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Sommario<br />

Editoriale 3<br />

marzo ’08<br />

Gnommeri<br />

La filosofia a n-dimensioni: linguaggi e metalinguaggi 4<br />

Francesco Frisari<br />

Pensiero, parola, assenza, morte.<br />

Note al margine di Sopra-vivere e Glas 9<br />

Achille Castaldo<br />

Tabard intervista Franco Buffoni 14<br />

Opera Galleggiante<br />

Pascoli rosso sangue 20<br />

Alessandro Vicenzi<br />

Seduto sulla mia veranda col fucile in grembo 23<br />

Ivano Bariani<br />

Il re del mondo 27<br />

Gianluca Morozzi<br />

Il diavoletto di Maxwell<br />

zákaz tlumocení– Translating Prohibited 32<br />

Daria Biagi e Valentina Fulginiti<br />

Tabard intervista Kadhim Jihad Hassan 38<br />

I traduttori, i traditori e gli amanti di Fernanda, la principessa 43<br />

Lorenzo Mari<br />

A rovesciare le fiabe: Wilde sovvertitore di Andersen 48<br />

Matilde Montesi<br />

La letteratura italiana in Cina: il caso di Dario Fo 51<br />

Francesca Bavecchi<br />

Una vigile incertezza: il secondo grado della critica 56<br />

Mimmo Cangiano


Quarantena<br />

Tabard incontra Carmine De Falco e Luigi Nacci 58<br />

Senza fissa dimora<br />

L’intera storia del genere umano non è che il 15% del tragitto per Alpha Centauri.<br />

App<strong>un</strong>ti sparsi sui documentari inventati di Werner Herzog 64<br />

Paolo De Guidi<br />

Entre paréntesis. L’esperienza rivoltante dell’altro (ancora <strong>un</strong>a volta) 67<br />

Eugenio Santangelo<br />

Circolare periferica<br />

Terra e libertà 71<br />

Marco Madonia<br />

Giacobbo colpisce ancora.<br />

Dal Chupacabras alle piramidi passando per il rogo dei templari 74<br />

Paolo Cova<br />

Officina del nulla<br />

La galleria Parmeggiani di Reggio Emilia e i falsi nell’Ottocento 77<br />

Ilaria Negretti<br />

Grignoter<br />

Vincenzo Rabito, Terra matta 82<br />

Stefano Rosignoli<br />

2666 di Roberto Bolaño 84<br />

Eugenio Santangelo<br />

L’accademia Pessoa di Errico Buonanno 87<br />

Mimmo Cangiano


Editoriale<br />

marzo ’08<br />

e ne lo specchio ancor l’ombra dell’ombra<br />

G.B. Marino<br />

Ironico rovesciamento del “conosci te stesso”, storia di <strong>un</strong>’individuazione impossibile, la vicenda<br />

mitologica di Eco e Narciso si gioca sul filo invisibile che lega i regni avversi della ripetizione<br />

e della metamorfosi, del fisso e del volatile, di Thanatos e di Eros.<br />

L’iterazione (della voce e dell’immagine) costringono la ninfa e il<br />

giovane in <strong>un</strong>a necrosi identitaria, la coazione a ripetere che li domina<br />

li segrega in <strong>un</strong> regno Ideale e Vero dove tutto è dato e lo spazio<br />

per l’ambiguo è uguale a zero.<br />

È nell’atto di conoscersi che Narciso incontra Thanatos. Nell’atto<br />

di ingresso nella dimensione dell’essere raggi<strong>un</strong>ge la fusione con il<br />

proprio Sé e cade fra le braccia della morte. Quando si avverte come<br />

ripetizione, quando arriva a dire “Io” allo specchio, quello non può<br />

che restituirgli l’immagine di <strong>un</strong> uomo morto. Ma il mito non finisce,<br />

non esiste ripetizione che non sia anche cambiamento: dal cadavere<br />

di Narciso nasce <strong>un</strong> fiore.<br />

Fare <strong>un</strong> numero di Tabard sul secondo grado doveva inevitabilmente<br />

portarci davanti allo specchio: tecniche di riscrittura, traduzione,<br />

parodia, travestimento, riflessioni sul significato metodologico delle<br />

teorie (sempre specchi in cui si cerca di far stare, <strong>un</strong> po’ pigiata, la<br />

realtà). Un numero sul secondo grado diventa, suo malgrado, <strong>un</strong><br />

Enrico Panosetti, 2006<br />

numero sui molteplici gradi possibili e, per riflesso, <strong>un</strong> numero sulla<br />

moltiplicazione, d<strong>un</strong>que sul labirinto (anch’esso di specchi, si capisce).<br />

Sarà poi implicitamente <strong>un</strong> numero sul valore della ricezione, sul valore della lettura, perché<br />

è forse, come ha scritto recentemente Ezio Raimondi, proprio nella lettura che si compie<br />

l’esperienza decisiva dell’apertura all’Altro. Un’esperienza di secondo grado che si dà già in<br />

partenza come conoscenza approssimativa, mobile, in cui bisogna sempre essere in grado di<br />

rigettare il peso della propria visione per entrare in relazione con la pagina, approdando alla<br />

fine a <strong>un</strong> testo che non è più quello dell’autore ma scoprendo, al contempo, che anche i nostri<br />

occhi non sono più quelli di prima.<br />

E allora sarà anche <strong>un</strong> numero sul movimento, sul beneficio della ripresa di quanto è già<br />

stato detto e fatto. Una ripresa che esclude da subito la valenza-violenza originaria dell’opera<br />

o della teoria in questione al fine di mutarla, ritoccarla, menomarla, variarla, piegarla a nuove<br />

idee per vedere se ha ancora qualcosa da dirci. Ma esiste davvero qualcosa che non ha più<br />

niente da dirci? Provate a leggere La teologia mistica di Jean Gerson alla luce dell’empirismo<br />

logico di Viktor Kraft. <br />

E sarà poi <strong>un</strong> numero contro: contro le pretese identitarie (delle opere e degli uomini), contro<br />

l’atteggiamento <strong>un</strong> po’ parruccone delle idee che si vogliono compiute in se stesse, contro<br />

le tentazioni immobilistiche che ci marcano da presso.<br />

Quante cose per <strong>un</strong> numero solo! Forse troppe: sarà allora il caso di fare <strong>un</strong> secondo numero.<br />

Ma l’abbiamo già fatto.<br />

5


La filosofia a n-dimensioni: linguaggi e metalinguaggi<br />

6<br />

Francesco Frisari<br />

Ahimé, ch’io squadro il mio parlare come <strong>un</strong> folle<br />

William Shakespeare, Tito Andronico<br />

La filosofia è la polifonia di <strong>un</strong>a sola voce<br />

Nicolás Gómez Dávila, Tra poche parole<br />

La filosofia è <strong>un</strong>a cosa strana, ma proprio strana; dopo averci giurato che si occupava dello<br />

Spirito e delle sue categorie, dell’esistenza del mondo e <strong>un</strong> poco anche dell’anima – ché tanto<br />

Dio ormai era quasi sicuro che ci fosse – della res cogitans che è puro pensiero, dell’Assoluto,<br />

dell’Iperuranio, della nostra mortalità comprovata sillogisticamente e del nostro non avere<br />

penne pur stando su due piedi(?), della verità, del fondamento sfondato (ma da chi?), dell’essere.<br />

Dopo che nel secolo appena trascorso, e che straborda fino ad oggi, questa pluralità<br />

varia e multiforme si è andata affermando in contemporanea, non più solo come posizioni<br />

opposte fra cui necessariamente scegliere ma come ricchezza della filosofia molteplice e<br />

plurale. Dopo la deflagrante esplosione accademica della letteratura secondaria, degli atteggiamenti<br />

secondari, di saggi/articoli/convegni non solo di filosofia ma sulla filosofia, sui vari<br />

autori della sua l<strong>un</strong>ga storia così come sui moderni, con conseguente elevazione a potenza<br />

della suddetta molteplicità nonché considerevole aumento di strati del gioco, che negli ultimi<br />

tempi è sempre più <strong>un</strong> parlare di ciò di cui parla la filosofia, gioco interpretativo della (genitivo<br />

oggettivo) filosofia che nell’ermeneutica di Gadamer & Co è stato addirittura individuato come<br />

l’<strong>un</strong>ica o quasi filosofia. Dopo insomma che con distacco urbano – ché la filosofia è <strong>un</strong> fatto di<br />

agorà – e compiaciuto ci eravamo abituati a questo caos, all’incomponibilità di questa strana<br />

cosa (ambito di ricerca? disciplina? insieme di testi?) che letteralmente vuol dire “amore per<br />

il sapere” ma che provare a definire <strong>un</strong>ivocamente mette in crisi anche i migliori, dopo tutto<br />

questo, nell’ultimo centinaio di anni visti in prospettiva è emersa <strong>un</strong>’idea almeno possibile di<br />

<strong>un</strong>ità, seppur parziale e da ridefinire ogni volta che la si adopera.<br />

Un’<strong>un</strong>ità di condizione e modo, <strong>un</strong>’<strong>un</strong>ità trascendentale – per dirla con Kant che non per<br />

caso è il padre della filosofia moderna – accom<strong>un</strong>ante i vari giochi filosofici, ché la filosofia,<br />

seppur davvero parlasse dell’Assoluto, non è assoluta a sua volta ma come tutte le varie imprese<br />

umane rientra nel territorio del condizionato. E questa condizione, questo sostrato condiviso,<br />

questa possibile <strong>un</strong>ità è la centralità del linguaggio, non solo come oggetto d’interesse<br />

della filosofia, che altrimenti da “specchio della natura” diverrebbe con semplice sostituzione<br />

“specchio della parola” e poco cambierebbe, né come solo suo metodo, anche perché non<br />

sarebbe affatto <strong>un</strong> criterio distintivo per essa dato che tutte le discipline conoscitive umane,<br />

scienze comprese, lavorano linguisticamente, ma piuttosto come intersezione di queste due<br />

modalità, il linguaggio sub specie di strumento e oggetto dell’indagine filosofica.<br />

Nel ’900 la filosofia non si è d<strong>un</strong>que tramutata tutta in filosofia del linguaggio – che pure si è<br />

giustamente diffusa e affermata come centrale – non si è messa semplicemente a sezionare<br />

parole. Più che altro si è iniziato a porre da più parti <strong>un</strong>a centrale attenzione al fatto che le<br />

questioni etiche, estetiche, perfino quelle metafisiche a prima vista irriducibili ad altro se non<br />

a se stesse, sono questioni di analisi linguistico-concettuale. Il “bene”, il “bello”, la “verità”<br />

sono concetti, entità linguistiche, quindi non il puro pensiero o lo “Spirito”, ma il linguaggio


marzo ’08<br />

è la materia di cui sono fatti i sogni dei filosofi. Anzi son sempre stati fatti di questo tessuto<br />

di concetti e parole perché questa “svolta linguistica”, come la chiamò il filosofo stat<strong>un</strong>itense<br />

Richard Rorty, come molte svolte filosofiche è, anche e soprattutto, <strong>un</strong>a rilettura della storia<br />

della filosofia stessa.<br />

Questa tendenza panglossista, che visto il secolo di orrori in cui è nata non si è accompagnata<br />

ai vecchi ottimismi, è presente nei più vari schieramenti, ha dato vita a diverse e distanti posizioni<br />

e si è inserita in altre già presenti, insomma non si sono perse tutte le vecchie categorie:<br />

in ambito anglosassone dove ci si richiama al logico Frege, a Russel ed a Wittgenstein, e il tutto<br />

è improntato a <strong>un</strong>’analisi rigorosa e su basi strettamente logiche del linguaggio, ebbene non<br />

mancano hegeliani o platonisti a loro modo, e anche in molta<br />

filosofia del continente, dove invece i riferimenti principali in<br />

merito al linguaggio sono stati la linguistica di Ferdinand de<br />

Saussure, la psicanalisi e lo stesso Wittgenstein, gli approdi<br />

quali lo strutturalismo, il post-strutturalismo o ancor di più<br />

l’ermeneutica rimangono intimamente legati alla tradizione<br />

filosofica.<br />

Visto allora che le vicende filosofiche non sembrano poi così<br />

mutate potrà forse sembrare eccessivo definire tutto ciò <strong>un</strong>a<br />

“svolta” e per di più <strong>un</strong>itaria ed esplicatrice di cosa possa<br />

essere la filosofia; d’altronde sottolineare la centralità del<br />

linguaggio nell’esperienza umana e nella riflessione filosofica<br />

sembra infatti null’altro che evidenziare l’intrinseca mediazione<br />

con cui percepiamo la realtà, tema ricorrente della modernità<br />

filosofica, anzi della modernità in genere, prospettive<br />

già acquisite, eppure non credo sia inutile comprendere e<br />

analizzare dal di dentro le lenti attraverso cui ci si guarda attorno,<br />

attraverso cui si sostanzia il reale e che non si possono<br />

smettere di indossare, soprattutto poiché queste lenti hanno<br />

<strong>un</strong>a struttura, <strong>un</strong>a grammatica profonda e <strong>un</strong>a determinante<br />

logica che molto possono dirci al nostro riguardo; credo poi<br />

Enrico Panosetti, 2006<br />

che l’emergere esplicito e consapevole del legame fra linguaggio e filosofia stessa, così come<br />

proverò fra poco a tracciarlo, introduca delle novità. Certo, in alc<strong>un</strong>i casi è legittimo, come tra<br />

gli altri fece Guattari, sostenere che la “svolta linguistica” non sia altro che la sopravvalutazione<br />

da parte dei filosofi “teste pensanti” delle loro pratiche discorsive, trascurando le esperienze<br />

non strettamente linguistiche o pre-linguistiche che ci costituiscono come essere umani.<br />

Ciò nondimeno se ci interessa la comprensione – più che <strong>un</strong>a forma di sapere determinato e<br />

logocentrico – anche di queste esperienze in cui la concettualità si va determinando (ad esempio<br />

le esperienze estetiche), sono sempre le care e vecchie parole tutto ciò di cui disponiamo,<br />

almeno come traccia del loro stesso fallimento, del loro non cogliere ogni grana dell’esperienza<br />

umana, che però proprio quando le soverchia non può che stimolarle e far scaturire pensiero<br />

e linguaggio: l’affermazione “è bello” o affini, nella sua manifesta incapacità di esprimere<br />

alc<strong>un</strong>ché di preciso, di esaurire <strong>un</strong>’esperienza, non è infatti <strong>un</strong>’epigrafe tombale delle parole<br />

stesse, anzi è il prodromo di <strong>un</strong> discorso possibile che vive della sua consapevolezza di non<br />

poter mai raggi<strong>un</strong>gere il suo oggetto, di svolgersi sempre in assenza di ciò di cui parla, come<br />

d’altronde avviene per il linguaggio tutto, solo (e non è certo di poco conto) che in questi casi<br />

ciò diventa chiaramente visibile e centrale. Insomma la “svolta linguistica” ha sicuramente in<br />

gnommeri 7


sé dei rischi connaturati alle vecchie tentazioni da “scienza prima” logocentrica, d’altronde se<br />

tutto è linguaggio e la filosofia è la regina del linguaggio potrebbe surrettiziamente di nuovo<br />

ritrovarsi alla vetta della catena alimentare delle scienze (<strong>un</strong> discorso simile mi pare induca in<br />

tentazione la semiologia). Rischi evitabili però riscoprendo l’ordinarietà dei limiti del linguaggio<br />

(i nostri limiti), e anche i suoi possibili fallimenti, che si presentano proprio in questo processo<br />

di “autocoscienza”, di consapevolezza di sé da parte della filosofia, che la novecentesca<br />

esplicita tematizzazione del linguaggio come sua modalità e luogo ha messo in moto.<br />

La “svolta linguistica” prima facie sembrerebbe difatti formare <strong>un</strong>’immagine della filosofia<br />

come <strong>un</strong>a sorta di iper-metalinguaggio, <strong>un</strong> onnipotente logos senza limiti che squadra dall’alto<br />

il linguaggio com<strong>un</strong>e, ordinario, così come quello<br />

scientifico, capace essa sola di controllare e governare<br />

il tutto. Essa diverrebbe così “specchio del linguaggio”,<br />

versione semanticamente corretta della tradizionale<br />

idea della filosofia “specchio della realtà” e quindi<br />

scienza prima. Eppure, sebbene fuorviante, questa<br />

immagine della filosofia contiene in sé l’idea fondamentale<br />

che nel gioco filosofico ci sia <strong>un</strong> distacco, <strong>un</strong>a<br />

presa di distanza (<strong>un</strong>a filia della sofia) che riguarda il<br />

sapere, il suo venir sempre dopo qualcos’altro, la sua<br />

secondarietà potrei direi se poi non volessi mettere<br />

in questione la filosofia come “discorso secondario”;<br />

<strong>un</strong>a distanza che possiamo chiarire se pensiamo alla<br />

nascita della filosofia così come la traccia Emilio Garroni,<br />

secondo cui essa nascerebbe con Socrate, «con<br />

l’interrogazione [...] con la messa in crisi del sapere<br />

già-costituito», da «quella sorta di sospetto viscerale<br />

per il già-saputo ed il già-costituito» che è possibile<br />

ritrovare proprio nello stesso Wittgenstein, che «a<br />

differenza della linguistica moderna, non assume, per<br />

spiegare il f<strong>un</strong>zionamento del linguaggio, il già-costituito,<br />

e il già-saputo, ma intende semmai spiegare<br />

ciò che solo in seguito diventerà già-saputo», non a<br />

Enrico Panosetti, 2006<br />

8<br />

caso le «opere che seguono il Tractatus, anche quella<br />

destinata alla stampa (le Ricerche Filosofiche), sono<br />

redatte in forma, come dire, intradialogica e sono ossessivamente intessute di interrogazioni.<br />

[...] è l’interrogazione che apre al sapere, o almeno al comprendere, e non viceversa». 1<br />

Garroni ci conduce d<strong>un</strong>que alla condizione stessa del domandare come centro del pensiero<br />

filosofico, <strong>un</strong>a domanda sempre sullo sfondo di <strong>un</strong> qualcosa d’altro, di altre possibili domande,<br />

<strong>un</strong>a meta-domanda che è app<strong>un</strong>to <strong>un</strong>a messa-in-questione del già-pensato, e non <strong>un</strong>’ipostatizzazione<br />

di alc<strong>un</strong>o dei due livelli linguistici, del già saputo o del domandare, come invece<br />

avviene in ambito linguistico nell’ermeneutica (la tradizione) o nelle scienze cognitive. Il concentrarci<br />

sul domandare, sul dialogo –che come in Wittgenstein a volte può essere solo interno<br />

– ci permette così di capire il senso della presa di distanza filosofica, il suo essere <strong>un</strong>a messain-crisi<br />

e quindi critica del sapere e del linguaggio in quanto già formati, ma dal loro interno:<br />

la domanda socratica, così come l’affrontare ed esaminare il nostro “linguaggio ordinario” da<br />

parte di Wittgenstein, non sono mosse del gioco che provano a tirarsi fuori da esso, né si di-


marzo ’08<br />

sconoscono come parte di <strong>un</strong> linguaggio o di <strong>un</strong>a com<strong>un</strong>ità per iscriversi ad <strong>un</strong>’altra più nobile<br />

ed elevata (quella dei filosofi), più che altro cercano la possibilità della distanza (che è sempre<br />

<strong>un</strong>a relazione) rimanendo nei limiti dell’esperienza umana, in contatto interrogativo e dialogico<br />

con essa, cercano quindi il metalinguaggio che è già nel linguaggio. Scrive infatti Garroni:<br />

il metalinguaggio, in questa sua accezione larga, anche se non in senso logico ma come capacità metalinguistica<br />

riflessiva, è responsabile dell’indefinita produttività del linguaggio verbale, di ciò che i linguisti chiamano onniformatività,<br />

vale a dire: della sua capacità di formare o dire qualsiasi esperienza o tratto d’esperienza, e quindi della<br />

sua caratteristica creatività, costruttività ed innovatività. [...] Si ha <strong>un</strong> linguaggio nel senso delle lingue umane<br />

se e solo se è presente <strong>un</strong>a vera propria capacità metalinguistica. 2<br />

Il linguaggio umano stesso è d<strong>un</strong>que metalinguaggio e linguaggio,<br />

intreccio di livelli, circolarità paradossale – il linguaggio presuppone<br />

<strong>un</strong>a possibilità di metalinguaggio, che però a sua volta presuppone<br />

<strong>un</strong> linguaggio – chiaramente evidente non solo nella creatività<br />

produttiva e comprensiva dei giochi linguistici ma ancor di più<br />

nei casi di insegnamento. Quando insegniamo qualche termine<br />

ai bambini, o chiarifichiamo il significato di <strong>un</strong>o già acquisito, noi<br />

parliamo delle parole, le esaminiamo, possibilità app<strong>un</strong>to ordinaria<br />

e centrale di tutte le nostre lingue naturali; a volte invece facciamo<br />

comparire il mondo, la realtà, come <strong>un</strong>a sorta di linguaggio-oggetto,<br />

attraverso dei termini indicali (“questo”, “quello”), elementi<br />

intenzionali diretti verso il mondo che nondimeno compare qui solo<br />

sottoforma di parole, ed il linguaggio d<strong>un</strong>que, il nostro parlare di<br />

ciò, prende le forme del metalinguaggio. Tutto questo avviene com<strong>un</strong>emente<br />

senza introdurre particolari operatori o segni distintivi,<br />

come avviene in logica formale, per permettere di distinguere tra<br />

linguaggio-oggetto e metalinguaggio, ma sebbene i bambini – così<br />

come gli adulti – non siano forse così consapevoli di quanti piani e<br />

dimensioni siano qui coinvolte, non hanno però problemi in merito<br />

perché è proprio questo il venire introdotti al gioco del linguaggio.<br />

Ed allora l’immagine della filosofia come “specchio del linguaggio”,<br />

Enrico Panosetti, 2006<br />

dopo aver provato qui a chiarire come possa distanziarsi senza<br />

fuggire da esso, come il suo essere metalinguaggio sia già possibilità del e nel linguaggio, va<br />

rivista. Il linguaggio, senza centro essenziale e formato di vari giochi distinti accom<strong>un</strong>ati da<br />

varie parentele, non è infatti a sua volta <strong>un</strong>o specchio della realtà né <strong>un</strong>a sua semplice costruzione,<br />

è invece articolato in <strong>un</strong>a pluralità di livelli essenziale (<strong>un</strong> linguaggio, <strong>un</strong> soggetto,<br />

incapace di parlare di sé diventa puro meccanismo, senza educazione) che creano <strong>un</strong> gioco di<br />

specchi complesso ed articolato, dove è il circolo della riflessione e della proiezione più che la<br />

infinita identità del rispecchiamento ad emergere, e la filosofia in questo labirinto speculativo<br />

prova a “guardare attraverso” (concetto di Garroni) i vari fenomeni, a cercarne dall’interno le<br />

condizioni di possibilità per comprendere quanto avviene e quanto potrebbe avvenire (l’oltre è<br />

il suo luogo all’interno del linguaggio), più che per formare <strong>un</strong> vero e proprio discorso o sapere<br />

in merito.<br />

Ma allora, in conclusione, di che si occupa, di che parla la filosofia? Che vuol dire parlare<br />

dall’interno della “verità”, della “conoscenza”, dell’“appercezione trascendentale”, guardarli<br />

attraverso sia come enti, come pensieri o come concetti? Beh, mi si perdoni la banalità, ma<br />

credo proprio che di noi parli la “favola pitagorica” 3 , platonica o leibniziana che sia, ma che<br />

gnommeri 9


soprattutto parli al contempo per noi. Parlare del linguaggio, dei nostri concetti, non è citare<br />

statistiche sugli usi prevalenti di <strong>un</strong>a parola o fare indagini in merito, vuol dire piuttosto<br />

affrontare noi stessi in quanto parlanti, chiederci ciò che diremmo in <strong>un</strong> dato caso, come<br />

adopereremmo e adoperiamo quel termine, che cosa che conterebbe come corretto lì e proprio<br />

lì e provare così a parlare per noi, fra (intra)dialogo e interrogazione, e quindi per gli altri. Tutto<br />

ciò che abbiamo a disposizione, al termine delle ragione e delle parole, siamo noi stessi, come<br />

soggetti sì ma senza solipsismi di sorta, piuttosto impegnati app<strong>un</strong>to in giochi proiettivi e di<br />

immaginazione mai specularmente identici o solo auto-riferiti, ché già il linguaggio e l’immagine<br />

mettono in campo <strong>un</strong> qualcosa d’altro. Noi stessi siamo già d<strong>un</strong>que linguaggio e metalinguaggio,<br />

soggetto ed intersoggetto, affermazione e consenso possibile, primari e secondari<br />

come la filosofia. Come ha scritto in merito alla filosofia wittgensteiniana, al suo ricorrere al<br />

soggetto come alla com<strong>un</strong>ità, il filosofo stat<strong>un</strong>itense Stanley Cavell:<br />

Se io devo trovare la mia voce devo parlare per gli altri, e consentire agli altri di parlare per me: l’alternativa a<br />

parlare per me stesso in modo rappresentativo (per il consenso di qualc<strong>un</strong> altro) non è: parlare per me stesso<br />

privatamente. L’alternativa è non avere niente da dire, essere senza voce e neppure essere muti. 4<br />

L’intersezione di cui prima parlavamo fra le due modalità del linguaggio, il suo essere metodo<br />

e oggetto della filosofia, è d<strong>un</strong>que <strong>un</strong>’intersezione di piani del soggetto stesso che prende le<br />

distanze da sé ma app<strong>un</strong>to per parlare di sé e per sé, aprendo così la possibilità del linguaggio,<br />

della domanda e del dialogo, ovvero la possibilità che l’altro – che è già il sé come oggetto<br />

– parli per lui, di lui e con lui di <strong>un</strong>a realtà che diviene dicibile e di cui si possono tracciare<br />

dall’interno i limiti e le sue altre possibilità. Un luogo è <strong>un</strong> linguaggio si intitolava la acuta e<br />

disarmante postfazione/saggio che Giorgio Manganeli scrisse per Flatlandia (logico e divertito<br />

racconto ottocentesco dell’abate inglese Edwin Abbott, in cui <strong>un</strong> abitante di <strong>un</strong> mondo bidimensionale<br />

entra in contatto con quelli a tre o ad <strong>un</strong>a dimensione): ebbene la filosofia stessa è<br />

app<strong>un</strong>to entrambi, in essa luogo e (meta)linguaggio coincidono, è qualcosa in cui ci possiamo<br />

trovare, ri-trovare e quindi riconoscere – come scrisse sempre Cavell è l’educazione degli adulti,<br />

la capacità di pensare largamente – ma in cui possiamo essere ingabbiati identificandoci<br />

specularmente con essa. Porta infatti con sé gli stessi rischi tirannici di eliminazione dell’alterità<br />

che Manganelli trovava nel linguaggio ed in particolare nel suo continuo ipotetico riferirsi<br />

negativamente ad <strong>un</strong> altro luogo, ad altri mondi alternativi, perché «ogni linguaggio “sa” che<br />

altri sistemi linguistici sfidano la sua totalità; che infiniti possibili “come se” si pongono come<br />

alternativi, […] sono legati da <strong>un</strong> conflitto formale, irrisolvibile»; 5 d<strong>un</strong>que il gioco filosofico solo<br />

se conscio del contatto analogico con l’altro dato dal “come se” e dalla sua apertura immaginativa,<br />

solo se consapevole e compartecipe della «polifonia di <strong>un</strong>a sola voce» (Dávila, dalla<br />

citazione iniziale) del soggetto pensante informalmente contraddittorio e conflittuale, riesce<br />

ad abbracciare i diversi piani di realtà compossibili ed a trovare la propria dimensione.<br />

senonlamail@gmail.com<br />

1 E. Garroni, Senso e Paradosso, Roma-Bari, Laterza, 1995, p.113.<br />

2 Ibidem, pp.96-97, grassetto mio.<br />

3 Per la cronaca, è il titolo di <strong>un</strong> raccolta di viaggi di Giorgio Manganelli ora pubblicata da Adelphi.<br />

4 S. Cavell, La riscoperta dell’ordinario, Roma, Carocci, 2001, p.74.<br />

5 G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Milano, Adelphi, 2004, p.49.<br />

10


marzo ’08<br />

Pensiero, parola, assenza, morte.<br />

Note al margine di Sopra-vivere e Glas<br />

1. Pensiero<br />

Heidegger:<br />

solo finché la radura [Licht<strong>un</strong>g, d<strong>un</strong>que<br />

anche illuminazione] dell’essere avviene<br />

(sich ereignet) l’essere si trasmette (übereignet<br />

sich) all’uomo. Ma che il «ci», la radura<br />

[l’illuminazione] della verità dell’essere<br />

stesso, avvenga, è destinamento (Schick<strong>un</strong>g)<br />

dell’essere stesso.<br />

Achille Castaldo<br />

Hegel sapeva ballare? La domanda è<br />

più oscura di quanto non si creda.<br />

J. Derrida<br />

Blanchot:<br />

Ecco <strong>un</strong>o dei suoi giochi. Mi mostrava <strong>un</strong>a<br />

porzione di spazio, tra la parte alta della<br />

finestra e il soffitto: «Voi siete là», diceva.<br />

Io guardavo quel p<strong>un</strong>to con intensità. «Ci<br />

siete?» Lo guardavo con tutta la mia forza.<br />

«Ebbene?» Sentivo fremere le cicatrici del<br />

mio sguardo, la mia vista diveniva <strong>un</strong>a<br />

piaga, la mia testa <strong>un</strong> buco, <strong>un</strong> toro sventrato.<br />

Subito ella gridava: «Ah, io vedo il<br />

giorno, ah Dio», ecc. Io protestavo perché<br />

questo gioco mi affaticava enormemente,<br />

ma lei era insaziabile della mia gloria.<br />

Nei frammenti che seguono, verranno presi brevemente in esame due testi di Derrida, Sopravivere<br />

e Glas.<br />

Sopra-vivere è incentrato su due enigmatici racconti di Maurice Blanchot, L’Arrêt de Mort (La<br />

sentenza di morte) e La Folie du Jour (La follia del giorno), incrociati con The Triumph of Life,<br />

l’ultimo e incompiuto poema di Shelley. Derrida sdoppia la pagina in <strong>un</strong> sopra e <strong>un</strong> sotto,<br />

rendendo così visibile il margine attraverso cui (e in virtù del quale) il testo continuamente<br />

deborda: Diario di bordo è il significativo titolo della sezione inferiore (il testo vive al di sopra<br />

di essa), che affronta problemi relativi alla possibilità e all’impossibilità della traduzione.<br />

Ma prima brevemente L’Arrêt de Mort: si tratta in realtà di <strong>un</strong> doppio racconto, costituito da<br />

due parti speculari, in misteriosa com<strong>un</strong>icazione fra loro, eppure apparentemente del tutto<br />

estranee. Nella prima ci troviamo di fronte a <strong>un</strong> narratore (ma qui, se fosse consentito allargare<br />

il discorso, sarebbe da considerare la distinzione posta da Blanchot tra voce narrante e voce<br />

narrativa) che dice je, che ci racconta <strong>un</strong>a storia avvenuta anni prima: il suo rapporto con <strong>un</strong>a<br />

donna mortalmente malata, J., che egli riporta in vita e poi nuovamente riconduce alla morte.<br />

A seguire, separata da <strong>un</strong>o spazio bianco che Derrida considera imene, d<strong>un</strong>que separazione<br />

e insieme com<strong>un</strong>icazione, la seconda parte, dove je narra il suo rapporto sospeso tra vita e<br />

morte con <strong>un</strong>’altra donna.<br />

Quello che importa qui, è come venga letta la sospensione che è il vero fulcro di ciò che<br />

accade. Innanzitutto ci troviamo ad affrontare <strong>un</strong> problema metatestuale. Quello che Derrida<br />

gnommeri 11


sembra leggere in Blanchot è l’impossibilità del testo singolo in quanto tale (problema chiave<br />

anche in Glas). Impossibilità del testo prima che impossibilità del racconto. Impossibilità delle<br />

parole a rendere <strong>un</strong> significato <strong>un</strong>ivoco, che non «si disperda come sabbia», prima ancora<br />

che impossibilità di <strong>un</strong> Io in grado di ricostruire la sequenza logica di avvenimenti: «Io non ho<br />

paura della verità. Non temo rivelare <strong>un</strong> segreto. Ma le parole, finora, sono state più deboli e<br />

più astute di quanto avrei voluto. Tale astuzia, lo so, è <strong>un</strong> avvertimento. Sarebbe più nobile<br />

lasciare in pace la verità». 1 Qualche anno prima, così si era espresso Derrida in Glas: «il problema<br />

che si pone qui è di sapere cosa potrebbe essere <strong>un</strong> testo <strong>un</strong>o, se qualcosa del genere<br />

esistesse più ancora di <strong>un</strong> <strong>un</strong>icorno». Poiché, quello che davvero avviene, non è nel testo in<br />

quanto sequenza narrata. Il testo singolo non può che rimanere ai margini di ciò che veramente<br />

è in gioco. Derrida sottolinea di continuo<br />

che l’avvenimento decisivo, quello che trasla<br />

l’intero accadere nel sopra, è <strong>un</strong>a Cosa che<br />

resta perennemente fuori: quando il narratore<br />

gi<strong>un</strong>ge troppo tardi sul letto di morte di J., e la<br />

richiama in vita, essa ritorna, aprendo gli occhi<br />

su qualcosa che sfugge alla comprensione<br />

linguistica:<br />

12<br />

In quel momento le palpebre erano ancora completamente<br />

chiuse. Ma dopo <strong>un</strong> secondo, forse due, bruscamente<br />

si aprirono, e si aprirono su qualcosa di terribile<br />

di cui non parlerò, sullo sguardo più terribile che <strong>un</strong><br />

essere vivente possa ricevere.<br />

2. Parola<br />

Questo inenarrabile è il sopra-vivere. La dimensione<br />

indescrivibile in cui ci trasla la scrittura<br />

di Blanchot. La morte e la vita sono concetti<br />

Enrico Panosetti, 2006<br />

inadeguati a parlarne; Derrida sembra scorgere<br />

in ciò l’impossibilità, per la parola prigioniera<br />

del logocentrismo, di parlare della condizione dell’uomo; la parola non può aver ragione, non<br />

può raccontare l’avvenimento, il manifestarsi della realtà. Così gli occhi di J. tornata in vita<br />

vedono qualcosa che il lettore non può leggere, ma forse solo intuire nel giro vorticoso della<br />

différance: «La Cosa ha luogo senza aver luogo: non luogo del processo, non luogo della “fine”<br />

del processo».<br />

La follia del giorno. Un testo ripiegato più volte su se stesso, dove <strong>un</strong>a voce narrativa prova a<br />

rendere conto della propria impossibilità di creare <strong>un</strong> racconto. Un uomo che è stato accecato,<br />

e nella cecità ha visto, attraverso gli occhi di <strong>un</strong>a donna, la follia del vedere la visione stessa. E<br />

che, sprofondato in questa follia, gi<strong>un</strong>ge a formulare l’impossibilità di raccontare, di costituire<br />

<strong>un</strong> testo «che sia <strong>un</strong>o»: «Un racconto? No. Ness<strong>un</strong> racconto. Mai più». 2<br />

I nuclei di cui Derrida si occupa quando viene all’analisi diretta della Sentenza di morte, sono<br />

propriamente eventi (con tutte le implicazione heideggeriane). Il problema è che in questo accadere,<br />

egli scorge in realtà <strong>un</strong>a sospensione, come se la Cosa, la realtà (l’esperienza) si desse<br />

nel suo celarsi:


marzo ’08<br />

L’arresto s’arresta, ma arrestandosi (come arresto), esso conferisce il movimento. Fa partire, ripartire, venire e<br />

rivenire. Dà la vita, dà la morte. E se le dà in <strong>un</strong> assenso che “disgraziatamente non è certo”, e fort<strong>un</strong>atamente non<br />

è certo. L’arresto s’arresta. Si regge ma senza potercela fare, si mantiene (senza mantenersi) su quella linea instabile,<br />

su quel crinale [arête N.d.A] che lo riconduce a sé (l’arrestarsi dell’arresto), senza potersi costituire in riflessione di<br />

sé o in riappropriazione di sé. Ness<strong>un</strong>a coscienza, ness<strong>un</strong>a percezione, ness<strong>un</strong>a vigilanza può ri<strong>un</strong>ire e raccogliere<br />

questa “restanza”, ness<strong>un</strong>a attenzione può renderla presente. E ness<strong>un</strong> Io.<br />

3. Assenza<br />

Ecco cosa accom<strong>un</strong>a il poema di Shelley ai racconti di Blanchot. In questa falla del testo, in<br />

questo indecidibile, è esemplificata l’irriducibilità del linguaggio agli schemi del logocentrismo.<br />

In questi p<strong>un</strong>ti il testo si piega su se stesso, si invagina. E forse, proprio in questi anelli<br />

che non tengono, può celarsi l’autenticità, l’Eigentlich di ogni individualità (e d<strong>un</strong>que di ogni<br />

testo nel p<strong>un</strong>to della propria reticenza); in quella ferita di cui parla Jean Genet nel f<strong>un</strong>ambolo,<br />

altro paradigma nell’analisi di Derrida: «Mi chiedo dove risieda, dove si celi la ferita segreta<br />

in cui ogni uomo corre a rifugiarsi [...]. Ogni uomo sa come raggi<strong>un</strong>gerla, fino a diventare egli<br />

stesso quella ferita, come <strong>un</strong> cuore segreto e dolente». 3 «Lo straordinario incomincia nel momento<br />

in cui mi fermo. Ma non sono più padrone di parlarne». 4<br />

Lasciar parlare l’afasia che si manifesta al culmine dell’azione nel testo di Blanchot. Questa è<br />

la vera strategia di Derrida.<br />

“Lasciar parlare l’afasia”, vuol dire attribuire la massima importanza a quei momenti del<br />

racconto in cui qualcosa accade. La Cosa indefinibile, e che propriamente non può mai succedere<br />

come succede qualcosa in <strong>un</strong>a storia, che possa poi magari essere raccontata. L’apparente<br />

contraddittorietà di queste affermazioni, serve a Derrida per porsi in <strong>un</strong>a dimensione in fin<br />

dei conti heideggeriana dell’eventualità, che gli permetta di pensare la reticenza di Blanchot<br />

come l’allusione alla Cosa che «è “terribile” poiché, nel suo stesso “inaccadere”, essa avviene<br />

al “vieni”, nel suo no – nel suo passo – di cosa». In questo senso, egli sta pensando alla cosa<br />

come hypokeimenon, ovvero sostanza che non succede, alla quale avvengono gli accidenti<br />

«ma che, in quanto cosa, non accade». Eppure, è ciò su cui si aprono gli occhi di J. (Shelley:<br />

«So on my sight / Burst a new vision, never seen before»), nel passo già citato della Sentenza.<br />

Lo sguardo che le lascia poi <strong>un</strong>a gaiezza che je non può spiegarsi e di cui dice «è <strong>un</strong> ricordo<br />

che basterebbe ad uccidere <strong>un</strong> uomo». Questa eventualità della cosa viene continuamente<br />

spostata da Blanchot nel corso del racconto, così che essa va a identificarsi sia con la visione,<br />

sia con il narratore stesso, che assume a tratti il ruolo della morte. Del resto, quando lo chiamano<br />

al telefono per ann<strong>un</strong>ciargli l’agonia di J., gli si dice «venga», e proprio in quell’attimo la<br />

donna «è morta»: non <strong>un</strong> istante è trascorso (che segnerebbe <strong>un</strong> accadere in senso tradizionale).<br />

Questi riferimenti si moltiplicheranno poi a dismisura nella seconda parte del racconto,<br />

dove je e l’altra donna, Nathalie, saranno l’<strong>un</strong> per l’altra ipostasi di questa “morte” in différance,<br />

o meglio di questa sospensione di ogni senso decidibile tra vita e morte; così la fine del<br />

racconto: «e a lei dico eternamente “vieni”, ed eternamente è là.»:<br />

Processo come l’arrêt de mort indecidibile, né la vita né la morte, sopra vivere piuttosto, il processo stesso che<br />

appartiene, senza appartenere, al processo della vita e della morte. Sopravvivere non si oppone a vivere, ma nemmeno<br />

s’identifica con vivere. Il rapporto è diverso, diverso dall’identità, diverso dalla differenza di distinzione,<br />

indeciso, o, in senso rigorosissimo, “vago”, evasivo, svasato, come si direbbe di <strong>un</strong> bordo.<br />

gnommeri 13


Nella Follia del giorno d<strong>un</strong>que, il personaggio che dice “io” dopo essere rimasto quasi cieco<br />

per via di pezzi di vetro che qualc<strong>un</strong>o gli ha lanciato negli occhi (in <strong>un</strong> altro luogo Derrida non<br />

manca di sottolineare che la traduzione in tedesco di Glas vuol dire proprio vetro, e la cosa non<br />

è senza importanza), fa l’esperienza di vedere la “luce”, la “follia del giorno”, ovvero, come<br />

suggerisce Derrida, «la visione stessa». È questo il senso dell’ “epocalità” di questi racconti di<br />

Blanchot? Un accadere che è visione della visione, la visione della condizione stessa dell’accadere<br />

della cosa che non si lascia definire dal linguaggio? («i romanzi sono nati nel momento in<br />

cui le parole hanno incominciato ad indietreggiare di fronte alla verità» 5 ).<br />

Chi dice “io” si trova, dicevo, dopo l’accecamento, a fare l’esperienza della visione. In realtà<br />

è in compagnia di <strong>un</strong>a misteriosa presenza femminile, in cui Derrida vede lo smarcarsi, per<br />

così dire, dell’idioma stesso; ma ecco come la<br />

scena è descritta da Blanchot:<br />

14<br />

Ecco <strong>un</strong>o dei suoi giochi. Mi mostrava <strong>un</strong>a porzione di<br />

spazio, tra la parte alta della finestra e il soffitto: «Voi<br />

siete là», diceva. Io guardavo quel p<strong>un</strong>to con intensità.<br />

«Ci siete?» Lo guardavo con tutta la mia forza.<br />

«Ebbene?» Sentivo fremere le cicatrici del mio sguardo,<br />

la mia vista diveniva <strong>un</strong>a piaga, la mia testa <strong>un</strong> buco,<br />

<strong>un</strong> toro sventrato. Subito ella gridava: «Ah, io vedo il<br />

giorno, ah Dio», ecc. Io protestavo perché questo gioco<br />

mi affaticava enormemente, ma lei era insaziabile della<br />

mia gloria.<br />

È in questo passaggio che Derrida individua<br />

la chiave per leggere i testi di Blanchot. Anche<br />

il ben più complesso La sentenza di morte, si<br />

può comprendere, nella prospettiva che ne dà<br />

Sopra-vivere, solo alla luce dei pensieri che<br />

Derrida sviluppa a questo proposito; il problema<br />

è che l’evento continua a ripetersi e il<br />

linguaggio non può che tacerne, perché non è<br />

neanche in grado di collocarlo nello spazio e<br />

nel tempo; ad esempio, all’inizio della seconda<br />

metà del racconto, chi dice je addirittura afferma,<br />

pur accingendosi a narrare avvenimenti<br />

passati, che «la verità sarà detta, tutto ciò che<br />

di importante è accaduto sarà detto. Ma non<br />

Enrico Panosetti, 2006<br />

tutto è già accaduto [cors. mio]».<br />

Ecco che l’indecidibilità del sopra- si scopre<br />

essere prima di tutto <strong>un</strong>’indecidibilità ontologica, oltre che, di necessità, gnoseologica (in<br />

fondo è <strong>un</strong>a possibile definizione della différance):<br />

Secondo <strong>un</strong>a vecchia e onnipotente logica che vige da Platone in avanti, ciò che assicura la vista dovrebbe<br />

restare invisibile: nero, accecante. [...] Passando da vita a visione, da life a light, si può parlare di sopra-vivenza<br />

come di sur-visione. Vedere la vista o la visione o la visibilità, vedere al di là del visibile, non significa solo, nel<br />

senso corrente della parola, avere <strong>un</strong>a visione, ma sopra-vedere, vedere-sopra-vedere. [...] Vedere la visione,<br />

sopra-vedere, follia abissale di <strong>un</strong>a scena assolutamente primitiva, scena della scena: tutto ciò viene simulato e


marzo ’08<br />

dissimulato nel racconto – nella sua forma rassicurante, per chi vuole rassicurarsi, di spettacoli circoscritti, di<br />

