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Rivista online a cura dell’Associazione Culturale Bisanzio
ANNO II Numero IV Febbraio 2005
Costantino I
306-337
“Saranno come fiori che noi coglieremo nei prati per abbellire l’impero d’uno splendore
incomparabile. Come specchio levigato di perfetta limpidezza,
prezioso ornamento che noi collocheremo al centro del Palazzo”
Fondata da Nicola Bergamo e diretta da Matteo Broggini
www.porphyra.it
1
© 2003-2006 - Associazione Culturale Bisanzio
Rivista online con aggiornamenti non rientranti nella categoria dell’informazione periodica stabilita dalla Legge 7 Marzo 2001, n.62.
(foto gentilmente donata da Sergio Berutti)
1. Nota alla nuova edizione
di Matteo Broggini p. 3
2. Editoriale
di Nicola Bergamo p. 4
3. Costantino il Grande e la Chiesa: una complessa relazione tra
dogma, diritto e politica
di Vito Sibilio pp. 5-22
4. L’arco di Costantino
di Carlo Valdameri pp. 23-45
5. Orientamenti bibliografici inerenti Costantino il Grande
di Ivan Pucci pp. 46-65
6. I Ciechini di Montecatini Val di Cecina
di Antonio Palesati e Nicoletta Lepri pp. 66-71
7. Appendice: Il primo concilio di Nicea (maggio-luglio 325) pp. 72-78
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Prima frase sotto il titolo proviene da : (da Il libro delle Cerimonie Costantino Porfirogenito edito da Sellerio
Editore Palermo a cura di Marcello Panascià)
2
NOTA ALLA NUOVA EDIZIONE
di Matteo Broggini
Il presente numero di Porphyra, già edito nel febbraio 2005,
viene ora riproposto in una versione emendata da errori e
incongruenze redazionali e completamente rinnovata nella
grafica e nella disposizione dei contenuti.
Un grazie sentito alla redazione della rivista, Nicoletta
Lepri, Andrea Nocera, Eugenia Toni: senza di loro questo lavoro
non avrebbe mai visto la luce. Grazie anche a Nicola Bergamo,
infaticabile eparco della nostra città virtuale, per la consulenza
grafica.
A tutti, buona (ri)lettura.
3
Milano, luglio 2008
EDITORIALE
di Nicola Bergamo
Correva l’anno 313: Costantino promulga l’editto che
consente in tutto l’impero libertà di scelta religiosa. Pochi anni
dopo, questo stesso imperatore farà costruire sul Bosforo la sua
capitale, la Nuova Roma, e presiederà il primo concilio della
cristianità. In tutta la sua carriera politica, un raro talento bellico
e un’eccezionale capacità militare gli permettono di essere uno
degli ultimi imperatori romani a governare sull’impero unito. Il
solido aureo, da lui introdotto, sarà la principale moneta di
scambio per tutto l’alto medioevo.
Costantino è dunque figura monumentale, tale da marcare la
propria epoca e da condizionare gli sviluppi della storia europea:
a lui, vero padre dell’impero romano orientale, è dedicato il
presente numero di Porphyra.
Vito Sibilio ne illustra la politica religiosa, soffermandosi sui
complessi rapporti con la Chiesa, sulla conseguente definizione
del potere imperiale, sullo scontro con le eresie e sulla nuova
concezione di una società più cristiana.
Carlo Valdameri dedica il suo studio al monumento che più
di ogni altro è legato al nome di Costantino, ovvero l’arco che
egli fece erigere nel foro romano: ne sono analizzati la nascita, le
diverse componenti architettoniche e le valenze iconografiche.
Ivan Pucci ha invece approntato un ricco repertorio di
bibliografia costantiniana, dalla pratica impostazione per nuclei
tematici: un utile strumento per chi desideri approfondire i
contenuti della rivista.
Un interessante caso di reimpiego medievale di motivi
iconici di età costantiniana è infine segnalato da Antonio Palesati
e Nicoletta Lepri.
In appendice è riportato, in traduzione italiana, il testo del
concilio ecumenico di Nicea del maggio-luglio 325.
Spero sinceramente che questo numero di Porphyra possa
aiutarvi a conoscere in maniera più approfondita l’imperatore che
fu detto Grande e, fondando Costantinopoli, diede vita all’impero
di Bisanzio.
4
COSTANTINO IL GRANDE E LA CHIESA:
UNA COMPLESSA RELAZIONE
TRA DOGMA, DIRITTO E POLITICA
di Vito Sibilio
Come giudicare il rapporto tra Cesare Flavio Valerio
Costantino Augusto il Grande, primo del nome (307-337) 1 e la
Chiesa? 2 È un quesito che gli studiosi si sono posti e si porranno
sempre, in quanto è difficile ricondurne l’interpretazione ad un
solo criterio ermeneutico. Il grande imperatore, cui
nell’immaginario comune si deve il connubio più che millenario
tra fede e politica, agì su molti livelli e pose le premesse per
molteplici, differenti e a volte contrastanti sviluppi.
1. L’impero cristiano.
In una famosa terzina, Dante individuava nel Constitutum
Constantini la fonte della corruzione della Chiesa:
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre! 3
A parte l’ovvio rilievo sull’equivoco storico in cui caddero tutti
gli uomini del Medioevo, va evidenziato che Costantino,
inserendo la Chiesa nel sistema del potere imperiale, non fece
niente di rivoluzionario né per la religione né dell’impero.
Quando si stigmatizza che, legandosi allo stato, il
cristianesimo abbia tradito le proprie origini, si dimentica che
Costantino restaurò quella monarchia di diritto divino, descritta
nell’Antico Testamento, in cui il sovrano è unto del Signore e
suo eletto.
Ciò è invece posto in evidenza dagli scrittori ecclesiastici
contemporanei dell’imperatore: non per propaganda, come
spesso si crede, ma per intima coerenza con la propria
formazione religiosa. La Chiesa, nuovo Israele, aspettava sin
dalle origini di rivivere l’esperienza dell’antico popolo ebraico:
le persecuzioni, che duravano da più di tre secoli, erano destinate
ad essere provvisorie, e dovevano essere superate nella
realizzazione del regno. Tale realizzazione, seppur in ogni caso
escatologica, poteva essere intesa tanto in senso estremo, ossia
1
Ampia è la bibliografia sull’imperatore. Cito come esempi: VOGT J., Constantin der Grosse und sein Jahrhundert,
Monaco 1960
5
2 ; SAMPOLI F., Costantino il Grande, s.d.; DÖRRIES J., Constantin der Grosse, Stoccarda 1958;
PIGANIOL A., L’empereur Constantin, Parigi 1932.
2
Sul rapporto tra Costantino e la Chiesa cfr. tra gli altri ALFÖLDI A., Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Bari
1976; BAYNES N.H., Constantine the Great and Christian Church, Londra 1929; DORRIES H., Constantin and the
Religious Liberty, New Haven 1960.
3
DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia – Inferno, XIX, 115.
interpretando alla lettera l’Apocalisse (la liberazione sarebbe
venuta con la distruzione di Roma e del mondo) quanto in senso
moderato (sarebbero stati distrutti solo i valori del paganesimo).
Nel corso dei tre secoli della sua storia, il cristianesimo
aveva imparato ad apprezzare i vantaggi della cultura grecoromana
e dell’unificazione dell’ecumene: superando i germi di
diffidenza ascetica attestati, tra l’altro, anche nella Lettera a
Diogneto, si sviluppavano i semi di realismo politico presenti sin
dal magistero apostolico, specie paolino, così da concepire il
sogno e il desiderio di un battesimo dell’impero. In questo modo
i sentimenti di rancore e di disprezzo espressi nell’Apocalisse
erano andati attutendosi e stemperandosi in una sfiducia radicale
nei confronti del potere costituito, in attesa di ricostituirlo
diversamente.
Ciò che Costantino propose alla Chiesa era quello che la
Chiesa stessa era già predisposta ad accettare, non per avidità di
potere o per tradimento dei propri principi, ma per esplicitare uno
degli aspetti del proprio retroterra spirituale. Il contrasto tra il
Christus passus e l’Imperator victor, posti entrambi al vertice
della Chiesa, si supera nella dicotomia squisitamente cristiana del
Christus passus et gloriosus. Essa trova proprio nel sovrano una
delle sue epifanie più significative: Cristo, re e sacerdote secondo
il modo di Melchisedek, realizza temporalmente il proprio
sacerdozio nell’ordine sacro e la propria regalità nell’impero,
anch’esso sacralizzato.
In quanto imperatore, Costantino non ruppe realmente con
la tradizione, ma si limitò a modificare i contenuti dello schema
che in essa riuniva fede e potere, sacralizzando il secondo. Era
dai tempi dei faraoni che i sovrani mediterranei si facevano dèi
per affondare nel cielo le radici del potere, perché l’ordine
terrestre delle cose rispecchiasse quello ultraterreno; soluzione
alternativa a questo problema era lo schema mesopotamico del
sovrano mediatore tra gli dèi e l’uomo, presente anche nella
cultura ebraica e comune a quella ariana. La teologia del potere
era un’esigenza culturale avvertita da sempre, e rispecchia il
bisogno legittimo di una fondazione del potere.
Roma era solo l’ultima grande potenza a porre il problema
del rapporto tra religio e imperium. Dall’età di Augusto
l’ambiguità dei rapporti tra il sovrano e la divinità aveva oscillato
tra la soluzione indoeuropea dell’imperatore comes divorum
(Ottaviano aveva autorizzato i templi per il suo Genius) e quella
egizia, riciclata dall’ellenismo, del monarca dio egli stesso (lo
stesso Augusto non aveva disdegnato di farsi divinizzare in vita
sulle rive del Nilo). La crisi del potere imperiale, maturata nel III
secolo, aveva spinto a cercare una soluzione ideologica
nell’ambito delle teologie orientali; Diocleziano aveva superato
del tutto la concezione del principato a favore del dominato,
incentrando il suo schema di sacralizzazione del potere
sull’equazione che faceva infallibilmente dell’imperatore un dio.
6
Ma questa soluzione cozzava proprio con il senso comune
di cristiani e di alcuni pagani, come i neoplatonici o i mistici,
ossia di una parte significativa dell’opinione pubblica imperiale.
La persecuzione dioclezianea fu la conseguenza logica di
questa situazione, e la svolta costantiniana l’altrettanto logica
mutazione di rotta, che riportò la teologia imperiale nell’alveo
ariano, coonestandola con la più ricca e antica tradizione
giudaica, proseguita nel cristianesimo.
Lo schema per cui la divinità fonda la monarchia e questa
domina in suo nome viene cristianizzato da Costantino, senza
alcuna modifica; anzi, con maggiore precisione, in quanto ad un
solo monarca in terra corrisponde un solo Dio in cielo. Questo
modello di dominato resse Roma non solo fino al tramonto della
pars Occidentis nel 476, ma anche fino al crollo di quella
Orientis nel 1453; fu inoltre il modello di tutte le monarchie
universali e nazionali successive, fino al 1848 in Europa
occidentale e fino al 1917 in quella orientale.
Ma come visse Costantino, concretamente, questa esigenza
di sacralizzazione del potere? Come divinò la difficile esigenza
dei suoi tempi di trovare un nuovo fondamento all’esercizio della
sovranità? Sicuramente adoperò – né poteva altrimenti – le sue
categorie mentali di romano: esse diedero alle sue suggestioni
mistiche – e a quelli dei circoli che gli si radunarono attorno –
una veste teoretica salda, trasferendo nell’ambito del diritto delle
categorie antropologiche. Considerando la religio come un
momento dello ius publicum, egli ritenne normale arrogarsi i
poteri di controllo su di essa, non solo perché gli imperatori
erano stati tradizionalmente pontefici massimi, ma perché erano
la fonte del diritto, almeno dall’età adrianea. Il cristianesimo
coonestò questa sua ambizione con l’ideale biblico della
teocrazia. E in poco tempo si arrivò alla concezione
dell’episkopos tōn ektos, che in qualche generazione si evolvette
– senza voler dare al termine necessariamente un’accezione
positiva – in quella dell’isoapostolo, o del tredicesimo apostolo.
Nonostante l’imperatore non fosse più divus, nonostante
non fosse più invictus come il Sole ma più modestamente victor,
nonostante non fosse più raffigurato con la corona radiante ma
solo con un nembo, sebbene non si sacrificasse più in suo onore e
i templi eretti per lui fossero meri monumenti, l’ideologia del
potere di Costantino fu la compiuta, piena realizzazione del
sogno del dominato dioclezianeo ed illirico. L’imperatore
divenne il vicarius Dei, come era stato prima vicarius Deorum. E
fu la concezione che dominò tutte le teocrazie cristiane,
impropriamente chiamate cesaropapismi, dall’età carolingia a
quella ottoniano-salica, alla impossibile revanche della Casa
Sveva e fino allo zarismo.
In quali ambiti si esplicò l’azione di Costantino I in
relazione alla religione? L’imperatore svolse una duplice attività,
l’una nel campo giuridico, l’altra in quello dogmatico.
7
2. L’ambito giuridico.
In ambito giuridico, non si può prescindere dal cosiddetto
editto di Milano del febbraio 313 – che in realtà editto non fu – 4
concertato tra Costantino e Licinio (308-324).
Esso diede esecuzione all’editto di tolleranza pubblicato
sul letto di morte da Galerio ([293] 305-311) nel 311 (col quale
l’antico persecutore dimostrò di aver compreso l’inanità degli
sforzi anticristiani e si sforzò di inserire nel pantheon romano
anche Gesù Cristo) e servì a risolvere anche dal punto di vista
teoretico la questione. I due augusti, dichiarando sin nel
preambolo di voler praticare la tolleranza, attestarono di non
voler escludere neanche i cristiani dall’esercizio di questa virtù
pubblica, allo scopo di procacciare all’impero un’ulteriore
benevolenza della summa divinitas: la suprema divinità, cioè, da
sempre considerata nel paganesimo la più grande di tutte, oltre
che la meno conoscibile.
Questa concezione religiosa era stata di Costanzo I Cloro
([293] 305-306), 5 e costituisce la preistoria spirituale di
Costantino. Forse per adeguarsi a questa vaga ispirazione
monoteista, già dal 306 Costantino, divenuto augusto al posto del
padre, aveva emanato un editto di tolleranza. 6 Questa spiritualità
irenica di una generica iperlatria da tributarsi alla deità suprema
si andò poi specificando nel culto del sole invitto; culto che già
nell’antico zoroastrismo era stata la manifestazione visibile
dell’unico dio supremo, Ahuramazda, principio del bene, e che
persino nel remoto Egitto faraonico era stato, sia pure per breve
tempo, imposto al recalcitrante pio popolo politeista da
Akhenaton.
Costantino si mosse su questa scia, accettando un dio solare
sincreticamente esprimibile da più ipostasi divine, e scelse per
suo nume tutelare quella dell’Apollo gallico. 7 Questa ispirazione
era ancora dunque riscontrabile nell’editto di Milano, sebbene
Costantino fosse diventato cristiano già dalla campagna contro
Massenzio (306-312) nel 312, quando vinse a Ponte Milvio (28
ottobre), avendo avuto il celebre sogno che lo invitava ad
assumere come labaro il monogramma cristiano, e della cui
storicità non è il caso di dubitare. 8 Evidentemente i due augusti,
facendo un richiamo alla teologia del sommo dio, pensavano di
fornire una cornice ideologica in cui fosse accettabile, anche per i
pagani, inserire il nuovo atteggiamento verso la religione
cristiana.
Ma l’editto milanese andava molto al di là di questo. La
tolleranza di Galerio era stata concessa con rammarico, quella
dei due augusti si condiva di raccomandazioni benevole ed
energiche ad un tempo, con cui invitavano a restituire
4
Cfr. PALANQUE J.R., A propos du prétendu édit de Milan, in “Byzantinische Zeitschrift” 10 (1935), pp. 607-616.
5
EUSEBIO, Vita Constantini (= EUSEBIO, Vita Const.), 1, 17.
6
LATTANZIO, De mortibus persecutorum (= LATTANZIO, De mort. pers.), 24, 9.
7
Cfr. KARAYANNOPOULOS J., Konstantin der Grosse und der Kaiserkult, in “Historia” 5 (1956), pp. 341-357.
8
LATTANZIO, De mort. pers., 44; EUSEBIO, Vita Const., 1, 27-32.
8
gratuitamente alla Chiesa i loca sacra, di cui essa è l’unica
legittima proprietaria: chiese e cimiteri, anche se in mano a
privati (evidentemente l’esproprio persecutorio era considerato a
posteriori un’empietà, contraria al fas e allo ius) dovevano
tornare alla comunità, riconosciuta come persona giuridica.
Tali riconoscimenti scaturiscono dalla tangibile potenza
della protezione di Cristo esperita dai due imperatori –
chiaramente più da Costantino che da Licinio. 9 Con questa
asserzione pubblica, entrambi danno un chiaro connotato a quel
misterioso Dio alla cui protezione Costantino aveva dovuto la
vittoria contro Massenzio e nel cui onore aveva omesso le
tradizionali cerimonie religiose del suo trionfo in Roma dopo la
sconfitta del rivale. 10
Da quanto detto, l’Editto milanese risulta essere un punto di
arrivo, specie della legislazione costantiniana, il cui vissuto
religioso e la cui esperienza politica contribuiscono
decisivamente a tracciare la fisionomia del testo. Peraltro, forte è
l’attenzione al culto come fulcro dell’esercizio della libertà
religiosa. A Costantino e a Licinio interessa che Dio sia
opportunamente glorificato, cosicché si storni dalla terra il suo
castigo, scongiurato dal sacrificio rituale. Vi è, in filigrana,
ancora una concezione piuttosto superstiziosa della fede, in cui
Dio è continuamente da propiziare e da placare. Tra i due
augusti, Licinio era più superficiale in relazione al cristianesimo:
ancora nella guerra che, di lì a poco, lo contrappose a Massimino
Daia (305-312), egli manifesta una fede generica nel sommo Dio,
appena temperata da elementi cristiani estrinseci. 11 In ogni caso,
la vittoria sull’ultimo persecutore – che nell’ultima fase della
lotta aveva concesso una tolleranza assoluta ai suoi sudditi
cristiani – 12 diede a Licinio, nell’autunno del 312, la sovranità su
tutto l’Oriente, in cui si poterono estendere i benefici effetti della
tolleranza sancita a Milano, almeno fino a quando la rinfocolata
ostilità tra i due augusti indusse Licinio a ridimensionarla,
temendo che la Chiesa fungesse da quinta colonna costantiniana
nel suo dominio.
Nel lasso di tempo che divide l’editto milanese dalla
definitiva riunificazione dell’impero sotto lo scettro
costantiniano nel 324, quello che è stato definito il primo
imperatore cristiano ha peraltro sviluppato in modo coerente un
corpo legislativo ispirato alla religione e volto a garantirne la
sicurezza. 13 Fu ad esempio abolita la marchiatura a fuoco sul
9
LATTANZIO, De mort. pers., 48, 7-9; 11, 45-47.
10
Tali provvedimenti riecheggiavano, del resto, quelli già presi da Costantino nel 312 per la Chiesa africana scrivendo
al prefetto Anullino, e la loro finalità era la garanzia dell’esercizio del culto, come già per la questione africana
l’imperatore aveva avuto modo di specificare in una lettera a Ceciliano, in cui stanziava una forte somma proprio per
esentare il clero da ogni attività lavorativa che lo distogliesse dalle celebrazioni liturgiche. In tal senso si era ancora
mosso l’imperatore quando aveva esentato i sacerdoti cartaginesi da ogni ufficio pubblico. EUSEBIO, Historia
Ecclesiastica (= EUSEBIO, Hist. Eccl.), 10, 5, 15-17; 6, 1-5; 7, 1-2.
11
LATTANZIO, De mort.pers., 45-47.
12
EUSEBIO, Hist. Eccl., 9,10. 7-11.
13
Cfr. EHRHARDT A.A.T., Some aspects of Constantine’s Legislation, in “Studia Patristica” 2 (1957), pp. 114-121.
9
volto dei condannati ad metalla o ai giochi gladiatorii, per
l’esplicita motivazione biblica che l’uomo, imago Dei, non può
essere sfigurato. 14 Inoltre fu riconosciuto ai cristiani il diritto di
affrancare gli schiavi in presenza del proprio vescovo; al clero fu
persino concesso di farlo verbalmente e senza testimoni.
Ciò sottintende la volontà di fare dei presuli cattolici non
solo dei “prefetti in violetto” – per usare anacronisticamente la
definizione riservata ai vescovi nel periodo napoleonico – ma
anche una fonte di libertà per gli schiavi, considerati dal
cristianesimo uomini esattamente come i loro padroni.
Concedere poi al clero la facoltà di affrancarli con una procedura
straordinaria significava cercare di separare al massimo due
istituti – quello sacerdotale e quello schiavile – evidentemente
inconciliabili tra loro. 15
Successivamente, l’equiparazione del vescovo al
procuratore avvenne anche a livello giudiziario. Costantino
stabilì che due parti potessero, di comune accordo, adire al
tribunale episcopale al posto di quello civile: un privilegio
destinato a durare per più di un millennio. 16 Evidentemente, per
l’imperatore era assurdo che i ministri di Dio, da lui scelti per
giudicare in spiritualibus, fossero esclusi dai giudizi in
temporalibus.
La legislazione flavia dimostrò inoltre di saper apprezzare i
valori cristiani della castità e dell’ascesi, abolendo le leggi contro
i celibi e contro coloro che non avevano figli. 17
La legge del marzo-luglio 321 rende festivo il primo giorno
settimanale, con l’obbligo del riposo per i lavoratori servili e per
i magistrati, oltre che con l’invito a promulgare in esso
l’emancipazione degli schiavi – all’occorrenza protocollato
ufficialmente – e a compiervi opere pie. Il ciclo ebdomadario
giudaico-cristiano entra così nella scansione del tempo civile
dell’Europa cristiana; 18 per nessun’altra fede c’è, nell’impero,
una legge analoga. Il tempo profano, che riunifica le azioni del
secolo, viene appaltato ad una fede e sacralizzato. Siamo qui ad
uno stadio molto profondo della cristianizzazione dell’uomo
romano. Per un gesto di altrettanta radicalità, ma opposto e
odioso per le modalità in cui maturò, bisogna saltare direttamente
alla rivoluzione francese e alla sua sovversione della settimana in
decade, e alla sostituzione della domenica col decadì.
Altrettanto privilegiante fu il dispositivo legislativo che
permetteva di lasciare qualsiasi cosa in testamento alla Chiesa,
anche da parte di un non-cristiano. 19
Costantino volle inoltre separare nettamente la tolleranza
per i cristiani da quella per i non cristiani. Il cristianesimo era la
verità, e andava protetto; ad esempio, dall’ostilità degli Ebrei. E
14 Codex Theodosianus (= Cod. Theod.), 9, 40, 2.
15 Cod. Theod., 4, 8, 1.
16 Cod. Theod., 1, 27, 1.
17 Cod. Theod., 8, 16, 1.
18 Cod. Theod., 2, 8, 1.
19 Cod. Theod., 16, 2, 4.
10
così i convertiti ex circumcisione che fossero perseguitati dai loro
ex-correligionari erano oggetto di una protezione speciale: 20
erano il piccolo resto del vero Israele. Nel maggio 323 inoltre
l’imperatore reagì a violenze spontanee compiute contro i
cristiani, comminando fustigazione e multa a chi costringesse i
fedeli al sacrificio lustrale. 21
In questi impianti legislativi il lessico denotativo del
cristianesimo (cultus Dei, pia religio ecc.) e quello del
paganesimo (superstitio) non lascia dubbi sulla piena adesione
dell’imperatore alla nuova fede, che nelle sue premure trovava la
nemesi storica di tre secoli di cruente persecuzioni. Lo spazio di
libertà del paganesimo è ristretto. E l’ispirazione mosaica della
legislazione imperiale è palese nel duplice divieto dell’aruspicina
privata (319-320), il cui scopo è il massimo controllo possibile –
appunto pubblico – su questa forma di divinazione. 22 Siamo sulla
scia che porterà Teodosio il Grande (379-395) alla proibizione
del paganesimo. Ma per ora Costantino è sinceramente tollerante,
anche nella sua veste di pontefice massimo.
