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Sommario
Editoriale 3
marzo ’08
Gnommeri
La filosofia a n-dimensioni: linguaggi e metalinguaggi 4
Francesco Frisari
Pensiero, parola, assenza, morte.
Note al margine di Sopra-vivere e Glas 9
Achille Castaldo
Tabard intervista Franco Buffoni 14
Opera Galleggiante
Pascoli rosso sangue 20
Alessandro Vicenzi
Seduto sulla mia veranda col fucile in grembo 23
Ivano Bariani
Il re del mondo 27
Gianluca Morozzi
Il diavoletto di Maxwell
zákaz tlumocení– Translating Prohibited 32
Daria Biagi e Valentina Fulginiti
Tabard intervista Kadhim Jihad Hassan 38
I traduttori, i traditori e gli amanti di Fernanda, la principessa 43
Lorenzo Mari
A rovesciare le fiabe: Wilde sovvertitore di Andersen 48
Matilde Montesi
La letteratura italiana in Cina: il caso di Dario Fo 51
Francesca Bavecchi
Una vigile incertezza: il secondo grado della critica 56
Mimmo Cangiano
Quarantena
Tabard incontra Carmine De Falco e Luigi Nacci 58
Senza fissa dimora
L’intera storia del genere umano non è che il 15% del tragitto per Alpha Centauri.
Appunti sparsi sui documentari inventati di Werner Herzog 64
Paolo De Guidi
Entre paréntesis. L’esperienza rivoltante dell’altro (ancora una volta) 67
Eugenio Santangelo
Circolare periferica
Terra e libertà 71
Marco Madonia
Giacobbo colpisce ancora.
Dal Chupacabras alle piramidi passando per il rogo dei templari 74
Paolo Cova
Officina del nulla
La galleria Parmeggiani di Reggio Emilia e i falsi nell’Ottocento 77
Ilaria Negretti
Grignoter
Vincenzo Rabito, Terra matta 82
Stefano Rosignoli
2666 di Roberto Bolaño 84
Eugenio Santangelo
L’accademia Pessoa di Errico Buonanno 87
Mimmo Cangiano
Editoriale
marzo ’08
e ne lo specchio ancor l’ombra dell’ombra
G.B. Marino
Ironico rovesciamento del “conosci te stesso”, storia di un’individuazione impossibile, la vicenda
mitologica di Eco e Narciso si gioca sul filo invisibile che lega i regni avversi della ripetizione
e della metamorfosi, del fisso e del volatile, di Thanatos e di Eros.
L’iterazione (della voce e dell’immagine) costringono la ninfa e il
giovane in una necrosi identitaria, la coazione a ripetere che li domina
li segrega in un regno Ideale e Vero dove tutto è dato e lo spazio
per l’ambiguo è uguale a zero.
È nell’atto di conoscersi che Narciso incontra Thanatos. Nell’atto
di ingresso nella dimensione dell’essere raggiunge la fusione con il
proprio Sé e cade fra le braccia della morte. Quando si avverte come
ripetizione, quando arriva a dire “Io” allo specchio, quello non può
che restituirgli l’immagine di un uomo morto. Ma il mito non finisce,
non esiste ripetizione che non sia anche cambiamento: dal cadavere
di Narciso nasce un fiore.
Fare un numero di Tabard sul secondo grado doveva inevitabilmente
portarci davanti allo specchio: tecniche di riscrittura, traduzione,
parodia, travestimento, riflessioni sul significato metodologico delle
teorie (sempre specchi in cui si cerca di far stare, un po’ pigiata, la
realtà). Un numero sul secondo grado diventa, suo malgrado, un
Enrico Panosetti, 2006
numero sui molteplici gradi possibili e, per riflesso, un numero sulla
moltiplicazione, dunque sul labirinto (anch’esso di specchi, si capisce).
Sarà poi implicitamente un numero sul valore della ricezione, sul valore della lettura, perché
è forse, come ha scritto recentemente Ezio Raimondi, proprio nella lettura che si compie
l’esperienza decisiva dell’apertura all’Altro. Un’esperienza di secondo grado che si dà già in
partenza come conoscenza approssimativa, mobile, in cui bisogna sempre essere in grado di
rigettare il peso della propria visione per entrare in relazione con la pagina, approdando alla
fine a un testo che non è più quello dell’autore ma scoprendo, al contempo, che anche i nostri
occhi non sono più quelli di prima.
E allora sarà anche un numero sul movimento, sul beneficio della ripresa di quanto è già
stato detto e fatto. Una ripresa che esclude da subito la valenza-violenza originaria dell’opera
o della teoria in questione al fine di mutarla, ritoccarla, menomarla, variarla, piegarla a nuove
idee per vedere se ha ancora qualcosa da dirci. Ma esiste davvero qualcosa che non ha più
niente da dirci? Provate a leggere La teologia mistica di Jean Gerson alla luce dell’empirismo
logico di Viktor Kraft.
E sarà poi un numero contro: contro le pretese identitarie (delle opere e degli uomini), contro
l’atteggiamento un po’ parruccone delle idee che si vogliono compiute in se stesse, contro
le tentazioni immobilistiche che ci marcano da presso.
Quante cose per un numero solo! Forse troppe: sarà allora il caso di fare un secondo numero.
Ma l’abbiamo già fatto.
5
La filosofia a n-dimensioni: linguaggi e metalinguaggi
6
Francesco Frisari
Ahimé, ch’io squadro il mio parlare come un folle
William Shakespeare, Tito Andronico
La filosofia è la polifonia di una sola voce
Nicolás Gómez Dávila, Tra poche parole
La filosofia è una cosa strana, ma proprio strana; dopo averci giurato che si occupava dello
Spirito e delle sue categorie, dell’esistenza del mondo e un poco anche dell’anima – ché tanto
Dio ormai era quasi sicuro che ci fosse – della res cogitans che è puro pensiero, dell’Assoluto,
dell’Iperuranio, della nostra mortalità comprovata sillogisticamente e del nostro non avere
penne pur stando su due piedi(?), della verità, del fondamento sfondato (ma da chi?), dell’essere.
Dopo che nel secolo appena trascorso, e che straborda fino ad oggi, questa pluralità
varia e multiforme si è andata affermando in contemporanea, non più solo come posizioni
opposte fra cui necessariamente scegliere ma come ricchezza della filosofia molteplice e
plurale. Dopo la deflagrante esplosione accademica della letteratura secondaria, degli atteggiamenti
secondari, di saggi/articoli/convegni non solo di filosofia ma sulla filosofia, sui vari
autori della sua lunga storia così come sui moderni, con conseguente elevazione a potenza
della suddetta molteplicità nonché considerevole aumento di strati del gioco, che negli ultimi
tempi è sempre più un parlare di ciò di cui parla la filosofia, gioco interpretativo della (genitivo
oggettivo) filosofia che nell’ermeneutica di Gadamer & Co è stato addirittura individuato come
l’unica o quasi filosofia. Dopo insomma che con distacco urbano – ché la filosofia è un fatto di
agorà – e compiaciuto ci eravamo abituati a questo caos, all’incomponibilità di questa strana
cosa (ambito di ricerca? disciplina? insieme di testi?) che letteralmente vuol dire “amore per
il sapere” ma che provare a definire univocamente mette in crisi anche i migliori, dopo tutto
questo, nell’ultimo centinaio di anni visti in prospettiva è emersa un’idea almeno possibile di
unità, seppur parziale e da ridefinire ogni volta che la si adopera.
Un’unità di condizione e modo, un’unità trascendentale – per dirla con Kant che non per
caso è il padre della filosofia moderna – accomunante i vari giochi filosofici, ché la filosofia,
seppur davvero parlasse dell’Assoluto, non è assoluta a sua volta ma come tutte le varie imprese
umane rientra nel territorio del condizionato. E questa condizione, questo sostrato condiviso,
questa possibile unità è la centralità del linguaggio, non solo come oggetto d’interesse
della filosofia, che altrimenti da “specchio della natura” diverrebbe con semplice sostituzione
“specchio della parola” e poco cambierebbe, né come solo suo metodo, anche perché non
sarebbe affatto un criterio distintivo per essa dato che tutte le discipline conoscitive umane,
scienze comprese, lavorano linguisticamente, ma piuttosto come intersezione di queste due
modalità, il linguaggio sub specie di strumento e oggetto dell’indagine filosofica.
Nel ’900 la filosofia non si è dunque tramutata tutta in filosofia del linguaggio – che pure si è
giustamente diffusa e affermata come centrale – non si è messa semplicemente a sezionare
parole. Più che altro si è iniziato a porre da più parti una centrale attenzione al fatto che le
questioni etiche, estetiche, perfino quelle metafisiche a prima vista irriducibili ad altro se non
a se stesse, sono questioni di analisi linguistico-concettuale. Il “bene”, il “bello”, la “verità”
sono concetti, entità linguistiche, quindi non il puro pensiero o lo “Spirito”, ma il linguaggio
marzo ’08
è la materia di cui sono fatti i sogni dei filosofi. Anzi son sempre stati fatti di questo tessuto
di concetti e parole perché questa “svolta linguistica”, come la chiamò il filosofo statunitense
Richard Rorty, come molte svolte filosofiche è, anche e soprattutto, una rilettura della storia
della filosofia stessa.
Questa tendenza panglossista, che visto il secolo di orrori in cui è nata non si è accompagnata
ai vecchi ottimismi, è presente nei più vari schieramenti, ha dato vita a diverse e distanti posizioni
e si è inserita in altre già presenti, insomma non si sono perse tutte le vecchie categorie:
in ambito anglosassone dove ci si richiama al logico Frege, a Russel ed a Wittgenstein, e il tutto
è improntato a un’analisi rigorosa e su basi strettamente logiche del linguaggio, ebbene non
mancano hegeliani o platonisti a loro modo, e anche in molta
filosofia del continente, dove invece i riferimenti principali in
merito al linguaggio sono stati la linguistica di Ferdinand de
Saussure, la psicanalisi e lo stesso Wittgenstein, gli approdi
quali lo strutturalismo, il post-strutturalismo o ancor di più
l’ermeneutica rimangono intimamente legati alla tradizione
filosofica.
Visto allora che le vicende filosofiche non sembrano poi così
mutate potrà forse sembrare eccessivo definire tutto ciò una
“svolta” e per di più unitaria ed esplicatrice di cosa possa
essere la filosofia; d’altronde sottolineare la centralità del
linguaggio nell’esperienza umana e nella riflessione filosofica
sembra infatti null’altro che evidenziare l’intrinseca mediazione
con cui percepiamo la realtà, tema ricorrente della modernità
filosofica, anzi della modernità in genere, prospettive
già acquisite, eppure non credo sia inutile comprendere e
analizzare dal di dentro le lenti attraverso cui ci si guarda attorno,
attraverso cui si sostanzia il reale e che non si possono
smettere di indossare, soprattutto poiché queste lenti hanno
una struttura, una grammatica profonda e una determinante
logica che molto possono dirci al nostro riguardo; credo poi
Enrico Panosetti, 2006
che l’emergere esplicito e consapevole del legame fra linguaggio e filosofia stessa, così come
proverò fra poco a tracciarlo, introduca delle novità. Certo, in alcuni casi è legittimo, come tra
gli altri fece Guattari, sostenere che la “svolta linguistica” non sia altro che la sopravvalutazione
da parte dei filosofi “teste pensanti” delle loro pratiche discorsive, trascurando le esperienze
non strettamente linguistiche o pre-linguistiche che ci costituiscono come essere umani.
Ciò nondimeno se ci interessa la comprensione – più che una forma di sapere determinato e
logocentrico – anche di queste esperienze in cui la concettualità si va determinando (ad esempio
le esperienze estetiche), sono sempre le care e vecchie parole tutto ciò di cui disponiamo,
almeno come traccia del loro stesso fallimento, del loro non cogliere ogni grana dell’esperienza
umana, che però proprio quando le soverchia non può che stimolarle e far scaturire pensiero
e linguaggio: l’affermazione “è bello” o affini, nella sua manifesta incapacità di esprimere
alcunché di preciso, di esaurire un’esperienza, non è infatti un’epigrafe tombale delle parole
stesse, anzi è il prodromo di un discorso possibile che vive della sua consapevolezza di non
poter mai raggiungere il suo oggetto, di svolgersi sempre in assenza di ciò di cui parla, come
d’altronde avviene per il linguaggio tutto, solo (e non è certo di poco conto) che in questi casi
ciò diventa chiaramente visibile e centrale. Insomma la “svolta linguistica” ha sicuramente in
gnommeri 7
sé dei rischi connaturati alle vecchie tentazioni da “scienza prima” logocentrica, d’altronde se
tutto è linguaggio e la filosofia è la regina del linguaggio potrebbe surrettiziamente di nuovo
ritrovarsi alla vetta della catena alimentare delle scienze (un discorso simile mi pare induca in
tentazione la semiologia). Rischi evitabili però riscoprendo l’ordinarietà dei limiti del linguaggio
(i nostri limiti), e anche i suoi possibili fallimenti, che si presentano proprio in questo processo
di “autocoscienza”, di consapevolezza di sé da parte della filosofia, che la novecentesca
esplicita tematizzazione del linguaggio come sua modalità e luogo ha messo in moto.
La “svolta linguistica” prima facie sembrerebbe difatti formare un’immagine della filosofia
come una sorta di iper-metalinguaggio, un onnipotente logos senza limiti che squadra dall’alto
il linguaggio comune, ordinario, così come quello
scientifico, capace essa sola di controllare e governare
il tutto. Essa diverrebbe così “specchio del linguaggio”,
versione semanticamente corretta della tradizionale
idea della filosofia “specchio della realtà” e quindi
scienza prima. Eppure, sebbene fuorviante, questa
immagine della filosofia contiene in sé l’idea fondamentale
che nel gioco filosofico ci sia un distacco, una
presa di distanza (una filia della sofia) che riguarda il
sapere, il suo venir sempre dopo qualcos’altro, la sua
secondarietà potrei direi se poi non volessi mettere
in questione la filosofia come “discorso secondario”;
una distanza che possiamo chiarire se pensiamo alla
nascita della filosofia così come la traccia Emilio Garroni,
secondo cui essa nascerebbe con Socrate, «con
l’interrogazione [...] con la messa in crisi del sapere
già-costituito», da «quella sorta di sospetto viscerale
per il già-saputo ed il già-costituito» che è possibile
ritrovare proprio nello stesso Wittgenstein, che «a
differenza della linguistica moderna, non assume, per
spiegare il funzionamento del linguaggio, il già-costituito,
e il già-saputo, ma intende semmai spiegare
ciò che solo in seguito diventerà già-saputo», non a
Enrico Panosetti, 2006
8
caso le «opere che seguono il Tractatus, anche quella
destinata alla stampa (le Ricerche Filosofiche), sono
redatte in forma, come dire, intradialogica e sono ossessivamente intessute di interrogazioni.
[...] è l’interrogazione che apre al sapere, o almeno al comprendere, e non viceversa». 1
Garroni ci conduce dunque alla condizione stessa del domandare come centro del pensiero
filosofico, una domanda sempre sullo sfondo di un qualcosa d’altro, di altre possibili domande,
una meta-domanda che è appunto una messa-in-questione del già-pensato, e non un’ipostatizzazione
di alcuno dei due livelli linguistici, del già saputo o del domandare, come invece
avviene in ambito linguistico nell’ermeneutica (la tradizione) o nelle scienze cognitive. Il concentrarci
sul domandare, sul dialogo –che come in Wittgenstein a volte può essere solo interno
– ci permette così di capire il senso della presa di distanza filosofica, il suo essere una messain-crisi
e quindi critica del sapere e del linguaggio in quanto già formati, ma dal loro interno:
la domanda socratica, così come l’affrontare ed esaminare il nostro “linguaggio ordinario” da
parte di Wittgenstein, non sono mosse del gioco che provano a tirarsi fuori da esso, né si di-
marzo ’08
sconoscono come parte di un linguaggio o di una comunità per iscriversi ad un’altra più nobile
ed elevata (quella dei filosofi), più che altro cercano la possibilità della distanza (che è sempre
una relazione) rimanendo nei limiti dell’esperienza umana, in contatto interrogativo e dialogico
con essa, cercano quindi il metalinguaggio che è già nel linguaggio. Scrive infatti Garroni:
il metalinguaggio, in questa sua accezione larga, anche se non in senso logico ma come capacità metalinguistica
riflessiva, è responsabile dell’indefinita produttività del linguaggio verbale, di ciò che i linguisti chiamano onniformatività,
vale a dire: della sua capacità di formare o dire qualsiasi esperienza o tratto d’esperienza, e quindi della
sua caratteristica creatività, costruttività ed innovatività. [...] Si ha un linguaggio nel senso delle lingue umane
se e solo se è presente una vera propria capacità metalinguistica. 2
Il linguaggio umano stesso è dunque metalinguaggio e linguaggio,
intreccio di livelli, circolarità paradossale – il linguaggio presuppone
una possibilità di metalinguaggio, che però a sua volta presuppone
un linguaggio – chiaramente evidente non solo nella creatività
produttiva e comprensiva dei giochi linguistici ma ancor di più
nei casi di insegnamento. Quando insegniamo qualche termine
ai bambini, o chiarifichiamo il significato di uno già acquisito, noi
parliamo delle parole, le esaminiamo, possibilità appunto ordinaria
e centrale di tutte le nostre lingue naturali; a volte invece facciamo
comparire il mondo, la realtà, come una sorta di linguaggio-oggetto,
attraverso dei termini indicali (“questo”, “quello”), elementi
intenzionali diretti verso il mondo che nondimeno compare qui solo
sottoforma di parole, ed il linguaggio dunque, il nostro parlare di
ciò, prende le forme del metalinguaggio. Tutto questo avviene comunemente
senza introdurre particolari operatori o segni distintivi,
come avviene in logica formale, per permettere di distinguere tra
linguaggio-oggetto e metalinguaggio, ma sebbene i bambini – così
come gli adulti – non siano forse così consapevoli di quanti piani e
dimensioni siano qui coinvolte, non hanno però problemi in merito
perché è proprio questo il venire introdotti al gioco del linguaggio.
Ed allora l’immagine della filosofia come “specchio del linguaggio”,
Enrico Panosetti, 2006
dopo aver provato qui a chiarire come possa distanziarsi senza
fuggire da esso, come il suo essere metalinguaggio sia già possibilità del e nel linguaggio, va
rivista. Il linguaggio, senza centro essenziale e formato di vari giochi distinti accomunati da
varie parentele, non è infatti a sua volta uno specchio della realtà né una sua semplice costruzione,
è invece articolato in una pluralità di livelli essenziale (un linguaggio, un soggetto,
incapace di parlare di sé diventa puro meccanismo, senza educazione) che creano un gioco di
specchi complesso ed articolato, dove è il circolo della riflessione e della proiezione più che la
infinita identità del rispecchiamento ad emergere, e la filosofia in questo labirinto speculativo
prova a “guardare attraverso” (concetto di Garroni) i vari fenomeni, a cercarne dall’interno le
condizioni di possibilità per comprendere quanto avviene e quanto potrebbe avvenire (l’oltre è
il suo luogo all’interno del linguaggio), più che per formare un vero e proprio discorso o sapere
in merito.
Ma allora, in conclusione, di che si occupa, di che parla la filosofia? Che vuol dire parlare
dall’interno della “verità”, della “conoscenza”, dell’“appercezione trascendentale”, guardarli
attraverso sia come enti, come pensieri o come concetti? Beh, mi si perdoni la banalità, ma
credo proprio che di noi parli la “favola pitagorica” 3 , platonica o leibniziana che sia, ma che
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soprattutto parli al contempo per noi. Parlare del linguaggio, dei nostri concetti, non è citare
statistiche sugli usi prevalenti di una parola o fare indagini in merito, vuol dire piuttosto
affrontare noi stessi in quanto parlanti, chiederci ciò che diremmo in un dato caso, come
adopereremmo e adoperiamo quel termine, che cosa che conterebbe come corretto lì e proprio
lì e provare così a parlare per noi, fra (intra)dialogo e interrogazione, e quindi per gli altri. Tutto
ciò che abbiamo a disposizione, al termine delle ragione e delle parole, siamo noi stessi, come
soggetti sì ma senza solipsismi di sorta, piuttosto impegnati appunto in giochi proiettivi e di
immaginazione mai specularmente identici o solo auto-riferiti, ché già il linguaggio e l’immagine
mettono in campo un qualcosa d’altro. Noi stessi siamo già dunque linguaggio e metalinguaggio,
soggetto ed intersoggetto, affermazione e consenso possibile, primari e secondari
come la filosofia. Come ha scritto in merito alla filosofia wittgensteiniana, al suo ricorrere al
soggetto come alla comunità, il filosofo statunitense Stanley Cavell:
Se io devo trovare la mia voce devo parlare per gli altri, e consentire agli altri di parlare per me: l’alternativa a
parlare per me stesso in modo rappresentativo (per il consenso di qualcun altro) non è: parlare per me stesso
privatamente. L’alternativa è non avere niente da dire, essere senza voce e neppure essere muti. 4
L’intersezione di cui prima parlavamo fra le due modalità del linguaggio, il suo essere metodo
e oggetto della filosofia, è dunque un’intersezione di piani del soggetto stesso che prende le
distanze da sé ma appunto per parlare di sé e per sé, aprendo così la possibilità del linguaggio,
della domanda e del dialogo, ovvero la possibilità che l’altro – che è già il sé come oggetto
– parli per lui, di lui e con lui di una realtà che diviene dicibile e di cui si possono tracciare
dall’interno i limiti e le sue altre possibilità. Un luogo è un linguaggio si intitolava la acuta e
disarmante postfazione/saggio che Giorgio Manganeli scrisse per Flatlandia (logico e divertito
racconto ottocentesco dell’abate inglese Edwin Abbott, in cui un abitante di un mondo bidimensionale
entra in contatto con quelli a tre o ad una dimensione): ebbene la filosofia stessa è
appunto entrambi, in essa luogo e (meta)linguaggio coincidono, è qualcosa in cui ci possiamo
trovare, ri-trovare e quindi riconoscere – come scrisse sempre Cavell è l’educazione degli adulti,
la capacità di pensare largamente – ma in cui possiamo essere ingabbiati identificandoci
specularmente con essa. Porta infatti con sé gli stessi rischi tirannici di eliminazione dell’alterità
che Manganelli trovava nel linguaggio ed in particolare nel suo continuo ipotetico riferirsi
negativamente ad un altro luogo, ad altri mondi alternativi, perché «ogni linguaggio “sa” che
altri sistemi linguistici sfidano la sua totalità; che infiniti possibili “come se” si pongono come
alternativi, […] sono legati da un conflitto formale, irrisolvibile»; 5 dunque il gioco filosofico solo
se conscio del contatto analogico con l’altro dato dal “come se” e dalla sua apertura immaginativa,
solo se consapevole e compartecipe della «polifonia di una sola voce» (Dávila, dalla
citazione iniziale) del soggetto pensante informalmente contraddittorio e conflittuale, riesce
ad abbracciare i diversi piani di realtà compossibili ed a trovare la propria dimensione.
senonlamail@gmail.com
1 E. Garroni, Senso e Paradosso, Roma-Bari, Laterza, 1995, p.113.
2 Ibidem, pp.96-97, grassetto mio.
3 Per la cronaca, è il titolo di un raccolta di viaggi di Giorgio Manganelli ora pubblicata da Adelphi.
4 S. Cavell, La riscoperta dell’ordinario, Roma, Carocci, 2001, p.74.
5 G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Milano, Adelphi, 2004, p.49.
10
marzo ’08
Pensiero, parola, assenza, morte.
Note al margine di Sopra-vivere e Glas
1. Pensiero
Heidegger:
solo finché la radura [Lichtung, dunque
anche illuminazione] dell’essere avviene
(sich ereignet) l’essere si trasmette (übereignet
sich) all’uomo. Ma che il «ci», la radura
[l’illuminazione] della verità dell’essere
stesso, avvenga, è destinamento (Schickung)
dell’essere stesso.
Achille Castaldo
Hegel sapeva ballare? La domanda è
più oscura di quanto non si creda.
J. Derrida
Blanchot:
Ecco uno dei suoi giochi. Mi mostrava una
porzione di spazio, tra la parte alta della
finestra e il soffitto: «Voi siete là», diceva.
Io guardavo quel punto con intensità. «Ci
siete?» Lo guardavo con tutta la mia forza.
«Ebbene?» Sentivo fremere le cicatrici del
mio sguardo, la mia vista diveniva una
piaga, la mia testa un buco, un toro sventrato.
Subito ella gridava: «Ah, io vedo il
giorno, ah Dio», ecc. Io protestavo perché
questo gioco mi affaticava enormemente,
ma lei era insaziabile della mia gloria.
Nei frammenti che seguono, verranno presi brevemente in esame due testi di Derrida, Sopravivere
e Glas.
Sopra-vivere è incentrato su due enigmatici racconti di Maurice Blanchot, L’Arrêt de Mort (La
sentenza di morte) e La Folie du Jour (La follia del giorno), incrociati con The Triumph of Life,
l’ultimo e incompiuto poema di Shelley. Derrida sdoppia la pagina in un sopra e un sotto,
rendendo così visibile il margine attraverso cui (e in virtù del quale) il testo continuamente
deborda: Diario di bordo è il significativo titolo della sezione inferiore (il testo vive al di sopra
di essa), che affronta problemi relativi alla possibilità e all’impossibilità della traduzione.
Ma prima brevemente L’Arrêt de Mort: si tratta in realtà di un doppio racconto, costituito da
due parti speculari, in misteriosa comunicazione fra loro, eppure apparentemente del tutto
estranee. Nella prima ci troviamo di fronte a un narratore (ma qui, se fosse consentito allargare
il discorso, sarebbe da considerare la distinzione posta da Blanchot tra voce narrante e voce
narrativa) che dice je, che ci racconta una storia avvenuta anni prima: il suo rapporto con una
donna mortalmente malata, J., che egli riporta in vita e poi nuovamente riconduce alla morte.
A seguire, separata da uno spazio bianco che Derrida considera imene, dunque separazione
e insieme comunicazione, la seconda parte, dove je narra il suo rapporto sospeso tra vita e
morte con un’altra donna.
Quello che importa qui, è come venga letta la sospensione che è il vero fulcro di ciò che
accade. Innanzitutto ci troviamo ad affrontare un problema metatestuale. Quello che Derrida
gnommeri 11
sembra leggere in Blanchot è l’impossibilità del testo singolo in quanto tale (problema chiave
anche in Glas). Impossibilità del testo prima che impossibilità del racconto. Impossibilità delle
parole a rendere un significato univoco, che non «si disperda come sabbia», prima ancora
che impossibilità di un Io in grado di ricostruire la sequenza logica di avvenimenti: «Io non ho
paura della verità. Non temo rivelare un segreto. Ma le parole, finora, sono state più deboli e
più astute di quanto avrei voluto. Tale astuzia, lo so, è un avvertimento. Sarebbe più nobile
lasciare in pace la verità». 1 Qualche anno prima, così si era espresso Derrida in Glas: «il problema
che si pone qui è di sapere cosa potrebbe essere un testo uno, se qualcosa del genere
esistesse più ancora di un unicorno». Poiché, quello che davvero avviene, non è nel testo in
quanto sequenza narrata. Il testo singolo non può che rimanere ai margini di ciò che veramente
è in gioco. Derrida sottolinea di continuo
che l’avvenimento decisivo, quello che trasla
l’intero accadere nel sopra, è una Cosa che
resta perennemente fuori: quando il narratore
giunge troppo tardi sul letto di morte di J., e la
richiama in vita, essa ritorna, aprendo gli occhi
su qualcosa che sfugge alla comprensione
linguistica:
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In quel momento le palpebre erano ancora completamente
chiuse. Ma dopo un secondo, forse due, bruscamente
si aprirono, e si aprirono su qualcosa di terribile
di cui non parlerò, sullo sguardo più terribile che un
essere vivente possa ricevere.
2. Parola
Questo inenarrabile è il sopra-vivere. La dimensione
indescrivibile in cui ci trasla la scrittura
di Blanchot. La morte e la vita sono concetti
Enrico Panosetti, 2006
inadeguati a parlarne; Derrida sembra scorgere
in ciò l’impossibilità, per la parola prigioniera
del logocentrismo, di parlare della condizione dell’uomo; la parola non può aver ragione, non
può raccontare l’avvenimento, il manifestarsi della realtà. Così gli occhi di J. tornata in vita
vedono qualcosa che il lettore non può leggere, ma forse solo intuire nel giro vorticoso della
différance: «La Cosa ha luogo senza aver luogo: non luogo del processo, non luogo della “fine”
del processo».
La follia del giorno. Un testo ripiegato più volte su se stesso, dove una voce narrativa prova a
rendere conto della propria impossibilità di creare un racconto. Un uomo che è stato accecato,
e nella cecità ha visto, attraverso gli occhi di una donna, la follia del vedere la visione stessa. E
che, sprofondato in questa follia, giunge a formulare l’impossibilità di raccontare, di costituire
un testo «che sia uno»: «Un racconto? No. Nessun racconto. Mai più». 2
I nuclei di cui Derrida si occupa quando viene all’analisi diretta della Sentenza di morte, sono
propriamente eventi (con tutte le implicazione heideggeriane). Il problema è che in questo accadere,
egli scorge in realtà una sospensione, come se la Cosa, la realtà (l’esperienza) si desse
nel suo celarsi:
marzo ’08
L’arresto s’arresta, ma arrestandosi (come arresto), esso conferisce il movimento. Fa partire, ripartire, venire e
rivenire. Dà la vita, dà la morte. E se le dà in un assenso che “disgraziatamente non è certo”, e fortunatamente non
è certo. L’arresto s’arresta. Si regge ma senza potercela fare, si mantiene (senza mantenersi) su quella linea instabile,
su quel crinale [arête N.d.A] che lo riconduce a sé (l’arrestarsi dell’arresto), senza potersi costituire in riflessione di
sé o in riappropriazione di sé. Nessuna coscienza, nessuna percezione, nessuna vigilanza può riunire e raccogliere
questa “restanza”, nessuna attenzione può renderla presente. E nessun Io.
3. Assenza
Ecco cosa accomuna il poema di Shelley ai racconti di Blanchot. In questa falla del testo, in
questo indecidibile, è esemplificata l’irriducibilità del linguaggio agli schemi del logocentrismo.
In questi punti il testo si piega su se stesso, si invagina. E forse, proprio in questi anelli
che non tengono, può celarsi l’autenticità, l’Eigentlich di ogni individualità (e dunque di ogni
testo nel punto della propria reticenza); in quella ferita di cui parla Jean Genet nel funambolo,
altro paradigma nell’analisi di Derrida: «Mi chiedo dove risieda, dove si celi la ferita segreta
in cui ogni uomo corre a rifugiarsi [...]. Ogni uomo sa come raggiungerla, fino a diventare egli
stesso quella ferita, come un cuore segreto e dolente». 3 «Lo straordinario incomincia nel momento
in cui mi fermo. Ma non sono più padrone di parlarne». 4
Lasciar parlare l’afasia che si manifesta al culmine dell’azione nel testo di Blanchot. Questa è
la vera strategia di Derrida.
“Lasciar parlare l’afasia”, vuol dire attribuire la massima importanza a quei momenti del
racconto in cui qualcosa accade. La Cosa indefinibile, e che propriamente non può mai succedere
come succede qualcosa in una storia, che possa poi magari essere raccontata. L’apparente
contraddittorietà di queste affermazioni, serve a Derrida per porsi in una dimensione in fin
dei conti heideggeriana dell’eventualità, che gli permetta di pensare la reticenza di Blanchot
come l’allusione alla Cosa che «è “terribile” poiché, nel suo stesso “inaccadere”, essa avviene
al “vieni”, nel suo no – nel suo passo – di cosa». In questo senso, egli sta pensando alla cosa
come hypokeimenon, ovvero sostanza che non succede, alla quale avvengono gli accidenti
«ma che, in quanto cosa, non accade». Eppure, è ciò su cui si aprono gli occhi di J. (Shelley:
«So on my sight / Burst a new vision, never seen before»), nel passo già citato della Sentenza.
Lo sguardo che le lascia poi una gaiezza che je non può spiegarsi e di cui dice «è un ricordo
che basterebbe ad uccidere un uomo». Questa eventualità della cosa viene continuamente
spostata da Blanchot nel corso del racconto, così che essa va a identificarsi sia con la visione,
sia con il narratore stesso, che assume a tratti il ruolo della morte. Del resto, quando lo chiamano
al telefono per annunciargli l’agonia di J., gli si dice «venga», e proprio in quell’attimo la
donna «è morta»: non un istante è trascorso (che segnerebbe un accadere in senso tradizionale).
Questi riferimenti si moltiplicheranno poi a dismisura nella seconda parte del racconto,
dove je e l’altra donna, Nathalie, saranno l’un per l’altra ipostasi di questa “morte” in différance,
o meglio di questa sospensione di ogni senso decidibile tra vita e morte; così la fine del
racconto: «e a lei dico eternamente “vieni”, ed eternamente è là.»:
Processo come l’arrêt de mort indecidibile, né la vita né la morte, sopra vivere piuttosto, il processo stesso che
appartiene, senza appartenere, al processo della vita e della morte. Sopravvivere non si oppone a vivere, ma nemmeno
s’identifica con vivere. Il rapporto è diverso, diverso dall’identità, diverso dalla differenza di distinzione,
indeciso, o, in senso rigorosissimo, “vago”, evasivo, svasato, come si direbbe di un bordo.
gnommeri 13
Nella Follia del giorno dunque, il personaggio che dice “io” dopo essere rimasto quasi cieco
per via di pezzi di vetro che qualcuno gli ha lanciato negli occhi (in un altro luogo Derrida non
manca di sottolineare che la traduzione in tedesco di Glas vuol dire proprio vetro, e la cosa non
è senza importanza), fa l’esperienza di vedere la “luce”, la “follia del giorno”, ovvero, come
suggerisce Derrida, «la visione stessa». È questo il senso dell’ “epocalità” di questi racconti di
Blanchot? Un accadere che è visione della visione, la visione della condizione stessa dell’accadere
della cosa che non si lascia definire dal linguaggio? («i romanzi sono nati nel momento in
cui le parole hanno incominciato ad indietreggiare di fronte alla verità» 5 ).
Chi dice “io” si trova, dicevo, dopo l’accecamento, a fare l’esperienza della visione. In realtà
è in compagnia di una misteriosa presenza femminile, in cui Derrida vede lo smarcarsi, per
così dire, dell’idioma stesso; ma ecco come la
scena è descritta da Blanchot:
14
Ecco uno dei suoi giochi. Mi mostrava una porzione di
spazio, tra la parte alta della finestra e il soffitto: «Voi
siete là», diceva. Io guardavo quel punto con intensità.
«Ci siete?» Lo guardavo con tutta la mia forza.
«Ebbene?» Sentivo fremere le cicatrici del mio sguardo,
la mia vista diveniva una piaga, la mia testa un buco,
un toro sventrato. Subito ella gridava: «Ah, io vedo il
giorno, ah Dio», ecc. Io protestavo perché questo gioco
mi affaticava enormemente, ma lei era insaziabile della
mia gloria.
È in questo passaggio che Derrida individua
la chiave per leggere i testi di Blanchot. Anche
il ben più complesso La sentenza di morte, si
può comprendere, nella prospettiva che ne dà
Sopra-vivere, solo alla luce dei pensieri che
Derrida sviluppa a questo proposito; il problema
è che l’evento continua a ripetersi e il
linguaggio non può che tacerne, perché non è
neanche in grado di collocarlo nello spazio e
nel tempo; ad esempio, all’inizio della seconda
metà del racconto, chi dice je addirittura afferma,
pur accingendosi a narrare avvenimenti
passati, che «la verità sarà detta, tutto ciò che
di importante è accaduto sarà detto. Ma non
Enrico Panosetti, 2006
tutto è già accaduto [cors. mio]».
