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1<br />
Associazione culturale umanistica<br />
“ All’ombra del Monviso “<br />
“I.N.R.I.”<br />
ambiguità dell’apparenza/apparenza dell’ambiguità<br />
Racconigi, 23 giugno 2012
In copertina: C. Sismonda “La Cattedrale di Strasburgo”, 2005, olio su tela<br />
2
Imponente ma fragile, svettante verso l’infinito ma trattenuta e quasi<br />
compromessa dall’ineludibile contatto con la terra: la Cattedrale di<br />
Strasburgo di Carlo Sismonda, un intenso dipinto del 2005 scelto<br />
come immagine–guida di questo convegno, dimostra in pochi tratti<br />
tutta l’immensa libertà conquistata dell’artista cuneese alla fine del<br />
suo cinquantennale percorso. Scartato a priori il possibile, anzi<br />
incombente, modello offerto dalle cinquanta e più varianti della<br />
Cattedrale di Rouen di Monet, con cui non ha molto da spartire,<br />
Sismonda non disdegna invece il ricordo della Cattedrale di Auvers<br />
dell’amatissimo van Gogh, da cui deduce forse certi tratti, obliqui e<br />
come appesantiti, e quel senso di generale incertezza che assedia gli<br />
edifici come l’esistenza e la coscienza dell’uomo. Ma personalissimo<br />
è, infine, quel corpo ottuso che ci appare grande e piccolo insieme,<br />
un giocattolo compresso dalla profondità eppure capace di<br />
dominare il paesaggio, vibrando l’acuto del campanile come un<br />
dardo nel cielo infuocato di colore. Colpito, infatti, il cielo sembra<br />
ritrarsi in curve e spirali che assecondano i profili del corpo<br />
dell’edificio, inquieto, accompagnandone il peso con l’elegante<br />
leggerezza di nubi dai colori esuberanti, annegate nel colore vivo di<br />
un tramonto quasi temporalesco.<br />
Il naturalismo, è chiaro, è appena una memoria lontanissima e,<br />
tuttavia, Sismonda riesce a rendere visibile la forza e la bellezza di un<br />
istante, il cielo già gravido di notte, il senso irrecuperabile dell’attimo<br />
sgargiante dell’ultima luce cui lo sguardo vorrebbe aggrapparsi e che<br />
invece, inesorabilmente e rapidamente, trascorre.<br />
La stessa mole della cattedrale, illuminata dallo squillo dei tetti rossi,<br />
sembra resa vibrante e viva dalla sensibilità dell’artista: una<br />
sensibilità che sempre ha cercato di rispecchiarsi in ogni oggetto, in<br />
ogni paesaggio, in ogni ambiente dipinto, facendone ogni volta una<br />
specie di specchio infedele capace di riflettere, oltre alla natura<br />
visibile, la mente e l’occhio, invisibili ma sempre presenti<br />
Martina Corgnati<br />
5
7<br />
Associazione culturale umanistica<br />
“ All’ombra del Monviso “<br />
“I.N.R.I.”<br />
ambiguità dell’apparenza/apparenza dell’ambiguità<br />
Contributi di<br />
Mario Abrate Ezio Albrile Beppe Artuffo Umberto Casale<br />
Ivan e Natascia Chiarlo Renato Coda Martina Corgnati<br />
Michele Emmer Piero Flecchia Ezio Fulcheri Giorgio Giacosa<br />
Lino Lantermino Beppe Mariano Massimo Martinelli Lorenzo<br />
Orione Vanna Pescatori Gianni Rabbia Daniela Ribetto Savino<br />
Roggia Franco Russo Sergio Soave Ugo Volli<br />
Racconigi, 25 giugno 2011
8<br />
Patrocini<br />
Provincia di Cuneo<br />
Città di Racconigi<br />
Città di Savigliano<br />
Città di Torre San Giorgio<br />
ASL CN 1<br />
L’associazione culturale umanistica “All’ombra del Monviso”, nella<br />
persona del Presidente dott. Mario Abrate, ringrazia per il sostegno<br />
alla pubblicazione degli atti del convegno<br />
“I.N.R.I.”<br />
ambiguità dell’apparenza/apparenza dell’ambiguità<br />
la Provincia di Cuneo nella persona del Presidente<br />
sig.ra Gianna Gancia,<br />
la Città di Racconigi nella persona del Sindaco<br />
sig. Gianpiero Brunetti,<br />
la Città di Savigliano nella persona del Sindaco<br />
prof Sergio Soave<br />
la Città di Torre San Giorgio nella persona del Sindaco<br />
geom. Mario Monge,<br />
l’ASL CN 1 nella persona del Direttore Generale<br />
dott. Gianni Bonelli,<br />
gli Autori dei contributi,<br />
il “Centro cicogne” di Racconigi nella persona del<br />
dott.ssa Lorenza Vaschetti,<br />
il dott. Ilario Bruno, per la collaborazione all’organizzazione del<br />
convegno;<br />
il prof. Gabriele Abrate, per la precisione nella correzione delle<br />
bozze.<br />
Con l’edizione del volume, l’Associazione “All’ombra del Monviso”<br />
ha promosso anche l’edizione della stampa “Cattedrale di<br />
Strasburgo” del Maestro Carlo Sismonda, tirata in 150 esemplari
I.N.R.I.<br />
Apparenza dell’ambiguità / ambiguità dell’apparenza<br />
Intorno a nessun altro spazio concettuale, quale quello<br />
dell’ambiguità, si individua l’irriducibile opposizione, entro la<br />
tradizione occidentale, delle sue componenti fondative, per la cui<br />
dialettica l’Occidente ha preso storicamente forma:<br />
- la componente biblico-giudaica, definita dal suo contenuto<br />
religioso normativo-teologico, come enucleato dal profetismo,<br />
- la componente greco-romana, come definita dalla speculazione<br />
tecnico-giuridica, entro il quadro della metafisica.<br />
Per la componente biblicogiudaica, malgrado i forti elementi di<br />
matrice orficoapollinea presenti nel testo evangelico, nell’ambiguità<br />
si manifesta una ben precisa forza d’opposizione alla giusta via. E<br />
nulla lo denuncia quanto il passo evangelico nel quale Gesù insegna<br />
“sia il vostro dire sì sì, no no, tutto il resto viene dal maligno”,<br />
ovvero dall’ingannatore, che fa dell’ambiguità la sua grande<br />
suggestione.<br />
Oppostamente, la sapienza pagana greca classica si fonda e prende<br />
forma dal confronto con la riflessione sull’enigma, intuizione<br />
originaria del nodo problematico dell’esserci nella vita per la morte,<br />
che la ragione deve sciogliere. E nulle definisce questa posizione e<br />
modalità del conoscere quanto la massima sapienziale apollinea che<br />
insegna: “il dio non indica, accenna”.<br />
Cogliere, interpretare questi “accenni” del divino, è la via-forma<br />
originaria del conoscere greco, per il quale, per gradi, il sapere<br />
appare, lungo un percorso di penetrazione nel e illuminazione<br />
dell’enigma. E’ tra Pitagora ed Epicuro, attraverso la riflessione<br />
sull’ambiguità enigmatica dell’esistere, che dal sapere classico è<br />
evoluta la coscienza scientifica nella sua forma specifica occidentale:<br />
la coscienza di una linea di confine lungo la quale la ricerca si muove<br />
entro una dialettica del mutamento, tra caso e necessità.<br />
Nulla descrive la linea di frattura tra le due visioni del ruolo e<br />
funzione dell’ambiguità quanto, per restare nel nostro presente, la<br />
reazione di Albert Einstein davanti alla fisica quantistica, rifiutata in<br />
nome della convinzione che “Dio non gioca a dadi” con la vita.<br />
Nell’affermazione del grande fisico parla una esigenza profonda<br />
dell’uomo: muoversi in un universo stabilizzato, governato da regole<br />
9
certe, a incominciare dalle regole morali fondate sul codice<br />
mosaico, e un cui modello paradigmatico di coerenza logica è la<br />
fisica prequantistica. Ma è anche su questa necessità antropologica di<br />
“ordine” che purtroppo si sono fondate tutte le regole con le quali<br />
l’uomo, l’umana specie, cercando la salvazione nel trascendente in<br />
fuga dall’ambiguità dell’esserci nel qui e ora come esistere per la<br />
morte, ha torturato se stesso, scindendo l’ordine sociale in inquisiti e<br />
inquisitori.<br />
All’opposto sta la visione greca, come si realizza intorno al concetto<br />
di metamorfosi: l’eterno divenire e mutare delle forme, per cui al<br />
concetto di ambiguità come indicazione di un inganno e segnale<br />
della presenza dell’ingannatore, si sostituisce la convinzione che il<br />
sapere sia la comprensione delle possibili altre valenze e mutazioni<br />
presenti in ogni forma che appare, sempre indizio di altro, per cui il<br />
vero conoscere è il riconoscere il ritmo delle mutazioni e accettarsi<br />
in esse.<br />
Questo la nostra giornata di studi si propone di indagare, e, a un<br />
tempo, entro il contrasto tra le due visioni di ambiguità, e circa le<br />
ragioni che hanno prodotto due interpretazioni culturali così<br />
opposte del concetto di ambiguità.<br />
10
11<br />
La declinazione dell’Essere<br />
Osservo il mosaico che appare<br />
coi chiari e gli scuri di un’ombra<br />
che giace sinuosa sul suolo.<br />
I raggi accarezzano i corpi,<br />
si esprimono agli occhi di ognuno<br />
ed ecco che il bianco ed il nero<br />
son figli di un’unica luce:<br />
il Bene ed il Male espressioni<br />
dell’unico Verbo divino.<br />
Beppe Artuffo
13<br />
Sommario<br />
Martina Corgnati<br />
La Cattedrale di Strasburgo di Carlo Sismonda<br />
I.N.R.I. Apparenza dell’ambiguità/ambiguità dell’apparenza<br />
Beppe Artuffo<br />
La declinazione dell’Essere<br />
Beppe Mariano<br />
SAFFICA (IN TRE VARIAZIONI)<br />
Umberto Casale<br />
Dire ‘Dio’. Oltre l’ambiguita’<br />
Michele Emmer<br />
Bolle di sapone tra fragilità e stabilità<br />
Mario Abrate<br />
Ambiguità dell’apparenza/apparenza dell’ambiguità: neurobiologia<br />
dell’ambiguità e del non finito nella creatività artistica<br />
Vanna Pescatori<br />
Ambiguità. Polisemia. Libertà<br />
Ugo Volli<br />
L'utopia dell'esattezza e le ragioni dell'ambiguità<br />
Franco Russo<br />
Le ultime lettere di Giuda Iscariota<br />
Gianni Rabbia<br />
Ambiguità dell’ambiguità, tutto è ambiguità<br />
Lino Lantermino<br />
Ambiguità della memoria, fra retorica e reticenza<br />
Ezio Albrile<br />
Ambigui Gnostici<br />
Concerto in ricordo di Carlo Sismonda<br />
Giorgio Giacosa<br />
Il mio sodalizio artistico con Carlo Sismonda, quarant’anni tra<br />
musica e pittura sul filo della memoria
Lorenzo Orione<br />
Dall’ambiguità all’autoriferimento, dall’indecidibilità all’approccio<br />
veritativo: indicazioni per certezze, dalla logica formale alla<br />
metodologia della conoscenza in medicina<br />
Renato Coda<br />
I Resurrezionisti, ovvero l’ambiguità della Scienza<br />
Ezio Fulcheri<br />
L’elogio dell’ambiguità: gioco di pensieri di un patologo sulle osservazioni<br />
al microscopio.<br />
Beppe Mariano<br />
La Cattedrale di Strasburgo<br />
Daniela Ribetto<br />
“La Bella Addormentata” Quando il dono più prezioso lo porta la<br />
fata cattiva<br />
Savino Roggia<br />
L’ambiguità di Pinocchio: fondamento di libertà e verità<br />
Sergio Soave<br />
Dell’ambiguità in politica<br />
Piero Flecchia<br />
aut Ciro aut Solone. Le forme delle leggi dell'ambiguità politica<br />
dopo Darwin<br />
Massimo Martinelli<br />
Apparentemente una bella famiglia: nuove regole per la famiglia di<br />
fatto?<br />
Note Biografiche<br />
14
15<br />
SAFFICA<br />
(IN TRE VARIAZIONI)<br />
1<br />
La mela che splende dorata<br />
sul ramo più alto<br />
è stata scordata dai raccoglitori<br />
( o forse non poterono raggiungerla).<br />
Soltanto Eva, disgraziata,<br />
torna a salire così in alto.<br />
2<br />
Il grappolo nascosto da un intrico di foglie<br />
si è salvato dai raccoglitori, al sole<br />
è brillato ancora per poco.<br />
Invece di lasciarsi spremere per farsi vino,<br />
ha preferito seccare sul tralcio.<br />
Neppure Eva l’ ha raccolto.<br />
3<br />
Il grappolo, celato dal fogliame<br />
non è stato visto dai raccoglitori.<br />
Ha continuato a brillare<br />
al sole autunnale, orgoglioso<br />
di essersi sottratto<br />
alla torchiatura generale.<br />
Ma ancor prima dell'inverno<br />
è seccato sul tralcio.<br />
Invece di tanta aridità, avrebbe<br />
preferito condividere il destino<br />
degli altri grappoli fraterni:<br />
farsi generosità di vino.<br />
da "IL SEME DI UN PENSIERO. Poesie (1964-2011)"<br />
Nino Aragno Editore<br />
Beppe Mariano
Dire ‘Dio’. Oltre l’ambiguita’<br />
1. L’ambiguità odierna del linguaggio teologico<br />
Umberto Casale<br />
In un testo del 1953, il teologo ebraico Martin Buber (1878-<br />
1965) racconta di un dialogo con un anziano signore di cui era<br />
ospite, scaturito in seguito alla lettura, che questi gli aveva richiesto,<br />
delle bozze di un suo libro di carattere religioso.<br />
Terminata la lettura, iniziò a parlare in modo appassionato,<br />
trascinato dall’argomento che gli stava a cuore e disse: «Come fa a<br />
pronunciare tante volte la parola ‘Dio’? Come può aspettarsi che i<br />
lettori accolgano questo nome nel modo in cui lo vorrebbe saper<br />
inteso? Quel che intende lei con questa parola è al di sopra di ogni<br />
capacità umana di afferrare e di comprendere, proprio questo essere al di<br />
sopra lei vuole indicare; ma pronunciando questa parola la lascia in<br />
balia dell’uomo. Quale altra parola del linguaggio umano fu così<br />
maltrattata, macchiata e deturpata? Tutto il sangue innocente, che venne<br />
versato in suo nome, le ha tolto il suo splendore. Tutte le ingiustizie<br />
che fu costretta a coprire hanno offuscato la sua chiarezza. Qualche<br />
volta sentire nominare l’Altissimo col nome di ‘Dio’ mi sembra<br />
un’imprecazione».<br />
Poi, per un po’, ci sedemmo di fronte in silenzio. La stanza<br />
era inondata dalla chiarezza del primo mattino. «Si», risposi, «è la<br />
parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Nessun’altra è<br />
stata tanto lacerata e insudiciata. Proprio per questo non posso<br />
rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso<br />
della loro vita angustiata su questa parola e l’ hanno schiacciata al<br />
suolo; ora giace nella polvere e porta i loro fardelli. Generazioni di uomini<br />
hanno lacerato questo nome con le loro divisioni in partiti religiosi;<br />
hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta<br />
tutte le loro impronte digitali e il loro sangue. […]. Certamente essi<br />
disegnano caricature e scrivono sotto ‘Dio’; si uccidono a vicenda e<br />
lo fanno “in nome di Dio”. Ma quando scompare ogni illusione e<br />
ogni inganno, quando gli stanno di fronte nell’oscurità più profonda<br />
e non dicono più “Egli, Egli”, ma sospirano “Tu, Tu” e implorano<br />
17
‘Tu’, intendono lo stesso essere; e quando vi aggiungono ‘Dio’,<br />
non invocano forse il vero Dio, l’unico vivente, il Dio delle creature<br />
umane? Non è forse lui che li ode? Che li esaudisce? La parola ‘Dio’<br />
non è forse proprio per questo la parola dell’invocazione, la parola<br />
divenuta nome, consacrata per tutti i tempi in tutte le lingue umane?<br />
Non possiamo lavare di tutte le macchie la parola “Dio” e<br />
nemmeno lasciarla integra; possiamo però sollevarla da terra e,<br />
macchiata e lacera com’è, innalzarla sopra un’ora di grande dolore».<br />
La stanza si era fatta molto chiara. Il mio interlocutore si alzò,<br />
venne verso di me, mi pose la mano sulla spalla e disse: «Vogliamo<br />
darci del tu?». Il colloquio era finito. Poiché dove due sono<br />
veramente uniti, lo sono nel nome di Dio 1.<br />
Questo testo racchiude alcuni aspetti del pensiero filosoficoreligioso<br />
di Buber, come, per esempio, il rinvio al suo “principio<br />
dialogico” 2, scandito dalla distinzione fondamentale tra il rapporto<br />
impersonale “Io-Esso” che si ha con le cose e caratterizza il<br />
discorso scientifico, e il rapporto personale “Io-Tu” che vige con le<br />
persone e caratterizza il discorso religioso. Ma anche l’eco della via a<br />
Dio, che Buber cerca di far valere come via regia, vale a dire a partire<br />
dalle relazioni umane autentiche, ove ci diamo del tu riconoscendoci<br />
reciprocamente come soggetti umani personali, come degli ‘Io’ con<br />
dignità assoluta, e non come ‘oggetti’ manipolabili e dominabili a<br />
piacere. Questa via approda a Dio come a quel Tu assoluto che<br />
traspare nelle relazioni umane; che è cercato in ogni relazione<br />
umana. Soltanto di fronte a Lui siamo infatti pienamente noi stessi,<br />
poiché possiamo rivolgergli le invocazioni più autentiche e profonde<br />
che ci costituiscono; tra cui, anzitutto, quella di essere in rapporto di<br />
reciproco amore con un altro soggetto umano. Il testo citato<br />
termina così: «Dove due sono veramente uniti, lo sono nel nome di<br />
Dio», una locuzione che ricorda il detto di Gesù: «dove due o tre sono<br />
riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20). In questo senso<br />
anche l’affermazione del filosofo Emmanuel Levinas (1905-1995):<br />
«Non può esserci alcuna “conoscenza” di Dio a prescindere dalla<br />
relazione con gli uomini» 3. O con quella del teologo Dietrich<br />
1 M. BUBER, L’eclissi di Dio, Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 29-31.<br />
2 Cfr. M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi, Paoline, Milano 1997.<br />
3 E. LEVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano 1990 2 , pp. 76-77.<br />
18
Bonhoeffer (1906-1945), «L'‘esserci-per-altri’ di Gesù è l'esperienza<br />
della trascendenza!» 4.<br />
Con particolare efficacia si sottolinea un fatto di cui<br />
dobbiamo prendere piena coscienza: il fatto che la parola ‘Dio’, e<br />
con esso tutto il linguaggio religioso, è oggi divenuta quanto mai ambigua,<br />
e quindi da trattare con somma cura e attenzione. Fino a preferire<br />
talora il silenzio ove l’ambiguità desse adito a sicuri fraintendimenti,<br />
come già proponeva l’antica teologia negativa, in attesa di poter<br />
pronunciare la parola Dio in modo nuovamente capace «di liberare e<br />
redimere, come il linguaggio di Gesù» 5.<br />
La parola ‘Dio’ va dunque usata con somma cura e<br />
discrezione, perché si dovrebbe sempre aver presente che, quando<br />
usiamo questa parola, stiamo parlando di qualcosa che trascende<br />
tutte le capacità di comprensione umana, tutto il mondo<br />
oggettivabile e manipolabile con la scienza e la tecnica, tutti i<br />
concetti chiari e distinti della nostra ragione filosofica. Essa, infatti,<br />
pur presente nel nostro linguaggio, è indice di trascendenza assoluta<br />
rispetto a esso; lo scompagina con la sua stessa presenza,<br />
impedendogli di rinchiudersi in sé stesso e aprendolo al mistero<br />
incomprensibile e inesprimibile che ci trascende 6.<br />
Inoltre la parola ‘Dio’ va trattata con attenzione e discrezione<br />
anche perché essa è stata sovraccaricata da tante proiezioni umane<br />
(sul principio della ‘proiezione’ L. Feurbach ha fondato l’ateismo<br />
moderno) 7, da numerosi usi e abusi storici che l’ hanno infangata,<br />
stravolta, gettata nella polvere; giustificando divisioni e persino<br />
uccidendo o facendo violenza in suo nome. E oggi non è facile<br />
lavarla di tutte le sue macchie e sollevarla dalla polvere. E tuttavia<br />
dobbiamo impegnarci a farlo, perché se per un verso la parola ‘Dio’<br />
è calpestata e bestemmiata, per altro verso è benedetta e invocata; se<br />
per un verso è stata fonte di angoscia, di timore, di sottomissione,<br />
per altro verso è stata e può essere fonte di speranza, di<br />
consolazione, di liberazione e di gioia. Essa rimane il punto di<br />
riferimento fondamentale per la salvaguardia della dignità dell’uomo<br />
e della sua responsabilità assoluta nei confronti dell’altro uomo.<br />
«Non dobbiamo abbandonarla».<br />
4 D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1985 2<br />
, p. 462.<br />
5 BONHOEFFER, Resistenza e resa, cit., p. 370.<br />
6 Cfr., in proposito, K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Alba 1977, pp. 73-77.<br />
7 Cfr. U. CASALE, Il Dio comunicatore e l’avventura della fede, Elledici, Leuman (TO) 2003, pp. 19-<br />
31.<br />
19
2. La purificazione o disambiguazione del concetto di<br />
Dio nel contesto moderno<br />
Prendere coscienza di quanto la parola ‘Dio’ sia divenuta<br />
ambigua e di come sia necessario purificarla o disambiguarla per<br />
poterla ancora pronunciare e annunciare senza fraintendimenti,<br />
incomprensioni, rifiuti, significa riconoscere che, da quando gli<br />
uomini sono caduti nel peccato (originale e originante), vi è un<br />
sospetto che, come un’ombra, accompagna inesorabilmente l’idea di<br />
Dio, dal momento in cui l’uomo e la donna acconsentono<br />
all’insinuazione del serpente (cfr. Gen 3). «Da quel momento tutti i<br />
figli dell’uomo che vengono al mondo non vengono semplicemente<br />
aperti al dono di Dio, vengono al mondo disponibili a coltivare il<br />
sospetto nei confronti di Dio. Annunciare loro il mistero di Dio,<br />
significa inesorabilmente attivare in loro, attivare in noi, il sospetto<br />
che dietro l’angolo, dietro il confine della trascendenza, nella zona<br />
del mistero, invece dei esserci tenerezza, cura e protezione, ci sono<br />
quote di potere e di bene che Dio vuole assicurare a sé stesso» 8.<br />
Significa inoltre discernere oggi quanto la declinazione della parola<br />
‘Dio’ sia ancora legata a una trama linguistico-concettuale propria<br />
della cultura pre-moderna, ormai superata non soltanto dalle nuove<br />
visioni scientifiche del mondo, ma anche dalla nuova coscienza etica<br />
ampiamente diffusa.<br />
Si tratta di un lavoro di ripensamento profondo, come più<br />
volte sollecitato da papa Benedetto XVI 9, da portare avanti non<br />
soltanto sul piano della riflessione teologico-intellettuale, ma anche<br />
su quello della prassi concreta, della vita spirituale; il che implica un<br />
rivivere, o vivere in modo nuovo sia il rapporto con Dio sia le forme<br />
della sua testimonianza e del suo annuncio.<br />
Un lavoro che la teologia del secolo XX non ha mancato di<br />
fare, ma che è ben lungi dall’essere penetrato nella coscienza diffusa<br />
8 P. SEQUERI, La storia di Gesù e la rivelazione dell’Abbà-Dio, in G. ANGELINI, M. VERGOTTINI,<br />
Un invito alla teologia, Glossa, Milano 1998, pp. 137-149. La rivelazione biblica e la teologia<br />
tendono a sciogliere questa apparentemente irriducibile ambivalenza del sacro, mentre la<br />
dottrina del peccato originale tenta in qualche modo di interpretare. Soltanto a partire da Gesù, si<br />
potrà dire senza ambiguità di sorta, che «Dio è Amore» (1Gv 4,8. 16), che «Dio è luce e in lui non ci<br />
sono tenebre» (1Gv 1, 5).<br />
9 Sia negli scritti teologici del periodo della sua docenza nelle principali Università tedesche, sia<br />
in vari interventi dopo la sua elezione a vescovo di Roma col nome di Benedetto XVI, cfr. U.<br />
CASALE (a cura di), Fede, ragione, verità e amore. La teologia di J. Ratzinger, Lindau, Torino 2009.<br />
20
e vissuta di non pochi cristiani. Alcuni esempi possono aiutare a<br />
misurare l’ampiezza del lavoro di ripensamento, non soltanto per<br />
fedeltà all’uomo del nostro tempo, ma anche per fedeltà a Dio<br />
stesso, facendone emergere il vero volto, che Gesù ha pienamente<br />
rivelato.<br />
a) Un primo esempio di ripensamento riguarda il legame del<br />
concetto di Dio con quello del “sacro” arcaico, potenzialmente violento.<br />
Secondo la celebre fenomenologia del “sacro” proposta dallo<br />
storico delle religioni Rudolf Otto (1869-1937) 10, il “sacro”<br />
coinciderebbe con il numinoso, caratterizzato dall’ambigua<br />
commistione di «mysterium tremendum» e di «mysterium fascinans»; di<br />
mistero affascinante per la beatitudine che può concedere e di<br />
mistero terrificante per le immani distruzioni che può arrecare; con<br />
una arbitrarietà e imprevedibilità che soltanto parzialmente l’uomo<br />
può contenere con le sue pratiche cultuali e il suo comportamento<br />
morale. La liberazione dalla sottomissione al sacro così inteso è<br />
certamente un’istanza di fondo della coscienza etica moderna,<br />
consapevole della maggiore età cui l’uomo è giunto con la presa di<br />
coscienza della sua dignità di soggetto etico e libero.<br />
Inoltre, è noto che questa connessione del sacro con la violenza,<br />
esaminata dall’antropologo René Girard 11, sta al centro di una delle<br />
obiezioni storicamente più forti contro il cristianesimo e in genere le<br />
religioni monoteistiche di carattere universalistico. Queste religioni,<br />
si obietta, avrebbero bensì superato le divisioni di razza e di<br />
nazionalità, di genere, di stato sociale, ammettendo tutti nella<br />
comunità fraterna dei credenti; ma “sacralizzando la loro fede”<br />
avrebbero introdotto una nuova divisione fra gli uomini, fonte di<br />
non meno gravi violenze: quella tra credenti e non credenti, fedeli e<br />
infedeli, fedeli ortodossi ed eretici, divisione che è stata alla base di<br />
tante guerre di religione, di persecuzione di eretici e di<br />
discriminazioni.<br />
Rompere il legame del concetto di Dio con il sacro<br />
potenzialmente violento è un imperativo della coscienza moderna,<br />
pena la perdita di ogni credibilità del concetto di Dio, soprattutto è<br />
un imperativo della coscienza cristiana criticamente avvertita. Una<br />
10 R. OTTO, Il sacro. L'irrazionale nell'idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano<br />
1966.<br />
11 Cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1982.<br />
21
corretta fenomenologia della figura di Gesù di Nazareth, quale<br />
trasparenza del vero volto di Dio, è oggi infatti sempre più in grado<br />
di rilevare quanto Gesù abbia ripetutamente cercato di disambiguare<br />
la figura del sacro, scindendola dal versante del tremendum come<br />
minaccia di distruzione, di castigo, ovvero come possibilità di<br />
violenza, per rivendicarne soltanto il versante del fascinans come<br />
fonte incondizionata di vita, di amore, di benevolenza e di<br />
misericordia. Tutto ciò anche in base allo stile di accoglienza verso<br />
tutti che Gesù ha praticato, non soltanto verso i suoi discepoli, ma<br />
verso ogni uomo sofferente, con somma gratuità verso giusti e<br />
peccatori 12.<br />
Gli aspetti di “timore e tremore”, presenti anche nei Vangeli,<br />
non andrebbero quindi posti a carico di una residua ambiguità di<br />
Dio, bensì a carico dell’ambiguità dell’uomo, cui in effetti rimane il<br />
rischio, insito nella sua libertà, di rifiutare l’amore di Dio e di<br />
rinchiudersi nell’inferno del proprio egoismo, senza che con ciò si<br />
debba pensare che Dio ve lo condanni a forza.<br />
b) Un secondo esempio di ripensamento riguarda il legame del<br />
concetto di Dio con il cosiddetto “mondo incantato” premoderno 13. Quel<br />
mondo caratterizzato da un’ampia porosità tra il mondo della vita<br />
quotidiana e il mondo del soprannaturale; ovvero dalla prospettiva<br />
di un sempre possibile intervento, in concorrenza con le cause<br />
naturali, di esseri soprannaturali. Questo mondo incantato sembra<br />
irreversibilmente tramontato con l’avvento della mentalità scientifica<br />
moderna. Il rischio che la presenza attiva di Dio nella vita dell’uomo<br />
moderno evapori del tutto è certamente all’orizzonte. Ma è indubbio<br />
che sarebbe impresa vana volerla ricuperare al modo antico. La fede<br />
nella Provvidenza di Dio che guida la storia universale e la vita dei<br />
singoli, indisgiungibile dalla fede cristiana in Dio, va quindi ripensata<br />
profondamente, spostandola dal piano categoriale degli interventi<br />
puntuali al piano trascendentale di una presenza costantemente<br />
attiva, distaccandola dal bisogno di constatarne o ammirarne la<br />
realtà in fatti o eventi portentosi, per imparare a coglierne la<br />
presenza attraverso delicati segni.<br />
12 Per la disambiguazione della figura sacrale di Dio operata da Gesù, cfr. P. A. SEQUERI, Il<br />
Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996; ID., L’ibrido e il doppio;<br />
Arcipelago, Milano 2007; ID., La giustizia di ‘agape’. L’ago religioso della bilancia, Servitium, Milano<br />
2010.<br />
13 Cfr. M. GAUCHET, Il disincanto del mondo: storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992.<br />
22
c) Un terzo esempio di ripensamento, in connessione con il<br />
secondo, viene dalla critica al Dio cristiano per il suo legame con la<br />
cosiddetta “metafisica ontoteologica”. Soprattutto il filosofo Martin<br />
Heidegger (1889-1976) ha espresso questa critica: la metafisica<br />
ontoteologica avrebbe inteso Dio come un ‘ente’ tra gli enti, sia pure<br />
l’Ente sommo e perfettissimo, la causa prima di ogni altro ente e<br />
anche di sé stesso, causa sui, dimenticando così la differenza<br />
ontologica tra l’essere e gli enti; dove l’essere è inteso come lo sfondo<br />
o l’orizzonte non oggettivabile e in-comprensibile in cui ogni ente<br />
appare, mentre gli enti sono tutto ciò che è a nostra portata di<br />
mano, sia materialmente sia concettualmente, nel mondo in cui<br />
siamo 14.<br />
L’obiezione heideggeriana ha sollecitato la teologia del ‘900 a<br />
cercare la via per scindere la visione cristiana di Dio da ogni<br />
compromissione, di fatto idolatrica, con il piano della realtà<br />
mondana racchiudibile nei nostri concetti. Dio non va inteso come<br />
l’ente più grande del mondo, in qualche modo in continuità con<br />
esso o deducibile da esso con dimostrazioni scientifiche. Dio è e<br />
rimane mistero trascendente e incomprensibile, non un ente che sta<br />
sopra o dentro il mondo come causa particolare o come forza tra le<br />
forze.<br />
Certamente il Dio cristiano non può essere ridotto ad una<br />
forza o energia impersonale che pervade il mondo, come da qualche<br />
parte si tende a fare (forse per contagio di religioni orientali). Ma il<br />
considerarlo come persona, a cui possiamo rivolgerci come al nostro<br />
“Tu assoluto”, non deve farci scivolare in facili antropomorfismi.<br />
Dio non è una persona come noi, sia pur grandissima e potentissima;<br />
non è infatti individuabile in base a una serie di caratteristiche<br />
determinate, con passioni e desideri prevedibili, mutabili,<br />
influenzabili. La sua trascendenza personale misteriosa va pensata in<br />
riferimento, se mai, al mistero insondabile, inesauribile e non<br />
manipolabile che già ogni persona umana è a sé stessa e agli altri.<br />
Una analogia, questa del mistero della persona umana, forse tra<br />
quelle meno inadeguate per indirizzare il nostro pensiero nella<br />
direzione del mistero personale di Dio. Avendo ben presente che<br />
14 M. HEIDEGGER, Il principio di identità, in Identità e differenza, «Aut Aut» (1982), nn. 187-188,<br />
pp. 2ss.; cfr. P. CAPPELLE-DUMONT, Filosofia e teologia nel pensiero di M. Heidegger, Queriniana,<br />
Brescia 2011; sulla critica del concetto metafisico di Dio e della sua pensabilità, cfr. E.<br />
JÜNGEL, Dio mistero del mondo, Queriniana, Brescia 1982, pp. 170-296.<br />
23
tutti i concetti o le immagini, di cui non possiamo fare a meno nel<br />
parlare di Dio nonostante il loro carattere antropomorfico, hanno<br />
valore soltanto se rimandano oltre sé stessi, nella direzione del suo<br />
insondabile e inesauribile mistero. Ben lo sapeva la teologia<br />
scolastica secondo la quale la via negationis e la via eminentiae debbono<br />
sempre accompagnare la via affirmationis quando si parla di Dio.<br />
d) Un ultimo esempio di ripensamento riguarda il concetto di<br />
trascendenza eteronoma, di cui anche il Dio cristiano è stato<br />
ampiamente rivestito e da cui è urgente liberarlo: Dio è stato<br />
pensato come un legislatore onnipotente e arbitrario, che dall’alto<br />
del suo trono, ovvero dall’esterno, detta precise leggi agli uomini,<br />
imponendo loro di osservarle con minacce di castighi e promesse di<br />
premi, che immancabilmente avranno il loro corso nell’al di qua e<br />
nell’al di là della vita umana.<br />
Già il grande teologo domenicano Tommaso d’Aquino<br />
(1225-1274) aveva rivisto tale schema eteronomo confrontandosi con<br />
l’etica aristotelica, la quale individuava la fonte della moralità nello<br />
stesso dinamismo della natura umana razionale, tesa in quanto tale al<br />
raggiungimento della propria perfezione o felicità. Per l’Aquinate,<br />
infatti, le leggi di Dio non sopraggiungono dall’esterno alla natura<br />
umana, ma sono iscritte nello stesso dinamismo della natura umana<br />
razionale creata da Dio.<br />
Oggi liberare Dio dal concetto di trascendenza eteronoma è<br />
ancor più urgente che ai tempi di Tommaso. Occorre fare i conti<br />
con la profonda convinzione moderna della autonomia della morale da<br />
dettami della religione avanzati in nome di Dio. In quanto cristiani<br />
sappiamo che la creatura umana non può arbitrariamente e<br />
individualmente dare a sé stessa le leggi del suo comportamento<br />
morale. Ma forse, accogliendo la provocazione moderna, possiamo<br />
prendere maggiormente sul serio il fatto che Dio detta all’uomo le<br />
sue leggi non dall’esterno, ma dall’interno della sua coscienza<br />
morale, così come questa va formandosi nel lavorio della ragione<br />
tesa a interpretare il dinamismo dei propri desideri naturali in<br />
dialogo con gli altri e in autenticità verso sé stessi.<br />
Questa ambiguità del pensare/dire ‘Dio’ è presente anche in<br />
alcuni credenti (cristiani), che rischiano così «di nascondere anziché<br />
di manifestare il genuino volto di Dio», con qualche responsabilità<br />
nella diffusione dell’ateismo; ma soprattutto è all’origine di molti<br />
ateismi antichi e soprattutto moderni: «alcuni s’immaginano Dio in<br />
24
modo tale che quella rappresentazione che essi rifiutano in nessun<br />
modo è il Dio del Vangelo» 15. Per questo è assai importante, per<br />
tutti, uscire da questa ambiguità, alla ricerca di un linguaggio<br />
autentico e trasparente.<br />
3. Lo “spazio pubblico” quale nuovo areopago del<br />
discorso su Dio nell’“età secolare”<br />
Le considerazioni fin qui fatte circa le provocazioni che la<br />
cultura moderna rivolge al parlare cristiano di Dio, invitandoci a<br />
scioglierne i legami con la cultura premoderna, già ci hanno<br />
introdotto alla caratteristica di fondo dello spazio pubblico in cui ci<br />
troviamo a operare: si tratta di uno spazio pervaso dalla cultura moderna<br />
con la sua interna variante post-moderna. Lo spazio pubblico è<br />
l’ambito del libero dibattito e confronto delle idee, a cui tutti<br />
possono partecipare con uguale dignità. In esso si forma l“opinione<br />
pubblica”, quale complesso di pensieri, linguaggi, giudizi di valore,<br />
comprensioni di sé e del mondo, condivisi dalla maggioranza ed<br />
esprimenti esigenze e interessi che premono sia sugli individui,<br />
plasmandone la mentalità, sia sul potere politico, che ne deve tener<br />
conto per poter governare.<br />
Perché la fede cristiana non finisca nel ghetto di ristrette<br />
comunità, con un proprio linguaggio ‘misterico’ a esclusivo uso<br />
interno, si deve, in ossequio al mandato missionario caratterizzante<br />
ogni cristiano, renderla presente in questo spazio pubblico in modo<br />
intelligente, comprensibile, credibile ed anche interessante,<br />
agganciandoci a interrogativi e desideri umani profondamente<br />
sentiti.<br />
Tra le regole da rispettare per entrare in questo spazio<br />
pubblico con qualche possibilità d’ascolto, la principale è non<br />
presentarsi con stile autoritario, magisteriale, bensì come chi ritiene di<br />
avere da offrire in dono una verità alla libertà, disposto a parlarne con<br />
tutti, a sollecitare il parere e il giudizio di tutti. Tutti, infatti, in tale<br />
spazio debbono essere riconosciuti abilitati a e liberi di prendere la<br />
parola, in vista di un’accoglienza della verità secondo la convinzione<br />
che essa riesce a suscitare, le esperienze vissute che se ne possono<br />
fare, la sua effettiva incidenza esistenziale. Allo spazio pubblico<br />
moderno è, infatti, essenziale lo spirito critico, che si esercita con<br />
15 Entrambe le citazioni provengono dal testo del Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 19.<br />
25
l’argomentare con buone ragioni le proprie posizioni ascoltando<br />
quelle altrui, l’uguale libertà di parola, l’adesione per libera<br />
convinzione; non c’è posto, in esso, per verità indiscutibili<br />
presentate come tali da una qualsivoglia autorità.<br />
Per sottolineare sia la possibilità sia il dovere che i cristiani hanno<br />
di annunciare il Dio in cui credono rispettando la regola<br />
fondamentale dello spazio pubblico, richiamo due brevi<br />
osservazioni.<br />
La prima, che riguarda la possibilità, viene da un’acuta<br />
interpretazione del concilio Vaticano I (Dei Filius, 24 aprile 1870)<br />
fatta dal teologo Johann Baptist Metz. Ribaltando alcune diffuse<br />
critiche teologiche al dogma definito da detto concilio circa la<br />
“conoscibilità naturale di Dio attraverso la luce della semplice<br />
ragione”, Metz fa osservare che tale dogma, ripreso dal Vaticano II,<br />
va rivalutato proprio nel contesto della cultura moderna e postmoderna,<br />
perché ha il grande merito di riconoscere «la competenza<br />
naturale di tutti gli uomini riguardo a Dio». Dio non è infatti un<br />
tema ‘intraecclesiale’, di cui solo la Chiesa o i teologi di professione<br />
hanno competenza, ma «una questione su cui fondamentalmente<br />
tutti debbono essere ascoltati». Per cui, aggiunge: «questo dogma<br />
richiama al proprio dovere non soltanto (e non primariamente) i<br />
non credenti, ma la Chiesa stessa, la teologia e i credenti stessi. La<br />
Chiesa e la teologia debbono essere pronte a parlare con tutti<br />
riguardo il loro Dio, pronti ad ascoltare tutti e a disputare con<br />
tutti» 16.<br />
La seconda osservazione, che riguarda il dovere e investe i<br />
cristiani con particolare urgenza, è suggerita dalla fondamentale<br />
novità che qualifica la religiosità nell’odierna età secolare. Come<br />
sostenuto dal filosofo Charles Taylor nella sua opera omonima<br />
recente 17, la caratteristica fondamentale della secolarizzazione<br />
odierna non sta tanto nella crisi della fede in Dio e della pratica religiosa;<br />
crisi che continua a dilagare nonostante si rilevino segni di “rinascita<br />
del sacro” e non si sia avverata la tesi “classica” dei teorici della<br />
secolarizzazione circa il perfetto parallelismo tra modernizzazione<br />
razionale del mondo e fine della fede religiosa. E non sta neppure<br />
nella differenziazione e relativa acquisizione di autonomia dei vari ambiti<br />
16 Cfr. J. B. METZ, Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralista, Queriniana,<br />
Brescia 2009, pp. 109-110; cfr. A. GANOCZY, Parlare di Dio nella società odierna, Paideia, Brescia<br />
1980.<br />
17 C. TAYLOR, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2010.<br />
26
della società (scienza, politica, economia, morale ecc.), che avrebbe<br />
privato la religione della sua egemonia sociale e culturale<br />
marginalizzandola ed escludendola dall’ambito pubblico;<br />
differenziazione che pur è tra le cause principali della<br />
secolarizzazione e permane ben radicata in Occidente nonostante<br />
quei fenomeni di “ritorno della religione” in ambito pubblico, che<br />
hanno fatto parlare di superamento della secolarizzazione o di età<br />
post-scolare.<br />
La caratteristica fondamentale della secolarizzazione va infatti<br />
vista, secondo Taylor, nella modificazione della natura stessa dell’adesione<br />
di fede religiosa, ormai strettamente legata alla libera scelta individuale,<br />
in un contesto di grande pluralità e varietà di credenze e di non<br />
credenze, con forme di adesioni o appartenenze graduate e<br />
differenziate. Ciò che più conta e si stima nell’adesione religiosa non<br />
è più l’ortodossia e l’ortoprassi richieste dall’autorità dell’istituzione<br />
religiosa, bensì l’autenticità della fede personale di ciascuno, la vivacità<br />
e coerenza della propria “vita spirituale”, l’adesione interiore per<br />
convinzione e a misura della propria convinzione.<br />
Nonostante il reale rischio di un dilagante “fai-da-te”<br />
religioso, il processo di individualizzazione della fede religiosa non<br />
può essere rinnegato dal cristianesimo; né può essere discreditato<br />
come di per sé equivalente ad atteggiamento egoistico o<br />
individualistico. Un’adesione per scelta individuale può infatti essere<br />
tutt’altro che egoistica e può essere aperta a relazioni comunitarie<br />
intense, anche se in forme nuove, non più solo istituzionali o per<br />
vincoli sociali tradizionali, ma per libera adesione a comunità o<br />
associazioni liberamente costituitisi.<br />
Di conseguenza, il parlare di Dio nell’odierno spazio<br />
pubblico, caratterizzato da questa forma di secolarizzazione non<br />
facilmente reversibile, deve puntare soprattutto sulla “adesione<br />
personale”, con sommo rispetto per tutte le convinzioni che<br />
liberamente maturano nelle coscienze, il che implica la necessità di<br />
prestare molta attenzione allo stile del nostro linguaggio religioso.<br />
Non si tratta infatti solo di aggiornarne il “rivestimento estetico o<br />
retorico” o di usufruire dei più moderni strumenti tecnici della<br />
comunicazione di massa, ma di prendere coscienza che lo stile<br />
coinvolge il contenuto stesso del messaggio che si trasmette e<br />
pregiudica la credibilità dei suoi stessi portatori.<br />
27<br />
4. Sullo lo “stile” del linguaggio religioso cristiano
Stante le caratteristiche dello spazio pubblico, quale dovrà<br />
essere lo stile del linguaggio religioso cristiano che voglia farsi in esso<br />
presente con intenti di annuncio efficace? Anche qui, alcune<br />
indicazioni di massima.<br />
a) Prima indicazione: un linguaggio di una verità che non s’impone<br />
ma si offre in dono gratuito, quindi invita alla libera accettazione<br />
secondo la convinzione che è in grado di suscitare. Certamente il<br />
cristiano è convinto di aver trovato in Cristo la verità assoluta, dono<br />
prezioso per tutti gli uomini; ma proprio per questo deve lasciare<br />
che essa parli di per sé stessa, con fiducia nella sua forza di<br />
illuminazione e di attrazione una volta che sia ben presentata. Ben<br />
sapendo, però, che pur presentata nel migliore dei modi anche la<br />
verità cristiana può essere liberamente rifiutata; come del resto è<br />
capitato a Gesù Cristo stesso, che certo non mancava di buone<br />
capacità di comunicazione.<br />
Questo occorre sfatare, che la fede in una verità assoluta<br />
comporti necessariamente la sua imposizione violenta, senza<br />
possibilità e la volontà di argomentarla con buone ragioni al fine di<br />
permetterne la libera e convinta accettazione; come purtroppo oggi<br />
da più parti si tende a ritenere. Per sfatare questa diffusa opinione<br />
occorre testimoniare, con lo stile stesso del linguaggio<br />
argomentativo e rispettoso, che l’assoluto della libertà – in quanto<br />
condizione di ogni vero accesso alla verità religiosa – prevale sul<br />
bene stesso della verità assoluta, come il decreto del Vaticano II<br />
sulla libertà religiosa, Dignitatis humanae ha chiarito per il pensiero e<br />
la prassi cattolica 18.<br />
b) In secondo luogo, il linguaggio religioso dovrebbe essere il<br />
linguaggio di una verità che non si prova o constata “oggettivamente”, con<br />
procedimenti di carattere “scientifico” o “storico critico”; infatti la si<br />
può verificare soltanto facendone in qualche modo esperienza in<br />
prima persona, come concreta possibilità di senso per la propria<br />
vita.<br />
Così, ad esempio, anche le cosiddette “prove dell’esistenza di<br />
Dio” (la prova ‘ontologica’ di Anselmo, le cinque ‘vie’ di Tommaso<br />
18 Cfr. U. CASALE, Il concilio Vaticano. Evento, documenti, attualità, Lindau, Torino 2012, pp. 145-<br />
150.<br />
28
d’Aquino), che la tradizione ci ha tramandato, non dovrebbero<br />
essere presentate come dimostrazioni di stretto rigore scientifico,<br />
quanto come vie che aprono a prospettive di senso, invitano a leggere<br />
nel proprio intimo, introducono a quella scaturigine segreta dei<br />
valori del bello, del buono e del giusto che ci affascinano,<br />
interpretano il carattere di incondizionatezza degli appelli che<br />
vengono dal volto del prossimo bisognoso di amore e cura, e<br />
svelano il fondamento della dignità assoluta di ogni uomo. In<br />
positivo, il linguaggio religioso dovrebbe essere un linguaggio<br />
maieutico, che aiuta a vedere con i propri occhi e a sperimentare nella<br />
vita ciò che noi in qualche modo già vediamo e abbiamo<br />
sperimentato, senza forzare nessuno affrettando le tappe di<br />
maturazione della intelligenza e della coscienza di ciascuno.<br />
A tal fine il linguaggio religioso cristiano non dovrebbe<br />
cercare di imitare il linguaggio rigoroso della scienza o di gareggiare<br />
con essa, né tanto meno quello volgare (da gossip) dei media, bensì<br />
piuttosto sintonizzarsi con il linguaggio dell’analogia, che indirizza in<br />
una certa direzione con la coscienza della propria inadeguatezza 19;<br />
con il linguaggio del simbolo, che dischiude orizzonti oltre il dato<br />
empirico; il linguaggio del racconto, che testimonia un’esperienza di vita<br />
e rappresenta in modo vivo delle concrete possibilità di esistenza; il<br />
linguaggio allusivo della poesia, del canto, della musica, che suscitano<br />
consonanze interiori libere e profonde. Come del resto ci insegnano<br />
i molteplici linguaggi dei vari generi letterari di cui la Bibbia è<br />
intessuta: racconti, preghiere, inni, detti sapienziali (proverbi), testi<br />
legislativi, profezie … Tutti questi scritti sono ‘capaci’ di parlarci in<br />
vari modi di Dio, sanno indirizzare e potenziare il nostro sguardo<br />
verso di Lui, pur nella coscienza che il loro referente ultimo sfugge<br />
alla finitezza del nostro discorso 20.<br />
Il logos della teologia non è certo un logos irrazionale, come<br />
l’assolutizzazione moderna della ragione logico-matematica e<br />
scientifico-strumentale ha fatto e fa ritenere. Ma la sua razionalità è di<br />
tipo diverso, più ampio, dato che si situa sul versante<br />
dell’intelligenza spirituale delle verità di ordine metafisico, etico,<br />
19 Come dice Tommaso: «relinquitur quod ea quae de Deo et rebus aliis dicuntur, praedicantur neque<br />
univoce neque aequivoce, sed analogice: hoc est, secundum ordinem vel respectum ad aliquid unum»: Summa<br />
contra gentiles, I, 34.<br />
20 Cfr. P. SEQUERI, Analogia, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, Marietti, Torino 1977, I, pp.<br />
341-351; P. RICOEUR, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia 1977, pp. 93-94,<br />
con correzioni alla trad. it.).<br />
29
giuridico, estetico e, appunto, religioso. L’invito di Benedetto XVI<br />
ad «allargare i confini delle ragione» per includere in essi anche<br />
l’ambito della fede religiosa 21, resta oggi d’importanza strategica<br />
fondamentale anche per quanto riguarda lo ‘stile’ del linguaggio<br />
religioso cristiano.<br />
Occorre rispettare l’autonomia della ricerca scientifica e saper<br />
purificare il nostro linguaggio religioso da compromissioni culturali<br />
con visioni scientifiche del passato, attraverso una franca attenzione<br />
ai risultati della ricerca scientifica odierna. Ma dobbiamo anche<br />
rivendicare l’originalità e consistenza della razionalità del linguaggio<br />
religioso o di fede, che la scienza non può in alcun modo contestare,<br />
poiché esso sfugge per principio ai suoi procedimenti metodici. Il<br />
che non significa che il nostro linguaggio religioso possa fare a<br />
meno del rigore logico dell’argomentare e della “fatica del<br />
concetto”, richiesti dal compito di ripensare la fede nei nuovi<br />
contesti culturali. Non tutte le analogie e tutti i simboli indirizzano<br />
in ugual modo verso la verità del mistero cristiano, per cui bisogna<br />
impegnarsi a discernere tra simbolo e simbolo, analogia e analogia, e<br />
cercare di interpretare correttamente gli uni e le altre. Il linguaggio<br />
della fede per poter corrispondere alle capacità di comprensione e<br />
alle attese esistenziali dell’uomo d’oggi, deve essere in sé stesso<br />
coerente e plausibile. Donde anche quell’impegno di chiarificazione<br />
e disambiguazione teologica di cui abbiamo cercato di dare qualche<br />
esempio nella prima parte del nostro discorso 22.<br />
c) Una terza indicazione: il linguaggio religioso cristiano<br />
dovrebbe essere il linguaggio di una verità che promuove l’umano e in<br />
nessun modo gli è estranea o lo mortifica. In sintonia con la famosa<br />
“svolta antropologica” della teologia, teorizzata dal teologo Karl<br />
Rahner (1904-1984) e fatta propria da Giovanni Paolo II a partire<br />
dalla sua prima enciclica Redemptor hominis (4 marzo 1979), il nostro<br />
linguaggio religioso non dovrebbe mai parlare di Dio o delle verità<br />
religiose cristiane come di una “cosa in sé” indifferente alla nostra<br />
vita concreta; ma dovrebbe sempre curare di mettere in luce i<br />
risvolti esistenziali di promozione dell’umano che a esse sono<br />
indissolubilmente connessi, pena il loro fraintendimento. Il<br />
21 Cfr. U. CASALE (a cura di), Il problema di Dio nel mondo contemporaneo., Lindau, Torino 2011; H.<br />
ZAHRNT, Alle prese con Dio, Queriniana, Brescia 1969.<br />
22 Cfr. U. CASALE (a cura di), Fede e scienza. Un dialogo necessario, Lindau, Torino 2010.<br />
30
linguaggio cristiano non deve rimanere nelle retrovie delle frontiere<br />
dell’umano cui il mondo moderno è giunto con la crescente presa di<br />
coscienza della dignità di ogni uomo e donna, che comporta il pieno<br />
sviluppo di tutte le loro capacità; ma esserne costantemente<br />
all’avanguardia. Nell’umanità di Cristo vi è il modello perfetto del vero<br />
uomo da proporre come ideale di umanità in contrasto con tutte le<br />
disumanità che ancora opprimono e deformano l’uomo 23. Una<br />
corretta fenomenologia della umanità di Gesù, nel senso della<br />
individuazione, sulla scia dei Vangeli, dei tratti fondamentali della<br />
sua incarnazione vissuta dell’umano, dovrebbe aiutarci in tale<br />
compito. Compito tanto più importante se ricordiamo che<br />
attraverso la santa umanità di Gesù non solo traspare il vero volto<br />
dell’uomo ma anche il vero volto di Dio, di Dio “Comunione<br />
d’Amore”, del Mistero trinitario di Dio che ha scelto di manifestarsi<br />
a noi in pienezza proprio attraverso la compiuta umanità di Gesù 24.<br />
d) Infine, il linguaggio religioso deve essere, a un tempo,<br />
profetico e umile. “Profetico” nel senso di puntuale e decisa critica<br />
dello status quo imperfetto del mondo, alla luce della prospettiva<br />
escatologica di piena e perfetta giustizia e fratellanza umana.<br />
“Umile” nel senso di non addossare sempre le colpe agli altri<br />
dimenticando le proprie; di non limitarsi ad invitare gli altri a fare,<br />
ma cercando di fare per primi; di non pretendere di cambiare le cose<br />
con la violenza – anche la violenza verbale! - o la forza del potere,<br />
ma anzitutto attraverso la testimonianza di chi opera con<br />
atteggiamento di servizio per tutti e in compagnia di tutti gli uomini<br />
di buona volontà, offrendo con franchezza (la parresia evangelica) il<br />
contributo della visione cristiana dell’ideale umano, ma pronti ad<br />
ospitare in sé anche le prospettive altrui.<br />
In sintesi, lo stile del linguaggio religioso tende a essere un<br />
linguaggio maiuetico, particolarmente utile per far maturare nei<br />
giovani una scelta personale che scaturisca da intima convinzione e<br />
23 «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero di Dio.<br />
Proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, Gesù svela anche pienamente l’uomo<br />
all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»: Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 22.<br />
24 Cfr. U. CASALE, Per un ripensamento della teologia trinitaria, in «Archivio Teologico Torinese» 7<br />
(2001/2), pp. 321-344.<br />
31
non da imposizione autoritaria 25, un linguaggio esistenziale, che<br />
presenta la verità religiosa come una possibilità reale di vita, di cui<br />
fare esperienza, un linguaggio dialogico, che non soltanto sollecita il<br />
consenso con buone presentazioni ed argomentazioni, ma provoca e<br />
dà spazio all’esposizione del punto di vista e delle ragioni altrui,<br />
valorizzando quella “competenza religiosa” che va riconosciuta ad<br />
ogni persona umana. Uno stile variegato del linguaggio religioso<br />
cristiano che abbia veramente un’anima che lo innervi e lo renda<br />
efficace, esprima la passione per la purificazione del nome di Dio,<br />
come è stato lo stile di Gesù nel rivelare e donare il vero volto di<br />
Dio. E per comunicare lo stile di Gesù è necessario il suo stesso<br />
linguaggio: il linguaggio testimoniale dell’amore.<br />
Poiché Dio unitrino non è soltanto uno che ama, ma è<br />
l’Amore stesso (Eros/Agape), «non solo si deve, bensì si può anche<br />
parlare di lui. Infatti l’amore è padrone del linguaggio: caritas capax<br />
verbi» 26. Se Cristo – la Parola di Dio incarnata – abita nei nostri cuori,<br />
allora possiamo comprendere e comunicare la smisurate misure<br />
dell’Agape divina, «l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di<br />
conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, per essere così ricolmi di<br />
tutta la pienezza di Dio» (Ef 3, 19) 27.<br />
25 Vale una meditazione il pensiero di Platone: «Figlio mio, tu sei giovane, il passare del tempo<br />
ti farà cambiare opinione su molti punti e ti porterà a pensare il contrario di quello che pensi<br />
ora. Attendi dunque fino a quel tempo prima di decidere di questioni così grandi. E la più<br />
grande fra tutte, anche se oggi la consideri come nulla, è quella di pensare correttamente<br />
riguardo al divino»: PLATONE, Leggi, X, 888 a-b.<br />
26 E. JÜNGEL, Dio mistero del mondo, cit., p. 389.<br />
27 Paolo utilizza questa enumerazione, che designava, nella filosofia stoica, la totalità<br />
dell’universo, per evocare la funzione universale di Cristo nella rigenerazione d<br />
27 Cfr. U. CASALE, Per un ripensamento della teologia trinitaria, in «Archivio Teologico Torinese» 7<br />
(2001/2), pp. 321-344.<br />
27 E. JÜNGEL, Dio mistero del mondo, cit., p. 389. 27 Paolo utilizza questa enumerazione, che<br />
designava, nella filosofia stoica, la totalità dell’universo, per evocare la funzione universale di<br />
Cristo nella rigenerazione del mondo. Le dimensioni possono essere quelle del ‘mistero’ della<br />
salvezza, o, meglio ancora, dell’amore di Cristo (che «ha amato sino alla fine» «nessuno ha un amore<br />
più grande di quello di chi dà la vita per i propri amici»: Gv 15, 13)<br />
32
33<br />
Bolle di sapone tra fragilità e stabilità<br />
Michele Emmer<br />
E' abbastanza naturale che tra i primi ad essere attratti dalle<br />
iridescenti lamine saponate siano stati gli artisti, i pittori in<br />
particolare. Mentre per i matematici le bolle di sapone sono modelli<br />
di una geometria delle forme molto stabili, per gli artisti, per la<br />
maggior parte di coloro che se ne sono occupati, le bolle di sapone<br />
sono state oggetto di interesse non tanto per il loro aspetto ludico<br />
quanto come simbolo, come allegoria della fragilità, della caducità<br />
delle cose umane, della vita stessa. Simbolo aereo e leggerissimo,<br />
sempre affascinante per la infinita varietà di colori e di forme.<br />
Abbi divertimento sulla terra e sul mare<br />
Infelice è il diventare famoso!<br />
Ricchezze, onori, false illusioni di questo mondo,<br />
Tutto non è che bolle di sapone.<br />
Il 9 dicembre 1992 il fisico francese Pierre-Gilles de Gennes,<br />
professore al Collège de France, dopo il conferimento del premio<br />
Nobel per la fisica concludeva la sua conferenza a Stoccolma con<br />
questa poesia, aggiungendo che nessuna conclusione gli sembrava<br />
più appropriata. La poesia compare come chiosa di una incisione del<br />
1758 di Daullé dall'opera andata perduta di François Boucher "La<br />
souffleuse de savon".