“visioni” o di “scene” che vengono in qualche modo ad allegorizzare l’abîme e a contenere la follia. La parola<br />

visione, poi, è sufficientemente equivoca da permettere quest’economia.<br />

4. Morte<br />

L’impegno di Glas è occuparsi degli scarti, di ciò che resta fuori. Da qui, suppongo, la decisione<br />

di occuparsi di Hegel, e della formulazione più inclusiva mai tentata del sapere filosofico. Il Sapere<br />

Assoluto è il movimento dello spirito che nel suo avanzamento (Aufheb<strong>un</strong>g), deve lasciar<br />

riposare in sé anche ciò che ha incontrato come negativo, d<strong>un</strong>que, tutto il reale.<br />

Derrida fa scricchiolare questa idea già con la veste grafica che dà al libro, due colonne opposte,<br />

scalfite da numerosi inserti, o “tatuaggi”, dove il commento e la divagazione apparente<br />

hanno libero gioco. Ecco d<strong>un</strong>que, che già sulla pagina, ci troviamo di fronte questi “resti”.<br />

C’è poi da interrogarsi sul senso dell’espressione “campana a morto”, glas. Probabilmente<br />

la campana suona per <strong>un</strong>’indecidibile (ancora <strong>un</strong>a volta) quantità di cose o concetti. Di sicuro<br />

per il senso come presenza, e d<strong>un</strong>que, come si è già compreso riguardo a Sopra-vivere, per la<br />

possibilità del testo, del racconto, inteso come organismo conchiuso e autonomo.<br />

Forse, per concludere questo breve discorso, è necessario citare <strong>un</strong>a citazione che salta fuori<br />

da Glas quasi per caso. A proposito di Genet, della sua vita, del significato del F<strong>un</strong>ambolo. È<br />

ben nascosta nel testo, eppure ancora riconoscibile. È la libera trasposizione di <strong>un</strong> frammento<br />

di Eraclito: «Egli sa che si conserva solo quanto si perde. Se stesso. Non si perde solo ciò che<br />

non si conserva, si perde ciò che si conserva». 6<br />

Eraclito si riferisce evidentemente all’illusorietà del mondo reale, all’apparenza che si presenta<br />

ai sensi, che bisogna lasciar perdere, perché l’<strong>un</strong>ica cosa che si può trattenere è ciò che i<br />

sensi non hanno colto, la realtà che sta dietro la fola del mondo. Forse questo enigma, questa<br />

metafora derridiana può essere intesa come l’espressione della necessità di non lasciarsi mai<br />

bloccare dall’apparenza dei testi, dalla superficie delle espressioni e delle parole. E forse non è<br />

<strong>un</strong>a metafora troppo azzardata: l’enigma ricordato da Eraclito viene prima del logos, <strong>un</strong>a traccia<br />

che poi il discorso della metafisica ha inevitabilmente sepolto sotto gli strati del ragionamento<br />

incentrato sulla presenza. E proprio questa traccia, la radice enigmatica che ancora sta<br />

sotto le stratificazioni del linguaggio, è quello che la decostruzione insegue.<br />

achillec@gmail.com<br />

1 M. Blanchot, La sentenza di morte, Milano, SE, 1989, p. 11.<br />

2 M. Blanchot, La follia del giorno, Napoli, Filema, 2000, p. 30.<br />

3 J. Genet, Il f<strong>un</strong>ambolo, Milano, Adelphi, 1997, pp. 112-113.<br />

4 M. Blanchot, La sentenza di morte, cit., p. 35.<br />

5 Ibidem, p. 11.<br />

6 Così il frammento di Eraclito nella traduzione di Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Milano, Adelphi,<br />

2006, p. 63: «Rispetto alla conoscenza delle cose manifeste gli uomini vengono ingannati similmente ad Omero,<br />

che fu più sapiente di tutti quanti i Greci. Lo ingannarono infatti quei giovani che avevano schiacciato i pidocchi,<br />

quando gli dissero: “quello che abbiamo visto e preso, lo lasciamo; quello che non abbiamo visto né preso, lo<br />

portiamo” ».<br />

gnommeri 15


Tabard intervista Franco Buffoni<br />

16<br />

a cura di M. Cangiano, L. Nuzzo e E. Santangelo<br />

Il 5 dicembre 2007 ha avuto luogo a Bologna, grazie all’organizzazione La bottega dell’elefante, <strong>un</strong>a serata di lettura<br />

dal titolo La soglia sull’altro: i nuovi compiti del traduttore, curata da Maria Luisa Vezzali e già immaginata e<br />

fortemente voluta da Paolo Bollini. In occasione di tale evento abbiamo avuto modo di incontrare e dialogare con<br />

due personalità di spicco nell’ambito della traduttologia, della traduzione e della scrittura poetica: Franco Buffoni<br />

e Kadhim Jihad Hassan. Vi presentiamo nelle prossime pagine le loro voci da noi interpellate, rinnovando loro il<br />

nostro ringraziamento per la disponibilità dimostrataci.<br />

Le rivolgeremo queste domande da non traduttori, e da studiosi che si sono avvicinati solo<br />

da poco alla traduttologia. Ci è parso molto interessante notare come questa confermi<br />

quanto il processo della traduzione sia f<strong>un</strong>zionale alla comprensione di <strong>un</strong>a teoria estetica:<br />

<strong>un</strong> traduttologo è implicitamente – ma nel suo caso anche esplicitamente – <strong>un</strong> estetologo. Ci<br />

piacerebbe che ci spiegasse in che modo ha innestato la neofenomenologia italiana all’interno<br />

della traduttologia.<br />

Potremmo partire dagli anni della mia formazione, gli anni ’70. Allora – ero in <strong>un</strong>a situazione<br />

di dottorato e di acquisizione di competenze – anche l’ambito della traduzione letteraria era<br />

totalmente appannaggio dei formalismi primonovecenteschi: strutturalismo, semiotica e,<br />

soprattutto, linguistica teorica. I miei dubbi si incentrarono sul fatto che per la linguistica la<br />

traduzione non può che essere <strong>un</strong> processo di decodifica e di ricodifica, di decodifica dalla<br />

lingua di partenza e di ricodifica nella lingua d’arrivo. Ovviamente questo meccanismo f<strong>un</strong>ziona<br />

molto bene quando si tratta di tradurre <strong>un</strong> testo di tipo tecnico o <strong>un</strong> libro giallo di tipo<br />

dozzinale, ma comincia a mostrare qualche crepa quando parliamo di letteratura in senso alto<br />

o, a maggior ragione, di poesia. Non ero per niente soddisfatto da ciò che allora si diceva e si<br />

insegnava riguardo alla traduzione, capivo che mancava <strong>un</strong> aggancio. Quando poi nel decennio<br />

successivo ci fu l’esplosione steineriana di Dopo Babele, quando Steiner disse che tradurre<br />

significa «rivivere l’atto creativo» che ha informato l’originale – che allora suonò come <strong>un</strong>a<br />

vera e propria provocazione – io capii che lì stava <strong>un</strong> po’ la soluzione al mio problema. Contemporaneamente<br />

avevo vinto <strong>un</strong> ricercatorato in anglistica e scrivevo poesia, cercavo quindi <strong>un</strong><br />

denominatore com<strong>un</strong>e alle due branche del mio operare: lo trovai nella traduzione e nella riflessione<br />

teorica sulla traduzione. Se l’incontro con la scuola neofenomenologica anceschiana<br />

sul piano teorico era già avvenuto, dalla collaborazione con il primo allievo di Anceschi, Emilio<br />

Mattioli – al quale va il mio più amoroso e grato ricordo perché è scomparso da pochi mesi<br />

– vennero le ricadute pratiche. Fu con lui infatti che impostai il semestrale di teoria e pratica<br />

della traduzione letteraria “Testo a fronte” (ed. Marcos y Marcos), che tuttora dirigo. Tornando<br />

ai p<strong>un</strong>ti essenziali: si trattava non di cancellare le grandi eredità formalistiche del 900 – perché<br />

è chiaro che si tratta di <strong>un</strong> patrimonio prezioso e non possiamo prescindere da esso – ma di coniugarle<br />

con istanze di tipo estetico. Quando nasce <strong>un</strong>a nuova scienza si verifica <strong>un</strong>a confluenza<br />

di competenze da altre scienze, è inevitabile che sia così. E la traduttologia si trova ad avere<br />

due nutrimenti fondamentali: la linguistica teorica e la filosofia estetica: Humboldt e Baumgarten.<br />

Per quanto riguarda la traduzione letteraria nello specifico, io ancorerei la traduttologia a<br />

cinque concetti di fondo, che mi sembrano anche agili da <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to di vista operativo: i concetti<br />

di avantesto, di intertestualità, di ritmo, di movimento del linguaggio nel tempo e di poetica.<br />

Quest’ultimo è quello più anceschiano e su cui ho lavorato con Mattioli per oltre vent’anni.


marzo ’08<br />

Nel saggio che fa d’apertura<br />

al suo libro Con il testo a<br />

fronte (ed. Interlinea 2007),<br />

riprende la riflessione di<br />

Bachtin e si riferisce alla traduzione<br />

come a <strong>un</strong> rapporto<br />

dialogico tra due opere, <strong>un</strong><br />

rapporto che in questo modo<br />

diviene non più «di rango,<br />

ma di tempo»: non solo<br />

l’opera nella lingua d’arrivo è<br />

immessa nel movimento del<br />

linguaggio e nella temporalità<br />

della ricezione ma anche<br />

quella nella lingua di partenza.<br />

Questo incontro-scontro<br />

scava <strong>un</strong>a differenza e quindi<br />

rinnova anche l’opera di<br />

partenza. Ci vuole illustrare<br />

questo processo?<br />

Enrico Panosetti, 2006<br />

Sì, è proprio questo il p<strong>un</strong>to. In quest’operazione, portata avanti con Mattioli, ci siamo avvalsi<br />

di due fondamentali contributi del nostro collega Friedmar Apel, che pubblicò nell’ ’83 Literarische<br />

Übersetz<strong>un</strong>g e nell’ ’82 Sprachbeweg<strong>un</strong>g e che noi abbiamo tradotto nella collana “I<br />

saggi di Testo a fronte” rispettivamente come Il manuale del traduttore letterario e Il movimento<br />

del linguaggio. In sintesi, potremmo partire dalla questione della ritraduzione: perché noi<br />

diamo per accettato che sia “lecito” (e su questo aggettivo intendo ritornare in seguito) ritradurre?<br />

Perché riteniamo che ogni generazione voglia avere il proprio Goethe, il proprio Dante,<br />

il proprio Shakespeare che parlino nella lingua letteraria di quella generazione. Io ho tradotto<br />

Keats nel 1980, la mia traduzione è ancora in circolazione, ma sono sicuro che <strong>un</strong> altro poeta<br />

(o io stesso) tra qualche anno ritradurrà Keats e lo riproporrà. Perché diamo per scontato che<br />

questo sia “lecito”? Perché diamo per scontato che la lingua sia in movimento nel tempo, che<br />

il nostro italiano sia costantemente in trasformazione. Il passaggio concettuale che compiamo<br />

con Sprachbeweg<strong>un</strong>g è di includere anche il testo scritto nella lingua di partenza nel concetto<br />

di movimento del linguaggio. Quel classico antico o moderno che andiamo a tradurre si è spostato<br />

anch’esso nel tempo. Non solo diviene la lingua d’arrivo – cosa ovvia e scontata dai tempi<br />

di Humboldt – ma diviene anche quella di partenza, perché nei decenni, nei secoli, tutte le<br />

strutture che compongono quel testo sono andate modificandosi: la struttura sintattica, quella<br />

grammaticale, i valori semantici, la pron<strong>un</strong>cia. Come si può pensare d<strong>un</strong>que che quel testo sia<br />

rimasto lo stesso? È qui che interviene il concetto di traduzione come incontro poietico, di poetiche.<br />

Se tradurre letteratura significa <strong>un</strong> incontro tra la poetica del traduttore e la poetica del<br />

tradotto, questo incontro che avviene in <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to x del tempo e dello spazio è <strong>un</strong>ico e irripetibile,<br />

perché <strong>un</strong>ico e irripetibile è lo stato delle lingue delle due opere che si incontrano in quel<br />

momento. Lo stesso traduttore a distanza anche di poco tempo traduce in <strong>un</strong> modo diverso.<br />

È <strong>un</strong> esperimento che, tra l’altro, ho fatto con me stesso, ritraducendo Seamus Heaney senza<br />

controllare la traduzione fatta dieci anni prima. Il p<strong>un</strong>to è quell’“<strong>un</strong>ico e irripetibile”, come se<br />

fossero due frecce che si intersecano in quel momento e solo in quel momento si intersecano<br />

gnommeri 17


in quel modo; in <strong>un</strong> altro momento, successivo o precedente, si sarebbero intersecate in modo<br />

differente perché in modo differente si sarebbero incontrate le lingue che costituiscono i due<br />

testi. In questo modo noi abbiamo coniugato il concetto di movimento del linguaggio nel tempo<br />

con il concetto di poetica. Naturalmente qui preme alle porte il concetto di intertestualità: i<br />

cinque concetti che abbiamo elencato prima sono coniugati tutti tra loro, per produrre il nuovo<br />

in traduttologia.<br />

Proprio a questo proposito le chiediamo, dato il tema di questo numero: la traduzione può<br />

essere considerata come <strong>un</strong>’operazione di “secondo grado”? E se sì in che maniera? Quando<br />

lei cita la Kristeva che afferma che «ogni testo si costruisce come <strong>un</strong> mosaico di citazioni»,<br />

dice che anche la traduzione<br />

alla fine può esser considerata<br />

<strong>un</strong>a l<strong>un</strong>ga “citazione” in<br />

<strong>un</strong>’altra lingua...<br />

Portando all’estremo limite<br />

concettuale la definizione<br />

kristeviana di intertestualità<br />

possiamo dire, per semplificare,<br />

che la traduzione non è che<br />

<strong>un</strong>a l<strong>un</strong>ga citazione. E questo<br />

nasce da <strong>un</strong> convincimento:<br />

che letteratura nasca da letteratura,<br />

che non esista creazione<br />

letteraria assolutamente<br />

originale. La creazione letteraria<br />

assolutamente originale<br />

è di per sé <strong>un</strong>’affermazione<br />

indecente, <strong>un</strong>a contraddizione<br />

in termini, perché vorrebbe<br />

Enrico Panosetti, 2006<br />

dire assoluta incom<strong>un</strong>icabilità,<br />

monologismo. È evidente che<br />

la letteratura assorbe la letteratura precedente e la trasforma. È evidente che Dante non sarebbe<br />

Dante se non ci fossero stati i provenzali, o la cultura araba eccetera. Se voi leggete Keats,<br />

il finale dell’Ode sopra <strong>un</strong>’urna greca (“Beauty is truth, truth beauty”, – that is all/ Ye know on<br />

earth, and all ye need to know), trovate l’associazione tra bellezza e verità. Essa è com<strong>un</strong>e in<br />

tutto il ‘700 inglese, Keats non inventa nulla. Che cosa aggi<strong>un</strong>ge? Aggi<strong>un</strong>ge quella pulsione<br />

che aveva verso il mondo greco, non sapendo il greco, che lo porta da naïf a sublimare tutta<br />

<strong>un</strong>’esperienza e tutto <strong>un</strong> mondo. Tu sei poeta non perchè compi <strong>un</strong>a creazione assolutamente<br />

originale, ma perché rivivi <strong>un</strong>a tradizione alla luce della tua poetica. Il vero p<strong>un</strong>to è se esiste<br />

<strong>un</strong>a poetica motivata e profonda in <strong>un</strong> autore. Dicendo “letteratura nasce da letteratura”, noi<br />

parliamo di qualcosa di molto teso sul piano concettuale. È per questo che non possiamo prescindere<br />

dal concetto di poetica quando parliamo di intertestualità.<br />

In questo senso possiamo considerare la traduzione come <strong>un</strong>o strumento dell’epoché? Perché<br />

la traduzione, intervenendo sul testo “originale”, pone in crisi la poetica di quel testo,<br />

la modifica, cioè rivela quell’opera, che voleva darsi come <strong>un</strong> “essere”, soltanto come <strong>un</strong>a<br />

“forma”. In questo senso avevamo pensato che – riprendendo la dialettica pirandelliana tra<br />

18


marzo ’08<br />

“vita” e “forma”, o quella lukacsiana di due anni dopo – la traduzione lavora per la vita, cioè<br />

per il movimento, per il tempo, di contro a <strong>un</strong>a illusoria volontà dell’essere dell’opera “originale”<br />

che si rivela invece semplicemente poetica, cioè classificazione simbolica o forma.<br />

Sì, direi proprio che si può convenire. Sintetizzando ulteriormente, si potrebbe parlare di<br />

traduzione come Überleben, come after-life di <strong>un</strong> testo. La letteratura viene sempre dopo. Qui<br />

ritorna il discorso di Bachtin sulla dialogicità. Vedete, ci sono due grandi malattie che occorre<br />

sempre tentare di debellare: l’idea che la traduzione possa essere la riproduzione di <strong>un</strong> testo;<br />

e l’idea che sia <strong>un</strong>a ricreazione. È evidente che con quest’ultima concezione si entra nel grande<br />

vaso di Pandora del certamen, dell’imitatio, dell’aemulatio: nel senso che ogn<strong>un</strong>o se ne va <strong>un</strong><br />

po’ dove vuole traendo sp<strong>un</strong>to da; operazione legittima ma che non può essere considerata<br />

traduzione in senso stretto. Anche il concetto di “riproduzione” è gravissimo, perché significa<br />

porsi nei confronti del testo di partenza in <strong>un</strong>a posizione ancillare, laddove l’obiettivo è quello<br />

di raggi<strong>un</strong>gere <strong>un</strong> risultato estetico autonomo. Un’autonomia estetica non la raggi<strong>un</strong>gi attraverso<br />

<strong>un</strong>a riproduzione, ma attraverso <strong>un</strong> incontro tra poetiche: <strong>un</strong> incontro tra pari. È evidente<br />

che noi, parlando di traduzione a questo livello, parliamo di Valéry che traduce le Bucoliche, di<br />

Paola Capriolo che traduce La morte a Venezia, parliamo di ciò che dovrebbe essere la traduzione.<br />

Non ci interessano in questo momento le volgarizzazioni. Che nella consueta prassi editoriale<br />

tutto ciò fatichi ad avvenire non è <strong>un</strong> buon argomento per dire che non si debba tendere<br />

a: è molto simile a <strong>un</strong> discorso cristiano, lo dico da illuminista, nel senso che <strong>un</strong> cristiano sa<br />

che deve tendere alla santità, poi deraglia, ma conosce ciò verso cui dovrebbe tendere. Se il<br />

traduttore non è adeguato, non significa che non f<strong>un</strong>zioni il concetto.<br />

Il processo della traduzione potrebbe assomigliare in qualche modo, in maniera diacronica,<br />

a tutto ciò che sincronicamente gira attorno al testo teatrale nell’analisi neostoricistica<br />

di Greenblatt? Greenblatt dice che tutto ciò che è attorno al testo va a demolire l’illusione<br />

dell’<strong>un</strong>ico principio generativo di quel testo. In questo modo, invece, diacronicamente, la<br />

traduzione va a demolire l’illusione dell’<strong>un</strong>ico principio generativo anche del testo “originale”...<br />

Sì, anche perché poi sul discorso del testo “originale” ci sarebbe molto da dire. Per esempio,<br />

riguardo all’Ulisse di Joyce, noi siamo abituati a prendere il 1922 come p<strong>un</strong>to d’inizio;<br />

io sono invece solito ribaltare questa affermazione dicendo che il 1922 è <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to di arrivo.<br />

Così stiamo introducendo il quarto p<strong>un</strong>to, il concetto di avantesto: è ovvio che nel ’22 viene<br />

a coagularsi <strong>un</strong> processo che ha portato alla formazione di quel testo, ma a me interessa<br />

tutto questo processo. Per <strong>un</strong> traduttore di letteratura poter accedere agli avantesti – cioè a<br />

tutto quel materiale che precede la prima stampa di <strong>un</strong>’opera – è estremamente utile perchè<br />

significa poter visionare il processo di germinazione di <strong>un</strong> testo, quello che Pareyson definisce<br />

il processo di «formatività». Nel suo saggio Proust. Dall’avantesto alla traduzione, Lorenzo De<br />

Carli mette a confronto vari passaggi proustiani nelle diverse traduzioni italiane e mostra la<br />

differenza tra quei traduttori che hanno avuto la pazienza di consultare i Cahiers e quelli che<br />

hanno preso solo il testo canonico, quello dato come canonico in quel momento. E anche qui<br />

ci sarebbe molto da discutere, perché per esempio abbiamo tradotto l’Ulisse su <strong>un</strong> testo e<br />

questo testo poi è stato profondamente emendato: per cui solo Umberto Eco dice che Shakespeare<br />

non cambia e rimane fermo nel tempo e invece le traduzioni cambiano, lasciamolo nella<br />

sua pia illusione che Shakespeare non muti nel tempo.<br />

A questo p<strong>un</strong>to <strong>un</strong>a domanda che ne consegue riguarda la sua esperienza di traduttore. L’in-<br />

gnommeri 19


contro tra poetiche come ha f<strong>un</strong>zionato nel suo caso? Prendiamo il Buffoni che traduce Keats,<br />

che fa incontrare la propria poetica con quella di Keats: come <strong>un</strong>’esperienza di traduzione<br />

può cambiare la poetica di <strong>un</strong> traduttore-poeta?<br />

Innanzitutto mi tremano le vene e i polsi parlando di incontro con la poetica di Keats... mettiamo<br />

qualche paletto di modestia, perché altrimenti... però diciamo che al fondo quando tu<br />

dedichi <strong>un</strong>a fetta della tua vita, del tuo sistema nervoso, a tradurre <strong>un</strong> poeta, è evidente che ne<br />

esci trasformato: è <strong>un</strong>’esperienza di vita – uso quasi <strong>un</strong> linguaggio steineriano. Io non dimentico<br />

mai di essere <strong>un</strong> poeta romanzo, vivo costantemente, palpito, con <strong>un</strong>a metrica di tipo<br />

quantitativo, e quando ho a che fare con testi scritti in metrica accentuativa mi rendo conto che<br />

respiriamo in due ambiti completamente diversi. Due delle lingue con cui ho avuto maggiormente<br />

a che fare, l’inglese e il latino, mi portano a fare questa strana respirazione. Come si<br />

esce da questo p<strong>un</strong>to? Con il quinto dei concetti che ho elencato prima, quello di ritmo, tanto<br />

è vero che sono arrivato a dire che esiste <strong>un</strong>a “ritmologia”. Per me è il p<strong>un</strong>to fondamentale.<br />

Per <strong>un</strong> attimo metto da parte la traduzione, mi riferisco alla scrittura poetica: trovare il ritmo<br />

significa trovare il soggetto, se trovi il ritmo trovi il soggetto e quello che scrivi può essere<br />

poesia; se non trovi il ritmo puoi avere da dire le cose più belle del mondo ma quello che scrivi<br />

può essere al più <strong>un</strong> <strong>articolo</strong> di giornale. Il ritmo è questo respiro interno alla scrittura, che<br />

prescinde, che ingloba tutte le metriche. Perché le metriche sono <strong>un</strong> fatto storico, possono mutare,<br />

fondamentalmente sono legate alla moda, nel senso più leopardiano del termine. Mentre<br />

il ritmo no, il ritmo è ancestrale, è quel respiro che viene dall’imparare a parlare. Ecco, se noi<br />

pensiamo alla scrittura in questo modo, con questo respiro, con questa ritmicità, arriviamo, se<br />

ci concentriamo bene, ad annullare quello scontro che potrebbe esserci nel poeta romanzo che<br />

sta traducendo <strong>un</strong> poeta anglosassone. Allora, perché non si tratta di riproduzione? È sciocco,<br />

banale, insulso dire di arrivare a “riprodurre” il ritmo dell’originale. In questo senso non voglio<br />

tornare a parlare nemmeno di ricreazione: si tratta di far fuoriuscire da quell’incontro poietico<br />

di cui si diceva prima – coniugato con tutti gli elementi che si sono detti – <strong>un</strong> respiro dell’opera<br />

adeguato alla lingua d’arrivo in quel momento storico.<br />

Quando lei parla di ritmo, ci sembra che entri <strong>un</strong> poco in contraddizione con quanto ha detto<br />

finora. Quando dice che il ritmo è ancestrale, che va al di là delle metriche che invece sono<br />

storiche, in <strong>un</strong> certo senso lo immobilizza: anche la concezione del ritmo è nel tempo, si<br />

muove nel tempo.<br />

Certo, mi correggo se ho dato questa impressione. È evidente che anch’io sono d’accordo su<br />

questo. Quando io dico che il ritmo è qualcosa di ancestrale, lo dico per spiegare che il ritmo<br />

precede la Sapiens sapiens, nel senso che si ha il ritmo nelle maree, nei cicli l<strong>un</strong>ari, nei movimenti<br />

dei pianeti; c’è <strong>un</strong> ritmo e <strong>un</strong> respiro com<strong>un</strong>que: noi nasciamo impastati di <strong>un</strong> ritmo che<br />

è il battito del cuore materno, noi come esseri umani abbiamo inevitabilmente <strong>un</strong> ritmo binario<br />

già nel nostro dna.<br />

Però quando spinge l’idea di ritmo fino a dire che trovare il ritmo è trovare il soggetto, e che<br />

in questa maniera <strong>un</strong>’opera diviene opera d’arte, altrimenti è qualcosa d’altro, non pensa che<br />

può cadere in <strong>un</strong>’assolutizzazione di <strong>un</strong> concetto di ritmo non ben definito? Nel senso che,<br />

esistendo ritmo dappertutto, chi decide qual è il ritmo della poesia?<br />

Chi decide? Benissimo! Perché mi permetti di tornare su quell’aggettivo che avevo messo tra<br />

virgolette all’inizio della nostra conversazione, quel “lecito”. È chiaro che ness<strong>un</strong>o ha l’autorità<br />

20


marzo ’08<br />

per decidere; ness<strong>un</strong>o ha l’autorità per dire cosa sia lecito e cosa non sia lecito. Nel nostro<br />

ambito di studi non esiste la normatività, noi non stiamo parlando di <strong>un</strong>a scienza normativa.<br />

Chi decide se <strong>un</strong>a traduzione è buona o cattiva è il tempo. Saranno decine e decine di persone<br />

che negli anni, nei decenni, considereranno d’altissimo livello la traduzione delle Bucoliche di<br />

Valéry. Occorre sempre diffidare di chi dice “questo è giusto e questo è sbagliato”. Il discorso<br />

diventa più sottile, perché tu ti togli dal lecito o non lecito ed entri nel concetto di creazione:<br />

l’operazione del tradurre letteratura è <strong>un</strong>’operazione creativa, vuol dire fare letteratura – e qui<br />

torniamo all’umanista Thomas Sébillet – che già parlava della traduzione come di <strong>un</strong> genere<br />

letterario autonomo – o a Jiri Levy, che lo ha ripetuto mezzo secolo fa. Se la traduzione è <strong>un</strong><br />

genere letterario autonomo, se d<strong>un</strong>que ha la dignità della creatività letteraria, lo deve avere<br />

anche nel campo della sperimentazione e dell’empiria. Quindi è soltanto il tempo che stabilirà<br />

se <strong>un</strong>a traduzione è <strong>un</strong>a buona traduzione e non ha ness<strong>un</strong> senso dire si deve fare così piuttosto<br />

che in <strong>un</strong> altro modo.<br />

Un’ultima curiosità: ci chiedevamo in che senso lei si definisse illuminista. Forse come il<br />

Nietzsche che dedicava a Voltaire Umano troppo umano?<br />

Ho cominciato a definirmi illuminista in senso molto pubblico e <strong>un</strong> po’ gridato da quando in<br />

questi ultimi anni è invalso questo insano – nel senso dell’inglese insane, “folle” – atteggiamento<br />

nei confronti dell’illuminismo da parte delle gerarchie cattoliche – e dei loro tirapiedi su<br />

alc<strong>un</strong>e gazzette. Attaccare l’illuminismo significa attaccare la modernità – il modo di procedere<br />

della scienza – significa attaccare la cultura occidentale degli ultimi quattro secoli, significa<br />

rimpiangere l’ancien régime. Tutto questo è ignobile, è <strong>un</strong>’operazione culturale di fiato cortissimo<br />

e io, che ormai di fiato ne ho poco, mi permetto di ribellarmi e di usare quelle modestissime<br />

platee che mi ritrovo per dirlo. D<strong>un</strong>que divento “illuminista” e proprio per questo motivo<br />

ho scritto Più luce, padre. Dialogo su Dio, la guerra e l’omosessualità (Sossella editore, 2006).<br />

Voi avete 25 anni oggi e vi affacciate con la vostra intelligenza su questo mondo, io vi assicuro<br />

che <strong>un</strong> attacco, <strong>un</strong> affronto così costante all’intelligenza come quello che stiamo subendo in<br />

questi ultimi anni in Italia sono rari. Quando io avevo la vostra età, in Vaticano ci stava Paolo<br />

VI, uomo legato alla filosofia francese, uomo del dialogo, vero intellettuale: vi assicuro che era<br />

<strong>un</strong>a situazione molto più decente. Anche, a catena, il mondo cattolico non si permetteva certo<br />

attacchi alla modernità come quelli volgari, rozzi, a cui stiamo assistendo. Vi assicuro che voi<br />

state vivendo <strong>un</strong>a contingenza storica molto particolare e il fatto che voi vi ribelliate dimostra<br />

che avete menti solerti, la cosa che mi addolora è che tanti dei vostri coetanei non si rendano<br />

conto di questo.<br />

FRANCO BUFFONI (Gallarate, 1948) ha pubblicato le raccolte di poesia Nell’acqua degli occhi (Guanda 1979),<br />

I tre desideri (San Marco dei Giustiniani 1984), Quaranta a quindici (Crocetti 1987), Scuola di Atene (Arzanà<br />

1991), Suora carmelitana (Guanda 1997), Songs of Spring (Marcos y Marcos 1999), Il profilo del Rosa (Mondadori<br />

2000), Theios (Interlinea 2001), Del Maestro in bottega (Empiria 2002), Guerra (Mondadori 2005). Per Marcos y<br />

Marcos dirige il semestrale “Testo a fronte” e ha curato i volumi Ritmologia (2002) e La traduzione del testo poetico<br />

(2004). Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). È autore del romanzo-saggio Più luce, padre.<br />

Dialogo su Dio, la guerra e l’omosessualità (LucaSossellaEditore, 2006) e dei saggi Con il testo a fronte. Indagine sul<br />

tradurre e l’essere tradotti (Interlinea 2007) e L’ipotesi di Malin. Studio su Auden critico-poeta (Marcos y Marcos<br />

2007).<br />

Sito web: www.francobuffoni.it<br />

gnommeri 21


Pascoli rosso sangue<br />

22<br />

Alessandro Vicenzi<br />

(progetto per <strong>un</strong> filmato didattico sulla vita di Giovanni Pascoli. Contiene <strong>un</strong> buon numero di licenze poetiche e<br />

citazioni assortite da Ritorno al futuro, i Simpson, Happy Tree Friends, i Griffin, Alien, Chucky la bambola assassina,<br />

Monty Python)<br />

1.<br />

Siamo nella campagna toscana. È primavera, il cielo è azzurro,<br />

gli uccellini cantano.<br />

La camera si avvicina lentamente a <strong>un</strong>a tavolata di persone che<br />

pranzano all’aperto, sotto <strong>un</strong> pergolato. Si riconosce a capotavola<br />

Giovanni Pascoli.<br />

In piedi, sua sorella Maria<br />

Seduti, altri cinque uomini.<br />

2.<br />

Primo piano di Maria<br />

maria: … e allora, vi piacciono le mie pappardelle con il cinghiale?<br />

voci: sì... buone... brava.<br />

maria: beh, è <strong>un</strong> sugo pronto.<br />

3.<br />

Rapida sequenza di primi piani di gente che sputa il boccone, tossicchia, si versa del vino, ecc.<br />

voci: ma che cazz... puah, che schifo... ma come si fa?<br />

4.<br />

Pascoli si alza in piedi e mena <strong>un</strong> pugno fortissimo nello stomaco alla sorella. Poi, mentre è<br />

piegata, la colpisce al viso con <strong>un</strong>a ginocchiata. Gli amici applaudono.<br />

pascoli: brutta stronza... <strong>un</strong> sugo già pronto, eh? Ma io ti...<br />

5.<br />

Pascoli afferra <strong>un</strong>a bottiglia di vino e la spacca contro il tavolo. Fa per voltarsi verso la sorella,<br />

quando si rende conto della nostra presenza. Si volta, butta a terra il coccio, si passa le mani<br />

sugli abiti, cerca di sorridere (ma si vede che è chiaramente ubriaco come <strong>un</strong>a scimmia), ridacchia.<br />

pascoli: oh, non vi aspettavo così presto. Si stava, ehm, scherzando. Cose che si fanno, nel<br />

nido... Si ritorna tutti <strong>un</strong> po’ bambini, si ride e si scherza, nevvero? Su Maria, alzati, non stare<br />

sempre a giocare, da brava...<br />

Scusatela, è giovane...<br />

Ma torniamo a noi.


marzo ’08<br />

6.<br />

L’inquadratura si allarga. Alle spalle di Pascoli, che cammina allontanandosi dalla tavola,<br />

vediamo Maria strisciare via. Perde sangue dalla faccia e lascia <strong>un</strong>a scia rossa dietro di sé.<br />

Pascoli parla guardando in camera, con la voce impostata.<br />

pascoli: salve, sono Giovanni Pascoli. Forse vi ricorderete di me per eventi luttuosi come...<br />

7.<br />

(Flashback) Un uomo sta tornando a casa su <strong>un</strong> carretto trainato da <strong>un</strong> cavallo. Fischietta. A <strong>un</strong><br />

certo p<strong>un</strong>to, da <strong>un</strong>a siepe sp<strong>un</strong>ta <strong>un</strong> tizio vestito come <strong>un</strong> arabo. Ha in mano <strong>un</strong> AK 47. Spara<br />

all’uomo sul carretto, che muore spruzzando sangue come <strong>un</strong> idrante.<br />

omino: i libici! Mi hanno trovato!<br />

pascoli (voice over): …l’assassinio di mio padre...<br />

8.<br />

(Flashback) Una bambina in <strong>un</strong> letto. Pallida e malata. Ha <strong>un</strong> attacco di tosse, che va in crescendo,<br />

fino a che non tossisce così forte che sputa fuori tutti gli organi interni.<br />

Un istante dopo si apre la porta, entra <strong>un</strong>a donna più anziana che come vede il corpicino svuotato<br />

sul letto urla fino a che la testa non scoppia in <strong>un</strong> fuoco d’artificio di sangue.<br />

pascoli (voice over): ...le morti per malattia di mia sorella Margherita e di mia madre...<br />

9.<br />

(Flashback) Un ragazzino cammina per i campi, fischiettando. All’improvviso si blocca, si tiene<br />

la testa, fa <strong>un</strong> saltino all’indietro e scompare tra le spighe di grano.<br />

pascoli (voice over): … la morte di mio fratello Luigi...<br />

10.<br />

(Flashback) Pascoli, ventenne, sta pranzando con <strong>un</strong> signore più anziano. D’<strong>un</strong> tratto, alle<br />

spalle del signore più anziano (lo zio Alessandro) appare l’Angelo della Morte, con in mano <strong>un</strong>a<br />

falce. Con <strong>un</strong> colpo, mozza la testa allo zio.<br />

giovane pascoli: ma... perché?<br />

angelo: era gi<strong>un</strong>ta l’ora di Pierantonio Coretti. Mi spiace.<br />

giovane pascoli: ma... lui abita nel palazzo di fianco.<br />

angelo: non è il 12, questo?<br />

giovane pascoli: no! Questo è il 14.<br />

angelo (consultando <strong>un</strong> taccuino): Ah. Beh, errore mio. Ma tanto ci sei abituato, no?<br />

pascoli (voice over): ...la morte di mio zio Alessandro...<br />

11.<br />

(Flashback) il giovane Pascoli e il fratello camminano per piazza Maggiore a Bologna. Una carrozza<br />

sfugge al controllo e travolge il fratello, risparmiando Pascoli. Quando il mezzo si ferma,<br />

dal posto del conducente sp<strong>un</strong>ta l’angelo della morte.<br />

angelo: aspetta, non dirmi niente. Non era Jacopo Basculi, vero?<br />

pascoli (voice over): … e infine la morte di mio fratello...<br />

12.<br />

Pascoli continua a camminare, questa volta tornando verso la tavola, dove gli amici ridono e<br />

scherzano.<br />

pascoli: ma tutte queste avversità non mi hanno mai fermato. Mi sono laureato all’<strong>un</strong>iversità<br />

opera galleggiante 23


di Bologna e sono diventato <strong>un</strong> poeta. La mia poetica è diventata nota grazie alla metafora<br />

del...<br />

13.<br />

Primo piano. Pascoli fa <strong>un</strong>a faccia strana, come se gli venisse da vomitare.<br />

pascoli: ghhh... ahhh...<br />

Luca Schiavone, Milano_4, 2007<br />

24<br />

14.<br />

Pascoli si getta sul tavolo, si<br />

contorce tenendosi lo stomaco<br />

con le mani.<br />

pascoli: AHHH... ARGHHH...<br />

amici: oh no! Non di nuovo!<br />

15.<br />

Primo piano del busto di Pascoli.<br />

Qualcosa sta spingendo da dentro.<br />

La pelle e i vestiti si tendono<br />

innaturalmente. Poi è come<br />

se ci fosse <strong>un</strong>’esplosione. Dal<br />

petto di Pascoli sbuca fuori <strong>un</strong>a<br />

creatura alta poco più di mezzo<br />

metro, con la faccia e i vestiti di<br />

<strong>un</strong>a bambola e <strong>un</strong> coltellaccio in<br />

mano. Sghignazza guardando in<br />

camera.<br />

amici: il fanciullino!<br />

16.<br />

Il fanciullino corre verso di noi. Poi salta. Il p<strong>un</strong>to di vista cade al suolo e si inclina di 90 gradi.<br />

Tutto quello che vediamo sono i piedi del fanciullino, mentre pugnala più e più volte il corpo a<br />

terra.<br />

Colonna sonora di urla assortite.


marzo ’08<br />

Seduto sulla mia veranda col fucile in grembo<br />

1. Non perdo <strong>un</strong>’occasione<br />

Ivano Bariani<br />

Un mio amico con la cravatta, che di queste cose ne mastica, mi ha confermato che si potrebbe<br />

fare. In effetti il mio amico non ha saputo dirmi se così riuscirei a mantenermi, ma mi ha<br />

assicurato che provarci non è illegale. Insomma ho finalmente <strong>un</strong>a terza via a disposizione, se<br />

i conigli ammaestrati e la lombricocoltura dovessero rivelarsi meno redditizi del previsto. Sarò<br />

<strong>un</strong> colonizzatore di storie.<br />

Vedete, il colonizzatore di storie altri non è che <strong>un</strong>a specie di mitomane logorroide legalmente<br />

assistito: <strong>un</strong> giorno decide di arricchirsi e così apre <strong>un</strong> blog – il legame tra le due cose<br />

è chiaro soltanto a lui, almeno all’inizio. Quindi, a partire dal giorno dopo, comincia a postare<br />

(l’appropriarsi di <strong>un</strong> gergo tecnico è fondamentale per <strong>un</strong> buon colonizzatore di storie) ogni<br />

sorta di idiozia narrabile passata sotto il suo naso. A volte posta addirittura in tempo reale –<br />

nel senso che se <strong>un</strong> suo amico gli dice «Oh, non sai mica l’ultima» lui alza l’indice e si connette<br />

al suo blog; abbassa l’indice e poi dice: «Ok, racconta» Questo perché il bravo colonizzatore di<br />

storie non perde tempo a curare la qualità estetica: gli bastano le idee grezze, p<strong>un</strong>ta alla quantità,<br />

deve soltanto piantare quante più bandierine gli è possibile piantare (su ogni bandierina<br />

le sue iniziali, anche questo è fondamentale). Come ogni buon colonizzatore, il colonizzatore<br />

di storie si è reso conto di <strong>un</strong>a cosa: il potere non è più nella capacità, ma nel controllo delle<br />

risorse. E anche che non serve più a niente essere bravi, basta essere primi.<br />

Il colonizzatore di storie, quando non sta colonizzando, siede sulla veranda di casa. Scruta<br />

il terreno conquistato e tiene <strong>un</strong> fucile in grembo. Parla poco, non ringhia mai. È soprattutto<br />

<strong>un</strong>a persona paziente. Se vede qualc<strong>un</strong>o gli spara, poi chiede chi va là.<br />

Guardate, io comincio subito, prima che il mercato s’inflazioni:<br />

Lui e lei si frequentano da <strong>un</strong> po’. Lei fa l’infermiera, lui no. Lui – e qui cominciano i fatti – <strong>un</strong><br />

pomeriggio va a trovarla in corsia, ché lei gli ha detto <strong>un</strong>’ora alla quale non c’è mai molto da<br />

fare. Si piazzano a metà di <strong>un</strong> corridoio; lei in divisa bianca, lui in jeans e maglione. Fanno due<br />

chiacchiere. La situazione è in effetti tranquilla. Ogni tanto passa <strong>un</strong> dottore o <strong>un</strong> infermiere.<br />

Loro parlottano sempre, del più e del meno. A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to passa <strong>un</strong>’infermiera di chirurgia,<br />

vestita tutta di verde, alta e mora. Lui la segue con gli occhi e la testa mentre li sorpassa, e intanto<br />

finisce la frase che ha in bocca. Lei si accorge della cosa ma continua a parlare; soltanto<br />

dopo <strong>un</strong> po’ gli fa:<br />

«Hai visto quella?»<br />

«Chi?»<br />

«Quella che è appena passata, la mia collega».<br />

«Ma quale?»<br />

«Aveva la divisa verde, dai».<br />

«Non mi pare…»<br />

«Alta più o meno così…»<br />

«No».<br />

«Mora coi capelli l<strong>un</strong>ghi…»<br />

«…»<br />

«Piuttosto carina…»<br />

opera galleggiante 25


«Ah, ma sì: quella col tanga».<br />

Ecco, non fa così ridere perché non sapete ancora il titolo. Il racconto dovrà essere in prima<br />

persona, raccontato dal p<strong>un</strong>to di vista di lui, e il titolo sarà: Non perdo <strong>un</strong>’occasione. Mi sa fatica<br />

scriverlo (sono <strong>un</strong> colonizzatore, mica <strong>un</strong> agricoltore), perciò spero che lo faccia qualc<strong>un</strong>o di<br />

voi. Così poi lo den<strong>un</strong>cio.<br />

2. Effetti perversi della colonizzazione selvaggia: <strong>un</strong>o scenario possibile (così come è stato<br />

descritto da <strong>un</strong> mio amico senza cravatta, che studia sociologia, interrogato sull’argomento)<br />

«Comincerà tutto in sordina. Le potenzialità della rivoluzione in atto resteranno oscure per<br />

diversi mesi, anche agli occhi di chi si ritroverà volente o nolente al centro della configurazione.<br />

