dialettica l’Occidente ha preso storicamente forma:<br />

- la componente biblico-giudaica, definita dal suo contenuto<br />

religioso normativo-teologico, come enucleato dal profetismo,<br />

- la componente greco-romana, come definita dalla speculazione<br />

tecnico-giuridica, entro il quadro della metafisica.<br />

Per la componente biblicogiudaica, malgrado i forti elementi di<br />

matrice orficoapollinea presenti nel testo evangelico, nell’ambiguità<br />

si manifesta una ben precisa forza d’opposizione alla giusta via. E<br />

nulla lo denuncia quanto il passo evangelico nel quale Gesù insegna<br />

“sia il vostro dire sì sì, no no, tutto il resto viene dal maligno”,<br />

ovvero dall’ingannatore, che fa dell’ambiguità la sua grande<br />

suggestione.<br />

Oppostamente, la sapienza pagana greca classica si fonda e prende<br />

forma dal confronto con la riflessione sull’enigma, intuizione<br />

originaria del nodo problematico dell’esserci nella vita per la morte,<br />

che la ragione deve sciogliere. E nulle definisce questa posizione e<br />

modalità del conoscere quanto la massima sapienziale apollinea che<br />

insegna: “il dio non indica, accenna”.<br />

Cogliere, interpretare questi “accenni” del divino, è la via-forma<br />

originaria del conoscere greco, per il quale, per gradi, il sapere<br />

appare, lungo un percorso di penetrazione nel e illuminazione<br />

dell’enigma. E’ tra Pitagora ed Epicuro, attraverso la riflessione<br />

sull’ambiguità enigmatica dell’esistere, che dal sapere classico è<br />

evoluta la coscienza scientifica nella sua forma specifica occidentale:<br />

la coscienza di una linea di confine lungo la quale la ricerca si muove<br />

entro una dialettica del mutamento, tra caso e necessità.<br />

Nulla descrive la linea di frattura tra le due visioni del ruolo e<br />

funzione dell’ambiguità quanto, per restare nel nostro presente, la<br />

reazione di Albert Einstein davanti alla fisica quantistica, rifiutata in<br />

nome della convinzione che “Dio non gioca a dadi” con la vita.<br />

Nell’affermazione del grande fisico parla una esigenza profonda<br />

dell’uomo: muoversi in un universo stabilizzato, governato da regole<br />

9


certe, a incominciare dalle regole morali fondate sul codice<br />

mosaico, e un cui modello paradigmatico di coerenza logica è la<br />

fisica prequantistica. Ma è anche su questa necessità antropologica di<br />

“ordine” che purtroppo si sono fondate tutte le regole con le quali<br />

l’uomo, l’umana specie, cercando la salvazione nel trascendente in<br />

fuga dall’ambiguità dell’esserci nel qui e ora come esistere per la<br />

morte, ha torturato se stesso, scindendo l’ordine sociale in inquisiti e<br />

inquisitori.<br />

All’opposto sta la visione greca, come si realizza intorno al concetto<br />

di metamorfosi: l’eterno divenire e mutare delle forme, per cui al<br />

concetto di ambiguità come indicazione di un inganno e segnale<br />

della presenza dell’ingannatore, si sostituisce la convinzione che il<br />

sapere sia la comprensione delle possibili altre valenze e mutazioni<br />

presenti in ogni forma che appare, sempre indizio di altro, per cui il<br />

vero conoscere è il riconoscere il ritmo delle mutazioni e accettarsi<br />

in esse.<br />

Questo la nostra giornata di studi si propone di indagare, e, a un<br />

tempo, entro il contrasto tra le due visioni di ambiguità, e circa le<br />

ragioni che hanno prodotto due interpretazioni culturali così<br />

opposte del concetto di ambiguità.<br />

10


11<br />

La declinazione dell’Essere<br />

Osservo il mosaico che appare<br />

coi chiari e gli scuri di un’ombra<br />

che giace sinuosa sul suolo.<br />

I raggi accarezzano i corpi,<br />

si esprimono agli occhi di ognuno<br />

ed ecco che il bianco ed il nero<br />

son figli di un’unica luce:<br />

il Bene ed il Male espressioni<br />

dell’unico Verbo divino.<br />

Beppe Artuffo


13<br />

Sommario<br />

Martina Corgnati<br />

La Cattedrale di Strasburgo di Carlo Sismonda<br />

I.N.R.I. Apparenza dell’ambiguità/ambiguità dell’apparenza<br />

Beppe Artuffo<br />

La declinazione dell’Essere<br />

Beppe Mariano<br />

SAFFICA (IN TRE VARIAZIONI)<br />

Umberto Casale<br />

Dire ‘Dio’. Oltre l’ambiguita’<br />

Michele Emmer<br />

Bolle di sapone tra fragilità e stabilità<br />

Mario Abrate<br />

Ambiguità dell’apparenza/apparenza dell’ambiguità: neurobiologia<br />

dell’ambiguità e del non finito nella creatività artistica<br />

Vanna Pescatori<br />

Ambiguità. Polisemia. Libertà<br />

Ugo Volli<br />

L'utopia dell'esattezza e le ragioni dell'ambiguità<br />

Franco Russo<br />

Le ultime lettere di Giuda Iscariota<br />

Gianni Rabbia<br />

Ambiguità dell’ambiguità, tutto è ambiguità<br />

Lino Lantermino<br />

Ambiguità della memoria, fra retorica e reticenza<br />

Ezio Albrile<br />

Ambigui Gnostici<br />

Concerto in ricordo di Carlo Sismonda<br />

Giorgio Giacosa<br />

Il mio sodalizio artistico con Carlo Sismonda, quarant’anni tra<br />

musica e pittura sul filo della memoria


Lorenzo Orione<br />

Dall’ambiguità all’autoriferimento, dall’indecidibilità all’approccio<br />

veritativo: indicazioni per certezze, dalla logica formale alla<br />

metodologia della conoscenza in medicina<br />

Renato Coda<br />

I Resurrezionisti, ovvero l’ambiguità della Scienza<br />

Ezio Fulcheri<br />

L’elogio dell’ambiguità: gioco di pensieri di un patologo sulle osservazioni<br />

al microscopio.<br />

Beppe Mariano<br />

La Cattedrale di Strasburgo<br />

Daniela Ribetto<br />

“La Bella Addormentata” Quando il dono più prezioso lo porta la<br />

fata cattiva<br />

Savino Roggia<br />

L’ambiguità di Pinocchio: fondamento di libertà e verità<br />

Sergio Soave<br />

Dell’ambiguità in politica<br />

Piero Flecchia<br />

aut Ciro aut Solone. Le forme delle leggi dell'ambiguità politica<br />

dopo Darwin<br />

Massimo Martinelli<br />

Apparentemente una bella famiglia: nuove regole per la famiglia di<br />

fatto?<br />

Note Biografiche<br />

14


15<br />

SAFFICA<br />

(IN TRE VARIAZIONI)<br />

1<br />

La mela che splende dorata<br />

sul ramo più alto<br />

è stata scordata dai raccoglitori<br />

( o forse non poterono raggiungerla).<br />

Soltanto Eva, disgraziata,<br />

torna a salire così in alto.<br />

2<br />

Il grappolo nascosto da un intrico di foglie<br />

si è salvato dai raccoglitori, al sole<br />

è brillato ancora per poco.<br />

Invece di lasciarsi spremere per farsi vino,<br />

ha preferito seccare sul tralcio.<br />

Neppure Eva l’ ha raccolto.<br />

3<br />

Il grappolo, celato dal fogliame<br />

non è stato visto dai raccoglitori.<br />

Ha continuato a brillare<br />

al sole autunnale, orgoglioso<br />

di essersi sottratto<br />

alla torchiatura generale.<br />

Ma ancor prima dell'inverno<br />

è seccato sul tralcio.<br />

Invece di tanta aridità, avrebbe<br />

preferito condividere il destino<br />

degli altri grappoli fraterni:<br />

farsi generosità di vino.<br />

da "IL SEME DI UN PENSIERO. Poesie (1964-2011)"<br />

Nino Aragno Editore<br />

Beppe Mariano


Dire ‘Dio’. Oltre l’ambiguita’<br />

1. L’ambiguità odierna del linguaggio teologico<br />

Umberto Casale<br />

In un testo del 1953, il teologo ebraico Martin Buber (1878-<br />

1965) racconta di un dialogo con un anziano signore di cui era<br />

ospite, scaturito in seguito alla lettura, che questi gli aveva richiesto,<br />

delle bozze di un suo libro di carattere religioso.<br />

Terminata la lettura, iniziò a parlare in modo appassionato,<br />

trascinato dall’argomento che gli stava a cuore e disse: «Come fa a<br />

pronunciare tante volte la parola ‘Dio’? Come può aspettarsi che i<br />

lettori accolgano questo nome nel modo in cui lo vorrebbe saper<br />

inteso? Quel che intende lei con questa parola è al di sopra di ogni<br />

capacità umana di afferrare e di comprendere, proprio questo essere al di<br />

sopra lei vuole indicare; ma pronunciando questa parola la lascia in<br />

balia dell’uomo. Quale altra parola del linguaggio umano fu così<br />

maltrattata, macchiata e deturpata? Tutto il sangue innocente, che venne<br />

versato in suo nome, le ha tolto il suo splendore. Tutte le ingiustizie<br />

che fu costretta a coprire hanno offuscato la sua chiarezza. Qualche<br />

volta sentire nominare l’Altissimo col nome di ‘Dio’ mi sembra<br />

un’imprecazione».<br />

Poi, per un po’, ci sedemmo di fronte in silenzio. La stanza<br />

era inondata dalla chiarezza del primo mattino. «Si», risposi, «è la<br />

parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Nessun’altra è<br />

stata tanto lacerata e insudiciata. Proprio per questo non posso<br />

rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso<br />

della loro vita angustiata su questa parola e l’ hanno schiacciata al<br />

suolo; ora giace nella polvere e porta i loro fardelli. Generazioni di uomini<br />

hanno lacerato questo nome con le loro divisioni in partiti religiosi;<br />

hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta<br />

tutte le loro impronte digitali e il loro sangue. […]. Certamente essi<br />

disegnano caricature e scrivono sotto ‘Dio’; si uccidono a vicenda e<br />

lo fanno “in nome di Dio”. Ma quando scompare ogni illusione e<br />

ogni inganno, quando gli stanno di fronte nell’oscurità più profonda<br />

e non dicono più “Egli, Egli”, ma sospirano “Tu, Tu” e implorano<br />

17


‘Tu’, intendono lo stesso essere; e quando vi aggiungono ‘Dio’,<br />

non invocano forse il vero Dio, l’unico vivente, il Dio delle creature<br />

umane? Non è forse lui che li ode? Che li esaudisce? La parola ‘Dio’<br />

non è forse proprio per questo la parola dell’invocazione, la parola<br />

divenuta nome, consacrata per tutti i tempi in tutte le lingue umane?<br />

Non possiamo lavare di tutte le macchie la parola “Dio” e<br />

nemmeno lasciarla integra; possiamo però sollevarla da terra e,<br />

macchiata e lacera com’è, innalzarla sopra un’ora di grande dolore».<br />

La stanza si era fatta molto chiara. Il mio interlocutore si alzò,<br />

venne verso di me, mi pose la mano sulla spalla e disse: «Vogliamo<br />

darci del tu?». Il colloquio era finito. Poiché dove due sono<br />

veramente uniti, lo sono nel nome di Dio 1.<br />

Questo testo racchiude alcuni aspetti del pensiero filosoficoreligioso<br />

di Buber, come, per esempio, il rinvio al suo “principio<br />

dialogico” 2, scandito dalla distinzione fondamentale tra il rapporto<br />

impersonale “Io-Esso” che si ha con le cose e caratterizza il<br />

discorso scientifico, e il rapporto personale “Io-Tu” che vige con le<br />

persone e caratterizza il discorso religioso. Ma anche l’eco della via a<br />

Dio, che Buber cerca di far valere come via regia, vale a dire a partire<br />

dalle relazioni umane autentiche, ove ci diamo del tu riconoscendoci<br />

reciprocamente come soggetti umani personali, come degli ‘Io’ con<br />

dignità assoluta, e non come ‘oggetti’ manipolabili e dominabili a<br />

piacere. Questa via approda a Dio come a quel Tu assoluto che<br />

traspare nelle relazioni umane; che è cercato in ogni relazione<br />

umana. Soltanto di fronte a Lui siamo infatti pienamente noi stessi,<br />

poiché possiamo rivolgergli le invocazioni più autentiche e profonde<br />

che ci costituiscono; tra cui, anzitutto, quella di essere in rapporto di<br />

reciproco amore con un altro soggetto umano. Il testo citato<br />

termina così: «Dove due sono veramente uniti, lo sono nel nome di<br />

Dio», una locuzione che ricorda il detto di Gesù: «dove due o tre sono<br />

riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20). In questo senso<br />

anche l’affermazione del filosofo Emmanuel Levinas (1905-1995):<br />

«Non può esserci alcuna “conoscenza” di Dio a prescindere dalla<br />

relazione con gli uomini» 3. O con quella del teologo Dietrich<br />

1 M. BUBER, L’eclissi di Dio, Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 29-31.<br />

2 Cfr. M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi, Paoline, Milano 1997.<br />

3 E. LEVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano 1990 2 , pp. 76-77.<br />

18


Bonhoeffer (1906-1945), «L'‘esserci-per-altri’ di Gesù è l'esperienza<br />

della trascendenza!» 4.<br />

Con particolare efficacia si sottolinea un fatto di cui<br />

dobbiamo prendere piena coscienza: il fatto che la parola ‘Dio’, e<br />

con esso tutto il linguaggio religioso, è oggi divenuta quanto mai ambigua,<br />

e quindi da trattare con somma cura e attenzione. Fino a preferire<br />

talora il silenzio ove l’ambiguità desse adito a sicuri fraintendimenti,<br />

come già proponeva l’antica teologia negativa, in attesa di poter<br />

pronunciare la parola Dio in modo nuovamente capace «di liberare e<br />

redimere, come il linguaggio di Gesù» 5.<br />

La parola ‘Dio’ va dunque usata con somma cura e<br />

discrezione, perché si dovrebbe sempre aver presente che, quando<br />

usiamo questa parola, stiamo parlando di qualcosa che trascende<br />

tutte le capacità di comprensione umana, tutto il mondo<br />

oggettivabile e manipolabile con la scienza e la tecnica, tutti i<br />

concetti chiari e distinti della nostra ragione filosofica. Essa, infatti,<br />

pur presente nel nostro linguaggio, è indice di trascendenza assoluta<br />

rispetto a esso; lo scompagina con la sua stessa presenza,<br />

impedendogli di rinchiudersi in sé stesso e aprendolo al mistero<br />

incomprensibile e inesprimibile che ci trascende 6.<br />

Inoltre la parola ‘Dio’ va trattata con attenzione e discrezione<br />

anche perché essa è stata sovraccaricata da tante proiezioni umane<br />

(sul principio della ‘proiezione’ L. Feurbach ha fondato l’ateismo<br />

moderno) 7, da numerosi usi e abusi storici che l’ hanno infangata,<br />

stravolta, gettata nella polvere; giustificando divisioni e persino<br />

uccidendo o facendo violenza in suo nome. E oggi non è facile<br />

lavarla di tutte le sue macchie e sollevarla dalla polvere. E tuttavia<br />

dobbiamo impegnarci a farlo, perché se per un verso la parola ‘Dio’<br />

è calpestata e bestemmiata, per altro verso è benedetta e invocata; se<br />

per un verso è stata fonte di angoscia, di timore, di sottomissione,<br />

per altro verso è stata e può essere fonte di speranza, di<br />

consolazione, di liberazione e di gioia. Essa rimane il punto di<br />

riferimento fondamentale per la salvaguardia della dignità dell’uomo<br />

e della sua responsabilità assoluta nei confronti dell’altro uomo.<br />

«Non dobbiamo abbandonarla».<br />

4 D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1985 2<br />

, p. 462.<br />

5 BONHOEFFER, Resistenza e resa, cit., p. 370.<br />

6 Cfr., in proposito, K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Alba 1977, pp. 73-77.<br />

7 Cfr. U. CASALE, Il Dio comunicatore e l’avventura della fede, Elledici, Leuman (TO) 2003, pp. 19-<br />

31.<br />

19


2. La purificazione o disambiguazione del concetto di<br />

Dio nel contesto moderno<br />

Prendere coscienza di quanto la parola ‘Dio’ sia divenuta<br />

ambigua e di come sia necessario purificarla o disambiguarla per<br />

poterla ancora pronunciare e annunciare senza fraintendimenti,<br />

incomprensioni, rifiuti, significa riconoscere che, da quando gli<br />

uomini sono caduti nel peccato (originale e originante), vi è un<br />

sospetto che, come un’ombra, accompagna inesorabilmente l’idea di<br />

Dio, dal momento in cui l’uomo e la donna acconsentono<br />

all’insinuazione del serpente (cfr. Gen 3). «Da quel momento tutti i<br />

figli dell’uomo che vengono al mondo non vengono semplicemente<br />

aperti al dono di Dio, vengono al mondo disponibili a coltivare il<br />

sospetto nei confronti di Dio. Annunciare loro il mistero di Dio,<br />

significa inesorabilmente attivare in loro, attivare in noi, il sospetto<br />

che dietro l’angolo, dietro il confine della trascendenza, nella zona<br />

del mistero, invece dei esserci tenerezza, cura e protezione, ci sono<br />

quote di potere e di bene che Dio vuole assicurare a sé stesso» 8.<br />

Significa inoltre discernere oggi quanto la declinazione della parola<br />

‘Dio’ sia ancora legata a una trama linguistico-concettuale propria<br />

della cultura pre-moderna, ormai superata non soltanto dalle nuove<br />

visioni scientifiche del mondo, ma anche dalla nuova coscienza etica<br />

ampiamente diffusa.<br />

Si tratta di un lavoro di ripensamento profondo, come più<br />

volte sollecitato da papa Benedetto XVI 9, da portare avanti non<br />

soltanto sul piano della riflessione teologico-intellettuale, ma anche<br />

su quello della prassi concreta, della vita spirituale; il che implica un<br />

rivivere, o vivere in modo nuovo sia il rapporto con Dio sia le forme<br />

della sua testimonianza e del suo annuncio.<br />

Un lavoro che la teologia del secolo XX non ha mancato di<br />

fare, ma che è ben lungi dall’essere penetrato nella coscienza diffusa<br />

8 P. SEQUERI, La storia di Gesù e la rivelazione dell’Abbà-Dio, in G. ANGELINI, M. VERGOTTINI,<br />

Un invito alla teologia, Glossa, Milano 1998, pp. 137-149. La rivelazione biblica e la teologia<br />

tendono a sciogliere questa apparentemente irriducibile ambivalenza del sacro, mentre la<br />

dottrina del peccato originale tenta in qualche modo di interpretare. Soltanto a partire da Gesù, si<br />

potrà dire senza ambiguità di sorta, che «Dio è Amore» (1Gv 4,8. 16), che «Dio è luce e in lui non ci<br />

sono tenebre» (1Gv 1, 5).<br />

9 Sia negli scritti teologici del periodo della sua docenza nelle principali Università tedesche, sia<br />

in vari interventi dopo la sua elezione a vescovo di Roma col nome di Benedetto XVI, cfr. U.<br />

CASALE (a cura di), Fede, ragione, verità e amore. La teologia di J. Ratzinger, Lindau, Torino 2009.<br />

20


e vissuta di non pochi cristiani. Alcuni esempi possono aiutare a<br />

misurare l’ampiezza del lavoro di ripensamento, non soltanto per<br />

fedeltà all’uomo del nostro tempo, ma anche per fedeltà a Dio<br />

stesso, facendone emergere il vero volto, che Gesù ha pienamente<br />

rivelato.<br />

a) Un primo esempio di ripensamento riguarda il legame del<br />

concetto di Dio con quello del “sacro” arcaico, potenzialmente violento.<br />

Secondo la celebre fenomenologia del “sacro” proposta dallo<br />

storico delle religioni Rudolf Otto (1869-1937) 10, il “sacro”<br />

coinciderebbe con il numinoso, caratterizzato dall’ambigua<br />

commistione di «mysterium tremendum» e di «mysterium fascinans»; di<br />

mistero affascinante per la beatitudine che può concedere e di<br />

mistero terrificante per le immani distruzioni che può arrecare; con<br />

una arbitrarietà e imprevedibilità che soltanto parzialmente l’uomo<br />

può contenere con le sue pratiche cultuali e il suo comportamento<br />

morale. La liberazione dalla sottomissione al sacro così inteso è<br />

certamente un’istanza di fondo della coscienza etica moderna,<br />

consapevole della maggiore età cui l’uomo è giunto con la presa di<br />

coscienza della sua dignità di soggetto etico e libero.<br />

Inoltre, è noto che questa connessione del sacro con la violenza,<br />

esaminata dall’antropologo René Girard 11, sta al centro di una delle<br />

obiezioni storicamente più forti contro il cristianesimo e in genere le<br />

religioni monoteistiche di carattere universalistico. Queste religioni,<br />

si obietta, avrebbero bensì superato le divisioni di razza e di<br />

nazionalità, di genere, di stato sociale, ammettendo tutti nella<br />

comunità fraterna dei credenti; ma “sacralizzando la loro fede”<br />

avrebbero introdotto una nuova divisione fra gli uomini, fonte di<br />

non meno gravi violenze: quella tra credenti e non credenti, fedeli e<br />

infedeli, fedeli ortodossi ed eretici, divisione che è stata alla base di<br />

tante guerre di religione, di persecuzione di eretici e di<br />

discriminazioni.<br />

Rompere il legame del concetto di Dio con il sacro<br />

potenzialmente violento è un imperativo della coscienza moderna,<br />

pena la perdita di ogni credibilità del concetto di Dio, soprattutto è<br />

un imperativo della coscienza cristiana criticamente avvertita. Una<br />

10 R. OTTO, Il sacro. L'irrazionale nell'idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano<br />

1966.<br />

11 Cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1982.<br />

21


corretta fenomenologia della figura di Gesù di Nazareth, quale<br />

trasparenza del vero volto di Dio, è oggi infatti sempre più in grado<br />

di rilevare quanto Gesù abbia ripetutamente cercato di disambiguare<br />

la figura del sacro, scindendola dal versante del tremendum come<br />

minaccia di distruzione, di castigo, ovvero come possibilità di<br />

violenza, per rivendicarne soltanto il versante del fascinans come<br />

fonte incondizionata di vita, di amore, di benevolenza e di<br />

misericordia. Tutto ciò anche in base allo stile di accoglienza verso<br />

tutti che Gesù ha praticato, non soltanto verso i suoi discepoli, ma<br />

verso ogni uomo sofferente, con somma gratuità verso giusti e<br />

peccatori 12.<br />

Gli aspetti di “timore e tremore”, presenti anche nei Vangeli,<br />

non andrebbero quindi posti a carico di una residua ambiguità di<br />

Dio, bensì a carico dell’ambiguità dell’uomo, cui in effetti rimane il<br />

rischio, insito nella sua libertà, di rifiutare l’amore di Dio e di<br />

rinchiudersi nell’inferno del proprio egoismo, senza che con ciò si<br />

debba pensare che Dio ve lo condanni a forza.<br />

b) Un secondo esempio di ripensamento riguarda il legame del<br />

concetto di Dio con il cosiddetto “mondo incantato” premoderno 13. Quel<br />

mondo caratterizzato da un’ampia porosità tra il mondo della vita<br />

quotidiana e il mondo del soprannaturale; ovvero dalla prospettiva<br />

di un sempre possibile intervento, in concorrenza con le cause<br />

naturali, di esseri soprannaturali. Questo mondo incantato sembra<br />

irreversibilmente tramontato con l’avvento della mentalità scientifica<br />

moderna. Il rischio che la presenza attiva di Dio nella vita dell’uomo<br />

moderno evapori del tutto è certamente all’orizzonte. Ma è indubbio<br />

che sarebbe impresa vana volerla ricuperare al modo antico. La fede<br />

nella Provvidenza di Dio che guida la storia universale e la vita dei<br />

singoli, indisgiungibile dalla fede cristiana in Dio, va quindi ripensata<br />

profondamente, spostandola dal piano categoriale degli interventi<br />

puntuali al piano trascendentale di una presenza costantemente<br />

attiva, distaccandola dal bisogno di constatarne o ammirarne la<br />

realtà in fatti o eventi portentosi, per imparare a coglierne la<br />

presenza attraverso delicati segni.<br />

12 Per la disambiguazione della figura sacrale di Dio operata da Gesù, cfr. P. A. SEQUERI, Il<br />

Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996; ID., L’ibrido e il doppio;<br />

Arcipelago, Milano 2007; ID., La giustizia di ‘agape’. L’ago religioso della bilancia, Servitium, Milano<br />

2010.<br />

13 Cfr. M. GAUCHET, Il disincanto del mondo: storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992.<br />

22


c) Un terzo esempio di ripensamento, in connessione con il<br />

secondo, viene dalla critica al Dio cristiano per il suo legame con la<br />

cosiddetta “metafisica ontoteologica”. Soprattutto il filosofo Martin<br />

Heidegger (1889-1976) ha espresso questa critica: la metafisica<br />

ontoteologica avrebbe inteso Dio come un ‘ente’ tra gli enti, sia pure<br />

l’Ente sommo e perfettissimo, la causa prima di ogni altro ente e<br />

anche di sé stesso, causa sui, dimenticando così la differenza<br />

ontologica tra l’essere e gli enti; dove l’essere è inteso come lo sfondo<br />

o l’orizzonte non oggettivabile e in-comprensibile in cui ogni ente<br />

appare, mentre gli enti sono tutto ciò che è a nostra portata di<br />

mano, sia materialmente sia concettualmente, nel mondo in cui<br />

siamo 14.<br />

L’obiezione heideggeriana ha sollecitato la teologia del ‘900 a<br />

cercare la via per scindere la visione cristiana di Dio da ogni<br />

compromissione, di fatto idolatrica, con il piano della realtà<br />

mondana racchiudibile nei nostri concetti. Dio non va inteso come<br />

l’ente più grande del mondo, in qualche modo in continuità con<br />

esso o deducibile da esso con dimostrazioni scientifiche. Dio è e<br />

rimane mistero trascendente e incomprensibile, non un ente che sta<br />

sopra o dentro il mondo come causa particolare o come forza tra le<br />

forze.<br />

Certamente il Dio cristiano non può essere ridotto ad una<br />

forza o energia impersonale che pervade il mondo, come da qualche<br />

parte si tende a fare (forse per contagio di religioni orientali). Ma il<br />

considerarlo come persona, a cui possiamo rivolgerci come al nostro<br />

“Tu assoluto”, non deve farci scivolare in facili antropomorfismi.<br />

Dio non è una persona come noi, sia pur grandissima e potentissima;<br />

non è infatti individuabile in base a una serie di caratteristiche<br />

determinate, con passioni e desideri prevedibili, mutabili,<br />

influenzabili. La sua trascendenza personale misteriosa va pensata in<br />

riferimento, se mai, al mistero insondabile, inesauribile e non<br />

manipolabile che già ogni persona umana è a sé stessa e agli altri.<br />

Una analogia, questa del mistero della persona umana, forse tra<br />

quelle meno inadeguate per indirizzare il nostro pensiero nella<br />

direzione del mistero personale di Dio. Avendo ben presente che<br />

14 M. HEIDEGGER, Il principio di identità, in Identità e differenza, «Aut Aut» (1982), nn. 187-188,<br />

pp. 2ss.; cfr. P. CAPPELLE-DUMONT, Filosofia e teologia nel pensiero di M. Heidegger, Queriniana,<br />

Brescia 2011; sulla critica del concetto metafisico di Dio e della sua pensabilità, cfr. E.<br />

JÜNGEL, Dio mistero del mondo, Queriniana, Brescia 1982, pp. 170-296.<br />

23


tutti i concetti o le immagini, di cui non possiamo fare a meno nel<br />

parlare di Dio nonostante il loro carattere antropomorfico, hanno<br />

valore soltanto se rimandano oltre sé stessi, nella direzione del suo<br />

insondabile e inesauribile mistero. Ben lo sapeva la teologia<br />

scolastica secondo la quale la via negationis e la via eminentiae debbono<br />

sempre accompagnare la via affirmationis quando si parla di Dio.<br />

d) Un ultimo esempio di ripensamento riguarda il concetto di<br />

trascendenza eteronoma, di cui anche il Dio cristiano è stato<br />

ampiamente rivestito e da cui è urgente liberarlo: Dio è stato<br />

pensato come un legislatore onnipotente e arbitrario, che dall’alto<br />

del suo trono, ovvero dall’esterno, detta precise leggi agli uomini,<br />

imponendo loro di osservarle con minacce di castighi e promesse di<br />

premi, che immancabilmente avranno il loro corso nell’al di qua e<br />

nell’al di là della vita umana.<br />

Già il grande teologo domenicano Tommaso d’Aquino<br />

(1225-1274) aveva rivisto tale schema eteronomo confrontandosi con<br />

l’etica aristotelica, la quale individuava la fonte della moralità nello<br />

stesso dinamismo della natura umana razionale, tesa in quanto tale al<br />

raggiungimento della propria perfezione o felicità. Per l’Aquinate,<br />

infatti, le leggi di Dio non sopraggiungono dall’esterno alla natura<br />

umana, ma sono iscritte nello stesso dinamismo della natura umana<br />

razionale creata da Dio.<br />

Oggi liberare Dio dal concetto di trascendenza eteronoma è<br />

ancor più urgente che ai tempi di Tommaso. Occorre fare i conti<br />

con la profonda convinzione moderna della autonomia della morale da<br />

dettami della religione avanzati in nome di Dio. In quanto cristiani<br />

sappiamo che la creatura umana non può arbitrariamente e<br />

individualmente dare a sé stessa le leggi del suo comportamento<br />

morale. Ma forse, accogliendo la provocazione moderna, possiamo<br />

prendere maggiormente sul serio il fatto che Dio detta all’uomo le<br />

sue leggi non dall’esterno, ma dall’interno della sua coscienza<br />

morale, così come questa va formandosi nel lavorio della ragione<br />

tesa a interpretare il dinamismo dei propri desideri naturali in<br />

dialogo con gli altri e in autenticità verso sé stessi.<br />

Questa ambiguità del pensare/dire ‘Dio’ è presente anche in<br />

alcuni credenti (cristiani), che rischiano così «di nascondere anziché<br />

di manifestare il genuino volto di Dio», con qualche responsabilità<br />

nella diffusione dell’ateismo; ma soprattutto è all’origine di molti<br />

ateismi antichi e soprattutto moderni: «alcuni s’immaginano Dio in<br />

24


modo tale che quella rappresentazione che essi rifiutano in nessun<br />

modo è il Dio del Vangelo» 15. Per questo è assai importante, per<br />

tutti, uscire da questa ambiguità, alla ricerca di un linguaggio<br />

autentico e trasparente.<br />

3. Lo “spazio pubblico” quale nuovo areopago del<br />

discorso su Dio nell’“età secolare”<br />

Le considerazioni fin qui fatte circa le provocazioni che la<br />

cultura moderna rivolge al parlare cristiano di Dio, invitandoci a<br />

scioglierne i legami con la cultura premoderna, già ci hanno<br />

introdotto alla caratteristica di fondo dello spazio pubblico in cui ci<br />

troviamo a operare: si tratta di uno spazio pervaso dalla cultura moderna<br />

con la sua interna variante post-moderna. Lo spazio pubblico è<br />

l’ambito del libero dibattito e confronto delle idee, a cui tutti<br />

possono partecipare con uguale dignità. In esso si forma l“opinione<br />

pubblica”, quale complesso di pensieri, linguaggi, giudizi di valore,<br />

comprensioni di sé e del mondo, condivisi dalla maggioranza ed<br />

esprimenti esigenze e interessi che premono sia sugli individui,<br />

plasmandone la mentalità, sia sul potere politico, che ne deve tener<br />

conto per poter governare.<br />

Perché la fede cristiana non finisca nel ghetto di ristrette<br />

comunità, con un proprio linguaggio ‘misterico’ a esclusivo uso<br />

interno, si deve, in ossequio al mandato missionario caratterizzante<br />

ogni cristiano, renderla presente in questo spazio pubblico in modo<br />

intelligente, comprensibile, credibile ed anche interessante,<br />

agganciandoci a interrogativi e desideri umani profondamente<br />

sentiti.<br />

Tra le regole da rispettare per entrare in questo spazio<br />

pubblico con qualche possibilità d’ascolto, la principale è non<br />

presentarsi con stile autoritario, magisteriale, bensì come chi ritiene di<br />

avere da offrire in dono una verità alla libertà, disposto a parlarne con<br />

tutti, a sollecitare il parere e il giudizio di tutti. Tutti, infatti, in tale<br />

spazio debbono essere riconosciuti abilitati a e liberi di prendere la<br />

parola, in vista di un’accoglienza della verità secondo la convinzione<br />

che essa riesce a suscitare, le esperienze vissute che se ne possono<br />

fare, la sua effettiva incidenza esistenziale. Allo spazio pubblico<br />

moderno è, infatti, essenziale lo spirito critico, che si esercita con<br />

15 Entrambe le citazioni provengono dal testo del Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 19.<br />

25


l’argomentare con buone ragioni le proprie posizioni ascoltando<br />

quelle altrui, l’uguale libertà di parola, l’adesione per libera<br />

convinzione; non c’è posto, in esso, per verità indiscutibili<br />

presentate come tali da una qualsivoglia autorità.<br />

Per sottolineare sia la possibilità sia il dovere che i cristiani hanno<br />

di annunciare il Dio in cui credono rispettando la regola<br />

fondamentale dello spazio pubblico, richiamo due brevi<br />

osservazioni.<br />

La prima, che riguarda la possibilità, viene da un’acuta<br />

interpretazione del concilio Vaticano I (Dei Filius, 24 aprile 1870)<br />

fatta dal teologo Johann Baptist Metz. Ribaltando alcune diffuse<br />

critiche teologiche al dogma definito da detto concilio circa la<br />

“conoscibilità naturale di Dio attraverso la luce della semplice<br />

ragione”, Metz fa osservare che tale dogma, ripreso dal Vaticano II,<br />

va rivalutato proprio nel contesto della cultura moderna e postmoderna,<br />

perché ha il grande merito di riconoscere «la competenza<br />

naturale di tutti gli uomini riguardo a Dio». Dio non è infatti un<br />

tema ‘intraecclesiale’, di cui solo la Chiesa o i teologi di professione<br />

hanno competenza, ma «una questione su cui fondamentalmente<br />

tutti debbono essere ascoltati». Per cui, aggiunge: «questo dogma<br />

richiama al proprio dovere non soltanto (e non primariamente) i<br />

non credenti, ma la Chiesa stessa, la teologia e i credenti stessi. La<br />

Chiesa e la teologia debbono essere pronte a parlare con tutti<br />

riguardo il loro Dio, pronti ad ascoltare tutti e a disputare con<br />

tutti» 16.<br />

La seconda osservazione, che riguarda il dovere e investe i<br />

cristiani con particolare urgenza, è suggerita dalla fondamentale<br />

novità che qualifica la religiosità nell’odierna età secolare. Come<br />

sostenuto dal filosofo Charles Taylor nella sua opera omonima<br />

recente 17, la caratteristica fondamentale della secolarizzazione<br />

odierna non sta tanto nella crisi della fede in Dio e della pratica religiosa;<br />

crisi che continua a dilagare nonostante si rilevino segni di “rinascita<br />

del sacro” e non si sia avverata la tesi “classica” dei teorici della<br />

secolarizzazione circa il perfetto parallelismo tra modernizzazione<br />

razionale del mondo e fine della fede religiosa. E non sta neppure<br />

nella differenziazione e relativa acquisizione di autonomia dei vari ambiti<br />

16 Cfr. J. B. METZ, Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralista, Queriniana,<br />

Brescia 2009, pp. 109-110; cfr. A. GANOCZY, Parlare di Dio nella società odierna, Paideia, Brescia<br />

1980.<br />

17 C. TAYLOR, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2010.<br />

26


della società (scienza, politica, economia, morale ecc.), che avrebbe<br />

privato la religione della sua egemonia sociale e culturale<br />

marginalizzandola ed escludendola dall’ambito pubblico;<br />

differenziazione che pur è tra le cause principali della<br />

secolarizzazione e permane ben radicata in Occidente nonostante<br />

quei fenomeni di “ritorno della religione” in ambito pubblico, che<br />

hanno fatto parlare di superamento della secolarizzazione o di età<br />

post-scolare.<br />

La caratteristica fondamentale della secolarizzazione va infatti<br />

vista, secondo Taylor, nella modificazione della natura stessa dell’adesione<br />

di fede religiosa, ormai strettamente legata alla libera scelta individuale,<br />

in un contesto di grande pluralità e varietà di credenze e di non<br />

credenze, con forme di adesioni o appartenenze graduate e<br />

differenziate. Ciò che più conta e si stima nell’adesione religiosa non<br />

è più l’ortodossia e l’ortoprassi richieste dall’autorità dell’istituzione<br />

religiosa, bensì l’autenticità della fede personale di ciascuno, la vivacità<br />

e coerenza della propria “vita spirituale”, l’adesione interiore per<br />

convinzione e a misura della propria convinzione.<br />

Nonostante il reale rischio di un dilagante “fai-da-te”<br />

religioso, il processo di individualizzazione della fede religiosa non<br />

può essere rinnegato dal cristianesimo; né può essere discreditato<br />

come di per sé equivalente ad atteggiamento egoistico o<br />

individualistico. Un’adesione per scelta individuale può infatti essere<br />

tutt’altro che egoistica e può essere aperta a relazioni comunitarie<br />

intense, anche se in forme nuove, non più solo istituzionali o per<br />

vincoli sociali tradizionali, ma per libera adesione a comunità o<br />

associazioni liberamente costituitisi.<br />

Di conseguenza, il parlare di Dio nell’odierno spazio<br />

pubblico, caratterizzato da questa forma di secolarizzazione non<br />

facilmente reversibile, deve puntare soprattutto sulla “adesione<br />

personale”, con sommo rispetto per tutte le convinzioni che<br />

liberamente maturano nelle coscienze, il che implica la necessità di<br />

prestare molta attenzione allo stile del nostro linguaggio religioso.<br />

Non si tratta infatti solo di aggiornarne il “rivestimento estetico o<br />

retorico” o di usufruire dei più moderni strumenti tecnici della<br />

comunicazione di massa, ma di prendere coscienza che lo stile<br />

coinvolge il contenuto stesso del messaggio che si trasmette e<br />

pregiudica la credibilità dei suoi stessi portatori.<br />

27<br />

4. Sullo lo “stile” del linguaggio religioso cristiano


Stante le caratteristiche dello spazio pubblico, quale dovrà<br />

essere lo stile del linguaggio religioso cristiano che voglia farsi in esso<br />

presente con intenti di annuncio efficace? Anche qui, alcune<br />

indicazioni di massima.<br />

a) Prima indicazione: un linguaggio di una verità che non s’impone<br />

ma si offre in dono gratuito, quindi invita alla libera accettazione<br />

secondo la convinzione che è in grado di suscitare. Certamente il<br />

cristiano è convinto di aver trovato in Cristo la verità assoluta, dono<br />

prezioso per tutti gli uomini; ma proprio per questo deve lasciare<br />

che essa parli di per sé stessa, con fiducia nella sua forza di<br />

illuminazione e di attrazione una volta che sia ben presentata. Ben<br />

sapendo, però, che pur presentata nel migliore dei modi anche la<br />

verità cristiana può essere liberamente rifiutata; come del resto è<br />

capitato a Gesù Cristo stesso, che certo non mancava di buone<br />

capacità di comunicazione.<br />

Questo occorre sfatare, che la fede in una verità assoluta<br />

comporti necessariamente la sua imposizione violenta, senza<br />

possibilità e la volontà di argomentarla con buone ragioni al fine di<br />

permetterne la libera e convinta accettazione; come purtroppo oggi<br />

da più parti si tende a ritenere. Per sfatare questa diffusa opinione<br />

occorre testimoniare, con lo stile stesso del linguaggio<br />

argomentativo e rispettoso, che l’assoluto della libertà – in quanto<br />

condizione di ogni vero accesso alla verità religiosa – prevale sul<br />

bene stesso della verità assoluta, come il decreto del Vaticano II<br />

sulla libertà religiosa, Dignitatis humanae ha chiarito per il pensiero e<br />

la prassi cattolica 18.<br />

b) In secondo luogo, il linguaggio religioso dovrebbe essere il<br />

linguaggio di una verità che non si prova o constata “oggettivamente”, con<br />

procedimenti di carattere “scientifico” o “storico critico”; infatti la si<br />

può verificare soltanto facendone in qualche modo esperienza in<br />

prima persona, come concreta possibilità di senso per la propria<br />

vita.<br />

Così, ad esempio, anche le cosiddette “prove dell’esistenza di<br />

Dio” (la prova ‘ontologica’ di Anselmo, le cinque ‘vie’ di Tommaso<br />

18 Cfr. U. CASALE, Il concilio Vaticano. Evento, documenti, attualità, Lindau, Torino 2012, pp. 145-<br />

150.<br />

28


d’Aquino), che la tradizione ci ha tramandato, non dovrebbero<br />

essere presentate come dimostrazioni di stretto rigore scientifico,<br />

quanto come vie che aprono a prospettive di senso, invitano a leggere<br />

nel proprio intimo, introducono a quella scaturigine segreta dei<br />

valori del bello, del buono e del giusto che ci affascinano,<br />

interpretano il carattere di incondizionatezza degli appelli che<br />

vengono dal volto del prossimo bisognoso di amore e cura, e<br />

svelano il fondamento della dignità assoluta di ogni uomo. In<br />

positivo, il linguaggio religioso dovrebbe essere un linguaggio<br />

maieutico, che aiuta a vedere con i propri occhi e a sperimentare nella<br />

vita ciò che noi in qualche modo già vediamo e abbiamo<br />

sperimentato, senza forzare nessuno affrettando le tappe di<br />

maturazione della intelligenza e della coscienza di ciascuno.<br />

A tal fine il linguaggio religioso cristiano non dovrebbe<br />

cercare di imitare il linguaggio rigoroso della scienza o di gareggiare<br />

con essa, né tanto meno quello volgare (da gossip) dei media, bensì<br />

piuttosto sintonizzarsi con il linguaggio dell’analogia, che indirizza in<br />

una certa direzione con la coscienza della propria inadeguatezza 19;<br />

con il linguaggio del simbolo, che dischiude orizzonti oltre il dato<br />

empirico; il linguaggio del racconto, che testimonia un’esperienza di vita<br />

e rappresenta in modo vivo delle concrete possibilità di esistenza; il<br />

linguaggio allusivo della poesia, del canto, della musica, che suscitano<br />

consonanze interiori libere e profonde. Come del resto ci insegnano<br />

i molteplici linguaggi dei vari generi letterari di cui la Bibbia è<br />

intessuta: racconti, preghiere, inni, detti sapienziali (proverbi), testi<br />

legislativi, profezie … Tutti questi scritti sono ‘capaci’ di parlarci in<br />

vari modi di Dio, sanno indirizzare e potenziare il nostro sguardo<br />

verso di Lui, pur nella coscienza che il loro referente ultimo sfugge<br />

alla finitezza del nostro discorso 20.<br />

Il logos della teologia non è certo un logos irrazionale, come<br />

l’assolutizzazione moderna della ragione logico-matematica e<br />

scientifico-strumentale ha fatto e fa ritenere. Ma la sua razionalità è di<br />

tipo diverso, più ampio, dato che si situa sul versante<br />

dell’intelligenza spirituale delle verità di ordine metafisico, etico,<br />

19 Come dice Tommaso: «relinquitur quod ea quae de Deo et rebus aliis dicuntur, praedicantur neque<br />

univoce neque aequivoce, sed analogice: hoc est, secundum ordinem vel respectum ad aliquid unum»: Summa<br />

contra gentiles, I, 34.<br />

20 Cfr. P. SEQUERI, Analogia, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, Marietti, Torino 1977, I, pp.<br />

341-351; P. RICOEUR, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia 1977, pp. 93-94,<br />

con correzioni alla trad. it.).<br />

29


giuridico, estetico e, appunto, religioso. L’invito di Benedetto XVI<br />

ad «allargare i confini delle ragione» per includere in essi anche<br />

l’ambito della fede religiosa 21, resta oggi d’importanza strategica<br />

fondamentale anche per quanto riguarda lo ‘stile’ del linguaggio<br />

religioso cristiano.<br />

Occorre rispettare l’autonomia della ricerca scientifica e saper<br />

purificare il nostro linguaggio religioso da compromissioni culturali<br />

con visioni scientifiche del passato, attraverso una franca attenzione<br />

ai risultati della ricerca scientifica odierna. Ma dobbiamo anche<br />

rivendicare l’originalità e consistenza della razionalità del linguaggio<br />

religioso o di fede, che la scienza non può in alcun modo contestare,<br />

poiché esso sfugge per principio ai suoi procedimenti metodici. Il<br />

che non significa che il nostro linguaggio religioso possa fare a<br />

meno del rigore logico dell’argomentare e della “fatica del<br />

concetto”, richiesti dal compito di ripensare la fede nei nuovi<br />

contesti culturali. Non tutte le analogie e tutti i simboli indirizzano<br />

in ugual modo verso la verità del mistero cristiano, per cui bisogna<br />

impegnarsi a discernere tra simbolo e simbolo, analogia e analogia, e<br />

cercare di interpretare correttamente gli uni e le altre. Il linguaggio<br />

della fede per poter corrispondere alle capacità di comprensione e<br />

alle attese esistenziali dell’uomo d’oggi, deve essere in sé stesso<br />

coerente e plausibile. Donde anche quell’impegno di chiarificazione<br />

e disambiguazione teologica di cui abbiamo cercato di dare qualche<br />

esempio nella prima parte del nostro discorso 22.<br />

c) Una terza indicazione: il linguaggio religioso cristiano<br />

dovrebbe essere il linguaggio di una verità che promuove l’umano e in<br />

nessun modo gli è estranea o lo mortifica. In sintonia con la famosa<br />

“svolta antropologica” della teologia, teorizzata dal teologo Karl<br />

Rahner (1904-1984) e fatta propria da Giovanni Paolo II a partire<br />

dalla sua prima enciclica Redemptor hominis (4 marzo 1979), il nostro<br />

linguaggio religioso non dovrebbe mai parlare di Dio o delle verità<br />

religiose cristiane come di una “cosa in sé” indifferente alla nostra<br />

vita concreta; ma dovrebbe sempre curare di mettere in luce i<br />

risvolti esistenziali di promozione dell’umano che a esse sono<br />

indissolubilmente connessi, pena il loro fraintendimento. Il<br />

21 Cfr. U. CASALE (a cura di), Il problema di Dio nel mondo contemporaneo., Lindau, Torino 2011; H.<br />

ZAHRNT, Alle prese con Dio, Queriniana, Brescia 1969.<br />

22 Cfr. U. CASALE (a cura di), Fede e scienza. Un dialogo necessario, Lindau, Torino 2010.<br />

30


linguaggio cristiano non deve rimanere nelle retrovie delle frontiere<br />

dell’umano cui il mondo moderno è giunto con la crescente presa di<br />

coscienza della dignità di ogni uomo e donna, che comporta il pieno<br />

sviluppo di tutte le loro capacità; ma esserne costantemente<br />

all’avanguardia. Nell’umanità di Cristo vi è il modello perfetto del vero<br />

uomo da proporre come ideale di umanità in contrasto con tutte le<br />

disumanità che ancora opprimono e deformano l’uomo 23. Una<br />

corretta fenomenologia della umanità di Gesù, nel senso della<br />

individuazione, sulla scia dei Vangeli, dei tratti fondamentali della<br />

sua incarnazione vissuta dell’umano, dovrebbe aiutarci in tale<br />

compito. Compito tanto più importante se ricordiamo che<br />

attraverso la santa umanità di Gesù non solo traspare il vero volto<br />

dell’uomo ma anche il vero volto di Dio, di Dio “Comunione<br />

d’Amore”, del Mistero trinitario di Dio che ha scelto di manifestarsi<br />

a noi in pienezza proprio attraverso la compiuta umanità di Gesù 24.<br />

d) Infine, il linguaggio religioso deve essere, a un tempo,<br />

profetico e umile. “Profetico” nel senso di puntuale e decisa critica<br />

dello status quo imperfetto del mondo, alla luce della prospettiva<br />

escatologica di piena e perfetta giustizia e fratellanza umana.<br />

“Umile” nel senso di non addossare sempre le colpe agli altri<br />

dimenticando le proprie; di non limitarsi ad invitare gli altri a fare,<br />

ma cercando di fare per primi; di non pretendere di cambiare le cose<br />

con la violenza – anche la violenza verbale! - o la forza del potere,<br />

ma anzitutto attraverso la testimonianza di chi opera con<br />

atteggiamento di servizio per tutti e in compagnia di tutti gli uomini<br />

di buona volontà, offrendo con franchezza (la parresia evangelica) il<br />

contributo della visione cristiana dell’ideale umano, ma pronti ad<br />

ospitare in sé anche le prospettive altrui.<br />

In sintesi, lo stile del linguaggio religioso tende a essere un<br />

linguaggio maiuetico, particolarmente utile per far maturare nei<br />

giovani una scelta personale che scaturisca da intima convinzione e<br />

23 «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero di Dio.<br />

Proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, Gesù svela anche pienamente l’uomo<br />

all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»: Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 22.<br />

24 Cfr. U. CASALE, Per un ripensamento della teologia trinitaria, in «Archivio Teologico Torinese» 7<br />

(2001/2), pp. 321-344.<br />

31


non da imposizione autoritaria 25, un linguaggio esistenziale, che<br />

presenta la verità religiosa come una possibilità reale di vita, di cui<br />

fare esperienza, un linguaggio dialogico, che non soltanto sollecita il<br />

consenso con buone presentazioni ed argomentazioni, ma provoca e<br />

dà spazio all’esposizione del punto di vista e delle ragioni altrui,<br />

valorizzando quella “competenza religiosa” che va riconosciuta ad<br />

ogni persona umana. Uno stile variegato del linguaggio religioso<br />

cristiano che abbia veramente un’anima che lo innervi e lo renda<br />

efficace, esprima la passione per la purificazione del nome di Dio,<br />

come è stato lo stile di Gesù nel rivelare e donare il vero volto di<br />

Dio. E per comunicare lo stile di Gesù è necessario il suo stesso<br />

linguaggio: il linguaggio testimoniale dell’amore.<br />

Poiché Dio unitrino non è soltanto uno che ama, ma è<br />

l’Amore stesso (Eros/Agape), «non solo si deve, bensì si può anche<br />

parlare di lui. Infatti l’amore è padrone del linguaggio: caritas capax<br />

verbi» 26. Se Cristo – la Parola di Dio incarnata – abita nei nostri cuori,<br />

allora possiamo comprendere e comunicare la smisurate misure<br />

dell’Agape divina, «l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di<br />

conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, per essere così ricolmi di<br />

tutta la pienezza di Dio» (Ef 3, 19) 27.<br />

25 Vale una meditazione il pensiero di Platone: «Figlio mio, tu sei giovane, il passare del tempo<br />

ti farà cambiare opinione su molti punti e ti porterà a pensare il contrario di quello che pensi<br />

ora. Attendi dunque fino a quel tempo prima di decidere di questioni così grandi. E la più<br />

grande fra tutte, anche se oggi la consideri come nulla, è quella di pensare correttamente<br />

riguardo al divino»: PLATONE, Leggi, X, 888 a-b.<br />

26 E. JÜNGEL, Dio mistero del mondo, cit., p. 389.<br />

27 Paolo utilizza questa enumerazione, che designava, nella filosofia stoica, la totalità<br />

dell’universo, per evocare la funzione universale di Cristo nella rigenerazione d<br />

27 Cfr. U. CASALE, Per un ripensamento della teologia trinitaria, in «Archivio Teologico Torinese» 7<br />

(2001/2), pp. 321-344.<br />

27 E. JÜNGEL, Dio mistero del mondo, cit., p. 389. 27 Paolo utilizza questa enumerazione, che<br />

designava, nella filosofia stoica, la totalità dell’universo, per evocare la funzione universale di<br />

Cristo nella rigenerazione del mondo. Le dimensioni possono essere quelle del ‘mistero’ della<br />

salvezza, o, meglio ancora, dell’amore di Cristo (che «ha amato sino alla fine» «nessuno ha un amore<br />

più grande di quello di chi dà la vita per i propri amici»: Gv 15, 13)<br />

32


33<br />

Bolle di sapone tra fragilità e stabilità<br />

Michele Emmer<br />

E' abbastanza naturale che tra i primi ad essere attratti dalle<br />

iridescenti lamine saponate siano stati gli artisti, i pittori in<br />

particolare. Mentre per i matematici le bolle di sapone sono modelli<br />

di una geometria delle forme molto stabili, per gli artisti, per la<br />

maggior parte di coloro che se ne sono occupati, le bolle di sapone<br />

sono state oggetto di interesse non tanto per il loro aspetto ludico<br />

quanto come simbolo, come allegoria della fragilità, della caducità<br />

delle cose umane, della vita stessa. Simbolo aereo e leggerissimo,<br />

sempre affascinante per la infinita varietà di colori e di forme.<br />

Abbi divertimento sulla terra e sul mare<br />

Infelice è il diventare famoso!<br />

Ricchezze, onori, false illusioni di questo mondo,<br />

Tutto non è che bolle di sapone.<br />

Il 9 dicembre 1992 il fisico francese Pierre-Gilles de Gennes,<br />

professore al Collège de France, dopo il conferimento del premio<br />

Nobel per la fisica concludeva la sua conferenza a Stoccolma con<br />

questa poesia, aggiungendo che nessuna conclusione gli sembrava<br />

più appropriata. La poesia compare come chiosa di una incisione del<br />

1758 di Daullé dall'opera andata perduta di François Boucher "La<br />

souffleuse de savon".