34<br />
François Boucher , La souffleuse de savon, incisione di J. Daullé<br />
(1758)<br />
De Gennes non voleva alludere ai significati allegorici che per molti<br />
secoli hanno avuto le bolle di sapone: simbolo della vanità, della<br />
fragilità delle ambizioni umane, della vita stessa. Le bolle di sapone<br />
erano uno degli argomenti della sua relazione, che era tutta dedicata<br />
alla Soft matter, le bolle di sapone che come scrive «sono la delizia<br />
dei nostri bambini». Una riproduzione dell'incisione compare ad<br />
illustrare l'articolo. [1]<br />
Ma è giustificato un tale interesse per questi oggetti belli, colorati ma<br />
fragili, eterei, un soffio e nulla più? Ebbene le bolle di sapone sono<br />
uno degli argomenti più interessanti in molti settori della ricerca<br />
scientifica: dalla matematica alla chimica, dalla fisica alla biologia. Ma<br />
non solo, anche nell'architettura e nell'arte, per non parlare del<br />
design e persino della pubblicità. Una storia che inizia molti secoli fa<br />
e che continua tuttora.<br />
Arte e scienza: una storia parallela.<br />
E' interessante notare che pur se molti fenomeni legati alla tensione<br />
superficiale, come la formazione delle bolle di sapone, erano stati<br />
osservati fin dai tempi più antichi, la sistematica sperimentazione per<br />
spiegarne l'origine ha inizio solo nella seconda metà del XVII<br />
secolo. Anche per gli artisti è il secolo XVII quello in cui si<br />
manifesta il maggiore interesse per le bolle di sapone; è infatti in<br />
questo secolo che l'utilizzazione della bolla diviene una costante<br />
all'interno del più vasto tema della fragilità umana, tema per il quale<br />
vennero utilizzati tra gli altri il teschio ed il fumo.<br />
Una serie di incisioni realizzate da Hendrik Goltzius (1558-1617) è<br />
ritenuta l'inizio della fortuna delle bolle nell'arte olandese del XVI e<br />
XVII secolo. La più nota si intitola Quis evadet (Chi sfugge) ed è<br />
datata 1594.<br />
La storia dei rapporti tra le bolle di sapone e l'arte visiva è stata<br />
narrata, con abbondanza di riproduzioni, in un libro pubblicato nel<br />
1991 [2]. Un nuovo libro completamente diverso sia<br />
nell’impostazione che nei testi ed in gran parte delle immagini è<br />
stato pubblicato alla fine del 2009. [3] Una delle opere più famose,<br />
ricordata nei suoi scritti anche da de Gennes, è stata realizzata nella
prima parte del '700 da Jean Baptiste Siméon Chardin (1699-1779),<br />
in diverse versioni, dal titolo Les Bulles de savon.<br />
E' un un quadro di rara bellezza e suggestione. Le bolle di sapone<br />
interessano Chardin perché lo interessano gli adolescenti, il loro<br />
mondo, i loro giochi. E' molto probabile che a quel tempo il gioco<br />
delle bolle fosse diffusissimo tra i bambini e i ragazzi. E' naturale<br />
che anche gli scienziati si incuriosiscano dei fenomeni che<br />
avvengono quando si formano delle bolle di sapone.<br />
Gli scienziati si accorgono delle bolle di sapone.<br />
E’ Isaac Newton nella Opticks, la cui prima edizione è del 1704, a<br />
descrivere in dettaglio i fenomeni che si osservano sulla superficie<br />
delle lamine saponate. Nel volume secondo, Newton descrive le sue<br />
osservazioni sulle bolle di sapone :<br />
«Oss. 17. Se si forma una bolla con dell'acqua resa prima più viscosa<br />
sciogliendovi un poco di sapone, è molto facile osservare che dopo<br />
un po' sulla sua superficie apparirà una grande varietà di colori. Per<br />
impedire che le bolle vengano agitate troppo dall'aria esterna (con il<br />
risultato che i colori si mescolerebbero irregolarmente impedendo<br />
una accurata osservazione), immediatamente dopo averne formata<br />
una, la coprivo con un vetro trasparente, ed in questo modo i suoi<br />
colori si disponevano secondo un ordine molto regolare, come tanti<br />
anelli concentrici a partire dalla parte alta della bolla. Via via che la<br />
bolla diventava più sottile per la continua diminuzione dell'acqua<br />
contenuta, tali anelli si dilatavano lentamente e ricoprivano tutta la<br />
bolla, scendendo verso la parte bassa ove infine sparivano. » [4]<br />
Il fenomeno che Newton aveva osservato è noto con il nome di<br />
interferenza: avviene quando lo spessore delle lamine è paragonabile<br />
alla lunghezza d'onda della luce visibile. Il motivo sta nel fatto che<br />
nel liquido saponato i diversi colori che compongono la luce solare<br />
si muovono con velocità differenti. Si può eseguire un facile<br />
esperimento con un telaio rettangolare che viene estratto<br />
verticalmente da una soluzione saponata; la luce riflessa dalla lamina<br />
produce un sistema di frange orizzontali, dovute essenzialmente al<br />
fatto che la lamina saponata ha la forma di un cuneo costituito dalle<br />
due facce non parallele della lamina stessa. Per gli scienziati del<br />
XVIII non era tuttavia affatto chiaro il legame tra le lamine saponate<br />
e alcuni fenomeni naturali che seguono schemi di massimo e di<br />
minimo; è solo nel XIX secolo che si capirà come le lamine<br />
35
saponate forniscono un modello sperimentale per problemi di<br />
matematica e fisica, inserendosi così a pieno titolo in quel settore<br />
della matematica che si chiama Calcolo delle Variazioni.<br />
La Regina Didone e il matematico cieco.<br />
Uno dei problemi più importanti di cui le lamine di sapone<br />
forniscono un modello sperimentale di soluzione è chiamato il<br />
problema di Plateau, dal nome di un fisico belga di cui si riparlerà in<br />
seguito. Per illustrare il problema i matematici fanno ricorso a un<br />
esempio molto antico tratto dall'Eneide di Virgilio. Si tratta della<br />
fondazione di Cartagine da parte della regina Didone :<br />
Giunsero in questi luoghi, ov'or vedrai<br />
sorger la grancittade e l'alta rocca<br />
de la nuova Cartago, che dal fatto<br />
Birsa nomossi, per l'astuta merce<br />
che, per fondarla, fèr di tanto sito<br />
quanto cerchiar di bue potesse un tergo.<br />
(Taurino quantum possent circumdare tergo.)<br />
Il nome dato alla città di Cartagine, è Byrsa, parola greca che significa<br />
pelle di bue; la leggenda a cui allude Virgilio è quella secondo cui<br />
Didone, arrivata in Africa, chiese al potente Iarba, re dei Getuli, un<br />
tratto di terra per potervi costruire una città. Il re, non volendogliela<br />
concedere, le assegnò in segno di scherno tanta terra quanta ne<br />
potesse circondare con la pelle di un bue. L'astuta Didone tagliò la<br />
pelle in strisce sottilissime e si vide assegnata tutta la terra, affacciata<br />
sul mare, che poté circondare con le striscioline attaccate una<br />
all'altra. Così costruì Cartagine. Se non si è mai sentito parlare di<br />
calcolo delle variazioni e di superfici minime ci si può chiedere che<br />
relazione ci sia tra Didone, la fondazione di Cartagine e il problema<br />
di Plateau. La proprietà di cui si sta parlando è nota con il nome di<br />
proprietà isoperimetrica: (iso = stessa, quindi isoperimetrica = stessa<br />
lunghezza) a parità di lunghezza di perimetro esterno, se si vuole<br />
racchiudere la maggiore area possibile all'interno, quale figura piana<br />
bisogna scegliere come contorno? La risposta è la circonferenza che<br />
tra le figure piane possiede appunto la proprietà isoperimetrica.<br />
Tornando al problema della fondazione di Cartagine, la soluzione<br />
trovata da Didone potrebbe essere stata quella di costruire con le<br />
36
striscioline di pelle di bue una circonferenza; in tal modo avrebbe<br />
ottenuto con la lunghezza delle striscioline la più ampia estensione<br />
di territorio all'interno.<br />
E' possibile verificare che la soluzione di Didone era corretta. Si<br />
prende un filo metallico in forma di circonferenza e lo si immerge<br />
nell'acqua saponata quindi lo si estrae: al filo metallico resta attaccata<br />
una lamina saponata in forma di cerchio che risolve il problema.<br />
Antoine Ferdinand Plateau (1801-1883) inizia la sua carriera<br />
scientifica nel campo dell'ottica. Nel 1829 durante un esperimento<br />
espone troppo a lungo i suoi occhi alla luce del sole, il che causa dei<br />
danni irreversibili alla sua vista. Dal 1843 è completamente cieco. E'<br />
in questi anni che inizia a interessarsi alla natura delle forze<br />
molecolari presenti nei fluidi, arrivando a scoprire le forme che<br />
assumono le lamine di sapone contenute in particolari intelaiature<br />
metalliche immerse nell'acqua saponata. Nel 1873 pubblica il<br />
risultato di quindici anni di ricerche nei due volumi del trattato<br />
Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces<br />
moléculaires .<br />
La soluzione del problema di Plateau: le leggi di Plateau.<br />
Plateau stesso enuncia il principio generale che è alla base del suo<br />
lavoro; tale principio permette di realizzare tutte le superfici di<br />
curvatura media nulla e le superfici minime, di cui si conoscono o le<br />
equazioni o la generatrice geometrica.<br />
Si tratta di tracciare un contorno chiuso qualsiasi con le sole<br />
condizioni che esso circoscriva una porzione limitata della superficie<br />
e che sia compatibile con la superficie stessa; se allora si costruisce<br />
un filo di ferro identico al contorno in questione, lo si immerge<br />
interamente nel liquido saponoso e lo si estrae, si ottiene un insieme<br />
di lamine saponate che rappresenta la porzione di superficie in<br />
esame. Plateau non può fare a meno di notare che queste superfici si<br />
realizzano «quasi per incantesimo.» Per prima cosa Plateau si occupa<br />
della forma che si ottiene quando si soffia con una cannuccia in un<br />
liquido saponoso.<br />
Come tutti sanno non si ottengono delle bolle di sapone, sferiche,<br />
staccate le une dalle altre ma un sistema di superfici saponose<br />
nessuna delle quali è perfettamente sferica. Si formano delle lamine,<br />
più o meno piatte, che separano tra loro le diverse bolle. Immagini<br />
molto interessanti sono state ottenute per agglomerati di bolle da<br />
37
John Sullivan presso il Geometry Center dell'Università del<br />
Minnesota a Minneapolis. Sullivan alla chiusura del centro si è<br />
trasferito alla Università tecnica di Berlino.<br />
Soffiando con delle pipette nel liquido saponoso, ci si accorge che<br />
più si soffia più complesso diventa l'agglomerato di lamine; si<br />
potrebbe pensare che conseguenza di questo fatto sia che il modo in<br />
cui le diverse lamine si incontrano possa dare luogo a infinite<br />
configurazioni. Ed è qui la grande scoperta di Plateau, incredibile a<br />
prima vista: comunque elevato sia il numero di lamine di sapone che<br />
vengono a contatto tra loro, non vi possono essere altro che due tipi<br />
di configurazioni. Precisamente le tre regole sperimentali che<br />
Plateau scopre a proposito delle lamine saponate sono che:<br />
1) un sistema di bolle o un sistema di lamine attaccate a un supporto<br />
in fil di ferro è costituito da superfici piane o curve che si<br />
intersecano tra loro secondo linee con curvatura molto regolare.<br />
2) Le superfici possono incontrarsi solo in due modi: o tre superfici<br />
che si incontrano lungo una linea o sei superfici che danno luogo a<br />
quattro curve che si incontrano in un vertice.<br />
3) gli angoli di intersezione delle superfici lungo una linea o delle<br />
superfici delle curve di intersezione in un vertice sono sempre<br />
eguali, nel primo caso a 120°, nel secondo a 109° 28'.(Fig. 2)<br />
Fotogramma dal film di Michele Emmer Soap Bubbles. © M. Emmer.<br />
Plateau utilizza le regole scoperte per dare forma a un gran numero<br />
di strutture di acqua saponata Per far questo basta costruire dei<br />
telaietti di ferro e immergerli nel sapone. Una volta estratti si ottiene<br />
per ogni telaietto un sistema di lamine che è la verifica sperimentale<br />
38
del problema di Plateau per quel telaietto. Uno dei primi telaietti<br />
che Plateau considera è in forma di scheletro di cubo. Le lamine,<br />
una volta immerso ed estratto il telaio, raggiungono la forma stabile<br />
in pochi istanti.<br />
Il sistema di lamine che si ottiene rispetta le regole degli angoli e<br />
inoltre le lamine vanno a incontrarsi al centro in una lamina di<br />
forma quadrata, lamina che risulta sempre disposta parallelamente a<br />
una delle facce del telaio cubico. Se poi si reimmerge nell'acqua<br />
saponata e si estrae il telaietto dal sapone non del tutto, in modo tale<br />
che le lamine catturino un piccolo volume d'aria e quindi si estrae<br />
del tutto il telaietto, la bolla d'aria catturata si sistema<br />
immediatamente per ragioni di simmetria al centro della struttura<br />
laminare.<br />
39<br />
M. Emmer, E. Bisignani, Soapy Hypercube, fotografia, (1986) © M.<br />
Emmer. Biennale d’arte di Venezia.<br />
Si ottiene un cubo le cui facce di acqua saponata sono collegate<br />
tramite altre lamine al telaio cubico. Il cubo al centro ha le facce<br />
leggermente convesse per rispettare le regole sugli angoli.<br />
Plateau con i suoi esperimenti aveva posto ai matematici due<br />
problemi: quello che è noto come problema di Plateau e l'altro sulla<br />
geometria delle lamine di sapone.<br />
E' all'inizio degli anni '60 del secolo scorso che viene introdotto un<br />
approccio completamente nuovo al problema di Plateau da parte di<br />
Ennio De Giorgi e di Reifenberg. L'idea era quella di generalizzare il
concetto di superficie, di area, e di contorno per arrivare ad<br />
ottenere una soluzione generale del problema di Plateau. Il metodo<br />
usato era quello del calcolo della variazioni, cioè a dire cercare<br />
all'interno delle superfici considerate quelle che minimizzavano<br />
l'energia del sistema, nel caso specifico dell'area. Utilizzando metodi<br />
diversi e indipendenti di Reifenber e De Giorgi il problema di<br />
Plateau poteva dirsi risolto nella sua generalità. Restava il problema<br />
dello studio delle spigolosità (delle singolarità) che veniva affrontato<br />
e risolto da diversi studiosi, tra i quali Mario Miranda, Enrico Giusti<br />
e Enrico Bombieri in Italia e Federer, Fleming e Almgren negli<br />
USA. Enrico Bombieri nel 1974 otteneva la medaglia Fields anche<br />
per i suoi contributi alla teoria delle superfici minime. Restava<br />
un'altra questione: la geometria delle lamine di sapone così come<br />
erano state scoperte sperimentalmente da Plateau. Le leggi di<br />
Plateau erano corrette e era possibile dimostrare che i modelli che<br />
aveva trovato per diversi contorni erano corretti?<br />
«In questo lavoro forniamo una classificazione completa della<br />
struttura locale delle singolarità nello spazio tridimensionale; i<br />
risultati sono che l'insieme singolare di un insieme minimo (gli<br />
spigoli cioè) consiste di curve abbastanza regolari lungo le quali si<br />
incontrano tre lamine della superficie in angoli eguali di 120° e da<br />
punti isolati ove si incontrano quattro di tali curve dando luogo a sei<br />
lamine anch'esse con angoli eguali. I risultati si applicano alle molte<br />
superfici reali che sono generate dalla tensione superficiale, come un<br />
qualsiasi aggregato di lamine di sapone, e quindi forniscono una<br />
dimostrazione dei risultati sperimentali ottenuti da Plateau più di<br />
cento anni fa. » Così inizia uno dei lavori di matematica più noti di<br />
questi ultimi venti anni. Scritto da Jean E. Taylor, si intitola The<br />
Structure of Singularities in Soap-Bubble-Like and Soap-Film-Like minimal<br />
Surfaces (la struttura delle singolarità nelle superfici minime stabili<br />
cioè del tipo bolle e lamine di sapone). La Taylor fu in grado di<br />
classificare e esaminare i casi che si potevano presentare<br />
dimostrando così che Plateau aveva avuto ragione. Con Fred<br />
Almgren la Taylor scrisse lo stesso anno un ben noto articolo sulle<br />
loro ricerche pubblicato sul Scientific American nel 1976. [5] Da lì<br />
nacque l’idea di realizzare il film “Bolle di sapone”. [6]<br />
Mostra Internazionale d’ Architettura a Venezia del 2004.<br />
40
Tra i progetti premiati, in particolare tra quelli che si ispirano al<br />
mondo naturale, vince il progetto Watercube che sarà realizzato per le<br />
Olimpiadi di Bejing nel 2008: la piscina olimpica. Progettisti<br />
australiani, PTW, in collaborazione con ARUP, un gruppo<br />
indipendente di designer e ingegneri con sedi in moltissimi paesi.<br />
Tra i tanti che vi hanno lavorato Chriss Bosse, che in un articolo del<br />
2008 L’architettura delle bolle di sapone scrive:<br />
“Nella serie di padiglioni che abbiamo costruito in tutto il mondo,<br />
abbiamo usato il principio delle superfici minime in natura.<br />
Minimizzando il materiale da usare riempiamo uno spazio enorme,<br />
sulla base delle proprietà di auto-organizzazione delle strutture di<br />
una membrana. Otto Frei ha usato questi principi, immergendo dei<br />
cavi nelle bolle di sapone per creare un tetto a forma di nuvola<br />
sospesa nell’ambiente circostante, in occasione delle olimpiadi di<br />
Monaco del 1972.”<br />
Già in quell’anno l’architetto Frei Otto ha utilizzato modelli di<br />
lamine di sapone per costruire grandi strutture, che chiamò Tensile<br />
Structures. Scrive ancora Bosse:<br />
“Concettualmente, il quadrato e gli spazi interni sono ricavati da un<br />
ammasso indefinito di schiuma di lamine di sapone, il che<br />
simbolizza la condizione della natura che è trasformata in una<br />
situazione culturale. L’apparizione del centro acquatico è di<br />
conseguenza un ‘cubo di molecole d’acqua’. La sua intera struttura è<br />
stata derivata dalla struttura di acqua nella condizione di schiuma.<br />
Dietro la apparente casualità è nascosto una rigida geometria che<br />
può essere ritrovata in sistemi naturali come i cristalli, le cellule e le<br />
strutture molecolari. In altre parole la migliore suddivisione dello<br />
spazio tridimensionale con celle di eguale volume.”<br />
Nel 1887 il famoso fisico Lord Kelvin poneva un problema alla<br />
comunità scientifica, quale sia il poliedro con il quale si può riempire<br />
in modo uniforme lo spazio tridimensionale riducendo al minimo<br />
l’area superficiale dei solidi e massimizzando il volume contenuto. I<br />
primi tentativi vennero fatti con le sfere che ovviamente lasciano dei<br />
vuoti tra di loro. Per migliorare il risultato si possono deformare le<br />
sfere per riempire i vuoti ed ottenere dei poliedri che hanno 12 facce<br />
rombiche, noti con il nome di rombododecaedri. Per molto tempo<br />
si è pensato che questa fosse la migliore soluzione possibile.<br />
Qualche anno dopo la pubblicazione del libro di Plateau, Lord<br />
Kelvin aveva pubblicato un breve lavoro intitolato On the Division of<br />
Space with Minimum Partition Area. Kelvin esegue diverse esperimenti<br />
41
con la cannuccia soffiando al centro della struttura ottenuta da<br />
Plateau e arriva ad ottenere un nuovo solido che chiama<br />
tetrakaidecahedron (tetrakaideca = 14) che ha 14 facce. Con il solido<br />
proposto da lord Kelvin si ottiene un poliedro con un aumento di<br />
densità di circa l'1% rispetto al rombododecaedro.<br />
Nel 1994 due chimici fisici Denis Weaire e Robert Phelan<br />
annunciano di aver scoperto una nuova configurazione composta di<br />
due poliedri con eguale volume, dodecaedri irregolari incurvati e 14edra<br />
(che aveva utilizzato Kelvin) con facce incurvate.<br />
I progettisti della piscina olimpica decidono di recarsi al Dublino per<br />
farsi spiegare dai fisici Irlandesi come era realizzata la loro soluzione.<br />
I poliedri della soluzione di Weaire e Phelan sono stati quindi<br />
utilizzati per realizzare la struttura della piscina. Ma la storia non<br />
finisce qui perché nel novembre 2011 quello che era un modello<br />
geometrico astratta diventa una realtà fisica. Il modello di Weaire e<br />
Phelan viene fisicamente realizzato con lamine di sapone. Grazie agli<br />
esperimenti condotti al Trinity College da un gruppo coordinato da<br />
Ruggero Gabbrielli, dell’università di Trento. Con l’aiuto di Kenneth<br />
Brakke il team è riuscito a costruire una struttura complessa chen<br />
riesce ad alloggiare le lamine di sapone teoricamente proposte da<br />
Weaire e Phelan. La struttura è stata poi fotografata. “Wonderful!”<br />
ha esclamato Weiare, oggi Professore Emerito. “Lo chiameremo<br />
Italian Job” (lavoro, creatività Italiana). L’articolo che descrive<br />
42
l’esperimento viene pubblicato sulla stessa rivista sulla quale Lord<br />
Kelvin aveva posto il problema più di cento anni fa, il Philosophical<br />
Magazine.<br />
Aveva ragione Mark Twain quando ha scritto:<br />
“Una bolla di sapone è la cosa più bella, e la più elegante, che ci sia<br />
in natura.....Mi chiedo quanto sarebbe necessario per comprare una<br />
bolla di sapone se al mondo ne esistesse soltanto una.”<br />
Per gli ultimi sviluppi dell’utilizzo delle lamine di sapone e la loro<br />
geometria in architettura si veda [3], [7].<br />
Bibliografia<br />
[1] De Gennes, Pierre Gilles, Soft matter, 1992, Science, vol 256,<br />
24 aprile 1992, pp. 495-497<br />
[2] Emmer, Michele, 1991, Bolle di sapone: un viaggio tra arte,<br />
scienza e fantasia, Firenze, La Nuova Italia; le ultime copie del<br />
libro sono state, a quanto mi risulta, mandate al macero nel<br />
1997.<br />
[3] Emmer, Michele, 2009, Bolle di sapone tra arte e matematica,<br />
Torino, Bollati Boringhieri, premio letterario Viareggio-<br />
Repaci 2010.<br />
[4] Emmer, Michele, 2011, Colours and Soap Bubbles. In: Rossi<br />
Maurizio, ed. Colour and Colorimetry. Multidiscilplinary<br />
Contributions, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore,<br />
p. 161-168.<br />
[5] F. Almgren, Fred, Taylor, Jean, 1976, The Geometry of soap<br />
bubbles and Soap Films, Scientific American, p. 82-93.i<br />
[6] Emmer, Michele, 1980, Bolle di sapone, DVD, 27 minuti,<br />
Roma, produzione Michele Emmer & Film 7 International.<br />
[7] M. Emmer, 2013, Minimal Surfaces and Architecture: New<br />
Forms, in K. Williams, ed., Nexus Network Journal, vol. 15<br />
no. 1, in corso di stampa.<br />
WEB<br />
http://www.math.uiuc.edu/~jms<br />
http://www.msri.org/publications/sgp/jim/images/surflib/index.h<br />
tml<br />
43
Ambiguità dell’apparenza / apparenza dell’ambiguità:<br />
neurobiologia dell’ambiguità e del non finito nella<br />
creatività artistica<br />
45<br />
Mario Abrate<br />
La creatività è, per così dire, la strategia del cervello per supplire ai propri limiti.<br />
Semir Zechi<br />
I progressi tecnici nello sviluppo di metodologie per lo studio<br />
dell’attività cerebrale umana ed il continuo miglioramento degli<br />
strumenti di indagine delle neuroscienze cognitive, hanno permesso<br />
di mettere in relazione l’attività neuronale con il pensiero ed il<br />
comportamento, producendo così nuovi modelli di comprensione<br />
del cervello e della mente, dimostrando che gli stati mentali<br />
soggettivi hanno particolari correlati neuronali, che possono essere<br />
individuati con estrema precisione. Oggi la maggior parte dei<br />
ricercatori è concorde nell’affermare che i processi cognitivi e i<br />
diversi stati di coscienza / consapevolezza, comprese le emozioni,<br />
sono ‘prodotti’ del funzionamento cerebrale.<br />
Gli studi sulle attivazioni e sulle risposte comportamentali agli<br />
stimoli ambientali che si svolgono in modo ‘automatico’, prima che<br />
siano percepite o che possono anche essere completamente fuori<br />
dallo spazio della coscienza, hanno condotto alla convinzione che,<br />
ben oltre l’inconscio freudiano, l’Io si sia sbriciolato in subelementi<br />
funzionali, spesso in competizione, che solo apparentemente<br />
trovano unità, sia per il ‘soggetto’ sia per l’osservatore esterno.<br />
Attraverso la conoscenza del meccanismo neurofisiologico è ora<br />
possibile interrogarsi sul nostro modo di percepire la ‘realtà’, di<br />
intessere rapporti e di sviluppare un senso estetico.<br />
Attraverso l’analisi dei prodotti della mente, quali le arti figurative, la<br />
musica, la letteratura, la creatività umana in generale, Semir Zechi,<br />
professore di Neurobiologia alla University College di Londra,<br />
partendo dall’analisi della struttura del cervello e del processo di<br />
astrazione, propone un’analisi del meccanismo di costruzione dei<br />
concetti e delle idee, simile a quella formulata nella ‘Critica della<br />
Ragion Pura ’ da Kant, costruendo la stessa prospettiva ma con<br />
linguaggio e strumenti diversi. Attraverso la Risonanza Magnetica
Funzionale per Immagini (fMRI), Zechi elabora e propone uno<br />
schema attraverso il quale, dal sensibile, si arriva alla costruzione di<br />
un ‘concetto sintetico ’ della realtà, ovvero ad una astrazione<br />
ottenuta mediando tutti gli impulsi sensoriali.<br />
L’acquisizione di conoscenza è una funzione fondamentale del<br />
cervello, che la realizza prima utilizzando un principio organizzativo<br />
tale che l’imput in entrata genera un’esperienza, successivamente<br />
usando l’esperienza così generata per formare ‘concetti’, che<br />
possono essere di due tipi: ereditari o acquisiti. Sono tra loro<br />
profondamente legati, e l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. I<br />
concetti ereditari organizzano i segnali che raggiungono il cervello in<br />
modo da instillare in essi il significato e da ricavarne dunque un<br />
senso. I concetti acquisiti sono generati dal cervello durante tutto il<br />
corso della vita, e lo rendono indipendente dal cambiamento<br />
continuo di informazione che lo raggiunge. Agevolano la percezione<br />
e il riconoscimento e ci permettono di acquisire la conoscenza di<br />
cose e situazioni. Ne consegue che non già le percezioni precedono<br />
le astrazioni ed i concetti, ma accade esattamente il contrario:<br />
formiamo le percezioni a partire dalle astrazioni e dai concetti. Se è<br />
attraverso questi due tipi di concetti che il cervello acquisisce la<br />
conoscenza del mondo, ne discende che esistono dei limiti a quella<br />
conoscenza, come già sottolineato da Kant; “non possiamo mai conoscere<br />
la cosa in sé, in quanto la conoscenza che di essa abbiamo può avvenire solo<br />
attraverso le operazioni della mente”, cioè del cervello. Tutta la<br />
conoscenza è conoscenza del cervello; Kant, affermando che “la<br />
mente non deriva le sue leggi (a priori) dalla natura, ma le prescrive a<br />
quest’ultima”, avrebbe potuto tranquillamente sostituire a ‘mente’ la<br />
parola ‘cervello’.<br />
Il meccanismo cerebrale di acquisizione della conoscenza è<br />
distribuito in molte differenti aree del cervello, ognuna in accordo<br />
con la sua specializzazione, ciascuna capace non solo di organizzare<br />
i segnali in entrata sulla base del proprio concetto ereditario, ma<br />
anche di astrarre. Questa distribuzione del sistema di acquisizione<br />
della conoscenza, vale non solo per i segnali molto differenti tra<br />
loro, come quelli uditivi e visivi, ma caratterizza persino le<br />
suddivisioni entro una singola modalità sensoriale, come quella della<br />
visione. La differenza importante tra concetti cerebrali ereditari e<br />
acquisiti risiede nel fatto che gli ereditari sono intimamente legati ad<br />
aree specifiche, dove la macchina interna di ciascuna area è<br />
46
necessaria per organizzare in un modo particolare i segnali in<br />
arrivo, e dipende dalla sua specializzazione, mentre gli acquisiti<br />
hanno una spiccata dipendenza da influssi provenienti da altre aree,<br />
spesso ‘superiori’; e questo perché il giudizio, le esperienze passate e<br />
la memoria svolgono tutte un ruolo fondamentale nell’aggiornare il<br />
concetto cerebrale sintetico e nel modificarlo nel tempo.<br />
La formazione dei concetti acquisiti presenta dei limiti rigidi, pur<br />
essendo una meravigliosa costruzione di ingegneria neurale; i<br />
concetti formati sono sintetici, conseguono all’acquisizione continua<br />
di esperienze dopo la nascita e durante tutta la vita, anche se<br />
l’esperienza istantanea è appannaggio esclusivo di alcuni esempi<br />
particolari, che comunemente non soddisfano il concetto sintetico<br />
nel cervello. L’evidenza della ricerca impone di concludere che i<br />
concetti cerebrali sintetici acquisiti, sintesi di molte esperienze, sono<br />
continuamente modificati: come il concetto ereditario è<br />
indispensabile per generare l’esperienza, così l’esperienza è<br />
indispensabile per generare il concetto acquisito.<br />
In contrapposizione con ‘l’ideale Platonico ’, dove solo la conoscenza<br />
delle ‘Idee universali ’, la cui esistenza è indipendente dall’uomo, è da<br />
intendersi come vera conoscenza, e l’unico modo per ottenerla è<br />
attraverso un processo del pensiero, essendo le Idee soprasensibili,<br />
Semir Zechi, come molti altri neurobiologi, ritiene che i dati<br />
sensoriali siano sottoposti a processi di astrazione nel cervello, e<br />
attraverso questi processi di astrazione è costruito un concetto<br />
sintetico, cioè l’Ideale. Detto altrimenti, non esiste nel sistema<br />
neurobiologico alcun ideale universale di bellezza o di oggetto o di<br />
paesaggio: ciascuno di essi è ritagliato secondo l’esperienza<br />
individuale, e varia nei diversi individui; inoltre, mentre le Idee<br />
Platoniche sono immutabili, il concetto sintetico del cervello cambia<br />
nel tempo e con l’accumularsi dell’esperienza. In sintesi, come già<br />
Platone e Kant, Zechi propone l’ipotesi che la costruzione di un<br />
concetto sintetico o ideale, che conduce alla conoscenza di una<br />
categoria particolare, sia dovuta ad un processo intellettivo, che può<br />
anche essere ‘silente’, inconscio; e, come già pensavano Platone e<br />
pure Kant, esso implica una comparazione; infine, come già per<br />
Platone, anche il concetto sintetico è raramente realizzabile nella<br />
vita.<br />
La grande prerogativa del cervello è quindi di essere capace, in<br />
apparenza con grande naturalezza, di generare moltissimi concetti,<br />
47
comportandosi quindi come un sistema molto efficiente di<br />
acquisizione di conoscenza, ovvero di generazione di conoscenza.<br />
D’altro canto, l’insuperabile limite che questa meravigliosa macchina<br />
implica è, paradossalmente, il risultato della sua stessa efficienza.<br />
Infatti, l’incapacità della nostra esperienza di esaudire i concetti<br />
sintetici generati dal cervello, crea uno stato di permanente<br />
insoddisfazione che potrebbe essere una delle principali forze<br />
motrici delle imprese artistiche.<br />
Se le fonti della perfezione risiedono nel cervello, più precisamente<br />
nei concetti sintetici che esso forma, uno dei fattori determinanti<br />
della creatività sarebbe il tentativo di soddisfare un concetto<br />
cerebrale inappagato: l’insoddisfazione, dunque, come uno degli<br />
ingredienti più potenti per attivare la creatività. Soddisfatto il<br />
concetto cerebrale, la creatività diminuisce rapidamente, e a riprova<br />
Semir Zechi riporta questa citazione da Lucian Freud:<br />
“Mai un istante di completa felicità si presenta nella creazione di<br />
un’opera d’arte. La promessa di felicità la proviamo nell’atto della<br />
creazione e scompare quando siamo prossimi a completare l’opera.<br />
E’ in quel frangente che il pittore si rende conto di dipingere<br />
solamente un quadro. Prima, egli aveva quasi osato sperare che il<br />
dipinto potesse sorgere a vita. Se non fosse per questa ragione, il<br />
quadro perfetto potrebbe essere dipinto, e, completandolo, il pittore<br />
potrebbe appendere il pennello al chiodo. E’ questo grande vuoto<br />
che lo spinge ad andare avanti. Quel processo di creazione diventa<br />
necessario al pittore forse più del quadro stesso. Il processo è come<br />
una sorta di droga.”<br />
L’orientamento del cervello ad acquisire conoscenza in un mondo<br />
che è in un flusso perpetuo è stato spesso al centro della<br />
speculazione dei filosofi interessati al problema della conoscenza, a<br />
come questa venga acquisita e alla certezza di ciò che sappiamo. Già<br />
si è detto come il cervello disponga di concetti ereditari che<br />
organizzano l’esperienza e la rendono quanto più indipendente<br />
possibile dal cambiamento esterno, realizzando percetti all’interno di<br />
aree specializzate, non necessariamente dipendenti da centri<br />
cognitivi superiori. Ciò permette al cervello di tentare interpretazioni<br />
sul significato dell’esistenza, sui segnali provenienti dal mondo<br />
esterno. Tuttavia, il cervello non si trova, in genere, in condizioni<br />
per farlo agevolmente, confrontandosi con significati diversi, tutti<br />
ugualmente validi. Quando una sola soluzione non è evidentemente<br />
48
migliore delle altre, l’unica opzione è ammettere diverse<br />
interpretazioni, o meglio proporne diverse, tutte valide. Un livello<br />
così elevato di ambiguità si riscontra nelle molteplici possibili<br />
interpretazioni narrative, o concetti, che possiamo dare alle opere<br />
d’arte, dove l’unica variabile è rappresentata dal cervello dello<br />
spettatore, che può offrire diverse letture ugualmente valide, a<br />
seconda dei concetti che ha acquisito. Seppure fisicamente stabile,<br />
l’opera d’arte è cognitivamente instabile: questo deriva dalla genialità<br />
degli artisti, capaci di privarci della risposta, nel provare a<br />
trasmetterci con sensibilità magistrale tutte le espressioni, sebbene in<br />
un determinato istante non si possa che essere coscienti di una sola.<br />
Poiché non esiste la soluzione univoca, l’opera d’arte stessa diventa<br />
un problema che coinvolge la mente.<br />
Ne consegue una evidente relazione tra le opere che manifestano<br />
tale ambiguità e le opere volutamente non completate dall’autore:<br />
entrambe sono cognitivamente instabili, perché in entrambi i casi il<br />
cervello offre molteplici interpretazioni ugualmente valide della<br />
stessa opera, facendo in modo che più concetti influiscano<br />
sull’interpretazione stessa. Come esempio, Semir Zechi scrive sulle<br />
sculture non finite da Michelangelo, dove si sono generate<br />
interpretazioni complete, al punto da trarre la conclusione che sia<br />
stato lo spettatore “a completarle”. Zechi cita la descrizione di<br />
Charles de Tolnay della Pietà Rondinini, come opera che “arriva a<br />
rappresentare nella vita personale dell’artista quello stato di beatitudine a cui<br />
aspirava la sua anima irrequieta”, che potrebbe essere infatti la<br />
descrizione di un’opera compiuta. In effetti, si possono applicare<br />
molti concetti per completarla ed interpretarla: ne consegue che la<br />
capacità di fornire molteplici interpretazioni potrebbe non essere<br />
una facoltà a parte, inventata o usata dall’artista, ma potrebbe essere<br />
legata ad una capacità generale del cervello di fornire diverse<br />
interpretazioni, di riversare il significato applicando diversi concetti,<br />
una capacità importante per il suo ruolo di acquisizione della<br />
conoscenza: è su questa base fisiologica che si costruirebbe la<br />
preziosa qualità dell’ambiguità.<br />
Non è improprio ipotizzare l’esistenza di variazioni graduali dagli<br />
stimoli non ambigui a quelli ambigui, come pure nel numero di aree<br />
o di sedi corticali da reclutare durante la percezione di ‘figure<br />
ambigue ’. Nei livelli superiori, come evidenzia la capacità di dare<br />
molteplici interpretazioni ugualmente valide di un’opera d’arte, lo<br />
stato ambiguo potrebbe coinvolgere diverse aree distinte capaci di<br />
49
esercitare la propria influenza, sino a quando, in un dato istante,<br />
entra quasi certamente in campo un influsso “dall’alto”, da più fonti,<br />
oltre ai lobi frontali. L’artista sfrutta intuitivamente questa<br />
potenzialità del cervello che consente a molteplici aree di influenzare<br />
l’oggetto della percezione. Di fatto, l’ambiguità potrebbe essere<br />
maggiore di quanto valutiamo: il cervello visivo, infatti, si è<br />
sviluppato lungo un arco di tempo molto più lungo rispetto al<br />
‘cervello linguistico ’, e molte immagini visive, seppure di grande<br />
capacità evocativa, resistono ad una classificazione semantica.<br />
Inoltre le immagini acquisiscono ricchezza tramite segnali visivi<br />
ambigui non facilmente comunicabili attraverso il linguaggio, o ad<br />
esso inaccessibili. Ecco perché, afferma Zechi, “non è tanto l’ambiguità<br />
in sé ad essere esteticamente piacevole –sebbene artisti come Arcinboldo e<br />
Salvador Dalì abbiano deliberatamente tradotto l’ambiguità in forma artistica-<br />
quanto la capacità di introdurre in un’opera d’arte molteplici concetti ed<br />
esperienze.”<br />
In sintesi, esiste continuum nelle operazioni del cervello, il cui<br />
fondamento consiste nel cercare la conoscenza mediante la<br />
formazione di concetti per riversare significati nell’esistenza, e nel<br />
quale procediamo da condizioni in cui il cervello non ha scelte nella<br />
sua interpretazione dei segnali ricevuti, come nella visione dei colori,<br />
a condizioni in cui sono possibili due interpretazioni ugualmente<br />
plausibili e, infine, condizioni in cui le possibili interpretazioni sono<br />
molte. Se la generazione dei colori dipende dall’attività delle vie e del<br />
centro del colore, e se il colore che il cervello attribuisce ad un<br />
oggetto qualsiasi nel nostro campo visivo è determinato dalle<br />
operazioni di detto centro, e non è facilmente modificabile da<br />
influssi di altre aree corticali, si suppone che l’area corticale in cui<br />
sono registrati i volti sia soggetta ad influenze da altre aree corticali,<br />
che potrebbero determinare l’interpretazione assegnata<br />
all’espressione sul volto.<br />
Concludendo, sempre secondo Zechi, se la funzione dell’arte è<br />
un’estensione di quella del cervello, e cioè l’acquisizione della<br />
conoscenza, e se il cervello la realizza formando concetti di tutto<br />
quello che sperimenta, allora è ragionevole supporre che i<br />
meccanismi usati per trasfondere il significato in questo mondo<br />
siano proprio gli stessi usati per trasfondere il significato nelle opere<br />
d’arte. Sono proprio questi i meccanismi a cui ricorrono gli artisti<br />
per creare le loro opere; gli stessi che noi usiamo per interpretare le<br />
50
loro realizzazioni. E quando la realizzazione del concetto cerebrale<br />
sintetico, o l’ideale cerebrale, è comunemente difficile o impossibile<br />
nella vita reale, o persino nell’arte, una soluzione potrebbe essere<br />
presentarlo in una forma incompleta, ovvero irraggiungibile, e<br />
lasciare all’immaginazione il compito di completare l’esperienza in<br />
base ai concetti sintetici del suo cervello.<br />
E se spesso l’umanità è condannata a non trovare una felicità<br />
adeguata a causa dell’incapacità a soddisfare i concetti sintetici che il<br />
cervello sviluppa nella sua ricerca della conoscenza, pagando un<br />
prezzo consistente in termini di sofferenza per le meravigliose<br />
capacità del suo cervello, così la sofferenza può generare a sua volta<br />
splendori, creando nuove opere che arricchiscono l’umanità e<br />
introducono nuovi concetti. E non solo l’arte figurativa, la musica, la<br />
letteratura, ma anche i castelli di sabbia, perché la creatività e<br />
l’immaginazione sono attributi dei quali ogni cervello è dotato, e che<br />
in vario grado è capace di esprimere.<br />
La creatività, in questa lettura diventa la strategia del cervello per<br />
supplire ai propri limiti.<br />
51
Ambiguità. Polisemia. Libertà<br />
53<br />
Vanna Pescatori<br />
Alla radice del nostro simposio dedicato all’ambiguità, c’è la<br />
polisemia: un’espressione è ambigua in virtù della possibilità di avere<br />
delle decodificazioni differenti, ovvero di indurre ad una<br />
attribuzione di significato non univoca e, per questo, diversa da<br />
quella con cui è stata detta, scritta, rappresentata: in una parola<br />
“comunicata’’.<br />
Mentre nelle lingue artificiali e formalizzate tutti gli sforzi degli<br />
studiosi, logici e matematici soprattutto, sono stati rivolti a rendere<br />
le espressioni – elementi costitutivi e enunciati ben formati – non<br />
ambigue, incernierando, per così dire, ogni variabile in una<br />
definizione rigorosa pre-messa; nelle lingue naturali la polisemia<br />
regna sovrana e con essa l’ambiguità. La ritroviamo infinite volte nel<br />
nostro quotidiano e, per quanti sforzi abbiano fatto linguisti, filosofi<br />
del linguaggio e semiologi, nell’interrogarsi sul funzionamento della<br />
decodificazione “naturale’’, appartenente al nostro mondo in<br />
continuo e sempre più rapido e imprevedibile mutamento, le<br />
questioni aperte sono rimaste, quasi che codici linguistici e processi<br />
di significazione rifiutassero di sottomettersi al rigore di un sistema<br />
interpretativo, perché è questo, in definitiva il sogno di ogni<br />
studioso: imprigionare la sua creatura, in modo da poterla sempre<br />
ritrovare.<br />
In fondo l’uomo non ama poi molto la libertà. O meglio, proclama a<br />
gran voce la propria aspirazione ad essere libero, ma quando deve<br />
fare i conti con una libertà che, in quanto tale, non può appartenere<br />
solo all’individuo in quanto “sé’’, ma essere elemento costitutivo<br />
della società, in quanto “altro-da-sé ’’, entra in crisi. Comincia, allora,<br />
a guardare la libertà sotto la lente d’ingrandimento e vi trova una<br />
miriade di istanze, come una cavolo in cui le foglie si<br />
sovrappongono e appena una viene eliminata, sotto ve n’è un’altra<br />
pronta a prendere il suo posto. Ma se la libertà è un concetto<br />
complicato, proprio perché anche se apparentemente la definizione<br />
può essere abbastanza riconoscibile – ad esempio quella<br />
d’ispirazione illuminista, che su indicazione di Thomas Jefferson,<br />
compare nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino
“La libertà consiste nel poter fare ciò che non nuoce agli altri”-, in<br />
realtà può offrirsi a molteplici interpretazioni, prendiamo un termine<br />
molto più banale: “scarpa’’.<br />
Apparentemente il suono “scarpa” o la grafia “scarpa” (all’interno<br />
del codice della lingua italiana), non dovrebbe indurre ad ambiguità<br />
di decodificazione, almeno in senso generale, in quanto “calzatura<br />
atta a proteggere il piede”. Eppure nella scarpa è contenuto il<br />
mocassino, il decolleté, la “ballerina”, il sandalo, l’antico coturno e<br />
tutta una tipologia di calzature che mi consentono di dire che la<br />
scarpa a cui penso io possa esser totalmente differente da quella a<br />
cui pensa il mio vicino.<br />
Si dirà è il solito (filosofico) problema degli universali e dei<br />
particolari che ha torturato le più alte menti fin dall’antichità.<br />
Possiamo platonicamente dire che il mocassino, la ballerina, il<br />
decolleté e i loro parenti, “partecipano’’ dell’idea della “scarpa’’,<br />
l’archetipo che vi è nell’iperuranio. Oppure con gli Scolastici cercare<br />
di individuare la “substantia’’ della scarpa. O ancora fare nostra<br />
l’annotazione di Umberto Eco che in un testo in cui confuta il<br />
“Pensiero debole’’ di Vattimo, scrive: “Noi usiamo espressioni per<br />
esprimere un contenuto, e questo contenuto viene ritagliato e<br />
organizzato in forme diverse da culture ( e lingue) diverse. Su e da<br />
che cosa viene ritagliato? Da una parola amorfa, che era lì prima che<br />
il linguaggio vi avesse operato le sue vivisezioni, e che chiameremo il<br />
continuum del contenuto, tutto l’esperibile, il dicibile, il pensabile –<br />
se volete, l’infinito di ciò che è, che è stato e sarà, sia per necessità<br />
che per contingenza’’.<br />
E più oltre, riferendosi al termine “ mening ’’ del linguista danese<br />
Hjelmslev, traducibile con “direzione di senso’’: “Se il continuum ha<br />
delle linee di tendenza, non si può dire tutto quello che si vuole. Ci<br />
sono dei sensi, forse non dei sensi obbligati, ma dei sensi vietati’’.<br />
Ovvero, conclude Eco, dei “limiti’’, dei confini, che ci pone il<br />
mondo, prima ancora del linguaggio. Sono questi confini con cui<br />
l’uomo deve fare i conti, nella sua azione interpretativa.<br />
Tenendo questa affermazione come filo conduttore e come “ àncora<br />
’’ di significato, rimane tutta via la varietà di attribuzioni di senso,<br />
che attingono al vissuto dell’autore e del fruitore dell’atto<br />
comunicativo (sia esso verbale o non verbale).<br />
Ritornando alla scarpa. Un giovane artista, Enrico Tealdi, dipinge<br />
una fila di scarpe appese ad una corda, in un piccolo quadro esposto<br />
nella mostra “Passaggi ad Oriente’’ nell’Albergo Oriente di Caraglio,<br />
54
una locanda chiusa da molti anni, dove tutto è rimasto intatto,<br />
quasi il tempo si fosse fermato.<br />
La scarpa diventa, in questo contesto, simbolo di un passaggio,<br />
perché il viaggio si compie, abitualmente, indossando le scarpe. La<br />
scarpa è allora metafora del passaggio in quel luogo: di quanti vi<br />
hanno speso un tempo, probabilmente breve, della loro vita. Vi<br />
hanno lasciato in qualche modo una traccia, l’orma sfocata di una<br />
presenza.<br />
Un altro artista, Claudio Berlia, ha rappresentato un piede femminile<br />
in un sandalo elegante. Ha poi scelto l’immagine, evocatrice di una<br />
femminilità seduttiva, per presentare, nelle affiches, la sua mostra<br />
personale “Foemina”, allestita a Cuneo, alcuni anni fa. Ancora una<br />
volta la scarpa ha aperto la strada a nuove attribuzioni di senso,<br />
inducendo l’osservatore ad un’identificazione con la sessualità,<br />
l’erotismo e infine, se lo sguardo si è fatto critico, con il feticcio.<br />
Ritornano al campo prettamente verbale, l’affermazione “mi ha fatto<br />
le scarpe” è un modo usuale per indicare il danno subito a causa di<br />
una prepotenza o, meglio, di una scorrettezza. Che c’entrano le<br />
scarpe? Possiamo provare a interpretare come “mi ha impedito di<br />
continuare il mio viaggio, sottraendomi artatamente il mezzo<br />
indispensabile per procedere” . Sandalo, mocassino o coturno poco<br />
importa: la scarpa ha assunto il valore di “oggetto-mezzo<br />
insostituibile per procedere nel viaggio che è l’esistenza”.<br />
Quale sistema linguistico potrà mai fornire una spiegazione per tutti<br />
questi significati e per tanti altri che si potrebbero trovare? Un<br />
ultimo esempio. Che rapporto lega la scarpa-calzatura all’espressione<br />
idiomatica popolare “fare scarpetta”, che indica l’atto di raccogliere<br />
con il pane il sugo rimasto in fondo al piatto? Probabilmente<br />
l’analogia tra l’attitudine della scarpa a contenere il piede e quella del<br />
pezzo di pane a contenere il sugo.<br />
Il campo è vastissimo e inesausto. Dà corso alla grande<br />
problematica della traduzione da un codice verbale ad un altro<br />
codice verbale, al punto da delineare il problema della fondamentale<br />
intraducibilità delle lingue naturali, anche tenendo conto<br />
dell’avvertenza dei logici e dei filosofi del linguaggio di tenere<br />
distinti senso e significato, come due termini che appartengono alla<br />
stessa espressione, ma ne indicano facoltà diverse: l’intenzione, il<br />
senso, l’estensione, il significato.<br />
Con grande semplificazione: ad uno stesso significato possono venir<br />
associati molteplici sensi. Al punto da generare, secondo gli studiosi<br />
55
(da Pierce in poi), una “semiosi illimitata’’ che darebbe adito, nella<br />
rappresentazione grafica suggerita da Eco, ad un labirinto di infiniti<br />
(o meglio indefiniti) incroci che costantemente si intersecano e si<br />
rimandano attraverso snodi, al punto da poter immaginare una<br />
semisfera (ideata dal semiologo e linguista russo Lotman) in cui<br />
“naviga” ogni essere umano.<br />
Una cattiva fama<br />
“Non essere ambiguo’’, “Che persona ambigua’’, “Comportamenti<br />
ambigui’’. Tanti modi per dirlo, ma l’accezione del termine è in tutti<br />
i casi negativa. L’ambiguità, nel comune sentire, è indice di una<br />
mancanza di chiarezza, di onestà, di verità.<br />
Ancora una volta le scarpe possono fornire un esempio. “Tenere il<br />
piede in due scarpe’’ fornisce un’immagine visivamente<br />
contraddittoria e paradossale di una situazione d’instabilità e di<br />
mancanza di equilibrio, dunque di disordine formale che diventa<br />
disordine morale, per uno dei tipici traslati che la coscienza realizza<br />
più o meno consapevolmente.<br />
L’ambiguità di linguaggio diventa sinonimo dell’ambiguità di<br />
comportamento. Sottende una mancanza di chiarezza espressivocomunicativa,<br />
passibile di diverse implicazioni, sempre negative:<br />
scarsa conoscenza del tema (cioè ignoranza), scarsa attenzione del<br />
contesto e dei partner comunicativi. Ma questo sarebbe ancora il<br />
minore dei mali.<br />
Peggio: l’ambiguità induce anche a pensare ad una voluta<br />
indeterminatezza espressiva (linguistica o comportamentale), per<br />
evitare la decodificazione o portarla su un terreno sbagliato.<br />
In definitiva: si ricorre all’ambiguità per nascondersi, velarsi, rifiutare<br />
un addebito o una responsabilità, per esempio quella di mantenere le<br />
promesse fatte o la parola data. Forse, per sottrarsi a quell’io<br />
categorico kantiano secondo il quale l'uomo nel suo<br />
comportamento morale si sente responsabile delle proprie azioni.<br />
In questa direzione quasi d’obbligo alcuni riferimenti che sono sotto<br />
gli occhi di tutti: l’ambito della politica, dei mass media e della<br />
pubblicità. In tutti questi insiemi l’ambiguità non è mai casuale, ma<br />
progettata e pianificata per ottenere una decodificazione che potrà<br />
essere confutata a posteriori.<br />
Nella politica è una strategia elettorale tra le più consumate: durante<br />
le campagne per la raccolta di voti, la scelta di termini e espressioni<br />
56
polisemiche consentirà, poi, di ritrattare promesse e pseudoaffermazioni,<br />
senza incorrere nell’accusa di falsità. Nel campo dei<br />
mass media, uno dei casi più comuni è l’ambiguità del titolo di un<br />
articolo che può avere un duplice effetto: aumentare l’interesse per il<br />
testo o evitare una presa di posizione eccessivamente netta, rispetto<br />
ad un fatto, una situazione, un’idea. Nel caso della pubblicità, forse il<br />
più eclatante, suggerire caratteristiche del prodotto o servizio che,<br />
nel momento della verifica, non corrisponderanno. Anche in questo<br />
caso, nessun’onta, né a carico del produttore, né del pubblicitario:<br />
essere polisemici e pertanto ambigui fa parte del gioco. Peggio per<br />
chi non ne conosce le regole.<br />
L’insoddisfazione, l’ansia che genera usualmente l’incertezza, la<br />
vertigine che coglie l’essere umano quando si trova ad un bivio,<br />
trivio o quadrivio (semantico o esistenziale), perché il termini della<br />
questione si offrono a più opzioni interpretative, è molto<br />
probabilmente uno dei fattori che hanno contribuito ad assegnare<br />
un’accezione negativa all’ambiguità e al suo correlato, la polisemia.<br />
Tuttavia non sempre è così.<br />
Il comico e l’artista<br />
Se nella vita quotidiana l’ambiguità ha una cattiva fama, la polisemia<br />
viene concessa, anzi esaltata, quando dal piano reale si accede a<br />
quello della creatività. I comici giocano sull’ambiguità linguistica e<br />
gestuale, perché lo “scambio di significato’’ è una dei “ topoi ’’<br />
classici per indurre alla risata. Lo sapevano bene gli antichi ed è<br />
arrivato fino a noi. Questo scambio di battute tra due noti comici,<br />
Ale e Franz, lo dimostra:<br />
“Scusi, ma il capriolo si chiama capriolo perché quando corre fa le<br />
capriole?”<br />
“Sa, anche il lama si chiama così perché quando corre taglia l´erba’’.<br />
I due giochi linguistici, uno basato sull’etimologia della parola<br />
“capriolo”, l’altro sulla polisemia della parola “lama’’, sono un<br />
piccolissimo esempio dei tanti, più o meno divertenti e intuitivi che<br />
vengono utilizzati negli spettacoli comici. Chi non ricorda di sketch<br />
televisivi di Carlo Campanini e Walter Chiari che riproponevano la<br />
comicità dei fratelli De Rege, o i doppi sensi sfruttati da Totò?<br />
L’effetto viene raggiunto nel modo più efficace quando la platea<br />
condivide l’universo di conoscenza a cui fa riferimento il comico,<br />
infatti quando si operano delle traduzioni in altre lingue, il traduttore<br />
spesso è costretto a sostituire il doppio senso con un altro,<br />
57
comprensibile nel nuovo codice, in genere dichiarando la<br />
sostituzione in una nota a piè pagina.<br />
Citando le definizioni freudiane, Alfredo Citati, nel suo studio sulle<br />
teorie del comico, ricorda che il lavoro spiritoso consiste nella<br />
“elaborazione inconscia di un pensiero preconscio’’. E aggiunge: “Il<br />
lavoro spiritoso è un lavoro di traduzione non meno del lavoro<br />
interpretativo’’.<br />
Nell’opera di Henri Bergson si trova un’ulteriore conferma: per il<br />
filosofo francese gli oggetti comici hanno sempre un valore<br />
simbolico, in quanto il riso presuppone ogni volta l’intervento<br />
interpretante e valorizzante dell’immaginazione.<br />
Ancora sul versante dell’ambiguità sfruttata a scopi prevalentemente<br />
ilari, si apre una finestra sull’utilizzo dell’ambiguità dai vignettisti che<br />
ne hanno fatto uno strumento spesso di denuncia dei soprusi del<br />
potere e della ricchezza, di critica sociale e politica, a volte un’arma<br />
contro la guerra (ad esempio prima dei conflitti mondiali).<br />
Anche l’Arte, o meglio le arti plastiche e pittoriche, incontrano sul<br />
loro cammino la polisemia. Davanti ad un quadro, raramente i<br />
visitatori danno la stessa interpretazione dell’immagine: e non solo<br />
in un contesto astratto o espressionista. Si pensi alla “Primavera’’ del<br />
Botticelli. Ogni elemento della composizione si offre ad una lettura<br />
plurima e stratificata: dal puro (si fa per dire) segno denotativo, alla<br />
sua più intima simbologia, all’interno di una architettura metaforica<br />
globale che si è modificata (dal punto di vista interpretativo) nel<br />
corso dei secoli in quanto il mondo di riferimento dell’artista<br />
rinascimentale è ben diverso dal mondo di riferimento<br />
dell’osservatore del terzo Millennio. Senza contare tutti gli altri<br />
elementi che intervengono: dall’età alla cultura, dalla psicologia alla<br />
provenienza geografica del visitatore.<br />
Verso un possibile riscatto<br />
Simone de Beauvoir , nel suo libro “La morale dell’ambiguità”,<br />
conduce la riflessione in una direzione positiva del termine,<br />
identificandolo, sotto certe condizioni, con la natura umana per<br />
eccellenza. Per la compagna di Sartre, l'ambiguità indica il carattere<br />
della condizione umana, determinata da contrasti costitutivi: tra la<br />
vita e la morte; tra l'immobilità compatta dell'essere e il movimento<br />
dell'esistenza; tra la coscienza di essere soggetti e quella di essere<br />
oggetti per gli altri. Un’ambiguità che, se non va rifiutata o annullata,<br />
58
deve però diventare consapevole. Chi pretendesse di risolverla,<br />
secondo l’autrice, non farebbe che “mascherarla”, per proteggersi<br />
dietro un comodo quanto falso “spirito di serietà”: l'appiattirsi su<br />
valori dati e rassicuranti, rifuggendo la propria libertà. Ed è proprio<br />
la libertà, per contro, che permette il passaggio dal puro essere al<br />
pieno esistere: nodo focale della morale esistenzialista. La “Morale<br />
dell'ambiguità”, dunque, non perché equivoca o sfuggente, ma in<br />
quanto morale della condizione ambigua dell'uomo, che deve<br />
conquistare concretamente la libertà, per sé e per gli altri.<br />
Se al fondo della concezione espressa dalla de Beauvoir c’è l’istanza<br />
prescrittiva ideologico-politica, un’altra voce a difesa del valore<br />
dell’ambiguità come indice di libertà, e quindi sostanzialmente di<br />
affermazione della propria, irrinunciabile, identità, si trova in un<br />
famosissimo test psicologico: le “Macchie di Rorschach”, in cui al<br />
soggetto vengono presentate in un determinato ordine, dieci tavole<br />
su cui sono rappresentate delle macchie di inchiostro, passibili di<br />
diversa interpretazione, in quanto stimoli nuovi ed ambigui. Il test<br />
psicologico proiettivo (di tale complessità da essere utilizzabile solo<br />
da psicodiagnosti di grande esperienza) serve a delineare attitudini,<br />
personalità ed eventuali problemi del soggetto.<br />
Nell’operazione di “traduzione’’ del messaggio ambiguo, dunque,<br />
esce allo scoperto l’intima natura dell’uomo: la risultante di tutte le<br />
esperienze che egli è e che hanno cominciato a costituirlo dal<br />
momento in cui ha ricevuto il suo patrimonio genetico. Il suo<br />
passato e il suo presente rivelati in quella facoltà che lo identifica in<br />
modo, questa volta davvero, univoco, come “homo symbolicus ’’.<br />
Nel suo comunicare attraverso simboli, l’uomo costruisce<br />
incessantemente sistemi polisemici, e altrettanto incessantemente li<br />
riceve e interpreta, compiendo infinite traduzioni che attingono ogni<br />
volta alla sua identità, non solo come individuo, ma come individuonel-mondo.<br />
Se sono le “stratificazioni’’ di esperienze ad ampliare la capacità<br />
dell’individuo di interpretare, decodificandoli, i messaggi da cui è<br />
circondato in un mondo polisemico, allora la cultura (che<br />
quotidianamente perde pezzi davanti ad altre urgenze proclamate<br />
inappellabili) si pone come elemento irrinunciabile affinché ognuno<br />
di noi possa esercitare la “facoltà di libertà” che ci consente di<br />
compiere un passo per “essere nel mondo” come soggetti e non<br />
solo oggetti.<br />
59
L'utopia dell'esattezza e le ragioni dell'ambiguità<br />
61<br />
Ugo Volli<br />
Il linguaggio umano è strutturalmente ambiguo a molti livelli. Lo è a<br />
livello sintattico come ha mostrato la linguistica generativa<br />
analizzando frasi come "ogni uomo ama sua moglie". Lo è a livello<br />
pragmatico, per via di tattiche comunicative come l'ironia,<br />
l'allusione, l'ellissi. Esempi evidenti sono "Bravo!" detto a chi ha<br />
fatto un disastro, "Non farlo!", pronunciato in una situazione<br />
specifica e incomprensibile a chi non sia presente ecc. Lo è a livello<br />
lessicale: un cane può essere un animale, ma anche un cattivo tenore<br />
o una parte di una pistola; "testa" può significare la parte del corpo,<br />
l'intelligenza, il mandante, chi è davanti ecc. Vi sono ambiguità<br />
legate al plurilinguismo (omofoni come "i vitelli dei romani sono<br />
belli"; falsi amici come l'inglese "actually" o lo spagnolo "burro").<br />
Tutte queste ambiguità derivano dal fatto dell'ambiguità del<br />
linguaggio, dal fatto che non vi è alcuna motivazione, se non storica<br />
e contingente, per chiamare le cose in una maniera o nell'altra. Al<br />
contrario del mito biblico e platonico dei "veri nomi" imposti alle<br />
cose da Abramo o da un "nomoteta", la denominazione è una<br />
pratica empirica, che si motiva con le tattiche linguistiche del<br />
parlante, con i suoi errori, confusioni, schemi linguistici preesistenti<br />
e che non individua affatto delle essenze delle cose.<br />
Più radicalmente: non vi sono prima delle "cose in sé" o dei "generi<br />
naturali" che ricevano etichette diverse; anche la suddivisione della<br />
realtà in gruppi da denominare è una pratica culturale. La nostra<br />
parola "nipote" mette insieme quel che in inglese si potrebbe<br />
chiamare "nephew", "grandson", "grandaughter", differenziando il<br />
figlio del figlio dal figlio o dalla figlia del fratello, e in altre lingue<br />
viene analizzato più finemente, per esempio distinguendo se il<br />
legame si riferisce al lato paterno o al lato materno, se lo zio in<br />
questione è maschio o femmina; mentre in altre lingue tutti questi<br />
rapporti rientrano genericamente in una categoria di "parentela".<br />
Così l'inglese "blue" può essere reso in italiano con "blu", "azzurro",<br />
"celeste", mentre vi sono lingue come il gallese che mettono insieme<br />
i colori "freddi" come azzurro, verde, grigio in un'unica parola - in<br />
un unico concetto. Si potrebbe proseguire a lungo con gli esempi. E'<br />
importante capire che quando gli antichi e i medievali, da Giona a
San Brandano, dicevano che la balena era un "pesce" non facevano<br />
un errore di biologia, per la semplice ragione che non scrivevano di<br />
biologia; descrivevano il mondo secondo griglie culturali diverse<br />
dalle nostre. Tutto ciò ha a che fare con il fondamento metaforico<br />
del linguaggio, che già Vico comprendeva e che oggi è di gran moda<br />
nelle scienze cognitive.<br />
Si potrebbe pensare che questi fenomeni di ambiguità siano limitati<br />
al piano del linguaggio verbale o scritto. In realtà è facile mostrare<br />
che essi investono largamente altre forme di comunicazione, su tutti<br />
i canali. I gesti e il linguaggio del corpo, anche se in parte motivati<br />
biologicamente sono spesso assai diversi nelle varie culture. Non<br />
solo, per fare un esempio, quel gesto di approvazione che usano i<br />
sub e si è diffuso largamente che consiste nel fare un cerchio con<br />
pollice e indice in altre culture ha significati osceni e così il suo<br />
sinonimo che consiste nell'alzare il pollice; ma il sorriso può indicare<br />
nella cultura giapponese imbarazzo e non simpatia; perfino i gesti<br />
fondamentali per il sì e per il no possono essere intesi al contrario,<br />
come si vede per esempio nel rifiuto gestuale siciliano, che consiste<br />
in un movimento verticale del capo, che in altre culture significa<br />
approvazione. Lo stesso vale per altri sistemi semiotici come<br />
l'abbigliamento e i segnali stradali, che possono variare largamente<br />
nelle diverse società, anche se oggi risentono della grande spinta alla<br />
globalizzazione della cultura.<br />
Per quanto riguarda il sistema delle immagini, a partire<br />
dall'ambiguità intrinseca nelle "illusioni ottiche" (i profili femminili<br />
che si possono vedere come vaso ecc.), la loro decodifica è spesso<br />
difficile e dipende soprattutto da quel che si cerca e quel che si sa.<br />
Comprendere il contenuto di una radiografia o di un vetrino<br />
istologico (oggetti artificiali entrambi, frutto di tecniche di<br />
colorazione o di produzione di figure che rendono visibile ciò che<br />
non lo sarebbe) dipende fortemente dall'addestramento, cioè dalla<br />
conoscenza e dall'esperienza dell'addetto. In altri termini lo stesso<br />
vale per le immagini apparentemente più semplici e univoche della<br />
nostra tradizione figurativa. Vi sono ambiguità spaziali, dovute alle<br />
diverse regole usate per rendere la tridimensionalità dello spazio su<br />
una superficie bidimensionale: una figura, come la Madonna del<br />
parto di Piero della Francesca è grande perché lo è fisicamente,<br />
perché è vicina secondo le regole della prospettiva, o perché è più<br />
importante dei suoi fedeli inginocchiati davanti ad essa e molto più<br />
piccoli benché in primo piano? In genere non facciamo fatica a<br />
62
ispondere secondo la terza soluzione, ma solo perché conosciamo<br />
il senso del quadro, che appartiene alla nostra cultura visiva. E' noto<br />
che a partire da Aby Warburg si è sviluppata una disciplina raffinata,<br />
l'iconologia, che si propone di decifrare (cioè di disambiguare) il<br />
senso delle immagini, per esempio definendo gli attributi che<br />
caratterizzano certe figure tipiche (per fare esempi banalissimi, i<br />
colori del manto e dell'abito della Madonna, il teschio e il leone di<br />
San Gerolamo, l'elmo di Minerva ecc.). Gli storici dell'arte discutono<br />
appassionatamente da secoli per cercare di risolvere l'ambiguità del<br />
senso di grandi capolavori dell'arte, dalla "Tempesta" di Giorgione<br />
alla "Flagellazione" di Piero alla "Primavera" di Botticelli. Se si passa<br />
alle immagini contemporanee, dai marchi industriali alle fotografie<br />
delle cronache giornalistiche, questa condizione di ambiguità<br />
strutturale e profonda non cambia.<br />
In sostanza, ogni forma di comunicazione non parla mai da sola, o<br />
almeno non dice da sola "la verità, tutta la verità, solo la verità". Del<br />
resto neppure il miglior testimone, cui si riferisce questa formula,<br />
può farlo. Come si potrebbe dire "tutta" la verità? Se, come dice<br />
Aristotele, dire il vero significa "affermare che c'è quel che c'è e che<br />
non c'è quel che non c'è", già la prima clausola, quella sugli esistenti,<br />
implica un impegno infinito. Chi potrebbe mai dire (o dipingere o<br />
anche fotografare) quel che c'è - tutto quel che c'è in questa sala?<br />
Ogni faccia, ogni dito ogni unghia, ogni bottone o macchiolina su<br />
ogni vestito, ogni foglio con tutto quel che vi è scritto sopra, ogni<br />
singolo capello sulla testa di ogni persona, ogni granello di polvere -<br />
per non parlare delle molecole, degli atomi e delle particelle<br />
elementari, peraltro strutturalmente indistinguibili e indecidibili. Se<br />
poi passiamo a quel che bisogna negare perché non c'è, come dire<br />
che nel vano della porta non c'è né Giulio Cesare né alcuno dei suoi<br />
soldati, né il Saladino coi suoi e neppure uno dei milioni di gatti che<br />
popolano l'Italia (o un altro o un altro ancora) o invece un cane fra i<br />
milioni o una formica fra i miliardi? L'esempio non è mio, è del<br />
grande filosofo americano Quine. Ma io lo voglio usare per<br />
convincervi di un fatto essenziale per ogni discorso sull'ambiguità. Il<br />
linguaggio e qualunque forma di comunicazione non è immagine<br />
semplice della realtà, non ha la sua stessa struttura, come pretendeva<br />
con violento utopismo Ludwig Wittgenstein. La comunicazione è<br />
piuttosto un setaccio, come quello che lascia passare la farina ed<br />
esclude la crusca, e anche piuttosto grossolano. Ed è un setaccio,<br />
lasciatemi passare la sovrapposizione di due metafore incongrue,<br />
63
prospettico, nel senso che il mio setaccio lascia passare cose che il tuo<br />
scarta, e viceversa.<br />
64
65<br />
Le ultime lettere di Giuda Iscariota<br />
Franco Russo<br />
Giuda Iscariota non è un personaggio a cui si possano<br />
assegnare le categorie dell’apparenza o dell’ambiguità. Anzi. Giuda è<br />
solare: per Dante il peccatore più infame, degno del castigo più<br />
crudele nell’ultima fossa dell’Inferno; per il catechismo, che<br />
studiavamo da bambini, il traditore per eccellenza reso ancora più<br />
turpe dai trenta denari e, soprattutto, dal bacio; per la lingua italiana<br />
titolare principe della figura retorica dell’antonomasia: “il tuo prezzo<br />
sono trenta denari” , “è il bacio di Giuda”, “sei un Giuda”. Giuda<br />
non appare, è il traditore, né è, in alcun modo, ambiguo se non,<br />
forse, nel volersi mostrare, di fronte a Gesù ed agli apostoli diverso<br />
e migliore di come, in realtà, era. Ma è un’ambiguità ignobile, la<br />
madre del tradimento. Ma…<br />
Ricordo che, da bambino, frequentando, come tutti, in quel<br />
di Caraglio, oratori e catechismi, mi piaceva accompagnare un<br />
vecchio e severo Vicario, don Mario Beltramo, mentre, al tramonto,<br />
passeggiava nel giardino della canonica leggendo il suo breviario.<br />
Ero un bambino impertinente, curioso e con una certa<br />
predisposizione a non accettare le regole. E Giuda, pur dipinto da<br />
zelanti catechiste come il male assoluto, non mi era antipatico. Una<br />
sera rivolsi a don Mario questa domanda:” Signor Vicario ma se<br />
Gesù faceva tutti i miracoli, predicava e la gente gli andava dietro<br />
che bisogno c’era che Giuda lo baciasse per fare capire alle guardie<br />
chi era?” Non ci fu risposta oppure non la ricordo ma so che il<br />
dubbio mi rimase. Crescendo e leggendo qualche cosa in più<br />
scopersi che Giuda era, tra l’altro, il tesoriere degli apostoli e come<br />
tale, disponeva di qualche somma di denaro. E mi sono, spesso,<br />
chiesto se fosse davvero tanto avido da aver bisogno anche dei<br />
trenta denari.<br />
Recuperando le impertinenti domande del bambino e i<br />
dubbi dell’adulto ho provato ad immaginare di essere Giuda e di<br />
indirizzare una lettera a Gesù, anzi, tre lettere, da tre posti diversi.
