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Primo Levi<br />

I sommersi e i salvati<br />

Einaudi tascabili<br />

© 1986 e 1991 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino<br />

Prima edizione «Gli struzzi» 1986


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Il primo libro di Primo Levi, Se questo è un uomo, uscì nel 1947 in<br />

2.500 copie presso l’editore De Silva di Torino. Ebbe una buona<br />

accoglienza da parte della critica, e Italo Calvino lo definì sull’«Unità»:<br />

«Un magnifico libro, che non è solo una testimonianza efficacissima, ma<br />

ha pagine di autentica potenza narrativa». Ma la vendita andò a rilento, e<br />

l’alluvione di Firenze nel 1966 fece in tempo ad annegarne le ultime 600<br />

copie tenacemente resistenti in un deposito di libri invenduti. Intanto,<br />

però, l’editore Einaudi aveva ripubblicato nel 1957 Se questo è un uomo<br />

nella collana dei «Saggi», e, in quell’occasione, Arrigo Cacumi aveva<br />

definito Primo Levi su «La Stampa»: «pittore stupendo senz’ombra di<br />

retorica o di declamazione».<br />

«Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944»,<br />

si può leggere nella prefazione del 1947 a Se questo è un uomo, «e cioè<br />

dopo che il governo tedesco, causa la crescente scarsità di mano d’opera,<br />

aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi,<br />

concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo<br />

temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli. Perciò questo mio<br />

libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai<br />

noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di<br />

distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di<br />

accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni<br />

aspetti dell’animo umano...»<br />

Nonostante la difficoltosa partenza, Se questo è un uomo ha<br />

conosciuto un grande consenso di pubblico. Edizioni su edizioni<br />

italiane, traduzioni in otto o nove lingue, tedesco compreso,<br />

adattamenti per la radio e per il teatro in Italia e all’estero. Ma nel<br />

2


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

1986 Primo Levi ha voluto riprender l’argomento in questo I<br />

sommersi e i salvati pubblicato da Einaudi nella collana «Gli struzzi»,<br />

motivando la sua decisione con la solita appassionata e appassionante<br />

chiarezza. Proprio perché superstite, Primo Levi ha affermato di non<br />

considerarsi un testimone. Questa è la nozione scomoda di cui ha<br />

preso conoscenza negli anni passati dopo l’uscita di Se questo è un<br />

uomo, leggendo le memorie altrui e rileggendo le sue.<br />

I sopravvissuti sono una minoranza anomala oltre che esigua,<br />

quelli che per loro prevaricazione, abilità o fortuna, non hanno toccato<br />

il fondo: i salvati, insomma. Chi, il fondo, lo ha toccato davvero, i<br />

testimoni integrali, la cui deposizione avrebbe avuto significato<br />

generale, sono scomparsi: i sommersi, appunto. La regola è quella dei<br />

sommersi, quella dei salvati l’eccezione. E ai salvati spetta, quindi, il<br />

compito di raccontare e analizzare, oltre alla loro esperienza,<br />

l’esperienza degli altri, dei sommersi, sebbene sia un discorso in conto<br />

terzi e in chi racconta e analizza per delega non data diventi spesso<br />

persino troppo brutale la consapevolezza che i sommersi, anche se<br />

avessero avuto a disposizione carta e penna, non avrebbero<br />

ugualmente testimoniato, poiché la loro morte era cominciata prima di<br />

quella corporale.<br />

E chi racconta e analizza oggi ha un’altra consapevolezza,<br />

altrettanto, se non maggiormente, brutale:<br />

«L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager<br />

nazisti è estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più<br />

estranea si va facendo man mano che passano gli anni. Per i giovani<br />

degli anni Cinquanta e Sessanta erano cose dei loro padri; se ne<br />

parlava in famiglia, i ricordi conservavano ancora la freschezza delle<br />

cose viste. Per i giovani degli anni<br />

Ottanta, sono cose dei loro nonni: lontane, sfumate, “storiche”.<br />

Essi sono assillati dai problemi d’oggi, diversi, urgenti: la minaccia<br />

nucleare, l’esplosione demografica, le tecnologie che si rinnovano<br />

freneticamente e a cui occorre adattarci... » I sommersi e i salvati, un<br />

libro contro l’oblio, è uscito, come s’è detto, nel 1986. L’11 aprile<br />

1987 Primo Levi si è ucciso nella sua Torino, a sessantotto anni.<br />

3


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

I sommersi e i salvati<br />

Since then, at an uncertain hour,<br />

That agony returns:<br />

And till my ghastly tale is told<br />

This heart within me burns.<br />

S.T. Coleridge,<br />

The Rime o! the Ancien tMariner,<br />

vv. 582-85.<br />

4


Prefazione<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Le prime notizie sui campi d’annientamento nazisti hanno<br />

cominciato a diffondersi nell’anno cruciale 1942. Erano notizie vaghe,<br />

tuttavia fra loro concordi: delineavano una strage di proporzioni così<br />

vaste, di una crudeltà così spinta, di motivazioni così intricate, che il<br />

pubblico tendeva a rifiutarle per la loro stessa enormità. È significativo<br />

come questo rifiuto fosse stato previsto con ampio anticipo<br />

dagli stessi colpevoli; molti sopravvissuti (tra gli altri, Simon<br />

Wiesenthal nelle ultime pagine di Gli assassini sono fra noi, Garzanti,<br />

Milano 1970) ricordano che i militi delle SS si divertivano ad ammonire<br />

cinicamente i prigionieri: «In qualunque modo questa guerra finisca, la<br />

guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per<br />

portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non<br />

gli crederà. Forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma<br />

non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove insieme con<br />

voi. E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi<br />

sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo<br />

mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della<br />

propaganda alleata, e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi.<br />

La storia dei Lager, saremo noi a dettarla».<br />

Curiosamente, questo stesso pensiero (« se anche raccontassimo,<br />

non saremmo creduti») affiorava in forma di sogno notturno dalla<br />

disperazione dei prigionieri. Quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro<br />

memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di<br />

prigionia, vario nei particolari ma unico nella sostanza: di essere<br />

tornati a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze<br />

5


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

passate rivolgendosi ad una persona cara, e di non essere creduti, anzi,<br />

neppure ascoltati. Nella forma più tipica (e più crudele), l’interlocutore<br />

si voltava e se ne andava in silenzio. É questo un tema su cui<br />

ritorneremo, ma fin da adesso è importante sottolineare come<br />

entrambe le parti, le vittime e gli oppressori, avessero viva la<br />

consapevolezza dell’enormità, e quindi della non credibilità, di quanto<br />

avveniva nei Lager: e, possiamo aggiungere qui, non solo nei Lager,<br />

ma nei ghetti, nelle retrovie del fronte orientale, nelle stazioni di<br />

polizia, negli asili per i minorati mentali.<br />

Fortunatamente le cose non sono andate come le vittime<br />

temevano e come i nazisti speravano. Anche la più perfetta delle<br />

organizzazioni presenta lacune, e la Germania di Hitler, soprattutto<br />

negli ultimi mesi prima del crollo, era lontana dall’essere una<br />

macchina perfetta. Molte delle prove materiali degli stermini di massa<br />

furono soppresse, o si cercò più o meno abilmente di sopprimerle:<br />

nell’autunno del 1944 i nazisti fecero saltare le camere a gas e i<br />

crematori di Auschwitz, ma le rovine ci sono ancora, e a dispetto delle<br />

contorsioni degli epigoni è difficile giustificarne la funzione<br />

ricorrendo ad ipotesi fantasiose. Il ghetto di Varsavia, dopo la famosa<br />

insurrezione della primavera del 1943, fu raso al suolo, ma la cura<br />

sovrumana di alcuni combattenti-storici (storici di se stessi!) fece si<br />

che, tra le macerie spesse molti metri, o contrabbandata al di là del<br />

muro, altri storici ritrovassero la testimonianza di come, giorno per<br />

giorno, quel ghetto sia vissuto e sia morto. Tutti gli archivi dei Lager<br />

sono stati bruciati negli ultimi giorni di guerra, e questa è stata<br />

veramente una perdita irrimediabile, tanto che ancora oggi si discute<br />

se le vittime siano state quattro o sei od otto milioni: ma sempre di<br />

milioni si parla. Prima che i nazisti facessero ricorso ai giganteschi<br />

crematori multipli, gli innumerevoli cadaveri stessi delle vittime,<br />

uccise deliberatamente o consumate dagli stenti e dalle malattie,<br />

potevano costituire una prova, e dovevano essere fatti sparire in<br />

qualche modo. La prima soluzione, macabra al punto da fare esitare a<br />

parlarne, era stata quella di accatastare semplicemente i corpi,<br />

centinaia di migliaia di corpi, in grandi fosse comuni, il che fu fatto<br />

segnatamente a Treblinka, in altri Lager minori, e nelle retrovie russe.<br />

6


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Era una soluzione provvisoria, presa con bestiale noncuranza quando<br />

le armate tedesche trionfavano su tutti i fronti e la vittoria finale<br />

sembrava certa: dopo si sarebbe visto che cosa fare, in ogni modo il<br />

vincitore è padrone anche della verità, la può manipolare come gli<br />

pare, in qualche modo le fosse comuni sarebbero state giustificate, o<br />

fatte sparire, o attribuite ai sovietici (che del resto dimostrarono a<br />

Katyn di non essere molto da meno). Ma dopo la svolta di Stalingrado<br />

ci fu un ripensamento: meglio cancellare subito tutto. Gli stessi<br />

prigionieri furono costretti a disseppellire quei resti miserandi ed a<br />

bruciarli su roghi all’aperto, come se un’operazione di queste<br />

proporzioni, e così inconsueta, potesse passare totalmente inosservata.<br />

I comandi SS ed i servizi di sicurezza posero poi la massima cura<br />

affinché nessun testimone sopravvivesse. È questo il senso (difficilmente<br />

se ne potrebbe escogitare un altro) dei trasferimenti micidiali,<br />

ed apparentemente folli, con cui si è chiusa la storia dei campi nazisti<br />

nei primi mesi del 1945: i superstiti di Majdanek ad Auschwitz, quelli<br />

di Auschwitz a Buchenwald ed a Mauthausen, quelli di Buchenwald a<br />

Bergen Belsen, le donne di Ravensbrück verso Schwerin. Tutti<br />

insomma dovevano essere sottratti alla liberazione, rideportati verso il<br />

cuore della Germania invasa da est e da ovest; non aveva importanza<br />

che morissero per via, importava che non raccontassero. Infatti, dopo<br />

aver funzionato come centri di terrore politico, poi come fabbriche<br />

della morte, e successivamente (o contemporaneamente) come sterminato<br />

serbatoio di mano d’opera schiava sempre rinnovata, i Lager<br />

erano diventati pericolosi per la Germania moribonda perché<br />

contenevano il segreto dei Lager stessi, il massimo crimine nella storia<br />

dell’umanità. L’esercito di larve che ancora vi vegetava era costituito<br />

da Geheimnistrdger, portatori di segreti, di cui era necessario liberarsi;<br />

distrutti ormai gli impianti di sterminio, a loro volta eloquenti, si<br />

scelse la via di trasferirli verso l’interno, nella speranza assurda di<br />

poterli ancora rinchiudere in Lager meno minacciati dai fronti<br />

avanzanti, e di sfruttarne le ultime capacità lavorative, e nell’altra<br />

speranza meno assurda che il tormento di quelle bibliche marce ne<br />

riducesse il numero. Ed infatti il numero fu spaventosamente ridotto,<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

ma qualcuno ha pure avuto la fortuna e la forza di sopravvivere, ed è<br />

rimasto per testimoniare.<br />

É meno noto e meno studiato il fatto che molti portatori di segreti<br />

si trovavano anche dall’altra parte, dalla parte degli oppressori, benché<br />

molti sapessero poco, e pochi sapessero tutto. Nessuno riuscirà mai a<br />

stabilire con precisione quanti, nell’apparato nazista, non potessero non<br />

sapere delle spaventose atrocità che venivano commesse; quanti<br />

sapessero qualcosa, ma fossero in grado di fingere d’ignorare; quanti<br />

ancora avessero avuto la possibilità di sapere tutto, ma abbiano scelto la<br />

via più prudente di tenere occhi ed orecchi (e soprattutto la bocca) ben<br />

chiusi. Comunque sia, poiché non si può supporre che la maggioranza<br />

dei tedeschi accettasse a cuor leggero la strage, è certo che la mancata<br />

diffusione della verità sui Lager costituisce una delle maggiori colpe<br />

collettive del popolo tedesco, e la più aperta dimostrazione della viltà a<br />

cui il terrore hitleriano lo aveva ridotto: una viltà entrata nel costume, e<br />

così profonda da trattenere i mariti dal raccontare alle mogli, i genitori<br />

ai figli; senza la quale, ai maggiori eccessi non si sarebbe giunti, e l’Europa<br />

ed il mondo oggi sarebbero diversi.<br />

Senza dubbio, coloro che conoscevano l’orribile verità per<br />

esserne (o esserne stati) responsabili avevano forti ragioni per tacere;<br />

ma, in quanto depositari del segreto, anche tacendo non avevano<br />

sempre la vita sicura. Lo dimostra il caso di Stangl e degli altri<br />

macellai di Treblinka, che dopo l’insurrezione e lo smantellamento di<br />

quel Lager furono trasferiti in una delle zone partigiane più pericolose.<br />

L’ignoranza voluta e la paura hanno fatto tacere anche molti<br />

potenziali testimoni «civili» delle infamie dei Lager. Specialmente negli<br />

ultimi anni di guerra, i Lager costituivano un sistema esteso, complesso, e<br />

profondamente compenetrato con la vita quotidiana del paese; si è parlato<br />

con ragione di «univers concentrationnaire», ma non era un universo<br />

chiuso. Società industriali grandi e piccole, aziende agricole, fabbriche<br />

di armamenti, traevano profitto dalla mano d’opera pressoché gratuita<br />

fornita dai campi. Alcune sfruttavano i prigionieri senza pietà,<br />

accettando il principio disumano (ed anche stupido) delle SS, secondo<br />

cui un prigioniero ne valeva un altro, e se moriva di fatica poteva<br />

essere immediatamente sostituito; altre, poche, cercavano cautamente<br />

8


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

di alleviarne le pene. Altre industrie, o magari le stesse, ricavavano<br />

profitti dalle forniture ai Lager medesimi: legname, materiali per<br />

costruzione, il tessuto per l’uniforme a righe dei prigionieri, i vegetali<br />

essiccati per la zuppa, eccetera. Gli stessi forni crematori multipli<br />

erano stati progettati, costruiti, montati e collaudati da una ditta tedesca,<br />

la Topf di Wiesbaden (era tuttora attiva fin verso il 1975:<br />

costruiva crematori per uso civile, e non aveva ritenuto opportuno<br />

apportare mutamenti alla sua ragione sociale). É difficile pensare che<br />

il personale di queste imprese non si rendesse conto del significato<br />

espresso dalla qualità o dalla quantità delle merci e degli impianti che<br />

venivano commissionati dai comandi SS. Lo stesso discorso si può<br />

fare, ed è stato fatto, per quanto riguarda la fornitura del veleno che fu<br />

impiegato nelle camere a gas di Auschwitz: il prodotto,<br />

sostanzialmente acido cianidrico, era usato già da molti anni per la<br />

disinfestazione delle stive, ma il brusco aumento delle ordinazioni a<br />

partire dal 1942 non poteva passare inosservato. Doveva far nascere<br />

dubbi, e certamente li fece nascere, ma essi furono soffocati dalla<br />

paura, dal desiderio di guadagno, dalla cecità e stupidità volontaria a<br />

cui abbiamo accennato, ed in alcuni casi (proba-bilmente pochi) dalla<br />

fanatica obbedienza nazista.<br />

È naturale ed ovvio che il materiale più consistente per la<br />

ricostruzione della verità sui campi sia costituito dalle memorie dei<br />

superstiti. Al di là della pietà e dell’indignazione che suscitano, esse<br />

vanno lette con occhio critico. Per una conoscenza dei Lager, i Lager<br />

stessi non erano sempre un buon osservatorio: nelle condizioni disumane<br />

a cui erano assoggettati, era raro che i prigionieri potessero<br />

acquisire una visione d’insieme del loro universo. Poteva accadere,<br />

soprattutto per coloro che non capivano il tedesco, che i prigionieri<br />

non sapessero neppure in quale punto d’Europa si trovasse il Lager in<br />

cui stavano, ed in cui erano arrivati dopo un viaggio massacrante e<br />

tortuoso in vagoni sigillati. Non conoscevano l’esistenza di altri<br />

Lager, magari a pochi chilometri di distanza. Non sapevano per chi<br />

lavoravano. Non comprendevano il significato di certi improvvisi<br />

mutamenti di condi-zione e dei trasferimenti in massa. Circondato<br />

dalla morte, spesso il depor-tato non era in grado di valutare la misura<br />

9


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

della strage che si svolgeva sotto i suoi occhi. Il compagno che oggi<br />

aveva lavorato al suo fianco, domani non c’era più: poteva essere nella<br />

baracca accanto, o cancellato dal mondo; non c’era modo di saperlo.<br />

Si sentiva insomma dominato da un enorme edificio di violenza e di<br />

minaccia, ma non poteva costruirsene una rappresentazione perché i<br />

suoi occhi erano legati al suolo dal bisogno di tutti i minuti.<br />

Da questa carenza sono state condizionate le testimonianze,<br />

verbali o scritte, dei prigionieri «normali», dei non privilegiati, di<br />

quelli cioè che costituivano il nerbo dei campi, e che sono scampati<br />

alla morte solo per una combinazione di eventi improbabili. Erano<br />

maggioranza in Lager, ma esigua minoranza tra i sopravvissuti: fra<br />

questi, sono molto più numerosi coloro che in prigionia hanno fruito<br />

di un qualche privilegio. A distanza di anni, si può oggi bene<br />

affermare che la storia dei Lager è stata scritta quasi esclusivamente<br />

da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo. Chi lo ha fatto<br />

non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione era paralizzata<br />

dalla sofferenza e dall’incomprensione.<br />

D’altra parte, i testimoni «privilegiati» disponevano di un<br />

osservatorio certamente migliore, se non altro perché era situato più in<br />

alto, e quindi dominava un orizzonte più esteso; però era anche falsato<br />

in maggiore o minor misura dal privilegio medesimo. Il discorso sul<br />

privilegio (non solo in Lager!) è delicato, e cercherò di svolgerlo più<br />

oltre con la massima obiettività consentita: accennerò qui solo al fatto<br />

che i privilegiati per eccellenza, coloro cioè che si sono acquistato il<br />

privilegio asservendosi all’autorità del campo, non hanno testimoniato<br />

affatto, per ovvi motivi, oppure hanno lasciato testimonianze lacunose<br />

o distorte o totalmente false. I migliori storici dei Lager sono dunque<br />

emersi fra i pochissimi che hanno avuto l’abilità e la fortuna di<br />

raggiungere un osservatorio privilegiato senza piegarsi a compromessi,<br />

e la capacità di raccontare quanto hanno visto, sofferto e fatto<br />

con l’umiltà del buon cronista, ossia tenendo conto della complessità<br />

del fenomeno Lager, e della varietà dei destini umani che vi si<br />

svolgevano. Era nella logica delle cose che questi storici fossero quasi<br />

tutti prigionieri politici: e ciò perché i Lager erano un fenomeno<br />

politico; perché i politici, molto più degli ebrei e dei criminali (erano<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

queste, come è noto, le tre categorie principali di prigionieri),<br />

potevano disporre di uno sfondo culturale che consentiva loro di<br />

interpretare i fatti a cui assistevano; perché, proprio in quanto ex<br />

combattenti, o tuttora combattenti antifascisti, si rendevano conto che<br />

una testimonianza era un atto di guerra contro il fascismo; perché<br />

avevano più facile accesso ai dati statistici; ed infine, perché spesso,<br />

oltre a rivestire in Lager cariche importanti, erano membri delle<br />

organizzazioni segrete di difesa. Almeno negli ultimi anni, le loro<br />

condizioni di vita erano tollerabili, tanto da permettere loro, ad<br />

esempio, di scrivere e conservare appunti; cosa che per gli ebrei non<br />

era pensabile, e che i criminali non avevano interesse a fare.<br />

Per tutti i motivi accennati qui, la verità sui Lager è venuta alla<br />

luce attraverso una strada lunga ed una porta stretta, e molti aspetti<br />

dell’universo concentrazionario non sono ancora stati approfonditi.<br />

Sono trascorsi ormai più di quarant’anni dalla liberazione dei Lager<br />

nazisti; questo rispettabile intervallo ha portato, ai fini della<br />

chiarificazione, ad effetti contrastanti, che cercherò di elencare.<br />

C’è stata, in primo luogo, la decantazione, processo desiderabile e<br />

normale, grazie al quale i fatti storici acquistano il loro chiaroscuro e la<br />

loro prospettiva solo a qualche decennio dalla loro conclusione. Alla<br />

fine della seconda guerra mondiale, i dati quantitativi sulle deportazioni<br />

e sui massacri nazisti, in Lager ed altrove, non erano acquisiti, né era<br />

facile intenderne la portata e la specificità. Solo da pochi anni si sta<br />

comprendendo che la strage nazista è stata tremendamente «esemplare»,<br />

e che, se altro di peggio non avverrà nei prossimi anni, essa sarà<br />

ricordata come il fatto centrale, come la macchia di questo secolo.<br />

Per contro, il trascorrere del tempo sta provocando altri effetti<br />

storicamente negativi. La maggior parte dei testimoni, di difesa e di<br />

accusa, sono ormai scomparsi, e quelli che rimangono, e che ancora<br />

(superando i loro rimorsi, o rispettivamente le loro ferite) acconsen-tono<br />

a testimoniare, dispongono di ricordi sempre più sfuocati e stilizzati;<br />

spesso, a loro insaputa, influenzati da notizie che essi hanno appreso più<br />

tardi, da letture o da racconti altrui. In alcuni casi, naturalmente, la<br />

11


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

smemoratezza è simulata, ma i molti anni trascorsi la rendono credibile,<br />

anche in giudizio: i «non so» o «non sapevo», detti oggi da molti<br />

tedeschi, non scandalizzano più, mentre scandalizzavano, o avrebbero<br />

dovuto scandalizzare, quando i fatti erano recenti.<br />

Di un’altra stilizzazione siamo responsabili noi stessi, noi reduci,<br />

o più precisamente quelli fra noi che hanno accettato di vivere la loro<br />

condizione di reduci nel modo più semplice e meno critico. Non è<br />

detto che le cerimonie e le celebrazioni, i monumenti e le bandiere,<br />

siano sempre e dappertutto da deplorare. Una certa dose di retorica è<br />

forse indispensabile affinché il ricordo duri. Che i sepolcri, «l’urne de’<br />

forti», accendano gli animi a egregie cose, o almeno conservino<br />

memoria delle imprese compiute, era vero ai tempi del Foscolo ed è<br />

vero ancor oggi; ma bisogna stare in guardia dalle semplificazioni<br />

eccessive. Ogni vittima è da piangere, ed ogni reduce è da aiutare e<br />

commiserare, ma non tutti i loro comportamenti sono da proporre ad<br />

esempio. L’interno dei Lager era un microcosmo intricato e<br />

stratificato; la «zona grigia» di cui parlerò più oltre, quella dei<br />

prigionieri che in qualche misura, magari a fin di bene, hanno<br />

collaborato con l’autorità, non era sottile, anzi costituiva un fenomeno<br />

di fondamentale importanza per lo storico, lo psicologo ed il<br />

sociologo. Non c’è prigioniero che non lo ricordi, e che non ricordi il<br />

suo stupore di allora: le prime minacce, i primi insulti, i primi colpi<br />

non venivano dalle SS, ma da altri prigionieri, da «colleghi», da quei<br />

misteriosi personaggi che pure vestivano la stessa tunica a zebra che<br />

loro, i nuovi arrivati, avevano appena indossata.<br />

Questo libro intende contribuire a chiarire alcuni aspetti del<br />

fenomeno Lager che ancora appaiono oscuri. Si propone anche un fine<br />

più ambizioso; vorrebbe rispondere alla domanda più urgente, alla<br />

domanda che angoscia tutti coloro che hanno avuto occasione di<br />

leggere i nostri racconti: quanto del mondo concentrazionario è morto<br />

e non ritornerà più, come la schiavitù ed il codice dei duelli? quanto è<br />

tornato o sta tornando? che cosa può fare ognuno di noi, perché in<br />

questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga<br />

vanificata?<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Non ho avuto intenzione, né sarei stato capace, di fare opera di<br />

storico, cioè di esaminare esaustivamente le fonti. Mi sono limitato<br />

quasi esclusivamente ai Lager nazionalsocialisti, perché solo di questi<br />

ho avuto esperienza diretta: ne ho avuto anche una copiosa esperienza<br />

indiretta, attraverso i libri letti, i racconti ascoltati, e gli incontri con i<br />

lettori dei miei primi due libri. Inoltre, fino al momento in cui scrivo, e<br />

nonostante l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, la vergogna dei Gulag,<br />

l’inutile e sanguinosa campagna del Vietnam, l’autogenocidio cambogiano,<br />

gli scomparsi in Argentina, e le molte guerre atroci e stupide<br />

a cui abbiamo in seguito assistito, il sistema concentrazionario nazista<br />

rimane tuttavia un unicum, sia come mole sia come qualità. In nessun<br />

altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e<br />

così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve<br />

tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di<br />

fanatismo e di crudeltà. Nessuno assolve i conquistadores spagnoli dei<br />

massacri da loro perpetrati in America per tutto il sedicesimo secolo.<br />

Pare che abbiano provocato la morte di almeno 60 milioni di indios;<br />

ma agivano in proprio, senza o contro le direttive del loro governo; e<br />

diluirono i loro misfatti, in verità assai poco «pianificati», su un arco<br />

di più di cento anni; e furono aiutati dalle epidemie che involontariamente<br />

si portarono dietro. Ed infine, non avevamo cercato di liberarcene,<br />

sentenziando che erano «cose di altri tempi»?<br />

13


I<br />

La memoria dell’offesa<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. E<br />

questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a<br />

chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda,<br />

o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono<br />

incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma<br />

spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando<br />

lineamenti estranei. Lo sanno bene i magistrati: non avviene quasi mai<br />

che due testimoni oculari dello stesso fatto lo descrivano allo stesso<br />

modo e con le stesse parole, anche se il fatto è recente, e se nessuno<br />

dei due ha un interesse personale a deformarlo. Questa scarsa<br />

affidabilità dei nostri ricordi sarà spiegata in modo soddisfacente solo<br />

quando sapremo in quale linguaggio, in quale alfabeto essi sono<br />

scritti, su quale materiale, con quale penna: a tutt’oggi, è questa una<br />

meta da cui siamo lontani. Si conoscono alcuni meccanismi che<br />

falsificano la memoria in condizioni particolari: i traumi, non solo<br />

quelli cerebrali; l’interferenza da parte di altri ricordi «concorrenziali»;<br />

stati abnormi della coscienza; repressioni; rimozioni. Tuttavia, anche<br />

in condizioni normali è all’opera una lenta degradazione, un<br />

offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui<br />

pochi ricordi resistono. É probabile che si possa riconoscere qui una<br />

delle grandi forze della natura, quella stessa che degrada l’ordine in<br />

disordine, la giovinezza in vecchiaia, e spegne la vita nella morte. É<br />

certo che l’esercizio (in questo caso, la frequente rievocazione)<br />

mantiene il ricordo fresco e vivo, allo stesso modo come si mantiene<br />

14


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

efficiente un muscolo che viene spesso esercitato; ma è anche vero<br />

che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di<br />

racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata<br />

dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al<br />

posto del ricordo greggio e cresce a sue spese.<br />

Intendo esaminare qui i ricordi di esperienze estreme, di offese<br />

subite o inflitte. In questo caso sono all’opera tutti o quasi i fattori che<br />

possono obliterare o deformare la registrazione mnemonica: il ricordo<br />

di un trauma, patito o inflitto, è esso stesso traumatico, perché richiamarlo<br />

duole o almeno disturba: chi è stato ferito tende a rimuovere il<br />

ricordo per non rinnovare il dolore; chi ha ferito ricaccia il ricordo nel<br />

profondo, per liberarsene, per alleggerire il suo senso di colpa.<br />

Qui, come in altri fenomeni, ci troviamo davanti ad una<br />

paradossale analogia tra vittima ed oppressore, e ci preme essere<br />

chiari: i due sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore, e solo lui,<br />

che l’ha approntata e che l’ha fatta scattare, e se ne soffre, è giusto che<br />

ne soffra; ed è iniquo che ne soffra la vittima, come invece ne soffre,<br />

anche a distanza di decenni. Ancora una volta si deve constatare, con<br />

lutto, che l’offesa è insanabile: si protrae nel tempo, e le Erinni, a cui<br />

bisogna pur credere, non travagliano solo il tormentatore (se pure lo<br />

travagliano, aiutate o no dalla punizione umana), ma perpetuano l’opera<br />

di questo negando la pace al tormentato. Non si leggono senza<br />

spavento le parole lasciate scritte da Jean Améry, il filosofo austriaco<br />

torturato dalla Gestapo perché attivo nella resistenza belga, e poi<br />

deportato ad Auschwitz perché ebreo:<br />

Chi è stato torturato rimane torturato. (...) Chi ha subito il tormento<br />

non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento<br />

non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo<br />

schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più.<br />

La tortura è stata per lui una interminabile morte: Améry, di cui<br />

riparlerò al capitolo sesto, si è ucciso nel 1978.<br />

Non vogliamo confusioni, freudismi spiccioli, morbosità,<br />

indulgenze. L’oppressore resta tale, e così la vittima: non sono<br />

intercambiabili, il primo è da punire e da esecrare (ma, se possibile, da<br />

15


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

capire), la seconda è da compiangere e da aiutare; ma entrambi,<br />

davanti all’indecenza del fatto che è stato irrevocabilmente commesso,<br />

hanno bisogno di rifugio e di difesa, e ne vanno istintivamente in<br />

cerca. Non tutti, ma i più; e spesso per tutta la loro vita.<br />

Disponiamo ormai di numerose confessioni, deposizioni,<br />

ammissioni da parte degli oppressori (non parlo solo dei<br />

nazionalsocialisti tedeschi, ma di tutti coloro che commettono delitti<br />

orrendi e multipli per obbedienza ad una disciplina): alcune rilasciate<br />

in giudizio, altre nel corso di interviste, altre ancora contenute in libri<br />

o memoriali. A mio parere, sono documenti di estrema importanza. In<br />

generale, interessano poco le descrizioni delle cose viste e degli atti<br />

compiuti: esse coincidono ampiamente con quanto è stato raccontato<br />

dalle vittime; assai raramente vengono contestate, sono passate in<br />

giudicato e fanno ormai parte della Storia. Spesso vengono date per<br />

note. Sono molto più importanti le motivazioni e le giustificazioni:<br />

perché lo hai fatto? Ti rendevi conto di commettere un delitto?<br />

Le risposte a queste due domande, o ad altre analoghe, sono<br />

molto simili fra loro, indipendentemente dalla personalità<br />

dell’interrogato, sia egli un professionista ambizioso ed intelligente<br />

come Speer, o un gelido fanatico come Eichmann, o un funzionario di<br />

vista corta come Stangl di Treblinka e Höss di Auschwitz, o un bruto<br />

ottuso come Boger e Kaduk inventori di torture. Espresse con<br />

formulazioni diverse, e con maggiore o minor protervia a seconda del<br />

livello mentale e culturale di chi parla, esse vengono a dire tutte<br />

sostanzialmente le stesse cose: l’ho fatto perché mi è stato comandato;<br />

altri (i miei superiori) hanno commesso azioni peggiori delle mie; data<br />

l’educazione che ho ricevuta, e l’ambiente in cui sono vissuto, non<br />

potevo fare altro; se non l’avessi fatto, l’avrebbe fatto con maggiore<br />

durezza un altro al mio posto. Per chi legge queste giustificazioni, il<br />

primo moto è di ribrezzo: costoro mentono, non possono credere di<br />

essere creduti, non possono non vedere lo squilibrio fra le loro scuse e<br />

la mole di dolore e di morte che essi hanno provocata. Mentono<br />

sapendo di mentire: sono in mala fede.<br />

Ora, chiunque abbia sufficiente esperienza delle cose umane sa<br />

che la distinzione (l’opposizione, direbbe un linguista) buona fede /<br />

16


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

mala fede è ottimistica ed illuministica, e lo è tanto più, ed a molto<br />

maggior ragione, se applicata a uomini come quelli appena nominati.<br />

Presuppone una chiarezza mentale che è di pochi, e che anche questi<br />

pochi perdono immediatamente quando, per qualsiasi motivo, la realtà<br />

passata o presente provoca in loro ansia o disagio. In queste<br />

condizioni c’è bensì chi mente consapevolmente falsificando a freddo<br />

la realtà stessa, ma sono più numerosi coloro che salpano le ancore, si<br />

allontanano, momentaneamente o per sempre, dai ricordi genuini, e si<br />

fabbricano una realtà di comodo. Il passato è loro di peso; provano<br />

ripugnanza per le cose fatte o subite, e tendono a sostituirle con altre.<br />

La sostituzione può incominciare in piena consapevolezza, con uno<br />

scenario inventato, mendace, restaurato, ma meno penoso di quello<br />

reale; ripetendone la descrizione, ad altri ma anche a se stessi, la<br />

distinzione fra vero e falso perde progressivamente i suoi contorni, e<br />

l’uomo finisce col credere pienamente al racconto che ha fatto così<br />

spesso e che ancora continua a fare, limandone e ritoccandone qua e là<br />

i dettagli meno credibili, o fra loro incongruenti, o incompatibili con il<br />

quadro degli eventi acquisiti: la mala fede iniziale è diventata buona<br />

fede. Il silenzioso trapasso dalla menzogna all’autoinganno è utile: chi<br />

mente in buona fede mente meglio, recita meglio la sua parte, viene<br />

creduto più facilmente dal giudice, dallo storico, dal lettore, dalla<br />

moglie, dai figli.<br />

Più si allontanano gli eventi, più si accresce e si perfeziona la<br />

costruzione della verità di comodo. Credo che solo attraverso questo<br />

meccanismo mentale si possano interpretare, ad esempio, le<br />

dichiarazioni fatte all’«Express» nel 1978 da Louis Darquier de<br />

Pellepoix, già commissario addetto alle questioni ebraiche presso il<br />

governo di Vichy intorno al 1942, e come tale responsabile in proprio<br />

della deportazione di 70.000 ebrei. Darquier nega tutto: le foto dei<br />

cumuli di cadaveri sono montaggi; le statistiche dei milioni di morti<br />

sono state fabbricate dagli ebrei, sempre avidi di pubblicità, di<br />

commiserazione e di indennizzi; le deportazioni ci saranno magari anche<br />

state (gli sarebbe stato difficile contestarle: la sua firma compare<br />

in calce a troppe lettere che dànno disposizioni per le deportazioni<br />

stesse, anche di bambini), ma lui non sapeva verso dove e con quale<br />

17


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

esito; ad Auschwitz le camere a gas c’erano sì, ma servivano solo per<br />

uccidere i pidocchi, e del resto (si noti la coerenza!) sono state<br />

costruite a scopo di propaganda dopo la fine della guerra. Non intendo<br />

giustificare quest’uomo vile e sciocco, e mi offende sapere che ha<br />

vissuto a lungo indisturbato in Spagna, ma mi pare di poter ravvisare<br />

in lui il caso tipico di chi, avvezzo a mentire pubblicamente, finisce<br />

col mentire anche in privato, anche a se stesso, e coll’edificarsi una<br />

verità confortevole che gli consente di vivere in pace. Tenere distinte<br />

la buona e la mala fede è costoso: richiede una profonda sincerità con<br />

sé stesso, esige uno sforzo continuo, intellettuale e morale. Come si<br />

può pretendere questo sforzo da uomini come Darquier?<br />

Se si leggono le dichiarazioni fatte da Eichmann durante il<br />

processo di Gerusalemme, e di Rudolf Höss (il penultimo comandante<br />

di Auschwitz, l’inventore delle camere ad acido cianidrico) nella sua<br />

autobiografia, vi si riconosce un processo di elaborazione del passato,<br />

più sottile di quello ora accennato. In sostanza, questi due si sono<br />

difesi nel modo classico dei gregari nazisti, o meglio di tutti i gregari:<br />

siamo stati educati all’obbedienza assoluta, alla gerarchia, al<br />

nazionalismo; siamo stati imbevuti di slogan, ubriacati di cerimonie e<br />

manifestazioni; ci hanno insegnato che la sola giustizia era ciò che<br />

giovava al nostro popolo, e la sola verità erano le parole del Capo.<br />

Che cosa volete da noi? Come potete pensare di pretendere da noi, a<br />

cose fatte, un comportamento diverso da quello che è stato il nostro, e<br />

di tutti quelli che erano come noi? Siamo stati diligenti esecutori, e per<br />

la nostra diligenza siamo stati lodati e promossi. Le decisioni non sono<br />

state nostre, perché il regime in cui siamo cresciuti non ci concedeva<br />

decisioni autonome: altri hanno deciso per noi, e non poteva avvenire<br />

altrimenti, perché eravamo stati amputati della capacità di decidere.<br />

Non solo decidere ci era stato vietato, ma ne eravamo diventati<br />

incapaci. Perciò non siamo responsabili e non possiamo essere puniti.<br />

Anche se proiettata sullo sfondo dei camini di Birkenau, questa<br />

argomentazione non può essere presa come frutto di pura impudenza.<br />

La pressione che un moderno Stato totalitario può esercitare<br />

sull’individuo è paurosa. Le sue armi sono sostanzialmente tre: la<br />

propaganda diretta, o camuffata da educazione, da istruzione, da cul-<br />

18


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

tura popolare; lo sbarramento opposto al pluralismo delle informazioni;<br />

il terrore. Tuttavia, non è lecito ammettere che questa<br />

pressione sia irresistibile, tanto meno nel breve termine dei dodici anni<br />

del Terzo Reich: nelle affermazioni e nelle discolpe di uomini dalle<br />

gravissime responsabilità, quali erano Höss e Eichmann, è palese l’esagerazione,<br />

ed ancor più la manomissione del ricordo. Entrambi<br />

erano nati ed erano stati educati molto prima che il Reich diventasse<br />

veramente «totalitario», e la loro adesione era stata una scelta, dettata<br />

più da opportunismo che da entusiasmo. La rielaborazione del loro<br />

passato è stata opera posteriore, lenta e (probabilmente) non metodica.<br />

Domandarsi se sia stata fatta in buona o in mala fede è ingenuo.<br />

Anche loro, così forti di fronte al dolore altrui, quando il destino li ha<br />

messi davanti ai giudici, davanti alla morte che hanno meritato, si<br />

sono costruiti un passato di comodo ed hanno finito per credervi: in<br />

special modo Höss, che non era un uomo sottile. Quale appare dal suo<br />

scritto, era anzi un personaggio talmente poco propenso<br />

all’autocontrollo ed all’introspezione che non si accorge di confermare<br />

il suo grossolano antisemitismo nell’atto stesso in cui lo rinnega e lo<br />

nega, e da non rendersi conto di quanto appaia viscido il suo<br />

autoritratto di buon funzionario, padre e marito.<br />

A commento di queste ricostruzioni del passato (ma non solo di<br />

queste: è un’osservazione che vale per tutte le memorie), si deve<br />

notare che la distorsione dei fatti è spesso limitata dall’obiettività dei<br />

fatti stessi, intorno ai quali esistono testimonianze di terzi, documenti,<br />

«corpi del reato», contesti storicamente acquisiti. É generalmente<br />

difficile negare di aver commesso una data azione, o che questa azione<br />

sia stata commessa; è invece facilissimo alterare le motivazioni che ci<br />

hanno condotto ad un’azione, e le passioni che in noi hanno<br />

accompagnato l’azione stessa. Questa è materia estremamente fluida,<br />

soggetta a deformarsi sotto forze anche molto deboli; alle domande<br />

«perché lo hai fatto?», o «cosa pensavi facendolo?», non esistono<br />

risposte attendibili, perché gli stati d’animo sono labili per natura, e<br />

ancora più labile è la loro memoria.<br />

Come caso limite della deformazione del ricordo di una colpa<br />

commessa, c’è la sua soppressione. Anche qui il confine tra buona e<br />

19


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

mala fede può essere vago; dietro i «non so» e i «non ricordo» che si<br />

sentono nei tribunali c’è talvolta il preciso proposito di mentire, ma<br />

altre volte si tratta di una menzogna fossilizzata, irrigidita in una<br />

formula. Il memore ha voluto diventare immemore e ci è riuscito: a<br />

furia di negarne l’esistenza, ha espulso da sé il ricordo nocivo come si<br />

espelle un’escrezione o un parassita. Gli avvocati difensori sanno bene<br />

che il vuoto di memoria, o la verità putativa, che essi suggeriscono ai<br />

loro difesi, tendono a diventare dimenticanze e verità effettive. Non<br />

occorre sconfinare nella patologia mentale per trovare esemplari<br />

umani le cui affermazioni ci lasciano perplessi: sono certamente false,<br />

ma non riusciamo a distinguere se il soggetto sa o non sa di mentire.<br />

Supponendo per assurdo che il mentitore diventi per un istante<br />

veridico, lui stesso non saprebbe rispondere al dilemma; nell’atto in<br />

cui mente è un attore totalmente fuso col suo personaggio, non è più<br />

discernibile da lui. Ne è un esempio vistoso, nei giorni in cui scrivo, il<br />

comportamento in tribunale del turco Alì Agca, l’attentatore di<br />

Giovanni Paolo II.<br />

Il modo migliore per difendersi dall’invasione di memorie pesanti<br />

è impedirne l’ingresso, stendere una barriera sanitaria lungo il confine.<br />

É più facile vietare l’ingresso a un ricordo che liberarsene dopo che è<br />

stato registrato. A questo, in sostanza, servivano molti degli artifizi<br />

escogitati dai comandi nazisti per proteggere le coscienze degli addetti<br />

ai lavori sporchi, e per assicurarsi i loro servizi, sgradevoli anche per<br />

gli scherani più induriti. Agli Einsaztkommandos, che nelle retrovie<br />

del fronte russo mitragliavano i civili sull’orlo delle fosse comuni che<br />

le vittime stesse erano costrette a scavare, veniva distribuito alcool a<br />

volontà, in modo che il massacro venisse velato dall’ubriachezza. I<br />

ben noti eufemismi («soluzione finale», «trattamento speciale», lo<br />

stesso termine «Einsatzkommando» appena citato, che significa letteralmente<br />

«Unità di pronto impiego», ma mascherava una realtà<br />

spaventosa) non servivano solo ad illudere le vittime ed a prevenirne<br />

le reazioni di difesa: valevano anche, nei limiti del possibile, ad<br />

impedire che l’opinione pubblica, e gli stessi reparti delle forze armate<br />

non direttamente implicati, venissero a conoscenza di quanto stava<br />

accadendo in tutti i territori occupati dal Terzo Reich.<br />

20


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Del resto, l’intera storia del breve «Reich Millenario» può essere<br />

riletta come guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della<br />

memoria, falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla<br />

fuga definitiva dalla realtà medesima. Tutte le biografie di Hitler, discordi<br />

sull’interpretazione da darsi alla vita di quest’uomo così<br />

difficile da classificare, concordano sulla fuga dalla realtà che ha<br />

segnato i suoi ultimi anni, soprattutto a partire dal primo inverno<br />

russo. Aveva proibito e negato ai suoi sudditi l’accesso alla verità,<br />

inquinando la loro morale e la loro memoria; ma, in misura via via<br />

crescente fino alla paranoia del Bunker, aveva sbarrato la via della<br />

verità anche a sé stesso. Come tutti i giocatori d’azzardo, si era<br />

costruito intorno uno scenario intessuto di menzogne superstiziose, in<br />

cui aveva finito col credere con la stessa fede fanatica che pretendeva<br />

da ogni tedesco. Il suo crollo non è stato soltanto una salvazione per il<br />

genere umano, ma anche una dimostrazione del prezzo che si paga<br />

quando si manomette la verità.<br />

Anche nel campo ben più vasto delle vittime si osserva una deriva<br />

della memoria, ma qui, evidentemente, manca il dolo. Chi riceve<br />

un’ingiustizia o un’offesa non ha bisogno di elaborare bugie per<br />

discolparsi di una colpa che non ha (anche se, per un paradossale<br />

meccanismo di cui diremo, può avvenire che ne provi vergogna); ma<br />

questo non esclude che anche i suoi ricordi possano essere alterati. E<br />

stato notato, ad esempio, che molti reduci da guerre o da altre<br />

esperienze complesse e traumatiche tendono a filtrare inconsapevolmente<br />

i loro ricordi: rievocandoli fra loro, o raccontandoli a terzi,<br />

preferiscono soffermarsi sulle tregue, sui momenti di respiro, sugli intermezzi<br />

grotteschi o strani o distesi, e sorvolare sugli episodi più<br />

dolorosi. Questi ultimi non vengono richiamati volentieri dal serbatoio<br />

della memoria, e perciò tendono ad annebbiarsi col tempo, a perdere i<br />

loro contorni. É psicologicamente credibile il comporta-mento del<br />

Conte Ugolino, che prova ritegno nel raccontare a Dante la sua morte<br />

tremenda, e si induce a farlo non per accondiscendenza, ma solo per<br />

vendetta postuma contro il suo eterno nemico. Quando diciamo «non lo<br />

21


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

dimenticherò mai» riferendoci a qualche evento che ci ha feriti profondamente,<br />

ma che non ha lasciato in noi o intorno a noi una traccia<br />

materiale o un’assenza permanente, siamo avventati: anche nella vita<br />

«civile», dimentichiamo volentieri i particolari di una malattia grave da<br />

cui siamo guariti, o di un’operazione chirurgica riuscita bene.<br />

A scopo di difesa, la realtà può essere distorta non solo nel<br />

ricordo, ma nell’atto stesso in cui si verifica. Per tutto l’anno della mia<br />

prigionia ad Auschwitz, ho avuto come amico fraterno Alberto D.: era<br />

un giovane robusto e coraggioso, chiaroveggente più della media, e<br />

perciò assai critico nei confronti dei molti che si fabbricavano, e si<br />

somministravano a vicenda, illusioni consolatorie («la guerra finirà fra<br />

due settimane», «non ci saranno più selezioni», «gli inglesi sono<br />

sbarcati in Grecia», «i partigiani polacchi stanno per liberare il<br />

campo», e così via: erano voci che correvano quasi ogni giorno,<br />

puntualmente smentite dalla realtà). Alberto era stato deportato insieme<br />

col padre quarantacinquenne. Nell’imminenza della grande<br />

selezione dell’ottobre 1944, Alberto ed io avevamo commentato il<br />

fatto con spavento, collera impotente, ribellione, rassegnazione, ma<br />

senza cercare rifugio nelle verità di conforto. Venne la selezione, il<br />

«vecchio» padre di Alberto fu scelto per il gas, ed Alberto cambiò, nel<br />

giro di poche ore. Aveva sentito voci che gli sembravano degne di<br />

fede: i russi erano vicini, i tedeschi non avrebbero più osato persistere<br />

nella strage, quella non era una selezione come le altre, non era per le<br />

camere a gas, era stata fatta per scegliere i prigionieri indeboliti ma<br />

recuperabili, come suo padre, appunto, che era molto stanco ma non<br />

ammalato; anzi, lui sapeva perfino dove li avrebbero mandati, a<br />

Jaworzno, non lontano, in un campo speciale per convalescenti adatti<br />

soltanto per lavori leggeri.<br />

Naturalmente il padre non fu più visto, ed Alberto stesso<br />

scomparve durante la marcia di evacuazione del campo, nel gennaio<br />

1945. Stranamente, senza sapere del comportamento di Alberto, anche<br />

i suoi parenti che erano rimasti nascosti in Italia sfuggendo alla<br />

cattura, si sono condotti come lui, rifiutando una verità insopportabile<br />

e costruendosene un’altra. Appena rimpatriato, ritenni doveroso<br />

andare subito alla città di Alberto, per riferire alla madre ed al fratello<br />

22


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

quanto sapevo. Fui accolto con cortesia affettuosa, ma appena ebbi<br />

cominciato il mio racconto la madre mi pregò di smettere: lei sapeva<br />

già tutto, almeno per quanto riguardava Alberto, ed era inutile che io<br />

le ripetessi le solite storie di orrore. Lei sapeva che il figlio, lui solo,<br />

era riuscito ad allontanarsi dalla colonna senza che le SS gli<br />

sparassero, si era nascosto nella foresta ed era in salvo nelle mani dei<br />

russi; non aveva ancora potuto mandare notizie, ma presto lo avrebbe<br />

fatto, lei ne era sicura; ed ora, che per favore io cambiassi argomento,<br />

e le raccontassi come io stesso ero sopravvissuto. Un anno dopo mi<br />

trovai per caso a passare per quella città, e visitai di nuovo la famiglia.<br />

