da dante a brUno da dante a brUno - prof. Leonardo Sebastio
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<strong>Leonardo</strong> SebaStio<br />
<strong>da</strong> <strong>da</strong>nte a <strong>brUno</strong><br />
introdUzioni e teSti
naScita deLLa cULtUra Laica<br />
tutte le opere di <strong>da</strong>nte, <strong>da</strong>lla Vita nuova alla Commedia, mettono a fuoco quella<br />
che per i due secoli successivi sarà la problematica fon<strong>da</strong>mentale della riflessione<br />
teorica sulla poesia e sul poeta: la dignità e la legittimità dell’una e dell’altro<br />
nel sistema delle scienze ed in quello più ampio della umana esistenza. non<br />
ostante l’alighieri ponga in termini risolutivi il tema della giustificazione del<br />
linguaggio poetico, del comunicare poeticamente, per la necessità di chiudere<br />
medievalmente il sistema mondo, tuttavia esso resta a lungo irrisolto, sia perché<br />
l’alighieri basa la sua argomentazione su un versante di pensiero fortemente<br />
impregnato di laicismo, sia perché laicamente opera con originalità e orgoglioso<br />
coraggio, sia perché un’opera fon<strong>da</strong>mentale come il De vulgari, meno esposto<br />
della Commedia a contestazioni d’altra natura, resta ignoto sino al 1529. così è<br />
che a muovere contestazioni alla comunicazione poetica sono <strong>da</strong> un verso gli<br />
aristotelici, che si fanno forti della natura fortemente logica della lingua della<br />
conoscenza inevitabilmente avversa ad ogni possibilità d’equivoco insita nella<br />
metafora e nella fabula (eccezion fatta per quella divina dove i quattro livelli<br />
di comunicazione, letterale, allegorico, tropologico ed anagogico, sono tutti<br />
veridici). <strong>da</strong>ll’altro gli agostiniani nei quali agiva fortemente la preclusione<br />
delle origini classiche della poesia, e quanto di terrestrità era commesso alle<br />
finalità della scrittura letteraria e della sua lettura. nient’affatto secon<strong>da</strong>ria<br />
nell’opposizione alla poesia fu la considerazione che la formazione d’uno statuto<br />
per la comunicazione letteraria sanciva la nascita di una classe di intellettuali e di<br />
una società di destinatari alternative a quelle, finora unica (almeno sostanzialmente),<br />
della societas christianorum formata <strong>da</strong>l pastore e <strong>da</strong>l gregge dei credenti, nella<br />
quale forme, contenuti e finalità erano ben fissate ed immediatamente reversibili<br />
in una teocratica struttura politica.<br />
i timori ecclesiastici erano pienamente giustificati <strong>da</strong>ll’operazione laicizzante<br />
di Federico ii, il quale per sottrarsi alla tutela papale era ricorso alla formazione<br />
di una classe di esperti di diritto (con le Università di bologna e di napoli), con<br />
il recupero della cultura filosofica greca, araba ed ebraica, con un largo impiego<br />
del mecenatismo artistico e letterario. di lì era derivata tanta parte dell’ideologia<br />
letteraria e politica dell’alighieri, di lì quella di albertino Mussato: l’uno e l’altro<br />
sostenitore dell’idea imperiale, della cultura letteraria, del primato del letterato<br />
nella politica. e prima dell’alighieri – in un contesto non ancora aristotelizzante,<br />
ma significativo di una ideologia classica e laica – di brunetto Latini che nel Trésor<br />
e nel commento alla Rhetorica ad Herennium aveva sostenuto con stupefacente<br />
candore (o coraggio ?) essere la retorica l’arte di governare. La comunicazione<br />
retorica e letteraria è strumento (<strong>da</strong> Federico a brunetto, <strong>da</strong> <strong>da</strong>nte a Mussato)<br />
di conoscenza della storia ed insieme rivelazione della verità che nella storia,<br />
secondo il libro di dio, è scritta.<br />
È chiaro che in un simile contesto non c’era possibilità alcuna di conciliazione<br />
tra la cultura laica e quella clericale, benché la canonica classificazione delle<br />
arti praticata nelle scuole prevedesse l’insegnamento della retorica: si trattava<br />
tuttavia dell’insegnamento elementare, immediatamente successivo alla prima<br />
alfabetizzazione della grammatica. d’altra parte cosa ci si aspettasse <strong>da</strong>lla
etorica anche in quella che era la centrale pressoché unica della scrittura, la curia<br />
pontificia, risulta chiaramente <strong>da</strong>lla quinta del xiii libro delle Familiari di Petrarca:<br />
« hoc unum a me requiri ut humiliare ingenium – utor enim verbis illorum – et<br />
inclinare stilum assuescerem ».<br />
Una via di conciliazione era quella di sganciare la comunicazione letteraria <strong>da</strong>lla<br />
prassi – e dunque <strong>da</strong>l potere politico –. È quello che fa Petrarca quando, nella<br />
collatio laureationis o nell’Invectiva contra medicum, afferma che la poesia non ha affatto<br />
uno scopo pratico, o meglio pragmatico. L’operazione di Francesco è di grande<br />
rilievo teorico e storico. Semplificando: l’inutilità della comunicazione letteraria<br />
– garanzia, si badi, della sua nobiltà – è fatto del tutto nuovo nella storia, non solo<br />
in quella prossima della generazione di <strong>da</strong>nte ed albertino, ma anche di quella<br />
classica ciceroniana. egli di fatto staccava il linguaggio artificiato tanto <strong>da</strong>ll’azione,<br />
quanto <strong>da</strong>lla conoscenza e ne faceva un sistema per sé dignitoso, autosufficiente<br />
espressione diretta dell’umana spiritualità. La comunicazione letteraria è<br />
comunicazione del sé senz’altra finalità se non quella di manifestarsi. andrà<br />
ribadito che quanto siamo venuti dicendo testé risponde ad una semplificazione<br />
che volutamente non tiene conto dei precedenti che ci furono e non secon<strong>da</strong>ri,<br />
a cominciare <strong>da</strong> cicerone per finire alle teorie poetiche provenzali. Ma quella<br />
semplificazione può rivelarsi utile per comprendere come la letteratura – non solo<br />
italiana – con Petrarca si avviasse a diventare, e a rimanere per secoli – soprattutto<br />
in italia –, un sistema pressoché esclusivamente formale. tale sistema formale,<br />
in quanto espressione del sé, allora doveva trovare una giustificazione che per<br />
forza di cose era etica: « nec enim parvus aut index animi sermo est aut sermonis<br />
moderator est animus » [Fam. i, 9]: il Secretum dà la misura delle difficoltà che si<br />
potevano incontrare su questo piano, sul quale vuoi la retorica assumeva il ruolo<br />
di disciplina interiore, vuoi l’etica – cristiana, e non solo cristiana – subiva una<br />
sorta di strumentalizzazione in vista della gloria, terrena, dello scrittore.<br />
a ben vedere tuttavia le contraddizioni e le difficoltà si commisuravano<br />
alla sensibilità religiosa e alla cultura dello scrittore: ché l’aspirazione alla<br />
letteraria gloria terrena potrà apparire meno peccaminosa via via che terra e<br />
cielo s’avvicineranno. così come i contenuti di derivazione classica andranno<br />
accostandosi sino ad una loro definitiva collimazione. allora la comunicazione<br />
letteraria potrà giustificarsi per la valenza etica supposta simile a quella cristiana.<br />
Per il momento il docere ed il delectare venivano sottratti ad ogni utilizzazione<br />
pratica ed erano perfettamente ed irrimediabilmente circoscritti agli ambiti eticoformali.<br />
con un’ulteriore conseguenza che non è possibile tralasciare: staccati<br />
<strong>da</strong>lla prassi e chiusi nella forma utilità e diletto, e a maggior ragione se la lingua<br />
ufficiale della comunicazione culturale e letteraria era il latino, erano destinati a<br />
quelli che <strong>da</strong>lla forma erano in grado di trarre giovamento e piacere. insomma,<br />
la nozione della comunicazione letteraria che nella forma esprime la spiritualità<br />
dell’emittente comporta che il destinatario sappia decodificare un messaggio,<br />
che non si esplicita in contenuti, sia pur parzialmente, comuni e quindi accessibili<br />
attraverso un processo di riflessione e di maturazione, ma che si distende nella<br />
sola elaborazione del messaggio, nell’arte con cui è confezionato, che tutta deve<br />
essere posseduta per poter essere valutata, compresa e tradotta in termini<br />
d’eticità. di qui le accuse di obscuritas che Petrarca, boccaccio, Francesco <strong>da</strong> Fiano,
coluccio Salutati, dovettero controbattere.<br />
di fatto si limitava il pubblico della comunicazione letteraria ai dotti: nasceva<br />
insomma una classe di intellettuali, tutti contemporaneamente produttori e<br />
fruitori delle humanae litterae; una classe estesa al di là dei confini nazionali, ma<br />
staccata <strong>da</strong>l vulgus, <strong>da</strong>lla realtà e <strong>da</strong>lla storia. tal che il pe<strong>da</strong>gogismo politico e<br />
civile di <strong>da</strong>nte si trasformava nell’insegnamento di una etica a priori rispetto alla<br />
società, nell’incitamento ad un’humanitas tutta interiore, forzata a prescindere<br />
<strong>da</strong>lla storia (o incapace d’affrontarla ?). neppure il tentativo di Giovanni boccaccio<br />
di riagganciare la realtà mantenendo ferma la tesi petrarchesca, chiaramente<br />
riconoscibile nell’exquisita locutio, varrà a ristabilire la <strong>da</strong>ntesca dimensione politica<br />
della comunicazione letteraria (si ricorderà come per <strong>da</strong>nte negli «scritti dei<br />
filosofi» sta tutta la scienza che costituisce la beatitudo huius vite e lo scopo della<br />
monarchia universale).<br />
L’orizzonte politico è pressoché assente nelle Genealogie deorum gentilium: v’è<br />
l’insistenza sul cicerioniano « fervor inveniendi » che è scintilla divina nei poeti.<br />
ed è acquisto rilevante e definitivo, benché non sempre compreso appieno, nella<br />
storia della poesia: ché, a differenza dell’imitazione così cara al Petrarca, riconosceva<br />
al poeta la capacità di inventare cose non mai dette prima e d’esprimere una<br />
sua personale verità; nello stesso tempo affi<strong>da</strong>va alla comunicazione letteraria<br />
la funzione d’esprimere l’innovazione ed accrescere il patrimonio d’humanitas.<br />
Sempre la fabula del poeta è sostanziata di verità, naturale o morale, filosofica<br />
o teologica: perciò abbisogna d’un’exquisita locutio che sia all’altezza della verità<br />
espressa e costituisca una barriera per gli indotti. di qui una nozione dell’artificio<br />
scrittorio che deve compaginare insieme l’invenzione del poeta, la verità espressa,<br />
la dignità dell’una e dell’altra e l’elitarietà del prodotto letterario. 1<br />
<strong>da</strong>nte aLiGHieri<br />
<strong>da</strong>nte ha nozione civile dell’impegno intellettuale, ancora non ben distinto tra<br />
letteratura e scienza, tra letteratura e filosofia. La politicità della nozione implica il<br />
privilegiamento della sua funzione comunicativa. anzi, le fon<strong>da</strong>menta filosofiche<br />
della sua visione della letteratura spingono a individuare nella comunicazione,<br />
ben più che nel possesso o nella ricerca del sapere, lo specifico dell’attività<br />
intellettuale: è dovere, scrive <strong>da</strong>nte nell’Epistola xiii, di chi possegga la scienza,<br />
intervenire nella vita civile a correggere quegli errori che potrebbero ostacolare<br />
la libera espressione dell’umana razionalità.<br />
benché mai il Poeta rivendichi all’intellettuale un ruolo nella gestione politica<br />
simile a quello che Platone riservava ai filosofi nella Repubblica, con gli anni ne<br />
amplierà le responsabilità sino a manifestare l’opportunità che al sapiente sia<br />
affi<strong>da</strong>ta la formulazione delle leggi: « non meraviglia che non legato <strong>da</strong>lle leggi »<br />
l’uomo colto « sia chiamato a fare le leggi ». dove non si allude soltanto alla pura
e semplice funzione di legislatore, ma ad una vera e propria dimensione di maître<br />
à penser, di comunicatore e, come tale, di realizzatore della scienza. a ciò era<br />
indotto <strong>da</strong>lla matrice aristotelicoaverroistica del suo pensiero, che identificava<br />
nella scienza la felicità terrena dell’uomo: la scienzafelicità non era, però,<br />
conseguibile <strong>da</strong>ll’individuo – troppo limitato perché potesse mai dirsi soddisfatto<br />
della quantità di sapere posseduta – nel privato; poteva attuarsi soltanto nella<br />
universa collettività, nel concorso generale degli uomini: insomma, nell’insieme<br />
dell’umanità unita nella monarchia universale nella quale ciascun individuo<br />
avrebbe riversato la sua pur limitata porzione di scienza. Proprio per questo il<br />
sapere doveva uscire <strong>da</strong>l privato per diventare sociale e politico; proprio per<br />
questo la funzione comunicativa era eminente nell’attività intellettuale; proprio<br />
per questo gli fu necessario rivendicare al volgare, parlato <strong>da</strong>lla maggioranza<br />
dei cittadini, la capacità di farsi portatore di scienza come era per il latino. La<br />
comunicazione e la comunicazione in volgare costituiscono, così, gli strumenti ed<br />
insieme i luoghi concreti della possibile felicità terrena.<br />
La posizione di <strong>da</strong>nte è quindi il risultato di un cammino intellettuale non facile e<br />
non del tutto privo di compromessi, ma anche di rivoluzioni. il cammino era iniziato<br />
<strong>da</strong>lla Vita nuova, che rappresenta un vero e proprio strappo <strong>da</strong>lla tradizione lirica<br />
trobadorica d’oltralpe che s’era prolungata poi nella Sicilia di Federico ii e nella<br />
scuola toscana pre e postguittoniana. il momento della frattura è in quell’« aprire<br />
per prosa », cui vien sottoposto il canone letterario metaforico e personificatorio.<br />
i rimatori in volgare (il gruppo d’amici che si riuniva attorno a Guido cavalcanti<br />
a formare la così detta scuola del Dolce Stil Nuovo) utilizzano il medesimo canone<br />
linguistico dei poeti latini: Virgilio, orazio, ovidio; ma a differenza dei primi rozzi,<br />
« grossi », poeti in volgare, il loro canone obbedisce ad una logica interna, che<br />
trasforma la autocomunicazione letteraria (al più allargata alla corte edotta della<br />
lingua e del jeu d’amour) in comunicazione, diretta ad un pubblico non noto, il<br />
quale, non in base ad un preciso codice di simboli e di comportamenti, bensì<br />
grazie ad un criterio di – dotta – razionalità può decodificare il messaggio del<br />
poeta. costui, se continua ad avere come destinataria privilegiata la donna amata,<br />
esibisce e comunica la propria etica e la propria sapienza (o la propria qualità di<br />
sapiente) al più vasto pubblico borghese: « grande vergogna sarebbe a colui che<br />
rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, doman<strong>da</strong>to, non<br />
sapesse denu<strong>da</strong>re le sue parole <strong>da</strong> cotale vesta, in guisa che avessero verace<br />
intendimento. e questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così<br />
rimano stoltamente ».<br />
il canone metaforico, ora pur coll’implicito « verace intendimento », adottato<br />
<strong>da</strong>gli stilnovisti esige « soavità » di lingua, giacché, all’altezza della Vita nuova, per<br />
un verso connota la produzione lirica; per altro verso impone un preciso limite<br />
degli argomenti trattabili che devono attenere solo all’amore: « e questo è contra<br />
coloro che rimano sopra altra matera che amorosa ». a questa determinazione<br />
<strong>da</strong>ntesca concorrono la con<strong>da</strong>nna aristotelica della metafora, alla quale veniva<br />
opposto il sillogismo come unico strumento conoscitivo e comunicativo della<br />
verità, e la coscienza della intrinseca debolezza della lingua a farsi efficace canale<br />
di argomenti gravi e complessi.<br />
negli anni successivi alla Vita nuova <strong>da</strong>nte si concentra sulla sperimentazione
della lingua proprio nella direzione di quella poesia « sopra altra matera che<br />
l’amorosa »: sono gli anni delle Rime allegoriche e dottrinali, che ebbero, tra gli<br />
altri, alcuni non secon<strong>da</strong>ri esiti teorici in fatto di filosofia della lingua e della<br />
lingua volgare in particolare. di quest’ultima, infatti, egli poteva accertare ora<br />
l’efficacia riconoscendone la capacità di « ben manifestare » il « concetto » e<br />
quella strumentale, vuoi a livello di comunicazione della scienza (« questo mio<br />
volgare fu introduttore di me ne la via di scienza, che è ultima perfezione »), vuoi<br />
a livello di comunicazione per così dire politica e civile (« Questo mio volgare<br />
fu congiugnitore de li miei generanti, che con esso parlavano, sì come ’l fuoco è<br />
disponitore del ferro al fabbro che fa lo coltello »). conta in quest’ultimo caso la<br />
natura di « cagione efficiente » della sua nascita e della sussistenza stessa della<br />
vita civile e, dunque, non di mero passivo strumento che il retore gestisce in tutto<br />
e per tutto allo scopo di persuadere: i genitori del poeta si sono incontrati per ed<br />
in grazia al semplice fatto che essi utilizzavano la lingua volgare, fuori, cioè, <strong>da</strong><br />
ogni canone letterario o retorico.<br />
riconosciuta l’oggettiva efficacia comunicativa della lingua, la battaglia per<br />
la sua adozione non poteva che combattere atteggiamenti di rifiuto privi di<br />
giustificazione razionale o, ma è lo stesso, morale. il primo degli atteggiamenti<br />
di rifiuto del volgare è l’ignoranza (« cechitade di discrezione ») di coloro che<br />
pur dovrebbero vedere e non vedono, e di coloro che, soprattutto appartenenti<br />
alla classe più popolare, non possono vedere perché trascinati <strong>da</strong> interessi più<br />
immediati. il secondo atteggiamento è costituito <strong>da</strong>ll’illusione di nascondere la<br />
propria ignoranza sotto la scusa della inefficacia dello strumento. il terzo attiene<br />
alla vanagloria di coloro che, appresa una lingua straniera, la lo<strong>da</strong>no oltre il giusto.<br />
il quarto deriva invece <strong>da</strong>ll’invidia di chi, per sminuire l’opera altrui, spregia lo<br />
strumento utilizzato. come si vede, l’alighieri elenca per con<strong>da</strong>nnarle forme di<br />
disonestà intellettuale, che nel rifiuto del volgare italiano nascondono la reale<br />
impossibilità, o non volontà, di comunicare il sapere di cui si è – o non si è – in<br />
possesso.<br />
il quinto ed ultimo atteggiamento negativo è individuato nella pusillanimità<br />
(« viltà d’animo »): contro i pusillanimi vengono utilizzate le parole più dure, e<br />
significativamente: « questi cotali sono li abominevoli cattivi d’italia che hanno<br />
a vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna [cosa], non è se non in<br />
quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri ». Sono quegli intellettuali<br />
che, pur avendo la possibilità di correggere gli errori che impediscono alla società<br />
di appropriarsi quel sapere che la renderebbe libera e felice, si sottraggono per<br />
mancanza di coraggio al loro dovere.<br />
Si chiude così la trilogia degli elementi costitutivi della comunicazione: 1)<br />
la nobiltà dell’intellettuale laico si manifesta 2) nella generosa e coraggiosa<br />
<strong>prof</strong>essione della scienza 3) per mezzo di una lingua capace di esprimere con<br />
esattezza i concetti della mente. ebbene, i tre elementi di questa trilogia sono,<br />
ciascuno per sé, di tale dirompente innovazione rispetto alla tradizione medievale,<br />
che non si può non restare ammirati <strong>da</strong>lla modernità delle vedute di cui <strong>da</strong>nte si fa<br />
il portavoce più coerente e determinato. Qui ci limiteremo ad annotare la nascita<br />
insieme di un organico disegno e di un’etica della comunicazione, sui quali sarà<br />
poi possibile innestare gli elementi che la connotano in chiave letteraria.
