04.06.2013 Views

qui - Porphyra

qui - Porphyra

qui - Porphyra

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

Rivista online a cura dell’Associazione Culturale Bisanzio

ANNO II Numero IV Febbraio 2005

Costantino I

306-337

“Saranno come fiori che noi coglieremo nei prati per abbellire l’impero d’uno splendore

incomparabile. Come specchio levigato di perfetta limpidezza,

prezioso ornamento che noi collocheremo al centro del Palazzo”

Fondata da Nicola Bergamo e diretta da Matteo Broggini

www.porphyra.it

1

© 2003-2006 - Associazione Culturale Bisanzio

Rivista online con aggiornamenti non rientranti nella categoria dell’informazione periodica stabilita dalla Legge 7 Marzo 2001, n.62.


(foto gentilmente donata da Sergio Berutti)

1. Nota alla nuova edizione

di Matteo Broggini p. 3

2. Editoriale

di Nicola Bergamo p. 4

3. Costantino il Grande e la Chiesa: una complessa relazione tra

dogma, diritto e politica

di Vito Sibilio pp. 5-22

4. L’arco di Costantino

di Carlo Valdameri pp. 23-45

5. Orientamenti bibliografici inerenti Costantino il Grande

di Ivan Pucci pp. 46-65

6. I Ciechini di Montecatini Val di Cecina

di Antonio Palesati e Nicoletta Lepri pp. 66-71

7. Appendice: Il primo concilio di Nicea (maggio-luglio 325) pp. 72-78

Tutto il contenuto di questi articoli è coperto da copyright © chiunque utilizzi questo materiale senza il

consenso dell'autore o del webmaster del sito, violerà il diritto e sarà perseguibile a norma di legge.

Non sono permessi copiature e neppure accorgimenti mediatici (es. link esterni che puntano questo sito) pena

la violazione del diritto internazionale d'autore con conseguente reato annesso.

Prima frase sotto il titolo proviene da : (da Il libro delle Cerimonie Costantino Porfirogenito edito da Sellerio

Editore Palermo a cura di Marcello Panascià)

2


NOTA ALLA NUOVA EDIZIONE

di Matteo Broggini

Il presente numero di Porphyra, già edito nel febbraio 2005,

viene ora riproposto in una versione emendata da errori e

incongruenze redazionali e completamente rinnovata nella

grafica e nella disposizione dei contenuti.

Un grazie sentito alla redazione della rivista, Nicoletta

Lepri, Andrea Nocera, Eugenia Toni: senza di loro questo lavoro

non avrebbe mai visto la luce. Grazie anche a Nicola Bergamo,

infaticabile eparco della nostra città virtuale, per la consulenza

grafica.

A tutti, buona (ri)lettura.

3

Milano, luglio 2008


EDITORIALE

di Nicola Bergamo

Correva l’anno 313: Costantino promulga l’editto che

consente in tutto l’impero libertà di scelta religiosa. Pochi anni

dopo, questo stesso imperatore farà costruire sul Bosforo la sua

capitale, la Nuova Roma, e presiederà il primo concilio della

cristianità. In tutta la sua carriera politica, un raro talento bellico

e un’eccezionale capacità militare gli permettono di essere uno

degli ultimi imperatori romani a governare sull’impero unito. Il

solido aureo, da lui introdotto, sarà la principale moneta di

scambio per tutto l’alto medioevo.

Costantino è dunque figura monumentale, tale da marcare la

propria epoca e da condizionare gli sviluppi della storia europea:

a lui, vero padre dell’impero romano orientale, è dedicato il

presente numero di Porphyra.

Vito Sibilio ne illustra la politica religiosa, soffermandosi sui

complessi rapporti con la Chiesa, sulla conseguente definizione

del potere imperiale, sullo scontro con le eresie e sulla nuova

concezione di una società più cristiana.

Carlo Valdameri dedica il suo studio al monumento che più

di ogni altro è legato al nome di Costantino, ovvero l’arco che

egli fece erigere nel foro romano: ne sono analizzati la nascita, le

diverse componenti architettoniche e le valenze iconografiche.

Ivan Pucci ha invece approntato un ricco repertorio di

bibliografia costantiniana, dalla pratica impostazione per nuclei

tematici: un utile strumento per chi desideri approfondire i

contenuti della rivista.

Un interessante caso di reimpiego medievale di motivi

iconici di età costantiniana è infine segnalato da Antonio Palesati

e Nicoletta Lepri.

In appendice è riportato, in traduzione italiana, il testo del

concilio ecumenico di Nicea del maggio-luglio 325.

Spero sinceramente che questo numero di Porphyra possa

aiutarvi a conoscere in maniera più approfondita l’imperatore che

fu detto Grande e, fondando Costantinopoli, diede vita all’impero

di Bisanzio.

4


COSTANTINO IL GRANDE E LA CHIESA:

UNA COMPLESSA RELAZIONE

TRA DOGMA, DIRITTO E POLITICA

di Vito Sibilio

Come giudicare il rapporto tra Cesare Flavio Valerio

Costantino Augusto il Grande, primo del nome (307-337) 1 e la

Chiesa? 2 È un quesito che gli studiosi si sono posti e si porranno

sempre, in quanto è difficile ricondurne l’interpretazione ad un

solo criterio ermeneutico. Il grande imperatore, cui

nell’immaginario comune si deve il connubio più che millenario

tra fede e politica, agì su molti livelli e pose le premesse per

molteplici, differenti e a volte contrastanti sviluppi.

1. L’impero cristiano.

In una famosa terzina, Dante individuava nel Constitutum

Constantini la fonte della corruzione della Chiesa:

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,

non la tua conversion, ma quella dote

che da te prese il primo ricco patre! 3

A parte l’ovvio rilievo sull’equivoco storico in cui caddero tutti

gli uomini del Medioevo, va evidenziato che Costantino,

inserendo la Chiesa nel sistema del potere imperiale, non fece

niente di rivoluzionario né per la religione né dell’impero.

Quando si stigmatizza che, legandosi allo stato, il

cristianesimo abbia tradito le proprie origini, si dimentica che

Costantino restaurò quella monarchia di diritto divino, descritta

nell’Antico Testamento, in cui il sovrano è unto del Signore e

suo eletto.

Ciò è invece posto in evidenza dagli scrittori ecclesiastici

contemporanei dell’imperatore: non per propaganda, come

spesso si crede, ma per intima coerenza con la propria

formazione religiosa. La Chiesa, nuovo Israele, aspettava sin

dalle origini di rivivere l’esperienza dell’antico popolo ebraico:

le persecuzioni, che duravano da più di tre secoli, erano destinate

ad essere provvisorie, e dovevano essere superate nella

realizzazione del regno. Tale realizzazione, seppur in ogni caso

escatologica, poteva essere intesa tanto in senso estremo, ossia

1

Ampia è la bibliografia sull’imperatore. Cito come esempi: VOGT J., Constantin der Grosse und sein Jahrhundert,

Monaco 1960

5

2 ; SAMPOLI F., Costantino il Grande, s.d.; DÖRRIES J., Constantin der Grosse, Stoccarda 1958;

PIGANIOL A., L’empereur Constantin, Parigi 1932.

2

Sul rapporto tra Costantino e la Chiesa cfr. tra gli altri ALFÖLDI A., Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Bari

1976; BAYNES N.H., Constantine the Great and Christian Church, Londra 1929; DORRIES H., Constantin and the

Religious Liberty, New Haven 1960.

3

DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia – Inferno, XIX, 115.


interpretando alla lettera l’Apocalisse (la liberazione sarebbe

venuta con la distruzione di Roma e del mondo) quanto in senso

moderato (sarebbero stati distrutti solo i valori del paganesimo).

Nel corso dei tre secoli della sua storia, il cristianesimo

aveva imparato ad apprezzare i vantaggi della cultura grecoromana

e dell’unificazione dell’ecumene: superando i germi di

diffidenza ascetica attestati, tra l’altro, anche nella Lettera a

Diogneto, si sviluppavano i semi di realismo politico presenti sin

dal magistero apostolico, specie paolino, così da concepire il

sogno e il desiderio di un battesimo dell’impero. In questo modo

i sentimenti di rancore e di disprezzo espressi nell’Apocalisse

erano andati attutendosi e stemperandosi in una sfiducia radicale

nei confronti del potere costituito, in attesa di ricostituirlo

diversamente.

Ciò che Costantino propose alla Chiesa era quello che la

Chiesa stessa era già predisposta ad accettare, non per avidità di

potere o per tradimento dei propri principi, ma per esplicitare uno

degli aspetti del proprio retroterra spirituale. Il contrasto tra il

Christus passus e l’Imperator victor, posti entrambi al vertice

della Chiesa, si supera nella dicotomia squisitamente cristiana del

Christus passus et gloriosus. Essa trova proprio nel sovrano una

delle sue epifanie più significative: Cristo, re e sacerdote secondo

il modo di Melchisedek, realizza temporalmente il proprio

sacerdozio nell’ordine sacro e la propria regalità nell’impero,

anch’esso sacralizzato.

In quanto imperatore, Costantino non ruppe realmente con

la tradizione, ma si limitò a modificare i contenuti dello schema

che in essa riuniva fede e potere, sacralizzando il secondo. Era

dai tempi dei faraoni che i sovrani mediterranei si facevano dèi

per affondare nel cielo le radici del potere, perché l’ordine

terrestre delle cose rispecchiasse quello ultraterreno; soluzione

alternativa a questo problema era lo schema mesopotamico del

sovrano mediatore tra gli dèi e l’uomo, presente anche nella

cultura ebraica e comune a quella ariana. La teologia del potere

era un’esigenza culturale avvertita da sempre, e rispecchia il

bisogno legittimo di una fondazione del potere.

Roma era solo l’ultima grande potenza a porre il problema

del rapporto tra religio e imperium. Dall’età di Augusto

l’ambiguità dei rapporti tra il sovrano e la divinità aveva oscillato

tra la soluzione indoeuropea dell’imperatore comes divorum

(Ottaviano aveva autorizzato i templi per il suo Genius) e quella

egizia, riciclata dall’ellenismo, del monarca dio egli stesso (lo

stesso Augusto non aveva disdegnato di farsi divinizzare in vita

sulle rive del Nilo). La crisi del potere imperiale, maturata nel III

secolo, aveva spinto a cercare una soluzione ideologica

nell’ambito delle teologie orientali; Diocleziano aveva superato

del tutto la concezione del principato a favore del dominato,

incentrando il suo schema di sacralizzazione del potere

sull’equazione che faceva infallibilmente dell’imperatore un dio.

6


Ma questa soluzione cozzava proprio con il senso comune

di cristiani e di alcuni pagani, come i neoplatonici o i mistici,

ossia di una parte significativa dell’opinione pubblica imperiale.

La persecuzione dioclezianea fu la conseguenza logica di

questa situazione, e la svolta costantiniana l’altrettanto logica

mutazione di rotta, che riportò la teologia imperiale nell’alveo

ariano, coonestandola con la più ricca e antica tradizione

giudaica, proseguita nel cristianesimo.

Lo schema per cui la divinità fonda la monarchia e questa

domina in suo nome viene cristianizzato da Costantino, senza

alcuna modifica; anzi, con maggiore precisione, in quanto ad un

solo monarca in terra corrisponde un solo Dio in cielo. Questo

modello di dominato resse Roma non solo fino al tramonto della

pars Occidentis nel 476, ma anche fino al crollo di quella

Orientis nel 1453; fu inoltre il modello di tutte le monarchie

universali e nazionali successive, fino al 1848 in Europa

occidentale e fino al 1917 in quella orientale.

Ma come visse Costantino, concretamente, questa esigenza

di sacralizzazione del potere? Come divinò la difficile esigenza

dei suoi tempi di trovare un nuovo fondamento all’esercizio della

sovranità? Sicuramente adoperò – né poteva altrimenti – le sue

categorie mentali di romano: esse diedero alle sue suggestioni

mistiche – e a quelli dei circoli che gli si radunarono attorno –

una veste teoretica salda, trasferendo nell’ambito del diritto delle

categorie antropologiche. Considerando la religio come un

momento dello ius publicum, egli ritenne normale arrogarsi i

poteri di controllo su di essa, non solo perché gli imperatori

erano stati tradizionalmente pontefici massimi, ma perché erano

la fonte del diritto, almeno dall’età adrianea. Il cristianesimo

coonestò questa sua ambizione con l’ideale biblico della

teocrazia. E in poco tempo si arrivò alla concezione

dell’episkopos tōn ektos, che in qualche generazione si evolvette

– senza voler dare al termine necessariamente un’accezione

positiva – in quella dell’isoapostolo, o del tredicesimo apostolo.

Nonostante l’imperatore non fosse più divus, nonostante

non fosse più invictus come il Sole ma più modestamente victor,

nonostante non fosse più raffigurato con la corona radiante ma

solo con un nembo, sebbene non si sacrificasse più in suo onore e

i templi eretti per lui fossero meri monumenti, l’ideologia del

potere di Costantino fu la compiuta, piena realizzazione del

sogno del dominato dioclezianeo ed illirico. L’imperatore

divenne il vicarius Dei, come era stato prima vicarius Deorum. E

fu la concezione che dominò tutte le teocrazie cristiane,

impropriamente chiamate cesaropapismi, dall’età carolingia a

quella ottoniano-salica, alla impossibile revanche della Casa

Sveva e fino allo zarismo.

In quali ambiti si esplicò l’azione di Costantino I in

relazione alla religione? L’imperatore svolse una duplice attività,

l’una nel campo giuridico, l’altra in quello dogmatico.

7


2. L’ambito giuridico.

In ambito giuridico, non si può prescindere dal cosiddetto

editto di Milano del febbraio 313 – che in realtà editto non fu – 4

concertato tra Costantino e Licinio (308-324).

Esso diede esecuzione all’editto di tolleranza pubblicato

sul letto di morte da Galerio ([293] 305-311) nel 311 (col quale

l’antico persecutore dimostrò di aver compreso l’inanità degli

sforzi anticristiani e si sforzò di inserire nel pantheon romano

anche Gesù Cristo) e servì a risolvere anche dal punto di vista

teoretico la questione. I due augusti, dichiarando sin nel

preambolo di voler praticare la tolleranza, attestarono di non

voler escludere neanche i cristiani dall’esercizio di questa virtù

pubblica, allo scopo di procacciare all’impero un’ulteriore

benevolenza della summa divinitas: la suprema divinità, cioè, da

sempre considerata nel paganesimo la più grande di tutte, oltre

che la meno conoscibile.

Questa concezione religiosa era stata di Costanzo I Cloro

([293] 305-306), 5 e costituisce la preistoria spirituale di

Costantino. Forse per adeguarsi a questa vaga ispirazione

monoteista, già dal 306 Costantino, divenuto augusto al posto del

padre, aveva emanato un editto di tolleranza. 6 Questa spiritualità

irenica di una generica iperlatria da tributarsi alla deità suprema

si andò poi specificando nel culto del sole invitto; culto che già

nell’antico zoroastrismo era stata la manifestazione visibile

dell’unico dio supremo, Ahuramazda, principio del bene, e che

persino nel remoto Egitto faraonico era stato, sia pure per breve

tempo, imposto al recalcitrante pio popolo politeista da

Akhenaton.

Costantino si mosse su questa scia, accettando un dio solare

sincreticamente esprimibile da più ipostasi divine, e scelse per

suo nume tutelare quella dell’Apollo gallico. 7 Questa ispirazione

era ancora dunque riscontrabile nell’editto di Milano, sebbene

Costantino fosse diventato cristiano già dalla campagna contro

Massenzio (306-312) nel 312, quando vinse a Ponte Milvio (28

ottobre), avendo avuto il celebre sogno che lo invitava ad

assumere come labaro il monogramma cristiano, e della cui

storicità non è il caso di dubitare. 8 Evidentemente i due augusti,

facendo un richiamo alla teologia del sommo dio, pensavano di

fornire una cornice ideologica in cui fosse accettabile, anche per i

pagani, inserire il nuovo atteggiamento verso la religione

cristiana.

Ma l’editto milanese andava molto al di là di questo. La

tolleranza di Galerio era stata concessa con rammarico, quella

dei due augusti si condiva di raccomandazioni benevole ed

energiche ad un tempo, con cui invitavano a restituire

4

Cfr. PALANQUE J.R., A propos du prétendu édit de Milan, in “Byzantinische Zeitschrift” 10 (1935), pp. 607-616.

5

EUSEBIO, Vita Constantini (= EUSEBIO, Vita Const.), 1, 17.

6

LATTANZIO, De mortibus persecutorum (= LATTANZIO, De mort. pers.), 24, 9.

7

Cfr. KARAYANNOPOULOS J., Konstantin der Grosse und der Kaiserkult, in “Historia” 5 (1956), pp. 341-357.

8

LATTANZIO, De mort. pers., 44; EUSEBIO, Vita Const., 1, 27-32.

8


gratuitamente alla Chiesa i loca sacra, di cui essa è l’unica

legittima proprietaria: chiese e cimiteri, anche se in mano a

privati (evidentemente l’esproprio persecutorio era considerato a

posteriori un’empietà, contraria al fas e allo ius) dovevano

tornare alla comunità, riconosciuta come persona giuridica.

Tali riconoscimenti scaturiscono dalla tangibile potenza

della protezione di Cristo esperita dai due imperatori –

chiaramente più da Costantino che da Licinio. 9 Con questa

asserzione pubblica, entrambi danno un chiaro connotato a quel

misterioso Dio alla cui protezione Costantino aveva dovuto la

vittoria contro Massenzio e nel cui onore aveva omesso le

tradizionali cerimonie religiose del suo trionfo in Roma dopo la

sconfitta del rivale. 10

Da quanto detto, l’Editto milanese risulta essere un punto di

arrivo, specie della legislazione costantiniana, il cui vissuto

religioso e la cui esperienza politica contribuiscono

decisivamente a tracciare la fisionomia del testo. Peraltro, forte è

l’attenzione al culto come fulcro dell’esercizio della libertà

religiosa. A Costantino e a Licinio interessa che Dio sia

opportunamente glorificato, cosicché si storni dalla terra il suo

castigo, scongiurato dal sacrificio rituale. Vi è, in filigrana,

ancora una concezione piuttosto superstiziosa della fede, in cui

Dio è continuamente da propiziare e da placare. Tra i due

augusti, Licinio era più superficiale in relazione al cristianesimo:

ancora nella guerra che, di lì a poco, lo contrappose a Massimino

Daia (305-312), egli manifesta una fede generica nel sommo Dio,

appena temperata da elementi cristiani estrinseci. 11 In ogni caso,

la vittoria sull’ultimo persecutore – che nell’ultima fase della

lotta aveva concesso una tolleranza assoluta ai suoi sudditi

cristiani – 12 diede a Licinio, nell’autunno del 312, la sovranità su

tutto l’Oriente, in cui si poterono estendere i benefici effetti della

tolleranza sancita a Milano, almeno fino a quando la rinfocolata

ostilità tra i due augusti indusse Licinio a ridimensionarla,

temendo che la Chiesa fungesse da quinta colonna costantiniana

nel suo dominio.

Nel lasso di tempo che divide l’editto milanese dalla

definitiva riunificazione dell’impero sotto lo scettro

costantiniano nel 324, quello che è stato definito il primo

imperatore cristiano ha peraltro sviluppato in modo coerente un

corpo legislativo ispirato alla religione e volto a garantirne la

sicurezza. 13 Fu ad esempio abolita la marchiatura a fuoco sul

9

LATTANZIO, De mort. pers., 48, 7-9; 11, 45-47.

10

Tali provvedimenti riecheggiavano, del resto, quelli già presi da Costantino nel 312 per la Chiesa africana scrivendo

al prefetto Anullino, e la loro finalità era la garanzia dell’esercizio del culto, come già per la questione africana

l’imperatore aveva avuto modo di specificare in una lettera a Ceciliano, in cui stanziava una forte somma proprio per

esentare il clero da ogni attività lavorativa che lo distogliesse dalle celebrazioni liturgiche. In tal senso si era ancora

mosso l’imperatore quando aveva esentato i sacerdoti cartaginesi da ogni ufficio pubblico. EUSEBIO, Historia

Ecclesiastica (= EUSEBIO, Hist. Eccl.), 10, 5, 15-17; 6, 1-5; 7, 1-2.

11

LATTANZIO, De mort.pers., 45-47.

12

EUSEBIO, Hist. Eccl., 9,10. 7-11.

13

Cfr. EHRHARDT A.A.T., Some aspects of Constantine’s Legislation, in “Studia Patristica” 2 (1957), pp. 114-121.

9


volto dei condannati ad metalla o ai giochi gladiatorii, per

l’esplicita motivazione biblica che l’uomo, imago Dei, non può

essere sfigurato. 14 Inoltre fu riconosciuto ai cristiani il diritto di

affrancare gli schiavi in presenza del proprio vescovo; al clero fu

persino concesso di farlo verbalmente e senza testimoni.

Ciò sottintende la volontà di fare dei presuli cattolici non

solo dei “prefetti in violetto” – per usare anacronisticamente la

definizione riservata ai vescovi nel periodo napoleonico – ma

anche una fonte di libertà per gli schiavi, considerati dal

cristianesimo uomini esattamente come i loro padroni.

Concedere poi al clero la facoltà di affrancarli con una procedura

straordinaria significava cercare di separare al massimo due

istituti – quello sacerdotale e quello schiavile – evidentemente

inconciliabili tra loro. 15

Successivamente, l’equiparazione del vescovo al

procuratore avvenne anche a livello giudiziario. Costantino

stabilì che due parti potessero, di comune accordo, adire al

tribunale episcopale al posto di quello civile: un privilegio

destinato a durare per più di un millennio. 16 Evidentemente, per

l’imperatore era assurdo che i ministri di Dio, da lui scelti per

giudicare in spiritualibus, fossero esclusi dai giudizi in

temporalibus.

La legislazione flavia dimostrò inoltre di saper apprezzare i

valori cristiani della castità e dell’ascesi, abolendo le leggi contro

i celibi e contro coloro che non avevano figli. 17

La legge del marzo-luglio 321 rende festivo il primo giorno

settimanale, con l’obbligo del riposo per i lavoratori servili e per

i magistrati, oltre che con l’invito a promulgare in esso

l’emancipazione degli schiavi – all’occorrenza protocollato

ufficialmente – e a compiervi opere pie. Il ciclo ebdomadario

giudaico-cristiano entra così nella scansione del tempo civile

dell’Europa cristiana; 18 per nessun’altra fede c’è, nell’impero,

una legge analoga. Il tempo profano, che riunifica le azioni del

secolo, viene appaltato ad una fede e sacralizzato. Siamo qui ad

uno stadio molto profondo della cristianizzazione dell’uomo

romano. Per un gesto di altrettanta radicalità, ma opposto e

odioso per le modalità in cui maturò, bisogna saltare direttamente

alla rivoluzione francese e alla sua sovversione della settimana in

decade, e alla sostituzione della domenica col decadì.