Questi dispositivi legislativi scaturiscono senz’altro dalla
profonda e progressiva cristianizzazione morale del sovrano, ma
sono anche – in una società in cui il potere politico si ipostatizza
nel sovrano di diritto divino – la manifestazione di un connubio
politico sempre più forte.
La personalità più scialba e meno religiosa di Licinio
doveva reagire in senso opposto, traducendo in altri termini
religiosi la volontà egemonica che lo accomunava e
contrapponeva a Costantino. Tra il primo scontro nel 316 e la
definitiva resa dei conti nel 324, Licinio andò coronando di spine
lo status di religio licita da lui stesso concesso al cristianesimo
nel 313. L’interdizione del culto nelle città e nei luoghi chiusi,
l’obbligo di assemblee separate per uomini e donne, il divieto al
clero di catechizzare le donne stesse, la proibizione di assistere i
carcerati, oltre a casi specifici di esenzione dal servizio militare e
di allontanamento dalla pubblica amministrazione furono le
meschine misure che Licinio prese capovolgendo la sua
precedente politica di reappeasement. 23 Ci furono casi di
violenze anche mortali su vescovi, e alcune chiese furono
demolite nel Ponto, senza che l’augusto orientale intervenisse per
fermarli. 24
Una volta che ebbe trionfato sul rivale, Costantino rimediò
a queste vessazioni con un editto di riparazione 25 che tuttavia
garantiva ancora ai pagani la libertà di coscienza. La legislazione
flavia faceva dell’autodeterminazione spirituale un limite
invalicabile della sua competenza: lo stato poteva favorire la
20 Cod. Theod., 16, 8, 1.
21 Cod. Theod., 16, 2, 5.
22 Cod. Theod., 9, 16, 1; 16, 10, 1. Cfr. KARPP H., Konstantins Gesetze gegen die private Haruspizin aus den Jahren
319 bis 321, in “Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft” 41 (1942), pp. 145-151.
23 EUSEBIO, Hist. Eccl., 10, 2; 10, 8, 10-11; Vita Const., 1, 51, 53, 54.
24 EUSEBIO, Hist. Eccl., 10, 8, 13-17.
25 EUSEBIO, Vita Const., 2, 4, 42.
11
professione della vera fede, ma non poteva forzare l’adesione ad
essa. La fede rimaneva ancora, non solo formalmente ma anche
materialmente, un atto di volontà.
E tuttavia le leggi di riparazione furono una restitutio in
integrum: sospensione di ogni sentenza dannosa o infamante
(come la privazione dei pubblici uffici e la riduzione in
schiavitù), restituzione dei beni alle chiese e ai singoli, anche se
incamerati dallo stato o se venduti a terzi, e addirittura agli
eredi. 26 E di lì a poco l’uguaglianza religiosa, faticosamente
raggiunta dalla cristianità, viene superata in un primato formale
che si configura quasi come una nemesi storica del paganesimo: i
funzionari pubblici non cristiani non possono professare
esternamente la loro fede, a differenza di quelli battezzati. 27
Del resto, se Flavio Costantino dimostrò alta
considerazione per il misticismo neoplatonico – affine a quella
religiosità del Sommo Dio a cui lui stesso era stato vicino – e
deferenza per le antiche famiglie senatoriali, il cui paganesimo
era tradizionale, non mancò di presentarsi né come debellatore
dell’antica religione né come sovrano che la tollerava solo per i
principi di umanità della sua fede. 28 E anche nel plasmare la
classe dirigente il monarca si rende conto di dover selezionare
gente che sia disposta a seguire questa politica: ragion per cui i
funzionari nominati sono quasi tutti cristiani. Inoltre prosegue
l’osmosi tra episcopato e burocrazia, in quanto Costantino
celebra i vicennalia tra i presuli radunati a Nicea e fa pronunciare
il panegirico a uno di loro. 29
A tale politica di diminuzione sociale del paganesimo si
accompagna una serie di misure restrittive: se ai collegi
sacerdotali delle divinità tradizionali sono lasciati i loro templi,
un numero imprecisato di essi – che sia i cristiani per
trionfalismo che i pagani per vittimismo avevano interesse ad
aumentare agli occhi dei posteri – viene privato delle rendite o
delle immagini, se non raso al suolo. A onore di Costantino va la
distruzione dei templi pagani disseminati da Adriano sulle
memorie giudaico-cristiane dopo la repressione della rivolta di
Bar Kokheba: il Calvario, la casa della Vergine a Gerusalemme, i
luoghi dell’infanzia di Cristo e del Battista furono liberati dalle
sacrileghe costruzioni e adornate di monumenti. Peraltro, il
monarca ha cura di sopprimere forme particolarmente licenziose
di culto pagano, specie quelle di Afrodite, o quelle
sfacciatamente animistiche come la venerazione del Nilo affidata
a una casta clericale di eunuchi, o ancora di contenere le
religioni di Cibele e di Mitra. 30 Un significato di particolare
disprezzo ma anche una chiara intenzione di colpire la potenza
economica del culto pagano hanno le requisizioni di oggetti sacri
dei templi per adornare la costruenda Costantinopoli. Essa, come
26 EUSEBIO, Vita Const., 2, 30-41.
27 EUSEBIO, Vita Const., 2, 44.
28 EUSEBIO, Vita Const., 3, 66; 2, 44, 48-60.
29 EUSEBIO, Vita Const., 2, 44; 1, 1.
30 EUSEBIO, Vita Const., 3, 26-27; 55-56; 58; 4, 25.
12
le sontuose chiese costruite nelle capitali imperiali (Nicomedia,
Treviri, Sirmio, Milano) e come le basiliche patriarcali a Roma
sulle memorie degli apostoli, rientra in un progetto di
sacralizzazione dello spazio e di inserimento dell’impero
nell’ordine cosmico voluto da Dio e restaurato in Cristo.
In questa fase di dominio incontrastato, l’imperatore si
ispira sempre di più alla religione, e il diritto romano è la forma
con cui egli ordina la materia giuridica che può trarre dalla
tradizione cristiana: 31 il divorzio non è abrogato, il matrimonio
rimane un contratto, ma il suo scioglimento diventa più difficile,
conformemente all’importanza dell’accordo stipulato; inoltre
appare logico vietare il concubinato, che non prevede né
sacramento né contratto.
Le unioni degli schiavi sono riconosciute naturaliter simili
a quelle dei liberi: due sposi non possono essere divisi tra loro o
dai figli in caso di un’eredità ripartita tra più persone. 32 In
ossequio alla dignità della vita umana vengono aboliti i giochi
gladiatori, mentre la proscrizione della crocifissione è un
omaggio a Cristo stesso. 33
Dopo aver ripromulgato per tutto l’impero i dispositivi
legislativi precedenti in ordine al foro ecclesiastico e alla difesa
dei neofiti, Constantino fa una puntualizzazione importante: solo
i cattolici possono godere di questi privilegi, mentre eretici e
scismatici ne sono esclusi: 34 alla Verità sola spetta la protezione
provvidenziale dell’Impero, mentre coloro che traviano le
coscienze non debbono essere certo agevolati, anzi vanno
ostacolati.
In quest’ottica va letto il decreto antiereticale pubblicato
dopo la sconfitta liciniana: ai novaziani, agli gnostici, ai paoliani
e ai catafrigi vengono interdette le adunanze sia pubbliche che
private – perché culto non gradito a Dio – vengono confiscati
tutti i beni comunitari, vengono sottratte le chiese che vanno
restituite ai cattolici, vengono tolti i libri sacri. Rimane loro solo
la libertà di coscienza, nonostante un monito generico per la
conversione al cattolicesimo. 35 Soltanto ai novaziani, in virtù
della loro adesione al Simbolo niceno, l’imperatore lascia chiese
e cimiteri, 36 sperando di ricucirne lo scisma.
3. L’ambito dogmatico.
Se la valutazione dell’operato costantiniano in campo
legislativo non può essere che univoco e positivo (almeno per chi
veda nella cristianizzazione del diritto un progresso
dell’humanitas classica, e riconosca nel connubio tra impero e
fede una tappa significativa del cammino verso le forme future
31 Cfr. sull’arg. DORRIES, Constantin..., cit., pp. 82-84; 197-199; 203.
32 Cod. Theod., 9, 7, 2; 3, 16, 1; 2, 25, 1; Codex Iustiniani, 5, 26, 1.
33 Cod. Theod., 15, 2, 1; SOZOMENO, Historia Ecclesiastica (= SOZOMENO, Hist. Eccl.), 1, 8, 13.
34 Cod. Theod., 16, 5, 1.
35 EUSEBIO, Vita Const., 3, 64-66.
36 Cod. Theod., 16, 5, 1.
13
della civiltà), più complesso è il giudizio sul modo in cui il
fondatore della seconda dinastia Flavia ingerisce in interna
corporis della Chiesa, spontaneamente o indottovi a forza.
3.1. Lo scisma donatista.
Il primo caso affrontato è lo spinoso scisma donatista, 37
(dal nome del massimo teorico della disputa, il presule africano
Donato).
L’occasione venne dalla valutazione di un traditor, di chi
cioè aveva, durante la persecuzione dioclezianea, consegnato i
Libri sacri e sacrificato agli dei, ottemperando ai decreti
imperiali. Nel 312, alla morte del vescovo cartaginese Mensurio,
il popolo e il clero scelsero come successore Ceciliano; questi
però era fortemente avversato dai donatisti perché, quando
ancora era diacono, aveva umiliato uno dei loro più influenti
capi, rimproverandolo aspramente per il culto fanatico dei
martiri. Per impugnarne l’elezione, i donatisti obiettarono a
Ceciliano un presunto difetto nella consacrazione, compiuta tra
gli altri dal vescovo Felice di Aptungi, che era stato appunto
traditor.
Questa obiezione trovò terreno fertile non solo nella
particolare sacramentaria africana, ma anche nella malcelata
ostilità dell’episcopato numida verso la sede primaziale
cartaginese: il vescovo di Tigisi Secondo, inferiore di rango solo
a Ceciliano, radunò un Concilio di settanta vescovi che, in linea
con la tradizionale autonomia della Chiesa della Proconsolare,
risolse la questione in modo sfavorevole a Ceciliano, che fu
deposto e rimpiazzato prima da Maiorino e poi da Donato stesso
nel 313.
Un nodo della questione era certo il trattamento da
riservare agli apostati pentiti: i rigoristi oscillavano dalla volontà
di escluderli per sempre dalla Chiesa alla richiesta di umilianti e
prolungate penitenze, che comportassero soprattutto la riduzione
allo stato laicale; i moderati si accontentavano di imporre una
congrua riparazione.
Questo nodo non era però l’unico: sullo sfondo si agitava la
questione classica della teologia sacramentale africana, la
validità del sacramento ex opere operando e non ex opere
operato (come nela teologia romana prima e universale poi).
Tale questione era particolarmente importante proprio perché
molti vescovi, presbiteri e diaconi erano stati traditores.
Costantino fu precocemente informato sugli sviluppi della
crisi ecclesiastica africana da Osio di Cordova, il vescovo
consigliere imperiale fino al Concilio di Nicea. L’imperatore non
comprese certo la portata dogmatica della disputa – le
sottigliezze teologiche non furono mai il suo forte – ma si avvide
della sua pericolosità disciplinare, e ne valutò la portata in
relazione alla confusione in cui era caduto il culto liturgico. Egli
37
Cfr. sull’argomento GRASMÜCK E.L., Coercitio. Staat und Kirche im Donatistenstreit, Bonn 1964.
14
scrisse dunque a Ceciliano, riconoscendolo quale vescovo
legittimo e offrendogli l’ausilio delle truppe imperiali per il
ripristino dell’ordine, considerando così i donatisti dei semplici –
e pericolosi – perturbatori della pace pubblica. 38
I donatisti accusarono il colpo e scrissero al stesso sovrano
tramite il prefetto Anullino, spiegandogli il proprio punto di vista
e domandando di essere giudicati da un tribunale imparziale ed
esterno, formato da vescovi gallici. 39 L’imperatore accettò: una
decisione questa in linea con la tradizione ecclesiastica, solita
affrontare le questioni rimaste irrisolte in un sinodo
interprovinciale in una assise ancor più prestigiosa.
Costatino deferì questione al papa, l’africano san Milziade
(311-314), incaricandolo di allestire un tribunale con presuli
gallici. Il pontefice, mostrando autonomia di giudizio, allargò la
commissione – che Costantino aveva composto, oltre che col
papa, coi vescovi di Autun, Colonia e Arles – ad altri quindici
presuli italiani. Dinanzi a questa assise, secondo i deliberati
imperiali, dovevano costituirsi dieci ceciliani col loro capo e
dieci donatisti. I decreti sinodali dovevano appurare se Ceciliano
avesse rispettato la tradizione ecclesiastica facendosi consacrare
da un traditor pentito, e sarebbero stati vincolanti per tutti. 40
Il comportamento di Costantino verso il papa è
significativo: il pontefice è sì autonomo, ma in seno all’impero,
che è il guscio protettivo della Chiesa. È lo stesso rapporto
sussistente tra la statio principis e quella del sommo pontificato
pagano, con la differenza che due magistrature, prima
appartenute ad una sola persona, nel nuovo ordinamento romanocristiano
erano per forza scisse.
Chiamando Milziade a presiedere il tribunale da lui
istituito con presuli gallici in base alla richiesta degli appellanti,
che però del pontefice non avevano fatto menzione, l’imperatore
mostrava dunque di non voler prescindere dal primato petrino e,
accettando che Milziade ampliasse il tribunale in un sinodo, gli
riconobbe autodeterminazione nella scelta dei mezzi di
giurisdizione.
Ma i donatisti si appellarono contro la sentenza, che fu di
assoluzione per Ceciliano e di condanna per Maiorino e Donato.
Sia Milziade che Costantino furono irritati dall’ostinazione
donatista. Il papa offrì la comunione canonica ai vescovi
dissidenti, perché non corressero il rischio di perdere la sede ma
anche per isolare Donato. L’imperatore si risolse a convocare ad
Arles (estate 314) un sinodo di tutti i vescovi occidentali. 41
Il primo agosto il sinodo, presieduto da Marino di Arles e
organizzato da Cresto di Siracusa, si aprì. Milziade era morto, e
il nuovo papa, san Silvestro (314-335), inviò una piccola
delegazione a rappresentarlo, non volendo lasciare Roma dopo la
38 Lettera in VON SODEN H., Urkunden zur Entstehungsgeschichte des Donatismus (=SODEN), Berlino 1950 2 , n. 8.
39 SODEN, nn. 10-11.
40 SODEN, n. 12.
41 SODEN, nn. 14, 15, 18.
15
sua elezione. La sentenza di Arles confermò praticamente quella
romana, e i Padri conciliari chiesero a papa Silvestro, con una
deferente lettera, di comunicare i deliberati sinodali a tutto il
mondo cristiano. Il primato non era in discussione: l’imperatore
stesso, nel convocare un concilio più ampio dopo un appello per
vizio procedurale, non aveva affatto disprezzato la decisione
papale, ma seguito una prassi ovvia giuridicamente e conforme
alla tradizione ecclesiastica.
I donatisti però non si sottomisero al concilio. L’imperatore
allora intervenne personalmente, ma non ebbero effetto né il
divieto ai donatisti di lasciare Arles per l’Africa, né il tentativo di
sostituire Ceciliano con un nuovo vescovo, né le minacce di
scendere personalmente in Africa per risolvere la questione. 42
Non gli restò che scoprire le carte (316) dichiarandosi fautore di
Ceciliano, 43 e prendere duri provvedimenti contro i donatisti
(317): gli furono tolte molte chiese e i loro vescovi furono
obbligati all’esilio.
Erano misure coerenti col diritto canonico, ma troppo simili
a quelle delle ancora recenti persecuzioni, e crearono nei
donatisti solo una forte vocazione al martirio. Nemmeno
l’esercito li ridusse alla ragione, in quello che fu il primo caso di
uso delle truppe statali per un obiettivo religioso.
Alla fine Costantino si ritirò dalla lotta. Fu una sconfitta per
la sua politica ecclesiastica, ma anche una traccia segnata per il
futuro: gli scismi non sarebbero stati più una semplice
lacerazione della Chiesa, ma anche una questione politica. Solo
che il significato di quest’ultimo aggettivo copriva una gamma di
significati molto vasti, che potevano andare da un nobile
interesse per la religione che costituiva la sostanza etica dello
stato e della società, fino a un deprimente asservimento delle
cose spirituali alle strategie del potere.
3.2. La controversia ariana.
Una prima avvisaglia di tutto questo si ebbe proprio con la
controversia ariana. 44 Non è certo questa la sede per ripercorrere
le fasi della formazione della cristologia eterodossa di Ario. Basti
ricordare che essa, aumentando drasticamente il tradizionale
subordinazionismo della dogmatica trinitaria, creava una cesura
tra l’essenza del Padre e quella del Figlio e vanificava il valore
dell’Incarnazione e della Redenzione, che non erano più opera di
Dio. L’eresiarca alessandrino mostrava la necessità di chiarire la
questione cristologica, da tempo esposta alle incursioni dei più
svariati pensatori.
Chiaramente la cristologia evangelica – in primis
giovannea – non poteva accordarsi con quella ariana: l’idea di
42
SODEN, n. 23.
43
SODEN, n. 25.
44
Cfr. tra gli altri sull’arg. DE URBINA L., La politica di Costantino nella controversia ariana, in “Studi Bizantini e
Neoellenici” 5 (1939), pp. 284-298; IDEM, Nicée et Costantinople, Parigi 1963; SIMONETTI M., La crisi ariana nel
IV secolo, Roma 1975.
16
una Sapienza creata prima di ogni altra creatura non si addiceva
ad un Verbo che in principio era presso Dio e Dio egli stesso.
Già Giovanni aveva, nel suo prologo appunto, fatto una cernita
delle dottrine sapienziali che potevano essere adattate a Cristo –
come quella che ne faceva il mezzo della Creazione – e di quelle
che andavano appunto rigettate – come la sua creazione nel
tempo. La terminologia filoniana adoperata dal quarto
evangelista era usata con un significato molto diverso da quello
che aveva negli scritti del filosofo alessandrino. E già la modesta
cristologia dei primi secoli aveva concesso abbastanza alla
cultura extrabiblica accettando al distinzione tra logos
endiathetos e proforikos. Ora l’eresia di Ario spezzava la corda,
tesa da secoli, e passava all’estremo opposto del modalismo, che
quella cristologia subordinazionista precedente aveva voluto
sempre scongiurare.
Su questo troncone teologico, aggrovigliato e complesso, si
sarebbe innestato il dibattito di politica ecclesiastica e civile, da
cui lo stesso Costantino, sensibilissimo al tema dell’unità
cattolica ma di certo incapace di comprendere le implicazioni
dogmatiche della discussione in tutta la loro ampiezza, 45 sarebbe
stato irretito.
Quando l’imperatore fu informato della disputa, Ario aveva
già collezionato un arbitrato sfavorevole del suo vescovo
Alessandro, la sua scomunica e la rinnovata condanna di un
concilio generale della sede alessandrina nel 319. 46 Il fatto che
l’eresiarca si fosse messo sotto il patrocinio dei due Eusebi –
vescovi di Nicomedia e di Cesarea – aveva inasprito la contesa,
condendola delle gelosie ecclesiastiche di cui l’epoca era ricca.
Certo che il conciliabolo bitino di Eusebio di Nicomedia
spalleggiò lo scomunicato caldeggiandone l’assoluzione, mentre
la sua autodifesa continuava imperterrita. 47 Di rincalzo
Alessandro continuava a contestarlo, informando anche papa
Silvestro. 48
Costantino inviò una lettera ad Alessandro e ad Ario per
tramite di Osio di Cordova, il suo già ricordato consigliere
ecclesiastico. Ma il tenore della missiva, che invitava ad un
accordo, era sproporzionato alla posta in gioco, e Osio, una volta
giunto ad Alessandria d’Egitto, se ne rese conto: era impossibile
far cessare ogni discussione sull’argomento, come voleva
l’imperatore.
Alessandro persuase Osio della necessità di una soluzione
della controversia dogmatica; il legato imperiale tornò a
Nicomedia, allora sede del sovrano, senza aver nemmeno potuto
incontrare Ario e con una netta propensione per la fazione
ortodossa. 49
45 Cfr. ad es. OPITZ G.H., Urkunden zur Geschichte des arianischen Streites (318-328) = Athanasius, Werke III, 1
(=OPITZ), Berlino 1934, n. 17.
46 OPITZ, nn. 1, 2, 4b.
47 OPITZ, nn. 3, 6, 7.
48 OPITZ, nn. 11, 12, 14, 15, 16.
49 OPITZ, n. 18.
17
Costantino alla fine si convinse che la disputa poteva
risolversi solo con un concilio di tutti i vescovi, che pronunziasse
una sentenza vincolante. La prassi ecclesiastica aveva da sempre
favorito queste decisioni collegiali; tuttavia un’adunanza di tutti i
presuli dell’ecumene non si era mai realizzata, anche a causa del
regime di precarietà giuridica della Chiesa nei primi secoli di
vita. L’unico precedente in tal senso era il concilio
neotestamentario di Gerusalemme.
Costantino però non innovava in senso assoluto: altri sinodi
erano stati radunati sulla questione cristologica. La vera novità
stava nella sua scelta di arrogarsi la potestà di riunire i vescovi:
non negoziò con nessuna autorità ecclesiastica questa riunione,
tantomeno col papa. Così aveva del resto agito anche per il
sinodo di Arles, e papa Silvestro – la cui personalità era troppo
scialba per competere col grande sovrano – non aveva motivo
per dolersi della decisione imperiale, anzi dovette considerarla
ottima.
Costantino fissò la sede sinodale a Nicea in Bitinia, e
ordinò che nel maggio del 325 i presuli vi convenissero
servendosi dei mezzi pubblici di trasporto. Durante la loro
permanenza sarebbero stati ospiti del sovrano. 50 La grande assise
radunò trecentodiciotto presuli, il cui numero permise poi una
mistica equiparazione con i servi di Abramo. 51 In essa la
presenza di confessori come Paolo di Neocesarea e di Pafnuzio
diede assoluto prestigio alla discussione, peraltro guidata
sapientemente dalla minoranza che già aveva preso posizione
contro Ario, sotto l’egida di Alessandro di Alessandria e di
Eustazio di Antiochia, di Marcello di Ancira e di Macario di
Gerusalemme. 52 Un ruolo importante ebbero i periti di questi
presuli, come Atanasio di Alessandria, diacono di Alessandro,
che più volte prese la parola e che va considerato la vera mente
del sinodo. 53 All’opposizione Eusebio di Nicomedia, vescovo
della capitale dell’impero, già collucianista, e poi – come
abbiamo visto – protettore di Ario dopo la scomunica di
Alessandro, e Eusebio di Cesarea, mediocre teologo ma retore
abilissimo che si conquistò la fiducia dell’imperatore. Attorno a
questi due partiti si disposero quei dotti laici che da subito
avevano con calore abbracciato la disputa e che andarono ad
assistere alle sedute conciliari. 54
A questa disputa più greca che latina l’Occidente partecipò
con soli quattro vescovi, per la sua estraneità a questo dibattito e
per le difficoltà del viaggio. Osio di Cordova, presidente
dell’assemblea, Ceciliano di Cartagine e altri due colleghi
rappresentavano tutto l’episcopato latino, assieme ai due legati
50
EUSEBIO, Vita Const., 3, 6.
