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Primo Levi<br />
I sommersi e i salvati<br />
Einaudi tascabili<br />
© 1986 e 1991 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino<br />
Prima edizione «Gli struzzi» 1986
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Il primo libro di Primo Levi, Se questo è un uomo, uscì nel 1947 in<br />
2.500 copie presso l’editore De Silva di Torino. Ebbe una buona<br />
accoglienza da parte della critica, e Italo Calvino lo definì sull’«Unità»:<br />
«Un magnifico libro, che non è solo una testimonianza efficacissima, ma<br />
ha pagine di autentica potenza narrativa». Ma la vendita andò a rilento, e<br />
l’alluvione di Firenze nel 1966 fece in tempo ad annegarne le ultime 600<br />
copie tenacemente resistenti in un deposito di libri invenduti. Intanto,<br />
però, l’editore Einaudi aveva ripubblicato nel 1957 Se questo è un uomo<br />
nella collana dei «Saggi», e, in quell’occasione, Arrigo Cacumi aveva<br />
definito Primo Levi su «La Stampa»: «pittore stupendo senz’ombra di<br />
retorica o di declamazione».<br />
«Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944»,<br />
si può leggere nella prefazione del 1947 a Se questo è un uomo, «e cioè<br />
dopo che il governo tedesco, causa la crescente scarsità di mano d’opera,<br />
aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi,<br />
concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo<br />
temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli. Perciò questo mio<br />
libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai<br />
noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di<br />
distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di<br />
accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni<br />
aspetti dell’animo umano...»<br />
Nonostante la difficoltosa partenza, Se questo è un uomo ha<br />
conosciuto un grande consenso di pubblico. Edizioni su edizioni<br />
italiane, traduzioni in otto o nove lingue, tedesco compreso,<br />
adattamenti per la radio e per il teatro in Italia e all’estero. Ma nel<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
1986 Primo Levi ha voluto riprender l’argomento in questo I<br />
sommersi e i salvati pubblicato da Einaudi nella collana «Gli struzzi»,<br />
motivando la sua decisione con la solita appassionata e appassionante<br />
chiarezza. Proprio perché superstite, Primo Levi ha affermato di non<br />
considerarsi un testimone. Questa è la nozione scomoda di cui ha<br />
preso conoscenza negli anni passati dopo l’uscita di Se questo è un<br />
uomo, leggendo le memorie altrui e rileggendo le sue.<br />
I sopravvissuti sono una minoranza anomala oltre che esigua,<br />
quelli che per loro prevaricazione, abilità o fortuna, non hanno toccato<br />
il fondo: i salvati, insomma. Chi, il fondo, lo ha toccato davvero, i<br />
testimoni integrali, la cui deposizione avrebbe avuto significato<br />
generale, sono scomparsi: i sommersi, appunto. La regola è quella dei<br />
sommersi, quella dei salvati l’eccezione. E ai salvati spetta, quindi, il<br />
compito di raccontare e analizzare, oltre alla loro esperienza,<br />
l’esperienza degli altri, dei sommersi, sebbene sia un discorso in conto<br />
terzi e in chi racconta e analizza per delega non data diventi spesso<br />
persino troppo brutale la consapevolezza che i sommersi, anche se<br />
avessero avuto a disposizione carta e penna, non avrebbero<br />
ugualmente testimoniato, poiché la loro morte era cominciata prima di<br />
quella corporale.<br />
E chi racconta e analizza oggi ha un’altra consapevolezza,<br />
altrettanto, se non maggiormente, brutale:<br />
«L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager<br />
nazisti è estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più<br />
estranea si va facendo man mano che passano gli anni. Per i giovani<br />
degli anni Cinquanta e Sessanta erano cose dei loro padri; se ne<br />
parlava in famiglia, i ricordi conservavano ancora la freschezza delle<br />
cose viste. Per i giovani degli anni<br />
Ottanta, sono cose dei loro nonni: lontane, sfumate, “storiche”.<br />
Essi sono assillati dai problemi d’oggi, diversi, urgenti: la minaccia<br />
nucleare, l’esplosione demografica, le tecnologie che si rinnovano<br />
freneticamente e a cui occorre adattarci... » I sommersi e i salvati, un<br />
libro contro l’oblio, è uscito, come s’è detto, nel 1986. L’11 aprile<br />
1987 Primo Levi si è ucciso nella sua Torino, a sessantotto anni.<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
I sommersi e i salvati<br />
Since then, at an uncertain hour,<br />
That agony returns:<br />
And till my ghastly tale is told<br />
This heart within me burns.<br />
S.T. Coleridge,<br />
The Rime o! the Ancien tMariner,<br />
vv. 582-85.<br />
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Prefazione<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Le prime notizie sui campi d’annientamento nazisti hanno<br />
cominciato a diffondersi nell’anno cruciale 1942. Erano notizie vaghe,<br />
tuttavia fra loro concordi: delineavano una strage di proporzioni così<br />
vaste, di una crudeltà così spinta, di motivazioni così intricate, che il<br />
pubblico tendeva a rifiutarle per la loro stessa enormità. È significativo<br />
come questo rifiuto fosse stato previsto con ampio anticipo<br />
dagli stessi colpevoli; molti sopravvissuti (tra gli altri, Simon<br />
Wiesenthal nelle ultime pagine di Gli assassini sono fra noi, Garzanti,<br />
Milano 1970) ricordano che i militi delle SS si divertivano ad ammonire<br />
cinicamente i prigionieri: «In qualunque modo questa guerra finisca, la<br />
guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per<br />
portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non<br />
gli crederà. Forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma<br />
non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove insieme con<br />
voi. E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi<br />
sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo<br />
mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della<br />
propaganda alleata, e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi.<br />
La storia dei Lager, saremo noi a dettarla».<br />
Curiosamente, questo stesso pensiero (« se anche raccontassimo,<br />
non saremmo creduti») affiorava in forma di sogno notturno dalla<br />
disperazione dei prigionieri. Quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro<br />
memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di<br />
prigionia, vario nei particolari ma unico nella sostanza: di essere<br />
tornati a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
passate rivolgendosi ad una persona cara, e di non essere creduti, anzi,<br />
neppure ascoltati. Nella forma più tipica (e più crudele), l’interlocutore<br />
si voltava e se ne andava in silenzio. É questo un tema su cui<br />
ritorneremo, ma fin da adesso è importante sottolineare come<br />
entrambe le parti, le vittime e gli oppressori, avessero viva la<br />
consapevolezza dell’enormità, e quindi della non credibilità, di quanto<br />
avveniva nei Lager: e, possiamo aggiungere qui, non solo nei Lager,<br />
ma nei ghetti, nelle retrovie del fronte orientale, nelle stazioni di<br />
polizia, negli asili per i minorati mentali.<br />
Fortunatamente le cose non sono andate come le vittime<br />
temevano e come i nazisti speravano. Anche la più perfetta delle<br />
organizzazioni presenta lacune, e la Germania di Hitler, soprattutto<br />
negli ultimi mesi prima del crollo, era lontana dall’essere una<br />
macchina perfetta. Molte delle prove materiali degli stermini di massa<br />
furono soppresse, o si cercò più o meno abilmente di sopprimerle:<br />
nell’autunno del 1944 i nazisti fecero saltare le camere a gas e i<br />
crematori di Auschwitz, ma le rovine ci sono ancora, e a dispetto delle<br />
contorsioni degli epigoni è difficile giustificarne la funzione<br />
ricorrendo ad ipotesi fantasiose. Il ghetto di Varsavia, dopo la famosa<br />
insurrezione della primavera del 1943, fu raso al suolo, ma la cura<br />
sovrumana di alcuni combattenti-storici (storici di se stessi!) fece si<br />
che, tra le macerie spesse molti metri, o contrabbandata al di là del<br />
muro, altri storici ritrovassero la testimonianza di come, giorno per<br />
giorno, quel ghetto sia vissuto e sia morto. Tutti gli archivi dei Lager<br />
sono stati bruciati negli ultimi giorni di guerra, e questa è stata<br />
veramente una perdita irrimediabile, tanto che ancora oggi si discute<br />
se le vittime siano state quattro o sei od otto milioni: ma sempre di<br />
milioni si parla. Prima che i nazisti facessero ricorso ai giganteschi<br />
crematori multipli, gli innumerevoli cadaveri stessi delle vittime,<br />
uccise deliberatamente o consumate dagli stenti e dalle malattie,<br />
potevano costituire una prova, e dovevano essere fatti sparire in<br />
qualche modo. La prima soluzione, macabra al punto da fare esitare a<br />
parlarne, era stata quella di accatastare semplicemente i corpi,<br />
centinaia di migliaia di corpi, in grandi fosse comuni, il che fu fatto<br />
segnatamente a Treblinka, in altri Lager minori, e nelle retrovie russe.<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Era una soluzione provvisoria, presa con bestiale noncuranza quando<br />
le armate tedesche trionfavano su tutti i fronti e la vittoria finale<br />
sembrava certa: dopo si sarebbe visto che cosa fare, in ogni modo il<br />
vincitore è padrone anche della verità, la può manipolare come gli<br />
pare, in qualche modo le fosse comuni sarebbero state giustificate, o<br />
fatte sparire, o attribuite ai sovietici (che del resto dimostrarono a<br />
Katyn di non essere molto da meno). Ma dopo la svolta di Stalingrado<br />
ci fu un ripensamento: meglio cancellare subito tutto. Gli stessi<br />
prigionieri furono costretti a disseppellire quei resti miserandi ed a<br />
bruciarli su roghi all’aperto, come se un’operazione di queste<br />
proporzioni, e così inconsueta, potesse passare totalmente inosservata.<br />
I comandi SS ed i servizi di sicurezza posero poi la massima cura<br />
affinché nessun testimone sopravvivesse. È questo il senso (difficilmente<br />
se ne potrebbe escogitare un altro) dei trasferimenti micidiali,<br />
ed apparentemente folli, con cui si è chiusa la storia dei campi nazisti<br />
nei primi mesi del 1945: i superstiti di Majdanek ad Auschwitz, quelli<br />
di Auschwitz a Buchenwald ed a Mauthausen, quelli di Buchenwald a<br />
Bergen Belsen, le donne di Ravensbrück verso Schwerin. Tutti<br />
insomma dovevano essere sottratti alla liberazione, rideportati verso il<br />
cuore della Germania invasa da est e da ovest; non aveva importanza<br />
che morissero per via, importava che non raccontassero. Infatti, dopo<br />
aver funzionato come centri di terrore politico, poi come fabbriche<br />
della morte, e successivamente (o contemporaneamente) come sterminato<br />
serbatoio di mano d’opera schiava sempre rinnovata, i Lager<br />
erano diventati pericolosi per la Germania moribonda perché<br />
contenevano il segreto dei Lager stessi, il massimo crimine nella storia<br />
dell’umanità. L’esercito di larve che ancora vi vegetava era costituito<br />
da Geheimnistrdger, portatori di segreti, di cui era necessario liberarsi;<br />
distrutti ormai gli impianti di sterminio, a loro volta eloquenti, si<br />
scelse la via di trasferirli verso l’interno, nella speranza assurda di<br />
poterli ancora rinchiudere in Lager meno minacciati dai fronti<br />
avanzanti, e di sfruttarne le ultime capacità lavorative, e nell’altra<br />
speranza meno assurda che il tormento di quelle bibliche marce ne<br />
riducesse il numero. Ed infatti il numero fu spaventosamente ridotto,<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
ma qualcuno ha pure avuto la fortuna e la forza di sopravvivere, ed è<br />
rimasto per testimoniare.<br />
É meno noto e meno studiato il fatto che molti portatori di segreti<br />
si trovavano anche dall’altra parte, dalla parte degli oppressori, benché<br />
molti sapessero poco, e pochi sapessero tutto. Nessuno riuscirà mai a<br />
stabilire con precisione quanti, nell’apparato nazista, non potessero non<br />
sapere delle spaventose atrocità che venivano commesse; quanti<br />
sapessero qualcosa, ma fossero in grado di fingere d’ignorare; quanti<br />
ancora avessero avuto la possibilità di sapere tutto, ma abbiano scelto la<br />
via più prudente di tenere occhi ed orecchi (e soprattutto la bocca) ben<br />
chiusi. Comunque sia, poiché non si può supporre che la maggioranza<br />
dei tedeschi accettasse a cuor leggero la strage, è certo che la mancata<br />
diffusione della verità sui Lager costituisce una delle maggiori colpe<br />
collettive del popolo tedesco, e la più aperta dimostrazione della viltà a<br />
cui il terrore hitleriano lo aveva ridotto: una viltà entrata nel costume, e<br />
così profonda da trattenere i mariti dal raccontare alle mogli, i genitori<br />
ai figli; senza la quale, ai maggiori eccessi non si sarebbe giunti, e l’Europa<br />
ed il mondo oggi sarebbero diversi.<br />
Senza dubbio, coloro che conoscevano l’orribile verità per<br />
esserne (o esserne stati) responsabili avevano forti ragioni per tacere;<br />
ma, in quanto depositari del segreto, anche tacendo non avevano<br />
sempre la vita sicura. Lo dimostra il caso di Stangl e degli altri<br />
macellai di Treblinka, che dopo l’insurrezione e lo smantellamento di<br />
quel Lager furono trasferiti in una delle zone partigiane più pericolose.<br />
L’ignoranza voluta e la paura hanno fatto tacere anche molti<br />
potenziali testimoni «civili» delle infamie dei Lager. Specialmente negli<br />
ultimi anni di guerra, i Lager costituivano un sistema esteso, complesso, e<br />
profondamente compenetrato con la vita quotidiana del paese; si è parlato<br />
con ragione di «univers concentrationnaire», ma non era un universo<br />
chiuso. Società industriali grandi e piccole, aziende agricole, fabbriche<br />
di armamenti, traevano profitto dalla mano d’opera pressoché gratuita<br />
fornita dai campi. Alcune sfruttavano i prigionieri senza pietà,<br />
accettando il principio disumano (ed anche stupido) delle SS, secondo<br />
cui un prigioniero ne valeva un altro, e se moriva di fatica poteva<br />
essere immediatamente sostituito; altre, poche, cercavano cautamente<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
di alleviarne le pene. Altre industrie, o magari le stesse, ricavavano<br />
profitti dalle forniture ai Lager medesimi: legname, materiali per<br />
costruzione, il tessuto per l’uniforme a righe dei prigionieri, i vegetali<br />
essiccati per la zuppa, eccetera. Gli stessi forni crematori multipli<br />
erano stati progettati, costruiti, montati e collaudati da una ditta tedesca,<br />
la Topf di Wiesbaden (era tuttora attiva fin verso il 1975:<br />
costruiva crematori per uso civile, e non aveva ritenuto opportuno<br />
apportare mutamenti alla sua ragione sociale). É difficile pensare che<br />
il personale di queste imprese non si rendesse conto del significato<br />
espresso dalla qualità o dalla quantità delle merci e degli impianti che<br />
venivano commissionati dai comandi SS. Lo stesso discorso si può<br />
fare, ed è stato fatto, per quanto riguarda la fornitura del veleno che fu<br />
impiegato nelle camere a gas di Auschwitz: il prodotto,<br />
sostanzialmente acido cianidrico, era usato già da molti anni per la<br />
disinfestazione delle stive, ma il brusco aumento delle ordinazioni a<br />
partire dal 1942 non poteva passare inosservato. Doveva far nascere<br />
dubbi, e certamente li fece nascere, ma essi furono soffocati dalla<br />
paura, dal desiderio di guadagno, dalla cecità e stupidità volontaria a<br />
cui abbiamo accennato, ed in alcuni casi (proba-bilmente pochi) dalla<br />
fanatica obbedienza nazista.<br />
È naturale ed ovvio che il materiale più consistente per la<br />
ricostruzione della verità sui campi sia costituito dalle memorie dei<br />
superstiti. Al di là della pietà e dell’indignazione che suscitano, esse<br />
vanno lette con occhio critico. Per una conoscenza dei Lager, i Lager<br />
stessi non erano sempre un buon osservatorio: nelle condizioni disumane<br />
a cui erano assoggettati, era raro che i prigionieri potessero<br />
acquisire una visione d’insieme del loro universo. Poteva accadere,<br />
soprattutto per coloro che non capivano il tedesco, che i prigionieri<br />
non sapessero neppure in quale punto d’Europa si trovasse il Lager in<br />
cui stavano, ed in cui erano arrivati dopo un viaggio massacrante e<br />
tortuoso in vagoni sigillati. Non conoscevano l’esistenza di altri<br />
Lager, magari a pochi chilometri di distanza. Non sapevano per chi<br />
lavoravano. Non comprendevano il significato di certi improvvisi<br />
mutamenti di condi-zione e dei trasferimenti in massa. Circondato<br />
dalla morte, spesso il depor-tato non era in grado di valutare la misura<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
della strage che si svolgeva sotto i suoi occhi. Il compagno che oggi<br />
aveva lavorato al suo fianco, domani non c’era più: poteva essere nella<br />
baracca accanto, o cancellato dal mondo; non c’era modo di saperlo.<br />
Si sentiva insomma dominato da un enorme edificio di violenza e di<br />
minaccia, ma non poteva costruirsene una rappresentazione perché i<br />
suoi occhi erano legati al suolo dal bisogno di tutti i minuti.<br />
Da questa carenza sono state condizionate le testimonianze,<br />
verbali o scritte, dei prigionieri «normali», dei non privilegiati, di<br />
quelli cioè che costituivano il nerbo dei campi, e che sono scampati<br />
alla morte solo per una combinazione di eventi improbabili. Erano<br />
maggioranza in Lager, ma esigua minoranza tra i sopravvissuti: fra<br />
questi, sono molto più numerosi coloro che in prigionia hanno fruito<br />
di un qualche privilegio. A distanza di anni, si può oggi bene<br />
affermare che la storia dei Lager è stata scritta quasi esclusivamente<br />
da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo. Chi lo ha fatto<br />
non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione era paralizzata<br />
dalla sofferenza e dall’incomprensione.<br />
D’altra parte, i testimoni «privilegiati» disponevano di un<br />
osservatorio certamente migliore, se non altro perché era situato più in<br />
alto, e quindi dominava un orizzonte più esteso; però era anche falsato<br />
in maggiore o minor misura dal privilegio medesimo. Il discorso sul<br />
privilegio (non solo in Lager!) è delicato, e cercherò di svolgerlo più<br />
oltre con la massima obiettività consentita: accennerò qui solo al fatto<br />
che i privilegiati per eccellenza, coloro cioè che si sono acquistato il<br />
privilegio asservendosi all’autorità del campo, non hanno testimoniato<br />
affatto, per ovvi motivi, oppure hanno lasciato testimonianze lacunose<br />
o distorte o totalmente false. I migliori storici dei Lager sono dunque<br />
emersi fra i pochissimi che hanno avuto l’abilità e la fortuna di<br />
raggiungere un osservatorio privilegiato senza piegarsi a compromessi,<br />
e la capacità di raccontare quanto hanno visto, sofferto e fatto<br />
con l’umiltà del buon cronista, ossia tenendo conto della complessità<br />
del fenomeno Lager, e della varietà dei destini umani che vi si<br />
svolgevano. Era nella logica delle cose che questi storici fossero quasi<br />
tutti prigionieri politici: e ciò perché i Lager erano un fenomeno<br />
politico; perché i politici, molto più degli ebrei e dei criminali (erano<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
queste, come è noto, le tre categorie principali di prigionieri),<br />
potevano disporre di uno sfondo culturale che consentiva loro di<br />
interpretare i fatti a cui assistevano; perché, proprio in quanto ex<br />
combattenti, o tuttora combattenti antifascisti, si rendevano conto che<br />
una testimonianza era un atto di guerra contro il fascismo; perché<br />
avevano più facile accesso ai dati statistici; ed infine, perché spesso,<br />
oltre a rivestire in Lager cariche importanti, erano membri delle<br />
organizzazioni segrete di difesa. Almeno negli ultimi anni, le loro<br />
condizioni di vita erano tollerabili, tanto da permettere loro, ad<br />
esempio, di scrivere e conservare appunti; cosa che per gli ebrei non<br />
era pensabile, e che i criminali non avevano interesse a fare.<br />
Per tutti i motivi accennati qui, la verità sui Lager è venuta alla<br />
luce attraverso una strada lunga ed una porta stretta, e molti aspetti<br />
dell’universo concentrazionario non sono ancora stati approfonditi.<br />
Sono trascorsi ormai più di quarant’anni dalla liberazione dei Lager<br />
nazisti; questo rispettabile intervallo ha portato, ai fini della<br />
chiarificazione, ad effetti contrastanti, che cercherò di elencare.<br />
C’è stata, in primo luogo, la decantazione, processo desiderabile e<br />
normale, grazie al quale i fatti storici acquistano il loro chiaroscuro e la<br />
loro prospettiva solo a qualche decennio dalla loro conclusione. Alla<br />
fine della seconda guerra mondiale, i dati quantitativi sulle deportazioni<br />
e sui massacri nazisti, in Lager ed altrove, non erano acquisiti, né era<br />
facile intenderne la portata e la specificità. Solo da pochi anni si sta<br />
comprendendo che la strage nazista è stata tremendamente «esemplare»,<br />
e che, se altro di peggio non avverrà nei prossimi anni, essa sarà<br />
ricordata come il fatto centrale, come la macchia di questo secolo.<br />
Per contro, il trascorrere del tempo sta provocando altri effetti<br />
storicamente negativi. La maggior parte dei testimoni, di difesa e di<br />
accusa, sono ormai scomparsi, e quelli che rimangono, e che ancora<br />
(superando i loro rimorsi, o rispettivamente le loro ferite) acconsen-tono<br />
a testimoniare, dispongono di ricordi sempre più sfuocati e stilizzati;<br />
spesso, a loro insaputa, influenzati da notizie che essi hanno appreso più<br />
tardi, da letture o da racconti altrui. In alcuni casi, naturalmente, la<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
smemoratezza è simulata, ma i molti anni trascorsi la rendono credibile,<br />
anche in giudizio: i «non so» o «non sapevo», detti oggi da molti<br />
tedeschi, non scandalizzano più, mentre scandalizzavano, o avrebbero<br />
dovuto scandalizzare, quando i fatti erano recenti.<br />
Di un’altra stilizzazione siamo responsabili noi stessi, noi reduci,<br />
o più precisamente quelli fra noi che hanno accettato di vivere la loro<br />
condizione di reduci nel modo più semplice e meno critico. Non è<br />
detto che le cerimonie e le celebrazioni, i monumenti e le bandiere,<br />
siano sempre e dappertutto da deplorare. Una certa dose di retorica è<br />
forse indispensabile affinché il ricordo duri. Che i sepolcri, «l’urne de’<br />
forti», accendano gli animi a egregie cose, o almeno conservino<br />
memoria delle imprese compiute, era vero ai tempi del Foscolo ed è<br />
vero ancor oggi; ma bisogna stare in guardia dalle semplificazioni<br />
eccessive. Ogni vittima è da piangere, ed ogni reduce è da aiutare e<br />
commiserare, ma non tutti i loro comportamenti sono da proporre ad<br />
esempio. L’interno dei Lager era un microcosmo intricato e<br />
stratificato; la «zona grigia» di cui parlerò più oltre, quella dei<br />
prigionieri che in qualche misura, magari a fin di bene, hanno<br />
collaborato con l’autorità, non era sottile, anzi costituiva un fenomeno<br />
di fondamentale importanza per lo storico, lo psicologo ed il<br />
sociologo. Non c’è prigioniero che non lo ricordi, e che non ricordi il<br />
suo stupore di allora: le prime minacce, i primi insulti, i primi colpi<br />
non venivano dalle SS, ma da altri prigionieri, da «colleghi», da quei<br />
misteriosi personaggi che pure vestivano la stessa tunica a zebra che<br />
loro, i nuovi arrivati, avevano appena indossata.<br />
Questo libro intende contribuire a chiarire alcuni aspetti del<br />
fenomeno Lager che ancora appaiono oscuri. Si propone anche un fine<br />
più ambizioso; vorrebbe rispondere alla domanda più urgente, alla<br />
domanda che angoscia tutti coloro che hanno avuto occasione di<br />
leggere i nostri racconti: quanto del mondo concentrazionario è morto<br />
e non ritornerà più, come la schiavitù ed il codice dei duelli? quanto è<br />
tornato o sta tornando? che cosa può fare ognuno di noi, perché in<br />
questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga<br />
vanificata?<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Non ho avuto intenzione, né sarei stato capace, di fare opera di<br />
storico, cioè di esaminare esaustivamente le fonti. Mi sono limitato<br />
quasi esclusivamente ai Lager nazionalsocialisti, perché solo di questi<br />
ho avuto esperienza diretta: ne ho avuto anche una copiosa esperienza<br />
indiretta, attraverso i libri letti, i racconti ascoltati, e gli incontri con i<br />
lettori dei miei primi due libri. Inoltre, fino al momento in cui scrivo, e<br />
nonostante l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, la vergogna dei Gulag,<br />
l’inutile e sanguinosa campagna del Vietnam, l’autogenocidio cambogiano,<br />
gli scomparsi in Argentina, e le molte guerre atroci e stupide<br />
a cui abbiamo in seguito assistito, il sistema concentrazionario nazista<br />
rimane tuttavia un unicum, sia come mole sia come qualità. In nessun<br />
altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e<br />
così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve<br />
tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di<br />
fanatismo e di crudeltà. Nessuno assolve i conquistadores spagnoli dei<br />
massacri da loro perpetrati in America per tutto il sedicesimo secolo.<br />
Pare che abbiano provocato la morte di almeno 60 milioni di indios;<br />
ma agivano in proprio, senza o contro le direttive del loro governo; e<br />
diluirono i loro misfatti, in verità assai poco «pianificati», su un arco<br />
di più di cento anni; e furono aiutati dalle epidemie che involontariamente<br />
si portarono dietro. Ed infine, non avevamo cercato di liberarcene,<br />
sentenziando che erano «cose di altri tempi»?<br />
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I<br />
La memoria dell’offesa<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. E<br />
questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a<br />
chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda,<br />
o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono<br />
incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma<br />
spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando<br />
lineamenti estranei. Lo sanno bene i magistrati: non avviene quasi mai<br />
che due testimoni oculari dello stesso fatto lo descrivano allo stesso<br />
modo e con le stesse parole, anche se il fatto è recente, e se nessuno<br />
dei due ha un interesse personale a deformarlo. Questa scarsa<br />
affidabilità dei nostri ricordi sarà spiegata in modo soddisfacente solo<br />
quando sapremo in quale linguaggio, in quale alfabeto essi sono<br />
scritti, su quale materiale, con quale penna: a tutt’oggi, è questa una<br />
meta da cui siamo lontani. Si conoscono alcuni meccanismi che<br />
falsificano la memoria in condizioni particolari: i traumi, non solo<br />
quelli cerebrali; l’interferenza da parte di altri ricordi «concorrenziali»;<br />
stati abnormi della coscienza; repressioni; rimozioni. Tuttavia, anche<br />
in condizioni normali è all’opera una lenta degradazione, un<br />
offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui<br />
pochi ricordi resistono. É probabile che si possa riconoscere qui una<br />
delle grandi forze della natura, quella stessa che degrada l’ordine in<br />
disordine, la giovinezza in vecchiaia, e spegne la vita nella morte. É<br />
certo che l’esercizio (in questo caso, la frequente rievocazione)<br />
mantiene il ricordo fresco e vivo, allo stesso modo come si mantiene<br />
14
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
efficiente un muscolo che viene spesso esercitato; ma è anche vero<br />
che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di<br />
racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata<br />
dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al<br />
posto del ricordo greggio e cresce a sue spese.<br />
Intendo esaminare qui i ricordi di esperienze estreme, di offese<br />
subite o inflitte. In questo caso sono all’opera tutti o quasi i fattori che<br />
possono obliterare o deformare la registrazione mnemonica: il ricordo<br />
di un trauma, patito o inflitto, è esso stesso traumatico, perché richiamarlo<br />
duole o almeno disturba: chi è stato ferito tende a rimuovere il<br />
ricordo per non rinnovare il dolore; chi ha ferito ricaccia il ricordo nel<br />
profondo, per liberarsene, per alleggerire il suo senso di colpa.<br />
Qui, come in altri fenomeni, ci troviamo davanti ad una<br />
paradossale analogia tra vittima ed oppressore, e ci preme essere<br />
chiari: i due sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore, e solo lui,<br />
che l’ha approntata e che l’ha fatta scattare, e se ne soffre, è giusto che<br />
ne soffra; ed è iniquo che ne soffra la vittima, come invece ne soffre,<br />
anche a distanza di decenni. Ancora una volta si deve constatare, con<br />
lutto, che l’offesa è insanabile: si protrae nel tempo, e le Erinni, a cui<br />
bisogna pur credere, non travagliano solo il tormentatore (se pure lo<br />
travagliano, aiutate o no dalla punizione umana), ma perpetuano l’opera<br />
di questo negando la pace al tormentato. Non si leggono senza<br />
spavento le parole lasciate scritte da Jean Améry, il filosofo austriaco<br />
torturato dalla Gestapo perché attivo nella resistenza belga, e poi<br />
deportato ad Auschwitz perché ebreo:<br />
Chi è stato torturato rimane torturato. (...) Chi ha subito il tormento<br />
non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento<br />
non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo<br />
schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più.<br />
La tortura è stata per lui una interminabile morte: Améry, di cui<br />
riparlerò al capitolo sesto, si è ucciso nel 1978.<br />
Non vogliamo confusioni, freudismi spiccioli, morbosità,<br />
indulgenze. L’oppressore resta tale, e così la vittima: non sono<br />
intercambiabili, il primo è da punire e da esecrare (ma, se possibile, da<br />
15
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
capire), la seconda è da compiangere e da aiutare; ma entrambi,<br />
davanti all’indecenza del fatto che è stato irrevocabilmente commesso,<br />
hanno bisogno di rifugio e di difesa, e ne vanno istintivamente in<br />
cerca. Non tutti, ma i più; e spesso per tutta la loro vita.<br />
Disponiamo ormai di numerose confessioni, deposizioni,<br />
ammissioni da parte degli oppressori (non parlo solo dei<br />
nazionalsocialisti tedeschi, ma di tutti coloro che commettono delitti<br />
orrendi e multipli per obbedienza ad una disciplina): alcune rilasciate<br />
in giudizio, altre nel corso di interviste, altre ancora contenute in libri<br />
o memoriali. A mio parere, sono documenti di estrema importanza. In<br />
generale, interessano poco le descrizioni delle cose viste e degli atti<br />
compiuti: esse coincidono ampiamente con quanto è stato raccontato<br />
dalle vittime; assai raramente vengono contestate, sono passate in<br />
giudicato e fanno ormai parte della Storia. Spesso vengono date per<br />
note. Sono molto più importanti le motivazioni e le giustificazioni:<br />
perché lo hai fatto? Ti rendevi conto di commettere un delitto?<br />
Le risposte a queste due domande, o ad altre analoghe, sono<br />
molto simili fra loro, indipendentemente dalla personalità<br />
dell’interrogato, sia egli un professionista ambizioso ed intelligente<br />
come Speer, o un gelido fanatico come Eichmann, o un funzionario di<br />
vista corta come Stangl di Treblinka e Höss di Auschwitz, o un bruto<br />
ottuso come Boger e Kaduk inventori di torture. Espresse con<br />
formulazioni diverse, e con maggiore o minor protervia a seconda del<br />
livello mentale e culturale di chi parla, esse vengono a dire tutte<br />
sostanzialmente le stesse cose: l’ho fatto perché mi è stato comandato;<br />
altri (i miei superiori) hanno commesso azioni peggiori delle mie; data<br />
l’educazione che ho ricevuta, e l’ambiente in cui sono vissuto, non<br />
potevo fare altro; se non l’avessi fatto, l’avrebbe fatto con maggiore<br />
durezza un altro al mio posto. Per chi legge queste giustificazioni, il<br />
primo moto è di ribrezzo: costoro mentono, non possono credere di<br />
essere creduti, non possono non vedere lo squilibrio fra le loro scuse e<br />
la mole di dolore e di morte che essi hanno provocata. Mentono<br />
sapendo di mentire: sono in mala fede.<br />
Ora, chiunque abbia sufficiente esperienza delle cose umane sa<br />
che la distinzione (l’opposizione, direbbe un linguista) buona fede /<br />
16
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
mala fede è ottimistica ed illuministica, e lo è tanto più, ed a molto<br />
maggior ragione, se applicata a uomini come quelli appena nominati.<br />
Presuppone una chiarezza mentale che è di pochi, e che anche questi<br />
pochi perdono immediatamente quando, per qualsiasi motivo, la realtà<br />
passata o presente provoca in loro ansia o disagio. In queste<br />
condizioni c’è bensì chi mente consapevolmente falsificando a freddo<br />
la realtà stessa, ma sono più numerosi coloro che salpano le ancore, si<br />
allontanano, momentaneamente o per sempre, dai ricordi genuini, e si<br />
fabbricano una realtà di comodo. Il passato è loro di peso; provano<br />
ripugnanza per le cose fatte o subite, e tendono a sostituirle con altre.<br />
La sostituzione può incominciare in piena consapevolezza, con uno<br />
scenario inventato, mendace, restaurato, ma meno penoso di quello<br />
reale; ripetendone la descrizione, ad altri ma anche a se stessi, la<br />
distinzione fra vero e falso perde progressivamente i suoi contorni, e<br />
l’uomo finisce col credere pienamente al racconto che ha fatto così<br />
spesso e che ancora continua a fare, limandone e ritoccandone qua e là<br />
i dettagli meno credibili, o fra loro incongruenti, o incompatibili con il<br />
quadro degli eventi acquisiti: la mala fede iniziale è diventata buona<br />
fede. Il silenzioso trapasso dalla menzogna all’autoinganno è utile: chi<br />
mente in buona fede mente meglio, recita meglio la sua parte, viene<br />
creduto più facilmente dal giudice, dallo storico, dal lettore, dalla<br />
moglie, dai figli.<br />
Più si allontanano gli eventi, più si accresce e si perfeziona la<br />
costruzione della verità di comodo. Credo che solo attraverso questo<br />
meccanismo mentale si possano interpretare, ad esempio, le<br />
dichiarazioni fatte all’«Express» nel 1978 da Louis Darquier de<br />
Pellepoix, già commissario addetto alle questioni ebraiche presso il<br />
governo di Vichy intorno al 1942, e come tale responsabile in proprio<br />
della deportazione di 70.000 ebrei. Darquier nega tutto: le foto dei<br />
cumuli di cadaveri sono montaggi; le statistiche dei milioni di morti<br />
sono state fabbricate dagli ebrei, sempre avidi di pubblicità, di<br />
commiserazione e di indennizzi; le deportazioni ci saranno magari anche<br />
state (gli sarebbe stato difficile contestarle: la sua firma compare<br />
in calce a troppe lettere che dànno disposizioni per le deportazioni<br />
stesse, anche di bambini), ma lui non sapeva verso dove e con quale<br />
17
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
esito; ad Auschwitz le camere a gas c’erano sì, ma servivano solo per<br />
uccidere i pidocchi, e del resto (si noti la coerenza!) sono state<br />
costruite a scopo di propaganda dopo la fine della guerra. Non intendo<br />
giustificare quest’uomo vile e sciocco, e mi offende sapere che ha<br />
vissuto a lungo indisturbato in Spagna, ma mi pare di poter ravvisare<br />
in lui il caso tipico di chi, avvezzo a mentire pubblicamente, finisce<br />
col mentire anche in privato, anche a se stesso, e coll’edificarsi una<br />
verità confortevole che gli consente di vivere in pace. Tenere distinte<br />
la buona e la mala fede è costoso: richiede una profonda sincerità con<br />
sé stesso, esige uno sforzo continuo, intellettuale e morale. Come si<br />
può pretendere questo sforzo da uomini come Darquier?<br />
Se si leggono le dichiarazioni fatte da Eichmann durante il<br />
processo di Gerusalemme, e di Rudolf Höss (il penultimo comandante<br />
di Auschwitz, l’inventore delle camere ad acido cianidrico) nella sua<br />
autobiografia, vi si riconosce un processo di elaborazione del passato,<br />
più sottile di quello ora accennato. In sostanza, questi due si sono<br />
difesi nel modo classico dei gregari nazisti, o meglio di tutti i gregari:<br />
siamo stati educati all’obbedienza assoluta, alla gerarchia, al<br />
nazionalismo; siamo stati imbevuti di slogan, ubriacati di cerimonie e<br />
manifestazioni; ci hanno insegnato che la sola giustizia era ciò che<br />
giovava al nostro popolo, e la sola verità erano le parole del Capo.<br />
Che cosa volete da noi? Come potete pensare di pretendere da noi, a<br />
cose fatte, un comportamento diverso da quello che è stato il nostro, e<br />
di tutti quelli che erano come noi? Siamo stati diligenti esecutori, e per<br />
la nostra diligenza siamo stati lodati e promossi. Le decisioni non sono<br />
state nostre, perché il regime in cui siamo cresciuti non ci concedeva<br />
decisioni autonome: altri hanno deciso per noi, e non poteva avvenire<br />
altrimenti, perché eravamo stati amputati della capacità di decidere.<br />
Non solo decidere ci era stato vietato, ma ne eravamo diventati<br />
incapaci. Perciò non siamo responsabili e non possiamo essere puniti.<br />
Anche se proiettata sullo sfondo dei camini di Birkenau, questa<br />
argomentazione non può essere presa come frutto di pura impudenza.<br />
La pressione che un moderno Stato totalitario può esercitare<br />
sull’individuo è paurosa. Le sue armi sono sostanzialmente tre: la<br />
propaganda diretta, o camuffata da educazione, da istruzione, da cul-<br />
18
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
tura popolare; lo sbarramento opposto al pluralismo delle informazioni;<br />
il terrore. Tuttavia, non è lecito ammettere che questa<br />
pressione sia irresistibile, tanto meno nel breve termine dei dodici anni<br />
del Terzo Reich: nelle affermazioni e nelle discolpe di uomini dalle<br />
gravissime responsabilità, quali erano Höss e Eichmann, è palese l’esagerazione,<br />
ed ancor più la manomissione del ricordo. Entrambi<br />
erano nati ed erano stati educati molto prima che il Reich diventasse<br />
veramente «totalitario», e la loro adesione era stata una scelta, dettata<br />
più da opportunismo che da entusiasmo. La rielaborazione del loro<br />
passato è stata opera posteriore, lenta e (probabilmente) non metodica.<br />
Domandarsi se sia stata fatta in buona o in mala fede è ingenuo.<br />
Anche loro, così forti di fronte al dolore altrui, quando il destino li ha<br />
messi davanti ai giudici, davanti alla morte che hanno meritato, si<br />
sono costruiti un passato di comodo ed hanno finito per credervi: in<br />
special modo Höss, che non era un uomo sottile. Quale appare dal suo<br />
scritto, era anzi un personaggio talmente poco propenso<br />
all’autocontrollo ed all’introspezione che non si accorge di confermare<br />
il suo grossolano antisemitismo nell’atto stesso in cui lo rinnega e lo<br />
nega, e da non rendersi conto di quanto appaia viscido il suo<br />
autoritratto di buon funzionario, padre e marito.<br />
A commento di queste ricostruzioni del passato (ma non solo di<br />
queste: è un’osservazione che vale per tutte le memorie), si deve<br />
notare che la distorsione dei fatti è spesso limitata dall’obiettività dei<br />
fatti stessi, intorno ai quali esistono testimonianze di terzi, documenti,<br />
«corpi del reato», contesti storicamente acquisiti. É generalmente<br />
difficile negare di aver commesso una data azione, o che questa azione<br />
sia stata commessa; è invece facilissimo alterare le motivazioni che ci<br />
hanno condotto ad un’azione, e le passioni che in noi hanno<br />
accompagnato l’azione stessa. Questa è materia estremamente fluida,<br />
soggetta a deformarsi sotto forze anche molto deboli; alle domande<br />
«perché lo hai fatto?», o «cosa pensavi facendolo?», non esistono<br />
risposte attendibili, perché gli stati d’animo sono labili per natura, e<br />
ancora più labile è la loro memoria.<br />
Come caso limite della deformazione del ricordo di una colpa<br />
commessa, c’è la sua soppressione. Anche qui il confine tra buona e<br />
19
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
mala fede può essere vago; dietro i «non so» e i «non ricordo» che si<br />
sentono nei tribunali c’è talvolta il preciso proposito di mentire, ma<br />
altre volte si tratta di una menzogna fossilizzata, irrigidita in una<br />
formula. Il memore ha voluto diventare immemore e ci è riuscito: a<br />
furia di negarne l’esistenza, ha espulso da sé il ricordo nocivo come si<br />
espelle un’escrezione o un parassita. Gli avvocati difensori sanno bene<br />
che il vuoto di memoria, o la verità putativa, che essi suggeriscono ai<br />
loro difesi, tendono a diventare dimenticanze e verità effettive. Non<br />
occorre sconfinare nella patologia mentale per trovare esemplari<br />
umani le cui affermazioni ci lasciano perplessi: sono certamente false,<br />
ma non riusciamo a distinguere se il soggetto sa o non sa di mentire.<br />
Supponendo per assurdo che il mentitore diventi per un istante<br />
veridico, lui stesso non saprebbe rispondere al dilemma; nell’atto in<br />
cui mente è un attore totalmente fuso col suo personaggio, non è più<br />
discernibile da lui. Ne è un esempio vistoso, nei giorni in cui scrivo, il<br />
comportamento in tribunale del turco Alì Agca, l’attentatore di<br />
Giovanni Paolo II.<br />
Il modo migliore per difendersi dall’invasione di memorie pesanti<br />
è impedirne l’ingresso, stendere una barriera sanitaria lungo il confine.<br />
É più facile vietare l’ingresso a un ricordo che liberarsene dopo che è<br />
stato registrato. A questo, in sostanza, servivano molti degli artifizi<br />
escogitati dai comandi nazisti per proteggere le coscienze degli addetti<br />
ai lavori sporchi, e per assicurarsi i loro servizi, sgradevoli anche per<br />
gli scherani più induriti. Agli Einsaztkommandos, che nelle retrovie<br />
del fronte russo mitragliavano i civili sull’orlo delle fosse comuni che<br />
le vittime stesse erano costrette a scavare, veniva distribuito alcool a<br />
volontà, in modo che il massacro venisse velato dall’ubriachezza. I<br />
ben noti eufemismi («soluzione finale», «trattamento speciale», lo<br />
stesso termine «Einsatzkommando» appena citato, che significa letteralmente<br />
«Unità di pronto impiego», ma mascherava una realtà<br />
spaventosa) non servivano solo ad illudere le vittime ed a prevenirne<br />
le reazioni di difesa: valevano anche, nei limiti del possibile, ad<br />
impedire che l’opinione pubblica, e gli stessi reparti delle forze armate<br />
non direttamente implicati, venissero a conoscenza di quanto stava<br />
accadendo in tutti i territori occupati dal Terzo Reich.<br />
20
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Del resto, l’intera storia del breve «Reich Millenario» può essere<br />
riletta come guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della<br />
memoria, falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla<br />
fuga definitiva dalla realtà medesima. Tutte le biografie di Hitler, discordi<br />
sull’interpretazione da darsi alla vita di quest’uomo così<br />
difficile da classificare, concordano sulla fuga dalla realtà che ha<br />
segnato i suoi ultimi anni, soprattutto a partire dal primo inverno<br />
russo. Aveva proibito e negato ai suoi sudditi l’accesso alla verità,<br />
inquinando la loro morale e la loro memoria; ma, in misura via via<br />
crescente fino alla paranoia del Bunker, aveva sbarrato la via della<br />
verità anche a sé stesso. Come tutti i giocatori d’azzardo, si era<br />
costruito intorno uno scenario intessuto di menzogne superstiziose, in<br />
cui aveva finito col credere con la stessa fede fanatica che pretendeva<br />
da ogni tedesco. Il suo crollo non è stato soltanto una salvazione per il<br />
genere umano, ma anche una dimostrazione del prezzo che si paga<br />
quando si manomette la verità.<br />
Anche nel campo ben più vasto delle vittime si osserva una deriva<br />
della memoria, ma qui, evidentemente, manca il dolo. Chi riceve<br />
un’ingiustizia o un’offesa non ha bisogno di elaborare bugie per<br />
discolparsi di una colpa che non ha (anche se, per un paradossale<br />
meccanismo di cui diremo, può avvenire che ne provi vergogna); ma<br />
questo non esclude che anche i suoi ricordi possano essere alterati. E<br />
stato notato, ad esempio, che molti reduci da guerre o da altre<br />
esperienze complesse e traumatiche tendono a filtrare inconsapevolmente<br />
i loro ricordi: rievocandoli fra loro, o raccontandoli a terzi,<br />
preferiscono soffermarsi sulle tregue, sui momenti di respiro, sugli intermezzi<br />
grotteschi o strani o distesi, e sorvolare sugli episodi più<br />
dolorosi. Questi ultimi non vengono richiamati volentieri dal serbatoio<br />
della memoria, e perciò tendono ad annebbiarsi col tempo, a perdere i<br />
loro contorni. É psicologicamente credibile il comporta-mento del<br />
Conte Ugolino, che prova ritegno nel raccontare a Dante la sua morte<br />
tremenda, e si induce a farlo non per accondiscendenza, ma solo per<br />
vendetta postuma contro il suo eterno nemico. Quando diciamo «non lo<br />
21
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
dimenticherò mai» riferendoci a qualche evento che ci ha feriti profondamente,<br />
ma che non ha lasciato in noi o intorno a noi una traccia<br />
materiale o un’assenza permanente, siamo avventati: anche nella vita<br />
«civile», dimentichiamo volentieri i particolari di una malattia grave da<br />
cui siamo guariti, o di un’operazione chirurgica riuscita bene.<br />
A scopo di difesa, la realtà può essere distorta non solo nel<br />
ricordo, ma nell’atto stesso in cui si verifica. Per tutto l’anno della mia<br />
prigionia ad Auschwitz, ho avuto come amico fraterno Alberto D.: era<br />
un giovane robusto e coraggioso, chiaroveggente più della media, e<br />
perciò assai critico nei confronti dei molti che si fabbricavano, e si<br />
somministravano a vicenda, illusioni consolatorie («la guerra finirà fra<br />
due settimane», «non ci saranno più selezioni», «gli inglesi sono<br />
sbarcati in Grecia», «i partigiani polacchi stanno per liberare il<br />
campo», e così via: erano voci che correvano quasi ogni giorno,<br />
puntualmente smentite dalla realtà). Alberto era stato deportato insieme<br />
col padre quarantacinquenne. Nell’imminenza della grande<br />
selezione dell’ottobre 1944, Alberto ed io avevamo commentato il<br />
fatto con spavento, collera impotente, ribellione, rassegnazione, ma<br />
senza cercare rifugio nelle verità di conforto. Venne la selezione, il<br />
«vecchio» padre di Alberto fu scelto per il gas, ed Alberto cambiò, nel<br />
giro di poche ore. Aveva sentito voci che gli sembravano degne di<br />
fede: i russi erano vicini, i tedeschi non avrebbero più osato persistere<br />
nella strage, quella non era una selezione come le altre, non era per le<br />
camere a gas, era stata fatta per scegliere i prigionieri indeboliti ma<br />
recuperabili, come suo padre, appunto, che era molto stanco ma non<br />
ammalato; anzi, lui sapeva perfino dove li avrebbero mandati, a<br />
Jaworzno, non lontano, in un campo speciale per convalescenti adatti<br />
soltanto per lavori leggeri.<br />
Naturalmente il padre non fu più visto, ed Alberto stesso<br />
scomparve durante la marcia di evacuazione del campo, nel gennaio<br />
1945. Stranamente, senza sapere del comportamento di Alberto, anche<br />
i suoi parenti che erano rimasti nascosti in Italia sfuggendo alla<br />
cattura, si sono condotti come lui, rifiutando una verità insopportabile<br />
e costruendosene un’altra. Appena rimpatriato, ritenni doveroso<br />
andare subito alla città di Alberto, per riferire alla madre ed al fratello<br />
22
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
quanto sapevo. Fui accolto con cortesia affettuosa, ma appena ebbi<br />
cominciato il mio racconto la madre mi pregò di smettere: lei sapeva<br />
già tutto, almeno per quanto riguardava Alberto, ed era inutile che io<br />
le ripetessi le solite storie di orrore. Lei sapeva che il figlio, lui solo,<br />
era riuscito ad allontanarsi dalla colonna senza che le SS gli<br />
sparassero, si era nascosto nella foresta ed era in salvo nelle mani dei<br />
russi; non aveva ancora potuto mandare notizie, ma presto lo avrebbe<br />
fatto, lei ne era sicura; ed ora, che per favore io cambiassi argomento,<br />
e le raccontassi come io stesso ero sopravvissuto. Un anno dopo mi<br />
trovai per caso a passare per quella città, e visitai di nuovo la famiglia.<br />
La verità era leggermente cambiata: Alberto era in una clinica sovietica,<br />
stava bene, ma aveva perso la memoria, non ricordava più<br />
nemmeno il suo nome; però era in via di miglioramento e sarebbe<br />
ritornato presto, lei lo sapeva da fonte sicura.<br />
Alberto non è mai ritornato. Sono passati più di quarant’anni; non<br />
ho più avuto il coraggio di ripresentarmi, e di contrapporre la mia<br />
verità dolorosa alla «verità»consolatoria che, aiutandosi l’uno con<br />
l’altro, i parenti di Alberto si erano costruita.<br />
Un’apologia è d’obbligo. Questo stesso libro è intriso di<br />
memoria: per di più, di una memoria lontana. Attinge dunque ad una<br />
fonte sospetta, e deve essere difeso contro se stesso. Ecco: contiene<br />
più considerazioni che ricordi, si sofferma più volentieri sullo stato<br />
delle cose qual è oggi che non sulla cronaca retroattiva. Inoltre, i dati<br />
che contiene sono fortemente sostanziati dall’imponente letteratura<br />
che sul tema dell’uomo sommerso (o «salvato») si è andata formando,<br />
anche con la collaborazione, volontaria o no, dei colpevoli di allora;<br />
ed in questo corpus le concordanze sono abbondanti, le discordanze<br />
trascurabili. Quanto ai miei ricordi personali, ed ai pochi aneddoti<br />
inediti che ho citati e citerò, li ho vagliati tutti con diligenza: il tempo<br />
li ha un po’ scoloriti, ma sono in buona consonanza con lo sfondo, e<br />
mi sembrano indenni dalle derive che ho descritte.<br />
23
II<br />
La zona grigia<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la<br />
nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per «comprendere»<br />
