Pier Paolo Pasolini, La poesia che dice tutto– n. 199, novembre 2005
Pier Paolo Pasolini, La poesia che dice tutto– n. 199, novembre 2005
Pier Paolo Pasolini, La poesia che dice tutto– n. 199, novembre 2005
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Giovanni Giovannetti / Effigie<br />
<strong>Pier</strong> <strong>Paolo</strong> <strong>Pasolini</strong><br />
<strong>La</strong> <strong>poesia</strong> <strong>che</strong> <strong>dice</strong> tutto<br />
di Daniele Piccini
<strong>La</strong> lucidità e l’impressionante<br />
precisione delle analisi o meglio<br />
delle profezie di <strong>Pier</strong><br />
<strong>Paolo</strong> <strong>Pasolini</strong> sullo stato delle<br />
cose italiane sono riconosciute,<br />
oggi, più o meno da tutti. L’avvento<br />
di una Nuova Preistoria, la<br />
scomparsa della cultura autentica di<br />
un popolo sostituita da un immaginario<br />
omologato, plastificato e televisivo<br />
(quello <strong>che</strong> <strong>Pasolini</strong> definì un<br />
“genocidio culturale”) sono oggi,<br />
molto più di allora, consumati ed evidenti<br />
sotto gli occhi di tutti. Quello<br />
<strong>che</strong> non sempre si ha la forza di riconoscere,<br />
a trent’anni da quella notte<br />
di <strong>novembre</strong> in cui lo scrittore venne<br />
trucidato (è di quest’anno la riapertura<br />
dell’inchiesta dopo le nuove dichiarazioni<br />
di Pino Pelosi, condannato<br />
come esecutore dell’omicidio), è<br />
<strong>che</strong> molto del suo singolare fiuto nel<br />
distinguere e riconoscere, nel giudicare,<br />
comprendere, ma an<strong>che</strong> nel lottare,<br />
è retaggio e patrimonio prima di<br />
tutto del <strong>Pasolini</strong> poeta.<br />
Sul valore della <strong>poesia</strong> di <strong>Pasolini</strong>,<br />
<strong>che</strong> del resto dell’eccesso e della provocazione<br />
ha sempre fatto una propria<br />
arma, i giudizi sono ancora screziati<br />
e diversi. Da parte di alcuni (si ricorderà<br />
la nota di Mengaldo nella sua<br />
antologia I poeti italiani del Novecento,<br />
del 1978) si tende a restringere<br />
poco oltre la produzione in dialetto il<br />
buono della <strong>poesia</strong> pasoliniana, contestando<br />
quasi in toto l’operazione<br />
successiva, da Le ceneri di Gramsci<br />
in particolare, come mescolanza e<br />
ibrido di letterario e predicatorio, di<br />
basso popolano e di decadente. Eppure<br />
una tenace, resistente vitalità di<br />
questa <strong>poesia</strong>, come si è detto esuberante,<br />
esondante, quasi in perenne<br />
eccedenza di quantità, è un dato <strong>che</strong><br />
i recenti due tomi dei “Meridiani”<br />
Mondadori di Tutte le poesie, a cura<br />
di Walter Siti (2003), non hanno fatto<br />
<strong>che</strong> confermare. Il punto è <strong>che</strong> <strong>Pasolini</strong><br />
si è sempre identificato (e certo<br />
non solo in <strong>poesia</strong>) con una fondamentale<br />
forma di schizofrenia, di<br />
contraddittorietà, di divisione. Tutte<br />
le analisi, più e meno recenti, sulla<br />
sua opera puntano su questo dato,<br />
evidente a livello psichico-tematico<br />
<strong>Pier</strong> <strong>Paolo</strong> <strong>Pasolini</strong> / <strong>La</strong> <strong>poesia</strong> <strong>che</strong> <strong>dice</strong> tutto<br />
come a quello formale (l’ossimoro è<br />
una delle figure più costanti del ragionare<br />
pasoliniano).<br />
L’interna lacerazione, innanzi tutto<br />
tra rispetto e amore per la Letteratura<br />
e suo ideologico e razionale rifiuto o<br />
superamento (su cui richiama l’attenzione<br />
il ricco e corposo saggio di Antonio<br />
Tricomi, Sull’opera mancata di<br />
<strong>Pasolini</strong>, Carocci, Roma <strong>2005</strong>), è un<br />
elemento <strong>che</strong> da un certo punto in<br />
avanti, diciamo dal passaggio alla<br />
<strong>poesia</strong> in lingua, contraddistingue e<br />
quasi marchia a fuoco tutta l’opera di<br />
<strong>Pasolini</strong>, al pari di una ontologica<br />
tensione tra vitalismo, fortissimo in<br />
lui, e desiderio di morte, cupio dissolvi<br />
(sull’orizzonte e il progetto di morte<br />
costruisce una complessiva lettura<br />
del mondo pasoliniano Stefano Agosti,<br />
raccogliendo suoi saggi precedenti<br />
nel volumetto <strong>La</strong> parola fuori<br />
di sé, Manni, Lecce 2004).<br />
Voglio dire <strong>che</strong> <strong>Pasolini</strong> ha vissuto<br />
tutta la sua avventura intellettuale, e<br />
prima di tutto poetica, all’insegna di<br />
una irrisolvibile divisione interiore,<br />
non sanabile e talmente patita da diventare<br />
essa stessa fonte di ispirazione,<br />
di forza visionaria, di <strong>poesia</strong>. Una<br />
serie di coordinate storico-letterarie<br />
ed epocali mise <strong>Pasolini</strong> in una scomodissima<br />
posizione di poeta in lotta<br />
con se stesso, di intellettuale e scrittore<br />
tormentato e, infine, di vittima, come<br />