Ecco che l’indecidibilità del sopra- si scopre
essere prima di tutto un’indecidibilità ontologica, oltre che, di necessità, gnoseologica (in
fondo è una possibile definizione della différance):
Secondo una vecchia e onnipotente logica che vige da Platone in avanti, ciò che assicura la vista dovrebbe
restare invisibile: nero, accecante. [...] Passando da vita a visione, da life a light, si può parlare di sopra-vivenza
come di sur-visione. Vedere la vista o la visione o la visibilità, vedere al di là del visibile, non significa solo, nel
senso corrente della parola, avere una visione, ma sopra-vedere, vedere-sopra-vedere. [...] Vedere la visione,
sopra-vedere, follia abissale di una scena assolutamente primitiva, scena della scena: tutto ciò viene simulato e
marzo ’08
dissimulato nel racconto – nella sua forma rassicurante, per chi vuole rassicurarsi, di spettacoli circoscritti, di
“visioni” o di “scene” che vengono in qualche modo ad allegorizzare l’abîme e a contenere la follia. La parola
visione, poi, è sufficientemente equivoca da permettere quest’economia.
4. Morte
L’impegno di Glas è occuparsi degli scarti, di ciò che resta fuori. Da qui, suppongo, la decisione
di occuparsi di Hegel, e della formulazione più inclusiva mai tentata del sapere filosofico. Il Sapere
Assoluto è il movimento dello spirito che nel suo avanzamento (Aufhebung), deve lasciar
riposare in sé anche ciò che ha incontrato come negativo, dunque, tutto il reale.
Derrida fa scricchiolare questa idea già con la veste grafica che dà al libro, due colonne opposte,
scalfite da numerosi inserti, o “tatuaggi”, dove il commento e la divagazione apparente
hanno libero gioco. Ecco dunque, che già sulla pagina, ci troviamo di fronte questi “resti”.
C’è poi da interrogarsi sul senso dell’espressione “campana a morto”, glas. Probabilmente
la campana suona per un’indecidibile (ancora una volta) quantità di cose o concetti. Di sicuro
per il senso come presenza, e dunque, come si è già compreso riguardo a Sopra-vivere, per la
possibilità del testo, del racconto, inteso come organismo conchiuso e autonomo.
Forse, per concludere questo breve discorso, è necessario citare una citazione che salta fuori
da Glas quasi per caso. A proposito di Genet, della sua vita, del significato del Funambolo. È
ben nascosta nel testo, eppure ancora riconoscibile. È la libera trasposizione di un frammento
di Eraclito: «Egli sa che si conserva solo quanto si perde. Se stesso. Non si perde solo ciò che
non si conserva, si perde ciò che si conserva». 6
Eraclito si riferisce evidentemente all’illusorietà del mondo reale, all’apparenza che si presenta
ai sensi, che bisogna lasciar perdere, perché l’unica cosa che si può trattenere è ciò che i
sensi non hanno colto, la realtà che sta dietro la fola del mondo. Forse questo enigma, questa
metafora derridiana può essere intesa come l’espressione della necessità di non lasciarsi mai
bloccare dall’apparenza dei testi, dalla superficie delle espressioni e delle parole. E forse non è
una metafora troppo azzardata: l’enigma ricordato da Eraclito viene prima del logos, una traccia
che poi il discorso della metafisica ha inevitabilmente sepolto sotto gli strati del ragionamento
incentrato sulla presenza. E proprio questa traccia, la radice enigmatica che ancora sta
sotto le stratificazioni del linguaggio, è quello che la decostruzione insegue.
achillec@gmail.com
1 M. Blanchot, La sentenza di morte, Milano, SE, 1989, p. 11.
2 M. Blanchot, La follia del giorno, Napoli, Filema, 2000, p. 30.
3 J. Genet, Il funambolo, Milano, Adelphi, 1997, pp. 112-113.
4 M. Blanchot, La sentenza di morte, cit., p. 35.
5 Ibidem, p. 11.
6 Così il frammento di Eraclito nella traduzione di Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Milano, Adelphi,
2006, p. 63: «Rispetto alla conoscenza delle cose manifeste gli uomini vengono ingannati similmente ad Omero,
che fu più sapiente di tutti quanti i Greci. Lo ingannarono infatti quei giovani che avevano schiacciato i pidocchi,
quando gli dissero: “quello che abbiamo visto e preso, lo lasciamo; quello che non abbiamo visto né preso, lo
portiamo” ».
gnommeri 15
Tabard intervista Franco Buffoni
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a cura di M. Cangiano, L. Nuzzo e E. Santangelo
Il 5 dicembre 2007 ha avuto luogo a Bologna, grazie all’organizzazione La bottega dell’elefante, una serata di lettura
dal titolo La soglia sull’altro: i nuovi compiti del traduttore, curata da Maria Luisa Vezzali e già immaginata e
fortemente voluta da Paolo Bollini. In occasione di tale evento abbiamo avuto modo di incontrare e dialogare con
due personalità di spicco nell’ambito della traduttologia, della traduzione e della scrittura poetica: Franco Buffoni
e Kadhim Jihad Hassan. Vi presentiamo nelle prossime pagine le loro voci da noi interpellate, rinnovando loro il
nostro ringraziamento per la disponibilità dimostrataci.
Le rivolgeremo queste domande da non traduttori, e da studiosi che si sono avvicinati solo
da poco alla traduttologia. Ci è parso molto interessante notare come questa confermi
quanto il processo della traduzione sia funzionale alla comprensione di una teoria estetica:
un traduttologo è implicitamente – ma nel suo caso anche esplicitamente – un estetologo. Ci
piacerebbe che ci spiegasse in che modo ha innestato la neofenomenologia italiana all’interno
della traduttologia.
Potremmo partire dagli anni della mia formazione, gli anni ’70. Allora – ero in una situazione
di dottorato e di acquisizione di competenze – anche l’ambito della traduzione letteraria era
totalmente appannaggio dei formalismi primonovecenteschi: strutturalismo, semiotica e,
soprattutto, linguistica teorica. I miei dubbi si incentrarono sul fatto che per la linguistica la
traduzione non può che essere un processo di decodifica e di ricodifica, di decodifica dalla
lingua di partenza e di ricodifica nella lingua d’arrivo. Ovviamente questo meccanismo funziona
molto bene quando si tratta di tradurre un testo di tipo tecnico o un libro giallo di tipo
dozzinale, ma comincia a mostrare qualche crepa quando parliamo di letteratura in senso alto
o, a maggior ragione, di poesia. Non ero per niente soddisfatto da ciò che allora si diceva e si
insegnava riguardo alla traduzione, capivo che mancava un aggancio. Quando poi nel decennio
successivo ci fu l’esplosione steineriana di Dopo Babele, quando Steiner disse che tradurre
significa «rivivere l’atto creativo» che ha informato l’originale – che allora suonò come una
vera e propria provocazione – io capii che lì stava un po’ la soluzione al mio problema. Contemporaneamente
avevo vinto un ricercatorato in anglistica e scrivevo poesia, cercavo quindi un
denominatore comune alle due branche del mio operare: lo trovai nella traduzione e nella riflessione
teorica sulla traduzione. Se l’incontro con la scuola neofenomenologica anceschiana
sul piano teorico era già avvenuto, dalla collaborazione con il primo allievo di Anceschi, Emilio
Mattioli – al quale va il mio più amoroso e grato ricordo perché è scomparso da pochi mesi
– vennero le ricadute pratiche. Fu con lui infatti che impostai il semestrale di teoria e pratica
della traduzione letteraria “Testo a fronte” (ed. Marcos y Marcos), che tuttora dirigo. Tornando
ai punti essenziali: si trattava non di cancellare le grandi eredità formalistiche del 900 – perché
è chiaro che si tratta di un patrimonio prezioso e non possiamo prescindere da esso – ma di coniugarle
con istanze di tipo estetico. Quando nasce una nuova scienza si verifica una confluenza
di competenze da altre scienze, è inevitabile che sia così. E la traduttologia si trova ad avere
due nutrimenti fondamentali: la linguistica teorica e la filosofia estetica: Humboldt e Baumgarten.
Per quanto riguarda la traduzione letteraria nello specifico, io ancorerei la traduttologia a
cinque concetti di fondo, che mi sembrano anche agili da un punto di vista operativo: i concetti
di avantesto, di intertestualità, di ritmo, di movimento del linguaggio nel tempo e di poetica.
Quest’ultimo è quello più anceschiano e su cui ho lavorato con Mattioli per oltre vent’anni.
marzo ’08
Nel saggio che fa d’apertura
al suo libro Con il testo a
fronte (ed. Interlinea 2007),
riprende la riflessione di
Bachtin e si riferisce alla traduzione
come a un rapporto
dialogico tra due opere, un
rapporto che in questo modo
diviene non più «di rango,
ma di tempo»: non solo
l’opera nella lingua d’arrivo è
immessa nel movimento del
linguaggio e nella temporalità
della ricezione ma anche
quella nella lingua di partenza.
Questo incontro-scontro
scava una differenza e quindi
rinnova anche l’opera di
partenza. Ci vuole illustrare
questo processo?
Enrico Panosetti, 2006
Sì, è proprio questo il punto. In quest’operazione, portata avanti con Mattioli, ci siamo avvalsi
di due fondamentali contributi del nostro collega Friedmar Apel, che pubblicò nell’ ’83 Literarische
Übersetzung e nell’ ’82 Sprachbewegung e che noi abbiamo tradotto nella collana “I
saggi di Testo a fronte” rispettivamente come Il manuale del traduttore letterario e Il movimento
del linguaggio. In sintesi, potremmo partire dalla questione della ritraduzione: perché noi
diamo per accettato che sia “lecito” (e su questo aggettivo intendo ritornare in seguito) ritradurre?
Perché riteniamo che ogni generazione voglia avere il proprio Goethe, il proprio Dante,
il proprio Shakespeare che parlino nella lingua letteraria di quella generazione. Io ho tradotto
Keats nel 1980, la mia traduzione è ancora in circolazione, ma sono sicuro che un altro poeta
(o io stesso) tra qualche anno ritradurrà Keats e lo riproporrà. Perché diamo per scontato che
questo sia “lecito”? Perché diamo per scontato che la lingua sia in movimento nel tempo, che
il nostro italiano sia costantemente in trasformazione. Il passaggio concettuale che compiamo
con Sprachbewegung è di includere anche il testo scritto nella lingua di partenza nel concetto
di movimento del linguaggio. Quel classico antico o moderno che andiamo a tradurre si è spostato
anch’esso nel tempo. Non solo diviene la lingua d’arrivo – cosa ovvia e scontata dai tempi
di Humboldt – ma diviene anche quella di partenza, perché nei decenni, nei secoli, tutte le
strutture che compongono quel testo sono andate modificandosi: la struttura sintattica, quella
grammaticale, i valori semantici, la pronuncia. Come si può pensare dunque che quel testo sia
rimasto lo stesso? È qui che interviene il concetto di traduzione come incontro poietico, di poetiche.
Se tradurre letteratura significa un incontro tra la poetica del traduttore e la poetica del
tradotto, questo incontro che avviene in un punto x del tempo e dello spazio è unico e irripetibile,
perché unico e irripetibile è lo stato delle lingue delle due opere che si incontrano in quel
momento. Lo stesso traduttore a distanza anche di poco tempo traduce in un modo diverso.
È un esperimento che, tra l’altro, ho fatto con me stesso, ritraducendo Seamus Heaney senza
controllare la traduzione fatta dieci anni prima. Il punto è quell’“unico e irripetibile”, come se
fossero due frecce che si intersecano in quel momento e solo in quel momento si intersecano
gnommeri 17
in quel modo; in un altro momento, successivo o precedente, si sarebbero intersecate in modo
differente perché in modo differente si sarebbero incontrate le lingue che costituiscono i due
testi. In questo modo noi abbiamo coniugato il concetto di movimento del linguaggio nel tempo
con il concetto di poetica. Naturalmente qui preme alle porte il concetto di intertestualità: i
cinque concetti che abbiamo elencato prima sono coniugati tutti tra loro, per produrre il nuovo
in traduttologia.
Proprio a questo proposito le chiediamo, dato il tema di questo numero: la traduzione può
essere considerata come un’operazione di “secondo grado”? E se sì in che maniera? Quando
lei cita la Kristeva che afferma che «ogni testo si costruisce come un mosaico di citazioni»,
dice che anche la traduzione
alla fine può esser considerata
una lunga “citazione” in
un’altra lingua...
Portando all’estremo limite
concettuale la definizione
kristeviana di intertestualità
possiamo dire, per semplificare,
che la traduzione non è che
una lunga citazione. E questo
nasce da un convincimento:
che letteratura nasca da letteratura,
che non esista creazione
letteraria assolutamente
originale. La creazione letteraria
assolutamente originale
è di per sé un’affermazione
indecente, una contraddizione
in termini, perché vorrebbe
Enrico Panosetti, 2006
dire assoluta incomunicabilità,
monologismo. È evidente che
la letteratura assorbe la letteratura precedente e la trasforma. È evidente che Dante non sarebbe
Dante se non ci fossero stati i provenzali, o la cultura araba eccetera. Se voi leggete Keats,
il finale dell’Ode sopra un’urna greca (“Beauty is truth, truth beauty”, – that is all/ Ye know on
earth, and all ye need to know), trovate l’associazione tra bellezza e verità. Essa è comune in
tutto il ‘700 inglese, Keats non inventa nulla. Che cosa aggiunge? Aggiunge quella pulsione
che aveva verso il mondo greco, non sapendo il greco, che lo porta da naïf a sublimare tutta
un’esperienza e tutto un mondo. Tu sei poeta non perchè compi una creazione assolutamente
originale, ma perché rivivi una tradizione alla luce della tua poetica. Il vero punto è se esiste
una poetica motivata e profonda in un autore. Dicendo “letteratura nasce da letteratura”, noi
parliamo di qualcosa di molto teso sul piano concettuale. È per questo che non possiamo prescindere
dal concetto di poetica quando parliamo di intertestualità.
In questo senso possiamo considerare la traduzione come uno strumento dell’epoché? Perché
la traduzione, intervenendo sul testo “originale”, pone in crisi la poetica di quel testo,
la modifica, cioè rivela quell’opera, che voleva darsi come un “essere”, soltanto come una
“forma”. In questo senso avevamo pensato che – riprendendo la dialettica pirandelliana tra
18
marzo ’08
“vita” e “forma”, o quella lukacsiana di due anni dopo – la traduzione lavora per la vita, cioè
per il movimento, per il tempo, di contro a una illusoria volontà dell’essere dell’opera “originale”
che si rivela invece semplicemente poetica, cioè classificazione simbolica o forma.
Sì, direi proprio che si può convenire. Sintetizzando ulteriormente, si potrebbe parlare di
traduzione come Überleben, come after-life di un testo. La letteratura viene sempre dopo. Qui
ritorna il discorso di Bachtin sulla dialogicità. Vedete, ci sono due grandi malattie che occorre
sempre tentare di debellare: l’idea che la traduzione possa essere la riproduzione di un testo;
e l’idea che sia una ricreazione. È evidente che con quest’ultima concezione si entra nel grande
vaso di Pandora del certamen, dell’imitatio, dell’aemulatio: nel senso che ognuno se ne va un
po’ dove vuole traendo spunto da; operazione legittima ma che non può essere considerata
traduzione in senso stretto. Anche il concetto di “riproduzione” è gravissimo, perché significa
porsi nei confronti del testo di partenza in una posizione ancillare, laddove l’obiettivo è quello
di raggiungere un risultato estetico autonomo. Un’autonomia estetica non la raggiungi attraverso
una riproduzione, ma attraverso un incontro tra poetiche: un incontro tra pari. È evidente
che noi, parlando di traduzione a questo livello, parliamo di Valéry che traduce le Bucoliche, di
Paola Capriolo che traduce La morte a Venezia, parliamo di ciò che dovrebbe essere la traduzione.
Non ci interessano in questo momento le volgarizzazioni. Che nella consueta prassi editoriale
tutto ciò fatichi ad avvenire non è un buon argomento per dire che non si debba tendere
a: è molto simile a un discorso cristiano, lo dico da illuminista, nel senso che un cristiano sa
che deve tendere alla santità, poi deraglia, ma conosce ciò verso cui dovrebbe tendere. Se il
traduttore non è adeguato, non significa che non funzioni il concetto.
Il processo della traduzione potrebbe assomigliare in qualche modo, in maniera diacronica,
a tutto ciò che sincronicamente gira attorno al testo teatrale nell’analisi neostoricistica
di Greenblatt? Greenblatt dice che tutto ciò che è attorno al testo va a demolire l’illusione
dell’unico principio generativo di quel testo. In questo modo, invece, diacronicamente, la
traduzione va a demolire l’illusione dell’unico principio generativo anche del testo “originale”...
Sì, anche perché poi sul discorso del testo “originale” ci sarebbe molto da dire. Per esempio,
riguardo all’Ulisse di Joyce, noi siamo abituati a prendere il 1922 come punto d’inizio;
io sono invece solito ribaltare questa affermazione dicendo che il 1922 è un punto di arrivo.
Così stiamo introducendo il quarto punto, il concetto di avantesto: è ovvio che nel ’22 viene
a coagularsi un processo che ha portato alla formazione di quel testo, ma a me interessa
tutto questo processo. Per un traduttore di letteratura poter accedere agli avantesti – cioè a
tutto quel materiale che precede la prima stampa di un’opera – è estremamente utile perchè
significa poter visionare il processo di germinazione di un testo, quello che Pareyson definisce
il processo di «formatività». Nel suo saggio Proust. Dall’avantesto alla traduzione, Lorenzo De
Carli mette a confronto vari passaggi proustiani nelle diverse traduzioni italiane e mostra la
differenza tra quei traduttori che hanno avuto la pazienza di consultare i Cahiers e quelli che
hanno preso solo il testo canonico, quello dato come canonico in quel momento. E anche qui
ci sarebbe molto da discutere, perché per esempio abbiamo tradotto l’Ulisse su un testo e
questo testo poi è stato profondamente emendato: per cui solo Umberto Eco dice che Shakespeare
non cambia e rimane fermo nel tempo e invece le traduzioni cambiano, lasciamolo nella
sua pia illusione che Shakespeare non muti nel tempo.
A questo punto una domanda che ne consegue riguarda la sua esperienza di traduttore. L’in-
gnommeri 19
contro tra poetiche come ha funzionato nel suo caso? Prendiamo il Buffoni che traduce Keats,
che fa incontrare la propria poetica con quella di Keats: come un’esperienza di traduzione
può cambiare la poetica di un traduttore-poeta?
Innanzitutto mi tremano le vene e i polsi parlando di incontro con la poetica di Keats... mettiamo
qualche paletto di modestia, perché altrimenti... però diciamo che al fondo quando tu
dedichi una fetta della tua vita, del tuo sistema nervoso, a tradurre un poeta, è evidente che ne
esci trasformato: è un’esperienza di vita – uso quasi un linguaggio steineriano. Io non dimentico
mai di essere un poeta romanzo, vivo costantemente, palpito, con una metrica di tipo
quantitativo, e quando ho a che fare con testi scritti in metrica accentuativa mi rendo conto che
respiriamo in due ambiti completamente diversi. Due delle lingue con cui ho avuto maggiormente
a che fare, l’inglese e il latino, mi portano a fare questa strana respirazione. Come si
esce da questo punto? Con il quinto dei concetti che ho elencato prima, quello di ritmo, tanto
è vero che sono arrivato a dire che esiste una “ritmologia”. Per me è il punto fondamentale.
Per un attimo metto da parte la traduzione, mi riferisco alla scrittura poetica: trovare il ritmo
significa trovare il soggetto, se trovi il ritmo trovi il soggetto e quello che scrivi può essere
poesia; se non trovi il ritmo puoi avere da dire le cose più belle del mondo ma quello che scrivi
può essere al più un articolo di giornale. Il ritmo è questo respiro interno alla scrittura, che
prescinde, che ingloba tutte le metriche. Perché le metriche sono un fatto storico, possono mutare,
fondamentalmente sono legate alla moda, nel senso più leopardiano del termine. Mentre
il ritmo no, il ritmo è ancestrale, è quel respiro che viene dall’imparare a parlare. Ecco, se noi
pensiamo alla scrittura in questo modo, con questo respiro, con questa ritmicità, arriviamo, se
ci concentriamo bene, ad annullare quello scontro che potrebbe esserci nel poeta romanzo che
sta traducendo un poeta anglosassone. Allora, perché non si tratta di riproduzione? È sciocco,
banale, insulso dire di arrivare a “riprodurre” il ritmo dell’originale. In questo senso non voglio
tornare a parlare nemmeno di ricreazione: si tratta di far fuoriuscire da quell’incontro poietico
di cui si diceva prima – coniugato con tutti gli elementi che si sono detti – un respiro dell’opera
adeguato alla lingua d’arrivo in quel momento storico.
Quando lei parla di ritmo, ci sembra che entri un poco in contraddizione con quanto ha detto
finora. Quando dice che il ritmo è ancestrale, che va al di là delle metriche che invece sono
storiche, in un certo senso lo immobilizza: anche la concezione del ritmo è nel tempo, si
muove nel tempo.
Certo, mi correggo se ho dato questa impressione. È evidente che anch’io sono d’accordo su
questo. Quando io dico che il ritmo è qualcosa di ancestrale, lo dico per spiegare che il ritmo
precede la Sapiens sapiens, nel senso che si ha il ritmo nelle maree, nei cicli lunari, nei movimenti
dei pianeti; c’è un ritmo e un respiro comunque: noi nasciamo impastati di un ritmo che
è il battito del cuore materno, noi come esseri umani abbiamo inevitabilmente un ritmo binario
già nel nostro dna.
Però quando spinge l’idea di ritmo fino a dire che trovare il ritmo è trovare il soggetto, e che
in questa maniera un’opera diviene opera d’arte, altrimenti è qualcosa d’altro, non pensa che
può cadere in un’assolutizzazione di un concetto di ritmo non ben definito? Nel senso che,
esistendo ritmo dappertutto, chi decide qual è il ritmo della poesia?
Chi decide? Benissimo! Perché mi permetti di tornare su quell’aggettivo che avevo messo tra
virgolette all’inizio della nostra conversazione, quel “lecito”. È chiaro che nessuno ha l’autorità
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marzo ’08
per decidere; nessuno ha l’autorità per dire cosa sia lecito e cosa non sia lecito. Nel nostro
ambito di studi non esiste la normatività, noi non stiamo parlando di una scienza normativa.
Chi decide se una traduzione è buona o cattiva è il tempo. Saranno decine e decine di persone
che negli anni, nei decenni, considereranno d’altissimo livello la traduzione delle Bucoliche di
Valéry. Occorre sempre diffidare di chi dice “questo è giusto e questo è sbagliato”. Il discorso
diventa più sottile, perché tu ti togli dal lecito o non lecito ed entri nel concetto di creazione:
l’operazione del tradurre letteratura è un’operazione creativa, vuol dire fare letteratura – e qui
torniamo all’umanista Thomas Sébillet – che già parlava della traduzione come di un genere
letterario autonomo – o a Jiri Levy, che lo ha ripetuto mezzo secolo fa. Se la traduzione è un
genere letterario autonomo, se dunque ha la dignità della creatività letteraria, lo deve avere
anche nel campo della sperimentazione e dell’empiria. Quindi è soltanto il tempo che stabilirà
se una traduzione è una buona traduzione e non ha nessun senso dire si deve fare così piuttosto
che in un altro modo.
Un’ultima curiosità: ci chiedevamo in che senso lei si definisse illuminista. Forse come il
Nietzsche che dedicava a Voltaire Umano troppo umano?
Ho cominciato a definirmi illuminista in senso molto pubblico e un po’ gridato da quando in
questi ultimi anni è invalso questo insano – nel senso dell’inglese insane, “folle” – atteggiamento
nei confronti dell’illuminismo da parte delle gerarchie cattoliche – e dei loro tirapiedi su
alcune gazzette. Attaccare l’illuminismo significa attaccare la modernità – il modo di procedere
della scienza – significa attaccare la cultura occidentale degli ultimi quattro secoli, significa
rimpiangere l’ancien régime. Tutto questo è ignobile, è un’operazione culturale di fiato cortissimo
e io, che ormai di fiato ne ho poco, mi permetto di ribellarmi e di usare quelle modestissime
platee che mi ritrovo per dirlo. Dunque divento “illuminista” e proprio per questo motivo
ho scritto Più luce, padre. Dialogo su Dio, la guerra e l’omosessualità (Sossella editore, 2006).
Voi avete 25 anni oggi e vi affacciate con la vostra intelligenza su questo mondo, io vi assicuro
che un attacco, un affronto così costante all’intelligenza come quello che stiamo subendo in
questi ultimi anni in Italia sono rari. Quando io avevo la vostra età, in Vaticano ci stava Paolo
VI, uomo legato alla filosofia francese, uomo del dialogo, vero intellettuale: vi assicuro che era
una situazione molto più decente. Anche, a catena, il mondo cattolico non si permetteva certo
attacchi alla modernità come quelli volgari, rozzi, a cui stiamo assistendo. Vi assicuro che voi
state vivendo una contingenza storica molto particolare e il fatto che voi vi ribelliate dimostra
che avete menti solerti, la cosa che mi addolora è che tanti dei vostri coetanei non si rendano
conto di questo.
FRANCO BUFFONI (Gallarate, 1948) ha pubblicato le raccolte di poesia Nell’acqua degli occhi (Guanda 1979),
I tre desideri (San Marco dei Giustiniani 1984), Quaranta a quindici (Crocetti 1987), Scuola di Atene (Arzanà
1991), Suora carmelitana (Guanda 1997), Songs of Spring (Marcos y Marcos 1999), Il profilo del Rosa (Mondadori
2000), Theios (Interlinea 2001), Del Maestro in bottega (Empiria 2002), Guerra (Mondadori 2005). Per Marcos y
Marcos dirige il semestrale “Testo a fronte” e ha curato i volumi Ritmologia (2002) e La traduzione del testo poetico
(2004). Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). È autore del romanzo-saggio Più luce, padre.
Dialogo su Dio, la guerra e l’omosessualità (LucaSossellaEditore, 2006) e dei saggi Con il testo a fronte. Indagine sul
tradurre e l’essere tradotti (Interlinea 2007) e L’ipotesi di Malin. Studio su Auden critico-poeta (Marcos y Marcos
2007).
Sito web: www.francobuffoni.it
gnommeri 21
Pascoli rosso sangue
22
Alessandro Vicenzi
(progetto per un filmato didattico sulla vita di Giovanni Pascoli. Contiene un buon numero di licenze poetiche e
citazioni assortite da Ritorno al futuro, i Simpson, Happy Tree Friends, i Griffin, Alien, Chucky la bambola assassina,
Monty Python)
1.
Siamo nella campagna toscana. È primavera, il cielo è azzurro,
gli uccellini cantano.
La camera si avvicina lentamente a una tavolata di persone che
pranzano all’aperto, sotto un pergolato. Si riconosce a capotavola
Giovanni Pascoli.
In piedi, sua sorella Maria
Seduti, altri cinque uomini.
2.
Primo piano di Maria
maria: … e allora, vi piacciono le mie pappardelle con il cinghiale?
voci: sì... buone... brava.
maria: beh, è un sugo pronto.
3.
Rapida sequenza di primi piani di gente che sputa il boccone, tossicchia, si versa del vino, ecc.
voci: ma che cazz... puah, che schifo... ma come si fa?
4.
Pascoli si alza in piedi e mena un pugno fortissimo nello stomaco alla sorella. Poi, mentre è
piegata, la colpisce al viso con una ginocchiata. Gli amici applaudono.
pascoli: brutta stronza... un sugo già pronto, eh? Ma io ti...
5.
Pascoli afferra una bottiglia di vino e la spacca contro il tavolo. Fa per voltarsi verso la sorella,
quando si rende conto della nostra presenza. Si volta, butta a terra il coccio, si passa le mani
sugli abiti, cerca di sorridere (ma si vede che è chiaramente ubriaco come una scimmia), ridacchia.
pascoli: oh, non vi aspettavo così presto. Si stava, ehm, scherzando. Cose che si fanno, nel
nido... Si ritorna tutti un po’ bambini, si ride e si scherza, nevvero? Su Maria, alzati, non stare
sempre a giocare, da brava...
Scusatela, è giovane...
Ma torniamo a noi.
marzo ’08
6.
L’inquadratura si allarga. Alle spalle di Pascoli, che cammina allontanandosi dalla tavola,
vediamo Maria strisciare via. Perde sangue dalla faccia e lascia una scia rossa dietro di sé.
Pascoli parla guardando in camera, con la voce impostata.
pascoli: salve, sono Giovanni Pascoli. Forse vi ricorderete di me per eventi luttuosi come...
7.
(Flashback) Un uomo sta tornando a casa su un carretto trainato da un cavallo. Fischietta. A un
certo punto, da una siepe spunta un tizio vestito come un arabo. Ha in mano un AK 47. Spara
all’uomo sul carretto, che muore spruzzando sangue come un idrante.
omino: i libici! Mi hanno trovato!
pascoli (voice over): …l’assassinio di mio padre...
8.
(Flashback) Una bambina in un letto. Pallida e malata. Ha un attacco di tosse, che va in crescendo,
fino a che non tossisce così forte che sputa fuori tutti gli organi interni.
Un istante dopo si apre la porta, entra una donna più anziana che come vede il corpicino svuotato
sul letto urla fino a che la testa non scoppia in un fuoco d’artificio di sangue.
pascoli (voice over): ...le morti per malattia di mia sorella Margherita e di mia madre...
9.
(Flashback) Un ragazzino cammina per i campi, fischiettando. All’improvviso si blocca, si tiene
la testa, fa un saltino all’indietro e scompare tra le spighe di grano.
pascoli (voice over): … la morte di mio fratello Luigi...
10.
(Flashback) Pascoli, ventenne, sta pranzando con un signore più anziano. D’un tratto, alle
spalle del signore più anziano (lo zio Alessandro) appare l’Angelo della Morte, con in mano una
falce. Con un colpo, mozza la testa allo zio.
giovane pascoli: ma... perché?
angelo: era giunta l’ora di Pierantonio Coretti. Mi spiace.
giovane pascoli: ma... lui abita nel palazzo di fianco.
angelo: non è il 12, questo?
giovane pascoli: no! Questo è il 14.
angelo (consultando un taccuino): Ah. Beh, errore mio. Ma tanto ci sei abituato, no?
pascoli (voice over): ...la morte di mio zio Alessandro...
11.
(Flashback) il giovane Pascoli e il fratello camminano per piazza Maggiore a Bologna. Una carrozza
sfugge al controllo e travolge il fratello, risparmiando Pascoli. Quando il mezzo si ferma,
dal posto del conducente spunta l’angelo della morte.
angelo: aspetta, non dirmi niente. Non era Jacopo Basculi, vero?
pascoli (voice over): … e infine la morte di mio fratello...
12.
Pascoli continua a camminare, questa volta tornando verso la tavola, dove gli amici ridono e
scherzano.
pascoli: ma tutte queste avversità non mi hanno mai fermato. Mi sono laureato all’università
opera galleggiante 23
di Bologna e sono diventato un poeta. La mia poetica è diventata nota grazie alla metafora
del...
13.
Primo piano. Pascoli fa una faccia strana, come se gli venisse da vomitare.
pascoli: ghhh... ahhh...
Luca Schiavone, Milano_4, 2007
24
14.
Pascoli si getta sul tavolo, si
contorce tenendosi lo stomaco
con le mani.
pascoli: AHHH... ARGHHH...
amici: oh no! Non di nuovo!
15.
Primo piano del busto di Pascoli.
Qualcosa sta spingendo da dentro.
La pelle e i vestiti si tendono
innaturalmente. Poi è come
se ci fosse un’esplosione. Dal
petto di Pascoli sbuca fuori una
creatura alta poco più di mezzo
metro, con la faccia e i vestiti di
una bambola e un coltellaccio in
mano. Sghignazza guardando in
camera.
amici: il fanciullino!
16.
Il fanciullino corre verso di noi. Poi salta. Il punto di vista cade al suolo e si inclina di 90 gradi.
Tutto quello che vediamo sono i piedi del fanciullino, mentre pugnala più e più volte il corpo a
terra.
Colonna sonora di urla assortite.
marzo ’08
Seduto sulla mia veranda col fucile in grembo
1. Non perdo un’occasione
Ivano Bariani
Un mio amico con la cravatta, che di queste cose ne mastica, mi ha confermato che si potrebbe
fare. In effetti il mio amico non ha saputo dirmi se così riuscirei a mantenermi, ma mi ha
assicurato che provarci non è illegale. Insomma ho finalmente una terza via a disposizione, se
i conigli ammaestrati e la lombricocoltura dovessero rivelarsi meno redditizi del previsto. Sarò
un colonizzatore di storie.
Vedete, il colonizzatore di storie altri non è che una specie di mitomane logorroide legalmente
assistito: un giorno decide di arricchirsi e così apre un blog – il legame tra le due cose
è chiaro soltanto a lui, almeno all’inizio. Quindi, a partire dal giorno dopo, comincia a postare
(l’appropriarsi di un gergo tecnico è fondamentale per un buon colonizzatore di storie) ogni
sorta di idiozia narrabile passata sotto il suo naso. A volte posta addirittura in tempo reale –
nel senso che se un suo amico gli dice «Oh, non sai mica l’ultima» lui alza l’indice e si connette
al suo blog; abbassa l’indice e poi dice: «Ok, racconta» Questo perché il bravo colonizzatore di
storie non perde tempo a curare la qualità estetica: gli bastano le idee grezze, punta alla quantità,
deve soltanto piantare quante più bandierine gli è possibile piantare (su ogni bandierina
le sue iniziali, anche questo è fondamentale). Come ogni buon colonizzatore, il colonizzatore
di storie si è reso conto di una cosa: il potere non è più nella capacità, ma nel controllo delle
risorse. E anche che non serve più a niente essere bravi, basta essere primi.
Il colonizzatore di storie, quando non sta colonizzando, siede sulla veranda di casa. Scruta
il terreno conquistato e tiene un fucile in grembo. Parla poco, non ringhia mai. È soprattutto
una persona paziente. Se vede qualcuno gli spara, poi chiede chi va là.
Guardate, io comincio subito, prima che il mercato s’inflazioni:
Lui e lei si frequentano da un po’. Lei fa l’infermiera, lui no. Lui – e qui cominciano i fatti – un
pomeriggio va a trovarla in corsia, ché lei gli ha detto un’ora alla quale non c’è mai molto da
fare. Si piazzano a metà di un corridoio; lei in divisa bianca, lui in jeans e maglione. Fanno due
chiacchiere. La situazione è in effetti tranquilla. Ogni tanto passa un dottore o un infermiere.
Loro parlottano sempre, del più e del meno. A un certo punto passa un’infermiera di chirurgia,
vestita tutta di verde, alta e mora. Lui la segue con gli occhi e la testa mentre li sorpassa, e intanto
finisce la frase che ha in bocca. Lei si accorge della cosa ma continua a parlare; soltanto
dopo un po’ gli fa:
«Hai visto quella?»
«Chi?»
«Quella che è appena passata, la mia collega».
«Ma quale?»
«Aveva la divisa verde, dai».
«Non mi pare…»
«Alta più o meno così…»
«No».
«Mora coi capelli lunghi…»
«…»
«Piuttosto carina…»
opera galleggiante 25
«Ah, ma sì: quella col tanga».
Ecco, non fa così ridere perché non sapete ancora il titolo. Il racconto dovrà essere in prima
persona, raccontato dal punto di vista di lui, e il titolo sarà: Non perdo un’occasione. Mi sa fatica
scriverlo (sono un colonizzatore, mica un agricoltore), perciò spero che lo faccia qualcuno di
voi. Così poi lo denuncio.
2. Effetti perversi della colonizzazione selvaggia: uno scenario possibile (così come è stato
descritto da un mio amico senza cravatta, che studia sociologia, interrogato sull’argomento)
«Comincerà tutto in sordina. Le potenzialità della rivoluzione in atto resteranno oscure per
diversi mesi, anche agli occhi di chi si ritroverà volente o nolente al centro della configurazione.