Altrettanto privilegiante fu il dispositivo legislativo che

permetteva di lasciare qualsiasi cosa in testamento alla Chiesa,

anche da parte di un non-cristiano. 19

Costantino volle inoltre separare nettamente la tolleranza

per i cristiani da quella per i non cristiani. Il cristianesimo era la

verità, e andava protetto; ad esempio, dall’ostilità degli Ebrei. E

14 Codex Theodosianus (= Cod. Theod.), 9, 40, 2.

15 Cod. Theod., 4, 8, 1.

16 Cod. Theod., 1, 27, 1.

17 Cod. Theod., 8, 16, 1.

18 Cod. Theod., 2, 8, 1.

19 Cod. Theod., 16, 2, 4.

10


così i convertiti ex circumcisione che fossero perseguitati dai loro

ex-correligionari erano oggetto di una protezione speciale: 20

erano il piccolo resto del vero Israele. Nel maggio 323 inoltre

l’imperatore reagì a violenze spontanee compiute contro i

cristiani, comminando fustigazione e multa a chi costringesse i

fedeli al sacrificio lustrale. 21

In questi impianti legislativi il lessico denotativo del

cristianesimo (cultus Dei, pia religio ecc.) e quello del

paganesimo (superstitio) non lascia dubbi sulla piena adesione

dell’imperatore alla nuova fede, che nelle sue premure trovava la

nemesi storica di tre secoli di cruente persecuzioni. Lo spazio di

libertà del paganesimo è ristretto. E l’ispirazione mosaica della

legislazione imperiale è palese nel duplice divieto dell’aruspicina

privata (319-320), il cui scopo è il massimo controllo possibile –

appunto pubblico – su questa forma di divinazione. 22 Siamo sulla

scia che porterà Teodosio il Grande (379-395) alla proibizione

del paganesimo. Ma per ora Costantino è sinceramente tollerante,

anche nella sua veste di pontefice massimo.

Questi dispositivi legislativi scaturiscono senz’altro dalla

profonda e progressiva cristianizzazione morale del sovrano, ma

sono anche – in una società in cui il potere politico si ipostatizza

nel sovrano di diritto divino – la manifestazione di un connubio

politico sempre più forte.

La personalità più scialba e meno religiosa di Licinio

doveva reagire in senso opposto, traducendo in altri termini

religiosi la volontà egemonica che lo accomunava e

contrapponeva a Costantino. Tra il primo scontro nel 316 e la

definitiva resa dei conti nel 324, Licinio andò coronando di spine

lo status di religio licita da lui stesso concesso al cristianesimo

nel 313. L’interdizione del culto nelle città e nei luoghi chiusi,

l’obbligo di assemblee separate per uomini e donne, il divieto al

clero di catechizzare le donne stesse, la proibizione di assistere i

carcerati, oltre a casi specifici di esenzione dal servizio militare e

di allontanamento dalla pubblica amministrazione furono le

meschine misure che Licinio prese capovolgendo la sua

precedente politica di reappeasement. 23 Ci furono casi di

violenze anche mortali su vescovi, e alcune chiese furono

demolite nel Ponto, senza che l’augusto orientale intervenisse per

fermarli. 24

Una volta che ebbe trionfato sul rivale, Costantino rimediò

a queste vessazioni con un editto di riparazione 25 che tuttavia

garantiva ancora ai pagani la libertà di coscienza. La legislazione

flavia faceva dell’autodeterminazione spirituale un limite

invalicabile della sua competenza: lo stato poteva favorire la

20 Cod. Theod., 16, 8, 1.

21 Cod. Theod., 16, 2, 5.

22 Cod. Theod., 9, 16, 1; 16, 10, 1. Cfr. KARPP H., Konstantins Gesetze gegen die private Haruspizin aus den Jahren

319 bis 321, in “Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft” 41 (1942), pp. 145-151.

23 EUSEBIO, Hist. Eccl., 10, 2; 10, 8, 10-11; Vita Const., 1, 51, 53, 54.

24 EUSEBIO, Hist. Eccl., 10, 8, 13-17.

25 EUSEBIO, Vita Const., 2, 4, 42.

11


professione della vera fede, ma non poteva forzare l’adesione ad

essa. La fede rimaneva ancora, non solo formalmente ma anche

materialmente, un atto di volontà.

E tuttavia le leggi di riparazione furono una restitutio in

integrum: sospensione di ogni sentenza dannosa o infamante

(come la privazione dei pubblici uffici e la riduzione in

schiavitù), restituzione dei beni alle chiese e ai singoli, anche se

incamerati dallo stato o se venduti a terzi, e addirittura agli

eredi. 26 E di lì a poco l’uguaglianza religiosa, faticosamente

raggiunta dalla cristianità, viene superata in un primato formale

che si configura quasi come una nemesi storica del paganesimo: i

funzionari pubblici non cristiani non possono professare

esternamente la loro fede, a differenza di quelli battezzati. 27

Del resto, se Flavio Costantino dimostrò alta

considerazione per il misticismo neoplatonico – affine a quella

religiosità del Sommo Dio a cui lui stesso era stato vicino – e

deferenza per le antiche famiglie senatoriali, il cui paganesimo

era tradizionale, non mancò di presentarsi né come debellatore

dell’antica religione né come sovrano che la tollerava solo per i

principi di umanità della sua fede. 28 E anche nel plasmare la

classe dirigente il monarca si rende conto di dover selezionare

gente che sia disposta a seguire questa politica: ragion per cui i

funzionari nominati sono quasi tutti cristiani. Inoltre prosegue

l’osmosi tra episcopato e burocrazia, in quanto Costantino

celebra i vicennalia tra i presuli radunati a Nicea e fa pronunciare

il panegirico a uno di loro. 29

A tale politica di diminuzione sociale del paganesimo si

accompagna una serie di misure restrittive: se ai collegi

sacerdotali delle divinità tradizionali sono lasciati i loro templi,

un numero imprecisato di essi – che sia i cristiani per

trionfalismo che i pagani per vittimismo avevano interesse ad

aumentare agli occhi dei posteri – viene privato delle rendite o

delle immagini, se non raso al suolo. A onore di Costantino va la

distruzione dei templi pagani disseminati da Adriano sulle

memorie giudaico-cristiane dopo la repressione della rivolta di

Bar Kokheba: il Calvario, la casa della Vergine a Gerusalemme, i

luoghi dell’infanzia di Cristo e del Battista furono liberati dalle

sacrileghe costruzioni e adornate di monumenti. Peraltro, il

monarca ha cura di sopprimere forme particolarmente licenziose

di culto pagano, specie quelle di Afrodite, o quelle

sfacciatamente animistiche come la venerazione del Nilo affidata

a una casta clericale di eunuchi, o ancora di contenere le

religioni di Cibele e di Mitra. 30 Un significato di particolare

disprezzo ma anche una chiara intenzione di colpire la potenza

economica del culto pagano hanno le requisizioni di oggetti sacri

dei templi per adornare la costruenda Costantinopoli. Essa, come

26 EUSEBIO, Vita Const., 2, 30-41.

27 EUSEBIO, Vita Const., 2, 44.

28 EUSEBIO, Vita Const., 3, 66; 2, 44, 48-60.

29 EUSEBIO, Vita Const., 2, 44; 1, 1.

30 EUSEBIO, Vita Const., 3, 26-27; 55-56; 58; 4, 25.

12


le sontuose chiese costruite nelle capitali imperiali (Nicomedia,

Treviri, Sirmio, Milano) e come le basiliche patriarcali a Roma

sulle memorie degli apostoli, rientra in un progetto di

sacralizzazione dello spazio e di inserimento dell’impero

nell’ordine cosmico voluto da Dio e restaurato in Cristo.

In questa fase di dominio incontrastato, l’imperatore si

ispira sempre di più alla religione, e il diritto romano è la forma

con cui egli ordina la materia giuridica che può trarre dalla

tradizione cristiana: 31 il divorzio non è abrogato, il matrimonio

rimane un contratto, ma il suo scioglimento diventa più difficile,

conformemente all’importanza dell’accordo stipulato; inoltre

appare logico vietare il concubinato, che non prevede né

sacramento né contratto.

Le unioni degli schiavi sono riconosciute naturaliter simili

a quelle dei liberi: due sposi non possono essere divisi tra loro o

dai figli in caso di un’eredità ripartita tra più persone. 32 In

ossequio alla dignità della vita umana vengono aboliti i giochi

gladiatori, mentre la proscrizione della crocifissione è un

omaggio a Cristo stesso. 33

Dopo aver ripromulgato per tutto l’impero i dispositivi

legislativi precedenti in ordine al foro ecclesiastico e alla difesa

dei neofiti, Constantino fa una puntualizzazione importante: solo

i cattolici possono godere di questi privilegi, mentre eretici e

scismatici ne sono esclusi: 34 alla Verità sola spetta la protezione

provvidenziale dell’Impero, mentre coloro che traviano le

coscienze non debbono essere certo agevolati, anzi vanno

ostacolati.

In quest’ottica va letto il decreto antiereticale pubblicato

dopo la sconfitta liciniana: ai novaziani, agli gnostici, ai paoliani

e ai catafrigi vengono interdette le adunanze sia pubbliche che

private – perché culto non gradito a Dio – vengono confiscati

tutti i beni comunitari, vengono sottratte le chiese che vanno

restituite ai cattolici, vengono tolti i libri sacri. Rimane loro solo

la libertà di coscienza, nonostante un monito generico per la

conversione al cattolicesimo. 35 Soltanto ai novaziani, in virtù

della loro adesione al Simbolo niceno, l’imperatore lascia chiese

e cimiteri, 36 sperando di ricucirne lo scisma.

3. L’ambito dogmatico.

Se la valutazione dell’operato costantiniano in campo

legislativo non può essere che univoco e positivo (almeno per chi

veda nella cristianizzazione del diritto un progresso

dell’humanitas classica, e riconosca nel connubio tra impero e

fede una tappa significativa del cammino verso le forme future

31 Cfr. sull’arg. DORRIES, Constantin..., cit., pp. 82-84; 197-199; 203.

32 Cod. Theod., 9, 7, 2; 3, 16, 1; 2, 25, 1; Codex Iustiniani, 5, 26, 1.

33 Cod. Theod., 15, 2, 1; SOZOMENO, Historia Ecclesiastica (= SOZOMENO, Hist. Eccl.), 1, 8, 13.

34 Cod. Theod., 16, 5, 1.

35 EUSEBIO, Vita Const., 3, 64-66.

36 Cod. Theod., 16, 5, 1.

13


della civiltà), più complesso è il giudizio sul modo in cui il

fondatore della seconda dinastia Flavia ingerisce in interna

corporis della Chiesa, spontaneamente o indottovi a forza.

3.1. Lo scisma donatista.

Il primo caso affrontato è lo spinoso scisma donatista, 37

(dal nome del massimo teorico della disputa, il presule africano

Donato).

L’occasione venne dalla valutazione di un traditor, di chi

cioè aveva, durante la persecuzione dioclezianea, consegnato i

Libri sacri e sacrificato agli dei, ottemperando ai decreti

imperiali. Nel 312, alla morte del vescovo cartaginese Mensurio,

il popolo e il clero scelsero come successore Ceciliano; questi

però era fortemente avversato dai donatisti perché, quando

ancora era diacono, aveva umiliato uno dei loro più influenti

capi, rimproverandolo aspramente per il culto fanatico dei

martiri. Per impugnarne l’elezione, i donatisti obiettarono a

Ceciliano un presunto difetto nella consacrazione, compiuta tra

gli altri dal vescovo Felice di Aptungi, che era stato appunto

traditor.

Questa obiezione trovò terreno fertile non solo nella

particolare sacramentaria africana, ma anche nella malcelata

ostilità dell’episcopato numida verso la sede primaziale

cartaginese: il vescovo di Tigisi Secondo, inferiore di rango solo

a Ceciliano, radunò un Concilio di settanta vescovi che, in linea

con la tradizionale autonomia della Chiesa della Proconsolare,

risolse la questione in modo sfavorevole a Ceciliano, che fu

deposto e rimpiazzato prima da Maiorino e poi da Donato stesso

nel 313.

Un nodo della questione era certo il trattamento da

riservare agli apostati pentiti: i rigoristi oscillavano dalla volontà

di escluderli per sempre dalla Chiesa alla richiesta di umilianti e

prolungate penitenze, che comportassero soprattutto la riduzione

allo stato laicale; i moderati si accontentavano di imporre una

congrua riparazione.

Questo nodo non era però l’unico: sullo sfondo si agitava la

questione classica della teologia sacramentale africana, la

validità del sacramento ex opere operando e non ex opere

operato (come nela teologia romana prima e universale poi).

Tale questione era particolarmente importante proprio perché

molti vescovi, presbiteri e diaconi erano stati traditores.

Costantino fu precocemente informato sugli sviluppi della

crisi ecclesiastica africana da Osio di Cordova, il vescovo

consigliere imperiale fino al Concilio di Nicea. L’imperatore non

comprese certo la portata dogmatica della disputa – le

sottigliezze teologiche non furono mai il suo forte – ma si avvide

della sua pericolosità disciplinare, e ne valutò la portata in

relazione alla confusione in cui era caduto il culto liturgico. Egli

37

Cfr. sull’argomento GRASMÜCK E.L., Coercitio. Staat und Kirche im Donatistenstreit, Bonn 1964.

14


scrisse dunque a Ceciliano, riconoscendolo quale vescovo

legittimo e offrendogli l’ausilio delle truppe imperiali per il

ripristino dell’ordine, considerando così i donatisti dei semplici –

e pericolosi – perturbatori della pace pubblica. 38

I donatisti accusarono il colpo e scrissero al stesso sovrano

tramite il prefetto Anullino, spiegandogli il proprio punto di vista

e domandando di essere giudicati da un tribunale imparziale ed

esterno, formato da vescovi gallici. 39 L’imperatore accettò: una

decisione questa in linea con la tradizione ecclesiastica, solita

affrontare le questioni rimaste irrisolte in un sinodo

interprovinciale in una assise ancor più prestigiosa.

Costatino deferì questione al papa, l’africano san Milziade

(311-314), incaricandolo di allestire un tribunale con presuli

gallici. Il pontefice, mostrando autonomia di giudizio, allargò la

commissione – che Costantino aveva composto, oltre che col

papa, coi vescovi di Autun, Colonia e Arles – ad altri quindici

presuli italiani. Dinanzi a questa assise, secondo i deliberati

imperiali, dovevano costituirsi dieci ceciliani col loro capo e

dieci donatisti. I decreti sinodali dovevano appurare se Ceciliano

avesse rispettato la tradizione ecclesiastica facendosi consacrare

da un traditor pentito, e sarebbero stati vincolanti per tutti. 40

Il comportamento di Costantino verso il papa è

significativo: il pontefice è sì autonomo, ma in seno all’impero,

che è il guscio protettivo della Chiesa. È lo stesso rapporto

sussistente tra la statio principis e quella del sommo pontificato

pagano, con la differenza che due magistrature, prima

appartenute ad una sola persona, nel nuovo ordinamento romanocristiano

erano per forza scisse.

Chiamando Milziade a presiedere il tribunale da lui

istituito con presuli gallici in base alla richiesta degli appellanti,

che però del pontefice non avevano fatto menzione, l’imperatore

mostrava dunque di non voler prescindere dal primato petrino e,

accettando che Milziade ampliasse il tribunale in un sinodo, gli

riconobbe autodeterminazione nella scelta dei mezzi di

giurisdizione.

Ma i donatisti si appellarono contro la sentenza, che fu di

assoluzione per Ceciliano e di condanna per Maiorino e Donato.

Sia Milziade che Costantino furono irritati dall’ostinazione

donatista. Il papa offrì la comunione canonica ai vescovi

dissidenti, perché non corressero il rischio di perdere la sede ma

anche per isolare Donato. L’imperatore si risolse a convocare ad

Arles (estate 314) un sinodo di tutti i vescovi occidentali. 41

Il primo agosto il sinodo, presieduto da Marino di Arles e

organizzato da Cresto di Siracusa, si aprì. Milziade era morto, e

il nuovo papa, san Silvestro (314-335), inviò una piccola

delegazione a rappresentarlo, non volendo lasciare Roma dopo la

38 Lettera in VON SODEN H., Urkunden zur Entstehungsgeschichte des Donatismus (=SODEN), Berlino 1950 2 , n. 8.

39 SODEN, nn. 10-11.

40 SODEN, n. 12.

41 SODEN, nn. 14, 15, 18.

15


sua elezione. La sentenza di Arles confermò praticamente quella

romana, e i Padri conciliari chiesero a papa Silvestro, con una

deferente lettera, di comunicare i deliberati sinodali a tutto il

mondo cristiano. Il primato non era in discussione: l’imperatore

stesso, nel convocare un concilio più ampio dopo un appello per

vizio procedurale, non aveva affatto disprezzato la decisione

papale, ma seguito una prassi ovvia giuridicamente e conforme

alla tradizione ecclesiastica.

I donatisti però non si sottomisero al concilio. L’imperatore

allora intervenne personalmente, ma non ebbero effetto né il

divieto ai donatisti di lasciare Arles per l’Africa, né il tentativo di

sostituire Ceciliano con un nuovo vescovo, né le minacce di

scendere personalmente in Africa per risolvere la questione. 42

Non gli restò che scoprire le carte (316) dichiarandosi fautore di

Ceciliano, 43 e prendere duri provvedimenti contro i donatisti

(317): gli furono tolte molte chiese e i loro vescovi furono

obbligati all’esilio.

Erano misure coerenti col diritto canonico, ma troppo simili

a quelle delle ancora recenti persecuzioni, e crearono nei

donatisti solo una forte vocazione al martirio. Nemmeno

l’esercito li ridusse alla ragione, in quello che fu il primo caso di

uso delle truppe statali per un obiettivo religioso.

Alla fine Costantino si ritirò dalla lotta. Fu una sconfitta per

la sua politica ecclesiastica, ma anche una traccia segnata per il

futuro: gli scismi non sarebbero stati più una semplice

lacerazione della Chiesa, ma anche una questione politica. Solo

che il significato di quest’ultimo aggettivo copriva una gamma di

significati molto vasti, che potevano andare da un nobile

interesse per la religione che costituiva la sostanza etica dello

stato e della società, fino a un deprimente asservimento delle

cose spirituali alle strategie del potere.

3.2. La controversia ariana.

Una prima avvisaglia di tutto questo si ebbe proprio con la

controversia ariana. 44 Non è certo questa la sede per ripercorrere

le fasi della formazione della cristologia eterodossa di Ario. Basti

ricordare che essa, aumentando drasticamente il tradizionale

subordinazionismo della dogmatica trinitaria, creava una cesura

tra l’essenza del Padre e quella del Figlio e vanificava il valore

dell’Incarnazione e della Redenzione, che non erano più opera di

Dio. L’eresiarca alessandrino mostrava la necessità di chiarire la

questione cristologica, da tempo esposta alle incursioni dei più

svariati pensatori.

Chiaramente la cristologia evangelica – in primis

giovannea – non poteva accordarsi con quella ariana: l’idea di

42

SODEN, n. 23.

43

SODEN, n. 25.

44

Cfr. tra gli altri sull’arg. DE URBINA L., La politica di Costantino nella controversia ariana, in “Studi Bizantini e

Neoellenici” 5 (1939), pp. 284-298; IDEM, Nicée et Costantinople, Parigi 1963; SIMONETTI M., La crisi ariana nel

IV secolo, Roma 1975.

16


una Sapienza creata prima di ogni altra creatura non si addiceva

ad un Verbo che in principio era presso Dio e Dio egli stesso.

Già Giovanni aveva, nel suo prologo appunto, fatto una cernita

delle dottrine sapienziali che potevano essere adattate a Cristo –

come quella che ne faceva il mezzo della Creazione – e di quelle

che andavano appunto rigettate – come la sua creazione nel

tempo. La terminologia filoniana adoperata dal quarto

evangelista era usata con un significato molto diverso da quello

che aveva negli scritti del filosofo alessandrino. E già la modesta

cristologia dei primi secoli aveva concesso abbastanza alla

cultura extrabiblica accettando al distinzione tra logos

endiathetos e proforikos. Ora l’eresia di Ario spezzava la corda,

tesa da secoli, e passava all’estremo opposto del modalismo, che

quella cristologia subordinazionista precedente aveva voluto

sempre scongiurare.

Su questo troncone teologico, aggrovigliato e complesso, si

sarebbe innestato il dibattito di politica ecclesiastica e civile, da

cui lo stesso Costantino, sensibilissimo al tema dell’unità

cattolica ma di certo incapace di comprendere le implicazioni

dogmatiche della discussione in tutta la loro ampiezza, 45 sarebbe

stato irretito.

Quando l’imperatore fu informato della disputa, Ario aveva

già collezionato un arbitrato sfavorevole del suo vescovo

Alessandro, la sua scomunica e la rinnovata condanna di un

concilio generale della sede alessandrina nel 319. 46 Il fatto che

l’eresiarca si fosse messo sotto il patrocinio dei due Eusebi –

vescovi di Nicomedia e di Cesarea – aveva inasprito la contesa,

condendola delle gelosie ecclesiastiche di cui l’epoca era ricca.

Certo che il conciliabolo bitino di Eusebio di Nicomedia

spalleggiò lo scomunicato caldeggiandone l’assoluzione, mentre

la sua autodifesa continuava imperterrita. 47 Di rincalzo

Alessandro continuava a contestarlo, informando anche papa

Silvestro. 48

Costantino inviò una lettera ad Alessandro e ad Ario per

tramite di Osio di Cordova, il suo già ricordato consigliere

ecclesiastico. Ma il tenore della missiva, che invitava ad un

accordo, era sproporzionato alla posta in gioco, e Osio, una volta

giunto ad Alessandria d’Egitto, se ne rese conto: era impossibile

far cessare ogni discussione sull’argomento, come voleva

l’imperatore.

Alessandro persuase Osio della necessità di una soluzione

della controversia dogmatica; il legato imperiale tornò a

Nicomedia, allora sede del sovrano, senza aver nemmeno potuto

incontrare Ario e con una netta propensione per la fazione

ortodossa. 49

45 Cfr. ad es. OPITZ G.H., Urkunden zur Geschichte des arianischen Streites (318-328) = Athanasius, Werke III, 1

(=OPITZ), Berlino 1934, n. 17.

46 OPITZ, nn. 1, 2, 4b.

47 OPITZ, nn. 3, 6, 7.

48 OPITZ, nn. 11, 12, 14, 15, 16.

49 OPITZ, n. 18.

17


Costantino alla fine si convinse che la disputa poteva

risolversi solo con un concilio di tutti i vescovi, che pronunziasse

una sentenza vincolante. La prassi ecclesiastica aveva da sempre

favorito queste decisioni collegiali; tuttavia un’adunanza di tutti i

presuli dell’ecumene non si era mai realizzata, anche a causa del

regime di precarietà giuridica della Chiesa nei primi secoli di

vita. L’unico precedente in tal senso era il concilio

neotestamentario di Gerusalemme.

Costantino però non innovava in senso assoluto: altri sinodi

erano stati radunati sulla questione cristologica. La vera novità

stava nella sua scelta di arrogarsi la potestà di riunire i vescovi:

non negoziò con nessuna autorità ecclesiastica questa riunione,

tantomeno col papa. Così aveva del resto agito anche per il

sinodo di Arles, e papa Silvestro – la cui personalità era troppo

scialba per competere col grande sovrano – non aveva motivo

per dolersi della decisione imperiale, anzi dovette considerarla

ottima.

Costantino fissò la sede sinodale a Nicea in Bitinia, e

ordinò che nel maggio del 325 i presuli vi convenissero

servendosi dei mezzi pubblici di trasporto. Durante la loro

permanenza sarebbero stati ospiti del sovrano. 50 La grande assise

radunò trecentodiciotto presuli, il cui numero permise poi una

mistica equiparazione con i servi di Abramo. 51 In essa la

presenza di confessori come Paolo di Neocesarea e di Pafnuzio

diede assoluto prestigio alla discussione, peraltro guidata

sapientemente dalla minoranza che già aveva preso posizione

contro Ario, sotto l’egida di Alessandro di Alessandria e di

Eustazio di Antiochia, di Marcello di Ancira e di Macario di

Gerusalemme. 52 Un ruolo importante ebbero i periti di questi

presuli, come Atanasio di Alessandria, diacono di Alessandro,

che più volte prese la parola e che va considerato la vera mente

del sinodo. 53 All’opposizione Eusebio di Nicomedia, vescovo

della capitale dell’impero, già collucianista, e poi – come

abbiamo visto – protettore di Ario dopo la scomunica di

Alessandro, e Eusebio di Cesarea, mediocre teologo ma retore

abilissimo che si conquistò la fiducia dell’imperatore. Attorno a

questi due partiti si disposero quei dotti laici che da subito

avevano con calore abbracciato la disputa e che andarono ad

assistere alle sedute conciliari. 54

A questa disputa più greca che latina l’Occidente partecipò

con soli quattro vescovi, per la sua estraneità a questo dibattito e

per le difficoltà del viaggio. Osio di Cordova, presidente

dell’assemblea, Ceciliano di Cartagine e altri due colleghi

rappresentavano tutto l’episcopato latino, assieme ai due legati

50

EUSEBIO, Vita Const., 3, 6.