34<br />

François Boucher , La souffleuse de savon, incisione di J. Daullé<br />

(1758)<br />

De Gennes non voleva alludere ai significati allegorici che per molti<br />

secoli hanno avuto le bolle di sapone: simbolo della vanità, della<br />

fragilità delle ambizioni umane, della vita stessa. Le bolle di sapone<br />

erano uno degli argomenti della sua relazione, che era tutta dedicata<br />

alla Soft matter, le bolle di sapone che come scrive «sono la delizia<br />

dei nostri bambini». Una riproduzione dell'incisione compare ad<br />

illustrare l'articolo. [1]<br />

Ma è giustificato un tale interesse per questi oggetti belli, colorati ma<br />

fragili, eterei, un soffio e nulla più? Ebbene le bolle di sapone sono<br />

uno degli argomenti più interessanti in molti settori della ricerca<br />

scientifica: dalla matematica alla chimica, dalla fisica alla biologia. Ma<br />

non solo, anche nell'architettura e nell'arte, per non parlare del<br />

design e persino della pubblicità. Una storia che inizia molti secoli fa<br />

e che continua tuttora.<br />

Arte e scienza: una storia parallela.<br />

E' interessante notare che pur se molti fenomeni legati alla tensione<br />

superficiale, come la formazione delle bolle di sapone, erano stati<br />

osservati fin dai tempi più antichi, la sistematica sperimentazione per<br />

spiegarne l'origine ha inizio solo nella seconda metà del XVII<br />

secolo. Anche per gli artisti è il secolo XVII quello in cui si<br />

manifesta il maggiore interesse per le bolle di sapone; è infatti in<br />

questo secolo che l'utilizzazione della bolla diviene una costante<br />

all'interno del più vasto tema della fragilità umana, tema per il quale<br />

vennero utilizzati tra gli altri il teschio ed il fumo.<br />

Una serie di incisioni realizzate da Hendrik Goltzius (1558-1617) è<br />

ritenuta l'inizio della fortuna delle bolle nell'arte olandese del XVI e<br />

XVII secolo. La più nota si intitola Quis evadet (Chi sfugge) ed è<br />

datata 1594.<br />

La storia dei rapporti tra le bolle di sapone e l'arte visiva è stata<br />

narrata, con abbondanza di riproduzioni, in un libro pubblicato nel<br />

1991 [2]. Un nuovo libro completamente diverso sia<br />

nell’impostazione che nei testi ed in gran parte delle immagini è<br />

stato pubblicato alla fine del 2009. [3] Una delle opere più famose,<br />

ricordata nei suoi scritti anche da de Gennes, è stata realizzata nella


prima parte del '700 da Jean Baptiste Siméon Chardin (1699-1779),<br />

in diverse versioni, dal titolo Les Bulles de savon.<br />

E' un un quadro di rara bellezza e suggestione. Le bolle di sapone<br />

interessano Chardin perché lo interessano gli adolescenti, il loro<br />

mondo, i loro giochi. E' molto probabile che a quel tempo il gioco<br />

delle bolle fosse diffusissimo tra i bambini e i ragazzi. E' naturale<br />

che anche gli scienziati si incuriosiscano dei fenomeni che<br />

avvengono quando si formano delle bolle di sapone.<br />

Gli scienziati si accorgono delle bolle di sapone.<br />

E’ Isaac Newton nella Opticks, la cui prima edizione è del 1704, a<br />

descrivere in dettaglio i fenomeni che si osservano sulla superficie<br />

delle lamine saponate. Nel volume secondo, Newton descrive le sue<br />

osservazioni sulle bolle di sapone :<br />

«Oss. 17. Se si forma una bolla con dell'acqua resa prima più viscosa<br />

sciogliendovi un poco di sapone, è molto facile osservare che dopo<br />

un po' sulla sua superficie apparirà una grande varietà di colori. Per<br />

impedire che le bolle vengano agitate troppo dall'aria esterna (con il<br />

risultato che i colori si mescolerebbero irregolarmente impedendo<br />

una accurata osservazione), immediatamente dopo averne formata<br />

una, la coprivo con un vetro trasparente, ed in questo modo i suoi<br />

colori si disponevano secondo un ordine molto regolare, come tanti<br />

anelli concentrici a partire dalla parte alta della bolla. Via via che la<br />

bolla diventava più sottile per la continua diminuzione dell'acqua<br />

contenuta, tali anelli si dilatavano lentamente e ricoprivano tutta la<br />

bolla, scendendo verso la parte bassa ove infine sparivano. » [4]<br />

Il fenomeno che Newton aveva osservato è noto con il nome di<br />

interferenza: avviene quando lo spessore delle lamine è paragonabile<br />

alla lunghezza d'onda della luce visibile. Il motivo sta nel fatto che<br />

nel liquido saponato i diversi colori che compongono la luce solare<br />

si muovono con velocità differenti. Si può eseguire un facile<br />

esperimento con un telaio rettangolare che viene estratto<br />

verticalmente da una soluzione saponata; la luce riflessa dalla lamina<br />

produce un sistema di frange orizzontali, dovute essenzialmente al<br />

fatto che la lamina saponata ha la forma di un cuneo costituito dalle<br />

due facce non parallele della lamina stessa. Per gli scienziati del<br />

XVIII non era tuttavia affatto chiaro il legame tra le lamine saponate<br />

e alcuni fenomeni naturali che seguono schemi di massimo e di<br />

minimo; è solo nel XIX secolo che si capirà come le lamine<br />

35


saponate forniscono un modello sperimentale per problemi di<br />

matematica e fisica, inserendosi così a pieno titolo in quel settore<br />

della matematica che si chiama Calcolo delle Variazioni.<br />

La Regina Didone e il matematico cieco.<br />

Uno dei problemi più importanti di cui le lamine di sapone<br />

forniscono un modello sperimentale di soluzione è chiamato il<br />

problema di Plateau, dal nome di un fisico belga di cui si riparlerà in<br />

seguito. Per illustrare il problema i matematici fanno ricorso a un<br />

esempio molto antico tratto dall'Eneide di Virgilio. Si tratta della<br />

fondazione di Cartagine da parte della regina Didone :<br />

Giunsero in questi luoghi, ov'or vedrai<br />

sorger la grancittade e l'alta rocca<br />

de la nuova Cartago, che dal fatto<br />

Birsa nomossi, per l'astuta merce<br />

che, per fondarla, fèr di tanto sito<br />

quanto cerchiar di bue potesse un tergo.<br />

(Taurino quantum possent circumdare tergo.)<br />

Il nome dato alla città di Cartagine, è Byrsa, parola greca che significa<br />

pelle di bue; la leggenda a cui allude Virgilio è quella secondo cui<br />

Didone, arrivata in Africa, chiese al potente Iarba, re dei Getuli, un<br />

tratto di terra per potervi costruire una città. Il re, non volendogliela<br />

concedere, le assegnò in segno di scherno tanta terra quanta ne<br />

potesse circondare con la pelle di un bue. L'astuta Didone tagliò la<br />

pelle in strisce sottilissime e si vide assegnata tutta la terra, affacciata<br />

sul mare, che poté circondare con le striscioline attaccate una<br />

all'altra. Così costruì Cartagine. Se non si è mai sentito parlare di<br />

calcolo delle variazioni e di superfici minime ci si può chiedere che<br />

relazione ci sia tra Didone, la fondazione di Cartagine e il problema<br />

di Plateau. La proprietà di cui si sta parlando è nota con il nome di<br />

proprietà isoperimetrica: (iso = stessa, quindi isoperimetrica = stessa<br />

lunghezza) a parità di lunghezza di perimetro esterno, se si vuole<br />

racchiudere la maggiore area possibile all'interno, quale figura piana<br />

bisogna scegliere come contorno? La risposta è la circonferenza che<br />

tra le figure piane possiede appunto la proprietà isoperimetrica.<br />

Tornando al problema della fondazione di Cartagine, la soluzione<br />

trovata da Didone potrebbe essere stata quella di costruire con le<br />

36


striscioline di pelle di bue una circonferenza; in tal modo avrebbe<br />

ottenuto con la lunghezza delle striscioline la più ampia estensione<br />

di territorio all'interno.<br />

E' possibile verificare che la soluzione di Didone era corretta. Si<br />

prende un filo metallico in forma di circonferenza e lo si immerge<br />

nell'acqua saponata quindi lo si estrae: al filo metallico resta attaccata<br />

una lamina saponata in forma di cerchio che risolve il problema.<br />

Antoine Ferdinand Plateau (1801-1883) inizia la sua carriera<br />

scientifica nel campo dell'ottica. Nel 1829 durante un esperimento<br />

espone troppo a lungo i suoi occhi alla luce del sole, il che causa dei<br />

danni irreversibili alla sua vista. Dal 1843 è completamente cieco. E'<br />

in questi anni che inizia a interessarsi alla natura delle forze<br />

molecolari presenti nei fluidi, arrivando a scoprire le forme che<br />

assumono le lamine di sapone contenute in particolari intelaiature<br />

metalliche immerse nell'acqua saponata. Nel 1873 pubblica il<br />

risultato di quindici anni di ricerche nei due volumi del trattato<br />

Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces<br />

moléculaires .<br />

La soluzione del problema di Plateau: le leggi di Plateau.<br />

Plateau stesso enuncia il principio generale che è alla base del suo<br />

lavoro; tale principio permette di realizzare tutte le superfici di<br />

curvatura media nulla e le superfici minime, di cui si conoscono o le<br />

equazioni o la generatrice geometrica.<br />

Si tratta di tracciare un contorno chiuso qualsiasi con le sole<br />

condizioni che esso circoscriva una porzione limitata della superficie<br />

e che sia compatibile con la superficie stessa; se allora si costruisce<br />

un filo di ferro identico al contorno in questione, lo si immerge<br />

interamente nel liquido saponoso e lo si estrae, si ottiene un insieme<br />

di lamine saponate che rappresenta la porzione di superficie in<br />

esame. Plateau non può fare a meno di notare che queste superfici si<br />

realizzano «quasi per incantesimo.» Per prima cosa Plateau si occupa<br />

della forma che si ottiene quando si soffia con una cannuccia in un<br />

liquido saponoso.<br />

Come tutti sanno non si ottengono delle bolle di sapone, sferiche,<br />

staccate le une dalle altre ma un sistema di superfici saponose<br />

nessuna delle quali è perfettamente sferica. Si formano delle lamine,<br />

più o meno piatte, che separano tra loro le diverse bolle. Immagini<br />

molto interessanti sono state ottenute per agglomerati di bolle da<br />

37


John Sullivan presso il Geometry Center dell'Università del<br />

Minnesota a Minneapolis. Sullivan alla chiusura del centro si è<br />

trasferito alla Università tecnica di Berlino.<br />

Soffiando con delle pipette nel liquido saponoso, ci si accorge che<br />

più si soffia più complesso diventa l'agglomerato di lamine; si<br />

potrebbe pensare che conseguenza di questo fatto sia che il modo in<br />

cui le diverse lamine si incontrano possa dare luogo a infinite<br />

configurazioni. Ed è qui la grande scoperta di Plateau, incredibile a<br />

prima vista: comunque elevato sia il numero di lamine di sapone che<br />

vengono a contatto tra loro, non vi possono essere altro che due tipi<br />

di configurazioni. Precisamente le tre regole sperimentali che<br />

Plateau scopre a proposito delle lamine saponate sono che:<br />

1) un sistema di bolle o un sistema di lamine attaccate a un supporto<br />

in fil di ferro è costituito da superfici piane o curve che si<br />

intersecano tra loro secondo linee con curvatura molto regolare.<br />

2) Le superfici possono incontrarsi solo in due modi: o tre superfici<br />

che si incontrano lungo una linea o sei superfici che danno luogo a<br />

quattro curve che si incontrano in un vertice.<br />

3) gli angoli di intersezione delle superfici lungo una linea o delle<br />

superfici delle curve di intersezione in un vertice sono sempre<br />

eguali, nel primo caso a 120°, nel secondo a 109° 28'.(Fig. 2)<br />

Fotogramma dal film di Michele Emmer Soap Bubbles. © M. Emmer.<br />

Plateau utilizza le regole scoperte per dare forma a un gran numero<br />

di strutture di acqua saponata Per far questo basta costruire dei<br />

telaietti di ferro e immergerli nel sapone. Una volta estratti si ottiene<br />

per ogni telaietto un sistema di lamine che è la verifica sperimentale<br />

38


del problema di Plateau per quel telaietto. Uno dei primi telaietti<br />

che Plateau considera è in forma di scheletro di cubo. Le lamine,<br />

una volta immerso ed estratto il telaio, raggiungono la forma stabile<br />

in pochi istanti.<br />

Il sistema di lamine che si ottiene rispetta le regole degli angoli e<br />

inoltre le lamine vanno a incontrarsi al centro in una lamina di<br />

forma quadrata, lamina che risulta sempre disposta parallelamente a<br />

una delle facce del telaio cubico. Se poi si reimmerge nell'acqua<br />

saponata e si estrae il telaietto dal sapone non del tutto, in modo tale<br />

che le lamine catturino un piccolo volume d'aria e quindi si estrae<br />

del tutto il telaietto, la bolla d'aria catturata si sistema<br />

immediatamente per ragioni di simmetria al centro della struttura<br />

laminare.<br />

39<br />

M. Emmer, E. Bisignani, Soapy Hypercube, fotografia, (1986) © M.<br />

Emmer. Biennale d’arte di Venezia.<br />

Si ottiene un cubo le cui facce di acqua saponata sono collegate<br />

tramite altre lamine al telaio cubico. Il cubo al centro ha le facce<br />

leggermente convesse per rispettare le regole sugli angoli.<br />

Plateau con i suoi esperimenti aveva posto ai matematici due<br />

problemi: quello che è noto come problema di Plateau e l'altro sulla<br />

geometria delle lamine di sapone.<br />

E' all'inizio degli anni '60 del secolo scorso che viene introdotto un<br />

approccio completamente nuovo al problema di Plateau da parte di<br />

Ennio De Giorgi e di Reifenberg. L'idea era quella di generalizzare il


concetto di superficie, di area, e di contorno per arrivare ad<br />

ottenere una soluzione generale del problema di Plateau. Il metodo<br />

usato era quello del calcolo della variazioni, cioè a dire cercare<br />

all'interno delle superfici considerate quelle che minimizzavano<br />

l'energia del sistema, nel caso specifico dell'area. Utilizzando metodi<br />

diversi e indipendenti di Reifenber e De Giorgi il problema di<br />

Plateau poteva dirsi risolto nella sua generalità. Restava il problema<br />

dello studio delle spigolosità (delle singolarità) che veniva affrontato<br />

e risolto da diversi studiosi, tra i quali Mario Miranda, Enrico Giusti<br />

e Enrico Bombieri in Italia e Federer, Fleming e Almgren negli<br />

USA. Enrico Bombieri nel 1974 otteneva la medaglia Fields anche<br />

per i suoi contributi alla teoria delle superfici minime. Restava<br />

un'altra questione: la geometria delle lamine di sapone così come<br />

erano state scoperte sperimentalmente da Plateau. Le leggi di<br />

Plateau erano corrette e era possibile dimostrare che i modelli che<br />

aveva trovato per diversi contorni erano corretti?<br />

«In questo lavoro forniamo una classificazione completa della<br />

struttura locale delle singolarità nello spazio tridimensionale; i<br />

risultati sono che l'insieme singolare di un insieme minimo (gli<br />

spigoli cioè) consiste di curve abbastanza regolari lungo le quali si<br />

incontrano tre lamine della superficie in angoli eguali di 120° e da<br />

punti isolati ove si incontrano quattro di tali curve dando luogo a sei<br />

lamine anch'esse con angoli eguali. I risultati si applicano alle molte<br />

superfici reali che sono generate dalla tensione superficiale, come un<br />

qualsiasi aggregato di lamine di sapone, e quindi forniscono una<br />

dimostrazione dei risultati sperimentali ottenuti da Plateau più di<br />

cento anni fa. » Così inizia uno dei lavori di matematica più noti di<br />

questi ultimi venti anni. Scritto da Jean E. Taylor, si intitola The<br />

Structure of Singularities in Soap-Bubble-Like and Soap-Film-Like minimal<br />

Surfaces (la struttura delle singolarità nelle superfici minime stabili<br />

cioè del tipo bolle e lamine di sapone). La Taylor fu in grado di<br />

classificare e esaminare i casi che si potevano presentare<br />

dimostrando così che Plateau aveva avuto ragione. Con Fred<br />

Almgren la Taylor scrisse lo stesso anno un ben noto articolo sulle<br />

loro ricerche pubblicato sul Scientific American nel 1976. [5] Da lì<br />

nacque l’idea di realizzare il film “Bolle di sapone”. [6]<br />

Mostra Internazionale d’ Architettura a Venezia del 2004.<br />

40


Tra i progetti premiati, in particolare tra quelli che si ispirano al<br />

mondo naturale, vince il progetto Watercube che sarà realizzato per le<br />

Olimpiadi di Bejing nel 2008: la piscina olimpica. Progettisti<br />

australiani, PTW, in collaborazione con ARUP, un gruppo<br />

indipendente di designer e ingegneri con sedi in moltissimi paesi.<br />

Tra i tanti che vi hanno lavorato Chriss Bosse, che in un articolo del<br />

2008 L’architettura delle bolle di sapone scrive:<br />

“Nella serie di padiglioni che abbiamo costruito in tutto il mondo,<br />

abbiamo usato il principio delle superfici minime in natura.<br />

Minimizzando il materiale da usare riempiamo uno spazio enorme,<br />

sulla base delle proprietà di auto-organizzazione delle strutture di<br />

una membrana. Otto Frei ha usato questi principi, immergendo dei<br />

cavi nelle bolle di sapone per creare un tetto a forma di nuvola<br />

sospesa nell’ambiente circostante, in occasione delle olimpiadi di<br />

Monaco del 1972.”<br />

Già in quell’anno l’architetto Frei Otto ha utilizzato modelli di<br />

lamine di sapone per costruire grandi strutture, che chiamò Tensile<br />

Structures. Scrive ancora Bosse:<br />

“Concettualmente, il quadrato e gli spazi interni sono ricavati da un<br />

ammasso indefinito di schiuma di lamine di sapone, il che<br />

simbolizza la condizione della natura che è trasformata in una<br />

situazione culturale. L’apparizione del centro acquatico è di<br />

conseguenza un ‘cubo di molecole d’acqua’. La sua intera struttura è<br />

stata derivata dalla struttura di acqua nella condizione di schiuma.<br />

Dietro la apparente casualità è nascosto una rigida geometria che<br />

può essere ritrovata in sistemi naturali come i cristalli, le cellule e le<br />

strutture molecolari. In altre parole la migliore suddivisione dello<br />

spazio tridimensionale con celle di eguale volume.”<br />

Nel 1887 il famoso fisico Lord Kelvin poneva un problema alla<br />

comunità scientifica, quale sia il poliedro con il quale si può riempire<br />

in modo uniforme lo spazio tridimensionale riducendo al minimo<br />

l’area superficiale dei solidi e massimizzando il volume contenuto. I<br />

primi tentativi vennero fatti con le sfere che ovviamente lasciano dei<br />

vuoti tra di loro. Per migliorare il risultato si possono deformare le<br />

sfere per riempire i vuoti ed ottenere dei poliedri che hanno 12 facce<br />

rombiche, noti con il nome di rombododecaedri. Per molto tempo<br />

si è pensato che questa fosse la migliore soluzione possibile.<br />

Qualche anno dopo la pubblicazione del libro di Plateau, Lord<br />

Kelvin aveva pubblicato un breve lavoro intitolato On the Division of<br />

Space with Minimum Partition Area. Kelvin esegue diverse esperimenti<br />

41


con la cannuccia soffiando al centro della struttura ottenuta da<br />

Plateau e arriva ad ottenere un nuovo solido che chiama<br />

tetrakaidecahedron (tetrakaideca = 14) che ha 14 facce. Con il solido<br />

proposto da lord Kelvin si ottiene un poliedro con un aumento di<br />

densità di circa l'1% rispetto al rombododecaedro.<br />

Nel 1994 due chimici fisici Denis Weaire e Robert Phelan<br />

annunciano di aver scoperto una nuova configurazione composta di<br />

due poliedri con eguale volume, dodecaedri irregolari incurvati e 14edra<br />

(che aveva utilizzato Kelvin) con facce incurvate.<br />

I progettisti della piscina olimpica decidono di recarsi al Dublino per<br />

farsi spiegare dai fisici Irlandesi come era realizzata la loro soluzione.<br />

I poliedri della soluzione di Weaire e Phelan sono stati quindi<br />

utilizzati per realizzare la struttura della piscina. Ma la storia non<br />

finisce qui perché nel novembre 2011 quello che era un modello<br />

geometrico astratta diventa una realtà fisica. Il modello di Weaire e<br />

Phelan viene fisicamente realizzato con lamine di sapone. Grazie agli<br />

esperimenti condotti al Trinity College da un gruppo coordinato da<br />

Ruggero Gabbrielli, dell’università di Trento. Con l’aiuto di Kenneth<br />

Brakke il team è riuscito a costruire una struttura complessa chen<br />

riesce ad alloggiare le lamine di sapone teoricamente proposte da<br />

Weaire e Phelan. La struttura è stata poi fotografata. “Wonderful!”<br />

ha esclamato Weiare, oggi Professore Emerito. “Lo chiameremo<br />

Italian Job” (lavoro, creatività Italiana). L’articolo che descrive<br />

42


l’esperimento viene pubblicato sulla stessa rivista sulla quale Lord<br />

Kelvin aveva posto il problema più di cento anni fa, il Philosophical<br />

Magazine.<br />

Aveva ragione Mark Twain quando ha scritto:<br />

“Una bolla di sapone è la cosa più bella, e la più elegante, che ci sia<br />

in natura.....Mi chiedo quanto sarebbe necessario per comprare una<br />

bolla di sapone se al mondo ne esistesse soltanto una.”<br />

Per gli ultimi sviluppi dell’utilizzo delle lamine di sapone e la loro<br />

geometria in architettura si veda [3], [7].<br />

Bibliografia<br />

[1] De Gennes, Pierre Gilles, Soft matter, 1992, Science, vol 256,<br />

24 aprile 1992, pp. 495-497<br />

[2] Emmer, Michele, 1991, Bolle di sapone: un viaggio tra arte,<br />

scienza e fantasia, Firenze, La Nuova Italia; le ultime copie del<br />

libro sono state, a quanto mi risulta, mandate al macero nel<br />

1997.<br />

[3] Emmer, Michele, 2009, Bolle di sapone tra arte e matematica,<br />

Torino, Bollati Boringhieri, premio letterario Viareggio-<br />

Repaci 2010.<br />

[4] Emmer, Michele, 2011, Colours and Soap Bubbles. In: Rossi<br />

Maurizio, ed. Colour and Colorimetry. Multidiscilplinary<br />

Contributions, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore,<br />

p. 161-168.<br />

[5] F. Almgren, Fred, Taylor, Jean, 1976, The Geometry of soap<br />

bubbles and Soap Films, Scientific American, p. 82-93.i<br />

[6] Emmer, Michele, 1980, Bolle di sapone, DVD, 27 minuti,<br />

Roma, produzione Michele Emmer & Film 7 International.<br />

[7] M. Emmer, 2013, Minimal Surfaces and Architecture: New<br />

Forms, in K. Williams, ed., Nexus Network Journal, vol. 15<br />

no. 1, in corso di stampa.<br />

WEB<br />

http://www.math.uiuc.edu/~jms<br />

http://www.msri.org/publications/sgp/jim/images/surflib/index.h<br />

tml<br />

43


Ambiguità dell’apparenza / apparenza dell’ambiguità:<br />

neurobiologia dell’ambiguità e del non finito nella<br />

creatività artistica<br />

45<br />

Mario Abrate<br />

La creatività è, per così dire, la strategia del cervello per supplire ai propri limiti.<br />

Semir Zechi<br />

I progressi tecnici nello sviluppo di metodologie per lo studio<br />

dell’attività cerebrale umana ed il continuo miglioramento degli<br />

strumenti di indagine delle neuroscienze cognitive, hanno permesso<br />

di mettere in relazione l’attività neuronale con il pensiero ed il<br />

comportamento, producendo così nuovi modelli di comprensione<br />

del cervello e della mente, dimostrando che gli stati mentali<br />

soggettivi hanno particolari correlati neuronali, che possono essere<br />

individuati con estrema precisione. Oggi la maggior parte dei<br />

ricercatori è concorde nell’affermare che i processi cognitivi e i<br />

diversi stati di coscienza / consapevolezza, comprese le emozioni,<br />

sono ‘prodotti’ del funzionamento cerebrale.<br />

Gli studi sulle attivazioni e sulle risposte comportamentali agli<br />

stimoli ambientali che si svolgono in modo ‘automatico’, prima che<br />

siano percepite o che possono anche essere completamente fuori<br />

dallo spazio della coscienza, hanno condotto alla convinzione che,<br />

ben oltre l’inconscio freudiano, l’Io si sia sbriciolato in subelementi<br />

funzionali, spesso in competizione, che solo apparentemente<br />

trovano unità, sia per il ‘soggetto’ sia per l’osservatore esterno.<br />

Attraverso la conoscenza del meccanismo neurofisiologico è ora<br />

possibile interrogarsi sul nostro modo di percepire la ‘realtà’, di<br />

intessere rapporti e di sviluppare un senso estetico.<br />

Attraverso l’analisi dei prodotti della mente, quali le arti figurative, la<br />

musica, la letteratura, la creatività umana in generale, Semir Zechi,<br />

professore di Neurobiologia alla University College di Londra,<br />

partendo dall’analisi della struttura del cervello e del processo di<br />

astrazione, propone un’analisi del meccanismo di costruzione dei<br />

concetti e delle idee, simile a quella formulata nella ‘Critica della<br />

Ragion Pura ’ da Kant, costruendo la stessa prospettiva ma con<br />

linguaggio e strumenti diversi. Attraverso la Risonanza Magnetica


Funzionale per Immagini (fMRI), Zechi elabora e propone uno<br />

schema attraverso il quale, dal sensibile, si arriva alla costruzione di<br />

un ‘concetto sintetico ’ della realtà, ovvero ad una astrazione<br />

ottenuta mediando tutti gli impulsi sensoriali.<br />

L’acquisizione di conoscenza è una funzione fondamentale del<br />

cervello, che la realizza prima utilizzando un principio organizzativo<br />

tale che l’imput in entrata genera un’esperienza, successivamente<br />

usando l’esperienza così generata per formare ‘concetti’, che<br />

possono essere di due tipi: ereditari o acquisiti. Sono tra loro<br />

profondamente legati, e l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. I<br />

concetti ereditari organizzano i segnali che raggiungono il cervello in<br />

modo da instillare in essi il significato e da ricavarne dunque un<br />

senso. I concetti acquisiti sono generati dal cervello durante tutto il<br />

corso della vita, e lo rendono indipendente dal cambiamento<br />

continuo di informazione che lo raggiunge. Agevolano la percezione<br />

e il riconoscimento e ci permettono di acquisire la conoscenza di<br />

cose e situazioni. Ne consegue che non già le percezioni precedono<br />

le astrazioni ed i concetti, ma accade esattamente il contrario:<br />

formiamo le percezioni a partire dalle astrazioni e dai concetti. Se è<br />

attraverso questi due tipi di concetti che il cervello acquisisce la<br />

conoscenza del mondo, ne discende che esistono dei limiti a quella<br />

conoscenza, come già sottolineato da Kant; “non possiamo mai conoscere<br />

la cosa in sé, in quanto la conoscenza che di essa abbiamo può avvenire solo<br />

attraverso le operazioni della mente”, cioè del cervello. Tutta la<br />

conoscenza è conoscenza del cervello; Kant, affermando che “la<br />

mente non deriva le sue leggi (a priori) dalla natura, ma le prescrive a<br />

quest’ultima”, avrebbe potuto tranquillamente sostituire a ‘mente’ la<br />

parola ‘cervello’.<br />

Il meccanismo cerebrale di acquisizione della conoscenza è<br />

distribuito in molte differenti aree del cervello, ognuna in accordo<br />

con la sua specializzazione, ciascuna capace non solo di organizzare<br />

i segnali in entrata sulla base del proprio concetto ereditario, ma<br />

anche di astrarre. Questa distribuzione del sistema di acquisizione<br />

della conoscenza, vale non solo per i segnali molto differenti tra<br />

loro, come quelli uditivi e visivi, ma caratterizza persino le<br />

suddivisioni entro una singola modalità sensoriale, come quella della<br />

visione. La differenza importante tra concetti cerebrali ereditari e<br />

acquisiti risiede nel fatto che gli ereditari sono intimamente legati ad<br />

aree specifiche, dove la macchina interna di ciascuna area è<br />

46


necessaria per organizzare in un modo particolare i segnali in<br />

arrivo, e dipende dalla sua specializzazione, mentre gli acquisiti<br />

hanno una spiccata dipendenza da influssi provenienti da altre aree,<br />

spesso ‘superiori’; e questo perché il giudizio, le esperienze passate e<br />

la memoria svolgono tutte un ruolo fondamentale nell’aggiornare il<br />

concetto cerebrale sintetico e nel modificarlo nel tempo.<br />

La formazione dei concetti acquisiti presenta dei limiti rigidi, pur<br />

essendo una meravigliosa costruzione di ingegneria neurale; i<br />

concetti formati sono sintetici, conseguono all’acquisizione continua<br />

di esperienze dopo la nascita e durante tutta la vita, anche se<br />

l’esperienza istantanea è appannaggio esclusivo di alcuni esempi<br />

particolari, che comunemente non soddisfano il concetto sintetico<br />

nel cervello. L’evidenza della ricerca impone di concludere che i<br />

concetti cerebrali sintetici acquisiti, sintesi di molte esperienze, sono<br />

continuamente modificati: come il concetto ereditario è<br />

indispensabile per generare l’esperienza, così l’esperienza è<br />

indispensabile per generare il concetto acquisito.<br />

In contrapposizione con ‘l’ideale Platonico ’, dove solo la conoscenza<br />

delle ‘Idee universali ’, la cui esistenza è indipendente dall’uomo, è da<br />

intendersi come vera conoscenza, e l’unico modo per ottenerla è<br />

attraverso un processo del pensiero, essendo le Idee soprasensibili,<br />

Semir Zechi, come molti altri neurobiologi, ritiene che i dati<br />

sensoriali siano sottoposti a processi di astrazione nel cervello, e<br />

attraverso questi processi di astrazione è costruito un concetto<br />

sintetico, cioè l’Ideale. Detto altrimenti, non esiste nel sistema<br />

neurobiologico alcun ideale universale di bellezza o di oggetto o di<br />

paesaggio: ciascuno di essi è ritagliato secondo l’esperienza<br />

individuale, e varia nei diversi individui; inoltre, mentre le Idee<br />

Platoniche sono immutabili, il concetto sintetico del cervello cambia<br />

nel tempo e con l’accumularsi dell’esperienza. In sintesi, come già<br />

Platone e Kant, Zechi propone l’ipotesi che la costruzione di un<br />

concetto sintetico o ideale, che conduce alla conoscenza di una<br />

categoria particolare, sia dovuta ad un processo intellettivo, che può<br />

anche essere ‘silente’, inconscio; e, come già pensavano Platone e<br />

pure Kant, esso implica una comparazione; infine, come già per<br />

Platone, anche il concetto sintetico è raramente realizzabile nella<br />

vita.<br />

La grande prerogativa del cervello è quindi di essere capace, in<br />

apparenza con grande naturalezza, di generare moltissimi concetti,<br />

47


comportandosi quindi come un sistema molto efficiente di<br />

acquisizione di conoscenza, ovvero di generazione di conoscenza.<br />

D’altro canto, l’insuperabile limite che questa meravigliosa macchina<br />

implica è, paradossalmente, il risultato della sua stessa efficienza.<br />

Infatti, l’incapacità della nostra esperienza di esaudire i concetti<br />

sintetici generati dal cervello, crea uno stato di permanente<br />

insoddisfazione che potrebbe essere una delle principali forze<br />

motrici delle imprese artistiche.<br />

Se le fonti della perfezione risiedono nel cervello, più precisamente<br />

nei concetti sintetici che esso forma, uno dei fattori determinanti<br />

della creatività sarebbe il tentativo di soddisfare un concetto<br />

cerebrale inappagato: l’insoddisfazione, dunque, come uno degli<br />

ingredienti più potenti per attivare la creatività. Soddisfatto il<br />

concetto cerebrale, la creatività diminuisce rapidamente, e a riprova<br />

Semir Zechi riporta questa citazione da Lucian Freud:<br />

“Mai un istante di completa felicità si presenta nella creazione di<br />

un’opera d’arte. La promessa di felicità la proviamo nell’atto della<br />

creazione e scompare quando siamo prossimi a completare l’opera.<br />

E’ in quel frangente che il pittore si rende conto di dipingere<br />

solamente un quadro. Prima, egli aveva quasi osato sperare che il<br />

dipinto potesse sorgere a vita. Se non fosse per questa ragione, il<br />

quadro perfetto potrebbe essere dipinto, e, completandolo, il pittore<br />

potrebbe appendere il pennello al chiodo. E’ questo grande vuoto<br />

che lo spinge ad andare avanti. Quel processo di creazione diventa<br />

necessario al pittore forse più del quadro stesso. Il processo è come<br />

una sorta di droga.”<br />

L’orientamento del cervello ad acquisire conoscenza in un mondo<br />

che è in un flusso perpetuo è stato spesso al centro della<br />

speculazione dei filosofi interessati al problema della conoscenza, a<br />

come questa venga acquisita e alla certezza di ciò che sappiamo. Già<br />

si è detto come il cervello disponga di concetti ereditari che<br />

organizzano l’esperienza e la rendono quanto più indipendente<br />

possibile dal cambiamento esterno, realizzando percetti all’interno di<br />

aree specializzate, non necessariamente dipendenti da centri<br />

cognitivi superiori. Ciò permette al cervello di tentare interpretazioni<br />

sul significato dell’esistenza, sui segnali provenienti dal mondo<br />

esterno. Tuttavia, il cervello non si trova, in genere, in condizioni<br />

per farlo agevolmente, confrontandosi con significati diversi, tutti<br />

ugualmente validi. Quando una sola soluzione non è evidentemente<br />

48


migliore delle altre, l’unica opzione è ammettere diverse<br />

interpretazioni, o meglio proporne diverse, tutte valide. Un livello<br />

così elevato di ambiguità si riscontra nelle molteplici possibili<br />

interpretazioni narrative, o concetti, che possiamo dare alle opere<br />

d’arte, dove l’unica variabile è rappresentata dal cervello dello<br />

spettatore, che può offrire diverse letture ugualmente valide, a<br />

seconda dei concetti che ha acquisito. Seppure fisicamente stabile,<br />

l’opera d’arte è cognitivamente instabile: questo deriva dalla genialità<br />

degli artisti, capaci di privarci della risposta, nel provare a<br />

trasmetterci con sensibilità magistrale tutte le espressioni, sebbene in<br />

un determinato istante non si possa che essere coscienti di una sola.<br />

Poiché non esiste la soluzione univoca, l’opera d’arte stessa diventa<br />

un problema che coinvolge la mente.<br />

Ne consegue una evidente relazione tra le opere che manifestano<br />

tale ambiguità e le opere volutamente non completate dall’autore:<br />

entrambe sono cognitivamente instabili, perché in entrambi i casi il<br />

cervello offre molteplici interpretazioni ugualmente valide della<br />

stessa opera, facendo in modo che più concetti influiscano<br />

sull’interpretazione stessa. Come esempio, Semir Zechi scrive sulle<br />

sculture non finite da Michelangelo, dove si sono generate<br />

interpretazioni complete, al punto da trarre la conclusione che sia<br />

stato lo spettatore “a completarle”. Zechi cita la descrizione di<br />

Charles de Tolnay della Pietà Rondinini, come opera che “arriva a<br />

rappresentare nella vita personale dell’artista quello stato di beatitudine a cui<br />

aspirava la sua anima irrequieta”, che potrebbe essere infatti la<br />

descrizione di un’opera compiuta. In effetti, si possono applicare<br />

molti concetti per completarla ed interpretarla: ne consegue che la<br />

capacità di fornire molteplici interpretazioni potrebbe non essere<br />

una facoltà a parte, inventata o usata dall’artista, ma potrebbe essere<br />

legata ad una capacità generale del cervello di fornire diverse<br />

interpretazioni, di riversare il significato applicando diversi concetti,<br />

una capacità importante per il suo ruolo di acquisizione della<br />

conoscenza: è su questa base fisiologica che si costruirebbe la<br />

preziosa qualità dell’ambiguità.<br />

Non è improprio ipotizzare l’esistenza di variazioni graduali dagli<br />

stimoli non ambigui a quelli ambigui, come pure nel numero di aree<br />

o di sedi corticali da reclutare durante la percezione di ‘figure<br />

ambigue ’. Nei livelli superiori, come evidenzia la capacità di dare<br />

molteplici interpretazioni ugualmente valide di un’opera d’arte, lo<br />

stato ambiguo potrebbe coinvolgere diverse aree distinte capaci di<br />

49


esercitare la propria influenza, sino a quando, in un dato istante,<br />

entra quasi certamente in campo un influsso “dall’alto”, da più fonti,<br />

oltre ai lobi frontali. L’artista sfrutta intuitivamente questa<br />

potenzialità del cervello che consente a molteplici aree di influenzare<br />

l’oggetto della percezione. Di fatto, l’ambiguità potrebbe essere<br />

maggiore di quanto valutiamo: il cervello visivo, infatti, si è<br />

sviluppato lungo un arco di tempo molto più lungo rispetto al<br />

‘cervello linguistico ’, e molte immagini visive, seppure di grande<br />

capacità evocativa, resistono ad una classificazione semantica.<br />

Inoltre le immagini acquisiscono ricchezza tramite segnali visivi<br />

ambigui non facilmente comunicabili attraverso il linguaggio, o ad<br />

esso inaccessibili. Ecco perché, afferma Zechi, “non è tanto l’ambiguità<br />

in sé ad essere esteticamente piacevole –sebbene artisti come Arcinboldo e<br />

Salvador Dalì abbiano deliberatamente tradotto l’ambiguità in forma artistica-<br />

quanto la capacità di introdurre in un’opera d’arte molteplici concetti ed<br />

esperienze.”<br />

In sintesi, esiste continuum nelle operazioni del cervello, il cui<br />

fondamento consiste nel cercare la conoscenza mediante la<br />

formazione di concetti per riversare significati nell’esistenza, e nel<br />

quale procediamo da condizioni in cui il cervello non ha scelte nella<br />

sua interpretazione dei segnali ricevuti, come nella visione dei colori,<br />

a condizioni in cui sono possibili due interpretazioni ugualmente<br />

plausibili e, infine, condizioni in cui le possibili interpretazioni sono<br />

molte. Se la generazione dei colori dipende dall’attività delle vie e del<br />

centro del colore, e se il colore che il cervello attribuisce ad un<br />

oggetto qualsiasi nel nostro campo visivo è determinato dalle<br />

operazioni di detto centro, e non è facilmente modificabile da<br />

influssi di altre aree corticali, si suppone che l’area corticale in cui<br />

sono registrati i volti sia soggetta ad influenze da altre aree corticali,<br />

che potrebbero determinare l’interpretazione assegnata<br />

all’espressione sul volto.<br />

Concludendo, sempre secondo Zechi, se la funzione dell’arte è<br />

un’estensione di quella del cervello, e cioè l’acquisizione della<br />

conoscenza, e se il cervello la realizza formando concetti di tutto<br />

quello che sperimenta, allora è ragionevole supporre che i<br />

meccanismi usati per trasfondere il significato in questo mondo<br />

siano proprio gli stessi usati per trasfondere il significato nelle opere<br />

d’arte. Sono proprio questi i meccanismi a cui ricorrono gli artisti<br />

per creare le loro opere; gli stessi che noi usiamo per interpretare le<br />

50


loro realizzazioni. E quando la realizzazione del concetto cerebrale<br />

sintetico, o l’ideale cerebrale, è comunemente difficile o impossibile<br />

nella vita reale, o persino nell’arte, una soluzione potrebbe essere<br />

presentarlo in una forma incompleta, ovvero irraggiungibile, e<br />

lasciare all’immaginazione il compito di completare l’esperienza in<br />

base ai concetti sintetici del suo cervello.<br />

E se spesso l’umanità è condannata a non trovare una felicità<br />

adeguata a causa dell’incapacità a soddisfare i concetti sintetici che il<br />

cervello sviluppa nella sua ricerca della conoscenza, pagando un<br />

prezzo consistente in termini di sofferenza per le meravigliose<br />

capacità del suo cervello, così la sofferenza può generare a sua volta<br />

splendori, creando nuove opere che arricchiscono l’umanità e<br />

introducono nuovi concetti. E non solo l’arte figurativa, la musica, la<br />

letteratura, ma anche i castelli di sabbia, perché la creatività e<br />

l’immaginazione sono attributi dei quali ogni cervello è dotato, e che<br />

in vario grado è capace di esprimere.<br />

La creatività, in questa lettura diventa la strategia del cervello per<br />

supplire ai propri limiti.<br />

51


Ambiguità. Polisemia. Libertà<br />

53<br />

Vanna Pescatori<br />

Alla radice del nostro simposio dedicato all’ambiguità, c’è la<br />

polisemia: un’espressione è ambigua in virtù della possibilità di avere<br />

delle decodificazioni differenti, ovvero di indurre ad una<br />

attribuzione di significato non univoca e, per questo, diversa da<br />

quella con cui è stata detta, scritta, rappresentata: in una parola<br />

“comunicata’’.<br />

Mentre nelle lingue artificiali e formalizzate tutti gli sforzi degli<br />

studiosi, logici e matematici soprattutto, sono stati rivolti a rendere<br />

le espressioni – elementi costitutivi e enunciati ben formati – non<br />

ambigue, incernierando, per così dire, ogni variabile in una<br />

definizione rigorosa pre-messa; nelle lingue naturali la polisemia<br />

regna sovrana e con essa l’ambiguità. La ritroviamo infinite volte nel<br />

nostro quotidiano e, per quanti sforzi abbiano fatto linguisti, filosofi<br />

del linguaggio e semiologi, nell’interrogarsi sul funzionamento della<br />

decodificazione “naturale’’, appartenente al nostro mondo in<br />

continuo e sempre più rapido e imprevedibile mutamento, le<br />

questioni aperte sono rimaste, quasi che codici linguistici e processi<br />

di significazione rifiutassero di sottomettersi al rigore di un sistema<br />

interpretativo, perché è questo, in definitiva il sogno di ogni<br />

studioso: imprigionare la sua creatura, in modo da poterla sempre<br />

ritrovare.<br />

In fondo l’uomo non ama poi molto la libertà. O meglio, proclama a<br />

gran voce la propria aspirazione ad essere libero, ma quando deve<br />

fare i conti con una libertà che, in quanto tale, non può appartenere<br />

solo all’individuo in quanto “sé’’, ma essere elemento costitutivo<br />

della società, in quanto “altro-da-sé ’’, entra in crisi. Comincia, allora,<br />

a guardare la libertà sotto la lente d’ingrandimento e vi trova una<br />

miriade di istanze, come una cavolo in cui le foglie si<br />

sovrappongono e appena una viene eliminata, sotto ve n’è un’altra<br />

pronta a prendere il suo posto. Ma se la libertà è un concetto<br />

complicato, proprio perché anche se apparentemente la definizione<br />

può essere abbastanza riconoscibile – ad esempio quella<br />

d’ispirazione illuminista, che su indicazione di Thomas Jefferson,<br />

compare nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino


“La libertà consiste nel poter fare ciò che non nuoce agli altri”-, in<br />

realtà può offrirsi a molteplici interpretazioni, prendiamo un termine<br />

molto più banale: “scarpa’’.<br />

Apparentemente il suono “scarpa” o la grafia “scarpa” (all’interno<br />

del codice della lingua italiana), non dovrebbe indurre ad ambiguità<br />

di decodificazione, almeno in senso generale, in quanto “calzatura<br />

atta a proteggere il piede”. Eppure nella scarpa è contenuto il<br />

mocassino, il decolleté, la “ballerina”, il sandalo, l’antico coturno e<br />

tutta una tipologia di calzature che mi consentono di dire che la<br />

scarpa a cui penso io possa esser totalmente differente da quella a<br />

cui pensa il mio vicino.<br />

Si dirà è il solito (filosofico) problema degli universali e dei<br />

particolari che ha torturato le più alte menti fin dall’antichità.<br />

Possiamo platonicamente dire che il mocassino, la ballerina, il<br />

decolleté e i loro parenti, “partecipano’’ dell’idea della “scarpa’’,<br />

l’archetipo che vi è nell’iperuranio. Oppure con gli Scolastici cercare<br />

di individuare la “substantia’’ della scarpa. O ancora fare nostra<br />

l’annotazione di Umberto Eco che in un testo in cui confuta il<br />

“Pensiero debole’’ di Vattimo, scrive: “Noi usiamo espressioni per<br />

esprimere un contenuto, e questo contenuto viene ritagliato e<br />

organizzato in forme diverse da culture ( e lingue) diverse. Su e da<br />

che cosa viene ritagliato? Da una parola amorfa, che era lì prima che<br />

il linguaggio vi avesse operato le sue vivisezioni, e che chiameremo il<br />

continuum del contenuto, tutto l’esperibile, il dicibile, il pensabile –<br />

se volete, l’infinito di ciò che è, che è stato e sarà, sia per necessità<br />

che per contingenza’’.<br />

E più oltre, riferendosi al termine “ mening ’’ del linguista danese<br />

Hjelmslev, traducibile con “direzione di senso’’: “Se il continuum ha<br />

delle linee di tendenza, non si può dire tutto quello che si vuole. Ci<br />

sono dei sensi, forse non dei sensi obbligati, ma dei sensi vietati’’.<br />

Ovvero, conclude Eco, dei “limiti’’, dei confini, che ci pone il<br />

mondo, prima ancora del linguaggio. Sono questi confini con cui<br />

l’uomo deve fare i conti, nella sua azione interpretativa.<br />

Tenendo questa affermazione come filo conduttore e come “ àncora<br />

’’ di significato, rimane tutta via la varietà di attribuzioni di senso,<br />

che attingono al vissuto dell’autore e del fruitore dell’atto<br />

comunicativo (sia esso verbale o non verbale).<br />

Ritornando alla scarpa. Un giovane artista, Enrico Tealdi, dipinge<br />

una fila di scarpe appese ad una corda, in un piccolo quadro esposto<br />

nella mostra “Passaggi ad Oriente’’ nell’Albergo Oriente di Caraglio,<br />

54


una locanda chiusa da molti anni, dove tutto è rimasto intatto,<br />

quasi il tempo si fosse fermato.<br />

La scarpa diventa, in questo contesto, simbolo di un passaggio,<br />

perché il viaggio si compie, abitualmente, indossando le scarpe. La<br />

scarpa è allora metafora del passaggio in quel luogo: di quanti vi<br />

hanno speso un tempo, probabilmente breve, della loro vita. Vi<br />

hanno lasciato in qualche modo una traccia, l’orma sfocata di una<br />

presenza.<br />

Un altro artista, Claudio Berlia, ha rappresentato un piede femminile<br />

in un sandalo elegante. Ha poi scelto l’immagine, evocatrice di una<br />

femminilità seduttiva, per presentare, nelle affiches, la sua mostra<br />

personale “Foemina”, allestita a Cuneo, alcuni anni fa. Ancora una<br />

volta la scarpa ha aperto la strada a nuove attribuzioni di senso,<br />

inducendo l’osservatore ad un’identificazione con la sessualità,<br />

l’erotismo e infine, se lo sguardo si è fatto critico, con il feticcio.<br />

Ritornano al campo prettamente verbale, l’affermazione “mi ha fatto<br />

le scarpe” è un modo usuale per indicare il danno subito a causa di<br />

una prepotenza o, meglio, di una scorrettezza. Che c’entrano le<br />

scarpe? Possiamo provare a interpretare come “mi ha impedito di<br />

continuare il mio viaggio, sottraendomi artatamente il mezzo<br />

indispensabile per procedere” . Sandalo, mocassino o coturno poco<br />

importa: la scarpa ha assunto il valore di “oggetto-mezzo<br />

insostituibile per procedere nel viaggio che è l’esistenza”.<br />

Quale sistema linguistico potrà mai fornire una spiegazione per tutti<br />

questi significati e per tanti altri che si potrebbero trovare? Un<br />

ultimo esempio. Che rapporto lega la scarpa-calzatura all’espressione<br />

idiomatica popolare “fare scarpetta”, che indica l’atto di raccogliere<br />

con il pane il sugo rimasto in fondo al piatto? Probabilmente<br />

l’analogia tra l’attitudine della scarpa a contenere il piede e quella del<br />

pezzo di pane a contenere il sugo.<br />

Il campo è vastissimo e inesausto. Dà corso alla grande<br />

problematica della traduzione da un codice verbale ad un altro<br />

codice verbale, al punto da delineare il problema della fondamentale<br />

intraducibilità delle lingue naturali, anche tenendo conto<br />

dell’avvertenza dei logici e dei filosofi del linguaggio di tenere<br />

distinti senso e significato, come due termini che appartengono alla<br />

stessa espressione, ma ne indicano facoltà diverse: l’intenzione, il<br />

senso, l’estensione, il significato.<br />

Con grande semplificazione: ad uno stesso significato possono venir<br />

associati molteplici sensi. Al punto da generare, secondo gli studiosi<br />

55


(da Pierce in poi), una “semiosi illimitata’’ che darebbe adito, nella<br />

rappresentazione grafica suggerita da Eco, ad un labirinto di infiniti<br />

(o meglio indefiniti) incroci che costantemente si intersecano e si<br />

rimandano attraverso snodi, al punto da poter immaginare una<br />

semisfera (ideata dal semiologo e linguista russo Lotman) in cui<br />

“naviga” ogni essere umano.<br />

Una cattiva fama<br />

“Non essere ambiguo’’, “Che persona ambigua’’, “Comportamenti<br />

ambigui’’. Tanti modi per dirlo, ma l’accezione del termine è in tutti<br />

i casi negativa. L’ambiguità, nel comune sentire, è indice di una<br />

mancanza di chiarezza, di onestà, di verità.<br />

Ancora una volta le scarpe possono fornire un esempio. “Tenere il<br />

piede in due scarpe’’ fornisce un’immagine visivamente<br />

contraddittoria e paradossale di una situazione d’instabilità e di<br />

mancanza di equilibrio, dunque di disordine formale che diventa<br />

disordine morale, per uno dei tipici traslati che la coscienza realizza<br />

più o meno consapevolmente.<br />

L’ambiguità di linguaggio diventa sinonimo dell’ambiguità di<br />

comportamento. Sottende una mancanza di chiarezza espressivocomunicativa,<br />

passibile di diverse implicazioni, sempre negative:<br />

scarsa conoscenza del tema (cioè ignoranza), scarsa attenzione del<br />

contesto e dei partner comunicativi. Ma questo sarebbe ancora il<br />

minore dei mali.<br />

Peggio: l’ambiguità induce anche a pensare ad una voluta<br />

indeterminatezza espressiva (linguistica o comportamentale), per<br />

evitare la decodificazione o portarla su un terreno sbagliato.<br />

In definitiva: si ricorre all’ambiguità per nascondersi, velarsi, rifiutare<br />

un addebito o una responsabilità, per esempio quella di mantenere le<br />

promesse fatte o la parola data. Forse, per sottrarsi a quell’io<br />

categorico kantiano secondo il quale l'uomo nel suo<br />

comportamento morale si sente responsabile delle proprie azioni.<br />

In questa direzione quasi d’obbligo alcuni riferimenti che sono sotto<br />

gli occhi di tutti: l’ambito della politica, dei mass media e della<br />

pubblicità. In tutti questi insiemi l’ambiguità non è mai casuale, ma<br />

progettata e pianificata per ottenere una decodificazione che potrà<br />

essere confutata a posteriori.<br />

Nella politica è una strategia elettorale tra le più consumate: durante<br />

le campagne per la raccolta di voti, la scelta di termini e espressioni<br />

56


polisemiche consentirà, poi, di ritrattare promesse e pseudoaffermazioni,<br />

senza incorrere nell’accusa di falsità. Nel campo dei<br />

mass media, uno dei casi più comuni è l’ambiguità del titolo di un<br />

articolo che può avere un duplice effetto: aumentare l’interesse per il<br />

testo o evitare una presa di posizione eccessivamente netta, rispetto<br />

ad un fatto, una situazione, un’idea. Nel caso della pubblicità, forse il<br />

più eclatante, suggerire caratteristiche del prodotto o servizio che,<br />

nel momento della verifica, non corrisponderanno. Anche in questo<br />

caso, nessun’onta, né a carico del produttore, né del pubblicitario:<br />

essere polisemici e pertanto ambigui fa parte del gioco. Peggio per<br />

chi non ne conosce le regole.<br />

L’insoddisfazione, l’ansia che genera usualmente l’incertezza, la<br />

vertigine che coglie l’essere umano quando si trova ad un bivio,<br />

trivio o quadrivio (semantico o esistenziale), perché il termini della<br />

questione si offrono a più opzioni interpretative, è molto<br />

probabilmente uno dei fattori che hanno contribuito ad assegnare<br />

un’accezione negativa all’ambiguità e al suo correlato, la polisemia.<br />

Tuttavia non sempre è così.<br />

Il comico e l’artista<br />

Se nella vita quotidiana l’ambiguità ha una cattiva fama, la polisemia<br />

viene concessa, anzi esaltata, quando dal piano reale si accede a<br />

quello della creatività. I comici giocano sull’ambiguità linguistica e<br />

gestuale, perché lo “scambio di significato’’ è una dei “ topoi ’’<br />

classici per indurre alla risata. Lo sapevano bene gli antichi ed è<br />

arrivato fino a noi. Questo scambio di battute tra due noti comici,<br />

Ale e Franz, lo dimostra:<br />

“Scusi, ma il capriolo si chiama capriolo perché quando corre fa le<br />

capriole?”<br />

“Sa, anche il lama si chiama così perché quando corre taglia l´erba’’.<br />

I due giochi linguistici, uno basato sull’etimologia della parola<br />

“capriolo”, l’altro sulla polisemia della parola “lama’’, sono un<br />

piccolissimo esempio dei tanti, più o meno divertenti e intuitivi che<br />

vengono utilizzati negli spettacoli comici. Chi non ricorda di sketch<br />

televisivi di Carlo Campanini e Walter Chiari che riproponevano la<br />

comicità dei fratelli De Rege, o i doppi sensi sfruttati da Totò?<br />

L’effetto viene raggiunto nel modo più efficace quando la platea<br />

condivide l’universo di conoscenza a cui fa riferimento il comico,<br />

infatti quando si operano delle traduzioni in altre lingue, il traduttore<br />

spesso è costretto a sostituire il doppio senso con un altro,<br />

57


comprensibile nel nuovo codice, in genere dichiarando la<br />

sostituzione in una nota a piè pagina.<br />

Citando le definizioni freudiane, Alfredo Citati, nel suo studio sulle<br />

teorie del comico, ricorda che il lavoro spiritoso consiste nella<br />

“elaborazione inconscia di un pensiero preconscio’’. E aggiunge: “Il<br />

lavoro spiritoso è un lavoro di traduzione non meno del lavoro<br />

interpretativo’’.<br />

Nell’opera di Henri Bergson si trova un’ulteriore conferma: per il<br />

filosofo francese gli oggetti comici hanno sempre un valore<br />

simbolico, in quanto il riso presuppone ogni volta l’intervento<br />

interpretante e valorizzante dell’immaginazione.<br />

Ancora sul versante dell’ambiguità sfruttata a scopi prevalentemente<br />

ilari, si apre una finestra sull’utilizzo dell’ambiguità dai vignettisti che<br />

ne hanno fatto uno strumento spesso di denuncia dei soprusi del<br />

potere e della ricchezza, di critica sociale e politica, a volte un’arma<br />

contro la guerra (ad esempio prima dei conflitti mondiali).<br />

Anche l’Arte, o meglio le arti plastiche e pittoriche, incontrano sul<br />

loro cammino la polisemia. Davanti ad un quadro, raramente i<br />

visitatori danno la stessa interpretazione dell’immagine: e non solo<br />

in un contesto astratto o espressionista. Si pensi alla “Primavera’’ del<br />

Botticelli. Ogni elemento della composizione si offre ad una lettura<br />

plurima e stratificata: dal puro (si fa per dire) segno denotativo, alla<br />

sua più intima simbologia, all’interno di una architettura metaforica<br />

globale che si è modificata (dal punto di vista interpretativo) nel<br />

corso dei secoli in quanto il mondo di riferimento dell’artista<br />

rinascimentale è ben diverso dal mondo di riferimento<br />

dell’osservatore del terzo Millennio. Senza contare tutti gli altri<br />

elementi che intervengono: dall’età alla cultura, dalla psicologia alla<br />

provenienza geografica del visitatore.<br />

Verso un possibile riscatto<br />

Simone de Beauvoir , nel suo libro “La morale dell’ambiguità”,<br />

conduce la riflessione in una direzione positiva del termine,<br />

identificandolo, sotto certe condizioni, con la natura umana per<br />

eccellenza. Per la compagna di Sartre, l'ambiguità indica il carattere<br />

della condizione umana, determinata da contrasti costitutivi: tra la<br />

vita e la morte; tra l'immobilità compatta dell'essere e il movimento<br />

dell'esistenza; tra la coscienza di essere soggetti e quella di essere<br />

oggetti per gli altri. Un’ambiguità che, se non va rifiutata o annullata,<br />

58


deve però diventare consapevole. Chi pretendesse di risolverla,<br />

secondo l’autrice, non farebbe che “mascherarla”, per proteggersi<br />

dietro un comodo quanto falso “spirito di serietà”: l'appiattirsi su<br />

valori dati e rassicuranti, rifuggendo la propria libertà. Ed è proprio<br />

la libertà, per contro, che permette il passaggio dal puro essere al<br />

pieno esistere: nodo focale della morale esistenzialista. La “Morale<br />

dell'ambiguità”, dunque, non perché equivoca o sfuggente, ma in<br />

quanto morale della condizione ambigua dell'uomo, che deve<br />

conquistare concretamente la libertà, per sé e per gli altri.<br />

Se al fondo della concezione espressa dalla de Beauvoir c’è l’istanza<br />

prescrittiva ideologico-politica, un’altra voce a difesa del valore<br />

dell’ambiguità come indice di libertà, e quindi sostanzialmente di<br />

affermazione della propria, irrinunciabile, identità, si trova in un<br />

famosissimo test psicologico: le “Macchie di Rorschach”, in cui al<br />

soggetto vengono presentate in un determinato ordine, dieci tavole<br />

su cui sono rappresentate delle macchie di inchiostro, passibili di<br />

diversa interpretazione, in quanto stimoli nuovi ed ambigui. Il test<br />

psicologico proiettivo (di tale complessità da essere utilizzabile solo<br />

da psicodiagnosti di grande esperienza) serve a delineare attitudini,<br />

personalità ed eventuali problemi del soggetto.<br />

Nell’operazione di “traduzione’’ del messaggio ambiguo, dunque,<br />

esce allo scoperto l’intima natura dell’uomo: la risultante di tutte le<br />

esperienze che egli è e che hanno cominciato a costituirlo dal<br />

momento in cui ha ricevuto il suo patrimonio genetico. Il suo<br />

passato e il suo presente rivelati in quella facoltà che lo identifica in<br />

modo, questa volta davvero, univoco, come “homo symbolicus ’’.<br />

Nel suo comunicare attraverso simboli, l’uomo costruisce<br />

incessantemente sistemi polisemici, e altrettanto incessantemente li<br />

riceve e interpreta, compiendo infinite traduzioni che attingono ogni<br />

volta alla sua identità, non solo come individuo, ma come individuonel-mondo.<br />

Se sono le “stratificazioni’’ di esperienze ad ampliare la capacità<br />

dell’individuo di interpretare, decodificandoli, i messaggi da cui è<br />

circondato in un mondo polisemico, allora la cultura (che<br />

quotidianamente perde pezzi davanti ad altre urgenze proclamate<br />

inappellabili) si pone come elemento irrinunciabile affinché ognuno<br />

di noi possa esercitare la “facoltà di libertà” che ci consente di<br />

compiere un passo per “essere nel mondo” come soggetti e non<br />

solo oggetti.<br />

59


L'utopia dell'esattezza e le ragioni dell'ambiguità<br />

61<br />

Ugo Volli<br />

Il linguaggio umano è strutturalmente ambiguo a molti livelli. Lo è a<br />

livello sintattico come ha mostrato la linguistica generativa<br />

analizzando frasi come "ogni uomo ama sua moglie". Lo è a livello<br />

pragmatico, per via di tattiche comunicative come l'ironia,<br />

l'allusione, l'ellissi. Esempi evidenti sono "Bravo!" detto a chi ha<br />

fatto un disastro, "Non farlo!", pronunciato in una situazione<br />

specifica e incomprensibile a chi non sia presente ecc. Lo è a livello<br />

lessicale: un cane può essere un animale, ma anche un cattivo tenore<br />

o una parte di una pistola; "testa" può significare la parte del corpo,<br />

l'intelligenza, il mandante, chi è davanti ecc. Vi sono ambiguità<br />

legate al plurilinguismo (omofoni come "i vitelli dei romani sono<br />

belli"; falsi amici come l'inglese "actually" o lo spagnolo "burro").<br />

Tutte queste ambiguità derivano dal fatto dell'ambiguità del<br />

linguaggio, dal fatto che non vi è alcuna motivazione, se non storica<br />

e contingente, per chiamare le cose in una maniera o nell'altra. Al<br />

contrario del mito biblico e platonico dei "veri nomi" imposti alle<br />

cose da Abramo o da un "nomoteta", la denominazione è una<br />

pratica empirica, che si motiva con le tattiche linguistiche del<br />

parlante, con i suoi errori, confusioni, schemi linguistici preesistenti<br />

e che non individua affatto delle essenze delle cose.<br />

Più radicalmente: non vi sono prima delle "cose in sé" o dei "generi<br />

naturali" che ricevano etichette diverse; anche la suddivisione della<br />

realtà in gruppi da denominare è una pratica culturale. La nostra<br />

parola "nipote" mette insieme quel che in inglese si potrebbe<br />

chiamare "nephew", "grandson", "grandaughter", differenziando il<br />

figlio del figlio dal figlio o dalla figlia del fratello, e in altre lingue<br />

viene analizzato più finemente, per esempio distinguendo se il<br />

legame si riferisce al lato paterno o al lato materno, se lo zio in<br />

questione è maschio o femmina; mentre in altre lingue tutti questi<br />

rapporti rientrano genericamente in una categoria di "parentela".<br />

Così l'inglese "blue" può essere reso in italiano con "blu", "azzurro",<br />

"celeste", mentre vi sono lingue come il gallese che mettono insieme<br />

i colori "freddi" come azzurro, verde, grigio in un'unica parola - in<br />

un unico concetto. Si potrebbe proseguire a lungo con gli esempi. E'<br />

importante capire che quando gli antichi e i medievali, da Giona a


San Brandano, dicevano che la balena era un "pesce" non facevano<br />

un errore di biologia, per la semplice ragione che non scrivevano di<br />

biologia; descrivevano il mondo secondo griglie culturali diverse<br />

dalle nostre. Tutto ciò ha a che fare con il fondamento metaforico<br />

del linguaggio, che già Vico comprendeva e che oggi è di gran moda<br />

nelle scienze cognitive.<br />

Si potrebbe pensare che questi fenomeni di ambiguità siano limitati<br />

al piano del linguaggio verbale o scritto. In realtà è facile mostrare<br />

che essi investono largamente altre forme di comunicazione, su tutti<br />

i canali. I gesti e il linguaggio del corpo, anche se in parte motivati<br />

biologicamente sono spesso assai diversi nelle varie culture. Non<br />

solo, per fare un esempio, quel gesto di approvazione che usano i<br />

sub e si è diffuso largamente che consiste nel fare un cerchio con<br />

pollice e indice in altre culture ha significati osceni e così il suo<br />

sinonimo che consiste nell'alzare il pollice; ma il sorriso può indicare<br />

nella cultura giapponese imbarazzo e non simpatia; perfino i gesti<br />

fondamentali per il sì e per il no possono essere intesi al contrario,<br />

come si vede per esempio nel rifiuto gestuale siciliano, che consiste<br />

in un movimento verticale del capo, che in altre culture significa<br />

approvazione. Lo stesso vale per altri sistemi semiotici come<br />

l'abbigliamento e i segnali stradali, che possono variare largamente<br />

nelle diverse società, anche se oggi risentono della grande spinta alla<br />

globalizzazione della cultura.<br />

Per quanto riguarda il sistema delle immagini, a partire<br />

dall'ambiguità intrinseca nelle "illusioni ottiche" (i profili femminili<br />

che si possono vedere come vaso ecc.), la loro decodifica è spesso<br />

difficile e dipende soprattutto da quel che si cerca e quel che si sa.<br />

Comprendere il contenuto di una radiografia o di un vetrino<br />

istologico (oggetti artificiali entrambi, frutto di tecniche di<br />

colorazione o di produzione di figure che rendono visibile ciò che<br />

non lo sarebbe) dipende fortemente dall'addestramento, cioè dalla<br />

conoscenza e dall'esperienza dell'addetto. In altri termini lo stesso<br />

vale per le immagini apparentemente più semplici e univoche della<br />

nostra tradizione figurativa. Vi sono ambiguità spaziali, dovute alle<br />

diverse regole usate per rendere la tridimensionalità dello spazio su<br />

una superficie bidimensionale: una figura, come la Madonna del<br />

parto di Piero della Francesca è grande perché lo è fisicamente,<br />

perché è vicina secondo le regole della prospettiva, o perché è più<br />

importante dei suoi fedeli inginocchiati davanti ad essa e molto più<br />

piccoli benché in primo piano? In genere non facciamo fatica a<br />

62


ispondere secondo la terza soluzione, ma solo perché conosciamo<br />

il senso del quadro, che appartiene alla nostra cultura visiva. E' noto<br />

che a partire da Aby Warburg si è sviluppata una disciplina raffinata,<br />

l'iconologia, che si propone di decifrare (cioè di disambiguare) il<br />

senso delle immagini, per esempio definendo gli attributi che<br />

caratterizzano certe figure tipiche (per fare esempi banalissimi, i<br />

colori del manto e dell'abito della Madonna, il teschio e il leone di<br />

San Gerolamo, l'elmo di Minerva ecc.). Gli storici dell'arte discutono<br />

appassionatamente da secoli per cercare di risolvere l'ambiguità del<br />

senso di grandi capolavori dell'arte, dalla "Tempesta" di Giorgione<br />

alla "Flagellazione" di Piero alla "Primavera" di Botticelli. Se si passa<br />

alle immagini contemporanee, dai marchi industriali alle fotografie<br />

delle cronache giornalistiche, questa condizione di ambiguità<br />

strutturale e profonda non cambia.<br />

In sostanza, ogni forma di comunicazione non parla mai da sola, o<br />

almeno non dice da sola "la verità, tutta la verità, solo la verità". Del<br />

resto neppure il miglior testimone, cui si riferisce questa formula,<br />

può farlo. Come si potrebbe dire "tutta" la verità? Se, come dice<br />

Aristotele, dire il vero significa "affermare che c'è quel che c'è e che<br />

non c'è quel che non c'è", già la prima clausola, quella sugli esistenti,<br />

implica un impegno infinito. Chi potrebbe mai dire (o dipingere o<br />

anche fotografare) quel che c'è - tutto quel che c'è in questa sala?<br />

Ogni faccia, ogni dito ogni unghia, ogni bottone o macchiolina su<br />

ogni vestito, ogni foglio con tutto quel che vi è scritto sopra, ogni<br />

singolo capello sulla testa di ogni persona, ogni granello di polvere -<br />

per non parlare delle molecole, degli atomi e delle particelle<br />

elementari, peraltro strutturalmente indistinguibili e indecidibili. Se<br />

poi passiamo a quel che bisogna negare perché non c'è, come dire<br />

che nel vano della porta non c'è né Giulio Cesare né alcuno dei suoi<br />

soldati, né il Saladino coi suoi e neppure uno dei milioni di gatti che<br />

popolano l'Italia (o un altro o un altro ancora) o invece un cane fra i<br />

milioni o una formica fra i miliardi? L'esempio non è mio, è del<br />

grande filosofo americano Quine. Ma io lo voglio usare per<br />

convincervi di un fatto essenziale per ogni discorso sull'ambiguità. Il<br />

linguaggio e qualunque forma di comunicazione non è immagine<br />

semplice della realtà, non ha la sua stessa struttura, come pretendeva<br />

con violento utopismo Ludwig Wittgenstein. La comunicazione è<br />

piuttosto un setaccio, come quello che lascia passare la farina ed<br />

esclude la crusca, e anche piuttosto grossolano. Ed è un setaccio,<br />

lasciatemi passare la sovrapposizione di due metafore incongrue,<br />

63


prospettico, nel senso che il mio setaccio lascia passare cose che il tuo<br />

scarta, e viceversa.<br />

64


65<br />

Le ultime lettere di Giuda Iscariota<br />

Franco Russo<br />

Giuda Iscariota non è un personaggio a cui si possano<br />

assegnare le categorie dell’apparenza o dell’ambiguità. Anzi. Giuda è<br />

solare: per Dante il peccatore più infame, degno del castigo più<br />

crudele nell’ultima fossa dell’Inferno; per il catechismo, che<br />

studiavamo da bambini, il traditore per eccellenza reso ancora più<br />

turpe dai trenta denari e, soprattutto, dal bacio; per la lingua italiana<br />

titolare principe della figura retorica dell’antonomasia: “il tuo prezzo<br />

sono trenta denari” , “è il bacio di Giuda”, “sei un Giuda”. Giuda<br />

non appare, è il traditore, né è, in alcun modo, ambiguo se non,<br />

forse, nel volersi mostrare, di fronte a Gesù ed agli apostoli diverso<br />

e migliore di come, in realtà, era. Ma è un’ambiguità ignobile, la<br />

madre del tradimento. Ma…<br />

Ricordo che, da bambino, frequentando, come tutti, in quel<br />

di Caraglio, oratori e catechismi, mi piaceva accompagnare un<br />

vecchio e severo Vicario, don Mario Beltramo, mentre, al tramonto,<br />

passeggiava nel giardino della canonica leggendo il suo breviario.<br />

Ero un bambino impertinente, curioso e con una certa<br />

predisposizione a non accettare le regole. E Giuda, pur dipinto da<br />

zelanti catechiste come il male assoluto, non mi era antipatico. Una<br />

sera rivolsi a don Mario questa domanda:” Signor Vicario ma se<br />

Gesù faceva tutti i miracoli, predicava e la gente gli andava dietro<br />

che bisogno c’era che Giuda lo baciasse per fare capire alle guardie<br />

chi era?” Non ci fu risposta oppure non la ricordo ma so che il<br />

dubbio mi rimase. Crescendo e leggendo qualche cosa in più<br />

scopersi che Giuda era, tra l’altro, il tesoriere degli apostoli e come<br />

tale, disponeva di qualche somma di denaro. E mi sono, spesso,<br />

chiesto se fosse davvero tanto avido da aver bisogno anche dei<br />

trenta denari.<br />

Recuperando le impertinenti domande del bambino e i<br />

dubbi dell’adulto ho provato ad immaginare di essere Giuda e di<br />

indirizzare una lettera a Gesù, anzi, tre lettere, da tre posti diversi.