coincide con «semplificare»: senza una profonda semplificazione, il mondo<br />
intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la<br />
nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma<br />
costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili<br />
strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell’evoluzione e che sono<br />
specifici del genere umano, il linguaggio ed il pensiero concettuale.<br />
Tendiamo a semplificare anche la storia; ma non sempre lo schema<br />
entro cui si ordinano i fatti è individuabile in modo univoco, e può dunque<br />
accadere che storici diversi comprendano e costruiscano la storia in modi fra<br />
loro incompatibili; tuttavia, è talmente forte in noi, forse per ragioni che<br />
risalgono alle nostre origini di animali sociali, l’esigenza di dividere il<br />
campo fra «noi» e «loro», che questo schema, la bipartizione amico-nemico,<br />
prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia quale viene<br />
tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea<br />
che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume<br />
degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli<br />
ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi. Certo è questo il motivo<br />
dell’enorme popolarità degli sport spettacolari, come il calcio, il baseball e il<br />
pugilato, in cui i contendenti sono due squadre o due individui, ben distinti e<br />
identificabili, e alla fine della partita ci saranno gli sconfitti e i vincitori. Se il<br />
risultato è di parità, lo spettatore si sente defraudato e deluso: a livello più o<br />
meno inconscio, voleva i vincitori ed i perdenti, e li identificava<br />
24
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
rispettivamente con i buoni e i cattivi, poiché sono i buoni che devono avere<br />
la meglio, se no il mondo sarebbe sovvertito.<br />
Questo desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione<br />
non sempre lo è. É un’ipotesi di lavoro, utile in quanto sia riconosciuta come<br />
tale e non scambiata per la realtà; la maggior parte dei fenomeni storici e<br />
naturali non sono semplici, o non semplici della semplicità che piacerebbe a<br />
noi. Ora, non era semplice la rete dei rapporti umani all’interno dei Lager:<br />
non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori. In chi legge<br />
(o scrive) oggi la storia dei Lager è evidente la tendenza, anzi il bisogno, di<br />
dividere il male dal bene, di poter parteggiare, di ripetere il gesto di Cristo<br />
nel Giudizio Universale: qui i giusti, là i reprobi. Soprattutto i giovani<br />
chiedono chiarezza, il taglio netto; essendo scarsa la loro esperienza del<br />
mondo, essi non amano l’ambiguità. La loro aspettazione, del resto,<br />
riproduce con esattezza quella dei nuovi arrivati in Lager, giovani o no: tutti,<br />
ad eccezione di chi avesse già attraversato un’esperienza analoga, si<br />
aspettavano di trovare un mondo terribile ma decifrabile, conforme a quel<br />
modello semplice che atavicamente portiamo in noi, «noi» dentro e il nemico<br />
fuori, separati da un confine netto, geografico.<br />
L’ingresso in Lager era invece un urto per la sorpresa che portava con<br />
sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche<br />
indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma<br />
anche dentro, il «noi» perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due,<br />
non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una<br />
fra ciascuno e ciascuno. Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei<br />
compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano;<br />
c’erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata,<br />
nascosta e continua. Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle<br />
prime ore di prigionia, spesso sotto la forma immediata di<br />
un’aggressione concentrica da parte di coloro in cui si sperava di<br />
ravvisare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare subito la<br />
capacità di resistere. Per molti è stata mortale, indirettamente o anche<br />
direttamente: è difficile difendersi da un colpo a cui non si è preparati.<br />
In questa aggressione si possono distinguere diversi aspetti.<br />
Occorre ricordare che il sistema concentrazionario, fin dalle sue<br />
origini (che coincidono con la salita al potere del nazismo in<br />
25
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Germania), aveva lo scopo primario di spezzare la capacità di<br />
resistenza degli avversari: per la direzione del campo, il nuovo giunto<br />
era un avversario per definizione, qualunque fosse l’etichetta che gli<br />
era stata affibbiata, e doveva essere demolito subito, affinché non<br />
diventasse un esempio, o un germe di resistenza organizzata. Su<br />
questo punto le SS avevano le idee chiare, e sotto questo aspetto è da<br />
interpretare tutto il sinistro rituale, diverso da Lager a Lager, ma unico<br />
nella sostanza, che accompagnava l’ingresso; i calci e i pugni subito,<br />
spesso sul viso; l’orgia di ordini urlati con collera vera o simulata; la<br />
denudazione totale; la rasatura dei capelli; la vestizione con stracci. É<br />
difficile dire se tutti questi particolari siano stati messi a punto da<br />
qualche esperto o perfezionati metodicamente in base all’esperienza,<br />
ma certo erano voluti e non casuali: una regia c’era, ed era vistosa.<br />
Tuttavia, al rituale d’ingresso, ed al crollo morale che esso favoriva,<br />
contribuivano più meno consapevolmente anche le altre componenti del<br />
mondo concentrazionario: i prigionieri semplici ed i privilegiati.<br />
Accadeva di rado che il nuovo venuto fosse accolto, non dico come un<br />
amico, ma almeno come un compagno di sventura; nella maggior parte<br />
dei casi, gli anziani (e si diventava anziani in tre o quattro mesi: il<br />
ricambio era rapido!) manifestavano fastidio o addirittura ostilità. Il<br />
«nuovo» (Zugang: si noti, in tedesco è un termine astratto, amministrativo;<br />
significa «ingresso», «entrata») veniva invidiato perché<br />
sembrava che avesse ancora indosso l’odore di casa sua, ed era un’invidia<br />
assurda, perché in effetti si soffriva assai di più nei primi giorni di<br />
prigionia che dopo, quando l’assuefazione da una parte, e l’esperienza<br />
dall’altra, permettevano di costruirsi un riparo. Veniva deriso e sottoposto<br />
a scherzi crudeli, come avviene in tutte le comunità con i «coscritti» e le<br />
«matricole», e con le cerimonie di iniziazione presso i popoli primitivi: e<br />
non c’è dubbio che la vita in Lager comportava una regressione,<br />
riconduceva a comportamenti, appunto, primitivi.<br />
E probabile che l’ostilità verso lo Zugang fosse in sostanza<br />
motivata come tutte le altre intolleranze, cioè consistesse in un<br />
tentativo inconscio di consolidare il «noi» a spese degli «altri», di<br />
creare insomma quella solidarietà fra oppressi la cui mancanza era<br />
fonte di una sofferenza addizionale, anche se non percepita aperta-<br />
26
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
mente. Entrava in gioco anche la ricerca del prestigio, che nella nostra<br />
civiltà sembra sia un bisogno insopprimibile: la folla disprezzata degli<br />
anziani tendeva a ravvisare nel nuovo arrivato un bersaglio su cui<br />
sfogare la sua umiliazione, a trovare a sue spese un compenso, a costruirsi<br />
a sue spese un individuo di rango più basso su cui riversare il<br />
peso delle offese ricevute dall’alto.<br />
Per quanto riguarda i prigionieri privilegiati, il discorso è più<br />
complesso, ed anche più importante: a mio parere, è anzi<br />
fondamentale. É ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un<br />
sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime:<br />
al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto<br />
più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o<br />
morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo<br />
spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai<br />
persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno<br />
torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una<br />
retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è<br />
mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due<br />
qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo<br />
conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre<br />
anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o<br />
se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un<br />
grande stabilimento industriale.<br />
I prigionieri privilegiati erano in minoranza entro la popolazione<br />
dei Lager, ma rappresentano invece una forte maggioranza fra i<br />
sopravvissuti; infatti, anche se non si tenga conto della fatica, delle<br />
percosse, del freddo, delle malattie, va ricordato che la razione<br />
alimentare era decisamente insufficiente anche per il prigioniero più<br />
sobrio: consumate in due o tre mesi le riserve fisiologiche<br />
dell’organismo, la morte per fame, o per malattie indotte dalla fame,<br />
era il destino normale del prigioniero. Poteva essere evitato solo con<br />
un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva un privilegio,<br />
grande o piccolo; in altre parole, un modo, octroyé o conquistato,<br />
astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma.<br />
27
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Ora, non si può dimenticare che la maggior parte dei ricordi dei<br />
reduci, raccontati o scritti, incomincia così: l’urto contro la realtà<br />
concentrazionaria coincide con l’aggressione, non prevista e non<br />
compresa, da parte di un nemico nuovo e strano, il prigionierofunzionario,<br />
che invece di prenderti per mano, tranquillizzarti, insegnarti<br />
la strada, ti si avventa addosso urlando in una lingua che tu non<br />
conosci, e ti percuote sul viso. Ti vuole domare, vuole spegnere in te<br />
la scintilla di dignità che tu forse ancora conservi e che lui ha perduta.<br />
Ma guai a te se questa tua dignità ti spinge a reagire: questa è una legge<br />
non scritta ma ferrea, il zurückschlagen, il rispondere coi colpi ai<br />
colpi, è una trasgressione intollerabile, che può venire in mente<br />
appunto solo a un «nuovo». Chi la commette deve diventare un<br />
esempio: altri funzionari accorrono a difesa dell’ordine minacciato, e<br />
il colpevole viene percosso con rabbia e metodo finché è domato o<br />
morto. Il privilegio, per definizione, difende e protegge il privilegio.<br />
Mi torna a mente che il termine locale, jiddisch e polacco, per indicare<br />
il privilegio era «protekcja», che si pronuncia «protekzia» ed è di<br />
evidente origine italiana e latina; e mi è stata raccontata la storia di un<br />
«nuovo» italiano, un partigiano, scaraventato in un Lager di lavoro con<br />
l’etichetta di prigioniero politico quando era ancora nel pieno delle sue<br />
forze. Era stato malmenato durante la distribuzione della zuppa, ed<br />
aveva osato dare uno spintone al funzionario-distributore: accorsero i<br />
colleghi di questo, e il reo venne affogato esemplarmente immergendogli<br />
la testa nel mastello della zuppa stessa.<br />
L’ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le<br />
convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi<br />
sono assenti solo nelle utopie. É compito dell’uomo giusto fare guerra<br />
ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che<br />
questa è una guerra senza fine. Dove esiste un potere esercitato da<br />
pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera,<br />
anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere,<br />
invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche<br />
nella sua versione sovietica) può ben servire da «laboratorio»: la<br />
classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura, ed<br />
insieme il lineamento più inquietante. É una zona grigia, dai contorni<br />
28
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e<br />
dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed<br />
alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.<br />
La zona grigia della «protekcja» e della collaborazione nasce da<br />
radici molteplici. In primo luogo, l’area del potere, quanto più è<br />
ristretta, tanto più ha bisogno di ausiliari esterni; il nazismo degli<br />
ultimi anni non ne poteva fare a meno, risoluto com’era a mantenere il<br />
suo ordine all’interno dell’Europa sottomessa, e ad alimentare i fronti<br />
di guerra dissanguati dalla crescente resistenza militare degli<br />
avversari. Era indispensabile attingere dai paesi occupati non solo<br />
mano d’opera, ma anche forze d’ordine, delegati ed amministratori del<br />
potere tedesco ormai impegnato altrove fino all’esaurimento. Entro<br />
quest’area vanno catalogati, con sfumature diverse per qualità e peso,<br />
Quisling di Norvegia, il governo di Vichy in Francia, il Judenrat di<br />
Varsavia, la Repubblica di Salò, fino ai mercenari ucraini e baltici<br />
impiegati dappertutto per i compiti più sporchi (mai per il<br />
combattimento), ed ai Sonderkommandos di cui dovremo parlare. Ma<br />
i collaboratori che provengono dal campo avversario, gli ex nemici,<br />
sono infidi per essenza: hanno tradito una volta e possono tradire<br />
ancora. Non basta relegarli in compiti marginali; il modo migliore di<br />
legarli è caricarli di colpe, insanguinarli, comprometterli quanto più è<br />
possibile: così avranno contratto coi mandanti il vincolo della correità,<br />
e non potranno più tornare indietro. Questo modo di agire è noto alle<br />
associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre<br />
dalla mafia, e tra l’altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti<br />
indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni ‘70.<br />
In secondo luogo, ed a contrasto con una certa stilizzazione<br />
agiografica e retorica, quanto più è dura l’oppressione, tanto più è<br />
diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere. Anche<br />
questa disponibilità è variegata da infinite sfumature e motivazioni:<br />
terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore,<br />
voglia miope di un qualsiasi potere, anche ridicolmente circoscritto<br />
nello spazio e nel tempo, viltà, fino a lucido calcolo inteso a eludere<br />
gli ordini e l’ordine imposto. Tutti questi motivi, singolarmente o fra<br />
29
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
loro combinati, sono stati operanti nel dare origine a questa fascia<br />
grigia, i cui componenti, nei confronti dei non privilegiati, erano<br />
accomunati dalla volontà di conservare e consolidare il loro privilegio.<br />
Prima di discutere partitamente i motivi che hanno spinto alcuni<br />
prigionieri a collaborare in varia misura con l’autorità dei Lager,<br />
occorre però affermare con forza che davanti a casi umani come questi<br />
è imprudente precipitarsi ad emettere un giudizio morale. Deve essere<br />
chiaro che la massima colpa pesa sul sistema, sulla struttura stessa<br />
dello Stato totalitario; il concorso alla colpa da parte dei singoli<br />
collaboratori grandi e piccoli (mai simpatici, mai trasparenti!) è<br />
sempre difficile da valutare. É un giudizio che vorremmo affidare<br />
soltanto a chi si è trovato in circostanze simili, ed ha avuto modo di<br />
verificare su se stesso che cosa significa agire in stato di costrizione.<br />
Lo sapeva bene il Manzoni: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro<br />
che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male<br />
che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo<br />
degli offesi». La condizione di offeso non esclude la colpa, e spesso<br />
questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui<br />
delegarne la misura.<br />
Se dipendesse da me, se fossi costretto a giudicare, assolverei a<br />
cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato<br />
minimo, e su cui la costrizione è stata massima. Intorno a noi,<br />
prigionieri senza gradi, brulicavano i funzionari di basso rango.<br />
Costituivano una fauna pittoresca: scopini, lava-marmitte, guardie<br />
notturne, stiratori dei letti (che sfruttavano a loro minuscolo vantaggio<br />
la fisima tedesca delle cuccette rifatte piane e squadrate), controllori di<br />
pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti. In<br />
generale, erano poveri diavoli come noi, che lavoravano a pieno orario<br />
come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in più si<br />
adattavano a svolgere queste ed altre funzioni « terziarie»: innocue,<br />
talvolta utili, spesso inventate dal nulla. Raramente erano violenti, ma<br />
tendevano a sviluppare una mentalità tipicamente corporativa, ed a<br />
difendere con energia il loro «posto di lavoro» contro chi, dal basso o<br />
dall’alto, glie lo insidiava. Il loro privilegio, che del resto comportava<br />
disagi e fatiche supplementari, fruttava loro poco, e non li sottraeva<br />
30
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
alla disciplina ed alle sofferenze degli altri; la loro speranza di vita era<br />
sostanzialmente uguale a quella dei non privilegiati. Erano rozzi e<br />
protervi, ma non venivano sentiti come nemici.<br />
Il giudizio si fa più delicato e più vario per coloro che occupavano<br />
posizioni di comando: i capi (Kapòs: il termine tedesco deriva<br />
direttamente da quello italiano, e la pronuncia tronca, introdotta dai<br />
prigionieri francesi, si diffuse solo molti anni dopo, divulgata<br />
dall’omonimo film di Pontecorvo, e favorita in Italia proprio per il suo<br />
valore differenziale) delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli<br />
scritturali, fino al mondo (a quel tempo da me neppure sospettato) dei<br />
prigionieri che svolgevano attività diverse, talvolta delicatissime, presso<br />
gli uffici amministrativi del campo, la Sezione Politica (di fatto, una<br />
sezione della Gestapo), il Servizio del Lavoro, le celle di punizione.<br />
Alcuni fra questi, grazie alla loro abilità o alla fortuna, hanno avuto<br />
accesso alle notizie più segrete dei rispettivi Lager, e, come Hermann<br />
Langbein ad Auschwitz, Eugen Kogon a Buchenwald, e Hans Marsalek<br />
a Mauthausen, ne sono poi diventati gli storici. Non si sa se ammirare di<br />
più il loro coraggio personale o la loro astuzia, che ha concesso loro di<br />
aiutare concretamente i loro compagni in molti modi, studiando<br />
attentamente i singoli ufficiali delle SS con cui erano a contatto, ed intuendo<br />
quali fra questi potessero essere corrotti, quali dissuasi dalle<br />
decisioni più crudeli, quali ricattati, quali ingannati, quali spaventati<br />
dalla prospettiva di un redde rationem a guerra finita. Alcuni fra loro,<br />
ad esempio i tre nominati, erano anche membri di organizzazioni<br />
segrete di difesa, e perciò il potere di cui disponevano grazie alla loro<br />
carica era controbilanciato dal pericolo estremo che correvano, in<br />
quanto «resistenti» e in quanto detentori di segreti.<br />
I funzionari ora descritti non erano affatto, o erano solo<br />
apparentemente, dei collaboratori, bensì piuttosto degli oppositori<br />
mimetizzati. Non così la maggior parte degli altri detentori di posizioni<br />
di comando, che si sono rivelati esemplari umani da mediocri a pessimi.<br />
Piuttosto che logorare, il potere corrompe; tanto più intensamente<br />
corrompeva il loro potere, che era di natura peculiare.<br />
Il potere esiste in tutte le varietà dell’organizzazione sociale<br />
umana, più o meno controllato, usurpato, investito dall’alto o<br />
31
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
riconosciuto dal basso, assegnato per merito o per solidarietà<br />
corporativa o per sangue o per censo: è verosimile che una certa<br />
misura di dominio dell’uomo sull’uomo sia inscritta nel nostro<br />
patrimonio genetico di animali gregari. Non è dimostrato che il potere<br />
sia intrinsecamente nocivo alla collettività. Ma il potere di cui<br />
disponevano i funzionari di cui si parla, anche di basso grado, come i<br />
Kapòs delle squadre di lavoro, era sostanzialmente illimitato; o per<br />
meglio dire, alla loro violenza era imposto un limite inferiore, nel<br />
senso che essi venivano puniti o destituiti se non si mostravano<br />
abbastanza duri, ma nessun limite superiore. In altri termini, erano<br />
liberi di commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di<br />
punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo<br />
alcuno: fino a tutto il 1943, non era raro che un prigioniero fosse<br />
ucciso a botte da un Kapò, senza che questo avesse da temere alcuna<br />
sanzione. Solo più tardi, quando il bisogno di mano d’opera si era<br />
fatto più acuto, vennero introdotte alcune limitazioni: i maltrattamenti<br />
che i Kapòs potevano infliggere ai prigionieri non dovevano ridurne<br />
permanentemente la capacità lavorativa; ma ormai il mal uso era<br />
invalso, e non sempre la norma venne rispettata.<br />
Si riproduceva così, all’interno dei Lager, in scala più piccola ma<br />
con caratteristiche amplificate, la struttura gerarchica dello Stato<br />
totalitario, in cui tutto il potere viene investito dall’alto, ed in cui un<br />
controllo dal basso è quasi impossibile. Ma questo «quasi» è<br />
importante: non è mai esistito uno Stato che fosse realmente «totalitario»<br />
sotto questo aspetto. Una qualche forma di retroazione, un<br />
correttivo all’arbitrio totale, non è mai mancato, neppure nel Terzo<br />
Reich né nell’Unione Sovietica di Stalin: nell’uno e nell’altra hanno<br />
fatto da freno, in maggiore o minor misura, l’opinione pubblica, la<br />
magistratura, la stampa estera, le chiese, il sentimento di umanità e<br />
giustizia che dieci o vent’anni di tirannide non bastano a sradicare.<br />
Solo entro il Lager il controllo dal basso era nullo, ed il potere dei<br />
piccoli satrapi era assoluto. É comprensibile come un potere di tale<br />
ampiezza attirasse con prepotenza quel tipo umano che di potere è<br />
avido: come vi aspirassero anche individui dagli istinti moderati,<br />
32
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
attratti dai molti vantaggi materiali della carica; e come questi ultimi<br />
venissero fatalmente intossicati dal potere di cui disponevano.<br />
Chi diventava Kapò? Occorre ancora una volta distinguere. In<br />
primo luogo, coloro a cui la possibilità veniva offerta, e cioè gli<br />
individui in cui il comandante del Lager o i suoi delegati (che spesso<br />
erano buoni psicologi) intravedevano la potenzialità del collaboratore:<br />
rei comuni tratti dalle carceri, a cui la carriera di aguzzini offriva<br />
un’eccellente alternativa alla detenzione; prigionieri politici fiaccati da<br />
cinque o dieci anni di sofferenze, o comunque moralmente debilitati;<br />
più tardi, anche ebrei, che vedevano nella particola di autorità che<br />
veniva loro offerta l’unico modo di sfuggire alla «soluzione finale». Ma<br />
molti, come accennato, aspiravano al potere spontaneamente: lo<br />
cercavano i sadici, certo non numerosi ma molto temuti, poiché per loro<br />
la posizione di privilegio coincideva con la possibilità di infliggere ai<br />
sottoposti sofferenza ed umiliazione. Lo cercavano i frustrati, ed anche<br />
questo è un lineamento che riproduce nel microcosmo del Lager il<br />
macrocosmo della società totalitaria: in entrambi, al di fuori della<br />
capacità e del merito, viene concesso generosamente il potere a chi sia<br />
disposto a tributare ossequio all’autorità gerarchica, conseguendo in<br />
questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile. Lo<br />
cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli<br />
oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro.<br />
Su questa mimesi, su questa identificazione o imitazione o scambio<br />
di ruoli fra il soverchiatore e la vittima, si è molto discusso. Si sono dette<br />
cose vere e inventate, conturbanti e banali, acute e stupide: non è un<br />
terreno vergine, anzi, è un campo arato maldestramente, scalpicciato e<br />
sconvolto. La regista Liliana Cavani, a cui era stato chiesto di esprimere<br />
in breve il senso di un suo film bello e falso, ha dichiarato: «Siamo tutti<br />
vittime o assassini e accettiamo questi ruoli volontariamente. Solo Sade e<br />
Dostoevskij l’hanno compreso bene»; ha detto anche di credere «che in<br />
ogni ambiente, in ogni rapporto, ci sia una dinamica vittima-carnefice più<br />
o meno chiaramente espressa e generalmente vissuta a livello non<br />
cosciente».<br />
Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne<br />
intendono, e che questi pochi sono più cauti; non so, e mi interessa<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che<br />
vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini<br />
sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in<br />
servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o<br />
un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è<br />
un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità.<br />
So che in Lager, e più in generale sul palcoscenico umano, capita tutto,<br />
e che perciò l’esempio singolo dimostra poco. Detto chiaramente<br />
tutto questo, e riaffermato che confondere i due ruoli significa voler<br />
mistificare dalle basi il nostro bisogno di giustizia, restano da fare<br />
alcune considerazioni.<br />
Rimane vero che, in Lager e fuori, esistono persone grige,<br />
ambigue, pronte al compromesso. La tensione estrema del Lager tende<br />
ad accrescerne la schiera; esse posseggono in proprio una quota (tanto<br />
più rilevante quanto maggiore era la loro libertà di scelta) di colpa, ed<br />
oltre a questa sono i vettori e gli strumenti della colpa del sistema.<br />
Rimane vero che la maggior parte degli oppressori, durante o (più<br />
spesso) dopo le loro azioni, si sono resi conto che quanto facevano o<br />
avevano fatto era iniquo, hanno magari provato dubbio disagio, od<br />
anche sono stati puniti; ma queste loro sofferenze non bastano ad<br />
arruolarli fra le vittime. Allo stesso modo, non bastano gli errori e i<br />
cedimenti dei prigionieri per allinearli con i loro custodi: i prigionieri<br />
dei Lager, centinaia di migliaia di persone di tutte le classi sociali, di<br />
quasi tutti i paesi d’Europa, rappresentavano un campione medio, non<br />
selezionato, di umanità: anche se non si volesse tener conto<br />
dell’ambiente infernale in cui erano stati bruscamente precipitati, è<br />
illogico pretendere da loro, ed è retorico e falso sostenere che abbiano<br />
sempre e tutti seguito, il comportamento che ci si aspetta dai santi e dai<br />
filosofi stoici. In realtà, nella enorme maggioranza dei casi, il loro<br />
comportamento è stato ferreamente obbligato: nel giro di poche<br />
settimane o mesi, le privazioni a cui erano sottoposti li hanno condotti<br />
ad una condizione di pura sopravvivenza, di lotta quotidiana contro la<br />
fame, il freddo, la stanchezza, le percosse, in cui lo spazio per le scelte<br />
(in specie, per le scelte morali) era ridotto a nulla; fra questi, pochissimi<br />
hanno sopravvissuto alla prova, grazie alla somma di molti eventi<br />
34
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
improbabili: sono insomma stati salvati dalla fortuna, e non ha molto<br />
senso cercare fra i loro destini qualcosa di comune, al di fuori forse<br />
della buona salute iniziale.<br />
Un caso-limite di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos<br />
di Auschwitz e degli altri Lager di sterminio. Qui si esita a<br />
parlare di privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto<br />
(ma a quale costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo<br />
perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente<br />
vaga, «Squadra Speciale», veniva indicato dalle SS il gruppo di<br />
prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava<br />
mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli<br />
del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle<br />
camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle<br />
mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le<br />
scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e<br />
sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le<br />
ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei<br />
periodi, da 700 a 1.000 effettivi.<br />
Queste Squadre Speciali non sfuggivano al destino di tutti; anzi,<br />
da parte delle SS veniva messa in atto ogni diligenza affinché nessun<br />
uomo che ne avesse fatto parte potesse sopravvivere e raccontare. Ad<br />
Auschwitz si succedettero dodici squadre; ognuna rimaneva in<br />
funzione qualche mese, poi veniva soppressa, ogni volta con un<br />
artificio diverso per prevenire eventuali resistenze, e la squadra<br />
successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori.<br />
L’ultima squadra, nell’ottobre 1944, si ribellò alle SS, fece saltare uno<br />
dei crematori e fu sterminata in un diseguale combattimento a cui<br />
accennerò più oltre. I superstiti delle Squadre Speciali sono dunque<br />
stati pochissimi, sfuggiti alla morte per qualche imprevedibile gioco<br />
del destino. Nessuno di loro, dopo la liberazione, ha parlato volentieri,<br />
e nessuno parla volentieri della loro spaventosa condizione. Le notizie<br />
che possediamo su queste Squadre provengono dalle scarne deposizioni<br />
di questi superstiti; dalle ammissioni dei loro «committenti»<br />
35
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
processati davanti a vari tribunali; da cenni contenuti in deposizioni di<br />
«civili» tedeschi o polacchi che ebbero casualmente occasione di<br />
venire a contatto con le squadre; e finalmente, da fogli di diario che<br />
vennero scritti febbrilmente a futura memoria, e sepolti con estrema<br />
cura nei dintorni dei crematori di Auschwitz, da alcuni dei loro<br />
componenti. Tutte queste fonti concordano tra loro, eppure ci riesce<br />
difficile, quasi impossibile, costruirci una rappresentazione di come<br />
questi uomini vivessero giorno per giorno, vedessero se stessi,<br />
accettassero la loro condizione.<br />
In un primo tempo, essi venivano scelti dalle SS fra i prigionieri<br />
già immatricolati nei Lager, ed è stato testimoniato che la scelta<br />
avveniva non soltanto in base alla robustezza fisica, ma anche<br />
studiando a fondo le fisionomie. In qualche raro caso, l’arruolamento<br />
avvenne per punizione. Più tardi, si preferì prelevare i candidati direttamente<br />
sulla banchina ferroviaria, all’arrivo dei singoli convogli:<br />
gli «psicologi» delle SS si erano accorti che il reclutamento era più<br />
facile se si attingeva da quella gente disperata e disorientata, snervata<br />
dal viaggio, priva di resistenze, nel momento cruciale dello sbarco dal<br />
treno, quando veramente ogni nuovo giunto si sentiva alla soglia del<br />
buio e del terrore di uno spazio non terrestre.<br />
Le Squadre Speciali erano costituite in massima parte da ebrei.<br />
Per un verso, questo non può stupire, dal momento che lo scopo<br />
principale dei Lager era quello di distruggere gli ebrei, e che la<br />
popolazione di Auschwitz, a partire dal 1943, era costituita da ebrei<br />
per il 90-95%; sotto un altro aspetto, si rimane attoniti davanti a<br />
questo parossismo di perfidia e di odio: dovevano essere gli ebrei a<br />
mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sottorazza,<br />
sotto-uomini, sì piegano ad ogni umiliazione, perfino a<br />
distruggere se stessi. D’altra parte, è attestato che non tutte le SS<br />
accettavano volentieri il massacro come compito quotidiano; delegare<br />
alle vittime stesse una parte del lavoro, e proprio la più sporca, doveva<br />
servire (e probabilmente servì ad alleggerire qualche coscienza.<br />
Beninteso, sarebbe iniquo attribuire questa acquiescenza a<br />
qualche particolarità specificamente ebraica: delle Squadre Speciali<br />
fecero parte anche prigionieri non ebrei, tedeschi e polacchi, però con<br />
36
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
le mansioni «più dignitose» di Kapòs; ed anche prigionieri di guerra<br />
russi, che i nazisti consideravano solo di uno scalino superiori agli<br />
ebrei. Furono pochi, perché ad Auschwitz i russi erano pochi (vennero<br />
in massima parte sterminati prima, subito dopo la cattura, mitragliati<br />
sull’orlo di enormi fosse comuni): ma non si comportarono in modo<br />
diverso dagli ebrei.<br />
Le Squadre Speciali, in quanto portatrici di un orrendo segreto,<br />
venivano tenute rigorosamente separate dagli altri prigionieri e dal mondo<br />
esterno. Tuttavia, come è noto a chiunque abbia attraversato esperienze<br />
analoghe, nessuna barriera è mai priva di incrinature: le notizie, magari<br />
incomplete e distorte, hanno un potere di penetrazione enorme, e qualcosa<br />
trapela sempre. Su queste Squadre, voci vaghe e monche circolavano già<br />
fra noi durante la prigionia, e vennero confermate più tardi dalle altre fonti<br />
accennate prima, ma l’orrore intrinseco di questa condizione umana ha<br />
imposto a tutte le testimonianze una sorta di ritegno; perciò, oggi ancora è<br />
difficile costruirsi un’immagine di «cosa volesse dire» essere costretti ad<br />
esercitare per mesi questo mestiere. Alcuni hanno testimoniato che a quegli<br />
sciagurati veniva messa a disposizione una grande quantità di alcolici, e<br />
che essi si trovavano permanentemente in uno stato di abbrutimento e di<br />
prostrazione totali. Uno di loro ha dichiarato: «A fare questo lavoro, o si<br />
impazzisce il primo giorno, oppure ci si abitua». Un altro, invece: «Certo,<br />
avrei potuto uccidermi o lasciarmi uccidere; ma io volevo sopravvivere,<br />
per vendicarmi e per portare testimonianza. Non dovete credere che noi<br />
siamo dei mostri: siamo come voi, solo molto più infelici».<br />
E evidente che queste cose dette, e le altre innumerevoli che da<br />
loro e fra di loro saranno state dette ma non ci sono pervenute, non<br />
possono essere prese alla lettera. Da uomini che hanno conosciuto<br />
questa destituzione estrema non ci si può aspettare una deposizione<br />
nel senso giuridico del termine, bensì qualcosa che sta fra il lamento,<br />
la bestemmia, l’espiazione e il conato di giustificarsi, di recuperare se<br />
stessi. Ci si deve aspettare piuttosto uno sfogo liberatorio che una<br />
verità dal volto di Medusa.<br />
Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più<br />
demoniaco del nazionalsocialismo. Dietro all’aspetto pragmatico (fare<br />
economia di uomini validi, imporre ad altri i compiti più atroci) se ne<br />
37
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
scorgono altri più sottili. Attraverso questa istituzione, si tentava di<br />
spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa,<br />
talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di<br />
essere innocenti. Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso<br />
di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è<br />
stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani,<br />
potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli. Si prova la tentazione di<br />
torcere il viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve<br />
opporre. Infatti, l’esistenza delle Squadre aveva un significato,<br />
conteneva un messaggio: «Noi, il popolo dei Signori, siamo i vostri<br />
distruttori, ma voi non siete migliori di noi; se lo vogliamo, e lo<br />
vogliamo, noi siamo capaci di distruggere non solo i vostri corpi, ma<br />
anche le vostre anime, così come abbiamo distrutto le nostre ».<br />
Miklos Nyiszli, medico ungherese, è stato fra i pochissimi<br />
superstiti dell’ultima Squadra Speciale di Auschwitz. Era un noto<br />
anatomo-patologo, esperto nelle autopsie, ed il medico capo delle SS<br />
di Birkenau, quel Mengele che è morto pochi anni fa sfuggendo alla<br />
giustizia, si era assicurato i suoi servizi; gli aveva riservato un<br />
trattamento di favore, e lo considerava quasi come un collega. Nyiszli<br />
doveva dedicarsi in specie allo studio dei gemelli: infatti, Birkenau era<br />
l’unico luogo al mondo in cui esistesse la possibilità di esaminare<br />
cadaveri di gemelli uccisi nello stesso momento. Accanto a questo suo<br />
incarico particolare, a cui, sia detto per inciso, non risulta che egli si<br />
sia opposto con molta determinazione, Nyiszli era il medico curante<br />
della Squadra, con cui viveva a stretto contatto. Ebbene, egli racconta<br />
un fatto che mi pare significativo.<br />
Le SS, come ho detto, sceglievano accuratamente, dai Lager o dai<br />
convogli in arrivo, i candidati alle Squadre, e non esitavano a<br />
sopprimere sul posto coloro che si rifiutavano o si mostravano inadatti<br />
alle loro mansioni. Nei confronti dei membri appena assunti, esse<br />
mostravano lo stesso comportamento sprezzante e distaccato che<br />
usavano mostrare verso tutti i prigionieri, e verso gli ebrei in specie:<br />
era stato loro inculcato che si trattava di esseri spregevoli, nemici della<br />
Germania e perciò indegni di vivere; nel caso più favorevole,<br />
potevano essere obbligati a lavorare fino alla morte per esaurimento.<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Non così si comportavano invece nei confronti dei veterani della<br />
Squadra: in questi, sentivano in qualche misura dei colleghi, ormai<br />
disumani quanto loro, legati allo stesso carro, vincolati dal vincolo<br />
immondo della complicità imposta. Nyiszli racconta dunque di aver<br />
assistito, durante una pausa del «lavoro», ad un incontro di calcio fra<br />
SS e SK (Sonderkommando), vale a dire fra una rappresentanza delle<br />
SS di guardia al crematorio e una rappresentanza della Squadra<br />
Speciale; all’incontro assistono altri militi delle SS e il resto della<br />
Squadra, parteggiano, scommettono, applaudono, incoraggiano i<br />
giocatori, come se, invece che davanti alle porte dell’inferno, la partita<br />
si svolgesse sul campo di un villaggio.<br />
Niente di simile è mai avvenuto, né sarebbe stato concepibile, con<br />
altre categorie di prigionieri; ma con loro, con i «corvi del<br />
crematorio», le SS potevano scendere in campo, alla pari o quasi.<br />
Dietro questo armistizio si legge un riso satanico: è consumato, ci<br />
siamo riusciti, non siete più l’altra razza, l’anti-razza, il nemico primo<br />
del Reich Millenario: non siete più il popolo che rifiuta gli idoli. Vi<br />
abbiamo abbracciati, corrotti, trascinati sul fondo con noi. Siete come<br />
noi, voi orgogliosi: sporchi del vostro sangue come noi. Anche voi,<br />
come noi e come Caino, avete ucciso il fratello. Venite, possiamo<br />
giocare insieme.<br />
Nyiszli racconta un altro episodio da meditare. Nella camera a<br />
gas sono stati stipati ed uccisi i componenti di un convoglio appena<br />
arrivato, e la Squadra sta svolgendo il lavoro orrendo di tutti i giorni,<br />
districare il groviglio di cadaveri, lavarli con gli idranti e trasportarli al<br />
crematorio, ma sul pavimento trovano una giovane ancora viva.<br />
L’evento è eccezionale, unico; forse i corpi umani le hanno fatto<br />
barriera intorno, hanno sequestrato una sacca d’aria che è rimasta<br />
respirabile. Gli uomini sono perplessi; la morte è il loro mestiere di<br />
ogni ora, la morte è una consuetudine, poiché, appunto, «si impazzisce<br />
il primo giorno oppure ci si abitua», ma quella donna è viva. La<br />
nascondono, la riscaldano, le portano brodo di carne, la interrogano: la<br />
ragazza ha sedici anni, non si orienta nello spazio né nel tempo, non sa<br />
dov’è, ha percorso senza capire la trafila del treno sigillato, della<br />
brutale selezione preliminare, della spogliazione, dell’ingresso nella<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
camera da cui nessuno è mai uscito vivo. Non ha capito, ma ha visto;<br />
perciò deve morire, e gli uomini della Squadra lo sanno, così come<br />
sanno di dover morire essi stessi e per la stessa ragione. Ma questi<br />
schiavi abbrutiti dall’alcool e dalla strage quotidiana sono trasformati;<br />
davanti a loro non c’è più la massa anonima, il fiume di gente<br />
spaventata, attonita, che scende dai vagoni: c’è una persona.<br />
Come non ricordare l'«insolito rispetto» e l’esitazione del «turpe<br />
monatto» davanti al caso singolo, davanti alla bambina Cecilia morta<br />
di peste che, nei Promessi Sposi, la madre rifiuta di lasciar buttare sul<br />
carro confusa fra gli altri morti? Fatti come questi stupiscono, perché<br />
contrastano con l’immagine che alberghiamo in noi, dell’uomo<br />
concorde con se stesso, coerente, monolitico; e non dovrebbero<br />
stupire, perché tale l’uomo non è. Pietà e brutalità possono coesistere,<br />
nello stesso individuo e nello stesso momento, contro ogni logica; e<br />
del resto, la pietà stessa sfugge alla logica. Non esiste proporzionalità<br />
tra la pietà che proviamo e l’estensione del dolore da cui la pietà è<br />
suscitata: una singola Anna Frank desta più commozione delle miriadi<br />
che soffrirono come lei, ma la cui immagine è rimasta in ombra. Forse<br />
è necessario che sia così; se dovessimo e potessimo soffrire le<br />
sofferenze di tutti, non potremmo vivere. Forse solo ai santi è<br />
concesso il terribile dono della pietà verso i molti; ai monatti, a quelli<br />
della Squadra Speciale, ed a noi tutti, non resta, nel migliore dei casi,<br />
che la pietà saltuaria indirizzata al singolo, al Mitmensch, al co-uomo:<br />
all’essere umano di carne e sangue che sta davanti a noi, alla portata<br />
dei nostri sensi provvidenzialmente miopi.<br />
Viene chiamato un medico, che rianima la ragazza con una<br />
iniezione: sì, il gas non ha compiuto il suo effetto, potrà sopravvivere,<br />
ma dove e come? In quel momento sopraggiunge Muhsfeld, uno dei<br />
militi SS addetti agli impianti di morte; il medico lo chiama da parte e<br />
gli espone il caso. Muhsfeld esita, poi decide: no, la ragazza deve<br />
morire; se fosse più anziana il caso sarebbe diverso, avrebbe più<br />
senno, forse la si potrebbe convincere a tacere su quanto le è accaduto,<br />
ma ha solo sedici anni: di lei non ci si può fidare. Tuttavia non la<br />
uccide di mano sua, chiama un suo sottoposto che la sopprima con un<br />
colpo alla nuca. Ora, questo Muhsfeld non era un misericorde; la sua<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
razione quotidiana di strage era trapunta di episodi arbitrari e<br />
capricciosi, segnata da sue invenzioni di raffinata crudeltà. Fu<br />
processato nel 1947, condannato a morte e impiccato a Cracovia, e<br />
questo fu giusto; ma neppure lui era un monolito. Se fosse vissuto in<br />
un ambiente ed in un’epoca diversi, è probabile che si sarebbe<br />
comportato come qualsiasi altro uomo comune.<br />
Nei Fratelli Karamazov, Grusen’ka racconta la favola della<br />
cipollina. Una vecchia malvagia muore e va all’inferno, ma il suo<br />
angelo custode, sforzando la memoria, ricorda che essa, una volta, una<br />
sola, ha donato ad un mendicante una cipollina che ha cavata dal suo<br />
orto: le porge la cipollina, e la vecchia vi si aggrappa e viene tratta dal<br />
fuoco infernale. Questa favola mi è sempre sembrata rivoltante: quale<br />
mostro umano non ha mai donato in vita sua una cipollina, se non ad<br />
altri ai suoi figli, alla moglie, al cane? Quel singolo attimo di pietà<br />
subito cancellata non basta certo ad assolvere Muhsfeld, basta però a<br />
collocare anche lui, seppure al margine estremo, nella fascia grigia, in<br />
quella zona di ambiguità che irradia dai regimi fondati sul terrore e<br />
sull’ossequio.<br />
Non è difficile giudicare Muhsfeld, e non credo che il tribunale<br />
che lo ha condannato abbia avuto dubbi; per contro, il nostro bisogno<br />
e la nostra capacità di giudicare si inceppano davanti alla Squadra<br />
Speciale. Subito sorgono le domande, domande convulse, a cui è dura<br />
impresa dare una risposta che ci tranquillizzi sulla natura dell’uomo.<br />
Perché hanno accettato quel loro compito? Perché non si sono<br />
ribellati, perché non hanno preferito la morte?<br />
In certa misura, i fatti di cui disponiamo ci permettono di tentare<br />
una risposta. Non tutti hanno accettato; alcuni si sono ribellati sapendo<br />
di morire. Di almeno un caso abbiamo notizia precisa: un gruppo di<br />
quattrocento ebrei di Corfù, che nel luglio era stato inserito nella<br />
Squadra, rifiutò compattamente il lavoro, e venne immediatamente<br />
ucciso col gas. E rimasta memoria di vari altri ammutinamenti singoli,<br />
tutti subito puniti con una morte atroce (Filip Müller, uno fra i<br />
pochissimi superstiti delle Squadre, racconta di un suo compagno che<br />
le SS introdussero vivo nella fornace), e di molti casi di suicidio,<br />
all’atto dell’arruolamento o subito dopo. Infine, e da ricordare che<br />
41
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
proprio dalla Squadra Speciale fu organizzato, nell’ottobre 1944,<br />
l’unico disperato tentativo di rivolta nella storia dei Lager di<br />
Auschwitz, a cui già si è accennato.<br />
Le notizie che di questa impresa sono pervenute fino a noi non<br />
sono né complete né concordi; si sa che i rivoltosi (gli addetti a due<br />
dei cinque crematori di AuschwitzBirkenau), male armati e privi di<br />
contatti con i partigiani polacchi fuori del Lager e con l’organizzazione<br />
clandestina di difesa entro il Lager, fecero esplodere il<br />
crematorio n. 3 e diedero battaglia alle SS. Il combattimento finì<br />
molto presto; alcuni degli insorti riuscirono a tagliare il filo spinato ed<br />
a fuggire all’esterno, ma furono catturati poco dopo. Nessuno di loro è<br />
sopravvissuto; circa 450 furono immediatamente uccisi dalle SS; di<br />
queste, tre furono uccise e dodici ferite.<br />
Quelli di cui sappiamo, i miserabili manovali della strage, sono<br />
dunque gli altri, quelli che di volta in volta preferirono qualche<br />
settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata, ma che in<br />
nessun caso si indussero, o furono indotti, ad uccidere di propria<br />
mano. Ripeto: credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi<br />
ha conosciuto l’esperienza del Lager, tanto meno chi non l’ha<br />
conosciuta. Vorrei invitare chiunque osi tentare un giudizio a<br />
compiere su se stesso, con sincerità, un esperimento concettuale:<br />
immagini, se può, di aver trascorso mesi o anni in un ghetto,<br />
tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla promiscuità e<br />
dall’umiliazione; di aver visto morire intorno a sé, ad uno ad uno, i<br />
propri cari; di essere tagliato fuori dal mondo, senza poter ricevere né<br />
trasmettere notizie; di essere infine caricato su un treno, ottanta o<br />
cento per vagone merci; di viaggiare verso l’ignoto, alla cieca, per<br />
giorni e notti insonni; e di trovarsi infine scagliato fra le mura di un<br />
inferno indecifrabile. Qui gli viene offerta la sopravvivenza, e gli<br />
viene proposto, anzi imposto, un compito truce ma imprecisato. É<br />
questo, mi pare, il vero Befehlnotstand, lo «stato di costrizione<br />
conseguente a un ordine»: non quello sistematicamente ed<br />
impudentemente invocato dai nazisti trascinati a giudizio, e più tardi<br />
(ma sulle loro orme) dai criminali di guerra di molti altri paesi. Il<br />
primo è un autaut rigido, l’obbedienza immediata o la morte; il secon-<br />
42
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
do è un fatto interno al centro di potere, ed avrebbe potuto essere<br />
risolto (in effetti spesso fu risolto) con qualche manovra, con qualche<br />
ritardo nella carriera, con una moderata punizione, o, nel peggiore dei<br />
casi, col trasferimento del renitente al fronte di guerra.<br />
L’esperimento che ho proposto non è gradevole; ha tentato di<br />
rappresentarlo Vercors, nel suo racconto Les armes de la nuit (Albin<br />
Michel, Paris 1953) in cui si parla della «morte dell’anima», e che<br />
riletto oggi mi appare intollerabilmente infetto di estetismo e di<br />
libidine letteraria. Ma è indubbio che di morte dell’anima si tratta; ora,<br />
nessuno può sapere quanto a lungo, ed a quali prove, la sua anima<br />
sappia resistere prima di piegarsi o di infrangersi. Ogni essere umano<br />
possiede una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può<br />
essere grande, piccola o nulla, e solo l’avversità estrema dà modo di<br />
valutarla. Anche senza ricorrere al caso-limite delle Squadre Speciali,<br />
accade spesso a noi reduci, quando raccontiamo le nostre vicende, che<br />
l’interlocutore dica: «Io, al tuo posto, non avrei resistito un giorno».<br />
L’affermazione non ha un senso preciso: non si è mai al posto di un<br />
altro. Ogni individuo è un oggetto talmente complesso che è vano<br />
pretendere di prevederne il comportamento, tanto più se in situazioni<br />
estreme; neppure è possibile antivedere il comportamento proprio.<br />
Perciò chiedo che la storia dei «corvi del crematorio» venga meditata<br />
con pietà e rigore, ma che il giudizio su di loro resti sospeso.<br />
La stessa «impotentia judicandi» ci paralizza davanti al caso<br />
Rumkowski. La storia di Chaim Rumkowski non è propriamente una<br />
storia di Lager, benché nel Lager si concluda: è una storia di ghetto, ma<br />
così eloquente sul tema fondamentale dell’ambiguità umana provocata<br />
fatalmente dall’oppressione, che mi pare si attagli fin troppo bene al<br />
nostro discorso. La ripeto qui, anche se già l’ho narrata altrove.<br />
Al mio ritorno da Auschwitz mi sono trovato in tasca una curiosa<br />
moneta in lega leggera, che conservo tuttora. È graffiata e corrosa;<br />
reca su una faccia la stella ebraica (lo «Scudo di Davide»), la data<br />
1943 e la parola getto, che alla tedesca si legge ghetto; sull’altra<br />
faccia, le scritte QUITTUNG UBER 10 MARK e DER ALTESTE<br />
43
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
DER JUDEN IN LITZMANNSTADT, e cioè rispettivamente<br />
Quietanza su 10 marchi e Il decano degli ebrei in Litzmannstadt: era<br />
insomma una moneta interna di un ghetto. Per molti anni ne ho<br />
dimenticato l’esistenza, poi, verso il 1974 ho potuto ricostruirne la<br />
storia, che è affascinante e sinistra.<br />
Col nome di Litzmannstadt, in onore di un generale Litzmann<br />
vittorioso sui russi nella prima guerra mondiale, i nazisti avevano<br />
ribattezzato la città polacca di Lòdz. Negli ultimi mesi del 1944 gli<br />
ultimi superstiti del ghetto di Lòdz erano stati deportati ad Auschwitz:<br />
io devo aver trovato sul suolo del Lager quella moneta ormai inutile.<br />
Nel 1939 Lòdz aveva 750.000 abitanti, ed era la più industriale delle<br />
città polacche, la più «moderna» e la più brutta: viveva sull’industria<br />