51

Cfr. AUBINEAU M., Les 318 serviteurs d’Abrahan et le nombre des Pères au Concile de Nicée, in “Revue d'Histoire

Ecclésiastique ” 61 (1966), pp. 5-43.

52

Cfr. SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 2.

53

TEODORETO, Historia Ecclesiastica ( = TEODORETO, Hist. Eccl.), 1, 11, 4.5; SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 3;

1, 17, 7-18; 1.

54

TEODORETO, Hist. Eccl., 1, 11, 4.5; SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 3; 1, 17, 7-18; 1.

18


pontifici, Vito e Vincenzo, che rappresentavano il troppo anziano

Silvestro. 55

Nonostante uno sfondo di intrighi, a cui l’onestà di

Costantino non diede alcun seguito, 56 il dibattito – a tratti duro e

sempre serrato – si sviluppò attorno alla questione dottrinale in

modo netto. Gli ariani cercarono di far passare subito un simbolo

che veicolasse le loro convinzioni, sdegnosamente respinto dagli

ortodossi; Eusebio di Cesarea propose invece un Credo, quello

della sua diocesi, che tutti giudicarono corretto, anche se apparve

opportuno introdurvi correttivi antiariani. 57 La correzione

fondamentale venne dal termine omoousios, inaccettabile per gli

ariani e per alcuni ortodossi, perché ne ricordavano l’uso

monarchiano di Paolo di Samosata biasimato (ma non

condannato) dal II Concilio di Antiochia (268). Il termine poteva

tuttavia interpretarsi come perfettamente ortodosso, distinguendo

la consustanzialità dalla identità personale, secondo la lezione

atanasiana e la tradizione romana, espressa da papa Dionigi (259-

268) già prima del concilio antiocheno. E infatti i latini furono i

più entusiasti fautori della terminologia proposta, che era la

traduzione greca del lessico trinitario della patristica occidentale

da Tertulliano in poi. Lo stesso Costantino, latinissimo – aveva

parlato in questa lingua ai padri conciliari – caldeggiò l’uso del

termine e perorò presso i greci la causa di una sua retta, univoca

e vincolante interpretazione. 58

La compattezza della grandiosa teologia dogmatica di

Atanasio s’impose all’assemblea nicena, e l’idea che la divinità

fosse solo dell’Esse ingeneratum, propria di Ario, fu riconosciuta

pagana, e sostituita da quella evangelica che la trasmette dal

Padre al Figlio e poi allo Spirito.

La teologia di Nicea ha avuto il pregio di sintetizzare

opposti impossibili: l’unità divina e la pluralità delle ipostasi o

persone: 59 Costantino stesso, sedotto dalla forza intellettuale del

Credo niceno, lavorò senza soste per l’adesione di tutti i presuli

alla sua dottrina. I soli Ario, Secondo e Teonato non la

sottoscrissero e andarono in esilio; alcuni presuli però chinarono

il capo solo per timore della corona e continuarono (tra di loro

Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea) a parteggiare per

l’eresiarca caduto. Risolto anche il secolare problema della data

della Pasqua, fissata alla domenica dopo il 14 nisan, il concilio si

sciolse solennemente.

Ma Costantino mutò presto posizione rispetto al dogma

niceno. Dapprima esiliò e sostituì con presuli ortodossi Eusebio

di Nicomedia e Teognide di Nicea, che avevano presto ritrattato

55

SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 2.

56

SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 4-5.

57

OPITZ, n. 22, 4.7.

58

OPITZ, n. 22, 7; EUSEBIO, Vita Const., 13, 3.

59

Non a caso, dando un’idea dinamica della fissità divina, ha avuto i caldi elogi di un idealista come Guido De

Ruggiero che peraltro ha acutamente denunciato la ragione che rese impossibile una conciliazione anche coi semiariani:

era essa stessa infatti una teologia compromissoria, che ben rendeva intelligibili i contorni del dogma più alto, quello

per cui Dio è uno e molti insieme. Cfr. DE RUGGIERO G., Storia della Filosofia, III, Bari 1920, pp. 260-271.

19


la firma al Credo niceno; 60 in seguito tuttavia richiamò Eusebio

di Nicomedia dall’esilio, spinto dalla cortigiana influenza di

Eusebio di Cesarea – coonestata dall’ingenuo parere della madre

dell’imperatore, Elena, ammiratrice di quest’ultimo – e della

sorellastra Costanza. 61 Reintegrato nelle sue funzioni, il

metropolita imperiale fu abile nell’ostentare deferenza per i

deliberati niceni e nel dispensare veleno contro i loro fautori: con

una procedura tipica del clima torbido dei dispotismi al

crepuscolo, Eusebio plagiò l’imperatore accusando di

immoralità, litigiosità e irriverenza verso Elena il suo rivale

Eustazio di Antiochia, la cui penna affilata aveva sarcasticamente

commentato le azioni di Ario e ora stigmatizzava l’opportunismo

politico del vescovo di Nicomedia.

Eustazio fu deposto in un conciliabolo ad Antiochia (331

ca.), ai cui anatemi Costantino aggiunse l’esilio in Tracia. 62 Ben

presto la condanna toccò ad altri otto vescovi, mentre Eusebio

cominciava a manovrare contro Atanasio, ora vescovo di

Alessandria. È curioso osservare con quale facilità l’imperatore

abbia prestato fede alle accuse contro di lui: l’assassinio del

vescovo Arsenio in qualità di fautore dello scisma di Melezio –

presule ordinato senza il consenso del metropolita alessandrino

ma perdonato a Nicea – la fustigazione di altri presuli suoi

fautori, la profanazione di un calice sono accuse chiaramente

denigratorie.

Forse il dispotismo alterò nell’imperatore la percezione

della realtà: certo è che egli accolse alla propria corte Eusebio,

nemico giurato della sua politica dogmatica, ne fece il proprio

consigliere, al posto di Osio di Cordova, e lo assecondò nella

demolizione del partito fautore del Credo niceno. Il primo

imperatore cristiano divenne, almeno nei fatti, anche il primo

fiancheggiatore dell’eresia. Probabilmente, constatando come il

concilio non avesse sanato i contrasti, era tornato alla primitiva

valutazione superficiale della controversia, sotto il fatuo influsso

di Eusebio di Cesarea, e cercava un nuovo compromesso nel

semiarianesimo.

In ogni caso, l’imperatore accolse le accuse contro

Atanasio e lo deferì al concilio di Tiro (335), dove tutti i prelati

(e persino il suo delegato Flavio Dionigi) erano ariani. Atanasio

non poteva naturalmente sperare in un giudizio equo e, forse

temendo la morte, fuggì a Costantinopoli.

Costantino non volle però riceverlo; l’indomito vescovo lo

avvicinò allora durante un’uscita a cavallo, denunciando i fatti di

Tiro, dove frattanto era stato deposto in contumacia.

L’imperatore allora convocò a sé i presuli di Tiro: solo quattro,

tra cui i due Eusebio, si presentarono, accusando Atanasio di

sabotare i rifornimenti di grano egiziano a Costantinopoli.

Evidentemente però il campione dell’ortodossia nicena risultava

60 OPITZ, nn. 27. 28.

61 FILOSTORGIO, Historia Ecclesiastica, 2, 7.

62 TEODORETO, Hist. Eccl., 1, 21, 4-22.

20


scomodo: data la natura palesemente strumentale dell’accusa

mossagli, non fu condannato a morte ma solo esiliato.

Se Ario fosse vissuto ancora nel luogo del suo esilio,

avrebbe fatto in tempo ad essere riabilitato. Costantino, che

ancora nel 333 lo aveva condannato, 63 nell’anno successivo lo

aveva incontrato a corte dopo averlo ripetutamente invitato. 64

L’eresiarca gli presentò una professione di fede elusiva che diede

all’imperatore il destro per aprire la procedura di riabilitazione,

da sancire in un sinodo gerosolimitano che però non si compì per

la morte dell’imputato. 65 Tuttavia il concilio fece in tempo a

chiedere l’assoluzione e la reintegrazione nel presbiterato

dell’eresiarca, prima della sua morte, adducendo come pretesto

proprio la nuova professio fidei.

Di lì a poco morì anche l’imperatore, senza dubbio entrato

in una fase mistica dopo il battesimo, ma certamente tutt’altro

che consapevole degli esiti della sua contraddittoria politica, che

anticipa tutte le opzioni dispotiche che poi i sovrani bizantini

svilupparono nei secoli.

Il modello di comportamento sancito a Nicea per affrontare

le crisi dogmatiche fu duraturo: confutazione degli errori,

precisazione e ampliamento delle formule dottrinali contestate,

uso appropriato del lessico filosofico. Inoltre con la difesa del

Simbolo niceno la Chiesa dimostrò che l’abbraccio con l’impero

non l’aveva anestetizzata, ma che sapeva difendersi ancora

all’occorrenza. La prosecuzione della lotta sotto Costanzo II

dimostrò sia le possibilità di perversione del rapporto stato-

Chiesa insito nel sistema costantiniano sia la possibilità di

indipendenza morale della Chiesa stessa.

Creando un modello di relazioni tra impero e sacerdozio,

Costantino fornì per un millennio scarso le coordinate in cui

impostare il problema. Nelle controversie cristologiche e

trinitarie successive gli ortodossi poterono contestare il ruolo dei

singoli imperatori ma non delegittimarlo per principio. Per

arrivare a questo ci vorrà la mente geniale di Gregorio VII, e

bisognerà che oapato e impero litighino fino al ‘200 per

affermarla definitivamente, facendo della libertà della Chiesa un

principio della spiritualità cattolica e un cardine della civiltà

occidentale, anche nella sua versione laica. Per contro, la

legislazione imperiale creò un precedente autorevolissimo per la

cristianizzazione del diritto, e segnerà profondamente il modo di

concepire la libertà di coscienza, di religione, il diritto di

famiglia, quello penale, e quello di successione, assegnando alla

Chiesa un posto di preminenza che l’ha aiutata non poco a

formare l’anima dell’Occidente. Giudicare tutto ciò alla luce

delle moderne categorie di pensiero sarebbe assurdo e ingiusto.

Inoltre Costantino, con certe scelte – come la sacralizzazione dei

63

OPITZ, n. 33, 4.

64

SOCRATE, Historia Ecclesiastica, 1, 25.

65

SOZOMENO, Hist. Eccl., 2, 27, 7 sgg.; 13-14; ATANASIO, Apologia contra Arianos, 84; IDEM, Epistola de morte

Arii ad episcopos Aegypti et Libyae, 19.

21


conflitti – creò le premesse per le forme materiali della pietà di

moltissimi secoli a venire.

Questo imperatore può a giusto titolo essere considerato il

genio politico che congiunse la più veneranda eredità di civiltà

classica alla forza più giovane che trainava il mondo verso il

futuro, che ancora continua.

22


L’ARCO DI COSTANTINO

di Carlo Valdemeri

Finalità di questo studio è esporre alcune considerazioni

sulle ragioni simboliche che portarono ad ornare l’arco trionfale

dedicato a Costantino a Roma con sculture prelevate da

monumenti più antichi, eretti in onore di precedenti imperatori.

Per raggiungere questo fine, non si potrà tuttavia prescindere dal

dare informazioni, per quanto possibile sintetiche:

- sul simbolismo degli archi di trionfo;

- sulla storia, sulle forme e sull’iconografia dell’arco di

Costantino;

- sui riferimenti religiosi ed ideologici degli albori del dominato

e sulla loro espressione nelle forme dell’arco;

- sull’adattamento delle cerimonie tradizionali alle nuove

caratteristiche dello stato romano;

- sui significati iconografici dei rilievi reimpiegati nell’arco di

Costantino;

- infine, sul simbolismo che questo riuso acquistava nel nuovo

contesto cerimoniale.

1. Il significato degli archi di trionfo.

1.1. La concezione antica dell’immortalità.

Il contesto ideale e simbolico che giustificava, e allo stesso

tempo chiariva, il significato di strutture come gli archi trionfali

era espressione di concezioni del mondo e della vita fortemente

presenti nella cultura romana, e non solo.

Era infatti idea comune al mondo pagano che quanto vive

sulla terra avesse inevitabilmente un inizio, una giovinezza, un

declino e una fine. A questo destino era sottoposto ogni essere

vivente - uomo compreso- ed ogni sua opera materiale.

A differenza degli esseri terreni, le divinità vivevano in una

dimensione “celeste” (cielo inteso non come luogo infinito, ma

bensì ben identificabile e definito), non condizionata da fattori

come tempo e spazio: esistendo in una sorta di eterno presente,

essi non potevano che essere immortali. Non a caso, i nomi degli

dei erano quelli degli astri che, per il fatto stesso di essere

presenti in cielo e di percorrerlo con cicli immutabili, rendevano

l’idea stessa della perennità e di un’alterità rispetto alla

dimensione terrena.

In questa prospettiva, l’unica possibilità per gli uomini di

sopravvivere alla morte consisteva nel prolungare la propria vita

sotto forma di “presenza” nella vita e nel ricordo dei

contemporanei e delle generazioni successive.

Era quindi fondamentale tramandare il ricordo delle

imprese – appunto – memorabili, ma anche il perpetuarsi del

23


culto stesso degli antenati, ecc.. Espressioni di questa concezione

della vita furono, ad esempio, la grande tradizione ritrattistica ma

anche storiografica del mondo classico.

Nella mentalità degli antichi, risultava poi evidente che

alcune imprese, per la grandezza e la fama che derivava a chi le

compiva, avrebbero meritato imperituro ricordo nelle generazioni

future. L’autore delle gesta, quindi, acquisiva aspetti di divinità,

poiché grazie ai propri meriti, il suo spirito sarebbe sopravvissuto

al limiti di tempo e di spazio concessi all’esistenza umana.

Ciò è particolarmente chiaro in ambito romano,

considerando ad esempio processi quali la consecratio: la ratifica

cioè – determinata da un formale atto del senato – dello status

divino attribuito agli imperatori – ma non solo ad essi – dopo la

loro morte. 66

Per altro, occorre aggiungere che, particolarmente sotto

l’influsso di concezioni orientali, anche presso i Romani

progressivamente si accentuò la tendenza a ritenere che uomini

di speciale e particolare eminenza, quali erano i detentori di

dignità imperiale, progressivamente “assorbissero” la condizione

divina nel corso della propria esistenza terrena. 67

1.2. Gli archi di trionfo come espressione simbolica.

Che relazione esiste tra quanto appena riferito e gli archi di

trionfo? Ebbene gli archi di trionfo rappresentano null’altro che

la celebrazione monumentale ed ideale dell’accesso del

personaggio trionfante alla dimensione dell’immortalità. Per

questo sugli archi sono sovente rappresentate – o citate in

66

MaC CORMACK S., Arte e cerimoniale nella tarda antichità ( = MaC CORMACK, Arte e cerimoniale),Torino

1995, pp. 141 sgg.

67

MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 141–156. Come indicato dall’autrice, l’iconografia solitamente impiegata

per illustrare la consecratio mostra il princeps innalzato al cielo sul dorso di un’aquila o sul cocchio del sole.

24


iscrizioni – le imprese (spesso belliche, ma anche pacifiche) che

hanno permesso al personaggio in questione di essere celebrato:

in definitiva, l’arco stesso è da considerarsi la “porta” che il

personaggio simbolicamente è riuscito ad attraversare, superando

la dimensione del contingente. 68

In questo senso, la porta–arco trionfale è un’espressione del

tema della “porta del cielo”, perché il trionfatore, tramite essa,

simbolicamente accedeva alla dimensione propria degli dei

celesti. Prova ne sia la presenza, al di sopra degli archi trionfali,

della statua dorata del personaggio celebrato, nell’atto di

innalzarsi al firmamento su una quadriga trainata da cavalli. 69 Il

trionfatore accedeva così al cielo proprio come Apollo, l’astro

del sole, vi accede ogni giorno guidando la propria quadriga nel

suo cammino perenne e immutabile.

A ciò va aggiunto che a Roma i più importanti archi

trionfali furono eretti lungo il percorso che il personaggio

celebrato compiva salendo al tempio di Giove in Campidoglio: la

salita e l’omaggio a Giove rappresentavano in termini simbolici

l’accesso al cielo di chi si era mostrato degno del favore divino. 70

68

Cfr. GUENON R., I simboli della scienza sacra. Milano 1975, pp. 305 – 308. In riferimento agli archi di trionfo

romani: «Questi edifici, come è noto, avevano un valore sacrale ed erano delle puerta del sol. La bellezza particolare

dell’arco di trionfo proviene dal fatto che esso è una porta allo stato puro, una porta che si apre sul vuoto, ma un vuoto

che è in realtà il mondo stesso e tutto lo spazio del cielo. Non è possibile immaginare un simbolo più adeguato della

“porta celeste”». Cfr. HANI J., Il simbolismo del tempio cristiano, Roma 1975, p. 99.

69

MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 159 sgg.; pp. 176 ssg.

70

Oltre naturalmente ad esprimere gratitudine a nome dello stato e a costituire il culmine religioso della cerimonia

trionfale. Poiché un aspetto dell’auctoritas concessa da Giove, oltre al potere di accrescimento, è il potere di vittoria in

guerra, giova ricordare la cerimonia con la quale si concludeva, in tempi molto posteriori alla monarchia delle origini, la

grande parata militare (di origine etrusca) chiamata “trionfo”: dopo i riti purificatori dalla contaminazione del sangue e

la parata lungo tutta la Via Sacra e il Clivius Capitolinus, il trionfatore giungeva al tempio di Giove Ottimo Massimo sul

Campidoglio; qui, indossato l’ornatus Iovis Optimi Maximi, egli ornava l’effigie del dio del mantello di porpora, della

corona d’alloro e dello scettro d’avorio sormontato dall’aquila che aveva impiegato durante il trionfo e, infine, si

detergeva il volto dal minio col quale era stato ricoperto durante il trionfo stesso a somiglianza di Giove. La struttura

della cerimonia, in particolare la devoluzione alla divinità dei segni esteriori del potere, manifesta l’idea romana che

l’auctoritas proviene da Giove, affinché i prescelti svolgano fra gli uomini assegnato loro, ma che l'auctoritas torna,

alla fine, alla fonte da cui era discesa. POLIA M., Imperium – Origine e funzione del potere regale nella Roma arcaica (

= POLIA, Imperium), Rimini 2001, pp. 174-175. Si consideri anche p. 31: «È certo, però, che Romolo, in quanto rex,

doveva essere dotato di insegne distintive della sua funzione. Quali? Sappiamo innanzitutto del lituo che esprimeva la

25


2. L’arco di Costantino.

Dopo aver esposto, seppur in sintesi, la concezione

simbolica ed ideale alla base degli archi trionfali, è ora possibile

prendere in considerazione un esempio che, più di altri,

testimonia una svolta nelle tradizioni religiose dello stato romano

e nella loro espressione sul piano simbolico, monumentale e

iconografico: l’arco dedicato all’imperatore Costantino.

2.1. Cenni storici sull’arco.

L’arco dedicato a Costantino fu eretto dal senato e dal

popolo romano per celebrare la vittoria dell’imperatore su

Massenzio al Ponte Milvio (28 ottobre 312) e dedicato il 25

luglio 315, decimo anniversario della sua ascesa al trono. 71

Questo si evince chiaramente dalla grande iscrizione

scolpita su entrambi i lati principali dell’arco:

Imp(eratori) Caes(ari) Fl(avio) Constantino Maximo /

P(io) F(elici) Augusto S(enatus) P(opuls)q(ue) R(omanus) / quod

sua qualità di augure e sacerdote supremo; potremmo ipotizzare, sulla scorta di un’informazione fornita da Virgilio, la

presenza di una lancia senza il ferro (pura hasta), o da una vera e propria lancia da guerra come antica e diffusa

insegna del potere militare. La presenza dei fasci littori e della sella curule, forse, risale all’epoca della dominazione

etrusca a Roma e tali insegne del potere furono introdotte al tempo di Tarquinio Prisco, come testimonia Lucio Anneo

Floro: “Da lì (dall’Etruria provengono) i fasci, le toghe con strisce di porpora (trabeae), le sedie curuli, gli anelli le

falere, le toghe praetextae, i lunghi mantelli militari (paludamenta), da lì furono presi in prestito il costume di

celebrare il trionfo su un carro trainato da quattro cavalli, le toghe pictae e le tuniche palmate e, in una parola, ogni

segno di pompa (decora) e tutte le insegne mediante le quali la dignità del comando (imperii) eccelle”». Triumphus /

triumpus deriva dal greco thriambos (col significato originario di “canto dionisiaco”) mediante una forma etrusca che

muta la consonate sonora b in sorda p (POLIA, Imperium, p.188).

71

Come è ricordato nella scritta votis X sopra uno dei fornici minori, rinnovata con un’altra, votis XX, sopra l’altro

fornice, in occasione del ventennale. STACCIOLI R.A., Guida di Roma antica ( = STACCIOLI, Guida), Milano 1986,

p. 359.

26


instinctu divinitatis mentis / magnitudine cum exercitu suo / tam

de tyranno quam de omni eius / factione uno tempore iustis / rem

publicam ultus est armis / arcum triumphis insignem dicavit. 72

Il monumento fu trasformato in torre durante il Medioevo e

poi incorporato nel palazzo fortificato dei Frangipane; più volte

restaurato, soprattutto nel Settecento, fu definitivamente liberato

da sovrastrutture nel 1804. 73 Recenti restauri hanno poi permesso

di rilevare come l’arco sia il risultato delle trasformazione di un

precedente fornice celebrativo di età adrianea, 74 mentre l’attico

fu ricavato dal podio del grande colosso che, quale gigantesca

immagine del Sole, si erigeva nei pressi del vicino Anfiteatro

Flavio.

2.2. Rilievi di epoca costantiniana.

Sono contemporanee alla costruzione dell’arco, e quindi

d’età costantiniana, le sculture che sulle due facciate si trovano

sui plinti delle colonne scolpiti sui tre lati, con Vittorie che

scrivono sopra gli scudi o reggono palme e trofei, o con soldati

romani e barbari prigionieri sugli archivolti del fornice centrale,

con Vittorie in volo recanti trofei e personificazioni delle

stagioni; sugli archivolti dei fornici minori, con divinità fluviali;

sulle chiavi degli archi, con figure allegoriche molto rovinate;

sulle pareti interne dei fornici minori, con otto grossi busti di

imperatori in rilievo pure molto rovinati; sopra gli stessi fornici

minori e, alla medesima altezza, sui due lati corti, con sei lunghi

pannelli che illustrano la campagna contro Massenzio.

In questi, iniziando dal lato corto occidentale (verso il

Palatino), si susseguono i seguenti episodi: partenza dell’esercito

72

All’Imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il Popolo Romano, poiché per

ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò ad un tempo lo stato su un

tiranno e su tutta la sua fazione con giuste armi, dedicarono questo arco insigne per trionfi.

73

STACCIOLI, Guida, ibidem.

74

CONFORTO M.L. (et al.), Adriano e Costantino. Le due fasi dell’arco nella Valle del Colosseo ( = CONFORTO,

Adriano e Costantino), Milano 2001.