DALL’INFERNO<br />

Nazareno, mio Maestro,<br />

solo la grandezza della mia colpa e della mia pena hanno convinto i<br />

demoni incaricati di infliggermi il castigo eterno a concedermi<br />

questo breve tempo per rivolgermi a te. Sei il figlio di Dio e, quindi<br />

sai. Sai che non ti ho tradito. Tu sai e, proprio perché sai, il mio<br />

parlare potrebbe sembrare inutile ma, mentre mi danno e soffro,<br />

penso. Penso agli altri fratelli che, con me, ti seguivano. E tu sai<br />

che non eravamo dodici ma, forse cinque o sei. E tu sai con quanta<br />

attenzione io abbia indagato la tua predicazione, la tua sofferenza,<br />

ma anche le tue invettive contro i sommi sacerdoti. E le tue critiche<br />

all’invasore romano e la tua carità ai deboli ed agli oppressi, quei<br />

deboli che – dicevi tu – erano le vittime dei sacerdoti e dei romani.<br />

E sai che non solo io ma io più di tutti ti ho creduto ed ho sofferto.<br />

E ho pensato che le tue parole volessero indicarci una strada, che<br />

volessero farci risvegliare la coscienza di un popolo schiavo che,<br />

ribellandosi, sapesse restituire il trono di Davide ai suoi discendenti.<br />

Mentre predicavi mi guardavi ed io ho pensato che tu questo ti<br />

aspettassi da me. E così ti ho “consegnato” non “tradito” ai<br />

sacerdoti. Perché tu potessi spiegare loro il tuo messaggio. E se,<br />

come dicevi sempre tu, non fossi riuscito a spiegarti allora ti saresti<br />

sacrificato per tutti noi. E il popolo, il tuo popolo, i tuoi fedeli, i<br />

miracolati avrebbero impugnato le sacre armi, avrebbero vendicato<br />

il tuo sacrificio e reso giustizia alla tua umana divinità. Questo<br />

messaggio io ho sempre letto nelle tue parole, nei tuoi insegnamenti,<br />

nel tuo esempio. Non fosti tu a scacciare i mercanti dal tempio e a<br />

maledire i farisei? E allora, se tutto questo è vero, se tu sai, perché<br />

sono qui?<br />

DAL PURGATORIO<br />

Nazareno, mio pietoso e misericordioso Maestro,<br />

hai visto, hai letto, hai sentito, hai ricordato. Ed hai interceduto per<br />

me col Padre. Ma, da questo luogo di penitenza e di espiazione,<br />

vedo adesso la mia colpa. E la mia cecità. Non era il trono di<br />

Davide, né la libertà del tuo popolo, né un vantaggio terreno quello<br />

che volevi. Ed io ho peccato anche di superbia quando ho ritenuto<br />

che gli altri tuoi discepoli non avessero capito e che tu – perdonami<br />

– fossi troppo spirituale per realizzare quello che credevo fosse il<br />

66


tuo progetto. Ho creduto che loro non capissero ma che tu volessi<br />

quello che voleva il tuo popolo: liberarsi dal giogo dei romani. Quel<br />

popolo stanco dei mercanti del Tempio, degli scribi e dei farisei, dei<br />

sadducei e dei leviti, voleva un segno da te. Ed io ho ritenuto –<br />

perdonami ancora – che tu fossi troppo distante da queste cose<br />

terrene per spendere la tua autorità. Così, con orrenda superbia, mi<br />

sono sostituito a te ed ho pensato di poter manovrare la tua santità<br />

celeste al servizio di una miseria terrena. Non avevo capito la<br />

grandezza del tuo insegnamento che non guardava alla Palestina e al<br />

presente ma al mondo intero ed all’eternità. Perdona, ti prego, la<br />

mia cecità. Ma, se a tanto posso aspirare, posso ancora domandarti,<br />

umilmente, una risposta? Oggi mi è chiara la missione che il Padre ti<br />

aveva assegnato: scendere in terra, subire i processi e le torture,<br />

essere vilipeso, morire sulla croce per salvare gli uomini. Ma se è<br />

così – ed è così – quale fu la mia colpa se non quella di essere<br />

strumento della tua volontà? Se non ti avessi consegnato nelle mani<br />

dei sacerdoti non saresti stato sacrificato e non avresti potuto<br />

portare a buon fine quanto il Padre ti aveva ordinato. Sono, dunque,<br />

stato inconsapevole strumento della tua volontà? Ma, se è così,<br />

dov’è la mia colpa? Ho creduto che fossero la mia volontà, la mia<br />

superbia, il mio egoismo ad armare la mano dei tuoi carnefici ma,<br />

senza questo spregevole Giuda Iscariota, non si sarebbe compiuta la<br />

volontà del Padre.<br />

DAL PARADISO<br />

Maestro celeste,<br />

la tua misericordia mi permette oggi di vedere la luce, di starti<br />

accanto e di godere delle celestiali beatitudini. I disegni<br />

imperscrutabili tuoi e del Padre mi hanno concesso il privilegio di<br />

fare il viaggio dalla dannazione eterna alla eterna gioia passando<br />

attraverso l’espiazione. E, adesso, nell’estasi della Tua luce, vedo con<br />

chiarezza. Vedo, con il giusto distacco, le miserie terrene, vedo la<br />

futilità degli orgogli, dei progetti, delle macchinazioni, delle libertà,<br />

delle aspirazioni, dei sentimenti umani. Tutto questo, che appassiona<br />

gli uomini, che li costringe ad amare e ad odiare, a combattere e ad<br />

uccidere, a fare inutili paci e a combattere inutili guerre, a costruire<br />

amori, case, templi e a distruggerli, a speculare e ragionare, a sognare<br />

un futuro ed a lavorare per costruirlo, tutto questo non è nulla. La<br />

scintilla per un fuoco immenso, un granello di sabbia di un deserto,<br />

67


una goccia di un oceano. Ed il fuoco, il deserto, l’oceano sono qui,<br />

sono il Paradiso, sono il disegno compiuto e realizzato della Tua<br />

Maestà. Foreste, branchi, sentimenti, chiese, vite nate e vite morte,<br />

sofferenze e piaceri altro non sono che gli strumenti attraverso i<br />

quali gli uomini, tutti, percorrono il loro viaggio e, se lo meritano,<br />

arrivano Qui.<br />

CONCLUSIONE<br />

Mi rileggo e, con qualche disperazione, mi accorgo di avere voluto<br />

giocare con cose più grandi di me. Sono partito per provare a<br />

riabilitare Giuda almeno riconoscendogli il pregio dell’ambiguità. Ma<br />

non è lui ad essere ambiguo. Spiritualmente cieco, superbo ed<br />

ambizioso, ingenuo e generoso, disperato ed eroico fino al punto da,<br />

essendo innocente, punirsi nel togliersi la vita (forse) ma non<br />

ambiguo. Strumento inconsapevole di disegni alti, sciocco operaio di<br />

un libero arbitrio per nulla libero, vittima designata di una storia<br />

scritta ma non vissuta, martire di vangeli scritti da chi non lo aveva<br />

neppure conosciuto, mostro disegnato da concili che dovevano<br />

scrivere una storia, orco cattivo per bambini innocenti, risorsa per<br />

grandi poeti. E’ stato sicuramente tutto questo ma non è questo<br />

essere ambiguo. Forse l’ambiguità non era in lui ma in chi lo ha<br />

designato strumento di una operazione di mercato. Allora mi<br />

domando perché vivere se la vita è solo un gioco crudele. La libertà<br />

è una finzione, la ragione una inutile speculazione intellettuale, il<br />

bene un mezzo e non un fine, i figli destinati a soffrire, gli alberi a<br />

seccare, le specie animali ad estinguersi e i sentimenti a morire.<br />

Tutte le cose in cui crediamo non sono altro che strumenti di un<br />

progetto già scritto, regole di un gioco che Qualcuno ci ha regalato<br />

(o imprestato) sapendo già chi vince e chi perde. Qualcuno che ci ha<br />

complicato il gioco perché, essendo pura Bontà, ha inventato il<br />

Male. Qualcuno che sa già come finirà. Qualcuno che, forse, guarda<br />

dall’alto, divertito, il nostro inutile agitarsi e rincorrerci. Qualcuno<br />

che è così più forte di noi che l’unico innocente dispetto che<br />

possiamo fargli è quello di vivere con leggerezza. E sorridendo.<br />

Magari strappando un sorriso anche a Lui. Ma qui mi arresto perché<br />

ho di fronte a me cose più grandi, troppo più grandi, di me. E, forse,<br />

alla fine del gioco sono io ad essere il personaggio più ambiguo della<br />

storia.<br />

68


69<br />

Ambiguità dell’ambiguità, tutto è ambiguità<br />

Gianni Rabbia<br />

Rien de plus cher que la chanson grise<br />

Où l' Indecis au Précis se joint.<br />

Paul Verlaine, Cose lontane, cose recenti: Ars poetica, vv.7-8<br />

La logica cosiddetta "formale" definisce ambiguo quel<br />

termine che con una identica formulazione cela un doppio senso o<br />

significato, rappresentando così il contrario della univocità; ma nel<br />

concetto di ambiguità si annida quello di equivocità e, distinto da<br />

entrambi, quello di analogia. Paralleli si possono situare altresì il<br />

sistema dei paradossi e dei paralogismi, per loro natura fuorvianti. In<br />

forma plastica, se ad un costrutto logico si applica una struttura di<br />

nessi sintattici ambigui anche solo in parte, accade che si possono<br />

giustificare interpretazioni diverse o persino opposte. Elementare è<br />

il caso di scuola, a livello terminologico, con la parola "gallo": di<br />

accezione semantica indubbiamente diversa se ci si riferisce al baldo<br />

pennuto oppure al - forse non meno pettoruto, ma non<br />

adeguatamente pennuto- abitante dell'antica Gallia. Eppure<br />

qualcosa ci deve essere di analogico se ai francesi, volendo scegliersi<br />

un animale che li rappresentasse come simbolo, venne di optare per<br />

il coq, cresta e speroni ben compresi: forse la spiegazione si può<br />

trovare nel fatto che il gallo, massimamente se francese, è l'unico<br />

animale che canta sul letamaio. Certo non reggerebbe il sillogismo:<br />

"Gli antichi francesi sono chiamati Galli; tutti i galli hanno la cresta;<br />

gli antichi francesi avevano la cresta". Degli antichi non è dato<br />

sapere con olimpica esattezza; dei contemporanei, dopo Luigi XIV°<br />

e Napoleone I° ( ispiratori della scuola di De Gaulle, loro alunno<br />

quasi insignificante ) c'è però da avere qualche dubbio, visto che i<br />

"cugini" d'oltralpe credono che, in fondo in fondo, l'universo è stato<br />

creato solo per loro beneficio e che Dio sia francese. Ma si è alle<br />

soglie degli amabili sofismi da salotto o - un po’ meno amabili - da<br />

angiporto. Resta però ben chiaro che solo il silenzio oracolare è sede<br />

delle verità, in quanto non espresse; infatti, quando l'oracolo parla, si<br />

esprime con il celebre "Ibis redibis non morieris in bello", con cui ci si<br />

trova davanti - bene che vada - o ad un sofisma di deduzione


(equivocazione ) o ad una non meno pericolosa anfibologia. E<br />

l'ambiguità regna sovrana.<br />

Questo inizio, un po’ grossolanamente tormentato,<br />

vorrebbe in sostanza anticipare ( il che è anche una ambigua<br />

conclusione ) che la parola come "segno", ma non meno come<br />

"senso", è all'origine, certamente involontaria da parte sua, della<br />

confusione babelica nella quale l'umanità si dibatte da sempre. Se<br />

"In principio era il Verbo" al genere umano è stata inflitta una<br />

punizione in più, una raffinatissima tortura: quella di non<br />

comprendere il senso del termine "Verbo". E quindi di lì non<br />

riuscire a intendere correttamente, in una sola parola, tutte le parole.<br />

Sì, ce la mettiamo tutta per distinguere il lògos tra "parola interiore"<br />

dalla sua manifestazione, detta "parola esteriore", presi come siamo<br />

dal dare un costrutto convenzionale all'altro concetto - questo sì,<br />

estremamente problematico e non meno pericoloso - di ragione.<br />

Domanda: la verità starebbe nella sola "ragione" ? Infatti, quando<br />

non ci si piglia a pugni, il lògos sarebbe il "procedere del pensiero"<br />

platonico, una sorta di immagine fonica. Ma se una cosa è il mondo<br />

e altra è Dio, come fare a distinguere tra la retorica e la dialettica,<br />

dopo essere usciti dall' ambiguità dei confini tra logica e fisica ? La<br />

gnoseologia classica arrivò persino ad inventare potenze mediatrici,<br />

come i lògoi medio-platonici, potenze di una non meglio precisata<br />

natura metafisica in grado di colmare l'abisso con il trasmettere<br />

l'azione divina alle intelligenze inferiori: che, prese per mano,<br />

possono arrivare a farle salire fino ai primi princìpi della conoscenza.<br />

In analogia, nell'antico pensiero ebraico (Filone) si ideava il<br />

lògos come il "luogo delle Idee", prototipo di tutte le cose, la prima<br />

potenza emanata da Dio, la forza immanente che vivifica e collega il<br />

creato conservandone le parti e impedendo che si dissolvano. Come<br />

mediatore tra Dio e gli uomini, il lògos li illumina e li guida e li può<br />

persino rendere capaci di elevarsi fino alla visione di Dio. Ma non<br />

sembra che questo sia esattamente il lògos di San Giovanni,<br />

soprattutto per coloro che giurano sul suo Vangelo di essere uomini<br />

liberi e di buoni costumi, se Filone lo identifica con un non meglio<br />

precisato deùteros Theòs. Vuol forse dire che per lui esistono certi<br />

uomini che hanno ricevuto direttamente l'illuminazione divina,<br />

aprendo così la domanda sui predestinati che riceverebbero,<br />

diversamente da altri immeritevoli, il "soffio dello Spirito", il pnèuma<br />

intellettuale ? Eppure a quei tempi non c'erano ancora i bocconiani<br />

al governo, con la corte accademica intorno al trono. Dovrebbe<br />

70


forse leggersi la antica meditazione sul lògos come una lunga strada<br />

di allegorie, situate al mezzo tra la sapienza divina e quella - ipotetica<br />

- umana, di cui il lògos potrebbe apparire come epifenomeno<br />

descrittivo, che non si cura della speculazione degli uomini, ma<br />

tende alla Rivelazione: ciò che richiede una "Sapienza" di cui non<br />

importa sapere se sia di Dio o fuori di Lui. Basta che ci sia il nome,<br />

come segno di misericordia di chi ha fatto tutte le cose e tutte le<br />

cose risana, salvo il suo popolo ed i suoi uomini. Non a caso il nome<br />

di Dio non è pronunciabile per il mondo ebraico ortodosso.<br />

San Giovanni nomina per ben sei volte (prologo del suo<br />

Vangelo, prima Epistola, Apocalisse) il lògos. Ed è chiaro che per il<br />

Santo si tratta del lògos che esisteva in principio anteriormente alla<br />

creazione del mondo, era in Dio, e che è Dio; per lui tutto è stato<br />

fatto e nulla è stato fatto senza di lui. Il lògos, fattosi carne, venne tra<br />

gli uomini ai quali rivelò le verità della salvezza e indicò la strada<br />

della vita eterna con la possibilità di identificarci come figli di Dio.<br />

La lezione giovannea è soprattutto intrisa di umiltà e di dolcezza,<br />

avendo visto la gloria del lògos cui rende testimonianza. Se il lògos è<br />

Dio stesso che si è fatto uomo per essere ucciso dagli uomini e<br />

quindi risorgere, si è del tutto fuori dalla speculazione filosofica e<br />

persino dalla mitografia ellenica e giudaica. Resta però la questione:<br />

perché allora Giovanni utilizza il termine lògos, la cui origine è tutta<br />

filosofica ? Parrebbe cioè che egli stesso, in mancanza di un termine<br />

lessicale diverso, abbia utilizzato la parola più direttamente sotto<br />

mano, per analogia con il senso della Rivelazione, che è anche<br />

"parola", cioè appunto lògos. Ma forse il motivo sta nel pubblico cui<br />

Giovanni intendeva rivolgersi, cioè i greci colti e gli ebrei aperti<br />

all'ellenismo, per avvicinarli al Mediatore, al Salvatore, al mistero<br />

della divinità trascendente e della sua distinzione dal Padre.<br />

Per i primi scrittori ecclesiastici, dopo Giustino, Origene e<br />

Clemente l'Alessandrino fino agli Apologisti, ad Eusebio di Cesarea<br />

e san Cirillo di Alessandria, il lògos venne di solito acquisito come la<br />

seconda persona della Trinità, dando così fondamento alla teologia<br />

cristiana: il lògos è la sorgente unica di ogni verità, di ogni scienza e<br />

sapienza, ed anche quando deriva dall'insegnamento di uomini come<br />

noi, non ci permette di giungere alla verità che per illuminazione<br />

divina. Solo attraverso un percorso tormentato e a rischio di eresia<br />

(l'errore assoluto) si può distinguere tra "conoscenza per via di<br />

ragione" e "per via di fede".<br />

71


Il razionalismo naturalistico degli Arabi dal XIII° secolo<br />

buttò all'aria tutto. Dal dantesco "State contenti, umana gente, al quia" (<br />

Purg., III, v.37 ), ancora a sua volta lontano dal senso platonicoagostiniano<br />

della Ragione-Lògos, l'Umanesimo ma soprattutto la<br />

Riforma protestante ruppero l'unità inscindibile con la conoscenza<br />

umana in funzione di Dio. La Ragione, diventando immanente, si<br />

allontana dalla trascendenza e dalla sua perfezione, fino al<br />

panlogismo di Hegel, dove la categoria assoluta viene a<br />

comprendere in sé tutte le altre categorie e con queste, per il<br />

processo di identità tra essere e pensiero, ogni determinazione della<br />

realtà. La razionalità del reale e la realtà del razionale identificano<br />

l'idea teoretica con quella pratica, assoggettando anche l'etica ai<br />

processi razionali. E di qui ognuno sa che cosa sia accaduto: destra e<br />

sinistra hegeliane in poi, con l'esigenza di confermare la concretezza<br />

del lògos strappandogli ogni legame con tutta la trascendenza. Ma lo<br />

stesso hegelismo avrebbe fallito con le sue crisi che hanno liberato<br />

potenti energie ed attive istanze metafisiche, religiose,<br />

personalistiche insoddisfatte proprio dalle violente antinomie che il<br />

senso dello spiritualismo, dell'esistenzialismo hanno rivendicato:<br />

tutte scuole di pensiero ribelli ad una visione del lògos tanto<br />

schematizzato ed intellettualizzato da far perdere il senso concreto<br />

della vita. Un bel caso esemplare di eterogenesi di fini.<br />

Persino l'estetica ha sollevato il problema dell'ambiguità<br />

ingannevole (a dir poco) del lògos razionalizzato. Gli interventi<br />

interpretativi del soggetto ( il primo dei quali ha un gran bel nome:<br />

"libertà di…" con quanto poi si voglia aggiungere) ci dicono, ad<br />

esempio, quanto il concetto di forma non sia né preformato né<br />

irreversibile. Per tutti, basterebbe Merleau-Ponty a dichiarare che<br />

proprio l'ambiguità è l'elemento caratteristico della nostra inerenza al<br />

mondo, che siamo instabili e mobili anche di fronte ai processi<br />

sociali che ci caratterizzano, forse persino rispetto a quelli genetici.<br />

La realtà oggettiva è un insieme di "profili" che possono ricevere<br />

determinazioni diverse a seconda del soggetto che ne compie il<br />

tentativo di sintesi. Quindi l'ambiguità non sarebbe una sorta di<br />

imperfezione della coscienza individuale o della esistenza generale,<br />

ma addirittura la condizione per definizione della stessa esistenza.<br />

Fenomenologia, per tanti versi, inquietante; e non solo a livello<br />

morale. Se, per esempio, ci sta stretta la convinzione positivistica per<br />

cui "il vizio e la virtù si analizzano come il vetriolo e lo zucchero",<br />

chissà se abbiamo - sia chiaro, con "piena avvertenza e deliberato<br />

72


consenso" individuale (come dettava il vecchio Catechismo di<br />

buona memoria) - la capacità di capire che forse (ripeto: forse) una<br />

scienza (la matematica) che non ammette la divisibilità per il numero<br />

zero, è scienza appunto e certamente, ma solo per convenzione.<br />

Allo stesso modo, la geometria, delle cui applicazioni siamo in<br />

genere interessati fruitori, regge su elementi di dogma: il punto, la<br />

retta ed il piano, che non esistono. Ed avanti con il postulato di<br />

Euclide, con le alternative geometrie non-euclidee. E la logica stessa,<br />

che regge sul paradosso, la dimostrazione per assurdo, con una<br />

terminologia talvolta ossimorica. La scienza è cioè auto-referenziale<br />

per sua motivazione endogena, essa respinge inorridita la categoria<br />

del dubbio perché - al momento - non dimostrabile (o non utile), si<br />

appaga del laboratorio sperimentale (quando c'è), si rinserra nella sua<br />

muraglia di teoremi, pronta ad abbattere chiunque le si presenti<br />

davanti con la domanda del leggendario Emilio roussoiano: "Perché<br />

?". La sua risposta è sempre questa: " Perché sì ". Quindi la scienza è<br />

anche per sua natura tautologica. E tanto le basta. Ma all'uomo,<br />

all'uomo integrale, al panthelòs ànthropos non basta, non può bastare.<br />

Neanche quando si diverta a dire: " Io non dico mai la verità. ",<br />

perché ci si deve domandare se sia vera questa affermazione e quale<br />

altra invece possa essere vera, visto che non dice mai la verità.<br />

Insomma, se il sonno della ragione genera mostri, la sola<br />

luce della ragione (a parte l'azione umanitaria degli illuministi, che<br />

fecero le "cose" migliori in pratica solo catalogando il perimetro<br />

dell'azione razionale) può accecare chi le si accosti senza lenti<br />

oscuranti. Tertium non datur ? E che ne sappiamo ?<br />

Infatti se si volesse con qualche arditezza illudersi che il<br />

senso più alto della esistenza umana sia segnato dalla ricerca della<br />

verità fenomenica, dobbiamo con severità renderci conto che ben<br />

poco, o quasi nulla sia stato generalmente acquisito sotto questo<br />

aspetto. Uno dei primi limiti della scienza, per esempio della<br />

medicina, sta nel suo processo empirico: del tutto simile ad un<br />

viaggio alla ricerca di strade per sperare di giungere ad un traguardo,<br />

ma con il viaggiatore bendato, non in grado neppure di avere a<br />

disposizione le coordinate polari.<br />

Quindi il procedimento della conoscenza, fondato sul dato<br />

di laboratorio offerto dalla patologia in corpore vili, consiste in una<br />

serie di azioni-reazioni segnate dall'esperienza, con pochissimi<br />

elementi considerati come incontrovertibili. Le cosiddette scienze<br />

fisico-naturali, pur con la loro affascinantissima letteratura teorica,<br />

73


non hanno ancora neppure posto la prima sillaba della domanda<br />

che pure le percorre e le scuote, sull'origine della materia, la sua<br />

trasformazione in relazione allo spazio ed al tempo (altri concetti,<br />

questi due, che non hanno neanche una definizione convenzionale e<br />

consolidata) ed ancora - figurarsi - sul suo fine ultimo. Che è poi la<br />

stessa cosa del porsi la domanda sul significato della creazione<br />

dell'uomo e sulla sua natura, questa sì esemplarmente simbolo e<br />

sostanza di ambiguità inestricabile. Ci si accontenta, quando va<br />

bene, della soluzione del problemino dell'aritmetica elementare: una<br />

colonna di numeri, quattro operazioni ed un risultato finale che, se<br />

corretto alla verifica con la soluzione scritta a piè di pagina,<br />

conferma che il compitino è stato fatto bene ed il procedimento di<br />

computo è stato rispettato sul pallottoliere.<br />

Un cinico sosterrebbe che conoscere così poco, e a frutto di<br />

così tanta straziante fatica, giustificherebbe la solare utilità della nonconoscenza.<br />