tali elementi continueranno ad essere quelli allegorici e personificatori della<br />
tradizione classica, rivisitati <strong>da</strong> una imprescindibile ottica medievale e biblica:<br />
risulteranno costretti, tuttavia, in spazi viepiù limitati, se non limitatissimi, nella<br />
prassi dei commenti alle canzoni (e nelle canzoni stesse) del Convivio e in quella<br />
compositiva della Commedia. benché <strong>da</strong>nte, tanto nel De vulgari eloquentia quanto<br />
nel contemporaneo Convivio, insista sull’aspetto retorico e metrico in sede di<br />
definizione (la poesia « nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita »;<br />
« le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro<br />
sensi »), di fatto le esigenze imposte <strong>da</strong>lla filosofia politica della comunicazione<br />
spingeranno il poeta a utilizzare preferibilmente la forma della parabola e<br />
dell’exemplum, in particolar modo nella Commedia, fatta salva la dimensione<br />
metrica. infatti, l’identificazione dell’allegoria (« velame ») come elemento<br />
discriminatorio tra comunicazione funzionale e comunicazione letteraria (ma<br />
per l’alighieri si inten<strong>da</strong> sempre funzionaleletteraria) non vale in <strong>da</strong>nte tanto<br />
come discriminazione estetica: l’una e l’altra tipologia di comunicazione servono<br />
alla trasmissione della sapienza, l’una in prosa l’altra in versi. Si tratta piuttosto<br />
di differenze di ambito: l’una, la prosa, attraverso lo scarno, ma certissimo,<br />
linguaggio del sillogismo, si muoverà in un ambito filosofico; l’altra, la poesia, con<br />
non minore certezza – e sotto « velame » talora, più spesso in forma d’esempio<br />
– atterrà all’ambito dell’enunciazione di quelle parti del sapere (e, dunque,<br />
ancora sostanzialmente filosofia) che non si possono esporre attraverso il ferreo<br />
snocciolarsi del sillogismo, e che pure sono assiomaticamente evidenti: « e qui<br />
si conviene sapere che li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le<br />
quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni,<br />
ne le quali si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento:<br />
e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di beatitudine, lo quale è<br />
massimo bene in Paradiso » [Conv., iii, xv, 2].<br />
il trittico che compagina rigi<strong>da</strong>mente la comunicazione <strong>da</strong>ntesca, se di<br />
fatto relega in secondo piano la dimensione estetica « exornatio [est] alicuius<br />
convenientis additio » 2 [D. v. e., ii, i, 9], garantisce alla comunicazione letteraria un<br />
campo d’azione esterno alla letteratura ed ai letterati; anzi, in modo assai nuovo,<br />
il destinatario della Commedia è individuato anche nella fascia popolare, oltre<br />
che borghese e nobiliare, della società verso cui ripropone la tipologia scrittoria<br />
educativa del Medioevo, predicatoria ed agiografica: il pubblico dei dotti, degli<br />
addottrinati, dei letterati infine, è, nell’orizzonte <strong>da</strong>ntesco, ancora lontano o, come<br />
le Eglogae a Giovanni del Virgilio lasciano chiaramente intendere, ignorato.
inFerno<br />
canto i<br />
nel mezzo del cammin di nostra vita<br />
mi ritrovai per una selva oscura,<br />
ché la diritta via era smarrita.<br />
ahi quanto a dir qual era è cosa dura<br />
esta selva selvaggia e aspra e forte<br />
che nel pensier rinova la paura!<br />
tant’ è amara che poco è più morte;<br />
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,<br />
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.<br />
io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,<br />
tant’ era pien di sonno a quel punto<br />
che la verace via abbandonai.<br />
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,<br />
là dove terminava quella valle<br />
che m’avea di paura il cor compunto,<br />
guar<strong>da</strong>i in alto e vidi le sue spalle<br />
vestite già de’ raggi del pianeta<br />
che mena dritto altrui per ogne calle.<br />
allor fu la paura un poco queta,<br />
che nel lago del cor m’era durata<br />
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.<br />
e come quei che con lena affannata,<br />
uscito fuor del pelago a la riva,<br />
si volge a l’acqua perigliosa e guata,<br />
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,<br />
si volse a retro a rimirar lo passo<br />
che non lasciò già mai persona viva.<br />
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,<br />
ripresi via per la piaggia diserta,<br />
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.<br />
ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,<br />
una lonza leggiera e presta molto,<br />
che di pel macolato era coverta;<br />
e non mi si partia dinanzi al volto,<br />
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,<br />
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.<br />
temp’ era <strong>da</strong>l principio del mattino,<br />
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle<br />
ch’eran con lui quando l’amor divino<br />
mosse di prima quelle cose belle;<br />
sì ch’a bene sperar m’era cagione<br />
di quella fiera a la gaetta pelle<br />
l’ora del tempo e la dolce stagione;<br />
ma non sì che paura non mi desse<br />
la vista che m’apparve d’un leone.<br />
Questi parea che contra me venisse<br />
con la test’ alta e con rabbiosa fame,<br />
sì che parea che l’aere ne tremesse.<br />
ed una lupa, che di tutte brame<br />
sembiava carca ne la sua magrezza,<br />
e molte genti fé già viver grame,<br />
questa mi porse tanto di gravezza<br />
con la paura ch’uscia di sua vista,<br />
ch’io perdei la speranza de l’altezza.<br />
e qual è quei che volontieri acquista,<br />
e giugne ’l tempo che perder lo face,<br />
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;<br />
tal mi fece la bestia sanza pace,<br />
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco<br />
mi ripigneva là dove ’l sol tace.<br />
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,<br />
dinanzi a li occhi mi si fu offerto<br />
chi per lungo silenzio parea fioco.<br />
Quando vidi costui nel gran diserto,<br />
«Miserere di me», gri<strong>da</strong>i a lui,<br />
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».<br />
rispuosemi: «non omo, omo già fui,<br />
e li parenti miei furon lombardi,<br />
mantoani per patrïa ambedui.<br />
nacqui sub iulio, ancor che fosse tardi,<br />
e vissi a roma sotto ’l buono augusto<br />
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.<br />
Poeta fui, e cantai di quel giusto<br />
figliuol d’anchise che venne di troia,<br />
poi che ’l superbo ilïón fu combusto.<br />
Ma tu perché ritorni a tanta noia?<br />
perché non sali il dilettoso monte<br />
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».<br />
«or se’ tu quel Virgilio e quella fonte<br />
che spandi di parlar sì largo fiume?»,<br />
rispuos’ io lui con vergognosa fronte.<br />
«o de li altri poeti onore e lume,<br />
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore<br />
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.<br />
tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,<br />
tu se’ solo colui <strong>da</strong> cu’ io tolsi<br />
lo bello stilo che m’ha fatto onore.<br />
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;<br />
aiutami <strong>da</strong> lei, famoso saggio,<br />
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».<br />
«a te convien tenere altro vïaggio»,<br />
rispuose, poi che lagrimar mi vide,<br />
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;<br />
ché questa bestia, per la qual tu gride,<br />
non lascia altrui passar per la sua via,<br />
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;<br />
e ha natura sì malvagia e ria,<br />
che mai non empie la bramosa voglia,<br />
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.<br />
Molti son li animali a cui s’ammoglia,<br />
e più saranno ancora, infin che ’l veltro<br />
verrà, che la farà morir con doglia.<br />
Questi non ciberà terra né peltro,<br />
ma sapïenza, amore e virtute,<br />
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.<br />
di quella umile italia fia salute<br />
per cui morì la vergine cammilla,<br />
eurialo e turno e niso di ferute.<br />
Questi la caccerà per ogne villa,<br />
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,<br />
là onde ’nvidia prima dipartilla.<br />
ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno<br />
che tu mi segui, e io sarò tua gui<strong>da</strong>,<br />
e trarrotti di qui per loco etterno;<br />
ove udirai le disperate stri<strong>da</strong>,<br />
vedrai li antichi spiriti dolenti,<br />
ch’a la secon<strong>da</strong> morte ciascun gri<strong>da</strong>;<br />
e vederai color che son contenti<br />
nel foco, perché speran di venire<br />
quando che sia a le beate genti.
a le quai poi se tu vorrai salire,<br />
anima fia a ciò più di me degna:<br />
con lei ti lascerò nel mio partire;<br />
ché quello imperador che là sù regna,<br />
perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,<br />
non vuol che ’n sua città per me si vegna.<br />
in tutte parti impera e quivi regge;<br />
quivi è la sua città e l’alto seggio:<br />
oh felice colui cu’ ivi elegge!».<br />
e io a lui: «Poeta, io ti richeggio<br />
per quello dio che tu non conoscesti,<br />
a ciò ch’io fugga questo male e peggio,<br />
che tu mi meni là dov’ or dicesti,<br />
sì ch’io veggia la porta di san Pietro<br />
e color cui tu fai cotanto mesti».<br />
allor si mosse, e io li tenni dietro.<br />
canto ii<br />
Lo giorno se n’an<strong>da</strong>va, e l’aere bruno<br />
toglieva li animai che sono in terra<br />
<strong>da</strong> le fatiche loro; e io sol uno<br />
m’apparecchiava a sostener la guerra<br />
sì del cammino e sì de la pietate,<br />
che ritrarrà la mente che non erra.<br />
o muse, o alto ingegno, or m’aiutate;<br />
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,<br />
qui si parrà la tua nobilitate.<br />
io cominciai: «Poeta che mi guidi,<br />
guar<strong>da</strong> la mia virtù s’ell’ è possente,<br />
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.<br />
tu dici che di Silvïo il parente,<br />
corruttibile ancora, ad immortale<br />
secolo andò, e fu sensibilmente.<br />
Però, se l’avversario d’ogne male<br />
cortese i fu, pensando l’alto effetto<br />
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale<br />
non pare indegno ad omo d’intelletto;<br />
ch’e’ fu de l’alma roma e di suo impero<br />
ne l’empireo ciel per padre eletto:<br />
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,<br />
fu stabilita per lo loco santo<br />
u’ siede il successor del maggior Piero.<br />
Per quest’ an<strong>da</strong>ta onde li <strong>da</strong>i tu vanto,<br />
intese cose che furon cagione<br />
di sua vittoria e del papale ammanto.<br />
andovvi poi lo Vas d’elezïone,<br />
per recarne conforto a quella fede<br />
ch’è principio a la via di salvazione.<br />
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?<br />
io non enëa, io non Paulo sono;<br />
me degno a ciò né io né altri ’l crede.<br />
Per che, se del venire io m’abbandono,<br />
temo che la venuta non sia folle.<br />
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».<br />
e qual è quei che disvuol ciò che volle<br />
e per novi pensier cangia proposta,<br />
sì che <strong>da</strong>l cominciar tutto si tolle,<br />
tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa,<br />
perché, pensando, consumai la ’mpresa<br />
che fu nel cominciar cotanto tosta.<br />
«S’i’ ho ben la parola tua intesa»,<br />
rispuose del magnanimo quell’ ombra,<br />
«l’anima tua è <strong>da</strong> viltade offesa;<br />
la qual molte fïate l’omo ingombra<br />
sì che d’onrata impresa lo rivolve,<br />
come falso veder bestia quand’ ombra.<br />
<strong>da</strong> questa tema acciò che tu ti solve,<br />
dirotti perch’ io venni e quel ch’io ’ntesi<br />
nel primo punto che di te mi dolve.<br />
io era tra color che son sospesi,<br />
e donna mi chiamò beata e bella,<br />
tal che di coman<strong>da</strong>re io la richiesi.<br />
Lucevan li occhi suoi più che la stella;<br />
e cominciommi a dir soave e piana,<br />
con angelica voce, in sua favella:<br />
“o anima cortese mantoana,<br />
di cui la fama ancor nel mondo dura,<br />
e durerà quanto ’l mondo lontana,<br />
l’amico mio, e non de la ventura,<br />
ne la diserta piaggia è impedito<br />
sì nel cammin, che vòlt’ è per paura;<br />
e temo che non sia già sì smarrito,<br />
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,<br />
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.<br />
or movi, e con la tua parola ornata<br />
e con ciò c’ha mestieri al suo campare,<br />
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.<br />
i’ son beatrice che ti faccio an<strong>da</strong>re;<br />
vegno del loco ove tornar disio;<br />
amor mi mosse, che mi fa parlare.<br />
Quando sarò dinanzi al segnor mio,<br />
di te mi loderò sovente a lui”.<br />
tacette allora, e poi comincia’ io:<br />
“o donna di virtù sola per cui<br />
l’umana spezie eccede ogne contento<br />
di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,<br />
tanto m’aggra<strong>da</strong> il tuo coman<strong>da</strong>mento,<br />
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;<br />
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.<br />
Ma dimmi la cagion che non ti guardi<br />
de lo scender qua giuso in questo centro<br />
de l’ampio loco ove tornar tu ardi”.<br />
“<strong>da</strong> che tu vuo’ saver cotanto a dentro,<br />
dirotti brievemente”, mi rispuose,<br />
“perch’ i’ non temo di venir qua entro.<br />
temer si dee di sole quelle cose<br />
c’hanno potenza di fare altrui male;<br />
de l’altre no, ché non son paurose.<br />
i’ son fatta <strong>da</strong> dio, sua mercé, tale,<br />
che la vostra miseria non mi tange,<br />
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.<br />
donna è gentil nel ciel che si compiange<br />
di questo ’mpedimento ov’ io ti mando,<br />
sì che duro giudicio là sù frange.<br />
Questa chiese Lucia in suo dimando<br />
e disse: — or ha bisogno il tuo fedele<br />
di te, e io a te lo raccomando —.<br />
Lucia, nimica di ciascun crudele,<br />
si mosse, e venne al loco dov’ i’ era,<br />
che mi sedea con l’antica rachele.<br />
disse: — beatrice, lo<strong>da</strong> di dio vera,<br />
ché non soccorri quei che t’amò tanto,<br />
ch’uscì per te de la volgare schiera?