51
Cfr. AUBINEAU M., Les 318 serviteurs d’Abrahan et le nombre des Pères au Concile de Nicée, in “Revue d'Histoire
Ecclésiastique ” 61 (1966), pp. 5-43.
52
Cfr. SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 2.
53
TEODORETO, Historia Ecclesiastica ( = TEODORETO, Hist. Eccl.), 1, 11, 4.5; SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 3;
1, 17, 7-18; 1.
54
TEODORETO, Hist. Eccl., 1, 11, 4.5; SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 3; 1, 17, 7-18; 1.
18
pontifici, Vito e Vincenzo, che rappresentavano il troppo anziano
Silvestro. 55
Nonostante uno sfondo di intrighi, a cui l’onestà di
Costantino non diede alcun seguito, 56 il dibattito – a tratti duro e
sempre serrato – si sviluppò attorno alla questione dottrinale in
modo netto. Gli ariani cercarono di far passare subito un simbolo
che veicolasse le loro convinzioni, sdegnosamente respinto dagli
ortodossi; Eusebio di Cesarea propose invece un Credo, quello
della sua diocesi, che tutti giudicarono corretto, anche se apparve
opportuno introdurvi correttivi antiariani. 57 La correzione
fondamentale venne dal termine omoousios, inaccettabile per gli
ariani e per alcuni ortodossi, perché ne ricordavano l’uso
monarchiano di Paolo di Samosata biasimato (ma non
condannato) dal II Concilio di Antiochia (268). Il termine poteva
tuttavia interpretarsi come perfettamente ortodosso, distinguendo
la consustanzialità dalla identità personale, secondo la lezione
atanasiana e la tradizione romana, espressa da papa Dionigi (259-
268) già prima del concilio antiocheno. E infatti i latini furono i
più entusiasti fautori della terminologia proposta, che era la
traduzione greca del lessico trinitario della patristica occidentale
da Tertulliano in poi. Lo stesso Costantino, latinissimo – aveva
parlato in questa lingua ai padri conciliari – caldeggiò l’uso del
termine e perorò presso i greci la causa di una sua retta, univoca
e vincolante interpretazione. 58
La compattezza della grandiosa teologia dogmatica di
Atanasio s’impose all’assemblea nicena, e l’idea che la divinità
fosse solo dell’Esse ingeneratum, propria di Ario, fu riconosciuta
pagana, e sostituita da quella evangelica che la trasmette dal
Padre al Figlio e poi allo Spirito.
La teologia di Nicea ha avuto il pregio di sintetizzare
opposti impossibili: l’unità divina e la pluralità delle ipostasi o
persone: 59 Costantino stesso, sedotto dalla forza intellettuale del
Credo niceno, lavorò senza soste per l’adesione di tutti i presuli
alla sua dottrina. I soli Ario, Secondo e Teonato non la
sottoscrissero e andarono in esilio; alcuni presuli però chinarono
il capo solo per timore della corona e continuarono (tra di loro
Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea) a parteggiare per
l’eresiarca caduto. Risolto anche il secolare problema della data
della Pasqua, fissata alla domenica dopo il 14 nisan, il concilio si
sciolse solennemente.
Ma Costantino mutò presto posizione rispetto al dogma
niceno. Dapprima esiliò e sostituì con presuli ortodossi Eusebio
di Nicomedia e Teognide di Nicea, che avevano presto ritrattato
55
SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 2.
56
SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 4-5.
57
OPITZ, n. 22, 4.7.
58
OPITZ, n. 22, 7; EUSEBIO, Vita Const., 13, 3.
59
Non a caso, dando un’idea dinamica della fissità divina, ha avuto i caldi elogi di un idealista come Guido De
Ruggiero che peraltro ha acutamente denunciato la ragione che rese impossibile una conciliazione anche coi semiariani:
era essa stessa infatti una teologia compromissoria, che ben rendeva intelligibili i contorni del dogma più alto, quello
per cui Dio è uno e molti insieme. Cfr. DE RUGGIERO G., Storia della Filosofia, III, Bari 1920, pp. 260-271.
19
la firma al Credo niceno; 60 in seguito tuttavia richiamò Eusebio
di Nicomedia dall’esilio, spinto dalla cortigiana influenza di
Eusebio di Cesarea – coonestata dall’ingenuo parere della madre
dell’imperatore, Elena, ammiratrice di quest’ultimo – e della
sorellastra Costanza. 61 Reintegrato nelle sue funzioni, il
metropolita imperiale fu abile nell’ostentare deferenza per i
deliberati niceni e nel dispensare veleno contro i loro fautori: con
una procedura tipica del clima torbido dei dispotismi al
crepuscolo, Eusebio plagiò l’imperatore accusando di
immoralità, litigiosità e irriverenza verso Elena il suo rivale
Eustazio di Antiochia, la cui penna affilata aveva sarcasticamente
commentato le azioni di Ario e ora stigmatizzava l’opportunismo
politico del vescovo di Nicomedia.
Eustazio fu deposto in un conciliabolo ad Antiochia (331
ca.), ai cui anatemi Costantino aggiunse l’esilio in Tracia. 62 Ben
presto la condanna toccò ad altri otto vescovi, mentre Eusebio
cominciava a manovrare contro Atanasio, ora vescovo di
Alessandria. È curioso osservare con quale facilità l’imperatore
abbia prestato fede alle accuse contro di lui: l’assassinio del
vescovo Arsenio in qualità di fautore dello scisma di Melezio –
presule ordinato senza il consenso del metropolita alessandrino
ma perdonato a Nicea – la fustigazione di altri presuli suoi
fautori, la profanazione di un calice sono accuse chiaramente
denigratorie.
Forse il dispotismo alterò nell’imperatore la percezione
della realtà: certo è che egli accolse alla propria corte Eusebio,
nemico giurato della sua politica dogmatica, ne fece il proprio
consigliere, al posto di Osio di Cordova, e lo assecondò nella
demolizione del partito fautore del Credo niceno. Il primo
imperatore cristiano divenne, almeno nei fatti, anche il primo
fiancheggiatore dell’eresia. Probabilmente, constatando come il
concilio non avesse sanato i contrasti, era tornato alla primitiva
valutazione superficiale della controversia, sotto il fatuo influsso
di Eusebio di Cesarea, e cercava un nuovo compromesso nel
semiarianesimo.
In ogni caso, l’imperatore accolse le accuse contro
Atanasio e lo deferì al concilio di Tiro (335), dove tutti i prelati
(e persino il suo delegato Flavio Dionigi) erano ariani. Atanasio
non poteva naturalmente sperare in un giudizio equo e, forse
temendo la morte, fuggì a Costantinopoli.
Costantino non volle però riceverlo; l’indomito vescovo lo
avvicinò allora durante un’uscita a cavallo, denunciando i fatti di
Tiro, dove frattanto era stato deposto in contumacia.
L’imperatore allora convocò a sé i presuli di Tiro: solo quattro,
tra cui i due Eusebio, si presentarono, accusando Atanasio di
sabotare i rifornimenti di grano egiziano a Costantinopoli.
Evidentemente però il campione dell’ortodossia nicena risultava
60 OPITZ, nn. 27. 28.
61 FILOSTORGIO, Historia Ecclesiastica, 2, 7.
62 TEODORETO, Hist. Eccl., 1, 21, 4-22.
20
scomodo: data la natura palesemente strumentale dell’accusa
mossagli, non fu condannato a morte ma solo esiliato.
Se Ario fosse vissuto ancora nel luogo del suo esilio,
avrebbe fatto in tempo ad essere riabilitato. Costantino, che
ancora nel 333 lo aveva condannato, 63 nell’anno successivo lo
aveva incontrato a corte dopo averlo ripetutamente invitato. 64
L’eresiarca gli presentò una professione di fede elusiva che diede
all’imperatore il destro per aprire la procedura di riabilitazione,
da sancire in un sinodo gerosolimitano che però non si compì per
la morte dell’imputato. 65 Tuttavia il concilio fece in tempo a
chiedere l’assoluzione e la reintegrazione nel presbiterato
dell’eresiarca, prima della sua morte, adducendo come pretesto
proprio la nuova professio fidei.
Di lì a poco morì anche l’imperatore, senza dubbio entrato
in una fase mistica dopo il battesimo, ma certamente tutt’altro
che consapevole degli esiti della sua contraddittoria politica, che
anticipa tutte le opzioni dispotiche che poi i sovrani bizantini
svilupparono nei secoli.
Il modello di comportamento sancito a Nicea per affrontare
le crisi dogmatiche fu duraturo: confutazione degli errori,
precisazione e ampliamento delle formule dottrinali contestate,
uso appropriato del lessico filosofico. Inoltre con la difesa del
Simbolo niceno la Chiesa dimostrò che l’abbraccio con l’impero
non l’aveva anestetizzata, ma che sapeva difendersi ancora
all’occorrenza. La prosecuzione della lotta sotto Costanzo II
dimostrò sia le possibilità di perversione del rapporto stato-
Chiesa insito nel sistema costantiniano sia la possibilità di
indipendenza morale della Chiesa stessa.
Creando un modello di relazioni tra impero e sacerdozio,
Costantino fornì per un millennio scarso le coordinate in cui
impostare il problema. Nelle controversie cristologiche e
trinitarie successive gli ortodossi poterono contestare il ruolo dei
singoli imperatori ma non delegittimarlo per principio. Per
arrivare a questo ci vorrà la mente geniale di Gregorio VII, e
bisognerà che oapato e impero litighino fino al ‘200 per
affermarla definitivamente, facendo della libertà della Chiesa un
principio della spiritualità cattolica e un cardine della civiltà
occidentale, anche nella sua versione laica. Per contro, la
legislazione imperiale creò un precedente autorevolissimo per la
cristianizzazione del diritto, e segnerà profondamente il modo di
concepire la libertà di coscienza, di religione, il diritto di
famiglia, quello penale, e quello di successione, assegnando alla
Chiesa un posto di preminenza che l’ha aiutata non poco a
formare l’anima dell’Occidente. Giudicare tutto ciò alla luce
delle moderne categorie di pensiero sarebbe assurdo e ingiusto.
Inoltre Costantino, con certe scelte – come la sacralizzazione dei
63
OPITZ, n. 33, 4.
64
SOCRATE, Historia Ecclesiastica, 1, 25.
65
SOZOMENO, Hist. Eccl., 2, 27, 7 sgg.; 13-14; ATANASIO, Apologia contra Arianos, 84; IDEM, Epistola de morte
Arii ad episcopos Aegypti et Libyae, 19.
21
conflitti – creò le premesse per le forme materiali della pietà di
moltissimi secoli a venire.
Questo imperatore può a giusto titolo essere considerato il
genio politico che congiunse la più veneranda eredità di civiltà
classica alla forza più giovane che trainava il mondo verso il
futuro, che ancora continua.
22
L’ARCO DI COSTANTINO
di Carlo Valdemeri
Finalità di questo studio è esporre alcune considerazioni
sulle ragioni simboliche che portarono ad ornare l’arco trionfale
dedicato a Costantino a Roma con sculture prelevate da
monumenti più antichi, eretti in onore di precedenti imperatori.
Per raggiungere questo fine, non si potrà tuttavia prescindere dal
dare informazioni, per quanto possibile sintetiche:
- sul simbolismo degli archi di trionfo;
- sulla storia, sulle forme e sull’iconografia dell’arco di
Costantino;
- sui riferimenti religiosi ed ideologici degli albori del dominato
e sulla loro espressione nelle forme dell’arco;
- sull’adattamento delle cerimonie tradizionali alle nuove
caratteristiche dello stato romano;
- sui significati iconografici dei rilievi reimpiegati nell’arco di
Costantino;
- infine, sul simbolismo che questo riuso acquistava nel nuovo
contesto cerimoniale.
1. Il significato degli archi di trionfo.
1.1. La concezione antica dell’immortalità.
Il contesto ideale e simbolico che giustificava, e allo stesso
tempo chiariva, il significato di strutture come gli archi trionfali
era espressione di concezioni del mondo e della vita fortemente
presenti nella cultura romana, e non solo.
Era infatti idea comune al mondo pagano che quanto vive
sulla terra avesse inevitabilmente un inizio, una giovinezza, un
declino e una fine. A questo destino era sottoposto ogni essere
vivente - uomo compreso- ed ogni sua opera materiale.
A differenza degli esseri terreni, le divinità vivevano in una
dimensione “celeste” (cielo inteso non come luogo infinito, ma
bensì ben identificabile e definito), non condizionata da fattori
come tempo e spazio: esistendo in una sorta di eterno presente,
essi non potevano che essere immortali. Non a caso, i nomi degli
dei erano quelli degli astri che, per il fatto stesso di essere
presenti in cielo e di percorrerlo con cicli immutabili, rendevano
l’idea stessa della perennità e di un’alterità rispetto alla
dimensione terrena.
In questa prospettiva, l’unica possibilità per gli uomini di
sopravvivere alla morte consisteva nel prolungare la propria vita
sotto forma di “presenza” nella vita e nel ricordo dei
contemporanei e delle generazioni successive.
Era quindi fondamentale tramandare il ricordo delle
imprese – appunto – memorabili, ma anche il perpetuarsi del
23
culto stesso degli antenati, ecc.. Espressioni di questa concezione
della vita furono, ad esempio, la grande tradizione ritrattistica ma
anche storiografica del mondo classico.
Nella mentalità degli antichi, risultava poi evidente che
alcune imprese, per la grandezza e la fama che derivava a chi le
compiva, avrebbero meritato imperituro ricordo nelle generazioni
future. L’autore delle gesta, quindi, acquisiva aspetti di divinità,
poiché grazie ai propri meriti, il suo spirito sarebbe sopravvissuto
al limiti di tempo e di spazio concessi all’esistenza umana.
Ciò è particolarmente chiaro in ambito romano,
considerando ad esempio processi quali la consecratio: la ratifica
cioè – determinata da un formale atto del senato – dello status
divino attribuito agli imperatori – ma non solo ad essi – dopo la
loro morte. 66
Per altro, occorre aggiungere che, particolarmente sotto
l’influsso di concezioni orientali, anche presso i Romani
progressivamente si accentuò la tendenza a ritenere che uomini
di speciale e particolare eminenza, quali erano i detentori di
dignità imperiale, progressivamente “assorbissero” la condizione
divina nel corso della propria esistenza terrena. 67
1.2. Gli archi di trionfo come espressione simbolica.
Che relazione esiste tra quanto appena riferito e gli archi di
trionfo? Ebbene gli archi di trionfo rappresentano null’altro che
la celebrazione monumentale ed ideale dell’accesso del
personaggio trionfante alla dimensione dell’immortalità. Per
questo sugli archi sono sovente rappresentate – o citate in
66
MaC CORMACK S., Arte e cerimoniale nella tarda antichità ( = MaC CORMACK, Arte e cerimoniale),Torino
1995, pp. 141 sgg.
67
MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 141–156. Come indicato dall’autrice, l’iconografia solitamente impiegata
per illustrare la consecratio mostra il princeps innalzato al cielo sul dorso di un’aquila o sul cocchio del sole.
24
iscrizioni – le imprese (spesso belliche, ma anche pacifiche) che
hanno permesso al personaggio in questione di essere celebrato:
in definitiva, l’arco stesso è da considerarsi la “porta” che il
personaggio simbolicamente è riuscito ad attraversare, superando
la dimensione del contingente. 68
In questo senso, la porta–arco trionfale è un’espressione del
tema della “porta del cielo”, perché il trionfatore, tramite essa,
simbolicamente accedeva alla dimensione propria degli dei
celesti. Prova ne sia la presenza, al di sopra degli archi trionfali,
della statua dorata del personaggio celebrato, nell’atto di
innalzarsi al firmamento su una quadriga trainata da cavalli. 69 Il
trionfatore accedeva così al cielo proprio come Apollo, l’astro
del sole, vi accede ogni giorno guidando la propria quadriga nel
suo cammino perenne e immutabile.
A ciò va aggiunto che a Roma i più importanti archi
trionfali furono eretti lungo il percorso che il personaggio
celebrato compiva salendo al tempio di Giove in Campidoglio: la
salita e l’omaggio a Giove rappresentavano in termini simbolici
l’accesso al cielo di chi si era mostrato degno del favore divino. 70
68
Cfr. GUENON R., I simboli della scienza sacra. Milano 1975, pp. 305 – 308. In riferimento agli archi di trionfo
romani: «Questi edifici, come è noto, avevano un valore sacrale ed erano delle puerta del sol. La bellezza particolare
dell’arco di trionfo proviene dal fatto che esso è una porta allo stato puro, una porta che si apre sul vuoto, ma un vuoto
che è in realtà il mondo stesso e tutto lo spazio del cielo. Non è possibile immaginare un simbolo più adeguato della
“porta celeste”». Cfr. HANI J., Il simbolismo del tempio cristiano, Roma 1975, p. 99.
69
MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 159 sgg.; pp. 176 ssg.
70
Oltre naturalmente ad esprimere gratitudine a nome dello stato e a costituire il culmine religioso della cerimonia
trionfale. Poiché un aspetto dell’auctoritas concessa da Giove, oltre al potere di accrescimento, è il potere di vittoria in
guerra, giova ricordare la cerimonia con la quale si concludeva, in tempi molto posteriori alla monarchia delle origini, la
grande parata militare (di origine etrusca) chiamata “trionfo”: dopo i riti purificatori dalla contaminazione del sangue e
la parata lungo tutta la Via Sacra e il Clivius Capitolinus, il trionfatore giungeva al tempio di Giove Ottimo Massimo sul
Campidoglio; qui, indossato l’ornatus Iovis Optimi Maximi, egli ornava l’effigie del dio del mantello di porpora, della
corona d’alloro e dello scettro d’avorio sormontato dall’aquila che aveva impiegato durante il trionfo e, infine, si
detergeva il volto dal minio col quale era stato ricoperto durante il trionfo stesso a somiglianza di Giove. La struttura
della cerimonia, in particolare la devoluzione alla divinità dei segni esteriori del potere, manifesta l’idea romana che
l’auctoritas proviene da Giove, affinché i prescelti svolgano fra gli uomini assegnato loro, ma che l'auctoritas torna,
alla fine, alla fonte da cui era discesa. POLIA M., Imperium – Origine e funzione del potere regale nella Roma arcaica (
= POLIA, Imperium), Rimini 2001, pp. 174-175. Si consideri anche p. 31: «È certo, però, che Romolo, in quanto rex,
doveva essere dotato di insegne distintive della sua funzione. Quali? Sappiamo innanzitutto del lituo che esprimeva la
25
2. L’arco di Costantino.
Dopo aver esposto, seppur in sintesi, la concezione
simbolica ed ideale alla base degli archi trionfali, è ora possibile
prendere in considerazione un esempio che, più di altri,
testimonia una svolta nelle tradizioni religiose dello stato romano
e nella loro espressione sul piano simbolico, monumentale e
iconografico: l’arco dedicato all’imperatore Costantino.
2.1. Cenni storici sull’arco.
L’arco dedicato a Costantino fu eretto dal senato e dal
popolo romano per celebrare la vittoria dell’imperatore su
Massenzio al Ponte Milvio (28 ottobre 312) e dedicato il 25
luglio 315, decimo anniversario della sua ascesa al trono. 71
Questo si evince chiaramente dalla grande iscrizione
scolpita su entrambi i lati principali dell’arco:
Imp(eratori) Caes(ari) Fl(avio) Constantino Maximo /
P(io) F(elici) Augusto S(enatus) P(opuls)q(ue) R(omanus) / quod
sua qualità di augure e sacerdote supremo; potremmo ipotizzare, sulla scorta di un’informazione fornita da Virgilio, la
presenza di una lancia senza il ferro (pura hasta), o da una vera e propria lancia da guerra come antica e diffusa
insegna del potere militare. La presenza dei fasci littori e della sella curule, forse, risale all’epoca della dominazione
etrusca a Roma e tali insegne del potere furono introdotte al tempo di Tarquinio Prisco, come testimonia Lucio Anneo
Floro: “Da lì (dall’Etruria provengono) i fasci, le toghe con strisce di porpora (trabeae), le sedie curuli, gli anelli le
falere, le toghe praetextae, i lunghi mantelli militari (paludamenta), da lì furono presi in prestito il costume di
celebrare il trionfo su un carro trainato da quattro cavalli, le toghe pictae e le tuniche palmate e, in una parola, ogni
segno di pompa (decora) e tutte le insegne mediante le quali la dignità del comando (imperii) eccelle”». Triumphus /
triumpus deriva dal greco thriambos (col significato originario di “canto dionisiaco”) mediante una forma etrusca che
muta la consonate sonora b in sorda p (POLIA, Imperium, p.188).
71
Come è ricordato nella scritta votis X sopra uno dei fornici minori, rinnovata con un’altra, votis XX, sopra l’altro
fornice, in occasione del ventennale. STACCIOLI R.A., Guida di Roma antica ( = STACCIOLI, Guida), Milano 1986,
p. 359.
26
instinctu divinitatis mentis / magnitudine cum exercitu suo / tam
de tyranno quam de omni eius / factione uno tempore iustis / rem
publicam ultus est armis / arcum triumphis insignem dicavit. 72
Il monumento fu trasformato in torre durante il Medioevo e
poi incorporato nel palazzo fortificato dei Frangipane; più volte
restaurato, soprattutto nel Settecento, fu definitivamente liberato
da sovrastrutture nel 1804. 73 Recenti restauri hanno poi permesso
di rilevare come l’arco sia il risultato delle trasformazione di un
precedente fornice celebrativo di età adrianea, 74 mentre l’attico
fu ricavato dal podio del grande colosso che, quale gigantesca
immagine del Sole, si erigeva nei pressi del vicino Anfiteatro
Flavio.
2.2. Rilievi di epoca costantiniana.
Sono contemporanee alla costruzione dell’arco, e quindi
d’età costantiniana, le sculture che sulle due facciate si trovano
sui plinti delle colonne scolpiti sui tre lati, con Vittorie che
scrivono sopra gli scudi o reggono palme e trofei, o con soldati
romani e barbari prigionieri sugli archivolti del fornice centrale,
con Vittorie in volo recanti trofei e personificazioni delle
stagioni; sugli archivolti dei fornici minori, con divinità fluviali;
sulle chiavi degli archi, con figure allegoriche molto rovinate;
sulle pareti interne dei fornici minori, con otto grossi busti di
imperatori in rilievo pure molto rovinati; sopra gli stessi fornici
minori e, alla medesima altezza, sui due lati corti, con sei lunghi
pannelli che illustrano la campagna contro Massenzio.
In questi, iniziando dal lato corto occidentale (verso il
Palatino), si susseguono i seguenti episodi: partenza dell’esercito
72
All’Imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il Popolo Romano, poiché per
ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò ad un tempo lo stato su un
tiranno e su tutta la sua fazione con giuste armi, dedicarono questo arco insigne per trionfi.
73
STACCIOLI, Guida, ibidem.
74
CONFORTO M.L. (et al.), Adriano e Costantino. Le due fasi dell’arco nella Valle del Colosseo ( = CONFORTO,
Adriano e Costantino), Milano 2001.
27
di Costantino da Milano, assedio di Verona, battaglia di Ponte
Milvio, entrata di Costantino a Roma, discorso di Costantino dai
Rostri nel Foro Romano, distribuzione di denaro al popolo nel
Foro di Cesare. Sui due lati corti sono infine costantiniani i due
tondi con la rappresentazione della Luna, nel lato ovest e del
Sole, nel lato est. 75
2.3. Rilievi di reimpiego.
Sull’arco appaiono molti rilievi provenienti da altri
monumenti dell’antica Roma.