Qualche voce dubbiosa si alzerà, ma proverrà da zone periferiche al cambiamento, e<br />

non sarà sufficientemente coinvolta per poter influire sul paradigma. Gli eventi evolveranno<br />

a velocità esponenziale. Quando i prodromi del crollo appariranno evidenti agli occhi di tutti,<br />

la curva sarà prossima all’asintoto, e quelle (in verità poche) istituzioni con ancora l’autorità<br />

per provocare <strong>un</strong>’inversione o <strong>un</strong> rallentamento, semplicemente rimanderanno la decisione<br />

troppo a l<strong>un</strong>go. L’inerzia decisionale dell’intero sistema, per <strong>un</strong>a volta, favorirà lo svilupparsi<br />

degli eventi, e l’intera rivoluzione – dalle prime ad<strong>un</strong>anze di coloni fino al collasso completo<br />

del mercato di acquisizione dei diritti d’autore come lo conosciamo oggi – non impiegherà più<br />

di <strong>un</strong> paio d’anni a compiersi. L’aspetto veramente paradossale di questa rivoluzione è che<br />

sarà l’avidità dei singoli a farne da catalizzatore. Nel momento in cui metà della popolazione<br />

si sarà resa conto di potersi arricchire semplicemente piantando bandierine sulle narrazioni,<br />

l’altra metà si sarà accorta di non aver più bisogno di spendere denaro per sopperire al proprio<br />

bisogno narrativo. Le nuove forme che emergeranno, dal canto loro, saranno per lo più originarie,<br />

allo stato embrionale, e – quel che più conta – terribilmente brevi. Spogliata del suo<br />

plusvalore monetario, e infine anche della sua componente oratoria, la narrativa si rivelerà<br />

allora per quello che è sempre stata: esperienza più fermentazione. La naturale dipendenza<br />

narrativa della specie umana verrà d<strong>un</strong>que scardinata per la prima volta nella Storia. Inutile<br />

dire che il disinteresse generale e individuale per il nuovo tipo di approccio alla realtà che<br />

andrà costituendosi continuerà a crescere anche a rivoluzione compiuta. Semplicemente, la<br />

gente cercherà altrove <strong>un</strong>a qualche forma di consolazione alla propria, tragica e oramai palese<br />

condizione esistenziale. Aumenteranno i suicidi, caleranno le nascite e i matrimoni. Un BigMac<br />

continuerà a costare 1 euro e 60.»<br />

3. Nuove colonie<br />

Un tizio – <strong>un</strong> professore – sale su <strong>un</strong> treno – <strong>un</strong> eurostar. Si dirige in prima classe e controlla il<br />

numero del suo posto prenotato sul biglietto. Raggi<strong>un</strong>ge la fila giusta e fa per sedersi, ma <strong>un</strong> altro<br />

tizio – dai tratti egiziani – siede al suo posto. Il professore dice all’egiziano di levarsi dal suo posto.<br />

L’egiziano si alza indignato e lo squadra. I due litigano <strong>un</strong> poco. Il professore mostra all’altro il<br />

proprio biglietto. L’altro tira fuori il suo biglietto e lo avvicina a quello del professore. I posti prenotati<br />

sono gli stessi, su entrambi i biglietti. Il professore inveisce contro le ferrovie. Un controllore li<br />

raggi<strong>un</strong>ge. Il professore comincia a inveire contro di lui in particolare. Il controllore afferra entrambi<br />

i biglietti e li scruta, piano piano. Solleva la testa e chiede al professore esattamente dov’è che deve<br />

andare. Il professore dice Milano. Il controllore dice che quello è l’eurostar per Reggio Calabria.<br />

(Non fa così ridere perché vi ho tenuto all’oscuro di <strong>un</strong> dettaglio importante: il tizio, il professore,<br />

è <strong>un</strong> professore di latino. Ancora non vi fa ridere? E se vi dicessi che io, alle superiori, in latino,<br />

ho sempre avuto 4?)<br />

26


***<br />

marzo ’08<br />

A e B sono amici. A e B si danno app<strong>un</strong>tamento, per <strong>un</strong> certo pomeriggio a <strong>un</strong> certo orario.<br />

A arriva, cinque minuti in anticipo, siede su <strong>un</strong>a panchina e aspetta B. Dieci minuti dopo A è<br />

ancora lì, e di B neanche l’ombra. A guarda l’orologio, sbuffa ed estrae il cellulare. Chiama il<br />

numero di B. Una voce gli dice che il cellulare di B non è al momento raggi<strong>un</strong>gibile. A chiude<br />

il cellulare e sbuffa. Venti minuti dopo A è ancora lì, ma di B neanche l’ombra. A si alza e fa<br />

due passi. Torna alla panchina, dieci minuti dopo, e ancora B non s’è presentato. Passa più o<br />

meno <strong>un</strong>’ora in questo modo. A, con l’aria scocciatissima, estrae di nuovo il cellulare e telefona<br />

al numero di casa di B. Gli risponde la segreteria telefonica di B. A lascia <strong>un</strong> messaggio e se<br />

ne va, incazzato nero. Quella sera stessa A riceverà <strong>un</strong>a telefonata di C – amico sia di A che<br />

di B – che lo informerà del fatto che quella mattina B ha tentato di suicidarsi; si è gettato dal<br />

balcone di casa, dirà C nell’orecchio di A, s’è salvato<br />

per miracolo; adesso lo tengono all’ospedale sotto<br />

farmaci. A chiuderà la com<strong>un</strong>icazione con C e ripenserà<br />

a quel pomeriggio in attesa di B, e alla telefonata e<br />

al messaggio lasciato sulla sua segreteria telefonica.<br />

Il messaggio di A diceva che l’<strong>un</strong>ica scusa che avrebbe<br />

accettato per quel ritardo era che B fosse morto.<br />

***<br />

Un giorno, dopo tanti giorni, muore <strong>un</strong> blogger. Cioè<br />

<strong>un</strong>a persona che teneva <strong>un</strong> suo blog. Seguono dalle<br />

trenta alle quaranta pagine di scenario, su come la<br />

blogosfera apprende la cosa – su come i blogosferici<br />

reagiscono.<br />

***<br />

Luca Schiavone, La rinascita di palermo, 2007<br />

Un giorno, dopo pochi giorni, <strong>un</strong> o <strong>un</strong>a blogger relativamente giovane – diciamo sui 20-25 anni<br />

– prende e scappa di casa. Da quel giorno, ma non tutti i giorni, sul blog di quel o quella giovane<br />

compaiono i resoconti di quello che sta combinando, di dove lo sta combinando. Gli amici<br />

e i lettori di quel o quella giovane vanno sempre più spesso sul suo blog, a leggere di mense<br />

dei poveri e notti nelle sale di attesa delle stazioni – di giorni interi in giro per città mai viste,<br />

<strong>un</strong>a fame della madonna e <strong>un</strong>o zainetto addosso – di serate a lavare piatti nelle pizzerie e nei<br />

bar per pagarsi il prossimo pasto e il prossimo biglietto – di sporadici pomeriggi in elemosina<br />

ai semafori o nelle piazze – di randagi e altri personaggi incontrati per strada – di materassi<br />

umidi sotto ai ponti e cartoni arrotolati nei giardini pubblici – di facce stral<strong>un</strong>ate e nasi storti<br />

negli internet point quando lui o lei si presenta per aggiornare il suo blog. Qualche amico <strong>un</strong><br />

poco più vicino a quel o a quella giovane avverte i suoi genitori, che cominciano così a seguire<br />

le giornate del figlio o della figlia sparito o sparita, direttamente dal suo blog. Passa <strong>un</strong> mese e<br />

gli accessi giornalieri al blog del o della giovane triplicano. Passano due mesi e il o la giovane<br />

avvisa tutti di aver da poco varcato il confine con la Francia, diretto o diretta a Parigi. Passa<br />

<strong>un</strong>’altra settimana e il o la giovane avverte di aver finalmente raggi<strong>un</strong>to Parigi – dice di non<br />

cavarsela poi tanto male col francese. I contatti decuplicano. Qualche settimana dopo, a casa<br />

del o della giovane, si fanno vivi i primi inserzionisti: chiedono ai genitori del o della giovane se<br />

opera galleggiante 27


non hanno per caso modo di contattarlo o contattarla. Vorrebbero sapere se loro figlio o loro<br />

figlia sarebbe interessato o interessata a ospitare sul suo blog <strong>un</strong> loro banner. La madre o il padre<br />

del giovane o della giovane alzerà le spalle, farà accomodare i signori e andrà a chiamare<br />

suo figlio o sua figlia. Mentre il giovane o la giovane uscirà dalla sua stanza, il padre o la madre<br />

gli dirà o le dirà se non si è già divertito o divertita abbastanza, con quella storia.<br />

***<br />

Un tizio, <strong>un</strong>a notte, trova <strong>un</strong>a bicicletta per strada, appoggiata a <strong>un</strong> lampione. Si guarda attorno<br />

e non vede ness<strong>un</strong>o né più su né più giù l<strong>un</strong>go la strada. Si avvicina al lampione e vede che<br />

la bicicletta – nera e rossa – non è legata. Si guarda attorno <strong>un</strong>’altra volta e mette le mani sul<br />

manubrio. Sposta la bicicletta dal lampione e sale in sella. Poi pedala fino a casa. La mattina<br />

dopo si sveglia, si veste, scende in cantina, cerca <strong>un</strong> lucchetto, tira fuori la bicicletta e pedala<br />

fino al lavoro. La sera esce dalla fabbrica, slega il lucchetto e pedala fino a casa. La mattina<br />

dopo si sveglia, si veste, scende in cantina, tira fuori la bicicletta e pedala fino al lavoro. La<br />

sera esce dalla fabbrica e pedala fino a casa. La mattina dopo si sveglia, scende in cantina, tira<br />

fuori la bicicletta e si rende conto di non essersi ancora vestito. Rimette a posto la bicicletta,<br />

sale in casa a vestirsi e poi va al lavoro. La sera esce dalla fabbrica e pedala fino al lampione<br />

dove ha trovato la bicicletta. Sotto al lampione c’è <strong>un</strong> uomo vestito di grigio con le antenne,<br />

che fuma. Il tizio tira i freni della bicicletta e poi gli si avvicina. L’uomo vestito di grigio riconosce<br />

la bicicletta e dice al tizio che quella è sua. Il tizio dice che gli dispiace. L’uomo vestito<br />

di grigio dice che se proprio la vuole allora può vendergliela. Il tizio guarda la bicicletta e poi<br />

l’uomo vestito di grigio e gli chiede quanto vuole. L’uomo vestito di grigio gli dice sono <strong>un</strong><br />

alieno, perciò mi accontento di diecimila lire. Il tizio paga l’alieno che fuma sotto al lampione e<br />

poi pedala fino a casa. La mattina dopo il tizio si sveglia, si ricorda di vestirsi, scende in cantina<br />

e la bicicletta è sparita. Sulla serratura della cantina ci sono evidenti segni di scasso alieno.<br />

***<br />

Una tipa, <strong>un</strong>a mattina, lavandosi i denti intuisce il senso della vita. La cosa le fa <strong>un</strong> male atroce.<br />

La tipa smette di lavarsi i denti. Due mesi dopo ness<strong>un</strong>o ha più voglia di parlare con lei.<br />

***<br />

Un tizio o <strong>un</strong>a tizia, cioè <strong>un</strong> blogger o <strong>un</strong>a blogger, divenuto “famoso” o divenuta “famosa”<br />

grazie a <strong>un</strong>a specie di truffa, scoperto l’inganno scappa veramente di casa, più che altro per la<br />

vergogna. Riesce ad arrivare da qualche parte, ma solo fingendosi chi non è, e sbagliando treno<br />

diverse volte. Si rende conto di aver finito i soldi e di non poterlo raccontare a ness<strong>un</strong>o perché<br />

ness<strong>un</strong>o gli o le crederebbe. Allora torna a casa dai suoi e si cerca <strong>un</strong> lavoro. Quasi ness<strong>un</strong>o<br />

legge più il suo blog. Una mattina, lavandosi i denti, capisce che il declino di <strong>un</strong>a persona – se è<br />

autentico – non ha risvolti commerciali. Poi fissa <strong>un</strong> app<strong>un</strong>tamento con <strong>un</strong> suo amico, per quel<br />

pomeriggio, e si butta dal terrazzo. Non muore. All’ospedale, sotto sedativi, sogna di essere <strong>un</strong><br />

operaio che ruba <strong>un</strong>a bicicletta a <strong>un</strong> alieno e poi gliela paga e l’alieno se la riprende com<strong>un</strong>que.<br />

Quando si sveglia, ancora scosso o ancora scossa, torna a casa e ascolta la segreteria telefonica.<br />

Il messaggio del suo amico lo inquieta o la inquieta di nuovo. Questa volta riesce ad uccidersi. La<br />

com<strong>un</strong>ità dei blogger sospettava che lui fosse o lei fosse <strong>un</strong> blogger o <strong>un</strong>a blogger <strong>un</strong> po’ strano<br />

o <strong>un</strong> po’ strana, ma <strong>un</strong>a cosa del genere, com<strong>un</strong>que, a loro, ancora non gli era mai capitata.<br />

28


marzo ’08<br />

Il re del mondo<br />

Gianluca Morozzi<br />

Questo racconto è <strong>un</strong> riciclaggio in vari sensi.<br />

Innanzitutto è <strong>un</strong>a riscrittura aggiornata (e migliore, in molti p<strong>un</strong>ti) di <strong>un</strong> mio racconto uscito sei anni fa su “La L<strong>un</strong>a<br />

di Traverso” con titolo Il solipsista. Che già di suo era ispirato a <strong>un</strong> racconto di Fredric Brown dal titolo, app<strong>un</strong>to, Il<br />

solipsista. E infine, Il re del mondo è il titolo di <strong>un</strong>a canzone di Battiato. Riciclaggio a tutto tondo...<br />

Il fisico non l’aiutava. Il nome neppure. Tantomeno l’attitudine alle riflessioni pompose, tra <strong>un</strong><br />

fratello Karamazov e Silver Surfer.<br />

Quella notte se ne stava lì sotto il portico, i pugnetti che tremavano per la rabbia, a pensare<br />

Oh, la vita è così ingiusta e sa riservare così amare sorprese.<br />

Elvis zampettava sotto il portico. Le gambette corte lo trascinavano nel giovedì notte<br />

bolognese, e le raffiche di vento freddo scuotevano i suoi occhiali e la banana scolpita col gel.<br />

Il tremito rabbioso si propagava dalle mani ficcate nelle tasche del giubbotto di pelle, fino ad<br />

agitare tutto il suo metro e cinquantotto di statura.<br />

Gli ubriachi negli androni dormivano <strong>un</strong> sonno profondo, accanto ai loro cartoni di vino di<br />

scarsa qualità. A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to sentirono <strong>un</strong>o scalpicciare di stivali col tacco sotto il portico,<br />

alzarono gli occhi, videro sfrecciare <strong>un</strong> Woody Allen travestito da James Dean che parlava da<br />

solo dicendo cose «se li trovo insieme li uccido. Li uccido tutti e due». Batterono le palpebre <strong>un</strong><br />

po’, poi tornarono saggiamente a dormire.<br />

Spinto dai suoi pensieri progressisti, Elvis interruppe la sua marcia forzata davanti al discopub<br />

chiamato Millennium. Il teatro della sfida finale. La tana che, senza dubbio, nascondeva i due<br />

infami. Le serpi. La meretrice e il suo stallone. La succubus e il demonio. Salomè e...<br />

Va bene.<br />

Avete capito il concetto.<br />

Elvis respirò profondamente.<br />

Una lacrima<br />

minuscola e calda sp<strong>un</strong>tò<br />

tra le sue ciglia di l<strong>un</strong>ghezza<br />

quasi femminea.<br />

Sospirando, lasciò la<br />

calda sicurezza del portico<br />

per attraversare la strada<br />

dove fu quasi arrotato da<br />

<strong>un</strong> motorino.<br />

Il branco a cui stava<br />

per mescolarsi traboccava<br />

fuori dal locale. Quei giovani<br />

barbari malvestiti si<br />

ammassavano nel piccolo<br />

piazzale di fronte al Mil-<br />

Luca Schiavone, Anche io ti amo, 2007<br />

opera galleggiante 29


lennium, chi per bere birra in barba alle ordinanze com<strong>un</strong>ali, chi a parlamentare col buttafuori<br />

per entrare senza tessera Arci, chi per star curvo sul marciapiede cercando di non vomitare.<br />

Uno spettacolo che Elvis, decisamente, trovava disgustoso. Giovinastri!, pensò, sprezzante<br />

e originale.<br />

Tagliò la folla deciso, gli occhi dritti davanti a sé, gli occhiali appannati dalle varie qualità di<br />

fumo nell’aria. Riuscì ad attraversare le prime muraglie dell’accampamento nemico, quelli con<br />

la birra, quelli che cercavano di non vomitare. Tra lui e quelli che trattavano col buttafuori c’era<br />

solo <strong>un</strong> gruppo di p<strong>un</strong>kabbestia che si divideva <strong>un</strong>a bottiglia di vino giocando con <strong>un</strong> cane.<br />

Quando fu davanti a quel maleodorante consesso, <strong>un</strong>o dei p<strong>un</strong>kabbestia alzò <strong>un</strong> sopracciglio<br />

trafitto di piercing. Guardò Elvis. Sghignazzò.<br />

«Ehi, bello» rise «Complimenti per i pantaloni. Davvero.»<br />

La risata collettiva dei p<strong>un</strong>kabbestia scosse il piazzale.<br />

Elvis abbassò gli occhi, avvampando di vergogna. Si infilò in fretta nel locale.<br />

Il Millennium aveva soffitti bassi, sale inc<strong>un</strong>eate nel sottosuolo come grotte, arcate <strong>un</strong> tempo<br />

testimoni del passaggio di <strong>un</strong> torrente. Le fioche luci verdi disegnavano <strong>un</strong>a massa ondeggiante<br />

di teste, braccia e spalle in pista sotto il dj.<br />

Tutti questi dettagli, le arcate, le luci verdi, le braccia ondeggianti, Elvis le notò solo dopo<br />

<strong>un</strong> po’. Quando ebbe finito di tossire, cioè, squassato da singulti violenti causati dal sudore in<br />

sospensione e dalla cappa di fumo. In barba a tutte le leggi nazionali, realizzò con le lacrime<br />

agli occhi. Fuorilegge. Bestie.<br />

Le casse sparavano rock moderno, musica che Elvis odiava intensamente. Lui odiava ogni<br />

canzone incisa dopo il millenovecentosessantadue, a parte <strong>un</strong> brano dell’ottanta chiamato<br />

Cadillac Ranch. Si era registrato <strong>un</strong>a musicassetta con trenta versioni pirata di Cadillac Ranch,<br />

distinguibili l’<strong>un</strong>a dall’altra solo per qualità diverse di fruscio.<br />

Quando ebbe finito di tossire e lacrimare si fece strada verso il bar. Urtato, spintonato e<br />

palleggiato tra giovani metallari e minorenni ubriache, riuscì ad aggrapparsi al bancone, precario<br />

come <strong>un</strong> topo. Si sistemò in qualche modo su <strong>un</strong>o sgabello, e ordinò <strong>un</strong> whisky per farsi<br />

coraggio.<br />

Le due serpi, la meretrice e il suo stallone, la succubus e il demonio, lo sapeva, erano a<br />

poca distanza da lì. Ignari. Gaudenti. Lubrichi.<br />

Era lì che si erano conosciuti, la baldracca e l’astuto playboy. Nel ventre buio del Millennium,<br />

al riparo da quella barricata di fumo e di sudore.<br />

In quel momento, a pochi passi dalla sua vendetta, Elvis si sentì l’uomo più triste del<br />

mondo. Guardò tutti quei ragazzotti che ballavano e si divertivano, incuranti del suo cupo stato<br />

mentale.<br />

Nella muraglia compatta di allegria spiccava <strong>un</strong>’<strong>un</strong>ica macchia di tristezza. Un ragazzone<br />

dagli occhi da bue, il collo taurino, e <strong>un</strong> pesantissimo maglione di lana a rombi. Beveva<br />

<strong>un</strong>’aranciata da solo, in <strong>un</strong> angolo. Nel caldo da fonderia del Millennium, quell’assurdo maglione<br />

spiccava per inadeguatezza. Oltre che per abominevole bruttezza.<br />

Elvis lasciò perdere quel povero caso umano. Si asciugò la bocca dal whisky, con gesto<br />

molto maschio e virile. Era ora di danzare col diavolo.<br />

Scese dallo sgabello con <strong>un</strong> saltello altrettanto maschio e virile. Per poco non cadde tra la<br />

folla, rischiando di venir calpestato da <strong>un</strong> centinaio di maleodoranti anfibi. Non reggeva troppo<br />

bene il whisky.<br />

Si raddrizzò, si inc<strong>un</strong>eò barcollante nei meandri del Millennium. Dribblò <strong>un</strong>a ragazza che<br />

fissava schifata i suoi pantaloni, superò la sala chiamata Osteria, si tuffò risoluto nella seconda<br />

pista da ballo. E lì, fu risucchiato dalla folla impazzita.<br />

30


marzo ’08<br />

Passò due minuti orrendi a fare la pallina da flipper in <strong>un</strong> pogo sudato, violento e cattivo.<br />

Alla fine, per fort<strong>un</strong>a, venne masticato dal quel magma di carne e sudore e sputato davanti a<br />

<strong>un</strong> altro bar. Ne approfittò per prendersi <strong>un</strong>a birra e darsi coraggio ulteriore.<br />

Avrebbe ucciso i due infami. Se fosse sopravvissuto al coma etilico.<br />

A metà della sua birra, scrutando tra la massa verso i tavolini a bordo pista, li trovò. La sala era<br />

in penombra ed Elvis quasi cieco, ma li vide ugualmente. Un’inconsueta botta di fort<strong>un</strong>a.<br />

Gli infami erano accovacciati sotto <strong>un</strong>’arcata, molto vicini, molto in confidenza. Lei aveva <strong>un</strong><br />

top cortissimo. Lui, la maglietta di <strong>un</strong> gruppo rock di recente fondazione.<br />

Li guardò a l<strong>un</strong>go, in piedi davanti al bancone, col suo bicchiere in mano. Fece qualche<br />

passo verso di loro attraverso la pista. Si lasciò spintonare dai ragazzi che ballavano, il sudore<br />

che imbrattava a pioggia il suo giubbotto di pelle.<br />

Mentre pensava a come suicidarsi, <strong>un</strong> grassone si catapultò in pista come <strong>un</strong>a palla di cannone.<br />

Lo urtò senza scusarsi, e rovesciò tutta la birra sui famigerati pantaloni.<br />

Elvis rimase a bocca aperta, grondante e pietrificato, il bicchiere vuoto in mano.<br />

In quel preciso istante, nel momento più umiliante di tutta la sua vita, Elvis prese coscienza.<br />

Il Woody Allen vestito da James Dean sbattè gli occhietti cisposi.<br />

Ma certo, si disse, ma certo, è evidente, era così semplice. L’ariete formato da alcol, fumo e<br />

adrenalina aveva sfondato la porta dell’illuminazione.<br />

Ho capito, si ripetè, ora ho capito, lo so, è tutto chiaro.<br />

Sorrise maligno.<br />

Si fece largo tra la gente, con calma. Raggi<strong>un</strong>se il grassone agitato che ballando aveva fatto<br />

il vuoto intorno a sé.<br />

Il grassone vide i suoi pantaloni e scoppiò a ridere, sguaiato, a bocca aperta.<br />

«Tu non esisti» disse Elvis, lentamente.<br />

Il grassone sparì.<br />

Tutti smisero di ballare, esterrefatti. Elvis fece <strong>un</strong> movimento rotatorio con la testa, come ad<br />

abbracciare la sala intera, e sibilò «Voi non esistete».<br />

La sala si svuotò. A parte due persone.<br />

Elvis si avvicinò ai due infami con calma, le mani in tasca, lo sguardo sicuro dietro gli<br />

occhiali. Lei, la meretrice, la succubus, Messalina, alzò la testa. Lo vide. Elvis le p<strong>un</strong>tò il dito<br />

contro.<br />

«Basta fingere. Basta pagliacciate».<br />

Lei lo guardò perplesso, disse «Eh?»<br />

«Basta fingere, ho detto. Avete recitato bene, per essere delle mere creazioni della mia<br />

mente. Ma ora, sappiatelo, ho capito. Niente esiste all’infuori di me. Niente e ness<strong>un</strong>o. Io sono<br />

Dio, autoimprigionato in <strong>un</strong> mondo di fantasia. Tutto il mondo, tutti voi, non siete che <strong>un</strong> mio<br />

pensiero. Un teatro delle marionette. Una fantasia. Svanite se distolgo lo sguardo. Riapparite<br />

appena mi giro. Ma ora basta, tesoro. Basta. Ora ho capito. Sparite».<br />

«Cheeee?» muggì lei, poi scomparve nel nulla. Subito seguita dal ragazzo accanto a lei, che<br />

lasciò il mondo con gli occhi fissi sui famosi pantaloni.<br />

Elvis ritornò con calma nella pista principale, dove la calca ballava ignara di tutto. Un battito<br />

di ciglia, e non c’era più ness<strong>un</strong>o.<br />

Elvis ghignò soddisfatto. Uscì dal Millennium, tornò in mezzo ai p<strong>un</strong>kabbestia che giocavano<br />

col cane. Quello di prima, quello col piercing nel sopracciglio, rise di nuovo. «Ehi, occhialetto,<br />

ancora complimenti per i pantaloni!»<br />

opera galleggiante 31


«I complimenti falli a tua sorella» rispose Elvis. Aveva sempre sognato di dirlo senza subire<br />

conseguenze fisiche disastrose.<br />

Un attimo prima che il p<strong>un</strong>kabbestia lo uccidesse di botte, Elvis schioccò le dita e rimase<br />

solo nel piazzale. Risparmiò soltanto il cane, che si aggirò intorno alla bottiglia annusando la<br />

pozza di vino.<br />

Elvis lo accarezzò. «Vieni, bello, vieni. Sono <strong>un</strong> dio magnanimo. Non ce l’ho con te. Ti terrò<br />

al mio fianco e ti battezzerò come il mio idolo. Una delle mie migliori creazioni». Guardò la città<br />

addormentata, le luci gialle dei portici. «Osserva, Fonzie. Ora svuotiamo tutto il mondo».<br />

Battè due volte le mani.<br />

Luca Schiavone, Pisa_1, 2007<br />

32<br />

Rientrò con il cane nel Millennium vuoto e silenzioso. Il<br />

suono dei suoi tacchi rimbombava sotto le arcate.<br />

Scivolò dietro il bancone del bar e si versò <strong>un</strong> doppio<br />

whisky. Poteva reggerlo, ora. Era Dio.<br />

Assaporò il whisky lentamente, immerso nella propria<br />

onnipotenza, mentre Fonzie faceva i suoi bisogni contro<br />

<strong>un</strong>a colonna.<br />

Poi, qualcosa spezzò il silenzio. Una voce.<br />

«Capo, credo che non ho mai visto dei pantaloni così<br />

brutti in vita mia».<br />

Elvis trasalì.<br />

Guardò meglio la sala deserta del Millennium.<br />

Il bue dal collo taurino, quello col maglione a rombi,<br />

c’era ancora. Beveva la sua aranciata, seduto nel suo<br />

angolino.<br />

Elvis sbuffò, infastidito da quell’uso orrendo della<br />

lingua italiana e da quel terribile maglione. «Ancora qui?»<br />

Schioccò le dita seccato. «Sparisci. Devo meditare».<br />

Il bue aggrottò le sopracciglia rigorosamente <strong>un</strong>ite.<br />

Disse «credo che sei matto, capo.»<br />

Non si sognò nemmeno di scomparire.<br />

Elvis lo fissò con odio. «Sparisci! Sparisci, ho detto!»<br />

strillò stridulo.<br />

«Ma sparisci tu, piuttosto» grugnì il bue «con quei<br />

pantaloni schifosi.»<br />

E schioccò a sua volta le dita.<br />

Si guardarono perplessi, da <strong>un</strong> lato all’altro del locale.<br />

Il cane Fonzie annusava <strong>un</strong>a macchia di birra sul pavimento.<br />

Il bue tamburellava sul tavolino. Il suo misero cervellino si<br />

sforzava di comprendere dei concetti troppo grandi per lui.<br />

«E’ successo cinque minuti fa» stava dicendo «guardavo la luce verde, e di colpo ho capito<br />

che ero l’<strong>un</strong>ica persona reale del mondo. Così ho fatto sparire tutti. Tutti quanti. Tranne te.»<br />

Elvis era accasciato sul bancone, distrutto. Il cane Fonzie lo guardava accucciato sotto <strong>un</strong>a<br />

colonna.<br />

«Non ha senso» guaì Elvis «non ha senso. Il solipsismo non contempla due solipsisti. E’ <strong>un</strong>a<br />

contraddizione in termini.»


marzo ’08<br />

«Il soliche? Parla come mangi, capo».<br />

Elvis sospirò, di fronte a quell’abisso d’ignoranza. «Il solipsismo, dal latino solus, solo, e<br />

ipse, stesso, è la credenza metafisica che l’esistenza in quanto tale sia solo parte degli stati<br />

mentali dell’individuo stesso. In altri termini: tutto ciò che esiste è creato dalla mia coscienza o<br />

è parte di essa. Capisci, ora, cos’è <strong>un</strong> solipsista?»<br />

Il bue lo fissava con gli occhi bianchi. «Certo, capo, certo. Come dici tu. Non ho capito niente,<br />

ma credo che hai ragione».<br />

«Credo che tu abbia ragione. Abbia. I congi<strong>un</strong>tivi. Ti prego. Usa i congi<strong>un</strong>tivi».<br />

«Senti, capo, se io saprei parlare bene mica farei il gommista. Farei lo scienziato, o andrei<br />

in televisione».<br />

«Ah sì? Be’, ho <strong>un</strong>a novità per te. Non fai più il gommista. Non c’è più ness<strong>un</strong> automobilista<br />

a cui cambiare pneumatici, in tutto il mondo. Non c’è più neanche la televisione. Siamo solo io<br />

e te».<br />

«E che facciamo io e te da soli, capo? Guarda che io non son mica di quella parrocchia lì».<br />

In quel momento, <strong>un</strong> attimo prima di strozzare il bue con le sue mani, Elvis ebbe <strong>un</strong>’idea. Lo<br />

guardò con occhi spiritati.<br />

«Dividiamocelo!» gridò.<br />

«Che cosa?»<br />

«Il mondo! Dividiamocelo! Metà a te, metà a me. Possiamo ripopolarlo come ci pare! Siamo<br />

entrambi Dio».<br />

«Metà per <strong>un</strong>o?»<br />

«Un emisfero a testa. Da trasformare a nostro piacimento, senza interferenze tra il mio territorio<br />

e il tuo. Che ne dici?»<br />

Il bue ragionò, verbo a lui fino ad allora sconosciuto. Alla fine, <strong>un</strong>a lucina fioca si accese nel<br />

grumo nerastro del suo cervello. «Baywatch».<br />

«Baywatch? Cos’è? La serie televisiva? Quella delle bagnine?»<br />

«Proprio quella. Nella mia parte del mondo metterò solo bagnine col costume rosso. Tutte<br />

uguali a quelle di Baywatch».<br />

«Oh, amico, è il tuo emisfero, puoi popolarlo anche con tre milioni di Braccobaldo, per<br />

quanto mi riguarda. La mia metà del mondo, invece, voglio arredarla in stile Happy Days.<br />

Rock’n roll anni cinquanta nei juke-box. Decappottabili parcheggiate al drive in. Le ragazze col<br />

pullover bianco, i ragazzi con le giacche della scuola. Le pomiciate al chiaro di l<strong>un</strong>a. La torta di<br />

mele. Una moto. Sarà il paradiso. Il mio paradiso. Festeggiamo con <strong>un</strong> brindisi?»<br />

«Sono astemio, capo».<br />

«Brinda con la Coca Cola. No, non importa cercare la bottiglia, amico. Creala». Sollevò il<br />

suo bicchiere. «Al nuovo ordine mondiale. Se tolleri la prosa roboante, alla Nuova Genesi».<br />

«Alle bagnine col costume rosso».<br />

Brindarono.<br />

Un attimo dopo svanirono nel nulla.<br />

Fonzie schivò i due bicchieri, che s’infransero sul pavimento.<br />

Aveva tollerato abbastanza quei due deficienti, il nemico dei congi<strong>un</strong>tivi e quello che l’aveva<br />

battezzata Fonzie senza accorgersi che era femmina.<br />

Uscì scodinzolando dal Millennium, e cominciò <strong>un</strong> pezzo per volta a ricreare il mondo.<br />

opera galleggiante 33


ZÁKAZ TLUMOČENÍ – Translating Prohibited<br />

34<br />

Daria Biagi e Valentina Fulginiti<br />

non mi lasciò mai fermar molto in <strong>un</strong> luogo<br />

e di poeta cavallar mi feo:<br />

vedi se per le balze e le fosse<br />

io potevo imparar greco o caldeo!<br />

Ariosto, Satire<br />

Appeso al muro del castello di Karlstejn, a qualche chilometro da Praga, potete leggere questo<br />

titolo, è <strong>un</strong> cartello: zákaz tlumocení, proibito tradurre. La visita guidata al castello costa circa<br />

centoventi corone nella lingua nazionale, il ceco, il doppio in inglese, francese, tedesco o<br />

spagnolo; ma ogni volta salta fuori qualche connazionale poliglotto che si infila nel gruppo dei<br />

turisti stranieri e li convince ad acquistare il biglietto più economico, poi traduce tutto lui piano<br />

piano all’orecchio. Così ci hanno messo il cartello, divieto di tradurre, poi per essere sicuri che i<br />

turisti stranieri capissero lo hanno dovuto tradurre, in inglese per lo meno, translating prohibited.<br />

Probabilmente nella realtà capirsi senza tradursi non è proprio dato. Che si passi da <strong>un</strong>a lingua<br />

a <strong>un</strong>’altra, da <strong>un</strong> codice a <strong>un</strong> altro, o solo dal parlato allo scritto, il meccanismo è talmente<br />

automatico che sembra non esistere, eppure il salto di grado si verifica inevitabilmente. Dei<br />

problemi connessi alla pratica del tradurre la letteratura si è occupata da sempre, ma fino alla<br />

contemporaneità non sembra comparire il traduttore come personaggio, come figura indipendente<br />

e narrativizzabile, al pari di <strong>un</strong> marinaio, <strong>un</strong> professore, <strong>un</strong> commesso viaggiatore. Portare<br />

i traduttori sulla scena crea problemi, innanzitutto mette a rischio l’autorità della lingua<br />

in cui si scrive: se qualc<strong>un</strong>o traduce significa che di lingue in ballo ce ne sono almeno due,<br />

ipoteticamente anche di più, e sullo stesso piano, relativizzate o battaglianti sul corpo della<br />

lingua del testo, che non può non riportarne i segni. Il personaggio del traduttore, inoltre, apre<br />

facilmente la strada alla metariflessione sul linguaggio e sulla letteratura stessa, non molto<br />

diversamente da quanto accade quando tra le figure di <strong>un</strong> romanzo si intrufolano scrittori o<br />

poeti. Un traduttore è sempre <strong>un</strong>o scrittore pusillanime, affermava Ortega Y Gasset negli anni<br />

Trenta, è <strong>un</strong>o che non avendo coraggio di mettersi contro l’impianto poliziesco della grammatica<br />

va a trincerarsi dietro l’opera di qualc<strong>un</strong> altro; e così <strong>un</strong> traduttore ci mette poco a diventare<br />

l’alter ego dell’autore. La riflessione sulla scrittura viene dissimulata dietro i guai in cui<br />

incappa chi maneggia le lingue per mestiere, e l’autore può attaccare dalla distanza necessaria<br />

l’oggetto della sua nevrosi quotidiana, la lingua in cui scrive.<br />

Quella che segue è d<strong>un</strong>que <strong>un</strong>a rassegna (con inevitabili balze e fosse) di traduttori che<br />

compaiono come personaggi in racconti e romanzi del Novecento: da quelli di Landolfi e<br />

Bianciardi fino a Pontiggia e Paolo Nori, provando a gettare <strong>un</strong>o sguardo anche su autori che si<br />

sono dedicati a questo tema fuori dal filone italiano: Ingeborg Bachmann, Josè Marìas, Terèzia<br />

Mora.<br />

La nostra antologia tascabile si apre subito su <strong>un</strong>’eccezione: Y, il protagonista di Dialogo<br />

sui massimi sistemi (1937), di Tommaso Landolfi, traduce per diletto o per sfida, e non per<br />

mestiere. Per lui, anzi, tradurre è <strong>un</strong>a conseguenza dello scrivere. Eppure, come spesso accade<br />

ai dilettanti, anche Y ci rivela qualcosa di essenziale della strana fisica con cui si è messo a


marzo ’08<br />

trafficare.<br />

Questo pensatore e aspirante poeta, per liberarsi dalle abitudini linguistiche, ha appreso<br />

privatamente <strong>un</strong>a lingua inventata, spacciatagli per persiano; scoperta l’impostura si ritrova<br />

<strong>un</strong>ico depositario del proprio mezzo espressivo – e, conseguentemente, <strong>un</strong>ico garante della<br />

propria opera. La bi<strong>un</strong>ivocità del rapporto segnico non è, apparentemente, messa in crisi; ogni<br />

originale è reso bilingue dalla viva presenza dell’autore, ma tale corrispondenza non ha alc<strong>un</strong>a<br />

garanzia istituzionale. L’<strong>un</strong>ico esito possibile è <strong>un</strong>a lingua di soli suoni, intrinsecamente poetica,<br />

che rischia di aprirsi sul nulla e sull’afasia.<br />

Siamo immersi nella dimensione cabalistica del compito del traduttore (e forse si dovrebbe<br />

dire vocazione). Non a caso il testo riprende la forma di <strong>un</strong> dialogo filosofico (tra <strong>un</strong>o scrittore,<br />

<strong>un</strong> narratore e <strong>un</strong> critico: le tre istanze del discorso letterario), mentre la scelta del persiano<br />

apre a <strong>un</strong> immaginario tra l’esotico e il fantastico, di scrittura cifrata e di antichi misteri. Fin<br />

dalle prime righe, il protagonista è in odore di stramberia alchimistica, «dedito a strani studi<br />

compiuti in solitudine e in mistero come riti» 1 .<br />

La lingua straniera è qui il frutto di <strong>un</strong>a scelta, improntata a criteri di <strong>un</strong>’estetica che si vuole<br />

assoluta; in questo senso è <strong>un</strong>a narrativa di secondo grado. Alla lingua d’elezione del poeta<br />

si contrappone quella del critico, infarcita di forestierismi, estranea a se stessa e, in fondo,<br />

tautologica («L’arte, [...] l’arte che cosa è tutti lo sanno»): la non-lingua del commonplace, del<br />

vezzo e del conformismo, così simile a quel traduttese che è lo spauracchio di ogni traduttore.<br />

Y ci avvicina all’ideale mistico della lingua, strumento imperfetto capace di mettere in<br />

rapporto con l’assoluto in virtù dei propri limiti, faticosamente oltrepassati e circumnavigati.<br />

A ben guardare, non siamo molto lontani da <strong>un</strong>a qualsiasi definizione di stile, o di idioletto<br />

letterario: ogni parola è frutto di creazione e di invenzione. È questa stessa <strong>un</strong>icità che priva<br />

il poeta della possibilità di essere inteso, dato che, come per ogni poesia, vale la regola del<br />

traduttore-traditore: la com<strong>un</strong>icazione – il polo «laico» ed economico della traduzione – si rivale<br />

così sul polo dell’espressione e presenta il suo conto, come sempre salatissimo.<br />

Se in Landolfi la traduzione incarna la sfida dell’assoluto, gli autori successivi ce ne raccontano<br />

la dimensione materiale e lavorativa. Il traduttore partecipa non solo di <strong>un</strong> grande scambio di<br />

idee o di movimenti culturali; è ormai parte di <strong>un</strong>a vera e propria industria.<br />

Luca Schiavone, L’indif erenza è l’<strong>un</strong>ica rotella incurabile, 2007<br />

il diavoletto di Maxwell 35


La f<strong>un</strong>zione di ricerca linguistica ed estetica non è venuta meno, si è semplicemente<br />

spostata in <strong>un</strong> ambito quotidiano. Sempre <strong>un</strong> problema critico accompagna la traduzione<br />

in Lettore di casa editrice, racconto di Giuseppe Pontiggia (1971), il cui protagonista, lettore<br />

incontentabile, scarta <strong>un</strong>a traduzione di Delitto e castigo scambiandola per il solito pasticciato<br />

manoscritto di esordiente 2 .<br />

«Il problema non è solamente quello che si cerca, è soprattutto quello che si trova», dice<br />

l’anonimo lettore di Pontiggia. «Gli errori scoraggiano e in ultimo si finisce col cercarli, per<br />

concludere prima»: di nuovo, la lingua altrui – stavolta tanto assimilata da non apparire più<br />

estranea – è il luogo dell’errore, dove prende piede lo scarto, il «raggiro» demoniaco. La lingua<br />

degli altri cola in quella del narratore e impregna il racconto, disciolta nel testo senza mediazione<br />

diretta. Una pluridiscorsività<br />

imposta finisce<br />

per invalidare la capacità<br />

stessa del giudizio, annullando<br />

le distanze, riducendo<br />

la lettura ad abitudine, priva<br />

di qualsiasi portata creativa.<br />

Di <strong>un</strong> analogo collasso<br />

discorsivo è preda il<br />

traduttore de La vita agra<br />

– proiezione autobiografica<br />

dello stesso Bianciardi: <strong>un</strong><br />

altro traduttore a cottimo,<br />

intellettuale protagonista<br />

del proprio romanzo (anti-)<br />

capitalistico. I dialoghi della<br />

narrativa scandiscono i<br />

propri (anch’essi elevati a<br />

letteratura); la traduzione è<br />

<strong>un</strong> ritmo, sono le mille lire<br />

Luca Schiavone, Mov_1, 2007<br />

36<br />

ad ogni cartella, equamente<br />

ripartite tra mille spese; la<br />

traduzione è tempo di lavoro e tempo del domestico.<br />

Anche qui la dimensione “involontaria” e passiva del traduttore-vittima convive con quella<br />

“programmatica” della ricerca linguistica: il romanzo si fa polifonico per aprirsi al quotidiano,<br />

accogliendo la molteplicità delle lingue e dei discorsi e dei registri e dei testi:<br />

Proverò l’impasto linguistico, contaminando da par mio la alata di Ollesalvetti diobò, e u dialettu d’Urcud<strong>un</strong>nu,<br />

evocando in <strong>un</strong> sol periodo il Burchiello e il Rabelais, il Molinari Enrico di New York e il lamento di Travale –<br />

guata guata male no mangiai ma mezo pane – Amarilli Etrusca e zio Lorenzo di Viareggio. 3<br />

Il testo è <strong>un</strong> complesso vociare: insieme alle modulazioni ed agli accenti (semplicemente<br />

trascritti, senza alc<strong>un</strong> filtro), si riversano, nella fase traduttiva, registri e stili dei testi tradotti.<br />