La verità era leggermente cambiata: Alberto era in una clinica sovietica,<br />

stava bene, ma aveva perso la memoria, non ricordava più<br />

nemmeno il suo nome; però era in via di miglioramento e sarebbe<br />

ritornato presto, lei lo sapeva da fonte sicura.<br />

Alberto non è mai ritornato. Sono passati più di quarant’anni; non<br />

ho più avuto il coraggio di ripresentarmi, e di contrapporre la mia<br />

verità dolorosa alla «verità»consolatoria che, aiutandosi l’uno con<br />

l’altro, i parenti di Alberto si erano costruita.<br />

Un’apologia è d’obbligo. Questo stesso libro è intriso di<br />

memoria: per di più, di una memoria lontana. Attinge dunque ad una<br />

fonte sospetta, e deve essere difeso contro se stesso. Ecco: contiene<br />

più considerazioni che ricordi, si sofferma più volentieri sullo stato<br />

delle cose qual è oggi che non sulla cronaca retroattiva. Inoltre, i dati<br />

che contiene sono fortemente sostanziati dall’imponente letteratura<br />

che sul tema dell’uomo sommerso (o «salvato») si è andata formando,<br />

anche con la collaborazione, volontaria o no, dei colpevoli di allora;<br />

ed in questo corpus le concordanze sono abbondanti, le discordanze<br />

trascurabili. Quanto ai miei ricordi personali, ed ai pochi aneddoti<br />

inediti che ho citati e citerò, li ho vagliati tutti con diligenza: il tempo<br />

li ha un po’ scoloriti, ma sono in buona consonanza con lo sfondo, e<br />

mi sembrano indenni dalle derive che ho descritte.<br />

23


II<br />

La zona grigia<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la<br />

nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per «comprendere»<br />

coincide con «semplificare»: senza una profonda semplificazione, il mondo<br />

intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la<br />

nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma<br />

costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili<br />

strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell’evoluzione e che sono<br />

specifici del genere umano, il linguaggio ed il pensiero concettuale.<br />

Tendiamo a semplificare anche la storia; ma non sempre lo schema<br />

entro cui si ordinano i fatti è individuabile in modo univoco, e può dunque<br />

accadere che storici diversi comprendano e costruiscano la storia in modi fra<br />

loro incompatibili; tuttavia, è talmente forte in noi, forse per ragioni che<br />

risalgono alle nostre origini di animali sociali, l’esigenza di dividere il<br />

campo fra «noi» e «loro», che questo schema, la bipartizione amico-nemico,<br />

prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia quale viene<br />

tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea<br />

che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume<br />

degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli<br />

ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi. Certo è questo il motivo<br />

dell’enorme popolarità degli sport spettacolari, come il calcio, il baseball e il<br />

pugilato, in cui i contendenti sono due squadre o due individui, ben distinti e<br />

identificabili, e alla fine della partita ci saranno gli sconfitti e i vincitori. Se il<br />

risultato è di parità, lo spettatore si sente defraudato e deluso: a livello più o<br />

meno inconscio, voleva i vincitori ed i perdenti, e li identificava<br />

24


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

rispettivamente con i buoni e i cattivi, poiché sono i buoni che devono avere<br />

la meglio, se no il mondo sarebbe sovvertito.<br />

Questo desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione<br />

non sempre lo è. É un’ipotesi di lavoro, utile in quanto sia riconosciuta come<br />

tale e non scambiata per la realtà; la maggior parte dei fenomeni storici e<br />

naturali non sono semplici, o non semplici della semplicità che piacerebbe a<br />

noi. Ora, non era semplice la rete dei rapporti umani all’interno dei Lager:<br />

non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori. In chi legge<br />

(o scrive) oggi la storia dei Lager è evidente la tendenza, anzi il bisogno, di<br />

dividere il male dal bene, di poter parteggiare, di ripetere il gesto di Cristo<br />

nel Giudizio Universale: qui i giusti, là i reprobi. Soprattutto i giovani<br />

chiedono chiarezza, il taglio netto; essendo scarsa la loro esperienza del<br />

mondo, essi non amano l’ambiguità. La loro aspettazione, del resto,<br />

riproduce con esattezza quella dei nuovi arrivati in Lager, giovani o no: tutti,<br />

ad eccezione di chi avesse già attraversato un’esperienza analoga, si<br />

aspettavano di trovare un mondo terribile ma decifrabile, conforme a quel<br />

modello semplice che atavicamente portiamo in noi, «noi» dentro e il nemico<br />

fuori, separati da un confine netto, geografico.<br />

L’ingresso in Lager era invece un urto per la sorpresa che portava con<br />

sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche<br />

indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma<br />

anche dentro, il «noi» perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due,<br />

non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una<br />

fra ciascuno e ciascuno. Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei<br />

compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano;<br />

c’erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata,<br />

nascosta e continua. Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle<br />

prime ore di prigionia, spesso sotto la forma immediata di<br />

un’aggressione concentrica da parte di coloro in cui si sperava di<br />

ravvisare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare subito la<br />

capacità di resistere. Per molti è stata mortale, indirettamente o anche<br />

direttamente: è difficile difendersi da un colpo a cui non si è preparati.<br />

In questa aggressione si possono distinguere diversi aspetti.<br />

Occorre ricordare che il sistema concentrazionario, fin dalle sue<br />

origini (che coincidono con la salita al potere del nazismo in<br />

25


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Germania), aveva lo scopo primario di spezzare la capacità di<br />

resistenza degli avversari: per la direzione del campo, il nuovo giunto<br />

era un avversario per definizione, qualunque fosse l’etichetta che gli<br />

era stata affibbiata, e doveva essere demolito subito, affinché non<br />

diventasse un esempio, o un germe di resistenza organizzata. Su<br />

questo punto le SS avevano le idee chiare, e sotto questo aspetto è da<br />

interpretare tutto il sinistro rituale, diverso da Lager a Lager, ma unico<br />

nella sostanza, che accompagnava l’ingresso; i calci e i pugni subito,<br />

spesso sul viso; l’orgia di ordini urlati con collera vera o simulata; la<br />

denudazione totale; la rasatura dei capelli; la vestizione con stracci. É<br />

difficile dire se tutti questi particolari siano stati messi a punto da<br />

qualche esperto o perfezionati metodicamente in base all’esperienza,<br />

ma certo erano voluti e non casuali: una regia c’era, ed era vistosa.<br />

Tuttavia, al rituale d’ingresso, ed al crollo morale che esso favoriva,<br />

contribuivano più meno consapevolmente anche le altre componenti del<br />

mondo concentrazionario: i prigionieri semplici ed i privilegiati.<br />

Accadeva di rado che il nuovo venuto fosse accolto, non dico come un<br />

amico, ma almeno come un compagno di sventura; nella maggior parte<br />

dei casi, gli anziani (e si diventava anziani in tre o quattro mesi: il<br />

ricambio era rapido!) manifestavano fastidio o addirittura ostilità. Il<br />

«nuovo» (Zugang: si noti, in tedesco è un termine astratto, amministrativo;<br />

significa «ingresso», «entrata») veniva invidiato perché<br />

sembrava che avesse ancora indosso l’odore di casa sua, ed era un’invidia<br />

assurda, perché in effetti si soffriva assai di più nei primi giorni di<br />

prigionia che dopo, quando l’assuefazione da una parte, e l’esperienza<br />

dall’altra, permettevano di costruirsi un riparo. Veniva deriso e sottoposto<br />

a scherzi crudeli, come avviene in tutte le comunità con i «coscritti» e le<br />

«matricole», e con le cerimonie di iniziazione presso i popoli primitivi: e<br />

non c’è dubbio che la vita in Lager comportava una regressione,<br />

riconduceva a comportamenti, appunto, primitivi.<br />

E probabile che l’ostilità verso lo Zugang fosse in sostanza<br />

motivata come tutte le altre intolleranze, cioè consistesse in un<br />

tentativo inconscio di consolidare il «noi» a spese degli «altri», di<br />

creare insomma quella solidarietà fra oppressi la cui mancanza era<br />

fonte di una sofferenza addizionale, anche se non percepita aperta-<br />

26


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

mente. Entrava in gioco anche la ricerca del prestigio, che nella nostra<br />

civiltà sembra sia un bisogno insopprimibile: la folla disprezzata degli<br />

anziani tendeva a ravvisare nel nuovo arrivato un bersaglio su cui<br />

sfogare la sua umiliazione, a trovare a sue spese un compenso, a costruirsi<br />

a sue spese un individuo di rango più basso su cui riversare il<br />

peso delle offese ricevute dall’alto.<br />

Per quanto riguarda i prigionieri privilegiati, il discorso è più<br />

complesso, ed anche più importante: a mio parere, è anzi<br />

fondamentale. É ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un<br />

sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime:<br />

al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto<br />

più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o<br />

morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo<br />

spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai<br />

persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno<br />

torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una<br />

retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è<br />

mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due<br />

qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo<br />

conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre<br />

anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o<br />

se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un<br />

grande stabilimento industriale.<br />

I prigionieri privilegiati erano in minoranza entro la popolazione<br />

dei Lager, ma rappresentano invece una forte maggioranza fra i<br />

sopravvissuti; infatti, anche se non si tenga conto della fatica, delle<br />

percosse, del freddo, delle malattie, va ricordato che la razione<br />

alimentare era decisamente insufficiente anche per il prigioniero più<br />

sobrio: consumate in due o tre mesi le riserve fisiologiche<br />

dell’organismo, la morte per fame, o per malattie indotte dalla fame,<br />

era il destino normale del prigioniero. Poteva essere evitato solo con<br />

un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva un privilegio,<br />

grande o piccolo; in altre parole, un modo, octroyé o conquistato,<br />

astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma.<br />

27


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Ora, non si può dimenticare che la maggior parte dei ricordi dei<br />

reduci, raccontati o scritti, incomincia così: l’urto contro la realtà<br />

concentrazionaria coincide con l’aggressione, non prevista e non<br />

compresa, da parte di un nemico nuovo e strano, il prigionierofunzionario,<br />

che invece di prenderti per mano, tranquillizzarti, insegnarti<br />

la strada, ti si avventa addosso urlando in una lingua che tu non<br />

conosci, e ti percuote sul viso. Ti vuole domare, vuole spegnere in te<br />

la scintilla di dignità che tu forse ancora conservi e che lui ha perduta.<br />

Ma guai a te se questa tua dignità ti spinge a reagire: questa è una legge<br />

non scritta ma ferrea, il zurückschlagen, il rispondere coi colpi ai<br />

colpi, è una trasgressione intollerabile, che può venire in mente<br />

appunto solo a un «nuovo». Chi la commette deve diventare un<br />

esempio: altri funzionari accorrono a difesa dell’ordine minacciato, e<br />

il colpevole viene percosso con rabbia e metodo finché è domato o<br />

morto. Il privilegio, per definizione, difende e protegge il privilegio.<br />

Mi torna a mente che il termine locale, jiddisch e polacco, per indicare<br />

il privilegio era «protekcja», che si pronuncia «protekzia» ed è di<br />

evidente origine italiana e latina; e mi è stata raccontata la storia di un<br />

«nuovo» italiano, un partigiano, scaraventato in un Lager di lavoro con<br />

l’etichetta di prigioniero politico quando era ancora nel pieno delle sue<br />

forze. Era stato malmenato durante la distribuzione della zuppa, ed<br />

aveva osato dare uno spintone al funzionario-distributore: accorsero i<br />

colleghi di questo, e il reo venne affogato esemplarmente immergendogli<br />

la testa nel mastello della zuppa stessa.<br />

L’ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le<br />

convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi<br />

sono assenti solo nelle utopie. É compito dell’uomo giusto fare guerra<br />

ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che<br />

questa è una guerra senza fine. Dove esiste un potere esercitato da<br />

pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera,<br />

anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere,<br />

invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche<br />

nella sua versione sovietica) può ben servire da «laboratorio»: la<br />

classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura, ed<br />

insieme il lineamento più inquietante. É una zona grigia, dai contorni<br />

28


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e<br />

dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed<br />

alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.<br />

La zona grigia della «protekcja» e della collaborazione nasce da<br />

radici molteplici. In primo luogo, l’area del potere, quanto più è<br />

ristretta, tanto più ha bisogno di ausiliari esterni; il nazismo degli<br />

ultimi anni non ne poteva fare a meno, risoluto com’era a mantenere il<br />

suo ordine all’interno dell’Europa sottomessa, e ad alimentare i fronti<br />

di guerra dissanguati dalla crescente resistenza militare degli<br />

avversari. Era indispensabile attingere dai paesi occupati non solo<br />

mano d’opera, ma anche forze d’ordine, delegati ed amministratori del<br />

potere tedesco ormai impegnato altrove fino all’esaurimento. Entro<br />

quest’area vanno catalogati, con sfumature diverse per qualità e peso,<br />

Quisling di Norvegia, il governo di Vichy in Francia, il Judenrat di<br />

Varsavia, la Repubblica di Salò, fino ai mercenari ucraini e baltici<br />

impiegati dappertutto per i compiti più sporchi (mai per il<br />

combattimento), ed ai Sonderkommandos di cui dovremo parlare. Ma<br />

i collaboratori che provengono dal campo avversario, gli ex nemici,<br />

sono infidi per essenza: hanno tradito una volta e possono tradire<br />

ancora. Non basta relegarli in compiti marginali; il modo migliore di<br />

legarli è caricarli di colpe, insanguinarli, comprometterli quanto più è<br />

possibile: così avranno contratto coi mandanti il vincolo della correità,<br />

e non potranno più tornare indietro. Questo modo di agire è noto alle<br />

associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre<br />

dalla mafia, e tra l’altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti<br />

indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni ‘70.<br />

In secondo luogo, ed a contrasto con una certa stilizzazione<br />

agiografica e retorica, quanto più è dura l’oppressione, tanto più è<br />

diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere. Anche<br />

questa disponibilità è variegata da infinite sfumature e motivazioni:<br />

terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore,<br />

voglia miope di un qualsiasi potere, anche ridicolmente circoscritto<br />

nello spazio e nel tempo, viltà, fino a lucido calcolo inteso a eludere<br />

gli ordini e l’ordine imposto. Tutti questi motivi, singolarmente o fra<br />

29


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

loro combinati, sono stati operanti nel dare origine a questa fascia<br />

grigia, i cui componenti, nei confronti dei non privilegiati, erano<br />

accomunati dalla volontà di conservare e consolidare il loro privilegio.<br />

Prima di discutere partitamente i motivi che hanno spinto alcuni<br />

prigionieri a collaborare in varia misura con l’autorità dei Lager,<br />

occorre però affermare con forza che davanti a casi umani come questi<br />

è imprudente precipitarsi ad emettere un giudizio morale. Deve essere<br />

chiaro che la massima colpa pesa sul sistema, sulla struttura stessa<br />

dello Stato totalitario; il concorso alla colpa da parte dei singoli<br />

collaboratori grandi e piccoli (mai simpatici, mai trasparenti!) è<br />

sempre difficile da valutare. É un giudizio che vorremmo affidare<br />

soltanto a chi si è trovato in circostanze simili, ed ha avuto modo di<br />

verificare su se stesso che cosa significa agire in stato di costrizione.<br />

Lo sapeva bene il Manzoni: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro<br />

che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male<br />

che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo<br />

degli offesi». La condizione di offeso non esclude la colpa, e spesso<br />

questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui<br />

delegarne la misura.<br />

Se dipendesse da me, se fossi costretto a giudicare, assolverei a<br />

cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato<br />

minimo, e su cui la costrizione è stata massima. Intorno a noi,<br />

prigionieri senza gradi, brulicavano i funzionari di basso rango.<br />

Costituivano una fauna pittoresca: scopini, lava-marmitte, guardie<br />

notturne, stiratori dei letti (che sfruttavano a loro minuscolo vantaggio<br />

la fisima tedesca delle cuccette rifatte piane e squadrate), controllori di<br />

pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti. In<br />

generale, erano poveri diavoli come noi, che lavoravano a pieno orario<br />

come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in più si<br />

adattavano a svolgere queste ed altre funzioni « terziarie»: innocue,<br />

talvolta utili, spesso inventate dal nulla. Raramente erano violenti, ma<br />

tendevano a sviluppare una mentalità tipicamente corporativa, ed a<br />

difendere con energia il loro «posto di lavoro» contro chi, dal basso o<br />

dall’alto, glie lo insidiava. Il loro privilegio, che del resto comportava<br />

disagi e fatiche supplementari, fruttava loro poco, e non li sottraeva<br />

30


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

alla disciplina ed alle sofferenze degli altri; la loro speranza di vita era<br />

sostanzialmente uguale a quella dei non privilegiati. Erano rozzi e<br />

protervi, ma non venivano sentiti come nemici.<br />

Il giudizio si fa più delicato e più vario per coloro che occupavano<br />

posizioni di comando: i capi (Kapòs: il termine tedesco deriva<br />

direttamente da quello italiano, e la pronuncia tronca, introdotta dai<br />

prigionieri francesi, si diffuse solo molti anni dopo, divulgata<br />

dall’omonimo film di Pontecorvo, e favorita in Italia proprio per il suo<br />

valore differenziale) delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli<br />

scritturali, fino al mondo (a quel tempo da me neppure sospettato) dei<br />

prigionieri che svolgevano attività diverse, talvolta delicatissime, presso<br />

gli uffici amministrativi del campo, la Sezione Politica (di fatto, una<br />

sezione della Gestapo), il Servizio del Lavoro, le celle di punizione.<br />

Alcuni fra questi, grazie alla loro abilità o alla fortuna, hanno avuto<br />

accesso alle notizie più segrete dei rispettivi Lager, e, come Hermann<br />

Langbein ad Auschwitz, Eugen Kogon a Buchenwald, e Hans Marsalek<br />

a Mauthausen, ne sono poi diventati gli storici. Non si sa se ammirare di<br />

più il loro coraggio personale o la loro astuzia, che ha concesso loro di<br />

aiutare concretamente i loro compagni in molti modi, studiando<br />

attentamente i singoli ufficiali delle SS con cui erano a contatto, ed intuendo<br />

quali fra questi potessero essere corrotti, quali dissuasi dalle<br />

decisioni più crudeli, quali ricattati, quali ingannati, quali spaventati<br />

dalla prospettiva di un redde rationem a guerra finita. Alcuni fra loro,<br />

ad esempio i tre nominati, erano anche membri di organizzazioni<br />

segrete di difesa, e perciò il potere di cui disponevano grazie alla loro<br />

carica era controbilanciato dal pericolo estremo che correvano, in<br />

quanto «resistenti» e in quanto detentori di segreti.<br />

I funzionari ora descritti non erano affatto, o erano solo<br />

apparentemente, dei collaboratori, bensì piuttosto degli oppositori<br />

mimetizzati. Non così la maggior parte degli altri detentori di posizioni<br />

di comando, che si sono rivelati esemplari umani da mediocri a pessimi.<br />

Piuttosto che logorare, il potere corrompe; tanto più intensamente<br />

corrompeva il loro potere, che era di natura peculiare.<br />

Il potere esiste in tutte le varietà dell’organizzazione sociale<br />

umana, più o meno controllato, usurpato, investito dall’alto o<br />

31


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

riconosciuto dal basso, assegnato per merito o per solidarietà<br />

corporativa o per sangue o per censo: è verosimile che una certa<br />

misura di dominio dell’uomo sull’uomo sia inscritta nel nostro<br />

patrimonio genetico di animali gregari. Non è dimostrato che il potere<br />

sia intrinsecamente nocivo alla collettività. Ma il potere di cui<br />

disponevano i funzionari di cui si parla, anche di basso grado, come i<br />

Kapòs delle squadre di lavoro, era sostanzialmente illimitato; o per<br />

meglio dire, alla loro violenza era imposto un limite inferiore, nel<br />

senso che essi venivano puniti o destituiti se non si mostravano<br />

abbastanza duri, ma nessun limite superiore. In altri termini, erano<br />

liberi di commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di<br />

punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo<br />

alcuno: fino a tutto il 1943, non era raro che un prigioniero fosse<br />

ucciso a botte da un Kapò, senza che questo avesse da temere alcuna<br />

sanzione. Solo più tardi, quando il bisogno di mano d’opera si era<br />

fatto più acuto, vennero introdotte alcune limitazioni: i maltrattamenti<br />

che i Kapòs potevano infliggere ai prigionieri non dovevano ridurne<br />

permanentemente la capacità lavorativa; ma ormai il mal uso era<br />

invalso, e non sempre la norma venne rispettata.<br />

Si riproduceva così, all’interno dei Lager, in scala più piccola ma<br />

con caratteristiche amplificate, la struttura gerarchica dello Stato<br />

totalitario, in cui tutto il potere viene investito dall’alto, ed in cui un<br />

controllo dal basso è quasi impossibile. Ma questo «quasi» è<br />

importante: non è mai esistito uno Stato che fosse realmente «totalitario»<br />

sotto questo aspetto. Una qualche forma di retroazione, un<br />

correttivo all’arbitrio totale, non è mai mancato, neppure nel Terzo<br />

Reich né nell’Unione Sovietica di Stalin: nell’uno e nell’altra hanno<br />

fatto da freno, in maggiore o minor misura, l’opinione pubblica, la<br />

magistratura, la stampa estera, le chiese, il sentimento di umanità e<br />

giustizia che dieci o vent’anni di tirannide non bastano a sradicare.<br />

Solo entro il Lager il controllo dal basso era nullo, ed il potere dei<br />

piccoli satrapi era assoluto. É comprensibile come un potere di tale<br />

ampiezza attirasse con prepotenza quel tipo umano che di potere è<br />

avido: come vi aspirassero anche individui dagli istinti moderati,<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

attratti dai molti vantaggi materiali della carica; e come questi ultimi<br />

venissero fatalmente intossicati dal potere di cui disponevano.<br />

Chi diventava Kapò? Occorre ancora una volta distinguere. In<br />

primo luogo, coloro a cui la possibilità veniva offerta, e cioè gli<br />

individui in cui il comandante del Lager o i suoi delegati (che spesso<br />

erano buoni psicologi) intravedevano la potenzialità del collaboratore:<br />

rei comuni tratti dalle carceri, a cui la carriera di aguzzini offriva<br />

un’eccellente alternativa alla detenzione; prigionieri politici fiaccati da<br />

cinque o dieci anni di sofferenze, o comunque moralmente debilitati;<br />

più tardi, anche ebrei, che vedevano nella particola di autorità che<br />

veniva loro offerta l’unico modo di sfuggire alla «soluzione finale». Ma<br />

molti, come accennato, aspiravano al potere spontaneamente: lo<br />

cercavano i sadici, certo non numerosi ma molto temuti, poiché per loro<br />

la posizione di privilegio coincideva con la possibilità di infliggere ai<br />

sottoposti sofferenza ed umiliazione. Lo cercavano i frustrati, ed anche<br />

questo è un lineamento che riproduce nel microcosmo del Lager il<br />

macrocosmo della società totalitaria: in entrambi, al di fuori della<br />

capacità e del merito, viene concesso generosamente il potere a chi sia<br />

disposto a tributare ossequio all’autorità gerarchica, conseguendo in<br />

questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile. Lo<br />

cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli<br />

oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro.<br />

Su questa mimesi, su questa identificazione o imitazione o scambio<br />

di ruoli fra il soverchiatore e la vittima, si è molto discusso. Si sono dette<br />

cose vere e inventate, conturbanti e banali, acute e stupide: non è un<br />

terreno vergine, anzi, è un campo arato maldestramente, scalpicciato e<br />

sconvolto. La regista Liliana Cavani, a cui era stato chiesto di esprimere<br />

in breve il senso di un suo film bello e falso, ha dichiarato: «Siamo tutti<br />

vittime o assassini e accettiamo questi ruoli volontariamente. Solo Sade e<br />

Dostoevskij l’hanno compreso bene»; ha detto anche di credere «che in<br />

ogni ambiente, in ogni rapporto, ci sia una dinamica vittima-carnefice più<br />

o meno chiaramente espressa e generalmente vissuta a livello non<br />

cosciente».<br />

Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne<br />

intendono, e che questi pochi sono più cauti; non so, e mi interessa<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che<br />

vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini<br />

sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in<br />

servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o<br />

un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è<br />

un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità.<br />

So che in Lager, e più in generale sul palcoscenico umano, capita tutto,<br />

e che perciò l’esempio singolo dimostra poco. Detto chiaramente<br />

tutto questo, e riaffermato che confondere i due ruoli significa voler<br />

mistificare dalle basi il nostro bisogno di giustizia, restano da fare<br />

alcune considerazioni.<br />

Rimane vero che, in Lager e fuori, esistono persone grige,<br />

ambigue, pronte al compromesso. La tensione estrema del Lager tende<br />

ad accrescerne la schiera; esse posseggono in proprio una quota (tanto<br />

più rilevante quanto maggiore era la loro libertà di scelta) di colpa, ed<br />

oltre a questa sono i vettori e gli strumenti della colpa del sistema.<br />

Rimane vero che la maggior parte degli oppressori, durante o (più<br />

spesso) dopo le loro azioni, si sono resi conto che quanto facevano o<br />

avevano fatto era iniquo, hanno magari provato dubbio disagio, od<br />

anche sono stati puniti; ma queste loro sofferenze non bastano ad<br />

arruolarli fra le vittime. Allo stesso modo, non bastano gli errori e i<br />

cedimenti dei prigionieri per allinearli con i loro custodi: i prigionieri<br />

dei Lager, centinaia di migliaia di persone di tutte le classi sociali, di<br />

quasi tutti i paesi d’Europa, rappresentavano un campione medio, non<br />

selezionato, di umanità: anche se non si volesse tener conto<br />

dell’ambiente infernale in cui erano stati bruscamente precipitati, è<br />

illogico pretendere da loro, ed è retorico e falso sostenere che abbiano<br />

sempre e tutti seguito, il comportamento che ci si aspetta dai santi e dai<br />

filosofi stoici. In realtà, nella enorme maggioranza dei casi, il loro<br />

comportamento è stato ferreamente obbligato: nel giro di poche<br />

settimane o mesi, le privazioni a cui erano sottoposti li hanno condotti<br />

ad una condizione di pura sopravvivenza, di lotta quotidiana contro la<br />

fame, il freddo, la stanchezza, le percosse, in cui lo spazio per le scelte<br />

(in specie, per le scelte morali) era ridotto a nulla; fra questi, pochissimi<br />

hanno sopravvissuto alla prova, grazie alla somma di molti eventi<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

improbabili: sono insomma stati salvati dalla fortuna, e non ha molto<br />

senso cercare fra i loro destini qualcosa di comune, al di fuori forse<br />

della buona salute iniziale.<br />

Un caso-limite di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos<br />

di Auschwitz e degli altri Lager di sterminio. Qui si esita a<br />

parlare di privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto<br />

(ma a quale costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo<br />

perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente<br />

vaga, «Squadra Speciale», veniva indicato dalle SS il gruppo di<br />

prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava<br />

mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli<br />

del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle<br />

camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle<br />

mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le<br />

scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e<br />

sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le<br />

ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei<br />

periodi, da 700 a 1.000 effettivi.<br />

Queste Squadre Speciali non sfuggivano al destino di tutti; anzi,<br />

da parte delle SS veniva messa in atto ogni diligenza affinché nessun<br />

uomo che ne avesse fatto parte potesse sopravvivere e raccontare. Ad<br />

Auschwitz si succedettero dodici squadre; ognuna rimaneva in<br />

funzione qualche mese, poi veniva soppressa, ogni volta con un<br />

artificio diverso per prevenire eventuali resistenze, e la squadra<br />

successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori.<br />

L’ultima squadra, nell’ottobre 1944, si ribellò alle SS, fece saltare uno<br />

dei crematori e fu sterminata in un diseguale combattimento a cui<br />

accennerò più oltre. I superstiti delle Squadre Speciali sono dunque<br />

stati pochissimi, sfuggiti alla morte per qualche imprevedibile gioco<br />

del destino. Nessuno di loro, dopo la liberazione, ha parlato volentieri,<br />

e nessuno parla volentieri della loro spaventosa condizione. Le notizie<br />

che possediamo su queste Squadre provengono dalle scarne deposizioni<br />

di questi superstiti; dalle ammissioni dei loro «committenti»<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

processati davanti a vari tribunali; da cenni contenuti in deposizioni di<br />

«civili» tedeschi o polacchi che ebbero casualmente occasione di<br />

venire a contatto con le squadre; e finalmente, da fogli di diario che<br />

vennero scritti febbrilmente a futura memoria, e sepolti con estrema<br />

cura nei dintorni dei crematori di Auschwitz, da alcuni dei loro<br />

componenti. Tutte queste fonti concordano tra loro, eppure ci riesce<br />

difficile, quasi impossibile, costruirci una rappresentazione di come<br />

questi uomini vivessero giorno per giorno, vedessero se stessi,<br />

accettassero la loro condizione.<br />

In un primo tempo, essi venivano scelti dalle SS fra i prigionieri<br />

già immatricolati nei Lager, ed è stato testimoniato che la scelta<br />

avveniva non soltanto in base alla robustezza fisica, ma anche<br />

studiando a fondo le fisionomie. In qualche raro caso, l’arruolamento<br />

avvenne per punizione. Più tardi, si preferì prelevare i candidati direttamente<br />

sulla banchina ferroviaria, all’arrivo dei singoli convogli:<br />

gli «psicologi» delle SS si erano accorti che il reclutamento era più<br />

facile se si attingeva da quella gente disperata e disorientata, snervata<br />

dal viaggio, priva di resistenze, nel momento cruciale dello sbarco dal<br />

treno, quando veramente ogni nuovo giunto si sentiva alla soglia del<br />

buio e del terrore di uno spazio non terrestre.<br />

Le Squadre Speciali erano costituite in massima parte da ebrei.<br />

Per un verso, questo non può stupire, dal momento che lo scopo<br />

principale dei Lager era quello di distruggere gli ebrei, e che la<br />

popolazione di Auschwitz, a partire dal 1943, era costituita da ebrei<br />

per il 90-95%; sotto un altro aspetto, si rimane attoniti davanti a<br />

questo parossismo di perfidia e di odio: dovevano essere gli ebrei a<br />

mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sottorazza,<br />

sotto-uomini, sì piegano ad ogni umiliazione, perfino a<br />

distruggere se stessi. D’altra parte, è attestato che non tutte le SS<br />

accettavano volentieri il massacro come compito quotidiano; delegare<br />

alle vittime stesse una parte del lavoro, e proprio la più sporca, doveva<br />

servire (e probabilmente servì ad alleggerire qualche coscienza.<br />

Beninteso, sarebbe iniquo attribuire questa acquiescenza a<br />

qualche particolarità specificamente ebraica: delle Squadre Speciali<br />

fecero parte anche prigionieri non ebrei, tedeschi e polacchi, però con<br />

36


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

le mansioni «più dignitose» di Kapòs; ed anche prigionieri di guerra<br />

russi, che i nazisti consideravano solo di uno scalino superiori agli<br />

ebrei. Furono pochi, perché ad Auschwitz i russi erano pochi (vennero<br />

in massima parte sterminati prima, subito dopo la cattura, mitragliati<br />

sull’orlo di enormi fosse comuni): ma non si comportarono in modo<br />

diverso dagli ebrei.<br />

Le Squadre Speciali, in quanto portatrici di un orrendo segreto,<br />

venivano tenute rigorosamente separate dagli altri prigionieri e dal mondo<br />

esterno. Tuttavia, come è noto a chiunque abbia attraversato esperienze<br />

analoghe, nessuna barriera è mai priva di incrinature: le notizie, magari<br />

incomplete e distorte, hanno un potere di penetrazione enorme, e qualcosa<br />

trapela sempre. Su queste Squadre, voci vaghe e monche circolavano già<br />

fra noi durante la prigionia, e vennero confermate più tardi dalle altre fonti<br />

accennate prima, ma l’orrore intrinseco di questa condizione umana ha<br />

imposto a tutte le testimonianze una sorta di ritegno; perciò, oggi ancora è<br />

difficile costruirsi un’immagine di «cosa volesse dire» essere costretti ad<br />

esercitare per mesi questo mestiere. Alcuni hanno testimoniato che a quegli<br />

sciagurati veniva messa a disposizione una grande quantità di alcolici, e<br />

che essi si trovavano permanentemente in uno stato di abbrutimento e di<br />

prostrazione totali. Uno di loro ha dichiarato: «A fare questo lavoro, o si<br />

impazzisce il primo giorno, oppure ci si abitua». Un altro, invece: «Certo,<br />

avrei potuto uccidermi o lasciarmi uccidere; ma io volevo sopravvivere,<br />

per vendicarmi e per portare testimonianza. Non dovete credere che noi<br />

siamo dei mostri: siamo come voi, solo molto più infelici».<br />

E evidente che queste cose dette, e le altre innumerevoli che da<br />

loro e fra di loro saranno state dette ma non ci sono pervenute, non<br />

possono essere prese alla lettera. Da uomini che hanno conosciuto<br />

questa destituzione estrema non ci si può aspettare una deposizione<br />

nel senso giuridico del termine, bensì qualcosa che sta fra il lamento,<br />

la bestemmia, l’espiazione e il conato di giustificarsi, di recuperare se<br />

stessi. Ci si deve aspettare piuttosto uno sfogo liberatorio che una<br />

verità dal volto di Medusa.<br />

Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più<br />

demoniaco del nazionalsocialismo. Dietro all’aspetto pragmatico (fare<br />

economia di uomini validi, imporre ad altri i compiti più atroci) se ne<br />

37


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

scorgono altri più sottili. Attraverso questa istituzione, si tentava di<br />

spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa,<br />

talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di<br />

essere innocenti. Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso<br />

di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è<br />

stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani,<br />

potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli. Si prova la tentazione di<br />

torcere il viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve<br />

opporre. Infatti, l’esistenza delle Squadre aveva un significato,<br />

conteneva un messaggio: «Noi, il popolo dei Signori, siamo i vostri<br />

distruttori, ma voi non siete migliori di noi; se lo vogliamo, e lo<br />

vogliamo, noi siamo capaci di distruggere non solo i vostri corpi, ma<br />

anche le vostre anime, così come abbiamo distrutto le nostre ».<br />

Miklos Nyiszli, medico ungherese, è stato fra i pochissimi<br />

superstiti dell’ultima Squadra Speciale di Auschwitz. Era un noto<br />

anatomo-patologo, esperto nelle autopsie, ed il medico capo delle SS<br />

di Birkenau, quel Mengele che è morto pochi anni fa sfuggendo alla<br />

giustizia, si era assicurato i suoi servizi; gli aveva riservato un<br />

trattamento di favore, e lo considerava quasi come un collega. Nyiszli<br />

doveva dedicarsi in specie allo studio dei gemelli: infatti, Birkenau era<br />

l’unico luogo al mondo in cui esistesse la possibilità di esaminare<br />

cadaveri di gemelli uccisi nello stesso momento. Accanto a questo suo<br />

incarico particolare, a cui, sia detto per inciso, non risulta che egli si<br />

sia opposto con molta determinazione, Nyiszli era il medico curante<br />

della Squadra, con cui viveva a stretto contatto. Ebbene, egli racconta<br />

un fatto che mi pare significativo.<br />

Le SS, come ho detto, sceglievano accuratamente, dai Lager o dai<br />

convogli in arrivo, i candidati alle Squadre, e non esitavano a<br />

sopprimere sul posto coloro che si rifiutavano o si mostravano inadatti<br />

alle loro mansioni. Nei confronti dei membri appena assunti, esse<br />

mostravano lo stesso comportamento sprezzante e distaccato che<br />

usavano mostrare verso tutti i prigionieri, e verso gli ebrei in specie:<br />

era stato loro inculcato che si trattava di esseri spregevoli, nemici della<br />

Germania e perciò indegni di vivere; nel caso più favorevole,<br />

potevano essere obbligati a lavorare fino alla morte per esaurimento.<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Non così si comportavano invece nei confronti dei veterani della<br />

Squadra: in questi, sentivano in qualche misura dei colleghi, ormai<br />

disumani quanto loro, legati allo stesso carro, vincolati dal vincolo<br />

immondo della complicità imposta. Nyiszli racconta dunque di aver<br />

assistito, durante una pausa del «lavoro», ad un incontro di calcio fra<br />

SS e SK (Sonderkommando), vale a dire fra una rappresentanza delle<br />

SS di guardia al crematorio e una rappresentanza della Squadra<br />

Speciale; all’incontro assistono altri militi delle SS e il resto della<br />

Squadra, parteggiano, scommettono, applaudono, incoraggiano i<br />

giocatori, come se, invece che davanti alle porte dell’inferno, la partita<br />

si svolgesse sul campo di un villaggio.<br />

Niente di simile è mai avvenuto, né sarebbe stato concepibile, con<br />

altre categorie di prigionieri; ma con loro, con i «corvi del<br />

crematorio», le SS potevano scendere in campo, alla pari o quasi.<br />

Dietro questo armistizio si legge un riso satanico: è consumato, ci<br />

siamo riusciti, non siete più l’altra razza, l’anti-razza, il nemico primo<br />

del Reich Millenario: non siete più il popolo che rifiuta gli idoli. Vi<br />

abbiamo abbracciati, corrotti, trascinati sul fondo con noi. Siete come<br />

noi, voi orgogliosi: sporchi del vostro sangue come noi. Anche voi,<br />

come noi e come Caino, avete ucciso il fratello. Venite, possiamo<br />

giocare insieme.<br />

Nyiszli racconta un altro episodio da meditare. Nella camera a<br />

gas sono stati stipati ed uccisi i componenti di un convoglio appena<br />

arrivato, e la Squadra sta svolgendo il lavoro orrendo di tutti i giorni,<br />

districare il groviglio di cadaveri, lavarli con gli idranti e trasportarli al<br />

crematorio, ma sul pavimento trovano una giovane ancora viva.<br />

L’evento è eccezionale, unico; forse i corpi umani le hanno fatto<br />

barriera intorno, hanno sequestrato una sacca d’aria che è rimasta<br />

respirabile. Gli uomini sono perplessi; la morte è il loro mestiere di<br />

ogni ora, la morte è una consuetudine, poiché, appunto, «si impazzisce<br />

il primo giorno oppure ci si abitua», ma quella donna è viva. La<br />

nascondono, la riscaldano, le portano brodo di carne, la interrogano: la<br />

ragazza ha sedici anni, non si orienta nello spazio né nel tempo, non sa<br />

dov’è, ha percorso senza capire la trafila del treno sigillato, della<br />

brutale selezione preliminare, della spogliazione, dell’ingresso nella<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

camera da cui nessuno è mai uscito vivo. Non ha capito, ma ha visto;<br />

perciò deve morire, e gli uomini della Squadra lo sanno, così come<br />

sanno di dover morire essi stessi e per la stessa ragione. Ma questi<br />

schiavi abbrutiti dall’alcool e dalla strage quotidiana sono trasformati;<br />

davanti a loro non c’è più la massa anonima, il fiume di gente<br />

spaventata, attonita, che scende dai vagoni: c’è una persona.<br />

Come non ricordare l'«insolito rispetto» e l’esitazione del «turpe<br />

monatto» davanti al caso singolo, davanti alla bambina Cecilia morta<br />

di peste che, nei Promessi Sposi, la madre rifiuta di lasciar buttare sul<br />

carro confusa fra gli altri morti? Fatti come questi stupiscono, perché<br />

contrastano con l’immagine che alberghiamo in noi, dell’uomo<br />

concorde con se stesso, coerente, monolitico; e non dovrebbero<br />

stupire, perché tale l’uomo non è. Pietà e brutalità possono coesistere,<br />

nello stesso individuo e nello stesso momento, contro ogni logica; e<br />

del resto, la pietà stessa sfugge alla logica. Non esiste proporzionalità<br />

tra la pietà che proviamo e l’estensione del dolore da cui la pietà è<br />

suscitata: una singola Anna Frank desta più commozione delle miriadi<br />

che soffrirono come lei, ma la cui immagine è rimasta in ombra. Forse<br />

è necessario che sia così; se dovessimo e potessimo soffrire le<br />

sofferenze di tutti, non potremmo vivere. Forse solo ai santi è<br />

concesso il terribile dono della pietà verso i molti; ai monatti, a quelli<br />

della Squadra Speciale, ed a noi tutti, non resta, nel migliore dei casi,<br />

che la pietà saltuaria indirizzata al singolo, al Mitmensch, al co-uomo:<br />

all’essere umano di carne e sangue che sta davanti a noi, alla portata<br />

dei nostri sensi provvidenzialmente miopi.<br />

Viene chiamato un medico, che rianima la ragazza con una<br />

iniezione: sì, il gas non ha compiuto il suo effetto, potrà sopravvivere,<br />

ma dove e come? In quel momento sopraggiunge Muhsfeld, uno dei<br />

militi SS addetti agli impianti di morte; il medico lo chiama da parte e<br />

gli espone il caso. Muhsfeld esita, poi decide: no, la ragazza deve<br />

morire; se fosse più anziana il caso sarebbe diverso, avrebbe più<br />

senno, forse la si potrebbe convincere a tacere su quanto le è accaduto,<br />

ma ha solo sedici anni: di lei non ci si può fidare. Tuttavia non la<br />

uccide di mano sua, chiama un suo sottoposto che la sopprima con un<br />

colpo alla nuca. Ora, questo Muhsfeld non era un misericorde; la sua<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

razione quotidiana di strage era trapunta di episodi arbitrari e<br />

capricciosi, segnata da sue invenzioni di raffinata crudeltà. Fu<br />

processato nel 1947, condannato a morte e impiccato a Cracovia, e<br />

questo fu giusto; ma neppure lui era un monolito. Se fosse vissuto in<br />

un ambiente ed in un’epoca diversi, è probabile che si sarebbe<br />

comportato come qualsiasi altro uomo comune.<br />

Nei Fratelli Karamazov, Grusen’ka racconta la favola della<br />

cipollina. Una vecchia malvagia muore e va all’inferno, ma il suo<br />

angelo custode, sforzando la memoria, ricorda che essa, una volta, una<br />

sola, ha donato ad un mendicante una cipollina che ha cavata dal suo<br />

orto: le porge la cipollina, e la vecchia vi si aggrappa e viene tratta dal<br />

fuoco infernale. Questa favola mi è sempre sembrata rivoltante: quale<br />

mostro umano non ha mai donato in vita sua una cipollina, se non ad<br />

altri ai suoi figli, alla moglie, al cane? Quel singolo attimo di pietà<br />

subito cancellata non basta certo ad assolvere Muhsfeld, basta però a<br />

collocare anche lui, seppure al margine estremo, nella fascia grigia, in<br />

quella zona di ambiguità che irradia dai regimi fondati sul terrore e<br />

sull’ossequio.<br />

Non è difficile giudicare Muhsfeld, e non credo che il tribunale<br />

che lo ha condannato abbia avuto dubbi; per contro, il nostro bisogno<br />

e la nostra capacità di giudicare si inceppano davanti alla Squadra<br />

Speciale. Subito sorgono le domande, domande convulse, a cui è dura<br />

impresa dare una risposta che ci tranquillizzi sulla natura dell’uomo.<br />

Perché hanno accettato quel loro compito? Perché non si sono<br />

ribellati, perché non hanno preferito la morte?<br />

In certa misura, i fatti di cui disponiamo ci permettono di tentare<br />

una risposta. Non tutti hanno accettato; alcuni si sono ribellati sapendo<br />

di morire. Di almeno un caso abbiamo notizia precisa: un gruppo di<br />

quattrocento ebrei di Corfù, che nel luglio era stato inserito nella<br />

Squadra, rifiutò compattamente il lavoro, e venne immediatamente<br />

ucciso col gas. E rimasta memoria di vari altri ammutinamenti singoli,<br />

tutti subito puniti con una morte atroce (Filip Müller, uno fra i<br />

pochissimi superstiti delle Squadre, racconta di un suo compagno che<br />

le SS introdussero vivo nella fornace), e di molti casi di suicidio,<br />

all’atto dell’arruolamento o subito dopo. Infine, e da ricordare che<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

proprio dalla Squadra Speciale fu organizzato, nell’ottobre 1944,<br />

l’unico disperato tentativo di rivolta nella storia dei Lager di<br />

Auschwitz, a cui già si è accennato.<br />

Le notizie che di questa impresa sono pervenute fino a noi non<br />

sono né complete né concordi; si sa che i rivoltosi (gli addetti a due<br />

dei cinque crematori di AuschwitzBirkenau), male armati e privi di<br />

contatti con i partigiani polacchi fuori del Lager e con l’organizzazione<br />

clandestina di difesa entro il Lager, fecero esplodere il<br />

crematorio n. 3 e diedero battaglia alle SS. Il combattimento finì<br />

molto presto; alcuni degli insorti riuscirono a tagliare il filo spinato ed<br />

a fuggire all’esterno, ma furono catturati poco dopo. Nessuno di loro è<br />

sopravvissuto; circa 450 furono immediatamente uccisi dalle SS; di<br />

queste, tre furono uccise e dodici ferite.<br />

Quelli di cui sappiamo, i miserabili manovali della strage, sono<br />

dunque gli altri, quelli che di volta in volta preferirono qualche<br />

settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata, ma che in<br />

nessun caso si indussero, o furono indotti, ad uccidere di propria<br />

mano. Ripeto: credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi<br />

ha conosciuto l’esperienza del Lager, tanto meno chi non l’ha<br />

conosciuta. Vorrei invitare chiunque osi tentare un giudizio a<br />

compiere su se stesso, con sincerità, un esperimento concettuale:<br />

immagini, se può, di aver trascorso mesi o anni in un ghetto,<br />

tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla promiscuità e<br />

dall’umiliazione; di aver visto morire intorno a sé, ad uno ad uno, i<br />

propri cari; di essere tagliato fuori dal mondo, senza poter ricevere né<br />

trasmettere notizie; di essere infine caricato su un treno, ottanta o<br />

cento per vagone merci; di viaggiare verso l’ignoto, alla cieca, per<br />

giorni e notti insonni; e di trovarsi infine scagliato fra le mura di un<br />

inferno indecifrabile. Qui gli viene offerta la sopravvivenza, e gli<br />

viene proposto, anzi imposto, un compito truce ma imprecisato. É<br />

questo, mi pare, il vero Befehlnotstand, lo «stato di costrizione<br />

conseguente a un ordine»: non quello sistematicamente ed<br />

impudentemente invocato dai nazisti trascinati a giudizio, e più tardi<br />

(ma sulle loro orme) dai criminali di guerra di molti altri paesi. Il<br />

primo è un autaut rigido, l’obbedienza immediata o la morte; il secon-<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

do è un fatto interno al centro di potere, ed avrebbe potuto essere<br />

risolto (in effetti spesso fu risolto) con qualche manovra, con qualche<br />

ritardo nella carriera, con una moderata punizione, o, nel peggiore dei<br />

casi, col trasferimento del renitente al fronte di guerra.<br />

L’esperimento che ho proposto non è gradevole; ha tentato di<br />

rappresentarlo Vercors, nel suo racconto Les armes de la nuit (Albin<br />

Michel, Paris 1953) in cui si parla della «morte dell’anima», e che<br />

riletto oggi mi appare intollerabilmente infetto di estetismo e di<br />

libidine letteraria. Ma è indubbio che di morte dell’anima si tratta; ora,<br />

nessuno può sapere quanto a lungo, ed a quali prove, la sua anima<br />

sappia resistere prima di piegarsi o di infrangersi. Ogni essere umano<br />

possiede una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può<br />

essere grande, piccola o nulla, e solo l’avversità estrema dà modo di<br />

valutarla. Anche senza ricorrere al caso-limite delle Squadre Speciali,<br />

accade spesso a noi reduci, quando raccontiamo le nostre vicende, che<br />

l’interlocutore dica: «Io, al tuo posto, non avrei resistito un giorno».<br />

L’affermazione non ha un senso preciso: non si è mai al posto di un<br />

altro. Ogni individuo è un oggetto talmente complesso che è vano<br />

pretendere di prevederne il comportamento, tanto più se in situazioni<br />

estreme; neppure è possibile antivedere il comportamento proprio.<br />

Perciò chiedo che la storia dei «corvi del crematorio» venga meditata<br />

con pietà e rigore, ma che il giudizio su di loro resti sospeso.<br />

La stessa «impotentia judicandi» ci paralizza davanti al caso<br />

Rumkowski. La storia di Chaim Rumkowski non è propriamente una<br />

storia di Lager, benché nel Lager si concluda: è una storia di ghetto, ma<br />

così eloquente sul tema fondamentale dell’ambiguità umana provocata<br />

fatalmente dall’oppressione, che mi pare si attagli fin troppo bene al<br />

nostro discorso. La ripeto qui, anche se già l’ho narrata altrove.<br />

Al mio ritorno da Auschwitz mi sono trovato in tasca una curiosa<br />

moneta in lega leggera, che conservo tuttora. È graffiata e corrosa;<br />

reca su una faccia la stella ebraica (lo «Scudo di Davide»), la data<br />

1943 e la parola getto, che alla tedesca si legge ghetto; sull’altra<br />

faccia, le scritte QUITTUNG UBER 10 MARK e DER ALTESTE<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

DER JUDEN IN LITZMANNSTADT, e cioè rispettivamente<br />

Quietanza su 10 marchi e Il decano degli ebrei in Litzmannstadt: era<br />

insomma una moneta interna di un ghetto. Per molti anni ne ho<br />

dimenticato l’esistenza, poi, verso il 1974 ho potuto ricostruirne la<br />

storia, che è affascinante e sinistra.<br />

Col nome di Litzmannstadt, in onore di un generale Litzmann<br />

vittorioso sui russi nella prima guerra mondiale, i nazisti avevano<br />

ribattezzato la città polacca di Lòdz. Negli ultimi mesi del 1944 gli<br />

ultimi superstiti del ghetto di Lòdz erano stati deportati ad Auschwitz:<br />

io devo aver trovato sul suolo del Lager quella moneta ormai inutile.<br />

Nel 1939 Lòdz aveva 750.000 abitanti, ed era la più industriale delle<br />

città polacche, la più «moderna» e la più brutta: viveva sull’industria<br />

tessile, come Manchester e Biella, ed era condizionata dalla presenza di<br />

una miriade di stabilimenti grandi e piccoli, per lo più antiquati già allora.<br />