se egli volesse con il proprio corpo<br />
ridare consistenza a un mondo fatiscente<br />
e in dissoluzione e insieme<br />
pagare con la sua morte la propria<br />
eresia (per stare a una parola su cui<br />
richiama l’attenzione Gianni D’Elia<br />
nel suo volume di rilettura integrale<br />
dell’opera dell’autore L’eresia di <strong>Pasolini</strong>,<br />
Effigie, Milano <strong>2005</strong>).<br />
<strong>Pasolini</strong>, a guardare in prospettiva<br />
la sua vicenda e i suoi scritti, si è trovato<br />
a pagare sulla carne viva una<br />
temperie culturale, un clima colmo<br />
di sospetti, di diktat, di obblighi dogmatici.<br />
Il suo fuoriuscire da ogni<br />
chiesa (quella cristiana ma an<strong>che</strong><br />
quella, sentita in qual<strong>che</strong> maniera<br />
come parallela, del Partito) è una forma<br />
di libertà <strong>che</strong> egli si è trovato a<br />
pagare a carissimo prezzo, con<br />
l’esclusione, la solitudine, la coscien-<br />
za del proprio isolamento, il sentimento<br />
di una perenne sconfitta. Eppure<br />
è questa volontà di forzatura<br />
continua delle appartenenze e delle<br />
formule <strong>che</strong> ha nutrito di vita e di<br />
struggimento l’opera di <strong>Pasolini</strong> e<br />
<strong>che</strong> l’ha messo al riparo da un rapido<br />
superamento, da un rispecchiamento<br />
contingente e limitato, transeunte,<br />
del suo tempo.<br />
<strong>Pasolini</strong>, da isolato e da oppositore,<br />
da contestatore e da ‘senza chiesa’<br />
ha potuto sentire sfaldarsi il tessuto<br />
culturale della Nazione, venir meno<br />
lo stesso ruolo rassicurante e ‘sacerdotale’<br />
della <strong>poesia</strong> e la necessità per<br />
essa di aderire a un nuovo ordine di<br />
cose, in cui lo scontro si faceva più<br />
sottile e radicale. Nessuna forma data,<br />
nemmeno quella ideologica, serviva<br />
e bastava a contentare l’aspirazione<br />
vitale, il dramma del <strong>Pasolini</strong><br />
artista, in cerca di una prensile, piena<br />
presa sul mondo, di un tentativo di<br />
inveramento di tutta l’esperienza,<br />
<strong>che</strong> non era possibile se non a prezzo<br />
di un enorme sacrificio personale.<br />
<strong>Pasolini</strong> è stato ed è restato sempre<br />
prima di tutto un poeta (come è stato<br />
da tanti sottolineato), e il suo cinema,<br />
la sua narrativa non sono <strong>che</strong> <strong>poesia</strong><br />
trasferita in altre forme, su altri piani,<br />
altri linguaggi. <strong>La</strong> <strong>poesia</strong> è stata, in<br />
certo modo, la sua prima e fondamentale<br />
eresia, l’arte <strong>che</strong> lo ha messo<br />
in condizione di leggere e percepire e<br />
soffrire le contraddizioni e l’assenza<br />
di sbocchi positivi del tempo e insieme<br />
di attraversarle in modi non obliterabili.<br />
Perché se <strong>Pasolini</strong>, da una<br />
parte, con tutta la sua forza e lucidità<br />
intellettuale tendeva verso la presa di<br />
coscienza ideologica, l’impegno e<br />
l’indicazione di un’opera da compiere<br />
nel quadro della lotta di classe,<br />
dall’altra, an<strong>che</strong> e soprattutto per via<br />
poetica, avvertiva nel buio delle viscere<br />
(come <strong>dice</strong> nel capitale poemetto<br />
Le ceneri di Gramsci del 1957)<br />
una diversa, arcaica, remota verità,<br />
non addomesticabile né riducibile a<br />
Storia, a ragione. Una verità consistente<br />
nella vita al suo stato puro,<br />
grezzo, pre-ideologico sentita come<br />
bene inalienabile, come struggente e<br />
potentissimo eden in via di definitivo<br />
17
smarrimento, con cui la stessa analisi<br />
e prassi marxista confliggeva.<br />
<strong>Pasolini</strong> inizia la sua vicenda poetica<br />
in dialetto, nutrito di letture elette<br />
e raffinate, <strong>che</strong> gli venivano dalla<br />
grande cultura romanza, e tra le Poesie<br />
a Casarsa del 1942 e <strong>La</strong> meglio<br />
gioventù del 1954 tenta di ricostituire<br />
una lingua poetica <strong>che</strong> è tutt’uno con<br />
la verità prima, fresca, sorgiva delle<br />
origini insieme romanze e cristiane.<br />
Questo ideale, <strong>che</strong> la storia aveva già<br />
condannato, non si realizzava, per<br />
l’appunto, <strong>che</strong> nella <strong>poesia</strong>, nella lingua<br />
– quasi inventata nella sua verginità<br />
e insieme rarefazione – della letteratura.<br />
Da lì in poi <strong>Pasolini</strong> continuerà<br />
a cercare lo scatto prepotente<br />
della vita, la viscerale verità del sangue<br />
in un’opera immane di attraversamento<br />
della realtà sempre più degradata,<br />
abbassata, corrotta, in un<br />
tentativo titanico e inevitabilmente<br />
sanguinoso di inverare per forza poetica,<br />
internamente, tutto il reale, consumando<br />
le scorie della stessa ideologia<br />
nella folgorante e incontestabile<br />
evidenza del linguaggio poetico.<br />
Ciò significa <strong>che</strong> <strong>Pasolini</strong>, come con<br />