Lingue settoriali, giornalistiche e storiche ma anche narrative e, frequentemente, belliche:<br />

al narratore – e al lettore – rimangono nell’orecchio scene di guerra, rumori e presenze di <strong>un</strong><br />

contemporaneo che esplode. Sull’altro versante, il significato scambiato è moneta sonante: la<br />

pratica testuale è quindi sottoposta al vaglio di censori implacabili che esigono la trasparenza<br />

e l’automatismo del passaggio interlinguistico (compresi calchi, neutralizzazioni stilistiche<br />

e semantiche, letteralismi e altri «mostri»); e intanto preme l’invasione della nuova lingua di


marzo ’08<br />

plastica del miracolo economico, la lingua-merce, il parlato dei giovani immigrati meridionali al<br />

supermarket, la voce dei telefoni e l’accento delle segretarie. Il traduttore si ritrova posseduto<br />

dalle lingue orecchiate e dalle parole tradotte; vive di ricordi non suoi, fino alla completa afasia,<br />

alla convergenza di tutte le lingue in <strong>un</strong> <strong>un</strong>ico sogno colloso, appena interferito dalla realtà<br />

del corpo – l’ultima, prepotente, esplosione del testo.<br />

Che il traduttore si metta a pensare a cosa vuol dire quello che sta per dire è com<strong>un</strong>que<br />

<strong>un</strong>’operazione sconsigliabile. La buona resa della traduzione, il servizio per il quale lo si paga,<br />

traballa inevitabilmente a contatto con l’umano, ogni volta che, anziché limitarsi a passare<br />

le parole sui rulli delle varie lingue, il traduttore lascia aperte zone d’interferenza con le sue<br />

esperienze o idiosincrasie o fissazioni, tutto quello che costituisce la sua reale personalità<br />

insomma. Il traduttore ideale è quello che ci mette pochissimo del suo, quello per cui le parole<br />

tra le lingue si scambiano con la proprietà commutativa, dove basta schiacciare <strong>un</strong> tasto<br />

(«Sono C3PO, relazioni pubbliche umani-droidi, conosco più di sei milioni di forme di com<strong>un</strong>icazione»,<br />

<strong>un</strong>o così).<br />

Nadia, la protagonista di Simultaneo di Ingeborg Bachmann (1972), ha svolto con la massima<br />

competenza il suo incarico di traduttrice per la FAO, almeno finché non le è passato per la<br />

testa di chiedersi cosa stesse facendo:<br />

era proprio <strong>un</strong>o strano meccanismo il suo, viveva senza <strong>un</strong> solo pensiero in testa, immersa nelle frasi degli altri<br />

che immediatamente doveva ripetere come <strong>un</strong>a sonnambula, ma con suoni diversi: di “machen” sapeva fare to<br />

make, faire, fare, hacer e delat’, era capace di girare <strong>un</strong>a parola come su <strong>un</strong> rullo per ben sei volte, solo non doveva<br />

pensare che machen significa veramente machen, faire faire, fare fare, delat’ delat’, questo avrebbe reso la sua testa<br />

inservibile [...] 4<br />

In queste ri<strong>un</strong>ioni di capi di stato e rappresentanti delle nazioni, dove ogni minima sciocchezza<br />

viene istantaneamente tradotta in tutte le lingue possibili («tutto suona molto più<br />

incerto ma anche più solenne»), sembra del resto che non si dica proprio niente: i traduttori simultanei,<br />

invidiati perché messi a parte in anteprima di intrighi internazionali, guerre imminenti,<br />

strategici scambi commerciali, sono quelli che ne sanno meno di tutti, addestrati come sono<br />

a dimenticare nel giro di dieci secondi le frasi che hanno appena tradotto. A qualche anno di<br />

distanza da Simultaneo, il protagonista di Un cuore così bianco di Javier Marìas (1999) sembra<br />

dibattersi ancora con lo stesso problema:<br />

la verità è che in questi organismi l’<strong>un</strong>ica cosa che effettivamente f<strong>un</strong>ziona sono le traduzioni, non solo, vi è in<br />

essi <strong>un</strong>’autentica febbre metaforica, qualcosa d’insano, qualcosa d’immorale, al p<strong>un</strong>to che qualsiasi parola venga<br />

pron<strong>un</strong>ciata (in ri<strong>un</strong>ione o in assemblea) e qualsiasi incartamento recapitato, indipendentemente dall’argomento<br />

che tratta, dal destinatario a cui è indirizzato e dall’argomento stabilito (fosse anche segreto), tutto viene immediatamente<br />

tradotto in varie lingue, perché non si sa mai. 5<br />

Indispettito dal fatto di non venir tradotto perché tutti i presenti capiscono l’inglese, <strong>un</strong><br />

relatore australiano si mette a parlare col pesantissimo accento dei sobborghi di Melbourne<br />

fino a rendersi incomprensibile (così il simultaneo è costretto a precipitarsi in cabina e tutti<br />

i presenti a infilarsi gli auricolari); il protagonista del romanzo finirà per inventarsi di sana<br />

pianta la conversazione tra <strong>un</strong> f<strong>un</strong>zionario spagnolo e <strong>un</strong>a collega inglese pur di conquistare la<br />

sua traduttrice-rete, la donna incaricata di controllare il buon esito del colloquio; insomma le<br />

traduzioni restano mentre i contenuti spariscono, il secondo grado polverizza il primo.<br />

il diavoletto di Maxwell 37


Con i personaggi della Bachmann e di Marías ci imbattiamo inoltre in <strong>un</strong> diverso tipo di traduttore,<br />

il simultaneo, l’interprete, colui che, a differenza di quanto avviene nei giá citati testi<br />

di Landolfi, Bianciardi e Pontiggia, si cimenta con la dimensione orale della lingua, anziché<br />

con <strong>un</strong> testo scritto. Dolmetscher e Übersetzer, la distinzione benjaminiana si può riprodurre<br />

alla meglio in italiano con “interprete” e “traduttore”, chi lavora in velocità sulla voce e chi<br />

in profondità sulla carta. La realtà è <strong>un</strong> coro babelico soprattutto per i primi, forse, le lingue<br />

coesistono e vengono parlate tutte in contemporanea, al p<strong>un</strong>to che il plurilinguismo del testo<br />

scritto risulta niente più che <strong>un</strong>a fedele trascrizione, priva di intenti parodistici o comici: semplicemente,<br />

il caos, anche linguistico, è lo stato quotidiano di questo mondo.<br />

Nella generazione degli autori più giovani, quelli che scrivono in questi anni, sono numerosi<br />

i casi di chi anche professionalmente affianca la traduzione alla scrittura. I personaggi sfiorano<br />

l’identificazione con l’autore, diventano più complessi, figure strutturate e problematiche che<br />

non hanno più solo il compito di fare da ponti tra <strong>un</strong> linguaggio e <strong>un</strong> altro, tra <strong>un</strong> mondo e <strong>un</strong><br />

altro; è già abbastanza complicato il loro. Terézia Mora, autrice <strong>un</strong>gherese che vive da quindici<br />

anni in Germania, e il parmense Paolo Nori sono entrambi scrittori e traduttori, rispettivamente<br />

dall’<strong>un</strong>gherese e dal russo. Il primo romanzo della Mora, Alle Tage (Tutti i giorni, non ancora<br />

pubblicato in Italia 6 ) mette a dura prova i più tenaci lettori da avanguardia, a <strong>un</strong>a domanda in<br />

tedesco si risponde in francese e si controbatte in russo, o in croato, o <strong>un</strong>gherese, non si sa,<br />

a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to è tutto <strong>un</strong> groviglio consonantico, verosimilmente <strong>un</strong>a lingua esteuropea?,<br />

difficile da stabilire: com<strong>un</strong>que in qualche modo ci si è capiti. Il protagonista, Abel Nema, di<br />

lingue ne parla dieci, è <strong>un</strong> caso da manuale – sebbene di fatto non le parli poi molto, per via di<br />

<strong>un</strong>a sua certa personale timidezza o inadeguatezza, fatto sta che la com<strong>un</strong>icazione non scorre<br />

come dovrebbe.<br />

Descrivere <strong>un</strong> libero flusso di coscienza diventa così <strong>un</strong> fatto difficilmente contenibile entro<br />

i limiti di <strong>un</strong>a lingua nazionale. Sempre che il concetto di lingua nazionale, così come quello<br />

di madrelingua, abbia ancora <strong>un</strong> senso. Tutto è commistione e trasformazione, senza che per<br />

questo si torni al dramma primonovecentesco dell’incom<strong>un</strong>icabilità: tutt’altro, trame elaboratissime<br />

stanno in piedi su questa precarietà di parola, legami e rapporti tra i personaggi<br />

vengono intralciati da ben altro che dal linguaggio, e Terézia Mora continua a pieno titolo la<br />

riflessione bachmanniana, insistendo nell’insinuare il dubbio che la lingua madre, quella che<br />

crediamo di «dominare», è proprio quella in cui com<strong>un</strong>ichiamo peggio.<br />

Questo linguaggio definitivamente ricondotto alla sua natura di simbolo spezzato, a due<br />

metà che non collimano, è insomma condizione ormai naturale ed accettata. Babele è <strong>un</strong> quotidiano<br />

fatto di continue riscritture, senza più nulla di tragico o <strong>un</strong>iversale: è <strong>un</strong> sottofondo onnipresente<br />

in cui l’io non ha nemmeno <strong>un</strong> margine in cui vivere compiutamente le proprie crisi,<br />

fratture o dissoluzioni. Le parole non sono parole e le persone non sono persone; così anche<br />

nella saga del traduttore e aspirante scrittore Learco Ferrari (creatura letteraria di Paolo Nori).<br />

Eppure si continua a cercare: «che le tue cose, se sono cose, respirano, anche se intorno ci<br />

sono cose che soffocano» 7 . La cadenza del lavoro si è fatta precaria, come precario è l’accordo<br />

tra le lingue e i valori che esse esprimono: ma fragili tregue e momenti di armonia sono ancora<br />

possibili, in <strong>un</strong> mondo che ha rin<strong>un</strong>ciato agli assoluti:<br />

Una volta, con l’imprevedibile, sentivamo la radio nella sua macchina, c’era <strong>un</strong> programma di musica jazz e<br />

trasmettevano <strong>un</strong>a canzone che si intitolava The Way You Look Tonight. Il modo in cui appari stasera, traduceva<br />

il digei. Mah, le dicevo all’imprevedibile, non è proprio così. È vero, mi diceva. Ness<strong>un</strong>o parla così. Il modo in<br />

cui appari stasera. Invece The Way You Look Tonight, diceva l’Imprevedibile, è <strong>un</strong>a cosa che viene giù bene, da<br />

dire. Come stai stasera, le dicevo, ma non va bene, era ambiguo. Come figuri stasera, le dicevo. Che si diceva, dalle<br />

nostre parti, Figuri bene. Me lo diceva sempre mia nonna, Figuri male, con la barba, mi diceva. Che bella cera che<br />

38


marzo ’08<br />

hai, diceva l’imprevedibile. Poi c’era <strong>un</strong> silenzio di meditazione, dopo dicevamo, insieme, La cera che hai stasera! e<br />

avevamo risolto, in quattro e quattr’otto, <strong>un</strong> complicato problema di traduzione. 8<br />

Ed ecco che l’imperfezione insita in qualsiasi lavoro traduttivo diventa <strong>un</strong>a liberazione, vissuta<br />

all’insegna del sorriso e della leggerezza, e non più <strong>un</strong> limite da valicare ad ogni costo. Quanto<br />

più i traduttori moderni e faustiani (eroi della ragione, anche seduti a <strong>un</strong>a scrivania) cercano di<br />

ricondurre la lingua ad <strong>un</strong> controllo razionale, tanto più violenta è la beffa di cui sono vittima,<br />

di volta in volta finendo a perdersi in <strong>un</strong> silenzio sbigottito e strambo, o nell’indistinto “gocciare”<br />

di <strong>un</strong> sesso assonnato e stanco. A meno che, nell’alternativa autodistruttiva tra perfezione<br />

e afasia, non sia il traduttore a fermarsi, accettando di vivere in <strong>un</strong> mondo di conti che non<br />

tornano. Altrimenti, con <strong>un</strong> bel ruzzolone nel quotidiano, si svela quale nulla venga rivestito di<br />

formule buone per gli incantatori delle farse (Aga magera dufura nat<strong>un</strong>...) o trasmesso all’infinito<br />

in mondovisione, o stampato e ristampato in <strong>un</strong>a selva di note a piè di pagina. I proclami<br />

e le intenzioni <strong>un</strong>iversalistiche, siano quelle della Poesia o dell’Umanità, sono destinati a<br />

scontrarsi ogni volta con le fallacie di piccoli e pusillanimi esseri umani, che mirano all’assoluto<br />

e perdono d’occhio il banale. Che ciò avvenga nella risata liberatrice o nello sperdimento,<br />

nell’afasia o nella volontaria rin<strong>un</strong>cia alla parola, c’è sempre <strong>un</strong> corpo che si vendica, riaffermando<br />

i propri diritti su <strong>un</strong>a lingua che noi crediamo di parlare, ma che, in verità, ci parla. In<br />

fondo, anche la dimensione landolfiana del «capriccio», così sottolineata ed insistita, non era<br />

che <strong>un</strong> modo di riportarci al terreno del ghiribizzo, della voluttà, del puro piacere: per <strong>un</strong>’altra<br />

strada, al territorio pericoloso e instabile del corpo. E si affaccia alla mente l’idea che il vero<br />

scacco della traduzione, quell’intraducibile su cui ogni testo si apre e ogni lingua si chiude,<br />

non siano tanto gli <strong>un</strong>iversali di <strong>un</strong> linguaggio puro, quanto i valori del corporeo e del particolare:<br />

mathesis singularis, storia inclassificabile di ogni persona.<br />

dariabiagi@googlemail.com<br />

valentina.fulginiti@virgilio.it<br />

1T. Landolfi, Dialogo sui massimi sistemi, in Le più belle pagine, Milano, Adelphi, 2001.<br />

2 Episodi simili succedono anche nella realtà: andatelo a chiedere a David Lassmann, misconosciuto (?) autore<br />

di Freedom’s Temple e plagiario per provocazione, e ai diciassette editor inglesi che hanno rifiutato, senza<br />

riconoscerla, Jane Austen in persona.<br />

3 L. Bianciardi, La vita agra, Milano, Bompiani, 1962.<br />

4 I. Bachmann, Simultaneo, in Tre sentieri per il lago, Milano, Adelphi, 1980 (trad. di A. Pandolfi).<br />

5 J. Marìas, Un cuore così bianco, Torino, Einaudi, 1999 (trad. di P. Tomasinelli).<br />

6 T. Mora, Alle Tage, München, Luchterhand Literaturverlag, 2004.<br />

7 P. Nori, Le cose non sono le cose, Ravenna, Fernandel, 1999.<br />

8 P. Nori, Spinoza, Torino, Einaudi, 2000.<br />

il diavoletto di Maxwell 39


Tabard intervista Kadhim Jihad Hassan<br />

40<br />

traduzione di Paolo De Guidi<br />

Kadhim Jihad Hassan è <strong>un</strong> poeta, saggista e traduttore di origini irachene. Risiede a Parigi dal 1976 ed è attualmente<br />

maître de conférences presso l’Institut National des Langues et Civilisations Orientales (INALCO) di Parigi.<br />

Ha tradotto in arabo, tra gli altri, le opere complete di Rimbaud, le poesie francesi di Rilke ed il testo integrale<br />

della Divina Commedia di Dante. La sua ultima opera apparsa in francese è La Part de l’ étranger - La traduction de<br />

la poésie dans la culture arabe, Arles, Sindbad/Actes-Sud, 2007.<br />

Quando ha intrapreso il suo lavoro di traduzione della Commedia, qual era la situazione delle<br />

traduzioni dantesche nel mondo arabo? Ne esistevano già molte, che diffusione avevano?<br />

Quando ho cominciato a tradurre Dante non c’erano molte cose in arabo dal p<strong>un</strong>to di vista<br />

della traduzione. C’era innanzitutto <strong>un</strong>a traduzione quasi integrale fatta da <strong>un</strong> professore<br />

e uomo di lettere egiziano, Hassan Osman, che era <strong>un</strong> professore d’italiano che studiò qui<br />

in Italia subito dopo la seconda guerra mondiale e che ha conosciuto molti filologi italiani e<br />

specialisti di Dante. La sua traduzione dell’Inferno è stata pubblicata nel 1955, l’anno in cui<br />

sono nato io. Qualche anno dopo ha pubblicato la traduzione del Purgatorio e poi il lavoro<br />

è rimasto incompleto. Solo recentemente i suoi eredi hanno scoperto nei suoi archivi, con<br />

cinquant’anni di ritardo, la traduzione che egli aveva fatto del Paradiso. Questa traduzione è<br />

lodevole, davvero notevole, ma secondo me, e secondo la maggior parte dei poeti arabi, non è<br />

veramente <strong>un</strong>a traduzione d’artista o di poeta. È piuttosto la traduzione di <strong>un</strong> filologo. L’Italia<br />

e l’Europa sono piene di questo genere di traduzioni accademiche: se ne trae il senso e il<br />

significato di Dante, ma non se ne trae l’arte poetica. Solo per dare <strong>un</strong> esempio, Dante è molto<br />

conosciuto per aver usato e radicalizzato nella sua opera l’uso della terzina. Ora, il traduttore<br />

arabo che mi ha preceduto, l’egiziano, non ha tenuto conto dell’importanza simbolica, formale<br />

e soprattutto ritmica della terzina. Amalgama i tre versi di <strong>un</strong>a terzina in <strong>un</strong>a l<strong>un</strong>ga frase, molto<br />

elegante, ma che rimane, a mio avviso, <strong>un</strong>a frase di prosa. Amalgamare i tre versi in <strong>un</strong>a frase<br />

vuol dire distruggere ab initio l’<strong>un</strong>ità ritmica e formale di Dante. Inoltre egli ha anche scelto <strong>un</strong><br />

arabo che è, a mio modo di vedere, arcaizzante, e qui sono d’accordo con la maggior parte dei<br />

traduttologi francesi – anche se piuttosto che traduttologia, termine più tecnico e accademico,<br />

userei “poetica della traduzione” – mi trovo d’accordo con loro quindi quando dicono che<br />

– ed è <strong>un</strong>’idea a dire il vero di Benjamin, il colloquio di ieri 1 era tra l’altro posto sotto il segno<br />

di Benjamin – le opere sono le stesse ma le traduzioni dovrebbero rinnovarle. Per due ragioni:<br />

innanzitutto perché, nella storia della lettura, ogni generazione scopre nell’opera originale,<br />

traducendola, degli altri significati potenziali che erano nell’opera, che le generazioni precedenti<br />

non hanno colto, e che le generazioni attuali e quelle a venire vedranno; perché l’opera è<br />

inserita nella storia, e la storia arricchisce l’opera facendo sorgere <strong>un</strong> potenziale che si rinnova<br />

di continuo. D’altra parte, le lingue in cui traduciamo evolvono esse stesse, quindi supporre<br />

che Dante sia divenuto classico e antico, confondere l’antichità e l’arcaismo e pensare che<br />

per meglio rendere Dante in francese o in arabo si debba passare per <strong>un</strong> francese o <strong>un</strong> arabo<br />

antico è, io credo, <strong>un</strong>a falsa partenza. D<strong>un</strong>que, tornando a quest’opera, mi sono allontanato<br />

da altri tipi di traduzione: la traduzione versificatrice, come quella dei francesi, per esempio,<br />

che utilizzano l’alessandrino per tradurre Shakespeare. Per me non è <strong>un</strong>a traduzione, ma <strong>un</strong>a<br />

sovra-traduzione, si traduce due volte: prima il significato, poi si modella questo significato


marzo ’08<br />

sulla metrica francese. Ma le metriche non combaciano, ogni lingua ha la propria metrica. Io ho<br />

scelto <strong>un</strong> arabo molto moderno, ma di alta tenuta, perché si può essere moderni senza essere<br />

superficiali e senza cadere nella volgarità, e l’arabo moderno per com’è lavorato da grandi<br />

scrittori e poeti si è avvicinato sempre più al respiro moderno della lingua e si è sbarazzato<br />

di molte scorie e residui arcaizzanti che gli impediscono di f<strong>un</strong>zionare e di avere la velocità e<br />

l’accelerazione necessarie. Quindi ecco come mi sono trovato quando ho cominciato a tradurre<br />

Dante: a parte la traduzione di questo signore egiziano che, come ho già detto, è molto<br />

rispettabile ma datata, non ci sono delle altre vere traduzioni, se non parziali in alc<strong>un</strong>e riviste,<br />

e solo dei canti principali. Ci sono molti studi su Dante che sono spesso riass<strong>un</strong>ti di studi<br />

europei. Qualche settimana dopo la mia traduzione è stata pubblicata anche <strong>un</strong>a traduzione<br />

commerciale fatta dall’inglese, ma senza note, senza ritmo. Nella mia traduzione c’è per prima<br />

cosa la preoccupazione per il ritmo e anche per le esigenze critiche: mi sono ispirato alle note<br />

dei migliori traduttori francesi, soprattutto Jacqueline Risset; ho spiegato i personaggi storici<br />

in Dante, perché se non sappiamo cosa significavano questi personaggi il lavoro non serve a<br />

niente. Così per i simboli cristiani di Dante, ma anche per gli elementi della teologia cristiana<br />

che egli manipola e a proposito dei quali discute con i santi che incontra nel Paradiso. Le<br />

discussioni che ha nel Purgatorio e nell’Inferno con certi personaggi, teologi o storici o artisti:<br />

senza comprendere i nomi, le nozioni chiave, i concetti e i simboli, è impossibile comprendere<br />

Dante per <strong>un</strong> lettore non italiano. Anche gli italiani attuali hanno bisogno, credo, di <strong>un</strong> apparato<br />

critico di esegesi per avere accesso a quest’ opera. Quindi per tradurre le opere antiche<br />

dalle quali ci separa innanzitutto <strong>un</strong>a distanza temporale, come quella tra l’italiano attuale e<br />

quello di Dante, poi <strong>un</strong>a distanza culturale, come quella tra arabi e italiani, e quando l’opera<br />

stessa è sovraccarica di simboli e significati storici, teologici e filosofici, il traduttore è tenuto,<br />

a mio avviso, ad essere sia conoscitore dell’opera sia della cultura in cui quest’opera si bagna,<br />

oltre che artista, filologo e commentatore. A condizione però che predomini il poeta. Non deve<br />

essere cioè la figura accademica ad avere il sopravvento: le note devono assecondare l’opera,<br />

ma non rimpiazzarla. È <strong>un</strong> prol<strong>un</strong>gamento necessario dell’opera. Una volta che i simboli e i personaggi<br />

sono stati compresi, l’opera dovrebbe f<strong>un</strong>zionare da sola.<br />

A proposito della scelta di tradurre col verso libero, non è forse la stessa scelta che fece Dante<br />

quando decise di scrivere la sua opera in italiano invece che in latino, per essere più vicino<br />

a quelli che lo avrebbero letto, alla cultura e ai gusti dei lettori?<br />

Assolutamente. Sarebbe <strong>un</strong> controsenso tradurre <strong>un</strong> autore come Dante, che cercava di liberare<br />

la forma della poesia, con <strong>un</strong>a traduzione versificatrice in arabo classico col pretesto che<br />

al lettore arabo piace il “verso versificato”. Non è vero, coloro che parlano a nome del lettore<br />

parlano in realtà a nome delle loro scelte estetiche e della loro ideologia letteraria, perché<br />

anche dietro le traduzioni – Henri Meschonnic l’ha mostrato molto bene nel suo Pour la poetique,<br />

dove ci sono molti capitoli sulla traduzione – non ci sono solo gli scrittori che hanno delle<br />

strategie ideologiche: <strong>un</strong> traduttore non parla giacché traduce, ma dietro la sua traduzione ci<br />

sono <strong>un</strong> discorso e delle preferenze. Quindi <strong>un</strong> traduttore può avere anche <strong>un</strong>’ideologia: per<br />

esempio coloro che traducono Dante o Ungaretti con metri della tradizione sono traduttori che<br />

difendono la loro strategia di scrittura e la loro incapacità di sfruttare le potenzialità espressive<br />

del verso libero.<br />

Anche Dante è stato <strong>un</strong> traduttore del suo tempo; ha tradotto la sua cultura in versi semplici<br />

per il lettore medievale.<br />

il diavoletto di Maxwell 41


Certamente, è la rivoluzione che ha fatto. Egli aveva scritto molti testi in latino prima di passare<br />

a quello che oggi chiamiamo l’italiano volgare, cioè l’italiano parlato dalle masse. Quindi non<br />

solo <strong>un</strong>a rivoluzione linguistica, ma <strong>un</strong>a rivoluzione culturale totale.<br />

In che modo ha cercato di rendere il plurilinguismo di Dante?<br />

Un lettore europeo ha meno problemi, grazie al fatto che tutto passa attraverso i caratteri latini<br />

e ad <strong>un</strong>a prossimità semantica delle parole. Un italiano o <strong>un</strong> francese moderno possono capire<br />

il senso generale di <strong>un</strong> paragrafo scritto in provenzale. Dante ha usato molte formule latine.<br />

Nell’Inferno, quando ha voluto rendere l’effetto di alc<strong>un</strong>e frasi incomprensibili, ha cercato<br />

anche di imitare l’arabo e l’ebraico. Quando poi ha voluto rendere omaggio agli autori del dolce<br />

stil novo e ai trovatori, come Arnaut Daniel, ha usato il provenzale. Ma tutto ciò <strong>un</strong> lettore<br />

arabo non può capirlo. Il mio dovere era quindi di giocare tra il corpus e le note. Ho tradotto<br />

tutto in arabo, ma ogni volta che c’era <strong>un</strong>a particolarità l’ho mostrata nelle note, dove a volte<br />

ho addirittura inserito il testo latino o provenzale.<br />

Dal momento che ogni traduzione “perde” inevitabilmente qualcosa, quali sono gli elementi<br />

della Commedia che ha ritenuto irrin<strong>un</strong>ciabili?<br />

L’afflato poetico, l’accelerazione, la coerenza e la coesione tra i versi, l’<strong>un</strong>ità. Mi sono rifiutato<br />

di fare come molti, cioè considerare <strong>un</strong> verso come <strong>un</strong> blocco autosufficiente, imprimendo<br />

<strong>un</strong> silenzio e <strong>un</strong>a rottura tra <strong>un</strong> verso e l’altro. Ho tenuto a mantenere lo spirito di continuità,<br />

grazie al quale i versi si riproducono tra di loro. La tensione ritmica: il verso libero, come abbiamo<br />

detto prima, non è come la metrica classica, dove si mantiene lo stesso numero di piedi<br />

o sillabe. Nel verso arabo classico bisognava mantenere la stessa quantità di piedi, nel verso<br />

libero invece c’è <strong>un</strong>a variazione sul numero, ma possiamo com<strong>un</strong>que ottenere <strong>un</strong>a tensione<br />

ritmica, <strong>un</strong>’ondulazione, a cui ho tenuto molto. Ho fatto attenzione anche al verso dantesco,<br />

soprattutto alle assonanze, perché leggevo nelle traduzioni francesi, ma anche nel testo originale,<br />

molte assonanze. Dante, per meglio com<strong>un</strong>icare <strong>un</strong>’emozione, giocava molto col suono<br />

delle parole. Sono quindi stato attento al livello sonoro, all’ aspetto materiale della lingua. La<br />

continuità drammatica poi, perché questa è <strong>un</strong>’opera <strong>un</strong>ica, come <strong>un</strong>’epopea; in Dante ci sono<br />

tre regimi di discorso, che sono poi propri di ogni discorso umano quando è totale, da Omero<br />

a Shakespeare, e sono gli elementi principali del discorso: il canto, il racconto e il pensiero. Si<br />

canta, si narra e si riflette. Bisognava d<strong>un</strong>que essere attenti a preservarli in Dante. Per il canto,<br />

ho tenuto conto dell’immagine, del ritmo ecc.; per la logica narrativa, ho dovuto assimilare<br />

perfettamente le descrizioni dei personaggi o delle situazioni, grazie agli storici e ai filologi che<br />

l’hanno studiato. Bisognava infine afferrare il pensiero di Dante. Chiamerei tutto ciò la filosofia<br />

implicita dell’opera. Ho dovuto d<strong>un</strong>que studiare quest’ opera nella sua totalità, coglierne il<br />

canto, la narratività e il pensiero.<br />

Com’è stato possibile tradurre i passi più immateriali del Paradiso, quei momenti quasi senza<br />

azione ma di pura verbalità?<br />

Mi sembra <strong>un</strong> approccio restrittivo, il Paradiso è pieno di azione. Dante sale da <strong>un</strong> cielo all’altro,<br />

i santi lo ricevono, ha con loro delle discussioni storico-teologiche o poetiche, c’è sempre<br />

l’immagine, lo spettro di Beatrice ben presente, ci sono delle scene quasi postmoderne, dove<br />

c’è solo luce. È <strong>un</strong>’opera della sinestesia, tutti i sensi sono sollecitati, con colori, con musiche.<br />

È <strong>un</strong>’ascensione da <strong>un</strong>a visione all’altra, molto vicina per altro a racconti mistici arabi e spa-<br />

42


marzo ’08<br />

gnoli, come quelli di Maria Teresa d’Avila, come Las Moradas o Il castello dell’anima, racconto<br />

concentrico, dove si procede da <strong>un</strong> castello all’altro e in ogni castello abbiamo <strong>un</strong>a visione.<br />

Anche in Ibn Arabi, il cui racconto mistico è stato accostato a Dante dallo spagnolo Asìn Palacios,<br />

c’è piuttosto <strong>un</strong>’ ascensione verticale tra i cieli, quella che fece Maometto, scritta ottant’<br />

anni prima della Commedia e tradotta in latino. Molti testi arabi furono tradotti in latino ed<br />

egli era d’altra parte andaluso. Mi interessa poco sapere se Dante l’avesse letto, provare che<br />

avesse delle origine arabe. Quello che m’interessa sono le inter-penetrazioni tra le tre grandi<br />

culture del Mediterraneo. La differenza tra Dante e i mistici mussulmani o cristiani di Spagna è<br />

che mentre questi compiono i loro viaggi di ascensione celeste per <strong>un</strong>a Visione, l’incontro con<br />

Dio, Dante lo ha fatto alla ricerca di Beatrice. Come Orfeo che va nell’altro mondo per ritrovare<br />

la sua amata. Un misto quindi di fede e d’amore, questo è importante in Dante. Ed è come<br />

<strong>un</strong>a metafora del poema, <strong>un</strong> inseguimento della ricerca poetica. Questa per me è l’azione<br />

del Paradiso, non certo <strong>un</strong>’azione da film americano, ma <strong>un</strong>’esplosione di bellezza poetica e<br />

sensoriale.<br />

Berman afferma che nelle traduzioni emergono aspetti impliciti nelle opere originali: ritiene<br />

che nella sua traduzione siano individuabili passaggi in cui ha avuto luogo <strong>un</strong> processo del<br />

genere?<br />

Sì, ci sono due impliciti: <strong>un</strong> implicito amoroso e <strong>un</strong>o poetico. I lettori delle epoche precedenti<br />

hanno letto Dante come simbolo di <strong>un</strong>a certa fede cristiana e hanno affrontato determinati<br />

problemi storici. Queste sono le dimensioni che ho privilegiato ed accentuato nelle note e<br />

nell’introduzione, che è <strong>un</strong> testo di 136 pagine, <strong>un</strong> vero e proprio libro nel libro, dove ho riletto<br />

Borges, Ungaretti, e tutti coloro che hanno scritto su Dante; dove ho studiato il suo rapporto<br />

con Virgilio, questo bisogno di avere <strong>un</strong>a guida, il dolore per il suo maestro pagano che non<br />

può seguirlo oltre <strong>un</strong> certo limite. L’implicito poetico inizia app<strong>un</strong>to dalla scelta di farsi guidare<br />

da <strong>un</strong> poeta; è quindi possibile leggere la Divina Commedia come <strong>un</strong>a metafora della ricerca<br />

poetica, <strong>un</strong>a ricerca dell’incontro con il poema. In <strong>un</strong>o dei Nove saggi su Dante, Borges ipotizza<br />

che Dante abbia scritto tutta l’opera solo per inserirvi il canto dell’incontro con Beatrice nel<br />

paradiso terrestre; possiamo sicuramente parafrasarlo dicendo che Dante ha forse scritto<br />

la sua opera per sperimentare il massimo potenziale possibile della lingua poetica italiana.<br />

L’altro implicito è il dire amoroso, forse più importante della dimensione storica e teologica,<br />

e che lega Dante ai trovatori e all’amore cortese arabo che lo precedono, la cui origine Dante<br />

riconosce e omaggia nel canto di Arnaut Daniel. La filosofia cortese della donna assente, assente<br />

materialmente, non certo spiritualmente: possiamo parlare con Derrida di telepatia, non<br />

nel senso banale di sentire le stesse cose, ma nel senso più libero, generoso e aperto di essere<br />

abitato dall’altro e allo stesso tempo abitarlo, astraendo i limiti spazio-temporali. Non è certo<br />

perché Beatrice non è più di questo mondo che cessa di essere <strong>un</strong>a figura passionale per colui<br />

che l’ama.<br />

Nel lavoro di Berman, dal momento che lo avete citato, anche altre nozioni e postulati hanno<br />

attirato la mia attenzione. Sono soprattutto la questione della “ritraduzione” delle opere<br />

antiche e quella della necessità di procedere verso <strong>un</strong> “nouveau littéralisme” o <strong>un</strong> “littéralisme<br />

nouvelle manière”.<br />

C’è <strong>un</strong> suo libro, pubblicato postumo dalla moglie dopo la morte precoce, che s’intitola<br />

La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza ed è <strong>un</strong>a riflessione sulle traduzioni di<br />

opere antiche. L’opera più sviluppata in questo testo è la traduzione francese fatta dal filosofo<br />

Pierre Klossowski dell’Eneide di Virgilio. Klossowski, che era soprattutto traduttore di Nietzsche<br />

oltre che scrittore e pittore, ha fatto <strong>un</strong> lavoro rivoluzionario traducendo quest’ opera,<br />

il diavoletto di Maxwell 43


attenendosi a seguire la sintassi latina. Alc<strong>un</strong>i puristi francesi lo hanno attaccato dicendo che il<br />

suo era <strong>un</strong> linguaggio incomprensibile, <strong>un</strong>a maniera di oltrepassare il francese. Ma egli è stato<br />

anche difeso da grandi scrittori e filosofi, come Foucault e Deguy. Berman gli rende omaggio e<br />

su quest’ opera fonda la sua nozione di nouveau littéralisme: non si deve cercare la letterarietà<br />

all’antica, cioè <strong>un</strong> calco parola per parola, ma <strong>un</strong> rispetto per la carica semantica e la costruzione<br />

sintattica della frase di partenza. A condizione certo che passi nella lingua di ricezione,<br />

che lo si possa comprendere. Una delle idee principali di Berman, alla quale mi attengo, è che<br />

ogni generazione che avverte <strong>un</strong>a distanza culturale, come quella che separava me dal primo<br />

traduttore di Dante, dovrebbe ritradurre i classici: Omero, Dante, Virgilio, Shakespeare, Petrarca,<br />

Leopardi, Goethe; perché, e qui torniamo al nostro p<strong>un</strong>to di partenza, le opere maturano<br />

nel tempo, sorgono nuovi potenziali, la nostra maniera di leggerli cambia, la nostra maniera di<br />

tradurli cambia.<br />

Come ha preparato l’apparato critico e le note? A quale pubblico ha immaginato di rivolgersi?<br />

Mi rivolgo sempre ai lettori di poesia. Certo, non solo ai professionisti della critica letteraria<br />

o agli intellettuali della poesia, ma neanche ai semplici lettori: non si può certo leggere<br />

Dante all’inizio del proprio percorso, bisogna com<strong>un</strong>que avere <strong>un</strong>a certa cultura letteraria.<br />

Nella prima pagina della mia introduzione spiego che le note sono eteroclite: innanzitutto<br />

ci sono i riass<strong>un</strong>ti condensati dei commenti europei di spettabili specialisti che hanno<br />

dedicato la loro vita al suo studio. Il mio dovere è stato anche dipanare le moltissime note<br />

che spesso si contraddicevano. Ho dovuto quindi selezionare i passi più validi e convincenti,<br />

condensarli e aggi<strong>un</strong>gere infine le mie note che aiutano il lettore arabo a decifrare<br />

e assaporare questo testo secondo la sensibilità araba, elemento che i commentatori<br />

europei non potevano certo tenere in conto.<br />

Come si inserisce la traduzione, anche letteraria, nel contesto di interscambio culturale<br />

tra Oriente e Occidente e come si è evoluta? In che modo si può considerare <strong>un</strong>o strumento<br />

politico? Crediamo infatti che non sia <strong>un</strong> fatto politicamente insignificante quello di tradurre<br />

Dante in arabo proprio ora.<br />

È evidente: la traduzione aiuta la comprensione tra le genti. Anche i più grandi poliglotti<br />

hanno bisogno ad <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to della traduzione. Gli Stati possono e devono intervenire<br />

per aiutare i programmi di traduzione, facilitare l’invio di borsisti per esempio e lo scambio<br />

di competenze scientifiche. Tutto ciò aiuta. Ma per tornare alla poesia, alla traduzione<br />

della poesia e della letteratura in generale, io credo che il talento individuale sia essenziale;<br />

<strong>un</strong> talento che lo studio, ovviamente, conferma e consolida. Io vedo insomma nella<br />

traduzione letteraria <strong>un</strong>a missione che richiede talento, passione, cultura: quando si<br />

entra nel dominio artistico questo è ciò che ci vuole, dal momento che si tratta sempre di<br />

<strong>un</strong>’avventura poetica. Tradurre Dante o qual<strong>un</strong>que altro poeta europeo è per me <strong>un</strong> atto<br />

innanzitutto poetico, solo dopo politico e umanistico. Certo, la traduzione deve aiutare<br />

l’avvicinamento tra i popoli e le culture ma, trattandosi di poesia, ciò si ottiene soprattutto<br />

attraverso l’apertura degli immaginari poetici gli <strong>un</strong>i verso gli altri.<br />

1 La soglia sull’altro - i nuovi compiti del traduttore, giornata di lettura a cura de La bottega dell’elefante, tenutasi a<br />

Bologna il 5 dicembre 2007.<br />

44


marzo ’08<br />

I traduttori, i traditori e gli amanti di Fernanda, la<br />

principessa<br />

Lorenzo Mari<br />

It is normally supposed that something always gets lost in translation;<br />

I cling, obstinately, to the notion that something can also be gained.<br />

S. Rushdie, Imaginary Homelands<br />

L’emersione implica spesso il<br />

riattraversamento di <strong>un</strong> mezzo,<br />

non importa se liquido o grafico.<br />

È così per esempio (anche se<br />

non si darà certo qui <strong>un</strong>a lettura<br />

<strong>un</strong>ivoca di alc<strong>un</strong>i fenomeni<br />

“polisemici per definizione”)<br />

che le letterature cosiddette<br />

“emergenti” 1 , cioè tanto le letterature<br />

post-coloniali quanto le<br />

letterature di migrazione – non<br />

necessariamente scaturite da<br />

scenari politici post-imperiali, e<br />

com<strong>un</strong>que segni di <strong>un</strong>a marginalità<br />

interna paragonabile alla<br />

linea di esclusione colonizzatori/<br />

colonizzati 2 – si avvalgono con<br />

sorprendente frequenza delle<br />

tecniche di secondo grado.<br />

Dalla riscrittura alla traduzione alla parodia: gli slittamenti del canone euro-centrico sono<br />

virtualmente infiniti – per contenere adeguatamente l’analisi (ma non l’emersione), si deve qui<br />

forzosamente scegliere <strong>un</strong> solo parametro critico, che possa essere però il più ampiamente<br />

<strong>un</strong>ificante. Si propone allora, con l’intento di scandagliare, tra le altre, la letteratura italiana di<br />

migrazione, la questione della lingua, sintomatica sia per tutto ciò che risponde alla definizione<br />

di “secondo grado”, sia, in ottica storico-comparativa, per gli interessi di <strong>un</strong>a più generale<br />

tradizione letteraria.<br />

Proprio a partire dalla discriminante linguistica, in effetti, la letteratura italiana di migrazione<br />

è stata molto spesso considerata, da <strong>un</strong> lato, come svincolata dal corpus letterario italiano,<br />

e, dall’altro, dal discorso post-coloniale 3 . Dividere o ri-collegare, in base alla lingua, non è qui<br />

Paolo De Guidi, da Les ombres du Louvres, 2007<br />

allora <strong>un</strong>a sterile questione accademica, <strong>un</strong>a semplice disputa sulle etichette; rivela, piuttosto,<br />

l’urgenza anche socio-politica di riallacciare il vincolo perduto, nella storia italiana, con <strong>un</strong><br />

passato coloniale colpevolmente dimenticato, la cui contenuta – si fa per dire – azione temporale<br />

ed economica rispetto ad altri imperi non può servire da giustificazione per <strong>un</strong> oblio, che<br />

si può talora rivelare di marca nazionalista – finiamola, insomma, con la retorica degli “italiani<br />

brava gente”, il generale Rodolfo Graziani docet...<br />

Ciò stabilito, è pur vero che affrontare la questione della lingua è cosa <strong>un</strong> poco più ardua,<br />

in quanto, ad esempio, l’italiano non si è mai insegnato stabilmente nei territori colonizzati<br />

il diavoletto di Maxwell 45


durante il Ventennio 4 , non vi è nazione ufficialmente italofona fuori dell’Italia, l’italiano è, nella<br />

gran parte dei casi, <strong>un</strong>a lingua che si impara soltanto in Italia.<br />

Parlare dell’italiano migrante, nonostante le esperienze sicuramente interessanti della<br />

Svizzera Italiana e dell’Argentina, non è, quindi, come parlare dell’inglese in India, del francese<br />

nel Maghreb o dell’afrikaans in Sudafrica – lingue che hanno prodotto alc<strong>un</strong>i corpus letterari<br />

post-coloniali “certificati”. Ad ogni modo, quella dell’italiano alloctono è <strong>un</strong>’esperienza<br />

molto articolata e stratificata, per effetto di <strong>un</strong>’acquisizione molto variegata di seconda<br />

lingua (l’italiano è stato imparato in strada, sul posto di lavoro, a scuola, dalla televisione, ai<br />

corsi più o meno qualificati di italiano per stranieri...); al tempo stesso, si tratta, rispetto agli<br />

altri casi citati, di <strong>un</strong>a lingua com<strong>un</strong>emente caratterizzata da <strong>un</strong>a competenza meno strutturata,<br />

perché meno scolastica, meno accademica, meno presente ab origine nelle culture e<br />

nelle espressioni artistiche delle com<strong>un</strong>ità migranti. La vulgata, anche nella sua versione politically<br />

correct, vuole che queste particolari condizioni abbiano offerto il fianco a interventi<br />

di traduzione e riscrittura molto consistenti, spesso a carattere censorio, se non oppressivo,<br />

sulla letteratura migrante. Le riscritture nei testi della letteratura di migrazione, esistenti e<br />

numericamente consistenti, sarebbero quindi dovute a pratiche di potere molto più che di<br />

com<strong>un</strong>icazione, passanti, ambiguamente, per <strong>un</strong>a stessa (?!) scrittura – ma questo genera<br />

<strong>un</strong> problema fisico, prima ancora che critico. Se sappiamo di chi è la prima (ma se è la prima,<br />

non avrà più importanza?) e la seconda mano (ma, essendo due mani, non si scrivono già<br />

<strong>un</strong>a sull’altra, e <strong>un</strong>a nell’altra, concretizzando già in questo momento le logiche dell’incontro/scontro<br />

e dell’ibridazione culturale?), sulla terza e la quarta i dubbi, anche extra-letterari<br />

e politico-morali, possono essere legittimi.<br />

Nel caso che analizziamo, si tratta perlopiù delle mani di giornalisti italiani, certamente<br />

interessati più al “fenomeno-migrazione” che non alle sue espressioni creative, di penne<br />

probabilmente viziate dal sensazionalismo che è sempre stato fatto sul tema. Tra l’altro, a<br />

disdoro della nostra teoria, questi interventi si sono condensati in <strong>un</strong>a fase che sembra cronologicamente<br />

ben definita, nella giovane storia di questa letteratura – agli ‘albori’ (1990-1994),<br />

posto che questi si possano sempre concretamente rintracciare, cioè che, in altre parole, le<br />

storiografie letterarie si possano assumere ancora in tutto e per tutto, ingenuamente, come<br />

dati veritativi... (In queste considerazioni serpeggia il mito di <strong>un</strong>a primitività necessaria, di<br />

