L'incontro - nr. 161 - Cooperativa sociale AEPER

ISSN 2240-2985 L’incontro (Bergamo)
euro 7
RIVISTA PROMOSSA DALL’AEPER
161 maggio 2012
Viaggiatori
leggeri
25 anni
Cooperativa Aeper
Periodico di cultura e informazione - Direttore resp.: Pietro Serina - Sped. in A.P. - 45% art. 2 comma 20/B - legge 662/96 Filiale di BG - anno XXV n. 1
In caso di mancato recapito si prega di restituire al mittente che si impegna a pagare la dovuta tariffa.

GRUPPO
AEPER
www.aeper.it
info@aeper.it
Evoluzione storica
1974
Gruppo di base “La baita”
1978
Comunità Nazareth
1990 La Pèta
2009 Ass. eccles. di fedeli
1980
Associazione AEPER
1980 La baita
1986 Gruppo “La strada”
1987 L’incontro
1988 Il sestante
1988 La casa di Emilio e Rachele
1992 Il Pitturello
1992 Progetti esteri
1986
Cooperativa sociale AEPER
1987 Progetto Cordata
1990 Rete famiglie
1990 Il colibrì
1999 L’aquilone
1999 Villa fiorita
2002 Punto più
2004 Il vantaggio
2004 Alisei
2005 Piccola stella
2008 Progetti autonomia
2001
Cooperativa “Il varco”
2005 Residenzialità leggera
2006 Macramé
2008 Residenzialità leggera
2009
Coop. agricola “La Pèta”
2009
Fondazione
“Don Primo Bonassi”
Comunità
Nazareth
Comunità Nazareth
Comunità di vita
Via Giovanni XXIII, 45/a
24060 Torre de’ Roveri (Bg)
tel. 035.58 34 85
fax: 035.58 23 56
E-mail:
comunitanazareth@aeper.it
donemilio@aeper.it
La Pèta
Comunità di vita e di accoglienza
via Pèta, 3
24010 Costa Serina (Bg)
tel.: 0345.97 955
fax: 0345.03 12 01
E-mail: info@lapeta.it
www.lapeta.it
Associazione
AEPER
AEPER
Associazione Educativa
per la Prevenzione E il Reinserimento
Sede
Via Giovanni XXIII,45/a
24060 Torre de’ Roveri
tel. 035.58 04 22
fax 035.58 23 56
E-mail: associazione@aeper.it
Il Pitturello
Centro di educazione e aggregazione
“Don Primo Bonassi” (v. sede)
Il Sestante
Laboratorio di ricerca e documentaz.
sul disagio - Editrice (v. sede)
L’Incontro
Rivista promossa dall’Aeper (v. sede)
E-mail: incontro@aeper.it
Gruppo La Strada
Laboratorio di animazione, feste
e rappresentazioni sacre (v. sede)
E-mail: lastrada@aeper.it
La Baita
Centro Formazione Permanente
Via S. Lorenzo, 23
24010 Costa Serina (Bg)
tel. 0345.97 013
E-mail: luisabebe@sonic.it
La casa di Emilio e Rachele
Casa di accoglienza per famiglie
Via Verdi, fraz. Ascensione
24010 Costa Serina (Bg)
tel. 0345.97 955 - 0345.97 962
E-mail: luisabebe@sonic.it
Cooperativa
AEPER
Cooperativa Sociale AEPER
Animazione Educazione
Prevenzione E Reinserimento
Sede
Via Rovelli, 28/L - 24125 Bergamo
tel. 035.24 31 90 - fax 035.41 32 266
E- mail: cooperativa@aeper.it
www.cooperativaaeper.it
L’Aquilone
Comunità e progetti per minori
Via Giovanni XXIII, 45/a
24060 Torre de’ Roveri (Bg)
tel. 035.58 34 85
E-mail: aquilone@aeper.it
Rete Famiglie
Famiglie affidatarie e amiche
Laboratori famiglie
via Ozanam, 2 - 24126 Bergamo
tel.: 035.02 91 382
PuntoPiù
Spazio sostegno relazioni famigliari
Via Rovelli, 28/L - 24125 Bergamo
tel. 035.24 31 90 - fax 035.41 32 266
E-mail: puntopiu@aeper.it
Piccola stella
Comunità terapeutica adolescenti
Via Torre / loc. Cascinetto
24030 Medolago (Bg)
tel. 035.49 48 430
Il vantaggio
Comunità diurna
per famiglie multiproblematiche
C.so Roma, 110 - 24068 Seriate (Bg)
tel. e fax: 035.24 66 99
E-mail: vantaggio@aeper.it
Progetti autonomia
per neomaggiorenni
Costa Mezzate
Albano S. Alessandro
Villa fiorita
Comunità psichiatrica
Via don Cariboni, 14
24012 Brembilla (Bg)
tel.: 0345.99 548
fax: 0345.53 938
E-mail: villafiorita@aeper.it
Progetto Cordata
Centro diurno disagio psichico
Via Casale, 31
24060 Torre de’ Roveri (Bg)
tel. e fax 035.58 13 00
E-mail: cordata@aeper.it
Alisei
Centro diurno psichiatrico
Via A. Moro, 53
24018 Villa d’Almè (Bg)
Il Colibrì
Laboratorio legno e oggettistica
(v. Progetto Cordata)
E-mail: colibri@aeper.it
Kaleido
Centro diurno psichiatrico
Via del Salmister, 1
24030 Terno d’Isola
Tel. 035.02 91 341
COOPERATIVA SOCIALE
Cooperativa
Il varco
Il varco
Cooperativa sociale
Via don Cariboni, 11
24012 Brembilla (Bg)
tel. e fax 0345.99 548
E-mail: ilvarco@aeper.it
Residenzialità leggera
Area salute mentale
Via Bregni, 6
24019 Somendenna
Zogno (Bg)
tel. 347.63 46 569
E-mail: villafiorita@aeper.it
Residenzialità leggera
Area salute mentale
fr. Gazzo, via Locatelli, 4/c
24010 Costa Serina (Bg)
E-mail: villafiorita@aeper.it
Macramé
Centro famiglia
Via A. Moro, 53
24018 Villa d’Almè (Bg)
Tel.: 338.62 56 564
E-mail: ilvarco@aeper.it
Cooperativa
agricola
La Pèta
allevamento capre
produzione formaggi
alta qualità
via Pèta, 3
24010 Costa Serina (Bg)
tel.: 0345.97 955
fax: 0345.03 12 01
E-mail: info@lapeta.it
www.lapeta.it
Fondazione
Fondazione
don Primo Bonassi
Via Giovanni XXIII, 45/a
24060 Torre de’ Roveri (Bg)
tel. 035.58 34 85
www.aeper.it
www.cooperativaaeper.it

Sommario 161
n. 1 maggio 2012
Viaggiatori leggeri
Presidente Judith Tasca pag. 8
Moderatore Rocco Artifoni pag. 9, 14, 19, 25, 32
Relatori Ivo Lizzola pag. 10
Judith Tasca pag. 15
Franco Floris pag. 20
Marco Vincenzi pag. 26
Gianni Tognoni pag. 33
CONTRIBUTI
Luisa Ghisleni
Un 25° qualunque? pag. 45
Raffaele Casamenti
Il cuore dell’esperienza dell’Aeper pag. 47
Raffaele Casamenti
Danzare sul toro pag. 50
Adriana Lorenzi
Cara Aeper, ti scrivo... pag. 53
Raffaele Casamenti
Piccola storia di una Cooperativa pag. 60
INCURSIONI
GRUPPO LA STRADA
11
Drammaturgia e regia di Sivia Barbieri commento di Gaia Del Prato
22
44
55
77
Gran Baccano pag. 7
In viaggio, leggeri pag. 13
Vestimi d’amore pag. 24
Quando il bambino era bambino pag. 31
La parabola dell’arciere pag. 39
OPERATORI COOPERATIVA AEPER
testi di Adriana Lorenzi commento di Giusi Poma
33
66
Mi piace, non mi piace
Grazie
pag. 18
e buon compleanno Aeper pag. 37
PAROLE E IMMAGINI
Mostra a cura di Anna Cattaneo, Daniela Monardo
RUBRICHE
Nuovo sito a cura di Rosita Poloni pag. 62
Nuova casa editrice del Gruppo Aeper pag. 63
Il Gruppo “La strada” propone pag. 64

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L’INCONTRO ANNO XXV N. 1 maggio 2012
Periodico di cultura e informazione.
Spedizione in abbonamento postale -45%. art.2 comma 20/b - I.662/96 - Bergamo.
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Direttore: Emilio Brozzoni (e-mail: donemilio@aeper.it).
Direttore responsabile: Pietro Serina.
Comitato di redazione: Rocco Artifoni, Marco Belotti, Giulia Bonasio, Emilio Brozzoni,
Rita Brozzoni, Marco Caraglio, Gaia Del Prato, Rita Gay, Ivo Lizzola, Adriana Lorenzi,
Mauro Minervini, Francesca Nilges, Giusi Poma, Brunella Sarnataro, Marco Zanchi.
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Rivista di cultura sociale che vuole coltivare la memoria,
offrire spazio a diverse prospettive e modalità di narrazione,
porre particolare attenzione all’umanità più fragile ed emarginata,
valorizzare e far conoscere esperienze concrete di vita solidale,
leggere con spirito critico le culture, gli intrecci economici e le scelte politiche.
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contemporanei ispirati alle Scritture, alla tradizione cristiana,
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Fotografie: AEPER, Matteo Zanardi Photo & Graphic,
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Stampa: LEB - CASTELLI BOLIS
via A. Volta, 4 - Cenate Sotto (Bg).
Registrazione: Tribunale di Bergamo n. 39 del 4/12/1987.
Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa
al n. 06152 del 27/01/98.
Questo numero è stato chiuso in tipografia a maggio 2012
Per la riproduzione di testi e fotografie si prega di citare la fonte.

25 anni
“Viaggiatori leggeri”
Convegno 25 anni Cooperativa Aeper
28 gennaio 2012
L’incontro 127-128 luglio-dicembre 2003 editava un corposo “numero speciale” di 116 pagine
dedicato ai 25 anni del Gruppo Aeper. Immagini, racconti, riflessioni, contributi, testimonianze…
si erano intrecciati a raccontare una storia di donne e uomini alla ricerca di senso.
Una storia cominciata più di quarant’anni fa nel cuore generatore del Concilio Vaticano II e
che prende volto nel 1978 con la nascita della Comunità Nazareth.
Da allora sarà un susseguirsi di sogni e di ideali che daranno origine a tante forme di vita (associazione,
cooperative, comunità di vita, rete famiglie, fondazione…), che costituiranno, nel
tempo, il gruppo Aeper.
Nello scorrere degli anni ci è caro fare memoria del passato per imparare, nell’oggi, a immaginare
il futuro che è alle porte. È la vita che ci abbraccia e che ci invita ad apprezzarla e a
gustarla.
cooperativa Aeper
5

2003
I 25 anni
del Gruppo Aeper
Judith Tasca
Presidente
25 anni
Anche la prima cooperativa del gruppo ha raggiunto i 25
anni. Ci siamo fermati a festeggiare quanto abbiamo vissuto
insieme. Non una celebrazione ma un convenire per rinnovare
legami, promesse, scelte che ci hanno accompagnati
nel tempo.
Lo abbiamo fatto in piccoli momenti informali, in altri più
strutturati, per fare sintesi nel convegno di fine gennaio.
Volti ben familiari e tanti volti nuovi. E tanti cuori a vibrare
insieme. Attorno a una grande tovaglia cucita a puzzle, con
i nomi di cari amici che hanno incontrato la nostra storia.
Tanti dei quali non sono più. A ricordarci da che parte abbiamo
scelto di stare.
Anche questa una preziosa occasione per consolidare ideali e
promesse. Per fare memoria di tanti testimoni che abbiamo
conosciuto e che ci hanno spronato a osare. Soprattutto per
chiedere a testimoni odierni di accompagnarci in una riflessione
di rilettura di questi anni trascorsi, di valutazione della
situazione attuale e di prospettiva per il prossimo futuro.
Non tanto a fare bilanci, ma a stupirci per le tante risorse, i
copiosi contributi, le rinnovate fedeltà, che, negli anni, soci,
collaboratori, amici, simpatizzanti hanno donato al nostro vivere
insieme.
Questo numero vuole regalare ai lettori, oltre i contenuti che
ci sembrano stimolanti, anche il clima che ha caratterizzato il
convegno. In particolare le incursioni del gruppo “La strada”
e degli operatori che hanno dato alla mattinata un tono di leggerezza
e di festa.
È la vita stessa che ci invita a sentirci “viaggiatori leggeri”,
testimoni delle bellezze che abitano nel cuore delle persone,
attenti a prendersi cura delle fatiche e delle contraddizioni,
portatori di festa.
Festa per esprimere riconoscenza reciproca, soddisfazione di
esserci, gioia per il bene che ci avvolge, per una fraternità che
giorno dopo giorno ci rinforza. Per una ricarica di emozioni,
di motivazioni. Per riprendere un passo spedito a riportare al
centro la persona. Tutte le persone. È quanto ci ha tenuti legati
per tanti anni e che potrà motivare ancora il nostro cuore.
Il presente numero 161 inaugura anche il 25° anno della nostra
rivista. È dedicato in modo significativo ai nostri fedeli lettori,
che, attraverso la simpatia, il sostegno e l’incoraggiamento ci
motivano a continuare. Grazie. ■
La PROVVISORIO
presidente Judith Tasca introduce il convegno.
Nel dare il “benvenuto”, ringrazia i convenuti sottolineando la gradita presenza dei rappresentanti di enti, istituzioni, realtà
bergamasche che si uniscono al Gruppo Aeper per ricordare e festeggiare i 25 anni di una delle sue realtà, la Cooperativa.
Oltre i soci, gli operatori, i collaboratori, sono numerosi gli amici e… i futuri operatori.
E subito lo spazio è dato al Gruppo “La strada” che introduce la mattinata con un “Gran baccano”.
cooperativa Aeper
6
Emilio Brozzoni

incursione 1
Gran baccano
“La donna e l’uomo
sognavano che Dio li stava sognando.
La donna e l’uomo
sognavano che nel sogno di Dio
c’era un grande uovo splendente.
Dentro all’uovo
essi cantavano e ballavano
e facevano un gran baccano.
Facevano un gran baccano
perché erano pazzi
dalla voglia di nascere.
Sognavano che nel sogno di Dio
la gioia era più forte
del dubbio e del mistero.
E Dio, sognava,
li creava, e cantava:
rompo quest’uovo
e nasce la donna e nasce l’uomo.
E insieme vivranno e moriranno.
Ma nasceranno nuovamente, nasceranno.
E mai cesseranno di nascere,
perché la morte è menzogna”.
Edoardo Galeano, Memoria del fuoco
25 anni
cooperativa Aeper
7
La vita, la festa, la gioia erompono nel silenzio,
nelle paure, nelle fatiche. Un
canto annuncia con insospettabile leggerezza
il destino tragico e banale di tutta
l’umanità: nasce la donna, nasce l’uomo
e insieme vivranno e moriranno. Ma la
speranza è più forte, fa tremare il dubbio
e il mistero.
Mai la vita, l’uomo cesseranno di nascere
poiché la morte è verità del singolo, è
menzogna per l’umanità.
Da questo mito della creazione, urlato a
squarciagola danzando, a piedi scalzi,
l’annuncio della passione e della gioia di
vivere.
In questo modo abbiamo deciso di aprire
le nostre incursioni teatrali al Convegno,
con un messaggio di vitalità, di gioia traboccante,
di desiderio di gridare a tutti
che ‘abbiamo voglia di nascere’.
Nascere ogni giorno, nella quotidianità,
nell’impegno, nella presenza semplice
ma capace di ‘gran baccano’.
Rinascere quando serve, quando la propria
storia lo chiede, cantando a tutti gli
uomini che devono aver fede che - ovunque
la vita li abbia condotti - mai cesseranno
di nascere.

Judith Tasca
Presidente
Come avete visto, abbiamo voluto iniziare
facendo un “gran baccano”, facendoci
sentire. Sono 25 anni di storia
vissuta a fianco di tante persone che a
modo loro vogliono farsi sentire. È un
modo per ricordarle e ringraziarle.
Inizio con un ringraziamento alle
persone qui presenti oggi e siamo tanti.
Una presenza non per celebrare questi
25 anni, ma per rileggerli in una logica
di prospettiva: “Che cosa possiamo sognare
ancora insieme, come possiamo
ancora viaggiare insieme?”.
Ringrazio tutti, soprattutto le persone
che con noi hanno condiviso questi 25
anni. Un “grazie” alle istituzioni pubbliche
oggi qui rappresentate e, in particolare,
alla diocesi di Bergamo con la
presenza del Vicario generale.
È stato bello incontrare all’ingresso
tante persone che da anni non vedevo.
Mi ha fatto piacere rivedervi.
Non vi nomino uno ad uno ma è
come se lo facessi.
Sono tra noi anche alcune classi di studenti.
La vostra presenza ha il sapore
del futuro. Grazie anche a voi.
La scelta di trovarci qui oggi non è
stata pensata solo nella cooperativa e
nel Gruppo Aeper, ma è il frutto di una
collaborazione del territorio i cui ope-
25 anni
ratori hanno vissuto alcuni momenti di
riflessione con noi. Partendo dalla storia
di questi 25 anni insieme, abbiamo
scelto questa occasione per riflettere
insieme su alcuni temi. Da qui la scelta
di coinvolgere i relatori di oggi, persone
di alto spessore che sapranno sicuramente
aiutarci a tracciare nuove
linee e nuovi orizzonti per il futuro.
Ringrazio chi ha collaborato per la costruzione
di questa giornata.
Ringrazio anche chi al nostro interno -
operatori e volontari - ha portato, oltre
alla voce del territorio, anche tanti vissuti
di questi 25 anni.
Grazie a don Emilio Brozzoni, fondatore
della nostra esperienza e ai tanti
protagonisti che hanno regalato tempo,
competenza, passione, cuore...
Due note rispetto al titolo. Vi sarete
chiesti come mai “viaggiatori leggeri”.
Non è superficialità, ma è una leggerezza
che rispecchia il nostro sentirci
oggi, a seguito di 25 anni di lavoro nel
contesto sociale. Non ci sentiamo appesantiti
da questo. Anche la nostra organizzazione
è cambiata tanto in questi
25 anni. Ci sentiamo leggeri a sufficienza
per continuare a sognare tanti
altri anni di vita della nostra cooperativa,
in risposta ai bisogni sociali del
territorio. “Viaggiatori leggeri” per noi
ha questo significato: intravvedere le
sfide del domani e continuare a sognare.
cooperativa Aeper
8
Abbiamo cercato di riproporre un ambiente
il più possibile familiare, di
casa nostra, dei nostri servizi. Non abbiamo
messo un grande tavolo, come
si fa solitamente. Abbiamo soprattutto
messo una tovaglia. È una tovaglia
fatta a puzzle che per noi ha il significato
dell’accoglienza. In ogni tassello
del puzzle è scritto il nome delle persone
che abbiamo accolto, che ci
hanno accolto in questi 25 anni. Ci
hanno insegnato tanto. Abbiamo voluto
che oggi fossero presenti con noi,
ovviamente in una forma simbolica.
Qualcuno è qui in sala. Qualcuno non
c’è più. Tutti, comunque, nel nostro
cuore.
Persone che sono state un po’ i nostri
maestri: ci hanno indicato l’orizzonte,
la strada, attraverso le loro storie ed i
loro vissuti.
Avete ricevuto anche una borsa. È
stata pensata perché potesse essere
riempita di tante cose buone. Questo è
il messaggio. Noi abbiamo inserito alcune
cose che pensiamo siano buone.
A voi il compito di continuare a riempirla
di altre cose buone.
Passo la parola a Rocco Artifoni, un
viaggiatore che ci conosce da sempre.
Collabora con noi nella redazione della
nostra rivista L’incontro. Oggi ha il
compito di essere moderatore e di
presentare i relatori della giornata.
Grazie a lui per la disponibilità.
■

Rocco Artifoni
Moderatore
Io sono un fiancheggiatore dell’Aeper.
Un po’ borderline, perché mi trovo sempre
sul confine. Mi ospitano da molti
anni sulla rivista “L’Incontro”, ma non
solo. Ho avuto la fortuna di conoscere
don Emilio fin dai primi anni ’70 e da
allora ci siamo sempre incrociati, facendo
dei viaggi più o meno leggeri.
Quando mi hanno chiesto di moderare
questo incontro e mi hanno presentato
il titolo di questo convegno, sono rimasto
abbastanza stupito. “Viaggiatori leggeri”
immediatamente mi ha fatto
venire in mente Alex Langer, che ho
avuto la fortuna di conoscere e di invitare
a Bergamo.
Alex Langer, che io considero uno dei
più grandi politici europei, anche se
molti di voi non hanno mai sentito questo
nome (pertanto vi invito a conoscerlo,
scoprirlo, leggerlo…), mi è
venuto in mente, perché c’è un libro che
raccoglie alcuni dei suoi scritti intitolato
“Il viaggiatore leggero” e sulla copertina
c’è una fotografia di Alex Langer
con una valigetta, che dà l’impressione
di una persona spesso in viaggio. Mi è
piaciuto il titolo del convegno perché,
anche se magari non è stato pensato in
riferimento ad Alex Langer, ho trovato
tantissime assonanze con le idee e l’esperienza
di Alex Langer. Sono andato a rivedere
la lettera che Langer ha scritto a
S. Cristoforo: è bellissima e vi invito a
leggerla. Ho ripensato a quello che Langer
ha detto la notte dell’ultimo suo capodanno
tra ‘94 -‘95. Alex si è ucciso
nel luglio del ‘95. Anche qui il tema del
viaggio ritorna. Qualcuno ha definito
Alex Langer un cristallo preziosissimo,
ma delicatissimo. Nel capodanno tra il
‘94 e il ‘95 Langer ha tenuto una conferenza
alla Cittadella di Assisi. C’erano
moltissimi giovani e Langer ha fatto un
invito che è un lascito, un testamento
spirituale. Ha detto: “Vi invito a non seguire
quello che è diventato il motto,
l’emblema della nostra società che in
latino è citius, altius e fortius, che vuol
dire più velocemente, più in alto, crescere
in maniera sempre più energica e
più forte. In origine era il motto delle
25 anni
olimpiadi. Vi invito a fare un percorso
quasi a rovescio: lentius, profundius,
suavius”.
Tra l’altro la rivista L’incontro dell’Aeper
due anni fa ha dedicato un numero
ad ognuna di queste tre parole chiave,
che vogliono dire: più lentamente, più
in profondità, più soavemente. Queste
parole di Langer ci aiutano a capire
come noi dobbiamo viaggiare. Il viaggio
è una metafora che sta nella nostra
cultura, nelle nostre narrazioni. Pensiamo
alla Bibbia, oppure all’Odissea.
Parte da lontano l’idea di questo nostro
viaggiare nel tempo e nel mondo. La
differenza sta nello stile, nel nostro
modo di viaggiare. Leggo alcune righe
- riprendendo ancora Alex Langer - che
abbiamo riportato nella mostra, tratte
proprio da “Viaggiatore leggero”:
“Estrema importanza positiva possono
avere persone, gruppi, istituzioni che si
collochino consapevolmente ai confini
delle comunità conviventi, coltivino in
tutti i modi la conoscenza, il dialogo, la
cooperazione. Sono mediatori, costruttori
di ponti, saltatori di muri, esploratori
di frontiera”. Mi sembra che questo
breve testo rappresenti bene il percorso di
tanti di noi e dei 25 anni della cooperativa
Aeper. Langer aveva in mente soprattutto
situazioni di incontro etnico, ma queste
idee si applicano benissimo anche ad alcune
situazioni di difficoltà, fragilità, disagio,
alle storie personali che abbiamo
incontrato (come Aeper ma anche come
Cnca).
Per raccontarci di queste storie, per riflettere
e per cercare la strategia e la
strada per andare avanti in questo tempo
che cambia, Aeper ha pensato di invitare
quattro persone scelte particolarmente
bene per il contributo che
possono darci.
Cominciamo dal mio amico Ivo Lizzola.
Ci conosciamo da tanti anni. È
preside della Facoltà di Scienze della
Formazione a Bergamo ed ha un curriculum
lunghissimo. Credo che molti fra
noi lo conoscano. A Ivo abbiamo chiesto
cosa significa essere viaggiatori
nella fragilità, che cosa ci hanno lasciato
questi 25 anni di intervento nel
sociale dell’Aeper a Bergamo e non
solo. ■
cooperativa Aeper
9
Alexander Langer
Nasce a Sterzing/Vipiteno in Alto
Adige/Südtirol il 22.2.1946.
Giornalista, traduttore, insegnante,
collabora con riviste, associazioni,
iniziative civiche. Dal 1978 è nel
Consiglio provinciale di Bolzano
nella lista Nuova sinistra e nel 1988
in quella Verde Alternativa.
Negli anni ‘80 è tra i promotori dei
Verdi in Italia e in Europa e dialoga
con la cultura della sinistra, dell’area
radicale, dell’impegno cristiano e religioso,
delle nuove spiritualità, di
aree non conformiste di destra e di
movimenti politici non ufficiali.
Eletto deputato al Parlamento europeo
nel 1989, è primo presidente
del Gruppo Verde e s’impegna per
una politica estera di pace, per relazioni
più giuste Nord-Sud ed Est-
Ovest, per la conversione ecologica
della società, dell’economia e degli
stili di vita. Compie missioni in Israele,
Brasile, Russia e Argentina, Albania
ed Egitto.
Dopo la caduta del muro di Berlino si
impegna per contrastare i nazionalismi,
sostenendo le forze di conciliazione interetnica
nei territori dell’ex-Jugoslavia.
Con il “Verona Forum” offre un tavolo
di dialogo ai militanti della convivenza.
Il 26 giugno si reca a Cannes, per
portare ai governanti un drammatico
appello: “L’Europa muore o rinasce a
Sarajevo”.
Nel 1981 e nel 1991 rifiuta di aderire
al censimento nominativo che rafforza
la politica di divisione etnica e
per questo, nel 1995, viene escluso
dalla candidatura a Sindaco di
Bolzano. Decide di interrompere la
vita il 3 luglio 1995.

Ci siamo conosciuti qualche decennio fa
a casa di don Emilio a Torre Boldone. Se
dovessi dire in una frase sintetica quello
che mi è venuto in mente pensando a
questi 25 anni direi così: il viaggio compiuto
da Aeper è stato un viaggio nella
fragilità, dal margine al centro.
Proverò a spiegarlo brevemente.
25 anni fa lavorare nelle fragilità voleva
dire collocarsi in un margine, anzi nell’emarginazione.
Era scegliere una parte. E sceglierla consapevolmente.
Scegliere una parte che
era nell’ombra: quella parte rifiutata,
quella parte che era avvertita dai più
come pericolosa. Era partecipare allo
stigma delle persone che stavano in
quella parte, nell’emarginazione. Era entrare
nell’area giudicata pericolosa e farsene
segnare.
I volontari che entravano a lavorare nel
campo della tossicodipendenza e della
marginalità grave sapevano che sarebbero
stati considerati dalla cultura corrente
marginali loro stessi. Emarginati,
quindi. Considerati pericolosi perché, entrati
in un’area contagiosa, ne sarebbero
stati toccati. Anche se erano preti, anche
se erano educatori, anche se erano politici
(ma non erano molti i politici che entravano
in quest’area allora).
Era entrare in una parte. Nella parte rifiutata,
al margine.
A volte questa parte rifiutata, che si sentiva
rifiutata, rappresentava se stessa
quasi come una sorta di esperienza alternativa
di vita, di scelta. Stare nell’area
della marginalità era rappresentato dalle
persone che c’erano (soprattutto dai gio-
25 anni
Essere viaggiatori nella fragilità
Ivo Lizzola
Redazione L’incontro
Preside Facoltà di Scienze della Formazione
Università degli Studi di Bergamo
vani) come una sorta di scelta di libertà,
come rifiuto, distacco dall’autorità, della
“società capitalista e dello sfruttamento”,
(da una forma di esercizio della paternità,
dall’autoritarismo della scuola…) E
quindi chi in questa parte ai margini, e
carica di istanze critiche e alternative entrava
volontariamente a maggior ragione
veniva visto con sospetto. Entrava nell’area
che contestava radicalmente società,
economia, politica e chiesa; e
questo pagava sul proprio corpo, sulla
propria vita nelle scelte. Chi aveva scelto
questa parte, rischiava di vivere una tentazione
di “risucchio”, una sorta di logica
chiusa e autoreferenziale di giustificazione
di queste scelte devianti come
scelte alternative.
Era diffusa anche una lettura politica di
tutto questo. L’area della marginalità sarebbe
stata l’area tra le privilegiate d’una
proposta alternativa. Tutti noi abbiamo
vissuto dentro questa tentazione pensando
che quella fosse l’area della controcultura,
dell’alternativa politica.
cooperativa Aeper
10
Non era semplice vivere questa scelta.
Faceva sentire una marginalità fortissima
ed anche un forte senso di debolezza e di
impotenza. Non era semplice perché il
confronto culturale a cui chiamava una
scelta di questo tipo era forte. Era difficile
tornare a far riconoscere come cittadini,
come figli, come generazione
giovane da curare, le persone di cui ti
prendevi cura e che provavi a non lasciare
abbandonata. Anzi, che accoglievi
nelle comunità. Era difficile. Ma era difficile
anche confrontarsi con la cultura di
questa parte di società, con la cultura di
questi giovani, di questi marginali che
“elaboravano un senso” a quello che stavano
vivendo, un senso anche per le loro
scelte autodistruttive. Il confronto non
era semplice fuori e non era semplice
dentro le comunità.
E non era semplice il confronto con la
politica, con le politiche. Le politiche
delle istituzionalizzazioni rassicuranti,
della medicalizzazione che neutralizzava
fortemente la portata di sfida di questa
sofferenza personale e sociale che richiamava
provocatoriamente ad un ripensamento
dei valori. Non era semplice.
Non era semplice il confronto con i servizi,
con le competenze (che pure erano
necessarie) per stare sensatamente all’interno
di questa zona d’ombra. C’era una
dialettica difficile tra le aree del volontariato
e della cooperazione e l’area dei
servizi, delle culture dei servizi.
Ricordo anche la grande fatica nel riesaminare
continuamente le proprie motivazioni,
i propri gesti, il senso della
presenza. Da subito schierarsi dentro