il dialetto materno di Casarsa (lui <strong>che</strong><br />
era nato a Bologna, nel 1922) aveva<br />
cercato il “regresso lungo i gradi dell’essere”,<br />
a partire dall’Usignolo della<br />
Chiesa Cattolica (1958, ma i testi datano<br />
al 1943-1949) cerca invece, scegliendo<br />
l’italiano e come oggetto una<br />
realtà sempre più complessa e contraddittoria,<br />
di risalire quei gradi, venendo<br />
verso la luce torbida della Storia<br />
ma conservando l’idea cardine<br />
della purezza, della totalità, dell’adesione<br />
panica al mondo.<br />
Tutto questo mentre la sua posizione<br />
di intellettuale di crescente riconoscibilità<br />
gli imponeva, per il colore<br />
dei tempi, di assumere la responsabilità<br />
di un discorso razionale, utile,<br />
ideologicamente orientato e risolto.<br />
Questo obbligo o costrizione mettono<br />
<strong>Pasolini</strong> in un dilemma <strong>che</strong> è, come<br />
si accennava sopra, il suo tormento<br />
e insieme, in qual<strong>che</strong> maniera,<br />
l’alimento della sua forza poetica.<br />
Si trattava di combinare nella creazione<br />
una serie di preoccupazioni e<br />
assilli in realtà non commensurabili,<br />
18<br />
<strong>Pier</strong> <strong>Paolo</strong> <strong>Pasolini</strong> / <strong>La</strong> <strong>poesia</strong> <strong>che</strong> <strong>dice</strong> tutto<br />
di tenere insieme un discorso preideologico<br />
e uno politico, di tentare<br />
una cucitura tra letteratura e gesto,<br />
tra letteratura e suo ripudio.<br />
Questo dramma, vissuto fino alle<br />
ultime conseguenze, ha indotto <strong>Pasolini</strong><br />
a ‘sporcare’ molta della sua<br />
<strong>poesia</strong> matura (almeno dalla Religione<br />
del mio tempo, 1961, in poi) di toni<br />
predicatori, di saggismo versificato,<br />
di oratoria, ma lo ha an<strong>che</strong> condotto<br />
a cercare una via non inerte di<br />
lirismo antropologico, di panismo vitale,<br />
di commistione tra prosa del<br />
mondo e della storia e assoluta verità<br />
del dettato poetico. In effetti, guidato<br />
da questo dèmone, dalla lacerazione<br />
e dallo scacco <strong>che</strong> in ogni tentativo<br />
gli si riproponevano, egli in un torno<br />
di anni non lunghissimo attraversa e<br />
sperimenta tutte le forme possibili,<br />
non contentandosi di alcuna, spingendosi<br />
a un corpo a corpo con la letterarietà<br />
per cercare di ridarle energia<br />
e sangue: inevitabilmente la propria<br />
energia, il proprio sangue.<br />
Probabilmente la dinamica tensiva<br />
e oppositiva, ossimorica del suo lavoro<br />
trovano un momento di composizione,<br />
di equilibrio nei testi portanti<br />
delle Ceneri di Gramsci (il suo libro,<br />
non a caso, meno tormentato e<br />
più risolto, senza strati ipogei rifiutati<br />
o paralleli, come i “Meridiani” dimostrano)<br />
e in quelli della parte iniziale<br />
(la sezione <strong>La</strong> ric<strong>che</strong>zza) della<br />
Religione del mio tempo. Qui <strong>Pasolini</strong><br />
innesta la sua potente vena lirico-conoscitiva<br />
nell’alveo di una poematicità<br />
<strong>che</strong> congloba il linguaggio della<br />
grande arte del passato (per esempio<br />
<strong>Pier</strong>o della Francesca), il brulichio vitale<br />
dell’“umile Italia”, il paesaggio e<br />
la storia, tenendo insieme toni squisiti<br />
da geniale allievo di Longhi e<br />
squarci socio-antropologici grazie a<br />
una lingua affamata, prensile, estesa<br />
in tutte le direzioni e d’altra parte disciplinata,<br />
tenuta a regime da una intelaiatura<br />
metrica non manieristica<br />
ma efficace nella sua opera di contenimento.<br />
Le componenti di divaricazione<br />
e scissione ci sono, ma come<br />
fatte rifluire in un letto di fiume maestoso,<br />
capace con i suoi argini di arrestare<br />
la piena.<br />
Più avanti, crescendo l’amarezza e<br />
lo scoramento, l’autore tornerà a dissolvere<br />
quel miracoloso e fragile<br />
equilibrio, insistendo sulla natura<br />
oratoria, raziocinante, analitica della<br />
sua scrittura, quasi azzerando, con<br />
rabbia, la pretesa di altezza del verso,<br />
dico in Poesia in forma di rosa<br />
(1964) e in Trasumanar e organizzar<br />
(1971). Eppure an<strong>che</strong> in queste<br />
raccolte si dànno momenti di contemperanza<br />
e compresenza del rifiuto<br />
e dell’amore, quel “troppo grande<br />
amore, / nel cuore, per il mondo”<br />
di cui <strong>Pasolini</strong> parlava già nell’Usignolo,<br />
<strong>che</strong> permettono ad alcuni testi<br />
di respirare, di espandersi, di aderire<br />
alla bellezza in modo tormentoso e<br />
autentico, in modo innegabilmente<br />
persuasivo. A salvare <strong>Pasolini</strong>, an<strong>che</strong><br />
in extremis, dalla disgregazione del<br />
suo linguaggio è quella <strong>che</strong> egli in<br />
Poesia in forma di rosa chiama con<br />
formula felicissima (ed esatta) la sua<br />
“disperata vitalità”: ancora un ossimoro,<br />