Ma troverebbe subito chi, con aria profondamente<br />

offesa e con toni superciliosi, gli sbatterebbe in faccia il "progresso"<br />

che al genere umano ha consentito questo, ha donato quest'altro, ha<br />

permesso quest'altro ancora: insomma un inno alle "magnifiche sorti<br />

e progressive" da far seppellire sotto la vergogna chi ne dubitasse,<br />

così follemente.<br />

Eppure siamo tutti ben convinti (anche sulla base del solo<br />

sospetto) che ogni individuo umano, per quanto dotato di genialità,<br />

utilizza una parte minima dei suoi mezzi intellettivi, come chi<br />

cammina di notte illuminando i suoi passi con la luce esigua di un<br />

fiammifero. L'istinto vitale, per esempio, con le sue leggi ferree (e<br />

del tutto sane, anche perché involontarie) dimostra molto bene che<br />

la dignitas vitae che tanto entusiasmò i pensatori migliori<br />

dell'umanesimo rinascimentale è fondata su di una disperazione di<br />

base, concretamente ed indistruttibilmente sostanziata dalla<br />

pochezza ( o quasi nullità ) delle ragioni di una motivazione di<br />

impotenza reale, concreta, inamovibile. Quella abissale<br />

incompetenza che l'uomo cerca di cancellare, illudendosi di vestire<br />

gli abiti del razionalista, disperato poi della sua illusione perché gli<br />

resta tra le mani, scarnificata da tutte le eccedenze, la scheletrita<br />

certezza di non poter dare risposta a neppure una delle domande<br />

che lo flagellano sul suo senso individuale, sul significato del suo<br />

compito vitale, sulla sua necessità finalistica.<br />

Agli atei, che si sono scelta la posizione più dolorosa e<br />

conflittuale, tocca il dovere di confessare sulla lavagna il fallimento<br />

74


del loro assunto: prigionieri come sono di una fede nella negazione,<br />

sanno proprio perché lo combattono, che c'è in ognuno, anche in<br />

loro, uno spiritus che non si lascia intrappolare dalla psicanalisi o<br />

dalla spettrale aridità della logica. Symbolon ed il suo opposto,<br />

diàbolon, si collocano come i volti di Giano bifronte ad osservare<br />

opposti orizzonti nella speranza illusoria che possa giungere una<br />

nuova aurora, un novello messaggio, una palingenesi per l'uomo ed i<br />

suoi simili. Aspetta e spera. Il confronto con l'inerzia della materia<br />

basta per farli sentire dominatori di se stessi, padroni del destino,<br />

dittatori di sé. Non è "roba" nuova, purtroppo. Né è sufficiente<br />

additare qualche milione di esempi delle loro contraddizioni. A me<br />

piace, per esempio, il misantropo Leopardi per scoprire la sua<br />

rivoluzione nella Ginestra, ove lancia un messaggio di autentica<br />

rivoluzione nell'invito sommamente filantropico rivolto all'umanità<br />

nel non continuare a credere nei suoi errori, popolari, antichi e<br />

perenni. La vera fraternità, in estrema sintesi, avrebbe il suo seme<br />

nella ricerca concorde della verità, il cui primo passo ( l'unico ) è la<br />

guerra alle illusioni. Nella caverna platonica, negli idòla, nel contrasto<br />

tra tutti i nodi della percezione abbiamo sufficienti elementi per non<br />

fidarci delle cosiddette certezze. Tanto meno, di quelle cosiddette<br />

"granitiche". Non è il caso, certo, di aderire all'invito di Oscar Wilde:<br />

"Non dire mai la verità, potrebbero scoprirti", che è un gustoso<br />

paradosso, come quello di Achille e della tartaruga, come quello del<br />

calabrone, e via divertendo. Ma almeno un punto potrebbe essere<br />

fissato: che, se parliamo di infinito, è prudente usare un altro<br />

termine: "indefinito", o - forse meglio - "indefinibile". Del resto chi,<br />

con il detto popolare, afferma che "tutto è relativo", forse<br />

inconsapevolmente ha fatto cenno ad un assoluto (se per "assoluto"<br />

si intende il tutto), sia pure tracciando una spirale soffocante tra<br />

elementi di contrasto, reciprocamente elidentesi.<br />

Non si esce, se si pone attenzione, dall'ambiguità correlata<br />

alla stessa condizione biologica (poi, tutto quanto venga insieme e/o<br />

dopo) dell'essere uomo. Se kantianamente il cielo stellato incombe<br />

sopra di noi che abbiamo dentro di noi la legge morale, l'imperativo<br />

categorico è quello di vanificare tutti gli sforzi conoscitivi compiuti<br />

fino ad ora. E non perché si abbia la certezza di un metodo e di un<br />

contenuto nuovo su cui ripiegarci per misurarlo, pesarlo, coltivarlo,<br />

distruggerlo: no. Nulla merita il disprezzo dell'ignoranza, neanche<br />

l'errore: forse, soprattutto l'errore. Ma com'è intenso il messaggio<br />

75


che chiude il Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos:<br />

"Che importa ? Tutto è grazia." !<br />

L' Ecclesiaste (I, 10) ammonisce che non c' è mai nulla di<br />

nuovo sotto il sole. Malgrado ciò, la cifra che identifica il nostro<br />

tempo è quella di una convulsa e troppo spesso irrazionale tensione<br />

verso la ricerca del nuovo, il "moderno". Proprio la rapidità dei<br />

cambiamenti in atto sembra voler provocare l'aurora di una nuova<br />

mitologia, segnata soprattutto dalla leggenda di una eterna<br />

giovinezza, esteriormente anche per mano della chirurgia plastica.<br />

Ma del resto l'umanità ha sempre dato segno di apprezzare tutto ciò<br />

che si manifesta per la prima volta, identificandosi nel sogno<br />

infantile del figlio senza genitori. Persino Omero lo ricordava<br />

(Odissea, I, vv. 351-2): " Quel canto più lodano gli uomini, che agli<br />

uditori suona intorno più nuovo. " E c’è chi persino vi vuol vedere<br />

un atto esorcistico nei confronti della morte, segnata per definizione<br />

dalla immobilità e dall'inerzia. Così il mondo si agita nella ricerca di<br />

un Ri-nascimento, cozzando contro un postulato generale<br />

invalicabile, per cui non si può nascere due volte. Occorre perciò<br />

abbandonare l'utopia delle parole ingannevoli, ed accontentarsi della<br />

sostanza fattuale: si può solo riscoprire il vecchio, per impararne<br />

meglio la lezione ed eventualmente approfondirla. Solo la religione<br />

può promettere una seconda vita, ma certo non può invitare a<br />

credere in una seconda morte. Quindi credere nell'immortalità<br />

assegnata ad un essere mortale (almeno per la sua parte spirituale) è<br />

in parte accettare la validità dell'ossimoro: se Dio è per definizione<br />

eterno ed immutabile nella sua identità con se stesso, l'uomo<br />

provvede per sé alla santificazione dell'ossimoro, imbucandosi, lui<br />

essere mutevole e contingente, in un principio di assolutezza etica<br />

che puntualmente contraddice nei fatti: i Comandamenti, le Sure<br />

coraniche o altro ancora, oggetto costante di contrattualizzazione<br />

anche da parte delle relative Chiese ( o scuole teologiche).<br />

Il doppio (e la relativa doppiezza) sono quindi sistemiche<br />

nella natura umana, ondivaga costituzionalmente - come si usa dire -<br />

sia per il metodo che per il merito della sua ricerca. Dai presocratici<br />

che indagavano sui princìpi primi della natura (la phùsis phùseos)<br />

identificandola ora nell'aria, nell'acqua, nel fuoco o nella terra, siamo<br />

ancora lì a cercar di spaccare l'atomo (o la cellula) condannati a non<br />

poter afferrare mai il principio originario della esistenza, materiale o<br />

no che sia. Con una impressionante, lunghissima e spesso atroce<br />

fatica ( anche fisica ) si è esplorato lo spazio terrestre e poi<br />

76


planetario fino al solo punto di esser giunti a fissare delle<br />

coordinate micro-quantitative insignificanti. Come quasi sempre,<br />

ogni piccolo passo in avanti nella conoscenza è stato oggetto di<br />

plausi, osanna, fuochi d'artificio: fatue e penose parvenze di un<br />

"progresso" che non si sa bene quanto sia veramente tale. Lo stesso<br />

secolo che è alle spalle, segnato da un indubbio crescere delle<br />

cognizioni in materie scientifico-tecniche, è quello che mai come<br />

altri prima è riuscito ad ammazzare - "scientificamente", appunto -<br />

non si bene quante centinaia di milioni di umani.<br />

Il modello occidentale del sapere e del fare è<br />

profondamente in crisi: economica, ideologica, spirituale e via<br />

elencando. L'uscita da una penosa e sanguinosa arretratezza<br />

incombente (si può o no parlare di "fine della civiltà" ?) per chi ha<br />

del suo una indole portata al pessimismo nichilista non può che<br />

portare ad un conflitto armato, questo sì davvero veramente<br />

"mondiale". Un Ok-Corrall definitivo ed apocalittico. Le metastasi<br />

stanno lavorando in apparente sotto-traccia per blocchi di nazioni,<br />

persino per aree continentali, fino alla evidenza della incurabilità<br />

della patologia. L'uomo ha ampiamente dimostrato che non è capace<br />

di governare se stesso in relazione ordinata con gli altri, e quindi<br />

l'ultimo atto di affermazione del diritto potrebbe essere solo quello<br />

finale del più forte, che stermina il soccombente.<br />

Tutta la vicenda novecentesca sta ben aperta, nelle sue linee<br />

generali, sotto gli occhi: ogni capovolgimento ha avuto effetto<br />

proprio da quelle forme di pensiero che avevano criminalmente<br />

illuso di modificare la natura dell'uomo e l'indole del cittadino,<br />

facendo sognare pace e benessere per tutti. Ed anche le stesse<br />

cosiddette democrazie non sono esenti da critiche e da colpe anche<br />

pesantissime, all'assoluzione delle quali non può bastare la bubbola<br />

che esse sono espressione della volontà della maggioranza dei<br />

cittadini.<br />

E' una questione che si può, volendo usare un modello,<br />

ridurre ad un esempio epistemologico: le scienze "fisiche"<br />

ottengono i loro pur cospicui risultati attraverso una pratica<br />

riduzionistica, eliminando tutti i legami che connettono il fenomeno<br />

in studio al suo contesto generale. E' come se si pensasse al mondo<br />

in una sola prospettiva, quella lineare della tautologia, che è pur utile<br />

(si può persino dire: in parte indispensabile) per semplificare la<br />

realtà. Ecco allora la domanda delle domande: siamo (saremo) in<br />

grado di costruire una nuova matematica (o antroposofia) che possa<br />

77


descrivere la complessità e la circolarità oltre alla formalizzazione,<br />

alla enunciazione di leggi e di regole, che pure hanno fino ad ora un<br />

senso consolatorio per la sopravvivenza, fermandosi a definire che<br />

cosa siano l'incertezza ed il disordine, senza però cancellarli ? Forse<br />

si deve ipotizzare una Ri-costruzione, se non altro per far cessare<br />

l'allarme che suona da decenni. E' drammaticamente vero che siamo<br />

alla ricerca affannata di parametri che ci permettano di prendere<br />

decisioni compatibili con il bisogno primario di assicurare a breve la<br />

sopravvivenza. Però la ridondanza eccessiva degli elementi di analisi<br />

ci sommerge, facendoci fare la fine degli economisti, gli esperti della<br />

"scienza triste", tale perché serve solo a spiegare i fenomeni una<br />

volta che sono totalmente accaduti, mai a riconoscerne i rischi in<br />

atto o potenzialmente per poterli evitare in tempo utile. Il regno<br />

trionfante dell'ambiguità e dell'aleatorietà. Facile e scontata a questo<br />

punto l'osservazione: e quando mai l'umanità ha saputo e quindi<br />

potuto "capire" il proprio destino e quindi attivarsi per ottenere il<br />

massimo risultato vantaggioso con il minor danno ? La domanda è<br />

tanto legittima, quanto senza risposta, proprio per la sua natura<br />

ambigua di domanda. Lo stesso corredo di certezze razionali che<br />

espone la scienza tradisce l'impossibilità di giungere ad una meta<br />

non utopistica, ma concretamente misurabile - se non altro - con il<br />

metro del calcolo costi/benefici. A priori poi nessuna certezza è<br />

immutabilmente spacciabile per tale per un tempo indefinito, se il<br />

tessuto connettivo della conoscenza "sul campo" è sempre aperto<br />

ad ulteriori integrazioni, che ne allargano le capsule includenti<br />

spostando i limiti della indagine sempre un millimetro più in là. Non<br />

è una questione legata ai linguaggi, che sono per loro natura<br />

strumentali e convenzionali. Una intelligenza artificiale con la sua<br />

impostazione algoritmica cerca di dettare regole che prevedano tutti<br />

i casi possibili proprio perché la scienza deve (dovrebbe) tendere<br />

all'univocità ed alla precisione. Così essa deve ricorrere ad un suo<br />

linguaggio "formale", simbolico: in una parola, artificiale. La<br />

"macchina della mente" del dottor Stranamore dovrà allora<br />

impostarsi per proporre un altro linguaggio, quello "naturale"<br />

idoneo per tutti quegli uomini che siano addetti alla traduzione<br />

operativa delle sue applicazioni. Si ripeterebbe, in qualche misura, il<br />

parallelo tra la "voce di Dio" e quella degli uomini che la divulgano:<br />

fonte primaria quest'ultima di divisioni, aporie, eresie, scomuniche,<br />

guerre di religione che da sempre "allegramente" rendono<br />

incandescente ed insanguinato il globo.<br />

78


Nell' Amleto shakespeariano (III, I) troviamo: "c'era una<br />

volta un paradosso, ma ora il tempo lo ha risolto". Quella frase, che<br />

Amleto rivolge ad Ofelia, tratta dell'amore, che è già da solo un bel<br />

paradosso, paradiso di ambiguità di ogni genere. Per Piergiorgio<br />

Odifreddi (ma anche per i comuni mortali) il paradosso è "ciò che<br />

va oltre l'opinione comune", come da corretta etimologia dal greco<br />

classico. Per il nostro "logico" cuneese "…gli individui possono<br />

anche essere intelligenti e colti, ma le masse sono sicuramente beote<br />

e ignoranti, l'opinione comune è quasi sempre sbagliata. Dunque, i<br />

paradossi sono quasi sempre pure e semplici verità, e il tempo si<br />

diverte a sollevare lembi del grande velo che le nasconde. Il che<br />

significa, spesso, che ambiguità, rompicapi, dilemmi, enigmi, misteri,<br />

illusioni, inganni, abbagli, sbagli, inconsistenze, contraddizioni e<br />

assurdità si risolvono."<br />

(Cfr. Piergiorgio Odifreddi, C'era una volta un paradosso. Storie di<br />

illusioni e verità rovesciate, Torino, Einaudi, 2001, p. IX).<br />

Per lui, anche per mezzo dei teoremi. Se è lecito, alla<br />

Rousseau, preferire di essere " uomo di paradossi " piuttosto che "<br />

uomo di pregiudizi ", bisogna pur accettare che c'è un qualche segno<br />

di inquietudine nello scoprire che la verità è anche anagramma di<br />

relativa. Chi sa del suo di non essere un tabernacolo dell'ateismo<br />

razionalista, ha altro da replicare a Zola, quando afferma che a<br />

Lourdes sono appese delle stampelle, ma non c'è una sola gamba di<br />

legno. La risposta è che, se così è oggi, non è detto che lo sia anche<br />

domani. Nel senso che se si ha una conoscenza così labile ed incerta<br />

del reale fenomenico, della sua indefinita dimensione ancora ignota,<br />

non se ne vedono per nulla i passi ancora da compiere, se non per<br />

ipotesi di teorica astrazione, ancora tutte da dimostrare ed applicare.<br />

E quindi se piace ad Odifreddi giocare sulla assonanza etimologica<br />

tra "cretino" e "cristiano", nessuno gli impedisce di perdere tempo<br />

secondo il suo gusto. E sopporti senza offesa sua che ci sia chi<br />

onestamente crede ( anche sul piano del razionalismo più acceso )<br />

che ci sono più "cose" tra il cielo e la terra di quanto persino un<br />

premiato accademico possa intuire; vado oltre: dimostrare. Una delle<br />

forme più totalitarie e subdole della razionalità sta nella natura<br />

escludente ogni altro apporto diverso dalla sua autoreferenzialità,<br />

persino di quelli che la affermino come unica forma di conoscenza:<br />

una sorta di nevrosi intellettualistica, se non un piccolo (o forse, non<br />

proprio piccolo) abuso. Certo, ogni ambiguità al di fuori della<br />

ragione nasce anche da qualche patologia, persino di natura etica:<br />

79


origina magari dal banale desiderio di evitare conflitti, dalla<br />

stanchezza verso la rigida coerenza, dall'umano desiderio di<br />

sperimentare molteplici identità. Ma se è vero che "il sonno della<br />

ragione genera mostri", la Ragione finisce da sola per essere come la<br />

Virtù dei Robespierre. Questo per dire, sommessamente, che la<br />

dissimulazione consapevole (per Torquato Accetto, persino<br />

"honesta") si presta alla analisi del conscio e dell'inconscio allo<br />

stesso modo dei paradossi, come quello di de Mandeville della Favola<br />

delle api, che teorizzava l'utilità della corruzione e dell'inganno per<br />

tenere in vita l'alveare. Così si può restare prigionieri di una sorta di<br />

manicheismo indifferente alla guerra tra bene / male, essendo<br />

intercambiabili e double face. Quando già Agostino aveva posto la<br />

domanda. "Si Deus est, unde malum ? " Lo si chieda ad Odifreddi:<br />

risponderà con l'equazione cretino - cristiano.<br />

Le scuole cosiddette " irrazionalistiche ", come le loro<br />

contrarie, sono l'altra delle due gambe del cammino umano. E non<br />

si parla solo di pensiero metafisico, ma di posizioni dialettiche e<br />

storicistiche. Si tratta cioè di accettare, se non altro per corredo di<br />

studio, che esistono anche altre esigenze speculative che si<br />

fronteggiano e si intrecciano collidendo come il conoscere ed il<br />

fare, il sapere ed il volere, e via opponendo. Se la sintesi tra i<br />

contrasti è quel contrasto emblematico che è l'uomo, sarà pur lecito<br />

un ambiguo desiderio, quello di uscire dall'ambiguità; pronti, sia<br />

chiaro, a riprenderla tutta addosso quando ce ne sia la convenienza,<br />

alla sola condizione di non nuocere. Può darsi cioè che il capolavoro<br />

del ragionamento stia nello scoprire il punto in cui bisogna cessare<br />

di ragionare, di fare il calcolo di addizione di sottrazione tra le idee.<br />

Elio Vittorini affermava: "Una delle forme più comuni (forse la più<br />

comune in assoluto, ed in ogni modo la più densa di pericoli) di<br />

irrazionalità, è quella per cui ci si abbandona ciecamente al bisogno<br />

di garanzia andando in cerca di garanzie dove non ne è disponibile<br />

nessuna e assumendo quindi per garanzia qualcosa che non lo è e a<br />

cui diamo noi stessi illusoriamente valore di garanzia mitizzandola per<br />

tale. Il bisogno di garanzia in sé e per sé è irrazionale (idem la<br />

sofferenza per mancanza di certezza è irrazionale); l'esigenza di<br />

vivere nel certo anziché nel probabile è irrazionale; la tendenza a<br />

trasformare miticamente in certo ciò che è semplicemente probabile è<br />

irrazionale […] L'uomo è razionale nella misura in cui sa vivere del<br />

probabile e vince e controlla il proprio bisogno di garanzia assoluta<br />

certificante. " Che è anche come dire che scegliere la ragione<br />

80


significa imporsi di aver fede in un valore ritenuto assoluto; e così<br />

questa fede riesce ad essere irrazionale come tutte le altre. Magari<br />

sarà l'unica cosa irrazionale che compie un razionalista, l'unico<br />

dogma su cui è disposto a giurare, ma il problema non cambia. Fino<br />

poi alla curiosa affermazione di Schelling: "Ciò che chiamiamo<br />

ragione, se è ragione reale, viva, attiva, è propriamente null'altro che<br />

follia regolata […] Gli uomini che non hanno in sé la follia, sono<br />

uomini dalla ragione vuota, sterile. " Forse si può "ragionevolmente"<br />

convenire che la ragione ha una sua funzione, quella di incoraggiare<br />

l'arte della vita, che è soprattutto calcolo. Ma l'ambiguità resta<br />

sempre: infatti nell'irreale appare e nasce il reale, la morte. E nel<br />

reale appare e nasce l'irreale: la morte. E' sempre lei al termine della<br />

strada. Infatti Pascal ammoniva che l'ultimo passo della ragione è<br />

riconoscere che c'è un'infinità di cose che la sorpassano. Una più<br />

ambigua dell'altra. Che importa ? Tutto è Grazia.<br />

81


Ambiguità della memoria, fra retorica e reticenza<br />

83<br />

Lino Lantermino<br />

Lo Zekher (il ricordo) ci redime dal<br />

niente, ci avvolge nell'avvenire.<br />

Lo Zekher non consiste nel fare la pace<br />

dei vivi sui morti, ma è, prima di tutto,<br />

un esame di coscienza dei vivi.<br />

Shmuel Trigano<br />

Il 23 Marzo del 2000 a Gerusalemme, nella penombra e nel silenzio<br />

della sala della Rimembranza di Yad Vashem, un uomo curvo, lento,<br />

assorto, si inginocchiò con fatica davanti all'imperativo della<br />

memoria, la memoria di un abominio che le parole non riescono a<br />

raccontare.<br />

Quel giorno, Giovanni Paolo II, pontefice romano, abito bianco nel<br />

buio della immensa sala del memoriale della Shoah, con gesti incerti<br />

e dolenti, lontano dalle solenni rievocazioni dell'orrore, veniva in<br />

silenzio ed umiltà ad apprendere la immensa arte della memoria che<br />

gli Ebrei posseggono.<br />

Il successore di Pietro era consapevole che l'esibizione del dolore,<br />

l'insistere sulle ferite subite non fa parte della tradizione ebraica.<br />

Agli Ebrei, per commemorare gli assassinati nella Shoah, bastano<br />

pochi minuti di raccoglimento, il tempo di recitare un Kaddish, ed è<br />

tutto: non c'è spazio per il culto del dolore né per l'ossessione della<br />

memoria delle vittime.<br />

A fine catastrofe, mentre l'orrore veniva rimosso, sopravvissuti e<br />

testimoni avevano un unico pensiero: conservare le tracce di un<br />

popolo votato alla distruzione in un mare di odio e di indifferenza,<br />

scrivere la storia del genocidio, raccogliere prove per incriminare gli<br />

assassini.<br />

Nessuno pensava a dar luogo al tripudio sfrenato di cerimonie che<br />

esplodono intorno al 27 Gennaio in ogni parte del mondo, a<br />

dimostrazione di quanto sia molto più facile commemorare genocidi<br />

a decenni di distanza, piuttosto che impedirli.<br />

L'Ebraismo ricerca invece testardamente il passato, per rielaborarlo<br />

come memoria presente.<br />

E' convinto che i monumenti siano “metafore fallimentari del


icordo”, utili per chi voglia liberarsi delle proprie imbarazzanti<br />

responsabilità del passato...utili soprattutto ad una civiltà europea<br />

che con calcolo sinistro, tenta invano di chiudere i conti con il suo<br />

antisemitismo passato e presente.<br />

Memoria per l'Ebraismo è quanto recita la Bibbia in Deuteronomio.<br />

Memoria è conservazione di antichi momenti, non la conservazione<br />

di antichi monumenti.<br />

Un monumento a memoria della catastrofe può essere soltanto la<br />

ferita di una assenza... unica immagine possibile della morte della<br />

Ragione, parte indicibile della storia europea... la sua parte<br />

vergognosa ed infame.<br />

A noi che viviamo in un mondo dalla memoria guardinga, un<br />

mondo dalla memoria recisa, evanescente ed incline al conformismo<br />

del tempo, il gesto di Giovanni Paolo II ricorda che la memoria viva<br />

deve essere un giogo quotidiano da reggere con rispetto e<br />

consapevolezza, per evitare facili congedi dal proprio passato...per<br />

evitare che il passato svanisca ed il futuro venga meno.<br />

Noi tutti siamo capaci di collere morali ed indignazioni effimere che<br />

rivestiamo di ambigua retorica in alcuni momenti fissati dal<br />

calendario: una corona di fiori il 27 Gennaio, qualcuno che dice “ho<br />

letto il libro di Primo Levi”, qualcuno che recita un verso o una<br />

preghiera; poi tutti a dire: “che palle questi ebrei!”<br />

Sì, da noi la memoria si risveglia soltanto quando fa comodo,<br />

quando torna utile; ci si lascia andare a qualche esplosione di sdegno<br />

che dura poco e lascia deboli tracce, si trasforma il tragico tumulto<br />

della memoria in spettacolo, viene riproposta l'esortazione “mai più”<br />

ormai onnipresente nella attualità mediatica e sulla bocca di tanti<br />

improbabili esegeti della memoria.<br />

Quanti propositi consolatori, quante versioni semplificate della<br />

storia!<br />

Quante verità putative, dimenticate, omesse a causa di una memoria<br />

enfatica, verbosa, reticente!<br />

Quante mezze verità, quante memorie tronche, nel tentativo di<br />

costruirsi una identità morale di comodo, piuttosto che vigilare su<br />

noi stessi e ripudiare le nostre amnesie!<br />

Il 28 Maggio 2006, un giorno livido di pioggia e di dolore in<br />

Auschwitz, un professore tedesco salito da poco al soglio di Pietro,<br />

scelse una velata ed incauta difesa del suo popolo ai tempi di Hitler:<br />

“...è un dovere di fronte alla verità e un dovere davanti a Dio – disse<br />

con voce opaca – essere qui come figlio del popolo tedesco, figlio di<br />

84


quel popolo sul quale un raggiunse il potere<br />

mediante promesse bugiarde...cosicché il nostro popolo poté essere<br />

usato e abusato come strumento della smania di distruzione<br />

e dominio...”<br />

Versione semplificata della storia?<br />

Oppure un caso di amnesia storica, di memoria reticente ed<br />

ambigua, ...o forse, ancora, una riprovazione tiepida e tardiva (diluita<br />

dal concetto di un popolo tradito e sviato), pronunciata con le<br />

antiche “prudenze”, “riserbi” e “cautele”?<br />

Sicuramente una occasione perduta, frutto di un imbarazzo<br />

inoperoso; una richiesta di perdono fatto in nome della fede di cui<br />

incarna la massima autorità, avrebbe potuto lenire gli atroci ricordi<br />

dei molti che lo ascoltavano sotto una pioggia battente.<br />

Su vittime ed oppressori, ancora una volta la dottrina cristiana si<br />

esprimeva con troppa cautela, anche quando lì, in Auschwitz,<br />

avrebbe potuto avvertire il dovere non solo di proclamare, ma di<br />

difendere la sacralità di ogni vita, a prescindere dagli Dei cui questa<br />

abbia scelto di sottomettersi.<br />

85


1. IL NEFANDO DIAGRAMMA<br />

Ambigui Gnostici<br />

Ezio Albrile<br />

Il documento gnostico che prenderò in considerazione oggi è il<br />

cosiddetto Diagramma degli Ofiti descritto da Origene nel Contra<br />

Celsum (6, 22-38), databile entro i primi quattro decenni del II secolo<br />

d.C.; Si tratta di un cosmogramma di cui era in possesso Celso e da<br />

lui attribuito ai cristiani, del quale possedeva una copia anche<br />

Origene.<br />

Secondo la descrizione di Celso, il Diagramma appariva composto da<br />

un’immagine costituita da dieci cerchi, fra loro separati, ma tutti<br />

inscritti in un cerchio più grande, quello del drago Leviathan hē tōn<br />

olōn psychē «l’anima permeante il tutto». Nel disegno di Origene il<br />

mostro biblico era rappresentato due volte, sopra il cerchio e al suo<br />

centro e anche il suo nome vi appariva due volte Una linea nera<br />

tagliava poi in due il disegno ed era denominata Gehenna/Tartaro,<br />

al di sotto della quale era inscritto il nome di Behemot (Beēmōn).<br />

Celso introduce poi la descrizione di sette Arconti, dei quali però<br />

non riferisce il nome. Origene li ritrova nel diagramma in suo<br />

possesso, elencati, a suo dire, nel medesimo ordine e dotati di un<br />

nome derivante dalla tradizione angelica giudaica: Michael, dalle<br />

fattezze di leone; Souriel, di toro; Raphael, di drago, Gabriel, di<br />

aquila; Thauthabaoth, di orso; Erathaoth, di cane; l’ultimo, infine, da<br />

Celso è denominato Thaphabaoth o Onoel, da Origene Tartharaoth<br />

o Onoel, e ha l’aspetto di asino.<br />

Secondo Origene, gli Ofiti insegnavano agli uomini a pronunciare,<br />

dopo aver superato la phragmon kakias, la «barriera del male», delle<br />

frasi davanti alle porte eternamente chiuse degli Arconti, all’indirizzo<br />

delle potenze dominatrici dei cieli. Origene riporta poi le formule<br />

rivolte ai diversi Arconti: la prima di esse è per una prōte dynamis<br />

«prima potenza», da dove iniziano tēs ogdoados tas archas «i principi<br />

dell’Ogdoade». Segue poi l’invocazione a Ialdabaoth, messo in<br />

rapporto con l’astro splendente, Saturno; secondo è Ia (Iao), dopo<br />

di lui Sabaoth, Astaphaios, Aiolaios e Horaios.<br />

Tra esse la più significativa è l’invocazione ad Astaphaios: «O<br />

Astaphaios, Arconte della terza porta, guardiano delle prime acque,<br />

volgendo lo sguardo a me, come ad un myste, lasciami passare,<br />

87


poiché sono stato purificato dallo spirito virginale, o tu che vedi<br />

l’essenza del mondo, che la grazia sia con me, padre, sia con me!».<br />

Una invocazione che può essere comparata con simili dichiarazioni<br />

rintracciabili nei testi delle laminette orfiche. In queste mappe<br />

dell’aldilà il percorso è subordinato al riconoscimento di una<br />

sorgente d’acqua:<br />

88<br />

«… appena sarai venuto a morte,<br />

andrai alle case ben costruite di Ade;<br />

v’è sulla destra una fonte,<br />

accanto ad essa si erge un bianco cipresso…».<br />

Il testo continua affermando che, dopo aver evitato questa fonte (si<br />

tratta della fonte di Lete, o dell’oblìo), l’anima ne troverà un’altra,<br />

quella di Mnemosyne, o del Ricordo, sorvegliata da severi custodi.<br />

Proprio quest’acqua dovrà bere per giungere alla felicità. Ma i<br />

custodi gliela daranno soltanto dopo che essa avrà pronunciato una<br />

frase suggeritale dalla laminetta.<br />

Nel Diagramma degli Ofiti gli spazi circoscritti dal grande Leviathan<br />

sono affidati a sette potenze che possiedono nomi di angeli di chiara<br />

tradizione giudaica e un aspetto teriomorfo (c. 30). Origene sostiene<br />

la coincidenza della serie da lui analizzata con quella della<br />

rappresentazione di Celso, qualche leggera differenza si trova<br />

solamente nella trascrizione del nome dell’ultimo Arconte.<br />

Nel capitolo successivo Origene riporta una serie di formule che gli<br />

Ofiti pronuncerebbero dopo aver superato la «barriera del male»,<br />

trovandosi davanti alle porte degli Arconti. Questa elencazione non<br />

è isolata, in altri documenti gnostici ritroviamo elenchi simili e<br />

sempre in relazione a contesti astrali.<br />

La setta degli Gnostici di cui ci da notizia Ireneo (Adv. haer. 1, 30)<br />

concepisce la creazione del mondo visibile come la conseguenza<br />

della trasgressione del principio divino femminile che incautamente<br />

si lascia imprigionare dalla materia. A seguito di questa vicenda<br />

l’essere femminile genera un figlio, dotato di un soffio di immortalità,<br />

questi a sua volta genera un altro figlio e così via fino a raggiungere<br />

il numero di sette, la «perfetta ebdomade», cioè l’insieme<br />

dei pianeti. Vengono riferiti i nomi di questi esseri a partire dal<br />

primo generato: Ialdabaoth, Iao, Sabaoth, Adoneus, Eloeus, Oreus,<br />

Astaphaeus. Sono queste potenze dominatrici dei cieli a creare


l’uomo, secondo la loro immagine e somiglianza ed esse, poste nelle<br />

sfere celesti, esercitano il loro influsso sulla terra.<br />

Gli Gnostikoi di Epifanio (Pan. haer. 26) collocano nei cieli planetari<br />

sette Arconti, nell’ordine Iao, Saklas, Seth, Davides, Eloaeus o<br />

Adonaeus, Ialdabaoth o Elilaeus, Sabaoth. Sabaoth viene rappresentato<br />

come un asino oppure un maiale, egli è colui che ha creato il<br />

cielo, la terra, i cieli sotto di lui ed i suoi stessi angeli. Si può<br />

supporre la creazione dell’uomo materiale ad opera di queste realtà<br />

in quanto questi Gnostici riferivano che la carne deve perire, non<br />

ascendere, poiché appartiene all’Arconte.<br />

Nel trattato di Nag-Hammadi sull’Origine del mondo Ialdabaoth genera<br />

sette figli, androgini, tutti dotati, come lui stesso, di un nome<br />

maschile e di un nome femminile:<br />

Ialdabaoth Pronoia Sambathas<br />

Iao Signoria<br />

Sabaoth Divinità<br />

Adonaios Regalità<br />

Eloaios Invidia<br />

Oraios Ricchezza<br />

Astaphaios Sophia<br />

Le creature di Ialdabaoth vengono poi collocate nei rispettivi cieli,<br />

meravigliosi, ricchi di esseri al loro servizio. Essi «sono le sette forze<br />

dei sette cieli del caos». La parte inferiore dell’uomo, quella terrestre,<br />

è opera delle potenze arcontiche che contribuiscono alla creazione<br />

delle varie parti del suo corpo.<br />

Ma il testo in cui, in uno scenario intriso di dottrine astrologiche, la<br />

creazione dell’uomo terrestre da parte delle potenze arcontiche<br />

appare più minuziosamente trattata, è l’Apokryphon Johannis. In un<br />

proliferare di entità intermedie tra il pleroma e il nostro mondo<br />

troviamo Ialdabaoth, l’aborto di Sophia, la quale ha voluto generare<br />

senza il proprio compagno. Ialdabaoth opera in uno spazio proprio<br />

che è quello del firmamento dove, in unione con l’ignoranza, genera<br />

dodici angeli, cioè i dodici segni zodiacali. Segue poi un riferimento<br />

a «sette re» che sono da ricollegarsi ai domicili planetari assegnati ai<br />

segni zodiacali. Gli ordini angelici vengono posti in relazione con<br />

l’anno, il che rivelerebbe l’utilizzo di una fonte basata sul sistema<br />

astrologico di origine egiziana dei trentasei decani.<br />

In termini cosmografici Ialdabaoth ripartisce il cerchio dell’eclittica<br />

in 12 spazi siderei e assegna a ognuno di essi un segno zodiacale. I<br />

singoli segni o costellazioni sono ulteriormente suddivisi – secondo<br />

89


la redazione breve dell’Apokryphon Johannis – in sette parti<br />

diseguali, ognuna affidata a un angelo. Il totale di 84 egregori<br />

angelici rappresenta ciò che in astrologia va sotto il nome di<br />

paranatellona, cioè l’insieme delle stelle che sorgono<br />

simultaneamente ai segni zodiacali. Ialdabaoth prosegue l’opera<br />

demiurgica affiancando altre tre potenze a ogni angelo. In apparente<br />

spregio del nichilismo gnostico, il redattore dell’Apokryphon Johannis<br />

sfoggia una conoscenza della materia astrologica approfondita, in<br />

perfetta sintonia con una tradizione divinatoria ben consolidata.<br />

Basta prendere una summa astrologica del tempo come l’opera di<br />

Firmico Materno, per capire che le ulteriori tre potenze aggiunte dal<br />

Demiurgo gnostico sono i Decani, associati ai sette pianeti.<br />

Ialdabaoth crea infine sette Arconti:<br />

Athoth pecora<br />

Eloaiou asino<br />

Astaphaios iena<br />

Iao drago a sei teste<br />

Sabaoth drago<br />

Adonin scimmia<br />

Sabbede fuoco splendente<br />

Un secondo nome viene dato a queste potenze, rispettivamente<br />

bontà, pronoia, divinità, dominazione, regno, fuoco, sapienza. I sette<br />

Arconti, a loro volta, generano un gran numero di potenze ad essi<br />

subordinate.<br />

Alla creazione dell’uomo «psichico» partecipano gli Arconti con<br />

l’aiuto di tutte le potenze angeliche, ciascuna delle quali fornisce una<br />

parte delle sostanze psichiche necessarie alla sua formazione;<br />

accortesi però che nell’uomo da loro plasmato alberga un principio<br />

superiore, decidono di imprigionarlo: «Essi presero fuoco, terra e<br />

acqua; li mescolarono assieme l’uno con l’altro, e con i quattro venti<br />

di fuoco: li unirono insieme e fecero una grande confusione. Lo<br />

portarono nell’ombra di morte per plasmarlo nuovamente, dalla<br />

terra, dall’acqua, dal fuoco e dal vento, cioè dalla materia,<br />

dall’ignoranza delle tenebre, dal desiderio e dal loro spirito di<br />

opposizione (pneuma antimimon): questa è la grotta (spēlaion) della<br />

nuova creazione del corpo, che i ladri diedero all’uomo, questa è la<br />

catena dell’oblio; egli diventò un uomo mortale..» (NHC II, 1, 21, 1-<br />

13)<br />

In tutti questi casi troviamo una stretta correlazione tra le potenze<br />

arcontiche celesti e la composizione dell’uomo nelle sue componenti<br />

90


più basse, quella materiale e quella psichica, sia per quanto riguarda<br />

la «fabbricazione» della creatura, sia per quanto riguarda il dominio<br />

che queste potenze sono in grado di esercitare sull’individuo nel<br />

corso della sua esistenza. Nonostante le diverse varianti, il seme di<br />

luce risulta provenire dal mondo divino, superiore, di cui gli Arconti<br />

ignorano l’esistenza.<br />

Si stabilisce così un legame tra l’uomo e le potenze arcontiche<br />

piuttosto ambiguo: da una parte egli, nella sua dimensione più vera,<br />

quella del proprio sé più profondo, è sostanzialmente estraneo a<br />

questo mondo, nel quale è imprigionato; dall’altra, in quanto ingabbiato<br />

in una dimensione arcontica, fisica, ma anche psichica,<br />

inerente quindi alla sfera dei sentimenti e delle passioni, è naturalmente<br />

incline a lasciarsi dominare da questi.<br />

Solamente l’intervento salvifico della gnosi lo renderà consapevole<br />

della sua duplice natura e gli fornirà gli strumenti per liberarsi da tali<br />

vincoli. Questo accadrà al momento della morte, quando l’anima si<br />

libererà di tutto ciò che ha ricevuto dalle potenze arcontiche e,<br />

divenuta ormai puro spirito, potrà riunirsi alla sua fonte. Più difficile<br />

da cogliere è la condizione dello gnostico durante la sua esistenza<br />

terrena: egli sa di essere libero dalle influenze negative della realtà in<br />

cui abita, eppure al medesimo tempo, ne continua a far parte. Da qui<br />

una serie di tecniche diverse, le note pratiche libertine o<br />

astensionistiche, attraverso le quali lo gnostico instaura una prassi<br />

salvifica nel mondo sensibile che in qualche maniera anticipa o accelera<br />

il processo di liberazione finale. D’altronde, è bene sottolinearlo,<br />

lo gnosticismo si caratterizza rispetto alla filosofia cristiana come<br />

una «non-religione», una pratica di salvezza in aperta polemica con<br />

le teologie del tempo (neoplatoniche prima e cristiane poi).<br />

2. RITUALI GNOSTICI<br />

Tornando al Diagramma degli Ofiti, sembra chiaro il riferimento a un<br />

percorso dell’anima attraverso le sfere planetarie, anche se sfugge il<br />

contesto nel quale esso avveniva. Se si trattava cioè di una pratica di<br />

tipo rituale effettuata in vita, oppure se costituiva un<br />

ammaestramento in vista del viaggio post mortem.<br />

Il formulario riportato nel capitolo 31 del sesto libro del Contro Celso<br />

allude chiaramente ad un itinerario che gli adepti percorrerebbero ad<br />

un certo momento della propria esistenza. Nel capitolo 27, Origene<br />

riporta alcune affermazioni di Celso delle quali egli però non ha<br />

91


notizia (sostiene che Celso se le sia inventate di sana pianta).<br />

Queste fanno riferimento ad un contesto sacramentale, si parla di un<br />

«sigillo» e di un’unzione praticata da un «padre» nei confronti di un<br />

«figlio» o «giovane», il quale risponde con una formula: «Io sono<br />

stato unto con la bianca unzione, che proviene dall’albero della vita».<br />

Segue un’ulteriore specificazione, che spiega la doppia lettura dei<br />

nomi planetari nel Diagramma (nomi angelici per Origene, arcontici<br />

per Celso): ai lati dell’anima del moribondo stanno sette angeli, di<br />

cui alcuni sono detti «angeli di luce», altri «arcontici».<br />

Il Diagramma ofitico servirebbe quindi da supporto per una pratica<br />

meditativa finalizzata all’abbandono dello stato ordinario di coscienza<br />

e a un viaggio nel punto più profondo del proprio sé. Tale viaggio<br />

interiore anticiperebbe la definitiva ricongiunzione con il divino alla<br />

fine della propria esistenza. Il momento della liberazione finale dal<br />

proprio corpo poteva essere anticipato attraverso una serie di<br />

pratiche rituali reiterate nel corso dell’esistenza stessa dell’individuo,<br />

per culminare in una sorta di «estrema unzione», di apolytrōsis da<br />

somministrare al momento del decesso.<br />

L’anima scendendo nel mondo materiale acquisisce una serie di vizi<br />

e passioni che, come una zavorra troppo pesante, deve<br />

necessariamente abbandonare al momento del suo ritorno al divino.<br />

La versione iniziale di tale avvenimento è quella che coinvolge il<br />

Salvatore che attraversa nascostamente le sfere arcontiche, per<br />

portare il suo messaggio all’uomo e che deve, in seguito,<br />

abbandonare le proprie vesti per ritornare nel pleroma.<br />

Sia che le formule venissero pronunciate nel corso di un’esperienza<br />

estatica, sia che esse fossero invece recitate dall’anima del defunto, la<br />

loro funzione appare quella di permettere all’invocante di progredire<br />

lungo un percorso ascensionale, i cui diversi livelli sono preclusi a<br />

coloro che non possiedono le conoscenze richieste. Nei documenti<br />

gnostici esistono diverse attestazioni di questi dialoghi tra visionari<br />

o anime, e custodi degli spazi celesti: molto spesso il diritto di<br />

passaggio viene difeso attraverso l’affermazione dell’estraneità<br />

dell’invocante rispetto al cosmo e alle entità che in esso governano.<br />

A differenza degli Arconti che li interrogano, i possessori della gnosi<br />

non appartengono a questo mondo: con l’abbandono del corpo è<br />

cessato il dominio delle entità cosmiche, che non possono più<br />

esercitare alcun potere su di essi.<br />

Secondo Epifanio, alcuni Gnostikoi apprendevano dal Vangelo<br />

apocrifo di Filippo (non identificabile con il testo di Nag-Hammadi<br />

92


dal medesimo titolo) la formula che dovevano pronunciare,<br />

durante la loro ascesa, alle potenze superiori: «Il Signore mi rivelò<br />

ciò che l’anima deve proferire salendo verso il cielo, e la risposta a<br />

ciascuna delle potenze superiori: Io mi sono conosciuta<br />

perfettamente, mi sono raccolta da ogni lato e non ho seminato figli<br />

per l’Arconte, ma ho sradicato le sue radici, ho raccolto le membra<br />

disperse e conosco chi sei tu, poichè io appartengo a quelli in<br />

alto…» (Epiph. Pan. haer. 26, 13, 2-3).<br />

Anche per i Valentiniani di Marco il Mago il passaggio è assicurato<br />

attraverso una affermazione di superiorità: «Sono figlio del Padre,<br />

del Padre preesistente, figlio nel Preesistente. Sono venuto a vedere<br />

tutto ciò che è mio proprio e ciò che mi è estraneo: non estraneo del<br />

tutto, ma (è) di Achamoth, che è donna e queste cose ha fatto per<br />

sé. Traggo origine dal Preesistente e vado di nuovo al mio luogo<br />

donde sono venuto… Sono un vaso più prezioso della donna che vi<br />

ha fatto. Se la vostra madre ignora la sua radice, io conosco me<br />

stesso e so donde provengo e invoco la Sophia incorruttibile che è<br />

nel Padre, madre di vostra Madre che non ha padre né consorte<br />

maschi. Donna nata da Donna vi ha creati, che ignora anche sua<br />

madre e crede di esser sola. Io invoco sua madre» (Ir. Adv. haer. 1,<br />

21, 5).<br />

Nell’Apocalisse di Paolo di Nag Hammadi l’apostolo, giunto al<br />

settimo cielo, deve rispondere ad una serie di domande postegli da<br />

un vecchio e successivamente esibire un «segno», prima di poter<br />

accedere al livello superiore. La prima interrogazione riguarda la<br />

meta del viaggio e ad essa Paolo risponde: «sto andando al luogo da<br />

cui provengo» (NHC V, 2, 23, 10-11), dimostrando anche in questo<br />

caso l’estraneità dello gnostico rispetto al cosmo. Nel logion 50 del<br />

Vangelo di Tomaso, Gesù insegna ai propri discepoli le risposte da<br />

dare agli Arconti, anche in questo caso la dichiarazione dell’origine<br />

divina e l’esibizione di un «segno» consentono il passaggio a una<br />

realtà superiore. Simile situazione troviamo anche nell’Apocrifo di<br />

Giacomo. Nel Vangelo di Maria, infine, l’anima risponde alle potenze<br />

che la interrogano: dichiarando ormai sciolti i legami con il mondo<br />

materiale, essa può ascendere al mondo divino. L’ultima risposta<br />

suggella il passaggio dalla precarietà del livello materiale alla stabilità<br />

della condizione divina: «Ciò che mi lega è stato ucciso; ciò che mi<br />

volge è stato eliminato. La mia brama si è estinta e l’ignoranza è<br />

morta. In un mondo mi sono liberata da un mondo, e in una forma<br />

(typos) mi sono liberata da una forma (typos) superiore e così dalla<br />

93


catena dell’oblio, la cui esistenza è momentanea. D’ora in poi<br />

raggiungerò la quiete nel tempo proprio della stagione dell’eone in<br />

silenzio.». Nel Diagramma degli Ofiti, l’apertura delle porte arcontiche<br />

si verifica a seguito della dimostrazione, da parte dell’invocante, della<br />

conoscenza di nomi, funzioni e prerogative del custode; l’esibizione<br />

di un disegno «costringe» poi l’entità a lasciare libero il passaggio.<br />

Anche nei papiri magici incontriamo il ricorso a invocazioni, a<br />

parole o «nomi di potenza», la cui funzione è analoga alle<br />

dichiarazioni che abbiamo incontrato nei testi gnostici: l’invocante,<br />

conoscendo i nomi segreti delle divinità, è superiore ad esse e può<br />

quindi costringerle ad agire secondo i propri voleri. Un testo<br />

peculiare è la cosiddetta «Liturgia mithraica» (PGM IV, 475-824),<br />

che descrive una ricetta per l’acquisizione dell’immortalità da<br />

ottenersi attraverso un’ascensione celeste. Ad un certo punto del suo<br />

viaggio il myste giunge a vedere «l’ordine divino dei cieli: gli dèi<br />

sovrani sorgere nel firmamento e in altri luoghi». Gli dèi lo fissano<br />

intensamente e si scagliano contro di lui. Egli per difendersi deve<br />

compiere determinati gesti e pronunciare una formula nella quale<br />

sono compresi numerosi «nomi di potenza», dimostrando di<br />

conoscere i quali il myste arresta l’impeto bellicoso delle potenze,<br />

che ora lo osservano benevolmente e non tentano più di attaccarlo,<br />

ma tornano ognuna a occuparsi degli affari propri (PGM IV, 555-<br />

567).<br />

Sull’utilizzo di pratiche e formule magiche da parte di alcuni gnostici<br />

ci informano gli stessi eresiologi. Analizzando poi il contenuto delle<br />

dottrine a cui questi maestri gnostici facevano riferimento troviamo<br />

sempre l’allusione al dominio delle sfere celesti e alla capacità,<br />

tramite l’uso di parole e nomi di potere, di vanificare o superare<br />

l’influsso negativo di Arconti o Angeli malvagi. Per Simon Mago,<br />

Ennoia, il primo Pensiero del Padre, genera gli Angeli creatori del<br />

mondo, che tengono in loro potere quanti vivono in esso (Ir. Adv.<br />

haer. 1, 23, 2-3). Menandro afferma che tramite la magia si possono<br />

dominare tali potenze. Anche in Basilide ritorna il motivo del cattivo<br />

governo del mondo da parte degli Angeli creatori dai quali l’uomo<br />

viene liberato attraverso l’intervento salvifico del Cristo portatore<br />

della gnosi. I seguaci di Basilide si servono altresì di magie e<br />

incantesimi che permettono loro di sfuggire alle potenze arcontiche.<br />

Anche Marco il Mago, discepolo di Valentino, riceve da parte di<br />

Ireneo l’accusa di servirsi di pratiche magiche per diversi scopi, tra i<br />

94


quali quello di assicurarsi nel post mortem un viaggio tranquillo verso<br />

la dimora ultraterrena.<br />

3. MONDI DI ARCONTI<br />

I due Libri di Ieu e la Pistis Sophia rimandano ugualmente verso un<br />

contesto di ascensione dell’anima fortemente legato ad elementi<br />

magici. I cieli arcontici subiscono in questi testi tardi una espansione<br />

straordinaria che fa moltiplicare conseguentemente le forze preposte<br />

al loro controllo: l’anima, per superare indenne il lungo percorso che<br />

l’attende, deve essere munita di diversi lasciapassare, simboli,<br />

disegni, parole acquisite mediante una serie di pratiche sacramentali<br />

di varia natura che il Salvatore comunica ai discepoli.<br />

La Pistis Sophia è ambientata nel periodo che intercorre tra la<br />

resurrezione e la definitiva ascensione di Gesù. Undici anni durante i<br />

quali il Salvatore si sofferma presso i discepoli, comunicando loro<br />

quel sapere esoterico che aveva celato ai tempi della sua<br />

predicazione. Gesù, permeato da una luce abbacinante, ascende in<br />

cielo. In seguito riferirà ai discepoli sui diversi mondi o livelli di<br />

esistenza attraversati. La prima tappa è alle porte del firmamento (I,<br />

11, 1-2), le quali si aprono per farlo passare, rivelando uno spazio<br />

popolato da Arconti, Potenze e Angeli. Il luogo successivo è<br />

chiamato «Prima Sfera» (I, 12, 1-3). Anch’esso è abitato da Arconti.<br />

Segue una «Seconda Sfera» (I, 13, 1-3), quella della Heimarmene, del<br />

destino, con i relativi abitanti. Infine Gesù raggiunge i «grandi Eoni<br />

degli Arconti» (I, 14, 1). A ogni mondo visitato la luce che lo permea<br />

si potenzia sempre più, talmente vivida da generare scompiglio fra<br />

gli abitanti dei cieli, sconvolgendo il normale ritmo delle sfere<br />

celesti: «e contemporaneamente si mossero tutti i loro Eoni, tutte le<br />

loro sfere, e tutti i loro ordini» (I, 14, 5).<br />

Guidati da Adamas, «il grande tiranno», tutti gli Arconti dei diversi<br />

Eoni cercano di combattere la grande luce, senza apparente motivo<br />

e soprattutto ignorandone la provenienza. Una scriteriata lotta il cui<br />

esito è l’indebolimento dei tiranni. Gesù approfitta della situazione<br />

per sottrarre loro un terzo della forza, diminuendone così l’influsso<br />

sulle cattive azioni degli uomini (I, 15, 3). Così l’intervento di Gesù<br />

assume proporzioni cosmiche. Il Salvatore «volge» la<br />

e la sfera su cui essi poggiano: da quel momento in<br />

poi per sei mesi manderanno i loro influssi «guardando a destra» e<br />

per sei mesi «guardando a sinistra»; mentre Ieu, emanazione del Dio<br />

95


inconoscibile, «Padre del Padre di Gesù» (IV, 136, 11), li aveva<br />

collocati in modo tale che guardassero sempre a sinistra (I, 15, 4-16,<br />

1). È probabile che dietro al fatto mitico si celi la dottrina<br />

astrologica delle porte solstiziali. Con i segni rivolti a destra si allude<br />

infatti all’arco discendente dello Zodiaco, cioè ai sei segni che vanno<br />

dalla costellazione del Capricorno a quella del Cancro; mentre con i<br />

segni volti verso sinistra si allude all’arco ascendente, cioè ai sei segni<br />

che vanno dalla costellazione del Cancro a quella del Capricorno. I<br />

due punti estremi del ciclo cosmico. Le due costellazioni zodiacali<br />

sono poste rispettivamente all’estremità Nord e all’estremità Sud<br />

dell’eclittica, il percorso apparente del Sole in un anno, situato<br />

obliquamente rispetto al piano dell’equatore e lungo il quale sono<br />

disposti i segni zodiacali. Il tropico del Cancro, settentrionale,<br />

corrisponde al solstizio d’estate, il tropico del Capricorno al solstizio<br />

d’inverno. Rispetto all’emisfero boreale il Cancro è quindi più vicino<br />

ed è dimora della Luna, il pianeta più prossimo alla Terra; il<br />

Capricorno invece è assegnato a Saturno, l’ultimo, più remoto<br />

pianeta.<br />

In corrispondenza dei due solstizi si aprono le due porte, una<br />

destinata agli uomini, attraverso la quale si entra nel mondo della<br />

generazione e della manifestazione individuale, l’altra destinata agli<br />

esseri divini, che dà invece accesso agli stati sovraindividuali. Mondi<br />

omologhi ai pitriloka e devaloka della tradizione vedica: la porta degli<br />

uomini (= pitriyāna), volta verso l’oscurità, e quella degli dèi (=<br />

devayāna), orientata alla luce, costituiscono le due vie permanenti del<br />

mondo manifesto (Bhagavadgītā 8, 26). I due solstizi, punti estremi<br />

del percorso solare, corrispondono ai due apici del ciclo<br />

trasmigrativo. Il segno del Cancro è l’entrata, il Capricorno è l’uscita<br />

dallo stato dell’esistenza umana e l’accesso agli stati superiori<br />

dell’essere, quelli degli dèi.<br />

Se, come sembra suggerire il testo della Pistis Sophia, le due porte<br />

sono collegate al doppio ciclo di discesa e di ascesa, di caduta e di<br />

risalita delle anime verso il mondo luminoso, allora all’inizio, prima<br />

dell’intervento di Gesù, esisteva solo una porta, quella della discesa<br />

delle anime nel mondo, che al tempo delle origini corrispondeva al<br />

Paradiso terrestre. Il peccato, la trasgressione al volere divino,<br />

mutarono l’equilibrio iniziale, trasformando il Paradiso nel cosmo<br />

arcontico che oggi conosciamo.<br />

I vaticini e le previsioni astrologiche, quindi, sono veritiere solo in<br />

parte, poiché gli astromanti non conoscono le posizioni delle stelle<br />

96


quando sono voltate a destra. Gesù, infatti, ha «girato i loro<br />

influssi, i loro quadrati, i loro triangoli e la loro ottuplice figura» (I,<br />

21, 2). Gli astrologi, per stabilire le varie influenze astrali, conoscono<br />

uno specifico lessico, riferito alle figure tracciate nei diagrammi<br />

oroscopici: il «quadrato», relativo agli influssi negativi che sorgono<br />

quando nel cerchio dello Zodiaco i Pianeti formano tra loro un<br />

angolo retto, cioè di 90°; il «trigono», quando, in relazione agli<br />

influssi positivi, i Pianeti si trovano a 120° fra loro; l’«ottagono» o<br />

semiquadrato, che segnala gli influssi negativi quando i Pianeti si<br />

trovano a 45° fra loro. Tutti questi vaticini, quando sopraggiunge<br />

l’autorità del Salvatore, non sono più possibili e la tracciabilità dei<br />

diagrammi oroscopici è vanificata: restano solo delle mute figure<br />

geometriche senza valore, segno un tempo della sincronia fra<br />

macrocosmo e microcosmo, fra mondo divino e mondo terreno,<br />

oggi testimonianza della loro scissione.<br />

Tali posizioni, peraltro, non sono più comprese neppure dagli stessi<br />

Arconti «che si trovano negli Eoni, nelle loro sfere, nei loro cieli e in<br />

tutti i loro luoghi» (I, 21, 6). L’intervento sovvertitore di Gesù non è<br />

che un correttivo resosi necessario a seguito di un’alterazione della<br />

macchina cosmica. Essa all’inizio era stata approntata allo scopo di<br />

recuperare, attraverso un processo di raffinamento e di filtrazione, la<br />

forza divina precipitata nel mondo inferiore, racchiusa nei mostruosi<br />

corpi degli Arconti. Ora questi ultimi, scoprendo che in tal modo si<br />

indebolivano sempre più e che il loro regno si andava dissolvendo,<br />

decidono di impedire ai loro effluvi luminosi di ricadere come anime<br />

nel mondo terreno. Per fare questo «divorarono la loro materia» (I,<br />

26, 4). In un processo di autofagia «la divorano per non essere<br />

annientati» (I, 26, 5), trattenendo all’infinito il seme superiore nel<br />

mondo corporeo, «per far passare un lungo tempo sino al<br />

compimento del numero delle anime perfette, che giungeranno nel<br />

tesoro della luce». Un mito rielaborato negli insegnamenti del<br />

manicheismo, la gnosi iranica per eccellenza.<br />

Da segnalare ancora i tre battesimi riportati nel Primo Libro di Ieu il<br />

cui rituale prevede l’utilizzo di piante psicoattive e il compimento di<br />

una serie di azioni facilmente confrontabili con i ricettari presenti<br />

nei papiri magici. Il Salvatore gnostico scende nel mondo per<br />

liberare ciò che vi è di consustanziale al mondo divino: il corpo<br />

appartiene agli Arconti che lo hanno creato ed è a loro che deve<br />

tornare.<br />

97


Nel Diagramma degli Ofiti una riflessione a sé merita la prima<br />

invocazione che l’orante è chiamato a pronunciare nel luogo in cui si<br />

trovano i fondamenti dell’Ogdoade. Essa è rivolta ad un basileus<br />

monotropos, il «solitario egemone» il cui nome non è menzionato; si fa<br />

riferimento alla sua cecità, alla sua inconsapevole ignoranza, anche<br />

se poi si aggiunge che è protetto dallo spirito di provvidenza e di<br />

sapienza e quindi collegato in qualche modo al mondo superiore. Si<br />

tratta con tutta probabilità del Leviathan, l’anima del tutto che<br />

pervade il mondo sensibile vivificandolo. Esso era verosimilmente<br />

concepito dagli Ofiti come un serpente Ouroboros, qui descritto in<br />

tratti fortemente ambigui: rappresentazione iconografica dei confini<br />

spazio-temporali del cosmo che contemporaneamente pervade,<br />

viene negativamente concepito non a causa di una sua intrinseca<br />

malignità, ma piuttosto in quanto espressione simbolica dell’estremo<br />

limite della realtà sensibile.<br />

Bibliografia essenziale:<br />

E. ALBRILE, «Il firmamento magico e l’eresia del serpente», in Studi<br />

sull’Oriente Cristiano, 7 (2003), pp. 9-37.<br />

E. ALBRILE, «La porta del tempo. Misticismo astrale tra gnosi ed<br />

ermetismo», in F. ZAMBON (cur.), Il Dio dei mistici (Viridarium 2),<br />

Fondazione Giorgio Cini , Venezia-Milano 2005, pp. 77-97.<br />

E. ALBRILE, «Verso la cuna del tempo. Astromantica e apocalittica<br />

nel tardo ellenismo», in Angelicum, 88 (2011), pp. 1037-1052.<br />

A. BERNABÉ-A.I. JIMÉNEZ SAN CRISTÓBAL, Instructions for the<br />

Netherworld. The Orphic Gold Tablets (Religions in the Graeco-Roman<br />

World, 162), Leiden 2008.<br />

A. BOUCHE-LECLERCQ, L’astrologie grecque, Paris 1899.<br />

I.P. CULIANU, Psychanodia. I. A Survey of the Evidence Concerning the<br />

Ascension of the Soul and its Relevance (EPRO 99), Leiden 1983.<br />

I.P. COULIANO, Esperienze dell’Estasi dall’Ellenismo al Medioevo<br />

(Biblioteca di Cultura Moderna 926), Roma-Bari 1986.<br />

I.P. COULIANO, I miti dei dualismi occidentali. Dai sistemi gnostici al mondo<br />

moderno (Di fronte e attraverso 227), Milano 1989.<br />

F.T. FALLON, The Enthronement of Sabaoth. Jewish Elements in Gnostic<br />

Creation Myths (Nag Hammadi Studies, X), Leiden 1978.<br />

W. & H.G. GUNDEL, Astrologumena. Die astrologische Literatur in der<br />

Antike und ihre Geschicte, Wiesbaden 1966.<br />

98


A.K. HELMBOLD, «The Apokryphon of John», in Journal of Near<br />

Eastern Studies, 25 (1966), pp. 268 ss.<br />

TH. HOPFNER, «Das Diagramm der Ophiten», in AA.VV., Charisteria<br />

Alois Rzach zum achtzigsten Geburstag dargebracht, Reinchenberg 1930,<br />

pp. 86-98.<br />

H.M. JACKSON, The Lion Becomes Man. The Gnostic Leontomorphic<br />

Creator and the Platonic Tradition (SBL Dissertation Series 81), Atlanta<br />

(Georgia) 1985.<br />

H.M. JACKSON, «The Origin in Ancient Incantatory voces magicae of<br />

some Names in the Sethian Gnostic System», in Vigiliae Christianae,<br />

43 (1989), pp. 77 ss.<br />

M.G. LANCELLOTTI, «Gli gnostici e il cielo. Dottrine astrologiche e<br />

reinterpretazioni gnostiche», in Studi e Materiali di Storia delle Religioni,<br />

66 (2000), pp. 86 ss.<br />

B. LAYTON, The Gnostic Scriptures. A New Translation with Annotations<br />

and Introductions, London 1987.<br />

H. LEISEGANG, Die Gnosis (Kröners Taschenausgabe, Band 32),<br />

Leipzig s.d., poi Freiburg 1941 (terza edizione).<br />

H. LEISEGANG, «Das Mysterium des Schlange», in Eranos-Jahrbuch, 7<br />

(1939), pp. 151-250 (trad. ingl. in J. CAMPBELL [ed.], The Mysteries.<br />

Papers from Eranos Yearbooks, Princeton 1955, pp. 194-260).<br />

G. MANTOVANI, «Acqua magica e acqua di luce in due testi<br />

gnostici», in J. RIES (avec la coll. de Y. Janssens et de J.-M. Sevrin),<br />

Gnosticisme et monde hellénistique, Actes du Colloque de Louvain-la<br />

Neuve (Publications de l’Institut Orientaliste de Louvain 27),<br />

Louvain-la-Neuve 1982, pp. 430 ss.<br />

A. MASTROCINQUE, «Pregare Ialdabaoth», in G. SFAMENI<br />

GASPARRO (cur.), Modi di comunicazione tra il divino e l’umano. Tradizioni<br />

profetiche, divinazione, astrologia e magia nel mondo mediterraneo antico, Atti<br />

del II Seminario Internazionale (Hierá 7), Cosenza 2005, pp. 203 ss.<br />

H.-CH. PUECH, «Il Principe delle Tenebre nel suo Regno», in Sul<br />

manicheismo e altri saggi (Einaudi Paperbacks Filosofia, 260), trad. it. di<br />

A. Comba, Torino 1995, pp. 97-140.<br />

G. PUGLIESE CARRATELLI, Le lamine d’oro orfiche. Istruzioni per il<br />

viaggio oltremondano degli iniziati greci (Biblioteca Adelphi 419), Milano<br />

2001.<br />

G. QUISPEL, «The Demiurge in the Apocryphon of John», in R.<br />

MCL. WILSON (ed.), Nag Hammadi and Gnosis, Papers read at the<br />

First International Congress of Coptology (Nag Hammadi Studies,<br />

XIV), Leiden 1978, p. 7<br />

99


J. M. ROBINSON, The Nag Hammadi Library in English, Leiden 1984.<br />

K. RUDOLPH, La gnosi. Natura e storia di una religione tardoantica, ed. it.<br />

cur. C. Gianotto (Biblioteca di cultura religiosa, 63), Brescia 2000<br />

(ed. or. Göttingen 1990 3).<br />

C. SCHMIDT-V. MACDERMOT (eds.), Pistis Sophia (Nag Hammadi<br />

Studies IX), Leiden 1978.<br />

M. TORTORELLI GHIDINI, Figli della terra e del cielo stellato, Napoli<br />

2006.<br />

M. WALDSTEIN-F. WISSE (eds.), The Apocryphon of John: Synopsis of<br />

Nag Hammadi Codices II, 1; III, 1; and IV, 1 with BG 8502, 2 (Nag<br />

Hammadi and Manichaean Studies 33), Leiden-Köln 1995.<br />

A.J. WELBURN, «The Identity of the Archons in the “Apocryphon<br />

Johannis”», in Vigiliae Christianae, 32 (1978), pp. 241 ss.<br />

A.J. WELBURN, «Reconstructing the Ophite Diagram», in Novum<br />

Testamentum, 23 (1981), pp. 261-287.<br />

B. WITTE, Das Ophitendiagramm nach Origenes’ Contra Celsum VI 22-38<br />

(Arbeiten zum spätantiken und koptischen Ägypten, 6), Altenberge<br />

1993.<br />

Appendice iconografica:<br />

Ricostruzioni del Diagramma degli Ofiti secondo H. Leisegang (fig. 1-<br />

2), B. Witte (fig. 3), A. H. Logan (fig. 4), A.J. Welburn (fig. 5).<br />

100


♫♫♫<br />

♫♫♫<br />

101<br />

CONCERTO<br />

IN RICORDO<br />

DI CARLO SISMONDA<br />

♫♫♫<br />

♫♫♫


102<br />

♫♪♫♪♫♪♫♪ ♫♪♫♪♫♪♫♪<br />

Natascia Chiarlo: soprano<br />

Alessandra Castelli: mezzosoprano<br />

Ivan Chiarlo: pianoforte<br />

♫♪♫♪♫♪♫♪ ♫♪♫♪♫♪♫♪


da: “Il mio sodalizio artistico con Carlo Sismonda,<br />

quarant’anni tra musica e pittura sul filo della memoria”<br />

103<br />

Giorgio Giacosa<br />

………………….. Era quella una musica la cui realizzazione<br />

presupponeva e alimentava un vasto ceto di esecutori, tra le grandi orchestre<br />

intorno ai teatri d’opera e i piccoli complessi di musica da ballo, creando un<br />

mondo dove anche i più degli esecutori erano permeati da un vivo senso artistico,<br />

che si nutriva di una originale vivacità di ricerca. Almeno tale era il clima<br />

musicale nella Torino degli anni ’950, gli anni della mia formazione musicale,<br />

tra i maestri dell’orchestra RAI e le sale da ballo, dove da una: il Faro di via<br />

Po, sarebbe emerso quel grande genio della musica che fu Fred Buscaglione, nella<br />

cui orchestra ho avuto la fortuna e il piacere di suonare. Era un ambiente nel<br />

quale si imparava, nel vento eccitante della ritrovata libertà, a guardare anche<br />

oltre l’orizzonte della musica, verso la straordinaria pittura e il clima letterario<br />

della Torino di quegli anni, segnata da Spazzapan, da Casorati, dai sei, da<br />

Pavese ...<br />

………….Dopo aver visto e ammirato le pitture del mio nuovo amico, gli<br />

chiesi di suonarmi alcuni brani di sua composizione; che mi colpirono per la<br />

penetrante piacevolezza della melodia e il felice gusto armonico.<br />

……………………<br />

Per alcuni mesi non ci rivedemmo, poi Carlo mi telefonò per invitarmi a<br />

partecipare a un concerto benefico a favore dell’orfanotrofio di Racconigi. Accettai<br />

con entusiasmo, e ancora oggi quella serata è nel patrimonio dei miei ricordi più<br />

cari, intorno al suggestivo coro degli orfanelli, che attraverso la musica si<br />

ricongiungevano a un valore affettivo sentimentale alto e vero. Era il Natale del<br />

1964, e da allora, per un tragitto di ormai quarant’anni, il mio sodalizio con<br />

Carlo Sismonda si è rafforzato attraverso una serie di concerti che ci hanno<br />

portati, tra il Piemonte e il mondo, dalla Germania al Canada, a eseguire,<br />

spesso nelle vernici delle sue mostre, e sempre tra il consenso del pubblico, le sue<br />

composizioni; che egli, molto esattamente, ha definito Musica Romantica da<br />

Camera. …………………………………………….<br />

Da questi ormai quarant’anni di sodalizio musicale, credo con qualche<br />

fondamento ragionato, di poter affermare che Carlo Sismonda musicista è una


originale voce di quella scuola neoromantica italiana che conobbe la sua grande<br />

stagione tra fine ottocento a primi novecento.<br />

Le composizioni musicali di Carlo Sismonda esprimono, in forma di pura<br />

liricità melodica il contenuto emotivo sentimentale della tradizione della romanza<br />

italiana, lasciando intravedere, in potenza, un compositore operistico, che per sue<br />

particolari condizioni e scelte, ha intrapreso una via originale e singolare, ben<br />

individuata appunto dall’espressione Musica Romantica da Camera.<br />

104


Dall’ambiguità all’autoriferimento, dall’indecidibilità<br />

all’approccio veritativo: indicazioni per certezze, dalla<br />

logica formale alla metodologia della conoscenza in<br />

medicina<br />

Lorenzo Orione<br />

Come è possibile che la matematica, un prodotto della mente umana che è<br />

indipendente dall’esperienza, si accordi in maniera tanto eccellente agli oggetti<br />

della realtà fisica? A. Einstein, 1934 1<br />

Per ogni classe di formule -coerente ricorsiva esistono segni di classe ricorsivi<br />

r tali che né v Gen r né Neg(v Gen r) appartengono a Flg() (essendo v la<br />

variabile libera di r). K. Gödel, Primo Teorema di Incompletezza, 1931. 2,3<br />

Esprimo viva gratitudine all’amico e collega Dr Mario Abrate per<br />

l’opportunità accordatami anche quest’anno di intervenire nei lavori<br />

congressuali dell’Associazione Culturale da egli presieduta;<br />

l’occasione vuole essere una riflessione sopra i due distinti aspetti<br />

che, fin dai tempi degli studî liceali scientifici, hanno attratto la mia<br />

ricerca filosofica: la Sapienzialità e la Logica; su questo secondo<br />

aspetto si sviluppa la presente relazione, che va quindi letta quale<br />

continuum della precedente, incentrata sul primo.<br />

L’ambiguità, polivalenza semantica negli enunciati linguistici, genera<br />

una varia interpretazione.<br />

Sul piano logico formale ciò può dipendere da due condizioni.<br />

105<br />

4 O<br />

dall’ambiguità del termine, che genera l’errore di deduzione nella<br />

struttura del sillogismo: “Mus syllaba est; mus autem caseum rodit; syllaba<br />

ergo caseum rodit” , “Mus syllaba est; syllaba autem caseum non rodit: mus ergo<br />

caseum non rodit” (Seneca, Epistulae Morales ad Lucilium, Liber V 48,6). 5<br />

O dall’ambiguità del nesso sintattico delle proposizioni, fondato<br />

sull’incerta relazione logica tra termini, come nel responso<br />

(“sibillino”, appunto) della Sibilla, il cui significato è capovolto dalla<br />

posizione della virgola: “Ibis, redibus (, 1) non (, 2) morieris in bello”<br />

(Alberico delle Tre Fontane, Chronicon), alla base dell’equivocazione.<br />

Una condizione capace di generare disagio ancora maggiore è quella<br />

rappresentata dall’autoriferimento.<br />

In logica formale un riferimento è la relazione che lega un simbolo (o il<br />

significato da esso espresso) all’oggetto da esso denotato; 4 quindi,


autoriferimento si ha quando un simbolo denota se stesso od un<br />

simbolo in cui esso è contenuto.<br />

106<br />

4<br />

L’autoriferimento si lega ai paradossi logici. 3<br />

Un paradosso è un argomento che, muovendo da premesse<br />

intuitivamente plausibili, attraverso deduzioni intuitivamente accettabili,<br />

giunge a conclusioni controintuitive o (paradosso logico) a contraddizione. 6<br />

I paradossi logici possono essere insiemistici o semantici.<br />

Tanto nei linguaggî naturali che in quelli formali artificiali della logica<br />

formale, è distinguibile la sintassi, che riguarda la combinazione dei<br />

segni linguistici nelle espressioni complesse, dalla semantica, che<br />

concerne il rapporto tra i segni linguistici (parole ed enunciati) ed i<br />

loro significati, specie riguardo alla Denotazione e alla Verità. La<br />

Verità è la nozione semantica fondamentale, dato che il significato<br />

degli enunciati riposa proprio sulla loro condizione di Verità. Ludwig<br />

Wittgenstein, nel Tractatus logico-philosophicus (4.024) riporta:<br />

“Comprendere una proposizione è sapere che cosa accade se essa è<br />

vera. (Dunque, una proposizione la si può comprendere senza<br />

sapere se essa sia vera.)”. 7<br />

Proprio al concetto di Verità si riferiscono i noti paradossi logici<br />

semantici, come quello del mentitore, nella Lettera a Tito (1,12): “Uno<br />

di loro, proprio un loro profeta, ha detto: ‘I Cretesi sono sempre<br />

bugiardi (…)’”, 8 ove San Paolo fa riferimento ad un verso di<br />

Epimenide di Cnosso (VI secolo a. C.). Tale enunciato,<br />

evidentemente, non può essere vero, stante il fatto che è espresso<br />

proprio da un cretese. Ancora più netto è il paradosso<br />

dell’enunciato: (A) è falso; infatti, se l’enunciato fosse vero, allora<br />

esso risulterebbe falso; ma se come in effetti dice, è falso, allora<br />

risulta vero perché informa di essere falso; è negato il principio di<br />

non-contraddizione. Analogamente, ad esempio, in: Questo enunciato è<br />

falso.<br />

Per affrontare questo punto è utile iniziare da quel paradigma<br />

storico del pensiero rigoroso rappresentato dal metodo assiomatico; a<br />

partire dalla geometria contenuta negli Elementi9 di Euclide (IV-III<br />

sec. a.C.), gli assiomi sono stati considerati verità evidenti dalle quali,<br />

attraverso catene di deduzioni, è possibile giungere ai teoremi.<br />

Nello stesso periodo Aristotele, nell’Organon, fornì la prima<br />

impostazione della logica. La logica è la parte della filosofia che studia<br />

le condizioni di validità di un’argomentazione; tradizionalmente, la<br />

logica formale consiste nello studio delle leggi e delle funzioni che<br />

caratterizzano la struttura del pensiero in sé e si distingue dalla logica


materiale, che studia il rapporto tra il pensiero ed i proprî contenuti;<br />

attualmente, la logica è intesa come disciplina di carattere matematico<br />

che studia le forme del ragionamento deduttivo attraverso l’analisi della<br />

loro validità, ossia in quanto argomenti in cui la verità delle<br />

conclusioni consegue da quella delle premesse indipendentemente<br />

dal contenuto delle proposizioni coinvolte (detta anche logica<br />

simbolica).” 10 Bertrand Russell, nei Principî della Matematica, afferma:<br />

“La tesi fondamentale dell’opera, che la matematica e la logica siano identiche, è<br />

una tesi che io non ebbi finora ragione di modificare. Essa fu dapprima<br />

impopolare, a causa della tradizione che associava la logica con la filosofia e con<br />

Aristotele, per modo che i matematici sentivano la logica estranea ai loro<br />

interessi, e coloro che si consideravano dei logici accettavano malvolentieri di essere<br />

costretti ad impadronirsi di una tecnica matematica nuova e piuttosto difficile.” 11<br />

Partendo dai fondamenti del metodo assiomatico in geometria, R.<br />

Dederkind e G. Peano, a fine Ottocento, giunsero a definire tre<br />

nozioni di base anche per l’ambito matematico (0, numero,<br />

successore) quali “primitivi intuitivi” e cinque principî per<br />

l’aritmetica (cd. assiomi di Peano). Tuttavia, tanto gli assiomi euclidei<br />

che gli assiomi di Peano erano trattati con un linguaggio non<br />

formale (il quale è invece dotato di sintassi precisa e significato<br />

univoco).<br />

Fu in particolare G. Frege ad avviare il progetto logicista, volto alla<br />

riduzione logicista dell’aritmetica, al fine di fondare la matematica sopra<br />

basi logico-filosofiche definitive, attraverso la definizione dei numeri<br />

mediante ciò che oggi è definito Teoria ingenua degli insiemi, la<br />

quale si basa, tra l’altro, sul principio di astrazione. Tale principio<br />

stabilisce che a qualsiasi proprietà [x] corrisponde un insieme:<br />

yx(xy[x]).<br />

A differenza che nel concetto di “primitivo intuitivo” di G. Peano,<br />

nel progetto logicista di G. Frege e B. Russell i numeri sono<br />

proprietà [x] di insiemi; e le stesse proprietà [x] sono a loro volta<br />

insiemi. Ne consegue che i numeri sono insiemi di insiemi, ossia<br />

proprietà di insiemi equipotenti (es. 7 giorni della settimana, 7 virtù,<br />

7 vizî capitali, 7 arti liberali, ecc.). “Primitiva intuiva” sarà la nozione<br />

di insieme ed il progetto logicista consisteva nel ricavare da essa,<br />

mediante catene di deduzioni, l’intera matematica.<br />

Tuttavia, nel 1902 Russell si accorse che proprio dalla nozione di<br />

insieme è deducibile una contraddizione che conduce ai paradossi.<br />

107


Infatti, per il principio di astrazione a qualsiasi proprietà [x]<br />

corrisponde un insieme; però oltre agli intuitivi insiemi “normali”,<br />

che non sono membri di se stessi (es. l’insieme dei libri non è un<br />

libro), che costituiscono l’insieme R (Russell) R=xxx esistono<br />

insiemi che sono membri di se stessi (es. l’insieme degli insiemi con<br />

più di 1 elemento). Il principio di astrazione yx(xy[x]),<br />

considerato in R, ossia proprio per la proprietà di non appartenere a<br />

se stesso, produce yx(xyxx). Tale insieme y sarà proprio R:<br />

x(xRxx). Ma della proprietà [x] di ogni x di non<br />

appartenenza a se stesso, ovviamente, gode anche R; per cui:<br />

RRRR. In conclusione, è possibile costruire un insieme che è membro<br />

di se stesso se e solo se esso non è membro di se stesso: se al principio di<br />

astrazione si applica la proprietà [x] di non appartenersi si giunge a<br />

contraddizione.<br />

Per risolvere la situazione individuata da B. Russell a partire dal<br />

principio di astrazione intervenne D. Hilbert col suo Programma.<br />

La prima fase consisteva nella completa formalizzazione<br />

dell’aritmetica, nel passare cioè da un sistema intuitivo-semantico<br />

informale ad uno formale-sintattico (matematica senza contenuto), cioè<br />

ad un sistema formale (S) espresso in un linguaggio formale (L) nel quale<br />

considerare solo la forma: nel S le formule delle dimostrazioni sono<br />

stringhe di simboli del L (costruite su regole d’inferenza sintattiche), in<br />

cui l’ultima riga delle dimostrazioni è il teorema. Gli assiomi non<br />

hanno più realtà autonoma, semantica ma sono procedure<br />

meccaniche combinatorie.<br />

La seconda fase prevedeva di dimostrare la coerenza del S dell’aritmetica<br />

formalizzata grazie alla metamatematica che, non ragionando sulle entità<br />

matematiche ma sul S, avrebbe consentito di superare i paradossi. Un<br />

enunciato metamatematico è un enunciato espresso in linguaggio<br />

ordinario sui simboli del L del S (es. l’enunciato: “x+0=x è un<br />

teorema del S”).<br />

Si riferiscono alle dimostrazioni ed ai teoremi la coerenza sintattica e la<br />

completezza sintattica.<br />

(1) La coerenza sintattica stabilisce che: il S per formula nel L, non<br />

consente di dimostrare con le regole d’inferenza (cioè che sia<br />

teorema del S) s^s¬ ossia, tanto la formula che la sua<br />

negazione (non c’è “contraddizione”).<br />

108


(2) La completezza sintattica stabilisce che: il S per formula nel L,<br />

dimostra con le regole d’inferenza svs¬ per cui la formula si<br />

dice “decidibile” nel S.<br />

Si riferiscono alla verità/falsità la coerenza semantica e la completezza<br />

semantica.<br />

(3) La coerenza semantica stabilisce che: il S dimostra con le regole<br />

d’inferenza solo enunciati “veri”; (se la formula fosse falsa, non<br />

sarebbe dimostrabile nel S): il S si dice “corretto”.<br />

(4) La completezza semantica stabilisce che: il S dimostra con le regole<br />

d’inferenza tutti gli enunciati “veri”.<br />

È chiaro come la coerenza semantica (correttezza) sia più forte della<br />

coerenza sintattica, implicandola senza esserne implicata. Infatti, se<br />

un S è sintatticamante incoerente è in grado di dimostrare tanto<br />

l’asserzione che la negazione di una formula anche se,<br />

ovviamente, una delle due non può essere “vera”, per cui S risulterà<br />

semanticamente incoerente. Al contrario, un sistema sintatticamente<br />

coerente potrebbe benissimo essere semanticamente incoerente.<br />

Fu nel 1930 che K. Gödel dimostrò un teorema che avrebbe<br />

rivoluzionato la logica matematica, il Teorema di Incompletezza<br />

dell’Aritmetica (successione di teoremi, specialmente il Teorema VI,<br />

Primo Teorema di Gödel ed il Teorema XI, Secondo Teorema di<br />

Gödel), pubblicato l’anno seguente in Austria: Über formal<br />

unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme I”<br />

Monatshefte für Mathematik und Physik. 1931;38:173-98. Sulle proposizioni<br />

formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e di sistemi affini I.<br />

Un primo approccio, 3 semantico non formale, a tali proposizioni<br />

formalmente indecidibili, muove dall’enunciato autoreferenziale di Gödel<br />

(Gs): (Gs) Gs non è dimostrabile nel S, che per certi aspetti richiama il<br />

mentitore, anche se, anziché dire di se stesso di essere falso, dice di<br />

essere indimostrabile nel S. Si considerino le due possibili ipotesi.<br />

a. ciò che dice Gs è falso (per cui Gs è dimostrabile nel S). In tal caso<br />

il S è semanticamente incoerente (dato che consente di dimostrare un<br />

enunciato falso).<br />

b. ciò che dice Gs è vero (per cui Gs non è dimostrabile nel S). In tal<br />

caso S è semanticamente incompleto (dato che esiste un enunciato, vero,<br />

non dimostrabile nel S, non suo teorema). Inoltre, dato che Gs è vero<br />

(non dimostrabile nel S), la sua negazione ¬Gs è falsa (non<br />

dimostrabile nel S), da cui consegue che il S è sintatticamente incompleto<br />

e Gs è “indecidibile” nel S.<br />

109


Quindi, il Primo Teorema di Incompletezza di Gödel (G1) stabilisce che:<br />

se il S è semanticamente coerente (corretto) un enunciato Gs formulato nel<br />

L Gs è indecidibile nel S (né dimostrabile, né refutabile).<br />

A questo punto si può osservare come faccia parte di G1<br />

l’asserzione: “se il S è semanticamente coerente (corretto)” allora “Gs” non è<br />

“dimostrabile” nel S; volendo indebolire la prima parte all’asserzione,<br />

risulta: “se il S è sintatticamente coerente” allora Gs non è dimostrabile<br />

nel S.<br />

Ammettiamo di potere provare che il S sia in effetti sintatticamente<br />

coerente; ne consegue che avremmo la prova di “se il S è<br />

sintatticamente coerente”; per cui, allora potremmo dimostrare Gs (che,<br />

appunto, dice di non essere dimostrabile nel S).<br />

Ma G1 esclude che Gs sia dimostrabile nel S; da cui (corollario di<br />

G1) il Secondo Teorema di Incompletezza di Gödel (G2): se il S è<br />

semanticamente coerente (corretto) il S non può provare la propria coerenza.<br />