Qualche voce dubbiosa si alzerà, ma proverrà da zone periferiche al cambiamento, e
non sarà sufficientemente coinvolta per poter influire sul paradigma. Gli eventi evolveranno
a velocità esponenziale. Quando i prodromi del crollo appariranno evidenti agli occhi di tutti,
la curva sarà prossima all’asintoto, e quelle (in verità poche) istituzioni con ancora l’autorità
per provocare un’inversione o un rallentamento, semplicemente rimanderanno la decisione
troppo a lungo. L’inerzia decisionale dell’intero sistema, per una volta, favorirà lo svilupparsi
degli eventi, e l’intera rivoluzione – dalle prime adunanze di coloni fino al collasso completo
del mercato di acquisizione dei diritti d’autore come lo conosciamo oggi – non impiegherà più
di un paio d’anni a compiersi. L’aspetto veramente paradossale di questa rivoluzione è che
sarà l’avidità dei singoli a farne da catalizzatore. Nel momento in cui metà della popolazione
si sarà resa conto di potersi arricchire semplicemente piantando bandierine sulle narrazioni,
l’altra metà si sarà accorta di non aver più bisogno di spendere denaro per sopperire al proprio
bisogno narrativo. Le nuove forme che emergeranno, dal canto loro, saranno per lo più originarie,
allo stato embrionale, e – quel che più conta – terribilmente brevi. Spogliata del suo
plusvalore monetario, e infine anche della sua componente oratoria, la narrativa si rivelerà
allora per quello che è sempre stata: esperienza più fermentazione. La naturale dipendenza
narrativa della specie umana verrà dunque scardinata per la prima volta nella Storia. Inutile
dire che il disinteresse generale e individuale per il nuovo tipo di approccio alla realtà che
andrà costituendosi continuerà a crescere anche a rivoluzione compiuta. Semplicemente, la
gente cercherà altrove una qualche forma di consolazione alla propria, tragica e oramai palese
condizione esistenziale. Aumenteranno i suicidi, caleranno le nascite e i matrimoni. Un BigMac
continuerà a costare 1 euro e 60.»
3. Nuove colonie
Un tizio – un professore – sale su un treno – un eurostar. Si dirige in prima classe e controlla il
numero del suo posto prenotato sul biglietto. Raggiunge la fila giusta e fa per sedersi, ma un altro
tizio – dai tratti egiziani – siede al suo posto. Il professore dice all’egiziano di levarsi dal suo posto.
L’egiziano si alza indignato e lo squadra. I due litigano un poco. Il professore mostra all’altro il
proprio biglietto. L’altro tira fuori il suo biglietto e lo avvicina a quello del professore. I posti prenotati
sono gli stessi, su entrambi i biglietti. Il professore inveisce contro le ferrovie. Un controllore li
raggiunge. Il professore comincia a inveire contro di lui in particolare. Il controllore afferra entrambi
i biglietti e li scruta, piano piano. Solleva la testa e chiede al professore esattamente dov’è che deve
andare. Il professore dice Milano. Il controllore dice che quello è l’eurostar per Reggio Calabria.
(Non fa così ridere perché vi ho tenuto all’oscuro di un dettaglio importante: il tizio, il professore,
è un professore di latino. Ancora non vi fa ridere? E se vi dicessi che io, alle superiori, in latino,
ho sempre avuto 4?)
26
***
marzo ’08
A e B sono amici. A e B si danno appuntamento, per un certo pomeriggio a un certo orario.
A arriva, cinque minuti in anticipo, siede su una panchina e aspetta B. Dieci minuti dopo A è
ancora lì, e di B neanche l’ombra. A guarda l’orologio, sbuffa ed estrae il cellulare. Chiama il
numero di B. Una voce gli dice che il cellulare di B non è al momento raggiungibile. A chiude
il cellulare e sbuffa. Venti minuti dopo A è ancora lì, ma di B neanche l’ombra. A si alza e fa
due passi. Torna alla panchina, dieci minuti dopo, e ancora B non s’è presentato. Passa più o
meno un’ora in questo modo. A, con l’aria scocciatissima, estrae di nuovo il cellulare e telefona
al numero di casa di B. Gli risponde la segreteria telefonica di B. A lascia un messaggio e se
ne va, incazzato nero. Quella sera stessa A riceverà una telefonata di C – amico sia di A che
di B – che lo informerà del fatto che quella mattina B ha tentato di suicidarsi; si è gettato dal
balcone di casa, dirà C nell’orecchio di A, s’è salvato
per miracolo; adesso lo tengono all’ospedale sotto
farmaci. A chiuderà la comunicazione con C e ripenserà
a quel pomeriggio in attesa di B, e alla telefonata e
al messaggio lasciato sulla sua segreteria telefonica.
Il messaggio di A diceva che l’unica scusa che avrebbe
accettato per quel ritardo era che B fosse morto.
***
Un giorno, dopo tanti giorni, muore un blogger. Cioè
una persona che teneva un suo blog. Seguono dalle
trenta alle quaranta pagine di scenario, su come la
blogosfera apprende la cosa – su come i blogosferici
reagiscono.
***
Luca Schiavone, La rinascita di palermo, 2007
Un giorno, dopo pochi giorni, un o una blogger relativamente giovane – diciamo sui 20-25 anni
– prende e scappa di casa. Da quel giorno, ma non tutti i giorni, sul blog di quel o quella giovane
compaiono i resoconti di quello che sta combinando, di dove lo sta combinando. Gli amici
e i lettori di quel o quella giovane vanno sempre più spesso sul suo blog, a leggere di mense
dei poveri e notti nelle sale di attesa delle stazioni – di giorni interi in giro per città mai viste,
una fame della madonna e uno zainetto addosso – di serate a lavare piatti nelle pizzerie e nei
bar per pagarsi il prossimo pasto e il prossimo biglietto – di sporadici pomeriggi in elemosina
ai semafori o nelle piazze – di randagi e altri personaggi incontrati per strada – di materassi
umidi sotto ai ponti e cartoni arrotolati nei giardini pubblici – di facce stralunate e nasi storti
negli internet point quando lui o lei si presenta per aggiornare il suo blog. Qualche amico un
poco più vicino a quel o a quella giovane avverte i suoi genitori, che cominciano così a seguire
le giornate del figlio o della figlia sparito o sparita, direttamente dal suo blog. Passa un mese e
gli accessi giornalieri al blog del o della giovane triplicano. Passano due mesi e il o la giovane
avvisa tutti di aver da poco varcato il confine con la Francia, diretto o diretta a Parigi. Passa
un’altra settimana e il o la giovane avverte di aver finalmente raggiunto Parigi – dice di non
cavarsela poi tanto male col francese. I contatti decuplicano. Qualche settimana dopo, a casa
del o della giovane, si fanno vivi i primi inserzionisti: chiedono ai genitori del o della giovane se
opera galleggiante 27
non hanno per caso modo di contattarlo o contattarla. Vorrebbero sapere se loro figlio o loro
figlia sarebbe interessato o interessata a ospitare sul suo blog un loro banner. La madre o il padre
del giovane o della giovane alzerà le spalle, farà accomodare i signori e andrà a chiamare
suo figlio o sua figlia. Mentre il giovane o la giovane uscirà dalla sua stanza, il padre o la madre
gli dirà o le dirà se non si è già divertito o divertita abbastanza, con quella storia.
***
Un tizio, una notte, trova una bicicletta per strada, appoggiata a un lampione. Si guarda attorno
e non vede nessuno né più su né più giù lungo la strada. Si avvicina al lampione e vede che
la bicicletta – nera e rossa – non è legata. Si guarda attorno un’altra volta e mette le mani sul
manubrio. Sposta la bicicletta dal lampione e sale in sella. Poi pedala fino a casa. La mattina
dopo si sveglia, si veste, scende in cantina, cerca un lucchetto, tira fuori la bicicletta e pedala
fino al lavoro. La sera esce dalla fabbrica, slega il lucchetto e pedala fino a casa. La mattina
dopo si sveglia, si veste, scende in cantina, tira fuori la bicicletta e pedala fino al lavoro. La
sera esce dalla fabbrica e pedala fino a casa. La mattina dopo si sveglia, scende in cantina, tira
fuori la bicicletta e si rende conto di non essersi ancora vestito. Rimette a posto la bicicletta,
sale in casa a vestirsi e poi va al lavoro. La sera esce dalla fabbrica e pedala fino al lampione
dove ha trovato la bicicletta. Sotto al lampione c’è un uomo vestito di grigio con le antenne,
che fuma. Il tizio tira i freni della bicicletta e poi gli si avvicina. L’uomo vestito di grigio riconosce
la bicicletta e dice al tizio che quella è sua. Il tizio dice che gli dispiace. L’uomo vestito
di grigio dice che se proprio la vuole allora può vendergliela. Il tizio guarda la bicicletta e poi
l’uomo vestito di grigio e gli chiede quanto vuole. L’uomo vestito di grigio gli dice sono un
alieno, perciò mi accontento di diecimila lire. Il tizio paga l’alieno che fuma sotto al lampione e
poi pedala fino a casa. La mattina dopo il tizio si sveglia, si ricorda di vestirsi, scende in cantina
e la bicicletta è sparita. Sulla serratura della cantina ci sono evidenti segni di scasso alieno.
***
Una tipa, una mattina, lavandosi i denti intuisce il senso della vita. La cosa le fa un male atroce.
La tipa smette di lavarsi i denti. Due mesi dopo nessuno ha più voglia di parlare con lei.
***
Un tizio o una tizia, cioè un blogger o una blogger, divenuto “famoso” o divenuta “famosa”
grazie a una specie di truffa, scoperto l’inganno scappa veramente di casa, più che altro per la
vergogna. Riesce ad arrivare da qualche parte, ma solo fingendosi chi non è, e sbagliando treno
diverse volte. Si rende conto di aver finito i soldi e di non poterlo raccontare a nessuno perché
nessuno gli o le crederebbe. Allora torna a casa dai suoi e si cerca un lavoro. Quasi nessuno
legge più il suo blog. Una mattina, lavandosi i denti, capisce che il declino di una persona – se è
autentico – non ha risvolti commerciali. Poi fissa un appuntamento con un suo amico, per quel
pomeriggio, e si butta dal terrazzo. Non muore. All’ospedale, sotto sedativi, sogna di essere un
operaio che ruba una bicicletta a un alieno e poi gliela paga e l’alieno se la riprende comunque.
Quando si sveglia, ancora scosso o ancora scossa, torna a casa e ascolta la segreteria telefonica.
Il messaggio del suo amico lo inquieta o la inquieta di nuovo. Questa volta riesce ad uccidersi. La
comunità dei blogger sospettava che lui fosse o lei fosse un blogger o una blogger un po’ strano
o un po’ strana, ma una cosa del genere, comunque, a loro, ancora non gli era mai capitata.
28
marzo ’08
Il re del mondo
Gianluca Morozzi
Questo racconto è un riciclaggio in vari sensi.
Innanzitutto è una riscrittura aggiornata (e migliore, in molti punti) di un mio racconto uscito sei anni fa su “La Luna
di Traverso” con titolo Il solipsista. Che già di suo era ispirato a un racconto di Fredric Brown dal titolo, appunto, Il
solipsista. E infine, Il re del mondo è il titolo di una canzone di Battiato. Riciclaggio a tutto tondo...
Il fisico non l’aiutava. Il nome neppure. Tantomeno l’attitudine alle riflessioni pompose, tra un
fratello Karamazov e Silver Surfer.
Quella notte se ne stava lì sotto il portico, i pugnetti che tremavano per la rabbia, a pensare
Oh, la vita è così ingiusta e sa riservare così amare sorprese.
Elvis zampettava sotto il portico. Le gambette corte lo trascinavano nel giovedì notte
bolognese, e le raffiche di vento freddo scuotevano i suoi occhiali e la banana scolpita col gel.
Il tremito rabbioso si propagava dalle mani ficcate nelle tasche del giubbotto di pelle, fino ad
agitare tutto il suo metro e cinquantotto di statura.
Gli ubriachi negli androni dormivano un sonno profondo, accanto ai loro cartoni di vino di
scarsa qualità. A un certo punto sentirono uno scalpicciare di stivali col tacco sotto il portico,
alzarono gli occhi, videro sfrecciare un Woody Allen travestito da James Dean che parlava da
solo dicendo cose «se li trovo insieme li uccido. Li uccido tutti e due». Batterono le palpebre un
po’, poi tornarono saggiamente a dormire.
Spinto dai suoi pensieri progressisti, Elvis interruppe la sua marcia forzata davanti al discopub
chiamato Millennium. Il teatro della sfida finale. La tana che, senza dubbio, nascondeva i due
infami. Le serpi. La meretrice e il suo stallone. La succubus e il demonio. Salomè e...
Va bene.
Avete capito il concetto.
Elvis respirò profondamente.
Una lacrima
minuscola e calda spuntò
tra le sue ciglia di lunghezza
quasi femminea.
Sospirando, lasciò la
calda sicurezza del portico
per attraversare la strada
dove fu quasi arrotato da
un motorino.
Il branco a cui stava
per mescolarsi traboccava
fuori dal locale. Quei giovani
barbari malvestiti si
ammassavano nel piccolo
piazzale di fronte al Mil-
Luca Schiavone, Anche io ti amo, 2007
opera galleggiante 29
lennium, chi per bere birra in barba alle ordinanze comunali, chi a parlamentare col buttafuori
per entrare senza tessera Arci, chi per star curvo sul marciapiede cercando di non vomitare.
Uno spettacolo che Elvis, decisamente, trovava disgustoso. Giovinastri!, pensò, sprezzante
e originale.
Tagliò la folla deciso, gli occhi dritti davanti a sé, gli occhiali appannati dalle varie qualità di
fumo nell’aria. Riuscì ad attraversare le prime muraglie dell’accampamento nemico, quelli con
la birra, quelli che cercavano di non vomitare. Tra lui e quelli che trattavano col buttafuori c’era
solo un gruppo di punkabbestia che si divideva una bottiglia di vino giocando con un cane.
Quando fu davanti a quel maleodorante consesso, uno dei punkabbestia alzò un sopracciglio
trafitto di piercing. Guardò Elvis. Sghignazzò.
«Ehi, bello» rise «Complimenti per i pantaloni. Davvero.»
La risata collettiva dei punkabbestia scosse il piazzale.
Elvis abbassò gli occhi, avvampando di vergogna. Si infilò in fretta nel locale.
Il Millennium aveva soffitti bassi, sale incuneate nel sottosuolo come grotte, arcate un tempo
testimoni del passaggio di un torrente. Le fioche luci verdi disegnavano una massa ondeggiante
di teste, braccia e spalle in pista sotto il dj.
Tutti questi dettagli, le arcate, le luci verdi, le braccia ondeggianti, Elvis le notò solo dopo
un po’. Quando ebbe finito di tossire, cioè, squassato da singulti violenti causati dal sudore in
sospensione e dalla cappa di fumo. In barba a tutte le leggi nazionali, realizzò con le lacrime
agli occhi. Fuorilegge. Bestie.
Le casse sparavano rock moderno, musica che Elvis odiava intensamente. Lui odiava ogni
canzone incisa dopo il millenovecentosessantadue, a parte un brano dell’ottanta chiamato
Cadillac Ranch. Si era registrato una musicassetta con trenta versioni pirata di Cadillac Ranch,
distinguibili l’una dall’altra solo per qualità diverse di fruscio.
Quando ebbe finito di tossire e lacrimare si fece strada verso il bar. Urtato, spintonato e
palleggiato tra giovani metallari e minorenni ubriache, riuscì ad aggrapparsi al bancone, precario
come un topo. Si sistemò in qualche modo su uno sgabello, e ordinò un whisky per farsi
coraggio.
Le due serpi, la meretrice e il suo stallone, la succubus e il demonio, lo sapeva, erano a
poca distanza da lì. Ignari. Gaudenti. Lubrichi.
Era lì che si erano conosciuti, la baldracca e l’astuto playboy. Nel ventre buio del Millennium,
al riparo da quella barricata di fumo e di sudore.
In quel momento, a pochi passi dalla sua vendetta, Elvis si sentì l’uomo più triste del
mondo. Guardò tutti quei ragazzotti che ballavano e si divertivano, incuranti del suo cupo stato
mentale.
Nella muraglia compatta di allegria spiccava un’unica macchia di tristezza. Un ragazzone
dagli occhi da bue, il collo taurino, e un pesantissimo maglione di lana a rombi. Beveva
un’aranciata da solo, in un angolo. Nel caldo da fonderia del Millennium, quell’assurdo maglione
spiccava per inadeguatezza. Oltre che per abominevole bruttezza.
Elvis lasciò perdere quel povero caso umano. Si asciugò la bocca dal whisky, con gesto
molto maschio e virile. Era ora di danzare col diavolo.
Scese dallo sgabello con un saltello altrettanto maschio e virile. Per poco non cadde tra la
folla, rischiando di venir calpestato da un centinaio di maleodoranti anfibi. Non reggeva troppo
bene il whisky.
Si raddrizzò, si incuneò barcollante nei meandri del Millennium. Dribblò una ragazza che
fissava schifata i suoi pantaloni, superò la sala chiamata Osteria, si tuffò risoluto nella seconda
pista da ballo. E lì, fu risucchiato dalla folla impazzita.
30
marzo ’08
Passò due minuti orrendi a fare la pallina da flipper in un pogo sudato, violento e cattivo.
Alla fine, per fortuna, venne masticato dal quel magma di carne e sudore e sputato davanti a
un altro bar. Ne approfittò per prendersi una birra e darsi coraggio ulteriore.
Avrebbe ucciso i due infami. Se fosse sopravvissuto al coma etilico.
A metà della sua birra, scrutando tra la massa verso i tavolini a bordo pista, li trovò. La sala era
in penombra ed Elvis quasi cieco, ma li vide ugualmente. Un’inconsueta botta di fortuna.
Gli infami erano accovacciati sotto un’arcata, molto vicini, molto in confidenza. Lei aveva un
top cortissimo. Lui, la maglietta di un gruppo rock di recente fondazione.
Li guardò a lungo, in piedi davanti al bancone, col suo bicchiere in mano. Fece qualche
passo verso di loro attraverso la pista. Si lasciò spintonare dai ragazzi che ballavano, il sudore
che imbrattava a pioggia il suo giubbotto di pelle.
Mentre pensava a come suicidarsi, un grassone si catapultò in pista come una palla di cannone.
Lo urtò senza scusarsi, e rovesciò tutta la birra sui famigerati pantaloni.
Elvis rimase a bocca aperta, grondante e pietrificato, il bicchiere vuoto in mano.
In quel preciso istante, nel momento più umiliante di tutta la sua vita, Elvis prese coscienza.
Il Woody Allen vestito da James Dean sbattè gli occhietti cisposi.
Ma certo, si disse, ma certo, è evidente, era così semplice. L’ariete formato da alcol, fumo e
adrenalina aveva sfondato la porta dell’illuminazione.
Ho capito, si ripetè, ora ho capito, lo so, è tutto chiaro.
Sorrise maligno.
Si fece largo tra la gente, con calma. Raggiunse il grassone agitato che ballando aveva fatto
il vuoto intorno a sé.
Il grassone vide i suoi pantaloni e scoppiò a ridere, sguaiato, a bocca aperta.
«Tu non esisti» disse Elvis, lentamente.
Il grassone sparì.
Tutti smisero di ballare, esterrefatti. Elvis fece un movimento rotatorio con la testa, come ad
abbracciare la sala intera, e sibilò «Voi non esistete».
La sala si svuotò. A parte due persone.
Elvis si avvicinò ai due infami con calma, le mani in tasca, lo sguardo sicuro dietro gli
occhiali. Lei, la meretrice, la succubus, Messalina, alzò la testa. Lo vide. Elvis le puntò il dito
contro.
«Basta fingere. Basta pagliacciate».
Lei lo guardò perplesso, disse «Eh?»
«Basta fingere, ho detto. Avete recitato bene, per essere delle mere creazioni della mia
mente. Ma ora, sappiatelo, ho capito. Niente esiste all’infuori di me. Niente e nessuno. Io sono
Dio, autoimprigionato in un mondo di fantasia. Tutto il mondo, tutti voi, non siete che un mio
pensiero. Un teatro delle marionette. Una fantasia. Svanite se distolgo lo sguardo. Riapparite
appena mi giro. Ma ora basta, tesoro. Basta. Ora ho capito. Sparite».
«Cheeee?» muggì lei, poi scomparve nel nulla. Subito seguita dal ragazzo accanto a lei, che
lasciò il mondo con gli occhi fissi sui famosi pantaloni.
Elvis ritornò con calma nella pista principale, dove la calca ballava ignara di tutto. Un battito
di ciglia, e non c’era più nessuno.
Elvis ghignò soddisfatto. Uscì dal Millennium, tornò in mezzo ai punkabbestia che giocavano
col cane. Quello di prima, quello col piercing nel sopracciglio, rise di nuovo. «Ehi, occhialetto,
ancora complimenti per i pantaloni!»
opera galleggiante 31
«I complimenti falli a tua sorella» rispose Elvis. Aveva sempre sognato di dirlo senza subire
conseguenze fisiche disastrose.
Un attimo prima che il punkabbestia lo uccidesse di botte, Elvis schioccò le dita e rimase
solo nel piazzale. Risparmiò soltanto il cane, che si aggirò intorno alla bottiglia annusando la
pozza di vino.
Elvis lo accarezzò. «Vieni, bello, vieni. Sono un dio magnanimo. Non ce l’ho con te. Ti terrò
al mio fianco e ti battezzerò come il mio idolo. Una delle mie migliori creazioni». Guardò la città
addormentata, le luci gialle dei portici. «Osserva, Fonzie. Ora svuotiamo tutto il mondo».
Battè due volte le mani.
Luca Schiavone, Pisa_1, 2007
32
Rientrò con il cane nel Millennium vuoto e silenzioso. Il
suono dei suoi tacchi rimbombava sotto le arcate.
Scivolò dietro il bancone del bar e si versò un doppio
whisky. Poteva reggerlo, ora. Era Dio.
Assaporò il whisky lentamente, immerso nella propria
onnipotenza, mentre Fonzie faceva i suoi bisogni contro
una colonna.
Poi, qualcosa spezzò il silenzio. Una voce.
«Capo, credo che non ho mai visto dei pantaloni così
brutti in vita mia».
Elvis trasalì.
Guardò meglio la sala deserta del Millennium.
Il bue dal collo taurino, quello col maglione a rombi,
c’era ancora. Beveva la sua aranciata, seduto nel suo
angolino.
Elvis sbuffò, infastidito da quell’uso orrendo della
lingua italiana e da quel terribile maglione. «Ancora qui?»
Schioccò le dita seccato. «Sparisci. Devo meditare».
Il bue aggrottò le sopracciglia rigorosamente unite.
Disse «credo che sei matto, capo.»
Non si sognò nemmeno di scomparire.
Elvis lo fissò con odio. «Sparisci! Sparisci, ho detto!»
strillò stridulo.
«Ma sparisci tu, piuttosto» grugnì il bue «con quei
pantaloni schifosi.»
E schioccò a sua volta le dita.
Si guardarono perplessi, da un lato all’altro del locale.
Il cane Fonzie annusava una macchia di birra sul pavimento.
Il bue tamburellava sul tavolino. Il suo misero cervellino si
sforzava di comprendere dei concetti troppo grandi per lui.
«E’ successo cinque minuti fa» stava dicendo «guardavo la luce verde, e di colpo ho capito
che ero l’unica persona reale del mondo. Così ho fatto sparire tutti. Tutti quanti. Tranne te.»
Elvis era accasciato sul bancone, distrutto. Il cane Fonzie lo guardava accucciato sotto una
colonna.
«Non ha senso» guaì Elvis «non ha senso. Il solipsismo non contempla due solipsisti. E’ una
contraddizione in termini.»
marzo ’08
«Il soliche? Parla come mangi, capo».
Elvis sospirò, di fronte a quell’abisso d’ignoranza. «Il solipsismo, dal latino solus, solo, e
ipse, stesso, è la credenza metafisica che l’esistenza in quanto tale sia solo parte degli stati
mentali dell’individuo stesso. In altri termini: tutto ciò che esiste è creato dalla mia coscienza o
è parte di essa. Capisci, ora, cos’è un solipsista?»
Il bue lo fissava con gli occhi bianchi. «Certo, capo, certo. Come dici tu. Non ho capito niente,
ma credo che hai ragione».
«Credo che tu abbia ragione. Abbia. I congiuntivi. Ti prego. Usa i congiuntivi».
«Senti, capo, se io saprei parlare bene mica farei il gommista. Farei lo scienziato, o andrei
in televisione».
«Ah sì? Be’, ho una novità per te. Non fai più il gommista. Non c’è più nessun automobilista
a cui cambiare pneumatici, in tutto il mondo. Non c’è più neanche la televisione. Siamo solo io
e te».
«E che facciamo io e te da soli, capo? Guarda che io non son mica di quella parrocchia lì».
In quel momento, un attimo prima di strozzare il bue con le sue mani, Elvis ebbe un’idea. Lo
guardò con occhi spiritati.
«Dividiamocelo!» gridò.
«Che cosa?»
«Il mondo! Dividiamocelo! Metà a te, metà a me. Possiamo ripopolarlo come ci pare! Siamo
entrambi Dio».
«Metà per uno?»
«Un emisfero a testa. Da trasformare a nostro piacimento, senza interferenze tra il mio territorio
e il tuo. Che ne dici?»
Il bue ragionò, verbo a lui fino ad allora sconosciuto. Alla fine, una lucina fioca si accese nel
grumo nerastro del suo cervello. «Baywatch».
«Baywatch? Cos’è? La serie televisiva? Quella delle bagnine?»
«Proprio quella. Nella mia parte del mondo metterò solo bagnine col costume rosso. Tutte
uguali a quelle di Baywatch».
«Oh, amico, è il tuo emisfero, puoi popolarlo anche con tre milioni di Braccobaldo, per
quanto mi riguarda. La mia metà del mondo, invece, voglio arredarla in stile Happy Days.
Rock’n roll anni cinquanta nei juke-box. Decappottabili parcheggiate al drive in. Le ragazze col
pullover bianco, i ragazzi con le giacche della scuola. Le pomiciate al chiaro di luna. La torta di
mele. Una moto. Sarà il paradiso. Il mio paradiso. Festeggiamo con un brindisi?»
«Sono astemio, capo».
«Brinda con la Coca Cola. No, non importa cercare la bottiglia, amico. Creala». Sollevò il
suo bicchiere. «Al nuovo ordine mondiale. Se tolleri la prosa roboante, alla Nuova Genesi».
«Alle bagnine col costume rosso».
Brindarono.
Un attimo dopo svanirono nel nulla.
Fonzie schivò i due bicchieri, che s’infransero sul pavimento.
Aveva tollerato abbastanza quei due deficienti, il nemico dei congiuntivi e quello che l’aveva
battezzata Fonzie senza accorgersi che era femmina.
Uscì scodinzolando dal Millennium, e cominciò un pezzo per volta a ricreare il mondo.
opera galleggiante 33
ZÁKAZ TLUMOČENÍ – Translating Prohibited
34
Daria Biagi e Valentina Fulginiti
non mi lasciò mai fermar molto in un luogo
e di poeta cavallar mi feo:
vedi se per le balze e le fosse
io potevo imparar greco o caldeo!
Ariosto, Satire
Appeso al muro del castello di Karlstejn, a qualche chilometro da Praga, potete leggere questo
titolo, è un cartello: zákaz tlumocení, proibito tradurre. La visita guidata al castello costa circa
centoventi corone nella lingua nazionale, il ceco, il doppio in inglese, francese, tedesco o
spagnolo; ma ogni volta salta fuori qualche connazionale poliglotto che si infila nel gruppo dei
turisti stranieri e li convince ad acquistare il biglietto più economico, poi traduce tutto lui piano
piano all’orecchio. Così ci hanno messo il cartello, divieto di tradurre, poi per essere sicuri che i
turisti stranieri capissero lo hanno dovuto tradurre, in inglese per lo meno, translating prohibited.
Probabilmente nella realtà capirsi senza tradursi non è proprio dato. Che si passi da una lingua
a un’altra, da un codice a un altro, o solo dal parlato allo scritto, il meccanismo è talmente
automatico che sembra non esistere, eppure il salto di grado si verifica inevitabilmente. Dei
problemi connessi alla pratica del tradurre la letteratura si è occupata da sempre, ma fino alla
contemporaneità non sembra comparire il traduttore come personaggio, come figura indipendente
e narrativizzabile, al pari di un marinaio, un professore, un commesso viaggiatore. Portare
i traduttori sulla scena crea problemi, innanzitutto mette a rischio l’autorità della lingua
in cui si scrive: se qualcuno traduce significa che di lingue in ballo ce ne sono almeno due,
ipoteticamente anche di più, e sullo stesso piano, relativizzate o battaglianti sul corpo della
lingua del testo, che non può non riportarne i segni. Il personaggio del traduttore, inoltre, apre
facilmente la strada alla metariflessione sul linguaggio e sulla letteratura stessa, non molto
diversamente da quanto accade quando tra le figure di un romanzo si intrufolano scrittori o
poeti. Un traduttore è sempre uno scrittore pusillanime, affermava Ortega Y Gasset negli anni
Trenta, è uno che non avendo coraggio di mettersi contro l’impianto poliziesco della grammatica
va a trincerarsi dietro l’opera di qualcun altro; e così un traduttore ci mette poco a diventare
l’alter ego dell’autore. La riflessione sulla scrittura viene dissimulata dietro i guai in cui
incappa chi maneggia le lingue per mestiere, e l’autore può attaccare dalla distanza necessaria
l’oggetto della sua nevrosi quotidiana, la lingua in cui scrive.
Quella che segue è dunque una rassegna (con inevitabili balze e fosse) di traduttori che
compaiono come personaggi in racconti e romanzi del Novecento: da quelli di Landolfi e
Bianciardi fino a Pontiggia e Paolo Nori, provando a gettare uno sguardo anche su autori che si
sono dedicati a questo tema fuori dal filone italiano: Ingeborg Bachmann, Josè Marìas, Terèzia
Mora.
La nostra antologia tascabile si apre subito su un’eccezione: Y, il protagonista di Dialogo
sui massimi sistemi (1937), di Tommaso Landolfi, traduce per diletto o per sfida, e non per
mestiere. Per lui, anzi, tradurre è una conseguenza dello scrivere. Eppure, come spesso accade
ai dilettanti, anche Y ci rivela qualcosa di essenziale della strana fisica con cui si è messo a
marzo ’08
trafficare.
Questo pensatore e aspirante poeta, per liberarsi dalle abitudini linguistiche, ha appreso
privatamente una lingua inventata, spacciatagli per persiano; scoperta l’impostura si ritrova
unico depositario del proprio mezzo espressivo – e, conseguentemente, unico garante della
propria opera. La biunivocità del rapporto segnico non è, apparentemente, messa in crisi; ogni
originale è reso bilingue dalla viva presenza dell’autore, ma tale corrispondenza non ha alcuna
garanzia istituzionale. L’unico esito possibile è una lingua di soli suoni, intrinsecamente poetica,
che rischia di aprirsi sul nulla e sull’afasia.
Siamo immersi nella dimensione cabalistica del compito del traduttore (e forse si dovrebbe
dire vocazione). Non a caso il testo riprende la forma di un dialogo filosofico (tra uno scrittore,
un narratore e un critico: le tre istanze del discorso letterario), mentre la scelta del persiano
apre a un immaginario tra l’esotico e il fantastico, di scrittura cifrata e di antichi misteri. Fin
dalle prime righe, il protagonista è in odore di stramberia alchimistica, «dedito a strani studi
compiuti in solitudine e in mistero come riti» 1 .
La lingua straniera è qui il frutto di una scelta, improntata a criteri di un’estetica che si vuole
assoluta; in questo senso è una narrativa di secondo grado. Alla lingua d’elezione del poeta
si contrappone quella del critico, infarcita di forestierismi, estranea a se stessa e, in fondo,
tautologica («L’arte, [...] l’arte che cosa è tutti lo sanno»): la non-lingua del commonplace, del
vezzo e del conformismo, così simile a quel traduttese che è lo spauracchio di ogni traduttore.
Y ci avvicina all’ideale mistico della lingua, strumento imperfetto capace di mettere in
rapporto con l’assoluto in virtù dei propri limiti, faticosamente oltrepassati e circumnavigati.
A ben guardare, non siamo molto lontani da una qualsiasi definizione di stile, o di idioletto
letterario: ogni parola è frutto di creazione e di invenzione. È questa stessa unicità che priva
il poeta della possibilità di essere inteso, dato che, come per ogni poesia, vale la regola del
traduttore-traditore: la comunicazione – il polo «laico» ed economico della traduzione – si rivale
così sul polo dell’espressione e presenta il suo conto, come sempre salatissimo.
Se in Landolfi la traduzione incarna la sfida dell’assoluto, gli autori successivi ce ne raccontano
la dimensione materiale e lavorativa. Il traduttore partecipa non solo di un grande scambio di
idee o di movimenti culturali; è ormai parte di una vera e propria industria.
Luca Schiavone, L’indif erenza è l’unica rotella incurabile, 2007
il diavoletto di Maxwell 35
La funzione di ricerca linguistica ed estetica non è venuta meno, si è semplicemente
spostata in un ambito quotidiano. Sempre un problema critico accompagna la traduzione
in Lettore di casa editrice, racconto di Giuseppe Pontiggia (1971), il cui protagonista, lettore
incontentabile, scarta una traduzione di Delitto e castigo scambiandola per il solito pasticciato
manoscritto di esordiente 2 .
«Il problema non è solamente quello che si cerca, è soprattutto quello che si trova», dice
l’anonimo lettore di Pontiggia. «Gli errori scoraggiano e in ultimo si finisce col cercarli, per
concludere prima»: di nuovo, la lingua altrui – stavolta tanto assimilata da non apparire più
estranea – è il luogo dell’errore, dove prende piede lo scarto, il «raggiro» demoniaco. La lingua
degli altri cola in quella del narratore e impregna il racconto, disciolta nel testo senza mediazione
diretta. Una pluridiscorsività
imposta finisce
per invalidare la capacità
stessa del giudizio, annullando
le distanze, riducendo
la lettura ad abitudine, priva
di qualsiasi portata creativa.
Di un analogo collasso
discorsivo è preda il
traduttore de La vita agra
– proiezione autobiografica
dello stesso Bianciardi: un
altro traduttore a cottimo,
intellettuale protagonista
del proprio romanzo (anti-)
capitalistico. I dialoghi della
narrativa scandiscono i
propri (anch’essi elevati a
letteratura); la traduzione è
un ritmo, sono le mille lire
Luca Schiavone, Mov_1, 2007
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ad ogni cartella, equamente
ripartite tra mille spese; la
traduzione è tempo di lavoro e tempo del domestico.
Anche qui la dimensione “involontaria” e passiva del traduttore-vittima convive con quella
“programmatica” della ricerca linguistica: il romanzo si fa polifonico per aprirsi al quotidiano,
accogliendo la molteplicità delle lingue e dei discorsi e dei registri e dei testi:
Proverò l’impasto linguistico, contaminando da par mio la alata di Ollesalvetti diobò, e u dialettu d’Urcudunnu,
evocando in un sol periodo il Burchiello e il Rabelais, il Molinari Enrico di New York e il lamento di Travale –
guata guata male no mangiai ma mezo pane – Amarilli Etrusca e zio Lorenzo di Viareggio. 3
Il testo è un complesso vociare: insieme alle modulazioni ed agli accenti (semplicemente
trascritti, senza alcun filtro), si riversano, nella fase traduttiva, registri e stili dei testi tradotti.
Lingue settoriali, giornalistiche e storiche ma anche narrative e, frequentemente, belliche:
al narratore – e al lettore – rimangono nell’orecchio scene di guerra, rumori e presenze di un
contemporaneo che esplode. Sull’altro versante, il significato scambiato è moneta sonante: la
pratica testuale è quindi sottoposta al vaglio di censori implacabili che esigono la trasparenza
e l’automatismo del passaggio interlinguistico (compresi calchi, neutralizzazioni stilistiche
e semantiche, letteralismi e altri «mostri»); e intanto preme l’invasione della nuova lingua di
marzo ’08
plastica del miracolo economico, la lingua-merce, il parlato dei giovani immigrati meridionali al
supermarket, la voce dei telefoni e l’accento delle segretarie. Il traduttore si ritrova posseduto
dalle lingue orecchiate e dalle parole tradotte; vive di ricordi non suoi, fino alla completa afasia,
alla convergenza di tutte le lingue in un unico sogno colloso, appena interferito dalla realtà
del corpo – l’ultima, prepotente, esplosione del testo.