non odi tu la pieta del suo pianto,<br />
non vedi tu la morte che ’l combatte<br />
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? —.<br />
al mondo non fur mai persone ratte<br />
a far lor pro o a fuggir lor <strong>da</strong>nno,<br />
com’ io, dopo cotai parole fatte,<br />
venni qua giù del mio beato scanno,<br />
fi<strong>da</strong>ndomi del tuo parlare onesto,<br />
ch’onora te e quei ch’udito l’hanno”.<br />
Poscia che m’ebbe ragionato questo,<br />
li occhi lucenti lagrimando volse,<br />
per che mi fece del venir più presto.<br />
e venni a te così com’ ella volse:<br />
d’inanzi a quella fiera ti levai<br />
che del bel monte il corto an<strong>da</strong>r ti tolse.<br />
dunque: che è? perché, perché restai,<br />
perché tanta viltà nel core allette,<br />
perché ardire e franchezza non hai,<br />
poscia che tai tre donne benedette<br />
curan di te ne la corte del cielo,<br />
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?».<br />
Quali fioretti <strong>da</strong>l notturno gelo<br />
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,<br />
si drizzan tutti aperti in loro stelo,<br />
tal mi fec’ io di mia virtude stanca,<br />
e tanto buono ardire al cor mi corse,<br />
ch’i’ cominciai come persona franca:<br />
«oh pietosa colei che mi soccorse!<br />
e te cortese ch’ubidisti tosto<br />
a le vere parole che ti porse!<br />
tu m’hai con disiderio il cor disposto<br />
sì al venir con le parole tue,<br />
ch’i’ son tornato nel primo proposto.<br />
or va, ch’un sol volere è d’ambedue:<br />
tu duca, tu segnore e tu maestro».<br />
così li dissi; e poi che mosso fue,<br />
intrai per lo cammino alto e silvestro.<br />
canto XiX<br />
o Simon mago, o miseri seguaci<br />
che le cose di dio, che di bontate<br />
deon essere spose, e voi rapaci<br />
per oro e per argento avolterate,<br />
or convien che per voi suoni la tromba,<br />
però che ne la terza bolgia state.<br />
Già eravamo, a la seguente tomba,<br />
montati de lo scoglio in quella parte<br />
ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.<br />
o somma sapïenza, quanta è l’arte<br />
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,<br />
e quanto giusto tua virtù comparte!<br />
io vidi per le coste e per lo fondo<br />
piena la pietra livi<strong>da</strong> di fóri,<br />
d’un largo tutti e ciascun era tondo.<br />
non mi parean men ampi né maggiori<br />
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,<br />
fatti per loco d’i battezzatori;<br />
l’un de li quali, ancor non è molt’ anni,<br />
rupp’ io per un che dentro v’annegava:<br />
e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni.<br />
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava<br />
d’un peccator li piedi e de le gambe<br />
infino al grosso, e l’altro dentro stava.<br />
Le piante erano a tutti accese intrambe;<br />
per che sì forte guizzavan le giunte,<br />
che spezzate averien ritorte e strambe.<br />
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte<br />
muoversi pur su per la strema buccia,<br />
tal era lì <strong>da</strong>i calcagni a le punte.<br />
«chi è colui, maestro, che si cruccia<br />
guizzando più che li altri suoi consorti»,<br />
diss’ io, «e cui più roggia fiamma succia?».<br />
ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti<br />
là giù per quella ripa che più giace,<br />
<strong>da</strong> lui saprai di sé e de’ suoi torti».<br />
e io: «tanto m’è bel, quanto a te piace:<br />
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto<br />
<strong>da</strong>l tuo volere, e sai quel che si tace».<br />
allor venimmo in su l’argine quarto;<br />
volgemmo e discendemmo a mano stanca<br />
là giù nel fondo foracchiato e arto.<br />
Lo buon maestro ancor de la sua anca<br />
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto<br />
di quel che si piangeva con la zanca.<br />
«o qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,<br />
anima trista come pal commessa»,<br />
comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto».<br />
io stava come ’l frate che confessa<br />
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,<br />
richiama lui per che la morte cessa.<br />
ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto,<br />
se’ tu già costì ritto, bonifazio?<br />
di parecchi anni mi mentì lo scritto.<br />
Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio<br />
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno<br />
la bella donna, e poi di farne strazio?».<br />
tal mi fec’ io, quai son color che stanno,<br />
per non intender ciò ch’è lor risposto,<br />
quasi scornati, e risponder non sanno.<br />
allor Virgilio disse: «dilli tosto:<br />
“non son colui, non son colui che credi”»;<br />
e io rispuosi come a me fu imposto.<br />
Per che lo spirto tutti storse i piedi;<br />
poi, sospirando e con voce di pianto,<br />
mi disse: «dunque che a me richiedi?<br />
Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,<br />
che tu abbi però la ripa corsa,<br />
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;<br />
e veramente fui figliuol de l’orsa,<br />
cupido sì per avanzar li orsatti,<br />
che sù l’avere e qui me misi in borsa.<br />
di sotto al capo mio son li altri tratti<br />
che precedetter me simoneggiando,<br />
per le fessure de la pietra piatti.<br />
Là giù cascherò io altresì quando<br />
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,<br />
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.<br />
Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi<br />
e ch’i’ son stato così sottosopra,<br />
ch’el non starà piantato coi piè rossi:<br />
ché dopo lui verrà di più lai<strong>da</strong> opra,<br />
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,<br />
tal che convien che lui e me ricuopra.
nuovo iasón sarà, di cui si legge<br />
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle<br />
suo re, così fia lui chi Francia regge».<br />
io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,<br />
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:<br />
«deh, or mi dì: quanto tesoro volle<br />
nostro Segnore in prima <strong>da</strong> san Pietro<br />
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?<br />
certo non chiese se non “Viemmi retro”.<br />
né Pier né li altri tolsero a Matia<br />
oro od argento, quando fu sortito<br />
al loco che perdé l’anima ria.<br />
Però ti sta, ché tu se’ ben punito;<br />
e guar<strong>da</strong> ben la mal tolta moneta<br />
ch’esser ti fece contra carlo ardito.<br />
e se non fosse ch’ancor lo mi vieta<br />
la reverenza de le somme chiavi<br />
che tu tenesti ne la vita lieta,<br />
io userei parole ancor più gravi;<br />
ché la vostra avarizia il mondo attrista,<br />
calcando i buoni e sollevando i pravi.<br />
di voi pastor s’accorse il Vangelista,<br />
quando colei che siede sopra l’acque<br />
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;<br />
quella che con le sette teste nacque,<br />
e <strong>da</strong> le diece corna ebbe argomento,<br />
fin che virtute al suo marito piacque.<br />
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;<br />
e che altro è <strong>da</strong> voi a l’idolatre,<br />
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?<br />
ahi, costantin, di quanto mal fu matre,<br />
non la tua conversion, ma quella dote<br />
che <strong>da</strong> te prese il primo ricco patre!».<br />
e mentr’ io li cantava cotai note,<br />
o ira o coscïenza che ’l mordesse,<br />
forte spingava con ambo le piote.<br />
i’ credo ben ch’al mio duca piacesse,<br />
con sì contenta labbia sempre attese<br />
lo suon de le parole vere espresse.<br />
Però con ambo le braccia mi prese;<br />
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,<br />
rimontò per la via onde discese.<br />
né si stancò d’avermi a sé distretto,<br />
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco<br />
che <strong>da</strong>l quarto al quinto argine è tragetto.<br />
Quivi soavemente spuose il carco,<br />
soave per lo scoglio sconcio ed erto<br />
che sarebbe a le capre duro varco.<br />
indi un altro vallon mi fu scoperto.<br />
PUrGatorio<br />
canto Vi<br />
Quando si parte il gioco de la zara,<br />
colui che perde si riman dolente,<br />
repetendo le volte, e tristo impara;<br />
con l’altro se ne va tutta la gente;<br />
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,<br />
e qual <strong>da</strong>llato li si reca a mente;<br />
el non s’arresta, e questo e quello intende;<br />
a cui porge la man, più non fa pressa;<br />
e così <strong>da</strong> la calca si difende.<br />
tal era io in quella turba spessa,<br />
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,<br />
e promettendo mi sciogliea <strong>da</strong> essa.<br />
Quiv’ era l’aretin che <strong>da</strong> le braccia<br />
fiere di Ghin di tacco ebbe la morte,<br />
e l’altro ch’annegò correndo in caccia.<br />
Quivi pregava con le mani sporte<br />
Federigo novello, e quel <strong>da</strong> Pisa<br />
che fé parer lo buon Marzucco forte.<br />
Vidi conte orso e l’anima divisa<br />
<strong>da</strong>l corpo suo per astio e per inveggia,<br />
com’ e’ dicea, non per colpa commisa;<br />
Pier <strong>da</strong> la broccia dico; e qui proveggia,<br />
mentr’ è di qua, la donna di brabante,<br />
sì che però non sia di peggior greggia.<br />
come libero fui <strong>da</strong> tutte quante<br />
quell’ ombre che pregar pur ch’altri prieghi,<br />
sì che s’avacci lor divenir sante,<br />
io cominciai: «el par che tu mi nieghi,<br />
o luce mia, espresso in alcun testo<br />
che decreto del cielo orazion pieghi;<br />
e questa gente prega pur di questo:<br />
sarebbe dunque loro speme vana,<br />
o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?».<br />
ed elli a me: «La mia scrittura è piana;<br />
e la speranza di costor non falla,<br />
se ben si guar<strong>da</strong> con la mente sana;<br />
ché cima di giudicio non s’avvalla<br />
perché foco d’amor compia in un punto<br />
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;<br />
e là dov’ io fermai cotesto punto,<br />
non s’ammen<strong>da</strong>va, per pregar, difetto,<br />
perché ’l priego <strong>da</strong> dio era disgiunto.<br />
Veramente a così alto sospetto<br />
non ti fermar, se quella nol ti dice<br />
che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.<br />
non so se ’ntendi: io dico di beatrice;<br />
tu la vedrai di sopra, in su la vetta<br />
di questo monte, ridere e felice».<br />
e io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,<br />
ché già non m’affatico come dianzi,<br />
e vedi omai che ’l poggio l’ombra getta».<br />
«noi anderem con questo giorno innanzi»,<br />
rispuose, «quanto più potremo omai;<br />
ma ’l fatto è d’altra forma che non stanzi.<br />
Prima che sie là sù, tornar vedrai<br />
colui che già si cuopre de la costa,<br />
sì che ’ suoi raggi tu romper non fai.<br />
Ma vedi là un’anima che, posta<br />
sola soletta, inverso noi riguar<strong>da</strong>:<br />
quella ne ’nsegnerà la via più tosta».<br />
Venimmo a lei: o anima lombar<strong>da</strong>,<br />
come ti stavi altera e disdegnosa<br />
e nel mover de li occhi onesta e tar<strong>da</strong>!<br />
ella non ci dicëa alcuna cosa,<br />
ma lasciavane gir, solo sguar<strong>da</strong>ndo<br />
a guisa di leon quando si posa.<br />
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando<br />
che ne mostrasse la miglior salita;<br />
e quella non rispuose al suo dimando,<br />
ma di nostro paese e de la vita<br />
ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
«Mantüa…», e l’ombra, tutta in sé romita,<br />
surse ver’ lui del loco ove pria stava,<br />
dicendo: «o Mantoano, io son Sordello<br />
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.<br />
ahi serva italia, di dolore ostello,<br />
nave sanza nocchiere in gran tempesta,<br />
non donna di province, ma bordello!<br />
Quell’ anima gentil fu così presta,<br />
sol per lo dolce suon de la sua terra,<br />
di fare al cittadin suo quivi festa;<br />
e ora in te non stanno sanza guerra<br />
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode<br />
di quei ch’un muro e una fossa serra.<br />
cerca, misera, intorno <strong>da</strong> le prode<br />
le tue marine, e poi ti guar<strong>da</strong> in seno,<br />
s’alcuna parte in te di pace gode.<br />
che val perché ti racconciasse il freno<br />
iustinïano, se la sella è vòta?<br />
Sanz’ esso fora la vergogna meno.<br />
ahi gente che dovresti esser devota,<br />
e lasciar seder cesare in la sella,<br />
se bene intendi ciò che dio ti nota,<br />
guar<strong>da</strong> come esta fiera è fatta fella<br />
per non esser corretta <strong>da</strong> li sproni,<br />
poi che ponesti mano a la predella.<br />
o alberto tedesco ch’abbandoni<br />
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,<br />
e dovresti inforcar li suoi arcioni,<br />
giusto giudicio <strong>da</strong> le stelle caggia<br />
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,<br />
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!<br />
ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,<br />
per cupidigia di costà distretti,<br />
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.<br />
Vieni a veder Montecchi e cappelletti,<br />
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:<br />
color già tristi, e questi con sospetti!<br />
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura<br />
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;<br />
e vedrai Santafior com’ è oscura!<br />
Vieni a veder la tua roma che piagne<br />
vedova e sola, e dì e notte chiama:<br />
«cesare mio, perché non m’accompagne?».<br />
Vieni a veder la gente quanto s’ama!<br />
e se nulla di noi pietà ti move,<br />
a vergognar ti vien de la tua fama.<br />
e se licito m’è, o sommo Giove<br />
che fosti in terra per noi crucifisso,<br />
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?<br />
o è preparazion che ne l’abisso<br />
del tuo consiglio fai per alcun bene<br />
in tutto de l’accorger nostro scisso?<br />
ché le città d’italia tutte piene<br />
son di tiranni, e un Marcel diventa<br />
ogne villan che parteggiando viene.<br />
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta<br />
di questa digression che non ti tocca,<br />
mercé del popol tuo che si argomenta.<br />
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca<br />
per non venir sanza consiglio a l’arco;<br />
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.<br />
Molti rifiutan lo comune incarco;<br />
ma il popol tuo solicito risponde<br />
sanza chiamare, e gri<strong>da</strong>: «i’ mi sobbarco!».<br />
or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:<br />
tu ricca, tu con pace e tu con senno!<br />
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.<br />
atene e Lacedemona, che fenno<br />
l’antiche leggi e furon sì civili,<br />
fecero al viver bene un picciol cenno<br />
verso di te, che fai tanto sottili<br />
provedimenti, ch’a mezzo novembre<br />
non giugne quel che tu d’ottobre fili.<br />
Quante volte, del tempo che rimembre,<br />
legge, moneta, officio e costume<br />
hai tu mutato, e rinovate membre!<br />
e se ben ti ricordi e vedi lume,<br />
vedrai te somigliante a quella inferma<br />
che non può trovar posa in su le piume,<br />
ma con <strong>da</strong>r volta suo dolore scherma.<br />
canto iX<br />
La concubina di titone antico<br />
già s’imbiancava al balco d’orïente,<br />
fuor de le braccia del suo dolce amico;<br />
di gemme la sua fronte era lucente,<br />
poste in figura del freddo animale<br />
che con la co<strong>da</strong> percuote la gente;<br />
e la notte, de’ passi con che sale,<br />
fatti avea due nel loco ov’ eravamo,<br />
e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;<br />
quand’ io, che meco avea di quel d’a<strong>da</strong>mo,<br />
vinto <strong>da</strong>l sonno, in su l’erba inchinai<br />
là ’ve già tutti e cinque se<strong>da</strong>vamo.<br />
ne l’ora che comincia i tristi lai<br />
la rondinella presso a la mattina,<br />
forse a memoria de’ suo’ primi guai,<br />