Col Teorema di Gödel crolla la seconda fase del programma di<br />

Hilbert, come si è visto volta a dimostrare la coerenza del S<br />

dell’aritmetica formalizzata grazie alla metamatematica che (…) avrebbe<br />

consentito di superare i paradossi.<br />

Un secondo approccio, 3 formale, alle proposizioni formalmente<br />

indecidibili muove dal sistema formale dell’Aritmetica Tipografica<br />

(AT, Aritmetica di Peano), ovviamente puramente sintattico, con<br />

espressioni linguistiche non interpretate; solo in un secondo<br />

momento si potrà asserire “rigorosamente” che, es. 0 e +<br />

rappresentano lo zero e l’addizione. Avremo: (1) simboli del L nel S<br />

dell’AT; (2) formule dell’AT: ottenute mediante regole sintattiche del L<br />

(la proprietà sintattica di essere una formula ben formata dell’AT –<br />

ovvero l’insieme delle formule ben formate- è decidibile nel S<br />

dell’AT); (3) dimostrazioni dell’AT: sequenze di formule dell’AT (v.):<br />

assiomi o, ultima riga, teoremi; stringhe di pura sintassi (la proprietà<br />

sintattica di essere una dimostrazione dell’AT –ovvero l’insieme<br />

delle dimostrazioni dell’AT, assiomi e teoremi- è decidibile nel S<br />

dell’AT).<br />

Gödel procedette con l’aritmetizzazione della sintassi; ragionando<br />

sul S dell’AT (Gödel in realtà lavorò sul S dei Principia Mathematica di<br />

B. Russell e A.N. Whitehead) è possibile introdurre la numerazione<br />

di Gödel (gödelizzazione) assegnando un numero naturale univoco<br />

di Gödel (g) a: (1) simboli, (2) formule, (3) dimostrazioni; in tal<br />

modo si introduce la possibilità di codifica e di decodifica. Quindi:<br />

110


(1) 0: 3 / ’: 5 / +: 7 / : 9 / =: 11 / ¬: 13 / ^: 15 / v: 17 / →: 19 /<br />

: 21 / : 23 / : 25 / (: 27 / ): 29 / x: 31 / y: 33 / z: 35 / x1: 37 /<br />

x2: 39 / ecc.; (2) si consideri l’univocità della scomposizione in<br />

fattori di ogni numero positivo. La successione dei numeri primi (2,<br />

3, 5, 7, 11, 13, 17, 19) è utilizzata quale base nella codifica del<br />

simbolo; quale esponente si utilizza g corrispondente al simbolo;<br />

quindi si moltiplicano le potenze ottenute. Si produce un numero<br />

positivo (codifica). La decodifica si ha mediante la scomposizione in<br />

fattori dello stesso ai numeri primi. Es. per la formula dell’AT<br />

x(x=y’) la codifica è 2 25 3 31 5 27 7 31 11 11 13 33 17 5 19 29 da cui g:<br />

6.8910808100718165206241224086642 (10 153); la scomposizione in<br />

fattori (decodifica) di tale numero fornisce univocamente il visto<br />

prodotto di potenze. L’aritmetizzazione della sintassi conduce al<br />

fatto che se le relazioni tra espressioni sintattiche dell’AT sono<br />

decidibili (essere una formula, una dimostrazione –assioma o teorema-<br />

del S) per corrispondenza anche le relazioni tra numeri g sono<br />

decidibili (essere g di una formula, di una dimostrazione –assioma o<br />

teorema- del S).<br />

La decidibilità avviene mediante algoritmi (procedure meccaniche).<br />

Certe funzioni/insiemi non sono calcolabili/decidibili (mediante,<br />

appunto, algoritmi).<br />

Le funzioni ricorsive sono quelle definibili a partire dalle funzioni<br />

“iniziali” (f(x) che a xN dei numeri naturali assegnano,<br />

rispettivamente, valore 0, “f(x) zero”, x+1, “f(x) successore” o x<br />

“f(x) di identità”) e che conservano la calcolabilità. Di converso,<br />

tutte le funzioni calcolabili sono ricorsive e si può parlare<br />

indifferentemente di decidibilità e ricorsività.<br />

La 45° funzione ricorsiva/decidibile illustrata dallo stesso Gödel è<br />

DimAT(m,n): si ha relazione sintattica/aritmetica tra i numeri naturali<br />

m ed n se e solo se m è il g di una dimostrazione dell’AT il cui<br />

enunciato ha n quale g; davanti ad una presunta Dimostrazione<br />

nell’AT si può sempre giungere a decidere (decidibilità) se essa lo è o<br />

non è. Invece, davanti ad un presunto Teorema dell’AT<br />

TeorAT(n)=mDimAT(m,n) –ove essere un teorema significa essere<br />

una formula (con g=n) per la quale esiste una dimostrazione (con<br />

g=m)- è possibile generare dimostrazioni osservando se TeorAT<br />

compare nell’ultima riga (nel qual caso è effettivamente un teorema)<br />

ma ciò non è scontato che accada, per cui la proprietà di essere un<br />

teorema non è ricorsiva/decidibile. Ad es., un’operazione ricorsiva<br />

111


(conservazione della calcolabilità) è quella di sostituzione (Sost),<br />

operazione sintattica di sostituire in una formula dell’AT le<br />

occorrenze libere di una variabile x con un certo termine. Utilizzando<br />

Sost Gödel ottenne una versione formale dell’enunciato<br />

autoreferenziale di Gödel visto informalmente.<br />

Si consideri la formula dell’AT (y), contenente la variabile libera y.<br />

Si vuole dimostrare l’indimostrabilità nell’AT di ((y))<br />

¬xDimAT(x,Sost(y,33,y)) e cioè: non esiste (è indimostrabile<br />

nell’AT) alcun x tale da essere il gödeliano di una Dimostrazione<br />

dell’AT (non c’è dimostrazione nell’AT) della [formula] (ottenuta<br />

dalla formula di gödeliano y) che si ha Sostituendo in essa formula di<br />

gödeliano y le occorrenze libere della variabile “il cui gödeliano è 33 –che,<br />

come detto è proprio y-” con “il numerale del suo stesso gödeliano –<br />

che, a rigor di termini, è 0’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’-”. In sintesi: (y)<br />

afferma che la [formula] (ottenuta dalla formula di gödeliano y)<br />

mediante la vista Sostituzione è indimostrabile nell’AT.<br />

È chiaro che (y) ha un g (enorme) che, a rigor di termini, sarà 0’’’ n,<br />

riferibile come q. Se a (y) si sostituisce q si ottiene un enunciato<br />

privo di variabili libere: () ¬xDimAT(x,Sost(q,33,q)) e cioè: non<br />

esiste (è indimostrabile nell’AT) alcun x tale da essere il gödeliano di<br />

una Dimostrazione dell’AT (non c’è dimostrazione nell’AT) della<br />

[formula] (ottenuta dalla formula di gödeliano q) che si ha Sostituendo<br />

in essa formula di gödeliano q le occorrenze libere della variabile “il cui<br />

gödeliano è 33 –che, come detto è proprio y-” con “il numerale del<br />

suo stesso gödeliano –che, a rigor di termini, è 0’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’-<br />

”. In sintesi: () afferma che la [formula] (ottenuta dalla formula di<br />

gödeliano q (che è (y)) mediante la vista Sostituzione è<br />

indimostrabile nell’AT.<br />

La [formula] cui si fa riferimento è : è essa che si ottiene con la vista<br />

Sostituzione nella formula di gödeliano q (che è (y)) delle variabili<br />

libere con q (che è poi lo stesso g della formula!).<br />

Quindi, () enuncia di non essere dimostrabile, di non essere<br />

teorema dell’AT (parla di se stessa, autoreferenzialmente con L nel<br />

S, ed è il corrispettivo formale di GS, che pure asseriva la propria<br />

indimostrabilità).<br />

Ossia: AT¬xDimAT(x,) il che significa pure che:<br />

AT¬TeorAT() (ove il simbolo assertivo, di esistenza, va ruotato<br />

112


in senso orario di 90° ed il numerale di è stato riportato in<br />

corsivo).<br />

Occorre precisare che, accanto alla incoerenza, Gödel si avvalse del<br />

concetto di omega-incoerenza; essa si verifica nel caso in cui nel S è<br />

dimostrata una proprietà di una data formula, ma è negato che il suo<br />

g sia 0, 1, ecc.<br />

Il Primo Teorema di Incompletezza di Gödel (G1) è provato formalmente<br />

dalla congiunzione delle asserzioni: (G1a) se l’AT è coerente non vi<br />

è dimostrabile; (G1b) se l’AT è omega-coerente ¬ non vi è dimostrabile.<br />

Rispetto a (G1a) si proceda come se, al contrario di quanto richiede<br />

(G1a), “ è dimostrabile” nell’AT. Se è dimostrabile, nell’AT esiste<br />

una Dimostrazione di , avente un proprio g, supponiamo k; a sua<br />

volta, stesso ha un proprio g, supponiamo g. DimAT(k,g): v. 45°<br />

funzione ricorsiva/decidibile, per cui per corrispondenza anche le<br />

relazioni tra i due numerali gödeliani sono decidibili, ossia,<br />

xDimAT(x,).<br />

Tuttavia, si è visto (v.) come AT¬xDimAT(x,).<br />

Ne consegue che: se “ è dimostrabile” nell’AT, anche ¬ dovrebbe<br />

essere dimostrabile, la qual cosa significherebbe che l’AT è<br />

incoerente; mentre G1a afferma che l’AT è coerente!<br />

Rispetto a (G1b) si proceda come se, al contrario di quanto richiede<br />

(G1b), “¬ è dimostrabile” nell’AT.<br />

Tuttavia, si è visto (v.) come AT¬xDimAT(x,).<br />

Pertanto, “¬ è dimostrabile” significherebbe: ¬¬xDimAT(x,), e<br />

cioè: xDimAT(x,).<br />

Ma G1a ha dimostrato che l’AT è coerente, per cui, se essa<br />

dimostrasse ¬ si cadrebbe nella condizione di omega-incoerenza<br />

(v.); mentre G1b afferma che l’AT è omega-coerente!<br />

Ne consegue che l’AT non è in grado di dimostrare né l’enunciato (G1a) né<br />

la sua negazione ¬ (G1b). Come si è detto, tale condizione del S di<br />

impossibilità a dimostrare nel L una formula né la sua negazione è quella di<br />

indecidibilità (incompletezza sintattica).<br />

Tralasciando ulteriori dettaglî formali circa Secondo Teorema di<br />

Incompletezza di Gödel (G2) si richiama il fatto che, se in un S<br />

costituito per l’AT G1 dimostra l’esistenza di enunciati indecidibili,<br />

G2 dimostra inoltre che una prova di coerenza per l’AT necessita<br />

l’impiego di metodologie dimostrative non formalizzabili nel S.<br />

113


Il Teorema di Gödel rappresenta il raggiungimento di un vertice<br />

nella speculazione intellettuale matematica e filosofica, lungo il<br />

percorso millenario della Logica. Esso ha dato tuttavia spazio ad<br />

importanti fraintendimenti, esitanti in distorsioni del suo reale<br />

significato e a conseguenti volgarizzazioni che hanno condotto al<br />

suo utilizzo inappropriato quale icona della cultura<br />

contemporanea,<br />

114<br />

12 stante la consonanza tra termini come indecidibilità,<br />

incompletezza ed il pensiero dominante in Occidente nella seconda<br />

metà del Novecento, permeato da relativismo, postmodernismo,<br />

rifiuto dell’oggettività e della Verità. 3 È stato necessario addirittura<br />

ricordare come non esista alcuna relazione tra il Teorema di Gödel e<br />

“l’organizzazione sociale”; 13 esso nulla può dire sulla Torah o sul<br />

Vangelo, per l’ovvio fatto che entrambi sono stati scritti in linguaggio<br />

ordinario e non nel linguaggio formale L di un sistema formale S<br />

quale, ad esempio, quello dell’AT. L’utilizzo extra-matematico ed<br />

extra-logico del Teorema di Gödel nel tentativo di giustificare altro è<br />

scorretto. Asserisce T. Franzén: “Questa sarà pure una cosa<br />

interessante, ma è soltanto un’analogia e non segue logicamente dal<br />

Teorema”. 14<br />

La traslazione del concetto di Verità da tale ambito dei sistemi<br />

formali all’extraformalità della medicina va pertanto inquadrata<br />

all’interno di questa cornice, per non cadere nell’errore di contestare<br />

la traslabilità in chiave averitativa del Teorema di Gödel ai sistemi<br />

extra-logici e poi utilizzare le sue conclusioni proprio per affermare<br />

un metodo di ricerca veritativa. Il problema esiste e va considerato.<br />

Può venirci incontro K. Popper che, in Congetture e confutazioni,<br />

riferendosi all’atteggiamento epistemologicamente corretto, afferma:<br />

“Una conseguenza di tale concezione è che dobbiamo distinguere<br />

chiaramente tra verità e certezza. Aspiriamo alla verità, e spesso<br />

possiamo raggiungerla, anche se accade raramente, o mai, che<br />

possiamo essere del tutto certi di averla raggiunta (…)” 15 Questo<br />

passaggio è estremamente importante quale cerniera rispetto a<br />

quanto andrò ora a riferire sulla metodologia della ricerca in medicina.<br />

Il concetto di verità viene pertanto ripreso nella propria accezione<br />

extra-formale, in quanto nella scienza sperimentale applicata, e<br />

quindi in medicina, la ricerca di evidenza scientifica pone il ricercatore<br />

nella condizione epistemologica di ricerca della verità epidemiologica<br />

e clinica in termini di probabilistico avvicinamento ad essa e, talvolta, anche<br />

di raggiungimento; ma di un raggiungimento che, ove occorra,<br />

purtuttavia, non consente la certezza di sé.


Il procedere della ricerca medica avviene lungo i due tracciati<br />

dell’osservazione e della sperimentazione.<br />

115<br />

16,17 Le osservazioni devono<br />

essere sintetizzate, consentendo la descrizione delle stesse; esse<br />

potranno consentire conclusioni al di là della stretta evidenza,<br />

attraverso procedimenti di inferenza. Qualunque conclusione non<br />

potrà che basarsi sopra un confronto tra un minimo di due<br />

campioni di osservazioni. In essi, è necessario associare l’espressione<br />

del valore tipico rappresentativo, indice di tendenza centrale, con<br />

l’espressione della variabilità dei dati intorno ad una media, indice di<br />

dispersione. Il primo sarà costituito da medie analitiche di variabili<br />

quantitative o indici di posizione per variabili qualitative. Le medie<br />

analitiche saranno a loro volta aritmetiche Σx/n, semplici o<br />

ponderate, geometriche (per la descrizione di fenomeni ad<br />

andamento geometrico, es. per i titoli geometrici medî anticorpali,<br />

n√x1x2xn) e armoniche (avendo a che fare con valori infiniti, es. per<br />

studî di sopravvivenza, n/(Σ1/x)). Certamente meno intuitivo e<br />

comune è il concetto di indice di dispersione; l’approccio più ovvio<br />

potrebbe risultare quello dell’intervallo di variazione tra le<br />

osservazioni, che tuttavia dipende solo dagli estremi e non è<br />

informativo circa la variabilità dei più o meno numerosi valori<br />

intermedî; per ovviare a ciò è pertanto utile considerare la<br />

sommatoria degli scarti di tutti i valori osservati rispetto alla media,<br />

Σ(x-m) che è tuttavia, ovviamente, sempre pari a 0; è necessario<br />

quindi adottare un semplice artifizio algebrico, consistente<br />

nell’elevare al quadrato ogni scarto, in modo da ottenere solo valori<br />

positivi: la sommatoria dei quadrati degli scarti delle misure dalla<br />

media, Σ(x-m) 2 è la devianza; tuttavia, la devianza non contiene in sé<br />

la notizia sulla quantità di informazioni utilizzate, e nel confronto tra<br />

devianze a parità di medie è possibile che le differenze possano<br />

dipendere non già dal grado di dispersione delle osservazioni ma<br />

dalla loro diversa numerosità nei campioni; pertanto, la devianza va<br />

rapportata al numero delle osservazioni (n). Inoltre, è evidente come<br />

in medicina si abbiano spesso poche osservazioni, da cui consegue<br />

che, se nella realtà osservata vi sono rari valori molto scostati dalla<br />

media la probabilità di averli inclusi nel campione è bassa, per cui la<br />

dispersione calcolata sarebbe una sottostima della realtà; si introduce<br />

pertanto, ed in modo arbitrario, un fattore dinamico che aumenti il<br />

rapporto in una misura tanto più importante quanto più piccolo è n<br />

e tanto più trascurabile quanto n è grande, i gradi di libertà (n-1),<br />

giungendo così alla varianza s2=Σ(x-m) 2/(n-1). Resta un problema:


l’artifizio di elevazione al quadrato degli scarti dalla media ha quale<br />

conseguenza il fatto che l’indice di dispersione (s<br />

116<br />

2)assume<br />

dimensioni numeriche maggiori rispetto all’indice di tendenza<br />

centrale (m) cui si riferisce; va condotta pertanto l’operazione di<br />

estrazione di radice quadrata della varianza, che genera la deviazione<br />

standard s=√(Σ(x-m) 2/(n-1)); essa si esprime nella stessa unità di<br />

misura della media.<br />

La deviazione standard ha un preciso significato geometrico.<br />

Sappiamo come i fenomeni medico-biologici tendano a distribuirsi<br />

in natura secondo una curva “normale”, dalla caratteristica forma a<br />

campana, detta gaussiana. In condizioni di perfetta simmetria, moda,<br />

media e mediana coincidono al centro di essa. Sul piano geometrico,<br />

la deviazione standard (s) è la distanza tra m ed il punto sull’asse<br />

delle ascisse intersecato dalla retta tangente al punto di flesso f della<br />

gaussiana. Ciò è molto rilevante, e consente di introdurre il concetto<br />

di integrale di probabilità. Come è noto, un integrale definito<br />

corrisponde all’area sottesa ad una curva definita da una funzione,<br />

su un piano cartesiano. Nell’area sottesa alla curva gaussiana, a<br />

sinistra e destra di m e compresa tra m±s, m±2s, m±3s e m±1.96s<br />

si raccoglie rispettivamente il 68.26%, il 95.45%, il 99.75% ed il 95%<br />

delle osservazioni del campione; tra m±ks si raccoglie una<br />

proporzione di osservazioni campionarie rinvenibili grazie alla<br />

consultazione della tabella dell’integrale di probabilità.<br />

Possiamo definire “universo” la popolazione generale; per avere la<br />

misura della media della variabile analizzata nell’universo sarebbe<br />

necessario procedere alla misurazione in ogni soggetto. Per ovviare a<br />

tale complessità, sulla base dei criterî distributivi illustrati, è possibile<br />

estrarre un campione dall’universo, in modo tale da renderlo<br />

rappresentativo di esso e, quindi, attraverso un’operazione di<br />

inferenza, risalire all’indice di tendenza centrale della popolazione.<br />

Tralasciando di dire sulle concrete modalità di inclusione dei<br />

soggetti nel campione, è importante ricordare che, se si lascia agire<br />

esclusivamente il caso, ogni soggetto dell’universo avrà<br />

equiprobabilità di partecipare al campione, che diventerà in tal modo<br />

rappresentativo dell’universo. Va però detto che, per quanto<br />

rappresentativo, il campione non è certo coincidente coll’universo.<br />

A causa della variabilità biologica, l’indice di tendenza centrale<br />

misurato nel campione sarà un po’ differente rispetto a quello vero<br />

della popolazione di partenza; tale differenza, tanto più trascurabile<br />

quanto più il campione è numeroso (prossimo all’universo), è detta


errore di campionamento (che è diverso, si badi, dai bias, errori sistematici,<br />

es. nel campionamento stesso). L’entità dell’errore di<br />

campionamento è esattamente prevedibile sul piano probabilistico,<br />

mediante l’intervallo di confidenza (fiduciale); questo è il range intorno al<br />

valore medio osservato nel campione entro cui si trova, con una<br />

data probabilità fiduciale, il valore vero dell’universo. È calcolabile<br />

mediante l’errore standard; ad es. l’errore standard di una media è<br />

sm=s/√n ed è evidente come esso, da cui dipendono le dimensioni<br />

dell’intervallo di confidenza, sia direttamente proporzionale<br />

all’indice di dispersione ed inversamente proporzionale alla radice<br />

della numerosità campionaria, entrambe le cose essendo anche<br />

fortemente intuitive. L’sm contribuisce a definire l’intervallo fiduciale<br />

in modo distinto, a seconda si abbiano campioni con numerosità<br />

superiore od inferiore a 30; nel primo caso ritornano i valori delle<br />

distribuzioni viste per l’integrale di probabilità, intese in questo caso<br />

come probabilità rispettivamente per m±sm, m±2sm, m±3sm,<br />

m±1.96sm; nel secondo occorre fare riferimento alla tabella del t di<br />

Student dove (poche osservazioni campionarie) si considerano i gradi<br />

di libertà, oltre al valore della probabilità fiduciale, ad esempio<br />

p=0.05, corrispondente al 5%, ossia all’accettazione a priori di una<br />

probabilità di sbagliare nelle conclusioni pari ad 1 volta su 20, o<br />

p=0.01, corrispondente all1%, ossia all’accettazione a priori di una<br />

probabilità di sbagliare pari ad 1 volta su 100. È del tutto intuitivo<br />

come l’intervallo di confidenza intorno al valore osservato nel<br />

campione, per l’operazione di inferenza, è tanto più ampio quanto<br />

più si è esigenti in termini di probabilità fiduciale.<br />

È a questo punto che è possibile introdurre il criterio decisionale.<br />

Davanti a risultati diversi rispetto ad una variabile tra popolazioni di<br />

campioni diversi, o tra un campione e l’universo, la differenza<br />

osservata dal medico è dovuta alla fisiologica presenza dell’errore di<br />

campionamento, e quindi è casuale, oppure è statisticamente significativa?<br />

Occorre, in altri termini, che la medicina, davanti ai criterî probabilistici<br />

che governano gli eventi, sia si tratti dell’efficacia di un vaccino, di<br />

un farmaco, di una procedura chirurgica, di uno screening,<br />

117<br />

18<br />

stabilisca arbitrariamente un discrimine tra ciò che può essere scartato<br />

e ciò che, invece, deve essere considerato. L’atteggiamento<br />

probabilistico, ricavato dallo studio dei fenomeni naturali medicobiologici,<br />

si traduce nell’adozione di un metodo di approccio veritativo,<br />

che richiama la distinzione popperiana tra verità e certezza. Il<br />

discrimine è convenzionale: a fronte di un’ipotesi nulla H0, che


asserisce non esservi differenza, definiremo significativo un p


varianza tra gruppi ed entro i gruppi, che presuppone del rapporto<br />

F tra varianze maggiore e minore e che risulta piuttosto complesso<br />

ed ininfluente rispetto al percorso tracciato di questo mio scritto.<br />

Ciò che mi pare importante è avere richiamato gli elementi necessarî<br />

e sufficienti per potere concludere in termini di continuità la<br />

riflessione che, a partire dal concetto di ambiguità, centrale in questo<br />

Convegno, nelle sue due accezioni di ambiguità del termine e del<br />

nesso sintattico, si è mossa attraverso l’analisi dell’autoriferimento, a<br />

partire dagli esempî classici e fino al suo impiego in logica,<br />

muovendo dai paradossi che via via emersero sul tentativo di<br />

assiomatizzazione dell’aritmetica, a fine Ottocento, con le successive<br />

prese di posizione di Hilbert e Russell, fino allo straordinario<br />

capovolgimento operato da Gödel con l’introduzione<br />

dell’indecidibilità, alla conservazione della piena legittimità<br />

dell’approccio veritativo, alle chiare conclusioni di Popper rispetto al<br />

rapporto tra verità e certezza.<br />

La medicina, che si fonda sulla metodologia della ricerca scientifica,<br />

muove lungo la prospettiva probabilistica con umiltà conoscitiva, non<br />

dimenticando che la verità esiste e che sia anche raggiungibile da<br />

parte del medico, anche se la certezza di tale avvenuto<br />

raggiungimento non è data, restando tuttavia egli in possesso di una<br />

preziosa metodologia probabilistica che alla verità stringe la mano.<br />

Bibliografia<br />

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it. Rizzoli, 2009.<br />

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7. Wittgenstein L. Tractatus Logico-Philosophicus. Mondadori –<br />

Einaudi, 2008.<br />

8. La Bibbia. Via Verità e Vita. San Paolo, 2009.<br />

9. Euclide. Gli Elementi. Mondadori – UTET, 2009.<br />

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Monnier. 2010.<br />

11. Russell B. I principî della matematica. Bollati Boringhieri, 2011.<br />

12. Hofstadter D.R. Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda<br />

brillante. Adelphi, 1984.<br />

13. Sokal A, Bricmont J. Imposture intellettuali. Garzanti, 1999.<br />

14. Franzén T. Gödel’s Theorem. An Incomplete Guide to Its Use and<br />

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15. Popper K.R. Congetture e confutazioni. Il Mulino, 1972.<br />

16. Cavalli-Sforza L.L. Analisi statistica per medici e biologi. Bollati<br />

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18. Orione L, Rimondot M, Roggia S, et Al. Epidemiologia e<br />

<strong>Prevenzione</strong> delle Neoplasie. AGA-Esperienze, 2006.


121<br />

I Resurrezionisti, ovvero l’ambiguità della Scienza<br />

Renato Coda<br />

Esistono forme di violenza che si perpetuano nel corso della<br />

Storia e che, né il trascorrere del tempo, né l’oblio degli<br />

uomini, riescono a estinguere.<br />

Le radici storiche dello studio dell’anatomia dell’uomo e, più in<br />

generale, della Medicina sperimentale furono inquinate da un atto<br />

d’inaudita, incancellabile violenza. In Alessandria di Egitto, due<br />

medici, Erofilo di Calcedonia ed Erasistrato di Julis, tra la fine del<br />

IV e l’inizio del III secolo a.C., praticarono le prime dissezioni,<br />

storicamente documentate, su cadaveri, ottenendo un’enorme messe<br />

di nuove conoscenze sull’anatomia e sulla fisiologia umana. Il loro<br />

lavoro orientò la Medicina in senso sperimentale, sottraendola<br />

all’indirizzo magico - religioso. Tuttavia, questi due personaggi, oggi,<br />

nonostante le loro molte scoperte, pressoché dimenticati,<br />

perpetrarono una serie di crimini che destarono riprovazione e<br />

orrore tra i contemporanei, eseguendo la vivisezione di centinaia di<br />

condannati a morte. Erofilo giustificò il suo comportamento col<br />

desiderio di acquisire conoscenze, tali da permettere cure più efficaci<br />

ai malati. Inaugurò così il mostruoso concetto ibrido di “crimine a<br />

scopo umanitario”, spalancando un abisso etico da cui, ancora oggi,<br />

stentiamo a risalire. Non è possibile sapere se ebbe coscienza del<br />

fatto che, infrangendo il divieto ippocratico di nuocere, il Medico<br />

avrebbe cessato di essere l’apportatore di benessere, autorevole in<br />

quanto benefico, per diventare un Signore della vita e della morte,<br />

guaritore e, all’occasione, carnefice, rispettato perché temuto, inviso,<br />

per motivi di concorrenza, a tutte quelle categorie di persone che<br />

arrogano a sé il diritto di decidere dell’esistenza dei loro simili.<br />

Questi due Frankenstein dell’età ellenistica, nel loro delirio<br />

scientifico, crearono il Mostro: se stessi. Ma a differenza della<br />

Creatura di Mary Shelley, questa figliò. Molti secoli dopo, in un testo<br />

fondamentale per la storia della Civiltà, furono scritte tali parole:<br />

“Cos’è l’umanità, se non una disposizione naturale del cuore a impiegare le<br />

nostre risorse a vantaggio del genere umano? Ciò supposto, cos’ ha di inumano la<br />

dissezione di un malvagio? In qualunque modo si consideri la morte di un<br />

malvagio, essa sarà ben più utile alla società in mezzo ad un anfiteatro, che non<br />

su un patibolo” (Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné…. ad vocem


“Anatomie”). L’autore di questa frase, che riprende alla lettera la<br />

giustificazione utilitaristica proposta da Erofilo, è uno dei padri<br />

dell’Illuminismo, Denis Diderot. Duecento anni dopo, i medici dei<br />

campi di sterminio, prima che il cappuccio del boia togliesse loro<br />

per sempre la luce del giorno, cercarono di ammantare i loro bestiali<br />

esperimenti sui prigionieri e le stragi di indesiderabili con argomenti<br />

della stessa risma: il servizio della Patria, dell’Umanità, della Scienza.<br />

Non deve destare eccessiva meraviglia il fatto che, date queste<br />

premesse, il percorso dello studio dell’ anatomia umana sia stato<br />

tortuoso, tormentato e ambiguo.<br />

La pratica della dissezione anatomica fu probabilmente introdotta a<br />

Roma dai cristiani alessandrini del IV secolo d. C. Erano gli stessi<br />

che linciavano le donne che la sapevano troppo lunga in fatto di<br />

scienza e di filosofia, eppure coltivavano con passione la medicina e<br />

la biologia. Forse furono loro a esaltare la figura e l’opera di un<br />

correligionario, o almeno simpatizzante, Claudio Galeno, il medico<br />

degli imperatori antonini, vissuto tra il II e il III secolo d.C.,<br />

scrittore di numerosi trattati medici, ma anche responsabile di un<br />

pessimo servizio reso alla conoscenza del corpo umano. Galeno<br />

riferì all’uomo le strutture anatomiche che aveva riscontrato nel<br />

maiale e, in misura minore, in altri animali, col risultato che, per<br />

secoli, gli anatomisti, fidando ciecamente nell’autorità del Maestro,<br />

ne accettarono i molteplici errori, a onta di qualsiasi osservazione<br />

contraria. Fu solo nel 1543 che Andreas van Wesel, meglio noto<br />

come Vesalio, eseguendo personalmente le dissezioni, scoprì e<br />

denunciò il gran numero di errori dell’anatomia galenica, ottenendo<br />

riconoscimenti, tra cui quello autorevole del Falloppio, ma anche<br />

moltissime critiche, da parte del Silvius e ancora, postume, da parte<br />

del Riolano. Alla fine, però, l’anatomia del Vesalio, presentata e<br />

diffusa nelle magnifiche tavole incise dal pittore Jan van Calcar,<br />

prevalse e divenne quella ufficiale e definitiva. Era tempo. Agli inizi<br />

del XVII secolo la chirurgia, che, a partire dal Rinascimento, aveva<br />

avuto una notevole evoluzione, reclamava ormai una conoscenza<br />

approfondita del corpo umano. Spesso i grandi anatomisti erano<br />

anche dei valenti chirurghi. Lo stesso Vesalio esercitò con successo<br />

entrambe le professioni. L’insegnamento dell’anatomia fu<br />

appannaggio delle gilde dei Chirurghi, ma, nella sua qualità di<br />

dottrina di punta delle scienze mediche, divenne anche oggetto di<br />

vivo interesse culturale, nonché uno snobistico passatempo<br />

dell’aristocrazia. Le lezioni di anatomia erano, al tempo stesso,<br />

122


icerca, insegnamento, evento culturale e spettacolo, tanto<br />

importante da meritare di essere immortalato - docente, allievi,<br />

spettatori e cadavere - in una lunga serie di quadri, tra cui,<br />

memorabili, i due capolavori di Rembrandt. Alle scuole di Chirurgia<br />

servivano corpi umani, ma a questa bisogna provvedevano con<br />

larghezza i sistemi penali dei vari Stati: lasciare il corpo del<br />

giustiziato insepolto era una pena accessoria alla condanna a morte,<br />

che si applicava in vario modo, bruciando il cadavere,<br />

incatramandolo o squartandolo. Il lavoro degli anatomisti, che, dopo<br />

avere ridotto in frammenti il soggetto, gettavano i resti nelle fogne o<br />

li interravano in una buca, era perfettamente funzionale ai dettati<br />

della legge e, per di più, socialmente utile. In tutta l’Europa, un<br />

numero sempre maggiore di cadaveri di giustiziati fu destinato agli<br />

anfiteatri di anatomia. Alcuni paesi, saggiamente, provvidero altre<br />

risorse per le Scuole di Chirurgia: in Germania, i suicidi e i carcerati,<br />

se i parenti non li riscattavano pagando una tassa; in Italia, Austria e<br />

Francia i morti nei luoghi di pena, riformatori, istituti di carità,<br />

sempre se non reclamati o riscattati dai congiunti; in Portogallo i<br />

trovatelli, che, data la caritatevole assistenza che ricevevano,<br />

morivano in gran numero, per malattie e denutrizione. Non<br />

altrettanto avvenne nei paesi anglo-sassoni, dove l’insegnamento<br />

dell’anatomia era rigidamente confinato alle Scuole di Chirurgia. Col<br />

tempo, intervennero due fattori che portarono a conseguenze<br />

disastrose. Vi fu una crescente necessità di insegnare l’anatomia al di<br />

fuori dell’ ambito accademico, a causa della spesso deludente qualità<br />

dei corsi ufficiali e per soddisfare le richieste di un gran numero di<br />

appassionati della materia e di coloro che volevano aggirare i vincoli,<br />

posti dalle scuole ordinarie all’ammissione degli studenti. Il governo<br />

inglese fu costretto a legalizzare l’apertura di scuole private, che,<br />

rapidamente, crebbero di numero e prosperarono. A Londra, nella<br />

prima metà del XVIII secolo, se ne contarono 24, tutte prive di un<br />

preciso status legale. L’altro fattore fu la riduzione del numero di<br />

sentenze capitali realmente eseguite: la deportazione nelle Americhe<br />

o a Botany Bay era un ottimo sostituto sociale della forca e forniva<br />

manodopera gratuita, per popolare e far crescere le colonie. Per<br />

ovviare alla penuria di “materiali” fu proposto che, per lo studio<br />

dell’Anatomia, si utilizzassero i corpi delle prostitute, le quali, per<br />

contrappasso, avrebbero ripagato in questo modo l’umanità che<br />

avevano corrotto. Altre volte si indicarono i suicidi, i duellisti, gli<br />

ubriaconi, ma nessuna di queste proposte ebbe seguito in Inghilterra<br />

123


e nelle colonie americane. Le scuole private di anatomia avevano<br />

tariffe di molte ghinee al mese e dovevano fornire a degli studenti<br />

agiati regolari lezioni di prim’ordine, ma l’unica fonte legale di<br />

approvvigionamento di salme erano le donazioni volontarie, da<br />

parte di persone che avevano a cuore il progresso della scienza, o da<br />

parte di qualche disperato, disposto a sacrificare la propria sepoltura,<br />

per garantire un piccolo peculio ai famigliari superstiti. Era<br />

evidentemente molto difficile riscuotere il cadavere, se e quando<br />

fosse intervenuta la morte, infatti si pensò di tenere un registro dei<br />

donatori, ai quali sarebbe stato garantito un compenso di non più di<br />

9 sterline.<br />

Si ricorreva quindi in larga misura ai mezzi illegali. Si otteneva la<br />

complicità mercenaria dei guardiani dei riformatori e degli ospizi e si<br />

sottraevano i corpi degli internati, prima che i parenti li<br />

reclamassero. Alcuni sceriffi si lasciavano corrompere, per cedere gli<br />

impiccati per reati, per i quali non era prevista la dissezione. Nel<br />

1740 il corpo del sedicenne William Duell, giustiziato per violenza<br />

carnale, fu ottenuto, in questo modo, da un chirurgo che, al<br />

momento della dissezione, si accorse che il suo soggetto respirava.<br />

Rianimato e tornato in sé il redivivo, nacque una disputa legale tra il<br />

chirurgo e l’Old Bailey, su chi dovesse mantenere il ragazzo<br />

nell’attesa della seconda esecuzione. Si risolse la questione, con<br />

soddisfazione di tutte le parti in causa, deportandolo nelle Colonie.<br />

Vi era però, per le scuole di anatomia, una grande risorsa, sempre<br />

disponibile e nella quantità desiderata: i cimiteri. “Resurrezionisti”<br />

fu il nomignolo dato ai malfattori che, rubando le salme dai luoghi<br />

di sepoltura, le facevano “risorgere” molto tempo prima del giorno<br />

del Giudizio. Gli anatomisti erano disposti a sborsare, per un<br />

soggetto in buone condizioni, da 12 a 16 e, talvolta, fino a 20 ghinee.<br />

Per questo motivo, il furto nelle tombe esercitava un’invincibile<br />

attrattiva su personaggi che spesso erano già ladri professionisti. Il<br />

fenomeno dei furti di cadaveri crebbe a livelli impensabili. Si<br />

costituirono delle vere e proprie bande rivali, che si affrontavano,<br />

con comportamenti di tipo gangsteristico e intimidivano e<br />

ricattavano i clienti stessi. Acquistare da un diverso fornitore poteva<br />

avere come conseguenza, trovare il cadavere, in sala anatomica,<br />

ridotto in condizioni tali, da non essere più utilizzabile, oppure<br />

uscire di casa e inciampare in un corpo putrefatto lasciato sulla<br />

soglia. Se il resurrezionista incorreva in un arresto, il cliente aveva<br />

l’obbligo di farsi carico della sua famiglia, per tutto il tempo della<br />

124


detenzione. Nel 1828, a Londra, la polizia aveva identificato solo<br />

dieci resurrezionisti di professione, che impiegavano però circa<br />

duecento lavoratori occasionali. Il traffico illecito si prestava anche<br />

ad altre mariolerie. Si introduceva nell’abitazione dell’anatomista, un<br />

complice chiuso in un sacco, come fosse un cadavere, e questi,<br />

nottetempo, svaligiava la casa. Un’incisione satirica di Thomas<br />

Rowlandson, rappresenta un giovanotto che, per incontrarsi con la<br />

bella moglie di un anziano chirurgo, dopo essersi introdotto, con<br />

questo sotterfugio nella casa dell’amante, rischia di essere, seduta<br />

stante, dissezionato dal marito ignaro.<br />

Un elemento decisivo nel favorire i furti di cadaveri fu la strana,<br />

impopolare, incomprensibile indulgenza della magistratura nei<br />

confronti di questo reato odioso per l’opinione pubblica. In un<br />

sistema penale che mandava a morte, deportava o frustava dei<br />

bambini, per un furto di pochi scellini, l’assoluzione, la multa, o,<br />

raramente, i sei mesi di carcere comminati ai resurrezionisti colti sul<br />

fatto apparivano come condanne irrisorie. Un’autentica festa di<br />

popolo accompagnò la pubblica esecuzione di due necrofori, John<br />

Holmes e Peter Williams e del loro complice Esther Donaldson, che<br />

avevano esumato il corpo di una donna morta un paio di mesi prima<br />

e che un giudice particolarmente severo aveva condannato, oltre ai<br />

sei mesi di rito, ad un certo numero di frustate. Il motivo legale<br />

dell’indulgenza nei confronti dei resurrezionisti era il fatto che il<br />

cadavere non era una proprietà, quindi l’appropriarsene non si<br />

configurava come un reato contro il patrimonio. Nell’opinione<br />

pubblica era invece diffusa l’idea che si mascherasse, con un cavillo<br />

legale, una certa complicità o solidarietà di classe tra i magistrati e gli<br />

anatomisti.<br />

Il dilagare del fenomeno del resurrezionismo creò un vero e proprio<br />

allarme sociale. Si costruirono bare blindate, grate metalliche attorno<br />

alla tomba, vere e proprie fortificazioni, si stipendiarono guardie<br />

armate, si illuminarono i cimiteri di notte. Si arrivò a progettare<br />

meccanismi esplosivi, che avrebbero dovuto deflagrare, quando la<br />

tomba venisse violata. Nella cittadina di Crail fu eretto un vero e<br />

proprio putridero, dove erano depositate le salme, in attesa che<br />

diventassero inutilizzabili per la dissezione. Nessuna precauzione<br />

sembrava però scoraggiare i ladri di morti, che improvvisavano<br />

ingegnosi nuovi metodi di lavoro, come scavare a fianco della<br />

tomba, per aggredire la bara sul lato, o asportare in blocco l’intera<br />

zolla superficiale di terreno, per rimetterla a posto a operazione<br />

125


terminata, mascherando l’avvenuto sterro. Il commercio di corpi<br />

umani fu organizzato all’ingrosso e a distanza: nel carico di una<br />

nave, salpata da Liverpool e diretta ad Edimburgo, si scoprirono 33<br />

corpi di uomini, donne e bambini, conservati sotto sale. Nacquero<br />

degli scandali. Tra le spoglie trafugate ci fu quella dello scrittore<br />

Laurence Sterne, che venne riconosciuto nella sala settoria, non<br />

prima di essere stato intaccato dal bisturi del chirurgo, come ha<br />

dimostrato una recente ricognizione dei resti. Fu sottratto alla sua<br />

sepoltura il padre del Presidente degli Stati Uniti in carica. Al Saint<br />

Thomas Hospital, uno studente riconobbe, nel corpicino steso sul<br />

tavolo settorio, il figlio della sorella, morto poco prima di scrofola.<br />

Si diffusero anche molte leggende metropolitane: un marinaio,<br />

costretto da degli studenti ad esumare un corpo, si sarebbe trovata<br />

tra le braccia la propria amata, morta a sua insaputa, mentre lui era al<br />

largo; un uomo in stato di morte apparente sarebbe stato sepolto<br />

vivo e salvato da un provvidenziale resurrezionista, che aveva aperto<br />

la tomba in cui era stato intempestivamente deposto. Fu in un clima<br />

di indignazione, sospetto ed esasperazione popolare che scoppiò il<br />

caso criminale del secolo. Il principale protagonista era un brillante<br />

chirurgo, medico, biologo, anatomista e ricercatore della città di<br />

Edimburgo, il dottor Robert Knox (1791-1862). Aveva lavorato, agli<br />

esordi della carriera, come chirurgo all’ospedale militare di Bruxelles,<br />

per operare i feriti di Waterloo, e dopo una missione con il 72°<br />

Highlanders in Sud Africa, era vissuto per due anni a Parigi, dove<br />

aveva preso contatto con i grandi naturalisti Cuvier e Geoffroy<br />

Saint-Hilaire e con il chirurgo militare barone Larrey, di cui era<br />

diventato amico. I due uomini avevano in comune la grande abilità<br />

professionale, il coraggio e un carattere infernale, ma non<br />

condividevano gli stessi principi etici. Il francese aveva, per tutta la<br />

vita, profuso senza risparmio le sue energie per salvare i militari<br />

feriti e alleviarne le sofferenze, senza badare né al grado, né alla<br />

bandiera. Si era largamente meritato il soprannome di “Provvidenza<br />

del soldato” ed era venerato dalla truppa, tanto più che aveva<br />

rischiato la sua posizione, per salvare dalla fucilazione dei coscritti<br />

autolesionisti. Era un empirico, indifferente al metodo scientifico e<br />

alla carriera accademica. Knox, invece, era un freddo pensatore,<br />

ambizioso, molto dotato per la ricerca biologica, che lo portò ad<br />

anticipare alcune tesi di Charles Darwin, ma le sue ipotesi sulla<br />

continuità delle specie biologiche erano orientate in senso che oggi<br />

definiremmo razzista: intendeva dimostrare l’inferiorità di Africani<br />

126


ed Irlandesi. Le sue numerose pubblicazioni gli valsero l’ingresso<br />

nella Royal Society di Edimburgo, appena un anno dopo il suo<br />

ritorno in patria. La scuola di anatomia, che egli aprì in quella città,<br />

sottrasse studenti all’Università e fu affollatissima, nonostante le<br />

tariffe molto salate. Knox, come tutti, si procurava cadaveri per<br />

mezzo dei resurrezionisti. Fu così che il suo cammino incrociò<br />

quello di due personaggi di tutt’altra risma: William Burke e William<br />

Hare, manovali irlandesi, che avevano lavorato nello sterro<br />

dell’Union Canal. Vivevano assieme alle loro compagne, Helen<br />

M’Dougal e Margaret Logue, in una casa che la moglie di Hare<br />

aveva ereditato. Burke riparava le scarpe ed entrambi facevano i<br />

facchini. Qualche provento veniva dall’affitto di alcune delle povere<br />

stanze della casa. Il vero collante che teneva assieme queste quattro<br />

persone era l’alcool. Un giorno del 1827, uno dei loro pensionanti<br />

morì improvvisamente, senza avere pagato l’affitto arretrato. Una<br />

rapida perquisizione rivelò che il defunto non possedeva un solo<br />

penny. Dopo un momento di sconforto, Hare ebbe l’idea di cacciare<br />

il cadavere in una cassa da imballaggio e riempire la bara di materiale<br />

pesante. Conoscendo la fama di Knox, si recarono nel suo studio,<br />

dove il bidello, dopo avere criticato lo stato cachettico del<br />

“soggetto” diede loro 7 sterline e 10 scellini, l’equivalente di tre mesi<br />

dei loro introiti ordinari. La sera stessa, durante un festino a base di<br />

whisky e gin, i due e le loro compagne progettarono di affittare le<br />

loro stanze a persone deboli e malate, prossimi involontari donatori<br />

delle loro spoglie. Disgraziatamente, il primo in cui incapparono era<br />

un ipocondriaco sanissimo: Joseph, detto il Mugnaio, tra lamenti e<br />

acciacchi, non sembrava seriamente intenzionato a morire.<br />

Esasperato dall’imprevista dilazione, la mente tortuosa di Hare<br />

concepì il metodo giusto per abbreviare i tempi. Il pensionante fu<br />

invitato ad una bevuta e riempito di liquore, fino a fargli perdere i<br />

sensi, poi Burke gli si sdraiò sopra, schiacciandogli il torace, mentre<br />

Hare gli chiudeva bocca e narici. In pochi minuti, fu disponibile un<br />

altro cadavere per la scuola di Knox. Questa volta il compenso fu<br />

decisamente maggiore, perché il corpo era in ottime condizioni. Da<br />

quel giorno, sotto l’effetto delle abbondanti libagioni garantite dalla<br />

nuova fonte di reddito, Burke e Hare, complici le due donne,<br />

persero ogni freno. Gli omicidi si moltiplicarono, perpetrati con<br />

un’audacia prossima all’incoscienza. Persone sole, viaggiatori,<br />

vagabondi, mendicanti, ubriachi, che avevano la disgrazia di capitare<br />

nei paraggi, erano irretiti, ubriacati e soffocati, per finire subito dopo<br />

127


sul tavolo settorio. L’anomala fornitura di cadaveri non segnati<br />

dalla malattia e ben conservati non sembrò mai destare sospetti in<br />

Knox, anche se almeno una delle vittime, un bambino, che gli<br />

assassini non avevano potuto ubriacare e a cui Burke aveva rotto la<br />

spina dorsale, presentava evidenti segni di violenza. Quello che<br />

Knox non sapeva o voleva vedere, fu intuito dai suoi studenti. Una<br />

prostituta diciottenne, Mary Paterson, soppressa con il solito<br />

sistema, era piuttosto popolare tra i frequentatori della scuola. Il suo<br />

corpo fu riconosciuto e alcuni tra i presenti nella sala anatomica<br />

affermarono di avere lasciato la ragazza in ottima salute poco tempo<br />

prima. Cominciarono a circolare i primi sospetti, che ebbero una<br />

conferma, quando nella sala anatomica di Knox comparve James<br />

Wilson. Questi, noto come “Daft Jamie” era un giovane di<br />

diciannove anni, claudicante a causa di una gamba malformata e col<br />

cervello di un bambino. Dopo un litigio con la madre e le sorelle,<br />

viveva nella strada, prestando piccoli servizi e intrattenendo i<br />

bambini con giochi, filastrocche e canzoncine. Era benvoluto da<br />

tutti e tutti gli offrivano un po’ di sostentamento. Portato nella casa<br />

dei delitti, non aveva voluto bere whisky e di fronte<br />

all’atteggiamento minaccioso assunto dai suoi ospiti, si era<br />

spaventato e aveva invocato la mamma, cercando di fuggire. Burke<br />

gli si era parato contro, ma Daft Jamie era un giovanottone robusto<br />

e lo aveva steso. Quando già stava per mettersi in salvo, Hare era<br />

stato pronto a fargli lo sgambetto e il complice lo aveva strangolato<br />

brutalmente. Il ragazzo era un personaggio molto popolare, noto a<br />

quasi tutti gli studenti di Knox, e il riconoscimento del corpo era<br />

stato facilitato dall’arto deforme. Inoltre vi erano chiari segni di<br />

violenza. Questa volta gli studenti protestarono e chiesero<br />

spiegazioni, ma Knox proseguì impassibile la lezione, che riprese il<br />

giorno successivo, sul cadavere che aveva decapitato e privato della<br />

gamba malata. Non ci furono conseguenze immediate. Perché la<br />

catena di omicidi cessasse, fu necessario attendere un passo falso<br />

degli assassini, ormai completamente obnubilati dall’alcool e travolti<br />

da un delirio omicida: privi di controllo, dopo che Hare, da solo,<br />

aveva eliminato una parente di Helen M’Dougal, mentre Burke, per<br />

delicatezza, non aveva partecipato all’operazione, fu lo stesso Hare<br />

che propose al socio di sopprimersi a vicenda le compagne.<br />

Accantonato questo progetto, perché in fondo alle loro donne erano<br />

affezionati, dopo una notte di baldoria con una coppia di vicini di<br />

casa, giusto prima di andare a dormire, uccisero Mary Docherty, una<br />

128


mendicante irlandese, che dormiva in una delle loro stanze e, vista<br />

l’ora tarda, la infilarono semplicemente sotto il letto. Il mattino<br />

dopo, se ne andarono per i fatti loro, senza badare al cadavere. La<br />

coppia che aveva partecipato al festino tornò, alla ricerca di un paio<br />

di calze che avevano perduto, ma fu allontanata bruscamente dalle<br />

donne di casa. Insospettiti, aspettarono di vederle uscire,<br />

penetrarono nella stanza, seguirono le tracce di sangue e scoprirono<br />

il corpo. La polizia arrestò i quattro e iniziarono le indagini, che non<br />

durarono a lungo, perché Hare si dichiarò subito disposto a<br />

collaborare, in cambio dell’immunità per sé e per la moglie. I<br />

magistrati accettarono l’ignobile patto. A quel punto anche Burke<br />

confessò. Ufficialmente le vittime dichiarate, in soli otto mesi di<br />

attività, furono sedici, ma si pensa che fossero molte di più, almeno<br />

il doppio, perché ognuno dei due assassini aveva anche lavorato in<br />

proprio, all’insaputa dell’altro ed inoltre i loro ricordi sulla<br />

cronologia dei delitti erano estremamente confusi. Burke disse che<br />

gli sembrava di ricordare di avere venduto a Knox trenta o quaranta<br />

salme. Fuori causa la coppia Hare, assolta Helen M’Dougal, l’unico<br />

ad essere processato fu Burke, giudicato e condannato alla forca,<br />

esclusivamente per l’omicidio di Mary Docherty, il cui cadavere, il<br />

solo della serie, non era finito nello studio del dottor Knox.<br />

L’appiglio legale fu che gli altri corpi non erano reperibili, ma era<br />

evidente la volontà di tenere fuori dal processo lo scienziato, che<br />

infatti non fu mai chiamato in causa. Burke fu giustiziato il 28<br />

gennaio 1829, alla presenza di una folla di oltre 20.000 persone,<br />

immobili e minacciose sotto una pioggia gelida. Chiese al boia di<br />

spacciarlo in fretta, perché temeva di essere linciato. Del resto, la<br />

forzata astinenza dall’alcool gli aveva snebbiato il cervello e ormai<br />

non desiderava altro che chiudere al più presto la sua miserabile<br />

esistenza. Finì, per un ovvio contrappasso, sul tavolo settorio dei<br />

chirurghi. Il giorno dopo l’esecuzione, la M’dougal uscì, come se<br />

niente fosse, per comprare del whisky, ma fu assalita da una folla<br />

inferocita a cui sfuggì a stento, rifugiandosi presso la polizia. Hare<br />

subì un tentativo di linciaggio a Glasgow e sua moglie a Dumfries.<br />

Poi il terzetto scomparve dalla scena e nulla si seppe più sulla loro<br />

sorte. Le rappresaglie contro Knox si limitarono alla rottura dei vetri<br />

di casa, anche perché il chirurgo circolava per Edimburgo con la<br />

spada al fianco e due pistole alla cintura ed era noto che, durante le<br />

sue avventure militari, aveva imparato a maneggiare le armi da<br />

autentico professionista. L’ambiente accademico gli fece scudo in<br />

129


modo compatto, confermandogli la piena fiducia. Tuttavia, quando<br />

gli animi si furono un po’ calmati, lo indussero a dimettersi dalla<br />

Royal Society e a rinunciare alla carriera universitaria. Knox si<br />

trasferì a Londra, dedicandosi alla stesura di testi scientifici, fino al<br />

1856, quando trovò impiego come anatomo-patologo al Free<br />

Cancer Hospital. Il clamore suscitato dal processo non si acquietò<br />

mai completamente. In tutto il Paese era dilagata l’indignazione per<br />

la sentenza. A ulteriore dimostrazione della malafede di una<br />

magistratura, in altre circostanze spietata, la madre e le sorelle del<br />

povero James Wilson avevano speso le loro poche risorse in<br />

avvocati, per chiedere la riapertura del processo, ma il loro desiderio<br />

di giustizia si era infranto contro l’irremovibile volontà del giudice.<br />

L’indignazione dell’opinione pubblica assunse le forme più diverse:<br />

libelli, caricature, canzoni di strada, fogli volanti, manifesti, persino<br />

filastrocche per bambini, satireggiavano l’intera vicenda, e i suoi<br />

protagonisti, in particolare Knox, minacciandolo di forca alla prima<br />

occasione. Purtroppo altri fatti intervennero a peggiorare la<br />

situazione.<br />

Nel 1831 due individui, John Bishop e James May offrirono al<br />

King’s College, dopo avere contattato invano altre due istituzioni, il<br />

corpo di un ragazzo di 14 anni, per cui contrattarono un prezzo di<br />

12 ghinee poi ridotte a 9. Tornarono, poco dopo, assieme a un tale<br />

Thomas Williams alias Thomas Head, che recava con sé un sacco<br />

con il suo macabro contenuto. Il bidello, insospettito, si allontanò<br />

con la scusa di cambiare una banconota, e avvisò la polizia. Il morto,<br />

risultò essere un ragazzo italiano di nome Carlo Ferrari, un girovago,<br />

che si guadagnava da vivere improvvisando spettacoli di strada con<br />

dei topi bianchi ammaestrati, forse già vittima di un racket che<br />

comprava e rapiva bambini, per mandarli a mendicare nelle ricche<br />

città nord-europee. La vittima era stata drogata con l’oppio e<br />

annegata in un pozzo. Con lo stesso metodo, erano stati soppressi<br />

una certa Fanny Pigburn ed un altro giovane di nome Cunningham.<br />

I denti di Ferrari erano stati venduti ad un dentista per 12 scellini.<br />

Bishop aveva poi regalato a suo figlio i topi ammaestrati, che<br />

costituirono una prova al processo. Fu impiccato assieme a<br />

Williams, mentre May, deportato, morì durante la traversata, per un<br />

pestaggio subito dai compagni di pena. Un caso analogo portò al<br />

patibolo John Wilson che uccideva mescolando arsenico al tabacco<br />

da fiuto e che fu trovato con tre cadaveri, anche se la sua attività<br />

durava ormai da qualche anno. In questi ultimi casi gli anatomisti<br />

130


avevano sempre denunciato gli assassini e le pene erano state<br />

proporzionali al crimine. Un certo numero di assassini, tra cui una<br />

certa Elizabeth Ross, fu ancora giustiziata per “burking” ma il<br />

termine indicava ormai soltanto un modus operandi per<br />

strangolamento, senza l’intento di vendere il corpo.<br />

La questione delle scuole di anatomia, non fu risolta e, in misura<br />

ridotta, i furti di cadavere continuarono. Nel 1832, il filosofo e<br />

filantropo Jeremy Bentham ottenne dal governo l’Anatomy Act, che<br />

destinava alla dissezione i deceduti in ospedale. Anche questo<br />

provvedimento non ottenne completamente i risultati sperati,<br />

perché agli ospedali e ospizi vennero assimilati i riformatori, le<br />

workhouses, e i direttori di questi istituti, comunemente denominati<br />

“Bridewells” opposero una feroce resistenza, per timore che<br />

diventassero di pubblico dominio gli elevati tassi di mortalità dei<br />

loro internati, causati da denutrizione, freddo, maltrattamenti, fatica<br />

e sporcizia.<br />

Della vicenda dei resurrezionisti si impadronì ben presto la<br />

Letteratura: tra i primi Walter Scott, Charles Dickens, che in “Tale<br />

of two Cities”(1859) disegnò il personaggio di Mr. Cruncher, un<br />

violatore di tombe e Bulwer-Lytton, in “Lucretia”. Le opere più<br />

importanti sull’argomento furono però un racconto di Robert Louis<br />

Stevenson: “The Body Snatcher” del 1884 e una sceneggiatura<br />

cinematografica di Dylan Thomas: “The Doctor and the Devils”,<br />

del 1953. Quest’ultimo lavoro, portato sullo schermo nel 1985,<br />

segna il punto di collegamento con il cinema: “The Anatomist”<br />

(1930) con due remakes nel 1939 e 1980; “The body snatcher”<br />

(1945) con Boris Karloff e Bela Lugosi; “The Flesh and the Fiends”<br />

(1960) con Peter Cushing; “Burke & Hare” (1971). A questi titoli si<br />

aggiungono numerosi lavori televisivi, tra cui uno di Alfred<br />

Hitchcock. Basta il nome di alcuni attori, specialisti del genere<br />

horror, per testimoniare come il cinema abbia prevalentemente fatto<br />

leva sugli aspetti macabri e sensazionali del resurrezionismo. Nel<br />

2010, un’ulteriore film dal titolo “Burke e Hare” ha rivestito la<br />

vicenda di un disinvolto tono di umorismo nero. Tra tutte le opere<br />

citate, quella di Dylan Thomas, con la sua realizzazione<br />

cinematografica, si distingue perché nel personaggio di Knox (nella<br />

finzione chiamato Rock) è tratteggiata la figura di un titano<br />

sconfitto, un uomo in lotta contro una Società di notabili retrivi,<br />

meschini e bigotti, che non gli perdonano il matrimonio con la<br />

propria cameriera, né la difesa della laicità della Scienza e che al<br />

131


termine della vicenda diranno : ” Lo abbiamo salvato dalla rovina<br />

pubblica per poterlo rovinare in privato”. Il testamento spirituale del<br />

dottor Rock/Knox sarà questo: “Pensare è pericoloso. La maggior<br />

parte degli uomini ha scoperto che era più facile scavarsi la strada<br />

nella burocrazia parassitica, o lasciarsi cadere nelle fiacche schiere<br />

dei dominati. Io supplico tutti voi di dedicare la vostra vita al<br />

pericolo; vi invito all’avventura; vi spingo all’esperienza. Ricordatevi<br />

che la pratica dell’anatomia è assolutamente vitale per il progresso<br />

della medicina. Ricordatevi che il progresso della medicina è vitale<br />

per il progresso dell’umanità. E che per l’umanità vale la pena di<br />

combattere: uccidere e mentire e morire per l’umanità.” È<br />

un’enunciazione di elevati ma ambigui principi e queste nobili parole<br />

hanno un vago sentore di superuomo, mentre, in sottofondo,<br />

sembra di ascoltare la voce del vecchio Erofilo di Calcedonia. La<br />

domanda è: in quale misura, noi, oggi, siamo figli di Erofilo?<br />

132


L’elogio dell’ambiguità: gioco di pensieri di un patologo<br />

sulle osservazioni al microscopio<br />

133<br />

Ezio Fulcheri<br />

Il termine “ambiguità” ha sempre portato con sé un senso<br />

di negatività, di doppiezza e viene, quasi automaticamente, associato<br />

al comportamento di coloro che vogliono lasciarsi aperte due o più<br />

strade, senza decidere, senza esporsi troppo e nel contempo,<br />

abbozzando qualche risposta sull’uno o sull’altro fronte (mostrando<br />

un poco della verità ma non troppo e comunque mostrando sempre<br />

e solo quella parte di essa che possa essere ritrattata) restando in una<br />

forma di mezzo, poco netta nel mostrarsi: la vera ambiguità<br />

dell’apparire.<br />

Il senso negativo del termine “ambiguo” è tanto radicato nel sentir<br />

comune che in certi periodi venne stimmatizzato ed assimilato al<br />

ben più duro categorico termine di “falso”. L’ambiguità è dunque<br />

doppiezza e falsità per definizione verso quel gruppo o quella parte<br />

che poi il soggetto non sceglie.<br />

Resta tuttavia da osservare che, in un’altra ottica,<br />

l’incertezza e l’indecisione delle scelte potrebbe essere interpretata<br />

come attenzione e cura nel valutare le singole opzioni, nella ricerca<br />

di ulteriori elementi di giudizio per meglio ragionare e pianificare le<br />

scelte e dunque, in senso assoluto, rappresentare un fattore positivo.<br />

Lo scopo dell’ambiguità, in questo caso, sarebbe in fine il<br />

raggiungimento della situazione più vantaggiosa e, in biologia (non<br />

vincolata dalla morale) la ricerca della soluzione più vantaggiosa è in<br />

assoluto positiva per la salvaguardia della specie ed il rafforzamento<br />

del singolo. Così l’individuo migliore non è mai il più bello né il più<br />

forte in senso assoluto o il più scaltro ma solo colui che è più<br />

adeguato in quella situazione, che è più adatto e che sa o può<br />

cogliere il momento vantaggioso. In questa accezione relativa<br />

dell’essere biologico l’ambiguità dell’essere può venire considerata<br />

assolutamente positiva.<br />

A fronte di queste osservazioni l’ambiguità si svincola dal<br />

comune significato del termine e viene rapportata ai contesti ed alle<br />

situazioni bio-antropiche particolari. L’ambiguità può allora essere<br />

vista in modo dinamico e può venire voglia di cercare e cogliere in<br />

essa aspetti particolari e, oseremmo dire, stimolanti di quelle


situazioni ambigue nell’apparire perché ambigue nell’essere non per<br />

calcolo quanto piuttosto per natura, capaci di esprimere un forte<br />

potenziale critico, quindi creativo, e in ultima analisi positivo.<br />

Potrebbe dunque venire la tentazione di considerare<br />

l’ambiguità quale vero motore della progressione; un demiurgo<br />

capace di scegliere e talora scegliere contro l’apparente ineluttabilità<br />

degli schemi. Queste riflessioni, seduto davanti ad un microscopio,<br />

analizzando cellule e tessuti si radicano via via nella mente ed allora<br />

viene spontanea una cascata di riflessioni; viene quasi voglia di<br />

liberare il pensiero nella logica della biologia e nel campo delle<br />

scienze e tessere l’elogio dell’ambiguità.<br />

Guardando un preparato istologico al microscopio e<br />

osservando le alterazioni dei tessuti viene spontaneo ricercarne la<br />

linea ed il piano di sviluppo e in ultima istanza studiarne e predirne<br />

in certo qual senso l’evoluzione.<br />

L’anatomia patologica è una disciplina basata sul<br />

riconoscimento delle lesioni, sulla valutazione di esse e,<br />

conseguentemente, sulla proposizione di una diagnosi che è<br />

finalizzata, in ultima istanza, al trattamento del paziente facendo<br />

conoscere la tipologia, l’entità e la pericolosità della malattia in<br />

oggetto.<br />

Il patologo deve osservare, concatenare le osservazioni e<br />

dedurre un profilo sommando tutte le osservazioni, anche<br />

molteplici, nell’ordine delle centinaia, che effettua durante la lettura<br />

di un preparato istologico.<br />

Per sua natura dunque, il patologo è un osservatore ed un<br />

analizzatore di immagini; ogni immagine, nel suo insieme o<br />

scomposta, viene classificata in termini di appropriatezza, di<br />

congruità di correlazione con la parte anatomica e, soprattutto,<br />

stabilendo la normalità o l’anormalità del reperto. In effetti<br />

sembrerebbe a prima vista doversi trattare di una disamina tra nero e<br />

bianco, tra sano e patologico, tra normale e anormale. Tutto ciò è<br />

vero trattando di lesioni sicuramente patologiche, in senso infettivoinfiammatorio,<br />