distruttivo e generatore.<br />
L’amarezza e la delusione, quelle<br />
stesse <strong>che</strong> portano l’autore a riscrivere<br />
in negativo, ad annerare i trasparenti<br />
e tremanti filami de <strong>La</strong> meglio<br />
gioventù nella palinodia funesta della<br />
Nuova gioventù, non occludono<br />
del tutto i canali della comunicazione<br />
e dell’invenzione poetica. <strong>Pasolini</strong> è<br />
stato, come i “Meridiani” dimostrano,<br />
un poeta per metà inedito, <strong>che</strong> ha<br />
scartato, cassato, direi censurato intere<br />
porzioni del suo mondo per necessità<br />
o dovere intellettuale: basta<br />
pensare ai materiali dei “diari” scritti<br />
negli anni Quaranta, <strong>che</strong> formano un<br />
altro, diverso libro da quello più decadente<br />
e prezioso dell’Usignolo, un<br />
diario appunto lirico-filosofico <strong>che</strong><br />
sta tra Leopardi, Pascoli e persino<br />
D’Annunzio: una linea purissima, intonata<br />
e coesa <strong>che</strong> forse proprio per<br />
una eccessiva confidenza e trepidazione,<br />
per una inerziale ancorché vitale<br />
propaggine di diarismo biografico<br />
in versi non vide se non in<br />
modo molto parziale e disperso la luce.<br />
Ebbene, an<strong>che</strong> mentre con violenza<br />
e decisione (ma non senza radure,<br />
come detto) <strong>Pasolini</strong> porta la<br />
<strong>poesia</strong> oltre la <strong>poesia</strong> in Trasumanar
e organizzar e nega e contrad<strong>dice</strong> il<br />
suo sogno linguistico e panico giovanile<br />
con <strong>La</strong> nuova gioventù, nel suo<br />
laboratorio segreto continua a forzare<br />
i limiti della stessa negazione, della<br />
stessa fine della <strong>poesia</strong>, continua a<br />
praticare la forma e la confessione, lo<br />
struggimento intimo e la disperazione<br />
vitale in quel singolarissimo esperimento<br />
<strong>che</strong> è L’hobby del sonetto,<br />
tutto dedicato, con dolore viscerale,<br />
a Ninetto Davoli.<br />
Questi sonetti ‘sbagliati’ sono il<br />
corrispettivo della terzina approssimativa<br />
delle Ceneri, sono il segno di<br />
Dedica<br />
Fontana di aga dal me paìs.<br />
A no è aga pì fres-cia <strong>che</strong> tal me paìs.<br />
Fontana di rustic amòur.<br />
Dedica. Fontana d’acqua del mio paese. Non c’è acqua più fresca<br />
<strong>che</strong> nel mio paese. Fontana di rustico amore.<br />
Ploja tai cunfìns<br />
Fantassùt, al plòuf il Sèil<br />
tai spolèrs dal to paìs,<br />
tal to vis di rosa e mèil<br />
pluvisìn al nas il mèis.<br />
Il soreli scur di fun<br />
sot li branchis dai moràrs<br />
al ti brusa e sui cunfìns<br />
tu i ti ciantis, sòul, i muàrs.<br />
Fantassùt, al rit il Sèil<br />
tai barcòns dal to paìs,<br />
tal to vis di sanc e fièl<br />
serenàt al mòur il mèis.<br />
Pioggia sui confini. Giovinetto, piove il Cielo sui focolari del<br />
tuo paese, sul tuo viso di rosa e miele, nuvoloso nasce il mese.<br />
Il sole scuro di fumo, sotto i rami del gelseto, ti brucia e sui<br />
confini, tu solo, canti i morti.<br />
Giovinetto, ride il Cielo sui balconi del tuo paese, sul tuo viso<br />
di sangue e fiele, rasserenato muore il mese.<br />
Da <strong>La</strong> meglio gioventù<br />
<strong>Pier</strong> <strong>Paolo</strong> <strong>Pasolini</strong> / <strong>La</strong> <strong>poesia</strong> <strong>che</strong> <strong>dice</strong> tutto<br />
una continuazione di quel corpo a<br />
corpo, di quella irriducibile lotta dentro<br />
e contro i generi e i gerghi della<br />
<strong>poesia</strong> alta e bassa <strong>che</strong> <strong>Pasolini</strong> non<br />
dismette, nemmeno all’ultimo. Tutto<br />
nel suo laboratorio rimane possibile,<br />
tutto dicibile, an<strong>che</strong> quando verità e<br />
bellezza si allontanano e il cerchio<br />
delle antinomie si stringe, fino quasi<br />
a soffocare.<br />
<strong>Pasolini</strong> ha tentato tutto. Se è impossibile<br />
rifarlo, imitarlo meccanicamente<br />
in questa o quella porzione<br />
(col rischio di ridursi a inerti epigoni),<br />
attraversare per intero la sua fu-<br />
Hymnus ad nocturnum<br />
Ho la calma di un morto:<br />
guardo il letto <strong>che</strong> attende<br />
le mie membra e lo specchio<br />
<strong>che</strong> mi riflette assorto.<br />
Non so vincere il gelo<br />
dell’angoscia, piangendo,<br />
come un tempo, nel cuore<br />
della terra e del cielo.<br />
Non so fingermi calme<br />
o indifferenze o altre<br />
giovanili prodezze,<br />
serti di mirto o palme.<br />
O immoto Dio <strong>che</strong> odio<br />
fa <strong>che</strong> emani ancora<br />
vita dalla mia vita<br />
non m’importa più il modo.<br />
Splendore<br />
O gioia, gioia, gioia…<br />
C’era ancora gioia<br />
in quest’assurda notte<br />
preparata per noi?<br />
Da L’Usignolo della Chiesa Cattolica<br />
rente espressività è necessario, è salutare:<br />
non c’è ordine di problema,<br />
stilistico, storico, conoscitivo, <strong>che</strong><br />