e che la mente nostra, peregrina<br />
più <strong>da</strong> la carne e men <strong>da</strong>’ pensier presa,<br />
a le sue visïon quasi è divina,<br />
in sogno mi parea veder sospesa<br />
un’aguglia nel ciel con penne d’oro,<br />
con l’ali aperte e a calare intesa;<br />
ed esser mi parea là dove fuoro<br />
abbandonati i suoi <strong>da</strong> Ganimede,<br />
quando fu ratto al sommo consistoro.<br />
Fra me pensava: ’Forse questa fiede<br />
pur qui per uso, e forse d’altro loco<br />
disdegna di portarne suso in piede’.<br />
Poi mi parea che, poi rotata un poco,<br />
terribil come folgor discendesse,<br />
e me rapisse suso infino al foco.<br />
ivi parea che ella e io ardesse;<br />
e sì lo ’ncendio imaginato cosse,<br />
che convenne che ’l sonno si rompesse.<br />
non altrimenti achille si riscosse,<br />
li occhi svegliati rivolgendo in giro<br />
e non sappiendo là dove si fosse,<br />
quando la madre <strong>da</strong> chirón a Schiro<br />
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,<br />
là onde poi li Greci il dipartiro;<br />
che mi scoss’ io, sì come <strong>da</strong> la faccia<br />
mi fuggì ’l sonno, e diventa’ ismorto,
come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.<br />
<strong>da</strong>llato m’era solo il mio conforto,<br />
e ’l sole er’ alto già più che due ore,<br />
e ’l viso m’era a la marina torto.<br />
«non aver tema», disse il mio segnore;<br />
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;<br />
non stringer, ma rallarga ogne vigore.<br />
tu se’ omai al purgatorio giunto:<br />
vedi là il balzo che ’l chiude dintorno;<br />
vedi l’entrata là ’ve par digiunto.<br />
dianzi, ne l’alba che procede al giorno,<br />
quando l’anima tua dentro dormia,<br />
sovra li fiori ond’ è là giù addorno<br />
venne una donna, e disse: “i’ son Lucia;<br />
lasciatemi pigliar costui che dorme;<br />
sì l’agevolerò per la sua via”.<br />
Sordel rimase e l’altre genti forme;<br />
ella ti tolse, e come ’l dì fu chiaro,<br />
sen venne suso; e io per le sue orme.<br />
Qui ti posò, ma pria mi dimostraro<br />
li occhi suoi belli quella intrata aperta;<br />
poi ella e ’l sonno ad una se n’an<strong>da</strong>ro».<br />
a guisa d’uom che ’n dubbio si raccerta<br />
e che muta in conforto sua paura,<br />
poi che la verità li è discoperta,<br />
mi cambia’ io; e come sanza cura<br />
vide me ’l duca mio, su per lo balzo<br />
si mosse, e io di rietro inver’ l’altura.<br />
Lettor, tu vedi ben com’ io innalzo<br />
la mia matera, e però con più arte<br />
non ti maravigliar s’io la rincalzo.<br />
noi ci appressammo, ed eravamo in parte<br />
che là dove pareami prima rotto,<br />
pur come un fesso che muro diparte,<br />
vidi una porta, e tre gradi di sotto<br />
per gire ad essa, di color diversi,<br />
e un portier ch’ancor non facea motto.<br />
e come l’occhio più e più v’apersi,<br />
vidil seder sovra ’l grado sovrano,<br />
tal ne la faccia ch’io non lo soffersi;<br />
e una spa<strong>da</strong> nu<strong>da</strong> avëa in mano,<br />
che reflettëa i raggi sì ver’ noi,<br />
ch’io dirizzava spesso il viso in vano.<br />
«dite costinci: che volete voi?»,<br />
cominciò elli a dire, «ov’ è la scorta?<br />
Guar<strong>da</strong>te che ’l venir sù non vi nòi».<br />
«donna del ciel, di queste cose accorta»,<br />
rispuose ’l mio maestro a lui, «pur dianzi<br />
ne disse: “an<strong>da</strong>te là: quivi è la porta”».<br />
«ed ella i passi vostri in bene avanzi»,<br />
ricominciò il cortese portinaio:<br />
«Venite dunque a’ nostri gradi innanzi».<br />
Là ne venimmo; e lo scaglion primaio<br />
bianco marmo era sì pulito e terso,<br />
ch’io mi specchiai in esso qual io paio.<br />
era il secondo tinto più che perso,<br />
d’una petrina ruvi<strong>da</strong> e arsiccia,<br />
crepata per lo lungo e per traverso.<br />
Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,<br />
porfido mi parea, sì fiammeggiante<br />
come sangue che fuor di vena spiccia.<br />
Sovra questo tenëa ambo le piante<br />
l’angel di dio sedendo in su la soglia<br />
che mi sembiava pietra di diamante.<br />
Per li tre gradi sù di buona voglia<br />
mi trasse il duca mio, dicendo: «chiedi<br />
umilemente che ’l serrame scioglia».<br />
divoto mi gittai a’ santi piedi;<br />
misericordia chiesi e ch’el m’aprisse,<br />
ma tre volte nel petto pria mi diedi.<br />
Sette P ne la fronte mi descrisse<br />
col punton de la spa<strong>da</strong>, e «Fa che lavi,<br />
quando se’ dentro, queste piaghe» disse.<br />
cenere, o terra che secca si cavi,<br />
d’un color fora col suo vestimento;<br />
e di sotto <strong>da</strong> quel trasse due chiavi.<br />
L’una era d’oro e l’altra era d’argento;<br />
pria con la bianca e poscia con la gialla<br />
fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento.<br />
«Quandunque l’una d’este chiavi falla,<br />
che non si volga dritta per la toppa»,<br />
diss’ elli a noi, «non s’apre questa calla.<br />
Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa<br />
d’arte e d’ingegno avanti che diserri,<br />
perch’ ella è quella che ’l nodo digroppa.<br />
<strong>da</strong> Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri<br />
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,<br />
pur che la gente a’ piedi mi s’atterri».<br />
Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,<br />
dicendo: «intrate; ma facciovi accorti<br />
che di fuor torna chi ’n dietro si guata».<br />
e quando fuor ne’ cardini distorti<br />
li spigoli di quella regge sacra,<br />
che di metallo son sonanti e forti,<br />
non rugghiò sì né si mostrò sì acra<br />
tarpëa, come tolto le fu il buono<br />
Metello, per che poi rimase macra.<br />
io mi rivolsi attento al primo tuono,<br />
e ’te deum lau<strong>da</strong>mus’ mi parea<br />
udire in voce mista al dolce suono.<br />
tale imagine a punto mi rendea<br />
ciò ch’io udiva, qual prender si suole<br />
quando a cantar con organi si stea;<br />
ch’or sì or no s’intendon le parole.<br />
ParadiSo<br />
canto i<br />
La gloria di colui che tutto move<br />
per l’universo penetra, e risplende<br />
in una parte più e meno altrove.<br />
nel ciel che più de la sua luce prende<br />
fu’ io, e vidi cose che ridire<br />
né sa né può chi di là sù discende;<br />
perché appressando sé al suo disire,<br />
nostro intelletto si <strong>prof</strong>on<strong>da</strong> tanto,<br />
che dietro la memoria non può ire.<br />
Veramente quant’ io del regno santo<br />
ne la mia mente potei far tesoro,<br />
sarà ora materia del mio canto.<br />
o buono appollo, a l’ultimo lavoro<br />
fammi del tuo valor sì fatto vaso,<br />
come dimandi a <strong>da</strong>r l’amato alloro.<br />
infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue<br />
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.<br />
entra nel petto mio, e spira tue<br />
sì come quando Marsïa traesti<br />
de la vagina de le membra sue.<br />
o divina virtù, se mi ti presti<br />
tanto che l’ombra del beato regno<br />
segnata nel mio capo io manifesti,<br />
vedra’mi al piè del tuo diletto legno<br />
venire, e coronarmi de le foglie<br />
che la materia e tu mi farai degno.<br />
Sì rade volte, padre, se ne coglie<br />
per trïunfare o cesare o poeta,<br />
colpa e vergogna de l’umane voglie,<br />
che parturir letizia in su la lieta<br />
delfica deïtà dovria la fron<strong>da</strong><br />
peneia, quando alcun di sé asseta.<br />
Poca favilla gran fiamma secon<strong>da</strong>:<br />
forse di retro a me con miglior voci<br />
si pregherà perché cirra rispon<strong>da</strong>.<br />
Surge ai mortali per diverse foci<br />
la lucerna del mondo; ma <strong>da</strong> quella<br />
che quattro cerchi giugne con tre croci,<br />
con miglior corso e con migliore stella<br />
esce congiunta, e la mon<strong>da</strong>na cera<br />
più a suo modo tempera e suggella.<br />
Fatto avea di là mane e di qua sera<br />
tal foce, e quasi tutto era là bianco<br />
quello emisperio, e l’altra parte nera,<br />
quando beatrice in sul sinistro fianco<br />
vidi rivolta e riguar<strong>da</strong>r nel sole:<br />
aguglia sì non li s’affisse unquanco.<br />
e sì come secondo raggio suole<br />
uscir del primo e risalire in suso,<br />
pur come pelegrin che tornar vuole,<br />
così de l’atto suo, per li occhi infuso<br />
ne l’imagine mia, il mio si fece,<br />
e fissi li occhi al sole oltre nostr’ uso.<br />
Molto è licito là, che qui non lece<br />
a le nostre virtù, mercé del loco<br />
fatto per proprio de l’umana spece.<br />
io nol soffersi molto, né sì poco,<br />
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,<br />
com’ ferro che bogliente esce del foco;<br />
e di sùbito parve giorno a giorno<br />
essere aggiunto, come quei che puote<br />
avesse il ciel d’un altro sole addorno.<br />
beatrice tutta ne l’etterne rote<br />
fissa con li occhi stava; e io in lei<br />
le luci fissi, di là sù rimote.<br />
nel suo aspetto tal dentro mi fei,<br />
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba<br />
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.<br />
trasumanar significar per verba<br />
non si poria; però l’essemplo basti<br />
a cui esperïenza grazia serba.<br />
S’i’ era sol di me quel che creasti<br />
novellamente, amor che ’l ciel governi,<br />
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.<br />
Quando la rota che tu sempiterni<br />
desiderato, a sé mi fece atteso<br />
con l’armonia che temperi e discerni,<br />
parvemi tanto allor del cielo acceso<br />
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume<br />
lago non fece alcun tanto disteso.<br />
La novità del suono e ’l grande lume<br />
di lor cagion m’accesero un disio<br />
mai non sentito di cotanto acume.<br />
ond’ ella, che vedea me sì com’ io,<br />
a quïetarmi l’animo commosso,<br />
pria ch’io a diman<strong>da</strong>r, la bocca aprio<br />
e cominciò: «tu stesso ti fai grosso<br />
col falso imaginar, sì che non vedi<br />
ciò che vedresti se l’avessi scosso.<br />
tu non se’ in terra, sì come tu credi;<br />
ma folgore, fuggendo il proprio sito,<br />
non corse come tu ch’ad esso riedi».<br />
S’io fui del primo dubbio disvestito<br />
per le sorrise parolette brevi,<br />
dentro ad un nuovo più fu’ inretito<br />
e dissi: «Già contento requïevi<br />
di grande ammirazion; ma ora ammiro<br />
com’ io trascen<strong>da</strong> questi corpi levi».<br />
ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro,<br />
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante<br />
che madre fa sovra figlio deliro,<br />
e cominciò: «Le cose tutte quante<br />
hanno ordine tra loro, e questo è forma<br />
che l’universo a dio fa simigliante.<br />
Qui veggion l’alte creature l’orma<br />
de l’etterno valore, il qual è fine<br />
al quale è fatta la toccata norma.<br />
ne l’ordine ch’io dico sono accline<br />
tutte nature, per diverse sorti,<br />
più al principio loro e men vicine;<br />
onde si muovono a diversi porti<br />
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna<br />
con istinto a lei <strong>da</strong>to che la porti.<br />
Questi ne porta il foco inver’ la luna;<br />
questi ne’ cor mortali è permotore;<br />
questi la terra in sé stringe e aduna;<br />
né pur le creature che son fore<br />
d’intelligenza quest’ arco saetta,<br />
ma quelle c’hanno intelletto e amore.<br />
La provedenza, che cotanto assetta,<br />
del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto<br />
nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;<br />
e ora lì, come a sito decreto,<br />
cen porta la virtù di quella cor<strong>da</strong><br />
che ciò che scocca drizza in segno lieto.<br />
Vero è che, come forma non s’accor<strong>da</strong><br />
molte fïate a l’intenzion de l’arte,<br />
perch’ a risponder la materia è sor<strong>da</strong>,<br />
così <strong>da</strong> questo corso si diparte<br />
talor la creatura, c’ha podere<br />
di piegar, così pinta, in altra parte;<br />
e sì come veder si può cadere<br />
foco di nube, sì l’impeto primo<br />
l’atterra torto <strong>da</strong> falso piacere.<br />
non dei più ammirar, se bene stimo,<br />
lo tuo salir, se non come d’un rivo<br />
se d’alto monte scende giuso ad imo.<br />
Maraviglia sarebbe in te se, privo<br />
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’ a terra quïete in foco vivo».<br />
Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.<br />
canto ii<br />
o voi che siete in piccioletta barca,<br />
desiderosi d’ascoltar, seguiti<br />
dietro al mio legno che cantando varca,<br />
tornate a riveder li vostri liti:<br />
non vi mettete in pelago, ché forse,<br />
perdendo me, rimarreste smarriti.<br />
L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;<br />
Minerva spira, e conducemi appollo,<br />
e nove Muse mi dimostran l’orse.<br />
Voialtri pochi che drizzaste il collo<br />
per tempo al pan de li angeli, del quale<br />
vivesi qui ma non sen vien satollo,<br />
metter potete ben per l’alto sale<br />
vostro navigio, servando mio solco<br />
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.<br />
Que’ glorïosi che passaro al colco<br />
non s’ammiraron come voi farete,<br />
quando iasón vider fatto bifolco.<br />
La concreata e perpetüa sete<br />
del deïforme regno cen portava<br />
veloci quasi come ’l ciel vedete.<br />
beatrice in suso, e io in lei guar<strong>da</strong>va;<br />
e forse in tanto in quanto un quadrel posa<br />
e vola e <strong>da</strong> la noce si dischiava,<br />
giunto mi vidi ove mirabil cosa<br />
mi torse il viso a sé; e però quella<br />
cui non potea mia cura essere ascosa,<br />
volta ver’ me, sì lieta come bella,<br />
«drizza la mente in dio grata», mi disse,<br />
«che n’ha congiunti con la prima stella».<br />
Parev’ a me che nube ne coprisse<br />
luci<strong>da</strong>, spessa, soli<strong>da</strong> e pulita,<br />
quasi a<strong>da</strong>mante che lo sol ferisse.<br />
Per entro sé l’etterna margarita<br />
ne ricevette, com’ acqua recepe<br />
raggio di luce permanendo unita.<br />
S’io era corpo, e qui non si concepe<br />
com’ una dimensione altra patio,<br />
ch’esser convien se corpo in corpo repe,<br />
accender ne dovria più il disio<br />
di veder quella essenza in che si vede<br />
come nostra natura e dio s’unio.<br />
Lì si vedrà ciò che tenem per fede,<br />
non dimostrato, ma fia per sé noto<br />
a guisa del ver primo che l’uom crede.<br />
io rispuosi: «Madonna, sì devoto<br />
com’ esser posso più, ringrazio lui<br />
lo qual <strong>da</strong>l mortal mondo m’ha remoto.<br />
Ma ditemi: che son li segni bui<br />
di questo corpo, che là giuso in terra<br />
fan di cain favoleggiare altrui?».<br />
ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra<br />
l’oppinïon», mi disse, «d’i mortali<br />
dove chiave di senso non diserra,<br />
certo non ti dovrien punger li strali<br />
d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi<br />
vedi che la ragione ha corte l’ali.<br />
Ma dimmi quel che tu <strong>da</strong> te ne pensi».<br />
e io: «ciò che n’appar qua sù diverso<br />
credo che fanno i corpi rari e densi».<br />
ed ella: «certo assai vedrai sommerso<br />
nel falso il creder tuo, se bene ascolti<br />
l’argomentar ch’io li farò avverso.<br />
La spera ottava vi dimostra molti<br />
lumi, li quali e nel quale e nel quanto<br />
notar si posson di diversi volti.<br />
Se raro e denso ciò facesser tanto,<br />
una sola virtù sarebbe in tutti,<br />
più e men distributa e altrettanto.<br />
Virtù diverse esser convegnon frutti<br />
di princìpi formali, e quei, for ch’uno,<br />
seguiterieno a tua ragion distrutti.<br />
ancor, se raro fosse di quel bruno<br />
cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte<br />
fora di sua materia sì digiuno<br />
esto pianeto, o, sì come comparte<br />
lo grasso e ’l magro un corpo, così questo<br />
nel suo volume cangerebbe carte.<br />
Se ’l primo fosse, fora manifesto<br />
ne l’eclissi del sol, per trasparere<br />
lo lume come in altro raro ingesto.<br />
Questo non è: però è <strong>da</strong> vedere<br />
de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,<br />