27


di Costantino da Milano, assedio di Verona, battaglia di Ponte

Milvio, entrata di Costantino a Roma, discorso di Costantino dai

Rostri nel Foro Romano, distribuzione di denaro al popolo nel

Foro di Cesare. Sui due lati corti sono infine costantiniani i due

tondi con la rappresentazione della Luna, nel lato ovest e del

Sole, nel lato est. 75

2.3. Rilievi di reimpiego.

Sull’arco appaiono molti rilievi provenienti da altri

monumenti dell’antica Roma.

Appartengono all’età di Traiano, provenienti dal suo Foro

(o forse, ci si permette di suggerire, da un arco trionfale che

chiudeva il suo Foro): 76 le otto statue di Daci prigionieri (con le

teste rifatte nel Settecento) nell’attico sui plinti sopra le colonne,

i due pannelli sui lati minori dell’attico con scene di battaglia, e

gli altri due che sono all’interno del fornice centrale, tutti e

quattro appartenenti a un unico grande fregio che forse decorava

l’attico della Basilica Ulpia (sopra i rilievi all’interno del fornice

centrale sono incise le acclamazioni a Costantino «liberatore di

Roma» e «restitutore della tranquillità»).

Appartengono all’età di Adriano, verosimilmente sempre

rimasti in situ, i tondi che rappresentano: nella facciata

meridionale, la partenza per la caccia, un sacrificio a Silvano, la

caccia all’orso, un sacrificio a Diana; sulla facciata

settentrionale, la caccia al cinghiale, un sacrificio ad Apollo, la

caccia al leone, un sacrificio ad Ercole. In queste raffigurazioni,

quella che era la testa dell’imperatore Adriano è stata sostituita

con quella di Costantino nelle scene di caccia e con quelle del

collega Licinio nelle scene di sacrificio. 77

Infine risalgono all’età di Comodo, provenienti (insieme ad

altri tre che si trovano nel Palazzo dei Conservatori) da un arco

onorario dedicato a Marco Aurelio, gli otto pannelli dell’attico

posti ai lati dell’iscrizione e rappresentati episodi relativi

all’impero di Marco Aurelio (con le teste dell’imperatore

rilavorate nel Settecento): nella facciata meridione, presentazione

di un capo barbaro all’imperatore, prigionieri condotti davanti

all’imperatore, discorso dell’imperatore ai soldati, sacrificio

nell’accampamento; nella facciata settentrionale, arrivo a Roma

dell’imperatore, partenza da Roma dell’imperatore, distribuzione

di denaro al popolo, resa di un capo barbaro. 78

75 STACCIOLI, Guida, p.361.

76 Cfr. MELUCCO VACCARO A., L’arco di Adriano ed il riuso di Costantino ( = MELUCCO VACCARO, L’arco di

Costantino), in CONFORTO, Adriano e Costantino, p. 49.

77 STACCIOLI, Guida, pp. 361-362.

78 STACCIOLI, Guida, p. 362.

28


3. Ideologia e visione religiosa nelle forme scultoree di età

costantiniana.

3.1. La dimensione divina della dignità imperiale in epoca

tetrarchica.

Alla fine del III secolo d.C., la tetrarchia rese la

divinizzazione dell’imperatore un dato acquisito e pienamente

integrato nel contesto religioso-ideologico alla base dello stato

romano.

Gli imperatori sono quindi divinità librate sopra l’impero che

governano. «La vostra anima immortale è più grande di ogni potere, di ogni

fortuna, certo anche dell’impero» – ipso est maior imperio. Il loro potere è

assoluto , il loro diritto a dar forma al mondo, a sciogliere e legare l’umanità,

illimitato. Non dipendendo dal senato e dall’esercito, Jovius Diocletianus può

creare lui stesso gli imperatori, cioè designare i suoi colleghi al trono e i suoi

successori, i quali – creati da lui – sono anch’essi dei. Gli imperatori, come è

detto in un’iscrizione, sono «nati da Dio ed essi medesimi creatori di dei». In

realtà è Giove stesso, il summus pater di tutti gli imperatori, che è presente

all’investitura e adotta come figlio il nuovo Augusto o il nuovo Cesare. I titoli

di Jovius e Herculius attribuiti ai Cesari del 293 e del 305 il giorno della loro

designazione sancivano la scelta: era stato Giove stesso a scegliere.

Lo stato tetrarchico posava così, saldamente e immutabilmente,

sull’ordine eterno del mondo. Nell’opera di ordinamento e governo dello

stato, nelle riforme finanziarie, nelle misure per la stabilità economica e

sociale, nella guerra e nella pace, nella politica culturale e religiosa,

dovunque, l’entità Giove – impero di Diocleziano era presente come ordine

voluto dagli dei. In quanto Jovii e Herculei gli imperatori appartenevano a un

mondo superiore «où ils ont trouvé une sorte d’harmonie préétablie qu’aucun

d’eux ne pouvait contester ou changer» (W. Seston). La grande regolarità e

legalità di questo mondo più alto ed eterno, attraverso l’opera riformatrice di

Diocleziano si calava ora nella nostra realtà temporale, e la confusa

moltitudine delle ostinate e indisciplinate forme naturale veniva inquadrata e

disposta secondo le linee rigorose di un ordine e una simmetria

trascendenti. 79

79

L’ORANGE H.P., L’impero romano dal III al VI secolo. Forme artistiche e vita civile ( = L’ORANGE, L’impero

romano), Milano 1988, p. 93.

29


Come è evidenziato nelle note di L’Orange sopra riportate,

l’imperatore tetrarca, nella sua figura divina, era reale perno di

ogni agire dello stato e ne riassumeva l’idea stessa.

La dimensione divina dell’autorità imperiale condizionava

le espressioni più tipiche della tradizione romana, come rilevato

da S. Mac Cormack a proposito del già citato tema della

consecratio:

La vita ufficiale e pubblica di un imperatore romano era delimitata da

due avvenimenti salienti: l’ascesa – il dies natalis del suo potere – e la

consecratio. L’importanza attribuita ora all’uno ora all’altro avvenimento e il

modo in cui veniva mantenuto l’equilibrio tra di essi, portavano a una

continua ridefinizione del rapporto tra l’imperatore e il divino, precisando

così la natura della sua divinità. Al momento dell’ascesa, l’imperatore poteva

essere presentato come il prescelto dagli dèi, come qualcuno che già godesse

di uno speciale rapporto col divino, oppure venire scelto dagli uomini grazie

alla sua virtus. Queste due caratteristiche potevano essere collegate ed

entrare in relazione tra di loro: una non escludeva l’altra. Se l’imperatore era

scelto dagli dei, le sue azioni sarebbero state guidate dall’instinctu divinitatis

e il modo di governare avrebbe svelato come e perché fosse stato prescelto.

L’altro modo in cui lo status particolare dell’imperatore poteva essere

affermato si presentava al momento della morte: con la sua consecratio

costituiva un momento a sé, in quanto poteva essere preceduta – durante il

regno – da un graduale assorbimento nella condizione divina e questo fatto

trovava la sua espressione soprattutto nella ritrattistica. Nel I e II secolo. Il

modello di vita imperiale imponeva che l’imperatore fosse scelto dal popolo e,

in un qualche misura, dagli dei (i due fatti potevano coincidere quando

l’imperatore fosse stato adottato dal suo predecessore o se ne fosse stato il

figlio), che governasse e che, da morto, venisse ricompensato per le sue

fatiche con la consecratio. Questo modello cambiò durante il III e –

soprattutto – il IV secolo: gli imperatori, che già erano i prescelti dagli dèi,

non avevano alcun bisogno della consecratio e dell’approvazione umana che

questa comportava perché, già dal momento dell’ascesa, la loro condizione

diventava, in maniera sempre più crescente, sovraumana.

Tale cambiamento si fece più evidente durante la tetrarchia. La

tetrarchia presentava un insieme di circostanze talmente nuove che aiutarono

a trasformare l’idea della consecratio in qualcosa di diverso. Diocleziano,

come Aureliano, affermava di governare grazie alla più alta autorità di cui un

sovrano potesse godere, l’essere stato scelto da Dio. Il fatto che fosse

possibile o meno stabilire una relazione tra Diocleziano e i suoi predecessori

non aveva alcuna rilevanza e la consecratio, durante la prima tetrarchia, non

costituì un fattore decisivo per determinare una successione legittima. (…)

L’origine del diritto a governare a governare di Diocleziano rendeva

superflua qualsiasi rivendicazione che si potesse esprimere attraverso la

consecratio di un predecessore, poiché nulla poteva essere aggiunto alla sua

condizione grazie all’intervento o all’approvazione degli uomini.

L’imperatore era già conspicuus et praesens Iuppiter, o imperator

Hercules. Questa rivendicazione, fatta al momento dell’ascesa, travolse tutte

le precauzioni adottate in precedenza per limitare l’approssimarsi

dell’imperatore al divino finché fosse in vita e l’arco di Galerio mostrava

Diocleziano e Massimiano collocati, da vivi, su di un trono al si sopra della

terra e del cielo, in una posizione simile a quella riservata agli dei. 80

80 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 157-159.

30


3.2. I riferimenti ideologici e religiosi di Costantino.

Poiché oggetto di questo studio è specificamente l’arco

dedicato a Costantino, pare ora utile fornire qualche precisazione

su come questo imperatore intese porsi nel contesto ideologico

della tetrarchia nel momento, davvero cruciale per la storia

romana, in cui entrò vittorioso nell’Urbe.

In effetti, quando oltrepassò le mura aureliane, Costantino

era pienamente erede della concezione tetrarchica anche se,

rispetto ad essa, aveva assunto una posizione originale,

recuperando riferimenti alla dimensione “solare” della divinità

imperiale derivante in buona parte dalla supremazia imposta ai

culti solari dagli imperatori del III secolo d. C.

Se dunque per i tetrarchi i riferimenti specifici erano quelli

a Giove e ad Ercole, Costantino si pose piuttosto in relazione con

manifestazione di culti “solari” tipici del paganesimo.

A questo proposito, di nuovo Sabine Mac Cormack – alla

quale ci riferiremo spesso nel corso di questo studio – così si

esprime:

Dalla metà del III secolo, il Sole veniva rappresentato non solo come

compagno e protettore dell’imperatore ma anche come il suo prototipo divino

per ciò che riguardava il potere e, in particolare, l’avvento imperiale.

Nell’arte e nei panegirici di questo periodo era la vicinanza tra Costantino e

il Sole, una vicinanza che rasentava la somiglianza fisica al dio, ad essere

accentuata. (…) Così il panegirista del 310 descrive una visione che

Costantino aveva avuto di Apollo, al cui identità, a quel tempo, si era fusa con

quella del Sole:

Io credo, Costantino che tu abbia visto il tuo Apollo accompagnato

dalla Vittoria che offriva a te corone d’alloro, ognuna delle quali

accompagnata dalla profezia di 30 anni [di regno]. Perché questa è la durata

della vita umana che rappresenta la tua parte ben oltre la longevità di

Nestore. Ma perché dico «Io credo»? Tu l’hai visto e hai riconosciuto te

stesso nell’aspetto di colui al quale, secondo i canti divini dei profeti,

appartengono tutti i regni del mondo. Questo, penso, è adesso sul punto di

finire perché tu, o nostro imperatore, sei, come lui, giovane e felice,

bellissimo e dispensatore di prosperità.

Sull’arco di Costantino, l’immagine di Sole che sorge dall’oceano,

anche se non strettamente collegata a quella dell’imperatore rappresentata

sul medaglione di Ticino, è comunque associata al rilievo che rappresenta

l’entrata trionfale di Costantino a Roma nel 312 e che raffigura la

processione imperiale tra la porta Flaminia e l’arco ad elefante di

Domiziano. Non c’è nessuno a porgere il benvenuto. A indicare il tema

troviamo la Vittoria Alata, che vola ad di sopra della carrozza imperiale ma,

a differenza dei trionfatori, Costantino si trova seduto nella carrozza invece

che in piedi sul carro trionfale. 81

3.3. Le forme delle sculture di età costantiniana presenti

nell’arco quali espressioni dell’ideologia dello stato romano

ai tempi di Costantino.

Sulla scorta delle affermazioni di Sabine Mac Cormack,

arriviamo a considerare l’arco costantiniano e le sculture in esso

81 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 47-49.

31


presenti. Le astratte e stilizzate forme dei rilievi dell’arco

eseguiti nel IV secolo, già nel Rinascimento hanno attirato

attenzione e rimproveri per la loro diversità rispetto alle sculture

più antiche; esse, tuttavia, sono da considerarsi funzionali a

trasmettere specifici contenuti ideologico – religiosi.

Questi contenuti, come si vedrà, sono espressi nel modo più

coerente proprio da figure astratte e geometricamente

schematizzate, nonché dalla organizzazione ben definita e rigida

delle immagini intorno a quella centrale dell’imperatore quale

appare nell’arco.

Sui rapporti che si possono stabilire tra l’idea dello stato

romano che si affermò tra III e IV secolo, e le forme scolpite, è

comunque possibile citare ancora H.P. L’Orange, riportando le

osservazioni rivolte proprio alle caratteristiche formali dei fregi

eseguiti nel IV secolo nell’arco costantiniano:

Ma, tal quale appare nella contemporanea riorganizzazione dello stato

e della vita civile, il nuovo ordine che si instaura nell’arte non è, come

accadeva nella tradizione classica, un ordine organico fondato su autonome

figure legate in raggruppamenti spontanei, ma un ordine meccanico che è

imposto agli oggetti dall’alto e ne regola i rapporti reciproci: un ordine che si

fonda su una regolarità superiore a quella della natura. Se osserviamo i due

notissimi rilievi sulla fronte dell’Arco di Costantino (312-315): l’Oratio, cioè

il discorso di Costantino ai Rostri del foro romano e la Liberalitas, cioè

Costantino che elargisce danaro ai cittadini di Roma, vediamo il nuovo

ordine meccanico già pienamente in atto: le figure singole non sono riunite in

gruppi naturali, ma disposte in serie come elementi uniformi uno accanto

all’altro; queste file, come l’architettura che le inquadra, non sono

autonome: ogni elemento è strettamente subordinato e collocato

simmetricamente rispetto alla figura dominante dell’imperatore posto al

centro del rilievo. La forzata regolarità che l’allineamento e la simmetria

impongono è accentuata dal fatto che gli assi dell’intera composizione

seguono le orizzontali e le verticali delle cornici, per cui le linee principali

delle figure e delle architetture o coincidono o corrono parallele ad esse. Si

osservi, ad esempio, la linea immediatamente sopra la testa delle figure e

quella immediatamente sotto i loro piedi. Poiché la figura singola perde la

propria integrità organica ben proporzionata per irrigidirsi seguendo le

verticali della cornice, la tradizionale curva della figura in riposo scompare e

con essa l’espressione schiettamente classica di una dinamica ma equilibrata

naturalezza. 82

Ed ancora:

Per vie assolutamente diverse da quelle dell’arte tradizionale, dove le

figure si muovevano più liberamente nello spazio, ora è possibile orientare

tutti gli elementi verso l’imperatore sito al centro, affinché sia avvertita

l’irresistibile carica magnetica che da lui emana e il superiore ordine cui egli

appartiene. È il divino impero che viene rappresentato in questa

sovrannaturale, immobile, e quindi immutabile, costellazione di figure e

architetture. Le figure nelle simmetriche sequenze sono spesso viste di profilo

e in genere guardano verso l’interno, cioè verso l’imperatore che sta al

centro. Questi d’altro canto è rappresentato frontalmente, rivolto all’esterno

e viene a interrompere la continuità narrativa. Analogamente, nella vita,

l’imperatore –dio è collocato al di sopra dei mortali, e il cerimoniale

imperiale lo isola in un’immagine divina innalzata sopra il mondo dei viventi.

82 L’ORANGE, L’impero romano, p. 144.

32


L’essenza profonda del dominus si esprime in questa disposizione: il suo

ruolo centrale nello stato, la dipendenza e subordinazione di tutti i cittadini a

lui, la sua natura sovrumana. Ecco creato un modulo compositivo che

esplicita la Maiestas Domini e sarà di importanza fondamentale per l’arte

ufficiale della tarda antichità e del medioevo. 83

4. Quale trionfo.

Giunti a questo punto, occorre ritornare alle osservazioni

iniziali sul simbolismo degli archi di trionfo. Lo facciamo per

precisare che il motivo della “porta del cielo”, richiamato dalla

tipologia dell’arco trionfale, solo in termini parziali si poteva

ritenere adatto ad esprimere la dimensione già di per sé divina

della maestà imperiale nel tardo antico.

Infatti, citando la Mac Cormack:

Ai tetrarchi non era necessario essere accolti tra le stelle, come invece

ci suggeriscono le prime emissioni di monete imperiali a proposito degli

imperatori consacrati, poiché il loro status era già stabilito al momento

dell’ascesa al trono. 84

In altri termini, al di là dello specifico tema della

consecratio citato dalla Mac Cormack e considerando bensì le

specifiche funzioni simboliche degli archi trionfali, occorre

rilevare come l’imperatore del dominato non necessitasse di

oltrepassare alcuna porta simbolica per accedere alla condizione

di divinità e di futura immortalità, in quanto queste

caratteristiche erano già proprie del suo status. 85

Ecco quindi che, da questo punto di vista, la situazione

cambia, tant’è che nelle rappresentazioni presenti sull’arco di

Costantino, piuttosto che il motivo del trionfo, venne espresso

quello dell’adventus.

4.1. L’adventus e la sua importanza nel periodo del dominato.

4.1.1. Nozioni generali sull’adventus.

L’adventus era un’antica cerimonia che celebrava l’arrivo

imperiale in una città:

Di tutte le cerimonie che coinvolgevano l’imperatore, quella

dell’adventus pare la più banale: a causa delle rudimentali vie di

comunicazione nell’impero romano, dei frequenti spostamenti e quindi delle

frequenti visite imperiali, l’adventus potrebbe sembrare un fatto così

ovviamente necessario da non richiedere ampi commenti. Una visita

imperiale era preceduta da un periodo di frenetica attività organizzativa:

doveva essere un evento solenne, a cui era poco raccomandabile non

partecipare e poteva trasformarsi, per i più accorti, in una occasione di

profitto. (…) Anche i risultati erano altrettanto prevedibili. Nel migliore dei

83

L’ORANGE, L’impero romano, p. 180.

84

MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 157-158: «Gli imperatori che già erano prescelti dagli dei, non avevano

alcun bisogno della consecratio e dell’approvazione umana che questa comportava perché, già dal momento

dell’ascesa, la loro condizione diventava, in maniera sempre crescente, sovraumana».

85

MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 185.

33


casi un breve periodo di governo diretto, e per questo fermo, avrebbe

illuminato, come un raggio di sole, la comunità. Quando sua divinità,

Massimino Daia, portò la sua luce a Stratonicea, il brigantaggio nelle

montagne della Caria ebbe un attimo di pausa; per le città di frontiera,

l’arrivo dell’imperatore significava un felice periodo di sicurezza. 86

Quindi, come già anticipato, sotto la tetrarchia l’adventus

acquistò ulteriori significati in relazione all’ormai definita

dimensione divina dell’imperatore:

Sotto i tetrarchi, la cerimonia veniva quindi giustificata in modo da

enfatizzarne un aspetto in particolare, l’arrivo del deus praesens,

l’imperatore, capace di aiutare e proteggere i suoi sudditi in quanto presente

e immediatamente disponibile. 87

Ne conseguiva che il giungere del dominus divinizzato era

paragonabile ad una vera epifania di luce cui certamente non era

estranea la succitata dimensione solare richiamata dagli

imperatori della fine del III secolo. Riporta il panegirista del 310:

Ti sei degnato di illuminare quella città [di Autun] che solo per il fatto

di attenderti visse nella prosperità. (…) O dei immortali, quale giorno rifulse

su di noi, quando tu varcasti le porte di tale città, primo segno della nostra

salvezza, e le porte, protese all’interno e affiancate da torri gemelle parevano

accoglierti in una sorta di abbraccio. 88

Dal punto di vista simbolico, l’adventus finì dunque per

rappresentare una sorta di discesa della luce divina del deus

praesens sulla città ove la sua sacra immagine si affacciava;

mentre nella cerimonia del triumphus vero e proprio l’imperator

si innalzava a raggiungere divinità degli dei del cielo.

È doveroso poi indicare che (al di là dei mutamenti

ideologici avvenuti – o meglio definiti – durante la tetrarchia)

almeno sino ai tempi di Diocleziano la tradizionale cerimonia

86 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 46: «Come diceva Atanasio: “Quando un grande re ha visitato una

qualche grande città, e preso dimora in una delle sue case, tale città viene grandemente onorata e più nessun nemico o

bandito osa muovere contro di essa, anzi viene trattata con riguardo perché il re ha dimorato in una delle sue case:

così deve essere anche con il Re di ogni cosa”».

87 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 32.

88 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 37.

34


trionfale fu comunque rispettata nei suoi contenuti religiosi

fondamentali, i quali richiedevano l’ascesa dell’imperatore al

tempio dedicato a Giove sul Campidoglio ove, per rendere grazie

al dio, si deponeva una corona nel suo grembo. 89

4.1.2. L’adventus sull’arco di Costantino.

Per le ragioni sopra citate, nell’arco di Costantino sul lato

corto verso il Palatino, sotto il tondo con il tramonto della Luna,

si trova la rappresentazione della profectio (partenza) da Milano

e sul lato opposto, sotto l’immagine del Sole che sorge, è

raffigurato, appunto, l’adventus di Costantino a Roma. Su questo

tema vale la pena di citare ancora S. Mac Cormack:

Sull’arco di Costantino, l’immagine di Sole che sorge dall’oceano (…)

è comunque associata al rilievo che rappresenta l’entrata trionfale di

Costantino a Roma nel 312 e che raffigura la processione imperiale tra la

Porta Flaminia e l’arco ad elefante di Domiziano. Non c’è nessuno a porgere

il benvenuto. A indicarne il tema troviamo la Vittoria Alata, che vola al di

sopra della carrozza imperiale ma, a differenza dei trionfatori, Costantino si

trova seduto nella carrozza invece che in piedi sul carro trionfale. 90

I rilievi che raffigurano l’adventus e al profectio sono posti

sull’arco in modo da segnare l’alternanza dei motivi

rappresentati sulle due facciate. Sul lato opposto alla città

troviamo un paio di rilievi che rappresentano scene di guerra:

l’assedio di Verona e la battaglia del Ponte Milvio. I due pannelli

che descrivono le virtù militari dell’imperatore sono

controbilanciati – sulla parte dell’arco volta verso la città – da

pannelli che ne illustrano le virtù civili di comandante. Le aquile

di legionari, secondo l’espressione di Claudiano, hanno ceduto il

posto ai littori. Sempre su questo lato dell’arco troviamo

un’immagine dell’imperatore, in piedi sui rostra, in una scena di

adlocutio e in un’altra che lo mostra sul trono mentre distribuisce

doni munifici.

Questi due rilievi, che rivestono un’importanza

marcatamente civile e urbana, descrivono il secondo stadio

dell’adventus, quello dell’incontro diretto tra governante e

sudditi, uno degli elementi normalmente descritti nei panegirici.

L’arco mostra quindi la cerimonia dell’adventus nei suoi due

aspetti, gli stessi del periodo della tetrarchia. L’interpretazione

della cerimonia era comunque cambiata: il linguaggio dell’arco è

ancora pagano ma esprime anche il fatto che Costantino si era

completamente allontanato dalle immagini religiose usate

durante la tetrarchia.

89 FRASCHETTI A., La conversione da Roma pagana a Roma cristiana ( = FRASCHETTI, La conversione), Bari

1999, p. 245.

90 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 48.

35


4.2. Ubique victor.

Come già accennato, caratteristica dei tradizionali archi

trionfali era quella di riportare in immagini, oltre che in

iscrizioni, le imprese per cui al trionfatore era concesso di

“superare” simbolicamente la porta celeste e, grazie appunto alle

sue gesta memorabili, accedere all’immortalità.