DALL’INFERNO<br />
Nazareno, mio Maestro,<br />
solo la grandezza della mia colpa e della mia pena hanno convinto i<br />
demoni incaricati di infliggermi il castigo eterno a concedermi<br />
questo breve tempo per rivolgermi a te. Sei il figlio di Dio e, quindi<br />
sai. Sai che non ti ho tradito. Tu sai e, proprio perché sai, il mio<br />
parlare potrebbe sembrare inutile ma, mentre mi danno e soffro,<br />
penso. Penso agli altri fratelli che, con me, ti seguivano. E tu sai<br />
che non eravamo dodici ma, forse cinque o sei. E tu sai con quanta<br />
attenzione io abbia indagato la tua predicazione, la tua sofferenza,<br />
ma anche le tue invettive contro i sommi sacerdoti. E le tue critiche<br />
all’invasore romano e la tua carità ai deboli ed agli oppressi, quei<br />
deboli che – dicevi tu – erano le vittime dei sacerdoti e dei romani.<br />
E sai che non solo io ma io più di tutti ti ho creduto ed ho sofferto.<br />
E ho pensato che le tue parole volessero indicarci una strada, che<br />
volessero farci risvegliare la coscienza di un popolo schiavo che,<br />
ribellandosi, sapesse restituire il trono di Davide ai suoi discendenti.<br />
Mentre predicavi mi guardavi ed io ho pensato che tu questo ti<br />
aspettassi da me. E così ti ho “consegnato” non “tradito” ai<br />
sacerdoti. Perché tu potessi spiegare loro il tuo messaggio. E se,<br />
come dicevi sempre tu, non fossi riuscito a spiegarti allora ti saresti<br />
sacrificato per tutti noi. E il popolo, il tuo popolo, i tuoi fedeli, i<br />
miracolati avrebbero impugnato le sacre armi, avrebbero vendicato<br />
il tuo sacrificio e reso giustizia alla tua umana divinità. Questo<br />
messaggio io ho sempre letto nelle tue parole, nei tuoi insegnamenti,<br />
nel tuo esempio. Non fosti tu a scacciare i mercanti dal tempio e a<br />
maledire i farisei? E allora, se tutto questo è vero, se tu sai, perché<br />
sono qui?<br />
DAL PURGATORIO<br />
Nazareno, mio pietoso e misericordioso Maestro,<br />
hai visto, hai letto, hai sentito, hai ricordato. Ed hai interceduto per<br />
me col Padre. Ma, da questo luogo di penitenza e di espiazione,<br />
vedo adesso la mia colpa. E la mia cecità. Non era il trono di<br />
Davide, né la libertà del tuo popolo, né un vantaggio terreno quello<br />
che volevi. Ed io ho peccato anche di superbia quando ho ritenuto<br />
che gli altri tuoi discepoli non avessero capito e che tu – perdonami<br />
– fossi troppo spirituale per realizzare quello che credevo fosse il<br />
66
tuo progetto. Ho creduto che loro non capissero ma che tu volessi<br />
quello che voleva il tuo popolo: liberarsi dal giogo dei romani. Quel<br />
popolo stanco dei mercanti del Tempio, degli scribi e dei farisei, dei<br />
sadducei e dei leviti, voleva un segno da te. Ed io ho ritenuto –<br />
perdonami ancora – che tu fossi troppo distante da queste cose<br />
terrene per spendere la tua autorità. Così, con orrenda superbia, mi<br />
sono sostituito a te ed ho pensato di poter manovrare la tua santità<br />
celeste al servizio di una miseria terrena. Non avevo capito la<br />
grandezza del tuo insegnamento che non guardava alla Palestina e al<br />
presente ma al mondo intero ed all’eternità. Perdona, ti prego, la<br />
mia cecità. Ma, se a tanto posso aspirare, posso ancora domandarti,<br />
umilmente, una risposta? Oggi mi è chiara la missione che il Padre ti<br />
aveva assegnato: scendere in terra, subire i processi e le torture,<br />
essere vilipeso, morire sulla croce per salvare gli uomini. Ma se è<br />
così – ed è così – quale fu la mia colpa se non quella di essere<br />
strumento della tua volontà? Se non ti avessi consegnato nelle mani<br />
dei sacerdoti non saresti stato sacrificato e non avresti potuto<br />
portare a buon fine quanto il Padre ti aveva ordinato. Sono, dunque,<br />
stato inconsapevole strumento della tua volontà? Ma, se è così,<br />
dov’è la mia colpa? Ho creduto che fossero la mia volontà, la mia<br />
superbia, il mio egoismo ad armare la mano dei tuoi carnefici ma,<br />
senza questo spregevole Giuda Iscariota, non si sarebbe compiuta la<br />
volontà del Padre.<br />
DAL PARADISO<br />
Maestro celeste,<br />
la tua misericordia mi permette oggi di vedere la luce, di starti<br />
accanto e di godere delle celestiali beatitudini. I disegni<br />
imperscrutabili tuoi e del Padre mi hanno concesso il privilegio di<br />
fare il viaggio dalla dannazione eterna alla eterna gioia passando<br />
attraverso l’espiazione. E, adesso, nell’estasi della Tua luce, vedo con<br />
chiarezza. Vedo, con il giusto distacco, le miserie terrene, vedo la<br />
futilità degli orgogli, dei progetti, delle macchinazioni, delle libertà,<br />
delle aspirazioni, dei sentimenti umani. Tutto questo, che appassiona<br />
gli uomini, che li costringe ad amare e ad odiare, a combattere e ad<br />
uccidere, a fare inutili paci e a combattere inutili guerre, a costruire<br />
amori, case, templi e a distruggerli, a speculare e ragionare, a sognare<br />
un futuro ed a lavorare per costruirlo, tutto questo non è nulla. La<br />
scintilla per un fuoco immenso, un granello di sabbia di un deserto,<br />
67
una goccia di un oceano. Ed il fuoco, il deserto, l’oceano sono qui,<br />
sono il Paradiso, sono il disegno compiuto e realizzato della Tua<br />
Maestà. Foreste, branchi, sentimenti, chiese, vite nate e vite morte,<br />
sofferenze e piaceri altro non sono che gli strumenti attraverso i<br />
quali gli uomini, tutti, percorrono il loro viaggio e, se lo meritano,<br />
arrivano Qui.<br />
CONCLUSIONE<br />
Mi rileggo e, con qualche disperazione, mi accorgo di avere voluto<br />
giocare con cose più grandi di me. Sono partito per provare a<br />
riabilitare Giuda almeno riconoscendogli il pregio dell’ambiguità. Ma<br />
non è lui ad essere ambiguo. Spiritualmente cieco, superbo ed<br />
ambizioso, ingenuo e generoso, disperato ed eroico fino al punto da,<br />
essendo innocente, punirsi nel togliersi la vita (forse) ma non<br />
ambiguo. Strumento inconsapevole di disegni alti, sciocco operaio di<br />
un libero arbitrio per nulla libero, vittima designata di una storia<br />
scritta ma non vissuta, martire di vangeli scritti da chi non lo aveva<br />
neppure conosciuto, mostro disegnato da concili che dovevano<br />
scrivere una storia, orco cattivo per bambini innocenti, risorsa per<br />
grandi poeti. E’ stato sicuramente tutto questo ma non è questo<br />
essere ambiguo. Forse l’ambiguità non era in lui ma in chi lo ha<br />
designato strumento di una operazione di mercato. Allora mi<br />
domando perché vivere se la vita è solo un gioco crudele. La libertà<br />
è una finzione, la ragione una inutile speculazione intellettuale, il<br />
bene un mezzo e non un fine, i figli destinati a soffrire, gli alberi a<br />
seccare, le specie animali ad estinguersi e i sentimenti a morire.<br />
Tutte le cose in cui crediamo non sono altro che strumenti di un<br />
progetto già scritto, regole di un gioco che Qualcuno ci ha regalato<br />
(o imprestato) sapendo già chi vince e chi perde. Qualcuno che ci ha<br />
complicato il gioco perché, essendo pura Bontà, ha inventato il<br />
Male. Qualcuno che sa già come finirà. Qualcuno che, forse, guarda<br />
dall’alto, divertito, il nostro inutile agitarsi e rincorrerci. Qualcuno<br />
che è così più forte di noi che l’unico innocente dispetto che<br />
possiamo fargli è quello di vivere con leggerezza. E sorridendo.<br />
Magari strappando un sorriso anche a Lui. Ma qui mi arresto perché<br />
ho di fronte a me cose più grandi, troppo più grandi, di me. E, forse,<br />
alla fine del gioco sono io ad essere il personaggio più ambiguo della<br />
storia.<br />
68
69<br />
Ambiguità dell’ambiguità, tutto è ambiguità<br />
Gianni Rabbia<br />
Rien de plus cher que la chanson grise<br />
Où l' Indecis au Précis se joint.<br />
Paul Verlaine, Cose lontane, cose recenti: Ars poetica, vv.7-8<br />
La logica cosiddetta "formale" definisce ambiguo quel<br />
termine che con una identica formulazione cela un doppio senso o<br />
significato, rappresentando così il contrario della univocità; ma nel<br />
concetto di ambiguità si annida quello di equivocità e, distinto da<br />
entrambi, quello di analogia. Paralleli si possono situare altresì il<br />
sistema dei paradossi e dei paralogismi, per loro natura fuorvianti. In<br />
forma plastica, se ad un costrutto logico si applica una struttura di<br />
nessi sintattici ambigui anche solo in parte, accade che si possono<br />
giustificare interpretazioni diverse o persino opposte. Elementare è<br />
il caso di scuola, a livello terminologico, con la parola "gallo": di<br />
accezione semantica indubbiamente diversa se ci si riferisce al baldo<br />
pennuto oppure al - forse non meno pettoruto, ma non<br />
adeguatamente pennuto- abitante dell'antica Gallia. Eppure<br />
qualcosa ci deve essere di analogico se ai francesi, volendo scegliersi<br />
un animale che li rappresentasse come simbolo, venne di optare per<br />
il coq, cresta e speroni ben compresi: forse la spiegazione si può<br />
trovare nel fatto che il gallo, massimamente se francese, è l'unico<br />
animale che canta sul letamaio. Certo non reggerebbe il sillogismo:<br />
"Gli antichi francesi sono chiamati Galli; tutti i galli hanno la cresta;<br />
gli antichi francesi avevano la cresta". Degli antichi non è dato<br />
sapere con olimpica esattezza; dei contemporanei, dopo Luigi XIV°<br />
e Napoleone I° ( ispiratori della scuola di De Gaulle, loro alunno<br />
quasi insignificante ) c'è però da avere qualche dubbio, visto che i<br />
"cugini" d'oltralpe credono che, in fondo in fondo, l'universo è stato<br />
creato solo per loro beneficio e che Dio sia francese. Ma si è alle<br />
soglie degli amabili sofismi da salotto o - un po’ meno amabili - da<br />
angiporto. Resta però ben chiaro che solo il silenzio oracolare è sede<br />
delle verità, in quanto non espresse; infatti, quando l'oracolo parla, si<br />
esprime con il celebre "Ibis redibis non morieris in bello", con cui ci si<br />
trova davanti - bene che vada - o ad un sofisma di deduzione
(equivocazione ) o ad una non meno pericolosa anfibologia. E<br />
l'ambiguità regna sovrana.<br />
Questo inizio, un po’ grossolanamente tormentato,<br />
vorrebbe in sostanza anticipare ( il che è anche una ambigua<br />
conclusione ) che la parola come "segno", ma non meno come<br />
"senso", è all'origine, certamente involontaria da parte sua, della<br />
confusione babelica nella quale l'umanità si dibatte da sempre. Se<br />
"In principio era il Verbo" al genere umano è stata inflitta una<br />
punizione in più, una raffinatissima tortura: quella di non<br />
comprendere il senso del termine "Verbo". E quindi di lì non<br />
riuscire a intendere correttamente, in una sola parola, tutte le parole.<br />
Sì, ce la mettiamo tutta per distinguere il lògos tra "parola interiore"<br />
dalla sua manifestazione, detta "parola esteriore", presi come siamo<br />
dal dare un costrutto convenzionale all'altro concetto - questo sì,<br />
estremamente problematico e non meno pericoloso - di ragione.<br />
Domanda: la verità starebbe nella sola "ragione" ? Infatti, quando<br />
non ci si piglia a pugni, il lògos sarebbe il "procedere del pensiero"<br />
platonico, una sorta di immagine fonica. Ma se una cosa è il mondo<br />
e altra è Dio, come fare a distinguere tra la retorica e la dialettica,<br />
dopo essere usciti dall' ambiguità dei confini tra logica e fisica ? La<br />
gnoseologia classica arrivò persino ad inventare potenze mediatrici,<br />
come i lògoi medio-platonici, potenze di una non meglio precisata<br />
natura metafisica in grado di colmare l'abisso con il trasmettere<br />
l'azione divina alle intelligenze inferiori: che, prese per mano,<br />
possono arrivare a farle salire fino ai primi princìpi della conoscenza.<br />
In analogia, nell'antico pensiero ebraico (Filone) si ideava il<br />
lògos come il "luogo delle Idee", prototipo di tutte le cose, la prima<br />
potenza emanata da Dio, la forza immanente che vivifica e collega il<br />
creato conservandone le parti e impedendo che si dissolvano. Come<br />
mediatore tra Dio e gli uomini, il lògos li illumina e li guida e li può<br />
persino rendere capaci di elevarsi fino alla visione di Dio. Ma non<br />
sembra che questo sia esattamente il lògos di San Giovanni,<br />
soprattutto per coloro che giurano sul suo Vangelo di essere uomini<br />
liberi e di buoni costumi, se Filone lo identifica con un non meglio<br />
precisato deùteros Theòs. Vuol forse dire che per lui esistono certi<br />
uomini che hanno ricevuto direttamente l'illuminazione divina,<br />
aprendo così la domanda sui predestinati che riceverebbero,<br />
diversamente da altri immeritevoli, il "soffio dello Spirito", il pnèuma<br />
intellettuale ? Eppure a quei tempi non c'erano ancora i bocconiani<br />
al governo, con la corte accademica intorno al trono. Dovrebbe<br />
70
forse leggersi la antica meditazione sul lògos come una lunga strada<br />
di allegorie, situate al mezzo tra la sapienza divina e quella - ipotetica<br />
- umana, di cui il lògos potrebbe apparire come epifenomeno<br />
descrittivo, che non si cura della speculazione degli uomini, ma<br />
tende alla Rivelazione: ciò che richiede una "Sapienza" di cui non<br />
importa sapere se sia di Dio o fuori di Lui. Basta che ci sia il nome,<br />
come segno di misericordia di chi ha fatto tutte le cose e tutte le<br />
cose risana, salvo il suo popolo ed i suoi uomini. Non a caso il nome<br />
di Dio non è pronunciabile per il mondo ebraico ortodosso.<br />
San Giovanni nomina per ben sei volte (prologo del suo<br />
Vangelo, prima Epistola, Apocalisse) il lògos. Ed è chiaro che per il<br />
Santo si tratta del lògos che esisteva in principio anteriormente alla<br />
creazione del mondo, era in Dio, e che è Dio; per lui tutto è stato<br />
fatto e nulla è stato fatto senza di lui. Il lògos, fattosi carne, venne tra<br />
gli uomini ai quali rivelò le verità della salvezza e indicò la strada<br />
della vita eterna con la possibilità di identificarci come figli di Dio.<br />
La lezione giovannea è soprattutto intrisa di umiltà e di dolcezza,<br />
avendo visto la gloria del lògos cui rende testimonianza. Se il lògos è<br />
Dio stesso che si è fatto uomo per essere ucciso dagli uomini e<br />
quindi risorgere, si è del tutto fuori dalla speculazione filosofica e<br />
persino dalla mitografia ellenica e giudaica. Resta però la questione:<br />
perché allora Giovanni utilizza il termine lògos, la cui origine è tutta<br />
filosofica ? Parrebbe cioè che egli stesso, in mancanza di un termine<br />
lessicale diverso, abbia utilizzato la parola più direttamente sotto<br />
mano, per analogia con il senso della Rivelazione, che è anche<br />
"parola", cioè appunto lògos. Ma forse il motivo sta nel pubblico cui<br />
Giovanni intendeva rivolgersi, cioè i greci colti e gli ebrei aperti<br />
all'ellenismo, per avvicinarli al Mediatore, al Salvatore, al mistero<br />
della divinità trascendente e della sua distinzione dal Padre.<br />
Per i primi scrittori ecclesiastici, dopo Giustino, Origene e<br />
Clemente l'Alessandrino fino agli Apologisti, ad Eusebio di Cesarea<br />
e san Cirillo di Alessandria, il lògos venne di solito acquisito come la<br />
seconda persona della Trinità, dando così fondamento alla teologia<br />
cristiana: il lògos è la sorgente unica di ogni verità, di ogni scienza e<br />
sapienza, ed anche quando deriva dall'insegnamento di uomini come<br />
noi, non ci permette di giungere alla verità che per illuminazione<br />
divina. Solo attraverso un percorso tormentato e a rischio di eresia<br />
(l'errore assoluto) si può distinguere tra "conoscenza per via di<br />
ragione" e "per via di fede".<br />
71
Il razionalismo naturalistico degli Arabi dal XIII° secolo<br />
buttò all'aria tutto. Dal dantesco "State contenti, umana gente, al quia" (<br />
Purg., III, v.37 ), ancora a sua volta lontano dal senso platonicoagostiniano<br />
della Ragione-Lògos, l'Umanesimo ma soprattutto la<br />
Riforma protestante ruppero l'unità inscindibile con la conoscenza<br />
umana in funzione di Dio. La Ragione, diventando immanente, si<br />
allontana dalla trascendenza e dalla sua perfezione, fino al<br />
panlogismo di Hegel, dove la categoria assoluta viene a<br />
comprendere in sé tutte le altre categorie e con queste, per il<br />
processo di identità tra essere e pensiero, ogni determinazione della<br />
realtà. La razionalità del reale e la realtà del razionale identificano<br />
l'idea teoretica con quella pratica, assoggettando anche l'etica ai<br />
processi razionali. E di qui ognuno sa che cosa sia accaduto: destra e<br />
sinistra hegeliane in poi, con l'esigenza di confermare la concretezza<br />
del lògos strappandogli ogni legame con tutta la trascendenza. Ma lo<br />
stesso hegelismo avrebbe fallito con le sue crisi che hanno liberato<br />
potenti energie ed attive istanze metafisiche, religiose,<br />
personalistiche insoddisfatte proprio dalle violente antinomie che il<br />
senso dello spiritualismo, dell'esistenzialismo hanno rivendicato:<br />
tutte scuole di pensiero ribelli ad una visione del lògos tanto<br />
schematizzato ed intellettualizzato da far perdere il senso concreto<br />
della vita. Un bel caso esemplare di eterogenesi di fini.<br />
Persino l'estetica ha sollevato il problema dell'ambiguità<br />
ingannevole (a dir poco) del lògos razionalizzato. Gli interventi<br />
interpretativi del soggetto ( il primo dei quali ha un gran bel nome:<br />
"libertà di…" con quanto poi si voglia aggiungere) ci dicono, ad<br />
esempio, quanto il concetto di forma non sia né preformato né<br />
irreversibile. Per tutti, basterebbe Merleau-Ponty a dichiarare che<br />
proprio l'ambiguità è l'elemento caratteristico della nostra inerenza al<br />
mondo, che siamo instabili e mobili anche di fronte ai processi<br />
sociali che ci caratterizzano, forse persino rispetto a quelli genetici.<br />
La realtà oggettiva è un insieme di "profili" che possono ricevere<br />
determinazioni diverse a seconda del soggetto che ne compie il<br />
tentativo di sintesi. Quindi l'ambiguità non sarebbe una sorta di<br />
imperfezione della coscienza individuale o della esistenza generale,<br />
ma addirittura la condizione per definizione della stessa esistenza.<br />
Fenomenologia, per tanti versi, inquietante; e non solo a livello<br />
morale. Se, per esempio, ci sta stretta la convinzione positivistica per<br />
cui "il vizio e la virtù si analizzano come il vetriolo e lo zucchero",<br />
chissà se abbiamo - sia chiaro, con "piena avvertenza e deliberato<br />
72
consenso" individuale (come dettava il vecchio Catechismo di<br />
buona memoria) - la capacità di capire che forse (ripeto: forse) una<br />
scienza (la matematica) che non ammette la divisibilità per il numero<br />
zero, è scienza appunto e certamente, ma solo per convenzione.<br />
Allo stesso modo, la geometria, delle cui applicazioni siamo in<br />
genere interessati fruitori, regge su elementi di dogma: il punto, la<br />
retta ed il piano, che non esistono. Ed avanti con il postulato di<br />
Euclide, con le alternative geometrie non-euclidee. E la logica stessa,<br />
che regge sul paradosso, la dimostrazione per assurdo, con una<br />
terminologia talvolta ossimorica. La scienza è cioè auto-referenziale<br />
per sua motivazione endogena, essa respinge inorridita la categoria<br />
del dubbio perché - al momento - non dimostrabile (o non utile), si<br />
appaga del laboratorio sperimentale (quando c'è), si rinserra nella sua<br />
muraglia di teoremi, pronta ad abbattere chiunque le si presenti<br />
davanti con la domanda del leggendario Emilio roussoiano: "Perché<br />
?". La sua risposta è sempre questa: " Perché sì ". Quindi la scienza è<br />
anche per sua natura tautologica. E tanto le basta. Ma all'uomo,<br />
all'uomo integrale, al panthelòs ànthropos non basta, non può bastare.<br />
Neanche quando si diverta a dire: " Io non dico mai la verità. ",<br />
perché ci si deve domandare se sia vera questa affermazione e quale<br />
altra invece possa essere vera, visto che non dice mai la verità.<br />
Insomma, se il sonno della ragione genera mostri, la sola<br />
luce della ragione (a parte l'azione umanitaria degli illuministi, che<br />
fecero le "cose" migliori in pratica solo catalogando il perimetro<br />
dell'azione razionale) può accecare chi le si accosti senza lenti<br />
oscuranti. Tertium non datur ? E che ne sappiamo ?<br />
Infatti se si volesse con qualche arditezza illudersi che il<br />
senso più alto della esistenza umana sia segnato dalla ricerca della<br />
verità fenomenica, dobbiamo con severità renderci conto che ben<br />
poco, o quasi nulla sia stato generalmente acquisito sotto questo<br />
aspetto. Uno dei primi limiti della scienza, per esempio della<br />
medicina, sta nel suo processo empirico: del tutto simile ad un<br />
viaggio alla ricerca di strade per sperare di giungere ad un traguardo,<br />
ma con il viaggiatore bendato, non in grado neppure di avere a<br />
disposizione le coordinate polari.<br />
Quindi il procedimento della conoscenza, fondato sul dato<br />
di laboratorio offerto dalla patologia in corpore vili, consiste in una<br />
serie di azioni-reazioni segnate dall'esperienza, con pochissimi<br />
elementi considerati come incontrovertibili. Le cosiddette scienze<br />
fisico-naturali, pur con la loro affascinantissima letteratura teorica,<br />
73
non hanno ancora neppure posto la prima sillaba della domanda<br />
che pure le percorre e le scuote, sull'origine della materia, la sua<br />
trasformazione in relazione allo spazio ed al tempo (altri concetti,<br />
questi due, che non hanno neanche una definizione convenzionale e<br />
consolidata) ed ancora - figurarsi - sul suo fine ultimo. Che è poi la<br />
stessa cosa del porsi la domanda sul significato della creazione<br />
dell'uomo e sulla sua natura, questa sì esemplarmente simbolo e<br />
sostanza di ambiguità inestricabile. Ci si accontenta, quando va<br />
bene, della soluzione del problemino dell'aritmetica elementare: una<br />
colonna di numeri, quattro operazioni ed un risultato finale che, se<br />
corretto alla verifica con la soluzione scritta a piè di pagina,<br />
conferma che il compitino è stato fatto bene ed il procedimento di<br />
computo è stato rispettato sul pallottoliere.<br />
Un cinico sosterrebbe che conoscere così poco, e a frutto di<br />
così tanta straziante fatica, giustificherebbe la solare utilità della nonconoscenza.<br />
Ma troverebbe subito chi, con aria profondamente<br />
offesa e con toni superciliosi, gli sbatterebbe in faccia il "progresso"<br />
che al genere umano ha consentito questo, ha donato quest'altro, ha<br />
permesso quest'altro ancora: insomma un inno alle "magnifiche sorti<br />
e progressive" da far seppellire sotto la vergogna chi ne dubitasse,<br />
così follemente.<br />
Eppure siamo tutti ben convinti (anche sulla base del solo<br />
sospetto) che ogni individuo umano, per quanto dotato di genialità,<br />
utilizza una parte minima dei suoi mezzi intellettivi, come chi<br />
cammina di notte illuminando i suoi passi con la luce esigua di un<br />
fiammifero. L'istinto vitale, per esempio, con le sue leggi ferree (e<br />
del tutto sane, anche perché involontarie) dimostra molto bene che<br />
la dignitas vitae che tanto entusiasmò i pensatori migliori<br />
dell'umanesimo rinascimentale è fondata su di una disperazione di<br />
base, concretamente ed indistruttibilmente sostanziata dalla<br />
pochezza ( o quasi nullità ) delle ragioni di una motivazione di<br />
impotenza reale, concreta, inamovibile. Quella abissale<br />
incompetenza che l'uomo cerca di cancellare, illudendosi di vestire<br />
gli abiti del razionalista, disperato poi della sua illusione perché gli<br />
resta tra le mani, scarnificata da tutte le eccedenze, la scheletrita<br />
certezza di non poter dare risposta a neppure una delle domande<br />
che lo flagellano sul suo senso individuale, sul significato del suo<br />
compito vitale, sulla sua necessità finalistica.<br />
Agli atei, che si sono scelta la posizione più dolorosa e<br />
conflittuale, tocca il dovere di confessare sulla lavagna il fallimento<br />
74
del loro assunto: prigionieri come sono di una fede nella negazione,<br />
sanno proprio perché lo combattono, che c'è in ognuno, anche in<br />
loro, uno spiritus che non si lascia intrappolare dalla psicanalisi o<br />
dalla spettrale aridità della logica. Symbolon ed il suo opposto,<br />
diàbolon, si collocano come i volti di Giano bifronte ad osservare<br />
opposti orizzonti nella speranza illusoria che possa giungere una<br />
nuova aurora, un novello messaggio, una palingenesi per l'uomo ed i<br />
suoi simili. Aspetta e spera. Il confronto con l'inerzia della materia<br />
basta per farli sentire dominatori di se stessi, padroni del destino,<br />
dittatori di sé. Non è "roba" nuova, purtroppo. Né è sufficiente<br />
additare qualche milione di esempi delle loro contraddizioni. A me<br />
piace, per esempio, il misantropo Leopardi per scoprire la sua<br />
rivoluzione nella Ginestra, ove lancia un messaggio di autentica<br />
rivoluzione nell'invito sommamente filantropico rivolto all'umanità<br />
nel non continuare a credere nei suoi errori, popolari, antichi e<br />
perenni. La vera fraternità, in estrema sintesi, avrebbe il suo seme<br />
nella ricerca concorde della verità, il cui primo passo ( l'unico ) è la<br />
guerra alle illusioni. Nella caverna platonica, negli idòla, nel contrasto<br />
tra tutti i nodi della percezione abbiamo sufficienti elementi per non<br />
fidarci delle cosiddette certezze. Tanto meno, di quelle cosiddette<br />
"granitiche". Non è il caso, certo, di aderire all'invito di Oscar Wilde:<br />
"Non dire mai la verità, potrebbero scoprirti", che è un gustoso<br />
paradosso, come quello di Achille e della tartaruga, come quello del<br />
calabrone, e via divertendo. Ma almeno un punto potrebbe essere<br />
fissato: che, se parliamo di infinito, è prudente usare un altro<br />
termine: "indefinito", o - forse meglio - "indefinibile". Del resto chi,<br />
con il detto popolare, afferma che "tutto è relativo", forse<br />
inconsapevolmente ha fatto cenno ad un assoluto (se per "assoluto"<br />
si intende il tutto), sia pure tracciando una spirale soffocante tra<br />
elementi di contrasto, reciprocamente elidentesi.<br />
Non si esce, se si pone attenzione, dall'ambiguità correlata<br />
alla stessa condizione biologica (poi, tutto quanto venga insieme e/o<br />
dopo) dell'essere uomo. Se kantianamente il cielo stellato incombe<br />
sopra di noi che abbiamo dentro di noi la legge morale, l'imperativo<br />
categorico è quello di vanificare tutti gli sforzi conoscitivi compiuti<br />
fino ad ora. E non perché si abbia la certezza di un metodo e di un<br />
contenuto nuovo su cui ripiegarci per misurarlo, pesarlo, coltivarlo,<br />
distruggerlo: no. Nulla merita il disprezzo dell'ignoranza, neanche<br />
l'errore: forse, soprattutto l'errore. Ma com'è intenso il messaggio<br />
75
che chiude il Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos:<br />
"Che importa ? Tutto è grazia." !<br />
L' Ecclesiaste (I, 10) ammonisce che non c' è mai nulla di<br />
nuovo sotto il sole. Malgrado ciò, la cifra che identifica il nostro<br />
tempo è quella di una convulsa e troppo spesso irrazionale tensione<br />
verso la ricerca del nuovo, il "moderno". Proprio la rapidità dei<br />
cambiamenti in atto sembra voler provocare l'aurora di una nuova<br />
mitologia, segnata soprattutto dalla leggenda di una eterna<br />
giovinezza, esteriormente anche per mano della chirurgia plastica.<br />
Ma del resto l'umanità ha sempre dato segno di apprezzare tutto ciò<br />
che si manifesta per la prima volta, identificandosi nel sogno<br />
infantile del figlio senza genitori. Persino Omero lo ricordava<br />
(Odissea, I, vv. 351-2): " Quel canto più lodano gli uomini, che agli<br />
uditori suona intorno più nuovo. " E c’è chi persino vi vuol vedere<br />
un atto esorcistico nei confronti della morte, segnata per definizione<br />
dalla immobilità e dall'inerzia. Così il mondo si agita nella ricerca di<br />
un Ri-nascimento, cozzando contro un postulato generale<br />
invalicabile, per cui non si può nascere due volte. Occorre perciò<br />
abbandonare l'utopia delle parole ingannevoli, ed accontentarsi della<br />
sostanza fattuale: si può solo riscoprire il vecchio, per impararne<br />
meglio la lezione ed eventualmente approfondirla. Solo la religione<br />
può promettere una seconda vita, ma certo non può invitare a<br />
credere in una seconda morte. Quindi credere nell'immortalità<br />
assegnata ad un essere mortale (almeno per la sua parte spirituale) è<br />
in parte accettare la validità dell'ossimoro: se Dio è per definizione<br />
eterno ed immutabile nella sua identità con se stesso, l'uomo<br />
provvede per sé alla santificazione dell'ossimoro, imbucandosi, lui<br />
essere mutevole e contingente, in un principio di assolutezza etica<br />
che puntualmente contraddice nei fatti: i Comandamenti, le Sure<br />
coraniche o altro ancora, oggetto costante di contrattualizzazione<br />
anche da parte delle relative Chiese ( o scuole teologiche).<br />
Il doppio (e la relativa doppiezza) sono quindi sistemiche<br />
nella natura umana, ondivaga costituzionalmente - come si usa dire -<br />
sia per il metodo che per il merito della sua ricerca. Dai presocratici<br />
che indagavano sui princìpi primi della natura (la phùsis phùseos)<br />
identificandola ora nell'aria, nell'acqua, nel fuoco o nella terra, siamo<br />
ancora lì a cercar di spaccare l'atomo (o la cellula) condannati a non<br />
poter afferrare mai il principio originario della esistenza, materiale o<br />
no che sia. Con una impressionante, lunghissima e spesso atroce<br />
fatica ( anche fisica ) si è esplorato lo spazio terrestre e poi<br />
76
planetario fino al solo punto di esser giunti a fissare delle<br />
coordinate micro-quantitative insignificanti. Come quasi sempre,<br />
ogni piccolo passo in avanti nella conoscenza è stato oggetto di<br />
plausi, osanna, fuochi d'artificio: fatue e penose parvenze di un<br />
"progresso" che non si sa bene quanto sia veramente tale. Lo stesso<br />
secolo che è alle spalle, segnato da un indubbio crescere delle<br />
cognizioni in materie scientifico-tecniche, è quello che mai come<br />
altri prima è riuscito ad ammazzare - "scientificamente", appunto -<br />
non si bene quante centinaia di milioni di umani.<br />
Il modello occidentale del sapere e del fare è<br />
profondamente in crisi: economica, ideologica, spirituale e via<br />
elencando. L'uscita da una penosa e sanguinosa arretratezza<br />
incombente (si può o no parlare di "fine della civiltà" ?) per chi ha<br />
del suo una indole portata al pessimismo nichilista non può che<br />
portare ad un conflitto armato, questo sì davvero veramente<br />
"mondiale". Un Ok-Corrall definitivo ed apocalittico. Le metastasi<br />
stanno lavorando in apparente sotto-traccia per blocchi di nazioni,<br />
persino per aree continentali, fino alla evidenza della incurabilità<br />
della patologia. L'uomo ha ampiamente dimostrato che non è capace<br />
di governare se stesso in relazione ordinata con gli altri, e quindi<br />
l'ultimo atto di affermazione del diritto potrebbe essere solo quello<br />
finale del più forte, che stermina il soccombente.<br />
Tutta la vicenda novecentesca sta ben aperta, nelle sue linee<br />
generali, sotto gli occhi: ogni capovolgimento ha avuto effetto<br />
proprio da quelle forme di pensiero che avevano criminalmente<br />
illuso di modificare la natura dell'uomo e l'indole del cittadino,<br />
facendo sognare pace e benessere per tutti. Ed anche le stesse<br />
cosiddette democrazie non sono esenti da critiche e da colpe anche<br />
pesantissime, all'assoluzione delle quali non può bastare la bubbola<br />
che esse sono espressione della volontà della maggioranza dei<br />
cittadini.<br />
E' una questione che si può, volendo usare un modello,<br />
ridurre ad un esempio epistemologico: le scienze "fisiche"<br />
ottengono i loro pur cospicui risultati attraverso una pratica<br />
riduzionistica, eliminando tutti i legami che connettono il fenomeno<br />
in studio al suo contesto generale. E' come se si pensasse al mondo<br />
in una sola prospettiva, quella lineare della tautologia, che è pur utile<br />
(si può persino dire: in parte indispensabile) per semplificare la<br />
realtà. Ecco allora la domanda delle domande: siamo (saremo) in<br />
grado di costruire una nuova matematica (o antroposofia) che possa<br />
77
descrivere la complessità e la circolarità oltre alla formalizzazione,<br />
alla enunciazione di leggi e di regole, che pure hanno fino ad ora un<br />
senso consolatorio per la sopravvivenza, fermandosi a definire che<br />
cosa siano l'incertezza ed il disordine, senza però cancellarli ? Forse<br />
si deve ipotizzare una Ri-costruzione, se non altro per far cessare<br />
l'allarme che suona da decenni. E' drammaticamente vero che siamo<br />
alla ricerca affannata di parametri che ci permettano di prendere<br />
decisioni compatibili con il bisogno primario di assicurare a breve la<br />
sopravvivenza. Però la ridondanza eccessiva degli elementi di analisi<br />
ci sommerge, facendoci fare la fine degli economisti, gli esperti della<br />
"scienza triste", tale perché serve solo a spiegare i fenomeni una<br />
volta che sono totalmente accaduti, mai a riconoscerne i rischi in<br />
atto o potenzialmente per poterli evitare in tempo utile. Il regno<br />
trionfante dell'ambiguità e dell'aleatorietà. Facile e scontata a questo<br />
punto l'osservazione: e quando mai l'umanità ha saputo e quindi<br />
potuto "capire" il proprio destino e quindi attivarsi per ottenere il<br />
massimo risultato vantaggioso con il minor danno ? La domanda è<br />
tanto legittima, quanto senza risposta, proprio per la sua natura<br />
ambigua di domanda. Lo stesso corredo di certezze razionali che<br />
espone la scienza tradisce l'impossibilità di giungere ad una meta<br />
non utopistica, ma concretamente misurabile - se non altro - con il<br />
metro del calcolo costi/benefici. A priori poi nessuna certezza è<br />
immutabilmente spacciabile per tale per un tempo indefinito, se il<br />
tessuto connettivo della conoscenza "sul campo" è sempre aperto<br />
ad ulteriori integrazioni, che ne allargano le capsule includenti<br />
spostando i limiti della indagine sempre un millimetro più in là. Non<br />
è una questione legata ai linguaggi, che sono per loro natura<br />
strumentali e convenzionali. Una intelligenza artificiale con la sua<br />
impostazione algoritmica cerca di dettare regole che prevedano tutti<br />
i casi possibili proprio perché la scienza deve (dovrebbe) tendere<br />
all'univocità ed alla precisione. Così essa deve ricorrere ad un suo<br />
linguaggio "formale", simbolico: in una parola, artificiale. La<br />
"macchina della mente" del dottor Stranamore dovrà allora<br />
impostarsi per proporre un altro linguaggio, quello "naturale"<br />
idoneo per tutti quegli uomini che siano addetti alla traduzione<br />
operativa delle sue applicazioni. Si ripeterebbe, in qualche misura, il<br />
parallelo tra la "voce di Dio" e quella degli uomini che la divulgano:<br />
fonte primaria quest'ultima di divisioni, aporie, eresie, scomuniche,<br />
guerre di religione che da sempre "allegramente" rendono<br />
incandescente ed insanguinato il globo.<br />
78
Nell' Amleto shakespeariano (III, I) troviamo: "c'era una<br />
volta un paradosso, ma ora il tempo lo ha risolto". Quella frase, che<br />
Amleto rivolge ad Ofelia, tratta dell'amore, che è già da solo un bel<br />
paradosso, paradiso di ambiguità di ogni genere. Per Piergiorgio<br />
Odifreddi (ma anche per i comuni mortali) il paradosso è "ciò che<br />
va oltre l'opinione comune", come da corretta etimologia dal greco<br />
classico. Per il nostro "logico" cuneese "…gli individui possono<br />
anche essere intelligenti e colti, ma le masse sono sicuramente beote<br />
e ignoranti, l'opinione comune è quasi sempre sbagliata. Dunque, i<br />
paradossi sono quasi sempre pure e semplici verità, e il tempo si<br />
diverte a sollevare lembi del grande velo che le nasconde. Il che<br />
significa, spesso, che ambiguità, rompicapi, dilemmi, enigmi, misteri,<br />
illusioni, inganni, abbagli, sbagli, inconsistenze, contraddizioni e<br />
assurdità si risolvono."<br />
(Cfr. Piergiorgio Odifreddi, C'era una volta un paradosso. Storie di<br />
illusioni e verità rovesciate, Torino, Einaudi, 2001, p. IX).<br />
Per lui, anche per mezzo dei teoremi. Se è lecito, alla<br />
Rousseau, preferire di essere " uomo di paradossi " piuttosto che "<br />
uomo di pregiudizi ", bisogna pur accettare che c'è un qualche segno<br />
di inquietudine nello scoprire che la verità è anche anagramma di<br />
relativa. Chi sa del suo di non essere un tabernacolo dell'ateismo<br />
razionalista, ha altro da replicare a Zola, quando afferma che a<br />
Lourdes sono appese delle stampelle, ma non c'è una sola gamba di<br />
legno. La risposta è che, se così è oggi, non è detto che lo sia anche<br />
domani. Nel senso che se si ha una conoscenza così labile ed incerta<br />
del reale fenomenico, della sua indefinita dimensione ancora ignota,<br />
non se ne vedono per nulla i passi ancora da compiere, se non per<br />
ipotesi di teorica astrazione, ancora tutte da dimostrare ed applicare.<br />
E quindi se piace ad Odifreddi giocare sulla assonanza etimologica<br />
tra "cretino" e "cristiano", nessuno gli impedisce di perdere tempo<br />
secondo il suo gusto. E sopporti senza offesa sua che ci sia chi<br />
onestamente crede ( anche sul piano del razionalismo più acceso )<br />
che ci sono più "cose" tra il cielo e la terra di quanto persino un<br />
premiato accademico possa intuire; vado oltre: dimostrare. Una delle<br />
forme più totalitarie e subdole della razionalità sta nella natura<br />
escludente ogni altro apporto diverso dalla sua autoreferenzialità,<br />
persino di quelli che la affermino come unica forma di conoscenza:<br />
una sorta di nevrosi intellettualistica, se non un piccolo (o forse, non<br />
proprio piccolo) abuso. Certo, ogni ambiguità al di fuori della<br />
ragione nasce anche da qualche patologia, persino di natura etica:<br />
79
origina magari dal banale desiderio di evitare conflitti, dalla<br />
stanchezza verso la rigida coerenza, dall'umano desiderio di<br />
sperimentare molteplici identità. Ma se è vero che "il sonno della<br />
ragione genera mostri", la Ragione finisce da sola per essere come la<br />
Virtù dei Robespierre. Questo per dire, sommessamente, che la<br />
dissimulazione consapevole (per Torquato Accetto, persino<br />
"honesta") si presta alla analisi del conscio e dell'inconscio allo<br />
stesso modo dei paradossi, come quello di de Mandeville della Favola<br />
delle api, che teorizzava l'utilità della corruzione e dell'inganno per<br />
tenere in vita l'alveare. Così si può restare prigionieri di una sorta di<br />
manicheismo indifferente alla guerra tra bene / male, essendo<br />
intercambiabili e double face. Quando già Agostino aveva posto la<br />
domanda. "Si Deus est, unde malum ? " Lo si chieda ad Odifreddi:<br />
risponderà con l'equazione cretino - cristiano.<br />
Le scuole cosiddette " irrazionalistiche ", come le loro<br />
contrarie, sono l'altra delle due gambe del cammino umano. E non<br />
si parla solo di pensiero metafisico, ma di posizioni dialettiche e<br />
storicistiche. Si tratta cioè di accettare, se non altro per corredo di<br />
studio, che esistono anche altre esigenze speculative che si<br />
fronteggiano e si intrecciano collidendo come il conoscere ed il<br />
fare, il sapere ed il volere, e via opponendo. Se la sintesi tra i<br />
contrasti è quel contrasto emblematico che è l'uomo, sarà pur lecito<br />
un ambiguo desiderio, quello di uscire dall'ambiguità; pronti, sia<br />
chiaro, a riprenderla tutta addosso quando ce ne sia la convenienza,<br />
alla sola condizione di non nuocere. Può darsi cioè che il capolavoro<br />
del ragionamento stia nello scoprire il punto in cui bisogna cessare<br />
di ragionare, di fare il calcolo di addizione di sottrazione tra le idee.<br />
Elio Vittorini affermava: "Una delle forme più comuni (forse la più<br />
comune in assoluto, ed in ogni modo la più densa di pericoli) di<br />
irrazionalità, è quella per cui ci si abbandona ciecamente al bisogno<br />
di garanzia andando in cerca di garanzie dove non ne è disponibile<br />
nessuna e assumendo quindi per garanzia qualcosa che non lo è e a<br />
cui diamo noi stessi illusoriamente valore di garanzia mitizzandola per<br />
tale. Il bisogno di garanzia in sé e per sé è irrazionale (idem la<br />
sofferenza per mancanza di certezza è irrazionale); l'esigenza di<br />
vivere nel certo anziché nel probabile è irrazionale; la tendenza a<br />
trasformare miticamente in certo ciò che è semplicemente probabile è<br />
irrazionale […] L'uomo è razionale nella misura in cui sa vivere del<br />
probabile e vince e controlla il proprio bisogno di garanzia assoluta<br />
certificante. " Che è anche come dire che scegliere la ragione<br />
80
significa imporsi di aver fede in un valore ritenuto assoluto; e così<br />
questa fede riesce ad essere irrazionale come tutte le altre. Magari<br />
sarà l'unica cosa irrazionale che compie un razionalista, l'unico<br />
dogma su cui è disposto a giurare, ma il problema non cambia. Fino<br />
poi alla curiosa affermazione di Schelling: "Ciò che chiamiamo<br />
ragione, se è ragione reale, viva, attiva, è propriamente null'altro che<br />
follia regolata […] Gli uomini che non hanno in sé la follia, sono<br />
uomini dalla ragione vuota, sterile. " Forse si può "ragionevolmente"<br />
convenire che la ragione ha una sua funzione, quella di incoraggiare<br />
l'arte della vita, che è soprattutto calcolo. Ma l'ambiguità resta<br />
sempre: infatti nell'irreale appare e nasce il reale, la morte. E nel<br />
reale appare e nasce l'irreale: la morte. E' sempre lei al termine della<br />
strada. Infatti Pascal ammoniva che l'ultimo passo della ragione è<br />
riconoscere che c'è un'infinità di cose che la sorpassano. Una più<br />
ambigua dell'altra. Che importa ? Tutto è Grazia.<br />
81
Ambiguità della memoria, fra retorica e reticenza<br />
83<br />
Lino Lantermino<br />
Lo Zekher (il ricordo) ci redime dal<br />
niente, ci avvolge nell'avvenire.<br />
Lo Zekher non consiste nel fare la pace<br />
dei vivi sui morti, ma è, prima di tutto,<br />
un esame di coscienza dei vivi.<br />
Shmuel Trigano<br />
Il 23 Marzo del 2000 a Gerusalemme, nella penombra e nel silenzio<br />
della sala della Rimembranza di Yad Vashem, un uomo curvo, lento,<br />
assorto, si inginocchiò con fatica davanti all'imperativo della<br />
memoria, la memoria di un abominio che le parole non riescono a<br />
raccontare.<br />
Quel giorno, Giovanni Paolo II, pontefice romano, abito bianco nel<br />
buio della immensa sala del memoriale della Shoah, con gesti incerti<br />
e dolenti, lontano dalle solenni rievocazioni dell'orrore, veniva in<br />
silenzio ed umiltà ad apprendere la immensa arte della memoria che<br />
gli Ebrei posseggono.<br />
Il successore di Pietro era consapevole che l'esibizione del dolore,<br />
l'insistere sulle ferite subite non fa parte della tradizione ebraica.<br />
Agli Ebrei, per commemorare gli assassinati nella Shoah, bastano<br />
pochi minuti di raccoglimento, il tempo di recitare un Kaddish, ed è<br />
tutto: non c'è spazio per il culto del dolore né per l'ossessione della<br />
memoria delle vittime.<br />
A fine catastrofe, mentre l'orrore veniva rimosso, sopravvissuti e<br />
testimoni avevano un unico pensiero: conservare le tracce di un<br />
popolo votato alla distruzione in un mare di odio e di indifferenza,<br />
scrivere la storia del genocidio, raccogliere prove per incriminare gli<br />
assassini.<br />
Nessuno pensava a dar luogo al tripudio sfrenato di cerimonie che<br />
esplodono intorno al 27 Gennaio in ogni parte del mondo, a<br />
dimostrazione di quanto sia molto più facile commemorare genocidi<br />
a decenni di distanza, piuttosto che impedirli.<br />
L'Ebraismo ricerca invece testardamente il passato, per rielaborarlo<br />
come memoria presente.<br />
E' convinto che i monumenti siano “metafore fallimentari del
icordo”, utili per chi voglia liberarsi delle proprie imbarazzanti<br />
responsabilità del passato...utili soprattutto ad una civiltà europea<br />
che con calcolo sinistro, tenta invano di chiudere i conti con il suo<br />
antisemitismo passato e presente.<br />
Memoria per l'Ebraismo è quanto recita la Bibbia in Deuteronomio.<br />
Memoria è conservazione di antichi momenti, non la conservazione<br />
di antichi monumenti.<br />
Un monumento a memoria della catastrofe può essere soltanto la<br />
ferita di una assenza... unica immagine possibile della morte della<br />
Ragione, parte indicibile della storia europea... la sua parte<br />
vergognosa ed infame.<br />
A noi che viviamo in un mondo dalla memoria guardinga, un<br />
mondo dalla memoria recisa, evanescente ed incline al conformismo<br />
del tempo, il gesto di Giovanni Paolo II ricorda che la memoria viva<br />
deve essere un giogo quotidiano da reggere con rispetto e<br />
consapevolezza, per evitare facili congedi dal proprio passato...per<br />
evitare che il passato svanisca ed il futuro venga meno.<br />
Noi tutti siamo capaci di collere morali ed indignazioni effimere che<br />
rivestiamo di ambigua retorica in alcuni momenti fissati dal<br />
calendario: una corona di fiori il 27 Gennaio, qualcuno che dice “ho<br />
letto il libro di Primo Levi”, qualcuno che recita un verso o una<br />
preghiera; poi tutti a dire: “che palle questi ebrei!”<br />
Sì, da noi la memoria si risveglia soltanto quando fa comodo,<br />
quando torna utile; ci si lascia andare a qualche esplosione di sdegno<br />
che dura poco e lascia deboli tracce, si trasforma il tragico tumulto<br />
della memoria in spettacolo, viene riproposta l'esortazione “mai più”<br />
ormai onnipresente nella attualità mediatica e sulla bocca di tanti<br />
improbabili esegeti della memoria.<br />
Quanti propositi consolatori, quante versioni semplificate della<br />
storia!<br />
Quante verità putative, dimenticate, omesse a causa di una memoria<br />
enfatica, verbosa, reticente!<br />
Quante mezze verità, quante memorie tronche, nel tentativo di<br />
costruirsi una identità morale di comodo, piuttosto che vigilare su<br />
noi stessi e ripudiare le nostre amnesie!<br />
Il 28 Maggio 2006, un giorno livido di pioggia e di dolore in<br />
Auschwitz, un professore tedesco salito da poco al soglio di Pietro,<br />
scelse una velata ed incauta difesa del suo popolo ai tempi di Hitler:<br />
“...è un dovere di fronte alla verità e un dovere davanti a Dio – disse<br />
con voce opaca – essere qui come figlio del popolo tedesco, figlio di<br />
84
quel popolo sul quale un raggiunse il potere<br />
mediante promesse bugiarde...cosicché il nostro popolo poté essere<br />
usato e abusato come strumento della smania di distruzione<br />
e dominio...”<br />
Versione semplificata della storia?<br />
Oppure un caso di amnesia storica, di memoria reticente ed<br />
ambigua, ...o forse, ancora, una riprovazione tiepida e tardiva (diluita<br />
dal concetto di un popolo tradito e sviato), pronunciata con le<br />
antiche “prudenze”, “riserbi” e “cautele”?<br />
Sicuramente una occasione perduta, frutto di un imbarazzo<br />
inoperoso; una richiesta di perdono fatto in nome della fede di cui<br />
incarna la massima autorità, avrebbe potuto lenire gli atroci ricordi<br />
dei molti che lo ascoltavano sotto una pioggia battente.<br />
Su vittime ed oppressori, ancora una volta la dottrina cristiana si<br />
esprimeva con troppa cautela, anche quando lì, in Auschwitz,<br />
avrebbe potuto avvertire il dovere non solo di proclamare, ma di<br />
difendere la sacralità di ogni vita, a prescindere dagli Dei cui questa<br />
abbia scelto di sottomettersi.<br />
85
1. IL NEFANDO DIAGRAMMA<br />
Ambigui Gnostici<br />
Ezio Albrile<br />
Il documento gnostico che prenderò in considerazione oggi è il<br />
cosiddetto Diagramma degli Ofiti descritto da Origene nel Contra<br />
Celsum (6, 22-38), databile entro i primi quattro decenni del II secolo<br />
d.C.; Si tratta di un cosmogramma di cui era in possesso Celso e da<br />
lui attribuito ai cristiani, del quale possedeva una copia anche<br />
Origene.<br />
Secondo la descrizione di Celso, il Diagramma appariva composto da<br />
un’immagine costituita da dieci cerchi, fra loro separati, ma tutti<br />
inscritti in un cerchio più grande, quello del drago Leviathan hē tōn<br />
olōn psychē «l’anima permeante il tutto». Nel disegno di Origene il<br />
mostro biblico era rappresentato due volte, sopra il cerchio e al suo<br />
centro e anche il suo nome vi appariva due volte Una linea nera<br />
tagliava poi in due il disegno ed era denominata Gehenna/Tartaro,<br />
al di sotto della quale era inscritto il nome di Behemot (Beēmōn).<br />
Celso introduce poi la descrizione di sette Arconti, dei quali però<br />
non riferisce il nome. Origene li ritrova nel diagramma in suo<br />
possesso, elencati, a suo dire, nel medesimo ordine e dotati di un<br />
nome derivante dalla tradizione angelica giudaica: Michael, dalle<br />
fattezze di leone; Souriel, di toro; Raphael, di drago, Gabriel, di<br />
aquila; Thauthabaoth, di orso; Erathaoth, di cane; l’ultimo, infine, da<br />
Celso è denominato Thaphabaoth o Onoel, da Origene Tartharaoth<br />
o Onoel, e ha l’aspetto di asino.<br />
Secondo Origene, gli Ofiti insegnavano agli uomini a pronunciare,<br />
dopo aver superato la phragmon kakias, la «barriera del male», delle<br />
frasi davanti alle porte eternamente chiuse degli Arconti, all’indirizzo<br />
delle potenze dominatrici dei cieli. Origene riporta poi le formule<br />
rivolte ai diversi Arconti: la prima di esse è per una prōte dynamis<br />
«prima potenza», da dove iniziano tēs ogdoados tas archas «i principi<br />
dell’Ogdoade». Segue poi l’invocazione a Ialdabaoth, messo in<br />
rapporto con l’astro splendente, Saturno; secondo è Ia (Iao), dopo<br />
di lui Sabaoth, Astaphaios, Aiolaios e Horaios.<br />
Tra esse la più significativa è l’invocazione ad Astaphaios: «O<br />
Astaphaios, Arconte della terza porta, guardiano delle prime acque,<br />
volgendo lo sguardo a me, come ad un myste, lasciami passare,<br />
87
poiché sono stato purificato dallo spirito virginale, o tu che vedi<br />
l’essenza del mondo, che la grazia sia con me, padre, sia con me!».<br />
Una invocazione che può essere comparata con simili dichiarazioni<br />
rintracciabili nei testi delle laminette orfiche. In queste mappe<br />
dell’aldilà il percorso è subordinato al riconoscimento di una<br />
sorgente d’acqua:<br />
88<br />
«… appena sarai venuto a morte,<br />
andrai alle case ben costruite di Ade;<br />
v’è sulla destra una fonte,<br />
accanto ad essa si erge un bianco cipresso…».<br />
Il testo continua affermando che, dopo aver evitato questa fonte (si<br />
tratta della fonte di Lete, o dell’oblìo), l’anima ne troverà un’altra,<br />
quella di Mnemosyne, o del Ricordo, sorvegliata da severi custodi.<br />
Proprio quest’acqua dovrà bere per giungere alla felicità. Ma i<br />
custodi gliela daranno soltanto dopo che essa avrà pronunciato una<br />
frase suggeritale dalla laminetta.<br />
Nel Diagramma degli Ofiti gli spazi circoscritti dal grande Leviathan<br />
sono affidati a sette potenze che possiedono nomi di angeli di chiara<br />
tradizione giudaica e un aspetto teriomorfo (c. 30). Origene sostiene<br />
la coincidenza della serie da lui analizzata con quella della<br />
rappresentazione di Celso, qualche leggera differenza si trova<br />
solamente nella trascrizione del nome dell’ultimo Arconte.<br />
Nel capitolo successivo Origene riporta una serie di formule che gli<br />
Ofiti pronuncerebbero dopo aver superato la «barriera del male»,<br />
trovandosi davanti alle porte degli Arconti. Questa elencazione non<br />
è isolata, in altri documenti gnostici ritroviamo elenchi simili e<br />
sempre in relazione a contesti astrali.<br />
La setta degli Gnostici di cui ci da notizia Ireneo (Adv. haer. 1, 30)<br />
concepisce la creazione del mondo visibile come la conseguenza<br />
della trasgressione del principio divino femminile che incautamente<br />
si lascia imprigionare dalla materia. A seguito di questa vicenda<br />
l’essere femminile genera un figlio, dotato di un soffio di immortalità,<br />
questi a sua volta genera un altro figlio e così via fino a raggiungere<br />
il numero di sette, la «perfetta ebdomade», cioè l’insieme<br />
dei pianeti. Vengono riferiti i nomi di questi esseri a partire dal<br />
primo generato: Ialdabaoth, Iao, Sabaoth, Adoneus, Eloeus, Oreus,<br />
Astaphaeus. Sono queste potenze dominatrici dei cieli a creare
l’uomo, secondo la loro immagine e somiglianza ed esse, poste nelle<br />
sfere celesti, esercitano il loro influsso sulla terra.<br />
Gli Gnostikoi di Epifanio (Pan. haer. 26) collocano nei cieli planetari<br />
sette Arconti, nell’ordine Iao, Saklas, Seth, Davides, Eloaeus o<br />
Adonaeus, Ialdabaoth o Elilaeus, Sabaoth. Sabaoth viene rappresentato<br />
come un asino oppure un maiale, egli è colui che ha creato il<br />
cielo, la terra, i cieli sotto di lui ed i suoi stessi angeli. Si può<br />
supporre la creazione dell’uomo materiale ad opera di queste realtà<br />
in quanto questi Gnostici riferivano che la carne deve perire, non<br />
ascendere, poiché appartiene all’Arconte.<br />
Nel trattato di Nag-Hammadi sull’Origine del mondo Ialdabaoth genera<br />
sette figli, androgini, tutti dotati, come lui stesso, di un nome<br />
maschile e di un nome femminile:<br />
Ialdabaoth Pronoia Sambathas<br />
Iao Signoria<br />
Sabaoth Divinità<br />
Adonaios Regalità<br />
Eloaios Invidia<br />
Oraios Ricchezza<br />
Astaphaios Sophia<br />
Le creature di Ialdabaoth vengono poi collocate nei rispettivi cieli,<br />
meravigliosi, ricchi di esseri al loro servizio. Essi «sono le sette forze<br />
dei sette cieli del caos». La parte inferiore dell’uomo, quella terrestre,<br />
è opera delle potenze arcontiche che contribuiscono alla creazione<br />
delle varie parti del suo corpo.<br />
Ma il testo in cui, in uno scenario intriso di dottrine astrologiche, la<br />
creazione dell’uomo terrestre da parte delle potenze arcontiche<br />
appare più minuziosamente trattata, è l’Apokryphon Johannis. In un<br />
proliferare di entità intermedie tra il pleroma e il nostro mondo<br />
troviamo Ialdabaoth, l’aborto di Sophia, la quale ha voluto generare<br />
senza il proprio compagno. Ialdabaoth opera in uno spazio proprio<br />
che è quello del firmamento dove, in unione con l’ignoranza, genera<br />
dodici angeli, cioè i dodici segni zodiacali. Segue poi un riferimento<br />
a «sette re» che sono da ricollegarsi ai domicili planetari assegnati ai<br />
segni zodiacali. Gli ordini angelici vengono posti in relazione con<br />
l’anno, il che rivelerebbe l’utilizzo di una fonte basata sul sistema<br />
astrologico di origine egiziana dei trentasei decani.<br />
In termini cosmografici Ialdabaoth ripartisce il cerchio dell’eclittica<br />
in 12 spazi siderei e assegna a ognuno di essi un segno zodiacale. I<br />
singoli segni o costellazioni sono ulteriormente suddivisi – secondo<br />
89
la redazione breve dell’Apokryphon Johannis – in sette parti<br />
diseguali, ognuna affidata a un angelo. Il totale di 84 egregori<br />
angelici rappresenta ciò che in astrologia va sotto il nome di<br />
paranatellona, cioè l’insieme delle stelle che sorgono<br />
simultaneamente ai segni zodiacali. Ialdabaoth prosegue l’opera<br />
demiurgica affiancando altre tre potenze a ogni angelo. In apparente<br />
spregio del nichilismo gnostico, il redattore dell’Apokryphon Johannis<br />
sfoggia una conoscenza della materia astrologica approfondita, in<br />
perfetta sintonia con una tradizione divinatoria ben consolidata.<br />
Basta prendere una summa astrologica del tempo come l’opera di<br />
Firmico Materno, per capire che le ulteriori tre potenze aggiunte dal<br />
Demiurgo gnostico sono i Decani, associati ai sette pianeti.<br />