tessile, come Manchester e Biella, ed era condizionata dalla presenza di<br />
una miriade di stabilimenti grandi e piccoli, per lo più antiquati già allora.<br />
Come in tutte le città di una certa importanza dell’Europa orientale<br />
occupata, i nazisti si affrettarono a costituirvi un ghetto, ripristinandovi,<br />
aggravato dalla loro moderna ferocia, il regime dei ghetti del medioevo e<br />
della controriforma. Il ghetto di Lòdz aperto già nel febbraio 1940, fu il<br />
primo in ordine di tempo, ed il secondo, dopo quello di Varsavia, come<br />
consistenza numerica: giunse a contenere più di 160.000 ebrei, e fu<br />
sciolto solo nell’autunno del 1944. Fu dunque il più longevo dei ghetti<br />
nazisti, e ciò va attribuito a due ragioni: la sua importanza economica e la<br />
conturbante personalità del suo presidente.<br />
Si chiamava Chaim Rumkowski: già piccolo industriale fallito,<br />
dopo vari viaggi ed alterne vicende si era stabilito a Lòdz nel 1917.<br />
Nel 1940 aveva quasi sessant’anni ed era vedovo senza figli; godeva<br />
di una certa stima, ed era noto come direttore di opere pie ebraiche e<br />
come uomo energico, incolto ed autoritario. La carica di Presidente (o<br />
Decano) di un ghetto era intrinsecamente spaventosa, ma era una<br />
carica, costituiva un riconoscimento sociale, sollevava di uno scalino e<br />
conferiva diritti e privilegi, cioè autorità: ora Rumkowski amava<br />
appassionatamente l’autorità. Come sia pervenuto all’investitura, non<br />
è noto: forse si trattò di una beffa nel tristo stile nazista (Rumkowski<br />
era, o sembrava, uno sciocco dall’aria per bene, insomma uno<br />
zimbello ideale); forse intrigò egli stesso per essere scelto, tanto<br />
44
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
doveva essere forte in lui la voglia del potere. É provato che i quattro<br />
anni della sua presidenza, o meglio della sua dittatura, furono un<br />
sorprendente groviglio di sogno megalomane, di vitalità barbarica e di<br />
reale capacità diplomatica ed organizzativa. Egli giunse presto a<br />
vedere se stesso in veste di monarca assoluto ma illuminato, e certo fu<br />
sospinto su questa via dai suoi padroni tedeschi, che giocavano bensì<br />
con lui, ma apprezzavano i suoi talenti di buon amministratore e<br />
d’uomo d’ordine. Da loro ottenne l’autorizzazione a battere moneta,<br />
sia metallica (quella mia moneta) sia cartacea, su carta a filigrana che<br />
gli fu fornita ufficialmente. In questa moneta erano pagati gli operai<br />
estenuati del ghetto; potevano spenderla negli spacci per acquistarvi le<br />
loro razioni alimentari, che ammontavano in media a 800 calorie<br />
giornaliere (ricordo, di passata, che ne occorrono almeno 2000 per<br />
sopravvivere in stato di assoluto riposo).<br />
Da questi suoi sudditi affamati, Rumkowski ambiva riscuotere<br />
non solo obbedienza e rispetto, ma anche amore: in questo le dittature<br />
moderne differiscono dalle antiche. Poiché disponeva di un esercito di<br />
eccellenti artisti ed artigiani, pronti ad ogni suo cenno contro un<br />
quarto di pane, fece disegnare e stampare francobolli che recano la sua<br />
effigie, con i capelli e la barba candidi nella luce della Speranza e<br />
della Fede. Ebbe una carrozza trainata da un ronzino scheletrico, e su<br />
questa percorreva le strade del suo minuscolo regno, affollate di<br />
mendicanti e di postulanti. Ebbe un manto regale, e si attorniò di una<br />
corte di adulatori e di sicari; dai suoi poeti-cortigiani fece comporre<br />
inni in cui si celebrava la sua «mano ferma e potente», e la pace e<br />
l’ordine che per virtù sua regnavano nel ghetto; ordinò che ai bambini<br />
delle nefande scuole, ogni giorno devastate dalle epidemie, dalla<br />
denutrizione e dalle razzie tedesche, fossero assegnati temi in lode<br />
«del nostro amato e provvido Presidente». Come tutti gli autocrati, si<br />
affrettò ad organizzare una polizia efficiente, nominalmente per<br />
mantenere l’ordine, di fatto per proteggere la sua persona e per<br />
imporre la sua disciplina: era costituita da seicento guardie armate di<br />
bastone, e da un numero imprecisato di spie. Pronunciò molti discorsi,<br />
di cui alcuni ci sono stati conservati, ed il cui stile è inconfondibile:<br />
aveva adottato la tecnica oratoria di Mussolini e di Hitler, quella della<br />
45
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
recitazione ispirata, dello pseudo-colloquio con la folla, della creazione<br />
del consenso attraverso il plagio ed il plauso. Forse questa sua<br />
imitazione era deliberata; forse era invece una identificazione<br />
inconscia col modello dell’«eroe necessario» che allora dominava<br />
l’Europa ed era stato cantato da D’Annunzio; ma è più probabile che il<br />
suo atteggiamento scaturisse dalla sua condizione di piccolo tiranno,<br />
impotente verso l’alto ed onnipotente verso il basso. Chi ha trono e<br />
scettro, chi non teme di essere contraddetto né irriso, parla così.<br />
Eppure la sua figura fu più complessa di quanto appaia fin qui.<br />
Rumkowski non fu soltanto un rinnegato ed un complice; in qualche<br />
misura, oltre a farlo credere, deve essersi progressivamente convinto<br />
egli stesso di essere un messia, un salvatore del suo popolo, il cui<br />
bene, almeno ad intervalli, egli deve avere pure desiderato. Occorre<br />
beneficare per sentirsi benefici, e sentirsi benefici è gratificante anche<br />
per un satrapo corrotto. Paradossalmente, alla sua identificazione con<br />
gli oppressori si alterna o si affianca un’identificazione con gli<br />
oppressi, poiché l’uomo, dice Thomas Mann, è una creatura confusa; e<br />
tanto più confusa diventa, possiamo aggiungere, quanto più è<br />
sottoposta a tensioni: allora sfugge al nostro giudizio, così come<br />
impazzisce una bussola al polo magnetico.<br />
Benché sia stato costantemente disprezzato e deriso dai tedeschi,<br />
è probabile che Rumkowski pensasse a se stesso non come a un servo<br />
ma come a un Signore. Deve aver preso sul serio la propria autorità:<br />
quando la Gestapo si impadronì senza preavviso dei «suoi»<br />
consiglieri, accorse con coraggio in loro aiuto, esponendosi a beffe e<br />
schiaffi che seppe sopportare con dignità. Anche in altre occasioni,<br />
cercò di mercanteggiare con i tedeschi, che esigevano sempre più tela<br />
da Lòdz e da lui contingenti sempre più alti di bocche inutili (vecchi,<br />
bambini, ammalati) da mandare alle camere a gas di Treblinka e poi di<br />
Auschwitz. La stessa durezza con cui si precipitò a reprimere i moti<br />
d’insubordinazione dei suoi sudditi (esistevano, a Lòdz come in altri<br />
ghetti, nuclei di temeraria resistenza politica, di radice sionista,<br />
bundista o comunista) non proveniva tanto da servilismo verso i<br />
tedeschi, quanto da «lesa maestà», da indignazione per l’oltraggio<br />
inferto alla sua regale persona.<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Nel settembre 1944, poiché il fronte russo si stava avvicinando, i<br />
nazisti diedero inizio alla liquidazione del ghetto di Lòdz Decine di<br />
migliaia di uomini e donne furono deportati ad Auschwitz, «anus<br />
mundi», luogo di drenaggio ultimo dell’universo tedesco; esausti<br />
com’erano, furono quasi tutti soppressi immediatamente. Rimasero nel<br />
ghetto un migliaio di uomini, a smobilitare il macchinario delle fabbriche<br />
ed a cancellare le tracce della strage: essi furono liberati dalI’Armata<br />
Rossa poco dopo, ed a loro si debbono le notizie qui riportate.<br />
Sul destino finale di Chaim Rumkowski esistono due versioni,<br />
come se l’ambiguità sotto il cui segno aveva vissuto si fosse protratta<br />
ad avvolgerne la morte. Secondo la prima versione, nel corso della<br />
liquidazione del ghetto egli avrebbe cercato di opporsi alla deportazione<br />
di suo fratello, da cui non voleva separarsi; un ufficiale<br />
tedesco gli avrebbe allora proposto di partire volontariamente insieme<br />
con lui, ed egli avrebbe accettato. Un’altra versione afferma invece<br />
che il salvataggio di Rumkowski sarebbe stato tentato da Hans<br />
Biebow, altro personaggio ammantato di doppiezza. Questo losco<br />
industriale tedesco era il funzionario responsabile dell’amministrazione<br />
del ghetto, e in pari tempo ne era l’appaltatore: il suo era dunque<br />
un incarico delicato, perché le fabbriche tessili di Lòdz lavoravano per<br />
le forze armate. Biebow non era una belva: non gli interessava creare<br />
sofferenze inutili né punire gli ebrei per la loro colpa di essere ebrei,<br />
bensì guadagnare sulle forniture, nei modi leciti e negli altri. Il<br />
tormento del ghetto lo toccava, ma solo per via indiretta; desiderava<br />
che gli operai schiavi lavorassero, e perciò desiderava che non<br />
morissero di fame: il suo senso morale si fermava qui. Di fatto, era il<br />
vero padrone del ghetto, ed era legato a Rumkowski da quel rapporto<br />
committente-fornitore che spesso sfocia in una ruvida amicizia.<br />
Biebow, piccolo sciacallo troppo cinico per prendere sul serio la<br />
demonologia della razza, avrebbe voluto rimandare a oltranza lo<br />
scioglimento del ghetto, che per lui era un ottimo affare, e preservare<br />
dalla deportazione Rumkowski, della cui complicità si fidava: dove si<br />
vede come spesso un realista sia obiettivamente migliore di un teorico.<br />
Ma i teorici delle SS erano di parere contrario, ed erano i più forti.<br />
Erano gründlich, radicali: via il ghetto e via Rumkowski.<br />
47
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Non potendo provvedere diversamente, Biebow, che aveva buone<br />
aderenze, consegnò a Rumkowski una lettera indirizzata al comandante<br />
del Lager di destinazione, e gli garantì che essa lo avrebbe<br />
protetto e gli avrebbe assicurato un trattamento di favore. Rumkowski<br />
avrebbe chiesto a Biebow, ed ottenuto, di viaggiare fino ad<br />
Auschwitz, lui e la sua famiglia, col decoro che si addiceva al suo<br />
rango, e cioè in un vagone speciale, agganciato in coda alla tradotta di<br />
vagoni merci stipati di deportati senza privilegi: ma il destino degli<br />
ebrei in mano tedesca era uno solo, fossero vili od eroi, umili o<br />
superbi. Né la lettera né il vagone valsero a salvare dal gas Chaim<br />
Rumkowski, re dei Giudei.<br />
Una storia come questa non è chiusa in sé. É pregna, pone più<br />
domande di quante ne soddisfaccia, riassume in sé l’intera tematica<br />
della zona grigia, e lascia sospesi. Grida e chiama per essere capita,<br />
perché vi si intravede un simbolo, come nei sogni e nei segni del cielo.<br />
Chi è Rumkowski? Non è un mostro, e neppure un uomo<br />
comune; tuttavia molti intorno a noi sono simili a lui. I fallimenti che<br />
hanno preceduto la sua «carriera» sono significativi: gli uomini che da<br />
un fallimento ricavano forza morale sono pochi. Mi pare che nella sua<br />
storia si possa riconoscere in forma esemplare la necessità quasi fisica<br />
che dalla costrizione politica fa nascere l’area indefinita<br />
dell’ambiguità e del compromesso. Ai piedi di ogni trono assoluto gli<br />
uomini come il nostro si affollano per ghermire la loro porzioncina di<br />
potere: è uno spettacolo ricorrente, ritornano alla memoria le lotte a<br />
coltello degli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, alla corte di<br />
Hitler e fra i ministri di Salò; uomini grigi anche questi, ciechi prima<br />
che criminali, accaniti a spartirsi i brandelli d’una autorità scellerata e<br />
moribonda. Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è<br />
ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione, che (come per<br />
Rumkowski) può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di<br />
dosi sempre più alte; nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai<br />
sogni infantili di onnipotenza. Se è valida l’interpretazione di un<br />
Rumkowski intossicato dal potere, bisogna ammettere che<br />
48
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
l’intossicazione è sopraggiunta non a causa, ma nonostante l’ambiente<br />
del ghetto; che cioè essa è così potente da prevalere perfino in<br />
condizioni che sembrerebbero tali da spegnere ogni volontà<br />
individuale. Di fatto, era ben visibile in lui, come nei suoi modelli più<br />
famosi, la sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione<br />
distorta del mondo, l’arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione,<br />
l’aggrapparsi convulso alle leve di comando, il disprezzo delle leggi.<br />
Tutto questo non esonera Rumkowski dalla sua responsabilità.<br />
Che dall’afflizione di Lòdz un Rumkowski sia emerso, duole e brucia;<br />
se fosse sopravvissuto alla sua tragedia, ed alla tragedia del ghetto che<br />
lui ha inquinata sovrapponendovi la sua immagine di istrione, nessun<br />
tribunale lo avrebbe assolto, né certo lo possiamo assolvere noi sul<br />
piano morale. Ha però delle attenuanti: un ordine infero, qual era il<br />
nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da<br />
cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé,<br />
perché gli occorrono complicità grandi e piccole. Per resistergli, ci<br />
vuole una ben solida ossatura morale, e quella di cui disponeva Chaim<br />
Rumkowski, il mercante di Lòdz insieme con tutta la sua generazione,<br />
era fragile: ma quanto forte è la nostra, di noi europei di oggi? Come<br />
si comporterebbe ognuno di noi se venisse spinto dalla necessità e in<br />
pari tempo allettato dalla seduzione?<br />
La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante dei<br />
Kapòs e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che servono un<br />
regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che<br />
firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il capo ma<br />
acconsente; di chi dice «se non lo facessi io, lo farebbe un altro<br />
peggiore di me».<br />
In questa fascia di mezze coscienze va collocato Rumkowski,<br />
figura simbolica e compendiaria. Se in alto o in basso, è difficile dire:<br />
lui solo lo potrebbe chiarire se potesse parlare davanti a noi, magari<br />
mentendo, come forse sempre mentiva, anche a se stesso; ci<br />
aiuterebbe comunque a comprenderlo, come ogni imputato aiuta il suo<br />
giudice, anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità<br />
dell’uomo di recitare una parte non è illimitata.<br />
49
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Ma tutto questo non basta a spiegare il senso di urgenza e di<br />
minaccia che emana da questa storia. Forse il suo significato è più<br />
vasto: in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la<br />
nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito; la sua<br />
febbre è la nostra, quella della nostra civiltà occidentale che «scende<br />
all’inferno con trombe e tamburi», ed i suoi orpelli miserabili sono<br />
l’immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale. La sua<br />
follia è quella dell’Uomo presuntuoso e mortale quale lo descrive<br />
Isabella in Misura per misura, l’Uomo che,<br />
- ammantato d’autorità precaria,<br />
di ciò ignaro di cui si crede certo,<br />
- della sua essenza, ch’è di vetro —, quale<br />
una scimmia arrabbiata, gioca tali<br />
insulse buffonate sotto il cielo<br />
da far piangere gli angeli.<br />
Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e<br />
dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere<br />
veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo<br />
tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della<br />
morte, e che poco lontano aspetta il treno.<br />
50
III<br />
La vergogna<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Esiste un quadro stereotipo, proposto infinite volte, consacrato<br />
dalla letteratura e dalla poesia, raccolto dal cinematografo: al termine<br />
della bufera, quando sopravviene «la quiete dopo la tempesta», ogni<br />
cuore si rallegra. «Uscir di pena è diletto fra noi». Dopo la malattia ritorna<br />
la salute; a rompere la prigionia arrivano i nostri, i liberatori, a<br />
bandiere spiegate; il soldato ritorna, e ritrova la famiglia e la pace.<br />
A giudicare dai racconti fatti da molti reduci, e dai miei stessi<br />
ricordi, il pessimista Leopardi, in questa sua rappresentazione, è stato al<br />
di là del vero: suo malgrado, si è dimostrato ottimista. Nella maggior<br />
parte dei casi, l’ora della liberazione non è stata lieta né spensierata:<br />
scoccava per lo più su uno sfondo tragico di distruzione, strage e<br />
sofferenza. In quel momento, in cui ci si sentiva ridiventare uomini, cioè<br />
responsabili, ritornavano le pene degli uomini: la pena della famiglia<br />
dispersa o perduta; del dolore universale intorno a sé; della propria estenuazione,<br />
che appariva non più medicabile, definitiva; della vita da<br />
ricominciare in mezzo alle macerie, spesso da soli. Non «piacer figlio<br />
d’affanno»: affanno figlio d’affanno. L’uscir di pena è stato un diletto<br />
solo per pochi fortunati, o solo per pochi istanti, o per animi molto<br />
semplici; quasi sempre ha coinciso con una fase d’angoscia.<br />
L’angoscia è nota a tutti, fin dall’infanzia, ed a tutti è noto che<br />
spesso è bianca, indifferenziata. É raro che rechi un’etichetta scritta in<br />
chiaro, e contenente la sua motivazione; quando la reca, spesso essa è<br />
mendace. Si può credersi o dichiararsi angosciati per un motivo, ed<br />
esserlo per tutt’altro: credere di soffrire davanti al futuro, e soffrire<br />
51
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
invece per il proprio passato; credere di soffrire per gli altri, per pietà,<br />
per compassione, e soffrire invece per motivi nostri, più o meno<br />
profondi, più o meno confessabili e confessati; talvolta così profondi<br />
che solo lo specialista, l’analista delle anime, li sa disseppellire.<br />
Naturalmente non oso affermare che il copione a cui ho<br />
accennato sia falso in ogni caso. Molte liberazioni sono state vissute<br />
con gioia piena, autentica: soprattutto da parte dei combattenti,<br />
militari o politici, che vedevano realizzarsi in quel momento le<br />
aspirazioni della loro militanza e della loro vita; inoltre, da parte di chi<br />
aveva sofferto di meno, o per meno tempo, o soltanto in proprio, e non<br />
per famigliari o amici o persone amate. E poi, per fortuna, gli esseri<br />
umani non sono tutti uguali: c’è fra noi anche chi ha la virtù ed il<br />
privilegio di enucleare, isolare quegli istanti di allegrezza, di goderli<br />
appieno, come chi estraesse l’oro nativo dalla ganga. E finalmente, tra<br />
le testimonianze lette od ascoltate, ci sono anche quelle inconsciamente<br />
stilizzate, in cui la convenzione prevale sulla memoria genuina:<br />
«chi è liberato dalla schiavitù ne gode, io ne sono stato liberato, quindi<br />
ne ho goduto anch’io. In tutti i film, in tutti i romanzi, come nel<br />
Fidelio, la rottura delle catene è un momento di letizia solenne o<br />
fervida, quindi anche la mia lo è stata». É questo un caso particolare di<br />
quella deriva dei ricordi a cui accennavo nel primo capitolo, e che si<br />
accentua col passare degli anni e con l’accumularsi delle esperienze<br />
altrui, vere o presunte, sullo strato delle proprie. Ma chi, per proposito<br />
o per temperamento, si tiene lontano dalla retorica, parla di solito con<br />
voce diversa. Così ad esempio descrive la sua liberazione il già<br />
nominato Filip Müller, che pure ha avuto un’esperienza assai più<br />
terribile della mia, nell’ultima pagina del suo memoriale, Eyewitness<br />
Auschwitz - Three Years in the Gas Chambers:<br />
Per quanto possa sembrare incredibile, provai un completo<br />
abbattimento. Quel momento, su cui da tre anni si erano concentrati<br />
tutti i miei pensieri ed i miei desideri segreti, non suscitò in me né<br />
felicità né alcun altro sentimento. Mi lasciai cadere dal mio giaciglio e<br />
andai carponi fino alla porta. Una volta che fui fuori, mi sforzai<br />
invano di proseguire, poi mi sdraiai semplicemente a terra nel bosco e<br />
caddi nel sonno.<br />
52
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Rileggo ora un passo di La tregua. Il libro è stato pubblicato solo<br />
nel 1963 (Einaudi, Torino) ma queste parole le avevo scritte fin dal<br />
1947; si parla dei primi soldati russi al cospetto del nostro Lager<br />
gremito di cadaveri e di moribondi:<br />
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che<br />
da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e<br />
avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a<br />
noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni<br />
volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna<br />
che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla<br />
colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata<br />
introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che<br />
la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.<br />
Non credo di avere nulla da cancellare o da correggere, bensì<br />
qualcosa da aggiungere. Che molti (ed io stesso) abbiano provato<br />
«vergogna», e cioè senso di colpa, durante la prigionia e dopo, è un<br />
fatto accertato e confermato da numerose testimonianze. Può sembrare<br />
assurdo, ma esiste. Cercherò di interpretarlo in proprio, e di<br />
commentare le interpretazioni altrui.<br />
Come ho accennato all’inizio, il disagio indefinito che<br />
accompagnava la liberazione forse non era propriamente vergogna,<br />
ma come tale veniva percepito. Perché? Si possono tentare varie<br />
spiegazioni.<br />
Escluderò da questo esame alcuni casi eccezionali: i prigionieri,<br />
quasi tutti politici, che ebbero la forza e la possibilità di agire all’interno<br />
del Lager a difesa e vantaggio dei loro compagni. Noi, la quasi totalità<br />
dei prigionieri comuni, li ignoravamo, neppure ne sospettavamo<br />
l’esistenza: cosa logica, poiché, per ovvia necessità politica e poliziesca<br />
(la Sezione Politica di Auschwitz non era altro che un ramo della<br />
Gestapo), essi dovevano operare in segreto, non solo verso i tedeschi, ma<br />
verso tutti. In Auschwitz, impero concentrazionario che al mio tempo era<br />
costituito per il 95% da ebrei, questo reticolo politico era embrionale; io<br />
ho assistito ad un solo episodio che avrebbe dovuto farmi intuire<br />
qualcosa, se non fossi stato schiacciato dal travaglio di tutti i giorni.<br />
Verso il maggio 1944 il nostro quasi innocuo Kapò fu sostituito, e il<br />
nuovo arrivato si dimostrò un individuo temibile, tutti i Kapòs<br />
53
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
picchiavano: questo faceva parte ovvia delle loro mansioni, era il loro<br />
linguaggio, più o meno accettato; era del resto l’unico linguaggio che in<br />
quella perpetua Babele potesse veramente essere inteso da tutti. Nelle sue<br />
varie sfumature, veniva inteso come incitamento al lavoro, come<br />
ammonizione o punizione, e nella gerarchia delle sofferenze stava agli<br />
ultimi posti. Ora, il nuovo Kapò picchiava in modo diverso, in modo<br />
convulso, maligno, perverso: sul naso, sugli stinchi, sui genitali.<br />
Picchiava per far male, per produrre sofferenza e umiliazione. Neppure,<br />
come molti altri, per cieco odio razziale, ma con la volontà aperta di<br />
infliggere dolore, indiscriminatamente, e senza un pretesto, a tutti i suoi<br />
soggetti. È probabile che fosse un malato mentale, ma è chiaro che, in<br />
quelle condizioni, l’indulgenza che verso questi malati sentiamo oggi<br />
come doverosa laggiù sarebbe stata fuori luogo. Ne parlai con un collega,<br />
un comunista ebreo croato: che fare? come difendersi? agire collettivamente?<br />
Lui fece uno strano sorriso e mi disse solo: «Vedrai che<br />
non dura a lungo». Infatti, il picchiatore sparì entro una settimana. Ma<br />
anni più tardi, in un convegno di reduci, seppi che alcuni prigionieri<br />
politici addetti all’Ufficio del Lavoro all’interno del campo avevano il<br />
terrificante potere di sostituire i numeri di matricola sugli elenchi dei<br />
prigionieri destinati al gas. Chi aveva il modo e la volontà di agire così, di<br />
contrastare così o in altri modi la macchina del Lager, era al riparo dalla<br />
«vergogna»: o almeno da quella di cui sto parlando, poiché forse ne<br />
proverà un’altra. Altrettanto al riparo doveva essere Sivadjan, uomo<br />
silenzioso e tranquillo che ho nominato casualmente in Se questo è un<br />
uomo (Einaudi, Torino 1958) nel capitolo Il Canto di Ulisse, e di cui ho<br />
saputo nella stessa occasione che introduceva esplosivo in campo, in vista<br />
di una possibile insurrezione.<br />
A mio avviso, il senso di vergogna o di colpa che coincideva con<br />
la riacquistata libertà era fortemente composito: conteneva in sé<br />
elementi diversi, ed in proporzioni diverse per ogni singolo individuo.<br />
Va ricordato che ognuno di noi, sia oggettivamente, sia soggettivamente,<br />
ha vissuto il Lager a suo modo.<br />
All’uscita dal buio, si soffriva per la riacquistata consapevolezza<br />
di essere stati menomati. Non per volontà né per ignavia né per colpa,<br />
avevamo tuttavia vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco: le<br />
54
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
nostre giornate erano state ingombrate dall’alba alla notte dalla fame,<br />
dalla fatica, dal freddo, dalla paura, e lo spazio di riflettere, per<br />
ragionare, per provare affetti, era annullato. Avevamo sopportato la<br />
sporcizia, la promiscuità e la destituzione soffrendone assai meno di<br />
quanto ne avremmo sofferto nella vita normale, perché il nostro metro<br />
morale era mutato. Inoltre, tutti avevamo rubato: alle cucine, alla<br />
fabbrica, al campo, insomma «agli altri», alla controparte, ma sempre<br />
furto era; alcuni (pochi) erano discesi fino a rubare il pane al proprio<br />
compagno. Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra<br />
cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato,<br />
perché, come gli animali, eravamo ristretti al momento<br />
presente. Da questa condizione di appiattimento eravamo usciti solo a<br />
rari intervalli, nelle pochissime domeniche di riposo, nei minuti fugaci<br />
prima di cadere nel sonno, durante la furia dei bombardamenti aerei,<br />
ma erano uscite dolorose, proprio perché ci davano occasione di<br />
misurare dal di fuori la nostra diminuzione.<br />
Credo che proprio a questo volgersi indietro a guardare l’«acqua<br />
perigliosa» siano dovuti i molti casi di suicidio dopo (a volte subito<br />
dopo) la liberazione. Era sempre un momento critico, che coincideva<br />
con un’ondata di ripensamento e di depressione. Per contro, tutti gli<br />
storici dei Lager, anche di quelli sovietici, concordano nell’osservare<br />
che i casi di suicidio durante la prigionia erano rari. Del fatto sono<br />
state tentate diverse spiegazioni; da parte mia, ne propongo tre, che<br />
non si escludono a vicenda.<br />
Primo: il suicidio è dell’uomo e non dell’animale, è cioè un atto<br />
meditato, una scelta non istintiva, non naturale; ed in Lager c’erano<br />
poche occasioni di scegliere, si viveva appunto come gli animali<br />
asserviti, che a volte si lasciano morire, ma non si uccidono. Secondo:<br />
«c’era altro da pensare», come si dice comunemente. La giornata era<br />
fitta: c’era da pensare a soddisfare la fame, a sottrarsi in qualche modo<br />
alla fatica e al freddo, ad evitare i colpi; proprio per la costante imminenza<br />
della morte, mancava il tempo per concentrarsi sull’idea della<br />
morte. Ha la ruvidezza della verità la notazione di Svevo, in La<br />
coscienza di Zeno, là dove descrive spietatamente l’agonia del padre:<br />
« Quando si muore si ha ben altro da fare che di pensare alla morte.<br />
55
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Tutto il suo organismo era dedicato alla respirazione». Terzo: nella<br />
maggior parte dei casi, il suicidio nasce da un senso di colpa che<br />
nessuna punizione è venuta ad attenuare; ora, la durezza della prigionia<br />
veniva percepita come una punizione, ed il senso di colpa (se<br />
punizione c’è, una colpa dev’esserci stata) veniva relegato in secondo<br />
piano per riemergere dopo la liberazione: in altre parole, non occorreva<br />
punirsi col suicidio per una (vera o presunta) colpa che già si<br />
stava espiando con la sofferenza di tutti i giorni.<br />
Quale colpa? A cose finite, emergeva la consapevolezza di non<br />
aver fatto nulla, o non abbastanza, contro il sistema in cui eravamo<br />
stati assorbiti. Della mancata resistenza nei Lager, o meglio in alcuni<br />
Lager, si è parlato troppo e troppo leggermente, soprattutto da parte di<br />
chi aveva ben altre colpe di cui rendere conto. Chi ha provato sa che<br />
esistevano situazioni, collettive e personali, in cui una resistenza attiva<br />
era possibile; altre, molto più frequenti, in cui non lo era. E noto che,<br />
specialmente nel 1941, caddero in mano tedesca milioni di prigionieri<br />
militari sovietici. Erano giovani, per lo più ben nutriti e robusti,<br />
avevano una preparazione militare e politica, spesso costituivano unità<br />
organiche con graduati di truppa, sottufficiali e ufficiali; odiavano i<br />
tedeschi che avevano invaso il loro paese; eppure raramente<br />
resistettero. La denutrizione, la spogliazione e gli altri disagi fisici,<br />
che è così facile ed economico provocare ed in cui i nazisti erano<br />
maestri, sono rapidamente distruttivi, e prima di distruggere<br />
paralizzano; tanto più quando sono preceduti da anni di segregazione,<br />
umiliazioni, maltrattamenti, migrazioni forzate, lacerazione dei legami<br />
famigliari, rottura dei contatti col resto del mondo. Ora, era questa la<br />
condizione del grosso dei prigionieri che erano approdati ad<br />
Auschwitz dopo l’antinferno dei ghetti o dei campi di raccolta.<br />
Perciò, sul piano razionale, non ci sarebbe stato molto di cui<br />
vergognarsi, ma la vergogna restava ugualmente, soprattutto davanti ai<br />
pochi, lucidi esempi di chi di resistere aveva avuto la forza e la<br />
possibilità; vi ho accennato nel capitolo L’ultimo di Se questo è un<br />
uomo, in cui si descrive l’impiccagione pubblica di un resistente, davanti<br />
alla folla atterrita ed apatica dei prigionieri. E un pensiero che allora<br />
ci aveva appena sfiorati, ma che è ritornato «dopo»: anche tu forse<br />
56
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
avresti potuto, certo avresti dovuto; ed è un giudizio che il reduce vede,<br />
o crede di vedere, negli occhi di coloro (specialmente dei giovani) che<br />
ascoltano i suoi racconti, e giudicano con il facile senno del poi; o che<br />
magari si sente spietatamente rivolgere. Consapevolmente o no, si sente<br />
imputato e giudicato, spinto a giustificarsi ed a difendersi.<br />
Più realistica è l’autoaccusa, o l’accusa, di aver mancato sotto<br />
l’aspetto della solidarietà umana. Pochi superstiti si sentono colpevoli<br />
di aver deliberatamente danneggiato, derubato, percosso un compagno:<br />
chi lo ha fatto (i Kapòs, ma non solo loro) ne rimuove il ricordo;<br />
per contro, quasi tutti si sentono colpevoli di omissione di soccorso.<br />
La presenza al tuo fianco di un compagno più debole, o più<br />
sprovveduto, o più vecchio, o troppo giovane, che ti ossessiona con le<br />
sue richieste d’aiuto, o col suo semplice «esserci» che già di per sé è<br />
una preghiera, è una costante della vita in Lager. La richiesta di<br />
solidarietà, di una parola umana, di un consiglio, anche solo di un<br />
ascolto, era permanente ed universale, ma veniva soddisfatta di rado.<br />
Mancava il tempo, lo spazio, la privatezza, la pazienza, la forza; per lo<br />
più, colui a cui la richiesta veniva rivolta si trovava a sua volta in stato<br />
di bisogno, di credito.<br />
Ricordo con un certo sollievo di avere una volta cercato di ridare<br />
coraggio (in un momento in cui sentivo di averne) ad un diciottenne<br />
italiano appena arrivato, che si dibatteva nella disperazione senza<br />
fondo dei primi giorni di campo: ho scordato che cosa gli ho detto,<br />
certo parole di speranza, forse qualche bugia buona per un «nuovo»,<br />
detta con l’autorità dei miei venticinque anni e dei miei tre mesi di<br />
anzianità; comunque, gli ho fatto dono di un’attenzione momentanea.<br />
Ma ricordo anche, con disagio, di avere molto più spesso scosso le<br />
spalle con impazienza davanti ad altre richieste, e questo proprio<br />
quando ero in campo da quasi un anno, e quindi avevo accumulato<br />
una buona dose di esperienza: ma avevo anche assimilato a fondo la<br />
regola principale del luogo, che prescriveva di badare prima di tutto a<br />
se stessi. Mai ho trovato espressa questa regola con tanta franchezza<br />
quanto nel libro Prisoners of Fear (Victor Gollancz, London 1958) di<br />
Ella Lingens-Reiner (in cui però la frase viene attribuita ad una<br />
57
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
dottoressa che, contro il suo enunciato, si dimostrò generosa e<br />
coraggiosa e salvò molte vite):<br />
Come ho potuto sopravvivere ad Auschwitz? Il mio principio è: per<br />
prima, per seconda e per terza vengo io. Poi più niente. Poi io di<br />
nuovo; e poi tutti gli altri.<br />
Nell’agosto del 1944 ad Auschwitz faceva molto caldo. Un vento<br />
torrido, tropicale, sollevava nuvole di polvere dagli edifici sconquas-sati<br />
dai bombardamenti aerei, ci asciugava il sudore addosso e ci addensava il<br />
sangue nelle vene. La mia squadra era stata mandata in una cantina a<br />
sgomberare i calcinacci, e tutti soffrivamo per la sete: una pena nuova,<br />
che si sommava, anzi, si moltiplicava con quella vecchia della fame. Né<br />
nel campo né nel cantiere c’era acqua potabile; in quei giorni mancava<br />
spesso anche l’acqua dei lavatoi, imbevibile, ma buona per rinfrescarsi e<br />
detergersi dalla polvere. Di norma, a soddisfare la sete bastava<br />
abbondantemente la zuppa della sera e il surrogato di caffè che veniva<br />
distribuito verso le dieci del mattino; ora non bastavano più, e la sete ci<br />
straziava. É più imperiosa della fame: la fame obbedisce ai nervi,<br />
concede remissioni, può essere temporaneamente coperta da<br />
un’emozione, un dolore, una paura (ce ne eravamo accorti nel viaggio in<br />
treno dall’Italia); non così la sete, che non dà tregua. La fame estenua, la<br />
sete rende furiosi; in quei giorni ci accompagnava di giorno e di notte: di<br />
giorno, nel cantiere, il cui ordine (a noi nemico, ma era pur sempre un<br />
ordine, un luogo di cose logiche e certe) si era trasformato in un caos di<br />
opere frantumate; di notte, nelle baracche prive di ventilazione, a<br />
boccheggiare nell’aria cento volte respirata.<br />
L’angolo di cantina che mi era stato assegnato dal Kapò perché<br />
ne sgombrassi le macerie era attiguo ad un vasto locale occupato da<br />
impianti chimici in corso di installazione ma già danneggiati dalle<br />
bombe. Lungo il muro, verticale, c’era un tubo da due pollici, che<br />
terminava con un rubinetto poco sopra il pavimento. Un tubo d’acqua?<br />
Provai ad aprirlo, ero solo, nessuno mi vedeva. Era bloccato, ma<br />
usando un sasso come un martello riuscii a smuoverlo di qualche<br />
millimetro.. Ne uscirono gocce, non avevano odore, ne raccolsi sulle<br />
dita: sembrava proprio acqua. Non avevo recipienti; le gocce uscivano<br />
lente, senza pressione: il tubo doveva essere pieno solo fino a metà,<br />
58
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
forse meno. Mi sdraiai a terra con la bocca sotto il rubinetto, senza<br />
tentare di aprirlo di più: era acqua tiepida per il sole, insipida, forse<br />
distillata o di condensazione; ad ogni modo, una delizia.<br />
Quant’acqua può contenere un tubo da due pollici per un’altezza<br />
di un metro o due? Un litro, forse neanche. Potevo berla tutta subito,<br />
sarebbe stata la via più sicura. O lasciarne un po’ per l’indomani. O<br />
dividerla a metà con Alberto. O rivelare il segreto a tutta la squadra.<br />
Scelsi la terza alternativa, quella dell’egoismo esteso a chi ti è più<br />
vicino, che un mio amico in tempi lontani ha appropriatamente<br />
chiamano «nosismo». Bevemmo tutta quell’acqua, a piccoli sorsi<br />
avari, alternandoci sotto il rubinetto, noi due soli. Di nascosto; ma<br />
nella marcia di ritorno al campo mi trovai accanto a Daniele, tutto grigio<br />
di polvere di cemento, che aveva le labbra spaccate e gli occhi<br />
lucidi, e mi sentii colpevole. Scambiai un’occhiata con Alberto, ci<br />
comprendemmo a volo, e sperammo che nessuno ci avesse visti. Ma<br />
Daniele ci aveva intravisti in quella strana posizione, supini accanto al<br />
muro in mezzo ai calcinacci, ed aveva sospettato qualcosa, e poi aveva<br />
indovinato. Me lo disse con durezza, molti mesi dopo, in Russia<br />
Bianca, a liberazione avvenuta: perché voi due sì e io no? Era il codice<br />
morale «civile» che risorgeva, quello stesso per cui a me uomo oggi<br />
libero appare raggelante la condanna a morte del Kapò picchiatore,<br />
decisa e compiuta senza appello, in silenzio, con un colpo di gomma<br />
per cancellare. É giustificata o no la vergogna del poi? Non sono<br />
riuscito a stabilirlo allora, e neppure oggi ci riesco, ma la vergogna c<br />
era e c’è, concreta, pesante, perenne. Daniele adesso è morto, ma nei<br />
nostri incontri di reduci, fraterni, affettuosi, il velo di quell’atto<br />
mancato, di quel bicchier d’acqua non condiviso, stava fra noi,<br />
trasparente, non espresso, ma percettibile e «costoso».<br />
Cambiare codice morale è sempre costoso: lo sanno tutti gli<br />
eretici, gli apostati e i dissidenti. Non siamo più capaci di giudicare il<br />
comportamento nostro od altrui, tenuto allora sotto il codice di allora,<br />
in base al codice di oggi; ma mi pare giusta la collera che ci invade<br />
quando vediamo che qualcuno degli «altri » si sente autorizzato a<br />
giudicare noi « apostati», o meglio riconvertiti.<br />
59
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di<br />
un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di<br />
vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi<br />
ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato<br />
o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai<br />
soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?),<br />
non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte...), non hai<br />
rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. É solo una<br />
supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di<br />
suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico «noi» in un senso<br />
molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e<br />
viva in vece sua. É una supposizione, ma rode; si è annidata profonda,<br />
come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride.<br />
Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico più<br />
anziano di me, mite ed intransigente, cultore di una religione sua<br />
personale, che però mi è sempre parsa severa e seria. Era contento di<br />
ritrovarmi vivo e sostanzialmente indenne, forse maturato e fortificato,<br />
certamente arricchito. Mi disse che l’essere io sopravvissuto non poteva<br />
essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate<br />
(come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un<br />
contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente<br />
dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato.<br />
E perché proprio io? Non lo si può sapere, mi rispose. Forse perché<br />
scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza: non stavo infatti scrivendo<br />
allora, nel 1946, un libro sulla mia prigionia?<br />
Questa opinione mi parve mostruosa. Mi dolse come quando si<br />
tocca un nervo scoperto, e ravvivò il dubbio di cui dicevo prima:<br />
potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei avere<br />
soppiantato, cioè di fatto ucciso. I «salvati» del Lager non erano i<br />
migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo<br />
visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di<br />
preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori<br />
della « zona grigia», le spie. Non era una regola certa (non<br />
c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una<br />
60
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato fra i salvati, e perciò<br />
alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei<br />
e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori<br />
sono morti tutti.<br />
É morto Chajim, orologiaio di Cracovia, ebreo pio, che a dispetto<br />
delle difficoltà di linguaggio si era sforzato di capirmi e di farsi capire, e<br />
di spiegare a me straniero le regole essenziali di sopravvivenza nei<br />
primi giorni cruciali di cattività; è morto Szabò, il taciturno contadino<br />
ungherese, che era alto quasi due metri e perciò aveva più fame di tutti,<br />
eppure, finché ebbe forza, non esitò ad aiutare i compagni più deboli a<br />
tirare ed a spingere; e Robert, professore alla Sorbona, che emanava<br />
coraggio e fiducia intorno a sé, parlava cinque lingue, si logorava a<br />
registrare tutto nella sua memoria prodigiosa, e se avesse vissuto<br />
avrebbe risposto ai perché a cui io non so rispondere; ed è morto<br />
Baruch, scaricatore del porto di Livorno, subito, il primo giorno, perché<br />
aveva risposto a pugni al primo pugno che aveva ricevuto, ed è stato<br />
massacrato da tre Kapòs coalizzati. Questi, ed altri innumerevoli, sono<br />
morti non malgrado il loro valore, ma per il loro valore.<br />
L’amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché<br />
portassi testimonianza. L’ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei<br />
potuto non farlo; e ancora lo faccio, ogni volta che se ne presenta<br />
l’occasione; ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto<br />
fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti<br />
anni senza grossi problemi, mi inquieta, perché non vedo proporzione<br />
fra il privilegio e il risultato.<br />
Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa<br />
una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco,<br />
leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi<br />
sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo<br />
quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno<br />
toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato<br />
per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i «mussulmani», i<br />
sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe<br />
avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione. Sotto<br />
61
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
altro cielo, e reduce da una schiavitù simile e diversa, lo ha notato<br />
anche Solženicyn:<br />
Quasi tutti coloro che hanno scontato una lunga pena e con i quali vi<br />
congratulate perché sono dei sopravvissuti, sono senz’altro dei<br />
pridurki o lo sono stati per la maggior parte della prigionia. Perché i<br />
Lager sono di sterminio, questo non va dimenticato.<br />
Nel linguaggio di quell’altro universo concentrazionario, i<br />
pridurki sono i prigionieri che, in un modo o nell’ altro, si sono<br />
conquistati una posizione di privilegio, quelli che da noi si<br />
chiamavano i Prominenti.<br />
Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore<br />
sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello<br />
degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso «per conto<br />
di terzi», il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in<br />
proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non<br />
l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la<br />
sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non<br />
avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di<br />
quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già<br />
perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi.<br />
Parliamo noi in loro vece, per delega.<br />
Non saprei dire se lo abbiamo fatto, o lo facciamo, per una sorta di<br />
obbligo morale verso gli ammutoliti, o non invece per liberarci del loro<br />
ricordo; certo lo facciamo per un impulso forte e durevole. Non credo che<br />
gli psicoanalisti (che sui nostri grovigli si sono gettati con avidità<br />
professionale) siano competenti a spiegare questo impulso. La loro<br />
sapienza è stata costruita e collaudata «fuori», nel mondo che per<br />
semplicità chiamiamo civile: ne ricalca la fenomenologia e cerca di<br />
spiegarla; ne studia le deviazioni e cerca di guarirle. Le loro interpretazioni,<br />
anche quelle di chi, come Bruno Bettelheim, ha attraversato la<br />
prova del Lager, mi sembrano approssimative e semplificate, come di chi<br />
volesse applicare i teoremi della geometria piana alla risoluzione dei<br />
triangoli sferici. I meccanismi mentali degli Häftlinge erano diversi dai<br />
nostri; curiosamente, e parallelamente, diversa era anche la loro fisiologia<br />
e patologia. In Lager, il raffreddore e l’infIluenza erano sconosciuti, ma si<br />
62
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
moriva, a volte di colpo, per mali che i medici non hanno mai avuto<br />
occasione di studiare. Guarivano (o diventavano asintomatiche) le ulcere<br />
gastriche e le malattie mentali, ma tutti soffrivano di un disagio<br />
incessante, che inquinava il sonno e che non ha nome. Definirlo «<br />
nevrosi» è riduttivo e ridicolo. Forse sarebbe più giusto riconoscervi<br />
un’angoscia atavica, quella di cui si sente l’eco nel secondo versetto della<br />
Genesi: l’angoscia inscritta in ognuno del «tòhu vavòhu», dell’universo<br />
deserto e vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio, ma da cui lo spirito<br />
dell’uomo è assente: non ancora nato o già spento.<br />
E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. E stato<br />
detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a<br />
proposito e non, che «nessun uomo è un’isola», e che ogni campana di<br />
morte suona per ognuno. Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, o<br />
alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene<br />
toccato: così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni<br />
hitleriani, nell’illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il<br />
non sapere li alleviasse dalla loro quota di complicità o di connivenza.<br />
Ma a noi lo schermo dell’ignoranza voluta, il «partial shelter» di T. S.<br />
Eliot, è stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di<br />
dolore, passato e presente, ci circondava, ed il suo livello è salito di<br />
anno in anno fino quasi a sommergerci. Era inutile chiudere gli occhi<br />
o volgergli le spalle, perché era tutto intorno, in ogni direzione fino<br />
all’orizzonte. Non ci era possibile, né abbiamo voluto, essere isole; i<br />
giusti fra noi, non più né meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo<br />
umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la<br />
colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti<br />
coinvolti, perché sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro, ed<br />
in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere<br />
lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi<br />
insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole<br />
infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla,<br />
senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.<br />
63
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Ci viene chiesto sovente, come se il nostro passato ci conferisse<br />
una virtù profetica, se « Auschwitz » ritornerà: se avverranno cioè altri<br />
stermini di massa, unilaterali, sistematici, meccanizzati, voluti a<br />
livello di governo, perpetrati su popolazioni innocenti ed inermi, e<br />
legittimati dalla dottrina del disprezzo. Profeti, per nostra buona sorte,<br />
non siamo, ma qualcosa si può dire. Che una tragedia simile, quasi<br />
ignorata in Occidente, è avvenuta intorno al 1975 in Cambogia. Che la<br />
strage tedesca ha potuto innescarsi, e si è poi alimentata di se stessa,<br />
per brama di servitù e per pochezza d’animo, grazie alla combinazione<br />
di alcuni fattori (lo stato di guerra; il perfezionismo tecnologico ed<br />
organizzativo germanico; la volontà ed il carisma capovolto di Hitler;<br />
la mancanza, in Germania, di solide radici democratiche), non molto<br />
numerosi, ognuno di essi indispensabile ma insufficiente se preso da<br />
solo. Questi fattori si possono riprodurre, e in parte già si stanno<br />
riproducendo, in varie parti del mondo. La ricombinazione di tutti,<br />
entro dieci o vent’anni (di un futuro più lontano non ha senso parlare),<br />
è poco probabile ma non impossibile. A mio avviso, una strage di<br />
massa è particolarmente improbabile nel mondo occidentale, in<br />
Giappone ed anche in Unione Sovietica: i Lager della seconda guerra<br />
mondiale sono ancora nella memoria di molti, a livello sia di popolazione<br />
sia di governi, ed è in atto una sorta di difesa immunitaria che<br />
coincide ampiamente con la vergogna di cui ho parlato.<br />
Su cosa possa avvenire in altre parti del mondo, o dopo, è<br />
prudente sospendere il giudizio; e l’apocalissi nucleare, certamente<br />
bilaterale, probabilmente istantanea e definitiva, è un orrore maggiore<br />
e diverso, strano, nuovo, che esorbita dal tema che ho scelto.<br />
64
IV<br />
Comunicare<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Il termine « incomunicabilità », così di moda negli anni ‘70, non<br />
mi è mai piaciuto; in primo luogo perché è un mostro linguistico, in<br />
secondo per ragioni più personali.<br />
Nel mondo normale odierno, quello che per convenzione e per<br />
contrasto abbiamo volta a volta chiamato «civile» e «libero», non<br />
capita quasi mai di urtare contro una barriera linguistica totale: di<br />
trovarsi davanti ad un essere umano con cui dobbiamo assolutamente<br />
stabilire una comunicazione, pena la vita, e di non riuscirci. Ne ha<br />
dato un esempio famoso, ma incompleto, Antonioni in Deserto rosso,<br />
nell’episodio in cui la protagonista incontra nella notte un marinaio<br />
turco che non sa una parola di alcuna lingua salvo la sua, e tenta<br />
invano di farsi capire. Incompleto, perché da entrambe le parti, anche<br />
da quella del marinaio, la volontà di comunicare esiste: o almeno,<br />
manca la volontà di rifiutare il contatto.<br />
Secondo una teoria in voga in quegli anni, e che a me pare frivola<br />
ed irritante, l'«incomunicabilità» sarebbe un ingrediente immancabile,<br />
una condanna a vita inserita nella condizione umana, ed in specie nel<br />
modo di vivere della società industriale: siamo monadi, incapaci di<br />