falsificato fia lo tuo parere.<br />
S’elli è che questo raro non trapassi,<br />
esser conviene un termine <strong>da</strong> onde<br />
lo suo contrario più passar non lassi;<br />
e indi l’altrui raggio si rifonde<br />
così come color torna per vetro<br />
lo qual di retro a sé piombo nasconde.<br />
or dirai tu ch’el si dimostra tetro<br />
ivi lo raggio più che in altre parti,<br />
per esser lì refratto più a retro.<br />
<strong>da</strong> questa instanza può deliberarti<br />
esperïenza, se già mai la provi,<br />
ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’ arti.<br />
tre specchi prenderai; e i due rimovi<br />
<strong>da</strong> te d’un modo, e l’altro, più rimosso,<br />
tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.<br />
rivolto ad essi, fa che dopo il dosso<br />
ti stea un lume che i tre specchi accen<strong>da</strong><br />
e torni a te <strong>da</strong> tutti ripercosso.<br />
ben che nel quanto tanto non si sten<strong>da</strong><br />
la vista più lontana, lì vedrai<br />
come convien ch’igualmente risplen<strong>da</strong>.<br />
or, come ai colpi de li caldi rai<br />
de la neve riman nudo il suggetto<br />
e <strong>da</strong>l colore e <strong>da</strong>l freddo primai,<br />
così rimaso te ne l’intelletto<br />
voglio informar di luce sì vivace,<br />
che ti tremolerà nel suo aspetto.<br />
dentro <strong>da</strong>l ciel de la divina pace<br />
si gira un corpo ne la cui virtute<br />
l’esser di tutto suo contento giace.<br />
Lo ciel seguente, c’ha tante vedute,<br />
quell’ esser parte per diverse essenze,<br />
<strong>da</strong> lui distratte e <strong>da</strong> lui contenute.<br />
Li altri giron per varie differenze<br />
le distinzion che dentro <strong>da</strong> sé hanno
dispongono a lor fini e lor semenze.<br />
Questi organi del mondo così vanno,<br />
come tu vedi omai, di grado in grado,<br />
che di sù prendono e di sotto fanno.<br />
riguar<strong>da</strong> bene omai sì com’ io vado<br />
per questo loco al vero che disiri,<br />
sì che poi sappi sol tener lo guado.<br />
Lo moto e la virtù d’i santi giri,<br />
come <strong>da</strong>l fabbro l’arte del martello,<br />
<strong>da</strong>’ beati motor convien che spiri;<br />
e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,<br />
de la mente <strong>prof</strong>on<strong>da</strong> che lui volve<br />
prende l’image e fassene suggello.<br />
e come l’alma dentro a vostra polve<br />
per differenti membra e conformate<br />
a diverse potenze si risolve,<br />
così l’intelligenza sua bontate<br />
multiplicata per le stelle spiega,<br />
girando sé sovra sua unitate.<br />
Virtù diversa fa diversa lega<br />
col prezïoso corpo ch’ella avviva,<br />
nel qual, sì come vita in voi, si lega.<br />
Per la natura lieta onde deriva,<br />
la virtù mista per lo corpo luce<br />
come letizia per pupilla viva.<br />
<strong>da</strong> essa vien ciò che <strong>da</strong> luce a luce<br />
par differente, non <strong>da</strong> denso e raro;<br />
essa è formal principio che produce,<br />
conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro».<br />
canto XVii<br />
Qual venne a climenè, per accertarsi<br />
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,<br />
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;<br />
tal era io, e tal era sentito<br />
e <strong>da</strong> beatrice e <strong>da</strong> la santa lampa<br />
che pria per me avea mutato sito.<br />
Per che mia donna «Man<strong>da</strong> fuor la vampa<br />
del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca<br />
segnata bene de la interna stampa:<br />
non perché nostra conoscenza cresca<br />
per tuo parlare, ma perché t’ausi<br />
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».<br />
«o cara piota mia che sì t’insusi,<br />
che, come veggion le terrene menti<br />
non capere in trïangol due ottusi,<br />
così vedi le cose contingenti<br />
anzi che sieno in sé, mirando il punto<br />
a cui tutti li tempi son presenti;<br />
mentre ch’io era a Virgilio congiunto<br />
su per lo monte che l’anime cura<br />
e discendendo nel mondo defunto,<br />
dette mi fuor di mia vita futura<br />
parole gravi, avvegna ch’io mi senta<br />
ben tetragono ai colpi di ventura;<br />
per che la voglia mia saria contenta<br />
d’intender qual fortuna mi s’appressa:<br />
ché saetta previsa vien più lenta».<br />
così diss’ io a quella luce stessa<br />
che pria m’avea parlato; e come volle<br />
beatrice, fu la mia voglia confessa.<br />
né per ambage, in che la gente folle<br />
già s’inviscava pria che fosse anciso<br />
l’agnel di dio che le peccata tolle,<br />
ma per chiare parole e con preciso<br />
latin rispuose quello amor paterno,<br />
chiuso e parvente del suo proprio riso:<br />
«La contingenza, che fuor del quaderno<br />
de la vostra matera non si stende,<br />
tutta è dipinta nel cospetto etterno;<br />
necessità però quindi non prende<br />
se non come <strong>da</strong>l viso in che si specchia<br />
nave che per torrente giù discende.<br />
<strong>da</strong> indi, sì come viene ad orecchia<br />
dolce armonia <strong>da</strong> organo, mi viene<br />
a vista il tempo che ti s’apparecchia.<br />
Qual si partio ipolito d’atene<br />
per la spietata e perfi<strong>da</strong> noverca,<br />
tal di Fiorenza partir ti convene.<br />
Questo si vuole e questo già si cerca,<br />
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa<br />
là dove cristo tutto dì si merca.<br />
La colpa seguirà la parte offensa<br />
in grido, come suol; ma la vendetta<br />
fia testimonio al ver che la dispensa.<br />
tu lascerai ogne cosa diletta<br />
più caramente; e questo è quello strale<br />
che l’arco de lo essilio pria saetta.<br />
tu proverai sì come sa di sale<br />
lo pane altrui, e come è duro calle<br />
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.<br />
e quel che più ti graverà le spalle,<br />
sarà la compagnia malvagia e scempia<br />
con la qual tu cadrai in questa valle;<br />
che tutta ingrata, tutta matta ed empia<br />
si farà contr’ a te; ma, poco appresso,<br />
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.<br />
di sua bestialitate il suo processo<br />
farà la prova; sì ch’a te fia bello<br />
averti fatta parte per te stesso.<br />
Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello<br />
sarà la cortesia del gran Lombardo<br />
che ’n su la scala porta il santo uccello;<br />
ch’in te avrà sì benigno riguardo,<br />
che del fare e del chieder, tra voi due,<br />
fia primo quel che tra li altri è più tardo.<br />
con lui vedrai colui che ’mpresso fue,<br />
nascendo, sì <strong>da</strong> questa stella forte,<br />
che notabili fier l’opere sue.<br />
non se ne son le genti ancora accorte<br />
per la novella età, ché pur nove anni<br />
son queste rote intorno di lui torte;<br />
ma pria che ’l Guasco l’alto arrigo inganni,<br />
parran faville de la sua virtute<br />
in non curar d’argento né d’affanni.<br />
Le sue magnificenze conosciute<br />
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici<br />
non ne potran tener le lingue mute.<br />
a lui t’aspetta e a’ suoi benefici;<br />
per lui fia trasmutata molta gente,<br />
cambiando condizion ricchi e mendici;<br />
e portera’ne scritto ne la mente<br />
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.<br />
Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose<br />
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie<br />
che dietro a pochi giri son nascose.<br />
non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,<br />
poscia che s’infutura la tua vita<br />
vie più là che ’l punir di lor perfidie».<br />
Poi che, tacendo, si mostrò spedita<br />
l’anima santa di metter la trama<br />
in quella tela ch’io le porsi ordita,<br />
io cominciai, come colui che brama,<br />
dubitando, consiglio <strong>da</strong> persona<br />
che vede e vuol dirittamente e ama:<br />
«ben veggio, padre mio, sì come sprona<br />
lo tempo verso me, per colpo <strong>da</strong>rmi<br />
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;<br />
per che di provedenza è buon ch’io m’armi,<br />
sì che, se loco m’è tolto più caro,<br />
io non perdessi li altri per miei carmi.<br />
Giù per lo mondo sanza fine amaro,<br />
e per lo monte del cui bel cacume<br />
li occhi de la mia donna mi levaro,<br />
e poscia per lo ciel, di lume in lume,<br />
ho io appreso quel che s’io ridico,<br />
a molti fia sapor di forte agrume;<br />
e s’io al vero son timido amico,<br />
temo di perder viver tra coloro<br />
che questo tempo chiameranno antico».<br />
La luce in che rideva il mio tesoro<br />
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,<br />
quale a raggio di sole specchio d’oro;<br />
indi rispuose: «coscïenza fusca<br />
o de la propria o de l’altrui vergogna<br />
pur sentirà la tua parola brusca.<br />
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,<br />
tutta tua visïon fa manifesta;<br />
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.<br />
ché se la voce tua sarà molesta<br />
nel primo gusto, vital nodrimento<br />
lascerà poi, quando sarà digesta.<br />
Questo tuo grido farà come vento,<br />
che le più alte cime più percuote;<br />
e ciò non fa d’onor poco argomento.<br />
Però ti son mostrate in queste rote,<br />
nel monte e ne la valle dolorosa<br />
pur l’anime che son di fama note,<br />
che l’animo di quel ch’ode, non posa<br />
né ferma fede per essempro ch’aia<br />
la sua radice incognita e ascosa,<br />
né per altro argomento che non paia».<br />
canto XXiX<br />
Quando ambedue li figli di Latona,<br />
coperti del Montone e de la Libra,<br />
fanno de l’orizzonte insieme zona,<br />
quant’ è <strong>da</strong>l punto che ’l cenìt inlibra<br />
infin che l’uno e l’altro <strong>da</strong> quel cinto,<br />
cambiando l’emisperio, si dilibra,<br />
tanto, col volto di riso dipinto,<br />
si tacque bëatrice, riguar<strong>da</strong>ndo<br />
fiso nel punto che m’avëa vinto.<br />
Poi cominciò: «io dico, e non dimando,<br />
quel che tu vuoli udir, perch’ io l’ho visto<br />
là ’ve s’appunta ogne ubi e ogne quando.<br />
non per aver a sé di bene acquisto,<br />
ch’esser non può, ma perché suo splendore<br />
potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,<br />
in sua etternità di tempo fore,<br />
fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,<br />
s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.<br />
né prima quasi torpente si giacque;<br />
ché né prima né poscia procedette<br />
lo discorrer di dio sovra quest’ acque.<br />
Forma e materia, congiunte e purette,<br />
usciro ad esser che non avia fallo,<br />
come d’arco tricordo tre saette.<br />
e come in vetro, in ambra o in cristallo<br />
raggio resplende sì, che <strong>da</strong>l venire<br />
a l’esser tutto non è intervallo,<br />
così ’l triforme effetto del suo sire<br />
ne l’esser suo raggiò insieme tutto<br />
sanza distinzïone in essordire.<br />
concreato fu ordine e costrutto<br />
a le sustanze; e quelle furon cima<br />
nel mondo in che puro atto fu produtto;<br />
pura potenza tenne la parte ima;<br />
nel mezzo strinse potenza con atto<br />
tal vime, che già mai non si divima.<br />
ieronimo vi scrisse lungo tratto<br />
di secoli de li angeli creati<br />
anzi che l’altro mondo fosse fatto;<br />
ma questo vero è scritto in molti lati<br />
<strong>da</strong> li scrittor de lo Spirito Santo,<br />
e tu te n’avvedrai se bene agguati;<br />
e anche la ragione il vede alquanto,<br />
che non concederebbe che ’ motori<br />
sanza sua perfezion fosser cotanto.<br />
or sai tu dove e quando questi amori<br />
furon creati e come: sì che spenti<br />
nel tuo disïo già son tre ardori.<br />
né giugneriesi, numerando, al venti<br />
sì tosto, come de li angeli parte<br />
turbò il suggetto d’i vostri alimenti.<br />
L’altra rimase, e cominciò quest’ arte<br />
che tu discerni, con tanto diletto,<br />
che mai <strong>da</strong> circüir non si diparte.<br />
Principio del cader fu il maladetto<br />
superbir di colui che tu vedesti<br />
<strong>da</strong> tutti i pesi del mondo costretto.<br />
Quelli che vedi qui furon modesti<br />
a riconoscer sé <strong>da</strong> la bontate<br />
che li avea fatti a tanto intender presti:<br />
per che le viste lor furo essaltate<br />
con grazia illuminante e con lor merto,<br />
sì c’hanno ferma e piena volontate;<br />
e non voglio che dubbi, ma sia certo,<br />
che ricever la grazia è meritorio<br />
secondo che l’affetto l’è aperto.<br />
omai dintorno a questo consistorio<br />
puoi contemplare assai, se le parole<br />
mie son ricolte, sanz’ altro aiutorio.<br />
Ma perché ’n terra per le vostre scole<br />
si legge che l’angelica natura
è tal, che ’ntende e si ricor<strong>da</strong> e vole,<br />
ancor dirò, perché tu veggi pura<br />
la verità che là giù si confonde,<br />
equivocando in sì fatta lettura.<br />
Queste sustanze, poi che fur gioconde<br />
de la faccia di dio, non volser viso<br />
<strong>da</strong> essa, <strong>da</strong> cui nulla si nasconde:<br />
però non hanno vedere interciso<br />
<strong>da</strong> novo obietto, e però non bisogna<br />
rememorar per concetto diviso;<br />
sì che là giù, non dormendo, si sogna,<br />
credendo e non credendo dicer vero;<br />
ma ne l’uno è più colpa e più vergogna.<br />
Voi non an<strong>da</strong>te giù per un sentiero<br />
filosofando: tanto vi trasporta<br />
l’amor de l’apparenza e ’l suo pensiero!<br />
e ancor questo qua sù si comporta<br />
con men disdegno che quando è posposta<br />
la divina Scrittura o quando è torta.<br />
non vi si pensa quanto sangue costa<br />
seminarla nel mondo e quanto piace<br />
chi umilmente con essa s’accosta.<br />
Per apparer ciascun s’ingegna e face<br />
sue invenzioni; e quelle son trascorse<br />
<strong>da</strong>’ predicanti e ’l Vangelio si tace.<br />
Un dice che la luna si ritorse<br />
ne la passion di cristo e s’interpuose,<br />
per che ’l lume del sol giù non si porse;<br />
e mente, ché la luce si nascose<br />
<strong>da</strong> sé: però a li Spani e a l’indi<br />
come a’ Giudei tale eclissi rispuose.<br />
non ha Fiorenza tanti Lapi e bindi<br />
quante sì fatte favole per anno<br />
in pergamo si gri<strong>da</strong>n quinci e quindi:<br />
sì che le pecorelle, che non sanno,<br />
tornan del pasco pasciute di vento,<br />
e non le scusa non veder lo <strong>da</strong>nno.<br />
non disse cristo al suo primo convento:<br />
’an<strong>da</strong>te, e predicate al mondo ciance’;<br />
ma diede lor verace fon<strong>da</strong>mento;<br />
e quel tanto sonò ne le sue guance,<br />
sì ch’a pugnar per accender la fede<br />
de l’evangelio fero scudo e lance.<br />
ora si va con motti e con iscede<br />
a predicare, e pur che ben si ri<strong>da</strong>,<br />
gonfia il cappuccio e più non si richiede.<br />
Ma tale uccel nel becchetto s’anni<strong>da</strong>,<br />
che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe<br />
la perdonanza di ch’el si confi<strong>da</strong>:<br />
per cui tanta stoltezza in terra crebbe,<br />
che, sanza prova d’alcun testimonio,<br />
ad ogne promession si correrebbe.<br />
di questo ingrassa il porco sant’ antonio,<br />
e altri assai che sono ancor più porci,<br />
pagando di moneta sanza conio.<br />
Ma perché siam digressi assai, ritorci<br />
li occhi oramai verso la dritta stra<strong>da</strong>,<br />
sì che la via col tempo si raccorci.<br />
Questa natura sì oltre s’ingra<strong>da</strong><br />
in numero, che mai non fu loquela<br />
né concetto mortal che tanto va<strong>da</strong>;<br />
e se tu guardi quel che si revela<br />
per <strong>da</strong>nïel, vedrai che ’n sue migliaia<br />
determinato numero si cela.<br />
La prima luce, che tutta la raia,<br />
per tanti modi in essa si recepe,<br />
quanti son li splendori a chi s’appaia.<br />
onde, però che a l’atto che concepe<br />
segue l’affetto, d’amar la dolcezza<br />
diversamente in essa ferve e tepe.<br />
Vedi l’eccelso omai e la larghezza<br />
de l’etterno valor, poscia che tanti<br />
speculi fatti s’ha in che si spezza,<br />
uno manendo in sé come <strong>da</strong>vanti».