Ialdabaoth crea infine sette Arconti:<br />
Athoth pecora<br />
Eloaiou asino<br />
Astaphaios iena<br />
Iao drago a sei teste<br />
Sabaoth drago<br />
Adonin scimmia<br />
Sabbede fuoco splendente<br />
Un secondo nome viene dato a queste potenze, rispettivamente<br />
bontà, pronoia, divinità, dominazione, regno, fuoco, sapienza. I sette<br />
Arconti, a loro volta, generano un gran numero di potenze ad essi<br />
subordinate.<br />
Alla creazione dell’uomo «psichico» partecipano gli Arconti con<br />
l’aiuto di tutte le potenze angeliche, ciascuna delle quali fornisce una<br />
parte delle sostanze psichiche necessarie alla sua formazione;<br />
accortesi però che nell’uomo da loro plasmato alberga un principio<br />
superiore, decidono di imprigionarlo: «Essi presero fuoco, terra e<br />
acqua; li mescolarono assieme l’uno con l’altro, e con i quattro venti<br />
di fuoco: li unirono insieme e fecero una grande confusione. Lo<br />
portarono nell’ombra di morte per plasmarlo nuovamente, dalla<br />
terra, dall’acqua, dal fuoco e dal vento, cioè dalla materia,<br />
dall’ignoranza delle tenebre, dal desiderio e dal loro spirito di<br />
opposizione (pneuma antimimon): questa è la grotta (spēlaion) della<br />
nuova creazione del corpo, che i ladri diedero all’uomo, questa è la<br />
catena dell’oblio; egli diventò un uomo mortale..» (NHC II, 1, 21, 1-<br />
13)<br />
In tutti questi casi troviamo una stretta correlazione tra le potenze<br />
arcontiche celesti e la composizione dell’uomo nelle sue componenti<br />
90
più basse, quella materiale e quella psichica, sia per quanto riguarda<br />
la «fabbricazione» della creatura, sia per quanto riguarda il dominio<br />
che queste potenze sono in grado di esercitare sull’individuo nel<br />
corso della sua esistenza. Nonostante le diverse varianti, il seme di<br />
luce risulta provenire dal mondo divino, superiore, di cui gli Arconti<br />
ignorano l’esistenza.<br />
Si stabilisce così un legame tra l’uomo e le potenze arcontiche<br />
piuttosto ambiguo: da una parte egli, nella sua dimensione più vera,<br />
quella del proprio sé più profondo, è sostanzialmente estraneo a<br />
questo mondo, nel quale è imprigionato; dall’altra, in quanto ingabbiato<br />
in una dimensione arcontica, fisica, ma anche psichica,<br />
inerente quindi alla sfera dei sentimenti e delle passioni, è naturalmente<br />
incline a lasciarsi dominare da questi.<br />
Solamente l’intervento salvifico della gnosi lo renderà consapevole<br />
della sua duplice natura e gli fornirà gli strumenti per liberarsi da tali<br />
vincoli. Questo accadrà al momento della morte, quando l’anima si<br />
libererà di tutto ciò che ha ricevuto dalle potenze arcontiche e,<br />
divenuta ormai puro spirito, potrà riunirsi alla sua fonte. Più difficile<br />
da cogliere è la condizione dello gnostico durante la sua esistenza<br />
terrena: egli sa di essere libero dalle influenze negative della realtà in<br />
cui abita, eppure al medesimo tempo, ne continua a far parte. Da qui<br />
una serie di tecniche diverse, le note pratiche libertine o<br />
astensionistiche, attraverso le quali lo gnostico instaura una prassi<br />
salvifica nel mondo sensibile che in qualche maniera anticipa o accelera<br />
il processo di liberazione finale. D’altronde, è bene sottolinearlo,<br />
lo gnosticismo si caratterizza rispetto alla filosofia cristiana come<br />
una «non-religione», una pratica di salvezza in aperta polemica con<br />
le teologie del tempo (neoplatoniche prima e cristiane poi).<br />
2. RITUALI GNOSTICI<br />
Tornando al Diagramma degli Ofiti, sembra chiaro il riferimento a un<br />
percorso dell’anima attraverso le sfere planetarie, anche se sfugge il<br />
contesto nel quale esso avveniva. Se si trattava cioè di una pratica di<br />
tipo rituale effettuata in vita, oppure se costituiva un<br />
ammaestramento in vista del viaggio post mortem.<br />
Il formulario riportato nel capitolo 31 del sesto libro del Contro Celso<br />
allude chiaramente ad un itinerario che gli adepti percorrerebbero ad<br />
un certo momento della propria esistenza. Nel capitolo 27, Origene<br />
riporta alcune affermazioni di Celso delle quali egli però non ha<br />
91
notizia (sostiene che Celso se le sia inventate di sana pianta).<br />
Queste fanno riferimento ad un contesto sacramentale, si parla di un<br />
«sigillo» e di un’unzione praticata da un «padre» nei confronti di un<br />
«figlio» o «giovane», il quale risponde con una formula: «Io sono<br />
stato unto con la bianca unzione, che proviene dall’albero della vita».<br />
Segue un’ulteriore specificazione, che spiega la doppia lettura dei<br />
nomi planetari nel Diagramma (nomi angelici per Origene, arcontici<br />
per Celso): ai lati dell’anima del moribondo stanno sette angeli, di<br />
cui alcuni sono detti «angeli di luce», altri «arcontici».<br />
Il Diagramma ofitico servirebbe quindi da supporto per una pratica<br />
meditativa finalizzata all’abbandono dello stato ordinario di coscienza<br />
e a un viaggio nel punto più profondo del proprio sé. Tale viaggio<br />
interiore anticiperebbe la definitiva ricongiunzione con il divino alla<br />
fine della propria esistenza. Il momento della liberazione finale dal<br />
proprio corpo poteva essere anticipato attraverso una serie di<br />
pratiche rituali reiterate nel corso dell’esistenza stessa dell’individuo,<br />
per culminare in una sorta di «estrema unzione», di apolytrōsis da<br />
somministrare al momento del decesso.<br />
L’anima scendendo nel mondo materiale acquisisce una serie di vizi<br />
e passioni che, come una zavorra troppo pesante, deve<br />
necessariamente abbandonare al momento del suo ritorno al divino.<br />
La versione iniziale di tale avvenimento è quella che coinvolge il<br />
Salvatore che attraversa nascostamente le sfere arcontiche, per<br />
portare il suo messaggio all’uomo e che deve, in seguito,<br />
abbandonare le proprie vesti per ritornare nel pleroma.<br />
Sia che le formule venissero pronunciate nel corso di un’esperienza<br />
estatica, sia che esse fossero invece recitate dall’anima del defunto, la<br />
loro funzione appare quella di permettere all’invocante di progredire<br />
lungo un percorso ascensionale, i cui diversi livelli sono preclusi a<br />
coloro che non possiedono le conoscenze richieste. Nei documenti<br />
gnostici esistono diverse attestazioni di questi dialoghi tra visionari<br />
o anime, e custodi degli spazi celesti: molto spesso il diritto di<br />
passaggio viene difeso attraverso l’affermazione dell’estraneità<br />
dell’invocante rispetto al cosmo e alle entità che in esso governano.<br />
A differenza degli Arconti che li interrogano, i possessori della gnosi<br />
non appartengono a questo mondo: con l’abbandono del corpo è<br />
cessato il dominio delle entità cosmiche, che non possono più<br />
esercitare alcun potere su di essi.<br />
Secondo Epifanio, alcuni Gnostikoi apprendevano dal Vangelo<br />
apocrifo di Filippo (non identificabile con il testo di Nag-Hammadi<br />
92
dal medesimo titolo) la formula che dovevano pronunciare,<br />
durante la loro ascesa, alle potenze superiori: «Il Signore mi rivelò<br />
ciò che l’anima deve proferire salendo verso il cielo, e la risposta a<br />
ciascuna delle potenze superiori: Io mi sono conosciuta<br />
perfettamente, mi sono raccolta da ogni lato e non ho seminato figli<br />
per l’Arconte, ma ho sradicato le sue radici, ho raccolto le membra<br />
disperse e conosco chi sei tu, poichè io appartengo a quelli in<br />
alto…» (Epiph. Pan. haer. 26, 13, 2-3).<br />
Anche per i Valentiniani di Marco il Mago il passaggio è assicurato<br />
attraverso una affermazione di superiorità: «Sono figlio del Padre,<br />
del Padre preesistente, figlio nel Preesistente. Sono venuto a vedere<br />
tutto ciò che è mio proprio e ciò che mi è estraneo: non estraneo del<br />
tutto, ma (è) di Achamoth, che è donna e queste cose ha fatto per<br />
sé. Traggo origine dal Preesistente e vado di nuovo al mio luogo<br />
donde sono venuto… Sono un vaso più prezioso della donna che vi<br />
ha fatto. Se la vostra madre ignora la sua radice, io conosco me<br />
stesso e so donde provengo e invoco la Sophia incorruttibile che è<br />
nel Padre, madre di vostra Madre che non ha padre né consorte<br />
maschi. Donna nata da Donna vi ha creati, che ignora anche sua<br />
madre e crede di esser sola. Io invoco sua madre» (Ir. Adv. haer. 1,<br />
21, 5).<br />
Nell’Apocalisse di Paolo di Nag Hammadi l’apostolo, giunto al<br />
settimo cielo, deve rispondere ad una serie di domande postegli da<br />
un vecchio e successivamente esibire un «segno», prima di poter<br />
accedere al livello superiore. La prima interrogazione riguarda la<br />
meta del viaggio e ad essa Paolo risponde: «sto andando al luogo da<br />
cui provengo» (NHC V, 2, 23, 10-11), dimostrando anche in questo<br />
caso l’estraneità dello gnostico rispetto al cosmo. Nel logion 50 del<br />
Vangelo di Tomaso, Gesù insegna ai propri discepoli le risposte da<br />
dare agli Arconti, anche in questo caso la dichiarazione dell’origine<br />
divina e l’esibizione di un «segno» consentono il passaggio a una<br />
realtà superiore. Simile situazione troviamo anche nell’Apocrifo di<br />
Giacomo. Nel Vangelo di Maria, infine, l’anima risponde alle potenze<br />
che la interrogano: dichiarando ormai sciolti i legami con il mondo<br />
materiale, essa può ascendere al mondo divino. L’ultima risposta<br />
suggella il passaggio dalla precarietà del livello materiale alla stabilità<br />
della condizione divina: «Ciò che mi lega è stato ucciso; ciò che mi<br />
volge è stato eliminato. La mia brama si è estinta e l’ignoranza è<br />
morta. In un mondo mi sono liberata da un mondo, e in una forma<br />
(typos) mi sono liberata da una forma (typos) superiore e così dalla<br />
93
catena dell’oblio, la cui esistenza è momentanea. D’ora in poi<br />
raggiungerò la quiete nel tempo proprio della stagione dell’eone in<br />
silenzio.». Nel Diagramma degli Ofiti, l’apertura delle porte arcontiche<br />
si verifica a seguito della dimostrazione, da parte dell’invocante, della<br />
conoscenza di nomi, funzioni e prerogative del custode; l’esibizione<br />
di un disegno «costringe» poi l’entità a lasciare libero il passaggio.<br />
Anche nei papiri magici incontriamo il ricorso a invocazioni, a<br />
parole o «nomi di potenza», la cui funzione è analoga alle<br />
dichiarazioni che abbiamo incontrato nei testi gnostici: l’invocante,<br />
conoscendo i nomi segreti delle divinità, è superiore ad esse e può<br />
quindi costringerle ad agire secondo i propri voleri. Un testo<br />
peculiare è la cosiddetta «Liturgia mithraica» (PGM IV, 475-824),<br />
che descrive una ricetta per l’acquisizione dell’immortalità da<br />
ottenersi attraverso un’ascensione celeste. Ad un certo punto del suo<br />
viaggio il myste giunge a vedere «l’ordine divino dei cieli: gli dèi<br />
sovrani sorgere nel firmamento e in altri luoghi». Gli dèi lo fissano<br />
intensamente e si scagliano contro di lui. Egli per difendersi deve<br />
compiere determinati gesti e pronunciare una formula nella quale<br />
sono compresi numerosi «nomi di potenza», dimostrando di<br />
conoscere i quali il myste arresta l’impeto bellicoso delle potenze,<br />
che ora lo osservano benevolmente e non tentano più di attaccarlo,<br />
ma tornano ognuna a occuparsi degli affari propri (PGM IV, 555-<br />
567).<br />
Sull’utilizzo di pratiche e formule magiche da parte di alcuni gnostici<br />
ci informano gli stessi eresiologi. Analizzando poi il contenuto delle<br />
dottrine a cui questi maestri gnostici facevano riferimento troviamo<br />
sempre l’allusione al dominio delle sfere celesti e alla capacità,<br />
tramite l’uso di parole e nomi di potere, di vanificare o superare<br />
l’influsso negativo di Arconti o Angeli malvagi. Per Simon Mago,<br />
Ennoia, il primo Pensiero del Padre, genera gli Angeli creatori del<br />
mondo, che tengono in loro potere quanti vivono in esso (Ir. Adv.<br />
haer. 1, 23, 2-3). Menandro afferma che tramite la magia si possono<br />
dominare tali potenze. Anche in Basilide ritorna il motivo del cattivo<br />
governo del mondo da parte degli Angeli creatori dai quali l’uomo<br />
viene liberato attraverso l’intervento salvifico del Cristo portatore<br />
della gnosi. I seguaci di Basilide si servono altresì di magie e<br />
incantesimi che permettono loro di sfuggire alle potenze arcontiche.<br />
Anche Marco il Mago, discepolo di Valentino, riceve da parte di<br />
Ireneo l’accusa di servirsi di pratiche magiche per diversi scopi, tra i<br />
94
quali quello di assicurarsi nel post mortem un viaggio tranquillo verso<br />
la dimora ultraterrena.<br />
3. MONDI DI ARCONTI<br />
I due Libri di Ieu e la Pistis Sophia rimandano ugualmente verso un<br />
contesto di ascensione dell’anima fortemente legato ad elementi<br />
magici. I cieli arcontici subiscono in questi testi tardi una espansione<br />
straordinaria che fa moltiplicare conseguentemente le forze preposte<br />
al loro controllo: l’anima, per superare indenne il lungo percorso che<br />
l’attende, deve essere munita di diversi lasciapassare, simboli,<br />
disegni, parole acquisite mediante una serie di pratiche sacramentali<br />
di varia natura che il Salvatore comunica ai discepoli.<br />
La Pistis Sophia è ambientata nel periodo che intercorre tra la<br />
resurrezione e la definitiva ascensione di Gesù. Undici anni durante i<br />
quali il Salvatore si sofferma presso i discepoli, comunicando loro<br />
quel sapere esoterico che aveva celato ai tempi della sua<br />
predicazione. Gesù, permeato da una luce abbacinante, ascende in<br />
cielo. In seguito riferirà ai discepoli sui diversi mondi o livelli di<br />
esistenza attraversati. La prima tappa è alle porte del firmamento (I,<br />
11, 1-2), le quali si aprono per farlo passare, rivelando uno spazio<br />
popolato da Arconti, Potenze e Angeli. Il luogo successivo è<br />
chiamato «Prima Sfera» (I, 12, 1-3). Anch’esso è abitato da Arconti.<br />
Segue una «Seconda Sfera» (I, 13, 1-3), quella della Heimarmene, del<br />
destino, con i relativi abitanti. Infine Gesù raggiunge i «grandi Eoni<br />
degli Arconti» (I, 14, 1). A ogni mondo visitato la luce che lo permea<br />
si potenzia sempre più, talmente vivida da generare scompiglio fra<br />
gli abitanti dei cieli, sconvolgendo il normale ritmo delle sfere<br />
celesti: «e contemporaneamente si mossero tutti i loro Eoni, tutte le<br />
loro sfere, e tutti i loro ordini» (I, 14, 5).<br />
Guidati da Adamas, «il grande tiranno», tutti gli Arconti dei diversi<br />
Eoni cercano di combattere la grande luce, senza apparente motivo<br />
e soprattutto ignorandone la provenienza. Una scriteriata lotta il cui<br />
esito è l’indebolimento dei tiranni. Gesù approfitta della situazione<br />
per sottrarre loro un terzo della forza, diminuendone così l’influsso<br />
sulle cattive azioni degli uomini (I, 15, 3). Così l’intervento di Gesù<br />
assume proporzioni cosmiche. Il Salvatore «volge» la<br />
e la sfera su cui essi poggiano: da quel momento in<br />
poi per sei mesi manderanno i loro influssi «guardando a destra» e<br />
per sei mesi «guardando a sinistra»; mentre Ieu, emanazione del Dio<br />
95
inconoscibile, «Padre del Padre di Gesù» (IV, 136, 11), li aveva<br />
collocati in modo tale che guardassero sempre a sinistra (I, 15, 4-16,<br />
1). È probabile che dietro al fatto mitico si celi la dottrina<br />
astrologica delle porte solstiziali. Con i segni rivolti a destra si allude<br />
infatti all’arco discendente dello Zodiaco, cioè ai sei segni che vanno<br />
dalla costellazione del Capricorno a quella del Cancro; mentre con i<br />
segni volti verso sinistra si allude all’arco ascendente, cioè ai sei segni<br />
che vanno dalla costellazione del Cancro a quella del Capricorno. I<br />
due punti estremi del ciclo cosmico. Le due costellazioni zodiacali<br />
sono poste rispettivamente all’estremità Nord e all’estremità Sud<br />
dell’eclittica, il percorso apparente del Sole in un anno, situato<br />
obliquamente rispetto al piano dell’equatore e lungo il quale sono<br />
disposti i segni zodiacali. Il tropico del Cancro, settentrionale,<br />
corrisponde al solstizio d’estate, il tropico del Capricorno al solstizio<br />
d’inverno. Rispetto all’emisfero boreale il Cancro è quindi più vicino<br />
ed è dimora della Luna, il pianeta più prossimo alla Terra; il<br />
Capricorno invece è assegnato a Saturno, l’ultimo, più remoto<br />
pianeta.<br />
In corrispondenza dei due solstizi si aprono le due porte, una<br />
destinata agli uomini, attraverso la quale si entra nel mondo della<br />
generazione e della manifestazione individuale, l’altra destinata agli<br />
esseri divini, che dà invece accesso agli stati sovraindividuali. Mondi<br />
omologhi ai pitriloka e devaloka della tradizione vedica: la porta degli<br />
uomini (= pitriyāna), volta verso l’oscurità, e quella degli dèi (=<br />
devayāna), orientata alla luce, costituiscono le due vie permanenti del<br />
mondo manifesto (Bhagavadgītā 8, 26). I due solstizi, punti estremi<br />
del percorso solare, corrispondono ai due apici del ciclo<br />
trasmigrativo. Il segno del Cancro è l’entrata, il Capricorno è l’uscita<br />
dallo stato dell’esistenza umana e l’accesso agli stati superiori<br />
dell’essere, quelli degli dèi.<br />
Se, come sembra suggerire il testo della Pistis Sophia, le due porte<br />
sono collegate al doppio ciclo di discesa e di ascesa, di caduta e di<br />
risalita delle anime verso il mondo luminoso, allora all’inizio, prima<br />
dell’intervento di Gesù, esisteva solo una porta, quella della discesa<br />
delle anime nel mondo, che al tempo delle origini corrispondeva al<br />
Paradiso terrestre. Il peccato, la trasgressione al volere divino,<br />
mutarono l’equilibrio iniziale, trasformando il Paradiso nel cosmo<br />
arcontico che oggi conosciamo.<br />
I vaticini e le previsioni astrologiche, quindi, sono veritiere solo in<br />
parte, poiché gli astromanti non conoscono le posizioni delle stelle<br />
96
quando sono voltate a destra. Gesù, infatti, ha «girato i loro<br />
influssi, i loro quadrati, i loro triangoli e la loro ottuplice figura» (I,<br />
21, 2). Gli astrologi, per stabilire le varie influenze astrali, conoscono<br />
uno specifico lessico, riferito alle figure tracciate nei diagrammi<br />
oroscopici: il «quadrato», relativo agli influssi negativi che sorgono<br />
quando nel cerchio dello Zodiaco i Pianeti formano tra loro un<br />
angolo retto, cioè di 90°; il «trigono», quando, in relazione agli<br />
influssi positivi, i Pianeti si trovano a 120° fra loro; l’«ottagono» o<br />
semiquadrato, che segnala gli influssi negativi quando i Pianeti si<br />
trovano a 45° fra loro. Tutti questi vaticini, quando sopraggiunge<br />
l’autorità del Salvatore, non sono più possibili e la tracciabilità dei<br />
diagrammi oroscopici è vanificata: restano solo delle mute figure<br />
geometriche senza valore, segno un tempo della sincronia fra<br />
macrocosmo e microcosmo, fra mondo divino e mondo terreno,<br />
oggi testimonianza della loro scissione.<br />
Tali posizioni, peraltro, non sono più comprese neppure dagli stessi<br />
Arconti «che si trovano negli Eoni, nelle loro sfere, nei loro cieli e in<br />
tutti i loro luoghi» (I, 21, 6). L’intervento sovvertitore di Gesù non è<br />
che un correttivo resosi necessario a seguito di un’alterazione della<br />
macchina cosmica. Essa all’inizio era stata approntata allo scopo di<br />
recuperare, attraverso un processo di raffinamento e di filtrazione, la<br />
forza divina precipitata nel mondo inferiore, racchiusa nei mostruosi<br />
corpi degli Arconti. Ora questi ultimi, scoprendo che in tal modo si<br />
indebolivano sempre più e che il loro regno si andava dissolvendo,<br />
decidono di impedire ai loro effluvi luminosi di ricadere come anime<br />
nel mondo terreno. Per fare questo «divorarono la loro materia» (I,<br />
26, 4). In un processo di autofagia «la divorano per non essere<br />
annientati» (I, 26, 5), trattenendo all’infinito il seme superiore nel<br />
mondo corporeo, «per far passare un lungo tempo sino al<br />
compimento del numero delle anime perfette, che giungeranno nel<br />
tesoro della luce». Un mito rielaborato negli insegnamenti del<br />
manicheismo, la gnosi iranica per eccellenza.<br />
Da segnalare ancora i tre battesimi riportati nel Primo Libro di Ieu il<br />
cui rituale prevede l’utilizzo di piante psicoattive e il compimento di<br />
una serie di azioni facilmente confrontabili con i ricettari presenti<br />
nei papiri magici. Il Salvatore gnostico scende nel mondo per<br />
liberare ciò che vi è di consustanziale al mondo divino: il corpo<br />
appartiene agli Arconti che lo hanno creato ed è a loro che deve<br />
tornare.<br />
97
Nel Diagramma degli Ofiti una riflessione a sé merita la prima<br />
invocazione che l’orante è chiamato a pronunciare nel luogo in cui si<br />
trovano i fondamenti dell’Ogdoade. Essa è rivolta ad un basileus<br />
monotropos, il «solitario egemone» il cui nome non è menzionato; si fa<br />
riferimento alla sua cecità, alla sua inconsapevole ignoranza, anche<br />
se poi si aggiunge che è protetto dallo spirito di provvidenza e di<br />
sapienza e quindi collegato in qualche modo al mondo superiore. Si<br />
tratta con tutta probabilità del Leviathan, l’anima del tutto che<br />
pervade il mondo sensibile vivificandolo. Esso era verosimilmente<br />
concepito dagli Ofiti come un serpente Ouroboros, qui descritto in<br />
tratti fortemente ambigui: rappresentazione iconografica dei confini<br />
spazio-temporali del cosmo che contemporaneamente pervade,<br />
viene negativamente concepito non a causa di una sua intrinseca<br />
malignità, ma piuttosto in quanto espressione simbolica dell’estremo<br />
limite della realtà sensibile.<br />
Bibliografia essenziale:<br />
E. ALBRILE, «Il firmamento magico e l’eresia del serpente», in Studi<br />
sull’Oriente Cristiano, 7 (2003), pp. 9-37.<br />
E. ALBRILE, «La porta del tempo. Misticismo astrale tra gnosi ed<br />
ermetismo», in F. ZAMBON (cur.), Il Dio dei mistici (Viridarium 2),<br />
Fondazione Giorgio Cini , Venezia-Milano 2005, pp. 77-97.<br />
E. ALBRILE, «Verso la cuna del tempo. Astromantica e apocalittica<br />
nel tardo ellenismo», in Angelicum, 88 (2011), pp. 1037-1052.<br />
A. BERNABÉ-A.I. JIMÉNEZ SAN CRISTÓBAL, Instructions for the<br />
Netherworld. The Orphic Gold Tablets (Religions in the Graeco-Roman<br />
World, 162), Leiden 2008.<br />
A. BOUCHE-LECLERCQ, L’astrologie grecque, Paris 1899.<br />
I.P. CULIANU, Psychanodia. I. A Survey of the Evidence Concerning the<br />
Ascension of the Soul and its Relevance (EPRO 99), Leiden 1983.<br />
I.P. COULIANO, Esperienze dell’Estasi dall’Ellenismo al Medioevo<br />
(Biblioteca di Cultura Moderna 926), Roma-Bari 1986.<br />
I.P. COULIANO, I miti dei dualismi occidentali. Dai sistemi gnostici al mondo<br />
moderno (Di fronte e attraverso 227), Milano 1989.<br />
F.T. FALLON, The Enthronement of Sabaoth. Jewish Elements in Gnostic<br />
Creation Myths (Nag Hammadi Studies, X), Leiden 1978.<br />
W. & H.G. GUNDEL, Astrologumena. Die astrologische Literatur in der<br />
Antike und ihre Geschicte, Wiesbaden 1966.<br />
98
A.K. HELMBOLD, «The Apokryphon of John», in Journal of Near<br />
Eastern Studies, 25 (1966), pp. 268 ss.<br />
TH. HOPFNER, «Das Diagramm der Ophiten», in AA.VV., Charisteria<br />
Alois Rzach zum achtzigsten Geburstag dargebracht, Reinchenberg 1930,<br />
pp. 86-98.<br />
H.M. JACKSON, The Lion Becomes Man. The Gnostic Leontomorphic<br />
Creator and the Platonic Tradition (SBL Dissertation Series 81), Atlanta<br />
(Georgia) 1985.<br />
H.M. JACKSON, «The Origin in Ancient Incantatory voces magicae of<br />
some Names in the Sethian Gnostic System», in Vigiliae Christianae,<br />
43 (1989), pp. 77 ss.<br />
M.G. LANCELLOTTI, «Gli gnostici e il cielo. Dottrine astrologiche e<br />
reinterpretazioni gnostiche», in Studi e Materiali di Storia delle Religioni,<br />
66 (2000), pp. 86 ss.<br />
B. LAYTON, The Gnostic Scriptures. A New Translation with Annotations<br />
and Introductions, London 1987.<br />
H. LEISEGANG, Die Gnosis (Kröners Taschenausgabe, Band 32),<br />
Leipzig s.d., poi Freiburg 1941 (terza edizione).<br />
H. LEISEGANG, «Das Mysterium des Schlange», in Eranos-Jahrbuch, 7<br />
(1939), pp. 151-250 (trad. ingl. in J. CAMPBELL [ed.], The Mysteries.<br />
Papers from Eranos Yearbooks, Princeton 1955, pp. 194-260).<br />
G. MANTOVANI, «Acqua magica e acqua di luce in due testi<br />
gnostici», in J. RIES (avec la coll. de Y. Janssens et de J.-M. Sevrin),<br />
Gnosticisme et monde hellénistique, Actes du Colloque de Louvain-la<br />
Neuve (Publications de l’Institut Orientaliste de Louvain 27),<br />
Louvain-la-Neuve 1982, pp. 430 ss.<br />
A. MASTROCINQUE, «Pregare Ialdabaoth», in G. SFAMENI<br />
GASPARRO (cur.), Modi di comunicazione tra il divino e l’umano. Tradizioni<br />
profetiche, divinazione, astrologia e magia nel mondo mediterraneo antico, Atti<br />
del II Seminario Internazionale (Hierá 7), Cosenza 2005, pp. 203 ss.<br />
H.-CH. PUECH, «Il Principe delle Tenebre nel suo Regno», in Sul<br />
manicheismo e altri saggi (Einaudi Paperbacks Filosofia, 260), trad. it. di<br />
A. Comba, Torino 1995, pp. 97-140.<br />
G. PUGLIESE CARRATELLI, Le lamine d’oro orfiche. Istruzioni per il<br />
viaggio oltremondano degli iniziati greci (Biblioteca Adelphi 419), Milano<br />
2001.<br />
G. QUISPEL, «The Demiurge in the Apocryphon of John», in R.<br />
MCL. WILSON (ed.), Nag Hammadi and Gnosis, Papers read at the<br />
First International Congress of Coptology (Nag Hammadi Studies,<br />
XIV), Leiden 1978, p. 7<br />
99
J. M. ROBINSON, The Nag Hammadi Library in English, Leiden 1984.<br />
K. RUDOLPH, La gnosi. Natura e storia di una religione tardoantica, ed. it.<br />
cur. C. Gianotto (Biblioteca di cultura religiosa, 63), Brescia 2000<br />
(ed. or. Göttingen 1990 3).<br />
C. SCHMIDT-V. MACDERMOT (eds.), Pistis Sophia (Nag Hammadi<br />
Studies IX), Leiden 1978.<br />
M. TORTORELLI GHIDINI, Figli della terra e del cielo stellato, Napoli<br />
2006.<br />
M. WALDSTEIN-F. WISSE (eds.), The Apocryphon of John: Synopsis of<br />
Nag Hammadi Codices II, 1; III, 1; and IV, 1 with BG 8502, 2 (Nag<br />
Hammadi and Manichaean Studies 33), Leiden-Köln 1995.<br />
A.J. WELBURN, «The Identity of the Archons in the “Apocryphon<br />
Johannis”», in Vigiliae Christianae, 32 (1978), pp. 241 ss.<br />
A.J. WELBURN, «Reconstructing the Ophite Diagram», in Novum<br />
Testamentum, 23 (1981), pp. 261-287.<br />
B. WITTE, Das Ophitendiagramm nach Origenes’ Contra Celsum VI 22-38<br />
(Arbeiten zum spätantiken und koptischen Ägypten, 6), Altenberge<br />
1993.<br />
Appendice iconografica:<br />
Ricostruzioni del Diagramma degli Ofiti secondo H. Leisegang (fig. 1-<br />
2), B. Witte (fig. 3), A. H. Logan (fig. 4), A.J. Welburn (fig. 5).<br />
100
♫♫♫<br />
♫♫♫<br />
101<br />
CONCERTO<br />
IN RICORDO<br />
DI CARLO SISMONDA<br />
♫♫♫<br />
♫♫♫
102<br />
♫♪♫♪♫♪♫♪ ♫♪♫♪♫♪♫♪<br />
Natascia Chiarlo: soprano<br />
Alessandra Castelli: mezzosoprano<br />
Ivan Chiarlo: pianoforte<br />
♫♪♫♪♫♪♫♪ ♫♪♫♪♫♪♫♪
da: “Il mio sodalizio artistico con Carlo Sismonda,<br />
quarant’anni tra musica e pittura sul filo della memoria”<br />
103<br />
Giorgio Giacosa<br />
………………….. Era quella una musica la cui realizzazione<br />
presupponeva e alimentava un vasto ceto di esecutori, tra le grandi orchestre<br />
intorno ai teatri d’opera e i piccoli complessi di musica da ballo, creando un<br />
mondo dove anche i più degli esecutori erano permeati da un vivo senso artistico,<br />
che si nutriva di una originale vivacità di ricerca. Almeno tale era il clima<br />
musicale nella Torino degli anni ’950, gli anni della mia formazione musicale,<br />
tra i maestri dell’orchestra RAI e le sale da ballo, dove da una: il Faro di via<br />
Po, sarebbe emerso quel grande genio della musica che fu Fred Buscaglione, nella<br />
cui orchestra ho avuto la fortuna e il piacere di suonare. Era un ambiente nel<br />
quale si imparava, nel vento eccitante della ritrovata libertà, a guardare anche<br />
oltre l’orizzonte della musica, verso la straordinaria pittura e il clima letterario<br />
della Torino di quegli anni, segnata da Spazzapan, da Casorati, dai sei, da<br />
Pavese ...<br />
………….Dopo aver visto e ammirato le pitture del mio nuovo amico, gli<br />
chiesi di suonarmi alcuni brani di sua composizione; che mi colpirono per la<br />
penetrante piacevolezza della melodia e il felice gusto armonico.<br />
……………………<br />
Per alcuni mesi non ci rivedemmo, poi Carlo mi telefonò per invitarmi a<br />
partecipare a un concerto benefico a favore dell’orfanotrofio di Racconigi. Accettai<br />
con entusiasmo, e ancora oggi quella serata è nel patrimonio dei miei ricordi più<br />
cari, intorno al suggestivo coro degli orfanelli, che attraverso la musica si<br />
ricongiungevano a un valore affettivo sentimentale alto e vero. Era il Natale del<br />
1964, e da allora, per un tragitto di ormai quarant’anni, il mio sodalizio con<br />
Carlo Sismonda si è rafforzato attraverso una serie di concerti che ci hanno<br />
portati, tra il Piemonte e il mondo, dalla Germania al Canada, a eseguire,<br />
spesso nelle vernici delle sue mostre, e sempre tra il consenso del pubblico, le sue<br />
composizioni; che egli, molto esattamente, ha definito Musica Romantica da<br />
Camera. …………………………………………….<br />
Da questi ormai quarant’anni di sodalizio musicale, credo con qualche<br />
fondamento ragionato, di poter affermare che Carlo Sismonda musicista è una
originale voce di quella scuola neoromantica italiana che conobbe la sua grande<br />
stagione tra fine ottocento a primi novecento.<br />
Le composizioni musicali di Carlo Sismonda esprimono, in forma di pura<br />
liricità melodica il contenuto emotivo sentimentale della tradizione della romanza<br />
italiana, lasciando intravedere, in potenza, un compositore operistico, che per sue<br />
particolari condizioni e scelte, ha intrapreso una via originale e singolare, ben<br />
individuata appunto dall’espressione Musica Romantica da Camera.<br />
104
Dall’ambiguità all’autoriferimento, dall’indecidibilità<br />
all’approccio veritativo: indicazioni per certezze, dalla<br />
logica formale alla metodologia della conoscenza in<br />
medicina<br />
Lorenzo Orione<br />
Come è possibile che la matematica, un prodotto della mente umana che è<br />
indipendente dall’esperienza, si accordi in maniera tanto eccellente agli oggetti<br />
della realtà fisica? A. Einstein, 1934 1<br />
Per ogni classe di formule -coerente ricorsiva esistono segni di classe ricorsivi<br />
r tali che né v Gen r né Neg(v Gen r) appartengono a Flg() (essendo v la<br />
variabile libera di r). K. Gödel, Primo Teorema di Incompletezza, 1931. 2,3<br />
Esprimo viva gratitudine all’amico e collega Dr Mario Abrate per<br />
l’opportunità accordatami anche quest’anno di intervenire nei lavori<br />
congressuali dell’Associazione Culturale da egli presieduta;<br />
l’occasione vuole essere una riflessione sopra i due distinti aspetti<br />
che, fin dai tempi degli studî liceali scientifici, hanno attratto la mia<br />
ricerca filosofica: la Sapienzialità e la Logica; su questo secondo<br />
aspetto si sviluppa la presente relazione, che va quindi letta quale<br />
continuum della precedente, incentrata sul primo.<br />
L’ambiguità, polivalenza semantica negli enunciati linguistici, genera<br />
una varia interpretazione.<br />
Sul piano logico formale ciò può dipendere da due condizioni.<br />
105<br />
4 O<br />
dall’ambiguità del termine, che genera l’errore di deduzione nella<br />
struttura del sillogismo: “Mus syllaba est; mus autem caseum rodit; syllaba<br />
ergo caseum rodit” , “Mus syllaba est; syllaba autem caseum non rodit: mus ergo<br />
caseum non rodit” (Seneca, Epistulae Morales ad Lucilium, Liber V 48,6). 5<br />
O dall’ambiguità del nesso sintattico delle proposizioni, fondato<br />
sull’incerta relazione logica tra termini, come nel responso<br />
(“sibillino”, appunto) della Sibilla, il cui significato è capovolto dalla<br />
posizione della virgola: “Ibis, redibus (, 1) non (, 2) morieris in bello”<br />
(Alberico delle Tre Fontane, Chronicon), alla base dell’equivocazione.<br />
Una condizione capace di generare disagio ancora maggiore è quella<br />
rappresentata dall’autoriferimento.<br />
In logica formale un riferimento è la relazione che lega un simbolo (o il<br />
significato da esso espresso) all’oggetto da esso denotato; 4 quindi,
autoriferimento si ha quando un simbolo denota se stesso od un<br />
simbolo in cui esso è contenuto.<br />
106<br />
4<br />
L’autoriferimento si lega ai paradossi logici. 3<br />
Un paradosso è un argomento che, muovendo da premesse<br />
intuitivamente plausibili, attraverso deduzioni intuitivamente accettabili,<br />
giunge a conclusioni controintuitive o (paradosso logico) a contraddizione. 6<br />
I paradossi logici possono essere insiemistici o semantici.<br />
Tanto nei linguaggî naturali che in quelli formali artificiali della logica<br />
formale, è distinguibile la sintassi, che riguarda la combinazione dei<br />
segni linguistici nelle espressioni complesse, dalla semantica, che<br />
concerne il rapporto tra i segni linguistici (parole ed enunciati) ed i<br />
loro significati, specie riguardo alla Denotazione e alla Verità. La<br />
Verità è la nozione semantica fondamentale, dato che il significato<br />
degli enunciati riposa proprio sulla loro condizione di Verità. Ludwig<br />
Wittgenstein, nel Tractatus logico-philosophicus (4.024) riporta:<br />
“Comprendere una proposizione è sapere che cosa accade se essa è<br />
vera. (Dunque, una proposizione la si può comprendere senza<br />
sapere se essa sia vera.)”. 7<br />
Proprio al concetto di Verità si riferiscono i noti paradossi logici<br />
semantici, come quello del mentitore, nella Lettera a Tito (1,12): “Uno<br />
di loro, proprio un loro profeta, ha detto: ‘I Cretesi sono sempre<br />
bugiardi (…)’”, 8 ove San Paolo fa riferimento ad un verso di<br />
Epimenide di Cnosso (VI secolo a. C.). Tale enunciato,<br />
evidentemente, non può essere vero, stante il fatto che è espresso<br />
proprio da un cretese. Ancora più netto è il paradosso<br />
dell’enunciato: (A) è falso; infatti, se l’enunciato fosse vero, allora<br />
esso risulterebbe falso; ma se come in effetti dice, è falso, allora<br />
risulta vero perché informa di essere falso; è negato il principio di<br />
non-contraddizione. Analogamente, ad esempio, in: Questo enunciato è<br />
falso.<br />
Per affrontare questo punto è utile iniziare da quel paradigma<br />
storico del pensiero rigoroso rappresentato dal metodo assiomatico; a<br />
partire dalla geometria contenuta negli Elementi9 di Euclide (IV-III<br />
sec. a.C.), gli assiomi sono stati considerati verità evidenti dalle quali,<br />
attraverso catene di deduzioni, è possibile giungere ai teoremi.<br />
Nello stesso periodo Aristotele, nell’Organon, fornì la prima<br />
impostazione della logica. La logica è la parte della filosofia che studia<br />
le condizioni di validità di un’argomentazione; tradizionalmente, la<br />
logica formale consiste nello studio delle leggi e delle funzioni che<br />
caratterizzano la struttura del pensiero in sé e si distingue dalla logica
materiale, che studia il rapporto tra il pensiero ed i proprî contenuti;<br />
attualmente, la logica è intesa come disciplina di carattere matematico<br />
che studia le forme del ragionamento deduttivo attraverso l’analisi della<br />
loro validità, ossia in quanto argomenti in cui la verità delle<br />
conclusioni consegue da quella delle premesse indipendentemente<br />
dal contenuto delle proposizioni coinvolte (detta anche logica<br />
simbolica).” 10 Bertrand Russell, nei Principî della Matematica, afferma:<br />
“La tesi fondamentale dell’opera, che la matematica e la logica siano identiche, è<br />
una tesi che io non ebbi finora ragione di modificare. Essa fu dapprima<br />
impopolare, a causa della tradizione che associava la logica con la filosofia e con<br />
Aristotele, per modo che i matematici sentivano la logica estranea ai loro<br />
interessi, e coloro che si consideravano dei logici accettavano malvolentieri di essere<br />
costretti ad impadronirsi di una tecnica matematica nuova e piuttosto difficile.” 11<br />
Partendo dai fondamenti del metodo assiomatico in geometria, R.<br />
Dederkind e G. Peano, a fine Ottocento, giunsero a definire tre<br />
nozioni di base anche per l’ambito matematico (0, numero,<br />
successore) quali “primitivi intuitivi” e cinque principî per<br />
l’aritmetica (cd. assiomi di Peano). Tuttavia, tanto gli assiomi euclidei<br />
che gli assiomi di Peano erano trattati con un linguaggio non<br />
formale (il quale è invece dotato di sintassi precisa e significato<br />
univoco).<br />
Fu in particolare G. Frege ad avviare il progetto logicista, volto alla<br />
riduzione logicista dell’aritmetica, al fine di fondare la matematica sopra<br />
basi logico-filosofiche definitive, attraverso la definizione dei numeri<br />
mediante ciò che oggi è definito Teoria ingenua degli insiemi, la<br />
quale si basa, tra l’altro, sul principio di astrazione. Tale principio<br />
stabilisce che a qualsiasi proprietà [x] corrisponde un insieme:<br />
yx(xy[x]).<br />
A differenza che nel concetto di “primitivo intuitivo” di G. Peano,<br />
nel progetto logicista di G. Frege e B. Russell i numeri sono<br />
proprietà [x] di insiemi; e le stesse proprietà [x] sono a loro volta<br />
insiemi. Ne consegue che i numeri sono insiemi di insiemi, ossia<br />
proprietà di insiemi equipotenti (es. 7 giorni della settimana, 7 virtù,<br />
7 vizî capitali, 7 arti liberali, ecc.). “Primitiva intuiva” sarà la nozione<br />
di insieme ed il progetto logicista consisteva nel ricavare da essa,<br />
mediante catene di deduzioni, l’intera matematica.<br />
Tuttavia, nel 1902 Russell si accorse che proprio dalla nozione di<br />
insieme è deducibile una contraddizione che conduce ai paradossi.<br />
107
Infatti, per il principio di astrazione a qualsiasi proprietà [x]<br />
corrisponde un insieme; però oltre agli intuitivi insiemi “normali”,<br />
che non sono membri di se stessi (es. l’insieme dei libri non è un<br />
libro), che costituiscono l’insieme R (Russell) R=xxx esistono<br />
insiemi che sono membri di se stessi (es. l’insieme degli insiemi con<br />
più di 1 elemento). Il principio di astrazione yx(xy[x]),<br />
considerato in R, ossia proprio per la proprietà di non appartenere a<br />
se stesso, produce yx(xyxx). Tale insieme y sarà proprio R:<br />
x(xRxx). Ma della proprietà [x] di ogni x di non<br />
appartenenza a se stesso, ovviamente, gode anche R; per cui:<br />
RRRR. In conclusione, è possibile costruire un insieme che è membro<br />
di se stesso se e solo se esso non è membro di se stesso: se al principio di<br />
astrazione si applica la proprietà [x] di non appartenersi si giunge a<br />
contraddizione.<br />
Per risolvere la situazione individuata da B. Russell a partire dal<br />
principio di astrazione intervenne D. Hilbert col suo Programma.<br />
La prima fase consisteva nella completa formalizzazione<br />
dell’aritmetica, nel passare cioè da un sistema intuitivo-semantico<br />
informale ad uno formale-sintattico (matematica senza contenuto), cioè<br />
ad un sistema formale (S) espresso in un linguaggio formale (L) nel quale<br />
considerare solo la forma: nel S le formule delle dimostrazioni sono<br />
stringhe di simboli del L (costruite su regole d’inferenza sintattiche), in<br />
cui l’ultima riga delle dimostrazioni è il teorema. Gli assiomi non<br />
hanno più realtà autonoma, semantica ma sono procedure<br />
meccaniche combinatorie.<br />
La seconda fase prevedeva di dimostrare la coerenza del S dell’aritmetica<br />
formalizzata grazie alla metamatematica che, non ragionando sulle entità<br />
matematiche ma sul S, avrebbe consentito di superare i paradossi. Un<br />
enunciato metamatematico è un enunciato espresso in linguaggio<br />
ordinario sui simboli del L del S (es. l’enunciato: “x+0=x è un<br />
teorema del S”).<br />
Si riferiscono alle dimostrazioni ed ai teoremi la coerenza sintattica e la<br />
completezza sintattica.<br />
(1) La coerenza sintattica stabilisce che: il S per formula nel L, non<br />
consente di dimostrare con le regole d’inferenza (cioè che sia<br />
teorema del S) s^s¬ ossia, tanto la formula che la sua<br />
negazione (non c’è “contraddizione”).<br />
108
(2) La completezza sintattica stabilisce che: il S per formula nel L,<br />
dimostra con le regole d’inferenza svs¬ per cui la formula si<br />
dice “decidibile” nel S.<br />
Si riferiscono alla verità/falsità la coerenza semantica e la completezza<br />
semantica.<br />
(3) La coerenza semantica stabilisce che: il S dimostra con le regole<br />
d’inferenza solo enunciati “veri”; (se la formula fosse falsa, non<br />
sarebbe dimostrabile nel S): il S si dice “corretto”.<br />
(4) La completezza semantica stabilisce che: il S dimostra con le regole<br />
d’inferenza tutti gli enunciati “veri”.<br />
È chiaro come la coerenza semantica (correttezza) sia più forte della<br />
coerenza sintattica, implicandola senza esserne implicata. Infatti, se<br />
un S è sintatticamante incoerente è in grado di dimostrare tanto<br />
l’asserzione che la negazione di una formula anche se,<br />
ovviamente, una delle due non può essere “vera”, per cui S risulterà<br />
semanticamente incoerente. Al contrario, un sistema sintatticamente<br />
coerente potrebbe benissimo essere semanticamente incoerente.<br />
Fu nel 1930 che K. Gödel dimostrò un teorema che avrebbe<br />
rivoluzionato la logica matematica, il Teorema di Incompletezza<br />
dell’Aritmetica (successione di teoremi, specialmente il Teorema VI,<br />
Primo Teorema di Gödel ed il Teorema XI, Secondo Teorema di<br />
Gödel), pubblicato l’anno seguente in Austria: Über formal<br />
unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme I”<br />
Monatshefte für Mathematik und Physik. 1931;38:173-98. Sulle proposizioni<br />
formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e di sistemi affini I.<br />
Un primo approccio, 3 semantico non formale, a tali proposizioni<br />
formalmente indecidibili, muove dall’enunciato autoreferenziale di Gödel<br />
(Gs): (Gs) Gs non è dimostrabile nel S, che per certi aspetti richiama il<br />
mentitore, anche se, anziché dire di se stesso di essere falso, dice di<br />
essere indimostrabile nel S. Si considerino le due possibili ipotesi.<br />
a. ciò che dice Gs è falso (per cui Gs è dimostrabile nel S). In tal caso<br />
il S è semanticamente incoerente (dato che consente di dimostrare un<br />
enunciato falso).<br />
b. ciò che dice Gs è vero (per cui Gs non è dimostrabile nel S). In tal<br />
caso S è semanticamente incompleto (dato che esiste un enunciato, vero,<br />
non dimostrabile nel S, non suo teorema). Inoltre, dato che Gs è vero<br />
(non dimostrabile nel S), la sua negazione ¬Gs è falsa (non<br />
dimostrabile nel S), da cui consegue che il S è sintatticamente incompleto<br />
e Gs è “indecidibile” nel S.<br />
109
Quindi, il Primo Teorema di Incompletezza di Gödel (G1) stabilisce che:<br />
se il S è semanticamente coerente (corretto) un enunciato Gs formulato nel<br />
L Gs è indecidibile nel S (né dimostrabile, né refutabile).<br />
A questo punto si può osservare come faccia parte di G1<br />
l’asserzione: “se il S è semanticamente coerente (corretto)” allora “Gs” non è<br />
“dimostrabile” nel S; volendo indebolire la prima parte all’asserzione,<br />
risulta: “se il S è sintatticamente coerente” allora Gs non è dimostrabile<br />
nel S.<br />
Ammettiamo di potere provare che il S sia in effetti sintatticamente<br />
coerente; ne consegue che avremmo la prova di “se il S è<br />
sintatticamente coerente”; per cui, allora potremmo dimostrare Gs (che,<br />
appunto, dice di non essere dimostrabile nel S).<br />
Ma G1 esclude che Gs sia dimostrabile nel S; da cui (corollario di<br />
G1) il Secondo Teorema di Incompletezza di Gödel (G2): se il S è<br />
semanticamente coerente (corretto) il S non può provare la propria coerenza.<br />
Col Teorema di Gödel crolla la seconda fase del programma di<br />
Hilbert, come si è visto volta a dimostrare la coerenza del S<br />
dell’aritmetica formalizzata grazie alla metamatematica che (…) avrebbe<br />
consentito di superare i paradossi.<br />
Un secondo approccio, 3 formale, alle proposizioni formalmente<br />
indecidibili muove dal sistema formale dell’Aritmetica Tipografica<br />
(AT, Aritmetica di Peano), ovviamente puramente sintattico, con<br />
espressioni linguistiche non interpretate; solo in un secondo<br />
momento si potrà asserire “rigorosamente” che, es. 0 e +<br />
rappresentano lo zero e l’addizione. Avremo: (1) simboli del L nel S<br />
dell’AT; (2) formule dell’AT: ottenute mediante regole sintattiche del L<br />
(la proprietà sintattica di essere una formula ben formata dell’AT –<br />
ovvero l’insieme delle formule ben formate- è decidibile nel S<br />
dell’AT); (3) dimostrazioni dell’AT: sequenze di formule dell’AT (v.):<br />
assiomi o, ultima riga, teoremi; stringhe di pura sintassi (la proprietà<br />
sintattica di essere una dimostrazione dell’AT –ovvero l’insieme<br />
delle dimostrazioni dell’AT, assiomi e teoremi- è decidibile nel S<br />
dell’AT).<br />
Gödel procedette con l’aritmetizzazione della sintassi; ragionando<br />
sul S dell’AT (Gödel in realtà lavorò sul S dei Principia Mathematica di<br />
B. Russell e A.N. Whitehead) è possibile introdurre la numerazione<br />
di Gödel (gödelizzazione) assegnando un numero naturale univoco<br />
di Gödel (g) a: (1) simboli, (2) formule, (3) dimostrazioni; in tal<br />
modo si introduce la possibilità di codifica e di decodifica. Quindi:<br />
110
(1) 0: 3 / ’: 5 / +: 7 / : 9 / =: 11 / ¬: 13 / ^: 15 / v: 17 / →: 19 /<br />
: 21 / : 23 / : 25 / (: 27 / ): 29 / x: 31 / y: 33 / z: 35 / x1: 37 /<br />
x2: 39 / ecc.; (2) si consideri l’univocità della scomposizione in<br />
fattori di ogni numero positivo. La successione dei numeri primi (2,<br />
3, 5, 7, 11, 13, 17, 19) è utilizzata quale base nella codifica del<br />
simbolo; quale esponente si utilizza g corrispondente al simbolo;<br />
quindi si moltiplicano le potenze ottenute. Si produce un numero<br />
positivo (codifica). La decodifica si ha mediante la scomposizione in<br />
fattori dello stesso ai numeri primi. Es. per la formula dell’AT<br />
x(x=y’) la codifica è 2 25 3 31 5 27 7 31 11 11 13 33 17 5 19 29 da cui g:<br />
6.8910808100718165206241224086642 (10 153); la scomposizione in<br />
fattori (decodifica) di tale numero fornisce univocamente il visto<br />
prodotto di potenze. L’aritmetizzazione della sintassi conduce al<br />
fatto che se le relazioni tra espressioni sintattiche dell’AT sono<br />
decidibili (essere una formula, una dimostrazione –assioma o teorema-<br />
del S) per corrispondenza anche le relazioni tra numeri g sono<br />
decidibili (essere g di una formula, di una dimostrazione –assioma o<br />
teorema- del S).<br />
La decidibilità avviene mediante algoritmi (procedure meccaniche).<br />
Certe funzioni/insiemi non sono calcolabili/decidibili (mediante,<br />
appunto, algoritmi).<br />
Le funzioni ricorsive sono quelle definibili a partire dalle funzioni<br />
“iniziali” (f(x) che a xN dei numeri naturali assegnano,<br />
rispettivamente, valore 0, “f(x) zero”, x+1, “f(x) successore” o x<br />
“f(x) di identità”) e che conservano la calcolabilità. Di converso,<br />
tutte le funzioni calcolabili sono ricorsive e si può parlare<br />
indifferentemente di decidibilità e ricorsività.<br />
La 45° funzione ricorsiva/decidibile illustrata dallo stesso Gödel è<br />
DimAT(m,n): si ha relazione sintattica/aritmetica tra i numeri naturali<br />
m ed n se e solo se m è il g di una dimostrazione dell’AT il cui<br />
enunciato ha n quale g; davanti ad una presunta Dimostrazione<br />
nell’AT si può sempre giungere a decidere (decidibilità) se essa lo è o<br />
non è. Invece, davanti ad un presunto Teorema dell’AT<br />
TeorAT(n)=mDimAT(m,n) –ove essere un teorema significa essere<br />
una formula (con g=n) per la quale esiste una dimostrazione (con<br />
g=m)- è possibile generare dimostrazioni osservando se TeorAT<br />
compare nell’ultima riga (nel qual caso è effettivamente un teorema)<br />
ma ciò non è scontato che accada, per cui la proprietà di essere un<br />
teorema non è ricorsiva/decidibile. Ad es., un’operazione ricorsiva<br />
111
(conservazione della calcolabilità) è quella di sostituzione (Sost),<br />
operazione sintattica di sostituire in una formula dell’AT le<br />
occorrenze libere di una variabile x con un certo termine. Utilizzando<br />
Sost Gödel ottenne una versione formale dell’enunciato<br />
autoreferenziale di Gödel visto informalmente.<br />
Si consideri la formula dell’AT (y), contenente la variabile libera y.<br />
Si vuole dimostrare l’indimostrabilità nell’AT di ((y))<br />
¬xDimAT(x,Sost(y,33,y)) e cioè: non esiste (è indimostrabile<br />
nell’AT) alcun x tale da essere il gödeliano di una Dimostrazione<br />
dell’AT (non c’è dimostrazione nell’AT) della [formula] (ottenuta<br />
dalla formula di gödeliano y) che si ha Sostituendo in essa formula di<br />
gödeliano y le occorrenze libere della variabile “il cui gödeliano è 33 –che,<br />
come detto è proprio y-” con “il numerale del suo stesso gödeliano –<br />
che, a rigor di termini, è 0’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’-”. In sintesi: (y)<br />
afferma che la [formula] (ottenuta dalla formula di gödeliano y)<br />
mediante la vista Sostituzione è indimostrabile nell’AT.<br />
È chiaro che (y) ha un g (enorme) che, a rigor di termini, sarà 0’’’ n,<br />
riferibile come q. Se a (y) si sostituisce q si ottiene un enunciato<br />
privo di variabili libere: () ¬xDimAT(x,Sost(q,33,q)) e cioè: non<br />
esiste (è indimostrabile nell’AT) alcun x tale da essere il gödeliano di<br />
una Dimostrazione dell’AT (non c’è dimostrazione nell’AT) della<br />
[formula] (ottenuta dalla formula di gödeliano q) che si ha Sostituendo<br />
in essa formula di gödeliano q le occorrenze libere della variabile “il cui<br />
gödeliano è 33 –che, come detto è proprio y-” con “il numerale del<br />
suo stesso gödeliano –che, a rigor di termini, è 0’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’’-<br />
”. In sintesi: () afferma che la [formula] (ottenuta dalla formula di<br />
gödeliano q (che è (y)) mediante la vista Sostituzione è<br />
indimostrabile nell’AT.<br />
La [formula] cui si fa riferimento è : è essa che si ottiene con la vista<br />
Sostituzione nella formula di gödeliano q (che è (y)) delle variabili<br />
libere con q (che è poi lo stesso g della formula!).<br />
Quindi, () enuncia di non essere dimostrabile, di non essere<br />
teorema dell’AT (parla di se stessa, autoreferenzialmente con L nel<br />
S, ed è il corrispettivo formale di GS, che pure asseriva la propria<br />
indimostrabilità).<br />
Ossia: AT¬xDimAT(x,) il che significa pure che:<br />
AT¬TeorAT() (ove il simbolo assertivo, di esistenza, va ruotato<br />
112
in senso orario di 90° ed il numerale di è stato riportato in<br />
corsivo).<br />
Occorre precisare che, accanto alla incoerenza, Gödel si avvalse del<br />
concetto di omega-incoerenza; essa si verifica nel caso in cui nel S è<br />
dimostrata una proprietà di una data formula, ma è negato che il suo<br />
g sia 0, 1, ecc.<br />
Il Primo Teorema di Incompletezza di Gödel (G1) è provato formalmente<br />
dalla congiunzione delle asserzioni: (G1a) se l’AT è coerente non vi<br />
è dimostrabile; (G1b) se l’AT è omega-coerente ¬ non vi è dimostrabile.<br />
Rispetto a (G1a) si proceda come se, al contrario di quanto richiede<br />
(G1a), “ è dimostrabile” nell’AT. Se è dimostrabile, nell’AT esiste<br />
una Dimostrazione di , avente un proprio g, supponiamo k; a sua<br />
volta, stesso ha un proprio g, supponiamo g. DimAT(k,g): v. 45°<br />
funzione ricorsiva/decidibile, per cui per corrispondenza anche le<br />
relazioni tra i due numerali gödeliani sono decidibili, ossia,<br />
xDimAT(x,).<br />
Tuttavia, si è visto (v.) come AT¬xDimAT(x,).<br />
Ne consegue che: se “ è dimostrabile” nell’AT, anche ¬ dovrebbe<br />
essere dimostrabile, la qual cosa significherebbe che l’AT è<br />
incoerente; mentre G1a afferma che l’AT è coerente!<br />
Rispetto a (G1b) si proceda come se, al contrario di quanto richiede<br />
(G1b), “¬ è dimostrabile” nell’AT.<br />
Tuttavia, si è visto (v.) come AT¬xDimAT(x,).<br />
Pertanto, “¬ è dimostrabile” significherebbe: ¬¬xDimAT(x,), e<br />
cioè: xDimAT(x,).<br />
Ma G1a ha dimostrato che l’AT è coerente, per cui, se essa<br />
dimostrasse ¬ si cadrebbe nella condizione di omega-incoerenza<br />
(v.); mentre G1b afferma che l’AT è omega-coerente!<br />
Ne consegue che l’AT non è in grado di dimostrare né l’enunciato (G1a) né<br />
la sua negazione ¬ (G1b). Come si è detto, tale condizione del S di<br />
impossibilità a dimostrare nel L una formula né la sua negazione è quella di<br />
indecidibilità (incompletezza sintattica).<br />
Tralasciando ulteriori dettaglî formali circa Secondo Teorema di<br />
Incompletezza di Gödel (G2) si richiama il fatto che, se in un S<br />
costituito per l’AT G1 dimostra l’esistenza di enunciati indecidibili,<br />
G2 dimostra inoltre che una prova di coerenza per l’AT necessita<br />
l’impiego di metodologie dimostrative non formalizzabili nel S.<br />
113
Il Teorema di Gödel rappresenta il raggiungimento di un vertice<br />
nella speculazione intellettuale matematica e filosofica, lungo il<br />
percorso millenario della Logica. Esso ha dato tuttavia spazio ad<br />
importanti fraintendimenti, esitanti in distorsioni del suo reale<br />
significato e a conseguenti volgarizzazioni che hanno condotto al<br />
suo utilizzo inappropriato quale icona della cultura<br />
contemporanea,<br />
114<br />
12 stante la consonanza tra termini come indecidibilità,<br />
incompletezza ed il pensiero dominante in Occidente nella seconda<br />
metà del Novecento, permeato da relativismo, postmodernismo,<br />
rifiuto dell’oggettività e della Verità. 3 È stato necessario addirittura<br />
ricordare come non esista alcuna relazione tra il Teorema di Gödel e<br />
“l’organizzazione sociale”; 13 esso nulla può dire sulla Torah o sul<br />
Vangelo, per l’ovvio fatto che entrambi sono stati scritti in linguaggio<br />
ordinario e non nel linguaggio formale L di un sistema formale S<br />
quale, ad esempio, quello dell’AT. L’utilizzo extra-matematico ed<br />
extra-logico del Teorema di Gödel nel tentativo di giustificare altro è<br />
scorretto. Asserisce T. Franzén: “Questa sarà pure una cosa<br />
interessante, ma è soltanto un’analogia e non segue logicamente dal<br />
Teorema”. 14<br />
La traslazione del concetto di Verità da tale ambito dei sistemi<br />
formali all’extraformalità della medicina va pertanto inquadrata<br />
all’interno di questa cornice, per non cadere nell’errore di contestare<br />
la traslabilità in chiave averitativa del Teorema di Gödel ai sistemi<br />
extra-logici e poi utilizzare le sue conclusioni proprio per affermare<br />
un metodo di ricerca veritativa. Il problema esiste e va considerato.<br />
Può venirci incontro K. Popper che, in Congetture e confutazioni,<br />
riferendosi all’atteggiamento epistemologicamente corretto, afferma:<br />
“Una conseguenza di tale concezione è che dobbiamo distinguere<br />
chiaramente tra verità e certezza. Aspiriamo alla verità, e spesso<br />
possiamo raggiungerla, anche se accade raramente, o mai, che<br />
possiamo essere del tutto certi di averla raggiunta (…)” 15 Questo<br />
passaggio è estremamente importante quale cerniera rispetto a<br />
quanto andrò ora a riferire sulla metodologia della ricerca in medicina.<br />
Il concetto di verità viene pertanto ripreso nella propria accezione<br />
extra-formale, in quanto nella scienza sperimentale applicata, e<br />
quindi in medicina, la ricerca di evidenza scientifica pone il ricercatore<br />
nella condizione epistemologica di ricerca della verità epidemiologica<br />
e clinica in termini di probabilistico avvicinamento ad essa e, talvolta, anche<br />
di raggiungimento; ma di un raggiungimento che, ove occorra,<br />
purtuttavia, non consente la certezza di sé.