<strong>un</strong>o stato di ignoranza da colmare in qualche modo con l’arrivo dei nostri. L’arrivo della nostra<br />

cavalleria – della “nostra brava gente”, come si diceva...)<br />

Metodologie critiche realmente spendibili prevedono però <strong>un</strong> passaggio concreto per i<br />

testi. In <strong>un</strong>a rassegna molto rapida e impressionista, incontriamo, tra 1990 e 1994, libri dalle<br />

vicende decisamente poco fort<strong>un</strong>ate – per esempio, il dissidio di Nassera Chora a proposito<br />

di Volevo diventare bianca (e/o, 1993) con la sua giornalista-tutor Alessandra Atti di Sarro ha<br />

condizionato pesantemente il silenzio di Chora dopo la pubblicazione del suo libro d’esordio –<br />

accanto ad alc<strong>un</strong>i veri e propri best-sellers, limitatamente alle capacità di vendita del genere,<br />

come quelli di Pap Khouma-Oreste Pivetta (Io, venditore di elefanti, Garzanti, 1990) e di Salah<br />

Methnani-Mario Fort<strong>un</strong>ato (Immigrato, Theoria, 1990, ripubblicato da Bompiani nel 2006).<br />

Oltre al successo di pubblico, com<strong>un</strong>que garanzia di ricadute benefiche su entrambi gli autori,<br />

si può osservare in questi testi, tra loro molto difformi, come la questione della lingua sia<br />

declinata in tutti i suoi possibili aspetti, non solo in quello della correzione/censura. Parallelamente,<br />

anche la scrittura a due mani, autobiografica o più decisamente fictional, ha dato risultati<br />

analoghi, di grande molteplicità: gli ipercorrettismi spontanei di scrittrici-traduttrici come<br />

Jarmila O kayovà e Vesna Stani emettono scintille se accostati alle lingue ruvide, ma sempre<br />

tutto sommato decifrabili, di Mohamed Bouchane e altri.<br />

In questa prospettiva, anche ponendo il caso-limite, per il momento non modellabile su<br />

46


marzo ’08<br />

alc<strong>un</strong> testo conosciuto, di <strong>un</strong>o scrittore che non conosca l’italiano, si ipotizzi pure analfabeta<br />

(anche se già così è chiaro che si rendono patenti le contraddizioni insite a <strong>un</strong> vero e proprio<br />

genere letterario, la cosiddetta “letteratura dell’ignoranza” 5 ) che detti a <strong>un</strong> amanuense/correttore<br />

di bozze “malintenzionato”, non si esce dai limiti di <strong>un</strong>’assiomatica piuttosto chiara, che<br />

si può considerare inoltre come tipica di <strong>un</strong>a critica autenticamente, passionalmente militante<br />

che si eserciti in campo post-coloniale.<br />

La si riassume in due passaggi.<br />

In primo luogo, nei libri delle letterature emergenti, come insegnato da Deleuze e Guattari,<br />

vi è <strong>un</strong>a chiara predominanza della valenza politica su quella estetica, ritenuta autonoma<br />

soltanto dalla critica europea/eurocentrica tradizionale: chi parla, lo fa per <strong>un</strong>a collettività (per<br />

la famiglia, per la com<strong>un</strong>ità<br />

migrante, per la com<strong>un</strong>ità d’origine,<br />

locale o nazionale...) in <strong>un</strong><br />

esercizio di sopravvivenza che<br />

è individuale, sul modello di<br />

Sheherazade, e al tempo stesso<br />

socio-politico.<br />

In seconda battuta, è da<br />

considerarsi perfettamente<br />

ammissibile <strong>un</strong> libero compromesso<br />

tra due autori, specie se<br />

come in questo caso si tratta<br />

di <strong>un</strong> esperimento-base di<br />

interculturalità. L’opera d’arte,<br />

non più bisognosa di autonomia,<br />

non necessita neanche dei<br />

crismi di originalità e di indivi-<br />

dualità. La responsabilità dello<br />

stile, che è pur sempre <strong>un</strong>o stilo<br />

impugnato contro qualc<strong>un</strong>o o<br />

Paolo De Guidi, 2007<br />

qualcosa, è certamente presente, ma non presuppone più che si affronti in modo esclusivo <strong>un</strong>a<br />

norma linguistica. Conseguentemente, gli scrittori italiani della migrazione non scrivono in <strong>un</strong>a<br />

sorta di pig italian, come ebbe a dire, infelicemente, Giovanni Raboni nel 1998, forse per <strong>un</strong><br />

lapsus originato dalla parola pidgin (<strong>un</strong>a definizione in ogni caso meno violenta, e sicuramente<br />

più plurale). Non si tratta, allo stesso modo, di scrittori totalmente liberati, e liberi, rispetto alla<br />

lingua – <strong>un</strong> altro caso teorico impossibile.<br />

Le quattro mani testimoniano invece di <strong>un</strong>o sforzo condiviso, reciprocamente arricchente,<br />

non solo limitante, che agisce tanto contro l’arbitrio del singolo quanto in f<strong>un</strong>zione delle diverse<br />

com<strong>un</strong>ità di appartenenza, operando a più livelli. La concretizzazione esemplare di questi<br />

concetti si può trovare in <strong>un</strong> testo “estremo” come Princesa, di Fernanda Farías de Albuquerque<br />

e Maurizio Jannelli (Sensibili alle Foglie, 1994).<br />

La storia autobiografica di Fernando/Fernandinha, il viados brasiliano ribattezzatosi Princesa,<br />

ovvero “principessa”, è <strong>un</strong>a storia di strada, di violenze che si ripetono sempre uguali, e<br />

sempre diverse, tra Brasile, Portogallo e Italia. In Italia, però, l’aggressione a <strong>un</strong> affittacamere,<br />

la cui disonestà ha fatto naufragare i sogni di tranquillità economica di Fernandinha, le viene a<br />

costare il carcere. Rebibbia Nuovo Complesso, sezione G8, detto il “penalino” per gli standard<br />

detentivi leggermente migliori rispetto al resto della prigione: forse stimolata dai laboratori<br />

artigianali e artistici per detenuti/e, forse p<strong>un</strong>golata da <strong>un</strong> nuovo incontro propiziato da Eros<br />

il diavoletto di Maxwell 47


(in assenza di erotismo), con il pastore sardo Giovanni Tamponi, condannato all’ergastolo per<br />

<strong>un</strong>a serie di rapine a mano armata, Fernandinha decide, dietro le sbarre, di iniziare a scrivere<br />

la propria storia. Scrive però esclusivamente della sua vita libera: il récit si conclude alle porte<br />

del carcere, che per lei sono anche le porte della morte – stando a W. Benjamin, la vera Autorità<br />

di ogni narratore che si rispetti.<br />

La lettera di Fernanda sarebbe destinata a rimanere lettera muta, se non fosse per l’intervento<br />

di recupero voluto da Giovanni Tamponi, insieme all’intellettuale di turno, l’ex brigatista<br />

Maurizio Jannelli, anch’egli detenuto nel carcere di Rebibbia. Tramite il Tamponi, Jannelli può<br />

raccogliere i quaderni gialli di Fernandinha, leggerli e decidere, con il consenso di lei, di pubblicarli.<br />

In vista di questo traguardo, Jannelli riscrive ‘pesantemente’, secondo <strong>un</strong>’ottica tradizionale,<br />

per rendere leggibili (ovvero facilmente leggibili, come si è detto di molti testi modernisti,<br />

da Joyce in giù) i testi che ha sotto mano. Lo si può constatare analizzando <strong>un</strong> estratto del<br />

manoscritto originale:<br />

Diana si chiamava <strong>un</strong> transse con 35 anni di età e <strong>un</strong> corpo perffetto, fatto di silicone, ma haveva il vizio deformatto,<br />

il suo vizio spaventava qualsiasi persona, imagina hei cliente. Lei tchera <strong>un</strong>a grande dificolta perché<br />

qualsiasi uomo quando vedeva il suo vizio scapava. Di giorno non usciva mai, che moriva di vergogna, il vizio<br />

sembrava due palone, il collo era come <strong>un</strong> congomello. Devito il defformato del vizio, hanno messo il suo nome:<br />

Diana, Fofao, Fofao vuol dire <strong>un</strong>a cosa piena grossa, come <strong>un</strong> palone […]<br />

Un giorno li ho questo per che non faceva <strong>un</strong>a chirurgia plastica, ma lei dice si fasceva la chirurgia plastica perdeva<br />

<strong>un</strong> occhio che già aveva penetrato il silicone al ochio. Poi eranon tanti soldie. Poi nel anni di 87, si uscide inpicata<br />

Diana dentro <strong>un</strong>a chiesa a San Paolo. 6<br />

che è stato così reso nel libro:<br />

Diana Fofao ha perso la faccia, ha perso tutto. La nasconde al sole e alla vista dei clienti. I suoi occhi: due biglie<br />

lucide affondate, sparite dentro <strong>un</strong>a devastazione al silicone. La sua bocca: <strong>un</strong> taglio rosso-schifo su <strong>un</strong> pallone<br />

gommapiuma. Diana fofao s’era bombata il viso e non le restava niente. Deformata, repellente […] La materia è<br />

entrata dentro l’occhio. Diana fofao è guasta, forma andata a male. Se toglie il silicone è cieca: non vedrà più il<br />

mondo che la guarda. Senza operazione le rimane solo <strong>un</strong> mondo che la schifa. Lava i cessi e fa le pulizie dentro<br />

<strong>un</strong>a pensione. Faccia senza luce, entrò in <strong>un</strong>a chiesa e si tirò <strong>un</strong>a corda al collo – fiore di plastica appassito. 7<br />

Il pastiche linguistico a base di portoghese, italiano e dialetto sardo non inficia del tutto<br />

la lettura del primo testo. Non siamo quindi davanti a <strong>un</strong> monstruum, ma a <strong>un</strong>’espressione<br />

piuttosto libera, nonostante i condizionamenti (e alle correzioni) sotto ai quali nasce, e a <strong>un</strong>a<br />

forma stilisticamente già ben determinata. Le frasi sono brevi, incisive, recano i segni della<br />

violenza ma non disdegnano la metafora – ad esempio della “forma andata male” – che cura<br />

le ferite “portando oltre”. Certamente, è nel secondo testo che affiora più compiutamente<br />

<strong>un</strong>o stile lirico, probabilmente proprio di Maurizio Jannelli più che di Fernanda, ma che non è<br />

dovuto, o non è dovuto soltanto, a <strong>un</strong>a sua sovra-interpretazione. Maurizio Jannelli, infatti, non<br />

desume la storia di Fernandinha <strong>un</strong>icamente dalle righe di lei, che forse si possono davvero definire<br />

stentate – ma che in ogni caso, in virtù di questo stento sono anche righe vive... Princesa<br />

nasce anche da <strong>un</strong>a parafrasi e da <strong>un</strong> commento emozionale di queste storie che fa Giovanni<br />

Tamponi a Maurizio Jannelli: ne risulta <strong>un</strong> processo di scrittura, e ri-scrittura, complessamente<br />

triangolato – anche se poi, agli atti, risulteranno esserci stati solo due autori, Jannelli e Farias<br />

de Albuquerque. Ness<strong>un</strong>o dei due, però, avrebbe potuto o voluto sopprimere la figura di<br />

mediazione di Giovanni, che si presentava fisicamente a Fernanda, veniva investito di parole<br />

e come corpo scritto si restituiva a Maurizio. Giovanni è la vera creazione di Fernanda, il frutto<br />

vivo e vegeto – e parlante, più che scrivente – di <strong>un</strong>o choc sessuale, che Princesa ha portato su<br />

di sé, in quanto personaggio tradotto 8 sia nell’identità nazionale che in quella di genere, ma ha<br />

48


marzo ’08<br />

anche esibito in maniera contagiosa, verso il pastore sardo praticamente analfabeta e verso<br />

l’ex-brigatista dalla morale sessuale dichiaratamente veterocom<strong>un</strong>ista (cfr. Note introduttive a<br />

cura di M. Jannelli).<br />

Apice di tutto <strong>un</strong> percorso della quale ella è stata (in)felicemente inconsapevole, Princesa<br />

ha cambiato le storie degli altri, e non viceversa – come la stessa migrazione, del resto, ha<br />

sconvolto e cambiato la storia italiana degli ultimi trent’anni per mezzo dell’irruzione di <strong>un</strong><br />

Altro come soggetto di colonizzazione e non più come oggetto da colonizzare.<br />

Per tornare alla questione della lingua, infine, il pastiche linguistico anarchico ed ostico, ma<br />

non ostile, alla lettura, creato da Fernandinha con l’ausilio sotterraneo di Giovanni Tamponi,<br />

ha lasciato alc<strong>un</strong>e tracce nel testo riscritto da Jannelli. Queste impronte, com<strong>un</strong>que preziose,<br />

sono le stesse che si possono rinvenire nella generalità dei testi della migrazione: parole o<br />

espressioni singole (la più evidente, nel soprannome di Diana fofao), calchi sintattici, costruzioni<br />

semantiche nuove e originali. Fernandinha, che deve farsi capire, le isola dal testo, parafrasando<br />

tutto ciò che non può, secondo lei, essere capito da Giovanni o da Maurizio. Maurizio<br />

Jannelli, che deve fare e farsi sentire, le immerge in <strong>un</strong> continuum testuale, garantendo loro<br />

pari dignità rispetto alle altre parole. Non sono d<strong>un</strong>que segni rilevanti: lo choc sessuale, il<br />

cambiamento morale, la rivoluzione politica non si giocano sul piano strettamente linguistico<br />

– come ha sostenuto ad esempio Mia Lecomte 9 , in polemica con Raboni – bensì si applicano<br />

anche al discorso tutto, alle sue possibilità effettive di farsi udire, alle chances di emergere.<br />

Coincidendo piuttosto bene con il meccanismo che sta alla base della letteratura minore codificata<br />

da Deleuze e Guattari:<br />

Di solito, in effetti, la lingua compensa la sua deterritorializzazione con <strong>un</strong>a riterritorializzazione nel senso. 10<br />

lejosdeitalia84@yahoo.it<br />

1 L’etichetta di Emergent Literature è stata coniata dal critico Wlad Godzich nel saggio Emergent Literature and the<br />

Field of Comparative Literature (1988, ripubblicato in W. Godzich, The Culture of Literacy, 1994).<br />

2 H. Bhabha, Dissemination, saggio contenuto in Nation and Narration (1990) e riscritto successivamente – tanto<br />

nel titolo, DissemiNation, quanto nel corpo del testo – per The Location of Culture (1994).<br />

3 Un abbozzo di discorso postcoloniale in ambito italiano si trova in Poetiche dei mondi di Armando Gnisci (Meltemi,<br />

1999) e in pochi altri testi.<br />

4 L’insegnamento dell’italiano nelle colonie, <strong>un</strong> fenomeno ancora poco studiato e conosciuto, era com<strong>un</strong>que stato<br />

promosso con <strong>un</strong>a qualche consapevolezza dal regime fascista, se nel 1937 in Eritrea fu avviato ufficialmente <strong>un</strong><br />

piano per l’istruzione, che tuttavia rimase lettera morta per il concomitante inizio della seconda guerra mondiale,<br />

mentre in Somalia l’insegnamento dell’italiano rimase nelle scuole, parallelamente alla lingua somala, ufficializzata<br />

solo nel 1972, fino alla crisi militare – sicuramente post-coloniale, quanto a questo... – dei primi anni Novanta.<br />

5 Si veda a tal proposito il recupero da parte di Marcello Baraghini e di Stampa Alternativa di <strong>un</strong>o “scrittore analfabeta”<br />

come Daniele Boccardi (1961-1993).<br />

6 «Caffé – Rivista interculturale», n. 1, sett. 1994, pp. 4-5.<br />

7 M. Jannelli - F. Farias De Albuquerque, Princesa, ed. Sensibili alle Foglie, 1994, p. 158.<br />

8 La definizione di translated men ci viene da <strong>un</strong> saggio di Salman Rushdie riguardante la condizione del migrante,<br />

contenuto in Imaginary Homelands (1991, p. 17): Having been borne across the world, we are translated men. Nella<br />

stessa opera è contenuta la citazione posta in esergo a questo lavoro.<br />

9 M. Lecomte, intervento al Secondo Seminario degli Scrittori Migranti (2002) organizzato dalla rivista Sagarana<br />

(http://www.sagarana.net/scuola/seminario2/sabato_mattina.htm).<br />

10 G. Deleuze - F. Guattari, Kafka. Per <strong>un</strong>a letteratura minore, Feltrinelli, 1975, p. 36.<br />

il diavoletto di Maxwell 49


A rovesciare le fiabe:<br />

Wilde sovvertitore di Andersen<br />

50<br />

Matilde Montesi<br />

Nella Grammatica della fantasia Gianni Rodari analizza la possibilità di usare la fiaba popolare<br />

come materia prima per esercizi narrativi a carattere parodistico, dal rovesciamento al pastiche.<br />

«È <strong>un</strong> gioco più serio di quanto sembri. Ma bisogna giocarlo al momento giusto. I bambini,<br />

quanto a storie, sono abbastanza a l<strong>un</strong>go conservatori. [...] Quando sono pronti a separarsene<br />

come da <strong>un</strong> vecchio giocattolo esaurito dal consumo, accettano<br />

che dalla storia nasca la parodia, <strong>un</strong> po’ perché questa sancisce<br />

il distacco, ma <strong>un</strong> po’ anche perché il nuovo p<strong>un</strong>to di vista<br />

rinnova l’interesse alla storia stessa, la fa rivivere su <strong>un</strong> altro<br />

binario» 1 . In effetti, questo gioco è stato praticato da tutti gli<br />

autori o compilatori di raccolte fiabesche sia nei confronti della<br />

fiaba popolare che degli scrittori che li avevano preceduti. André<br />

Jolles fa <strong>un</strong>a considerazione interessante sulla fiaba letteraria<br />

che, con Le piacevoli notti di Straparola (1550-53) e ancor più<br />

con il Pentamerone di Basile (1634-36), si pone come genere<br />

sostitutivo della novella: «nel Pentamerone Gian Alesio prende<br />

in giro Giambattista, e Abbattutis volge in parodia, in napoletano,<br />

quanto Basile venera in italiano, ovvero Boccaccio e Marino.<br />

[...] Nella cornice viene imitato il Decameron... ma la forma che<br />

contiene il tutto è essa stessa <strong>un</strong>a fiaba» 2 .<br />

Come nota Jack Zipes, posta la distinzione fra racconto popolare<br />

e fiaba letteraria per bambini, non è difficile seguire la storia<br />

di questo genere e delinearne le caratteristiche. La fiaba letteraria<br />

nasce dal racconto popolare, ma in essa «la moralità e l’etica<br />

di <strong>un</strong> ordine civile cristiano sarebbero diventate parte integrante<br />

– talvolta fardello» 3 . Infatti il racconto popolare si svolge in<br />

<strong>un</strong>a dimensione priva di principi morali; Jolles parla invece di<br />

Paolo De Guidi, 2007<br />

etica dell’evento o morale ingenua: il giudizio non è orientato al<br />

comportamento bensì all’evento, ed è implicito nella forma della<br />

fiaba. La fiaba letteraria per bambini nasce invece dall’esigenza<br />

di socializzazione dell’infanzia. Dal gioco cortigiano di Basile si passa alle moralités di Perrault,<br />

«responsabile della “borghesizzazione” letteraria del racconto popolare» 4 , proseguita nell’Ottocento<br />

dai fratelli Grimm l<strong>un</strong>go <strong>un</strong>a strada che porta dritta a Walt Disney. I Contes di Perrault<br />

(1697) pongono i valori e i comportamenti della classe media al centro del discorso fiabesco, e<br />

forniscono <strong>un</strong> modello per l’infanzia mediante i racconti di ammonimento che premiano la virtù<br />

e castigano il vizio. Si può dire che la fiaba tradizionale valorizza sempre il “movimento”, cioè<br />

il cambiamento, l’ascesa sociale (per quanto disciplinata) del soggetto debole, e l’antagonista<br />

è chi al movimento si oppone, e deve pertanto essere p<strong>un</strong>ito. Invece la fiaba “socializzante”<br />

fa spesso ricadere il castigo su chi ha voluto il movimento, su chi ha manifestato curiosità.<br />

Così dal modello popolare di Cappuccetto Rosso, nel quale l’eroina accetta la sfida del lupo e<br />

si salva con l’astuzia, si passa al finale pauroso di Le Petit Chaperon Rouge, con la bimba divorata<br />

dal lupo, e a Rotkäppchen dei Grimm, nella quale la salvezza viene dalla figura paterna<br />

del cacciatore. E se nel finale di Biancaneve dei Grimm la cattiva matrigna è costretta a ballare


marzo ’08<br />

con pantofole arroventate, in <strong>un</strong>a fiaba come Le scarpette rosse di Hans Christian Andersen è<br />

la protagonista, colpevole di avere indossato le scarpe rosse in chiesa, che deve ballare senza<br />

sosta e infine subire la mutilazione dei piedi.<br />

Con le sue 156 fiabe, pubblicate tra il 1835 e il 1872, Andersen entra nel canone dei classici,<br />

accanto al binomio Perrault-Grimm. Andersen crea <strong>un</strong>a fiaba nuova, <strong>un</strong>endo elementi degli<br />

autori romantici a sp<strong>un</strong>ti autobiografici, con <strong>un</strong>a forte componente di riscatto personale. Zipes<br />

definisce Andersen <strong>un</strong> campione della socializzazione, <strong>un</strong> prosecutore e <strong>un</strong> innovatore del<br />

«canone di fiaba letteraria per bambini e adulti in lode dell’ideologia essenzialista e dell’etica<br />

protestante» 5 . Andersen scrive con esplicito intento didattico, si rivolge a <strong>un</strong> pubblico più di<br />

adulti che direttamente di bambini, inserisce massicciamente il tema religioso nel discorso<br />

fiabesco – come si è visto, con intenti di ammonimento molto marcati – e, da dominato di umili<br />

origini, aspira al riscatto tutto individuale dell’accettazione da parte della classe dominante. A<br />

quell’epoca, nota ancora Zipes, il pregiudizio della classe media contro il carattere fantastico<br />

della fiaba viene meno, con il «graduale riconoscimento del fatto che la fantasia poteva essere<br />

impiegata per le esigenze utilitaristiche della borghesia» 6 . Un concetto centrale nell’opera di<br />

Andersen è quello di nobiltà naturale, dell’attitudine innata che porta ad elevarsi al di sopra<br />

della propria condizione per <strong>un</strong>irsi a chi è veramente affine, come accade nel Brutto anatroccolo,<br />

chiaramente a carattere autobiografico 7 .<br />

Vediamo ora come e perché Oscar Wilde, con altri autori anglosassoni di fine Ottocento,<br />

abbia giocato a rovesciare e parodiare Andersen, ben presto assurto al rango di classico, nelle<br />

sue raccolte di fiabe, Il principe felice e altri racconti (1888) e Una casa di melograni (1891).<br />

La fiaba d’autore di Wilde prende certo Andersen come modello di riferimento (ad esempio, il<br />

personaggio della piccola fiammiferaia nel Principe felice), ma mira a criticare invece che a legittimare<br />

il processo di civilizzazione. All’ideologia essenzialista, che fonda la gerarchia sociale<br />

su <strong>un</strong> ordine biologico naturale, Wilde contrappone <strong>un</strong>’utopia socialista-religiosa, esposta nel<br />

saggio L’anima dell’uomo sotto il socialismo (1891) e illustrata in fiabe come Il gigante egoista,<br />

«forse il suo più intenso pron<strong>un</strong>ciamento sui rapporti capitalisti di proprietà e sul bisogno di<br />

ristrutturare la società sulla base di criteri socialisti» 8 . La prospettiva ideologica polemica si<br />

esprime spesso mediante il rovesciamento (Zipes parla di sovversione) delle trame e dei temi<br />

anderseniani ben noti al lettore. Ad esempio, Il pescatore e la sua anima è in tutto speculare<br />

alla Sirenetta: se nella fiaba di Andersen è la sirena a entrare nel mondo degli uomini per<br />

acquistare <strong>un</strong>’anima immortale, subendo la mutilazione e la sofferenza, qui il pescatore deve<br />

liberarsi della propria anima sfidando il parere della chiesa e della società per vivere nel mare.<br />

È il corpo ad essere sede dei sentimenti positivi, mentre l’anima induce al peccato in quella<br />

che si può leggere come <strong>un</strong>a parodia delle tentazioni di Cristo, oltre che come <strong>un</strong>a ripresa del<br />

mitologico giudizio di Paride. Il brutto anatroccolo trova il suo rovesciamento parodistico nel<br />

Figlio della stella: al cigno incompreso dagli inferiori e accettato dai suoi veri simili corrisponde<br />

<strong>un</strong> bellissimo figlio di re vanitoso e crudele che maltratta chi è meno fort<strong>un</strong>ato di lui finché<br />

non viene p<strong>un</strong>ito nell’aspetto. Dietro questa coppia di fiabe troviamo il mito di Narciso, di cui<br />

Il brutto anatroccolo è <strong>un</strong> rovesciamento: l’anatroccolo si conosce come cigno nel riflesso<br />

dell’acqua, e cioè si scopre uguale agli uccelli da lui ammirati, ma la conoscenza di sé non gli<br />

è fatale, è anzi la ricompensa delle sue disgrazie e comporta l’accettazione definitiva nel ruolo<br />

che gli compete. Per il figlio della stella si rivela invece salvifica la presa di coscienza, sempre<br />

nel riflesso dell’acqua, della propria bruttezza, mentre il recupero della bellezza (del quale fa<br />

fede <strong>un</strong>o scudo-specchio) porta ad <strong>un</strong> finale solo parzialmente lieto: «peraltro egli non regnò<br />

a l<strong>un</strong>go: così grande era stata la sua sofferenza e così violento il fuoco della sua prova, che in<br />

capo a tre anni morì. E il suo successore fu <strong>un</strong> pessimo re» 9 . Un’altra agnizione davanti allo<br />

specchio, grottesca parodia di quella di Narciso, e altrettanto fatale, è quella del nanetto de-<br />

il diavoletto di Maxwell 51


forme nel Compleanno dell’Infanta: il nano scopre la propria bruttezza e muore per il dolore di<br />

essere stato lo zimbello della principessa, sotto gli occhi dei bambini nobili, che lo applaudono<br />

pensando a <strong>un</strong>a recita. Oltre al Brutto anatroccolo Wilde prende qui di mira L’usignolo, che<br />

Andersen aveva pensato come <strong>un</strong>a parabola sull’arte e sul rapporto fra artista e potenti. L’usignolo<br />

dall’aspetto dimesso e insignificante e dalla voce magnifica, ovviamente <strong>un</strong>a proiezione<br />

dello stesso Andersen, trova dapprima la protezione paternalistica dell’imperatore, ma poi si<br />

vede preferire <strong>un</strong> congegno meccanico. Dopo che l’usignolo ha salvato la vita al suo mecenate,<br />

«acconsente a diventare l’uccello canterino dell’imperatore per sempre a patto di poter andare<br />

e venire quando vuole. Il feudalesimo è stato sostituito da <strong>un</strong> sistema di libero scambio, e<br />

tuttavia l’uccello/artista è disposto a servire fedelmente e a lasciare l’autocrate al potere» 10 .<br />

Anche quando Andersen fa dell’ironia sulle classi superiori, si limita a stigmatizzare il comportamento<br />

di singoli indegni (proprio come fra gli inferiori individua singoli eletti per natura),<br />

come ne I vestiti nuovi dell’imperatore, che Wilde riprende con Il giovane re. Il protagonista di<br />

questa fiaba, cresciuto tra i pastori e poi accolto a corte, alla vigilia dell’incoronazione fa tre<br />

sogni che gli svelano come il lusso di cui si circonda derivi dallo sfruttamento dei lavoratori.<br />

Decide allora di presentarsi alla cerimonia indossando i suoi vecchi abiti, il che gli procura<br />

l’ostilità della corte, del popolo e del clero. L’affermazione ideologica è qui forse la più radicale<br />

in Wilde: «il rifiuto dell’abito, della corona e dello scettro è <strong>un</strong>a negazione della proprietà<br />

privata, degli orpelli e di <strong>un</strong> potere ingiusto» 11 .<br />

Dal Principe felice che non riesce con l’azione individuale a sanare le ingiustizie sociali, al<br />

Figlio della stella che tenta di riscattarle accettando il martirio, fino al Giovane re che lascia<br />

la strada aperta all’utopia, le fiabe di Wilde abbondano di figure cristologiche, proprio come<br />

la lingua in cui sono scritte ricorre a stilemi biblici. Se Andersen ambiva a essere riconosciuto<br />

come il “cigno di Danimarca”, è ovvio che Wilde si identificasse con la figura del Cristo, ma «se<br />

da <strong>un</strong>a parte Cristo viene visto come <strong>un</strong> modello di antiautoritarismo e umanesimo, dall’altra<br />

deve essere superato per intraprendere <strong>un</strong>a com<strong>un</strong>e lotta alla conquista della felicità, e quindi<br />

della realizzazione del socialismo. [...] Paradossalmente la lotta dell’individuo contro la società<br />

non è abbastanza per la creazione dell’individualismo, che prevede <strong>un</strong>a costruzione collettiva<br />

del paradiso in terra» 12 . Le fiabe di Wilde vanno oltre il “movimento” tradizionale che sostituisce<br />

la figura di potere ma lascia intatto il ruolo, per auspicare <strong>un</strong> cambiamento radicale della<br />

società: cambiare di segno Andersen fa parte della loro critica alla socializzazione in conformità<br />

ai modelli dominanti.<br />

1 G. Rodari, Grammatica della fantasia, Torino, Einaudi, 2001, pp. 54-55.<br />

2 A. Jolles, La fiaba nella letteratura occidentale moderna, ne I travestimenti della letteratura. Saggi critici e<br />

teorici (1897-1932), trad. di S. Contarini e R. Zuppet, Milano, Br<strong>un</strong>o Mondadori, 2003, pp. 134-135.<br />

3 J. Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della sovversione, trad. di G. Grilli, Milano,<br />

Mondadori, 2006, p. 23.<br />

4 Ibidem, p. 72.<br />

5 Ibidem, p. 129.<br />

6 Ibidem, p. 130.<br />

7 Andersen si identificava con la figura di Aladino e intitolò La fiaba della mia vita <strong>un</strong>’autobiografia riscritta<br />

per tre volte e «infarcita di distorsioni e abbellimenti». Cfr. J. Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm?, cit., p.<br />

140 e p. 339.<br />

8 J. Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm?, cit., p.198.<br />

9 O. Wilde, Complete Short Fiction, Londra, Penguin, 2003, p. 164.<br />

10 J. Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm?, cit., p. 155.<br />

11 Ibidem, p. 196.<br />

12 Ibidem, pp. 192-193.<br />

52


marzo ’08<br />

La letteratura italiana in Cina: il caso di Dario Fo<br />

Francesca Bavecchi<br />

Durante gli ultimi anni nel mercato editoriale cinese si è registrata la comparsa di <strong>un</strong>’ingente<br />

quantità di testi stranieri, con <strong>un</strong>’ampia sezione di opere italiane. 1<br />

Sebbene la diffusione della letteratura occidentale in Cina sia <strong>un</strong> fenomeno relativamente<br />

recente, le prime traduzioni in cinese dei più celebri capolavori stranieri risalgono già alla<br />

seconda metà dell’ottocento: si tratta di trasposizioni approssimative, effettuate dal russo, dal<br />

giapponese e dall’inglese.<br />

Le prime versioni elaborate direttamente dall’italiano compaiono nel paese solo attorno al<br />

1960 ed aumentano vertiginosamente negli anni seguenti, quando vengono condotti anche i<br />

primi studi di italianistica .<br />

È a questo p<strong>un</strong>to che il lavoro di traduzione inizia ad essere percepito come <strong>un</strong> processo<br />

di trasformazione linguistica e negoziazione fra parti, spesso influenzato dalle richieste delle<br />

case editrici, dalle aspettative dei nuovi lettori, e più in generale da fattori politici, economici<br />

e culturali. 2<br />

Effettuando <strong>un</strong>’analisi comparata fra opere italiane e relative versioni cinesi, appare evidente<br />

come traduzione e mediazione siano operazioni inscindibili.<br />

Gli scrittori italiani attualmente conosciuti in Cina sono numerosi, ma <strong>un</strong>a posizione di<br />

riguardo è quella di Dario Fo, autore particolarmente apprezzato sia dagli amanti della letteratura<br />

che dagli appassionati di teatro. Le sue opere, caratterizzate da <strong>un</strong>o stile popolare e giullaresco,<br />

hanno richiesto <strong>un</strong> lavoro di traduzione più attento rispetto a testi redatti in <strong>un</strong>a forma<br />

più classica, e costituiscono pertanto <strong>un</strong>a materia d’analisi utile a fare luce sulle tecniche di<br />

trasposizione dall’italiano al cinese.<br />

Le prime opere di Fo tradotte in cinese, e contenute in <strong>un</strong>a raccolta stampata nel 1998 3 ,<br />

sono Fanfani rapito, Mistero buffo, Claxon trombette e pernacchi, Grande Pantomima con bandiere<br />

e pupazzi grandi, piccoli e medi e Morte accidentale di <strong>un</strong> anarchico.<br />

Per avere <strong>un</strong>’idea di come queste traduzioni siano state effettuate, e quali effetti abbiano<br />

avuto sull’opinione pubblica locale, si può considerare il caso di Morte accidentale di <strong>un</strong><br />

anarchico «一个无政府主义者的意外死亡» (yige wuzhengfu zhuyi zhede yiwai siwang), di Lu<br />

Tongliu 吕同六.<br />

L’arrivo dell’ «Anarchico» in Cina<br />

Risale al 1970 la prima pubblicazione in Italia di Morte accidentale di <strong>un</strong> anarchico, opera di<br />

controinformazione sulla morte di Pinelli, anarchico indagato a seguito della strage di Piazza<br />

Fontana e precipitato dal quarto piano della Questura di Milano durante <strong>un</strong> interrogatorio.<br />

La commedia arriva in Cina solo nel 1998, a seguito del conseguimento del Nobel e del<br />

riconoscimento a livello internazionale dell’autore.<br />

Il traduttore è Lu Tongliu吕同六, <strong>un</strong> celebre italianista. Il suo primo incontro con l’ Italia<br />

avviene a Shanghai, da bambino, durante gli anni cinquanta. Negli anni settanta entra nell’Accademia<br />

delle Scienze Sociali, ma la Rivoluzione lo costringe ad abbandonare gli studi e<br />

il diavoletto di Maxwell 53


ecarsi in campagna. Dopo <strong>un</strong> periodo di rieducazione trascorso in <strong>un</strong> villaggio al centro della<br />

Cina, torna a dedicarsi alla propria passione per le lingue e le culture straniere, messa da parte<br />

durante la rivoluzione. Nel 1979 si trasferisce a Roma, dove ha inizio <strong>un</strong>’intensa attività di<br />

traduzione.<br />

L’opera di Fo arriva in teatro grazie a Meng Jinghui 孟京辉, <strong>un</strong> giovane artista noto per i<br />

suoi esperimenti d’avanguardia. Meng inizia a lavorare negli anni novanta, portando in scena<br />

Beckett, Genet, Pinter, Jonesco. Solo successivamente inizia a scrivere opere proprie, ma il successo<br />

critico e commerciale arriva proprio con Morte accidentale di <strong>un</strong> anarchico, con la messa<br />

in scena di quello che lui stesso definisce «Il tema della rivendicazione della dignità umana, <strong>un</strong><br />

valore <strong>un</strong>iversale, appartenente a tutti e non ad <strong>un</strong> singolo paese».<br />

La traduzione<br />

La trasposizione delle opere di Dario Fo in cinese ha richiesto <strong>un</strong> grande lavoro di mediazione<br />

linguistica e culturale: l’analisi effettuata sul testo cinese di Morte accidentale di <strong>un</strong> anarchico<br />

è stata condotta facendo riferimento al metodo di analisi suggerito da Barchudarov nell’opera<br />

Lingua e traduzione. Di seguito, i principali espedienti adottati dal traduttore:<br />

Resa di nomi non traducibili: il prestito fonologico<br />

Il prestito fonologico è <strong>un</strong> sistema che consente di riprodurre il suono dei nomi che non<br />

possono essere tradotti, attraverso l’uso di caratteri cinesi di scarso valore semantico, e senza<br />

ricorrere ad alc<strong>un</strong> alfabeto. Ecco alc<strong>un</strong>i esempi:<br />

«Freud»: 弗洛依德 (Fuluoyide)<br />

«Hitchcok»: 希区柯克 (Xiqukeke)<br />

«Totò»: 托托 (Tuotuo)<br />

«Noè»: 诺亚 (Nuoya)<br />

«Roma»: 罗马 (Luoma)<br />

«Venezia»: 威尼斯 (Weinisi)<br />

«Milano»: 米兰 (Milan)<br />

«Alleluia»: 哈利路亚 (Haliluya)<br />

Resa di espressioni onomatopeiche<br />

Nella maggior parte dei casi Lu Tongliu ha scelto di non riproporre il suono onomatopeico<br />

originale, ma di tradurlo, perché non comprensibile per i lettori cinesi.<br />

«Gnam»: 发出咬噬的声音 (Fachu yaoshide shengyin), «Emette il rumore di <strong>un</strong> morso ».<br />

«Preett»: 发出可怕的咂舌头的声音 (Fachu kepade za shetoude shengyin), «Emette <strong>un</strong><br />

rumore tremendo con la p<strong>un</strong>ta della lingua » .<br />

«Accenna bacetti di addio “bciu bciu”»: 作告别的飞吻 (Zuo gaobiede feiwen) «Manda baci<br />

volanti di addio».<br />

Le note<br />

Il traduttore ricorre a note esplicative per chiarire il significato di alc<strong>un</strong>e espressioni: si tratta<br />

prevalentemente di nomi geografici, di personaggi famosi e di riferimenti a nozioni di cultura<br />

generale o a vicende italiane poco note all’estero.<br />

哈理路亚 (Haliluya), «Alleluia: 系犹太教和基督教的欢呼声,意为“赞美神, (Xi youtaijiao<br />

he jidujiao de huanhusheng yiwei “zaomeishen”), è <strong>un</strong>’esclamazione dei cristiani e degli ebrei<br />

54


marzo ’08<br />

simile a “Lodiamo gli spiriti”».<br />

贝加摩市(Beikamo shi), «Bergamo: 意大利北部城市 (Yidali beibu chengshi), Città dell’Italia<br />

del nord».<br />

紧身衣 (Jin shen yi), «Camicia di forza: 束缚疯子用的衣服, (Shufu fengzi yong de yifu),<br />

indumento usato per legare i matti».<br />

神风 (Shenfeng), «Kamikaze: 系二次大战期间义自杀性轰炸闻名的日本空军敢死对, (Xi<br />

er ci dazhan qijian yi zisha xing hongzha wenming de riben kongj<strong>un</strong> gan si dui), durante la<br />

seconda guerra mondiale, squadre di temerari dell’esercito giapponese, celebri per gli attacchi<br />

di carattere suicida».<br />

班迪挨 (Bandiai),<br />

«Bandieu: 法国精神分<br />

析专家, (Faguo jingshen<br />

fenxi zhuanjia), psicanalista<br />

francese».<br />

托托 (Tuotuo), «Totò:<br />

意大利当代著名喜剧<br />

演员, (Yidali dangdai<br />

zhuming xiju yanyuan),<br />

famoso attore comico».<br />

格利哥里一世(Geligeli<br />

yishi), «Gregorio Magno:<br />

罗马教皇,有 “中世纪教<br />

皇之父” 之称,(Luoma<br />

jiao huang,you zhongshiji<br />

jiaohuang zhifu” zhi<br />

cheng), Papa di Roma definito<br />

il padre della chiesa<br />

medievale».<br />

Paolo De Guidi, 2007<br />

Resa di espressioni volgari<br />

Il linguaggio adottato da Dario Fo è ricco di espressioni di carattere popolare. Quello che ne<br />

deriva è <strong>un</strong>a grande vivacità espressiva, difficilmente riproducibile in modo fedele in <strong>un</strong>’altra<br />

lingua. Ecco alc<strong>un</strong>i esempi:<br />

«Per dio»: 我的天哪!(Wode tian na!), «oh cielo!»<br />

«Caro il mio fregoli del porcogiuda»: 我亲爱的下流痞 (Wo qinaide xialiu pi), « cara la mia<br />

volgare canaglia».<br />

«Porco boia»: 混蛋 (H<strong>un</strong> dan), « mascalzone, furfante».<br />

«E’ entrato con <strong>un</strong>a tale boria manco fosse il padreterno»: 他进来的时候那副派头太好像<br />

是个了不起的人物 (Ta jinlaide shihou fu paitou haoxiang shige buliaoqide da renwu), «quando<br />

è entrato si è comportato come se fosse <strong>un</strong>a persona straordinaria».<br />

«Quel disgraziato»: 那鬼东西 (Na gui dongxi), « quella cosa diabolica».<br />

«Carogna»: 坏蛋 (Huai dan), « uovo marcio».<br />

« ‘Sti vermi»: 那些卑鄙的小人 (Naxie beibi de xiaoren), «quegli ometti spregevoli».<br />

«Governo bastardo»: 狗的政府 (Gou de zhengfu), «governo cane».<br />

il diavoletto di Maxwell 55


56<br />

«Prendere per il sedere»: 踢我的屁股了(Ti –wode- pigu le), «prendere a calci nel sedere».<br />

«Sfottere»: 耻笑(Chi xiao), «schernire».<br />

Traduzioni impossibili: omissioni<br />

Attraverso l’analisi comparata si riscontrano omissioni di varia natura: in alc<strong>un</strong>i casi si tratta di<br />

parole di scarso valore semantico, talvolta volgari o di difficile resa, mentre altre volte di concetti<br />

politicamente scomodi. Ad esempio viene omessa la frase: «Ma cos’è , il vangelo secondo<br />

Zhou Enlai?», trattandosi di <strong>un</strong> riferimento troppo diretto ai problemi di libertà di espressione<br />

e repressione in Cina, che il<br />

traduttore ha scelto di non<br />

riportare.<br />

Ricezione dell’opera<br />

Per quanto possa sembrare<br />

sorprendente, la commedia<br />

in Cina non ha incontrato<br />

alc<strong>un</strong> tipo di censura.<br />

In primo luogo, dichiara<br />

Meng Jinghui, l’ “intoccabilità”<br />

artistica di Fo, con<br />

il Nobel e le sue posizioni<br />

politiche, ha legittimato la<br />

circolazione del lavoro, e lo<br />

ha protetto dalle critiche.<br />

Inoltre sia il tradut-<br />

Paolo De Guidi, 2007<br />

tore che il regista hanno<br />

cercato, nelle loro trasposizioni, di mantenere evidente il legame fra la vicenda e il contesto di<br />

origine: l’italianità della storia è sempre in primo piano, in modo da suggerire <strong>un</strong>a riflessione<br />

applicabile anche alla Cina, ma mai in modo troppo violento e diretto. Questo è stato possibile<br />

grazie all’omissione volontaria di riferimenti troppo espliciti alla situazione cinese e, nella performance<br />

teatrale, attraverso il frequente inserimento della parola “Italia” e “italiano”, assenti<br />

nel testo originale.<br />

Non solo l’opera non è stata censurata, ma è stata accolta con entusiasmo dalla critica.<br />