Come in tutte le città di una certa importanza dell’Europa orientale<br />

occupata, i nazisti si affrettarono a costituirvi un ghetto, ripristinandovi,<br />

aggravato dalla loro moderna ferocia, il regime dei ghetti del medioevo e<br />

della controriforma. Il ghetto di Lòdz aperto già nel febbraio 1940, fu il<br />

primo in ordine di tempo, ed il secondo, dopo quello di Varsavia, come<br />

consistenza numerica: giunse a contenere più di 160.000 ebrei, e fu<br />

sciolto solo nell’autunno del 1944. Fu dunque il più longevo dei ghetti<br />

nazisti, e ciò va attribuito a due ragioni: la sua importanza economica e la<br />

conturbante personalità del suo presidente.<br />

Si chiamava Chaim Rumkowski: già piccolo industriale fallito,<br />

dopo vari viaggi ed alterne vicende si era stabilito a Lòdz nel 1917.<br />

Nel 1940 aveva quasi sessant’anni ed era vedovo senza figli; godeva<br />

di una certa stima, ed era noto come direttore di opere pie ebraiche e<br />

come uomo energico, incolto ed autoritario. La carica di Presidente (o<br />

Decano) di un ghetto era intrinsecamente spaventosa, ma era una<br />

carica, costituiva un riconoscimento sociale, sollevava di uno scalino e<br />

conferiva diritti e privilegi, cioè autorità: ora Rumkowski amava<br />

appassionatamente l’autorità. Come sia pervenuto all’investitura, non<br />

è noto: forse si trattò di una beffa nel tristo stile nazista (Rumkowski<br />

era, o sembrava, uno sciocco dall’aria per bene, insomma uno<br />

zimbello ideale); forse intrigò egli stesso per essere scelto, tanto<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

doveva essere forte in lui la voglia del potere. É provato che i quattro<br />

anni della sua presidenza, o meglio della sua dittatura, furono un<br />

sorprendente groviglio di sogno megalomane, di vitalità barbarica e di<br />

reale capacità diplomatica ed organizzativa. Egli giunse presto a<br />

vedere se stesso in veste di monarca assoluto ma illuminato, e certo fu<br />

sospinto su questa via dai suoi padroni tedeschi, che giocavano bensì<br />

con lui, ma apprezzavano i suoi talenti di buon amministratore e<br />

d’uomo d’ordine. Da loro ottenne l’autorizzazione a battere moneta,<br />

sia metallica (quella mia moneta) sia cartacea, su carta a filigrana che<br />

gli fu fornita ufficialmente. In questa moneta erano pagati gli operai<br />

estenuati del ghetto; potevano spenderla negli spacci per acquistarvi le<br />

loro razioni alimentari, che ammontavano in media a 800 calorie<br />

giornaliere (ricordo, di passata, che ne occorrono almeno 2000 per<br />

sopravvivere in stato di assoluto riposo).<br />

Da questi suoi sudditi affamati, Rumkowski ambiva riscuotere<br />

non solo obbedienza e rispetto, ma anche amore: in questo le dittature<br />

moderne differiscono dalle antiche. Poiché disponeva di un esercito di<br />

eccellenti artisti ed artigiani, pronti ad ogni suo cenno contro un<br />

quarto di pane, fece disegnare e stampare francobolli che recano la sua<br />

effigie, con i capelli e la barba candidi nella luce della Speranza e<br />

della Fede. Ebbe una carrozza trainata da un ronzino scheletrico, e su<br />

questa percorreva le strade del suo minuscolo regno, affollate di<br />

mendicanti e di postulanti. Ebbe un manto regale, e si attorniò di una<br />

corte di adulatori e di sicari; dai suoi poeti-cortigiani fece comporre<br />

inni in cui si celebrava la sua «mano ferma e potente», e la pace e<br />

l’ordine che per virtù sua regnavano nel ghetto; ordinò che ai bambini<br />

delle nefande scuole, ogni giorno devastate dalle epidemie, dalla<br />

denutrizione e dalle razzie tedesche, fossero assegnati temi in lode<br />

«del nostro amato e provvido Presidente». Come tutti gli autocrati, si<br />

affrettò ad organizzare una polizia efficiente, nominalmente per<br />

mantenere l’ordine, di fatto per proteggere la sua persona e per<br />

imporre la sua disciplina: era costituita da seicento guardie armate di<br />

bastone, e da un numero imprecisato di spie. Pronunciò molti discorsi,<br />

di cui alcuni ci sono stati conservati, ed il cui stile è inconfondibile:<br />

aveva adottato la tecnica oratoria di Mussolini e di Hitler, quella della<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

recitazione ispirata, dello pseudo-colloquio con la folla, della creazione<br />

del consenso attraverso il plagio ed il plauso. Forse questa sua<br />

imitazione era deliberata; forse era invece una identificazione<br />

inconscia col modello dell’«eroe necessario» che allora dominava<br />

l’Europa ed era stato cantato da D’Annunzio; ma è più probabile che il<br />

suo atteggiamento scaturisse dalla sua condizione di piccolo tiranno,<br />

impotente verso l’alto ed onnipotente verso il basso. Chi ha trono e<br />

scettro, chi non teme di essere contraddetto né irriso, parla così.<br />

Eppure la sua figura fu più complessa di quanto appaia fin qui.<br />

Rumkowski non fu soltanto un rinnegato ed un complice; in qualche<br />

misura, oltre a farlo credere, deve essersi progressivamente convinto<br />

egli stesso di essere un messia, un salvatore del suo popolo, il cui<br />

bene, almeno ad intervalli, egli deve avere pure desiderato. Occorre<br />

beneficare per sentirsi benefici, e sentirsi benefici è gratificante anche<br />

per un satrapo corrotto. Paradossalmente, alla sua identificazione con<br />

gli oppressori si alterna o si affianca un’identificazione con gli<br />

oppressi, poiché l’uomo, dice Thomas Mann, è una creatura confusa; e<br />

tanto più confusa diventa, possiamo aggiungere, quanto più è<br />

sottoposta a tensioni: allora sfugge al nostro giudizio, così come<br />

impazzisce una bussola al polo magnetico.<br />

Benché sia stato costantemente disprezzato e deriso dai tedeschi,<br />

è probabile che Rumkowski pensasse a se stesso non come a un servo<br />

ma come a un Signore. Deve aver preso sul serio la propria autorità:<br />

quando la Gestapo si impadronì senza preavviso dei «suoi»<br />

consiglieri, accorse con coraggio in loro aiuto, esponendosi a beffe e<br />

schiaffi che seppe sopportare con dignità. Anche in altre occasioni,<br />

cercò di mercanteggiare con i tedeschi, che esigevano sempre più tela<br />

da Lòdz e da lui contingenti sempre più alti di bocche inutili (vecchi,<br />

bambini, ammalati) da mandare alle camere a gas di Treblinka e poi di<br />

Auschwitz. La stessa durezza con cui si precipitò a reprimere i moti<br />

d’insubordinazione dei suoi sudditi (esistevano, a Lòdz come in altri<br />

ghetti, nuclei di temeraria resistenza politica, di radice sionista,<br />

bundista o comunista) non proveniva tanto da servilismo verso i<br />

tedeschi, quanto da «lesa maestà», da indignazione per l’oltraggio<br />

inferto alla sua regale persona.<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Nel settembre 1944, poiché il fronte russo si stava avvicinando, i<br />

nazisti diedero inizio alla liquidazione del ghetto di Lòdz Decine di<br />

migliaia di uomini e donne furono deportati ad Auschwitz, «anus<br />

mundi», luogo di drenaggio ultimo dell’universo tedesco; esausti<br />

com’erano, furono quasi tutti soppressi immediatamente. Rimasero nel<br />

ghetto un migliaio di uomini, a smobilitare il macchinario delle fabbriche<br />

ed a cancellare le tracce della strage: essi furono liberati dalI’Armata<br />

Rossa poco dopo, ed a loro si debbono le notizie qui riportate.<br />

Sul destino finale di Chaim Rumkowski esistono due versioni,<br />

come se l’ambiguità sotto il cui segno aveva vissuto si fosse protratta<br />

ad avvolgerne la morte. Secondo la prima versione, nel corso della<br />

liquidazione del ghetto egli avrebbe cercato di opporsi alla deportazione<br />

di suo fratello, da cui non voleva separarsi; un ufficiale<br />

tedesco gli avrebbe allora proposto di partire volontariamente insieme<br />

con lui, ed egli avrebbe accettato. Un’altra versione afferma invece<br />

che il salvataggio di Rumkowski sarebbe stato tentato da Hans<br />

Biebow, altro personaggio ammantato di doppiezza. Questo losco<br />

industriale tedesco era il funzionario responsabile dell’amministrazione<br />

del ghetto, e in pari tempo ne era l’appaltatore: il suo era dunque<br />

un incarico delicato, perché le fabbriche tessili di Lòdz lavoravano per<br />

le forze armate. Biebow non era una belva: non gli interessava creare<br />

sofferenze inutili né punire gli ebrei per la loro colpa di essere ebrei,<br />

bensì guadagnare sulle forniture, nei modi leciti e negli altri. Il<br />

tormento del ghetto lo toccava, ma solo per via indiretta; desiderava<br />

che gli operai schiavi lavorassero, e perciò desiderava che non<br />

morissero di fame: il suo senso morale si fermava qui. Di fatto, era il<br />

vero padrone del ghetto, ed era legato a Rumkowski da quel rapporto<br />

committente-fornitore che spesso sfocia in una ruvida amicizia.<br />

Biebow, piccolo sciacallo troppo cinico per prendere sul serio la<br />

demonologia della razza, avrebbe voluto rimandare a oltranza lo<br />

scioglimento del ghetto, che per lui era un ottimo affare, e preservare<br />

dalla deportazione Rumkowski, della cui complicità si fidava: dove si<br />

vede come spesso un realista sia obiettivamente migliore di un teorico.<br />

Ma i teorici delle SS erano di parere contrario, ed erano i più forti.<br />

Erano gründlich, radicali: via il ghetto e via Rumkowski.<br />

47


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Non potendo provvedere diversamente, Biebow, che aveva buone<br />

aderenze, consegnò a Rumkowski una lettera indirizzata al comandante<br />

del Lager di destinazione, e gli garantì che essa lo avrebbe<br />

protetto e gli avrebbe assicurato un trattamento di favore. Rumkowski<br />

avrebbe chiesto a Biebow, ed ottenuto, di viaggiare fino ad<br />

Auschwitz, lui e la sua famiglia, col decoro che si addiceva al suo<br />

rango, e cioè in un vagone speciale, agganciato in coda alla tradotta di<br />

vagoni merci stipati di deportati senza privilegi: ma il destino degli<br />

ebrei in mano tedesca era uno solo, fossero vili od eroi, umili o<br />

superbi. Né la lettera né il vagone valsero a salvare dal gas Chaim<br />

Rumkowski, re dei Giudei.<br />

Una storia come questa non è chiusa in sé. É pregna, pone più<br />

domande di quante ne soddisfaccia, riassume in sé l’intera tematica<br />

della zona grigia, e lascia sospesi. Grida e chiama per essere capita,<br />

perché vi si intravede un simbolo, come nei sogni e nei segni del cielo.<br />

Chi è Rumkowski? Non è un mostro, e neppure un uomo<br />

comune; tuttavia molti intorno a noi sono simili a lui. I fallimenti che<br />

hanno preceduto la sua «carriera» sono significativi: gli uomini che da<br />

un fallimento ricavano forza morale sono pochi. Mi pare che nella sua<br />

storia si possa riconoscere in forma esemplare la necessità quasi fisica<br />

che dalla costrizione politica fa nascere l’area indefinita<br />

dell’ambiguità e del compromesso. Ai piedi di ogni trono assoluto gli<br />

uomini come il nostro si affollano per ghermire la loro porzioncina di<br />

potere: è uno spettacolo ricorrente, ritornano alla memoria le lotte a<br />

coltello degli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, alla corte di<br />

Hitler e fra i ministri di Salò; uomini grigi anche questi, ciechi prima<br />

che criminali, accaniti a spartirsi i brandelli d’una autorità scellerata e<br />

moribonda. Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è<br />

ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione, che (come per<br />

Rumkowski) può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di<br />

dosi sempre più alte; nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai<br />

sogni infantili di onnipotenza. Se è valida l’interpretazione di un<br />

Rumkowski intossicato dal potere, bisogna ammettere che<br />

48


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

l’intossicazione è sopraggiunta non a causa, ma nonostante l’ambiente<br />

del ghetto; che cioè essa è così potente da prevalere perfino in<br />

condizioni che sembrerebbero tali da spegnere ogni volontà<br />

individuale. Di fatto, era ben visibile in lui, come nei suoi modelli più<br />

famosi, la sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione<br />

distorta del mondo, l’arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione,<br />

l’aggrapparsi convulso alle leve di comando, il disprezzo delle leggi.<br />

Tutto questo non esonera Rumkowski dalla sua responsabilità.<br />

Che dall’afflizione di Lòdz un Rumkowski sia emerso, duole e brucia;<br />

se fosse sopravvissuto alla sua tragedia, ed alla tragedia del ghetto che<br />

lui ha inquinata sovrapponendovi la sua immagine di istrione, nessun<br />

tribunale lo avrebbe assolto, né certo lo possiamo assolvere noi sul<br />

piano morale. Ha però delle attenuanti: un ordine infero, qual era il<br />

nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da<br />

cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé,<br />

perché gli occorrono complicità grandi e piccole. Per resistergli, ci<br />

vuole una ben solida ossatura morale, e quella di cui disponeva Chaim<br />

Rumkowski, il mercante di Lòdz insieme con tutta la sua generazione,<br />

era fragile: ma quanto forte è la nostra, di noi europei di oggi? Come<br />

si comporterebbe ognuno di noi se venisse spinto dalla necessità e in<br />

pari tempo allettato dalla seduzione?<br />

La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante dei<br />

Kapòs e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che servono un<br />

regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che<br />

firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il capo ma<br />

acconsente; di chi dice «se non lo facessi io, lo farebbe un altro<br />

peggiore di me».<br />

In questa fascia di mezze coscienze va collocato Rumkowski,<br />

figura simbolica e compendiaria. Se in alto o in basso, è difficile dire:<br />

lui solo lo potrebbe chiarire se potesse parlare davanti a noi, magari<br />

mentendo, come forse sempre mentiva, anche a se stesso; ci<br />

aiuterebbe comunque a comprenderlo, come ogni imputato aiuta il suo<br />

giudice, anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità<br />

dell’uomo di recitare una parte non è illimitata.<br />

49


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Ma tutto questo non basta a spiegare il senso di urgenza e di<br />

minaccia che emana da questa storia. Forse il suo significato è più<br />

vasto: in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la<br />

nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito; la sua<br />

febbre è la nostra, quella della nostra civiltà occidentale che «scende<br />

all’inferno con trombe e tamburi», ed i suoi orpelli miserabili sono<br />

l’immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale. La sua<br />

follia è quella dell’Uomo presuntuoso e mortale quale lo descrive<br />

Isabella in Misura per misura, l’Uomo che,<br />

- ammantato d’autorità precaria,<br />

di ciò ignaro di cui si crede certo,<br />

- della sua essenza, ch’è di vetro —, quale<br />

una scimmia arrabbiata, gioca tali<br />

insulse buffonate sotto il cielo<br />

da far piangere gli angeli.<br />

Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e<br />

dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere<br />

veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo<br />

tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della<br />

morte, e che poco lontano aspetta il treno.<br />

50


III<br />

La vergogna<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Esiste un quadro stereotipo, proposto infinite volte, consacrato<br />

dalla letteratura e dalla poesia, raccolto dal cinematografo: al termine<br />

della bufera, quando sopravviene «la quiete dopo la tempesta», ogni<br />

cuore si rallegra. «Uscir di pena è diletto fra noi». Dopo la malattia ritorna<br />

la salute; a rompere la prigionia arrivano i nostri, i liberatori, a<br />

bandiere spiegate; il soldato ritorna, e ritrova la famiglia e la pace.<br />

A giudicare dai racconti fatti da molti reduci, e dai miei stessi<br />

ricordi, il pessimista Leopardi, in questa sua rappresentazione, è stato al<br />

di là del vero: suo malgrado, si è dimostrato ottimista. Nella maggior<br />

parte dei casi, l’ora della liberazione non è stata lieta né spensierata:<br />

scoccava per lo più su uno sfondo tragico di distruzione, strage e<br />

sofferenza. In quel momento, in cui ci si sentiva ridiventare uomini, cioè<br />

responsabili, ritornavano le pene degli uomini: la pena della famiglia<br />

dispersa o perduta; del dolore universale intorno a sé; della propria estenuazione,<br />

che appariva non più medicabile, definitiva; della vita da<br />

ricominciare in mezzo alle macerie, spesso da soli. Non «piacer figlio<br />

d’affanno»: affanno figlio d’affanno. L’uscir di pena è stato un diletto<br />

solo per pochi fortunati, o solo per pochi istanti, o per animi molto<br />

semplici; quasi sempre ha coinciso con una fase d’angoscia.<br />

L’angoscia è nota a tutti, fin dall’infanzia, ed a tutti è noto che<br />

spesso è bianca, indifferenziata. É raro che rechi un’etichetta scritta in<br />

chiaro, e contenente la sua motivazione; quando la reca, spesso essa è<br />

mendace. Si può credersi o dichiararsi angosciati per un motivo, ed<br />

esserlo per tutt’altro: credere di soffrire davanti al futuro, e soffrire<br />

51


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

invece per il proprio passato; credere di soffrire per gli altri, per pietà,<br />

per compassione, e soffrire invece per motivi nostri, più o meno<br />

profondi, più o meno confessabili e confessati; talvolta così profondi<br />

che solo lo specialista, l’analista delle anime, li sa disseppellire.<br />

Naturalmente non oso affermare che il copione a cui ho<br />

accennato sia falso in ogni caso. Molte liberazioni sono state vissute<br />

con gioia piena, autentica: soprattutto da parte dei combattenti,<br />

militari o politici, che vedevano realizzarsi in quel momento le<br />

aspirazioni della loro militanza e della loro vita; inoltre, da parte di chi<br />

aveva sofferto di meno, o per meno tempo, o soltanto in proprio, e non<br />

per famigliari o amici o persone amate. E poi, per fortuna, gli esseri<br />

umani non sono tutti uguali: c’è fra noi anche chi ha la virtù ed il<br />

privilegio di enucleare, isolare quegli istanti di allegrezza, di goderli<br />

appieno, come chi estraesse l’oro nativo dalla ganga. E finalmente, tra<br />

le testimonianze lette od ascoltate, ci sono anche quelle inconsciamente<br />

stilizzate, in cui la convenzione prevale sulla memoria genuina:<br />

«chi è liberato dalla schiavitù ne gode, io ne sono stato liberato, quindi<br />

ne ho goduto anch’io. In tutti i film, in tutti i romanzi, come nel<br />

Fidelio, la rottura delle catene è un momento di letizia solenne o<br />

fervida, quindi anche la mia lo è stata». É questo un caso particolare di<br />

quella deriva dei ricordi a cui accennavo nel primo capitolo, e che si<br />

accentua col passare degli anni e con l’accumularsi delle esperienze<br />

altrui, vere o presunte, sullo strato delle proprie. Ma chi, per proposito<br />

o per temperamento, si tiene lontano dalla retorica, parla di solito con<br />

voce diversa. Così ad esempio descrive la sua liberazione il già<br />

nominato Filip Müller, che pure ha avuto un’esperienza assai più<br />

terribile della mia, nell’ultima pagina del suo memoriale, Eyewitness<br />

Auschwitz - Three Years in the Gas Chambers:<br />

Per quanto possa sembrare incredibile, provai un completo<br />

abbattimento. Quel momento, su cui da tre anni si erano concentrati<br />

tutti i miei pensieri ed i miei desideri segreti, non suscitò in me né<br />

felicità né alcun altro sentimento. Mi lasciai cadere dal mio giaciglio e<br />

andai carponi fino alla porta. Una volta che fui fuori, mi sforzai<br />

invano di proseguire, poi mi sdraiai semplicemente a terra nel bosco e<br />

caddi nel sonno.<br />

52


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Rileggo ora un passo di La tregua. Il libro è stato pubblicato solo<br />

nel 1963 (Einaudi, Torino) ma queste parole le avevo scritte fin dal<br />

1947; si parla dei primi soldati russi al cospetto del nostro Lager<br />

gremito di cadaveri e di moribondi:<br />

Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che<br />

da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e<br />

avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a<br />

noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni<br />

volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna<br />

che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla<br />

colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata<br />

introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che<br />

la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.<br />

Non credo di avere nulla da cancellare o da correggere, bensì<br />

qualcosa da aggiungere. Che molti (ed io stesso) abbiano provato<br />

«vergogna», e cioè senso di colpa, durante la prigionia e dopo, è un<br />

fatto accertato e confermato da numerose testimonianze. Può sembrare<br />

assurdo, ma esiste. Cercherò di interpretarlo in proprio, e di<br />

commentare le interpretazioni altrui.<br />

Come ho accennato all’inizio, il disagio indefinito che<br />

accompagnava la liberazione forse non era propriamente vergogna,<br />

ma come tale veniva percepito. Perché? Si possono tentare varie<br />

spiegazioni.<br />

Escluderò da questo esame alcuni casi eccezionali: i prigionieri,<br />

quasi tutti politici, che ebbero la forza e la possibilità di agire all’interno<br />

del Lager a difesa e vantaggio dei loro compagni. Noi, la quasi totalità<br />

dei prigionieri comuni, li ignoravamo, neppure ne sospettavamo<br />

l’esistenza: cosa logica, poiché, per ovvia necessità politica e poliziesca<br />

(la Sezione Politica di Auschwitz non era altro che un ramo della<br />

Gestapo), essi dovevano operare in segreto, non solo verso i tedeschi, ma<br />

verso tutti. In Auschwitz, impero concentrazionario che al mio tempo era<br />

costituito per il 95% da ebrei, questo reticolo politico era embrionale; io<br />

ho assistito ad un solo episodio che avrebbe dovuto farmi intuire<br />

qualcosa, se non fossi stato schiacciato dal travaglio di tutti i giorni.<br />

Verso il maggio 1944 il nostro quasi innocuo Kapò fu sostituito, e il<br />

nuovo arrivato si dimostrò un individuo temibile, tutti i Kapòs<br />

53


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

picchiavano: questo faceva parte ovvia delle loro mansioni, era il loro<br />

linguaggio, più o meno accettato; era del resto l’unico linguaggio che in<br />

quella perpetua Babele potesse veramente essere inteso da tutti. Nelle sue<br />

varie sfumature, veniva inteso come incitamento al lavoro, come<br />

ammonizione o punizione, e nella gerarchia delle sofferenze stava agli<br />

ultimi posti. Ora, il nuovo Kapò picchiava in modo diverso, in modo<br />

convulso, maligno, perverso: sul naso, sugli stinchi, sui genitali.<br />

Picchiava per far male, per produrre sofferenza e umiliazione. Neppure,<br />

come molti altri, per cieco odio razziale, ma con la volontà aperta di<br />

infliggere dolore, indiscriminatamente, e senza un pretesto, a tutti i suoi<br />

soggetti. È probabile che fosse un malato mentale, ma è chiaro che, in<br />

quelle condizioni, l’indulgenza che verso questi malati sentiamo oggi<br />

come doverosa laggiù sarebbe stata fuori luogo. Ne parlai con un collega,<br />

un comunista ebreo croato: che fare? come difendersi? agire collettivamente?<br />

Lui fece uno strano sorriso e mi disse solo: «Vedrai che<br />

non dura a lungo». Infatti, il picchiatore sparì entro una settimana. Ma<br />

anni più tardi, in un convegno di reduci, seppi che alcuni prigionieri<br />

politici addetti all’Ufficio del Lavoro all’interno del campo avevano il<br />

terrificante potere di sostituire i numeri di matricola sugli elenchi dei<br />

prigionieri destinati al gas. Chi aveva il modo e la volontà di agire così, di<br />

contrastare così o in altri modi la macchina del Lager, era al riparo dalla<br />

«vergogna»: o almeno da quella di cui sto parlando, poiché forse ne<br />

proverà un’altra. Altrettanto al riparo doveva essere Sivadjan, uomo<br />

silenzioso e tranquillo che ho nominato casualmente in Se questo è un<br />

uomo (Einaudi, Torino 1958) nel capitolo Il Canto di Ulisse, e di cui ho<br />

saputo nella stessa occasione che introduceva esplosivo in campo, in vista<br />

di una possibile insurrezione.<br />

A mio avviso, il senso di vergogna o di colpa che coincideva con<br />

la riacquistata libertà era fortemente composito: conteneva in sé<br />

elementi diversi, ed in proporzioni diverse per ogni singolo individuo.<br />

Va ricordato che ognuno di noi, sia oggettivamente, sia soggettivamente,<br />

ha vissuto il Lager a suo modo.<br />

All’uscita dal buio, si soffriva per la riacquistata consapevolezza<br />

di essere stati menomati. Non per volontà né per ignavia né per colpa,<br />

avevamo tuttavia vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco: le<br />

54


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

nostre giornate erano state ingombrate dall’alba alla notte dalla fame,<br />

dalla fatica, dal freddo, dalla paura, e lo spazio di riflettere, per<br />

ragionare, per provare affetti, era annullato. Avevamo sopportato la<br />

sporcizia, la promiscuità e la destituzione soffrendone assai meno di<br />

quanto ne avremmo sofferto nella vita normale, perché il nostro metro<br />

morale era mutato. Inoltre, tutti avevamo rubato: alle cucine, alla<br />

fabbrica, al campo, insomma «agli altri», alla controparte, ma sempre<br />

furto era; alcuni (pochi) erano discesi fino a rubare il pane al proprio<br />

compagno. Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra<br />

cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato,<br />

perché, come gli animali, eravamo ristretti al momento<br />

presente. Da questa condizione di appiattimento eravamo usciti solo a<br />

rari intervalli, nelle pochissime domeniche di riposo, nei minuti fugaci<br />

prima di cadere nel sonno, durante la furia dei bombardamenti aerei,<br />

ma erano uscite dolorose, proprio perché ci davano occasione di<br />

misurare dal di fuori la nostra diminuzione.<br />

Credo che proprio a questo volgersi indietro a guardare l’«acqua<br />

perigliosa» siano dovuti i molti casi di suicidio dopo (a volte subito<br />

dopo) la liberazione. Era sempre un momento critico, che coincideva<br />

con un’ondata di ripensamento e di depressione. Per contro, tutti gli<br />

storici dei Lager, anche di quelli sovietici, concordano nell’osservare<br />

che i casi di suicidio durante la prigionia erano rari. Del fatto sono<br />

state tentate diverse spiegazioni; da parte mia, ne propongo tre, che<br />

non si escludono a vicenda.<br />

Primo: il suicidio è dell’uomo e non dell’animale, è cioè un atto<br />

meditato, una scelta non istintiva, non naturale; ed in Lager c’erano<br />

poche occasioni di scegliere, si viveva appunto come gli animali<br />

asserviti, che a volte si lasciano morire, ma non si uccidono. Secondo:<br />

«c’era altro da pensare», come si dice comunemente. La giornata era<br />

fitta: c’era da pensare a soddisfare la fame, a sottrarsi in qualche modo<br />

alla fatica e al freddo, ad evitare i colpi; proprio per la costante imminenza<br />

della morte, mancava il tempo per concentrarsi sull’idea della<br />

morte. Ha la ruvidezza della verità la notazione di Svevo, in La<br />

coscienza di Zeno, là dove descrive spietatamente l’agonia del padre:<br />

« Quando si muore si ha ben altro da fare che di pensare alla morte.<br />

55


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Tutto il suo organismo era dedicato alla respirazione». Terzo: nella<br />

maggior parte dei casi, il suicidio nasce da un senso di colpa che<br />

nessuna punizione è venuta ad attenuare; ora, la durezza della prigionia<br />

veniva percepita come una punizione, ed il senso di colpa (se<br />

punizione c’è, una colpa dev’esserci stata) veniva relegato in secondo<br />

piano per riemergere dopo la liberazione: in altre parole, non occorreva<br />

punirsi col suicidio per una (vera o presunta) colpa che già si<br />

stava espiando con la sofferenza di tutti i giorni.<br />

Quale colpa? A cose finite, emergeva la consapevolezza di non<br />

aver fatto nulla, o non abbastanza, contro il sistema in cui eravamo<br />

stati assorbiti. Della mancata resistenza nei Lager, o meglio in alcuni<br />

Lager, si è parlato troppo e troppo leggermente, soprattutto da parte di<br />

chi aveva ben altre colpe di cui rendere conto. Chi ha provato sa che<br />

esistevano situazioni, collettive e personali, in cui una resistenza attiva<br />

era possibile; altre, molto più frequenti, in cui non lo era. E noto che,<br />

specialmente nel 1941, caddero in mano tedesca milioni di prigionieri<br />

militari sovietici. Erano giovani, per lo più ben nutriti e robusti,<br />

avevano una preparazione militare e politica, spesso costituivano unità<br />

organiche con graduati di truppa, sottufficiali e ufficiali; odiavano i<br />

tedeschi che avevano invaso il loro paese; eppure raramente<br />

resistettero. La denutrizione, la spogliazione e gli altri disagi fisici,<br />

che è così facile ed economico provocare ed in cui i nazisti erano<br />

maestri, sono rapidamente distruttivi, e prima di distruggere<br />

paralizzano; tanto più quando sono preceduti da anni di segregazione,<br />

umiliazioni, maltrattamenti, migrazioni forzate, lacerazione dei legami<br />

famigliari, rottura dei contatti col resto del mondo. Ora, era questa la<br />

condizione del grosso dei prigionieri che erano approdati ad<br />

Auschwitz dopo l’antinferno dei ghetti o dei campi di raccolta.<br />

Perciò, sul piano razionale, non ci sarebbe stato molto di cui<br />

vergognarsi, ma la vergogna restava ugualmente, soprattutto davanti ai<br />

pochi, lucidi esempi di chi di resistere aveva avuto la forza e la<br />

possibilità; vi ho accennato nel capitolo L’ultimo di Se questo è un<br />

uomo, in cui si descrive l’impiccagione pubblica di un resistente, davanti<br />

alla folla atterrita ed apatica dei prigionieri. E un pensiero che allora<br />

ci aveva appena sfiorati, ma che è ritornato «dopo»: anche tu forse<br />

56


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

avresti potuto, certo avresti dovuto; ed è un giudizio che il reduce vede,<br />

o crede di vedere, negli occhi di coloro (specialmente dei giovani) che<br />

ascoltano i suoi racconti, e giudicano con il facile senno del poi; o che<br />

magari si sente spietatamente rivolgere. Consapevolmente o no, si sente<br />

imputato e giudicato, spinto a giustificarsi ed a difendersi.<br />

Più realistica è l’autoaccusa, o l’accusa, di aver mancato sotto<br />

l’aspetto della solidarietà umana. Pochi superstiti si sentono colpevoli<br />

di aver deliberatamente danneggiato, derubato, percosso un compagno:<br />

chi lo ha fatto (i Kapòs, ma non solo loro) ne rimuove il ricordo;<br />

per contro, quasi tutti si sentono colpevoli di omissione di soccorso.<br />

La presenza al tuo fianco di un compagno più debole, o più<br />

sprovveduto, o più vecchio, o troppo giovane, che ti ossessiona con le<br />

sue richieste d’aiuto, o col suo semplice «esserci» che già di per sé è<br />

una preghiera, è una costante della vita in Lager. La richiesta di<br />

solidarietà, di una parola umana, di un consiglio, anche solo di un<br />

ascolto, era permanente ed universale, ma veniva soddisfatta di rado.<br />

Mancava il tempo, lo spazio, la privatezza, la pazienza, la forza; per lo<br />

più, colui a cui la richiesta veniva rivolta si trovava a sua volta in stato<br />

di bisogno, di credito.<br />

Ricordo con un certo sollievo di avere una volta cercato di ridare<br />

coraggio (in un momento in cui sentivo di averne) ad un diciottenne<br />

italiano appena arrivato, che si dibatteva nella disperazione senza<br />

fondo dei primi giorni di campo: ho scordato che cosa gli ho detto,<br />

certo parole di speranza, forse qualche bugia buona per un «nuovo»,<br />

detta con l’autorità dei miei venticinque anni e dei miei tre mesi di<br />

anzianità; comunque, gli ho fatto dono di un’attenzione momentanea.<br />

Ma ricordo anche, con disagio, di avere molto più spesso scosso le<br />

spalle con impazienza davanti ad altre richieste, e questo proprio<br />

quando ero in campo da quasi un anno, e quindi avevo accumulato<br />

una buona dose di esperienza: ma avevo anche assimilato a fondo la<br />

regola principale del luogo, che prescriveva di badare prima di tutto a<br />

se stessi. Mai ho trovato espressa questa regola con tanta franchezza<br />

quanto nel libro Prisoners of Fear (Victor Gollancz, London 1958) di<br />

Ella Lingens-Reiner (in cui però la frase viene attribuita ad una<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

dottoressa che, contro il suo enunciato, si dimostrò generosa e<br />

coraggiosa e salvò molte vite):<br />

Come ho potuto sopravvivere ad Auschwitz? Il mio principio è: per<br />

prima, per seconda e per terza vengo io. Poi più niente. Poi io di<br />

nuovo; e poi tutti gli altri.<br />

Nell’agosto del 1944 ad Auschwitz faceva molto caldo. Un vento<br />

torrido, tropicale, sollevava nuvole di polvere dagli edifici sconquas-sati<br />

dai bombardamenti aerei, ci asciugava il sudore addosso e ci addensava il<br />

sangue nelle vene. La mia squadra era stata mandata in una cantina a<br />

sgomberare i calcinacci, e tutti soffrivamo per la sete: una pena nuova,<br />

che si sommava, anzi, si moltiplicava con quella vecchia della fame. Né<br />

nel campo né nel cantiere c’era acqua potabile; in quei giorni mancava<br />

spesso anche l’acqua dei lavatoi, imbevibile, ma buona per rinfrescarsi e<br />

detergersi dalla polvere. Di norma, a soddisfare la sete bastava<br />

abbondantemente la zuppa della sera e il surrogato di caffè che veniva<br />

distribuito verso le dieci del mattino; ora non bastavano più, e la sete ci<br />

straziava. É più imperiosa della fame: la fame obbedisce ai nervi,<br />

concede remissioni, può essere temporaneamente coperta da<br />

un’emozione, un dolore, una paura (ce ne eravamo accorti nel viaggio in<br />

treno dall’Italia); non così la sete, che non dà tregua. La fame estenua, la<br />

sete rende furiosi; in quei giorni ci accompagnava di giorno e di notte: di<br />

giorno, nel cantiere, il cui ordine (a noi nemico, ma era pur sempre un<br />

ordine, un luogo di cose logiche e certe) si era trasformato in un caos di<br />

opere frantumate; di notte, nelle baracche prive di ventilazione, a<br />

boccheggiare nell’aria cento volte respirata.<br />

L’angolo di cantina che mi era stato assegnato dal Kapò perché<br />

ne sgombrassi le macerie era attiguo ad un vasto locale occupato da<br />

impianti chimici in corso di installazione ma già danneggiati dalle<br />

bombe. Lungo il muro, verticale, c’era un tubo da due pollici, che<br />

terminava con un rubinetto poco sopra il pavimento. Un tubo d’acqua?<br />

Provai ad aprirlo, ero solo, nessuno mi vedeva. Era bloccato, ma<br />

usando un sasso come un martello riuscii a smuoverlo di qualche<br />

millimetro.. Ne uscirono gocce, non avevano odore, ne raccolsi sulle<br />

dita: sembrava proprio acqua. Non avevo recipienti; le gocce uscivano<br />

lente, senza pressione: il tubo doveva essere pieno solo fino a metà,<br />

58


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

forse meno. Mi sdraiai a terra con la bocca sotto il rubinetto, senza<br />

tentare di aprirlo di più: era acqua tiepida per il sole, insipida, forse<br />

distillata o di condensazione; ad ogni modo, una delizia.<br />

Quant’acqua può contenere un tubo da due pollici per un’altezza<br />

di un metro o due? Un litro, forse neanche. Potevo berla tutta subito,<br />

sarebbe stata la via più sicura. O lasciarne un po’ per l’indomani. O<br />

dividerla a metà con Alberto. O rivelare il segreto a tutta la squadra.<br />

Scelsi la terza alternativa, quella dell’egoismo esteso a chi ti è più<br />

vicino, che un mio amico in tempi lontani ha appropriatamente<br />

chiamano «nosismo». Bevemmo tutta quell’acqua, a piccoli sorsi<br />

avari, alternandoci sotto il rubinetto, noi due soli. Di nascosto; ma<br />

nella marcia di ritorno al campo mi trovai accanto a Daniele, tutto grigio<br />

di polvere di cemento, che aveva le labbra spaccate e gli occhi<br />

lucidi, e mi sentii colpevole. Scambiai un’occhiata con Alberto, ci<br />

comprendemmo a volo, e sperammo che nessuno ci avesse visti. Ma<br />

Daniele ci aveva intravisti in quella strana posizione, supini accanto al<br />

muro in mezzo ai calcinacci, ed aveva sospettato qualcosa, e poi aveva<br />

indovinato. Me lo disse con durezza, molti mesi dopo, in Russia<br />

Bianca, a liberazione avvenuta: perché voi due sì e io no? Era il codice<br />

morale «civile» che risorgeva, quello stesso per cui a me uomo oggi<br />

libero appare raggelante la condanna a morte del Kapò picchiatore,<br />

decisa e compiuta senza appello, in silenzio, con un colpo di gomma<br />

per cancellare. É giustificata o no la vergogna del poi? Non sono<br />

riuscito a stabilirlo allora, e neppure oggi ci riesco, ma la vergogna c<br />

era e c’è, concreta, pesante, perenne. Daniele adesso è morto, ma nei<br />

nostri incontri di reduci, fraterni, affettuosi, il velo di quell’atto<br />

mancato, di quel bicchier d’acqua non condiviso, stava fra noi,<br />

trasparente, non espresso, ma percettibile e «costoso».<br />

Cambiare codice morale è sempre costoso: lo sanno tutti gli<br />

eretici, gli apostati e i dissidenti. Non siamo più capaci di giudicare il<br />

comportamento nostro od altrui, tenuto allora sotto il codice di allora,<br />

in base al codice di oggi; ma mi pare giusta la collera che ci invade<br />

quando vediamo che qualcuno degli «altri » si sente autorizzato a<br />

giudicare noi « apostati», o meglio riconvertiti.<br />

59


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di<br />

un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di<br />

vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi<br />

ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato<br />

o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai<br />

soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?),<br />

non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte...), non hai<br />

rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. É solo una<br />

supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di<br />

suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico «noi» in un senso<br />

molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e<br />

viva in vece sua. É una supposizione, ma rode; si è annidata profonda,<br />

come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride.<br />

Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico più<br />

anziano di me, mite ed intransigente, cultore di una religione sua<br />

personale, che però mi è sempre parsa severa e seria. Era contento di<br />

ritrovarmi vivo e sostanzialmente indenne, forse maturato e fortificato,<br />

certamente arricchito. Mi disse che l’essere io sopravvissuto non poteva<br />

essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate<br />

(come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un<br />

contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente<br />

dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato.<br />

E perché proprio io? Non lo si può sapere, mi rispose. Forse perché<br />

scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza: non stavo infatti scrivendo<br />

allora, nel 1946, un libro sulla mia prigionia?<br />

Questa opinione mi parve mostruosa. Mi dolse come quando si<br />

tocca un nervo scoperto, e ravvivò il dubbio di cui dicevo prima:<br />

potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei avere<br />

soppiantato, cioè di fatto ucciso. I «salvati» del Lager non erano i<br />

migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo<br />

visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di<br />

preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori<br />

della « zona grigia», le spie. Non era una regola certa (non<br />

c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una<br />

60


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato fra i salvati, e perciò<br />

alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei<br />

e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori<br />

sono morti tutti.<br />

É morto Chajim, orologiaio di Cracovia, ebreo pio, che a dispetto<br />

delle difficoltà di linguaggio si era sforzato di capirmi e di farsi capire, e<br />

di spiegare a me straniero le regole essenziali di sopravvivenza nei<br />

primi giorni cruciali di cattività; è morto Szabò, il taciturno contadino<br />

ungherese, che era alto quasi due metri e perciò aveva più fame di tutti,<br />

eppure, finché ebbe forza, non esitò ad aiutare i compagni più deboli a<br />

tirare ed a spingere; e Robert, professore alla Sorbona, che emanava<br />

coraggio e fiducia intorno a sé, parlava cinque lingue, si logorava a<br />

registrare tutto nella sua memoria prodigiosa, e se avesse vissuto<br />

avrebbe risposto ai perché a cui io non so rispondere; ed è morto<br />

Baruch, scaricatore del porto di Livorno, subito, il primo giorno, perché<br />

aveva risposto a pugni al primo pugno che aveva ricevuto, ed è stato<br />

massacrato da tre Kapòs coalizzati. Questi, ed altri innumerevoli, sono<br />

morti non malgrado il loro valore, ma per il loro valore.<br />

L’amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché<br />

portassi testimonianza. L’ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei<br />

potuto non farlo; e ancora lo faccio, ogni volta che se ne presenta<br />

l’occasione; ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto<br />

fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti<br />

anni senza grossi problemi, mi inquieta, perché non vedo proporzione<br />

fra il privilegio e il risultato.<br />

Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa<br />

una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco,<br />

leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi<br />

sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo<br />

quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno<br />

toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato<br />

per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i «mussulmani», i<br />

sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe<br />

avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione. Sotto<br />

61


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

altro cielo, e reduce da una schiavitù simile e diversa, lo ha notato<br />

anche Solženicyn:<br />

Quasi tutti coloro che hanno scontato una lunga pena e con i quali vi<br />

congratulate perché sono dei sopravvissuti, sono senz’altro dei<br />

pridurki o lo sono stati per la maggior parte della prigionia. Perché i<br />

Lager sono di sterminio, questo non va dimenticato.<br />

Nel linguaggio di quell’altro universo concentrazionario, i<br />

pridurki sono i prigionieri che, in un modo o nell’ altro, si sono<br />

conquistati una posizione di privilegio, quelli che da noi si<br />

chiamavano i Prominenti.<br />

Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore<br />

sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello<br />

degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso «per conto<br />

di terzi», il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in<br />

proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non<br />

l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la<br />

sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non<br />

avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di<br />

quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già<br />

perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi.<br />

Parliamo noi in loro vece, per delega.<br />

Non saprei dire se lo abbiamo fatto, o lo facciamo, per una sorta di<br />

obbligo morale verso gli ammutoliti, o non invece per liberarci del loro<br />

ricordo; certo lo facciamo per un impulso forte e durevole. Non credo che<br />

gli psicoanalisti (che sui nostri grovigli si sono gettati con avidità<br />

professionale) siano competenti a spiegare questo impulso. La loro<br />

sapienza è stata costruita e collaudata «fuori», nel mondo che per<br />

semplicità chiamiamo civile: ne ricalca la fenomenologia e cerca di<br />

spiegarla; ne studia le deviazioni e cerca di guarirle. Le loro interpretazioni,<br />

anche quelle di chi, come Bruno Bettelheim, ha attraversato la<br />

prova del Lager, mi sembrano approssimative e semplificate, come di chi<br />

volesse applicare i teoremi della geometria piana alla risoluzione dei<br />

triangoli sferici. I meccanismi mentali degli Häftlinge erano diversi dai<br />

nostri; curiosamente, e parallelamente, diversa era anche la loro fisiologia<br />

e patologia. In Lager, il raffreddore e l’infIluenza erano sconosciuti, ma si<br />

62


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

moriva, a volte di colpo, per mali che i medici non hanno mai avuto<br />

occasione di studiare. Guarivano (o diventavano asintomatiche) le ulcere<br />

gastriche e le malattie mentali, ma tutti soffrivano di un disagio<br />

incessante, che inquinava il sonno e che non ha nome. Definirlo «<br />

nevrosi» è riduttivo e ridicolo. Forse sarebbe più giusto riconoscervi<br />

un’angoscia atavica, quella di cui si sente l’eco nel secondo versetto della<br />

Genesi: l’angoscia inscritta in ognuno del «tòhu vavòhu», dell’universo<br />

deserto e vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio, ma da cui lo spirito<br />

dell’uomo è assente: non ancora nato o già spento.<br />

E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. E stato<br />

detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a<br />

proposito e non, che «nessun uomo è un’isola», e che ogni campana di<br />

morte suona per ognuno. Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, o<br />

alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene<br />

toccato: così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni<br />

hitleriani, nell’illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il<br />

non sapere li alleviasse dalla loro quota di complicità o di connivenza.<br />

Ma a noi lo schermo dell’ignoranza voluta, il «partial shelter» di T. S.<br />

Eliot, è stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di<br />

dolore, passato e presente, ci circondava, ed il suo livello è salito di<br />

anno in anno fino quasi a sommergerci. Era inutile chiudere gli occhi<br />

o volgergli le spalle, perché era tutto intorno, in ogni direzione fino<br />

all’orizzonte. Non ci era possibile, né abbiamo voluto, essere isole; i<br />

giusti fra noi, non più né meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo<br />

umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la<br />

colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti<br />

coinvolti, perché sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro, ed<br />

in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere<br />

lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi<br />

insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole<br />

infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla,<br />

senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Ci viene chiesto sovente, come se il nostro passato ci conferisse<br />

una virtù profetica, se « Auschwitz » ritornerà: se avverranno cioè altri<br />

stermini di massa, unilaterali, sistematici, meccanizzati, voluti a<br />

livello di governo, perpetrati su popolazioni innocenti ed inermi, e<br />

legittimati dalla dottrina del disprezzo. Profeti, per nostra buona sorte,<br />

non siamo, ma qualcosa si può dire. Che una tragedia simile, quasi<br />

ignorata in Occidente, è avvenuta intorno al 1975 in Cambogia. Che la<br />

strage tedesca ha potuto innescarsi, e si è poi alimentata di se stessa,<br />

per brama di servitù e per pochezza d’animo, grazie alla combinazione<br />

di alcuni fattori (lo stato di guerra; il perfezionismo tecnologico ed<br />

organizzativo germanico; la volontà ed il carisma capovolto di Hitler;<br />

la mancanza, in Germania, di solide radici democratiche), non molto<br />

numerosi, ognuno di essi indispensabile ma insufficiente se preso da<br />

solo. Questi fattori si possono riprodurre, e in parte già si stanno<br />

riproducendo, in varie parti del mondo. La ricombinazione di tutti,<br />

entro dieci o vent’anni (di un futuro più lontano non ha senso parlare),<br />

è poco probabile ma non impossibile. A mio avviso, una strage di<br />

massa è particolarmente improbabile nel mondo occidentale, in<br />

Giappone ed anche in Unione Sovietica: i Lager della seconda guerra<br />

mondiale sono ancora nella memoria di molti, a livello sia di popolazione<br />

sia di governi, ed è in atto una sorta di difesa immunitaria che<br />

coincide ampiamente con la vergogna di cui ho parlato.<br />

Su cosa possa avvenire in altre parti del mondo, o dopo, è<br />

prudente sospendere il giudizio; e l’apocalissi nucleare, certamente<br />

bilaterale, probabilmente istantanea e definitiva, è un orrore maggiore<br />

e diverso, strano, nuovo, che esorbita dal tema che ho scelto.<br />

64


IV<br />

Comunicare<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Il termine « incomunicabilità », così di moda negli anni ‘70, non<br />

mi è mai piaciuto; in primo luogo perché è un mostro linguistico, in<br />

secondo per ragioni più personali.<br />

Nel mondo normale odierno, quello che per convenzione e per<br />

contrasto abbiamo volta a volta chiamato «civile» e «libero», non<br />

capita quasi mai di urtare contro una barriera linguistica totale: di<br />

trovarsi davanti ad un essere umano con cui dobbiamo assolutamente<br />

stabilire una comunicazione, pena la vita, e di non riuscirci. Ne ha<br />

dato un esempio famoso, ma incompleto, Antonioni in Deserto rosso,<br />

nell’episodio in cui la protagonista incontra nella notte un marinaio<br />

turco che non sa una parola di alcuna lingua salvo la sua, e tenta<br />

invano di farsi capire. Incompleto, perché da entrambe le parti, anche<br />

da quella del marinaio, la volontà di comunicare esiste: o almeno,<br />

manca la volontà di rifiutare il contatto.<br />

Secondo una teoria in voga in quegli anni, e che a me pare frivola<br />

ed irritante, l'«incomunicabilità» sarebbe un ingrediente immancabile,<br />

una condanna a vita inserita nella condizione umana, ed in specie nel<br />

modo di vivere della società industriale: siamo monadi, incapaci di<br />

messaggi reciproci, o capaci solo di messaggi monchi, falsi in<br />

partenza, fraintesi all’arrivo. Il discorso è fittizio, puro rumore, velo<br />

dipinto che copre il silenzio esistenziale; ohimé, siamo soli, anche se<br />

(o specialmente se) viviamo in coppia. Mi pare che questa<br />

lamentazione proceda da pigrizia mentale e la denunci; certamente la<br />

incoraggia, in un pericoloso circolo vizioso. Salvo casi di incapacità<br />

65


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

patologica, comunicare si può e si deve: è un modo utile e facile di<br />

contribuire alla pace altrui e propria, perché il silenzio, l’assenza di<br />

segnali, è a sua volta un segnale, ma ambiguo, e l’ambiguità genera<br />

inquietudine e sospetto. Negare che comunicare si può è falso: si può<br />

sempre. Rifiutare di comunicare è colpa; per la comunicazione, ed in<br />

specie per quella sua forma altamente evoluta e nobile che è il<br />

linguaggio, siamo biologicamente e socialmente predisposti. Tutte le<br />

razze umane parlano; nessuna specie non-umana sa parlare.<br />

Anche sotto l’aspetto della comunicazione, anzi, della mancata<br />

comunicazione, l’esperienza di noi reduci è peculiare. É un nostro<br />

fastidioso vezzo intervenire quando qualcuno (i figli!) parla di freddo,<br />

di fame o di fatica. Che cosa ne sapete, voi? Avreste dovuto provare le<br />

nostre. Per ragioni di buon gusto e di buon vicinato, noi cerchiamo in<br />

generale di resistere alla tentazione di questi interventi da miles<br />

gloriosus; la quale, tuttavia, per me diventa imperiosa appunto quando<br />

sento parlare di comunicazione mancata o impossibile. «Avreste dovuto<br />

provare la nostra». Non è confrontabile con quella del turista che va in<br />

Finlandia o in Giappone, e trova interlocutori alloglotti ma professionalmente<br />

(od anche spontaneamente) gentili e ben intenzionati, che si<br />

sforzano di capirlo e di essergli d’aiuto: oltre tutto, chi è che in qualsiasi<br />

angolo del mondo non mastica un po’ d’inglese? E le richieste dei<br />

turisti sono poche, sempre le stesse: quindi le aporie sono rare, e il<br />

quasi-non-capirsi può addirittura essere divertente come un gioco.<br />

É certamente più drammatico il caso dell’emigrante, italiano in<br />

America cento anni fa, turco o marocchino o pachistano in Germania<br />

o in Svezia oggi. Qui non è più una breve esplorazione senza<br />

imprevisti, condotta lungo le piste ben collaudate delle agenzie di<br />

viaggio: è un trapianto, forse definitivo; è un inserimento in un lavoro<br />

che oggi è raramente elementare, ed in cui la comprensione della<br />

parola, pronunciata o scritta, è necessaria; comporta rapporti umani<br />

indispensabili con i vicini di casa, i bottegai, i colleghi, i superiori: sul<br />

lavoro, in strada, al bar, con gente straniera, di costumi diversi, spesso<br />

ostile. Ma i correttivi non mancano, la stessa società capitalistica è<br />

intelligente quanto basta per capire che qui il suo profitto coincide<br />

ampiamente con il rendimento del «lavoratore ospite», e quindi con il<br />

66


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

suo benessere e il suo inserimento. Gli si concede di portarsi dietro la<br />

famiglia, cioè un pezzo di patria; gli si trova, bene o male, un alloggio;<br />

può (talvolta deve) frequentare scuole di lingua. Il sordomuto sbarcato<br />

dal treno viene aiutato, forse senza amore, non senza efficienza, e in<br />

breve riacquista la parola.<br />

Noi abbiamo vissuto l’incomunicabilità in modo più radicale. Mi<br />

riferisco in specie ai deportati italiani, jugoslavi e greci; in misura<br />

minore ai francesi, fra cui molti erano d’origine polacca o tedesca, ed<br />

alcuni, essendo alsaziani, capivano bene il tedesco; ed a molti<br />

ungheresi che venivano dalla campagna. Per noi italiani, l’urto contro<br />

la barriera linguistica è avvenuto drammaticamente già prima della<br />

deportazione, ancora in Italia, al momento in cui i funzionari della<br />

Pubblica Sicurezza italiana ci hanno ceduti con visibile riluttanza alle<br />

SS, che nel febbraio 1944 si erano arrogata la gestione del campo di<br />

smistamento di Fòssoli presso Modena. Ci siamo accorti subito, fin<br />

dai primi contatti con gli uomini sprezzanti dalle mostrine nere, che il<br />

sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Con chi li capiva, e<br />

rispondeva in modo articolato, si instaurava una parvenza di rapporto<br />

umano. Con chi non li capiva, i neri reagivano in un modo che ci stupì<br />

e spaventò: l’ordine, che era stato pronunciato con la voce tranquilla<br />

di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e<br />

rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o<br />

meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto<br />

del messaggio.<br />

Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed<br />

erano terrorizzati) arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di<br />

una variante dello stesso linguaggio: l’uso della parola per comunicare<br />

il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinché<br />

l’uomo sia uomo, era caduto in disuso. Era un segnale: per quegli altri,<br />

uomini non eravamo più: con noi, come con le vacche o i muli, non<br />

c’era una differenza sostanziale tra l’urlo e il pugno. Perché un cavallo<br />

corra o si fermi, svolti, tiri o smetta di tirare, non occorre venire a patti<br />

con lui o dargli spiegazioni dettagliate; basta un dizionario costituito<br />

da una dozzina di segni variamente assortiti ma univoci, non importa<br />

se acustici o tattili o visivi: trazione delle briglie, punture degli<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

speroni, urla, gesti, schiocchi di frusta, strombettii delle labbra, pacche<br />

sulla schiena, vanno tutti ugualmente bene. Parlargli sarebbe un’azione<br />

sciocca, come parlare da soli, o un patetismo ridicolo: tanto, che<br />

cosa capirebbe? Racconta Marsalek, nel suo libro Mauthausen (La<br />

Pietra, Milano 1977) che in questo Lager, ancora più mistilingue di<br />

Auschwitz, il nerbo di gomma si chiamava «der Dolmetscher», l’interprete:<br />

quello che si faceva capire da tutti.<br />

Infatti, l’uomo incolto (e i tedeschi di Hitler, e le SS in specie,<br />

erano paurosamente incolti: non erano stati «coltivati», o erano stati<br />

coltivati male) non sa distinguere nettamente fra chi non capisce la sua<br />

lingua e chi non capisce tout court. Ai giovani nazisti era stato martellato<br />

in testa che esisteva al mondo una sola civiltà, quella tedesca;<br />

tutte le altre, presenti o passate, erano accettabili solo in quanto<br />

contenessero in sé qualche elemento germanico. Perciò, chi non capiva<br />

né parlava il tedesco era per definizione un barbaro; se si ostinava a cercare<br />

di esprimersi nella sua lingua, anzi, nella sua non-lingua, bisognava<br />

farlo tacere a botte e rimetterlo al suo posto, a tirare, portare e spingere,<br />

poiché non era un Mensch, un essere umano. Mi torna alla memoria un<br />

episodio eloquente. Nel cantiere, il Kapò novellino di una squadra<br />

costituita in prevalenza di italiani, francesi e greci non s’era accorto che<br />

alle sue spalle si era avvicinato uno dei più temuti sorveglianti delle SS.<br />