quest’area dell’emarginazione voleva
dire fare i conti con la propria fragilità,
essere un po’ messi a nudo, essere chiamati
a resistere, tornare a scegliere continuamente
lo stare lì. E sentire dentro di
sé le ambivalenze, le contraddizioni…
Stare lì come in un’area di rifugio? Perché
l’ombra protegge, anche. O stare lì
con un piccolo delirio di onnipotenza:
“salvare gli altri”, scoprire la propria
bontà? Perché tutto questo si misurava
con il garantire la tenuta quotidiana, la
fedeltà… mentre incontravi continuamente
le fatiche, le separazioni, qualche
presa di distanza anche sofferta. E poi i
tanti fallimenti, le disillusioni…
Stare in quest’area voleva dire continuamente
fare i conti con il limite della presenza.
Non erano molti quelli che riuscivi ad
accompagnare. Molti ricadevano e ci si
chiedeva perché. Una delle acquisizioni
più importanti e belle di questa prima
stagione è stata quella di scoprire che la
presenza a fianco di queste persone non
era motivata dal fatto che lì incontravi le
persone migliori, né che per forza lì trovavi
le tue parti migliori. Anzi: proprio
in quella collocazione ti venivano i
dubbi, vedevi la tua reattività, la tua voglia
di presa di distanza… E, poi, le persone
che incontravi non erano certo più
buone e più belle delle altre.
I marginali non erano (e non sono) più
buoni o più belli degli altri. A volte sono
inaffidabili, rancorosi. Abbiamo maturato
che era importante essere lì con loro
perché quello era il posto giusto dove essere,
dove provare ad incontrare la verità
dell’uomo e della vita, e della relazione
con gli altri. Perché lì si doveva essere.
Perché era un luogo di disvelamento,
tutto particolare, e quindi un luogo di verità.
Faticosa verità, non luminosa verità.
Una verità fatta di luci e di ombre e di lavorio
continuo. Etty Hillesum direbbe
che la “ verità non è clamorosa, la verità
si dà come qualcosa che acquisisci in
una sorta di campo di battaglia”. La
chiarificazione deve avvenire dentro di
te, tra le parti che scopri di te, perché la
tua volontà è volontà “divisa”, è un confronto
tra volontà (così S. Agostino).
Non è una buona volontà.
Non si sarebbe sviluppata una storia di
25 anni solo con la buona volontà. La
25 anni
volontà è sempre una volontà “divisa”, è
un luogo di conflitto: dobbiamo scegliere
tra forze diverse che portiamo dentro
di noi.
La collocazione presso le “biografie
dell’abbandono” - come le abbiamo
chiamate in un lavoro di una decina di
anni fa - la collocazione presso le biografie
spezzate era dentro ad una battaglia
dentro a un luogo di disvelamento e ad
un viaggio. Nella presente stagione scegliere
di vivere vicino alla fragilità, e
dentro, profondamente dentro, al cuore
della fragilità, non è più vivere dentro una
parte ma è vivere al cuore della nostra
convivenza. È al cuore della convivenza
che, nel tempo, è andata dislocandosi la
fragilità, vissuta da tante donne e uomini,
da tante reti familiari come vulnerabilità,
come “esposizione”. Alle avversità, all’andamento
della crisi, all’iniziativa di altri…
La normale fatica a vivere, a crescere, ad
adattarsi a nuove condizioni (sociali, di
salute, abitative) segna la vita e le relazioni
di convivenza.
Le fragilità si sommano dentro un’ampia
“zona grigia” della vulnerabilità, dove si
resta nascosti e nell’indistinto, dove ci si
ripiega, provando a resistere. Vergognandosi
un poco della propria dipendenza e
difficoltà, del proprio “scarso successo”.
La zona grigia della difficoltà a vivere,
cooperativa Aeper
11
della fatica, del disagio, del senso di
esposizione si è ampliata tantissimo. Riguarda
i più.
I disagi non son più quelli conclamati,
sono quelli diffusi. E la vulnerabilità è
diventata l’esperienza della vita delle
persone, delle reti familiari. Rivelando il
costitutivo limite dell’umano, la fragilità
propria delle donne e degli uomini.
Quella fragilità che li fa sentire soli e impotenti:
una fragilità profonda. Che è
anche quella che può essere l’origine dei
legami più profondi e duraturi, segnati
da dedizione.
La riscoperta del legame profondo tra
capacità e fragilità, tra potere e impotenza,
tra nascita e limite costituisce la
svolta antropologica che vivranno alcune
generazioni. È il tempo che ci è dato di
vivere oggi, tempo che vede svilupparsi
il cammino dei “viaggiatori leggeri”.
Quelli che, come un bambino, si riscoprono
in un significato nuovo.
Nella storia dell’Aeper è centrale proprio
questa attenzione alla piccolezza, alla
quotidianità, alla ferialità, questa incredibile
capacità di volgersi e rivolgersi
alle famiglie (alle famiglie normali non
quelle particolarmente eroiche nelle
scelte) alle persone normali piene di debolezze
e fragilità eppure incredibilmente
capaci di tessere relazioni vitali

tra loro. Pensiamo a tutta la rete dell’affido,
ma anche a quel volontariato minuto,
silenzioso attorno ai luoghi della
cooperativa, ai luoghi delle comunità, attorno
ai gruppi familiari, o dentro ai progetti
di formazione.
Questa formazione continua, popolare -
penso che don Emilio abbia passato tutti
i paesi e tutte le frazioni non solo della
provincia di Bergamo - questa attenzione
alla normalità, alla ferialità, fa sì che
l’esperienza si trovi ora al cuore delle
grandi trasformazioni e possa essere una
specie di “luogo rivelatore di una speranza
possibile”. Aeper è già dentro
tante pratiche quotidiane, intercetta già
tanti desideri buoni e giusti delle persone.
Quelle normali, quelle che hanno
il lavoro incerto eppure si dedicano a tessiture
di prossimità con altri. Senza fare
grandi scelte: trovandosi “lì”, accettando
un invito, in una sorta di addensamento
silenzioso di tessuti di convivenza, quelli
che fanno reggere la vulnerabilità gli uni
degli altri. In una sorta di affidamento reciproco,
non particolarmente clamoroso.
Una tessitura di resistenza dentro alla
vita, che piano piano si trasforma in capacità
di nuova esistenza. Ora i viaggiatori
leggeri segnano i loro tragitti al
centro della convivenza.
La leggerezza è anche di chi sa attendere.
Di chi non vuole intervenire e risolvere,
non vuole segnare con forza i
destini degli altri o i destini delle comunità.
Occorre attendere operosamente
perché ci sia questa sorta di agglutinamento
sociale, di richiamo e di convergenza
delle risorse buone e normali,
contradditori ma in cerca di giustizia. È
la vita delle persone, di tante famiglie a
produrre una frontiera rispetto all’abbandono
e alla solitudine e a generare
senso, significato, evidenza del valore di
quel che c’è, di quel che vale la pena di
vivere (delle cose, del tempo, delle cose
proprie: il mangiare, i vestiti, la festa…).
Cose molto quotidiane, cose che hanno a
che fare con i corpi. I corpi presi nella
cura e i corpi della danza.
Questi caratteri sono presenti dall’inizio
di questi 25 anni. È come se la quotidianità
divenisse l’occasione di una festa
buona, di una danza continua. Una
“quotidianità leggera nella quale nascono
le cose. Non è nelle grandi proget-
25 anni
tazioni o nelle grandi prestazioni professionali
che nascono. Poi servono certo
anche le progettazioni politiche, servono
le competenze. Il tessitore, poi, si compie
e scompare nella tela, nell’uso che della
tela viene fatto e nel godimento che la
tela darà alla vista di quelli che guardano
il ricamo.
L’Aeper e le storie dell’Aeper hanno
avuto, e continuano ad avere, anche la
capacità di “ritrarsi”.
Forse è stata l’esperienza dell’ombra dei
primi 10-15 anni che ha abituato a stare
un poco in disparte perché la vita nascesse
e andasse nei suoi percorsi.
L’ospitalità è questo: accogliere ma
anche lasciar andare, non trattenere.
Ma l’ospitalità è anche altra cosa: è confidare
nella possibilità di reggere nella
prova di nuove ospitalità che sembrano
pesanti, per le quali non sembra di avere
nuove risorse. Confidando nel fatto che
le risorse verranno!
Quasi tutti i progetti di questi 25 anni
sono stati lanciati prima di avere tutte le
condizioni di possibilità per essere costruiti,
in una sorta di “fiducia previa”,
fiducia nel fatto che quel progetto potesse
essere avvertito come importante
da tanti e potesse trovare le risorse, le
competenze, le condizioni di possibilità.
È proprio questa l’alternativa culturale al
modo con cui oggi si progetta, si fa impresa,
si costruiscono le politiche oggi.
Una sorta di cammino che si fa, appunto,
camminando. Non banalmente, ma raccogliendo
continuamente il senso del
cammino per tanti. Nella condivisione
del cammino: è l’offerta di un’occasione,
di un dono, il cammino che un po’ incoscientemente
si apre.
Si dona la possibilità di donare. Si osa
entrare nel gioco prima di avere la garanzia
di avere qualcosa da dare. È importantissimo
questo perché non si pensi di
essere gli autori del dono, i possessori del
dono - ricco per altri. Il dono può essere
qualcosa che può venire a noi quando tra
noi leghiamo le nostre storie, le nostre
vite, quando spendiamo un po’ diversamente
il nostro tempo, le nostre competenze,
nelle piegature silenziose e
marginali, che sono al centro della nostra
convivenza, di tutte le nostre reti familiari.
Quelle piegature in cui scopriamo il nostro
limite, la nostra fatica, nelle quali
cooperativa Aeper
12
tocchiamo la nostra ombra, tocchiamo
anche il nostro rancore o la nostra sfiducia.
Dove troviamo, incontriamo altri che
vivono la nostra stessa tensione, ma che
sono disponibili a costruire con noi un
cammino possibile. Incontriamo la possibilità
di giocare oltre noi stessi e, facendolo,
andiamo a provocare l’economia,
la politica, la cultura, i saperi professionali.
Provocando “leggermente”, non denunciando.
Chiedendo loro se ci stanno
al gioco o se non ci stanno. La provocazione
è più silenziosa ma più ferma.
Aprendo dei segni. Sugli appunti avevo
scritto “segni di contraddizione”: non è
espressione adatta, perché sono “segni di
generazione” più che di contraddizione.
Occorre vedere e capire dove nasce
quel che nasce, dentro quali spazi della
vita nasce ciò che nasce. Ciò che nasce
non nasce per merito delle professioni
(anche se poi le professioni servono),
non nasce dal pensiero che controlla o
che risolve. Non nasce neppure dal pensiero
che programma e combina le risorse,
come nella politica (anche se poi
servono le politiche e le economie). Non
è nei linguaggi forti e nei luoghi dei poteri
forti che nasce ciò che nasce. Ciò che
nasce, nasce nel modo in cui le persone
si incontrano e decidono di giocar la
vita le une con le altre. Poi le donne e
gli uomini vanno a prendere le risorse, le
competenze, ad interloquire con le politiche,
i servizi, le istituzioni.
Non dobbiamo perdere di vista la cura
dei luoghi “dove nasce ciò che nasce”.
Forse è questo il guadagno più prezioso
di questi 25 anni per i quali ci scambiamo
reciprocamente, in tantissimi, auguri
con un senso di gratitudine. Una
specie di ringraziamento alla vita per
averci fatti incontrare gli uni gli altri. ■

incursione 2
…in viaggio, leggeri
25 anni
Quattro valigie di cartone.
In viaggio.
Viaggiare per percorrere nuove rotte e magari
tornare sulle vecchie strade battute per mostrarle a un amico.
Viaggiare per il puro piacere di un treno preso al volo,
dell’aria tra i capelli, di una tazza di caffè in una città nuova.
Viaggiare per ritrovarsi, scoprirsi,
talvolta confondersi e smarrirsi.
Viaggiare per incontrare un amico
o per aprirsi all’amico che il cammino ti offre.
Viaggiare perché non si è sazi delle scoperte fatte,
perché in ricerca della meraviglia che il nuovo,
l’inedito sanno offrire.
Viaggiare per continuare a sentirsi in cammino,
in ricerca, non fermi.
Viaggiare perché
si ha fiducia che la strada saprà condurci.
Viaggiare per gustarsi
la leggerezza del sognare percorsi nuovi.
Quattro valigie di cartone
per viaggiare e viaggiare leggeri…
Al titolo del convegno abbiamo dedicato in particolare la nostra
seconda incursione.
Per noi, ‘viaggio’ ha il significato di ‘incontro’ dove ognuno si
porta la sua storia, la sua valigia, pronto a caricarsela per correre
verso l’altro, per affrontare il viaggio insieme, per provarsi in un
nuovo cammino. In questo viaggio, fatto di incontri - alcuni brevi
e fugaci, altri più intensi e appassionati - i viaggiatori hanno rappresentato
l’abbandono, la paura di non farcela, il desiderio dell’altro
che rimane sospeso, non contraccambiato, ma anche la
bellezza dello scoprirsi, del sostenersi, del trovare nell’altro uno
specchio capace di riflettere un’immagine di te nuova, buona.
Quante storie in quelle valigie, quante storie in quegli incontri…
Consegna delle borse ai relatori
Ad ogni partecipante è stata consegnata una borsa artigianale
“da riempire”, qui al convegno e… nella vita.
Una sorta di valigia con tanti piccoli tesori dentro,
ad alimentare il sapere, le relazioni, le scoperte, i bisogni.
Vengono consegnate anche ai relatori
che ci aiuteranno ad arricchire le “nostre” borse.
cooperativa Aeper
13

Rocco Artifoni
Moderatore
Proseguiamo il nostro viaggio, il
nostro cammino, partendo da
quello che ci ha raccontato Ivo
Lizzola, che mi sembra molto significativo,
forse perché anch’io
c’ero dalle origini e ho visto anch’io
questo cambiamento, in cui
- dalle persone, dai giornali, dalle
cose - chi viveva un certo tipo di
ambiente era considerato marginale,
era messo ai margini. Oggi le
cose sono cambiate (e non so dire
se sia meglio o peggio) perché la
scena si è dilatata e questa marginalità,
questa fragilità si trova in
ogni contesto. Quindi da un certo
punto di vista quello che si fa è più
“sociale”, perché è “dentro” il contesto
del vivere quotidiano di tutti,
non soltanto di chi si trova ai margini.
Mi piace molto questa parte
finale del discorso di Ivo sul preservare
i luoghi dove le cose nascono,
perché il rischio è quello di
dimenticarselo, perché ognuno è
preso dalla propria professionalità,
dal proprio vivere e agire di tutti i
giorni. Perciò è il miglior augurio
che possiamo fare all’Aeper, ma
anche a tutti noi.
Visto che prima ho ricordato un
viaggiatore leggero, mi piace ricordarne
un altro, che ha incrociato
ancor di più l’Aeper. Si
chiama don Tonino Bello: una
persona che, pensando al viaggiatore
leggero, ti viene in mente
quasi subito. È tra coloro che
hanno camminato per le nostre
strade, per i nostri sentieri, trovando
a volte dei sentieri interrotti
- per citare la frase di un filosofo -
ma che ha provato comunque a
percorrerli in tanti modi. Nei confronti
dei nuovi arrivati (i migranti),
che arrivavano già molti
anni fa presso le coste italiane (don
Tonino era vescovo in Puglia). E
in quel viaggio memorabile a Sarajevo
con tutti i dubbi e le difficoltà
di quel momento, accompagnato
25 anni
anche da alcuni amici preti bergamaschi,
tra cui il nostro amico
Adriano Peracchi che ha partecipato
a questa iniziativa. Tra l’altro
quando don Tonino Bello stava per
morire, Alexander Langer è andato
a trovarlo, e don Tonino ha dedicato
ad Alex un testo che si ispira
alla vicenda di Giona (nella bibliografia
dobbiamo mettere anche la
Bibbia…). Alex Langer, dopo
averlo incontrato per l’ultima
volta, scrisse: “Non so come don
Tonino abbia deciso di fare il prete
e il vescovo. Non so se abbia mai
sentito forti esitazioni, l’impulso di
dimettersi, la sensazione di inutilità
del suo mandato. Probabilmente
non aveva mai bisogno
della tempesta e della balena per
essere richiamato alla sua missione,
forse sentiva intorno a sé
una verità e una semplicità con radici
profonde, antiche e popolari.
Beati i profeti che non devono passare
per la pancia della balena”.
Tra le altre cose “Jona che visse
nella balena” è un film bellissimo,
che riguarda la giornata della memoria,
ricorda Auschwitz.
Ivo Lizzola ha parlato del disvelamento
della verità facendo riferimento
ad Etty Hillesum. Prima ho
citato il latino, adesso cito il greco:
uno dei modi in cui in greco si dice
verità è “aletheia”, che significa
“uscire dal nascondimento”. Forse
dobbiamo tornare a pensare che la
verità è un cammino, è un percorso
dinamico, è un movimento che
apre: far uscire ciò che è nascosto,
far emergere quali sono i luoghi
della vita e della creatività, della
nascita di cui ci ricordava Ivo. Per
fare questo ci raccontiamo quello
che Aeper ha fatto in questi anni,
magari a volte inconsapevolmente,
più spesso con progettualità.
Do la parola a Judith Tasca, presidente
della Cooperativa, per raccontarci
quali sono i semi gettati in
questi 25 anni, quali sono le tappe
di questo viaggio che l’Aeper ha
fatto insieme a tanti di noi.
■
cooperativa Aeper
14
don Tonino Bello
Nasce ad Alessano (Lecce) il 18
marzo 1935.
Ordinato sacerdote nel 1957, è
maestro dei piccoli seminaristi per
18 anni e redattore di “Vita Nostra”
per la diocesi. Nominato parroco di
Tricase, tocca con mano l’urgenza dei poveri, dei disadattati,
degli ultimi.
Nel 1982 viene designato Vescovo di Molfetta e,
nell’85, presidente di “Pax Christi”.
Comunione, evangelizzazione e scelta degli ultimi
sono i perni su cui sviluppa la sua idea di Chiesa (la
“Chiesa del Grembiule”). Sostiene gli operai delle
acciaierie di Giovinazzo in lotta per il lavoro, i pacifisti
nella marcia a Comiso contro l’installazione dei
missili, gli sfrattati ospitati in episcopio.
Rinuncia ai “segni di potere” e sceglie il “Potere dei
Segni”: nascono la Casa della Pace, la comunità per
tossicodipendenti Apulia, un centro di accoglienza
per immigrati. Quale presidente di Pax Christi si
scontra con i politici contro l’installazione degli F16
a Crotone, degli Jupiter a Gioia del Colle, per il disarmo
e per l’obiezione fiscale alle spese militari;
dopo gli interventi sulla guerra del Golfo viene accusato
di incitare alla diserzione.
Coerente con le sue scelte, sa di essere un vescovo
scomodo, ma la fedeltà al Vangelo è più forte delle
pressioni di chi vorrebbe “normalizzarlo”.
La marcia pacifica a Sarajevo del 7 dicembre 1992,
di cui è ispiratore e guida, sebbene già malato, rappresenta
la sintesi epifanica della vita di don Tonino.
Il 20 aprile 1993, consumato da un cancro, muore serenamente.
Etty Hillesum
Nata nel 1914 in Olanda da una
famiglia della borghesia intellettuale
ebraica, è un ragazza
brillante, intensa, appassionata
di letteratura e di filosofia. Laureata in giurisprudenza,
si iscrive alla facoltà di Lingue Slave e si interessa
alla psicologia junghiana, ma gli studi sono
interrotti dalla guerra. Nel 1942, dattilografa in una
sezione del Consiglio Ebraico, potrebbe salvarsi, ma
decide di condividere la sorte del suo popolo, operando
nel Campo di transito Westerbork come assistente
sociale. Durante gli ultimi due anni della sua
vita, scrive un diario: sono anni di guerra e di oppressione
per l’Olanda, ma per Etty un periodo di crescita
e, paradossalmente, di liberazione individuale.
Il 7 settembre 1943 è deportata nel campo di sterminio
di Auschwitz, dove muore nel novembre del
1943.

È stata la Comunità Nazareth, nel 1978,
il primo nucleo di persone che ha iniziato
a costruire quello che, nel tempo, è diventato
il Gruppo Aeper.
Queste origini sono importanti perché
hanno dato un’impronta e uno stile a
tutte le organizzazioni nate successivamente,
tra cui la Cooperativa Sociale
A.E.P.E.R..
Lo stile della relazione fraterna, dell’accoglienza
a chi fa più fatica, della crescita
educativa possibile solo se fatta
insieme, del vivere il territorio nelle sue
risorse e nelle sue contraddizioni. Lo
stile del piccolo seme che per dare frutto
deve sporcarsi e adattarsi nella terra, qualunque
essa sia, senza voler apparire a
chi guarda il campo dall’esterno, ma con
pazienza e con il tempo si trasfigura, diventa
qualcosa di diverso e fa nascere un
piccolo germoglio che forse non cambierà
di molto il raccolto del contadino,
ma potrà essere un segno, una testimonianza,
una speranza.
Dopo anni di sperimentazione, di impegno,
di servizio volontario insieme a persone
che proprio in quegli anni hanno fatto
nascere tante realtà sociali preziose, attive
anche oggi, si costituisce nel 1986 la
Cooperativa A.E.P.E.R. come Cooperativa
di solidarietà sociale, in attesa di una
normativa che la definisca “Cooperativa
Sociale”, attuata nel 1991.
La Cooperativa nasce per consolidare i
servizi alla persona attivati negli anni
precedenti e per dare stabilità alla
presenza dell’AEPER sui diversi territori
della Bergamasca.
I primi anni sono caratterizzati da tre
binomi:
25 anni
25 anni di Cooperativa Aeper
Judith Tasca
Presidente Cooperativa Aeper
1
disagio e prevenzione
Il disagio negli anni ottanta è in particolare
la tossicodipendenza, esito delle situazioni
di fragilità e disorientamento giovanile e a
volte anche adulto. La dipendenza da
sostanze, in particolare l’eroina, crea
situazioni in cui la strada verso il
recupero è essenzialmente relazione e
accompagnamento, “essere vicini come
fratelli maggiori” prima ancora che cura e
tecnica riabilitativa. Nel tempo alcune di
queste situazioni evolvono verso la
malattia psichiatrica, spesso il carcere e
incrociano il fenomeno allora nuovissimo
dell’AIDS. In questo modo operatori
giovani, obiettori, volontari incontrano la
morte di persone divenute nel frattempo
familiari. Una morte che non può non
farci interrogare sui significati ultimi
dell’esistenza.
Ma la tossicodipendenza evoca un altro
versante di impegno: la prevenzione.
cooperativa Aeper
15
Fare in modo che il disagio non prenda il
sopravvento sulla bellezza del vivere. Di
più: far emergere le risorse insite in
ciascuno di noi perché siamo noi stessi a
vincere la lotta con il male di vivere. Nel
tempo la prevenzione (le iniziative verso
gli adolescenti e i giovani, i centri
ricreativi estivi a Costa Serina…) cedono
il passo alla promozione (così nascono i
primi progetti giovani nella bergamasca,
che creano i primi sistemi a rete delle
risorse educative territoriali), alla
formazione (di genitori, adulti, operatori,
volontari…), all’animazione.
L’animazione è intesa come mettere in
pratica ciò che diciamo nella formazione
e nei progetti giovani: tirar fuori le nostre
risorse, l’armonia, la festa che c’è in noi,
perché diventi contagiosa e sia proposta
a tutto il territorio. Ognuno di noi è
chiamato a vivere l’animazione in prima
persona, a superare le proprie paure e i
propri limiti, a fare a noi stessi ciò che
chiediamo ai ragazzi che in comunità o
sulla strada vivono il disagio: superare i
nostri limiti, trovare nuove risorse per
vivere bene il quotidiano.
2comunità e territorio
Il centro della nostra operatività è ancora
la Comunità Nazareth. Ma quanto
cerchiamo di fare è l’opposto che
chiuderci in un nucleo di vita in cui ci
sentiamo di realizzare qualcosa. È il
territorio il luogo, l’unico luogo, in cui si
trovano le risorse umane e sociali che
possono permettere di farsi carico delle
situazioni di fragilità e di riaccoglierle.
Dal luogo delle relazioni comunitarie alla
comunità locale, luogo delle relazioni
della normalità. È nella quotidianità che

instauriamo rapporti con parrocchie,
oratori, gruppi di volontariato,
associazioni, altre cooperative, e lì
maturano le esigenze di formazione, di
collegamento stabile, di animazione
nella comunità locale. È nel territorio
che nasce l’esigenza di condividere
quello che viviamo: in momenti di festa
(come gli incontri-festa giovani) e in
momenti di presenza e di presa di
posizione, come nelle manifestazioni per
una legge sulle dipendenze più giusta e
più umana. È nel territorio che si cerca di
fare cultura, di rendere prassi condivisa ciò
che abbiamo scoperto essere importante
con chi fa più fatica, di comunicare anche
con chi non ha alcuna voglia di ascoltare.
3operatore e volontario
La nascita della Cooperativa porta un
altro cambiamento: chi prima svolgeva
un “impegno” ora fa un lavoro. Ma nei
primi anni è difficile distinguere tra operatore
e volontario. Sono gli anni in cui matura
l’esigenza di acquisire le giuste
qualifiche professionali, di rendere tecnicamente
più valido il lavoro che viene
fatto, diventare “educatori” anche quando
la parola spaventa per ciò che sembra implicare.
Ma anche quelli in cui matura la
consapevolezza che lo stile di approccio e
relazione alla persona in difficoltà non può
essere cambiato da orari e nuove regole.
La giornata scorre e terminato il lavoro inizia
il volontariato, senza soluzione di continuità,
in un impegno che nel gruppo dei
primi operatori era condiviso con la propria
comunità o con la propria famiglia. Ci
si rende conto che è importante quello che
fai, ma soprattutto è importante come lo
fai, e quale è la relazione umana, sociale e
perché no, anche spirituale, che si crea tra
te, uomo o donna, e la persona fragile che
hai di fronte, uomo o donna. Fra le tue fragilità
e le sue.
Ma il bisogno bussa alla porta (letteralmente).
Non basta questo impegno: bisogna
accorgersi di quello che sul territorio
esiste realmente. È così che il disagio
non prende solo la forma della tossicodipendenza,
ma anche quella delle situazioni
psichiatriche, e anche quella di un
disagio minorile che avanza nelle famiglie
più in difficoltà.
25 anni
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio
degli anni Novanta la Cooperativa mantiene
dimensioni molto piccole (tra il
1986 e il 1998 non si superano mai i tredici
operatori, con un cambiamento
molto limitato), ma diversifica le proprie
aree di intervento. Nascono quelli che
nel tempo definiamo “i servizi”: in particolare
la rete delle famiglie affidatarie
(all’inizio poche, poi sempre di più) e il
centro diurno “Cordata” che accoglie e
coinvolge, letteralmente sulla strada e nei
campi, persone con patologie psichiatriche
che mantengono una loro famiglia di
riferimento.
Peraltro gli anni Novanta sono quelli in
cui anche l’approccio alla tossicodipendenza
si diversifica: non basta la sola relazione
e l’accoglienza in un luogo di
vita; si inventa un’occupazione e nascono
quindi quattro servizi diurni (l’attività
agricola, la falegnameria del
Cordata, gli ambiti creativi di “fili e colori”
e della ceramica, il negozio “Il colibrì”)
che polarizzano l’impegno della
Cooperativa, anche con l’arrivo di alcuni
operatori nuovi e, per la prima volta,
anche di persone che non hanno inizialmente
vissuto l’ambiente del Gruppo
Aeper e della Comunità Nazareth.
Sono anche gli anni dei grandi progetti,
peraltro condivisi con tutto il Gruppo
Aeper: quelli della Pèta e del Pitturello,
cooperativa Aeper
16
nati come comunità per l’accoglienza di
tossicodipendenti e animati da nuclei
abitativi comunitari, la cui realizzazione
è stata possibile solo per l’apprezzamento
che il nostro modo di agire ha trovato
in tante persone, ed in due in modo
particolare.
A metà degli anni Novanta la dimensione
del sogno fa per la prima volta i conti con
la realtà della dimensione economica,
che sino a quel momento la Cooperativa
aveva vissuto con molta leggerezza. I
costi dei servizi diurni, la difficoltà di impattare
con un mercato di vendita dei
prodotti del quale non conosciamo caratteristiche
e regole fa capire che il denaro
è importante, ma che occorre sapere ben
gestirne l’amministrazione. La situazione
di crisi che si crea porta a una revisione
complessiva della rotta della
Cooperativa: per la prima volta, forse, ci
si rende conto che i servizi pubblici, che
pure collaborano con ottimi esiti con la
Cooperativa, non sempre valutano i servizi
del “privato sociale”, come iniziamo
a chiamarci, secondo i loro esiti sul
campo. Nel giro di poco tempo le richieste
di inserimento nei servizi diurni calano
drasticamente e in modo sofferto si
prende la decisione di intraprendere
strade diverse, non senza constatare che
non sempre le scelte sono condivise da
tutti, e questo crea sofferenza tra i soci e
gli operatori.
I bisogni che mutano portano ad una
svolta nel 1999. La Cooperativa chiude
progressivamente i servizi legati alla tossicodipendenza
e decide di aprire una comunità
psichiatrica ad alta protezione
(“Villa Fiorita” a Brembilla) e una comunità
per minori (“L’Aquilone” a Torre de’
Roveri, al Pitturello, con l’aiuto della
Comunità Nazareth).
Una parola chiave da quel momento in
poi è il dimensionamento: se nei primi
13 anni il numero di operatori e soci era
stato sostanzialmente stabile, nei successivi
10 si moltiplica per 8 tra i lavoratori
e per 4 tra i soci. Nei primi anni del
nuovo secolo i lavoratori che non sono
soci della Cooperativa e che a volte conoscono
molto poco l’Aeper diventano
la maggioranza tra gli operatori.
Le dimensioni consigliano anche di costituire
una nuova Cooperativa Sociale,
“Il Varco”, che si occuperà dei servizi

nati in Valle Serina, in Valle Brembana,
in Valle Imagna e nell’Isola bergamasca.
Nuovi fattori determinano le scelte della
Cooperativa: la professionalità, la qualità
dei servizi, l’organizzazione, la sostenibilità
economica, in anni in cui i fondi
pubblici che in precedenza sembravano
illimitati assumono caratteristiche di
sempre maggiore esiguità.
La Cooperativa si struttura in aree più
definite e presidiate, in cui la qualità e la
valutazione diventano aspetti centrali.
L’organizzazione non limita però la funzione
di ascolto dei bisogni e la creatività
delle risposte.
È soprattutto l’area minori che inventa
nuovi servizi di vicinanza alle situazioni
di fragilità: il servizio per gli incontri
protetti “Punto Più”, il servizio per famiglie
multiproblematiche “Il Vantaggio”.
La rete famiglie affidatarie assume dimensioni
all’inizio impensabili, frutto
del lavoro sul territorio svolto negli anni.
E ci si lancia anche in avventure che
sanno di follia, come la nascita della co-
25 anni
munità “Piccola Stella”, nel 2005, per
adolescenti con disturbi psichiatrici.
Sanno di follia perché in una situazione
complessiva sempre più legata ad un
quadro di scarsi finanziamenti e di regole
molto esigenti, la Cooperativa si “permette”
di continuare a sognare, di lasciarsi
interrogare da quelle situazioni
che sono senza risposta e per le quali è
necessario trovare qualcosa di nuovo.
Certamente molte cose sono cambiate
nel corso degli anni. La Cooperativa si è
consolidata, si è rinnovata, ha cambiato
persone e riferimenti.
In 25 anni si è capovolto il modo di rapportarsi
alle fragilità; si è passati da una
iniziale totale titolarità dell’ente pubblico
ad uno smantellamento delle politiche
sociali. Anche la nostra cooperativa ha
cambiato approccio cercando di mantenere
un approccio pedagogico e promozionale
in un tempo che sembra essere
spesso solo riparativo di un malessere
oggi sempre più diffuso, come ci comunicava
prima Ivo Lizzola. Uno dei nostri
obiettivi è far tesoro delle buone espe-
cooperativa Aeper
17
rienze fatte comunicando le buone pratiche
che stiamo attuando per continuare a
gettare quei semi che ci aiutano a riprogettare
partendo dal punto di vista delle
fragilità, dai nostri testimoni privilegiati,
dai volti e cuori rappresentati nella nostra
tavola, nella tovaglia che ci accoglie in
un banchetto fraterno in cui l’integrazione
diventa un valore portante, che
tenga insieme marginalità e normalità. È
rimasta la voglia di continuare, di sognare,
di esserci non perché in qualche
modo bisogna pur vivere, ma perché le
persone fragili possano trovare alcune risposte
e alcuni riferimenti.
Da qualche parte, quel seme nascosto
produce ancora germogli.
Tutti i giorni sta a noi andare nel campo,
anche quando è buio e fa freddo, accorgerci
delle cose piccole che nascono e
crescono, dare loro valore e favorire la
loro vita, e commuoverci perché il
creato, le persone, hanno ancora tanta
voglia di esprimersi e di tirar fuori ciò
che hanno dentro.
■