Nel presentare l’artista al pubblico straniero le riviste si soffermano sulla narrazione delle<br />

sue vicende biografiche: quella che si delinea è la figura di <strong>un</strong> intellettuale rivoluzionario,<br />

molto simile al modello di artista promosso da Mao. La critica definisce Fo come <strong>un</strong> “attore<br />

totale”, in grado di armonizzare tutte le capacità espressive del teatro, riconoscendone pienamente<br />

l’abilità in base a canoni propri della cultura cinese.<br />

Alc<strong>un</strong>e caratteristiche del teatro di Fo, come l’aspetto popolare e militante, assimilate<br />

negli anni della Rivoluzione, tornano in Cina trent’anni dopo, quando la demaoizzazione ha<br />

permesso la diffusione di nuovi modelli. La sua produzione richiama alla mente dei più giovani<br />

alc<strong>un</strong>i valori dimenticati, risvegliando il coraggio della lotta per i propri ideali. A questo proposito<br />

il messaggio di den<strong>un</strong>cia lanciato nel paese assume <strong>un</strong> grande valore. Il fatto che la com-


marzo ’08<br />

media non abbia incontrato particolari resistenze da parte della censura cinese, come è invece<br />

accaduto in Italia negli anni settanta, è anche indicativo dei recenti tentativi di accordare agli<br />

artisti <strong>un</strong>a maggiore libertà espressiva. A questo proposito, il traduttore dichiara: «Tutti sanno<br />

che Fo è <strong>un</strong> critico aspro del regime e dei costumi della società, e se la prende contro il burocratismo<br />

del capitalismo. Le sue critiche vanno bene anche in Cina, dove ci sono fenomeni di<br />

corruzione, c’è la criminalità. Quanto alla difesa dei diritti civili, i cinesi cominciano a prestare<br />

attenzione a questo problema. Ma abbiamo <strong>un</strong>a l<strong>un</strong>ghissima storia di feudalesimo: per passare<br />

ad <strong>un</strong>a società moderna e democratica ci vuole tempo. Lasciatecelo». Come ad avvalorare<br />

la tesi di Lu, durante lo stesso anno della traduzione dell’opera di Fo, nasce per la prima volta<br />

a Pechino <strong>un</strong> dibattito pubblico fra intellettuali e giornalisti sugli abusi di potere della polizia<br />

e sulla libertà di informazione. L’incontro avviene nella sede dell’Unione per lo sviluppo della<br />

Cina, e costituisce <strong>un</strong>a concessione straordinaria da parte del Partito.<br />

L’anno successivo esplode <strong>un</strong>o scandalo grazie alle testimonianza di <strong>un</strong>’ ex-poliziotta,<br />

Zhang Yaoch<strong>un</strong>, che svela episodi di corruzione e violenza nella Cina meridionale. Grazie all’<br />

azione di protesta civile condotta dalla donna, arrestata più volte, si apre in Cina <strong>un</strong>’inchiesta<br />

nazionale che ha provocato la radiazione di migliaia di poliziotti.<br />

Nonostante la politica di partito sia già da tempo orientata verso <strong>un</strong> maggior rispetto dei<br />

diritti umani, la necessità di mantenere ordine nel paese ha determinato l’alternarsi di fasi di<br />

relativa apertura ad altre di dura repressione.<br />

Recentemente numerose associazioni hanno den<strong>un</strong>ciato come, alle porte dei giochi olimpici,<br />

la censura su media ed internet sia tornata ad essere più stretta, come anche il controllo su<br />

attivisti, migranti, minoranze etniche e religiose.<br />

In questa cornice, l’opera di Fo porta nel paese <strong>un</strong> messaggio attuale, che continua a costituire<br />

<strong>un</strong> importante sp<strong>un</strong>to di riflessione e dibattito, <strong>un</strong> piccolo passo avanti nel percorso verso<br />

la democrazia ed il rispetto dei diritti umani.<br />

francesca_bavecchi@hotmail.com<br />

1: Per l’elenco delle opere italiane tradotte in cinesi si consulti: Carlo Laurenti, Bibliografia delle opere italiane<br />

tradotte in cinese dal 1911 al 1999, a cura dell’Ufficio Culturale dell’Ambasciata d’Italia a Pechino, 1999.<br />

2: Per la teoria della traduzione si consulti: Lydia H. Liu , Translingual Practice. Literature, National Culture, and<br />

Translated Modernity-China1900-1937, Stanford University Press, 1993, o anche : Umberto Eco, Dire quasi la<br />

stessa cosa, Milano, Bompiani, 2003.<br />

3: Lìu Tongliu (a cura di), Le commedie di Dario Fo达里奥-福戏剧作品集, Yi Lin Chubanshe 译林出版社,<br />

Nanchino 南京, 1998.<br />

il diavoletto di Maxwell 57


Una vigile incertezza: il secondo grado della critica<br />

58<br />

Mimmo Cangiano<br />

Poco più di quarant’anni fa Jean Starobinski, cercando di definire la sua idea di «relazione<br />

critica», ebbe a scrivere:<br />

Se sono adeguati, l’oggetto da interpretare e il discorso interpretante, si legano per non lasciarsi più. Formano <strong>un</strong><br />

essere nuovo composto da <strong>un</strong>a doppia sostanza. […] Il paradosso apparente è che, nel ricevere conferma della sua<br />

esistenza indipendente, l’oggetto<br />

debitamente interpretato fa ormai<br />

parte anche del nostro discorso<br />

interpretativo, diviene <strong>un</strong>o degli<br />

strumenti grazie ai quali potremo<br />

cercare di comprendere a <strong>un</strong> tempo<br />

altri oggetti e la nostra relazione<br />

con essi.<br />

Nel suo entrare in contatto<br />

con il lavoro del critico<br />

l’opera, quale che sia, pare<br />

rivestirsi di <strong>un</strong>’antinomia:<br />

perde il suo connotato di<br />

opera (di oggetto da interpretare)<br />

per diventare a sua<br />

volta strumento di interpretazione.<br />

È d<strong>un</strong>que nell’atto<br />

ricettivo-interpretativo che<br />

Paolo De Guidi, 2007<br />

il prodotto artistico smette<br />

di essere forma, smette di essere sistema chiuso, per<br />

farsi veicolo di <strong>un</strong>a doppia apertura, di <strong>un</strong>a doppia contaminazione: la critica fa l’opera aperta,<br />

l’opera apre il sistema interpretativo del critico.<br />

La relazione critica è <strong>un</strong> incontro di due soggettività estranee che, nel vicendevole tentativo<br />

di comprensione, oppongono mutuamente resistenza. L’Altro non si trova in me, non ho<br />

il potere di rivestirlo tout court con la mia soggettività, se non riesco a riconoscerlo in quanto<br />

differenza non potrò fare altro che assimilare il dissimile: estrarre l’opera dalla propria forma<br />

per chiuderla in <strong>un</strong>’altra.<br />

Alla fine del suo Amore Swann riconosce lucidamente che quella Odette per cui tanto aveva<br />

sofferto neppure gli piaceva: non era il suo genere. Non sta mentendo, è in <strong>un</strong>a cattiva relazione<br />

critica che va ricercato il nocciolo del suo dolore. Non riconoscendo il soggetto a sé estraneo<br />

come soggetto differente, Swann non è più riuscito a distanziare quell’oggetto dal suo<br />

orizzonte di comprensione, l’ha fuso con esso, ha usato la propria interpretazione come <strong>un</strong>o<br />

specchio dentro il quale rimirare il simulacro di Odette:


marzo ’08<br />

L’espressione «opera fiorentina» rese <strong>un</strong> gran servizio a Swann. Gli permise, quasi come <strong>un</strong> attestato, di far entrare<br />

l’immagine di Odette in <strong>un</strong> mondo di fantasie in cui non aveva avuto accesso fino a quel momento e dove si impregnò<br />

di nobiltà. E, mentre la visione puramente carnale che aveva avuto di questa donna, rinnovando continuamente<br />

i dubbi sulla qualità del viso, del corpo e di tutta la sua bellezza, appannava il suo amore, quei dubbi furon<br />

dissolti, quell’amore consolidato quando ebbe come base i dati di <strong>un</strong>’estetica certa».<br />

L’estetica certa, la forma che Swann ha proiettato su Odette, rivela la natura aprioristica della<br />

sua operazione: rifiutando alla donna <strong>un</strong> intero orizzonte di tradizione (credenza, conoscenza,<br />

esperienza) si è fatalmente esposto all’errore. Il cortocircuito che si instaura fra la sua «lettura»<br />

di Odette e ciò che realmente Odette è lo condurrà al culmine della disperazione, dove,<br />

niente di strano, comincerà a fantasticare della morte di lei: solo nella morte infatti Odette<br />

riacquisterebbe quella fissità da «opera fiorentina» che Swann gli aveva cucito addosso.<br />

Quella doppia contaminazione, che avevamo riconosciuto come fondamentale nella relazione<br />

critica, si rivela qui fallimentare perché <strong>un</strong>o dei due Sistemi (Swann e Odette) che avrebbero<br />

dovuto vicendevolmente contaminarsi, è rimasto inesorabilmente chiuso. Per apparente<br />

paradosso è proprio la volontà di Swann di restare incontaminato ad esporlo ai pericoli della<br />

contaminazione: se fosse stato disposto ad aprirsi all’Altro, se fosse cioè stato disposto a<br />

riconoscere la sua presa di Odette come <strong>un</strong>a relazione provvisoria e doppiamente determinata,<br />

necessario preludio ad <strong>un</strong>a reciproca trasformazione, il suo Sistema chiuso di partenza non<br />

si sarebbe più dato come tale, non avrebbe cioè letto lo scarto fra la sua immagine di Odette<br />

e la vera Odette sotto la luce dell’ambiguità, del compromesso, della contraddizione, poiché<br />

sarebbe stato privo di qualsiasi idea pregressa di chiusura e di purezza.<br />

Swann sostituisce se stesso all’oggetto da interpretare, fa l’interprete più forte del testo:<br />

questo il suo errore.<br />

Riconoscere <strong>un</strong>o dei due elementi come superiore all’altro conduce ad <strong>un</strong>a parodia della relazione<br />

critica. Anche l’errore opposto infatti, la cognizione di <strong>un</strong> testo superiore a l’interprete, è<br />

foriera di sventure. Se la contaminazione reciproca si svela come assenza di contaminazione e<br />

inno all’apertura, la contaminazione <strong>un</strong>ilaterale espone quello dei due membri non disposto a<br />

farsi contaminare ai rischi della stessa contaminazione.<br />

Nel secondo caso però è l’azione del personaggio contaminato che svela il ridicolo della<br />

posizione ieratica e inattaccabile dell’altra parte in causa. Personaggi buffi come Don Chisciotte,<br />

Madame Bovary, l’Odisseo pascoliano (ma l’elenco è interminabile) sintetizzano bene<br />

la questione: l’assoluta fedeltà all’Idea (cavalleresca, basso-romantica, epica) detta in loro<br />

tipologie di vita e li blocca in <strong>un</strong>a posizione che per quanto tragica non può com<strong>un</strong>que non apparire<br />

ridicola. Il loro modello (l’oggetto – la teoria – che hanno di fronte e che devono interpretare)<br />

li schiaccia. Sono lettori troppo deboli, si fanno sopraffare dal testo e diventano tutt’<strong>un</strong>o<br />

con esso. Anche in questo caso la contaminazione è d<strong>un</strong>que settaria: viene contaminato solo il<br />

personaggio e non la teoria, ma è per l’app<strong>un</strong>to ciò a esporre la seconda, che si è manifestata<br />

come incontaminabile, ad <strong>un</strong>a condizione caricaturale.<br />

mimmo.cangiano@libero.it<br />

il diavoletto di Maxwell 59


Quarantena<br />

Presentiamo due poeti giovanissimi: Carmine De Falco e Luigi Nacci<br />

Carmine De Falco<br />

60<br />

a cura di Luca Ariano e di Mimmo Cangiano<br />

Proponiamo in anteprima alc<strong>un</strong>e poesie tratte da Diario Climatico 2007. Il titolo è di per sé<br />

sintomatico dell’argomento di cui trattano questi versi pubblicati in forma di diario; De Falco<br />

conferma la maturità già intravista nella sua seconda raccolta e, come nel suo stile, lo sguardo<br />

verso la realtà circostante si fa sempre lucido ed impietoso: «il condizionatore a manetta», «la<br />

sera sul balcone / per avere fresco e scaldarci», «scappare in tempo, / con grazia senza far la<br />

figuraccia / del fifone» in cui il poeta mette in risalto il clima impazzito e le nevrosi contemporanee.<br />

Nella poesia intitolata 3-5 la critica del poeta campano alla società dei consumi è<br />

ancora più dura: «nella lotta quotidiana a predire / il fine settimana più conveniente» in cui<br />

l’interesse privato viene prima di quello collettivo e dove l’influenza dei mass media sulle<br />

nostre vite fino a plagiarci è palese: «fornire scenari / di cupa novità, determinare l’agenda,<br />

fomentare / giornali». In questa poesia è evidente l’uso dell’inarcatura che De Falco ha usato<br />

spesso anche nelle precedenti raccolte dove però le parti dialogiche erano maggiori. In 6-6<br />

(quasi <strong>un</strong> numero diabolico, da inferno) l’attacco all’ansia di apparire a tutti i costi, di esserci<br />

com<strong>un</strong>que è evidente in questa strofa: «Tutta la gente che si fotografa / con queste macchinette<br />

digitali / lo sa che niente resta / nei tempi dei deliri di / immortalità post umana?» La<br />

domanda che si pone il poeta è quasi <strong>un</strong>a risposta inquietante alla nostra epoca che ha ormai<br />

superato il post-moderno ed è entrata nel post-umano. In Maggio (ultima poesia nella nostra<br />

selezione) descrive «il clima di ostilità che circonda l’odore / di diossina che esala come i primi<br />

/ schizzi di <strong>un</strong> temporale» e il pessimismo sul cambiamento climatico lascia poche speranze al<br />

futuro: «perché non capiamo che l’estate / non c’è ancora e la primavera / s’è cancellata».<br />

La poesia di De Falco nel solco di Pasolini segue l’onda di Flavio Santi e può essere accostata<br />

alla seconda generazione dei poeti anni ottanta post Opera Com<strong>un</strong>e come: Nota, Zattoni,<br />

Sanchini, Ferri e Amabili, ma il suo timbro è ben riconoscibile e dotato di <strong>un</strong>a propria voce.<br />

Da diario Climatico 2007<br />

17-1<br />

Inverno 7 lobotomizzato<br />

appiattito, senza riflessi<br />

messo in vetrina sottovuoto<br />

artificializzato sulle piste<br />

da sci cfcizzato specchio<br />

che rigetta <strong>un</strong> mediogrigio<br />

le grida di <strong>un</strong> falco disorientato<br />

sugli alberi di<br />

piazza M<strong>un</strong>icipio 7 inverno<br />

***<br />

***<br />

16-3<br />

Congeleremo l’inverno <strong>un</strong> po’ nel freezer,<br />

<strong>un</strong> po’ nel banco frigo del market<br />

sotto casa, più giù dei pilastri l’inverno<br />

in <strong>un</strong> agone a luglio col collega che accende<br />

il condizionatore a manetta. Il calorifico<br />

per lo sfizio di restare in maglietta, a maniche<br />

corte <strong>un</strong> po’ all’aperto la sera sul balcone<br />

per avere fresco e scaldarci<br />

poi le mani sul metallo del sifone<br />

del viaggio esotico per l’ebbrezza<br />

del tifone atlantico, restare<br />

in guardia penzoloni per lo tz<strong>un</strong>ami<br />

nel Pacifico: scappare in tempo,<br />

con grazia senza far la figuraccia<br />

del fifone.


3-5<br />

marzo ’08<br />

Meteorologi e climatologi<br />

non s’incontrano quasi mai.<br />

Gli <strong>un</strong>i impegnati nel contingente,<br />

nella lotta quotidiana a predire<br />

il fine settimana più conveniente<br />

le montagne più fresche, le prime<br />

calde spiagge, il mare più<br />

piatto, gli altri a calcolare<br />

algoritmi complessi, applicare modelli<br />

plausibili e globali, fornire scenari<br />

di cupa novità, determinare l’agenda, fomentare<br />

giornali.<br />

Poi ci s’incontra sto maggio nei treni<br />

tra <strong>un</strong>o schizzo di pioggia<br />

e <strong>un</strong> fascio di raggi sudato<br />

tra <strong>un</strong> orlo d’ombra fredda<br />

e <strong>un</strong> pino arso dal sole.<br />

***<br />

6-6<br />

Tutta la gente che si fotografa<br />

con queste macchinette digitali<br />

lo sa che niente resta<br />

nei templi dei deliri di<br />

immortalità post umana?<br />

…che poi se anche rimanesse<br />

<strong>un</strong>’immagine, <strong>un</strong>a slide-show, <strong>un</strong>a gallery<br />

è ancora di nuovo <strong>un</strong>a fotografia<br />

di <strong>un</strong>o che non si sa più chi sia.<br />

Carmine De Falco è nato a Napoli nel 1980. Laureato in scienze della com<strong>un</strong>icazione, lavora come web editor e<br />

collabora a riviste di cultura. Ha pubblicato le raccolte di versi “Linkami l’immagine” (Fara 2006) e “Loop Vernissage”<br />

in “Specchio poetico” (Fara 2007). È presente nell’antologia degli autori selezionati del concorso i Miosotìs<br />

(Edizioni d’If 2007).<br />

***<br />

Maggio<br />

Come <strong>un</strong> inizio caldo<br />

pre-torrenziale asfissiante<br />

e poi pioggia fitta e gradi<br />

di nuovo bassi e fini fradicci<br />

e amuleto contro l’aridità del tempo<br />

il clima di ostilità che circonda l’odore<br />

di diossina che esala come i primi<br />

schizzi di <strong>un</strong> temporale<br />

di là da venire che cadono<br />

come gocce in <strong>un</strong> effusore di aromi<br />

e l’aroma è quello dell’asfalto<br />

carico di polveri sottili<br />

che a ogni tocco, d’acqua,<br />

si sprigionano, in su all’aria<br />

alle narici. E il primo sole<br />

che fa villeggianti da weekend<br />

si contrappone allo scroscio torrenziale<br />

alle vittime teenager sugli scogli<br />

violenti ai moti ondosi<br />

che naufragano gli immigrati dalle<br />

coste Sud e in tv ci si chiede se salvare<br />

profughi sui barconi o lasciarli<br />

sprofondare nel lavoro obliato<br />

del mare, ma quanti morti<br />

troveranno i ricercatori tra mille<br />

anni lì nello stretto tra Sicilia<br />

e Nord Africa, tra Marocco e Spagna<br />

e tra miliardi di anni nelle montagne<br />

della T<strong>un</strong>italia, i fossili<br />

di corpi olivastri innalzati<br />

sulle cime taglienti dai bordi<br />

affilati come le onde di questo<br />

maremoto che affonda e poi<br />

si fa terra e roccia profonda<br />

e riporta su e svela<br />

quante falangi e campi d’osso<br />

e mummie gelate. Qui in<br />

questo maggio fradiccio che ci<br />

lascia esterrefatti e senza suoni<br />

perché non capiamo che l’estate<br />

non c’è ancora e la primavera<br />

s’è cancellata<br />

quarantena 61


Luigi Nacci<br />

In questa trilogia anche Luigi Nacci si muove nell’orizzonte del post-umano, <strong>un</strong> orizzonte declinato<br />

in senso epico, dove, nel tentativo ricostruttivo che la parola mette in atto, si squadernano<br />

i bordi di <strong>un</strong> tessuto etico.<br />

Eppure la ricompattazione delle tracce sembra il compito affidato a <strong>un</strong> cadavere, come è<br />

forse sottolineato dal ritmo da ballata del primo componimento (organizzato nella sigla minacciosa<br />

del refrain), espressione di <strong>un</strong> Io ancora ansioso di tenersi a galla, ma già costretto a fare<br />

i conti con <strong>un</strong> cupio dissolvi che lo marca stretto.<br />

È poi evidente che ci si trova di fronte a <strong>un</strong> rito, d<strong>un</strong>que di fronte ad <strong>un</strong>a classificazione<br />

simbolica, dove lo strumento della ripetizione diviene tecnica di insegnamento ma anche segnale<br />

di morte, rovesciato però nell’utilizzo del tempo futuro che, ambiguamente, ricatta il rito<br />

stesso preparando così il campo alla fase successiva: quella della metamorfosi.<br />

Ma è poi davvero <strong>un</strong>a fase successiva? Non è forse tutto intricato? La Voce che dà <strong>un</strong>ità<br />

all’opera e l’orchestrazione dei piani e dei personaggi che ne segnalano la dialogicità?<br />

I nomi da fare sono certo quelli di Pagliarani, di <strong>un</strong> certo Caproni, ma la saturazione scenografica<br />

priva di raccordi sintattici porta <strong>un</strong> gradino sopra gli altri Corrado Govoni: è <strong>un</strong>a scena<br />

nominale affollata che risente di <strong>un</strong> certo gusto liberty vissuto in <strong>un</strong>a simpatetica riedificazione<br />

d’antan. Lo slegamento del tessuto sintattico (presente in parte anche nel secondo e nel terzo<br />

componimento) presuppone <strong>un</strong>a poesia dove le «cose», abbandonate spesso nella loro nudità<br />

fenomenica, si rivelano feticci implosi del senso, ma proprio in virtù di ciò memorabili e non<br />

crepuscolari. E a fare al futuro <strong>un</strong> poemetto della memoria viene fuori la lezione della sconfitta,<br />

fondo urlante dell’intera opera del triestino Nacci.<br />

INTER NOS. Trilogia del prima e del dopo (2005-2006)<br />

I<br />

Avrai poche cose ma quelle le avrai:<br />

la forfora nei vasetti, i ciuffetti<br />

di sebo, il pelo perso a primavera.<br />

L’urna che mi conterrà non la mettere<br />

nell’atrio: scoperchiala presto, riempila<br />

di bora, fanne <strong>un</strong>a fioriera<br />

di cicloni. Stappali i vini,<br />

versali a terra, allaga il corridoio:<br />

chiama alla festa il condominio.<br />

Avrai poche cose ma quelle le avrai:<br />

febbri psicosomatiche, cirrosi<br />

aut<strong>un</strong>nali, climatiche sciatalgie.<br />

Della mia collezione di tumori<br />

salva i pezzi più rari.<br />

Un paio di aritmie le ho lasciate<br />

sotto il materasso matrimoniale:<br />

aggiustale come puoi. Ma l’infarto<br />

sotto il cuscino no, lascialo stare.<br />

62<br />

Avrai poche cose ma quelle le avrai:<br />

i carteggi con il nano, con l’orco,<br />

col vecchio cieco del piano di sotto.<br />

A quelli del circo non dire niente,<br />

piangerebbero troppo. Sul mio cippo<br />

scrivi: qui giace temporaneamente<br />

<strong>un</strong>o che ce l’avrebbe pure fatta.<br />

Non aggi<strong>un</strong>gere niente.<br />

Girati, allontanati via di fretta.<br />

Avrai poche cose ma quelle le avrai:<br />

le multe della biblioteca,<br />

i segnalibri parlanti di notte.<br />

Farai fatica a respirare<br />

d’estate. Più di sette, tanti, troppi<br />

saranno i giorni della settimana.<br />

Sfoglierai calendari come petali.<br />

Costruirai <strong>un</strong>’altalena di nascosto<br />

per venirmi a cercare sugli scivoli.


marzo ’08<br />

le forchette sp<strong>un</strong>tate, le tovaglie<br />

a quadri, le briciole ballerine.<br />

Le mareggiate nei boccali<br />

non ti dovranno spaventare,<br />

né i terremoti in lavatrice:<br />

la pace verrà dopo il f<strong>un</strong>erale.<br />

Lentamente ti tornerà la fame.<br />

Verrà il giorno che non saprai il mio nome.<br />

Avrai poche cose ma quelle le avrai:<br />

nelle cornici foto non scattate,<br />

il tip-tap dei chiodi sul muro.<br />

Togli le grate alle finestre,<br />

ché vengano a rubare.<br />

I ladri portali alle giostre,<br />

finché c’è fiato falli divertire,<br />

poi chiudi gli occhi: conta fino a cento,<br />

a centocinquanta li puoi riaprire.<br />

Avrai poche cose ma quelle le avrai:<br />

le monete di cioccolata,<br />

il salvadanaio con i canditi.<br />

Ricorda la mancia al postino,<br />

rimanda la posta al mittente.<br />

Svuota la casa, regala le cose<br />

al tizio che vive di fronte.<br />

Dormire sul marmo fa bene all’ernia.<br />

Sii grasso, mai pesante.<br />

Avrai poche cose ma quelle le avrai:<br />

la sedia a dondolo di rovere<br />

per le decisioni importanti;<br />

lo sgabello girevole in acciaio<br />

per traballanti fantasticherie;<br />

la poltroncina in faggio<br />

per i mancamenti improvvisi;<br />

ma sceglierai il divano-letto in pelle,<br />

quello vecchio, coi bordi lisi.<br />

Avrai poche cose ma quelle le avrai:<br />

i soldatini di latta affamati<br />

diretti in dispensa a marcia forzata.<br />

Ti saranno alleati gli orsacchiotti<br />

di pezza, i dizionari dei sinonimi<br />

e contrari, la carta da parati<br />

a fiori, mezza scatola di sigari<br />

fumati. Le guerre le perderai<br />

tutte. Consolerai gli ammutinati.<br />

Avrai poche cose ma quelle le avrai:<br />

mappamondi smagriti dalle diete,<br />

cartine stradali scadute.<br />

Abiterai nei treni arrugginiti,<br />

fra le reti dei pescherecci,<br />

sulle ali degli aeroplani.<br />

Ti chiederanno dov’è casa tua.<br />

Risponderai facendo spallucce.<br />

Passerà <strong>un</strong> attimo e mi penserai.<br />

Avrai poche cose ma quelle le avrai:<br />

le zanzariere da disincastrare,<br />

le colonie di tarme negli armadi.<br />

Abbevera i ragni in cantina.<br />

Nutri le rondini in inverno.<br />

Apri ai colombi la cucina.<br />

Parla in balcone ai girasoli.<br />

Se deve venire, verrà col vento<br />

la vocazione.<br />

Avrai poche cose ma quelle le avrai:<br />

le lampadine fulminate,<br />

il buio, i fantasmi fosforescenti.<br />

Ad occhi chiusi t’incamminerai.<br />

Vivrai sotto i ponti di giorno.<br />

La gente al volo afferrerai.<br />

Chiamerai la l<strong>un</strong>a dai tetti.<br />

Ridurrai in nuvole il fumo.<br />

Tra i gatti sarai solo, come <strong>un</strong> dio.<br />

Avrai poche cose, tra quelle cose<br />

ci sarò io.<br />

II<br />

Precipiterò dall’ultimo piano del tuo nome<br />

sillaba su sillaba sdrucciolandomi per<br />

terra…<br />

Se risorgerò, sarà per brama di pron<strong>un</strong>ciarti,<br />

per il desiderio di risuonarti<br />

<strong>un</strong>a volta ancora, con il terrore di franare<br />

rovinosamente sulle tue voci<br />

come <strong>un</strong> grattacielo nell’uragano.<br />

Mi arrampicherò sulle tue macerie<br />

e <strong>un</strong>a volta ancora mi lascerò precipitare<br />

dall’ultimo piano del nostro nome.<br />

quarantena 63


III<br />

Quante bufere e che poca neve sulla tua tomba,<br />

come se fosse fuoco la tua morte.<br />

Non ho bisogno di te. Di come si sta di là<br />

non mi dirai. Mi annoierai con i tuoi soliti<br />

ammonimenti, mi chiederai nuovi gerani<br />

per il tuo vaso placcato d’oro, ed <strong>un</strong>a foto<br />

meno recente, di quando avevi ancora i capelli.<br />

Non ti dirò chi non è venuto. Chi non ha pianto.<br />

Chi si è vestito di nero. Chiedimi come stavo.<br />

Come portavo la bara in spalla. Se mi pesava.<br />

Se ho resistito fino alla fine dell’omelia.<br />

Dove ho dormito la prima sera. Per quante ore.<br />

Quando mi sfiora l’idea di andarmene via, sott’acqua,<br />

nelle pozzanghere, o nelle brecce dei muri a secco<br />

l<strong>un</strong>go il sentiero di tufo e cani in p<strong>un</strong>ta di piedi<br />

spiccando salti di trullo in trullo fino a che <strong>un</strong> fico<br />

non mi si spolpi sotto le suole come sapone<br />

e ruzzolare vent’anni indietro fino al tuo petto<br />

coi pugni chiusi. La tua orazione l’ha fatta quello<br />

che si metteva la tua vestaglia. Non sei che terra.<br />

Non sei che spoglia deposta in fossa senza le armi.<br />

Non ti ricordi di quella volta che mi hanno p<strong>un</strong>to<br />

coi loro aghi. Tu mi guardavi dietro la porta<br />

col fiato corto del disertore, l’alito nero<br />

del partigiano che ha barattato la propria parte<br />

per <strong>un</strong>a pacca e non se ne pente che a notte fonda<br />

tra i crampi in pancia e il formicolio del braccio. Mi hai perso,<br />

come <strong>un</strong> secchio che scarrucola in fondo al pozzo,<br />

come <strong>un</strong> pensiero andato a male o quel che resta<br />

di <strong>un</strong> desiderio che si sfalda alla deriva.<br />

Prima di te, si decomporranno i tuoi versi.<br />

Fuori da qui c’è primavera, città azzurre,<br />

miele a cascate dai palazzi popolari,<br />

fiumi di latte che sgorgano nelle piazze<br />

e vita a iosa sui tetti e nelle cantine<br />

e anche nei vicoli vita a quintali.<br />

Invece tu sei l’inverno e l’aut<strong>un</strong>no insieme,<br />

sei foglia secca accartocciata che non smette<br />

mai di cadere, cadere e cadere ancora.<br />

E non ci sarò io a raccoglierti.<br />

64


marzo ’08<br />

Luigi Nacci (Trieste, 1978) è insegnante, operatore culturale, cultore della materia presso la cattedra di Letteratura<br />

italiana contemporanea dell’Università di Trieste. Poeta e performer, nel 1999 ha co-fondato il gruppo de Gli<br />

Ammutinati. Negli ultimi anni ha organizzato ed ha partecipato a letture, convegni e festival in Italia e all’estero.<br />

Ha pubblicato per Battello stampatore – editore per cui cura la collana di poesia i libretti verdi – la plaquette Il<br />

poema marino di Eszter (2005) e, nel 2006, il saggio Trieste allo specchio. Indagine sulla poesia triestina del secondo<br />

Novecento. Nello stesso anno ha dato alle stampe il Poema disumano in due versioni: il solo testo nella collana di<br />

poesia Opera prima curata da Flavio Ermini per la Cierre Grafica, con l’introduzione di Ermini e la postfazione di<br />

Iain Chambers; la versione integrale (disegni di Ugo Pierri, musiche e effetti fonici di Lorenzo Castellarin) a cura<br />

di Gianmaria Nerli, con introduzioni di Nerli e Marianna Marrucci e la postfazione di Rosaria Lo Russo, per le<br />

edizioni della Galleria Michelangelo di Roma. Nel 2007 ha pubblicato INTER NOS/SS, con i disegni di Marco<br />

Colazzo, per le edizioni della Galleria Emilio Mazzoli di Modena (finalista al Premio Antonio Delfini). Nel 2008<br />

Madrigale Odessa per le Edizioni d’if di Napoli (Premio Mazzacurati-Russo). È organizzatore artistico del Festival<br />

Internazionale “Absolute Poetry” di Monfalcone diretto da Lello Voce e amministratore/redattore dell’omonimo<br />

blog (www.absolutepoetry.org).<br />

quarantena 65


L’intera storia del genere umano non è che il 15% del<br />

tragitto per Alpha Centauri<br />

app<strong>un</strong>ti sparsi sui documentari inventati di Werner Herzog<br />

66<br />

Paolo De Guidi<br />

Ringraziamo la NASA per il suo senso poetico<br />

Scusi, per Parigi?<br />

Werner Herzog<br />

Una volta mentre dormivo ho pisciato addosso a mia sorella:<br />

ero convinto che fosse <strong>un</strong> albero<br />

Klaus Kinski<br />

«Ho segnato tutto, non preoccuparti. Sì, sì, ci vediamo tra poco a Dikaio. No nonno, non lo so<br />

di preciso, te l’ho detto che parto a piedi. A presto». A Werner fa male la gola e pulsa l’orecchio:<br />

ha dovuto urlare per farsi capire. D’altronde non è abituato, questa è la prima telefonata<br />

che fa in vita sua. È il 1959: ha 17 anni e sta per incamminarsi verso la Grecia. Suo nonno ci<br />

lavora come archeologo, ha deciso di fare lo stesso mestiere.<br />

Le immagini hanno <strong>un</strong>a forza icastica che le parole non possiedono e che impedisce loro di<br />

essere modificate con la stessa elasticità. La manomissione delle immagini è <strong>un</strong> procedimento<br />

meno semplice e meno libero ma che quando riesce dà risultati intensi ed incredibilmente<br />

suggestivi, potendosi avvalere di <strong>un</strong>a forza d’impatto moltiplicata, <strong>un</strong>a sorta di permanenza<br />

dell’eco. Il cinema è, o dovrebbe essere, il giocoliere delle immagini per eccellenza, quando<br />

non è troppo schiavo della sceneggiatura (come predica Greenaway). Pochi registi sanno<br />

sfruttare a dovere il potenziale esplosivo dell’incontro degli elementi costitutivi del cinema:<br />

testo, immagini, suono... Herzog è <strong>un</strong>o di questi, ed è talmente bravo che i suoi dosaggi degli<br />

elementi cinematografici danno spesso dei precipitati alchemici assolutamente nuovi, nonché<br />

<strong>un</strong> risultato pratico di <strong>un</strong> certo interesse: la verità.<br />

La spirale di Kinski è <strong>un</strong> raffinato procedimento meccanico che permetteva, in era pre-digitale,<br />

di cancellare la traccia sonora originale da <strong>un</strong>a pellicola per poter poi sovrapporne <strong>un</strong>’altra.<br />

L’operazione consiste nell’avvolgere la pellicola a spirale app<strong>un</strong>to, poi tirarla fortissimo, come<br />

a stracciarla, urlandogli a squarciagola <strong>un</strong>a serie ben precisa di insulti. Si pratica ormai sempre<br />

meno: solo alc<strong>un</strong>i laboratori di cinefili la adottano ancora, soprattutto in Svizzera – nel Canton<br />

Ticino – e in qualche bottega di puristi nei dintorni di Perugia.<br />

Herzog è <strong>un</strong> campione in questo gioco, forse il migliore. Ness<strong>un</strong>o sa utilizzare la realtà come<br />

lui («So di avere la capacità di articolare le immagini che giacciono nel nostro profondo e di<br />

renderle visibili»): sommozzatori diventano astronauti, pozzi di petrolio infiammati sono pagine<br />

dell’Apocalisse, orsi affamati come filosofi peripatetici, dirigibili adamantini. E il passaggio<br />

è sempre invisibile, sempre non detto: è il prestigio. Girare film con pezzi di altri film, assemblare<br />

diversi piani narrativi e figurativi, inventare la realtà e razionalizzare scientificamente la<br />

finzione, applicare filtri e giocare con le molteplici facce di <strong>un</strong>’immagine; o, come ha detto <strong>un</strong>o


marzo ’08<br />

dei suoi operatori, Ed Lachman, mentire per raggi<strong>un</strong>gere la verità. Così è successo per esempio<br />

in The wild blue yonder (2005), che è <strong>un</strong>’opera di finzione (science-fiction fantasy) eppure il più<br />

vero dei documentari. Un’opera di finzione che pretenda di rappresentare fedelmente la realtà<br />

è <strong>un</strong> paradosso in termini. Ogni immagine in questo senso diventa finzione. Tanto vale mentire<br />

totalmente 1 . Truffare la tirannia dei linguaggi come consigliava Barthes. Contraffare documentari<br />

o, viceversa, inventarsi storie su realtà documentate. Qui Herzog ci racconta la storia di <strong>un</strong><br />

alieno triste arrivato insieme ad altri sulla terra molti anni fa (ma inizia, come sempre, come<br />

il suo Caspar David Friedrich, da <strong>un</strong> paesaggio). Il personaggio a sua volta narra di come gli<br />

uomini, spaventati dall’imminente apocalisse, abbiano mandato degli astronauti a trovare <strong>un</strong><br />

altro pianeta vivibile e di come questi siano gi<strong>un</strong>ti, tramite delle superstrade galattiche, delle<br />

E45 interstellari, ad approdare sul suo, il selvaggio e celeste lassù, che ha la volta di ghiaccio<br />

e l’atmosfera di elio liquido. Quando rientreranno, essendo passati sulla Terra 820 anni, non<br />

troveranno più ness<strong>un</strong>o, solo il pianeta in tutta la sua silente bellezza preistorica, finalmente<br />

salvo.<br />

«Ti trovi a <strong>un</strong> bivio. Davanti a ogn<strong>un</strong>a delle due strade c’è <strong>un</strong> uomo. Quale <strong>un</strong>ica domanda<br />

porresti a <strong>un</strong>o dei due sapendo che <strong>un</strong>o mente sempre e l’altro dice sempre la verità?»<br />

«Gli chiederei se è <strong>un</strong>a raganella»<br />

Le <strong>un</strong>iche immagini originali del film sono quelle del narratore, che si aggira sconsolato tra i<br />

resti della civiltà che lui e i suoi compagni hanno cercato inutilmente di fondare, e quelle delle<br />

interviste agli scienziati. Ma anche qui nulla di artefatto: la polverosa periferia industriale di<br />

<strong>un</strong>a cittadina americana e <strong>un</strong>a discarica nei dintorni, intatte, passano di grado e diventano nel<br />

montaggio le vestigia di <strong>un</strong>a città aliena. Le immagini degli astronauti sono riciclate da riprese<br />

(ri-prese) della NASA a bordo degli Skylab e nei laboratori di Houston e quelle del pianeta d’arrivo<br />

sono filmati subacquei della calotta polare girati dal musicista sperimentale Henry Kaiser<br />

nel 2001. L’audio originale è sostituito dalle voci magnetiche del cantante senegalese Mola<br />

Sylla e del coro sardo Tenore e C<strong>un</strong>cordu de Orosei su composizioni del violoncellista olandese<br />

Ernst Reijseger. Un assemblaggio di materiale eterogeneo e apparentemente incompatibile che<br />

si fonde in <strong>un</strong> nuovo filmato assolutamente coerente. Una tecnica simile, con la stessa divisione<br />

in capitoli – <strong>un</strong> narratore alieno che reinterpreta le gesta umane e la quasi totale assenza di<br />

commento – Herzog l’aveva già sperimentata nel suo Lessons of darkness (1992) girato in Kuwait<br />

dopo la guerra del Golfo. Le immagini e le musiche vengono rinnovate e rivitalizzate grazie<br />

ad <strong>un</strong> nuovo montaggio e ad <strong>un</strong>a nuova storia. Sotto la calotta polare, quei pesci non sono più<br />

pesci e non sono astronauti: sono tutte e due le cose insieme, hanno la forza e la presenza di<br />

entrambi i concetti e di entrambe le immagini. Il caos che li ha generati non ha nulla di negativo,<br />

è <strong>un</strong> accumulo di energia che aspetta solo nuove forme. Come <strong>un</strong>a propulsione intergalattica,<br />

o <strong>un</strong>o starnuto.<br />

Dal numero 11 di Elisabethstraße a Schwabing, il quartiere degli artisti di Monaco di Baviera, al<br />

29 di Rue Jean Pierre Timbaud nell’ XI arrondissement di Parigi, ci sono 827 kilometri seguendo<br />

sempre il tramonto. C’è da attraversare i Vosgi e l’inverno del ‘74 è dannatamente freddo.<br />

Quando Werner entra a Porte de Vincennes, Henriette – ovviamente – non è morta. I suoi<br />

scarponi sono completamente sfondati.<br />

Ogni passo è <strong>un</strong> passaggio di grado. La pellicola cinematografica è <strong>un</strong>a delle più emblematiche<br />

immagini di questa mutevolezza. Herzog, anche nei suoi film di finzione, non hai mai costruito<br />

<strong>un</strong> set, né fatto uso di effetti speciali. Se c’è da fare <strong>un</strong> film sui sogni, tramite la storia di <strong>un</strong><br />

senza fissa dimora 67


patito dell’opera che scavalca <strong>un</strong>a collina peruviana con la sua nave, Herzog prende la troupe,<br />

il più grande attore tedesco del secolo, <strong>un</strong> centinaio di indigeni, trascina a forza questo sogno<br />

nella realtà e insieme ad esso <strong>un</strong>a vera nave fuori dal fiume Urubamba (tra l’altro il regista ha<br />

definito proprio questo lavoro come il suo miglior documentario, perché mai <strong>un</strong> film ha avuto<br />

dietro di sé tanta realtà e sofferenza, mai prima <strong>un</strong> film aveva spostato <strong>un</strong>a montagna). Oppure<br />

sale su <strong>un</strong>a zattera di legno l<strong>un</strong>go le rapide dell’Orinoco, monta su <strong>un</strong> dirigibile sperimentale<br />

per sorvolare la foresta della Guyana, corre su <strong>un</strong> vulcano in Guadalupa che sta per eruttare:<br />

sempre in prima persona, per vivere sulla pelle i propri film, forse per elevare la propria vita<br />

a livello di film. Accumulare enormi dosi di realtà dietro la telecamera, passo dopo passo, a<br />

piedi, e senza fissa dimora. Tutto ciò per <strong>un</strong>ire sullo stesso piano l’esperienza visiva e fisica,<br />

far partecipe del film anche il corpo dello spettatore. L’esperienza estetica e quella fisica sono<br />

interrelate, la cornice cinematografica frantumata dall’ambiguità dell’essenza di ciò che stiamo<br />

vedendo. In Grizzly man (2005), l’adesione di Herzog alla vita e al lavoro del suo personaggio<br />

è totale (ecco, senza farlo apposta non si parla più di Timothy Treadwell, ma già di <strong>un</strong> personaggio<br />

di Herzog). Non condividono la stessa visione della natura, tutt’altro; ma per entrambi<br />

la fantasia, l’improvvisazione e il proprio corpo drammatico sono i migliori strumenti del<br />

documentarista. Anche qui Herzog usa per metà film le riprese fatte da <strong>un</strong> altro (dandoci <strong>un</strong>a<br />

lezione sul concetto di “autore”, tra l’altro), <strong>un</strong> regista e protagonista di documentari che ha<br />

vissuto tredici estati tra gli orsi dell’Alaska e che riprovava le sue scene anche quindici volte,<br />

reinventando sé stesso da vero “attore”. Herzog ha selezionato e rimontato queste riprese in<br />

meno di <strong>un</strong> mese e le ha canalizzate verso l’estasi estetica che vi ha intravisto.<br />

«Herzog è <strong>un</strong> triste, odioso, malevolo, avaro, disgustoso, sadico, infido, codardo e disonesto<br />

leccapiedi e ricattatore. Il suo cosiddetto “talento” consiste nel tormentare creature indifese<br />

e, se necessario, torturarle a morte o semplicemente ucciderle. Ogni scena, ogni angolo di<br />

ripresa, ogni inquadratura è determinata da me... io almeno posso parzialmente salvare il film<br />

dall’essere rovinato dai disastri di Herzog»<br />

Brian Sweeny Fitzgerald, Timothy Dexter, Graham Dorrington, Nikolaus Karl Günther Nakszynski,<br />