Si volse di scatto, si mise sull’attenti tutto smarrito, ed enunciò la<br />

Meldung prescritta: «Kommando 83, quaranta-due uomini». Nel suo<br />

turbamento, aveva proprio detto «zweiundvierzig Mann», «uomini». Il<br />

milite lo corresse in tono burbero e paterno: non si dice così, si dice<br />

«zweiundvierzig Häftlinge», quarantadue prigionieri. Era un Kapò<br />

giovane, e perciò perdonabile, ma doveva imparare il mestiere, le<br />

convenienze sociali e le distanze gerarchiche.<br />

Questo «non essere parlati a» aveva effetti rapidi e devastanti. A<br />

chi non ti parla, o ti si indirizza con urli che ti sembrano inarticolati,<br />

non osi rivolgere la parola. Se hai la fortuna di trovare accanto a te<br />

qualcuno con cui hai una lingua comune, buon per te, potrai scambiare<br />

le tue impressioni, consigliarti con lui, sfogarti; se non trovi nessuno,<br />

la lingua ti si secca in pochi giorni, e con la lingua il pensiero.<br />

68


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Inoltre, sul piano dell’immediato, non capisci gli ordini ed i divieti,<br />

non decifri le prescrizioni, alcune futili e derisorie, altre fondamentali. Ti<br />

trovi insomma nel vuoto, e comprendi a tue spese che la comunicazione<br />

genera l’informazione, e che senza informazione non si vive. La maggior<br />

parte dei prigionieri che non conoscevano il tedesco, quindi quasi tutti gli<br />

italiani, sono morti nei primi dieci-quindici giorni dal loro arrivo: a prima<br />

vista, per fame, freddo, fatica, malattia; ad un esame più attento, per<br />

insufficienza d’informazione. Se avessero potuto comunicare con i<br />

compagni più anziani, avrebbero potuto orientarsi meglio: imparare<br />

prima a procurarsi abiti, scarpe, cibo illegale; a scansare il lavoro più<br />

duro, e gli incontri spesso mortali con le SS; a gestire senza errori fatali le<br />

inevitabili malattie. Non intendo dire che non sarebbero morti, ma<br />

avrebbero vissuto più a lungo, ed avrebbero avuto maggiori possibilità di<br />

riguadagnare il terreno perduto.<br />

Nella memoria di tutti noi superstiti, e scarsamente poliglotti, i<br />

primi giorni di Lager sono rimasti impressi nella forma di un film<br />

sfuocato e frenetico, pieno di fracasso e di furia e privo di significato:<br />

un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un<br />

continuo assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana<br />

non affiorava. Un film in grigio e nero, sonoro ma non parlato.<br />

Ho notato, su me stesso e su altri reduci, un effetto curioso di<br />

questo vuoto e bisogno di comunicazione. A distanza di quarant’anni,<br />

ricordiamo ancora, in forma puramente acustica, parole e frasi<br />

pronunciate intorno a noi in lingue che non conoscevamo né abbiamo<br />

imparato dopo: per me, ad esempio, in polacco o in ungherese. Ancora<br />

oggi io ricordo come si enunciava in polacco non il mio numero di<br />

matricola, ma quello del prigioniero che mi precedeva nel ruolino di<br />

una certa baracca: un groviglio di suoni che terminava armoniosamente,<br />

come le indecifrabili contine dei bambini, in qualcosa come «stergìsci<br />

stèri» (oggi so che queste due parole vogliono dire «quarantaquattro»).<br />

Infatti, in quella baracca erano polacchi il distributore della zuppa e la<br />

maggior parte dei prigionieri, e il polacco era la lingua ufficiale; quando<br />

si veniva chiamati, bisognava stare pronti con la gamella tesa per non<br />

perdere il turno, e perciò, per non essere colti di sorpresa, era bene<br />

scattare quando era chiamato il compagno col numero di matricola<br />

69


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

immediatamente precedente. Quello « stergìsci stèri » funzionava anzi<br />

come il campanello che condizionava i cani di Pavlov: provocava una<br />

subitanea secrezione di saliva.<br />

Queste voci straniere si erano incise nelle nostre memorie come<br />

su un nastro magnetico vuoto, bianco; allo stesso modo, uno stomaco<br />

affamato assimila rapidamente anche un cibo indigesto. Non ci ha<br />

aiutati a ricordarle il loro senso, perché per noi non ne avevano;<br />

eppure, molto più tardi, le abbiamo recitate a persone che le potevano<br />

comprendere, e un senso, tenue e banale, lo avevano: erano<br />

imprecazioni, bestemmie, o frasette quotidiane spesso ripetute, come<br />

«che ora è?», o «non posso camminare», o « lasciami in pace». Erano<br />

frammenti strappati all’indistinto: frutto di uno sforzo inutile ed inconscio<br />

di ritagliare un senso entro l’insensato. Erano anche<br />

l’equivalente mentale del nostro bisogno corporeo di nutrimento, che<br />

ci spingeva a cercare le bucce di patate nei dintorni delle cucine: poco<br />

più del niente, meglio del niente. Anche il cervello sottoalimentato<br />

soffre di una sua fame specifica. O forse, questa memoria inutile e<br />

paradossa aveva un altro significato e un altro scopo: era una<br />

inconsapevole preparazione per il «dopo», per una improbabile<br />

sopravvivenza, in cui ogni brandello di esperienza sarebbe diventato<br />

un tassello di un vasto mosaico.<br />

Ho raccontato nelle prime pagine di La tregua un caso estremo di<br />

comunicazione necessaria e mancata: quello del bambino Hurbinek, di<br />

tre anni, forse nato clandestinamente in Lager, a cui nessuno aveva<br />

insegnato a parlare, e che di parlare provava un bisogno intenso,<br />

espresso da tutto il suo povero corpo. Anche sotto questo aspetto, il<br />

Lager era un laboratorio crudele in cui era dato assistere a situazioni e<br />

comportamenti mai visti né prima, né dopo, né altrove.<br />

Avevo imparato qualche parola di tedesco pochi anni prima, quando<br />

ero ancora studente, al solo scopo di intendere i testi di chimica e di fisica:<br />

non certo per trasmettere attivamente il mio pensiero né per comprendere il<br />

linguaggio parlato. Erano gli anni delle leggi razziali fasciste, ed un mio<br />

incontro con un tedesco, o un viaggio in Germania, sembravano eventi ben<br />

70


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

poco probabili. Scaraventato ad Auschwitz, nonostante lo smarrimento<br />

iniziale (anzi forse proprio grazie a quello) ho capito abbastanza presto che<br />

il mio scarsissimo Wortschatz era diventato un fattore di sopravvivenza<br />

essenziale. Wortschatz significa «patrimonio lessicale», ma alla lettera<br />

«tesoro di parole»; mai termine è stato altrettanto appropriato. Sapere il<br />

tedesco era la vita: bastava che mi guardassi intorno. I compagni italiani<br />

che non lo capivano, cioè quasi tutti salvo qualche triestino, stavano annegando<br />

ad uno ad uno nel mare tempestoso del non-capire: non intendevano<br />

gli ordini, ricevevano schiaffi e calci senza comprenderne il perché.<br />

Nell’etica rudimentale del campo, era previsto che un colpo venisse in<br />

qualche modo giustificato, per facilitare lo stabilirsi dell’arco trasgressionepunizione-ravvedimento;<br />

quindi, spesso il Kapò o i suoi vice<br />

accompagnavano il pugno con un grugnito: «Sai perché?», a cui seguiva<br />

una sommaria «comunicazione di reato». Ma per i nuovi sordomuti questo<br />

cerimoniale era inutile. Si rifugiavano istintivamente negli angoli per avere<br />

le spalle coperte: l’aggressione poteva venire da tutte le direzioni. Si<br />

guardavano intorno con occhi smarriti, come animali presi in trappola, e<br />

tali in effetti erano diventati.<br />

Per molti italiani è stato vitale l’aiuto dei compagni francesi e<br />

spagnoli, le cui lingue erano meno «straniere» del tedesco. Ad<br />

Auschwitz non c’erano spagnoli, mentre i francesi (più precisamente: i<br />

deportati dalla Francia o dal Belgio) erano molti, nel 1944 forse il 10%<br />

del totale. Alcuni erano alsaziani, oppure erano ebrei tedeschi e polacchi<br />

che nel decennio precedente avevano cercato in Francia un<br />

rifugio che si era rivelato una trappola: tutti questi conoscevano bene o<br />

male il tedesco o il jiddisch. Gli altri, i francesi metropolitani. proletari<br />

o borghesi o intellettuali, avevano subìto uno o due anni prima una<br />

selezione analoga alla nostra: quelli che non capivano erano usciti di<br />

scena. I rimasti, quasi tutti «métèques», a suo tempo accolti in Francia<br />

piuttosto male, si erano presa una triste rivincita. Erano i nostri<br />

interpreti naturali: traducevano per noi i comandi e gli avvertimenti<br />

fondamentali della giornata, «alzarsi», «adunata», «in fila per il pane»,<br />

«chi ha le scarpe rotte?», «per tre», «per cinque», eccetera.<br />

Certo non bastava. Io supplicai uno di loro, un alsaziano, di<br />

tenermi un corso privato ed accelerato, distribuito in brevi lezioni<br />

71


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

somministrate sottovoce, fra il momento del coprifuoco e quello in cui<br />

cedevamo al sonno; lezioni da compensarsi con pane, altra moneta<br />

non c’era. Lui accettò, e credo che mai pane fu meglio speso. Mi<br />

spiegò che cosa significavano i ruggiti dei Kapòs e delle SS, i motti<br />

insulsi o ironici scritti in gotico sulle capriate della baracca, che cosa<br />

significavano i colori dei triangoli che portavamo al petto sopra il<br />

numero di matricola. Così mi accorsi che il tedesco del Lager,<br />

scheletrico, urlato, costellato di oscenità e di imprecazioni, aveva<br />

soltanto una vaga parentela col linguaggio preciso e austero dei miei<br />

testi di chimica, e col tedesco melodioso e raffinato delle poesie di<br />

Heine che mi recitava Clara, una mia compagna di studi.<br />

Non mi rendevo conto, e me ne resi conto solo molto più tardi,<br />

che il tedesco del Lager era una lingua a sé stante: per dirla appunto in<br />

tedesco, era orts- und zeitgebunden, legata al luogo ed al tempo. Era<br />

una variante, particolarmente imbarbarita, di quella che un filologo<br />

ebreo tedesco, Klemperer, aveva battezzata Lingua Tertii Imperii, la<br />

lingua del Terzo Reich, proponendone anzi l’acrostico LTI in analogia<br />

ironica con i cento altri (NSDAP, SS, SA, SD, KZ, RKPA, WVHA,<br />

RSHA, BDM...) cari alla Germania di allora.<br />

Sulla LTI, e sul suo equivalente italiano, si è già scritto molto,<br />

anche da parte di linguisti. É ovvia l’osservazione che, là dove si fa<br />

violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio; ed in Italia non<br />

abbiamo dimenticato le sciocche campagne fasciste contro i dialetti,<br />

contro i «barbarismi», contro i toponimi valdostani, valsusini,<br />

altoatesini, contro il «lei, servile e straniero». In Germania le cose<br />

stavano altrimenti: già da secoli la lingua tedesca aveva mostrato una<br />

spontanea avversione per le parole di origine non-germanica, per cui<br />

gli scienziati tedeschi si erano affannati a ribattezzare la bronchite in<br />

«aria-tubi-infiammazione», il duodeno in «dodici-dita-intestino» e<br />

l’acido piruvico in «brucia-uva-acido»; perciò, sotto questo aspetto, al<br />

nazismo che voleva purificare tutto restava ben poco da purificare. La<br />

LTI differiva dal tedesco di Goethe soprattutto per certi spostamenti<br />

semantici e per l’abuso di alcuni termini: ad esempio, gli aggettivi<br />

völkisch («nazionale, popolare»), che era diventato onnipresente e<br />

carico di albagia nazionalistica, e fanatisch, la cui connotazione da<br />

72


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

negativa si era fatta positiva. Ma nell’arcipelago dei Lager tedeschi si<br />

era delineato un linguaggio settoriale, un gergo, il «Lagerjargon»,<br />

suddiviso in sottogerghi specifici di ogni Lager, e strettamente imparentato<br />

con il vecchio tedesco delle caserme prussiane e con il nuovo<br />

tedesco delle SS. Non è strano che esso risulti parallelo al gergo dei<br />

campi di lavoro sovietici, vari termini del quale sono citati da<br />

Solženicyn: ognuno di questi trova il suo esatto riscontro nel<br />

Lagerjargon. La traduzione in tedesco dell’Arcipelago Gulag<br />

(Mondadori, Milano 1975) non deve aver presentato molte difficoltà:<br />

o se si, non terminologiche.<br />

Era comune a tutti i Lager il termine Muselmann, «mussulmano»,<br />

attribuito al prigioniero irreversibilmente esausto, estenuato, prossimo<br />

alla morte. Se ne sono proposte due spiegazioni, entrambe poco<br />

convincenti: il fatalismo, e le fasciature alla testa che potevano simulare<br />

un turbante. Esso è rispecchiato esattamente, anche nella sua cinica<br />

ironia, dal termine russo dochodjaga, letteralmente «arrivato alla fine»,<br />

«concluso». Nel Lager di Ravensbrück (l’unico esclusivamente<br />

femminile) lo stesso concetto veniva espresso, mi dice Lidia Rolfi, con i<br />

due sostantivi speculari Schmutzstück e Schmuckstück, rispettivamente<br />

«immondizia» e «gioiello», quasi omofoni, l’uno parodia dell’altro. Le<br />

italiane non ne capivano il senso raggelante, ed unificando i due termini<br />

pronunciavano «smistig». Anche Prominent è termine comune a tutti i<br />

sottogerghi. Dei «prominenti», i prigionieri che avevano fatto carriera, ho<br />

parlato diffusamente in Se questo è un uomo; essendo una componente<br />

indispensabile nella sociologia dei campi, esistevano anche in quelli<br />

sovietici, dove (l’ho ricordato nel terzo capitolo) erano detti pridurki.<br />

Ad Auschwitz «mangiare» si rendeva con fressen, verbo che in<br />

buon tedesco si applica soltanto agli animali. Per «vàttene» si usava<br />

l’espressione hau’ ab, imperativo del verbo abhauen; questo, in buona<br />

lingua, significa «tagliare, mozzare», ma nel gergo del Lager<br />

equivaleva a «andare all’inferno, levarsi di torno». Mi è accaduto una<br />

volta di usare in buona fede questa espressione (Jetzt hauen wir ab)<br />

poco dopo la fine della guerra, per prendere congedo da alcuni educati<br />

funzionari della Bayer dopo un colloquio d’affari. Era come se avessi<br />

detto «ora ci togliamo dai piedi». Mi guardarono stupiti: il termine<br />

73


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

apparteneva ad un registro linguistico diverso da quello in cui si era<br />

svolta la conversazione precedente, e non viene certo insegnato nei<br />

corsi scolastici di « lingua straniera». Spiegai loro che non avevo<br />

imparato il tedesco a scuola, bensì in un Lager di nome Auschwitz; ne<br />

nacque un certo imbarazzo, ma, essendo io in veste di compratore,<br />

continuarono a trattarmi con cortesia. Mi sono reso conto in seguito<br />

che anche la mia pronuncia è rozza, ma deliberatamente non ho<br />

cercato di ingentilirla; per lo stesso motivo non mi sono mai fatto<br />

asportare il tatuaggio dal braccio sinistro.<br />

Il Lagerjargon, come è naturale, era fortemente infIluenzato da<br />

altre lingue che venivano parlate nel Lager e nei dintorni: dal polacco,<br />

dal jiddisch, dal dialetto slesiano, più tardi dall’ungherese. Dal<br />

frastuono di fondo dei miei primi giorni di prigionia emersero subito,<br />

con insistenza, quattro o cinque espressioni che tedesche non erano:<br />

dovevano indicare, pensai, qualche oggetto od azione basilare, come<br />

lavoro, acqua, pane. Mi si erano incise nella memoria, nel curioso<br />

modo meccanico che ho descritto prima. Solo molto più tardi un<br />

amico polacco mi ha spiegato, malvolentieri, che volevano dire<br />

semplicemente «colera», «sangue di cane», «tuono», «figlio di<br />

puttana» e «fottuto»; i tre primi in funzione di interiezione.<br />

Il jiddisch era di fatto la seconda lingua del campo (sostituita più<br />

tardi dall’ungherese). Non solo non la capivo, ma sapevo solo<br />

vagamente della sua esistenza, in base a qualche citazione o storiella<br />

sentita da mio padre che per qualche anno aveva lavorato in Ungheria.<br />

Gli ebrei polacchi, russi, ungheresi erano stupiti che noi italiani non lo<br />

parlassimo: eravamo degli ebrei sospetti, da non fidarsene; oltre ad<br />

essere, naturalmente, dei «badoghlio» per le SS e dei «mussolini» per<br />

i francesi, per i greci e per i prigionieri politici. Anche a prescindere<br />

dai problemi di comunicazione, non era comodo essere ebrei italiani.<br />

Come ormai è noto dopo il meritato successo dei libri dei fratelli<br />

Singer e di tanti altri, il jiddisch è sostanzialmente un antico dialetto<br />

tedesco, diverso dal tedesco moderno come lessico e come pronuncia.<br />

Mi dava più angoscia del polacco, che non capivo affatto, perché<br />

«avrei dovuto capirlo». Lo ascoltavo con attenzione tesa: spesso mi era<br />

difficile capire se una frase rivolta a me, o pronunciata vicino a me,<br />

74


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

era tedesca o jiddisch o ibrida: infatti, alcuni ebrei polacchi bene<br />

intenzionati si sforzavano di tedeschizzare il loro jiddisch più che<br />

potevano, affinché io li comprendessi.<br />

Del jiddisch respirato nell’aria, ho ritrovato una traccia singolare<br />

in Se questo è un uomo. Nel capitolo Kraus è riportato un dialogo:<br />

Gounan, ebreo francese di origine polacca, si rivolge all’ungherese<br />

Kraus con la frase «Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden?»,<br />

che vale, tradotta parola per parola, «Piano, tu stupido uno, piano,<br />

capito?» Suonava un po’ strana, ma mi pareva proprio di averla sentita<br />

così (erano memorie recenti: scrivevo nel 1946), e l’ho trascritta tale e<br />

quale. Il traduttore tedesco non è rimasto convinto: dovevo aver<br />

sentito o ricordato male. Dopo una lunga discussione epistolare, mi ha<br />

proposto di ritoccare l’espressione, che a lui non sembrava accettabile.<br />

Infatti, nella traduzione poi pubblicata essa suona: «Langsam, du<br />

blöder Heini», dove Heini è il diminutivo di Heinrich, Enrico. Ma di<br />

recente, in un bel libro sulla storia e struttura del jiddisch (Mame<br />

Loshen, di J. Geipel, Journeyman, London 1982) ho trovato che è<br />

tipica di questa lingua la forma «Khamòyer du eyner!», «Asino tu<br />

uno!» La memoria meccanica aveva funzionato correttamente.<br />

Della comunicazione mancata o scarsa non soffrivano tutti in<br />

ugual misura. Il non soffrirne, l’accettare l’eclissi della parola, era un<br />

sintomo infausto: segnalava l’approssimarsi dell’indifferenza definitiva.<br />

Alcuni pochi, solitari per natura, o assuefatti all’isolamento già<br />

nella loro vita «civile», non davano segno di patirne; ma la maggior<br />

parte dei prigionieri che avevano superato la fase critica dell’iniziazione<br />

cercavano di difendersi, ciascuno a suo modo: chi mendicando<br />

brandelli d’informazione, chi propalando senza discernimento<br />

notizie trionfali o disastrose, vere o false o inventate, chi aguzzando<br />

occhi ed orecchi a cogliere ed a cercare di interpretare tutti i segni<br />

offerti dagli uomini, dalla terra e dal cielo. Ma alla scarsa<br />

comunicazione interna si sommava la scarsa comunicazione col<br />

mondo esterno. In alcuni Lager l’isolamento era totale; il mio,<br />

Monowitz-Auschwitz, sotto questo aspetto poteva considerarsi privi-<br />

75


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

legiato. Arrivavano, quasi ogni settimana, prigionieri «nuovi» da tutti i<br />

paesi dell’Europa occupata, e portavano notizie recenti, spesso come<br />

testimoni oculari; a dispetto dei divieti, e del pericolo di essere<br />

denunciati alla Gestapo, nell’enorme cantiere parlavamo con operai<br />

polacchi e tedeschi, a volte perfino con prigionieri di guerra inglesi;<br />

trovavamo nei bidoni delle immondizie giornali vecchi di qualche<br />

giorno, e li leggevamo avidamente. Un mio compagno di lavoro<br />

intraprendente, bilingue in quanto alsaziano, e giornalista di professione,<br />

si vantava addirittura di essersi abbonato al «Völlischer<br />

Beobachter», il più autorevole quotidiano della Germania di allora:<br />

che cosa c’era di più semplice? Aveva pregato un operaio tedesco,<br />

fidato, di abbonarsi, ed aveva rilevato l’abbonamento cedendogli un<br />

dente d’oro. Ogni mattina, nella lunga attesa dell’appello, ci radunava<br />

intorno a sé e ci faceva un accurato riassunto delle notizie del giorno.<br />

Il 7 giugno 1944 vedemmo andare al lavoro i prigionieri inglesi, e<br />

c’era in loro qualcosa di diverso: marciavano bene inquadrati,<br />

impettiti, sorridenti, marziali, con un passo talmente alacre che la<br />

sentinella tedesca che li scortava, un territoriale non più giovane,<br />

stentava a tenergli dietro. Ci salutarono col segno V della vittoria.<br />

Sapemmo il giorno dopo che da una loro radio clandestina avevano<br />

appreso la notizia dello sbarco alleato in Normandia, e fu un gran<br />

giorno anche per noi: la libertà sembrava a portata di mano. Ma nella<br />

maggior parte dei campi le cose stavano assai peggio. I nuovi arrivati<br />

provenivano da altri Lager o da ghetti a loro volta tagliati fuori dal<br />

mondo, e quindi portavano solo le orrende notizie locali. Non si<br />

lavorava, come noi, a contatto con lavoratori liberi di dieci o dodici<br />

paesi diversi, ma in aziende agricole, o in piccole officine, o in cave di<br />

pietra o sabbia, o addirittura in miniera: e nei Lager-miniera le<br />

condizioni erano le stesse che conducevano a morte gli schiavi di<br />

guerra dei romani e gli indios asserviti dagli spagnoli; talmente<br />

mortifere che nessuno è ritornato per descriverle. Le notizie «dal<br />

mondo», come si diceva, arrivavano saltuarie e vaghe. Ci si sentiva<br />

dimenticati, come i condannati che venivano lasciati morire nelle oubliettes<br />

del medioevo.<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Agli ebrei, nemici per antonomasia, impuri, seminatori di<br />

impurezza, distruttori del mondo, era vietata la comunicazione più<br />

preziosa, quella col paese d’origine e con la famiglia: chi ha provato<br />

l’esilio, in una qualsiasi delle sue tante forme, sa quanto si soffra<br />

quando questo nervo viene reciso. Ne nasce una mortale impressione<br />

di abbandono, ed anche un ingiusto risentimento: perché non mi<br />

scrivono, perché non mi aiutano, loro che sono liberi? Abbiamo avuto<br />

modo di capire bene, allora, che del grande continente della libertà la<br />

libertà di comunicare è una provincia importante. Come avviene per la<br />

salute, solo chi la perde si accorge di quanto valga. Ma non se ne<br />

soffre solo a livello individuale: nei paesi e nelle epoche in cui la<br />

comunicazione è impedita, appassiscono presto tutte le altre libertà;<br />

muore per inedia la discussione, dilaga l’ignoranza delle opinioni<br />

altrui, trionfano le opinioni imposte; ne è un esempio noto la folle<br />

genetica predicata in Urss da Lissenko, che, in mancanza di discussioni<br />

(i suoi contraddittori vennero esiliati in Siberia), compromise i<br />

raccolti per vent’anni. L’intolleranza tende a censurare, e la censura<br />

accresce l’ignoranza della ragione altrui e quindi l’intolleranza stessa:<br />

è un circolo vizioso rigido, difficile da spezzare.<br />

L’ora settimanale in cui i nostri compagni «politici» ricevevano la<br />

posta da casa era per noi la più sconsolata, quella in cui sentivamo tutto il<br />

peso dell’essere altri, estraniati, tagliati fuori dal nostro paese, anzi, dal<br />

genere umano. Era l’ora in cui sentivamo il tatuaggio bruciare come una<br />

ferita, e ci invadeva come una frana di fango la certezza che nessuno di<br />

noi sarebbe tornato. Del resto, se anche ci fosse stato concesso di scrivere<br />

una lettera, a chi l’avremmo indirizzata? Le famiglie degli ebrei d’Europa<br />

erano sommerse o disperse o distrutte.<br />

A me (l’ho raccontato in Lilìt [Einaudi, Torino 1981] è toccata la<br />

rarissima fortuna di poter scambiare alcune lettere con la mia famiglia.<br />

Ne sono debitore a due persone fra loro molto diverse: un muratore<br />

anziano quasi analfabeta, e una giovane donna coraggiosa, Bianca<br />

Guidetti Serra, che adesso è un noto avvocato. So che è stato questo<br />

uno dei fattori che mi hanno concesso di sopravvivere; ma, come ho<br />

detto prima, ognuno di noi superstiti è per più versi un’eccezione; cosa<br />

che noi stessi, per esorcizzare il passato, tendiamo a dimenticare.<br />

77


V Violenza inutile<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Il titolo di questo capitolo può apparire provocatorio o addirittura<br />

offensivo: esiste una violenza utile? Purtroppo sì. La morte, anche non<br />

provocata, anche la più clemente, è una violenza, ma è tristemente utile:<br />

un mondo di immortali (gli struldbruggs di Swift) non sarebbe<br />

concepibile né vivibile, sarebbe più violento del pur violento mondo<br />

attuale. Né è inutile, in generale, l’assassinio: Raskolnikov, uccidendo la<br />

vecchia usuraia, si proponeva uno scopo, anche se colpevole; così pure<br />

Princip a Sarajevo e i sequestratori di Aldo Moro in via Fani. Messi da<br />

parte i casi di follia omicida, chi uccide sa perché lo fa: per denaro, per<br />

sopprimere un nemico vero o presunto, per vendicare un’offesa. Le<br />

guerre sono detestabili, sono un pessimo modo di risolvere le controversie<br />

tra nazioni o tra fazioni, ma non si possono definire inutili: mirano ad<br />

uno scopo, magari iniquo o perverso. Non sono gratuite, non si<br />

propongono di infliggere sofferenze; le sofferenze ci sono, sono<br />

collettive, strazianti, ingiuste, ma sono un sottoprodotto, un di più. Ora, io<br />

credo che i dodici anni hitleriani abbiano condiviso la loro violenza con<br />

molti altri spazi-tempi storici, ma che siano stati caratterizzati da una<br />

diffusa violenza inutile, fine a se stessa, volta unicamente alla creazione<br />

di dolore; talora tesa ad uno scopo, ma sempre ridondante, sempre fuor di<br />

proporzione rispetto allo scopo medesimo.<br />

Ripensando con il senno del poi a quegli anni, che hanno<br />

devastato l’Europa ed infine la Germania stessa, ci si sente combattuti<br />

fra due giudizi: abbiamo assistito allo svolgimento razionale di un<br />

78


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

piano disumano, o ad una manifestazione (unica, per ora, nella storia,<br />

e tuttora mal spiegata) di follia collettiva? Logica intesa al male o<br />

assenza di logica? Come spesso nelle cose umane, le due alternative<br />

coesistevano. Non c’è dubbio che il disegno fondamentale del<br />

nazionalsocialismo aveva una sua razionalità: la spinta verso Oriente<br />

(vecchio sogno tedesco), la soffocazione del movimento operaio,<br />

l’egemonia sull’Europa continentale, l’annientamento del bolscevismo<br />

e del giudaismo, che Hitler semplicisticamente identificava fra loro, la<br />

spartizione del potere mondiale con Inghilterra e Stati Uniti, l’apoteosi<br />

della razza germanica con l’eliminazione «spartana» dei malati<br />

mentali e delle bocche inutili: tutti questi elementi erano fra loro<br />

compatibili, e deducibili da alcuni pochi postulati già esposti con<br />

innegabile chiarezza nel Mein Kampf. Arroganza e radicalismo, hybris<br />

e Gründlichkeit; logica insolente, non follia.<br />

Odiosi, ma non folli, erano anche i mezzi previsti per raggiungere<br />

i fini: scatenare aggressioni militari o guerre spietate, alimentare<br />

quinte colonne interne, trasferire intere popolazioni, o asservirle, o<br />

sterilizzarle, o sterminarle. Né Nietzsche né Hitler né Rosenberg erano<br />

pazzi quando ubriacavano se stessi e i loro seguaci con la loro<br />

predicazione del mito del superuomo, a cui tutto è concesso a<br />

riconoscimento della sua dogmatica e congenita superiorità; ma è<br />

degno di meditazione il fatto che tutti, il maestro e gli allievi, siano<br />

usciti progressivamente dalla realtà a mano a mano che la loro morale<br />

si andava scollando da quella morale, comune a tutti i tempi ed a tutte<br />

le civiltà, che è parte della nostra eredità umana, ed a cui da ultimo<br />

bisogna pur dare riconoscimento.<br />

La razionalità cessa, e i discepoli hanno ampiamente superato (e<br />

tradito!) il maestro, proprio nella pratica della crudeltà inutile. Il verbo<br />

di Nietzsche mi ripugna profondamente; stento a trovarvi<br />

un’affermazione che non coincida con il contrario di quanto mi piace<br />

pensare; mi infastidisce il suo tono oracolare; ma mi pare che non vi<br />

compaia mai il desiderio della sofferenza altrui. L’indifferenza sì,<br />

quasi in ogni pagina, ma mai la Schadenfreude, la gioia per il danno<br />

del prossimo, né tanto meno la gioia del far deliberatamente soffrire. Il<br />

dolore del volgo, degli Ungestalten, degli informi, dei non-nati-nobili,<br />

79


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

è un prezzo da pagare per l’avvento del regno degli eletti; è un male<br />

minore, comunque sempre un male; non è desiderabile in sé. Ben<br />

diversi erano il verbo e la prassi hitleriani.<br />

Molte delle inutili violenze naziste appartengono oramai alla storia:<br />

si pensi ai massacri «sproporzionati» delle Fosse Ardeatine, di Oradour,<br />

Lidice, Boves, Marzabotto e troppi altri, in cui il limite della rappresaglia,<br />

già intrinsecamente disumano, è stato enormemente sorpassato; ma altre<br />

minori, singole, rimangono scritte in caratteri indelebili nella memoria di<br />

ognuno di noi ex deportati, dettagli del grande quadro.<br />

Quasi sempre, all’inizio della sequenza del ricordo, sta il treno<br />

che ha segnato la partenza verso l’ignoto: non solo per ragioni<br />

cronologiche, ma anche per la crudeltà gratuita con cui venivano<br />

impiegati ad uno scopo inconsueto quegli (altrimenti innocui)<br />

convogli di comuni carri merci.<br />

Non c’è diario o racconto, fra i molti nostri, in cui non compaia il<br />

treno, il vagone piombato, trasformato da veicolo commerciale in<br />

prigione ambulante o addirittura in strumento di morte. É sempre<br />

stipato, ma pare di intravedere un rozzo calcolo nel numero di persone<br />

che, caso per caso, vi venivano compresse: da cinquanta a centoventi, a<br />

seconda della lunghezza del viaggio e del livello gerarchico che il<br />

sistema nazista assegnava al «materiale umano» trasportato. I convogli<br />

in partenza dall’Italia contenevano «solo» 50-60 persone per vagone<br />

(ebrei, politici, partigiani, povera gente rastrellata per le strade, militari<br />

catturati dopo lo sfacelo dell’8 settembre 1943): può essere che si sia<br />

tenuto conto delle distanze, o forse anche dell’impressione che queste<br />

tradotte potevano esercitare su eventuali testimoni presenti lungo il<br />

percorso. All’estremo opposto stavano i trasporti dall’Europa orientale:<br />

gli slavi, specialmente se ebrei, erano merce più vile, anzi, priva di<br />

qualsiasi valore; dovevano comunque morire, non importa se durante il<br />

viaggio o dopo. I convogli che trasportavano gli ebrei polacchi dai<br />

ghetti ai Lager, o da Lager a Lager, contenevano fino a 120 persone per<br />

ogni vagone: il viaggio era breve... Ora, 50 persone in un vagone merci<br />

stanno molto a disagio; possono sdraiarsi tutte simultaneamente per<br />

80


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

riposare, ma corpo contro corpo. Se sono 100 o più, anche un viaggio di<br />

poche ore è un inferno, si deve stare in piedi, o accovacciati a turno; e<br />

spesso, tra i viaggiatori, ci sono vecchi, ammalati, bambini, donne che<br />

allattano, pazzi, o individui che impazziscono durante il viaggio e per<br />

effetto del viaggio.<br />

Nella pratica dei trasporti ferroviari nazisti si distinguono<br />

variabili e costanti; non ci è dato sapere se alla loro base ci fosse un<br />

regolamento, o se i funzionari che vi erano preposti avessero mano<br />

libera. Costante era il consiglio ipocrita (o l’ordine) di portare con sé<br />

tutto quanto era possibile: specialmente l’oro, i gioielli, la valuta<br />

pregiata, le pellicce, in alcuni casi (certi trasporti di ebrei contadini<br />

dall’Ungheria e dalla Slovacchia) addirittura il bestiame minuto. «É<br />

tutta roba che vi potrà servire», veniva detto a mezza bocca e con aria<br />

complice dal personale di accompagnamento. Di fatto, era un<br />

autosaccheggio; era un artificio semplice ed ingegnoso per trasferire<br />

valori nel Reich, senza pubblicità né complicazioni burocratiche né<br />

trasporti speciali né timore di furti en route: infatti, all’arrivo tutto<br />

veniva sequestrato. Costante era la nudità totale dei vagoni; le autorità<br />

tedesche, per un viaggio che poteva durare anche due settimane (è il<br />

caso degli ebrei deportati da Salonicco) non provvedevano<br />

letteralmente nulla: né viveri, ne acqua, né stuoie o paglia sul<br />

pavimento di legno, né recipienti per i bisogni corporali, e neppure si<br />

curavano di avvertire le autorità locali, o i dirigenti (quando<br />

esistevano) dei campi di raccolta, di provvedere in qualche modo. Un<br />

avviso non sarebbe costato nulla: ma appunto, questa sistematica<br />

negligenza si risolveva in una inutile crudeltà, in una deliberata<br />

creazione di dolore che era fine a se stessa.<br />

In alcuni casi i prigionieri destinati alla deportazione erano in<br />

grado di imparare qualcosa dall’esperienza: avevano visto partire altri<br />

convogli, ed avevano imparato a spese dei loro predecessori che a<br />

tutte queste necessità logistiche dovevano provvedere loro stessi, del<br />

loro meglio, e compatibilmente con le limitazioni imposte dai tedeschi.<br />

E tipico il caso dei treni che partivano dal campo di raccolta di<br />

Westerbork, in Olanda; era un campo vastissimo, con decine di<br />

migliaia di prigionieri ebrei, e Berlino richiedeva al comandante locale<br />

81


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

che ogni settimana partisse un treno con circa mille deportati: in<br />

totale, partirono da Westerbork 93 treni, diretti ad Auschwitz, a<br />

Sobibòr e ad altri campi minori. I superstiti furono circa 500 e nessuno<br />

di questi aveva viaggiato nei primi convogli, i cui occupanti erano<br />

partiti alla cieca, nella speranza infondata che alle necessità più elementari<br />

per un viaggio di tre o quattro giorni si provvedesse d’ufficio;<br />

perciò non si sa quanti siano stati i morti durante il transito, né come il<br />

terribile viaggio si sia svolto, perché nessuno è tornato per raccontarlo.<br />

Ma dopo qualche settimana un addetto all’infermeria di Westerbork,<br />

osservatore perspicace, notò che i vagoni merci dei convogli erano<br />

sempre gli stessi: facevano la spola fra il Lager di partenza e quello di<br />

destinazione. Così avvenne che alcuni fra coloro che furono deportati<br />

successivamente poterono mandare messaggi nascosti nei vagoni che<br />

ritornavano vuoti, e da allora si poté provvedere almeno ad una scorta<br />

di viveri e d’acqua, e ad un mastello per gli escrementi.<br />

Il convoglio con cui sono stato deportato io, nel febbraio del<br />

1944, era il primo che partisse dal campo di raccolta di Fòssoli (altri<br />

erano partiti prima da Roma e da Milano, ma non ce n’era giunta<br />

notizia). Le SS, che poco prima avevano sottratto la gestione del<br />

campo alla Pubblica Sicurezza italiana, non diedero alcuna disposizione<br />

precisa per il viaggio; fecero soltanto sapere che sarebbe stato<br />

lungo, e lasciarono trapelare il consiglio interessato e ironico a cui ho<br />

accennato («Portate oro e gioielli, e soprattutto abiti di lana e pellicce,<br />

perché andate a lavorare in un paese freddo»). Il capocampo, deportato<br />

anche lui, ebbe il buon senso di procurare una scorta<br />

ragionevole di cibo, ma non d’acqua: l’acqua non costa nulla, non è<br />

vero? E i tedeschi non regalano niente, ma sono buoni organizzatori...<br />

Neppure pensò a munire ogni vagone di un recipiente che fungesse da<br />

latrina, e questa dimenticanza si dimostrò gravissima: provoco<br />

un’afflizione assai peggiore della sete e del freddo. Nel mio vagone<br />

c’erano parecchi anziani, uomini e donne: tra gli altri, c’erano al<br />

completo gli ospiti della casa di riposo israelitica di Venezia. Per tutti,<br />

ma specialmente per questi, evacuare in pubblico era angoscioso o<br />

impossibile: un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, una ferita<br />

profonda inferta alla dignità umana, un attentato osceno e pieno di<br />

82


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

presagio; ma anche il segnale di una malignità deliberata e gratuita.<br />

Per nostra paradossale fortuna (ma esito a scrivere questa parola in<br />

questo contesto), nel nostro vagone c’erano anche due giovani madri<br />

con i loro bambini di pochi mesi, e una di loro aveva portato con sé un<br />

vaso da notte: uno solo, e dovette servire per una cinquantina di<br />

persone. Dopo due giorni di viaggio trovammo chiodi confitti nelle<br />

pareti di legno, ne ripuntammo due in un angolo, e con uno spago e<br />

una coperta improvvisammo un riparo, sostanzialmente simbolico:<br />

non siamo ancora bestie, non lo saremo finché cercheremo di resistere.<br />

Che cosa sia avvenuto negli altri vagoni, privi di questa minima<br />

attrezzatura, è difficile immaginare. Il convoglio venne fermato due o<br />

tre volte in aperta campagna, le portiere dei vagoni furono aperte ed ai<br />

prigionieri fu concesso di scendere: ma non di allontanarsi dalla ferrovia<br />

né di appartarsi. Un’altra volta le portiere furono aperte, ma<br />

durante una fermata in una stazione austriaca di transito. Le SS della<br />

scorta non nascondevano il loro divertimento al vedere uomini e<br />

donne accovacciarsi dove potevano, sulle banchine, in mezzo ai<br />

binari; ed i passeggeri tedeschi esprimevano apertamente il loro disgusto:<br />

gente come questa merita il suo destino, basta vedere come si<br />

comportano. Non sono Menschen, esseri umani, ma bestie, porci; è<br />

evidente come la luce del sole.<br />

Era effettivamente un prologo. Nella vita che doveva seguire, nel<br />

ritmo quotidiano del Lager, l’offesa al pudore rappresentava, almeno<br />

all’inizio, una parte importante della sofferenza globale. Non era<br />

facile né indolore abituarsi alla enorme latrina collettiva, ai tempi<br />

stretti ed obbligati, alla presenza, davanti a te, dell’aspirante alla<br />

successione; in piedi, impaziente, a volte supplichevole, altre volte<br />

prepotente, insiste ogni dieci secondi: «Hast du gemacht?», «Non hai<br />

ancora finito?» Tuttavia, entro poche settimane il disagio si attenuava<br />

fino a sparire; sopravveniva (non per tutti!) l’assuefazione, il che è un<br />

modo caritatevole di dire che la trasformazione da esseri umani in<br />

animali era sulla buona strada.<br />

Non credo che questa trasformazione sia stata mai progettata né<br />

formulata in chiaro, a nessun livello della gerarchia nazista, in nessun<br />

documento, in nessuna «riunione di lavoro». Era una conseguenza logica<br />

83


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

del sistema: un regime disumano diffonde ed estende la sua disumanità in<br />

tutte le direzioni, anche e specialmente verso il basso; a meno di<br />

resistenze e di tempre eccezionali, corrompe anche le sue vittime ed i<br />

suoi oppositori. L’inutile crudeltà del pudore violato condizionava<br />

l’esistenza di tutti i Lager. Le donne di Birkenau raccontano che, una<br />

volta conquistata una gamella (una grossa scodella di lamiera smaltata),<br />

se ne dovevano servire per tre usi distinti: per riscuotere la zuppa<br />

quotidiana; per evacuarvi di notte, quando l’accesso alla latrina era<br />

vietato; e per lavarsi quando c’era acqua ai lavatoi.<br />

Il regime alimentare di tutti i campi comprendeva un litro di<br />

zuppa al giorno; nel nostro Lager, per concessione dello stabilimento<br />

chimico per cui lavoravamo, i litri erano due. L’acqua da eliminare era<br />

dunque molta, e questo ci costringeva a chiedere spesso di andare alla<br />

latrina, o ad arrangiarci diversamente negli angoli del cantiere. Alcuni<br />

fra i prigionieri non riuscivano a controllarsi: sia per debolezza di<br />

vescica, sia per accessi di paura, sia per nevrosi, erano costretti ad<br />

orinare con urgenza, e spesso si bagnavano, per il che venivano puniti<br />

e derisi. Un italiano mio coetaneo, che dormiva in una cuccetta al<br />

terzo piano dei letti a castello, ebbe di notte un incidente, e bagnò gli<br />

inquilini del piano di sotto che denunciarono subito il fatto al<br />

capobaracca. Questi piombò sull’italiano, che contro ogni evidenza<br />

negò l’addebito. Il capo allora gli ordinò di orinare, sul posto e sul<br />

momento, per dimostrare la sua innocenza; lui naturalmente non ci<br />

riuscì, e fu coperto di botte, ma nonostante la sua ragionevole richiesta<br />

non fu trasferito alla cuccetta più bassa. Era un atto amministrativo<br />

che avrebbe comportato troppe complicazioni al furiere della baracca.<br />

Analoga alla costrizione escrementizia era la costrizione della<br />

nudità. In Lager si entrava nudi: anzi, più che nudi, privi non solo<br />

degli abiti e delle scarpe (che venivano confiscati) ma dei capelli e di<br />

tutti gli altri peli. Lo stesso si fa, o si faceva, anche all’ingresso in<br />

caserma, certo, ma qui la rasatura era totale e settimanale, e la nudità<br />

pubblica e collettiva era una condizione ricorrente, tipica e piena di<br />

significato. Era anche questa una violenza con qualche radice di<br />

necessità (è chiaro che ci si deve spogliare per una doccia o per una<br />

visita medica), ma offensiva per la sua inutile ridondanza. La giornata<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

del Lager era costellata di innumerevoli spogliazioni vessatorie: per il<br />

controllo dei pidocchi, per le perquisizioni degli abiti, per la visita<br />

della scabbia, per la lavatura mattutina; ed inoltre per le selezioni<br />

periodiche, in cui una «commissione» decideva chi era ancora atto al<br />

lavoro e chi invece era destinato alla eliminazione. Ora, un uomo nudo<br />

e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme. Gli abiti,<br />

anche quelli immondi che venivano distribuiti, anche le scarpacce<br />

dalla suola di legno, sono una difesa tenue ma indispensabile. Chi non<br />

li ha non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come<br />

un lombrico: nudo, lento, ignobile, prono al suolo. Sa che potrà essere<br />

schiacciato ad ogni momento.<br />

La stessa sensazione debilitante di impotenza e di destituzione era<br />

provocata, nei primi giorni di prigionia, dalla mancanza di un cucchiaio:<br />

è questo un dettaglio che può apparire marginale a chi è abituato fin<br />

dall’infanzia all’abbondanza di attrezzi di cui dispone anche la più<br />

povera delle cucine, ma marginale non era. Senza cucchiaio, la zuppa<br />

quotidiana non poteva essere consumata altrimenti che lappandola<br />

come fanno i cani; solo dopo molti giorni di apprendistato (ed anche<br />

qui, quanto era importante riuscire subito a capire ed a farsi capire!) sì<br />

veniva a sapere che nel campo i cucchiai c’erano sì, ma che bisognava<br />

comprarseli al mercato nero pagandoli con zuppa o pane: un cucchiaio<br />

costava di solito mezza razione di pane o un litro di zuppa, ma ai nuovi<br />

arrivati inesperti veniva chiesto sempre molto di più. Eppure, alla<br />

liberazione del campo di Auschwitz, abbiamo trovato nei magazzini<br />

migliaia di cucchiai nuovissimi di plastica trasparente, oltre a decine di<br />

migliaia di cucchiai d’alluminio, d’acciaio o perfino d’argento, che<br />

provenivano dal bagaglio dei deportati in arrivo. Non era dunque una<br />

questione di risparmio, ma un preciso intento di umiliare. Ritorna alla<br />

mente l’episodio narrato in Giudici 7.5; in cui il condottiero Gedeone<br />

sceglie i migliori fra i suoi guerrieri osservando il modo in cui si<br />

comportano nel bere al fiume: scarta tutti quelli che lambiscono l’acqua<br />

«come fa il cane» o che si inginocchiano, ed accetta solo quelli che<br />

bevono in piedi, recando la mano alla bocca.<br />

Esiterei a definire in tutto inutili altre vessazioni e violenze che<br />

sono state descritte ripetutamente e concordemente da tutta la<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

memorialistica sui Lager. É noto che in tutti i campi si procedeva una<br />

o due volte al giorno ad un appello. Non era certo un appello<br />

nominale, che su migliaia o decine di migliaia di prigionieri sarebbe<br />

stato impossibile: tanto più in quanto essi non erano mai designati col<br />

loro nome, bensì solo col numero di matricola, di cinque o sei cifre.<br />

Era uno Zählappell, un appello-conteggio complicato e laborioso<br />

perché doveva tenere conto dei prigionieri trasferiti in altri campi o<br />

all’infermeria la sera prima e di quelli morti nella notte, e perché<br />

l’effettivo doveva quadrare esattamente con i dati del giorno<br />

precedente e con il conteggio per cinquine che avveniva durante la<br />

sfilata delle squadre dirette al lavoro. Eugen Kogon riferisce che a<br />

Buchenwald dovevano comparire all’appello serale anche i moribondi<br />

e i morti; distesi a terra anziché in piedi, dovevano anche loro essere<br />

disposti in fila per cinque, per facilitare il conteggio.<br />

Questo appello si svolgeva (naturalmente all’aperto) con ogni<br />

tempo, e durava almeno un’ora, ma anche due o tre se il conto non<br />

tornava; e addirittura ventiquattr’ore o più se si sospettava una evasione.<br />