Questi concetti – ribadiamo – non si adattavano pienamente

alla figura del deus praesens, ovvero all’imperatore divinizzato

del tardo impero: non si poteva pensare che il suo accesso al

cielo fosse concesso per specifiche imprese, per quanto gloriose,

poiché era la stessa origine “celeste” della carica imperiale ad

implicare l’idea dell’imperator ubique victor, ovvero ovunque (e

sempre) vincitore.

Quindi, poiché il toto orbe victor 91 nelle sue vittorie non

trovava che semplice conferma al proprio status divino,

occorreva che la loro rappresentazione fosse inserita in un

contesto che chiarisse la dimensione assoluta e non contingente

delle imprese da lui compiute.

Come si è detto, ciò era ottenuto mediante forme stilizzate

ed “astratte”, e attraverso l’organizzazione delle immagini

indicata da H.P. L’Orange. 92 Naturalmente questi concetti, così

come erano espressi implicitamente nei modi coi quali erano

raffigurate le immagini, tanto più lo erano, diciamo

“esplicitamente” nei contenuti espressi dall’iconografia delle

scene.

Per cui, se sulla facciata meridionale dell’arco si trovano

scene riguardanti le battaglie sostenute da Costantino e sul lato

opposto troviamo le sue opere pacifiche, 93 tali scene sono

scandite da altre rappresentazioni di evidente contenuto

cosmologico finalizzate ad inserire le gesta del deus praesens

91

MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 247 sgg.

92

Per individuare i riferimenti filosofico-estetici di questo genere di immagini cfr. GRABAR A., Le origini dell’estetica

medievale, Milano 2001.

93

CALCANI G., La serie dei tondi da Adriano a Costantino ( = CALCANI, La serie dei tondi), in CONFORTO,

Adriano e Costantino, pp. 98-99.

36


nella prospettiva adeguata alla carica da lui ricoperta: la

prospettiva, appunto, dell’assolutezza e dell’atemporalità.

A contribuire a questo genere di iconografia sono,

naturalmente, i già citati tondi del Sole e della Luna, le

personificazioni delle stagioni, nonché le divinità fluviali.

Secondo Giuliana Calcani, infatti, la celebrazione del vincitore

presente nell’arco «offriva l’occasione per divulgare un

messaggio di più ampio significato: l’idea dell’equilibrio

perpetuo garantito dal nuovo signore dell’impero.» 94

Continua la Calcani, a questo proposito:

Nel discorso in onore di Costantino, pronunciato da Eusebio alla

presenza di Costantino, si parla dell’eternità indivisibile e priva di forma che

Dio ha diviso in segmenti, rendendola armonica nella lineare partizione in

mesi e date, stagioni, anni e reciproci intervalli di notti e giorni . Ed è ciò che

troviamo riflesso nella decorazione dell’arco, dove sono rappresentati il

giorno e la notte (personificazione di Sole e Luna), i mesi (tondi adrianei con

scene di sacrifici e cacce), le stagioni (genietti) 95 e, quindi, l’anno.

Questa espressione divina dell’ordinamento universale viene formulata

attraverso l’apparato decorativo dell’arco che fa emergere l’azione del

sovrano, il quale diventa l’immagine stessa dell’ordine sociale, in

contrapposizione ai nemici dell’impero che rappresentano il caos. 96

In definitiva, il regno di Costantino, seguendo l’iconografia

presente sul suo arco, rappresenterebbe un momento di equilibrio

e felicità “cosmica”, ove la dimensione temporale è rappresentata

dalle figure riguardanti lo scorrere dei giorni e delle stagioni,

mentre quella spaziale dai quattro fiumi.

5. Le parti reimpiegate.

5.1. I tondi di età adrianea.

Sono comunque i tondi di epoca adrianea – i quali secondo

recenti indagini dovrebbero appartenere alla fase dell’arco

precedente le trasformazioni dei tempi di Costantino – 97 ad

esprimere nel modo più evidente la dimensione cosmica in cui si

intende inserire l’intero programma di immagini.

Naturalmente non ci si diffonderà qui sulle analisi dei

singoli tondi; basterà ricordare – secondo quanto indicato da

Giuliana Calcani – come la tematica in essi raffigurata, quella

della caccia, fosse tradizionalmente connessa all’esaltazione

delle qualità dell’imperator, mentre i ricorrenti sacrifici alle

divinità ne sottolineavano la pietas. Nel IV secolo questi temi

94

CALCANI, La serie dei tondi, p. 100.

95

CALCANI, La serie dei tondi, p. 93: «Le personificazioni delle stagioni, presenti nei punti di imposta del fornice

centrale, sono un altro elemento di allusione allo scorrere ciclico del tempo, e vanno interpretate in diretta connessione

con i tondi adrianei, visto che sono allineate sullo stesso piano di questi ultimi grazie all’appoggio su un rialzo

roccioso: l’Estate segue i tondi con la Partenza e con il Sacrificio a Silvano; l’Autunno precede la Caccia all’orso e il

Sacrifico a Diana; l’Inverno è posto dopo la Caccia al cinghiale e il Sacrificio ad Apollo; la Primavera anticipa il tondo

con il leone e quello con il Sacrificio a Ercole».

96

CALCANI, La serie dei tondi, p. 100.

97

MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, pp. 28-57.

37


furono “integrati”, aggiungendo o modificando le sculture, in

modo da evidenziare relazioni con i riferimenti religiosi ed

ideologici della tetrarchica (es.: l’inserimento delle lastre di

porfido, ovvero il colore collegato alla maestà imperiale; il leone

morente come riferimento alle fatiche di Ercole, ecc…). 98

Il tutto, come si è più volte sottolineato, organizzato in

modo da offrire riferimenti simbolici che permettessero di

rendere chiaro come le gesta imperiali si ponessero al di là delle

dimensioni spazio – temporali. 99

98

CALCANI, La serie dei tondi, pp. 92 sgg.

99

Per chiarezza occorre specificare che l’organizzazione “ciclica” dei tondi adrianei, con la quale si intende richiamare

l’intero svolgersi del tempo e quindi la dimensione dell’assolutezza, era presente ed evidente già nelle immagini ai

tempi di Adriano; questo aspetto è da intendersi come particolarmente collegato al tema del sacrificio agli dei

rappresentato nelle sculture.

38


5.2. I rilievi riguardanti le imprese di Marco Aurelio.

A proposito dei rilievi riguardanti le gesta di Marco

Aurelio, basterà indicare come essi provengano con ogni

probabilità da un altro arco di trionfo, appunto dedicato a questo

imperatore. I fregi risalgono al tempo di Commodo e

rappresentano principalmente l’attività bellica del princeps;

tuttavia le scene ambientate a Roma e, soprattutto, le

raffigurazioni dell’arrivo e dalla partenza imperiale, permettono

anche in questo caso una lettura “ciclica”. È nostra opinione che

nel IV secolo questi fregi furono posti in relazione con la statua

equestre dell’imperatore Costantino, che campeggiava

immediatamente sopra, nell’attico dell’arco, nonché,

evidentemente, con il tema dell’adventus e della profectio;

indichiamo comunque come in uno dei pannelli aureliani appaia

un’iconografia tipicamente trionfale.

5.3. I rilievi traianei.

Quanto ai rilievi riguardanti le imprese di Traiano, sembra

importante segnalare come essi, per il tema trattato, provengano

da monumenti celebrativi 100 dell’imperatore.

Si tratta di riferimenti ad imprese belliche la cui

collocazione, per ciò che attiene le raffigurazioni ai lati del

fornice centrale dell’arco di Costantino, si spiega facilmente in

relazione alle iscrizioni soprastanti che celebrano l’imperatore

come “liberatore” e “restitutore della tranquillità”.

Le statue di prigionieri barbari ed i due pannelli ai lati corti

dell’attico sono naturalmente da intendere nel contesto delle

rappresentazioni di carattere militare che coprono i lati dell’arco

a quell’altezza.

100

In verità, a Roma sono stati identificati almeno due archi trionfali dedicati a Traiano: uno di essi, eretto certamente

dal successore Adriano, si trova citato nei cataloghi della I Regione, mentre un altro è raffigurato in immagini monetali.

MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, p. 49.

39


6. Le ragioni del reimpiego nel contesto del simbolismo della

cerimonia trionfale.

Giunti a questo punto e prima di proseguire, pare opportuno

elencare schematicamente quanto esposto sinora:

- Si è indicato come la presenza di archi di trionfo sia connessa al

simbolismo della vita successiva alla morte tipica del mondo

pagano. Si è citata anche la prossimità di questo tema con il

concetto di consecratio.

- Si sono messe in relazione le forme peculiari delle sculture più

tarde presenti nell’arco di Costantino con le modifiche subite

dall’idea di consecratio in età tetrarchica e costantiniana.

- Si è poi indicato come il significato dei tradizionali archi

trionfali romani, in età tetrarchica, si sia modificato adeguandosi

ad esprimere i contenuti di una cerimonia, per altro altrettanto

tradizionale, che era quella dell’adventus.

40


- Si è inoltre indicato in quali modi e con quale genere di

iconografia lo status di deus praesens dell’imperatore divinizzato

sia stato espresso nelle sculture presenti nell’arco di Costantino.

Di seguito, ci si occuperà delle ragioni per cui si decise di

impiegare nell’arco di Costantino elementi già utilizzati in

precedenti monumenti; prima però sono necessarie alcune

considerazioni sul sito dell’arco.

6.1. Il sito dell’arco di Costantino e la mancata ascesa

dell’imperatore al tempio di Giove Capitolino.

Si è già detto che il monumento nasce dal reimpiego di un

arco precedente, verosimilmente dedicato ad Adriano e sorto al

posto di una struttura ancora precedente, risalente a Domiziano.

In questa prospettiva, parrebbe abbastanza logico porre in

relazione le rappresentazioni di caccia presenti nell’arco con il

vicino Anfiteatro Flavio; inoltre la prossimità del Colosso – la

gigantesca statua del dio Sole – deve aver contribuito 101 alla

scelta del sito quale luogo più adatto per erigere – e quindi

ristrutturare – il fornice celebrativo. 102

Federico Zeri, tra l’altro, indicava nella dislocazione del

monumento di epoca costantiniana possibili riferimenti a

tematiche cristiane. 103

L’arco di Costantino sorge comunque a cavallo dell’antico

percorso dei trionfi imperiali 104 (lungo il quale è situata la gran

101

Ricordiamo come la religiosità dell’imperatore Costantino, prima della sua adesione al cristianesimo, fosse rivolta a

culti solari assai diffusi in ambito militare. MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 47-49.

102

MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, pp. 49-50.

103

ZERI F., Orto aperto, Milano 1990, p. 22: «Eppure, un connotato cristiano è implicito, io credo, nell’ubicazione

dell’arco stesso, che è situato quasi a mezza via tra due altri Archi che commemoravano la disfatta dei Giudei, quello

di Tito, tuttora esistente (e con la rappresentazione delle spoglie, tra cui il candelabro a sette bracci), e un altro a tre

fornici, situato nella curva del Circo Massimo. Oggi è distrutto, ma sappiamo che era dedicato alla presa di

Gerusalemme, come ci attesta l’iscrizione, copiata nell’VIII secolo da un anonimo pellegrino: essa diceva che Tito

“gentem Iudeorum domuit et urbem Hierusolymam… delevit”. È alquanto mai singolare che l’Arco celebrante la

vittoria di Costantino (dalla quale risultarono prima la tolleranza del Cristianesimo poi la sua ascesa a unica religione

dell’impero) si trovasse tra le due testimonianze, a Roma, della tragedia dei seguaci dell’Antico Testamento».

104

Abbiamo già più volte notato come sia proprio la collocazione prestigiosa a cavallo della via Trionfale a determinare

la successione degli archi realizzati in questo punto; ed è ancora la stessa motivazione a causare il reimpiego da parte di

Costantino. Il carattere stesso dell’intervento, che si pone come magistrale esempio nella prassi già consolidata del

“riuso”, può forse giustificare il silenzio su questo arco delle fonti contemporanee, che ricordano come arcus (divi)

Constantini solo il quadrifronte del Foro Boario. SALERNO C.S., Il calco del tondo con la “caccia al leone”, in

CONFORTO, Adriano e Costantino, p. 124: «Un ulteriore tracciato esegetico riguarda il significato degli spogli nel

contesto del riutilizzo di Costantino, che segnala l’altra dimensione della continuità e dell’uso dell’immagine,

attraverso una diretta riappropriazione fisica. In tal senso i cospicui inserti traianei e aureliani dell’arco sono molto

espliciti rispetto agli intenti del programma iconografico tardoantico. I due imperatori, peraltro insieme ad Adriano,

hanno un ruolo privilegiato nella configurazione del messaggio. Alcuni paralleli tra l’arco e alcuni edifici di

Costantinopoli, in particolare il Milion, ne suggeriscono la valenza. Questo tetrapilo, che replica anche il Miliarium

Aureum di Roma, era ricchissimo di sculture e di ornati (tra i quali si suppone che gli spogli fossero gran parte) e tra

questi Traiano e Adriano a cavallo, posti immediatamente dietro le statue di Costantino ed Elena. La presenza degli

stessi imperatori è chiaramente evidenziata nella scena dell’adlocutio del fregio celebrativo dell’arco, che riproduce il

fondale del Foro Romano presso i Rostri, dove sono riconoscibili le statue sedute di Marco Aurelio e di Adriano».

41


parte degli archi celebrativi) 105 e all’imbocco della cosiddetta via

sacra, ma non, come altri archi, sul percorso della via stessa.

La via sacra rappresentava il tratto finale dell’itinerario

trionfale tradizionalmente percorso per raggiungere il tempio di

Giove Capitolino e, soprattutto, il luogo sul quale si affacciavano

i templi più rappresentativi ed importanti della romanità: ed essi

rimandavano, con la loro semplice presenza, ai valori religiosi ed

ideologici fondamentali dello stato romano. La conformazione

stessa della via sacra portava inoltre in sé l’idea, simbolicamente

rilevante, dell’ascesa.

Che questi riferimenti religiosi ed ideologici fossero di

matrice pagana è ovvio; tralasciando in questa sede questioni

complesse quali la cerimonia “trionfale”(?) seguita da Costantino

all’entrata in Roma, ci si limiterà ad accogliere le tesi di Augusto

Fraschetti secondo cui l’imperatore, in nome del cristianesimo da

lui già abbracciato, si rifiutò di compiere l’ascesa al Campidoglio

e di omaggiare la divinità pagana. 106

Questo rifiuto – analizzato da Fraschetti in buona parte de

La conversione da Roma pagana a Roma cristiana – 107 fu un

evento sconvolgente dal punto di vista cerimoniale: la cerimonia

trionfale perse da questo momento gli originari significati

religiosi e per gli ingressi nell’Urbe degli imperatori cristiani

successivi a Costantino non si potrà parlare di trionfo vero e

proprio, bensì di una cerimonia di adventus re- indirizzata in

termini cristiani. 108

105

MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, p. 53: «Questa dislocazione [riferendosi agli archi presenti sulla via

Trionfale, N.d.A.] per un verso è ancora la traccia della formazione, ben prima dell’ingresso presso il Circo Flaminio,

dei cortei trionfali, e la possibile individuazione del Trigarium come punto di raccolta: ma è anche il segno della

trasformazione in età tarda di questi spazi in luoghi destinati ai giochi e funzionalmente equivalenti al circo, di cui è

noto il valore sostitutivo delle liturgie pagane, cadute in disuso con la cristianizzazione dell’impero. Tale erano

diventati, già dopo i ludi saeculares, appunto il Trigario e il Tarento, ubicati tra il ponte di Agrippa e quello di

Nerone».

106

Sulla questione del trionfo di Costantino e della possibile ascesa al colle capitolino ci si limiterà qui a basarsi sulle

affermazioni, estremamente dettagliate e convincenti, presenti in FRASCHETTI, La conversione.

107

FRASCHETTI, La conversione, pp. 5-63; 243-269.

108

MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 25 sgg.

42


6.2. Le ragioni simboliche del “riuso”.

All’inizio di questo articolo abbiamo indicato il valore

simbolico degli archi di trionfo; nel paragrafo precedente

abbiamo sottolineato che questi monumenti erano realizzati

lungo il percorso trionfale e, letteralmente, ne facevano parte: 109

ne consegue che gli archi proponevano manifestamente,

evidenziandoli, i contenuti ideologici e religiosi dell’ascesa del

trionfatore al colle Capitolino.

Dal punto di vista simbolico, per il protagonista della

cerimonia trionfale attraversare i fornici eretti in onore dei

predecessori significava letteralmente “ricalcarne i passi”, ovvero

“varcare soglie” già attraversate da imperatori precedenti,

riproponendone – anzi superandone – le imprese gloriose proprio

sugli archi istoriate. 110

Tutto ciò non poteva più essere espresso compiutamente

nell’arco di Costantino. Le ragioni sono già state in parte

evidenziate:

- la concezione dell’arco come “soglia” da varcare non si

adattava più all’immagine ormai “dichiaratamente” divina

dell’imperatore;

- Costantino non aveva seguito il tragitto “sacro” sino al colle

Capitolino, uscendo così dal solco della tradizione religiosa

pagana.

Al senato, committente dell’arco e dedito alla

conservazione scrupolosa della tradizione, non rimaneva che

dimostrare con immagini e simboli che il dominus, in quanto

deus praesens, riassumeva in sé le imprese gloriose dei

predecessori e poteva anzi riproporne in termini assoluti ed

universali le virtù.

Si spiega allora l’affollarsi sul fornice costantiniano di tante

immagini degli imperatori Traiano, Adriano e Marco Aurelio, la

cui dedizione allo stato poteva essere considerata assolutamente

esemplare sia in tempo di pace che di guerra.

Il fatto poi che i rilevi riusati provenissero da monumenti

assai noti e legati alla tradizione trionfale condensava, per così

dire, nell’arco di Costantino l’intera cerimonia del trionfo.

Dal punto di vista religioso, particolarmente rilevante è la

presenza, nei tondi adrianei, di scene di sacrificio a diverse

divinità: essa indica che, al momento dell’erezione dell’arco

(315), il Senato romano riteneva la posizione di Costantino

ancora recuperabile al solco dell’antica tradizione. 111

109

Non abbiamo purtroppo potuto consultare VERSNEL H.S., Triumphus: an inquiry into the origin, development and

meaning of the Roman triumph, Leiden 1970.

110

In particolare su come le antiche tradizioni continuarono a condizionare anche la cerimonia dell’adventus cfr.

FRASCHETTI, La conversione, pp. 47 sgg.

111

Interessante quanto in proposito riporta FRASCHETTI, La conversione, pp. 76 sgg., ove si sostiene che la rottura

reale con la tradizione sia stata avvertita presso i Romani nel corso della celebrazione del ventennale del regno

43


Ma c’è dell’altro.

6.3. I busti degli imperatori nell’arco di Costantino ed i

quadrifornici romani di età costantiniana.

Tra le espressioni più interessanti della mutata concezione

della cerimonia trionfale, si possono citare i busti di imperatori,

ormai tanto consunti da essere quasi indistinguibili, che si

“affacciano” dai fornici laterali dell’arco di Costantino.

Si trattava certo di antichi imperatori i cui trionfi avevano

ricalcato il percorso simbolico e religioso della tradizionale

processione diretta al colle Capitolino; tuttavia, in epoca

costantiniana la loro presenza intendeva verosimilmente che

l’imperatore divinizzato, lungi dal dover oltrepassare “soglie già

aperte”, raccoglieva nella propria autorità e persona la grandezza

e le imprese memorabili dei propri predecessori; il valore e la

gloria dell’imperatore venivano così proiettatati in una

dimensione di assolutezza ed ubiquità.

costantiniano avvenuta nell’Urbe: «Al contrario, quegli stessi tentativi, volti a conciliare la lex sanctissima dei cristiani

con feste tradizionalmente e per eccellenza pagane come gli anniversari imperiali – appunto in quanto tentativi di una

vita cerimoniale diversa, futuro modello per gli imperatori cristiani del IV e V secolo - , dovettero apparire allora ai

pagani di Roma, alla sua plebs e al suo senato, dopo l’adventus del 312 e i decennali del 315, come il segno tangibile

di un mutamento e di una frattura che si erano ormai inevitabilmente consumati».

44


In conclusione, va osservato che la forma stessa dell’arco

costantiniano non riesce ancora a rendere completamente

l’ideologia dell’autocrate divinizzato propria del dominato. 112

È invece un’altra forma architettonica ben conosciuta nel

mondo romano, quella del quadifornice o tetrapilo (ossia arco a

quattro aperture) ad identificare pienamente il concetto

dell’imperatore toto orbe victor: i quattro fornici indicano

l’estendersi del suo potere assoluto nelle quattro direzioni dello

spazio. La concezione del trionfatore chiamato ad ascendere al

Campidoglio per “innalzarsi” verso la divinità si era infatti

mutata nella espressione “statica” del dominus che manifestava

l’espandersi del proprio potere sull’intero cosmo. 113

Gli archi di epoca costantiniana “di Giano” e di

Malborghetto (di cui rimangono solo resti) mostrano con

chiarezza il compiersi di questo processo ideologico.

112

La forma tradizionale dell’arco trionfale non deve ritenersi “superata” in assoluto: anche un arco non

necessariamente quadrifronte poteva ancora esprimere adeguatamente il senso simbolico di un “passaggio”, al pari della

cerimonia dell’adventus o altro.

113

Cfr. MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, nell’ampia prima parte dedicata all’adventus.

45


ORIENTAMENTI BIBLIOGRAFICI

INERENTI COSTANTINO IL GRANDE

di Ivan Pucci

Il presente contributo intende offrire un repertorio

bibliografico ragionato e commentato su Costantino il Grande e

su diverse questioni relative alla sua epoca: con la

consapevolezza di non poter essere esaustivo, ma con l’auspicio

di fornire un primo orientamento a chi voglia approfondire un

tema particolare legato a questo fondamentale personaggio della

storia umana.

Poiché chi si accosta alla figura storica di Costantino deve

scegliere tra fonti estremamente contrastanti (esemplificando con

i nomi più noti, tra il cristiano Eusebio di Cesarea e il pagano

Zosimo) sembra opportuno introdurre una breve rassegna delle

maggiori fonti primarie.

Le fonti.

Le fonti a nostra disposizione sul regno di Costantino sono

ricche e complesse: ma la Storia Ecclesiastica e la Vita di

Costantino di Eusebio di Cesarea costituiscono – nel bene e nel

male – la nostra principale fonte contemporanea.

La Storia Ecclesiastica, in dieci libri, fu probabilmente

iniziata prima dell’ultima persecuzione contro i cristiani (303) e

conclusa, dopo molti rimaneggiamenti, tra la disfatta di Licinio

(324) e la convocazione del concilio di Nicea (325). Ne esistono

diverse varianti in cui le posizioni di Licinio e Costantino

appaiono ridefinite: del primo viene ridotta l’imparzialità (o, a

seconda dei casi, il favore) verso il cristianesimo, del secondo

viene sottolineato il ruolo di campione della nuova fede.

Per il carattere estremamente tendenzioso, per le non poche

esagerazioni e distorsioni, molti hanno ritenuto che la Vita di

Costantino fosse stata composta tra la metà e la fine del IV

secolo da uno o più autori. Tuttavia, diversi elementi ne hanno

mostrato la piena compatibilità con lo stile di Eusebio, che la

scrisse tra il 325 e il 337. Piuttosto che di una biografia, si tratta

di un panegirico scritto per dimostrare che Costantino fu in ogni

suo atto il modello di imperatore cristiano, in cui l’unico impero

terreno e l’unico Dio cristiano avevano trovato la propria

inevitabile unità: un impero, un imperatore, un Dio.