Werner Stipetic. Personae herzoghiane. Ogn<strong>un</strong>o di loro ha stilizzato sé stesso (quasi<br />

tutti sceglieranno <strong>un</strong>o pseudonimo) per passare di grado, evolvere, oltrepassare la linea invisibile<br />

dietro le immagini, come gli uccelli che a sera si tuffano dietro la cascata Kaieteur di The<br />

white diamond (2004): si finisce dall’altra parte, nel mondo misterioso e sacro della propria<br />

verità estetica. Che non si può dire né mostrare, come la morte dell’uomo che voleva diventare<br />

orso, come i nidi dei rondoni, come le scorciatoie galattiche. Una verità personale, catalizzante,<br />

ottenuta grazie alla ricerca incessante e ostinata di immagini nuove. Il potere delle immagini<br />

è confermato per contrasto anche da <strong>un</strong> altro degli elementi fondanti dei film di Herzog:<br />

il silenzio. Le parole rivestono <strong>un</strong> ruolo secondario nei suoi film, quasi decorativo. La sfiducia<br />

nel linguaggio, che è sempre profano, sfuma nell’abbandono mistico alla visione e alla musica.<br />

La razionalità fa <strong>un</strong> passo indietro. Anzi <strong>un</strong> salto, come <strong>un</strong>a raganella. Noi, del resto, ci fidiamo<br />

della celluloide.<br />

«Non senti tutto intorno questo incessante frastuono, il frastuono che gli uomini a volte chiamano<br />

silenzio?»<br />

p.maqroll@gmail.com<br />

1 B. Prager, The cinema of Werner Herzog, Londra, Wallflower press, 2007. Molti altri sp<strong>un</strong>ti per l’<strong>articolo</strong> sono<br />

tratti da questo testo.<br />

68


marzo ’08<br />

Entre paréntesis. L’esperienza rivoltante dell’altro<br />

(ancora <strong>un</strong>a volta)<br />

Eugenio Santangelo<br />

Mi trovo nella situazione delicata di dover parlare di <strong>un</strong>’esperienza su cui non posseggo ancora<br />

<strong>un</strong> discorso formulato. Un’esperienza che non ho ancora verbalizzato, diciamo. Che non ho ancora<br />

stretto dentro <strong>un</strong> «ordine del discorso». Un anno in<br />

Messico. Uno spostamento di dimora. Per la prima volta<br />

dal mio ritorno, mi fermo a riflettere abbastanza seriamente<br />

su come quest’esperienza abbia lavorato su di me<br />

e in me (sottolineo, riflettere sul come, non sul che, che<br />

a voi non potrebbe interessare). Per formulare questo discorso,<br />

renderlo più intelligente, spero, aiutarmi nel dargli<br />

<strong>un</strong>a forma che lo renda com<strong>un</strong>icabile e interpretabile,<br />

per moltiplicare ulteriormente, insomma, i gradi del discorso,<br />

mi sono servito di <strong>un</strong> altro testo: La traduzione e<br />

la lettera o l’albergo nella lontananza di Antoine Berman.<br />

Anzi, questo intervento risulterà quasi <strong>un</strong>a parafrasi o <strong>un</strong><br />

collage di citazioni da quel libro-seminario, spero con <strong>un</strong><br />

sottile “spostamento” (ancora). L’esperienza-traduzione<br />

e la riflessione su di essa condotta dall’autore le utilizzerò<br />

– forse le forzerò – in quel senso metaforico con cui le<br />

utilizza il «parlare corrente», attraverso <strong>un</strong> «superamento<br />

di senso», cioè mi metto accanto, piccolino e modesto,<br />

a «quella progenie di scrittori e pensatori per i quali la<br />

traduzione significa non soltanto il “passaggio” interlingue<br />

di <strong>un</strong> testo, ma – attorno a questo primo “passaggio”<br />

– tutta <strong>un</strong>a serie di altri “passaggi” che riguardano l’atto<br />

di scrivere e, più segretamente ancora, l’atto di vivere e<br />

di morire. [...] Vi è qui ann<strong>un</strong>cio dell’esperienza di ciò che<br />

si potrebbe chiamare l’altra traduzione, l’altra traduzione<br />

che, per così dire, si dissimula in ogni traduzione».<br />

L’impatto con l’estraneo, con l’“altro”: si parlerà di<br />

questo, per l’ennesima volta, correndo il rischio perenne<br />

Juva, Rostock, Giugno 2007<br />

di cadere in quella che ormai, troppe volte, s’avvicina a <strong>un</strong>a<br />

vuota retorica, nella ripetizione. Ma tant’è, ci si riprova, cercando di muoversi tra le retoriche,<br />

che è poi <strong>un</strong> po’ il senso di questa sezione di Tabard (e del progetto della rivista in generale).<br />

L’impatto col Messico è <strong>un</strong> impatto brusco, disorientante, e allo stesso tempo entusiasticamente<br />

facile, accogliente. È <strong>un</strong> paese che ti fa subito sentire a tuo agio nel tuo disorientamento.<br />

Introdursi nell’esperienza quotidiana d’<strong>un</strong>a cultura altra, nel riassestamento a volte straniante<br />

a cui in principio ti costringe, ti spinge a utilizzare bruscamente tutti i possibili sistemi<br />

di lettura dell’altro che possiedi. È <strong>un</strong> meccanismo normale, necessario, autodifensivo. Di<br />

quest’altro ti crei <strong>un</strong> vortice d’immagini e forme per annetterlo alla tua esperienza già sperimentata<br />

e ordinata, rendendolo inoffensivo. È <strong>un</strong> processo veloce e incosciente. All’inizio non<br />

senza fissa dimora 69


c’è ancora ness<strong>un</strong> cortocircuito. Sei saldo nel tuo disorientamento.<br />

Il cortocircuito per me è iniziato nell’impatto con la letteratura. Una soglia verso l’estraneo<br />

allo stesso tempo utile ma rischiosa. L’impatto violento della lettura sistematica e anche<br />

esagerata di quasi tutti i romanzi chiave del Novecento messicano, a cui mi hanno costretto<br />

all’<strong>un</strong>iversità, ha coscientizzato quel cortocircuito che vivevo quotidianamente.<br />

Berman discute all’inizio del suo testo <strong>un</strong>a forma tradizionale di traduzione, quella etnocentrica.<br />

Ove etnocentrismo significa ciò «che riconduce tutto alla propria cultura, alle sue<br />

norme e valori e considera ciò che ne è al di fuori – l’Estraneo – come negativo o al massimo<br />

buono per essere annesso, adattato, per accrescere la ricchezza di quella cultura». Il rischio<br />

per me era quello di far rientrare – depurati degli elementi per me discordanti – degli oggetti<br />

letterari nuovi, altri, all’interno di <strong>un</strong><br />

sistema già più o meno consolidato, il<br />

mio, quello che m’ero formato con anni<br />

di studio di letteratura. Però subito<br />

incorrevo in errori, errori di lettura che<br />

mi richiamavano all’ordine. Trovavo il<br />

divertente o l’ironico lì dove non c’era<br />

per <strong>un</strong> messicano. Trovavo <strong>un</strong> tradizionalismo<br />

abbastanza canonico lì dove<br />

il messicano trovava sperimentalismo.<br />

Trovavo elementi che respingevo, come<br />

per esempio <strong>un</strong> misticismo fastidioso in<br />

<strong>un</strong> romanzo come Pedro Páramo, considerato,<br />

e a ragione, dico ora, <strong>un</strong>o dei<br />

romanzi più importanti della letteratura<br />

Juva, 2007<br />

70<br />

latinoamericana. Tutti quegli elementi<br />

andavano contestualizzati, stavo<br />

sottovalutando migliaia di relazioni perché volevo mi<br />

bastassero le mie competenze, semplicemente per arricchirle e confermarle.<br />

D<strong>un</strong>que ho iniziato a sospendere il giudizio. A mettere tra parentesi, per quanto m’era possibile,<br />

tutto il bagaglio critico e letterario che portavo con me, per poi, solo poi, riaprirlo.<br />

Adesso, <strong>un</strong>o dei problemi centrali era quello della lingua. Perché mi sento nella possibilità<br />

di utilizzare il testo di Berman? Perché c’è <strong>un</strong> processo normale nella pratica iniziale di <strong>un</strong>a<br />

lingua straniera. Non conoscendola, inizialmente si opera traducendo quasi simultaneamente<br />

dalla lingua “madre”. E questo succedeva anche durante la lettura. Le prime traduzioni avvenivano<br />

nella direzione della «captazione del senso» di <strong>un</strong> romanzo. Non erano di certo traduzioni<br />

letterali, del tipo di cui parla Berman. No, l’esigenza era captarne il senso, tralasciarne la<br />

lettera, e tradurne il senso.<br />

Questo portava inevitabilmente – ma anche innocentemente – a <strong>un</strong>a «infedeltà alla lettera<br />

straniera». E Berman dice: «Ma questa infedeltà alla lettera straniera è necessariamente <strong>un</strong>a<br />

fedeltà alla lettera propria. Il senso è captato nella lingua traducente. Perciò occorre che sia<br />

spogliato di tutto ciò che non si lascia trasferire in questa». Ci riporta cioè all’etnocentrismo di<br />

cui sopra: «Se la traduzione è captazione del senso, essa non può essere che annessione».<br />

Ma questo avveniva incoscientemente. La mia conoscenza dello spagnolo – e i ritmi di<br />

lettura che mi erano imposti – non mi permettevano ancora d’entrare coscientemente nell’altra<br />

lingua, ma solo di arrabattare traduzioni simultanee per poter discutere in classe di <strong>un</strong> ipotetico<br />

senso complessivo del romanzo da me captato.<br />

Ora, per Berman esiste <strong>un</strong> principio e <strong>un</strong> obiettivo etico della traduzione. Per me che non


marzo ’08<br />

conoscevo Berman, in Messico quest’obiettivo etico era filtrato dal dialogismo bachtiniano – e<br />

la riflessione del pensatore francese mi sembra molto vicina a quella di Bachtin.<br />

Berman parla di <strong>un</strong> «contratto fondamentale che lega <strong>un</strong>a traduzione al suo originale. Questo<br />

contratto – certo draconiano – interdice ogni superamento della tessitura dell’originale.<br />

Stipula che la creatività richiesta dalla traduzione deve mettersi per intero al servizio della riscrittura<br />

dell’originale nell’altra lingua, e mai produrre <strong>un</strong>a sovra-traduzione determinata dalla<br />

poetica personale del traducente». Quest’obiettivo poetico «è legato all’obiettivo etico della<br />

traduzione: portare sulle rive della lingua traducente l’opera straniera nella sua pura estraneità,<br />

sacrificando deliberatamente la “poetica” propria».<br />

Ancora – e qui si legge Bachtin, oltre che Lévinas: «l’atto etico consiste nel riconoscere e<br />

nel ricevere l’altro in quanto altro».<br />

Vado veloce al p<strong>un</strong>to per me fondamentale<br />

attraverso altre citazioni:<br />

«Una cultura (in senso antropologico)<br />

diviene davvero <strong>un</strong>a cultura (nel<br />

senso, ad esempio, dell’umanesimo di<br />

Goethe, della Bild<strong>un</strong>g) solo se è retta,<br />

almeno in parte da tale scelta [quella<br />

etica]. Una cultura può benissimo<br />

appropriarsi delle opere straniere senza<br />

mai avere con esse rapporti dialogici.<br />

Ma in tal caso, e per quanto essa sia<br />

“civilizzata”, le mancherà sempre ciò<br />

che fa di <strong>un</strong>a cultura <strong>un</strong>a Bild<strong>un</strong>g».<br />

Questo è <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to che mi è parti-<br />

colarmente caro, quello della Bild<strong>un</strong>g:<br />

quando l’esperienza messicana ha<br />

Juva, 2007<br />

iniziato a convertirsi in “reale Bild<strong>un</strong>g”,<br />

formazione, a contatto dell’«estraneo formante». (Parlo di “Bild<strong>un</strong>g”, semplificando arbitrariamente.<br />

Cosciente di cosa diventi quel concetto nella postmodernità e di come, forse, non se<br />

ne possa più parlare. Ma tant’è, lo si mette tra parentesi). Quando si abbandona la semplice<br />

traduzione mentale dalla lingua madre alla straniera per altrettanto semplici obiettivi di com<strong>un</strong>icazione,<br />

quando secondo quello che è il processo normale e risaputo s’inizia a pensare in<br />

quella lingua straniera, a pensare quella lingua stessa e a farsi pensare da quella lingua, essa<br />

inizia ad agire nella «corporalità della sua lettera». Non è più solo captazione di senso, ma<br />

esperienza della lettera.<br />

Qui inizia il dialogo con l’altra cultura, dell’estraneo come altro e come «soggetto con pari<br />

diritti» (questa che ormai per me è <strong>un</strong>a formuletta, mutuata da Bachtin, e che ho sempre bisogno<br />

di risignificare).<br />

Quando ho iniziato per forza di cose a introdurmi e praticare quello slang che è parlato<br />

trasversalmente e diffusamente nella capitale messicana, ho iniziato a risalire i gradini della<br />

“Bild<strong>un</strong>g”. Lo straniamento che i miei amici messicani avvertivano nel me-parlando-chilango<br />

era l’estraneo parlando la loro lingua, apportando, dialogicamente, per forza di cose, qualcosa<br />

di nuovo.<br />

Altro passo della riflessione di Berman, mutuata da Hölderlin:<br />

«L’opera non appare qui come <strong>un</strong>a realtà rappresa, statica, immutabile, che si tratta di<br />

riprodurre [...]: essa è piuttosto il luogo di <strong>un</strong>a battaglia fra due dimensioni fondamentali,<br />

e la traduzione interviene come <strong>un</strong> momento nella vita dell’opera dove questa battaglia è<br />

senza fissa dimora 71


iattivata, ma in senso contrario, poiché l’atto di tradurre consiste nell’accentuare il principio<br />

o l’elemento che l’originale ha occultato. [...] Quest’accentuazione, nella misura in cui rivela<br />

l’occultato dell’originale, è <strong>un</strong>a manifestazione. E dato che questa manifestazione può prodursi<br />

solo trasformando l’opera in alc<strong>un</strong>i dei suoi tratti, essa è <strong>un</strong>a violenza».<br />

Ancora <strong>un</strong>a citazione, e poi concludo: parlando di <strong>un</strong>a traduzione di Saffo da parte di Deguy:<br />

«È chiaro che i limiti tra l’“estraneo” e l’“estraneità” sono stati discretamente scombinati.<br />

C’è <strong>un</strong>a doppia violenza: sulla lingua traducente, ma anche sull’originale. In certo qual modo,<br />

la traduzione ha prodotto <strong>un</strong> testo più spaesante di quello di Saffo, ma questo spaesamento<br />

esisteva già, nascosto, nella poetessa. Si può dire che essa è risalita all’origine dell’originale.<br />

Ricordiamoci di quel che diceva Alain, che concludeva: “È più inglese dell’inglese, più greco<br />

del greco, più latino del latino [...]”». (Si è parlato, tra tabardiani, del rischio teorico di questo<br />

discorso. Ma tant’è, lo utilizzerò lo stesso, poi mi metterò tra parentesi).<br />

È curioso: quando parlavo chilango, quando quella cultura altra m’aveva totalmente assorbito,<br />

mi stava rovesciando, lavorava su di me con <strong>un</strong>’intensità rivoltante e rivoluzionante,<br />

mi si diceva: «este güey es más chilango que <strong>un</strong> chilango», è più chilango di <strong>un</strong> chilango. Lo<br />

scrivo con molto orgoglio narcisistico. Ma, volendolo superare: cosa significava? Cosa voleva<br />

dire quella persona? Forse che il mio-italiano (il mio, attenzione) era più mio-italiano del mioitaliano?<br />

Questa violenza del me tradotto in chilango manifestava forse qualcosa di occultato<br />

nel mio originale italiano. L’esperienza dell’altro è anche «apprendimento del proprio». È <strong>un</strong><br />

circolo ermeneutico che attraversa le esperienze “davvero” “formanti”. Cito Heidegger, citato a<br />

sua volta da Berman (molti gradi):<br />

«Fare <strong>un</strong>’esperienza con quel che sia [...] vuol dire: lasciare che venga su di noi, che ci raggi<strong>un</strong>ga,<br />

ci piombi sopra, ci rovesci e ci renda altro».<br />

In quest’anno mi sono tradotto, se posso continuare nella metafora, nella pulsione etica<br />

che mi spingeva a conoscere l’Estraneo. La lingua, il parlarsi in <strong>un</strong>a lingua straniera, è <strong>un</strong>o<br />

strumento potentissimo e violento (di rivelazione dell’occultato, tra parentesi). L’«ordine del<br />

discorso» che regola il mio stare qui in Italia parlando in italiano ne è stato per forza di cose<br />

sconvolto. In cosa, ancora non lo so, e a voi non potrebbe interessare. (Ammesso che vi interessi,<br />

invece, ciò che ho tentato di dirvi finora).<br />

eugenio.santangelo@gmail.com<br />

per le citazioni esplicite:<br />

A. Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, Macerata, Quodlibet, 2003.<br />

72


marzo ’08<br />

Terra e libertà<br />

Marco Madonia<br />

Chi<strong>un</strong>que da piccolo ha giocato a guardie e ladri. Un format giocoso che ha sempre divertito,<br />

anche se mascherato sotto altre spoglie, con altri nomi e magari altre modalità. Il gioco, però,<br />

ha sempre f<strong>un</strong>zionato, nonostante i cambiamenti dovuti al passaggio delle generazioni. Uno<br />

dei motivi del successo senza età di quel<br />

gioco potrebbe essere la chiarezza dei<br />

ruoli. Ciò significa che <strong>un</strong>a volta decise le<br />

parti ogn<strong>un</strong>o si impegna a non cambiare<br />

la propria collocazione e quindi a rimanere<br />

fedele alla posizione che si è scelto per<br />

tutta la durata delle ostilità. D<strong>un</strong>que, chi<br />

all’inizio vuole fare la guardia fa sempre<br />

la guardia, mentre, chi interpreta il ladro è<br />

orgoglioso del suo ruolo e si impegna per<br />

tutta la durata del gioco affinché la sua<br />

parte prevalga sull’altra. Se ci fossero dei<br />

voltagabbana il gioco non f<strong>un</strong>zionerebbe,<br />

la confusione la farebbe da padrona e ness<strong>un</strong>o<br />

potrebbe divertirsi.<br />

Ma la realtà ha regole più kafkiane di<br />

quelle del gioco e quindi è decisamente<br />

Juva, 2007<br />

più complicata e ingarbugliata. A questo proposito <strong>un</strong>a<br />

piccola storia è quella che sta venendo fuori dai processi del trib<strong>un</strong>ale militare di La Spezia<br />

su quella che è conosciuta come la strage del Cavalcavia. Tutto questo dopo la conclusione<br />

dell’iter giudiziario, compreso il pron<strong>un</strong>ciamento della Cassazione, che riguardava la strage di<br />

Marzabotto. Per l’episodio del Cavalcavia si tratta di quaranta militari delle SS del reparto tank<br />

XVI divisione, che arrivano a Casalecchio per concludere ciò che avevano iniziato pochi giorni<br />

prima a Marzabotto. L’Eccidio del Cavalcavia del 10 ottobre 1944 è <strong>un</strong>a delle tappe sporche<br />

di sangue che i nazisti lasciarono nei giorni in cui stavano abbandonando Bologna. Una delle<br />

stragi tra le più cruenti della storia italiana, nella quale vennero trucidati da truppe nazifasciste<br />

13 partigiani catturati durante la battaglia di Rasiglio. I prigionieri, dopo essere stati fucilati<br />

dai nazisti (e forse anche da qualche fascista italiano), vennero appesi per molti giorni con del<br />

filo spinato agli alberi che circondavano la strada. Come <strong>un</strong>a sorta di trofeo che, però, doveva<br />

servire da monito a tutta la cittadinanza. Due dei protagonisti di questa vicenda sono stati il<br />

maggiore Loos ed il suo braccio destro, il capitano Schimdt. I due, all’epoca dei fatti, dirigevano<br />

l’ufficio <strong>un</strong>o della divisione stanziata a Bologna. Schimdt, allo stato attuale, vive ancora<br />

in Germania ed ha la bellezza di 87 anni. Nonostante abbia ricevuto nel corso degli anni <strong>un</strong>a<br />

sfilza di rogatorie internazionali, la polizia non lo trova mai in casa e quindi l’obbligo di presenziare<br />

al processo che lo coinvolge non riesce a essere consegnato al canuto interessato. Un<br />

fatto molto strano, infatti, tutti sanno che faccia Schimdt abbia adesso, tutti sanno allo stesso<br />

modo dove abita e chi frequenta, ma evidentemente le protezioni di cui gode il vecchio nazista<br />

sono ancora molto influenti.<br />

In ogni caso, chi deve fare la guardia si dimentica del suo ruolo in favore del vecchio nazi-<br />

circolare periferica 73


sta. Infatti, dopo ben sessant’anni, l’ex capitano Schimdt non è ancora stato assicurato alla<br />

giustizia italiana. Loos, invece, fino a poco tempo fa viveva tranquillamente sotto falso nome<br />

in Germania. Nome che poi è risultato essere quello di <strong>un</strong> militare tedesco morto durante<br />

l’assedio di Vienna del 1944. Ma poi anche Loos all’inizio degli anni ’90 è morto senza farsi<br />

nemmeno <strong>un</strong>’udienza dibattimentale. Questi due all’epoca dei fatti dirigevano l’ufficio di<br />

controspionaggio che decise la rappresaglia (anche se l’azione nei documenti tedeschi viene<br />

definita bonifica) e le persone da colpire nella strage del Cavalcavia. Ma rappresaglia rispetto a<br />

quale episodio commesso dai partigiani? Ness<strong>un</strong>o, secondo le stesse confessioni dei tedeschi.<br />

D<strong>un</strong>que <strong>un</strong>a strage che già da queste stesse affermazioni appare inspiegabile in quanto non<br />

commisurata all’offesa visto che i tedeschi non avevano subito ness<strong>un</strong> attacco da vendicare.<br />

In più la rappresaglia è <strong>un</strong> istituto giuridico che non esisteva<br />

nemmeno all’epoca del regime nazista. D<strong>un</strong>que usare quel<br />

termine è del tutto inappropriato, infatti anche dagli spostamenti<br />

dei tedeschi in quei giorni emerge in maniera chiara che<br />

si trattava di tutt’altro. Uno sterminio di massa che in tutto il<br />

territorio provinciale voleva eliminare chi aveva combattuto<br />

nelle formazioni partigiane. I tedeschi e i fascisti che lasciarono<br />

Marzabotto avevano il preciso obiettivo di rastrellare<br />

alc<strong>un</strong>e zone durante il loro percorso che portava a Bologna. Le<br />

generalità di coloro che finiranno appesi sugli alberi sono gli<br />

stessi Loos e Schimdt ad indicarle. Quelle tredici persone non<br />

sono morte per caso, ma sono state scelte dopo la segnalazione<br />

effettuata dall’ufficio di spionaggio. Non si tratta, d<strong>un</strong>que,<br />

di <strong>un</strong> episodio di guerra, ma, piuttosto, di <strong>un</strong>a strategia criminale<br />

portata avanti senza scrupoli. Eppure c’è ancora chi parla<br />

di triangolo rosso e di guerra civile, come se mettere tutti sullo<br />

stesso piano servisse a salvare anche solo qualcosa. E non bastano<br />

nemmeno i processi a zittire le voci di vecchi e nuovi revisionisti.<br />

Ci si fa beffe di valanghe di documenti e si continua<br />

a tradurre a proprio piacimento la storia e i fatti. Nonostante<br />

<strong>un</strong>a sfilza di prove, ancora per molti, la strage del Cavalcavia<br />

rimane solo e semplicemente <strong>un</strong>a operazione di guerra come<br />

tutte le altre. Un’altra piccola storia è quella del disegno di<br />

Juva, 2007<br />

74<br />

legge 548/06. Un numero apparentemente insignificante che,<br />

a causa dell’ostruzionismo dell’opposizione, è ancora bloccato<br />

nelle commissioni parlamentari. Se quel piccolo numero si trasformasse in legge dello Stato<br />

Italiano, infatti, i familiari delle vittime delle stragi nazi-fasciste di Marzabotto, Sant’Anna e<br />

Casalecchio vedrebbero riconosciuto il loro diritto ad <strong>un</strong> risarcimento equo per l’occultamento<br />

dei fascicoli d’indagine del cosiddetto Armadio della Vergogna di Palazzo Cesi. Nello stabile<br />

romano, che <strong>un</strong>a volta era sede della procura generale militare, nell’estate del 1994, durante<br />

<strong>un</strong> trasloco, furono trovati 695 fascicoli pieni di carte e documenti. Su quei fogli era stampigliato<br />

il timbro di archiviazione provvisoria del dottor Santacroce in data 14 gennaio 1960. Quel<br />

timbro determinò l’occultamento di centinaia di episodi di crimini commessi dai nazifascisti nel<br />

periodo appena precedente la fine della guerra, come Marzabotto e la strage del Cavalcavia.<br />

D<strong>un</strong>que lo Stato ha impedito in maniera palese <strong>un</strong>a veritiera ricostruzione storica di quei fatti,<br />

ha occultato delle prove e ha, in qualche modo, riscritto la storia italiana nella maniera più consona<br />

alle esigenze dell’apparato.<br />

Le guardie non sono più guardie e stanno sempre più vicino ai ladri. Se, come chiedono


marzo ’08<br />

giustamente i familiari delle vittime di quegli eccidi, quel decreto diventasse legge dello Stato,<br />

succederebbe <strong>un</strong>a cosa strana. Dopo qualche decennio, lo Stato si assumerebbe la responsabilità,<br />

anche politica, di occultamenti e pericolose protezioni. Se quella legge diventasse<br />

effettiva allora, lo Stato tornerebbe dalla parte di chi quegli eccidi li ha subiti, cioè garantirebbe<br />

la difesa dei suoi cittadini che hanno subito <strong>un</strong> crimine. Dopo tutto, le guardie il loro<br />

lavoro l’avevano fatto e anche in maniera precisa. Infatti gli alleati americani che avevano<br />

partecipato alla liberazione di Bologna, negli anni successivi al termine delle ostilità costituirono<br />

<strong>un</strong>a commissione d’inchiesta su quei fatti. Anche grazie alle testimonianze di chi, come il<br />

Capitano Schimdt, partecipò a quegli eccidi, accertarono responsabilità storiche e giudiziarie.<br />

Eppure non basta nemmeno <strong>un</strong>a confessione esplicita per certificare quello che è stato, anzi<br />

la confessione si nasconde e non viene presa in considerazione. Addirittura, dopo l’apertura<br />

dell’Armadio della Vergogna, i fascicoli arrivano alla procura militare di La Spezia, e almeno in<br />

quella circostanza ci si aspetterebbe indagini approfondite e circostanziate. Eppure il sostituto<br />

procuratore Ballo ha notizia dei fatti nel mese di maggio del 1995 e riesce a tempo di record<br />

(nel gennaio del 1996) a concludere la fase delle indagini. D<strong>un</strong>que, <strong>un</strong>a giustizia rapida ed efficiente<br />

che, però, non trova di meglio da fare che archiviare ad agosto il procedimento secondo<br />

delle motivazioni che risultano ai più poco chiare.<br />

E ancora <strong>un</strong>a volta le guardie si dimenticano del loro ruolo di garanzia e stanno dalla parte<br />

dei ladri. D<strong>un</strong>que lo Stato, piuttosto che favorire l’accertamento della verità, preferisce imbastire<br />

indagini fantoccio e chiudere in <strong>un</strong>’armadio pieno di polvere gli atti che sarebbero stati<br />

utili al processo. In più, nemmeno dopo tanti anni, riesce ad ammettere la propria responsabilità<br />

davanti ai familiari delle vittime. Allora, forse, gli <strong>un</strong>ici veramente fedeli alla causa della<br />

giustizia in questa l<strong>un</strong>ga vicenda sono, quasi per paradosso, i ladri. Infatti tutte le informazioni<br />

utili alla riapertura delle indagini vengono direttamente da chi ha partecipato a quei crimini.<br />

I giovani nazisti di allora, adesso confessano senza reticenze tutto quello che è successo.<br />

Magari perché già avanti con l’età non hanno niente da perdere, ma molti lo fanno per <strong>un</strong>a<br />

ragione ben più prosaica. Infatti per chi vuole ricevere la pensione di guerra il ministero della<br />

Difesa tedesco ha imposto di documentare in maniera chiara gli anni di servizio prestati sotto<br />

l’esercito. Per poter ottenere la pensione, d<strong>un</strong>que, gli ex militari confessano dove sono stati<br />

stanziati e anche in quale periodo. In questa maniera, implicitamente confessano anche quali<br />

crimini hanno commesso o a quali hanno partecipato. Così, avendo confessato la loro collocazione<br />

durante la guerra, basta solo interrogali. E loro fanno luce sulle verità di quegli anni,<br />

e tramite le loro testimonianze garantiscono che in quei casi né si trattò di guerra civile né di<br />

rappresaglia. Ma nonostante tre gradi di processo, e il pron<strong>un</strong>ciamento dell’organo massimo<br />

che è la Corte di Cassazione, se la storia non è quella che ci piace, allora inspiegabilmente<br />

qualc<strong>un</strong>o si arroga il diritto di tradurla in termini più vicini alle proprie esigenze. E non basta<br />

a garantire la veridicità dei fatti la confessione volontaria di chi ha commesso quelle stragi.<br />

Allora ricompare il triangolo rosso a mettere sullo stesso piano le guardie ed i ladri. Mentre per<br />

paradosso sono i carnefici a riscrivere la storia a favore delle vittime. Paradossalmente sono<br />

le loro confessioni spassionate a rendere giustizia a chi è morto per la libertà. Mentre lo Stato<br />

Italiano si accontenta di <strong>un</strong>’altra verità. Poi magari chi preferiva collocarsi a Salò piuttosto che<br />

sulla linea Gotica adesso diventa Ministro della Repubblica. E allora il processo è ultimato, i<br />

ladri sono diventati guardie anche se il gioco non f<strong>un</strong>ziona più.<br />

marcomadonia1908@yahoo.it<br />

circolare periferica 75


Giacobbo colpisce ancora.<br />

Dal Chupacabras alle piramidi passando per il rogo dei templari<br />

76<br />

Paolo Cova<br />

Perché in <strong>un</strong> numero sul secondo grado mi accingo a parare di Roberto Giacobbo, poliedrico,<br />

polidimensionale, polimorfico e polidissociato primo conduttore di Stargate: linea di confine 1<br />

e poi dell’immenso Voyager: ai confini della conoscenza? Semplice, perché nel variegato <strong>un</strong>iverso<br />

delle riscritture e dei travestimenti, <strong>un</strong>o dei processi che oggi ha <strong>un</strong>o<br />

straordinario successo è la rielaborazione della storia, o, nel caso dell’onnivoro<br />

Giacobbo, sarebbe meglio dire la falsificazione della storia. Una falsificazione<br />

che è ancora più subdola perché non è mossa da illegittime ragion<br />

di stato, o da interessi socio-politici, o culturali, ma da semplici prospettive<br />

commerciali, caratteristiche del palinsesto televisivo italiano.<br />

I programmi di Giacobbo hanno certamente avuto <strong>un</strong> successo notevole<br />

nel triste panorama italiano, tanto da permettere a Stargate, nel giro di pochi<br />

anni, di passare dalla dignitosa seconda serata alla prima: tale successo<br />

è sicuramente dovuto al suo format. Mi piacerebbe però anche sottolineare<br />

in positivo che alla base di tale seguito vi è <strong>un</strong> preciso desiderio di conoscenza,<br />

su cui il mondo della cultura farebbe meglio a interrogarsi.<br />

Il nostrano Sherlock Holmes dell’occulto, che oggi come non mai assomiglia<br />

sempre più ad <strong>un</strong>a grassa signora in giallo, è divenuto il guru della<br />

divulgazione scientifica dei mercoledì sera televisivi di Rai Due, e come <strong>un</strong><br />

novello Bobo Vieri dell’etere, ha cambiato diverse maglie nel corso della sua<br />

carriera. È infatti passato da Mezzogiorno in famiglia del 1994, allo strepitoso la Cronaca in<br />

Diretta, vincendo così al fotofinish con l’OK il prezzo è giusto della premiata forneria Zanicchi-<br />

Pistarino il prestigiosissimo Oscar Tv del Radiocorriere. Si è poi specializzato nella materia a lui<br />

più consona, l’occulto, con l’edizione ’97/’98 di Misteri, paura eh! Per approdare finalmente,<br />

dopo Amici Animali, Con Voi sulla Spiaggia e il coltissimo Speciale di Natale, al format a lui<br />

più congeniale, cioè all’istrionico Stargate: linea di confine, ereditato poi dal beniamino dei<br />

grecisti l’archeo-scrittore Valerio Massimo Manfredi..Seguono le formative esperienze in Rete<br />

Quattro, come autore e caporedattore de L’emozione della vita, e, la conduzione, nel 2000, de<br />

La Macchina del tempo, dalla quale viene allontanato per non offuscare la geniale personalità<br />

di Cecchi Paone, incompreso, soprattutto dai fascisti nostrani, astro politico gay della destra e<br />

recente protagonista dell’Isola dei Famosi. Infine,<br />

a partire dal 20 maggio 2003 Roberto Giacobbo ritorna in Rai come dirigente, autore e conduttore del programma<br />

Voyager: ai confini della conoscenza e di Ragazzi c`e` Voyager!, in onda su RaiDue, che raccoglie da<br />

subito consensi di share e ascolto.<br />

Oggi Voyager ha raggi<strong>un</strong>to la IX edizione e, come cita il sito del nostro com<strong>un</strong>e amico:<br />

oltre trenta p<strong>un</strong>tate per stagione e <strong>un</strong>a p<strong>un</strong>ta media di ascolto del 16,5% pari a circa 2 milioni di telespettatori<br />

con picchi del 25%. Un risultato sorprendente e inaspettato per <strong>un</strong> programma dedicato all’approfondimento<br />

storico-archeologico.<br />

Storico-archologico sta a Voyager come gnocca sta a Rosi Bindi. Alla base di <strong>un</strong> programma<br />

come Voyager vi è infatti <strong>un</strong> pout pourri di informazioni storico-archeologiche parziali, <strong>un</strong>ite a


marzo ’08<br />

<strong>un</strong>a miscela esplosiva d’esoterismo dell’ultima ora, misticismo neogotico, occultismo d’antan,<br />

e dei peggiori luoghi com<strong>un</strong>i da bar sport in circolazione nelle migliori enoteche d’Italia. Viene<br />

così servito <strong>un</strong> prodotto TV disimpegnato, confezionato con <strong>un</strong>’apparente veste scientifica, che<br />

ha alla base <strong>un</strong> preciso processo falsificatorio dei fatti storici, ben calibrato per poter affascinare<br />

grandi e piccini.<br />

Premesso che la storia non può essere logicamente annoverata tra le scienze esatte,<br />

proprio perché alla sua base vi è l’interpretazione dei fatti attraverso lo studio di molteplici<br />

tipologie documentarie, sia materiali che immateriali, anche la falsificazione storica ha <strong>un</strong>a sua<br />

precisa f<strong>un</strong>zione, sia nella ricostruzione artistica della fiction o del romanzo, sia nella creazione<br />

di false letture degli eventi per scopi generalmente molto precisi. Ne consegue che anche<br />

sui falsi e sulle falsificazioni è sempre importante interrogarsi, proprio<br />

per scoprirne le dinamiche gnoseologiche di cui sono naturalmente, come<br />

ogni prodotto culturale, portatrici. Per questo non ha senso stigmatizzare i<br />

cosiddetti revisionismi in quanto tali, anzi è proprio il revisionismo la prassi<br />

classica degli studi storici. Quello che è veramente importante è collocare<br />

ogni interpretazione storica nell’ambito che le spetta, sia esso quello della<br />

materia umanistica di matrice accademica che quello della fantascienza,<br />

quello della fiction commerciale o quello dell’arte tout court. Ed è semmai<br />

sulle premesse e sulle molteplici tecniche interpretative dei fatti che è<br />

doveroso discutere e scontrarsi e su cui è sempre lecito re-interrogarsi. Solo<br />

i totalitarismi esprimono sempre delle interpretazioni rigide e preconfezionate<br />

degli eventi e non permettono, anche attraverso la forza, la ri-lettura<br />

dei fatti. L’assolutismo è ingordo di storia. Nella postmodernità la ri-scrittura<br />

della storia diviene invece, come c’insegna Eco, <strong>un</strong> privilegiato processo di<br />

sintesi della creazione contemporanea, che si stabilizza proprio attraverso la<br />

distillazione del passato e del presente, nell’impossibile pres<strong>un</strong>zione di plasmare il futuro.<br />

Il programma del nostro mattatore televisivo si palesa allora come <strong>un</strong>a serie di scatole<br />

cinesi, <strong>un</strong>a sottile negazione della pluralità interpretativa storica camuffata sotto <strong>un</strong>’apparente<br />

inconoscibilità degli eventi. Infatti, nonostante i subdoli travestimenti relativisti, “l’escamotage<br />

Voyager”, parte proprio dal presupposto che vi sia <strong>un</strong>a verità storica indiscutibile, ed è questa<br />

ad essere presentata di volta in volta da sedicenti studiosi, per lo più giornalisti da gazzettino<br />

padano, che come logico evidenziano però la permanenza di alc<strong>un</strong>e zone d’ombra e l’ovvia<br />

impossibilità di gi<strong>un</strong>gere con certezza a <strong>un</strong>a ricostruzione assolutamente precisa dei fatti. Ciò<br />

avviene proprio perché il continum spazio-temporale è irriproducibile, e il metodo galileiano è<br />

inapplicabile alla materia, per questo le letture che si fanno dei fenomeni devono protendere<br />

alla veridicità senza mai raggi<strong>un</strong>gerla. Alc<strong>un</strong>i misteri della storia rimarranno tali, è solo con<br />

<strong>un</strong>a tecnica d’approssimazione degli errori che si cerca di ricostruire i fatti, siamo in <strong>un</strong> campo<br />

parascientifico proprio perché gli eventi sono irriproducibili.<br />

Il f<strong>un</strong>ambolico Giacobbo riesce, però, a liberarsi di questi rigidi costumi parascientifici, per<br />

condurci ogni mercoledì sera in <strong>un</strong> vortice infernale di pseudo-teorie e interpretazioni che egli<br />

stesso non riesce più a controllare, gi<strong>un</strong>gendo, spesso sudato come <strong>un</strong> Culatello di Zibello<br />

nell’agosto sahariano, al gran finale che come al solito ci porterà alla sua vaporizzazione, mai<br />

definitiva ahimé. In quest’ottica il piatto forte della trasmissione è la solita verità misteriosofica<br />

occultata che risolleverebbe le sorti dell’umanità, ma che purtroppo è custodita da secoli<br />

da pochi circoli d’eletti di vario genere e denominazione d’origine controllata e garantita. Il<br />

programma è articolato e complesso e scopre tutte le cricchette dei furbetti del misterino: dai<br />

sacerdoti egizi ai satrapi persiani, dai templari ai massoni radical-chic alla Dan Brown, dagli<br />

Atzechi ai nazisti passando per quei disadattati dell’Isola di Pasqua, che si sono sterminati per<br />

circolare periferica 77


costruire dei pupazzi di pietra giganti, per altro particolarmente brutti.<br />

Nella divulgazione scientifica del nostro beniamino, si raggi<strong>un</strong>ge il climax televisivo attraverso<br />

la sua azione social-popolare, da novello philosophe, nel momento in cui Giacobbo,<br />

acquisita, compresa e sfruttata la scienza occulta, gabbati i ristretti circoli d’eletti, la trasfonde<br />

in eurovisione alle genti, alla faccia del Cristo del discorso della montagna. Misteri straordinari<br />

come il Chupacabras, l’essere mitologico che pare <strong>un</strong>o sciacallo, anzi che la cecità degli anatomopatologi<br />

ha individuato come sciacallo, ma che divora migliaia di armenti del Sud America. I<br />

templari in ogni forma e dimensione, credo sia inutile parlarne, tanto tutti sanno la vera storia<br />

di questi illuministi, liberali ed ecumenici, ingiustamente sterminati per i loro segreti dal Vaticano<br />

e dai pari di Francia. Infine, l’Abbazia di San Galgano a Chiusino con la sua spada nella<br />

roccia, eterno mistero, il cui edificio è miracolosamente costruito alla<br />

stessa distanza da Chartres e dalla piramide di Cheope a Giza. Anch’io<br />

nel momento in cui scrivo sono seduto alla stessa distanza tra il water e<br />

il frigo, cosa vorrà dire?<br />

Non ho mai avuto <strong>un</strong>a gran considerazione dei circoli d’eletti o che<br />

dir si voglia, basti pensare ai capolavori della Carboneria nostrana nei<br />

moti del 1820 e 1821, conclusi con la gita cultural-aziendale allo Spielberg<br />

guidata da Silvio Pellico 2 , ma ciò che fa Giacobbo è eccessivo.<br />

Infatti, sbandierare i segreti dell’umanità occultati per secoli in diretta<br />

televisiva non mi sembra corretto e poi gli alieni cosa penseranno?<br />

Chissà poi il Pentagono dove sposterà l’Area 51? Io proporrei vicino a Gavirate, dove sono nato<br />

io, in provincia di Varese. Se ci accordiamo con gli Usa e ovviamente con gli alieni, si potrebbe<br />

mettere l’Area 51 a Comerio al posto delle ex-fabbriche Whirlpool, di spazio ce n’é, e come si<br />

suol dire: via le lavatrici diamoci dentro con gli UFO. Sempre lombardi siamo, non importa cosa<br />

produciamo, l’importante è che lavoriamo.<br />

Bando alle ciance, grazie com<strong>un</strong>que a Roberto e ai misteri svelati che ci ha donato, l’esoterismo<br />

non sarà più quello di <strong>un</strong>a volta. E ascoltando ancora la sua vocina che dal sito di<br />

Voyager m’illustra i silenzi dell’umanità, il mio pensiero corre al tema di questo <strong>articolo</strong> e mi<br />

sovviene <strong>un</strong> <strong>un</strong>ico e giovanile dubbio: ma in quest’immensità di boiate non sarò uscito fuori<br />

della traccia? Non credo, perché in <strong>un</strong> numero sul “secondo grado”, anch’io ho tradotto la<br />

mia idiozia in maniera esponenziale sulla carta in quest’arringa sfegatata contro Voyager e i<br />

suoi fratelli, ma poi perché? Perché questo mio l<strong>un</strong>go Giacobbo’s dream? Questo mio interesse<br />

ossessivo per lui? Che ragioni ha? Dove nasce tutto questo mio odio? Perché questa mia<br />

indegna crociata?<br />

Lapalissiano, per invidia. Perché sono incapace d’accettare pacificamente che il buon Roberto,<br />

«laureato in Economia e Commercio, giornalista ed esperto di com<strong>un</strong>icazione», si occupi<br />

di divulgazione scientifica con ascolti altissimi, mentre tanti bravi studiosi del nostro Belpaese<br />

fanno i commessi, i baristi, i postini o le famose fotocopie al Servizio Civile Nazionale 3 . Questa<br />

è l’Italia del 2006-2008, che soprannominerei volentieri il “biennio stronzo”. Ma questi sono<br />

giudizi soggettivi quindi vaporizzandomi anch’io, vi saluto: alla prossima p<strong>un</strong>tata.<br />

koimbra1@hotmail.com<br />

1Tutte le citazioni dell’<strong>articolo</strong> e le informazioni su Roberto Giacobbo sono tratte dal sito http://www.voyager.rai.it<br />