distrofico-regressivo o neoplastico o, per contro<br />

quando può essere dimostrata l’ assenza di malattia. Altre volte<br />

prevalgono le aree di grigio, le situazioni di transizione tra una forma<br />

e l’altra, gli aspetti incerti, indefiniti, ambigui.<br />

L’esperienza e l’occhio attento del patologo,<br />

particolarmente dotato nel saper cogliere le minime differenze e i<br />

134


tratti più significativi e patognomonici, contribuiscono a ridurre<br />

nettamente la fascia dei dubbi, delle ambiguità e dei toni grigi. In<br />

altri casi il dubbio permane, l’ambiguità appare in tutta la sua netta<br />

evidenza lasciando incerto il giudizio; è la vera ambiguità<br />

dell’apparire, contro cui non c’è nulla da fare se non dichiararla,<br />

descriverla, codificarla ed in tal modo renderla ufficiale, essa stessa<br />

diagnosi compiuta, definita e univoca, ossimoro strano e quasi<br />

bizzarro “la definizione dell’ambiguità” .<br />

La mente si distacca dall’osservazione e comincia a vagare a<br />

ritroso nella storia del pensiero medico e naturalistico, gli occhi si<br />

staccano dai vividi colori del preparato istologico ( una essenza di<br />

bellezza delle forme, una gamma di colori e sfumature stemperate<br />

sulla sezione microtomica invasa dalla luce); vengono alla mente<br />

concetti e definizioni applicate all’anatomia dei tessuti, alla<br />

embriogenesi ed alla fenogenesi. Ci scopriamo allora attenti al<br />

divenire delle forme, alla crescita dei tessuti, alla maturazione di essi<br />

finalizzata alla funzione. Tutto sembra perfetto, scandito nei tempi e<br />

nei modi, nelle forme e nell’apparire di esse.<br />

Ragiono sul concetto di “sviluppo” e mi convinco che<br />

questo indichi un processo evolutivo determinato e compiutamente<br />

strutturato nella progettualità; questo termine non lascia spazio a<br />

nessuna opzione alternativa perché è invece insito nel termine di<br />

opzione la possibilità di scelta anche se questa dovesse avvenire tra<br />

due situazioni antitetiche o molto differenti. Lo sviluppo è in vece<br />

predeterminato nella genesi e nell’obiettivo da raggiungere.<br />

Nell’ambiguità non può esserci dunque piano di sviluppo poiché<br />

proprio l’incertezza dell’essere e quindi del mostrarsi indica<br />

chiaramente la possibilità di scelta. In biologia è facile trovare<br />

esempi di sviluppo ( quasi una cascata di eventi quali quella della<br />

coagulazione) mentre è più difficile identificare situazioni ambigue a<br />

potenzialità variabile.<br />

Sotto un profilo filosofico (filosofia della scienza), la<br />

potenzialità del divenire e del mutare delle forme ambigue è<br />

estremamente affascinante e stimolante. Viene spontaneo ed<br />

immediato per noi patologi pensare ai cosiddetti tumori “borderline”.<br />

Da molto tempo è stato introdotto il termine “borderline” per<br />

indicare quelle lesioni neoplastiche non francamente maligne ed<br />

aggressive ma neppure benigne. Apparentemente sembrerebbe di<br />

135


essere proprio di fronte ad un quadro di pura ambiguità<br />

dell’apparire.<br />

L’esempio più immediato è quello dei tumori ovarici<br />

mucinosi, masse cistiche capsulate ove la proliferazione neoplastica<br />

in cisti concamerate e tralci si espande all’interno della<br />

neoformazione con un modello di crescita centripeto. Le cellule che<br />

compongono la neoplasia sono di tipo mucinoso e producono una<br />

gran quantità di mucine dense che, accumulandosi, contribuiscono<br />

alla espansione cistica del tumore. L’epitelio neoplastico benigno in<br />

gran parte delle concamerazioni può perdere progressivamente la<br />

capacità di secernere muco, i nuclei si fanno prominenti, il<br />

citoplasma si riduce e le cellule si affollano in pseudo stratificazioni;<br />

compaiono atipie più o meno marcate sino a configurare focolai di<br />

franca trasformazione maligna. L’adenocarcinoma focale, anche con<br />

spetti microinfiltranti fa parte dello spettro delle lesioni borderline<br />

Seguendo il filo del nostro ragionamento dobbiamo però<br />

convenire che le lesioni borderline non sono ambigue ma al<br />

contrario sono inserite in un ordinato disegno poiché sono<br />

veramente capaci di sviluppare un “progetto”; sono di fatto ed in<br />

sostanza neoplasie. Più recentemente il termine “borderline “ è stato<br />

abbandonato per lasciare il posto alla dizione “Tumore a basso<br />

potenziale di malignità” i cui aspetti evolutivi, pur restando in<br />

ambito neoplastico, si esprimono sia nella progressione, se non<br />

escissi completamente, verso lesioni maligne (motivo per cui è<br />

rischioso lasciare parte di un cistoma borderline dell’ovaio senza<br />

effettuare l’annessiectomia) sia con possibilità di recidivare in loco<br />

(pur senza dare metastasi), o sviluppare impianti<br />

Il termine borderline identifica dunque un basso potenziale<br />

evolutivo non la capacità di regressione. Vie parallele, circuiti più<br />

lunghi, strategie evolutive diverse, come la variazione su un tema<br />

musicale che comunque è sempre riconoscibile e tratteggiato.<br />

Il preparato istologico che sto esaminando è costituito dalla<br />

sezione istologica di una biopsia della cervice uterina in cui, su una<br />

base di tessuto epiteliale metaplastico, si è instaurata una displasia.<br />

La displasia cervicale può essere considerata una delle infrequenti<br />

situazioni nelle quali è espressa una grande potenzialità di<br />

comportamenti biologici delle lesioni e pertanto un vero campo di<br />

ambiguità si apre sotto le lenti del microscopio.<br />

Le lesioni displastiche della cervice uterina vennero<br />

individuate e nosograficamente codificate in un periodo storico<br />

136


molto particolare, teso alla identificazione dei precursori naturali<br />

del carcinoma invasivo. Tale sforzo era ovviamente mirato al<br />

riconoscimento delle lesioni pre neoplastiche per poterne effettuare<br />

l’escissione e l’ablazione preventiva.<br />

Gli sforzi per individuare il precursore di una neoplasia ad elevata<br />

incidenza sulla popolazione femminile e con alto tasso di mortalità<br />

sembravano ampiamente promettenti grazie al riconoscimento delle<br />

atipie citologiche reso possibile dalle osservazioni di Georgius<br />

Papanicolau (nato a Kymi nel 1883 e morto a New Jersey nel 1963)<br />

effettuate sulla citologia cervico-vaginale. La prima pubblicazione<br />

scientifica risale al 1928 e da allora la storia della metodica di striscio<br />

del prelievo cervico-vaginale effettuato con spatola resta<br />

inesorabilmente legata al nome del Dott Papanicolau, detto<br />

familiarmente “Doctor Pap” ed a quello che sarà il metodo di<br />

screening più famoso al mondo; il Pap Test. L’applicazione dello<br />

speculum, inventato in effetti molti anni prima ( il primo speculum<br />

risale al 1818 ideato da Rècaimer) ma non sfruttato nelle sue ampie<br />

possibilità, permise di dare obiettiva evidenza delle alterazioni<br />

citologiche epiteliali documentate nel Pap test e nel contempo rese<br />

possibile effettuare biopsie mirate sulle lesioni.<br />

La battaglia contro il carcinoma della cervice uterina aveva<br />

portato alla definizione ed al riconoscimento delle lesioni<br />

preneoplastiche. La displasia cervicale intesa in senso assoluto come<br />

il precursore del carcinoma della cervice uterina era stata (ed è<br />

tutt’ora), classificata in displasia lieve, displasia media e displasia<br />

grave intendendo queste tre lesioni come un unicum nella<br />

progressione verso le forme maligne ed invasive. Tanto era radicata<br />

la convinzione della obbligata evolutività delle lesioni precursori del<br />

carcinoma (in un crescendo inesorabile ed ineluttabile del quale<br />

restava ignoto solo il fattore tempo) che per codificare questa<br />

progressione venne coniato l’acronimo di CIN (cervical intraepithelial<br />

neoplasia) ove la consonante N stava ad indicare che tali lesioni erano<br />

di fatto (o lo sarebbero state - l’essere inteso nella forza del divenire)<br />

una neoplasia. Fu dunque Richard che nel 1967 (quarant’anni dopo<br />

la descrizione citologica di Papanicolau) costruì il sistema della CIN<br />

intendendolo come un progetto di sviluppo delle lesioni.<br />

La displasia lieve (CIN1), il grado più basso nella scala<br />

evolutiva, va ricercata con cura ed attentamente differenziata dalle<br />

alterazioni displastiche reattive o riparative, dalle lesioni distrofiche<br />

o ipertrofiche. Un tempo era sottoposta ad attenta e stretta<br />

137


sorveglianza e spesso veniva escissa poiché era radicata la<br />

convinzione che fosse comunque una condizione preneoplastica.<br />

In un disegno schematico, costruito appositamente per<br />

codificare la gradazione della displasia cervicale, viene descritto<br />

l’incremento degli elementi immaturi ed atipici dallo strato più<br />

profondo agli strati superiori sino a coinvolgere tutto lo spessore<br />

dell’ epitelio; le cellule indicate di colore più scuro e con piccolo<br />

citoplasma aumentano descrivendo una sorta di piano inclinato che<br />

sale da quota zero sino al punto più alto. Su questa linea, raggiunto il<br />

punto collocato tra terzo inferiore e terzo medio dello spessore<br />

viene posto il limite della CIN 1; raggiunto il limite tra terzo medio e<br />

terzo superiore viene posto il limite della CIN2 lasciando per la<br />

terza quota il campo della CIN3<br />

Nella CIN 1 le atipie citologiche, dopo aver stravolto lo strato basale<br />

sono dunque presenti in tutto il terzo inferiore dello spessore<br />

dell’epitelio. La CIN 2 è collocata a metà strada, tra il<br />

coinvolgimento del solo terzo inferiore ed il coinvolgimento del<br />

terzo superiore; più di una CIN1 e meno di una CIN3, Molti<br />

patologi trovano difficile stabilire con certezza, al di la dello<br />

schematismo, se si tratti ancora di una CIN1 o se la lesione sia già<br />

una iniziale CIN2 e, per contro, se altre non siano già una CIN3<br />

piuttosto che ancora una marcata CIN2.<br />

La displasia di grado medio è, come indica senza fantasia il<br />

nome, a metà; metà degli strati epiteliali dal terzo inferiore al terzo<br />

superiore sono displastici. Si potrebbe agevolmente dire che la CIN<br />

2 rappresenta la riprova dell’ineluttabile progressione delle lesioni<br />

lievi, vista non tanto come una forma incerta tra la forma lieve e<br />

quella grave quanto piuttosto la forma di transizione, quasi il<br />

fotogramma di un essere in divenire. La forma incerta diventa allora<br />

certa per definizione, non più ambigua ma compiuta in sé, nel suo<br />

apparire.<br />

Tuttavia così non è, si tratta della vera ambiguità<br />

dell’apparire che configura l’ambiguità dell’essere e nel contempo la<br />

potenzialità evolutiva; la CIN 2, terra di mezzo, sfumata ed incerta<br />

tra la forma lieve e la forma grave.<br />

Nel corso degli anni le cose infatti cambiarono; la rigida<br />

distinzione della displasia in tre classi venne sostituita con una<br />

visione binaria che prevedeva una classe a basso rischio ed una ad<br />

alto rischio di progressione verso le forme invasive. A dettare questo<br />

cambiamento era l’osservazione che gran parte delle lesioni<br />

138


displastiche lievi (CIN 1) era destinata ad una regressione<br />

spontanea mentre le forme gravi (CIN 3) regredivano quasi mai o<br />

comunque con assoluta minor frequenza. Le forme intermedie (CIN<br />

2) venne dimostrato avere una percentuale di regressione più bassa<br />

della CIN1 e più vicina a quella della CIN 3. La displasia di grado<br />

intermedio venne quindi di fatto assimilata a quella grave ed<br />

accorpata con essa nella categoria ad alto rischio. Non tutti però<br />

accettano ancora oggi questa classificazione e ufficialmente la<br />

distinzione in CIN 1, CIN 2, CIN 3 non è mai stata abrogata né<br />

tanto meno sostituita.<br />

Molto più recentemente, sulla base di stretti studi<br />

epidemiologici e statistici, di poderosi ed innovativi contributi di<br />

indagini molecolari e soprattutto di virologia, la storia biologica della<br />

displasia è stata ridisegnata. Il virus HPV nei suoi tipi viene oggi<br />

indicato come il più importante, se non unico, fattore necessario per<br />

lo sviluppo del carcinoma della cervice uterina. L’integrazione delle<br />

particelle virali nel genoma della cellula ospite rappresentano un<br />

modello di cancerogenesi quasi unico ove possono interferire le<br />

capacità di risposta dell’ospite, il numero e la tipologia delle<br />

reinfezioni. Alla luce di queste scoperte e di queste complesse analisi<br />

alla CIN2 viene attribuita la capacità di regressione pari al 43 %, la<br />

storia naturale della displasia di grado medio, in assenza di ogni<br />

forma di trattamento, indica chiaramente la non appartenenza della<br />

lesione ad un piano di sviluppo e tanto meno trattarsi di una<br />

scontata neoplasia intra epiteliale.<br />

Nel nostro excursus non possiamo dunque far a meno di<br />

considerare la storia della CIN 2 come paradigmatica del concetto di<br />

ambiguità. In questo caso viene posto in luce non tanto l’aspetto<br />

dell’incertezza nell’apparire quanto piuttosto l’enorme potenzialità<br />

del divenire: in effetti la forma ambigua può anche essere intesa<br />

come un forma in divenire, incerta in quanto non ancora definita<br />

ma, e paradossalmente in ciò consiste l’aspetto più affascinante,<br />

anche capace di regredire. Il motto latino “electa una via non datur<br />

recursus ad alteram” qui non vale, la lesione può progredire (come era<br />

nell’intenzione didattica e speculativa di coloro che propugnavano la<br />

teoria della CIN) ma anche regredire, tornare indietro involvere<br />

anziché evolvere.<br />

Un terzo ed ultimo aspetto relativo all’ambiguità si sviluppa<br />

ancora una volta davanti ad un microscopio, con gli obiettivi che<br />

139


scrutano in profondità i preparati citologici, li penetrano nei più<br />

piccoli dettali nucleari e citoplasmatici. La riflessione è quella del<br />

citologo davanti al già citato Pap test.<br />

Nel 1988 venne introdotto per la prima volta il cosiddetto sistema<br />

Bethesda per la classificazione diagnostica della citologia che sostituì<br />

in quasi tutti i Paesi del Mondo la vecchia classificazione di<br />

Papanicolau strutturata in classi.<br />

La nuova classificazione (che vide poi una revisione nel 2001)<br />

mirava a dare alla citologia un forte valore predittivo e diagnostico<br />

aprendo un dialogo anatomoclinico prima inesistente.<br />

Le atipie citologiche dell’epitelio squamoso originale o metaplastico<br />

vennero distinte in SIL LG e SIL HG (lesioni intraepiteliali<br />

squamose di baso grado e lesioni intraepiteliali squamose di alto<br />

grado). E’ interessante notare la distinzione binaria in basso grado<br />

ed alto grado che sovverte la classificazione trina della CIN (CIN1,<br />

CIN2, CIN 3) applicata, come già visto, per l’esame diagnostico<br />

istolologico.<br />

Con questo sistema classificativo viene incentrata tutta la strategia<br />

del monitoraggio nelle lesioni di basso grado e la strategia<br />

interventistica con terapia escissionale nell’alto grado. Viene<br />

abbandonato l’acronimo CIN con tutte le implicazioni correlate alla<br />

N di neoplasia sostituendolo con l’acronimo SIL ove la L significa<br />

“lesion”, termine aperto, non vincolante e soprattutto non associato<br />

necessariamente al concetto di tumore.<br />

L’aspetto curioso del sistema Bethesda fu quello di introdurre la<br />

categoria degli ASC–US vale a dire anormalità delle “cellule<br />

squamose di significato indeterminato”.<br />

Si tratta di un termine di apparente ambiguità, quando si consideri<br />

l’ambiguità nell’accezione più comune e scontata del termine;<br />

l’ambiguità dell’apparire, cellule che non riescono ad integrare un<br />

quadro di negatività ma che neppure hanno chiara evidenza di atipia<br />

tanto da configurare una lesione seppure di basso grado. In effetti il<br />

termine ASC – US indica non l’ambiguità degli elementi quanto<br />

piuttosto l’ambiguità del preparato. Gli elementi sono lievemente<br />

atipici ma pochi, con atipie poco pronunciate in confronto ad altre<br />

cellule atipiche per reazione, perché riparano erosioni o<br />

danneggiamenti superficiali. Sostanzialmente però cellule<br />

numericamente troppo scarse, esigue per avvalorare una diagnosi.<br />

Non si tratta dunque di ambiguità in senso stretto e nell’ottica in cui<br />

abbiamo sviluppato i nostri pensieri (e sbaglierebbe gravemente il<br />

140


citologo che così le interpretasse) quanto piuttosto insufficienti ed<br />

inadeguate. L’ambiguità, per essere vera ed elogiabile deve consistere<br />

nell’essenza delle lesioni e nell’apparire di esse, a tutto tondo e senza<br />

limitazioni.<br />

In chiusura possiamo dire di aver sviluppato, davanti ad un<br />

microscopio, un ragionamento complesso ma affascinante perché il<br />

termine “ambiguo”, a dispetto dell’apparenza non è ambiguo e<br />

perché siamo convinti di poter dimostrare, in una serie concatenata<br />

di ragionamenti, un pensiero affascinante anche se difficile da<br />

accettare. L’ambiguità, in campo biologico, non è negativa ma è<br />

potenziale, è motore di evoluzione; è duttilità e plasticità del divenire<br />

ed in questa ultima accezione è condizione assolutamente positiva<br />

ed utile; per essa possono venir dunque tessute le lodi e celebrato<br />

l’elogio.<br />

141


142


143<br />

La Cattedrale di Strasburgo<br />

Beppe Mariano<br />

Ho cominciato ad incuriosirmi delle cattedrali gotiche ancora<br />

ragazzo vedendo certi scarni dipinti dell’ art-brut e di Jean Dubuffet<br />

in particolare, allora pittore famosissimo e oggi quasi dimenticato<br />

(Stat sua cuique dies).<br />

Ho capito poi che il contrasto tra l’aspetto spiritualistico del gotico,<br />

interprete di un medioevo ritenuto spesso affrancato o distante dalla<br />

realtà materiale, e la grande tecnologia che è invece occorsa per la<br />

costruzione delle cattedrali ha fino a ieri rappresentato una forte<br />

ambiguità d’interpretazione della storia stessa di tale stile<br />

architettonico nonché dello stesso periodo storico.<br />

Già, l’ambiguità… Il poeta Basho sosteneva in un suo haiku che è<br />

necessaria nel rapporto imprescindibile tra volto e maschera.<br />

Giova forse ricordare che fin dalla caverna platonica ciò che appare<br />

ai sensi è ambiguo per definizione (il reale è presunto tale).<br />

Anche della pietra informe, che pur quando ci cade su un piede ben<br />

verifichiamo la sua concretezza materiale, qualcuno ha detto che è<br />

solo apparenza. Conterebbe soltanto il discorso metaforico,<br />

simbolico. Ossia la pietra che rimanda ad altro da sé.<br />

E’ un discorso fatto infinite volte, ma non per questo meno vero.<br />

Il Monviso, ad esempio, è sì fatto di pietra e di una pietra con sue<br />

particolari qualità, ma è recepito idealmente come ascesa verso la<br />

spiritualità (e oggi anche verso un ambiente purificato, nuovamente<br />

umano). Ad alta quota la rarefazione dell’aria inebria: ed è forse la<br />

miglior droga che può spingerci a raggiungere l’uomo etico, che<br />

misura se stesso al passo della salita.<br />

Altrettanto succede con le cattedrali gotiche.<br />

La pietra ottusa, lavorata dai mastri costruttori, è stata costretta a<br />

una tensione spasmodica verso l’alto, verso il cielo, appunto, capace<br />

perfino di alterare la curvatura classica dell’arco. L’uomo che guarda<br />

dal basso tali costruzioni, sia all’esterno sia all’interno d’esse, si sente<br />

sovrastato: si rende conto di essere un infinitesimo grumo<br />

dell’universo, e che la vita in questo mondo materiale è soltanto un<br />

breve passaggio (ma è anche un esame cui non può sottrarsi).


La pietra dunque per una specie di propria, laica in questo caso,<br />

transustanziazione diventa non più ciò appare (fisicamente ciò che<br />

è) ma ciò che deve essere. Ciò che deve valere.<br />

L’aveva ben compreso Carlo Sismonda.<br />

La sua cattedrale di Strasburgo sembra, in un miracolo di leggerezza,<br />

prossima a staccarsi dal suolo per sublimarsi in un cielo variopinto,<br />

striato di colore (tra i più belli del pittore) alla maniera di un Chagall,<br />

capace di far volare non più soltanto violinisti spose e animali…<br />

La pesantezza della pietra, pur essendo incombente, è superata e<br />

risolta pittoricamente da uno slancio idealistico che sembra<br />

sollevarla alle iridescenze di un cielo percorso e mosso dal soffio del<br />

divino.<br />

A ben guardare, si tratta di una cattedrale che pur dipinta anni fa<br />

oggi sembra voler suggerire una visione: il Paradiso è lì al primo<br />

volo, sopra la pietra faticosamente lavorata dall’uomo. Per averne<br />

avvertimento è sufficiente mischiarsi con i colori celestiali di una<br />

tavolozza ben provvida… Raramente si può ammirare, dalla materia<br />

all’idea, un trapasso così sereno.<br />

144


“La Bella Addormentata” Quando il dono più prezioso lo<br />

porta la fata cattiva<br />

145<br />

Daniela Ribetto<br />

Nella fiaba la parola diviene metafora. Il modello di narrazione, con<br />

i suoi personaggi, consente di ripercorrere la trama della storia<br />

dell’umanità, di tutti i tempi e di tutte le culture, e di avviare quel<br />

gioco mimetico-proiettivo che induce all’identificazione nei<br />

protagonisti e porta spontaneamente a meditare su di sé e al<br />

confronto con gli altri.<br />

La maggior parte delle favole sono state raccolte e in parte riscritte<br />

nel corso dell'Ottocento da estensori che, come i fratelli Grimm, ne<br />

avevano riconosciuto il valore e il contenuto, come delle chiavi<br />

magiche in grado di cogliere i puri pensieri di una osservazione<br />

infantile del mondo.<br />

Erano racconti orali, sopravvissuti per secoli passando di<br />

generazione in generazione. Per trovare però la radice originaria<br />

delle fiabe, dobbiamo tornare indietro nel tempo, molto prima della<br />

nascita di Cristo, dove la storia sprofonda nel crepuscolo. Da questo<br />

crepuscolo si ergono le figure dei cantori itineranti, dei bardi che<br />

andavano di luogo in luogo per cantare e narrare delle storie. Ogni<br />

popolo di antica civiltà aveva le proprie favole e i propri cantori che<br />

le diffondevano. È davvero singolare che presso gli indiani, gli<br />

africani, gli asiatici e gli europei si trovino molte immagini e figure<br />

simili. Come disse lo storico della civiltà Herman Grimm, figlio di<br />

uno dei due fratelli Grimm, nelle favole si può trovare il contenuto<br />

della grande storia universale nei tempi primordiali. Le favole sono<br />

resti di una religiosità che ha origine nella preistoria e che<br />

comunicava in immagini esperienze dell'anima e dello spirito. Il<br />

filosofo Plutarco (46 -119 d.C.) disse a suo tempo: “ Quando sentite le<br />

favole che si narrano sugli Dei del loro vagare, dell’essere dilaniati e di altre<br />

sventure, non dovreste credere che alcuna di queste cose sia avvenuta o sia stata<br />

effettuata nel modo riferito. I popoli hanno stabilito e impiegato dei simboli,<br />

alcuni oscuri, altri più intellegibili, nell’intento di avviare la comprensione dei<br />

concetti divini”.<br />

E questo monito ci chiarisce perché una specie di venerazione<br />

religiosa circonda da sempre le saghe e le favole dei vecchi popoli.


Severi fin quasi alla pedanteria, i narratori che incontrarono i<br />

fratelli Grimm vegliavano come gli ultimi custodi delle fiabe perché i<br />

testi fossero riprodotti invariati e fedeli alla lettera. Erano convinti<br />

che attraverso di loro fosse conservato e amministrato un bene<br />

spirituale che non doveva andar perduto per l'umanità. Della stessa<br />

idea fu anche il filosofo –pedagogista Rudolf Steiner (1861-1925)<br />

che nella sua monumentale opera integrò le moderne scienze<br />

naturali con un’indagine scientifica del mondo spirituale. La sua<br />

“antroposofia” rappresenta, nella cultura odierna, una sfida tesa al<br />

superamento del materialismo. Il mondo della fiaba che ci presenta<br />

Rudolf Steiner è quello cui accennava Plutarco dove i “concetti divini”<br />

si nascondono.<br />

La fiaba è il mondo non delle divinità gerarchiche che sono al di<br />

sopra dell’essere umano ( di esse si parla nel mito), la fiaba è il<br />

mondo dei processi degli elementi : Aria, Acqua, Terra, Fuoco.<br />

Nella misura in cui l’essere umano viene in comunione, cosciente o<br />

non cosciente, con questi esseri elementari, la fiaba esprime ciò che<br />

egli, che lo sappia o no, apprende da questa esperienza.<br />

La terra, l’acqua, l’aria e il fuoco sono l’elemento corporeo degli<br />

esseri elementari che compaiono sempre nelle fiabe e l’elemento<br />

animico è ciò che desiderano, le loro simpatie le loro antipatie. Nelle<br />

fiabe incontriamo: elfi, gnomi, ondine, silfidi a volte con un<br />

comportame nto che ci sembra strano perché essi non<br />

hanno uno spirito. L’elemento che sembra a noi irrazionale è<br />

dovuto proprio al fatto che abbiamo a che fare con gli esseri<br />

elementari la cui direzione spirituale è al di fuori di loro, nelle<br />

gerarchie celesti. Proprio per tale motivo le fiabe sono dirette al<br />

bambino che ha ancora un pensiero animistico e risultano<br />

importanti per la sua evoluzione, come sostiene anche Bruno<br />

Bettelheim (1903-1990), psicoanalista formatosi alla scuola di<br />

Vienna. Le fiabe sono utili perché aiutano il bambino a relazionarsi<br />

alle cose in modo tale da inglobarle in un mondo cosmico, cui lui è il<br />

centro. Inoltre aiutano a tradurre in immagini visive stati interiori e a<br />

trasportare nella realtà significati nascosti: elaborano l’inconscio.<br />

Bettelheim trova giusto il carattere non ambivalente dei personaggi<br />

fiabeschi: o solo buoni o solo cattivi, come non siamo nella realtà.<br />

Steiner, invece, in un’ analisi più profonda rivela tutta l’ambiguità<br />

nascosta della fiaba e porta alla luce significati che svelano la storia<br />

segreta dell’Umanità.<br />

146


Le fiabe parlano oltre che all'io cosciente, al nostro inconscio e<br />

l'ambiguità vi si sviluppa dando significati diversi alla medesima<br />

storia. Nel nostro inconscio deve avvenire una libera elaborazione<br />

poiché lì vivono le contraddizioni e nel vederle sta la chiave per<br />

superarle: per i bambini sarà una sorta di preparazione alla vita e<br />

per gli adulti un invito a ricordare.<br />

Andiamo a curiosare fra le righe della fiaba più popolare della nostra<br />

infanzia: LA BELLA ADDORMENTATA NEL BOSCO con<br />

Rudolf Steiner che ci porta oltre il velo di Maya ad incontrare<br />

ROSASPINA.<br />

C’era una volta un Re ed una Regina che desideravano tanto un<br />

bambino. Ma il bambino non veniva mai…<br />

Un giorno, mentre la Regina faceva il bagno, una rana le annunciò la<br />

nascita di una bambina. Per celebrare il battesimo della tanto<br />

sospirata figlioletta, il Re e la Regina invitarono le fate del regno.<br />

Ma, possedevano solo 12 piatti d’oro, le fate erano 13. Allora la<br />

tredicesima dovette starsene a casa. Ognuna delle fate donò<br />

qualcosa alla neonata: chi la bellezza, chi la saggezza, chi il talento<br />

musicale. Sopraggiunge la fata che non era stata invitata e per<br />

vendicarsi dell'onta donò alla bambina una maledizione: "Prima che<br />

il sole tramonti sul suo sedicesimo compleanno ella si pungerà il dito<br />

con il fuso di un arcolaio e morrà!" (nella versione Walt Disney); “La<br />

figlia del Re a quindici anni si pungerà con un fuso e cadrà a terra<br />

morta.” (nella versione fratelli Grimm). Una delle fate buone, pur<br />

non potendo annullare l'incantesimo, lo mitigò, trasformando la<br />

condanna a morte in quella di 100 anni di sonno, da cui la<br />

principessa potrà essere svegliata solo dal bacio di un principe. Per<br />

impedire che la profezia si compisse, il Re bandì gli arcolai dal suo<br />

regno; ma la principessa, all'età di 15 anni, per caso incontrò una<br />

vecchia che stava tessendo, e il suo fato si compì.<br />

L’ intero castello cadde sotto l’incantesimo di un sonno profondo<br />

insieme alla principessa. Col tempo, il castello incantato si coprì di<br />

una fitta rete di rovi, tale da impedire a chiunque di penetrarvi.<br />

Dopo 100 anni un principe giunse al castello, e miracolosamente i<br />

rovi si aprirono dinnanzi a lui. Il principe trovò la principessa, e se<br />

ne innamorò a prima vista. Il suo bacio la risvegliò. Si sposarono e<br />

vissero felici e contenti.<br />

“Un Re ed una Regina”. Il padre e la madre del cammino di tutti gli<br />

uomini. Il Cielo e la Terra, il Sole e la Terra per esempio, sono<br />

147


gli antenati dell’umanità. Un Re ed una Regina perché l’essere<br />

umano dei primordi abitava nei mondi spirituali ed era Re.<br />

“Il bambino non veniva mai” perché loro pensavano come sovrani<br />

che rappresentavano il mondo antico, non potevano farsi un’idea di<br />

come sarebbe stato un mondo rinnovato.<br />

“E mentre la Regina un giorno faceva il bagno, ecco saltar fuori<br />

dall’acqua una rana”. La profezia di un mondo nuovo nell’umanità<br />

viene da quell’essere, la rana, che rappresenta la comunione con il<br />

mondo della terra ed il mondo dell’acqua, il mondo fisico ed il<br />

mondo eterico, perché la rana è un essere che vive proprio tra terra<br />

e acqua. Attraverso la profezia della rana viene detto al Re e alla<br />

Regina che il rinnovamento verrà dal terrestre, quando l’umanità<br />

deciderà di inserirsi sempre di più nel mondo della materia.<br />

Il Re e la Regina hanno dodici piatti d’oro che sono un cibo che<br />

discende dal Cielo, dalle gerarchie celesti dei dodici segni<br />

dello Zodiaco. Il Re e la Regina conoscono il cibo<br />

spirituale della chiaroveggenza atavica, ma ignorano la legge<br />

fondamentale dell’incarnazione per acquisire la libertà.<br />

“Mentre la Regina faceva il bagno” ( si mette in comunione con il<br />

mondo eterico) sente la voce della rana che rappresenta il mondo<br />

fisico-eterico: “Il tuo desiderio si compirà, prima che sia<br />

trascorso un anno darai alla luce una bimba”. E in questa fiaba<br />

che rappresenta tutta l’evoluzione umana- soprattutto nella sua<br />

chiave di svolta dei tempi- questo figlio del Cielo viene dall’alto e<br />

si incarna nel momento della profezia della rana.<br />

“La profezia della rana si avverò e la Regina partorì una bimba”. La<br />

Regina partorisce questo figlio del Cielo: Rosaspina l’anima<br />

umana, non lo spirito, non il corpo fisico. Ogni figura femminile<br />

nelle fiabe rappresenta un aspetto se non la totalità dell’anima<br />

umana, ogni figura maschile rappresenta un aspetto dello spirito<br />

umano: questo vale per tutte le scritture antiche dell’umanità.<br />

“Partorì una bimba”. Nell’ anima umana, che si incarna al<br />

momento della svolta dei tempi, i tesori del mondo spirituale vanno<br />

perduti ma grazie alla tredicesima fata che non è stata invitata c’è la<br />

profezia terribile che fa capovolgere il tutto.<br />

La chiave di svolta nel cammino dell’umanità di questo narra<br />

la fiaba.<br />

Si narra di una b i m b a c h e è la più bella che ci possa<br />

essere. E’ la più bella perché è “ l’anima umana” che porta a<br />

compimento tutto il significato del cammino di incarnazione,<br />

148


quindi ogni spirito umano, ogni principe se ne innamora.<br />

Nell’anima umana incarnata, addormentata al mondo<br />

spirituale perché si risveglia soltanto al mondo fisico, lo<br />

spirito umano vede la cosa più bella che ci sia perché<br />

l’esperienza della Libertà è il significato di tutta l’evoluzione.<br />

“Partorì una bimba tanto bella che il R e non capiva in sé dalla<br />

gioia ed ordinò una gran festa.”. Ecco l’esperienza della Bellezza:<br />

più bella questa bimba non potrebbe essere, e in questa Bellezza c’è<br />

la verità somma ed il bene sommo del cammino umano. Di<br />

fronte a questa bimba a questa anima umana ci si rende conto di<br />

essere di fronte alla totalità della Bellezza, della Verità, della Bontà<br />

dell’essere umano. Si scopre il senso globale del cammino<br />

dell’umanità.<br />

“Ed ordinò una gran festa”. Si fa festa perché l’essere umano è<br />

sceso nel mondo fisico per divenire conscio di sé.<br />

“Non invitò soltanto il parentado”; questa festa per la discesa nel<br />

mondo materiale è una festa che riguarda tutti gli esseri spirituali e<br />

la natura. Quindi devono essere invitate le fate che rappresentano<br />

tutto il mondo degli gnomi, delle ondine, delle silfidi delle<br />

salamandre.<br />

“Invitò anche le fate perché fossero propizie e benevole alla<br />

bimba”.<br />

“Nel suo regno ce ne erano tredici ma egli aveva soltanto dodici<br />

piatti d’oro per il pranzo e perciò una dovette starsene a casa”.<br />

In questo regno ci sono tredici fate, ci sono tredici forze che<br />

reggono il cammino dell’umanità. Dodici sono quelle che<br />

ricevono i piatti d’oro: l’insieme delle forze celesti dello Zodiaco<br />

che r e n d o n o l’essere umano capace di camminare eretto,<br />

parlare, percepire e pensare.<br />

Il Re e la Regina, conoscono soltanto ciò che è divino siccome<br />

rappresentano il passato dell’umanità, possono invitare soltanto<br />

dodici fate, le dodici fate che sono nel mondo elementare. Queste<br />

fate (secondo la Scienza dello Spirito) sono esseri molto reali che<br />

esistono anche oggi e che anche in questo momento compiono<br />

tutto il lavoro descritto nella fiaba e lo compiono in modo reale.<br />

Nelle fiabe nulla è inventato. In una vera fiaba è tutto verissimo e<br />

non soltanto oggi ma sempre, ogni minimo particolare è pieno di<br />

significato se non sono successe manipolazioni arbitrarie.<br />

149


Ecco perché la fiaba è la forma più alta di verità che ci<br />

sia. La fiaba racconta solo elementi che valgono e sono veri<br />

sempre e per tutti. Gli elementi individuali nella fiaba non ci<br />

sono, deve essere sempre universalmente valida. E nel bambino<br />

che ascolta la fiaba il lato specifico individuale non c’è ancora, ci<br />

sono quei tratti dell’essere umano che valgono per tutti. Così<br />

incontriamo la tredicesima fata che non è cattiva, anche se abbiamo<br />

sentito che a quindici anni la principessa si pungerà con il fuso e<br />

cadrà a terra morta. Erano tredici fate, non si dice dodici buone<br />

ed una cattiva, sono tutte buone; la differenza con la tredicesima<br />

sta nel fatto che non è stata invitata. La tredicesima non era prevista,<br />

il Re e la Regina non avevano considerato questo stravolgimento<br />

dell’evoluzione umana, dall’essere a casa nel mondo spirituale a non<br />

conoscerne più nulla. Questo non era previsto e quindi non la<br />

invitano.<br />

Invece la tredicesima fata è buona perché è proprio quella che<br />

porta la chiave dell’evoluzione, cioè l’incarnazione consapevole nel<br />

mondo fisico.<br />

“E perciò una dovette starsene a casa, nel suo regno ce ne erano<br />

tredici di fate ma egli aveva soltanto dodici piatti d’oro per il<br />

pranzo”. Quindi l’essere umano che disdegna la materia n o n<br />

v i e n e i n v i t a t o .<br />

Questa fiaba ci dice che il significato dell’evoluzione è l’apprendere,<br />

l’imparare da parte dell’uomo ad amare la Terra come il luogo di<br />

individuazione e di libertà interiore.<br />

“ La festa fu celebrata con gran pompa”. Finché non arriva la<br />

tredicesima, finché non subentrano i pasticci del mondo fisico,<br />

la festa è piena di pompa! Nel paradiso originale era una gran<br />

festa, i guai arrivano quando compare l’ individualità singola,<br />

identificata con la materia, la gran festa volge al termine e lo<br />

vediamo osservando il mondo in cui viviamo dove ognuno segue i<br />

propri impulsi volitivi.<br />

“La festa fu celebrata con gran pompa e stava per finire”.<br />

La tredicesima fata porta la fine della festa dei primordi.<br />

“Undici fate avevano già formulato il loro augurio quando<br />

improvvisamente giunse la tredicesima”.<br />

La tredicesima forza, quella che porta la svolta del tenebroso, del<br />

male -che invece è il bene- è il Sole che percorre tutti e dodici i<br />

segni dello Zodiaco. E’ una realtà nuova sono le forze dell’io<br />

che unificano i dodici impulsi.<br />

150


Le forze dell’Io hanno due lati fondamentali: uno solare, luminoso,<br />

e uno lunare, tenebroso. Anche la Luna percorre tutti e dodici i<br />

segni zodiacali e nella tradizione esoterica dell’umanità questo lato<br />

luminoso e tenebroso dell’Io vengono espressi dalle realtà<br />

fondamentali dell’Amore da un lato e dell’egoismo dall’altro.<br />

Quindi questa tredicesima fata, foriera di sventura, è colei che<br />

preannuncia lo sviluppo dell’Io in chiave di egoismo:” non si può<br />

arrivare alla seconda fase dell’evoluzione dell’Io e della libertà<br />

se prima non si è diventati se stessi.”<br />

“Questo è il mistero del tredicesimo, della tredicesima Fata” : La<br />

realizzazione della nostra autonomia.<br />

Ecco perchè la dodicesima che chiude il ciclo delle undici e quindi<br />

porta a compimento i dodici impulsi dell’evoluzione umana terrestre<br />

è soltanto in grado di dire: ”l’abisso del tredicesimo non si può<br />

togliere, ma lo si può mitigare.”<br />

Allora la profezia della tredicesima dice che a quindici anni, al<br />

momento del risveglio delle forze di rapporto con il mondo<br />

esterno, dove nasce anche la capacità di amore, Rosaspina<br />

morirà.<br />

“A quindici anni la principessa si pungerà con un fuso e cadrà a<br />

terra morta”. Questo fuso è il lavoro del pensiero lineare che<br />

produce (tesse) il filo del discorso. Tralasciamo tutta la tradizione<br />

freudiana e di Carl Gustav Jung che interpretano questi elementi<br />

della fiaba in termini di psicoanalisi. In chiave esoterica queste<br />

interpretazioni sono aspetti di una realtà c h e<br />

c o n s i d e r a l’essere umano quando era ancora capace di vivere<br />

dentro ai mondi spirituali e aveva impulsi volitivi molto più sicuri.<br />

La mano rappresenta gli impulsi volitivi, quindi pungendosi il<br />

dito, vengono paralizzate le forze della volontà dopo aver<br />

scoperto il pensiero logico-materiale.<br />

“Si pungerà con un fuso e cadrà a terra morta”. Il pensiero<br />

diventato fisico materiale fa morire l’essere umano spirituale,<br />

lo fa cadere dal Cielo sulla Terra. Da un lato questa bimba si<br />

unirà con le forze del pensiero che dormono e quindi conoscono<br />

soltanto il mondo fisico materiale, e dall’altro cadrà nella morte sulla<br />

Terra e perderà la vita del Cielo.<br />

“Senza aggiungere altro volse le spalle e lasciò la sala”. Il<br />

gesto di questa fata indica proprio come è ora il cammino<br />

umano che volge le spalle al paradiso dove ci sono il Re e la<br />

Regina. Ora l’evoluzione deve andare in un’altra direzione. Il capire<br />

151


sta nel volgere le spalle, ed il volere sta nel fare i passi, uscire<br />

dalla sala.<br />

“Fra la gente atterrita si fece avanti la dodicesima che doveva<br />

ancora formulare il suo voto. Annullare il crudele decreto non<br />

poteva ma poteva mitigarlo e disse-la principessa non morirà ma<br />

cadrà in un profondo sonno che durerà cent’anni-.”<br />

L’uomo che conosce solo il mondo materiale, che ha dimenticato o<br />

che addirittura nega i mondi spirituali è morto, se invece sa che<br />

esistono questi mondi spirituali e cammina per riconquistarli dorme<br />

soltanto e quindi potrà risvegliarsi. In altre parole la vicenda del<br />

mondo materiale è per chi non si risveglia la morte, per chi<br />

si risveglia nella libertà a riconquistare i mondi spirituali è<br />

stato un lungo sonno.<br />

Queste sono le due possibilità dell’evoluzione umana.<br />

Se però da questo sonno, poi dopo cent’anni, ci si risveglierà<br />

s a r à p er un’altra festa, di nozze questa volta.<br />

C’è una festa all’inizio e una festa alla fine della fiaba: la festa<br />

dell’inizio è la fine di un mondo che c’era stato prima, la<br />

festa della fine inaugura la seconda metà<br />

dell’evoluzione umana.<br />

“Il Re che avrebbe voluto preservare la sua cara bambina da quella<br />

sciagura ordinò che tutti i fusi del regno fossero bruciati”. Ma ne<br />

rimase solo uno giusto quello che c’era nel castello del Re e della<br />

Regina. Rosaspina gira per il castello a quindici anni: “lo girò in<br />

lungo e in largo per tutte le stanze”. “Giunse infine ad una vecchia<br />

torre. Salì la stretta scala a chiocciola”, “Nella serratura c’era una<br />

chiave arrugginita e quand’ella la volse si spalancò la porta di<br />

una piccola stanzetta”(ecco le forze pensanti). E “Una vecchia con il<br />

fuso filava alacremente il suo lino”.<br />

In questa fiaba è riassunto tutto il cammino dell’evoluzione<br />

umana ma soprattutto è descritto ciò che avviene nella svolta, nel<br />

trapasso da una condizione dei mondi spirituali dove l’essere umano<br />

non è ancora libero, e una dove invece, grazie all’inserimento nel<br />

corpo fisico, l’essere umano comincia a prendere in mano lui stesso<br />

la conduzione del proprio destino tramite il pensare proprio<br />

(processo del filare) .<br />

Questo è anche ciò che si ripete in piccolo ogni volta che un<br />

essere umano nasce: comincia facendo parte di un mondo che lo<br />

conduce dal di fuori, nel grembo materno fa parte di un altro<br />

152


essere, da bambino piccolo fa parte del mondo che lo circonda,<br />

non ha ancora impulsi propri perché non è capace di pensare<br />

ancora da solo. L’essere umano dovrà perdere questa conduzione<br />

dal di fuori per acquisire tramite il pensiero la capacità di gestirsi<br />

( con pensieri propri) da se stesso liberamente.<br />

Le dodici fate (con i loro piatti d’oro) portano in dono l’elemento<br />

solare all’anima umana che nasce, è i l dono del cosmo risultato<br />

di tutta l’evoluzione passata. Il piatto della tredicesima non c’è<br />

ancora, perché dovrà essere costruito nella seconda metà<br />

dell’evoluzione, avrebbe dovuto essere un piatto di diamante, non<br />

d’oro, in quanto “elemento della pietra filosofale” meta di tutto<br />

il cammino terrestre.<br />

Perché l’oro riassume il cammino delle forze del sole ma il<br />

diamante riassume tutte le forze evolutive dell’uomo sulla terra.<br />

A questo punto siamo in grado di comprendere l’ambiguità<br />

della tredicesima Fata.<br />

Bibliografia<br />

Rudolf Steiner: Opera Omnia-volume 158 (“Der Zusammenhang des<br />

Menschen mit der elementarischen Welt – Il rapporto degli esseri umani con il<br />

mondo elementare–” NdR).Pietro Archiati: Firenze, Convegno<br />

Artistico” La Fiaba” 17 Settembre 1992<br />

153


154


L’ambiguità di Pinocchio: fondamento di libertà e verità<br />

155<br />

Savino Roggia<br />

L’ambiguità ne Le Avventure di Pinocchio è palpabile,<br />

voluta ed evoluta. La riprova è che da 130 anni il naso e<br />

l’impiccagione del burattino, la fisicità di Mangiafoco come<br />

l’umanità soggiogata dall’Omino, hanno alimentato desideri di<br />

conoscerne il senso. E lo conferma la complessità narrativa e il<br />

simbolismo estremo con cui Collodi struttura l’ opera. Quasi volesse<br />

blindarne trama e significati perché scomodi o eretici: si sa,<br />

incoraggiare l’uomo a pensare in proprio è sempre stato una<br />

determinazione ad alto rischio. L’ambiguità di Collodi è uno stilema:<br />

conferma l’autore un colto esoterismo; ed è una scelta ispirata dal<br />

principio di realtà difficile da eludere che commenterò.<br />

Cos’è l’ambiguità?<br />

Per il dizionario 28 l’ambiguità implica la possibilità di una duplice<br />

interpretazione, per cui riferita a una frase riconduce a doppiezza,<br />

falsità; oppure, se attribuita al carattere di un soggetto, porta a<br />

qualificarlo irresoluto, perplesso. Per la filosofia 29, invece,<br />

l’ambiguità con valenza ontologica ed esistenziale - designa la<br />

situazione precaria della libertà umana, che aspira all’infinito, ma si<br />

scontra con la finitezza insuperabile dell’essere storico-mondano;<br />

oppure, che brama la pienezza di senso e si misura con<br />

l’insensatezza e l’assurdo. Per l’etimo 30 pure, l’ambiguità (dal latino<br />

amb-ago) ha come orizzonte il duale, suggerisce la possibilità di poter<br />

“spingere una cosa da due parti” e, per traslarlo, di “pensare in due<br />

sensi attorno ad una stessa cosa”.<br />

Collodi vi ricorre a piene mani quando si tratta di<br />

distinguere e mettere in positivo il profilo di mastro Geppetto quale<br />

icona dell’uomo creativo, scintilla divina in terra, il quale constatato<br />

28 Il DEVOTO-OLI, Il vocabolario della lingua italiana, Le Monier, 2009<br />

29 L’Enciclopedia della Filosofia, De Agostini, 1996, pag. 38<br />

30 Grande Dizionario Enciclopedico, UTET, 1984, pag.659


il degrado della società in cui vive decide di agire, di costruire<br />

Pinocchio e tramite lui dimostrare all’umanità che si può fare di più<br />

e meglio; e gli affianca l’etereo e fondamentale mastro Ciliegia quale<br />

soggetto rappresentativo dell’essere statico, amante del bianco o del<br />

nero, tifoso e non sportivo dello status quo. Il suo profilo umano si<br />

concilia poco con l’attivismo del viaggiatore. Pur essendo capace, si attarda a<br />

risolvere un problema: preferisce stare inattivo ad aspettare gli eventi in un<br />

esercizio di temperanza mal compresa. È l’uomo in perenne attesa che la sorte lo<br />

chiami all’azione. Ama poco tramare per un futuro più benevolo. Aspetta<br />

l’occasione: che il pezzo di legno gli caschi addosso per sistemare il tavolino che<br />

pur sa traballante. È un po’ il cittadino che nel bisogno aspetta che altri<br />

facciano. Non recita, né indossa la maschera di un tale personaggio, né ritorna se<br />

stesso fuori dalla scena: confonde la finzione con la realtà, le manifestazioni<br />

esteriori con quelle interiori, cui ogni galantuomo dovrebbe riferire le proprie<br />

scelte.<br />

Esprime la parte di umanità assente dalle vicende della collettività, intenta a<br />

coltivare il proprio orticello. È il coevo di Collodi che non si è curato del fuoco e<br />

delle ceneri lasciate dal Risorgimento. È il cittadino disattento ai<br />

condizionamenti della politica sulla società, forzato a preferire la quantità alla<br />

qualità e a confondere la finanza con l’economia e la tecnologia con la scienza. 31<br />

Per il resto il papà del burattino è poeta che va oltre la poesia: non<br />

pronuncia né canta 32, nomina con l’equilibrio figlio amato<br />

dell’ambiguità, cause ed effetti, vizi e conseguenze che potranno<br />

facilitare o ritardare la trasformazione del burattino a uomo.<br />

Quando invita Pinocchio a curarsi dal suo essere burattino,<br />

ad assume la medicina del lavorare su se stesso, porta in scena il<br />

Corvo, una Civetta e un Grillo parlante, per mostrargli attraverso i<br />

rappresentanti della medicina, della sapienza medica – che non esistono<br />

soluzioni alla paura perché, come ogni fobia, è l’espressione di una interiorità<br />

repressa e di un contesto favorevole al suo re. Il Corvo sta per scienza<br />

31<br />

Savino Roggia, Pinocchio ritrovato, la forza di riconoscersi burattino. Milano,<br />

Tecniche Nuove Editore, 2012 p.6<br />

32 Pronunciare o cantare significa modulare i suoni indipendentemente da<br />

quello che è il sentire del cantore.<br />

156


ancorata a leggende, è il medico che opera su tesi prive di evidenze (fu<br />

esploratore di terra emersa sull’Arca di Noè); la Civetta: è quella che esercita in<br />

virtù di conoscenze mediche ancorate a credenze, rappresenta l’irrazionalità di<br />

vivere la salute quale frutto di concessioni di entità superiori; e il Grillo-parlante,<br />

che pur strazia entrambi, è fuorviante: la sua medicina più che essere scienza e<br />

coscienza esalta e punta tutto su quest’ultima, tra l’altro concepita in modo<br />

erroneo! 33 E Collodi si ripete quando incoraggia Pinocchio a<br />

sublimare il suo egoismo in altruismo, quindi in Carità: trasla<br />

l’intento attraverso un asino il quale piange a dirotto proprio come un<br />

ragazzo incompreso. Pinocchio deve capirne il senso. Deve affrontare e svegliare<br />

in sé una nuova esperienza, quella dell’abnegazione, dell’altruismo… 34 E per<br />

praticarla non dovrà badare al costo: subordinerà i propri interessi a<br />

quelli dell’altro, fino ad uscirne anche straziato appunto come il<br />

ciuchino del carro dell’Omino il quale per impedire a Pinocchio di<br />

recarsi nel Paese dei Balocchi si insacca e gli rifila una musata nello<br />

stomaco affinché rinunci al viaggio. 35 Insomma lo atterra e ne paga le<br />

conseguenze incassando dall’Omino un bacio-morso da portandogli<br />

via le orecchie, il dono dell’udito. Per il senso che nulla è penoso<br />

come la richiesta di un servizio, nulla è bello come prevenirlo, e se<br />

lasci che altri chiedano, arriverai sempre tardi. 36<br />

Pure quando Collodi sente il bisogno di allertare il mondo<br />

sul vizietto del farsi plagiare ricorre a una metafora, alla grande<br />

risata di un grosso Pappagallo. Questi, da sopra un albero…<br />

mentre gli amplifica l’esito dell’ultima esperienza [il campo dei miracoli], ne<br />

attenua la virulenza: aveva poco da ridire, visto che anche lui al solito si<br />

spollinava le poche penne che aveva addosso, ovvero ripeteva<br />

petulante fino alla noia e al rigetto tutto quanto aveva imparato, senza alcun<br />

guizzo creativo, al primo cenno del padrone. Tanto che preso di petto da<br />

Pinocchio: «Perché ridi?», risponde: «Rido, perché nello spollinarmi<br />

33.Ibid., p.131-132<br />

34 Ibid., p.256<br />

35 Ibid., p. 254<br />

36 Irène Mainguy, Simbolica dei Capitoli nella Massoneria, Ed. Mediterranee,<br />

Roma, 2007, pag. 12<br />

157


mi sono fatto il solletico sotto le ali», ovvero rido, giudico e<br />

apro il becco ancor prima di pensare, anzi di non pensare perché ne<br />

sono dispensato: a queste noie ci pensano altri, chi mi dà il<br />

becchime e chi è deputato a farlo. Un pappagallo che si distingue nel<br />

gargarizzare tutto quanto riferisce, evoca il chiacchiericcio insipido<br />

della ripetizione inutile e sterile, espressione della parola vuota. 37<br />

Altresì, l’ambiguità collodiana lievita ad attributo<br />

comunicativo finalizzato ad alzare confini, tra Pinocchio e i<br />

monelli,… poco edotti in materia di diritti. Pinocchio, per il fatto di essere<br />

l’ultimo arrivato, indipendentemente da quello che è, potrebbe essere e potrebbe<br />

fare, deve subire le prevaricazioni del gruppo, del più forte. Ogni allievo, ogni<br />

futuro cittadino, tanto per ridere, si arroga ogni sorta di arbitrio: chi gli<br />

manomette il berretto di mollica, chi il giubettino e chi lo stesso viso. Tentano di<br />

cambiargli l’identità arricchendogli il viso con grandi baffi. Provano pure a<br />

impedirgli la libertà di andare e di fare, legandogli i piedi e le mani per farlo<br />

ballare. Oppure ad abbattere il muro, a realizzare il consenso tra l’Io<br />

e l’Altro tra Pinocchio e Alidoro. …Finalmente maturata la<br />

trasformazione, alle ripetute e strazianti invocazioni «Pinocchio mio!...<br />

salvami dalla morte!...» rientra in azione la coscienza, questa volta<br />

sfoggiando pietà e compassione per il destino dell’altro. Nessun uomo può restare<br />

inerme davanti a un elemento del creato che chiede aiuto. Andrebbe contro<br />

natura! Per Pinocchio sarebbe come aver rinunciato a essere uomo prima di<br />

diventarlo. Quindi risponde e lo fa alla sua maniera, impostando una specie di<br />

trattativa. Pretende, una volta fuori pericolo, che il can-mastino si ravveda e che<br />

la smetta di essere fedele al suo padrone, all’istinto, suo re. Pinocchio, da passivo,<br />

non solo si fa soggetto attivo capace di ragionare e portare in acqua Alidoro: si<br />

erge pure a suo maestro di vita. Alidoro, meschino, non ha argomenti da<br />

contrapporre se non quelli di salvarsi e in fretta. Pur di essere fuori<br />

pericolo prometterebbe tutto. Pinocchio è titubante… però decide di levarlo<br />

dall’impiccio, perché «a fare una buona azione non ci si scapita<br />

mai». 38<br />

L’indeterminatezza dell’elevare confini e abbattere muri non<br />

solo promuove la riflessione sulla libertà di mettersi, rimettersi o<br />

37 Ibid., p.155<br />

38 Ibid., p. 224<br />

158


mettere Alidoro in viaggio libero tra pari, ma anche il dovere di<br />

farsi volta d’acciaio affinché il senso indicibile della storia e delle<br />

storie del burattino resti protetto dalle ingiurie del tiranno,<br />

dell’ignoranza. Ragion per cui Pinocchio… Dedica le ore serali alla sua<br />

passione, a informarsi e formarsi. Si rifà a un corposo e poco costoso libro, la<br />

soglia obbligata per accedere alla conoscenza del sacro e del profano, della<br />

memoria individuale e collettiva, e quindi dell’universo in quanto espressione<br />

della rivelazione e del verbum di Dio, trasmessi per guidare gli uomini verso la<br />

comprensione del suo regno. È un tomo aperto la cui lettura avanzata riferisce<br />

“sappi che al disopra di te c’è un occhio che osserva, un orecchio che ascolta e un<br />

libro in cui tutte le tue azioni sono scritte”. Quel volume manca di frontespizio,<br />

ovvero del titolo, dell’autore e dell’editore: è il libro eterno della Tradizione; ed è<br />

privo dell’indice, dell’imprimatur dell’autorità vigile e tiranna. 39<br />

39 Ibid., p.306-307<br />

159


E quando la verità si fa ineludibile e l’ambiguità mostra i<br />

suoi limiti, Collodi attinge a piene mani al simbolo 40. Di quelle<br />

autorità vigile e tiranna dice quello che deve dire, da perfetta e giusta<br />

sentinella di nuvole e tormente, le nomina con i colori del<br />

simbolismo e del rispetto e le vela tra i ciuchini del carro guidato<br />

dall’Omino, diversi nel pelo ma simili nel vizio. Ci sono i bigi, fumosi e<br />

cinerei; i bianchi, spirituali intenti a mirare le nuvole; oppure i brizzolati,<br />

determinati al compromesso pur di togliere dalle difficoltà il traino; infine ci sono<br />

quelli a strisce gialle e turchine, capaci di diffondere luce, calore (giallo del sole) e<br />

fiducia, per cui mentre chetano le passioni bruciano l’uomo. 41 E non solo<br />

perché ne presagiva le conseguenze: infatti, i re del Risorgimento -<br />

ormai non più belligeranti -, non tardarono a mettere la diletta<br />

umanità in livrea color notte e forzare i figli della Vedova tra le<br />

braccia di Morfeo. Ma perché la verità è figlia del tempo. Nessuno<br />

può ancorarsi ad essa fino all’arroganza. E poi, parola del Grillo<br />

parlante già colpito in quanto rappresentante della coscienza<br />

omologata: quando si ha ragione da vendere ci sono modi e modi per<br />

manifestarla e difenderla. Non è con le martellate, con gli insulti o con le urla<br />

che si cambia il mondo. Nel possibile bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se<br />

vogliamo essere ricambiati con pari cortesia nei giorni inevitabili della caduta. 42<br />

Un pizzico di bugia allontanerà dalla verità, ma apre alla speranza,<br />

40 Simbolo, alla lettera designa un oggetto di riconoscimento ottenuto<br />

spezzandolo in due frammenti. Ovvero, due persone che, allontanandosi,<br />

avessero voluto un giorno riprendere il dialogo sarebbe bastato esibire e<br />

ricongiungere le due metà. Diversamente simbol designa pure diabolos, il suo<br />

opposto, il quale nelle funzioni di aggettivo significa calunnioso,<br />

denigratore, detrattore, mendace, mentre da sostantivo maledicente,<br />

calunniatore e, quindi, diavolo. Ecco il retroscena storico-etimologico per<br />

cui tutto quanto è riconducibile al linguaggio simbolico evoca la ricerca<br />

della parte corrispondente, rinvia ad un’altra realtà, non decisa da<br />

convenzione, ma dalla ricomposizione di un intero.<br />

41 Savino Roggia, Pinocchio ritrovato, la forza di riconoscersi burattino. Milano,<br />

Tecniche Nuove Editore, 2012 p.251.<br />

42 Ibid., p.302<br />

160


alla possibilità che la realtà si riordini per meglio contenerne gli<br />

effetti, soprattutto quando essa è cruda e buia.<br />

161


162


163<br />

Dell’ambiguità in politica<br />

Sergio Soave<br />

A differenza di quello che si può pensare, l'ambiguità in politica, ove<br />

non sia menzogna spudorata alla quale spesso e' spregiativamente<br />

assimilata, può essere classificata addirittura come una virtù da<br />

praticare attentamente nell'esercizio di questa fondamentale attività<br />

umana. E ciò sia in politica interna, nei rapporti con il proprio<br />

elettorato, il proprio partito e i propri alleati, sia nei rapporti<br />

internazionali.<br />

Il modello insuperato di ambiguità della comunicazione (e il<br />

linguaggio politico e' finalizzato alla comunicazione) fu quello della<br />

Sibilla cubana, che riuscì a mantenere intatta la sua credibilità per<br />

tutta la vita, aggirando con superiore intelligenza e perspicacia la<br />

credulità e la insicurezza del vivere dei suoi interlocutori . L'"Ibis<br />

redibis non morieris in bello" , di norma recapitato ai guerrieri<br />

partenti, aveva un significato opposto a seconda che si mettesse una<br />

virgola prima o dopo il "non". E poiché talora pronunciava la<br />

sentenza a bassa voce, la percezione della pausa, ricercata con<br />

spasmodica attenzione, determinava nei richiedenti l'oracolo e nei<br />

loro famigliari presenti ottimismo o disperazione. Ma tale e tanto e'<br />

nell'uomo il desiderio di conoscere il proprio destino e di<br />

rassicurarsi psicologicamente su ciò che ha di più caro, cioè la vita,<br />

che la corsa a chiedere un responso non finì mai, quali che fossero le<br />

smentite della storia. Ché anzi, quando le cose non andavano<br />

secondo quanto si era compreso avesse preconizzato la Sibilla o<br />

altro indovino, sempre, tra i congiunti dell'interessato, qualcuno si<br />

alzava a spiegare che lui l'aveva detto e che si era stati stupidi a non<br />

capire che il senso delle parole dell'oracolo non era quello che si era<br />

inteso e che aveva determinato le scelte più importanti della propria<br />

esistenza<br />

Nel che sta l'origine della fortuna dell'ambiguità perché non c'è<br />

verità che ci convinca di più di quella cui abbiamo deciso di credere,<br />

in qualunque modo ce la si comunichi. E di questo, chiunque abbia<br />

a che fare con la difficile arte della comunicazione tra uomini dovrà<br />

tenere massimo conto.<br />

Una esemplificazione più moderna di questo concetto ce l'abbiamo<br />

qui vicino, a Savigliano. Come e' noto vi morì Carlo Emanuele I.