La faziosità di Eusebio si misura non solo nel racconto di

alcuni episodi - come la visione prima della battaglia del Ponte

Milvio 114 o le simpatie cristiane di Costanzo Cloro – o nelle

114

Eusebio racconta questo episodio solo nella Vita di Costantino (I, 28), mentre è del tutto assente dalla narrazione

della battaglia fornita nella Storia Ecclesiastica (IX, 9).

46


omissioni di fatti non certo edificanti – come la condanna a

morte nel 326 di Crispo, riportata invece nella Storia

Ecclesiastica – ma in complesso nella descrizione di tutta

l’azione politica di Costantino, dalla campagna contro Licinio –

presentata come una guerra santa ante litteram – al suo ingresso

durante i lavori del concilio di Nicea.

La presenza nel testo di lettere ed editti imperiali

– presentati come trascrizioni di copie ufficiali, traduzioni di

originali latini o sintesi operate dall’ autore – non è di per sé

garanzia di imparzialità, poiché non possediamo una

documentazione parallela che ce ne consenta la verifica.

Per la figura di Eusebio e il suo rapporto con Costantino, si

vedano:

BARNES T.D., Constantine and Eusebius, Cambridge 1981.

GRANT R.M., Eusebius as Church Historian, Oxford 1980.

Sull’attribuzione ad Eusebio della Vita di Costantino, ci

sono due posizioni critiche. La prima, che nega la paternità

eusebiana, fa capo a H. Grégoire e a W. Seston:

CATAUDELLA M., La persecuzione di Licinio e l’autenticità

della Vita Constantini, in “Atheneum” 48 (1970), pp. 46 sgg. e

229 sgg.: ritiene falsa l’attribuzione a Licinio delle leggi contro i

cristiani.

GRÉGOIRE H., Nouvelles recherches constantiniennes, in

“Byzantion” 13 (1938), pp. 561 sgg.: assegna la paternità della

Vita ad un falsificatore, probabilmente ad Euzoio vescovo di

Cesarea alla fine del IV secolo.

GRÉGOIRE H., L’authenticité et l’historicité de la “Vita

Constantini” attribuée à Eusèbe de Césarée, in “Bulletin de

l’Académie Belgique” 39 (1953), pp. 462 sgg.

ORGELS P., A propos des erreurs historiques de la Vita

Constantini, in Mélanges Grégoire 4 (1953), pp. 575 sgg.

La seconda, prevalente, considera la Vita di Costantino autentica

in ogni sua parte:

ALAND K., Die religiöse Haltung Kaiser Konstantins, in

“Studia Patristica” 1 (1957), pp. 549 sgg.

HARNACK A., The Mission and Expansion of Christianity,

London (1904-1905), (ed. riv. 1908) in cui viene presa in

rassegna la documentazione contenuta nella Storia Ecclesiastica.

JONES A. H. M., Notes on the Genuineness of the Constantinian

Documents in Eusebius’ Life of Constantine, in “Journal of

Ecclesiastical History” 5 (1954), pp. 196 sgg.

MOREAU J, Zum Problem der Vita Constantini, in “Historia” 4

(1955), pp. 234 sgg.

47


PIGANIOL A., Sur quelques passages de la Vita Constantini, in

Mélanges Grégoire 2 (1950), pp. 513 sgg.

La Storia Ecclesiastica è stata tradotta in italiano da F.

Maspero e M. Ceva per l’editore Rusconi nel 1979; mentre è

possibile leggere la Vita di Costantino in italiano nell’edizione

curata da L. Tartaglia nel 1984 per i tipi della napoletana

D’Auria.

Un’altra fonte letteraria piuttosto parziale è il De mortibus

persecutorum (Sulle morti dei persecutori) di Lattanzio, scritto

fra l’estate del 314 e il dicembre del 315. Suo chiaro intento è

mostrare come Dio sia indiscutibilmente dalla parte dei cristiani,

pronto a punire atrocemente i nemici della vera fede (celeberrima

è la particolareggiata descrizione della morte di Galerio). L’opera

va considerata alla luce dell’esperienza personale di Lattanzio,

che molto dovette soffrire della persecuzione di Galerio. Un

importante studio su questo autore è dato da SOBY

CHRISTENSEN A., Lactantius the Historian. An Analysis of the

De mortibus persecutorum, Copenhagen 1980. Esistono diverse

traduzioni italiane del De mortibus persecutorum.

Sempre di ambito cristiano è la storia dello scisma donatista

scritta nel 365 da Ottato, vescovo di Milevis nell’Africa

settentrionale. Per i nostri fini, la parte più importante di

quest’opera è l’Appendice che riporta diverse documenti

imperiali, tra cui le lettere inviate da Costantino nell’arco di un

decennio per risolvere lo scisma. Esiste una traduzione italiana

dell’opera a cura di L. Dattrino, edita da Città Nuova nel 1988.

L’Origo Constantini imperatoris è una breve biografia di

Costantino, composta attorno alla fine del IV secolo da un autore

pagano, noto come Anonimo Valesiano, a cui sono state aggiunti

inaspettatamente passi della storia cristiana di Orosio.

Non molto aggiunge l’Historia adversus Paganos

dell’iberico Orosio che copre il periodo dalla creazione

dell’uomo al saccheggio vandalo di Roma (417). La traduzione

in italiano, sotto gli auspici della Fondazione Lorenzo Valla, è

stata curata da A. Bartalucci e G. Chiarini ed edita dalla

Mondadori nel 1976. Un buon approfondimento è offerto da

FABBRINI F., Paolo Orosio. Uno storico, Roma 1980.

Non si possono poi dimenticare i Panegyrici Latini n. VI

(databile al 307), n. VII (del 310), n. VIII (del 312), n. IX (del

313) e n. X (del 321). D’altro canto, non è possibile utilizzare

l’Historia Augusta, cioè la raccolta di biografie degli imperatori,

perché la sua composizione da parte di diversi anonimi si

48


interrompe a Diocleziano. Invece, vera e propria iattura è la

perdita dei primi tredici libri delle Res Gestae di Ammiano

Marcellino, che continuavano l’opera di Tacito, dal 96 d.C., e

arrivavano fino al 353. La parte sopravvissuta consiste nei libri

XIV-XXXI, relativi al periodo 354-378, fino alla disfatta di

Adrianopoli. Pur dichiarandosi greco, Ammiano scrive la sua

opera in latino, fra il 363 e il 390: da quanto ci è rimasto

intuiamo le sue idee conservatrici e pagane, tuttavia i suoi giudizi

non sono tendenziosi quanto quelli di Eusebio, tanto è vero che

criticò il provvedimento con cui l’imperatore Giuliano rimuoveva

i cristiani dall’insegnamento.

Ammiano non è tenero con Costantino, cui rimprovera

l’indirizzo accentratore e dirigista che impoveriva la funzione

socio-politica delle città, causandone il declino; un giudizio del

resto condiviso anche da autori pagani quali Eunapio e Zosimo.

Per una valutazione dell’opera storica di Ammiano Marcellino:

AUSTIN N.J.E., Ammianus on Warfare. An Investigation into

Ammianus’Military Knowledge, Bruxelles 1975.

BLOCKEY R.C., Ammianus Marcellinus. A study of his

Historiography and Political Thought, in “Coll. Latomus” 141

(1975), pp. 104-122.

CAMERON A.D.E., The Roman Friends of Ammianus, in

“Journal of Roman Studies” 54 (1964), pp. 15 sgg.

CAMUS P.M., Ammien Marcellin, Paris 1967.

MATTHEWS J., The Roman Empire of Ammianus, London

1989.

RIKE R.L., Apex Omnium: Religion in the Res Gestae of

Ammianus Marcellinus, Berkeley-Los Angeles, 1987 [trad. it.

Apex Omnium: religione nelle Res Gestae di Ammiano

Marcellino, Torino 1993].

ROSEN K., Ammianus Marcellinus, Darmstadt 1982.

SABBAH G., La méthode d’Ammien Marcellin, Paris 1978.

SEAGER R., Ammianus Marcellinus. Seven studies in his

Language and Thought, Columbia 1986.

SYME R., Ammianus and the Historia Augusta, Oxford 1968.

THOMPSON E.A., The Historical Work of Ammianus

Marcellinus, Cambridge 1947.

49


La principale fonte letteraria pagana di lingua greca è la

Storia Nuova di Zosimo, scritta alla fine del V o agli inizi del VI

secolo. Il racconto di Zosimo partiva dall’imperatore Augusto e

si arrestava al 410, al saccheggio di Roma da parte dei Visigoti,

basandosi sulla storia perduta di Eunapio di Sardi e su quella di

Olimpiodoro di Tebe. Se per gli aspetti religiosi dell’età di

Costantino dipendiamo maggiormente dagli scritti di Eusebio,

per quelli – per così dire – mondani la Storia Nuova di Zosimo è

senza dubbio essenziale, nonostante i molti pregiudizi,

naturalmente di segno opposto, nei confronti dell’imperatore.

Zosimo dà spazio perfino a ingenue forzature pur di

addebitare a Costantino tutte le sciagure che si abbatterono

sull’impero. Per comprendere la faziosità di Eusebio e di Zosimo

è sufficiente leggere quanto scrivono sulla fondazione di

Costantinopoli: il vescovo di Cesarea sostiene che la nuova città

era interamente cristiana e che al suo interno non c’era alcuno

spazio per gli dèi pagani e il loro culto. Zosimo, dal canto suo,

critica l’imperatore accusandolo di aver costruito edifici poco

solidi e di aver dilapidato tutte le sostanze dell’impero; egli

inoltre smentisce Eusebio, riferendo che nella “Nuova Roma”

furono eretti due templi pagani, uno dedicato alla dea Rea ed un

altro alla Fortuna.

Sull’esercito e sulla difesa dell’impero, Costantino fu

oggetto di infiammati rimproveri da parte degli autori pagani, in

particolar modo Zosimo (II, 34), che probabilmente mutuava

integralmente il biasimo espresso da Eunapio. Per i due storici

pagani, Diocleziano sarebbe il vero salvatore della patria, colui

che aveva rafforzato l’intero sistema di limes, dirottando ingenti

risorse per il potenziamento dell’esercito così da respingere gli

attacchi dei barbari; Costantino, invece, a loro dire, avrebbe

deliberatamente concesso ai barbari una via d’accesso all’impero

romano ormai priva di resistenza. Secondo Zosimo, Costantino

aveva allontanato le truppe dalle frontiere, trasferendole nelle

città più interne, dove i soldati si sarebbero rammolliti a contatto

con i teatri e con gli altri lussi cittadini, creando non pochi

problemi alla popolazione locale. È facile gioco per Zosimo

lamentarsi della presenza dei soldati nelle città dell’impero a

causa degli oneri che il loro sostentamento e mantenimento

comportava, oltre che per i problemi di ordine pubblico che i

singoli militari potevano causare.

D’altro canto, dalla documentazione epigrafica sappiamo

che già sotto Diocleziano l’esercito mobile si componeva di due

tipi di truppe: quelle stanziate ai confini (i limitanei) e le truppe

mobili (il comitatus) che si acquartieravano all’interno o nei

pressi delle città. Sotto Costantino questa suddivisione funzionale

perdurò, con la differenza che l’esercito mobile crebbe fino a

rappresentare oltre la metà degli effettivi delle forze armate

dell’impero. Del resto, spesso non è possibile attribuire con

certezza determinate misure e riforme a Diocleziano oppure a

Costantino. Infatti, molte decisioni amministrative erano state già

prese da Diocleziano: gli interventi di Costantino consistettero in

50


sviluppi o modifiche di quanto era stato avviato da Diocleziano

in una certa direzione. Costantino portò a termine

quell’evoluzione dell’ordinamento dello Stato che era già stata

avviata nelle sue linee fondamentali da Diocleziano.

Per quanti volessero accostarsi direttamente al testo di

Zosimo si consiglia la traduzione curata nel 1977 da F. Conca per

la casa editrice Rusconi; un ottimo approfondimento critico è

offerto da PASCHOUD F., Cinq études sur Zosime, Paris 1976.

La perdita delle opere di autori pagani contemporanei (o di

poco posteriori) al regno di Costantino è una vera iattura: tra esse

possiamo ricordare l’opera del pagano Prassagora (vissuto nel IV

secolo), di cui ci è rimasto solo qualche frammento, e la storia di

Eunapio di Sardi (349 circa - 404), che riferiva degli avvenimenti

compresi tra il 270 e il 404. Il lavoro di Eunapio è comunque

confluito nella Storia Nuova di Zosimo, mentre è controversa la

questione se Ammiano Marcellino abbia usato Eunapio o se sia

accaduto il contrario. Si veda: BALDINI A., Ricerche sulla

storia di Eunapio di Sardi. Problemi di storiografia

tardopagana, Bologna 1994.

Un’agevole panoramica delle fonti letterarie di questo

periodo è fornita da UDAL’COVA Z.V., Le monde vu par les

historiens byzantins du IV e au VII e siècle, in “Byzantinoslavica”

33 (1972), pp. 193-213.

3. Per uno sguardo d’insieme.

Lo studio delle fonti è imprescindibile nella ricerca storica,

ma non bisogna dimenticare di consultare anche opere d’insieme

in cui sia possibile fruire rapidamente delle conoscenze essenziali

e dei principali riferimenti bibliografici. Oltre ai più conosciuti

testi e manuali sulla storia bizantina, come quelli scritti da

Ostrogorsky, 115 Norwich, 116 Gallina 117 e Ronchey 118 o curati da

Maier 119 o da Ducellier, 120 bisogna ricordare quelli (non ancora

disponibili in italiano) scritti da H.-W. Haussing 121 e da A.

Christophilopoulou. 122

Inoltre, per l’argomento in esame possono risultare utili le

opere dedicate alla storia romana e all’età tardo antica. Tra esse è

possibile citare:

ALFÖDY G., The Social History of Rome, London 1985 [trad. it.

Storia sociale dell’antica Roma, Bologna 1987].

115

OSTROGORSKY G., Geschichte des Byzantinischen Staates, München 1963 [trad. it. Storia dell’impero bizantino,

Torino 1968].

116

NORWICH J.J., Bisanzio. Splendore e decadenza di un impero 330-1453, Milano 2000.

117

GALLINA M., Potere e società a Bisanzio. Dalla fondazione di Costantinopoli al 1204, Torino 1995.

118

RONCHEY S., Lo Stato bizantino, Torino 2002.

119

MAIER F. G., Byzanz, Frankfurt am Main 1973 [trad. it. L’Impero bizantino, Milano 1974].

120

DUCELLIER A. (a cura di), Byzance et le monde orthodoxe, Paris 1986 [trad. it. Bisanzio, Torino 1988].

121

HAUSSIG H. W., Byzantinische Geschichte, Kröner, Stuttgart 1969.

122

CHRISTOPHILOPOULOU A., Byzantine History, I. (324-610), II. (610-867), Amsterdam 1986-1993.

51


BESNIER M., L’Empire Romain de l’avènement des Sévéres au

Concile de Nicée, Paris 1937.

CAMERON A., The Later Roman Empire, London 1993 [trad. it.

Il tardo impero romano, Bologna 1995].

CARY M., A History of Rome down to the Reign of Constantine,

London 1982.

CLEMENTE G., Guida alla storia romana, Milano 1977.

COLLINS R., Early Medieval Europe 300-1000, London 1991.

DEMANDT A., Der Spätantike, Münich 1989.

GIARDINA A. (a cura di), Società romana e impero tardoantico,

4 voll., Roma-Bari 1986.

JONES A.H.M., The Later Roman Empire, 284-602. A Social,

Economic and Administrative Survey, Oxford 1964 [trad. it. Il

tardo impero romano, Milano 1973-1982].

LEVI M. A., L’impero romano, Torino 1971.

MACMULLEN R., Roman Government’s Response to Crisis,

AD 235-337, New Haven 1976.

MAZZARINO S., L’impero romano, 3 voll., Roma-Bari 1973

MILLAR F.G.B., The Emperor in the Roman World, London

1977.

IDEM., The Roman Empire and its Neighbours, London 1963

[trad. it. L’impero romano e i popoli limitrofi, Milano 1968].

PARKER H. M. O., Roman World from 138 to 337 A.D.,

Glasgow 1976.

PETIT P., Histoire génerale de l’empire romain, Paris 1974.

PIGANIOL A., L’empire chrétien (325-395), Paris 1947.

RÉMONDON R., La crise de l’Empire romain de Marc Aurèle à

Anastase, Paris 1964 [trad. it. La crisi dell’impero romano,

Milano 1975].

STEIN E., Histoire du Bas-Empire, 2 voll., Paris-Bruxelles-

Amsterdam 1949-1959.

52


4. Costantino il Grande e la sua età.

Le fonti e gli scopi con cui sono state create hanno

inevitabilmente influenzato i giudizi degli storici moderni; nel

caso di Costantino il Grande i motivi di riflessione, di polemica o

di esaltazione si sono ulteriormente arricchiti e complicati grazie

alla prospettiva storica che il passare dei secoli ha consegnato a

noi posteri. Così si va da posizioni sostanzialmente allineate al

pensiero di Zosimo e Ammiano, come quella di Edward Gibbon,

(l’adesione di Costantino al cristianesimo favorì il già esistente

processo di declino con l’abbandono dei valori romani più

antichi) all’idea che Costantino fosse in realtà un politico

purosangue spregiudicato persino nel campo religioso, come

voleva Jacob Burckhardt. Altri, poi, hanno posto l’accento sugli

elementi di rottura della figura e della politica costantiniane. Ne è

un esempio Santo Mazzarino che nel suo L’impero romano

scrisse: «Costantino è il più violento rivoluzionario della storia

romana: egli ha avuto il coraggio di spezzare con i vecchi

schemi, e di accettare senza grandi compromessi il portato

dell’enorme trasformazione che si era compiuta nell’impero. La

sua rivoluzione religiosa è parallela alla sua rivoluzione

economico-sociale e alla trasformazione degli ordinamenti

militari». Naturalmente, contrapposta a questa opinione, c’è

quella di chi si sofferma sugli elementi di continuità, facendo di

Costantino un figlio del suo tempo (cfr. Peter Brown). In ogni

caso, la cristianizzazione e le profonde ripercussioni determinate

dall’adesione di Costantino al cristianesimo sull’impero e sul

tessuto sociale costituiscono uno degli elementi che differenziano

la tarda antichità dall’antichità propriamente detta.

Qui di seguito elenchiamo i maggiori contributi sulla figura

di Costantino, molti di essi sono vere e proprie monografie:

AIELLO V., Costantino il Grande. Dall’antichità

all’umanesimo, Atti del Convegno Internazionale, Macerata, 18-

20 dicembre 1990.

BAKER G.P., Constantine the Great and the Christian

Revolution, New Haven 2001.

BARNES T. D., The New Empire of Diocletian and Constantine,

Cambridge USA 1981.

IDEM, Constantine: History, Historiography, and Legend,

London 1998.

BRUUN P., Studies in Constantinian Chronology, New York

1961.

BOWDER D., The Age of Constantine and Julian, London 1978.

53


BURCKHARDT J., Die Zeit Constantins des Grossen, Bassel

1853 [trad. it. L’età di Costantino, Firenze 1990].

CHASTAGNOL A., L’évolution politique, sociale et économique

du mond romain de Dioclétien à Julien (284-363), Paris 1982.

DÖLGER F. J., Konstantin der Grosse und seine Zeit, Freiburg

1913.

DOERRIES H., Konstantin der Grosse, Stuttgart 1958.

FIRTH J. B., Constantine The Great, New York 1901, (2 a ed.

1923).

GRANT M., Constantine The Great. The Man and His Times,

New York 1993.

HÖHN K., Konstantin der Grosse, Leipzig 1945.

HORST E., Costantino il Grande, Milano 1987.

KOUSOULAS D. G., The Life and Times of Constantine the

Great: The First Christian Emperor, Boston 1997.

MACMULLEN R., Constantine, London 1970.

MAZZARINO S., Antico, tardoantico ed era costantiniana, Bari

1974.

PIGANIOL A., L’empereur Constantin, Paris 1932.

VOEKL L., Der Kaiser Konstantin. Annalen einer Zeitenwende

306-337, München 1957.

VOGT J., Konstantin der Grosse und sein Jahrhundert, München

1949, (2 a ed. 1960).

VON SIMON D., Konstantinisches Kaiserrecht, Frankfurt 1977.

5. Costantino, il Cristianesimo e la sua politica religiosa.

Con Costantino ha inizio de facto la cristianizzazione

dell’impero, completata de iure da Teodosio. Molti tuttavia, sulla

scorta dell’affascinante tesi di Jacob Burckhardt poc’anzi citata,

hanno creduto Costantino un politico sostanzialmente alieno da

preoccupazioni morali e religiose, che aveva riconosciuto il

cristianesimo solo per freddo calcolo, nella convinzione che la

54


nuova fede potesse dare un utile fermento spirituale alla

riedificazione dell’impero.

Oggi questa tesi non pare più sostenibile, poiché molti

indizi riconoscerebbero infatti in Costantino una genuina

disposizione religiosa.

Ottimi testi di riferimento per approfondire la questione

sono:

ALFÖLDI A., The Conversion of Constantine and Pagan Rome,

Oxford 1948 [trad. it Costantino tra paganesimo e cristianesimo,

Roma-Bari 1976].

AMSTRONG A., The Way and the Ways: Religious Tolerance

and Intolerance in the Fourth Century, in “Vigiliae Christianae”

1984, pp. 1 sgg.

BAYNES N. H., Constantine the Great and the Christian

Church, Cambridge 1930, (2 a ed. 1972).

BEATRICE P. F., L’intolleranza cristiana nei confronti dei

pagani: un problema storiografico, in “Cristianesimo nella

storia” 11 (1990), pp. 441-47.

BREZZI P., Dalle persecuzioni alla pace di Costantino, Roma

1960.

BRISSON J. P., Autonomisme et donatisme dans l’Afrique

romaine de Septime Sévère à l’invasion vandale, Paris 1958.

BROWN P., The World of Late Antiquity. From Marcus Aurelius

to Muhammad, London 1971 [trad. it. Il mondo tardo antico. Da

Marco Aurelio a Maometto, Torino 1974]: si legga in particolare

il secondo capitolo dedicato alla religione.

CALDERONE S., Costantino e il cattolicesimo, Firenze 1962.

CAMERON A., Christianity and the Rhetoric of Empire,

Berkeley-Los Angeles 1991.

CRACCO RUGGINI L., “De morte persecutorum” e polemica

antibarbarica nella storiografia pagana e cristiana, in “Rivista

di storia e letteratura religiosa” 4 (1968), pp. 433-47.

DE GIOVANNI. L., Costantino e il mondo pagano, Napoli 1982.

DODDS E. R., Pagans and Christians in an Age of Anxiety,

Cambridge 1965 [trad. it. Pagani e cristiani in un’epoca

d’angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a

Costantino, Firenze 1976].

55


DORRIES H., Constantine and Religious Liberty, New Haven

1960.

DUCELLIER A., L’église bizantine entre pouvoir et esprit (313-

1204), Paris 1990: sull’evoluzione dei rapporti tra Chiesa e

potere politico. È corredato da un’ampia antologia di fonti e

documenti tradotti.

FOX R. L, Pagans and Christians, London 1986 [trad. it. Pagani

e cristiani, Roma-Bari 1991]: i capitoli II e III sono

particolarmente interessanti perché ricostruiscono il passaggio

dal mondo religioso pagano a quello cristiano all’interno della

religiosità civica delle città ellenistiche secondo una prospettiva

opposta a quella tradizionalmente seguita, di cui E. R. Dodds è

uno dei maggiori esponenti.

GAUDEMET J., L’église dans l’empire romani IV e -V e siècles,

Paris 1958.

GEEFCKEN J., Der Ausgang des Griechisch-Römischen

Heidentums, Heidelberg 1920: sul clima intellettuale e religioso

dell’età costantiniana.