2 Prego la casa Savoia di non citarmi in giudizio né richiedermi danni, vista peraltro la mia situazione economica,<br />

a causa di questa battuta risorgimentale. Grazie.<br />

3 Ci terrei a precisare che nei miei 10 mesi di Servizio Civile Volontario presso il Museo Civico Medievale di<br />

Bologna non ho mai fatto delle fotocopie.<br />

78


marzo ’08<br />

La galleria Parmeggiani di Reggio Emilia e i falsi<br />

nell’Ottocento<br />

Il Medioevo vende; e vende perché, evidentemente, c’è domanda di<br />

Medioevo […] cioè il bisogno di <strong>un</strong> luogo utopico in cui collocare<br />

dame e cavalieri, fate e folletti; […] il bisogno di <strong>un</strong> luogo in cui<br />

concentrare i propri incubi, di <strong>un</strong>a stanza buia in cui nascondere<br />

le cose che ci fanno paura: cose nostre, s’intende, non certo “del<br />

Medioevo” 1 .<br />

Ilaria Negretti<br />

Queste parole di Massimo Montanari illustrano in<br />

maniera precisa il significato di Medioevo oggi. Prima<br />

di trattare effettivamente dei falsi ottocenteschi, che,<br />

nel caso specifico, riguarderanno riproduzioni fantasiose<br />

o meno di oggetti medievali, è bene fare <strong>un</strong> breve<br />

cenno su quanto percepiamo di questa “non epoca” e<br />

di quanto “il falso” faccia parte di noi. È stato infatti il<br />

revival gotico dei romanzi, dell’arte, dell’architettura<br />

ottocentesca (si pensino, a riguardo, i “restauri rub- bianeschi” bolognesi rivolti a <strong>un</strong><br />

fantomatico ripristino dell’opera originale) a definire l’immagine di Medioevo gi<strong>un</strong>ta fino a noi.<br />

È stata l’Italia del Risorgimento a vedere nel Medioevo e nel Rinascimento l’origine della nostra<br />

identità nazionale, il Medioevo dei com<strong>un</strong>i, argomento di così facile presa in <strong>un</strong> paese dotato<br />

di <strong>un</strong>’indole così campanilistica come il nostro. «La stazione si maschera da castello, ma la<br />

maschera è la sua verità». (Theodor W. Adorno, Prismi)<br />

I falsi fanno parte della nostra vita, come le nostre città, spesso ricostruite secondo lo stile<br />

medievale nell’Ottocento, emblematico il caso di San Geminiano in Toscana, trasformato in <strong>un</strong><br />

gioiello medievale da Viollet-le Duc, ma si può andare ancor più indietro nel tempo; nel Medioevo,<br />

per esempio, con la falsificazione di gemme, reliquie e documenti. Ma il falso è così da<br />

recriminare? Il termine falso è spesso legato ad <strong>un</strong>a accezione negativa, il culto per il valore di<br />

opera antica, originale e autografa ha fatto sì che lo studio dei falsi mirasse a tutelare acquirenti<br />

pubblici e privati dalla minaccia della frode<br />

con gravi conseguenze per la storia del fenomeno, sia perché la contraffazione, <strong>un</strong>a volta riconosciuta, tendeva a<br />

essere occultata, sia perché, per limitare i danni economici o d’immagine legati alla scoperta di <strong>un</strong> falso, gli episodi<br />

fraudolenti venivano, per quanto possibile, sottaciuti. 2<br />

Il falso però appare come <strong>un</strong> documento per la storia del gusto e della cultura, inoltre il suo<br />

studio contribuisce all’accrescimento delle conoscenze sul passato e nell’affinamento degli<br />

strumenti atti a indagarlo, infatti la sua produzione richiede al falsario <strong>un</strong>a capacità tecnica e<br />

<strong>un</strong>a fervida immaginazione e il suo smascheramento obbliga lo storico a <strong>un</strong> riesame delle sue<br />

convinzioni e del suo metodo. In realtà il rapporto con i falsi è cambiato nel corso dei secoli:<br />

in epoca antica veniva vista come <strong>un</strong>a capacità di emulare o di superare le mitizzate opere<br />

officina del nulla 79


del passato, ma nell’Ottocento si cambia concezione. La falsificazione ottocentesca (fino alla<br />

prima guerra mondiale) si caratterizza come <strong>un</strong> processo ideologico e materiale «di obliterazione<br />

e sostituzione dei sedimenti tradizionali nell’ambiente e nella cultura del nostro paese» 3 .<br />

L’Italia infatti necessitava di produrre opere da immettere sul mercato antiquariale erupeo<br />

ed extraeuropeo, che non richiedeva più soltanto dipinti o disegni o sculture, ma oggetti di<br />

uso domestico e privato, da arredo. Cambiano i committenti e cambiano quindi le tipologie<br />

da collezionare. Nell’Ottocento non saranno solamente i nobili a rappresentare la domanda<br />

di questo mercato, ma si faranno sempre più presenti e pressanti i borghesi. D’altra parte la<br />

crescente immagine negativa della cultura industriale attiverà sempre più il mito del prodotto<br />

manufatto, <strong>un</strong>ico o variato e com<strong>un</strong>que irripetibile. E sarà proprio questo rigetto per la produzione<br />

seriale dell’industria a diffondere con forza l’esigenza di sottrarre<br />

alla logica puramente economica la creazione di opere, per tornare a<br />

quell’intima compenetrazione fra spirito collettivo e soluzione progettuale<br />

che aveva caratterizzato la produzione Medievale. Su questa scia<br />

si mossero nell’Inghilterra del secondo Ottocento i pittori cosiddetti<br />

prerafaelliti con il fenomeno delle Arts and Crafts che si diffonderà in<br />

tutta Europa (in Italia Arti applicate). Si tratta di <strong>un</strong>a fitta rete di società<br />

di mutuo soccorso e di scuole per apprendisti allo scopo di promuovere,<br />

incentivare e trasmettere tecniche artigianali minacciate di estinzione.<br />

È in questo periodo che si viene a collocare la realizzazione di buona<br />

parte delle opere della collezione Parmeggiani. In realtà questa curiosa<br />

ed eclettica galleria d’arte fu creata tra il 1924 e il 1926 per volere del<br />

suo fondatore e ultimo proprietario, il reggiano Luigi Parmiggiani (o<br />

Parmeggiani, come si farà chiamare in seguito) figura circondata da<br />

<strong>un</strong>’aurea volutamente misteriosa.<br />

La galleria, donata da Parmeggiani al com<strong>un</strong>e di Reggio Emilia nel<br />

1933 in cambio di <strong>un</strong> vitalizio perpetuo e dell’usufrutto dell’immobile<br />

per sé e per la moglie Anna (Blanche Leontine) Detti, presenta sommariamente<br />

l’aspetto originale di come l’aveva ideata il proprietario,<br />

e lascia il visitatore senza fiato, non appena vi si entra. 4 Bizzarra ma<br />

nascosta spesso alla vista perché ben inserita nel fitto contesto urbano cittadino, la galleria<br />

riproduce nelle sue forme architettoniche esterne le sembianze di <strong>un</strong>a cattedrale gotica sul<br />

fronte affacciato su Corso Cairoli, caratterizzato dalla suggestiva torre con guglia, mentre sul<br />

fronte esposto su via San Rocco presenta <strong>un</strong>o stile rinascimentale fiorentino. Concepita sulla<br />

scorta delle case-museo tanto in voga alla fine del XIX e ai primi anni del XX secolo, l’eclettica<br />

collezione, composta da armi, oreficerie, tessuti, pitture, sculture e mobili, si mostra al<br />

visitatore in sale in stile pompeiano e illuminata da luci soffuse provenienti da lampadari in<br />

stile liberty. È come entrare in <strong>un</strong> altro mondo e <strong>un</strong>’altra epoca… <strong>un</strong>’epoca mai esistita s’intende,<br />

se non nella mente di chi l’aveva creata. Quando si entra nella sala grande, in cui <strong>un</strong><br />

ampio lucernario «lascia piovere <strong>un</strong>a chiarità tranquilla e festosa» 5 , come già affermava Fulloni<br />

all’inizio del secolo scorso, la vista è imponente; l<strong>un</strong>go le pareti quadri di ogni misura, mobili,<br />

seggioloni, e nel mezzo vetrine scintillanti. Chi possiede poi il dono di <strong>un</strong> occhio allenato e<br />

attento ai minimi particolari, può accorgersi che in alc<strong>un</strong>i dipinti (quelli delle sale dedicate alle<br />

opere realizzate dal pittore spagnolo Escosura) sono raffigurati oggetti presenti nella collezione:<br />

abiti, dipinti, tessuti, la boiserie, che caratterizza la parte inferiore delle pareti delle sale<br />

del museo, e il monumentale camino con le sfingi. A rendere poi ancor più curiosa la collezione<br />

è la storia della sua formazione.<br />

80


marzo ’08<br />

L’origine dei tre nuclei della raccolta e la loro convergenza nelle mani del Parmeggiani sono legati a <strong>un</strong> complesso<br />

intrecciarsi di interessi antiquariali e di parentele sul filo di <strong>un</strong>a romanzesca vicenda in cui si miscelano delinquenza<br />

e arrampicate sociali, politica e avventura, falsi d’arte e ambizioni del gusto collezionistico fin de siècle, disinvolte<br />

operazioni di mercato. È <strong>un</strong> intricato canovaccio con molti p<strong>un</strong>ti oscuri 6<br />

non ancora del tutto chiariti. La storia ha inizio con Ingacio Leon y Escosura, di Oviedo, pittore,<br />

scrittore, critico e mercante d’arte trasferitosi a Parigi, dove entrò a far pare del “bel mondo”<br />

della capitale e dove raccolse tra 1970 e il 1980, dipinti, mobili, tessuti, sculture, arazzi. Qui<br />

Escosura convolò a nozze con Marie Thérèse Filieuse Marcy, la cui famiglia (dal nonno, al padre,<br />

agli zii) esercitava con cospicuo profitto l’artigianato artistico sotto il nome dei Marcy (cognome<br />

della madre di Marie Thérèse) con la creazione<br />

della Maison Marcy, due botteghe situate a Parigi e a<br />

Londra. I Marcy si possono considerare<br />

come <strong>un</strong>a vera e propria dinastia dedita alla produzione e allo<br />

smercio di oggetti in stile gotico o rinascimentale che, nella<br />

seconda metà dell’Ottocento, cominciarono ad affluire sempre<br />

più copiosamente nei musei e nelle maggiori collezioni private<br />

europee e stat<strong>un</strong>itensi. 7<br />

L’Escosura entrando a far parte di questa famiglia,<br />

probabilmente collaborò “nell’azienda famigliare” producendo<br />

le imitazioni come “prove di stile” che altri, in<br />

seguito, avrebbero provveduto a contrabbandare per<br />

opere antiche originali. Buona parte delle opere realizzate<br />

e di quelle collezionate dal pittore sono visibili all’interno della galleria. Attraverso<br />

l’analisi dei dipinti dello spagnolo si può riscontrare il suo modus operandi, nelle raffigurazioni<br />

sono riprodotti numerosi materiali presenti nella collezione, oggetti di cui lui stesso si era<br />

circondato e che aveva utilizzato per ambientare i soggetti storici delle sue creazioni. Si tratta<br />

di materiali di significativo interesse e valore: la quadreria, costituita da <strong>un</strong> gruppo di opere<br />

antiche, oggi collocate nel salone centrale e da <strong>un</strong> importante gruppo di dipinti spagnoli (del<br />

XV e XVI secolo) 8 , gli arredi lignei e i tessuti che sono tutti antichi. Per quanto riguarda questi si<br />

nota <strong>un</strong>a certa predilezione per i velluti e l’arte del ricamo, mentre per i costumi settecenteschi<br />

sono state notate pesanti manipolazioni, necessarie anche per il loro utilizzo nelle complesse<br />

ricostruzioni storiche delle opere dell’Escosura. Emblematici di questa produzione così legata<br />

al Romanticismo sono i dipinti che riproducono episodi storici in particolare del XVII e XVIII<br />

secolo e che hanno per protagonisti “grandi uomini” colti in momenti culminanti della loro<br />

biografia, come L’abdicazione di Carlo I d’Inghilterra.<br />

Il secondo “fondo” della Parmeggiani si forma grazie alle opere del noto pittore spoletino<br />

Cesare Augusto Detti, anch’egli collezionista, amatore e mercante d’arte che si trasferì a Parigi<br />

nel 1876 e verso il 1880 entrò a far parte dell’entourage di Escosura, ancor prima di diventare<br />

cognato di questo, sposando Juliette Emilie, sorella di Marie Thérèse.<br />

Il terzo e più interessante gruppo della raccolta gravita invece intorno all’etichetta della<br />

bottega Marcy, da cui proviene il fondo residuo, quando l’impresa era diretta dalla misteriosa<br />

figura di Louis Marcy, l’ultimo titolare della più agguerrita organizzazione europea per la produzione<br />

e il commercio di oggetti in stile antico. In realtà Louis Marcy era il nome utilizzato da<br />

Luigi Parmeggiani, fondatore di questa Galleria, quando iniziò a occuparsi delle Maison Marcy.<br />

Infatti poco dopo aver attentato alla vita dei deputati socialisti riformisti Ceretti e Prampolini<br />

nel 1889, insieme a Giuseppe Pini, il reggiano e anarchico Luigi Francesco Giovanni Parmigiani,<br />

officina del nulla 81


costretto all’esilio, entrò in contatto con il mondo dell’arte e dell’antiquariato frequentando<br />

a Parigi Escosura. Soppiantandosi al pittore spagnolo nella conduzione delle sue botteghe di<br />

antiquariato con il benestare della moglie di questo e sotto lo pseudonimo di Luis Marcy, si<br />

introdusse con successo nel commercio di arte minore in forme medievali e rinascimentali, che<br />

invasero il mercato antiquario europeo nella seconda metà dell’Ottocento fino a primi anni del<br />

Novecento. Con la morte di Escosura prima, e della moglie di questo poi (1918), Parmeggiani<br />

si trovò di fatto a disporre di tutti i beni di questa famiglia. Il tutto venne suggellato nel 1920<br />

dal matrimonio con l’<strong>un</strong>ica erede della collezione Escosura-Marcy, Blanche Leontine (o Anna)<br />

Detti, <strong>un</strong>ica nipote di madame Escosura e figlia di Augusto Cesare Detti. Sistemata in questo<br />

modo la propria legittimità di poter disporre del ricco patrimonio, Luigi Parmiggiani chiuse<br />

la bottega parigina (quella londinese era già stata<br />

smantellata nel 1903 in seguito a problemi giudiziari)<br />

e allo stesso indirizzo nacque la nuova Parmeggiani<br />

Antiquarie. Nel 1922 l’originalità delle opere Marcy fu<br />

messa in discussione da <strong>un</strong> <strong>articolo</strong> nella rivista d’arte<br />

tedesca “Belvedere” di Otto Von Falke Die Marcy<br />

Falsch<strong>un</strong>gen. Parmeggiani decise quindi di ritirarsi<br />

definitivamente dal commercio, chiudendo l’impresa<br />

nel 1926 e trasferendosi con la moglie e tutto il loro<br />

patrimonio (le collezioni Marcy-Escosura-Detti) in<br />

Italia, nella città natale di Reggio Emilia, creando<br />

<strong>un</strong>a nuova dimora dove collocare le opere d’arte, la<br />

galleria suddetta.<br />

Della produzione Marcy fanno parte forse gli<br />

oggetti più interessanti e curiosi: le oreficerie, le armi e gli arredi lignei. Sir John Hayward,<br />

responsabile del Victoria and Albert Museum di Londra, fu il primo a fornire <strong>un</strong>o studio approfondito<br />

di queste opere e identificò i gioielli della collezione come oggetti falsi, di produzione<br />

ottocentesca, riferibili alla bottega parigina Maison Marcy. Alla stessa bottega erano già stati<br />

assegnati falsi del Museo di Berlino e del Victoria and Albert Museum di Londra. Alle stesse<br />

conclusioni gi<strong>un</strong>se, in maniera del tutto indipendente, Lionello Giorgio Boccia, direttore del<br />

Museo Stibbert di Firenze, incaricato di studiare la collezione delle armi, nell’ambito di <strong>un</strong>a più<br />

ampia catalogazione relativa alle armi dei Musei di Reggio Emilia. Boccia riconobbe la provenienza<br />

ottocentesca delle armi, riferibile alla produzione Marcy e fu il primo a identificare la<br />

vera identità che si nascondeva dietro il nome di Louis Marcy. In realtà non tutti i pezzi sono<br />

falsi, alc<strong>un</strong>i sono autentici, altri sono degli oggetti ricomposti con materiale originario autentico,<br />

talvolta integrato con decorazioni ottocentesche. 9 Il gruppo proveniente dalla produzione<br />

Marcy è formato da vari esemplari, soprattutto da<br />

armi bianche spesso arricchite di smalti. Vi sono<br />

opere legate più a <strong>un</strong> clima maturato a partire dagli<br />

anni Trenta dell’Ottocento e opere, ascrivibili alla<br />

fine del secolo, la cui fattura richiama fortemente<br />

alla produzione art noveau contemporanea. Sono le<br />

parti di armature, soprattutto i caschi, che si rifanno<br />

alla cultura medievale e rinascimentale, sia di area<br />

nordica, sia di area italiana. Queste opere si nutrono<br />

dei risultati di <strong>un</strong>a approfondita ricerca documentaria<br />

e archeologica; «ed è questa anzi <strong>un</strong>a caratteristica<br />

notevole dei pezzi nella Parmeggiani, che mostra-<br />

82


marzo ’08<br />

no in genere <strong>un</strong>a certa dimestichezza con le fonti e col materiale autentico» 10 . Emblematica<br />

di questa concezione è anche la produzione di oreficerie che si ispirano nelle forme a opere<br />

provenienti da libri illustrati (come le Monumental Effigies of Great Britain di Charles Alfred<br />

Stothard del 1817) e da raccolte pubbliche e private, come la sontuosa Madonna col Bambino<br />

in argento dorato che riprende le fattezze della statuetta eburnea del Louvre già in collezione<br />

Soltykoff. Il Medioevo che viene proposto in queste opere è quello cristiano e monarchico, si<br />

pensi al pugnale del Principe Nero o il pugnale e la spada di re Edoardo d’Inghilterra (re dal<br />

1330-1377), ornati di ricche impugnature in finto oro e di motivi araldici; ma anche (e forse soprattutto)<br />

quello cortese e cavalleresco. Il successo sul mercato di queste opere Marcy venne<br />

amplificato dalla capacità di Parmeggiani di presentarle come tesori nascosti e provenienti da<br />

luoghi lontani (e sconosciuti dal mercato antiquario) come Spagna e Portogallo.<br />

In realtà gli oggetti Marcy sono ancor oggi pregni di questa aura misteriosa e affascinante,<br />

come lo sono gran parte delle opere false che a l<strong>un</strong>go sono state considerate alla stregua di<br />

oggetti originali; da questo p<strong>un</strong>to di vista i falsi si possono, a mio avviso, ritenere emblemi<br />

della capacità e dell’ingegnosità della persona creatrice di riprodurre oggetti appartenenti a <strong>un</strong><br />

mondo lontano e tanto vagheggiato.<br />

1 M. Montanari, Il tramonto del Medioevo, in Medioevo al tramonto?, a cura di B. Borghi, Ferrara, Edisai, 2007, p.<br />

41.<br />

2 M. Tomasi, Falsi e falsari, in Arti e storia nel Medioevo, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, IV, Torino, Einaudi,<br />

2004, p. 872.<br />

3 M. Ferretti, Falsi e tradizione artistica, in Storia dell’Arte Italiana, III, a cura di F. Zeri, III, 10, Torino, Einaudi,<br />

1981, p. 164.<br />

4 Precisamente furono gli oggetti della collezione e i propri beni mobili a essere donati al com<strong>un</strong>e di Reggio<br />

Emilia, mentre l’immobile creato da Parmeggiani venne venduto al com<strong>un</strong>e stesso, in cambio della copertura dei<br />

debiti, di <strong>un</strong> vitalizio e dell’usufrutto dell’immobile stesso, per sé e per la moglie. Per <strong>un</strong> maggiore approfondimento<br />

cfr La galleria Parmeggiani di Reggio Emilia. Guida alla collezione, a cura di E. Farioli, Reggio Emilia, 2002.<br />

5 A. Fulloni, La galleria Parmeggiani a Reggio Emilia, in “Le vie d’Italia”, 1932, p. 359.<br />

6 G. L. Marini, Nasce da <strong>un</strong> attentato politico e da <strong>un</strong>a centrale di falsi la più importante raccolta spagnola d’Italia, in<br />

“Il giornale dell’arte”, VI, 58, 1988, p. 21.<br />

7 Ibidem<br />

8 Sulle opere spagnole cfr A. E. Pérez Sánchez, I dipinti della civica galleria “Anna e Luigi Parmeggiani”. I dipinti<br />

spagnoli, Reggio Emilia, Grafis, 1988.<br />

9 L. G. Boccia, Armi antiche delle raccolte civiche reggiane, Reggio Emilia, 1984, p. 35.<br />

10 Ibidem, p. 39.<br />

officina del nulla 83


Vincenzo Rabito, Terra matta<br />

84<br />

Stefano Rosignoli<br />

La località di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo, si fregia dal 1984 del titolo di «città<br />

del diario», giustificata dalla fondazione di <strong>un</strong> archivio che accoglie e mette a disposizione del<br />

pubblico testi autobiografici privati di ogni tipo. L’Archivio Diaristico Nazionale indice già dal<br />

1985 il Premio Pieve-Banca Toscana, assegnato postumo<br />

a Vincenzo Rabito (ex aequo con Armando Zanchi)<br />

nell’anno 2000, dopo che Giovanni Rabito, figlio più<br />

giovane dell’autore, scomparso nel 1981, decise di spedire<br />

l’originale dell’autobiografia paterna alla segreteria<br />

del premio. Le speranze avanzate dalla giuria di<br />

poter vedere pubblicato il testo sono state accolte dalla<br />

casa editrice Einaudi, la quale, dietro finanziamento<br />

pubblico e privato, ha organizzato <strong>un</strong>’ampia revisione<br />

nel tentativo di raggi<strong>un</strong>gere <strong>un</strong> compromesso tra conservazione<br />

dell’originale e sua riorganizzazione, per<br />

offrirlo a <strong>un</strong> pubblico composto non solo da specialisti.<br />

L’edizione, curata da Luca Ricci ed Evelina Santangelo,<br />

è da considerare pertanto come <strong>un</strong>a riduzione<br />

e non <strong>un</strong>’edizione critica, ma la maggior parte degli<br />

accorgimenti utilizzati nelle sezioni riportate riguarda<br />

l’aspetto puramente grafico del testo, il che rende il<br />

risultato finale sostanzialmente fedele alle intenzioni<br />

dell’autore.<br />

Tra i motivi che si potrebbero ricordare per consigliare<br />

la lettura del volume c’è innanzitutto l’eccezionalità<br />

dell’esperienza narrata, che è quella di <strong>un</strong> uomo<br />

sopravvissuto ai più terribili flagelli del XX secolo.<br />

Vincenzo Rabito nacque a Chiaramonte Gulfi, oggi in<br />

provincia di Ragusa, il 31 marzo 1899. Venne spinto<br />

dalle difficoltà familiari ad abbandonare gli studi anco-<br />

Juva, 2007<br />

ra bambino e a iniziare il lavoro come bracciante nelle<br />

campagne della zona, sino alla chiamata alle armi.<br />

Sopravvissuto miracolosamente alle trincee della Grande<br />

Guerra e alla malaria dilagante nella propria provincia, cercò fort<strong>un</strong>a in Africa, affrontando<br />

<strong>un</strong> nuovo conflitto, che si protrasse per lui nella seconda guerra mondiale. Tornato in patria,<br />

venne spinto a sposare <strong>un</strong>a donna di famiglia nobile decaduta, scontrandosi poi con la terribile<br />

suocera che, <strong>un</strong>a volta ottenuto il denaro, tentò in tutti i modi di cacciarlo. Dopo la fine della<br />

guerra, parte della quale vissuta come minatore in Germania, il maggiore impegno di Vincenzo<br />

fu crescere i propri figli, portandoli al diploma o, con grande soddisfazione, alla laurea. La<br />

mancanza di <strong>un</strong> destinatario preciso e la profonda sincerità di tutta la narrazione stanno a<br />

indicare come l’opera non sia stata scritta per la pubblicazione, ma semplicemente sotto la<br />

spinta ancestrale al racconto, nel tentativo di conservare la propria esperienza o di trasmetter-


marzo ’08<br />

la ai propri familiari.<br />

L’altro grande motivo di interesse è dato dalla struttura linguistica del testo, che mescola<br />

italiano regionale e popolare. Detto in estrema sintesi, la lingua di Rabito nasce dal tentativo<br />

di raggi<strong>un</strong>gere <strong>un</strong> italiano letterario, senza che l’autore abbia la possibilità di conseguire il<br />

risultato voluto. In altre parole, la lingua dell’autore non è né dialetto né lingua letteraria, ma<br />

<strong>un</strong>a sorta di “lingua di mezzo” solitamente definita italiano popolare, determinata non solo<br />

dall’appartenenza sociale ma anche dal mezzo e dal genere scelti, e ottenuta nel tentativo di<br />

raggi<strong>un</strong>gere lo standard colto. Tale tentativo produce quindi <strong>un</strong>a serie di ibridismi linguistici,<br />

da considerare interni alle varietà dell’italiano, individuabile come sistema dominante.<br />

In realtà, la lettura dell’autobiografia di Rabito dimostra che linguaggio e contenuti sono,<br />

come sempre, strettamente interrelati, accom<strong>un</strong>ati<br />

dal fatto di essere entrambi terreno di<br />

scontro tra cultura alta e popolare, prevalentemente<br />

orale. Non è <strong>un</strong> caso, in fondo, che sia<br />

la giuria del premio Pieve-Banca Toscana che<br />

diversi giornalisti abbiano parlato di «Gattopardo<br />

popolare»: semplicemente perché<br />

la scrittura di Rabito induce a credere nella<br />

volontà, prevalentemente (ma non esclusivamente)<br />

inconscia, di raggi<strong>un</strong>gere sia la lingua<br />

che il ritmo caratteristico della grande narrativa<br />

realista. Il racconto di Rabito non si configura,<br />

pertanto, come <strong>un</strong> diario delle sue esperienze<br />

quotidiane, ma come il risultato della loro rie-<br />

laborazione posteriore. Ad attirare l’attenzione<br />

Juva, 2007<br />

del lettore ci sono poi elementi che sembrano<br />

piuttosto appartenere al retroterra culturale del personaggio, ossia al bagaglio di conoscenze<br />

del quale fanno parte tutti gli aspetti che evocano la Sicilia più povera e profonda, e che ci<br />

mostrano come deve essere stata l’esistenza di <strong>un</strong> uomo che la storia avrebbe completamente<br />

dimenticato, se la sua voce non fosse gi<strong>un</strong>ta al grande pubblico. Si potrebbe quindi applicare<br />

alla lingua, così come al modo narrativo di Rabito quanto Ginzburg affermava già per le idee<br />

di Menocchio: «così <strong>un</strong>a massa di elementi compositi, antichi e meno antichi, confluì in <strong>un</strong>a<br />

costruzione nuova. Da <strong>un</strong> muro sp<strong>un</strong>tava il frammento quasi irriconoscibile di <strong>un</strong> capitello,<br />

o il profilo mezzo cancellato di <strong>un</strong> arco a sesto acuto: ma il disegno dell’edificio era suo» (C.<br />

Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Torino, Einaudi, 1976, p. 72). Per esprimere il l<strong>un</strong>go travaglio<br />

della propria esistenza Rabito non ha potuto far altro, in definitiva, che utilizzare <strong>un</strong>a lingua<br />

e <strong>un</strong>a cultura diverse dalle proprie, ma conservandovi elementi peculiari alla propria origine<br />

popolare, che rendono la pubblicazione di Einaudi estremamente interessante sotto il profilo<br />

culturale.<br />

padre-torsio@libero.it<br />

grignoter 85


2666 di Roberto Bolaño<br />

86<br />

Eugenio Santangelo<br />

Direi che l’autore de I detective selvaggi vede il mondo come <strong>un</strong> complicato sistema di relazioni, che è prodotto a<br />

sua volta di molteplici sistemi interrelazionati. Vale a dire che vede il mondo in <strong>un</strong> modo più o meno simile a –<br />

per citare <strong>un</strong> grande scrittore che di sicuro Bolaño ammira – come lo vedeva Carlo Emilio Gadda. [...] L’artista<br />

della molteplicità che è Bolaño sa che l’<strong>un</strong>ica cosa che può fare l’individuo per<br />

assimilare il caos che lo avvolge e che riflette la sua natura consiste nell’aprire bene<br />

gli occhi e cercare di registrare tutto per poi tentare di ordinarlo. (E. Vila-Matas,<br />

Bolaño en la distancia)<br />

Sul “secondo grado” nell’opera di Roberto Bolaño si potrebbero<br />

scrivere diverse monografie. Stesso discorso se riduciamo il campo<br />

a 2666. Anzi, potremmo dire che tutte le operazioni di secondo<br />

grado che questo numero di “Tabard” ha cercato di sviscerare costituiscono<br />

il fondamento della scrittura dell’autore latinoamericano<br />

(come lui si definiva, né cileno, né messicano, né spagnolo, ma latinoamericano,<br />

come i suoi detectives). Citazionismi, parodie, riscritture,<br />

intertestualità, plurilinguismi incerti e esplicitamente manipolati<br />

(non certo filologici), contaminazioni ecc. E basterebbe rimanere<br />

“dentro” la sua vastissima produzione per studiarne rimandi interni,<br />

proliferazione di racconti, ritorni di personaggi, temi, motivi minimi,<br />

ri-sviluppati, ri-scritti e re-indagati da <strong>un</strong>’opera all’altra, riaprendo<br />

e riconfigurando le relazioni, come in «<strong>un</strong>a specie di aleph» borgesiano<br />

«inesauribile», con <strong>un</strong>a «struttura che tende all’infinito» (così,<br />

rispettivamente, E. E. Gandolfo e, ancora, Vila-Matas). È <strong>un</strong>’opera<br />

che andrebbe considerata nella sua totalità. Eppure, nonostante<br />

Juva, 2007<br />

ciò, ogni suo “episodio conchiuso”, pur lasciando indizi del suo<br />

esser passibile di <strong>un</strong>a ri-apertura e reinterpretazione – in primis ad<br />

opera del suo stesso autore – è dotato di <strong>un</strong>a particolare autonomia derivante dalla centralità<br />

conferita da Bolaño alla micronarrazione (come microsistema, per l’app<strong>un</strong>to).<br />

Dopo la traduzione e la pubblicazione di quasi tutta la sua opera da parte di Sellerio,<br />

Adelphi edita tre delle cinque parti (433 pagine, solo poco più di <strong>un</strong> terzo) che compongono<br />

l’immenso ultimo romanzo, uscito postumo nel 2004. 2666 non è <strong>un</strong> libro che si possa leggere<br />

a p<strong>un</strong>tate, nell’abisso centrale verso cui tendono tutte le storie (“La parte de los crímenes”) i<br />

lettori italiani potranno scivolarci solo fra <strong>un</strong> anno, quando uscirà il secondo tomo dell’opera.<br />

Non si capisce il senso di quest’operazione – a mio parere nemmeno da <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to di vista commerciale,<br />

ma ammetto che non è il mio campo – da parte dell’editore milanese, che oltretutto<br />

ha ricevuto contributi dalla Dirección General del Libro, Archivios y Bibliotecas del Ministero de<br />

Cultura de España, per la stampa del libro. Ma tant’è, accontentiamoci e veniamo al d<strong>un</strong>que.<br />

Risulta chiaro, date le premesse, che anche solo descrivere la trama o elencare i temi del<br />

romanzo in così poco spazio sarebbe impossibile. Allora giriamo intorno a <strong>un</strong> verbo: investigare.<br />

Bolaño utilizza sempre, gioca, parodia, rielabora il genere poliziesco. Nella maggior parte<br />

dei casi i suoi personaggi cercano qualc<strong>un</strong>o o qualcosa. Ricerca e investigazione. Aggi<strong>un</strong>giamo<br />

la parola labirinto (è chiarissima l’influenza di Borges). Il più delle volte, però, il lettore è


marzo ’08<br />

depistato. È condotto a cercare <strong>un</strong> oggetto, ma il romanzo alla fine gli dice che quell’oggetto<br />

(pericolosamente assolutizzato) non è così importante, non esiste, anzi è assente, l’importante<br />

è l’investigazione, la ricerca, le storie. Ecco allora la prima parte del romanzo: quattro critici<br />

letterari investigano e interpretano l’opera di <strong>un</strong>o scrittore tedesco desaparecido – candidato,<br />

tra le altre cose, al Nobel – di cui non esiste traccia se non nei suoi libri. Eppure insistono nel<br />

cercarlo, nel voler investigare anche la biografia, di Benno Von Archimboldi, nel voler trovare<br />

attestazioni di presenza. In continuità con I detective selvaggi: allegoria dell’assenza del soggetto,<br />

parodia della sua ricerca. È solo nella ricerca e nella narrazione della ricerca che il soggetto<br />

può raggrumarsi contingentemente: non nell’oggetto della ricerca. Tabard: «il fine della<br />

ricerca è la ricerca stessa». E così il narratore – sempre in <strong>un</strong>a terza, strana, persona (e alla fine<br />

del romanzo si potrebbe, forse,<br />

ipotizzare <strong>un</strong>a sua identificazione)<br />

– li manda (tre di loro)<br />

sulle tracce labili di Archimboldi,<br />

li invia nel nord del Messico,<br />

al confine con gli USA, a Santa<br />

Teresa. Qui, ovviamente, non<br />

troveranno nemmeno tracce,<br />

di Archimboldi, affonderanno<br />

semplicemente in <strong>un</strong> Messico<br />

estremizzato e frontierizzato,<br />

s’ubriacheranno, conosceranno<br />

personaggi ambigui, a volte<br />

fantasmatici, onirici, s’innamoreranno<br />

d’<strong>un</strong>a indigena<br />

venditrice d’artigianato locale,<br />

perderanno se stessi nell’opera<br />

dello scrittore tedesco. Verranno<br />

a sapere, ma lentamente,<br />

che in quella città, Santa Teresa<br />

(alias di Ciudad Juárez, stato di Chihuahua), in soli dieci anni sono state uccise più di 200<br />

donne, senza che si siano ritrovati (e nemmeno ricercati) responsabili, a parte capri espiatori<br />

utilizzati per futili catarsi mediatiche.<br />

La narrazione li abbandona, cessa l’investigazione su di loro, si focalizza su <strong>un</strong> personag-<br />

gio, Amalfitano, già apparsoci nella prima parte. Non è <strong>un</strong> caso che questo professore cileno di<br />

letteratura leghi – narrativamente e tematicamente – le sue origini a Santa Teresa. Fugge dalla<br />

dittatura, vive in Spagna, la moglie lo lascia per andare alla ricerca (ancora <strong>un</strong>a volta) di <strong>un</strong><br />

poeta chiuso in <strong>un</strong> manicomio, finisce insieme a sua figlia a Santa Teresa. 2666 è <strong>un</strong> romanzo<br />

sul male, ne indaga e mette in relazione differenti manifestazioni storiche e psicologiche (“La<br />

parte di Archimboldi” andrà ancora più indietro, alle “origini” del secolo breve). Dalla dittatura<br />

cilena, centrale per la “formazione” di Bolaño, Amalfitano sfiora la follia nella città dell’orrore<br />

umano sistematicamente “permesso” e non indagato, slegato in maniera mistificatoria<br />

dai complessi sistemi acquiescenti che ne sono i colpevoli, atomizzato in <strong>un</strong> nonsenso che è<br />

l’assenza di relazioni. Amalfitano finisce alla fine del suo «viaggio» in <strong>un</strong>’«oasi di orrore» (cfr.<br />

l’epigrafe baudelairiana del romanzo). Ne “La parte di Fate” ci immergiamo ancora <strong>un</strong> poco<br />

più a fondo in <strong>un</strong> tale abisso, attraverso il filtro di <strong>un</strong> giornalista stat<strong>un</strong>itense nero che viene<br />

inviato nella città messicana per scrivere la cronaca di <strong>un</strong> incontro di boxe ma che l’“istinto<br />

investigante” porterà inevitabilmente verso “la parte dei crimini”. La paura è <strong>un</strong> altro centro<br />

grignoter 87<br />

Juva, 2007


generatore del romanzo. Durante la scrittura, Bolaño intrattenne <strong>un</strong>o scambio epistolare con<br />

Sergio Gonzáles Rodríguez, poi autore di Ossa nel deserto (Adelphi, 2006), agghiacciante<br />

libro-inchiesta sul ginocidio di Cd Juárez. Investigare su queste vicende in Messico risulta<br />

estremamente pericoloso, molti giornalisti sono stati uccisi, lo stesso Gonzáles Rodríguez ha<br />

subito attentati e minacce. Bolaño lo trasformerà in <strong>un</strong> personaggio del romanzo, e scriverà:<br />

«Ossa nel deserto non è solo <strong>un</strong>a fotografia del male e della corruzione in Messico, ma anche<br />

<strong>un</strong>a metafora dell’incerto futuro di tutto il Latinoamerica». Fate sparirà dalla narrazione alla<br />

fine di questo tomo incompleto e della parte a lui dedicata: lo lasciamo di fronte all’immagine<br />

mitologica del «gigante» accusato degli omicidi (ironicamente innocente) che il giornalista va a<br />

intervistare in carcere. Ma la sua figura sarà quasi “continuata” dal personaggio Sergio Gonzáles<br />

nella parte più tremendamente geniale del<br />

romanzo, da <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to di vista narrativo. Ma<br />

ancora non è possibile leggerla in italiano. Per<br />

cui ve ne parlerò <strong>un</strong>’altra volta.<br />

Mi piacerebbe concludere questa misera<br />

recensione, citando il tabardiano Achille<br />

Castaldo, che sul blog della rivista, e non<br />

solo, m’aveva in-citato a scrivere ciò che mi<br />

appresto a chiudere: «resta l’aver stanato il<br />

mostro, aver costretto l’occhio che scavalca il<br />

torrente dei caratteri a posare sui corpi inermi<br />

delle donne assassinate e abbandonate nel<br />

deserto. Aver costretto il lettore a fermarsi in<br />

<strong>un</strong>a assurda città di frontiera, ormai definitiva<br />

Juva, 2007<br />

88<br />

città dell’uomo consacrata al vuoto che la<br />

circonda; dove non è possibile fidarsi di alc<strong>un</strong><br />

essere umano; soprattutto non di se stessi, né delle “voci”: “così tutto ci tradisce, compresa la<br />

curiosità e l’onestà e quello che abbiamo molto amato. Sì, disse la voce, ma consolati, in fondo<br />

è divertente”».<br />

Resta il valore della narrazione come possibilità proliferante di ricerca, di critica, d’investigazione<br />

della molteplicità, e dell’orrore – che è orrore proprio perché «isola» le relazioni, le<br />

interrompe, violentemente. Bolaño, come i suoi detective selvaggi, fa parte di quella «tribù che<br />

non cessa di indagare, di investigare, di riferire tutte le storie».<br />

«¿Tú te ocuparás de todo?», verrà detto a pagina 1116 ad Archimboldi: si occuperà di tutto lui?<br />

eugenio.santangelo@gmail.com


marzo ’08<br />

L’accademia Pessoa di Errico Buonanno<br />

Giuro sul mio onore che ciò che segue è la pura verità:<br />

Mimmo Cangiano<br />

Renzo Tramaglino e il signor K. sono in realtà la stessa persona, Pinocchio è il seguito de I promessi<br />

sposi, monsieur Flaubert non ha mai scritto <strong>un</strong>a riga in vita sua, “Manzoni” è <strong>un</strong> multiple<br />

name utilizzato da <strong>un</strong> gruppo di sfaccendati scrittori sudamericani, «<strong>un</strong>a peste si aggira per<br />

l’Europa» e qui l’opera è aperta, troppo aperta.<br />

Vorticoso giallo letterario giocato sul filo del plagio, L’accademia Pessoa è <strong>un</strong> mosaico<br />

bizantineggiante e splendente in cui si incastonano alla perfezione i coralli della disperazione.<br />

Il romano Buonanno lo sa, lo scrive: «non esistono fatti, solo interpretazioni» (p. 71).<br />

Hamete Benengeli, nano con il vizio di rileggere Musil, ritrova, accanto al corpo senza<br />

vita del suo maestro Alonso Novarro, la traduzione del trentanovesimo capitolo del romanzo<br />

manzoniano e <strong>un</strong> biglietto che recita (subdolamente) «Remember me» (p. 13). Comincia allora<br />

per lui e la sua compagna Emma (ritratto di donna per cui si potrebbero fare il nome di Sibilla<br />

Aleramo, se <strong>un</strong>a parrucca di agnello d’Astrakan non venisse a complicare le cose) <strong>un</strong> vorticoso<br />

viaggio alla ricerca di <strong>un</strong>a risposta (qui <strong>un</strong> ciellino parlerebbe, e a ragione, di “ricerca del senso”,<br />

rafforzato nella sua interpretazione dalle parole che il giallista Giuseppe Solina, nemesi<br />

del Benengeli, pron<strong>un</strong>cia in p<strong>un</strong>to di morte: «e sì dissi sì voglio Sì»).<br />

Esperto di «quel ramo» della letteratura che Borges e Perec ha per vivide stelle,<br />

il labirinto del torinese Buonanno guarda ad <strong>un</strong>a tradizione ironica e giocosa, certosina e<br />

senile, pronta, nella sua sfrontatezza giovanile, a preferire la vita alla coscienza. Educazione<br />

sentimentale di qualsiasi lettore, questo l<strong>un</strong>go poema, ricco di illusioni perdute ma sempre<br />

pronto a rovesciarsi in spietata (e a tratti demoniaca) critica a qualsiasi crepuscolo degli idoli,<br />

si riveste nel finale, nella partita a carte a <strong>un</strong> tavolo di osteria, di <strong>un</strong>o spietato attacco rivolto a<br />

tutti gli idioti che passano la loro vita chini sui libri. E il fuoco che nell’ultima pagina avvolge il<br />

libro sul comico della Poetica di Aristotele sta lì come <strong>un</strong> totem, le parole sono inutili, bisogna<br />

tacere: il resto è tabù.<br />

Storia triste ma assetata di riscatto, romanzo corsaro e saturo che racchiude in 120<br />

giornate le vite di dieci piccoli uomini, vite pendolari, mesi – chissà quanti – di solitudine, giornate<br />

plumbee, senza allegria, perse nel naufragio del tempo. Romanzo dalla morale incerta,<br />

forse affidata al piccolo Malvolio, rabelaisiano figlio del Benengeli, che nel capitolo centrale<br />

dell’opera, alzando lo sguardo al tramonto della l<strong>un</strong>a, pron<strong>un</strong>cia con coraggio la sua ambigua<br />

etica negativa: «galleggiamo tutti in quest’opera, come in <strong>un</strong> mattino a figure nere» (p.100).<br />

Non sappiamo se questo settimo romanzo del norvegese Buonanno avrà successo, forse<br />

non lo capiranno, forse è troppo puro, troppo slegato dai volgari bisogni della quotidianità<br />

(al di là del seme e del pane), troppo rampante per questi giorni che hanno perso l’incanto e<br />

hanno smesso di lottare… se non per lottizzare.<br />

E chiude alla grande: «Buonanno è contro Buonanno» (p. 195)<br />

mimmo.cangiano@libero.it<br />

grignoter 89


90<br />

“le opere di Shakespeare non furono scritte da lui ma da <strong>un</strong>a<br />

persona che aveva lo stesso nome”<br />

(Anonimo)<br />

Juva, 2007<br />

(La verità è il festino per cui siamo fatti)


Astuto il flamengo nasconde<br />

il capo sotto l’ala e crede che il cacciatore<br />

non lo veda<br />

Eugenio Montale, Satura

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