Appartengono all’età di Traiano, provenienti dal suo Foro
(o forse, ci si permette di suggerire, da un arco trionfale che
chiudeva il suo Foro): 76 le otto statue di Daci prigionieri (con le
teste rifatte nel Settecento) nell’attico sui plinti sopra le colonne,
i due pannelli sui lati minori dell’attico con scene di battaglia, e
gli altri due che sono all’interno del fornice centrale, tutti e
quattro appartenenti a un unico grande fregio che forse decorava
l’attico della Basilica Ulpia (sopra i rilievi all’interno del fornice
centrale sono incise le acclamazioni a Costantino «liberatore di
Roma» e «restitutore della tranquillità»).
Appartengono all’età di Adriano, verosimilmente sempre
rimasti in situ, i tondi che rappresentano: nella facciata
meridionale, la partenza per la caccia, un sacrificio a Silvano, la
caccia all’orso, un sacrificio a Diana; sulla facciata
settentrionale, la caccia al cinghiale, un sacrificio ad Apollo, la
caccia al leone, un sacrificio ad Ercole. In queste raffigurazioni,
quella che era la testa dell’imperatore Adriano è stata sostituita
con quella di Costantino nelle scene di caccia e con quelle del
collega Licinio nelle scene di sacrificio. 77
Infine risalgono all’età di Comodo, provenienti (insieme ad
altri tre che si trovano nel Palazzo dei Conservatori) da un arco
onorario dedicato a Marco Aurelio, gli otto pannelli dell’attico
posti ai lati dell’iscrizione e rappresentati episodi relativi
all’impero di Marco Aurelio (con le teste dell’imperatore
rilavorate nel Settecento): nella facciata meridione, presentazione
di un capo barbaro all’imperatore, prigionieri condotti davanti
all’imperatore, discorso dell’imperatore ai soldati, sacrificio
nell’accampamento; nella facciata settentrionale, arrivo a Roma
dell’imperatore, partenza da Roma dell’imperatore, distribuzione
di denaro al popolo, resa di un capo barbaro. 78
75 STACCIOLI, Guida, p.361.
76 Cfr. MELUCCO VACCARO A., L’arco di Adriano ed il riuso di Costantino ( = MELUCCO VACCARO, L’arco di
Costantino), in CONFORTO, Adriano e Costantino, p. 49.
77 STACCIOLI, Guida, pp. 361-362.
78 STACCIOLI, Guida, p. 362.
28
3. Ideologia e visione religiosa nelle forme scultoree di età
costantiniana.
3.1. La dimensione divina della dignità imperiale in epoca
tetrarchica.
Alla fine del III secolo d.C., la tetrarchia rese la
divinizzazione dell’imperatore un dato acquisito e pienamente
integrato nel contesto religioso-ideologico alla base dello stato
romano.
Gli imperatori sono quindi divinità librate sopra l’impero che
governano. «La vostra anima immortale è più grande di ogni potere, di ogni
fortuna, certo anche dell’impero» – ipso est maior imperio. Il loro potere è
assoluto , il loro diritto a dar forma al mondo, a sciogliere e legare l’umanità,
illimitato. Non dipendendo dal senato e dall’esercito, Jovius Diocletianus può
creare lui stesso gli imperatori, cioè designare i suoi colleghi al trono e i suoi
successori, i quali – creati da lui – sono anch’essi dei. Gli imperatori, come è
detto in un’iscrizione, sono «nati da Dio ed essi medesimi creatori di dei». In
realtà è Giove stesso, il summus pater di tutti gli imperatori, che è presente
all’investitura e adotta come figlio il nuovo Augusto o il nuovo Cesare. I titoli
di Jovius e Herculius attribuiti ai Cesari del 293 e del 305 il giorno della loro
designazione sancivano la scelta: era stato Giove stesso a scegliere.
Lo stato tetrarchico posava così, saldamente e immutabilmente,
sull’ordine eterno del mondo. Nell’opera di ordinamento e governo dello
stato, nelle riforme finanziarie, nelle misure per la stabilità economica e
sociale, nella guerra e nella pace, nella politica culturale e religiosa,
dovunque, l’entità Giove – impero di Diocleziano era presente come ordine
voluto dagli dei. In quanto Jovii e Herculei gli imperatori appartenevano a un
mondo superiore «où ils ont trouvé une sorte d’harmonie préétablie qu’aucun
d’eux ne pouvait contester ou changer» (W. Seston). La grande regolarità e
legalità di questo mondo più alto ed eterno, attraverso l’opera riformatrice di
Diocleziano si calava ora nella nostra realtà temporale, e la confusa
moltitudine delle ostinate e indisciplinate forme naturale veniva inquadrata e
disposta secondo le linee rigorose di un ordine e una simmetria
trascendenti. 79
79
L’ORANGE H.P., L’impero romano dal III al VI secolo. Forme artistiche e vita civile ( = L’ORANGE, L’impero
romano), Milano 1988, p. 93.
29
Come è evidenziato nelle note di L’Orange sopra riportate,
l’imperatore tetrarca, nella sua figura divina, era reale perno di
ogni agire dello stato e ne riassumeva l’idea stessa.
La dimensione divina dell’autorità imperiale condizionava
le espressioni più tipiche della tradizione romana, come rilevato
da S. Mac Cormack a proposito del già citato tema della
consecratio:
La vita ufficiale e pubblica di un imperatore romano era delimitata da
due avvenimenti salienti: l’ascesa – il dies natalis del suo potere – e la
consecratio. L’importanza attribuita ora all’uno ora all’altro avvenimento e il
modo in cui veniva mantenuto l’equilibrio tra di essi, portavano a una
continua ridefinizione del rapporto tra l’imperatore e il divino, precisando
così la natura della sua divinità. Al momento dell’ascesa, l’imperatore poteva
essere presentato come il prescelto dagli dèi, come qualcuno che già godesse
di uno speciale rapporto col divino, oppure venire scelto dagli uomini grazie
alla sua virtus. Queste due caratteristiche potevano essere collegate ed
entrare in relazione tra di loro: una non escludeva l’altra. Se l’imperatore era
scelto dagli dei, le sue azioni sarebbero state guidate dall’instinctu divinitatis
e il modo di governare avrebbe svelato come e perché fosse stato prescelto.
L’altro modo in cui lo status particolare dell’imperatore poteva essere
affermato si presentava al momento della morte: con la sua consecratio
costituiva un momento a sé, in quanto poteva essere preceduta – durante il
regno – da un graduale assorbimento nella condizione divina e questo fatto
trovava la sua espressione soprattutto nella ritrattistica. Nel I e II secolo. Il
modello di vita imperiale imponeva che l’imperatore fosse scelto dal popolo e,
in un qualche misura, dagli dei (i due fatti potevano coincidere quando
l’imperatore fosse stato adottato dal suo predecessore o se ne fosse stato il
figlio), che governasse e che, da morto, venisse ricompensato per le sue
fatiche con la consecratio. Questo modello cambiò durante il III e –
soprattutto – il IV secolo: gli imperatori, che già erano i prescelti dagli dèi,
non avevano alcun bisogno della consecratio e dell’approvazione umana che
questa comportava perché, già dal momento dell’ascesa, la loro condizione
diventava, in maniera sempre più crescente, sovraumana.
Tale cambiamento si fece più evidente durante la tetrarchia. La
tetrarchia presentava un insieme di circostanze talmente nuove che aiutarono
a trasformare l’idea della consecratio in qualcosa di diverso. Diocleziano,
come Aureliano, affermava di governare grazie alla più alta autorità di cui un
sovrano potesse godere, l’essere stato scelto da Dio. Il fatto che fosse
possibile o meno stabilire una relazione tra Diocleziano e i suoi predecessori
non aveva alcuna rilevanza e la consecratio, durante la prima tetrarchia, non
costituì un fattore decisivo per determinare una successione legittima. (…)
L’origine del diritto a governare a governare di Diocleziano rendeva
superflua qualsiasi rivendicazione che si potesse esprimere attraverso la
consecratio di un predecessore, poiché nulla poteva essere aggiunto alla sua
condizione grazie all’intervento o all’approvazione degli uomini.
L’imperatore era già conspicuus et praesens Iuppiter, o imperator
Hercules. Questa rivendicazione, fatta al momento dell’ascesa, travolse tutte
le precauzioni adottate in precedenza per limitare l’approssimarsi
dell’imperatore al divino finché fosse in vita e l’arco di Galerio mostrava
Diocleziano e Massimiano collocati, da vivi, su di un trono al si sopra della
terra e del cielo, in una posizione simile a quella riservata agli dei. 80
80 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 157-159.
30
3.2. I riferimenti ideologici e religiosi di Costantino.
Poiché oggetto di questo studio è specificamente l’arco
dedicato a Costantino, pare ora utile fornire qualche precisazione
su come questo imperatore intese porsi nel contesto ideologico
della tetrarchia nel momento, davvero cruciale per la storia
romana, in cui entrò vittorioso nell’Urbe.
In effetti, quando oltrepassò le mura aureliane, Costantino
era pienamente erede della concezione tetrarchica anche se,
rispetto ad essa, aveva assunto una posizione originale,
recuperando riferimenti alla dimensione “solare” della divinità
imperiale derivante in buona parte dalla supremazia imposta ai
culti solari dagli imperatori del III secolo d. C.
Se dunque per i tetrarchi i riferimenti specifici erano quelli
a Giove e ad Ercole, Costantino si pose piuttosto in relazione con
manifestazione di culti “solari” tipici del paganesimo.
A questo proposito, di nuovo Sabine Mac Cormack – alla
quale ci riferiremo spesso nel corso di questo studio – così si
esprime:
Dalla metà del III secolo, il Sole veniva rappresentato non solo come
compagno e protettore dell’imperatore ma anche come il suo prototipo divino
per ciò che riguardava il potere e, in particolare, l’avvento imperiale.
Nell’arte e nei panegirici di questo periodo era la vicinanza tra Costantino e
il Sole, una vicinanza che rasentava la somiglianza fisica al dio, ad essere
accentuata. (…) Così il panegirista del 310 descrive una visione che
Costantino aveva avuto di Apollo, al cui identità, a quel tempo, si era fusa con
quella del Sole:
Io credo, Costantino che tu abbia visto il tuo Apollo accompagnato
dalla Vittoria che offriva a te corone d’alloro, ognuna delle quali
accompagnata dalla profezia di 30 anni [di regno]. Perché questa è la durata
della vita umana che rappresenta la tua parte ben oltre la longevità di
Nestore. Ma perché dico «Io credo»? Tu l’hai visto e hai riconosciuto te
stesso nell’aspetto di colui al quale, secondo i canti divini dei profeti,
appartengono tutti i regni del mondo. Questo, penso, è adesso sul punto di
finire perché tu, o nostro imperatore, sei, come lui, giovane e felice,
bellissimo e dispensatore di prosperità.
Sull’arco di Costantino, l’immagine di Sole che sorge dall’oceano,
anche se non strettamente collegata a quella dell’imperatore rappresentata
sul medaglione di Ticino, è comunque associata al rilievo che rappresenta
l’entrata trionfale di Costantino a Roma nel 312 e che raffigura la
processione imperiale tra la porta Flaminia e l’arco ad elefante di
Domiziano. Non c’è nessuno a porgere il benvenuto. A indicare il tema
troviamo la Vittoria Alata, che vola ad di sopra della carrozza imperiale ma,
a differenza dei trionfatori, Costantino si trova seduto nella carrozza invece
che in piedi sul carro trionfale. 81
3.3. Le forme delle sculture di età costantiniana presenti
nell’arco quali espressioni dell’ideologia dello stato romano
ai tempi di Costantino.
Sulla scorta delle affermazioni di Sabine Mac Cormack,
arriviamo a considerare l’arco costantiniano e le sculture in esso
81 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 47-49.
31
presenti. Le astratte e stilizzate forme dei rilievi dell’arco
eseguiti nel IV secolo, già nel Rinascimento hanno attirato
attenzione e rimproveri per la loro diversità rispetto alle sculture
più antiche; esse, tuttavia, sono da considerarsi funzionali a
trasmettere specifici contenuti ideologico – religiosi.
Questi contenuti, come si vedrà, sono espressi nel modo più
coerente proprio da figure astratte e geometricamente
schematizzate, nonché dalla organizzazione ben definita e rigida
delle immagini intorno a quella centrale dell’imperatore quale
appare nell’arco.
Sui rapporti che si possono stabilire tra l’idea dello stato
romano che si affermò tra III e IV secolo, e le forme scolpite, è
comunque possibile citare ancora H.P. L’Orange, riportando le
osservazioni rivolte proprio alle caratteristiche formali dei fregi
eseguiti nel IV secolo nell’arco costantiniano:
Ma, tal quale appare nella contemporanea riorganizzazione dello stato
e della vita civile, il nuovo ordine che si instaura nell’arte non è, come
accadeva nella tradizione classica, un ordine organico fondato su autonome
figure legate in raggruppamenti spontanei, ma un ordine meccanico che è
imposto agli oggetti dall’alto e ne regola i rapporti reciproci: un ordine che si
fonda su una regolarità superiore a quella della natura. Se osserviamo i due
notissimi rilievi sulla fronte dell’Arco di Costantino (312-315): l’Oratio, cioè
il discorso di Costantino ai Rostri del foro romano e la Liberalitas, cioè
Costantino che elargisce danaro ai cittadini di Roma, vediamo il nuovo
ordine meccanico già pienamente in atto: le figure singole non sono riunite in
gruppi naturali, ma disposte in serie come elementi uniformi uno accanto
all’altro; queste file, come l’architettura che le inquadra, non sono
autonome: ogni elemento è strettamente subordinato e collocato
simmetricamente rispetto alla figura dominante dell’imperatore posto al
centro del rilievo. La forzata regolarità che l’allineamento e la simmetria
impongono è accentuata dal fatto che gli assi dell’intera composizione
seguono le orizzontali e le verticali delle cornici, per cui le linee principali
delle figure e delle architetture o coincidono o corrono parallele ad esse. Si
osservi, ad esempio, la linea immediatamente sopra la testa delle figure e
quella immediatamente sotto i loro piedi. Poiché la figura singola perde la
propria integrità organica ben proporzionata per irrigidirsi seguendo le
verticali della cornice, la tradizionale curva della figura in riposo scompare e
con essa l’espressione schiettamente classica di una dinamica ma equilibrata
naturalezza. 82
Ed ancora:
Per vie assolutamente diverse da quelle dell’arte tradizionale, dove le
figure si muovevano più liberamente nello spazio, ora è possibile orientare
tutti gli elementi verso l’imperatore sito al centro, affinché sia avvertita
l’irresistibile carica magnetica che da lui emana e il superiore ordine cui egli
appartiene. È il divino impero che viene rappresentato in questa
sovrannaturale, immobile, e quindi immutabile, costellazione di figure e
architetture. Le figure nelle simmetriche sequenze sono spesso viste di profilo
e in genere guardano verso l’interno, cioè verso l’imperatore che sta al
centro. Questi d’altro canto è rappresentato frontalmente, rivolto all’esterno
e viene a interrompere la continuità narrativa. Analogamente, nella vita,
l’imperatore –dio è collocato al di sopra dei mortali, e il cerimoniale
imperiale lo isola in un’immagine divina innalzata sopra il mondo dei viventi.
82 L’ORANGE, L’impero romano, p. 144.
32
L’essenza profonda del dominus si esprime in questa disposizione: il suo
ruolo centrale nello stato, la dipendenza e subordinazione di tutti i cittadini a
lui, la sua natura sovrumana. Ecco creato un modulo compositivo che
esplicita la Maiestas Domini e sarà di importanza fondamentale per l’arte
ufficiale della tarda antichità e del medioevo. 83
4. Quale trionfo.
Giunti a questo punto, occorre ritornare alle osservazioni
iniziali sul simbolismo degli archi di trionfo. Lo facciamo per
precisare che il motivo della “porta del cielo”, richiamato dalla
tipologia dell’arco trionfale, solo in termini parziali si poteva
ritenere adatto ad esprimere la dimensione già di per sé divina
della maestà imperiale nel tardo antico.
Infatti, citando la Mac Cormack:
Ai tetrarchi non era necessario essere accolti tra le stelle, come invece
ci suggeriscono le prime emissioni di monete imperiali a proposito degli
imperatori consacrati, poiché il loro status era già stabilito al momento
dell’ascesa al trono. 84
In altri termini, al di là dello specifico tema della
consecratio citato dalla Mac Cormack e considerando bensì le
specifiche funzioni simboliche degli archi trionfali, occorre
rilevare come l’imperatore del dominato non necessitasse di
oltrepassare alcuna porta simbolica per accedere alla condizione
di divinità e di futura immortalità, in quanto queste
caratteristiche erano già proprie del suo status. 85
Ecco quindi che, da questo punto di vista, la situazione
cambia, tant’è che nelle rappresentazioni presenti sull’arco di
Costantino, piuttosto che il motivo del trionfo, venne espresso
quello dell’adventus.
4.1. L’adventus e la sua importanza nel periodo del dominato.
4.1.1. Nozioni generali sull’adventus.
L’adventus era un’antica cerimonia che celebrava l’arrivo
imperiale in una città:
Di tutte le cerimonie che coinvolgevano l’imperatore, quella
dell’adventus pare la più banale: a causa delle rudimentali vie di
comunicazione nell’impero romano, dei frequenti spostamenti e quindi delle
frequenti visite imperiali, l’adventus potrebbe sembrare un fatto così
ovviamente necessario da non richiedere ampi commenti. Una visita
imperiale era preceduta da un periodo di frenetica attività organizzativa:
doveva essere un evento solenne, a cui era poco raccomandabile non
partecipare e poteva trasformarsi, per i più accorti, in una occasione di
profitto. (…) Anche i risultati erano altrettanto prevedibili. Nel migliore dei
83
L’ORANGE, L’impero romano, p. 180.
84
MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 157-158: «Gli imperatori che già erano prescelti dagli dei, non avevano
alcun bisogno della consecratio e dell’approvazione umana che questa comportava perché, già dal momento
dell’ascesa, la loro condizione diventava, in maniera sempre crescente, sovraumana».
85
MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 185.
33
casi un breve periodo di governo diretto, e per questo fermo, avrebbe
illuminato, come un raggio di sole, la comunità. Quando sua divinità,
Massimino Daia, portò la sua luce a Stratonicea, il brigantaggio nelle
montagne della Caria ebbe un attimo di pausa; per le città di frontiera,
l’arrivo dell’imperatore significava un felice periodo di sicurezza. 86
Quindi, come già anticipato, sotto la tetrarchia l’adventus
acquistò ulteriori significati in relazione all’ormai definita
dimensione divina dell’imperatore:
Sotto i tetrarchi, la cerimonia veniva quindi giustificata in modo da
enfatizzarne un aspetto in particolare, l’arrivo del deus praesens,
l’imperatore, capace di aiutare e proteggere i suoi sudditi in quanto presente
e immediatamente disponibile. 87
Ne conseguiva che il giungere del dominus divinizzato era
paragonabile ad una vera epifania di luce cui certamente non era
estranea la succitata dimensione solare richiamata dagli
imperatori della fine del III secolo. Riporta il panegirista del 310:
Ti sei degnato di illuminare quella città [di Autun] che solo per il fatto
di attenderti visse nella prosperità. (…) O dei immortali, quale giorno rifulse
su di noi, quando tu varcasti le porte di tale città, primo segno della nostra
salvezza, e le porte, protese all’interno e affiancate da torri gemelle parevano
accoglierti in una sorta di abbraccio. 88
Dal punto di vista simbolico, l’adventus finì dunque per
rappresentare una sorta di discesa della luce divina del deus
praesens sulla città ove la sua sacra immagine si affacciava;
mentre nella cerimonia del triumphus vero e proprio l’imperator
si innalzava a raggiungere divinità degli dei del cielo.
È doveroso poi indicare che (al di là dei mutamenti
ideologici avvenuti – o meglio definiti – durante la tetrarchia)
almeno sino ai tempi di Diocleziano la tradizionale cerimonia
86 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 46: «Come diceva Atanasio: “Quando un grande re ha visitato una
qualche grande città, e preso dimora in una delle sue case, tale città viene grandemente onorata e più nessun nemico o
bandito osa muovere contro di essa, anzi viene trattata con riguardo perché il re ha dimorato in una delle sue case:
così deve essere anche con il Re di ogni cosa”».
87 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 32.
88 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 37.
34
trionfale fu comunque rispettata nei suoi contenuti religiosi
fondamentali, i quali richiedevano l’ascesa dell’imperatore al
tempio dedicato a Giove sul Campidoglio ove, per rendere grazie
al dio, si deponeva una corona nel suo grembo. 89
4.1.2. L’adventus sull’arco di Costantino.
Per le ragioni sopra citate, nell’arco di Costantino sul lato
corto verso il Palatino, sotto il tondo con il tramonto della Luna,
si trova la rappresentazione della profectio (partenza) da Milano
e sul lato opposto, sotto l’immagine del Sole che sorge, è
raffigurato, appunto, l’adventus di Costantino a Roma. Su questo
tema vale la pena di citare ancora S. Mac Cormack:
Sull’arco di Costantino, l’immagine di Sole che sorge dall’oceano (…)
è comunque associata al rilievo che rappresenta l’entrata trionfale di
Costantino a Roma nel 312 e che raffigura la processione imperiale tra la
Porta Flaminia e l’arco ad elefante di Domiziano. Non c’è nessuno a porgere
il benvenuto. A indicarne il tema troviamo la Vittoria Alata, che vola al di
sopra della carrozza imperiale ma, a differenza dei trionfatori, Costantino si
trova seduto nella carrozza invece che in piedi sul carro trionfale. 90
I rilievi che raffigurano l’adventus e al profectio sono posti
sull’arco in modo da segnare l’alternanza dei motivi
rappresentati sulle due facciate. Sul lato opposto alla città
troviamo un paio di rilievi che rappresentano scene di guerra:
l’assedio di Verona e la battaglia del Ponte Milvio. I due pannelli
che descrivono le virtù militari dell’imperatore sono
controbilanciati – sulla parte dell’arco volta verso la città – da
pannelli che ne illustrano le virtù civili di comandante. Le aquile
di legionari, secondo l’espressione di Claudiano, hanno ceduto il
posto ai littori. Sempre su questo lato dell’arco troviamo
un’immagine dell’imperatore, in piedi sui rostra, in una scena di
adlocutio e in un’altra che lo mostra sul trono mentre distribuisce
doni munifici.
Questi due rilievi, che rivestono un’importanza
marcatamente civile e urbana, descrivono il secondo stadio
dell’adventus, quello dell’incontro diretto tra governante e
sudditi, uno degli elementi normalmente descritti nei panegirici.
L’arco mostra quindi la cerimonia dell’adventus nei suoi due
aspetti, gli stessi del periodo della tetrarchia. L’interpretazione
della cerimonia era comunque cambiata: il linguaggio dell’arco è
ancora pagano ma esprime anche il fatto che Costantino si era
completamente allontanato dalle immagini religiose usate
durante la tetrarchia.
89 FRASCHETTI A., La conversione da Roma pagana a Roma cristiana ( = FRASCHETTI, La conversione), Bari
1999, p. 245.
90 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 48.
35
4.2. Ubique victor.
Come già accennato, caratteristica dei tradizionali archi
trionfali era quella di riportare in immagini, oltre che in
iscrizioni, le imprese per cui al trionfatore era concesso di
“superare” simbolicamente la porta celeste e, grazie appunto alle
sue gesta memorabili, accedere all’immortalità.