FranceSco Petrarca<br />
La lettera a tommaso <strong>da</strong> Messina [Fam., i, 8] è certamente uno dei momenti<br />
in cui più si condensa la meditazione petrarchesca sull’ufficio del letterato,<br />
e dell’intellettuale in genere, nei confronti non – si badi – della società civile,<br />
ma nei confronti di coloro che dovrebbero essere i destinatari delle sue opere.<br />
tommaso, infatti, oppone che gli uomini possono essere persuasi al bene assai<br />
più ed assai meglio <strong>da</strong>ll’imitazione delle buone azioni che <strong>da</strong>i discorsi, sia pure<br />
eleganti e persuasivi: è tesi assai diffusa nella predicazione medievale [diceva s.<br />
bonaventura in un Sermone domenicale: « Quoniam efficacius persuadet vita quam<br />
lingua et exemplum quam verbum hinc est quod dominus noster iesus christus<br />
cuius quaelibet actio nostra est instructio ut exemplo vitae suae ad resistendum<br />
diabolo ceteros efficaciter informaret voluit a spiritu dirigi deinde in deserto morari<br />
et postea a diabolo tentari »], 3 che traeva alimento <strong>da</strong>lla lettera di s. Giacomo. a<br />
petto della comunicazione non verbale implicita in tanta parte della religiosità<br />
medievale, Petrarca non sa opporre se non una funzione corollaria e di supporto<br />
della comunicazione retorica (e letteraria). accettata la veridicità, e non poteva non<br />
esserlo, della posizione dell’interlocutore, Petrarca riservava alla comunicazione<br />
verbale una zona d’efficenza tra i molti, egli scrive, cui ancora non è bastato<br />
l’esempio. L’originalità della scelta del pubblico, quello dei peccanti, mentre<br />
trova spiegazione nell’incertezza del poeta a liberarsi con coraggio dell’eredità<br />
religiosa all’atto della fissazione dei princìpi così come aveva fatto <strong>da</strong>nte, rivela<br />
la ricerca per la comunicazione letteraria di parallelismi e di complementarità<br />
nell’utilizzazione e nei valori con la cultura cristiana.<br />
torna a questo fine utile a Francesco dimostrare che anche la comunicazione<br />
verbale, quella resa più consistente <strong>da</strong>lla retorica e <strong>da</strong>lla poetica, può avere<br />
un’efficacia paragonabile a quella delle buone azioni nell’opera di divulgazione<br />
della morale evangelica. cadono qui in proposito gli usurati esempi di orfeo e<br />
di anfione che vengono suggeriti a paradigma del moderno oratore che si trova<br />
a dover fronteggiare uomini resi bestiali <strong>da</strong>lla cupidigia e <strong>da</strong>lla lussuria. Per<br />
questa via la comunicazione letteraria, che pur sempre in Petrarca conserverà<br />
nominalmente come oggetto la generale scienza e verità, di fatto perderà i<br />
contenuti del quadrivio (matematica, geometria, musica, astronomia) largamente<br />
presenti nei versi della precedente generazione poetica.<br />
Lo sforzo di Petrarca si concentra sul legame tra la retorica e la morale, per<br />
giungere a proporre un varco che gli permetta di superare lo squilibrio tra opera<br />
(eticamente meritevole) e parola (eticamente accettabile), che è quanto dire<br />
appianare l’opposizione tra cultura cristiana e classica. andrà avvertito sin d’ora<br />
che l’operazione petrarchesca ha come campo privilegiato quello della morale<br />
individuale, quello già canonizzato <strong>da</strong> catone e cicerone dell’« homo bonus<br />
dicendi peritus ». Un campo, cioè, ben diverso <strong>da</strong> quello <strong>da</strong>ntesco: ché in <strong>da</strong>nte<br />
la comunicazione è atto etico in sé e realizzazione di uno dei fini assegnati <strong>da</strong> dio<br />
« Poiché la vita persuade più efficacemente della lingua e l’esempio più della parola, deriva che il nostro<br />
signore Gesù Cristo, ogni azione del quale è un insegnamento per noi, per istruire gli altri a resistere al demonio,<br />
volle che lo Spirito <strong>da</strong>pprima lo spingesse e poi lo facesse dimorare nel deserto ed infine inducesse<br />
il demonio a tentarlo ».<br />
« Uomo onesto, esperto dell’arte di parlare ».
all’umanità che s’avvale d’uomini sapienti, non necessariamente esperti dell’arte<br />
del dire; in Petrarca la comunicazione retorica è manifestazione artificiosamente<br />
elaborata della moralità del parlante, la quale non si differenzia <strong>da</strong> quella nota<br />
e diffusa. Vengono fuori due atteggiamenti contrapposti e contraddittori: giacché<br />
se il contenuto del messaggio è quello noto, che prima di tutto deve esprimersi<br />
nelle buone azioni, e che è già stato tutto detto e per di più <strong>da</strong>lla parola divina,<br />
allora la forma sarà in buona misura superflua e dovrà ben guar<strong>da</strong>rsi <strong>da</strong>ll’apportare<br />
variazioni al contenuto: « l’animo ben disposto, come un immobile cielo sereno,<br />
è sempre placido e tranquillo: sa quel che vuole …; e anche se mancano gli<br />
ornamenti dell’arte oratoria, trae <strong>da</strong> se stesso espressioni splendide e solenni e<br />
certo conformi a se stesso ». Per converso, in opposizione e nello stesso tempo in<br />
concomitanza, in quanto proiezione della moralità del comunicante, l’artificio sarà<br />
segno della qualità etica della sua anima, e pertanto, quanto più l’elaborazione<br />
stilistica sarà spinta, tanto più il livello qualitativo della moralità dell’artista sarà<br />
alto: « infatti, come il discorso è espressione dell’animo, cosí l’animo governa il<br />
discorso. L’uno dipende <strong>da</strong>ll’altro: quello rimane nascosto in di noi, questo va<br />
fuori in pubblico; quello prepara questo ad uscire e lo forma quale vuole che sia;<br />
questo uscendo manifesta quale sia quello; si obbedisce alla volontà del primo, si<br />
crede alla testimonianza del secondo; bisogna dunque provvedere ad ambedue<br />
così che quello sia sobriamente severo verso questo, e questo sappia essere<br />
veracemente magnifico verso quello; anche se è vero che, una volta che si sia<br />
provveduto all’animo, il discorso non può riuscire trascurato, cosí come per contro<br />
il discorso non può risultare dignitoso, se manchi all’animo la sua maestà ».<br />
Se si può ammettere che l’atto del parlare sia necessario innanzi tutto alla<br />
mente che lo compie e che disponendo i propri pensieri in una forma elaborata<br />
con arte in qualche misura si migliora, non è possibile non prendere atto che la<br />
comunicazione, se acquista <strong>da</strong>l punto di vista letterario, perde in fatto di contenuti:<br />
« non so degli altri: ma per quanto mi riguar<strong>da</strong>, non potrei sufficientemente<br />
spiegare quanto mi giovino nella mia solitudine alcune voci familiari e note –<br />
non solo quando le penso nella mente, ma proprio quando le pronunzio con la<br />
bocca –, con le quali sono solito svegliare l’animo addormentato; quanto diletto<br />
inoltre io tragga <strong>da</strong>llo sfogliare di quando in quando gli scritti degli altri e miei, e<br />
quanto <strong>da</strong> quella lettura mi senta liberare <strong>da</strong> gravissime ed amarissime pene ».<br />
benché nel polemico Contra medicum quem<strong>da</strong>m, ed altrove, Petrarca insista sul<br />
fatto che la letteratura si faccia portatrice di qualsiasi contenuto, di fatto la forte<br />
opzione formale condizionerà irrimediabilmente la scelta dei destinatari: « non è<br />
di tutti seguire questi studi: ma, solo quelli che hanno ingegno, natura e sostanze<br />
necessarie a vivere: le abbiano avute <strong>da</strong>lla fortuna o possano disprezzarle perché<br />
possiedono la virtù. ed è così che taluni si dedicano all’agricoltura, altri alla<br />
navigazione, altri alla medicina. […]Questa è la vera ragione della oscurità dei<br />
poeti; non che sia conveniente nascondersi (come tu dici cercando di metter su<br />
un sillogismo che pare ogni momento doverti cadere tra via), ma perché fine della<br />
poesia è non ingannare nessuno e piacere a pochi. e i pochi sono i dotti ».<br />
il piano formale, area privilegiata di competenza del letterato, di fatto si<br />
oppone alla comunicazione generalizzata, sostenuta <strong>da</strong>gli aristotelici, la quale<br />
avrebbe permesso una dialettica, sia pure pe<strong>da</strong>gogicamente unidirezionata, con
tutte le componenti della vita civile. S’è già alluso come in Petrarca la nozione di<br />
scienza per<strong>da</strong> l’efficacia felicitante dell’intera società; s’aggiunga la coincidenza<br />
del messaggio con l’etica evangelica: era conseguente che l’obscuritas tornasse ad<br />
essere la più seria connotazione del poeta, fortemente discriminante rispetto<br />
al « volgo di ingegno debole ». non era esclusiva tuttavia: giacché era condivisa<br />
con i filosofi e con gli scrittori sacri: <strong>da</strong> un lato i dotti, <strong>da</strong>ll’altro i rozzi, della cui<br />
ignoranza valeva interessarsi nella misura in cui essa diventava (ed era inevitabile<br />
che diventasse) malvagità e vizio.<br />
È interessante seguire l’argomentazione con la quale Petrarca difende la poesia<br />
<strong>da</strong>ll’accusa che l’oscurità, identificata con l’« allegoria », nasca <strong>da</strong>ll’invidia. opporrà<br />
prima una personale dichiarazione d’innocenza: « io non invidio nessuno », che<br />
naturalmente non attinge ad alcun valore dimostrativo; come nessun valore<br />
dimostrativo ha l’aggiunta che Virgilio era onesto, Stazio gentile, modesto Lucano.<br />
Poi ricorrerà ad una assai trita nozione, che risaliva ai primordi dell’esegesi biblica<br />
– e significativamente egli cita s. agostino –, secondo la quale, intanto la colpa è<br />
della rozzezza degli indotti, e quindi che l’obscuritas: « è il pungolo per richiamare<br />
maggiormente l’attenzione, e l’occasione per un maggiore esercizio scrittorio ».<br />
Le citazioni <strong>da</strong> s. agostino giungono in un momento <strong>da</strong>vvero illuminante del<br />
discorso: giacché non sfugge al Petrarca che l’oscurità e la polisemia delle Sacre<br />
Scritture erano annesse ad una comunicazione che per definizione era universale,<br />
sia diacronicamente sia sincronicamente; ora, aggiunge, se quel tipo di<br />
scrittura comporta una non lieve difficoltà di comprensione, una scrittura che non<br />
ha le stesse dimensioni universalistiche, sul piano sincronico, anzi vuol essere<br />
riservata a pochi se non a pochissimi, a maggior ragione dovrà avvalersi della<br />
oscurità dell’allegoria: « Se questo è stato detto giustamente per quelle scritture<br />
che si dirigono ad un vasto pubblico, quanto più giustamente calzeranno alle<br />
scritture che son riservate a pochissimi ? dunque […] in poesia si mantiene una<br />
certa maestosa dignità dello stile. e questo non per invidia verso chi può capire,<br />
ma, proposta come una dolce fatica, si offre diletto e si sollecita la memoria. ci<br />
sono infatti più care le cose che abbiamo cercato tra difficoltà e con più cura le<br />
conserviamo ».<br />
L’allegoria diviene a questo punto capace di individuare uno strumento<br />
comunicativo non solo ben definito, ma anche alternativo a quello quotidianamente<br />
utilizzato <strong>da</strong>lla gente volgare. È operazione esattamente opposta a quella <strong>da</strong>ntesca.<br />
il livello, lo stile serve anche ad allontanare gli indotti <strong>da</strong>lla comunicazione<br />
letteraria (« e ci si cura anche dei non capaci, che spaventati si soffermino in<br />
superficie e, se non sono del tutto sciocchi, s’allontanino <strong>da</strong>lla soglia. onde avviene<br />
che respinti di qui si diano a percorrere altre vie, soprattutto dopo che abbiano<br />
cominciato a fare i conti e aver constatato che <strong>da</strong>lla poesia non si gua<strong>da</strong>gna nulla,<br />
se non il diletto dell’animo e la fama del nome ») e crea un canone linguistico<br />
entro il quale i letterati soltanto si riconosceranno, e si riconosceranno non per la<br />
dottrina espressa, ma per il livello di elaborazione. tale livello sarà l’indice della<br />
superiorità morale e sapienziale del letterato che non dovrà più confrontarsi col<br />
reale – non a caso il medico contro cui si scaglierà aveva rilevato l’inutilità della<br />
poesia, e Francesco aveva frainteso o voluto fraintendere denunziando che ogni<br />
intenzione di quello mirava al vil denaro –. V’è di più: la lingua ed il livello della
comunicazione messi a contatto col vivere civile addirittura perdono la forma ed il<br />
valore stesso di discorso umano. L’episodio, narrato nella lettera a Francesco dei<br />
santi apostoli, è significativo. chiamato <strong>da</strong>lla curia per assumere l’incarico di segretario<br />
apostolico fu sottoposto ad una prova pratica: occorreva scrivere una lettera<br />
in uno stile ed in una lingua facilmente comprensibili. La richiesta era motivata:<br />
benché nella lettera Petrarca non allu<strong>da</strong> minimamente, è pensabile si trattasse di<br />
una scrittura funzionale alla prassi del governo della chiesa. il Poeta non supera<br />
l’esame: se ne dice felice perché così ha potuto esimersi <strong>da</strong>l presentare un rifiuto<br />
al Pontefice. il suo stile è tanto elaborato che risulta incomprensibile per un<br />
destinatario forse non preparato culturalmente, certo impreparato a ricevere una<br />
comunicazione elegante ma ambigua se non equivoca.<br />
conta la teorizzazione che ne consegue: « <strong>da</strong> tullio sappiamo che tre sono<br />
gli stili che egli chiama ’ figure ’: il ’ magniloquente ’, che egli chiama ’ grave ’;<br />
il ’ moderato ’, che chiama ’ mediocre ’; l’’ umile ’ che egli chiama ’ dimesso ’. il<br />
primo di questi, oggi, non è coltivato <strong>da</strong> nessuno; il secondo lo è <strong>da</strong> pochi; il<br />
terzo <strong>da</strong> molti. tutto ciò che sta sotto, non occupa nessun posto nei valori del<br />
discorso, ma è piuttosto uno sproloquio plebeo rozzo e <strong>da</strong> servi. Sebbene sia<br />
adoperato continuamente <strong>da</strong> mille anni, tuttavia non può avere <strong>da</strong>l tempo quella<br />
dignità che gli manca di natura ». La comunicazione scritta è possibile solo con<br />
l’adozione di un codice ben stabilito e stabile. Fuori non esiste, non che lo stile,<br />
neppure un linguaggio organizzato. il codice risolve definitivamente la possibilità<br />
stessa di un destinatario socialmente indifferenziato e generale: esiste un abisso<br />
tra l’« effusio » plebea e lo stile, sia pure « dimesso », se non altro perché manca<br />
il riconoscimento, <strong>da</strong> parte del destinatario, del codice utilizzato <strong>da</strong>ll’emittente.<br />
di qui lo straordinario rilievo che nel discorso petrarchesco assume l’imitazione;<br />
rilievo in buona misura anche sorprendente <strong>da</strong>l punto di vista storico: <strong>da</strong>l<br />
momento che, ad esempio, la Vita nuova xxv rivendicava parità di valori tra poeti<br />
antichi e moderni, e il De vulgari proponeva modelli contemporanei, e la Commedia<br />
prendeva le distanze <strong>da</strong>l maestro ed « auttore » proprio quando se ne dichiarava<br />
dipendente. Più, se non del tutto, supina l’imitazione petrarchesca, sino alla copiatura:<br />
« del qual consiglio Macrobio non la sostanza sola ma le precise parole inserí<br />
ne’ Saturnali: per modo che a me pare ch’egli ad un tempo contravvenisse coi fatti<br />
a quello che leggendo e scrivendo aveva approvato. infatti non prese a convertire<br />
in favi i fiori che <strong>da</strong> Seneca aveva raccolti, ma pari pari, quali sugli altrui rami li<br />
trovò, intatti li riprodusse. Sebbene, come potrei dire che è d’altrui una cosa,<br />
quantunque <strong>da</strong> un altro elaborata, mentre so, per testimonianza di Seneca stesso,<br />
che epicuro insegnava che le buone massime <strong>da</strong> chiunque dette non sono di chi<br />
le disse, ma nostre ? non è dunque <strong>da</strong> porsi a colpa di Macrobio, il fatto che gran<br />
parte di una epistola non dirò traducesse ma copiasse nel proemio dell’opera<br />