Quando pioveva, o nevicava, o il freddo era intenso, diventava una tortura,<br />

peggiore dello stesso lavoro, alla cui fatica si sommava alla sera;<br />

veniva percepito come una cerimonia vuota e rituale, ma tale<br />

probabilmente non era. Non era inutile, come del resto, in questa chiave<br />

d’interpretazione, non era inutile la fame, né il lavoro estenuante, e<br />

neppure (mi si perdoni il cinismo: sto cercando di ragionare con una<br />

logica non mia) la morte per gas di adulti e bambini. Tutte queste<br />

sofferenze erano lo svolgimento di un tema, quello del presunto diritto<br />

del popolo superiore di asservire o eliminare il popolo inferiore; tale era<br />

anche quell’appello, che nei nostri sogni del «dopo» era diventato<br />

l’emblema stesso del Lager, assommando in sé la fatica, il freddo, la<br />

fame e la frustrazione. La sofferenza che provocava, e che ogni giorno<br />

d’inverno provocava qualche collasso o qualche morte, stava dentro il<br />

sistema, dentro la tradizione del Drill, della feroce pratica militaresca che<br />

era eredità prussiana, e che Buchner ha eternato nel Woyzek.<br />

Del resto, mi pare evidente che sotto molti dei suoi aspetti più<br />

penosi ed assurdi il mondo concentrazionario non era che una<br />

versione, un adattamento della prassi militare tedesca. L’esercito dei<br />

86


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

prigionieri nei Lager doveva essere una copia ingloriosa dell’esercito<br />

propriamente detto: o per meglio dire, una sua caricatura. Un esercito<br />

ha una divisa: pulita, onorata e coperta di insegne quella del soldato,<br />

lurida muta e grigia quella del Häftling; ma tutte e due devono avere<br />

cinque bottoni, altrimenti sono guai. Un esercito sfila al passo<br />

militare, in ordine chiuso, al suono di una banda: perciò ci dev’essere<br />

una banda anche nel Lager, e la sfilata dev’essere una sfilata a regola<br />

d’arte, con l’attenti a sinistr davanti al palco delle autorità, a suon di<br />

musica. Questo cerimoniale è talmente necessario, talmente ovvio, da<br />

prevalere addirittura sulla legislazione antiebraica del Terzo Reich:<br />

con sofisticheria paranoica, essa vietava alle orchestre ed ai musicisti<br />

ebrei di suonare spartiti di autori ariani, perché questi ne sarebbero<br />

stati contaminati. Ma nei Lager di ebrei non c’erano musicanti ariani,<br />

né del resto esistono molte marce militari scritte da compositori ebrei;<br />

perciò, in deroga alle regole di purezza, Auschwitz era l’unico luogo<br />

tedesco in cui musicanti ebrei potessero, anzi dovessero, suonare<br />

musica ariana: necessità non ha legge.<br />

Retaggio di caserma era anche il rito del «rifare il letto».<br />

Beninteso, quest’ultimo termine è ampiamente eufemistico; dove<br />

esistevano letti a castello, ogni cuccetta era costituita da un sottile<br />

materasso riempito di trucioli di legno, da due coperte e da un cuscino<br />

di crine, e vi dormivano di regola due persone. I letti dovevano essere<br />

rifatti subito dopo la sveglia, simultaneamente in tutta la baracca;<br />

bisognava quindi che gli inquilini dei piani bassi si arrangiassero a<br />

sistemare materasso e coperte in mezzo ai piedi degli inquilini dei<br />

piani alti, in equilibrio precario sulle sponde di legno, ed intenti allo<br />

stesso lavoro: tutti i letti dovevano essere messi in ordine entro un<br />

minuto o due, perché subito dopo incominciava la distribuzione del<br />

pane. Erano momenti di frenesia: l’atmosfera si riempiva di polvere<br />

fino a diventare opaca, di tensione nervosa e di improperi scambiati in<br />

tutte le lingue, perché il «rifare il letto» (Bettenbauen: era un termine<br />

tecnico) era un’operazione sacrale, da eseguirsi secondo regole ferree.<br />

Il materasso, fetido di muffa e cosparso di macchie sospette, doveva<br />

essere sprimacciato: esistevano a tale scopo due scuciture nella fodera,<br />

in cui introdurre le mani. Una delle due coperte doveva essere<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

rimboccata sul materasso, e l’altra stesa sopra il cuscino in modo da<br />

fare uno scalino netto, a spigoli vivi. A operazione ultimata, il tutto<br />

doveva presentarsi come un parallelepipedo rettangolo a facce ben<br />

piane, a cui era sovrapposto il parallelepipedo più piccolo del cuscino.<br />

Per le SS del campo, e di conseguenza per tutti i capi-baracca, il<br />

Beitenbauen rivestiva un’importanza primaria ed indecifrabile: forse<br />

era il simbolo dell’ordine e della disciplina. Chi faceva male il letto, o<br />

dimenticava di farlo, veniva punito pubblicamente e con ferocia; inoltre,<br />

in ogni baracca esisteva una coppia di funzionari, i Bettnachzieher<br />

(«ripassatori dei letti»: termine che non credo esista nel tedesco<br />

normale, e che certo Goethe non avrebbe capito), il cui compito era di<br />

verificare ogni singolo letto, e poi di curarne l’allineamento<br />

trasversale. A tale scopo, erano muniti di uno spago lungo quanto la<br />

baracca: lo tendevano al di sopra dei letti rifatti, e rettificavano al<br />

centimetro le eventuali deviazioni. Più che tormentoso, questo ordine<br />

maniacale appariva assurdo e grottesco: infatti, il materasso spianato<br />

con tanta cura non aveva alcuna consistenza, e a sera, sotto il peso dei<br />

corpi, si appiattiva immediatamente fino alle assicelle che lo<br />

sostenevano. Di fatto, si dormiva sul legno.<br />

In confini ben più estesi, si ha l’impressione che per tutta la<br />

Germania hitleriana il codice ed il galateo della caserma dovessero<br />

sostituire quelli tradizionali e «borghesi»: la violenza insulsa del Drill<br />

aveva cominciato a invadere fin dal 1934 il campo dell’educazione e si<br />

ritorceva contro lo stesso popolo tedesco. Dai giornali dell’epoca, che<br />

avevano conservato una certa libertà di cronaca e di critica, si ha notizia<br />

di marce estenuanti imposte a ragazzi e ragazze adolescenti nel quadro<br />

delle esercitazioni premilitari: fino a 50 chilometri al giorno, con zaino<br />

in spalla, e nessuna pietà per i ritardatari. I genitori e i medici che<br />

osavano protestare venivano minacciati di sanzioni politiche.<br />

Diverso è il discorso da farsi sul tatuaggio, invenzione auschwitziana<br />

autoctona. A partire dall’inizio del 1942, ad Auschwitz e nei<br />

Lager che ne dipendevano (nel 1944 erano una quarantina) il numero<br />

di matricola dei prigionieri non veniva più soltanto cucito agli abiti,<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

ma tatuato sull’avambraccio sinistro. Da questa norma erano esentati<br />

solo i prigionieri tedeschi non ebrei. L’operazione veniva eseguita con<br />

metodica rapidità da «scrivani» specializzati, all’atto dell’immatricolazione<br />

dei nuovi arrivati, provenienti sia dalla libertà, sia da altri<br />

campi o dai ghetti. In ossequio al tipico talento tedesco per le classificazioni,<br />

si venne presto delineando un vero e proprio codice: gli<br />

uomini dovevano essere tatuati sull’esterno del braccio e le donne<br />

sull’interno; il numero degli zingari doveva essere preceduto da una Z;<br />

quello degli ebrei, a partire dal maggio 1944 (e cioè dall’arrivo in<br />

massa degli ebrei ungheresi) doveva essere preceduto da una A, che<br />

poco dopo fu sostituita da una B. Fino al settembre 1944 non c’erano<br />

bambini ad Auschwitz: venivano uccisi tutti col gas al loro arrivo.<br />

Dopo questa data, cominciarono ad arrivare intere famiglie di<br />

polacchi, arrestati a caso durante l’insurrezione di Varsavia: essi<br />

vennero tatuati tutti, compresi i neonati.<br />

L’operazione era poco dolorosa e non durava più di un minuto,<br />

ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti:<br />

questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il<br />

marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al<br />

macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome: questo è il<br />

vostro nuovo nome. La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se<br />

stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai<br />

pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale? No, non bastavano:<br />

occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l’innocente<br />

sentisse scritta sulla carne la sua condanna. Era anche un ritorno<br />

barbarico, tanto più conturbante per gli ebrei ortodossi; infatti, proprio<br />

a distinguere gli ebrei dai «barbari», il tatuaggio è vietato dalla legge<br />

mosaica (Levitico 19.2 8).<br />

A distanza di quarant’anni, il mio tatuaggio è diventato parte del<br />

mio corpo. Non me ne glorio né me ne vergogno, non lo esibisco e<br />

non lo nascondo. Lo mostro malvolentieri a chi me ne fa richiesta per<br />

pura curiosità; prontamente e con ira a chi si dichiara incredulo.<br />

Spesso i giovani mi chiedono perché non me lo faccio cancellare, e<br />

questo mi stupisce: perché dovrei? Non siamo molti nel mondo a<br />

portare questa testimonianza.<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Occorre fare violenza (utile?) su se stessi per indursi a parlare del<br />

destino dei più indifesi. Cerco, ancora una volta, di seguire una logica<br />

non mia. Per un nazista ortodosso doveva essere ovvio, netto, chiaro<br />

che tutti gli ebrei dovessero essere uccisi: era un dogma, un postulato.<br />

Anche i bambini, certo: anche e specialmente le donne incinte, perché<br />

non nascessero futuri nemici. Ma perché, nelle loro razzie furiose, in<br />

tutte le città e i villaggi del loro impero sterminato, violare le porte dei<br />

morenti? Perché affannarsi a trascinarli sui loro treni, per portarli a<br />

morire lontano, dopo un viaggio insensato, in Polonia, sulla soglia<br />

delle camere a gas? Nel mio convoglio c’erano due novantenni<br />

moribonde, prelevate dall’infermeria di Fòssoli: una morì in viaggio,<br />

assistita invano dalle figlie. Non sarebbe stato più semplice, più<br />

«economico», lasciarle morire, o magari ucciderle, nei loro letti, anziché<br />

inserire la loro agonia nell’agonia collettiva della tradotta?<br />

Veramente si è indotti a pensare che, nel Terzo Reich, la scelta<br />

migliore, la scelta imposta dall’alto, fosse quella che comportava la<br />

massima afflizione, il massimo spreco di sofferenza fisica e morale. Il<br />

«nemico» non doveva soltanto morire, ma morire nel tormento.<br />

Sul lavoro nei Lager si è scritto molto; io stesso l’ho descritto a<br />

suo tempo. Il lavoro non retribuito, cioè schiavistico, era uno dei tre<br />

scopi del sistema concentrazionario; gli altri due erano l’eliminazione<br />

degli avversari politici e lo sterminio delle cosìddette razze inferiori.<br />

Sia detto per inciso: il regime concentrazionario sovietico differiva da<br />

quello nazista essenzialmente per la mancanza del terzo termine e per<br />

il prevalere del primo.<br />

Nei primi Lager, quasi coevi con la conquista del potere da parte<br />

di Hitler, il lavoro era puramente persecutorio, praticamente inutile ai<br />

fini produttivi: mandare gente denutrita a spalare torba o a spaccare<br />

pietre serviva solo a scopo terroristico. Del resto, per la retorica nazista<br />

e fascista, erede in questo della retorica borghese, «il lavoro<br />

nobilita», e quindi gli ignobili avversari del regime non sono degni di<br />

lavorare nel senso usuale del termine. Il loro lavoro dev’essere<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

afflittivo: non deve lasciare spazio alla professionalità, dev’essere<br />

quello delle bestie da soma, tirare, spingere, portare pesi, piegare la<br />

schiena sulla terra. Violenza inutile anche questa: utile forse solo a<br />

stroncare le resistenze attuali ed a punire le resistenze passate. Le<br />

donne di Ravensbrück raccontano di interminabili giornate trascorse<br />

durante il periodo di quarantena (e cioè prima dell’inquadramento<br />

nelle squadre di lavoro in fabbrica) a spalare la sabbia delle dune: a<br />

cerchio, sotto il sole di luglio, ogni deportata doveva spostare la<br />

sabbia dal suo mucchio a quello della vicina di destra, in un girotondo<br />

senza scopo e senza fine, poiché la sabbia tornava da dove era venuta.<br />

Ma è dubbio che questo tormento del corpo e dello spirito, mitico<br />

e dantesco, fosse stato escogitato per prevenire l’aggregarsi di nuclei<br />

di autodifesa o di resistenza attiva: le SS dei Lager erano piuttosto<br />

bruti ottusi che demoni sottili. Erano stati educati alla violenza: la violenza<br />

correva nelle loro vene, era normale, ovvia. Trapelava dai loro<br />

visi, dai loro gesti, dal loro linguaggio. Umiliare, far soffrire il<br />

«nemico», era il loro ufficio di ogni giorno; non ci ragionavano sopra,<br />

non avevano secondi fini: il fine era quello. Non intendo dire che<br />

fossero fatti di una sostanza umana perversa, diversa dalla nostra (i<br />

sadici, gli psicopatici c’erano anche fra loro, ma erano pochi):<br />

semplicemente, erano stati sottoposti per qualche anno ad una scuola<br />

in cui la morale corrente era stata capovolta. In un regime totalitario,<br />

l’educazione, la propaganda e l’informazione non incontrano ostacoli:<br />

hanno un potere illimitato, di cui chi è nato e vissuto in un regime<br />

pluralistico difficilmente può costruirsi un’idea.<br />

A differenza della fatica puramente persecutoria, quale quella che<br />

ho appena descritta, il lavoro poteva invece talvolta diventare una<br />

difesa. Lo era per i pochi che in Lager riuscivano ad essere inseriti nel<br />

loro proprio mestiere: sarti, ciabattini, falegnami, fabbri, muratori;<br />

questi, ritrovando la loro attività consueta, recuperavano in pari<br />

tempo, in certa misura, la loro dignità umana. Ma lo era anche per<br />

molti altri, come esercizio della mente, come evasione dal pensiero<br />

della morte, come modo di vivere alla giornata; del resto, è esperienza<br />

comune che le cure quotidiane, anche se penose o fastidiose, aiutano a<br />

distogliere la mente da minacce più gravi ma più lontane.<br />

91


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Ho notato spesso su alcuni miei compagni (qualche volta anche su<br />

me stesso) un fenomeno curioso: l’ambizione del «lavoro ben fatto» è<br />

talmente radicata da spingere a «far bene» anche lavori nemici, nocivi<br />

ai tuoi e alla tua parte, tanto che occorre uno sforzo consapevole per<br />

farli invece «male». Il sabotaggio del lavoro nazista, oltre ad essere<br />

pericoloso, comportava anche il superamento di ataviche resistenze<br />

interne. Il muratore di Fossano che mi ha salvato la vita, e che ho<br />

descritto in Se questo è un uomo e in Lilìt, detestava la Germania, i tedeschi,<br />

il loro cibo, la loro parlata, la loro guerra; ma quando lo misero<br />

a tirare su muri di protezione contro le bombe, li faceva diritti, solidi,<br />

con mattoni bene intrecciati e con tutta la calcina che ci voleva; non per<br />

ossequio agli ordini, ma per dignità professionale. In Una giornata di<br />

Ivan Denisovié (Einaudi, Torino 1963) Solženicyn descrive una<br />

situazione quasi identica: Ivan, il protagonista, condannato senza alcuna<br />

sua colpa a dieci anni di lavoro forzato, prova compiacimento nel tirar<br />

su un muro a regola d’arte, e nel constatare poi che è riuscito ben diritto:<br />

Ivan «... era fatto proprio in quel modo cretino, né gli otto anni<br />

passati nei campi di prigionia erano valsi a fargli perdere<br />

quell’abitudine: apprezzava ogni cosa ed ogni lavoro e non poteva<br />

permettere che si rovinassero inutilmente». Chi ha visto un celebre film,<br />

Il ponte sul fiume Kwai, ricorderà lo zelo assurdo con cui l’ufficiale<br />

inglese prigioniero dei giapponesi si affanna a costruire per loro un<br />

audacissimo ponte in legno, e si scandalizza quando si accorge che i<br />

guastatori inglesi lo hanno minato. Come si vede, l’amore per il lavoro<br />

ben fatto è una virtù fortemente ambigua. Ha animato Michelangelo<br />

fino ai suoi ultimi giorni, ma anche Stangl, il diligentissìmo carnefice di<br />

Treblinka, replica con stizza alla sua intervistatrice: «Tutto ciò che<br />

facevo di mia libera volontà dovevo farlo il meglio che potevo. Sono<br />

fatto così». Della stessa virtù va fiero Rudolf Höss, il comandante di<br />

Auschwitz, quando racconta il travaglio creativo che lo condusse ad<br />

inventare le camere a gas.<br />

Vorrei ancora accennare, come esempio estremo di violenza ad<br />

un tempo stupida e simbolica, all’empio uso che è stato fatto (non<br />

saltuariamente, ma con metodo) del corpo umano come di un oggetto,<br />

di una cosa di nessuno, di cui si poteva disporre in modo arbitrario.<br />

92


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Sugli esperimenti medici condotti a Dachau, ad Auschwitz, a<br />

Ravensbrück ed altrove, molto è già stato scritto, ed alcuni dei<br />

responsabili, che non tutti erano medici ma spesso si improvvisavano<br />

tali, sono anche stati puniti (non Josef Mengele, il maggiore ed il<br />

peggiore di tutti). La gamma di questi esperimenti si estendeva da<br />

controlli di nuovi medicamenti su prigionieri inconsapevoli, fino a<br />

torture insensate e scientificamente inutili, come quelle svolte a<br />

Dachau, per ordine di Himmler e per conto della Luftwaffe. Qui, gli<br />

individui prescelti, talvolta previamente sovralimentati per ricondurli<br />

alla normalità fisiologica, venivano sottoposti a lunghi soggiorni in<br />

acqua gelida, o introdotti in camere di decompressione in cui si<br />

simulava la rarefazione dell’aria a 20.000 metri (quota che gli aerei<br />

dell’epoca erano ben lontani dal raggiungere!) per stabilire a quale<br />

altitudine il sangue umano incomincia a bollire: un dato, questo, che si<br />

può ottenere in qualsiasi laboratorio, con minima spesa e senza<br />

vittime, o addirittura dedurre da comuni tabelle. Mi pare significativo<br />

ricordare questi abomini in un’epoca in cui, con ragione, viene messo<br />

in discussione entro quali limiti sia lecito condurre esperimenti<br />

scientifici dolorosi sugli animali da laboratorio. Questa crudeltà tipica<br />

e senza scopo apparente, ma altamente simbolica, si estendeva, appunto<br />

perché simbolica, alle spoglie umane dopo la morte: a quelle<br />

spoglie che ogni civiltà, a partire dalla più lontana preistoria, ha<br />

rispettato, onorato e talvolta temuto. Il trattamento a cui venivano<br />

sottoposte nei Lager voleva esprimere che non si trattava di resti<br />

umani, ma di materia bruta, indifferente, buona nel migliore dei casi<br />

per qualche impiego industriale. Desta orrore e raccapriccio, dopo<br />

decenni, la vetrina del museo di Auschwitz dove sono esposte alla<br />

rinfusa, a tonnellate, le capigliature recise alle donne destinate al gas o<br />

al Lager: il tempo le ha scolorite e macerate, ma continuano a<br />

mormorare al visitatore la loro muta accusa. I tedeschi non avevano<br />

fatto in tempo a farle proseguire per la loro destinazione: questa merce<br />

insolita veniva acquistata da alcune industrie tessili tedesche che la<br />

usavano per la confezione di tralicci e di altri tessuti industriali. É<br />

poco probabile che gli utilizzatori non sapessero di quale materiale si<br />

trattava. E altrettanto poco probabile che i venditori, e cioè le autorità<br />

93


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

SS del Lager, ne traessero un utile effettivo: sulla motivazione del<br />

profitto prevaleva quella dell’oltraggio.<br />

Le ceneri umane provenienti dai crematori, tonnellate al giorno,<br />

erano facilmente riconoscibili come tali, poiché contenevano spesso<br />

denti o vertebre. Ciò non ostante, furono usate per vari scopi: per<br />

colmare terreni paludosi, come isolante termico nelle intercapedini di<br />

costruzioni in legno, come fertilizzante fosfatico; segnatamente, furono<br />

impiegate invece della ghiaia per rivestire i sentieri del villaggio delle<br />

SS, situato accanto al campo. Non saprei dire se per pura callosità, o se<br />

non invece perché, per la sua origine, quello era materiale da calpestare.<br />

Non mi illudo di aver dato fondo alla questione, né di aver<br />

dimostrato che la crudeltà inutile sia stata retaggio esclusivo del Terzo<br />

Reich e conseguenza necessaria delle sue premesse ideologiche;<br />

quanto sappiamo, ad esempio, della Cambogia di Pol Pot suggerisce<br />

altre spiegazioni, ma la Cambogia è lontana dall’Europa e ne<br />

sappiamo poco: come potremmo discuterne? Certo, è stato questo uno<br />

dei lineamenti fondamentali dell’hitlerismo, non solo all’interno dei<br />

Lager; e mi pare che il suo miglior commento si trovi compendiato in<br />

queste due battute ricavate dalla lunga intervista di Gitta Sereny al già<br />

citato Franz Stangl, ex comandante di Treblinka (In quelle tenebre,<br />

Adelphi, Milano 1975, p. 135):<br />

«Visto che li avreste uccisi tutti... che senso avevano le<br />

umiliazioni, le crudeltà?», chiede la scrittrice a Stangl, detenuto a vita<br />

nel carcere di Düsseldorf; e questi risponde: «Per condizionare quelli<br />

che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per rendergli<br />

possibile fare ciò che facevano». In altre parole: prima di morire, la<br />

vittima dev’essere degradata, affinché l’uccisore senta meno il peso<br />

della sua colpa. É una spiegazione non priva di logica, ma che grida al<br />

cielo: è l’unica utilità della violenza inutile.<br />

94


VI.<br />

L’intellettuale ad Auschwitz<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Scendere in polemica con uno scomparso è imbarazzante e poco<br />

leale, tanto più quando l’assente è un amico potenziale ed un<br />

interlocutore privilegiato; però può essere un passo obbligato. Sto<br />

parlando di Hans Mayer, alias Jean Améry, il filosofo suicida, e<br />

teorico del suicidio, che già ho citato a pagina 14: fra questi due nomi<br />

sta tesa la sua vita senza pace e senza ricerca della pace. Era nato a<br />

Vienna nel 1912, da una famiglia prevalentemente ebraica, ma<br />

assimilata ed integrata nell’Impero Austro-Ungarico. Benché nessuno<br />

si fosse convertito al cristianesimo nelle debite forme, a casa sua si<br />

festeggiava il Natale attorno all’albero adorno di lustrini; in occasione<br />

dei piccoli incidenti domestici sua madre invocava Gesù, Giuseppe e<br />

Maria, e la fotografia-ricordo di suo padre, morto al fronte nella prima<br />

guerra mondiale, non mostrava un saggio ebreo barbuto, ma un<br />

ufficiale nell’uniforme dei Kaiserjäger Tirolesi. Fino ai diciannove<br />

anni, Hans non aveva mai sentito dire che esistesse una lingua<br />

jiddisch.<br />

Si laurea a Vienna in Lettere e Filosofia, non senza qualche<br />

scontro con il nascente partito nazionalsocialista: a lui, di essere ebreo<br />

non importa, ma per i nazisti le sue opinioni e tendenze non hanno<br />

alcun peso; la sola cosa che conti è il sangue, ed il suo è impuro<br />

quanto basta per farne un nemico del Germanesimo. Un pugno nazista<br />

gli rompe un dente, e il giovane intellettuale è fiero della lacuna nella<br />

dentatura come se fosse una cicatrice riportata in un duello<br />

95


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

studentesco. Con le leggi di Norimberga del 1935, e poi con<br />

l’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938, il suo destino è ad<br />

una svolta, e il giovane Hans, scettico e pessimista per natura, non si<br />

fa illusioni. É abbastanza lucido (Luzidität sarà sempre uno dei suoi<br />

vocaboli preferiti) da capire precocemente che ogni ebreo in mani<br />

tedesche è «un morto in vacanza, uno da assassinare».<br />

Lui, ebreo non si considera: non conosce l’ebraico né la cultura<br />

ebraica, non dà ascolto al verbo sionista, religiosamente è un<br />

agnostico. Neppure si sente in grado di costruirsi un’identità che non<br />

ha: sarebbe una falsificazione, una mascherata. Chi non è nato entro la<br />

tradizione ebraica non è un ebreo, e difficilmente può diventarlo: per<br />

definizione, una tradizione viene ereditata; è un prodotto dei secoli,<br />

non si fabbrica a posteriori. Eppure, per vivere occorre un’identità,<br />

ossia una dignità. Per lui i due concetti coinci-dono, chi perde l’una<br />

perde anche l’altra, muore spiritualmente: privo di difese, è quindi<br />

esposto anche alla morte fisica. Ora, a lui, ed ai molti ebrei tedeschi<br />

che come lui avevano creduto nella cultura tedesca, l’identità tedesca<br />

viene denegata: dalla propaganda nazista, sulle immonde pagine dello<br />

Stürmer di Streicher, l’ebreo viene descritto come un parassita peloso,<br />

grasso, dalle gambe storte, dal naso a becco, dalle orecchie a sventola,<br />

buono solo a danneggiare gli altri. Tedesco non è, per assioma; anzi,<br />

basta la sua presenza a contaminare i bagni pubblici e perfino le<br />

panchine dei parchi.<br />

Da questa degradazione, Entwürdigung, è impossibile difendersi.<br />

Il mondo intero vi assiste impassibile; gli ebrei tedeschi stessi, quasi<br />

tutti, soggiacciono alla prepotenza dello Stato e si sentono<br />

obiettivamente degra-dati. Il solo modo per sottrarvisi è paradossale e<br />

contraddittorio: accettare il proprio destino, in questo caso l’ebraismo,<br />

ed in pari tempo ribellarsi contro la scelta imposta. Per il giovane<br />

Hans, ebreo di ritorno, essere ebreo è simultaneamente impossibile ed<br />

obbligatorio; la sua spaccatura, che lo seguirà fino alla morte e la<br />

provocherà, incomincia di qui. Nega di possedere coraggio fisico, ma<br />

non gli manca il coraggio morale: nel 1938 lascia la sua patria<br />

«annessa» ed emigra in Belgio. D’ora in avanti sarà Jean Améry, un<br />

quasi-anagramma del suo nome originario. Per dignità, non per altro,<br />

96


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

accetterà l’ebraismo, ma come ebreo «[andrà] per il mondo come un<br />

malato di uno di quei morbi che non provocano grandi sofferenze, ma<br />

hanno sicuramente esito letale». Lui, il dotto umanista e critico<br />

tedesco, si sforza di diventare uno scrittore francese (non ci riuscirà<br />

mai), ed aderisce in Belgio ad un movimento della Resistenza le cui<br />

effettive speranze politiche sono scarsissime; la sua morale, che<br />

pagherà caramente in termini materiali e spirituali, è ormai cambiata:<br />

almeno simbolicamente, consiste nel «rendere il colpo».<br />

Nel 1940 la marea hitleriana sommerge anche il Belgio, e Jean,<br />

che nonostante la sua scelta è rimasto un intellettuale solitario e<br />

introverso, nel 1943 cade nelle mani della Gestapo. Gli si chiede di<br />

rivelare i nomi dei suoi compagni e mandanti, altrimenti è la tortura.<br />

Lui non è un eroe; nelle sue pagine, ammette onestamente che se li<br />

avesse conosciuti avrebbe parlato, ma non li sa. Gli legano le mani<br />

congiunte dietro la schiena, e per i polsi lo sospendono a una<br />

carrucola. Dopo pochi secondi le braccia gli si slogano e rimangono<br />

rivolte all’in su, verticali dietro la schiena. Gli aguzzini insistono,<br />

infieriscono con le fruste sul corpo appeso ormai quasi incosciente,<br />

ma Jean non sa nulla, non può rifugiarsi neppure nel tradimento.<br />

Guarisce, ma è stato identificato come ebreo, e lo spediscono ad<br />

Auschwitz-Monowitz, lo stesso Lager in cui anch’io sarei stato<br />

rinchiuso qualche mese più tardi.<br />

Pur senza esserci mai riveduti, ci siamo scambiate alcune lettere<br />

dopo la liberazione, essendoci riconosciuti, o per meglio dire<br />

conosciuti, attraverso i rispettivi libri. I nostri ricordi di laggiù<br />

coincidono abbastanza bene sul piano dei dettagli materiali, ma<br />

divergono su un particolare curioso: io, che ho sempre sostenuto di<br />

conservare di Auschwitz una memoria completa e indelebile, ho dimenticato<br />

la sua figura; lui afferma di ricordarsi di me, anche se mi<br />

confondeva con Carlo Levi, a quel tempo già noto in Francia come<br />

fuoruscito e come pittore. Dice anzi che abbiamo soggiornato per<br />

qualche settimana nella stessa baracca, e che non mi ha dimenticato<br />

perché gli italiani erano così pochi da costituire quasi una rarità;<br />

inoltre, perché in Lager, negli ultimi due mesi, io esercitavo<br />

97


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

sostanzialmente la mia professione, quella del chimico: e questa era<br />

una rarità anche maggiore.<br />

Questo mio saggio vorrebbe essere, allo stesso tempo, un sunto,<br />

una parafrasi, una discussione ed una critica di un suo saggio amaro e<br />

gelido, che ha due titoli (L‘intellettuale ad Auschwitz e Ai confini dello<br />

spirito). È tratto da un volume che da molti anni vorrei vedere tradotto<br />

in italiano: anch’esso ha due titoli, Al di là della colpa e dell’espiazione<br />

e Tentativo di superamento di un sopraffatto (Jenseits<br />

von Schuld und Sühne, Szczesny, Mùnchen 1966).<br />

Come si vede dal primo titolo, il tema del saggio di Améry è<br />

circoscritto con precisione. Améry è stato in varie prigioni naziste, ed<br />

inoltre, dopo Auschwitz, ha soggiornato brevemente a Buchenwald ed<br />

a Bergen-Belsen, ma le sue osservazioni, per buoni motivi, si limitano<br />

ad Auschwitz: i confini dello spirito, il non-immaginabile, erano là.<br />

Essere un intellettuale era ad Auschwitz un vantaggio o uno<br />

svantaggio?<br />

Occorre naturalmente definire che cosa si intenda per<br />

intellettuale. La definizione che Améry propone è tipica e discutibile:<br />

certo non intendo alludere a chiunque eserciti una delle cosìddette<br />

professioni intellettuali: l’aver avuto un buon livello d’istruzione è<br />

forse una condizione necessaria, ma non sufficiente. Ognuno di noi<br />

conosce avvocati, medici, ingegneri, probabilmente anche filologi, che<br />

sono certamente intelligenti, magari anche eccellenti nel loro ramo,<br />

ma che non possono essere definiti intellettuali. Un intellettuale, come<br />

io vorrei fosse qui inteso, è un uomo che vive entro un sistema di<br />

riferimento che è spirituale nel senso più vasto. Il campo delle sue<br />

associazioni è essenzialmente umanistico o filosofico. Ha una coscienza<br />

estetica bene sviluppata. Per tendenza e per attitudine, è<br />

attirato dal pensiero astratto (...) Se gli si parla di «società», non<br />

intende il termine nel senso mondano, ma in quello sociologico. Il<br />

fenomeno fisico che conduce a un corto circuito non gli interessa, ma<br />

la sa lunga su Neidhart von Reuenthal, poeta cortese del mondo<br />

contadino.<br />

La definizione mi sembra inutilmente restrittiva: più che una<br />

definizione, è un’autodescrizione, e dal contesto in cui è inserita non<br />

escluderei un’ombra di ironia: in effetti, conoscere von Reuenthal,<br />

98


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

come certamente Améry lo conosceva, ad Auschwitz serviva poco. A<br />

me pare più opportuno che nel termine «intellettuale» vengano compresi,<br />

ad esempio, anche il matematico o il naturalista o il filosofo<br />

della scienza; inoltre, va notato che in paesi diversi esso assume<br />

colorazioni diverse. Ma non c’è motivo di sottilizzare; viviamo infine<br />

in una Europa che si pretende unita, e le considerazioni di Améry<br />

reggono bene anche se il concetto in discussione viene inteso nel suo<br />

senso più largo; né vorrei seguire le tracce di Améry, e modellare una<br />

definizione alternativa sulla mia condizione attuale («intellettuale»<br />

sarò forse oggi, anche se il vocabolo mi dà un vago disagio;<br />

certamente non lo ero allora, per immaturità morale, ignoranza ed<br />

estraniamento; se lo sono diventato poi, lo devo paradossalmente<br />

proprio all’esperienza del Lager). Proporrei di estendere il termine alla<br />

persona colta al di là del suo mestiere quotidiano; la cui cultura è viva,<br />

in quanto si sforza di rinnovarsi, accrescersi ed aggiornarsi; e che non<br />

prova indifferenza o fastidio davanti ad alcun ramo del sapere, anche<br />

se, evidentemente, non li può coltivare tutti.<br />

Comunque, e su qualunque definizione ci si soffermi, sulle<br />

conclusioni di Améry non si può che concordare. Sul lavoro, che era<br />

prevalentemente manuale, in generale l’uomo colto stava in Lager<br />

molto peggio dell’incolto. Gli mancava, oltre alla forza fisica, la<br />

famigliarità con gli attrezzi e l’allenamento, che spesso avevano<br />

invece i suoi colleghi operai o contadini; per contro, era tormentato da<br />

un acuto senso di umiliazione e destituzione. Di Entwürdigung,<br />

appunto: di dignità perduta. Ricordo con precisione il mio primo<br />

giorno di lavoro nel cantiere della Buna. Prima ancora di inserire il<br />

nostro trasporto di italiani (quasi tutti professionisti o commercianti)<br />

nell’anagrafe del campo, ci mandarono temporaneamente ad allargare<br />

una grossa trincea di terra argillosa. Mi misero in mano una pala, e fu<br />

subito un disastro: avrei dovuto impalare la terra smossa del fondo<br />

della trincea, ed alzarla al di sopra del bordo, che era ormai più alto di<br />

due metri. Sembra facile e non è: se non si lavora di slancio, e con lo<br />

slancio giusto, la terra non resta nella pala ma ricade, e spesso sulla<br />

testa dello sterratore inesperto.<br />

99


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Anche il capomastro «civile» a cui fummo assegnati era<br />

provvisorio. Era un tedesco anziano, aveva l’aria di un brav’uomo, e si<br />

mostrò sinceramente scandalizzato dalla nostra goffaggine. Quando<br />

tentammo di spiegargli che quasi nessuno di noi aveva mai tenuto una<br />

pala in mano, alzò le spalle con impazienza: che diamine, eravamo<br />

prigionieri in panni zebra, per giunta ebrei. Tutti devono lavorare,<br />

perché «il lavoro rende liberi»: non stava scritto così sulla porta del<br />

Lager? Non era uno scherzo, era proprio così. Bene, se non sapevamo<br />

lavorare, avevamo solo da imparare; non eravamo forse dei capitalisti?<br />

ci stava bene: oggi a me, domani a te. Alcuni di noi sì ribellarono, e<br />

presero i primi colpi della loro carriera dai Kapòs che ispezionavano<br />

la zona; altri si abbatterono; altri ancora (io fra questi) intuirono<br />

confusamente che una via d’uscita non c’era, e che la soluzione<br />

migliore era quella di imparare a maneggiare la pala e il piccone.<br />

Tuttavia, a differenza di Améry e di altri, il mio senso di<br />

umiliazione per il lavoro manuale è stato moderato: evidentemente<br />

non ero ancora abbastanza «intellettuale». In fondo, perché no? Avevo<br />

una laurea, certo, ma era stata una mia fortuna non meritata; la mia<br />

famiglia era stata ricca abbastanza da farmi studiare: molti miei<br />

coetanei avevano spalato terra fin dall’adolescenza. Non volevo<br />

l’uguaglianza? Ebbene, l’avevo avuta. Ho dovuto cambiare opinione<br />

pochi giorni dopo, quando le mani e i piedi mi si sono coperti di<br />

vesciche e di infezioni: no, neanche sterratori non ci si improvvisa. Ho<br />

dovuto imparare in fretta alcune cose fondamentali, che i meno<br />

fortunati (ma in Lager erano i più fortunati!) imparano fin da bambini:<br />

il modo giusto di impugnare gli attrezzi, i movimenti corretti delle<br />

braccia e del tronco, il controllo della fatica e la sopportazione del<br />

dolore, il sapersi fermare poco prima dell’esaurimento, a costo di<br />

prendere schiaffi e calci dai Kapòs, e talvolta anche dai tedeschi<br />

«civili» della IG Farbenindustrie. I colpi, l’ho detto altrove, generalmente<br />

non sono mortali, il collasso invece sì; un pugno dato a regola<br />

d’arte contiene in sé la sua stessa anestesia, sia corporea, sia spirituale.<br />

A parte il lavoro, anche la vita in baracca era più penosa per l’uomo<br />

colto. Era una vita hobbesiana, una guerra continua di tutti contro tutti<br />

(insisto: così ad Auschwitz, capitale concentrazionaria, nel 1944. Altrove,<br />

100


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

o in altri tempi, la situazione poteva essere migliore, o anche molto<br />

peggiore). Il pugno dato dall’Autorità poteva essere accettato, era,<br />

letteralmente, un caso di forza maggiore; erano inaccet-tabili invece,<br />

perché inaspettati e fuori regola, i colpi ricevuti dai compagni, a cui raramente<br />

l’uomo incivilito sapeva reagire. Inoltre, una dignità poteva essere<br />

trovata nel lavoro manuale, anche nel più faticoso, ed era possibile<br />

adattarvisi, magari ravvisandovi una rozza ascesi, o, a seconda dei<br />

temperamenti, un «misurarsi» conradiano, una ricognizione dei propri<br />

confini. Era molto più difficile accettare la routine della baracca: rifare il<br />

letto nel modo perfezionistico ed idiota che ho descritto fra le violenze<br />

inutili, lavare il pavimento di legno con luridi stracci bagnati, vestirsi e<br />

spogliarsi a comando, esibirsi nudi agli innumerevoli controlli dei<br />

pidocchi, della scabbia, della pulizia personale, far propria la parodia<br />

militaristica dell’«ordine chiuso», dell’«attenti a destr», del «giù il<br />

berretto» di scatto davanti al graduato SS dal ventre porcino. Questa si<br />

era sentita come una destituzione, una regressione esiziale verso uno stato<br />

d’infanzia desolato, privo di maestri e di amore.<br />

Anche Améry-Mayer afferma di aver sofferto per la mutilazione<br />

del linguaggio a cui ho accennato nel quarto capitolo: eppure lui era di<br />

lingua tedesca. Ne ha sofferto in modo diverso da noi alloglotti ridotti<br />

alla condizione di sordomuti: in un modo, se mi è lecito, più spirituale<br />

che materiale. Ne ha sofferto perché era di lingua tedesca, perché era<br />

un filologo amante della sua lingua: come soffrirebbe uno scultore nel<br />

veder deturpare o amputare una sua statua. La sofferenza dell’intellettuale<br />

era dunque diversa, in questo caso, da quella dello straniero<br />

incolto: per questo, il tedesco del Lager era un linguaggio che lui non<br />

capiva, con rischio della sua vita; per quello, era un gergo barbarico,<br />

che lui capiva, ma che gli scorticava la bocca se cercava di parlarlo.<br />

L’uno era un deportato, l’altro uno straniero in patria.<br />

A proposito dei colpi fra compagni: non senza divertimento e<br />

fierezza retrospettiva, Améry racconta in un altro suo saggio un<br />

episodio-chiave, da inserirsi nella sua nuova morale del<br />

Zurückschlagen, del «rendere il colpo». Un gigantesco criminale<br />

comune polacco, per un’inezia, gli dà un pugno sul viso; lui, non per<br />

reazione animalesca, ma per ragionata rivolta contro il mondo<br />

101


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

stravolto del Lager, rende il colpo meglio che può. «La mia dignità, -<br />

dice, - stava tutta in quel pugno diretto alla sua mascella; che poi in<br />

conclusione sia stato io, fisicamente molto più debole, a soccombere<br />

sotto un pestaggio spietato, non ebbe più alcuna importanza.<br />

Dolorante per le botte, ero soddisfatto di me stesso».<br />

Qui devo ammettere una mia assoluta inferiorità: non ho mai<br />

saputo «rendere il colpo», non per santità evangelica né per<br />

aristocrazia intellettualistica, ma per intrinseca incapacità. Forse per<br />

mancanza di una seria educazione politica: infatti, non esiste<br />

programma politico, anche il più moderato, anche il meno violento,<br />

che non ammetta una qualche forma di difesa attiva. Forse per mancanza<br />

di coraggio fisico: ne posseggo una certa misura davanti ai<br />

pericoli naturali ed alla malattia, ma ne sono sempre stato totalmente<br />

privo davanti all’essere umano che aggredisce. «Fare a pugni» è<br />

un’esperienza che mi manca, fin dall’età più remota a cui arrivi la mia<br />

memoria; né posso dire di rimpiangerla. Proprio per questo la mia<br />

carriera partigiana è stata così breve, dolorosa, stupida e tragica:<br />

recitavo la parte di un altro. Ammiro la resipiscenza di Améry, la sua<br />

scelta coraggiosa di uscire dalla torre d’avorio e di scendere in campo,<br />

ma essa era, e tuttora è, fuori dalla mia portata. La ammiro: ma devo<br />

constatare che questa scelta, protrattasi per tutto il suo dopo-<br />

Auschwitz, lo ha condotto su posizioni di una tale severità ed<br />

intransigenza da renderlo incapace di trovar gioia nella vita, anzi di<br />

vivere: chi « fa a pugni» col mondo intero ritrova la sua dignità ma la<br />

paga ad un prezzo altissimo, perché è sicuro di venire sconfitto. Il<br />

suicidio di Améry, avvenuto nel 1978 a Salisburgo, come tutti i suicidi<br />

ammette una nebulosa di spiegazioni, ma, a posteriori, l’episodio della<br />

sfida contro il polacco ne offre un’interpretazione.<br />

Ho saputo qualche anno fa che, in una sua lettera alla comune<br />

amica Hety S. di cui parlerò in seguito, Améry mi ha definito «il<br />

perdonatore». Non la considero un’offesa né una lode, bensì<br />

un’imprecisione. Non ho tendenza a perdonare, non ho mai perdonato<br />

nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro<br />

imitatori in Algeria, in Vietnam, in Unione Sovietica, in Cile, in<br />

Argentina, in Cambogia, in Sud-Africa, perché non conosco atti umani<br />

102


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

che possano cancellare una colpa; chiedo giustizia, ma non sono<br />

capace, personalmente, di fare a pugni né di rendere il colpo.<br />

Ho tentato di farlo una volta sola. Elias, il nano robusto di cui ho<br />

parlato in Se questo è un uomo e in Lilìt, quello che, secondo ogni<br />

apparenza, «in Lager era felice», non rammento per quale motivo mi<br />

aveva preso per i polsi e mi stava insultando e spingendo contro un<br />

muro. Come Améry, provai un soprassalto di orgoglio; conscio di<br />

tradire me stesso, e di trasgredire ad una norma trasmessami da<br />

innumerevoli antenati alieni dalla violenza, cercai di difendermi e gli<br />

assestai un calcio nella tibia con lo zoccolo di legno. Elias ruggì, non<br />

per il dolore ma per la sua dignità lesa. Fulmineo, mi incrociò le<br />

braccia sul petto e mi abbatté a terra con tutto il suo peso; poi mi serrò<br />

la gola, sorvegliando attentamente il mio viso con i suoi occhi che<br />

ricordo benissimo, a una spanna dai miei, fissi, di un azzurro pallido<br />

di porcellana. Strise finché vide approssimarsi i segni dell’incoscienza;<br />

poi, senza una parola, mi lasciò e se ne andò.<br />

Dopo questa conferma, preferisco, nei limiti del possibile, delegare<br />

punizioni, vendette e ritorsioni alle leggi del mio paese. É una scelta<br />

obbligata: so quanto i meccanismi relativi funzionino male, ma io sono<br />

quale sono stato costruito dal mio passato, e non mi è più possibile<br />

cambiarmi. Se anch’io mi fossi visto crollare il mondo addosso; se fossi<br />

stato condannato all’esilio ed alla perdita dell’identità nazionale; se<br />

anch’io fossi stato torturato fino a svenire ed oltre, avrei forse imparato<br />

a rendere il colpo, e nutrirei come Améry quei «risentimenti» a cui egli<br />

ha dedicato un lungo saggio pieno d’angoscia.<br />

Questi gli evidenti svantaggi della cultura ad Auschwitz. Ma non<br />

c’erano proprio vantaggi? Sarei ingrato alla modesta (e «datata»)<br />

cultura liceale ed universitaria che mi è toccata in sorte se lo negassi;<br />

né lo nega Améry. La cultura poteva servire: non sovente, non<br />

dappertutto, non a tutti, ma qualche volta, in qualche occasione rara,<br />

preziosa come una pietra preziosa, serviva pure, e ci si sentiva come<br />

sollevati dal suolo; col pericolo di ricadervi di peso, facendosi tanto<br />

più male quanto più alta e più lunga era stata la esaltazione.<br />

103


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Améry racconta, ad esempio, di un suo amico che a Dachau<br />

studiava Maimonide: ma l’amico era infermiere nell’ambulatorio, e a<br />

Dachau, che pure era un Lager durissimo, c’era nientemeno che una<br />

biblioteca, mentre ad Auschwitz il solo poter dare un’occhiata ad un<br />

giornale era un evento inaudito e pericoloso. Racconta anche di aver<br />

tentato una sera, nella marcia di ritorno dal lavoro, in mezzo al fango<br />

polacco, di ritrovare in certi versi di Hölderlin il messaggio poetico<br />

che in altri tempi lo aveva scosso, e di non esserci riuscito: i versi<br />

erano lì, gli suonavano all’orecchio, ma non gli dicevano più nulla;<br />

mentre in un altro momento (tipicamente, in infermeria, dopo aver<br />

consumato una zuppa fuori razione, e cioè in una tregua della fame) si<br />

era entusiasmato fino all’ebbrezza rievocando la figura di Joachim<br />

Ziemssen, l’ufficiale ammalato a morte, ma ligio al dovere, della<br />

Montagna incantata di Thomas Mann.<br />

A me, la cultura è stata utile; non sempre, a volte forse per vie<br />

sotterranee ed impreviste, ma mi ha servito e forse mi ha salvato.<br />

Rileggo dopo quarant’anni in Se questo è un uomo il capitolo Il canto<br />

di Ulisse: è uno dei pochi episodi la cui autenticità ho potuto<br />

verificare (è un’operazione rassicurante: a distanza di tempo, come ho<br />

detto nel primo capitolo, della propria memoria si può dubitare),<br />

perché il mio interlocutore di allora, Jean Samuel, è fra i pochissimi<br />

personaggi del libro che siano sopravvissuti. Siamo rimasti amici, ci<br />

siamo incontrati più volte, ed i suoi ricordi coincidono coi miei:<br />

ricorda quel colloquio, ma, per così dire, senza accenti, o con gli accenti<br />

spostati. A lui, allora, non interessava Dante; gli interessavo io<br />

nel mio conato ingenuo e presuntuoso di trasmettergli Dante, la mia<br />

lingua e le mie confuse reminiscenze scolastiche, in mezz’ora di<br />

tempo e con le stanghe della zuppa sulle spalle. Ebbene, dove ho<br />

scritto «darei la zuppa di oggi per saper saldare “non ne avevo alcuna”<br />

col finale», non mentivo e non esageravo. Avrei dato veramente pane<br />

e zuppa, cioè sangue, per salvare dal nulla quei ricordi, che oggi, col<br />

supporto sicuro della carta stampata, posso rinfrescare quando voglio<br />

e gratis, e che perciò sembrano valere poco.<br />

Allora e là, valevano molto. Mi permettevano di ristabilire un<br />

legame col passato, salvandolo dall’oblio e fortificando la mia identità.<br />

104


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Mi convincevano che la mia mente, benché stretta dalle necessità<br />

quotidiane, non aveva cessato di funzionare. Mi promuovevano, ai miei<br />

occhi ed a quelli del mio interlocutore. Mi concedevano una vacanza<br />

effimera ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo<br />

insomma di ritrovare me stesso. Chi ha letto o visto Fahrenheit 451<br />

(Mondadori, Milano 1966) di Ray Bradbury ha avuto modo di<br />

rappresentarsi che cosa significherebbe essere costretti a vivere in un<br />

mondo senza libri, e quale valore assumerebbe in esso la memoria dei<br />

libri. Per me, il Lager è stato anche questo; prima e dopo « Ulisse»,<br />

ricordo di aver ossessionato i miei compagni italiani perché mi<br />

aiutassero a recuperare questo o quel brandello del mio mondo di ieri,<br />

senza cavarne molto, anzi, leggendo nei loro occhi fastidio e sospetto:<br />

che cosa va cercando, questo qui, con Leopardi e il Numero di<br />

Avogadro? Che la fame non lo stia facendo diventare matto?<br />

Né devo trascurare l’aiuto che ho tratto dal mio mestiere di<br />

chimico. Sul piano pratico, mi ha probabilmente salvato da almeno<br />

alcune delle selezioni per il gas: da quanto ho letto in seguito<br />

sull’argomento (in specie, in The Crime and Punishment of IG-<br />

Farben, di J. Borkin, McMillan, London 1978) ho appreso che il<br />

Lager di Monowitz, benché dipendesse da Auschwitz, era di proprietà<br />

della IG-Farbenindustrie, era insomma un Lager privato; e gli<br />

industriali tedeschi, un po’ meno miopi dei capi nazisti, si rendevano<br />

conto che gli specialisti, di cui io facevo parte dopo aver superato<br />

l’esame di chimica a cui ero stato sottoposto, non erano facilmente<br />

sostituibili. Ma non intendo alludere qui a questa condizione di privilegio,<br />

né agli ovvi vantaggi del lavorare al coperto, senza fatica<br />

fisica e senza Kapòs maneschi: alludo ad un altro vantaggio. Credo di<br />

poter contestare «per fatto personale» l’affermazione di Améry, che<br />

esclude gli scienziati, ed a maggior ragione i tecnici, dal novero degli<br />

intellettuali: questi, per lui, sarebbero da reclutarsi esclusivamente nel<br />

campo delle lettere e della filosofia. Leonardo da Vinci, che si<br />

definiva «omo sanza lettere», non era un intellettuale?<br />

Insieme col bagaglio di nozioni pratiche, avevo ricavato dagli<br />

studi, e mi ero portato dietro in Lager, un mal definito patrimonio di<br />

abitudini mentali che derivano dalla chimica e dai suoi dintorni, ma<br />

105


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

che trovano applicazioni più vaste. Se io agisco in un certo modo,<br />

come reagirà la sostanza che ho tra le mani, o il mio interlocutore<br />

umano? Perché essa, o lui, o lei, manifesta o interrompe o cambia un<br />

determinato comportamento? Posso anticipare cosa avverrà intorno a<br />

me fra un minuto, o domani, o fra un mese? Se sì, quali sono i segni<br />

che contano, quali quelli da trascurarsi? Posso prevedere il colpo,<br />

sapere da che parte verrà, pararlo, sfuggirlo?<br />

Ma soprattutto, e più specificamente: ho contratto dal mio mestiere<br />

un’abitudine che può essere variamente giudicata, e definita a piacere<br />

umana o disumana, quella di non rimanere mai indifferente ai<br />

personaggi che il caso mi porta davanti. Sono esseri umani, ma anche<br />

«campioni», esemplari in busta chiusa, da riconoscere, analizzare e<br />

pesare. Ora, il campionario che Auschwitz mi aveva squadernato<br />

davanti era abbondante, vario e strano; fatto di amici, di neutri e di<br />

nemici, comunque cibo per la mia curiosità, che alcuni, allora e dopo,<br />

hanno giudicato distaccata. Un cibo che certamente ha contribuito a<br />

mantenere viva una parte di me, e che in seguito mi ha fornito materia<br />

per pensare e per costruire libri. Come ho detto, non so se ero un<br />

intellettuale laggiù: forse lo ero a lampi, quando la pressione si<br />

allentava; se lo sono diventato dopo, l’esperienza attinta mi ha certo<br />

dato un aiuto. Lo so, questo atteggiamento «naturalistico» non viene<br />

solo né necessariamente dalla chimica, ma per me è venuto dalla<br />

chimica. D’altra parte, non sembri cinico affermarlo: per me, come per<br />

Lidia Rolfi e per molti altri superstiti «fortunati», il Lager è stata una<br />

Università; ci ha insegnato a guardarci intorno ed a misurare gli uomini.<br />

Sotto questo aspetto, la mia visione del mondo è stata diversa da,<br />

e complementare con, quella del mio compagno ed antagonista<br />

Améry. Dai suoi scritti traspare un interesse diverso: quello del<br />

combattente politico per il morbo che appestava l’Europa e<br />

minacciava (ed ancora minaccia) il mondo; quello del filosofo per lo<br />

Spirito, che ad Auschwitz era vacante; quello del dotto sminuito, a cui<br />

le forze della storia hanno tolto la patria e l’identità. Infatti, il suo<br />

sguardo è rivolto verso l’alto, e si sofferma raramente sul volgo del<br />

Lager, e sul suo personaggio tipico, il «mussulmano», l’uomo<br />

stremato, il cui intelletto è moribondo o morto.<br />

106


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

La cultura poteva dunque servire, anche se solo in qualche caso<br />

marginale, e per brevi periodi; poteva abbellire qualche ora, stabilire<br />

un legame fugace con un compagno, mantenere viva e sana la mente.<br />

Certo non era utile ad orientarsi né a capire: su questo, la mia esperienza<br />