Questi concetti – ribadiamo – non si adattavano pienamente
alla figura del deus praesens, ovvero all’imperatore divinizzato
del tardo impero: non si poteva pensare che il suo accesso al
cielo fosse concesso per specifiche imprese, per quanto gloriose,
poiché era la stessa origine “celeste” della carica imperiale ad
implicare l’idea dell’imperator ubique victor, ovvero ovunque (e
sempre) vincitore.
Quindi, poiché il toto orbe victor 91 nelle sue vittorie non
trovava che semplice conferma al proprio status divino,
occorreva che la loro rappresentazione fosse inserita in un
contesto che chiarisse la dimensione assoluta e non contingente
delle imprese da lui compiute.
Come si è detto, ciò era ottenuto mediante forme stilizzate
ed “astratte”, e attraverso l’organizzazione delle immagini
indicata da H.P. L’Orange. 92 Naturalmente questi concetti, così
come erano espressi implicitamente nei modi coi quali erano
raffigurate le immagini, tanto più lo erano, diciamo
“esplicitamente” nei contenuti espressi dall’iconografia delle
scene.
Per cui, se sulla facciata meridionale dell’arco si trovano
scene riguardanti le battaglie sostenute da Costantino e sul lato
opposto troviamo le sue opere pacifiche, 93 tali scene sono
scandite da altre rappresentazioni di evidente contenuto
cosmologico finalizzate ad inserire le gesta del deus praesens
91
MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 247 sgg.
92
Per individuare i riferimenti filosofico-estetici di questo genere di immagini cfr. GRABAR A., Le origini dell’estetica
medievale, Milano 2001.
93
CALCANI G., La serie dei tondi da Adriano a Costantino ( = CALCANI, La serie dei tondi), in CONFORTO,
Adriano e Costantino, pp. 98-99.
36
nella prospettiva adeguata alla carica da lui ricoperta: la
prospettiva, appunto, dell’assolutezza e dell’atemporalità.
A contribuire a questo genere di iconografia sono,
naturalmente, i già citati tondi del Sole e della Luna, le
personificazioni delle stagioni, nonché le divinità fluviali.
Secondo Giuliana Calcani, infatti, la celebrazione del vincitore
presente nell’arco «offriva l’occasione per divulgare un
messaggio di più ampio significato: l’idea dell’equilibrio
perpetuo garantito dal nuovo signore dell’impero.» 94
Continua la Calcani, a questo proposito:
Nel discorso in onore di Costantino, pronunciato da Eusebio alla
presenza di Costantino, si parla dell’eternità indivisibile e priva di forma che
Dio ha diviso in segmenti, rendendola armonica nella lineare partizione in
mesi e date, stagioni, anni e reciproci intervalli di notti e giorni . Ed è ciò che
troviamo riflesso nella decorazione dell’arco, dove sono rappresentati il
giorno e la notte (personificazione di Sole e Luna), i mesi (tondi adrianei con
scene di sacrifici e cacce), le stagioni (genietti) 95 e, quindi, l’anno.
Questa espressione divina dell’ordinamento universale viene formulata
attraverso l’apparato decorativo dell’arco che fa emergere l’azione del
sovrano, il quale diventa l’immagine stessa dell’ordine sociale, in
contrapposizione ai nemici dell’impero che rappresentano il caos. 96
In definitiva, il regno di Costantino, seguendo l’iconografia
presente sul suo arco, rappresenterebbe un momento di equilibrio
e felicità “cosmica”, ove la dimensione temporale è rappresentata
dalle figure riguardanti lo scorrere dei giorni e delle stagioni,
mentre quella spaziale dai quattro fiumi.
5. Le parti reimpiegate.
5.1. I tondi di età adrianea.
Sono comunque i tondi di epoca adrianea – i quali secondo
recenti indagini dovrebbero appartenere alla fase dell’arco
precedente le trasformazioni dei tempi di Costantino – 97 ad
esprimere nel modo più evidente la dimensione cosmica in cui si
intende inserire l’intero programma di immagini.
Naturalmente non ci si diffonderà qui sulle analisi dei
singoli tondi; basterà ricordare – secondo quanto indicato da
Giuliana Calcani – come la tematica in essi raffigurata, quella
della caccia, fosse tradizionalmente connessa all’esaltazione
delle qualità dell’imperator, mentre i ricorrenti sacrifici alle
divinità ne sottolineavano la pietas. Nel IV secolo questi temi
94
CALCANI, La serie dei tondi, p. 100.
95
CALCANI, La serie dei tondi, p. 93: «Le personificazioni delle stagioni, presenti nei punti di imposta del fornice
centrale, sono un altro elemento di allusione allo scorrere ciclico del tempo, e vanno interpretate in diretta connessione
con i tondi adrianei, visto che sono allineate sullo stesso piano di questi ultimi grazie all’appoggio su un rialzo
roccioso: l’Estate segue i tondi con la Partenza e con il Sacrificio a Silvano; l’Autunno precede la Caccia all’orso e il
Sacrifico a Diana; l’Inverno è posto dopo la Caccia al cinghiale e il Sacrificio ad Apollo; la Primavera anticipa il tondo
con il leone e quello con il Sacrificio a Ercole».
96
CALCANI, La serie dei tondi, p. 100.
97
MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, pp. 28-57.
37
furono “integrati”, aggiungendo o modificando le sculture, in
modo da evidenziare relazioni con i riferimenti religiosi ed
ideologici della tetrarchica (es.: l’inserimento delle lastre di
porfido, ovvero il colore collegato alla maestà imperiale; il leone
morente come riferimento alle fatiche di Ercole, ecc…). 98
Il tutto, come si è più volte sottolineato, organizzato in
modo da offrire riferimenti simbolici che permettessero di
rendere chiaro come le gesta imperiali si ponessero al di là delle
dimensioni spazio – temporali. 99
98
CALCANI, La serie dei tondi, pp. 92 sgg.
99
Per chiarezza occorre specificare che l’organizzazione “ciclica” dei tondi adrianei, con la quale si intende richiamare
l’intero svolgersi del tempo e quindi la dimensione dell’assolutezza, era presente ed evidente già nelle immagini ai
tempi di Adriano; questo aspetto è da intendersi come particolarmente collegato al tema del sacrificio agli dei
rappresentato nelle sculture.
38
5.2. I rilievi riguardanti le imprese di Marco Aurelio.
A proposito dei rilievi riguardanti le gesta di Marco
Aurelio, basterà indicare come essi provengano con ogni
probabilità da un altro arco di trionfo, appunto dedicato a questo
imperatore. I fregi risalgono al tempo di Commodo e
rappresentano principalmente l’attività bellica del princeps;
tuttavia le scene ambientate a Roma e, soprattutto, le
raffigurazioni dell’arrivo e dalla partenza imperiale, permettono
anche in questo caso una lettura “ciclica”. È nostra opinione che
nel IV secolo questi fregi furono posti in relazione con la statua
equestre dell’imperatore Costantino, che campeggiava
immediatamente sopra, nell’attico dell’arco, nonché,
evidentemente, con il tema dell’adventus e della profectio;
indichiamo comunque come in uno dei pannelli aureliani appaia
un’iconografia tipicamente trionfale.
5.3. I rilievi traianei.
Quanto ai rilievi riguardanti le imprese di Traiano, sembra
importante segnalare come essi, per il tema trattato, provengano
da monumenti celebrativi 100 dell’imperatore.
Si tratta di riferimenti ad imprese belliche la cui
collocazione, per ciò che attiene le raffigurazioni ai lati del
fornice centrale dell’arco di Costantino, si spiega facilmente in
relazione alle iscrizioni soprastanti che celebrano l’imperatore
come “liberatore” e “restitutore della tranquillità”.
Le statue di prigionieri barbari ed i due pannelli ai lati corti
dell’attico sono naturalmente da intendere nel contesto delle
rappresentazioni di carattere militare che coprono i lati dell’arco
a quell’altezza.
100
In verità, a Roma sono stati identificati almeno due archi trionfali dedicati a Traiano: uno di essi, eretto certamente
dal successore Adriano, si trova citato nei cataloghi della I Regione, mentre un altro è raffigurato in immagini monetali.
MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, p. 49.
39
6. Le ragioni del reimpiego nel contesto del simbolismo della
cerimonia trionfale.
Giunti a questo punto e prima di proseguire, pare opportuno
elencare schematicamente quanto esposto sinora:
- Si è indicato come la presenza di archi di trionfo sia connessa al
simbolismo della vita successiva alla morte tipica del mondo
pagano. Si è citata anche la prossimità di questo tema con il
concetto di consecratio.
- Si sono messe in relazione le forme peculiari delle sculture più
tarde presenti nell’arco di Costantino con le modifiche subite
dall’idea di consecratio in età tetrarchica e costantiniana.
- Si è poi indicato come il significato dei tradizionali archi
trionfali romani, in età tetrarchica, si sia modificato adeguandosi
ad esprimere i contenuti di una cerimonia, per altro altrettanto
tradizionale, che era quella dell’adventus.
40
- Si è inoltre indicato in quali modi e con quale genere di
iconografia lo status di deus praesens dell’imperatore divinizzato
sia stato espresso nelle sculture presenti nell’arco di Costantino.
Di seguito, ci si occuperà delle ragioni per cui si decise di
impiegare nell’arco di Costantino elementi già utilizzati in
precedenti monumenti; prima però sono necessarie alcune
considerazioni sul sito dell’arco.
6.1. Il sito dell’arco di Costantino e la mancata ascesa
dell’imperatore al tempio di Giove Capitolino.
Si è già detto che il monumento nasce dal reimpiego di un
arco precedente, verosimilmente dedicato ad Adriano e sorto al
posto di una struttura ancora precedente, risalente a Domiziano.
In questa prospettiva, parrebbe abbastanza logico porre in
relazione le rappresentazioni di caccia presenti nell’arco con il
vicino Anfiteatro Flavio; inoltre la prossimità del Colosso – la
gigantesca statua del dio Sole – deve aver contribuito 101 alla
scelta del sito quale luogo più adatto per erigere – e quindi
ristrutturare – il fornice celebrativo. 102
Federico Zeri, tra l’altro, indicava nella dislocazione del
monumento di epoca costantiniana possibili riferimenti a
tematiche cristiane. 103
L’arco di Costantino sorge comunque a cavallo dell’antico
percorso dei trionfi imperiali 104 (lungo il quale è situata la gran
101
Ricordiamo come la religiosità dell’imperatore Costantino, prima della sua adesione al cristianesimo, fosse rivolta a
culti solari assai diffusi in ambito militare. MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 47-49.
102
MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, pp. 49-50.
103
ZERI F., Orto aperto, Milano 1990, p. 22: «Eppure, un connotato cristiano è implicito, io credo, nell’ubicazione
dell’arco stesso, che è situato quasi a mezza via tra due altri Archi che commemoravano la disfatta dei Giudei, quello
di Tito, tuttora esistente (e con la rappresentazione delle spoglie, tra cui il candelabro a sette bracci), e un altro a tre
fornici, situato nella curva del Circo Massimo. Oggi è distrutto, ma sappiamo che era dedicato alla presa di
Gerusalemme, come ci attesta l’iscrizione, copiata nell’VIII secolo da un anonimo pellegrino: essa diceva che Tito
“gentem Iudeorum domuit et urbem Hierusolymam… delevit”. È alquanto mai singolare che l’Arco celebrante la
vittoria di Costantino (dalla quale risultarono prima la tolleranza del Cristianesimo poi la sua ascesa a unica religione
dell’impero) si trovasse tra le due testimonianze, a Roma, della tragedia dei seguaci dell’Antico Testamento».
104
Abbiamo già più volte notato come sia proprio la collocazione prestigiosa a cavallo della via Trionfale a determinare
la successione degli archi realizzati in questo punto; ed è ancora la stessa motivazione a causare il reimpiego da parte di
Costantino. Il carattere stesso dell’intervento, che si pone come magistrale esempio nella prassi già consolidata del
“riuso”, può forse giustificare il silenzio su questo arco delle fonti contemporanee, che ricordano come arcus (divi)
Constantini solo il quadrifronte del Foro Boario. SALERNO C.S., Il calco del tondo con la “caccia al leone”, in
CONFORTO, Adriano e Costantino, p. 124: «Un ulteriore tracciato esegetico riguarda il significato degli spogli nel
contesto del riutilizzo di Costantino, che segnala l’altra dimensione della continuità e dell’uso dell’immagine,
attraverso una diretta riappropriazione fisica. In tal senso i cospicui inserti traianei e aureliani dell’arco sono molto
espliciti rispetto agli intenti del programma iconografico tardoantico. I due imperatori, peraltro insieme ad Adriano,
hanno un ruolo privilegiato nella configurazione del messaggio. Alcuni paralleli tra l’arco e alcuni edifici di
Costantinopoli, in particolare il Milion, ne suggeriscono la valenza. Questo tetrapilo, che replica anche il Miliarium
Aureum di Roma, era ricchissimo di sculture e di ornati (tra i quali si suppone che gli spogli fossero gran parte) e tra
questi Traiano e Adriano a cavallo, posti immediatamente dietro le statue di Costantino ed Elena. La presenza degli
stessi imperatori è chiaramente evidenziata nella scena dell’adlocutio del fregio celebrativo dell’arco, che riproduce il
fondale del Foro Romano presso i Rostri, dove sono riconoscibili le statue sedute di Marco Aurelio e di Adriano».
41
parte degli archi celebrativi) 105 e all’imbocco della cosiddetta via
sacra, ma non, come altri archi, sul percorso della via stessa.
La via sacra rappresentava il tratto finale dell’itinerario
trionfale tradizionalmente percorso per raggiungere il tempio di
Giove Capitolino e, soprattutto, il luogo sul quale si affacciavano
i templi più rappresentativi ed importanti della romanità: ed essi
rimandavano, con la loro semplice presenza, ai valori religiosi ed
ideologici fondamentali dello stato romano. La conformazione
stessa della via sacra portava inoltre in sé l’idea, simbolicamente
rilevante, dell’ascesa.
Che questi riferimenti religiosi ed ideologici fossero di
matrice pagana è ovvio; tralasciando in questa sede questioni
complesse quali la cerimonia “trionfale”(?) seguita da Costantino
all’entrata in Roma, ci si limiterà ad accogliere le tesi di Augusto
Fraschetti secondo cui l’imperatore, in nome del cristianesimo da
lui già abbracciato, si rifiutò di compiere l’ascesa al Campidoglio
e di omaggiare la divinità pagana. 106
Questo rifiuto – analizzato da Fraschetti in buona parte de
La conversione da Roma pagana a Roma cristiana – 107 fu un
evento sconvolgente dal punto di vista cerimoniale: la cerimonia
trionfale perse da questo momento gli originari significati
religiosi e per gli ingressi nell’Urbe degli imperatori cristiani
successivi a Costantino non si potrà parlare di trionfo vero e
proprio, bensì di una cerimonia di adventus re- indirizzata in
termini cristiani. 108
105
MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, p. 53: «Questa dislocazione [riferendosi agli archi presenti sulla via
Trionfale, N.d.A.] per un verso è ancora la traccia della formazione, ben prima dell’ingresso presso il Circo Flaminio,
dei cortei trionfali, e la possibile individuazione del Trigarium come punto di raccolta: ma è anche il segno della
trasformazione in età tarda di questi spazi in luoghi destinati ai giochi e funzionalmente equivalenti al circo, di cui è
noto il valore sostitutivo delle liturgie pagane, cadute in disuso con la cristianizzazione dell’impero. Tale erano
diventati, già dopo i ludi saeculares, appunto il Trigario e il Tarento, ubicati tra il ponte di Agrippa e quello di
Nerone».
106
Sulla questione del trionfo di Costantino e della possibile ascesa al colle capitolino ci si limiterà qui a basarsi sulle
affermazioni, estremamente dettagliate e convincenti, presenti in FRASCHETTI, La conversione.
107
FRASCHETTI, La conversione, pp. 5-63; 243-269.
108
MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 25 sgg.
42
6.2. Le ragioni simboliche del “riuso”.
All’inizio di questo articolo abbiamo indicato il valore
simbolico degli archi di trionfo; nel paragrafo precedente
abbiamo sottolineato che questi monumenti erano realizzati
lungo il percorso trionfale e, letteralmente, ne facevano parte: 109
ne consegue che gli archi proponevano manifestamente,
evidenziandoli, i contenuti ideologici e religiosi dell’ascesa del
trionfatore al colle Capitolino.
Dal punto di vista simbolico, per il protagonista della
cerimonia trionfale attraversare i fornici eretti in onore dei
predecessori significava letteralmente “ricalcarne i passi”, ovvero
“varcare soglie” già attraversate da imperatori precedenti,
riproponendone – anzi superandone – le imprese gloriose proprio
sugli archi istoriate. 110
Tutto ciò non poteva più essere espresso compiutamente
nell’arco di Costantino. Le ragioni sono già state in parte
evidenziate:
- la concezione dell’arco come “soglia” da varcare non si
adattava più all’immagine ormai “dichiaratamente” divina
dell’imperatore;
- Costantino non aveva seguito il tragitto “sacro” sino al colle
Capitolino, uscendo così dal solco della tradizione religiosa
pagana.
Al senato, committente dell’arco e dedito alla
conservazione scrupolosa della tradizione, non rimaneva che
dimostrare con immagini e simboli che il dominus, in quanto
deus praesens, riassumeva in sé le imprese gloriose dei
predecessori e poteva anzi riproporne in termini assoluti ed
universali le virtù.
Si spiega allora l’affollarsi sul fornice costantiniano di tante
immagini degli imperatori Traiano, Adriano e Marco Aurelio, la
cui dedizione allo stato poteva essere considerata assolutamente
esemplare sia in tempo di pace che di guerra.
Il fatto poi che i rilevi riusati provenissero da monumenti
assai noti e legati alla tradizione trionfale condensava, per così
dire, nell’arco di Costantino l’intera cerimonia del trionfo.
Dal punto di vista religioso, particolarmente rilevante è la
presenza, nei tondi adrianei, di scene di sacrificio a diverse
divinità: essa indica che, al momento dell’erezione dell’arco
(315), il Senato romano riteneva la posizione di Costantino
ancora recuperabile al solco dell’antica tradizione. 111
109
Non abbiamo purtroppo potuto consultare VERSNEL H.S., Triumphus: an inquiry into the origin, development and
meaning of the Roman triumph, Leiden 1970.
110
In particolare su come le antiche tradizioni continuarono a condizionare anche la cerimonia dell’adventus cfr.
FRASCHETTI, La conversione, pp. 47 sgg.
111
Interessante quanto in proposito riporta FRASCHETTI, La conversione, pp. 76 sgg., ove si sostiene che la rottura
reale con la tradizione sia stata avvertita presso i Romani nel corso della celebrazione del ventennale del regno
43
Ma c’è dell’altro.
6.3. I busti degli imperatori nell’arco di Costantino ed i
quadrifornici romani di età costantiniana.
Tra le espressioni più interessanti della mutata concezione
della cerimonia trionfale, si possono citare i busti di imperatori,
ormai tanto consunti da essere quasi indistinguibili, che si
“affacciano” dai fornici laterali dell’arco di Costantino.
Si trattava certo di antichi imperatori i cui trionfi avevano
ricalcato il percorso simbolico e religioso della tradizionale
processione diretta al colle Capitolino; tuttavia, in epoca
costantiniana la loro presenza intendeva verosimilmente che
l’imperatore divinizzato, lungi dal dover oltrepassare “soglie già
aperte”, raccoglieva nella propria autorità e persona la grandezza
e le imprese memorabili dei propri predecessori; il valore e la
gloria dell’imperatore venivano così proiettatati in una
dimensione di assolutezza ed ubiquità.
costantiniano avvenuta nell’Urbe: «Al contrario, quegli stessi tentativi, volti a conciliare la lex sanctissima dei cristiani
con feste tradizionalmente e per eccellenza pagane come gli anniversari imperiali – appunto in quanto tentativi di una
vita cerimoniale diversa, futuro modello per gli imperatori cristiani del IV e V secolo - , dovettero apparire allora ai
pagani di Roma, alla sua plebs e al suo senato, dopo l’adventus del 312 e i decennali del 315, come il segno tangibile
di un mutamento e di una frattura che si erano ormai inevitabilmente consumati».
44
In conclusione, va osservato che la forma stessa dell’arco
costantiniano non riesce ancora a rendere completamente
l’ideologia dell’autocrate divinizzato propria del dominato. 112
È invece un’altra forma architettonica ben conosciuta nel
mondo romano, quella del quadifornice o tetrapilo (ossia arco a
quattro aperture) ad identificare pienamente il concetto
dell’imperatore toto orbe victor: i quattro fornici indicano
l’estendersi del suo potere assoluto nelle quattro direzioni dello
spazio. La concezione del trionfatore chiamato ad ascendere al
Campidoglio per “innalzarsi” verso la divinità si era infatti
mutata nella espressione “statica” del dominus che manifestava
l’espandersi del proprio potere sull’intero cosmo. 113
Gli archi di epoca costantiniana “di Giano” e di
Malborghetto (di cui rimangono solo resti) mostrano con
chiarezza il compiersi di questo processo ideologico.
112
La forma tradizionale dell’arco trionfale non deve ritenersi “superata” in assoluto: anche un arco non
necessariamente quadrifronte poteva ancora esprimere adeguatamente il senso simbolico di un “passaggio”, al pari della
cerimonia dell’adventus o altro.
113
Cfr. MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, nell’ampia prima parte dedicata all’adventus.
45
ORIENTAMENTI BIBLIOGRAFICI
INERENTI COSTANTINO IL GRANDE
di Ivan Pucci
Il presente contributo intende offrire un repertorio
bibliografico ragionato e commentato su Costantino il Grande e
su diverse questioni relative alla sua epoca: con la
consapevolezza di non poter essere esaustivo, ma con l’auspicio
di fornire un primo orientamento a chi voglia approfondire un
tema particolare legato a questo fondamentale personaggio della
storia umana.
Poiché chi si accosta alla figura storica di Costantino deve
scegliere tra fonti estremamente contrastanti (esemplificando con
i nomi più noti, tra il cristiano Eusebio di Cesarea e il pagano
Zosimo) sembra opportuno introdurre una breve rassegna delle
maggiori fonti primarie.
Le fonti.
Le fonti a nostra disposizione sul regno di Costantino sono
ricche e complesse: ma la Storia Ecclesiastica e la Vita di
Costantino di Eusebio di Cesarea costituiscono – nel bene e nel
male – la nostra principale fonte contemporanea.
La Storia Ecclesiastica, in dieci libri, fu probabilmente
iniziata prima dell’ultima persecuzione contro i cristiani (303) e
conclusa, dopo molti rimaneggiamenti, tra la disfatta di Licinio
(324) e la convocazione del concilio di Nicea (325). Ne esistono
diverse varianti in cui le posizioni di Licinio e Costantino
appaiono ridefinite: del primo viene ridotta l’imparzialità (o, a
seconda dei casi, il favore) verso il cristianesimo, del secondo
viene sottolineato il ruolo di campione della nuova fede.
Per il carattere estremamente tendenzioso, per le non poche
esagerazioni e distorsioni, molti hanno ritenuto che la Vita di
Costantino fosse stata composta tra la metà e la fine del IV
secolo da uno o più autori. Tuttavia, diversi elementi ne hanno
mostrato la piena compatibilità con lo stile di Eusebio, che la
scrisse tra il 325 e il 337. Piuttosto che di una biografia, si tratta
di un panegirico scritto per dimostrare che Costantino fu in ogni
suo atto il modello di imperatore cristiano, in cui l’unico impero
terreno e l’unico Dio cristiano avevano trovato la propria
inevitabile unità: un impero, un imperatore, un Dio.
La faziosità di Eusebio si misura non solo nel racconto di
alcuni episodi - come la visione prima della battaglia del Ponte
Milvio 114 o le simpatie cristiane di Costanzo Cloro – o nelle
114
Eusebio racconta questo episodio solo nella Vita di Costantino (I, 28), mentre è del tutto assente dalla narrazione
della battaglia fornita nella Storia Ecclesiastica (IX, 9).