Benché fosse re guerriero, di fronte alle insistenze del papa perché<br />

partecipasse a una delle ultime crociate, ebbe presentimenti negativi<br />

che lo convinsero a rifiutare. Interpretando una terzina di<br />

Nostradamus, lettagli da una indovina di corte, credette infatti di<br />

capire che un accenno all'incontro con la morte sulla via di<br />

Gerusalemme fosse indirizzato alla sua persona. Rimase dunque<br />

nella sua terra e, dimorando per un certo tempo a Savigliano, vi<br />

morì. Una delle finestre del salone ove emise l'ultimo respiro<br />

guardava su quella che ancora oggi e' via Jerusalem.<br />

Insomma, interferendo con i desideri, le cognizioni, le tensioni del<br />

soggetto che la riceve, la comunicazione finisce per assumere<br />

significati variabili ed e' quindi, in s'è, ambigua.<br />

Quando poi vuole esserlo di proposito, le cose si complicano,<br />

sopratutto in politica.<br />

E sopratutto a partire dall'introduzione del suffragio universale<br />

come forma ordinaria della<br />

selezione dei gruppi dirigenti locali e parlamentari.<br />

Infatti, da quando la politica deve fare i conti con il consenso,<br />

l'ambiguità si e' insediata come regina del suo linguaggio.<br />

Non per caso, Gaetano Mosca, fondatore della scienza politica in<br />

Italia e senatore del Regno, quando fu proposto di estendere il<br />

diritto di voto a tutti i cittadini italiani maschi, nel 1911, si schierò<br />

immediatamente tra i fermamente contrari.<br />

Se la misura della fortuna di un uomo politico e' il consenso -<br />

ragionò il professore - egli cercherà in ogni modo di rivolgersi in<br />

maniera differenziata e cioè ambigua a gruppi differenziati di<br />

elettori. Con gli uni che gli parranno favorevoli si sentirà di<br />

esprimere tranquillamente la propria opinione, con altri, incerti,<br />

complicherà il discorso in modo tale che molti possano credere di<br />

poter concordare con lui, ecc. ecc. A prevalere non sarà più<br />

l'interesse dello Stato, ma quello dell'individuo che lo rappresenta<br />

nelle istituzioni. La demagogia vestita di ambiguità dominerà su<br />

tutto.<br />

Questo movimento delle cose che Gaetano Mosca portava talora al<br />

paradosso esemplificativo, non e' da credere che valga solo in senso<br />

negativo. Citerò qui alcuni casi clamorosi di ambiguità politica che<br />

contraddicono la certezza dell'assunto, anche se ne confermano la<br />

fenomenologia.<br />

Come si sa, Franklin Delano Roosevelt, sul finire degli anni '30,<br />

aveva intravisto con lucidità che il nazismo avrebbe portato a una<br />

164


nuova guerra e sapeva d'istinto da quale parte avrebbe dovuto<br />

schierarsi l'America per difendere i propri valori e riprendere (come<br />

infatti avverrà) quell'egemonia economica sul mondo che la prima<br />

guerra mondiale aveva già sanzionato e la crisi del '29 interrotto. Ma<br />

il presidente americano sapeva anche che il suo popolo era in<br />

stragrande maggioranza contrario a intervenire e che, alle elezioni<br />

dell'autunno 1940, avrebbe vinto nettamente la linea<br />

dell'isolazionismo ( lasciamo che gli europei si scannino come<br />

vogliono, dal momento che quando siamo corsi ad aiutarli non ci<br />

hanno nemmeno ringraziato - ed era vero - e, anzi, erano stati i<br />

responsabili veri della crisi del '29 - ed era falso -). Tra parentesi,<br />

anche Obama oggi da' la colpa della crisi agli europei, quando sa<br />

benissimo che e' nata in casa sua. Ma, in campagna elettorale,<br />

presentarsi come vittima di un nemico esterno paga sempre.<br />

Tornando a Roosevelt, sapeva dunque che l'isolazionismo era<br />

contrario agli interessi dell'America, ma non poteva dirlo. Iniziò<br />

così ad esercitare una abile operazione di ambiguità pilotata. Giurò<br />

più volte che non avrebbe mai e poi mai mandato i suoi giovani a<br />

morire per l'Europa. Quando gli si rimproverò di aiutare gli inglesi,<br />

fece il famoso discorso del caminetto, in cui chiese ai suoi<br />

concittadini che cosa avrebbero fatto se un vicino di casa, anche non<br />

troppo simpatico, vedendosi bruciare la casa si fosse rivolto a loro<br />

per chiedere semplicemente di attaccarsi al loro pozzo d'acqua. Tutti<br />

sentirono che non avrebbero potuto sottrarsi al dovere di aiutarlo e<br />

cosi il presidente segnò un punto a proprio favore. Contro coloro<br />

che paventavano l'insolvibilità dell'Inghilterra, inaugurò il sistema<br />

cash and carry , per far vedere all'opinione pubblica che, per ritirare<br />

il materiale bellico, gli inglesi dovevano pagare subito e quindi non si<br />

sarebbe ripetuto il fenomeno dei beni no pagati. Mandò navi in<br />

mezzo all'Atlantico, sperando che i nazisti le affondassero e, quando<br />

accadde,conquistò ai suoi disegni una gran parte di coloro che<br />

diffidavano di lui. Insomma, sempre sostenendo pubblicamente<br />

l'isolazionismo, operò in tutti i modi perché avvenisse il contrario.<br />

Tanto che, se e' ormai chiaro che a far fallire le trattative<br />

diplomatiche con i giapponesi nel 1940-41 furono gli americani<br />

(altro frutto dell'ambiguità rooseveltiana) non e' ancora chiaro oggi<br />

se Pearl Harbour non sia stata una trappola abilmente montata dagli<br />

americani per potere, una volta attaccati e colpiti, dichiarare quella<br />

guerra che Roosevelt voleva. E in ogni caso, si badi, a dimostrare<br />

che entrava in guerra per necessita evidente, ma non per<br />

165


convinzione, il presidente americano dichiarò guerra solo al<br />

Giappone e non a Germania e Italia. Furono queste ultime che lo<br />

tolsero definitivamente di impaccio, affrettandosi, loro, a dichiarare<br />

guerra agli Usa per fedeltà ai patti siglati con i giapponesi.<br />

Ora, si può dire che Roosevelt fosse uno spergiuro, un ingannatore,<br />

un bugiardo uno che, insomma, non merita alcuna fiducia, come<br />

oggi si ritiene per qualsiasi politico nostro? Evidentemente no, tant'è<br />

che viene ancora oggi considerato come l'ultimo grande presidente<br />

americano.<br />

Ma allora bisogna riconoscere che l'ambiguità in politica, quando<br />

quotidianamente si deve tener conto del consenso dei cittadini, può<br />

essere un'arma nobile se la si usa per una buona causa. Lo<br />

riconoscono persino gli americani che hanno un concetto di verofalso<br />

un po' più rigido del nostro. Possiamo dubitarne noi, figli ed<br />

eredi di Machiavelli ?<br />

Del resto, Roosevelt non fu il solo. Anche l'imperatore giapponese,<br />

il divino Hirohito che essendo considerato dai giapponesi una sorta<br />

di divinità non poteva, per definizione, mentire, fu costretto ad un<br />

atto di ambiguità decisiva. Come si sa, per quel popolo, non esiste<br />

concettualmente la parola resa. Fino a una decina di anni fa si<br />

trovavano ancora, nel fitto di qualche giungla asiatica, vecchi<br />

giapponesi che credevano naturale resistere, a cinquant'anni dalla<br />

fine del conflitto, e ciò per non cadere in contraddizione con la<br />

propria coscienza. Questo atteggiamento era stato causa di molti<br />

problemi. Quando già in Europa tutti i festeggiamenti per la fine<br />

della guerra erano stati fatti, nessuno in Giappone si sognava di<br />

arrendersi. Sulla base della precedente esperienza, gli americani<br />

calcolarono che ci sarebbero voluti parecchi mesi e almeno 170 mila<br />

soldati USA morti, prima di arrivare a Tokio. Fu allora che, con un<br />

calcolo cinico, decisero di sganciare le due bombe atomiche su<br />

Hiroshima e Nagashaki. Ma nemmeno di fronte all'incredibile<br />

potenza atomica (e sul fatto che potesse essere usata contro<br />

popolazioni inermi si discusse e si discuterà ancora a lungo) i<br />

giapponesi pensarono di arrendersi. Ci dovette pensare per loro<br />

l'imperatore Hirohito che, benché rispondesse a una logica divina,<br />

aveva conservato un minimo di senso della realtà. L'imperatore<br />

preparò dunque, incidendolo su due nastri radiofonici, un discorso<br />

di resa nel quale la fatidica parola "resa" non veniva mai<br />

pronunciata. Lunghe e complesse circonlocuzioni cercarono di far<br />

capire ai giapponesi che la situazione era disperata e che per il bene<br />

166


della nazione sarebbe stato opportuno trattare con gli americani<br />

per una ragionevole conclusione del conflitto, come si era fatto,<br />

quattro anni prima, per evitarlo. Nel discorso non c'erano, insomma,<br />

ne' la parola "resa", ne' la parola "sconfitta". Ciò non bastò, tuttavia,<br />

per impedire a un gruppo di colonnelli che, grazie si servizi segreti,<br />

ne avevano avuta notizia, di entrare a viva forza nella stazione radio<br />

centrale e di rubare il nastro, accusando i redattori di alto<br />

tradimento. Per fortuna, rimaneva un nastro duplicato che<br />

l'imperatore fece infine trasmettere. E la guerra finì, senza che i<br />

giapponesi potessero avere chiara la sicurezza di averla perduta.<br />

Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi. Del resto, a poco più<br />

di metà della guerra, il capo del governo italiano, gen. Badoglio,<br />

aveva superato tutti in ambiguità con il suo proclama dell'8<br />

settembre. Chi non avesse ancora capito che cosa significa in<br />

politica l'ambiguità può andare a leggerlo.<br />

Il primato della ambiguità, da noi equamente condiviso con i popoli<br />

arabi, ebbe del resto altre sublimi esemplificazioni in tempo di pace,<br />

quando, privi ormai di alcuna autonomia in politica estera, i governi<br />

italiani si contraddistinsero per ritagliarsi spazi che i nostri alleati<br />

americani non gradirono. Essendo noi in mezzo al mediterraneo e<br />

combattendosi il conflitto arabo-israeliano alle porte di casa nostra,<br />

per molti anni fummo ufficialmente amici degli israeliani, ma non<br />

rompemmo mai i rapporti non solo con i paesi arabi, ma con gli<br />

stessi rappresentanti del Fronte nazionale di liberazione di Yasser<br />

Arafat che, fino a un certo momento, era considerato un noto<br />

terrorista internazionale. Quanto al rapporto con i comunisti che,<br />

combattuti a viso aperto furono abilmente utilizzati per relazioni<br />

diplomatiche e di interesse con l'URSS (vedi il caso Togliattigrad e le<br />

reti di fornitura del gas) l'ambiguità reciprocamente utile fu molto<br />

alta. Nell'uno e nell'altro caso, si distinsero politici di primo piano<br />

come Andreotti e Moro. Il primo era il più conosciuto e apprezzato<br />

ministro degli Esteri del mondo. Nelle sue visite all'ONU, veniva<br />

costantemente circondato dai rappresentanti di tutti i paesi del terzo<br />

mondo, normalmente legati a relazioni internazionali differenti e<br />

opposte, ma per Andreotti ugualmente amici. Quanto a Moro, basta<br />

leggere le memorie di Kissinger, per capirne il grado di abilità<br />

diplomatica e di ambiguità. Il segretario di Stato americano usciva<br />

regolarmente irritato da riunioni e incontri confidenziali nei quali il<br />

nostro capo del governo cercava di incrinare la grezza linearità dei<br />

suoi comportamenti e delle sue visioni con una superiore finezza<br />

167


analitica, nella quale l'uso accorto dell'ambiguità aveva un ruolo<br />

evidente.<br />

Insomma, se non si fa conto del valore dell'ambiguità, si rischia di<br />

non capire molto dei movimenti della politica. Far credere una cosa<br />

e pensarne un'altra e' operazione costante dell'etica politica. Ciò che<br />

e' conveniente ai fini del consenso conta più di ogni altra cosa.<br />

Nella doppia veste di storico e di facente funzione di politico,<br />

conosco bene la difficoltà della decifrazione . E siccome per<br />

temperamento io non sono portato all'ambiguità anche se non sono<br />

immune dal peccato, mi trovo spesso a chiedermi come gli storici<br />

futuri (storici locali modesti - s'intende - ma perciò più sprovveduti),<br />

applicando il principio di ambiguità come elemento inevitabile della<br />

politica, decifreranno certi miei discorsi o atti, che io so essere stati<br />

assolutamente sinceri e lineari. E viceversa.<br />

Che Dio me la mandi buona, come si suol dire. Del resto con<br />

l'esercizio delle due professioni ho campato decentemente una<br />

famiglia, cercando di non far male a nessuno.<br />

E le valutazioni future, giuste o sbagliate, non mi sottrarranno al<br />

comune destino di tutti: quello del più o meno lento risucchio<br />

nell'oblio.<br />

168


aut Ciro aut Solone. Le forme delle leggi dell'ambiguità<br />

politica dopo Darwin<br />

169<br />

Piero Flecchia<br />

Di conoscenza è difficilissimo percepire l'invisibile misura, che è la sola a<br />

disporre dei termini di tutte le cose. - Solone<br />

Proprio come i teologi e i preti di tutte le fedi, anche i politologi e<br />

soprattutto i politici d'ogni orientamento tra il reazionario, via<br />

passando per il democratico fino al rivoluzionario, sembrano<br />

determinati a non ripensare le forme del loro sapere alla luce della<br />

rivoluzione darwiniana. Darwin, se avrebbe dovuto insegnare ai<br />

primi che l'origine della specie sapiens sapiens precede l'origine di<br />

dio: che ne è una delle cospicue invenzioni tecniche affondate nel<br />

fantastico; ai secondi dovrebbe insegnare che l'azione politica è<br />

delimitata e determinata da vincoli fondati nella natura, solo tenendo<br />

conto dei quali sarà forse possibile evitare l'incombere ciclico di<br />

drammatiche crisi, come ciclicamente conoscono le forme<br />

organizzative politiche delle società umane - una delle quali crisi noi<br />

italiani stiamo vivendo - e che si possono concludere anche con la<br />

disintegrazione e la scompara anche di grandi spazi politici<br />

aggreganti, come racconta in modo clamorosamente evidente il<br />

collo dell'impero romano.<br />

Oggi, nel sentire comune politica e teologia: come sono<br />

universalmente determinate dal sapere dottrinario egemone, stanno<br />

in un rapporto strutturale rovesciato, rispetto al reale.<br />

Nel sapere convenuto, malgrado il duro insegnamento dei fatti<br />

politici, come formalizzato in modo chiaro fin dal XV secolo dal<br />

Machiavelli, si continua a ritenere la (buona) politica discendere dalla<br />

morale, e la morale emanata dalla religione. Ne consegue che la<br />

politica discende dalla religione, allontanandosi e separandosi dalla<br />

quale smarrirebbe la sua funzione di regolatore positivo di un<br />

gruppo umano.<br />

Questa è l'interpretazione della politica che propongono papi imam,<br />

rabbini e bramini vari; e ritroviamo pari pari nelle mitografie dei capi<br />

delle nazioni, a discendere dal giuramento di fedeltà al suo popolo<br />

del presidente USA, e imperante nell'assemblea dell'ONU.


Nell'ordine del reale le religioni, per usare una massima illuminante<br />

latina, non sono altro che instrumentum regni. Detto in demotico,<br />

un mezzo per legittimare localmente la forma di governo<br />

comunitario organizzato intorno a uno specifico potere politico, i<br />

cui errori verranno poi imputati a corruzione umana, non essendo<br />

concepibile che corrotto sia il valore fondativo religioso.<br />

Un valore religioso che, trasformato in etica per la mediazione delle<br />

varie metafisiche, rimane valore fondativo anche in mondi sedicenti<br />

laici, e lo rimarrà, fin quando la riflessione laica sulla politica non<br />

porrà al centro il ruolo della natura.<br />

Vediamo quindi di ricapitolare brevemente i fondamenti della<br />

politica naturale quale, a discendere da Darwin, la ricerca di<br />

antropologi ed etnologi ha ricostruito nel XX secolo.<br />

I. La riproduzione per la via sessuale della vita, in quanto<br />

presuppone la coppia maschio femmina e un loro necessario<br />

contatto stabile per la procreazione, orienta le forme viventi verso<br />

un destino sociale, che si svilupperà per gradi fino alla complessità<br />

della vita di gruppo delle comunità dei mammiferi superiori e di<br />

alcune specie di corvidi.<br />

Dalla riproduzione sessuale discende un fatto decisivo: la differenza<br />

naturale universale tra individui della stessa specie, a partire dalla<br />

differenza naturale più rilevante: quella tra maschile e femminile. Ma<br />

non c'è poi maschio uguale a un altro maschio e femmina uguale a<br />

un'altra femmina, in ragione, oggi sappiamo, dello scambio di geni<br />

tra maschio e femmina, nell'ovulo fecondato che avvia ogni nuova<br />

vita.<br />

Ogni società naturale è quindi composta da esseri di una stessa<br />

specie tra loro diversi come individui, in ragione di un diverso<br />

patrimonio genetico, ma diversi anche in ragione di un'altra<br />

fondamentale differenza, questa esterna, e che determina in modo<br />

rilevante l'esistere formale di un gruppo sociale, quanto più ne<br />

acquista coscienza, attraverso l'elaborazione simbolica del dato<br />

naturale tempo.<br />

Dopo l'accoppiamento sessuale, la cura parentale di gruppo degli<br />

inetti è il secondo segmento della socialità naturale di gruppo; che si<br />

integra con gli altri due elementi forti del processo di socializzazione<br />

di ogni branco animale: la difesa solidale tra gli individui conspecifici<br />

del gruppo e la collaborazione per il cibo.<br />

170


Ogni società naturale si costruisce intorno a queste quattro<br />

funzioni di socializzazione universali: la relazione sessuale, la cura<br />

parentale, l'autodifesa di gruppo, la collaborazione per la ricerca del<br />

cibo.<br />

La percezione delle differenze legate al trascorrere del tempo, ha poi<br />

indotto, ma in una fase di ormai incombente processo di<br />

separazione dal grembo naturale, la specie del sapiens sapiens a<br />

suddivide, entro ogni sua comunità, i singoli individui in classi di età,<br />

tra l'infanzia e la senilità, in modo altamente formalizzato.<br />

La politica prende forma in ogni gruppo sociale naturale come<br />

iniziativa dei singoli individui per accedere al sesso, al cibo, alla<br />

sicurezza, la cura parentale una variabile subordinata, a discendere<br />

dalla funzione materna.<br />

E la comprensione della forma del determinarsi universale dello<br />

spazio politico nelle società naturali si raggiunge intorno a una<br />

struttura comune a tutte le specie sessuate superiori sociali: il duello<br />

di gerarchia, che determina universalmente, nelle specie sociali<br />

evolute, l'accesso al sesso. Ne consegue che, se la copula è la forma<br />

archetipica prima della relazione sociale, ma è una socialità naturale<br />

che procede oppostamente rispetto alla socialità culturale elaborata<br />

dal sapiens sapiens: che è socialità includente.<br />

La socialità naturale si fonda come processo ad escludendum, ergo<br />

aprendo una forte contraddizione tra socialità di gruppo e<br />

collaborazione tra individui del gruppo.<br />

Vediamo il fatto nel concreto<br />

Ogni femmina in estro attira i maschi maturi, che si affrontano in<br />

tornei violenti, solo il cui vincitore potrà accoppiarsi e generare. Ma<br />

questi duelli diverrebbero mortali, se molto più che un principio di<br />

embrionale forma di razionalità non guidasse i soccombenti a ritrarsi<br />

dal conflitto, e individui meno forti ad evitare il conflitto.<br />

In natura, nelle specie sociali più evolute: scimmie antropomorfe,<br />

lupi, leoni, i vincitori dei duelli di gerarchia per l'accesso alle<br />

femmine in estro assumono anche la funzione di capo branco, la cui<br />

funzione intervenire nei contrasti tra individui e bloccarli, affrontare<br />

individui di specie predatrici, e anche guidando lo scontro con<br />

branchi di individui conspecifici che insistano sullo stesso territorio<br />

di caccia, o raccolta alimentare.<br />

I capibranco sono dei veri leader politici naturali, che restano tali fin<br />

quando non sono affrontati e sconfitti da altri animali emergenti,<br />

171


quasi sempre maschi maturati dentro il branco, o quando il branco<br />

ha la forma dell' harem, in quanto il maschio dominante scaccia ogni<br />

altro maschio sessualmente maturo (società dei leoni), da individui<br />

conspecifici introdottisi nel branco.<br />

Ovviamente la socialità naturale conosce un'ampia gamma di<br />

soluzioni di organizzazione politica dello spazio sociale di gruppo.<br />

Un esempio di soluzione originale è quello delle società matriarcali<br />

elefantesche, che allontanano i maschi sessualmente maturi, le<br />

femmine solo quando in estro accettano di essere avvicinate dal<br />

maschio.<br />

Quello che qui ci preme sottolineare è che nella società naturale<br />

esiste uno spazio della politica organizzato sul principio di gerarchia,<br />

intono ai duelli tra aspiranti alla caperia, e il cui risultato è la società<br />

naturale, la cui descrizione semplificata classica è la sua<br />

rappresentazione secondo il modello del cosiddetto ordine di<br />

beccata, che descrive l'ordine di accesso al cibo, ma anche al sesso.<br />

Nell'ordine di beccata, espressione mutuata dalla socialità pollesca,<br />

dove il fenomeno fu individuato per la prima volta chiaramente –<br />

ma l'ordine di beccata regola ferreamente anche le evolute società<br />

cortigiane delle grandi regalità - un animale alfa ( il gallo che canta<br />

nel pollaio, il re nella corte) prevale su tutti i beta e i beta sui gamma,<br />

fino a discendere agli omega, ma al di sotto dell'animale alfa si<br />

hanno anche situazioni complessamente contraddittorie, per cui un<br />

beta può ubbidire a un delta.<br />

Ma c'è di più. Nelle specie sociali evolute, lo spazio della politica<br />

naturale si articola, e non occasionalmente, intorno al principio di<br />

coalizione. Spesso due leoni maschi stringono un patto e<br />

aggrediscono il maschio dominante di un branco scacciandolo, e poi<br />

governano in condominio. Lo stesso agire politico naturale raffinato<br />

gli etologi hanno constatato in gruppi di scimmie antropomorfe.<br />

Spesso accade che poi i coalizzati, giunti al potere, si scontrino, e<br />

ritorni alla posizione alfa l'antico dominante, che a volte mantiene,<br />

contro dei maschi coalizzati, il potere, in quanto sostenuto dalle<br />

femmine.<br />

Non solo, nella società dei bonobo, le scimmie antropomorfe a noi<br />

più prossime – il nostro DNA differisce dal loro di circa un 3% - lo<br />

spazio sociale della politica è governato da coalizioni di bonobo<br />

femmine, che tengono ai bordi i maschi, decidendo l'accoppiamento<br />

e rifiutando la subordinazione a un maschio alfa.<br />

172


In natura, lo spazio della politica entro un gruppo presenta ai<br />

singoli vaste possibilità di carriera e di collocazione, legate alle<br />

capacità individuali, intorno al principio organizzativo gerarchico,<br />

ma il cui rigore è tutt'altro che assoluto. E lo diventa sempre meno<br />

quanto più si fa complesso il tessuto delle relazioni sociali e quindi le<br />

variabili nello spazio della politica.<br />

II. Anche la specie sapiens sapiens ha espresso: si è definita entro<br />

una sua socialità naturale originaria, ormai irrecuperabile, ma le cui<br />

forme strutturanti, intorno al duello di gerarchia a stabilire un ordine<br />

di beccata circa cibo e sesso tra sapiens sapiens dello stesso gruppo,<br />

non potevano essere che affini a quelle che scorgiamo organizzare lo<br />

spazio sociale delle altre specie sociali a noi più prossime: quelle<br />

delle scimmie antropomorfe.<br />

E lo spazio politico della socialità delle scimmie antropomorfe si<br />

articola tra i due estremi della politica poliandrica egemonizzata dal<br />

femminile dei bonobo e quella gerarchica autoritaria sotto un capo<br />

branco dei gruppi degli scimpanzé delle foreste e dei gorilla. Una<br />

socialità, questa seconda, dove l'harem dell'alfa dominante, nota di<br />

cronaca, è a volte temperato da non rari tradimenti, quando non da<br />

aperta repulsa da parte di gruppi di femmine coalizzate, che<br />

respingono il maschio dominante, e si accoppiano con individui di<br />

rango inferiore più graditi.<br />

A quale tra le due socialità naturali: dei bonobo o degli scimpanzé,<br />

fosse più prossima la forma sociale naturale prevalente tra i sapiens<br />

sapiens primitivi non lo sapremo mai, ma è un altro l'elemento<br />

altamente significativo che si impone.<br />

Entro la struttura politica della società naturale dei sapiens sapiens,<br />

come tutte le società naturali costruita sul principio del duello di<br />

gerarchia, esplose un fatto traumatico e decisivo per i destini della<br />

specie sapiens sapiens: l'incontro con l'utensile, il cui effetto<br />

clamoroso fu di porre il sapiens sapiens in evidente conflitto<br />

contraddittorio con il duello di gerarchia, principio naturale di<br />

organizzazione dello spazio delle società naturali. Una<br />

contraddizione che nasceva dal fatto – e permane immutata - che<br />

l'impiego dell'utensile nel duello di gerarchia tra sapiens sapiens, lo<br />

trasforma in duello mortale.<br />

Questa contraddizione tra utensile e duello di gerarchia è il dato<br />

problematico che determina il passaggio della specie umana dalla<br />

173


natura alla cultura, il luogo dove si determina il processo di<br />

umanizzazione. Vediamo di meglio enucleare il punto.<br />

L'utensile nasce dal rapporto mente mano, e trasforma una specie<br />

eminentemente opportunista e predata, incapace di sopravvivere<br />

individualmente fuori dal gruppo, quale il sapiens sapiens originario,<br />

in una specie predatrice.<br />

Questa trasformazione, collegata all'utensile, di ruolo e posizione del<br />

sapiens sapiens nella catena ecologica naturale, non può essersi<br />

determinata che per segmenti aggiunti, provocando gravi situazioni<br />

di crisi, per comprendere il cui senso dobbiamo soffermarci sulle<br />

forme di socialità naturale tipiche delle specie predatrici, nella quali i<br />

duelli di gerarchia dentro il gruppo per la posizione alfa dominante<br />

avrebbero esiti mortali per uno dei due duellanti, se in queste specie<br />

non fosse stato elaborato un codice simbolico rituale di<br />

sottomissione.<br />

Solo il possesso di questo codice simbolico permette di non<br />

trasformare ogni duello di gerarchia tra individui di specie con zanne<br />

e artigli, quali i lupi, i leoni, in scontro mortale. È infatti molto<br />

maggiore il numero dei cervi morti per aver impigliato<br />

inestricabilmente le corna negli scontri, che non dei lupi nei duelli<br />

per il posto di animale alfa. E questo perché i lupi hanno un chiaro<br />

rituale di sottomissione, che esibito dal perdente, inibisce<br />

l'aggressore.<br />

Questo rituale di sottomissione è un codice linguistico simbolico,<br />

ma anche l'utensile, prima che uno strumento, in quanto esiste come<br />

progetto mentale esibito nel gruppo da chi lo realizza, é di fatto un<br />

codice simbolico.<br />

Il sapiens sapiens costruendo utensili sempre più complessi e<br />

raffinati, appoggiandosi e dipendendo dal loro impiego, a un tempo<br />

diventa un produttore di linguaggi sempre più articolati e complessi,<br />

che però retroagiscono tutti problematicamente sul nucleo<br />

costitutivo della socialità naturale: il duello di gerarchia.<br />

Un Sapiens sapiens senza utensile in natura non può uccidere un<br />

conspecifico affrontato in un duello di gerarchia, se non<br />

accidentalmente, mentre un sapiens sapiens armato anche solo di<br />

utensili elementari quali un bastone o una pietra, ma maneggiati in<br />

modo calcolato, trasforma in scontro mortale ogni duello naturale di<br />

gerarchia.<br />

174


Di più, ogni individuo sapiens sapiens di rango inferiore, munito di<br />

utensile, diventa un micidiale uccisore di un soprastante gerarchico,<br />

se lo sorprende a tradimento.<br />

L'utensile, in quanto crea l'homo necans, pone al sapiens sapiens<br />

l'aut aut: aut abbandonare l'utensile e regredire nella pura naturalità,<br />

che condannava il sapiens sapiens al destino di preda, aut usare<br />

l'utensile, ma bloccandone la valenza omicida dentro il gruppo.<br />

Per bloccare la pulsione all'uccisione del conspecifico, usando nel<br />

duello di gerarchia l'utensile o impiegandolo in un agguato, non c'era<br />

che la via già percorsa dalle specie predatrici con zanne e e artigli:<br />

elaborare un codice simbolico di interdizione dell'omicidio.<br />

Impresa non impossibile, in quanto la realizzazione dell'utensile è<br />

solo un risultato subalterno di una complessa rappresentazione di un<br />

progetto di azione, ergo espressione di una fase di conquista di una<br />

visione simbolica linguistica complessa da parte del sapiens sapiens.<br />

Se non sembra errato situare nel controllo della tecnologia del fuoco<br />

il momento di presa di controllo del sapiens sapiens sulla natura,<br />

evento che si situa ad oltre trecentomila anni or sono, già da prima<br />

del momento di raggiunta maturità nel controllo sul mondo<br />

naturale, il problema centrale del sapiens sapiens era diventato<br />

l'interdizione del duello di gerarchia all'interno del gruppo, ad evitare<br />

il deviante uso omicida dell'utensile, ma che si poteva impedire<br />

soltanto uscendo dalla suggestione egotica che caratterizza<br />

l'organizzazione sociale naturale, quale si definisce intorno alla<br />

gerarchia costruita sui duelli, sua funzione determinare l'accesso al<br />

sesso e al cibo.<br />

Per usare l'utensile in modo non omicida dentro il proprio gruppo, il<br />

sapiens sapiens doveva separare la regolamentazione dell'accesso al<br />

cibo e al sesso dai duelli di gerarchia. Altro aspetto dello stesso<br />

problema è: padrone dell'utensile, il sapiens sapiens poteva<br />

controllare la pulsione omicida soltanto superando la logica degli<br />

harem naturali dei gorilla dominanti, ma che passava per un atto anti<br />

naturale decisivo: la fine del dominio dell'animale alfa come pura<br />

autoaffermazione egotica.<br />

Bisognava ripensare ab imis il tipo di relazioni politiche entro la<br />

struttura del gruppo naturale, darsi una regolamentazione<br />

interdittiva più articolata e complessa di quella naturale fondata sui<br />

duelli di gerarchia, e quindi della subordinazione violenta, nella<br />

determinazione delle modalità di accesso al sesso e al cibo.<br />

175


Solo i gruppi di sapiens sapiens che hanno saputo, operando con i<br />

codici linguistici simbolici, sostituire, ergo sopprimere, il duello di<br />

gerarchia come strumento per stabilire l'accesso dei singoli individui<br />

al cibo e al sesso, surrogandolo con altri codici di gerarchizzazione<br />

fondati non sulla repressione gerarchica, ma sullo scambio<br />

simbolico: sulla reciprocità del dare e del ricevere, sono entrati nel<br />

mondo della cultura, avviando il processo di umanizzazione della<br />

specie.<br />

III. La costruzione di una società umana, ergo di una politica<br />

umanistica, è il risultato conseguente da una lunga elaborazione<br />

simbolica di codici di controllo sociale dell'utensile, a impedirne<br />

l'impiego omicida. Una elaborazione simbolica incominciata: coeva<br />

alla conquista stabile dell'uso dell'utensile, e continuata ininterrotta<br />

fino a oggi, come descrive la presente centralità del dibattito<br />

sull'energia atomica e sullo sviluppo sostenibile, ma soprattutto sul<br />

peso devastante delle disuguaglianze sociali.<br />

Il segno cospicuo di questo dibattito, la sua funzione decisiva per il<br />

processo di umanizzazione del sapiens sapiens, è stato l'emergere<br />

della struttura simbolica libertà, come funzione ordinatrice tanto<br />

della psiche individuale che dello spazio sociale, in sostituzione,<br />

come strumento di socializzazione politica, del duello di gerarchia.<br />

La libertà come valore di garanzia reciproca condiviso è la struttura<br />

simbolica che fonda il primo tipo di società post naturale, attraverso<br />

la creazione della quale il sapiens sapiens si separa dalla natura,<br />

luogo e regno della necessità.<br />

La società primitiva o selvaggia, che esiste intorno a un fermo<br />

interdetto all'omicidio nel gruppo, si realizza, e decifra nel suo senso<br />

umanistico, attraverso la trasformazione culturale dell'animale<br />

dominante alfa nel capo politico: il cui compito diventa sorvegliare<br />

che la buona legge degli antenati, codice simbolico dov'è il sistema<br />

di regole che governa le relazioni tra i sessi intorno tabù dell'incesto,<br />

della produzione e consumo del cibo e alla sicurezza degli individui<br />

nel gruppo, sia applicata.<br />

Accade anche, e non infrequentemente ci documenta l'etnografia,<br />

che il capo primitivo voglia comandare e non solo essere il garante<br />

della legge, ma accade allora che la comunità semplicemente lo<br />

abbandoni, e se reagisce in modo minaccioso, aggressivo, lo uccida.<br />

La comunità primitiva appare dunque travagliata da una tensione<br />

naturale che chiede un capo per garantire la buona legge degli<br />

176


antenati: il codice simbolico di governo, in quanto esiste forte la<br />

tentazione a non spartire il cibo, a trasgredire le regole sessuali, a<br />

sottrarsi al lavoro comune. Ma anche il capo tende a procedere oltre<br />

i limiti della sua funzione di garante dell'ordine simbolico<br />

comunitario, per cui se il capo controlla la comunità, la comunità<br />

controlla il capo, in ragione di una universale conoscenza della<br />

buona legge.<br />

La società primitiva vive dunque in una costante tensione tra le<br />

pulsioni naturali alla trasgressione e la conquista della coscienza dei<br />

vantaggi derivanti del controllo della pulsione egotica naturale alla<br />

conquista del centro. La società primitiva fonda la sua libertà sul<br />

rifiuto del duello e quindi del principio di gerarchia al suo interno,<br />

così realizzandosi società di liberi. Una libertà che si fonda<br />

sull'autocontrollo nel quotidiano introno ai tre poli della legge degli<br />

antenati, della presenza del capo a garantirla, e della comunità a<br />

sperimentasi come realizzazione dell'ordine buono pensato dai<br />

padri.<br />

L'ordine degli antenati, il grande codice simbolico ricapitolativo di<br />

autocontrollo e riduplicazione dello spazio sociale come spazio per<br />

una politica di libertà è insegnato alle nuove generazioni attraverso<br />

un calcolato processo educativo incentrato sull'iniziazione; il cui<br />

senso e funzione prima è: bloccare la pulsione egotica, a discendere<br />

dalla sua manifestazione più radicale: l'impulso all'omicidio.<br />

Il tratto decisivo della comunità primitiva è il codice simbolico che<br />

la governa, e le permette di pensarsi come un processo ciclico che si<br />

rinnova con lo scorrere delle generazioni e dove tutto quello che è<br />

stato sarà.<br />

Un processo simbolico ordinatore, la cui deriva porta naturalmente<br />

a immaginare i nuovi nati come antenati che ritornano, dopo un<br />

soggiorno nel mondo dei morti.<br />

Da questa visione suggestiva fantastica prende forma il codice<br />

simbolico metareligioso della reincarnazione o eterna rinascita, che<br />

troviamo diffuso nei popoli primitivi e nei loro culti sciamanici.<br />

Modello simbolico che poi trapassano dentro le culture post<br />

primitive o derivate o storiche, sorte dalla rivoluzione neolitica e,<br />

fino a oggi, stabilizzate politicamente intorno alla macrostruttura<br />

repressiva endemica stato.<br />

Una forma di questo sviluppo simbolico dell'eterno ritorno<br />

troviamo dentro la civiltà classica per l'insegnamento orfico, ma è<br />

177


universale anche tra i popoli asiatici, insegnamento ripreso dal<br />

buddhismo.<br />

Con la grande visione mitica dell'eterno ritorno scorgiamo come il<br />

codice simbolico si perfezioni e complichi, e a un tempo determini<br />

ben precisi orientamenti spirituali, che diventano forme di vita<br />

concreta. Detto altrimenti, il simbolo si permuta in realtà, ma con il<br />

rischio costante che il processo simbolico definisca percorsi ciechi,<br />

che per svolte impreviste, riportano all'emergere dell' homo necans,<br />

paradossalmente rilegittimato da visioni simboliche anche le più<br />

avverse al crimine. Abbiamo visto il messaggio cristiano trasformato<br />

in roghi inquisitoriali e guerre feroci di religione, tanto da indurre un<br />

grande spirito quale Spinoza ad affermare: “Nel tentativo di<br />

diventare angeli, gli uomini si fanno diavoli.”<br />

La costruzione del processo di umanizzazione diventa quindi, nelle<br />

società post primitive o storiche azione ancor più complessa,<br />

affidata all'azione politica, il cui compito rimane bloccare le forme<br />

distruttive di conflitto interno allo spazio sociale tra gruppi<br />

organizzati, usando a un tempo una struttura repressiva e un codice<br />

simbolico a garantirla.<br />

Detto altrimenti, nella complessità delle società storiche<br />

sopravvivono le tensioni dinamiche e quindi le soluzioni della<br />

società primitiva, che organizza il proprio quotidiano come spazio<br />

governato dalle buone leggi degli antenati, la cui applicazione si<br />

realizza sotto la sorveglianza del suo garante umano: il capo.<br />

La complessità delle società storiche si può decifrare soltanto a<br />

partire dalla società primitiva: dove si coglie netta l'azione della<br />

cultura a esorcizzare i conflitti egotici naturali, che invece le società<br />

storiche tendono a mascherare e occultare in codici simbolici<br />

fantastici. Ecco perché diventa decisivo scendere oltre la stessa<br />

società primitiva, spingere l'indagine fin entro le tensioni effetto<br />

delle modalità di organizzazione dello spazio universale della politica<br />

naturale, solo a procedere dalla quale si possono comprendere<br />

alcune forme, altrimenti inesplicabili, della politica post naturale,<br />

entro le quali si è sviluppata, ha determinato le sue forme sociali la<br />

specie umana, costretta dalla rivoluzione dell'utensile a separarsi<br />

dalla forma naturale della sua organizzazione dello spazio politico.<br />

Solo se si comprende che il richiamo all'ordine gerarchico consuona<br />

con qualcosa di fondato dentro l'individuo naturale pre umano,<br />

richiama a un suo substrato sociale primitivo naturale, si comprende<br />

178


che cosa sia accaduto dietro al richiamo al principio di gerarchia dei<br />

vari totalitarismi, ma anche a quale fondamento concreto rimandi la<br />

visione politica fondata su ogni principio religioso trascendente, a<br />

imporre forme articolate di subordinazione gerarchica.<br />

Masse di individui sbandati, senza più una identità comunitaria certa,<br />

l' hanno ritrovata in un dio, in un partito, e continuano e ritrovarla,<br />

in ragione di un interiore arcaico consuonare del doppio piacere<br />

sadomasochista, ad usare un termine psicologico per descrivere la<br />

sventurata relazione servo-padrone, comando-ubbidienza, la cui<br />

forma storica organizzata culturale estrema è lo stato totalitario<br />

burocratico, ma la cui origine sta nei duelli naturali di gerarchia.<br />

Oppostamente, abbiamo la soluzione culturale che mira non a<br />

dissolvere, ma a controllare, verificare, legittimare costantemente<br />

ogni tipo di relazione comando ubbidienza entro un gruppo umano,<br />

attraverso la discussione e ridefinizione locale e puntuale di questa<br />

forma di relazione, là dove si rende necessaria. Nasce così la politica<br />

di forma assembleare, che affida temporaneamente, e in modo<br />

segmentato, ogni funzione di comando a un individuo specifico, che<br />

viene preposto pro tempore a gestire una funzione di comando<br />

necessaria, mentre nel gruppo si afferma la convinzione che lo<br />

spazio politico debba essere uno spazio di eguali, tesi a garantire la<br />

libertà di tutti, a realizzare una forma sociale politica per di e tra<br />

uomini liberi.<br />

IV. Tutta la complessità delle società storiche politicamente si<br />

articola intorno a due ben precise forme strutturanti: abbiamo la<br />

forma che rappresenta lo spazio della politica come una ben definita<br />

catena di subordinazione gerarchica, entro la quale la parola in<br />

forma di ordine procede dall'alto verso il basso, e oppostamente la<br />

forma che si rappresenta lo spazio della politica come una struttura<br />

complanare egualitaria fondata sulla circolazione libera della parola.<br />

Entrambe queste due strutture perseguono uno stesso fine:<br />

superare, dissolvere i nuclei di tensioni egotiche, rese forti dall'uso<br />

raffinatamente ben orchestrato del principio di politica naturale di<br />

coalizione, per raggiungere posizioni alfa dominanti dentro il<br />

gruppo, ma spesso al prezzo di scontri devastanti tra gruppi<br />

coalizzati, verso una guerra civile generalizzata.<br />

Tutto il senso dell'azione politica nelle società storiche mira a<br />

impedire il conflitto violento tra gruppi organizzati di una comunità,<br />

e ha perseguito questo obbiettivo realizzando essenzialmente due<br />

179


tipi di strutture istituzionali repressive divergenti, storicamente<br />

individuate dai termini stato e comune, ma la cui analisi e dialettica<br />

ci porterebbe troppo oltre i termini di un breve saggio esplicativo<br />

delle dinamiche politiche.<br />

Quello che solo il lettore qui deve aver presente è che stato e<br />

comune perseguono lo stesso fine, ma che realizzano attivando due<br />

logiche culturali simboliche divergenti, sulle quali qui centriamo la<br />

nostra analisi.<br />

Contro la incombente svolta disastrosa verso la disintegrazione dello<br />

spazio comunitario, le società storiche hanno politicamente<br />

proceduto, torniamo a ribadirlo, verso due soluzioni divergenti:<br />

- la soluzione della mediazione linguistica assembleare egualitaria,<br />

lungo il quale si è sviluppata, nelle sue varie forme, la democrazia<br />

diretta degli antiche e dei comuni medioevali e la democrazia<br />

rappresentativa dei moderni<br />

- la soluzione della gerarchizzazione, intorno a un codice simbolico<br />

metareligioso, quale cogliamo nelle varie forme di imperi e di stati<br />

assoluti garantiti dal principio religioso, uno dei quali è stato<br />

recentemente quello del materialismo marxista bolscevico. Ma la<br />

soluzione gerarchica burocratica, di fatto significa un puro ritorno al<br />

principio naturale politico di gerarchia, i duelli per l'ascesa di rango<br />

altamente formalizzati, ad impedirne la degenerazione violenta.<br />

Questi due ordini simbolici antitetici sono in molti momenti del<br />

processo storico venuti a confronto, sopraffacendosi, a volte<br />

contaminandosi, a volte mutandosi l'uno nell'altro, ognuno cercando<br />

di imporsi nella sua forma compiuta perfetta: ideale. Ognuna delle<br />

due forme definendosi per complessi codici simbolici esplicativi e a<br />

un tempo legittimanti, ognuna convinta di realizzare, nella sua forma<br />

ideale, il compiuto processo di umanizzazione. E spesso ravvisando<br />

nel tipo umano prodotto dall'altra soluzione politica l'espressione<br />

della pura negazione dell'umano, un volto del diabolico.<br />

La complessa resistenza a riconoscere nell'altro modello una<br />

forma di umanizzazione troviamo magistralmente individuata e<br />

descritta in una pagina fondamentale di Erodoto, decisiva per la<br />

comprensione dell'agire politico nei tempi della storia.<br />

“I Lacedemoni, pur avendo respinto gli inviati degli Ioni, mandarono tuttavia,<br />

con una pentecontera alcuni uomini per indagare le faccende di Ciro e della<br />

Ionia. Questi, giunti a Focea, mandarono a Sardi il più illustre di loro, che<br />

180


aveva nome Lacrine, a notificare a Ciro le ingiunzioni degli Spartani di non<br />

fare alcun danno alle città della terra dell'Ellade, perché essi non l'avrebbero<br />

permesso.<br />

Quando l'araldo ebbe annunziato ciò, si narra che Ciro chiedesse a sua volta ad<br />

alcuni greci che erano presso di lui che uomini fossero e quanti di numero questi<br />

Spartani che gli rivolgevano tale ingiunzione. Saputolo disse all'araldo spartano:<br />