GREENSLADE S. L., Church and State from Constantine to

Theodosius, London 1954.

HUSSEY J. M, The Orthodox Church in the Bizantine Empire,

Oxford 1986.

JONES A. H. M., Constantine and the Conversion of Europe,

London 1948.

MARKUS R., Christianity in the Roman World, London 1974.

IDEM, The End of Ancient Christianity, Cambridge 1991.

MaC MULLEN R., Christianizing the Roman Empire A.D. 100-

400, New Haven Connecticut 1984 [trad. it. La diffusione del

Cristianesimo nell’Impero romano (100-400), Roma-Bari 1989]:

ha posizioni abbastanza scettiche.

IDEM, What difference did Christianity make?, in “Historia” 35

(1986), pp. 322-43.

MOMIGLIANO A. (a cura di), The Conflict between Paganism

and Christianity in the Fourth Century, Oxford 1963 [trad. it. Il

conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino

1968]: comprende otto saggi utili alla comprensione di come si

sia affermato il cristianesimo, nonostante l’opposizione di una

ristretta ma agguerrita élite aristocratica.

56


NOCK A. D., Conversion, Oxford 1933 [trad. it. La conversione.

Società e religione nel mondo antico, Roma-Bari 1974]: descrive

il diffondersi e la portata sociale dei nuovi culti nell’impero

romano.

PIGANIOL A., L’empire chrétien (325-395), Paris 1947.

SCHWARTZ E., Kaiser Konstantin und die Christliche Kirche,

Leipzig 1936.

SORDI M., Il Cristianesimo e Roma, Bologna 1965.

EADEM, I cristiani e l’impero romano, Milano, 1990.

Se si intende studiare la politica religiosa costantiniana

attraverso le emissioni monetali di grande aiuto saranno

l’introduzione e i capitoli II e III del secondo volume di

MAURICE J., Numismatique constantinienne, Paris 1908.

6. In hoc signo vinces.

La battaglia del ponte Milvio del 28 ottobre 312 è passata

alla storia come il momento della rivelazione del favore divino

nei confronti di Costantino. Il quale Costantino, secondo le fonti,

già da qualche anno era convinto di essere sotto la tutela del Dio

cristiano:

CECCHELLI C., Il trionfo della croce, Roma 1954.

GALLETIER E., La mort de Maximien d’après le panégyrique

de 310 et la vision de Constantin au temple d’Apollon, in “Revue

d’Études Anciennes” 52 (1950), pp. 288 sgg.: è convinto che la

prima visione del crisma da parte di Costantino sia avvenuta a

Grand.

HATT J. J., La vision de Constantin au sanctuaire de Grand et

l’origine celtique du labarum, in “Latomus” 9 (1950), pp. 427

sgg.

MOREAU J., Sur la vision de Constantin (312), in “Revue

d’Études Anciennes” 55 (1953), pp. 307 sgg.: il segno del crisma

è riportato alla stella a sei braccia, emblema della divinità

suprema.

ORGELS P., La première vision de Constantine (310) et le

temple d’Apollon à Nîmes, in “Bull. Acad. Belg.” 35 (1948), pp.

176 sgg.: collega la visione del Sol Invictus, identificato con

Apollo, alla costruzione del tempio di Nîmes, in Francia.

57


RODGERS B. S., Constantine’s Pagan Vision, in “Byzantion”

50 (1980), pp. 259 sgg.: riflessione sulle suggestioni classiche e

pagane che dovettero impressionare Costantino.

SESTON W., La vision païenne de 310 et les origines du chrisme

constantinien, in “Ann. Inst. Philol. Hist. Or.” 4 (1936), pp. 373

sgg.: sostiene che sia soltanto un topos puramente letterario.

7. Le battaglie che condussero alla vittoria finale.

ALFÖLDI M.R.– KIENAST D., Zu P. Bruuns Datierung der

Schlacht an der Milvischen Brücke, in “Jahrb. Num. Geldgesch.”

11 (1961), pp. 33-41: preferiscono la data tradizionale del 312

per la battaglia del Ponte Milvio.

BRUUN P., The Battle of the Milvian Bridge. The Date

Reconsidered, in “Hermes” 88 (1960), pp. 361 sgg.: riferisce la

battaglia del Ponte Milvio all’anno 311.

IDEM, Portrait of a Cospirator. Constantine’s Break with the

Tetrarchy, in “Arctos” 10 (1976), pp. 5 sgg.: spiega l’apporto dei

dati numismatici alla conoscenza della lotta condotta da

Costantino per conquistare il potere assoluto.

COSTA G., La battaglia di Costantino a Ponte Milvio, in

“Bilychnis” 2 (1913), pp. 197 sgg.

LEVI M.E., La campagna di Costantino nell’Italia settentrionale

(a. 312), in “Boll. St.-Bibl. Supalp.” 36 (1934), pp. 1 sgg.: si

concentra sulla battaglia allo sbocco della valle di Susa, nei

pressi di Torino del 312.

8. L’editto di Milano.

Non ci è stato tramandato il testo dell’editto di Milano e per

questo motivo alcuni storici ritengono che esso non sia mai stato

emanato. Infatti, possediamo a riguardo solo due lettere

conservate da Lattanzio nel De mortibus persecutorum (XLVIII)

e da Eusebio nella Storia Ecclesiastica (X, 5): dirette una al

governatore della Bitinia, l’altra a quello della Palestina, quasi

uguali fra loro.

ADRIANI M., La storicità dell’editto di Milano, in “Studi

Romani” 2 (1954), pp. 18 sgg.: crede nell’esistenza dell’editto e

tenta addirittura una ricostruzione del testo.

ANASTOS M., The Edict of Milan (313). A Defence of Its

Traditional Autorship and Designation, in “Revue des Études

Byzantines” 25 (1967), pp. 13 sgg.: disquisisce sull’editto del

313 e propende per la sua esistenza.

58


CHRISTENSEN T., The So-called Edict of Milan, in “Classica et

Medievalia” 35 (1984), pp. 129-75.

JOANNOU P. P., La législation impériale t la christianisation de

l’empire romain (311-476), in “̒̒̒̒Orientalia Christiana

Analecta” 192 (1972), (rist. 1979).

LOMBARDI G., L’editto di Milano del 313 e la laicità dello

Stato, in “Studia et Documenta Historiae et Juris” 50 (1984), pp.

1-98.

PALANQUE J. R., À propos du prétendu édit de Milan, in

“Byzantion” 10 (1953), pp. 607 sgg.

9. Costantino e la gerarchia ecclesiastica.

SESTON W., Constantine as a “Bishop”, in “Journal of Roman

Studies” 37 (1947), pp. 127 sgg.: si concentra sull’espressione

“vescovo di quanti sono fuori della chiesa” con cui Costantino,

secondo Eusebio nella Vita di Costantino (VI, 24), avrebbe

designato se stesso, e la confronta con le diverse traduzioni date

del testo greco e ne conclude che essa non appartiene ad Eusebio

ed anzi sospetta dell’autenticità della Vita.

BARNES T. D, Emperors and Bishops. A.D. 324-344. Some

Problems, in “American Journal of Ancient History” 3 (1978),

pp. 53 sgg.

DE DECKER D.– DEPUIS-MASAY G., L’“épiscopat” de

l’empereur Constantin, in “Byzantion” 50 (1980), pp. 118 sgg.

DE WRIES W., Orient et Occident. Les structures ecclésiales

vues dans l’histoire des sept premiers conciles œcuméniques,

Paris 1974.

DRAKE H. A., Constantine and the Bishops: The Politics of

Intolerance, New York 2002.

DUDLEY D., History of the First Council of Nice: A World's

Christian Convention A.D. 325 With a Life of Constantine, New

York 1992.

10. Costantinopoli, Nuova Roma.

Giudicare dello spirito col quale fu fondata Costantinopoli

significa prendere posizione sul complesso problema della

conversione di Costantino e sulle ragioni che lo spinsero a

spostare il baricentro dell’impero verso Oriente.

ALFÖLDI A., On the Fundation of Constantinople. A Few

Notes, in “Journal of Roman Studies” 37 (1947), pp. 10 sgg.

59


IDEM, The Conversion of Constantine and Pagan Rome, Oxford

1948 [trad. it. Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Roma-

Bari 1976]: Costantino non fu spinto a fondare Costantinopoli da

motivi strategici, ma ebbe il desiderio di fondare una capitale

cristiana.

BECATTI G. – DEICHMANN F. W., voce Costantinopoli, in

Enciclopedia dell’Arte Antica II, Roma 1959, pp. 880-918.

BECK H.G., Großstadt-Probleme: Konstantinopel vom 4.-6. Jht.,

in IDEM (a cura di), Studien zur Frühgeschichte

Konstantinopels, München 1973.

IDEM, Constantinople: The Rise of a New Capital in East, in

WEITZMANN K. (a cura di), Age of Spirituality: A Symposium,

New York 1980, pp. 29-37.

CEAUSESCU P., Altera Roma. Histoire d’une folie politique, in

“Historia” 25 (1976), pp. 79 sgg.: illustra i precedenti tentativi di

fondare una seconda Roma in Oriente, preferibilmente ad

Alessandria, dove trasferire la capitale dell’impero.

CRACCO RUGGINI L., Il paganesimo romano tra religione e

politica (384-394 d.C.): per una reinterpretazione del Carmen

contra paganos, in “Memorie della Accademia Nazionale dei

Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche”, serie

VIII, 23 (1979): contributo chiarificatore sulle cerimonie di

fondazione della Nuova Roma.

DAGRON G., Naissance d’une capitale. Constantinople et ses

institutions de 330 à 451, Paris 1974 [trad. it. Costantinopoli.

Nascita di una capitale (330-451), Torino 1991].

IDEM, Rome et l’Italie vues de Byzance (IV e -VII e siècles), in

Bisanzio, Roma e l’Italia nell’alto medioevo (3-9 aprile 1986,

CISAM, XXXIV Settimana), Spoleto 1988, pp. 43-64.

DÉCARREAUX J., Byzance ou l’autre Rome, Paris 1982.

DÖLGER F. J., Rom in der Gedankenwelt der Byzantiner, in

IDEM, Byzanz und die Europäische Staatenwelt, Ettal 1953, pp.

70-115.

EBERSOLT J. – THIERS A., Les églises de Constantinople, 2

voll., Paris 1913.

HAMPL F., Die Gründung von Konstantinopel, in “Südost-

Forschungen” 14 (1955), pp. 9 sgg.

60


HUTTON W. H., Constantinople : the story of the old capital of

the empire, London 1914.

KRAUTHEIMER R., Three Christian Capitals. Topography and

Politics, Berkeley - Los Angeles - London 1983 [trad. it. Tre

capitali cristiane. Topografia e politica, Torino 1987].

JANIN R., Constantinople byzantine, Paris 1950.

MANGO C., Le développement urbain de Constantinople (IV e -

VII e siècles), Paris 1984.

MENGOZZI B. (a cura di), Roma - Costantinopoli - Mosca. Da

Roma alla Terza Roma. Documenti e Studi, Napoli, 21-23 aprile

1983: si leggano in particolare i contributi di E. Follieri, J.

Irmscher, L. Cracco Ruggini, V. Monachino, D. Stiernon, M.

Mazza, G. Dagron e H. Ahrweiler.

SCHMIDT T. M., Konstantinopolis. Zum Städtebaulichen

Programm des Zweiten Rom, in “Wissensch. Zeitschrift Jena” 30

(1981), pp. 431 sgg.

SCHULTZE V., Altchristliche Städte und Landschaften, I,

Konstantinopel, Leipzig 1913.

VAN MILLINGEN A., Constantinople, London 1906.

IDEM., Byzantine Churches in Constantinople: their history and

architecture, London 1974.

11. L’ideologia politica dell’impero cristiano.

L’adesione di Costantino alla fede cristiana determina un

mutamento nell’ideologia politica imperiale; un processo non

certo istantaneo, dato il carico e il prestigio della tradizione a

confronto della comunità cristiana, ancora numericamente poco

rilevante. Lo stesso Costantino mantenne un atteggiamento

– vuoi per ragioni personali, vuoi per opportunismo politico –

sincretistico. È vero che Costantino amava presentarsi come

“tredicesimo apostolo” o come “vescovo di coloro che sono al di

fuori della Chiesa”, ma non è possibile pensare che egli

scientemente ponesse le basi del legame indissolubile (per la

mentalità bizantina) di stato e Chiesa, secondo il paradigma del

cesaropapismo. Per approfondire questi aspetti e i successivi

sviluppi si consigliano:

AHRWEILER A., L’idéologie politique de l’Empire byzantin,

Paris 1975.

61


BARKER E., From Alexander to Constantine, Oxford 1956: per

la storia delle idee politiche e sociali dall’antichità fino

all’avvento del cristianesimo.

IDEM, L’impero romano ed altri saggi, Bari 1959: illustra l’idea

della sovranità da Augusto a Costantino.

DVORNIK F., Early Christian and Byzantine Political

Philosophy, in “Dumbarton Oaks Studies” 2 (1966), pp. 634-35.

FARINA R., L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di

Cesarea. La prima teologia politica del cristianesimo, Zürich

1966.

HALSBERGHE G. H., The Cult of Sol Invictus, Leiden 1972.

HUNGER H. (a cura di), Das Byzantinische Herrscherbild,

Darmstadt 1975.

MaC CORMICK M., Eternal Victory. Triumphal Rulership in

Late Antiquity, Byzantium and Early Medieval West, Cambridge

1986 [trad. it. Vittoria eterna. Sovranità trionfale nella tarda

antichità a Bisanzio e nell’Occidente altomedievale, Milano

1993].

PERTUSI A., Il pensiero politico bizantino, Bologna 1990.

RUNCIMAN S., The Byzantine Theocracy, Cambridge 1977

[trad. it. La teocrazia bizantina, Firenze 1988].

SANSTERRE J. M., Eusèbe de Césarée et la naissance de la

théorie “césaropapiste”, in “Byzantion” 42 (1972), pp. 131-95 e

532-93.

12. L’organizzazione dello stato romano sotto Costantino.

ARNHEIM M. T. W., The Senatorial Aristocracy in the Later

Roman Empire, Oxford 1972.

BAYNES N.H., Three Notes on the Reforms of Diocletian and

Constantine, in “Journal of Roman Studies” 15 (1925), pp. 195

sgg .

CHASTAGNOL A., La préfecture urbaine à Rome sous le Bas-

Empire, Paris 1960.

IDEM., Les fastes de la préfecture de Rome au le Bas-Empire,

Paris 1962.

62


IDEM, Remarques sur le sénateurs orientaux au IV e siècle, in

“Acta Ant. Hung.” 24 (1976), pp. 341 sgg.

CORCORAN S., The Empire of the Tetrarchs: Imperial

Pronouncements & Government, A.D. 284-324, Oxford 1996.

DUPONT C., Constantin et les diocèses, in Studi in memoria di

G. Donatuti, Milano 1973.

HEIL W., Der Konstantinische Patriziat, Basel 1966.

NOVAK D. M., Constantine and the Senate, in “Anc. Soc.” 10

(1979), pp. 271 sgg.: sulla modesta resistenza trovata da

Costantino in ambito senatorio.

PALANQUE J. R., Essai sur la prefecture du prétoire du Bas-

Empire, Paris 1933: fissa il passaggio della prefettura del pretorio

da presentale a regionale intorno al 325, con la creazione di

grandi prefetture, entità territoriali, giuridicamente ben definite,

poste sotto l’autorità di un prefetto del pretorio rappresentante, in

tutta la sua interezza, del potere centrale.

IDEM, Les préfets du prétoire de Constantin, in “Ann. Philol.

Hist. Or.” 10 (1950), pp. 483 sgg.

IDEM, Les préfets du prétoire sous les fils de Constantin, in

“Historia” 4 (1955), p. 257 sgg.

SINNIGEN W. G., The Officium of the Urban Prefecture during

the Later Roman Empire, Accademia Americana, Roma 1957.

ZAKRZEWSKY C., Le consistoire impérial du Bas-Empire

romain, in “Eos” 31 (1928), pp. 405 sgg.

13. L’esercito e le riforme militari di Costantino.

MISCHER E., The Army Reforms of Diocletian and Constantine,

in “Journal of Roman Studies” 13 (1923), pp. 1 sgg.: a suo

avviso, Costantino avrebbe raddoppiato l’organico dell’esercito

romano, portando le legioni da 34 a 68.

PARKER H. D. M., The Legions of Diocletian and Constantine,

in “Journal of Roman Studies” 23 (1933), pp. 175 sgg.

SESTON W., Du “comitatus” de Dioclétien aux “comitatenses”

de Constantin, in “Historia” 4 (1955), pp. 248 sgg.: dimostra che

già sotto Diocleziano esisteva una forza di riserva ed una di

campagna.

63


VAN BERCHEM D., L’armée de Dioclétien et la riforme

constantinienne, Paris 1952: nega l’attribuzione a Diocleziano di

numerose riforme che invece i più fanno risalire a lui,

attribuendole all’età costantiniana: ad esempio, a Costantino è

attribuita l’istituzione dei comitatenses.

14. Il tessuto sociale e il quadro economico sotto il regno di

Costantino.

AMARELLI F., Vetustas-Innovatio. Un’antitesi apparente nella

legislazione di Costantino, Napoli 1978.

CHASTAGNOL A., À propos de quinquennalia de Constantin,

in “Revue Numismatique” 22 (1980), pp. 106 sgg.: afferma che il

solido fu creato nella primavera del 310.

DUPONT C., La réglementation économique dans les

constitutions de Constantin, Lilla 1963: sull’aspetto economico

della legislazione di Costantino.

GANGHOFFER R., L’évolution des institutions municipales en

Occident et en Orient au Bas-Empire, Paris 1963: di notevole

interesse per comprendere l’organizzazione municipale delle città

del basso impero.

GRUBBS J. E., Law and Family in Late Antiquity: The Emperor

Constantine's Marriage Legislation, Oxford 1995.

HENDY, Studies in the Byzantine Monetary Economy, c. 300-

1450, Cambridge 1985: poderosa e magistrale sintesi su tutti gli

aspetti della politica finanziaria ed economica dell’impero

bizantino.

LEMERLE P., The Agrarian History of Byzantium from the

Origins to the Twelfth Century. The Sources and the Problems,

Galway 1979.

MAZZARINO S., Aspetti sociali del quarto secolo, Roma 1951.

PALLASSE P., Orient et Occident. À propos du colonat romain

au Bas-Empire, Lion 1950: sui rapporti giuridici in relazione al

possesso della terra.

PATLAGEAN E., Pauvreté économique et pauvreté sociale à

Byzance, 4 e -7 e siècle, Paris-La Haye 1977: si tratta di una storia

economica e sociale dell’impero vista attraverso la condizione

dei suoi ceti popolari in una prospettiva di antropologia storica.

PIGANIOL A., Le problème de l’or au IV e siècle, in “Annales

d’Histoire sociale” 7 (1945), pp. 47-53.

64


IDEM, La fiscalité du Bas-Empire, in “Journal des

Savants”, Paris 1946, pp. 128-39.

IDEM, L’économie dirigée dans l’Empire romain au IV e siècle,

in “Scientia” 21 (1947).

PUGLISI A., Servi, coloni, veterani e la terra in alcuni testi di

Costantino, in “Labeo” 23 (1977), pp. 305 sgg.

65


I CIECHINI DI MONTECATINI

VAL DI CECINA 123

di Antonio Palesati e Nicoletta Lepri

Montecatini è un ameno borgo delle colline metallifere

toscane affacciato sulla val di Cecina, presso Volterra e in

provincia di Pisa, noto oggi per aver dato il nome e la prima

sede alla società Montecatini, che organizzò industrialmente la

trasformazione dei prodotti dell’attività mineraria della zona. Il

luogo era conosciuto infatti sin dall’antichità, come attestano

frammenti lapidei di età augustea, specialmente per le sue

miniere di allume, argento e rame.

Nella parrocchiale del paese, due figure di serventi di circa

ottanta centimetri di altezza, di marmo bianco venato di

marrone, sono poste alla sommità di colonne, ai lati del

presbiterio (figg. 1-3).

figura 1

123

Il testo di questo articolo è comprensivo delle notizie pubblicate da chi scrive in una delle schede critiche del volume

Montecatini Val di Cecina. Arte e Storia, Pomarance 2003, pp. 54-59. Le foto nn. 1-3 sono di Silvano Donati; la n. 4 è

del K.I.F.

66


Una scheda relativa a queste opere, emessa dalla

Soprintendenza nel 1914 e conservata in copia nell’archivio

parrocchiale, dice che «tengono gli occhi atteggiati in modo da

sembrar chiusi per cecità, onde il volgo li suole chiamare i

ciechini». 124 E li descrive come «due angioli di grandezza oltre

la metà del vero che sorreggono due vasi destinati ad uso di

candelabri»: 125 a prova del fatto che, quando la relazione fu

redatta, ciascuna scultura conservava le ali asportabili

agganciate alle due coppie di ganci di ferro ancora visibili,

fermati da malta in fessure longitudinali sulla schiena.

All’altezza delle scapole sono visibili le due sezioni rettangolari

aperte nel corpo marmoreo per far posto ai tasselli; ma è

impossibile stabilire se ciò facesse parte di un primo

riadattamento o se invece si tratti di un ulteriore intervento, che

dovette riguardare la sostituzione di sagome di ali nel frattempo

deterioratesi.

Dovevano essere presenti anche aureole in metallo, o in

alabastro; o in legno, sul tipo di quella che oggi si vede

appoggiata al capo del reggicandelabro a destra. Le due statue,

secondo il testo novecentesco, sono «lavori ispirati allo stile

proprio di maestri toscani del XV secolo, ma sono di fattura

alquanto rozza, il sentimento è reso in modo insufficiente, tanto

da farcele considerare opera di qualche artista arretrato che

lavorava nella prima metà del XVI secolo».

figura 2

In effetti, il pagamento per la consegna delle due statue

portacero appare, nei quaderni dell’Opera di S. Biagio, ripartito

124

COSTAGLI G., La chiesa e il territorio di Montecatini Val di Cecina fino al secolo XVII (= COSTAGLI, La chiesa

e il territorio), relazione al convegno La chiesa di Montecatini val di Cecina fino al secolo XVII, Montecatini, 12

settembre 1999, p. 56. Per lo studio dell’iscrizione romana cfr. MUNZI M. –TERRENATO N., La colonia di Volterra.

La prima attestazione epigrafica ed il quadro storico e archeologico, in “Ostraka” 1 (1994).

125

COSTAGLI, La chiesa e il territorio, p. 56.

67


in due rate, nel biennio 1577-78, per un importo complessivo di

125 lire. 126 I documenti riferiscono il nome di un artefice,

«Agostino di Giovanni Maghetti marmaio» maestro di

sconosciuta rilevanza locale, in relazione al quale il prezzo

pagato appare ingente. A meno che, come pare più probabile,

l’artigiano non si fosse limitato ad adattare alla forma e alla

funzione di angeli portacero due opere preesistenti, tenendo

parzialmente conto anche del valore antiquario di esse.

Un’analisi del marmo e l’identificazione delle cave d’origine

potrebbero offrire notizie determinanti per la valutazione delle

sculture.

I modi tuttavia, seppur confusi dai rifacimenti e dagli

aggiustamenti, paiono riconducibili alla statuaria di età postaugustea,

a cui rimandano in particolare le capigliature, la

composizione e l’espressione del volto, con il collo largo, il

naso leggermente aquilino, il sottomento pieno e arrotondato; e

il sorriso incerto e ieratico, che suggerisce commistioni con le

modalità artistiche del Mediterraneo orientale, derivanti da

remote tradizioni mesopotamiche. Come le inserzioni di pasta

vitrea in certi antichi manufatti di metallo prezioso, collocate

allo scopo di catturare riflessi di luce che fingessero vivo

l’oggetto.