46
omissioni di fatti non certo edificanti – come la condanna a
morte nel 326 di Crispo, riportata invece nella Storia
Ecclesiastica – ma in complesso nella descrizione di tutta
l’azione politica di Costantino, dalla campagna contro Licinio –
presentata come una guerra santa ante litteram – al suo ingresso
durante i lavori del concilio di Nicea.
La presenza nel testo di lettere ed editti imperiali
– presentati come trascrizioni di copie ufficiali, traduzioni di
originali latini o sintesi operate dall’ autore – non è di per sé
garanzia di imparzialità, poiché non possediamo una
documentazione parallela che ce ne consenta la verifica.
Per la figura di Eusebio e il suo rapporto con Costantino, si
vedano:
BARNES T.D., Constantine and Eusebius, Cambridge 1981.
GRANT R.M., Eusebius as Church Historian, Oxford 1980.
Sull’attribuzione ad Eusebio della Vita di Costantino, ci
sono due posizioni critiche. La prima, che nega la paternità
eusebiana, fa capo a H. Grégoire e a W. Seston:
CATAUDELLA M., La persecuzione di Licinio e l’autenticità
della Vita Constantini, in “Atheneum” 48 (1970), pp. 46 sgg. e
229 sgg.: ritiene falsa l’attribuzione a Licinio delle leggi contro i
cristiani.
GRÉGOIRE H., Nouvelles recherches constantiniennes, in
“Byzantion” 13 (1938), pp. 561 sgg.: assegna la paternità della
Vita ad un falsificatore, probabilmente ad Euzoio vescovo di
Cesarea alla fine del IV secolo.
GRÉGOIRE H., L’authenticité et l’historicité de la “Vita
Constantini” attribuée à Eusèbe de Césarée, in “Bulletin de
l’Académie Belgique” 39 (1953), pp. 462 sgg.
ORGELS P., A propos des erreurs historiques de la Vita
Constantini, in Mélanges Grégoire 4 (1953), pp. 575 sgg.
La seconda, prevalente, considera la Vita di Costantino autentica
in ogni sua parte:
ALAND K., Die religiöse Haltung Kaiser Konstantins, in
“Studia Patristica” 1 (1957), pp. 549 sgg.
HARNACK A., The Mission and Expansion of Christianity,
London (1904-1905), (ed. riv. 1908) in cui viene presa in
rassegna la documentazione contenuta nella Storia Ecclesiastica.
JONES A. H. M., Notes on the Genuineness of the Constantinian
Documents in Eusebius’ Life of Constantine, in “Journal of
Ecclesiastical History” 5 (1954), pp. 196 sgg.
MOREAU J, Zum Problem der Vita Constantini, in “Historia” 4
(1955), pp. 234 sgg.
47
PIGANIOL A., Sur quelques passages de la Vita Constantini, in
Mélanges Grégoire 2 (1950), pp. 513 sgg.
La Storia Ecclesiastica è stata tradotta in italiano da F.
Maspero e M. Ceva per l’editore Rusconi nel 1979; mentre è
possibile leggere la Vita di Costantino in italiano nell’edizione
curata da L. Tartaglia nel 1984 per i tipi della napoletana
D’Auria.
Un’altra fonte letteraria piuttosto parziale è il De mortibus
persecutorum (Sulle morti dei persecutori) di Lattanzio, scritto
fra l’estate del 314 e il dicembre del 315. Suo chiaro intento è
mostrare come Dio sia indiscutibilmente dalla parte dei cristiani,
pronto a punire atrocemente i nemici della vera fede (celeberrima
è la particolareggiata descrizione della morte di Galerio). L’opera
va considerata alla luce dell’esperienza personale di Lattanzio,
che molto dovette soffrire della persecuzione di Galerio. Un
importante studio su questo autore è dato da SOBY
CHRISTENSEN A., Lactantius the Historian. An Analysis of the
De mortibus persecutorum, Copenhagen 1980. Esistono diverse
traduzioni italiane del De mortibus persecutorum.
Sempre di ambito cristiano è la storia dello scisma donatista
scritta nel 365 da Ottato, vescovo di Milevis nell’Africa
settentrionale. Per i nostri fini, la parte più importante di
quest’opera è l’Appendice che riporta diverse documenti
imperiali, tra cui le lettere inviate da Costantino nell’arco di un
decennio per risolvere lo scisma. Esiste una traduzione italiana
dell’opera a cura di L. Dattrino, edita da Città Nuova nel 1988.
L’Origo Constantini imperatoris è una breve biografia di
Costantino, composta attorno alla fine del IV secolo da un autore
pagano, noto come Anonimo Valesiano, a cui sono state aggiunti
inaspettatamente passi della storia cristiana di Orosio.
Non molto aggiunge l’Historia adversus Paganos
dell’iberico Orosio che copre il periodo dalla creazione
dell’uomo al saccheggio vandalo di Roma (417). La traduzione
in italiano, sotto gli auspici della Fondazione Lorenzo Valla, è
stata curata da A. Bartalucci e G. Chiarini ed edita dalla
Mondadori nel 1976. Un buon approfondimento è offerto da
FABBRINI F., Paolo Orosio. Uno storico, Roma 1980.
Non si possono poi dimenticare i Panegyrici Latini n. VI
(databile al 307), n. VII (del 310), n. VIII (del 312), n. IX (del
313) e n. X (del 321). D’altro canto, non è possibile utilizzare
l’Historia Augusta, cioè la raccolta di biografie degli imperatori,
perché la sua composizione da parte di diversi anonimi si
48
interrompe a Diocleziano. Invece, vera e propria iattura è la
perdita dei primi tredici libri delle Res Gestae di Ammiano
Marcellino, che continuavano l’opera di Tacito, dal 96 d.C., e
arrivavano fino al 353. La parte sopravvissuta consiste nei libri
XIV-XXXI, relativi al periodo 354-378, fino alla disfatta di
Adrianopoli. Pur dichiarandosi greco, Ammiano scrive la sua
opera in latino, fra il 363 e il 390: da quanto ci è rimasto
intuiamo le sue idee conservatrici e pagane, tuttavia i suoi giudizi
non sono tendenziosi quanto quelli di Eusebio, tanto è vero che
criticò il provvedimento con cui l’imperatore Giuliano rimuoveva
i cristiani dall’insegnamento.
Ammiano non è tenero con Costantino, cui rimprovera
l’indirizzo accentratore e dirigista che impoveriva la funzione
socio-politica delle città, causandone il declino; un giudizio del
resto condiviso anche da autori pagani quali Eunapio e Zosimo.
Per una valutazione dell’opera storica di Ammiano Marcellino:
AUSTIN N.J.E., Ammianus on Warfare. An Investigation into
Ammianus’Military Knowledge, Bruxelles 1975.
BLOCKEY R.C., Ammianus Marcellinus. A study of his
Historiography and Political Thought, in “Coll. Latomus” 141
(1975), pp. 104-122.
CAMERON A.D.E., The Roman Friends of Ammianus, in
“Journal of Roman Studies” 54 (1964), pp. 15 sgg.
CAMUS P.M., Ammien Marcellin, Paris 1967.
MATTHEWS J., The Roman Empire of Ammianus, London
1989.
RIKE R.L., Apex Omnium: Religion in the Res Gestae of
Ammianus Marcellinus, Berkeley-Los Angeles, 1987 [trad. it.
Apex Omnium: religione nelle Res Gestae di Ammiano
Marcellino, Torino 1993].
ROSEN K., Ammianus Marcellinus, Darmstadt 1982.
SABBAH G., La méthode d’Ammien Marcellin, Paris 1978.
SEAGER R., Ammianus Marcellinus. Seven studies in his
Language and Thought, Columbia 1986.
SYME R., Ammianus and the Historia Augusta, Oxford 1968.
THOMPSON E.A., The Historical Work of Ammianus
Marcellinus, Cambridge 1947.
49
La principale fonte letteraria pagana di lingua greca è la
Storia Nuova di Zosimo, scritta alla fine del V o agli inizi del VI
secolo. Il racconto di Zosimo partiva dall’imperatore Augusto e
si arrestava al 410, al saccheggio di Roma da parte dei Visigoti,
basandosi sulla storia perduta di Eunapio di Sardi e su quella di
Olimpiodoro di Tebe. Se per gli aspetti religiosi dell’età di
Costantino dipendiamo maggiormente dagli scritti di Eusebio,
per quelli – per così dire – mondani la Storia Nuova di Zosimo è
senza dubbio essenziale, nonostante i molti pregiudizi,
naturalmente di segno opposto, nei confronti dell’imperatore.
Zosimo dà spazio perfino a ingenue forzature pur di
addebitare a Costantino tutte le sciagure che si abbatterono
sull’impero. Per comprendere la faziosità di Eusebio e di Zosimo
è sufficiente leggere quanto scrivono sulla fondazione di
Costantinopoli: il vescovo di Cesarea sostiene che la nuova città
era interamente cristiana e che al suo interno non c’era alcuno
spazio per gli dèi pagani e il loro culto. Zosimo, dal canto suo,
critica l’imperatore accusandolo di aver costruito edifici poco
solidi e di aver dilapidato tutte le sostanze dell’impero; egli
inoltre smentisce Eusebio, riferendo che nella “Nuova Roma”
furono eretti due templi pagani, uno dedicato alla dea Rea ed un
altro alla Fortuna.
Sull’esercito e sulla difesa dell’impero, Costantino fu
oggetto di infiammati rimproveri da parte degli autori pagani, in
particolar modo Zosimo (II, 34), che probabilmente mutuava
integralmente il biasimo espresso da Eunapio. Per i due storici
pagani, Diocleziano sarebbe il vero salvatore della patria, colui
che aveva rafforzato l’intero sistema di limes, dirottando ingenti
risorse per il potenziamento dell’esercito così da respingere gli
attacchi dei barbari; Costantino, invece, a loro dire, avrebbe
deliberatamente concesso ai barbari una via d’accesso all’impero
romano ormai priva di resistenza. Secondo Zosimo, Costantino
aveva allontanato le truppe dalle frontiere, trasferendole nelle
città più interne, dove i soldati si sarebbero rammolliti a contatto
con i teatri e con gli altri lussi cittadini, creando non pochi
problemi alla popolazione locale. È facile gioco per Zosimo
lamentarsi della presenza dei soldati nelle città dell’impero a
causa degli oneri che il loro sostentamento e mantenimento
comportava, oltre che per i problemi di ordine pubblico che i
singoli militari potevano causare.
D’altro canto, dalla documentazione epigrafica sappiamo
che già sotto Diocleziano l’esercito mobile si componeva di due
tipi di truppe: quelle stanziate ai confini (i limitanei) e le truppe
mobili (il comitatus) che si acquartieravano all’interno o nei
pressi delle città. Sotto Costantino questa suddivisione funzionale
perdurò, con la differenza che l’esercito mobile crebbe fino a
rappresentare oltre la metà degli effettivi delle forze armate
dell’impero. Del resto, spesso non è possibile attribuire con
certezza determinate misure e riforme a Diocleziano oppure a
Costantino. Infatti, molte decisioni amministrative erano state già
prese da Diocleziano: gli interventi di Costantino consistettero in
50
sviluppi o modifiche di quanto era stato avviato da Diocleziano
in una certa direzione. Costantino portò a termine
quell’evoluzione dell’ordinamento dello Stato che era già stata
avviata nelle sue linee fondamentali da Diocleziano.
Per quanti volessero accostarsi direttamente al testo di
Zosimo si consiglia la traduzione curata nel 1977 da F. Conca per
la casa editrice Rusconi; un ottimo approfondimento critico è
offerto da PASCHOUD F., Cinq études sur Zosime, Paris 1976.
La perdita delle opere di autori pagani contemporanei (o di
poco posteriori) al regno di Costantino è una vera iattura: tra esse
possiamo ricordare l’opera del pagano Prassagora (vissuto nel IV
secolo), di cui ci è rimasto solo qualche frammento, e la storia di
Eunapio di Sardi (349 circa - 404), che riferiva degli avvenimenti
compresi tra il 270 e il 404. Il lavoro di Eunapio è comunque
confluito nella Storia Nuova di Zosimo, mentre è controversa la
questione se Ammiano Marcellino abbia usato Eunapio o se sia
accaduto il contrario. Si veda: BALDINI A., Ricerche sulla
storia di Eunapio di Sardi. Problemi di storiografia
tardopagana, Bologna 1994.
Un’agevole panoramica delle fonti letterarie di questo
periodo è fornita da UDAL’COVA Z.V., Le monde vu par les
historiens byzantins du IV e au VII e siècle, in “Byzantinoslavica”
33 (1972), pp. 193-213.
3. Per uno sguardo d’insieme.
Lo studio delle fonti è imprescindibile nella ricerca storica,
ma non bisogna dimenticare di consultare anche opere d’insieme
in cui sia possibile fruire rapidamente delle conoscenze essenziali
e dei principali riferimenti bibliografici. Oltre ai più conosciuti
testi e manuali sulla storia bizantina, come quelli scritti da
Ostrogorsky, 115 Norwich, 116 Gallina 117 e Ronchey 118 o curati da
Maier 119 o da Ducellier, 120 bisogna ricordare quelli (non ancora
disponibili in italiano) scritti da H.-W. Haussing 121 e da A.
Christophilopoulou. 122
Inoltre, per l’argomento in esame possono risultare utili le
opere dedicate alla storia romana e all’età tardo antica. Tra esse è
possibile citare:
ALFÖDY G., The Social History of Rome, London 1985 [trad. it.
Storia sociale dell’antica Roma, Bologna 1987].
115
OSTROGORSKY G., Geschichte des Byzantinischen Staates, München 1963 [trad. it. Storia dell’impero bizantino,
Torino 1968].
116
NORWICH J.J., Bisanzio. Splendore e decadenza di un impero 330-1453, Milano 2000.
117
GALLINA M., Potere e società a Bisanzio. Dalla fondazione di Costantinopoli al 1204, Torino 1995.
118
RONCHEY S., Lo Stato bizantino, Torino 2002.
119
MAIER F. G., Byzanz, Frankfurt am Main 1973 [trad. it. L’Impero bizantino, Milano 1974].
120
DUCELLIER A. (a cura di), Byzance et le monde orthodoxe, Paris 1986 [trad. it. Bisanzio, Torino 1988].
121
HAUSSIG H. W., Byzantinische Geschichte, Kröner, Stuttgart 1969.
122
CHRISTOPHILOPOULOU A., Byzantine History, I. (324-610), II. (610-867), Amsterdam 1986-1993.
51
BESNIER M., L’Empire Romain de l’avènement des Sévéres au
Concile de Nicée, Paris 1937.
CAMERON A., The Later Roman Empire, London 1993 [trad. it.
Il tardo impero romano, Bologna 1995].
CARY M., A History of Rome down to the Reign of Constantine,
London 1982.
CLEMENTE G., Guida alla storia romana, Milano 1977.
COLLINS R., Early Medieval Europe 300-1000, London 1991.
DEMANDT A., Der Spätantike, Münich 1989.
GIARDINA A. (a cura di), Società romana e impero tardoantico,
4 voll., Roma-Bari 1986.
JONES A.H.M., The Later Roman Empire, 284-602. A Social,
Economic and Administrative Survey, Oxford 1964 [trad. it. Il
tardo impero romano, Milano 1973-1982].
LEVI M. A., L’impero romano, Torino 1971.
MACMULLEN R., Roman Government’s Response to Crisis,
AD 235-337, New Haven 1976.
MAZZARINO S., L’impero romano, 3 voll., Roma-Bari 1973
MILLAR F.G.B., The Emperor in the Roman World, London
1977.
IDEM., The Roman Empire and its Neighbours, London 1963
[trad. it. L’impero romano e i popoli limitrofi, Milano 1968].
PARKER H. M. O., Roman World from 138 to 337 A.D.,
Glasgow 1976.
PETIT P., Histoire génerale de l’empire romain, Paris 1974.
PIGANIOL A., L’empire chrétien (325-395), Paris 1947.
RÉMONDON R., La crise de l’Empire romain de Marc Aurèle à
Anastase, Paris 1964 [trad. it. La crisi dell’impero romano,
Milano 1975].
STEIN E., Histoire du Bas-Empire, 2 voll., Paris-Bruxelles-
Amsterdam 1949-1959.
52
4. Costantino il Grande e la sua età.
Le fonti e gli scopi con cui sono state create hanno
inevitabilmente influenzato i giudizi degli storici moderni; nel
caso di Costantino il Grande i motivi di riflessione, di polemica o
di esaltazione si sono ulteriormente arricchiti e complicati grazie
alla prospettiva storica che il passare dei secoli ha consegnato a
noi posteri. Così si va da posizioni sostanzialmente allineate al
pensiero di Zosimo e Ammiano, come quella di Edward Gibbon,
(l’adesione di Costantino al cristianesimo favorì il già esistente
processo di declino con l’abbandono dei valori romani più
antichi) all’idea che Costantino fosse in realtà un politico
purosangue spregiudicato persino nel campo religioso, come
voleva Jacob Burckhardt. Altri, poi, hanno posto l’accento sugli
elementi di rottura della figura e della politica costantiniane. Ne è
un esempio Santo Mazzarino che nel suo L’impero romano
scrisse: «Costantino è il più violento rivoluzionario della storia
romana: egli ha avuto il coraggio di spezzare con i vecchi
schemi, e di accettare senza grandi compromessi il portato
dell’enorme trasformazione che si era compiuta nell’impero. La
sua rivoluzione religiosa è parallela alla sua rivoluzione
economico-sociale e alla trasformazione degli ordinamenti
militari». Naturalmente, contrapposta a questa opinione, c’è
quella di chi si sofferma sugli elementi di continuità, facendo di
Costantino un figlio del suo tempo (cfr. Peter Brown). In ogni
caso, la cristianizzazione e le profonde ripercussioni determinate
dall’adesione di Costantino al cristianesimo sull’impero e sul
tessuto sociale costituiscono uno degli elementi che differenziano
la tarda antichità dall’antichità propriamente detta.
Qui di seguito elenchiamo i maggiori contributi sulla figura
di Costantino, molti di essi sono vere e proprie monografie:
AIELLO V., Costantino il Grande. Dall’antichità
all’umanesimo, Atti del Convegno Internazionale, Macerata, 18-
20 dicembre 1990.
BAKER G.P., Constantine the Great and the Christian
Revolution, New Haven 2001.
BARNES T. D., The New Empire of Diocletian and Constantine,
Cambridge USA 1981.
IDEM, Constantine: History, Historiography, and Legend,
London 1998.
BRUUN P., Studies in Constantinian Chronology, New York
1961.
BOWDER D., The Age of Constantine and Julian, London 1978.
53
BURCKHARDT J., Die Zeit Constantins des Grossen, Bassel
1853 [trad. it. L’età di Costantino, Firenze 1990].
CHASTAGNOL A., L’évolution politique, sociale et économique
du mond romain de Dioclétien à Julien (284-363), Paris 1982.
DÖLGER F. J., Konstantin der Grosse und seine Zeit, Freiburg
1913.
DOERRIES H., Konstantin der Grosse, Stuttgart 1958.
FIRTH J. B., Constantine The Great, New York 1901, (2 a ed.
1923).
GRANT M., Constantine The Great. The Man and His Times,
New York 1993.
HÖHN K., Konstantin der Grosse, Leipzig 1945.
HORST E., Costantino il Grande, Milano 1987.
KOUSOULAS D. G., The Life and Times of Constantine the
Great: The First Christian Emperor, Boston 1997.
MACMULLEN R., Constantine, London 1970.
MAZZARINO S., Antico, tardoantico ed era costantiniana, Bari
1974.
PIGANIOL A., L’empereur Constantin, Paris 1932.
VOEKL L., Der Kaiser Konstantin. Annalen einer Zeitenwende
306-337, München 1957.
VOGT J., Konstantin der Grosse und sein Jahrhundert, München
1949, (2 a ed. 1960).
VON SIMON D., Konstantinisches Kaiserrecht, Frankfurt 1977.
5. Costantino, il Cristianesimo e la sua politica religiosa.
Con Costantino ha inizio de facto la cristianizzazione
dell’impero, completata de iure da Teodosio. Molti tuttavia, sulla
scorta dell’affascinante tesi di Jacob Burckhardt poc’anzi citata,
hanno creduto Costantino un politico sostanzialmente alieno da
preoccupazioni morali e religiose, che aveva riconosciuto il
cristianesimo solo per freddo calcolo, nella convinzione che la
54
nuova fede potesse dare un utile fermento spirituale alla
riedificazione dell’impero.
Oggi questa tesi non pare più sostenibile, poiché molti
indizi riconoscerebbero infatti in Costantino una genuina
disposizione religiosa.
Ottimi testi di riferimento per approfondire la questione
sono:
ALFÖLDI A., The Conversion of Constantine and Pagan Rome,
Oxford 1948 [trad. it Costantino tra paganesimo e cristianesimo,
Roma-Bari 1976].
AMSTRONG A., The Way and the Ways: Religious Tolerance
and Intolerance in the Fourth Century, in “Vigiliae Christianae”
1984, pp. 1 sgg.
BAYNES N. H., Constantine the Great and the Christian
Church, Cambridge 1930, (2 a ed. 1972).
BEATRICE P. F., L’intolleranza cristiana nei confronti dei
pagani: un problema storiografico, in “Cristianesimo nella
storia” 11 (1990), pp. 441-47.
BREZZI P., Dalle persecuzioni alla pace di Costantino, Roma
1960.
BRISSON J. P., Autonomisme et donatisme dans l’Afrique
romaine de Septime Sévère à l’invasion vandale, Paris 1958.
BROWN P., The World of Late Antiquity. From Marcus Aurelius
to Muhammad, London 1971 [trad. it. Il mondo tardo antico. Da
Marco Aurelio a Maometto, Torino 1974]: si legga in particolare
il secondo capitolo dedicato alla religione.
CALDERONE S., Costantino e il cattolicesimo, Firenze 1962.
CAMERON A., Christianity and the Rhetoric of Empire,
Berkeley-Los Angeles 1991.
CRACCO RUGGINI L., “De morte persecutorum” e polemica
antibarbarica nella storiografia pagana e cristiana, in “Rivista
di storia e letteratura religiosa” 4 (1968), pp. 433-47.
DE GIOVANNI. L., Costantino e il mondo pagano, Napoli 1982.
DODDS E. R., Pagans and Christians in an Age of Anxiety,
Cambridge 1965 [trad. it. Pagani e cristiani in un’epoca
d’angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a
Costantino, Firenze 1976].
55
DORRIES H., Constantine and Religious Liberty, New Haven
1960.
DUCELLIER A., L’église bizantine entre pouvoir et esprit (313-
1204), Paris 1990: sull’evoluzione dei rapporti tra Chiesa e
potere politico. È corredato da un’ampia antologia di fonti e
documenti tradotti.
FOX R. L, Pagans and Christians, London 1986 [trad. it. Pagani
e cristiani, Roma-Bari 1991]: i capitoli II e III sono
particolarmente interessanti perché ricostruiscono il passaggio
dal mondo religioso pagano a quello cristiano all’interno della
religiosità civica delle città ellenistiche secondo una prospettiva
opposta a quella tradizionalmente seguita, di cui E. R. Dodds è
uno dei maggiori esponenti.
GAUDEMET J., L’église dans l’empire romani IV e -V e siècles,
Paris 1958.
GEEFCKEN J., Der Ausgang des Griechisch-Römischen
Heidentums, Heidelberg 1920: sul clima intellettuale e religioso
dell’età costantiniana.
GREENSLADE S. L., Church and State from Constantine to
Theodosius, London 1954.