Che il traduttore si metta a pensare a cosa vuol dire quello che sta per dire è comunque
un’operazione sconsigliabile. La buona resa della traduzione, il servizio per il quale lo si paga,
traballa inevitabilmente a contatto con l’umano, ogni volta che, anziché limitarsi a passare
le parole sui rulli delle varie lingue, il traduttore lascia aperte zone d’interferenza con le sue
esperienze o idiosincrasie o fissazioni, tutto quello che costituisce la sua reale personalità
insomma. Il traduttore ideale è quello che ci mette pochissimo del suo, quello per cui le parole
tra le lingue si scambiano con la proprietà commutativa, dove basta schiacciare un tasto
(«Sono C3PO, relazioni pubbliche umani-droidi, conosco più di sei milioni di forme di comunicazione»,
uno così).
Nadia, la protagonista di Simultaneo di Ingeborg Bachmann (1972), ha svolto con la massima
competenza il suo incarico di traduttrice per la FAO, almeno finché non le è passato per la
testa di chiedersi cosa stesse facendo:
era proprio uno strano meccanismo il suo, viveva senza un solo pensiero in testa, immersa nelle frasi degli altri
che immediatamente doveva ripetere come una sonnambula, ma con suoni diversi: di “machen” sapeva fare to
make, faire, fare, hacer e delat’, era capace di girare una parola come su un rullo per ben sei volte, solo non doveva
pensare che machen significa veramente machen, faire faire, fare fare, delat’ delat’, questo avrebbe reso la sua testa
inservibile [...] 4
In queste riunioni di capi di stato e rappresentanti delle nazioni, dove ogni minima sciocchezza
viene istantaneamente tradotta in tutte le lingue possibili («tutto suona molto più
incerto ma anche più solenne»), sembra del resto che non si dica proprio niente: i traduttori simultanei,
invidiati perché messi a parte in anteprima di intrighi internazionali, guerre imminenti,
strategici scambi commerciali, sono quelli che ne sanno meno di tutti, addestrati come sono
a dimenticare nel giro di dieci secondi le frasi che hanno appena tradotto. A qualche anno di
distanza da Simultaneo, il protagonista di Un cuore così bianco di Javier Marìas (1999) sembra
dibattersi ancora con lo stesso problema:
la verità è che in questi organismi l’unica cosa che effettivamente funziona sono le traduzioni, non solo, vi è in
essi un’autentica febbre metaforica, qualcosa d’insano, qualcosa d’immorale, al punto che qualsiasi parola venga
pronunciata (in riunione o in assemblea) e qualsiasi incartamento recapitato, indipendentemente dall’argomento
che tratta, dal destinatario a cui è indirizzato e dall’argomento stabilito (fosse anche segreto), tutto viene immediatamente
tradotto in varie lingue, perché non si sa mai. 5
Indispettito dal fatto di non venir tradotto perché tutti i presenti capiscono l’inglese, un
relatore australiano si mette a parlare col pesantissimo accento dei sobborghi di Melbourne
fino a rendersi incomprensibile (così il simultaneo è costretto a precipitarsi in cabina e tutti
i presenti a infilarsi gli auricolari); il protagonista del romanzo finirà per inventarsi di sana
pianta la conversazione tra un funzionario spagnolo e una collega inglese pur di conquistare la
sua traduttrice-rete, la donna incaricata di controllare il buon esito del colloquio; insomma le
traduzioni restano mentre i contenuti spariscono, il secondo grado polverizza il primo.
il diavoletto di Maxwell 37
Con i personaggi della Bachmann e di Marías ci imbattiamo inoltre in un diverso tipo di traduttore,
il simultaneo, l’interprete, colui che, a differenza di quanto avviene nei giá citati testi
di Landolfi, Bianciardi e Pontiggia, si cimenta con la dimensione orale della lingua, anziché
con un testo scritto. Dolmetscher e Übersetzer, la distinzione benjaminiana si può riprodurre
alla meglio in italiano con “interprete” e “traduttore”, chi lavora in velocità sulla voce e chi
in profondità sulla carta. La realtà è un coro babelico soprattutto per i primi, forse, le lingue
coesistono e vengono parlate tutte in contemporanea, al punto che il plurilinguismo del testo
scritto risulta niente più che una fedele trascrizione, priva di intenti parodistici o comici: semplicemente,
il caos, anche linguistico, è lo stato quotidiano di questo mondo.
Nella generazione degli autori più giovani, quelli che scrivono in questi anni, sono numerosi
i casi di chi anche professionalmente affianca la traduzione alla scrittura. I personaggi sfiorano
l’identificazione con l’autore, diventano più complessi, figure strutturate e problematiche che
non hanno più solo il compito di fare da ponti tra un linguaggio e un altro, tra un mondo e un
altro; è già abbastanza complicato il loro. Terézia Mora, autrice ungherese che vive da quindici
anni in Germania, e il parmense Paolo Nori sono entrambi scrittori e traduttori, rispettivamente
dall’ungherese e dal russo. Il primo romanzo della Mora, Alle Tage (Tutti i giorni, non ancora
pubblicato in Italia 6 ) mette a dura prova i più tenaci lettori da avanguardia, a una domanda in
tedesco si risponde in francese e si controbatte in russo, o in croato, o ungherese, non si sa,
a un certo punto è tutto un groviglio consonantico, verosimilmente una lingua esteuropea?,
difficile da stabilire: comunque in qualche modo ci si è capiti. Il protagonista, Abel Nema, di
lingue ne parla dieci, è un caso da manuale – sebbene di fatto non le parli poi molto, per via di
una sua certa personale timidezza o inadeguatezza, fatto sta che la comunicazione non scorre
come dovrebbe.
Descrivere un libero flusso di coscienza diventa così un fatto difficilmente contenibile entro
i limiti di una lingua nazionale. Sempre che il concetto di lingua nazionale, così come quello
di madrelingua, abbia ancora un senso. Tutto è commistione e trasformazione, senza che per
questo si torni al dramma primonovecentesco dell’incomunicabilità: tutt’altro, trame elaboratissime
stanno in piedi su questa precarietà di parola, legami e rapporti tra i personaggi
vengono intralciati da ben altro che dal linguaggio, e Terézia Mora continua a pieno titolo la
riflessione bachmanniana, insistendo nell’insinuare il dubbio che la lingua madre, quella che
crediamo di «dominare», è proprio quella in cui comunichiamo peggio.
Questo linguaggio definitivamente ricondotto alla sua natura di simbolo spezzato, a due
metà che non collimano, è insomma condizione ormai naturale ed accettata. Babele è un quotidiano
fatto di continue riscritture, senza più nulla di tragico o universale: è un sottofondo onnipresente
in cui l’io non ha nemmeno un margine in cui vivere compiutamente le proprie crisi,
fratture o dissoluzioni. Le parole non sono parole e le persone non sono persone; così anche
nella saga del traduttore e aspirante scrittore Learco Ferrari (creatura letteraria di Paolo Nori).
Eppure si continua a cercare: «che le tue cose, se sono cose, respirano, anche se intorno ci
sono cose che soffocano» 7 . La cadenza del lavoro si è fatta precaria, come precario è l’accordo
tra le lingue e i valori che esse esprimono: ma fragili tregue e momenti di armonia sono ancora
possibili, in un mondo che ha rinunciato agli assoluti:
Una volta, con l’imprevedibile, sentivamo la radio nella sua macchina, c’era un programma di musica jazz e
trasmettevano una canzone che si intitolava The Way You Look Tonight. Il modo in cui appari stasera, traduceva
il digei. Mah, le dicevo all’imprevedibile, non è proprio così. È vero, mi diceva. Nessuno parla così. Il modo in
cui appari stasera. Invece The Way You Look Tonight, diceva l’Imprevedibile, è una cosa che viene giù bene, da
dire. Come stai stasera, le dicevo, ma non va bene, era ambiguo. Come figuri stasera, le dicevo. Che si diceva, dalle
nostre parti, Figuri bene. Me lo diceva sempre mia nonna, Figuri male, con la barba, mi diceva. Che bella cera che
38
marzo ’08
hai, diceva l’imprevedibile. Poi c’era un silenzio di meditazione, dopo dicevamo, insieme, La cera che hai stasera! e
avevamo risolto, in quattro e quattr’otto, un complicato problema di traduzione. 8
Ed ecco che l’imperfezione insita in qualsiasi lavoro traduttivo diventa una liberazione, vissuta
all’insegna del sorriso e della leggerezza, e non più un limite da valicare ad ogni costo. Quanto
più i traduttori moderni e faustiani (eroi della ragione, anche seduti a una scrivania) cercano di
ricondurre la lingua ad un controllo razionale, tanto più violenta è la beffa di cui sono vittima,
di volta in volta finendo a perdersi in un silenzio sbigottito e strambo, o nell’indistinto “gocciare”
di un sesso assonnato e stanco. A meno che, nell’alternativa autodistruttiva tra perfezione
e afasia, non sia il traduttore a fermarsi, accettando di vivere in un mondo di conti che non
tornano. Altrimenti, con un bel ruzzolone nel quotidiano, si svela quale nulla venga rivestito di
formule buone per gli incantatori delle farse (Aga magera dufura natun...) o trasmesso all’infinito
in mondovisione, o stampato e ristampato in una selva di note a piè di pagina. I proclami
e le intenzioni universalistiche, siano quelle della Poesia o dell’Umanità, sono destinati a
scontrarsi ogni volta con le fallacie di piccoli e pusillanimi esseri umani, che mirano all’assoluto
e perdono d’occhio il banale. Che ciò avvenga nella risata liberatrice o nello sperdimento,
nell’afasia o nella volontaria rinuncia alla parola, c’è sempre un corpo che si vendica, riaffermando
i propri diritti su una lingua che noi crediamo di parlare, ma che, in verità, ci parla. In
fondo, anche la dimensione landolfiana del «capriccio», così sottolineata ed insistita, non era
che un modo di riportarci al terreno del ghiribizzo, della voluttà, del puro piacere: per un’altra
strada, al territorio pericoloso e instabile del corpo. E si affaccia alla mente l’idea che il vero
scacco della traduzione, quell’intraducibile su cui ogni testo si apre e ogni lingua si chiude,
non siano tanto gli universali di un linguaggio puro, quanto i valori del corporeo e del particolare:
mathesis singularis, storia inclassificabile di ogni persona.
dariabiagi@googlemail.com
valentina.fulginiti@virgilio.it
1T. Landolfi, Dialogo sui massimi sistemi, in Le più belle pagine, Milano, Adelphi, 2001.
2 Episodi simili succedono anche nella realtà: andatelo a chiedere a David Lassmann, misconosciuto (?) autore
di Freedom’s Temple e plagiario per provocazione, e ai diciassette editor inglesi che hanno rifiutato, senza
riconoscerla, Jane Austen in persona.
3 L. Bianciardi, La vita agra, Milano, Bompiani, 1962.
4 I. Bachmann, Simultaneo, in Tre sentieri per il lago, Milano, Adelphi, 1980 (trad. di A. Pandolfi).
5 J. Marìas, Un cuore così bianco, Torino, Einaudi, 1999 (trad. di P. Tomasinelli).
6 T. Mora, Alle Tage, München, Luchterhand Literaturverlag, 2004.
7 P. Nori, Le cose non sono le cose, Ravenna, Fernandel, 1999.
8 P. Nori, Spinoza, Torino, Einaudi, 2000.
il diavoletto di Maxwell 39
Tabard intervista Kadhim Jihad Hassan
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traduzione di Paolo De Guidi
Kadhim Jihad Hassan è un poeta, saggista e traduttore di origini irachene. Risiede a Parigi dal 1976 ed è attualmente
maître de conférences presso l’Institut National des Langues et Civilisations Orientales (INALCO) di Parigi.
Ha tradotto in arabo, tra gli altri, le opere complete di Rimbaud, le poesie francesi di Rilke ed il testo integrale
della Divina Commedia di Dante. La sua ultima opera apparsa in francese è La Part de l’ étranger - La traduction de
la poésie dans la culture arabe, Arles, Sindbad/Actes-Sud, 2007.
Quando ha intrapreso il suo lavoro di traduzione della Commedia, qual era la situazione delle
traduzioni dantesche nel mondo arabo? Ne esistevano già molte, che diffusione avevano?
Quando ho cominciato a tradurre Dante non c’erano molte cose in arabo dal punto di vista
della traduzione. C’era innanzitutto una traduzione quasi integrale fatta da un professore
e uomo di lettere egiziano, Hassan Osman, che era un professore d’italiano che studiò qui
in Italia subito dopo la seconda guerra mondiale e che ha conosciuto molti filologi italiani e
specialisti di Dante. La sua traduzione dell’Inferno è stata pubblicata nel 1955, l’anno in cui
sono nato io. Qualche anno dopo ha pubblicato la traduzione del Purgatorio e poi il lavoro
è rimasto incompleto. Solo recentemente i suoi eredi hanno scoperto nei suoi archivi, con
cinquant’anni di ritardo, la traduzione che egli aveva fatto del Paradiso. Questa traduzione è
lodevole, davvero notevole, ma secondo me, e secondo la maggior parte dei poeti arabi, non è
veramente una traduzione d’artista o di poeta. È piuttosto la traduzione di un filologo. L’Italia
e l’Europa sono piene di questo genere di traduzioni accademiche: se ne trae il senso e il
significato di Dante, ma non se ne trae l’arte poetica. Solo per dare un esempio, Dante è molto
conosciuto per aver usato e radicalizzato nella sua opera l’uso della terzina. Ora, il traduttore
arabo che mi ha preceduto, l’egiziano, non ha tenuto conto dell’importanza simbolica, formale
e soprattutto ritmica della terzina. Amalgama i tre versi di una terzina in una lunga frase, molto
elegante, ma che rimane, a mio avviso, una frase di prosa. Amalgamare i tre versi in una frase
vuol dire distruggere ab initio l’unità ritmica e formale di Dante. Inoltre egli ha anche scelto un
arabo che è, a mio modo di vedere, arcaizzante, e qui sono d’accordo con la maggior parte dei
traduttologi francesi – anche se piuttosto che traduttologia, termine più tecnico e accademico,
userei “poetica della traduzione” – mi trovo d’accordo con loro quindi quando dicono che
– ed è un’idea a dire il vero di Benjamin, il colloquio di ieri 1 era tra l’altro posto sotto il segno
di Benjamin – le opere sono le stesse ma le traduzioni dovrebbero rinnovarle. Per due ragioni:
innanzitutto perché, nella storia della lettura, ogni generazione scopre nell’opera originale,
traducendola, degli altri significati potenziali che erano nell’opera, che le generazioni precedenti
non hanno colto, e che le generazioni attuali e quelle a venire vedranno; perché l’opera è
inserita nella storia, e la storia arricchisce l’opera facendo sorgere un potenziale che si rinnova
di continuo. D’altra parte, le lingue in cui traduciamo evolvono esse stesse, quindi supporre
che Dante sia divenuto classico e antico, confondere l’antichità e l’arcaismo e pensare che
per meglio rendere Dante in francese o in arabo si debba passare per un francese o un arabo
antico è, io credo, una falsa partenza. Dunque, tornando a quest’opera, mi sono allontanato
da altri tipi di traduzione: la traduzione versificatrice, come quella dei francesi, per esempio,
che utilizzano l’alessandrino per tradurre Shakespeare. Per me non è una traduzione, ma una
sovra-traduzione, si traduce due volte: prima il significato, poi si modella questo significato
marzo ’08
sulla metrica francese. Ma le metriche non combaciano, ogni lingua ha la propria metrica. Io ho
scelto un arabo molto moderno, ma di alta tenuta, perché si può essere moderni senza essere
superficiali e senza cadere nella volgarità, e l’arabo moderno per com’è lavorato da grandi
scrittori e poeti si è avvicinato sempre più al respiro moderno della lingua e si è sbarazzato
di molte scorie e residui arcaizzanti che gli impediscono di funzionare e di avere la velocità e
l’accelerazione necessarie. Quindi ecco come mi sono trovato quando ho cominciato a tradurre
Dante: a parte la traduzione di questo signore egiziano che, come ho già detto, è molto
rispettabile ma datata, non ci sono delle altre vere traduzioni, se non parziali in alcune riviste,
e solo dei canti principali. Ci sono molti studi su Dante che sono spesso riassunti di studi
europei. Qualche settimana dopo la mia traduzione è stata pubblicata anche una traduzione
commerciale fatta dall’inglese, ma senza note, senza ritmo. Nella mia traduzione c’è per prima
cosa la preoccupazione per il ritmo e anche per le esigenze critiche: mi sono ispirato alle note
dei migliori traduttori francesi, soprattutto Jacqueline Risset; ho spiegato i personaggi storici
in Dante, perché se non sappiamo cosa significavano questi personaggi il lavoro non serve a
niente. Così per i simboli cristiani di Dante, ma anche per gli elementi della teologia cristiana
che egli manipola e a proposito dei quali discute con i santi che incontra nel Paradiso. Le
discussioni che ha nel Purgatorio e nell’Inferno con certi personaggi, teologi o storici o artisti:
senza comprendere i nomi, le nozioni chiave, i concetti e i simboli, è impossibile comprendere
Dante per un lettore non italiano. Anche gli italiani attuali hanno bisogno, credo, di un apparato
critico di esegesi per avere accesso a quest’ opera. Quindi per tradurre le opere antiche
dalle quali ci separa innanzitutto una distanza temporale, come quella tra l’italiano attuale e
quello di Dante, poi una distanza culturale, come quella tra arabi e italiani, e quando l’opera
stessa è sovraccarica di simboli e significati storici, teologici e filosofici, il traduttore è tenuto,
a mio avviso, ad essere sia conoscitore dell’opera sia della cultura in cui quest’opera si bagna,
oltre che artista, filologo e commentatore. A condizione però che predomini il poeta. Non deve
essere cioè la figura accademica ad avere il sopravvento: le note devono assecondare l’opera,
ma non rimpiazzarla. È un prolungamento necessario dell’opera. Una volta che i simboli e i personaggi
sono stati compresi, l’opera dovrebbe funzionare da sola.
A proposito della scelta di tradurre col verso libero, non è forse la stessa scelta che fece Dante
quando decise di scrivere la sua opera in italiano invece che in latino, per essere più vicino
a quelli che lo avrebbero letto, alla cultura e ai gusti dei lettori?
Assolutamente. Sarebbe un controsenso tradurre un autore come Dante, che cercava di liberare
la forma della poesia, con una traduzione versificatrice in arabo classico col pretesto che
al lettore arabo piace il “verso versificato”. Non è vero, coloro che parlano a nome del lettore
parlano in realtà a nome delle loro scelte estetiche e della loro ideologia letteraria, perché
anche dietro le traduzioni – Henri Meschonnic l’ha mostrato molto bene nel suo Pour la poetique,
dove ci sono molti capitoli sulla traduzione – non ci sono solo gli scrittori che hanno delle
strategie ideologiche: un traduttore non parla giacché traduce, ma dietro la sua traduzione ci
sono un discorso e delle preferenze. Quindi un traduttore può avere anche un’ideologia: per
esempio coloro che traducono Dante o Ungaretti con metri della tradizione sono traduttori che
difendono la loro strategia di scrittura e la loro incapacità di sfruttare le potenzialità espressive
del verso libero.
Anche Dante è stato un traduttore del suo tempo; ha tradotto la sua cultura in versi semplici
per il lettore medievale.
il diavoletto di Maxwell 41
Certamente, è la rivoluzione che ha fatto. Egli aveva scritto molti testi in latino prima di passare
a quello che oggi chiamiamo l’italiano volgare, cioè l’italiano parlato dalle masse. Quindi non
solo una rivoluzione linguistica, ma una rivoluzione culturale totale.
In che modo ha cercato di rendere il plurilinguismo di Dante?
Un lettore europeo ha meno problemi, grazie al fatto che tutto passa attraverso i caratteri latini
e ad una prossimità semantica delle parole. Un italiano o un francese moderno possono capire
il senso generale di un paragrafo scritto in provenzale. Dante ha usato molte formule latine.
Nell’Inferno, quando ha voluto rendere l’effetto di alcune frasi incomprensibili, ha cercato
anche di imitare l’arabo e l’ebraico. Quando poi ha voluto rendere omaggio agli autori del dolce
stil novo e ai trovatori, come Arnaut Daniel, ha usato il provenzale. Ma tutto ciò un lettore
arabo non può capirlo. Il mio dovere era quindi di giocare tra il corpus e le note. Ho tradotto
tutto in arabo, ma ogni volta che c’era una particolarità l’ho mostrata nelle note, dove a volte
ho addirittura inserito il testo latino o provenzale.
Dal momento che ogni traduzione “perde” inevitabilmente qualcosa, quali sono gli elementi
della Commedia che ha ritenuto irrinunciabili?
L’afflato poetico, l’accelerazione, la coerenza e la coesione tra i versi, l’unità. Mi sono rifiutato
di fare come molti, cioè considerare un verso come un blocco autosufficiente, imprimendo
un silenzio e una rottura tra un verso e l’altro. Ho tenuto a mantenere lo spirito di continuità,
grazie al quale i versi si riproducono tra di loro. La tensione ritmica: il verso libero, come abbiamo
detto prima, non è come la metrica classica, dove si mantiene lo stesso numero di piedi
o sillabe. Nel verso arabo classico bisognava mantenere la stessa quantità di piedi, nel verso
libero invece c’è una variazione sul numero, ma possiamo comunque ottenere una tensione
ritmica, un’ondulazione, a cui ho tenuto molto. Ho fatto attenzione anche al verso dantesco,
soprattutto alle assonanze, perché leggevo nelle traduzioni francesi, ma anche nel testo originale,
molte assonanze. Dante, per meglio comunicare un’emozione, giocava molto col suono
delle parole. Sono quindi stato attento al livello sonoro, all’ aspetto materiale della lingua. La
continuità drammatica poi, perché questa è un’opera unica, come un’epopea; in Dante ci sono
tre regimi di discorso, che sono poi propri di ogni discorso umano quando è totale, da Omero
a Shakespeare, e sono gli elementi principali del discorso: il canto, il racconto e il pensiero. Si
canta, si narra e si riflette. Bisognava dunque essere attenti a preservarli in Dante. Per il canto,
ho tenuto conto dell’immagine, del ritmo ecc.; per la logica narrativa, ho dovuto assimilare
perfettamente le descrizioni dei personaggi o delle situazioni, grazie agli storici e ai filologi che
l’hanno studiato. Bisognava infine afferrare il pensiero di Dante. Chiamerei tutto ciò la filosofia
implicita dell’opera. Ho dovuto dunque studiare quest’ opera nella sua totalità, coglierne il
canto, la narratività e il pensiero.
Com’è stato possibile tradurre i passi più immateriali del Paradiso, quei momenti quasi senza
azione ma di pura verbalità?
Mi sembra un approccio restrittivo, il Paradiso è pieno di azione. Dante sale da un cielo all’altro,
i santi lo ricevono, ha con loro delle discussioni storico-teologiche o poetiche, c’è sempre
l’immagine, lo spettro di Beatrice ben presente, ci sono delle scene quasi postmoderne, dove
c’è solo luce. È un’opera della sinestesia, tutti i sensi sono sollecitati, con colori, con musiche.
È un’ascensione da una visione all’altra, molto vicina per altro a racconti mistici arabi e spa-
42
marzo ’08
gnoli, come quelli di Maria Teresa d’Avila, come Las Moradas o Il castello dell’anima, racconto
concentrico, dove si procede da un castello all’altro e in ogni castello abbiamo una visione.
Anche in Ibn Arabi, il cui racconto mistico è stato accostato a Dante dallo spagnolo Asìn Palacios,
c’è piuttosto un’ ascensione verticale tra i cieli, quella che fece Maometto, scritta ottant’
anni prima della Commedia e tradotta in latino. Molti testi arabi furono tradotti in latino ed
egli era d’altra parte andaluso. Mi interessa poco sapere se Dante l’avesse letto, provare che
avesse delle origine arabe. Quello che m’interessa sono le inter-penetrazioni tra le tre grandi
culture del Mediterraneo. La differenza tra Dante e i mistici mussulmani o cristiani di Spagna è
che mentre questi compiono i loro viaggi di ascensione celeste per una Visione, l’incontro con
Dio, Dante lo ha fatto alla ricerca di Beatrice. Come Orfeo che va nell’altro mondo per ritrovare
la sua amata. Un misto quindi di fede e d’amore, questo è importante in Dante. Ed è come
una metafora del poema, un inseguimento della ricerca poetica. Questa per me è l’azione
del Paradiso, non certo un’azione da film americano, ma un’esplosione di bellezza poetica e
sensoriale.
Berman afferma che nelle traduzioni emergono aspetti impliciti nelle opere originali: ritiene
che nella sua traduzione siano individuabili passaggi in cui ha avuto luogo un processo del
genere?
Sì, ci sono due impliciti: un implicito amoroso e uno poetico. I lettori delle epoche precedenti
hanno letto Dante come simbolo di una certa fede cristiana e hanno affrontato determinati
problemi storici. Queste sono le dimensioni che ho privilegiato ed accentuato nelle note e
nell’introduzione, che è un testo di 136 pagine, un vero e proprio libro nel libro, dove ho riletto
Borges, Ungaretti, e tutti coloro che hanno scritto su Dante; dove ho studiato il suo rapporto
con Virgilio, questo bisogno di avere una guida, il dolore per il suo maestro pagano che non
può seguirlo oltre un certo limite. L’implicito poetico inizia appunto dalla scelta di farsi guidare
da un poeta; è quindi possibile leggere la Divina Commedia come una metafora della ricerca
poetica, una ricerca dell’incontro con il poema. In uno dei Nove saggi su Dante, Borges ipotizza
che Dante abbia scritto tutta l’opera solo per inserirvi il canto dell’incontro con Beatrice nel
paradiso terrestre; possiamo sicuramente parafrasarlo dicendo che Dante ha forse scritto
la sua opera per sperimentare il massimo potenziale possibile della lingua poetica italiana.
L’altro implicito è il dire amoroso, forse più importante della dimensione storica e teologica,
e che lega Dante ai trovatori e all’amore cortese arabo che lo precedono, la cui origine Dante
riconosce e omaggia nel canto di Arnaut Daniel. La filosofia cortese della donna assente, assente
materialmente, non certo spiritualmente: possiamo parlare con Derrida di telepatia, non
nel senso banale di sentire le stesse cose, ma nel senso più libero, generoso e aperto di essere
abitato dall’altro e allo stesso tempo abitarlo, astraendo i limiti spazio-temporali. Non è certo
perché Beatrice non è più di questo mondo che cessa di essere una figura passionale per colui
che l’ama.
Nel lavoro di Berman, dal momento che lo avete citato, anche altre nozioni e postulati hanno
attirato la mia attenzione. Sono soprattutto la questione della “ritraduzione” delle opere
antiche e quella della necessità di procedere verso un “nouveau littéralisme” o un “littéralisme
nouvelle manière”.
C’è un suo libro, pubblicato postumo dalla moglie dopo la morte precoce, che s’intitola
La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza ed è una riflessione sulle traduzioni di
opere antiche. L’opera più sviluppata in questo testo è la traduzione francese fatta dal filosofo
Pierre Klossowski dell’Eneide di Virgilio. Klossowski, che era soprattutto traduttore di Nietzsche
oltre che scrittore e pittore, ha fatto un lavoro rivoluzionario traducendo quest’ opera,
il diavoletto di Maxwell 43
attenendosi a seguire la sintassi latina. Alcuni puristi francesi lo hanno attaccato dicendo che il
suo era un linguaggio incomprensibile, una maniera di oltrepassare il francese. Ma egli è stato
anche difeso da grandi scrittori e filosofi, come Foucault e Deguy. Berman gli rende omaggio e
su quest’ opera fonda la sua nozione di nouveau littéralisme: non si deve cercare la letterarietà
all’antica, cioè un calco parola per parola, ma un rispetto per la carica semantica e la costruzione
sintattica della frase di partenza. A condizione certo che passi nella lingua di ricezione,
che lo si possa comprendere. Una delle idee principali di Berman, alla quale mi attengo, è che
ogni generazione che avverte una distanza culturale, come quella che separava me dal primo
traduttore di Dante, dovrebbe ritradurre i classici: Omero, Dante, Virgilio, Shakespeare, Petrarca,
Leopardi, Goethe; perché, e qui torniamo al nostro punto di partenza, le opere maturano
nel tempo, sorgono nuovi potenziali, la nostra maniera di leggerli cambia, la nostra maniera di
tradurli cambia.
Come ha preparato l’apparato critico e le note? A quale pubblico ha immaginato di rivolgersi?
Mi rivolgo sempre ai lettori di poesia. Certo, non solo ai professionisti della critica letteraria
o agli intellettuali della poesia, ma neanche ai semplici lettori: non si può certo leggere
Dante all’inizio del proprio percorso, bisogna comunque avere una certa cultura letteraria.
Nella prima pagina della mia introduzione spiego che le note sono eteroclite: innanzitutto
ci sono i riassunti condensati dei commenti europei di spettabili specialisti che hanno
dedicato la loro vita al suo studio. Il mio dovere è stato anche dipanare le moltissime note
che spesso si contraddicevano. Ho dovuto quindi selezionare i passi più validi e convincenti,
condensarli e aggiungere infine le mie note che aiutano il lettore arabo a decifrare
e assaporare questo testo secondo la sensibilità araba, elemento che i commentatori
europei non potevano certo tenere in conto.
Come si inserisce la traduzione, anche letteraria, nel contesto di interscambio culturale
tra Oriente e Occidente e come si è evoluta? In che modo si può considerare uno strumento
politico? Crediamo infatti che non sia un fatto politicamente insignificante quello di tradurre
Dante in arabo proprio ora.
È evidente: la traduzione aiuta la comprensione tra le genti. Anche i più grandi poliglotti
hanno bisogno ad un certo punto della traduzione. Gli Stati possono e devono intervenire
per aiutare i programmi di traduzione, facilitare l’invio di borsisti per esempio e lo scambio
di competenze scientifiche. Tutto ciò aiuta. Ma per tornare alla poesia, alla traduzione
della poesia e della letteratura in generale, io credo che il talento individuale sia essenziale;
un talento che lo studio, ovviamente, conferma e consolida. Io vedo insomma nella
traduzione letteraria una missione che richiede talento, passione, cultura: quando si
entra nel dominio artistico questo è ciò che ci vuole, dal momento che si tratta sempre di
un’avventura poetica. Tradurre Dante o qualunque altro poeta europeo è per me un atto
innanzitutto poetico, solo dopo politico e umanistico. Certo, la traduzione deve aiutare
l’avvicinamento tra i popoli e le culture ma, trattandosi di poesia, ciò si ottiene soprattutto
attraverso l’apertura degli immaginari poetici gli uni verso gli altri.
1 La soglia sull’altro - i nuovi compiti del traduttore, giornata di lettura a cura de La bottega dell’elefante, tenutasi a
Bologna il 5 dicembre 2007.
44
marzo ’08
I traduttori, i traditori e gli amanti di Fernanda, la
principessa
Lorenzo Mari
It is normally supposed that something always gets lost in translation;
I cling, obstinately, to the notion that something can also be gained.
S. Rushdie, Imaginary Homelands
L’emersione implica spesso il
riattraversamento di un mezzo,
non importa se liquido o grafico.
È così per esempio (anche se
non si darà certo qui una lettura
univoca di alcuni fenomeni
“polisemici per definizione”)
che le letterature cosiddette
“emergenti” 1 , cioè tanto le letterature
post-coloniali quanto le
letterature di migrazione – non
necessariamente scaturite da
scenari politici post-imperiali, e
comunque segni di una marginalità
interna paragonabile alla
linea di esclusione colonizzatori/
colonizzati 2 – si avvalgono con
sorprendente frequenza delle
tecniche di secondo grado.
Dalla riscrittura alla traduzione alla parodia: gli slittamenti del canone euro-centrico sono
virtualmente infiniti – per contenere adeguatamente l’analisi (ma non l’emersione), si deve qui
forzosamente scegliere un solo parametro critico, che possa essere però il più ampiamente
unificante. Si propone allora, con l’intento di scandagliare, tra le altre, la letteratura italiana di
migrazione, la questione della lingua, sintomatica sia per tutto ciò che risponde alla definizione
di “secondo grado”, sia, in ottica storico-comparativa, per gli interessi di una più generale
tradizione letteraria.
Proprio a partire dalla discriminante linguistica, in effetti, la letteratura italiana di migrazione
è stata molto spesso considerata, da un lato, come svincolata dal corpus letterario italiano,
e, dall’altro, dal discorso post-coloniale 3 . Dividere o ri-collegare, in base alla lingua, non è qui
Paolo De Guidi, da Les ombres du Louvres, 2007
allora una sterile questione accademica, una semplice disputa sulle etichette; rivela, piuttosto,
l’urgenza anche socio-politica di riallacciare il vincolo perduto, nella storia italiana, con un
passato coloniale colpevolmente dimenticato, la cui contenuta – si fa per dire – azione temporale
ed economica rispetto ad altri imperi non può servire da giustificazione per un oblio, che
si può talora rivelare di marca nazionalista – finiamola, insomma, con la retorica degli “italiani
brava gente”, il generale Rodolfo Graziani docet...
Ciò stabilito, è pur vero che affrontare la questione della lingua è cosa un poco più ardua,
in quanto, ad esempio, l’italiano non si è mai insegnato stabilmente nei territori colonizzati
il diavoletto di Maxwell 45
durante il Ventennio 4 , non vi è nazione ufficialmente italofona fuori dell’Italia, l’italiano è, nella
gran parte dei casi, una lingua che si impara soltanto in Italia.
Parlare dell’italiano migrante, nonostante le esperienze sicuramente interessanti della
Svizzera Italiana e dell’Argentina, non è, quindi, come parlare dell’inglese in India, del francese
nel Maghreb o dell’afrikaans in Sudafrica – lingue che hanno prodotto alcuni corpus letterari
post-coloniali “certificati”. Ad ogni modo, quella dell’italiano alloctono è un’esperienza
molto articolata e stratificata, per effetto di un’acquisizione molto variegata di seconda
lingua (l’italiano è stato imparato in strada, sul posto di lavoro, a scuola, dalla televisione, ai
corsi più o meno qualificati di italiano per stranieri...); al tempo stesso, si tratta, rispetto agli
altri casi citati, di una lingua comunemente caratterizzata da una competenza meno strutturata,
perché meno scolastica, meno accademica, meno presente ab origine nelle culture e
nelle espressioni artistiche delle comunità migranti. La vulgata, anche nella sua versione politically
correct, vuole che queste particolari condizioni abbiano offerto il fianco a interventi
di traduzione e riscrittura molto consistenti, spesso a carattere censorio, se non oppressivo,
sulla letteratura migrante. Le riscritture nei testi della letteratura di migrazione, esistenti e
numericamente consistenti, sarebbero quindi dovute a pratiche di potere molto più che di
comunicazione, passanti, ambiguamente, per una stessa (?!) scrittura – ma questo genera
un problema fisico, prima ancora che critico. Se sappiamo di chi è la prima (ma se è la prima,
non avrà più importanza?) e la seconda mano (ma, essendo due mani, non si scrivono già
una sull’altra, e una nell’altra, concretizzando già in questo momento le logiche dell’incontro/scontro
e dell’ibridazione culturale?), sulla terza e la quarta i dubbi, anche extra-letterari
e politico-morali, possono essere legittimi.
Nel caso che analizziamo, si tratta perlopiù delle mani di giornalisti italiani, certamente
interessati più al “fenomeno-migrazione” che non alle sue espressioni creative, di penne
probabilmente viziate dal sensazionalismo che è sempre stato fatto sul tema. Tra l’altro, a
disdoro della nostra teoria, questi interventi si sono condensati in una fase che sembra cronologicamente
ben definita, nella giovane storia di questa letteratura – agli ‘albori’ (1990-1994),
posto che questi si possano sempre concretamente rintracciare, cioè che, in altre parole, le
storiografie letterarie si possano assumere ancora in tutto e per tutto, ingenuamente, come
dati veritativi... (In queste considerazioni serpeggia il mito di una primitività necessaria, di
uno stato di ignoranza da colmare in qualche modo con l’arrivo dei nostri. L’arrivo della nostra
cavalleria – della “nostra brava gente”, come si diceva...)