incursione 3
Mi piace,
non mi piace
stralci dal libro
“Cara Aeper ti scrivo”
Nomi, storie, vissuti,
esperienze di lavoro
e anche di vita.
Prima scritte e poi narrate
a voci alternate dagli operatori.
Parliamo di noi
e del nostro lavoro anche così.
Mi piace avere a che fare
con i semplici.
Ancora di più con le persone miti.
Perché mi insegnano
le cose essenziali.
Mi piace ripensare
a Piero e a Lorenzo.
Ad Alex e ad Armando.
A Danilo e a Diego.
A Marco.
A Pierandrea.
A Silvana e a Nicola…
Mi piace pensare
che li abbiamo accompagnati.
Che loro ci hanno accompagnato.
Che, insieme, anche la loro vita
è stata un po’ migliore.
Che non li abbiamo salvati
nè pensavamo di farlo.
Che ci siamo semplicemente arricchiti
e ci siamo ritrovati più umani.
Mi piace che, in Aeper, ci siano
persone che mettono il servizio
prima della realizzazione personale.
Mi piacciono gli abbracci, gli occhi
che ridono, quelli che piangono.
Le parole, i gesti semplici,
buoni, veri.
Non mi piace il telefono
e il campanello.
Mi piacciono
le mele cotte di Daria.
Mi piace discutere animatamente.
Non mi piace
sentire troppo dolore.
Mi piace il sorriso dei bambini.
Non mi piacciono le riunioni
25 anni
durante l’orario del pranzo.
Mi piace l’allegria,
non riuscirei a lavorare
nella tristezza.
Mi piacciono le uova ancora calde
che mi porta la Bettina.
Non mi piace l’idea
che chi ha bisogno
non venga aiutato perché
“non ci sono più soldi”.
Mi piace lo stare insieme.
Non mi piace l’arroganza!
Mi piace la relazione:
da incominciare, da inventare,
da suscitare, da curare.
Non mi piace il pianto dei bambini.
Mi piace sentirmi in movimento.
Non mi piace partecipare a riunioni
che so già prima essere inutili.
Mi piace la fiducia dei bambini,
nonostante le loro storie.
Mi piace scrivere per dire la ‘mia’.
Non mi piace chi non rispetta gli
impegni presi, chi si risparmia.
Non mi piace il conflitto
che va tematizzato
e che a volte eviterei.
Mi piace decidere.
Non mi piace avere poco tempo.
Mi piace il momento della nanna
e del risveglio.
Mi piacciono le frasi dei bambini,
non previste.
Mi piace che molti di noi,
con i fragili e i vulnerabili, ci vivano.
Mi piace fare i conti.
Mi piacciono gli incontri.
Mi piacciono quelli
che semplicemente ascoltano.
Non mi piacciono
le osservazioni mancate.
Non mi piace ascoltare
chi parla sempre e troppo,
pensando poi
di avere sempre ragione!
Mi piace fare i bilanci.
Mi piace il lavoro di équipe.
È un luogo di storie pensate,
sognate, sofferte, amate,
ricevute e donate.
Non mi piace dover dire che i conti
non tornano, soprattutto doverlo
dire quando vengono da te con
tanto entusiasmo: “Ho avuto una
cooperativa Aeper
18
grande idea: vediamo insieme se è
sostenibile?”.
Mi piace fare insieme: parlare e discutere,
pensare e sudare, faticare
e ridere, provare e riprovare.
Mi piacciono i soldi in moneta dei
colleghi che arrivano in ritardo in
équipe (con cui si comprano brioches
per tutti!).
Mi piace leggere le storie
e ascoltare le loro storie.
Mi piace il volto, il nome, la storia dei
bambini, dei ragazzi, dei genitori, dei
giovani.
Mi piace
il desiderio buono di futuro.
Non mi piace
quando si ha paura di rischiare.
Mi piacciono le piccole grandi conquiste
fatte insieme e stupirmi tutte
le volte che loro creano nuove cose
da un semplice gioco.
Mi piace perché crediamo in ciò che
facciamo. Anche se ciò che facciamo
lo lasceremo.
Mi piace essere dappertutto.
Mi piacciono i miei colleghi con i
quali ogni giorno cerchiamo di resistere,
restare, reinventare questa
terra, questo mondo, questa città.
Mi piace lo spaesamento
delle buone domande.
Non mi piace la sospensione dei
progetti dei bambini. Dei loro e dei
nostri sogni.
Non mi piace mediare.
Non mi piace quando si lavora
senza provare a pensare... perché è
attraverso il pensiero che nasce
l’esperienza.
Non mi piace il pavimento sporco
dell’ufficio, salire a Serina quando
nevica senza gomme da neve, chi
smette di sognare e lascia che il disincanto
si dipinga sul suo volto.
Non mi piacciono
i saluti frettolosi.
Non mi piacciono i giochi
che non sono al loro posto.
Non mi piace stare in mezzo...
Ma mi piace
guardare, ascoltare e capire.
Mi piacciono i proverbi nilghi:
“Tutti i pettini hanno un nodo”.

Rocco Artifoni
Moderatore
Grazie a Judith che ci ha raccontato
quanto è ricca questa storia.
Io che scrivo su “L’incontro”,
tutte le volte mi stupisco quando
guardo a pagina 2, perché è quasi
un elenco infinito di realtà, servizi
e progetti. Se uno non conosce
i luoghi, le persone, le storie,
magari all’inizio può avere anche
una reazione negativa, perché
sembra una holding, una multinazionale:
guarda quante cose
fanno, forse troppe… Poi però mi
viene in mente don Emilio, che
ha dormito per due anni su un
materasso in terra, al mio paese.
Nella bibliografia di questi 25
anni dobbiamo mettere anche un
libro che è all’ingresso e che si
intitola “Il vento ci ha raccolti”,
che racconta la storia del nostro
don Emilio che poi incrocia
tutta la storia dell’Aeper e
quindi anche della Cooperativa
Aeper. È incredibile come un
piccolo seme, per stare alla metafora,
abbia dato tanti frutti,
tanti germogli; ovviamente
anche con tante contraddizioni e
tante difficoltà, ma è una storia
che in qualche modo appartiene
a tutti, quantomeno a quelli che
sono qui oggi.
Forse è il Gruppo “La strada”
Vincenzo Bonandrini
Ivo con Vincenzo
25 anni
che esprime e rappresenta meglio
l’Aeper, perché mantiene quella
freschezza, quella capacità di comunicare
in modo semplice, che
tutti noi cerchiamo nella quotidianità
e che ci trasmette un
senso autentico delle relazioni.
A partire da questo mi è venuta in
mente una frase di Aristotele.
Diceva che la conoscenza delle
cose, la saggezza non si può imparare,
non si può trasmettere
come una qualsiasi tecnica. La
sapienza si apprende dagli uomini
e dalle donne sagge. Si può
apprendere solo così: dalla relazione
con le persone sapienti.
Questo aforisma di Aristotele secondo
me c’entra molto con
quello che si fa nelle nostre realtà,
perché è la testimonianza coerente,
il rapporto diretto con le
persone che incontri, il costruire e
il seminare insieme ad altri, che
ti cambia e ti apre gli orizzonti,
che preserva quei luoghi di cui ci
ha parlato Ivo all’inizio.
Questo vuol dire frequentare persone
sagge, incontrare quei viaggiatori
leggeri di cui stiamo
parlando.
Ne voglio ricordare un altro che
si chiamava Vincenzo Bonandrini.
Ma io non so raccontarlo
bene.
Può farlo uno che è stato un suo
grande amico: Ivo Lizzola.
Vincenzo Bonandrini è stata una persona
mite e saggia. Sapiente anche. Ricordo che
non è mai venuto in Aeper a “fare la lezione”
ad Aeper. È sempre venuto in Aeper
in ascolto, e provando ad accompagnare
tanti di noi a scoprire cosa la vita poteva
“dare giorno dopo giorno” - così diceva
lui -. Ricordo una riflessione preziosa di
Vincenzo, nella sede di Viale G. Cesare,
nella serata dedicata ai “monaci delle piccole
cose”, in cui aveva recuperato la lezione
dei monaci per dire di una spiritualità
adatta al tempo del superamento della modernità
e delle sue contraddizioni.
Dal contesto bergamasco di Aeper, apriamo l’orizzonte, guardiamo uno scenario più ampio e ci facciamo raccontare lo
scenario dei prossimi anni da Franco Floris, che da 20 anni è il direttore della rivista Animazione Sociale, un osservatorio
privilegiato per dirci le tracce, gli indizi di quello che verrà, per essere tutti quanti noi dei “viaggiatori leggeri”.
cooperativa Aeper
19
Aristotele
Figlio del medico del
re di Macedonia,
nasce a Stagira nel 384
a.C. A diciassette anni
si trasferisce ad Atene
ed entra nell’Accademia
di Platone, dove
studia matematica e
astronomia.
Dopo la morte di Platone nel 347, si trasfersce
ad Atarneo dove conosce e diviene amico di
Teofrasto, col quale si stabilisce a Mitilene
nell’isola di Lesbo per dedicarsi a ricerche di
carattere biologico.
Nel 343 Filippo di Macedonia lo fa precettore
del figlio Alessandro. Dopo l’assassinio di Filippo,
Alessandro sale al trono e deve fronteggiare
una rivolta antimacedone, che porterà alla
distruzione della città di Tebe. In questo periodo
Aristotele torna ad Atene e fonda una
scuola propria, un ginnasio pubblico chiamato
Liceo, poiché ha sede in un luogo sacro ad
Apollo Licio. Qui il maestro tiene le sue lezioni,
sia di tipo specialistico sia per un pubblico
più vasto. Ai giovani studenti Aristotele
rende noti i risultati dei propri studi riguardanti
la fisica, la geometria, l’astronomia, la zoologia
e la politica, costituendo una ricca biblioteca
per favorire un’intensa attività di ricerca.
Nel 323, l’anno in cui muore Alessandro, si afferma
ad Atene il partito antimacedone. Aristotele
è costretto a lasciare la città e si ritira a
Calcide, nell’isola Eubea, dove, nel 322, muore
dopo alcuni mesi di malattia.
Era una sera nella quale la comunità (che
cominciava a discutere della nascita della
cooperativa) stava facendo i conti con una
delle morti che ha attraversato la sua storia.
Era una morte per suicidio e Vincenzo parlava
della necessità di fronteggiare “l’irreparabile
debolezza”, di non sentirsi
sconfitti, di sentirne il dolore dentro di noi
ma di accoglierla. C’è un’irreparabile debolezza
che può a volte prevalere. La cosa
importante è provare ad accompagnare le
pagine della vita in modo buono, umile e
attento.
Ivo Lizzola

A dire il vero, più leggeri di così gli operatori
non possono andare, data la situazione
presente.
Vi ringrazio per l’invito. Animazione sociale
è una rivista del Gruppo Abele.
Penso che le cose dette questa mattina ci
trovino compagni di strada, a volte leggeri,
a volte pesanti, ma affrontiamo situazioni
simili con lo stesso coraggio e con la stessa
testardaggine che voi avete dimostrato.
Ho scelto uno slogan per chiudere il mio
ragionamento. Ma devo anticiparlo date
le cose che ho visto e sentito questa mattina.
La mia idea era di chiudere con una
battuta: “Città che gioca, città che
nasce”. Fin dall’inizio, nella prima parte
dell’introduzione, il Gruppo “La strada”
diceva cose tremende sulla vita, sulla
morte, ma lo diceva danzando, ballando,
muovendosi con arte e armonia per dire
che si può oltre-passare.
Mi sembra che tutta la mattinata porti su
questo tema della leggerezza, della capacità
di cogliere i luoghi dove nasce quel
che nasce. Penso che l’Aeper sia uno di
questi luoghi e sia stata in questi anni la
città che nasce perché ha avuto il coraggio
di giocare. Giocare vuol dire sospendere
il corso delle azioni, sospendere
l’ineluttabilità delle situazioni e fermarsi
a godere un po’ lo stare insieme, la quotidianità,
dirsi due parole, chiacchierare,
mangiare… La leggerezza, la festa come
modo di immaginare che è possibile vivere
altrimenti. Dunque penso che l’Aeper,
come città che gioca e che ha
giocato, sia una grande ricchezza della
città che nasce. C’è bisogno di giocare
per inventare la nostra vita oggi.
25 anni
Lo scenario dei prossimi anni
Franco Floris
Direttore della rivista Animazione Sociale
Nella mia relazione farò un volo, piuttosto
veloce, non so se leggero o pesante (lo direte
voi alla fine), a cominciare dalla parola
che tutti ci riguarda e ci assedia.
Chiamiamola crisi, chiamiamola passaggio
di epoca.
Sono ormai così vecchio che ho visto
troppi passaggi di epoca e non sogno mai
il passato. Voi siete a Bergamo e quando
alcune persone protestano dico sempre:
pensate all’ “Albero degli zoccoli”, vorreste
essere la donna di quegli anni? In genere
ottengo molto consenso dalla parte
femminile (ma anche da quella maschile)…
Che crisi stiamo attraversando?
Secondo me è più interessante chiederci:
“Dove stiamo andando? In che direzione?
Che strada stiamo intraprendendo?”.
Se dovessi parlare della crisi direi che la
crisi non è economica soltanto, è finanziaria,
riguarda il lavoro. Ci attraversa.
Porta a conseguenze tragiche nella distribuzione
della ricchezza. Si allarga la forbice
della disuguaglianza. Se dobbiamo
pensare alla crisi dello stato sociale, del
welfare, degli interventi, è un alibi fermarci
all’aspetto economico. Vero, tragico.
Ma forse non quello ancora più
drammatico. Cosa voglio dire? Che abbiamo
altri problemi da affrontare. Problemi
che rimandano essenzialmente alla
necessità di una sorta di ripensamento, di
ricerca culturale che ci può far interrogare
su quelle regole ritenute “sacre” che
in realtà ci impoveriscono, e dunque
stiamo cercando cosa vuol dire reinventare,
per quale uomo, per quale società,
per quale futuro andare a lavorare.
cooperativa Aeper
20
Però rendiamoci conto che in questi anni
abbiamo sperperato beni comuni. Abbiamo
privatizzato un sacco di ricchezze
di tutti. In base a criteri economicistici
siamo arrivati a dire che bisogna aiutare
i bisognosi, dimenticandoci che il vero
problema non era soltanto aiutare economicamente
i bisognosi ma permettere
loro di essere cittadini inclusi. Ma questo
è un problema culturale e non finanziario.
È un problema di intelligenza.
Allo stesso modo ci rendiamo conto che
ci siamo poco interrogati sugli stili di
vita, sui modelli di sviluppo.
Oggi siamo nella situazione in cui questa
parte culturale di ripensamento ce la ritroviamo
tra le mani. La crisi ci costringe
a reinterrogarci per capire da che parte
andare.
C’è una grossa crisi anche sul piano
dell’organizzazione del welfare. Ci sono
già state osservazioni legate al funzionamento
dei servizi che non è buono, all’assenza
delle politiche locali, in certi
momenti almeno (anche se Bergamo è ancora
una zona fortunata rispetto ad altre
zone d’Italia). Certamente esiste disorganizzazione
nel mondo dei servizi e bisogna
dunque rifare il quadro delle politiche.
Dentro a questa crisi, quali sono gli esiti?
Sono cresciute le vulnerabilità, è cresciuto
l’impoverimento, ma non è cresciuta
l’inclusione.
Tutti parlano di coesione sociale ma in
realtà non c’è una maggiore inclusione.
Si nota una certa fatica nei legami sociali.
Gli stessi servizi sono stati un po’
svuotati. Oggi la maggior parte della distribuzione
della ricchezza nel sistema di

welfare avviene con i buoni e le erogazioni
monetarie, quasi che le erogazioni
monetarie permettessero di diventare autonomi,
soggetti capaci di gestire la propria
vita in assenza di servizi. Noi del
privato sociale facciamo fatica. Io lavoro
molto con il pubblico e vedo la fatica che
attraversa anche il pubblico. Al punto
che si sente sempre più chiuso dentro al
servizio e finisce per accettarlo perché
non ha la capacità di tornare al territorio.
Questa è la crisi. Da dove ripartire?
Primo spunto
Mi sento figlio di un altro autore a noi
caro, il pedagogista brasiliano Paulo
Freire. Sostiene che ogni epoca ha le sue
contraddizioni. Queste arrivano dalla generazione
precedente e ogni epoca deve
affrontarle. Ha a disposizione un paio di
25 anni
contraddizioni sulle quali può provare a
costruire delle intuizioni per il futuro.
Io penso che, nonostante tutto, dentro le
contraddizioni oggi la gente si stia reinterrogando.
Non gli operatori sociali, non
le istituzioni. Parto dall’idea che i cittadini,
i giovani, gli adulti sono a confronto
con nuove domande. Stanno provando a
intuire sperimentalmente da che parte andare.
Le domande sugli stili di vita, sui
modelli di sviluppo, sull’inclusione sociale,
sui diritti che vogliamo riconoscerci
o meno tra noi sono diffuse.
La gente, e uso questa parola perché mi
convince di più, si interroga su tutto questo.
Si interroga nell’incertezza e nella
fragilità. Nella fatica, ma anche nella
quotidianità. Giorno dopo giorno. Ma
non trovano le parole per esprimersi, non
trovano la capacità o la possibilità di
condividere le intuizioni e la ricerca.
cooperativa Aeper
21
O noi affrontiamo questa generazione
pensando che la gente è in ricerca, e che
i giovani sono in ricerca di mondi altri,
di un vivere diverso, altrimenti non saremo
mai vicini alla gente se non per
mettere le dita sulle piaghe delle contraddizioni.
Abbiamo bisogno di gente che accolga
ancora una volta la città che nasce, le intuizioni
che nascono.
Io condivido l’idea che in questo momento
tutti coloro che svolgono un compito
sociale, come l’Aeper, il Gruppo
Abele e altre realtà, devono restituire alla
gente la possibilità di lavorare, confrontarsi,
riflettere per capire da che parte andare
ma ascoltando già le riflessioni che
vengono fatte. Forse a volte certe riflessioni
sembrano rozze, ma tante volte
contengono delle intuizioni formidabili
per il nostro futuro.

Secondo spunto
In questa direzione mi sembra fondamentale
che gli operatori del sociale la
smettano di pensare di essere gli unici
che sono alla ricerca del futuro. Voglio
dire che sono tanti i luoghi di questa ricerca,
tanti gruppi, reti, piccoli movimenti
che sono sperimentalmente alla
ricerca di un modo nuovo di vivere, di
affrontare i problemi. I fermenti culturali
e sociali oggi chiedono molta attenzione
perché è in atto la nascita di nuove mutualità,
di nuove forme di volontariato, di
nuove forme di cooperazione sia a livello
di reti primarie tra cittadini sia di reti secondarie
tra i servizi. Se io penso soltanto
alle reti primarie sono meravigliato
sempre dal fatto di vedere che ci sono
delle aree che oggi vengono presidiate.
Ad esempio sul tema dell’educazione c’è
un fermento non indifferente. Vedo molti
gruppi, molte realtà interrogarsi sui suoi
contenuti ma anche realizzare praticamente
delle esperienze di educazione. Ci
sono molte persone, gruppi, reti che si
stanno interrogando su cosa vuol dire
l’abitare. Abitare un quartiere, abitare un
paese, abitare… come se si moltiplicassero
le pro-loco, evidentemente con tutte
le differenze. Ci sono molti gruppi e reti
che si interrogano sul consumo, sul cibo,
sull’energia, sul riciclo come spinta al risparmio,
sulla capacità di vivere sobriamente.
E ci sono tante persone che si
interrogano sulla decrescita come spinta
a cambiare stili di vita. Infine c’è un rinascere
di tutela, di advocacy, in un tempo
di crisi dei diritti dei minori, degli immigrati,
della sofferenza mentale. Da questo
punto di vista dobbiamo riflettere con
molto più coraggio su quello che avviene
dentro la nostra società. Si può far uscire
dal nascondimento tutto questo? Perché è
lì dentro che noi troviamo le piste su
dove andare rispetto alla qualità del vivere
che insieme vogliamo garantirci.
Terzo spunto
Siamo in un momento in cui prendiamo
atto amaramente che lo stato sociale è
troppo leggero: leggerezza sì, ma non
fino a questo punto. La mancanza di risorse,
l’assenza di una funzione pubblica
sta portando a fare molta fatica. In questo
25 anni
momento sentiamo il bisogno di ritrovare
una funzione pubblica un po’ più coraggiosa,
un po’ più forte, un po’ più presente.
E per funzione pubblica non
intendo il moltiplicare i servizi presi in
carico direttamente dalla funzione statale
quanto piuttosto la capacità del pubblico
di riprendersi la sua responsabilità; di
portare avanti l’art. 3 della Costituzione
quando dice che a fronte delle difficoltà
dei cittadini tocca allo Stato nelle sue diverse
espressioni, insieme ai cittadini,
mettersi in gioco affinché le persone possano
realizzarsi e possano partecipare
alla vita sociale, economica e politica.
Quello che è più faticoso è tradurre la
funzione pubblica in arte di amministrare
o di governare i problemi localmente. Mi
sembra che una ricerca in questa direzione
oggi sia nell’aria. Sempre nella
stessa logica mi sembra che oggi sia importante
riformulare cosa sono oggi i servizi
pubblici, e precisare quando un
servizio è pubblico. Oggi possiamo dire
che un servizio è pubblico quando concretizza
l’arte di governare localmente i
problemi mobilitando cittadini, organizzazioni,
reti per convergere sui problemi
e sulla cerchia di risposte mettendo in
gioco le proprie responsabilità.
Questa idea del servizio, concepito come
governo ma anche come luogo di pensiero,
luogo dove si può trovare la convergenza
e ridefinire le regole con le
quali affrontare i problemi penso sia la
grande meta che ci poniamo e di cui abbiamo
bisogno. Solo in questo modo infatti
i servizi riusciranno a mobilitare i
cittadini e a farsi più prossimi alle domande
che noi stiamo incontrando. La riscoperta
della funzione pubblica porta
alla riscoperta della municipalità. Dopo
qualche anno stiamo tornando su questa
parola. Vuol dire l’arte di amministrare
localmente con una qualche partecipazione
dei cittadini e con la responsabilità
di amministratori che cominciano ad
aver cura di quel che succede dentro al
loro territorio, dentro alla loro comunità.
Quarto spunto
Quarta pista da dove ripartire: mi sembra
che - posto che esistano molte reti - occorre
che la cooperazione sociale si riprenda
la sua responsabilità non più o
non soltanto di erogatore di prestazioni,
cooperativa Aeper
22
di aggregazione intorno al lavoro di cura
degli individui, ma si riprenda il suo
compito a partire da valori come la mutualità,
l’autoorganizzazione, la sobrietà
negli stili e nelle organizzazioni, si riprenda
il suo compito di traino dentro le
comunità locali, in modo che cresca la
capacità di produrre dei beni comuni che
siano partecipati dai cittadini.
So che la cooperazione sociale è oggi in
crisi in molti territori. In molte città
chiude.
Ma so anche che la speranza non può venire
soltanto da una ripresa del finanziamento
pubblico, ma viene dalla capacità
di radicarsi dentro il territorio locale e di
ritrovare dentro al territorio riconoscimenti,
alleanze, risorse in una logica sostanzialmente
di mutualità tra cittadini e
con il volontariato. E’ importante che la
cooperazione sociale ritrovi questa sua
funzione nei territori e dunque diventi
sempre più espressione di una comunità
locale in ricerca di un suo welfare, di una
garanzia rispetto ai diritti che vogliamo
riconoscere ai minori come agli anziani e
a tutte le fasce deboli. Non deve quindi
cadere nel rischio di essere impresa privata,
ma promuovere l’impresa di comunità
che dobbiamo riuscire in qualche
modo a costruire, permettendo ai cittadini
di convogliare le loro energie, le loro
risorse.
In questo senso penso che molto del futuro
dipenda da una nuova alleanza tra le
comunità locali e la cooperazione sociale,
ma anche dal pensare in maniera
diversa il rapporto tra la cooperazione
sociale e le pubbliche istituzioni, le amministrazioni
locali e i servizi. Serve
questa capacità di ascoltarsi, di comprendere
il momento che stiamo vivendo, di
capire che il compito sia del servizio
pubblico sia della cooperazione sociale
è, in un territorio, generare risorse, là
dove nessuno le vede.
Allora, quali compiti ci attendono? Ne
elenco cinque:
Lo stato sociale è un problema di tutti.
Quindi occorre riaprire un dibattito pubblico
su quale welfare vogliamo. Lo stato
sociale è troppo importante per lasciarlo
in mano ai professionisti, chiuderlo dentro
a certi uffici. È il futuro delle nostre
comunità. Cosa ne facciamo degli anziani,
degli ammalati? Quale futuro vo-

gliamo dare ai giovani? Dove sono gli
spazi in cui i cittadini possano riprendere
a interrogarsi su tutto questo? Uscendo
dai pregiudizi, ma non negando il fatto
che le conflittualità ci sono e che abbiamo
idee diverse sui modelli di sviluppo.
Ritrovare quindi la possibilità che
chi lavora nel sociale sia in realtà operatore
di dibattito pubblico.
Interrogarsi in modo forte su cosa vuol
dire una pedagogia sociale e culturale
in questo momento. Su cosa voglia dire
apprendere le competenze della cittadinanza.
In questi anni in cui abbiamo fin
troppo tecnicizzato i processi di apprendimento,
in cui abbiamo delegato alle
varie istituzioni l’educazione dei giovani,
in cui abbiamo forse smesso di fare un
vero lavoro di educazione tra adulti, i
problemi da affrontare sono diventati di
ordine culturale ed etico. Certi problemi
sono risolvibili solo attraverso una nuova
pedagogia, un nuovo apprendimento collettivo.
Cosa vuol dire costruire beni comuni?
Cos’è l’inclusione sociale oggi?
Cos’è la giustizia sociale oggi? Quale
partecipazione è possibile? Quale esperienza
di gruppalità è generativa di responsabilità?
Come declinare la funzione
dei cittadini e dello Stato messi insieme
ed aggregati in quel principio di sussidiarietà
che finora abbiamo interpretato
come acquisizione di risorse finanziarie
mentre in realtà ci dovrebbe portare a
progettare insieme quello che vogliamo?
L’ascolto dei nuovi movimenti di ricerca
etico-culturale, come potrebbe
fare un don Tonino Bello del nostro
tempo. Perché quello che è fondamentale
è riuscire a capire cosa vuol dire trasgredire
il modello socioeconomico in cui
stiamo vivendo e ritrovare la generatività
di altre economie, di altre intraprendenze
e imprese. Non critichiamo il mercato, le
imprese, la capacità di produrre ricchezza,
ci mancherebbe altro. Però dobbiamo
ridiscutere con quali regole oggi
vogliamo giocare, con quali regole vogliamo
amministrare i beni pubblici. A
questo punto cosa vuol dire educarci a
vivere in modo diverso?
Provare a sperimentare nuove forme di
buon governo locale, uscendo dallo statalismo,
uscendo dalla delega agli operatori
sociali per risolvere i problemi,
uscendo anche da un certo movimenti-
25 anni
smo di chi pensa che se noi facciamo le
cose le facciamo meglio e che noi siamo
la soluzione dei problemi. Non è vero. La
complessità dei problemi ci richiede di
tornare a considerarli umilmente per apprendere
insieme come leggerli e come
affrontarli. Quest’arte del buon governo
chiede di ritrovare un po’ più di fiducia
reciproca, un po’ più di capacità di non
pensarci sempre come la soluzione dei
problemi, ma anche la capacità di chiamare
le cose con il loro nome ed il coraggio
della critica, anche se questa
magari ci toglie un contratto di lavoro.
È fondamentale una cosa emersa sinora:
estrarre intelligenza dalle esperienze che
stiamo facendo. Parlavamo di produrre
cultura, parlavamo di comunità. Trovo
molta difficoltà a parlare di questo perché
in questi anni abbiamo fatto molto
marketing culturale. Chi arriva dal terzo
settore, ma anche dal pubblico, se incontra
la comunità locale, tende a difendere
e promuovere il proprio prodotto come
marketing.
Fare cultura è un’altra cosa: è riconoscere
la ricerca di significati faticosissima o bellissima
che la gente sta facendo. Ricordate
quello che disse Alberto Melucci qualche
anno fa: il futuro non solo si presenta come
distinzione tra ricchi e poveri, ma anche
tra chi avrà la capacità di produrre significati
e chi non ce la farà più e sarà costretto
al silenzio, all’afasia. Credo che la gente
stia provando a cercare significati. Ma non
è così facile.
cooperativa Aeper
23
Allora penso che tutte le imprese sociali,
l’associazionismo o, se volete, lo stesso
servizio pubblico sia il luogo dove la
gente possa incontrare le intuizioni maturate
in questi luoghi, come testimonianze
forti che aiutano a cercare le domande e
le possibili risposte.
Fare cultura non è vendere prodotti ma
co-costruirli, facendo incontrare le testimonianze
dei piccoli e grandi profeti dell’oggi,
dei piccoli e grandi seminatori di
speranza o costruttori di ponti con quelli
che sono gli interrogativi che le persone,
le famiglie si stanno ponendo. Ciò implica
dedicare tempo a questo incontro
tra le domande aperte della gente e le intuizioni
che nel sociale stiamo elaborando
e di cui la gente avrebbe bisogno.
Abbiamo bisogno di ricreare nuovi laboratori
culturali intorno alle nostre esperienze,
in maniera che la gente possa
comprendere e riceva da noi ed elabori
con noi un supplemento di speranza,
ma anche un supplemento di pensiero;
si renda conto che si può immaginare di
vivere altrimenti, che certi problemi possono
essere sciolti e che qualche varco
verso un futuro di fatto c’è. Ed è su questo
che noi scommettiamo. Questo
chiede però un lavoro enorme: quello di
estrarre l’intelligenza dalle cose che facciamo.
Abbiamo bisogno di gente che, partendo
dall’esperienza, non ce la venda, non ce
la racconti, ma la legga interpretandola.
Penso che si debba chiedere a chi
lavora nel sociale di perdere tempo con
la comunità locale, e prima ancora di perdere
tempo per estrarre cosa c’è dietro le
cose che stiamo facendo, quali sono le
intuizioni che ci guidano, quali sono gli
orientamenti e le scoperte che stiamo facendo.
Forse essere viaggiatori leggeri vuol dire
che accettiamo di fare dei pezzi di strada
con la gente normale, nella quotidianità e
nel conversare nella quotidianità, che ci
possano essere degli incontri che rigenerino
la capacità di giocare, di tessere
nuove mappe linguistiche, nuove mappe
di ragionamento di cui la gente oggi ha
estremo bisogno.
A quel punto una città che gioca con le
parole, che scrive giocando nuove parole,
è una città che nasce.
■

incursione 4
Vestimi d’amore
Vestimi d’amore, che sono nuda.
Sono come città, deserta.
Vuota di rumori, tremulo gorgheggio.
Secca foglia fragile di Marzo.
Circondami di piacere,
che non son nata per essere triste.
E la tristezza mi sta stretta,
come vestito non mio.
Voglio accendermi ancora,
dimenticare il sapore salato delle lacrime.
Le ferite nei gigli.
La rondine morta sul balcone.
Tornare a rinfrescarmi alla brezza del sorriso.
Onda che si frange.
Mare contro le rocce della mia infanzia.
Astro nelle mie mani.
Lampada eterna della via verso lo specchio.
In cui tornare a guardarmi il corpo intero.
Protetta.
Portata per mano.
Dalla luce.
Da verdi prati e vulcani.
Pieni i capelli di passeri.
Dita che esplodono in farfalle.
L’aria intrecciata ai miei denti.
Ritornando all’ordine
di un universo abitato da centauri.
Vestimi d’amore, che sono nuda.
Gioconda Belli Vestimi d’amore
tratto da La costola di Eva
25 anni
Abbiamo accompagnato l’invocazione di Gioconda Belli in questa splendida poesia a un filo rosso. Il filo rosso ha sorretto il passo
leggero di questo canto urlato e sussurrato al tempo stesso. È il grido di tante storie che chiedono di essere portate per mano, di
essere vestite d’amore per placare il freddo che si cela dentro.
Questo canto risuona nel canto di tanti incontri, di tante accoglienze, di tanti progetti e di tanti sogni nati in Aeper. La nudità di
queste storie - così vere, così autentiche - ha dato linfa a percorsi fatti di mani tese, braccia aperte e reciprocità feconde dove anche
la creatura più semplice e più fragile può farsi guida sicura nell’equilibrismo della vita umana.
Ed ecco tornare il filo rosso… steso e sospeso a terra in attesa del funambolo che lo percorrerà, col fiato sospeso, nel rischio e nella
paura del vuoto. Ma la vicinanza, la presenza amica sostengono l’incedere del funambolo, accompagnano il suo passo incerto e
si fanno danza, insieme.
cooperativa Aeper
24