di straniero coincide con quella del tedesco Améry. La ragione,<br />

l’arte, la poesia, non aiutano a decifrare il luogo da cui esse sono state<br />

bandite. Nella vita quotidiana di «laggiù», fatta di noia trapunta di<br />

orrore, era salutare dimenticarle, allo stesso modo come era salutare<br />

imparare a dimenticare la casa e la famiglia; non intendo parlare di un<br />

oblio definitivo, di cui del resto nessuno è capace, ma di una<br />

relegazione in quel solaio della memoria dove si accumula il materiale<br />

che ingombra, e che per la vita di tutti i giorni non serve più.<br />

A questa operazione erano più proclivi gli incolti dei colti. Si<br />

adattavano prima a quel «non cercar di capire» che era il primo detto<br />

sapienziale da impararsi in Lager; cercar di capire, là, sul posto, era<br />

uno sforzo inutile, anche per i molti prigionieri che venivano da altri<br />

Lager, o che, come Améry, conoscevano la storia, la logica e la<br />

morale, ed inoltre avevano provato la prigionia e la tortura: uno spreco<br />

di energie che sarebbe stato più utile investire nella lotta quotidiana<br />

contro la fame e la fatica. Logica e morale impedivano di accettare<br />

una realtà illogica ed immorale: ne risultava un rifiuto della realtà che<br />

di regola conduceva rapidamente l’uomo colto alla disperazione; ma<br />

le varietà dell’animale-uomo sono innumerevoli, ed ho visto e<br />

descritto uomini dalla cultura raffinata, specie se giovani, farne getto,<br />

semplificarsi, imbarbarirsi e sopravvivere.<br />

L’uomo semplice, abituato a non porsi domande, era al riparo<br />

dall’inutile tormento del chiedersi perché; inoltre, spesso possedeva un<br />

mestiere o una manualità che facilitavano il suo inserimento. Sarebbe<br />

difficile darne un elenco completo, anche perché variava da Lager a Lager<br />

e da momento a momento. A titolo di curiosità: ad Auschwitz, nel<br />

dicembre 1944, con i russi alle porte, i bombardamenti quotidiani e il<br />

gelo che spaccava le condutture, fu istituito un Buchhalter-Kommando,<br />

una Squadra Contabili; fu chiamato a farne parte anche quello Steinlauf<br />

che ho descritto nel terzo capitolo di Se questo è un uomo, il che non<br />

bastò a salvarlo dalla morte. Questo, beninteso, era un caso limite, da<br />

107


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

inquadrarsi nella follia generale del tramonto del Terzo Reich; ma era<br />

normale, e comprensibile, che trovassero un buon posto i sarti, i<br />

ciabattini, i meccanici, i muratori: questi, anzi, erano troppo scarsi;<br />

proprio a Monowitz fu istituita (non certo a scopo umanitario) una scuola<br />

d’arte muraria, per i prigionieri d’età inferiore ai diciott’anni.<br />

Anche il filosofo, dice Améry, poteva arrivare all’accettazione,<br />

ma per una strada più lunga. Poteva accadergli di infrangere la<br />

barriera del senso comune, che gli vietava di tenere per buona una<br />

realtà troppo feroce; poteva infine ammettere, vivendo in un mondo<br />

mostruoso, che i mostri esistono, e che accanto alla logica di Cartesio<br />

esisteva quella delle SS:<br />

E se coloro che si proponevano di annientarlo avessero avuto ragione,<br />

in base al fatto innegabile che erano loro i più forti? In questo modo la<br />

fondamentale tolleranza spirituale e il dubbio metodico dell’intellettuale<br />

diventavano fattori di autodistruzione. Sì, le SS potevano bene<br />

fare quello che facevano: il diritto naturale non esiste, e le categorie<br />

morali nascono e muoiono come le mode. C’era una Germania che<br />

mandava a morte gli ebrei e gli avversari politici perché riteneva che<br />

solo per questa via avrebbe potuto realizzarsi. Ebbene? Anche la<br />

civiltà greca era fondata sulla schiavitù, ed un esercito ateniese si era<br />

accasermato a Melos come le SS in Ucraina. Erano state uccise<br />

vittime umane in numero inaudito, fin là dove la luce della storia può<br />

illuminare il passato, e comunque, la perennità del progresso umano<br />

non era che un’ingenuità nata nel XIX secolo. «Links, zwei, drei,<br />

vier», l’ordine dei Kapòs per scandire il passo, era un rituale come<br />

tanti altri. A fronte dell’orrore non c’è molto da opporre: la Via Appia<br />

era stata fiancheggiata da due siepi di schiavi crocifissi, ed a Birkenau<br />

si spandeva il fetore di corpi umani bruciati. In Lager l’intellettuale<br />

non era più dalla parte di Crasso ma in quella di Spartaco: ecco tutto.<br />

Questa resa davanti all’orrore intrinseco del passato poteva<br />

condurre l’uomo dotto all’abdicazione intellettuale, fornendogli in pari<br />

tempo le armi di difesa del suo compagno incolto: «così è sempre<br />

stato, così sarà sempre». Forse la mia ignoranza della storia mi ha<br />

protetto da questa metamorfosi; né d’altra parte, per mia fortuna, ero<br />

esposto ad un altro pericolo a cui giustamente accenna Améry: per sua<br />

natura, l’intellettuale (tedesco, mi permetterei di aggiungere io al suo<br />

enunciato) tende a farsi complice del Potere, e quindi ad approvarlo.<br />

Tende a seguire le orme di Hegel, ed a deificare lo Stato, qualunque<br />

108


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Stato: il solo fatto di esistere ne giustifica l’esistenza. Le cronache<br />

della Germania hitleriana brulicano di casi che confermano questa<br />

tendenza: vi hanno soggiaciuto, confermandola, Heidegger il filosofo,<br />

maestro di Sartre; Stark il fisico, premio Nobel; Faulhaber il cardinale,<br />

suprema autorità cattolica in Germania, ed innumerevoli altri.<br />

Accanto a questa latente propensione dell’intellettuale agnostico,<br />

Améry osserva quanto tutti noi ex prigionieri abbiamo osservato: i non<br />

agnostici, i credenti in qualsiasi credo, hanno retto meglio alla<br />

seduzione del Potere, purché, beninteso, non fossero credenti nel verbo<br />

nazionalsocialista (la riserva non è superflua: nei Lager, e<br />

contrassegnati pure loro col triangolo rosso dei prigionieri politici,<br />

c’erano anche alcuni nazisti convinti, che erano caduti in disgrazia per<br />

dissidenza ideologica o per ragioni personali. Erano spiacenti a tutti);<br />

in definitiva, hanno anche sopportato meglio la prova del Lager, e<br />

sono sopravvissuti in numero proporzionalmente più alto.<br />

Come Améry, anch’io sono entrato in Lager come non credente, e<br />

come non credente sono stato liberato ed ho vissuto fino ad oggi; anzi,<br />

l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella<br />

mia laicità. Mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire una<br />

qualsiasi forma di provvidenza o di giustizia trascendente: perché i<br />

moribondi in vagone bestiame? perché i bambini in gas? Devo ammettere<br />

tuttavia di aver provato (e di nuovo una volta sola) la tentazione di<br />

cedere, di cercare rifugio nella preghiera. Questo è avvenuto nell’ottobre<br />

del 1944, nell’unico momento in cui mi è accaduto di percepire<br />

lucidamente l’imminenza della morte: quando, nudo e compresso fra i<br />

compagni nudi, con la mia scheda personale in mano, aspettavo di sfilare<br />

davanti alla «commissione» che con un’occhiata avrebbe deciso se avrei<br />

dovuto andare subito alla camera a gas, o se invece ero abbastanza forte<br />

per lavorare ancora. Per un istante ho provato il bisogno di chiedere aiuto<br />

ed asilo; poi, nonostante l’angoscia, ha prevalso l’equanimità: non si<br />

cambiano le regole del gioco alla fine della partita, né quando stai<br />

perdendo. Una preghiera in quella condizione sarebbe stata non solo<br />

assurda (quali diritti potevo rivendicare? e da chi?) ma blasfema, oscena,<br />

carica della massima empietà di cui un non credente sia capace. Cancellai<br />

109


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

quella tentazione: sapevo che altrimenti, se fossi sopravvissuto, me ne<br />

sarei dovuto vergognare.<br />

Non solo nei momenti cruciali delle selezioni o dei<br />

bombardamenti aerei, ma anche nella macina della vita quotidiana, i<br />

credenti vivevano meglio: entrambi, Améry ed io, lo abbiamo<br />

osservato. Non aveva alcuna importanza quale fosse il loro credo,<br />

religioso o politico. Sacerdoti cattolici o riformati, rabbini delle varie<br />

ortodossie, sionisti militanti, marxisti ingenui od evoluti, Testimoni di<br />

Geova, erano accomunati dalla forza salvifica della loro fede. Il loro<br />

universo era più vasto del nostro, più esteso nello spazio e nel tempo,<br />

soprattutto più comprensibile: avevano una chiave ed un punto<br />

d’appoggio, un domani millenario per cui poteva avere un senso sacrificarsi,<br />

un luogo in cielo o in terra in cui la giustizia e la<br />

misericordia avevano vinto, o avrebbero vinto in un avvenire forse<br />

lontano ma certo: Mosca, o la Gerusalemme celeste, o quella terrestre.<br />

La loro fame era diversa dalla nostra; era una punizione divina, o una<br />

espiazione, o un’offerta votiva, o frutto della putredine capitalista. Il<br />

dolore, in loro o intorno a loro, era decifrabile, e perciò non<br />

sconfinava nella disperazione. Ci guardavano con commiserazione, a<br />

volte con disprezzo; alcuni di loro, negli intervalli della fatica,<br />

cercavano di evangelizzarci. Ma come puoi, tu laico, fabbricarti o<br />

accettare sul momento una fede «opportuna» solo perché è opportuna?<br />

Nei giorni folgoranti e densissimi che seguirono immediatamente<br />

alla liberazione, su un miserando scenario di moribondi, di morti, di<br />

vento infetto e di neve inquinata, i russi mi mandarono dal barbiere a<br />

farmi radere per la prima volta della mia nuova vita di uomo libero. Il<br />

barbiere era un ex politico, un operaio francese della «ceinture»; ci<br />

sentimmo subito fratelli, ed io feci qualche commento banale sulla nostra<br />

così improbabile salvazione: eravamo dei condannati a morte liberati<br />

sulla pedana della ghigliottina, vero? Lui mi guardò a bocca aperta, e poi<br />

esclamò scandalizzato: «... mais Joseph était là!» Joseph? Mi occorse<br />

qualche istante per capire che alludeva a Stalin. Lui no, non aveva mai<br />

disperato; Stalin era la sua fortezza, la Rocca che si canta nei Salmi.<br />

La demarcazione fra colti e incolti, beninteso, non coincideva affatto<br />

con quella fra credenti e non credenti: anzi, la tagliava ad angolo retto, a<br />

110


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

costituire quattro quadranti abbastanza ben definiti: i colti credenti, i colti<br />

laici, gli incolti credenti, gli incolti laici; quattro piccole isole frastagliate<br />

e colorate, che si stagliavano sul mare grigio, sterminato, dei semivivi che<br />

forse colti o credenti erano stati, ma che ormai non si ponevano più<br />

domande, ed a cui sarebbe stato inutile e crudele porre domande.<br />

L’intellettuale, nota Améry (ed io preciserei: l’intellettuale giovane,<br />

quali lui ed io eravamo al tempo della cattura e della prigionia), ha<br />

ricavato dalle sue letture un ‘immagine della morte inodora, adorna e<br />

letteraria. Traduco qui «in italiano» le sue osservazioni di filologo<br />

tedesco, tenuto a citare il «Più luce!» di Goethe, la Morte a Venezia e<br />

Tristano. Da noi, in Italia, la morte è il secondo termine del binomio<br />

«amore e morte»; è la gentile trasfigurazione di Laura, Ermengarda e<br />

Clorinda; è il sacrificio del soldato in battaglia («Chi per la patria muor,<br />

vissuto è assai»); è «Un bel morir tutta la vita onora».<br />

Questo sconfinato archivio di formule difensive ed apotropaiche,<br />

ad Auschwitz (o del resto, anche oggi in qualsiasi ospedale) aveva vita<br />

breve: la Morte ad Auschwitz era triviale, burocratica e quotidiana.<br />

Non veniva commentata, non era «confortata di pianto». Davanti alla<br />

morte, all’abitudine alla morte, il confine tra cultura ed incultura<br />

spariva. Améry afferma che non si pensava più al se morire, cosa<br />

scontata, ma piuttosto al come:<br />

Si discuteva sul tempo necessario perché il veleno delle camere a gas<br />

facesse il suo effetto. Si speculava sulla dolorosità della morte per<br />

iniezione di fenolo. C’era da augurarsi un colpo sul cranio oppure la<br />

morte per esaurimento nell’infermeria?<br />

Su questo punto la mia esperienza ed i miei ricordi si staccano da<br />

quelli di Améry. Forse perché più giovane, forse perché più ignorante di<br />

lui, o meno segnato, o meno cosciente, non ho quasi mai avuto tempo<br />

da dedicare alla morte; avevo ben altro a cui pensare, a trovare un po’ di<br />

pane, a scansare il lavoro massacrante, a rappezzarmi le scarpe, a rubare<br />

una scopa, a interpretare i segni e i visi intorno a me. Gli scopi di vita<br />

sono la difesa ottima contro la morte: non solo in Lager.<br />

111


VII<br />

Stereotipi<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Coloro che hanno sperimentato la prigionia (e, molto più in<br />

generale, tutti gli individui che hanno attraversato esperienze severe)<br />

si dividono in due categorie ben distinte, con rare sfumature<br />

intermedie: quelli che tacciono e quelli che raccontano. Entrambi<br />

obbediscono a valide ragioni: tacciono coloro che provano più profondamente<br />

quel disagio che per semplificare ho chiamato «vergogna»,<br />

coloro che non si sentono in pace con se stessi, o le cui ferite ancora<br />

bruciano. Parlano, e spesso parlano molto, gli altri, obbedendo a spinte<br />

diverse. Parlano perché, a vari livelli di consapevolezza, ravvisano<br />

nella loro (anche se ormai lontana) prigionia il centro della loro vita,<br />

l’evento che nel bene e nel male ha segnato la loro esistenza intiera.<br />

Parlano perché sanno di essere testimoni di un processo di dimensione<br />

planetaria e secolare. Parlano perché (recita un detto jiddisch) «è bello<br />

raccontare i guai passati»; Francesca dice a Dante che non c’è «nessun<br />

maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria», ma è<br />

vero anche l’inverso, come sa ogni reduce: è bello sedere al caldo,<br />

davanti al cibo ed al vino, e ricordare a sé ed agli altri la fatica, il<br />

freddo e la fame: così subito cede all’urgenza del raccontare, davanti<br />

alla mensa imbandita, Ulisse alla corte del re dei Feaci. Parlano,<br />

magari esagerando, da «soldati millantatori», descrivendo paura e<br />

coraggio, astuzie, offese, sconfitte e qualche vittoria: così facendo, si<br />

differenziano dagli «altri», consolidano la loro identità con l’appartenenza<br />

ad una corporazione, e sentono accresciuto il loro prestigio.<br />

112


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Ma parlano, anzi (posso usare la prima persona plurale: io non<br />

appartengo ai taciturni) parliamo, anche perché veniamo invitati a farlo.<br />

Ha scritto anni fa Norberto Bobbio che i campi di annien-tamento nazisti<br />

sono stati « non uno degli eventi, ma l’evento mostruoso, forse irripetibile,<br />

della storia umana». Gli altri, gli ascolta-tori, amici, figli,<br />

lettori, od anche estranei, lo intuiscono, al di là della indignazione e della<br />

commiserazione; capiscono l’unicità della nostra esperienza, o almeno si<br />

sforzano di capirla. Perciò ci sollecitano a raccontare e ci pongono<br />

domande, talvolta mettendoci in imbarazzo: non sempre è facile<br />

rispondere a certi perché, non siamo storici né filosofi ma testimoni, e del<br />

resto non è detto che la storia delle cose umane obbedisca a schemi logici<br />

rigorosi. Non è detto che ogni svolta segua da un solo perché: le semplificazioni<br />

sono buone solo per i testi scolastici, i perché possono essere<br />

molti, confusi fra loro, o incono-scibili, se non addirittura inesistenti.<br />

Nessuno storico o epistemologo ha ancora dimostrato che la storia umana<br />

sia un processo deterministico.<br />

Fra le domande che ci vengono poste ce n’è una che non manca<br />

mai; anzi, a mano a mano che gli anni passano, essa viene formulata<br />

con sempre maggiore insistenza, e con un sempre meno celato accento<br />

di accusa. Più che una domanda singola, è una famiglia di domande.<br />

Perché non siete fuggiti? Perché non vi siete ribellati? Perché non vi<br />

siete sottratti alla cattura «prima»? Proprio per la loro immancabilità,<br />

e per il loro crescere nel tempo, queste domande meritano attenzione.<br />

Il primo commento a queste domande, e la loro prima<br />

interpretazione, sono ottimistici. Vi sono paesi in cui la libertà non è<br />

mai stata conosciuta, perché il bisogno che naturalmente l’uomo ne<br />

prova viene dopo altri ben più urgenti bisogni: di resistere al freddo,<br />

alla fame, alle malattie, ai parassiti, alle aggressioni animali e umane.<br />

Però, nei paesi in cui i bisogni elementari sono soddisfatti, i giovani<br />

d’oggi sentono la libertà come un bene a cui non si deve in alcun caso<br />

rinunciare: non sì può farne a meno, è un diritto naturale ed ovvio, e<br />

per di più gratuito, come la salute e l’aria che si respira. I tempi e i<br />

luoghi in cui questo diritto congenito viene negato sono sentiti come<br />

lontani, estranei, strani. Perciò, per loro, l’idea della prigionia è<br />

113


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

concatenata all’idea della fuga o della rivolta. La condizione del<br />

prigioniero è sentita come indebita, anormale: come una malattia,<br />

insomma, che deve essere guarita con l’evasione o con la ribellione.<br />

Del resto, il concetto dell’evasione come obbligo morale ha radici<br />

salde: secondo i codici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è<br />

tenuto a liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo posto di<br />

combattente, e secondo la Convenzione dell’Aia il tentativo di fuga<br />

non deve essere punito. Nella coscienza comune, l’evasione lava ed<br />

estingue la vergogna della prigionia Sia detto di passata: nell’Unione<br />

Sovietica di Stalin la prassi, se non la legge, era diversa ed assai più<br />

drastica; per il prigioniero di guerra sovietico rimpatriato non c’era<br />

guarigione né redenzione, egli era considerato irrimediabilmente<br />

colpevole, anche se era riuscito ad evadere ed a ricongiungersi con<br />

l’armata combattente. Avrebbe dovuto morire anziché arrendersi, ed<br />

inoltre, essendo stato (magari per poche ore) nelle mani del nemico,<br />

era automaticamente sospetto di collusione con lui. Alloro incauto<br />

ritorno in patria, furono deportati in Siberia, o uccisi, perfino molti<br />

militari che al fronte erano stati catturati dai tedeschi, erano stati<br />

trascinati nei territori occupati, erano evasi e si erano uniti alle bande<br />

partigiane operanti contro i tedeschi in Italia, in Francia o nelle stesse<br />

retrovie russe. Anche nel Giappone in guerra il soldato che si<br />

arrendeva era considerato con estremo disprezzo: di qui il trattamento<br />

durissimo a cui furono sottoposti i militari alleati che caddero<br />

prigionieri nelle mani dei giapponesi. Non erano solo nemici, erano<br />

anche nemici vili, degradati dall’essersi arresi.<br />

Ancora: il concetto dell’evasione come dovere morale e come<br />

conseguenza obbligata della cattività è costantemente ribadito dalla<br />

letteratura romantica (il Conte di Montecristo!) e popolare (si ricordi<br />

lo straordinario successo delle memorie di Papillon [Mondadori,<br />

Milano 1974]). Nell’universo del cinematografo, l’eroe ingiustamente<br />

(o magari giustamente) incarcerato è sempre un personaggio positivo,<br />

tenta sempre la fuga, anche nelle circostanze meno verosimili, e il<br />

tentativo è invariabilmente coronato da successo. Fra i mille film<br />

sepolti dall’oblio, restano nella memoria Io sono un evaso e Uragano.<br />

Il prigioniero tipico è visto come un uomo integro, nel pieno possesso<br />

114


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

del suo vigore fisico e morale, che, con la forza che nasce dalla<br />

disperazione e con l’ingegno aguzzato dalla necessità, si scaglia<br />

contro le barriere, le scavalca o le infrange.<br />

Ora, questa immagine schematica della prigionia e dell’evasione<br />

assomiglia assai poco alla situazione dei campi di concentramento.<br />

Intendendo questo termine nel suo senso più vasto (includendo cioè, oltre<br />

ai campi di distruzione dal nome universalmente noto anche i moltissimi<br />

campi per prigionieri e internati militari), esistevano in Germania parecchi<br />

milioni di stranieri in condizione di schiavitù. affaticati, disprezzati,<br />

sottoalimentati, mal vestiti e mal curati, tagliati fuori dal contatto con la<br />

madrepatria. Non erano «prigionieri tipici», non erano integri, erano anzi<br />

demoralizzati e svigoriti. Va fatta eccezione per i prigionieri di guerra<br />

alleati (gli americani e gli appartenenti al Commonwealth britannico), che<br />

ricevevano viveri e vestiario attraverso la Croce Rossa internazionale,<br />

possedevano un buon allenamento militare, forti motivazioni ed un saldo<br />

spirito di corpo, ed avevano conservato una gerarchia interna abbastanza<br />

solida, esente dalla «zona grigia» di cui ho parlato altrove; salvo poche<br />

eccezioni, potevano fidarsi l’uno dell’altro, ed inoltre sapevano che, se<br />

fossero stati ripresi, sarebbero stati trattati secondo le convenzioni<br />

internazionali. Fra di loro, in effetti, molte evasioni sono state tentate, ed<br />

alcune condotte a termine con successo.<br />

Per gli altri, per i paria dell’universo nazista (tra cui vanno<br />

compresi gli zingari ed i prigionieri sovietici, militari e civili, che<br />

razzialmente erano considerati di poco superiori agli ebrei), le cose<br />

stavano in modo diverso. Per loro l’evasione era difficile ed<br />

estremamente pericolosa: erano indeboliti, oltre che demoralizzati, dalla<br />

fame e dai maltrattamenti; erano e si sentivano considerati di minor<br />

valore che bestie da soma. Avevano i capelli rasati, abiti lerci subito<br />

riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e<br />

silenzioso. Se erano stranieri, non avevano conoscenze né rifugi<br />

possibili nei dintorni; se erano tedeschi, sapevano di essere attentamente<br />

sorvegliati e schedati dalla occhiuta polizia segreta, e che pochissimi<br />

loro connazionali avrebbero rischiato la libertà o la vita per ospitarli.<br />

Il caso particolare (ma numericamente imponente) degli ebrei era il<br />

più tragico. Anche ammettendo che fossero riusciti a superare lo<br />

115


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

sbarramento di filo spinato e la griglia elettrificata, a sfuggire alle<br />

pattuglie, alla sorveglianza delle sentinelle armate di mitragliatrice nelle<br />

torrette di guardia, ai cani addestrati alla caccia all’uomo: verso dove<br />

avrebbero potuto dirigersi? a chi chiedere ospitalità? Erano fuori del<br />

mondo, uomini e donne d’aria. Non avevano più una patria (erano stati<br />

privati della cittadinanza d’origine) né una casa, sequestrata a favore dei<br />

cittadini a pieno titolo. Salvo eccezioni, non avevano più famiglia, o se<br />

ancora viveva qualche loro parente, non sapevano dove trovarlo, o dove<br />

scrivergli senza mettere la polizia sulle sue tracce. La propaganda<br />

antisemita di Goebbels e di Streicher aveva dato frutto: la maggior parte<br />

dei tedeschi, ed i giovani in specie, odiavano gli ebrei, li disprezzavano<br />

e li consideravano nemici del popolo; gli altri, con pochissime eroiche<br />

eccezioni, si astenevano da qualsiasi aiuto per paura della Gestapo. Chi<br />

ospitava o anche solo aiutava un ebreo rischiava punizioni terrificanti:<br />

ed a questo proposito è giusto ricordare che qualche migliaio di ebrei<br />

sono sopravvissuti per tutto il periodo hitleriano, nascosti in Germania<br />

ed in Polonia in conventi, in cantine, in solai, ad opera di cittadini<br />

coraggiosi, misericordiosi, e soprattutto abbastanza intelligenti da<br />

conservare per anni la più stretta discrezione.<br />

Inoltre, in tutti i Lager la fuga anche di un solo prigioniero era<br />

considerata una mancanza gravissima di tutto il personale di<br />

sorveglianza, a partire dai prigionieri-funzionari fino al comandante<br />

del campo, che rischiava la destituzione. Nella logica nazista, era un<br />

evento intollerabile: la fuga di uno schiavo, specie se appartenente alle<br />

razze «di minor valore biologico», appariva carica di valore simbolico,<br />

avrebbe rappresentato una vittoria di colui che è sconfitto per<br />

definizione, una lacerazione del mito; ed anche, più realisticamente,<br />

un danno obiettivo, perché ogni prigioniero aveva visto cose che il<br />

mondo non avrebbe dovuto sapere. Di conseguenza, quando un<br />

prigioniero mancava all’appello (cosa non rarissima: spesso si trattava<br />

di un semplice errore di conteggio, o di un prigioniero svenuto per<br />

esaurimento) si scatenava l’apocalissi. L’intero campo veniva messo<br />

in stato d’allarme; oltre alle SS addette alla sorveglianza intervenivano<br />

pattuglie della Gestapo; Lager, cantieri, case coloniche, abitazioni dei<br />

dintorni venivano perquisite. Ad arbitrio del comandante del campo,<br />

116


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

venivano presi provvedimenti d’emergenza. I connazionali o gli amici<br />

notori o i vicini di cuccetta dell’evaso erano interrogati sotto tortura e<br />

poi uccisi; infatti, un’evasione era un’impresa difficile, ed era inverosimile<br />

che il fuggitivo non avesse avuto complici o che nessuno si<br />

fosse accorto dei preparativi. I suoi compagni di baracca, o a volte<br />

tutti i prigionieri del campo, venivano fatti stare in piedi, nella piazza<br />

dell’appello, senza limiti di tempo, magari per giorni, sotto la neve, la<br />

pioggia o il solleone, finché l’evaso non fosse stato ritrovato, vivo o<br />

morto. Se era stato rintracciato e catturato vivo, veniva punito invariabilmente<br />

con la morte mediante impiccagione pubblica, ma questa<br />

era preceduta da un cerimoniale vario da volta a volta, sempre di<br />

ferocia inaudita, in cui si scatenava la crudeltà fantasiosa delle SS.<br />

Ad illustrare quale impresa disperata fosse una fuga, ma non solo<br />

a questo scopo, ricorderò qui l’impresa di Mala Zimetbaum; vorrei<br />

infatti che ne rimanesse memoria. L’evasione di Mala dal Lager<br />

femminile di Auschwitz-Birkenau è stata narrata da più persone, ma i<br />

particolari concordano. Mala era una giovane ebrea polacca che era<br />

stata catturata in Belgio e che parlava correntemente molte lingue,<br />

perciò a Birkenau fungeva da interprete e da portaordini, e come tale<br />

godeva di una certa libertà di spostamento. Era generosa e coraggiosa;<br />

aveva aiutato molte compagne, ed era amata da tutte. Nell’estate del<br />

1944 decise di evadere con Edek, un prigioniero politico polacco. Non<br />

volevano soltanto riconquistarsi la libertà: intendevano documentare<br />

al mondo il massacro quotidiano di Birkenau. Riuscirono a corrompere<br />

una SS ed a procurarsi due uniformi. Uscirono travestiti e<br />

giunsero fino al confine slovacco; qui vennero fermati dai doganieri,<br />

che sospettarono di trovarsi davanti a due disertori e li consegnarono<br />

alla polizia. Vennero immediatamente riconosciuti e riportati a Birkenau.<br />

Edek venne impiccato subito, ma non volle attendere che,<br />

secondo l’accanito cerimoniale del luogo, venisse letta la sentenza:<br />

infilò il capo nel cappio scorsoio e si lasciò cadere dallo sgabello.<br />

Anche Mala aveva risoluto di morire la sua propria morte. Mentre in<br />

una cella attendeva di essere interrogata, una compagna poté avvicinarla<br />

e le chiese «Come va, Mala?» Rispose: «A me va sempre bene». Era<br />

riuscita a nascondersi addosso una lametta da rasoio. Ai piedi della forca<br />

117


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

si recise l’arteria di un polso. L’SS che fungeva da boia cercò di<br />

strapparle la lama, e Mala, davanti a tutte le donne del campo, gli sbatté<br />

sul viso la mano insanguinata. Subito accorsero altri militi, inferociti: una<br />

prigioniera, un’ebrea, una donna, aveva osato sfidarli! La calpestarono a<br />

morte; spirò, per sua fortuna, sul carro che la portava al crematorio.<br />

Questa non era «violenza inutile». Era utile: serviva assai bene a<br />

stroncare sul nascere ogni velleità di fuga; era normale che pensasse<br />

alla fuga il prigioniero nuovo, inesperto di queste tecniche raffinate e<br />

collaudate; era rarissimo che questo pensiero passasse per la mente<br />

degli anziani; infatti, era comune che i preparativi di una evasione<br />

venissero denunciati dai componenti della «zona grigia», o anche solo<br />

da terzi, timorosi delle rappresaglie descritte.<br />

Ricordo con un sorriso l’avventura che mi è accaduta parecchi<br />

anni fa in una quinta elementare, in cui ero stato invitato a<br />

commentare i miei libri ed a rispondere alle domande degli allievi. Un<br />

ragazzino dall’aria sveglia, apparentemente il leader della classe, mi<br />

rivolse la domanda di rito: «Ma lei perché non è scappato?» Io gli<br />

esposi in breve quanto ho scritto qui; lui, poco convinto, mi chiese di<br />

tracciare sulla lavagna uno schizzo del campo, indicando la collocazione<br />

delle torrette di guardia, delle porte, dei reticolati e della<br />

centrale elettrica. Feci del mio meglio, sotto trenta paia di occhi<br />

intenti. Il mio interlocutore studiò il disegno per qualche istante, mi<br />

chiese qualche precisazione ulteriore, poi mi espose il piano che aveva<br />

escogitato: qui, di notte, sgozzare la sentinella; poi, indossare i suoi<br />

abiti; subito dopo, correre laggiù alla centrale e interrompere la<br />

corrente elettrica, così i fari si sarebbero spenti e si sarebbe disattivato<br />

il reticolato ad alta tensione; dopo me ne sarei potuto andare<br />

tranquillo. Aggiunse seriamente. «Se le dovesse capitare un’altra<br />

volta, faccia come le ho detto: vedrà che riesce».<br />

Nei suoi limiti, mi pare che l’episodio illustri bene la spaccatura che<br />

esiste, e che si va allargando di anno in anno, fra le cose com’erano<br />

«laggiù» e le cose quali vengono rappresentate dalla immaginazione<br />

corrente, alimentata da libri, film e miti appressi-mativi. Essa, fatalmente,<br />

slitta verso la semplificazione e lo stereotipo; vorrei porre qui un argine<br />

contro questa deriva. In pari tempo, vorrei però ricordare che non si tratta<br />

118


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

di un fenomeno ristretto alla percezione del passato prossimo né delle<br />

tragedie storiche: è assai più generale, fa parte di una nostra difficoltà o<br />

incapacità di percepire le esperienze altrui, che è tanto più pronunciata<br />

quanto più queste sono lontane dalle nostre nel tempo, nello spazio o<br />

nella qualità. Tendiamo ad assimilarle a quelle «viciniori», come se la<br />

fame di Auschwitz fosse quella di chi ha saltato un pasto, o come se la<br />

fuga da Treblinka fosse assimilabile alla fuga da Regina Coeli. É compito<br />

dello storico scavalcare questa spaccatura, che è tanto più ampia quanto<br />

più tempo è trascorso dagli eventi studiati.<br />

Con altrettanta frequenza, e con anche più aspro accento<br />

accusatorio, ci viene chiesto: « Perché non vi siete ribellati? » Questa<br />

domanda è quantitativamente diversa dalla precedente, ma di natura<br />

simile, ed anch’essa si fonda su uno stereotipo. É opportuno scindere<br />

la risposta in due parti.<br />

In primo luogo: non è vero che in nessun Lager abbiano avuto luogo<br />

rivolte. Sono state più volte descritte, con abbondanza di particolari, le<br />

rivolte di Treblinka, di Sobibòr, di Birkenau; altre avvennero in campi<br />

minori. Furono imprese di estrema audacia, degne del più profondo<br />

rispetto, ma nessuna di esse si concluse con la vittoria, se per vittoria si<br />

intende la liberazione del campo. Sarebbe stato insensato puntare su<br />

questo scopo: lo strapotere delle truppe di guardia era tale da farlo fallire<br />

in pochi minuti, poiché gli insorti erano praticamente disarmati. Il loro<br />

scopo effettivo era quello di danneggiare o distruggere gli impianti di<br />

morte, e di consentire la fuga del piccolo nucleo degli insorti, il che<br />

talvolta (ad esempio a Treblinka, anche se solo in parte) riuscì. Ad una<br />

fuga di massa non si pensò mai: sarebbe stata un’impresa folle. Quale<br />

senso, quale utilità avrebbe avuto aprire le porte a migliaia di individui<br />

appena capaci di trascinarsi, e ad altri che non avrebbero saputo dove, in<br />

terra nemica, andare a cercarsi un rifugio?<br />

Insurrezioni comunque avvennero; furono preparate con intelligenza<br />

ed incredibile coraggio da minoranze risolute e fisicamente ancora<br />

indenni. Costarono un prezzo spaventoso in termini di vite umane e di<br />

sofferenze collettive inferte a titolo di rappresaglia, ma valsero e valgono<br />

a mostrare che è falso affermare che i prigionieri dei Lager tedeschi non<br />

abbiano mai tentato di ribellarsi. Nelle intenzioni degli insorti, avrebbero<br />

119


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

dovuto condurre ad un altro risultato più concreto: portare a conoscenza<br />

del mondo libero il terribile segreto del massacro. In effetti i pochi a cui<br />

l’impresa riuscì, e che dopo altre estenuanti peripezie poterono avere<br />

accesso agli organi d’informazio-ne, parlarono: ma, come ho accennato<br />

nell’introduzione, non furono quasi mai ascoltati né creduti. Le verità<br />

scomode hanno un difficile cammino.<br />

In secondo luogo: come il nesso prigionia-fuga, anche il nesso<br />

oppressione-ribellione è uno stereotipo. Non intendo dire che non sia<br />

valido mai: dico che non è valido sempre. La storia delle ribellioni,<br />

cioè delle rivolte dal basso, dei «molti oppressi» contro i «pochi<br />

potenti», è vecchia come la storia dell’umanità ed altrettanto varia e<br />

tragica. Ci sono state alcune poche ribellioni vittoriose, molte sono<br />

state sconfitte, innumerevoli altre sono state soffocate ai loro esordi,<br />

tanto precocemente da non aver lasciato traccia nelle cronache. Le<br />

variabili in gioco sono molte: la forza numerica, militare ed ideale dei<br />

ribelli e rispettivamente dell’autorità sfidata, le rispettive coesioni o<br />

spaccature interne, gli aiuti esterni agli uni ed all’altra, l’abilità, il<br />

carisma o il demonismo dei capi, la fortuna. Tuttavia, in ogni caso, si<br />

osserva che alla testa del movimento non figurano mai gli individui<br />

più oppressi: di solito, anzi, le rivoluzioni sono guidate da capi audaci<br />

e spregiudicati, che si gettano nella mischia per generosità (o magari<br />

per ambizione) pur avendo la possibilità di vivere personalmente una<br />

vita sicura e tranquilla, magari addirittura privilegiata. L’immagine<br />

tanto spesso replicata nei monumenti, dello schiavo che spezza le sue<br />

pesanti catene, è retorica: le sue catene vengono spezzate dai<br />

compagni i cui vincoli sono più leggeri e più lenti.<br />

Il fatto non può stupire. Un capo dev’essere efficiente: deve<br />

possedere forza morale e fisica, e l’oppressione, se spinta oltre un<br />

certo livello molto basso, deteriora l’una e l’altra. Per suscitare la<br />

collera e l’indignazione, che sono i motori di tutte le vere rivolte<br />

(quelle dal basso, per intenderci: non certo i putsch né le «rivolte di<br />

palazzo»), occorre sì che l’oppressione esista, ma essa dev’essere di<br />

misura modesta, o condotta con scarsa efficienza. L’oppressione nei<br />

Lager era di misura estrema, ed era condotta con la nota, ed in altri<br />

campi encomiabile, efficienza tedesca. Il prigioniero tipico, quello che<br />

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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

costituiva il nerbo del campo, era al limite dell’esaurimento: affamato,<br />

indebolito, coperto di piaghe (in specie ai piedi: era un uomo<br />

«impedito», nel senso originario del termine. Non è un dettaglio<br />

secondario!), e quindi profondamente avvilito. Era un uomo-straccio,<br />

e con gli stracci, come già sapeva Marx, le rivoluzioni non si fanno<br />

nel mondo reale, bensì solo in quello della retorica letteraria o<br />

cinematografica. Tutte le rivoluzioni, quelle che hanno dirottato la<br />

storia del mondo e quelle minuscole di cui ci occupiamo qui, sono<br />

state guidate da personaggi che conoscevano bene l’oppressione, ma<br />

non sulla loro pelle. La rivolta di Birkenau, a cui ho già accennato, fu<br />

scatenata dal Kommando Speciale addetto ai crematori: erano uomini<br />

disperati ed esasperati, ma ben nutriti, vestiti e calzati. La rivolta del<br />

ghetto di Varsavia fu un’impresa degna della più reverente<br />

ammirazione, fu la prima «resistenza» europea, e l’unica condotta<br />

senza la minima speranza di vittoria o di salute; ma fu opera di una<br />

élite politica che, giustamente, si era riserbata alcuni fondamentali<br />

privilegi, allo scopo di conservare la propria forza.<br />

Vengo alla terza variante della domanda: perché non siete scappati<br />

«prima»? Prima che le frontiere si chiudessero? Prima che la trappola<br />

scattasse? Anche qui devo ricordare che molte persone minacciate dal<br />

nazismo e dal fascismo se ne andarono «prima». Erano esuli propriamente<br />

politici, od anche intellettuali mal visti dai due regimi: migliaia<br />

di nomi, molti oscuri, alcuni illustri, quali Togliatti, Nenni, Saragat,<br />

Salvemini, Fermi, Emilio Segré, la Meitner, Arnaldo Momigliano,<br />

Thomas e Heinrich Mann, Arnold e Stefan Zweig, Brecht, e tanti altri;<br />

non tutti ritornarono, e fu un’emorragia che dissanguò l’Europa, forse in<br />

modo irrimediabile. La loro emigrazione (in Inghilterra, Stati Uniti,<br />

Sud-America, Unione Sovietica; ma anche in Belgio, Olanda, Francia,<br />

dove la marea nazista li doveva raggiun-gere pochi anni dopo: erano, e<br />

siamo tutti, ciechi al futuro) non fu una fuga né una diserzione, bensì un<br />

naturale ricongiungersi con alleati potenziali o reali, in cittadelle da cui<br />

riprendere la loro lotta o la loro attività creativa.<br />

121


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Tuttavia, è pur vero che in massima parte le famiglie minacciate (in<br />

primo luogo gli ebrei) restarono in Italia ed in Germania. Domandarsi e<br />

domandare il perché è ancora una volta il segno di una concezione<br />

stereotipa ed anacronistica della storia; più semplicemente, di una diffusa<br />

ignoranza e dimenticanza, che tende ad aumentare con l’allontanarsi dei<br />

fatti nel tempo. L’Europa del 1930-1940 non era l’Europa odierna.<br />

Emigrare è doloroso sempre; allora era anche più difficile e più costoso<br />

di quanto non sia oggi. Per farlo, occorreva non solo molto denaro, ma<br />

anche una « testa di ponte » nel paese di destinazione: parenti od amici<br />

disposti a dare garanzie o anche ospitalità. Molti italiani, soprattutto<br />

contadini, avevano emigrato nei decenni precedenti, ma erano stati spinti<br />

dalla miseria e dalla fame, ed una testa di ponte l’avevano, o credevano di<br />

averla; spesso erano stati invitati e bene accolti, perché localmente la<br />

mano d’opera scarseggiava; comunque, anche per loro e per le loro famiglie<br />

lasciare la patria era stata una decisione traumatica.<br />

«Patria»: non sarà inutile soffermarsi sul termine. Si colloca<br />

vistosamente fuori del linguaggio parlato: nessun italiano, se non per<br />

scherzo, dirà mai «prendo il treno e ritorno in patria». É di conio recente,<br />

e non ha senso univoco; non ha equivalenti esatti in lingue diverse dall’italiano,<br />

non compare, che io sappia, in nessuno dei nostri dialetti (e<br />

questo è un segno della sua origine dotta e della sua intrinseca<br />

astrattezza), né in Italia ha avuto sempre lo stesso significato. Infatti, a<br />

seconda delle epoche, ha indicato entità geografiche di estensione<br />

diversa, dal villaggio dove si è nati e (etimologicamente) dove hanno<br />

vissuto i nostri padri, fino, dopo il Risorgimento, all’intera nazione. In<br />

altri paesi, equivale press’a poco al focolare, o al luogo natio; in Francia<br />

(e talora anche fra noi) il termine ha assunto una connotazione ad un<br />

tempo drammatica, polemica e retorica: la Patrie è tale quando è<br />

minacciata o disconosciuta.<br />

Per chi si sposta, il concetto di patria diventa doloroso ed insieme<br />

tende ad impallidire; già il Pascoli, allontanatosi (non poi di molto)<br />

dalla sua Romagna, «dolce paese», sospirava «io, la mia patria or è<br />

dove si vive». Per Lucia Mondella, la patria si identificava<br />

visibilmente con le «cime ineguali» dei suoi monti sorgenti dalle<br />

acque del lago di Como. Per contro, in paesi ed in tempi di intensa<br />

122


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

mobilità, quali sono oggi gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, di patria<br />

non si parla se non in termini politico-burocratici: qual è il focolare,<br />

quale «la terra dei padri» di quei cittadini in eterna trasferta? Molti di<br />

loro non lo sanno né se ne preoccupano.<br />

Ma l’Europa degli anni ‘30 era ben diversa. Già industrializzata, era<br />

ancora profondamente contadina, o stanzialmente urbanizzata. L’«estero»,<br />

per l’enorme maggioranza della popolazione, era uno scenario lontano e<br />

vago, soprattutto per la classe media, meno assillata dal bisogno. Di fronte<br />

alla minaccia hitleriana, la massima parte degli ebrei indigeni, in Italia, in<br />

Francia, in Polonia, nella stessa Germania, preferì rimanere in quella che<br />

essi sentivano come la loro «patria», con motivazioni ampiamente comuni,<br />

e anche se con sfumature diverse da luogo a luogo.<br />

Fu comune a tutti la difficoltà organizzativa dell’emigrazione. Erano<br />

tempi di gravi tensioni internazionali: le frontiere europee, oggi quasi<br />

inesistenti, erano praticamente chiuse, l’Inghilterra e le Americhe<br />

ammettevano quote di immigrazione estremamente ridotte. Tuttavia, su<br />

questa difficoltà ne prevaleva un’altra di natura interna, psicologica.<br />

Questo villaggio, o città, o regione, o nazione, è il mio, ci sono nato, ci<br />

dormono i miei avi. Ne parlo la lingua, ne ho adottato i costumi e la<br />

cultura; a questa cultura ho forse anche contribuito. Ne ho pagato i tributi,<br />

ne ho osservato le leggi. Ho combattuto le sue battaglie, senza curarmi se<br />

fossero giuste o ingiuste: ho messo a rischio la mia vita per i suoi confini,<br />

alcuni miei amici o parenti giacciono nei cimiteri di guerra, io stesso, in<br />

ossequio alla retorica corrente, mi sono dichiarato disposto a morire per<br />

la patria. Non la voglio né la posso lasciare: se morrò, morrò «in patria»,<br />

sarà il mio modo di morire «per la patria».<br />

É ovvio che questa morale, sedentaria e casalinga più che attivamente<br />

patriottica, non avrebbe retto se l’ebraismo europeo avesse potuto<br />

antivedere il futuro. Non che della strage mancassero i sintomi<br />

premonitori: fin dai suoi primi libri e discorsi, Hitler aveva parlato chiaro,<br />

gli ebrei (non solo quelli tedeschi) erano i parassiti dell’umanità, e<br />

dovevano essere eliminati come si eliminano gli insetti nocivi. Ma,<br />

appunto, le deduzioni inquietanti hanno vita difficile: fino all’estremo, fino<br />

alle incursioni dei dervisci nazisti (e fascisti) di casa in casa, si trovò modo<br />

123


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

di disconoscere i segnali, di ignorare il pericolo, di confezionare quelle<br />

verità di comodo di cui ho parlato nelle prime pagine di questo libro.<br />

Questo avvenne in misura maggiore in Germania che non in Italia.<br />

Gli ebrei tedeschi erano quasi tutti borghesi ed erano tedeschi: come i<br />

loro quasi-compatrioti «ariani» amavano la legge e l’ordine, e non solo<br />

non prevedevano, ma erano organicamente incapaci di concepire un<br />

terrorismo di stato, anche quando già lo avevano intorno a loro. C’è un<br />

famoso e densissimo verso di Christian Morgenstern, bizzarro poeta<br />

bavarese (non ebreo, nonostante il cognome), che cade qui in acconcio,<br />

anche se è stato scritto nel 1910, nella Germania pulita proba e legalitaria<br />

descritta da J. K. Jerome in Tre uomini a zonzo. Un verso talmente<br />

tedesco e talmente pregnante che èpassato in proverbio, e che non può<br />

essere tradotto in italiano se non attraverso una goffa perifrasi:<br />

Nicht sein kann, was nicht sein darf.<br />

È il sigillo di una poesiola emblematica: Palmström, un cittadino<br />

tedesco ligio ad oltranza, viene investito da un’auto in una strada dove<br />

la circolazione è vietata. Si rialza malconcio, e ci pensa su: se la<br />

circolazione è vietata, i veicoli non possono circolare, cioè non<br />

circolano. Ergo, l’investimento non può essere avvenuto: è una «realtà<br />

impossibile», una Unmög1iche Tatsache (è questo il titolo della<br />

poesia). Lui deve averlo soltanto sognato, perché, appunto, «non<br />

possono esistere le cose di cui non è moralmente lecita l’esistenza».<br />

Bisogna guardarsi dal senno del poi e dagli stereotipi. Più in<br />

generale, bisogna guardarsi dall’errore che consiste nel giudicare<br />

epoche e luoghi lontani col metro che prevale nel qui e nell’oggi:<br />

errore tanto più difficile da evitare quanto più è grande la distanza<br />

nello spazio e nel tempo. É questo il motivo per cui, a noi non specialisti,<br />