Il procedere della ricerca medica avviene lungo i due tracciati<br />
dell’osservazione e della sperimentazione.<br />
115<br />
16,17 Le osservazioni devono<br />
essere sintetizzate, consentendo la descrizione delle stesse; esse<br />
potranno consentire conclusioni al di là della stretta evidenza,<br />
attraverso procedimenti di inferenza. Qualunque conclusione non<br />
potrà che basarsi sopra un confronto tra un minimo di due<br />
campioni di osservazioni. In essi, è necessario associare l’espressione<br />
del valore tipico rappresentativo, indice di tendenza centrale, con<br />
l’espressione della variabilità dei dati intorno ad una media, indice di<br />
dispersione. Il primo sarà costituito da medie analitiche di variabili<br />
quantitative o indici di posizione per variabili qualitative. Le medie<br />
analitiche saranno a loro volta aritmetiche Σx/n, semplici o<br />
ponderate, geometriche (per la descrizione di fenomeni ad<br />
andamento geometrico, es. per i titoli geometrici medî anticorpali,<br />
n√x1x2xn) e armoniche (avendo a che fare con valori infiniti, es. per<br />
studî di sopravvivenza, n/(Σ1/x)). Certamente meno intuitivo e<br />
comune è il concetto di indice di dispersione; l’approccio più ovvio<br />
potrebbe risultare quello dell’intervallo di variazione tra le<br />
osservazioni, che tuttavia dipende solo dagli estremi e non è<br />
informativo circa la variabilità dei più o meno numerosi valori<br />
intermedî; per ovviare a ciò è pertanto utile considerare la<br />
sommatoria degli scarti di tutti i valori osservati rispetto alla media,<br />
Σ(x-m) che è tuttavia, ovviamente, sempre pari a 0; è necessario<br />
quindi adottare un semplice artifizio algebrico, consistente<br />
nell’elevare al quadrato ogni scarto, in modo da ottenere solo valori<br />
positivi: la sommatoria dei quadrati degli scarti delle misure dalla<br />
media, Σ(x-m) 2 è la devianza; tuttavia, la devianza non contiene in sé<br />
la notizia sulla quantità di informazioni utilizzate, e nel confronto tra<br />
devianze a parità di medie è possibile che le differenze possano<br />
dipendere non già dal grado di dispersione delle osservazioni ma<br />
dalla loro diversa numerosità nei campioni; pertanto, la devianza va<br />
rapportata al numero delle osservazioni (n). Inoltre, è evidente come<br />
in medicina si abbiano spesso poche osservazioni, da cui consegue<br />
che, se nella realtà osservata vi sono rari valori molto scostati dalla<br />
media la probabilità di averli inclusi nel campione è bassa, per cui la<br />
dispersione calcolata sarebbe una sottostima della realtà; si introduce<br />
pertanto, ed in modo arbitrario, un fattore dinamico che aumenti il<br />
rapporto in una misura tanto più importante quanto più piccolo è n<br />
e tanto più trascurabile quanto n è grande, i gradi di libertà (n-1),<br />
giungendo così alla varianza s2=Σ(x-m) 2/(n-1). Resta un problema:
l’artifizio di elevazione al quadrato degli scarti dalla media ha quale<br />
conseguenza il fatto che l’indice di dispersione (s<br />
116<br />
2)assume<br />
dimensioni numeriche maggiori rispetto all’indice di tendenza<br />
centrale (m) cui si riferisce; va condotta pertanto l’operazione di<br />
estrazione di radice quadrata della varianza, che genera la deviazione<br />
standard s=√(Σ(x-m) 2/(n-1)); essa si esprime nella stessa unità di<br />
misura della media.<br />
La deviazione standard ha un preciso significato geometrico.<br />
Sappiamo come i fenomeni medico-biologici tendano a distribuirsi<br />
in natura secondo una curva “normale”, dalla caratteristica forma a<br />
campana, detta gaussiana. In condizioni di perfetta simmetria, moda,<br />
media e mediana coincidono al centro di essa. Sul piano geometrico,<br />
la deviazione standard (s) è la distanza tra m ed il punto sull’asse<br />
delle ascisse intersecato dalla retta tangente al punto di flesso f della<br />
gaussiana. Ciò è molto rilevante, e consente di introdurre il concetto<br />
di integrale di probabilità. Come è noto, un integrale definito<br />
corrisponde all’area sottesa ad una curva definita da una funzione,<br />
su un piano cartesiano. Nell’area sottesa alla curva gaussiana, a<br />
sinistra e destra di m e compresa tra m±s, m±2s, m±3s e m±1.96s<br />
si raccoglie rispettivamente il 68.26%, il 95.45%, il 99.75% ed il 95%<br />
delle osservazioni del campione; tra m±ks si raccoglie una<br />
proporzione di osservazioni campionarie rinvenibili grazie alla<br />
consultazione della tabella dell’integrale di probabilità.<br />
Possiamo definire “universo” la popolazione generale; per avere la<br />
misura della media della variabile analizzata nell’universo sarebbe<br />
necessario procedere alla misurazione in ogni soggetto. Per ovviare a<br />
tale complessità, sulla base dei criterî distributivi illustrati, è possibile<br />
estrarre un campione dall’universo, in modo tale da renderlo<br />
rappresentativo di esso e, quindi, attraverso un’operazione di<br />
inferenza, risalire all’indice di tendenza centrale della popolazione.<br />
Tralasciando di dire sulle concrete modalità di inclusione dei<br />
soggetti nel campione, è importante ricordare che, se si lascia agire<br />
esclusivamente il caso, ogni soggetto dell’universo avrà<br />
equiprobabilità di partecipare al campione, che diventerà in tal modo<br />
rappresentativo dell’universo. Va però detto che, per quanto<br />
rappresentativo, il campione non è certo coincidente coll’universo.<br />
A causa della variabilità biologica, l’indice di tendenza centrale<br />
misurato nel campione sarà un po’ differente rispetto a quello vero<br />
della popolazione di partenza; tale differenza, tanto più trascurabile<br />
quanto più il campione è numeroso (prossimo all’universo), è detta
errore di campionamento (che è diverso, si badi, dai bias, errori sistematici,<br />
es. nel campionamento stesso). L’entità dell’errore di<br />
campionamento è esattamente prevedibile sul piano probabilistico,<br />
mediante l’intervallo di confidenza (fiduciale); questo è il range intorno al<br />
valore medio osservato nel campione entro cui si trova, con una<br />
data probabilità fiduciale, il valore vero dell’universo. È calcolabile<br />
mediante l’errore standard; ad es. l’errore standard di una media è<br />
sm=s/√n ed è evidente come esso, da cui dipendono le dimensioni<br />
dell’intervallo di confidenza, sia direttamente proporzionale<br />
all’indice di dispersione ed inversamente proporzionale alla radice<br />
della numerosità campionaria, entrambe le cose essendo anche<br />
fortemente intuitive. L’sm contribuisce a definire l’intervallo fiduciale<br />
in modo distinto, a seconda si abbiano campioni con numerosità<br />
superiore od inferiore a 30; nel primo caso ritornano i valori delle<br />
distribuzioni viste per l’integrale di probabilità, intese in questo caso<br />
come probabilità rispettivamente per m±sm, m±2sm, m±3sm,<br />
m±1.96sm; nel secondo occorre fare riferimento alla tabella del t di<br />
Student dove (poche osservazioni campionarie) si considerano i gradi<br />
di libertà, oltre al valore della probabilità fiduciale, ad esempio<br />
p=0.05, corrispondente al 5%, ossia all’accettazione a priori di una<br />
probabilità di sbagliare nelle conclusioni pari ad 1 volta su 20, o<br />
p=0.01, corrispondente all1%, ossia all’accettazione a priori di una<br />
probabilità di sbagliare pari ad 1 volta su 100. È del tutto intuitivo<br />
come l’intervallo di confidenza intorno al valore osservato nel<br />
campione, per l’operazione di inferenza, è tanto più ampio quanto<br />
più si è esigenti in termini di probabilità fiduciale.<br />
È a questo punto che è possibile introdurre il criterio decisionale.<br />
Davanti a risultati diversi rispetto ad una variabile tra popolazioni di<br />
campioni diversi, o tra un campione e l’universo, la differenza<br />
osservata dal medico è dovuta alla fisiologica presenza dell’errore di<br />
campionamento, e quindi è casuale, oppure è statisticamente significativa?<br />
Occorre, in altri termini, che la medicina, davanti ai criterî probabilistici<br />
che governano gli eventi, sia si tratti dell’efficacia di un vaccino, di<br />
un farmaco, di una procedura chirurgica, di uno screening,<br />
117<br />
18<br />
stabilisca arbitrariamente un discrimine tra ciò che può essere scartato<br />
e ciò che, invece, deve essere considerato. L’atteggiamento<br />
probabilistico, ricavato dallo studio dei fenomeni naturali medicobiologici,<br />
si traduce nell’adozione di un metodo di approccio veritativo,<br />
che richiama la distinzione popperiana tra verità e certezza. Il<br />
discrimine è convenzionale: a fronte di un’ipotesi nulla H0, che
asserisce non esservi differenza, definiremo significativo un p
varianza tra gruppi ed entro i gruppi, che presuppone del rapporto<br />
F tra varianze maggiore e minore e che risulta piuttosto complesso<br />
ed ininfluente rispetto al percorso tracciato di questo mio scritto.<br />
Ciò che mi pare importante è avere richiamato gli elementi necessarî<br />
e sufficienti per potere concludere in termini di continuità la<br />
riflessione che, a partire dal concetto di ambiguità, centrale in questo<br />
Convegno, nelle sue due accezioni di ambiguità del termine e del<br />
nesso sintattico, si è mossa attraverso l’analisi dell’autoriferimento, a<br />
partire dagli esempî classici e fino al suo impiego in logica,<br />
muovendo dai paradossi che via via emersero sul tentativo di<br />
assiomatizzazione dell’aritmetica, a fine Ottocento, con le successive<br />
prese di posizione di Hilbert e Russell, fino allo straordinario<br />
capovolgimento operato da Gödel con l’introduzione<br />
dell’indecidibilità, alla conservazione della piena legittimità<br />
dell’approccio veritativo, alle chiare conclusioni di Popper rispetto al<br />
rapporto tra verità e certezza.<br />
La medicina, che si fonda sulla metodologia della ricerca scientifica,<br />
muove lungo la prospettiva probabilistica con umiltà conoscitiva, non<br />
dimenticando che la verità esiste e che sia anche raggiungibile da<br />
parte del medico, anche se la certezza di tale avvenuto<br />
raggiungimento non è data, restando tuttavia egli in possesso di una<br />
preziosa metodologia probabilistica che alla verità stringe la mano.<br />
Bibliografia<br />
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it. Rizzoli, 2009.<br />
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18. Orione L, Rimondot M, Roggia S, et Al. Epidemiologia e<br />
<strong>Prevenzione</strong> delle Neoplasie. AGA-Esperienze, 2006.
121<br />
I Resurrezionisti, ovvero l’ambiguità della Scienza<br />
Renato Coda<br />
Esistono forme di violenza che si perpetuano nel corso della<br />
Storia e che, né il trascorrere del tempo, né l’oblio degli<br />
uomini, riescono a estinguere.<br />
Le radici storiche dello studio dell’anatomia dell’uomo e, più in<br />
generale, della Medicina sperimentale furono inquinate da un atto<br />
d’inaudita, incancellabile violenza. In Alessandria di Egitto, due<br />
medici, Erofilo di Calcedonia ed Erasistrato di Julis, tra la fine del<br />
IV e l’inizio del III secolo a.C., praticarono le prime dissezioni,<br />
storicamente documentate, su cadaveri, ottenendo un’enorme messe<br />
di nuove conoscenze sull’anatomia e sulla fisiologia umana. Il loro<br />
lavoro orientò la Medicina in senso sperimentale, sottraendola<br />
all’indirizzo magico - religioso. Tuttavia, questi due personaggi, oggi,<br />
nonostante le loro molte scoperte, pressoché dimenticati,<br />
perpetrarono una serie di crimini che destarono riprovazione e<br />
orrore tra i contemporanei, eseguendo la vivisezione di centinaia di<br />
condannati a morte. Erofilo giustificò il suo comportamento col<br />
desiderio di acquisire conoscenze, tali da permettere cure più efficaci<br />
ai malati. Inaugurò così il mostruoso concetto ibrido di “crimine a<br />
scopo umanitario”, spalancando un abisso etico da cui, ancora oggi,<br />
stentiamo a risalire. Non è possibile sapere se ebbe coscienza del<br />
fatto che, infrangendo il divieto ippocratico di nuocere, il Medico<br />
avrebbe cessato di essere l’apportatore di benessere, autorevole in<br />
quanto benefico, per diventare un Signore della vita e della morte,<br />
guaritore e, all’occasione, carnefice, rispettato perché temuto, inviso,<br />
per motivi di concorrenza, a tutte quelle categorie di persone che<br />
arrogano a sé il diritto di decidere dell’esistenza dei loro simili.<br />
Questi due Frankenstein dell’età ellenistica, nel loro delirio<br />
scientifico, crearono il Mostro: se stessi. Ma a differenza della<br />
Creatura di Mary Shelley, questa figliò. Molti secoli dopo, in un testo<br />
fondamentale per la storia della Civiltà, furono scritte tali parole:<br />
“Cos’è l’umanità, se non una disposizione naturale del cuore a impiegare le<br />
nostre risorse a vantaggio del genere umano? Ciò supposto, cos’ ha di inumano la<br />
dissezione di un malvagio? In qualunque modo si consideri la morte di un<br />
malvagio, essa sarà ben più utile alla società in mezzo ad un anfiteatro, che non<br />
su un patibolo” (Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné…. ad vocem
“Anatomie”). L’autore di questa frase, che riprende alla lettera la<br />
giustificazione utilitaristica proposta da Erofilo, è uno dei padri<br />
dell’Illuminismo, Denis Diderot. Duecento anni dopo, i medici dei<br />
campi di sterminio, prima che il cappuccio del boia togliesse loro<br />
per sempre la luce del giorno, cercarono di ammantare i loro bestiali<br />
esperimenti sui prigionieri e le stragi di indesiderabili con argomenti<br />
della stessa risma: il servizio della Patria, dell’Umanità, della Scienza.<br />
Non deve destare eccessiva meraviglia il fatto che, date queste<br />
premesse, il percorso dello studio dell’ anatomia umana sia stato<br />
tortuoso, tormentato e ambiguo.<br />
La pratica della dissezione anatomica fu probabilmente introdotta a<br />
Roma dai cristiani alessandrini del IV secolo d. C. Erano gli stessi<br />
che linciavano le donne che la sapevano troppo lunga in fatto di<br />
scienza e di filosofia, eppure coltivavano con passione la medicina e<br />
la biologia. Forse furono loro a esaltare la figura e l’opera di un<br />
correligionario, o almeno simpatizzante, Claudio Galeno, il medico<br />
degli imperatori antonini, vissuto tra il II e il III secolo d.C.,<br />
scrittore di numerosi trattati medici, ma anche responsabile di un<br />
pessimo servizio reso alla conoscenza del corpo umano. Galeno<br />
riferì all’uomo le strutture anatomiche che aveva riscontrato nel<br />
maiale e, in misura minore, in altri animali, col risultato che, per<br />
secoli, gli anatomisti, fidando ciecamente nell’autorità del Maestro,<br />
ne accettarono i molteplici errori, a onta di qualsiasi osservazione<br />
contraria. Fu solo nel 1543 che Andreas van Wesel, meglio noto<br />
come Vesalio, eseguendo personalmente le dissezioni, scoprì e<br />
denunciò il gran numero di errori dell’anatomia galenica, ottenendo<br />
riconoscimenti, tra cui quello autorevole del Falloppio, ma anche<br />
moltissime critiche, da parte del Silvius e ancora, postume, da parte<br />
del Riolano. Alla fine, però, l’anatomia del Vesalio, presentata e<br />
diffusa nelle magnifiche tavole incise dal pittore Jan van Calcar,<br />
prevalse e divenne quella ufficiale e definitiva. Era tempo. Agli inizi<br />
del XVII secolo la chirurgia, che, a partire dal Rinascimento, aveva<br />
avuto una notevole evoluzione, reclamava ormai una conoscenza<br />
approfondita del corpo umano. Spesso i grandi anatomisti erano<br />
anche dei valenti chirurghi. Lo stesso Vesalio esercitò con successo<br />
entrambe le professioni. L’insegnamento dell’anatomia fu<br />
appannaggio delle gilde dei Chirurghi, ma, nella sua qualità di<br />
dottrina di punta delle scienze mediche, divenne anche oggetto di<br />
vivo interesse culturale, nonché uno snobistico passatempo<br />
dell’aristocrazia. Le lezioni di anatomia erano, al tempo stesso,<br />
122
icerca, insegnamento, evento culturale e spettacolo, tanto<br />
importante da meritare di essere immortalato - docente, allievi,<br />
spettatori e cadavere - in una lunga serie di quadri, tra cui,<br />
memorabili, i due capolavori di Rembrandt. Alle scuole di Chirurgia<br />
servivano corpi umani, ma a questa bisogna provvedevano con<br />
larghezza i sistemi penali dei vari Stati: lasciare il corpo del<br />
giustiziato insepolto era una pena accessoria alla condanna a morte,<br />
che si applicava in vario modo, bruciando il cadavere,<br />
incatramandolo o squartandolo. Il lavoro degli anatomisti, che, dopo<br />
avere ridotto in frammenti il soggetto, gettavano i resti nelle fogne o<br />
li interravano in una buca, era perfettamente funzionale ai dettati<br />
della legge e, per di più, socialmente utile. In tutta l’Europa, un<br />
numero sempre maggiore di cadaveri di giustiziati fu destinato agli<br />
anfiteatri di anatomia. Alcuni paesi, saggiamente, provvidero altre<br />
risorse per le Scuole di Chirurgia: in Germania, i suicidi e i carcerati,<br />
se i parenti non li riscattavano pagando una tassa; in Italia, Austria e<br />
Francia i morti nei luoghi di pena, riformatori, istituti di carità,<br />
sempre se non reclamati o riscattati dai congiunti; in Portogallo i<br />
trovatelli, che, data la caritatevole assistenza che ricevevano,<br />
morivano in gran numero, per malattie e denutrizione. Non<br />
altrettanto avvenne nei paesi anglo-sassoni, dove l’insegnamento<br />
dell’anatomia era rigidamente confinato alle Scuole di Chirurgia. Col<br />
tempo, intervennero due fattori che portarono a conseguenze<br />
disastrose. Vi fu una crescente necessità di insegnare l’anatomia al di<br />
fuori dell’ ambito accademico, a causa della spesso deludente qualità<br />
dei corsi ufficiali e per soddisfare le richieste di un gran numero di<br />
appassionati della materia e di coloro che volevano aggirare i vincoli,<br />
posti dalle scuole ordinarie all’ammissione degli studenti. Il governo<br />
inglese fu costretto a legalizzare l’apertura di scuole private, che,<br />
rapidamente, crebbero di numero e prosperarono. A Londra, nella<br />
prima metà del XVIII secolo, se ne contarono 24, tutte prive di un<br />
preciso status legale. L’altro fattore fu la riduzione del numero di<br />
sentenze capitali realmente eseguite: la deportazione nelle Americhe<br />
o a Botany Bay era un ottimo sostituto sociale della forca e forniva<br />
manodopera gratuita, per popolare e far crescere le colonie. Per<br />
ovviare alla penuria di “materiali” fu proposto che, per lo studio<br />
dell’Anatomia, si utilizzassero i corpi delle prostitute, le quali, per<br />
contrappasso, avrebbero ripagato in questo modo l’umanità che<br />
avevano corrotto. Altre volte si indicarono i suicidi, i duellisti, gli<br />
ubriaconi, ma nessuna di queste proposte ebbe seguito in Inghilterra<br />
123
e nelle colonie americane. Le scuole private di anatomia avevano<br />
tariffe di molte ghinee al mese e dovevano fornire a degli studenti<br />
agiati regolari lezioni di prim’ordine, ma l’unica fonte legale di<br />
approvvigionamento di salme erano le donazioni volontarie, da<br />
parte di persone che avevano a cuore il progresso della scienza, o da<br />
parte di qualche disperato, disposto a sacrificare la propria sepoltura,<br />
per garantire un piccolo peculio ai famigliari superstiti. Era<br />
evidentemente molto difficile riscuotere il cadavere, se e quando<br />
fosse intervenuta la morte, infatti si pensò di tenere un registro dei<br />
donatori, ai quali sarebbe stato garantito un compenso di non più di<br />
9 sterline.<br />
Si ricorreva quindi in larga misura ai mezzi illegali. Si otteneva la<br />
complicità mercenaria dei guardiani dei riformatori e degli ospizi e si<br />
sottraevano i corpi degli internati, prima che i parenti li<br />
reclamassero. Alcuni sceriffi si lasciavano corrompere, per cedere gli<br />
impiccati per reati, per i quali non era prevista la dissezione. Nel<br />
1740 il corpo del sedicenne William Duell, giustiziato per violenza<br />
carnale, fu ottenuto, in questo modo, da un chirurgo che, al<br />
momento della dissezione, si accorse che il suo soggetto respirava.<br />
Rianimato e tornato in sé il redivivo, nacque una disputa legale tra il<br />
chirurgo e l’Old Bailey, su chi dovesse mantenere il ragazzo<br />
nell’attesa della seconda esecuzione. Si risolse la questione, con<br />
soddisfazione di tutte le parti in causa, deportandolo nelle Colonie.<br />
Vi era però, per le scuole di anatomia, una grande risorsa, sempre<br />
disponibile e nella quantità desiderata: i cimiteri. “Resurrezionisti”<br />
fu il nomignolo dato ai malfattori che, rubando le salme dai luoghi<br />
di sepoltura, le facevano “risorgere” molto tempo prima del giorno<br />
del Giudizio. Gli anatomisti erano disposti a sborsare, per un<br />
soggetto in buone condizioni, da 12 a 16 e, talvolta, fino a 20 ghinee.<br />
Per questo motivo, il furto nelle tombe esercitava un’invincibile<br />
attrattiva su personaggi che spesso erano già ladri professionisti. Il<br />
fenomeno dei furti di cadaveri crebbe a livelli impensabili. Si<br />
costituirono delle vere e proprie bande rivali, che si affrontavano,<br />
con comportamenti di tipo gangsteristico e intimidivano e<br />
ricattavano i clienti stessi. Acquistare da un diverso fornitore poteva<br />
avere come conseguenza, trovare il cadavere, in sala anatomica,<br />
ridotto in condizioni tali, da non essere più utilizzabile, oppure<br />
uscire di casa e inciampare in un corpo putrefatto lasciato sulla<br />
soglia. Se il resurrezionista incorreva in un arresto, il cliente aveva<br />
l’obbligo di farsi carico della sua famiglia, per tutto il tempo della<br />
124
detenzione. Nel 1828, a Londra, la polizia aveva identificato solo<br />
dieci resurrezionisti di professione, che impiegavano però circa<br />
duecento lavoratori occasionali. Il traffico illecito si prestava anche<br />
ad altre mariolerie. Si introduceva nell’abitazione dell’anatomista, un<br />
complice chiuso in un sacco, come fosse un cadavere, e questi,<br />
nottetempo, svaligiava la casa. Un’incisione satirica di Thomas<br />
Rowlandson, rappresenta un giovanotto che, per incontrarsi con la<br />
bella moglie di un anziano chirurgo, dopo essersi introdotto, con<br />
questo sotterfugio nella casa dell’amante, rischia di essere, seduta<br />
stante, dissezionato dal marito ignaro.<br />
Un elemento decisivo nel favorire i furti di cadaveri fu la strana,<br />
impopolare, incomprensibile indulgenza della magistratura nei<br />
confronti di questo reato odioso per l’opinione pubblica. In un<br />
sistema penale che mandava a morte, deportava o frustava dei<br />
bambini, per un furto di pochi scellini, l’assoluzione, la multa, o,<br />
raramente, i sei mesi di carcere comminati ai resurrezionisti colti sul<br />
fatto apparivano come condanne irrisorie. Un’autentica festa di<br />
popolo accompagnò la pubblica esecuzione di due necrofori, John<br />
Holmes e Peter Williams e del loro complice Esther Donaldson, che<br />
avevano esumato il corpo di una donna morta un paio di mesi prima<br />
e che un giudice particolarmente severo aveva condannato, oltre ai<br />
sei mesi di rito, ad un certo numero di frustate. Il motivo legale<br />
dell’indulgenza nei confronti dei resurrezionisti era il fatto che il<br />
cadavere non era una proprietà, quindi l’appropriarsene non si<br />
configurava come un reato contro il patrimonio. Nell’opinione<br />
pubblica era invece diffusa l’idea che si mascherasse, con un cavillo<br />
legale, una certa complicità o solidarietà di classe tra i magistrati e gli<br />
anatomisti.<br />
Il dilagare del fenomeno del resurrezionismo creò un vero e proprio<br />
allarme sociale. Si costruirono bare blindate, grate metalliche attorno<br />
alla tomba, vere e proprie fortificazioni, si stipendiarono guardie<br />
armate, si illuminarono i cimiteri di notte. Si arrivò a progettare<br />
meccanismi esplosivi, che avrebbero dovuto deflagrare, quando la<br />
tomba venisse violata. Nella cittadina di Crail fu eretto un vero e<br />
proprio putridero, dove erano depositate le salme, in attesa che<br />
diventassero inutilizzabili per la dissezione. Nessuna precauzione<br />
sembrava però scoraggiare i ladri di morti, che improvvisavano<br />
ingegnosi nuovi metodi di lavoro, come scavare a fianco della<br />
tomba, per aggredire la bara sul lato, o asportare in blocco l’intera<br />
zolla superficiale di terreno, per rimetterla a posto a operazione<br />
125
terminata, mascherando l’avvenuto sterro. Il commercio di corpi<br />
umani fu organizzato all’ingrosso e a distanza: nel carico di una<br />
nave, salpata da Liverpool e diretta ad Edimburgo, si scoprirono 33<br />
corpi di uomini, donne e bambini, conservati sotto sale. Nacquero<br />
degli scandali. Tra le spoglie trafugate ci fu quella dello scrittore<br />
Laurence Sterne, che venne riconosciuto nella sala settoria, non<br />
prima di essere stato intaccato dal bisturi del chirurgo, come ha<br />
dimostrato una recente ricognizione dei resti. Fu sottratto alla sua<br />
sepoltura il padre del Presidente degli Stati Uniti in carica. Al Saint<br />
Thomas Hospital, uno studente riconobbe, nel corpicino steso sul<br />
tavolo settorio, il figlio della sorella, morto poco prima di scrofola.<br />
Si diffusero anche molte leggende metropolitane: un marinaio,<br />
costretto da degli studenti ad esumare un corpo, si sarebbe trovata<br />
tra le braccia la propria amata, morta a sua insaputa, mentre lui era al<br />
largo; un uomo in stato di morte apparente sarebbe stato sepolto<br />
vivo e salvato da un provvidenziale resurrezionista, che aveva aperto<br />
la tomba in cui era stato intempestivamente deposto. Fu in un clima<br />
di indignazione, sospetto ed esasperazione popolare che scoppiò il<br />
caso criminale del secolo. Il principale protagonista era un brillante<br />
chirurgo, medico, biologo, anatomista e ricercatore della città di<br />
Edimburgo, il dottor Robert Knox (1791-1862). Aveva lavorato, agli<br />
esordi della carriera, come chirurgo all’ospedale militare di Bruxelles,<br />
per operare i feriti di Waterloo, e dopo una missione con il 72°<br />
Highlanders in Sud Africa, era vissuto per due anni a Parigi, dove<br />
aveva preso contatto con i grandi naturalisti Cuvier e Geoffroy<br />
Saint-Hilaire e con il chirurgo militare barone Larrey, di cui era<br />
diventato amico. I due uomini avevano in comune la grande abilità<br />
professionale, il coraggio e un carattere infernale, ma non<br />
condividevano gli stessi principi etici. Il francese aveva, per tutta la<br />
vita, profuso senza risparmio le sue energie per salvare i militari<br />
feriti e alleviarne le sofferenze, senza badare né al grado, né alla<br />
bandiera. Si era largamente meritato il soprannome di “Provvidenza<br />
del soldato” ed era venerato dalla truppa, tanto più che aveva<br />
rischiato la sua posizione, per salvare dalla fucilazione dei coscritti<br />
autolesionisti. Era un empirico, indifferente al metodo scientifico e<br />
alla carriera accademica. Knox, invece, era un freddo pensatore,<br />
ambizioso, molto dotato per la ricerca biologica, che lo portò ad<br />
anticipare alcune tesi di Charles Darwin, ma le sue ipotesi sulla<br />
continuità delle specie biologiche erano orientate in senso che oggi<br />
definiremmo razzista: intendeva dimostrare l’inferiorità di Africani<br />
126
ed Irlandesi. Le sue numerose pubblicazioni gli valsero l’ingresso<br />
nella Royal Society di Edimburgo, appena un anno dopo il suo<br />
ritorno in patria. La scuola di anatomia, che egli aprì in quella città,<br />
sottrasse studenti all’Università e fu affollatissima, nonostante le<br />
tariffe molto salate. Knox, come tutti, si procurava cadaveri per<br />
mezzo dei resurrezionisti. Fu così che il suo cammino incrociò<br />
quello di due personaggi di tutt’altra risma: William Burke e William<br />
Hare, manovali irlandesi, che avevano lavorato nello sterro<br />
dell’Union Canal. Vivevano assieme alle loro compagne, Helen<br />
M’Dougal e Margaret Logue, in una casa che la moglie di Hare<br />
aveva ereditato. Burke riparava le scarpe ed entrambi facevano i<br />
facchini. Qualche provento veniva dall’affitto di alcune delle povere<br />
stanze della casa. Il vero collante che teneva assieme queste quattro<br />
persone era l’alcool. Un giorno del 1827, uno dei loro pensionanti<br />
morì improvvisamente, senza avere pagato l’affitto arretrato. Una<br />
rapida perquisizione rivelò che il defunto non possedeva un solo<br />
penny. Dopo un momento di sconforto, Hare ebbe l’idea di cacciare<br />
il cadavere in una cassa da imballaggio e riempire la bara di materiale<br />
pesante. Conoscendo la fama di Knox, si recarono nel suo studio,<br />
dove il bidello, dopo avere criticato lo stato cachettico del<br />
“soggetto” diede loro 7 sterline e 10 scellini, l’equivalente di tre mesi<br />
dei loro introiti ordinari. La sera stessa, durante un festino a base di<br />
whisky e gin, i due e le loro compagne progettarono di affittare le<br />
loro stanze a persone deboli e malate, prossimi involontari donatori<br />
delle loro spoglie. Disgraziatamente, il primo in cui incapparono era<br />
un ipocondriaco sanissimo: Joseph, detto il Mugnaio, tra lamenti e<br />
acciacchi, non sembrava seriamente intenzionato a morire.<br />
Esasperato dall’imprevista dilazione, la mente tortuosa di Hare<br />
concepì il metodo giusto per abbreviare i tempi. Il pensionante fu<br />
invitato ad una bevuta e riempito di liquore, fino a fargli perdere i<br />
sensi, poi Burke gli si sdraiò sopra, schiacciandogli il torace, mentre<br />
Hare gli chiudeva bocca e narici. In pochi minuti, fu disponibile un<br />
altro cadavere per la scuola di Knox. Questa volta il compenso fu<br />
decisamente maggiore, perché il corpo era in ottime condizioni. Da<br />
quel giorno, sotto l’effetto delle abbondanti libagioni garantite dalla<br />
nuova fonte di reddito, Burke e Hare, complici le due donne,<br />
persero ogni freno. Gli omicidi si moltiplicarono, perpetrati con<br />
un’audacia prossima all’incoscienza. Persone sole, viaggiatori,<br />
vagabondi, mendicanti, ubriachi, che avevano la disgrazia di capitare<br />
nei paraggi, erano irretiti, ubriacati e soffocati, per finire subito dopo<br />
127
sul tavolo settorio. L’anomala fornitura di cadaveri non segnati<br />
dalla malattia e ben conservati non sembrò mai destare sospetti in<br />
Knox, anche se almeno una delle vittime, un bambino, che gli<br />
assassini non avevano potuto ubriacare e a cui Burke aveva rotto la<br />
spina dorsale, presentava evidenti segni di violenza. Quello che<br />
Knox non sapeva o voleva vedere, fu intuito dai suoi studenti. Una<br />
prostituta diciottenne, Mary Paterson, soppressa con il solito<br />
sistema, era piuttosto popolare tra i frequentatori della scuola. Il suo<br />
corpo fu riconosciuto e alcuni tra i presenti nella sala anatomica<br />
affermarono di avere lasciato la ragazza in ottima salute poco tempo<br />
prima. Cominciarono a circolare i primi sospetti, che ebbero una<br />
conferma, quando nella sala anatomica di Knox comparve James<br />
Wilson. Questi, noto come “Daft Jamie” era un giovane di<br />
diciannove anni, claudicante a causa di una gamba malformata e col<br />
cervello di un bambino. Dopo un litigio con la madre e le sorelle,<br />
viveva nella strada, prestando piccoli servizi e intrattenendo i<br />
bambini con giochi, filastrocche e canzoncine. Era benvoluto da<br />
tutti e tutti gli offrivano un po’ di sostentamento. Portato nella casa<br />
dei delitti, non aveva voluto bere whisky e di fronte<br />
all’atteggiamento minaccioso assunto dai suoi ospiti, si era<br />
spaventato e aveva invocato la mamma, cercando di fuggire. Burke<br />
gli si era parato contro, ma Daft Jamie era un giovanottone robusto<br />
e lo aveva steso. Quando già stava per mettersi in salvo, Hare era<br />
stato pronto a fargli lo sgambetto e il complice lo aveva strangolato<br />
brutalmente. Il ragazzo era un personaggio molto popolare, noto a<br />
quasi tutti gli studenti di Knox, e il riconoscimento del corpo era<br />
stato facilitato dall’arto deforme. Inoltre vi erano chiari segni di<br />
violenza. Questa volta gli studenti protestarono e chiesero<br />
spiegazioni, ma Knox proseguì impassibile la lezione, che riprese il<br />
giorno successivo, sul cadavere che aveva decapitato e privato della<br />
gamba malata. Non ci furono conseguenze immediate. Perché la<br />
catena di omicidi cessasse, fu necessario attendere un passo falso<br />
degli assassini, ormai completamente obnubilati dall’alcool e travolti<br />
da un delirio omicida: privi di controllo, dopo che Hare, da solo,<br />
aveva eliminato una parente di Helen M’Dougal, mentre Burke, per<br />
delicatezza, non aveva partecipato all’operazione, fu lo stesso Hare<br />
che propose al socio di sopprimersi a vicenda le compagne.<br />
Accantonato questo progetto, perché in fondo alle loro donne erano<br />
affezionati, dopo una notte di baldoria con una coppia di vicini di<br />
casa, giusto prima di andare a dormire, uccisero Mary Docherty, una<br />
128
mendicante irlandese, che dormiva in una delle loro stanze e, vista<br />
l’ora tarda, la infilarono semplicemente sotto il letto. Il mattino<br />
dopo, se ne andarono per i fatti loro, senza badare al cadavere. La<br />
coppia che aveva partecipato al festino tornò, alla ricerca di un paio<br />
di calze che avevano perduto, ma fu allontanata bruscamente dalle<br />
donne di casa. Insospettiti, aspettarono di vederle uscire,<br />
penetrarono nella stanza, seguirono le tracce di sangue e scoprirono<br />
il corpo. La polizia arrestò i quattro e iniziarono le indagini, che non<br />
durarono a lungo, perché Hare si dichiarò subito disposto a<br />
collaborare, in cambio dell’immunità per sé e per la moglie. I<br />
magistrati accettarono l’ignobile patto. A quel punto anche Burke<br />
confessò. Ufficialmente le vittime dichiarate, in soli otto mesi di<br />
attività, furono sedici, ma si pensa che fossero molte di più, almeno<br />
il doppio, perché ognuno dei due assassini aveva anche lavorato in<br />
proprio, all’insaputa dell’altro ed inoltre i loro ricordi sulla<br />
cronologia dei delitti erano estremamente confusi. Burke disse che<br />
gli sembrava di ricordare di avere venduto a Knox trenta o quaranta<br />
salme. Fuori causa la coppia Hare, assolta Helen M’Dougal, l’unico<br />
ad essere processato fu Burke, giudicato e condannato alla forca,<br />
esclusivamente per l’omicidio di Mary Docherty, il cui cadavere, il<br />
solo della serie, non era finito nello studio del dottor Knox.<br />
L’appiglio legale fu che gli altri corpi non erano reperibili, ma era<br />
evidente la volontà di tenere fuori dal processo lo scienziato, che<br />
infatti non fu mai chiamato in causa. Burke fu giustiziato il 28<br />
gennaio 1829, alla presenza di una folla di oltre 20.000 persone,<br />
immobili e minacciose sotto una pioggia gelida. Chiese al boia di<br />
spacciarlo in fretta, perché temeva di essere linciato. Del resto, la<br />
forzata astinenza dall’alcool gli aveva snebbiato il cervello e ormai<br />
non desiderava altro che chiudere al più presto la sua miserabile<br />
esistenza. Finì, per un ovvio contrappasso, sul tavolo settorio dei<br />
chirurghi. Il giorno dopo l’esecuzione, la M’dougal uscì, come se<br />
niente fosse, per comprare del whisky, ma fu assalita da una folla<br />
inferocita a cui sfuggì a stento, rifugiandosi presso la polizia. Hare<br />
subì un tentativo di linciaggio a Glasgow e sua moglie a Dumfries.<br />
Poi il terzetto scomparve dalla scena e nulla si seppe più sulla loro<br />
sorte. Le rappresaglie contro Knox si limitarono alla rottura dei vetri<br />
di casa, anche perché il chirurgo circolava per Edimburgo con la<br />
spada al fianco e due pistole alla cintura ed era noto che, durante le<br />
sue avventure militari, aveva imparato a maneggiare le armi da<br />
autentico professionista. L’ambiente accademico gli fece scudo in<br />
129
modo compatto, confermandogli la piena fiducia. Tuttavia, quando<br />
gli animi si furono un po’ calmati, lo indussero a dimettersi dalla<br />
Royal Society e a rinunciare alla carriera universitaria. Knox si<br />
trasferì a Londra, dedicandosi alla stesura di testi scientifici, fino al<br />
1856, quando trovò impiego come anatomo-patologo al Free<br />
Cancer Hospital. Il clamore suscitato dal processo non si acquietò<br />
mai completamente. In tutto il Paese era dilagata l’indignazione per<br />
la sentenza. A ulteriore dimostrazione della malafede di una<br />
magistratura, in altre circostanze spietata, la madre e le sorelle del<br />
povero James Wilson avevano speso le loro poche risorse in<br />
avvocati, per chiedere la riapertura del processo, ma il loro desiderio<br />
di giustizia si era infranto contro l’irremovibile volontà del giudice.<br />
L’indignazione dell’opinione pubblica assunse le forme più diverse:<br />
libelli, caricature, canzoni di strada, fogli volanti, manifesti, persino<br />
filastrocche per bambini, satireggiavano l’intera vicenda, e i suoi<br />
protagonisti, in particolare Knox, minacciandolo di forca alla prima<br />
occasione. Purtroppo altri fatti intervennero a peggiorare la<br />
situazione.<br />
Nel 1831 due individui, John Bishop e James May offrirono al<br />
King’s College, dopo avere contattato invano altre due istituzioni, il<br />
corpo di un ragazzo di 14 anni, per cui contrattarono un prezzo di<br />
12 ghinee poi ridotte a 9. Tornarono, poco dopo, assieme a un tale<br />
Thomas Williams alias Thomas Head, che recava con sé un sacco<br />
con il suo macabro contenuto. Il bidello, insospettito, si allontanò<br />
con la scusa di cambiare una banconota, e avvisò la polizia. Il morto,<br />
risultò essere un ragazzo italiano di nome Carlo Ferrari, un girovago,<br />
che si guadagnava da vivere improvvisando spettacoli di strada con<br />
dei topi bianchi ammaestrati, forse già vittima di un racket che<br />
comprava e rapiva bambini, per mandarli a mendicare nelle ricche<br />
città nord-europee. La vittima era stata drogata con l’oppio e<br />
annegata in un pozzo. Con lo stesso metodo, erano stati soppressi<br />
una certa Fanny Pigburn ed un altro giovane di nome Cunningham.<br />
I denti di Ferrari erano stati venduti ad un dentista per 12 scellini.<br />
Bishop aveva poi regalato a suo figlio i topi ammaestrati, che<br />
costituirono una prova al processo. Fu impiccato assieme a<br />
Williams, mentre May, deportato, morì durante la traversata, per un<br />
pestaggio subito dai compagni di pena. Un caso analogo portò al<br />
patibolo John Wilson che uccideva mescolando arsenico al tabacco<br />
da fiuto e che fu trovato con tre cadaveri, anche se la sua attività<br />
durava ormai da qualche anno. In questi ultimi casi gli anatomisti<br />
130
avevano sempre denunciato gli assassini e le pene erano state<br />
proporzionali al crimine. Un certo numero di assassini, tra cui una<br />
certa Elizabeth Ross, fu ancora giustiziata per “burking” ma il<br />
termine indicava ormai soltanto un modus operandi per<br />
strangolamento, senza l’intento di vendere il corpo.<br />
La questione delle scuole di anatomia, non fu risolta e, in misura<br />
ridotta, i furti di cadavere continuarono. Nel 1832, il filosofo e<br />
filantropo Jeremy Bentham ottenne dal governo l’Anatomy Act, che<br />
destinava alla dissezione i deceduti in ospedale. Anche questo<br />
provvedimento non ottenne completamente i risultati sperati,<br />
perché agli ospedali e ospizi vennero assimilati i riformatori, le<br />
workhouses, e i direttori di questi istituti, comunemente denominati<br />
“Bridewells” opposero una feroce resistenza, per timore che<br />
diventassero di pubblico dominio gli elevati tassi di mortalità dei<br />
loro internati, causati da denutrizione, freddo, maltrattamenti, fatica<br />
e sporcizia.<br />
Della vicenda dei resurrezionisti si impadronì ben presto la<br />
Letteratura: tra i primi Walter Scott, Charles Dickens, che in “Tale<br />
of two Cities”(1859) disegnò il personaggio di Mr. Cruncher, un<br />
violatore di tombe e Bulwer-Lytton, in “Lucretia”. Le opere più<br />
importanti sull’argomento furono però un racconto di Robert Louis<br />
Stevenson: “The Body Snatcher” del 1884 e una sceneggiatura<br />
cinematografica di Dylan Thomas: “The Doctor and the Devils”,<br />
del 1953. Quest’ultimo lavoro, portato sullo schermo nel 1985,<br />
segna il punto di collegamento con il cinema: “The Anatomist”<br />
(1930) con due remakes nel 1939 e 1980; “The body snatcher”<br />
(1945) con Boris Karloff e Bela Lugosi; “The Flesh and the Fiends”<br />
(1960) con Peter Cushing; “Burke & Hare” (1971). A questi titoli si<br />
aggiungono numerosi lavori televisivi, tra cui uno di Alfred<br />
Hitchcock. Basta il nome di alcuni attori, specialisti del genere<br />
horror, per testimoniare come il cinema abbia prevalentemente fatto<br />
leva sugli aspetti macabri e sensazionali del resurrezionismo. Nel<br />
2010, un’ulteriore film dal titolo “Burke e Hare” ha rivestito la<br />
vicenda di un disinvolto tono di umorismo nero. Tra tutte le opere<br />
citate, quella di Dylan Thomas, con la sua realizzazione<br />
cinematografica, si distingue perché nel personaggio di Knox (nella<br />
finzione chiamato Rock) è tratteggiata la figura di un titano<br />
sconfitto, un uomo in lotta contro una Società di notabili retrivi,<br />
meschini e bigotti, che non gli perdonano il matrimonio con la<br />
propria cameriera, né la difesa della laicità della Scienza e che al<br />
131
termine della vicenda diranno : ” Lo abbiamo salvato dalla rovina<br />
pubblica per poterlo rovinare in privato”. Il testamento spirituale del<br />
dottor Rock/Knox sarà questo: “Pensare è pericoloso. La maggior<br />
parte degli uomini ha scoperto che era più facile scavarsi la strada<br />
nella burocrazia parassitica, o lasciarsi cadere nelle fiacche schiere<br />
dei dominati. Io supplico tutti voi di dedicare la vostra vita al<br />
pericolo; vi invito all’avventura; vi spingo all’esperienza. Ricordatevi<br />
che la pratica dell’anatomia è assolutamente vitale per il progresso<br />
della medicina. Ricordatevi che il progresso della medicina è vitale<br />
per il progresso dell’umanità. E che per l’umanità vale la pena di<br />
combattere: uccidere e mentire e morire per l’umanità.” È<br />
un’enunciazione di elevati ma ambigui principi e queste nobili parole<br />
hanno un vago sentore di superuomo, mentre, in sottofondo,<br />
sembra di ascoltare la voce del vecchio Erofilo di Calcedonia. La<br />
domanda è: in quale misura, noi, oggi, siamo figli di Erofilo?<br />
132
L’elogio dell’ambiguità: gioco di pensieri di un patologo<br />
sulle osservazioni al microscopio<br />
133<br />
Ezio Fulcheri<br />
Il termine “ambiguità” ha sempre portato con sé un senso<br />
di negatività, di doppiezza e viene, quasi automaticamente, associato<br />
al comportamento di coloro che vogliono lasciarsi aperte due o più<br />
strade, senza decidere, senza esporsi troppo e nel contempo,<br />
abbozzando qualche risposta sull’uno o sull’altro fronte (mostrando<br />
un poco della verità ma non troppo e comunque mostrando sempre<br />
e solo quella parte di essa che possa essere ritrattata) restando in una<br />
forma di mezzo, poco netta nel mostrarsi: la vera ambiguità<br />
dell’apparire.<br />
Il senso negativo del termine “ambiguo” è tanto radicato nel sentir<br />
comune che in certi periodi venne stimmatizzato ed assimilato al<br />
ben più duro categorico termine di “falso”. L’ambiguità è dunque<br />
doppiezza e falsità per definizione verso quel gruppo o quella parte<br />
che poi il soggetto non sceglie.<br />
Resta tuttavia da osservare che, in un’altra ottica,<br />
l’incertezza e l’indecisione delle scelte potrebbe essere interpretata<br />
come attenzione e cura nel valutare le singole opzioni, nella ricerca<br />
di ulteriori elementi di giudizio per meglio ragionare e pianificare le<br />
scelte e dunque, in senso assoluto, rappresentare un fattore positivo.<br />
Lo scopo dell’ambiguità, in questo caso, sarebbe in fine il<br />
raggiungimento della situazione più vantaggiosa e, in biologia (non<br />
vincolata dalla morale) la ricerca della soluzione più vantaggiosa è in<br />
assoluto positiva per la salvaguardia della specie ed il rafforzamento<br />
del singolo. Così l’individuo migliore non è mai il più bello né il più<br />
forte in senso assoluto o il più scaltro ma solo colui che è più<br />
adeguato in quella situazione, che è più adatto e che sa o può<br />
cogliere il momento vantaggioso. In questa accezione relativa<br />
dell’essere biologico l’ambiguità dell’essere può venire considerata<br />
assolutamente positiva.<br />
A fronte di queste osservazioni l’ambiguità si svincola dal<br />
comune significato del termine e viene rapportata ai contesti ed alle<br />
situazioni bio-antropiche particolari. L’ambiguità può allora essere<br />
vista in modo dinamico e può venire voglia di cercare e cogliere in<br />
essa aspetti particolari e, oseremmo dire, stimolanti di quelle
situazioni ambigue nell’apparire perché ambigue nell’essere non per<br />
calcolo quanto piuttosto per natura, capaci di esprimere un forte<br />
potenziale critico, quindi creativo, e in ultima analisi positivo.<br />
Potrebbe dunque venire la tentazione di considerare<br />
l’ambiguità quale vero motore della progressione; un demiurgo<br />
capace di scegliere e talora scegliere contro l’apparente ineluttabilità<br />
degli schemi. Queste riflessioni, seduto davanti ad un microscopio,<br />
analizzando cellule e tessuti si radicano via via nella mente ed allora<br />
viene spontanea una cascata di riflessioni; viene quasi voglia di<br />
liberare il pensiero nella logica della biologia e nel campo delle<br />
scienze e tessere l’elogio dell’ambiguità.<br />
Guardando un preparato istologico al microscopio e<br />
osservando le alterazioni dei tessuti viene spontaneo ricercarne la<br />
linea ed il piano di sviluppo e in ultima istanza studiarne e predirne<br />
in certo qual senso l’evoluzione.<br />
L’anatomia patologica è una disciplina basata sul<br />
riconoscimento delle lesioni, sulla valutazione di esse e,<br />
conseguentemente, sulla proposizione di una diagnosi che è<br />
finalizzata, in ultima istanza, al trattamento del paziente facendo<br />
conoscere la tipologia, l’entità e la pericolosità della malattia in<br />
oggetto.<br />
Il patologo deve osservare, concatenare le osservazioni e<br />
dedurre un profilo sommando tutte le osservazioni, anche<br />
molteplici, nell’ordine delle centinaia, che effettua durante la lettura<br />
di un preparato istologico.<br />
Per sua natura dunque, il patologo è un osservatore ed un<br />
analizzatore di immagini; ogni immagine, nel suo insieme o<br />
scomposta, viene classificata in termini di appropriatezza, di<br />
congruità di correlazione con la parte anatomica e, soprattutto,<br />
stabilendo la normalità o l’anormalità del reperto. In effetti<br />
sembrerebbe a prima vista doversi trattare di una disamina tra nero e<br />
bianco, tra sano e patologico, tra normale e anormale. Tutto ciò è<br />
vero trattando di lesioni sicuramente patologiche, in senso infettivoinfiammatorio,<br />
distrofico-regressivo o neoplastico o, per contro<br />
quando può essere dimostrata l’ assenza di malattia. Altre volte<br />
prevalgono le aree di grigio, le situazioni di transizione tra una forma<br />
e l’altra, gli aspetti incerti, indefiniti, ambigui.<br />
L’esperienza e l’occhio attento del patologo,<br />
particolarmente dotato nel saper cogliere le minime differenze e i<br />
134
tratti più significativi e patognomonici, contribuiscono a ridurre<br />
nettamente la fascia dei dubbi, delle ambiguità e dei toni grigi. In<br />
altri casi il dubbio permane, l’ambiguità appare in tutta la sua netta<br />
evidenza lasciando incerto il giudizio; è la vera ambiguità<br />
dell’apparire, contro cui non c’è nulla da fare se non dichiararla,<br />
descriverla, codificarla ed in tal modo renderla ufficiale, essa stessa<br />
diagnosi compiuta, definita e univoca, ossimoro strano e quasi<br />
bizzarro “la definizione dell’ambiguità” .<br />
La mente si distacca dall’osservazione e comincia a vagare a<br />
ritroso nella storia del pensiero medico e naturalistico, gli occhi si<br />
staccano dai vividi colori del preparato istologico ( una essenza di<br />
bellezza delle forme, una gamma di colori e sfumature stemperate<br />
sulla sezione microtomica invasa dalla luce); vengono alla mente<br />
concetti e definizioni applicate all’anatomia dei tessuti, alla<br />
embriogenesi ed alla fenogenesi. Ci scopriamo allora attenti al<br />
divenire delle forme, alla crescita dei tessuti, alla maturazione di essi<br />
finalizzata alla funzione. Tutto sembra perfetto, scandito nei tempi e<br />
nei modi, nelle forme e nell’apparire di esse.<br />
Ragiono sul concetto di “sviluppo” e mi convinco che<br />
questo indichi un processo evolutivo determinato e compiutamente<br />
strutturato nella progettualità; questo termine non lascia spazio a<br />
nessuna opzione alternativa perché è invece insito nel termine di<br />
opzione la possibilità di scelta anche se questa dovesse avvenire tra<br />
due situazioni antitetiche o molto differenti. Lo sviluppo è in vece<br />
predeterminato nella genesi e nell’obiettivo da raggiungere.<br />
Nell’ambiguità non può esserci dunque piano di sviluppo poiché<br />
proprio l’incertezza dell’essere e quindi del mostrarsi indica<br />
chiaramente la possibilità di scelta. In biologia è facile trovare<br />
esempi di sviluppo ( quasi una cascata di eventi quali quella della<br />
coagulazione) mentre è più difficile identificare situazioni ambigue a<br />
potenzialità variabile.<br />
Sotto un profilo filosofico (filosofia della scienza), la<br />
potenzialità del divenire e del mutare delle forme ambigue è<br />
estremamente affascinante e stimolante. Viene spontaneo ed<br />
immediato per noi patologi pensare ai cosiddetti tumori “borderline”.<br />
Da molto tempo è stato introdotto il termine “borderline” per<br />
indicare quelle lesioni neoplastiche non francamente maligne ed<br />
aggressive ma neppure benigne. Apparentemente sembrerebbe di<br />
135
essere proprio di fronte ad un quadro di pura ambiguità<br />
dell’apparire.<br />
L’esempio più immediato è quello dei tumori ovarici<br />
mucinosi, masse cistiche capsulate ove la proliferazione neoplastica<br />
in cisti concamerate e tralci si espande all’interno della<br />
neoformazione con un modello di crescita centripeto. Le cellule che<br />
compongono la neoplasia sono di tipo mucinoso e producono una<br />
gran quantità di mucine dense che, accumulandosi, contribuiscono<br />
alla espansione cistica del tumore. L’epitelio neoplastico benigno in<br />
gran parte delle concamerazioni può perdere progressivamente la<br />
capacità di secernere muco, i nuclei si fanno prominenti, il<br />
citoplasma si riduce e le cellule si affollano in pseudo stratificazioni;<br />
compaiono atipie più o meno marcate sino a configurare focolai di<br />
franca trasformazione maligna. L’adenocarcinoma focale, anche con<br />
spetti microinfiltranti fa parte dello spettro delle lesioni borderline<br />
Seguendo il filo del nostro ragionamento dobbiamo però<br />
convenire che le lesioni borderline non sono ambigue ma al<br />
contrario sono inserite in un ordinato disegno poiché sono<br />
veramente capaci di sviluppare un “progetto”; sono di fatto ed in<br />
sostanza neoplasie. Più recentemente il termine “borderline “ è stato<br />
abbandonato per lasciare il posto alla dizione “Tumore a basso<br />
potenziale di malignità” i cui aspetti evolutivi, pur restando in<br />
ambito neoplastico, si esprimono sia nella progressione, se non<br />
escissi completamente, verso lesioni maligne (motivo per cui è<br />
rischioso lasciare parte di un cistoma borderline dell’ovaio senza<br />
effettuare l’annessiectomia) sia con possibilità di recidivare in loco<br />
(pur senza dare metastasi), o sviluppare impianti<br />
Il termine borderline identifica dunque un basso potenziale<br />
evolutivo non la capacità di regressione. Vie parallele, circuiti più<br />
lunghi, strategie evolutive diverse, come la variazione su un tema<br />
musicale che comunque è sempre riconoscibile e tratteggiato.<br />
Il preparato istologico che sto esaminando è costituito dalla<br />
sezione istologica di una biopsia della cervice uterina in cui, su una<br />
base di tessuto epiteliale metaplastico, si è instaurata una displasia.<br />
La displasia cervicale può essere considerata una delle infrequenti<br />
situazioni nelle quali è espressa una grande potenzialità di<br />
comportamenti biologici delle lesioni e pertanto un vero campo di<br />
ambiguità si apre sotto le lenti del microscopio.<br />
Le lesioni displastiche della cervice uterina vennero<br />