Rocco Artifoni
Moderatore
Ringrazio Franco Floris per le cose
che ci ha detto, sia perché ci ha
dato delle indicazioni, ma soprattutto
perché ci ha posto tante domande.
Rovescio un po’ quello che
ha detto a Judith: ci ha dato degli
spunti per pensare alla propria
strada di viaggiatore. Sono buoni
punti di partenza per guardare
avanti.
Mi ha fato molto piacere sentire
che Franco ha richiamato l’articolo
3 della Costituzione. A questo proposito,
tra i viaggiatori leggeri vorrei
citarne altri due. Uno si chiama
don Giuseppe Dossetti, che è
stato tra coloro che hanno scritto la
nostra bellissima Costituzione.
Anche in questo caso invito soprattutto
i giovani a “scoprire” Dossetti,
che proprio ai giovani diceva
a proposito della Costituzione:
“Cercate di conoscerla, di comprendere
in profondità i suoi principi
fondanti, e quindi di farvela
amica e compagna di strada (…)
per qualunque cammino vogliate
procedere e qualunque meta vi
prefissiate”. La dobbiamo portare
con noi e dentro di noi. È un libro
prezioso.
Proprio in questo quartiere, in occasione
dei 150 anni dell’Unità
d’Italia, hanno messo davanti all’entrata
della scuola dell’infanzia
alcune frasi scritte dalle insegnanti
con i bambini e le bambine. Una di
queste frasi diceva “I nostri nonni,
con tanto coraggio, in un libro speciale
- la Costituzione - ci hanno
lasciato un messaggio”. L’abbiamo
messa sulla copertina di un
libro sulla Costituzione, perché
riassume tutto: lì c’è un tesoro da
scoprire, da far uscire dal nascondimento,
ci sono delle parole sagge
e preziose che dobbiamo recuperare
e riscoprire.
Tra i viaggiatori leggeri c’è un altro
che non posso non citare tra Franco
Floris e Marco Vincenzi, perché
questo viaggiatore si chiama don
Luigi Ciotti. Lo segnalo per tante
ragioni: perché è da lui che ho sen-
25 anni
tito una volta dire che la parola più
usata nel Vangelo è la parola
“strada”, quindi il viaggiare, l’andare,
il camminare. E se ci pensate,
quell’errante rabbi ebreo intorno al
lago di Tiberiade ne ha fatta tanta
di strada e non ci ha lasciato niente
di scritto. Altri hanno raccontato di
lui e ci hanno narrato viaggi, incontri,
relazioni, persone, racconti.
Luigi Ciotti lo ricordo volentieri
perché è una guida spirituale per
tanti di noi. È all’inizio della storia
dell’Aeper, è all’inizio della storia
del CNCA, è all’inizio della storia
di Libera, all’inizio di tante storie
importanti che si impastano con la
nostra quotidianità.
Tanto per fare un piccolo esempio.
Libera è nata raccogliendo le firme
per poter riutilizzare i beni sequestrati
e confiscati alle mafie. Nella
nostra realtà, a Berbenno in Val
Imagna, è stato ristrutturato, recuperato
un bene di un usuraio e sta
nascendo adesso una comunità di
accoglienza per minori. Gli operatori
sono della cooperativa “Il
Varco”, che nasce dall’Aeper. Vedete
come le storie si intrecciano e
si incontrano ai crocevia. Da una
realtà particolarmente negativa, si
è riusciti a recuperare un “bene”.
Talvolta accade che le strade di alcuni
viaggiatori leggeri portano a
risultati pesanti, importanti, significativi
per tutti noi. Questo anche
grazie al mettersi insieme.
Un modo di mettersi insieme per
l’Aeper è stato sicuramente il Cnca
(Coordinamento nazionale comunità
di accoglienza), che c’è dall’inizio
degli anni ‘80. Sempre
nella bibliografia bisogna mettere
un libro (che temo non si trovi più,
se non in fotocopia) che si intitolava
“Sarete libri davvero”, edito
nel 1983-84. Una specie di manifesto
dello “spirito” delle persone
e delle comunità del Cnca. Poi i
libri sono continuati. Il penultimo
è “Decrescere per il futuro” e l’ultimo
“Grammatica di minoranze -
sfide di minoranze per far crescere
stili di vita”. Su quest’ultimo tema,
che si collega bene a quanto detto
da Franco Floris, do la parola a
Marco Vincenzi, che fa parte del
consiglio nazionale del Cnca. ■
cooperativa Aeper
25
don Giuseppe Dossetti
Nasce a Genova nel 1913. Laureato in
Giurisprudenza, insegna diritto ecclesiastico
all’Università di Modena.
Antifascista, partecipa alla Resistenza, divenendo Presidente
del CLN di Reggio Emilia, senza mai usare armi.
Nel 1945 è vicesegretario nazionale della Democrazia
Cristiana e capogruppo della DC all’Assemblea Costituente.
Pio XII gli chiede di presentarsi alle elezioni del
1948: viene eletto alla Camera dei Deputati. Nel 1952,
vista l’impraticabilità della sua politica di “democrazia
sostanziale”, si dimette dal Parlamento. A Bologna
fonda un Centro Studi per la formazione teologica dei
laici per favorire il rinnovamento della Chiesa. Nel
1955 scrive la regola della Piccola Famiglia dell’Annunziata,
comunità monastica che fonda a Monteveglio.
Il cardinale Lercaro di Bologna nel 1959 lo ordina prete.
Nel 1963 partecipa al Concilio Vaticano II, in particolare
nel gruppo di lavoro “Gesù, la chiesa e i poveri”.
Quando Lercaro viene rimosso dalla sede vescovile per
la sua posizione contro i bombardamenti statunitensi in
Vietnam, Dossetti si ritira a vita monastica, dedicandosi
alle sue comunità in Italia, Palestina e Giordania. Nel
1994, dopo la vittoria elettorale del centrodestra, denuncia
il pericolo di uno stravolgimento della Costituzione
italiana e fonda i Comitati per la difesa della Costituzione.
Muore nel 1996.
don Luigi Ciotti
Nasce nel 1945 a Pieve di Cadore (Belluno).
A Torino nel 1965 promuove un
gruppo di impegno giovanile: il Gruppo
Abele, con un progetto educativo negli istituti di pena minorili
e la nascita di comunità per adolescenti alternativa
al carcere. Nel 1972 viene ordinato sacerdote dal cardinal
Pellegrino, che come parrocchia gli affida la strada, luogo
di incontro con i bisogni della gente. Nel 1973 nasce il
“Centro Droga”, luogo di accoglienza e ascolto per tossicodipendenti,
cui seguirà l’apertura di alcune comunità.
Ai servizi offerti si affianca l’impegno culturale (centro
studi, casa editrice e “Università della strada”) e, in senso
lato, “politico”. Il Gruppo sviluppa proposte per affrontare
il disagio sociale: dai servizi a bassa soglia alle comunità,
dagli spazi di ascolto all’attenzione per le varie forme di
dipendenza, dall’aiuto alle vittime di tratta e prostituzione
alle iniziative per l’integrazione dei migranti. Dal 1979 si
sviluppano progetti in Vietnam, Sud America e Costa
d’Avorio. Nel 1982 don Ciotti contribuisce alla nascita
del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza
(CNCA) e nel 1986 della Lega italiana per la lotta
contro l’AIDS (LILA). Nel 1992 fonda il mensile Narcomafie
e nel 1995 Libera - Associazioni, nomi e numeri
contro le mafie. Obiettivo di Libera è alimentare il cambiamento
etico, sociale, culturale per contrastare i fenomeni
mafiosi e ogni forma d’ingiustizia e illegalità
attraverso percorsi educativi in collaborazione con scuole
e università, le cooperative sociali sui beni confiscati, il
sostegno ai familiari delle vittime e la mobilitazione del 21
marzo con la “Giornata della memoria e dell’impegno”.

“Ma non sono i fatti
che contano nella vita,
conta solo ciò che
grazie ai fatti si diventa”.
Etty Hillesum,
Lettere 1942-1943,
Adelphi 1990, p.25.
Ringrazio per l’invito, anche a nome dei
gruppi CNCA che da tanti anni attingono
alla vostra esperienza in contenuti, stili e
presenze di persone.
“Nuovi stili di vita”, si dice nel titolo, ma
io non farò l’elenco delle cose da fare, di
cibi, acquisti alternativi, nuove regole…
25 anni
Sfide di minoranze
per far crescere nuovi stili di vita
“Suggestioni profetiche, percorsi per favorire un cambiamento nello stile di vita”
Marco Vincenzi
Presidente progetto Sulla Soglia
(coop. soc. Insieme, Rete famiglie aperte, coop. soc. Tangram)
Consigliere CNCA
perché credo che la questione stia più a
monte, o meglio più in profondità. ll rischio
è quello di un nuovo moralismo.
La questione è cambiare l’ottica, i paradigmi
con cui vediamo, giudichiamo,
scegliamo.
“Viaggiatori leggeri” è il titolo del convegno.
“Costruttori di ponti, saltatori di muri,
esploratori di frontiere” (Alexander Langer).
Mi chiedo: Chi oggi costruisce ponti?
Chi salta i muri che abbiamo di fronte?
Chi sta sulle nuove frontiere? Profezia è
questa capacità di collocarsi sulla soglia
delle questioni, di varcare i confini, di
scavalcare impedimenti…
cooperativa Aeper
26
SFIDE di minoranze…
Prima sfida
Aver lucidità sul nostro compito, come
cooperatori sociali, come educatori (e in
molte altre vesti: insegnanti, genitori,…):
essere sfondo.
Alla luminosità
occorre molta ombra
per poter abbagliare.
E.Jabès
Il libro del dialogo
Pironti 1987
continuamente creare lo sfondo, mettere
le condizioni esistenziali, culturali e politiche
che consentano a persone e situazioni
di venire in primo piano, portare la
loro ‘luce’ in modo che essi possano
contribuire a interpretare e orientare
scelte e criteri e che si restituisca dignità
a contesti deprivati, a donne e uomini
accantonati o spappolati dai mali che
dentro e fuori di ciascuno hanno oggi
largo campo d’azione. Consentire che
‘zone oscure’ si illuminino, “restituire il
sociale al sociale” perché è la terra di
tutti… e oggi il sociale sempre più lo si
costruisce ‘fuori dal sociale’, fuori dai
circuiti e dai luoghi che fin qui abbiamo
frequentato (ad esempio per la coop. Insieme
a Vicenza le proposte-eventi

aperti e costruiti con la cittadinanza o il
processo partecipativo con l’assessorato
all'urbanistica per area ‘S. Pio X nord’).
si tratta di essere e creare crocevia dove
le diversità si incontrano, contesti ‘meticci’
dove le somiglianze ci possano
sorprendere (vedere ‘la pasta comune’
di umanità e non solo le diversità), dove
rielaborare le prassi per innovare mutando
i paradigmi che ci hanno portato
fin qui, dove segnalare altri stili, percorsi,
economie, proposte…, dove imparare
e non pensare che solo noi
abbiamo da insegnare (ridurre le distanze
dai mondi che abbiamo vicini ma
ancora lontani).
Tutto questo richiede di:
- aprire spazi di fiducia dove l’altro possa
finalmente fidarsi ad essere davvero se
stesso (uno dei temi portanti del Libro di Ester)
- “lavorare su di sé” (Etty Hillesum), personalmente
e collettivamente.
L’ultima ‘incursione teatrale’ cui abbiamo
assistito qualche minuto fa mostrava qualcuno
che camminava in equilibrio su un
nastro. Mi ha fatto pensare a come tutti,
oggi più che mai, stiamo camminando sul
filo, in un difficile equilibrio. Karl Wallenda,
un grande equilibrista che si esibiva
senza rete protettiva, diceva che “vivere è
stare sul filo” ed è necessario non restare
fermi, camminare per poter stare senza cadere.
Diceva anche che “le reti non sono
altro che una serie di buchi tenuti insieme
da un filo”: noi spesso ci preoccupiamo
troppo dei nostri ‘buchi’, di quel che
manca e non va…, ma dobbiamo avere in-
25 anni
vece attenzione al filo che tiene assieme
quel che siamo (spesso, appunto, un insieme
di buchi…) come gruppi /organizzazioni
e anche come persone.
Seconda sfida
Come stare nella crisi?
Imparando a danzare sul Toro.
L’immagine scelta dal movimento “occupy
wall street” è una ballerina che danza
sulla groppa del Toro, il simbolo dell’indice
di Borsa… (cfr CNCA “Decrescere
per il futuro”, … la sequenza dei tori di
Picasso… come riportare i tori alla loro essenzialità?):
come saper stare al mondo in
tempo di crisi? ... perché “si può stare nell’incertezza,
senza essere insicuri” (Cfr
testo CNCA “Grammatica di minoranze”,
2011, scritto con lavoro collettivo che ha
coinvolto anche Aeper e al quale Gianni
Tognoni ha dato un apporto determinante).
La via del danzare sopra il potente Toro
che spadroneggia su case, cuori e mercati
chiede innanzitutto di rompere con la logica
sacrificale 1 che pervade la società dei
consumi, l’economia, la politica. Sacrificale
perché produce vittime da deprivazione,
sfruttamento, oppressione, guerre.
Sacrificale perché sta immolando alla finanza
quello che ormai quasi con disprezzo
è chiamato lo stato sociale, “la più
grande invenzione della civiltà umana” secondo
il sociologo Z. Bauman. Sacrificale
perché devasta la Terra di cui siamo ospiti
e non proprietari.
cooperativa Aeper
27
Ogni religione e civiltà del sacrificio impedisce
liberazione ed è anti-evangelica2 .
Non saranno nuove regole etiche a salvarci
davvero, nemmeno se progressiste. Spiritualità
(intesa come essenza di umanità) e
politica chiedono oggi uno sguardo radicalmente
diverso e liberato sulle cose, sui
beni, sulle relazioni.
A tutti quelli che cercano in profondità
manca un’autentica riflessione per una
“spiritualità delle cose”, del consumare e
dell’usare i beni per umanizzarsi e umanizzare
il mondo; abbiamo un po’ di morale
(laica e religiosa) sul consumismo, ma
non abbiamo imparato a gustare il giusto e
gioioso rapporto con cose e beni comuni.
Come cittadini, a tutti, sta mancando una
visione politica che si incentri, come indicato
nelle recenti Costituzioni di Bolivia
ed Equador, sul buen vivir - la vita piena
- costruendo altri criteri e indicatori del
ben-essere di ciascuno e di tutti: il sociale
su questo inventare altri indicatori di valutazione
finora si è speso davvero troppo
poco, forse nulla, e invece si deve spingere
per mutare i paradigmi partendo proprio
dalle prassi delle nostre quotidianità. Dove
spiritualità e politica arrancano, la Legge
del Toro s’impone con facilità.
Solo la leggerezza di chi sa ballare sul massiccio
Toro che corre accecato e furioso,
mostrerà la forza armoniosa e il nuovo
equilibrio che scaturiscono quando spiritualità
e politica smettono di chiudere gli
occhi di fronte alle vittime e di credere che
esistano distruzioni che hanno forza creatrice
(vale anche nelle relazioni interpersonali
e di lavoro, o rispetto all’ambiente).

Non basta venir fuori dalla crisi, salvare
noi e le nostre cose…:
“Io credo che… Se noi salveremo i nostri
corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque
essi siano, sarà troppo poco. Non
si tratta infatti di conservare questa vita
a ogni costo, ma di come la si conserva. A
volte penso che ogni situazione, buona o
cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove
prospettive. E se noi abbandoniamo al
loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente
affrontare - se non li ospitiamo
e nelle nostre teste e nei nostri cuori,
per farli decantare e divenire fattori di crescita
e di comprensione -, allora non
siamo una generazione vitale. Certo che
non è così semplice […]; ma se non sapremo
offrire al mondo impoverito del
dopoguerra nient’altro che i nostri corpi
salvati a ogni costo - e non un nuovo
senso delle cose, attinto dai pozzi più
profondi della nostra miseria e disperazione
-, allora non basterà. Dai campi
stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri,
nuove conoscenze dovranno portar
chiarezza oltre i recinti di filo spinato, e
congiungersi con quelle che là fuori ci si
deve ora conquistare con altrettanta
pena, e in circostanze che diventano
quasi altrettanto difficili. E forse allora,
sulla base di una comune e onesta ricerca
di chiarezza su questi oscuri avvenimenti,
la vita sbandata potrà di nuovo
fare un cauto passo avanti”.
Etty Hillesum
Lettere, Adelphi, pag. 45
Terza sfida
25 anni
L’ottica con cui stare…
Mettersi in gioco, con leggerezza
“Sapete la storia di Alì Babà
che lascia ai suoi 4 figli
39 cammelli in eredità?
Al primogenito ne destina la metà,
al secondo un quarto,
al terzo un ottavo
e al quarto un decimo.
I figli litigano
su quella impossibile ripartizione,
senza mai arrivarne a capo. […]
A un certo punto
arriva un saggio errante
con il suo cammello.
Ascolta il problema,
scende
e aggiunge il suo cammello
agli altri 39:
ecco ora la suddivisione,
come prevista dal testamento,
diventa possibile.
E, fatti i conti,
alla fine avanza un cammello,
quello del saggio errante,
che rimonta in groppa e se va.
Il saggio errante è il terapeuta”.
cooperativa Aeper
28
Paul Watzlawick
Per uno stile partecipato ma leggero:
Prima di tutto, re-imparare a vedere
quello che realmente abbiamo davanti:
i volti, gli affaticamenti, le tensioni, i
sorrisi possibili. Riprendere a osservare,
ad ascoltare davvero, a notare
delle cose (annotarsi su un notes!) è il
primo movimento per costruire quello
che alcuni chiamano il ‘quarto sapere 3 ’,
cioè l’apprendimento dall’esperienza.
Mettersi in gioco (in sintonia) come
soci, educatori, ‘lavoratori-imprenditori
della coop’, volontari, cittadini… a
fronte delle questioni (problemi, conflitti)
che incrociamo nel percorso.
Senza nascondersi o negarsi, senza stare
nella propria nicchia.
Il contributo parziale portato in più può
essere decisivo purché con il giusto
equilibrio: nelle relazioni educative
spesso è chiesto di dare il minimo apporto
necessario perché l’altro o gli altri
possano affrontare in autonomia le questioni.
Pensando più complessivamente
alle nostre cooperative, si tratta di mettere
a disposizione degli altri, nelle diverse
situazioni che ci interpellano, il
patrimonio di competenze umane e professionali
(cammello) su cui abbiamo
potuto contare (‘ciò che siamo oggi’)
per arrivare fin dove siamo arrivati, tutto
quello che ci ha fatto ‘fare strada’.
Devo però ‘essere in sintonia’ col
gruppo e la situazione: se arrivo con una
mucca invece di un cammello, non
serve e porto ulteriore fatica.

Con leggerezza, senza troppi protagonismi
personali, smontando la cultura
dell’intervento sociale quando eccede in
specialismo e terapeuticità, quando prevale
l’affermazione del proprio ruolo,
del nome della propria organizzazione...
Si può dare il proprio contributo senza
nulla chiedere o avere in cambio (successo,
potere, visibilità…). La storia,
in definitiva, mostra il saggio che se ne
25 anni
torna senza guadagno e senza perdita:
dare il proprio contributo, mettendosi
in sintonia con il gruppo e la
situazione, ci fa essere semplicemente
noi stessi. Questo basta e avanza.
PS: la metafora può avere anche una lettura
come soggetto collettivo, come ‘organizzazione’
che si mette a disposizione di una città,
vedendo, mettendosi in gioco, con leggerezza…
cooperativa Aeper
29
Quarta sfida
Scrivere collettivamente (partendo
dalle proprie ‘note’) per raccontare
per dare una diversa rappresentazione
della realtà, come ci insegna
Simone Weil:
“L’azione su se stessi,
l’azione sugli altri,
consiste nel trasformare i significati.”
Simone Weil, Quaderni IV
In sintesi, la descriverei così:
scrivere collettivamente
è arare il campo comune,
rivoltare le zolle
perché si crei spazio
nello stretto del quotidiano,
far filtrare luce,
aria e acqua in profondità
in modo che le prassi
possano germogliare parola.
L’azione su se stessi,
l’azione sugli altri,
consiste nel trasformare
i significati.
Simone Weil, Quaderni IV

Quinta sfida
Tra stormo e soffione,
due modalità diverse di stare sulla scena.
In un tempo in cui molti spingono per
fare lobby, credo non si debba farsi catturare
dal fascino dello stormo di uccelli che
procede armonioso, sincronico e compatto
seguendo un disegno e una guida ‘intelligente’
(tema delle leadership accentrate in
alcuni dei nostri gruppi!), ma scegliere la
logica del soffione che in modo disordinato
si disperde, affida alla vita quello
che è. Fidarsi a buttare semi qua e là, senza
‘montarsi la testa’ e pensare che invece di
lievito siamo noi la pasta… perché si può
essere irrilevanti, ma non per questo insignificanti…
(cfr CNCA, “Grammatica di minoranze”, p. 22).
Ecco perché il quaderno ‘Grammatica di
minoranze’ si apre e si chiude con due piccoli
testi sui semi:
La logica del soffione
Necessita di un contesto,
esposto al tempo e alla luce,
di terra dove impiantarsi,
di una struttura vitale,
collettiva e differenziata:
radici, gambo, foglie, corolla…
di aria mossa,
di molteplicità disordinata,
di semi in volo.
Accoglie volentieri
le turbolenze del caso,
si disperde,
si disarticola,
si decostruisce,
resta vivace decrescendo,
disloca altrove le sue energie migliori,
sparge opportunità
con una comune impronta:
caleranno in basso fino a sprofondare.
Non bastare a se stesso è la sua prassi.
Può darsi
che non siamo noi il soffione,
solo uno sfondo trasparente
di aria mossa
o terra poco umida
dove l’imprevisto si deposita,
talvolta lo si calpesta.
O forse un po’ di tutto questo
per far dare alla realtà
il meglio di sé.
Tarassaco:
per dire minoranza oggi.
Il seme non sa
25 anni
Il seme non sa,
ma vive anche l’inverno.
Il seme non sa,
ma dà il meglio di sé
interrato e coperto di neve.
Neanche il sole
sa cosa ha in mente la primavera.
Solo uno stile da viandanti leggeri consente
di riallacciare le nostre esperienze
alla vita della gente. Solo la logica dispersiva
del buttare semi consente di sperimentare
l’efficacia disordinata del
gesto largo e gratuito.
Ce n’è bisogno nel sociale, in politica,
nei posti di lavoro, nelle case, tra di noi
e con tutti.
Grazie dell’ascolto. ■
Marco Vincenzi
info@progettosullasoglia.it
1. cfr. Roberto Mancini in Mosaico di pace, set 2011.
2. “Misericordia io voglio e non sacrificio”
(Os 6,6; Mt 9,13 e 12,7).
3. cfr. P. Reggio, Il quarto sapere. Guida
all’apprendimento esperienziale, Carocci 2010.
cooperativa Aeper
30

incursione 5
25 anni
Quando il bambino era bambino
Quando il bambino era bambino, se ne andava a braccia appese.
Voleva che il ruscello fosse un fiume, il fiume un torrente;
e questa pozza, il mare.
Quando il bambino era bambino, non sapeva d’essere un bambino.
Per lui tutto aveva un’anima, e tutte le anime erano tutt’uno.
Quando il bambino era bambino, su niente aveva un’opinione.
Non aveva abitudini.
Sedeva spesso a gambe incrociate, e di colpo sgusciava via.
Aveva un vortice tra i capelli, e non faceva facce da fotografo.
Quando il bambino era bambino, era l’epoca di queste domande.
Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non sono lì?
Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole è forse solo un sogno?
Non è solo l’apparenza di un mondo davanti a un mondo,
quello che vedo, sento e odoro?
C’è veramente il male e gente veramente cattiva?
Come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare?
E che un giorno io, che sono io,
non sarò più quello che sono?
Quando il bambino era bambino,
per nutrirsi gli bastavano pane e mela, ed è ancora così.
Quando il bambino era bambino,
le bacche gli cadevano in mano,
come solo le bacche sanno cadere. ed è ancora così.
Le noci fresche gli raspavano la lingua, ed è ancora così.
A ogni monte,
sentiva nostalgia di una montagna ancora più alta,
e in ogni città, sentiva nostalgia di una città ancora più grande.
E questo è ancora così.
Sulla cima di un albero,
prendeva le ciliegie tutto euforico, com’è ancora oggi.
Aveva timore davanti ad ogni estraneo, e continua ad averne.
Aspettava la prima neve, e continua ad aspettarla.
Quando il bambino era bambino,
lanciava contro l’albero un bastone, come fosse una lancia.
E ancora continua a vibrare.
Peter Handke Quando il bambino era bambino
Perché sono io? Perché sono qui? Come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare?
E che un giorno io, che sono io, non sarò più quello che sono?
In scena i quesiti di un bambino che si affaccia alla vita, che affronta ‘l’epoca delle domande’ con stupore, con innocenza e curiosità
disarmante. Sono domande che ci riportano all’origine, alla nascita, alla storia di ognuno e dell’umano. Sono le domande che ancora
oggi risuonano nell’adulto in ricerca, nell’uomo che lascia aperta la porta al bambino che è in lui perché continui - con quell’insistenza
dei perché dell’infanzia - a interrogare il suo cammino. Alle domande si accompagnano l’innocenza e la gioia dei gesti dell’infanzia,
la poesia del gioco con la natura, ‘dove tutto ha un’anima’ e dove cogliere una ciliegia matura da un ramo è momento di pura euforia.
Questa quarta incursione è la rappresentazione di questo mondo magico dell’infanzia, dove la parola che si fa bambina diventa poesia
che interroga, che ci riporta a questa dimensione così speciale. Infanzia come spazio-tempo condiviso: luogo dove si sono depositate
le storie che spesso raccontano il nostro presente di adulti e tempo denso di emozioni, sensazioni ed essenzialità. Infanzia come fase
della vita da tutelare, e come fase della vita da richiamare nel nostro presente per godere di quello ‘sguardo del bambino’ capace
di dischiudere il nuovo.
cooperativa Aeper
31

Rocco Artifoni
Moderatore
Ringrazio ancora il Gruppo La
Strada per queste incursioni, che
si riconnettono sempre ai temi di
cui stiamo parlando, con tutti i
significati e i simboli che evocano.
Grazie a Marco Vincenzi per i
suoi stimoli. Sono stati tanti input,
su tante strade e in particolare
questa focalizzazione sul non fare
lobby, ma essere minoranze, perché
sappiamo che spesso la storia
l’hanno fatta le minoranze. È un
tema che va declinato, ripreso, ridiscusso.
Collegandomi all’immagine
della ballerina sul toro
evocata da Marco, vi leggo alcuni
passaggi di un filosofo molto attuale,
che si chiama Friedrich
Wilhelm Nietzsche:
“E anche se sulla terra ci sono
paludi di nera tetraggine, chi ha
piedi leggeri riuscirà a danzare
persino sugli abissi, abituato
com’è a tenersi su corde leggere
e su leggere possibilità”.
E ancora: “Si deve essere molto
leggeri per spingere la propria
volontà di conoscenza fino a una
tale lontananza, oltre il proprio
tempo, per crearsi uno sguardo
che abbracci millenni e anche
un puro cielo in questo sguardo.
Ci si deve essere staccati da
molte cose che opprimono, inibiscono,
avviliscono, appesantiscono
noi europei di oggi.
L’uomo di un tale al di là, che
vuole osservare con i propri
occhi le supreme misure di questo
tempo, deve in primo luogo,
a questo scopo, superare questo
tempo in se stesso”.
Quando Nietzsche voleva descrivere
la vita, la rappresentava
con la figura di una donna che
danza. Quando voleva simboleggiare
il futuro, lo identificava
con un bambino che gioca. Metafore
della leggerezza.
Ci avviamo all’ultima relazione.
25 anni
Voglio ricordare anche una viaggiatrice
leggera, altrimenti giustamente
la mia amica Adriana
Lorenzi mi sgrida, perché finora
ho citato solo maschi. Questa
viaggiatrice leggera c’entra con
il prossimo relatore e ci apre ancora
di più lo sguardo su altri
fronti e c’entra anche con gli
abissi di cui abbiamo parlato.
Il viaggiatore leggero è una persona
che non è incosciente, vede
le difficoltà, ma non si fa schiacciare
da queste pesantezze della
realtà. Abbiamo parlato di
abissi, suicidi, disagio, pazzia, di
tante condizioni di difficoltà.
Questa viaggiatrice leggera
stava dall’altra parte del mondo,
nel Salvador. Si chiamava Marianella
Garcia, lavorava a
stretto contatto con Oscar Romero
vescovo - che credo tutti
conoscano -, faceva una cosa
difficilissima: lei si batteva per i
diritti umani. Lottare per i diritti
umani in Salvador voleva dire
camminare sulle strade per riconoscere
i cadaveri. Un compito
pazzesco, se ci pensate! Eppure
un modo per dare dignità alle
persone, almeno da morte, anche
in una situazione di questo genere.
Talvolta siamo davvero
nella situazione di camminare e
danzare sugli abissi, ma avendo
dentro il senso profondo del
volto delle persone, la dignità
degli esseri umani, dei loro corpi
che almeno da morti vengano riconosciuti.
Chiedo a Gianni Tognoni, segretario
del tribunale permanente
per i diritti dei popoli, di
parlarci di una nuova cultura per
un sociale più umano. So che è
difficile ripartire da qui: però la
morte c’è e c’è non solo la morte
naturale. E questo dobbiamo saperlo.
Dobbiamo ripartire da lì
per dare più significato a quello
che è il nostro contesto di vita. A
lui il compito, perché è forse
questione di una nuova cultura,
un nuovo paradigma da tracciare.
cooperativa Aeper
32
Marianella Garcia
Nasce il 7 agosto 1947 da una famiglia
dell’alta borghesia del Salvador.
Membro dell’Associazione
Cattolica Universitaria Salvadoregna,
fonda la Commissione per i
diritti umani del Salvador, partecipando
attivamente alla Democrazia Cristiana. Deputato
dell’Assemblea legislativa, è perseguita ed
arrestata dalle forze di sicurezza del democristiano
Duarte, a causa delle sue posizioni critiche sul tema
dei diritti umani, in particolare dei prigionieri politici.
Avvocato, fonda l’ Associazione Latino-Americana
dei Diritti Umani e diviene Vice Presidente della Federazione
Internazionale dei Diritti Umani. Il suo impegno
politico e sociale contrasta le violenze e le
sopraffazioni ad opera degli squadroni della morte,
strumento di un’oligarchia latifondista e militare. Documenta
le violenze del regime utilizzando la fotografia.
Torturata e violentata, continua il suo impegno
per i diritti civili. Minacciata di morte, si reca in Europa
(1981 - 1982). In Italia testimonia il dramma del
suo popolo, evidenziando la necessità della presa di
posizione politica nei confronti dei problemi del Sud
del mondo. Sottolineando l’insufficiente impegno a
livello internazionale, sensibilizza le coscienze e la
responsabilità delle persone. Coerente con l’impegno
personale nei confronti degli emarginati, dei diseredati
e degli oppressi, rientra clandestinamente in Salvador
dove è brutalmente torturata e assassinata il 13
marzo del 1983.
Friedrich Wilhelm Nietzsche
Nietzche (Röcken, 15 ottobre 1844
- Weimer, 25 agosto 1900) è stato
un filosofo, aforista, saggista,
poeta, compositore, accademico e
filologo tedesco. Tra i maggiori filosofi
di ogni tempo, ebbe un’influenza
controversa e indiscutibile sul pensiero
filosofico, letterario e politico del Novecento. La sua
filosofia è considerata da alcuni uno spartiacque fra
la filosofia tradizionale e un nuovo moodello di riflessione,
informale e provocatoria. Pensatore unico
nel suo genere, ha esercitato un’enorme influenza sul
pensiero posteriore e da alcuni è considerato un antesignano
dell’esistenzialismo. Coerentemente con i
suoi assunti, diede grande rilievo al mito, alla poesia
e alla musica, cimentandosi in gioventù anche come
poeta e compositore. Tra le sue opere: La nascita
della tragedia, Considerazioni inattuali, Umano,
troppo umano, Il viaggiatore e la sua ombra, Aurora,
La gaia scienza, Così parlò Zarathustra, La genealogia
della morale, Il caso Wagner, Il crepuscolo
degli idoli, L’anticristo, Ecce homo.