Metodologie critiche realmente spendibili prevedono però un passaggio concreto per i
testi. In una rassegna molto rapida e impressionista, incontriamo, tra 1990 e 1994, libri dalle
vicende decisamente poco fortunate – per esempio, il dissidio di Nassera Chora a proposito
di Volevo diventare bianca (e/o, 1993) con la sua giornalista-tutor Alessandra Atti di Sarro ha
condizionato pesantemente il silenzio di Chora dopo la pubblicazione del suo libro d’esordio –
accanto ad alcuni veri e propri best-sellers, limitatamente alle capacità di vendita del genere,
come quelli di Pap Khouma-Oreste Pivetta (Io, venditore di elefanti, Garzanti, 1990) e di Salah
Methnani-Mario Fortunato (Immigrato, Theoria, 1990, ripubblicato da Bompiani nel 2006).
Oltre al successo di pubblico, comunque garanzia di ricadute benefiche su entrambi gli autori,
si può osservare in questi testi, tra loro molto difformi, come la questione della lingua sia
declinata in tutti i suoi possibili aspetti, non solo in quello della correzione/censura. Parallelamente,
anche la scrittura a due mani, autobiografica o più decisamente fictional, ha dato risultati
analoghi, di grande molteplicità: gli ipercorrettismi spontanei di scrittrici-traduttrici come
Jarmila O kayovà e Vesna Stani emettono scintille se accostati alle lingue ruvide, ma sempre
tutto sommato decifrabili, di Mohamed Bouchane e altri.
In questa prospettiva, anche ponendo il caso-limite, per il momento non modellabile su
46
marzo ’08
alcun testo conosciuto, di uno scrittore che non conosca l’italiano, si ipotizzi pure analfabeta
(anche se già così è chiaro che si rendono patenti le contraddizioni insite a un vero e proprio
genere letterario, la cosiddetta “letteratura dell’ignoranza” 5 ) che detti a un amanuense/correttore
di bozze “malintenzionato”, non si esce dai limiti di un’assiomatica piuttosto chiara, che
si può considerare inoltre come tipica di una critica autenticamente, passionalmente militante
che si eserciti in campo post-coloniale.
La si riassume in due passaggi.
In primo luogo, nei libri delle letterature emergenti, come insegnato da Deleuze e Guattari,
vi è una chiara predominanza della valenza politica su quella estetica, ritenuta autonoma
soltanto dalla critica europea/eurocentrica tradizionale: chi parla, lo fa per una collettività (per
la famiglia, per la comunità
migrante, per la comunità d’origine,
locale o nazionale...) in un
esercizio di sopravvivenza che
è individuale, sul modello di
Sheherazade, e al tempo stesso
socio-politico.
In seconda battuta, è da
considerarsi perfettamente
ammissibile un libero compromesso
tra due autori, specie se
come in questo caso si tratta
di un esperimento-base di
interculturalità. L’opera d’arte,
non più bisognosa di autonomia,
non necessita neanche dei
crismi di originalità e di indivi-
dualità. La responsabilità dello
stile, che è pur sempre uno stilo
impugnato contro qualcuno o
Paolo De Guidi, 2007
qualcosa, è certamente presente, ma non presuppone più che si affronti in modo esclusivo una
norma linguistica. Conseguentemente, gli scrittori italiani della migrazione non scrivono in una
sorta di pig italian, come ebbe a dire, infelicemente, Giovanni Raboni nel 1998, forse per un
lapsus originato dalla parola pidgin (una definizione in ogni caso meno violenta, e sicuramente
più plurale). Non si tratta, allo stesso modo, di scrittori totalmente liberati, e liberi, rispetto alla
lingua – un altro caso teorico impossibile.
Le quattro mani testimoniano invece di uno sforzo condiviso, reciprocamente arricchente,
non solo limitante, che agisce tanto contro l’arbitrio del singolo quanto in funzione delle diverse
comunità di appartenenza, operando a più livelli. La concretizzazione esemplare di questi
concetti si può trovare in un testo “estremo” come Princesa, di Fernanda Farías de Albuquerque
e Maurizio Jannelli (Sensibili alle Foglie, 1994).
La storia autobiografica di Fernando/Fernandinha, il viados brasiliano ribattezzatosi Princesa,
ovvero “principessa”, è una storia di strada, di violenze che si ripetono sempre uguali, e
sempre diverse, tra Brasile, Portogallo e Italia. In Italia, però, l’aggressione a un affittacamere,
la cui disonestà ha fatto naufragare i sogni di tranquillità economica di Fernandinha, le viene a
costare il carcere. Rebibbia Nuovo Complesso, sezione G8, detto il “penalino” per gli standard
detentivi leggermente migliori rispetto al resto della prigione: forse stimolata dai laboratori
artigianali e artistici per detenuti/e, forse pungolata da un nuovo incontro propiziato da Eros
il diavoletto di Maxwell 47
(in assenza di erotismo), con il pastore sardo Giovanni Tamponi, condannato all’ergastolo per
una serie di rapine a mano armata, Fernandinha decide, dietro le sbarre, di iniziare a scrivere
la propria storia. Scrive però esclusivamente della sua vita libera: il récit si conclude alle porte
del carcere, che per lei sono anche le porte della morte – stando a W. Benjamin, la vera Autorità
di ogni narratore che si rispetti.
La lettera di Fernanda sarebbe destinata a rimanere lettera muta, se non fosse per l’intervento
di recupero voluto da Giovanni Tamponi, insieme all’intellettuale di turno, l’ex brigatista
Maurizio Jannelli, anch’egli detenuto nel carcere di Rebibbia. Tramite il Tamponi, Jannelli può
raccogliere i quaderni gialli di Fernandinha, leggerli e decidere, con il consenso di lei, di pubblicarli.
In vista di questo traguardo, Jannelli riscrive ‘pesantemente’, secondo un’ottica tradizionale,
per rendere leggibili (ovvero facilmente leggibili, come si è detto di molti testi modernisti,
da Joyce in giù) i testi che ha sotto mano. Lo si può constatare analizzando un estratto del
manoscritto originale:
Diana si chiamava un transse con 35 anni di età e un corpo perffetto, fatto di silicone, ma haveva il vizio deformatto,
il suo vizio spaventava qualsiasi persona, imagina hei cliente. Lei tchera una grande dificolta perché
qualsiasi uomo quando vedeva il suo vizio scapava. Di giorno non usciva mai, che moriva di vergogna, il vizio
sembrava due palone, il collo era come un congomello. Devito il defformato del vizio, hanno messo il suo nome:
Diana, Fofao, Fofao vuol dire una cosa piena grossa, come un palone […]
Un giorno li ho questo per che non faceva una chirurgia plastica, ma lei dice si fasceva la chirurgia plastica perdeva
un occhio che già aveva penetrato il silicone al ochio. Poi eranon tanti soldie. Poi nel anni di 87, si uscide inpicata
Diana dentro una chiesa a San Paolo. 6
che è stato così reso nel libro:
Diana Fofao ha perso la faccia, ha perso tutto. La nasconde al sole e alla vista dei clienti. I suoi occhi: due biglie
lucide affondate, sparite dentro una devastazione al silicone. La sua bocca: un taglio rosso-schifo su un pallone
gommapiuma. Diana fofao s’era bombata il viso e non le restava niente. Deformata, repellente […] La materia è
entrata dentro l’occhio. Diana fofao è guasta, forma andata a male. Se toglie il silicone è cieca: non vedrà più il
mondo che la guarda. Senza operazione le rimane solo un mondo che la schifa. Lava i cessi e fa le pulizie dentro
una pensione. Faccia senza luce, entrò in una chiesa e si tirò una corda al collo – fiore di plastica appassito. 7
Il pastiche linguistico a base di portoghese, italiano e dialetto sardo non inficia del tutto
la lettura del primo testo. Non siamo quindi davanti a un monstruum, ma a un’espressione
piuttosto libera, nonostante i condizionamenti (e alle correzioni) sotto ai quali nasce, e a una
forma stilisticamente già ben determinata. Le frasi sono brevi, incisive, recano i segni della
violenza ma non disdegnano la metafora – ad esempio della “forma andata male” – che cura
le ferite “portando oltre”. Certamente, è nel secondo testo che affiora più compiutamente
uno stile lirico, probabilmente proprio di Maurizio Jannelli più che di Fernanda, ma che non è
dovuto, o non è dovuto soltanto, a una sua sovra-interpretazione. Maurizio Jannelli, infatti, non
desume la storia di Fernandinha unicamente dalle righe di lei, che forse si possono davvero definire
stentate – ma che in ogni caso, in virtù di questo stento sono anche righe vive... Princesa
nasce anche da una parafrasi e da un commento emozionale di queste storie che fa Giovanni
Tamponi a Maurizio Jannelli: ne risulta un processo di scrittura, e ri-scrittura, complessamente
triangolato – anche se poi, agli atti, risulteranno esserci stati solo due autori, Jannelli e Farias
de Albuquerque. Nessuno dei due, però, avrebbe potuto o voluto sopprimere la figura di
mediazione di Giovanni, che si presentava fisicamente a Fernanda, veniva investito di parole
e come corpo scritto si restituiva a Maurizio. Giovanni è la vera creazione di Fernanda, il frutto
vivo e vegeto – e parlante, più che scrivente – di uno choc sessuale, che Princesa ha portato su
di sé, in quanto personaggio tradotto 8 sia nell’identità nazionale che in quella di genere, ma ha
48
marzo ’08
anche esibito in maniera contagiosa, verso il pastore sardo praticamente analfabeta e verso
l’ex-brigatista dalla morale sessuale dichiaratamente veterocomunista (cfr. Note introduttive a
cura di M. Jannelli).
Apice di tutto un percorso della quale ella è stata (in)felicemente inconsapevole, Princesa
ha cambiato le storie degli altri, e non viceversa – come la stessa migrazione, del resto, ha
sconvolto e cambiato la storia italiana degli ultimi trent’anni per mezzo dell’irruzione di un
Altro come soggetto di colonizzazione e non più come oggetto da colonizzare.
Per tornare alla questione della lingua, infine, il pastiche linguistico anarchico ed ostico, ma
non ostile, alla lettura, creato da Fernandinha con l’ausilio sotterraneo di Giovanni Tamponi,
ha lasciato alcune tracce nel testo riscritto da Jannelli. Queste impronte, comunque preziose,
sono le stesse che si possono rinvenire nella generalità dei testi della migrazione: parole o
espressioni singole (la più evidente, nel soprannome di Diana fofao), calchi sintattici, costruzioni
semantiche nuove e originali. Fernandinha, che deve farsi capire, le isola dal testo, parafrasando
tutto ciò che non può, secondo lei, essere capito da Giovanni o da Maurizio. Maurizio
Jannelli, che deve fare e farsi sentire, le immerge in un continuum testuale, garantendo loro
pari dignità rispetto alle altre parole. Non sono dunque segni rilevanti: lo choc sessuale, il
cambiamento morale, la rivoluzione politica non si giocano sul piano strettamente linguistico
– come ha sostenuto ad esempio Mia Lecomte 9 , in polemica con Raboni – bensì si applicano
anche al discorso tutto, alle sue possibilità effettive di farsi udire, alle chances di emergere.
Coincidendo piuttosto bene con il meccanismo che sta alla base della letteratura minore codificata
da Deleuze e Guattari:
Di solito, in effetti, la lingua compensa la sua deterritorializzazione con una riterritorializzazione nel senso. 10
lejosdeitalia84@yahoo.it
1 L’etichetta di Emergent Literature è stata coniata dal critico Wlad Godzich nel saggio Emergent Literature and the
Field of Comparative Literature (1988, ripubblicato in W. Godzich, The Culture of Literacy, 1994).
2 H. Bhabha, Dissemination, saggio contenuto in Nation and Narration (1990) e riscritto successivamente – tanto
nel titolo, DissemiNation, quanto nel corpo del testo – per The Location of Culture (1994).
3 Un abbozzo di discorso postcoloniale in ambito italiano si trova in Poetiche dei mondi di Armando Gnisci (Meltemi,
1999) e in pochi altri testi.
4 L’insegnamento dell’italiano nelle colonie, un fenomeno ancora poco studiato e conosciuto, era comunque stato
promosso con una qualche consapevolezza dal regime fascista, se nel 1937 in Eritrea fu avviato ufficialmente un
piano per l’istruzione, che tuttavia rimase lettera morta per il concomitante inizio della seconda guerra mondiale,
mentre in Somalia l’insegnamento dell’italiano rimase nelle scuole, parallelamente alla lingua somala, ufficializzata
solo nel 1972, fino alla crisi militare – sicuramente post-coloniale, quanto a questo... – dei primi anni Novanta.
5 Si veda a tal proposito il recupero da parte di Marcello Baraghini e di Stampa Alternativa di uno “scrittore analfabeta”
come Daniele Boccardi (1961-1993).
6 «Caffé – Rivista interculturale», n. 1, sett. 1994, pp. 4-5.
7 M. Jannelli - F. Farias De Albuquerque, Princesa, ed. Sensibili alle Foglie, 1994, p. 158.
8 La definizione di translated men ci viene da un saggio di Salman Rushdie riguardante la condizione del migrante,
contenuto in Imaginary Homelands (1991, p. 17): Having been borne across the world, we are translated men. Nella
stessa opera è contenuta la citazione posta in esergo a questo lavoro.
9 M. Lecomte, intervento al Secondo Seminario degli Scrittori Migranti (2002) organizzato dalla rivista Sagarana
(http://www.sagarana.net/scuola/seminario2/sabato_mattina.htm).
10 G. Deleuze - F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Feltrinelli, 1975, p. 36.
il diavoletto di Maxwell 49
A rovesciare le fiabe:
Wilde sovvertitore di Andersen
50
Matilde Montesi
Nella Grammatica della fantasia Gianni Rodari analizza la possibilità di usare la fiaba popolare
come materia prima per esercizi narrativi a carattere parodistico, dal rovesciamento al pastiche.
«È un gioco più serio di quanto sembri. Ma bisogna giocarlo al momento giusto. I bambini,
quanto a storie, sono abbastanza a lungo conservatori. [...] Quando sono pronti a separarsene
come da un vecchio giocattolo esaurito dal consumo, accettano
che dalla storia nasca la parodia, un po’ perché questa sancisce
il distacco, ma un po’ anche perché il nuovo punto di vista
rinnova l’interesse alla storia stessa, la fa rivivere su un altro
binario» 1 . In effetti, questo gioco è stato praticato da tutti gli
autori o compilatori di raccolte fiabesche sia nei confronti della
fiaba popolare che degli scrittori che li avevano preceduti. André
Jolles fa una considerazione interessante sulla fiaba letteraria
che, con Le piacevoli notti di Straparola (1550-53) e ancor più
con il Pentamerone di Basile (1634-36), si pone come genere
sostitutivo della novella: «nel Pentamerone Gian Alesio prende
in giro Giambattista, e Abbattutis volge in parodia, in napoletano,
quanto Basile venera in italiano, ovvero Boccaccio e Marino.
[...] Nella cornice viene imitato il Decameron... ma la forma che
contiene il tutto è essa stessa una fiaba» 2 .
Come nota Jack Zipes, posta la distinzione fra racconto popolare
e fiaba letteraria per bambini, non è difficile seguire la storia
di questo genere e delinearne le caratteristiche. La fiaba letteraria
nasce dal racconto popolare, ma in essa «la moralità e l’etica
di un ordine civile cristiano sarebbero diventate parte integrante
– talvolta fardello» 3 . Infatti il racconto popolare si svolge in
una dimensione priva di principi morali; Jolles parla invece di
Paolo De Guidi, 2007
etica dell’evento o morale ingenua: il giudizio non è orientato al
comportamento bensì all’evento, ed è implicito nella forma della
fiaba. La fiaba letteraria per bambini nasce invece dall’esigenza
di socializzazione dell’infanzia. Dal gioco cortigiano di Basile si passa alle moralités di Perrault,
«responsabile della “borghesizzazione” letteraria del racconto popolare» 4 , proseguita nell’Ottocento
dai fratelli Grimm lungo una strada che porta dritta a Walt Disney. I Contes di Perrault
(1697) pongono i valori e i comportamenti della classe media al centro del discorso fiabesco, e
forniscono un modello per l’infanzia mediante i racconti di ammonimento che premiano la virtù
e castigano il vizio. Si può dire che la fiaba tradizionale valorizza sempre il “movimento”, cioè
il cambiamento, l’ascesa sociale (per quanto disciplinata) del soggetto debole, e l’antagonista
è chi al movimento si oppone, e deve pertanto essere punito. Invece la fiaba “socializzante”
fa spesso ricadere il castigo su chi ha voluto il movimento, su chi ha manifestato curiosità.
Così dal modello popolare di Cappuccetto Rosso, nel quale l’eroina accetta la sfida del lupo e
si salva con l’astuzia, si passa al finale pauroso di Le Petit Chaperon Rouge, con la bimba divorata
dal lupo, e a Rotkäppchen dei Grimm, nella quale la salvezza viene dalla figura paterna
del cacciatore. E se nel finale di Biancaneve dei Grimm la cattiva matrigna è costretta a ballare
marzo ’08
con pantofole arroventate, in una fiaba come Le scarpette rosse di Hans Christian Andersen è
la protagonista, colpevole di avere indossato le scarpe rosse in chiesa, che deve ballare senza
sosta e infine subire la mutilazione dei piedi.
Con le sue 156 fiabe, pubblicate tra il 1835 e il 1872, Andersen entra nel canone dei classici,
accanto al binomio Perrault-Grimm. Andersen crea una fiaba nuova, unendo elementi degli
autori romantici a spunti autobiografici, con una forte componente di riscatto personale. Zipes
definisce Andersen un campione della socializzazione, un prosecutore e un innovatore del
«canone di fiaba letteraria per bambini e adulti in lode dell’ideologia essenzialista e dell’etica
protestante» 5 . Andersen scrive con esplicito intento didattico, si rivolge a un pubblico più di
adulti che direttamente di bambini, inserisce massicciamente il tema religioso nel discorso
fiabesco – come si è visto, con intenti di ammonimento molto marcati – e, da dominato di umili
origini, aspira al riscatto tutto individuale dell’accettazione da parte della classe dominante. A
quell’epoca, nota ancora Zipes, il pregiudizio della classe media contro il carattere fantastico
della fiaba viene meno, con il «graduale riconoscimento del fatto che la fantasia poteva essere
impiegata per le esigenze utilitaristiche della borghesia» 6 . Un concetto centrale nell’opera di
Andersen è quello di nobiltà naturale, dell’attitudine innata che porta ad elevarsi al di sopra
della propria condizione per unirsi a chi è veramente affine, come accade nel Brutto anatroccolo,
chiaramente a carattere autobiografico 7 .
Vediamo ora come e perché Oscar Wilde, con altri autori anglosassoni di fine Ottocento,
abbia giocato a rovesciare e parodiare Andersen, ben presto assurto al rango di classico, nelle
sue raccolte di fiabe, Il principe felice e altri racconti (1888) e Una casa di melograni (1891).
La fiaba d’autore di Wilde prende certo Andersen come modello di riferimento (ad esempio, il
personaggio della piccola fiammiferaia nel Principe felice), ma mira a criticare invece che a legittimare
il processo di civilizzazione. All’ideologia essenzialista, che fonda la gerarchia sociale
su un ordine biologico naturale, Wilde contrappone un’utopia socialista-religiosa, esposta nel
saggio L’anima dell’uomo sotto il socialismo (1891) e illustrata in fiabe come Il gigante egoista,
«forse il suo più intenso pronunciamento sui rapporti capitalisti di proprietà e sul bisogno di
ristrutturare la società sulla base di criteri socialisti» 8 . La prospettiva ideologica polemica si
esprime spesso mediante il rovesciamento (Zipes parla di sovversione) delle trame e dei temi
anderseniani ben noti al lettore. Ad esempio, Il pescatore e la sua anima è in tutto speculare
alla Sirenetta: se nella fiaba di Andersen è la sirena a entrare nel mondo degli uomini per
acquistare un’anima immortale, subendo la mutilazione e la sofferenza, qui il pescatore deve
liberarsi della propria anima sfidando il parere della chiesa e della società per vivere nel mare.
È il corpo ad essere sede dei sentimenti positivi, mentre l’anima induce al peccato in quella
che si può leggere come una parodia delle tentazioni di Cristo, oltre che come una ripresa del
mitologico giudizio di Paride. Il brutto anatroccolo trova il suo rovesciamento parodistico nel
Figlio della stella: al cigno incompreso dagli inferiori e accettato dai suoi veri simili corrisponde
un bellissimo figlio di re vanitoso e crudele che maltratta chi è meno fortunato di lui finché
non viene punito nell’aspetto. Dietro questa coppia di fiabe troviamo il mito di Narciso, di cui
Il brutto anatroccolo è un rovesciamento: l’anatroccolo si conosce come cigno nel riflesso
dell’acqua, e cioè si scopre uguale agli uccelli da lui ammirati, ma la conoscenza di sé non gli
è fatale, è anzi la ricompensa delle sue disgrazie e comporta l’accettazione definitiva nel ruolo
che gli compete. Per il figlio della stella si rivela invece salvifica la presa di coscienza, sempre
nel riflesso dell’acqua, della propria bruttezza, mentre il recupero della bellezza (del quale fa
fede uno scudo-specchio) porta ad un finale solo parzialmente lieto: «peraltro egli non regnò
a lungo: così grande era stata la sua sofferenza e così violento il fuoco della sua prova, che in
capo a tre anni morì. E il suo successore fu un pessimo re» 9 . Un’altra agnizione davanti allo
specchio, grottesca parodia di quella di Narciso, e altrettanto fatale, è quella del nanetto de-
il diavoletto di Maxwell 51
forme nel Compleanno dell’Infanta: il nano scopre la propria bruttezza e muore per il dolore di
essere stato lo zimbello della principessa, sotto gli occhi dei bambini nobili, che lo applaudono
pensando a una recita. Oltre al Brutto anatroccolo Wilde prende qui di mira L’usignolo, che
Andersen aveva pensato come una parabola sull’arte e sul rapporto fra artista e potenti. L’usignolo
dall’aspetto dimesso e insignificante e dalla voce magnifica, ovviamente una proiezione
dello stesso Andersen, trova dapprima la protezione paternalistica dell’imperatore, ma poi si
vede preferire un congegno meccanico. Dopo che l’usignolo ha salvato la vita al suo mecenate,
«acconsente a diventare l’uccello canterino dell’imperatore per sempre a patto di poter andare
e venire quando vuole. Il feudalesimo è stato sostituito da un sistema di libero scambio, e
tuttavia l’uccello/artista è disposto a servire fedelmente e a lasciare l’autocrate al potere» 10 .
Anche quando Andersen fa dell’ironia sulle classi superiori, si limita a stigmatizzare il comportamento
di singoli indegni (proprio come fra gli inferiori individua singoli eletti per natura),
come ne I vestiti nuovi dell’imperatore, che Wilde riprende con Il giovane re. Il protagonista di
questa fiaba, cresciuto tra i pastori e poi accolto a corte, alla vigilia dell’incoronazione fa tre
sogni che gli svelano come il lusso di cui si circonda derivi dallo sfruttamento dei lavoratori.
Decide allora di presentarsi alla cerimonia indossando i suoi vecchi abiti, il che gli procura
l’ostilità della corte, del popolo e del clero. L’affermazione ideologica è qui forse la più radicale
in Wilde: «il rifiuto dell’abito, della corona e dello scettro è una negazione della proprietà
privata, degli orpelli e di un potere ingiusto» 11 .
Dal Principe felice che non riesce con l’azione individuale a sanare le ingiustizie sociali, al
Figlio della stella che tenta di riscattarle accettando il martirio, fino al Giovane re che lascia
la strada aperta all’utopia, le fiabe di Wilde abbondano di figure cristologiche, proprio come
la lingua in cui sono scritte ricorre a stilemi biblici. Se Andersen ambiva a essere riconosciuto
come il “cigno di Danimarca”, è ovvio che Wilde si identificasse con la figura del Cristo, ma «se
da una parte Cristo viene visto come un modello di antiautoritarismo e umanesimo, dall’altra
deve essere superato per intraprendere una comune lotta alla conquista della felicità, e quindi
della realizzazione del socialismo. [...] Paradossalmente la lotta dell’individuo contro la società
non è abbastanza per la creazione dell’individualismo, che prevede una costruzione collettiva
del paradiso in terra» 12 . Le fiabe di Wilde vanno oltre il “movimento” tradizionale che sostituisce
la figura di potere ma lascia intatto il ruolo, per auspicare un cambiamento radicale della
società: cambiare di segno Andersen fa parte della loro critica alla socializzazione in conformità
ai modelli dominanti.
1 G. Rodari, Grammatica della fantasia, Torino, Einaudi, 2001, pp. 54-55.
2 A. Jolles, La fiaba nella letteratura occidentale moderna, ne I travestimenti della letteratura. Saggi critici e
teorici (1897-1932), trad. di S. Contarini e R. Zuppet, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 134-135.
3 J. Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della sovversione, trad. di G. Grilli, Milano,
Mondadori, 2006, p. 23.
4 Ibidem, p. 72.
5 Ibidem, p. 129.
6 Ibidem, p. 130.
7 Andersen si identificava con la figura di Aladino e intitolò La fiaba della mia vita un’autobiografia riscritta
per tre volte e «infarcita di distorsioni e abbellimenti». Cfr. J. Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm?, cit., p.
140 e p. 339.
8 J. Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm?, cit., p.198.
9 O. Wilde, Complete Short Fiction, Londra, Penguin, 2003, p. 164.
10 J. Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm?, cit., p. 155.
11 Ibidem, p. 196.
12 Ibidem, pp. 192-193.
52
marzo ’08
La letteratura italiana in Cina: il caso di Dario Fo
Francesca Bavecchi
Durante gli ultimi anni nel mercato editoriale cinese si è registrata la comparsa di un’ingente
quantità di testi stranieri, con un’ampia sezione di opere italiane. 1
Sebbene la diffusione della letteratura occidentale in Cina sia un fenomeno relativamente
recente, le prime traduzioni in cinese dei più celebri capolavori stranieri risalgono già alla
seconda metà dell’ottocento: si tratta di trasposizioni approssimative, effettuate dal russo, dal
giapponese e dall’inglese.
Le prime versioni elaborate direttamente dall’italiano compaiono nel paese solo attorno al
1960 ed aumentano vertiginosamente negli anni seguenti, quando vengono condotti anche i
primi studi di italianistica .
È a questo punto che il lavoro di traduzione inizia ad essere percepito come un processo
di trasformazione linguistica e negoziazione fra parti, spesso influenzato dalle richieste delle
case editrici, dalle aspettative dei nuovi lettori, e più in generale da fattori politici, economici
e culturali. 2
Effettuando un’analisi comparata fra opere italiane e relative versioni cinesi, appare evidente
come traduzione e mediazione siano operazioni inscindibili.
Gli scrittori italiani attualmente conosciuti in Cina sono numerosi, ma una posizione di
riguardo è quella di Dario Fo, autore particolarmente apprezzato sia dagli amanti della letteratura
che dagli appassionati di teatro. Le sue opere, caratterizzate da uno stile popolare e giullaresco,
hanno richiesto un lavoro di traduzione più attento rispetto a testi redatti in una forma
più classica, e costituiscono pertanto una materia d’analisi utile a fare luce sulle tecniche di
trasposizione dall’italiano al cinese.
Le prime opere di Fo tradotte in cinese, e contenute in una raccolta stampata nel 1998 3 ,
sono Fanfani rapito, Mistero buffo, Claxon trombette e pernacchi, Grande Pantomima con bandiere
e pupazzi grandi, piccoli e medi e Morte accidentale di un anarchico.
Per avere un’idea di come queste traduzioni siano state effettuate, e quali effetti abbiano
avuto sull’opinione pubblica locale, si può considerare il caso di Morte accidentale di un
anarchico «一个无政府主义者的意外死亡» (yige wuzhengfu zhuyi zhede yiwai siwang), di Lu
Tongliu 吕同六.
L’arrivo dell’ «Anarchico» in Cina
Risale al 1970 la prima pubblicazione in Italia di Morte accidentale di un anarchico, opera di
controinformazione sulla morte di Pinelli, anarchico indagato a seguito della strage di Piazza
Fontana e precipitato dal quarto piano della Questura di Milano durante un interrogatorio.
La commedia arriva in Cina solo nel 1998, a seguito del conseguimento del Nobel e del
riconoscimento a livello internazionale dell’autore.
Il traduttore è Lu Tongliu吕同六, un celebre italianista. Il suo primo incontro con l’ Italia
avviene a Shanghai, da bambino, durante gli anni cinquanta. Negli anni settanta entra nell’Accademia
delle Scienze Sociali, ma la Rivoluzione lo costringe ad abbandonare gli studi e
il diavoletto di Maxwell 53
ecarsi in campagna. Dopo un periodo di rieducazione trascorso in un villaggio al centro della
Cina, torna a dedicarsi alla propria passione per le lingue e le culture straniere, messa da parte
durante la rivoluzione. Nel 1979 si trasferisce a Roma, dove ha inizio un’intensa attività di
traduzione.
L’opera di Fo arriva in teatro grazie a Meng Jinghui 孟京辉, un giovane artista noto per i
suoi esperimenti d’avanguardia. Meng inizia a lavorare negli anni novanta, portando in scena
Beckett, Genet, Pinter, Jonesco. Solo successivamente inizia a scrivere opere proprie, ma il successo
critico e commerciale arriva proprio con Morte accidentale di un anarchico, con la messa
in scena di quello che lui stesso definisce «Il tema della rivendicazione della dignità umana, un
valore universale, appartenente a tutti e non ad un singolo paese».
La traduzione
La trasposizione delle opere di Dario Fo in cinese ha richiesto un grande lavoro di mediazione
linguistica e culturale: l’analisi effettuata sul testo cinese di Morte accidentale di un anarchico
è stata condotta facendo riferimento al metodo di analisi suggerito da Barchudarov nell’opera
Lingua e traduzione. Di seguito, i principali espedienti adottati dal traduttore:
Resa di nomi non traducibili: il prestito fonologico
Il prestito fonologico è un sistema che consente di riprodurre il suono dei nomi che non
possono essere tradotti, attraverso l’uso di caratteri cinesi di scarso valore semantico, e senza
ricorrere ad alcun alfabeto. Ecco alcuni esempi:
«Freud»: 弗洛依德 (Fuluoyide)
«Hitchcok»: 希区柯克 (Xiqukeke)
«Totò»: 托托 (Tuotuo)
«Noè»: 诺亚 (Nuoya)
«Roma»: 罗马 (Luoma)
«Venezia»: 威尼斯 (Weinisi)
«Milano»: 米兰 (Milan)
«Alleluia»: 哈利路亚 (Haliluya)
Resa di espressioni onomatopeiche
Nella maggior parte dei casi Lu Tongliu ha scelto di non riproporre il suono onomatopeico
originale, ma di tradurlo, perché non comprensibile per i lettori cinesi.
«Gnam»: 发出咬噬的声音 (Fachu yaoshide shengyin), «Emette il rumore di un morso ».
«Preett»: 发出可怕的咂舌头的声音 (Fachu kepade za shetoude shengyin), «Emette un
rumore tremendo con la punta della lingua » .
«Accenna bacetti di addio “bciu bciu”»: 作告别的飞吻 (Zuo gaobiede feiwen) «Manda baci
volanti di addio».
Le note
Il traduttore ricorre a note esplicative per chiarire il significato di alcune espressioni: si tratta
prevalentemente di nomi geografici, di personaggi famosi e di riferimenti a nozioni di cultura
generale o a vicende italiane poco note all’estero.
哈理路亚 (Haliluya), «Alleluia: 系犹太教和基督教的欢呼声,意为“赞美神, (Xi youtaijiao
he jidujiao de huanhusheng yiwei “zaomeishen”), è un’esclamazione dei cristiani e degli ebrei
54
marzo ’08
simile a “Lodiamo gli spiriti”».
贝加摩市(Beikamo shi), «Bergamo: 意大利北部城市 (Yidali beibu chengshi), Città dell’Italia
del nord».
紧身衣 (Jin shen yi), «Camicia di forza: 束缚疯子用的衣服, (Shufu fengzi yong de yifu),
indumento usato per legare i matti».
神风 (Shenfeng), «Kamikaze: 系二次大战期间义自杀性轰炸闻名的日本空军敢死对, (Xi
er ci dazhan qijian yi zisha xing hongzha wenming de riben kongjun gan si dui), durante la
seconda guerra mondiale, squadre di temerari dell’esercito giapponese, celebri per gli attacchi
di carattere suicida».
班迪挨 (Bandiai),
«Bandieu: 法国精神分
析专家, (Faguo jingshen
fenxi zhuanjia), psicanalista
francese».
托托 (Tuotuo), «Totò:
意大利当代著名喜剧
演员, (Yidali dangdai
zhuming xiju yanyuan),
famoso attore comico».
格利哥里一世(Geligeli
yishi), «Gregorio Magno:
罗马教皇,有 “中世纪教
皇之父” 之称,(Luoma
jiao huang,you zhongshiji
jiaohuang zhifu” zhi
cheng), Papa di Roma definito
il padre della chiesa
medievale».
Paolo De Guidi, 2007
Resa di espressioni volgari
Il linguaggio adottato da Dario Fo è ricco di espressioni di carattere popolare. Quello che ne
deriva è una grande vivacità espressiva, difficilmente riproducibile in modo fedele in un’altra
lingua. Ecco alcuni esempi:
«Per dio»: 我的天哪!(Wode tian na!), «oh cielo!»
«Caro il mio fregoli del porcogiuda»: 我亲爱的下流痞 (Wo qinaide xialiu pi), « cara la mia
volgare canaglia».
«Porco boia»: 混蛋 (Hun dan), « mascalzone, furfante».
«E’ entrato con una tale boria manco fosse il padreterno»: 他进来的时候那副派头太好像
是个了不起的人物 (Ta jinlaide shihou fu paitou haoxiang shige buliaoqide da renwu), «quando
è entrato si è comportato come se fosse una persona straordinaria».
«Quel disgraziato»: 那鬼东西 (Na gui dongxi), « quella cosa diabolica».
«Carogna»: 坏蛋 (Huai dan), « uovo marcio».
« ‘Sti vermi»: 那些卑鄙的小人 (Naxie beibi de xiaoren), «quegli ometti spregevoli».
«Governo bastardo»: 狗的政府 (Gou de zhengfu), «governo cane».
il diavoletto di Maxwell 55
56
«Prendere per il sedere»: 踢我的屁股了(Ti –wode- pigu le), «prendere a calci nel sedere».
«Sfottere»: 耻笑(Chi xiao), «schernire».
Traduzioni impossibili: omissioni
Attraverso l’analisi comparata si riscontrano omissioni di varia natura: in alcuni casi si tratta di
parole di scarso valore semantico, talvolta volgari o di difficile resa, mentre altre volte di concetti
politicamente scomodi. Ad esempio viene omessa la frase: «Ma cos’è , il vangelo secondo
Zhou Enlai?», trattandosi di un riferimento troppo diretto ai problemi di libertà di espressione
e repressione in Cina, che il
traduttore ha scelto di non
riportare.
Ricezione dell’opera
Per quanto possa sembrare
sorprendente, la commedia
in Cina non ha incontrato
alcun tipo di censura.
In primo luogo, dichiara
Meng Jinghui, l’ “intoccabilità”
artistica di Fo, con
il Nobel e le sue posizioni
politiche, ha legittimato la
circolazione del lavoro, e lo
ha protetto dalle critiche.
Inoltre sia il tradut-
Paolo De Guidi, 2007
tore che il regista hanno
cercato, nelle loro trasposizioni, di mantenere evidente il legame fra la vicenda e il contesto di
origine: l’italianità della storia è sempre in primo piano, in modo da suggerire una riflessione
applicabile anche alla Cina, ma mai in modo troppo violento e diretto. Questo è stato possibile
grazie all’omissione volontaria di riferimenti troppo espliciti alla situazione cinese e, nella performance
teatrale, attraverso il frequente inserimento della parola “Italia” e “italiano”, assenti
nel testo originale.
Non solo l’opera non è stata censurata, ma è stata accolta con entusiasmo dalla critica.
Nel presentare l’artista al pubblico straniero le riviste si soffermano sulla narrazione delle
sue vicende biografiche: quella che si delinea è la figura di un intellettuale rivoluzionario,
molto simile al modello di artista promosso da Mao. La critica definisce Fo come un “attore
totale”, in grado di armonizzare tutte le capacità espressive del teatro, riconoscendone pienamente
l’abilità in base a canoni propri della cultura cinese.