individuate e nosograficamente codificate in un periodo storico<br />
136
molto particolare, teso alla identificazione dei precursori naturali<br />
del carcinoma invasivo. Tale sforzo era ovviamente mirato al<br />
riconoscimento delle lesioni pre neoplastiche per poterne effettuare<br />
l’escissione e l’ablazione preventiva.<br />
Gli sforzi per individuare il precursore di una neoplasia ad elevata<br />
incidenza sulla popolazione femminile e con alto tasso di mortalità<br />
sembravano ampiamente promettenti grazie al riconoscimento delle<br />
atipie citologiche reso possibile dalle osservazioni di Georgius<br />
Papanicolau (nato a Kymi nel 1883 e morto a New Jersey nel 1963)<br />
effettuate sulla citologia cervico-vaginale. La prima pubblicazione<br />
scientifica risale al 1928 e da allora la storia della metodica di striscio<br />
del prelievo cervico-vaginale effettuato con spatola resta<br />
inesorabilmente legata al nome del Dott Papanicolau, detto<br />
familiarmente “Doctor Pap” ed a quello che sarà il metodo di<br />
screening più famoso al mondo; il Pap Test. L’applicazione dello<br />
speculum, inventato in effetti molti anni prima ( il primo speculum<br />
risale al 1818 ideato da Rècaimer) ma non sfruttato nelle sue ampie<br />
possibilità, permise di dare obiettiva evidenza delle alterazioni<br />
citologiche epiteliali documentate nel Pap test e nel contempo rese<br />
possibile effettuare biopsie mirate sulle lesioni.<br />
La battaglia contro il carcinoma della cervice uterina aveva<br />
portato alla definizione ed al riconoscimento delle lesioni<br />
preneoplastiche. La displasia cervicale intesa in senso assoluto come<br />
il precursore del carcinoma della cervice uterina era stata (ed è<br />
tutt’ora), classificata in displasia lieve, displasia media e displasia<br />
grave intendendo queste tre lesioni come un unicum nella<br />
progressione verso le forme maligne ed invasive. Tanto era radicata<br />
la convinzione della obbligata evolutività delle lesioni precursori del<br />
carcinoma (in un crescendo inesorabile ed ineluttabile del quale<br />
restava ignoto solo il fattore tempo) che per codificare questa<br />
progressione venne coniato l’acronimo di CIN (cervical intraepithelial<br />
neoplasia) ove la consonante N stava ad indicare che tali lesioni erano<br />
di fatto (o lo sarebbero state - l’essere inteso nella forza del divenire)<br />
una neoplasia. Fu dunque Richard che nel 1967 (quarant’anni dopo<br />
la descrizione citologica di Papanicolau) costruì il sistema della CIN<br />
intendendolo come un progetto di sviluppo delle lesioni.<br />
La displasia lieve (CIN1), il grado più basso nella scala<br />
evolutiva, va ricercata con cura ed attentamente differenziata dalle<br />
alterazioni displastiche reattive o riparative, dalle lesioni distrofiche<br />
o ipertrofiche. Un tempo era sottoposta ad attenta e stretta<br />
137
sorveglianza e spesso veniva escissa poiché era radicata la<br />
convinzione che fosse comunque una condizione preneoplastica.<br />
In un disegno schematico, costruito appositamente per<br />
codificare la gradazione della displasia cervicale, viene descritto<br />
l’incremento degli elementi immaturi ed atipici dallo strato più<br />
profondo agli strati superiori sino a coinvolgere tutto lo spessore<br />
dell’ epitelio; le cellule indicate di colore più scuro e con piccolo<br />
citoplasma aumentano descrivendo una sorta di piano inclinato che<br />
sale da quota zero sino al punto più alto. Su questa linea, raggiunto il<br />
punto collocato tra terzo inferiore e terzo medio dello spessore<br />
viene posto il limite della CIN 1; raggiunto il limite tra terzo medio e<br />
terzo superiore viene posto il limite della CIN2 lasciando per la<br />
terza quota il campo della CIN3<br />
Nella CIN 1 le atipie citologiche, dopo aver stravolto lo strato basale<br />
sono dunque presenti in tutto il terzo inferiore dello spessore<br />
dell’epitelio. La CIN 2 è collocata a metà strada, tra il<br />
coinvolgimento del solo terzo inferiore ed il coinvolgimento del<br />
terzo superiore; più di una CIN1 e meno di una CIN3, Molti<br />
patologi trovano difficile stabilire con certezza, al di la dello<br />
schematismo, se si tratti ancora di una CIN1 o se la lesione sia già<br />
una iniziale CIN2 e, per contro, se altre non siano già una CIN3<br />
piuttosto che ancora una marcata CIN2.<br />
La displasia di grado medio è, come indica senza fantasia il<br />
nome, a metà; metà degli strati epiteliali dal terzo inferiore al terzo<br />
superiore sono displastici. Si potrebbe agevolmente dire che la CIN<br />
2 rappresenta la riprova dell’ineluttabile progressione delle lesioni<br />
lievi, vista non tanto come una forma incerta tra la forma lieve e<br />
quella grave quanto piuttosto la forma di transizione, quasi il<br />
fotogramma di un essere in divenire. La forma incerta diventa allora<br />
certa per definizione, non più ambigua ma compiuta in sé, nel suo<br />
apparire.<br />
Tuttavia così non è, si tratta della vera ambiguità<br />
dell’apparire che configura l’ambiguità dell’essere e nel contempo la<br />
potenzialità evolutiva; la CIN 2, terra di mezzo, sfumata ed incerta<br />
tra la forma lieve e la forma grave.<br />
Nel corso degli anni le cose infatti cambiarono; la rigida<br />
distinzione della displasia in tre classi venne sostituita con una<br />
visione binaria che prevedeva una classe a basso rischio ed una ad<br />
alto rischio di progressione verso le forme invasive. A dettare questo<br />
cambiamento era l’osservazione che gran parte delle lesioni<br />
138
displastiche lievi (CIN 1) era destinata ad una regressione<br />
spontanea mentre le forme gravi (CIN 3) regredivano quasi mai o<br />
comunque con assoluta minor frequenza. Le forme intermedie (CIN<br />
2) venne dimostrato avere una percentuale di regressione più bassa<br />
della CIN1 e più vicina a quella della CIN 3. La displasia di grado<br />
intermedio venne quindi di fatto assimilata a quella grave ed<br />
accorpata con essa nella categoria ad alto rischio. Non tutti però<br />
accettano ancora oggi questa classificazione e ufficialmente la<br />
distinzione in CIN 1, CIN 2, CIN 3 non è mai stata abrogata né<br />
tanto meno sostituita.<br />
Molto più recentemente, sulla base di stretti studi<br />
epidemiologici e statistici, di poderosi ed innovativi contributi di<br />
indagini molecolari e soprattutto di virologia, la storia biologica della<br />
displasia è stata ridisegnata. Il virus HPV nei suoi tipi viene oggi<br />
indicato come il più importante, se non unico, fattore necessario per<br />
lo sviluppo del carcinoma della cervice uterina. L’integrazione delle<br />
particelle virali nel genoma della cellula ospite rappresentano un<br />
modello di cancerogenesi quasi unico ove possono interferire le<br />
capacità di risposta dell’ospite, il numero e la tipologia delle<br />
reinfezioni. Alla luce di queste scoperte e di queste complesse analisi<br />
alla CIN2 viene attribuita la capacità di regressione pari al 43 %, la<br />
storia naturale della displasia di grado medio, in assenza di ogni<br />
forma di trattamento, indica chiaramente la non appartenenza della<br />
lesione ad un piano di sviluppo e tanto meno trattarsi di una<br />
scontata neoplasia intra epiteliale.<br />
Nel nostro excursus non possiamo dunque far a meno di<br />
considerare la storia della CIN 2 come paradigmatica del concetto di<br />
ambiguità. In questo caso viene posto in luce non tanto l’aspetto<br />
dell’incertezza nell’apparire quanto piuttosto l’enorme potenzialità<br />
del divenire: in effetti la forma ambigua può anche essere intesa<br />
come un forma in divenire, incerta in quanto non ancora definita<br />
ma, e paradossalmente in ciò consiste l’aspetto più affascinante,<br />
anche capace di regredire. Il motto latino “electa una via non datur<br />
recursus ad alteram” qui non vale, la lesione può progredire (come era<br />
nell’intenzione didattica e speculativa di coloro che propugnavano la<br />
teoria della CIN) ma anche regredire, tornare indietro involvere<br />
anziché evolvere.<br />
Un terzo ed ultimo aspetto relativo all’ambiguità si sviluppa<br />
ancora una volta davanti ad un microscopio, con gli obiettivi che<br />
139
scrutano in profondità i preparati citologici, li penetrano nei più<br />
piccoli dettali nucleari e citoplasmatici. La riflessione è quella del<br />
citologo davanti al già citato Pap test.<br />
Nel 1988 venne introdotto per la prima volta il cosiddetto sistema<br />
Bethesda per la classificazione diagnostica della citologia che sostituì<br />
in quasi tutti i Paesi del Mondo la vecchia classificazione di<br />
Papanicolau strutturata in classi.<br />
La nuova classificazione (che vide poi una revisione nel 2001)<br />
mirava a dare alla citologia un forte valore predittivo e diagnostico<br />
aprendo un dialogo anatomoclinico prima inesistente.<br />
Le atipie citologiche dell’epitelio squamoso originale o metaplastico<br />
vennero distinte in SIL LG e SIL HG (lesioni intraepiteliali<br />
squamose di baso grado e lesioni intraepiteliali squamose di alto<br />
grado). E’ interessante notare la distinzione binaria in basso grado<br />
ed alto grado che sovverte la classificazione trina della CIN (CIN1,<br />
CIN2, CIN 3) applicata, come già visto, per l’esame diagnostico<br />
istolologico.<br />
Con questo sistema classificativo viene incentrata tutta la strategia<br />
del monitoraggio nelle lesioni di basso grado e la strategia<br />
interventistica con terapia escissionale nell’alto grado. Viene<br />
abbandonato l’acronimo CIN con tutte le implicazioni correlate alla<br />
N di neoplasia sostituendolo con l’acronimo SIL ove la L significa<br />
“lesion”, termine aperto, non vincolante e soprattutto non associato<br />
necessariamente al concetto di tumore.<br />
L’aspetto curioso del sistema Bethesda fu quello di introdurre la<br />
categoria degli ASC–US vale a dire anormalità delle “cellule<br />
squamose di significato indeterminato”.<br />
Si tratta di un termine di apparente ambiguità, quando si consideri<br />
l’ambiguità nell’accezione più comune e scontata del termine;<br />
l’ambiguità dell’apparire, cellule che non riescono ad integrare un<br />
quadro di negatività ma che neppure hanno chiara evidenza di atipia<br />
tanto da configurare una lesione seppure di basso grado. In effetti il<br />
termine ASC – US indica non l’ambiguità degli elementi quanto<br />
piuttosto l’ambiguità del preparato. Gli elementi sono lievemente<br />
atipici ma pochi, con atipie poco pronunciate in confronto ad altre<br />
cellule atipiche per reazione, perché riparano erosioni o<br />
danneggiamenti superficiali. Sostanzialmente però cellule<br />
numericamente troppo scarse, esigue per avvalorare una diagnosi.<br />
Non si tratta dunque di ambiguità in senso stretto e nell’ottica in cui<br />
abbiamo sviluppato i nostri pensieri (e sbaglierebbe gravemente il<br />
140
citologo che così le interpretasse) quanto piuttosto insufficienti ed<br />
inadeguate. L’ambiguità, per essere vera ed elogiabile deve consistere<br />
nell’essenza delle lesioni e nell’apparire di esse, a tutto tondo e senza<br />
limitazioni.<br />
In chiusura possiamo dire di aver sviluppato, davanti ad un<br />
microscopio, un ragionamento complesso ma affascinante perché il<br />
termine “ambiguo”, a dispetto dell’apparenza non è ambiguo e<br />
perché siamo convinti di poter dimostrare, in una serie concatenata<br />
di ragionamenti, un pensiero affascinante anche se difficile da<br />
accettare. L’ambiguità, in campo biologico, non è negativa ma è<br />
potenziale, è motore di evoluzione; è duttilità e plasticità del divenire<br />
ed in questa ultima accezione è condizione assolutamente positiva<br />
ed utile; per essa possono venir dunque tessute le lodi e celebrato<br />
l’elogio.<br />
141
142
143<br />
La Cattedrale di Strasburgo<br />
Beppe Mariano<br />
Ho cominciato ad incuriosirmi delle cattedrali gotiche ancora<br />
ragazzo vedendo certi scarni dipinti dell’ art-brut e di Jean Dubuffet<br />
in particolare, allora pittore famosissimo e oggi quasi dimenticato<br />
(Stat sua cuique dies).<br />
Ho capito poi che il contrasto tra l’aspetto spiritualistico del gotico,<br />
interprete di un medioevo ritenuto spesso affrancato o distante dalla<br />
realtà materiale, e la grande tecnologia che è invece occorsa per la<br />
costruzione delle cattedrali ha fino a ieri rappresentato una forte<br />
ambiguità d’interpretazione della storia stessa di tale stile<br />
architettonico nonché dello stesso periodo storico.<br />
Già, l’ambiguità… Il poeta Basho sosteneva in un suo haiku che è<br />
necessaria nel rapporto imprescindibile tra volto e maschera.<br />
Giova forse ricordare che fin dalla caverna platonica ciò che appare<br />
ai sensi è ambiguo per definizione (il reale è presunto tale).<br />
Anche della pietra informe, che pur quando ci cade su un piede ben<br />
verifichiamo la sua concretezza materiale, qualcuno ha detto che è<br />
solo apparenza. Conterebbe soltanto il discorso metaforico,<br />
simbolico. Ossia la pietra che rimanda ad altro da sé.<br />
E’ un discorso fatto infinite volte, ma non per questo meno vero.<br />
Il Monviso, ad esempio, è sì fatto di pietra e di una pietra con sue<br />
particolari qualità, ma è recepito idealmente come ascesa verso la<br />
spiritualità (e oggi anche verso un ambiente purificato, nuovamente<br />
umano). Ad alta quota la rarefazione dell’aria inebria: ed è forse la<br />
miglior droga che può spingerci a raggiungere l’uomo etico, che<br />
misura se stesso al passo della salita.<br />
Altrettanto succede con le cattedrali gotiche.<br />
La pietra ottusa, lavorata dai mastri costruttori, è stata costretta a<br />
una tensione spasmodica verso l’alto, verso il cielo, appunto, capace<br />
perfino di alterare la curvatura classica dell’arco. L’uomo che guarda<br />
dal basso tali costruzioni, sia all’esterno sia all’interno d’esse, si sente<br />
sovrastato: si rende conto di essere un infinitesimo grumo<br />
dell’universo, e che la vita in questo mondo materiale è soltanto un<br />
breve passaggio (ma è anche un esame cui non può sottrarsi).
La pietra dunque per una specie di propria, laica in questo caso,<br />
transustanziazione diventa non più ciò appare (fisicamente ciò che<br />
è) ma ciò che deve essere. Ciò che deve valere.<br />
L’aveva ben compreso Carlo Sismonda.<br />
La sua cattedrale di Strasburgo sembra, in un miracolo di leggerezza,<br />
prossima a staccarsi dal suolo per sublimarsi in un cielo variopinto,<br />
striato di colore (tra i più belli del pittore) alla maniera di un Chagall,<br />
capace di far volare non più soltanto violinisti spose e animali…<br />
La pesantezza della pietra, pur essendo incombente, è superata e<br />
risolta pittoricamente da uno slancio idealistico che sembra<br />
sollevarla alle iridescenze di un cielo percorso e mosso dal soffio del<br />
divino.<br />
A ben guardare, si tratta di una cattedrale che pur dipinta anni fa<br />
oggi sembra voler suggerire una visione: il Paradiso è lì al primo<br />
volo, sopra la pietra faticosamente lavorata dall’uomo. Per averne<br />
avvertimento è sufficiente mischiarsi con i colori celestiali di una<br />
tavolozza ben provvida… Raramente si può ammirare, dalla materia<br />
all’idea, un trapasso così sereno.<br />
144
“La Bella Addormentata” Quando il dono più prezioso lo<br />
porta la fata cattiva<br />
145<br />
Daniela Ribetto<br />
Nella fiaba la parola diviene metafora. Il modello di narrazione, con<br />
i suoi personaggi, consente di ripercorrere la trama della storia<br />
dell’umanità, di tutti i tempi e di tutte le culture, e di avviare quel<br />
gioco mimetico-proiettivo che induce all’identificazione nei<br />
protagonisti e porta spontaneamente a meditare su di sé e al<br />
confronto con gli altri.<br />
La maggior parte delle favole sono state raccolte e in parte riscritte<br />
nel corso dell'Ottocento da estensori che, come i fratelli Grimm, ne<br />
avevano riconosciuto il valore e il contenuto, come delle chiavi<br />
magiche in grado di cogliere i puri pensieri di una osservazione<br />
infantile del mondo.<br />
Erano racconti orali, sopravvissuti per secoli passando di<br />
generazione in generazione. Per trovare però la radice originaria<br />
delle fiabe, dobbiamo tornare indietro nel tempo, molto prima della<br />
nascita di Cristo, dove la storia sprofonda nel crepuscolo. Da questo<br />
crepuscolo si ergono le figure dei cantori itineranti, dei bardi che<br />
andavano di luogo in luogo per cantare e narrare delle storie. Ogni<br />
popolo di antica civiltà aveva le proprie favole e i propri cantori che<br />
le diffondevano. È davvero singolare che presso gli indiani, gli<br />
africani, gli asiatici e gli europei si trovino molte immagini e figure<br />
simili. Come disse lo storico della civiltà Herman Grimm, figlio di<br />
uno dei due fratelli Grimm, nelle favole si può trovare il contenuto<br />
della grande storia universale nei tempi primordiali. Le favole sono<br />
resti di una religiosità che ha origine nella preistoria e che<br />
comunicava in immagini esperienze dell'anima e dello spirito. Il<br />
filosofo Plutarco (46 -119 d.C.) disse a suo tempo: “ Quando sentite le<br />
favole che si narrano sugli Dei del loro vagare, dell’essere dilaniati e di altre<br />
sventure, non dovreste credere che alcuna di queste cose sia avvenuta o sia stata<br />
effettuata nel modo riferito. I popoli hanno stabilito e impiegato dei simboli,<br />
alcuni oscuri, altri più intellegibili, nell’intento di avviare la comprensione dei<br />
concetti divini”.<br />
E questo monito ci chiarisce perché una specie di venerazione<br />
religiosa circonda da sempre le saghe e le favole dei vecchi popoli.
Severi fin quasi alla pedanteria, i narratori che incontrarono i<br />
fratelli Grimm vegliavano come gli ultimi custodi delle fiabe perché i<br />
testi fossero riprodotti invariati e fedeli alla lettera. Erano convinti<br />
che attraverso di loro fosse conservato e amministrato un bene<br />
spirituale che non doveva andar perduto per l'umanità. Della stessa<br />
idea fu anche il filosofo –pedagogista Rudolf Steiner (1861-1925)<br />
che nella sua monumentale opera integrò le moderne scienze<br />
naturali con un’indagine scientifica del mondo spirituale. La sua<br />
“antroposofia” rappresenta, nella cultura odierna, una sfida tesa al<br />
superamento del materialismo. Il mondo della fiaba che ci presenta<br />
Rudolf Steiner è quello cui accennava Plutarco dove i “concetti divini”<br />
si nascondono.<br />
La fiaba è il mondo non delle divinità gerarchiche che sono al di<br />
sopra dell’essere umano ( di esse si parla nel mito), la fiaba è il<br />
mondo dei processi degli elementi : Aria, Acqua, Terra, Fuoco.<br />
Nella misura in cui l’essere umano viene in comunione, cosciente o<br />
non cosciente, con questi esseri elementari, la fiaba esprime ciò che<br />
egli, che lo sappia o no, apprende da questa esperienza.<br />
La terra, l’acqua, l’aria e il fuoco sono l’elemento corporeo degli<br />
esseri elementari che compaiono sempre nelle fiabe e l’elemento<br />
animico è ciò che desiderano, le loro simpatie le loro antipatie. Nelle<br />
fiabe incontriamo: elfi, gnomi, ondine, silfidi a volte con un<br />
comportame nto che ci sembra strano perché essi non<br />
hanno uno spirito. L’elemento che sembra a noi irrazionale è<br />
dovuto proprio al fatto che abbiamo a che fare con gli esseri<br />
elementari la cui direzione spirituale è al di fuori di loro, nelle<br />
gerarchie celesti. Proprio per tale motivo le fiabe sono dirette al<br />
bambino che ha ancora un pensiero animistico e risultano<br />
importanti per la sua evoluzione, come sostiene anche Bruno<br />
Bettelheim (1903-1990), psicoanalista formatosi alla scuola di<br />
Vienna. Le fiabe sono utili perché aiutano il bambino a relazionarsi<br />
alle cose in modo tale da inglobarle in un mondo cosmico, cui lui è il<br />
centro. Inoltre aiutano a tradurre in immagini visive stati interiori e a<br />
trasportare nella realtà significati nascosti: elaborano l’inconscio.<br />
Bettelheim trova giusto il carattere non ambivalente dei personaggi<br />
fiabeschi: o solo buoni o solo cattivi, come non siamo nella realtà.<br />
Steiner, invece, in un’ analisi più profonda rivela tutta l’ambiguità<br />
nascosta della fiaba e porta alla luce significati che svelano la storia<br />
segreta dell’Umanità.<br />
146
Le fiabe parlano oltre che all'io cosciente, al nostro inconscio e<br />
l'ambiguità vi si sviluppa dando significati diversi alla medesima<br />
storia. Nel nostro inconscio deve avvenire una libera elaborazione<br />
poiché lì vivono le contraddizioni e nel vederle sta la chiave per<br />
superarle: per i bambini sarà una sorta di preparazione alla vita e<br />
per gli adulti un invito a ricordare.<br />
Andiamo a curiosare fra le righe della fiaba più popolare della nostra<br />
infanzia: LA BELLA ADDORMENTATA NEL BOSCO con<br />
Rudolf Steiner che ci porta oltre il velo di Maya ad incontrare<br />
ROSASPINA.<br />
C’era una volta un Re ed una Regina che desideravano tanto un<br />
bambino. Ma il bambino non veniva mai…<br />
Un giorno, mentre la Regina faceva il bagno, una rana le annunciò la<br />
nascita di una bambina. Per celebrare il battesimo della tanto<br />
sospirata figlioletta, il Re e la Regina invitarono le fate del regno.<br />
Ma, possedevano solo 12 piatti d’oro, le fate erano 13. Allora la<br />
tredicesima dovette starsene a casa. Ognuna delle fate donò<br />
qualcosa alla neonata: chi la bellezza, chi la saggezza, chi il talento<br />
musicale. Sopraggiunge la fata che non era stata invitata e per<br />
vendicarsi dell'onta donò alla bambina una maledizione: "Prima che<br />
il sole tramonti sul suo sedicesimo compleanno ella si pungerà il dito<br />
con il fuso di un arcolaio e morrà!" (nella versione Walt Disney); “La<br />
figlia del Re a quindici anni si pungerà con un fuso e cadrà a terra<br />
morta.” (nella versione fratelli Grimm). Una delle fate buone, pur<br />
non potendo annullare l'incantesimo, lo mitigò, trasformando la<br />
condanna a morte in quella di 100 anni di sonno, da cui la<br />
principessa potrà essere svegliata solo dal bacio di un principe. Per<br />
impedire che la profezia si compisse, il Re bandì gli arcolai dal suo<br />
regno; ma la principessa, all'età di 15 anni, per caso incontrò una<br />
vecchia che stava tessendo, e il suo fato si compì.<br />
L’ intero castello cadde sotto l’incantesimo di un sonno profondo<br />
insieme alla principessa. Col tempo, il castello incantato si coprì di<br />
una fitta rete di rovi, tale da impedire a chiunque di penetrarvi.<br />
Dopo 100 anni un principe giunse al castello, e miracolosamente i<br />
rovi si aprirono dinnanzi a lui. Il principe trovò la principessa, e se<br />
ne innamorò a prima vista. Il suo bacio la risvegliò. Si sposarono e<br />
vissero felici e contenti.<br />
“Un Re ed una Regina”. Il padre e la madre del cammino di tutti gli<br />
uomini. Il Cielo e la Terra, il Sole e la Terra per esempio, sono<br />
147
gli antenati dell’umanità. Un Re ed una Regina perché l’essere<br />
umano dei primordi abitava nei mondi spirituali ed era Re.<br />
“Il bambino non veniva mai” perché loro pensavano come sovrani<br />
che rappresentavano il mondo antico, non potevano farsi un’idea di<br />
come sarebbe stato un mondo rinnovato.<br />
“E mentre la Regina un giorno faceva il bagno, ecco saltar fuori<br />
dall’acqua una rana”. La profezia di un mondo nuovo nell’umanità<br />
viene da quell’essere, la rana, che rappresenta la comunione con il<br />
mondo della terra ed il mondo dell’acqua, il mondo fisico ed il<br />
mondo eterico, perché la rana è un essere che vive proprio tra terra<br />
e acqua. Attraverso la profezia della rana viene detto al Re e alla<br />
Regina che il rinnovamento verrà dal terrestre, quando l’umanità<br />
deciderà di inserirsi sempre di più nel mondo della materia.<br />
Il Re e la Regina hanno dodici piatti d’oro che sono un cibo che<br />
discende dal Cielo, dalle gerarchie celesti dei dodici segni<br />
dello Zodiaco. Il Re e la Regina conoscono il cibo<br />
spirituale della chiaroveggenza atavica, ma ignorano la legge<br />
fondamentale dell’incarnazione per acquisire la libertà.<br />
“Mentre la Regina faceva il bagno” ( si mette in comunione con il<br />
mondo eterico) sente la voce della rana che rappresenta il mondo<br />
fisico-eterico: “Il tuo desiderio si compirà, prima che sia<br />
trascorso un anno darai alla luce una bimba”. E in questa fiaba<br />
che rappresenta tutta l’evoluzione umana- soprattutto nella sua<br />
chiave di svolta dei tempi- questo figlio del Cielo viene dall’alto e<br />
si incarna nel momento della profezia della rana.<br />
“La profezia della rana si avverò e la Regina partorì una bimba”. La<br />
Regina partorisce questo figlio del Cielo: Rosaspina l’anima<br />
umana, non lo spirito, non il corpo fisico. Ogni figura femminile<br />
nelle fiabe rappresenta un aspetto se non la totalità dell’anima<br />
umana, ogni figura maschile rappresenta un aspetto dello spirito<br />
umano: questo vale per tutte le scritture antiche dell’umanità.<br />
“Partorì una bimba”. Nell’ anima umana, che si incarna al<br />
momento della svolta dei tempi, i tesori del mondo spirituale vanno<br />
perduti ma grazie alla tredicesima fata che non è stata invitata c’è la<br />
profezia terribile che fa capovolgere il tutto.<br />
La chiave di svolta nel cammino dell’umanità di questo narra<br />
la fiaba.<br />
Si narra di una b i m b a c h e è la più bella che ci possa<br />
essere. E’ la più bella perché è “ l’anima umana” che porta a<br />
compimento tutto il significato del cammino di incarnazione,<br />
148
quindi ogni spirito umano, ogni principe se ne innamora.<br />
Nell’anima umana incarnata, addormentata al mondo<br />
spirituale perché si risveglia soltanto al mondo fisico, lo<br />
spirito umano vede la cosa più bella che ci sia perché<br />
l’esperienza della Libertà è il significato di tutta l’evoluzione.<br />
“Partorì una bimba tanto bella che il R e non capiva in sé dalla<br />
gioia ed ordinò una gran festa.”. Ecco l’esperienza della Bellezza:<br />
più bella questa bimba non potrebbe essere, e in questa Bellezza c’è<br />
la verità somma ed il bene sommo del cammino umano. Di<br />
fronte a questa bimba a questa anima umana ci si rende conto di<br />
essere di fronte alla totalità della Bellezza, della Verità, della Bontà<br />
dell’essere umano. Si scopre il senso globale del cammino<br />
dell’umanità.<br />
“Ed ordinò una gran festa”. Si fa festa perché l’essere umano è<br />
sceso nel mondo fisico per divenire conscio di sé.<br />
“Non invitò soltanto il parentado”; questa festa per la discesa nel<br />
mondo materiale è una festa che riguarda tutti gli esseri spirituali e<br />
la natura. Quindi devono essere invitate le fate che rappresentano<br />
tutto il mondo degli gnomi, delle ondine, delle silfidi delle<br />
salamandre.<br />
“Invitò anche le fate perché fossero propizie e benevole alla<br />
bimba”.<br />
“Nel suo regno ce ne erano tredici ma egli aveva soltanto dodici<br />
piatti d’oro per il pranzo e perciò una dovette starsene a casa”.<br />
In questo regno ci sono tredici fate, ci sono tredici forze che<br />
reggono il cammino dell’umanità. Dodici sono quelle che<br />
ricevono i piatti d’oro: l’insieme delle forze celesti dello Zodiaco<br />
che r e n d o n o l’essere umano capace di camminare eretto,<br />
parlare, percepire e pensare.<br />
Il Re e la Regina, conoscono soltanto ciò che è divino siccome<br />
rappresentano il passato dell’umanità, possono invitare soltanto<br />
dodici fate, le dodici fate che sono nel mondo elementare. Queste<br />
fate (secondo la Scienza dello Spirito) sono esseri molto reali che<br />
esistono anche oggi e che anche in questo momento compiono<br />
tutto il lavoro descritto nella fiaba e lo compiono in modo reale.<br />
Nelle fiabe nulla è inventato. In una vera fiaba è tutto verissimo e<br />
non soltanto oggi ma sempre, ogni minimo particolare è pieno di<br />
significato se non sono successe manipolazioni arbitrarie.<br />
149
Ecco perché la fiaba è la forma più alta di verità che ci<br />
sia. La fiaba racconta solo elementi che valgono e sono veri<br />
sempre e per tutti. Gli elementi individuali nella fiaba non ci<br />
sono, deve essere sempre universalmente valida. E nel bambino<br />
che ascolta la fiaba il lato specifico individuale non c’è ancora, ci<br />
sono quei tratti dell’essere umano che valgono per tutti. Così<br />
incontriamo la tredicesima fata che non è cattiva, anche se abbiamo<br />
sentito che a quindici anni la principessa si pungerà con il fuso e<br />
cadrà a terra morta. Erano tredici fate, non si dice dodici buone<br />
ed una cattiva, sono tutte buone; la differenza con la tredicesima<br />
sta nel fatto che non è stata invitata. La tredicesima non era prevista,<br />
il Re e la Regina non avevano considerato questo stravolgimento<br />
dell’evoluzione umana, dall’essere a casa nel mondo spirituale a non<br />
conoscerne più nulla. Questo non era previsto e quindi non la<br />
invitano.<br />
Invece la tredicesima fata è buona perché è proprio quella che<br />
porta la chiave dell’evoluzione, cioè l’incarnazione consapevole nel<br />
mondo fisico.<br />
“E perciò una dovette starsene a casa, nel suo regno ce ne erano<br />
tredici di fate ma egli aveva soltanto dodici piatti d’oro per il<br />
pranzo”. Quindi l’essere umano che disdegna la materia n o n<br />
v i e n e i n v i t a t o .<br />
Questa fiaba ci dice che il significato dell’evoluzione è l’apprendere,<br />
l’imparare da parte dell’uomo ad amare la Terra come il luogo di<br />
individuazione e di libertà interiore.<br />
“ La festa fu celebrata con gran pompa”. Finché non arriva la<br />
tredicesima, finché non subentrano i pasticci del mondo fisico,<br />
la festa è piena di pompa! Nel paradiso originale era una gran<br />
festa, i guai arrivano quando compare l’ individualità singola,<br />
identificata con la materia, la gran festa volge al termine e lo<br />
vediamo osservando il mondo in cui viviamo dove ognuno segue i<br />
propri impulsi volitivi.<br />
“La festa fu celebrata con gran pompa e stava per finire”.<br />
La tredicesima fata porta la fine della festa dei primordi.<br />
“Undici fate avevano già formulato il loro augurio quando<br />
improvvisamente giunse la tredicesima”.<br />
La tredicesima forza, quella che porta la svolta del tenebroso, del<br />
male -che invece è il bene- è il Sole che percorre tutti e dodici i<br />
segni dello Zodiaco. E’ una realtà nuova sono le forze dell’io<br />
che unificano i dodici impulsi.<br />
150
Le forze dell’Io hanno due lati fondamentali: uno solare, luminoso,<br />
e uno lunare, tenebroso. Anche la Luna percorre tutti e dodici i<br />
segni zodiacali e nella tradizione esoterica dell’umanità questo lato<br />
luminoso e tenebroso dell’Io vengono espressi dalle realtà<br />
fondamentali dell’Amore da un lato e dell’egoismo dall’altro.<br />
Quindi questa tredicesima fata, foriera di sventura, è colei che<br />
preannuncia lo sviluppo dell’Io in chiave di egoismo:” non si può<br />
arrivare alla seconda fase dell’evoluzione dell’Io e della libertà<br />
se prima non si è diventati se stessi.”<br />
“Questo è il mistero del tredicesimo, della tredicesima Fata” : La<br />
realizzazione della nostra autonomia.<br />
Ecco perchè la dodicesima che chiude il ciclo delle undici e quindi<br />
porta a compimento i dodici impulsi dell’evoluzione umana terrestre<br />
è soltanto in grado di dire: ”l’abisso del tredicesimo non si può<br />
togliere, ma lo si può mitigare.”<br />
Allora la profezia della tredicesima dice che a quindici anni, al<br />
momento del risveglio delle forze di rapporto con il mondo<br />
esterno, dove nasce anche la capacità di amore, Rosaspina<br />
morirà.<br />
“A quindici anni la principessa si pungerà con un fuso e cadrà a<br />
terra morta”. Questo fuso è il lavoro del pensiero lineare che<br />
produce (tesse) il filo del discorso. Tralasciamo tutta la tradizione<br />
freudiana e di Carl Gustav Jung che interpretano questi elementi<br />
della fiaba in termini di psicoanalisi. In chiave esoterica queste<br />
interpretazioni sono aspetti di una realtà c h e<br />
c o n s i d e r a l’essere umano quando era ancora capace di vivere<br />
dentro ai mondi spirituali e aveva impulsi volitivi molto più sicuri.<br />
La mano rappresenta gli impulsi volitivi, quindi pungendosi il<br />
dito, vengono paralizzate le forze della volontà dopo aver<br />
scoperto il pensiero logico-materiale.<br />
“Si pungerà con un fuso e cadrà a terra morta”. Il pensiero<br />
diventato fisico materiale fa morire l’essere umano spirituale,<br />
lo fa cadere dal Cielo sulla Terra. Da un lato questa bimba si<br />
unirà con le forze del pensiero che dormono e quindi conoscono<br />
soltanto il mondo fisico materiale, e dall’altro cadrà nella morte sulla<br />
Terra e perderà la vita del Cielo.<br />
“Senza aggiungere altro volse le spalle e lasciò la sala”. Il<br />
gesto di questa fata indica proprio come è ora il cammino<br />
umano che volge le spalle al paradiso dove ci sono il Re e la<br />
Regina. Ora l’evoluzione deve andare in un’altra direzione. Il capire<br />
151
sta nel volgere le spalle, ed il volere sta nel fare i passi, uscire<br />
dalla sala.<br />
“Fra la gente atterrita si fece avanti la dodicesima che doveva<br />
ancora formulare il suo voto. Annullare il crudele decreto non<br />
poteva ma poteva mitigarlo e disse-la principessa non morirà ma<br />
cadrà in un profondo sonno che durerà cent’anni-.”<br />
L’uomo che conosce solo il mondo materiale, che ha dimenticato o<br />
che addirittura nega i mondi spirituali è morto, se invece sa che<br />
esistono questi mondi spirituali e cammina per riconquistarli dorme<br />
soltanto e quindi potrà risvegliarsi. In altre parole la vicenda del<br />
mondo materiale è per chi non si risveglia la morte, per chi<br />
si risveglia nella libertà a riconquistare i mondi spirituali è<br />
stato un lungo sonno.<br />
Queste sono le due possibilità dell’evoluzione umana.<br />
Se però da questo sonno, poi dopo cent’anni, ci si risveglierà<br />
s a r à p er un’altra festa, di nozze questa volta.<br />
C’è una festa all’inizio e una festa alla fine della fiaba: la festa<br />
dell’inizio è la fine di un mondo che c’era stato prima, la<br />
festa della fine inaugura la seconda metà<br />
dell’evoluzione umana.<br />
“Il Re che avrebbe voluto preservare la sua cara bambina da quella<br />
sciagura ordinò che tutti i fusi del regno fossero bruciati”. Ma ne<br />
rimase solo uno giusto quello che c’era nel castello del Re e della<br />
Regina. Rosaspina gira per il castello a quindici anni: “lo girò in<br />
lungo e in largo per tutte le stanze”. “Giunse infine ad una vecchia<br />
torre. Salì la stretta scala a chiocciola”, “Nella serratura c’era una<br />
chiave arrugginita e quand’ella la volse si spalancò la porta di<br />
una piccola stanzetta”(ecco le forze pensanti). E “Una vecchia con il<br />
fuso filava alacremente il suo lino”.<br />
In questa fiaba è riassunto tutto il cammino dell’evoluzione<br />
umana ma soprattutto è descritto ciò che avviene nella svolta, nel<br />
trapasso da una condizione dei mondi spirituali dove l’essere umano<br />
non è ancora libero, e una dove invece, grazie all’inserimento nel<br />
corpo fisico, l’essere umano comincia a prendere in mano lui stesso<br />
la conduzione del proprio destino tramite il pensare proprio<br />
(processo del filare) .<br />
Questo è anche ciò che si ripete in piccolo ogni volta che un<br />
essere umano nasce: comincia facendo parte di un mondo che lo<br />
conduce dal di fuori, nel grembo materno fa parte di un altro<br />
152
essere, da bambino piccolo fa parte del mondo che lo circonda,<br />
non ha ancora impulsi propri perché non è capace di pensare<br />
ancora da solo. L’essere umano dovrà perdere questa conduzione<br />
dal di fuori per acquisire tramite il pensiero la capacità di gestirsi<br />
( con pensieri propri) da se stesso liberamente.<br />
Le dodici fate (con i loro piatti d’oro) portano in dono l’elemento<br />
solare all’anima umana che nasce, è i l dono del cosmo risultato<br />
di tutta l’evoluzione passata. Il piatto della tredicesima non c’è<br />
ancora, perché dovrà essere costruito nella seconda metà<br />
dell’evoluzione, avrebbe dovuto essere un piatto di diamante, non<br />
d’oro, in quanto “elemento della pietra filosofale” meta di tutto<br />
il cammino terrestre.<br />
Perché l’oro riassume il cammino delle forze del sole ma il<br />
diamante riassume tutte le forze evolutive dell’uomo sulla terra.<br />
A questo punto siamo in grado di comprendere l’ambiguità<br />
della tredicesima Fata.<br />
Bibliografia<br />
Rudolf Steiner: Opera Omnia-volume 158 (“Der Zusammenhang des<br />
Menschen mit der elementarischen Welt – Il rapporto degli esseri umani con il<br />
mondo elementare–” NdR).Pietro Archiati: Firenze, Convegno<br />
Artistico” La Fiaba” 17 Settembre 1992<br />
153
154
L’ambiguità di Pinocchio: fondamento di libertà e verità<br />
155<br />
Savino Roggia<br />
L’ambiguità ne Le Avventure di Pinocchio è palpabile,<br />
voluta ed evoluta. La riprova è che da 130 anni il naso e<br />
l’impiccagione del burattino, la fisicità di Mangiafoco come<br />
l’umanità soggiogata dall’Omino, hanno alimentato desideri di<br />
conoscerne il senso. E lo conferma la complessità narrativa e il<br />
simbolismo estremo con cui Collodi struttura l’ opera. Quasi volesse<br />
blindarne trama e significati perché scomodi o eretici: si sa,<br />
incoraggiare l’uomo a pensare in proprio è sempre stato una<br />
determinazione ad alto rischio. L’ambiguità di Collodi è uno stilema:<br />
conferma l’autore un colto esoterismo; ed è una scelta ispirata dal<br />
principio di realtà difficile da eludere che commenterò.<br />
Cos’è l’ambiguità?<br />
Per il dizionario 28 l’ambiguità implica la possibilità di una duplice<br />
interpretazione, per cui riferita a una frase riconduce a doppiezza,<br />
falsità; oppure, se attribuita al carattere di un soggetto, porta a<br />
qualificarlo irresoluto, perplesso. Per la filosofia 29, invece,<br />
l’ambiguità con valenza ontologica ed esistenziale - designa la<br />
situazione precaria della libertà umana, che aspira all’infinito, ma si<br />
scontra con la finitezza insuperabile dell’essere storico-mondano;<br />
oppure, che brama la pienezza di senso e si misura con<br />
l’insensatezza e l’assurdo. Per l’etimo 30 pure, l’ambiguità (dal latino<br />
amb-ago) ha come orizzonte il duale, suggerisce la possibilità di poter<br />
“spingere una cosa da due parti” e, per traslarlo, di “pensare in due<br />
sensi attorno ad una stessa cosa”.<br />
Collodi vi ricorre a piene mani quando si tratta di<br />
distinguere e mettere in positivo il profilo di mastro Geppetto quale<br />
icona dell’uomo creativo, scintilla divina in terra, il quale constatato<br />
28 Il DEVOTO-OLI, Il vocabolario della lingua italiana, Le Monier, 2009<br />
29 L’Enciclopedia della Filosofia, De Agostini, 1996, pag. 38<br />
30 Grande Dizionario Enciclopedico, UTET, 1984, pag.659
il degrado della società in cui vive decide di agire, di costruire<br />
Pinocchio e tramite lui dimostrare all’umanità che si può fare di più<br />
e meglio; e gli affianca l’etereo e fondamentale mastro Ciliegia quale<br />
soggetto rappresentativo dell’essere statico, amante del bianco o del<br />
nero, tifoso e non sportivo dello status quo. Il suo profilo umano si<br />
concilia poco con l’attivismo del viaggiatore. Pur essendo capace, si attarda a<br />
risolvere un problema: preferisce stare inattivo ad aspettare gli eventi in un<br />
esercizio di temperanza mal compresa. È l’uomo in perenne attesa che la sorte lo<br />
chiami all’azione. Ama poco tramare per un futuro più benevolo. Aspetta<br />
l’occasione: che il pezzo di legno gli caschi addosso per sistemare il tavolino che<br />
pur sa traballante. È un po’ il cittadino che nel bisogno aspetta che altri<br />
facciano. Non recita, né indossa la maschera di un tale personaggio, né ritorna se<br />
stesso fuori dalla scena: confonde la finzione con la realtà, le manifestazioni<br />
esteriori con quelle interiori, cui ogni galantuomo dovrebbe riferire le proprie<br />
scelte.<br />
Esprime la parte di umanità assente dalle vicende della collettività, intenta a<br />
coltivare il proprio orticello. È il coevo di Collodi che non si è curato del fuoco e<br />
delle ceneri lasciate dal Risorgimento. È il cittadino disattento ai<br />
condizionamenti della politica sulla società, forzato a preferire la quantità alla<br />
qualità e a confondere la finanza con l’economia e la tecnologia con la scienza. 31<br />
Per il resto il papà del burattino è poeta che va oltre la poesia: non<br />
pronuncia né canta 32, nomina con l’equilibrio figlio amato<br />
dell’ambiguità, cause ed effetti, vizi e conseguenze che potranno<br />
facilitare o ritardare la trasformazione del burattino a uomo.<br />
Quando invita Pinocchio a curarsi dal suo essere burattino,<br />
ad assume la medicina del lavorare su se stesso, porta in scena il<br />
Corvo, una Civetta e un Grillo parlante, per mostrargli attraverso i<br />
rappresentanti della medicina, della sapienza medica – che non esistono<br />
soluzioni alla paura perché, come ogni fobia, è l’espressione di una interiorità<br />
repressa e di un contesto favorevole al suo re. Il Corvo sta per scienza<br />
31<br />
Savino Roggia, Pinocchio ritrovato, la forza di riconoscersi burattino. Milano,<br />
Tecniche Nuove Editore, 2012 p.6<br />
32 Pronunciare o cantare significa modulare i suoni indipendentemente da<br />
quello che è il sentire del cantore.<br />
156
ancorata a leggende, è il medico che opera su tesi prive di evidenze (fu<br />
esploratore di terra emersa sull’Arca di Noè); la Civetta: è quella che esercita in<br />
virtù di conoscenze mediche ancorate a credenze, rappresenta l’irrazionalità di<br />
vivere la salute quale frutto di concessioni di entità superiori; e il Grillo-parlante,<br />
che pur strazia entrambi, è fuorviante: la sua medicina più che essere scienza e<br />
coscienza esalta e punta tutto su quest’ultima, tra l’altro concepita in modo<br />
erroneo! 33 E Collodi si ripete quando incoraggia Pinocchio a<br />
sublimare il suo egoismo in altruismo, quindi in Carità: trasla<br />
l’intento attraverso un asino il quale piange a dirotto proprio come un<br />
ragazzo incompreso. Pinocchio deve capirne il senso. Deve affrontare e svegliare<br />
in sé una nuova esperienza, quella dell’abnegazione, dell’altruismo… 34 E per<br />
praticarla non dovrà badare al costo: subordinerà i propri interessi a<br />
quelli dell’altro, fino ad uscirne anche straziato appunto come il<br />
ciuchino del carro dell’Omino il quale per impedire a Pinocchio di<br />
recarsi nel Paese dei Balocchi si insacca e gli rifila una musata nello<br />
stomaco affinché rinunci al viaggio. 35 Insomma lo atterra e ne paga le<br />
conseguenze incassando dall’Omino un bacio-morso da portandogli<br />
via le orecchie, il dono dell’udito. Per il senso che nulla è penoso<br />
come la richiesta di un servizio, nulla è bello come prevenirlo, e se<br />
lasci che altri chiedano, arriverai sempre tardi. 36<br />
Pure quando Collodi sente il bisogno di allertare il mondo<br />
sul vizietto del farsi plagiare ricorre a una metafora, alla grande<br />
risata di un grosso Pappagallo. Questi, da sopra un albero…<br />
mentre gli amplifica l’esito dell’ultima esperienza [il campo dei miracoli], ne<br />
attenua la virulenza: aveva poco da ridire, visto che anche lui al solito si<br />
spollinava le poche penne che aveva addosso, ovvero ripeteva<br />
petulante fino alla noia e al rigetto tutto quanto aveva imparato, senza alcun<br />
guizzo creativo, al primo cenno del padrone. Tanto che preso di petto da<br />
Pinocchio: «Perché ridi?», risponde: «Rido, perché nello spollinarmi<br />
33.Ibid., p.131-132<br />
34 Ibid., p.256<br />
35 Ibid., p. 254<br />
36 Irène Mainguy, Simbolica dei Capitoli nella Massoneria, Ed. Mediterranee,<br />
Roma, 2007, pag. 12<br />
157
mi sono fatto il solletico sotto le ali», ovvero rido, giudico e<br />
apro il becco ancor prima di pensare, anzi di non pensare perché ne<br />
sono dispensato: a queste noie ci pensano altri, chi mi dà il<br />
becchime e chi è deputato a farlo. Un pappagallo che si distingue nel<br />
gargarizzare tutto quanto riferisce, evoca il chiacchiericcio insipido<br />
della ripetizione inutile e sterile, espressione della parola vuota. 37<br />
Altresì, l’ambiguità collodiana lievita ad attributo<br />
comunicativo finalizzato ad alzare confini, tra Pinocchio e i<br />
monelli,… poco edotti in materia di diritti. Pinocchio, per il fatto di essere<br />
l’ultimo arrivato, indipendentemente da quello che è, potrebbe essere e potrebbe<br />
fare, deve subire le prevaricazioni del gruppo, del più forte. Ogni allievo, ogni<br />
futuro cittadino, tanto per ridere, si arroga ogni sorta di arbitrio: chi gli<br />
manomette il berretto di mollica, chi il giubettino e chi lo stesso viso. Tentano di<br />
cambiargli l’identità arricchendogli il viso con grandi baffi. Provano pure a<br />
impedirgli la libertà di andare e di fare, legandogli i piedi e le mani per farlo<br />
ballare. Oppure ad abbattere il muro, a realizzare il consenso tra l’Io<br />
e l’Altro tra Pinocchio e Alidoro. …Finalmente maturata la<br />
trasformazione, alle ripetute e strazianti invocazioni «Pinocchio mio!...<br />
salvami dalla morte!...» rientra in azione la coscienza, questa volta<br />
sfoggiando pietà e compassione per il destino dell’altro. Nessun uomo può restare<br />
inerme davanti a un elemento del creato che chiede aiuto. Andrebbe contro<br />
natura! Per Pinocchio sarebbe come aver rinunciato a essere uomo prima di<br />
diventarlo. Quindi risponde e lo fa alla sua maniera, impostando una specie di<br />
trattativa. Pretende, una volta fuori pericolo, che il can-mastino si ravveda e che<br />
la smetta di essere fedele al suo padrone, all’istinto, suo re. Pinocchio, da passivo,<br />
non solo si fa soggetto attivo capace di ragionare e portare in acqua Alidoro: si<br />
erge pure a suo maestro di vita. Alidoro, meschino, non ha argomenti da<br />
contrapporre se non quelli di salvarsi e in fretta. Pur di essere fuori<br />
pericolo prometterebbe tutto. Pinocchio è titubante… però decide di levarlo<br />
dall’impiccio, perché «a fare una buona azione non ci si scapita<br />
mai». 38<br />
L’indeterminatezza dell’elevare confini e abbattere muri non<br />
solo promuove la riflessione sulla libertà di mettersi, rimettersi o<br />
37 Ibid., p.155<br />
38 Ibid., p. 224<br />
158
mettere Alidoro in viaggio libero tra pari, ma anche il dovere di<br />
farsi volta d’acciaio affinché il senso indicibile della storia e delle<br />
storie del burattino resti protetto dalle ingiurie del tiranno,<br />
dell’ignoranza. Ragion per cui Pinocchio… Dedica le ore serali alla sua<br />
passione, a informarsi e formarsi. Si rifà a un corposo e poco costoso libro, la<br />
soglia obbligata per accedere alla conoscenza del sacro e del profano, della<br />
memoria individuale e collettiva, e quindi dell’universo in quanto espressione<br />
della rivelazione e del verbum di Dio, trasmessi per guidare gli uomini verso la<br />
comprensione del suo regno. È un tomo aperto la cui lettura avanzata riferisce<br />
“sappi che al disopra di te c’è un occhio che osserva, un orecchio che ascolta e un<br />
libro in cui tutte le tue azioni sono scritte”. Quel volume manca di frontespizio,<br />
ovvero del titolo, dell’autore e dell’editore: è il libro eterno della Tradizione; ed è<br />
privo dell’indice, dell’imprimatur dell’autorità vigile e tiranna. 39<br />
39 Ibid., p.306-307<br />
159
E quando la verità si fa ineludibile e l’ambiguità mostra i<br />
suoi limiti, Collodi attinge a piene mani al simbolo 40. Di quelle<br />
autorità vigile e tiranna dice quello che deve dire, da perfetta e giusta<br />
sentinella di nuvole e tormente, le nomina con i colori del<br />
simbolismo e del rispetto e le vela tra i ciuchini del carro guidato<br />
dall’Omino, diversi nel pelo ma simili nel vizio. Ci sono i bigi, fumosi e<br />
cinerei; i bianchi, spirituali intenti a mirare le nuvole; oppure i brizzolati,<br />
determinati al compromesso pur di togliere dalle difficoltà il traino; infine ci sono<br />
quelli a strisce gialle e turchine, capaci di diffondere luce, calore (giallo del sole) e<br />
fiducia, per cui mentre chetano le passioni bruciano l’uomo. 41 E non solo<br />
perché ne presagiva le conseguenze: infatti, i re del Risorgimento -<br />
ormai non più belligeranti -, non tardarono a mettere la diletta<br />
umanità in livrea color notte e forzare i figli della Vedova tra le<br />
braccia di Morfeo. Ma perché la verità è figlia del tempo. Nessuno<br />
può ancorarsi ad essa fino all’arroganza. E poi, parola del Grillo<br />
parlante già colpito in quanto rappresentante della coscienza<br />
omologata: quando si ha ragione da vendere ci sono modi e modi per<br />
manifestarla e difenderla. Non è con le martellate, con gli insulti o con le urla<br />
che si cambia il mondo. Nel possibile bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se<br />
vogliamo essere ricambiati con pari cortesia nei giorni inevitabili della caduta. 42<br />
Un pizzico di bugia allontanerà dalla verità, ma apre alla speranza,<br />
40 Simbolo, alla lettera designa un oggetto di riconoscimento ottenuto<br />
spezzandolo in due frammenti. Ovvero, due persone che, allontanandosi,<br />
avessero voluto un giorno riprendere il dialogo sarebbe bastato esibire e<br />
ricongiungere le due metà. Diversamente simbol designa pure diabolos, il suo<br />
opposto, il quale nelle funzioni di aggettivo significa calunnioso,<br />
denigratore, detrattore, mendace, mentre da sostantivo maledicente,<br />
calunniatore e, quindi, diavolo. Ecco il retroscena storico-etimologico per<br />
cui tutto quanto è riconducibile al linguaggio simbolico evoca la ricerca<br />
della parte corrispondente, rinvia ad un’altra realtà, non decisa da<br />
convenzione, ma dalla ricomposizione di un intero.<br />
41 Savino Roggia, Pinocchio ritrovato, la forza di riconoscersi burattino. Milano,<br />
Tecniche Nuove Editore, 2012 p.251.<br />
42 Ibid., p.302<br />
160
alla possibilità che la realtà si riordini per meglio contenerne gli<br />
effetti, soprattutto quando essa è cruda e buia.<br />
161
162
163<br />
Dell’ambiguità in politica<br />
Sergio Soave<br />
A differenza di quello che si può pensare, l'ambiguità in politica, ove<br />
non sia menzogna spudorata alla quale spesso e' spregiativamente<br />
assimilata, può essere classificata addirittura come una virtù da<br />
praticare attentamente nell'esercizio di questa fondamentale attività<br />
umana. E ciò sia in politica interna, nei rapporti con il proprio<br />
elettorato, il proprio partito e i propri alleati, sia nei rapporti<br />
internazionali.<br />
Il modello insuperato di ambiguità della comunicazione (e il<br />
linguaggio politico e' finalizzato alla comunicazione) fu quello della<br />
Sibilla cubana, che riuscì a mantenere intatta la sua credibilità per<br />
tutta la vita, aggirando con superiore intelligenza e perspicacia la<br />
credulità e la insicurezza del vivere dei suoi interlocutori . L'"Ibis<br />
redibis non morieris in bello" , di norma recapitato ai guerrieri<br />
partenti, aveva un significato opposto a seconda che si mettesse una<br />
virgola prima o dopo il "non". E poiché talora pronunciava la<br />
sentenza a bassa voce, la percezione della pausa, ricercata con<br />
spasmodica attenzione, determinava nei richiedenti l'oracolo e nei<br />
loro famigliari presenti ottimismo o disperazione. Ma tale e tanto e'<br />
nell'uomo il desiderio di conoscere il proprio destino e di<br />
rassicurarsi psicologicamente su ciò che ha di più caro, cioè la vita,<br />
che la corsa a chiedere un responso non finì mai, quali che fossero le<br />
smentite della storia. Ché anzi, quando le cose non andavano<br />
secondo quanto si era compreso avesse preconizzato la Sibilla o<br />
altro indovino, sempre, tra i congiunti dell'interessato, qualcuno si<br />
alzava a spiegare che lui l'aveva detto e che si era stati stupidi a non<br />
capire che il senso delle parole dell'oracolo non era quello che si era<br />
inteso e che aveva determinato le scelte più importanti della propria<br />
esistenza<br />
Nel che sta l'origine della fortuna dell'ambiguità perché non c'è<br />
verità che ci convinca di più di quella cui abbiamo deciso di credere,<br />
in qualunque modo ce la si comunichi. E di questo, chiunque abbia<br />
a che fare con la difficile arte della comunicazione tra uomini dovrà<br />
tenere massimo conto.<br />
Una esemplificazione più moderna di questo concetto ce l'abbiamo<br />
qui vicino, a Savigliano. Come e' noto vi morì Carlo Emanuele I.