.

figura 3

Sulle piatte pupille sporgenti e apparentemente mal

terminate delle statue di Montecatini erano probabilmente posti,

in una ricerca di effetto estranea alla scultura di età

repubblicana, dischetti di vetro o di metallo, levigati a specchio

per riflettere la fiamma dell’olio che doveva bruciare in bacili

sostenuti dai piedistalli esagonali, oggi tronche e poco

convincenti basi per i ceri tra le mani delle due figure di marmo.

126 La notizia è fornita da FALORMI A, Montecatini Val di Cecina…, cit., p. 37.

68


La tipizzazione dei profili molto richiama i tratti della testa

colossale di Costantino il grande conservata ai Musei Capitolini

romani, o quelli che del medesimo imperatore furono tramandati

nel conio del multiplo d’oro oggi custodito al Cabinet des

Medailles della Bibliothèque Nationale de France, a Parigi (fig.

4).

figura 4

Sappiamo in realtà che l’immagine storica vi appariva

elaborata in ossequio a un tipo di massima dignità estetica

rispetto allo status imperiale, dove i caratteri personali («la

fronte dritta, il naso aquilino, il mento rotondo e leggermente

prominente, la bocca ben disegnata e l’espressione calma») 127

conoscono alternativamente ricostruzioni massicce e severe,

come accade nelle monete emesse per l’inaugurazione di

Costantinopoli, oppure un affinamento idealistico che risente di

processi di sintesi iconica avviati in tarda epoca repubblicana e

resi poi canonici dai ritratti di Augusto, proporzionati e sereni

secondo la descrizione datane da Svetonio. L’epidermide

levigata e le ciocche a fiammella della capigliatura sulla nuca

risalivano addirittura alla tradizione greca. 128 Possiamo dunque

in sostanza considerare che i lineamenti di Costantino restituiti

dalla statuaria del suo tempo fossero nel loro insieme sintetizzati

prima dell’esistenza di Costantino stesso.

Renato Barilli ha illustrato recentemente, in una serie di

lezioni tenute presso l’ateneo bolognese, 129 i criteri culturali ed

estetici in base ai quali opere scultoree della romanità vennero

assunte in riadattamenti rinascimentali; al tempo in cui, fra

l’altro, le tipologie del volto ideale sono rappresentate nel

ritratto di profilo altrettanto spesso che nella numismatica

antica, combinando efficacemente «il massimo di astrazione

127

FACCENNA D., Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, 6 voll., Roma 1959, II, p. 874.

128

Cfr. FELLETTI MAJ B.M., Enciclopedia dell’arte…, cit., I, p. 918.

129

Cfr. BARILLI R., Percorso della scultura dall’età tardo-romana al romanico e al gotico, Bologna 2003.

69


calligrafica con le esigenze dell’immediata riconoscibilità». 130

Ma se i sandali alla romana come quelli indossati dai Ciechini

furono sovente un recupero iconografico del classicismo

quattro-cinquecentesco, la collana che cinge il collo delle statue,

con il singolare pendaglio a forma di punta di freccia, rimanda

invece indiscutibilmente a immagini di serventi e famigli

dell’antichità. Citiamo a confronto già le due statue di Persiani

di età augustea conservate al Museo Archeologico Nazionale di

Napoli, nel Gran Salone della Meridiana, 131 provenienti dalla

Collezione Farnese a cui erano pervenuti da quella Del Bufalo.

Realizzate in marmo frigio pavonazzetto con inserzioni di

marmo nero nel volto e nelle mani, esse sono inginocchiate

come i personaggi scolpiti di Montecatini, ma, ispirate

all’iconografia più consueta di Atlante e di Attis, le sculture

napoletane, di somiglianza speculare, sorreggono con le spalle

dei contenitori a bocca quadrata.

Le due figure di Montecatini, pur molto simili, presentano

manifeste diversità di esecuzione. Quella a destra dell’altare è

senza dubbio di fattura più accurata: il panneggio è ben rilevato,

facilmente leggibili i particolari decorativi, quali la fibbia e le

ripiegature del tessuto della veste sopra il gomito e sotto il

ginocchio poggiato al suolo. Quella di sinistra presenta al

confronto un’esecuzione più ripetitiva, meno ricercata, e una

minore rilevanza dei volumi. La tunichetta copre i fianchi senza

la leggera svasatura che rende più aggraziato il profilo della

scultura gemella; i gomiti e le mani, specie quella poggiata sul

ginocchio, sono troppo deboli e femminei: concedono di

supporre che la statua si presentasse, all’artefice incaricato

dall’Opera, priva in tutto o in parte delle mani, rilavorate sul

corpo della base portacero esagonale e rafforzate più tardi nella

loro posizione da un blocco di muratura. Nello stesso

personaggio, appare imperitamente ricostituito in malta anche il

piede rovesciato all’indietro; con il medesimo materiale tutto il

corpo del ceriferario è fissato alla base della scultura,

comprendente l’increspatura inferiore della veste.

Raschiature si notano nelle cintole. Il disegno inciso su

quella della figura a sinistra è praticamente scomparso, mentre

nell’altra la decorazione sembra ridotta nel volume: come se si

fosse voluto offuscare le forme cesellate dal primo scultore sul

monile. Le zone dove più pesantemente si intervenne,

asportando altro marmo, corrispondono però ai lati esterni degli

avambracci. Sulla manica delle vesti i due personaggi dovevano

recare elementi decorativi (forse placchette metalliche) o di

raccordo con parti non coerenti con la nuova destinazione d’uso

entro una chiesa cristiana. La zona integrata è talmente netta da

far desumere che l’artigiano cinquecentesco segasse tali

130

Così Roberto Paolo Ciardi si esprime commentando le esemplificazioni grafiche comprese nel Dialogo sulla bellezza

delle donne del Firenzuola, del 1541. Cfr. CIARDI R.P. (a cura di), I vallombrosani... in Vallombrosa..., Ospedaletto,

Pacini, 1999, p. 30.

131

Nn. inv. 6115 e 6117.

70


particolari, tornando a formare grossolanamente la massa del

braccio. Le abrasioni di parte della capigliatura, all’incrocio tra

la regione parietale e quella occipitale, dove una foratura

permettesse l’inserimento delle aureole mediante perni

metallico, dovettero esser parte dei lavori commissionati

dall’Opera di S. Biagio. Impropriamente, nel 1914, il succitato

compilatore della Soprintendenza annotava ancora: «hanno

lunghe ed ondeggianti capigliature».

Dei piccoli fermagli visibili su ogni avambraccio e nelle

tuniche inferiori, uno per gamba, quelli di marmo alabastrino

giallo potrebbero risalire ai primi anni dell’Ottocento. Questi

particolari sembrano infatti da porre in relazione (se non altro,

come espressione di un gusto) con i raggi di gialletto di Siena

richiesti nel 1803 a Volterra, dai due artigiani carraresi chiamati

dai conti Guidi a “comporre” l’altare della Madonna di S.

Sebastiano riutilizzando i marmi «già in opra all’altare di S.

Sebastiano», per ottenere nuove incorniciature e decorazioni. 132

Nella vicina cattedrale di Volterra sono presenti due angeli

atteri portacero, paragonabili anch’essi – se si vuole – con

questa descrizione, riconosciuti da poco come manufatti

medievali e gotici, ma attribuiti in passato interamente alla

mano quattrocentesca di Mino da Fiesole, che si limitò invece a

scolpirne le teste, integrando gli originali mutili od operando un

drastico restauro ricostitutivo su opere la cui testa doveva

comunque risultare danneggiata. È difficile dire se alla fine del

Cinquecento si conservasse ancora memoria di tale operazione e

se gli esemplari volterrani servirono dunque da prototipo ideale

per i Ciechini in S. Biagio. Essi restano comunque fondamentali

per rammentare da quali sintesi iconografiche partì la fortunata

rappresentazione rinascimentale, tutta toscana, degli angeli

reggicandelabro. Tradizione che ha inizio con figure estranee a

quest’uso ma debitrice ai modelli antichi: come il servente

inginocchiato scolpito nel 1260 da Nicola Pisano entro la scena

della Natività, nel pulpito del Battistero di Pisa. Al 1305

risalgono due angeli ceriferari, in piedi al lato della Madonna

nella Vergine con il Bambino di Giovanni Pisano, nella Cappella

degli Scrovegni di Padova. Tali esempi del Medioevo e del

Rinascimento, fino a Luca Della Robbia e a Michelangelo,

ebbero un percorso parallelo a quello che vide le forme del

Moscòforo greco (si veda l’esemplare del 560 a.C. circa esposto

al Museo dell’Acropoli di Atene) perpetuarsi, nel IV secolo, in

quelle del Buon Pastore cristiano del Laterano (Roma, Musei

Vaticani). E conobbero monumentali echi manieristi anche in

ambito veneto attraverso l’arte di Jacopo Sansovino e dei suoi

seguaci, tra cui il padovano Tiziano Aspetti, che a Padova, nella

basilica di S. Antonio, ha lasciato due suoi importanti angeli

ceriferarii bronzei.

132 COSTAGLI, La chiesa e il territorio, p. 13.

71


APPENDICE

IL PRIMO CONCILIO

DI NICEA

(MAGGIO-LUGLIO 325) 133

Contro l'eresia di Ario: consustanzialità del Figlio con il Padre

(simbolo niceno).

Dal 19 giugno al 25 luglio (?) 325.

Papa Silvestro I (314-335).

Convocato dall’imperatore Costantino.

Simbolo Niceno contro Ario: consustanzialità del Figlio col

Padre. 20 canoni.

1. Professione di fede dei 318 padri.

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di

tutte le cose visibili ed invisibili. Ed in un solo Signore, Gesù

Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla

sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio

vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre

[secondo i Greci: consustanziale], mediante il quale sono state

fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che

sono sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli

discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto e

risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i

morti. Crediamo nello Spirito Santo.

Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui egli non

esisteva; e: prima che nascesse non era; e che non nacque da ciò

che esisteva, o da un’altra ipostasi o sostanza che il Padre, o che

affermano che il Figlio di Dio possa cambiare o mutare, questi

la chiesa cattolica e apostolica li condanna.

2. Canoni.

I. Di quelli che si mutilano o permettono questo da parte di altri

su sé stessi.

Se qualcuno, malato, ha subito dai medici un’operazione

chirurgica, o è stato mutilato dai barbari, può far parte ancora

del clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è castrato da sé,

costui, appartenendo al clero, sia sospeso, e in seguito nessuno

che si trovi in tali condizioni sia promosso allo stato

ecclesiastico. E’ evidente, che quello che è stato detto riguarda

133

Un ringraziamento sentito a Dhuoda webmaster, che ci ha permesso di utilizzare le sue fonti. Per maggiori

informazioni www.concili.totustuus.it.

72


134 I Tm., 3, 6-7.

coloro che deliberatamente compiono una cosa simile e osano

mutilare se stessi ma se qualcuno, fosse stato castrato dai barbari

o dai propri padroni, ma fosse degno sotto ogni aspetto, i canoni

lo ammettono nel clero.

II. A coloro che dopo il battesimo sono subito ammessi nel

clero.

Poiché molte cose per necessità, o sotto la pressione di

qualcuno, sono state fatte contro le disposizioni ecclesiastiche,

sicché degli uomini, venuti da poco alla fede dal paganesimo e

istruiti in breve tempo, sono stati subito ammessi al battesimo e

insieme sono stati promossi all'episcopato o al sacerdozio, è

sembrato bene che in futuro non si verifichi nulla di simile: è

necessario del tempo, infatti, a chi viene catechizzato, ed una

prova più lunga dopo il battesimo. E’ chiara infatti, la parola

dell'apostolo: (il vescovo) non sia un neofita, perché non gli

accada di montare in superbia e di cadere nella stessa

condanna. 134

Se poi col passar del tempo si venisse a scoprire qualche

colpa commessa da costui e fosse accusato da due o tre

testimoni, questi cesserà di far parte del clero. Chi poi osasse

agire contro queste disposizioni e si ergesse contro questo

grande sinodo, costui metterebbe in pericolo la sua stessa dignità

sacerdotale.

III. Delle donne che vivono nascostamente con i chierici.

Questo grande sinodo proibisce assolutamente ai vescovi, ai

sacerdoti, ai diaconi e in genere a qualsiasi membro del clero di

tenere delle donne di nascosto, a meno che non tratti della

propria madre, di una sorella, di una zia, o di persone che siano

al di sopra di ogni sospetto.

IV. Da quanti debba essere consacrato un vescovo.

Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti

i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per

sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre,

radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima

per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione.

La conferma di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna

provincia al vescovo metropolita.

V. Degli scomunicati: che non siano accolti da altri; e

dell'obbligo di tenere i sinodi due volte all'anno.

Quanto agli scomunicati, sia ecclesiastici che laici, la

sentenza dei vescovi di ciascuna provincia abbia forza di legge e

73


sia rispettata la norma secondo la quale chi è stato cacciato da

alcuni non sia accolto da altri. E’ necessario tuttavia assicurarsi

che questi non siano stati allontanati dalla comunità solo per

grettezza d'animo o per rivalità del vescovo o per altro

sentimento di odio.

Perché poi questo punto abbia la dovuta considerazione, è

sembrato bene che in ogni provincia, due volte all'anno si

tengano dei sinodi, affinché tutti i vescovi della stessa provincia

riuniti al medesimo scopo discutano questi problemi, e così sia

chiaro a tutti i vescovi che quelli che hanno mancato in modo

evidente contro il proprio vescovo sono stati opportunamente

scomunicati, fino a che l'assemblea dei vescovi non ritenga di

mostrare verso costoro una più umana comprensione. I sinodi

siano celebrati uno prima della Quaresima perché, superato ogni

dissenso, possa esser offerto a Dio un dono purissimo; l'altro in

autunno.

VI. Della precedenza di alcune sedi, dell'impossibilità di essere

ordinato vescovo senza il consenso del metropolita.

In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le

antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia

autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma

infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad

Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli

antichi privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è fatto

vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo

stabilisce che costui non debba esser vescovo. Qualora poi due o

tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben

meditato e conforme alle norme ecclesiastiche degli altri,

prevalga l'opinione della maggioranza.

VII. Del vescovo di Gerusalemme.

Poiché è invalsa la consuetudine e l'antica tradizione che il

vescovo di Gerusalemme riceva particolare onore, abbia quanto

questo onore comporta, salva sempre la dignità propria della

metropoli.

VIII. Dei cosiddetti càtari.

Quanto a quelli che si definiscono càtari, cioè puri, qualora

si accostino alla Chiesa cattolica e apostolica, questo santo e

grande concilio stabilisce che, ricevuta l'imposizione delle mani,

rimangano senz'altro nel clero. E’ necessario però, prima di ogni

altra cosa, che essi dichiarino apertamente, per iscritto, di

accettare e seguire gli insegnamenti della Chiesa cattolica, che

cioè essi comunicheranno con chi si è sposato per la seconda

volta e con chi è venuto meno durante la persecuzione, per i

quali sono stabiliti il tempo e le circostanze della penitenza, così

da seguire in ogni cosa le decisioni della chiesa cattolica e

74


apostolica. Quando, sia nei villaggi che nelle città, non si trovino

che ecclesiastici di questo gruppo essi rimangano nello stesso

stato. Se però qualcuno di essi si avvicina alla Chiesa cattolica

dove già vi è un vescovo o un presbitero, è chiaro che il vescovo

della chiesa avrà dignità di vescovo e colui che presso i càtari è

chiamato vescovo, avrà dignità di presbitero, a meno che piaccia

al vescovo che quegli possa dividere con lui la stessa dignità. Se

poi questa soluzione non fosse per lui soddisfacente, gli

procurerà un posto o di corepiscopo o di presbitero, perché

appaia che egli fa parte veramente del clero e che non vi sono

due vescovi nella stessa città.

IX. Di quelli che senza il debito esame sono Promossi al

sacerdozio.

Se alcuni sono stati promossi presbiteri senza il debito

esame, o, se esaminati, hanno confessato dei falli, ma, contro le

disposizioni dei canoni, hanno ricevuto l'imposizione delle mani,

la legge ecclesiastica non li riconosce; la Chiesa cattolica infatti

vuole uomini irreprensibili.

X. Di coloro che hanno rinnegato la propria fede durante la

persecuzione e poi sono stati ammessi fra il clero.

Se alcuni di quelli che hanno rinnegato la fede cristiana

sono stati eletti sacerdoti o per ignoranza o per simulazione di

quelli che li hanno scelti, questo non porta pregiudizio alla

disciplina ecclesiastica: una volta scoperti, infatti, costoro

saranno deposti.

XI. Di quelli che hanno rinnegato la propria fede e sono finiti

tra i laici.

Quanto a quelli che, senza necessità, senza confisca dei

beni, senza pericolo o qualche cosa di simile - ciò che avvenne

sotto la tirannide di Licinio - hanno tradito la loro fede, questo

santo sinodo dispone che, per quanto essi siano indegni di

qualsiasi benevolenza, si usi tuttavia comprensione per essi.

Quelli dunque tra i fedeli che fanno davvero penitenza,

trascorrano tre anni tra gli audientes, sei anni tra i substrati, 135 e

per due anni preghino col popolo salvo che all'offertorio.

XII. Di coloro che, dopo aver lasciato il mondo, vi sono poi

ritornati.

Quelli che chiamati dalla grazia, dopo un primo entusiasmo

hanno deposto il cingolo militare, ma poi sono tornati, come i

135

Audientes e substrati indicano gli appartenenti a due fasi dei catecumenato, che dovevano essere adempiute da chi,

convertito al cristianesimo, aspirava al battesimo.

75


136 Cfr. Pr., 26, 11.

137 Cfr. n.135.

138 Ibidem.

139 Ibidem.

cani, sui loro passi, 136 al punto da versare denaro e da ricercare

con benefici la vita militare, facciano penitenza per dieci anni,

dopo aver passato tre anni fra gli audientes. 137 Ma, per questi

penitenti, bisognerà guardare la loro volontà ed il modo di far

penitenza. Quelli, infatti, che col timore, con le lacrime, con la

pazienza, con le buone opere dimostrano con i fatti, e non

simulano la loro conversione, costoro, compiuto il tempo

prescritto da passare fra gli audientes, 138 potranno essere

ammessi ragionevolmente a partecipare alle preghiere; dopo ciò,

il vescovo potrà prendere nei loro riguardi qualche decisione

anche più mite. Ma quelli che si comportano con indifferenza, e

credono che per la loro espiazione sia sufficiente questa

penitenza, devono senz'altro scontare tutto il tempo stabilito.

XIII. Di quelli che in punto di morte chiedono la comunione.

Con quelli che sono in, fin di vita, si osservi ancora l'antica

norma per cui in caso di morte nessuno sia privato dell'ultimo,

indispensabile viatico. Se poi avvenisse che quegli che era stato

dichiarato disperato, ed era,stato ammesso alla comunione e

fatto partecipe dell'offerta, guarisca, sia ammesso tra coloro che

partecipano alla sola preghiera (fino a che sia trascorso il tempo

stabilito da questo grande concilio ecumenico). In genere, poi, il

vescovo, dopo inchiesta, ammetterà chiunque si trovi in punto di

morte e chieda di partecipare all'eucarestia.

XIV. Dei catecumeni lapsi.

Questo santo e grande concilio stabilisce che i catecumeni

lapsi per tre anni siano ammessi solo tra gli audientes, 139 e che

dopo questo tempo possano prender parte alla preghiera, con gli

altri catecumeni.

XV. Del clero che si sposta di città in città.

Per i molti tumulti ed agitazioni che avvengono, è sembrato

bene che sia assolutamente stroncata la consuetudine, che in

qualche parte ha preso piede, contro le norme ecclesiastiche, in

modo che né vescovi né preti, né diaconi si trasferiscano da una

città all'altra. Che se qualcuno, dopo questa disposizione del

santo e grande concilio, facesse qualche cosa di simile, e

seguisse l'antico costume, questo suo trasferimento sarà

senz'altro considerato nullo, ed egli dovrà ritornare alla chiesa

per cui fu eletto vescovo, o presbitero, o diacono

76


140 Psalm., 14, 5.

XVI. Di coloro che non dimorano nelle chiese nelle quali furono

eletti.

Quanti temerariamente, senza santo timore di Dio, né alcun

rispetto per i sacri canoni si allontanano dalla propria chiesa,

siano essi sacerdoti o diaconi, o in qualsiasi modo ecclesiastici,

non devono in nessun modo essere accolti in un'altra chiesa;

bisogna, invece, metterli nell'assoluta necessità di far ritorno alla

propria comunità, altrimenti siano esclusi dalla comunione. Che

se poi uno tentasse di usar violenza ad alcun dipendente da un

altro vescovo e di consacrarlo nella sua chiesa contro la volontà

del vescovo, da cui si è allontanato, tale ordinazione sia

considerata nulla.

XVII. Dei chierici che esercitano l'usura.

Poiché molti che sono soggetti ad una regola religiosa,

trascinati da avarizia e da volgare desiderio di guadagno, e

dimenticata la divina Scrittura, che dice: Non ha dato il suo

denaro ad interesse, 140 prestando, esigono un interesse, il santo e

grande sinodo ha creduto giusto che se qualcuno, dopo la

presente disposizione prenderà usura, o farà questo mestiere

d'usuraio in qualsiasi altra maniera, o esigerà una volta e mezza

tanto:, o si darà, in breve, a qualche altro guadagno scandaloso,

sarà radiato dal clero e considerato estraneo alla regola.

XVIII. Che i diaconi non debbano dare l'eucarestia ai

presbiteri; e che non devono prender posto avanti a questi.

Questo grande e santo concilio è venuto a conoscenza che in

alcuni luoghi e città i diaconi danno la comunione ai presbiteri:

cosa che né i sacri canoni, né la consuetudine permettono: che,

cioè, quelli che non hanno il potere di consacrare diano il corpo

di Cristo a coloro che possono offrirlo. Esso è venuto a

conoscenza anche di questo: che alcuni diaconi ricevono

l'eucarestia perfino prima dei vescovi. Tutto ciò sia tolto di

mezzo, e i diaconi rimangano nei propri limiti, considerando che

essi sono ministri dei vescovi ed inferiori ai presbiteri.

Ricevano, quindi, come esige l'ordine, l'eucarestia, dopo i

sacerdoti, e per mano del vescovo o del sacerdote. Non è

neppure lecito ai diaconi sedere in mezzo ai presbiteri; ciò è,

infatti, sia contro i sacri canoni, sia contro l'ordine. Se poi

qualcuno non intende obbedire, neppure dopo queste

prescrizioni, sia sospeso dal diaconato.

XIX. Di quelli che dall'errore di Paolo di Samosata si

avvicinano alla chiesa cattolica e delle diaconesse.

77


Quanto ai seguaci di Paolo, che intendono passare alla

Chiesa cattolica, bisogna osservare l'antica prescrizione che essi

siano senz'altro ribattezzati. Se qualcuno di essi, in passato, era

appartenuto al clero, purché, del tutto irreprensibile, una volta

ribattezzato potrà essere ordinato dal vescovo della Chiesa

cattolica. Ma se l'esame dovesse far concludere che si tratta di

inetti, è bene deporli. Questo modo d'agire sarà usato anche con

le diaconesse e, in genere, con quanti appartengono al clero.

Quanto alle diaconesse in particolare, ricordiamo, che esse, non

avendo ricevuto alcuna imposizione delle mani, devono essere

computate senz'altro fra le persone laiche.

XX. Che non si debba, nei giorni di domenica e di Pentecoste,

pregare in ginocchio.

Poiché vi sono alcuni che di domenica e nei giorni della

Pentecoste si inginocchiano, per una completa uniformità è

sembrato bene a questo santo sinodo che le preghiere a Dio si

facciano in piedi.

78

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!