Itaca - personaggi - Itaca Comunicazione
DIETRO, POTRESTE
TROVARCI PAOLO
PEDRAZZINI,
DIRETTORE CREATIVO
DI ITACA, E IL SUO
MODO PIUTTOSTO
CREATIVO DI NON
ESSERE IL CLASSICO
CREATIVO
NON APRITE
QUELLA PORTA
Dopo avermi fatto accomodare in una piccola
saletta, la ragazza torna alla reception e fa una
telefonata. Riesco a sentire – ... l’intervista... sì...
era oggi... no... sempre stata oggi...
su o giù? –. Dall’altra parte del filo devono
aver risposto – giù – , dal momento che la
ragazza torna da me dicendomi – scendiamo
nel suo ufficio... l’accompagno –.
Me l’avevano detto. Mi avevano avvisato che
Paolo Pedrazzini, il direttore creativo di Itaca,
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PERSONAGGI
PAOLO PEDRAZZINI,
51 anni, nel
frigedarium, l’antro
creativo ricavato
in Itaca.
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non è quel che si dice una persona
che ama incontrarne altre,
soprattutto se sconosciute.
Quindi mi ero psicologicamente
preparato. Ma non abbastanza per
non provare una certa inquietudine
vedendo la ragazza bussare
a una porta scorrevole, aprirla
davanti a me con un cigolìo,
e annunciarmi al nulla in un antro
buio e rimbombante.
L’ufficio è una grande stanza
semivuota in un seminterrato.
C’è un lungo tavolo a cavalletti
e qualche sedia. L’unica luce
proviene da una lampada da tavolo
accanto al computer, che illumina
a metà la faccia dell’uomo che ora
si alza e mi stringe la mano.
Ciao, spero che tu non abbia
troppo freddo. Mi sono rintanato
qui anche per sfuggire alle
temperature da rettile che amano
le ragazze di là.
In effetti, lo sbalzo termico
tra il resto dell’agenzia e l’ufficio
in cui mi trovo ora è dell’ordine
di una decina di gradi. In meno.
Non si preoccupi, va benissimo.
Possiamo cominciare?
Cominciamo, ma diamoci del tu,
per favore.
Okay. Da quanto tempo lavora...
lavori in pubblicità?
Dal novecentottantasei, sarebbe
a dire…
...ventun anni.
Ecco. Ne avrei altri sei in più
sul gobbone, se dopo aver finito
l’Istituto Europeo di Design, allora
non ancora IED, e dopo aver
regalato un anno all’EI, Esercito
Italiano, non me ne fossi andato
in campagna ad allevare cavalli
e conigli nella fattoria di un amico
ricco.
Come mai una scelta così
diversa?
Perché dai colloqui nelle agenzie
me ne uscivo regolarmente
con tanti complimenti ma zero
possibilità di ingresso.
Quasi come succede oggi.
Intanto l’amico corteggiava
la mia parte zoofila e io avevo
bisogno di lavorare.
Così a un certo punto ho ceduto.
In questo modo ho perso il treno
dei miei colleghi coetanei: mentre
io accudivo i cavalli, loro si
godevano i “favolosi anni ’80”
della pubblicità italiana e si
preparavano a occupare le poltrone
più comode, le stesse a cui tanti
sono ancora ben incollati.
Perché non sei rimasto
in campagna?
Nostalgia di Milano?
Per niente. Sono stato costretto
a tornare dal fallimento della
fattoria e dei miei rapporti con
l’amico ricco. Quindi rieccomi
a Milano, con una moglie
«Negli anni ’80
era tempo
di vacche grasse
e le agenzie se
ne approfittavano
allegramente»
e senza una lira, a casa di mamma,
per ricominciare da zero.
O forse da uno, visto che,
fortunatamente, avevo mantenuto
qualche contatto con il mondo
della pubblicità. Penso che nessuno
si immagini che la trasformazione
del “Calzaturificio di Varese”
in “DiVarese” sia stata pensata
da un copy che spalava cacche
di cavallo.