sua: che anch’io talvolta per caso, ed altri di me piú grandi facemmo lo stesso ».<br />
il passaggio <strong>da</strong>lle « api » ai « bachi » nell’argomentazione del Petrarca attenua<br />
la sommissione ai classici solo sotto il <strong>prof</strong>ilo della persuasione, lasciando<br />
impregiudicati sia i limiti sia i modi dell’imitazione: « né sia lo stile di questo o<br />
di quello: composto in uno <strong>da</strong> molti, questo pure sia nostro. degni invero di lode<br />
maggiore sono taluni che non a modo delle api qua e là raccogliendo, ma a guisa<br />
di certi bachi un po’ piú grossi che <strong>da</strong>lle viscere cavan la seta, aman formarsi <strong>da</strong> se
stessi il concetto e lo stile, purché il pensiero sia giusto e grave, ornato l’eloquio<br />
ed elegante ».<br />
tal che si può affermare che la vera e propria comunicazione petrarchesca sia<br />
prima di tutto nel rispetto del codice retorico. il contenuto del comunicato è la sua<br />
elaborazione formale: Petrarca lo manifesta chiaramente quando affi<strong>da</strong> capacità<br />
consolatorie all’aspetto formale del discorso, quando individua esclusivamente nei<br />
dotti i destinatari del messaggio, quando infine rifiuta ogni implicazione pragmatica<br />
alla scrittura. L’imitazione dei classici costituisce codice di autoriconoscimento<br />
dell’emittente e di riconoscimento di lui <strong>da</strong> parte del destinatario dotto, l’unico<br />
capace di decodificare il messaggio, capace altresì di autoriconoscersi in quel<br />
metalinguaggio o lingua astorica e apragmatica e, appunto per questo, eterna.<br />
non è un caso che Petrarca cerchi la gloria certamente con un’ansia e con<br />
una perseveranza <strong>da</strong> costituire motivo di fon<strong>da</strong>to timore per la salvezza della<br />
sua anima. addirittura agostino, nel Secretum, arriverà ad ipotizzare che l’amore<br />
stesso per Laura sia l’esito, il paravento dell’amore della gloria. tuttavia si ve<strong>da</strong><br />
altresì come quella gloria sia perseguita sul piano della forma: « potrei facilmente<br />
dimostrarvi che i poeti, sotto il velo dell’invenzione, trattarono questioni ora di<br />
fisica, ora di morale, ora di storia, sicché è vero quello che spesso affermo: tra la<br />
funzione del poeta e quella dello storico e del filosofo (morale o naturale) c’è la<br />
stessa differenza che tra un cielo nuvoloso e uno sereno: la luce che si cela sotto<br />
l’uno e sotto l’altro è la stessa, ma si differenzia secondo la capacità di percezione<br />
di chi guar<strong>da</strong>. e tuttavia, tanto più dolce diventa la poesia, quanto più laboriosa<br />
è la ricerca della verità, che rende più e più dolci i suoi frutti: basti aver detto<br />
questo, non tanto di me stesso quanto del valore della <strong>prof</strong>essione poetica: e<br />
infatti, per quanto mi piaccia scherzare a mo’ dei poeti, non vorrei apparire tanto<br />
poeta, <strong>da</strong> non essere altro che poeta ».<br />
conta alla fin fine che in queste defunzionalizzazione e formalizzazione si ponga<br />
il momento genetico della comunicazione letteraria: ora si fissano i parametri<br />
certi del livello aulico; <strong>da</strong> ora in poi, per lo meno per due secoli, ogni deviazione<br />
<strong>da</strong>lla norma sarà commisurata come deviazione <strong>da</strong>l canone fissato <strong>da</strong> Petrarca e<br />
sarà deviazione non significativa d’originalità sebbene più spesso d’errore e di<br />
antiletterarietà.<br />
iL canzoniere<br />
(rerUM VULGariUM FraGMenta)<br />
1<br />
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono<br />
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core<br />
in sul mio primo giovenile errore<br />
quand’era in parte altr’uom <strong>da</strong> quel ch’i’ sono,<br />
del vario stile in ch’io piango et ragiono<br />
fra le vane speranze e ’l van dolore,<br />
ove sia chi per prova inten<strong>da</strong> amore,<br />
spero trovar pietà, nonché perdono.<br />
Ma ben veggio or sí come al popol tutto<br />
favola fui gran tempo, onde sovente<br />
di me mesdesmo meco mi vergogno;<br />
et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,<br />
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente<br />
che quanto piace al mondo è breve sogno.<br />
2<br />
Per fare una leggiadra sua vendetta<br />
et punire in un dí ben mille offese,<br />
celatamente amor l’arco riprese,<br />
come huom ch’a nocer luogo et tempo aspetta.<br />
era la mia virtute al cor ristretta<br />
per far ivi et ne gli occhi sue difese,
quando ’l colpo mortal là giù discese<br />
ove solea spuntarsi ogni saetta.<br />
Però, turbata nel primiero assalto,<br />
non ebbe tanto né vigor né spazio<br />
che potesse al bisogno prender l’arme,<br />
overo al poggio faticoso et alto<br />
ritrarmi accortamente <strong>da</strong> lo strazio<br />
del quale oggi vorrebbe, et non pò, aitarme.<br />
3<br />
era il giorno ch’al sol si scoloraro<br />
per la pietà del suo factore i rai,<br />
quando i’ fui preso, et non me ne guar<strong>da</strong>i,<br />
ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.<br />
tempo non mi parea <strong>da</strong> far riparo<br />
contra colpi d’amor: però m’an<strong>da</strong>i<br />
secur, senza sospetto; onde i miei guai<br />
nel commune dolor s’incominciaro.<br />
trovommi amor del tutto disarmato<br />
et aperta la via per gli occhi al core,<br />
che di lagrime son fatti uscio et varco:<br />
però al mio parer non li fu honore<br />
ferir me de saetta in quello stato,<br />
a voi armata non mostrar pur l’arco.<br />
5<br />
Quando io movo i sospiri a chiamar voi,<br />
e ’l nome che nel cor mi scrisse amore,<br />
LaU<strong>da</strong>ndo s’incomincia udir di fore<br />
il suon de’ primi dolci accenti suoi.<br />
Vostro stato real, che ’ncontro poi,<br />
raddoppia a l’alta impresa il mio valore;<br />
ma: taci, gri<strong>da</strong> il fin, ché farle honore<br />
è d’altri homeri soma che <strong>da</strong>’ tuoi.<br />
cosí LaU<strong>da</strong>re et reverire insegna<br />
la voce stessa, pur ch’altri vi chiami,<br />
o d’ogni reverenza et d’onor degna:<br />
se non che forse apollo si disdegna<br />
ch’a parlar de’ suoi sempre verdi rami<br />
lingua mortal presumpt¸osa vegna.<br />
7<br />
La gola e ’l sonno et l’otïose piume<br />
ànno del mondo ogni vertù sbandita,<br />
ond’è <strong>da</strong>l corso suo quasi smarrita<br />
nostra natura vinta <strong>da</strong>l costume;<br />
et è sí spento ogni benigno lume<br />
del ciel, per cui s’informa humana vita,<br />
che per cosa mirabile s’addita<br />
chi vòl far d’elicona nascer fiume.<br />
Qual vaghezza di lauro, qual di mirto?<br />
Povera et nu<strong>da</strong> vai philosophia,<br />
dice la turba al vil gua<strong>da</strong>gno intesa.<br />
Pochi compagni avrai per l’altra via:<br />
tanto ti prego più, gentile spirto,<br />
non lassar la magnanima tua impresa.<br />
11<br />
Lassare il velo o per sole o per ombra,<br />
donna, non vi vid’io<br />
poi che in me conosceste il gran desio<br />
ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra.<br />
Mentr’io portava i be’ pensier’ celati,<br />
ch’ànno la mente desïando morta,<br />
vidivi di pietate ornare il volto;<br />
ma poi ch’amor di me vi fece accorta,<br />
fuor i biondi capelli allor velati,<br />
et l’amoroso sguardo in sé raccolto.<br />
Quel ch’i’ più desiava in voi m’è tolto:<br />
sí mi governa il velo<br />
che per mia morte, et al caldo et al gielo,<br />
de’ be’ vostr’occhi il dolce lume adombra.<br />
12<br />
Se la mia vita <strong>da</strong> l’aspro tormento<br />
si può tanto schermire, et <strong>da</strong>gli affanni,<br />
ch’i’ veggia per vertù de gli ultimi anni,<br />
donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento,<br />
e i cape’ d’oro fin farsi d’argento,<br />
et lassar le ghirlande e i verdi panni,<br />
e ’l viso scolorir che ne’ miei <strong>da</strong>nni<br />
a llamentar mi fa pauroso et lento:<br />
pur mi <strong>da</strong>rà tanta bal<strong>da</strong>nza amore<br />
ch’i’ vi discovrirò de’ mei martiri<br />
qua’ sono stati gli anni, e i giorni et l’ore;<br />
et se ’l tempo è contrario ai be’ desiri,<br />
non fia ch’almen non giunga al mio dolore<br />
alcun soccorso di tardi sospiri.<br />
16<br />
Movesi il vecchierel canuto et biancho<br />
del dolce loco ov’à sua età fornita<br />
et <strong>da</strong> la famigliuola sbigottita<br />
che vede il caro padre venir manco;<br />
indi trahendo poi l’antiquo fianco<br />
per l’extreme giornate di sua vita,<br />
quanto più pò, col buon voler s’aita,<br />
rotto <strong>da</strong>gli anni, et <strong>da</strong>l cammino stanco;<br />
et viene a roma, seguendo ’l desio,<br />
per mirar la sembianza di colui<br />
ch’ancor lassù nel ciel vedere spera:<br />
cosí, lasso, talor vo cerchand’io,<br />
donna, quanto è possibile, in altrui<br />
la disïata vostra forma vera.<br />
32
Quanto più m’avicino al giorno extremo<br />
che l’umana miseria suol far breve,<br />
più veggio il tempo an<strong>da</strong>r veloce et leve,<br />
e ’l mio di lui sperar fallace et scemo.<br />
i’ dico a’ miei pensier’: non molto andremo<br />
d’amor parlando omai, ché ’l duro et greve<br />
terreno incarco come frescha neve<br />
si va struggendo; onde noi pace avremo:<br />
perché co llui cadrà quella speranza<br />
che ne fe’ vaneggiar sí lungamente,<br />
e ’l riso e ’l pianto, et la paura et l’ira;<br />
sí vedrem chiaro poi come sovente<br />
per le cose dubbiose altri s’avanza,<br />
et come spesso in<strong>da</strong>rno si sospira.<br />
35<br />
Solo et pensoso i più d eserti campi<br />
vo mesurando a passi tardi et lenti,<br />
et gli occhi porto per fuggire intenti<br />
ove vestigio human l’arena stampi.<br />
altro schermo non trovo che mi scampi<br />
<strong>da</strong>l manifesto accorger de le genti,<br />
perché negli atti d’alegrezza spenti<br />
di fuor si legge com’io dentro avampi:<br />
sí ch’io mi credo omai che monti et piagge<br />
et fiumi et selve sappian di che tempre<br />
sia la mia vita, ch’è celata altrui.<br />
Ma pur sí aspre vie né sí selvagge<br />
cercar non so ch’amor non venga sempre<br />
ragionando con meco, et io co llui.<br />
36<br />
S’io credesse per morte essere scarco<br />
del pensiero amoroso che m’atterra,<br />
colle mie mani avrei già posto in terra<br />
queste mie membra noiose, et quello incarco;<br />
ma perch’io temo che sarrebbe un varco<br />
di pianto in pianto, et d’una in altra guerra,<br />
di qua <strong>da</strong>l passo anchor che mi si serra<br />
mezzo rimango, lasso, et mezzo il varco.<br />
tempo ben fûra omai d’avere spinto<br />
l’ultimo stral la dispietata cor<strong>da</strong><br />
ne l’altrui sangue già bagnato et tinto;<br />
et io ne prego amore, et quella sor<strong>da</strong><br />
che mi lassò de’ suoi color’ depinto,<br />
et di chiamarmi a sé non le ricor<strong>da</strong>.<br />
50<br />
ne la stagion che ’l ciel rapido inchina<br />
verso occidente, et che ’l dí nostro vola<br />
a gente che di là forse l’aspetta,<br />
veggendosi in lontan paese sola,<br />
la stancha vecchiarella pellegrina<br />
raddoppia i passi, et più et più s’affretta;<br />
et poi cosí soletta<br />
al fin di sua giornata<br />
talora è consolata<br />
d’alcun breve riposo, ov’ella oblia<br />
la noia e ’l mal de la passata via.<br />
Ma, lasso, ogni dolor che ’l dí m’adduce<br />
cresce qualor s’invia<br />
per partirsi <strong>da</strong> noi l’eterna luce.<br />
come ’l sol volge le ’nfiammate rote<br />
per <strong>da</strong>r luogo a la notte, onde discende<br />
<strong>da</strong>gli altissimi monti maggior l’ombra,<br />
l’avaro zappador l’arme riprende,<br />
et con parole et con alpestri note<br />
ogni gravezza del suo petto sgombra;<br />
et poi la mensa ingombra<br />
di povere vivande,<br />
simili a quelle ghiande,<br />
le qua’ fuggendo tutto ’l mondo honora.<br />
Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora,<br />
ch’i’ pur non ebbi anchor, non dirò lieta,<br />
ma riposata un’hora,<br />
né per volger di ciel né di pianeta.<br />
Quando vede ’l pastor calare i raggi<br />
del gran pianeta al nido ov’egli alberga,<br />
e ’nbrunir le contrade d’orïente,<br />
drizzasi in piedi, et co l’usata verga,<br />
lassando l’erba et le fontane e i faggi,<br />
move la schiera sua soavemente;<br />
poi lontan <strong>da</strong> la gente<br />
o casetta o spelunca<br />
di verdi frondi ingiuncha:<br />
ivi senza pensier’ s’a<strong>da</strong>gia et dorme.<br />
ahi crudo amor, ma tu allor più mi ’nforme<br />
a seguir d’una fera che mi strugge,<br />
la voce e i passi et l’orme,<br />
et lei non stringi che s’appiatta et fugge.<br />
e i naviganti in qualche chiusa valle<br />
gettan le menbra, poi che ’l sol s’asconde,<br />
sul duro legno, et sotto a l’aspre gonne.<br />
Ma io, perché s’attuffi in mezzo l’onde,<br />
et lasci Hispagna dietro a le sue spalle,<br />
et Granata et Marroccho et le colonne,<br />
et gli uomini et le donne<br />
e ’l mondo et gli animali<br />
aquetino i lor mali,<br />
fine non pongo al mio obstinato affanno;<br />
et duolmi ch’ogni giorno arroge al <strong>da</strong>nno,<br />
ch’i’ son già pur crescendo in questa voglia<br />
ben presso al decim’anno,<br />
né poss’indovinar chi me ne scioglia.<br />
et perché un poco nel parlar mi sfogo,<br />
veggio la sera i buoi tornare sciolti<br />
<strong>da</strong> le campagne et <strong>da</strong>’ solcati colli:<br />
i miei sospiri a me perché non tolti<br />
quando che sia? perché no ’l grave giogo?<br />
perché dí et notte gli occhi miei son molli?<br />
Misero me, che volli
quando primier sí fiso<br />
gli tenni nel bel viso<br />
per iscolpirlo imaginando in parte<br />
onde mai né per forza né per arte<br />
mosso sarà, fin ch’i’ sia <strong>da</strong>to in pre<strong>da</strong><br />
a chi tutto diparte!<br />
né so ben ancho che di lei mi cre<strong>da</strong>.<br />
canzon, se l’esser meco<br />
<strong>da</strong>l matino a la sera<br />
t’à fatto di mia schiera,<br />
tu non vorrai mostrarti in ciascun loco;<br />
et d’altrui lo<strong>da</strong> curerai sí poco,<br />
ch’assai ti fia pensar di poggio in poggio<br />
come m’à concio ’l foco<br />
di questa viva petra, ov’io m’appoggio.<br />
53<br />
Spirto gentil, che quelle membra reggi<br />
dentro le qua’ peregrinando alberga<br />
un signor valoroso, accorto et saggio,<br />
poi che se’ giunto a l’onorata verga<br />
colla qual roma et i suoi erranti correggi,<br />
et la richiami al suo antiquo vïaggio,<br />
io parlo a te, però ch’altrove un raggio<br />
non veggio di vertù, ch’al mondo è spenta,<br />
né trovo chi di mal far si vergogni.<br />
che s’aspetti non so, né che s’agogni,<br />
italia, che suoi guai non par che senta:<br />
vecchia, otïosa et lenta,<br />
dormirà sempre, et non fia chi la svegli?<br />
Le man’ l’avess’io avolto entro’ capegli.<br />
non spero che già mai <strong>da</strong>l pigro sonno<br />
mova la testa per chiamar ch’uom faccia,<br />
sí gravemente è oppressa et di tal soma;<br />
ma non senza destino a le tue braccia,<br />
che scuoter forte et sollevarla ponno,<br />
è or commesso il nostro capo roma.<br />
Pon’ man in quella venerabil chioma<br />
securamente, et ne le treccie sparte,<br />
sí che la neghittosa esca del fango.<br />
i’ che dí et notte del suo strazio piango,<br />
di mia speranza ò in te la maggior parte:<br />
che se ’l popol di Marte<br />
devesse al proprio honore alzar mai gli occhi,<br />
parmi pur ch’a’ tuoi dí la gratia tocchi.<br />
L’antiche mura ch’anchor teme et ama<br />
et trema ’l mondo, quando si rimembra<br />
del tempo an<strong>da</strong>to e ’n dietro si rivolve,<br />
e i sassi dove fur chiuse le membra<br />
di ta’ che non saranno senza fama,<br />
se l’universo pria non si dissolve,<br />
et tutto quel ch’una ruina involve,<br />
per te spera sal<strong>da</strong>r ogni suo vitio.<br />
o grandi Scipïoni, o fedel bruto,<br />
quanto v’aggra<strong>da</strong>, s’egli è anchor venuto<br />
romor là giù del ben locato officio!<br />
come cre’ che Fabritio<br />
si faccia lieto, udendo la novella!<br />