HUSSEY J. M, The Orthodox Church in the Bizantine Empire,
Oxford 1986.
JONES A. H. M., Constantine and the Conversion of Europe,
London 1948.
MARKUS R., Christianity in the Roman World, London 1974.
IDEM, The End of Ancient Christianity, Cambridge 1991.
MaC MULLEN R., Christianizing the Roman Empire A.D. 100-
400, New Haven Connecticut 1984 [trad. it. La diffusione del
Cristianesimo nell’Impero romano (100-400), Roma-Bari 1989]:
ha posizioni abbastanza scettiche.
IDEM, What difference did Christianity make?, in “Historia” 35
(1986), pp. 322-43.
MOMIGLIANO A. (a cura di), The Conflict between Paganism
and Christianity in the Fourth Century, Oxford 1963 [trad. it. Il
conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino
1968]: comprende otto saggi utili alla comprensione di come si
sia affermato il cristianesimo, nonostante l’opposizione di una
ristretta ma agguerrita élite aristocratica.
56
NOCK A. D., Conversion, Oxford 1933 [trad. it. La conversione.
Società e religione nel mondo antico, Roma-Bari 1974]: descrive
il diffondersi e la portata sociale dei nuovi culti nell’impero
romano.
PIGANIOL A., L’empire chrétien (325-395), Paris 1947.
SCHWARTZ E., Kaiser Konstantin und die Christliche Kirche,
Leipzig 1936.
SORDI M., Il Cristianesimo e Roma, Bologna 1965.
EADEM, I cristiani e l’impero romano, Milano, 1990.
Se si intende studiare la politica religiosa costantiniana
attraverso le emissioni monetali di grande aiuto saranno
l’introduzione e i capitoli II e III del secondo volume di
MAURICE J., Numismatique constantinienne, Paris 1908.
6. In hoc signo vinces.
La battaglia del ponte Milvio del 28 ottobre 312 è passata
alla storia come il momento della rivelazione del favore divino
nei confronti di Costantino. Il quale Costantino, secondo le fonti,
già da qualche anno era convinto di essere sotto la tutela del Dio
cristiano:
CECCHELLI C., Il trionfo della croce, Roma 1954.
GALLETIER E., La mort de Maximien d’après le panégyrique
de 310 et la vision de Constantin au temple d’Apollon, in “Revue
d’Études Anciennes” 52 (1950), pp. 288 sgg.: è convinto che la
prima visione del crisma da parte di Costantino sia avvenuta a
Grand.
HATT J. J., La vision de Constantin au sanctuaire de Grand et
l’origine celtique du labarum, in “Latomus” 9 (1950), pp. 427
sgg.
MOREAU J., Sur la vision de Constantin (312), in “Revue
d’Études Anciennes” 55 (1953), pp. 307 sgg.: il segno del crisma
è riportato alla stella a sei braccia, emblema della divinità
suprema.
ORGELS P., La première vision de Constantine (310) et le
temple d’Apollon à Nîmes, in “Bull. Acad. Belg.” 35 (1948), pp.
176 sgg.: collega la visione del Sol Invictus, identificato con
Apollo, alla costruzione del tempio di Nîmes, in Francia.
57
RODGERS B. S., Constantine’s Pagan Vision, in “Byzantion”
50 (1980), pp. 259 sgg.: riflessione sulle suggestioni classiche e
pagane che dovettero impressionare Costantino.
SESTON W., La vision païenne de 310 et les origines du chrisme
constantinien, in “Ann. Inst. Philol. Hist. Or.” 4 (1936), pp. 373
sgg.: sostiene che sia soltanto un topos puramente letterario.
7. Le battaglie che condussero alla vittoria finale.
ALFÖLDI M.R.– KIENAST D., Zu P. Bruuns Datierung der
Schlacht an der Milvischen Brücke, in “Jahrb. Num. Geldgesch.”
11 (1961), pp. 33-41: preferiscono la data tradizionale del 312
per la battaglia del Ponte Milvio.
BRUUN P., The Battle of the Milvian Bridge. The Date
Reconsidered, in “Hermes” 88 (1960), pp. 361 sgg.: riferisce la
battaglia del Ponte Milvio all’anno 311.
IDEM, Portrait of a Cospirator. Constantine’s Break with the
Tetrarchy, in “Arctos” 10 (1976), pp. 5 sgg.: spiega l’apporto dei
dati numismatici alla conoscenza della lotta condotta da
Costantino per conquistare il potere assoluto.
COSTA G., La battaglia di Costantino a Ponte Milvio, in
“Bilychnis” 2 (1913), pp. 197 sgg.
LEVI M.E., La campagna di Costantino nell’Italia settentrionale
(a. 312), in “Boll. St.-Bibl. Supalp.” 36 (1934), pp. 1 sgg.: si
concentra sulla battaglia allo sbocco della valle di Susa, nei
pressi di Torino del 312.
8. L’editto di Milano.
Non ci è stato tramandato il testo dell’editto di Milano e per
questo motivo alcuni storici ritengono che esso non sia mai stato
emanato. Infatti, possediamo a riguardo solo due lettere
conservate da Lattanzio nel De mortibus persecutorum (XLVIII)
e da Eusebio nella Storia Ecclesiastica (X, 5): dirette una al
governatore della Bitinia, l’altra a quello della Palestina, quasi
uguali fra loro.
ADRIANI M., La storicità dell’editto di Milano, in “Studi
Romani” 2 (1954), pp. 18 sgg.: crede nell’esistenza dell’editto e
tenta addirittura una ricostruzione del testo.
ANASTOS M., The Edict of Milan (313). A Defence of Its
Traditional Autorship and Designation, in “Revue des Études
Byzantines” 25 (1967), pp. 13 sgg.: disquisisce sull’editto del
313 e propende per la sua esistenza.
58
CHRISTENSEN T., The So-called Edict of Milan, in “Classica et
Medievalia” 35 (1984), pp. 129-75.
JOANNOU P. P., La législation impériale t la christianisation de
l’empire romain (311-476), in “̒̒̒̒Orientalia Christiana
Analecta” 192 (1972), (rist. 1979).
LOMBARDI G., L’editto di Milano del 313 e la laicità dello
Stato, in “Studia et Documenta Historiae et Juris” 50 (1984), pp.
1-98.
PALANQUE J. R., À propos du prétendu édit de Milan, in
“Byzantion” 10 (1953), pp. 607 sgg.
9. Costantino e la gerarchia ecclesiastica.
SESTON W., Constantine as a “Bishop”, in “Journal of Roman
Studies” 37 (1947), pp. 127 sgg.: si concentra sull’espressione
“vescovo di quanti sono fuori della chiesa” con cui Costantino,
secondo Eusebio nella Vita di Costantino (VI, 24), avrebbe
designato se stesso, e la confronta con le diverse traduzioni date
del testo greco e ne conclude che essa non appartiene ad Eusebio
ed anzi sospetta dell’autenticità della Vita.
BARNES T. D, Emperors and Bishops. A.D. 324-344. Some
Problems, in “American Journal of Ancient History” 3 (1978),
pp. 53 sgg.
DE DECKER D.– DEPUIS-MASAY G., L’“épiscopat” de
l’empereur Constantin, in “Byzantion” 50 (1980), pp. 118 sgg.
DE WRIES W., Orient et Occident. Les structures ecclésiales
vues dans l’histoire des sept premiers conciles œcuméniques,
Paris 1974.
DRAKE H. A., Constantine and the Bishops: The Politics of
Intolerance, New York 2002.
DUDLEY D., History of the First Council of Nice: A World's
Christian Convention A.D. 325 With a Life of Constantine, New
York 1992.
10. Costantinopoli, Nuova Roma.
Giudicare dello spirito col quale fu fondata Costantinopoli
significa prendere posizione sul complesso problema della
conversione di Costantino e sulle ragioni che lo spinsero a
spostare il baricentro dell’impero verso Oriente.
ALFÖLDI A., On the Fundation of Constantinople. A Few
Notes, in “Journal of Roman Studies” 37 (1947), pp. 10 sgg.
59
IDEM, The Conversion of Constantine and Pagan Rome, Oxford
1948 [trad. it. Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Roma-
Bari 1976]: Costantino non fu spinto a fondare Costantinopoli da
motivi strategici, ma ebbe il desiderio di fondare una capitale
cristiana.
BECATTI G. – DEICHMANN F. W., voce Costantinopoli, in
Enciclopedia dell’Arte Antica II, Roma 1959, pp. 880-918.
BECK H.G., Großstadt-Probleme: Konstantinopel vom 4.-6. Jht.,
in IDEM (a cura di), Studien zur Frühgeschichte
Konstantinopels, München 1973.
IDEM, Constantinople: The Rise of a New Capital in East, in
WEITZMANN K. (a cura di), Age of Spirituality: A Symposium,
New York 1980, pp. 29-37.
CEAUSESCU P., Altera Roma. Histoire d’une folie politique, in
“Historia” 25 (1976), pp. 79 sgg.: illustra i precedenti tentativi di
fondare una seconda Roma in Oriente, preferibilmente ad
Alessandria, dove trasferire la capitale dell’impero.
CRACCO RUGGINI L., Il paganesimo romano tra religione e
politica (384-394 d.C.): per una reinterpretazione del Carmen
contra paganos, in “Memorie della Accademia Nazionale dei
Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche”, serie
VIII, 23 (1979): contributo chiarificatore sulle cerimonie di
fondazione della Nuova Roma.
DAGRON G., Naissance d’une capitale. Constantinople et ses
institutions de 330 à 451, Paris 1974 [trad. it. Costantinopoli.
Nascita di una capitale (330-451), Torino 1991].
IDEM, Rome et l’Italie vues de Byzance (IV e -VII e siècles), in
Bisanzio, Roma e l’Italia nell’alto medioevo (3-9 aprile 1986,
CISAM, XXXIV Settimana), Spoleto 1988, pp. 43-64.
DÉCARREAUX J., Byzance ou l’autre Rome, Paris 1982.
DÖLGER F. J., Rom in der Gedankenwelt der Byzantiner, in
IDEM, Byzanz und die Europäische Staatenwelt, Ettal 1953, pp.
70-115.
EBERSOLT J. – THIERS A., Les églises de Constantinople, 2
voll., Paris 1913.
HAMPL F., Die Gründung von Konstantinopel, in “Südost-
Forschungen” 14 (1955), pp. 9 sgg.
60
HUTTON W. H., Constantinople : the story of the old capital of
the empire, London 1914.
KRAUTHEIMER R., Three Christian Capitals. Topography and
Politics, Berkeley - Los Angeles - London 1983 [trad. it. Tre
capitali cristiane. Topografia e politica, Torino 1987].
JANIN R., Constantinople byzantine, Paris 1950.
MANGO C., Le développement urbain de Constantinople (IV e -
VII e siècles), Paris 1984.
MENGOZZI B. (a cura di), Roma - Costantinopoli - Mosca. Da
Roma alla Terza Roma. Documenti e Studi, Napoli, 21-23 aprile
1983: si leggano in particolare i contributi di E. Follieri, J.
Irmscher, L. Cracco Ruggini, V. Monachino, D. Stiernon, M.
Mazza, G. Dagron e H. Ahrweiler.
SCHMIDT T. M., Konstantinopolis. Zum Städtebaulichen
Programm des Zweiten Rom, in “Wissensch. Zeitschrift Jena” 30
(1981), pp. 431 sgg.
SCHULTZE V., Altchristliche Städte und Landschaften, I,
Konstantinopel, Leipzig 1913.
VAN MILLINGEN A., Constantinople, London 1906.
IDEM., Byzantine Churches in Constantinople: their history and
architecture, London 1974.
11. L’ideologia politica dell’impero cristiano.
L’adesione di Costantino alla fede cristiana determina un
mutamento nell’ideologia politica imperiale; un processo non
certo istantaneo, dato il carico e il prestigio della tradizione a
confronto della comunità cristiana, ancora numericamente poco
rilevante. Lo stesso Costantino mantenne un atteggiamento
– vuoi per ragioni personali, vuoi per opportunismo politico –
sincretistico. È vero che Costantino amava presentarsi come
“tredicesimo apostolo” o come “vescovo di coloro che sono al di
fuori della Chiesa”, ma non è possibile pensare che egli
scientemente ponesse le basi del legame indissolubile (per la
mentalità bizantina) di stato e Chiesa, secondo il paradigma del
cesaropapismo. Per approfondire questi aspetti e i successivi
sviluppi si consigliano:
AHRWEILER A., L’idéologie politique de l’Empire byzantin,
Paris 1975.
61
BARKER E., From Alexander to Constantine, Oxford 1956: per
la storia delle idee politiche e sociali dall’antichità fino
all’avvento del cristianesimo.
IDEM, L’impero romano ed altri saggi, Bari 1959: illustra l’idea
della sovranità da Augusto a Costantino.
DVORNIK F., Early Christian and Byzantine Political
Philosophy, in “Dumbarton Oaks Studies” 2 (1966), pp. 634-35.
FARINA R., L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di
Cesarea. La prima teologia politica del cristianesimo, Zürich
1966.
HALSBERGHE G. H., The Cult of Sol Invictus, Leiden 1972.
HUNGER H. (a cura di), Das Byzantinische Herrscherbild,
Darmstadt 1975.
MaC CORMICK M., Eternal Victory. Triumphal Rulership in
Late Antiquity, Byzantium and Early Medieval West, Cambridge
1986 [trad. it. Vittoria eterna. Sovranità trionfale nella tarda
antichità a Bisanzio e nell’Occidente altomedievale, Milano
1993].
PERTUSI A., Il pensiero politico bizantino, Bologna 1990.
RUNCIMAN S., The Byzantine Theocracy, Cambridge 1977
[trad. it. La teocrazia bizantina, Firenze 1988].
SANSTERRE J. M., Eusèbe de Césarée et la naissance de la
théorie “césaropapiste”, in “Byzantion” 42 (1972), pp. 131-95 e
532-93.
12. L’organizzazione dello stato romano sotto Costantino.
ARNHEIM M. T. W., The Senatorial Aristocracy in the Later
Roman Empire, Oxford 1972.
BAYNES N.H., Three Notes on the Reforms of Diocletian and
Constantine, in “Journal of Roman Studies” 15 (1925), pp. 195
sgg .
CHASTAGNOL A., La préfecture urbaine à Rome sous le Bas-
Empire, Paris 1960.
IDEM., Les fastes de la préfecture de Rome au le Bas-Empire,
Paris 1962.
62
IDEM, Remarques sur le sénateurs orientaux au IV e siècle, in
“Acta Ant. Hung.” 24 (1976), pp. 341 sgg.
CORCORAN S., The Empire of the Tetrarchs: Imperial
Pronouncements & Government, A.D. 284-324, Oxford 1996.
DUPONT C., Constantin et les diocèses, in Studi in memoria di
G. Donatuti, Milano 1973.
HEIL W., Der Konstantinische Patriziat, Basel 1966.
NOVAK D. M., Constantine and the Senate, in “Anc. Soc.” 10
(1979), pp. 271 sgg.: sulla modesta resistenza trovata da
Costantino in ambito senatorio.
PALANQUE J. R., Essai sur la prefecture du prétoire du Bas-
Empire, Paris 1933: fissa il passaggio della prefettura del pretorio
da presentale a regionale intorno al 325, con la creazione di
grandi prefetture, entità territoriali, giuridicamente ben definite,
poste sotto l’autorità di un prefetto del pretorio rappresentante, in
tutta la sua interezza, del potere centrale.
IDEM, Les préfets du prétoire de Constantin, in “Ann. Philol.
Hist. Or.” 10 (1950), pp. 483 sgg.
IDEM, Les préfets du prétoire sous les fils de Constantin, in
“Historia” 4 (1955), p. 257 sgg.
SINNIGEN W. G., The Officium of the Urban Prefecture during
the Later Roman Empire, Accademia Americana, Roma 1957.
ZAKRZEWSKY C., Le consistoire impérial du Bas-Empire
romain, in “Eos” 31 (1928), pp. 405 sgg.
13. L’esercito e le riforme militari di Costantino.
MISCHER E., The Army Reforms of Diocletian and Constantine,
in “Journal of Roman Studies” 13 (1923), pp. 1 sgg.: a suo
avviso, Costantino avrebbe raddoppiato l’organico dell’esercito
romano, portando le legioni da 34 a 68.
PARKER H. D. M., The Legions of Diocletian and Constantine,
in “Journal of Roman Studies” 23 (1933), pp. 175 sgg.
SESTON W., Du “comitatus” de Dioclétien aux “comitatenses”
de Constantin, in “Historia” 4 (1955), pp. 248 sgg.: dimostra che
già sotto Diocleziano esisteva una forza di riserva ed una di
campagna.
63
VAN BERCHEM D., L’armée de Dioclétien et la riforme
constantinienne, Paris 1952: nega l’attribuzione a Diocleziano di
numerose riforme che invece i più fanno risalire a lui,
attribuendole all’età costantiniana: ad esempio, a Costantino è
attribuita l’istituzione dei comitatenses.
14. Il tessuto sociale e il quadro economico sotto il regno di
Costantino.
AMARELLI F., Vetustas-Innovatio. Un’antitesi apparente nella
legislazione di Costantino, Napoli 1978.
CHASTAGNOL A., À propos de quinquennalia de Constantin,
in “Revue Numismatique” 22 (1980), pp. 106 sgg.: afferma che il
solido fu creato nella primavera del 310.
DUPONT C., La réglementation économique dans les
constitutions de Constantin, Lilla 1963: sull’aspetto economico
della legislazione di Costantino.
GANGHOFFER R., L’évolution des institutions municipales en
Occident et en Orient au Bas-Empire, Paris 1963: di notevole
interesse per comprendere l’organizzazione municipale delle città
del basso impero.
GRUBBS J. E., Law and Family in Late Antiquity: The Emperor
Constantine's Marriage Legislation, Oxford 1995.
HENDY, Studies in the Byzantine Monetary Economy, c. 300-
1450, Cambridge 1985: poderosa e magistrale sintesi su tutti gli
aspetti della politica finanziaria ed economica dell’impero
bizantino.
LEMERLE P., The Agrarian History of Byzantium from the
Origins to the Twelfth Century. The Sources and the Problems,
Galway 1979.
MAZZARINO S., Aspetti sociali del quarto secolo, Roma 1951.
PALLASSE P., Orient et Occident. À propos du colonat romain
au Bas-Empire, Lion 1950: sui rapporti giuridici in relazione al
possesso della terra.
PATLAGEAN E., Pauvreté économique et pauvreté sociale à
Byzance, 4 e -7 e siècle, Paris-La Haye 1977: si tratta di una storia
economica e sociale dell’impero vista attraverso la condizione
dei suoi ceti popolari in una prospettiva di antropologia storica.
PIGANIOL A., Le problème de l’or au IV e siècle, in “Annales
d’Histoire sociale” 7 (1945), pp. 47-53.
64
IDEM, La fiscalité du Bas-Empire, in “Journal des
Savants”, Paris 1946, pp. 128-39.
IDEM, L’économie dirigée dans l’Empire romain au IV e siècle,
in “Scientia” 21 (1947).
PUGLISI A., Servi, coloni, veterani e la terra in alcuni testi di
Costantino, in “Labeo” 23 (1977), pp. 305 sgg.
65
I CIECHINI DI MONTECATINI
VAL DI CECINA 123
di Antonio Palesati e Nicoletta Lepri
Montecatini è un ameno borgo delle colline metallifere
toscane affacciato sulla val di Cecina, presso Volterra e in
provincia di Pisa, noto oggi per aver dato il nome e la prima
sede alla società Montecatini, che organizzò industrialmente la
trasformazione dei prodotti dell’attività mineraria della zona. Il
luogo era conosciuto infatti sin dall’antichità, come attestano
frammenti lapidei di età augustea, specialmente per le sue
miniere di allume, argento e rame.
Nella parrocchiale del paese, due figure di serventi di circa
ottanta centimetri di altezza, di marmo bianco venato di
marrone, sono poste alla sommità di colonne, ai lati del
presbiterio (figg. 1-3).
figura 1
123
Il testo di questo articolo è comprensivo delle notizie pubblicate da chi scrive in una delle schede critiche del volume
Montecatini Val di Cecina. Arte e Storia, Pomarance 2003, pp. 54-59. Le foto nn. 1-3 sono di Silvano Donati; la n. 4 è
del K.I.F.
66
Una scheda relativa a queste opere, emessa dalla
Soprintendenza nel 1914 e conservata in copia nell’archivio
parrocchiale, dice che «tengono gli occhi atteggiati in modo da
sembrar chiusi per cecità, onde il volgo li suole chiamare i
ciechini». 124 E li descrive come «due angioli di grandezza oltre
la metà del vero che sorreggono due vasi destinati ad uso di
candelabri»: 125 a prova del fatto che, quando la relazione fu
redatta, ciascuna scultura conservava le ali asportabili
agganciate alle due coppie di ganci di ferro ancora visibili,
fermati da malta in fessure longitudinali sulla schiena.
All’altezza delle scapole sono visibili le due sezioni rettangolari
aperte nel corpo marmoreo per far posto ai tasselli; ma è
impossibile stabilire se ciò facesse parte di un primo
riadattamento o se invece si tratti di un ulteriore intervento, che
dovette riguardare la sostituzione di sagome di ali nel frattempo
deterioratesi.
Dovevano essere presenti anche aureole in metallo, o in
alabastro; o in legno, sul tipo di quella che oggi si vede
appoggiata al capo del reggicandelabro a destra. Le due statue,
secondo il testo novecentesco, sono «lavori ispirati allo stile
proprio di maestri toscani del XV secolo, ma sono di fattura
alquanto rozza, il sentimento è reso in modo insufficiente, tanto
da farcele considerare opera di qualche artista arretrato che
lavorava nella prima metà del XVI secolo».
figura 2
In effetti, il pagamento per la consegna delle due statue
portacero appare, nei quaderni dell’Opera di S. Biagio, ripartito
124
COSTAGLI G., La chiesa e il territorio di Montecatini Val di Cecina fino al secolo XVII (= COSTAGLI, La chiesa
e il territorio), relazione al convegno La chiesa di Montecatini val di Cecina fino al secolo XVII, Montecatini, 12
settembre 1999, p. 56. Per lo studio dell’iscrizione romana cfr. MUNZI M. –TERRENATO N., La colonia di Volterra.
La prima attestazione epigrafica ed il quadro storico e archeologico, in “Ostraka” 1 (1994).
125
COSTAGLI, La chiesa e il territorio, p. 56.
67
in due rate, nel biennio 1577-78, per un importo complessivo di
125 lire. 126 I documenti riferiscono il nome di un artefice,
«Agostino di Giovanni Maghetti marmaio» maestro di
sconosciuta rilevanza locale, in relazione al quale il prezzo
pagato appare ingente. A meno che, come pare più probabile,
l’artigiano non si fosse limitato ad adattare alla forma e alla
funzione di angeli portacero due opere preesistenti, tenendo
parzialmente conto anche del valore antiquario di esse.
Un’analisi del marmo e l’identificazione delle cave d’origine
potrebbero offrire notizie determinanti per la valutazione delle
sculture.
I modi tuttavia, seppur confusi dai rifacimenti e dagli
aggiustamenti, paiono riconducibili alla statuaria di età postaugustea,
a cui rimandano in particolare le capigliature, la
composizione e l’espressione del volto, con il collo largo, il
naso leggermente aquilino, il sottomento pieno e arrotondato; e
il sorriso incerto e ieratico, che suggerisce commistioni con le
modalità artistiche del Mediterraneo orientale, derivanti da
remote tradizioni mesopotamiche. Come le inserzioni di pasta
vitrea in certi antichi manufatti di metallo prezioso, collocate
allo scopo di catturare riflessi di luce che fingessero vivo
l’oggetto.