messaggi reciproci, o capaci solo di messaggi monchi, falsi in<br />
partenza, fraintesi all’arrivo. Il discorso è fittizio, puro rumore, velo<br />
dipinto che copre il silenzio esistenziale; ohimé, siamo soli, anche se<br />
(o specialmente se) viviamo in coppia. Mi pare che questa<br />
lamentazione proceda da pigrizia mentale e la denunci; certamente la<br />
incoraggia, in un pericoloso circolo vizioso. Salvo casi di incapacità<br />
65
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
patologica, comunicare si può e si deve: è un modo utile e facile di<br />
contribuire alla pace altrui e propria, perché il silenzio, l’assenza di<br />
segnali, è a sua volta un segnale, ma ambiguo, e l’ambiguità genera<br />
inquietudine e sospetto. Negare che comunicare si può è falso: si può<br />
sempre. Rifiutare di comunicare è colpa; per la comunicazione, ed in<br />
specie per quella sua forma altamente evoluta e nobile che è il<br />
linguaggio, siamo biologicamente e socialmente predisposti. Tutte le<br />
razze umane parlano; nessuna specie non-umana sa parlare.<br />
Anche sotto l’aspetto della comunicazione, anzi, della mancata<br />
comunicazione, l’esperienza di noi reduci è peculiare. É un nostro<br />
fastidioso vezzo intervenire quando qualcuno (i figli!) parla di freddo,<br />
di fame o di fatica. Che cosa ne sapete, voi? Avreste dovuto provare le<br />
nostre. Per ragioni di buon gusto e di buon vicinato, noi cerchiamo in<br />
generale di resistere alla tentazione di questi interventi da miles<br />
gloriosus; la quale, tuttavia, per me diventa imperiosa appunto quando<br />
sento parlare di comunicazione mancata o impossibile. «Avreste dovuto<br />
provare la nostra». Non è confrontabile con quella del turista che va in<br />
Finlandia o in Giappone, e trova interlocutori alloglotti ma professionalmente<br />
(od anche spontaneamente) gentili e ben intenzionati, che si<br />
sforzano di capirlo e di essergli d’aiuto: oltre tutto, chi è che in qualsiasi<br />
angolo del mondo non mastica un po’ d’inglese? E le richieste dei<br />
turisti sono poche, sempre le stesse: quindi le aporie sono rare, e il<br />
quasi-non-capirsi può addirittura essere divertente come un gioco.<br />
É certamente più drammatico il caso dell’emigrante, italiano in<br />
America cento anni fa, turco o marocchino o pachistano in Germania<br />
o in Svezia oggi. Qui non è più una breve esplorazione senza<br />
imprevisti, condotta lungo le piste ben collaudate delle agenzie di<br />
viaggio: è un trapianto, forse definitivo; è un inserimento in un lavoro<br />
che oggi è raramente elementare, ed in cui la comprensione della<br />
parola, pronunciata o scritta, è necessaria; comporta rapporti umani<br />
indispensabili con i vicini di casa, i bottegai, i colleghi, i superiori: sul<br />
lavoro, in strada, al bar, con gente straniera, di costumi diversi, spesso<br />
ostile. Ma i correttivi non mancano, la stessa società capitalistica è<br />
intelligente quanto basta per capire che qui il suo profitto coincide<br />
ampiamente con il rendimento del «lavoratore ospite», e quindi con il<br />
66
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
suo benessere e il suo inserimento. Gli si concede di portarsi dietro la<br />
famiglia, cioè un pezzo di patria; gli si trova, bene o male, un alloggio;<br />
può (talvolta deve) frequentare scuole di lingua. Il sordomuto sbarcato<br />
dal treno viene aiutato, forse senza amore, non senza efficienza, e in<br />
breve riacquista la parola.<br />
Noi abbiamo vissuto l’incomunicabilità in modo più radicale. Mi<br />
riferisco in specie ai deportati italiani, jugoslavi e greci; in misura<br />
minore ai francesi, fra cui molti erano d’origine polacca o tedesca, ed<br />
alcuni, essendo alsaziani, capivano bene il tedesco; ed a molti<br />
ungheresi che venivano dalla campagna. Per noi italiani, l’urto contro<br />
la barriera linguistica è avvenuto drammaticamente già prima della<br />
deportazione, ancora in Italia, al momento in cui i funzionari della<br />
Pubblica Sicurezza italiana ci hanno ceduti con visibile riluttanza alle<br />
SS, che nel febbraio 1944 si erano arrogata la gestione del campo di<br />
smistamento di Fòssoli presso Modena. Ci siamo accorti subito, fin<br />
dai primi contatti con gli uomini sprezzanti dalle mostrine nere, che il<br />
sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Con chi li capiva, e<br />
rispondeva in modo articolato, si instaurava una parvenza di rapporto<br />
umano. Con chi non li capiva, i neri reagivano in un modo che ci stupì<br />
e spaventò: l’ordine, che era stato pronunciato con la voce tranquilla<br />
di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e<br />
rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o<br />
meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto<br />
del messaggio.<br />
Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed<br />
erano terrorizzati) arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di<br />
una variante dello stesso linguaggio: l’uso della parola per comunicare<br />
il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinché<br />
l’uomo sia uomo, era caduto in disuso. Era un segnale: per quegli altri,<br />
uomini non eravamo più: con noi, come con le vacche o i muli, non<br />
c’era una differenza sostanziale tra l’urlo e il pugno. Perché un cavallo<br />
corra o si fermi, svolti, tiri o smetta di tirare, non occorre venire a patti<br />
con lui o dargli spiegazioni dettagliate; basta un dizionario costituito<br />
da una dozzina di segni variamente assortiti ma univoci, non importa<br />
se acustici o tattili o visivi: trazione delle briglie, punture degli<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
speroni, urla, gesti, schiocchi di frusta, strombettii delle labbra, pacche<br />
sulla schiena, vanno tutti ugualmente bene. Parlargli sarebbe un’azione<br />
sciocca, come parlare da soli, o un patetismo ridicolo: tanto, che<br />
cosa capirebbe? Racconta Marsalek, nel suo libro Mauthausen (La<br />
Pietra, Milano 1977) che in questo Lager, ancora più mistilingue di<br />
Auschwitz, il nerbo di gomma si chiamava «der Dolmetscher», l’interprete:<br />
quello che si faceva capire da tutti.<br />
Infatti, l’uomo incolto (e i tedeschi di Hitler, e le SS in specie,<br />
erano paurosamente incolti: non erano stati «coltivati», o erano stati<br />
coltivati male) non sa distinguere nettamente fra chi non capisce la sua<br />
lingua e chi non capisce tout court. Ai giovani nazisti era stato martellato<br />
in testa che esisteva al mondo una sola civiltà, quella tedesca;<br />
tutte le altre, presenti o passate, erano accettabili solo in quanto<br />
contenessero in sé qualche elemento germanico. Perciò, chi non capiva<br />
né parlava il tedesco era per definizione un barbaro; se si ostinava a cercare<br />
di esprimersi nella sua lingua, anzi, nella sua non-lingua, bisognava<br />
farlo tacere a botte e rimetterlo al suo posto, a tirare, portare e spingere,<br />
poiché non era un Mensch, un essere umano. Mi torna alla memoria un<br />
episodio eloquente. Nel cantiere, il Kapò novellino di una squadra<br />
costituita in prevalenza di italiani, francesi e greci non s’era accorto che<br />
alle sue spalle si era avvicinato uno dei più temuti sorveglianti delle SS.<br />
Si volse di scatto, si mise sull’attenti tutto smarrito, ed enunciò la<br />
Meldung prescritta: «Kommando 83, quaranta-due uomini». Nel suo<br />
turbamento, aveva proprio detto «zweiundvierzig Mann», «uomini». Il<br />
milite lo corresse in tono burbero e paterno: non si dice così, si dice<br />
«zweiundvierzig Häftlinge», quarantadue prigionieri. Era un Kapò<br />
giovane, e perciò perdonabile, ma doveva imparare il mestiere, le<br />
convenienze sociali e le distanze gerarchiche.<br />
Questo «non essere parlati a» aveva effetti rapidi e devastanti. A<br />
chi non ti parla, o ti si indirizza con urli che ti sembrano inarticolati,<br />
non osi rivolgere la parola. Se hai la fortuna di trovare accanto a te<br />
qualcuno con cui hai una lingua comune, buon per te, potrai scambiare<br />
le tue impressioni, consigliarti con lui, sfogarti; se non trovi nessuno,<br />
la lingua ti si secca in pochi giorni, e con la lingua il pensiero.<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Inoltre, sul piano dell’immediato, non capisci gli ordini ed i divieti,<br />
non decifri le prescrizioni, alcune futili e derisorie, altre fondamentali. Ti<br />
trovi insomma nel vuoto, e comprendi a tue spese che la comunicazione<br />
genera l’informazione, e che senza informazione non si vive. La maggior<br />
parte dei prigionieri che non conoscevano il tedesco, quindi quasi tutti gli<br />
italiani, sono morti nei primi dieci-quindici giorni dal loro arrivo: a prima<br />
vista, per fame, freddo, fatica, malattia; ad un esame più attento, per<br />
insufficienza d’informazione. Se avessero potuto comunicare con i<br />
compagni più anziani, avrebbero potuto orientarsi meglio: imparare<br />
prima a procurarsi abiti, scarpe, cibo illegale; a scansare il lavoro più<br />
duro, e gli incontri spesso mortali con le SS; a gestire senza errori fatali le<br />
inevitabili malattie. Non intendo dire che non sarebbero morti, ma<br />
avrebbero vissuto più a lungo, ed avrebbero avuto maggiori possibilità di<br />
riguadagnare il terreno perduto.<br />
Nella memoria di tutti noi superstiti, e scarsamente poliglotti, i<br />
primi giorni di Lager sono rimasti impressi nella forma di un film<br />
sfuocato e frenetico, pieno di fracasso e di furia e privo di significato:<br />
un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un<br />
continuo assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana<br />
non affiorava. Un film in grigio e nero, sonoro ma non parlato.<br />
Ho notato, su me stesso e su altri reduci, un effetto curioso di<br />
questo vuoto e bisogno di comunicazione. A distanza di quarant’anni,<br />
ricordiamo ancora, in forma puramente acustica, parole e frasi<br />
pronunciate intorno a noi in lingue che non conoscevamo né abbiamo<br />
imparato dopo: per me, ad esempio, in polacco o in ungherese. Ancora<br />
oggi io ricordo come si enunciava in polacco non il mio numero di<br />
matricola, ma quello del prigioniero che mi precedeva nel ruolino di<br />
una certa baracca: un groviglio di suoni che terminava armoniosamente,<br />
come le indecifrabili contine dei bambini, in qualcosa come «stergìsci<br />
stèri» (oggi so che queste due parole vogliono dire «quarantaquattro»).<br />
Infatti, in quella baracca erano polacchi il distributore della zuppa e la<br />
maggior parte dei prigionieri, e il polacco era la lingua ufficiale; quando<br />
si veniva chiamati, bisognava stare pronti con la gamella tesa per non<br />
perdere il turno, e perciò, per non essere colti di sorpresa, era bene<br />
scattare quando era chiamato il compagno col numero di matricola<br />
69
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
immediatamente precedente. Quello « stergìsci stèri » funzionava anzi<br />
come il campanello che condizionava i cani di Pavlov: provocava una<br />
subitanea secrezione di saliva.<br />
Queste voci straniere si erano incise nelle nostre memorie come<br />
su un nastro magnetico vuoto, bianco; allo stesso modo, uno stomaco<br />
affamato assimila rapidamente anche un cibo indigesto. Non ci ha<br />
aiutati a ricordarle il loro senso, perché per noi non ne avevano;<br />
eppure, molto più tardi, le abbiamo recitate a persone che le potevano<br />
comprendere, e un senso, tenue e banale, lo avevano: erano<br />
imprecazioni, bestemmie, o frasette quotidiane spesso ripetute, come<br />
«che ora è?», o «non posso camminare», o « lasciami in pace». Erano<br />
frammenti strappati all’indistinto: frutto di uno sforzo inutile ed inconscio<br />
di ritagliare un senso entro l’insensato. Erano anche<br />
l’equivalente mentale del nostro bisogno corporeo di nutrimento, che<br />
ci spingeva a cercare le bucce di patate nei dintorni delle cucine: poco<br />
più del niente, meglio del niente. Anche il cervello sottoalimentato<br />
soffre di una sua fame specifica. O forse, questa memoria inutile e<br />
paradossa aveva un altro significato e un altro scopo: era una<br />
inconsapevole preparazione per il «dopo», per una improbabile<br />
sopravvivenza, in cui ogni brandello di esperienza sarebbe diventato<br />
un tassello di un vasto mosaico.<br />
Ho raccontato nelle prime pagine di La tregua un caso estremo di<br />
comunicazione necessaria e mancata: quello del bambino Hurbinek, di<br />
tre anni, forse nato clandestinamente in Lager, a cui nessuno aveva<br />
insegnato a parlare, e che di parlare provava un bisogno intenso,<br />
espresso da tutto il suo povero corpo. Anche sotto questo aspetto, il<br />
Lager era un laboratorio crudele in cui era dato assistere a situazioni e<br />
comportamenti mai visti né prima, né dopo, né altrove.<br />
Avevo imparato qualche parola di tedesco pochi anni prima, quando<br />
ero ancora studente, al solo scopo di intendere i testi di chimica e di fisica:<br />
non certo per trasmettere attivamente il mio pensiero né per comprendere il<br />
linguaggio parlato. Erano gli anni delle leggi razziali fasciste, ed un mio<br />
incontro con un tedesco, o un viaggio in Germania, sembravano eventi ben<br />
70
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
poco probabili. Scaraventato ad Auschwitz, nonostante lo smarrimento<br />
iniziale (anzi forse proprio grazie a quello) ho capito abbastanza presto che<br />
il mio scarsissimo Wortschatz era diventato un fattore di sopravvivenza<br />
essenziale. Wortschatz significa «patrimonio lessicale», ma alla lettera<br />
«tesoro di parole»; mai termine è stato altrettanto appropriato. Sapere il<br />
tedesco era la vita: bastava che mi guardassi intorno. I compagni italiani<br />
che non lo capivano, cioè quasi tutti salvo qualche triestino, stavano annegando<br />
ad uno ad uno nel mare tempestoso del non-capire: non intendevano<br />
gli ordini, ricevevano schiaffi e calci senza comprenderne il perché.<br />
Nell’etica rudimentale del campo, era previsto che un colpo venisse in<br />
qualche modo giustificato, per facilitare lo stabilirsi dell’arco trasgressionepunizione-ravvedimento;<br />
quindi, spesso il Kapò o i suoi vice<br />
accompagnavano il pugno con un grugnito: «Sai perché?», a cui seguiva<br />
una sommaria «comunicazione di reato». Ma per i nuovi sordomuti questo<br />
cerimoniale era inutile. Si rifugiavano istintivamente negli angoli per avere<br />
le spalle coperte: l’aggressione poteva venire da tutte le direzioni. Si<br />
guardavano intorno con occhi smarriti, come animali presi in trappola, e<br />
tali in effetti erano diventati.<br />
Per molti italiani è stato vitale l’aiuto dei compagni francesi e<br />
spagnoli, le cui lingue erano meno «straniere» del tedesco. Ad<br />
Auschwitz non c’erano spagnoli, mentre i francesi (più precisamente: i<br />
deportati dalla Francia o dal Belgio) erano molti, nel 1944 forse il 10%<br />
del totale. Alcuni erano alsaziani, oppure erano ebrei tedeschi e polacchi<br />
che nel decennio precedente avevano cercato in Francia un<br />
rifugio che si era rivelato una trappola: tutti questi conoscevano bene o<br />
male il tedesco o il jiddisch. Gli altri, i francesi metropolitani. proletari<br />
o borghesi o intellettuali, avevano subìto uno o due anni prima una<br />
selezione analoga alla nostra: quelli che non capivano erano usciti di<br />
scena. I rimasti, quasi tutti «métèques», a suo tempo accolti in Francia<br />
piuttosto male, si erano presa una triste rivincita. Erano i nostri<br />
interpreti naturali: traducevano per noi i comandi e gli avvertimenti<br />
fondamentali della giornata, «alzarsi», «adunata», «in fila per il pane»,<br />
«chi ha le scarpe rotte?», «per tre», «per cinque», eccetera.<br />
Certo non bastava. Io supplicai uno di loro, un alsaziano, di<br />
tenermi un corso privato ed accelerato, distribuito in brevi lezioni<br />
71
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
somministrate sottovoce, fra il momento del coprifuoco e quello in cui<br />
cedevamo al sonno; lezioni da compensarsi con pane, altra moneta<br />
non c’era. Lui accettò, e credo che mai pane fu meglio speso. Mi<br />
spiegò che cosa significavano i ruggiti dei Kapòs e delle SS, i motti<br />
insulsi o ironici scritti in gotico sulle capriate della baracca, che cosa<br />
significavano i colori dei triangoli che portavamo al petto sopra il<br />
numero di matricola. Così mi accorsi che il tedesco del Lager,<br />
scheletrico, urlato, costellato di oscenità e di imprecazioni, aveva<br />
soltanto una vaga parentela col linguaggio preciso e austero dei miei<br />
testi di chimica, e col tedesco melodioso e raffinato delle poesie di<br />
Heine che mi recitava Clara, una mia compagna di studi.<br />
Non mi rendevo conto, e me ne resi conto solo molto più tardi,<br />
che il tedesco del Lager era una lingua a sé stante: per dirla appunto in<br />
tedesco, era orts- und zeitgebunden, legata al luogo ed al tempo. Era<br />
una variante, particolarmente imbarbarita, di quella che un filologo<br />
ebreo tedesco, Klemperer, aveva battezzata Lingua Tertii Imperii, la<br />
lingua del Terzo Reich, proponendone anzi l’acrostico LTI in analogia<br />
ironica con i cento altri (NSDAP, SS, SA, SD, KZ, RKPA, WVHA,<br />
RSHA, BDM...) cari alla Germania di allora.<br />
Sulla LTI, e sul suo equivalente italiano, si è già scritto molto,<br />
anche da parte di linguisti. É ovvia l’osservazione che, là dove si fa<br />
violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio; ed in Italia non<br />
abbiamo dimenticato le sciocche campagne fasciste contro i dialetti,<br />
contro i «barbarismi», contro i toponimi valdostani, valsusini,<br />
altoatesini, contro il «lei, servile e straniero». In Germania le cose<br />
stavano altrimenti: già da secoli la lingua tedesca aveva mostrato una<br />
spontanea avversione per le parole di origine non-germanica, per cui<br />
gli scienziati tedeschi si erano affannati a ribattezzare la bronchite in<br />
«aria-tubi-infiammazione», il duodeno in «dodici-dita-intestino» e<br />
l’acido piruvico in «brucia-uva-acido»; perciò, sotto questo aspetto, al<br />
nazismo che voleva purificare tutto restava ben poco da purificare. La<br />
LTI differiva dal tedesco di Goethe soprattutto per certi spostamenti<br />
semantici e per l’abuso di alcuni termini: ad esempio, gli aggettivi<br />
völkisch («nazionale, popolare»), che era diventato onnipresente e<br />
carico di albagia nazionalistica, e fanatisch, la cui connotazione da<br />
72
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
negativa si era fatta positiva. Ma nell’arcipelago dei Lager tedeschi si<br />
era delineato un linguaggio settoriale, un gergo, il «Lagerjargon»,<br />
suddiviso in sottogerghi specifici di ogni Lager, e strettamente imparentato<br />
con il vecchio tedesco delle caserme prussiane e con il nuovo<br />
tedesco delle SS. Non è strano che esso risulti parallelo al gergo dei<br />
campi di lavoro sovietici, vari termini del quale sono citati da<br />
Solženicyn: ognuno di questi trova il suo esatto riscontro nel<br />
Lagerjargon. La traduzione in tedesco dell’Arcipelago Gulag<br />
(Mondadori, Milano 1975) non deve aver presentato molte difficoltà:<br />
o se si, non terminologiche.<br />
Era comune a tutti i Lager il termine Muselmann, «mussulmano»,<br />
attribuito al prigioniero irreversibilmente esausto, estenuato, prossimo<br />
alla morte. Se ne sono proposte due spiegazioni, entrambe poco<br />
convincenti: il fatalismo, e le fasciature alla testa che potevano simulare<br />
un turbante. Esso è rispecchiato esattamente, anche nella sua cinica<br />
ironia, dal termine russo dochodjaga, letteralmente «arrivato alla fine»,<br />
«concluso». Nel Lager di Ravensbrück (l’unico esclusivamente<br />
femminile) lo stesso concetto veniva espresso, mi dice Lidia Rolfi, con i<br />
due sostantivi speculari Schmutzstück e Schmuckstück, rispettivamente<br />
«immondizia» e «gioiello», quasi omofoni, l’uno parodia dell’altro. Le<br />
italiane non ne capivano il senso raggelante, ed unificando i due termini<br />
pronunciavano «smistig». Anche Prominent è termine comune a tutti i<br />
sottogerghi. Dei «prominenti», i prigionieri che avevano fatto carriera, ho<br />
parlato diffusamente in Se questo è un uomo; essendo una componente<br />
indispensabile nella sociologia dei campi, esistevano anche in quelli<br />
sovietici, dove (l’ho ricordato nel terzo capitolo) erano detti pridurki.<br />
Ad Auschwitz «mangiare» si rendeva con fressen, verbo che in<br />
buon tedesco si applica soltanto agli animali. Per «vàttene» si usava<br />
l’espressione hau’ ab, imperativo del verbo abhauen; questo, in buona<br />
lingua, significa «tagliare, mozzare», ma nel gergo del Lager<br />
equivaleva a «andare all’inferno, levarsi di torno». Mi è accaduto una<br />
volta di usare in buona fede questa espressione (Jetzt hauen wir ab)<br />
poco dopo la fine della guerra, per prendere congedo da alcuni educati<br />
funzionari della Bayer dopo un colloquio d’affari. Era come se avessi<br />
detto «ora ci togliamo dai piedi». Mi guardarono stupiti: il termine<br />
73
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
apparteneva ad un registro linguistico diverso da quello in cui si era<br />
svolta la conversazione precedente, e non viene certo insegnato nei<br />
corsi scolastici di « lingua straniera». Spiegai loro che non avevo<br />
imparato il tedesco a scuola, bensì in un Lager di nome Auschwitz; ne<br />
nacque un certo imbarazzo, ma, essendo io in veste di compratore,<br />
continuarono a trattarmi con cortesia. Mi sono reso conto in seguito<br />
che anche la mia pronuncia è rozza, ma deliberatamente non ho<br />
cercato di ingentilirla; per lo stesso motivo non mi sono mai fatto<br />
asportare il tatuaggio dal braccio sinistro.<br />
Il Lagerjargon, come è naturale, era fortemente infIluenzato da<br />
altre lingue che venivano parlate nel Lager e nei dintorni: dal polacco,<br />
dal jiddisch, dal dialetto slesiano, più tardi dall’ungherese. Dal<br />
frastuono di fondo dei miei primi giorni di prigionia emersero subito,<br />
con insistenza, quattro o cinque espressioni che tedesche non erano:<br />
dovevano indicare, pensai, qualche oggetto od azione basilare, come<br />
lavoro, acqua, pane. Mi si erano incise nella memoria, nel curioso<br />
modo meccanico che ho descritto prima. Solo molto più tardi un<br />
amico polacco mi ha spiegato, malvolentieri, che volevano dire<br />
semplicemente «colera», «sangue di cane», «tuono», «figlio di<br />
puttana» e «fottuto»; i tre primi in funzione di interiezione.<br />
Il jiddisch era di fatto la seconda lingua del campo (sostituita più<br />
tardi dall’ungherese). Non solo non la capivo, ma sapevo solo<br />
vagamente della sua esistenza, in base a qualche citazione o storiella<br />
sentita da mio padre che per qualche anno aveva lavorato in Ungheria.<br />
Gli ebrei polacchi, russi, ungheresi erano stupiti che noi italiani non lo<br />
parlassimo: eravamo degli ebrei sospetti, da non fidarsene; oltre ad<br />
essere, naturalmente, dei «badoghlio» per le SS e dei «mussolini» per<br />
i francesi, per i greci e per i prigionieri politici. Anche a prescindere<br />
dai problemi di comunicazione, non era comodo essere ebrei italiani.<br />
Come ormai è noto dopo il meritato successo dei libri dei fratelli<br />
Singer e di tanti altri, il jiddisch è sostanzialmente un antico dialetto<br />
tedesco, diverso dal tedesco moderno come lessico e come pronuncia.<br />
Mi dava più angoscia del polacco, che non capivo affatto, perché<br />
«avrei dovuto capirlo». Lo ascoltavo con attenzione tesa: spesso mi era<br />
difficile capire se una frase rivolta a me, o pronunciata vicino a me,<br />
74
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
era tedesca o jiddisch o ibrida: infatti, alcuni ebrei polacchi bene<br />
intenzionati si sforzavano di tedeschizzare il loro jiddisch più che<br />
potevano, affinché io li comprendessi.<br />
Del jiddisch respirato nell’aria, ho ritrovato una traccia singolare<br />
in Se questo è un uomo. Nel capitolo Kraus è riportato un dialogo:<br />
Gounan, ebreo francese di origine polacca, si rivolge all’ungherese<br />
Kraus con la frase «Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden?»,<br />
che vale, tradotta parola per parola, «Piano, tu stupido uno, piano,<br />
capito?» Suonava un po’ strana, ma mi pareva proprio di averla sentita<br />
così (erano memorie recenti: scrivevo nel 1946), e l’ho trascritta tale e<br />
quale. Il traduttore tedesco non è rimasto convinto: dovevo aver<br />
sentito o ricordato male. Dopo una lunga discussione epistolare, mi ha<br />
proposto di ritoccare l’espressione, che a lui non sembrava accettabile.<br />
Infatti, nella traduzione poi pubblicata essa suona: «Langsam, du<br />
blöder Heini», dove Heini è il diminutivo di Heinrich, Enrico. Ma di<br />
recente, in un bel libro sulla storia e struttura del jiddisch (Mame<br />
Loshen, di J. Geipel, Journeyman, London 1982) ho trovato che è<br />
tipica di questa lingua la forma «Khamòyer du eyner!», «Asino tu<br />
uno!» La memoria meccanica aveva funzionato correttamente.<br />
Della comunicazione mancata o scarsa non soffrivano tutti in<br />
ugual misura. Il non soffrirne, l’accettare l’eclissi della parola, era un<br />
sintomo infausto: segnalava l’approssimarsi dell’indifferenza definitiva.<br />
Alcuni pochi, solitari per natura, o assuefatti all’isolamento già<br />
nella loro vita «civile», non davano segno di patirne; ma la maggior<br />
parte dei prigionieri che avevano superato la fase critica dell’iniziazione<br />
cercavano di difendersi, ciascuno a suo modo: chi mendicando<br />
brandelli d’informazione, chi propalando senza discernimento<br />
notizie trionfali o disastrose, vere o false o inventate, chi aguzzando<br />
occhi ed orecchi a cogliere ed a cercare di interpretare tutti i segni<br />
offerti dagli uomini, dalla terra e dal cielo. Ma alla scarsa<br />
comunicazione interna si sommava la scarsa comunicazione col<br />
mondo esterno. In alcuni Lager l’isolamento era totale; il mio,<br />
Monowitz-Auschwitz, sotto questo aspetto poteva considerarsi privi-<br />
75
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
legiato. Arrivavano, quasi ogni settimana, prigionieri «nuovi» da tutti i<br />
paesi dell’Europa occupata, e portavano notizie recenti, spesso come<br />
testimoni oculari; a dispetto dei divieti, e del pericolo di essere<br />
denunciati alla Gestapo, nell’enorme cantiere parlavamo con operai<br />
polacchi e tedeschi, a volte perfino con prigionieri di guerra inglesi;<br />
trovavamo nei bidoni delle immondizie giornali vecchi di qualche<br />
giorno, e li leggevamo avidamente. Un mio compagno di lavoro<br />
intraprendente, bilingue in quanto alsaziano, e giornalista di professione,<br />
si vantava addirittura di essersi abbonato al «Völlischer<br />
Beobachter», il più autorevole quotidiano della Germania di allora:<br />
che cosa c’era di più semplice? Aveva pregato un operaio tedesco,<br />
fidato, di abbonarsi, ed aveva rilevato l’abbonamento cedendogli un<br />
dente d’oro. Ogni mattina, nella lunga attesa dell’appello, ci radunava<br />
intorno a sé e ci faceva un accurato riassunto delle notizie del giorno.<br />
Il 7 giugno 1944 vedemmo andare al lavoro i prigionieri inglesi, e<br />
c’era in loro qualcosa di diverso: marciavano bene inquadrati,<br />
impettiti, sorridenti, marziali, con un passo talmente alacre che la<br />
sentinella tedesca che li scortava, un territoriale non più giovane,<br />
stentava a tenergli dietro. Ci salutarono col segno V della vittoria.<br />
Sapemmo il giorno dopo che da una loro radio clandestina avevano<br />
appreso la notizia dello sbarco alleato in Normandia, e fu un gran<br />
giorno anche per noi: la libertà sembrava a portata di mano. Ma nella<br />
maggior parte dei campi le cose stavano assai peggio. I nuovi arrivati<br />
provenivano da altri Lager o da ghetti a loro volta tagliati fuori dal<br />
mondo, e quindi portavano solo le orrende notizie locali. Non si<br />
lavorava, come noi, a contatto con lavoratori liberi di dieci o dodici<br />
paesi diversi, ma in aziende agricole, o in piccole officine, o in cave di<br />
pietra o sabbia, o addirittura in miniera: e nei Lager-miniera le<br />
condizioni erano le stesse che conducevano a morte gli schiavi di<br />
guerra dei romani e gli indios asserviti dagli spagnoli; talmente<br />
mortifere che nessuno è ritornato per descriverle. Le notizie «dal<br />
mondo», come si diceva, arrivavano saltuarie e vaghe. Ci si sentiva<br />
dimenticati, come i condannati che venivano lasciati morire nelle oubliettes<br />
del medioevo.<br />
76
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Agli ebrei, nemici per antonomasia, impuri, seminatori di<br />
impurezza, distruttori del mondo, era vietata la comunicazione più<br />
preziosa, quella col paese d’origine e con la famiglia: chi ha provato<br />
l’esilio, in una qualsiasi delle sue tante forme, sa quanto si soffra<br />
quando questo nervo viene reciso. Ne nasce una mortale impressione<br />
di abbandono, ed anche un ingiusto risentimento: perché non mi<br />
scrivono, perché non mi aiutano, loro che sono liberi? Abbiamo avuto<br />
modo di capire bene, allora, che del grande continente della libertà la<br />
libertà di comunicare è una provincia importante. Come avviene per la<br />
salute, solo chi la perde si accorge di quanto valga. Ma non se ne<br />
soffre solo a livello individuale: nei paesi e nelle epoche in cui la<br />
comunicazione è impedita, appassiscono presto tutte le altre libertà;<br />
muore per inedia la discussione, dilaga l’ignoranza delle opinioni<br />
altrui, trionfano le opinioni imposte; ne è un esempio noto la folle<br />
genetica predicata in Urss da Lissenko, che, in mancanza di discussioni<br />
(i suoi contraddittori vennero esiliati in Siberia), compromise i<br />
raccolti per vent’anni. L’intolleranza tende a censurare, e la censura<br />
accresce l’ignoranza della ragione altrui e quindi l’intolleranza stessa:<br />
è un circolo vizioso rigido, difficile da spezzare.<br />
L’ora settimanale in cui i nostri compagni «politici» ricevevano la<br />
posta da casa era per noi la più sconsolata, quella in cui sentivamo tutto il<br />
peso dell’essere altri, estraniati, tagliati fuori dal nostro paese, anzi, dal<br />
genere umano. Era l’ora in cui sentivamo il tatuaggio bruciare come una<br />
ferita, e ci invadeva come una frana di fango la certezza che nessuno di<br />
noi sarebbe tornato. Del resto, se anche ci fosse stato concesso di scrivere<br />
una lettera, a chi l’avremmo indirizzata? Le famiglie degli ebrei d’Europa<br />
erano sommerse o disperse o distrutte.<br />
A me (l’ho raccontato in Lilìt [Einaudi, Torino 1981] è toccata la<br />
rarissima fortuna di poter scambiare alcune lettere con la mia famiglia.<br />
Ne sono debitore a due persone fra loro molto diverse: un muratore<br />
anziano quasi analfabeta, e una giovane donna coraggiosa, Bianca<br />
Guidetti Serra, che adesso è un noto avvocato. So che è stato questo<br />
uno dei fattori che mi hanno concesso di sopravvivere; ma, come ho<br />
detto prima, ognuno di noi superstiti è per più versi un’eccezione; cosa<br />
che noi stessi, per esorcizzare il passato, tendiamo a dimenticare.<br />
77
V Violenza inutile<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Il titolo di questo capitolo può apparire provocatorio o addirittura<br />
offensivo: esiste una violenza utile? Purtroppo sì. La morte, anche non<br />
provocata, anche la più clemente, è una violenza, ma è tristemente utile:<br />
un mondo di immortali (gli struldbruggs di Swift) non sarebbe<br />
concepibile né vivibile, sarebbe più violento del pur violento mondo<br />
attuale. Né è inutile, in generale, l’assassinio: Raskolnikov, uccidendo la<br />
vecchia usuraia, si proponeva uno scopo, anche se colpevole; così pure<br />
Princip a Sarajevo e i sequestratori di Aldo Moro in via Fani. Messi da<br />
parte i casi di follia omicida, chi uccide sa perché lo fa: per denaro, per<br />
sopprimere un nemico vero o presunto, per vendicare un’offesa. Le<br />
guerre sono detestabili, sono un pessimo modo di risolvere le controversie<br />
tra nazioni o tra fazioni, ma non si possono definire inutili: mirano ad<br />
uno scopo, magari iniquo o perverso. Non sono gratuite, non si<br />
propongono di infliggere sofferenze; le sofferenze ci sono, sono<br />
collettive, strazianti, ingiuste, ma sono un sottoprodotto, un di più. Ora, io<br />
credo che i dodici anni hitleriani abbiano condiviso la loro violenza con<br />
molti altri spazi-tempi storici, ma che siano stati caratterizzati da una<br />
diffusa violenza inutile, fine a se stessa, volta unicamente alla creazione<br />
di dolore; talora tesa ad uno scopo, ma sempre ridondante, sempre fuor di<br />
proporzione rispetto allo scopo medesimo.<br />
Ripensando con il senno del poi a quegli anni, che hanno<br />
devastato l’Europa ed infine la Germania stessa, ci si sente combattuti<br />
fra due giudizi: abbiamo assistito allo svolgimento razionale di un<br />
78
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
piano disumano, o ad una manifestazione (unica, per ora, nella storia,<br />
e tuttora mal spiegata) di follia collettiva? Logica intesa al male o<br />
assenza di logica? Come spesso nelle cose umane, le due alternative<br />
coesistevano. Non c’è dubbio che il disegno fondamentale del<br />
nazionalsocialismo aveva una sua razionalità: la spinta verso Oriente<br />
(vecchio sogno tedesco), la soffocazione del movimento operaio,<br />
l’egemonia sull’Europa continentale, l’annientamento del bolscevismo<br />
e del giudaismo, che Hitler semplicisticamente identificava fra loro, la<br />
spartizione del potere mondiale con Inghilterra e Stati Uniti, l’apoteosi<br />
della razza germanica con l’eliminazione «spartana» dei malati<br />
mentali e delle bocche inutili: tutti questi elementi erano fra loro<br />
compatibili, e deducibili da alcuni pochi postulati già esposti con<br />
innegabile chiarezza nel Mein Kampf. Arroganza e radicalismo, hybris<br />
e Gründlichkeit; logica insolente, non follia.<br />
Odiosi, ma non folli, erano anche i mezzi previsti per raggiungere<br />
i fini: scatenare aggressioni militari o guerre spietate, alimentare<br />
quinte colonne interne, trasferire intere popolazioni, o asservirle, o<br />
sterilizzarle, o sterminarle. Né Nietzsche né Hitler né Rosenberg erano<br />
pazzi quando ubriacavano se stessi e i loro seguaci con la loro<br />
predicazione del mito del superuomo, a cui tutto è concesso a<br />
riconoscimento della sua dogmatica e congenita superiorità; ma è<br />
degno di meditazione il fatto che tutti, il maestro e gli allievi, siano<br />
usciti progressivamente dalla realtà a mano a mano che la loro morale<br />
si andava scollando da quella morale, comune a tutti i tempi ed a tutte<br />
le civiltà, che è parte della nostra eredità umana, ed a cui da ultimo<br />
bisogna pur dare riconoscimento.<br />
La razionalità cessa, e i discepoli hanno ampiamente superato (e<br />
tradito!) il maestro, proprio nella pratica della crudeltà inutile. Il verbo<br />
di Nietzsche mi ripugna profondamente; stento a trovarvi<br />
un’affermazione che non coincida con il contrario di quanto mi piace<br />
pensare; mi infastidisce il suo tono oracolare; ma mi pare che non vi<br />
compaia mai il desiderio della sofferenza altrui. L’indifferenza sì,<br />
quasi in ogni pagina, ma mai la Schadenfreude, la gioia per il danno<br />
del prossimo, né tanto meno la gioia del far deliberatamente soffrire. Il<br />
dolore del volgo, degli Ungestalten, degli informi, dei non-nati-nobili,<br />
79
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
è un prezzo da pagare per l’avvento del regno degli eletti; è un male<br />
minore, comunque sempre un male; non è desiderabile in sé. Ben<br />
diversi erano il verbo e la prassi hitleriani.<br />
Molte delle inutili violenze naziste appartengono oramai alla storia:<br />
si pensi ai massacri «sproporzionati» delle Fosse Ardeatine, di Oradour,<br />
Lidice, Boves, Marzabotto e troppi altri, in cui il limite della rappresaglia,<br />
già intrinsecamente disumano, è stato enormemente sorpassato; ma altre<br />
minori, singole, rimangono scritte in caratteri indelebili nella memoria di<br />
ognuno di noi ex deportati, dettagli del grande quadro.<br />
Quasi sempre, all’inizio della sequenza del ricordo, sta il treno<br />
che ha segnato la partenza verso l’ignoto: non solo per ragioni<br />
cronologiche, ma anche per la crudeltà gratuita con cui venivano<br />
impiegati ad uno scopo inconsueto quegli (altrimenti innocui)<br />
convogli di comuni carri merci.<br />
Non c’è diario o racconto, fra i molti nostri, in cui non compaia il<br />
treno, il vagone piombato, trasformato da veicolo commerciale in<br />
prigione ambulante o addirittura in strumento di morte. É sempre<br />
stipato, ma pare di intravedere un rozzo calcolo nel numero di persone<br />
che, caso per caso, vi venivano compresse: da cinquanta a centoventi, a<br />
seconda della lunghezza del viaggio e del livello gerarchico che il<br />
sistema nazista assegnava al «materiale umano» trasportato. I convogli<br />
in partenza dall’Italia contenevano «solo» 50-60 persone per vagone<br />
(ebrei, politici, partigiani, povera gente rastrellata per le strade, militari<br />
catturati dopo lo sfacelo dell’8 settembre 1943): può essere che si sia<br />
tenuto conto delle distanze, o forse anche dell’impressione che queste<br />
tradotte potevano esercitare su eventuali testimoni presenti lungo il<br />
percorso. All’estremo opposto stavano i trasporti dall’Europa orientale:<br />
gli slavi, specialmente se ebrei, erano merce più vile, anzi, priva di<br />
qualsiasi valore; dovevano comunque morire, non importa se durante il<br />
viaggio o dopo. I convogli che trasportavano gli ebrei polacchi dai<br />
ghetti ai Lager, o da Lager a Lager, contenevano fino a 120 persone per<br />
ogni vagone: il viaggio era breve... Ora, 50 persone in un vagone merci<br />
stanno molto a disagio; possono sdraiarsi tutte simultaneamente per<br />
80
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
riposare, ma corpo contro corpo. Se sono 100 o più, anche un viaggio di<br />
poche ore è un inferno, si deve stare in piedi, o accovacciati a turno; e<br />
spesso, tra i viaggiatori, ci sono vecchi, ammalati, bambini, donne che<br />
allattano, pazzi, o individui che impazziscono durante il viaggio e per<br />
effetto del viaggio.<br />
Nella pratica dei trasporti ferroviari nazisti si distinguono<br />
variabili e costanti; non ci è dato sapere se alla loro base ci fosse un<br />
regolamento, o se i funzionari che vi erano preposti avessero mano<br />
libera. Costante era il consiglio ipocrita (o l’ordine) di portare con sé<br />
tutto quanto era possibile: specialmente l’oro, i gioielli, la valuta<br />
pregiata, le pellicce, in alcuni casi (certi trasporti di ebrei contadini<br />
dall’Ungheria e dalla Slovacchia) addirittura il bestiame minuto. «É<br />
tutta roba che vi potrà servire», veniva detto a mezza bocca e con aria<br />
complice dal personale di accompagnamento. Di fatto, era un<br />
autosaccheggio; era un artificio semplice ed ingegnoso per trasferire<br />
valori nel Reich, senza pubblicità né complicazioni burocratiche né<br />
trasporti speciali né timore di furti en route: infatti, all’arrivo tutto<br />
veniva sequestrato. Costante era la nudità totale dei vagoni; le autorità<br />
tedesche, per un viaggio che poteva durare anche due settimane (è il<br />
caso degli ebrei deportati da Salonicco) non provvedevano<br />
letteralmente nulla: né viveri, ne acqua, né stuoie o paglia sul<br />
pavimento di legno, né recipienti per i bisogni corporali, e neppure si<br />
curavano di avvertire le autorità locali, o i dirigenti (quando<br />
esistevano) dei campi di raccolta, di provvedere in qualche modo. Un<br />
avviso non sarebbe costato nulla: ma appunto, questa sistematica<br />
negligenza si risolveva in una inutile crudeltà, in una deliberata<br />
creazione di dolore che era fine a se stessa.<br />
In alcuni casi i prigionieri destinati alla deportazione erano in<br />
grado di imparare qualcosa dall’esperienza: avevano visto partire altri<br />
convogli, ed avevano imparato a spese dei loro predecessori che a<br />
tutte queste necessità logistiche dovevano provvedere loro stessi, del<br />
loro meglio, e compatibilmente con le limitazioni imposte dai tedeschi.<br />
E tipico il caso dei treni che partivano dal campo di raccolta di<br />
Westerbork, in Olanda; era un campo vastissimo, con decine di<br />
migliaia di prigionieri ebrei, e Berlino richiedeva al comandante locale<br />
81
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
che ogni settimana partisse un treno con circa mille deportati: in<br />
totale, partirono da Westerbork 93 treni, diretti ad Auschwitz, a<br />
Sobibòr e ad altri campi minori. I superstiti furono circa 500 e nessuno<br />
di questi aveva viaggiato nei primi convogli, i cui occupanti erano<br />
partiti alla cieca, nella speranza infondata che alle necessità più elementari<br />
per un viaggio di tre o quattro giorni si provvedesse d’ufficio;<br />
perciò non si sa quanti siano stati i morti durante il transito, né come il<br />
terribile viaggio si sia svolto, perché nessuno è tornato per raccontarlo.<br />
Ma dopo qualche settimana un addetto all’infermeria di Westerbork,<br />
osservatore perspicace, notò che i vagoni merci dei convogli erano<br />
sempre gli stessi: facevano la spola fra il Lager di partenza e quello di<br />
destinazione. Così avvenne che alcuni fra coloro che furono deportati<br />
successivamente poterono mandare messaggi nascosti nei vagoni che<br />
ritornavano vuoti, e da allora si poté provvedere almeno ad una scorta<br />
di viveri e d’acqua, e ad un mastello per gli escrementi.<br />
Il convoglio con cui sono stato deportato io, nel febbraio del<br />
1944, era il primo che partisse dal campo di raccolta di Fòssoli (altri<br />
erano partiti prima da Roma e da Milano, ma non ce n’era giunta<br />
notizia). Le SS, che poco prima avevano sottratto la gestione del<br />
campo alla Pubblica Sicurezza italiana, non diedero alcuna disposizione<br />
precisa per il viaggio; fecero soltanto sapere che sarebbe stato<br />
lungo, e lasciarono trapelare il consiglio interessato e ironico a cui ho<br />
accennato («Portate oro e gioielli, e soprattutto abiti di lana e pellicce,<br />
perché andate a lavorare in un paese freddo»). Il capocampo, deportato<br />
anche lui, ebbe il buon senso di procurare una scorta<br />
ragionevole di cibo, ma non d’acqua: l’acqua non costa nulla, non è<br />
vero? E i tedeschi non regalano niente, ma sono buoni organizzatori...<br />
Neppure pensò a munire ogni vagone di un recipiente che fungesse da<br />
latrina, e questa dimenticanza si dimostrò gravissima: provoco<br />
un’afflizione assai peggiore della sete e del freddo. Nel mio vagone<br />
c’erano parecchi anziani, uomini e donne: tra gli altri, c’erano al<br />
completo gli ospiti della casa di riposo israelitica di Venezia. Per tutti,<br />
ma specialmente per questi, evacuare in pubblico era angoscioso o<br />
impossibile: un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, una ferita<br />
profonda inferta alla dignità umana, un attentato osceno e pieno di<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
presagio; ma anche il segnale di una malignità deliberata e gratuita.<br />
Per nostra paradossale fortuna (ma esito a scrivere questa parola in<br />
questo contesto), nel nostro vagone c’erano anche due giovani madri<br />
con i loro bambini di pochi mesi, e una di loro aveva portato con sé un<br />
vaso da notte: uno solo, e dovette servire per una cinquantina di<br />
persone. Dopo due giorni di viaggio trovammo chiodi confitti nelle<br />
pareti di legno, ne ripuntammo due in un angolo, e con uno spago e<br />
una coperta improvvisammo un riparo, sostanzialmente simbolico:<br />
non siamo ancora bestie, non lo saremo finché cercheremo di resistere.<br />
Che cosa sia avvenuto negli altri vagoni, privi di questa minima<br />
attrezzatura, è difficile immaginare. Il convoglio venne fermato due o<br />
tre volte in aperta campagna, le portiere dei vagoni furono aperte ed ai<br />
prigionieri fu concesso di scendere: ma non di allontanarsi dalla ferrovia<br />
né di appartarsi. Un’altra volta le portiere furono aperte, ma<br />
durante una fermata in una stazione austriaca di transito. Le SS della<br />
scorta non nascondevano il loro divertimento al vedere uomini e<br />
donne accovacciarsi dove potevano, sulle banchine, in mezzo ai<br />
binari; ed i passeggeri tedeschi esprimevano apertamente il loro disgusto:<br />
gente come questa merita il suo destino, basta vedere come si<br />
comportano. Non sono Menschen, esseri umani, ma bestie, porci; è<br />
evidente come la luce del sole.<br />
Era effettivamente un prologo. Nella vita che doveva seguire, nel<br />
ritmo quotidiano del Lager, l’offesa al pudore rappresentava, almeno<br />
all’inizio, una parte importante della sofferenza globale. Non era<br />
facile né indolore abituarsi alla enorme latrina collettiva, ai tempi<br />
stretti ed obbligati, alla presenza, davanti a te, dell’aspirante alla<br />
successione; in piedi, impaziente, a volte supplichevole, altre volte<br />
prepotente, insiste ogni dieci secondi: «Hast du gemacht?», «Non hai<br />
ancora finito?» Tuttavia, entro poche settimane il disagio si attenuava<br />
fino a sparire; sopravveniva (non per tutti!) l’assuefazione, il che è un<br />
modo caritatevole di dire che la trasformazione da esseri umani in<br />
animali era sulla buona strada.<br />
Non credo che questa trasformazione sia stata mai progettata né<br />
formulata in chiaro, a nessun livello della gerarchia nazista, in nessun<br />
documento, in nessuna «riunione di lavoro». Era una conseguenza logica<br />
83
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
del sistema: un regime disumano diffonde ed estende la sua disumanità in<br />
tutte le direzioni, anche e specialmente verso il basso; a meno di<br />
resistenze e di tempre eccezionali, corrompe anche le sue vittime ed i<br />
suoi oppositori. L’inutile crudeltà del pudore violato condizionava<br />
l’esistenza di tutti i Lager. Le donne di Birkenau raccontano che, una<br />
volta conquistata una gamella (una grossa scodella di lamiera smaltata),<br />
se ne dovevano servire per tre usi distinti: per riscuotere la zuppa<br />
quotidiana; per evacuarvi di notte, quando l’accesso alla latrina era<br />
vietato; e per lavarsi quando c’era acqua ai lavatoi.<br />
Il regime alimentare di tutti i campi comprendeva un litro di<br />
zuppa al giorno; nel nostro Lager, per concessione dello stabilimento<br />
chimico per cui lavoravamo, i litri erano due. L’acqua da eliminare era<br />
dunque molta, e questo ci costringeva a chiedere spesso di andare alla<br />
latrina, o ad arrangiarci diversamente negli angoli del cantiere. Alcuni<br />
fra i prigionieri non riuscivano a controllarsi: sia per debolezza di<br />
vescica, sia per accessi di paura, sia per nevrosi, erano costretti ad<br />
orinare con urgenza, e spesso si bagnavano, per il che venivano puniti<br />
e derisi. Un italiano mio coetaneo, che dormiva in una cuccetta al<br />
terzo piano dei letti a castello, ebbe di notte un incidente, e bagnò gli<br />
inquilini del piano di sotto che denunciarono subito il fatto al<br />
capobaracca. Questi piombò sull’italiano, che contro ogni evidenza<br />
negò l’addebito. Il capo allora gli ordinò di orinare, sul posto e sul<br />
momento, per dimostrare la sua innocenza; lui naturalmente non ci<br />
riuscì, e fu coperto di botte, ma nonostante la sua ragionevole richiesta<br />
non fu trasferito alla cuccetta più bassa. Era un atto amministrativo<br />
che avrebbe comportato troppe complicazioni al furiere della baracca.<br />
Analoga alla costrizione escrementizia era la costrizione della<br />
nudità. In Lager si entrava nudi: anzi, più che nudi, privi non solo<br />
degli abiti e delle scarpe (che venivano confiscati) ma dei capelli e di<br />
tutti gli altri peli. Lo stesso si fa, o si faceva, anche all’ingresso in<br />
caserma, certo, ma qui la rasatura era totale e settimanale, e la nudità<br />
pubblica e collettiva era una condizione ricorrente, tipica e piena di<br />
significato. Era anche questa una violenza con qualche radice di<br />
necessità (è chiaro che ci si deve spogliare per una doccia o per una<br />
visita medica), ma offensiva per la sua inutile ridondanza. La giornata<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
del Lager era costellata di innumerevoli spogliazioni vessatorie: per il<br />
controllo dei pidocchi, per le perquisizioni degli abiti, per la visita<br />
della scabbia, per la lavatura mattutina; ed inoltre per le selezioni<br />
periodiche, in cui una «commissione» decideva chi era ancora atto al<br />
lavoro e chi invece era destinato alla eliminazione. Ora, un uomo nudo<br />
e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme. Gli abiti,<br />
anche quelli immondi che venivano distribuiti, anche le scarpacce<br />
dalla suola di legno, sono una difesa tenue ma indispensabile. Chi non<br />
li ha non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come<br />
un lombrico: nudo, lento, ignobile, prono al suolo. Sa che potrà essere<br />
schiacciato ad ogni momento.<br />
La stessa sensazione debilitante di impotenza e di destituzione era<br />
provocata, nei primi giorni di prigionia, dalla mancanza di un cucchiaio:<br />
è questo un dettaglio che può apparire marginale a chi è abituato fin<br />
dall’infanzia all’abbondanza di attrezzi di cui dispone anche la più<br />
povera delle cucine, ma marginale non era. Senza cucchiaio, la zuppa<br />
quotidiana non poteva essere consumata altrimenti che lappandola<br />
come fanno i cani; solo dopo molti giorni di apprendistato (ed anche<br />
qui, quanto era importante riuscire subito a capire ed a farsi capire!) sì<br />
veniva a sapere che nel campo i cucchiai c’erano sì, ma che bisognava<br />
comprarseli al mercato nero pagandoli con zuppa o pane: un cucchiaio<br />
costava di solito mezza razione di pane o un litro di zuppa, ma ai nuovi<br />
arrivati inesperti veniva chiesto sempre molto di più. Eppure, alla<br />
liberazione del campo di Auschwitz, abbiamo trovato nei magazzini<br />
migliaia di cucchiai nuovissimi di plastica trasparente, oltre a decine di<br />
migliaia di cucchiai d’alluminio, d’acciaio o perfino d’argento, che<br />
provenivano dal bagaglio dei deportati in arrivo. Non era dunque una<br />
questione di risparmio, ma un preciso intento di umiliare. Ritorna alla<br />
mente l’episodio narrato in Giudici 7.5; in cui il condottiero Gedeone<br />
sceglie i migliori fra i suoi guerrieri osservando il modo in cui si<br />