Alcune caratteristiche del teatro di Fo, come l’aspetto popolare e militante, assimilate
negli anni della Rivoluzione, tornano in Cina trent’anni dopo, quando la demaoizzazione ha
permesso la diffusione di nuovi modelli. La sua produzione richiama alla mente dei più giovani
alcuni valori dimenticati, risvegliando il coraggio della lotta per i propri ideali. A questo proposito
il messaggio di denuncia lanciato nel paese assume un grande valore. Il fatto che la com-
marzo ’08
media non abbia incontrato particolari resistenze da parte della censura cinese, come è invece
accaduto in Italia negli anni settanta, è anche indicativo dei recenti tentativi di accordare agli
artisti una maggiore libertà espressiva. A questo proposito, il traduttore dichiara: «Tutti sanno
che Fo è un critico aspro del regime e dei costumi della società, e se la prende contro il burocratismo
del capitalismo. Le sue critiche vanno bene anche in Cina, dove ci sono fenomeni di
corruzione, c’è la criminalità. Quanto alla difesa dei diritti civili, i cinesi cominciano a prestare
attenzione a questo problema. Ma abbiamo una lunghissima storia di feudalesimo: per passare
ad una società moderna e democratica ci vuole tempo. Lasciatecelo». Come ad avvalorare
la tesi di Lu, durante lo stesso anno della traduzione dell’opera di Fo, nasce per la prima volta
a Pechino un dibattito pubblico fra intellettuali e giornalisti sugli abusi di potere della polizia
e sulla libertà di informazione. L’incontro avviene nella sede dell’Unione per lo sviluppo della
Cina, e costituisce una concessione straordinaria da parte del Partito.
L’anno successivo esplode uno scandalo grazie alle testimonianza di un’ ex-poliziotta,
Zhang Yaochun, che svela episodi di corruzione e violenza nella Cina meridionale. Grazie all’
azione di protesta civile condotta dalla donna, arrestata più volte, si apre in Cina un’inchiesta
nazionale che ha provocato la radiazione di migliaia di poliziotti.
Nonostante la politica di partito sia già da tempo orientata verso un maggior rispetto dei
diritti umani, la necessità di mantenere ordine nel paese ha determinato l’alternarsi di fasi di
relativa apertura ad altre di dura repressione.
Recentemente numerose associazioni hanno denunciato come, alle porte dei giochi olimpici,
la censura su media ed internet sia tornata ad essere più stretta, come anche il controllo su
attivisti, migranti, minoranze etniche e religiose.
In questa cornice, l’opera di Fo porta nel paese un messaggio attuale, che continua a costituire
un importante spunto di riflessione e dibattito, un piccolo passo avanti nel percorso verso
la democrazia ed il rispetto dei diritti umani.
francesca_bavecchi@hotmail.com
1: Per l’elenco delle opere italiane tradotte in cinesi si consulti: Carlo Laurenti, Bibliografia delle opere italiane
tradotte in cinese dal 1911 al 1999, a cura dell’Ufficio Culturale dell’Ambasciata d’Italia a Pechino, 1999.
2: Per la teoria della traduzione si consulti: Lydia H. Liu , Translingual Practice. Literature, National Culture, and
Translated Modernity-China1900-1937, Stanford University Press, 1993, o anche : Umberto Eco, Dire quasi la
stessa cosa, Milano, Bompiani, 2003.
3: Lìu Tongliu (a cura di), Le commedie di Dario Fo达里奥-福戏剧作品集, Yi Lin Chubanshe 译林出版社,
Nanchino 南京, 1998.
il diavoletto di Maxwell 57
Una vigile incertezza: il secondo grado della critica
58
Mimmo Cangiano
Poco più di quarant’anni fa Jean Starobinski, cercando di definire la sua idea di «relazione
critica», ebbe a scrivere:
Se sono adeguati, l’oggetto da interpretare e il discorso interpretante, si legano per non lasciarsi più. Formano un
essere nuovo composto da una doppia sostanza. […] Il paradosso apparente è che, nel ricevere conferma della sua
esistenza indipendente, l’oggetto
debitamente interpretato fa ormai
parte anche del nostro discorso
interpretativo, diviene uno degli
strumenti grazie ai quali potremo
cercare di comprendere a un tempo
altri oggetti e la nostra relazione
con essi.
Nel suo entrare in contatto
con il lavoro del critico
l’opera, quale che sia, pare
rivestirsi di un’antinomia:
perde il suo connotato di
opera (di oggetto da interpretare)
per diventare a sua
volta strumento di interpretazione.
È dunque nell’atto
ricettivo-interpretativo che
Paolo De Guidi, 2007
il prodotto artistico smette
di essere forma, smette di essere sistema chiuso, per
farsi veicolo di una doppia apertura, di una doppia contaminazione: la critica fa l’opera aperta,
l’opera apre il sistema interpretativo del critico.
La relazione critica è un incontro di due soggettività estranee che, nel vicendevole tentativo
di comprensione, oppongono mutuamente resistenza. L’Altro non si trova in me, non ho
il potere di rivestirlo tout court con la mia soggettività, se non riesco a riconoscerlo in quanto
differenza non potrò fare altro che assimilare il dissimile: estrarre l’opera dalla propria forma
per chiuderla in un’altra.
Alla fine del suo Amore Swann riconosce lucidamente che quella Odette per cui tanto aveva
sofferto neppure gli piaceva: non era il suo genere. Non sta mentendo, è in una cattiva relazione
critica che va ricercato il nocciolo del suo dolore. Non riconoscendo il soggetto a sé estraneo
come soggetto differente, Swann non è più riuscito a distanziare quell’oggetto dal suo
orizzonte di comprensione, l’ha fuso con esso, ha usato la propria interpretazione come uno
specchio dentro il quale rimirare il simulacro di Odette:
marzo ’08
L’espressione «opera fiorentina» rese un gran servizio a Swann. Gli permise, quasi come un attestato, di far entrare
l’immagine di Odette in un mondo di fantasie in cui non aveva avuto accesso fino a quel momento e dove si impregnò
di nobiltà. E, mentre la visione puramente carnale che aveva avuto di questa donna, rinnovando continuamente
i dubbi sulla qualità del viso, del corpo e di tutta la sua bellezza, appannava il suo amore, quei dubbi furon
dissolti, quell’amore consolidato quando ebbe come base i dati di un’estetica certa».
L’estetica certa, la forma che Swann ha proiettato su Odette, rivela la natura aprioristica della
sua operazione: rifiutando alla donna un intero orizzonte di tradizione (credenza, conoscenza,
esperienza) si è fatalmente esposto all’errore. Il cortocircuito che si instaura fra la sua «lettura»
di Odette e ciò che realmente Odette è lo condurrà al culmine della disperazione, dove,
niente di strano, comincerà a fantasticare della morte di lei: solo nella morte infatti Odette
riacquisterebbe quella fissità da «opera fiorentina» che Swann gli aveva cucito addosso.
Quella doppia contaminazione, che avevamo riconosciuto come fondamentale nella relazione
critica, si rivela qui fallimentare perché uno dei due Sistemi (Swann e Odette) che avrebbero
dovuto vicendevolmente contaminarsi, è rimasto inesorabilmente chiuso. Per apparente
paradosso è proprio la volontà di Swann di restare incontaminato ad esporlo ai pericoli della
contaminazione: se fosse stato disposto ad aprirsi all’Altro, se fosse cioè stato disposto a
riconoscere la sua presa di Odette come una relazione provvisoria e doppiamente determinata,
necessario preludio ad una reciproca trasformazione, il suo Sistema chiuso di partenza non
si sarebbe più dato come tale, non avrebbe cioè letto lo scarto fra la sua immagine di Odette
e la vera Odette sotto la luce dell’ambiguità, del compromesso, della contraddizione, poiché
sarebbe stato privo di qualsiasi idea pregressa di chiusura e di purezza.
Swann sostituisce se stesso all’oggetto da interpretare, fa l’interprete più forte del testo:
questo il suo errore.
Riconoscere uno dei due elementi come superiore all’altro conduce ad una parodia della relazione
critica. Anche l’errore opposto infatti, la cognizione di un testo superiore a l’interprete, è
foriera di sventure. Se la contaminazione reciproca si svela come assenza di contaminazione e
inno all’apertura, la contaminazione unilaterale espone quello dei due membri non disposto a
farsi contaminare ai rischi della stessa contaminazione.
Nel secondo caso però è l’azione del personaggio contaminato che svela il ridicolo della
posizione ieratica e inattaccabile dell’altra parte in causa. Personaggi buffi come Don Chisciotte,
Madame Bovary, l’Odisseo pascoliano (ma l’elenco è interminabile) sintetizzano bene
la questione: l’assoluta fedeltà all’Idea (cavalleresca, basso-romantica, epica) detta in loro
tipologie di vita e li blocca in una posizione che per quanto tragica non può comunque non apparire
ridicola. Il loro modello (l’oggetto – la teoria – che hanno di fronte e che devono interpretare)
li schiaccia. Sono lettori troppo deboli, si fanno sopraffare dal testo e diventano tutt’uno
con esso. Anche in questo caso la contaminazione è dunque settaria: viene contaminato solo il
personaggio e non la teoria, ma è per l’appunto ciò a esporre la seconda, che si è manifestata
come incontaminabile, ad una condizione caricaturale.
mimmo.cangiano@libero.it
il diavoletto di Maxwell 59
Quarantena
Presentiamo due poeti giovanissimi: Carmine De Falco e Luigi Nacci
Carmine De Falco
60
a cura di Luca Ariano e di Mimmo Cangiano
Proponiamo in anteprima alcune poesie tratte da Diario Climatico 2007. Il titolo è di per sé
sintomatico dell’argomento di cui trattano questi versi pubblicati in forma di diario; De Falco
conferma la maturità già intravista nella sua seconda raccolta e, come nel suo stile, lo sguardo
verso la realtà circostante si fa sempre lucido ed impietoso: «il condizionatore a manetta», «la
sera sul balcone / per avere fresco e scaldarci», «scappare in tempo, / con grazia senza far la
figuraccia / del fifone» in cui il poeta mette in risalto il clima impazzito e le nevrosi contemporanee.
Nella poesia intitolata 3-5 la critica del poeta campano alla società dei consumi è
ancora più dura: «nella lotta quotidiana a predire / il fine settimana più conveniente» in cui
l’interesse privato viene prima di quello collettivo e dove l’influenza dei mass media sulle
nostre vite fino a plagiarci è palese: «fornire scenari / di cupa novità, determinare l’agenda,
fomentare / giornali». In questa poesia è evidente l’uso dell’inarcatura che De Falco ha usato
spesso anche nelle precedenti raccolte dove però le parti dialogiche erano maggiori. In 6-6
(quasi un numero diabolico, da inferno) l’attacco all’ansia di apparire a tutti i costi, di esserci
comunque è evidente in questa strofa: «Tutta la gente che si fotografa / con queste macchinette
digitali / lo sa che niente resta / nei tempi dei deliri di / immortalità post umana?» La
domanda che si pone il poeta è quasi una risposta inquietante alla nostra epoca che ha ormai
superato il post-moderno ed è entrata nel post-umano. In Maggio (ultima poesia nella nostra
selezione) descrive «il clima di ostilità che circonda l’odore / di diossina che esala come i primi
/ schizzi di un temporale» e il pessimismo sul cambiamento climatico lascia poche speranze al
futuro: «perché non capiamo che l’estate / non c’è ancora e la primavera / s’è cancellata».
La poesia di De Falco nel solco di Pasolini segue l’onda di Flavio Santi e può essere accostata
alla seconda generazione dei poeti anni ottanta post Opera Comune come: Nota, Zattoni,
Sanchini, Ferri e Amabili, ma il suo timbro è ben riconoscibile e dotato di una propria voce.
Da diario Climatico 2007
17-1
Inverno 7 lobotomizzato
appiattito, senza riflessi
messo in vetrina sottovuoto
artificializzato sulle piste
da sci cfcizzato specchio
che rigetta un mediogrigio
le grida di un falco disorientato
sugli alberi di
piazza Municipio 7 inverno
***
***
16-3
Congeleremo l’inverno un po’ nel freezer,
un po’ nel banco frigo del market
sotto casa, più giù dei pilastri l’inverno
in un agone a luglio col collega che accende
il condizionatore a manetta. Il calorifico
per lo sfizio di restare in maglietta, a maniche
corte un po’ all’aperto la sera sul balcone
per avere fresco e scaldarci
poi le mani sul metallo del sifone
del viaggio esotico per l’ebbrezza
del tifone atlantico, restare
in guardia penzoloni per lo tzunami
nel Pacifico: scappare in tempo,
con grazia senza far la figuraccia
del fifone.
3-5
marzo ’08
Meteorologi e climatologi
non s’incontrano quasi mai.
Gli uni impegnati nel contingente,
nella lotta quotidiana a predire
il fine settimana più conveniente
le montagne più fresche, le prime
calde spiagge, il mare più
piatto, gli altri a calcolare
algoritmi complessi, applicare modelli
plausibili e globali, fornire scenari
di cupa novità, determinare l’agenda, fomentare
giornali.
Poi ci s’incontra sto maggio nei treni
tra uno schizzo di pioggia
e un fascio di raggi sudato
tra un orlo d’ombra fredda
e un pino arso dal sole.
***
6-6
Tutta la gente che si fotografa
con queste macchinette digitali
lo sa che niente resta
nei templi dei deliri di
immortalità post umana?
…che poi se anche rimanesse
un’immagine, una slide-show, una gallery
è ancora di nuovo una fotografia
di uno che non si sa più chi sia.
Carmine De Falco è nato a Napoli nel 1980. Laureato in scienze della comunicazione, lavora come web editor e
collabora a riviste di cultura. Ha pubblicato le raccolte di versi “Linkami l’immagine” (Fara 2006) e “Loop Vernissage”
in “Specchio poetico” (Fara 2007). È presente nell’antologia degli autori selezionati del concorso i Miosotìs
(Edizioni d’If 2007).
***
Maggio
Come un inizio caldo
pre-torrenziale asfissiante
e poi pioggia fitta e gradi
di nuovo bassi e fini fradicci
e amuleto contro l’aridità del tempo
il clima di ostilità che circonda l’odore
di diossina che esala come i primi
schizzi di un temporale
di là da venire che cadono
come gocce in un effusore di aromi
e l’aroma è quello dell’asfalto
carico di polveri sottili
che a ogni tocco, d’acqua,
si sprigionano, in su all’aria
alle narici. E il primo sole
che fa villeggianti da weekend
si contrappone allo scroscio torrenziale
alle vittime teenager sugli scogli
violenti ai moti ondosi
che naufragano gli immigrati dalle
coste Sud e in tv ci si chiede se salvare
profughi sui barconi o lasciarli
sprofondare nel lavoro obliato
del mare, ma quanti morti
troveranno i ricercatori tra mille
anni lì nello stretto tra Sicilia
e Nord Africa, tra Marocco e Spagna
e tra miliardi di anni nelle montagne
della Tunitalia, i fossili
di corpi olivastri innalzati
sulle cime taglienti dai bordi
affilati come le onde di questo
maremoto che affonda e poi
si fa terra e roccia profonda
e riporta su e svela
quante falangi e campi d’osso
e mummie gelate. Qui in
questo maggio fradiccio che ci
lascia esterrefatti e senza suoni
perché non capiamo che l’estate
non c’è ancora e la primavera
s’è cancellata
quarantena 61
Luigi Nacci
In questa trilogia anche Luigi Nacci si muove nell’orizzonte del post-umano, un orizzonte declinato
in senso epico, dove, nel tentativo ricostruttivo che la parola mette in atto, si squadernano
i bordi di un tessuto etico.
Eppure la ricompattazione delle tracce sembra il compito affidato a un cadavere, come è
forse sottolineato dal ritmo da ballata del primo componimento (organizzato nella sigla minacciosa
del refrain), espressione di un Io ancora ansioso di tenersi a galla, ma già costretto a fare
i conti con un cupio dissolvi che lo marca stretto.
È poi evidente che ci si trova di fronte a un rito, dunque di fronte ad una classificazione
simbolica, dove lo strumento della ripetizione diviene tecnica di insegnamento ma anche segnale
di morte, rovesciato però nell’utilizzo del tempo futuro che, ambiguamente, ricatta il rito
stesso preparando così il campo alla fase successiva: quella della metamorfosi.
Ma è poi davvero una fase successiva? Non è forse tutto intricato? La Voce che dà unità
all’opera e l’orchestrazione dei piani e dei personaggi che ne segnalano la dialogicità?
I nomi da fare sono certo quelli di Pagliarani, di un certo Caproni, ma la saturazione scenografica
priva di raccordi sintattici porta un gradino sopra gli altri Corrado Govoni: è una scena
nominale affollata che risente di un certo gusto liberty vissuto in una simpatetica riedificazione
d’antan. Lo slegamento del tessuto sintattico (presente in parte anche nel secondo e nel terzo
componimento) presuppone una poesia dove le «cose», abbandonate spesso nella loro nudità
fenomenica, si rivelano feticci implosi del senso, ma proprio in virtù di ciò memorabili e non
crepuscolari. E a fare al futuro un poemetto della memoria viene fuori la lezione della sconfitta,
fondo urlante dell’intera opera del triestino Nacci.
INTER NOS. Trilogia del prima e del dopo (2005-2006)
I
Avrai poche cose ma quelle le avrai:
la forfora nei vasetti, i ciuffetti
di sebo, il pelo perso a primavera.
L’urna che mi conterrà non la mettere
nell’atrio: scoperchiala presto, riempila
di bora, fanne una fioriera
di cicloni. Stappali i vini,
versali a terra, allaga il corridoio:
chiama alla festa il condominio.
Avrai poche cose ma quelle le avrai:
febbri psicosomatiche, cirrosi
autunnali, climatiche sciatalgie.
Della mia collezione di tumori
salva i pezzi più rari.
Un paio di aritmie le ho lasciate
sotto il materasso matrimoniale:
aggiustale come puoi. Ma l’infarto
sotto il cuscino no, lascialo stare.
62
Avrai poche cose ma quelle le avrai:
i carteggi con il nano, con l’orco,
col vecchio cieco del piano di sotto.
A quelli del circo non dire niente,
piangerebbero troppo. Sul mio cippo
scrivi: qui giace temporaneamente
uno che ce l’avrebbe pure fatta.
Non aggiungere niente.
Girati, allontanati via di fretta.
Avrai poche cose ma quelle le avrai:
le multe della biblioteca,
i segnalibri parlanti di notte.
Farai fatica a respirare
d’estate. Più di sette, tanti, troppi
saranno i giorni della settimana.
Sfoglierai calendari come petali.
Costruirai un’altalena di nascosto
per venirmi a cercare sugli scivoli.
marzo ’08
le forchette spuntate, le tovaglie
a quadri, le briciole ballerine.
Le mareggiate nei boccali
non ti dovranno spaventare,
né i terremoti in lavatrice:
la pace verrà dopo il funerale.
Lentamente ti tornerà la fame.
Verrà il giorno che non saprai il mio nome.
Avrai poche cose ma quelle le avrai:
nelle cornici foto non scattate,
il tip-tap dei chiodi sul muro.
Togli le grate alle finestre,
ché vengano a rubare.
I ladri portali alle giostre,
finché c’è fiato falli divertire,
poi chiudi gli occhi: conta fino a cento,
a centocinquanta li puoi riaprire.
Avrai poche cose ma quelle le avrai:
le monete di cioccolata,
il salvadanaio con i canditi.
Ricorda la mancia al postino,
rimanda la posta al mittente.
Svuota la casa, regala le cose
al tizio che vive di fronte.
Dormire sul marmo fa bene all’ernia.
Sii grasso, mai pesante.
Avrai poche cose ma quelle le avrai:
la sedia a dondolo di rovere
per le decisioni importanti;
lo sgabello girevole in acciaio
per traballanti fantasticherie;
la poltroncina in faggio
per i mancamenti improvvisi;
ma sceglierai il divano-letto in pelle,
quello vecchio, coi bordi lisi.
Avrai poche cose ma quelle le avrai:
i soldatini di latta affamati
diretti in dispensa a marcia forzata.
Ti saranno alleati gli orsacchiotti
di pezza, i dizionari dei sinonimi
e contrari, la carta da parati
a fiori, mezza scatola di sigari
fumati. Le guerre le perderai
tutte. Consolerai gli ammutinati.
Avrai poche cose ma quelle le avrai:
mappamondi smagriti dalle diete,
cartine stradali scadute.
Abiterai nei treni arrugginiti,
fra le reti dei pescherecci,
sulle ali degli aeroplani.
Ti chiederanno dov’è casa tua.
Risponderai facendo spallucce.
Passerà un attimo e mi penserai.
Avrai poche cose ma quelle le avrai:
le zanzariere da disincastrare,
le colonie di tarme negli armadi.
Abbevera i ragni in cantina.
Nutri le rondini in inverno.
Apri ai colombi la cucina.
Parla in balcone ai girasoli.
Se deve venire, verrà col vento
la vocazione.
Avrai poche cose ma quelle le avrai:
le lampadine fulminate,
il buio, i fantasmi fosforescenti.
Ad occhi chiusi t’incamminerai.
Vivrai sotto i ponti di giorno.
La gente al volo afferrerai.
Chiamerai la luna dai tetti.
Ridurrai in nuvole il fumo.
Tra i gatti sarai solo, come un dio.
Avrai poche cose, tra quelle cose
ci sarò io.
II
Precipiterò dall’ultimo piano del tuo nome
sillaba su sillaba sdrucciolandomi per
terra…
Se risorgerò, sarà per brama di pronunciarti,
per il desiderio di risuonarti
una volta ancora, con il terrore di franare
rovinosamente sulle tue voci
come un grattacielo nell’uragano.
Mi arrampicherò sulle tue macerie
e una volta ancora mi lascerò precipitare
dall’ultimo piano del nostro nome.
quarantena 63
III
Quante bufere e che poca neve sulla tua tomba,
come se fosse fuoco la tua morte.
Non ho bisogno di te. Di come si sta di là
non mi dirai. Mi annoierai con i tuoi soliti
ammonimenti, mi chiederai nuovi gerani
per il tuo vaso placcato d’oro, ed una foto
meno recente, di quando avevi ancora i capelli.
Non ti dirò chi non è venuto. Chi non ha pianto.
Chi si è vestito di nero. Chiedimi come stavo.
Come portavo la bara in spalla. Se mi pesava.
Se ho resistito fino alla fine dell’omelia.
Dove ho dormito la prima sera. Per quante ore.
Quando mi sfiora l’idea di andarmene via, sott’acqua,
nelle pozzanghere, o nelle brecce dei muri a secco
lungo il sentiero di tufo e cani in punta di piedi
spiccando salti di trullo in trullo fino a che un fico
non mi si spolpi sotto le suole come sapone
e ruzzolare vent’anni indietro fino al tuo petto
coi pugni chiusi. La tua orazione l’ha fatta quello
che si metteva la tua vestaglia. Non sei che terra.
Non sei che spoglia deposta in fossa senza le armi.
Non ti ricordi di quella volta che mi hanno punto
coi loro aghi. Tu mi guardavi dietro la porta
col fiato corto del disertore, l’alito nero
del partigiano che ha barattato la propria parte
per una pacca e non se ne pente che a notte fonda
tra i crampi in pancia e il formicolio del braccio. Mi hai perso,
come un secchio che scarrucola in fondo al pozzo,
come un pensiero andato a male o quel che resta
di un desiderio che si sfalda alla deriva.
Prima di te, si decomporranno i tuoi versi.
Fuori da qui c’è primavera, città azzurre,
miele a cascate dai palazzi popolari,
fiumi di latte che sgorgano nelle piazze
e vita a iosa sui tetti e nelle cantine
e anche nei vicoli vita a quintali.
Invece tu sei l’inverno e l’autunno insieme,
sei foglia secca accartocciata che non smette
mai di cadere, cadere e cadere ancora.
E non ci sarò io a raccoglierti.
64
marzo ’08
Luigi Nacci (Trieste, 1978) è insegnante, operatore culturale, cultore della materia presso la cattedra di Letteratura
italiana contemporanea dell’Università di Trieste. Poeta e performer, nel 1999 ha co-fondato il gruppo de Gli
Ammutinati. Negli ultimi anni ha organizzato ed ha partecipato a letture, convegni e festival in Italia e all’estero.
Ha pubblicato per Battello stampatore – editore per cui cura la collana di poesia i libretti verdi – la plaquette Il
poema marino di Eszter (2005) e, nel 2006, il saggio Trieste allo specchio. Indagine sulla poesia triestina del secondo
Novecento. Nello stesso anno ha dato alle stampe il Poema disumano in due versioni: il solo testo nella collana di
poesia Opera prima curata da Flavio Ermini per la Cierre Grafica, con l’introduzione di Ermini e la postfazione di
Iain Chambers; la versione integrale (disegni di Ugo Pierri, musiche e effetti fonici di Lorenzo Castellarin) a cura
di Gianmaria Nerli, con introduzioni di Nerli e Marianna Marrucci e la postfazione di Rosaria Lo Russo, per le
edizioni della Galleria Michelangelo di Roma. Nel 2007 ha pubblicato INTER NOS/SS, con i disegni di Marco
Colazzo, per le edizioni della Galleria Emilio Mazzoli di Modena (finalista al Premio Antonio Delfini). Nel 2008
Madrigale Odessa per le Edizioni d’if di Napoli (Premio Mazzacurati-Russo). È organizzatore artistico del Festival
Internazionale “Absolute Poetry” di Monfalcone diretto da Lello Voce e amministratore/redattore dell’omonimo
blog (www.absolutepoetry.org).
quarantena 65
L’intera storia del genere umano non è che il 15% del
tragitto per Alpha Centauri
appunti sparsi sui documentari inventati di Werner Herzog
66
Paolo De Guidi
Ringraziamo la NASA per il suo senso poetico
Scusi, per Parigi?
Werner Herzog
Una volta mentre dormivo ho pisciato addosso a mia sorella:
ero convinto che fosse un albero
Klaus Kinski
«Ho segnato tutto, non preoccuparti. Sì, sì, ci vediamo tra poco a Dikaio. No nonno, non lo so
di preciso, te l’ho detto che parto a piedi. A presto». A Werner fa male la gola e pulsa l’orecchio:
ha dovuto urlare per farsi capire. D’altronde non è abituato, questa è la prima telefonata
che fa in vita sua. È il 1959: ha 17 anni e sta per incamminarsi verso la Grecia. Suo nonno ci
lavora come archeologo, ha deciso di fare lo stesso mestiere.
Le immagini hanno una forza icastica che le parole non possiedono e che impedisce loro di
essere modificate con la stessa elasticità. La manomissione delle immagini è un procedimento
meno semplice e meno libero ma che quando riesce dà risultati intensi ed incredibilmente
suggestivi, potendosi avvalere di una forza d’impatto moltiplicata, una sorta di permanenza
dell’eco. Il cinema è, o dovrebbe essere, il giocoliere delle immagini per eccellenza, quando
non è troppo schiavo della sceneggiatura (come predica Greenaway). Pochi registi sanno
sfruttare a dovere il potenziale esplosivo dell’incontro degli elementi costitutivi del cinema:
testo, immagini, suono... Herzog è uno di questi, ed è talmente bravo che i suoi dosaggi degli
elementi cinematografici danno spesso dei precipitati alchemici assolutamente nuovi, nonché
un risultato pratico di un certo interesse: la verità.
La spirale di Kinski è un raffinato procedimento meccanico che permetteva, in era pre-digitale,
di cancellare la traccia sonora originale da una pellicola per poter poi sovrapporne un’altra.
L’operazione consiste nell’avvolgere la pellicola a spirale appunto, poi tirarla fortissimo, come
a stracciarla, urlandogli a squarciagola una serie ben precisa di insulti. Si pratica ormai sempre
meno: solo alcuni laboratori di cinefili la adottano ancora, soprattutto in Svizzera – nel Canton
Ticino – e in qualche bottega di puristi nei dintorni di Perugia.
Herzog è un campione in questo gioco, forse il migliore. Nessuno sa utilizzare la realtà come
lui («So di avere la capacità di articolare le immagini che giacciono nel nostro profondo e di
renderle visibili»): sommozzatori diventano astronauti, pozzi di petrolio infiammati sono pagine
dell’Apocalisse, orsi affamati come filosofi peripatetici, dirigibili adamantini. E il passaggio
è sempre invisibile, sempre non detto: è il prestigio. Girare film con pezzi di altri film, assemblare
diversi piani narrativi e figurativi, inventare la realtà e razionalizzare scientificamente la
finzione, applicare filtri e giocare con le molteplici facce di un’immagine; o, come ha detto uno
marzo ’08
dei suoi operatori, Ed Lachman, mentire per raggiungere la verità. Così è successo per esempio
in The wild blue yonder (2005), che è un’opera di finzione (science-fiction fantasy) eppure il più
vero dei documentari. Un’opera di finzione che pretenda di rappresentare fedelmente la realtà
è un paradosso in termini. Ogni immagine in questo senso diventa finzione. Tanto vale mentire
totalmente 1 . Truffare la tirannia dei linguaggi come consigliava Barthes. Contraffare documentari
o, viceversa, inventarsi storie su realtà documentate. Qui Herzog ci racconta la storia di un
alieno triste arrivato insieme ad altri sulla terra molti anni fa (ma inizia, come sempre, come
il suo Caspar David Friedrich, da un paesaggio). Il personaggio a sua volta narra di come gli
uomini, spaventati dall’imminente apocalisse, abbiano mandato degli astronauti a trovare un
altro pianeta vivibile e di come questi siano giunti, tramite delle superstrade galattiche, delle
E45 interstellari, ad approdare sul suo, il selvaggio e celeste lassù, che ha la volta di ghiaccio
e l’atmosfera di elio liquido. Quando rientreranno, essendo passati sulla Terra 820 anni, non
troveranno più nessuno, solo il pianeta in tutta la sua silente bellezza preistorica, finalmente
salvo.
«Ti trovi a un bivio. Davanti a ognuna delle due strade c’è un uomo. Quale unica domanda
porresti a uno dei due sapendo che uno mente sempre e l’altro dice sempre la verità?»
«Gli chiederei se è una raganella»
Le uniche immagini originali del film sono quelle del narratore, che si aggira sconsolato tra i
resti della civiltà che lui e i suoi compagni hanno cercato inutilmente di fondare, e quelle delle
interviste agli scienziati. Ma anche qui nulla di artefatto: la polverosa periferia industriale di
una cittadina americana e una discarica nei dintorni, intatte, passano di grado e diventano nel
montaggio le vestigia di una città aliena. Le immagini degli astronauti sono riciclate da riprese
(ri-prese) della NASA a bordo degli Skylab e nei laboratori di Houston e quelle del pianeta d’arrivo
sono filmati subacquei della calotta polare girati dal musicista sperimentale Henry Kaiser
nel 2001. L’audio originale è sostituito dalle voci magnetiche del cantante senegalese Mola
Sylla e del coro sardo Tenore e Cuncordu de Orosei su composizioni del violoncellista olandese
Ernst Reijseger. Un assemblaggio di materiale eterogeneo e apparentemente incompatibile che
si fonde in un nuovo filmato assolutamente coerente. Una tecnica simile, con la stessa divisione
in capitoli – un narratore alieno che reinterpreta le gesta umane e la quasi totale assenza di
commento – Herzog l’aveva già sperimentata nel suo Lessons of darkness (1992) girato in Kuwait
dopo la guerra del Golfo. Le immagini e le musiche vengono rinnovate e rivitalizzate grazie
ad un nuovo montaggio e ad una nuova storia. Sotto la calotta polare, quei pesci non sono più
pesci e non sono astronauti: sono tutte e due le cose insieme, hanno la forza e la presenza di
entrambi i concetti e di entrambe le immagini. Il caos che li ha generati non ha nulla di negativo,
è un accumulo di energia che aspetta solo nuove forme. Come una propulsione intergalattica,
o uno starnuto.
Dal numero 11 di Elisabethstraße a Schwabing, il quartiere degli artisti di Monaco di Baviera, al
29 di Rue Jean Pierre Timbaud nell’ XI arrondissement di Parigi, ci sono 827 kilometri seguendo
sempre il tramonto. C’è da attraversare i Vosgi e l’inverno del ‘74 è dannatamente freddo.
Quando Werner entra a Porte de Vincennes, Henriette – ovviamente – non è morta. I suoi
scarponi sono completamente sfondati.
Ogni passo è un passaggio di grado. La pellicola cinematografica è una delle più emblematiche
immagini di questa mutevolezza. Herzog, anche nei suoi film di finzione, non hai mai costruito
un set, né fatto uso di effetti speciali. Se c’è da fare un film sui sogni, tramite la storia di un
senza fissa dimora 67
patito dell’opera che scavalca una collina peruviana con la sua nave, Herzog prende la troupe,
il più grande attore tedesco del secolo, un centinaio di indigeni, trascina a forza questo sogno
nella realtà e insieme ad esso una vera nave fuori dal fiume Urubamba (tra l’altro il regista ha
definito proprio questo lavoro come il suo miglior documentario, perché mai un film ha avuto
dietro di sé tanta realtà e sofferenza, mai prima un film aveva spostato una montagna). Oppure
sale su una zattera di legno lungo le rapide dell’Orinoco, monta su un dirigibile sperimentale
per sorvolare la foresta della Guyana, corre su un vulcano in Guadalupa che sta per eruttare:
sempre in prima persona, per vivere sulla pelle i propri film, forse per elevare la propria vita
a livello di film. Accumulare enormi dosi di realtà dietro la telecamera, passo dopo passo, a
piedi, e senza fissa dimora. Tutto ciò per unire sullo stesso piano l’esperienza visiva e fisica,
far partecipe del film anche il corpo dello spettatore. L’esperienza estetica e quella fisica sono
interrelate, la cornice cinematografica frantumata dall’ambiguità dell’essenza di ciò che stiamo
vedendo. In Grizzly man (2005), l’adesione di Herzog alla vita e al lavoro del suo personaggio
è totale (ecco, senza farlo apposta non si parla più di Timothy Treadwell, ma già di un personaggio
di Herzog). Non condividono la stessa visione della natura, tutt’altro; ma per entrambi
la fantasia, l’improvvisazione e il proprio corpo drammatico sono i migliori strumenti del
documentarista. Anche qui Herzog usa per metà film le riprese fatte da un altro (dandoci una
lezione sul concetto di “autore”, tra l’altro), un regista e protagonista di documentari che ha
vissuto tredici estati tra gli orsi dell’Alaska e che riprovava le sue scene anche quindici volte,
reinventando sé stesso da vero “attore”. Herzog ha selezionato e rimontato queste riprese in
meno di un mese e le ha canalizzate verso l’estasi estetica che vi ha intravisto.
«Herzog è un triste, odioso, malevolo, avaro, disgustoso, sadico, infido, codardo e disonesto
leccapiedi e ricattatore. Il suo cosiddetto “talento” consiste nel tormentare creature indifese
e, se necessario, torturarle a morte o semplicemente ucciderle. Ogni scena, ogni angolo di
ripresa, ogni inquadratura è determinata da me... io almeno posso parzialmente salvare il film
dall’essere rovinato dai disastri di Herzog»
Brian Sweeny Fitzgerald, Timothy Dexter, Graham Dorrington, Nikolaus Karl Günther Nakszynski,
Werner Stipetic. Personae herzoghiane. Ognuno di loro ha stilizzato sé stesso (quasi
tutti sceglieranno uno pseudonimo) per passare di grado, evolvere, oltrepassare la linea invisibile
dietro le immagini, come gli uccelli che a sera si tuffano dietro la cascata Kaieteur di The
white diamond (2004): si finisce dall’altra parte, nel mondo misterioso e sacro della propria
verità estetica. Che non si può dire né mostrare, come la morte dell’uomo che voleva diventare
orso, come i nidi dei rondoni, come le scorciatoie galattiche. Una verità personale, catalizzante,
ottenuta grazie alla ricerca incessante e ostinata di immagini nuove. Il potere delle immagini
è confermato per contrasto anche da un altro degli elementi fondanti dei film di Herzog:
il silenzio. Le parole rivestono un ruolo secondario nei suoi film, quasi decorativo. La sfiducia
nel linguaggio, che è sempre profano, sfuma nell’abbandono mistico alla visione e alla musica.
La razionalità fa un passo indietro. Anzi un salto, come una raganella. Noi, del resto, ci fidiamo
della celluloide.