egli non abbia almeno lambito; lasciando<br />
impregiudicato, grazie a<br />
quella “disperata vitalità”, a quella irrisolvibile<br />
contraddizione, ogni successivo<br />
sviluppo. Ma insegnandoci<br />
ancora una volta, terribilmente, la<br />
misura del prezzo da pagare, il corrispettivo<br />
dolorante di un’opera capace<br />
di aver vita al di là del suo autore<br />
e del suo dramma.<br />
Daniele Piccini<br />
19
L’APPENNINO<br />
I<br />
Teatro di dossi, ebbri, calcinati,<br />
muto, è la muta luna <strong>che</strong> ti vive,<br />
tiepida sulla Luc<strong>che</strong>sia dai prati<br />
troppo umani, cocente sulle rive<br />
della Versilia, così intera sul vuoto<br />
del mare – attonita su stive,<br />
carene, vele rattrappite, dopo<br />
viaggi di vecchia, popolare pesca<br />
tra l’Elba, l’Argentario…<br />
<strong>La</strong> luna, non c’è altra vita <strong>che</strong> questa.<br />
E vi si sbianca l’Italia da Pisa<br />
sparsa sull’Arno in una morta festa<br />
di luci, a Lucca, pudica nella grigia<br />
luce della cattolica, superstite<br />
sua perfezione…<br />
Umana la luna da queste pietre<br />
raggelate trae un calore<br />
di alte passioni… È, dietro<br />
il loro silenzio, il morto ardore<br />
traspirato dalla muta origine:<br />
il marmo, a Lucca o Pisa, il tufo<br />
a Orvieto…<br />
II<br />
Non vi accende<br />
la luna <strong>che</strong> grigiore, dove azzurri<br />
gli etruschi dormono, non pende<br />
<strong>che</strong> a udire voci di fanciulli<br />
dai selciati di Pienza o di Tarquinia…<br />
Sui dossi risuonanti, brulli<br />
ricava in mezzo all’Appennino<br />
Orvieto, stretto sul colle sospeso<br />
tra campi arati da orefici, minia-<br />
ture, e il cielo. Orvieto illeso<br />
tra i secoli, pesto di mura e tetti<br />
sui vicoli di terra, con l’esodo<br />
del mulo tra pesti giovinetti<br />
impastati nel tufo.<br />
20<br />
<strong>Pier</strong> <strong>Paolo</strong> <strong>Pasolini</strong> / <strong>La</strong> <strong>poesia</strong> <strong>che</strong> <strong>dice</strong> tutto<br />
Chiusa nei nervi, nel lucido passo,<br />
tra sgretolate muraglie e scoscese<br />
case, la bestia sale su dal basso<br />
con ai fianchi le tinozze d’accesa<br />
uva, sotto il busto di Bonifacio<br />
prossimo a farsi polvere, difeso<br />
da barocca altezza nella medioevale<br />
nicchia della muraglia.<br />
III<br />
È assente dal suo gesto Bonifacio,<br />
dal reggere la fionda nella grossa<br />
mano Davide, e Ilaria, solo Ilaria…<br />
Dentro nel claustrale transetto<br />
come dentro un acquario, son di marmo<br />
rassegnato le palpebre, il petto<br />
dove giunge le mani in una calma<br />
lontananza. Lì c’è l’aurora<br />
e la sera italiana, la sua grama<br />
nascita, la sua morte incolore.<br />
Sonno, i secoli vuoti: nessuno<br />
scalpello potrà scalzare la mole<br />
tenue di queste palpebre.<br />
Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia<br />
perduta nella morte, quando<br />
la sua età fu più pura e necessaria.<br />
IV<br />
Sotto le palpebre chiuse ride<br />
tra i pidocchi il mammoccio di Cassino<br />
comprato ai genitori; per le rive<br />
furenti dell’Aniene, un assassino<br />
e una puttana lo nutrono, nelle<br />
coloniali notti in cui Ciampino<br />
abbagliato sotto sbiadite stelle<br />
vibra di aeroplani di regnanti,<br />
e per i lungoteveri <strong>che</strong> sentinelle<br />
del sesso battono in spossanti<br />
attese intorno a terree latrine,<br />
da San <strong>Paolo</strong>, a San Giovanni, ai canti<br />
più caldi di Roma, si sentono supine
suonare le ore del mille<br />
novecento cinquantuno, e s’incrina<br />
la quiete, tra i tuguri e le basili<strong>che</strong>.<br />
Nelle chiuse palpebre d’Ilaria trema<br />
l’infetta membrana delle notti<br />
italiane… molle di brezza, serena<br />
di luci… grida di giovanotti<br />
caldi, ironici e sanguinari… odori<br />
di stracci caldi, ora bagnati… motti<br />
di vecchie voci meridionali… cori<br />
emiliani leggeri tra borghi e maceri…<br />
Dalla provincia viziosa ai cuori<br />
bianchi dei globi dei bar salaci<br />
delle periferie cittadine,<br />
la carne e la miseria hanno placidi<br />
ariosi suoni. Ma nelle veline<br />
e massicce palpebre d’Ilaria, nulla<br />
<strong>che</strong> non sia sonno. Forme mattutine<br />
<strong>che</strong>, precoce, la morte alla fanciulla<br />
legò al marmo. All’Italia non resta<br />
<strong>che</strong> la sua morte marmorea, la brulla<br />
sua gioventù interrotta…<br />
Sotto le sue palpebre, nel suo<br />
sonno, incarnata, la terra alla luna<br />
ha un vergine orgasmo nell’argenteo buio<br />
<strong>che</strong> sulla frana dell’Appennino sfuma<br />
scosceso verso coste dove imperla<br />
il Tirreno o l’Adriatico la spuma.<br />
Dentro il rotondo recinto di pelli<br />
e di metallo, isolato tra le fratte<br />
in cerchio in una radura d’erba<br />
verdissima sui dossi del Soratte,<br />
dorme un umido, annerito gregge,<br />
e il pastore con le membra contratte<br />