comportano nel bere al fiume: scarta tutti quelli che lambiscono l’acqua<br />
«come fa il cane» o che si inginocchiano, ed accetta solo quelli che<br />
bevono in piedi, recando la mano alla bocca.<br />
Esiterei a definire in tutto inutili altre vessazioni e violenze che<br />
sono state descritte ripetutamente e concordemente da tutta la<br />
85
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
memorialistica sui Lager. É noto che in tutti i campi si procedeva una<br />
o due volte al giorno ad un appello. Non era certo un appello<br />
nominale, che su migliaia o decine di migliaia di prigionieri sarebbe<br />
stato impossibile: tanto più in quanto essi non erano mai designati col<br />
loro nome, bensì solo col numero di matricola, di cinque o sei cifre.<br />
Era uno Zählappell, un appello-conteggio complicato e laborioso<br />
perché doveva tenere conto dei prigionieri trasferiti in altri campi o<br />
all’infermeria la sera prima e di quelli morti nella notte, e perché<br />
l’effettivo doveva quadrare esattamente con i dati del giorno<br />
precedente e con il conteggio per cinquine che avveniva durante la<br />
sfilata delle squadre dirette al lavoro. Eugen Kogon riferisce che a<br />
Buchenwald dovevano comparire all’appello serale anche i moribondi<br />
e i morti; distesi a terra anziché in piedi, dovevano anche loro essere<br />
disposti in fila per cinque, per facilitare il conteggio.<br />
Questo appello si svolgeva (naturalmente all’aperto) con ogni<br />
tempo, e durava almeno un’ora, ma anche due o tre se il conto non<br />
tornava; e addirittura ventiquattr’ore o più se si sospettava una evasione.<br />
Quando pioveva, o nevicava, o il freddo era intenso, diventava una tortura,<br />
peggiore dello stesso lavoro, alla cui fatica si sommava alla sera;<br />
veniva percepito come una cerimonia vuota e rituale, ma tale<br />
probabilmente non era. Non era inutile, come del resto, in questa chiave<br />
d’interpretazione, non era inutile la fame, né il lavoro estenuante, e<br />
neppure (mi si perdoni il cinismo: sto cercando di ragionare con una<br />
logica non mia) la morte per gas di adulti e bambini. Tutte queste<br />
sofferenze erano lo svolgimento di un tema, quello del presunto diritto<br />
del popolo superiore di asservire o eliminare il popolo inferiore; tale era<br />
anche quell’appello, che nei nostri sogni del «dopo» era diventato<br />
l’emblema stesso del Lager, assommando in sé la fatica, il freddo, la<br />
fame e la frustrazione. La sofferenza che provocava, e che ogni giorno<br />
d’inverno provocava qualche collasso o qualche morte, stava dentro il<br />
sistema, dentro la tradizione del Drill, della feroce pratica militaresca che<br />
era eredità prussiana, e che Buchner ha eternato nel Woyzek.<br />
Del resto, mi pare evidente che sotto molti dei suoi aspetti più<br />
penosi ed assurdi il mondo concentrazionario non era che una<br />
versione, un adattamento della prassi militare tedesca. L’esercito dei<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
prigionieri nei Lager doveva essere una copia ingloriosa dell’esercito<br />
propriamente detto: o per meglio dire, una sua caricatura. Un esercito<br />
ha una divisa: pulita, onorata e coperta di insegne quella del soldato,<br />
lurida muta e grigia quella del Häftling; ma tutte e due devono avere<br />
cinque bottoni, altrimenti sono guai. Un esercito sfila al passo<br />
militare, in ordine chiuso, al suono di una banda: perciò ci dev’essere<br />
una banda anche nel Lager, e la sfilata dev’essere una sfilata a regola<br />
d’arte, con l’attenti a sinistr davanti al palco delle autorità, a suon di<br />
musica. Questo cerimoniale è talmente necessario, talmente ovvio, da<br />
prevalere addirittura sulla legislazione antiebraica del Terzo Reich:<br />
con sofisticheria paranoica, essa vietava alle orchestre ed ai musicisti<br />
ebrei di suonare spartiti di autori ariani, perché questi ne sarebbero<br />
stati contaminati. Ma nei Lager di ebrei non c’erano musicanti ariani,<br />
né del resto esistono molte marce militari scritte da compositori ebrei;<br />
perciò, in deroga alle regole di purezza, Auschwitz era l’unico luogo<br />
tedesco in cui musicanti ebrei potessero, anzi dovessero, suonare<br />
musica ariana: necessità non ha legge.<br />
Retaggio di caserma era anche il rito del «rifare il letto».<br />
Beninteso, quest’ultimo termine è ampiamente eufemistico; dove<br />
esistevano letti a castello, ogni cuccetta era costituita da un sottile<br />
materasso riempito di trucioli di legno, da due coperte e da un cuscino<br />
di crine, e vi dormivano di regola due persone. I letti dovevano essere<br />
rifatti subito dopo la sveglia, simultaneamente in tutta la baracca;<br />
bisognava quindi che gli inquilini dei piani bassi si arrangiassero a<br />
sistemare materasso e coperte in mezzo ai piedi degli inquilini dei<br />
piani alti, in equilibrio precario sulle sponde di legno, ed intenti allo<br />
stesso lavoro: tutti i letti dovevano essere messi in ordine entro un<br />
minuto o due, perché subito dopo incominciava la distribuzione del<br />
pane. Erano momenti di frenesia: l’atmosfera si riempiva di polvere<br />
fino a diventare opaca, di tensione nervosa e di improperi scambiati in<br />
tutte le lingue, perché il «rifare il letto» (Bettenbauen: era un termine<br />
tecnico) era un’operazione sacrale, da eseguirsi secondo regole ferree.<br />
Il materasso, fetido di muffa e cosparso di macchie sospette, doveva<br />
essere sprimacciato: esistevano a tale scopo due scuciture nella fodera,<br />
in cui introdurre le mani. Una delle due coperte doveva essere<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
rimboccata sul materasso, e l’altra stesa sopra il cuscino in modo da<br />
fare uno scalino netto, a spigoli vivi. A operazione ultimata, il tutto<br />
doveva presentarsi come un parallelepipedo rettangolo a facce ben<br />
piane, a cui era sovrapposto il parallelepipedo più piccolo del cuscino.<br />
Per le SS del campo, e di conseguenza per tutti i capi-baracca, il<br />
Beitenbauen rivestiva un’importanza primaria ed indecifrabile: forse<br />
era il simbolo dell’ordine e della disciplina. Chi faceva male il letto, o<br />
dimenticava di farlo, veniva punito pubblicamente e con ferocia; inoltre,<br />
in ogni baracca esisteva una coppia di funzionari, i Bettnachzieher<br />
(«ripassatori dei letti»: termine che non credo esista nel tedesco<br />
normale, e che certo Goethe non avrebbe capito), il cui compito era di<br />
verificare ogni singolo letto, e poi di curarne l’allineamento<br />
trasversale. A tale scopo, erano muniti di uno spago lungo quanto la<br />
baracca: lo tendevano al di sopra dei letti rifatti, e rettificavano al<br />
centimetro le eventuali deviazioni. Più che tormentoso, questo ordine<br />
maniacale appariva assurdo e grottesco: infatti, il materasso spianato<br />
con tanta cura non aveva alcuna consistenza, e a sera, sotto il peso dei<br />
corpi, si appiattiva immediatamente fino alle assicelle che lo<br />
sostenevano. Di fatto, si dormiva sul legno.<br />
In confini ben più estesi, si ha l’impressione che per tutta la<br />
Germania hitleriana il codice ed il galateo della caserma dovessero<br />
sostituire quelli tradizionali e «borghesi»: la violenza insulsa del Drill<br />
aveva cominciato a invadere fin dal 1934 il campo dell’educazione e si<br />
ritorceva contro lo stesso popolo tedesco. Dai giornali dell’epoca, che<br />
avevano conservato una certa libertà di cronaca e di critica, si ha notizia<br />
di marce estenuanti imposte a ragazzi e ragazze adolescenti nel quadro<br />
delle esercitazioni premilitari: fino a 50 chilometri al giorno, con zaino<br />
in spalla, e nessuna pietà per i ritardatari. I genitori e i medici che<br />
osavano protestare venivano minacciati di sanzioni politiche.<br />
Diverso è il discorso da farsi sul tatuaggio, invenzione auschwitziana<br />
autoctona. A partire dall’inizio del 1942, ad Auschwitz e nei<br />
Lager che ne dipendevano (nel 1944 erano una quarantina) il numero<br />
di matricola dei prigionieri non veniva più soltanto cucito agli abiti,<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
ma tatuato sull’avambraccio sinistro. Da questa norma erano esentati<br />
solo i prigionieri tedeschi non ebrei. L’operazione veniva eseguita con<br />
metodica rapidità da «scrivani» specializzati, all’atto dell’immatricolazione<br />
dei nuovi arrivati, provenienti sia dalla libertà, sia da altri<br />
campi o dai ghetti. In ossequio al tipico talento tedesco per le classificazioni,<br />
si venne presto delineando un vero e proprio codice: gli<br />
uomini dovevano essere tatuati sull’esterno del braccio e le donne<br />
sull’interno; il numero degli zingari doveva essere preceduto da una Z;<br />
quello degli ebrei, a partire dal maggio 1944 (e cioè dall’arrivo in<br />
massa degli ebrei ungheresi) doveva essere preceduto da una A, che<br />
poco dopo fu sostituita da una B. Fino al settembre 1944 non c’erano<br />
bambini ad Auschwitz: venivano uccisi tutti col gas al loro arrivo.<br />
Dopo questa data, cominciarono ad arrivare intere famiglie di<br />
polacchi, arrestati a caso durante l’insurrezione di Varsavia: essi<br />
vennero tatuati tutti, compresi i neonati.<br />
L’operazione era poco dolorosa e non durava più di un minuto,<br />
ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti:<br />
questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il<br />
marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al<br />
macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome: questo è il<br />
vostro nuovo nome. La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se<br />
stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai<br />
pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale? No, non bastavano:<br />
occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l’innocente<br />
sentisse scritta sulla carne la sua condanna. Era anche un ritorno<br />
barbarico, tanto più conturbante per gli ebrei ortodossi; infatti, proprio<br />
a distinguere gli ebrei dai «barbari», il tatuaggio è vietato dalla legge<br />
mosaica (Levitico 19.2 8).<br />
A distanza di quarant’anni, il mio tatuaggio è diventato parte del<br />
mio corpo. Non me ne glorio né me ne vergogno, non lo esibisco e<br />
non lo nascondo. Lo mostro malvolentieri a chi me ne fa richiesta per<br />
pura curiosità; prontamente e con ira a chi si dichiara incredulo.<br />
Spesso i giovani mi chiedono perché non me lo faccio cancellare, e<br />
questo mi stupisce: perché dovrei? Non siamo molti nel mondo a<br />
portare questa testimonianza.<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Occorre fare violenza (utile?) su se stessi per indursi a parlare del<br />
destino dei più indifesi. Cerco, ancora una volta, di seguire una logica<br />
non mia. Per un nazista ortodosso doveva essere ovvio, netto, chiaro<br />
che tutti gli ebrei dovessero essere uccisi: era un dogma, un postulato.<br />
Anche i bambini, certo: anche e specialmente le donne incinte, perché<br />
non nascessero futuri nemici. Ma perché, nelle loro razzie furiose, in<br />
tutte le città e i villaggi del loro impero sterminato, violare le porte dei<br />
morenti? Perché affannarsi a trascinarli sui loro treni, per portarli a<br />
morire lontano, dopo un viaggio insensato, in Polonia, sulla soglia<br />
delle camere a gas? Nel mio convoglio c’erano due novantenni<br />
moribonde, prelevate dall’infermeria di Fòssoli: una morì in viaggio,<br />
assistita invano dalle figlie. Non sarebbe stato più semplice, più<br />
«economico», lasciarle morire, o magari ucciderle, nei loro letti, anziché<br />
inserire la loro agonia nell’agonia collettiva della tradotta?<br />
Veramente si è indotti a pensare che, nel Terzo Reich, la scelta<br />
migliore, la scelta imposta dall’alto, fosse quella che comportava la<br />
massima afflizione, il massimo spreco di sofferenza fisica e morale. Il<br />
«nemico» non doveva soltanto morire, ma morire nel tormento.<br />
Sul lavoro nei Lager si è scritto molto; io stesso l’ho descritto a<br />
suo tempo. Il lavoro non retribuito, cioè schiavistico, era uno dei tre<br />
scopi del sistema concentrazionario; gli altri due erano l’eliminazione<br />
degli avversari politici e lo sterminio delle cosìddette razze inferiori.<br />
Sia detto per inciso: il regime concentrazionario sovietico differiva da<br />
quello nazista essenzialmente per la mancanza del terzo termine e per<br />
il prevalere del primo.<br />
Nei primi Lager, quasi coevi con la conquista del potere da parte<br />
di Hitler, il lavoro era puramente persecutorio, praticamente inutile ai<br />
fini produttivi: mandare gente denutrita a spalare torba o a spaccare<br />
pietre serviva solo a scopo terroristico. Del resto, per la retorica nazista<br />
e fascista, erede in questo della retorica borghese, «il lavoro<br />
nobilita», e quindi gli ignobili avversari del regime non sono degni di<br />
lavorare nel senso usuale del termine. Il loro lavoro dev’essere<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
afflittivo: non deve lasciare spazio alla professionalità, dev’essere<br />
quello delle bestie da soma, tirare, spingere, portare pesi, piegare la<br />
schiena sulla terra. Violenza inutile anche questa: utile forse solo a<br />
stroncare le resistenze attuali ed a punire le resistenze passate. Le<br />
donne di Ravensbrück raccontano di interminabili giornate trascorse<br />
durante il periodo di quarantena (e cioè prima dell’inquadramento<br />
nelle squadre di lavoro in fabbrica) a spalare la sabbia delle dune: a<br />
cerchio, sotto il sole di luglio, ogni deportata doveva spostare la<br />
sabbia dal suo mucchio a quello della vicina di destra, in un girotondo<br />
senza scopo e senza fine, poiché la sabbia tornava da dove era venuta.<br />
Ma è dubbio che questo tormento del corpo e dello spirito, mitico<br />
e dantesco, fosse stato escogitato per prevenire l’aggregarsi di nuclei<br />
di autodifesa o di resistenza attiva: le SS dei Lager erano piuttosto<br />
bruti ottusi che demoni sottili. Erano stati educati alla violenza: la violenza<br />
correva nelle loro vene, era normale, ovvia. Trapelava dai loro<br />
visi, dai loro gesti, dal loro linguaggio. Umiliare, far soffrire il<br />
«nemico», era il loro ufficio di ogni giorno; non ci ragionavano sopra,<br />
non avevano secondi fini: il fine era quello. Non intendo dire che<br />
fossero fatti di una sostanza umana perversa, diversa dalla nostra (i<br />
sadici, gli psicopatici c’erano anche fra loro, ma erano pochi):<br />
semplicemente, erano stati sottoposti per qualche anno ad una scuola<br />
in cui la morale corrente era stata capovolta. In un regime totalitario,<br />
l’educazione, la propaganda e l’informazione non incontrano ostacoli:<br />
hanno un potere illimitato, di cui chi è nato e vissuto in un regime<br />
pluralistico difficilmente può costruirsi un’idea.<br />
A differenza della fatica puramente persecutoria, quale quella che<br />
ho appena descritta, il lavoro poteva invece talvolta diventare una<br />
difesa. Lo era per i pochi che in Lager riuscivano ad essere inseriti nel<br />
loro proprio mestiere: sarti, ciabattini, falegnami, fabbri, muratori;<br />
questi, ritrovando la loro attività consueta, recuperavano in pari<br />
tempo, in certa misura, la loro dignità umana. Ma lo era anche per<br />
molti altri, come esercizio della mente, come evasione dal pensiero<br />
della morte, come modo di vivere alla giornata; del resto, è esperienza<br />
comune che le cure quotidiane, anche se penose o fastidiose, aiutano a<br />
distogliere la mente da minacce più gravi ma più lontane.<br />
91
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Ho notato spesso su alcuni miei compagni (qualche volta anche su<br />
me stesso) un fenomeno curioso: l’ambizione del «lavoro ben fatto» è<br />
talmente radicata da spingere a «far bene» anche lavori nemici, nocivi<br />
ai tuoi e alla tua parte, tanto che occorre uno sforzo consapevole per<br />
farli invece «male». Il sabotaggio del lavoro nazista, oltre ad essere<br />
pericoloso, comportava anche il superamento di ataviche resistenze<br />
interne. Il muratore di Fossano che mi ha salvato la vita, e che ho<br />
descritto in Se questo è un uomo e in Lilìt, detestava la Germania, i tedeschi,<br />
il loro cibo, la loro parlata, la loro guerra; ma quando lo misero<br />
a tirare su muri di protezione contro le bombe, li faceva diritti, solidi,<br />
con mattoni bene intrecciati e con tutta la calcina che ci voleva; non per<br />
ossequio agli ordini, ma per dignità professionale. In Una giornata di<br />
Ivan Denisovié (Einaudi, Torino 1963) Solženicyn descrive una<br />
situazione quasi identica: Ivan, il protagonista, condannato senza alcuna<br />
sua colpa a dieci anni di lavoro forzato, prova compiacimento nel tirar<br />
su un muro a regola d’arte, e nel constatare poi che è riuscito ben diritto:<br />
Ivan «... era fatto proprio in quel modo cretino, né gli otto anni<br />
passati nei campi di prigionia erano valsi a fargli perdere<br />
quell’abitudine: apprezzava ogni cosa ed ogni lavoro e non poteva<br />
permettere che si rovinassero inutilmente». Chi ha visto un celebre film,<br />
Il ponte sul fiume Kwai, ricorderà lo zelo assurdo con cui l’ufficiale<br />
inglese prigioniero dei giapponesi si affanna a costruire per loro un<br />
audacissimo ponte in legno, e si scandalizza quando si accorge che i<br />
guastatori inglesi lo hanno minato. Come si vede, l’amore per il lavoro<br />
ben fatto è una virtù fortemente ambigua. Ha animato Michelangelo<br />
fino ai suoi ultimi giorni, ma anche Stangl, il diligentissìmo carnefice di<br />
Treblinka, replica con stizza alla sua intervistatrice: «Tutto ciò che<br />
facevo di mia libera volontà dovevo farlo il meglio che potevo. Sono<br />
fatto così». Della stessa virtù va fiero Rudolf Höss, il comandante di<br />
Auschwitz, quando racconta il travaglio creativo che lo condusse ad<br />
inventare le camere a gas.<br />
Vorrei ancora accennare, come esempio estremo di violenza ad<br />
un tempo stupida e simbolica, all’empio uso che è stato fatto (non<br />
saltuariamente, ma con metodo) del corpo umano come di un oggetto,<br />
di una cosa di nessuno, di cui si poteva disporre in modo arbitrario.<br />
92
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Sugli esperimenti medici condotti a Dachau, ad Auschwitz, a<br />
Ravensbrück ed altrove, molto è già stato scritto, ed alcuni dei<br />
responsabili, che non tutti erano medici ma spesso si improvvisavano<br />
tali, sono anche stati puniti (non Josef Mengele, il maggiore ed il<br />
peggiore di tutti). La gamma di questi esperimenti si estendeva da<br />
controlli di nuovi medicamenti su prigionieri inconsapevoli, fino a<br />
torture insensate e scientificamente inutili, come quelle svolte a<br />
Dachau, per ordine di Himmler e per conto della Luftwaffe. Qui, gli<br />
individui prescelti, talvolta previamente sovralimentati per ricondurli<br />
alla normalità fisiologica, venivano sottoposti a lunghi soggiorni in<br />
acqua gelida, o introdotti in camere di decompressione in cui si<br />
simulava la rarefazione dell’aria a 20.000 metri (quota che gli aerei<br />
dell’epoca erano ben lontani dal raggiungere!) per stabilire a quale<br />
altitudine il sangue umano incomincia a bollire: un dato, questo, che si<br />
può ottenere in qualsiasi laboratorio, con minima spesa e senza<br />
vittime, o addirittura dedurre da comuni tabelle. Mi pare significativo<br />
ricordare questi abomini in un’epoca in cui, con ragione, viene messo<br />
in discussione entro quali limiti sia lecito condurre esperimenti<br />
scientifici dolorosi sugli animali da laboratorio. Questa crudeltà tipica<br />
e senza scopo apparente, ma altamente simbolica, si estendeva, appunto<br />
perché simbolica, alle spoglie umane dopo la morte: a quelle<br />
spoglie che ogni civiltà, a partire dalla più lontana preistoria, ha<br />
rispettato, onorato e talvolta temuto. Il trattamento a cui venivano<br />
sottoposte nei Lager voleva esprimere che non si trattava di resti<br />
umani, ma di materia bruta, indifferente, buona nel migliore dei casi<br />
per qualche impiego industriale. Desta orrore e raccapriccio, dopo<br />
decenni, la vetrina del museo di Auschwitz dove sono esposte alla<br />
rinfusa, a tonnellate, le capigliature recise alle donne destinate al gas o<br />
al Lager: il tempo le ha scolorite e macerate, ma continuano a<br />
mormorare al visitatore la loro muta accusa. I tedeschi non avevano<br />
fatto in tempo a farle proseguire per la loro destinazione: questa merce<br />
insolita veniva acquistata da alcune industrie tessili tedesche che la<br />
usavano per la confezione di tralicci e di altri tessuti industriali. É<br />
poco probabile che gli utilizzatori non sapessero di quale materiale si<br />
trattava. E altrettanto poco probabile che i venditori, e cioè le autorità<br />
93
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
SS del Lager, ne traessero un utile effettivo: sulla motivazione del<br />
profitto prevaleva quella dell’oltraggio.<br />
Le ceneri umane provenienti dai crematori, tonnellate al giorno,<br />
erano facilmente riconoscibili come tali, poiché contenevano spesso<br />
denti o vertebre. Ciò non ostante, furono usate per vari scopi: per<br />
colmare terreni paludosi, come isolante termico nelle intercapedini di<br />
costruzioni in legno, come fertilizzante fosfatico; segnatamente, furono<br />
impiegate invece della ghiaia per rivestire i sentieri del villaggio delle<br />
SS, situato accanto al campo. Non saprei dire se per pura callosità, o se<br />
non invece perché, per la sua origine, quello era materiale da calpestare.<br />
Non mi illudo di aver dato fondo alla questione, né di aver<br />
dimostrato che la crudeltà inutile sia stata retaggio esclusivo del Terzo<br />
Reich e conseguenza necessaria delle sue premesse ideologiche;<br />
quanto sappiamo, ad esempio, della Cambogia di Pol Pot suggerisce<br />
altre spiegazioni, ma la Cambogia è lontana dall’Europa e ne<br />
sappiamo poco: come potremmo discuterne? Certo, è stato questo uno<br />
dei lineamenti fondamentali dell’hitlerismo, non solo all’interno dei<br />
Lager; e mi pare che il suo miglior commento si trovi compendiato in<br />
queste due battute ricavate dalla lunga intervista di Gitta Sereny al già<br />
citato Franz Stangl, ex comandante di Treblinka (In quelle tenebre,<br />
Adelphi, Milano 1975, p. 135):<br />
«Visto che li avreste uccisi tutti... che senso avevano le<br />
umiliazioni, le crudeltà?», chiede la scrittrice a Stangl, detenuto a vita<br />
nel carcere di Düsseldorf; e questi risponde: «Per condizionare quelli<br />
che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per rendergli<br />
possibile fare ciò che facevano». In altre parole: prima di morire, la<br />
vittima dev’essere degradata, affinché l’uccisore senta meno il peso<br />
della sua colpa. É una spiegazione non priva di logica, ma che grida al<br />
cielo: è l’unica utilità della violenza inutile.<br />
94
VI.<br />
L’intellettuale ad Auschwitz<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Scendere in polemica con uno scomparso è imbarazzante e poco<br />
leale, tanto più quando l’assente è un amico potenziale ed un<br />
interlocutore privilegiato; però può essere un passo obbligato. Sto<br />
parlando di Hans Mayer, alias Jean Améry, il filosofo suicida, e<br />
teorico del suicidio, che già ho citato a pagina 14: fra questi due nomi<br />
sta tesa la sua vita senza pace e senza ricerca della pace. Era nato a<br />
Vienna nel 1912, da una famiglia prevalentemente ebraica, ma<br />
assimilata ed integrata nell’Impero Austro-Ungarico. Benché nessuno<br />
si fosse convertito al cristianesimo nelle debite forme, a casa sua si<br />
festeggiava il Natale attorno all’albero adorno di lustrini; in occasione<br />
dei piccoli incidenti domestici sua madre invocava Gesù, Giuseppe e<br />
Maria, e la fotografia-ricordo di suo padre, morto al fronte nella prima<br />
guerra mondiale, non mostrava un saggio ebreo barbuto, ma un<br />
ufficiale nell’uniforme dei Kaiserjäger Tirolesi. Fino ai diciannove<br />
anni, Hans non aveva mai sentito dire che esistesse una lingua<br />
jiddisch.<br />
Si laurea a Vienna in Lettere e Filosofia, non senza qualche<br />
scontro con il nascente partito nazionalsocialista: a lui, di essere ebreo<br />
non importa, ma per i nazisti le sue opinioni e tendenze non hanno<br />
alcun peso; la sola cosa che conti è il sangue, ed il suo è impuro<br />
quanto basta per farne un nemico del Germanesimo. Un pugno nazista<br />
gli rompe un dente, e il giovane intellettuale è fiero della lacuna nella<br />
dentatura come se fosse una cicatrice riportata in un duello<br />
95
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
studentesco. Con le leggi di Norimberga del 1935, e poi con<br />
l’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938, il suo destino è ad<br />
una svolta, e il giovane Hans, scettico e pessimista per natura, non si<br />
fa illusioni. É abbastanza lucido (Luzidität sarà sempre uno dei suoi<br />
vocaboli preferiti) da capire precocemente che ogni ebreo in mani<br />
tedesche è «un morto in vacanza, uno da assassinare».<br />
Lui, ebreo non si considera: non conosce l’ebraico né la cultura<br />
ebraica, non dà ascolto al verbo sionista, religiosamente è un<br />
agnostico. Neppure si sente in grado di costruirsi un’identità che non<br />
ha: sarebbe una falsificazione, una mascherata. Chi non è nato entro la<br />
tradizione ebraica non è un ebreo, e difficilmente può diventarlo: per<br />
definizione, una tradizione viene ereditata; è un prodotto dei secoli,<br />
non si fabbrica a posteriori. Eppure, per vivere occorre un’identità,<br />
ossia una dignità. Per lui i due concetti coinci-dono, chi perde l’una<br />
perde anche l’altra, muore spiritualmente: privo di difese, è quindi<br />
esposto anche alla morte fisica. Ora, a lui, ed ai molti ebrei tedeschi<br />
che come lui avevano creduto nella cultura tedesca, l’identità tedesca<br />
viene denegata: dalla propaganda nazista, sulle immonde pagine dello<br />
Stürmer di Streicher, l’ebreo viene descritto come un parassita peloso,<br />
grasso, dalle gambe storte, dal naso a becco, dalle orecchie a sventola,<br />
buono solo a danneggiare gli altri. Tedesco non è, per assioma; anzi,<br />
basta la sua presenza a contaminare i bagni pubblici e perfino le<br />
panchine dei parchi.<br />
Da questa degradazione, Entwürdigung, è impossibile difendersi.<br />
Il mondo intero vi assiste impassibile; gli ebrei tedeschi stessi, quasi<br />
tutti, soggiacciono alla prepotenza dello Stato e si sentono<br />
obiettivamente degra-dati. Il solo modo per sottrarvisi è paradossale e<br />
contraddittorio: accettare il proprio destino, in questo caso l’ebraismo,<br />
ed in pari tempo ribellarsi contro la scelta imposta. Per il giovane<br />
Hans, ebreo di ritorno, essere ebreo è simultaneamente impossibile ed<br />
obbligatorio; la sua spaccatura, che lo seguirà fino alla morte e la<br />
provocherà, incomincia di qui. Nega di possedere coraggio fisico, ma<br />
non gli manca il coraggio morale: nel 1938 lascia la sua patria<br />
«annessa» ed emigra in Belgio. D’ora in avanti sarà Jean Améry, un<br />
quasi-anagramma del suo nome originario. Per dignità, non per altro,<br />
96
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
accetterà l’ebraismo, ma come ebreo «[andrà] per il mondo come un<br />
malato di uno di quei morbi che non provocano grandi sofferenze, ma<br />
hanno sicuramente esito letale». Lui, il dotto umanista e critico<br />
tedesco, si sforza di diventare uno scrittore francese (non ci riuscirà<br />
mai), ed aderisce in Belgio ad un movimento della Resistenza le cui<br />
effettive speranze politiche sono scarsissime; la sua morale, che<br />
pagherà caramente in termini materiali e spirituali, è ormai cambiata:<br />
almeno simbolicamente, consiste nel «rendere il colpo».<br />
Nel 1940 la marea hitleriana sommerge anche il Belgio, e Jean,<br />
che nonostante la sua scelta è rimasto un intellettuale solitario e<br />
introverso, nel 1943 cade nelle mani della Gestapo. Gli si chiede di<br />
rivelare i nomi dei suoi compagni e mandanti, altrimenti è la tortura.<br />
Lui non è un eroe; nelle sue pagine, ammette onestamente che se li<br />
avesse conosciuti avrebbe parlato, ma non li sa. Gli legano le mani<br />
congiunte dietro la schiena, e per i polsi lo sospendono a una<br />
carrucola. Dopo pochi secondi le braccia gli si slogano e rimangono<br />
rivolte all’in su, verticali dietro la schiena. Gli aguzzini insistono,<br />
infieriscono con le fruste sul corpo appeso ormai quasi incosciente,<br />
ma Jean non sa nulla, non può rifugiarsi neppure nel tradimento.<br />
Guarisce, ma è stato identificato come ebreo, e lo spediscono ad<br />
Auschwitz-Monowitz, lo stesso Lager in cui anch’io sarei stato<br />
rinchiuso qualche mese più tardi.<br />
Pur senza esserci mai riveduti, ci siamo scambiate alcune lettere<br />
dopo la liberazione, essendoci riconosciuti, o per meglio dire<br />
conosciuti, attraverso i rispettivi libri. I nostri ricordi di laggiù<br />
coincidono abbastanza bene sul piano dei dettagli materiali, ma<br />
divergono su un particolare curioso: io, che ho sempre sostenuto di<br />
conservare di Auschwitz una memoria completa e indelebile, ho dimenticato<br />
la sua figura; lui afferma di ricordarsi di me, anche se mi<br />
confondeva con Carlo Levi, a quel tempo già noto in Francia come<br />
fuoruscito e come pittore. Dice anzi che abbiamo soggiornato per<br />
qualche settimana nella stessa baracca, e che non mi ha dimenticato<br />
perché gli italiani erano così pochi da costituire quasi una rarità;<br />
inoltre, perché in Lager, negli ultimi due mesi, io esercitavo<br />
97
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
sostanzialmente la mia professione, quella del chimico: e questa era<br />
una rarità anche maggiore.<br />
Questo mio saggio vorrebbe essere, allo stesso tempo, un sunto,<br />
una parafrasi, una discussione ed una critica di un suo saggio amaro e<br />
gelido, che ha due titoli (L‘intellettuale ad Auschwitz e Ai confini dello<br />
spirito). È tratto da un volume che da molti anni vorrei vedere tradotto<br />
in italiano: anch’esso ha due titoli, Al di là della colpa e dell’espiazione<br />
e Tentativo di superamento di un sopraffatto (Jenseits<br />
von Schuld und Sühne, Szczesny, Mùnchen 1966).<br />
Come si vede dal primo titolo, il tema del saggio di Améry è<br />
circoscritto con precisione. Améry è stato in varie prigioni naziste, ed<br />
inoltre, dopo Auschwitz, ha soggiornato brevemente a Buchenwald ed<br />
a Bergen-Belsen, ma le sue osservazioni, per buoni motivi, si limitano<br />
ad Auschwitz: i confini dello spirito, il non-immaginabile, erano là.<br />
Essere un intellettuale era ad Auschwitz un vantaggio o uno<br />
svantaggio?<br />
Occorre naturalmente definire che cosa si intenda per<br />
intellettuale. La definizione che Améry propone è tipica e discutibile:<br />
certo non intendo alludere a chiunque eserciti una delle cosìddette<br />
professioni intellettuali: l’aver avuto un buon livello d’istruzione è<br />
forse una condizione necessaria, ma non sufficiente. Ognuno di noi<br />
conosce avvocati, medici, ingegneri, probabilmente anche filologi, che<br />
sono certamente intelligenti, magari anche eccellenti nel loro ramo,<br />
ma che non possono essere definiti intellettuali. Un intellettuale, come<br />
io vorrei fosse qui inteso, è un uomo che vive entro un sistema di<br />
riferimento che è spirituale nel senso più vasto. Il campo delle sue<br />
associazioni è essenzialmente umanistico o filosofico. Ha una coscienza<br />
estetica bene sviluppata. Per tendenza e per attitudine, è<br />
attirato dal pensiero astratto (...) Se gli si parla di «società», non<br />
intende il termine nel senso mondano, ma in quello sociologico. Il<br />
fenomeno fisico che conduce a un corto circuito non gli interessa, ma<br />
la sa lunga su Neidhart von Reuenthal, poeta cortese del mondo<br />
contadino.<br />
La definizione mi sembra inutilmente restrittiva: più che una<br />
definizione, è un’autodescrizione, e dal contesto in cui è inserita non<br />
escluderei un’ombra di ironia: in effetti, conoscere von Reuenthal,<br />
98
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
come certamente Améry lo conosceva, ad Auschwitz serviva poco. A<br />
me pare più opportuno che nel termine «intellettuale» vengano compresi,<br />
ad esempio, anche il matematico o il naturalista o il filosofo<br />
della scienza; inoltre, va notato che in paesi diversi esso assume<br />
colorazioni diverse. Ma non c’è motivo di sottilizzare; viviamo infine<br />
in una Europa che si pretende unita, e le considerazioni di Améry<br />
reggono bene anche se il concetto in discussione viene inteso nel suo<br />
senso più largo; né vorrei seguire le tracce di Améry, e modellare una<br />
definizione alternativa sulla mia condizione attuale («intellettuale»<br />
sarò forse oggi, anche se il vocabolo mi dà un vago disagio;<br />
certamente non lo ero allora, per immaturità morale, ignoranza ed<br />
estraniamento; se lo sono diventato poi, lo devo paradossalmente<br />
proprio all’esperienza del Lager). Proporrei di estendere il termine alla<br />
persona colta al di là del suo mestiere quotidiano; la cui cultura è viva,<br />
in quanto si sforza di rinnovarsi, accrescersi ed aggiornarsi; e che non<br />
prova indifferenza o fastidio davanti ad alcun ramo del sapere, anche<br />
se, evidentemente, non li può coltivare tutti.<br />
Comunque, e su qualunque definizione ci si soffermi, sulle<br />
conclusioni di Améry non si può che concordare. Sul lavoro, che era<br />
prevalentemente manuale, in generale l’uomo colto stava in Lager<br />
molto peggio dell’incolto. Gli mancava, oltre alla forza fisica, la<br />
famigliarità con gli attrezzi e l’allenamento, che spesso avevano<br />
invece i suoi colleghi operai o contadini; per contro, era tormentato da<br />
un acuto senso di umiliazione e destituzione. Di Entwürdigung,<br />
appunto: di dignità perduta. Ricordo con precisione il mio primo<br />
giorno di lavoro nel cantiere della Buna. Prima ancora di inserire il<br />
nostro trasporto di italiani (quasi tutti professionisti o commercianti)<br />
nell’anagrafe del campo, ci mandarono temporaneamente ad allargare<br />
una grossa trincea di terra argillosa. Mi misero in mano una pala, e fu<br />
subito un disastro: avrei dovuto impalare la terra smossa del fondo<br />
della trincea, ed alzarla al di sopra del bordo, che era ormai più alto di<br />
due metri. Sembra facile e non è: se non si lavora di slancio, e con lo<br />
slancio giusto, la terra non resta nella pala ma ricade, e spesso sulla<br />
testa dello sterratore inesperto.<br />
99
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Anche il capomastro «civile» a cui fummo assegnati era<br />
provvisorio. Era un tedesco anziano, aveva l’aria di un brav’uomo, e si<br />
mostrò sinceramente scandalizzato dalla nostra goffaggine. Quando<br />
tentammo di spiegargli che quasi nessuno di noi aveva mai tenuto una<br />
pala in mano, alzò le spalle con impazienza: che diamine, eravamo<br />
prigionieri in panni zebra, per giunta ebrei. Tutti devono lavorare,<br />
perché «il lavoro rende liberi»: non stava scritto così sulla porta del<br />
Lager? Non era uno scherzo, era proprio così. Bene, se non sapevamo<br />
lavorare, avevamo solo da imparare; non eravamo forse dei capitalisti?<br />
ci stava bene: oggi a me, domani a te. Alcuni di noi sì ribellarono, e<br />
presero i primi colpi della loro carriera dai Kapòs che ispezionavano<br />
la zona; altri si abbatterono; altri ancora (io fra questi) intuirono<br />
confusamente che una via d’uscita non c’era, e che la soluzione<br />
migliore era quella di imparare a maneggiare la pala e il piccone.<br />
Tuttavia, a differenza di Améry e di altri, il mio senso di<br />
umiliazione per il lavoro manuale è stato moderato: evidentemente<br />
non ero ancora abbastanza «intellettuale». In fondo, perché no? Avevo<br />
una laurea, certo, ma era stata una mia fortuna non meritata; la mia<br />
famiglia era stata ricca abbastanza da farmi studiare: molti miei<br />
coetanei avevano spalato terra fin dall’adolescenza. Non volevo<br />
l’uguaglianza? Ebbene, l’avevo avuta. Ho dovuto cambiare opinione<br />
pochi giorni dopo, quando le mani e i piedi mi si sono coperti di<br />
vesciche e di infezioni: no, neanche sterratori non ci si improvvisa. Ho<br />
dovuto imparare in fretta alcune cose fondamentali, che i meno<br />
fortunati (ma in Lager erano i più fortunati!) imparano fin da bambini:<br />
il modo giusto di impugnare gli attrezzi, i movimenti corretti delle<br />
braccia e del tronco, il controllo della fatica e la sopportazione del<br />
dolore, il sapersi fermare poco prima dell’esaurimento, a costo di<br />
prendere schiaffi e calci dai Kapòs, e talvolta anche dai tedeschi<br />
«civili» della IG Farbenindustrie. I colpi, l’ho detto altrove, generalmente<br />
non sono mortali, il collasso invece sì; un pugno dato a regola<br />
d’arte contiene in sé la sua stessa anestesia, sia corporea, sia spirituale.<br />
A parte il lavoro, anche la vita in baracca era più penosa per l’uomo<br />
colto. Era una vita hobbesiana, una guerra continua di tutti contro tutti<br />
(insisto: così ad Auschwitz, capitale concentrazionaria, nel 1944. Altrove,<br />
100
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
o in altri tempi, la situazione poteva essere migliore, o anche molto<br />
peggiore). Il pugno dato dall’Autorità poteva essere accettato, era,<br />
letteralmente, un caso di forza maggiore; erano inaccet-tabili invece,<br />
perché inaspettati e fuori regola, i colpi ricevuti dai compagni, a cui raramente<br />
l’uomo incivilito sapeva reagire. Inoltre, una dignità poteva essere<br />
trovata nel lavoro manuale, anche nel più faticoso, ed era possibile<br />
adattarvisi, magari ravvisandovi una rozza ascesi, o, a seconda dei<br />
temperamenti, un «misurarsi» conradiano, una ricognizione dei propri<br />
confini. Era molto più difficile accettare la routine della baracca: rifare il<br />
letto nel modo perfezionistico ed idiota che ho descritto fra le violenze<br />
inutili, lavare il pavimento di legno con luridi stracci bagnati, vestirsi e<br />
spogliarsi a comando, esibirsi nudi agli innumerevoli controlli dei<br />
pidocchi, della scabbia, della pulizia personale, far propria la parodia<br />
militaristica dell’«ordine chiuso», dell’«attenti a destr», del «giù il<br />
berretto» di scatto davanti al graduato SS dal ventre porcino. Questa si<br />
era sentita come una destituzione, una regressione esiziale verso uno stato<br />
d’infanzia desolato, privo di maestri e di amore.<br />
Anche Améry-Mayer afferma di aver sofferto per la mutilazione<br />
del linguaggio a cui ho accennato nel quarto capitolo: eppure lui era di<br />
lingua tedesca. Ne ha sofferto in modo diverso da noi alloglotti ridotti<br />
alla condizione di sordomuti: in un modo, se mi è lecito, più spirituale<br />
che materiale. Ne ha sofferto perché era di lingua tedesca, perché era<br />
un filologo amante della sua lingua: come soffrirebbe uno scultore nel<br />
veder deturpare o amputare una sua statua. La sofferenza dell’intellettuale<br />
era dunque diversa, in questo caso, da quella dello straniero<br />
incolto: per questo, il tedesco del Lager era un linguaggio che lui non<br />
capiva, con rischio della sua vita; per quello, era un gergo barbarico,<br />
che lui capiva, ma che gli scorticava la bocca se cercava di parlarlo.<br />
L’uno era un deportato, l’altro uno straniero in patria.<br />
A proposito dei colpi fra compagni: non senza divertimento e<br />
fierezza retrospettiva, Améry racconta in un altro suo saggio un<br />
episodio-chiave, da inserirsi nella sua nuova morale del<br />
Zurückschlagen, del «rendere il colpo». Un gigantesco criminale<br />
comune polacco, per un’inezia, gli dà un pugno sul viso; lui, non per<br />
reazione animalesca, ma per ragionata rivolta contro il mondo<br />
101
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
stravolto del Lager, rende il colpo meglio che può. «La mia dignità, -<br />
dice, - stava tutta in quel pugno diretto alla sua mascella; che poi in<br />
conclusione sia stato io, fisicamente molto più debole, a soccombere<br />
sotto un pestaggio spietato, non ebbe più alcuna importanza.<br />
Dolorante per le botte, ero soddisfatto di me stesso».<br />
Qui devo ammettere una mia assoluta inferiorità: non ho mai<br />
saputo «rendere il colpo», non per santità evangelica né per<br />
aristocrazia intellettualistica, ma per intrinseca incapacità. Forse per<br />
mancanza di una seria educazione politica: infatti, non esiste<br />
programma politico, anche il più moderato, anche il meno violento,<br />
che non ammetta una qualche forma di difesa attiva. Forse per mancanza<br />
di coraggio fisico: ne posseggo una certa misura davanti ai<br />
pericoli naturali ed alla malattia, ma ne sono sempre stato totalmente<br />
privo davanti all’essere umano che aggredisce. «Fare a pugni» è<br />
un’esperienza che mi manca, fin dall’età più remota a cui arrivi la mia<br />
memoria; né posso dire di rimpiangerla. Proprio per questo la mia<br />
carriera partigiana è stata così breve, dolorosa, stupida e tragica:<br />
recitavo la parte di un altro. Ammiro la resipiscenza di Améry, la sua<br />
scelta coraggiosa di uscire dalla torre d’avorio e di scendere in campo,<br />
ma essa era, e tuttora è, fuori dalla mia portata. La ammiro: ma devo<br />
constatare che questa scelta, protrattasi per tutto il suo dopo-<br />
Auschwitz, lo ha condotto su posizioni di una tale severità ed<br />
intransigenza da renderlo incapace di trovar gioia nella vita, anzi di<br />
vivere: chi « fa a pugni» col mondo intero ritrova la sua dignità ma la<br />
paga ad un prezzo altissimo, perché è sicuro di venire sconfitto. Il<br />
suicidio di Améry, avvenuto nel 1978 a Salisburgo, come tutti i suicidi<br />
ammette una nebulosa di spiegazioni, ma, a posteriori, l’episodio della<br />
sfida contro il polacco ne offre un’interpretazione.<br />
Ho saputo qualche anno fa che, in una sua lettera alla comune<br />
amica Hety S. di cui parlerò in seguito, Améry mi ha definito «il<br />
perdonatore». Non la considero un’offesa né una lode, bensì<br />
un’imprecisione. Non ho tendenza a perdonare, non ho mai perdonato<br />
nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro<br />
imitatori in Algeria, in Vietnam, in Unione Sovietica, in Cile, in<br />
Argentina, in Cambogia, in Sud-Africa, perché non conosco atti umani<br />
102
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
che possano cancellare una colpa; chiedo giustizia, ma non sono<br />
capace, personalmente, di fare a pugni né di rendere il colpo.<br />
Ho tentato di farlo una volta sola. Elias, il nano robusto di cui ho<br />
parlato in Se questo è un uomo e in Lilìt, quello che, secondo ogni<br />
apparenza, «in Lager era felice», non rammento per quale motivo mi<br />
aveva preso per i polsi e mi stava insultando e spingendo contro un<br />
muro. Come Améry, provai un soprassalto di orgoglio; conscio di<br />
tradire me stesso, e di trasgredire ad una norma trasmessami da<br />
innumerevoli antenati alieni dalla violenza, cercai di difendermi e gli<br />
assestai un calcio nella tibia con lo zoccolo di legno. Elias ruggì, non<br />
per il dolore ma per la sua dignità lesa. Fulmineo, mi incrociò le<br />
braccia sul petto e mi abbatté a terra con tutto il suo peso; poi mi serrò<br />
la gola, sorvegliando attentamente il mio viso con i suoi occhi che<br />
ricordo benissimo, a una spanna dai miei, fissi, di un azzurro pallido<br />
di porcellana. Strise finché vide approssimarsi i segni dell’incoscienza;<br />
poi, senza una parola, mi lasciò e se ne andò.<br />
Dopo questa conferma, preferisco, nei limiti del possibile, delegare<br />
punizioni, vendette e ritorsioni alle leggi del mio paese. É una scelta<br />
obbligata: so quanto i meccanismi relativi funzionino male, ma io sono<br />
quale sono stato costruito dal mio passato, e non mi è più possibile<br />
cambiarmi. Se anch’io mi fossi visto crollare il mondo addosso; se fossi<br />
stato condannato all’esilio ed alla perdita dell’identità nazionale; se<br />
anch’io fossi stato torturato fino a svenire ed oltre, avrei forse imparato<br />
a rendere il colpo, e nutrirei come Améry quei «risentimenti» a cui egli<br />
ha dedicato un lungo saggio pieno d’angoscia.<br />
Questi gli evidenti svantaggi della cultura ad Auschwitz. Ma non<br />
c’erano proprio vantaggi? Sarei ingrato alla modesta (e «datata»)<br />
cultura liceale ed universitaria che mi è toccata in sorte se lo negassi;<br />
né lo nega Améry. La cultura poteva servire: non sovente, non<br />
dappertutto, non a tutti, ma qualche volta, in qualche occasione rara,<br />
preziosa come una pietra preziosa, serviva pure, e ci si sentiva come<br />
sollevati dal suolo; col pericolo di ricadervi di peso, facendosi tanto<br />
più male quanto più alta e più lunga era stata la esaltazione.<br />
103
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Améry racconta, ad esempio, di un suo amico che a Dachau<br />
studiava Maimonide: ma l’amico era infermiere nell’ambulatorio, e a<br />
Dachau, che pure era un Lager durissimo, c’era nientemeno che una<br />
biblioteca, mentre ad Auschwitz il solo poter dare un’occhiata ad un<br />
giornale era un evento inaudito e pericoloso. Racconta anche di aver<br />
tentato una sera, nella marcia di ritorno dal lavoro, in mezzo al fango<br />
polacco, di ritrovare in certi versi di Hölderlin il messaggio poetico<br />
che in altri tempi lo aveva scosso, e di non esserci riuscito: i versi<br />
erano lì, gli suonavano all’orecchio, ma non gli dicevano più nulla;<br />
mentre in un altro momento (tipicamente, in infermeria, dopo aver<br />
consumato una zuppa fuori razione, e cioè in una tregua della fame) si<br />
era entusiasmato fino all’ebbrezza rievocando la figura di Joachim<br />
Ziemssen, l’ufficiale ammalato a morte, ma ligio al dovere, della<br />
Montagna incantata di Thomas Mann.<br />
A me, la cultura è stata utile; non sempre, a volte forse per vie<br />
sotterranee ed impreviste, ma mi ha servito e forse mi ha salvato.<br />
Rileggo dopo quarant’anni in Se questo è un uomo il capitolo Il canto<br />
di Ulisse: è uno dei pochi episodi la cui autenticità ho potuto<br />
verificare (è un’operazione rassicurante: a distanza di tempo, come ho<br />
detto nel primo capitolo, della propria memoria si può dubitare),<br />
perché il mio interlocutore di allora, Jean Samuel, è fra i pochissimi<br />
personaggi del libro che siano sopravvissuti. Siamo rimasti amici, ci<br />
siamo incontrati più volte, ed i suoi ricordi coincidono coi miei:<br />
ricorda quel colloquio, ma, per così dire, senza accenti, o con gli accenti<br />
spostati. A lui, allora, non interessava Dante; gli interessavo io<br />
nel mio conato ingenuo e presuntuoso di trasmettergli Dante, la mia<br />
lingua e le mie confuse reminiscenze scolastiche, in mezz’ora di<br />
tempo e con le stanghe della zuppa sulle spalle. Ebbene, dove ho<br />
scritto «darei la zuppa di oggi per saper saldare “non ne avevo alcuna”<br />
col finale», non mentivo e non esageravo. Avrei dato veramente pane<br />
e zuppa, cioè sangue, per salvare dal nulla quei ricordi, che oggi, col<br />
supporto sicuro della carta stampata, posso rinfrescare quando voglio<br />
e gratis, e che perciò sembrano valere poco.<br />
Allora e là, valevano molto. Mi permettevano di ristabilire un<br />
legame col passato, salvandolo dall’oblio e fortificando la mia identità.<br />
104
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Mi convincevano che la mia mente, benché stretta dalle necessità<br />
quotidiane, non aveva cessato di funzionare. Mi promuovevano, ai miei<br />
occhi ed a quelli del mio interlocutore. Mi concedevano una vacanza<br />
effimera ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo<br />
insomma di ritrovare me stesso. Chi ha letto o visto Fahrenheit 451<br />
(Mondadori, Milano 1966) di Ray Bradbury ha avuto modo di<br />
rappresentarsi che cosa significherebbe essere costretti a vivere in un<br />
mondo senza libri, e quale valore assumerebbe in esso la memoria dei<br />
libri. Per me, il Lager è stato anche questo; prima e dopo « Ulisse»,<br />
ricordo di aver ossessionato i miei compagni italiani perché mi<br />
aiutassero a recuperare questo o quel brandello del mio mondo di ieri,<br />
senza cavarne molto, anzi, leggendo nei loro occhi fastidio e sospetto:<br />
che cosa va cercando, questo qui, con Leopardi e il Numero di<br />
Avogadro? Che la fame non lo stia facendo diventare matto?<br />
Né devo trascurare l’aiuto che ho tratto dal mio mestiere di<br />
chimico. Sul piano pratico, mi ha probabilmente salvato da almeno<br />
alcune delle selezioni per il gas: da quanto ho letto in seguito<br />
sull’argomento (in specie, in The Crime and Punishment of IG-<br />
Farben, di J. Borkin, McMillan, London 1978) ho appreso che il<br />
Lager di Monowitz, benché dipendesse da Auschwitz, era di proprietà<br />
della IG-Farbenindustrie, era insomma un Lager privato; e gli<br />
industriali tedeschi, un po’ meno miopi dei capi nazisti, si rendevano<br />
conto che gli specialisti, di cui io facevo parte dopo aver superato<br />
l’esame di chimica a cui ero stato sottoposto, non erano facilmente<br />
sostituibili. Ma non intendo alludere qui a questa condizione di privilegio,<br />
né agli ovvi vantaggi del lavorare al coperto, senza fatica<br />
fisica e senza Kapòs maneschi: alludo ad un altro vantaggio. Credo di<br />
poter contestare «per fatto personale» l’affermazione di Améry, che<br />
esclude gli scienziati, ed a maggior ragione i tecnici, dal novero degli<br />
intellettuali: questi, per lui, sarebbero da reclutarsi esclusivamente nel<br />
campo delle lettere e della filosofia. Leonardo da Vinci, che si<br />
definiva «omo sanza lettere», non era un intellettuale?<br />
Insieme col bagaglio di nozioni pratiche, avevo ricavato dagli<br />
studi, e mi ero portato dietro in Lager, un mal definito patrimonio di<br />
abitudini mentali che derivano dalla chimica e dai suoi dintorni, ma<br />
105
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
che trovano applicazioni più vaste. Se io agisco in un certo modo,<br />
come reagirà la sostanza che ho tra le mani, o il mio interlocutore<br />
umano? Perché essa, o lui, o lei, manifesta o interrompe o cambia un<br />
determinato comportamento? Posso anticipare cosa avverrà intorno a<br />
me fra un minuto, o domani, o fra un mese? Se sì, quali sono i segni<br />
che contano, quali quelli da trascurarsi? Posso prevedere il colpo,<br />
sapere da che parte verrà, pararlo, sfuggirlo?<br />
Ma soprattutto, e più specificamente: ho contratto dal mio mestiere<br />
un’abitudine che può essere variamente giudicata, e definita a piacere<br />