Benché fosse re guerriero, di fronte alle insistenze del papa perché<br />
partecipasse a una delle ultime crociate, ebbe presentimenti negativi<br />
che lo convinsero a rifiutare. Interpretando una terzina di<br />
Nostradamus, lettagli da una indovina di corte, credette infatti di<br />
capire che un accenno all'incontro con la morte sulla via di<br />
Gerusalemme fosse indirizzato alla sua persona. Rimase dunque<br />
nella sua terra e, dimorando per un certo tempo a Savigliano, vi<br />
morì. Una delle finestre del salone ove emise l'ultimo respiro<br />
guardava su quella che ancora oggi e' via Jerusalem.<br />
Insomma, interferendo con i desideri, le cognizioni, le tensioni del<br />
soggetto che la riceve, la comunicazione finisce per assumere<br />
significati variabili ed e' quindi, in s'è, ambigua.<br />
Quando poi vuole esserlo di proposito, le cose si complicano,<br />
sopratutto in politica.<br />
E sopratutto a partire dall'introduzione del suffragio universale<br />
come forma ordinaria della<br />
selezione dei gruppi dirigenti locali e parlamentari.<br />
Infatti, da quando la politica deve fare i conti con il consenso,<br />
l'ambiguità si e' insediata come regina del suo linguaggio.<br />
Non per caso, Gaetano Mosca, fondatore della scienza politica in<br />
Italia e senatore del Regno, quando fu proposto di estendere il<br />
diritto di voto a tutti i cittadini italiani maschi, nel 1911, si schierò<br />
immediatamente tra i fermamente contrari.<br />
Se la misura della fortuna di un uomo politico e' il consenso -<br />
ragionò il professore - egli cercherà in ogni modo di rivolgersi in<br />
maniera differenziata e cioè ambigua a gruppi differenziati di<br />
elettori. Con gli uni che gli parranno favorevoli si sentirà di<br />
esprimere tranquillamente la propria opinione, con altri, incerti,<br />
complicherà il discorso in modo tale che molti possano credere di<br />
poter concordare con lui, ecc. ecc. A prevalere non sarà più<br />
l'interesse dello Stato, ma quello dell'individuo che lo rappresenta<br />
nelle istituzioni. La demagogia vestita di ambiguità dominerà su<br />
tutto.<br />
Questo movimento delle cose che Gaetano Mosca portava talora al<br />
paradosso esemplificativo, non e' da credere che valga solo in senso<br />
negativo. Citerò qui alcuni casi clamorosi di ambiguità politica che<br />
contraddicono la certezza dell'assunto, anche se ne confermano la<br />
fenomenologia.<br />
Come si sa, Franklin Delano Roosevelt, sul finire degli anni '30,<br />
aveva intravisto con lucidità che il nazismo avrebbe portato a una<br />
164
nuova guerra e sapeva d'istinto da quale parte avrebbe dovuto<br />
schierarsi l'America per difendere i propri valori e riprendere (come<br />
infatti avverrà) quell'egemonia economica sul mondo che la prima<br />
guerra mondiale aveva già sanzionato e la crisi del '29 interrotto. Ma<br />
il presidente americano sapeva anche che il suo popolo era in<br />
stragrande maggioranza contrario a intervenire e che, alle elezioni<br />
dell'autunno 1940, avrebbe vinto nettamente la linea<br />
dell'isolazionismo ( lasciamo che gli europei si scannino come<br />
vogliono, dal momento che quando siamo corsi ad aiutarli non ci<br />
hanno nemmeno ringraziato - ed era vero - e, anzi, erano stati i<br />
responsabili veri della crisi del '29 - ed era falso -). Tra parentesi,<br />
anche Obama oggi da' la colpa della crisi agli europei, quando sa<br />
benissimo che e' nata in casa sua. Ma, in campagna elettorale,<br />
presentarsi come vittima di un nemico esterno paga sempre.<br />
Tornando a Roosevelt, sapeva dunque che l'isolazionismo era<br />
contrario agli interessi dell'America, ma non poteva dirlo. Iniziò<br />
così ad esercitare una abile operazione di ambiguità pilotata. Giurò<br />
più volte che non avrebbe mai e poi mai mandato i suoi giovani a<br />
morire per l'Europa. Quando gli si rimproverò di aiutare gli inglesi,<br />
fece il famoso discorso del caminetto, in cui chiese ai suoi<br />
concittadini che cosa avrebbero fatto se un vicino di casa, anche non<br />
troppo simpatico, vedendosi bruciare la casa si fosse rivolto a loro<br />
per chiedere semplicemente di attaccarsi al loro pozzo d'acqua. Tutti<br />
sentirono che non avrebbero potuto sottrarsi al dovere di aiutarlo e<br />
cosi il presidente segnò un punto a proprio favore. Contro coloro<br />
che paventavano l'insolvibilità dell'Inghilterra, inaugurò il sistema<br />
cash and carry , per far vedere all'opinione pubblica che, per ritirare<br />
il materiale bellico, gli inglesi dovevano pagare subito e quindi non si<br />
sarebbe ripetuto il fenomeno dei beni no pagati. Mandò navi in<br />
mezzo all'Atlantico, sperando che i nazisti le affondassero e, quando<br />
accadde,conquistò ai suoi disegni una gran parte di coloro che<br />
diffidavano di lui. Insomma, sempre sostenendo pubblicamente<br />
l'isolazionismo, operò in tutti i modi perché avvenisse il contrario.<br />
Tanto che, se e' ormai chiaro che a far fallire le trattative<br />
diplomatiche con i giapponesi nel 1940-41 furono gli americani<br />
(altro frutto dell'ambiguità rooseveltiana) non e' ancora chiaro oggi<br />
se Pearl Harbour non sia stata una trappola abilmente montata dagli<br />
americani per potere, una volta attaccati e colpiti, dichiarare quella<br />
guerra che Roosevelt voleva. E in ogni caso, si badi, a dimostrare<br />
che entrava in guerra per necessita evidente, ma non per<br />
165
convinzione, il presidente americano dichiarò guerra solo al<br />
Giappone e non a Germania e Italia. Furono queste ultime che lo<br />
tolsero definitivamente di impaccio, affrettandosi, loro, a dichiarare<br />
guerra agli Usa per fedeltà ai patti siglati con i giapponesi.<br />
Ora, si può dire che Roosevelt fosse uno spergiuro, un ingannatore,<br />
un bugiardo uno che, insomma, non merita alcuna fiducia, come<br />
oggi si ritiene per qualsiasi politico nostro? Evidentemente no, tant'è<br />
che viene ancora oggi considerato come l'ultimo grande presidente<br />
americano.<br />
Ma allora bisogna riconoscere che l'ambiguità in politica, quando<br />
quotidianamente si deve tener conto del consenso dei cittadini, può<br />
essere un'arma nobile se la si usa per una buona causa. Lo<br />
riconoscono persino gli americani che hanno un concetto di verofalso<br />
un po' più rigido del nostro. Possiamo dubitarne noi, figli ed<br />
eredi di Machiavelli ?<br />
Del resto, Roosevelt non fu il solo. Anche l'imperatore giapponese,<br />
il divino Hirohito che essendo considerato dai giapponesi una sorta<br />
di divinità non poteva, per definizione, mentire, fu costretto ad un<br />
atto di ambiguità decisiva. Come si sa, per quel popolo, non esiste<br />
concettualmente la parola resa. Fino a una decina di anni fa si<br />
trovavano ancora, nel fitto di qualche giungla asiatica, vecchi<br />
giapponesi che credevano naturale resistere, a cinquant'anni dalla<br />
fine del conflitto, e ciò per non cadere in contraddizione con la<br />
propria coscienza. Questo atteggiamento era stato causa di molti<br />
problemi. Quando già in Europa tutti i festeggiamenti per la fine<br />
della guerra erano stati fatti, nessuno in Giappone si sognava di<br />
arrendersi. Sulla base della precedente esperienza, gli americani<br />
calcolarono che ci sarebbero voluti parecchi mesi e almeno 170 mila<br />
soldati USA morti, prima di arrivare a Tokio. Fu allora che, con un<br />
calcolo cinico, decisero di sganciare le due bombe atomiche su<br />
Hiroshima e Nagashaki. Ma nemmeno di fronte all'incredibile<br />
potenza atomica (e sul fatto che potesse essere usata contro<br />
popolazioni inermi si discusse e si discuterà ancora a lungo) i<br />
giapponesi pensarono di arrendersi. Ci dovette pensare per loro<br />
l'imperatore Hirohito che, benché rispondesse a una logica divina,<br />
aveva conservato un minimo di senso della realtà. L'imperatore<br />
preparò dunque, incidendolo su due nastri radiofonici, un discorso<br />
di resa nel quale la fatidica parola "resa" non veniva mai<br />
pronunciata. Lunghe e complesse circonlocuzioni cercarono di far<br />
capire ai giapponesi che la situazione era disperata e che per il bene<br />
166
della nazione sarebbe stato opportuno trattare con gli americani<br />
per una ragionevole conclusione del conflitto, come si era fatto,<br />
quattro anni prima, per evitarlo. Nel discorso non c'erano, insomma,<br />
ne' la parola "resa", ne' la parola "sconfitta". Ciò non bastò, tuttavia,<br />
per impedire a un gruppo di colonnelli che, grazie si servizi segreti,<br />
ne avevano avuta notizia, di entrare a viva forza nella stazione radio<br />
centrale e di rubare il nastro, accusando i redattori di alto<br />
tradimento. Per fortuna, rimaneva un nastro duplicato che<br />
l'imperatore fece infine trasmettere. E la guerra finì, senza che i<br />
giapponesi potessero avere chiara la sicurezza di averla perduta.<br />
Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi. Del resto, a poco più<br />
di metà della guerra, il capo del governo italiano, gen. Badoglio,<br />
aveva superato tutti in ambiguità con il suo proclama dell'8<br />
settembre. Chi non avesse ancora capito che cosa significa in<br />
politica l'ambiguità può andare a leggerlo.<br />
Il primato della ambiguità, da noi equamente condiviso con i popoli<br />
arabi, ebbe del resto altre sublimi esemplificazioni in tempo di pace,<br />
quando, privi ormai di alcuna autonomia in politica estera, i governi<br />
italiani si contraddistinsero per ritagliarsi spazi che i nostri alleati<br />
americani non gradirono. Essendo noi in mezzo al mediterraneo e<br />
combattendosi il conflitto arabo-israeliano alle porte di casa nostra,<br />
per molti anni fummo ufficialmente amici degli israeliani, ma non<br />
rompemmo mai i rapporti non solo con i paesi arabi, ma con gli<br />
stessi rappresentanti del Fronte nazionale di liberazione di Yasser<br />
Arafat che, fino a un certo momento, era considerato un noto<br />
terrorista internazionale. Quanto al rapporto con i comunisti che,<br />
combattuti a viso aperto furono abilmente utilizzati per relazioni<br />
diplomatiche e di interesse con l'URSS (vedi il caso Togliattigrad e le<br />
reti di fornitura del gas) l'ambiguità reciprocamente utile fu molto<br />
alta. Nell'uno e nell'altro caso, si distinsero politici di primo piano<br />
come Andreotti e Moro. Il primo era il più conosciuto e apprezzato<br />
ministro degli Esteri del mondo. Nelle sue visite all'ONU, veniva<br />
costantemente circondato dai rappresentanti di tutti i paesi del terzo<br />
mondo, normalmente legati a relazioni internazionali differenti e<br />
opposte, ma per Andreotti ugualmente amici. Quanto a Moro, basta<br />
leggere le memorie di Kissinger, per capirne il grado di abilità<br />
diplomatica e di ambiguità. Il segretario di Stato americano usciva<br />
regolarmente irritato da riunioni e incontri confidenziali nei quali il<br />
nostro capo del governo cercava di incrinare la grezza linearità dei<br />
suoi comportamenti e delle sue visioni con una superiore finezza<br />
167
analitica, nella quale l'uso accorto dell'ambiguità aveva un ruolo<br />
evidente.<br />
Insomma, se non si fa conto del valore dell'ambiguità, si rischia di<br />
non capire molto dei movimenti della politica. Far credere una cosa<br />
e pensarne un'altra e' operazione costante dell'etica politica. Ciò che<br />
e' conveniente ai fini del consenso conta più di ogni altra cosa.<br />
Nella doppia veste di storico e di facente funzione di politico,<br />
conosco bene la difficoltà della decifrazione . E siccome per<br />
temperamento io non sono portato all'ambiguità anche se non sono<br />
immune dal peccato, mi trovo spesso a chiedermi come gli storici<br />
futuri (storici locali modesti - s'intende - ma perciò più sprovveduti),<br />
applicando il principio di ambiguità come elemento inevitabile della<br />
politica, decifreranno certi miei discorsi o atti, che io so essere stati<br />
assolutamente sinceri e lineari. E viceversa.<br />
Che Dio me la mandi buona, come si suol dire. Del resto con<br />
l'esercizio delle due professioni ho campato decentemente una<br />
famiglia, cercando di non far male a nessuno.<br />
E le valutazioni future, giuste o sbagliate, non mi sottrarranno al<br />
comune destino di tutti: quello del più o meno lento risucchio<br />
nell'oblio.<br />
168
aut Ciro aut Solone. Le forme delle leggi dell'ambiguità<br />
politica dopo Darwin<br />
169<br />
Piero Flecchia<br />
Di conoscenza è difficilissimo percepire l'invisibile misura, che è la sola a<br />
disporre dei termini di tutte le cose. - Solone<br />
Proprio come i teologi e i preti di tutte le fedi, anche i politologi e<br />
soprattutto i politici d'ogni orientamento tra il reazionario, via<br />
passando per il democratico fino al rivoluzionario, sembrano<br />
determinati a non ripensare le forme del loro sapere alla luce della<br />
rivoluzione darwiniana. Darwin, se avrebbe dovuto insegnare ai<br />
primi che l'origine della specie sapiens sapiens precede l'origine di<br />
dio: che ne è una delle cospicue invenzioni tecniche affondate nel<br />
fantastico; ai secondi dovrebbe insegnare che l'azione politica è<br />
delimitata e determinata da vincoli fondati nella natura, solo tenendo<br />
conto dei quali sarà forse possibile evitare l'incombere ciclico di<br />
drammatiche crisi, come ciclicamente conoscono le forme<br />
organizzative politiche delle società umane - una delle quali crisi noi<br />
italiani stiamo vivendo - e che si possono concludere anche con la<br />
disintegrazione e la scompara anche di grandi spazi politici<br />
aggreganti, come racconta in modo clamorosamente evidente il<br />
collo dell'impero romano.<br />
Oggi, nel sentire comune politica e teologia: come sono<br />
universalmente determinate dal sapere dottrinario egemone, stanno<br />
in un rapporto strutturale rovesciato, rispetto al reale.<br />
Nel sapere convenuto, malgrado il duro insegnamento dei fatti<br />
politici, come formalizzato in modo chiaro fin dal XV secolo dal<br />
Machiavelli, si continua a ritenere la (buona) politica discendere dalla<br />
morale, e la morale emanata dalla religione. Ne consegue che la<br />
politica discende dalla religione, allontanandosi e separandosi dalla<br />
quale smarrirebbe la sua funzione di regolatore positivo di un<br />
gruppo umano.<br />
Questa è l'interpretazione della politica che propongono papi imam,<br />
rabbini e bramini vari; e ritroviamo pari pari nelle mitografie dei capi<br />
delle nazioni, a discendere dal giuramento di fedeltà al suo popolo<br />
del presidente USA, e imperante nell'assemblea dell'ONU.
Nell'ordine del reale le religioni, per usare una massima illuminante<br />
latina, non sono altro che instrumentum regni. Detto in demotico,<br />
un mezzo per legittimare localmente la forma di governo<br />
comunitario organizzato intorno a uno specifico potere politico, i<br />
cui errori verranno poi imputati a corruzione umana, non essendo<br />
concepibile che corrotto sia il valore fondativo religioso.<br />
Un valore religioso che, trasformato in etica per la mediazione delle<br />
varie metafisiche, rimane valore fondativo anche in mondi sedicenti<br />
laici, e lo rimarrà, fin quando la riflessione laica sulla politica non<br />
porrà al centro il ruolo della natura.<br />
Vediamo quindi di ricapitolare brevemente i fondamenti della<br />
politica naturale quale, a discendere da Darwin, la ricerca di<br />
antropologi ed etnologi ha ricostruito nel XX secolo.<br />
I. La riproduzione per la via sessuale della vita, in quanto<br />
presuppone la coppia maschio femmina e un loro necessario<br />
contatto stabile per la procreazione, orienta le forme viventi verso<br />
un destino sociale, che si svilupperà per gradi fino alla complessità<br />
della vita di gruppo delle comunità dei mammiferi superiori e di<br />
alcune specie di corvidi.<br />
Dalla riproduzione sessuale discende un fatto decisivo: la differenza<br />
naturale universale tra individui della stessa specie, a partire dalla<br />
differenza naturale più rilevante: quella tra maschile e femminile. Ma<br />
non c'è poi maschio uguale a un altro maschio e femmina uguale a<br />
un'altra femmina, in ragione, oggi sappiamo, dello scambio di geni<br />
tra maschio e femmina, nell'ovulo fecondato che avvia ogni nuova<br />
vita.<br />
Ogni società naturale è quindi composta da esseri di una stessa<br />
specie tra loro diversi come individui, in ragione di un diverso<br />
patrimonio genetico, ma diversi anche in ragione di un'altra<br />
fondamentale differenza, questa esterna, e che determina in modo<br />
rilevante l'esistere formale di un gruppo sociale, quanto più ne<br />
acquista coscienza, attraverso l'elaborazione simbolica del dato<br />
naturale tempo.<br />
Dopo l'accoppiamento sessuale, la cura parentale di gruppo degli<br />
inetti è il secondo segmento della socialità naturale di gruppo; che si<br />
integra con gli altri due elementi forti del processo di socializzazione<br />
di ogni branco animale: la difesa solidale tra gli individui conspecifici<br />
del gruppo e la collaborazione per il cibo.<br />
170
Ogni società naturale si costruisce intorno a queste quattro<br />
funzioni di socializzazione universali: la relazione sessuale, la cura<br />
parentale, l'autodifesa di gruppo, la collaborazione per la ricerca del<br />
cibo.<br />
La percezione delle differenze legate al trascorrere del tempo, ha poi<br />
indotto, ma in una fase di ormai incombente processo di<br />
separazione dal grembo naturale, la specie del sapiens sapiens a<br />
suddivide, entro ogni sua comunità, i singoli individui in classi di età,<br />
tra l'infanzia e la senilità, in modo altamente formalizzato.<br />
La politica prende forma in ogni gruppo sociale naturale come<br />
iniziativa dei singoli individui per accedere al sesso, al cibo, alla<br />
sicurezza, la cura parentale una variabile subordinata, a discendere<br />
dalla funzione materna.<br />
E la comprensione della forma del determinarsi universale dello<br />
spazio politico nelle società naturali si raggiunge intorno a una<br />
struttura comune a tutte le specie sessuate superiori sociali: il duello<br />
di gerarchia, che determina universalmente, nelle specie sociali<br />
evolute, l'accesso al sesso. Ne consegue che, se la copula è la forma<br />
archetipica prima della relazione sociale, ma è una socialità naturale<br />
che procede oppostamente rispetto alla socialità culturale elaborata<br />
dal sapiens sapiens: che è socialità includente.<br />
La socialità naturale si fonda come processo ad escludendum, ergo<br />
aprendo una forte contraddizione tra socialità di gruppo e<br />
collaborazione tra individui del gruppo.<br />
Vediamo il fatto nel concreto<br />
Ogni femmina in estro attira i maschi maturi, che si affrontano in<br />
tornei violenti, solo il cui vincitore potrà accoppiarsi e generare. Ma<br />
questi duelli diverrebbero mortali, se molto più che un principio di<br />
embrionale forma di razionalità non guidasse i soccombenti a ritrarsi<br />
dal conflitto, e individui meno forti ad evitare il conflitto.<br />
In natura, nelle specie sociali più evolute: scimmie antropomorfe,<br />
lupi, leoni, i vincitori dei duelli di gerarchia per l'accesso alle<br />
femmine in estro assumono anche la funzione di capo branco, la cui<br />
funzione intervenire nei contrasti tra individui e bloccarli, affrontare<br />
individui di specie predatrici, e anche guidando lo scontro con<br />
branchi di individui conspecifici che insistano sullo stesso territorio<br />
di caccia, o raccolta alimentare.<br />
I capibranco sono dei veri leader politici naturali, che restano tali fin<br />
quando non sono affrontati e sconfitti da altri animali emergenti,<br />
171
quasi sempre maschi maturati dentro il branco, o quando il branco<br />
ha la forma dell' harem, in quanto il maschio dominante scaccia ogni<br />
altro maschio sessualmente maturo (società dei leoni), da individui<br />
conspecifici introdottisi nel branco.<br />
Ovviamente la socialità naturale conosce un'ampia gamma di<br />
soluzioni di organizzazione politica dello spazio sociale di gruppo.<br />
Un esempio di soluzione originale è quello delle società matriarcali<br />
elefantesche, che allontanano i maschi sessualmente maturi, le<br />
femmine solo quando in estro accettano di essere avvicinate dal<br />
maschio.<br />
Quello che qui ci preme sottolineare è che nella società naturale<br />
esiste uno spazio della politica organizzato sul principio di gerarchia,<br />
intono ai duelli tra aspiranti alla caperia, e il cui risultato è la società<br />
naturale, la cui descrizione semplificata classica è la sua<br />
rappresentazione secondo il modello del cosiddetto ordine di<br />
beccata, che descrive l'ordine di accesso al cibo, ma anche al sesso.<br />
Nell'ordine di beccata, espressione mutuata dalla socialità pollesca,<br />
dove il fenomeno fu individuato per la prima volta chiaramente –<br />
ma l'ordine di beccata regola ferreamente anche le evolute società<br />
cortigiane delle grandi regalità - un animale alfa ( il gallo che canta<br />
nel pollaio, il re nella corte) prevale su tutti i beta e i beta sui gamma,<br />
fino a discendere agli omega, ma al di sotto dell'animale alfa si<br />
hanno anche situazioni complessamente contraddittorie, per cui un<br />
beta può ubbidire a un delta.<br />
Ma c'è di più. Nelle specie sociali evolute, lo spazio della politica<br />
naturale si articola, e non occasionalmente, intorno al principio di<br />
coalizione. Spesso due leoni maschi stringono un patto e<br />
aggrediscono il maschio dominante di un branco scacciandolo, e poi<br />
governano in condominio. Lo stesso agire politico naturale raffinato<br />
gli etologi hanno constatato in gruppi di scimmie antropomorfe.<br />
Spesso accade che poi i coalizzati, giunti al potere, si scontrino, e<br />
ritorni alla posizione alfa l'antico dominante, che a volte mantiene,<br />
contro dei maschi coalizzati, il potere, in quanto sostenuto dalle<br />
femmine.<br />
Non solo, nella società dei bonobo, le scimmie antropomorfe a noi<br />
più prossime – il nostro DNA differisce dal loro di circa un 3% - lo<br />
spazio sociale della politica è governato da coalizioni di bonobo<br />
femmine, che tengono ai bordi i maschi, decidendo l'accoppiamento<br />
e rifiutando la subordinazione a un maschio alfa.<br />
172
In natura, lo spazio della politica entro un gruppo presenta ai<br />
singoli vaste possibilità di carriera e di collocazione, legate alle<br />
capacità individuali, intorno al principio organizzativo gerarchico,<br />
ma il cui rigore è tutt'altro che assoluto. E lo diventa sempre meno<br />
quanto più si fa complesso il tessuto delle relazioni sociali e quindi le<br />
variabili nello spazio della politica.<br />
II. Anche la specie sapiens sapiens ha espresso: si è definita entro<br />
una sua socialità naturale originaria, ormai irrecuperabile, ma le cui<br />
forme strutturanti, intorno al duello di gerarchia a stabilire un ordine<br />
di beccata circa cibo e sesso tra sapiens sapiens dello stesso gruppo,<br />
non potevano essere che affini a quelle che scorgiamo organizzare lo<br />
spazio sociale delle altre specie sociali a noi più prossime: quelle<br />
delle scimmie antropomorfe.<br />
E lo spazio politico della socialità delle scimmie antropomorfe si<br />
articola tra i due estremi della politica poliandrica egemonizzata dal<br />
femminile dei bonobo e quella gerarchica autoritaria sotto un capo<br />
branco dei gruppi degli scimpanzé delle foreste e dei gorilla. Una<br />
socialità, questa seconda, dove l'harem dell'alfa dominante, nota di<br />
cronaca, è a volte temperato da non rari tradimenti, quando non da<br />
aperta repulsa da parte di gruppi di femmine coalizzate, che<br />
respingono il maschio dominante, e si accoppiano con individui di<br />
rango inferiore più graditi.<br />
A quale tra le due socialità naturali: dei bonobo o degli scimpanzé,<br />
fosse più prossima la forma sociale naturale prevalente tra i sapiens<br />
sapiens primitivi non lo sapremo mai, ma è un altro l'elemento<br />
altamente significativo che si impone.<br />
Entro la struttura politica della società naturale dei sapiens sapiens,<br />
come tutte le società naturali costruita sul principio del duello di<br />
gerarchia, esplose un fatto traumatico e decisivo per i destini della<br />
specie sapiens sapiens: l'incontro con l'utensile, il cui effetto<br />
clamoroso fu di porre il sapiens sapiens in evidente conflitto<br />
contraddittorio con il duello di gerarchia, principio naturale di<br />
organizzazione dello spazio delle società naturali. Una<br />
contraddizione che nasceva dal fatto – e permane immutata - che<br />
l'impiego dell'utensile nel duello di gerarchia tra sapiens sapiens, lo<br />
trasforma in duello mortale.<br />
Questa contraddizione tra utensile e duello di gerarchia è il dato<br />
problematico che determina il passaggio della specie umana dalla<br />
173
natura alla cultura, il luogo dove si determina il processo di<br />
umanizzazione. Vediamo di meglio enucleare il punto.<br />
L'utensile nasce dal rapporto mente mano, e trasforma una specie<br />
eminentemente opportunista e predata, incapace di sopravvivere<br />
individualmente fuori dal gruppo, quale il sapiens sapiens originario,<br />
in una specie predatrice.<br />
Questa trasformazione, collegata all'utensile, di ruolo e posizione del<br />
sapiens sapiens nella catena ecologica naturale, non può essersi<br />
determinata che per segmenti aggiunti, provocando gravi situazioni<br />
di crisi, per comprendere il cui senso dobbiamo soffermarci sulle<br />
forme di socialità naturale tipiche delle specie predatrici, nella quali i<br />
duelli di gerarchia dentro il gruppo per la posizione alfa dominante<br />
avrebbero esiti mortali per uno dei due duellanti, se in queste specie<br />
non fosse stato elaborato un codice simbolico rituale di<br />
sottomissione.<br />
Solo il possesso di questo codice simbolico permette di non<br />
trasformare ogni duello di gerarchia tra individui di specie con zanne<br />
e artigli, quali i lupi, i leoni, in scontro mortale. È infatti molto<br />
maggiore il numero dei cervi morti per aver impigliato<br />
inestricabilmente le corna negli scontri, che non dei lupi nei duelli<br />
per il posto di animale alfa. E questo perché i lupi hanno un chiaro<br />
rituale di sottomissione, che esibito dal perdente, inibisce<br />
l'aggressore.<br />
Questo rituale di sottomissione è un codice linguistico simbolico,<br />
ma anche l'utensile, prima che uno strumento, in quanto esiste come<br />
progetto mentale esibito nel gruppo da chi lo realizza, é di fatto un<br />
codice simbolico.<br />
Il sapiens sapiens costruendo utensili sempre più complessi e<br />
raffinati, appoggiandosi e dipendendo dal loro impiego, a un tempo<br />
diventa un produttore di linguaggi sempre più articolati e complessi,<br />
che però retroagiscono tutti problematicamente sul nucleo<br />
costitutivo della socialità naturale: il duello di gerarchia.<br />
Un Sapiens sapiens senza utensile in natura non può uccidere un<br />
conspecifico affrontato in un duello di gerarchia, se non<br />
accidentalmente, mentre un sapiens sapiens armato anche solo di<br />
utensili elementari quali un bastone o una pietra, ma maneggiati in<br />
modo calcolato, trasforma in scontro mortale ogni duello naturale di<br />
gerarchia.<br />
174
Di più, ogni individuo sapiens sapiens di rango inferiore, munito di<br />
utensile, diventa un micidiale uccisore di un soprastante gerarchico,<br />
se lo sorprende a tradimento.<br />
L'utensile, in quanto crea l'homo necans, pone al sapiens sapiens<br />
l'aut aut: aut abbandonare l'utensile e regredire nella pura naturalità,<br />
che condannava il sapiens sapiens al destino di preda, aut usare<br />
l'utensile, ma bloccandone la valenza omicida dentro il gruppo.<br />
Per bloccare la pulsione all'uccisione del conspecifico, usando nel<br />
duello di gerarchia l'utensile o impiegandolo in un agguato, non c'era<br />
che la via già percorsa dalle specie predatrici con zanne e e artigli:<br />
elaborare un codice simbolico di interdizione dell'omicidio.<br />
Impresa non impossibile, in quanto la realizzazione dell'utensile è<br />
solo un risultato subalterno di una complessa rappresentazione di un<br />
progetto di azione, ergo espressione di una fase di conquista di una<br />
visione simbolica linguistica complessa da parte del sapiens sapiens.<br />
Se non sembra errato situare nel controllo della tecnologia del fuoco<br />
il momento di presa di controllo del sapiens sapiens sulla natura,<br />
evento che si situa ad oltre trecentomila anni or sono, già da prima<br />
del momento di raggiunta maturità nel controllo sul mondo<br />
naturale, il problema centrale del sapiens sapiens era diventato<br />
l'interdizione del duello di gerarchia all'interno del gruppo, ad evitare<br />
il deviante uso omicida dell'utensile, ma che si poteva impedire<br />
soltanto uscendo dalla suggestione egotica che caratterizza<br />
l'organizzazione sociale naturale, quale si definisce intorno alla<br />
gerarchia costruita sui duelli, sua funzione determinare l'accesso al<br />
sesso e al cibo.<br />
Per usare l'utensile in modo non omicida dentro il proprio gruppo, il<br />
sapiens sapiens doveva separare la regolamentazione dell'accesso al<br />
cibo e al sesso dai duelli di gerarchia. Altro aspetto dello stesso<br />
problema è: padrone dell'utensile, il sapiens sapiens poteva<br />
controllare la pulsione omicida soltanto superando la logica degli<br />
harem naturali dei gorilla dominanti, ma che passava per un atto anti<br />
naturale decisivo: la fine del dominio dell'animale alfa come pura<br />
autoaffermazione egotica.<br />
Bisognava ripensare ab imis il tipo di relazioni politiche entro la<br />
struttura del gruppo naturale, darsi una regolamentazione<br />
interdittiva più articolata e complessa di quella naturale fondata sui<br />
duelli di gerarchia, e quindi della subordinazione violenta, nella<br />
determinazione delle modalità di accesso al sesso e al cibo.<br />
175
Solo i gruppi di sapiens sapiens che hanno saputo, operando con i<br />
codici linguistici simbolici, sostituire, ergo sopprimere, il duello di<br />
gerarchia come strumento per stabilire l'accesso dei singoli individui<br />
al cibo e al sesso, surrogandolo con altri codici di gerarchizzazione<br />
fondati non sulla repressione gerarchica, ma sullo scambio<br />
simbolico: sulla reciprocità del dare e del ricevere, sono entrati nel<br />
mondo della cultura, avviando il processo di umanizzazione della<br />
specie.<br />
III. La costruzione di una società umana, ergo di una politica<br />
umanistica, è il risultato conseguente da una lunga elaborazione<br />
simbolica di codici di controllo sociale dell'utensile, a impedirne<br />
l'impiego omicida. Una elaborazione simbolica incominciata: coeva<br />
alla conquista stabile dell'uso dell'utensile, e continuata ininterrotta<br />
fino a oggi, come descrive la presente centralità del dibattito<br />
sull'energia atomica e sullo sviluppo sostenibile, ma soprattutto sul<br />
peso devastante delle disuguaglianze sociali.<br />
Il segno cospicuo di questo dibattito, la sua funzione decisiva per il<br />
processo di umanizzazione del sapiens sapiens, è stato l'emergere<br />
della struttura simbolica libertà, come funzione ordinatrice tanto<br />
della psiche individuale che dello spazio sociale, in sostituzione,<br />
come strumento di socializzazione politica, del duello di gerarchia.<br />
La libertà come valore di garanzia reciproca condiviso è la struttura<br />
simbolica che fonda il primo tipo di società post naturale, attraverso<br />
la creazione della quale il sapiens sapiens si separa dalla natura,<br />
luogo e regno della necessità.<br />
La società primitiva o selvaggia, che esiste intorno a un fermo<br />
interdetto all'omicidio nel gruppo, si realizza, e decifra nel suo senso<br />
umanistico, attraverso la trasformazione culturale dell'animale<br />
dominante alfa nel capo politico: il cui compito diventa sorvegliare<br />
che la buona legge degli antenati, codice simbolico dov'è il sistema<br />
di regole che governa le relazioni tra i sessi intorno tabù dell'incesto,<br />
della produzione e consumo del cibo e alla sicurezza degli individui<br />
nel gruppo, sia applicata.<br />
Accade anche, e non infrequentemente ci documenta l'etnografia,<br />
che il capo primitivo voglia comandare e non solo essere il garante<br />
della legge, ma accade allora che la comunità semplicemente lo<br />
abbandoni, e se reagisce in modo minaccioso, aggressivo, lo uccida.<br />
La comunità primitiva appare dunque travagliata da una tensione<br />
naturale che chiede un capo per garantire la buona legge degli<br />
176
antenati: il codice simbolico di governo, in quanto esiste forte la<br />
tentazione a non spartire il cibo, a trasgredire le regole sessuali, a<br />
sottrarsi al lavoro comune. Ma anche il capo tende a procedere oltre<br />
i limiti della sua funzione di garante dell'ordine simbolico<br />
comunitario, per cui se il capo controlla la comunità, la comunità<br />
controlla il capo, in ragione di una universale conoscenza della<br />
buona legge.<br />
La società primitiva vive dunque in una costante tensione tra le<br />
pulsioni naturali alla trasgressione e la conquista della coscienza dei<br />
vantaggi derivanti del controllo della pulsione egotica naturale alla<br />
conquista del centro. La società primitiva fonda la sua libertà sul<br />
rifiuto del duello e quindi del principio di gerarchia al suo interno,<br />
così realizzandosi società di liberi. Una libertà che si fonda<br />
sull'autocontrollo nel quotidiano introno ai tre poli della legge degli<br />
antenati, della presenza del capo a garantirla, e della comunità a<br />
sperimentasi come realizzazione dell'ordine buono pensato dai<br />
padri.<br />
L'ordine degli antenati, il grande codice simbolico ricapitolativo di<br />
autocontrollo e riduplicazione dello spazio sociale come spazio per<br />
una politica di libertà è insegnato alle nuove generazioni attraverso<br />
un calcolato processo educativo incentrato sull'iniziazione; il cui<br />
senso e funzione prima è: bloccare la pulsione egotica, a discendere<br />
dalla sua manifestazione più radicale: l'impulso all'omicidio.<br />
Il tratto decisivo della comunità primitiva è il codice simbolico che<br />
la governa, e le permette di pensarsi come un processo ciclico che si<br />
rinnova con lo scorrere delle generazioni e dove tutto quello che è<br />
stato sarà.<br />
Un processo simbolico ordinatore, la cui deriva porta naturalmente<br />
a immaginare i nuovi nati come antenati che ritornano, dopo un<br />
soggiorno nel mondo dei morti.<br />
Da questa visione suggestiva fantastica prende forma il codice<br />
simbolico metareligioso della reincarnazione o eterna rinascita, che<br />
troviamo diffuso nei popoli primitivi e nei loro culti sciamanici.<br />
Modello simbolico che poi trapassano dentro le culture post<br />
primitive o derivate o storiche, sorte dalla rivoluzione neolitica e,<br />
fino a oggi, stabilizzate politicamente intorno alla macrostruttura<br />
repressiva endemica stato.<br />
Una forma di questo sviluppo simbolico dell'eterno ritorno<br />
troviamo dentro la civiltà classica per l'insegnamento orfico, ma è<br />
177
universale anche tra i popoli asiatici, insegnamento ripreso dal<br />
buddhismo.<br />
Con la grande visione mitica dell'eterno ritorno scorgiamo come il<br />
codice simbolico si perfezioni e complichi, e a un tempo determini<br />
ben precisi orientamenti spirituali, che diventano forme di vita<br />
concreta. Detto altrimenti, il simbolo si permuta in realtà, ma con il<br />
rischio costante che il processo simbolico definisca percorsi ciechi,<br />
che per svolte impreviste, riportano all'emergere dell' homo necans,<br />
paradossalmente rilegittimato da visioni simboliche anche le più<br />
avverse al crimine. Abbiamo visto il messaggio cristiano trasformato<br />
in roghi inquisitoriali e guerre feroci di religione, tanto da indurre un<br />
grande spirito quale Spinoza ad affermare: “Nel tentativo di<br />
diventare angeli, gli uomini si fanno diavoli.”<br />
La costruzione del processo di umanizzazione diventa quindi, nelle<br />
società post primitive o storiche azione ancor più complessa,<br />
affidata all'azione politica, il cui compito rimane bloccare le forme<br />
distruttive di conflitto interno allo spazio sociale tra gruppi<br />
organizzati, usando a un tempo una struttura repressiva e un codice<br />
simbolico a garantirla.<br />
Detto altrimenti, nella complessità delle società storiche<br />
sopravvivono le tensioni dinamiche e quindi le soluzioni della<br />
società primitiva, che organizza il proprio quotidiano come spazio<br />
governato dalle buone leggi degli antenati, la cui applicazione si<br />
realizza sotto la sorveglianza del suo garante umano: il capo.<br />
La complessità delle società storiche si può decifrare soltanto a<br />
partire dalla società primitiva: dove si coglie netta l'azione della<br />
cultura a esorcizzare i conflitti egotici naturali, che invece le società<br />
storiche tendono a mascherare e occultare in codici simbolici<br />
fantastici. Ecco perché diventa decisivo scendere oltre la stessa<br />
società primitiva, spingere l'indagine fin entro le tensioni effetto<br />
delle modalità di organizzazione dello spazio universale della politica<br />
naturale, solo a procedere dalla quale si possono comprendere<br />
alcune forme, altrimenti inesplicabili, della politica post naturale,<br />
entro le quali si è sviluppata, ha determinato le sue forme sociali la<br />
specie umana, costretta dalla rivoluzione dell'utensile a separarsi<br />
dalla forma naturale della sua organizzazione dello spazio politico.<br />
Solo se si comprende che il richiamo all'ordine gerarchico consuona<br />
con qualcosa di fondato dentro l'individuo naturale pre umano,<br />
richiama a un suo substrato sociale primitivo naturale, si comprende<br />
178
che cosa sia accaduto dietro al richiamo al principio di gerarchia dei<br />
vari totalitarismi, ma anche a quale fondamento concreto rimandi la<br />
visione politica fondata su ogni principio religioso trascendente, a<br />
imporre forme articolate di subordinazione gerarchica.<br />
Masse di individui sbandati, senza più una identità comunitaria certa,<br />
l' hanno ritrovata in un dio, in un partito, e continuano e ritrovarla,<br />
in ragione di un interiore arcaico consuonare del doppio piacere<br />
sadomasochista, ad usare un termine psicologico per descrivere la<br />
sventurata relazione servo-padrone, comando-ubbidienza, la cui<br />
forma storica organizzata culturale estrema è lo stato totalitario<br />
burocratico, ma la cui origine sta nei duelli naturali di gerarchia.<br />
Oppostamente, abbiamo la soluzione culturale che mira non a<br />
dissolvere, ma a controllare, verificare, legittimare costantemente<br />
ogni tipo di relazione comando ubbidienza entro un gruppo umano,<br />
attraverso la discussione e ridefinizione locale e puntuale di questa<br />
forma di relazione, là dove si rende necessaria. Nasce così la politica<br />
di forma assembleare, che affida temporaneamente, e in modo<br />
segmentato, ogni funzione di comando a un individuo specifico, che<br />
viene preposto pro tempore a gestire una funzione di comando<br />
necessaria, mentre nel gruppo si afferma la convinzione che lo<br />
spazio politico debba essere uno spazio di eguali, tesi a garantire la<br />
libertà di tutti, a realizzare una forma sociale politica per di e tra<br />
uomini liberi.<br />
IV. Tutta la complessità delle società storiche politicamente si<br />
articola intorno a due ben precise forme strutturanti: abbiamo la<br />
forma che rappresenta lo spazio della politica come una ben definita<br />
catena di subordinazione gerarchica, entro la quale la parola in<br />
forma di ordine procede dall'alto verso il basso, e oppostamente la<br />
forma che si rappresenta lo spazio della politica come una struttura<br />
complanare egualitaria fondata sulla circolazione libera della parola.<br />
Entrambe queste due strutture perseguono uno stesso fine:<br />
superare, dissolvere i nuclei di tensioni egotiche, rese forti dall'uso<br />
raffinatamente ben orchestrato del principio di politica naturale di<br />
coalizione, per raggiungere posizioni alfa dominanti dentro il<br />
gruppo, ma spesso al prezzo di scontri devastanti tra gruppi<br />
coalizzati, verso una guerra civile generalizzata.<br />
Tutto il senso dell'azione politica nelle società storiche mira a<br />
impedire il conflitto violento tra gruppi organizzati di una comunità,<br />
e ha perseguito questo obbiettivo realizzando essenzialmente due<br />
179
tipi di strutture istituzionali repressive divergenti, storicamente<br />
individuate dai termini stato e comune, ma la cui analisi e dialettica<br />
ci porterebbe troppo oltre i termini di un breve saggio esplicativo<br />
delle dinamiche politiche.<br />
Quello che solo il lettore qui deve aver presente è che stato e<br />
comune perseguono lo stesso fine, ma che realizzano attivando due<br />
logiche culturali simboliche divergenti, sulle quali qui centriamo la<br />
nostra analisi.<br />
Contro la incombente svolta disastrosa verso la disintegrazione dello<br />
spazio comunitario, le società storiche hanno politicamente<br />
proceduto, torniamo a ribadirlo, verso due soluzioni divergenti:<br />
- la soluzione della mediazione linguistica assembleare egualitaria,<br />
lungo il quale si è sviluppata, nelle sue varie forme, la democrazia<br />
diretta degli antiche e dei comuni medioevali e la democrazia<br />
rappresentativa dei moderni<br />
- la soluzione della gerarchizzazione, intorno a un codice simbolico<br />
metareligioso, quale cogliamo nelle varie forme di imperi e di stati<br />
assoluti garantiti dal principio religioso, uno dei quali è stato<br />
recentemente quello del materialismo marxista bolscevico. Ma la<br />
soluzione gerarchica burocratica, di fatto significa un puro ritorno al<br />
principio naturale politico di gerarchia, i duelli per l'ascesa di rango<br />
altamente formalizzati, ad impedirne la degenerazione violenta.<br />
Questi due ordini simbolici antitetici sono in molti momenti del<br />
processo storico venuti a confronto, sopraffacendosi, a volte<br />
contaminandosi, a volte mutandosi l'uno nell'altro, ognuno cercando<br />
di imporsi nella sua forma compiuta perfetta: ideale. Ognuna delle<br />
due forme definendosi per complessi codici simbolici esplicativi e a<br />
un tempo legittimanti, ognuna convinta di realizzare, nella sua forma<br />
ideale, il compiuto processo di umanizzazione. E spesso ravvisando<br />
nel tipo umano prodotto dall'altra soluzione politica l'espressione<br />
della pura negazione dell'umano, un volto del diabolico.<br />
La complessa resistenza a riconoscere nell'altro modello una<br />
forma di umanizzazione troviamo magistralmente individuata e<br />
descritta in una pagina fondamentale di Erodoto, decisiva per la<br />
comprensione dell'agire politico nei tempi della storia.<br />
“I Lacedemoni, pur avendo respinto gli inviati degli Ioni, mandarono tuttavia,<br />
con una pentecontera alcuni uomini per indagare le faccende di Ciro e della<br />
Ionia. Questi, giunti a Focea, mandarono a Sardi il più illustre di loro, che<br />
180
aveva nome Lacrine, a notificare a Ciro le ingiunzioni degli Spartani di non<br />
fare alcun danno alle città della terra dell'Ellade, perché essi non l'avrebbero<br />
permesso.<br />
Quando l'araldo ebbe annunziato ciò, si narra che Ciro chiedesse a sua volta ad<br />
alcuni greci che erano presso di lui che uomini fossero e quanti di numero questi<br />
Spartani che gli rivolgevano tale ingiunzione. Saputolo disse all'araldo spartano:<br />
- Io non ho mai temuto uomini che hanno un luogo apposito in mezzo alla città<br />
dove si riuniscono e si imbrogliano l'un l'altro con giuramenti. A costoro, se io<br />
sono in senno, non i mali degli Ioni saranno argomenti di chiacchiere, ma i loro<br />
propri. - Erodoto, Storie 152-3”<br />
Ciro è il capo di un impero retto da una ben organizzata macchina<br />
politica strutturata gerarchicamente, costruitasi per gradi entro un<br />
processo di concentrazione e riorganizzazione, alla cui origine<br />
stanno gli imperi della tarda età del bronzo, sorti da una secolare<br />
lotta tra le città stato sviluppatesi, a partire da quelle sumere intorno<br />
al 3000 a.C.<br />
La lotta per l'egemonia ha portato a una crescente concentrazione e<br />
trasferimento del centro del potere, fino a concentrarlo appunto<br />
nelle mani dell'imperatore persiano, che si pone davanti ai sudditi<br />
come il depositario, l'investito da una dimensione trascendente a<br />
governare gli uomini.<br />
Ciro comanda a dei sudditi.<br />
Questa visione della forma e della funzione del potere, fondata sulla<br />
religione, ha preso forma intorno nella cultura sumera e, per gradi, è<br />
diventata la forma della legittimazione dell'azione politica, il cui<br />
senso non è nell'agire politico stesso, ma nella subordinazione di<br />
questo agire a un superiore disegno divino.<br />
Questa visione del senso dell'azione politica, dai persiani si trasferirà<br />
poi ai regni macedoni e da quelli all'impero romano, restando la<br />
forma della rappresentazione politica ancora oggi asserita da quanti<br />
difendono una visione creazionista della vita sulla terra, ovvero della<br />
vita come forma di un disegno divino.<br />
In astratto siamo davanti alla ripetizione dello schema di controllo<br />
interdittivo della violenza realizzato dalla società primitiva, ma nelle<br />
società storiche è saltato un anello decisivo della catena di controllo:<br />
i singoli individui soggetti alla legge trascendente non ne posseggono<br />
più quella conoscenza diretta che ogni individuo della società<br />
primitiva possiede, avendola ricevuta attraverso il rito<br />
dell'iniziazione.<br />
181
Nelle società storiche il controllo sulla gestione del codice che<br />
interdice la violenza è passato a gruppi di specialisti, del tutto<br />
sottratto al complesso della comunità. E questo trasferimento si<br />
definisce istituzionalmente nella struttura stato.<br />
Contro questa visione politica gerarchica fondata su codici simbolici<br />
emanati dal sacro, per una serie di ragioni complesse, al cui centro<br />
sta lo sviluppo nelle città greche e italiche della tecnica militare<br />
oplitica, si definisce, tra il VII e V secolo a.C. quella forma altra di<br />
gestione politica di una comunità con al centro l'assemblea dei<br />
cittadini in armi, chiamati a decidere le politiche della comunità e a<br />
un tempo a quali magistrati affidarne la realizzazione.<br />
Questa che noi chiamiamo oggi politica democratica, all'altra<br />
politica, quella di chi si vuole investito del potere politico dall'alto,<br />
appare l'azione di: “ … uomini che hanno un luogo apposito in mezzo alla<br />
città dove si riuniscono e si imbrogliano l'un l'altro con giuramenti.”<br />
Alla visione imperiale della politica fondata sul sacro l'altra politica,<br />
quella condotta dai cittadini riuniti in assemblea appare come il<br />
luogo della malizia e dell'inganno, dell'assoluta immoralità, secondo<br />
un archetipo che percorre tutto l'immaginario del riflettere<br />
sull'azione politica. Ma questa politica dell'inganno, la lettura della<br />
politica democratica come inganno, proposta da Ciro e ancora oggi<br />
trionfante, non è altro che la chiave, come appunto il Machiavelli nel<br />
'Principe' disvela, per la comprensione dell'agire politico delle società<br />
altamente gerarchizzate, dove la libera circolazione della parola non<br />
può avere corso, mentre l'affermazione, quasi sempre menzognera,<br />
dei detentori del potere, diventa per i ceti subordinati, la verità.<br />
Ciro, affermando che la politica democratica si fonda su un<br />
reciproco tendersi inganni, rivela di non conoscere altra forma di<br />
lotta politica che quella nella quale egli è il vertice, articolata intorno<br />
al principio di gerarchia, politica dominata dall'inganno e fondata sul<br />
crimine; che occulta la propria natura criminale attraverso la tripla<br />
maschera statale della difesa dei valori legittimati dal fondamento<br />
religioso, della repressione degli istinti antisociali con la legge la<br />
polizia e il carcere e della difesa dei confini con la forza militare.<br />
V. Per comprendere che cosa fondi la politica non gerarchizzante o<br />
democratica, e che cosa ne renda problematica la stabilizzazione,<br />
dobbiamo volgerci alle pagine dagli storici che hanno personalmente<br />
182
conosciuto e descritto questo tipo altro di politica, a discendere da<br />
Erodoto.<br />
Questi storici hanno tutti sottolineato il ruolo centrale del discorso<br />
libero, della parola argomentata e del comportamento leale verso gli<br />
interessi del gruppo, anche contro i vantaggi personali. Sono questi<br />
anche i tratti che caratterizzano il leader democratico, la cui azione<br />
acquista tanto più rilievo quanto più si fa strumento di affermazione<br />
degli interessi generali, contro le sempre presenti trame, spesso<br />
cruente, di gruppi organizzati di potere, intorno a singoli individui<br />
che perseguono il dispotismo, ovvero mirano a trasformare, con<br />
l'uso della forza, una società assembleare democratica in una società<br />
gerarchizzata intorno a un sistema di valori trascendenti.<br />
Detto altrimenti, che cosa preme, fin dagli albori della politica<br />
assembleare, entro e contro le sue dinamiche, per trasformare la<br />
polis, attraverso la soppressione della politica assembleare, in uno<br />
stato dispotico; e nell'oggi sostiene, contro la democrazia<br />
rappresentativa, le varie forme di potere totalitario ideologizzato,<br />
quali appunto nel '900 il potere fascista e bolscevico, cui forme<br />
residue sono ancora ben presenti e infettivamente agenti nello<br />
spazio simbolico che determina l'agire politico anche in questo XXI<br />
secolo, come in Italia esemplifica il berlusconismo, soltanto la forma<br />
storica occasionale di una degenerazione patologica della nostra<br />
democrazia rappresentativa, rivelatasi strutturalmente incapace di<br />
fare i conti con la macchina gerarchica stato, controllarne gli<br />
apparati burocratici.<br />
Ben prima della nascita delle nostre inadeguate democrazie<br />
rappresentative, le ricostruzioni storiche della vita politica nella polis<br />
greca, nel comune romano repubblicano, nei comuni medioevali,<br />
individuano una costante tendenza autoritaria gerarchica coeva e<br />
ben presente e agente in tutti gli spazi democratici assembleari, a<br />
destrutturarli.<br />
Questo racconta la documentazione storica circa la più complessa e<br />
raffinata forma storica di democrazia, quella ateniese, i cui oligarchi,<br />
a partire dall'assassinio del grande leader democratico Efialte nel VI<br />
secolo, fino al colpo di stato fondato sull'assassinio di massa<br />
condotto dai cosiddetti trenta tiranni, nelle convulsioni finali della<br />
guerra del Peloponneso, rivela come l'ordine democratico ateniese<br />
sia sempre stato percorso da tensioni autoritarie, che premevano per<br />
183
evertirlo, tensioni alimentate da fazioni sostenute da vere forme di<br />
pensiero reazionario, come appunto la proposta politica platoniana.<br />
Atene fu salvata dalla irriducibile posizione democratica dei marinai<br />
della flotta, ma questa difesa della struttura democratica non riuscì<br />
alla repubblica Romana delle guerre civili, culminate nell'eversione<br />
cesarista. E un percorso degenerativo non meno inarrestabile<br />
percorre la crisi del comune medioevale, stretto tra la pressione<br />
clericale e le tendenze di alcuni magnati a trasformarsi in dinasti,<br />
costruendo degli stati neofeudali, come in Italia i Gonzaga a<br />
Mantova, i Medici a Firenze … o a trasformare un comune in<br />
sviluppo democratico in una oligarchia chiusa, come accaduto a<br />
Venezia nel XIV secolo.<br />
Il problema è: quale forza travagliante agisca nelle strutture<br />
assembleari, per trasformarle in strutture gerarchiche: il cui senso<br />
politico è bloccare la libera circolazione della parola, ovvero arresta<br />
e mette sotto controllo il libero processo collettivo di creazione<br />
simbolica, calandovi sopra una struttura simbolica discesa da una<br />
sedicente trascendenza.<br />
Per individuare questa pulsione alla gerarchia, andiamo al Plutarco<br />
delle ' Vite parallele ', il grande esemplare racconto del mondo di<br />
eroi sorti dalle società politiche comunaliste greca a romana.<br />
Uno di questi eroi esemplari fu il legislatore e poeta ateniese Solone,<br />
incluso tra i sette sapienti, e vissuto circa una generazione prima di<br />
Ciro (alto VI secolo a.C.), ergo prima della costruzione dell'impero<br />
persiano.<br />
Di Solone sopravvivono alcuni rilevanti frammenti poetici, testi<br />
sapienziali nei quali insegna un sereno distacco dal denaro, il rispetto<br />
per valori quali l'amicizia, la parsimonia, la lealtà, il culto degli dèi,<br />
mentre della sua vita ci è giunta, attendibilmente integra, una<br />
biografia compresa nella grande opera di Plutarco: ' Vite Parallele '.<br />
Plutarco di Cheronea, gran sacerdote delfico, dista dai tempi di<br />
Solone quasi un millennio, e scrive entro un impero romano ormai<br />
consolidato, a preservare e tramandare la memoria di quell'altro<br />
tempo politico dove ebbe origine la grandezza dell'Ellade, ma anche<br />
di Roma, ergo a preservare la memoria di una differente visione<br />