.
figura 3
Sulle piatte pupille sporgenti e apparentemente mal
terminate delle statue di Montecatini erano probabilmente posti,
in una ricerca di effetto estranea alla scultura di età
repubblicana, dischetti di vetro o di metallo, levigati a specchio
per riflettere la fiamma dell’olio che doveva bruciare in bacili
sostenuti dai piedistalli esagonali, oggi tronche e poco
convincenti basi per i ceri tra le mani delle due figure di marmo.
126 La notizia è fornita da FALORMI A, Montecatini Val di Cecina…, cit., p. 37.
68
La tipizzazione dei profili molto richiama i tratti della testa
colossale di Costantino il grande conservata ai Musei Capitolini
romani, o quelli che del medesimo imperatore furono tramandati
nel conio del multiplo d’oro oggi custodito al Cabinet des
Medailles della Bibliothèque Nationale de France, a Parigi (fig.
4).
figura 4
Sappiamo in realtà che l’immagine storica vi appariva
elaborata in ossequio a un tipo di massima dignità estetica
rispetto allo status imperiale, dove i caratteri personali («la
fronte dritta, il naso aquilino, il mento rotondo e leggermente
prominente, la bocca ben disegnata e l’espressione calma») 127
conoscono alternativamente ricostruzioni massicce e severe,
come accade nelle monete emesse per l’inaugurazione di
Costantinopoli, oppure un affinamento idealistico che risente di
processi di sintesi iconica avviati in tarda epoca repubblicana e
resi poi canonici dai ritratti di Augusto, proporzionati e sereni
secondo la descrizione datane da Svetonio. L’epidermide
levigata e le ciocche a fiammella della capigliatura sulla nuca
risalivano addirittura alla tradizione greca. 128 Possiamo dunque
in sostanza considerare che i lineamenti di Costantino restituiti
dalla statuaria del suo tempo fossero nel loro insieme sintetizzati
prima dell’esistenza di Costantino stesso.
Renato Barilli ha illustrato recentemente, in una serie di
lezioni tenute presso l’ateneo bolognese, 129 i criteri culturali ed
estetici in base ai quali opere scultoree della romanità vennero
assunte in riadattamenti rinascimentali; al tempo in cui, fra
l’altro, le tipologie del volto ideale sono rappresentate nel
ritratto di profilo altrettanto spesso che nella numismatica
antica, combinando efficacemente «il massimo di astrazione
127
FACCENNA D., Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, 6 voll., Roma 1959, II, p. 874.
128
Cfr. FELLETTI MAJ B.M., Enciclopedia dell’arte…, cit., I, p. 918.
129
Cfr. BARILLI R., Percorso della scultura dall’età tardo-romana al romanico e al gotico, Bologna 2003.
69
calligrafica con le esigenze dell’immediata riconoscibilità». 130
Ma se i sandali alla romana come quelli indossati dai Ciechini
furono sovente un recupero iconografico del classicismo
quattro-cinquecentesco, la collana che cinge il collo delle statue,
con il singolare pendaglio a forma di punta di freccia, rimanda
invece indiscutibilmente a immagini di serventi e famigli
dell’antichità. Citiamo a confronto già le due statue di Persiani
di età augustea conservate al Museo Archeologico Nazionale di
Napoli, nel Gran Salone della Meridiana, 131 provenienti dalla
Collezione Farnese a cui erano pervenuti da quella Del Bufalo.
Realizzate in marmo frigio pavonazzetto con inserzioni di
marmo nero nel volto e nelle mani, esse sono inginocchiate
come i personaggi scolpiti di Montecatini, ma, ispirate
all’iconografia più consueta di Atlante e di Attis, le sculture
napoletane, di somiglianza speculare, sorreggono con le spalle
dei contenitori a bocca quadrata.
Le due figure di Montecatini, pur molto simili, presentano
manifeste diversità di esecuzione. Quella a destra dell’altare è
senza dubbio di fattura più accurata: il panneggio è ben rilevato,
facilmente leggibili i particolari decorativi, quali la fibbia e le
ripiegature del tessuto della veste sopra il gomito e sotto il
ginocchio poggiato al suolo. Quella di sinistra presenta al
confronto un’esecuzione più ripetitiva, meno ricercata, e una
minore rilevanza dei volumi. La tunichetta copre i fianchi senza
la leggera svasatura che rende più aggraziato il profilo della
scultura gemella; i gomiti e le mani, specie quella poggiata sul
ginocchio, sono troppo deboli e femminei: concedono di
supporre che la statua si presentasse, all’artefice incaricato
dall’Opera, priva in tutto o in parte delle mani, rilavorate sul
corpo della base portacero esagonale e rafforzate più tardi nella
loro posizione da un blocco di muratura. Nello stesso
personaggio, appare imperitamente ricostituito in malta anche il
piede rovesciato all’indietro; con il medesimo materiale tutto il
corpo del ceriferario è fissato alla base della scultura,
comprendente l’increspatura inferiore della veste.
Raschiature si notano nelle cintole. Il disegno inciso su
quella della figura a sinistra è praticamente scomparso, mentre
nell’altra la decorazione sembra ridotta nel volume: come se si
fosse voluto offuscare le forme cesellate dal primo scultore sul
monile. Le zone dove più pesantemente si intervenne,
asportando altro marmo, corrispondono però ai lati esterni degli
avambracci. Sulla manica delle vesti i due personaggi dovevano
recare elementi decorativi (forse placchette metalliche) o di
raccordo con parti non coerenti con la nuova destinazione d’uso
entro una chiesa cristiana. La zona integrata è talmente netta da
far desumere che l’artigiano cinquecentesco segasse tali
130
Così Roberto Paolo Ciardi si esprime commentando le esemplificazioni grafiche comprese nel Dialogo sulla bellezza
delle donne del Firenzuola, del 1541. Cfr. CIARDI R.P. (a cura di), I vallombrosani... in Vallombrosa..., Ospedaletto,
Pacini, 1999, p. 30.
131
Nn. inv. 6115 e 6117.
70
particolari, tornando a formare grossolanamente la massa del
braccio. Le abrasioni di parte della capigliatura, all’incrocio tra
la regione parietale e quella occipitale, dove una foratura
permettesse l’inserimento delle aureole mediante perni
metallico, dovettero esser parte dei lavori commissionati
dall’Opera di S. Biagio. Impropriamente, nel 1914, il succitato
compilatore della Soprintendenza annotava ancora: «hanno
lunghe ed ondeggianti capigliature».
Dei piccoli fermagli visibili su ogni avambraccio e nelle
tuniche inferiori, uno per gamba, quelli di marmo alabastrino
giallo potrebbero risalire ai primi anni dell’Ottocento. Questi
particolari sembrano infatti da porre in relazione (se non altro,
come espressione di un gusto) con i raggi di gialletto di Siena
richiesti nel 1803 a Volterra, dai due artigiani carraresi chiamati
dai conti Guidi a “comporre” l’altare della Madonna di S.
Sebastiano riutilizzando i marmi «già in opra all’altare di S.
Sebastiano», per ottenere nuove incorniciature e decorazioni. 132
Nella vicina cattedrale di Volterra sono presenti due angeli
atteri portacero, paragonabili anch’essi – se si vuole – con
questa descrizione, riconosciuti da poco come manufatti
medievali e gotici, ma attribuiti in passato interamente alla
mano quattrocentesca di Mino da Fiesole, che si limitò invece a
scolpirne le teste, integrando gli originali mutili od operando un
drastico restauro ricostitutivo su opere la cui testa doveva
comunque risultare danneggiata. È difficile dire se alla fine del
Cinquecento si conservasse ancora memoria di tale operazione e
se gli esemplari volterrani servirono dunque da prototipo ideale
per i Ciechini in S. Biagio. Essi restano comunque fondamentali
per rammentare da quali sintesi iconografiche partì la fortunata
rappresentazione rinascimentale, tutta toscana, degli angeli
reggicandelabro. Tradizione che ha inizio con figure estranee a
quest’uso ma debitrice ai modelli antichi: come il servente
inginocchiato scolpito nel 1260 da Nicola Pisano entro la scena
della Natività, nel pulpito del Battistero di Pisa. Al 1305
risalgono due angeli ceriferari, in piedi al lato della Madonna
nella Vergine con il Bambino di Giovanni Pisano, nella Cappella
degli Scrovegni di Padova. Tali esempi del Medioevo e del
Rinascimento, fino a Luca Della Robbia e a Michelangelo,
ebbero un percorso parallelo a quello che vide le forme del
Moscòforo greco (si veda l’esemplare del 560 a.C. circa esposto
al Museo dell’Acropoli di Atene) perpetuarsi, nel IV secolo, in
quelle del Buon Pastore cristiano del Laterano (Roma, Musei
Vaticani). E conobbero monumentali echi manieristi anche in
ambito veneto attraverso l’arte di Jacopo Sansovino e dei suoi
seguaci, tra cui il padovano Tiziano Aspetti, che a Padova, nella
basilica di S. Antonio, ha lasciato due suoi importanti angeli
ceriferarii bronzei.
132 COSTAGLI, La chiesa e il territorio, p. 13.
71
APPENDICE
IL PRIMO CONCILIO
DI NICEA
(MAGGIO-LUGLIO 325) 133
Contro l'eresia di Ario: consustanzialità del Figlio con il Padre
(simbolo niceno).
Dal 19 giugno al 25 luglio (?) 325.
Papa Silvestro I (314-335).
Convocato dall’imperatore Costantino.
Simbolo Niceno contro Ario: consustanzialità del Figlio col
Padre. 20 canoni.
1. Professione di fede dei 318 padri.
Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di
tutte le cose visibili ed invisibili. Ed in un solo Signore, Gesù
Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla
sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio
vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre
[secondo i Greci: consustanziale], mediante il quale sono state
fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che
sono sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli
discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto e
risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i
morti. Crediamo nello Spirito Santo.
Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui egli non
esisteva; e: prima che nascesse non era; e che non nacque da ciò
che esisteva, o da un’altra ipostasi o sostanza che il Padre, o che
affermano che il Figlio di Dio possa cambiare o mutare, questi
la chiesa cattolica e apostolica li condanna.
2. Canoni.
I. Di quelli che si mutilano o permettono questo da parte di altri
su sé stessi.
Se qualcuno, malato, ha subito dai medici un’operazione
chirurgica, o è stato mutilato dai barbari, può far parte ancora
del clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è castrato da sé,
costui, appartenendo al clero, sia sospeso, e in seguito nessuno
che si trovi in tali condizioni sia promosso allo stato
ecclesiastico. E’ evidente, che quello che è stato detto riguarda
133
Un ringraziamento sentito a Dhuoda webmaster, che ci ha permesso di utilizzare le sue fonti. Per maggiori
informazioni www.concili.totustuus.it.
72
134 I Tm., 3, 6-7.
coloro che deliberatamente compiono una cosa simile e osano
mutilare se stessi ma se qualcuno, fosse stato castrato dai barbari
o dai propri padroni, ma fosse degno sotto ogni aspetto, i canoni
lo ammettono nel clero.
II. A coloro che dopo il battesimo sono subito ammessi nel
clero.
Poiché molte cose per necessità, o sotto la pressione di
qualcuno, sono state fatte contro le disposizioni ecclesiastiche,
sicché degli uomini, venuti da poco alla fede dal paganesimo e
istruiti in breve tempo, sono stati subito ammessi al battesimo e
insieme sono stati promossi all'episcopato o al sacerdozio, è
sembrato bene che in futuro non si verifichi nulla di simile: è
necessario del tempo, infatti, a chi viene catechizzato, ed una
prova più lunga dopo il battesimo. E’ chiara infatti, la parola
dell'apostolo: (il vescovo) non sia un neofita, perché non gli
accada di montare in superbia e di cadere nella stessa
condanna. 134
Se poi col passar del tempo si venisse a scoprire qualche
colpa commessa da costui e fosse accusato da due o tre
testimoni, questi cesserà di far parte del clero. Chi poi osasse
agire contro queste disposizioni e si ergesse contro questo
grande sinodo, costui metterebbe in pericolo la sua stessa dignità
sacerdotale.
III. Delle donne che vivono nascostamente con i chierici.
Questo grande sinodo proibisce assolutamente ai vescovi, ai
sacerdoti, ai diaconi e in genere a qualsiasi membro del clero di
tenere delle donne di nascosto, a meno che non tratti della
propria madre, di una sorella, di una zia, o di persone che siano
al di sopra di ogni sospetto.
IV. Da quanti debba essere consacrato un vescovo.
Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti
i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per
sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre,
radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima
per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione.
La conferma di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna
provincia al vescovo metropolita.
V. Degli scomunicati: che non siano accolti da altri; e
dell'obbligo di tenere i sinodi due volte all'anno.
Quanto agli scomunicati, sia ecclesiastici che laici, la
sentenza dei vescovi di ciascuna provincia abbia forza di legge e
73
sia rispettata la norma secondo la quale chi è stato cacciato da
alcuni non sia accolto da altri. E’ necessario tuttavia assicurarsi
che questi non siano stati allontanati dalla comunità solo per
grettezza d'animo o per rivalità del vescovo o per altro
sentimento di odio.
Perché poi questo punto abbia la dovuta considerazione, è
sembrato bene che in ogni provincia, due volte all'anno si
tengano dei sinodi, affinché tutti i vescovi della stessa provincia
riuniti al medesimo scopo discutano questi problemi, e così sia
chiaro a tutti i vescovi che quelli che hanno mancato in modo
evidente contro il proprio vescovo sono stati opportunamente
scomunicati, fino a che l'assemblea dei vescovi non ritenga di
mostrare verso costoro una più umana comprensione. I sinodi
siano celebrati uno prima della Quaresima perché, superato ogni
dissenso, possa esser offerto a Dio un dono purissimo; l'altro in
autunno.
VI. Della precedenza di alcune sedi, dell'impossibilità di essere
ordinato vescovo senza il consenso del metropolita.
In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le
antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia
autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma
infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad
Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli
antichi privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è fatto
vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo
stabilisce che costui non debba esser vescovo. Qualora poi due o
tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben
meditato e conforme alle norme ecclesiastiche degli altri,
prevalga l'opinione della maggioranza.
VII. Del vescovo di Gerusalemme.
Poiché è invalsa la consuetudine e l'antica tradizione che il
vescovo di Gerusalemme riceva particolare onore, abbia quanto
questo onore comporta, salva sempre la dignità propria della
metropoli.
VIII. Dei cosiddetti càtari.
Quanto a quelli che si definiscono càtari, cioè puri, qualora
si accostino alla Chiesa cattolica e apostolica, questo santo e
grande concilio stabilisce che, ricevuta l'imposizione delle mani,
rimangano senz'altro nel clero. E’ necessario però, prima di ogni
altra cosa, che essi dichiarino apertamente, per iscritto, di
accettare e seguire gli insegnamenti della Chiesa cattolica, che
cioè essi comunicheranno con chi si è sposato per la seconda
volta e con chi è venuto meno durante la persecuzione, per i
quali sono stabiliti il tempo e le circostanze della penitenza, così
da seguire in ogni cosa le decisioni della chiesa cattolica e
74
apostolica. Quando, sia nei villaggi che nelle città, non si trovino
che ecclesiastici di questo gruppo essi rimangano nello stesso
stato. Se però qualcuno di essi si avvicina alla Chiesa cattolica
dove già vi è un vescovo o un presbitero, è chiaro che il vescovo
della chiesa avrà dignità di vescovo e colui che presso i càtari è
chiamato vescovo, avrà dignità di presbitero, a meno che piaccia
al vescovo che quegli possa dividere con lui la stessa dignità. Se
poi questa soluzione non fosse per lui soddisfacente, gli
procurerà un posto o di corepiscopo o di presbitero, perché
appaia che egli fa parte veramente del clero e che non vi sono
due vescovi nella stessa città.
IX. Di quelli che senza il debito esame sono Promossi al
sacerdozio.
Se alcuni sono stati promossi presbiteri senza il debito
esame, o, se esaminati, hanno confessato dei falli, ma, contro le
disposizioni dei canoni, hanno ricevuto l'imposizione delle mani,
la legge ecclesiastica non li riconosce; la Chiesa cattolica infatti
vuole uomini irreprensibili.
X. Di coloro che hanno rinnegato la propria fede durante la
persecuzione e poi sono stati ammessi fra il clero.
Se alcuni di quelli che hanno rinnegato la fede cristiana
sono stati eletti sacerdoti o per ignoranza o per simulazione di
quelli che li hanno scelti, questo non porta pregiudizio alla
disciplina ecclesiastica: una volta scoperti, infatti, costoro
saranno deposti.
XI. Di quelli che hanno rinnegato la propria fede e sono finiti
tra i laici.
Quanto a quelli che, senza necessità, senza confisca dei
beni, senza pericolo o qualche cosa di simile - ciò che avvenne
sotto la tirannide di Licinio - hanno tradito la loro fede, questo
santo sinodo dispone che, per quanto essi siano indegni di
qualsiasi benevolenza, si usi tuttavia comprensione per essi.
Quelli dunque tra i fedeli che fanno davvero penitenza,
trascorrano tre anni tra gli audientes, sei anni tra i substrati, 135 e
per due anni preghino col popolo salvo che all'offertorio.
XII. Di coloro che, dopo aver lasciato il mondo, vi sono poi
ritornati.
Quelli che chiamati dalla grazia, dopo un primo entusiasmo
hanno deposto il cingolo militare, ma poi sono tornati, come i
135
Audientes e substrati indicano gli appartenenti a due fasi dei catecumenato, che dovevano essere adempiute da chi,
convertito al cristianesimo, aspirava al battesimo.
75
136 Cfr. Pr., 26, 11.
137 Cfr. n.135.
138 Ibidem.
139 Ibidem.
cani, sui loro passi, 136 al punto da versare denaro e da ricercare
con benefici la vita militare, facciano penitenza per dieci anni,
dopo aver passato tre anni fra gli audientes. 137 Ma, per questi
penitenti, bisognerà guardare la loro volontà ed il modo di far
penitenza. Quelli, infatti, che col timore, con le lacrime, con la
pazienza, con le buone opere dimostrano con i fatti, e non
simulano la loro conversione, costoro, compiuto il tempo
prescritto da passare fra gli audientes, 138 potranno essere
ammessi ragionevolmente a partecipare alle preghiere; dopo ciò,
il vescovo potrà prendere nei loro riguardi qualche decisione
anche più mite. Ma quelli che si comportano con indifferenza, e
credono che per la loro espiazione sia sufficiente questa
penitenza, devono senz'altro scontare tutto il tempo stabilito.
XIII. Di quelli che in punto di morte chiedono la comunione.
Con quelli che sono in, fin di vita, si osservi ancora l'antica
norma per cui in caso di morte nessuno sia privato dell'ultimo,
indispensabile viatico. Se poi avvenisse che quegli che era stato
dichiarato disperato, ed era,stato ammesso alla comunione e
fatto partecipe dell'offerta, guarisca, sia ammesso tra coloro che
partecipano alla sola preghiera (fino a che sia trascorso il tempo
stabilito da questo grande concilio ecumenico). In genere, poi, il
vescovo, dopo inchiesta, ammetterà chiunque si trovi in punto di
morte e chieda di partecipare all'eucarestia.
XIV. Dei catecumeni lapsi.
Questo santo e grande concilio stabilisce che i catecumeni
lapsi per tre anni siano ammessi solo tra gli audientes, 139 e che
dopo questo tempo possano prender parte alla preghiera, con gli
altri catecumeni.
XV. Del clero che si sposta di città in città.
Per i molti tumulti ed agitazioni che avvengono, è sembrato
bene che sia assolutamente stroncata la consuetudine, che in
qualche parte ha preso piede, contro le norme ecclesiastiche, in
modo che né vescovi né preti, né diaconi si trasferiscano da una
città all'altra. Che se qualcuno, dopo questa disposizione del
santo e grande concilio, facesse qualche cosa di simile, e
seguisse l'antico costume, questo suo trasferimento sarà
senz'altro considerato nullo, ed egli dovrà ritornare alla chiesa
per cui fu eletto vescovo, o presbitero, o diacono
76
140 Psalm., 14, 5.
XVI. Di coloro che non dimorano nelle chiese nelle quali furono
eletti.
Quanti temerariamente, senza santo timore di Dio, né alcun
rispetto per i sacri canoni si allontanano dalla propria chiesa,
siano essi sacerdoti o diaconi, o in qualsiasi modo ecclesiastici,
non devono in nessun modo essere accolti in un'altra chiesa;
bisogna, invece, metterli nell'assoluta necessità di far ritorno alla
propria comunità, altrimenti siano esclusi dalla comunione. Che
se poi uno tentasse di usar violenza ad alcun dipendente da un
altro vescovo e di consacrarlo nella sua chiesa contro la volontà
del vescovo, da cui si è allontanato, tale ordinazione sia
considerata nulla.
XVII. Dei chierici che esercitano l'usura.
Poiché molti che sono soggetti ad una regola religiosa,
trascinati da avarizia e da volgare desiderio di guadagno, e
dimenticata la divina Scrittura, che dice: Non ha dato il suo
denaro ad interesse, 140 prestando, esigono un interesse, il santo e
grande sinodo ha creduto giusto che se qualcuno, dopo la
presente disposizione prenderà usura, o farà questo mestiere
d'usuraio in qualsiasi altra maniera, o esigerà una volta e mezza
tanto:, o si darà, in breve, a qualche altro guadagno scandaloso,
sarà radiato dal clero e considerato estraneo alla regola.
XVIII. Che i diaconi non debbano dare l'eucarestia ai
presbiteri; e che non devono prender posto avanti a questi.
Questo grande e santo concilio è venuto a conoscenza che in
alcuni luoghi e città i diaconi danno la comunione ai presbiteri:
cosa che né i sacri canoni, né la consuetudine permettono: che,
cioè, quelli che non hanno il potere di consacrare diano il corpo
di Cristo a coloro che possono offrirlo. Esso è venuto a
conoscenza anche di questo: che alcuni diaconi ricevono
l'eucarestia perfino prima dei vescovi. Tutto ciò sia tolto di
mezzo, e i diaconi rimangano nei propri limiti, considerando che
essi sono ministri dei vescovi ed inferiori ai presbiteri.
Ricevano, quindi, come esige l'ordine, l'eucarestia, dopo i
sacerdoti, e per mano del vescovo o del sacerdote. Non è
neppure lecito ai diaconi sedere in mezzo ai presbiteri; ciò è,
infatti, sia contro i sacri canoni, sia contro l'ordine. Se poi
qualcuno non intende obbedire, neppure dopo queste
prescrizioni, sia sospeso dal diaconato.
XIX. Di quelli che dall'errore di Paolo di Samosata si
avvicinano alla chiesa cattolica e delle diaconesse.
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Quanto ai seguaci di Paolo, che intendono passare alla
Chiesa cattolica, bisogna osservare l'antica prescrizione che essi
siano senz'altro ribattezzati. Se qualcuno di essi, in passato, era
appartenuto al clero, purché, del tutto irreprensibile, una volta
ribattezzato potrà essere ordinato dal vescovo della Chiesa
cattolica. Ma se l'esame dovesse far concludere che si tratta di
inetti, è bene deporli. Questo modo d'agire sarà usato anche con
le diaconesse e, in genere, con quanti appartengono al clero.
Quanto alle diaconesse in particolare, ricordiamo, che esse, non
avendo ricevuto alcuna imposizione delle mani, devono essere
computate senz'altro fra le persone laiche.
XX. Che non si debba, nei giorni di domenica e di Pentecoste,
pregare in ginocchio.
Poiché vi sono alcuni che di domenica e nei giorni della
Pentecoste si inginocchiano, per una completa uniformità è
sembrato bene a questo santo sinodo che le preghiere a Dio si
facciano in piedi.
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