umana o disumana, quella di non rimanere mai indifferente ai<br />
personaggi che il caso mi porta davanti. Sono esseri umani, ma anche<br />
«campioni», esemplari in busta chiusa, da riconoscere, analizzare e<br />
pesare. Ora, il campionario che Auschwitz mi aveva squadernato<br />
davanti era abbondante, vario e strano; fatto di amici, di neutri e di<br />
nemici, comunque cibo per la mia curiosità, che alcuni, allora e dopo,<br />
hanno giudicato distaccata. Un cibo che certamente ha contribuito a<br />
mantenere viva una parte di me, e che in seguito mi ha fornito materia<br />
per pensare e per costruire libri. Come ho detto, non so se ero un<br />
intellettuale laggiù: forse lo ero a lampi, quando la pressione si<br />
allentava; se lo sono diventato dopo, l’esperienza attinta mi ha certo<br />
dato un aiuto. Lo so, questo atteggiamento «naturalistico» non viene<br />
solo né necessariamente dalla chimica, ma per me è venuto dalla<br />
chimica. D’altra parte, non sembri cinico affermarlo: per me, come per<br />
Lidia Rolfi e per molti altri superstiti «fortunati», il Lager è stata una<br />
Università; ci ha insegnato a guardarci intorno ed a misurare gli uomini.<br />
Sotto questo aspetto, la mia visione del mondo è stata diversa da,<br />
e complementare con, quella del mio compagno ed antagonista<br />
Améry. Dai suoi scritti traspare un interesse diverso: quello del<br />
combattente politico per il morbo che appestava l’Europa e<br />
minacciava (ed ancora minaccia) il mondo; quello del filosofo per lo<br />
Spirito, che ad Auschwitz era vacante; quello del dotto sminuito, a cui<br />
le forze della storia hanno tolto la patria e l’identità. Infatti, il suo<br />
sguardo è rivolto verso l’alto, e si sofferma raramente sul volgo del<br />
Lager, e sul suo personaggio tipico, il «mussulmano», l’uomo<br />
stremato, il cui intelletto è moribondo o morto.<br />
106
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
La cultura poteva dunque servire, anche se solo in qualche caso<br />
marginale, e per brevi periodi; poteva abbellire qualche ora, stabilire<br />
un legame fugace con un compagno, mantenere viva e sana la mente.<br />
Certo non era utile ad orientarsi né a capire: su questo, la mia esperienza<br />
di straniero coincide con quella del tedesco Améry. La ragione,<br />
l’arte, la poesia, non aiutano a decifrare il luogo da cui esse sono state<br />
bandite. Nella vita quotidiana di «laggiù», fatta di noia trapunta di<br />
orrore, era salutare dimenticarle, allo stesso modo come era salutare<br />
imparare a dimenticare la casa e la famiglia; non intendo parlare di un<br />
oblio definitivo, di cui del resto nessuno è capace, ma di una<br />
relegazione in quel solaio della memoria dove si accumula il materiale<br />
che ingombra, e che per la vita di tutti i giorni non serve più.<br />
A questa operazione erano più proclivi gli incolti dei colti. Si<br />
adattavano prima a quel «non cercar di capire» che era il primo detto<br />
sapienziale da impararsi in Lager; cercar di capire, là, sul posto, era<br />
uno sforzo inutile, anche per i molti prigionieri che venivano da altri<br />
Lager, o che, come Améry, conoscevano la storia, la logica e la<br />
morale, ed inoltre avevano provato la prigionia e la tortura: uno spreco<br />
di energie che sarebbe stato più utile investire nella lotta quotidiana<br />
contro la fame e la fatica. Logica e morale impedivano di accettare<br />
una realtà illogica ed immorale: ne risultava un rifiuto della realtà che<br />
di regola conduceva rapidamente l’uomo colto alla disperazione; ma<br />
le varietà dell’animale-uomo sono innumerevoli, ed ho visto e<br />
descritto uomini dalla cultura raffinata, specie se giovani, farne getto,<br />
semplificarsi, imbarbarirsi e sopravvivere.<br />
L’uomo semplice, abituato a non porsi domande, era al riparo<br />
dall’inutile tormento del chiedersi perché; inoltre, spesso possedeva un<br />
mestiere o una manualità che facilitavano il suo inserimento. Sarebbe<br />
difficile darne un elenco completo, anche perché variava da Lager a Lager<br />
e da momento a momento. A titolo di curiosità: ad Auschwitz, nel<br />
dicembre 1944, con i russi alle porte, i bombardamenti quotidiani e il<br />
gelo che spaccava le condutture, fu istituito un Buchhalter-Kommando,<br />
una Squadra Contabili; fu chiamato a farne parte anche quello Steinlauf<br />
che ho descritto nel terzo capitolo di Se questo è un uomo, il che non<br />
bastò a salvarlo dalla morte. Questo, beninteso, era un caso limite, da<br />
107
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
inquadrarsi nella follia generale del tramonto del Terzo Reich; ma era<br />
normale, e comprensibile, che trovassero un buon posto i sarti, i<br />
ciabattini, i meccanici, i muratori: questi, anzi, erano troppo scarsi;<br />
proprio a Monowitz fu istituita (non certo a scopo umanitario) una scuola<br />
d’arte muraria, per i prigionieri d’età inferiore ai diciott’anni.<br />
Anche il filosofo, dice Améry, poteva arrivare all’accettazione,<br />
ma per una strada più lunga. Poteva accadergli di infrangere la<br />
barriera del senso comune, che gli vietava di tenere per buona una<br />
realtà troppo feroce; poteva infine ammettere, vivendo in un mondo<br />
mostruoso, che i mostri esistono, e che accanto alla logica di Cartesio<br />
esisteva quella delle SS:<br />
E se coloro che si proponevano di annientarlo avessero avuto ragione,<br />
in base al fatto innegabile che erano loro i più forti? In questo modo la<br />
fondamentale tolleranza spirituale e il dubbio metodico dell’intellettuale<br />
diventavano fattori di autodistruzione. Sì, le SS potevano bene<br />
fare quello che facevano: il diritto naturale non esiste, e le categorie<br />
morali nascono e muoiono come le mode. C’era una Germania che<br />
mandava a morte gli ebrei e gli avversari politici perché riteneva che<br />
solo per questa via avrebbe potuto realizzarsi. Ebbene? Anche la<br />
civiltà greca era fondata sulla schiavitù, ed un esercito ateniese si era<br />
accasermato a Melos come le SS in Ucraina. Erano state uccise<br />
vittime umane in numero inaudito, fin là dove la luce della storia può<br />
illuminare il passato, e comunque, la perennità del progresso umano<br />
non era che un’ingenuità nata nel XIX secolo. «Links, zwei, drei,<br />
vier», l’ordine dei Kapòs per scandire il passo, era un rituale come<br />
tanti altri. A fronte dell’orrore non c’è molto da opporre: la Via Appia<br />
era stata fiancheggiata da due siepi di schiavi crocifissi, ed a Birkenau<br />
si spandeva il fetore di corpi umani bruciati. In Lager l’intellettuale<br />
non era più dalla parte di Crasso ma in quella di Spartaco: ecco tutto.<br />
Questa resa davanti all’orrore intrinseco del passato poteva<br />
condurre l’uomo dotto all’abdicazione intellettuale, fornendogli in pari<br />
tempo le armi di difesa del suo compagno incolto: «così è sempre<br />
stato, così sarà sempre». Forse la mia ignoranza della storia mi ha<br />
protetto da questa metamorfosi; né d’altra parte, per mia fortuna, ero<br />
esposto ad un altro pericolo a cui giustamente accenna Améry: per sua<br />
natura, l’intellettuale (tedesco, mi permetterei di aggiungere io al suo<br />
enunciato) tende a farsi complice del Potere, e quindi ad approvarlo.<br />
Tende a seguire le orme di Hegel, ed a deificare lo Stato, qualunque<br />
108
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Stato: il solo fatto di esistere ne giustifica l’esistenza. Le cronache<br />
della Germania hitleriana brulicano di casi che confermano questa<br />
tendenza: vi hanno soggiaciuto, confermandola, Heidegger il filosofo,<br />
maestro di Sartre; Stark il fisico, premio Nobel; Faulhaber il cardinale,<br />
suprema autorità cattolica in Germania, ed innumerevoli altri.<br />
Accanto a questa latente propensione dell’intellettuale agnostico,<br />
Améry osserva quanto tutti noi ex prigionieri abbiamo osservato: i non<br />
agnostici, i credenti in qualsiasi credo, hanno retto meglio alla<br />
seduzione del Potere, purché, beninteso, non fossero credenti nel verbo<br />
nazionalsocialista (la riserva non è superflua: nei Lager, e<br />
contrassegnati pure loro col triangolo rosso dei prigionieri politici,<br />
c’erano anche alcuni nazisti convinti, che erano caduti in disgrazia per<br />
dissidenza ideologica o per ragioni personali. Erano spiacenti a tutti);<br />
in definitiva, hanno anche sopportato meglio la prova del Lager, e<br />
sono sopravvissuti in numero proporzionalmente più alto.<br />
Come Améry, anch’io sono entrato in Lager come non credente, e<br />
come non credente sono stato liberato ed ho vissuto fino ad oggi; anzi,<br />
l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella<br />
mia laicità. Mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire una<br />
qualsiasi forma di provvidenza o di giustizia trascendente: perché i<br />
moribondi in vagone bestiame? perché i bambini in gas? Devo ammettere<br />
tuttavia di aver provato (e di nuovo una volta sola) la tentazione di<br />
cedere, di cercare rifugio nella preghiera. Questo è avvenuto nell’ottobre<br />
del 1944, nell’unico momento in cui mi è accaduto di percepire<br />
lucidamente l’imminenza della morte: quando, nudo e compresso fra i<br />
compagni nudi, con la mia scheda personale in mano, aspettavo di sfilare<br />
davanti alla «commissione» che con un’occhiata avrebbe deciso se avrei<br />
dovuto andare subito alla camera a gas, o se invece ero abbastanza forte<br />
per lavorare ancora. Per un istante ho provato il bisogno di chiedere aiuto<br />
ed asilo; poi, nonostante l’angoscia, ha prevalso l’equanimità: non si<br />
cambiano le regole del gioco alla fine della partita, né quando stai<br />
perdendo. Una preghiera in quella condizione sarebbe stata non solo<br />
assurda (quali diritti potevo rivendicare? e da chi?) ma blasfema, oscena,<br />
carica della massima empietà di cui un non credente sia capace. Cancellai<br />
109
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
quella tentazione: sapevo che altrimenti, se fossi sopravvissuto, me ne<br />
sarei dovuto vergognare.<br />
Non solo nei momenti cruciali delle selezioni o dei<br />
bombardamenti aerei, ma anche nella macina della vita quotidiana, i<br />
credenti vivevano meglio: entrambi, Améry ed io, lo abbiamo<br />
osservato. Non aveva alcuna importanza quale fosse il loro credo,<br />
religioso o politico. Sacerdoti cattolici o riformati, rabbini delle varie<br />
ortodossie, sionisti militanti, marxisti ingenui od evoluti, Testimoni di<br />
Geova, erano accomunati dalla forza salvifica della loro fede. Il loro<br />
universo era più vasto del nostro, più esteso nello spazio e nel tempo,<br />
soprattutto più comprensibile: avevano una chiave ed un punto<br />
d’appoggio, un domani millenario per cui poteva avere un senso sacrificarsi,<br />
un luogo in cielo o in terra in cui la giustizia e la<br />
misericordia avevano vinto, o avrebbero vinto in un avvenire forse<br />
lontano ma certo: Mosca, o la Gerusalemme celeste, o quella terrestre.<br />
La loro fame era diversa dalla nostra; era una punizione divina, o una<br />
espiazione, o un’offerta votiva, o frutto della putredine capitalista. Il<br />
dolore, in loro o intorno a loro, era decifrabile, e perciò non<br />
sconfinava nella disperazione. Ci guardavano con commiserazione, a<br />
volte con disprezzo; alcuni di loro, negli intervalli della fatica,<br />
cercavano di evangelizzarci. Ma come puoi, tu laico, fabbricarti o<br />
accettare sul momento una fede «opportuna» solo perché è opportuna?<br />
Nei giorni folgoranti e densissimi che seguirono immediatamente<br />
alla liberazione, su un miserando scenario di moribondi, di morti, di<br />
vento infetto e di neve inquinata, i russi mi mandarono dal barbiere a<br />
farmi radere per la prima volta della mia nuova vita di uomo libero. Il<br />
barbiere era un ex politico, un operaio francese della «ceinture»; ci<br />
sentimmo subito fratelli, ed io feci qualche commento banale sulla nostra<br />
così improbabile salvazione: eravamo dei condannati a morte liberati<br />
sulla pedana della ghigliottina, vero? Lui mi guardò a bocca aperta, e poi<br />
esclamò scandalizzato: «... mais Joseph était là!» Joseph? Mi occorse<br />
qualche istante per capire che alludeva a Stalin. Lui no, non aveva mai<br />
disperato; Stalin era la sua fortezza, la Rocca che si canta nei Salmi.<br />
La demarcazione fra colti e incolti, beninteso, non coincideva affatto<br />
con quella fra credenti e non credenti: anzi, la tagliava ad angolo retto, a<br />
110
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
costituire quattro quadranti abbastanza ben definiti: i colti credenti, i colti<br />
laici, gli incolti credenti, gli incolti laici; quattro piccole isole frastagliate<br />
e colorate, che si stagliavano sul mare grigio, sterminato, dei semivivi che<br />
forse colti o credenti erano stati, ma che ormai non si ponevano più<br />
domande, ed a cui sarebbe stato inutile e crudele porre domande.<br />
L’intellettuale, nota Améry (ed io preciserei: l’intellettuale giovane,<br />
quali lui ed io eravamo al tempo della cattura e della prigionia), ha<br />
ricavato dalle sue letture un ‘immagine della morte inodora, adorna e<br />
letteraria. Traduco qui «in italiano» le sue osservazioni di filologo<br />
tedesco, tenuto a citare il «Più luce!» di Goethe, la Morte a Venezia e<br />
Tristano. Da noi, in Italia, la morte è il secondo termine del binomio<br />
«amore e morte»; è la gentile trasfigurazione di Laura, Ermengarda e<br />
Clorinda; è il sacrificio del soldato in battaglia («Chi per la patria muor,<br />
vissuto è assai»); è «Un bel morir tutta la vita onora».<br />
Questo sconfinato archivio di formule difensive ed apotropaiche,<br />
ad Auschwitz (o del resto, anche oggi in qualsiasi ospedale) aveva vita<br />
breve: la Morte ad Auschwitz era triviale, burocratica e quotidiana.<br />
Non veniva commentata, non era «confortata di pianto». Davanti alla<br />
morte, all’abitudine alla morte, il confine tra cultura ed incultura<br />
spariva. Améry afferma che non si pensava più al se morire, cosa<br />
scontata, ma piuttosto al come:<br />
Si discuteva sul tempo necessario perché il veleno delle camere a gas<br />
facesse il suo effetto. Si speculava sulla dolorosità della morte per<br />
iniezione di fenolo. C’era da augurarsi un colpo sul cranio oppure la<br />
morte per esaurimento nell’infermeria?<br />
Su questo punto la mia esperienza ed i miei ricordi si staccano da<br />
quelli di Améry. Forse perché più giovane, forse perché più ignorante di<br />
lui, o meno segnato, o meno cosciente, non ho quasi mai avuto tempo<br />
da dedicare alla morte; avevo ben altro a cui pensare, a trovare un po’ di<br />
pane, a scansare il lavoro massacrante, a rappezzarmi le scarpe, a rubare<br />
una scopa, a interpretare i segni e i visi intorno a me. Gli scopi di vita<br />
sono la difesa ottima contro la morte: non solo in Lager.<br />
111
VII<br />
Stereotipi<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Coloro che hanno sperimentato la prigionia (e, molto più in<br />
generale, tutti gli individui che hanno attraversato esperienze severe)<br />
si dividono in due categorie ben distinte, con rare sfumature<br />
intermedie: quelli che tacciono e quelli che raccontano. Entrambi<br />
obbediscono a valide ragioni: tacciono coloro che provano più profondamente<br />
quel disagio che per semplificare ho chiamato «vergogna»,<br />
coloro che non si sentono in pace con se stessi, o le cui ferite ancora<br />
bruciano. Parlano, e spesso parlano molto, gli altri, obbedendo a spinte<br />
diverse. Parlano perché, a vari livelli di consapevolezza, ravvisano<br />
nella loro (anche se ormai lontana) prigionia il centro della loro vita,<br />
l’evento che nel bene e nel male ha segnato la loro esistenza intiera.<br />
Parlano perché sanno di essere testimoni di un processo di dimensione<br />
planetaria e secolare. Parlano perché (recita un detto jiddisch) «è bello<br />
raccontare i guai passati»; Francesca dice a Dante che non c’è «nessun<br />
maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria», ma è<br />
vero anche l’inverso, come sa ogni reduce: è bello sedere al caldo,<br />
davanti al cibo ed al vino, e ricordare a sé ed agli altri la fatica, il<br />
freddo e la fame: così subito cede all’urgenza del raccontare, davanti<br />
alla mensa imbandita, Ulisse alla corte del re dei Feaci. Parlano,<br />
magari esagerando, da «soldati millantatori», descrivendo paura e<br />
coraggio, astuzie, offese, sconfitte e qualche vittoria: così facendo, si<br />
differenziano dagli «altri», consolidano la loro identità con l’appartenenza<br />
ad una corporazione, e sentono accresciuto il loro prestigio.<br />
112
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Ma parlano, anzi (posso usare la prima persona plurale: io non<br />
appartengo ai taciturni) parliamo, anche perché veniamo invitati a farlo.<br />
Ha scritto anni fa Norberto Bobbio che i campi di annien-tamento nazisti<br />
sono stati « non uno degli eventi, ma l’evento mostruoso, forse irripetibile,<br />
della storia umana». Gli altri, gli ascolta-tori, amici, figli,<br />
lettori, od anche estranei, lo intuiscono, al di là della indignazione e della<br />
commiserazione; capiscono l’unicità della nostra esperienza, o almeno si<br />
sforzano di capirla. Perciò ci sollecitano a raccontare e ci pongono<br />
domande, talvolta mettendoci in imbarazzo: non sempre è facile<br />
rispondere a certi perché, non siamo storici né filosofi ma testimoni, e del<br />
resto non è detto che la storia delle cose umane obbedisca a schemi logici<br />
rigorosi. Non è detto che ogni svolta segua da un solo perché: le semplificazioni<br />
sono buone solo per i testi scolastici, i perché possono essere<br />
molti, confusi fra loro, o incono-scibili, se non addirittura inesistenti.<br />
Nessuno storico o epistemologo ha ancora dimostrato che la storia umana<br />
sia un processo deterministico.<br />
Fra le domande che ci vengono poste ce n’è una che non manca<br />
mai; anzi, a mano a mano che gli anni passano, essa viene formulata<br />
con sempre maggiore insistenza, e con un sempre meno celato accento<br />
di accusa. Più che una domanda singola, è una famiglia di domande.<br />
Perché non siete fuggiti? Perché non vi siete ribellati? Perché non vi<br />
siete sottratti alla cattura «prima»? Proprio per la loro immancabilità,<br />
e per il loro crescere nel tempo, queste domande meritano attenzione.<br />
Il primo commento a queste domande, e la loro prima<br />
interpretazione, sono ottimistici. Vi sono paesi in cui la libertà non è<br />
mai stata conosciuta, perché il bisogno che naturalmente l’uomo ne<br />
prova viene dopo altri ben più urgenti bisogni: di resistere al freddo,<br />
alla fame, alle malattie, ai parassiti, alle aggressioni animali e umane.<br />
Però, nei paesi in cui i bisogni elementari sono soddisfatti, i giovani<br />
d’oggi sentono la libertà come un bene a cui non si deve in alcun caso<br />
rinunciare: non sì può farne a meno, è un diritto naturale ed ovvio, e<br />
per di più gratuito, come la salute e l’aria che si respira. I tempi e i<br />
luoghi in cui questo diritto congenito viene negato sono sentiti come<br />
lontani, estranei, strani. Perciò, per loro, l’idea della prigionia è<br />
113
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
concatenata all’idea della fuga o della rivolta. La condizione del<br />
prigioniero è sentita come indebita, anormale: come una malattia,<br />
insomma, che deve essere guarita con l’evasione o con la ribellione.<br />
Del resto, il concetto dell’evasione come obbligo morale ha radici<br />
salde: secondo i codici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è<br />
tenuto a liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo posto di<br />
combattente, e secondo la Convenzione dell’Aia il tentativo di fuga<br />
non deve essere punito. Nella coscienza comune, l’evasione lava ed<br />
estingue la vergogna della prigionia Sia detto di passata: nell’Unione<br />
Sovietica di Stalin la prassi, se non la legge, era diversa ed assai più<br />
drastica; per il prigioniero di guerra sovietico rimpatriato non c’era<br />
guarigione né redenzione, egli era considerato irrimediabilmente<br />
colpevole, anche se era riuscito ad evadere ed a ricongiungersi con<br />
l’armata combattente. Avrebbe dovuto morire anziché arrendersi, ed<br />
inoltre, essendo stato (magari per poche ore) nelle mani del nemico,<br />
era automaticamente sospetto di collusione con lui. Alloro incauto<br />
ritorno in patria, furono deportati in Siberia, o uccisi, perfino molti<br />
militari che al fronte erano stati catturati dai tedeschi, erano stati<br />
trascinati nei territori occupati, erano evasi e si erano uniti alle bande<br />
partigiane operanti contro i tedeschi in Italia, in Francia o nelle stesse<br />
retrovie russe. Anche nel Giappone in guerra il soldato che si<br />
arrendeva era considerato con estremo disprezzo: di qui il trattamento<br />
durissimo a cui furono sottoposti i militari alleati che caddero<br />
prigionieri nelle mani dei giapponesi. Non erano solo nemici, erano<br />
anche nemici vili, degradati dall’essersi arresi.<br />
Ancora: il concetto dell’evasione come dovere morale e come<br />
conseguenza obbligata della cattività è costantemente ribadito dalla<br />
letteratura romantica (il Conte di Montecristo!) e popolare (si ricordi<br />
lo straordinario successo delle memorie di Papillon [Mondadori,<br />
Milano 1974]). Nell’universo del cinematografo, l’eroe ingiustamente<br />
(o magari giustamente) incarcerato è sempre un personaggio positivo,<br />
tenta sempre la fuga, anche nelle circostanze meno verosimili, e il<br />
tentativo è invariabilmente coronato da successo. Fra i mille film<br />
sepolti dall’oblio, restano nella memoria Io sono un evaso e Uragano.<br />
Il prigioniero tipico è visto come un uomo integro, nel pieno possesso<br />
114
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
del suo vigore fisico e morale, che, con la forza che nasce dalla<br />
disperazione e con l’ingegno aguzzato dalla necessità, si scaglia<br />
contro le barriere, le scavalca o le infrange.<br />
Ora, questa immagine schematica della prigionia e dell’evasione<br />
assomiglia assai poco alla situazione dei campi di concentramento.<br />
Intendendo questo termine nel suo senso più vasto (includendo cioè, oltre<br />
ai campi di distruzione dal nome universalmente noto anche i moltissimi<br />
campi per prigionieri e internati militari), esistevano in Germania parecchi<br />
milioni di stranieri in condizione di schiavitù. affaticati, disprezzati,<br />
sottoalimentati, mal vestiti e mal curati, tagliati fuori dal contatto con la<br />
madrepatria. Non erano «prigionieri tipici», non erano integri, erano anzi<br />
demoralizzati e svigoriti. Va fatta eccezione per i prigionieri di guerra<br />
alleati (gli americani e gli appartenenti al Commonwealth britannico), che<br />
ricevevano viveri e vestiario attraverso la Croce Rossa internazionale,<br />
possedevano un buon allenamento militare, forti motivazioni ed un saldo<br />
spirito di corpo, ed avevano conservato una gerarchia interna abbastanza<br />
solida, esente dalla «zona grigia» di cui ho parlato altrove; salvo poche<br />
eccezioni, potevano fidarsi l’uno dell’altro, ed inoltre sapevano che, se<br />
fossero stati ripresi, sarebbero stati trattati secondo le convenzioni<br />
internazionali. Fra di loro, in effetti, molte evasioni sono state tentate, ed<br />
alcune condotte a termine con successo.<br />
Per gli altri, per i paria dell’universo nazista (tra cui vanno<br />
compresi gli zingari ed i prigionieri sovietici, militari e civili, che<br />
razzialmente erano considerati di poco superiori agli ebrei), le cose<br />
stavano in modo diverso. Per loro l’evasione era difficile ed<br />
estremamente pericolosa: erano indeboliti, oltre che demoralizzati, dalla<br />
fame e dai maltrattamenti; erano e si sentivano considerati di minor<br />
valore che bestie da soma. Avevano i capelli rasati, abiti lerci subito<br />
riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e<br />
silenzioso. Se erano stranieri, non avevano conoscenze né rifugi<br />
possibili nei dintorni; se erano tedeschi, sapevano di essere attentamente<br />
sorvegliati e schedati dalla occhiuta polizia segreta, e che pochissimi<br />
loro connazionali avrebbero rischiato la libertà o la vita per ospitarli.<br />
Il caso particolare (ma numericamente imponente) degli ebrei era il<br />
più tragico. Anche ammettendo che fossero riusciti a superare lo<br />
115
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
sbarramento di filo spinato e la griglia elettrificata, a sfuggire alle<br />
pattuglie, alla sorveglianza delle sentinelle armate di mitragliatrice nelle<br />
torrette di guardia, ai cani addestrati alla caccia all’uomo: verso dove<br />
avrebbero potuto dirigersi? a chi chiedere ospitalità? Erano fuori del<br />
mondo, uomini e donne d’aria. Non avevano più una patria (erano stati<br />
privati della cittadinanza d’origine) né una casa, sequestrata a favore dei<br />
cittadini a pieno titolo. Salvo eccezioni, non avevano più famiglia, o se<br />
ancora viveva qualche loro parente, non sapevano dove trovarlo, o dove<br />
scrivergli senza mettere la polizia sulle sue tracce. La propaganda<br />
antisemita di Goebbels e di Streicher aveva dato frutto: la maggior parte<br />
dei tedeschi, ed i giovani in specie, odiavano gli ebrei, li disprezzavano<br />
e li consideravano nemici del popolo; gli altri, con pochissime eroiche<br />
eccezioni, si astenevano da qualsiasi aiuto per paura della Gestapo. Chi<br />
ospitava o anche solo aiutava un ebreo rischiava punizioni terrificanti:<br />
ed a questo proposito è giusto ricordare che qualche migliaio di ebrei<br />
sono sopravvissuti per tutto il periodo hitleriano, nascosti in Germania<br />
ed in Polonia in conventi, in cantine, in solai, ad opera di cittadini<br />
coraggiosi, misericordiosi, e soprattutto abbastanza intelligenti da<br />
conservare per anni la più stretta discrezione.<br />
Inoltre, in tutti i Lager la fuga anche di un solo prigioniero era<br />
considerata una mancanza gravissima di tutto il personale di<br />
sorveglianza, a partire dai prigionieri-funzionari fino al comandante<br />
del campo, che rischiava la destituzione. Nella logica nazista, era un<br />
evento intollerabile: la fuga di uno schiavo, specie se appartenente alle<br />
razze «di minor valore biologico», appariva carica di valore simbolico,<br />
avrebbe rappresentato una vittoria di colui che è sconfitto per<br />
definizione, una lacerazione del mito; ed anche, più realisticamente,<br />
un danno obiettivo, perché ogni prigioniero aveva visto cose che il<br />
mondo non avrebbe dovuto sapere. Di conseguenza, quando un<br />
prigioniero mancava all’appello (cosa non rarissima: spesso si trattava<br />
di un semplice errore di conteggio, o di un prigioniero svenuto per<br />
esaurimento) si scatenava l’apocalissi. L’intero campo veniva messo<br />
in stato d’allarme; oltre alle SS addette alla sorveglianza intervenivano<br />
pattuglie della Gestapo; Lager, cantieri, case coloniche, abitazioni dei<br />
dintorni venivano perquisite. Ad arbitrio del comandante del campo,<br />
116
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
venivano presi provvedimenti d’emergenza. I connazionali o gli amici<br />
notori o i vicini di cuccetta dell’evaso erano interrogati sotto tortura e<br />
poi uccisi; infatti, un’evasione era un’impresa difficile, ed era inverosimile<br />
che il fuggitivo non avesse avuto complici o che nessuno si<br />
fosse accorto dei preparativi. I suoi compagni di baracca, o a volte<br />
tutti i prigionieri del campo, venivano fatti stare in piedi, nella piazza<br />
dell’appello, senza limiti di tempo, magari per giorni, sotto la neve, la<br />
pioggia o il solleone, finché l’evaso non fosse stato ritrovato, vivo o<br />
morto. Se era stato rintracciato e catturato vivo, veniva punito invariabilmente<br />
con la morte mediante impiccagione pubblica, ma questa<br />
era preceduta da un cerimoniale vario da volta a volta, sempre di<br />
ferocia inaudita, in cui si scatenava la crudeltà fantasiosa delle SS.<br />
Ad illustrare quale impresa disperata fosse una fuga, ma non solo<br />
a questo scopo, ricorderò qui l’impresa di Mala Zimetbaum; vorrei<br />
infatti che ne rimanesse memoria. L’evasione di Mala dal Lager<br />
femminile di Auschwitz-Birkenau è stata narrata da più persone, ma i<br />
particolari concordano. Mala era una giovane ebrea polacca che era<br />
stata catturata in Belgio e che parlava correntemente molte lingue,<br />
perciò a Birkenau fungeva da interprete e da portaordini, e come tale<br />
godeva di una certa libertà di spostamento. Era generosa e coraggiosa;<br />
aveva aiutato molte compagne, ed era amata da tutte. Nell’estate del<br />
1944 decise di evadere con Edek, un prigioniero politico polacco. Non<br />
volevano soltanto riconquistarsi la libertà: intendevano documentare<br />
al mondo il massacro quotidiano di Birkenau. Riuscirono a corrompere<br />
una SS ed a procurarsi due uniformi. Uscirono travestiti e<br />
giunsero fino al confine slovacco; qui vennero fermati dai doganieri,<br />
che sospettarono di trovarsi davanti a due disertori e li consegnarono<br />
alla polizia. Vennero immediatamente riconosciuti e riportati a Birkenau.<br />
Edek venne impiccato subito, ma non volle attendere che,<br />
secondo l’accanito cerimoniale del luogo, venisse letta la sentenza:<br />
infilò il capo nel cappio scorsoio e si lasciò cadere dallo sgabello.<br />
Anche Mala aveva risoluto di morire la sua propria morte. Mentre in<br />
una cella attendeva di essere interrogata, una compagna poté avvicinarla<br />
e le chiese «Come va, Mala?» Rispose: «A me va sempre bene». Era<br />
riuscita a nascondersi addosso una lametta da rasoio. Ai piedi della forca<br />
117
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
si recise l’arteria di un polso. L’SS che fungeva da boia cercò di<br />
strapparle la lama, e Mala, davanti a tutte le donne del campo, gli sbatté<br />
sul viso la mano insanguinata. Subito accorsero altri militi, inferociti: una<br />
prigioniera, un’ebrea, una donna, aveva osato sfidarli! La calpestarono a<br />
morte; spirò, per sua fortuna, sul carro che la portava al crematorio.<br />
Questa non era «violenza inutile». Era utile: serviva assai bene a<br />
stroncare sul nascere ogni velleità di fuga; era normale che pensasse<br />
alla fuga il prigioniero nuovo, inesperto di queste tecniche raffinate e<br />
collaudate; era rarissimo che questo pensiero passasse per la mente<br />
degli anziani; infatti, era comune che i preparativi di una evasione<br />
venissero denunciati dai componenti della «zona grigia», o anche solo<br />
da terzi, timorosi delle rappresaglie descritte.<br />
Ricordo con un sorriso l’avventura che mi è accaduta parecchi<br />
anni fa in una quinta elementare, in cui ero stato invitato a<br />
commentare i miei libri ed a rispondere alle domande degli allievi. Un<br />
ragazzino dall’aria sveglia, apparentemente il leader della classe, mi<br />
rivolse la domanda di rito: «Ma lei perché non è scappato?» Io gli<br />
esposi in breve quanto ho scritto qui; lui, poco convinto, mi chiese di<br />
tracciare sulla lavagna uno schizzo del campo, indicando la collocazione<br />
delle torrette di guardia, delle porte, dei reticolati e della<br />
centrale elettrica. Feci del mio meglio, sotto trenta paia di occhi<br />
intenti. Il mio interlocutore studiò il disegno per qualche istante, mi<br />
chiese qualche precisazione ulteriore, poi mi espose il piano che aveva<br />
escogitato: qui, di notte, sgozzare la sentinella; poi, indossare i suoi<br />
abiti; subito dopo, correre laggiù alla centrale e interrompere la<br />
corrente elettrica, così i fari si sarebbero spenti e si sarebbe disattivato<br />
il reticolato ad alta tensione; dopo me ne sarei potuto andare<br />
tranquillo. Aggiunse seriamente. «Se le dovesse capitare un’altra<br />
volta, faccia come le ho detto: vedrà che riesce».<br />
Nei suoi limiti, mi pare che l’episodio illustri bene la spaccatura che<br />
esiste, e che si va allargando di anno in anno, fra le cose com’erano<br />
«laggiù» e le cose quali vengono rappresentate dalla immaginazione<br />
corrente, alimentata da libri, film e miti appressi-mativi. Essa, fatalmente,<br />
slitta verso la semplificazione e lo stereotipo; vorrei porre qui un argine<br />
contro questa deriva. In pari tempo, vorrei però ricordare che non si tratta<br />
118
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
di un fenomeno ristretto alla percezione del passato prossimo né delle<br />
tragedie storiche: è assai più generale, fa parte di una nostra difficoltà o<br />
incapacità di percepire le esperienze altrui, che è tanto più pronunciata<br />
quanto più queste sono lontane dalle nostre nel tempo, nello spazio o<br />
nella qualità. Tendiamo ad assimilarle a quelle «viciniori», come se la<br />
fame di Auschwitz fosse quella di chi ha saltato un pasto, o come se la<br />
fuga da Treblinka fosse assimilabile alla fuga da Regina Coeli. É compito<br />
dello storico scavalcare questa spaccatura, che è tanto più ampia quanto<br />
più tempo è trascorso dagli eventi studiati.<br />
Con altrettanta frequenza, e con anche più aspro accento<br />
accusatorio, ci viene chiesto: « Perché non vi siete ribellati? » Questa<br />
domanda è quantitativamente diversa dalla precedente, ma di natura<br />
simile, ed anch’essa si fonda su uno stereotipo. É opportuno scindere<br />
la risposta in due parti.<br />
In primo luogo: non è vero che in nessun Lager abbiano avuto luogo<br />
rivolte. Sono state più volte descritte, con abbondanza di particolari, le<br />
rivolte di Treblinka, di Sobibòr, di Birkenau; altre avvennero in campi<br />
minori. Furono imprese di estrema audacia, degne del più profondo<br />
rispetto, ma nessuna di esse si concluse con la vittoria, se per vittoria si<br />
intende la liberazione del campo. Sarebbe stato insensato puntare su<br />
questo scopo: lo strapotere delle truppe di guardia era tale da farlo fallire<br />
in pochi minuti, poiché gli insorti erano praticamente disarmati. Il loro<br />
scopo effettivo era quello di danneggiare o distruggere gli impianti di<br />
morte, e di consentire la fuga del piccolo nucleo degli insorti, il che<br />
talvolta (ad esempio a Treblinka, anche se solo in parte) riuscì. Ad una<br />
fuga di massa non si pensò mai: sarebbe stata un’impresa folle. Quale<br />
senso, quale utilità avrebbe avuto aprire le porte a migliaia di individui<br />
appena capaci di trascinarsi, e ad altri che non avrebbero saputo dove, in<br />
terra nemica, andare a cercarsi un rifugio?<br />
Insurrezioni comunque avvennero; furono preparate con intelligenza<br />
ed incredibile coraggio da minoranze risolute e fisicamente ancora<br />
indenni. Costarono un prezzo spaventoso in termini di vite umane e di<br />
sofferenze collettive inferte a titolo di rappresaglia, ma valsero e valgono<br />
a mostrare che è falso affermare che i prigionieri dei Lager tedeschi non<br />
abbiano mai tentato di ribellarsi. Nelle intenzioni degli insorti, avrebbero<br />
119
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
dovuto condurre ad un altro risultato più concreto: portare a conoscenza<br />
del mondo libero il terribile segreto del massacro. In effetti i pochi a cui<br />
l’impresa riuscì, e che dopo altre estenuanti peripezie poterono avere<br />
accesso agli organi d’informazio-ne, parlarono: ma, come ho accennato<br />
nell’introduzione, non furono quasi mai ascoltati né creduti. Le verità<br />
scomode hanno un difficile cammino.<br />
In secondo luogo: come il nesso prigionia-fuga, anche il nesso<br />
oppressione-ribellione è uno stereotipo. Non intendo dire che non sia<br />
valido mai: dico che non è valido sempre. La storia delle ribellioni,<br />
cioè delle rivolte dal basso, dei «molti oppressi» contro i «pochi<br />
potenti», è vecchia come la storia dell’umanità ed altrettanto varia e<br />
tragica. Ci sono state alcune poche ribellioni vittoriose, molte sono<br />
state sconfitte, innumerevoli altre sono state soffocate ai loro esordi,<br />
tanto precocemente da non aver lasciato traccia nelle cronache. Le<br />
variabili in gioco sono molte: la forza numerica, militare ed ideale dei<br />
ribelli e rispettivamente dell’autorità sfidata, le rispettive coesioni o<br />
spaccature interne, gli aiuti esterni agli uni ed all’altra, l’abilità, il<br />
carisma o il demonismo dei capi, la fortuna. Tuttavia, in ogni caso, si<br />
osserva che alla testa del movimento non figurano mai gli individui<br />
più oppressi: di solito, anzi, le rivoluzioni sono guidate da capi audaci<br />
e spregiudicati, che si gettano nella mischia per generosità (o magari<br />
per ambizione) pur avendo la possibilità di vivere personalmente una<br />
vita sicura e tranquilla, magari addirittura privilegiata. L’immagine<br />
tanto spesso replicata nei monumenti, dello schiavo che spezza le sue<br />
pesanti catene, è retorica: le sue catene vengono spezzate dai<br />
compagni i cui vincoli sono più leggeri e più lenti.<br />
Il fatto non può stupire. Un capo dev’essere efficiente: deve<br />
possedere forza morale e fisica, e l’oppressione, se spinta oltre un<br />
certo livello molto basso, deteriora l’una e l’altra. Per suscitare la<br />
collera e l’indignazione, che sono i motori di tutte le vere rivolte<br />
(quelle dal basso, per intenderci: non certo i putsch né le «rivolte di<br />
palazzo»), occorre sì che l’oppressione esista, ma essa dev’essere di<br />
misura modesta, o condotta con scarsa efficienza. L’oppressione nei<br />
Lager era di misura estrema, ed era condotta con la nota, ed in altri<br />
campi encomiabile, efficienza tedesca. Il prigioniero tipico, quello che<br />
120
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
costituiva il nerbo del campo, era al limite dell’esaurimento: affamato,<br />
indebolito, coperto di piaghe (in specie ai piedi: era un uomo<br />
«impedito», nel senso originario del termine. Non è un dettaglio<br />
secondario!), e quindi profondamente avvilito. Era un uomo-straccio,<br />
e con gli stracci, come già sapeva Marx, le rivoluzioni non si fanno<br />
nel mondo reale, bensì solo in quello della retorica letteraria o<br />
cinematografica. Tutte le rivoluzioni, quelle che hanno dirottato la<br />
storia del mondo e quelle minuscole di cui ci occupiamo qui, sono<br />
state guidate da personaggi che conoscevano bene l’oppressione, ma<br />
non sulla loro pelle. La rivolta di Birkenau, a cui ho già accennato, fu<br />
scatenata dal Kommando Speciale addetto ai crematori: erano uomini<br />
disperati ed esasperati, ma ben nutriti, vestiti e calzati. La rivolta del<br />
ghetto di Varsavia fu un’impresa degna della più reverente<br />
ammirazione, fu la prima «resistenza» europea, e l’unica condotta<br />
senza la minima speranza di vittoria o di salute; ma fu opera di una<br />
élite politica che, giustamente, si era riserbata alcuni fondamentali<br />
privilegi, allo scopo di conservare la propria forza.<br />
Vengo alla terza variante della domanda: perché non siete scappati<br />
«prima»? Prima che le frontiere si chiudessero? Prima che la trappola<br />
scattasse? Anche qui devo ricordare che molte persone minacciate dal<br />
nazismo e dal fascismo se ne andarono «prima». Erano esuli propriamente<br />
politici, od anche intellettuali mal visti dai due regimi: migliaia<br />
di nomi, molti oscuri, alcuni illustri, quali Togliatti, Nenni, Saragat,<br />
Salvemini, Fermi, Emilio Segré, la Meitner, Arnaldo Momigliano,<br />
Thomas e Heinrich Mann, Arnold e Stefan Zweig, Brecht, e tanti altri;<br />
non tutti ritornarono, e fu un’emorragia che dissanguò l’Europa, forse in<br />
modo irrimediabile. La loro emigrazione (in Inghilterra, Stati Uniti,<br />
Sud-America, Unione Sovietica; ma anche in Belgio, Olanda, Francia,<br />
dove la marea nazista li doveva raggiun-gere pochi anni dopo: erano, e<br />
siamo tutti, ciechi al futuro) non fu una fuga né una diserzione, bensì un<br />
naturale ricongiungersi con alleati potenziali o reali, in cittadelle da cui<br />
riprendere la loro lotta o la loro attività creativa.<br />
121
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Tuttavia, è pur vero che in massima parte le famiglie minacciate (in<br />
primo luogo gli ebrei) restarono in Italia ed in Germania. Domandarsi e<br />
domandare il perché è ancora una volta il segno di una concezione<br />
stereotipa ed anacronistica della storia; più semplicemente, di una diffusa<br />
ignoranza e dimenticanza, che tende ad aumentare con l’allontanarsi dei<br />
fatti nel tempo. L’Europa del 1930-1940 non era l’Europa odierna.<br />
Emigrare è doloroso sempre; allora era anche più difficile e più costoso<br />
di quanto non sia oggi. Per farlo, occorreva non solo molto denaro, ma<br />
anche una « testa di ponte » nel paese di destinazione: parenti od amici<br />
disposti a dare garanzie o anche ospitalità. Molti italiani, soprattutto<br />
contadini, avevano emigrato nei decenni precedenti, ma erano stati spinti<br />
dalla miseria e dalla fame, ed una testa di ponte l’avevano, o credevano di<br />
averla; spesso erano stati invitati e bene accolti, perché localmente la<br />
mano d’opera scarseggiava; comunque, anche per loro e per le loro famiglie<br />
lasciare la patria era stata una decisione traumatica.<br />
«Patria»: non sarà inutile soffermarsi sul termine. Si colloca<br />
vistosamente fuori del linguaggio parlato: nessun italiano, se non per<br />
scherzo, dirà mai «prendo il treno e ritorno in patria». É di conio recente,<br />
e non ha senso univoco; non ha equivalenti esatti in lingue diverse dall’italiano,<br />
non compare, che io sappia, in nessuno dei nostri dialetti (e<br />
questo è un segno della sua origine dotta e della sua intrinseca<br />
astrattezza), né in Italia ha avuto sempre lo stesso significato. Infatti, a<br />
seconda delle epoche, ha indicato entità geografiche di estensione<br />
diversa, dal villaggio dove si è nati e (etimologicamente) dove hanno<br />
vissuto i nostri padri, fino, dopo il Risorgimento, all’intera nazione. In<br />
altri paesi, equivale press’a poco al focolare, o al luogo natio; in Francia<br />
(e talora anche fra noi) il termine ha assunto una connotazione ad un<br />
tempo drammatica, polemica e retorica: la Patrie è tale quando è<br />
minacciata o disconosciuta.<br />
Per chi si sposta, il concetto di patria diventa doloroso ed insieme<br />
tende ad impallidire; già il Pascoli, allontanatosi (non poi di molto)<br />
dalla sua Romagna, «dolce paese», sospirava «io, la mia patria or è<br />
dove si vive». Per Lucia Mondella, la patria si identificava<br />
visibilmente con le «cime ineguali» dei suoi monti sorgenti dalle<br />
acque del lago di Como. Per contro, in paesi ed in tempi di intensa<br />
122
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
mobilità, quali sono oggi gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, di patria<br />
non si parla se non in termini politico-burocratici: qual è il focolare,<br />
quale «la terra dei padri» di quei cittadini in eterna trasferta? Molti di<br />
loro non lo sanno né se ne preoccupano.<br />
Ma l’Europa degli anni ‘30 era ben diversa. Già industrializzata, era<br />
ancora profondamente contadina, o stanzialmente urbanizzata. L’«estero»,<br />
per l’enorme maggioranza della popolazione, era uno scenario lontano e<br />
vago, soprattutto per la classe media, meno assillata dal bisogno. Di fronte<br />
alla minaccia hitleriana, la massima parte degli ebrei indigeni, in Italia, in<br />
Francia, in Polonia, nella stessa Germania, preferì rimanere in quella che<br />
essi sentivano come la loro «patria», con motivazioni ampiamente comuni,<br />
e anche se con sfumature diverse da luogo a luogo.<br />
Fu comune a tutti la difficoltà organizzativa dell’emigrazione. Erano<br />
tempi di gravi tensioni internazionali: le frontiere europee, oggi quasi<br />
inesistenti, erano praticamente chiuse, l’Inghilterra e le Americhe<br />
ammettevano quote di immigrazione estremamente ridotte. Tuttavia, su<br />
questa difficoltà ne prevaleva un’altra di natura interna, psicologica.<br />
Questo villaggio, o città, o regione, o nazione, è il mio, ci sono nato, ci<br />
dormono i miei avi. Ne parlo la lingua, ne ho adottato i costumi e la<br />
cultura; a questa cultura ho forse anche contribuito. Ne ho pagato i tributi,<br />
ne ho osservato le leggi. Ho combattuto le sue battaglie, senza curarmi se<br />
fossero giuste o ingiuste: ho messo a rischio la mia vita per i suoi confini,<br />
alcuni miei amici o parenti giacciono nei cimiteri di guerra, io stesso, in<br />
ossequio alla retorica corrente, mi sono dichiarato disposto a morire per<br />
la patria. Non la voglio né la posso lasciare: se morrò, morrò «in patria»,<br />
sarà il mio modo di morire «per la patria».<br />
É ovvio che questa morale, sedentaria e casalinga più che attivamente<br />
patriottica, non avrebbe retto se l’ebraismo europeo avesse potuto<br />
antivedere il futuro. Non che della strage mancassero i sintomi<br />
premonitori: fin dai suoi primi libri e discorsi, Hitler aveva parlato chiaro,<br />
gli ebrei (non solo quelli tedeschi) erano i parassiti dell’umanità, e<br />
dovevano essere eliminati come si eliminano gli insetti nocivi. Ma,<br />
appunto, le deduzioni inquietanti hanno vita difficile: fino all’estremo, fino<br />
alle incursioni dei dervisci nazisti (e fascisti) di casa in casa, si trovò modo<br />
123
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
di disconoscere i segnali, di ignorare il pericolo, di confezionare quelle<br />
verità di comodo di cui ho parlato nelle prime pagine di questo libro.<br />
Questo avvenne in misura maggiore in Germania che non in Italia.<br />
Gli ebrei tedeschi erano quasi tutti borghesi ed erano tedeschi: come i<br />
loro quasi-compatrioti «ariani» amavano la legge e l’ordine, e non solo<br />
non prevedevano, ma erano organicamente incapaci di concepire un<br />
terrorismo di stato, anche quando già lo avevano intorno a loro. C’è un<br />
famoso e densissimo verso di Christian Morgenstern, bizzarro poeta<br />
bavarese (non ebreo, nonostante il cognome), che cade qui in acconcio,<br />
anche se è stato scritto nel 1910, nella Germania pulita proba e legalitaria<br />
descritta da J. K. Jerome in Tre uomini a zonzo. Un verso talmente<br />
tedesco e talmente pregnante che èpassato in proverbio, e che non può<br />
essere tradotto in italiano se non attraverso una goffa perifrasi:<br />
Nicht sein kann, was nicht sein darf.<br />
È il sigillo di una poesiola emblematica: Palmström, un cittadino<br />
tedesco ligio ad oltranza, viene investito da un’auto in una strada dove<br />
la circolazione è vietata. Si rialza malconcio, e ci pensa su: se la<br />
circolazione è vietata, i veicoli non possono circolare, cioè non<br />
circolano. Ergo, l’investimento non può essere avvenuto: è una «realtà<br />
impossibile», una Unmög1iche Tatsache (è questo il titolo della<br />
poesia). Lui deve averlo soltanto sognato, perché, appunto, «non<br />
possono esistere le cose di cui non è moralmente lecita l’esistenza».<br />
Bisogna guardarsi dal senno del poi e dagli stereotipi. Più in<br />
generale, bisogna guardarsi dall’errore che consiste nel giudicare<br />
epoche e luoghi lontani col metro che prevale nel qui e nell’oggi:<br />
errore tanto più difficile da evitare quanto più è grande la distanza<br />
nello spazio e nel tempo. É questo il motivo per cui, a noi non specialisti,<br />
è così ardua la comprensione dei testi biblici ed omerici, o anche<br />
dei classici greci e latini. Molti europei di allora, e non solo europei, e<br />
non solo di allora, si comportarono e si comportano come Palmström,<br />
negando l’esistenza delle cose che non dovrebbero esistere. Secondo il<br />
senso comune, che Manzoni accortamente distingueva dal «buon<br />
senso», l’uomo minacciato provvede, resiste o fugge; ma molte<br />
minacce di allora, che oggi ci sembrano evidenti, a quel tempo erano<br />
124
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
velate dall’incredulità voluta, dalla rimozione, dalle verità consolatone<br />
generosamente scambiate ed autocatalitiche.<br />
Qui sorge la domanda d’obbligo: una controdomanda. Quanto<br />
sicuri viviamo noi, uomini della fine del secolo e del millennio? e, più<br />
in particolare, noi europei? Ci è stato detto, e non c’è motivo di<br />
dubitarne, che per ogni essere umano del pianeta è accantonata una<br />
quantità di esplosivo nucleare pari a tre o quattro tonnellate di tritolo;<br />
se se ne usasse anche solo l’uno per cento, si avrebbero decine di<br />
milioni di morti subito, e danni genetici spaventosi per tutta la specie<br />
umana, anzi, per tutta la vita sulla terra, ad eccezione forse degli<br />
insetti. É almeno probabile, inoltre, che una terza guerra generalizzata,<br />
anche convenzionale, anche parziale, si combatterebbe sul nostro<br />
territorio, fra l’Atlantico e gli Urali, fra il Mediterraneo e l’Artico. La<br />
minaccia è diversa da quella degli anni ‘30: meno vicina ma più vasta;<br />
legata, secondo alcuni, ad un demonismo della Storia, nuovo; ancora<br />
indecifrabile, ma slegata (finora) dal demonismo umano. E puntata<br />
contro tutti, e quindi particolarmente «inutile».<br />
Allora? Le paure di oggi sono meno o più fondate di quelle di allora?<br />
Al futuro siamo ciechi, non meno dei VIII nostri padri. Svizze-ri e svedesi<br />
hanno i rifugi antinucleari, ma che cosa troveranno quando usciranno<br />
all’aperto? Lettere di tedeschi C’è la Polinesia, la Nuova Zelanda, la Terra<br />
del Fuoco, l’Antartide: forse resteranno indenni. Avere passaporto e visti<br />
d’entrata è molto più facile di allora: perché non partiamo, perché non<br />
lasciamo il nostro paese, perché non fuggiamo « prima»?<br />
125
VIII<br />
Lettere di tedeschi<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Se questo è un uomo è un libro di dimensioni modeste, ma, come<br />
un animale nomade, ormai da quarant’anni si lascia dietro una traccia<br />
lunga e intricata. Era stato pubblicato una prima volta nel 1947, in<br />
2500 copie, che furono bene accolte dalla critica ma smerciate solo in<br />
parte: le 600 copie residue, riposte a Firenze in un magazzino di<br />
invenduti, vi annegarono nell’alluvione dell’autunno 1966. Dopo dieci<br />
anni di «morte apparente», ritornò alla vita quando lo accettò l’editore<br />
Einaudi, nel 1957. Mi sono spesso posto una domanda futile: che cosa<br />
sarebbe successo se il libro avesse avuto subito una buona diffusione?<br />
Forse niente di particolare: è probabile che avrei continuato la mia<br />
faticosa vita di chimico che diventava scrittore alla domenica (e<br />