«Non senti tutto intorno questo incessante frastuono, il frastuono che gli uomini a volte chiamano
silenzio?»
p.maqroll@gmail.com
1 B. Prager, The cinema of Werner Herzog, Londra, Wallflower press, 2007. Molti altri spunti per l’articolo sono
tratti da questo testo.
68
marzo ’08
Entre paréntesis. L’esperienza rivoltante dell’altro
(ancora una volta)
Eugenio Santangelo
Mi trovo nella situazione delicata di dover parlare di un’esperienza su cui non posseggo ancora
un discorso formulato. Un’esperienza che non ho ancora verbalizzato, diciamo. Che non ho ancora
stretto dentro un «ordine del discorso». Un anno in
Messico. Uno spostamento di dimora. Per la prima volta
dal mio ritorno, mi fermo a riflettere abbastanza seriamente
su come quest’esperienza abbia lavorato su di me
e in me (sottolineo, riflettere sul come, non sul che, che
a voi non potrebbe interessare). Per formulare questo discorso,
renderlo più intelligente, spero, aiutarmi nel dargli
una forma che lo renda comunicabile e interpretabile,
per moltiplicare ulteriormente, insomma, i gradi del discorso,
mi sono servito di un altro testo: La traduzione e
la lettera o l’albergo nella lontananza di Antoine Berman.
Anzi, questo intervento risulterà quasi una parafrasi o un
collage di citazioni da quel libro-seminario, spero con un
sottile “spostamento” (ancora). L’esperienza-traduzione
e la riflessione su di essa condotta dall’autore le utilizzerò
– forse le forzerò – in quel senso metaforico con cui le
utilizza il «parlare corrente», attraverso un «superamento
di senso», cioè mi metto accanto, piccolino e modesto,
a «quella progenie di scrittori e pensatori per i quali la
traduzione significa non soltanto il “passaggio” interlingue
di un testo, ma – attorno a questo primo “passaggio”
– tutta una serie di altri “passaggi” che riguardano l’atto
di scrivere e, più segretamente ancora, l’atto di vivere e
di morire. [...] Vi è qui annuncio dell’esperienza di ciò che
si potrebbe chiamare l’altra traduzione, l’altra traduzione
che, per così dire, si dissimula in ogni traduzione».
L’impatto con l’estraneo, con l’“altro”: si parlerà di
questo, per l’ennesima volta, correndo il rischio perenne
Juva, Rostock, Giugno 2007
di cadere in quella che ormai, troppe volte, s’avvicina a una
vuota retorica, nella ripetizione. Ma tant’è, ci si riprova, cercando di muoversi tra le retoriche,
che è poi un po’ il senso di questa sezione di Tabard (e del progetto della rivista in generale).
L’impatto col Messico è un impatto brusco, disorientante, e allo stesso tempo entusiasticamente
facile, accogliente. È un paese che ti fa subito sentire a tuo agio nel tuo disorientamento.
Introdursi nell’esperienza quotidiana d’una cultura altra, nel riassestamento a volte straniante
a cui in principio ti costringe, ti spinge a utilizzare bruscamente tutti i possibili sistemi
di lettura dell’altro che possiedi. È un meccanismo normale, necessario, autodifensivo. Di
quest’altro ti crei un vortice d’immagini e forme per annetterlo alla tua esperienza già sperimentata
e ordinata, rendendolo inoffensivo. È un processo veloce e incosciente. All’inizio non
senza fissa dimora 69
c’è ancora nessun cortocircuito. Sei saldo nel tuo disorientamento.
Il cortocircuito per me è iniziato nell’impatto con la letteratura. Una soglia verso l’estraneo
allo stesso tempo utile ma rischiosa. L’impatto violento della lettura sistematica e anche
esagerata di quasi tutti i romanzi chiave del Novecento messicano, a cui mi hanno costretto
all’università, ha coscientizzato quel cortocircuito che vivevo quotidianamente.
Berman discute all’inizio del suo testo una forma tradizionale di traduzione, quella etnocentrica.
Ove etnocentrismo significa ciò «che riconduce tutto alla propria cultura, alle sue
norme e valori e considera ciò che ne è al di fuori – l’Estraneo – come negativo o al massimo
buono per essere annesso, adattato, per accrescere la ricchezza di quella cultura». Il rischio
per me era quello di far rientrare – depurati degli elementi per me discordanti – degli oggetti
letterari nuovi, altri, all’interno di un
sistema già più o meno consolidato, il
mio, quello che m’ero formato con anni
di studio di letteratura. Però subito
incorrevo in errori, errori di lettura che
mi richiamavano all’ordine. Trovavo il
divertente o l’ironico lì dove non c’era
per un messicano. Trovavo un tradizionalismo
abbastanza canonico lì dove
il messicano trovava sperimentalismo.
Trovavo elementi che respingevo, come
per esempio un misticismo fastidioso in
un romanzo come Pedro Páramo, considerato,
e a ragione, dico ora, uno dei
romanzi più importanti della letteratura
Juva, 2007
70
latinoamericana. Tutti quegli elementi
andavano contestualizzati, stavo
sottovalutando migliaia di relazioni perché volevo mi
bastassero le mie competenze, semplicemente per arricchirle e confermarle.
Dunque ho iniziato a sospendere il giudizio. A mettere tra parentesi, per quanto m’era possibile,
tutto il bagaglio critico e letterario che portavo con me, per poi, solo poi, riaprirlo.
Adesso, uno dei problemi centrali era quello della lingua. Perché mi sento nella possibilità
di utilizzare il testo di Berman? Perché c’è un processo normale nella pratica iniziale di una
lingua straniera. Non conoscendola, inizialmente si opera traducendo quasi simultaneamente
dalla lingua “madre”. E questo succedeva anche durante la lettura. Le prime traduzioni avvenivano
nella direzione della «captazione del senso» di un romanzo. Non erano di certo traduzioni
letterali, del tipo di cui parla Berman. No, l’esigenza era captarne il senso, tralasciarne la
lettera, e tradurne il senso.
Questo portava inevitabilmente – ma anche innocentemente – a una «infedeltà alla lettera
straniera». E Berman dice: «Ma questa infedeltà alla lettera straniera è necessariamente una
fedeltà alla lettera propria. Il senso è captato nella lingua traducente. Perciò occorre che sia
spogliato di tutto ciò che non si lascia trasferire in questa». Ci riporta cioè all’etnocentrismo di
cui sopra: «Se la traduzione è captazione del senso, essa non può essere che annessione».
Ma questo avveniva incoscientemente. La mia conoscenza dello spagnolo – e i ritmi di
lettura che mi erano imposti – non mi permettevano ancora d’entrare coscientemente nell’altra
lingua, ma solo di arrabattare traduzioni simultanee per poter discutere in classe di un ipotetico
senso complessivo del romanzo da me captato.
Ora, per Berman esiste un principio e un obiettivo etico della traduzione. Per me che non
marzo ’08
conoscevo Berman, in Messico quest’obiettivo etico era filtrato dal dialogismo bachtiniano – e
la riflessione del pensatore francese mi sembra molto vicina a quella di Bachtin.
Berman parla di un «contratto fondamentale che lega una traduzione al suo originale. Questo
contratto – certo draconiano – interdice ogni superamento della tessitura dell’originale.
Stipula che la creatività richiesta dalla traduzione deve mettersi per intero al servizio della riscrittura
dell’originale nell’altra lingua, e mai produrre una sovra-traduzione determinata dalla
poetica personale del traducente». Quest’obiettivo poetico «è legato all’obiettivo etico della
traduzione: portare sulle rive della lingua traducente l’opera straniera nella sua pura estraneità,
sacrificando deliberatamente la “poetica” propria».
Ancora – e qui si legge Bachtin, oltre che Lévinas: «l’atto etico consiste nel riconoscere e
nel ricevere l’altro in quanto altro».
Vado veloce al punto per me fondamentale
attraverso altre citazioni:
«Una cultura (in senso antropologico)
diviene davvero una cultura (nel
senso, ad esempio, dell’umanesimo di
Goethe, della Bildung) solo se è retta,
almeno in parte da tale scelta [quella
etica]. Una cultura può benissimo
appropriarsi delle opere straniere senza
mai avere con esse rapporti dialogici.
Ma in tal caso, e per quanto essa sia
“civilizzata”, le mancherà sempre ciò
che fa di una cultura una Bildung».
Questo è un punto che mi è parti-
colarmente caro, quello della Bildung:
quando l’esperienza messicana ha
Juva, 2007
iniziato a convertirsi in “reale Bildung”,
formazione, a contatto dell’«estraneo formante». (Parlo di “Bildung”, semplificando arbitrariamente.
Cosciente di cosa diventi quel concetto nella postmodernità e di come, forse, non se
ne possa più parlare. Ma tant’è, lo si mette tra parentesi). Quando si abbandona la semplice
traduzione mentale dalla lingua madre alla straniera per altrettanto semplici obiettivi di comunicazione,
quando secondo quello che è il processo normale e risaputo s’inizia a pensare in
quella lingua straniera, a pensare quella lingua stessa e a farsi pensare da quella lingua, essa
inizia ad agire nella «corporalità della sua lettera». Non è più solo captazione di senso, ma
esperienza della lettera.
Qui inizia il dialogo con l’altra cultura, dell’estraneo come altro e come «soggetto con pari
diritti» (questa che ormai per me è una formuletta, mutuata da Bachtin, e che ho sempre bisogno
di risignificare).
Quando ho iniziato per forza di cose a introdurmi e praticare quello slang che è parlato
trasversalmente e diffusamente nella capitale messicana, ho iniziato a risalire i gradini della
“Bildung”. Lo straniamento che i miei amici messicani avvertivano nel me-parlando-chilango
era l’estraneo parlando la loro lingua, apportando, dialogicamente, per forza di cose, qualcosa
di nuovo.
Altro passo della riflessione di Berman, mutuata da Hölderlin:
«L’opera non appare qui come una realtà rappresa, statica, immutabile, che si tratta di
riprodurre [...]: essa è piuttosto il luogo di una battaglia fra due dimensioni fondamentali,
e la traduzione interviene come un momento nella vita dell’opera dove questa battaglia è
senza fissa dimora 71
iattivata, ma in senso contrario, poiché l’atto di tradurre consiste nell’accentuare il principio
o l’elemento che l’originale ha occultato. [...] Quest’accentuazione, nella misura in cui rivela
l’occultato dell’originale, è una manifestazione. E dato che questa manifestazione può prodursi
solo trasformando l’opera in alcuni dei suoi tratti, essa è una violenza».
Ancora una citazione, e poi concludo: parlando di una traduzione di Saffo da parte di Deguy:
«È chiaro che i limiti tra l’“estraneo” e l’“estraneità” sono stati discretamente scombinati.
C’è una doppia violenza: sulla lingua traducente, ma anche sull’originale. In certo qual modo,
la traduzione ha prodotto un testo più spaesante di quello di Saffo, ma questo spaesamento
esisteva già, nascosto, nella poetessa. Si può dire che essa è risalita all’origine dell’originale.
Ricordiamoci di quel che diceva Alain, che concludeva: “È più inglese dell’inglese, più greco
del greco, più latino del latino [...]”». (Si è parlato, tra tabardiani, del rischio teorico di questo
discorso. Ma tant’è, lo utilizzerò lo stesso, poi mi metterò tra parentesi).
È curioso: quando parlavo chilango, quando quella cultura altra m’aveva totalmente assorbito,
mi stava rovesciando, lavorava su di me con un’intensità rivoltante e rivoluzionante,
mi si diceva: «este güey es más chilango que un chilango», è più chilango di un chilango. Lo
scrivo con molto orgoglio narcisistico. Ma, volendolo superare: cosa significava? Cosa voleva
dire quella persona? Forse che il mio-italiano (il mio, attenzione) era più mio-italiano del mioitaliano?
Questa violenza del me tradotto in chilango manifestava forse qualcosa di occultato
nel mio originale italiano. L’esperienza dell’altro è anche «apprendimento del proprio». È un
circolo ermeneutico che attraversa le esperienze “davvero” “formanti”. Cito Heidegger, citato a
sua volta da Berman (molti gradi):
«Fare un’esperienza con quel che sia [...] vuol dire: lasciare che venga su di noi, che ci raggiunga,
ci piombi sopra, ci rovesci e ci renda altro».
In quest’anno mi sono tradotto, se posso continuare nella metafora, nella pulsione etica
che mi spingeva a conoscere l’Estraneo. La lingua, il parlarsi in una lingua straniera, è uno
strumento potentissimo e violento (di rivelazione dell’occultato, tra parentesi). L’«ordine del
discorso» che regola il mio stare qui in Italia parlando in italiano ne è stato per forza di cose
sconvolto. In cosa, ancora non lo so, e a voi non potrebbe interessare. (Ammesso che vi interessi,
invece, ciò che ho tentato di dirvi finora).
eugenio.santangelo@gmail.com
per le citazioni esplicite:
A. Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, Macerata, Quodlibet, 2003.
72
marzo ’08
Terra e libertà
Marco Madonia
Chiunque da piccolo ha giocato a guardie e ladri. Un format giocoso che ha sempre divertito,
anche se mascherato sotto altre spoglie, con altri nomi e magari altre modalità. Il gioco, però,
ha sempre funzionato, nonostante i cambiamenti dovuti al passaggio delle generazioni. Uno
dei motivi del successo senza età di quel
gioco potrebbe essere la chiarezza dei
ruoli. Ciò significa che una volta decise le
parti ognuno si impegna a non cambiare
la propria collocazione e quindi a rimanere
fedele alla posizione che si è scelto per
tutta la durata delle ostilità. Dunque, chi
all’inizio vuole fare la guardia fa sempre
la guardia, mentre, chi interpreta il ladro è
orgoglioso del suo ruolo e si impegna per
tutta la durata del gioco affinché la sua
parte prevalga sull’altra. Se ci fossero dei
voltagabbana il gioco non funzionerebbe,
la confusione la farebbe da padrona e nessuno
potrebbe divertirsi.
Ma la realtà ha regole più kafkiane di
quelle del gioco e quindi è decisamente
Juva, 2007
più complicata e ingarbugliata. A questo proposito una
piccola storia è quella che sta venendo fuori dai processi del tribunale militare di La Spezia
su quella che è conosciuta come la strage del Cavalcavia. Tutto questo dopo la conclusione
dell’iter giudiziario, compreso il pronunciamento della Cassazione, che riguardava la strage di
Marzabotto. Per l’episodio del Cavalcavia si tratta di quaranta militari delle SS del reparto tank
XVI divisione, che arrivano a Casalecchio per concludere ciò che avevano iniziato pochi giorni
prima a Marzabotto. L’Eccidio del Cavalcavia del 10 ottobre 1944 è una delle tappe sporche
di sangue che i nazisti lasciarono nei giorni in cui stavano abbandonando Bologna. Una delle
stragi tra le più cruenti della storia italiana, nella quale vennero trucidati da truppe nazifasciste
13 partigiani catturati durante la battaglia di Rasiglio. I prigionieri, dopo essere stati fucilati
dai nazisti (e forse anche da qualche fascista italiano), vennero appesi per molti giorni con del
filo spinato agli alberi che circondavano la strada. Come una sorta di trofeo che, però, doveva
servire da monito a tutta la cittadinanza. Due dei protagonisti di questa vicenda sono stati il
maggiore Loos ed il suo braccio destro, il capitano Schimdt. I due, all’epoca dei fatti, dirigevano
l’ufficio uno della divisione stanziata a Bologna. Schimdt, allo stato attuale, vive ancora
in Germania ed ha la bellezza di 87 anni. Nonostante abbia ricevuto nel corso degli anni una
sfilza di rogatorie internazionali, la polizia non lo trova mai in casa e quindi l’obbligo di presenziare
al processo che lo coinvolge non riesce a essere consegnato al canuto interessato. Un
fatto molto strano, infatti, tutti sanno che faccia Schimdt abbia adesso, tutti sanno allo stesso
modo dove abita e chi frequenta, ma evidentemente le protezioni di cui gode il vecchio nazista
sono ancora molto influenti.
In ogni caso, chi deve fare la guardia si dimentica del suo ruolo in favore del vecchio nazi-
circolare periferica 73
sta. Infatti, dopo ben sessant’anni, l’ex capitano Schimdt non è ancora stato assicurato alla
giustizia italiana. Loos, invece, fino a poco tempo fa viveva tranquillamente sotto falso nome
in Germania. Nome che poi è risultato essere quello di un militare tedesco morto durante
l’assedio di Vienna del 1944. Ma poi anche Loos all’inizio degli anni ’90 è morto senza farsi
nemmeno un’udienza dibattimentale. Questi due all’epoca dei fatti dirigevano l’ufficio di
controspionaggio che decise la rappresaglia (anche se l’azione nei documenti tedeschi viene
definita bonifica) e le persone da colpire nella strage del Cavalcavia. Ma rappresaglia rispetto a
quale episodio commesso dai partigiani? Nessuno, secondo le stesse confessioni dei tedeschi.
Dunque una strage che già da queste stesse affermazioni appare inspiegabile in quanto non
commisurata all’offesa visto che i tedeschi non avevano subito nessun attacco da vendicare.
In più la rappresaglia è un istituto giuridico che non esisteva
nemmeno all’epoca del regime nazista. Dunque usare quel
termine è del tutto inappropriato, infatti anche dagli spostamenti
dei tedeschi in quei giorni emerge in maniera chiara che
si trattava di tutt’altro. Uno sterminio di massa che in tutto il
territorio provinciale voleva eliminare chi aveva combattuto
nelle formazioni partigiane. I tedeschi e i fascisti che lasciarono
Marzabotto avevano il preciso obiettivo di rastrellare
alcune zone durante il loro percorso che portava a Bologna. Le
generalità di coloro che finiranno appesi sugli alberi sono gli
stessi Loos e Schimdt ad indicarle. Quelle tredici persone non
sono morte per caso, ma sono state scelte dopo la segnalazione
effettuata dall’ufficio di spionaggio. Non si tratta, dunque,
di un episodio di guerra, ma, piuttosto, di una strategia criminale
portata avanti senza scrupoli. Eppure c’è ancora chi parla
di triangolo rosso e di guerra civile, come se mettere tutti sullo
stesso piano servisse a salvare anche solo qualcosa. E non bastano
nemmeno i processi a zittire le voci di vecchi e nuovi revisionisti.
Ci si fa beffe di valanghe di documenti e si continua
a tradurre a proprio piacimento la storia e i fatti. Nonostante
una sfilza di prove, ancora per molti, la strage del Cavalcavia
rimane solo e semplicemente una operazione di guerra come
tutte le altre. Un’altra piccola storia è quella del disegno di
Juva, 2007
74
legge 548/06. Un numero apparentemente insignificante che,
a causa dell’ostruzionismo dell’opposizione, è ancora bloccato
nelle commissioni parlamentari. Se quel piccolo numero si trasformasse in legge dello Stato
Italiano, infatti, i familiari delle vittime delle stragi nazi-fasciste di Marzabotto, Sant’Anna e
Casalecchio vedrebbero riconosciuto il loro diritto ad un risarcimento equo per l’occultamento
dei fascicoli d’indagine del cosiddetto Armadio della Vergogna di Palazzo Cesi. Nello stabile
romano, che una volta era sede della procura generale militare, nell’estate del 1994, durante
un trasloco, furono trovati 695 fascicoli pieni di carte e documenti. Su quei fogli era stampigliato
il timbro di archiviazione provvisoria del dottor Santacroce in data 14 gennaio 1960. Quel
timbro determinò l’occultamento di centinaia di episodi di crimini commessi dai nazifascisti nel
periodo appena precedente la fine della guerra, come Marzabotto e la strage del Cavalcavia.
Dunque lo Stato ha impedito in maniera palese una veritiera ricostruzione storica di quei fatti,
ha occultato delle prove e ha, in qualche modo, riscritto la storia italiana nella maniera più consona
alle esigenze dell’apparato.
Le guardie non sono più guardie e stanno sempre più vicino ai ladri. Se, come chiedono
marzo ’08
giustamente i familiari delle vittime di quegli eccidi, quel decreto diventasse legge dello Stato,
succederebbe una cosa strana. Dopo qualche decennio, lo Stato si assumerebbe la responsabilità,
anche politica, di occultamenti e pericolose protezioni. Se quella legge diventasse
effettiva allora, lo Stato tornerebbe dalla parte di chi quegli eccidi li ha subiti, cioè garantirebbe
la difesa dei suoi cittadini che hanno subito un crimine. Dopo tutto, le guardie il loro
lavoro l’avevano fatto e anche in maniera precisa. Infatti gli alleati americani che avevano
partecipato alla liberazione di Bologna, negli anni successivi al termine delle ostilità costituirono
una commissione d’inchiesta su quei fatti. Anche grazie alle testimonianze di chi, come il
Capitano Schimdt, partecipò a quegli eccidi, accertarono responsabilità storiche e giudiziarie.
Eppure non basta nemmeno una confessione esplicita per certificare quello che è stato, anzi
la confessione si nasconde e non viene presa in considerazione. Addirittura, dopo l’apertura
dell’Armadio della Vergogna, i fascicoli arrivano alla procura militare di La Spezia, e almeno in
quella circostanza ci si aspetterebbe indagini approfondite e circostanziate. Eppure il sostituto
procuratore Ballo ha notizia dei fatti nel mese di maggio del 1995 e riesce a tempo di record
(nel gennaio del 1996) a concludere la fase delle indagini. Dunque, una giustizia rapida ed efficiente
che, però, non trova di meglio da fare che archiviare ad agosto il procedimento secondo
delle motivazioni che risultano ai più poco chiare.
E ancora una volta le guardie si dimenticano del loro ruolo di garanzia e stanno dalla parte
dei ladri. Dunque lo Stato, piuttosto che favorire l’accertamento della verità, preferisce imbastire
indagini fantoccio e chiudere in un’armadio pieno di polvere gli atti che sarebbero stati
utili al processo. In più, nemmeno dopo tanti anni, riesce ad ammettere la propria responsabilità
davanti ai familiari delle vittime. Allora, forse, gli unici veramente fedeli alla causa della
giustizia in questa lunga vicenda sono, quasi per paradosso, i ladri. Infatti tutte le informazioni
utili alla riapertura delle indagini vengono direttamente da chi ha partecipato a quei crimini.
I giovani nazisti di allora, adesso confessano senza reticenze tutto quello che è successo.
Magari perché già avanti con l’età non hanno niente da perdere, ma molti lo fanno per una
ragione ben più prosaica. Infatti per chi vuole ricevere la pensione di guerra il ministero della
Difesa tedesco ha imposto di documentare in maniera chiara gli anni di servizio prestati sotto
l’esercito. Per poter ottenere la pensione, dunque, gli ex militari confessano dove sono stati
stanziati e anche in quale periodo. In questa maniera, implicitamente confessano anche quali
crimini hanno commesso o a quali hanno partecipato. Così, avendo confessato la loro collocazione
durante la guerra, basta solo interrogali. E loro fanno luce sulle verità di quegli anni,
e tramite le loro testimonianze garantiscono che in quei casi né si trattò di guerra civile né di
rappresaglia. Ma nonostante tre gradi di processo, e il pronunciamento dell’organo massimo
che è la Corte di Cassazione, se la storia non è quella che ci piace, allora inspiegabilmente
qualcuno si arroga il diritto di tradurla in termini più vicini alle proprie esigenze. E non basta
a garantire la veridicità dei fatti la confessione volontaria di chi ha commesso quelle stragi.
Allora ricompare il triangolo rosso a mettere sullo stesso piano le guardie ed i ladri. Mentre per
paradosso sono i carnefici a riscrivere la storia a favore delle vittime. Paradossalmente sono
le loro confessioni spassionate a rendere giustizia a chi è morto per la libertà. Mentre lo Stato
Italiano si accontenta di un’altra verità. Poi magari chi preferiva collocarsi a Salò piuttosto che
sulla linea Gotica adesso diventa Ministro della Repubblica. E allora il processo è ultimato, i
ladri sono diventati guardie anche se il gioco non funziona più.
marcomadonia1908@yahoo.it
circolare periferica 75
Giacobbo colpisce ancora.
Dal Chupacabras alle piramidi passando per il rogo dei templari
76
Paolo Cova
Perché in un numero sul secondo grado mi accingo a parare di Roberto Giacobbo, poliedrico,
polidimensionale, polimorfico e polidissociato primo conduttore di Stargate: linea di confine 1
e poi dell’immenso Voyager: ai confini della conoscenza? Semplice, perché nel variegato universo
delle riscritture e dei travestimenti, uno dei processi che oggi ha uno
straordinario successo è la rielaborazione della storia, o, nel caso dell’onnivoro
Giacobbo, sarebbe meglio dire la falsificazione della storia. Una falsificazione
che è ancora più subdola perché non è mossa da illegittime ragion
di stato, o da interessi socio-politici, o culturali, ma da semplici prospettive
commerciali, caratteristiche del palinsesto televisivo italiano.
I programmi di Giacobbo hanno certamente avuto un successo notevole
nel triste panorama italiano, tanto da permettere a Stargate, nel giro di pochi
anni, di passare dalla dignitosa seconda serata alla prima: tale successo
è sicuramente dovuto al suo format. Mi piacerebbe però anche sottolineare
in positivo che alla base di tale seguito vi è un preciso desiderio di conoscenza,
su cui il mondo della cultura farebbe meglio a interrogarsi.
Il nostrano Sherlock Holmes dell’occulto, che oggi come non mai assomiglia
sempre più ad una grassa signora in giallo, è divenuto il guru della
divulgazione scientifica dei mercoledì sera televisivi di Rai Due, e come un
novello Bobo Vieri dell’etere, ha cambiato diverse maglie nel corso della sua
carriera. È infatti passato da Mezzogiorno in famiglia del 1994, allo strepitoso la Cronaca in
Diretta, vincendo così al fotofinish con l’OK il prezzo è giusto della premiata forneria Zanicchi-
Pistarino il prestigiosissimo Oscar Tv del Radiocorriere. Si è poi specializzato nella materia a lui
più consona, l’occulto, con l’edizione ’97/’98 di Misteri, paura eh! Per approdare finalmente,
dopo Amici Animali, Con Voi sulla Spiaggia e il coltissimo Speciale di Natale, al format a lui
più congeniale, cioè all’istrionico Stargate: linea di confine, ereditato poi dal beniamino dei
grecisti l’archeo-scrittore Valerio Massimo Manfredi..Seguono le formative esperienze in Rete
Quattro, come autore e caporedattore de L’emozione della vita, e, la conduzione, nel 2000, de
La Macchina del tempo, dalla quale viene allontanato per non offuscare la geniale personalità
di Cecchi Paone, incompreso, soprattutto dai fascisti nostrani, astro politico gay della destra e
recente protagonista dell’Isola dei Famosi. Infine,
a partire dal 20 maggio 2003 Roberto Giacobbo ritorna in Rai come dirigente, autore e conduttore del programma
Voyager: ai confini della conoscenza e di Ragazzi c`e` Voyager!, in onda su RaiDue, che raccoglie da
subito consensi di share e ascolto.
Oggi Voyager ha raggiunto la IX edizione e, come cita il sito del nostro comune amico:
oltre trenta puntate per stagione e una punta media di ascolto del 16,5% pari a circa 2 milioni di telespettatori
con picchi del 25%. Un risultato sorprendente e inaspettato per un programma dedicato all’approfondimento
storico-archeologico.
Storico-archologico sta a Voyager come gnocca sta a Rosi Bindi. Alla base di un programma
come Voyager vi è infatti un pout pourri di informazioni storico-archeologiche parziali, unite a
marzo ’08
una miscela esplosiva d’esoterismo dell’ultima ora, misticismo neogotico, occultismo d’antan,
e dei peggiori luoghi comuni da bar sport in circolazione nelle migliori enoteche d’Italia. Viene
così servito un prodotto TV disimpegnato, confezionato con un’apparente veste scientifica, che
ha alla base un preciso processo falsificatorio dei fatti storici, ben calibrato per poter affascinare
grandi e piccini.
Premesso che la storia non può essere logicamente annoverata tra le scienze esatte,
proprio perché alla sua base vi è l’interpretazione dei fatti attraverso lo studio di molteplici
tipologie documentarie, sia materiali che immateriali, anche la falsificazione storica ha una sua
precisa funzione, sia nella ricostruzione artistica della fiction o del romanzo, sia nella creazione
di false letture degli eventi per scopi generalmente molto precisi. Ne consegue che anche
sui falsi e sulle falsificazioni è sempre importante interrogarsi, proprio
per scoprirne le dinamiche gnoseologiche di cui sono naturalmente, come
ogni prodotto culturale, portatrici. Per questo non ha senso stigmatizzare i
cosiddetti revisionismi in quanto tali, anzi è proprio il revisionismo la prassi
classica degli studi storici. Quello che è veramente importante è collocare
ogni interpretazione storica nell’ambito che le spetta, sia esso quello della
materia umanistica di matrice accademica che quello della fantascienza,
quello della fiction commerciale o quello dell’arte tout court. Ed è semmai
sulle premesse e sulle molteplici tecniche interpretative dei fatti che è
doveroso discutere e scontrarsi e su cui è sempre lecito re-interrogarsi. Solo
i totalitarismi esprimono sempre delle interpretazioni rigide e preconfezionate
degli eventi e non permettono, anche attraverso la forza, la ri-lettura
dei fatti. L’assolutismo è ingordo di storia. Nella postmodernità la ri-scrittura
della storia diviene invece, come c’insegna Eco, un privilegiato processo di
sintesi della creazione contemporanea, che si stabilizza proprio attraverso la
distillazione del passato e del presente, nell’impossibile presunzione di plasmare il futuro.
Il programma del nostro mattatore televisivo si palesa allora come una serie di scatole
cinesi, una sottile negazione della pluralità interpretativa storica camuffata sotto un’apparente
inconoscibilità degli eventi. Infatti, nonostante i subdoli travestimenti relativisti, “l’escamotage
Voyager”, parte proprio dal presupposto che vi sia una verità storica indiscutibile, ed è questa
ad essere presentata di volta in volta da sedicenti studiosi, per lo più giornalisti da gazzettino
padano, che come logico evidenziano però la permanenza di alcune zone d’ombra e l’ovvia
impossibilità di giungere con certezza a una ricostruzione assolutamente precisa dei fatti. Ciò
avviene proprio perché il continum spazio-temporale è irriproducibile, e il metodo galileiano è
inapplicabile alla materia, per questo le letture che si fanno dei fenomeni devono protendere
alla veridicità senza mai raggiungerla. Alcuni misteri della storia rimarranno tali, è solo con
una tecnica d’approssimazione degli errori che si cerca di ricostruire i fatti, siamo in un campo
parascientifico proprio perché gli eventi sono irriproducibili.
Il funambolico Giacobbo riesce, però, a liberarsi di questi rigidi costumi parascientifici, per
condurci ogni mercoledì sera in un vortice infernale di pseudo-teorie e interpretazioni che egli
stesso non riesce più a controllare, giungendo, spesso sudato come un Culatello di Zibello
nell’agosto sahariano, al gran finale che come al solito ci porterà alla sua vaporizzazione, mai
definitiva ahimé. In quest’ottica il piatto forte della trasmissione è la solita verità misteriosofica
occultata che risolleverebbe le sorti dell’umanità, ma che purtroppo è custodita da secoli
da pochi circoli d’eletti di vario genere e denominazione d’origine controllata e garantita. Il
programma è articolato e complesso e scopre tutte le cricchette dei furbetti del misterino: dai
sacerdoti egizi ai satrapi persiani, dai templari ai massoni radical-chic alla Dan Brown, dagli
Atzechi ai nazisti passando per quei disadattati dell’Isola di Pasqua, che si sono sterminati per
circolare periferica 77
costruire dei pupazzi di pietra giganti, per altro particolarmente brutti.
Nella divulgazione scientifica del nostro beniamino, si raggiunge il climax televisivo attraverso
la sua azione social-popolare, da novello philosophe, nel momento in cui Giacobbo,
acquisita, compresa e sfruttata la scienza occulta, gabbati i ristretti circoli d’eletti, la trasfonde
in eurovisione alle genti, alla faccia del Cristo del discorso della montagna. Misteri straordinari
come il Chupacabras, l’essere mitologico che pare uno sciacallo, anzi che la cecità degli anatomopatologi
ha individuato come sciacallo, ma che divora migliaia di armenti del Sud America. I
templari in ogni forma e dimensione, credo sia inutile parlarne, tanto tutti sanno la vera storia
di questi illuministi, liberali ed ecumenici, ingiustamente sterminati per i loro segreti dal Vaticano
e dai pari di Francia. Infine, l’Abbazia di San Galgano a Chiusino con la sua spada nella
roccia, eterno mistero, il cui edificio è miracolosamente costruito alla
stessa distanza da Chartres e dalla piramide di Cheope a Giza. Anch’io
nel momento in cui scrivo sono seduto alla stessa distanza tra il water e
il frigo, cosa vorrà dire?
Non ho mai avuto una gran considerazione dei circoli d’eletti o che
dir si voglia, basti pensare ai capolavori della Carboneria nostrana nei
moti del 1820 e 1821, conclusi con la gita cultural-aziendale allo Spielberg
guidata da Silvio Pellico 2 , ma ciò che fa Giacobbo è eccessivo.
Infatti, sbandierare i segreti dell’umanità occultati per secoli in diretta
televisiva non mi sembra corretto e poi gli alieni cosa penseranno?
Chissà poi il Pentagono dove sposterà l’Area 51? Io proporrei vicino a Gavirate, dove sono nato
io, in provincia di Varese. Se ci accordiamo con gli Usa e ovviamente con gli alieni, si potrebbe
mettere l’Area 51 a Comerio al posto delle ex-fabbriche Whirlpool, di spazio ce n’é, e come si
suol dire: via le lavatrici diamoci dentro con gli UFO. Sempre lombardi siamo, non importa cosa
produciamo, l’importante è che lavoriamo.
Bando alle ciance, grazie comunque a Roberto e ai misteri svelati che ci ha donato, l’esoterismo
non sarà più quello di una volta. E ascoltando ancora la sua vocina che dal sito di
Voyager m’illustra i silenzi dell’umanità, il mio pensiero corre al tema di questo articolo e mi
sovviene un unico e giovanile dubbio: ma in quest’immensità di boiate non sarò uscito fuori
della traccia? Non credo, perché in un numero sul “secondo grado”, anch’io ho tradotto la
mia idiozia in maniera esponenziale sulla carta in quest’arringa sfegatata contro Voyager e i
suoi fratelli, ma poi perché? Perché questo mio lungo Giacobbo’s dream? Questo mio interesse
ossessivo per lui? Che ragioni ha? Dove nasce tutto questo mio odio? Perché questa mia
indegna crociata?
Lapalissiano, per invidia. Perché sono incapace d’accettare pacificamente che il buon Roberto,
«laureato in Economia e Commercio, giornalista ed esperto di comunicazione», si occupi
di divulgazione scientifica con ascolti altissimi, mentre tanti bravi studiosi del nostro Belpaese
fanno i commessi, i baristi, i postini o le famose fotocopie al Servizio Civile Nazionale 3 . Questa
è l’Italia del 2006-2008, che soprannominerei volentieri il “biennio stronzo”. Ma questi sono
giudizi soggettivi quindi vaporizzandomi anch’io, vi saluto: alla prossima puntata.
koimbra1@hotmail.com
1Tutte le citazioni dell’articolo e le informazioni su Roberto Giacobbo sono tratte dal sito http://www.voyager.rai.it
2 Prego la casa Savoia di non citarmi in giudizio né richiedermi danni, vista peraltro la mia situazione economica,
a causa di questa battuta risorgimentale. Grazie.
3 Ci terrei a precisare che nei miei 10 mesi di Servizio Civile Volontario presso il Museo Civico Medievale di
Bologna non ho mai fatto delle fotocopie.
78
marzo ’08
La galleria Parmeggiani di Reggio Emilia e i falsi
nell’Ottocento
Il Medioevo vende; e vende perché, evidentemente, c’è domanda di
Medioevo […] cioè il bisogno di un luogo utopico in cui collocare
dame e cavalieri, fate e folletti; […] il bisogno di un luogo in cui
concentrare i propri incubi, di una stanza buia in cui nascondere
le cose che ci fanno paura: cose nostre, s’intende, non certo “del
Medioevo” 1 .