politica, irriducibile al principio di gerarchia. Una differenza che ha<br />
in Solone uno dei suoi fondatori certi, in quanto autore della<br />
fondamentale riforma costituzionale che vietava in Atene la<br />
riduzione in schiavitù per debiti di un cittadino.<br />
184
Nella biografia di Plutarco si racconta che, minacciati dalla guerra<br />
civile, gli ateniesi affidarono a Solone il potere assoluto, usando il<br />
quale avrebbe potuto farsi tiranno, come poi Pisistrato, ma egli<br />
scelse di restare legislatore riformatore.<br />
Fatta approvata dall'assemblea dei cittadini, e quindi resa vigente la<br />
sua costituzione, Solone fece poi giurare ai suoi concittadini ateniesi<br />
che non l'avrebbero cambiata fin quando egli non fosse tornato in<br />
patria. E partì per un definitivo volontario esilio.<br />
In questo viaggio di esule a garantire alla città il tempo per accettare<br />
il governo delle leggi, fu chiesto a Solone quale fosse stata la sua<br />
tentazione più forte, quando la città gli aveva affidato la funzione di<br />
legislatore unico. Il Solone di Plutarco risponde che la tentazione<br />
più forte era stata di trasformare la sua azione di legislatore in quella<br />
di despota.<br />
Il Solone di Plutarco è chiaramente una figura esemplare: simbolica,<br />
ma la cui esemplarità punta a un preciso universale: l'opposizione tra<br />
il despota e il politico democratico, che in fieri, dice il Solone<br />
esemplare della mitografia di Plutarco, convivono nella stessa<br />
persona.<br />
Un leader politico può essere l'uno o l'altro, ma soltanto nello spazio<br />
della politica assembleare, dove ogni attore politico può valutare le<br />
alternative e le seduzioni tanto dell'ordine gerarchico che di quello<br />
egualitario assembleare.<br />
La figura politica che si determina chiusa entro l'ordine gerarchico<br />
non ha alcuna possibilità di comprendere la logica politica<br />
democratica, come descrive la risposta di Ciro agli ambasciatori<br />
spartani, ma qui il problema diventa: come si determina l'uscita<br />
dall'ordine gerarchico burocratico fondato nella trascendenza,<br />
quando questo si insedia in una società, la colonizza a partire dalla<br />
subalternizzazione dello spazio politico a quello religioso.<br />
La risposta si trova entro la stessa logica gerarchica, fondata sulla<br />
concentrazione crescente del potere, e quindi della crescente<br />
subordinazione e pauperizzazione dei ceti subalterni, ma anche di<br />
ogni individuo dei livelli gerarchici superiori, chiuso in quella oscura<br />
paura che tutti i sudditi delle tirannidi conoscono.<br />
In questa paura è la pulsione alla rivolta, ma che resta un processo<br />
cieco, fin quando i sudditi non riescono a immaginare un destino<br />
politico diverso dalla relazione suddito-principe. E nulla lo descrive<br />
quanto il percorso politico senza sviluppi della civiltà burocratica<br />
185
cinese del celeste impero, dove esplosero innumeri rivolte, ma che<br />
portano al potere soltanto sempre nuovi tiranni.<br />
Questo succedersi di tirannidi a tirannidi ha in Cina un clamoroso<br />
arresto, quando nelle élite intellettuali cinesi del tardo '800 si afferma<br />
la conoscenza dell'esistenza di un modello politico concreto altro: le<br />
democrazie occidentali<br />
Si apre, tra fine '800 e '900 in Cina un ciclo di rivolte che ha come<br />
obiettivo la costruzione di una forma di politica democratica<br />
assembleare, che ha portato prima a una repubblica borghese<br />
devastata da capi militari, poi al regime comunista maoista, e oggi a<br />
una situazione di diffusa tensione per una radicale trasformazione<br />
democratica, con momenti eroici esemplari ormai entrati nella<br />
simbolica politica cinese, quali il capitolo piazza Tien Ammen.<br />
Il disegno politico trasformativo cinese ci dice tutta la forza della<br />
grande macchina simbolica residuale sopravvissuta al crollo del<br />
mondo della polis greca e del comune romano, il cui impero non<br />
poteva cancellare il passato dal quale veniva senza annientarsi.<br />
Ma quel passato mostrava in ogni imperatore la negazione del<br />
principio di libertà dal quale aveva preso avvio la civiltà classica.<br />
L'impero infelice doveva mutare religione, orientalizzarsi,<br />
distruggere i testi dove si tramandava la memoria dell'antica libertà,<br />
ma quanto ne sopravvisse fu capace di suscitare la grande<br />
rivoluzione comunale medioevale, poi soffocata dalla reazione del<br />
principio di gerarchia incarnato dalla combinazione di religione e<br />
regalità statale consacrata.<br />
Eppure la memoria delle libertà degli antichi: di un mondo di<br />
cittadini e non di sudditi, in Europa sopravviveva e si tramandava in<br />
ragione dei troppo cospicui relitti di quel mondo antico, dal quale<br />
spirava un vento di libertà, a mobilitare le coscienza dei sudditi del<br />
dispotismo europeo.<br />
Il grande relitto del codice simbolico elaborato per i suoi cittadini e<br />
dai suoi cittadini nella polis greca e nel comune romano tra VII & I<br />
secolo a.C, capace di suscitare, sotto il dispotismo dei cesari, ancora<br />
testi democratici repubblicani quali 'La Farsalia' e l'opera di Tacito,<br />
ha costruito una struttura culturale capace di tramandare e insegnare<br />
a tutta la specie umana la via per un sistema di relazioni libere, il solo<br />
entro il quale, diceva Massimo d'Azeglio, si può sviluppare una<br />
autentica coscienza morale: senza la quale non si hanno cittadini, ma<br />
solo coscienze infelici e spaventate di sudditi.<br />
186
Postilla. Da quanto fin qui esposto una generalizzazione si impone:<br />
in ogni singolo individuo di sapiens sapiens, dalla rivoluzione<br />
dell'utensile, che lo ha trasformato in homo faber sotto l'endemica<br />
minaccia di trasformarsi in homo necans, convivono due forme<br />
antagoniste di socializzazione politica.<br />
La socializzazione primeva, sotto il segno delle leggi della natura,<br />
con al centro la pulsione egotica, che viene regolata entro lo spazio<br />
comunitario naturale dal duello di gerarchia, scontro concreto, ma<br />
dal quale alcune specie superiori hanno poi elaborato un sistema<br />
complesso di comunicazioni simboliche, costruite intorno allo<br />
sviluppo di una memoria posizionale.<br />
La memoria posizionale, introiezione di uno spazio sociale naturale<br />
gerarchizzato, regola, riducendo al minimo i conflitti, l'accesso al<br />
cibo e al sesso.<br />
Le tre strutture entro le quali si organizza la politica naturale: la<br />
pulsione egotica, che porta ai conflitti di gerarchia, il cui risultato è la<br />
costruzione di una memoria posizionale gerarchica, non sono state<br />
cancellate dall'irruzione dell'utensile.<br />
L'homo faber si è sovrapposto, ha preso sotto controllo il sapiens<br />
sapiens naturale, a bloccarne la deriva verso l'omicidio attraverso<br />
l'uso criminale dell'utensile.<br />
Il controllo sul proprio sapiens naturale interiore: il suo modo di<br />
socializzare, da parte dell' homo faber, si realizza per la mediazione<br />
di complessi codici simbolici, che vanno ogni volta riposizionati, in<br />
relazione agli sviluppi delle tecniche, come descrive il passaggio dalle<br />
società primitive alle società storiche.<br />
Questa frattura tra società primitive e storiche ha al centro la grande<br />
faglia neolitica, che trasforma l'uomo da cacciatore raccoglitore<br />
subalterno ai cicli della natura, in agricoltore e manipolatore sempre<br />
più raffinato del mondo naturale attraverso la combinazione di<br />
metallurgia, ceramica, tessitura, navigazione e selezione delle altre<br />
specie tanto vegetali che animali, a farne forza lavoro e cibo.<br />
La rivoluzione tecnologica del neolitico rende insufficiente il<br />
modello di controllo simbolico dell' homo faber primitivo sul<br />
sapiens sapiens naturale; controllo realizzato per la mediazione<br />
simbolica del codice degli antenati, la trasformazione del maschio<br />
dominante in capo politico al servizio della comunità, e i rituali<br />
dell'iniziazione.<br />
187
Il faber post neolitico deve elaborare una nuova strategia di<br />
controllo del sapiens naturale che ogni individuo della specie porta<br />
in sé. Questa strategia simbolica si è mossa lungo due direttrici, che<br />
hanno portato, nel tempo della storia, al determinarsi di due<br />
macrostrutture politiche di controllo delle pulsioni egotiche: lo stato<br />
e il comune, ma nella forma di controllo stato agisce una deriva<br />
verso la totale gerarchizzazione dello spazio sociale, per il suo<br />
governo burocratico, con una sorta di vera rinaturalizzazione<br />
dell'ordine sociale.<br />
Questo è il rischio nella soluzione stato: che il controllo del faber sul<br />
sapiens naturale si riveli del tutto inadeguato. Ne consegue che,<br />
mentre la società perde il controllo sull'uso dell'utensile, nelle società<br />
costruite intorno allo stato, si afferma la dinamica che trasforma il<br />
sapiens in necas, secondo quella deriva la cui forma compiuta è<br />
l'organizzazione della violenza contro società finitime, ovvero la<br />
guerra, spesso usata dai gruppi umani per bloccare i conflitti interni,<br />
trasformando la violenza interna in aggressione verso l'esterno.<br />
Una dinamica alla quale non si sono sottratte neanche le società<br />
comunali, come descrive tanto l'imperialismo ateniese che romano.<br />
E in questa deriva anche dei comuni verso la guerra è la prova<br />
evidente del permanere di tensioni regressive verso forme di<br />
socializzazione naturale anche nello spazio egualitario della politica<br />
comunale, in quanto il fondamento naturale permane in ogni faber,<br />
e chiede udienza, con la forza tenace dell'ego, quel cane, per dirla<br />
con Nietzsche, che ognuno di noi si porta appresso, come il corpo<br />
l'ombra.<br />
Ecco perché il travaglio creativo simbolico di governo dello spazio<br />
politico da parte dell' homo faber, a bloccare in lui la trasformazione<br />
in necans attraverso l'uso deviato delle tecniche, come il travaglio di<br />
Sisifo, non può aver fine, ogni soluzione positiva di controllo del<br />
faber sul sapiens originario, soltanto transitoria, in ragione del<br />
continuo mutare della tecnica e del mai venir meno del disegno<br />
egotico di primato nell'individuo. E qui stanno le ragioni<br />
imprescrittibili dell'autonomia e della necessità di creazione<br />
simbolica politica.<br />
Nota bibliografica<br />
Il modello politico qui esposto in sintesi è essenzialmente il risultato<br />
di trent'anni di riflessioni sulla politica, ora a tavola, ora<br />
188
passeggiando, commerciate con gli amici Roberto Marchionatti ed<br />
Alves Marchi; ma questa esposizione non può purtroppo più<br />
passare al vaglio della limpida critica di Alves. Ovunque egli sia, gli<br />
giunga come parte di un suo discorso che continua, così l'accolga la<br />
sua elegante ironia.<br />
sulla società naturale e le sue forme politiche si vedano i<br />
fondamentali studi di F. de Waal<br />
sulla società primitiva decisivo il contributo di P. Clastres<br />
ogni riflessione sul mondo classico non può che procedere dalla<br />
rilettura e riflessione dei suoi storici, tra Erodoto e Ammiano<br />
Marcellino, con al centro la grande riflessione di Tacito, che<br />
trasmette al mondo moderno un decisivo insegnamento.<br />
circa il problema della tirannide resta imprescindibile, con 'Il<br />
Principe' di Machiavelli, il testo di E. de La Boétie 'Discorso sulla<br />
servitù volontaria'<br />
per una articolata bibliografia mi permetto di rimandare a P.<br />
Flecchia, “Da Mussolini a Berlusconi – la demagogia politica<br />
nell'Italia del XX secolo” Milano 2012.<br />
189
190
Apparentemente una bella famiglia: nuove regole per la<br />
famiglia di fatto?<br />
191<br />
Massimo Martinelli<br />
L’evoluzione del concetto di famiglia di fatto, fondata cioè<br />
sull’apparenza comportamentale consolidata conforme ad un<br />
vincolo matrimoniale effettivamente non esistente, fino a<br />
comprendere le unioni stabili tra soggetti dello stesso sesso, pone<br />
nuove sfide alla capacità del diritto di dare efficaci risposte<br />
regolative, coerenti con la costruzione costituzionale, che tuttora<br />
riserva alla famiglia tradizionale e fondata sul matrimonio una<br />
posizione preferenziale, e con la concreta necessità della tutela,<br />
anche nell’ambito familiare, dei diritti individuali fondamentali,<br />
alla luce del principio di non – discriminazione, ormai radicato<br />
nella coscienza sociale e codificato dal diritto dell’Unione Europea.<br />
1. Dalla famiglia senza matrimonio alla convivenza senza<br />
famiglia. – L’espressione ‘famiglia di fatto’ è stata, per così dire,<br />
sdoganata nel mondo del diritto italiano nell’ultimo ventennio<br />
del secolo scorso, con una voce autorevole del torinesissimo<br />
‘Digesto’ delle discipline privatistiche. Era allora cura<br />
dell’estensore (Massimo Dogliotti) far risaltare che la scelta<br />
terminologica, come d’uso nelle scienze giuridiche, sottendeva<br />
anche una scelta di valore normativo, che era a sua volta il<br />
riflesso dell’evoluzione dell’apprezzamento sociale del<br />
fenomeno della ‘convivenza stabile e duratura, con o senza figli, tra un<br />
uomo e una donna che si comportano come se fossero marito e moglie’ . E<br />
tale scelta non poteva che apparire nella direzione del<br />
progressivo accreditamento, nell’ordinamento giuridico, di<br />
quella che, originando dal superamento del termine, certamente<br />
a precedente connotazione negativa, di ‘concubinato’ – dove si<br />
definiva per sottrazione tutto ciò che non apparteneva alla<br />
‘legittima’ relazione familiare tra uomo e donna (ed era un
192<br />
territorio sdrucciolevole verso l’illiceità civile e financo penale,<br />
posto che l’adulterio è stato penalmente rilevante sino quasi alla<br />
fine degli anni Sessanta) – e poi di quello, apparentemente più<br />
oggettivo, di convivenza ‘more uxorio’ (destinato ad essere<br />
espulso dall’uso corrente, se non altro per il progressivo<br />
estraniamento del latino come lingua di generazioni di giuristi<br />
ormai al tramonto), approdava, sotto il nome di ‘famiglia di<br />
fatto’, alla descrizione positiva di una formazione sociale che, sia<br />
pure contrassegnata dall’apparenza comportamentale e non<br />
dalla formalizzazione giuridica - (‘come se fossero marito e moglie’) ,<br />
nondimeno era comunque una famiglia: cioè un luogo del<br />
percorso esistenziale, definibile nell’esperienza comune ed<br />
indipendentemente dalla qualificazione datane dall’ordinamento<br />
giuridico, come associato alla costruzione, attorno ad una stabile<br />
attrazione affettiva fondata, nella generalità dei casi, sul<br />
dimorfismo sessuale della specie umana, di un progetto di vita<br />
condiviso che accetta una ‘partnership’ privilegiata di natura<br />
solidaristica, assistenziale, patrimoniale, ed include, seppure non<br />
necessariamente, il programmatico accoglimento della prole<br />
nelle condizioni più idonee ad assicurare a questa adeguati<br />
mantenimento, educazione ed istruzione.<br />
E’ evidente che questo tipo di famiglia allude ad un’immagine, che<br />
sarà sì giuridicamente solo l’apparenza di un vincolo matrimoniale<br />
che non esiste, ma che è, per contro, una realtà fattuale ben<br />
significativa, ed in fondo speculare della famiglia fondata sul<br />
matrimonio, della quale riproduce, se non il fatto genetico, gran<br />
parte degli effetti socialmente apprezzati. Tale evidenza delle<br />
dinamiche sociali ha finito per motivare la scelta degli operatori<br />
giuridici di indagare, prima ancora dell’opportunità di estendere alla<br />
famiglia di fatto una trama normativa esplicita (come si suol dire ‘de<br />
jure condendo’) ricalcata sul modello della famiglia di origine<br />
matrimoniale – desiderio di normazione cui, in fondo, gli stessi<br />
attori della famiglia di fatto, consapevolmente, nella maggior parte<br />
dei casi, si sottraggono -, la capacità, piuttosto, dell’ordinamento, a
norme esistenti, di accogliere la famiglia di fatto tra i riferimenti<br />
regolativi delle previsioni dettate a riguardo della famiglia<br />
‘tradizionale’, in un processo di tendenziale non – discriminazione<br />
che è avvertito come sempre più consonante al costume consolidato<br />
(Chi volesse approfondire una aggiornata e diligente disamina dello<br />
stato dell’arte di tale progressiva omogenizzazione regolativa tra<br />
famiglia di fatto e famiglia matrimoniale, nei suoi molti successi,<br />
specialmente in ordine alla tutela dei minori e degli altri soggetti<br />
‘deboli’ del nucleo familiare, e nelle residue, pur significative criticità,<br />
può trovarla sul sito della Camera dei Deputati come ‘Dossier GI<br />
0724 allegato agli atti parlamentari del disegno di legge ‘Disposizioni<br />
in materia di unioni di fatto’). Poiché, però, la vita, tanto quella degli<br />
individui quanto quella della società intera, cambia continuamente in<br />
molte forme, ed il diritto segue, se e come può, l’espressione –<br />
concetto di famiglia di fatto, che, come si è detto, aveva appena<br />
raggiunto un accettabile ed euritmico equilibrio speculare con la<br />
famiglia matrimoniale, si è trovata, in tempi più recenti, ad<br />
affrontare una sfida che, ancora una volta, sotto l’apparenza della<br />
necessità di un disambiguamento semantico, racchiude un dilemma<br />
valoriale. E vogliamo qui riferirci alla necessità, introdotta da<br />
modelli di apprezzamento sociale che sono, al riguardo,<br />
rapidamente evoluti da schemi di semplice tolleranza a quelli di un<br />
convinto sentimento diffuso di attiva non – discriminazione, di<br />
comprendere nell’ambito della famiglia di fatto l’unione di coppie<br />
omosessuali, unione che, senza che ciò appaia implicitamente un<br />
connotato di disvalore, non può tuttavia qualificarsi come famiglia<br />
di fatto, per la semplice ragione che l’ordinamento interno non<br />
prevede, allo stato, una ‘corrispondente’ famiglia ‘legittima’ (nel<br />
senso, appunto, di originante non da meri comportamenti fattuali,<br />
ma dal vincolo matrimoniale), che possa, cioè, fondarsi sul<br />
matrimonio tra persone dello stesso sesso. Per dissipare ogni<br />
sentore di vaga omofobia da questo ragionamento, vorremmo qui<br />
dire, una volta per tutte, che chi scrive, se è portatore di pregiudizi<br />
nei confronti della tendenza (omo)sessuale, per usare lo stesso<br />
termine utilizzato dall’articolo 21 co.1 – relativo al principio di non<br />
193
discriminazione - della Carta di Nizza o Carta dei Diritti<br />
Fondamentali, che è parte integrante dei Trattati dell’Unione<br />
Europea, lo è di un pregiudizio favorevole, e ciò per ragioni<br />
culturali, estetiche, storiche, politiche, ma soprattutto per<br />
insegnamento della vita. L’ assunto di cui si tratta, quindi, non è<br />
frutto di simpatia od antipatia socio-culturale verso la ‘causa’<br />
omosessuale, bensì la diretta inferenza di un dettato costituzionale<br />
esplicito, quello dell’articolo 29 della Costituzione repubblicana, che<br />
stabilisce che ‘La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società<br />
naturale fondata sul matrimonio’. Ora, molte ed interessanti sono le<br />
riflessioni esegetiche che possono svolgersi sull’articolo 29 della<br />
Costituzione, ed in parte cercheremo di darne conto in seguito, ma<br />
certamente nulla era più lontano dall’intento del legislatore<br />
costituente che immaginare che quella norma si riferisse in qualche<br />
modo all’unione familiare di persone dello stesso sesso.<br />
2. Famiglia tra natura, storia e Costituzione. Il riferimento<br />
costituzionale alla famiglia come ‘società naturale’ è dunque un<br />
termine (inteso proprio come delimitazione di un confine<br />
normativo ed ermeneutico della materia) col quale bisogna fare i<br />
conti seriamente. Al di là, infatti, di acrobazie argomentative,<br />
sempre possibili, e magari stimolanti per la loro perizia<br />
funambolica (chi volesse leggerne un esempio molto recente<br />
può accostarsi a Cass. 15 marzo 2012 n.4184, in materia di<br />
trascrivibilità in Italia di un matrimonio omosessuale contratto<br />
all’estero, che rifiuta la trascrizione di un matrimonio consimile,<br />
con l’asserzione però - che è stata, non a caso, salutata od<br />
esecrata dalle opposte tifoserie, come chissà quale ‘apertura’ ad<br />
innovazioni normative in materia -, che la ‘intrascrivibilità delle<br />
unioni omosessuali dipende non più dalla loro inesistenza ma dalla loro<br />
inidoneità a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano’ ,<br />
dove la cripticità della motivazione sottende probabilmente una<br />
certa opacità concettuale), resta il fatto che, alla luce delle<br />
tradizioni romanistica, cattolico-liberale e laica, che certamente<br />
confluirono nella genesi costituzionale, per il nostro<br />
194
ordinamento giuridico primario, la famiglia è quella fondata sul<br />
matrimonio ‘naturale’, per il quale si dovrebbe (o per lo meno si<br />
doveva) intendere “l’accordo fra un uomo e una donna nelle forme e<br />
secondo le procedure previste dalla legge”. (Questa osservazione, come<br />
alcuni degli spunti che seguono, è dovuta ad un Autore non<br />
certo di inclinazione reazionaria, come Cesare Salvi, che la<br />
formula in Natura e storia nell’evoluzione del diritto di famiglia<br />
in Italia – Studi in onore di Antonio Palazzo, UTET, 2009 pagg.<br />
807 e segg.). L’evocazione del diritto naturale può, perciò,<br />
condurre ad eclatanti antinomie, ma può anche contenere un<br />
significato normativo di perdurante attualità. E’ stato, infatti,<br />
notato che, per un verso, essa parrebbe legittimare il rinvio ad<br />
una sorta di ordinamento meta – costituzionale nel quale la<br />
fissità di certi valori giusnaturalistici, specie se assunti come<br />
derivati dalla comunicazione alla natura dell’impronta della<br />
divinità creatrice, li rende non negoziabili e non disponibili<br />
dall’ordinamento giuridico, quand’anche di matrice<br />
costituzionale, e quindi sottratti al circuito di legittimazione,<br />
essenzialmente formale e procedurale, che è proprio della<br />
democrazia politica, e della sua inevitabile inclinazione al<br />
relativismo maggioritario. Per altro verso, è possibile leggere la<br />
‘finestra’ giusnaturalista apparentemente spalancata dall’articolo<br />
29 Cost., come il rinvio alla interpretazione sociologica della<br />
realtà fattuale dei rapporti familiari, intesa come preesistenza<br />
oggettiva e consistenza formativa del contenuto della norma<br />
costituzionale, e comunque evolutiva e mutevole in consonanza<br />
con il divenire del polimorfismo dei costumi e con l’omaggio a<br />
quella dialettica storicista che doveva essere cara alla formazione<br />
filosofica e politica di molti Costituenti. Certo che, nella<br />
concretezza della storia ordinamentale, le cose sono state più<br />
somiglianti alla seconda che alla prima di queste alternative. E’<br />
facile, infatti, ricordare come la matrice ‘naturale’ ed immutabile<br />
della famiglia, quale realtà originaria ed almeno parzialmente<br />
immodificabile dal legislatore, sia stata sostenuta in passato a<br />
fondamento di connotati dell’istituzione familiare rivelatisi,<br />
195
invece, via via perfettamente contingenti, ed in qualche modo<br />
‘figli del tempo’, destinati ad essere superati dal mutamento<br />
degli assetti della società e del costume, senza che ne venisse,<br />
perciò, snaturata la percezione della peculiarità della famiglia<br />
come nucleo fondante dell’organizzazione sociale. Tale la sorte<br />
toccata nell’ordinamento italiano e, nel volgere del<br />
cinquantennio di fine secolo, all’indissolubilità del vincolo<br />
matrimoniale, alla enunciazione della ‘patria’ potestà genitoriale,<br />
con la conseguente supremazia paterna e maritale nella vita<br />
familiare, alla preferenza per i figli legittimi rispetto a quelli nati<br />
fuori dal matrimonio, alla cancellazione della rilevanza penale,<br />
già ricordata, dell’adulterio e del concubinato, a quella<br />
dell’esimente ‘per motivi d’onore’ in certi delitti familiari, ma<br />
anche, sul versante privatistico, al tramonto dell’istituto dotale,<br />
a quello della preferenza dei consanguinei sul coniuge nella<br />
successione, e del regime di separazione patrimoniale tra coniugi<br />
rispetto a quello della comunione legale degli acquisti. Insomma,<br />
la storia del costume ed il cambiamento della società sono<br />
entrati, di fatto e con veemenza, nell’istituzione familiare, anche<br />
considerata come oggetto normativo, sicché questa ‘società<br />
naturale’, a dispetto della sua presunta matrice e legittimazione<br />
extra – giuridica, è stata, in concreto, uno dei settori<br />
dell’ordinamento che più profondamente è risultato interessato<br />
da innovazioni e riforme radicali (enormemente di più, tanto per<br />
fare un esempio, del diritto di proprietà e dei contratti, che<br />
‘grosso modo’ è rimasto tuttora quello delineato dal legislatore<br />
del 1942). Ma l’operatore del diritto, specie a fronte del grande<br />
rilievo che tuttora la giurisprudenza costituzionale assegna al<br />
‘favore’ per la famiglia di origine matrimoniale testualizzato<br />
dall’art.29 Cost., non può accontentarsi di un’interpretazione<br />
apparentemente abrogante della valenza ‘giusnaturalistica’ del<br />
richiamo in esso contenuto. E se per tale enunciazione si vuole<br />
– e si deve – ricercare un’attualità precettiva, questa dovrebbe<br />
essere ricavata dalla lettura dell’articolo 29 in parallelo con<br />
l’articolo 2 della Costituzione, che contiene, come noto, un altro<br />
196
‘riconoscimento’ nodale - pressoché identico nella<br />
formulazione - di un giacimento di diritti pre – ed in qualche<br />
modo super – costituzionali: quello che la Costituzione compie,<br />
dei ‘diritti inviolabili dell’uomo’, in linea con la più limpida<br />
tradizione declarazionistica che solennemente avvicina i nostri<br />
Costituenti ai Maestri delle Grandi Rivoluzioni del 1776 e del<br />
1789, e che non a caso si colloca nella stessa irripetibile temperie<br />
morale post – bellica, che avrebbe, di lì a poco, portato alla<br />
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, fatta in nome di<br />
tutta l’umanità dai ‘ popoli delle Nazioni Unite’ nel dicembre<br />
del 1948. Sembra, perciò, di poter comprendere come le molte<br />
anime democratiche del nostro processo costituente si siano<br />
trovate consonanti nel riconoscere alla famiglia uno statuto di<br />
diritti e di libertà originarie ed inviolabili, paragonabile a quello<br />
dei diritti inviolabili dell’uomo, in aperta polemica con ogni<br />
finalità autoritaria o, peggio, totalitaria e con ogni ricostruzione<br />
funzionalistica dell’istituto familiare, che non potrà, perciò,<br />
essere strumentalizzato dall’ordinamento ai propri fini, ma<br />
dovrà essere considerato esso stesso come nucleo di una finalità<br />
ordinamentale primaria di tutela e di promozione della libertà<br />
individuale e di garanzia dell’esplicazione della persona umana:<br />
non si dimentichi, in fin dei conti, che solo con la fine della<br />
guerra civile era stata da poco abrogata l’odiosa formulazione<br />
dell’art.145 del C.C. dove si leggeva che “Il matrimonio impone ad<br />
ambedue i coniugi l’obbligazione di mantenere, istruire ed educare la prole.<br />
L’educazione e l’istruzione devono essere conformi ai principi della morale e<br />
al sentimento nazionale fascista” . Insomma, pur all’esito di percorsi<br />
e sensibilità culturali e politiche assai diverse, la nostra<br />
Costituzione ha delineato la famiglia come ‘isola di libertà’,<br />
libertà anche dalle prevaricazioni potenziali di<br />
quell’ordinamento giuridico, che pure ne sostanzia la disciplina;<br />
un’isola per la quale ancora oggi significa qualcosa la metafora<br />
un po’ aulica, con la quale, in quel fatale 1948, A.C. Jemolo<br />
(che, per vero, costituente non fu) la descriveva: “la famiglia<br />
appare sempre come un’isola che il mare del diritto può lambire soltanto…<br />
197
la famiglia è la rocca sull’onda ed il granito che costituisce la sua base<br />
appartiene al mondo degli affetti, degli istinti primi, alla morale, alla<br />
religione, non al mondo del diritto”. Per altro verso, proprio la<br />
lettura integrata dell’articolo 2 e dell’articolo 29 della<br />
Costituzione ha consentito alla consolidata giurisprudenza<br />
costituzionale di riconoscere forme diverse di protezione e<br />
rilevanza costituzionale alla famiglia di origine matrimoniale (e,<br />
possiamo aggiungere, di stampo eterosessuale), che trova il suo<br />
riferimento nell’esplicita primazialità assegnatale dall’art.29,<br />
senza negare tutela alla famiglia di fatto e, potenzialmente, alla<br />
convivenza omosessuale, che sono fatte confluire tra le<br />
‘formazioni sociali’ di rilevanza costituzionale all’interno delle<br />
quali la formulazione particolarmente duttile dell’art.2 riconosce<br />
esplicarsi la personalità umana, con il suo patrimonio di diritti<br />
inviolabili, tra i quali certamente rientra quello alla non –<br />
discriminazione in ragione delle tendenze sessuali, ora<br />
espressamente codificato, se mai ve ne fosse stato bisogno, dal<br />
diritto comunitario. Così, in modo particolarmente netto, la<br />
sentenza n.138 del 2010 della Consulta ha affermato senza giri<br />
di parole che l’eventuale introduzione nel nostro ordinamento<br />
del matrimonio tra persone dello stesso sesso sarebbe<br />
incostituzionale per violazione dell’art.29, in ragione del quale<br />
la famiglia fondata sul matrimonio è esclusivamente quella tra<br />
uomo e donna, posto che le unioni omosessuali non possono<br />
essere ‘omogenee’ al matrimonio: ma che queste ultime devono<br />
trovare tutela nell’articolo 2 Cost., che accorda rilievo e<br />
protezione alle formazioni sociali dove si svolge la personalità<br />
dell’uomo. Non sarà pertanto irragionevole aspirare alla<br />
meritevolezza di tutela ordinamentale per tutti quegli aspetti<br />
della stabile convivenza tra soggetti dello stesso sesso, quando<br />
questi appaiano lo strumento di esplicazione dei valori di fedeltà<br />
esistenziale programmatica, di assistenza morale e materiale, di<br />
disponibilità alla coabitazione, collaborazione e contribuzione al<br />
sostenimento degli oneri comuni, che la percezione sociale<br />
assimila sempre più convintamente al contenuto dei medesimi<br />
198
199<br />
obblighi che nascono dal matrimonio ai sensi dell’art. 143 C.C.,<br />
e la cui protezione non può pertanto circoscriversi al solo<br />
ambito matrimoniale, in omaggio al principio di non –<br />
discriminazione di quelle diverse inclinazioni e scelte personali<br />
che, precludendosi il matrimonio, ne attuano tuttavia, in parte la<br />
funzione socialmente apprezzata. Del resto, la tutela della<br />
famiglia di fatto e della convivenza stabilizzata origina, per sua<br />
natura, dall’applicazione a casi concreti: quasi commuove<br />
ricordare che forse il primo esempio rinvenibile nella<br />
legislazione italiana è quello della normativa sulle pensioni di<br />
guerra del ’15 – ’18, che, a determinate condizioni, estendeva il<br />
trattamento vedovile alla donna che fosse convissuta per un<br />
certo tempo con il militare deceduto; e fa parte dell’aneddotica<br />
giuridica ricordare che un contributo decisivo all’approvazione<br />
dei francesi “PACS” o “patti civili di solidarietà” pare sia stato<br />
dato dall’emozione suscitata nell’opinione pubblica dal caso<br />
della continuazione del contratto locativo dell’abitazione<br />
‘familiare’ in capo al sopravvissuto di una coppia omosessuale,<br />
nella quale uno dei partners era morto di AIDS.<br />
3. “From status to contract” (from contract to love). La<br />
gamma regolativa sempre più ampia potenzialmente richiesta<br />
dalle situazioni stabili di vita comune, che abbiamo visto<br />
evolversi dalla famiglia di fatto alle convivenze legali tra persone<br />
dello stesso sesso (ma che, una volta caduto il limite della<br />
qualificazione affettiva della radice causale della convivenza,<br />
potrebbero facilmente estendersi, non senza ambiguità, alle<br />
convivenze motivate da mutua necessità assistenziale, dalla<br />
condivisione di certe condizioni professionali, o di scelte di<br />
impegno sociale o di professione religiosa, così determinando<br />
una non auspicabile confusione tra rilevanza del mero<br />
censimento anagrafico e quella delle significatività sociale e<br />
giuridica delle formazioni riferibili in senso lato alla solidarietà di<br />
tipo para – familiare), pone il problema della<br />
contrattualizzazione degli accordi tra conviventi tendenti a
disciplinare i molteplici aspetti personali e patrimoniali del loro<br />
rapporto, spesso in funzione della ragionevole considerazione<br />
dell’accudimento della prole o delle conseguenze della<br />
cessazione della convivenza stessa, sia questa derivante o meno<br />
all’apertura della successione di uno dei conviventi. L’apparente<br />
duttilità ed aderenza agli interessi delle parti che ci si dovrebbe<br />
attendere da questo tipo di regolamentazione rimanda, di primo<br />
acchito, a quello strumento principe dell’autonomia privata che<br />
è il contratto, con un pregnante richiamo all’ enunciato di uno<br />
dei padri della sociologia del diritto del XIX Secolo, l’inglese<br />
Henry J. Maine, molto citato invero per la tesi (‘from status to<br />
contract’, sinteticamente) che individua il tratto saliente nel<br />
passaggio tra l’antica e moderna collocazione dell’individuo<br />
rispetto all’ordinamento giuridico proprio nel progressivo<br />
abbandono delle posizioni attributive di uno ‘status’ di<br />
appartenenza, cui inerisce una sorta di preconfezionata<br />
condizione di titolarità di diritti ed obblighi astrattamente<br />
preordinati dalla norma, a vantaggio delle posizioni facenti capo<br />
ad un accordo contrattuale, nel quale l’individuo, partendo da<br />
una situazione di uguaglianza formale di fronte all’ordinamento,<br />
assume liberamente e consapevolmente diritti ed obblighi, che<br />
contribuisce egli stesso in larga parte ad autodeterminare<br />
contrattualmente in conformità dei propri interessi negoziali.<br />
Ma l’applicazione dello strumento contrattuale alla realtà<br />
familiare, e particolarmente all’ipotesi di disciplinare con tale<br />
mezzo le famiglie e le convivenze non matrimoniali, come se si<br />
trattasse di creare una specie di matrimonio ‘alla carta’, fatto su<br />
misura per i paciscenti e per la tutela dei loro contingenti<br />
interessi, incontra almeno tre ordini di perplessità in relazione<br />
all’ordinamento interno. In primo luogo, quella legata alla<br />
necessità, stabilita dall’art.1321 C.C., che le prestazioni che<br />
costituiscono l’oggetto del contratto abbiano carattere di<br />
patrimonialità: il che autorizza molti dubbi sulla legittimità di<br />
affidare al contratto la regolamentazione di tutti quegli aspetti<br />
della relazione fra conviventi non inerenti la sfera patrimoniale,<br />
200
ensì il libero atteggiarsi della volontà di condivisione di vita<br />
comune degli interessati. Per tale ragione, si devono ritenere<br />
espunte dalla possibilità di valida contrattualizzazione quasi tutte<br />
le manifestazioni riconducibili all’area dei rapporti personali dei<br />
conviventi, e quindi, per esempio, all’obbligo di fedeltà, a quelli<br />
attinenti alla sfera della libertà sessuale, alla libera esplicazione<br />
dei diritti circa l’esercizio, nella convivenza, delle convinzioni<br />
religiose o degli orientamenti politici dell’individuo; e,<br />
naturalmente, gli obblighi inerenti la stabilizzazione del rapporto<br />
stesso di convivenza: il che depone per l’illegittimità di<br />
condizioni penali o premiali direttamente collegati alla<br />
persistenza della situazione di convivenza. Un’altra area<br />
problematica si connette alla statuizione dell’art. 1372 C.C., per<br />
il quale il contratto non ha efficacia che fra le parti e non<br />
produce effetti verso i terzi, se non nei casi previsti dalla legge.<br />
Il che impedisce al contratto fra conviventi di regolare<br />
efficacemente tutte quelle situazioni in cui la convivenza debba<br />
produrre effetti ‘esterni’, come accade, per esempio, quando si<br />
tratta di definire il diritto a prestazioni della pubblica<br />
amministrazione o di soggetti terzi (si pensi alle situazioni<br />
pensionistiche od indennitarie), od il regime di comunione o<br />
separazione patrimoniale degli acquisti effettuati nella pendenza<br />
della convivenza medesima; od ancora quando gli effetti della<br />
contrattualizzazione si scontrano con aree normative dove lo<br />
stabilimento di vincoli contrattuali è espressamente escluso in<br />
omaggio al dogma di una volontà, come, nel nostro<br />
ordinamento, quella testamentaria, che deve rimanere<br />
incoercibile ed ‘ambulatoria” sino al momento della morte: il<br />
che significa che i patti tra conviventi non potranno spingersi a<br />
disciplinare contrattualmente gli aspetti della successione<br />
dell’uno o dell’altro, senza incorrere nel divieto di quegli stessi<br />
“patti successori” che rimangono inibiti, salve limitate eccezioni,<br />
alla generalità dei soggetti dell’ordinamento. Ed infine, la terza<br />
area problematica investe più in generale l’effettiva idoneità<br />
dello strumento contrattuale a regolare situazioni in cui possa<br />
201
202<br />
sussistere una concreta asimmetria tra le capacità dei contraenti<br />
di valersi con la stessa efficacia del contratto, e ciò in ordine alle<br />
diverse attitudini e grado di istruzione delle parti, alla rispettiva<br />
disponibilità e comprensione di tutte le informazioni relative<br />
alla fattispecie da regolare, alla possibilità di accesso a qualificati<br />
strumenti consulenziali, e quindi alla capacità economica di<br />
sostenerne l’onere, e così via. In sostanza, è legittimo il dubbio<br />
che tutte le volte che esista un contraente debole, e questa è una<br />
situazione che si può riproporre per le ragioni più diverse<br />
all’interno della convivenza para - familiare, la proposizione di<br />
Maine perda attendibilità, e che questo tipo di contraente possa<br />
invece trarre maggiore tutela dalla fruizione di una condizione<br />
di ‘status’ di diritti, che la legge si propone di assicurare in via di<br />
uniformità e di inderogabilità a determinate fattispecie,<br />
piuttosto che dalla condizione di contraente di un patto, in<br />
relazione al quale egli non sia stato in grado di esplicare in<br />
concreto, e con tutta la richiesta effettività, la propria autonomia<br />
negoziale. In questo contesto di non dissipate ambiguità di ciò<br />
che abbiamo tentato di descrivere come una specie di<br />
‘matrimonio alla carta’ derivante non dall’esplicita assunzione<br />
del vincolo matrimoniale, ma dalla contrattualizzazione di<br />
alcuni aspetti di una convivenza legittimata dalla sola apparenza<br />
comportamentale, non si può nemmeno escludere che risorga,<br />
specie nella dialettica delle generazioni, una nuova positiva<br />
considerazione per il tradizionale istituto familiare a<br />
fondamento matrimoniale, il quale, divenuto non più il giogo<br />
necessario della qualificazione giuridica di ogni progetto di vita<br />
comune, ma la consapevole opzione della libera assunzione di<br />
un dovere durevole, che è anche una specie di sfida esistenziale<br />
alla fragilità delle determinazioni umane, assurga perciò ad una<br />
sua nuova reputazione come scelta, molto prima che di<br />
funzionalità giuridica, di intelligenza e di amore.
203
204
Note biografiche<br />
Mario Abrate: nasce a Racconigi nel 1951. Direttore della S.C. di<br />
Anatomia Patologica dell’Ospedale di Savigliano, mentre ricopre<br />
numerosi incarichi professionali e nelle istituzioni della società, con<br />
gli interessi scientifici ha sempre anche coltivato il versante<br />
umanistico, con brillanti sintesi nei due campi, come esemplarmente<br />
nelle sue indagini tra malattia e arte, medicina ed etica..<br />
Ezio Albrile (Torino 1962). Storico delle religioni del mondo<br />
antico. Si è occupato in particolare delle interazioni fra dualismi<br />
occidentali (orfismo, ermetismo, gnosticismo, manicheismo) e<br />
religioni dell’Iran antico (preislamico). A una nutrita bibliografia<br />
scientifica unisce quella di divulgatore culturale. È docente di storia<br />
religiosa dell’Iran e dell’Asia centrale presso il CESMEO di Torino.<br />
Giuseppe Artuffo nasce a Canelli nel 1963. Laureato in Farmacia ,<br />
negli anni ricopre cariche presso l'Ordine dei Farmacisti di Cuneo,<br />
Unifarma s.p.a. ed il proprio Comune di residenza, Santo Stefano<br />
Belbo dove viene eletto per due mandati consecutivi sindaco. In<br />
quegli anni costituisce la Fondazione Cesare Pavese e ne rimane<br />
Presidente fino alla fine del proprio mandato elettorale. Svolge la<br />
professione di Farmacista, ma si diletta anche di poesia fin dal<br />
periodo liceale ed il risultato sono due libri: "Dentro l'anima delle<br />
colline" e "Sedotti dalla luna", Pieraldo Editore.<br />
Umberto Casale: nasce a Racconigi nel 1951. Teologo e docente<br />
presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Facoltà di<br />
Teologia di Torino, è autore di numerose pubblicazioni. Collabora<br />
con diverse riviste specializzate, in particolare con “Archivio<br />
Teologico Torinese”. E’ consulente presso l’U.D.C. della Curia di<br />
Torino per la formazione degli operatori pastorali.<br />
Ivan Chiarlo: nasce a Cuneo nel 1970. Diplomato in pianoforte al<br />
Conservatorio "G.Verdi" di Torino, svolge intensa attività concertistica<br />
in numerosi teatri italiani ed europei.<br />
Natascia Chiarlo: nasce nel 1972 a Savigliano. Diplomata in<br />
pianoforte e canto lirico al Conservatorio "G.Verdi" di Torino e in<br />
formazione teatrale presso la RAI di Torino. Protagonista di recital<br />
205
teatrali, si esibisce in duo con il fratello Ivan. Il duo Chiarlo<br />
(Associazione Culturale "Arturo Toscanini"), producendo spettacoli<br />
ed eventi di carattere culturale. Collabora, fra l'altro, con l'Orchestra<br />
Sinfonica di Sanremo, con il Museo Parigino a Roma e con<br />
l'orchestra Sinfonica giovanile del Piemonte. Il duo è promotore<br />
dell'evento"La Santità sconosciuta – Piemonte terra di Santi" che si svolge<br />
annualmente nell'Abbazia di Staffarda<br />
Renato Coda: nasce a Torino nel 1946. Professore di Anatomia<br />
Patologica all’Università di Torino, dirige la Struttura Complessa di<br />
Oncologia dell’Ospedale Gradenigo di Torino. Da alcuni anni<br />
insegna Iconografia delle malattie nella Scuola di Perfezionamento<br />
di Paleopatologia all’Università di Pisa.<br />
Martina Corgnati (1963) insegna Storia dell’arte all’Accademia di<br />
Belle Arti di Catania. È autrice di numerose monografie di artisti<br />
contemporanei, tra i quali Pinot Gallizio (Essegi, Ravenna 1992),<br />
Albino Galvano (Tip. Valdostana, Aosta 1995), Bernard Damiano<br />
(Electa, Milano 1995), Lamberto Pignotti (Parise, Colognola ai Colli<br />
1996), Enrico Baj. Catalogo generale (Marconi-Menhir, Milano-La<br />
Spezia 1997). Tra le sue pubblicazioni: Dizionario d’arte contemporanea<br />
(con Francesco Poli, Feltrinelli, Milano 1994); Cracking art. Nascita di<br />
un’avanguardia (Mazzotta, Milano 2005) e la cura di Meret Oppenheim<br />
(Skira, Milano 1998). È presidente del comitato scientifico del<br />
Premio Suzzara, consulente responsabile per l’arte contemporanea<br />
del Parco Letterario Horcynus Orca (Messina), consulente per le<br />
attività espositive dei Musei di Spoleto. Collabora stabilmente a<br />
diversi periodici e quotidiani con rubriche e interventi dedicati<br />
all’arte moderna e contemporanea. Per la Bruno Mondadori ha<br />
pubblicato Dizionario dell’arte del Novecento (Milano 2001) e Artiste<br />
(Milano 2004).<br />
Michele Emmer (1945) e’ professore ordinario di matematica<br />
all’università’ di Roma “La sapienza”. Si e’ occupato di superfici<br />
minime e di calcolo delle variazioni, di computer graphics, dei<br />
rapporti tra matematica e arte, tra matematica e cultura, di film, di<br />
mostre. Ha realizzato 18 film della serie “Arte e matematica” tra cui<br />
il film su Esche e Flatlandiar. Ha organizzato mostre: una parte della<br />
sezione “Spazio” della Biennale di Venezia del 1986; la prima<br />
mostra di Escher in Italia nel 1986; la mostra itinerante “L’occhio di<br />
206
Horus” nel 1989. Una seconda mostra su Escher nel 1998 a Roma<br />
e Ravello. L’ultima mostra “Acquarelli di Peter Greenaway” Venezia<br />
2006. Organizza da 14 anni il convegno “Matematica e cultura” a<br />
Venezia, e’ editor della serie Springer “Mathematics and Culture” e<br />
della serie “The Visual Mind”, MIT Press. Ha scritto per 25 anni su<br />
L’Unita’, Diario, Sapere. Collabora a Alfabeta2, La Stampa, Il<br />
Manifesto, Galileo. Dal 2006/07 ha tenuto un corso all’università’ di<br />
Roma su “Spazio e forma”.Ultimi libri: “Bolle di sapone tra arte e<br />
matematica”, 2009, premio letterario Viareggio 2010; “Numeri<br />
immaginari: cinema e matematica”, Bollati Boringhieri, 2011; “Il mio<br />
Harry ’s bar”, Archinto ed., 2012; “Imagine Math”, Springer, 2012;<br />
“Flatlandia di E. Abbott, con il suo film omonimo in DVD, con<br />
musiche di Ennio Morricone, 2008, "Visibili armonie arte cinema<br />
teatro matematica", 2007, tutti con Bollati Boringhieri; "The Visual<br />
Mind 2", MIT Press, 2006; “M. C. Escher ’s Legacy” Springer USA,<br />
2003, "Mathematics and Culture VI", Springer verlag, 2009; un<br />
capitolo in "Venise", Flammarion, Paris, 2006, “Matematica e<br />
cultura 2009”, Springer 2009, “Matematica e cultura 2011”,<br />
Springer, 2011. La fiaba “Fiore del vento”, Centro Internazionale<br />
della Grafica di Venezia, “Una notte ballando”, Minima poetica,<br />
2007. Ha ricevuto nel1998 il premio "Galileo" dalla Unione<br />
Matematica Italiana, nel 2004 il premio “Pitagora”. E’ stato membro<br />
per 3 anni della Commission for the popularization of math of the<br />
European Math Society.<br />
Piero Flecchia: nasce a Torino nel 1938. Esordisce come narratore<br />
apprezzato da Filippini Contini e Pampaloni (Bompiani, Emme<br />
edizioni, Lerici) per poi studiare, dagli anni 1970, quasi soltanto<br />
l’istituzione stato, sulla quale ha pubblicato episodici e dispersi saggi<br />
e articoli.<br />
Ezio Fulcheri: nasce ad Alba nel 1952. Professore di Anatomia<br />
Patologica presso l’Università di Genova e di Paleopatologia presso<br />
l’Università di Torino. Responsabile del Centro di Patologia fetoneonatale,<br />
svolge attività diagnostica e di ricerca sulle malformazioni<br />
congenite. Presidente dell’Associazione “L’abbraccio di don Orione”<br />
per la tutela e la cura dei neonati e della maternità.<br />
(www//abbracciodonorione.it)<br />
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Giorgio Giacosa nasce a Torino nel 1932. Una naturale<br />
inclinazione lo porta alla musica, dove si affermerà, tra la RAI e le<br />
sue orchestre, tra i più raffinati esecutori musicali tanto al flauto che<br />
al sax e clarinetto. La sua versatilità e vasta sensibilità, come<br />
documentano le molte incisioni, gli ha consentito di affermarsi sia<br />
nella musica classica, nel jazz, che nella musica leggera. Della sua<br />
vasta esperienza ama ricordare, accanto al sodalizio musicale con il<br />
maestro Carlo Sismonda, la decisiva e formativa - tra il<br />
millenovecentocinquantacinque e il ’sessanta - esperienza accanto al<br />
grande Fred Buscaglione.<br />
Lino Lantermino: nato nel 1940, farmacista per necessità, studioso<br />
della Shoah per passione, tiene corsi, conferenze ed incontri.<br />
Predicatore battista, si occupa part time del tempio evangelico di<br />
Cuneo.<br />
Beppe Mariano: nato nel 1938 a Savigliano. Poeta e scrittore. Negli<br />
anni ’70 ha fondato, con Sebastiano Vassalli, la rivista “Pianura” ed<br />
è stato “Poeta visivo” (Catalogo Marcovaldo 2002). Già Direttore<br />
del Teatro Toselli di Cuneo. Per venti anni ha scritto sulla terza<br />
pagina della “Gazzetta del Popolo” ed in seguito su “Stampa Sera”.<br />
Premiato più volte in concorsi letterari. Ha pubblicato sette raccolte<br />
di poesia, l’ultima delle quali, “Il passo della salita” (Interlinea 2007),<br />
raccoglie trent’anni di lavoro. Del 2010, “Mòria e Mistà. Ballate dei<br />
monti perduti”. Da quattro anni condirettore della rivista romana di<br />
narrativa e critica“Il cavallo di Cavalcanti”. In corso di stampa, presso<br />
“Aragno Editore” l’opera omnia della sua produzione poetica.<br />
Massimo Martinelli: (Cuneo 1955), Notaio in Cuneo. Ex<br />
Magistrato e Procuratore dello Stato. Attualmente membro del<br />
Comitato Esecutivo di Unicredit Mediocredito Centrale. Presidente<br />
dell’Osservatorio Famiglia e Impresa presso la Facoltà di Economia<br />
dell’Università di Torino, sede di Cuneo. Si è avvicinato, in<br />
particolare, al Diritto della Bioetica e della Tutela delle Persone<br />
Svantaggiate.<br />
Lorenzo Orione: nato nel 1960 a Genova da antica famiglia<br />
piemontese di Piverone, è medico specialista in Igiene e Medicina<br />
Preventiva, Epidemiologia e Sanità Pubblica. Direttore della<br />
Struttura Complessa Unità di Valutazione e Organizzazione degli<br />
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Screening (<strong>Prevenzione</strong> <strong>Serena</strong>) per le aziende sanitarie ed<br />
ospedaliera della Provincia di Cuneo, è autore di numerose<br />
pubblicazioni medico-scientifiche inerenti l’epidemiologia e gli<br />
screening dei tumori. Culturalmente tradizionalista e moderato, di<br />
formazione cattolica e studi superiori scientifici, ritenendosi tenuto<br />
per la sua condizione a obbedire alla legge morale, si conforma ad<br />
Audi, Vide, Tace, posto sempre che Omnia tempus habent.<br />
Vanna Pescatori: nata a Trieste nel 1953, si è laureata nell'ateneo<br />
triestino in Filosofia teoretica. Docente di materie letterarie dal<br />
1977, tiene da tre anni il corso di Teoria e Metodo dei Mass Media<br />
all'Accademia di Belle arti di Cuneo. Da oltre vent'anni collabora<br />
come giornalista alla testata de < La Stampa > edizione di Cuneo,<br />
per le pagine culturali e, più sporadicamente, con alcune altre testate<br />
del territorio.<br />
Gianni Rabbia: nasce ad Omegna nel 1944. Già docente di<br />
letteratura negli Istituti Superiori e direttore IRRE Piemonte.<br />
Attualmente è Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di<br />
Saluzzo. Collabora con alcune testate locali.<br />
Daniela Ribetto: nata nel 1955 a Pinerolo. Docente di materie<br />
letterarie presso un Istituto di Istruzione Superiore della provincia.<br />
Dal 1989 iscritta all’Ordine degli Psicologi del Piemonte (art. 32 L.<br />
56/89), si occupa di psicologia dell’età evolutiva.<br />
Savino Roggia: nasce a Orta Nova (FG) nel 1946. Già ricercatore<br />
nei laboratori del Gruppo Lepetit a Milano, dal 1980 è titolare della<br />
farmacia di Vernante, Cuneo. Da pubblicista ha scritto per le testate<br />
giornalistiche della provincia Granda e pubblicato il libro-dossier<br />
Farmacia, Salute e Informazione. E’ impegnato nell’esegesi de “Le<br />
Avventure di Pinocchio” di cui è prossimo un primo saggio.<br />
Franco Russo: nato nel 1946. Dopo aver frequentato il liceo<br />
classico “Pellico” di Cuneo si laurea all’Università di Torino in<br />
Lettere moderne con il prof. Barberi Squarotti discutendo una tesi<br />
sul teatro inedito di Edoardo Calandra. Insegna per alcuni anni in<br />
scuole medie e superiori della provincia di Cuneo. Dal 1978<br />
intraprende la carriera di preside prima in scuole medie ed istituti<br />
comprensivi della provincia e dal 2007 presso il liceo classico di<br />
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Cuneo che lo ha visto studente. Scrive molto ma preferisce<br />
destinare quello che scrive ad una ridotta cerchia di amici piuttosto<br />
che collocarlo su riviste destinate ad un pubblico più vasto.<br />
Sergio Soave: nasce a Savigliano nel 1946. Professore di storia<br />
contemporanea all’Università degli Studi di Torino, collabora con<br />
numerose riviste del settore. Ha studiato i problemi del movimento<br />
cattolico, delle autonomie regionali e del movimento socialista. Dal<br />
1983 al 1992 e, successivamente, dal 1996 al 2001 è stato deputato<br />
al Parlamento. Dal 1996 al 2004 ha ricoperto la carica di sindaco<br />
della città di Savigliano.<br />
Ugo Volli (1948) è ordinario di Semiotica del testo all'Università di<br />
Torino, dove coordina anche il Centro interdipartimentale di ricerca<br />
sulla comunicazione (CIRCE) e l'indirizzo comunicativo del<br />
dottorato di ricerca in scienze del linguaggio e della comunicazione.<br />
Ha al suo attivo oltre 250 pubblicazioni scientifiche e una quindicina<br />
di libri. Collabora con vari giornali, radio e televisioni. Svolge attività<br />
di consulenza sulla comunicazione per numerose aziende e<br />
istituzioni pubbliche. Ha insegnato in numerose università italiane<br />
straniere. Fra i suoi libri più recenti, "Laboratorio di semiotica"<br />
(Laterza 2005). "Lezioni di filosofia della comunicazione" (Laterza<br />
2008), "Parole in gioco" (Compositori 2009).<br />
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