neanche tutte le domeniche); o forse invece mi sarei lasciato abbagliare<br />
ed avrei, chissà con quale fortuna, issato le bandiere dello<br />
scrittore in grandezza naturale. La questione, come dicevo, è oziosa: il<br />
mestiere di ricostruire il passato ipotetico, il cosa-sarebbe-successo-se,<br />
è altrettanto screditato quanto quello di antivedere l’avvenire.<br />
Malgrado questa falsa partenza, il libro ha camminato. É stato<br />
tradotto in otto o nove lingue, adattato per la radio e per il teatro in<br />
Italia ed all’estero, commentato in innumerevoli scuole. Del suo<br />
itinerario, una tappa e stata per me d’importanza fondamentale: quella<br />
della sua traduzione in tedesco e della sua pubblicazione in Germania<br />
Federale. Quando, verso il 1959, seppi che un editore tedesco (la<br />
Fischer Bücherei) aveva acquistato i diritti per la traduzione, mi sentii<br />
invadere da un’emozione violenta e nuova, quella di aver vinto una<br />
battaglia. Ecco, avevo scritto quelle pagine senza pensare ad un<br />
destinatario specifico; per me, quelle erano cose che avevo dentro, che<br />
126
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
mi invadevano e che dovevo mettere fuori: dirle, anzi, gridarle sui<br />
tetti; ma chi grida sui tetti si indirizza a tutti e a nessuno, chiama nel<br />
deserto. All’annuncio di quel contratto, tutto era cambiato e mi era<br />
diventato chiaro: il libro lo avevo scritto sì in italiano, per gli italiani,<br />
per i figli, per chi non sapeva, per chi non voleva sapere, per chi non<br />
era ancora nato, per chi, volentieri o no, aveva acconsentito all’offesa;<br />
ma i suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come<br />
un’arma, erano loro, i tedeschi. Ora l’arma era carica.<br />
Si ricordi, da Auschwitz erano passati solo quindici anni: i tedeschi<br />
che mi avrebbero letto erano «quelli», non i loro eredi. Da soverchiatori,<br />
o da spettatori indifferenti, sarebbero diventati lettori: li avrei costretti, legati<br />
davanti ad uno specchio. Era venuta l’ora di fare i conti, di abbassare<br />
le carte sul tavolo. Soprattutto, l’ora del colloquio. La vendetta non mi<br />
interessava; ero stato intimamente soddisfatto dalla (simbolica,<br />
incompleta, tendenziosa) sacra rappresen-tazione di Norimberga, ma mi<br />
stava bene così, che alle giustissime impiccagioni pensassero gli altri, i<br />
professionisti. A me spettava capire, capirli. Non il manipolo dei grandi<br />
colpevoli, ma loro, il popolo, quelli che avevo visti da vicino, quelli tra<br />
cui erano stati reclutati i militi delle SS, ed anche quegli altri, quelli che<br />
avevano creduto, che non credendo avevano taciuto, che non avevano<br />
avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi, di gettarci un pezzo di<br />
pane, di mormorare una parola umana.<br />
Ricordo molto bene quel tempo e quel clima, e credo di poter<br />
giudicare i tedeschi di allora senza pregiudizi e senza collera. Quasi<br />
tutti, ma non tutti, erano stati sordi, ciechi e muti: una massa di<br />
«invalidi» intorno a un nocciolo di feroci. Quasi tutti, ma non tutti,<br />
erano stati vili. Proprio qui, e con refrigerio, e per dimostrare quanto<br />
mi siano lontani i giudizi globali, vorrei raccontare un episodio: è stato<br />
eccezionale, ma è pure avvenuto.<br />
Nel novembre del 1944 eravamo al lavoro, ad Auschwitz; io, con<br />
due compagni, ero nel laboratorio chimico che ho descritto a suo luogo.<br />
Suonò l’allarme aereo, e subito dopo si videro i bombardieri: erano<br />
centinaia, si prospettava una incursione mostruosa. C’erano nel cantiere<br />
alcuni grandi bunker, ma erano per i tedeschi, a noi erano vietati. Per noi<br />
dovevano bastare i terreni incolti, ormai già coperti di neve, compresi<br />
127
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
entro la recinzione. Tutti, prigionieri e civili, ci precipitammo per le scale<br />
verso le rispettive destinazioni, ma il capo del laboratorio, un tecnico<br />
tedesco, trattenne noi Häftlinge-chimici: «Voi tre venite con me». Stupiti,<br />
lo seguimmo di corsa verso il bunker, ma sulla soglia stava un guardiano<br />
armato, con la svastica sul bracciale. Gli disse: «Lei entra; gli altri, fuori<br />
dai piedi». Il capo rispose: «Sono con me: o tutti o nessuno», e cercò di<br />
forzare il passaggio; ne segui un pugilato. Certo avrebbe avuto la meglio<br />
il guardiano, che era robusto, ma per fortuna di tutti suonò il cessato<br />
allarme: l’incursione non era per noi, gli aerei avevano proseguito verso<br />
nord. Se (un altro se! ma come resistere al fascino dei sentieri che si<br />
biforcano?), se i tedeschi anomali, capaci di questo modesto coraggio,<br />
fossero stati più numerosi, la storia di allora e la geografia di oggi sarebbero<br />
diverse.<br />
Non mi fidavo dell’editore tedesco. Gli scrissi una lettera quasi<br />
insolente: lo diffidavo dal togliere o cambiare una sola parola del<br />
testo, e lo impegnavo a mandarmi il manoscritto della traduzione a<br />
fascicoli, capitolo per capitolo, a mano a mano che il lavoro procedeva;<br />
volevo controllarne la fedeltà, non solo lessicale ma intima. Insieme<br />
col primo capitolo, che trovai tradotto assai bene, mi giunse uno<br />
scritto del traduttore, in italiano perfetto. L’editore gli aveva mostrato<br />
la mia lettera: non avevo niente da temere, né dall’editore né tanto<br />
meno da lui. Si presentava: aveva la mia età precisa, aveva studiato<br />
per parecchi anni in Italia, oltre che traduttore era un italianista,<br />
studioso del Goldoni. Anche lui era un tedesco anomalo. Era stato<br />
chiamato sotto le armi, ma il nazismo gli ripugnava; nel 1941 aveva<br />
simulato una malattia, era stato ricoverato in ospedale, ed aveva<br />
ottenuto di trascorrere la convalescenza putativa studiando letteratura<br />
italiana presso l’Università di Padova. Era poi stato dichiarato<br />
rivedibile, a Padova era rimasto, e vi era venuto a contatto coi gruppi<br />
antifascisti di Concetto Marchesi, di Meneghetti e di Pighin.<br />
Nel settembre 1943 era venuto l’armistizio italiano, ed i tedeschi,<br />
in due giorni, avevano occupato militarmente l’Italia del nord. Il mio<br />
traduttore si era aggregato «naturalmente» ai partigiani padovani delle<br />
128
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
formazioni Giustizia e Libertà, che combattevano nei Colli Euganei<br />
contro i fascisti di Salò e contro i suoi compatrioti. Non aveva avuto<br />
dubbi, si sentiva più italiano che tedesco, partigiano e non nazista,<br />
tuttavia sapeva che cosa rischiava: fatiche, pericoli, sospetti e disagi;<br />
se catturato dai tedeschi (ed infatti era stato informato che le SS erano<br />
sulle sue tracce), una morte atroce; inoltre, nel suo paese, la qualifica<br />
di disertore e forse anche di traditore.<br />
A guerra finita si stabilì a Berlino, che a quel tempo non era<br />
tagliata in due dal muro, ma sottostava ad un complicatissimo regime<br />
di condominio dei «Quattro Grandi» di allora (Stati Uniti, Unione<br />
Sovietica, Gran Bretagna, Francia). Dopo la sua avventura partigiana<br />
in Italia, era un perfetto bilingue: parlava l’italiano senza traccia di<br />
accento straniero. Accettò traduzioni: Goldoni in primo luogo, perché<br />
lo amava e perché conosceva bene i dialetti veneti; per lo stesso<br />
motivo, il Ruzante di Agnolo Beolco, fino allora sconosciuto in<br />
Germania; ma anche autori italiani moderni, Collodi, Gadda, D’Arrigo,<br />
Pirandello. Non era un lavoro ben pagato, o per meglio dire, lui<br />
era troppo scrupoloso, e quindi troppo lento, perché la sua giornata di<br />
lavoro risultasse giustamente retribuita; tuttavia non si risolse mai ad<br />
impiegarsi presso una casa editrice. Per due motivi: amava l’indipendenza,<br />
ed inoltre, sottilmente, per vie traverse, i suoi trascorsi<br />
politici pesavano su di lui. Nessuno glielo disse mai in parole aperte,<br />
ma un disertore, anche nella Germania superdemocratica di Bonn,<br />
anche nella Berlino quadripartita, era «persona non grata».<br />
Tradurre Se questo è un uomo lo entusiasmava: il libro gli era<br />
consono, confermava, sostanziava per contrasto il suo amore per la<br />
libertà e la giustizia; tradurlo era un modo per continuare la sua lotta<br />
temeraria e solitaria contro il suo paese traviato. A quel tempo eravamo<br />
tutti e due troppo occupati per viaggiare, e nacque fra noi uno scambio di<br />
lettere frenetico. Eravamo entrambi perfezionisti: lui, per abito<br />
professionale; io perché, quantunque avessi trovato un alleato, ed un<br />
alleato valente, temevo che il mio testo sbiadisse, perdesse pregnanza.<br />
Era la prima volta che incappavo nell’avventura sempre scottante, mai<br />
gratuita, dell’essere tradotti, del vedere il proprio pensiero manomesso,<br />
129
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
rifratto, la propria parola passata al vaglio, trasformata, o mal intesa, o<br />
magari potenziata da qualche insperata risorsa della lingua d’arrivo.<br />
Fin dalle prime puntate potei constatare che in realtà i miei sospetti<br />
«politici» erano infondati: il mio partner era nemico dei nazi quanto me,<br />
la sua indignazione non era minore della mia. Rimanevano però i sospetti<br />
linguistici. Come ho accennato nel capitolo dedicato alla comunicazione,<br />
il tedesco di cui il mio testo aveva bisogno, soprattutto nei dialoghi e<br />
nelle citazioni, era molto più rozzo del suo. Lui, uomo di lettere e di<br />
raffinata educazione, conosceva bensì il tedesco delle caserme (qualche<br />
mese di servizio militare lo aveva pur fatto), ma ignorava forzatamente il<br />
gergo degradato, spesso satani-camente ironico, dei campi di concentramento.<br />
Ogni nostra lettera conteneva una lista di proposte e di<br />
controproposte, ed a volte su un singolo termine si accendeva una discussione<br />
accanita, quale ad esempio quella che ho descritto qui a pagina 79.<br />
Lo schema era generale: io gli indicavo una tesi, quella che mi suggeriva<br />
la memoria acustica a cui ho accennato a suo luogo; lui mi opponeva<br />
l’antitesi, «questo non è buon tedesco, i lettori d’oggi non lo capirebbero»;<br />
io obiettavo che «laggiù si diceva proprio così»; si arrivava<br />
infine alla sintesi, cioè al compromesso. L’esperienza mi ha poi insegnato<br />
che traduzione e compromesso sono sinonimi, ma a quel tempo io ero<br />
premuto da uno scrupolo di superrealismo; volevo che in quel libro, ed in<br />
specie proprio nella sua veste tedesca, niente andasse perduto di quelle<br />
asprezze, di quelle violenze fatte al linguaggio, che del resto mi ero<br />
sforzato del mio meglio di riprodurre nell’originale italiano. In certo modo,<br />
non si trattava di una traduzione ma piuttosto di un restauro: la sua<br />
era, o io volevo che fosse, una restitutio in pristinum, una retroversione<br />
alla lingua in cui le cose erano avvenute ed a cui esse competevano.<br />
Doveva essere, più che un libro, un nastro di magnetofono.<br />
Il traduttore capì presto e bene, e ne risultò una traduzione<br />
eccellente sotto ogni aspetto: della sua fedeltà potevo giudicare io<br />
stesso, il suo livello stilistico fu lodato in seguito da tutti i recensori.<br />
Sorse la questione della prefazione: l’editore Fischer mi chiese di<br />
scriverne una io stesso; io esitai, poi rifiutai. Provavo un ritegno confuso,<br />
una ripugnanza, un blocco emotivo che strozzava il flusso delle<br />
idee e dello scrivere. Mi si chiedeva, insomma, di far seguire al libro,<br />
130
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
cioè alla testimonianza, un appello diretto al popolo tedesco, cioè una<br />
perorazione, un sermone. Avrei dovuto alzare il tono, salire sul podio;<br />
da teste farmi giudice, predicatore; esporre teorie ed interpretazioni<br />
della storia; dividere i pii dagli empi; dalla terza persona passare alla<br />
seconda. Tutti questi erano compiti che mi sorpassavano, compiti che<br />
volentieri avrei devoluto ad altri, forse agli stessi lettori, tedeschi e non.<br />
Scrissi all’editore che non mi sentivo in grado di stendere una<br />
prefazione che non snaturasse il libro, e gli proposi una soluzione<br />
indiretta: di premettere al testo, in sede di introduzione, un brano della<br />
lettera che nel maggio 1960, alla fine della nostra laboriosa<br />
collaborazione, avevo scritta al traduttore per ringraziarlo della sua<br />
opera. Lo riproduco qui:<br />
E così abbiamo finito: ne sono contento, e soddisfatto del risultato, e<br />
grato a Lei, ed insieme un po’ triste. Capisce, è il solo libro che io<br />
abbia scritto, e adesso che abbiamo finito di trapiantarlo in tedesco mi<br />
sento come un padre il cui figlio sia diventato maggiorenne, e se ne<br />
va, e non si può più occuparsi di lui.<br />
Ma non è solo questo. Lei forse si sarà accorto che per me il Lager, e<br />
l’avere scritto del Lager, è stato una importante avventura, che mi ha<br />
modificato profondamente, mi ha dato maturità ed una ragione di vita.<br />
Forse è presunzione: ma ecco, oggi io, il prigioniero numero 174.517,<br />
per mezzo Suo posso parlare ai tedeschi, rammen-tare loro quello che<br />
hanno fatto, e dire loro «sono vivo, e vorrei capirvi per giudicarvi.<br />
Io non credo che la vita dell’uomo abbia necessariamente uno scopo<br />
definito; ma se penso alla mia vita, ed agli scopi che finora mi sono<br />
prefissi, uno solo ne riconosco ben preciso e cosciente, ed è proprio<br />
questo, di portare testimonianza, di fare udire la mia voce al popolo<br />
tedesco, di «rispondere» al Kapò che si è pulito la mano sulla mia<br />
spalla, al dottor Pannwitz, a quelli che impiccarono l’Ultimo [si tratta<br />
di personaggi di Se questo è un uomo], ed ai loro eredi.<br />
Sono sicuro che Lei non mi ha frainteso. Non ho mai nutrito odio nei<br />
riguardi del popolo tedesco, e se lo avessi nutrito ne sarei guarito ora,<br />
dopo aver conosciuto Lei. Non comprendo, non sopporto che si<br />
giudichi un uomo non per quello che è ma per il gruppo a cui gli<br />
accade di appartenere (...)<br />
Ma non posso dire di capire i tedeschi: ora, qualcosa che non si può<br />
capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo<br />
permanente che chiede di essere soddisfatto. Spero che questo libro<br />
avrà qualche eco in Germania: non solo per ambizione, ma anche<br />
perché la natura di questa eco mi permetterà forse di capire meglio i<br />
tedeschi, di placare questo stimolo.<br />
131
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
L’editore accetto la mia proposta, a cui il traduttore aveva aderito<br />
con entusiasmo; perciò questa pagina costituisce l’introduzione di<br />
tutte le edizioni tedesche di Se questo è un uomo: anzi, viene letta<br />
come parte integrante del testo. Me ne sono accorto appunto dalla<br />
«natura» della eco a cui si accenna nelle ultime righe.<br />
Essa si materializza in una quarantina di lettere, che mi sono state<br />
scritte da lettori tedeschi negli anni 1961-1964: a cavallo cioè della crisi<br />
che condusse alla costruzione di quel Muro che tuttora spacca in due<br />
Berlino, e che costituisce uno dei punti di più forte attrito nel mondo<br />
d’oggi: l’unico, insieme con lo Stretto di Behring, in cui americani e<br />
russi si fronteggino direttamente. Tutte queste lettere rispecchiano una<br />
lettura attenta del libro ma tutte rispondono, o tentano di rispondere, o<br />
negano che esista una risposta, alla domanda implicita nell’ultimo<br />
periodo della mia lettera, se cioè sia possibile capire i tedeschi. Altre<br />
lettere mi sono pervenute alla spicciolata negli anni seguenti, in<br />
coincidenza con le ristampe del libro, ma sono tanto più scialbe quanto<br />
più sono recenti: chi scrive sono ormai i figli ed i nipoti, il trauma non e<br />
più il loro, non è vissuto in prima persona. Esprimono vaga solidarietà,<br />
ignoranza e distacco. Per loro, quel passato è veramente un passato, un<br />
sentito dire. Non sono tedesco-specifici: salvo eccezioni, i loro scritti si<br />
potrebbero confondere con quelli che continuo a ricevere dai loro<br />
coetanei italiani, perciò non ne terrò conto in questa rassegna.<br />
Le prime lettere, quelle che contano, sono quasi tutte di giovani<br />
(che si dichiarano tali, o che tali risultano dal testo) ad eccezione di<br />
una, che mi è stata mandata nel 1962 dal Dottor T. H. di Amburgo, e<br />
che riporto per prima perché ho fretta di liberarmene. Ne traduco i<br />
passi salienti, rispettandone la goffaggine:<br />
Egregio Dott. Levi,<br />
il Suo libro è il primo fra i racconti di superstiti di Auschwitz<br />
che sia venuto a nostra conoscenza. Ha commosso profondamente mia<br />
moglie e me. Ora, poiché Ella, dopo tutti gli orrori che ha vissuto, si<br />
132
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
rivolge ancora una volta al popolo tedesco «per capire», «per destare<br />
una eco», io oso tentare una risposta. Ma non sarà che una eco;<br />
«capire» simili cose non può nessuno! (...)<br />
…da un uomo che non è con Dio, tutto è da temere: egli non ha<br />
freno, non ha ritegni! E gli si addice allora l’altra parola di Genesi<br />
8.21: «Poiché il senno del cuore umano è malvagio fin dalla<br />
giovinezza», modernamente spiegata e dimostrata dalle tremende<br />
scoperte della psicoanalisi di Freud nel campo dell’inconscio, a Lei<br />
certamente note. In ogni tempo è avvenuto «che il Diavolo si<br />
scatenasse», senza ritegno, senza senso: persecuzioni di ebrei e di<br />
cristiani, sterminio di popoli interi in Sud America, degli indiani nel<br />
Nord America, dei Goti in Italia sotto Narsete, orrende persecuzioni e<br />
massacri nel corso delle rivoluzioni francese e russa. Chi potrà<br />
«capire»tutto questo?<br />
Ella però aspetta certo una risposta specifica alla domanda,<br />
perché Hitler giunse al potere, e perché noi in seguito non abbiamo<br />
scosso il suo giogo. Ora, nel 1933 (...) tutti i partiti moderati sparirono,<br />
e non rimase che la scelta fra Hitler e Stalin, Nazionalsocialisti e<br />
Comunisti, di forze circa uguali. I comunisti li conoscevamo per le<br />
varie grandi rivolte avvenute dopo la Prima Guerra. Hitler ci appariva<br />
sospetto, è vero, ma decisamente come il minor male. Che tutte le sue<br />
belle parole fossero menzogna e tradimento, all’inizio non ce ne<br />
accorgemmo. In politica estera, aveva un successo dopo l’altro; tutti<br />
gli stati mantenevano con lui relazioni diplomatiche, il Papa per primo<br />
conchiuse un concordato. Chi poteva sospettare che noi stavamo<br />
cavalcando (sìc) un criminale e un traditore? E comunque, nessuna<br />
colpa si può certo attribuire ai traditi: solo il traditore è colpevole.<br />
Ed ora la questione più difficile, il suo insensato odio contro gli<br />
ebrei: ebbene, quest’odio non è mai stato popolare. La Germania<br />
contava a buon diritto come il paese più amichevole verso gli ebrei nel<br />
mondo intero. Mai, a quanto io so ed ho letto, durante tutto il periodo<br />
hitleriano fino alla sua fine, mai si è saputo di un solo caso di<br />
spontaneo oltraggio od aggressione ai danni di un ebreo. Sempre<br />
soltanto (pericolosissimi) tentativi di aiuto.<br />
Vengo ora alla seconda questione. Ribellarsi in uno stato<br />
totalitario non è possibile. Il mondo intero, a suo tempo, non ha potuto<br />
portare aiuto agli ungheresi. (...) Tanto meno potemmo [resistere] noi<br />
da soli. Non va dimenticato che, oltre a tutte le lotte per la resistenza,<br />
solo nel giorno 20luglio 1944 migliaia e migliaia di ufficiali furono<br />
giustiziati. Non si trattava già di «una piccola cricca», come disse poi<br />
Hitler.<br />
Caro Dottor Levi (così mi permetto di chiamarLa, perché chi ha<br />
letto il Suo libro non può che averLa caro), non ho scuse, non ho<br />
spiegazioni. La colpa grava pesantemente sul mio povero popolo<br />
133
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
tradito e sviato. Si rallegri della vita che Le è stata ridonata, della pace<br />
e della Sua bella Patria che anch’io conosco. Anche nel mio scaffale<br />
stanno Dante e Boccaccio.<br />
Suo dev.mo T. H.<br />
A questa lettera, probabilmente all’insaputa del marito, Frau H.<br />
aveva aggiunto le seguenti laconiche righe, che pure traduco<br />
letteralmente:<br />
Quando un popolo riconosce troppo tardi di essere diventato un<br />
prigioniero del diavolo, ne seguono alcune alterazioni psichiche.<br />
1) Viene sollecitato quanto di male è negli uomini. Ne sono il<br />
risultato i Pannwitz, e i Kapòs che si nettano la mano sulla<br />
spalla degli inermi.<br />
2) Ne risulta, per contro, anche la resistenza attiva contro<br />
l’ingiustizia, che sacrificò se stessa e la sua famiglia (sic) al<br />
martirio, ma senza successo visibile.<br />
3) Rimane la gran massa di coloro che, per salvare la propria<br />
vita, tacciono ed abbandonano il fratello in pericolo.<br />
Questo noi riconosciamo come colpa nostra davanti a Dio ed agli uomini.<br />
Ho spesso ripensato a questi strani coniugi. Lui mi sembra un<br />
esemplare tipico della gran massa della borghesia tedesca: un nazista<br />
non fanatico ma opportunista, pentitosi quando era opportuno pentirsi,<br />
stupido quanto basta per credere di farmi credere alla sua versione<br />
semplificata della storia recente, e per osare il ricorso alla rappresaglia<br />
retroattiva di Narsete e dei Goti. Lei, un po’ meno ipocrita del marito,<br />
ma più bigotta.<br />
Ho risposto con una lunga lettera, forse la sola iraconda che io<br />
abbia mai scritto. Che nessuna Chiesa ha indulgenza per chi segue il<br />
Diavolo, né ammette a giustificazione l’attribuire al Diavolo le proprie<br />
colpe. Che di colpe ed errori si deve rispondere in proprio, altrimenti<br />
ogni traccia di civiltà sparirebbe dalla faccia della terra, come infatti<br />
era sparita nel Terzo Reich. Che i suoi dati elettorali erano buoni per<br />
un bambino: nelle elezioni politiche del novembre 1932, le ultime<br />
tenutesi liberamente, i nazisti avevano bensì ottenuto 196 seggi al<br />
Reichstag, ma accanto ai comunisti, con 100 seggi, i socialdemocratici,<br />
che non erano certo degli estremisti, ed anzi, da Stalin<br />
134
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
erano detestati, ne avevano avuti 121. Che, soprattutto, nel mio<br />
scaffale, accanto a Dante e Boccaccio, tengo il Mein Kampf, la «Mia<br />
battaglia» scritta da Adolf Hitler molti anni prima di arrivare al potere.<br />
Quell’uomo funesto non era un traditore. Era un fanatico coerente,<br />
dalle idee estremamente chiare: non le cambiò né le nascose mai. Chi<br />
aveva votato per lui aveva certamente votato per le sue idee. Nulla<br />
manca, in quel libro: il sangue e il suolo, lo spazio vitale, l’ebreo come<br />
eterno nemico, i tedeschi che impersonano «la più alta umanità sulla<br />
terra», gli altri paesi considerati apertamente come strumenti per il<br />
dominio tedesco. Non sono «belle parole »; forse Hitler ne disse anche<br />
altre, ma queste non le smentì mai.<br />
Quanto ai resistenti tedeschi, onore a loro, ma veramente i<br />
congiurati del 20 luglio 1944 si erano messi in azione un po’ troppo<br />
tardi. Scrissi infine:<br />
La Sua affermazione più audace è quella che riguarda l’impopolarità<br />
dell’antisemitismo in Germania. Era il fondamento del<br />
verbo nazista, fin dai suoi inizi: era di natura mistica, gli ebrei non<br />
potevano essere «il popolo eletto da Dio» dal momento che tali erano i<br />
tedeschi. Non c’è pagina né discorso di Hitler in cui l’odio contro gli<br />
ebrei non venga ribadito fino all’ossessione. Non era marginale al<br />
nazismo: ne era il centro ideologico. E allora: come poteva il popolo<br />
«più amichevole verso gli ebrei» votare il partito, ed osannare l’uomo,<br />
che definivano gli ebrei i primi nemici della Germania, e obiettivo<br />
primo della loro politica «strozzare l’idra giudaica»?<br />
Quanto agli oltraggi ed alle aggressioni spontanee, la Sua stessa<br />
frase è oltraggiosa. Davanti ai milioni di morti, mi pare ozioso e<br />
odioso discutere se si sia o no trattato di persecuzioni spontanee: del<br />
resto, i tedeschi hanno poca inclinazione per la spontaneità. Ma Le<br />
posso ricordare che nessuno obbligava gli industriali tedeschi ad<br />
assumere schiavi affamati se non il loro profitto; che nessuno costrinse<br />
la ditta Topf (oggi fiorente in Wiesbaden) a costruire gli enormi<br />
crematori multipli dei Lager; che forse alle SS veniva ordinato di<br />
uccidere gli ebrei, ma arruolamento nelle SS era volontario; che io<br />
stesso ho trovato a Katowice, dopo la liberazione, pacchi e pacchi di<br />
moduli in cui si autorizzavano i capifamiglia tedeschi a prelevare gratis<br />
abiti e scarpe per adulti e per bambini dai magazzini di Auschwitz;<br />
nessuno si domandava da dove venissero tante scarpe per bambini? E<br />
non ha mai sentito parlare di una certa Notte dei Cristalli? o pensa che<br />
ogni singolo delitto commesso quella notte fosse stato imposto per<br />
forza di legge?<br />
135
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Che tentativi di aiuto ci siano stati, lo so, e so che erano<br />
pericolosi; così pure, essendo vissuto in Italia, so «che ribellarsi in uno<br />
stato totalitario è impossibile»; ma so che esistono mille modi, molto<br />
meno pericolosi, di manifestare la propria solidarietà con l’oppresso,<br />
che questi furono frequenti in Italia, anche dopo l’occupazione<br />
tedesca, e che nella Germania di Hitler essi vennero messi in atto<br />
troppo di rado.<br />
Le altre lettere sono molto diverse: delineano un mondo migliore.<br />
Devo però ricordare che, anche con la miglior volontà di assolvere,<br />
non si possono considerare un «campione rappresentativo» del popolo<br />
tedesco di allora. In primo luogo, quel mio libro è stato pubblicato in<br />
qualche decina di migliaia di copie, e letto quindi forse dall’uno per<br />
mille dei cittadini della Repubblica Federale: pochi lo avranno<br />
comprato per caso, gli altri perché erano in qualche modo predisposti<br />
alla collisione coi fatti, sensibilizzati, permeabili. Di questi lettori,<br />
solo una quarantina, come ho accennato, si sono decisi a scrivermi.<br />
In quarant’anni di esercizio, mi sono ormai familiarizzato con<br />
questo personaggio singolare, il lettore che scrive all’autore. Può<br />
appartenere a due costellazioni ben distinte, una gradita, l’altra<br />
incresciosa; i casi intermedi sono rari. I primi dànno gioia e<br />
insegnano. Hanno letto il libro con attenzione, spesso più di una volta;<br />
l’hanno amato e capito, a volte meglio dell’autore stesso; se ne<br />
dichiarano arricchiti; espongono con nitidezza il loro giudizio, a volte<br />
le loro critiche; ringraziano lo scrittore per la sua opera; spesso lo<br />
esonerano esplicitamente da una risposta. I secondi dànno noia e<br />
fanno perdere tempo. Si esibiscono; ostentano meriti; spesso hanno<br />
manoscritti nel cassetto, e lasciano trapelare l’intento di arrampicarsi<br />
sul libro e sull’autore come fa l’edera sui tronchi; od anche, sono<br />
bambini o adolescenti che scrivono per bravata, per scommessa, per<br />
conquistare un autografo. I miei quaranta corrispondenti tedeschi, a<br />
cui dedico con riconoscenza queste pagine, appartengono tutti (salvo il<br />
signor T. H. già citato, che è un caso a sé) alla prima costellazione.<br />
L. I. è bibliotecaria in Vestfalia; confessa di aver avuto la<br />
tentazione violenta di chiudere il libro a metà lettura «per sottrarsi alle<br />
136
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
immagini che vi sono evocate», ma di essersi subito vergognata per<br />
questo impulso egoistico e vile. Scrive:<br />
Nella prefazione, Lei esprime il desiderio di capire noi tedeschi.<br />
Lei deve credere quando Le diciamo che noi stessi non sappiamo<br />
concepire noi stessi né quanto abbiamo fatto. Siamo colpevoli. Io sono<br />
nata nel 1922, sono cresciuta in Alta Slesia, non lontano da<br />
Auschwitz, ma a quel tempo, in verità, non ho saputo nulla (La prego,<br />
non consideri questa affermazione come una comoda scusa, ma come<br />
un dato di fatto) delle cose atroci che si stavano commettendo,<br />
addirittura a pochi chilometri da noi. Eppure, almeno fino allo<br />
scoppiare della guerra, mi è accaduto di incontrare qua e là persone<br />
con la stella ebraica, ed io non le ho accolte in casa, non le ho ospitate<br />
come avrei fatto con altri, non sono intervenuta in loro favore.<br />
La mia colpa è questa. Posso adattarmi a questa mia terribile<br />
leggerezza, viltà ed egoismo solo contando sulla remissione cristiana.<br />
Dice inoltre di far parte di «Aktion Sühnezeichen» («Azione<br />
espiatoria»), una associazione evangelica di giovani che trascorrono le<br />
vacanze all’estero, a ricostruire le città più gravemente danneggiate<br />
dalla guerra tedesca (lei è stata a Coventry). Non dice nulla dei suoi<br />
genitori, ed è un sintomo: o sapevano, e non parlarono con lei; o non<br />
sapevano, ed allora non avevano parlato con loro quelli che certamente<br />
«laggiù» sapevano, i ferrovieri delle tradotte, i magazzinieri, le<br />
migliaia di lavoratori tedeschi delle fabbriche e delle miniere in cui<br />
faticavano a morte gli operai-schiavi, chiunque insomma non sì coprisse<br />
gli occhi con la mano. Lo ripeto: la colpa vera, collettiva,<br />
generale, di quasi tutti i tedeschi di allora, è stata quella di non aver<br />
avuto il coraggio di parlare.<br />
M. S., di Francoforte, non dice nulla di sé e cerca cautamente<br />
distinzioni e giustificazioni: anche questo è un sintomo.<br />
Ella scrive di non capire i tedeschi (...) Come tedesco, sensibile<br />
all’orrore ed alla vergogna, e che sarà consapevole fino alla fine dei<br />
suoi giorni che l’orrore stesso ha avuto luogo per mano di uomini del<br />
suo paese, mi sento chiamato in causa dalle Sue parole, e desidero<br />
rispondere.<br />
Neppure io capisco uomini come quel Kapò che si pulì la mano<br />
sulla Sua spalla, come Pannwitz, come Eichmann, e come tutti gli altri<br />
che eseguirono ordini disumani senza rendersi conto che non si può<br />
eludere la propria responsabilità nascondendosi dietro quella degli<br />
altri. Che in Germania ci siano stati tanti esecutori materiali di un<br />
137
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
sistema criminoso, e che tutto questo abbia potuto avvenire proprio<br />
grazie al grande numero delle persone a ciò disposte, di tutto questo<br />
chi, in quanto tedesco, potrebbe non provare afflizione?<br />
Ma sono costoro «i tedeschi»? ed è lecito, comunque, parlare<br />
come di una entità unitaria «dei tedeschi», o «degli inglesi», o «degli<br />
italiani», o «degli ebrei»? Ella ha citato delle eccezioni ai tedeschi che<br />
Lei non capisce (...): La ringrazio per queste Sue parole, ma La prego<br />
di ricordare che innumerevoli tedeschi (...) hanno sofferto e sono<br />
morti nella lotta contro l’iniquità (...)<br />
Vorrei con tutto il cuore che molti dei miei connazionali<br />
leggessero il Suo libro, affinché noi tedeschi non diventiamo pigri ed<br />
indifferenti, ma anzi, rimanga desta in noi la consapevolezza di quanto<br />
in basso possa cadere l’uomo che si fa tormentatore del suo simile. Se<br />
così avverrà, il Suo libro potrà contribuire a che tutto questo non si<br />
ripeta.<br />
A M.S. ho risposto con perplessità: con la stessa perplessità, del<br />
resto, che ho provato nel rispondere a tutti questi cortesi e civili<br />
interlocutori, membri del popolo che ha sterminato il mio (e molti<br />
altri). Si tratta, in sostanza, dello stesso imbarazzo dei cani studiati dai<br />
neurologi, condizionati a reagire in un modo al cerchio ed in un altro<br />
al quadrato, quando il quadrato si arrotondava e cominciava ad<br />
assomigliare a un cerchio: i cani si bloccavano o davano segni di<br />
nevrosi. Gli ho scritto, fra l’altro:<br />
Sono d’accordo con Lei: è pericoloso, è illecito, parlare dei<br />
«tedeschi», o di qualsiasi altro popolo, come di un’entità unitaria, non<br />
differenziata, e accomunare tutti i singoli in un giudizio. Eppure non<br />
mi sento di negare che uno spirito di ogni popolo esiste (altrimenti,<br />
non sarebbe un popolo); una Deutschtum, una italianità, una<br />
hispanidad: sono somme di tradizioni, abitudini, storia, lingua, cultura.<br />
Chi non sente in sé questo spirito, che è nazionale nel miglior senso<br />
della parola, non solo non appartiene per intero al suo popolo, ma neppure<br />
è inserito ne a civiltà umana. Perciò, mentre ritengo insensato il<br />
sillogismo «tutti gli italiani sono passionali; tu sei italiano; perciò tu lo<br />
sei», credo invece lecito, entro certi limiti, attendersi dagli italiani nel<br />
loro complesso, o dai tedeschi, ecc., un determinato comportamento<br />
collettivo a preferenza di un altro. Vi saranno certamente eccezioni<br />
individuali, ma una previsione prudente, probabilistica, a mio parere è<br />
possibile(...)<br />
... Sarò sincero con Lei: nella generazione che ha superato anni,<br />
quanti sono i tedeschi veramente consapevoli di quanto è avvenuto in<br />
Europa nel nome della Germania? A giudicare dall’esito sconcertante<br />
138
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
di alcuni processi, temo siano pochi: insieme con voci accorate e<br />
pietose, ne odo altre discordi, stridule, troppo fiere della potenza e<br />
ricchezza della Germania d’oggi.<br />
I. J., di Stoccarda, è una assistente sociale. Mi dice:<br />
Che Lei abbia potuto far si che dai Suoi scritti non trapeli un<br />
odio irremissibile contro noi tedeschi, è veramente un miracolo, e ci<br />
deve indurre a vergogna. Di questo La vorrei ringraziare. Ci sono<br />
purtroppo fra noi ancora molti che rifiutano di credere che noi<br />
tedeschi abbiamo realmente commesso tali disumani orrori contro il<br />
popolo ebreo. Naturalmente, questo rifiuto scaturisce da molti motivi<br />
diversi, magari anche solo dal fatto che l’intelletto del cittadino medio<br />
non accetta di ritenere possibile una malvagità così profonda tra noi,<br />
«cristiani occidentali».<br />
È bene che il Suo libro sia stato pubblicato qui, e possa così<br />
portare luce a molti giovani. Potrà anche essere messo nelle mani di<br />
alcuni anziani, forse; ma per fare questo, nella nostra «Germania<br />
dormiente», occorre un certo coraggio civile.<br />
Le ho risposto:<br />
che io non provi odio verso i tedeschi, stupisce molti, e non<br />
dovrebbe. In realtà, io comprendo l’odio, ma unicamente «ad<br />
personam». Se fossi un giudice, pur reprimendo l’odio che dovessi<br />
sentire in me, non esiterei ad infliggere le pene più gravi, o anche la<br />
morte, ai molti colpevoli che ancora oggi vivono indisturbati in terra<br />
tedesca, o in altri paesi di sospetta ospitalità; ma avrei orrore se un<br />
solo innocente dovesse essere punito per una colpa non commessa.<br />
W. A., medico, scrive dal Württemberg:<br />
Per noi tedeschi, che portiamo il grave peso del nostro passato, e<br />
(Dio lo sa!) del nostro avvenire il Suo libro è più di un racconto<br />
commovente: è un aiuto. É un orientamento, per il quale La ringrazio.<br />
Nulla posso dire a nostra discolpa; né credo che la colpa (questa<br />
colpa!) sia facile ad estinguersi (...) Per quanto io cerchi di staccarmi<br />
dal malo spirito del passato, rimango pur sempre un membro di questo<br />
popolo, che io amo, e che nel corso dei secoli ha partorito in ugual<br />
misura opere di nobile pace ed altre piene di pericolo demoniaco. In<br />
questo convergere di tutti i tempi della nostra storia, io sono cosciente<br />
di trovarmi implicato nella grandezza e nella colpa del mio popolo.<br />
Sto perciò davanti a Lei come un complice di chi fece violenza al Suo<br />
destino ed al destino del Suo popolo.<br />
139
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
W. G. è nato nel 1935 a Brema; è storico e sociologo, militante<br />
nel partito socialdemocratico:<br />
alla fine della guerra ero ancora un bambino; non mi posso<br />
addossare alcuna parte di colpa per i delitti spaventosi commessi dai<br />
tedeschi; eppure ne provo vergogna. Odio i criminali che fecero<br />
soffrire Lei ed i Suoi compagni, e odio i loro complici, molti dei quali<br />
sono ancora in vita. Lei scrive di non saper comprendere i tedeschi. Se<br />
intende alludere ai carnefici ed ai loro aiutanti, allora anch’io non<br />
riesco a comprenderli: ma spero che avrò la forza di combatterli, se si<br />
presentassero di nuovo alla ribalta della storia. Ho parlato di<br />
«vergogna»: intendevo esprimere questo sentimento, che quanto a<br />
quel tempo è stato perpetrato per mano tedesca, non avrebbe mai dovuto<br />
avvenire, né mai avrebbe dovuto essere approvato da altri<br />
tedeschi.<br />
Con H. L., bavarese, studentessa, le cose si sono complicate. Mi ha<br />
scritto una prima volta nel 1962; la sua lettera era singolarmente viva,<br />
sciolta dalla tetraggine plumbea che caratterizza quasi tutte le altre, anche<br />
le meglio intenzionate. Riteneva che io mi aspettassi «una eco»<br />
soprattutto dalle persone importanti, ufficiali, non da una ragazza, ma «si<br />
sente chiamata in causa, come erede e complice». É soddisfatta<br />
dell’educazione che riceve a scuola, e di quanto le è stato insegnato sulla<br />
storia recente del suo paese, ma non è sicura «che un giorno la mancanza<br />
di misura che è propria ai tedeschi non prorompa nuovamente, sotto altra<br />
veste e diretta ad altri scopi». Deplora che i suoi coetanei rifiutino la<br />
politica «come qualcosa di sporco». É insorta in modo «violento ed<br />
incomposto» contro un prete che sparlava degli ebrei, e contro la sua<br />
insegnante di russo, una russa, che attribuiva agli ebrei la colpa della<br />
rivoluzione di ottobre, e considerava la strage hitleriana come una giusta<br />
punizione. In quei momenti, ha provato «una indicibile vergogna di<br />
appartenere al più barbarico dei popoli». «Pure al di fuori di ogni<br />
misticismo o superstizione», è convinta «che noi tedeschi non<br />
sfuggiremo alla giusta punizione per quanto abbiamo commesso». Si<br />
sente in qualche modo autorizzata, anzi tenuta, ad affermare «che noi,<br />
figli di una generazione carica di colpa, ne siamo pienamente<br />
consapevoli, e cercheremo di alleviare gli orrori e i dolori di ieri per<br />
evitare che si ripetano domani».<br />
140
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Poiché mi è sembrata una interlocutrice intelligente, spregiudicata<br />
e «nuova», le ho scritto chiedendole notizie più precise sulla situazione<br />
della Germania di allora (era l’epoca di Adenauer); quanto al suo timore<br />
di una «giusta punizione » collettiva, ho cercato di convincerla che una<br />
punizione, se è collettiva, non può essere giusta, e viceversa. Mi ha<br />
spedito a volta di corriere una cartolina, in cui mi diceva che le mie<br />
domande richiedevano un certo lavoro di ricerca; avessi pazienza, mi<br />
avrebbe risposto in modo esauriente appena possibile.<br />
Venti giorni dopo ho ricevuto un sua lettera di 23 facciate: una tesi<br />
di laurea, insomma, compilata grazie ad un frenetico lavoro di interviste<br />
fatte di persona, per telefono e per lettera. Anche questa brava ragazza,<br />
seppure a fin di bene, era dunque propensa alla Masslosìgkeìt, alla<br />
mancanza di misura da lei stessa denunciata, ma si scusava, con comica<br />
sincerità: «avevo poco tempo, perciò molte cose che avrei potuto dire più<br />
in breve sono rimaste com’erano». Non essendo io masslos, mi limito a<br />
riassumere, ed a citare i passi che mi sembrano più significativi.<br />
amo il paese dove sono cresciuta, adoro mia madre, ma non<br />
riesco a provare simpatia per il tedesco in quanto particolare tipo<br />
umano: forse perché mi appare ancora troppo segnato da quelle qualità<br />
che nel recente passato si sono manifestate con tanto vigore, ma forse<br />
anche perché detesto in esso me stessa, riconoscendomi a lui simile<br />
come essenza.<br />
Ad una mia domanda sulla scuola, risponde (con documenti) che<br />
l’intero corpo insegnante era stato a suo tempo passato al setaccio della<br />
«denazificazione», voluta dagli alleati, ma condotta in modo<br />
dilettantesco ed ampiamente sabotata; né avrebbe potuto essere<br />
altrimenti: si sarebbe dovuto mettere al bando un’intera generazione.<br />
Nelle scuole la storia recente viene insegnata, ma si parla poco di<br />
politica; il passato nazista affiora qua e là, in toni vari: pochi docenti se<br />
ne gloriano, pochi lo nascondono, pochissimi se ne dichiarano immuni.<br />
Un giovane insegnante le ha dichiarato:<br />
Gli allievi si interessano molto a questo periodo, ma passano<br />
subito all’opposizione se si parla loro di una colpa collettiva della<br />
Germania. Molti anzi affermano di averne abbastanza dei «mea culpa»<br />
della stampa e dei loro insegnanti.<br />
H. L. commenta:<br />
141
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
…proprio dalla resistenza dei ragazzi contro il «mea culpa» si può<br />
riconoscere che per loro il problema del Terzo Reich è tuttora<br />
altrettanto irrisolto, irritante e tipicamente tedesco, quanto per tutti<br />
coloro che lo hanno vissuto prima di loro. Solo quando questa<br />
emotività sarà cessata sarà possibile ragionare in modo obiettivo.<br />
Altrove, parlando della sua stessa esperienza, H. L. scrive (assai<br />
plausibilmente):<br />
I professori non evitavano i problemi; al contrario, dimostravano,<br />
documentandoli con giornali dell’epoca, i metodi di<br />
propaganda dei nazisti. Raccontavano come, da giovani, avevano<br />
seguito il nuovo movimento senza critiche e con entusiasmo: delle<br />
adunate giovanili, delle organizzazioni sportive ecc. Noi studenti li<br />
attaccavamo vivacemente, a torto, come oggi penso: come si può<br />
accusarli di aver capito la situazione, e previsto l’avvenire, peggio<br />
degli adulti? E noi, alloro posto, avremmo smascherato meglio di loro<br />
i metodi satanici con cui Hitler conquistò la gioventù per la sua<br />
guerra?<br />
Si noti: la giustificazione è la stessa addotta dal dottor T. H. di<br />
Amburgo, e del resto nessun testimone del tempo ha negato a Hitler<br />
una veramente demoniaca virtù di persuasore, la stessa che lo favoriva<br />
nei suoi contatti politici. La si può accettare dai giovani, che<br />
comprensibilmente cercano di discolpare l’intera generazione dei loro<br />
padri; non dagli anziani compromessi, e falsamente penitenti, che<br />
cercano di circoscrivere la colpa ad un uomo solo.<br />
H. L. mi ha mandato molte altre lettere, suscitando in me reazioni<br />
bifide. Mi ha descritto suo padre, un musicista irrequieto, timido e<br />
sensibile, morto quando lei era bambina: in me cercava un padre?<br />
Oscillava fra la serietà documentaria e la fantasia infantile. Mi ha<br />
mandato un caleidoscopio, ed insieme mi ha scritto:<br />
Anche di Lei mi sono costruita una immagine ben definita: è<br />
Lei, sfuggito ad un destino terribile (perdoni il mio ardire), che si<br />
aggira per il nostro paese, ancora straniero, come in un brutto sogno. E<br />
penso che dovrei cucirLe un vestito come quello che indossano gli<br />
eroi nelle leggende, che La protegga contro tutti i pericoli del mondo.<br />
Non mi ravvisavo in questa immagine, ma non gliel’ho scritto. Le<br />
ho risposto che questi abiti non si possono regalare: ognuno deve<br />
tesserli e cucirli per se stesso. H. L. mi ha spedito i due romanzi di<br />
142
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Heinrich Mann del ciclo Enrico IV, che purtroppo non ho mai trovato<br />
tempo di leggere; io le ho fatto avere la traduzione tedesca di La<br />
tregua, che era comparsa nel frattempo. Nel dicembre 1964, da<br />
Berlino dove si era trasferita, mi ha mandato un paio di gemelli da<br />
polsino d’oro, che aveva fatti fare da una sua amica orefice. Non ho<br />
avuto cuore di restituirglieli; l’ho ringraziata, ma l’ho pregata di non<br />
mandarmi altro. Spero sinceramente di non avere offesa questa<br />
persona intimamente gentile; spero che abbia compreso il motivo della<br />
mia difesa. Da allora non ho più avuto sue notizie.<br />
Ho lasciato per ultimo lo scambio di lettere con la signora Hety S.<br />
di Wiesbaden, mia coetanea, perché costituisce un episodio a sé<br />
stante, sia come qualità, sia come quantità. Da sola, la mia cartella<br />
«HS» è più voluminosa di quella in cui conservo tutte le altre «lettere<br />
di tedeschi». La nostra corrispondenza si protrae per sedici anni,<br />
dall’ottobre 1966 al novembre 1982. Contiene, oltre ad una<br />
cinquantina di sue lettere (spesso di quattro o più facciate) con le mie<br />
risposte, anche le veline di almeno altrettante lettere da lei scritte ai<br />
suoi figli, ad amici, ad altri scrittori, a editori, ad enti locali, a giornali<br />
o riviste, e di cui ha ritenuto importante mandarmi copia; inoltre,<br />
ritagli di giornali e recensioni di libri. Alcune delle sue lettere sono<br />
«circolari»: mezza pagina è in fotocopia, uguale per vari corrispondenti,<br />
il resto, bianco, è riempito a mano con le notizie o le domande<br />
più personali. La signora Hety mi scriveva in tedesco e non conosceva<br />
l’italiano; le ho risposto inizialmente in francese, poi mi sono reso<br />
conto che capiva con difficoltà e per molto tempo le ho scritto in<br />
inglese. Più tardi, col suo divertito consenso, le ho scritto nel mio<br />
tedesco incerto, in duplice copia; lei me ne restituiva una, con le sue<br />
correzioni «ragionate». Ci siamo incontrati solo due volte: a casa sua,<br />
durante un mio frettoloso viaggio d’affari in Germania, ed a Torino,<br />
durante una sua vacanza altrettanto frettolosa. Non sono stati incontri<br />
importanti: le lettere contano molto di più.<br />
Anche la sua prima lettera traeva spunto dalla questione del<br />
«capire», ma aveva un piglio energico e risentito che la distingueva da<br />
143
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
tutte le altre. Il mio libro le era stato donato da un amico comune, lo<br />
storico Hermann Langbein, molto tardi, quando già la prima edizione<br />
era esaurita. Come assessore alla Cultura presso un Governo<br />
regionale, lei stava cercando di farlo ristampare subito, e mi scriveva:<br />
A capire « i tedeschi », di sicuro Lei non ci riuscirà mai: non ci<br />
riusciamo neppure noi, poiché a quel tempo sono successe cose che<br />
mai, a nessun prezzo, avrebbero dovuto succedere. Ne è seguito che<br />
per molti fra noi parole come «Germania» e «Patria» hanno perduto<br />
per sempre il significato che un tempo avevano: il concetto di «patria»<br />
per noi si è estinto (...) Ciò che assolutamente non ci è lecito, è<br />
dimenticare. Per questo sono importanti per la nuova generazione i<br />
libri come il Suo, che descrivono in modo così umano l’inumano (...)<br />
Forse Lei non si rende conto appieno di quante cose uno scrittore può<br />
implicitamente esprimere su se stesso - e pertanto sull’Uomo in<br />
generale. Proprio questo conferisce peso e valore ad ogni capitolo del<br />
Suo libro. Più che tutto, mi hanno sconvolto le Sue pagine sul<br />
laboratorio della Buna: era dunque questo il modo in cui voi<br />
prigionieri vedevate noi liberi!<br />
Poco oltre, racconta di un prigioniero russo che in autunno le<br />
portava il carbone in cantina. Parlargli era proibito: lei gli infilava in tasca<br />
cibo e sigarette, e lui, per ringraziare, gridava: «Heil Hitler!» Non le era<br />
proibito invece (che labirinto di gerarchie e di divieti differenziali doveva<br />
essere la Germania di allora! anche le «lettere di tedeschi», e le sue in<br />
specie, dicono più di quanto non paia) parlare con una giovane operaia<br />
«volontaria» francese: lei la prelevava dal suo campo, se la portava a<br />
casa, la conduceva perfino a qualche concerto. La ragazza, in campo, non<br />
poteva lavarsi bene, e aveva i pidocchi. Hety non osava dirglielo, provava<br />
disagio, e si vergognava del suo disagio.<br />
A questa sua prima lettera ho risposto che il mio libro aveva bensì<br />
destato risonanza in Germania, ma proprio fra i tedeschi che avevano<br />
meno bisogno di leggerlo: mi avevano scritto lettere di pentimento gli<br />
innocenti, non i colpevoli. Questi, come è comprensibile, tacevano.<br />
Nelle sue lettere successive, a poco a poco, nel suo modo<br />
indiretto, Hety (la chiamerò così per semplicità, sebbene al «tu» non<br />
siamo mai arrivati) mi ha fornito un ritratto di se stessa. Suo padre,<br />
pedagogista di professione, era un attivista socialdemocratico fin dal<br />
1919; nel ‘33, l’anno in cui Hitler salì al potere, perse subito l’im-<br />
144
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
piego, si susseguirono perquisizioni e difficoltà economiche, la<br />
famiglia si dovette trasferire in un alloggio più piccolo. Nel ‘35 Hety<br />
fu espulsa dal liceo perché aveva rifiutato di entrare nell’organizzazione<br />
giovanile hitleriana. Sposò nel ‘38 un ingegnere della IG<br />
Farben (di qui il suo interesse per «il laboratorio di Buna»!) da cui<br />
ebbe subito due figli. Dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, suo<br />
padre fu deportato a Dachau, ed il matrimonio entrò in crisi perché il<br />
marito, pur non essendo iscritto al partito, non tollerava che Hety<br />
mettesse in pericolo se stessa, lui e i figli per «fare quello che andava<br />
fatto», cioè per portare ogni settimana un po’ di cibo ai cancelli del<br />
campo in cui il padre era prigioniero:<br />
…a lui sembrava che i nostri sforzi fossero assolutamente insensati.<br />
Tenemmo una volta un consiglio di famiglia per vedere se ci fossero<br />
possibilità di dare un aiuto a mio padre, e se si quali; ma lui disse<br />
soltanto: «Mettetevi il cuore in pace: non lo vedrete più».<br />
Invece, a guerra finita il padre tornò, ma era ridotto ad uno spettro<br />
(morì pochi anni dopo). Hety, assai legata a lui, si senti in dovere di<br />
proseguire l’attività nel rinnovato partito socialdemocratico; il marito<br />
non era d’accordo, vi fu una lite, e lui chiese ed ottenne il divorzio. La<br />
sua seconda moglie era una profuga dalla Prussia Orientale che, per<br />
via dei due figli, mantenne discreti rapporti con Hety. Le disse una<br />
volta, a proposito del padre, di Dachau e dei Lager:<br />
Non avertene a male se io non sopporto di leggere o di ascoltare<br />
queste tue cose. Quando abbiamo dovuto scappare, è stato tremendo; e<br />
la cosa peggiore è stata che abbiamo dovuto prendere la strada per cui<br />
erano stati evacuati prima i prigionieri di Auschwitz. La via era fra<br />
due siepi di morti. Vorrei dimenticare quelle immagini e non posso:<br />
continuo a sognarle.<br />