è così ardua la comprensione dei testi biblici ed omerici, o anche<br />

dei classici greci e latini. Molti europei di allora, e non solo europei, e<br />

non solo di allora, si comportarono e si comportano come Palmström,<br />

negando l’esistenza delle cose che non dovrebbero esistere. Secondo il<br />

senso comune, che Manzoni accortamente distingueva dal «buon<br />

senso», l’uomo minacciato provvede, resiste o fugge; ma molte<br />

minacce di allora, che oggi ci sembrano evidenti, a quel tempo erano<br />

124


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

velate dall’incredulità voluta, dalla rimozione, dalle verità consolatone<br />

generosamente scambiate ed autocatalitiche.<br />

Qui sorge la domanda d’obbligo: una controdomanda. Quanto<br />

sicuri viviamo noi, uomini della fine del secolo e del millennio? e, più<br />

in particolare, noi europei? Ci è stato detto, e non c’è motivo di<br />

dubitarne, che per ogni essere umano del pianeta è accantonata una<br />

quantità di esplosivo nucleare pari a tre o quattro tonnellate di tritolo;<br />

se se ne usasse anche solo l’uno per cento, si avrebbero decine di<br />

milioni di morti subito, e danni genetici spaventosi per tutta la specie<br />

umana, anzi, per tutta la vita sulla terra, ad eccezione forse degli<br />

insetti. É almeno probabile, inoltre, che una terza guerra generalizzata,<br />

anche convenzionale, anche parziale, si combatterebbe sul nostro<br />

territorio, fra l’Atlantico e gli Urali, fra il Mediterraneo e l’Artico. La<br />

minaccia è diversa da quella degli anni ‘30: meno vicina ma più vasta;<br />

legata, secondo alcuni, ad un demonismo della Storia, nuovo; ancora<br />

indecifrabile, ma slegata (finora) dal demonismo umano. E puntata<br />

contro tutti, e quindi particolarmente «inutile».<br />

Allora? Le paure di oggi sono meno o più fondate di quelle di allora?<br />

Al futuro siamo ciechi, non meno dei VIII nostri padri. Svizze-ri e svedesi<br />

hanno i rifugi antinucleari, ma che cosa troveranno quando usciranno<br />

all’aperto? Lettere di tedeschi C’è la Polinesia, la Nuova Zelanda, la Terra<br />

del Fuoco, l’Antartide: forse resteranno indenni. Avere passaporto e visti<br />

d’entrata è molto più facile di allora: perché non partiamo, perché non<br />

lasciamo il nostro paese, perché non fuggiamo « prima»?<br />

125


VIII<br />

Lettere di tedeschi<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Se questo è un uomo è un libro di dimensioni modeste, ma, come<br />

un animale nomade, ormai da quarant’anni si lascia dietro una traccia<br />

lunga e intricata. Era stato pubblicato una prima volta nel 1947, in<br />

2500 copie, che furono bene accolte dalla critica ma smerciate solo in<br />

parte: le 600 copie residue, riposte a Firenze in un magazzino di<br />

invenduti, vi annegarono nell’alluvione dell’autunno 1966. Dopo dieci<br />

anni di «morte apparente», ritornò alla vita quando lo accettò l’editore<br />

Einaudi, nel 1957. Mi sono spesso posto una domanda futile: che cosa<br />

sarebbe successo se il libro avesse avuto subito una buona diffusione?<br />

Forse niente di particolare: è probabile che avrei continuato la mia<br />

faticosa vita di chimico che diventava scrittore alla domenica (e<br />

neanche tutte le domeniche); o forse invece mi sarei lasciato abbagliare<br />

ed avrei, chissà con quale fortuna, issato le bandiere dello<br />

scrittore in grandezza naturale. La questione, come dicevo, è oziosa: il<br />

mestiere di ricostruire il passato ipotetico, il cosa-sarebbe-successo-se,<br />

è altrettanto screditato quanto quello di antivedere l’avvenire.<br />

Malgrado questa falsa partenza, il libro ha camminato. É stato<br />

tradotto in otto o nove lingue, adattato per la radio e per il teatro in<br />

Italia ed all’estero, commentato in innumerevoli scuole. Del suo<br />

itinerario, una tappa e stata per me d’importanza fondamentale: quella<br />

della sua traduzione in tedesco e della sua pubblicazione in Germania<br />

Federale. Quando, verso il 1959, seppi che un editore tedesco (la<br />

Fischer Bücherei) aveva acquistato i diritti per la traduzione, mi sentii<br />

invadere da un’emozione violenta e nuova, quella di aver vinto una<br />

battaglia. Ecco, avevo scritto quelle pagine senza pensare ad un<br />

destinatario specifico; per me, quelle erano cose che avevo dentro, che<br />

126


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

mi invadevano e che dovevo mettere fuori: dirle, anzi, gridarle sui<br />

tetti; ma chi grida sui tetti si indirizza a tutti e a nessuno, chiama nel<br />

deserto. All’annuncio di quel contratto, tutto era cambiato e mi era<br />

diventato chiaro: il libro lo avevo scritto sì in italiano, per gli italiani,<br />

per i figli, per chi non sapeva, per chi non voleva sapere, per chi non<br />

era ancora nato, per chi, volentieri o no, aveva acconsentito all’offesa;<br />

ma i suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come<br />

un’arma, erano loro, i tedeschi. Ora l’arma era carica.<br />

Si ricordi, da Auschwitz erano passati solo quindici anni: i tedeschi<br />

che mi avrebbero letto erano «quelli», non i loro eredi. Da soverchiatori,<br />

o da spettatori indifferenti, sarebbero diventati lettori: li avrei costretti, legati<br />

davanti ad uno specchio. Era venuta l’ora di fare i conti, di abbassare<br />

le carte sul tavolo. Soprattutto, l’ora del colloquio. La vendetta non mi<br />

interessava; ero stato intimamente soddisfatto dalla (simbolica,<br />

incompleta, tendenziosa) sacra rappresen-tazione di Norimberga, ma mi<br />

stava bene così, che alle giustissime impiccagioni pensassero gli altri, i<br />

professionisti. A me spettava capire, capirli. Non il manipolo dei grandi<br />

colpevoli, ma loro, il popolo, quelli che avevo visti da vicino, quelli tra<br />

cui erano stati reclutati i militi delle SS, ed anche quegli altri, quelli che<br />

avevano creduto, che non credendo avevano taciuto, che non avevano<br />

avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi, di gettarci un pezzo di<br />

pane, di mormorare una parola umana.<br />

Ricordo molto bene quel tempo e quel clima, e credo di poter<br />

giudicare i tedeschi di allora senza pregiudizi e senza collera. Quasi<br />

tutti, ma non tutti, erano stati sordi, ciechi e muti: una massa di<br />

«invalidi» intorno a un nocciolo di feroci. Quasi tutti, ma non tutti,<br />

erano stati vili. Proprio qui, e con refrigerio, e per dimostrare quanto<br />

mi siano lontani i giudizi globali, vorrei raccontare un episodio: è stato<br />

eccezionale, ma è pure avvenuto.<br />

Nel novembre del 1944 eravamo al lavoro, ad Auschwitz; io, con<br />

due compagni, ero nel laboratorio chimico che ho descritto a suo luogo.<br />

Suonò l’allarme aereo, e subito dopo si videro i bombardieri: erano<br />

centinaia, si prospettava una incursione mostruosa. C’erano nel cantiere<br />

alcuni grandi bunker, ma erano per i tedeschi, a noi erano vietati. Per noi<br />

dovevano bastare i terreni incolti, ormai già coperti di neve, compresi<br />

127


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

entro la recinzione. Tutti, prigionieri e civili, ci precipitammo per le scale<br />

verso le rispettive destinazioni, ma il capo del laboratorio, un tecnico<br />

tedesco, trattenne noi Häftlinge-chimici: «Voi tre venite con me». Stupiti,<br />

lo seguimmo di corsa verso il bunker, ma sulla soglia stava un guardiano<br />

armato, con la svastica sul bracciale. Gli disse: «Lei entra; gli altri, fuori<br />

dai piedi». Il capo rispose: «Sono con me: o tutti o nessuno», e cercò di<br />

forzare il passaggio; ne segui un pugilato. Certo avrebbe avuto la meglio<br />

il guardiano, che era robusto, ma per fortuna di tutti suonò il cessato<br />

allarme: l’incursione non era per noi, gli aerei avevano proseguito verso<br />

nord. Se (un altro se! ma come resistere al fascino dei sentieri che si<br />

biforcano?), se i tedeschi anomali, capaci di questo modesto coraggio,<br />

fossero stati più numerosi, la storia di allora e la geografia di oggi sarebbero<br />

diverse.<br />

Non mi fidavo dell’editore tedesco. Gli scrissi una lettera quasi<br />

insolente: lo diffidavo dal togliere o cambiare una sola parola del<br />

testo, e lo impegnavo a mandarmi il manoscritto della traduzione a<br />

fascicoli, capitolo per capitolo, a mano a mano che il lavoro procedeva;<br />

volevo controllarne la fedeltà, non solo lessicale ma intima. Insieme<br />

col primo capitolo, che trovai tradotto assai bene, mi giunse uno<br />

scritto del traduttore, in italiano perfetto. L’editore gli aveva mostrato<br />

la mia lettera: non avevo niente da temere, né dall’editore né tanto<br />

meno da lui. Si presentava: aveva la mia età precisa, aveva studiato<br />

per parecchi anni in Italia, oltre che traduttore era un italianista,<br />

studioso del Goldoni. Anche lui era un tedesco anomalo. Era stato<br />

chiamato sotto le armi, ma il nazismo gli ripugnava; nel 1941 aveva<br />

simulato una malattia, era stato ricoverato in ospedale, ed aveva<br />

ottenuto di trascorrere la convalescenza putativa studiando letteratura<br />

italiana presso l’Università di Padova. Era poi stato dichiarato<br />

rivedibile, a Padova era rimasto, e vi era venuto a contatto coi gruppi<br />

antifascisti di Concetto Marchesi, di Meneghetti e di Pighin.<br />

Nel settembre 1943 era venuto l’armistizio italiano, ed i tedeschi,<br />

in due giorni, avevano occupato militarmente l’Italia del nord. Il mio<br />

traduttore si era aggregato «naturalmente» ai partigiani padovani delle<br />

128


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

formazioni Giustizia e Libertà, che combattevano nei Colli Euganei<br />

contro i fascisti di Salò e contro i suoi compatrioti. Non aveva avuto<br />

dubbi, si sentiva più italiano che tedesco, partigiano e non nazista,<br />

tuttavia sapeva che cosa rischiava: fatiche, pericoli, sospetti e disagi;<br />

se catturato dai tedeschi (ed infatti era stato informato che le SS erano<br />

sulle sue tracce), una morte atroce; inoltre, nel suo paese, la qualifica<br />

di disertore e forse anche di traditore.<br />

A guerra finita si stabilì a Berlino, che a quel tempo non era<br />

tagliata in due dal muro, ma sottostava ad un complicatissimo regime<br />

di condominio dei «Quattro Grandi» di allora (Stati Uniti, Unione<br />

Sovietica, Gran Bretagna, Francia). Dopo la sua avventura partigiana<br />

in Italia, era un perfetto bilingue: parlava l’italiano senza traccia di<br />

accento straniero. Accettò traduzioni: Goldoni in primo luogo, perché<br />

lo amava e perché conosceva bene i dialetti veneti; per lo stesso<br />

motivo, il Ruzante di Agnolo Beolco, fino allora sconosciuto in<br />

Germania; ma anche autori italiani moderni, Collodi, Gadda, D’Arrigo,<br />

Pirandello. Non era un lavoro ben pagato, o per meglio dire, lui<br />

era troppo scrupoloso, e quindi troppo lento, perché la sua giornata di<br />

lavoro risultasse giustamente retribuita; tuttavia non si risolse mai ad<br />

impiegarsi presso una casa editrice. Per due motivi: amava l’indipendenza,<br />

ed inoltre, sottilmente, per vie traverse, i suoi trascorsi<br />

politici pesavano su di lui. Nessuno glielo disse mai in parole aperte,<br />

ma un disertore, anche nella Germania superdemocratica di Bonn,<br />

anche nella Berlino quadripartita, era «persona non grata».<br />

Tradurre Se questo è un uomo lo entusiasmava: il libro gli era<br />

consono, confermava, sostanziava per contrasto il suo amore per la<br />

libertà e la giustizia; tradurlo era un modo per continuare la sua lotta<br />

temeraria e solitaria contro il suo paese traviato. A quel tempo eravamo<br />

tutti e due troppo occupati per viaggiare, e nacque fra noi uno scambio di<br />

lettere frenetico. Eravamo entrambi perfezionisti: lui, per abito<br />

professionale; io perché, quantunque avessi trovato un alleato, ed un<br />

alleato valente, temevo che il mio testo sbiadisse, perdesse pregnanza.<br />

Era la prima volta che incappavo nell’avventura sempre scottante, mai<br />

gratuita, dell’essere tradotti, del vedere il proprio pensiero manomesso,<br />

129


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

rifratto, la propria parola passata al vaglio, trasformata, o mal intesa, o<br />

magari potenziata da qualche insperata risorsa della lingua d’arrivo.<br />

Fin dalle prime puntate potei constatare che in realtà i miei sospetti<br />

«politici» erano infondati: il mio partner era nemico dei nazi quanto me,<br />

la sua indignazione non era minore della mia. Rimanevano però i sospetti<br />

linguistici. Come ho accennato nel capitolo dedicato alla comunicazione,<br />

il tedesco di cui il mio testo aveva bisogno, soprattutto nei dialoghi e<br />

nelle citazioni, era molto più rozzo del suo. Lui, uomo di lettere e di<br />

raffinata educazione, conosceva bensì il tedesco delle caserme (qualche<br />

mese di servizio militare lo aveva pur fatto), ma ignorava forzatamente il<br />

gergo degradato, spesso satani-camente ironico, dei campi di concentramento.<br />

Ogni nostra lettera conteneva una lista di proposte e di<br />

controproposte, ed a volte su un singolo termine si accendeva una discussione<br />

accanita, quale ad esempio quella che ho descritto qui a pagina 79.<br />

Lo schema era generale: io gli indicavo una tesi, quella che mi suggeriva<br />

la memoria acustica a cui ho accennato a suo luogo; lui mi opponeva<br />

l’antitesi, «questo non è buon tedesco, i lettori d’oggi non lo capirebbero»;<br />

io obiettavo che «laggiù si diceva proprio così»; si arrivava<br />

infine alla sintesi, cioè al compromesso. L’esperienza mi ha poi insegnato<br />

che traduzione e compromesso sono sinonimi, ma a quel tempo io ero<br />

premuto da uno scrupolo di superrealismo; volevo che in quel libro, ed in<br />

specie proprio nella sua veste tedesca, niente andasse perduto di quelle<br />

asprezze, di quelle violenze fatte al linguaggio, che del resto mi ero<br />

sforzato del mio meglio di riprodurre nell’originale italiano. In certo modo,<br />

non si trattava di una traduzione ma piuttosto di un restauro: la sua<br />

era, o io volevo che fosse, una restitutio in pristinum, una retroversione<br />

alla lingua in cui le cose erano avvenute ed a cui esse competevano.<br />

Doveva essere, più che un libro, un nastro di magnetofono.<br />

Il traduttore capì presto e bene, e ne risultò una traduzione<br />

eccellente sotto ogni aspetto: della sua fedeltà potevo giudicare io<br />

stesso, il suo livello stilistico fu lodato in seguito da tutti i recensori.<br />

Sorse la questione della prefazione: l’editore Fischer mi chiese di<br />

scriverne una io stesso; io esitai, poi rifiutai. Provavo un ritegno confuso,<br />

una ripugnanza, un blocco emotivo che strozzava il flusso delle<br />

idee e dello scrivere. Mi si chiedeva, insomma, di far seguire al libro,<br />

130


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

cioè alla testimonianza, un appello diretto al popolo tedesco, cioè una<br />

perorazione, un sermone. Avrei dovuto alzare il tono, salire sul podio;<br />

da teste farmi giudice, predicatore; esporre teorie ed interpretazioni<br />

della storia; dividere i pii dagli empi; dalla terza persona passare alla<br />

seconda. Tutti questi erano compiti che mi sorpassavano, compiti che<br />

volentieri avrei devoluto ad altri, forse agli stessi lettori, tedeschi e non.<br />

Scrissi all’editore che non mi sentivo in grado di stendere una<br />

prefazione che non snaturasse il libro, e gli proposi una soluzione<br />

indiretta: di premettere al testo, in sede di introduzione, un brano della<br />

lettera che nel maggio 1960, alla fine della nostra laboriosa<br />

collaborazione, avevo scritta al traduttore per ringraziarlo della sua<br />

opera. Lo riproduco qui:<br />

E così abbiamo finito: ne sono contento, e soddisfatto del risultato, e<br />

grato a Lei, ed insieme un po’ triste. Capisce, è il solo libro che io<br />

abbia scritto, e adesso che abbiamo finito di trapiantarlo in tedesco mi<br />

sento come un padre il cui figlio sia diventato maggiorenne, e se ne<br />

va, e non si può più occuparsi di lui.<br />

Ma non è solo questo. Lei forse si sarà accorto che per me il Lager, e<br />

l’avere scritto del Lager, è stato una importante avventura, che mi ha<br />

modificato profondamente, mi ha dato maturità ed una ragione di vita.<br />

Forse è presunzione: ma ecco, oggi io, il prigioniero numero 174.517,<br />

per mezzo Suo posso parlare ai tedeschi, rammen-tare loro quello che<br />

hanno fatto, e dire loro «sono vivo, e vorrei capirvi per giudicarvi.<br />

Io non credo che la vita dell’uomo abbia necessariamente uno scopo<br />

definito; ma se penso alla mia vita, ed agli scopi che finora mi sono<br />

prefissi, uno solo ne riconosco ben preciso e cosciente, ed è proprio<br />

questo, di portare testimonianza, di fare udire la mia voce al popolo<br />

tedesco, di «rispondere» al Kapò che si è pulito la mano sulla mia<br />

spalla, al dottor Pannwitz, a quelli che impiccarono l’Ultimo [si tratta<br />

di personaggi di Se questo è un uomo], ed ai loro eredi.<br />

Sono sicuro che Lei non mi ha frainteso. Non ho mai nutrito odio nei<br />

riguardi del popolo tedesco, e se lo avessi nutrito ne sarei guarito ora,<br />

dopo aver conosciuto Lei. Non comprendo, non sopporto che si<br />

giudichi un uomo non per quello che è ma per il gruppo a cui gli<br />

accade di appartenere (...)<br />

Ma non posso dire di capire i tedeschi: ora, qualcosa che non si può<br />

capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo<br />

permanente che chiede di essere soddisfatto. Spero che questo libro<br />

avrà qualche eco in Germania: non solo per ambizione, ma anche<br />

perché la natura di questa eco mi permetterà forse di capire meglio i<br />

tedeschi, di placare questo stimolo.<br />

131


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

L’editore accetto la mia proposta, a cui il traduttore aveva aderito<br />

con entusiasmo; perciò questa pagina costituisce l’introduzione di<br />

tutte le edizioni tedesche di Se questo è un uomo: anzi, viene letta<br />

come parte integrante del testo. Me ne sono accorto appunto dalla<br />

«natura» della eco a cui si accenna nelle ultime righe.<br />

Essa si materializza in una quarantina di lettere, che mi sono state<br />

scritte da lettori tedeschi negli anni 1961-1964: a cavallo cioè della crisi<br />

che condusse alla costruzione di quel Muro che tuttora spacca in due<br />

Berlino, e che costituisce uno dei punti di più forte attrito nel mondo<br />

d’oggi: l’unico, insieme con lo Stretto di Behring, in cui americani e<br />

russi si fronteggino direttamente. Tutte queste lettere rispecchiano una<br />

lettura attenta del libro ma tutte rispondono, o tentano di rispondere, o<br />

negano che esista una risposta, alla domanda implicita nell’ultimo<br />

periodo della mia lettera, se cioè sia possibile capire i tedeschi. Altre<br />

lettere mi sono pervenute alla spicciolata negli anni seguenti, in<br />

coincidenza con le ristampe del libro, ma sono tanto più scialbe quanto<br />

più sono recenti: chi scrive sono ormai i figli ed i nipoti, il trauma non e<br />

più il loro, non è vissuto in prima persona. Esprimono vaga solidarietà,<br />

ignoranza e distacco. Per loro, quel passato è veramente un passato, un<br />

sentito dire. Non sono tedesco-specifici: salvo eccezioni, i loro scritti si<br />

potrebbero confondere con quelli che continuo a ricevere dai loro<br />

coetanei italiani, perciò non ne terrò conto in questa rassegna.<br />

Le prime lettere, quelle che contano, sono quasi tutte di giovani<br />

(che si dichiarano tali, o che tali risultano dal testo) ad eccezione di<br />

una, che mi è stata mandata nel 1962 dal Dottor T. H. di Amburgo, e<br />

che riporto per prima perché ho fretta di liberarmene. Ne traduco i<br />

passi salienti, rispettandone la goffaggine:<br />

Egregio Dott. Levi,<br />

il Suo libro è il primo fra i racconti di superstiti di Auschwitz<br />

che sia venuto a nostra conoscenza. Ha commosso profondamente mia<br />

moglie e me. Ora, poiché Ella, dopo tutti gli orrori che ha vissuto, si<br />

132


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

rivolge ancora una volta al popolo tedesco «per capire», «per destare<br />

una eco», io oso tentare una risposta. Ma non sarà che una eco;<br />

«capire» simili cose non può nessuno! (...)<br />

…da un uomo che non è con Dio, tutto è da temere: egli non ha<br />

freno, non ha ritegni! E gli si addice allora l’altra parola di Genesi<br />

8.21: «Poiché il senno del cuore umano è malvagio fin dalla<br />

giovinezza», modernamente spiegata e dimostrata dalle tremende<br />

scoperte della psicoanalisi di Freud nel campo dell’inconscio, a Lei<br />

certamente note. In ogni tempo è avvenuto «che il Diavolo si<br />

scatenasse», senza ritegno, senza senso: persecuzioni di ebrei e di<br />

cristiani, sterminio di popoli interi in Sud America, degli indiani nel<br />

Nord America, dei Goti in Italia sotto Narsete, orrende persecuzioni e<br />

massacri nel corso delle rivoluzioni francese e russa. Chi potrà<br />

«capire»tutto questo?<br />

Ella però aspetta certo una risposta specifica alla domanda,<br />

perché Hitler giunse al potere, e perché noi in seguito non abbiamo<br />

scosso il suo giogo. Ora, nel 1933 (...) tutti i partiti moderati sparirono,<br />

e non rimase che la scelta fra Hitler e Stalin, Nazionalsocialisti e<br />

Comunisti, di forze circa uguali. I comunisti li conoscevamo per le<br />

varie grandi rivolte avvenute dopo la Prima Guerra. Hitler ci appariva<br />

sospetto, è vero, ma decisamente come il minor male. Che tutte le sue<br />

belle parole fossero menzogna e tradimento, all’inizio non ce ne<br />

accorgemmo. In politica estera, aveva un successo dopo l’altro; tutti<br />

gli stati mantenevano con lui relazioni diplomatiche, il Papa per primo<br />

conchiuse un concordato. Chi poteva sospettare che noi stavamo<br />

cavalcando (sìc) un criminale e un traditore? E comunque, nessuna<br />

colpa si può certo attribuire ai traditi: solo il traditore è colpevole.<br />

Ed ora la questione più difficile, il suo insensato odio contro gli<br />

ebrei: ebbene, quest’odio non è mai stato popolare. La Germania<br />

contava a buon diritto come il paese più amichevole verso gli ebrei nel<br />

mondo intero. Mai, a quanto io so ed ho letto, durante tutto il periodo<br />

hitleriano fino alla sua fine, mai si è saputo di un solo caso di<br />

spontaneo oltraggio od aggressione ai danni di un ebreo. Sempre<br />

soltanto (pericolosissimi) tentativi di aiuto.<br />

Vengo ora alla seconda questione. Ribellarsi in uno stato<br />

totalitario non è possibile. Il mondo intero, a suo tempo, non ha potuto<br />

portare aiuto agli ungheresi. (...) Tanto meno potemmo [resistere] noi<br />

da soli. Non va dimenticato che, oltre a tutte le lotte per la resistenza,<br />

solo nel giorno 20luglio 1944 migliaia e migliaia di ufficiali furono<br />

giustiziati. Non si trattava già di «una piccola cricca», come disse poi<br />

Hitler.<br />

Caro Dottor Levi (così mi permetto di chiamarLa, perché chi ha<br />

letto il Suo libro non può che averLa caro), non ho scuse, non ho<br />

spiegazioni. La colpa grava pesantemente sul mio povero popolo<br />

133


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

tradito e sviato. Si rallegri della vita che Le è stata ridonata, della pace<br />

e della Sua bella Patria che anch’io conosco. Anche nel mio scaffale<br />

stanno Dante e Boccaccio.<br />

Suo dev.mo T. H.<br />

A questa lettera, probabilmente all’insaputa del marito, Frau H.<br />

aveva aggiunto le seguenti laconiche righe, che pure traduco<br />

letteralmente:<br />

Quando un popolo riconosce troppo tardi di essere diventato un<br />

prigioniero del diavolo, ne seguono alcune alterazioni psichiche.<br />

1) Viene sollecitato quanto di male è negli uomini. Ne sono il<br />

risultato i Pannwitz, e i Kapòs che si nettano la mano sulla<br />

spalla degli inermi.<br />

2) Ne risulta, per contro, anche la resistenza attiva contro<br />

l’ingiustizia, che sacrificò se stessa e la sua famiglia (sic) al<br />

martirio, ma senza successo visibile.<br />

3) Rimane la gran massa di coloro che, per salvare la propria<br />

vita, tacciono ed abbandonano il fratello in pericolo.<br />

Questo noi riconosciamo come colpa nostra davanti a Dio ed agli uomini.<br />

Ho spesso ripensato a questi strani coniugi. Lui mi sembra un<br />

esemplare tipico della gran massa della borghesia tedesca: un nazista<br />

non fanatico ma opportunista, pentitosi quando era opportuno pentirsi,<br />

stupido quanto basta per credere di farmi credere alla sua versione<br />

semplificata della storia recente, e per osare il ricorso alla rappresaglia<br />

retroattiva di Narsete e dei Goti. Lei, un po’ meno ipocrita del marito,<br />

ma più bigotta.<br />

Ho risposto con una lunga lettera, forse la sola iraconda che io<br />

abbia mai scritto. Che nessuna Chiesa ha indulgenza per chi segue il<br />

Diavolo, né ammette a giustificazione l’attribuire al Diavolo le proprie<br />

colpe. Che di colpe ed errori si deve rispondere in proprio, altrimenti<br />

ogni traccia di civiltà sparirebbe dalla faccia della terra, come infatti<br />

era sparita nel Terzo Reich. Che i suoi dati elettorali erano buoni per<br />

un bambino: nelle elezioni politiche del novembre 1932, le ultime<br />

tenutesi liberamente, i nazisti avevano bensì ottenuto 196 seggi al<br />

Reichstag, ma accanto ai comunisti, con 100 seggi, i socialdemocratici,<br />

che non erano certo degli estremisti, ed anzi, da Stalin<br />

134


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

erano detestati, ne avevano avuti 121. Che, soprattutto, nel mio<br />

scaffale, accanto a Dante e Boccaccio, tengo il Mein Kampf, la «Mia<br />

battaglia» scritta da Adolf Hitler molti anni prima di arrivare al potere.<br />

Quell’uomo funesto non era un traditore. Era un fanatico coerente,<br />

dalle idee estremamente chiare: non le cambiò né le nascose mai. Chi<br />

aveva votato per lui aveva certamente votato per le sue idee. Nulla<br />

manca, in quel libro: il sangue e il suolo, lo spazio vitale, l’ebreo come<br />

eterno nemico, i tedeschi che impersonano «la più alta umanità sulla<br />

terra», gli altri paesi considerati apertamente come strumenti per il<br />

dominio tedesco. Non sono «belle parole »; forse Hitler ne disse anche<br />

altre, ma queste non le smentì mai.<br />

Quanto ai resistenti tedeschi, onore a loro, ma veramente i<br />

congiurati del 20 luglio 1944 si erano messi in azione un po’ troppo<br />

tardi. Scrissi infine:<br />

La Sua affermazione più audace è quella che riguarda l’impopolarità<br />

dell’antisemitismo in Germania. Era il fondamento del<br />

verbo nazista, fin dai suoi inizi: era di natura mistica, gli ebrei non<br />

potevano essere «il popolo eletto da Dio» dal momento che tali erano i<br />

tedeschi. Non c’è pagina né discorso di Hitler in cui l’odio contro gli<br />

ebrei non venga ribadito fino all’ossessione. Non era marginale al<br />

nazismo: ne era il centro ideologico. E allora: come poteva il popolo<br />

«più amichevole verso gli ebrei» votare il partito, ed osannare l’uomo,<br />

che definivano gli ebrei i primi nemici della Germania, e obiettivo<br />

primo della loro politica «strozzare l’idra giudaica»?<br />

Quanto agli oltraggi ed alle aggressioni spontanee, la Sua stessa<br />

frase è oltraggiosa. Davanti ai milioni di morti, mi pare ozioso e<br />

odioso discutere se si sia o no trattato di persecuzioni spontanee: del<br />

resto, i tedeschi hanno poca inclinazione per la spontaneità. Ma Le<br />

posso ricordare che nessuno obbligava gli industriali tedeschi ad<br />

assumere schiavi affamati se non il loro profitto; che nessuno costrinse<br />

la ditta Topf (oggi fiorente in Wiesbaden) a costruire gli enormi<br />

crematori multipli dei Lager; che forse alle SS veniva ordinato di<br />

uccidere gli ebrei, ma arruolamento nelle SS era volontario; che io<br />

stesso ho trovato a Katowice, dopo la liberazione, pacchi e pacchi di<br />

moduli in cui si autorizzavano i capifamiglia tedeschi a prelevare gratis<br />

abiti e scarpe per adulti e per bambini dai magazzini di Auschwitz;<br />

nessuno si domandava da dove venissero tante scarpe per bambini? E<br />

non ha mai sentito parlare di una certa Notte dei Cristalli? o pensa che<br />

ogni singolo delitto commesso quella notte fosse stato imposto per<br />

forza di legge?<br />

135


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Che tentativi di aiuto ci siano stati, lo so, e so che erano<br />

pericolosi; così pure, essendo vissuto in Italia, so «che ribellarsi in uno<br />

stato totalitario è impossibile»; ma so che esistono mille modi, molto<br />

meno pericolosi, di manifestare la propria solidarietà con l’oppresso,<br />

che questi furono frequenti in Italia, anche dopo l’occupazione<br />

tedesca, e che nella Germania di Hitler essi vennero messi in atto<br />

troppo di rado.<br />

Le altre lettere sono molto diverse: delineano un mondo migliore.<br />

Devo però ricordare che, anche con la miglior volontà di assolvere,<br />

non si possono considerare un «campione rappresentativo» del popolo<br />

tedesco di allora. In primo luogo, quel mio libro è stato pubblicato in<br />

qualche decina di migliaia di copie, e letto quindi forse dall’uno per<br />

mille dei cittadini della Repubblica Federale: pochi lo avranno<br />

comprato per caso, gli altri perché erano in qualche modo predisposti<br />

alla collisione coi fatti, sensibilizzati, permeabili. Di questi lettori,<br />

solo una quarantina, come ho accennato, si sono decisi a scrivermi.<br />

In quarant’anni di esercizio, mi sono ormai familiarizzato con<br />

questo personaggio singolare, il lettore che scrive all’autore. Può<br />

appartenere a due costellazioni ben distinte, una gradita, l’altra<br />

incresciosa; i casi intermedi sono rari. I primi dànno gioia e<br />

insegnano. Hanno letto il libro con attenzione, spesso più di una volta;<br />

l’hanno amato e capito, a volte meglio dell’autore stesso; se ne<br />

dichiarano arricchiti; espongono con nitidezza il loro giudizio, a volte<br />

le loro critiche; ringraziano lo scrittore per la sua opera; spesso lo<br />

esonerano esplicitamente da una risposta. I secondi dànno noia e<br />

fanno perdere tempo. Si esibiscono; ostentano meriti; spesso hanno<br />

manoscritti nel cassetto, e lasciano trapelare l’intento di arrampicarsi<br />

sul libro e sull’autore come fa l’edera sui tronchi; od anche, sono<br />

bambini o adolescenti che scrivono per bravata, per scommessa, per<br />

conquistare un autografo. I miei quaranta corrispondenti tedeschi, a<br />

cui dedico con riconoscenza queste pagine, appartengono tutti (salvo il<br />

signor T. H. già citato, che è un caso a sé) alla prima costellazione.<br />

L. I. è bibliotecaria in Vestfalia; confessa di aver avuto la<br />

tentazione violenta di chiudere il libro a metà lettura «per sottrarsi alle<br />

136


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

immagini che vi sono evocate», ma di essersi subito vergognata per<br />

questo impulso egoistico e vile. Scrive:<br />

Nella prefazione, Lei esprime il desiderio di capire noi tedeschi.<br />

Lei deve credere quando Le diciamo che noi stessi non sappiamo<br />

concepire noi stessi né quanto abbiamo fatto. Siamo colpevoli. Io sono<br />

nata nel 1922, sono cresciuta in Alta Slesia, non lontano da<br />

Auschwitz, ma a quel tempo, in verità, non ho saputo nulla (La prego,<br />

non consideri questa affermazione come una comoda scusa, ma come<br />

un dato di fatto) delle cose atroci che si stavano commettendo,<br />

addirittura a pochi chilometri da noi. Eppure, almeno fino allo<br />

scoppiare della guerra, mi è accaduto di incontrare qua e là persone<br />

con la stella ebraica, ed io non le ho accolte in casa, non le ho ospitate<br />

come avrei fatto con altri, non sono intervenuta in loro favore.<br />

La mia colpa è questa. Posso adattarmi a questa mia terribile<br />

leggerezza, viltà ed egoismo solo contando sulla remissione cristiana.<br />

Dice inoltre di far parte di «Aktion Sühnezeichen» («Azione<br />

espiatoria»), una associazione evangelica di giovani che trascorrono le<br />

vacanze all’estero, a ricostruire le città più gravemente danneggiate<br />

dalla guerra tedesca (lei è stata a Coventry). Non dice nulla dei suoi<br />

genitori, ed è un sintomo: o sapevano, e non parlarono con lei; o non<br />

sapevano, ed allora non avevano parlato con loro quelli che certamente<br />

«laggiù» sapevano, i ferrovieri delle tradotte, i magazzinieri, le<br />

migliaia di lavoratori tedeschi delle fabbriche e delle miniere in cui<br />

faticavano a morte gli operai-schiavi, chiunque insomma non sì coprisse<br />

gli occhi con la mano. Lo ripeto: la colpa vera, collettiva,<br />

generale, di quasi tutti i tedeschi di allora, è stata quella di non aver<br />

avuto il coraggio di parlare.<br />

M. S., di Francoforte, non dice nulla di sé e cerca cautamente<br />

distinzioni e giustificazioni: anche questo è un sintomo.<br />

Ella scrive di non capire i tedeschi (...) Come tedesco, sensibile<br />

all’orrore ed alla vergogna, e che sarà consapevole fino alla fine dei<br />

suoi giorni che l’orrore stesso ha avuto luogo per mano di uomini del<br />

suo paese, mi sento chiamato in causa dalle Sue parole, e desidero<br />

rispondere.<br />

Neppure io capisco uomini come quel Kapò che si pulì la mano<br />

sulla Sua spalla, come Pannwitz, come Eichmann, e come tutti gli altri<br />

che eseguirono ordini disumani senza rendersi conto che non si può<br />

eludere la propria responsabilità nascondendosi dietro quella degli<br />

altri. Che in Germania ci siano stati tanti esecutori materiali di un<br />

137


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

sistema criminoso, e che tutto questo abbia potuto avvenire proprio<br />

grazie al grande numero delle persone a ciò disposte, di tutto questo<br />

chi, in quanto tedesco, potrebbe non provare afflizione?<br />

Ma sono costoro «i tedeschi»? ed è lecito, comunque, parlare<br />

come di una entità unitaria «dei tedeschi», o «degli inglesi», o «degli<br />

italiani», o «degli ebrei»? Ella ha citato delle eccezioni ai tedeschi che<br />

Lei non capisce (...): La ringrazio per queste Sue parole, ma La prego<br />

di ricordare che innumerevoli tedeschi (...) hanno sofferto e sono<br />

morti nella lotta contro l’iniquità (...)<br />

Vorrei con tutto il cuore che molti dei miei connazionali<br />

leggessero il Suo libro, affinché noi tedeschi non diventiamo pigri ed<br />

indifferenti, ma anzi, rimanga desta in noi la consapevolezza di quanto<br />

in basso possa cadere l’uomo che si fa tormentatore del suo simile. Se<br />

così avverrà, il Suo libro potrà contribuire a che tutto questo non si<br />

ripeta.<br />

A M.S. ho risposto con perplessità: con la stessa perplessità, del<br />

resto, che ho provato nel rispondere a tutti questi cortesi e civili<br />

interlocutori, membri del popolo che ha sterminato il mio (e molti<br />

altri). Si tratta, in sostanza, dello stesso imbarazzo dei cani studiati dai<br />

neurologi, condizionati a reagire in un modo al cerchio ed in un altro<br />

al quadrato, quando il quadrato si arrotondava e cominciava ad<br />

assomigliare a un cerchio: i cani si bloccavano o davano segni di<br />

nevrosi. Gli ho scritto, fra l’altro:<br />

Sono d’accordo con Lei: è pericoloso, è illecito, parlare dei<br />

«tedeschi», o di qualsiasi altro popolo, come di un’entità unitaria, non<br />

differenziata, e accomunare tutti i singoli in un giudizio. Eppure non<br />

mi sento di negare che uno spirito di ogni popolo esiste (altrimenti,<br />

non sarebbe un popolo); una Deutschtum, una italianità, una<br />

hispanidad: sono somme di tradizioni, abitudini, storia, lingua, cultura.<br />

Chi non sente in sé questo spirito, che è nazionale nel miglior senso<br />

della parola, non solo non appartiene per intero al suo popolo, ma neppure<br />

è inserito ne a civiltà umana. Perciò, mentre ritengo insensato il<br />

sillogismo «tutti gli italiani sono passionali; tu sei italiano; perciò tu lo<br />

sei», credo invece lecito, entro certi limiti, attendersi dagli italiani nel<br />

loro complesso, o dai tedeschi, ecc., un determinato comportamento<br />

collettivo a preferenza di un altro. Vi saranno certamente eccezioni<br />

individuali, ma una previsione prudente, probabilistica, a mio parere è<br />

possibile(...)<br />

... Sarò sincero con Lei: nella generazione che ha superato anni,<br />

quanti sono i tedeschi veramente consapevoli di quanto è avvenuto in<br />

Europa nel nome della Germania? A giudicare dall’esito sconcertante<br />

138


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

di alcuni processi, temo siano pochi: insieme con voci accorate e<br />

pietose, ne odo altre discordi, stridule, troppo fiere della potenza e<br />

ricchezza della Germania d’oggi.<br />

I. J., di Stoccarda, è una assistente sociale. Mi dice:<br />

Che Lei abbia potuto far si che dai Suoi scritti non trapeli un<br />

odio irremissibile contro noi tedeschi, è veramente un miracolo, e ci<br />

deve indurre a vergogna. Di questo La vorrei ringraziare. Ci sono<br />

purtroppo fra noi ancora molti che rifiutano di credere che noi<br />

tedeschi abbiamo realmente commesso tali disumani orrori contro il<br />

popolo ebreo. Naturalmente, questo rifiuto scaturisce da molti motivi<br />

diversi, magari anche solo dal fatto che l’intelletto del cittadino medio<br />

non accetta di ritenere possibile una malvagità così profonda tra noi,<br />

«cristiani occidentali».<br />

È bene che il Suo libro sia stato pubblicato qui, e possa così<br />

portare luce a molti giovani. Potrà anche essere messo nelle mani di<br />

alcuni anziani, forse; ma per fare questo, nella nostra «Germania<br />

dormiente», occorre un certo coraggio civile.<br />

Le ho risposto:<br />

che io non provi odio verso i tedeschi, stupisce molti, e non<br />

dovrebbe. In realtà, io comprendo l’odio, ma unicamente «ad<br />

personam». Se fossi un giudice, pur reprimendo l’odio che dovessi<br />

sentire in me, non esiterei ad infliggere le pene più gravi, o anche la<br />

morte, ai molti colpevoli che ancora oggi vivono indisturbati in terra<br />

tedesca, o in altri paesi di sospetta ospitalità; ma avrei orrore se un<br />

solo innocente dovesse essere punito per una colpa non commessa.<br />

W. A., medico, scrive dal Württemberg:<br />

Per noi tedeschi, che portiamo il grave peso del nostro passato, e<br />

(Dio lo sa!) del nostro avvenire il Suo libro è più di un racconto<br />

commovente: è un aiuto. É un orientamento, per il quale La ringrazio.<br />

Nulla posso dire a nostra discolpa; né credo che la colpa (questa<br />

colpa!) sia facile ad estinguersi (...) Per quanto io cerchi di staccarmi<br />

dal malo spirito del passato, rimango pur sempre un membro di questo<br />

popolo, che io amo, e che nel corso dei secoli ha partorito in ugual<br />

misura opere di nobile pace ed altre piene di pericolo demoniaco. In<br />

questo convergere di tutti i tempi della nostra storia, io sono cosciente<br />

di trovarmi implicato nella grandezza e nella colpa del mio popolo.<br />

Sto perciò davanti a Lei come un complice di chi fece violenza al Suo<br />

destino ed al destino del Suo popolo.<br />

139


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

W. G. è nato nel 1935 a Brema; è storico e sociologo, militante<br />

nel partito socialdemocratico:<br />

alla fine della guerra ero ancora un bambino; non mi posso<br />

addossare alcuna parte di colpa per i delitti spaventosi commessi dai<br />

tedeschi; eppure ne provo vergogna. Odio i criminali che fecero<br />

soffrire Lei ed i Suoi compagni, e odio i loro complici, molti dei quali<br />

sono ancora in vita. Lei scrive di non saper comprendere i tedeschi. Se<br />

intende alludere ai carnefici ed ai loro aiutanti, allora anch’io non<br />

riesco a comprenderli: ma spero che avrò la forza di combatterli, se si<br />

presentassero di nuovo alla ribalta della storia. Ho parlato di<br />

«vergogna»: intendevo esprimere questo sentimento, che quanto a<br />

quel tempo è stato perpetrato per mano tedesca, non avrebbe mai dovuto<br />

avvenire, né mai avrebbe dovuto essere approvato da altri<br />

tedeschi.<br />

Con H. L., bavarese, studentessa, le cose si sono complicate. Mi ha<br />

scritto una prima volta nel 1962; la sua lettera era singolarmente viva,<br />

sciolta dalla tetraggine plumbea che caratterizza quasi tutte le altre, anche<br />

le meglio intenzionate. Riteneva che io mi aspettassi «una eco»<br />

soprattutto dalle persone importanti, ufficiali, non da una ragazza, ma «si<br />

sente chiamata in causa, come erede e complice». É soddisfatta<br />

dell’educazione che riceve a scuola, e di quanto le è stato insegnato sulla<br />

storia recente del suo paese, ma non è sicura «che un giorno la mancanza<br />

di misura che è propria ai tedeschi non prorompa nuovamente, sotto altra<br />

veste e diretta ad altri scopi». Deplora che i suoi coetanei rifiutino la<br />

politica «come qualcosa di sporco». É insorta in modo «violento ed<br />

incomposto» contro un prete che sparlava degli ebrei, e contro la sua<br />

insegnante di russo, una russa, che attribuiva agli ebrei la colpa della<br />

rivoluzione di ottobre, e considerava la strage hitleriana come una giusta<br />

punizione. In quei momenti, ha provato «una indicibile vergogna di<br />

appartenere al più barbarico dei popoli». «Pure al di fuori di ogni<br />

misticismo o superstizione», è convinta «che noi tedeschi non<br />

sfuggiremo alla giusta punizione per quanto abbiamo commesso». Si<br />

sente in qualche modo autorizzata, anzi tenuta, ad affermare «che noi,<br />

figli di una generazione carica di colpa, ne siamo pienamente<br />

consapevoli, e cercheremo di alleviare gli orrori e i dolori di ieri per<br />

evitare che si ripetano domani».<br />

140


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Poiché mi è sembrata una interlocutrice intelligente, spregiudicata<br />

e «nuova», le ho scritto chiedendole notizie più precise sulla situazione<br />

della Germania di allora (era l’epoca di Adenauer); quanto al suo timore<br />

di una «giusta punizione » collettiva, ho cercato di convincerla che una<br />

punizione, se è collettiva, non può essere giusta, e viceversa. Mi ha<br />

spedito a volta di corriere una cartolina, in cui mi diceva che le mie<br />

domande richiedevano un certo lavoro di ricerca; avessi pazienza, mi<br />

avrebbe risposto in modo esauriente appena possibile.<br />

Venti giorni dopo ho ricevuto un sua lettera di 23 facciate: una tesi<br />

di laurea, insomma, compilata grazie ad un frenetico lavoro di interviste<br />

fatte di persona, per telefono e per lettera. Anche questa brava ragazza,<br />

seppure a fin di bene, era dunque propensa alla Masslosìgkeìt, alla<br />

mancanza di misura da lei stessa denunciata, ma si scusava, con comica<br />

sincerità: «avevo poco tempo, perciò molte cose che avrei potuto dire più<br />

in breve sono rimaste com’erano». Non essendo io masslos, mi limito a<br />

riassumere, ed a citare i passi che mi sembrano più significativi.<br />

amo il paese dove sono cresciuta, adoro mia madre, ma non<br />

riesco a provare simpatia per il tedesco in quanto particolare tipo<br />

umano: forse perché mi appare ancora troppo segnato da quelle qualità<br />

che nel recente passato si sono manifestate con tanto vigore, ma forse<br />

anche perché detesto in esso me stessa, riconoscendomi a lui simile<br />

come essenza.<br />

Ad una mia domanda sulla scuola, risponde (con documenti) che<br />

l’intero corpo insegnante era stato a suo tempo passato al setaccio della<br />

«denazificazione», voluta dagli alleati, ma condotta in modo<br />

dilettantesco ed ampiamente sabotata; né avrebbe potuto essere<br />

altrimenti: si sarebbe dovuto mettere al bando un’intera generazione.<br />

Nelle scuole la storia recente viene insegnata, ma si parla poco di<br />

politica; il passato nazista affiora qua e là, in toni vari: pochi docenti se<br />

ne gloriano, pochi lo nascondono, pochissimi se ne dichiarano immuni.<br />

Un giovane insegnante le ha dichiarato:<br />

Gli allievi si interessano molto a questo periodo, ma passano<br />

subito all’opposizione se si parla loro di una colpa collettiva della<br />

Germania. Molti anzi affermano di averne abbastanza dei «mea culpa»<br />

della stampa e dei loro insegnanti.<br />

H. L. commenta:<br />

141


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

…proprio dalla resistenza dei ragazzi contro il «mea culpa» si può<br />

riconoscere che per loro il problema del Terzo Reich è tuttora<br />

altrettanto irrisolto, irritante e tipicamente tedesco, quanto per tutti<br />

coloro che lo hanno vissuto prima di loro. Solo quando questa<br />

emotività sarà cessata sarà possibile ragionare in modo obiettivo.<br />

Altrove, parlando della sua stessa esperienza, H. L. scrive (assai<br />

plausibilmente):<br />

I professori non evitavano i problemi; al contrario, dimostravano,<br />

documentandoli con giornali dell’epoca, i metodi di<br />

propaganda dei nazisti. Raccontavano come, da giovani, avevano<br />

seguito il nuovo movimento senza critiche e con entusiasmo: delle<br />

adunate giovanili, delle organizzazioni sportive ecc. Noi studenti li<br />

attaccavamo vivacemente, a torto, come oggi penso: come si può<br />

accusarli di aver capito la situazione, e previsto l’avvenire, peggio<br />

degli adulti? E noi, alloro posto, avremmo smascherato meglio di loro<br />

i metodi satanici con cui Hitler conquistò la gioventù per la sua<br />

guerra?<br />

Si noti: la giustificazione è la stessa addotta dal dottor T. H. di<br />

Amburgo, e del resto nessun testimone del tempo ha negato a Hitler<br />

una veramente demoniaca virtù di persuasore, la stessa che lo favoriva<br />

nei suoi contatti politici. La si può accettare dai giovani, che<br />

comprensibilmente cercano di discolpare l’intera generazione dei loro<br />

padri; non dagli anziani compromessi, e falsamente penitenti, che<br />

cercano di circoscrivere la colpa ad un uomo solo.<br />

H. L. mi ha mandato molte altre lettere, suscitando in me reazioni<br />

bifide. Mi ha descritto suo padre, un musicista irrequieto, timido e<br />

sensibile, morto quando lei era bambina: in me cercava un padre?<br />

Oscillava fra la serietà documentaria e la fantasia infantile. Mi ha<br />

mandato un caleidoscopio, ed insieme mi ha scritto:<br />

Anche di Lei mi sono costruita una immagine ben definita: è<br />

Lei, sfuggito ad un destino terribile (perdoni il mio ardire), che si<br />

aggira per il nostro paese, ancora straniero, come in un brutto sogno. E<br />

penso che dovrei cucirLe un vestito come quello che indossano gli<br />

eroi nelle leggende, che La protegga contro tutti i pericoli del mondo.<br />

Non mi ravvisavo in questa immagine, ma non gliel’ho scritto. Le<br />

ho risposto che questi abiti non si possono regalare: ognuno deve<br />

tesserli e cucirli per se stesso. H. L. mi ha spedito i due romanzi di<br />

142


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Heinrich Mann del ciclo Enrico IV, che purtroppo non ho mai trovato<br />

tempo di leggere; io le ho fatto avere la traduzione tedesca di La<br />

tregua, che era comparsa nel frattempo. Nel dicembre 1964, da<br />

Berlino dove si era trasferita, mi ha mandato un paio di gemelli da<br />

polsino d’oro, che aveva fatti fare da una sua amica orefice. Non ho<br />

avuto cuore di restituirglieli; l’ho ringraziata, ma l’ho pregata di non<br />

mandarmi altro. Spero sinceramente di non avere offesa questa<br />

persona intimamente gentile; spero che abbia compreso il motivo della<br />

mia difesa. Da allora non ho più avuto sue notizie.<br />

Ho lasciato per ultimo lo scambio di lettere con la signora Hety S.<br />

di Wiesbaden, mia coetanea, perché costituisce un episodio a sé<br />

stante, sia come qualità, sia come quantità. Da sola, la mia cartella<br />

«HS» è più voluminosa di quella in cui conservo tutte le altre «lettere<br />

di tedeschi». La nostra corrispondenza si protrae per sedici anni,<br />

dall’ottobre 1966 al novembre 1982. Contiene, oltre ad una<br />

cinquantina di sue lettere (spesso di quattro o più facciate) con le mie<br />

risposte, anche le veline di almeno altrettante lettere da lei scritte ai<br />

suoi figli, ad amici, ad altri scrittori, a editori, ad enti locali, a giornali<br />

o riviste, e di cui ha ritenuto importante mandarmi copia; inoltre,<br />

ritagli di giornali e recensioni di libri. Alcune delle sue lettere sono<br />

«circolari»: mezza pagina è in fotocopia, uguale per vari corrispondenti,<br />

il resto, bianco, è riempito a mano con le notizie o le domande<br />

più personali. La signora Hety mi scriveva in tedesco e non conosceva<br />

l’italiano; le ho risposto inizialmente in francese, poi mi sono reso<br />

conto che capiva con difficoltà e per molto tempo le ho scritto in<br />

inglese. Più tardi, col suo divertito consenso, le ho scritto nel mio<br />

tedesco incerto, in duplice copia; lei me ne restituiva una, con le sue<br />

correzioni «ragionate». Ci siamo incontrati solo due volte: a casa sua,<br />

durante un mio frettoloso viaggio d’affari in Germania, ed a Torino,<br />

durante una sua vacanza altrettanto frettolosa. Non sono stati incontri<br />

importanti: le lettere contano molto di più.<br />

Anche la sua prima lettera traeva spunto dalla questione del<br />

«capire», ma aveva un piglio energico e risentito che la distingueva da<br />

143


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

tutte le altre. Il mio libro le era stato donato da un amico comune, lo<br />

storico Hermann Langbein, molto tardi, quando già la prima edizione<br />

era esaurita. Come assessore alla Cultura presso un Governo<br />

regionale, lei stava cercando di farlo ristampare subito, e mi scriveva:<br />

A capire « i tedeschi », di sicuro Lei non ci riuscirà mai: non ci<br />

riusciamo neppure noi, poiché a quel tempo sono successe cose che<br />

mai, a nessun prezzo, avrebbero dovuto succedere. Ne è seguito che<br />

per molti fra noi parole come «Germania» e «Patria» hanno perduto<br />

per sempre il significato che un tempo avevano: il concetto di «patria»<br />

per noi si è estinto (...) Ciò che assolutamente non ci è lecito, è<br />

dimenticare. Per questo sono importanti per la nuova generazione i<br />

libri come il Suo, che descrivono in modo così umano l’inumano (...)<br />

Forse Lei non si rende conto appieno di quante cose uno scrittore può<br />

implicitamente esprimere su se stesso - e pertanto sull’Uomo in<br />

generale. Proprio questo conferisce peso e valore ad ogni capitolo del<br />

Suo libro. Più che tutto, mi hanno sconvolto le Sue pagine sul<br />

laboratorio della Buna: era dunque questo il modo in cui voi<br />

prigionieri vedevate noi liberi!<br />

Poco oltre, racconta di un prigioniero russo che in autunno le<br />

portava il carbone in cantina. Parlargli era proibito: lei gli infilava in tasca<br />

cibo e sigarette, e lui, per ringraziare, gridava: «Heil Hitler!» Non le era<br />

proibito invece (che labirinto di gerarchie e di divieti differenziali doveva<br />

essere la Germania di allora! anche le «lettere di tedeschi», e le sue in<br />

specie, dicono più di quanto non paia) parlare con una giovane operaia<br />

«volontaria» francese: lei la prelevava dal suo campo, se la portava a<br />

casa, la conduceva perfino a qualche concerto. La ragazza, in campo, non<br />

poteva lavarsi bene, e aveva i pidocchi. Hety non osava dirglielo, provava<br />

disagio, e si vergognava del suo disagio.<br />

A questa sua prima lettera ho risposto che il mio libro aveva bensì<br />

destato risonanza in Germania, ma proprio fra i tedeschi che avevano<br />

meno bisogno di leggerlo: mi avevano scritto lettere di pentimento gli<br />

innocenti, non i colpevoli. Questi, come è comprensibile, tacevano.<br />

Nelle sue lettere successive, a poco a poco, nel suo modo<br />

indiretto, Hety (la chiamerò così per semplicità, sebbene al «tu» non<br />

siamo mai arrivati) mi ha fornito un ritratto di se stessa. Suo padre,<br />

pedagogista di professione, era un attivista socialdemocratico fin dal<br />

1919; nel ‘33, l’anno in cui Hitler salì al potere, perse subito l’im-<br />

144


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

piego, si susseguirono perquisizioni e difficoltà economiche, la<br />

famiglia si dovette trasferire in un alloggio più piccolo. Nel ‘35 Hety<br />

fu espulsa dal liceo perché aveva rifiutato di entrare nell’organizzazione<br />

giovanile hitleriana. Sposò nel ‘38 un ingegnere della IG<br />

Farben (di qui il suo interesse per «il laboratorio di Buna»!) da cui<br />

ebbe subito due figli. Dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, suo<br />

padre fu deportato a Dachau, ed il matrimonio entrò in crisi perché il<br />

marito, pur non essendo iscritto al partito, non tollerava che Hety<br />

mettesse in pericolo se stessa, lui e i figli per «fare quello che andava<br />

fatto», cioè per portare ogni settimana un po’ di cibo ai cancelli del<br />

campo in cui il padre era prigioniero:<br />

…a lui sembrava che i nostri sforzi fossero assolutamente insensati.<br />

Tenemmo una volta un consiglio di famiglia per vedere se ci fossero<br />

possibilità di dare un aiuto a mio padre, e se si quali; ma lui disse<br />

soltanto: «Mettetevi il cuore in pace: non lo vedrete più».<br />

Invece, a guerra finita il padre tornò, ma era ridotto ad uno spettro<br />

(morì pochi anni dopo). Hety, assai legata a lui, si senti in dovere di<br />

proseguire l’attività nel rinnovato partito socialdemocratico; il marito<br />

non era d’accordo, vi fu una lite, e lui chiese ed ottenne il divorzio. La<br />

sua seconda moglie era una profuga dalla Prussia Orientale che, per<br />

via dei due figli, mantenne discreti rapporti con Hety. Le disse una<br />

volta, a proposito del padre, di Dachau e dei Lager:<br />

Non avertene a male se io non sopporto di leggere o di ascoltare<br />

queste tue cose. Quando abbiamo dovuto scappare, è stato tremendo; e<br />

la cosa peggiore è stata che abbiamo dovuto prendere la strada per cui<br />

erano stati evacuati prima i prigionieri di Auschwitz. La via era fra<br />

due siepi di morti. Vorrei dimenticare quelle immagini e non posso:<br />

continuo a sognarle.<br />

Il padre era appena ritornato quando Thomas Mann, alla radio,<br />

parlò di Auschwitz, del gas e dei crematori.<br />

Ascoltammo tutti con turbamento e tacemmo a lungo. Papà<br />

andava su e giù, taciturno, imbronciato, finché io gli chiesi:<br />

«Ma ti pare possibile, che si avveleni la gente col gas, la si bruci,<br />

che si utilizzino i loro capelli, la pelle, i denti? » E lui, che pure veniva<br />