Ilaria Negretti
Queste parole di Massimo Montanari illustrano in
maniera precisa il significato di Medioevo oggi. Prima
di trattare effettivamente dei falsi ottocenteschi, che,
nel caso specifico, riguarderanno riproduzioni fantasiose
o meno di oggetti medievali, è bene fare un breve
cenno su quanto percepiamo di questa “non epoca” e
di quanto “il falso” faccia parte di noi. È stato infatti il
revival gotico dei romanzi, dell’arte, dell’architettura
ottocentesca (si pensino, a riguardo, i “restauri rub- bianeschi” bolognesi rivolti a un
fantomatico ripristino dell’opera originale) a definire l’immagine di Medioevo giunta fino a noi.
È stata l’Italia del Risorgimento a vedere nel Medioevo e nel Rinascimento l’origine della nostra
identità nazionale, il Medioevo dei comuni, argomento di così facile presa in un paese dotato
di un’indole così campanilistica come il nostro. «La stazione si maschera da castello, ma la
maschera è la sua verità». (Theodor W. Adorno, Prismi)
I falsi fanno parte della nostra vita, come le nostre città, spesso ricostruite secondo lo stile
medievale nell’Ottocento, emblematico il caso di San Geminiano in Toscana, trasformato in un
gioiello medievale da Viollet-le Duc, ma si può andare ancor più indietro nel tempo; nel Medioevo,
per esempio, con la falsificazione di gemme, reliquie e documenti. Ma il falso è così da
recriminare? Il termine falso è spesso legato ad una accezione negativa, il culto per il valore di
opera antica, originale e autografa ha fatto sì che lo studio dei falsi mirasse a tutelare acquirenti
pubblici e privati dalla minaccia della frode
con gravi conseguenze per la storia del fenomeno, sia perché la contraffazione, una volta riconosciuta, tendeva a
essere occultata, sia perché, per limitare i danni economici o d’immagine legati alla scoperta di un falso, gli episodi
fraudolenti venivano, per quanto possibile, sottaciuti. 2
Il falso però appare come un documento per la storia del gusto e della cultura, inoltre il suo
studio contribuisce all’accrescimento delle conoscenze sul passato e nell’affinamento degli
strumenti atti a indagarlo, infatti la sua produzione richiede al falsario una capacità tecnica e
una fervida immaginazione e il suo smascheramento obbliga lo storico a un riesame delle sue
convinzioni e del suo metodo. In realtà il rapporto con i falsi è cambiato nel corso dei secoli:
in epoca antica veniva vista come una capacità di emulare o di superare le mitizzate opere
officina del nulla 79
del passato, ma nell’Ottocento si cambia concezione. La falsificazione ottocentesca (fino alla
prima guerra mondiale) si caratterizza come un processo ideologico e materiale «di obliterazione
e sostituzione dei sedimenti tradizionali nell’ambiente e nella cultura del nostro paese» 3 .
L’Italia infatti necessitava di produrre opere da immettere sul mercato antiquariale erupeo
ed extraeuropeo, che non richiedeva più soltanto dipinti o disegni o sculture, ma oggetti di
uso domestico e privato, da arredo. Cambiano i committenti e cambiano quindi le tipologie
da collezionare. Nell’Ottocento non saranno solamente i nobili a rappresentare la domanda
di questo mercato, ma si faranno sempre più presenti e pressanti i borghesi. D’altra parte la
crescente immagine negativa della cultura industriale attiverà sempre più il mito del prodotto
manufatto, unico o variato e comunque irripetibile. E sarà proprio questo rigetto per la produzione
seriale dell’industria a diffondere con forza l’esigenza di sottrarre
alla logica puramente economica la creazione di opere, per tornare a
quell’intima compenetrazione fra spirito collettivo e soluzione progettuale
che aveva caratterizzato la produzione Medievale. Su questa scia
si mossero nell’Inghilterra del secondo Ottocento i pittori cosiddetti
prerafaelliti con il fenomeno delle Arts and Crafts che si diffonderà in
tutta Europa (in Italia Arti applicate). Si tratta di una fitta rete di società
di mutuo soccorso e di scuole per apprendisti allo scopo di promuovere,
incentivare e trasmettere tecniche artigianali minacciate di estinzione.
È in questo periodo che si viene a collocare la realizzazione di buona
parte delle opere della collezione Parmeggiani. In realtà questa curiosa
ed eclettica galleria d’arte fu creata tra il 1924 e il 1926 per volere del
suo fondatore e ultimo proprietario, il reggiano Luigi Parmiggiani (o
Parmeggiani, come si farà chiamare in seguito) figura circondata da
un’aurea volutamente misteriosa.
La galleria, donata da Parmeggiani al comune di Reggio Emilia nel
1933 in cambio di un vitalizio perpetuo e dell’usufrutto dell’immobile
per sé e per la moglie Anna (Blanche Leontine) Detti, presenta sommariamente
l’aspetto originale di come l’aveva ideata il proprietario,
e lascia il visitatore senza fiato, non appena vi si entra. 4 Bizzarra ma
nascosta spesso alla vista perché ben inserita nel fitto contesto urbano cittadino, la galleria
riproduce nelle sue forme architettoniche esterne le sembianze di una cattedrale gotica sul
fronte affacciato su Corso Cairoli, caratterizzato dalla suggestiva torre con guglia, mentre sul
fronte esposto su via San Rocco presenta uno stile rinascimentale fiorentino. Concepita sulla
scorta delle case-museo tanto in voga alla fine del XIX e ai primi anni del XX secolo, l’eclettica
collezione, composta da armi, oreficerie, tessuti, pitture, sculture e mobili, si mostra al
visitatore in sale in stile pompeiano e illuminata da luci soffuse provenienti da lampadari in
stile liberty. È come entrare in un altro mondo e un’altra epoca… un’epoca mai esistita s’intende,
se non nella mente di chi l’aveva creata. Quando si entra nella sala grande, in cui un
ampio lucernario «lascia piovere una chiarità tranquilla e festosa» 5 , come già affermava Fulloni
all’inizio del secolo scorso, la vista è imponente; lungo le pareti quadri di ogni misura, mobili,
seggioloni, e nel mezzo vetrine scintillanti. Chi possiede poi il dono di un occhio allenato e
attento ai minimi particolari, può accorgersi che in alcuni dipinti (quelli delle sale dedicate alle
opere realizzate dal pittore spagnolo Escosura) sono raffigurati oggetti presenti nella collezione:
abiti, dipinti, tessuti, la boiserie, che caratterizza la parte inferiore delle pareti delle sale
del museo, e il monumentale camino con le sfingi. A rendere poi ancor più curiosa la collezione
è la storia della sua formazione.
80
marzo ’08
L’origine dei tre nuclei della raccolta e la loro convergenza nelle mani del Parmeggiani sono legati a un complesso
intrecciarsi di interessi antiquariali e di parentele sul filo di una romanzesca vicenda in cui si miscelano delinquenza
e arrampicate sociali, politica e avventura, falsi d’arte e ambizioni del gusto collezionistico fin de siècle, disinvolte
operazioni di mercato. È un intricato canovaccio con molti punti oscuri 6
non ancora del tutto chiariti. La storia ha inizio con Ingacio Leon y Escosura, di Oviedo, pittore,
scrittore, critico e mercante d’arte trasferitosi a Parigi, dove entrò a far pare del “bel mondo”
della capitale e dove raccolse tra 1970 e il 1980, dipinti, mobili, tessuti, sculture, arazzi. Qui
Escosura convolò a nozze con Marie Thérèse Filieuse Marcy, la cui famiglia (dal nonno, al padre,
agli zii) esercitava con cospicuo profitto l’artigianato artistico sotto il nome dei Marcy (cognome
della madre di Marie Thérèse) con la creazione
della Maison Marcy, due botteghe situate a Parigi e a
Londra. I Marcy si possono considerare
come una vera e propria dinastia dedita alla produzione e allo
smercio di oggetti in stile gotico o rinascimentale che, nella
seconda metà dell’Ottocento, cominciarono ad affluire sempre
più copiosamente nei musei e nelle maggiori collezioni private
europee e statunitensi. 7
L’Escosura entrando a far parte di questa famiglia,
probabilmente collaborò “nell’azienda famigliare” producendo
le imitazioni come “prove di stile” che altri, in
seguito, avrebbero provveduto a contrabbandare per
opere antiche originali. Buona parte delle opere realizzate
e di quelle collezionate dal pittore sono visibili all’interno della galleria. Attraverso
l’analisi dei dipinti dello spagnolo si può riscontrare il suo modus operandi, nelle raffigurazioni
sono riprodotti numerosi materiali presenti nella collezione, oggetti di cui lui stesso si era
circondato e che aveva utilizzato per ambientare i soggetti storici delle sue creazioni. Si tratta
di materiali di significativo interesse e valore: la quadreria, costituita da un gruppo di opere
antiche, oggi collocate nel salone centrale e da un importante gruppo di dipinti spagnoli (del
XV e XVI secolo) 8 , gli arredi lignei e i tessuti che sono tutti antichi. Per quanto riguarda questi si
nota una certa predilezione per i velluti e l’arte del ricamo, mentre per i costumi settecenteschi
sono state notate pesanti manipolazioni, necessarie anche per il loro utilizzo nelle complesse
ricostruzioni storiche delle opere dell’Escosura. Emblematici di questa produzione così legata
al Romanticismo sono i dipinti che riproducono episodi storici in particolare del XVII e XVIII
secolo e che hanno per protagonisti “grandi uomini” colti in momenti culminanti della loro
biografia, come L’abdicazione di Carlo I d’Inghilterra.
Il secondo “fondo” della Parmeggiani si forma grazie alle opere del noto pittore spoletino
Cesare Augusto Detti, anch’egli collezionista, amatore e mercante d’arte che si trasferì a Parigi
nel 1876 e verso il 1880 entrò a far parte dell’entourage di Escosura, ancor prima di diventare
cognato di questo, sposando Juliette Emilie, sorella di Marie Thérèse.
Il terzo e più interessante gruppo della raccolta gravita invece intorno all’etichetta della
bottega Marcy, da cui proviene il fondo residuo, quando l’impresa era diretta dalla misteriosa
figura di Louis Marcy, l’ultimo titolare della più agguerrita organizzazione europea per la produzione
e il commercio di oggetti in stile antico. In realtà Louis Marcy era il nome utilizzato da
Luigi Parmeggiani, fondatore di questa Galleria, quando iniziò a occuparsi delle Maison Marcy.
Infatti poco dopo aver attentato alla vita dei deputati socialisti riformisti Ceretti e Prampolini
nel 1889, insieme a Giuseppe Pini, il reggiano e anarchico Luigi Francesco Giovanni Parmigiani,
officina del nulla 81
costretto all’esilio, entrò in contatto con il mondo dell’arte e dell’antiquariato frequentando
a Parigi Escosura. Soppiantandosi al pittore spagnolo nella conduzione delle sue botteghe di
antiquariato con il benestare della moglie di questo e sotto lo pseudonimo di Luis Marcy, si
introdusse con successo nel commercio di arte minore in forme medievali e rinascimentali, che
invasero il mercato antiquario europeo nella seconda metà dell’Ottocento fino a primi anni del
Novecento. Con la morte di Escosura prima, e della moglie di questo poi (1918), Parmeggiani
si trovò di fatto a disporre di tutti i beni di questa famiglia. Il tutto venne suggellato nel 1920
dal matrimonio con l’unica erede della collezione Escosura-Marcy, Blanche Leontine (o Anna)
Detti, unica nipote di madame Escosura e figlia di Augusto Cesare Detti. Sistemata in questo
modo la propria legittimità di poter disporre del ricco patrimonio, Luigi Parmiggiani chiuse
la bottega parigina (quella londinese era già stata
smantellata nel 1903 in seguito a problemi giudiziari)
e allo stesso indirizzo nacque la nuova Parmeggiani
Antiquarie. Nel 1922 l’originalità delle opere Marcy fu
messa in discussione da un articolo nella rivista d’arte
tedesca “Belvedere” di Otto Von Falke Die Marcy
Falschungen. Parmeggiani decise quindi di ritirarsi
definitivamente dal commercio, chiudendo l’impresa
nel 1926 e trasferendosi con la moglie e tutto il loro
patrimonio (le collezioni Marcy-Escosura-Detti) in
Italia, nella città natale di Reggio Emilia, creando
una nuova dimora dove collocare le opere d’arte, la
galleria suddetta.
Della produzione Marcy fanno parte forse gli
oggetti più interessanti e curiosi: le oreficerie, le armi e gli arredi lignei. Sir John Hayward,
responsabile del Victoria and Albert Museum di Londra, fu il primo a fornire uno studio approfondito
di queste opere e identificò i gioielli della collezione come oggetti falsi, di produzione
ottocentesca, riferibili alla bottega parigina Maison Marcy. Alla stessa bottega erano già stati
assegnati falsi del Museo di Berlino e del Victoria and Albert Museum di Londra. Alle stesse
conclusioni giunse, in maniera del tutto indipendente, Lionello Giorgio Boccia, direttore del
Museo Stibbert di Firenze, incaricato di studiare la collezione delle armi, nell’ambito di una più
ampia catalogazione relativa alle armi dei Musei di Reggio Emilia. Boccia riconobbe la provenienza
ottocentesca delle armi, riferibile alla produzione Marcy e fu il primo a identificare la
vera identità che si nascondeva dietro il nome di Louis Marcy. In realtà non tutti i pezzi sono
falsi, alcuni sono autentici, altri sono degli oggetti ricomposti con materiale originario autentico,
talvolta integrato con decorazioni ottocentesche. 9 Il gruppo proveniente dalla produzione
Marcy è formato da vari esemplari, soprattutto da
armi bianche spesso arricchite di smalti. Vi sono
opere legate più a un clima maturato a partire dagli
anni Trenta dell’Ottocento e opere, ascrivibili alla
fine del secolo, la cui fattura richiama fortemente
alla produzione art noveau contemporanea. Sono le
parti di armature, soprattutto i caschi, che si rifanno
alla cultura medievale e rinascimentale, sia di area
nordica, sia di area italiana. Queste opere si nutrono
dei risultati di una approfondita ricerca documentaria
e archeologica; «ed è questa anzi una caratteristica
notevole dei pezzi nella Parmeggiani, che mostra-
82
marzo ’08
no in genere una certa dimestichezza con le fonti e col materiale autentico» 10 . Emblematica
di questa concezione è anche la produzione di oreficerie che si ispirano nelle forme a opere
provenienti da libri illustrati (come le Monumental Effigies of Great Britain di Charles Alfred
Stothard del 1817) e da raccolte pubbliche e private, come la sontuosa Madonna col Bambino
in argento dorato che riprende le fattezze della statuetta eburnea del Louvre già in collezione
Soltykoff. Il Medioevo che viene proposto in queste opere è quello cristiano e monarchico, si
pensi al pugnale del Principe Nero o il pugnale e la spada di re Edoardo d’Inghilterra (re dal
1330-1377), ornati di ricche impugnature in finto oro e di motivi araldici; ma anche (e forse soprattutto)
quello cortese e cavalleresco. Il successo sul mercato di queste opere Marcy venne
amplificato dalla capacità di Parmeggiani di presentarle come tesori nascosti e provenienti da
luoghi lontani (e sconosciuti dal mercato antiquario) come Spagna e Portogallo.
In realtà gli oggetti Marcy sono ancor oggi pregni di questa aura misteriosa e affascinante,
come lo sono gran parte delle opere false che a lungo sono state considerate alla stregua di
oggetti originali; da questo punto di vista i falsi si possono, a mio avviso, ritenere emblemi
della capacità e dell’ingegnosità della persona creatrice di riprodurre oggetti appartenenti a un
mondo lontano e tanto vagheggiato.
1 M. Montanari, Il tramonto del Medioevo, in Medioevo al tramonto?, a cura di B. Borghi, Ferrara, Edisai, 2007, p.
41.
2 M. Tomasi, Falsi e falsari, in Arti e storia nel Medioevo, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, IV, Torino, Einaudi,
2004, p. 872.
3 M. Ferretti, Falsi e tradizione artistica, in Storia dell’Arte Italiana, III, a cura di F. Zeri, III, 10, Torino, Einaudi,
1981, p. 164.
4 Precisamente furono gli oggetti della collezione e i propri beni mobili a essere donati al comune di Reggio
Emilia, mentre l’immobile creato da Parmeggiani venne venduto al comune stesso, in cambio della copertura dei
debiti, di un vitalizio e dell’usufrutto dell’immobile stesso, per sé e per la moglie. Per un maggiore approfondimento
cfr La galleria Parmeggiani di Reggio Emilia. Guida alla collezione, a cura di E. Farioli, Reggio Emilia, 2002.
5 A. Fulloni, La galleria Parmeggiani a Reggio Emilia, in “Le vie d’Italia”, 1932, p. 359.
6 G. L. Marini, Nasce da un attentato politico e da una centrale di falsi la più importante raccolta spagnola d’Italia, in
“Il giornale dell’arte”, VI, 58, 1988, p. 21.
7 Ibidem
8 Sulle opere spagnole cfr A. E. Pérez Sánchez, I dipinti della civica galleria “Anna e Luigi Parmeggiani”. I dipinti
spagnoli, Reggio Emilia, Grafis, 1988.
9 L. G. Boccia, Armi antiche delle raccolte civiche reggiane, Reggio Emilia, 1984, p. 35.
10 Ibidem, p. 39.
officina del nulla 83
Vincenzo Rabito, Terra matta
84
Stefano Rosignoli
La località di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo, si fregia dal 1984 del titolo di «città
del diario», giustificata dalla fondazione di un archivio che accoglie e mette a disposizione del
pubblico testi autobiografici privati di ogni tipo. L’Archivio Diaristico Nazionale indice già dal
1985 il Premio Pieve-Banca Toscana, assegnato postumo
a Vincenzo Rabito (ex aequo con Armando Zanchi)
nell’anno 2000, dopo che Giovanni Rabito, figlio più
giovane dell’autore, scomparso nel 1981, decise di spedire
l’originale dell’autobiografia paterna alla segreteria
del premio. Le speranze avanzate dalla giuria di
poter vedere pubblicato il testo sono state accolte dalla
casa editrice Einaudi, la quale, dietro finanziamento
pubblico e privato, ha organizzato un’ampia revisione
nel tentativo di raggiungere un compromesso tra conservazione
dell’originale e sua riorganizzazione, per
offrirlo a un pubblico composto non solo da specialisti.
L’edizione, curata da Luca Ricci ed Evelina Santangelo,
è da considerare pertanto come una riduzione
e non un’edizione critica, ma la maggior parte degli
accorgimenti utilizzati nelle sezioni riportate riguarda
l’aspetto puramente grafico del testo, il che rende il
risultato finale sostanzialmente fedele alle intenzioni
dell’autore.
Tra i motivi che si potrebbero ricordare per consigliare
la lettura del volume c’è innanzitutto l’eccezionalità
dell’esperienza narrata, che è quella di un uomo
sopravvissuto ai più terribili flagelli del XX secolo.
Vincenzo Rabito nacque a Chiaramonte Gulfi, oggi in
provincia di Ragusa, il 31 marzo 1899. Venne spinto
dalle difficoltà familiari ad abbandonare gli studi anco-
Juva, 2007
ra bambino e a iniziare il lavoro come bracciante nelle
campagne della zona, sino alla chiamata alle armi.
Sopravvissuto miracolosamente alle trincee della Grande
Guerra e alla malaria dilagante nella propria provincia, cercò fortuna in Africa, affrontando
un nuovo conflitto, che si protrasse per lui nella seconda guerra mondiale. Tornato in patria,
venne spinto a sposare una donna di famiglia nobile decaduta, scontrandosi poi con la terribile
suocera che, una volta ottenuto il denaro, tentò in tutti i modi di cacciarlo. Dopo la fine della
guerra, parte della quale vissuta come minatore in Germania, il maggiore impegno di Vincenzo
fu crescere i propri figli, portandoli al diploma o, con grande soddisfazione, alla laurea. La
mancanza di un destinatario preciso e la profonda sincerità di tutta la narrazione stanno a
indicare come l’opera non sia stata scritta per la pubblicazione, ma semplicemente sotto la
spinta ancestrale al racconto, nel tentativo di conservare la propria esperienza o di trasmetter-
marzo ’08
la ai propri familiari.
L’altro grande motivo di interesse è dato dalla struttura linguistica del testo, che mescola
italiano regionale e popolare. Detto in estrema sintesi, la lingua di Rabito nasce dal tentativo
di raggiungere un italiano letterario, senza che l’autore abbia la possibilità di conseguire il
risultato voluto. In altre parole, la lingua dell’autore non è né dialetto né lingua letteraria, ma
una sorta di “lingua di mezzo” solitamente definita italiano popolare, determinata non solo
dall’appartenenza sociale ma anche dal mezzo e dal genere scelti, e ottenuta nel tentativo di
raggiungere lo standard colto. Tale tentativo produce quindi una serie di ibridismi linguistici,
da considerare interni alle varietà dell’italiano, individuabile come sistema dominante.
In realtà, la lettura dell’autobiografia di Rabito dimostra che linguaggio e contenuti sono,
come sempre, strettamente interrelati, accomunati
dal fatto di essere entrambi terreno di
scontro tra cultura alta e popolare, prevalentemente
orale. Non è un caso, in fondo, che sia
la giuria del premio Pieve-Banca Toscana che
diversi giornalisti abbiano parlato di «Gattopardo
popolare»: semplicemente perché
la scrittura di Rabito induce a credere nella
volontà, prevalentemente (ma non esclusivamente)
inconscia, di raggiungere sia la lingua
che il ritmo caratteristico della grande narrativa
realista. Il racconto di Rabito non si configura,
pertanto, come un diario delle sue esperienze
quotidiane, ma come il risultato della loro rie-
laborazione posteriore. Ad attirare l’attenzione
Juva, 2007
del lettore ci sono poi elementi che sembrano
piuttosto appartenere al retroterra culturale del personaggio, ossia al bagaglio di conoscenze
del quale fanno parte tutti gli aspetti che evocano la Sicilia più povera e profonda, e che ci
mostrano come deve essere stata l’esistenza di un uomo che la storia avrebbe completamente
dimenticato, se la sua voce non fosse giunta al grande pubblico. Si potrebbe quindi applicare
alla lingua, così come al modo narrativo di Rabito quanto Ginzburg affermava già per le idee
di Menocchio: «così una massa di elementi compositi, antichi e meno antichi, confluì in una
costruzione nuova. Da un muro spuntava il frammento quasi irriconoscibile di un capitello,
o il profilo mezzo cancellato di un arco a sesto acuto: ma il disegno dell’edificio era suo» (C.
Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Torino, Einaudi, 1976, p. 72). Per esprimere il lungo travaglio
della propria esistenza Rabito non ha potuto far altro, in definitiva, che utilizzare una lingua
e una cultura diverse dalle proprie, ma conservandovi elementi peculiari alla propria origine
popolare, che rendono la pubblicazione di Einaudi estremamente interessante sotto il profilo
culturale.
padre-torsio@libero.it
grignoter 85
2666 di Roberto Bolaño
86
Eugenio Santangelo
Direi che l’autore de I detective selvaggi vede il mondo come un complicato sistema di relazioni, che è prodotto a
sua volta di molteplici sistemi interrelazionati. Vale a dire che vede il mondo in un modo più o meno simile a –
per citare un grande scrittore che di sicuro Bolaño ammira – come lo vedeva Carlo Emilio Gadda. [...] L’artista
della molteplicità che è Bolaño sa che l’unica cosa che può fare l’individuo per
assimilare il caos che lo avvolge e che riflette la sua natura consiste nell’aprire bene
gli occhi e cercare di registrare tutto per poi tentare di ordinarlo. (E. Vila-Matas,
Bolaño en la distancia)
Sul “secondo grado” nell’opera di Roberto Bolaño si potrebbero
scrivere diverse monografie. Stesso discorso se riduciamo il campo
a 2666. Anzi, potremmo dire che tutte le operazioni di secondo
grado che questo numero di “Tabard” ha cercato di sviscerare costituiscono
il fondamento della scrittura dell’autore latinoamericano
(come lui si definiva, né cileno, né messicano, né spagnolo, ma latinoamericano,
come i suoi detectives). Citazionismi, parodie, riscritture,
intertestualità, plurilinguismi incerti e esplicitamente manipolati
(non certo filologici), contaminazioni ecc. E basterebbe rimanere
“dentro” la sua vastissima produzione per studiarne rimandi interni,
proliferazione di racconti, ritorni di personaggi, temi, motivi minimi,
ri-sviluppati, ri-scritti e re-indagati da un’opera all’altra, riaprendo
e riconfigurando le relazioni, come in «una specie di aleph» borgesiano
«inesauribile», con una «struttura che tende all’infinito» (così,
rispettivamente, E. E. Gandolfo e, ancora, Vila-Matas). È un’opera
che andrebbe considerata nella sua totalità. Eppure, nonostante
Juva, 2007
ciò, ogni suo “episodio conchiuso”, pur lasciando indizi del suo
esser passibile di una ri-apertura e reinterpretazione – in primis ad
opera del suo stesso autore – è dotato di una particolare autonomia derivante dalla centralità
conferita da Bolaño alla micronarrazione (come microsistema, per l’appunto).
Dopo la traduzione e la pubblicazione di quasi tutta la sua opera da parte di Sellerio,
Adelphi edita tre delle cinque parti (433 pagine, solo poco più di un terzo) che compongono
l’immenso ultimo romanzo, uscito postumo nel 2004. 2666 non è un libro che si possa leggere
a puntate, nell’abisso centrale verso cui tendono tutte le storie (“La parte de los crímenes”) i
lettori italiani potranno scivolarci solo fra un anno, quando uscirà il secondo tomo dell’opera.
Non si capisce il senso di quest’operazione – a mio parere nemmeno da un punto di vista commerciale,
ma ammetto che non è il mio campo – da parte dell’editore milanese, che oltretutto
ha ricevuto contributi dalla Dirección General del Libro, Archivios y Bibliotecas del Ministero de
Cultura de España, per la stampa del libro. Ma tant’è, accontentiamoci e veniamo al dunque.
Risulta chiaro, date le premesse, che anche solo descrivere la trama o elencare i temi del
romanzo in così poco spazio sarebbe impossibile. Allora giriamo intorno a un verbo: investigare.
Bolaño utilizza sempre, gioca, parodia, rielabora il genere poliziesco. Nella maggior parte
dei casi i suoi personaggi cercano qualcuno o qualcosa. Ricerca e investigazione. Aggiungiamo
la parola labirinto (è chiarissima l’influenza di Borges). Il più delle volte, però, il lettore è
marzo ’08
depistato. È condotto a cercare un oggetto, ma il romanzo alla fine gli dice che quell’oggetto
(pericolosamente assolutizzato) non è così importante, non esiste, anzi è assente, l’importante
è l’investigazione, la ricerca, le storie. Ecco allora la prima parte del romanzo: quattro critici
letterari investigano e interpretano l’opera di uno scrittore tedesco desaparecido – candidato,
tra le altre cose, al Nobel – di cui non esiste traccia se non nei suoi libri. Eppure insistono nel
cercarlo, nel voler investigare anche la biografia, di Benno Von Archimboldi, nel voler trovare
attestazioni di presenza. In continuità con I detective selvaggi: allegoria dell’assenza del soggetto,
parodia della sua ricerca. È solo nella ricerca e nella narrazione della ricerca che il soggetto
può raggrumarsi contingentemente: non nell’oggetto della ricerca. Tabard: «il fine della
ricerca è la ricerca stessa». E così il narratore – sempre in una terza, strana, persona (e alla fine
del romanzo si potrebbe, forse,
ipotizzare una sua identificazione)
– li manda (tre di loro)
sulle tracce labili di Archimboldi,
li invia nel nord del Messico,
al confine con gli USA, a Santa
Teresa. Qui, ovviamente, non
troveranno nemmeno tracce,
di Archimboldi, affonderanno
semplicemente in un Messico
estremizzato e frontierizzato,
s’ubriacheranno, conosceranno
personaggi ambigui, a volte
fantasmatici, onirici, s’innamoreranno
d’una indigena
venditrice d’artigianato locale,
perderanno se stessi nell’opera
dello scrittore tedesco. Verranno
a sapere, ma lentamente,
che in quella città, Santa Teresa
(alias di Ciudad Juárez, stato di Chihuahua), in soli dieci anni sono state uccise più di 200
donne, senza che si siano ritrovati (e nemmeno ricercati) responsabili, a parte capri espiatori
utilizzati per futili catarsi mediatiche.
La narrazione li abbandona, cessa l’investigazione su di loro, si focalizza su un personag-
gio, Amalfitano, già apparsoci nella prima parte. Non è un caso che questo professore cileno di
letteratura leghi – narrativamente e tematicamente – le sue origini a Santa Teresa. Fugge dalla
dittatura, vive in Spagna, la moglie lo lascia per andare alla ricerca (ancora una volta) di un
poeta chiuso in un manicomio, finisce insieme a sua figlia a Santa Teresa. 2666 è un romanzo
sul male, ne indaga e mette in relazione differenti manifestazioni storiche e psicologiche (“La
parte di Archimboldi” andrà ancora più indietro, alle “origini” del secolo breve). Dalla dittatura
cilena, centrale per la “formazione” di Bolaño, Amalfitano sfiora la follia nella città dell’orrore
umano sistematicamente “permesso” e non indagato, slegato in maniera mistificatoria
dai complessi sistemi acquiescenti che ne sono i colpevoli, atomizzato in un nonsenso che è
l’assenza di relazioni. Amalfitano finisce alla fine del suo «viaggio» in un’«oasi di orrore» (cfr.
l’epigrafe baudelairiana del romanzo). Ne “La parte di Fate” ci immergiamo ancora un poco
più a fondo in un tale abisso, attraverso il filtro di un giornalista statunitense nero che viene
inviato nella città messicana per scrivere la cronaca di un incontro di boxe ma che l’“istinto
investigante” porterà inevitabilmente verso “la parte dei crimini”. La paura è un altro centro
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Juva, 2007
generatore del romanzo. Durante la scrittura, Bolaño intrattenne uno scambio epistolare con
Sergio Gonzáles Rodríguez, poi autore di Ossa nel deserto (Adelphi, 2006), agghiacciante
libro-inchiesta sul ginocidio di Cd Juárez. Investigare su queste vicende in Messico risulta
estremamente pericoloso, molti giornalisti sono stati uccisi, lo stesso Gonzáles Rodríguez ha
subito attentati e minacce. Bolaño lo trasformerà in un personaggio del romanzo, e scriverà:
«Ossa nel deserto non è solo una fotografia del male e della corruzione in Messico, ma anche
una metafora dell’incerto futuro di tutto il Latinoamerica». Fate sparirà dalla narrazione alla
fine di questo tomo incompleto e della parte a lui dedicata: lo lasciamo di fronte all’immagine
mitologica del «gigante» accusato degli omicidi (ironicamente innocente) che il giornalista va a
intervistare in carcere. Ma la sua figura sarà quasi “continuata” dal personaggio Sergio Gonzáles
nella parte più tremendamente geniale del
romanzo, da un punto di vista narrativo. Ma
ancora non è possibile leggerla in italiano. Per
cui ve ne parlerò un’altra volta.
Mi piacerebbe concludere questa misera
recensione, citando il tabardiano Achille
Castaldo, che sul blog della rivista, e non
solo, m’aveva in-citato a scrivere ciò che mi
appresto a chiudere: «resta l’aver stanato il
mostro, aver costretto l’occhio che scavalca il
torrente dei caratteri a posare sui corpi inermi
delle donne assassinate e abbandonate nel
deserto. Aver costretto il lettore a fermarsi in
una assurda città di frontiera, ormai definitiva
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città dell’uomo consacrata al vuoto che la
circonda; dove non è possibile fidarsi di alcun
essere umano; soprattutto non di se stessi, né delle “voci”: “così tutto ci tradisce, compresa la
curiosità e l’onestà e quello che abbiamo molto amato. Sì, disse la voce, ma consolati, in fondo
è divertente”».
Resta il valore della narrazione come possibilità proliferante di ricerca, di critica, d’investigazione
della molteplicità, e dell’orrore – che è orrore proprio perché «isola» le relazioni, le
interrompe, violentemente. Bolaño, come i suoi detective selvaggi, fa parte di quella «tribù che
non cessa di indagare, di investigare, di riferire tutte le storie».
«¿Tú te ocuparás de todo?», verrà detto a pagina 1116 ad Archimboldi: si occuperà di tutto lui?
eugenio.santangelo@gmail.com
marzo ’08
L’accademia Pessoa di Errico Buonanno
Giuro sul mio onore che ciò che segue è la pura verità:
Mimmo Cangiano
Renzo Tramaglino e il signor K. sono in realtà la stessa persona, Pinocchio è il seguito de I promessi
sposi, monsieur Flaubert non ha mai scritto una riga in vita sua, “Manzoni” è un multiple
name utilizzato da un gruppo di sfaccendati scrittori sudamericani, «una peste si aggira per
l’Europa» e qui l’opera è aperta, troppo aperta.
Vorticoso giallo letterario giocato sul filo del plagio, L’accademia Pessoa è un mosaico
bizantineggiante e splendente in cui si incastonano alla perfezione i coralli della disperazione.
Il romano Buonanno lo sa, lo scrive: «non esistono fatti, solo interpretazioni» (p. 71).
Hamete Benengeli, nano con il vizio di rileggere Musil, ritrova, accanto al corpo senza
vita del suo maestro Alonso Novarro, la traduzione del trentanovesimo capitolo del romanzo
manzoniano e un biglietto che recita (subdolamente) «Remember me» (p. 13). Comincia allora
per lui e la sua compagna Emma (ritratto di donna per cui si potrebbero fare il nome di Sibilla
Aleramo, se una parrucca di agnello d’Astrakan non venisse a complicare le cose) un vorticoso
viaggio alla ricerca di una risposta (qui un ciellino parlerebbe, e a ragione, di “ricerca del senso”,
rafforzato nella sua interpretazione dalle parole che il giallista Giuseppe Solina, nemesi
del Benengeli, pronuncia in punto di morte: «e sì dissi sì voglio Sì»).
Esperto di «quel ramo» della letteratura che Borges e Perec ha per vivide stelle,
il labirinto del torinese Buonanno guarda ad una tradizione ironica e giocosa, certosina e
senile, pronta, nella sua sfrontatezza giovanile, a preferire la vita alla coscienza. Educazione
sentimentale di qualsiasi lettore, questo lungo poema, ricco di illusioni perdute ma sempre
pronto a rovesciarsi in spietata (e a tratti demoniaca) critica a qualsiasi crepuscolo degli idoli,
si riveste nel finale, nella partita a carte a un tavolo di osteria, di uno spietato attacco rivolto a
tutti gli idioti che passano la loro vita chini sui libri. E il fuoco che nell’ultima pagina avvolge il
libro sul comico della Poetica di Aristotele sta lì come un totem, le parole sono inutili, bisogna
tacere: il resto è tabù.
Storia triste ma assetata di riscatto, romanzo corsaro e saturo che racchiude in 120
giornate le vite di dieci piccoli uomini, vite pendolari, mesi – chissà quanti – di solitudine, giornate
plumbee, senza allegria, perse nel naufragio del tempo. Romanzo dalla morale incerta,
forse affidata al piccolo Malvolio, rabelaisiano figlio del Benengeli, che nel capitolo centrale
dell’opera, alzando lo sguardo al tramonto della luna, pronuncia con coraggio la sua ambigua
etica negativa: «galleggiamo tutti in quest’opera, come in un mattino a figure nere» (p.100).
Non sappiamo se questo settimo romanzo del norvegese Buonanno avrà successo, forse
non lo capiranno, forse è troppo puro, troppo slegato dai volgari bisogni della quotidianità
(al di là del seme e del pane), troppo rampante per questi giorni che hanno perso l’incanto e
hanno smesso di lottare… se non per lottizzare.
E chiude alla grande: «Buonanno è contro Buonanno» (p. 195)
mimmo.cangiano@libero.it
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“le opere di Shakespeare non furono scritte da lui ma da una
persona che aveva lo stesso nome”
(Anonimo)
Juva, 2007
(La verità è il festino per cui siamo fatti)
Astuto il flamengo nasconde
il capo sotto l’ala e crede che il cacciatore
non lo veda
Eugenio Montale, Satura