Alcune immagini
del primo spot
della lunga “saga”
Condorelli,
con un giovane
e semisconosciuto
Leo Gullotta.
Sono stati così favolosi, gli anni
’80 della pubblicità italiana?
Beh, io penso che il livello
qualitativo medio delle campagne
fosse decisamente superiore a quello
della pubblicità di questi anni.
O perlomeno molto meno appiattito
sulle stesse idee rispetto a oggi.
Vedi, diversamente da molti miei
colleghi, io credo che la pubblicità
sia solo uno specchio dei propri
tempi: se girano cose buone, anche
la pubblicità fa cose buone.
Da parecchi anni, ormai, l’Italia
è un po’ spenta, non produce
cultura, e questo si riflette anche
nelle campagne.
Non sei un po’ troppo severo?
Negli anni ’80 giravano anche
molti più soldi, più investimenti.
Verissimo, era tempo di vacche
grasse e le agenzie se ne
approfittavano allegramente.
Oggi però mi sembra che si stia
ancora scontando la “vendetta”
dei clienti per i peccati di allora.
Sai la teoria dei tre periodi storici:
tesi, antitesi e sintesi… beh,
io comincio a disperare di vedere
arrivare finalmente la sintesi tra
quel periodo e questo che viviamo,
in cui si indicono gare tra agenzie
anche per assegnare il microbudget
di un folder. Anche se non è il
grande budget che fa le buone idee,
anzi, talvolta è il contrario.
Cosa serve, invece?
Prima di tutto, serve sapere cosa
si vuole comunicare, possibilmente
“La” cosa, ovvero la buona,
vecchia, mai superata “Unique
Selling Proposition”. Poi, il tempo
umanamente necessario per
lavorarci, perché i lavori “oggi
per ieri” non sono mai buoni
lavori. Anche la fretta è uno dei
motivi che concorrono alla
mediocrità corrente della nostra
pubblicità.
Solo USP e un pò di tempo,
quindi.
Per cominciare, sì.
E una volta cominciato?
La volontà e, ovviamente,
la capacità di non fermarsi
alla prima idea e di cercare sempre
qualcosa di originale, senza
soccombere alle mode del
momento. Ci pensa già il cliente,
a ragionare in termini di già visto,
ed è giusto, dal momento che fare
il creativo non è il suo mestiere.
Anche se qualcuno ci prova.
Nel senso che i clienti
si cimentano come creativi
e pensano loro le campagne?
Campagne in toto no, salvo casi
limite, ma capita che buttino
lì alcuni “suggerimenti”
che poi, in realtà, si scoprono
essere vere e proprie indicazioni
sul da farsi. E sai perché?
Perché, sotto sotto, la maggioranza
delle persone sul pianeta pensa
in cuor suo di essere capace
di “fare la pubblicità”.
Non è un caso che le agenzie
ricevano spesso lettere di persone
non del mestiere che propongono
“idee” per spot o headline per
questo o per quell’altro prodotto.
Le mandano come si manda un
romanzo a un possibile editore.
Torniamo ai tuoi inizi
“ritardati”: in che agenzia
hai cominciato?
Allo Studio Nuovi Prodotti, nome
che pochissimi collegano ai noti
lavori della “boutique creativa”
(e lo era veramente) di Sandra
Mazzucchelli, Gino Ciccognani
e Sergio Presenti, tre matti geniali
che riuscivano a lavorare
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Il più ricordato
dei cinque spot
in bianco e nero
della campagna
Golia 1988, uno
dei migliori esempi
della riscoperta della
commedia all’italiana
nella pubblicità.
La regia era di
Alessandro D’Alatri.
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Sopra, il surreale spot
“Modello Base!”
per la Uno Fiat, girato
a Chicago con
l’inconfondibile regia
di Joe Sedelmeier.
Sotto, tre frame
dello spot Gran Golia
(sempre per la regia
di Alessandro D’Alatri)
che lanciò il riuscito
tormentone pubblicitario
“Ma quant’è grande ‘sta
Golia?”.