Parlo alla fine della mattinata e quindi mi
sembra quasi di dover soltanto ringraziare
per tutto quello che ho sentito e ammettere
che devo cambiare tutta la mia
relazione e che mi trovo d’accordo con
tutte le citazioni che sono state fatte, a
partire dal titolo scelto per questo convegno:
“Viaggiatori leggeri”. Io sono stato
compagno di strada, più o meno leggero,
di quasi tutti quelli che sono stati ricordati
tra cui anche Marianella.
In realtà, man mano che si succedevano
gli interventi ho preso degli appunti dai
quali in questo momento non posso prescindere.
Prima di tutto voglio fare un augurio legato
alla citata “cultura per nuove
sfide”. Auguro ad Aeper di mantenere
questa sua “metodologia di presenza”
nel sociale, nel mondo, nella cultura, che
è esattamente il contrario di quello che
normalmente si insegna in metodologia
e anche in politica. Di mestiere faccio il
ricercatore in campo medico, dirigo un
Istituto di ricerca in cui si cerca di dire
come fare per produrre risultati. In questo
momento tutti gli economisti difendono
un metodo che deve prescindere
dai contenuti, determinare come si usano
le cose che si fanno: c’è il metodo di indagine
sociale, quello per fare pianificazione
economica. Nel mio settore c’è il
metodo di fare le sperimentazioni negli
Istituti clinici controllati e quello per garantire
l’equilibrio del bilancio in ospedale.
Il contenuto deve adattarsi al
metodo. Il metodo, però, non può essere
semplicemente e banalmente uno dei
25 anni
Una nuova cultura
per un sociale più umano
Gianni Tognoni
Segretario del tribunale permanente per i diritti dei popoli
modi per rispondere a domande molto
diverse, soprattutto quando le domande
sono persone e storie, vite di persone e/o
di collettività.
Allora mi sembra che Aeper, come altre
cooperative, abbia mantenuto intatto il
proposito di rispondere a domande e bisogni
insieme a coloro che li pongono.
Questo è un capovolgimento culturale
importante rispetto a un mondo globale
che asserisce esattamente il contrario e
pretende di riassorbire continuamente i
problemi facendo prima di tutto diagnosi
che successivamente vengono chiamate
problemi. Quando la diagnosi è un pa-
cooperativa Aeper
33
ziente mentale, si può arrivare a non sapere
cosa farsene della diagnosi perché
non si ha la risposta, allora si intrappola
paziente e bisogno in quella diagnosi e
poi non si sceglie di non fare più nulla.
La verità è che non si sa che cosa fare per
quella malattia psichiatrica. Qui sta la
crisi che viviamo tutti oggi. Aeper ha
provato e continua a provare a stare vicino
alle persone trovate in strada.
Voi di Aeper dovete restare molto fedeli
a questa cosa antica che avete riscoperto
senza sviluppare grandi concettualizzazioni,
piuttosto prendendo sul serio i bisogni
che emergevano per dare loro una
risposta. I bisogni sono persone.
Queste mie parole derivano dalla mia
storia e dal mio lavoro all’interno della
sanità che tocca molto da vicino i settori
nei quali voi operate. Il mondo e la cultura
corrente pretendono sempre di più
di dare risposte cosiddette “scientifiche”.
Ad esempio io metto nel bilancio delle
Asl, piuttosto che nel programma dell’ospedale,
soltanto le risposte che hanno
dato dei risultati certi: posso rimborsare
un farmaco per un malato cardiaco piuttosto
che oncologico, se quel farmaco è
stato testato con una sperimentazione clinica
controllata e ha prodotto evidenze.
Per fortuna, dice qualcuno, che hanno
verificato che quel farmaco serve a qualcosa.
Il problema è che questo principio si è
sempre più staccato dal contesto, spingendo
l’attenzione verso il farmaco e la
sua procedura di sperimentazione, di-

menticando la persona per la quale è
stato messo a punto. Per sperimentare
tanti farmaci oncologici posso dimenticare
che di fronte a me c’è qualcuno con
un tumore in fase molto avanzata con
una speranza di vita di pochi mesi. Continuo
a pensare che per lui - per tutti i
“lui” nelle stesse condizioni - la risposta
stia nel prolungargli la vita soltanto di
quattro settimane. In realtà nessun medico
può dirgli che ha poca vita e che potrebbe
prolungargliela soltanto di quattro
settimane, piuttosto asserisce che il farmaco
serve per salvargli la vita, per andare
avanti.
La tecnologia in medicina si è sempre
più sostituita alla speranza. Le risorse, le
competenze, i soldi vengono spesi, e
anche buttati via a volte, per dare una
speranza che non può essere tale e che,
invece, si trasforma in un diritto di salute
da parte del paziente. In questo modo li si
sottrae a una diversa area di sperimentazione
dove non serve la tecnologia, ma
altre strategie per rispondere ai bisogni
delle persone.
Per dare a una persona una speranza di
prolungamento di vita di quattro settimane,
il costo può raggiungere i trenta o
quarantamila euro. Analogamente, per
persone disabili, affette da Sla, da sclerosi
multipla che abbisognano di trattamenti
per lunghi periodi si arriva a
spendere fino a quindici, ventimila euro
all’anno per tenerli semplicemente attaccati
a una terapia che non aumenta la loro
autonomia, anzi la sottrae loro, cancellando
nel contempo la rete di attenzioni e
di persone che sarebbe loro necessaria.
Mi sembra quindi importante, da un
punto di vista culturale, pensarsi come
cooperativa capace di opporsi in maniera
molto lucida a quel sapere che pretende
ogni volta di avere certezze. Sono troppi
oggi quelli che si presentano - e si vendono
- come portatori di risposte. Affidabile
viene considerato chi afferma di
sapere come risolvere il problema, salvo
poi essere costretto ad ammettere di
avere sbagliato il modello. Credo che gli
economisti costituiscano un buon esempio
in tal senso, ma vale anche per tanti
che lavorano in quella parte di sanità che
incrocia il sociale. Diventa allora fondamentale
riconoscersi come ricercatori
che adottano e procedono con una meto-
25 anni
dologia dell’incertezza, in linea con la logica,
molto suggestiva, dei soffioni ricordata
da Marco Vincenzi nella sua
relazione. Dove ci sono certezze, ovviamente
si può anche chiedere conto di
certe spese effettuate per mantenersi fedeli
a una cultura caratterizzata da una
trasparenza reale, da forme di responsabilità
dei bilanci.
Tutti abbiamo imparato a fare i bilanci, a
me però piacerebbe molto che le cooperative
locali, come fa Sbilanciamoci nel
campo globale, facessero i conti in tasca
ai bilanci comunali e delle Asl rispetto ai
diritti di vita delle persone vicine alle
marginalità sociali, economiche, di riabilitazione.
Dobbiamo sapere quanti
sono i ricoverati in ospedale con un ictus,
ma anche quanti sono in carico alla Asl
per la riabilitazione, visto che non tutti
ne hanno diritto.
Quanti sono i malati mentali che non
possono avere accesso in nessun modo a
un’ipotesi di reintroduzione nella vita
con una flex-security, che non significa
ricondurli ai mestieri che non potrebbero
più fare? Quanti sono i malati fragili di
cui si è parlato? E ancora, dove sono?
Dove vivono? Voi operatori dell’Aeper
dovete riportare in questa cultura dell’affermazione
dei bisogni il riferimento ai
problemi che vivono i fragili, la loro solitudine,
le loro condizioni socioecono-
cooperativa Aeper
34
miche, che sono gli indicatori di fragilità
che non compaiono nei bilanci delle Asl.
Ad esempio si stimano i malati di Alzheimer
e i loro costi sulla base del consumo
di farmaci che dovrebbero rallentare la
demenza senile. In realtà servono a consumare
i fondi che potrebbero essere dati
a chi li accompagna, non soltanto le badanti,
ma tutte quelle persone che si
fanno carico della loro cura.
Forse bisogna ritornare al diritto del quotidiano
che un tempo costituiva il principio
dell’“habeas corpus”, ossia là dove
c’è una persona, si deve rispettarla interamente
nel suo corpo reale, visibile,
nella sua vita concreta fatta di bisogni
che sono unici e specifici. La globalizzazione
fa calare dall’alto risposte medie ai
bisogni di tutti come se tutti fossero
uguali, nel rispetto di procedure di rimborsi
e spese di finanziamento dimostrabili
scientificamente.
Diventa quindi importante opporsi alla
deriva culturale imperante, ripristinando
un diritto e una metodologia dell’assistenza
che appronta nel settore socio-sanitario
reti alternative capaci di difendere
prima di tutto il diritto alla vita.
Sarebbe davvero bello e auspicabile se
Aeper si assumesse il compito di dare visibilità
in questa realtà locale, alla marginalità,
mostrando i poveri che stanno
male: il loro stare male è emblema della
violazione di quel libro fondamentale
che è stato chiamato Costituzione e che
deve essere usato per rileggere i bisogni
inevasi di una società.
L’ultimo augurio che vi faccio parte dalla
mia esperienza all’interno del Tribunale
dei popoli, che mi fa sentire molto a casa
qui dove si parla di cooperative, perché il
Tribunale dei popoli assomiglia a una
cooperativa a livello internazionale. A
metà degli anni ’80, a livello locale, voi
avete incontrato tante marginalità che si
riscontravano anche a livello più internazionale.
Esiste un diritto ufficiale, una verità ufficiale
ed esistono infiniti marginali nati
da tutte le parti: dai movimenti di liberazione
ai quali non è stata data la libertà,
dalle dittature che hanno sostituito le democrazie,
dai genocidi che non hanno
avuto nemmeno la memoria della shoah.

Quanti sono i genocidi? Mi piacerebbe
che venissero ricordati e nominati uno
per uno, mentre si ricorda la shoah. Non
si tratta di svilirla, ma di imparare a contare,
per esempio, quanti sono stati i
morti programmati per le misure economiche
prese per salvare le banche nella
crisi del 2008 e quelli per fame che dovrebbe
essere considerata una tortura,
ossia un trattamento inumano e degradante.
Ogni anno sulle pagine delle mie
riviste mediche, io definisco il numero di
bambini - almeno un milione - che moriranno
“inutilmente” perché non hanno
accesso all’acqua potabile piuttosto che
al farmaco.
Il problema consiste nel capire che le
marginalità riscoperte nel locale devono
portare non alla distrazione, ma alla mappatura
dei bisogni e delle risposte a essi
connessi, partendo come voi di Aeper
siete già abituati a fare, dal basso e non in
attesa del centro. Questa è la cultura da
reinventare, ben sapendo che è fondamentale.
La democrazia deve ripartire da
queste domande, altrimenti è persa per
sempre. Tutti noi siamo nati da una democrazia
costruita a pezzi e bocconi che ha
25 anni
cercato di rendere presenti le tante realtà,
raccolte dal basso. Le garanzie che piovono
dall’alto creano sempre un pasticcio.
La Corte penale internazionale, stabilita
dall’alto, agisce male, spesso in ritardo,
anche se riesce in qualche modo a dare
un giudizio e questo è già importante.
Nel caso del genocidio in Ruanda il giudizio
è giunto tardi, quando, nel frattempo,
si sono avvicendati tre regimi,
non ci sono più i colpevoli e neppure le
vittime hanno più diritto.
Però la Corte penale internazionale non riconosce
la Palestina perché è una realtà
troppo precaria; non riconosce i crimini
economici che quindi non esistono. Tutti
gli analisti sostengono che i crimini maggiori
sono commessi in nome dell’economia,
ma questa di fatto non è incriminabile.
Questa è la cultura da cambiare e noi cerchiamo
di farlo all’interno del Tribunale
dei popoli, lavorando sempre di più sulle
aree della marginalità economica che significa
marginalità di vita. Credo che sia
opportuno farvi un esempio concreto:
questa settimana partirò per il sud-est
asiatico dove stiamo allestendo un Tribu-
cooperativa Aeper
35
nale dei popoli sul salario vitale. Noi qui
in Italia stiamo discutendo dell’articolo
18 e nel sud-est dell’Asia per il 65%
della produzione di tutto il tessile che si
consuma nel mondo sono impegnate lavoratrici
che non hanno una piattaforma
salariale.
Le nostre multinazionali come la Benetton
si spostano di paese in paese, abbassando
di volta in volta il salario delle
lavoratrici. Gli spostamenti sono rapidi
perché la tecnologia impiegata è di basso
profilo e nessuno può combattere perché
non esiste una contrattazione internazionale
sui salari.
Queste donne hanno deciso di mettersi
insieme, creando una piattaforma, infinitamente
minoritaria, una sorta di grande
cooperativa per l’Asia e ci hanno chiesto
di aiutarle a far sapere della loro battaglia,
della loro ricerca di un salario vitale.
Il termine vitale non significa più salario,
ma proprio quello che permette di vivere
oppure di morire. Là, in Asia, i bambini
non vanno a scuola e non conoscono
quello che noi chiamiamo babysitteraggio:
non solo non c’è nella loro cultura,
ma non ci entrerà mai.

Dobbiamo avere sempre più coscienza di
essere parte di una rete che è internazionale
perché prima si è radicata nel locale:
non si tratta di limitarci a usare una parola
nuova come potrebbe essere il “glocale”,
quanto di sapere che possiamo disseminare
una cultura che prima abbiamo imparato
a pensare e costruire nel nostro
piccolo mondo locale.
In chiusura al mio intervento voglio ringraziarvi
e augurarvi, anzi augurarci perché
spero anch’io di far parte di questa rete
di cooperative che vogliono lavorare a presentare
dei progetti ben sapendo che dobbiamo
essere bravi. Anche se, com’è
accaduto al nostro Istituto di ricerca, dopo
il terremoto in Abruzzo, non siamo stati
ancora pagati per i progetti realizzati, mentre
l’amministrazione locale si vanta del
nostro operato come di un fiore all’occhiello.
Tanto più siamo fiore all’occhiello, tanto
meno ai loro occhi abbiamo bisogno di
fondi: questo è il problema sia per il diritto
dei popoli sia per il diritto ufficiale, dove le
dichiarazioni delle cose sostituiscono le
cose stesse.
25 anni
Come cooperative di ricerca, di assistenza,
di diritto dovremmo mimare concretamente
quello che vogliamo far vedere e
capire. Non dobbiamo assomigliare a chi
spende tante parole per dire quello che c’è
da fare, piuttosto a chi “rappresenta il
fare”: è’ un modo di interpretare la realtà,
come faceva Etty Hillesum.
Il testo di Galeano racconta la creazione
del mondo come un grande divertimento
senza rete, immaginava di fare una festa
comune dove imperava la fantasia, senza
la quale non si può andare avanti, la storia
finirebbe insieme a tutte le cose.
Credo che sia un bene avere il senso
della festa per resistere. Mi sembra
molto bello avere organizzato questa
festa che significa “cercarsi” e prende
tempo: sul palcoscenico gli attori e le attrici
del gruppo “La strada” avevano valigie,
si cercavano e non si riconoscevano,
provavano gesti e non si trovavano e soltanto
alla fine, quando si accolgono reciprocamente,
non vogliono finire più,
come nella creazione, di abbracciarsi, di
riconoscersi, di scoprirsi e scoprire i fili
di continuità. Quei fili che voi avete in-
cooperativa Aeper
36
trecciato nella vostra cooperativa e tra le
tante marginalità.
È un altro modo di fare cultura senza separare
i saperi, ma avvicinandoli. La sanità
sta distruggendo il diritto proprio
con questa separatezza perché continua
a mettere al centro la malattia e non il
sogno di vita delle persone. Forse il
sogno non sarà perfetto, forse si tratterà
sempre di “camminare sul filo”, ma è
possibile se lo si fa insieme a tutte le altre
cooperative del Cnca, e pensando di
poter dare un contributo imprescindibile
nella ridefinizione dei bisogni a livello
sociale, senza aspettarsi di collaborare
con le autorità. Non c’è da aspettarsi
nulla: c’è da fare. La definizione a livello
internazionale dei bisogni passerà sempre
più attraverso la cancellazione delle
persone a vantaggio della definizione
delle prestazioni da erogare loro.
Voi tutti dell’Aeper dovete invece farvi
titolari di un dovere di concettualizzazione
e di visibilità dei bisogni delle persone
e quindi, per i prossimi venticinque
anni, avete molto da lavorare.
Grazie. ■

incursione 6
Grazie
e buon compleanno, Aeper.
(Stralci dal libro “Cara Aeper ti scrivo”)
Scrivere ad una organizzazione?
Perché mai? Per dire cosa? Una lettera…?
Tante lettere sparse non avrebbero potuto descrivere così bene la
mappa della gratitudine, della reciprocità, dell’impegno, della
passione che abbiamo vissuto e che ci attende ancora.
Cara Aeper ti scrivo... e ti dico grazie!
Non immaginavo quante persone e quante strade avrei conosciuto
grazie a te: bambini, famiglie, educatori, operatori
sociali, depressi, narcisi, iperattivi, passionali, grassi, magri
e paesi, percorsi, incroci. Mi hai dato quel che, in quella primavera,
mi mancava: le novità sempre alla porta, le urgenze
rivitalizzanti e l’essere parte di un cerchio.
Non ci ho pensato un secondo: era una chiamata.
Qualche giorno dopo era già là,
per vedere, per capire, per farmi conoscere.
Da allora son passati pochi, ma intensi, anni,
ma questa esperienza è la più lunga del mio curriculum
e non avverto il bisogno di cambiare.
Perché, sì, qualcosina di sicuro forse te l’ho data: la lealtà,
la disponibilità di tempo e tempi, la fantasia, la creatività, le
cose che avevo imparato a scuola e non solo, un pochino
di passione e spero, qualche volta, una briciola d’amore.
25 anni
cooperativa Aeper
37
Permettimi una cosa.
Adoro la tua imperfezione, mi piace.
Un’imperfezione incorreggibile, oserei dire,
per me insanabile. Sa di vita.
Proprio come quella di cui cerchiamo di avere cura.
Mi piace perché l’imperfezione lascia spazio al cambiamento,
al gesto creativo, al vento che soffia e permette
di chiedersi e chiedere “qual buon vento ti porta?”
oppure “qual buon vento mi porti?”
e bastano queste domande per continuare
ad andare avanti insieme, seguendo il buon vento.
È difficile da accettare,
ma ho imparato che la vita non è sempre bella!
Non sempre tutto è a lieto fine.
Però vale la pena di esserci. Da adulti.
Con uno sguardo buono.
Accanto alle persone che incontriamo.
Ho anche una certezza: io e te abbiamo un sogno
che continua ad essere vivo nel tempo.
E l’ho visto cambiare.
Partecipando anche io a questo cambiamento.
Ad alcune grandi scommesse, spesso fatte in tempi difficili.
Come le comunità... per i ‘matti’, per i bambini,
per gli adolescenti, per le famiglie.
Grazie per avermi accolto nella tua casa chiassosa,
grazie per quelle volte che mi porgi la mano, un abbraccio
e quelle in cui mi spingi a fare da me.
Grazie soprattutto per avermi regalato la tua esperienza,
per la possibilità di imparare
dalle storie di coloro che mi guardano e stanno con me.
Buon compleanno, Aeper!
A questo punto del convegno Adriana Lorenzi presenta in modo succinto il libro Cara Aeper ti scrivo da lei curato.
In sostituzione del suo intervento rimandiamo il lettore all’articolo a pag. 53 preparato dalla stessa autrice
per meglio documentare l’esperienza di questa interessante testimonianza scritta a 15 mani.

25 anni
L’assemblea.
Un tutt’uno.
A confermare legami,
promesse, scelte.
A vivere festa.
Insieme.
cooperativa Aeper
38

incursione 7
La parabola dell’arciere
I vostri figli non sono figli vostri,
sono figli e figlie della sete
che la vita ha di se stessa.
Potete donar loro l’amore,
ma non i vostri pensieri.
Essi hanno i loro pensieri.
Abitano la casa del domani.
La vita procede
e non s’attarda sul passato.
Voi siete come gli archi da cui i figli,
come frecce vive,
sono scoccati in avanti.
L’arciere vede il bersaglio
sul sentiero dell’infinito
e vi tende con forza
affinché le sue frecce
vadano rapide e lontane
Affidatevi con gioia
alla mano dell’arciere
poiché come ama il volo della freccia,
così ama la fermezza dell’arco.
tratto da Kahlil Gibran
25 anni
Come intorno a un falò, insieme a cullare tanti palloncini ognuno
con disegnato il volto di un bambino.
È il fare casa, il fare rete e accoglienza dei più piccoli.
È accompagnare i primi timidi tentativi di volo con lo sguardo
attento di chi desidera che il tuo volo sia felice.
Come arcieri, a tendere con forza l’arco perché le frecce vadano
lontane.
Con ferma dolcezza, con rigorosa libertà, con intransigente amorevolezza…
La mano è tesa, imprime la direzione, dà sicurezza al volo.
Ma il volo è solo della freccia, lei sola compirà la sua traiettoria.
È il racconto di tante autonomia conquistate con fatica, con più
archi che se ne sono presi cura, con tante mani tese che hanno
dato forza a quel volo.
La parabola di Gibran insieme alla danza di tanti palloncini, che
abbiamo chiamato per nome e abbiamo consegnato ai presenti
al Convegno, sono per noi il mandato a continuare queste esperienze
di volo, di accompagnamento, di fiducia verso tanti altri
voli che ci sorprenderanno e ci daranno forza per continuare a
viaggiare, leggeri dentro.
cooperativa Aeper
39

Estate 2012
Feste di famiglia
Compleanni
Sacramenti
Cene all’aperto
Regali
Decorazioni
Bomboniere
Lumini colorati
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Tante altre novità...
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Per una festa
luminosa e calda
40

25 anni
Parole e immagini
per raccontare una storia
Una parola
mille colori
mille volti
mille ricordi
per...

... per continuare
a sognare
a sperare
a costruire
“insieme”

Mentre siamo quasi alla fine del buffet, si
apre timidamente la porta d’ingresso del
Conca Verde ed entra una minuta signora,
un caschetto biondo polenta, corto, il viso
simpatico e furbo cotto dal sole come i
marinai di Liguria, le rughe disegnate
come a matita spessa. Indossa tanti colori
vivaci.
Il pensiero va a Giulietta Masina di felliniana
memoria.
Si intrufola nei piccoli pertugi definiti da
tante schiene che quasi si toccano, persone
intente a gustare le leccornie del buffet
e a “contarla su” con gli amici
ritrovati.
Sussurra a qualcuno vicino alla porta:
“Sono del circo, ho dei fondi per i teatrini
dei burattini, solo quattro euro”.
Mi sto ancora godendo le immagini, le parole,
i colori della straordinaria mattinata
del 25°di Aeper e non mi decido a sfilare
lo zainetto per i quattro euro.
Preferisco invitarla a mangiare con noi.
Ha fame anche lei, prende rapidamente un
panino vuoto che riempie con una fetta di
salame, e basta. Niente di più.
Si confonde con noi nella giostra degli incontri
più o meno affrettati: uno, l’altra,
poi l’altro ancora… Basta uno sguardo,
due parole… per sentirci. La perdo di
vista.
Il buffet continua
In questo gioco appare Valter (con la V
semplice), Gigi, Giuliana, Enzo, Antonietta
e Gaetano, Giovanna di Bratto che
ha appreso dal giornale della nostra festa.
Poco dopo passa Giuditta Colombo che
estrae dalla tasca interna del cappotto,
quasi per magia, le foto della piccolina di
Letizia, sua figlia. Si chiama Irene.
Gli occhi di nonna brillano e riferiscono
della bimba “più bella del mondo”.
Sono foto d’autore, come sempre. Tra tutte
le smorfie ne colpisce una dove Irene ha
25 anni
Un 25° qualunque?
Luisa Ghisleni
Comunità Nazareth - Gruppo Aeper
la testa rivolta all’indietro, la boccuccia
aperta a tutto tondo. La nonna, visibilmente
emozionata, dice “Non sembra
l’angioletto della Thun?”.
Cosa sa vedere un cuore di nonna!
E poi incrociamo Edo, neuropsichiatria infantile
di Lecco, in contatto con La Piccola
Stella di Medolago. Ricordi antichi di
Gressoney con la Comunità del Gaggio.
Procedendo a slalom nei pertugi aperti
raggiungiamo la zona beveraggio, presieduta
con efficacia da Leti…zia, come si
presenta, e Daniele, che spesso ci allietano
con garbo nelle feste del gruppo.
Srotoliamo il film e ci posizioniamo al
mattino.
Ore 8,50 prendo un caffè intanto che Bebe
cerca il parcheggio. Mi scappa l’occhio e
nello specchio intravedo Barbara Avanzi
con Beppe Guerini, un pezzo grosso della
cooperazione locale. Qui facciamo sul
serio, non avevo dubbi.
Comincia l’accoglienza, il tendone del
circo apre i battenti.
Sotto i portici già si coglie che tira un’aria
buona, con tanto impegno, da parte di tutti.
Anna e Dany han preparato una bella mostra,
lunga, tante parole-chiave ci aiutano a
collocarci e collocare. Un mese per cercare
foto nel bunker del Pitturello, come lo
chiama Anna.
Ha collaborato anche il Poma di Telgate
con una robusta impalcatura in ferro dipinta
di grigio e consegnata stamattina.
Tutto aggancia la storia di ieri alla realtà
di oggi.
cooperativa Aeper
45
Varcata la soglia, Silvana ci accoglie con la
sua dolcezza e ci spiega cosa fare.
Compiliamo la scheda e ci avviciniamo al
tavolo dell’accoglienza. Al di là tante brillanti
giovani donne ci consegnano la borsa
di stoffa del convegno con un po’ di materiale.
Ci spiegheranno poi che il resto si
riempirà piano piano, durante lo scorrere
della mattina.
Entriamo nella sala delle esibizioni (passatemi
il termine circense) tutta rossa, con
comode poltrone in pelle. Virginio dice
che sono fatte bene, “se qualcuno si alza
davanti si vede lo stesso”. Che bello essere
in tanti ed avere tanti occhi!
Da quel momento un turbinio di persone
note, altre meno. L’emozione intensa mi fa
sentire balorda. Una strana sensazione di
piacere.
Luci e colori ci tengono in suspense, ci
predispongono allo stupore che verrà.
Fra tutti spicca la nostra presidente. Bella
come il sole, bionda coi capelli lunghi appena
sistemata da mani esperte, tailleur
scuro che segna la sua slanciata figura,
calze nere e, forse, tacco dodici, accogliente
e decisa, che guarda l’oltre, stando
qui ed ora, come sempre.
Una vera regina del circo.
Poi arriverà Venanzio suo marito e alcuni
componenti della sua numerosa famiglia
di ieri e di oggi.
Qualcuno ci chiama, dal passaggio dietro:
sono Fiorenza e Claudio che ci annunciano
con una gioia contagiosa che, oltre ai loro
6-7 figli, hanno in affido un bimbo e ne arriverà
un’altra ben presto. “Abbiamo rinunciato
alle ferie per l’arrivo del bimbo,
ma che importa?”.
“Vento, tu soffi veramente forte, grazie per
questi genitori e per tutta questa bella
gente presente portatrice di spessore e
umanità”.