nel calcare.<br />
V<br />
Sotto le sue palpebre chiuse Luni<br />
all’addiaccio, e le trepide<br />
città dove l’Appennino profuma<br />
<strong>Pier</strong> <strong>Paolo</strong> <strong>Pasolini</strong> / <strong>La</strong> <strong>poesia</strong> <strong>che</strong> <strong>dice</strong> tutto<br />
più umano nelle cesellate siepi,<br />
tra i caldi arativi della Toscana,<br />
o dove più selvaggio le vecchie pievi<br />
assorbe nell’etrurio – s’allontanano<br />
sull’ala dei vergini, chiari<br />
suoni serali. Ed essa si dipana,<br />
la catena, nei solchi secolari<br />
delle vene del Serchio, dell’Ombrone<br />
e, dietro rudi imbuti e terrei fari<br />
d’albore, il Tevere, nel polverone<br />
appenninico, pagano ancora…<br />
Roma, dietro radure di peoni,<br />
ruderi alessandrini e barocchi indora<br />
alla luna, e disfatte borgate<br />
irreligiose, dove tutto si ignora<br />
<strong>che</strong> non sia sesso, grotte abitate<br />
da feci e fanciulli; i lungofiumi<br />
dal Pincio, all’Aventino, alle scarpate<br />
dello spoglio San <strong>Paolo</strong> dove i lumi<br />
ingialliscono la calda atmosfera,<br />
risuonano dei passi <strong>che</strong> le umide<br />
pietre macchiano, e la romana sera<br />
e<strong>che</strong>ggiandone, come una membrana<br />
grattata da un vizioso dito, svela<br />
più acuto l’odore dell’orina.<br />
VI<br />
Un esercito accampato nell’attesa<br />
di farsi cristiano nella cristiana<br />
città, occupa una marcita distesa<br />
d’erba sozza nell’accesa campagna:<br />
scendere anch’egli dentro la borghese<br />
luce spera aspettando una umana<br />
abitazione, esso, sardo o pugliese,<br />
dentro un porcile il fangoso desco<br />
in villaggi ciechi tra lucide chiese<br />
novecentes<strong>che</strong> e grattacieli.<br />
Sotto le sue palpebre chiuse questo<br />
assedio di milioni d’anime<br />
dai crani ingenui, dall’occhio lesto<br />
21
all’intesa, tra le infette marane<br />
della borgata.<br />
VII<br />
Si perde verso il bianco Meridione,<br />
azzurro, rosso, l’Appennino, assorto<br />
sotto le chiuse palpebre, all’alone<br />
del mare di Gaeta e di Sperlonga…<br />
Dietro il Massico stende Sparanise<br />
candelabri di ulivi, tra festoni<br />
di piante rampicanti sulle elisie<br />
radure, dove lucono i lampioni<br />
a San Nicola… Si spalanca il golfo<br />
affricano di Napoli, nazione<br />
nel ventre della nazione…<br />
E non più Jacopo (più recente è il sonno<br />
di Ilaria) sotto le palpebre fonde<br />
in civile forma il popolare mondo<br />
italiano, e contro gli sfondi<br />
del suo paesaggio, non più scarnisce<br />
in luce di intelletto – <strong>che</strong> non nasconde<br />
la buia materia – una mano <strong>che</strong> unisce<br />
a Dio il povero rione. Quaggiù<br />
tutto è preumano, e umanamente gioisce,<br />
contro il riso del volgare fu<br />
ed è inutile ogni parola<br />
di redenzione: splende nella più<br />
ardente indifferenza dei colori<br />
seicenteschi, quasi <strong>che</strong> al sole<br />
o all’ombra non bastasse <strong>che</strong> la sola<br />
sfrontata presenza, di stracci, d’ori,<br />
con negli occhi l’incallito riso<br />
dei bassi digiuni d’amore.<br />
Ragazzi romanzi sotto le palpebre<br />
chiuse cantano nel cuore della specie<br />
dei poveri rimasta sempre barbara<br />
a tempi originari, esclusa alle vicende<br />
segrete della luce cristiana,<br />
al succedersi necessario dei secoli:<br />
e fanno dell’Italia un loro possesso,<br />
ironici, in un dialettale riso<br />
22<br />
<strong>Pier</strong> <strong>Paolo</strong> <strong>Pasolini</strong> / <strong>La</strong> <strong>poesia</strong> <strong>che</strong> <strong>dice</strong> tutto<br />
<strong>che</strong> non città o provincia ma ossesso<br />
poggio, rione, tiene in sé inciso,<br />
se ognuno chiuso nel calore del sesso,<br />
sua sola misura, vive tra una gente<br />
abbandonata al cinismo più vero<br />
e alla più vera passione; al violento<br />
negarsi e al violento darsi; nel mistero<br />
chiara, perché pura e corrotta…<br />
Se ognuno sa, esperto, l’ingenuo linguaggio<br />
dell’incredulità, della insolenza,<br />
dell’ironia, nel dialetto più saggio<br />
e vizioso, chiude nell’incoscienza<br />
le palpebre, si perde in un popolo<br />
il cui clamore non è <strong>che</strong> silenzio.<br />
1951<br />
Da Le ceneri di Gramsci<br />
<strong>La</strong> ric<strong>che</strong>zza<br />
(1955-1959)<br />
1<br />
Fa qual<strong>che</strong> passo, alzando il mento,<br />
ma come se una mano gli calcasse<br />
in basso il capo. E in quell’ingenuo<br />
e stento gesto, resta fermo, ammesso<br />
tra queste pareti, in questa luce,<br />
di cui egli ha timore, quasi, indegno,<br />
ne avesse turbato la purezza…<br />
Si gira, sotto la base scalcinata,<br />
col suo minuto cranio, le sue rase<br />
mascelle di operaio. E sulle volte<br />
ardenti sopra la penombra in cui stanato<br />
si muove, lancia sospetti sguardi<br />
di animale: poi su noi, umiliato<br />