Il padre era appena ritornato quando Thomas Mann, alla radio,<br />
parlò di Auschwitz, del gas e dei crematori.<br />
Ascoltammo tutti con turbamento e tacemmo a lungo. Papà<br />
andava su e giù, taciturno, imbronciato, finché io gli chiesi:<br />
«Ma ti pare possibile, che si avveleni la gente col gas, la si bruci,<br />
che si utilizzino i loro capelli, la pelle, i denti? » E lui, che pure veniva<br />
da Dachau, rispose: «No, non è pensabile. Un Thomas Mann non<br />
145
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
dovrebbe dar fede a questi orrori». Eppure era tutto vero: poche<br />
settimane dopo ne abbiamo avuto le prove e ce ne siamo convinti.<br />
In un’altra sua lunga lettera mi aveva descritto la loro vita nella «<br />
emigrazione interna»:<br />
Mia madre aveva una carissima amica ebrea. Era vedova e<br />
viveva sola, i figli erano emigrati, ma lei non si risolveva a lasciare la<br />
Germania. Anche noi eravamo dei perseguitati, ma «politici»: per noi<br />
era diverso, ed abbiamo avuto fortuna nonostante i molti pericoli. Non<br />
dimenticherò la sera in cui quella donna venne da noi, al buio, per<br />
dirci: «Vi prego, non venite più a cercarmi, e scusatemi se io non<br />
vengo da voi. Capite, vi metterei in pericolo...» Naturalmente abbiamo<br />
continuato a visitarla, finché non fu deportata a Theresienstadt. Non<br />
l’abbiamo più rivista, e per lei non abbiamo «fatto» niente: che cosa<br />
avremmo potuto fare? Eppure il pensiero che non si potesse fare nulla<br />
ci tormenta ancora: La prego, cerchi di comprendere.<br />
Mi ha raccontato di aver assistito nel 1967 al processo per<br />
l’Eutanasia. Uno degli imputati, un medico, aveva dichiarato in<br />
giudizio che gli era stato ordinato di iniettare personalmente il veleno<br />
ai malati mentali, e che lui aveva rifiutato per coscienza professionale;<br />
per contro, manovrare il rubinetto del gas gli era sembrato poco gradevole,<br />
ma insomma tollerabile. Tornata a casa, Hety trova la donna<br />
delle pulizie, una vedova di guerra, intenta al suo lavoro, e il figlio che<br />
sta cucinando. Tutti e tre si siedono a tavola, e lei racconta al figlio<br />
quanto ha visto e sentito al processo. Ad un tratto,<br />
la donna ha posato la forchetta ed è intervenuta aggressivamente:<br />
«A cosa servono tutti questi processi che fanno adesso? Cosa<br />
potevano farci, i nostri poveri soldati, se gli davano quegli ordini?<br />
Quando mio marito è venuto in licenza dalla Polonia, mi ha<br />
raccontato: “Non abbiamo fatto quasi niente altro che fucilare ebrei:<br />
sempre fucilare ebrei. A furia di sparare, il braccio mi faceva male”.<br />
Ma che cosa poteva fare, se gli avevano dato quegli ordini? » (...)<br />
L’ho licenziata, reprimendo la tentazione di congratularmi con lei per<br />
il suo povero marito caduto in guerra... Ecco, vede, qui in Germania<br />
viviamo ancor oggi in mezzo a persone di questo genere.<br />
Hety ha lavorato per molti anni presso il Ministero della Cultura<br />
del Land Hessen (Assia): era una funzionaria diligente ma irruente,<br />
146
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
autrice di recensioni polemiche, organizzatrice «appassionata» di<br />
convegni ed incontri con i giovani, altrettanto appassionata alle<br />
vittorie e sconfitte del suo partito. Dopo il pensionamento, avvenuto<br />
nel 1978, la sua vita culturale si è ancora arricchita: mi ha scritto di<br />
viaggi, di letture, di stages linguistici.<br />
Soprattutto, e per tutta la sua vita, è stata avida, addirittura<br />
famelica, di incontri umani: quello, duraturo e fecondo, con me, è<br />
stato solo uno dei tanti. «Il mio destino mi spinge verso gli uomini con<br />
un destino», mi ha scritto una volta: ma non era il destino a spingerla,<br />
era una vocazione. Li cercava, li trovava, li metteva in contatto fra<br />
loro, curiosissima dei loro incontri o scontri. É stata lei a dare a me<br />
l’indirizzo di Jean Améry e il mio a lui, ma ad una condizione: che<br />
entrambi le mandassimo le veline delle lettere che ci saremmo<br />
scambiate (lo abbiamo fatto). Ha avuto una parte importante anche nel<br />
rimettermi sulle tracce di quel dottor Müller, chimico ad Auschwitz, e<br />
poi mio fornitore di prodotti chimici e penitente, di cui ho parlato nel<br />
capitolo Vanadio del Sistema periodico: era stato collega del suo ex<br />
marito. Anche del «dossier Müller» ha chiesto, a buon diritto, le<br />
veline; ha poi scritto lettere intelligenti a lui su di me ed a me su di lui,<br />
incrociando doverosamente le «copie per conoscenza ».<br />
In una sola occasione abbiamo (o almeno, io ho) percepito una<br />
divergenza. Nel 1966 era stato rilasciato Albert Speer dal carcere<br />
interalleato di Spandau. Come è noto, era stato l'«architetto di corte»<br />
di Hitler, ma nel 1943 era stato nominato ministro dell’industria di<br />
guerra; in quanto tale, era in buona parte responsabile dell’organizzazione<br />
delle fabbriche in cui noi morivamo di fatica e di fame. A<br />
Norimberga era stato il solo fra gli imputati a dichiararsi colpevole,<br />
anche per le cose che non aveva saputo; anzi, appunto per non aver<br />
voluto saperle. Fu condannato a vent’anni di reclusione, che impiegò a<br />
scrivere le sue memorie carcerarie, pubblicate in Germania nel 1975.<br />
Hety dapprima esitò, poi le lesse, e ne fu profondamente turbata.<br />
Chiese a Speer un colloquio, che durò due ore; gli lasciò il libro di<br />
Langbein su Auschwitz ed una copiù di Se questo è un uomo, dicendogli<br />
che era tenuto a leggerli. Lui le diede una copia dei suoi Diari di<br />
Spandau (Mondadori, Milano 1976) perché Hety me la spedisse.<br />
147
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Ho ricevuto e letto questi diari, che portano il segno di una mente<br />
coltivata e lucida e di un ravvedimento che sembra sincero (ma un<br />
uomo intelligente sa simulare). Speer ne traspare come un personaggio<br />
shakespeariano, dalle ambizioni sconfinate, tali da accecarlo e da infettarlo,<br />
ma non un barbaro né un vile né un servo. Di questa lettura avrei<br />
fatto volentieri a meno, perché per me giudicare è doloroso; in specie<br />
uno Speer, un uomo non semplice, e un colpevole che aveva pagato.<br />
Scrissi a Hety, con una traccia di irritazione: «Che cosa l’ha spinta da<br />
Speer? La curiosità? Un senso del dovere? Una “missione”»?<br />
Mi rispose:<br />
Spero che Lei abbia preso il dono di quel libro nel suo senso<br />
giusto. Giusta è anche la Sua domanda. Volevo vederlo in faccia:<br />
vedere com’è fatto un uomo che si è lasciato plagiare da Hitler, e che<br />
è diventato una sua creatura. Dice, ed io gli credo, che per lui la strage<br />
di Auschwitz è un trauma. É ossessionato dalla domanda di come lui<br />
abbia potuto «non voler vedere né sapere», insomma rimuovere tutto.<br />
Non mi pare che cerchi giustificazioni; anche lui vorrebbe capire<br />
quanto, anche per lui, capire è impossibile. Mi è parso un uomo che<br />
non falsifica, che lotta lealmente, e si tormenta sul suo passato. Per<br />
me, è diventato «una chiave»: è un personaggio simbolico, il simbolo<br />
del traviamento tedesco. Ha letto con estrema pena il libro di<br />
Langbein, e mi ha promesso di leggere anche il Suo. La terrò<br />
informato sulle sue reazioni.<br />
Queste reazioni, con mio sollievo, non sono mai venute: se avessi<br />
dovuto (come è usanza fra persone civili) rispondere ad una lettera di<br />
Albert Speer, avrei avuto qualche problema. Nel 1978, scusandosi con<br />
me per la disapprovazione che aveva fiutato nelle mie lettere, Hety ha<br />
visitato Speer una seconda volta, e ne è tornata delusa. Lo ha trovato<br />
senile, egocentrico, tronfio, e stupidamente fiero del suo passato di<br />
architetto faraonico. Dopo di allora, la sostanza delle nostre lettere si è<br />
andata spostando verso temi più allarmanti perché più attuali: l’affare<br />
Moro, la fuga di Kappler, la morte simultanea dei terroristi della<br />
banda Baader-Meinhof nel supercarcere di Stammheim. Lei tendeva a<br />
credere alla tesi ufficiale del suicidio; io dubitavo. Speer è morto nel<br />
1981, e Hety, improvvisamente, nel 1983.<br />
148
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
La nostra amicizia, quasi esclusivamente epistolare, è stata lunga<br />
e fruttuosa, spesso allegra; strana, se penso all’enorme differenza fra i<br />
nostri itinerari umani ed alla lontananza geografica e linguistica, meno<br />
strana se riconosco che è stata lei, fra tutti i miei lettori tedeschi, la<br />
sola «con le carte in regola», e quindi non invischiata in sensi di colpa;<br />
e che la sua curiosità è stata ed è la mia, e si è arrovellata sugli stessi<br />
temi che ho discussi in questo libro.<br />
149
Conclusione<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti<br />
è estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più<br />
estranea si va facendo a mano a mano che passano gli anni. Per i<br />
giovani degli anni ’50 e ’60, erano cose dei loro padri: se ne parlava in<br />
famiglia i ricordi conservavano ancora la freschezza delle cose viste.<br />
Per i giovani di questi anni ’80, sono cose dei loro nonni: lontane<br />
sfumate, «storiche». Essi sono assillati dai problemi d’oggi, diversi,<br />
urgenti: la minaccia nucleare, la disoccupazione, l’esaurimento delle<br />
risorse, l’esplosione demografica, le tecnologie che si rinnovano<br />
freneticamente ed a cui occorre adattarsi. La configurazione del<br />
mondo è profondamente mutata, l’Europa non è più il centro del<br />
pianeta. Gli imperi coloniali hanno ceduto alla pressione dei popoli<br />
d’Asia e d’Africa assetati d’indipendenza, e si sono dissolti, non senza<br />
tragedie e lotte fra le nuove fazioni. La Germania, spaccata in due per<br />
un futuro indefinito, è diventata «rispettabile», e di fatto detiene i<br />
destini dell’Europa. Permane la diarchia Stati Uniti – Unione<br />
Sovietica, nata dalla seconda guerra mondiale; ma le ideologie su cui<br />
si reggono i governi dei due soli vincitori dell’ultimo conflitto hanno<br />
perso molto della loro credibilità e del loro splendore. Si affaccia<br />
all’età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di<br />
certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece<br />
ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda<br />
convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge.<br />
Per noi parlare con i giovani è sempre più difficile. Lo<br />
percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di<br />
apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere<br />
ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati<br />
collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato,<br />
fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno. E<br />
150
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa;<br />
incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito<br />
dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui<br />
figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito ed<br />
osannato fino alla catastrofe. É avvenuto, quindi può accadere di<br />
nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.<br />
Può accadere, e dappertutto. Non intendo né posso dire che<br />
avverrà; come ho accennato più sopra, è poco probabile che si<br />
verifichino di nuovo, simultaneamente, tutti i fattori che hanno<br />
scatenato la follia nazista, ma si profilano alcuni segni precursori. La<br />
violenza, «utile» o «inutile», è sotto i nostri occhi: serpeggia, in<br />
episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato, in entrambi quelli<br />
che si sogliono chiamare il primo ed il secondo mondo, vale a dire<br />
nelle democrazie parlamentari e nei paesi dell’area comunista. Nel<br />
terzo mondo è endemica od epidemica. Attende solo il nuovo istrione<br />
(non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari<br />
necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere<br />
garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da<br />
intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da<br />
fanatismo religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi<br />
affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli<br />
che dicono e scrivo no «belle parole» non sostenute da buone ragioni.<br />
É stato oscenamente detto che di un conflitto c’è bisogno: che il<br />
genere umano non ne può fare a meno. É anche stato detto che i<br />
conflitti locali, le violenze in strada, in fabbrica, negli stadi, sono un<br />
equivalente della guerra generalizzata, e che ce ne preservano, come il<br />
«piccolo male», l’equivalente epilettico, preserva dal grande male. É<br />
stato osservato che mai in Europa erano trascorsi quarant’anni senza<br />
guerre: una pace europea così lunga sarebbe un’anomalia storica.<br />
Sono argomenti capziosi e sospetti. Satana non è necessario: di<br />
guerre e violenze non c’è bisogno, in nessun caso. Non esistono<br />
problemi che non possano essere risolti intorno a un tavolo, purché ci<br />
sia volontà buona e fiducia reciproca: o anche paura reciproca, come<br />
sembra dimostrare l’attuale interminabile situazione di stallo, in cui le<br />
massime potenze si fronteggiano con viso cordiale o truce, ma non<br />
151
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
hanno ritegno a scatenare (o a lasciare che si scatenino) guerre<br />
sanguinose fra i loro «protetti», inviando armi sofisticate, spie,<br />
mercenari e consiglieri militari invece che arbitri di pace.<br />
Neppure è accettabile la teoria della violenza preventiva: dalla<br />
violenza non nasce che violenza, in una pendolarità che si esalta nel<br />
tempo invece di smorzarsi. In effetti, molti segni fanno pensare ad una<br />
genealogia della violenza odierna che si dirama proprio da quella<br />
dominante nella Germania di Hitler. Certo non mancava prima, nel<br />
passato remoto e recente: tuttavia, anche in mezzo all’insensato<br />
massacro della prima guerra mondiale, sopravvivevano i tratti di un<br />
reciproco rispetto fra i contendenti, una traccia di umanità verso i<br />
prigionieri ed i cittadini inermi, un tendenziale rispetto dei patti: un<br />
credente direbbe «un certo timor di Dio». L’ avversario non era né un<br />
demonio né un verme. Dopo il Gott mit uns nazista tutto è cambiato.<br />
Ai bombardamenti aerei terroristici di Göring hanno risposto i<br />
bombardamenti «a tappeto» alleati. La distruzione di un popolo e di<br />
una civiltà si è dimostrata possibile, e desiderabile sia in sé, sia come<br />
strumento di regno. Lo sfruttamento massiccio della mano d’opera<br />
schiava era stato imparato da Hitler alla scuola di Stalin, ma in Unione<br />
Sovietica è ritornato moltiplicato alla fine della guerra. L’esodo di<br />
cervelli dalla Germania e dall’Italia, insieme con la paura di un sorpasso<br />
da parte degli scienziati nazisti, ha partorito le bombe nucleari. I<br />
superstiti ebrei disperati, in fuga dall’Europa dopo il gran naufragio,<br />
hanno creato in seno al mondo arabo un’isola di civiltà occidentale,<br />
una portentosa palingenesi dell’ebraismo, ed il pretesto per un odio<br />
rinnovato. Dopo la disfatta, la silenziosa diaspora nazista ha insegnato<br />
le arti della persecuzione e della tortura ai militari ed ai politici di una<br />
dozzina di paesi, affacciati al Mediterraneo, all’Atlantico ed al<br />
Pacifico. Molti nuovi tiranni tengono nel cassetto la « Battaglia » di<br />
Adolf Hitler: magari con qualche rettifica, o con qualche sostituzione<br />
di nomi, può ancora venire a taglio.<br />
L’esempio hitleriano ha dimostrato in quale misura sia devastante<br />
una guerra combattuta nell’era industriale, anche senza che si faccia<br />
152
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
ricorso alle armi nucleari; nell’ultimo ventennio, la sciagurata impresa<br />
vietnamita, il conflitto delle Falkland, la guerra Iran-Iraq ed i fatti di<br />
Cambogia e d’Afghanistan ne sono una conferma. Tuttavia ha anche<br />
dimostrato (non nel senso rigoroso dei matematici, purtroppo) che,<br />
almeno qualche volta, almeno in parte, le colpe storiche vengono<br />
punite; i potenti del Terzo Reich sono finiti sulla forca o nel suicidio;<br />
il paese tedesco ha subito una biblica «strage di primogeniti» che ha<br />
decimato una generazione, ed una bipartizione che ha posto fine al<br />
secolare orgoglio germanico. Non è assurdo assumere che, se il<br />
nazismo non si fosse mostrato fin dall’inizio così spietato, l’alleanza<br />
fra i suoi avversari non si sarebbe costituita, o si sarebbe spezzata<br />
prima della fine del conflitto. La guerra mondiale voluta dai nazisti e<br />
dai giapponesi è stata una guerra suicida: tutte le guerre dovrebbero<br />
essere temute come tali.<br />
Agli stereotipi che ho passati in rassegna nel settimo capitolo<br />
vorrei infine aggiungerne uno. Ci viene chiesto dai giovani, tanto più<br />
spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana,<br />
chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri «aguzzini». Il termine<br />
allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere è improprio: fa<br />
pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio<br />
d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri<br />
umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo<br />
eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati<br />
educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi e<br />
diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti<br />
indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera, o<br />
troppo obbedienti. Tutti avevano subito la terrificante diseducazione<br />
fornita ed imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler e dai<br />
suoi collaboratori, e completata poi dal Drill delle SS. A questa<br />
milizia parecchi avevano aderito per il prestigio che conferiva, per la<br />
sua onnipotenza, o anche solo per sfuggire a difficoltà famigliari.<br />
Alcuni, pochissimi per verità, ebbero ripensamenti, chiesero il<br />
trasferimento al fronte, diedero cauti aiuti ai prigionieri, o scelsero il<br />
suicidio. Sia ben chiaro che responsabili, in grado maggiore o minore,<br />
erano tutti, ma dev’essere altrettanto chiaro che dietro la loro<br />
153
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
responsabilità sta quella della grande maggioranza dei tedeschi, che<br />
hanno accettato all’inizio, per pigrizia mentale, per calcolo miope, per<br />
stupidità, per orgoglio nazionale, le « belle parole » del caporale<br />
Hitler, lo hanno seguito finché la fortuna e la mancanza di scrupoli lo<br />
hanno favorito, sono stati travolti dalla sua rovina, funestati da lutti,<br />
miseria e rimorsi, e riabilitati pochi anni dopo per uno spregiudicato<br />
gioco politico.<br />
154
La colpa di dimenticare<br />
di Paolo Flores d’Arcais<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Assonanze<br />
É nozione comune, dopo Freud, che l’uomo possieda una spinta a dimenticare,<br />
non sapere, rimuovere, ogniqualvolta la conoscenza o il ricordo siano scomodi,<br />
rischiosi, inquietanti. Si rimuove per difendersi, ma con ciò si rischia anche, poiché<br />
il rifiuto della lucidità è promessa dì nevrosi.<br />
L’uomo contemporaneo coltiva la rimozione con grande impegno. E, da<br />
ultimo, sembra deciso a spingersi oltre: a rivendicare la rimozione quale «diritto».<br />
Questo, forse, il significato del voto con cui la maggioranza del popolo austriaco ha<br />
eletto a presidente il signor Waldheim. Proprio perché sospetto di trascorsi nazisti.<br />
Il «diritto» a dimenticare, rimuovere, non dover portarsi dietro, nel proprio<br />
vissuto quotidiano, la lucida consapevolezza di un passato scomodo, è l’assurda<br />
scelta oggi prevalente non solo in Austria ma in gran parte d’Europa. L’ultimo lavoro<br />
di Primo Levi, allora, deve intanto essere salutato come possibile straordinario<br />
antidoto contro questa ricorrente pretesa a porre fra parentesi il passato.<br />
I sommersi e i salvati non è solo un saggio sull’universo dei campi di<br />
concentramento. É anche questo ma soprattutto, attraverso questo, un saggio<br />
sull’immorale e diffusissima pulsione umana a manipolare la memoria.<br />
Qui, il ragionamento di Primo Levi si incontra pienamente con le tesi esposte<br />
in proposito da Hannah Arendt, e non è certo un caso che anche la Arendt abbia<br />
dedicato ai Lager e al totalitarismo gran parte della sua riflessione etico-politica e<br />
che nel campo di concentramento veda, come Primo Levi, il fenomeno<br />
assolutamente imprevisto e assolutamente centrale del nostro secolo.<br />
Un lavoro contro la rimozione e per la verità, quello di Primo Levi, abbiamo<br />
detto. E in primo luogo, contro le deformazioni che anche le vittime possono<br />
realizzare nel necessario lavoro di mantenere memoria viva di un accaduto talmente<br />
mostruoso da apparire fantastico.<br />
Levi, perciò, offre un’autentica sociologia dell’universo concentrazionario,<br />
attenta proprio alle zone «grigie», ai comportamenti ambigui, ai compromessi, alle<br />
debolezze, che caratterizzano anche il mondo delle vittime. Ma questa impietosa<br />
onestà intellettuale è accettabile solo e perché Levi tiene rigorosamente ferma la<br />
insopprimibile e primaria distinzione fra carnefice e vittima, contro le ricorrenti (e<br />
mai innocenti) tentazioni dell’estetismo e di un sempre più diffuso «azzeramento»<br />
155
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
delle responsabilità (in nome di un nuovo storicismo? o della esaltazione di una<br />
realtà socio-politica priva di impegno e perciò anche di memoria?).<br />
É possibile, tuttavia, che questo straordinario libretto di Primo Levi, malgrado<br />
il successo di vendite che già si profila, risulti alla fine un lavoro «inutile». È<br />
possibile, insomma, che la pretesa di non essere disturbati da ricordi scomodi e da<br />
scomode responsabilità, abbia già vinto, sia penetrata in profondità, abbia<br />
conquistato le giovani generazioni. Sarebbe una tragedia, ma le tragedie talvolta<br />
avvengono.<br />
Molti sintomi denunciano che la generale assoluzione è ormai la tentazione<br />
maestra di troppi intellettuali, oltre che la pretesa della professione politica.<br />
L’Europa vuole dimenticare di aver generato il fascismo, e il semplice rammentarlo<br />
viene giudicato di cattivo gusto.<br />
Pure, proprio questo è invece il tema decisivo per la nostra epoca: riconoscere<br />
come il nostro mondo, la nostra epoca, mettano ciascuno di noi a confronto con una<br />
duplice immagine di Occidente e una duplice immagine di modernità. Come lo<br />
scarto fra le premesse di valore (che poi erano anche «promesse») e la concreta<br />
realtà quotidiana costituisca il tratto caratterizzante la condizione moderna, perfino<br />
assai più della tecnica o del rendersi omogeneo delle culture su scala mondiale.<br />
Riconoscere questo scarto nel suo luogo più tragico, indagarlo senza<br />
concessioni ad alcuno (non alle vittime, ma tanto<br />
meno ai carnefici), comprenderne i meccanismi, proporlo alla custodia di altri<br />
uomini, perché la memoria impedisca (per quel po’ che la cultura e l’impegno<br />
possono) che analoghe tragedie si rinnovino: questa la grandezza, la necessità, di un<br />
libro dai toni volutamente dimessi, colloquiali, «banali» se si vuole. Ma proprio<br />
perché la banalità del male è all’origine della fuga dalle responsabilità che consente<br />
al nazismo di trionfare, come spiegava, nei suoi resoconti del processo Eichmann,<br />
Hannah Arendt e come conferma ciascuna di queste bellissime pagine di Primo<br />
Levi.<br />
Quanto è scomodo il buon senso<br />
di Giovanni Raboni<br />
«Il Messaggero», 21 giugno 1986.<br />
Non si potrebbe fare peggior torto all’ultimo libro di Primo Levi I sommersi e i<br />
salvati che lodarlo d’ufficio in considerazione della gravità dei temi che affronta,<br />
dell’indiscutibile nobiltà delle idee che esprime e della quantità di sofferenza -<br />
sofferenza personale, personalmente vissuta - depositata in esso. Tutte queste cose<br />
sono vere, naturalmente; ma credo che non sia questo il punto. Non credo, voglio<br />
dire, che Levi abbia voluto scrivere un libro nobile o edificante, né che sia stato<br />
mosso dal desiderio o bisogno di raccontarci un’altra volta, a distanza di tanti anni,<br />
le sue vicende terribili e paradossalmente «fortunate» (nel senso che a lui è toccato<br />
156
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
in sorte di essere, appunto, uno dei pochi «salvati» di fronte a milioni di<br />
«sommersi»).<br />
I fatti sono noti, ed è appena il caso di richiamarli brevemente. Levi è stato,<br />
giovanissimo, nei Lager nazisti; è stato a Auschwitz; è, nel verso senso della parola,<br />
un sopravvissuto. E su questa esperienza atroce, quasi non raccontabile, ha scritto e<br />
pubblicato (nel ‘47) un racconto, Se questo è un uomo, che è diventato presto un<br />
piccolo classico e ha segnato l’inizio, necessario e al tempo stesso casuale, di una<br />
più che decorosa carriera di scrittore. Una carriera nel corso della quale Levi è<br />
tornato a volte su quei fatti, su quei ricordi, ma ha anche dato l’impressione di<br />
volersi creare a poco a poco, legittimamente, un’immagine diversa e autonoma di<br />
scrittore, l’immagine di un narratore e non più di un memorialista.<br />
Può darsi che I sommersi e i salvati nasca in qualche misura, inconsciamente,<br />
proprio dal rimorso di aver allontanato i compiti e i limiti del testimone, di essersi<br />
voluto scrittore anziché scriba. Ma la cosa più importante, la cosa decisiva è, come<br />
ho già accennato, un’altra, e cioè che con questo saggio o pamphlet Levi non ha<br />
voluto darci un libro edificante, e nemmeno un libro «bello», ma un libro<br />
essenzialmente polemico e «irritante».<br />
Se questo era, come personalmente credo, il suo proposito, penso che Levi ci<br />
sia perfettamente riuscito. Bisogna pensare al contesto culturale, prima e più che<br />
politico, nel quale il libro è maturato e oggettivamente si inserisce. Da una parte, ci<br />
sono i tentativi di falsificare la storia e di organizzare l’oblio. Nel primo capitolo del<br />
libro, Levi ricorda uno dei casi più clamorosi: le dichiarazioni rilasciate nel ‘78 a un<br />
settimanale francese da Louis Darquier de Pellepoix, ex funzionario del governo<br />
collaborazionista di Vichy Secondo Darquier (che, purtroppo, non è un pazzo<br />
isolato, ma l’esempio estremo e grottesco di un atteggiamento mentale assai più<br />
diffuso di quanto non si creda), i campi di sterminio nazisti, semplicemente, non<br />
sono mai esistiti; sono un’invenzione propagandistica dei vincitori del conflitto per<br />
screditare i vinti, e degli Ebrei per attirare l’attenzione su di sé e per farsi<br />
«compiangere». Tutto inventato: statistiche, cataste di cadaveri, camere a gas.. - Le<br />
foto scattate subito dopo la liberazione? Nient’altro che foto-montaggi. E così via.<br />
Dall’altra parte, c’è l’insidia, molto più sottile, dell’intellettualismo. Anche<br />
qui, Levi non si perde in una casistica che sarebbe infinita; cita un solo caso,<br />
davvero agghiacciante nella sua schematicità presuntuosa e suggestiva. Molti<br />
ricorderanno il film di Liliana Cavani uscito nel '74 e intitolato il portiere di notte. E<br />
stato un successo di pubblico e, in parte, anche di critica. Personalmente, mi parve<br />
detestabile; Levi, con molto fair play, lo definisce «bello e falso». Ma non è tanto<br />
sul film (centrato sul rapporto erotico fra la reduce da un Lager e il suo ritrovato<br />
aguzzino) che Levi concentra la sua stupefatta e indignata attenzione, quanto,<br />
giustamente, sulla spavalda autointerpretazione fornitane dall’autrice: «Siamo tutti<br />
vittime o assassini e accettiamo questi ruoli volontariamente. Solo Sade e<br />
Dostoevskiì l’hanno compreso bene...»<br />
Volontariamente! É come se in questo avverbio avvenissero micidiali equivoci<br />
di un atteggiamento che non appartiene soltanto, come in questo caso, alla<br />
sottocultura, ma anche, non di rado, alla cultura «vera». A essi Levi contrappone la<br />
157
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
sacrosanta banalità del senso comune: «Non so, e mi interessa poco sapere, se nel<br />
mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato e<br />
assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora<br />
esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia<br />
morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità...»<br />
Verrebbe voglia di applaudire; ma sono sicuro che Levi non lo gradirebbe.<br />
Levi non vuole il nostro consenso, ma il nostro disagio; vuole, appunto, «irritarci»,<br />
noi lettori che non abbiamo commesso, ma nemmeno subito, violenze e soprusi<br />
come quelli che lui ha subiti, e che troppe volte abbiamo rinunciato a sapere di più, a<br />
capire, a rivoltarci...<br />
Spero che si sia intuito, a questo punto, in cosa consistano a mio avviso il<br />
senso, l’importanza e la tempestività del libro. Consistono nel riproporci la verità, la<br />
nuda, insuperabile oggettività dei fatti, e nell’innalzarla come una barricata contro le<br />
tentazioni dell’oblio e più ancora contro il fascino insinuante, forse incontrollabile,<br />
in ogni caso troppe volte incontrollato, dell’«interpretazione», del pensiero che<br />
interpreta e non giudica. I sommersi e i salvati è, dalla prima all’ultima pagina, una<br />
sfida alle sottigliezze dell’intelligenza in nome di un solido, dolente senso comune;<br />
una sfida alle labirintiche delizie della complessità in nome di una memoria<br />
elementare, opaca, faticosa; una sfida alle meraviglie dell’irrazionale in nome di una<br />
razionalità rozzamente, eroicamente irriducibile...<br />
In effetti, il punto di vista che Levi assume e ostenta è quello, ingrato e<br />
mediocre, del reduce. Un reduce che non vuole condannare (o, perlomeno, non<br />
vuole eseguire condanne), ma nemmeno vuole essere «assolto»; che continua a interrogarsi,<br />
ostinato, su ciò che è stato fatto di lui e di tanti come lui, e non accetta<br />
spiegazioni «brillanti», ma cerca (anche se sa che, il più delle volte, non esistono)<br />
spiegazioni chiare, semplici, alla portata di tutti, compreso chi, come egli scrive con<br />
ingenua ironia, « non si intende di inconscio e di profondo».<br />
La questione non è davvero secondaria. Solo le spiegazioni del secondo tipo<br />
sono infatti capaci di trasformarsi — una volta che si siano trovate, ma anche già, si<br />
può sperare, per il fatto stesso che qualcuno si sforzi di trovarle — in indicazioni e<br />
ammonimenti. Quello che è accaduto, dice Levi, non potrà accadere mai più; ma<br />
altre cose possono accadere, anzi sono accadute, anzi stanno accadendo, che gli<br />
«assomigliano», che replicano (in altri modi, con altre dimensioni) quel non replicabile<br />
errore. E ricordare l’irripetibile, il mostruoso, riIlettere su di esso, è<br />
probabilmente l’unico modo per evitare che l’irripetibile si ripeta, che il mostruoso<br />
diventi, da verità storica, una verità intima ed eterna con la quale convivere.<br />
«L’Unità», 3 settembre 1986.<br />
158
Il buco nero di Auschwitz<br />
di Primo Levi<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
La polemica in corso in Germania fra chi tende a banalizzare la strage nazista<br />
(Nolte, Hillgrüber) e chi ne sostiene l’unicità (Habermas e molti altri) non può<br />
lasciare indifferenti. La tesi dei primi non è nuova: stragi ci sono state in tutti i<br />
secoli, in specie agli inizi del nostro, e soprattutto contro gli «avversari di classe» in<br />
Unione Sovietica, quindi presso i confini germanici.<br />
Noi Tedeschi, nel corso della seconda guerra mondiale, non abbiamo fatto che<br />
adeguarci a una prassi orrenda, ma ormai invalsa: una prassi «asiatica», fatta di stragi, di<br />
deportazioni in massa, di relegazioni spietate in regioni ostili, di torture, di separazioni<br />
delle famiglie. La nostra unica innovazione è stata tecnologica: abbiamo inventato le<br />
camere a gas. Sia detto di passata: è proprio questa innovazione quella che è stata negata<br />
dalla scuola dei «revisionisti» seguaci di Faurisson, quindi le due tesi si completano a<br />
vicenda in un sistema d’interpretazione della storia che non può non allarmare.<br />
Ora, i Sovietici non possono essere assolti. La strage dei Kulaki prima, e poi<br />
gli immondi processi e le innumerevoli e crudeli azioni contro veri o presunti nemici<br />
del popolo sono fatti gravissimi, che hanno portato a quell’isolamento dell’Unione<br />
Sovietica che con varie sfumature (e con la forzata parentesi della guerra) dura<br />
tuttora. Ma nessun sistema giuridico assolve un assassino perché esistono altri<br />
assassini nella casa di fronte. Inoltre, è fuori discussione che si trattava difatti interni<br />
all’Unione Sovietica a cui nessuno, dal di fuori, avrebbe potuto opporre difese, se<br />
non per mezzo di una guerra generalizzata.<br />
I nuovi revisionisti tedeschi tendono insomma a presentare le stragi hitleriane<br />
come una difesa preventiva contro una invasione «asiatica». La tesi mi sembra<br />
estremamente fragile. É ampiamente da dimostrare che i Russi intendessero invadere<br />
la Germania; anzi la temevano, come ha dimostrato l’affrettato accordo Ribbentrop-<br />
Molotov; e la temevano, giustamente, come ha dimostrato la successiva, improvvisa<br />
aggressione tedesca del 1941. Inoltre, non si vede come le stragi «politiche» operate<br />
da Stalin potessero trovare la loro immagine speculare nella strage hitleriana del<br />
popolo ebreo, quando è ben noto che, prima della salita di Hitler al potere, gli Ebrei<br />
tedeschi erano profondamente Tedeschi, intimamente integrati nel Paese, considerati<br />
come nemici solo da Hitler stesso e dai pochi fanatici che inizialmente lo seguirono.<br />
L’identificazione dell’ebraismo col bolscevismo, idea fissa di Hitler, non aveva<br />
alcuna base obiettiva, specialmente in Germania, dove notoriamente la maggior<br />
parte degli Ebrei apparteneva alla classe borghese.<br />
Che «il Gulag fu prima di Auschwitz» è vero; ma non si può dimenticare che<br />
gli scopi dei due inferni non erano gli stessi. Il primo era un massacro fra uguali;<br />
non si basava su un primato razziale; non divideva l’umanità in superuomini e sottouomini;<br />
il secondo si fondava su un’ideologia impregnata di razzismo. Se avesse<br />
prevalso, ci troveremmo oggi in un mondo spaccato in due, «noi» i signori da una<br />
parte, tutti gli altri al loro servizio o sterminati perché razzialmente inferiori. Questo<br />
disprezzo della fondamentale uguaglianza di diritti fra tutti gli esseri umani<br />
trapelava da una folla di particolari simbolici, a partire dai tatuaggi di Auschwitz<br />
159
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
fino all’uso, appunto nelle camere a gas, del veleno originariamente prodotto per<br />
disinfestare le stive invase dai topi. L’empio sfruttamento dei cadaveri e delle loro<br />
ceneri resta appannaggio unico della Germania hitleriana, e, a tutt’oggi, a dispetto di<br />
chi vuole sfumarne i contorni, ne costituisce l’emblema.<br />
E bensì vero che nel Gulag la mortalità era paurosamente alta, ma non era per<br />
così dire un sottoprodotto, tollerato con cinica indifferenza: lo scopo primario,<br />
barbarico quanto si vuole, aveva una sua razionalità, consisteva nella reinvenzione di<br />
‘economia schiavistica destinata alla «edificazione socialista». Neppure dalle pagine<br />
di Solženicyn, frementi di ben giustificato furore, trapela niente di simile a Treblinka<br />
e a Chelmno, che non fornivano lavoro, non erano campi di concentramento, ma<br />
«buchi neri» destinati a uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere Ebrei, in<br />
cui si scendeva dai treni solo per entrare nelle camere a gas, e da cui nessuno è<br />
uscito vivo. I Sovietici invasori in Germania dopo il martirio del loro Paese<br />
(ricordate, fra i cento dettagli, l’assedio spietato di Leningrado?) erano assetati di<br />
vendetta e si macchiarono di colpe gravi, ma non c’erano fra loro gli<br />
Einsatzkommandos, incaricati di mitragliare la popolazione civile e di seppellirla in<br />
sterminate fosse comuni scavate spesso dalle stesse vittime; né del resto avevano<br />
mai progettato l’annientamento del popolo tedesco, contro cui pure nutrivano allora<br />
un giustificato sentimento di rappresaglia.<br />
Nessuno ha mai attestato che nei Gulag si svolgessero «selezioni» come<br />
quelle, più volte descritte, dei Lager tedeschi, in cui con un’occhiata di fronte e di<br />
schiena i medici (medici!) SS decidevano chi potesse ancora lavorare e chi dovesse<br />
andare alla camera a gas. E non vedo come questa «innovazione» possa essere<br />
considerata marginale e attenuata da un «soltanto». Non erano una imitazione<br />
«asiatica», erano bene europee, il gas veniva prodotto da illustri industrie chimiche<br />
tedesche; e a fabbriche tedesche andavano i capelli delle donne massacrate; e alle<br />
banche tedesche l’oro dei denti estratti dai cadaveri. Tutto questo è specificamente<br />
tedesco, e nessun Tedesco lo dovrebbe dimenticare; né dovrebbe dimenticare che<br />
nella Germania nazista, e solo in quella, sono stati condotti a una morte atroce anche<br />
i bambini e i moribondi, in nome di un radicalismo astratto e feroce che non ha<br />
uguali nei tempi moderni.<br />
Nell’ambigua polemica in corso non ha alcuna rilevanza che gli Alleati portino<br />
una grave porzione di colpa. È vero che nessuno Stato democratico ha offerto asilo<br />
agli Ebrei minacciati o espulsi. E vero che gli Americani rifiutarono di bombardare<br />
le linee ferroviarie che conducevano ad Auschwitz (mentre bombardarono<br />
abbondantemente la zona industriale contigua) ed è anche vero che l’omissione di<br />
soccorso da parte alleata fu dovuta a ragioni sordide, e cioè al timore di dovere<br />
ospitare, e mantenere, milioni di profughi o sopravvissuti. Ma di una vera complicità<br />
non si può parlare, e resta abissale la differenza morale e giuridica tra chi fa e chi<br />
lascia fare.<br />
Se la Germania d’oggi tiene al posto che le spetta fra le nazioni europee, non<br />
può e non deve sbiancare il suo passato.<br />
«La Stampa», 22 gennaio 1987.<br />
160
Guerra è sempre<br />
di Cesare Cases<br />
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
Se sia l’esperienza del chimico che quella del testimone dei Lager si attuano<br />
entro l’orizzonte dello sforzo di capire, questo vien meno nella Tregua, che anche in<br />
tal senso costituisce una pausa di rilassamento nell’opera autobiografica. La babele<br />
continua, la vita è sempre dominata dal caos e dall’irrazionalità, ma di un altro tipo,<br />
dovuto alla disorganizzazione e non all’eccesso di organizzazione. Il sistema di<br />
Auschwitz aveva colpito Levi tra l’altro per la sua antieconomicità, che urtava il suo<br />
spirito razionalistico; dato (e naturalmente non concesso) lo scopo di spremere al<br />
massimo una vita umana considerata inferiore finché poteva rendere qualcosa, e poi<br />
trasformarla in cenere, i metodi scelti sembravano inidonei, c’era l’impiego di<br />
un’enorme quantità di «violenza inutile» (cui è dedicato un apposito capitolo nei<br />
Sommersi e i salvati) ed è sintomatico che l’esercito di schiavi cui apparteneva Levi<br />
non sia servito a fare uscire neanche un grammo di gomma sintetica dalle officine<br />
Buna, come egli ripete in più occasioni. E ricorda come le donne di Ravensbrück<br />
fossero costrette, prima di essere assegnate a una determinata squadra di lavoro, a<br />
passare le giornate spostando la sabbia in cerchio, di modo che alla fine si tornasse<br />
allo stato iniziale. L’ordine coatto creava il caos, sia oggettivamente, sia nell’animo<br />
delle vittime, il cui disagio, rifiutando l’inadeguata parola «nevrosi», egli non sa<br />
definire altrimenti che come «un’angoscia atavica, quella di cui si sente l’eco nel<br />
secondo versetto della Genesi: l’angoscia inscritta in ognuno del “tòhu vavòhu”,<br />
dell’universo deserto e vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio, ma da cui lo spirito<br />
dell’uomo è assente: non ancora nato o già spento». Solo la penna di questo scrittore<br />
alieno da pensamenti religiosi e filosofici può trasformare la parola biblica nella<br />
descrizione non libresca di una «condizione esistenziale».<br />
Il caos in cui Levi viene ora a trovarsi ha poco in comune con il «tòhu vavòhu»<br />
del campo: è il prodotto della disorganizzazione sovietica, per cui si arriva non si sa<br />
dove, si parte verso non si sa dove, non si giunge mai alla mèta per via diretta e la<br />
mèta stessa non è una mèta ma un luogo fuori del mondo dove si resta per mesi e<br />
donde si parte quando meno ce lo si aspetta. Per i Russi e lo spirito anarchico e<br />
nomadico che traspare dai loro comportamenti, Levi ha una simpatia sostanziale, e<br />
fa piacere dopo tanta insistenza esclusiva sui Gulag -la cui ombra talvolta si proietta<br />
anche qui - trovare pagine in cui Levi ravvisa, «in ciascuno di quei visi rudi e aperti,<br />
i buoni soldati dell’Armata Rossa, gli uomini valenti della Russia vecchia e nuova,<br />
miti in pace e atroci in guerra, forti di una disciplina interiore nata dalla concordia,<br />
dall’amore reciproco e dall’amore di patria; una disciplina più forte, appunto perché<br />
interiore, della disciplina meccanica e servile dei Tedeschi» sicché «era agevole<br />
intendere, vivendo fra loro, perché quella, e non questa, avesse da ultimo prevalso»<br />
Levi insisterà sempre su questa differenza, sia pure idealizzandola un po’, e si rifiuterà<br />
di equiparare i Gulag, dove la morte era solo un «sottoprodotto», ai campi di<br />
sterminio dove essa era lo scopo principale del processo industriale. La babele sotto<br />
il segno russo è quindi variopinta e contraddittoria, ma tutto sommato inoffensiva e<br />
spesso allegra: un’ottima fonte di riflessioni per un uomo così curioso dell’umana<br />
161
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
natura. Il problema della difficoltà di comunicare esiste più che mai ma viene per lo<br />
più superato con disinvoltura e sfoggio di arti mimetiche, senza la terribile angoscia<br />
che questo problema comportava nel Lage rtutt’al più con imprevisti dovuti al<br />
carattere russo. Un soldato tenta di insegnare a Levi il russo e insoddisfatto dei<br />
risultati si lancia contro di lui con la baionetta, ma alla sua paura ride e gli dice la<br />
parola russa per baionetta. Oppure il marinaio che racconta gesticolando le sue<br />
imprese belliche e si riscalda tanto da mettere in pericolo l’incolumità dei presenti.<br />
O il delizioso capitolo in cui Primo e Cesare in piena notte raggiungono un villaggio<br />
per comprare un pollastro e per l’ostacolo della lingua ci riescono solo quando<br />
Primo si decide a tracciare per terra l’immagine di una gallina .<br />
In questa atmosfera in cui ciascuno è al minimo una macchietta, prosperano le<br />
grosse personalità nel bene e nel male, o più spesso al di là del bene e del male: il<br />
ragionier Rovi, innamorato del potere; il medico Gottlieb; il Moro di Verona,<br />
vecchio e cupo bestemmiatore; Cesare, che porta in giro la mentalità e le astuzie del<br />
ghetto romano; infine il Greco, Mordo Nahum, tetro e infallibile rappresentante<br />
della volontà di sopravvivere, e molti altri. Questa galleria di personaggi a tutto<br />
tondo e l’aneddotica che ne risulta hanno fatto spesso parlare di romanzo picaresco,<br />
in parte a buon diritto. Tuttavia la differenza essenziale è che nel romanzo picaresco<br />
l’io narrante è anche il protagonista, mentre Primo è piuttosto spettatore. Pronto a<br />
intervenire nelle imprese anche più folli ogni volta che ci vuole perseveranza e<br />
spirito d’iniziativa individuale (come nella ricerca della gallinella o «curizetta»), la<br />
sua etica borghese lo rende impermeabile alle esaltazioni collettive e gli fa rifiutare<br />
con sdegno le «creature bianche e rosee» di cui il Greco si era improvvisato<br />
magnaccia e che gli offre per amicizia. Assiste alle storie «de baulte graisse» e le<br />
racconta, ma non le vive. Del resto l’espressione rabelaisiana salta fuori a proposito<br />
del rimpatrio di Cesare, che Levi rimanda ad altra occasione, quando Cesare gliene<br />
darà il permesso. E la storia viene puntualmente raccontata più tardi e non è poi<br />
tanto «de baulte graisse», anzi è velata dall’ombra del fallimento, dall’onta del<br />
truffatore truffato.<br />
La funzione di spettatore che Levi assume nelle storie «de baulte graisse» non<br />
è infatti fondata solo sul suo individualismo e moralismo, ma altresì sulla sua<br />
incapacità di lasciarsi andare al presente, come Cesare o altri personaggi; alla<br />
consapevolezza che si tratta appunto di una tregua e che la vergogna del passato era<br />
inestinguibile. La tregua comincia con la pagina indimenticabile dell’ingresso nel<br />
campo dei quattro soldati russi, « oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno,<br />
che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo», stato<br />
d’animo simile alla certezza dei prigionieri della «natura insanabile dell’offesa». E<br />
come motto il libro ha la poesia “Alzarsi” in cui il vecchio sogno del Lager di<br />
tornare e raccontare, interrotto dall’ordine di alzarsi, si trasforma nell’incubo di<br />
tornare alla stessa situazione, incubo poi raccontato analiticamente nella stupenda<br />
pagina che chiude il libro, in cui esso appare come la lenta decostruzione<br />
dell’ambiente familiare ritrovato nel caos del Lager. D’altra parte questa è solo la<br />
cornice del libro, che nell’insieme è sereno se pur non partecipe; una tregua, si, ma<br />
anche una vacanza in cui l’autore è liberato dall’orrore del Lager e non è ancora<br />
162
Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
ripreso dalla tristezza del dovere quotidiano che nonostante la gioia del rimpatrio lo<br />
opprimerà ogni lunedì (si veda la poesia così intitolata). Tra il lavoro forzato e il<br />
lavoro accettato e convinto, ma faticoso e rischioso, Levi si concede una pausa in cui<br />
non è più necessaria la tensione morale che ha segnato tutta la sua vita.<br />
Per il momento, nonostante i sogni angosciosi, crede almeno di sapere che la<br />
guerra è finita. E il Greco, nel suo spietato realismo, a disingannarlo, affermando<br />
«memorabilmente»:<br />
«Guerra è sempre» Entrambi erano stati in Lager: «io lo avevo percepito come<br />
un mostruoso stravolgimento, una anomalia laida della mia storia e della storia del<br />
mondo; lui, come una triste conferma di cose notorie» Questa saggezza è sospetta, è<br />
quella di un commerciante discendente di commercianti, e per la classe mercantile<br />
Levi, artigiano della chimica e poi della penna, cresciuto nell’avversione per gli<br />
strani riti del fondaco del nonno, non ha simpatia, il loro non gli sembra vero lavoro.<br />
«È un mestiere che tende a distruggere l’anima immortale; ci sono stati filosofi<br />
cortigiani, filosofi pulitori di lenti, perfino filosofi ingegneri e strateghi, ma nessun<br />
filosofo, che io sappia, era grossista o bottegaio» Certo in Mordo Nahum il<br />
commerciante sfuma ancora nell’avventuriero, nel filibustiere e nel contrabbandiere,<br />
e quindi egli può derogare alla norma ed essere filosofo, anzi un filosofo così<br />
persuasivo nel suo cinismo che da allora Levi oscillerà sempre tra la sua verità e la<br />
propria. Gli sviluppi del dopoguerra, peraltro, avevano profondamente modificato<br />
gli orizzonti entro i quali era nata la millenaria verità di Nahum, in modo di cui il<br />
Greco non poteva avere un’idea. Sarà con queste nuove prospettive che Levi dovrà<br />
fare i conti. Per dirla con Pier Vincenzo Mengaldo egli «restò sempre diviso tra due<br />
interpretazioni della follia nazista: come episodio orribile, si, ma circoscritto e concluso,<br />
della storia moderna, o invece come risultato conseguente delle tendenze del<br />
mondo contemporaneo, tra sviluppo vertiginoso della tecnica e vocazione totalitaria<br />
del potere, e su questa forcella continuò a interrogarsi sino all’ultimo». Il suo<br />
fondamentale ottimismo lo spingeva nella prima direzione, la sua lucidità nella<br />
seconda, e lo scienziato poteva fornire buoni argomenti per entrambe le tesi.<br />
Recensiva con preoccupazione Il destino della terra di Jonathan Schelì terminando<br />
l’articolo con la constatazione che «non siamo una specie stupida», come<br />
documentano le scoperte scientifiche, e quindi riusciremo a far pervenire ai potenti<br />
la voce della ragione. E poco dopo: «l’avvenire dell’umanità è incerto e la qualità<br />
della vita peggiora; eppure io credo che quanto si va scoprendo sull’infinitamente<br />
grande e l’infinitamente piccolo sia sufficiente ad assolvere questa fine di secolo e di<br />
millennio». L’ambiguità della scienza, che lavora sia per il bene che per il male, egli<br />
pensava di chiarirla proponendo una specie di giuramento ippocratico per gli<br />
scienziati affinché non si prestino a diventare «apprendisti stregoni». Ma non poneva<br />
né voleva porre in questione la scienza in quanto tale. Approvava la scelta di Peter<br />
Hagelstein, «padre» dello scudo stellare, che aveva abbandonato queste ricerche per<br />
occuparsi di applicazioni mediche dei laser, ma disapprovava quella di Martin Ryle,<br />
esperto di radar passato alla radioastronomia, che credeva innocua mentre serve alla<br />
missilistica, e allora aveva lanciato il messaggio radicale « stop science now». Se gli<br />
obbedissimo e abbandonassimo la ricerca di base, secondo Levi «tradiremmo la<br />
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Primo Levi - I sommersi e i salvati<br />
nostra natura e la nostra nobiltà di fuscelli pensanti, e la specie umana non avrebbe<br />
più motivo di esistere». Ma è proprio così? Non c’è altro modo di pensare al di fuori<br />
della scienza moderna? I suoi personaggi popolani, veri o fittizi, erano più radicali,<br />
meno ottimisti: «... il mondo è fuori quadro, - proclamava nel suo caratteristico stile<br />
il montatore Faussone, che voleva tutto ben squadrato, - anche se adesso andiamo<br />
sulla luna, ed è sempre stato fuori quadro, e non lo raddrizza nessuno». E Lorenzo, il<br />
muratore italiano che ad Auschwitz aveva aiutato lui e tanti altri, dopo il ritorno si<br />
lascia andare e muore. «Il mondo lo aveva visto, non gli piaceva, lo sentiva andare<br />
in rovina; vivere non gli interessava piu»<br />
Sembra che un giorno anche Primo Levi sia arrivato a questa conclusione.<br />
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