Il fondale
Sullo schermo un’immagine del mare che
lascia spazio a sensazioni di vitalità pacata,
a colori che promettono bene.
Più sotto, verso il fondo, le lettere scompigliate
, staccate con armonia, che ci ricordano
il tema di oggi “Viaggiatori leggeri”.
Un filo invisibile le lega.
Niente tavolo dei relatori, alcune sedie, un
cubo davanti. Lì accanto, per terra, vengono
portate alcune bottigliette di acqua e
qualche bicchiere, tutto rigorosamente di
plastica.
Un avvio che già dice del tono del convenire,
l’essenziale c’è.
I relatori e il conduttore.
Coordina Rocco, non ha bisogno di molte
presentazioni.
Spicca il grigio, maglione a righe e qualche
filo d’argento.
Come sempre arguto e leggero, appunto.
Parla addirittura il greco, riferisce di Langer,
Tonino Bello, don Rossetti e tanti altri.
Accanto a lui il suo e nostro caro amico
Ivo Lizzola.
Bebe dice che gli è piaciuto molto, è stato
chiaro e comprensibile.
Ha dato nome e volto alle corde più sottili
della nostra storia.
Poi la presidente traccia i passaggi più significativi
di Aeper-cooperativa senza rac-
25 anni
contare in ordine la storia, ma raccogliendone
i nuclei più forti.
E in fila Floris, Vincenzi e Tognoni.
Prima delle loro comunicazioni cerchiamo
di capire chi sono. “Chi sarà Floris di Animazione
Sociale, una firma notevole? E
Vincenzi del CNCA?
E Tognoni del Tribunale dei Popoli? Poi
scopriamo che Tognoni conosce di persona
tutte le persone citate da Rocco. Un’
immensa esperienza mondiale.
Tre acrobati speciali.
Fra uno e l’altro, ci allietano gli intermezzi
di Rocco e del Gruppo “La strada”.
Nel lasciarci stupire dalle incursioni teatrali
dei giovani del Gruppo rimaniamo a
bocca aperta, per il baccano che fanno
nella prima scena fino a quella perla dove
Francesca P. e Sara danzano, separate da
un consistente nastro di raso rosso e accorciano
le distanze della diversità procedendo
come sulla corda sospesa nel vuoto,
del circo appunto.
Il finale è stupendo ed è sintesi della rappresentazione
che portano in giro per le
strade, in spazi scelti.
Come il circo sono itineranti.
Rimaniamo stupiti tutti quanti quando,
come in dissolvenza, gli operatori danno
voce e corpo alle cose che piacciono e non
piacciono come abbiamo imparato a fare
cooperativa Aeper
46
nel ricco laboratorio di scrittura con
Adriana Lorenzi. Un pezzo ’leggero’ e
suggestivo. Da vedere perchè difficile da
spiegare.
Quattro ore sono trascorse di fila, come
d’un fiato, senza esserci stancati (però un
caffè in mezzo), davvero.
Ad un certo punto, verso le undici, si alzano,
quasi nello stesso momento, tanti signori
“anta” per andare in bagno. Che la
compressa per l’ipertensione ci abbia
messo lo zampino?
Quando usciamo ci viene consegnato il
primo libro scritto da Aeper “Cara Aeper ti
scrivo”, nato dal laboratorio con Adriana.
Cara Aeper, buona continuazione insieme.
È stato un momento inenarrabile, magico
che dà pienezza e ci lancia in alto
come acrobati che si spingono in alto,
che si acciuffano per i polsi, che tengono
con il fiato sospeso e che ci apre ad un
applauso che gode ancora una volta del
vento che ci ha raccolti.
Forse è giunta a proposito quella piccola
donna giallo polenta dell’ultima ora che
si è confusa in mezzo a noi.
No, non è stato un 25° qualunque… nemmeno
uno spettacolo, ma una festa piena
di vita, vera e vissuta.
■

25 anni
Il cuore dell’esperienza dell’Aeper
Si sente dire spesso che i giovani non
hanno sogni. Che sono materialisti, che
vivono alla giornata, senza investire nel futuro.
Al massimo possono avere la testa
nelle nuvole, fantasticare di una realtà che
non esiste, ma che non vogliono realizzare
davvero, desiderano semplicemente avere
una via per evadere da un quotidiano dai
contorni troppo spigolosi ed esigenti.
Noi, invece, volevamo cambiare il
mondo… avevamo degli ideali che volevamo
vedere finalmente attuati nella nostra
vita… sì, magari anche utopici, ma
carichi di un desiderio di cambiamento che
voleva eliminare ciò che nel mondo non
funziona, creare opportunità per una
nuova giustizia… pensieri che girano
nella testa di chi è meno giovane, prima
di constatare che le guerre ci sono ancora,
ci sono ricchi sempre più ricchi e
senza fissa dimora che muoiono al
freddo, e che la giustizia non si è proprio
affermata come valore universale.
Ai meno giovani qualche dubbio viene,
ci assale il pensiero di aver fallito, ma lo
scacciamo con qualche buona ragione.
Il fatto che i giovani non sanno sognare
lo avevo sentito per la prima volta da alcuni
adulti quando ero giovane io, e mi
era cresciuto dentro un senso di rabbia
perché - mi dicevo - non era vero… io
avrei seguito la mia strada e i miei ideali,
e qualcosa avrei fatto.
Ma trovare strade diverse non era facile,
come non lo è adesso, peraltro. Bisognava
trovare e mantenere un lavoro. Cercare
di diventare autonomi. Trovare un
equilibrio affettivo possibilmente stabile,
dopo le prime esperienze disordinate.
Gestire un rapporto con la propria
famiglia di origine non sempre facile. E
Raffaele Casamenti
Gruppo Aeper
Coordinatore area salute mentale
in più, scusate se è poco, trovare un
senso a tutto questo, volendo trovare
qualcosa di più, di ulteriore, che non
fosse semplicemente figlio del pensiero
“goditela finché puoi”.
Le prime esperienze furono la traduzione
in terra di “mare forza sette”. Un’onda
emotiva enorme ti porta su, in alto, con
una potente scarica di adrenalina; l’onda
successiva ti porta ben sotto il livello di
prima, negli abissi, al buio, con una sensazione
di dolore fisico nello stomaco e
nel petto. Su e giù. Volevo aiutare quelli
che stavano proprio male, gli ultimi degli
ultimi, e mi proponevano di fare qualche
ora nel primo centro di aggregazione giovanile
allora nascente. Mi sembrava
poco, troppo poco. Volevo andare nel sud
del mondo e aiutare quelli che vivevano
nella povertà a stare meglio, e mi proponevano
di accudire qualche ora un portatore
di handicap fisico, magari aiutarlo
ad andare in bagno, o vestirlo. Utile,
certo, però…
Quando poi nelle mie peregrinazioni incontrai
l’Aeper, peggio ancora. Ci si
trovava una sera la settimana a leggere
cooperativa Aeper
47
insieme e commentare liberamente un
libro, che parlava di liberazione degli ultimi.
Ma sentivo un po’ di disagio. Mi
sembrava una liberazione spirituale, ma
non materiale… non rischiava di essere
una fregatura? E poi la domenica si
partiva e si andava a sistemare una casa
in montagna, che poi d’estate sarebbe diventata
il luogo dove si svolgevano dei
periodi residenziali per ragazzi sia con
problemi sia senza particolari difficoltà.
Ma io non avevo mai fatto il manovale,
sicuramente facevo più fatica di altri che
sembravano muoversi a loro agio. E il
lunedì era dura andare al lavoro. Per
quale motivo avrei dovuto continuare a
farmi vedere?
Sicuramente ha inciso la mia incapacità
di ingannare me stesso. Certo che volevo
essere utile agli altri, ma sapevo anche di
avere le mie difficoltà, soprattutto nel vivere
e mantenere delle relazioni significative.
E volevo trovare qualcuno che,
in fondo e senza dirmelo, mi accettasse
anche per come mi percepivo io, fragile
e insicuro, “vaso di coccio insieme a vasi
di ferro”.
Questa fu la prima sorpresa. Frequentare
l’Aeper, partecipare a quelle che per me
erano le prime attività, non era legato a
quanto bravo fossi, se avessi reso tanto
oppure poco. Non c’era un collegamento
diretto tra continuare a esserci e le
prestazioni (oggi si dice così) che avevo
fornito. In sostanza mancava il rapporto
“dare per avere” allo stesso livello. Normalmente,
se ricevi due, devi dare per
due, non per uno. Ugualmente, se do due
mi aspetto di ricevere due, non uno. Non
era così.
La logica era: dai senza risparmiarti, ma
non in proporzione a quanto ricevi.

Potresti dare di più o di meno, ma ciò che
ricevi non è in relazione a quanto hai
dato.
Puoi dare molto? Bene, andrà in favore
di tutti. Puoi dare di meno? Oppure, oggi
non hai voglia o non riesci a dare tutto
quello che potresti? Non importa. L’accettazione
all’interno del gruppo c’è
ugualmente. La considerazione che gli
altri hanno di te non diminuisce, se ti
sentono autentico, vero.
Questo per me è stato un grande insegnamento.
Dare, mettere a disposizione le
proprie risorse va a beneficio di tutti, di
chi ne possiede meno e di chi ne possiede
di più. Ma questo non fa maturare un
“diritto retributivo”, che ti legittima ad
aspettarti che ti debba essere restituita almeno
la stessa quantità. I meno giovani
forse ricordano una canzone di alcuni
anni fa… “io di tutta un’esistenza, spesa
a dare, dare, dare, non ho salvato
niente…”. Appunto. Non salvi qualcosa
se miri ad avere più di quanto avevi
prima. È quanto hai dato che hai salvato,
perché non perisce con te, con le tue non
voglie, con le tue mancanze. Lo hai salvato
perché quello che hai dato vive in
qualcun altro. Dandosi nella terra, il
seme non salva se stesso. Il seme muore.
Ma fa nascere una pianticella nuova.
Forse è questo il significato di “servire”.
Ricordo che a un noto sacerdote, tempo
fa, in un’intervista televisiva fu chiesto
quanti tossicodipendenti avesse salvato
nelle “sue” comunità. La domanda, vagamente
blasfema, in quanto eleva
l’uomo a divinità in grado di salvare
25 anni
delle vite, evidentemente presuppone che
ci siano almeno due livelli diversi, potenzialmente
contrapposti: persone che salvano
e persone che vengono salvate.
Perché umanamente condannate a perdersi,
in quanto non in grado di gestire la
propria vita senza fare o farsi del male.
Persone che devono essere “recuperate”
per tornare ad essere “normali”, produttive,
sociali, e devono quindi affidarsi
acriticamente ad altri che “sanno qual è il
loro bene” un po’ come quando siamo
bambini, e i genitori sanno quale sia il
nostro bene.
Normalmente però non si tratta di bambini,
ma di adulti fragili, per alcuni tratti
della vita sopraffatti dalla proprie difficoltà.
Nelle comunità e nei servizi dell’Aeper
ho imparato anzitutto a non giudicare.
Perché la tentazione di sentirsi un gradino
(o più) sopra gli altri c’è anche in
chi educa.
Ma soprattutto che lo zero assoluto è un
concetto fisico, ma non umano. Perché
non esiste nessuno che non abbia dentro
di sé tesori preziosi, che stanno chiusi
solo in quanto attendono che qualcuno
apra la porta giusta con la chiave giusta.
Uno dei punti importanti dell’esperienza
dell’Aeper è che non serve che cerchi di
“salvare” qualcuno senza dargli gli strumenti
necessari a fare in modo che possa
essere autonomo e fare con i suoi mezzi
il suo cammino, perché cadrà non appena
te ne sarai andato.
Proprio questo è il valore: camminare in-
cooperativa Aeper
48
sieme per un tratto di strada, vivendo insieme
esperienze significative, in modo
tale che chi è più fragile si rafforzi e riesca
a trovare in sé le risorse per vivere da
solo. In quel momento avrà la possibilità
di scegliere davvero di vivere con gli
altri, che altrimenti sarebbero solo figure
da cui dipendere… e nessuna figura è
eterna.
Esistono persone che non raggiungono
mai una vera autonomia? Probabilmente
sì. Ce lo dice la vita di tutti i giorni. Cosa
fare, allora, in queste situazioni? Continuare
a camminare insieme. Perché
anche se non si raggiunge la meta finale,
vi possono essere tappe intermedie comunque
molto importanti nella vita di
ognuno. Certo, anche l’Aeper, anche noi
dobbiamo maturare questo convincimento
ed attrezzarci perché si possa riconoscere
il percorso migliore che una
persona può fare, senza attendere per
forza che diventino qualcosa (o meglio
qualcuno) di diverso.
Forse è questo tentativo che dà serenità,
anche nei momenti in cui aleggia lo spettro
del fallimento. In Aeper ci sono state
persone che sono morte durante il loro
cammino, o apparentemente non hanno
migliorato le loro condizioni, o sono fuggite.
O sono ancora con noi e sappiamo
che non le salveremo. E non sono state
poche. Tuttavia, se queste persone hanno
vissuto un istante di benessere, o si sono
trovate meglio con se stesse, o sono state
capaci di vivere delle relazioni belle con
qualcuno, anche se in modo non duraturo,
il cammino non è stato inutile. Se
anche uno solo dei loro tesori è venuto
alla luce, e lo hanno accarezzato prima
che tornasse il buio, un passo è stato
fatto. Un passo nel campo dove qualcuno
ha trovato una perla rara e l’ha condivisa
con i suoi amici.
Concludendo i loro racconti ai bambini
radunati in cucina, un tempo i nonni,
nelle case di campagna, spesso dicevano
“c’è sempre da imparare”. Si riferivano
ai ritmi vitali del tempo e delle colture,
al comportamento degli animali, alle
contrattazioni nei mercati. Con l’andare
del tempo probabilmente il numero di
persone che ritiene vero che ci sia sempre
da imparare è un po’ diminuito. Fare
cose impensabili cento anni fa ci fa sentire
forti, sapienti, in qualche modo su-

periori a persone e popoli che non padroneggiano
gli stessi elementi. È un rischio
che si corre anche nei rapporti e nei servizi
educativi.
Cosa può comunicarci di utile, per noi,
un bambino accolto in una comunità, un
malato psichiatrico che non si esprime in
modo coerente con la realtà “oggettiva”,
un “barbone” sdraiato sui cartoni in una
strada? Certo non si tratta di persone che
si esprimono con modalità e registri abituali,
o che possano competere in campi
tecnici, economici, politici…
Ma sono persone in grado di relazionarsi
con noi, e spesso proprio con la parte di
noi che è maggiormente in difficoltà,
perché evoca le nostre paure e le nostre
incompletezze.
Ci si sposta su un piano dove la relazione
è vera e cruda, senza orpelli, dove ci si
mette in gioco per quello che siamo dentro,
non per i titoli professionali che abbiamo
acquisito, o per i beni che abbiamo
accumulato.
Relazionarsi con un tossicodipendente
alcuni anni fa, o con un minore abusato
oggi, o con un malato psichiatrico, fa
esplorare territori nuovi, fa andare dritti
25 anni
al cuore. Mette a nudo ciò che è umano e
ciò che non lo è, ciò che è esperienza vissuta
e ciò che è una maschera abilmente
costruita, ciò che conta e ciò di cui si può
fare a meno. Hai l’impressione di vivere
una esperienza autentica, essenziale,
come non ve ne sono molte in una quotidianità
“normale”.
Persone che possono dare molto ai propri
educatori, anche senza saperlo, o peggio
ancora ritenendo di non poter dare niente
agli altri.
In Aeper abbiamo imparato molto dalle
persone che abbiamo accolto, fino ad
avere l’impressione di essere stati accolti
da loro.
Certo è necessario mettersi nella posizione
dell’ascolto, togliere la convinzione
che non abbiamo nulla da
imparare, e cogliere da ognuno quanto di
buono è racchiuso dentro di noi. Ascoltare
ci fa crescere.
La gratuità, l’accompagnare chi fa più fatica,
il saper ricevere. Credo siano alcuni
degli aspetti più importanti che l’Aeper
ha saputo vivere nel tempo, nelle comunità
e nelle cooperative, tra i volontari
dell’associazione e nei servizi strutturati,
negli anni passati ma anche oggi. Ma que-
cooperativa Aeper
49
sti elementi resterebbero un esercizio
molto personale se non fossero accompagnati
da un quarto aspetto: il condividere.
La condivisione che l’Aeper ha vissuto
negli anni non è tanto quella degli aspetti
materiali, quanto la compartecipazione
delle relazioni, la costruzione di un sentimento
comune, secondo il quale quello
che vivi nella tua vita è anche una parte
della mia esistenza.
Condividere all’interno dell’Aeper non
ha il marchio dell’esclusività, perché acquista
senso proprio nel momento in cui
diventa sale nelle comunità locali, negli
altri gruppi e luoghi in cui una persona
esprime appartenenza. Uno scambio continuo
con la realtà quotidiana può dare
uno stimolo alla crescita di un organismo
composito che, pur vivendo al proprio
interno esperienze significative, non le
assolutizza perché sa bene che possono
essere solo un piccolo contributo all’esperienza
collettiva.
E condividere è proprio una delle sfide
che ci attendono in futuro, per costruire
un’Aeper ancora più coesa e vitale.
■

Il convegno “Viaggiatori leggeri” è stato
l’occasione per vivere emozioni intense,
sia per chi ha vissuto l’A.E.P.E.R. dalle
prime fasi di questi ultimi 25 anni, sia per
chi vi è entrato in contatto da poco
tempo.
Rocco Artifoni, Franco Floris, Ivo Lizzola,
Judith Tasca, Gianni Tognoni, Marco Vincenzi
ci hanno regalato momenti intensi di
interpretazione della realtà attuale, di lettura
della propria esperienza spesso molto
ampia e di prefigurazione di un futuro che,
per l’intervento sociale, si presenta difficile
e affascinante nello stesso tempo.
Ma se “Viaggiatori leggeri” è stato importante,
lo è altrettanto non fermarsi a
quanto abbiamo udito e vissuto, riprendendo
il nostro cammino, bensì cercare
di capire quali possono essere i percorsi
di ricerca e riflessione che, soprattutto
all’interno degli organismi che compongono
il Gruppo Aeper, possono farci fare
altri passi in avanti.
Con leggerezza, ma nello stesso tempo
con tenacia e fedeltà.
Potremmo iniziare con il considerare cinque
punti e due immagini.
Le fragilità e l’abbandono
Dall’inizio della sua storia l’Aeper si occupa
delle fragilità che incontra nelle
persone che vivono tempi di disagio e
difficoltà. Negli anni queste fragilità si
sono modificate, hanno preso nomi diversi,
ma sono incarnate sempre da persone
che vivono ai margini delle relazioni
sociali e spesso vivono una sorta di “realtà
parallela”, un mondo che la “gente comune”
non immagina nemmeno.
25 anni
Danzare su un toro
Raffaele Casamenti
Gruppo Aeper
Coordinatore area salute mentale
Notiamo come questa fragilità stia diventando
più profonda e sia sempre più difficile
riconoscere le risorse che stanno
dentro le persone su cui far leva per guadagnare
una nuova identità. Si tratta di una
fragilità forse più interiore, che indebolisce
e spezza i legami tra le persone che vivono
a poca distanza l’una dall’altra.
Oggi le politiche sociali parlano il linguaggio
dell’abbandono: si cerca di “fare
qualcosa” per coloro che sembrano più
facilmente “recuperabili”, meno compromessi.
Per gli altri striscia un assistenzialismo
che non dà speranze.
Se questo è lo scenario, accogliere non
basta più: occorre che le nostre azioni
siano esplicitamente e primariamente
orientate ad includere laddove la tendenza
è sempre più quella di allontanare.
Ma nella fragilità dei legami la lontananza
porta all’oblio e all’abbandono. Includere
nel tessuto di tutti i giorni
diventa imperativo. Così come il dare visibilità
alle situazioni di fragilità; non
cooperativa Aeper
50
fare loro da schermo, quasi per porre una
barriera tra chi è fragile e chi non lo è (almeno
in apparenza), ma rendere evidente
la povertà e la sofferenza, perché sia possibile
far emergere i diritti negati a queste
persone.
Dal margine al centro
Il nostro viaggio dal margine al centro
non significa abbandonare gli ultimi dei
nostri territori, Significa invece abbandonare
una visione manichea della marginalità:
al centro ci stanno quelli che
non hanno problemi, in periferia quelli
che li hanno. Quasi come se la via fosse
portare al centro chi oggi è ai margini. In
realtà è il concetto stesso di fragilità che
è da cambiare, perché da sempre rischia
di etichettare e separare i “devianti e disagiati”,
persi per definizione con l’eccezione
dei miracoli, e i “normali” che
stanno bene e ai quali ci si rivolge per
“aiutare” chi sta male.
Oggi vediamo come sia la normalità ad
essere fragile: è la vita quotidiana delle
persone comuni che improvvisamente si
spezza, è l’angoscia dei genitori e degli
anziani, è il disoccupato che non controlla
il suo stato mentale, è la mancanza
di futuro per i giovani che fa cercare facili
ma pericolose scorciatoie. La marginalità
non ha più alcuna caratteristica di
scelta di opposizione culturale al mondo
di chi è “normale”, semplicemente perché
un nucleo forte di “normalità” non
esiste più, l’impoverimento delle risorse
e delle possibilità è orizzontale e non più
verticale, e chi muove i fili dell’economia
e della finanza è talmente lontano e

forse sconosciuto da non essere raggiunto
dalle contestazioni.
Questa allora è la nostra nuova sfida: accompagnare
nella difficoltà chi non
pensava proprio di lambire la marginalità,
perché riteneva, per sé, la sua famiglia,
i suoi figli, di essere nella classica
posizione “di mezzo” in cui non si sta
bene ma nemmeno male, e che invece è
soggetto a perdere tutto senza avere il
tempo di accorgersene.
Una fragilità delle relazioni, dei legami,
educativa colpisce paradossalmente di
più proprio coloro che ritenevano di essere
stabili e tranquilli.
La sfida è occuparsi di una quotidianità
che ha perso le sue certezze senza perdere
di vista coloro che rischiano l’abbandono
totale perché siamo troppo presi
a pensare a noi stessi.
Ripensare i servizi
L’età di crisi che stiamo vivendo non ci
lascerà molto presto. È una crisi che non
è solo economica e finanziaria: è di rap-
25 anni
porto con la terra e le risorse naturali, è di
uso dei beni, è di abitudine a vivere in
modo facile per chi non se lo può permettere,
è di equilibri tra popoli che vogliono
contare di più ed élites che non sono più
così potenti da impedirglielo.
In questo panorama lo “stato sociale”, in
Italia ma non solo, è rapidamente indirizzato
ai minimi storici della sua presenza.
I servizi alla persona, in particolare quelli
sociali, ma forse in futuro anche quelli
socio-sanitari e sanitari, sono soggetti a
uno svuotamento sia quantitativo (in merito
al loro numero e al numero degli operatori)
sia qualitativo (in merito alle
persone di cui si occupano, concentrandosi
sempre più sulle situazioni ormai veramente
complesse e senza investimento
sulla prevenzione).
Siamo chiamati ad un ripensamento dei
servizi, che venga svolto insieme a tutti i
soggetti che ne abbiano interesse (e perché
non pensare che tra essi vi possano essere
anche le famiglie che vi si rivolgono?) e
che riguardi la cultura dei servizi come le
loro funzioni.
cooperativa Aeper
51
Stare nel territorio
Anche “territorio” è una parola certo ben
conosciuta a chi si occupa di intervento
sociale a fianco di chi vive situazioni di
fragilità. Purtroppo la pratica contrasta a
volte con le teoria e, a fronte di una mitizzazione
del termine “territorio”, si assiste
a servizi avulsi dal proprio contesto,
o che si chiudono a riccio per evitare “invasioni”
dall’esterno, o che comunque
hanno legami insufficienti, in cui lo
scambio delle comunicazioni è sostanzialmente
unidirezionale, con il territorio
nel ruolo del ricevente passivo.
“Viaggiatori leggeri” ci ha dato numerosi
stimoli in merito:
puntare a valorizzare le reti primarie
come ambiti naturali di vicinanza, rafforzando
ciò che già esiste e senza forzatamente
creare realtà parallele che
rischiano di essere artificiali;
investire nel tessere legami sociali
che, al di là dell’utilizzo immediato,
possono determinare nel medio e nel
lungo periodo nuove forme di convivenza
anche tra gruppi di cittadini potenzialmente
portatori di interessi
contrapposti;
“perdere tempo” nello stare con la
gente, ascoltando le speranze e le
forme anche inedite di ricerca del futuro
che autonomamente gruppi di cittadini
tentano di porre in atto;
spendersi per creare “valore sociale”
(da altri definito “capitale sociale”)
che venga riconosciuto e reso utile per
la propria comunità locale.
È anche in questi modi che si può fare
politica locale, indipendentemente dal
fatto che ci si impegni direttamente nella
competizione politica, perché si investe
sulla sensibilità collettiva di chi vive un
determinato territorio, e quindi anche sui
legami di chi vive una maggiore fragilità.
Produrre beni comuni
In tempi in cui ci si orienta a produrre
beni materiali da possedere per non rinunciare
all’illusione del benessere, l’attenzione
alle fragilità ci impone di
riflettere su quei beni che non sono “pro-

prietà di qualcuno”, che probabilmente
sono immateriali, ma che acquistano
senso solo nel momento in cui la comunità
tutta ne può usufruire.
Si stanno affacciando interessanti riflessioni
sulla riproposizione di forme di
proprietà collettiva e di partecipazione
diretta dei cittadini interessati ai beni
che, di norma, in uno Stato sociale sono
forniti dai servizi che si occupano del benessere
e dell’educazione delle persone.
Anche la cooperazione e il volontariato
sono chiamati a produrre beni comuni,
cioè beni o servizi che una volta definiti
non sono più di proprietà di chi li ha fatti
nascere, ma diventano di uso comune.
Per questo tipo di produzione occorrono
certamente un’alta partecipazione e una
coscienza collettiva che si concentri sulle
stesse direzioni e i medesimi obiettivi.
Occorre pertanto investire in modo sistematico
sul fare cultura; una cultura non
astratta, ma popolare, concreta, applicabile
ai bisogni dei cittadini, perché in qualche
modo da essi è generata.
“Viaggiatori leggeri” ci ha detto che si può
fare cultura estraendola e apprendendo
dall’esperienza; non solamente l’esperienza
degli operatori sociali, ma anche
quella dei gruppi di volontariato, degli
25 anni
utenti e dei familiari dei servizi, delle reti
primarie di cui fanno parte. È una cultura
che certamente non segue il flusso della
corrente; ma proprio in tempi di crisi e di
incertezza dei modelli da seguire, produrre
cultura diventa fondamentale.
Il binomio su cui puntare potrebbe essere
definito speranza e pensiero, o in altri termini
sogno e riflessione, perché di entrambi
ci nutriamo, per guadagnarci un
futuro più simile alle nostre esigenze ed
alle nostre aspettative.
Una cultura che metta in ordine anche i
valori della vita quotidiana. Uno stimolo
che è arrivato è ad esempio che manca
una riflessione spirituale sull’uso dei
beni, perché un consumo fine a se stesso
è probabilmente affine all’idea di una
materialità che instaura un circolo vizioso
in cui divora se stessa senza soluzione
di continuità.
Infine le due immagini, regalateci entrambe
da Marco Vincenzi.
La prima è quella di una ballerina che
danza su un toro. Un toro è simbolo di
potenza, di forza inarrestabile, travolgente,
ma anche, in qualche modo, cieca perché
incerta sulla direzione da prendere, senza
obiettivi, e comunque contro tutto e tutti,
cooperativa Aeper
52
fino allo sfinimento. Il toro è poi anche
simbolo di quella finanza d’assalto che,
nel disprezzo totale dei beni comuni, ha
estratto sangue dalle economie reali per
poi fuggire ai primi segni del crollo.
Forse la leggerezza, la grazia, l’equilibrio,
l’essere sicuri di noi stessi anche nell’incertezza
complessiva possono contrastare
una forza al solo servizio dell’affermazione
individuale. Essere consci delle nostre debolezze,
ma nell’equilibrio e nella competenza,
ci dà la possibilità di stare sopra il
toro, di non farci travolgere dalla sua corsa
e di mantenere uno sguardo dall’alto, che
tenga conto di chi incontriamo.
La seconda è quella del soffione, di quel
fiore estivo che ad una brezza leggera lascia
partire quegli impalpabili ciuffi bianchi
che forse volerebbero all’infinito se
non avessero un esile gambo che comunque
li porta verso la terra. Sembra inutile,
un puro divertimento effimero. Ma la logica
del soffione è spargere i propri semi
in tutte le direzioni, con facilità, senza restare
confinato in una sola zolla di terra;
è la leggerezza che diventa fecondità, è
promessa di futuro, non necessariamente
facile, ma di speranza. È fragile, quasi invisibile,
ma può cadere nella terra buona
e dare molto frutto. Come noi. ■

Mi sono sempre piaciuti i compleanni e
gli anniversari, perché sono occasioni di
celebrazione che invitano a ricordare, a
rammemorare quell’accaduto specifico e
unico insieme al tanto trascorso da
quell’allora a quest’oggi: una nascita,
una morte, la creazione di una famiglia
con il matrimonio, la fondazione di una
società con un atto notarile, un trasloco o
un incontro. Una data a segnare la spaccatura
tra un prima e un dopo, quando
tutto è cambiato e il mondo ha assunto
altri colori.
I compleanni e gli anniversari sono occasioni,
spinose in alcuni casi, nelle quali
si misura il proprio presente sulla lunghezza
del passato e del futuro: il tanto
compiuto e accaduto contro l’infinito desiderato
e desiderabile. Quando l’orlo tra
l’uno e l’altro è percorribile, il presente si
fa strada, cammino più o meno illuminato,
più o meno impervio; quando non lo è, il
presente si fa precipizio, baratro che si spalanca
e inghiotte tutto dentro il suo buio.
Festeggiare è un po’ come assumersi la
responsabilità del pezzo di vita vissuta e
la responsabilità non è “essere ciò che
si vuole essere”, ma è “accettare ciò che
si è” 1 .
Forse è per questo che quando Giusi
Poma ha cominciato a parlare della festa
per il venticinquesimo compleanno della
Cooperativa Aeper, mi è sembrata una
bella idea, alla quale ho aderito con entusiasmo:
un appuntamento a fine gennaio
2012 sia con le persone che hanno transitato
attraverso i tanti servizi offerti
dalle realtà costruite attorno alla figura
di don Emilio e ai collaboratori più vicini
che costituiscono la sua famiglia, sia con
il territorio bergamasco sul quale sono
fiorite le comunità per “Camminare in-
25 anni
Cara Aeper, ti scrivo...
Adriana Lorenzi
Redazione L’incontro
Scrittrice
Docente di tecniche di scrittura - Università di Bergamo e Bologna
sieme, alla sequela di Cristo, sul passo
degli ultimi” per dirla con Tonino Bello
citato da don Emilio 2 .
Poi, una sera, Giusi Poma, Marco Caraglio,
Judith Tasca e Raffaele Casamenti
mi hanno invitato al Pitturello per chiedermi
di raccontare la storia di questi
venticinque anni della Cooperativa: mi
hanno consegnato alcune pagine nelle
quali avevano riassunto gli obiettivi, le
ragioni della Cooperativa Aeper e mi
avrebbero regalato altre parole, affinché
io potessi scrivere per loro. Avrei tanto
voluto rispondere alla loro richiesta con
un sì per l’affetto che ci lega, ma in quell’istante
ho avvertito l’impossibilità di
acconsentire.
Da alcuni anni faccio parte della Redazione
della rivista L’Incontro e vivo le
riunioni come momenti ricchissimi nei
quali insieme costruiamo un pensiero attorno
al tema da sviluppare grazie ai nostri
articoli e a quelli che vorremmo far
scrivere ad altri e organizziamo la fitta
rete di telefonate agli amici, conoscenti
affinché ci regalino il loro contributo per
rendere sempre più avvincenti, interessanti
i numeri della rivista. Ridiamo, ci
cooperativa Aeper
53
accapigliamo - soprattutto io e Rocco -
per difendere le nostre idee, ci ascoltiamo
o sovrapponiamo le nostre voci
quando la conversazione si fa accesa,
perché siamo tutti volontari appassionati
che attribuiscono alla rivista un enorme
valore, quello di incidere nella realtà,
svegliando le coscienze dal loro torpore,
coniugando la tradizione e l’attualità, intrecciando
i discorsi di don Primo Mazzolari
con quelli di don Luigi Ciotti.
Della redazione avrei potuto raccontare
qualcosa, ma non dei venticinque anni
della Coopertiva della Aeper. Non basta
essere esperti di scrittura, abili nel maneggiare
carta e penna, o meglio ormai
tastiera e video, per raccontare efficacemente
qualcosa che non si è vissuto dall’interno,
la relazione cambiata nel
tempo degli incontri e scontri, il nascere
e morire di strutture, l’affinamento delle
pratiche di cura in tanti anni di attività
della Aeper. Ho cercato di spiegare che
non era una questione di “capacità”, ma
di “impossibilità” per correttezza: sono i
testimoni, dunque i protagonisti di ogni
avventura significativa, come questa di
una Comunità avviata trent’anni fa che
ha poi dato vita alla Cooperativa a sua
volta ramificatasi in tante strutture diverse,
a poterla e doverla narrare. Il terreno
scivoloso per me sarebbe stata la
presunzione di sapere, per loro, invece,
la mancata assunzione di responsabilità,
delegando ad altri il compito di trovare
le parole autentiche per i progetti e le
proposte formulate.
Da anni insegno agli studenti, ai detenuti,
agli anziani che ciascuno deve trovare la
forza di esporsi prendendo la parola, annientando
la paura della banalità o dell’assenza
di idee, cominciando a
scrivere, scegliendo con cura le parole che
in quanto proprie, perché proprie, formu-