per il suo ardire, punta un attimo i caldi<br />
occhi: poi di nuovo in alto… Il sole<br />
lungo le volte così puro riarde<br />
dal non visto orizzonte…<br />
Fiati di fiamma dalla vetrata a ponente<br />
tingono la parete, <strong>che</strong> quegli occhi<br />
scrutano intimoriti, in mezzo a gente<br />
<strong>che</strong> ne è padrona, e non piega i ginocchi,<br />
dentro la chiesa, non china il capo: eppure<br />
è così pio il suo ammirare, ai fiotti
del lume diurno, le figure<br />
<strong>che</strong> un altro lume soffia nello spazio.<br />
Quelle braccia d’indemoniati, quelle scure<br />
schiene, quel caos di verdi soldati<br />
e cavalli violetti, e quella pura<br />
luce <strong>che</strong> tutto vela<br />
di toni di pulviscolo: ed è bufera,<br />
è strage. Distingue l’umiliato sguardo<br />
briglia da sciarpa, frangia da criniera;<br />
il braccio azzurrino <strong>che</strong> sgozzando<br />
si alza, da quello <strong>che</strong> marrone ripara<br />
ripiegato, il cavallo <strong>che</strong> rincula testardo<br />
dal cavallo <strong>che</strong>, supino, spara<br />
calci nella torma dei dissanguati.<br />
Ma di lì già l’occhio cala,<br />
sperduto, altrove… Sperduto si ferma<br />
sul muro in cui, sospesi,<br />
come due mondi, scopre due corpi… l’uno<br />
di fronte all’altro, in un’asiatica<br />
penombra… Un giovincello bruno,<br />
snodato nei massicci panni, e lei,<br />
lei, l’ingenua madre, la matrona implume,<br />
Maria. Subito la riconoscono quei<br />
poveri occhi: ma non si rischiarano, miti<br />
nella loro impotenza. E non è, a velarli,<br />
il vespro <strong>che</strong> avvampa nei sopiti<br />
colli di Arezzo… È una luce<br />
– ah, certo non meno soave<br />
di quella, ma suprema – <strong>che</strong> si spande<br />
da un sole racchiuso dove fu divino<br />
l’Uomo, su quell’umile ora dell’Ave.<br />
Che si spande, più bassa,<br />
sull’ora del primo sonno, della<br />
notte, <strong>che</strong> acerba e senza stelle Costantino<br />
circonda, sconfinando dalla terra<br />
il cui tepore è magico silenzio.<br />
Il vento si è calmato, e, vecchio, erra<br />
qual<strong>che</strong> suo soffio, come senza<br />
vita, tra macchie di noccioli inerti.<br />
Forse, a folate, con scorata veemenza,<br />
fiata nel padiglione aperto<br />
il beato rantolo degli insetti,<br />
tra qual<strong>che</strong> insonne voce, forse, e incerti<br />
mottetti di ghitarre…<br />
Ma qui, sul latteo tendaggio sollevato,<br />
la cuspide, l’interno disadorno,<br />
non c’è <strong>che</strong> il colore ottenebrato<br />
del sonno: nella sua cuccetta dorme,<br />
come una bianca gobba di collina,<br />
l’imperatore dalla cui quieta forma<br />
di sognante atterrisce la quiete divina.<br />
[…] Da <strong>La</strong> religione del mio tempo<br />
<strong>Pier</strong> <strong>Paolo</strong> <strong>Pasolini</strong> / <strong>La</strong> <strong>poesia</strong> <strong>che</strong> <strong>dice</strong> tutto<br />
Supplica a mia madre<br />
È difficile dire con parole di figlio<br />
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.<br />
Tu sei la sola al mondo <strong>che</strong> sa, del mio cuore,<br />
ciò <strong>che</strong> è stato sempre, prima d’ogni altro amore.<br />
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:<br />
è dentro la tua grazia <strong>che</strong> nasce la mia angoscia.<br />
Sei insostituibile. Per questo è dannata<br />
alla solitudine la vita <strong>che</strong> mi hai data.<br />
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame<br />
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.<br />
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu<br />
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:<br />
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso<br />
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.<br />
Era l’unico modo per sentire la vita,<br />
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.<br />
Sopravviviamo: ed è la confusione<br />
di una vita rinata fuori dalla ragione.<br />
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.<br />
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…<br />
Da Poesia in forma di rosa<br />
Versi del testamento<br />
<strong>La</strong> solitudine: bisogna essere molto forti<br />
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe<br />
e una resistenza fuori del comune; non si deve rischiare<br />
raffreddore, influenza o mal di gola; non si devono temere<br />
rapinatori o assassini; se tocca camminare<br />
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera<br />
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;<br />
specie d’inverno; col vento <strong>che</strong> tira sull’erba bagnata,<br />
e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;<br />
non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,<br />
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte<br />
senza doveri o limiti di qualsiasi genere.<br />
Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri<br />