da Dachau, rispose: «No, non è pensabile. Un Thomas Mann non<br />

145


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

dovrebbe dar fede a questi orrori». Eppure era tutto vero: poche<br />

settimane dopo ne abbiamo avuto le prove e ce ne siamo convinti.<br />

In un’altra sua lunga lettera mi aveva descritto la loro vita nella «<br />

emigrazione interna»:<br />

Mia madre aveva una carissima amica ebrea. Era vedova e<br />

viveva sola, i figli erano emigrati, ma lei non si risolveva a lasciare la<br />

Germania. Anche noi eravamo dei perseguitati, ma «politici»: per noi<br />

era diverso, ed abbiamo avuto fortuna nonostante i molti pericoli. Non<br />

dimenticherò la sera in cui quella donna venne da noi, al buio, per<br />

dirci: «Vi prego, non venite più a cercarmi, e scusatemi se io non<br />

vengo da voi. Capite, vi metterei in pericolo...» Naturalmente abbiamo<br />

continuato a visitarla, finché non fu deportata a Theresienstadt. Non<br />

l’abbiamo più rivista, e per lei non abbiamo «fatto» niente: che cosa<br />

avremmo potuto fare? Eppure il pensiero che non si potesse fare nulla<br />

ci tormenta ancora: La prego, cerchi di comprendere.<br />

Mi ha raccontato di aver assistito nel 1967 al processo per<br />

l’Eutanasia. Uno degli imputati, un medico, aveva dichiarato in<br />

giudizio che gli era stato ordinato di iniettare personalmente il veleno<br />

ai malati mentali, e che lui aveva rifiutato per coscienza professionale;<br />

per contro, manovrare il rubinetto del gas gli era sembrato poco gradevole,<br />

ma insomma tollerabile. Tornata a casa, Hety trova la donna<br />

delle pulizie, una vedova di guerra, intenta al suo lavoro, e il figlio che<br />

sta cucinando. Tutti e tre si siedono a tavola, e lei racconta al figlio<br />

quanto ha visto e sentito al processo. Ad un tratto,<br />

la donna ha posato la forchetta ed è intervenuta aggressivamente:<br />

«A cosa servono tutti questi processi che fanno adesso? Cosa<br />

potevano farci, i nostri poveri soldati, se gli davano quegli ordini?<br />

Quando mio marito è venuto in licenza dalla Polonia, mi ha<br />

raccontato: “Non abbiamo fatto quasi niente altro che fucilare ebrei:<br />

sempre fucilare ebrei. A furia di sparare, il braccio mi faceva male”.<br />

Ma che cosa poteva fare, se gli avevano dato quegli ordini? » (...)<br />

L’ho licenziata, reprimendo la tentazione di congratularmi con lei per<br />

il suo povero marito caduto in guerra... Ecco, vede, qui in Germania<br />

viviamo ancor oggi in mezzo a persone di questo genere.<br />

Hety ha lavorato per molti anni presso il Ministero della Cultura<br />

del Land Hessen (Assia): era una funzionaria diligente ma irruente,<br />

146


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

autrice di recensioni polemiche, organizzatrice «appassionata» di<br />

convegni ed incontri con i giovani, altrettanto appassionata alle<br />

vittorie e sconfitte del suo partito. Dopo il pensionamento, avvenuto<br />

nel 1978, la sua vita culturale si è ancora arricchita: mi ha scritto di<br />

viaggi, di letture, di stages linguistici.<br />

Soprattutto, e per tutta la sua vita, è stata avida, addirittura<br />

famelica, di incontri umani: quello, duraturo e fecondo, con me, è<br />

stato solo uno dei tanti. «Il mio destino mi spinge verso gli uomini con<br />

un destino», mi ha scritto una volta: ma non era il destino a spingerla,<br />

era una vocazione. Li cercava, li trovava, li metteva in contatto fra<br />

loro, curiosissima dei loro incontri o scontri. É stata lei a dare a me<br />

l’indirizzo di Jean Améry e il mio a lui, ma ad una condizione: che<br />

entrambi le mandassimo le veline delle lettere che ci saremmo<br />

scambiate (lo abbiamo fatto). Ha avuto una parte importante anche nel<br />

rimettermi sulle tracce di quel dottor Müller, chimico ad Auschwitz, e<br />

poi mio fornitore di prodotti chimici e penitente, di cui ho parlato nel<br />

capitolo Vanadio del Sistema periodico: era stato collega del suo ex<br />

marito. Anche del «dossier Müller» ha chiesto, a buon diritto, le<br />

veline; ha poi scritto lettere intelligenti a lui su di me ed a me su di lui,<br />

incrociando doverosamente le «copie per conoscenza ».<br />

In una sola occasione abbiamo (o almeno, io ho) percepito una<br />

divergenza. Nel 1966 era stato rilasciato Albert Speer dal carcere<br />

interalleato di Spandau. Come è noto, era stato l'«architetto di corte»<br />

di Hitler, ma nel 1943 era stato nominato ministro dell’industria di<br />

guerra; in quanto tale, era in buona parte responsabile dell’organizzazione<br />

delle fabbriche in cui noi morivamo di fatica e di fame. A<br />

Norimberga era stato il solo fra gli imputati a dichiararsi colpevole,<br />

anche per le cose che non aveva saputo; anzi, appunto per non aver<br />

voluto saperle. Fu condannato a vent’anni di reclusione, che impiegò a<br />

scrivere le sue memorie carcerarie, pubblicate in Germania nel 1975.<br />

Hety dapprima esitò, poi le lesse, e ne fu profondamente turbata.<br />

Chiese a Speer un colloquio, che durò due ore; gli lasciò il libro di<br />

Langbein su Auschwitz ed una copiù di Se questo è un uomo, dicendogli<br />

che era tenuto a leggerli. Lui le diede una copia dei suoi Diari di<br />

Spandau (Mondadori, Milano 1976) perché Hety me la spedisse.<br />

147


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Ho ricevuto e letto questi diari, che portano il segno di una mente<br />

coltivata e lucida e di un ravvedimento che sembra sincero (ma un<br />

uomo intelligente sa simulare). Speer ne traspare come un personaggio<br />

shakespeariano, dalle ambizioni sconfinate, tali da accecarlo e da infettarlo,<br />

ma non un barbaro né un vile né un servo. Di questa lettura avrei<br />

fatto volentieri a meno, perché per me giudicare è doloroso; in specie<br />

uno Speer, un uomo non semplice, e un colpevole che aveva pagato.<br />

Scrissi a Hety, con una traccia di irritazione: «Che cosa l’ha spinta da<br />

Speer? La curiosità? Un senso del dovere? Una “missione”»?<br />

Mi rispose:<br />

Spero che Lei abbia preso il dono di quel libro nel suo senso<br />

giusto. Giusta è anche la Sua domanda. Volevo vederlo in faccia:<br />

vedere com’è fatto un uomo che si è lasciato plagiare da Hitler, e che<br />

è diventato una sua creatura. Dice, ed io gli credo, che per lui la strage<br />

di Auschwitz è un trauma. É ossessionato dalla domanda di come lui<br />

abbia potuto «non voler vedere né sapere», insomma rimuovere tutto.<br />

Non mi pare che cerchi giustificazioni; anche lui vorrebbe capire<br />

quanto, anche per lui, capire è impossibile. Mi è parso un uomo che<br />

non falsifica, che lotta lealmente, e si tormenta sul suo passato. Per<br />

me, è diventato «una chiave»: è un personaggio simbolico, il simbolo<br />

del traviamento tedesco. Ha letto con estrema pena il libro di<br />

Langbein, e mi ha promesso di leggere anche il Suo. La terrò<br />

informato sulle sue reazioni.<br />

Queste reazioni, con mio sollievo, non sono mai venute: se avessi<br />

dovuto (come è usanza fra persone civili) rispondere ad una lettera di<br />

Albert Speer, avrei avuto qualche problema. Nel 1978, scusandosi con<br />

me per la disapprovazione che aveva fiutato nelle mie lettere, Hety ha<br />

visitato Speer una seconda volta, e ne è tornata delusa. Lo ha trovato<br />

senile, egocentrico, tronfio, e stupidamente fiero del suo passato di<br />

architetto faraonico. Dopo di allora, la sostanza delle nostre lettere si è<br />

andata spostando verso temi più allarmanti perché più attuali: l’affare<br />

Moro, la fuga di Kappler, la morte simultanea dei terroristi della<br />

banda Baader-Meinhof nel supercarcere di Stammheim. Lei tendeva a<br />

credere alla tesi ufficiale del suicidio; io dubitavo. Speer è morto nel<br />

1981, e Hety, improvvisamente, nel 1983.<br />

148


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

La nostra amicizia, quasi esclusivamente epistolare, è stata lunga<br />

e fruttuosa, spesso allegra; strana, se penso all’enorme differenza fra i<br />

nostri itinerari umani ed alla lontananza geografica e linguistica, meno<br />

strana se riconosco che è stata lei, fra tutti i miei lettori tedeschi, la<br />

sola «con le carte in regola», e quindi non invischiata in sensi di colpa;<br />

e che la sua curiosità è stata ed è la mia, e si è arrovellata sugli stessi<br />

temi che ho discussi in questo libro.<br />

149


Conclusione<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti<br />

è estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più<br />

estranea si va facendo a mano a mano che passano gli anni. Per i<br />

giovani degli anni ’50 e ’60, erano cose dei loro padri: se ne parlava in<br />

famiglia i ricordi conservavano ancora la freschezza delle cose viste.<br />

Per i giovani di questi anni ’80, sono cose dei loro nonni: lontane<br />

sfumate, «storiche». Essi sono assillati dai problemi d’oggi, diversi,<br />

urgenti: la minaccia nucleare, la disoccupazione, l’esaurimento delle<br />

risorse, l’esplosione demografica, le tecnologie che si rinnovano<br />

freneticamente ed a cui occorre adattarsi. La configurazione del<br />

mondo è profondamente mutata, l’Europa non è più il centro del<br />

pianeta. Gli imperi coloniali hanno ceduto alla pressione dei popoli<br />

d’Asia e d’Africa assetati d’indipendenza, e si sono dissolti, non senza<br />

tragedie e lotte fra le nuove fazioni. La Germania, spaccata in due per<br />

un futuro indefinito, è diventata «rispettabile», e di fatto detiene i<br />

destini dell’Europa. Permane la diarchia Stati Uniti – Unione<br />

Sovietica, nata dalla seconda guerra mondiale; ma le ideologie su cui<br />

si reggono i governi dei due soli vincitori dell’ultimo conflitto hanno<br />

perso molto della loro credibilità e del loro splendore. Si affaccia<br />

all’età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di<br />

certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece<br />

ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda<br />

convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge.<br />

Per noi parlare con i giovani è sempre più difficile. Lo<br />

percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di<br />

apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere<br />

ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati<br />

collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato,<br />

fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno. E<br />

150


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa;<br />

incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito<br />

dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui<br />

figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito ed<br />

osannato fino alla catastrofe. É avvenuto, quindi può accadere di<br />

nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.<br />

Può accadere, e dappertutto. Non intendo né posso dire che<br />

avverrà; come ho accennato più sopra, è poco probabile che si<br />

verifichino di nuovo, simultaneamente, tutti i fattori che hanno<br />

scatenato la follia nazista, ma si profilano alcuni segni precursori. La<br />

violenza, «utile» o «inutile», è sotto i nostri occhi: serpeggia, in<br />

episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato, in entrambi quelli<br />

che si sogliono chiamare il primo ed il secondo mondo, vale a dire<br />

nelle democrazie parlamentari e nei paesi dell’area comunista. Nel<br />

terzo mondo è endemica od epidemica. Attende solo il nuovo istrione<br />

(non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari<br />

necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere<br />

garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da<br />

intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da<br />

fanatismo religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi<br />

affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli<br />

che dicono e scrivo no «belle parole» non sostenute da buone ragioni.<br />

É stato oscenamente detto che di un conflitto c’è bisogno: che il<br />

genere umano non ne può fare a meno. É anche stato detto che i<br />

conflitti locali, le violenze in strada, in fabbrica, negli stadi, sono un<br />

equivalente della guerra generalizzata, e che ce ne preservano, come il<br />

«piccolo male», l’equivalente epilettico, preserva dal grande male. É<br />

stato osservato che mai in Europa erano trascorsi quarant’anni senza<br />

guerre: una pace europea così lunga sarebbe un’anomalia storica.<br />

Sono argomenti capziosi e sospetti. Satana non è necessario: di<br />

guerre e violenze non c’è bisogno, in nessun caso. Non esistono<br />

problemi che non possano essere risolti intorno a un tavolo, purché ci<br />

sia volontà buona e fiducia reciproca: o anche paura reciproca, come<br />

sembra dimostrare l’attuale interminabile situazione di stallo, in cui le<br />

massime potenze si fronteggiano con viso cordiale o truce, ma non<br />

151


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

hanno ritegno a scatenare (o a lasciare che si scatenino) guerre<br />

sanguinose fra i loro «protetti», inviando armi sofisticate, spie,<br />

mercenari e consiglieri militari invece che arbitri di pace.<br />

Neppure è accettabile la teoria della violenza preventiva: dalla<br />

violenza non nasce che violenza, in una pendolarità che si esalta nel<br />

tempo invece di smorzarsi. In effetti, molti segni fanno pensare ad una<br />

genealogia della violenza odierna che si dirama proprio da quella<br />

dominante nella Germania di Hitler. Certo non mancava prima, nel<br />

passato remoto e recente: tuttavia, anche in mezzo all’insensato<br />

massacro della prima guerra mondiale, sopravvivevano i tratti di un<br />

reciproco rispetto fra i contendenti, una traccia di umanità verso i<br />

prigionieri ed i cittadini inermi, un tendenziale rispetto dei patti: un<br />

credente direbbe «un certo timor di Dio». L’ avversario non era né un<br />

demonio né un verme. Dopo il Gott mit uns nazista tutto è cambiato.<br />

Ai bombardamenti aerei terroristici di Göring hanno risposto i<br />

bombardamenti «a tappeto» alleati. La distruzione di un popolo e di<br />

una civiltà si è dimostrata possibile, e desiderabile sia in sé, sia come<br />

strumento di regno. Lo sfruttamento massiccio della mano d’opera<br />

schiava era stato imparato da Hitler alla scuola di Stalin, ma in Unione<br />

Sovietica è ritornato moltiplicato alla fine della guerra. L’esodo di<br />

cervelli dalla Germania e dall’Italia, insieme con la paura di un sorpasso<br />

da parte degli scienziati nazisti, ha partorito le bombe nucleari. I<br />

superstiti ebrei disperati, in fuga dall’Europa dopo il gran naufragio,<br />

hanno creato in seno al mondo arabo un’isola di civiltà occidentale,<br />

una portentosa palingenesi dell’ebraismo, ed il pretesto per un odio<br />

rinnovato. Dopo la disfatta, la silenziosa diaspora nazista ha insegnato<br />

le arti della persecuzione e della tortura ai militari ed ai politici di una<br />

dozzina di paesi, affacciati al Mediterraneo, all’Atlantico ed al<br />

Pacifico. Molti nuovi tiranni tengono nel cassetto la « Battaglia » di<br />

Adolf Hitler: magari con qualche rettifica, o con qualche sostituzione<br />

di nomi, può ancora venire a taglio.<br />

L’esempio hitleriano ha dimostrato in quale misura sia devastante<br />

una guerra combattuta nell’era industriale, anche senza che si faccia<br />

152


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

ricorso alle armi nucleari; nell’ultimo ventennio, la sciagurata impresa<br />

vietnamita, il conflitto delle Falkland, la guerra Iran-Iraq ed i fatti di<br />

Cambogia e d’Afghanistan ne sono una conferma. Tuttavia ha anche<br />

dimostrato (non nel senso rigoroso dei matematici, purtroppo) che,<br />

almeno qualche volta, almeno in parte, le colpe storiche vengono<br />

punite; i potenti del Terzo Reich sono finiti sulla forca o nel suicidio;<br />

il paese tedesco ha subito una biblica «strage di primogeniti» che ha<br />

decimato una generazione, ed una bipartizione che ha posto fine al<br />

secolare orgoglio germanico. Non è assurdo assumere che, se il<br />

nazismo non si fosse mostrato fin dall’inizio così spietato, l’alleanza<br />

fra i suoi avversari non si sarebbe costituita, o si sarebbe spezzata<br />

prima della fine del conflitto. La guerra mondiale voluta dai nazisti e<br />

dai giapponesi è stata una guerra suicida: tutte le guerre dovrebbero<br />

essere temute come tali.<br />

Agli stereotipi che ho passati in rassegna nel settimo capitolo<br />

vorrei infine aggiungerne uno. Ci viene chiesto dai giovani, tanto più<br />

spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana,<br />

chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri «aguzzini». Il termine<br />

allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere è improprio: fa<br />

pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio<br />

d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri<br />

umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo<br />

eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati<br />

educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi e<br />

diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti<br />

indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera, o<br />

troppo obbedienti. Tutti avevano subito la terrificante diseducazione<br />

fornita ed imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler e dai<br />

suoi collaboratori, e completata poi dal Drill delle SS. A questa<br />

milizia parecchi avevano aderito per il prestigio che conferiva, per la<br />

sua onnipotenza, o anche solo per sfuggire a difficoltà famigliari.<br />

Alcuni, pochissimi per verità, ebbero ripensamenti, chiesero il<br />

trasferimento al fronte, diedero cauti aiuti ai prigionieri, o scelsero il<br />

suicidio. Sia ben chiaro che responsabili, in grado maggiore o minore,<br />

erano tutti, ma dev’essere altrettanto chiaro che dietro la loro<br />

153


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

responsabilità sta quella della grande maggioranza dei tedeschi, che<br />

hanno accettato all’inizio, per pigrizia mentale, per calcolo miope, per<br />

stupidità, per orgoglio nazionale, le « belle parole » del caporale<br />

Hitler, lo hanno seguito finché la fortuna e la mancanza di scrupoli lo<br />

hanno favorito, sono stati travolti dalla sua rovina, funestati da lutti,<br />

miseria e rimorsi, e riabilitati pochi anni dopo per uno spregiudicato<br />

gioco politico.<br />

154


La colpa di dimenticare<br />

di Paolo Flores d’Arcais<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Assonanze<br />

É nozione comune, dopo Freud, che l’uomo possieda una spinta a dimenticare,<br />

non sapere, rimuovere, ogniqualvolta la conoscenza o il ricordo siano scomodi,<br />

rischiosi, inquietanti. Si rimuove per difendersi, ma con ciò si rischia anche, poiché<br />

il rifiuto della lucidità è promessa dì nevrosi.<br />

L’uomo contemporaneo coltiva la rimozione con grande impegno. E, da<br />

ultimo, sembra deciso a spingersi oltre: a rivendicare la rimozione quale «diritto».<br />

Questo, forse, il significato del voto con cui la maggioranza del popolo austriaco ha<br />

eletto a presidente il signor Waldheim. Proprio perché sospetto di trascorsi nazisti.<br />

Il «diritto» a dimenticare, rimuovere, non dover portarsi dietro, nel proprio<br />

vissuto quotidiano, la lucida consapevolezza di un passato scomodo, è l’assurda<br />

scelta oggi prevalente non solo in Austria ma in gran parte d’Europa. L’ultimo lavoro<br />

di Primo Levi, allora, deve intanto essere salutato come possibile straordinario<br />

antidoto contro questa ricorrente pretesa a porre fra parentesi il passato.<br />

I sommersi e i salvati non è solo un saggio sull’universo dei campi di<br />

concentramento. É anche questo ma soprattutto, attraverso questo, un saggio<br />

sull’immorale e diffusissima pulsione umana a manipolare la memoria.<br />

Qui, il ragionamento di Primo Levi si incontra pienamente con le tesi esposte<br />

in proposito da Hannah Arendt, e non è certo un caso che anche la Arendt abbia<br />

dedicato ai Lager e al totalitarismo gran parte della sua riflessione etico-politica e<br />

che nel campo di concentramento veda, come Primo Levi, il fenomeno<br />

assolutamente imprevisto e assolutamente centrale del nostro secolo.<br />

Un lavoro contro la rimozione e per la verità, quello di Primo Levi, abbiamo<br />

detto. E in primo luogo, contro le deformazioni che anche le vittime possono<br />

realizzare nel necessario lavoro di mantenere memoria viva di un accaduto talmente<br />

mostruoso da apparire fantastico.<br />

Levi, perciò, offre un’autentica sociologia dell’universo concentrazionario,<br />

attenta proprio alle zone «grigie», ai comportamenti ambigui, ai compromessi, alle<br />

debolezze, che caratterizzano anche il mondo delle vittime. Ma questa impietosa<br />

onestà intellettuale è accettabile solo e perché Levi tiene rigorosamente ferma la<br />

insopprimibile e primaria distinzione fra carnefice e vittima, contro le ricorrenti (e<br />

mai innocenti) tentazioni dell’estetismo e di un sempre più diffuso «azzeramento»<br />

155


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

delle responsabilità (in nome di un nuovo storicismo? o della esaltazione di una<br />

realtà socio-politica priva di impegno e perciò anche di memoria?).<br />

É possibile, tuttavia, che questo straordinario libretto di Primo Levi, malgrado<br />

il successo di vendite che già si profila, risulti alla fine un lavoro «inutile». È<br />

possibile, insomma, che la pretesa di non essere disturbati da ricordi scomodi e da<br />

scomode responsabilità, abbia già vinto, sia penetrata in profondità, abbia<br />

conquistato le giovani generazioni. Sarebbe una tragedia, ma le tragedie talvolta<br />

avvengono.<br />

Molti sintomi denunciano che la generale assoluzione è ormai la tentazione<br />

maestra di troppi intellettuali, oltre che la pretesa della professione politica.<br />

L’Europa vuole dimenticare di aver generato il fascismo, e il semplice rammentarlo<br />

viene giudicato di cattivo gusto.<br />

Pure, proprio questo è invece il tema decisivo per la nostra epoca: riconoscere<br />

come il nostro mondo, la nostra epoca, mettano ciascuno di noi a confronto con una<br />

duplice immagine di Occidente e una duplice immagine di modernità. Come lo<br />

scarto fra le premesse di valore (che poi erano anche «promesse») e la concreta<br />

realtà quotidiana costituisca il tratto caratterizzante la condizione moderna, perfino<br />

assai più della tecnica o del rendersi omogeneo delle culture su scala mondiale.<br />

Riconoscere questo scarto nel suo luogo più tragico, indagarlo senza<br />

concessioni ad alcuno (non alle vittime, ma tanto<br />

meno ai carnefici), comprenderne i meccanismi, proporlo alla custodia di altri<br />

uomini, perché la memoria impedisca (per quel po’ che la cultura e l’impegno<br />

possono) che analoghe tragedie si rinnovino: questa la grandezza, la necessità, di un<br />

libro dai toni volutamente dimessi, colloquiali, «banali» se si vuole. Ma proprio<br />

perché la banalità del male è all’origine della fuga dalle responsabilità che consente<br />

al nazismo di trionfare, come spiegava, nei suoi resoconti del processo Eichmann,<br />

Hannah Arendt e come conferma ciascuna di queste bellissime pagine di Primo<br />

Levi.<br />

Quanto è scomodo il buon senso<br />

di Giovanni Raboni<br />

«Il Messaggero», 21 giugno 1986.<br />

Non si potrebbe fare peggior torto all’ultimo libro di Primo Levi I sommersi e i<br />

salvati che lodarlo d’ufficio in considerazione della gravità dei temi che affronta,<br />

dell’indiscutibile nobiltà delle idee che esprime e della quantità di sofferenza -<br />

sofferenza personale, personalmente vissuta - depositata in esso. Tutte queste cose<br />

sono vere, naturalmente; ma credo che non sia questo il punto. Non credo, voglio<br />

dire, che Levi abbia voluto scrivere un libro nobile o edificante, né che sia stato<br />

mosso dal desiderio o bisogno di raccontarci un’altra volta, a distanza di tanti anni,<br />

le sue vicende terribili e paradossalmente «fortunate» (nel senso che a lui è toccato<br />

156


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

in sorte di essere, appunto, uno dei pochi «salvati» di fronte a milioni di<br />

«sommersi»).<br />

I fatti sono noti, ed è appena il caso di richiamarli brevemente. Levi è stato,<br />

giovanissimo, nei Lager nazisti; è stato a Auschwitz; è, nel verso senso della parola,<br />

un sopravvissuto. E su questa esperienza atroce, quasi non raccontabile, ha scritto e<br />

pubblicato (nel ‘47) un racconto, Se questo è un uomo, che è diventato presto un<br />

piccolo classico e ha segnato l’inizio, necessario e al tempo stesso casuale, di una<br />

più che decorosa carriera di scrittore. Una carriera nel corso della quale Levi è<br />

tornato a volte su quei fatti, su quei ricordi, ma ha anche dato l’impressione di<br />

volersi creare a poco a poco, legittimamente, un’immagine diversa e autonoma di<br />

scrittore, l’immagine di un narratore e non più di un memorialista.<br />

Può darsi che I sommersi e i salvati nasca in qualche misura, inconsciamente,<br />

proprio dal rimorso di aver allontanato i compiti e i limiti del testimone, di essersi<br />

voluto scrittore anziché scriba. Ma la cosa più importante, la cosa decisiva è, come<br />

ho già accennato, un’altra, e cioè che con questo saggio o pamphlet Levi non ha<br />

voluto darci un libro edificante, e nemmeno un libro «bello», ma un libro<br />

essenzialmente polemico e «irritante».<br />

Se questo era, come personalmente credo, il suo proposito, penso che Levi ci<br />

sia perfettamente riuscito. Bisogna pensare al contesto culturale, prima e più che<br />

politico, nel quale il libro è maturato e oggettivamente si inserisce. Da una parte, ci<br />

sono i tentativi di falsificare la storia e di organizzare l’oblio. Nel primo capitolo del<br />

libro, Levi ricorda uno dei casi più clamorosi: le dichiarazioni rilasciate nel ‘78 a un<br />

settimanale francese da Louis Darquier de Pellepoix, ex funzionario del governo<br />

collaborazionista di Vichy Secondo Darquier (che, purtroppo, non è un pazzo<br />

isolato, ma l’esempio estremo e grottesco di un atteggiamento mentale assai più<br />

diffuso di quanto non si creda), i campi di sterminio nazisti, semplicemente, non<br />

sono mai esistiti; sono un’invenzione propagandistica dei vincitori del conflitto per<br />

screditare i vinti, e degli Ebrei per attirare l’attenzione su di sé e per farsi<br />

«compiangere». Tutto inventato: statistiche, cataste di cadaveri, camere a gas.. - Le<br />

foto scattate subito dopo la liberazione? Nient’altro che foto-montaggi. E così via.<br />

Dall’altra parte, c’è l’insidia, molto più sottile, dell’intellettualismo. Anche<br />

qui, Levi non si perde in una casistica che sarebbe infinita; cita un solo caso,<br />

davvero agghiacciante nella sua schematicità presuntuosa e suggestiva. Molti<br />

ricorderanno il film di Liliana Cavani uscito nel '74 e intitolato il portiere di notte. E<br />

stato un successo di pubblico e, in parte, anche di critica. Personalmente, mi parve<br />

detestabile; Levi, con molto fair play, lo definisce «bello e falso». Ma non è tanto<br />

sul film (centrato sul rapporto erotico fra la reduce da un Lager e il suo ritrovato<br />

aguzzino) che Levi concentra la sua stupefatta e indignata attenzione, quanto,<br />

giustamente, sulla spavalda autointerpretazione fornitane dall’autrice: «Siamo tutti<br />

vittime o assassini e accettiamo questi ruoli volontariamente. Solo Sade e<br />

Dostoevskiì l’hanno compreso bene...»<br />

Volontariamente! É come se in questo avverbio avvenissero micidiali equivoci<br />

di un atteggiamento che non appartiene soltanto, come in questo caso, alla<br />

sottocultura, ma anche, non di rado, alla cultura «vera». A essi Levi contrappone la<br />

157


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

sacrosanta banalità del senso comune: «Non so, e mi interessa poco sapere, se nel<br />

mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato e<br />

assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora<br />

esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia<br />

morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità...»<br />

Verrebbe voglia di applaudire; ma sono sicuro che Levi non lo gradirebbe.<br />

Levi non vuole il nostro consenso, ma il nostro disagio; vuole, appunto, «irritarci»,<br />

noi lettori che non abbiamo commesso, ma nemmeno subito, violenze e soprusi<br />

come quelli che lui ha subiti, e che troppe volte abbiamo rinunciato a sapere di più, a<br />

capire, a rivoltarci...<br />

Spero che si sia intuito, a questo punto, in cosa consistano a mio avviso il<br />

senso, l’importanza e la tempestività del libro. Consistono nel riproporci la verità, la<br />

nuda, insuperabile oggettività dei fatti, e nell’innalzarla come una barricata contro le<br />

tentazioni dell’oblio e più ancora contro il fascino insinuante, forse incontrollabile,<br />

in ogni caso troppe volte incontrollato, dell’«interpretazione», del pensiero che<br />

interpreta e non giudica. I sommersi e i salvati è, dalla prima all’ultima pagina, una<br />

sfida alle sottigliezze dell’intelligenza in nome di un solido, dolente senso comune;<br />

una sfida alle labirintiche delizie della complessità in nome di una memoria<br />

elementare, opaca, faticosa; una sfida alle meraviglie dell’irrazionale in nome di una<br />

razionalità rozzamente, eroicamente irriducibile...<br />

In effetti, il punto di vista che Levi assume e ostenta è quello, ingrato e<br />

mediocre, del reduce. Un reduce che non vuole condannare (o, perlomeno, non<br />

vuole eseguire condanne), ma nemmeno vuole essere «assolto»; che continua a interrogarsi,<br />

ostinato, su ciò che è stato fatto di lui e di tanti come lui, e non accetta<br />

spiegazioni «brillanti», ma cerca (anche se sa che, il più delle volte, non esistono)<br />

spiegazioni chiare, semplici, alla portata di tutti, compreso chi, come egli scrive con<br />

ingenua ironia, « non si intende di inconscio e di profondo».<br />

La questione non è davvero secondaria. Solo le spiegazioni del secondo tipo<br />

sono infatti capaci di trasformarsi — una volta che si siano trovate, ma anche già, si<br />

può sperare, per il fatto stesso che qualcuno si sforzi di trovarle — in indicazioni e<br />

ammonimenti. Quello che è accaduto, dice Levi, non potrà accadere mai più; ma<br />

altre cose possono accadere, anzi sono accadute, anzi stanno accadendo, che gli<br />

«assomigliano», che replicano (in altri modi, con altre dimensioni) quel non replicabile<br />

errore. E ricordare l’irripetibile, il mostruoso, riIlettere su di esso, è<br />

probabilmente l’unico modo per evitare che l’irripetibile si ripeta, che il mostruoso<br />

diventi, da verità storica, una verità intima ed eterna con la quale convivere.<br />

«L’Unità», 3 settembre 1986.<br />

158


Il buco nero di Auschwitz<br />

di Primo Levi<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

La polemica in corso in Germania fra chi tende a banalizzare la strage nazista<br />

(Nolte, Hillgrüber) e chi ne sostiene l’unicità (Habermas e molti altri) non può<br />

lasciare indifferenti. La tesi dei primi non è nuova: stragi ci sono state in tutti i<br />

secoli, in specie agli inizi del nostro, e soprattutto contro gli «avversari di classe» in<br />

Unione Sovietica, quindi presso i confini germanici.<br />

Noi Tedeschi, nel corso della seconda guerra mondiale, non abbiamo fatto che<br />

adeguarci a una prassi orrenda, ma ormai invalsa: una prassi «asiatica», fatta di stragi, di<br />

deportazioni in massa, di relegazioni spietate in regioni ostili, di torture, di separazioni<br />

delle famiglie. La nostra unica innovazione è stata tecnologica: abbiamo inventato le<br />

camere a gas. Sia detto di passata: è proprio questa innovazione quella che è stata negata<br />

dalla scuola dei «revisionisti» seguaci di Faurisson, quindi le due tesi si completano a<br />

vicenda in un sistema d’interpretazione della storia che non può non allarmare.<br />

Ora, i Sovietici non possono essere assolti. La strage dei Kulaki prima, e poi<br />

gli immondi processi e le innumerevoli e crudeli azioni contro veri o presunti nemici<br />

del popolo sono fatti gravissimi, che hanno portato a quell’isolamento dell’Unione<br />

Sovietica che con varie sfumature (e con la forzata parentesi della guerra) dura<br />

tuttora. Ma nessun sistema giuridico assolve un assassino perché esistono altri<br />

assassini nella casa di fronte. Inoltre, è fuori discussione che si trattava difatti interni<br />

all’Unione Sovietica a cui nessuno, dal di fuori, avrebbe potuto opporre difese, se<br />

non per mezzo di una guerra generalizzata.<br />

I nuovi revisionisti tedeschi tendono insomma a presentare le stragi hitleriane<br />

come una difesa preventiva contro una invasione «asiatica». La tesi mi sembra<br />

estremamente fragile. É ampiamente da dimostrare che i Russi intendessero invadere<br />

la Germania; anzi la temevano, come ha dimostrato l’affrettato accordo Ribbentrop-<br />

Molotov; e la temevano, giustamente, come ha dimostrato la successiva, improvvisa<br />

aggressione tedesca del 1941. Inoltre, non si vede come le stragi «politiche» operate<br />

da Stalin potessero trovare la loro immagine speculare nella strage hitleriana del<br />

popolo ebreo, quando è ben noto che, prima della salita di Hitler al potere, gli Ebrei<br />

tedeschi erano profondamente Tedeschi, intimamente integrati nel Paese, considerati<br />

come nemici solo da Hitler stesso e dai pochi fanatici che inizialmente lo seguirono.<br />

L’identificazione dell’ebraismo col bolscevismo, idea fissa di Hitler, non aveva<br />

alcuna base obiettiva, specialmente in Germania, dove notoriamente la maggior<br />

parte degli Ebrei apparteneva alla classe borghese.<br />

Che «il Gulag fu prima di Auschwitz» è vero; ma non si può dimenticare che<br />

gli scopi dei due inferni non erano gli stessi. Il primo era un massacro fra uguali;<br />

non si basava su un primato razziale; non divideva l’umanità in superuomini e sottouomini;<br />

il secondo si fondava su un’ideologia impregnata di razzismo. Se avesse<br />

prevalso, ci troveremmo oggi in un mondo spaccato in due, «noi» i signori da una<br />

parte, tutti gli altri al loro servizio o sterminati perché razzialmente inferiori. Questo<br />

disprezzo della fondamentale uguaglianza di diritti fra tutti gli esseri umani<br />

trapelava da una folla di particolari simbolici, a partire dai tatuaggi di Auschwitz<br />

159


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

fino all’uso, appunto nelle camere a gas, del veleno originariamente prodotto per<br />

disinfestare le stive invase dai topi. L’empio sfruttamento dei cadaveri e delle loro<br />

ceneri resta appannaggio unico della Germania hitleriana, e, a tutt’oggi, a dispetto di<br />

chi vuole sfumarne i contorni, ne costituisce l’emblema.<br />

E bensì vero che nel Gulag la mortalità era paurosamente alta, ma non era per<br />

così dire un sottoprodotto, tollerato con cinica indifferenza: lo scopo primario,<br />

barbarico quanto si vuole, aveva una sua razionalità, consisteva nella reinvenzione di<br />

‘economia schiavistica destinata alla «edificazione socialista». Neppure dalle pagine<br />

di Solženicyn, frementi di ben giustificato furore, trapela niente di simile a Treblinka<br />

e a Chelmno, che non fornivano lavoro, non erano campi di concentramento, ma<br />

«buchi neri» destinati a uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere Ebrei, in<br />

cui si scendeva dai treni solo per entrare nelle camere a gas, e da cui nessuno è<br />

uscito vivo. I Sovietici invasori in Germania dopo il martirio del loro Paese<br />

(ricordate, fra i cento dettagli, l’assedio spietato di Leningrado?) erano assetati di<br />

vendetta e si macchiarono di colpe gravi, ma non c’erano fra loro gli<br />

Einsatzkommandos, incaricati di mitragliare la popolazione civile e di seppellirla in<br />

sterminate fosse comuni scavate spesso dalle stesse vittime; né del resto avevano<br />

mai progettato l’annientamento del popolo tedesco, contro cui pure nutrivano allora<br />

un giustificato sentimento di rappresaglia.<br />

Nessuno ha mai attestato che nei Gulag si svolgessero «selezioni» come<br />

quelle, più volte descritte, dei Lager tedeschi, in cui con un’occhiata di fronte e di<br />

schiena i medici (medici!) SS decidevano chi potesse ancora lavorare e chi dovesse<br />

andare alla camera a gas. E non vedo come questa «innovazione» possa essere<br />

considerata marginale e attenuata da un «soltanto». Non erano una imitazione<br />

«asiatica», erano bene europee, il gas veniva prodotto da illustri industrie chimiche<br />

tedesche; e a fabbriche tedesche andavano i capelli delle donne massacrate; e alle<br />

banche tedesche l’oro dei denti estratti dai cadaveri. Tutto questo è specificamente<br />

tedesco, e nessun Tedesco lo dovrebbe dimenticare; né dovrebbe dimenticare che<br />

nella Germania nazista, e solo in quella, sono stati condotti a una morte atroce anche<br />

i bambini e i moribondi, in nome di un radicalismo astratto e feroce che non ha<br />

uguali nei tempi moderni.<br />

Nell’ambigua polemica in corso non ha alcuna rilevanza che gli Alleati portino<br />

una grave porzione di colpa. È vero che nessuno Stato democratico ha offerto asilo<br />

agli Ebrei minacciati o espulsi. E vero che gli Americani rifiutarono di bombardare<br />

le linee ferroviarie che conducevano ad Auschwitz (mentre bombardarono<br />

abbondantemente la zona industriale contigua) ed è anche vero che l’omissione di<br />

soccorso da parte alleata fu dovuta a ragioni sordide, e cioè al timore di dovere<br />

ospitare, e mantenere, milioni di profughi o sopravvissuti. Ma di una vera complicità<br />

non si può parlare, e resta abissale la differenza morale e giuridica tra chi fa e chi<br />

lascia fare.<br />

Se la Germania d’oggi tiene al posto che le spetta fra le nazioni europee, non<br />

può e non deve sbiancare il suo passato.<br />

«La Stampa», 22 gennaio 1987.<br />

160


Guerra è sempre<br />

di Cesare Cases<br />

Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

Se sia l’esperienza del chimico che quella del testimone dei Lager si attuano<br />

entro l’orizzonte dello sforzo di capire, questo vien meno nella Tregua, che anche in<br />

tal senso costituisce una pausa di rilassamento nell’opera autobiografica. La babele<br />

continua, la vita è sempre dominata dal caos e dall’irrazionalità, ma di un altro tipo,<br />

dovuto alla disorganizzazione e non all’eccesso di organizzazione. Il sistema di<br />

Auschwitz aveva colpito Levi tra l’altro per la sua antieconomicità, che urtava il suo<br />

spirito razionalistico; dato (e naturalmente non concesso) lo scopo di spremere al<br />

massimo una vita umana considerata inferiore finché poteva rendere qualcosa, e poi<br />

trasformarla in cenere, i metodi scelti sembravano inidonei, c’era l’impiego di<br />

un’enorme quantità di «violenza inutile» (cui è dedicato un apposito capitolo nei<br />

Sommersi e i salvati) ed è sintomatico che l’esercito di schiavi cui apparteneva Levi<br />

non sia servito a fare uscire neanche un grammo di gomma sintetica dalle officine<br />

Buna, come egli ripete in più occasioni. E ricorda come le donne di Ravensbrück<br />

fossero costrette, prima di essere assegnate a una determinata squadra di lavoro, a<br />

passare le giornate spostando la sabbia in cerchio, di modo che alla fine si tornasse<br />

allo stato iniziale. L’ordine coatto creava il caos, sia oggettivamente, sia nell’animo<br />

delle vittime, il cui disagio, rifiutando l’inadeguata parola «nevrosi», egli non sa<br />

definire altrimenti che come «un’angoscia atavica, quella di cui si sente l’eco nel<br />

secondo versetto della Genesi: l’angoscia inscritta in ognuno del “tòhu vavòhu”,<br />

dell’universo deserto e vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio, ma da cui lo spirito<br />

dell’uomo è assente: non ancora nato o già spento». Solo la penna di questo scrittore<br />

alieno da pensamenti religiosi e filosofici può trasformare la parola biblica nella<br />

descrizione non libresca di una «condizione esistenziale».<br />

Il caos in cui Levi viene ora a trovarsi ha poco in comune con il «tòhu vavòhu»<br />

del campo: è il prodotto della disorganizzazione sovietica, per cui si arriva non si sa<br />

dove, si parte verso non si sa dove, non si giunge mai alla mèta per via diretta e la<br />

mèta stessa non è una mèta ma un luogo fuori del mondo dove si resta per mesi e<br />

donde si parte quando meno ce lo si aspetta. Per i Russi e lo spirito anarchico e<br />

nomadico che traspare dai loro comportamenti, Levi ha una simpatia sostanziale, e<br />

fa piacere dopo tanta insistenza esclusiva sui Gulag -la cui ombra talvolta si proietta<br />

anche qui - trovare pagine in cui Levi ravvisa, «in ciascuno di quei visi rudi e aperti,<br />

i buoni soldati dell’Armata Rossa, gli uomini valenti della Russia vecchia e nuova,<br />

miti in pace e atroci in guerra, forti di una disciplina interiore nata dalla concordia,<br />

dall’amore reciproco e dall’amore di patria; una disciplina più forte, appunto perché<br />

interiore, della disciplina meccanica e servile dei Tedeschi» sicché «era agevole<br />

intendere, vivendo fra loro, perché quella, e non questa, avesse da ultimo prevalso»<br />

Levi insisterà sempre su questa differenza, sia pure idealizzandola un po’, e si rifiuterà<br />

di equiparare i Gulag, dove la morte era solo un «sottoprodotto», ai campi di<br />

sterminio dove essa era lo scopo principale del processo industriale. La babele sotto<br />

il segno russo è quindi variopinta e contraddittoria, ma tutto sommato inoffensiva e<br />

spesso allegra: un’ottima fonte di riflessioni per un uomo così curioso dell’umana<br />

161


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

natura. Il problema della difficoltà di comunicare esiste più che mai ma viene per lo<br />

più superato con disinvoltura e sfoggio di arti mimetiche, senza la terribile angoscia<br />

che questo problema comportava nel Lage rtutt’al più con imprevisti dovuti al<br />

carattere russo. Un soldato tenta di insegnare a Levi il russo e insoddisfatto dei<br />

risultati si lancia contro di lui con la baionetta, ma alla sua paura ride e gli dice la<br />

parola russa per baionetta. Oppure il marinaio che racconta gesticolando le sue<br />

imprese belliche e si riscalda tanto da mettere in pericolo l’incolumità dei presenti.<br />

O il delizioso capitolo in cui Primo e Cesare in piena notte raggiungono un villaggio<br />

per comprare un pollastro e per l’ostacolo della lingua ci riescono solo quando<br />

Primo si decide a tracciare per terra l’immagine di una gallina .<br />

In questa atmosfera in cui ciascuno è al minimo una macchietta, prosperano le<br />

grosse personalità nel bene e nel male, o più spesso al di là del bene e del male: il<br />

ragionier Rovi, innamorato del potere; il medico Gottlieb; il Moro di Verona,<br />

vecchio e cupo bestemmiatore; Cesare, che porta in giro la mentalità e le astuzie del<br />

ghetto romano; infine il Greco, Mordo Nahum, tetro e infallibile rappresentante<br />

della volontà di sopravvivere, e molti altri. Questa galleria di personaggi a tutto<br />

tondo e l’aneddotica che ne risulta hanno fatto spesso parlare di romanzo picaresco,<br />

in parte a buon diritto. Tuttavia la differenza essenziale è che nel romanzo picaresco<br />

l’io narrante è anche il protagonista, mentre Primo è piuttosto spettatore. Pronto a<br />

intervenire nelle imprese anche più folli ogni volta che ci vuole perseveranza e<br />

spirito d’iniziativa individuale (come nella ricerca della gallinella o «curizetta»), la<br />

sua etica borghese lo rende impermeabile alle esaltazioni collettive e gli fa rifiutare<br />

con sdegno le «creature bianche e rosee» di cui il Greco si era improvvisato<br />

magnaccia e che gli offre per amicizia. Assiste alle storie «de baulte graisse» e le<br />

racconta, ma non le vive. Del resto l’espressione rabelaisiana salta fuori a proposito<br />

del rimpatrio di Cesare, che Levi rimanda ad altra occasione, quando Cesare gliene<br />

darà il permesso. E la storia viene puntualmente raccontata più tardi e non è poi<br />

tanto «de baulte graisse», anzi è velata dall’ombra del fallimento, dall’onta del<br />

truffatore truffato.<br />

La funzione di spettatore che Levi assume nelle storie «de baulte graisse» non<br />

è infatti fondata solo sul suo individualismo e moralismo, ma altresì sulla sua<br />

incapacità di lasciarsi andare al presente, come Cesare o altri personaggi; alla<br />

consapevolezza che si tratta appunto di una tregua e che la vergogna del passato era<br />

inestinguibile. La tregua comincia con la pagina indimenticabile dell’ingresso nel<br />

campo dei quattro soldati russi, « oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno,<br />

che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo», stato<br />

d’animo simile alla certezza dei prigionieri della «natura insanabile dell’offesa». E<br />

come motto il libro ha la poesia “Alzarsi” in cui il vecchio sogno del Lager di<br />

tornare e raccontare, interrotto dall’ordine di alzarsi, si trasforma nell’incubo di<br />

tornare alla stessa situazione, incubo poi raccontato analiticamente nella stupenda<br />

pagina che chiude il libro, in cui esso appare come la lenta decostruzione<br />

dell’ambiente familiare ritrovato nel caos del Lager. D’altra parte questa è solo la<br />

cornice del libro, che nell’insieme è sereno se pur non partecipe; una tregua, si, ma<br />

anche una vacanza in cui l’autore è liberato dall’orrore del Lager e non è ancora<br />

162


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

ripreso dalla tristezza del dovere quotidiano che nonostante la gioia del rimpatrio lo<br />

opprimerà ogni lunedì (si veda la poesia così intitolata). Tra il lavoro forzato e il<br />

lavoro accettato e convinto, ma faticoso e rischioso, Levi si concede una pausa in cui<br />

non è più necessaria la tensione morale che ha segnato tutta la sua vita.<br />

Per il momento, nonostante i sogni angosciosi, crede almeno di sapere che la<br />

guerra è finita. E il Greco, nel suo spietato realismo, a disingannarlo, affermando<br />

«memorabilmente»:<br />

«Guerra è sempre» Entrambi erano stati in Lager: «io lo avevo percepito come<br />

un mostruoso stravolgimento, una anomalia laida della mia storia e della storia del<br />

mondo; lui, come una triste conferma di cose notorie» Questa saggezza è sospetta, è<br />

quella di un commerciante discendente di commercianti, e per la classe mercantile<br />

Levi, artigiano della chimica e poi della penna, cresciuto nell’avversione per gli<br />

strani riti del fondaco del nonno, non ha simpatia, il loro non gli sembra vero lavoro.<br />

«È un mestiere che tende a distruggere l’anima immortale; ci sono stati filosofi<br />

cortigiani, filosofi pulitori di lenti, perfino filosofi ingegneri e strateghi, ma nessun<br />

filosofo, che io sappia, era grossista o bottegaio» Certo in Mordo Nahum il<br />

commerciante sfuma ancora nell’avventuriero, nel filibustiere e nel contrabbandiere,<br />

e quindi egli può derogare alla norma ed essere filosofo, anzi un filosofo così<br />

persuasivo nel suo cinismo che da allora Levi oscillerà sempre tra la sua verità e la<br />

propria. Gli sviluppi del dopoguerra, peraltro, avevano profondamente modificato<br />

gli orizzonti entro i quali era nata la millenaria verità di Nahum, in modo di cui il<br />

Greco non poteva avere un’idea. Sarà con queste nuove prospettive che Levi dovrà<br />

fare i conti. Per dirla con Pier Vincenzo Mengaldo egli «restò sempre diviso tra due<br />

interpretazioni della follia nazista: come episodio orribile, si, ma circoscritto e concluso,<br />

della storia moderna, o invece come risultato conseguente delle tendenze del<br />

mondo contemporaneo, tra sviluppo vertiginoso della tecnica e vocazione totalitaria<br />

del potere, e su questa forcella continuò a interrogarsi sino all’ultimo». Il suo<br />

fondamentale ottimismo lo spingeva nella prima direzione, la sua lucidità nella<br />

seconda, e lo scienziato poteva fornire buoni argomenti per entrambe le tesi.<br />

Recensiva con preoccupazione Il destino della terra di Jonathan Schelì terminando<br />

l’articolo con la constatazione che «non siamo una specie stupida», come<br />

documentano le scoperte scientifiche, e quindi riusciremo a far pervenire ai potenti<br />

la voce della ragione. E poco dopo: «l’avvenire dell’umanità è incerto e la qualità<br />

della vita peggiora; eppure io credo che quanto si va scoprendo sull’infinitamente<br />

grande e l’infinitamente piccolo sia sufficiente ad assolvere questa fine di secolo e di<br />

millennio». L’ambiguità della scienza, che lavora sia per il bene che per il male, egli<br />

pensava di chiarirla proponendo una specie di giuramento ippocratico per gli<br />

scienziati affinché non si prestino a diventare «apprendisti stregoni». Ma non poneva<br />

né voleva porre in questione la scienza in quanto tale. Approvava la scelta di Peter<br />

Hagelstein, «padre» dello scudo stellare, che aveva abbandonato queste ricerche per<br />

occuparsi di applicazioni mediche dei laser, ma disapprovava quella di Martin Ryle,<br />

esperto di radar passato alla radioastronomia, che credeva innocua mentre serve alla<br />

missilistica, e allora aveva lanciato il messaggio radicale « stop science now». Se gli<br />

obbedissimo e abbandonassimo la ricerca di base, secondo Levi «tradiremmo la<br />

163


Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />

nostra natura e la nostra nobiltà di fuscelli pensanti, e la specie umana non avrebbe<br />

più motivo di esistere». Ma è proprio così? Non c’è altro modo di pensare al di fuori<br />

della scienza moderna? I suoi personaggi popolani, veri o fittizi, erano più radicali,<br />

meno ottimisti: «... il mondo è fuori quadro, - proclamava nel suo caratteristico stile<br />

il montatore Faussone, che voleva tutto ben squadrato, - anche se adesso andiamo<br />

sulla luna, ed è sempre stato fuori quadro, e non lo raddrizza nessuno». E Lorenzo, il<br />

muratore italiano che ad Auschwitz aveva aiutato lui e tanti altri, dopo il ritorno si<br />

lascia andare e muore. «Il mondo lo aveva visto, non gli piaceva, lo sentiva andare<br />

in rovina; vivere non gli interessava piu»<br />

Sembra che un giorno anche Primo Levi sia arrivato a questa conclusione.<br />

164

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