leranno piano piano il pensiero e restituiranno
il tanto vissuto e attraversato: lì sta la
verità da rivelare, lì stanno le cose da guardare
e raccogliere così come appaiono, per
interrogarne il senso. Ognuno è insostituibile
nel raccontare la sua vita, la sua esperienza,
il mondo che ha abitato per anni o
per una sola stagione.
Sono abituata a partire dal presupposto che
ogni conoscenza è situata, personale e relazionale:
non l’idea della Aeper, ma la
Aeper a partire dalle persone che la fanno
esistere; non il racconto sulla Aeper, ma
quello delle persone che la incarnano in un
incessante ascoltare ed esprimersi. Non
conosco che questa via per continuare a
valorizzare un sapere narrativo piuttosto
che logico-paradigmatico, la narrazione rispetto
alla spiegazione. Cerco le esperienze
passate attraverso la carne, il sangue
e le ossa dei soggetti, sfumando le emozioni,
i fatti e le teorie. Miro a quell’esperienza
unica che viene incisa sulla carta
per poter essere letta ad alta voce al cospetto
di altri, oppure riletta in solitudine,
facendosi così verità immemoriale e talismano
da portarsi in tasca per propiziarsi i
giorni a venire.
Quella sera ho chiesto alle persone presenti
di pensarsi autori e autrici e chiamarne
altri a raccolta perché le tante storie
venissero rappresentate in un racconto a
più voci. La posta in gioco non sarebbe
stato narrare in termini generali e astratti I
venticinque anni della Aeper, ma in termini
aneddotici, contestuali e autobiografici
per ciascuno I miei anni con la Aeper.
Ho proposto un laboratorio di scrittura di
esperienze per accompagnare i partecipanti
a narrare il loro rapporto unico con
la Aeper.
Ogni mio laboratorio domanda ai partecipanti
del tempo per scrivere insieme,
coltivando la pazienza, il silenzio, la
presa di parola e la rielaborazione di
frammenti di vita.
Abbiamo concordato tre incontri laboratoriali
di due ore ciascuno con il proposito
di non pesare troppo sulle spalle degli operatori
e delle operatrici nel periodo dicembrino
già faticoso di per sé: sul piano
affettivo tempo di feste da organizzare, regali
da comprare e impacchettare, visite da
ricevere e da rendere e sul piano professionale
tempo di chiusura di pratiche e at-
25 anni
tività, mentre i rapporti con gli utenti sono
ancora più difficili del solito per via dell’eccitazione
o della contrarietà che trasmette
l’atmosfera natalizia con il
richiamo a un senso familiare mai conosciuto
o perduto da tanto.
Al primo appuntamento il 13 dicembre,
Santa Lucia, si sono presentati in tanti al
Pitturello e sui loro volti era disegnata la
curiosità mista ad ansia all’idea di dover
scrivere, ma anche l’orgoglio di avere
aderito a una proposta. Era stato formulato
un invito a partecipare senza alcun
obbligo e, soprattutto, senza alcun riconoscimento
in denaro del tempo speso in
quell’attività. Comunque erano arrivati
ed erano pronti con carta e penna a farsi
guidare dalle mie consegne di scrittura.
Quasi tutti per me figure nuove, ma una
fiducia assoluta nelle loro capacità di rispondere
ai miei suggerimenti perché
negli occhi di ciascuno vedevo la mia
stessa convinzione di stare facendo una
cosa buona e quindi giusta. La Aeper li
aveva chiamati e loro erano lì a rispondere:
nessun tentennamento, nessuno
scantonamento. Diventa tutto più facile
se non si tratta di conquistare qualcuno,
piuttosto di sostenere il suo iniziale: Sì, ci
sono.
Ho spiegato che il tempo era poco e che,
normalmente, i miei laboratori di scrittura
di esperienze durano mesi con ca-
cooperativa Aeper
54
denze settimanali, mentre noi avevamo
soltanto tre incontri e venti giorni per dar
vita a un prodotto in parole, la festa per il
venticinquesimo della Aeper era già stato
fissato al 28 di gennaio. E al mio intervento
è seguito quello di Nicoletta: “Non
preoccuparti… ce la facciamo, siamo qui
per questo”.
Ed è così che abbiamo cominciato nella
sala riunioni della Aeper attorno a un
grande tavolo sul quale ci siamo passati
incessantemente un cestino di dolci di
Santa Lucia, dal quale ciascuno di noi ha
attinto a suo gusto caramelle, cioccolatini,
liquirizie e anche lecca-lecca per
rendere più lieve il compito, per lasciarci
trasportare dalla magia che il 13 dicembre
a Bergamo porta sempre con sé.
Addomesticarsi alla narrazione
Per poterci conoscere un po’, sperimentando
nel contempo la forza dei racconti,
siamo partiti dalla storia del nome che
aiuta ad allacciare i fili che da sempre
compongono le storie e formano già una
rete, perché si scopre qualcosa di mai saputo
prima di allora e che strappa un sorriso
e, magari, anche un ammiccamento.
Credo che dentro il nome sia inscritto una
sorta di destino: ed è il nome il primo
segno che ci viene impresso alla nascita
come un battesimo non ancora consacrato.
E la questione del nome vale anche
quando è fondativo di una Comunità.
Come racconta don Emilio per la Comunità
Nazareth “Il nome innanzi tutto… Nazareth
deriva dal fascino che esercitava su
di noi (lui, Giusi, Marì e Beppe) l’esperienza
di due giovanissimi, di nome Giuseppe
e Maria, hanno fatto duemila anni
fa in Palestina. Senza strumenti, senza conoscenze,
senza protezioni e poveri in
canna, questi due ragazzi si sono fidati di
Dio per un’avventura più grande di
loro” 3 . E lo stesso per la sigla di un’Associazione
(1980) prima e poi di una
Cooperativa (1986) che raccoglie “un
modo di intendere la vita e di vedere il
mondo”:
Grazie alla storia del nome ho imparato a
riconoscerli uno per uno: Anna C., Anna
S., Annalisa, Clemens, Federica, Francesca,
Luisa, Mara, Marco, Giovanni C.
Giovanni T., Giusi, Nicoletta, Rita, Silvia.
Capelli biondi, mori, castani, occhi

chiari o scuri, sciarpe e berretti, bracciali
e collane e anelli oppure polsi, colli e dita
nudi… ciascuno diverso dall’altro eppure
tutti legati da qualcosa di simile: la
frequentazione di uno stesso luogo che
ha lasciato traccia nei loro sguardi e nei
loro gesti. Gli operatori e le operatrici
della Aeper si riconoscono perché si sono
incontrati in riunioni e cene natalizie, rimandano
a persone assenti ma ben conosciute,
si lanciano battute che
sottolineano la puntualità dell’uno o i ritardi
dell’altro, il ruolo di “capo” di alcuni
e quello di “subordinati” di altri. Si
assomigliano perché appartengono a
un’Associazione e a una Cooperativa che
accompagna i soggetti in difficoltà.
Educare
a nominare i propri sentimenti
La prima operazione che si avvia con la
scrittura è quella di dare un nome a ciò
che si prova e non è scontata e neppure
semplice, perché servono le parole giuste,
quelle e non altre. Spesso si tratta di
sgomberare il campo dalle prime parole
che affiorano - quelle facili, ben note e
quindi magari anche usurate - per arrivare
a quelle più autentiche che vanno
cercate, scovate e saggiate.
Le parole sbagliate, quelle che io chiamo
con la muffa, tradiscono noi e relazione
con i fatti e il mondo che cerchiamo di
raccontare. Avviliscono perché non si
portano appresso alcuna suggestione, tintinnano
come le monete dentro un salvadanaio
vuoto. Sono senza spessore come
la lana dei maglioni lavati troppe volte e
che non tengono più caldo e che magari
non gettiamo perché ci siamo affezionati.
Ci sono parole che ci sono care e che
hanno smesso di significare davvero
qualcosa.
Fin dal primo esercizio di scrittura ho
chiesto di smontare e montare parole
dentro un elenco che riuscisse a dire per
ciascuno ciò che piaceva o non piaceva
del loro lavoro all’interno della Aeper.
Come ha scritto Anna C.
“Non mi piace quando parliamo con il
linguaggio “educatense” sconosciuto ai
più, far finta di non vedere la gente che
soffre, trovare giustificazioni improbabili
per non ammettere di aver sbagliato”.
25 anni
Le parole sono azioni che portano con
loro alcune conseguenze: non si parla per
sé ma per rivelarsi agli altri.
Annalisa
Alla Comunità Aquilone (dal 2002 al 2009)
Mi piaceva suonare il campanello
e lasciare la mia quotidianità alle spalle,
sentirmi attesa, sentirmi nel ruolo di “zia”;
quella capace di ascoltare senza giudicare.
Quella che vizia, quella che coinvolge,
quella che accoglie i capricci, quella che ama
senza condizionamenti o imposizioni di regole.
Sentirmi “zia” senza che nessuno
abbia mai usato questo appellativo.
Mi piaceva cucinare per tanti
e avere tante mani che mi aiutavano.
Gli odori, l’allegria di quei momenti intesi,
la frase “ma la mia mamma lo faceva meglio”
e il mio cuore che sorrideva, soddisfatto.
Mi piaceva la tenerezza e la dolcezza
di sguardi che si perdevano nei ricordi.
Mi piaceva infondere coraggio e serenità
per un futuro.
Mi piaceva imparare ogni giorno
da questi bambini.
Mi piaceva leggere fiabe,
dare abbracci e baci, dare la buona notte.
Tutto questo mi piaceva e mi manca molto!!
Non mi piaceva
quando non avevo la risposta “giusta”,
sentire la sofferenza e non poter fare nulla
per alleviarla-toglierla.
Quando non sapevo calcolare le porzioni
di cibo necessario per tutti,
quando mi scottavo ai fornelli.
Non mi piaceva
mancare a questo appuntamento!
cooperativa Aeper
55
È scegliendo le parole che impariamo a
raccontare la nostra esperienza che,
senza che ce ne accorgiamo, giace stratificata
nei gesti che compiamo ogni
giorno, nei modi con i quali entriamo in
relazione con gli altri. Sappiamo bene
che ci sono tante cose che ci piacciono e
tante che non ci piacciono nel nostro lavoro,
ma non ci abbiamo mai pensato
davvero. Dire è esporsi, elencare i nodi
di positività e negatività connessi al nostro
lavoro, significa già offrire una fotografia
di chi siamo. E, in questo caso,
anche chi è la cooperativa che si cerca di
far crescere giorno dopo giorno.
Educare
alla ricostruzione
degli spazi lavorativi
È la casa a essere definita nido, luogo
sacro degli affetti, eppure è l’ufficio, lo
studio, il magazzino, il negozio, in una
parola il luogo di lavoro, quello nel quale
stiamo tantissimo tempo, in alcuni casi
anche troppo, e che cerchiamo di fare nostro.
Come ha scritto Federica “Il mio ufficio:
finalmente lo posso definire il Mio,
finalmente lo posso sentire un po’ Mio è
un piccolo ufficio situato al primo piano
di una palazzina in centro a Bergamo”. E
poiché lo si abita in tanti come ha scritto
Mara “noi di via Ozanam”. Il luogo di
lavoro segna un’appartenenza.
Clemens
“Io abito poco casa mia,
abito di più le case degli altri,
ce n’è una in particolare
che mi è rimasta impressa.
È un piccolo appartamento
di quarantacinque, cinquanta metri quadri,
ci vivono due genitori con i loro cinque figli
e quando arriviamo noi educatori
siamo in nove in una stanza
di dieci metri quadri.
C’è una stufa a pellets
che occupa metà della stanza
e un forno altrettanto grande
sempre acceso, estate e inverno,
per fare il pane.
Tutto il resto della stanza
è dedicato ai pensili della cucina,
perché a qualunque ora del giorno
tu arrivi la mamma sta cucinando;
taglia carote, cipolle, melanzane
e altre verdure in quantità
e le mette tutte in un pentolone
che rimane sul fuoco per delle ore,

ma soprattutto frigge, frigge,
frigge qualsiasi cosa.
Me li porto a casa questi odori,
ne ho i vestiti impregnati
e la mia compagna ogni volta mi dice:
“Hai lavorato da Mc Donald oggi?!”.
I testi scritti di ciascuno hanno aiutato a
ricostruire le diverse realtà della Aeper
sparse sul territorio che sono fatte di
muri, di persone che le abitano o le attraversano,
di odori che ristagnano e di sapori
che li caratterizzano perché si lavora
e, spesso, si mangia anche insieme: Giusi
ha ricostruito l’antica sede della Comunità
Nazareth, Associazione e Cooperativa
in viale Giulio Cesare interrogandosi
da subito sul motivo per il quale “all’inizio
abbiamo cercato una casa. Non un
ufficio, non una sede, ma un appartamento
che insieme ad altri sedici facevano
una grande casa chiamata “Villa
Sport”. A Villa Sport tutto è cominciato
e il ricordo di quel tempo lontano a metà
degli anni ’70 lei lo ha intitolato “nostalgia
di casa”.
Lo spazio Nido è stato restituito da Nicoletta:
tutto a misura di bambino
“è il loro spazio!
Quando guardo i lettini mi sembrano
quelli dei sette nani di Biancaneve,
ognuno ha la sua copertina
e il suo lenzuolino,
qualcuno ha anche un peluche
che gli tiene compagnia durante la nanna…
Ogni stanza ha tante seggioline
che si adattano a grandi e piccini
e dei tavoli dove i bambini possono giocare,
ma alle ore undici e mezza
diventano tavole imbandite
per il nostro buonissimo pranzo.
Il luogo con più odori
è sicuramente il bagno
ma la maggior parte delle volte
è meglio non sentirli!!”.
Lo spazio Cordata in via Gabriele Rosa
è stato raccontato da Rita
“In un clima allegro e vivace
piano piano i muri si raddrizzavano,
spuntavano nuove pareti
insieme a tanta polvere,
tra risate e qualche martellata sulle dita,
mentre l’odore di grasso
che emanava dalla stanza buia
impregnava ogni cosa.
Ogni stanza malconcia
prendeva colore, forma.
I sogni si stavano avverando.
Si intravvedeva lo spazio di falegnameria
25 anni
con semplici attrezzi,
odore di colla/vernice e il mitico gabbiano;
dall’altra parte fiori secchi,
stoffe colorate, confetti e tanti nastri
di ogni colore e dimensione…
La grande magnolia, quando era in fiore,
profumava le stanze di buono…
e la pianta di fico,
non tanto alta, ma ricca di frutti
che ahimè quasi nessuno
riusciva a mangiare
perché dalla sera alla mattina
quelli maturi sparivano come per magia”.
Lo spazio Fili e colori ha preso forma
grazie a Luisa che con ironia ha raccontato
la sua nascita nel quartiere di Boccalone
dove “suscita le fantasie più
strane, qualcuno pensa che si apra una
nuova IPER (da AEPER), un signore anziano
arriva in bicicletta pensando di
trovare mangime per uccelli… del resto
si chiamava Colibrì.
Giovanni T.
Gli uffici di Via Rovelli
Bianco, troppo bianco.
Scrivanie, troppe scrivanie
quasi a soppalcare.
Disordine, organizzato però.
Rumore.
Porto di mare.
cooperativa Aeper
56
Polvere, troppa polvere.
Carta, mamma quanta carta.
Un piccolo corridoio stretto
che per passare in due,
bisogna sempre sfiorarsi
anche passando a raso del muro.
Santa macchina del caffè.
Caldo d’estate, troppo caldo
ma a volte troppo caldo anche d’inverno.
Confusione di parole, di pensieri,
di persone, di faldoni, di giacconi.
Le salviettine per le mani,
ma anche la carta igienica,
che sono sempre finiti quando ti servono.
Libri, giacenti, trascurati forse mai letti,
almeno da me.
La raccolta differenziata, questa sconosciuta.
La privacy, in ogni senso,
altrettanto sconosciuta.
Il pavimento del corridoio, scivoloso,
troppo, quando è bagnato.
I fiori finti, ma profumati a volte troppo.
Il silenzio dopo le 19.00.
Educare alla gratitudine
Scrivere di alcune persone incontrate in
tanti anni di servizio di una cooperativa
che ha vissuto fino in fondo l’accoglienza,
l’accompagnamento e la vicinanza
a uomini, donne e bambini di
origine italiana oppure straniera, significa
tessere la tela della gratitudine, svelare
il senso di un debito perché se tanto
è stato offerto, infinitamente molto di più
è stato ricevuto; se tanto è stato insegnato,
infinitamente di più è stato appreso.
Il tempo ci aiuta anche a dire
grazie a chi non ci è piaciuto tanto, chi ci
ha fatto male perché abbiamo imparato a
non essere come lui o lei, e non fare ad
altri lo stesso male ricevuto.
Mi piace pensare alla vita di ognuno
come una sorta di collana ad anelli: un
anello per ogni persona incontrata, per le
parole che ci ha regalato, per i gesti che
ci hanno fatto stare bene e magari abbiamo
anche imparato a ripetere e per
quelli che vorremmo tanto scordare ma
che invece tenacemente resistono nell’archivio
della nostra memoria. La nostra
vita è stata costruita dalle vite altrui alle
quali a un certo punto abbiamo bisogno
di dire grazie.
Francesca
Gesto fugace, lieve ma sicuro.
Preciso.

Un rituale.
Un piccolo lembo di stoffa,
a volte bianco o azzurro.
Come tutte le cose, si sposta.
In questo caso si ritrae
a seguito del movimento del braccio
e si nasconde
sotto l’ordito del più massiccio filo di lana.
Eppure non può stare lì.
Nascosto, al riparo, al caldo.
È importante che trovi il suo spazio,
il suo posto sotto il maglione,
sopra il braccio.
Deve portare il suo contributo,
prezioso, come tutti.
Con tatto.
Con cura le dita della mano
spostano il polsino della camicia.
Lo riportano al suo posto.
Alla sua funzione.
Con altrettanta cura le dita
sistemano il maglione.
Anch’esso ha un posto preciso.
Non può coprire tutto.
Deve lasciare
un poco di spazio alla camicia.
Ogni filo di cotone, di lana,
o altra fibra ha un suo posto.
Eppure i movimenti del braccio
durante la discussione
producono continui spostamenti
del polsino della camicia.
Ogni volta don Emilio
con cura, con pazienza
sistema in una simmetria perfetta
il polsino della camicia e del maglione.
Gli sguardi delle persone
sono attratti da questo movimento,
tanto lieve, quanto preciso.
Il mio sguardo
si sofferma con affetto su questo gesto,
umano, evocatore di attenzioni ai particolari,
di azioni di cura verso le persone.
Grazie ai bambini e ai ragazzi che sono
stati incontrati come P. che, racconta
Clemens, ha sedici anni ma ne dimostra
dieci, odia le regole e la scuola e quindi
sogna di nascondersi in montagna con le
capre per non essere raggiunto dal giudice
del Tribunale per Minori; come la
piccola Anna che al Nido non si stacca
dalla sua bambola Lucy mentre Nicoletta
accoglie l’una e l’altra; come Michele
che fa sorridere con le sue stranezze
Luisa, oppure come quell’uomo che va
sempre di fretta e aspetta Rita ogni mattina
per andare a bere il caffè ripetendo
parole e gesti sempre uguali; come Edo e
la carrozzina che Marco ha imparato a
guidare, a muovere senza esserne intimorito.
Anna C.
25 anni
Caterina ha una pancia grossa, grossissima.
Qualcuno direbbe che è un disco volante,
qualcuno che è tanto morbida.
Lei dice semplicemente,
accarezzandosi la pancia,
che deve dimagrire perché
portarla in giro quella ciccia
non è semplice.
Lei la borsa non la porta mai a tracolla,
la tiene fra le mani
perché le stringe la pancia,
lo stesso accade con la cintura di sicurezza,
ogni volta che ci si mette in auto
ha inizio il rito di imbragatura
che dura circa 10 minuti,
il tutto per non urtare
la sensibilità del suo ventre…
Se parcheggia troppo vicino
ad un’altra auto sono casini
perché rimane bloccata dentro il veicolo
senza poter scendere!
Quando mangia si sbrodola spesso perché
la sua pancia crea una distanza tale
fra il piatto che è sul tavolo e la sua bocca
da aumentarela difficoltà
di coordinazione del braccio.
I suoi figli si lamentano
ma poi si addormentano su quella pancia.
Abbracciare lei è come fiondarsi
in un grande cuscino di gommapiuma.
Un cuscino che forse ospita i dolori
e le sofferenze di una vita difficile,
la vita di Caterina.
cooperativa Aeper
57
Ma grazie anche agli educatori descritti
da Annalisa che sono stati per lei
“una grande fonte di formazione,
ho imparato molto da ognuno di loro.
Tutti li porto nel cuore.
Angelica era la mia preferita,
ragazza e poi donna
con un abbraccio grande, da contenere tutti.
Sempre perfettamente in ordine,
con una forte femminilità.
Le ragazzine la adoravano.
Io l’ammiravo.
Aveva modi dolci anche quando urlava.
Tutti zittivano.
Zittivo anch’io”.
Grazie ai colleghi, ai volontari senza i
quali sarebbe davvero più impervio gestire
le comunità di ragazzini, come Bettina,
la nonna di tutti descritta da Sivia.
Bettina è la nostra nonna,
di tutti i ragazzi dell’Aquilone,
ma anche la mia!
Quando entra in Comunità,
entra dal retro, facendo il giro dal giardino,
per raccogliere bacche ed erbe per decotti.
Se la mia porta dell’ufficio è aperta,
dà sempre una sbirciata per salutarmi
e per portarmi l’uovo caldo
delle sue galline,
perché non si fida a metterlo
nel grosso frigorifero della cucina,
sia perché me lo dimentico,
sia perché sarebbe immediatamente
mangiato da qualcuno…
Porta sempre molti regali la Bettina,
sia a me che ai ragazzi:
fiori e rose del suo giardino,
volantini di centri commerciali
dove vorrebbe fare un giretto,
babbucce di lana colorata
per ciascuno di noi
e per ogni bambino nuovo
accolto in comunità,
il boccettinodi grappa
per il caffè corretto dopo pranzo.
Racconta le sue giornate,
le sue visite quotidiane al cimitero,
il programma di visita in bici alle amiche
e i funerali più o meno settimanali.
Racconta la sua emigrazione in Belgio,
al seguito del marito minatore,
le dicerie del paese, delle parrocchiane,
degli uomini che ancora
la invitano a bere il caffè,
ma da cui lei sembra fuggire.
Racconta felice
dell’ultima gita a Varazze, dove

cercano di vendere le pentole sul pullman
e del venditore che la ringrazia
per l’attenzione che gli ha prestato.
Si è offesa quando ha realizzato
che il lunedì altre due donne
venivano a stirare (lei è a riposo)
e si imbarazza quando la invitiamo a pranzo
anche se non c’è nulla da stirare
e dice: “Non me lo sono guadagnato,
non posso!”.
La sua presenza è discreta e silenziosa
quando lavora,
stirando le pile di vestiti dei bambini
e quando in estate,
prima di pranzare
con la comunità Nazareth,
si siede in attesa, sotto l’albero,
a prendere un po’ di fresco.
La sua presenza e la sua storia
mi aiutano a rileggere la vita
di questa piccola cittadina, Torre de’ Roveri,
e mi aprono la porta sulla vite di un paese
che altrimenti potrei soltanto sfiorare.
Persone comuni rese straordinarie dai
racconti che li incastonano in cammei, in
ritratti da appendere alle pareti della
Cooperativa che è diventata grande grazie
a loro.
Educare
alla costruzione di un resoconto
della propria storia con la Aeper
La scrittura accompagna il delicato passaggio
dal vivere al fare l’esperienza
della propria vita: un modo per fare un
bilancio pesando soddisfazioni e sconfitte,
successi e inciampi. La consapevolezza
di avere portato a termine qualcosa
di buono accanto alla sensazione paralizzante
dell’impotenza quando si è tradito
qualcuno senza averlo affatto voluto. Ho
chiesto a ciascuno di provare a raccontare
i tanti episodi vissuti di un’attività
lavorativa che per alcuni è cominciata da
poco, come per Federica e Mara e per
altri dura da molti anni, come per Luisa,
Giusi, Rita e Marco.
Ciascuno di loro ha raccontato la sua storia
per momenti cruciali, per situazioni
così significative da costituire svolte,
cambiamenti. Attimi vissuti intensamente
li ha chiamati Nicoletta;
Come ha scritto Giusi:
“Ricostruire venticinque anni
di appartenenza non è semplice,
25 anni
ma è utile per dire a me stessa
che cosa porto dentro di me
di questa esperienza.
Allora cerco di fare spazio tra le date,
le persone, i luoghi che abbiamo abitato,
le attività, i progetti, i Comuni, le istituzioni,
i servizi, le locandine, i volantini,
i diversi ruoli ricoperti
per rispondere alla domanda iniziale.
Devo proprio fare spazio tra tante cose,
tutte interessanti, per seguire un filo che,
spontaneamente,
mi fa attraversare alcuni passaggi
che solo alla fine mi restituiscono
il valore dell’esperienza che ho vissuto.
Il filo ha una sua logica,
sicuramente soggettiva.
Per questo lo seguo”.
Ciascuno ha seguito il suo filo, la sua
narrazione e ha trovato il coraggio di nominare
i momenti bui ben sapendo che è
solo nominandoli che, forse, si può cambiare
loro di segno.
cooperativa Aeper
58
Antonio Pascale afferma la necessità di
trasformare il trauma in dolore, facendo
in modo che il dramma individuale diventi
collettivo: narrandolo e riflettendoci
sopra 4 .
E ho visto Mara chiudere il suo racconto
su una ferita ancora aperta che ha coinvolto
lei e una bambina, mentre Giusi ha
preso la parola subito dopo per aiutarla a
non finire la sua storia con quella ferita,
ma con qualcosa di diverso. Ed è così
che accade il passaggio dal trauma al dolore,
quando si riesce a fare il salto da
una dimensione individuale a una collettiva,
quando si impara a raccontare le
cose in modo diverso. Giusi ha trovato
un nome nuovo per una denuncia e l’ha
chiamata ingratitudine accettando il
cambiamento che sta nelle cose che
“eppur si muovono”.
E a quel punto Mara ha aggiunto una fine
diversa alla sua storia e ha parlato del laboratorio
di scrittura che l’ha aiutata a
trovare:
“dei significati che ho fatto miei
e che mi permettono di andare avanti.
Più di tutto ho ricevuto
l’esperienza degli altri e ho imparato.
Più di tutto ho avuto in prestito
gli occhi e il cuore dei colleghi
ed ho visto, ho sentito.
E così ho trovato delle parole
con cui medicare la mia ferita:
ingratitudine, “eppur si muove”.
Con queste parole cercherò di dare
al mio dolore una forma più vitale,
un sapore più zuccherino,
un’immagine più chiara.
In questo modo mi farà crescere,
lascerà spazio all’apprendimento
e al mio lavoro qui.
Lascerà movimento a me e agli altri.
Mentre cominciavo il laboratorio al Pitturello,
ho incontrato anche Marco Moroni
che partecipa al laboratorio che
conduco per lui e gli altri volontari degli
Amici della Pediatria che mi ha detto di
avere conosciuto “don Emilio e i suoi ragazzi”
- così come li ha chiamati - proprio
agli inizi della loro vita comunitaria
in viale Giulio Cesare e ha accettato di
scrivere di loro, di ricordare il pezzetto
di strada percorso insieme. Non riesco a
non pensare che il volontariato di Marco
in pediatria sia in realtà stato costruito in
quegli anni lontani. I semi vengono sepolti
nel terreno della propria anima e
prima o poi si spaccano per farsi pianta.

Educare alla speranza
Ho scelto il titolo Cara Aeper, ti scrivo…
per indicare sia il tema affrontato nei nostri
tre incontri laboratoriali, ma anche il
modo in cui è stato trattato: nessuna dissertazione
teorica, nessuna indagine
scientifica sul lavoro in Cooperativa, ma
la relazione tra sé e il proprio lavoro fin
qui svolto in Aeper.
La lettera, per definizione, è messaggio,
cosa mandata che fin dal mondo romano
ha mantenuto una duplice funzione: sia
di sfogo ed espressione della propria intimità,
sia di occasione per la dissertazione
di argomenti su un piano più
professionale. Lettere private e lettere
che, pubblicate su quotidiani o riviste,
rendono pubblico un dibattito tra filosofi,
letterati o uomini politici.
La lettera è un oggetto di sublime leggerezza
ed è solido pegno di promesse e
propositi che non hanno scadenza ed acquista
valore nel tempo.
La lettera è la cellula prima della scrittura
che contempla sia un meccanismo di
espressione che di comunicazione, si
gioca nella relazione io-tu, come prova
resa a se stessi di esistenza, come mezzo
per rivendicare il doppio diritto di esserci.
In questo caso scrivere alla Aeper è stato
un modo per tirare le somme di quello
che è stato in occasione del suo compleanno
e disporsi a guardare avanti con fiducia.
Con speranza.
Come ha scritto Giovanni C.
“In questi dodici anni, alcune sicurezze
ce le siamo scambiate a vicenda, io e te.
Se alla fine facciamo i conti
sicuramente sono in debito però.
Perché, sì, qualcosina di sicuro forse
te l’ho data:
la lealtà, la disponibilità di tempo e tempi,
la fantasia, la creatività,
le cose che avevo imparato a scuola
e non solo, un pochino di passione
e, spero, qualche volta,
una briciola d’amore.
Però in cambio ho ricevuto:
riconoscimento
di essere un lavoratore valido,
apprezzamenti tantissimi,
soprattutto specifici, non generici,
possibilità di crescere, calore umano,
25 anni
solidarietà, amicizia,
possibilità di vivere il lavoro
umanamente e cristianamente…
…e potrei andare avanti parecchio!”.
Reciprocità, prima di tutto: io ti posso insegnare
perché tu mi insegni qualcosa. È
il segreto dell’insegnamento e anche
quello dell’apprendimento, afferma Andrea
Canevaro.
Tutti hanno raccontato la loro voglia di
proseguire con speranza, affidandosi al
vento che li ha raccolti fin dalla loro
prima volta, ma impegnandosi ad agire
dentro il tempo toccato in sorte, facendosi
lavorare dalle avversità, senza tirarsi
indietro.
È stata citata la tanta - in alcuni casi
troppa! - disponibilità che la Aeper
chiede ai suoi operatori e qualcuno ha
ammesso di non aver piacere di lavorare
la sera, di rincasare tardi, i tanti chilometri
per le valli della bergamasca. Eppure,
come ha scritto Luisa.
“Anche in momenti difficili, quelli in cui ti
sembra di non farcela più, non ho mai dubitato
di separarmi da te. Dipendenza? Non lo
so, penso di no. Forse è un po’ come quando
cooperativa Aeper
59
sposi tuo marito, succedono molte cose, bellissime
e faticosissime, eppure è la persona
che hai scelto, con cui hai condiviso cose
troppo grosse, troppo profonde e vai avanti a
credere in lui e a procedere insieme. Sai
AEPER, sono un po’ alla vecchia, ma sento
che un rapporto di fiducia profondo non può
essere tagliato così, velocemente, senza accettare
di attraversare le prove del fuoco perché
l’oro si raffini sempre di più”.
Credo che in questo nostro tempo così
duro, ostile, angosciato, si debba fare resistenza
offrendo esempi di fedeltà,
esempi di educazione volti all’umanizzazione
dei soggetti, al loro benessere.
Ed è per questo che in fondo si celebra
un venticinquesimo compleanno.
Come ha scritto Marco:
“Venticinque anni, i tuoi.
Venticinque anni, i miei.
Non oggi.
Quando ho scelto di provare a incontrarti.
E di provare a lasciarmi incontrare da te.
Iniziando una storia, tra noi e con altri.
Imprevista.
Allora incredibile.
Sconvolgente, nel tempo.
Una storia che, un po’, desidero raccontarti.
Per dirti che, anche tu,
hai contribuito a cambiarmi.
E per provare a regalarti, oggi,
il mio sguardo su di te”.
Sono gli sguardi di tanti quelli che hanno
cercato di restituire l’imperfezione per
dirla con Giusi e l’originalità per dirla
con Rita della Aeper. E sono in tanti a
fare gli auguri per un data importante
come un venticinquesimo: Buon compleanno,
cara Aeper.
Note
1. A. Canevaro, Pietre che affiorano,
Erickson, Trento, 2008
2. O. Arzuffi, Il vento ci ha raccolti,
Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI), 2008, pag. 26
3. O. Arzuffi, Il vento ci ha raccolti,
Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo, 2008 pag. 75
4. A. Pascale, Trasformare il trauma in dolore,
in AA.VV., Lavoro da morire, Einaudi
■