– e an<strong>che</strong> d’inverno, per le strade abbandonate al vento,<br />
tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani,<br />
essi sono molti – non sono <strong>che</strong> momenti della solitudine;<br />
più caldo e vivo è il corpo gentile<br />
23
<strong>che</strong> unge di seme e se ne va,<br />
più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;<br />
è esso <strong>che</strong> riempie di gioia, come un vento miracoloso,<br />
non il sorriso innocente o la torbida prepotenza<br />
di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza<br />
enormemente giovane; e in questo è disumano,<br />
perché non lascia tracce, o meglio, lascia una sola traccia<br />
<strong>che</strong> è sempre la stessa in tutte le stagioni.<br />
Un ragazzo ai suoi primi amori<br />
altro non è <strong>che</strong> la fecondità del mondo.<br />
È il mondo <strong>che</strong> così arriva con lui; appare e scompare,<br />
come una forma <strong>che</strong> muta. Restano intatte tutte le cose,<br />
e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più;<br />
l’atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito. Dunque<br />
la solitudine è ancora più grande se una folla intera<br />
attende il suo turno: cresce infatti il numero<br />
delle sparizioni –<br />
l’andarsene è fuggire – e il seguente incombe sul presente<br />
come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia<br />
di morte.<br />
Invecchiando, però, la stan<strong>che</strong>zza comincia a farsi sentire,<br />
specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,<br />
e per te non è mutato niente; allora per un soffio<br />
non urli o piangi;<br />
e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo<br />
stan<strong>che</strong>zza,<br />
e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe dire<br />
<strong>che</strong> il tuo desiderio di solitudine non potrebbe esser più<br />
soddisfatto,<br />
e allora cosa ti aspetta, se ciò <strong>che</strong> non è considerato<br />
solitudine<br />
è la solitudine vera, quella <strong>che</strong> non puoi accettare?<br />
Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,<br />
<strong>che</strong> valga una camminata senza fine per le strade povere,<br />
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.<br />
Da Trasumanar e organizzar<br />
[53]<br />
Vedo nella notte d’Inghilterra<br />
il cui colore è un turchino profondo –<br />
per un sentiero erboso, oltre una steccatella<br />
vanno un uomo e una donna – affondano<br />
nella notte <strong>che</strong> avvolge solo le vicinanze della<br />
loro casa; vanno a piedi, nel giro d’un breve mondo –<br />
Vicino alla luna il terrore mi fa scorgere la stella<br />
<strong>che</strong> vedevo da ragazzo – il futuro risponde<br />
a chi sa ormai ogni cosa – da silenzio a silenzio –<br />
Quell’uomo e quella donna – quanta provincia<br />
e quanta campagna… Troppo terso è il cielo<br />
24<br />
<strong>Pier</strong> <strong>Paolo</strong> <strong>Pasolini</strong> / <strong>La</strong> <strong>poesia</strong> <strong>che</strong> <strong>dice</strong> tutto<br />
sopra la casa. Voi siete un uomo – lo sento<br />
vedendo quel giovane padre, <strong>che</strong> vince<br />
(così lui crede) la notte – Non datevi pensiero –<br />
[56]<br />
Navigate* in acque oscure e lontane,<br />
talvolta visibile, talvolta perso<br />
nelle profondità. E sono po<strong>che</strong> settimane<br />
<strong>che</strong> ve ne siete andato senza speranza verso<br />
il passato, oltre una strada di puttane.<br />
Non vi ho visto sparire. È ancora incerto<br />
<strong>che</strong> le cose siano così come io credo. Ma l’anima<br />
ci precede. Essa, mentre io vi cerco,<br />
già vi ricorda: il riso di Ninetto<br />
risuona, allegro per quanto ne può sapere<br />
la memoria, e mi fa venir voglia di toccarne<br />
il corpo di padre ragazzetto.<br />
Ma questa non è più una di quelle sere<br />
in cui m’era vicina, come per l’eterno, la sua carne.<br />
* Vi allontanate<br />
[96]<br />
Come se fossi appena giunto a Roma,<br />
e trovassi una immensa città sotto la pioggia,<br />
con quartieri sconosciuti e inconoscibili,<br />
di cui si sanno leggende – o di cui parla<br />
uno dei mille treni o tram <strong>che</strong> passano lontani,<br />
, la cui parabola<br />
si perde su soglie quasi ultraterrene,<br />
non so immaginare in quali strade,<br />
in quali case, con <strong>che</strong> gente possa<br />
stare uno come te; da dove parta<br />
e dove giunga la tua macchina nel fango;<br />
il forestiero è separato dal tuo mondo<br />
da un inverno piovoso, troppo tiepido per lui,<br />
e si guarda intorno come se atterrito rinascesse.<br />
Da L’hobby del sonetto<br />
I testi sono tratti da <strong>Pier</strong> <strong>Paolo</strong> <strong>Pasolini</strong>, Tutte le poesie, a cura e con<br />
uno scritto di Walter Siti. Saggio introduttivo di Fernando Bandini, Cronologia<br />
a cura di Nico Naldini, 2 tomi, Mondadori, Milano 2003.