«Sotto sotto,
la maggioranza
delle persone
sul pianeta pensa
di essere capace
di “fare la
pubblicità”»
divertendosi e, tra l’altro, a infilare
una campagna di successo dietro
l’altra.
Per esempio?
Il periodo d’oro della comunicazione
Golia, iniziato con il leggendario
“Chi non mangia la Golia è un ladro
o una spia” e proseguito felicemente
con il contributo del sottoscritto,
modestamente autore
del tormentone “Ma quant’è grande
’sta Golia?”, il mio primo spot,
e con la premiatissima campagna
“Respira Golia”, quella dei cinque
spot in bianco e nero.
Mica male, come inizio.
Vedo che nella tua reel
c’è anche Condorelli...
Sì, nel mio destino di pubblicitario
i torroncini sono un tema ricorrente:
dopo aver dato inizio, in SNP,
alla saga del “Cavalier Condorelli”
con un Gullotta allora sconosciuto
al grande pubblico, quasi dieci anni
dopo, in Materia Advertising,
mi inventavo per la concorrente
Sperlari un altro serial del
torroncino, ovvero quello
dei Re Magi.
Immagino sia gratificante
dare inizio a campagne
che proseguono per anni
e che lasciano un segno nella
storia della nostra pubblicità...
Certo, gratificante da un lato ma,
certe volte, fastidioso da un altro.
Succede quando vedi massacrare
“la tua creatura” da campagne
successive realizzate da altre
agenzie. In quei casi devi subito
ricordarti che non sei un artista
e che è stupido prendersi troppo
sul serio. Però dà fastidio.
Caramelle, torroncini...
sei specializzato nei dolciumi?
Se fai bene il tuo mestiere
non puoi specializzarti in niente.
Chiaro, spesso l’esperienza
t’invischia: negli anni ’90
ho lavorato per le automobili
fino alla nausea. Credo di avere
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Sopra, il primo spot
dei Re Magi Sperlari,
nascita di una nuova
“saga” della pubblicità
italiana e di un nuovo
tormentone: “E adesso
cosa gli portiamo?
Un mazzo di fiori!”.
Sotto, la campagna
di lancio della Twingo
Renault.
nel portfolio qualcosa come una
ventina di campagne tra Fiat,
Renault e Rover. Non male
per uno a cui le auto non dicono
niente.
Non tutte nella stessa agenzia,
immagino.
Certamente no. Lasciata
“l’alma mater”, ho cominciato
a girare come vuole la tradizione:
Impact & Dolci Biasi, Leo Burnett,
Publicis, Materia Advertising,
TBWA/BDDP...
«L’esperienza
t’invischia:
negli anni ‘90
ho lavorato
per le auto fino
alla nausea»
...e infine Itaca.
Già, e qui i miei colleghi
con la superstizione della grande
agenzia blasonata direbbero
«che fine ingloriosa!».
E tu cosa gli risponderesti?
Posso dire parolacce?
Meglio di no.
Allora gli direi che oggi non c’è
un solo motivo per cui una piccola
agenzia non possa produrre
risultati qualitativamente
all’altezza di una grande, anzi.
Che è finito il tempo dell’equazione
grande cliente = bella campagna
(non a caso, spesso ci troviamo
in gara con le ammiraglie
su piccoli ma interessanti progetti).
E che alla tenera età di
cinquantun’anni non ho più
nessuna voglia di passare la mia
giornata a districarmi nei processi
burocratic-strategic-politiccarrieristic
tipici della grande
agenzia.
È sufficiente?
Direi proprio di sì. Grazie.
Tornando alla luce e al caldo fuori
dal suo ufficio, penso che Paolo
Pedrazzini non è poi quel cerbero
che pensavo di incontrare.
È solo un lupo solitario.
Così solitario da accettare di essere
intervistato soltanto da me, ovvero
Pedrazzini Paolo. ❚
P.P.