Correva l’anno 1984. E già da un po’ di
tempo i bisogni che l’Aeper incontrava e le
richieste che arrivavano da Comuni e Parrocchie
in merito al disagio giovanile facevano
notare che la Comunità Nazareth,
comunità di vita, e l’Associazione Aeper,
associazione di volontari, non potevano
essere le organizzazioni più idonee a sostenere
la complessità economica ed organizzativa
che si andava configurando.
In quell’anno si potevano contare alcune
decine di volontari che impiegavano
tutto il loro tempo libero nelle attività
dell’Aeper e tante, tante persone che aiutavano
e facevano comunità nei Corsi
Estivi, in Val Serina, nelle bancarelle
della solidarietà... Il motore di tutto era
la Comunità Nazareth, nel cui appartamento
di Viale Giulio Cesare a Bergamo
pulsava la vita associativa, si incontravano
i testimoni del tempo, ci si formava
spiritualmente ascoltando la Parola.
Deciso di fare il “grande passo”, anche
con l’aiuto di alcuni amici, il 1985 e il
1986 sono stati gli anni in cui si è riflettuto
su quello che volevamo far nascere
e sullo Statuto della Cooperativa. È stato
importante in quella fase avere al nostro
fianco amici competenti, in particolare il
notaio Carlo Leidi che ci ha sostenuto
in ogni modo e Giorgio Gotti delle ACLI.
Il 31 ottobre 1986 nello studio del Notaio
Leidi, alla Rotonda dei Mille a Bergamo,
nasceva la Cooperativa A.E.P.E.R. che si
autodefiniva “di solidarietà sociale” (la
legge che istituiva le cooperative sociali
sarebbe stata approvata solo nel 1991),
seconda o forse terza cooperativa di questo
tipo a Bergamo.
Quindici persone erano presenti oltre al
notaio: persone che venivano dall’esperienza
storica del gruppo di base “La
baita”, dalla Comunità Nazareth, dal
gruppo iniziale di Telgate, da Torre Boldone,
dal gruppo nato successivamente
25 anni
Piccola storia di una Cooperativa
Raffaele Casamenti
Gruppo Aeper
Coordinatore area salute mentale
ad Azzano San Paolo. Persone che hanno
poi proseguito l’esperienza della Comunità,
dato vita alla Pèta, al Collage (la
prima e purtroppo sfortunata esperienza
lavorativa dell’Aeper), così come anche
persone che dopo qualche tempo si sono
staccate dalla Cooperativa perché più interessate
ad una esperienza associativa
che di imprenditoria sociale.
Darsi degli organi sociali all’epoca era
poco più che una formalità, perché per
anni abbiamo continuato a decidere tutto
insieme, nei gruppi di lavoro (sulla prevenzione,
l’animazione, la formazione, il
volontariato, la mondialità…) che pensavano
e programmavano le attività, sia su
nostra iniziativa (come i Corsi Estivi e
gli incontri-festa giovani) sia su richiesta
dei Comuni e delle Parrocchie. Tuttavia
è importante ricordare che il primo presidente
è stato Gian Battista Maffioletti, e
che lo è stato per tre mandati (ogni mandato
ha la durata di tre anni), guidando la
Cooperativa nei primi anni in cui ha vissuto
dei grandi cambiamenti, soprattutto
nel modo di concepirci: da gruppo di volontariato
a impresa sociale, attraverso
importanti trasformazioni.
La fine degli anni ottanta e i primi anni
novanta vedono uno sviluppo delle
azioni che derivava dalla presenza costante
con i giovani e dalla vita della Comunità
Nazareth, nella quale nel
frattempo hanno vissuto periodi più o
meno lunghi anche operatori della Cooperativa
e obiettori di coscienza:
cooperativa Aeper
60
L’azione nelle tossicodipendenze, sia
nella Comunità Nazareth sia nelle attività
lavorative che via via sono state
aperte (il laboratorio “Fili e colori”, il
laboratorio “Il colibrì” e poi l’omonimo
negozio, e nei primi anni novanta
i centri diurni dell’Agricoltura Pitturello
- coltivazione di piccoli frutti nel
campo di Albano lasciatoci in donazione
da don Primo Bonassi - e della
ceramica)
Le attività di prevenzione del disagio
giovanile, in diversi comuni (il primo
fu Brembate Sotto), con l’animazione,
la formazione, i progetti di territorio e
le consulte giovanili
L’attenzione al disagio psichico, con le
prime storiche attività del centro
diurno Cordata, legate all’occupazione
e al coinvolgimento delle persone
in buone relazioni (l’attività
itinerante di raccolta di materie di
scarto, l’agricoltura presso la storica
famiglia di Enzo e Giuliana Nicoli ad
Azzano San Paolo…).
La rete di solidarietà promossa e curata
sempre da don Emilio, l’amore nei
confronti di ciò che facevamo da parte
di don Primo e di don Giulio, e un finanziamento
ottenuto dal Ministero
dell’Interno tramite un intenso lavoro
di Giusi in quegli anni ci hanno permesso
anche di iniziare due sogni che
si sono tramutati in realtà tra il 1994 e
il 1996: la Pèta di Costa Serina, con
l’avvio della Comunità, e il Pitturello
di Torre de’ Roveri dove poi si trasferì
la Comunità Nazareth.
Nel frattempo gli anni intorno al 1995
addensano le prime nubi e altri cambiamenti
sulla Cooperativa. Le scelte fatte
dai servizi pubblici per le dipendenze
non consentono più di mantenere i centri
diurni, che causano forti sofferenze eco-

nomiche. Le sofferte decisioni conseguenti
portano anche all’abbandono della
Cooperativa da parte di alcuni Soci che
nel frattempo si erano aggiunti con entusiasmo.
Proprio nel 1995, a causa dell’importante
impegno nell’ amministrazione
comunale che lo ha visto protagonista,
Gian Battista Maffioletti si dimette da
Presidente, e dopo 6 mesi di presidenza
da parte di Ferruccio Castelli, Vicepresidente,
le nuove elezioni portano Giusi
Poma a diventare la nuova Presidente per
i successivi 9 anni.
La cessazione progressiva delle attività
legate alle dipendenze portano anche alla
trasformazione del Colibrì che diventa
sede del Cordata (nell’antica sede di Via
Rosa a Boccaleone e poi, nel 2000, nell’attuale
capannone di Torre de’ Roveri),
organizzando le attività di falegnameria e
poi di assemblaggio e conto terzi.
Anche la Comunità Nazareth cessa
l’ospitalità di giovani con problemi di
tossicodipendenza.
A fianco delle attività di prevenzione del
disagio giovanile, si sviluppa l’area minori,
che attiva attenzioni e servizi per
minori in difficoltà e le loro famiglie.
Già dal 1990 si struttura la rete delle famiglie
affidatarie, un’esperienza fondamentale
per la Cooperativa, che coniuga
servizio ai minori e realtà di vita familiare.
La rete delle famiglie affidatarie si
sviluppa dalle prime esperienze di Enzo
e Giuliana e Luisa e Bebe, per poi allargarsi
sempre più negli anni anche grazie
alla cura prima di Giusi e poi di Judith.
Superata la crisi di metà anni novanta, la
Cooperativa fa un balzo fondamentale
nel 1999, anno in cui vengono aperte
quasi contemporaneamente:
la comunità per minori “L’aquilone”
al Pitturello, importante esperienza di
una comunità gestita da educatori ma
con l’appoggio attivo della realtà di
vita della Comunità Nazareth che lì
abita;
la comunità psichiatrica ad alta protezione
“Villa fiorita” a Brembilla, che
accoglie le ultime 13 persone dimesse
con la chiusura dell’ex-Ospedale Psichiatrico
di Bergamo.
Sino ad allora la Cooperativa aveva mantenuto
le caratteristiche di una piccola
impresa, con al massimo 14 dipendenti,
quasi tutte provenienti dalle prime espe-
25 anni
rienze “storiche” dell’Aeper e tanto volontariato.
Con l’apertura delle due comunità la
Cooperativa assume invece un numero
decisamente maggiore di operatori (in
prevalenza educatori, ma anche infermieri
e ausiliari) che non hanno vissuto
le esperienze del Gruppo Aeper.
Nel tempo questo aspetto produce una
maggiore complessità nell’identità della
Cooperativa, che non coincide più interamente
con gli orientamenti iniziali del
Gruppo Aeper, ma anche le difficoltà di
alcuni operatori “storici” di riconoscersi
completamente nelle nuove esigenze che
l’espansione della Cooperativa porta con
sé: attenzione alle esigenze economiche,
tempo di lavoro distinto dal tempo di volontariato,
organizzazione più puntuale,
maggiore specializzazione anche con
un’attenzione ai profili professionali imposto
dalle normative pubbliche via via
approvate.
Dopo il 2000 è in particolare l’area minori
a generare nuove attività, tra cui
Punto più, la comunità diurna Il vantaggio,
il costante ampliamento della rete
delle famiglie affidatarie e la nascita
delle “famiglie amiche” intorno alla comunità
L’aquilone.
L’area salute mentale tenta l’avvio di un
nuovo centro diurno psichiatrico in Valle
Brembana, che rimane però “incompiuto”
a causa del contemporaneo avvio
di quello pubblico a Zogno. Nasce comunque
un punto di riferimento a Villa
d’Almé che più tardi assumerà il nome
di Alisei.
La complessità sviluppata dalla Cooperativa
Sociale AEPER fa nascere l’intuizione
della possibilità di avviare nel
2001 una nuova cooperativa che si occupi
e segua con maggiore forza le attività
in Valle Brembana e Serina, in Valle
Imagna e nell’Isola Bergamasca.
Nasce così la Cooperativa Sociale “Il
varco” il cui primo Presidente è Luca
Betelli.
A metà del primo decennio del nuovo secolo
i bisogni che emergono dal territorio,
legati alla crescita esponenziale della
malattia psichiatrica in preadolescenti e
adolescenti orientano la Cooperativa a
tentare l’avvio di una nuova area, la Neuropsichiatria
Infantile. I diversi progetti
sviluppati portano all’avvio nel 2005 di
una grande sfida, la comunità Piccola
cooperativa Aeper
61
stella, situata a Medolago in un immobile
concesso in comodato alla Cooperativa.
Successivamente l’area avvierà
anche un centro diurno denominato “Kaleido”
a Terno d’Isola.
Tra il 2004 e il 2005 importanti cambiamenti
caratterizzano il Consiglio di Amministrazione.
La Presidenza passa da
Giusi Poma a Judith Tasca, e Giovanni
Tosi assume le funzioni di amministratore
delegato per permettere una maggiore
cura degli aspetti economici e
organizzativi.
Il resto è storia attuale, con i primi segnali
di crisi economica anche nei servizi,
ma anche altri avvenimenti
importanti come la nascita dei Progetti
Autonomia, la partecipazione a progetti
consortili, l’avvio della Cooperativa
agricola La Pèta che porta a compimento
un lungo processo di gestione
delle attività che vi si svolgono.
Il volto attuale della Cooperativa comprende
4 aree (Minori e Famiglie, Politiche
Giovanili e del Territorio, Neuropsichiatria
infantile, Salute mentale) e i
settori delle Risorse Umane, dell’Amministrazione,
dell’Organizzazione e
Logistica, della Sicurezza e Qualità.
Da tempo la Cooperativa ha superato la
quota di 100 lavoratori dipendenti, ma
questa cifra si avvicina a 150 ricordando
anche l’importante apporto dei professionisti
e collaboratori.
È importante ricordare che i volontari
sono quasi altrettanti. I soci della Cooperativa
sono oltre 60, mentre è difficile calcolare
il numero delle persone accolte e
sostenute nei diversi servizi. Considerando
tuttavia i Progetti Giovani dell’area
Politiche Giovanili è facile considerare che
siano ben più di un migliaio.
Siamo nel 2012 e il resto della storia
della Cooperativa Aeper sarà il suo futuro.
Con tante sfide: le trasformazioni
interne ed esterne, la sua identità, la capacità
di produrre cultura nuova come in
passato, le modalità di rispondere ai bisogni
nonostante la crisi che investe pesantemente
i servizi alla persona.
Un altro pezzo di storia che verrà scritto
con chissà quali esiti, ma sempre con la
stessa cura e la voglia di essere vicini alla
gente.
■

Il nuovo sito della Cooperativa Aeper
In occasione del 25° nel sito del Gruppo Aeper www.aeper.it
compare il nuovo sito dedicato alla Cooperativa www.cooperativaaeper.it
Questa la testata.
Da circa un anno e mezzo all’interno della Cooperativa Sociale AEPER si è avviata
una riflessione sul tema della comunicazione.
La necessità di un confronto su questo aspetto è nata dalla consapevolezza di dover presentare
i nostri progetti/servizi/eventi ad un pubblico più vasto di quello dei dipendenti e dei soci.
Dire quello che facciamo, dirlo bene, dirlo in maniera efficace, questi gli obiettivi identificati.
Un gruppo formato da consiglieri di amministrazione, un socio volontario e una responsabile
del settore comunicazione si incontrano costantemente per decidere insieme
linee strategiche e priorità di intervento.
Il progetto di un nuovo sito è rientrato tra queste priorità poiché ci è parso lo strumento
maggiormente bisognoso di ridefinizione e al tempo stesso l’opportunità più accessibile
di conoscenza della cooperativa.
Insieme a Videocomp (nostro partner) abbiamo costruito il nuovo sito www.cooperativaaeper.it
Era importante per noi che fosse un sito bello, caldo, accogliente.
Un sito fatto di volti e di parole. Un sito dove sia le scelte grafiche che i testi e i dettagli
in qualche modo esprimessero la natura della nostra cooperativa sociale.
Crediamo di esserci riusciti. Visitateci!

La nuova casa editrice del Gruppo Aeper
Le collane
Saggistica
Di quello che abbiamo imparato
Narrativa
Di quello che viviamo
Storia
Di quello che siamo stati
1. G. Brozzoni, Sich sach de soch sèch
Prossima ristampa con correzioni e aggiornamenti.
2. G. Brozzoni, La salüte e po’ piö
Arte
Di quello che più ci nutre
1. C. Arzuffi, Colori della Pasqua
Santi minori
Di quelli che poco conosciamo
Testimoni
Di quelli che con la vita
1. Alexander Langer, Dal Sud-Tirolo all’Europa
Piccole parole
Di quello che incrociamo
1. A. Lorenzi, Cara Aeper, ti scrivo.
Alexander Langer
Dal Sud-Tirolo
all’Europa
Autonomie dei popoli
e autorità sovranazionali
“Non credo vi sia un’alternativa ragionevole
ad una cultura e ad una politica
della convivenza.
Ovvero, ogni alternativa può essere
solo violenta: le alternative possibili
contengono un grado già adesso alto
di violenza, che tenderà a crescere
man mano aumenterà l’intensità del
conflitto.
D’altra parte i conflitti etnici e le questioni
che essi comportano non sono
semplicemente maschera di qualcosa
d’altro, ma hanno una loro propria e
autonoma capacità dirompente di manifestarsi.
Credo perciò che la costruzione di una
politica della convivenza e quindi
della diluizione delle tensioni attraverso
un tratto di plurilinguismo e di
pluriculturalismo, attraverso ordinamenti
plurietnici, sia davvero utile.
Non ci troveremo così impreparati poi
sotto l’incalzare delle pressioni o dei
conflitti”. Vedi biografia a pag. 9
Adriana Lorenzi
Cara Aeper ti scrivo
Quindici mani a raccontare una lunga
storia.
Brava e speciale Adriana Lorenzi a collegarle a quindici cuori,
quindici corpi, quindici volti, trenta occhi, quindici storie, a
quindicimila ricordi, sogni, aspettative, emozioni…
Quindici mani a raccontare la storia di Aeper.
Una storia lunga più di quarant’anni se si parte dalle origini.
Generando, come un grande albero, tanti rami e questi rami a
generare foglie, fiori e frutti…
Noi questo grande albero da tempo amiamo chiamarlo
“Gruppo Aeper”.
Abituato ormai ad affondare le sue radici nella terra bergamasca,
nella storia, nel quotidiano, nei problemi, nelle aspettative
della sua gente.
È come una grande famiglia che volentieri celebra i momenti
più significativi dei suoi membri.
Questo libro nasce dal desiderio di festeggiare i 25 anni della
“Cooperativa Aeper”.
Uno dei grandi rami del gruppo.
Festeggiare per ricordare, riunire, rileggere, rinfrancare, ripartire…
Dalla Presentazione
Cosetta Arzuffi
Colori della Pasqua
Colore, immagine, parola per illustrare,
nella bellezza, il mistero che illumina ogni
altro mistero: la Pasqua.
E insegnarci a rileggere il senso di tutte le cose attraverso il
piacere suscitato da una meraviglia pittorica che fonde armonicamente
colori, disegni e simboli, per comunicarci
temi che toccano il cuore ed elevano la mente.
Nessun altro linguaggio è più capace di profondità e costruttore
di fraternità come quello artistico.
L’arte è l’alfabeto segreto della creazione, la comunicazione
più sublime dell’amore, il linguaggio stesso di Dio.
Questo libro, piccolo nelle dimensioni, ma grande nelle intenzioni,
nato da una creativa collaborazione tra la Comunità
di Redona, l’Arcionfraternita dei Bergamaschi di Roma
e la Comunità Nazareth, propone il ciclo pittorico sulla Passione
della pittrice bergamasca Cosetta Arzuffi.
Un’artista che ha approfondito per lunghi anni e con certosino
rigore il significato dei simboli e studiato le capacità espressive
della luce, perché tutti noi possiamo, nella piacevolezza
della contemplazione, riappropriarci del linguaggio più umano
per cogliere il segreto di Dio nel “Figlio dell’uomo”.
Guerino Brozzoni
La Salüte
e pò piö
Malattia
e ricerca della salute
nella cultura popolare
La presente pubblicazione, che
ammiriamo con viva riconoscenza
per l’autore, riapre una
splendida visione sul presente
tema che non possiamo dimenticare.
L’antico focolare domestico si
ravviva con tutti i suoi grandi
valori della nostra esistenza,
mentre con Guerino Brozzoni
possiamo ricuperare gioiosamente
quel mondo che continua
ad appartenerci.
mons. Giulio Gabanelli
La ricerca etnologica è rigorosa
quanto l’indagine storica.
Gi usi e i costumi, i miti e le
credenze, le tradizioni e le feste
del passato o della contemporaneità
sono censiti, ricostruiti e
vagliati scientificamente.
Lo studioso affianca all’osservazione
sul campo, la raccolta
di dati, l’analisi dei documenti
d’archivio, l’esplorazione dei
materiali iconografici.
Ogni fenomeno culturale esaminato
o comparato diventa un
patrimonio di conoscenze per
tutti, una sorgente di informazioni
aperta sia alla critica sia
all’aggiornamento.
Nel saggio monografico sulla
medicina popolare, un vero e
proprio trattato per la quantità
dei temi esposti, Guerino Brozzoni
applica il metodo della medicina
etnologica unendo
competenza e passione.
Merito non secondario del manuale
redatto da Guerino Brozzoni
è rappresentato dalle
citazioni esemplari e dai rimandi
bibliografici.
Il tributo agli studi precedenti
conferisce completezza e profondità
a un discorso articolato,
meditato, coraggioso.
prof. Claudio Antonio Gotti

Il Gruppo “La strada” propone
La parabola dell’arciere
Gran baccano
La parabola dell’arciere
Un racconto
sull’esser figli,
figli della vita,
bambini fragili e straordinari.
Un affresco poetico
di danza e parola
sul senso profondo
dell’infanzia e della famiglia.
La parola dei bambini
affidata alla voce
e al cuore degli adulti,
per scoprire che la genitorialità
è un complesso e ricco
atto di fiducia e di appartenenza
ad una comunità
fatta di affetto e cura,
scelte e solidarietà.
I figli appartengono al mondo
e la chiamata
ad essere padre e madre
è promessa di generosità.
Testi di:
Handke, Gibran, lettere di bambini.
Drammaturgia e regia:
Silvia Barbieri
Gran baccano
L’amore
tra l’uomo e la donna
nasce dall’atto generativo
della creazione,
nel giardino dell’Eden,
dove scoprono
la loro bellezza
e la loro differenza.
Nel mistero dell’innamoramento
e nella scoperta dell’amore,
vengono raccontati i desideri,
la emozioni, i sentimenti
e le fatiche dell’unione
e delle scelte della coppia
e della promessa reciproca,
in toni poetici e leggeri.
Un inno all’amore,
alla sua forza, alla sua gioia,
tra le tinte
delle immagini di Arcabas
e le parole dei miti della creazione.
Testi di:
Genesi, Cantico dei Cantici, Galeano,
Belli, scritti autobiografici.
Drammaturgia e regia:
Silvia Barbieri

Una proposta alle comunità parrocchiali
corsi per fidanzati incontri con famiglie avvenimenti speciali a tema
Il gruppo “La strada” con l’evento teatrale “ INNO ALLA VITA”
ha animato in piazza Vecchia a Bergamo
la festa finale del Convegno internazionale delle famiglie “Famiglia, lavoro, festa”
prima dell’incontro con il Papa a Milano.

AGRITURISMO
RISTORAZIONE DI QUALITÀ
PIATTI TRADIZIONALI
ALLOGGIO CONFORTEVOLE
Allevamento biologico
Produzione formaggi pregiati freschi e stagionati
Vendita prodotti biologici
Ospitalità per gruppi
Spazi per convegni e seminari
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Arcabas
Sono ormai diventate famose
le immagini di Arcabas.
Le parrocchie e le famiglie
le utilizzano
come segno e come regalo
per i momenti forti dei sacramenti.
Cappella della Riconciliazione
Uno spazio di preghiera,
di contemplazione e di riconciliazione,
ideato dall’architetto Renzo Pedrini
e dall’artista francese Arcabas.
Numerosi gruppi
hanno già gustato questo luogo sacro.
Per prenotazione sentire la Comunità
“La Pèta” 0345.97 955.
Laboratori ed esposizione
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Tel. e fax 035.581 300
“Quando il tuo dono
è anche gesto
di solidarietà
più cuori
fanno festa”
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Alas
Oltre alle icone tradizionali
sono numerose le immagini
di mons. Giuseppe Sala,
adatte per i sacramenti e la preghiera,
per la cameretta del bambino
e per la stanza dell’adolescente.
Osiamo
guardare il futuro
con speranza.
Ancora.
Perchè sappiamo
che chi spera osa
chi osa ama
e chi ama
non è mai solo
e chi non è solo
cammina
custode del fuoco
di chi sempre
ha speranza.

Davide Agazzi
Silvio Agazzi
Maria L. Agostinelli
Vinicio Albanesi
Chiaretta Aldeni
Edoardo Algeri
Carlo Altavilla
Roberto Amadei
Fabio Amigoni
Giuseppe Angelini
Mauro Arnoldi
Elio Artifoni
Rocco Artifoni
Mattia Artifoni
Oliviero Arzuffi
Barbara Avanzi
Lucio Babolin
Rosanna Balocco
Virgilio Balducchi
Donata Balosetti
Silvia Barbieri
Pietro Barbetta
Maria Teresa Battistini
Bertha Bayon
Tonino Bello
Milena Bellometti
Andrea Belotti
Marco Belotti
Osvaldo Belotti
Manuela Benassi B.
Franco Benzi
Rosanna Benzi
Paola Bergamelli
Elena Berlanda
Marcello Bernardi
Marco Bernuzzi
Mario Bertin
Luca Betelli
Cinzia Bettinaglio
Frei Betto
Giovanni Bianchi
Ilaria Bianchini
Debora Billy
Linda Bimbi
Lèon Bloy
François Boespflug
Gianluca Bocchi
Leonardo Boff
Waldemar Boff
Alberto Bonacina
Basilio Bonaldi
Vincenzo Bonandrini
Eugenio Borgna
Saverio Borrelli
Chiara Brambilla
Gino Brembilla
Silvia Brena
Renato Bresciani
Giulio Brotti
Emilio Brozzoni
Rita Brozzoni
Roberto Bruni
Elena Buccoliero
Giulio Caio
Marcello Candia
Aldo Capitini
Luigi Cavagnaro
Giorgio Campanini
Massimo Campedelli
Fabio Canavesi
Antonino Caponnetto
Marco Caraglio
Natale Carra
Alberto Carrara
Paolo Casaldàliga
Raffaele Casamenti
Hanno scritto per L’Incontro
Lino Casati
Fiorenza Cattaneo
Monica Cellini
Antonio Censi
Luigi Cepparona
Mauro Ceruti
Maurizio Chiodi
Pierangela Chiodi
Giuseppe Cicchi
Luigi Ciotti
Michel Clévenot
Pier Codazzi
Michel Collard
Giuseppe Colombo
Sergio Colombo
Massimiliano Colombi
Marzia Coter
Roberto Cremaschi
Angelo Cupini
Nando dalla Chiesa
Tania De Ros
Raffaele De Garda
Gaia Del Prato
Duccio Demetrio
Hrant Dink
Carmelo Di Prima
Martino Doni
Johnny Dotti
Fabio Dovigo
Silvia Dradi
Stefano Dubini
Marek Edelman
Cecilia Edelstein
Nicola Eynard
Gennaro Esposito
Edoardo Facchinetti
Ornella Favero
Biagio Ferrari
Gaetano Farinelli
Marcella Filippa
Adriana Finazzi
Alessandro Finazzi
Franco Floris
Aurelia Foglieni
Serena Foglieni
Giorgio Foresti
Gianpietro Forlani
Laura Formenti
Guido Formigoni
Ada Franchi
Anita Frankova
Massimiliano Frassi
Mariangela Fusco
Rita Gay
Claudio Galante
Edoardo Galeano
Stefano Galliani
Simona Gambara
Eros Gambarini
Colette Gambiez
Piero Garavelli
Piero Gheddo
Gabriella Ghermandi
Mario Ghidoni
Giorgio Ghilardi
Luisa Ghisleni
Enrico Giannetto
Riccardo Giavarini
Gilberto Gillini
Giorgio Girardet
Gianpaolo Girardi
Marcello Giuliano
Paolo Giuntella
Anna Granata
Beppe Guerini
Dario Guerini
Dag Hammarskjöld
Rosario Iaccarino
Margherita Ianniello
Piero Imberciadori
Giuseppe Impastato
Margherita Inaniello
Edvige Invernizzi
Giacomo Invernizzi
Luis Daniel Izpizua
Luca Jahier
Kazuyo Jamane
Carlotta Jesi
Alex Langer
Lanza del Vasto
Giorgio Lanzi
Marco Lazzari
Leonardo Lenzi
Raniero La Valle
Abramo Levi
Stefano Levi d. Torre
Ivo Lizzola
Imerio Locatelli
Massimo Longhi
Giovanni Longhini
Adriana Lorenzi
Paola Loreto
G. Battista Maffioletti
Roberta Maffioletti
Lidia Maggi
Manuela Maggioni
Vanni Maggioni
Renato Magni
Paolo Malacarne
Attilio Manara
Fulvio Cesare Manara
Raimondo Mandaglio
Mauro Manessi
Raffaele Mantegazza
Sergio Manzoni
G. Mariano Marchesi
Silvio Marchetti
Giovanni Marinelli
Mirt Josif Marius
P. Miot Marius
Carlo Maria Martini
Josè de Souza Martins
Ettore Masina
Carlo Mazza
Gino Mazzoli
Primo Mazzolari
Pierluigi Mele
Lidia Menapace
Rigoberta Menchù
Marina Menichelli
Alda Merini
Reinhold Messner
Lucia Mezzadri
Giovanna Migliorati
Silvana Milesi
Liana Millu
Mauro Minervini
Arnaldo Minetti
Aurora Minetti
Alessandra Mongodi
Giuseppe Monticelli
Ugo Morelli
Carla Moreni
Antonio Napoli
Giuseppe Naretto
Salman Natour
Giovanni Nervo
Aldo Nicoli
Francesca Nilges
Enzo Noris
Marco Noris
Maurizio Noris
67
Vittorio Nozza
Milena Orlandi
Silvia Orlandi
Catia Ortolani
Angelo Pagani
M. Grazia Panigada
Arturo Paoli
Giovanni Parimbelli
Marco Parisi
Max Pavan
Renzo Pedrini
Silvia Pedrini
Marco Pellegrini
Roberto Pennati
Adriano Peracchi
Antonio Peri Campana
Emanuele Personeni
Rosangela Pesenti
Susanna Pesenti
Fabio Pessina
Barbara Pezzinni
Pasquale Pezzoli
Tarcisio Pezzoli
Simona Pianetti
Ferruccio Piazzoni
Simona Pilichi
Filippo Pizzolato
Carmen Plebani
Tarcisio Plebani
Rosita Poloni
Giusi Poma
Gaetano Porcelli
Alberto Preda
Giusy Quarenghi
Paolo Raciti
Marcello Ragazzi
Emanuele Rainone
Anna Raybaudi
Stefania Ravasio
Emanuela Rebucini
Fausto Resmini
Marco Rho
Salvatore Ricciardi
Paolo Ricoeur
Elisa Ripamonti
Gianni Riotta
Armido Rizzi
Felice Rizzi
Daniele Rocchetti
Sandro Rodini
Alessandro Romelli
Patrizio Rota Scalabrini
Giovanni Ruggeri
Gianfranco Sabbadin
Stefano Sabbadin
Renato Sabbadini
Luigi Saita
Giuseppe Sala
Igor Salomone
Claudio Salvetti
Diego Salvi
Giancarlo Salvoldi
Umberto Santino
Anna Sarnataro
Brunella Sarnataro
Francesco Sarnataro
Riccardo Scalvinoni
Luigi Scandella
Anna Z. Schena
Vittorio Sgarbi
Mario Signorelli
Mario Schermi
Michele Serra
Mariditta Servidati
Stefania Sessa
Sandro Sesana
Raffaele Severi
Mario Signorelli
Oliviero Signorelli
Pilar Solìs
Chiara Soloni
Federica Sossi
Silvia Spinelli
Piero Stefani
Jean Luis Ska
Walter Tarchini
Judith Tasca
Laura Tidone
Raoul Tiraboschi
Gianni Tognoni
Stefano Tomelleri
Annalena Tonelli
Giorgio Torelli
Franco Travi
Antonia Tronti
Marco Ubiali
Patrizia Ubiali
Renata Usuelli
Graziella Valenza
Bruno Vedovati
Elena Ventura
Guido Veronese
G.Gabriele Vertova
Laura Viganò
Marco Vincenzi
G.Marco Vitali
G. Mario Vitali
Patrizia Vitali
Alberto Vivanti
Umberto Vivarelli
Monika Von Wunster
Annalisa Zaccarelli
Matteo Zambetti
Milvia Zambetti
Luigina Zana
Chiara Zanchi
Debora Zanchi
Giuliano Zanchi
Marco Zanchi
Sara Zaniboni
Alex Zanotelli
Luciano Zappella
Sonia Zara
Adriana Zarri
M. Teresa Zattoni
Federico Zeri
Alessandro Ziche
Elena Zonca
Giulia e Pito
Mons. Antomiutti
Sr. Dolores, domenicana
Sr. Gabriella
Arrigo di Camaldoli
Marco di Camaldoli
Patrizia di Camaldoli
John di Taizé
Roger di Taizé
Comunità del Pane
Gruppo per il Kosovo
GAS Bassa V. Seriana
Segreteria Migranti
Associanimazione
Ass. Turismo Resp.
Ass. Libera
Medici senza frontiere
Comunità di Mamre
Famiglia Cristiana
Caritas Cremona
Caritas Europa
Maria Chiara di Gesù
Giovani ACLI
Gruppo “La strada”
Sostieni “L’incontro” con il tuo abbonamento
Per informazioni:
tel. 035.580422 fax 035.582356
e-mail: associazione@aeper.it
donemilio@aeper.it
incontro@aeper.it

Estrema importanza positiva possono avere
persone, gruppi, istituzioni
che si collochino consapevolmente
ai confini tra le comunità conviventi
e coltivino in tutti i modi
la conoscenza, il dialogo, la cooperazione:
sono mediatori,
costruttori di ponti,
saltatori di muri,
esploratori di frontiera …
Alex Langer
tratto da “Il viaggiatore leggero”