- Io non ho mai temuto uomini che hanno un luogo apposito in mezzo alla città<br />

dove si riuniscono e si imbrogliano l'un l'altro con giuramenti. A costoro, se io<br />

sono in senno, non i mali degli Ioni saranno argomenti di chiacchiere, ma i loro<br />

propri. - Erodoto, Storie 152-3”<br />

Ciro è il capo di un impero retto da una ben organizzata macchina<br />

politica strutturata gerarchicamente, costruitasi per gradi entro un<br />

processo di concentrazione e riorganizzazione, alla cui origine<br />

stanno gli imperi della tarda età del bronzo, sorti da una secolare<br />

lotta tra le città stato sviluppatesi, a partire da quelle sumere intorno<br />

al 3000 a.C.<br />

La lotta per l'egemonia ha portato a una crescente concentrazione e<br />

trasferimento del centro del potere, fino a concentrarlo appunto<br />

nelle mani dell'imperatore persiano, che si pone davanti ai sudditi<br />

come il depositario, l'investito da una dimensione trascendente a<br />

governare gli uomini.<br />

Ciro comanda a dei sudditi.<br />

Questa visione della forma e della funzione del potere, fondata sulla<br />

religione, ha preso forma intorno nella cultura sumera e, per gradi, è<br />

diventata la forma della legittimazione dell'azione politica, il cui<br />

senso non è nell'agire politico stesso, ma nella subordinazione di<br />

questo agire a un superiore disegno divino.<br />

Questa visione del senso dell'azione politica, dai persiani si trasferirà<br />

poi ai regni macedoni e da quelli all'impero romano, restando la<br />

forma della rappresentazione politica ancora oggi asserita da quanti<br />

difendono una visione creazionista della vita sulla terra, ovvero della<br />

vita come forma di un disegno divino.<br />

In astratto siamo davanti alla ripetizione dello schema di controllo<br />

interdittivo della violenza realizzato dalla società primitiva, ma nelle<br />

società storiche è saltato un anello decisivo della catena di controllo:<br />

i singoli individui soggetti alla legge trascendente non ne posseggono<br />

più quella conoscenza diretta che ogni individuo della società<br />

primitiva possiede, avendola ricevuta attraverso il rito<br />

dell'iniziazione.<br />

181


Nelle società storiche il controllo sulla gestione del codice che<br />

interdice la violenza è passato a gruppi di specialisti, del tutto<br />

sottratto al complesso della comunità. E questo trasferimento si<br />

definisce istituzionalmente nella struttura stato.<br />

Contro questa visione politica gerarchica fondata su codici simbolici<br />

emanati dal sacro, per una serie di ragioni complesse, al cui centro<br />

sta lo sviluppo nelle città greche e italiche della tecnica militare<br />

oplitica, si definisce, tra il VII e V secolo a.C. quella forma altra di<br />

gestione politica di una comunità con al centro l'assemblea dei<br />

cittadini in armi, chiamati a decidere le politiche della comunità e a<br />

un tempo a quali magistrati affidarne la realizzazione.<br />

Questa che noi chiamiamo oggi politica democratica, all'altra<br />

politica, quella di chi si vuole investito del potere politico dall'alto,<br />

appare l'azione di: “ … uomini che hanno un luogo apposito in mezzo alla<br />

città dove si riuniscono e si imbrogliano l'un l'altro con giuramenti.”<br />

Alla visione imperiale della politica fondata sul sacro l'altra politica,<br />

quella condotta dai cittadini riuniti in assemblea appare come il<br />

luogo della malizia e dell'inganno, dell'assoluta immoralità, secondo<br />

un archetipo che percorre tutto l'immaginario del riflettere<br />

sull'azione politica. Ma questa politica dell'inganno, la lettura della<br />

politica democratica come inganno, proposta da Ciro e ancora oggi<br />

trionfante, non è altro che la chiave, come appunto il Machiavelli nel<br />

'Principe' disvela, per la comprensione dell'agire politico delle società<br />

altamente gerarchizzate, dove la libera circolazione della parola non<br />

può avere corso, mentre l'affermazione, quasi sempre menzognera,<br />

dei detentori del potere, diventa per i ceti subordinati, la verità.<br />

Ciro, affermando che la politica democratica si fonda su un<br />

reciproco tendersi inganni, rivela di non conoscere altra forma di<br />

lotta politica che quella nella quale egli è il vertice, articolata intorno<br />

al principio di gerarchia, politica dominata dall'inganno e fondata sul<br />

crimine; che occulta la propria natura criminale attraverso la tripla<br />

maschera statale della difesa dei valori legittimati dal fondamento<br />

religioso, della repressione degli istinti antisociali con la legge la<br />

polizia e il carcere e della difesa dei confini con la forza militare.<br />

V. Per comprendere che cosa fondi la politica non gerarchizzante o<br />

democratica, e che cosa ne renda problematica la stabilizzazione,<br />

dobbiamo volgerci alle pagine dagli storici che hanno personalmente<br />

182


conosciuto e descritto questo tipo altro di politica, a discendere da<br />

Erodoto.<br />

Questi storici hanno tutti sottolineato il ruolo centrale del discorso<br />

libero, della parola argomentata e del comportamento leale verso gli<br />

interessi del gruppo, anche contro i vantaggi personali. Sono questi<br />

anche i tratti che caratterizzano il leader democratico, la cui azione<br />

acquista tanto più rilievo quanto più si fa strumento di affermazione<br />

degli interessi generali, contro le sempre presenti trame, spesso<br />

cruente, di gruppi organizzati di potere, intorno a singoli individui<br />

che perseguono il dispotismo, ovvero mirano a trasformare, con<br />

l'uso della forza, una società assembleare democratica in una società<br />

gerarchizzata intorno a un sistema di valori trascendenti.<br />

Detto altrimenti, che cosa preme, fin dagli albori della politica<br />

assembleare, entro e contro le sue dinamiche, per trasformare la<br />

polis, attraverso la soppressione della politica assembleare, in uno<br />

stato dispotico; e nell'oggi sostiene, contro la democrazia<br />

rappresentativa, le varie forme di potere totalitario ideologizzato,<br />

quali appunto nel '900 il potere fascista e bolscevico, cui forme<br />

residue sono ancora ben presenti e infettivamente agenti nello<br />

spazio simbolico che determina l'agire politico anche in questo XXI<br />

secolo, come in Italia esemplifica il berlusconismo, soltanto la forma<br />

storica occasionale di una degenerazione patologica della nostra<br />

democrazia rappresentativa, rivelatasi strutturalmente incapace di<br />

fare i conti con la macchina gerarchica stato, controllarne gli<br />

apparati burocratici.<br />

Ben prima della nascita delle nostre inadeguate democrazie<br />

rappresentative, le ricostruzioni storiche della vita politica nella polis<br />

greca, nel comune romano repubblicano, nei comuni medioevali,<br />

individuano una costante tendenza autoritaria gerarchica coeva e<br />

ben presente e agente in tutti gli spazi democratici assembleari, a<br />

destrutturarli.<br />

Questo racconta la documentazione storica circa la più complessa e<br />

raffinata forma storica di democrazia, quella ateniese, i cui oligarchi,<br />

a partire dall'assassinio del grande leader democratico Efialte nel VI<br />

secolo, fino al colpo di stato fondato sull'assassinio di massa<br />

condotto dai cosiddetti trenta tiranni, nelle convulsioni finali della<br />

guerra del Peloponneso, rivela come l'ordine democratico ateniese<br />

sia sempre stato percorso da tensioni autoritarie, che premevano per<br />

183


evertirlo, tensioni alimentate da fazioni sostenute da vere forme di<br />

pensiero reazionario, come appunto la proposta politica platoniana.<br />

Atene fu salvata dalla irriducibile posizione democratica dei marinai<br />

della flotta, ma questa difesa della struttura democratica non riuscì<br />

alla repubblica Romana delle guerre civili, culminate nell'eversione<br />

cesarista. E un percorso degenerativo non meno inarrestabile<br />

percorre la crisi del comune medioevale, stretto tra la pressione<br />

clericale e le tendenze di alcuni magnati a trasformarsi in dinasti,<br />

costruendo degli stati neofeudali, come in Italia i Gonzaga a<br />

Mantova, i Medici a Firenze … o a trasformare un comune in<br />

sviluppo democratico in una oligarchia chiusa, come accaduto a<br />

Venezia nel XIV secolo.<br />

Il problema è: quale forza travagliante agisca nelle strutture<br />

assembleari, per trasformarle in strutture gerarchiche: il cui senso<br />

politico è bloccare la libera circolazione della parola, ovvero arresta<br />

e mette sotto controllo il libero processo collettivo di creazione<br />

simbolica, calandovi sopra una struttura simbolica discesa da una<br />

sedicente trascendenza.<br />

Per individuare questa pulsione alla gerarchia, andiamo al Plutarco<br />

delle ' Vite parallele ', il grande esemplare racconto del mondo di<br />

eroi sorti dalle società politiche comunaliste greca a romana.<br />

Uno di questi eroi esemplari fu il legislatore e poeta ateniese Solone,<br />

incluso tra i sette sapienti, e vissuto circa una generazione prima di<br />

Ciro (alto VI secolo a.C.), ergo prima della costruzione dell'impero<br />

persiano.<br />

Di Solone sopravvivono alcuni rilevanti frammenti poetici, testi<br />

sapienziali nei quali insegna un sereno distacco dal denaro, il rispetto<br />

per valori quali l'amicizia, la parsimonia, la lealtà, il culto degli dèi,<br />

mentre della sua vita ci è giunta, attendibilmente integra, una<br />

biografia compresa nella grande opera di Plutarco: ' Vite Parallele '.<br />

Plutarco di Cheronea, gran sacerdote delfico, dista dai tempi di<br />

Solone quasi un millennio, e scrive entro un impero romano ormai<br />

consolidato, a preservare e tramandare la memoria di quell'altro<br />

tempo politico dove ebbe origine la grandezza dell'Ellade, ma anche<br />

di Roma, ergo a preservare la memoria di una differente visione<br />

politica, irriducibile al principio di gerarchia. Una differenza che ha<br />

in Solone uno dei suoi fondatori certi, in quanto autore della<br />

fondamentale riforma costituzionale che vietava in Atene la<br />

riduzione in schiavitù per debiti di un cittadino.<br />

184


Nella biografia di Plutarco si racconta che, minacciati dalla guerra<br />

civile, gli ateniesi affidarono a Solone il potere assoluto, usando il<br />

quale avrebbe potuto farsi tiranno, come poi Pisistrato, ma egli<br />

scelse di restare legislatore riformatore.<br />

Fatta approvata dall'assemblea dei cittadini, e quindi resa vigente la<br />

sua costituzione, Solone fece poi giurare ai suoi concittadini ateniesi<br />

che non l'avrebbero cambiata fin quando egli non fosse tornato in<br />

patria. E partì per un definitivo volontario esilio.<br />

In questo viaggio di esule a garantire alla città il tempo per accettare<br />

il governo delle leggi, fu chiesto a Solone quale fosse stata la sua<br />

tentazione più forte, quando la città gli aveva affidato la funzione di<br />

legislatore unico. Il Solone di Plutarco risponde che la tentazione<br />

più forte era stata di trasformare la sua azione di legislatore in quella<br />

di despota.<br />

Il Solone di Plutarco è chiaramente una figura esemplare: simbolica,<br />

ma la cui esemplarità punta a un preciso universale: l'opposizione tra<br />

il despota e il politico democratico, che in fieri, dice il Solone<br />

esemplare della mitografia di Plutarco, convivono nella stessa<br />

persona.<br />

Un leader politico può essere l'uno o l'altro, ma soltanto nello spazio<br />

della politica assembleare, dove ogni attore politico può valutare le<br />

alternative e le seduzioni tanto dell'ordine gerarchico che di quello<br />

egualitario assembleare.<br />

La figura politica che si determina chiusa entro l'ordine gerarchico<br />

non ha alcuna possibilità di comprendere la logica politica<br />

democratica, come descrive la risposta di Ciro agli ambasciatori<br />

spartani, ma qui il problema diventa: come si determina l'uscita<br />

dall'ordine gerarchico burocratico fondato nella trascendenza,<br />

quando questo si insedia in una società, la colonizza a partire dalla<br />

subalternizzazione dello spazio politico a quello religioso.<br />

La risposta si trova entro la stessa logica gerarchica, fondata sulla<br />

concentrazione crescente del potere, e quindi della crescente<br />

subordinazione e pauperizzazione dei ceti subalterni, ma anche di<br />

ogni individuo dei livelli gerarchici superiori, chiuso in quella oscura<br />

paura che tutti i sudditi delle tirannidi conoscono.<br />

In questa paura è la pulsione alla rivolta, ma che resta un processo<br />

cieco, fin quando i sudditi non riescono a immaginare un destino<br />

politico diverso dalla relazione suddito-principe. E nulla lo descrive<br />

quanto il percorso politico senza sviluppi della civiltà burocratica<br />

185


cinese del celeste impero, dove esplosero innumeri rivolte, ma che<br />

portano al potere soltanto sempre nuovi tiranni.<br />

Questo succedersi di tirannidi a tirannidi ha in Cina un clamoroso<br />

arresto, quando nelle élite intellettuali cinesi del tardo '800 si afferma<br />

la conoscenza dell'esistenza di un modello politico concreto altro: le<br />

democrazie occidentali<br />

Si apre, tra fine '800 e '900 in Cina un ciclo di rivolte che ha come<br />

obiettivo la costruzione di una forma di politica democratica<br />

assembleare, che ha portato prima a una repubblica borghese<br />

devastata da capi militari, poi al regime comunista maoista, e oggi a<br />

una situazione di diffusa tensione per una radicale trasformazione<br />

democratica, con momenti eroici esemplari ormai entrati nella<br />

simbolica politica cinese, quali il capitolo piazza Tien Ammen.<br />

Il disegno politico trasformativo cinese ci dice tutta la forza della<br />

grande macchina simbolica residuale sopravvissuta al crollo del<br />

mondo della polis greca e del comune romano, il cui impero non<br />

poteva cancellare il passato dal quale veniva senza annientarsi.<br />

Ma quel passato mostrava in ogni imperatore la negazione del<br />

principio di libertà dal quale aveva preso avvio la civiltà classica.<br />

L'impero infelice doveva mutare religione, orientalizzarsi,<br />

distruggere i testi dove si tramandava la memoria dell'antica libertà,<br />

ma quanto ne sopravvisse fu capace di suscitare la grande<br />

rivoluzione comunale medioevale, poi soffocata dalla reazione del<br />

principio di gerarchia incarnato dalla combinazione di religione e<br />

regalità statale consacrata.<br />

Eppure la memoria delle libertà degli antichi: di un mondo di<br />

cittadini e non di sudditi, in Europa sopravviveva e si tramandava in<br />

ragione dei troppo cospicui relitti di quel mondo antico, dal quale<br />

spirava un vento di libertà, a mobilitare le coscienza dei sudditi del<br />

dispotismo europeo.<br />

Il grande relitto del codice simbolico elaborato per i suoi cittadini e<br />

dai suoi cittadini nella polis greca e nel comune romano tra VII & I<br />

secolo a.C, capace di suscitare, sotto il dispotismo dei cesari, ancora<br />

testi democratici repubblicani quali 'La Farsalia' e l'opera di Tacito,<br />

ha costruito una struttura culturale capace di tramandare e insegnare<br />

a tutta la specie umana la via per un sistema di relazioni libere, il solo<br />

entro il quale, diceva Massimo d'Azeglio, si può sviluppare una<br />

autentica coscienza morale: senza la quale non si hanno cittadini, ma<br />

solo coscienze infelici e spaventate di sudditi.<br />

186


Postilla. Da quanto fin qui esposto una generalizzazione si impone:<br />

in ogni singolo individuo di sapiens sapiens, dalla rivoluzione<br />

dell'utensile, che lo ha trasformato in homo faber sotto l'endemica<br />

minaccia di trasformarsi in homo necans, convivono due forme<br />

antagoniste di socializzazione politica.<br />

La socializzazione primeva, sotto il segno delle leggi della natura,<br />

con al centro la pulsione egotica, che viene regolata entro lo spazio<br />

comunitario naturale dal duello di gerarchia, scontro concreto, ma<br />

dal quale alcune specie superiori hanno poi elaborato un sistema<br />

complesso di comunicazioni simboliche, costruite intorno allo<br />

sviluppo di una memoria posizionale.<br />

La memoria posizionale, introiezione di uno spazio sociale naturale<br />

gerarchizzato, regola, riducendo al minimo i conflitti, l'accesso al<br />

cibo e al sesso.<br />

Le tre strutture entro le quali si organizza la politica naturale: la<br />

pulsione egotica, che porta ai conflitti di gerarchia, il cui risultato è la<br />

costruzione di una memoria posizionale gerarchica, non sono state<br />

cancellate dall'irruzione dell'utensile.<br />

L'homo faber si è sovrapposto, ha preso sotto controllo il sapiens<br />

sapiens naturale, a bloccarne la deriva verso l'omicidio attraverso<br />

l'uso criminale dell'utensile.<br />

Il controllo sul proprio sapiens naturale interiore: il suo modo di<br />

socializzare, da parte dell' homo faber, si realizza per la mediazione<br />

di complessi codici simbolici, che vanno ogni volta riposizionati, in<br />

relazione agli sviluppi delle tecniche, come descrive il passaggio dalle<br />

società primitive alle società storiche.<br />

Questa frattura tra società primitive e storiche ha al centro la grande<br />

faglia neolitica, che trasforma l'uomo da cacciatore raccoglitore<br />

subalterno ai cicli della natura, in agricoltore e manipolatore sempre<br />

più raffinato del mondo naturale attraverso la combinazione di<br />

metallurgia, ceramica, tessitura, navigazione e selezione delle altre<br />

specie tanto vegetali che animali, a farne forza lavoro e cibo.<br />

La rivoluzione tecnologica del neolitico rende insufficiente il<br />

modello di controllo simbolico dell' homo faber primitivo sul<br />

sapiens sapiens naturale; controllo realizzato per la mediazione<br />

simbolica del codice degli antenati, la trasformazione del maschio<br />

dominante in capo politico al servizio della comunità, e i rituali<br />

dell'iniziazione.<br />

187


Il faber post neolitico deve elaborare una nuova strategia di<br />

controllo del sapiens naturale che ogni individuo della specie porta<br />

in sé. Questa strategia simbolica si è mossa lungo due direttrici, che<br />

hanno portato, nel tempo della storia, al determinarsi di due<br />

macrostrutture politiche di controllo delle pulsioni egotiche: lo stato<br />

e il comune, ma nella forma di controllo stato agisce una deriva<br />

verso la totale gerarchizzazione dello spazio sociale, per il suo<br />

governo burocratico, con una sorta di vera rinaturalizzazione<br />

dell'ordine sociale.<br />

Questo è il rischio nella soluzione stato: che il controllo del faber sul<br />

sapiens naturale si riveli del tutto inadeguato. Ne consegue che,<br />

mentre la società perde il controllo sull'uso dell'utensile, nelle società<br />

costruite intorno allo stato, si afferma la dinamica che trasforma il<br />

sapiens in necas, secondo quella deriva la cui forma compiuta è<br />

l'organizzazione della violenza contro società finitime, ovvero la<br />

guerra, spesso usata dai gruppi umani per bloccare i conflitti interni,<br />

trasformando la violenza interna in aggressione verso l'esterno.<br />

Una dinamica alla quale non si sono sottratte neanche le società<br />

comunali, come descrive tanto l'imperialismo ateniese che romano.<br />

E in questa deriva anche dei comuni verso la guerra è la prova<br />

evidente del permanere di tensioni regressive verso forme di<br />

socializzazione naturale anche nello spazio egualitario della politica<br />

comunale, in quanto il fondamento naturale permane in ogni faber,<br />

e chiede udienza, con la forza tenace dell'ego, quel cane, per dirla<br />

con Nietzsche, che ognuno di noi si porta appresso, come il corpo<br />

l'ombra.<br />

Ecco perché il travaglio creativo simbolico di governo dello spazio<br />

politico da parte dell' homo faber, a bloccare in lui la trasformazione<br />

in necans attraverso l'uso deviato delle tecniche, come il travaglio di<br />

Sisifo, non può aver fine, ogni soluzione positiva di controllo del<br />

faber sul sapiens originario, soltanto transitoria, in ragione del<br />

continuo mutare della tecnica e del mai venir meno del disegno<br />

egotico di primato nell'individuo. E qui stanno le ragioni<br />

imprescrittibili dell'autonomia e della necessità di creazione<br />

simbolica politica.<br />

Nota bibliografica<br />

Il modello politico qui esposto in sintesi è essenzialmente il risultato<br />

di trent'anni di riflessioni sulla politica, ora a tavola, ora<br />

188


passeggiando, commerciate con gli amici Roberto Marchionatti ed<br />

Alves Marchi; ma questa esposizione non può purtroppo più<br />

passare al vaglio della limpida critica di Alves. Ovunque egli sia, gli<br />

giunga come parte di un suo discorso che continua, così l'accolga la<br />

sua elegante ironia.<br />

sulla società naturale e le sue forme politiche si vedano i<br />

fondamentali studi di F. de Waal<br />

sulla società primitiva decisivo il contributo di P. Clastres<br />

ogni riflessione sul mondo classico non può che procedere dalla<br />

rilettura e riflessione dei suoi storici, tra Erodoto e Ammiano<br />

Marcellino, con al centro la grande riflessione di Tacito, che<br />

trasmette al mondo moderno un decisivo insegnamento.<br />

circa il problema della tirannide resta imprescindibile, con 'Il<br />

Principe' di Machiavelli, il testo di E. de La Boétie 'Discorso sulla<br />

servitù volontaria'<br />

per una articolata bibliografia mi permetto di rimandare a P.<br />

Flecchia, “Da Mussolini a Berlusconi – la demagogia politica<br />

nell'Italia del XX secolo” Milano 2012.<br />

189


190


Apparentemente una bella famiglia: nuove regole per la<br />

famiglia di fatto?<br />

191<br />

Massimo Martinelli<br />

L’evoluzione del concetto di famiglia di fatto, fondata cioè<br />

sull’apparenza comportamentale consolidata conforme ad un<br />

vincolo matrimoniale effettivamente non esistente, fino a<br />

comprendere le unioni stabili tra soggetti dello stesso sesso, pone<br />

nuove sfide alla capacità del diritto di dare efficaci risposte<br />

regolative, coerenti con la costruzione costituzionale, che tuttora<br />

riserva alla famiglia tradizionale e fondata sul matrimonio una<br />

posizione preferenziale, e con la concreta necessità della tutela,<br />

anche nell’ambito familiare, dei diritti individuali fondamentali,<br />

alla luce del principio di non – discriminazione, ormai radicato<br />

nella coscienza sociale e codificato dal diritto dell’Unione Europea.<br />

1. Dalla famiglia senza matrimonio alla convivenza senza<br />

famiglia. – L’espressione ‘famiglia di fatto’ è stata, per così dire,<br />

sdoganata nel mondo del diritto italiano nell’ultimo ventennio<br />

del secolo scorso, con una voce autorevole del torinesissimo<br />

‘Digesto’ delle discipline privatistiche. Era allora cura<br />

dell’estensore (Massimo Dogliotti) far risaltare che la scelta<br />

terminologica, come d’uso nelle scienze giuridiche, sottendeva<br />

anche una scelta di valore normativo, che era a sua volta il<br />

riflesso dell’evoluzione dell’apprezzamento sociale del<br />

fenomeno della ‘convivenza stabile e duratura, con o senza figli, tra un<br />

uomo e una donna che si comportano come se fossero marito e moglie’ . E<br />

tale scelta non poteva che apparire nella direzione del<br />

progressivo accreditamento, nell’ordinamento giuridico, di<br />

quella che, originando dal superamento del termine, certamente<br />

a precedente connotazione negativa, di ‘concubinato’ – dove si<br />

definiva per sottrazione tutto ciò che non apparteneva alla<br />

‘legittima’ relazione familiare tra uomo e donna (ed era un


192<br />

territorio sdrucciolevole verso l’illiceità civile e financo penale,<br />

posto che l’adulterio è stato penalmente rilevante sino quasi alla<br />

fine degli anni Sessanta) – e poi di quello, apparentemente più<br />

oggettivo, di convivenza ‘more uxorio’ (destinato ad essere<br />

espulso dall’uso corrente, se non altro per il progressivo<br />

estraniamento del latino come lingua di generazioni di giuristi<br />

ormai al tramonto), approdava, sotto il nome di ‘famiglia di<br />

fatto’, alla descrizione positiva di una formazione sociale che, sia<br />

pure contrassegnata dall’apparenza comportamentale e non<br />

dalla formalizzazione giuridica - (‘come se fossero marito e moglie’) ,<br />

nondimeno era comunque una famiglia: cioè un luogo del<br />

percorso esistenziale, definibile nell’esperienza comune ed<br />

indipendentemente dalla qualificazione datane dall’ordinamento<br />

giuridico, come associato alla costruzione, attorno ad una stabile<br />

attrazione affettiva fondata, nella generalità dei casi, sul<br />

dimorfismo sessuale della specie umana, di un progetto di vita<br />

condiviso che accetta una ‘partnership’ privilegiata di natura<br />

solidaristica, assistenziale, patrimoniale, ed include, seppure non<br />

necessariamente, il programmatico accoglimento della prole<br />

nelle condizioni più idonee ad assicurare a questa adeguati<br />

mantenimento, educazione ed istruzione.<br />

E’ evidente che questo tipo di famiglia allude ad un’immagine, che<br />

sarà sì giuridicamente solo l’apparenza di un vincolo matrimoniale<br />

che non esiste, ma che è, per contro, una realtà fattuale ben<br />

significativa, ed in fondo speculare della famiglia fondata sul<br />

matrimonio, della quale riproduce, se non il fatto genetico, gran<br />

parte degli effetti socialmente apprezzati. Tale evidenza delle<br />

dinamiche sociali ha finito per motivare la scelta degli operatori<br />

giuridici di indagare, prima ancora dell’opportunità di estendere alla<br />

famiglia di fatto una trama normativa esplicita (come si suol dire ‘de<br />

jure condendo’) ricalcata sul modello della famiglia di origine<br />

matrimoniale – desiderio di normazione cui, in fondo, gli stessi<br />

attori della famiglia di fatto, consapevolmente, nella maggior parte<br />

dei casi, si sottraggono -, la capacità, piuttosto, dell’ordinamento, a


norme esistenti, di accogliere la famiglia di fatto tra i riferimenti<br />

regolativi delle previsioni dettate a riguardo della famiglia<br />

‘tradizionale’, in un processo di tendenziale non – discriminazione<br />

che è avvertito come sempre più consonante al costume consolidato<br />

(Chi volesse approfondire una aggiornata e diligente disamina dello<br />

stato dell’arte di tale progressiva omogenizzazione regolativa tra<br />

famiglia di fatto e famiglia matrimoniale, nei suoi molti successi,<br />

specialmente in ordine alla tutela dei minori e degli altri soggetti<br />

‘deboli’ del nucleo familiare, e nelle residue, pur significative criticità,<br />

può trovarla sul sito della Camera dei Deputati come ‘Dossier GI<br />

0724 allegato agli atti parlamentari del disegno di legge ‘Disposizioni<br />

in materia di unioni di fatto’). Poiché, però, la vita, tanto quella degli<br />

individui quanto quella della società intera, cambia continuamente in<br />

molte forme, ed il diritto segue, se e come può, l’espressione –<br />

concetto di famiglia di fatto, che, come si è detto, aveva appena<br />

raggiunto un accettabile ed euritmico equilibrio speculare con la<br />

famiglia matrimoniale, si è trovata, in tempi più recenti, ad<br />

affrontare una sfida che, ancora una volta, sotto l’apparenza della<br />

necessità di un disambiguamento semantico, racchiude un dilemma<br />

valoriale. E vogliamo qui riferirci alla necessità, introdotta da<br />

modelli di apprezzamento sociale che sono, al riguardo,<br />

rapidamente evoluti da schemi di semplice tolleranza a quelli di un<br />

convinto sentimento diffuso di attiva non – discriminazione, di<br />

comprendere nell’ambito della famiglia di fatto l’unione di coppie<br />

omosessuali, unione che, senza che ciò appaia implicitamente un<br />

connotato di disvalore, non può tuttavia qualificarsi come famiglia<br />

di fatto, per la semplice ragione che l’ordinamento interno non<br />

prevede, allo stato, una ‘corrispondente’ famiglia ‘legittima’ (nel<br />

senso, appunto, di originante non da meri comportamenti fattuali,<br />

ma dal vincolo matrimoniale), che possa, cioè, fondarsi sul<br />

matrimonio tra persone dello stesso sesso. Per dissipare ogni<br />

sentore di vaga omofobia da questo ragionamento, vorremmo qui<br />

dire, una volta per tutte, che chi scrive, se è portatore di pregiudizi<br />

nei confronti della tendenza (omo)sessuale, per usare lo stesso<br />

termine utilizzato dall’articolo 21 co.1 – relativo al principio di non<br />

193


discriminazione - della Carta di Nizza o Carta dei Diritti<br />

Fondamentali, che è parte integrante dei Trattati dell’Unione<br />

Europea, lo è di un pregiudizio favorevole, e ciò per ragioni<br />

culturali, estetiche, storiche, politiche, ma soprattutto per<br />

insegnamento della vita. L’ assunto di cui si tratta, quindi, non è<br />

frutto di simpatia od antipatia socio-culturale verso la ‘causa’<br />

omosessuale, bensì la diretta inferenza di un dettato costituzionale<br />

esplicito, quello dell’articolo 29 della Costituzione repubblicana, che<br />

stabilisce che ‘La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società<br />

naturale fondata sul matrimonio’. Ora, molte ed interessanti sono le<br />

riflessioni esegetiche che possono svolgersi sull’articolo 29 della<br />

Costituzione, ed in parte cercheremo di darne conto in seguito, ma<br />

certamente nulla era più lontano dall’intento del legislatore<br />

costituente che immaginare che quella norma si riferisse in qualche<br />

modo all’unione familiare di persone dello stesso sesso.<br />

2. Famiglia tra natura, storia e Costituzione. Il riferimento<br />

costituzionale alla famiglia come ‘società naturale’ è dunque un<br />

termine (inteso proprio come delimitazione di un confine<br />

normativo ed ermeneutico della materia) col quale bisogna fare i<br />

conti seriamente. Al di là, infatti, di acrobazie argomentative,<br />

sempre possibili, e magari stimolanti per la loro perizia<br />

funambolica (chi volesse leggerne un esempio molto recente<br />

può accostarsi a Cass. 15 marzo 2012 n.4184, in materia di<br />

trascrivibilità in Italia di un matrimonio omosessuale contratto<br />

all’estero, che rifiuta la trascrizione di un matrimonio consimile,<br />

con l’asserzione però - che è stata, non a caso, salutata od<br />

esecrata dalle opposte tifoserie, come chissà quale ‘apertura’ ad<br />

innovazioni normative in materia -, che la ‘intrascrivibilità delle<br />

unioni omosessuali dipende non più dalla loro inesistenza ma dalla loro<br />

inidoneità a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano’ ,<br />

dove la cripticità della motivazione sottende probabilmente una<br />

certa opacità concettuale), resta il fatto che, alla luce delle<br />

tradizioni romanistica, cattolico-liberale e laica, che certamente<br />

confluirono nella genesi costituzionale, per il nostro<br />

194


ordinamento giuridico primario, la famiglia è quella fondata sul<br />

matrimonio ‘naturale’, per il quale si dovrebbe (o per lo meno si<br />

doveva) intendere “l’accordo fra un uomo e una donna nelle forme e<br />

secondo le procedure previste dalla legge”. (Questa osservazione, come<br />

alcuni degli spunti che seguono, è dovuta ad un Autore non<br />

certo di inclinazione reazionaria, come Cesare Salvi, che la<br />

formula in Natura e storia nell’evoluzione del diritto di famiglia<br />

in Italia – Studi in onore di Antonio Palazzo, UTET, 2009 pagg.<br />

807 e segg.). L’evocazione del diritto naturale può, perciò,<br />

condurre ad eclatanti antinomie, ma può anche contenere un<br />

significato normativo di perdurante attualità. E’ stato, infatti,<br />

notato che, per un verso, essa parrebbe legittimare il rinvio ad<br />

una sorta di ordinamento meta – costituzionale nel quale la<br />

fissità di certi valori giusnaturalistici, specie se assunti come<br />

derivati dalla comunicazione alla natura dell’impronta della<br />

divinità creatrice, li rende non negoziabili e non disponibili<br />

dall’ordinamento giuridico, quand’anche di matrice<br />

costituzionale, e quindi sottratti al circuito di legittimazione,<br />

essenzialmente formale e procedurale, che è proprio della<br />

democrazia politica, e della sua inevitabile inclinazione al<br />

relativismo maggioritario. Per altro verso, è possibile leggere la<br />

‘finestra’ giusnaturalista apparentemente spalancata dall’articolo<br />

29 Cost., come il rinvio alla interpretazione sociologica della<br />

realtà fattuale dei rapporti familiari, intesa come preesistenza<br />

oggettiva e consistenza formativa del contenuto della norma<br />

costituzionale, e comunque evolutiva e mutevole in consonanza<br />

con il divenire del polimorfismo dei costumi e con l’omaggio a<br />

quella dialettica storicista che doveva essere cara alla formazione<br />

filosofica e politica di molti Costituenti. Certo che, nella<br />

concretezza della storia ordinamentale, le cose sono state più<br />

somiglianti alla seconda che alla prima di queste alternative. E’<br />

facile, infatti, ricordare come la matrice ‘naturale’ ed immutabile<br />

della famiglia, quale realtà originaria ed almeno parzialmente<br />

immodificabile dal legislatore, sia stata sostenuta in passato a<br />

fondamento di connotati dell’istituzione familiare rivelatisi,<br />

195


invece, via via perfettamente contingenti, ed in qualche modo<br />

‘figli del tempo’, destinati ad essere superati dal mutamento<br />

degli assetti della società e del costume, senza che ne venisse,<br />

perciò, snaturata la percezione della peculiarità della famiglia<br />

come nucleo fondante dell’organizzazione sociale. Tale la sorte<br />

toccata nell’ordinamento italiano e, nel volgere del<br />

cinquantennio di fine secolo, all’indissolubilità del vincolo<br />

matrimoniale, alla enunciazione della ‘patria’ potestà genitoriale,<br />

con la conseguente supremazia paterna e maritale nella vita<br />

familiare, alla preferenza per i figli legittimi rispetto a quelli nati<br />

fuori dal matrimonio, alla cancellazione della rilevanza penale,<br />

già ricordata, dell’adulterio e del concubinato, a quella<br />

dell’esimente ‘per motivi d’onore’ in certi delitti familiari, ma<br />

anche, sul versante privatistico, al tramonto dell’istituto dotale,<br />

a quello della preferenza dei consanguinei sul coniuge nella<br />

successione, e del regime di separazione patrimoniale tra coniugi<br />

rispetto a quello della comunione legale degli acquisti. Insomma,<br />

la storia del costume ed il cambiamento della società sono<br />

entrati, di fatto e con veemenza, nell’istituzione familiare, anche<br />

considerata come oggetto normativo, sicché questa ‘società<br />

naturale’, a dispetto della sua presunta matrice e legittimazione<br />

extra – giuridica, è stata, in concreto, uno dei settori<br />

dell’ordinamento che più profondamente è risultato interessato<br />

da innovazioni e riforme radicali (enormemente di più, tanto per<br />

fare un esempio, del diritto di proprietà e dei contratti, che<br />

‘grosso modo’ è rimasto tuttora quello delineato dal legislatore<br />

del 1942). Ma l’operatore del diritto, specie a fronte del grande<br />

rilievo che tuttora la giurisprudenza costituzionale assegna al<br />

‘favore’ per la famiglia di origine matrimoniale testualizzato<br />

dall’art.29 Cost., non può accontentarsi di un’interpretazione<br />

apparentemente abrogante della valenza ‘giusnaturalistica’ del<br />

richiamo in esso contenuto. E se per tale enunciazione si vuole<br />

– e si deve – ricercare un’attualità precettiva, questa dovrebbe<br />

essere ricavata dalla lettura dell’articolo 29 in parallelo con<br />

l’articolo 2 della Costituzione, che contiene, come noto, un altro<br />

196


‘riconoscimento’ nodale - pressoché identico nella<br />

formulazione - di un giacimento di diritti pre – ed in qualche<br />

modo super – costituzionali: quello che la Costituzione compie,<br />

dei ‘diritti inviolabili dell’uomo’, in linea con la più limpida<br />

tradizione declarazionistica che solennemente avvicina i nostri<br />

Costituenti ai Maestri delle Grandi Rivoluzioni del 1776 e del<br />

1789, e che non a caso si colloca nella stessa irripetibile temperie<br />

morale post – bellica, che avrebbe, di lì a poco, portato alla<br />

Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, fatta in nome di<br />

tutta l’umanità dai ‘ popoli delle Nazioni Unite’ nel dicembre<br />

del 1948. Sembra, perciò, di poter comprendere come le molte<br />

anime democratiche del nostro processo costituente si siano<br />

trovate consonanti nel riconoscere alla famiglia uno statuto di<br />

diritti e di libertà originarie ed inviolabili, paragonabile a quello<br />

dei diritti inviolabili dell’uomo, in aperta polemica con ogni<br />

finalità autoritaria o, peggio, totalitaria e con ogni ricostruzione<br />

funzionalistica dell’istituto familiare, che non potrà, perciò,<br />

essere strumentalizzato dall’ordinamento ai propri fini, ma<br />

dovrà essere considerato esso stesso come nucleo di una finalità<br />

ordinamentale primaria di tutela e di promozione della libertà<br />

individuale e di garanzia dell’esplicazione della persona umana:<br />

non si dimentichi, in fin dei conti, che solo con la fine della<br />

guerra civile era stata da poco abrogata l’odiosa formulazione<br />

dell’art.145 del C.C. dove si leggeva che “Il matrimonio impone ad<br />

ambedue i coniugi l’obbligazione di mantenere, istruire ed educare la prole.<br />

L’educazione e l’istruzione devono essere conformi ai principi della morale e<br />

al sentimento nazionale fascista” . Insomma, pur all’esito di percorsi<br />

e sensibilità culturali e politiche assai diverse, la nostra<br />

Costituzione ha delineato la famiglia come ‘isola di libertà’,<br />

libertà anche dalle prevaricazioni potenziali di<br />

quell’ordinamento giuridico, che pure ne sostanzia la disciplina;<br />

un’isola per la quale ancora oggi significa qualcosa la metafora<br />

un po’ aulica, con la quale, in quel fatale 1948, A.C. Jemolo<br />

(che, per vero, costituente non fu) la descriveva: “la famiglia<br />

appare sempre come un’isola che il mare del diritto può lambire soltanto…<br />

197


la famiglia è la rocca sull’onda ed il granito che costituisce la sua base<br />

appartiene al mondo degli affetti, degli istinti primi, alla morale, alla<br />

religione, non al mondo del diritto”. Per altro verso, proprio la<br />

lettura integrata dell’articolo 2 e dell’articolo 29 della<br />

Costituzione ha consentito alla consolidata giurisprudenza<br />

costituzionale di riconoscere forme diverse di protezione e<br />

rilevanza costituzionale alla famiglia di origine matrimoniale (e,<br />

possiamo aggiungere, di stampo eterosessuale), che trova il suo<br />

riferimento nell’esplicita primazialità assegnatale dall’art.29,<br />

senza negare tutela alla famiglia di fatto e, potenzialmente, alla<br />

convivenza omosessuale, che sono fatte confluire tra le<br />

‘formazioni sociali’ di rilevanza costituzionale all’interno delle<br />

quali la formulazione particolarmente duttile dell’art.2 riconosce<br />

esplicarsi la personalità umana, con il suo patrimonio di diritti<br />

inviolabili, tra i quali certamente rientra quello alla non –<br />

discriminazione in ragione delle tendenze sessuali, ora<br />

espressamente codificato, se mai ve ne fosse stato bisogno, dal<br />

diritto comunitario. Così, in modo particolarmente netto, la<br />

sentenza n.138 del 2010 della Consulta ha affermato senza giri<br />

di parole che l’eventuale introduzione nel nostro ordinamento<br />

del matrimonio tra persone dello stesso sesso sarebbe<br />

incostituzionale per violazione dell’art.29, in ragione del quale<br />

la famiglia fondata sul matrimonio è esclusivamente quella tra<br />

uomo e donna, posto che le unioni omosessuali non possono<br />

essere ‘omogenee’ al matrimonio: ma che queste ultime devono<br />

trovare tutela nell’articolo 2 Cost., che accorda rilievo e<br />

protezione alle formazioni sociali dove si svolge la personalità<br />

dell’uomo. Non sarà pertanto irragionevole aspirare alla<br />

meritevolezza di tutela ordinamentale per tutti quegli aspetti<br />

della stabile convivenza tra soggetti dello stesso sesso, quando<br />

questi appaiano lo strumento di esplicazione dei valori di fedeltà<br />

esistenziale programmatica, di assistenza morale e materiale, di<br />

disponibilità alla coabitazione, collaborazione e contribuzione al<br />

sostenimento degli oneri comuni, che la percezione sociale<br />

assimila sempre più convintamente al contenuto dei medesimi<br />

198


199<br />

obblighi che nascono dal matrimonio ai sensi dell’art. 143 C.C.,<br />

e la cui protezione non può pertanto circoscriversi al solo<br />

ambito matrimoniale, in omaggio al principio di non –<br />

discriminazione di quelle diverse inclinazioni e scelte personali<br />

che, precludendosi il matrimonio, ne attuano tuttavia, in parte la<br />

funzione socialmente apprezzata. Del resto, la tutela della<br />

famiglia di fatto e della convivenza stabilizzata origina, per sua<br />

natura, dall’applicazione a casi concreti: quasi commuove<br />

ricordare che forse il primo esempio rinvenibile nella<br />

legislazione italiana è quello della normativa sulle pensioni di<br />

guerra del ’15 – ’18, che, a determinate condizioni, estendeva il<br />

trattamento vedovile alla donna che fosse convissuta per un<br />

certo tempo con il militare deceduto; e fa parte dell’aneddotica<br />

giuridica ricordare che un contributo decisivo all’approvazione<br />

dei francesi “PACS” o “patti civili di solidarietà” pare sia stato<br />

dato dall’emozione suscitata nell’opinione pubblica dal caso<br />

della continuazione del contratto locativo dell’abitazione<br />

‘familiare’ in capo al sopravvissuto di una coppia omosessuale,<br />

nella quale uno dei partners era morto di AIDS.<br />

3. “From status to contract” (from contract to love). La<br />

gamma regolativa sempre più ampia potenzialmente richiesta<br />

dalle situazioni stabili di vita comune, che abbiamo visto<br />

evolversi dalla famiglia di fatto alle convivenze legali tra persone<br />

dello stesso sesso (ma che, una volta caduto il limite della<br />

qualificazione affettiva della radice causale della convivenza,<br />

potrebbero facilmente estendersi, non senza ambiguità, alle<br />

convivenze motivate da mutua necessità assistenziale, dalla<br />

condivisione di certe condizioni professionali, o di scelte di<br />

impegno sociale o di professione religiosa, così determinando<br />

una non auspicabile confusione tra rilevanza del mero<br />

censimento anagrafico e quella delle significatività sociale e<br />

giuridica delle formazioni riferibili in senso lato alla solidarietà di<br />

tipo para – familiare), pone il problema della<br />

contrattualizzazione degli accordi tra conviventi tendenti a


disciplinare i molteplici aspetti personali e patrimoniali del loro<br />

rapporto, spesso in funzione della ragionevole considerazione<br />

dell’accudimento della prole o delle conseguenze della<br />

cessazione della convivenza stessa, sia questa derivante o meno<br />

all’apertura della successione di uno dei conviventi. L’apparente<br />

duttilità ed aderenza agli interessi delle parti che ci si dovrebbe<br />

attendere da questo tipo di regolamentazione rimanda, di primo<br />

acchito, a quello strumento principe dell’autonomia privata che<br />

è il contratto, con un pregnante richiamo all’ enunciato di uno<br />

dei padri della sociologia del diritto del XIX Secolo, l’inglese<br />

Henry J. Maine, molto citato invero per la tesi (‘from status to<br />

contract’, sinteticamente) che individua il tratto saliente nel<br />

passaggio tra l’antica e moderna collocazione dell’individuo<br />

rispetto all’ordinamento giuridico proprio nel progressivo<br />

abbandono delle posizioni attributive di uno ‘status’ di<br />

appartenenza, cui inerisce una sorta di preconfezionata<br />

condizione di titolarità di diritti ed obblighi astrattamente<br />

preordinati dalla norma, a vantaggio delle posizioni facenti capo<br />

ad un accordo contrattuale, nel quale l’individuo, partendo da<br />

una situazione di uguaglianza formale di fronte all’ordinamento,<br />

assume liberamente e consapevolmente diritti ed obblighi, che<br />

contribuisce egli stesso in larga parte ad autodeterminare<br />

contrattualmente in conformità dei propri interessi negoziali.<br />

Ma l’applicazione dello strumento contrattuale alla realtà<br />

familiare, e particolarmente all’ipotesi di disciplinare con tale<br />

mezzo le famiglie e le convivenze non matrimoniali, come se si<br />

trattasse di creare una specie di matrimonio ‘alla carta’, fatto su<br />

misura per i paciscenti e per la tutela dei loro contingenti<br />

interessi, incontra almeno tre ordini di perplessità in relazione<br />

all’ordinamento interno. In primo luogo, quella legata alla<br />

necessità, stabilita dall’art.1321 C.C., che le prestazioni che<br />

costituiscono l’oggetto del contratto abbiano carattere di<br />

patrimonialità: il che autorizza molti dubbi sulla legittimità di<br />

affidare al contratto la regolamentazione di tutti quegli aspetti<br />

della relazione fra conviventi non inerenti la sfera patrimoniale,<br />

200


ensì il libero atteggiarsi della volontà di condivisione di vita<br />

comune degli interessati. Per tale ragione, si devono ritenere<br />

espunte dalla possibilità di valida contrattualizzazione quasi tutte<br />

le manifestazioni riconducibili all’area dei rapporti personali dei<br />

conviventi, e quindi, per esempio, all’obbligo di fedeltà, a quelli<br />

attinenti alla sfera della libertà sessuale, alla libera esplicazione<br />

dei diritti circa l’esercizio, nella convivenza, delle convinzioni<br />

religiose o degli orientamenti politici dell’individuo; e,<br />

naturalmente, gli obblighi inerenti la stabilizzazione del rapporto<br />

stesso di convivenza: il che depone per l’illegittimità di<br />

condizioni penali o premiali direttamente collegati alla<br />

persistenza della situazione di convivenza. Un’altra area<br />

problematica si connette alla statuizione dell’art. 1372 C.C., per<br />

il quale il contratto non ha efficacia che fra le parti e non<br />

produce effetti verso i terzi, se non nei casi previsti dalla legge.<br />

Il che impedisce al contratto fra conviventi di regolare<br />

efficacemente tutte quelle situazioni in cui la convivenza debba<br />

produrre effetti ‘esterni’, come accade, per esempio, quando si<br />

tratta di definire il diritto a prestazioni della pubblica<br />

amministrazione o di soggetti terzi (si pensi alle situazioni<br />

pensionistiche od indennitarie), od il regime di comunione o<br />

separazione patrimoniale degli acquisti effettuati nella pendenza<br />

della convivenza medesima; od ancora quando gli effetti della<br />

contrattualizzazione si scontrano con aree normative dove lo<br />

stabilimento di vincoli contrattuali è espressamente escluso in<br />

omaggio al dogma di una volontà, come, nel nostro<br />

ordinamento, quella testamentaria, che deve rimanere<br />

incoercibile ed ‘ambulatoria” sino al momento della morte: il<br />

che significa che i patti tra conviventi non potranno spingersi a<br />

disciplinare contrattualmente gli aspetti della successione<br />

dell’uno o dell’altro, senza incorrere nel divieto di quegli stessi<br />

“patti successori” che rimangono inibiti, salve limitate eccezioni,<br />

alla generalità dei soggetti dell’ordinamento. Ed infine, la terza<br />

area problematica investe più in generale l’effettiva idoneità<br />

dello strumento contrattuale a regolare situazioni in cui possa<br />

201


202<br />

sussistere una concreta asimmetria tra le capacità dei contraenti<br />

di valersi con la stessa efficacia del contratto, e ciò in ordine alle<br />

diverse attitudini e grado di istruzione delle parti, alla rispettiva<br />

disponibilità e comprensione di tutte le informazioni relative<br />

alla fattispecie da regolare, alla possibilità di accesso a qualificati<br />

strumenti consulenziali, e quindi alla capacità economica di<br />

sostenerne l’onere, e così via. In sostanza, è legittimo il dubbio<br />

che tutte le volte che esista un contraente debole, e questa è una<br />

situazione che si può riproporre per le ragioni più diverse<br />

all’interno della convivenza para - familiare, la proposizione di<br />

Maine perda attendibilità, e che questo tipo di contraente possa<br />

invece trarre maggiore tutela dalla fruizione di una condizione<br />

di ‘status’ di diritti, che la legge si propone di assicurare in via di<br />

uniformità e di inderogabilità a determinate fattispecie,<br />

piuttosto che dalla condizione di contraente di un patto, in<br />

relazione al quale egli non sia stato in grado di esplicare in<br />

concreto, e con tutta la richiesta effettività, la propria autonomia<br />

negoziale. In questo contesto di non dissipate ambiguità di ciò<br />

che abbiamo tentato di descrivere come una specie di<br />

‘matrimonio alla carta’ derivante non dall’esplicita assunzione<br />

del vincolo matrimoniale, ma dalla contrattualizzazione di<br />

alcuni aspetti di una convivenza legittimata dalla sola apparenza<br />

comportamentale, non si può nemmeno escludere che risorga,<br />

specie nella dialettica delle generazioni, una nuova positiva<br />

considerazione per il tradizionale istituto familiare a<br />

fondamento matrimoniale, il quale, divenuto non più il giogo<br />

necessario della qualificazione giuridica di ogni progetto di vita<br />

comune, ma la consapevole opzione della libera assunzione di<br />

un dovere durevole, che è anche una specie di sfida esistenziale<br />

alla fragilità delle determinazioni umane, assurga perciò ad una<br />

sua nuova reputazione come scelta, molto prima che di<br />

funzionalità giuridica, di intelligenza e di amore.


203


204


Note biografiche<br />

Mario Abrate: nasce a Racconigi nel 1951. Direttore della S.C. di<br />

Anatomia Patologica dell’Ospedale di Savigliano, mentre ricopre<br />

numerosi incarichi professionali e nelle istituzioni della società, con<br />

gli interessi scientifici ha sempre anche coltivato il versante<br />

umanistico, con brillanti sintesi nei due campi, come esemplarmente<br />

nelle sue indagini tra malattia e arte, medicina ed etica..<br />

Ezio Albrile (Torino 1962). Storico delle religioni del mondo<br />

antico. Si è occupato in particolare delle interazioni fra dualismi<br />

occidentali (orfismo, ermetismo, gnosticismo, manicheismo) e<br />

religioni dell’Iran antico (preislamico). A una nutrita bibliografia<br />

scientifica unisce quella di divulgatore culturale. È docente di storia<br />

religiosa dell’Iran e dell’Asia centrale presso il CESMEO di Torino.<br />

Giuseppe Artuffo nasce a Canelli nel 1963. Laureato in Farmacia ,<br />

negli anni ricopre cariche presso l'Ordine dei Farmacisti di Cuneo,<br />

Unifarma s.p.a. ed il proprio Comune di residenza, Santo Stefano<br />

Belbo dove viene eletto per due mandati consecutivi sindaco. In<br />

quegli anni costituisce la Fondazione Cesare Pavese e ne rimane<br />

Presidente fino alla fine del proprio mandato elettorale. Svolge la<br />

professione di Farmacista, ma si diletta anche di poesia fin dal<br />

periodo liceale ed il risultato sono due libri: "Dentro l'anima delle<br />

colline" e "Sedotti dalla luna", Pieraldo Editore.<br />

Umberto Casale: nasce a Racconigi nel 1951. Teologo e docente<br />

presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Facoltà di<br />

Teologia di Torino, è autore di numerose pubblicazioni. Collabora<br />

con diverse riviste specializzate, in particolare con “Archivio<br />

Teologico Torinese”. E’ consulente presso l’U.D.C. della Curia di<br />

Torino per la formazione degli operatori pastorali.<br />

Ivan Chiarlo: nasce a Cuneo nel 1970. Diplomato in pianoforte al<br />

Conservatorio "G.Verdi" di Torino, svolge intensa attività concertistica<br />

in numerosi teatri italiani ed europei.<br />

Natascia Chiarlo: nasce nel 1972 a Savigliano. Diplomata in<br />

pianoforte e canto lirico al Conservatorio "G.Verdi" di Torino e in<br />

formazione teatrale presso la RAI di Torino. Protagonista di recital<br />

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teatrali, si esibisce in duo con il fratello Ivan. Il duo Chiarlo<br />

(Associazione Culturale "Arturo Toscanini"), producendo spettacoli<br />

ed eventi di carattere culturale. Collabora, fra l'altro, con l'Orchestra<br />

Sinfonica di Sanremo, con il Museo Parigino a Roma e con<br />

l'orchestra Sinfonica giovanile del Piemonte. Il duo è promotore<br />

dell'evento"La Santità sconosciuta – Piemonte terra di Santi" che si svolge<br />

annualmente nell'Abbazia di Staffarda<br />

Renato Coda: nasce a Torino nel 1946. Professore di Anatomia<br />

Patologica all’Università di Torino, dirige la Struttura Complessa di<br />

Oncologia dell’Ospedale Gradenigo di Torino. Da alcuni anni<br />

insegna Iconografia delle malattie nella Scuola di Perfezionamento<br />

di Paleopatologia all’Università di Pisa.<br />

Martina Corgnati (1963) insegna Storia dell’arte all’Accademia di<br />

Belle Arti di Catania. È autrice di numerose monografie di artisti<br />

contemporanei, tra i quali Pinot Gallizio (Essegi, Ravenna 1992),<br />

Albino Galvano (Tip. Valdostana, Aosta 1995), Bernard Damiano<br />

(Electa, Milano 1995), Lamberto Pignotti (Parise, Colognola ai Colli<br />

1996), Enrico Baj. Catalogo generale (Marconi-Menhir, Milano-La<br />

Spezia 1997). Tra le sue pubblicazioni: Dizionario d’arte contemporanea<br />

(con Francesco Poli, Feltrinelli, Milano 1994); Cracking art. Nascita di<br />

un’avanguardia (Mazzotta, Milano 2005) e la cura di Meret Oppenheim<br />

(Skira, Milano 1998). È presidente del comitato scientifico del<br />

Premio Suzzara, consulente responsabile per l’arte contemporanea<br />

del Parco Letterario Horcynus Orca (Messina), consulente per le<br />

attività espositive dei Musei di Spoleto. Collabora stabilmente a<br />

diversi periodici e quotidiani con rubriche e interventi dedicati<br />

all’arte moderna e contemporanea. Per la Bruno Mondadori ha<br />

pubblicato Dizionario dell’arte del Novecento (Milano 2001) e Artiste<br />

(Milano 2004).<br />

Michele Emmer (1945) e’ professore ordinario di matematica<br />

all’università’ di Roma “La sapienza”. Si e’ occupato di superfici<br />

minime e di calcolo delle variazioni, di computer graphics, dei<br />

rapporti tra matematica e arte, tra matematica e cultura, di film, di<br />

mostre. Ha realizzato 18 film della serie “Arte e matematica” tra cui<br />

il film su Esche e Flatlandiar. Ha organizzato mostre: una parte della<br />

sezione “Spazio” della Biennale di Venezia del 1986; la prima<br />

mostra di Escher in Italia nel 1986; la mostra itinerante “L’occhio di<br />

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Horus” nel 1989. Una seconda mostra su Escher nel 1998 a Roma<br />

e Ravello. L’ultima mostra “Acquarelli di Peter Greenaway” Venezia<br />

2006. Organizza da 14 anni il convegno “Matematica e cultura” a<br />

Venezia, e’ editor della serie Springer “Mathematics and Culture” e<br />

della serie “The Visual Mind”, MIT Press. Ha scritto per 25 anni su<br />

L’Unita’, Diario, Sapere. Collabora a Alfabeta2, La Stampa, Il<br />

Manifesto, Galileo. Dal 2006/07 ha tenuto un corso all’università’ di<br />

Roma su “Spazio e forma”.Ultimi libri: “Bolle di sapone tra arte e<br />

matematica”, 2009, premio letterario Viareggio 2010; “Numeri<br />

immaginari: cinema e matematica”, Bollati Boringhieri, 2011; “Il mio<br />

Harry ’s bar”, Archinto ed., 2012; “Imagine Math”, Springer, 2012;<br />

“Flatlandia di E. Abbott, con il suo film omonimo in DVD, con<br />

musiche di Ennio Morricone, 2008, "Visibili armonie arte cinema<br />

teatro matematica", 2007, tutti con Bollati Boringhieri; "The Visual<br />

Mind 2", MIT Press, 2006; “M. C. Escher ’s Legacy” Springer USA,<br />

2003, "Mathematics and Culture VI", Springer verlag, 2009; un<br />

capitolo in "Venise", Flammarion, Paris, 2006, “Matematica e<br />

cultura 2009”, Springer 2009, “Matematica e cultura 2011”,<br />

Springer, 2011. La fiaba “Fiore del vento”, Centro Internazionale<br />

della Grafica di Venezia, “Una notte ballando”, Minima poetica,<br />

2007. Ha ricevuto nel1998 il premio "Galileo" dalla Unione<br />

Matematica Italiana, nel 2004 il premio “Pitagora”. E’ stato membro<br />

per 3 anni della Commission for the popularization of math of the<br />

European Math Society.<br />

Piero Flecchia: nasce a Torino nel 1938. Esordisce come narratore<br />

apprezzato da Filippini Contini e Pampaloni (Bompiani, Emme<br />

edizioni, Lerici) per poi studiare, dagli anni 1970, quasi soltanto<br />

l’istituzione stato, sulla quale ha pubblicato episodici e dispersi saggi<br />

e articoli.<br />

Ezio Fulcheri: nasce ad Alba nel 1952. Professore di Anatomia<br />

Patologica presso l’Università di Genova e di Paleopatologia presso<br />

l’Università di Torino. Responsabile del Centro di Patologia fetoneonatale,<br />

svolge attività diagnostica e di ricerca sulle malformazioni<br />

congenite. Presidente dell’Associazione “L’abbraccio di don Orione”<br />

per la tutela e la cura dei neonati e della maternità.<br />

(www//abbracciodonorione.it)<br />

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Giorgio Giacosa nasce a Torino nel 1932. Una naturale<br />

inclinazione lo porta alla musica, dove si affermerà, tra la RAI e le<br />

sue orchestre, tra i più raffinati esecutori musicali tanto al flauto che<br />

al sax e clarinetto. La sua versatilità e vasta sensibilità, come<br />

documentano le molte incisioni, gli ha consentito di affermarsi sia<br />

nella musica classica, nel jazz, che nella musica leggera. Della sua<br />

vasta esperienza ama ricordare, accanto al sodalizio musicale con il<br />

maestro Carlo Sismonda, la decisiva e formativa - tra il<br />

millenovecentocinquantacinque e il ’sessanta - esperienza accanto al<br />

grande Fred Buscaglione.<br />

Lino Lantermino: nato nel 1940, farmacista per necessità, studioso<br />

della Shoah per passione, tiene corsi, conferenze ed incontri.<br />

Predicatore battista, si occupa part time del tempio evangelico di<br />

Cuneo.<br />

Beppe Mariano: nato nel 1938 a Savigliano. Poeta e scrittore. Negli<br />

anni ’70 ha fondato, con Sebastiano Vassalli, la rivista “Pianura” ed<br />

è stato “Poeta visivo” (Catalogo Marcovaldo 2002). Già Direttore<br />

del Teatro Toselli di Cuneo. Per venti anni ha scritto sulla terza<br />

pagina della “Gazzetta del Popolo” ed in seguito su “Stampa Sera”.<br />

Premiato più volte in concorsi letterari. Ha pubblicato sette raccolte<br />

di poesia, l’ultima delle quali, “Il passo della salita” (Interlinea 2007),<br />

raccoglie trent’anni di lavoro. Del 2010, “Mòria e Mistà. Ballate dei<br />

monti perduti”. Da quattro anni condirettore della rivista romana di<br />

narrativa e critica“Il cavallo di Cavalcanti”. In corso di stampa, presso<br />

“Aragno Editore” l’opera omnia della sua produzione poetica.<br />

Massimo Martinelli: (Cuneo 1955), Notaio in Cuneo. Ex<br />

Magistrato e Procuratore dello Stato. Attualmente membro del<br />

Comitato Esecutivo di Unicredit Mediocredito Centrale. Presidente<br />

dell’Osservatorio Famiglia e Impresa presso la Facoltà di Economia<br />

dell’Università di Torino, sede di Cuneo. Si è avvicinato, in<br />

particolare, al Diritto della Bioetica e della Tutela delle Persone<br />

Svantaggiate.<br />

Lorenzo Orione: nato nel 1960 a Genova da antica famiglia<br />

piemontese di Piverone, è medico specialista in Igiene e Medicina<br />

Preventiva, Epidemiologia e Sanità Pubblica. Direttore della<br />

Struttura Complessa Unità di Valutazione e Organizzazione degli<br />

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Screening (<strong>Prevenzione</strong> <strong>Serena</strong>) per le aziende sanitarie ed<br />

ospedaliera della Provincia di Cuneo, è autore di numerose<br />

pubblicazioni medico-scientifiche inerenti l’epidemiologia e gli<br />

screening dei tumori. Culturalmente tradizionalista e moderato, di<br />

formazione cattolica e studi superiori scientifici, ritenendosi tenuto<br />

per la sua condizione a obbedire alla legge morale, si conforma ad<br />

Audi, Vide, Tace, posto sempre che Omnia tempus habent.<br />

Vanna Pescatori: nata a Trieste nel 1953, si è laureata nell'ateneo<br />

triestino in Filosofia teoretica. Docente di materie letterarie dal<br />

1977, tiene da tre anni il corso di Teoria e Metodo dei Mass Media<br />

all'Accademia di Belle arti di Cuneo. Da oltre vent'anni collabora<br />

come giornalista alla testata de < La Stampa > edizione di Cuneo,<br />

per le pagine culturali e, più sporadicamente, con alcune altre testate<br />

del territorio.<br />

Gianni Rabbia: nasce ad Omegna nel 1944. Già docente di<br />

letteratura negli Istituti Superiori e direttore IRRE Piemonte.<br />

Attualmente è Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di<br />

Saluzzo. Collabora con alcune testate locali.<br />

Daniela Ribetto: nata nel 1955 a Pinerolo. Docente di materie<br />

letterarie presso un Istituto di Istruzione Superiore della provincia.<br />

Dal 1989 iscritta all’Ordine degli Psicologi del Piemonte (art. 32 L.<br />

56/89), si occupa di psicologia dell’età evolutiva.<br />

Savino Roggia: nasce a Orta Nova (FG) nel 1946. Già ricercatore<br />

nei laboratori del Gruppo Lepetit a Milano, dal 1980 è titolare della<br />

farmacia di Vernante, Cuneo. Da pubblicista ha scritto per le testate<br />

giornalistiche della provincia Granda e pubblicato il libro-dossier<br />

Farmacia, Salute e Informazione. E’ impegnato nell’esegesi de “Le<br />

Avventure di Pinocchio” di cui è prossimo un primo saggio.<br />

Franco Russo: nato nel 1946. Dopo aver frequentato il liceo<br />

classico “Pellico” di Cuneo si laurea all’Università di Torino in<br />

Lettere moderne con il prof. Barberi Squarotti discutendo una tesi<br />

sul teatro inedito di Edoardo Calandra. Insegna per alcuni anni in<br />

scuole medie e superiori della provincia di Cuneo. Dal 1978<br />

intraprende la carriera di preside prima in scuole medie ed istituti<br />

comprensivi della provincia e dal 2007 presso il liceo classico di<br />

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Cuneo che lo ha visto studente. Scrive molto ma preferisce<br />

destinare quello che scrive ad una ridotta cerchia di amici piuttosto<br />

che collocarlo su riviste destinate ad un pubblico più vasto.<br />

Sergio Soave: nasce a Savigliano nel 1946. Professore di storia<br />

contemporanea all’Università degli Studi di Torino, collabora con<br />

numerose riviste del settore. Ha studiato i problemi del movimento<br />

cattolico, delle autonomie regionali e del movimento socialista. Dal<br />

1983 al 1992 e, successivamente, dal 1996 al 2001 è stato deputato<br />

al Parlamento. Dal 1996 al 2004 ha ricoperto la carica di sindaco<br />

della città di Savigliano.<br />

Ugo Volli (1948) è ordinario di Semiotica del testo all'Università di<br />

Torino, dove coordina anche il Centro interdipartimentale di ricerca<br />

sulla comunicazione (CIRCE) e l'indirizzo comunicativo del<br />

dottorato di ricerca in scienze del linguaggio e della comunicazione.<br />

Ha al suo attivo oltre 250 pubblicazioni scientifiche e una quindicina<br />

di libri. Collabora con vari giornali, radio e televisioni. Svolge attività<br />

di consulenza sulla comunicazione per numerose aziende e<br />

istituzioni pubbliche. Ha insegnato in numerose università italiane<br />

straniere. Fra i suoi libri più recenti, "Laboratorio di semiotica"<br />

(Laterza 2005). "Lezioni di filosofia della comunicazione" (Laterza<br />

2008), "Parole in gioco" (Compositori 2009).<br />

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