et dice: roma mia sarà anchor bella.<br />
et se cosa di qua nel ciel si cura,<br />
l’anime che lassù son citadine,<br />
et ànno i corpi abandonati in terra,<br />
del lungo odio civil ti pregan fine,<br />
per cui la gente ben non s’assecura,<br />
onde ’l camin a’ lor tecti si serra:<br />
che fur già sí devoti, et ora in guerra<br />
quasi spelunca di ladron’ son fatti,<br />
tal ch’a’ buon’ solamente uscio si chiude,<br />
et tra gli altari et tra le statue ignude<br />
ogni impresa crudel par che se tratti.<br />
deh quanto diversi atti!<br />
né senza squille s’incommincia assalto,<br />
che per dio ringraciar fur poste in alto.<br />
Le donne lagrimose, e ’l vulgo inerme<br />
de la tenera etate, e i vecchi stanchi<br />
ch’ànno sé in odio et la soverchia vita,<br />
e i neri fraticelli e i bigi e i bianchi,<br />
coll’altre schiere travagliate e ’nferme,<br />
gri<strong>da</strong>n: o signor nostro, aita, aita.<br />
et la povera gente sbigottita<br />
ti scopre le sue piaghe a mille a mille,<br />
ch’anibale, non ch’altri, farian pio.<br />
et se ben guardi a la magion di dio<br />
ch’arde oggi tutta, assai poche faville<br />
spegnendo, fien tranquille<br />
le voglie, che si mostran sí ’nfiammate,<br />
onde fien l’opre tue nel ciel lau<strong>da</strong>te.<br />
orsi, lupi, leoni, aquile et serpi<br />
ad una gran marmorea colomna<br />
fanno noia sovente, et a sé <strong>da</strong>nno.<br />
di costor piange quella gentil donna<br />
che t’à chiamato a ciò che di lei sterpi<br />
le male piante, che fiorir non sanno.<br />
Passato è già più che ’l millesimo anno<br />
che ’n lei mancar quell’anime leggiadre<br />
che locata l’avean là dov’ell’era.<br />
ahi nova gente oltra misura altera,<br />
irreverente a tanta et a tal madre!<br />
tu marito, tu padre:<br />
ogni soccorso di tua man s’attende,<br />
ché ’l maggior padre ad altr’opera intende.<br />
rade volte adiven ch’a l’alte imprese<br />
fortuna ingiurïosa non contrasti,<br />
ch’agli animosi fatti mal s’accor<strong>da</strong>.<br />
ora sgombrando ’l passo onde tu intrasti,<br />
famisi perdonar molt’altre offese,<br />
ch’almen qui <strong>da</strong> se stessa si discor<strong>da</strong>:<br />
però che, quanto ’l mondo si ricor<strong>da</strong>,<br />
ad huom mortal non fu aperta la via<br />
per farsi, come a te, di fama eterno,<br />
che puoi drizzar, s’i’ non falso discerno,<br />
in stato la più nobil monarchia.<br />
Quanta gloria ti fia<br />
dir: Gli altri l’ait‚r giovene et forte;<br />
questi in vecchiezza la scampò <strong>da</strong> morte.<br />
Sopra ’l monte tarpeio, canzon, vedrai
un cavalier, ch’italia tutta honora,<br />
pensoso più d’altrui che di se stesso.<br />
digli: Un che non ti vide anchor <strong>da</strong> presso,<br />
se non come per fama huom s’innamora,<br />
dice che roma ognora<br />
con gli occhi di dolor bagnati et molli<br />
ti chier mercé <strong>da</strong> tutti sette i colli.<br />
62<br />
Padre del ciel, dopo i perduti giorni,<br />
dopo le notti vaneggiando spese,<br />
con quel fero desio ch’al cor s’accese,<br />
mirando gli atti per mio mal sí adorni,<br />
piacciati omai col tuo lume ch’io torni<br />
ad altra vita et a più belle imprese,<br />
sí ch’avendo le reti in<strong>da</strong>rno tese,<br />
il mio duro adversario se ne scorni.<br />
or volge, Signor mio, l’undecimo anno<br />
ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo<br />
che sopra i più soggetti è più feroce.<br />
Miserere del mio non degno affanno;<br />
reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo;<br />
ramenta lor come oggi fusti in croce.<br />
81<br />
io son sí stanco sotto ’l fascio antico<br />
de le mie colpe et de l’usanza ria<br />
ch’i’ temo forte di mancar tra via,<br />
et di cader in man del mio nemico.<br />
ben venne a dilivrarmi un grande amico<br />
per somma et ineffabil cortesia;<br />
poi volò fuor de la veduta mia,<br />
sí ch’a mirarlo in<strong>da</strong>rno m’affatico.<br />
Ma la sua voce anchor qua giù rimbomba:<br />
o voi che travagliate, ecco ’l camino;<br />
venite a me, se ’l passo altri non serra.<br />
Qual gratia, qual amore, o qual destino<br />
mi <strong>da</strong>rà penne in guisa di colomba,<br />
ch’i’ mi riposi, et levimi <strong>da</strong> terra?<br />
90<br />
erano i capei d’oro a l’aura sparsi<br />
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,<br />
e l’vago lume oltra misura ardea<br />
di quei begli occhi, ch’or ne son sí scarsi;<br />
e ’l viso di pietosi color’ farsi,<br />
non so se vero o falso, mi parea:<br />
i’ che l’ésca amorosa al petto avea,<br />
qual meraviglia se di sùbito arsi?<br />
non era l’an<strong>da</strong>r suo cosa mortale,<br />
ma d’angelica forma; et le parole<br />
sonavan altro, che pur voce humana.<br />
Uno spirito celeste, un vivo sole<br />
fu quel ch’i’vidi: et se non fosse or tale,<br />
piagha per allentar d’arco non sana.<br />
92<br />
Piangete, donne, et con voi pianga amore;<br />
piangete, amanti, per ciascun paese,<br />
poi ch’è morto collui che tutto intese<br />
in farvi, mentre visse, al mondo honore.<br />
io per me prego il mio acerbo dolore,<br />
non sian <strong>da</strong> lui le lagrime contese,<br />
et mi sia di sospir’ tanto cortese,<br />
quanto bisogna a disfogare il core.<br />
Piangan le rime anchor, piangano i versi,<br />
perché ’l nostro amoroso messer cino<br />
novellamente s’è <strong>da</strong> noi partito.<br />
Pianga Pistoia, e i citadin perversi<br />
che perduto ànno sí dolce vicino;<br />
et rallegresi il cielo, ov’ello è gito.<br />
106<br />
nova angeletta sovra l’ale accorta<br />
scese <strong>da</strong>l cielo in su la fresca riva,<br />
là ’nd’io passava sol per mio destino.<br />
Poi che senza compagna et senza scorta<br />
mi vide, un laccio che di seta ordiva<br />
tese fra l’erba, ond’è verde il camino.<br />
allor fui preso; et non mi spiacque poi,<br />
sí dolce lume uscia degli occhi suoi.<br />
126<br />
chiare, fresche et dolci acque,<br />
ove le belle membra<br />
pose colei che sola a me par donna;<br />
gentil ramo ove piacque<br />
(con sospir’ mi rimembra)<br />
a lei di fare al bel fiancho colonna;<br />
herba et fior’ che la gonna<br />
leggiadra ricoverse<br />
co l’angelico seno;<br />
aere sacro, sereno,<br />
ove amor co’ begli occhi il cor m’aperse:<br />
<strong>da</strong>te udïenza insieme<br />
a le dolenti mie parole extreme.<br />
S’egli è pur mio destino<br />
e ’l cielo in ciò s’adopra,<br />
ch’amor quest’occhi lagrimando chiu<strong>da</strong>,<br />
qualche gratia il meschino<br />
corpo fra voi ricopra,<br />
et torni l’alma al proprio albergo ignu<strong>da</strong>.<br />
La morte fia men cru<strong>da</strong><br />
se questa spene porto<br />
a quel dubbioso passo:<br />
ché lo spirito lasso<br />
non poria mai in più riposato porto<br />
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l’ossa.<br />
tempo verrà anchor forse<br />
ch’a l’usato soggiorno<br />
torni la fera bella et mans¸eta,<br />
et là ’v’ella mi scorse<br />
nel benedetto giorno,<br />
volga la vista disïosa et lieta,<br />
cercandomi; et, o pietà!,<br />
già terra in fra le pietre<br />
vedendo, amor l’inspiri<br />
in guisa che sospiri<br />
sí dolcemente che mercé m’impetre,<br />
et faccia forza al cielo,<br />
asciugandosi gli occhi col bel velo.<br />
<strong>da</strong>’ be’ rami scendea<br />
(dolce ne la memoria)<br />
una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo;<br />
et ella si sedea<br />
humile in tanta gloria,<br />
coverta già de l’amoroso nembo.<br />
Qual fior cadea sul lembo,<br />
qual su le treccie bionde,<br />
ch’oro forbito et perle<br />
eran quel dí a vederle;<br />
qual si posava in terra, et qual su l’onde;<br />
qual con un vago errore<br />
girando parea dir: Qui regna amore. <br />
Quante volte diss’io<br />
allor pien di spavento:<br />
costei per fermo nacque in paradiso.<br />
cosí carco d’oblio<br />
il divin portamento<br />
e ’l volto e le parole e ’l dolce riso<br />
m’aveano, et sí diviso<br />
<strong>da</strong> l’imagine vera,<br />
ch’i’ dicea sospirando:<br />
Qui come venn’io, o quando?;<br />
credendo d’esser in ciel, non là dov’era.<br />
<strong>da</strong> indi in qua mi piace<br />
questa herba sí, ch’altrove non ò pace.<br />
Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia,<br />
poresti arditamente<br />
uscir del boscho, et gir in fra la gente.<br />
128<br />
italia mia, benché ’l parlar sia in<strong>da</strong>rno<br />
a le piaghe mortali<br />
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,<br />
piacemi almen che ’ miei sospir’ sian quali<br />
spera ’l tevero et l’arno,<br />
e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.<br />
rettor del cielo, io cheggio<br />
che la pietà che ti condusse in terra<br />
ti volga al tuo dilecto almo paese.<br />
Vedi, Segnor cortese,<br />
di che lievi cagion’ che crudel guerra;<br />
e i cor’, che ’ndura et serra<br />
Marte superbo et fero,<br />
apri tu, Padre, e ’ntenerisci et sno<strong>da</strong>;<br />
ivi fa che ’l tuo vero,<br />
qual io mi sia, per la mia lingua s’o<strong>da</strong>.<br />
Voi cui Fortuna à posto in mano il freno<br />
de le belle contrade,<br />
di che nulla pietà par che vi stringa,<br />
che fan qui tante pellegrine spade?<br />
perché ’l verde terreno<br />
del barbarico sangue si depinga?<br />
Vano error vi lusinga:<br />
poco vedete, et parvi veder molto,<br />
ché ’n cor venale amor cercate o fede.<br />
Qual più gente possede,<br />
colui è più <strong>da</strong>’ suoi nemici avolto.<br />
o diluvio raccolto<br />
di che deserti strani<br />
per inon<strong>da</strong>r i nostri dolci campi!<br />
Se <strong>da</strong> le proprie mani<br />
questo n’avene, or chi fia che ne scampi?<br />
ben provide natura al nostro stato,<br />
quando de l’alpi schermo<br />
pose fra noi et la tedesca rabbia;<br />
ma ’l desir cieco, e ’ncontr’al suo ben fermo,<br />
s’è poi tanto ingegnato,<br />
ch’al corpo sano à procurato scabbia.<br />
or dentro ad una gabbia<br />
fiere selvagge et mans¸ete gregge<br />
s’anni<strong>da</strong>n sí che sempre il miglior geme:<br />
et è questo del seme,<br />
per più dolor, del popol senza legge,<br />
al qual, come si legge,<br />
Mario aperse sí ’l fianco,<br />
che memoria de l’opra ancho non langue,<br />
quando assetato et stanco<br />
non più bevve del fiume acqua che sangue.<br />
cesare taccio che per ogni piaggia<br />
fece l’erbe sanguigne<br />
di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.<br />
or par, non so per che stelle maligne,<br />
che ’l cielo in odio n’aggia:<br />
vostra mercé, cui tanto si commise.<br />
Vostre voglie divise<br />
guastan del mondo la più bella parte.<br />
Qual colpa, qual giudicio o qual destino<br />
fastidire il vicino<br />
povero, et le fortune afflicte et sparte<br />
perseguire, e ’n disparte<br />
cercar gente et gradire,<br />
che sparga ’l sangue et ven<strong>da</strong> l’alma a prezzo?<br />
io parlo per ver dire,<br />
non per odio d’altrui, né per disprezzo.<br />
né v’accorgete anchor per tante prove<br />
del bavarico inganno<br />
ch’alzando il dito colla morte scherza?<br />
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l <strong>da</strong>nno;<br />
ma ’l vostro sangue piove<br />
più largamente, ch’altr’ira vi sferza.
<strong>da</strong> la matina a terza<br />
di voi pensate, et vederete come<br />
tien caro altrui che tien sé cosí vile.<br />
Latin sangue gentile,<br />
sgombra <strong>da</strong> te queste <strong>da</strong>nnose some;<br />
non far idolo un nome<br />
vano senza soggetto:<br />
ché ’l furor de lassù, gente ritrosa,<br />
vincerne d’intellecto,<br />
peccato è nostro, et non natural cosa.<br />
non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?<br />
non è questo il mio nido<br />
ove nudrito fui sí dolcemente?<br />
non è questa la patria in ch’io mi fido,<br />
madre benigna et pia,<br />
che copre l’un et l’altro mio parente?<br />
Perdio, questo la mente<br />
talor vi mova, et con pietà guar<strong>da</strong>te<br />
le lagrime del popol doloroso,<br />
che sol <strong>da</strong> voi riposo<br />
dopo dio spera; et pur che voi mostriate<br />
segno alcun di pietate,<br />
vertù contra furore<br />
prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto:<br />
ché l’antiquo valore<br />
ne gli italici cor’ non è anchor morto.<br />
Signor’, mirate come ’l tempo vola,<br />
et sí come la vita<br />
fugge, et la morte n’è sovra le spalle.<br />
Voi siete or qui; pensate a la partita:<br />
ché l’alma ignu<strong>da</strong> et sola<br />
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.<br />
al passar questa valle<br />
piacciavi porre giù l’odio et lo sdegno,<br />
vènti contrari a la vita serena;<br />
et quel che ’n altrui pena<br />
tempo si spende, in qualche acto più degno<br />
o di mano o d’ingegno,<br />
in qualche bella lode,<br />
in qualche honesto studio si converta:<br />
cosí qua giù si gode,<br />
et la stra<strong>da</strong> del ciel si trova aperta.<br />
canzone, io t’ammonisco<br />
che tua ragion cortesemente dica,<br />
perché fra gente altera ir ti convene,<br />
et le voglie son piene<br />
già de l’usanza pessima et antica,<br />
del ver sempre nemica.<br />
Proverai tua ventura<br />
fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.<br />
di’ lor: chi m’assicura?<br />
i’ vo gri<strong>da</strong>ndo: Pace, pace, pace. <br />
129<br />
di pensier in pensier, di monte in monte<br />
mi gui<strong>da</strong> amor, ch’ogni segnato calle<br />
provo contrario a la tranquilla vita.<br />
Se ’n solitaria piaggia, o rivo, o fonte,<br />
se ’nfra duo poggi siede ombrosa valle,<br />
ivi s’acqueta l’alma sbigottita;<br />
et come amor l’envita,<br />
or ride, or piange, or teme, or s’assecura;<br />
e ’l volto che lei segue ov’ella il mena<br />
si turba et rasserena,<br />
et in un esser picciol tempo dura;<br />
onde a la vista huom di tal vita experto<br />
diria: Questo arde, et di suo stato è incerto.<br />
Per alti monti et per selve aspre trovo<br />
qualche riposo: ogni habitato loco<br />
è nemico mortal degli occhi miei.<br />
a ciascun passo nasce un penser novo<br />
de la mia donna, che sovente in gioco<br />
gira ’l tormento ch’i’ porto per lei;<br />
et a pena vorrei<br />
cangiar questo mio viver dolce amaro,<br />
ch’i’ dico: Forse anchor ti serva amore<br />
ad un tempo migliore;<br />
forse, a te stesso vile, altrui se’ caro.<br />
et in questa trapasso sospirando:<br />
or porrebbe esser vero? or come? or quando?<br />
ove porge ombra un pino alto od un colle<br />
talor m’arresto, et pur nel primo sasso<br />
disegno co la mente il suo bel viso.<br />
Poi ch’a me torno, trovo il petto molle<br />
de la pietate; et alor dico: ahi, lasso,<br />
dove se’ giunto! et onde se’ diviso!<br />
Ma mentre tener fiso<br />
posso al primo pensier la mente vaga,<br />
et mirar lei, et oblïar me stesso,<br />
sento amor sí <strong>da</strong> presso,<br />
che del suo proprio error l’alma s’appaga:<br />
in tante parti et sí bella la veggio,<br />
che se l’error durasse, altro non cheggio.<br />
i’ l’ò più volte (or chi fia che mi ’l cre<strong>da</strong>?)<br />
ne l’acqua chiara et sopra l’erba verde<br />
veduto viva, et nel tronchon d’un faggio<br />
e ’n bianca nube, sí fatta che Le<strong>da</strong><br />
avria ben detto che sua figlia perde,<br />
come stella che ’l sol copre col raggio;<br />
et quanto in più selvaggio<br />
loco mi trovo e ’n più deserto lido,<br />
tanto più bella il mio pensier l’adombra.<br />
Poi quando il vero sgombra<br />
quel dolce error, pur lí medesmo assido<br />
me freddo, pietra morta in pietra viva,<br />
in guisa d’uom che pensi et pianga et scriva.<br />
ove d’altra montagna ombra non tocchi,<br />
verso ’l maggiore e ’l più expedito giogo<br />
tirar mi suol un desiderio intenso;<br />
indi i miei <strong>da</strong>nni a misurar con gli occhi<br />
comincio, e ’ntanto lagrimando sfogo<br />
di dolorosa nebbia il cor condenso,<br />
alor ch’i’ miro et penso,<br />
quanta aria <strong>da</strong>l bel viso mi diparte<br />
che sempre m’è sí presso et sí lontano.<br />
Poscia fra me pian piano:
che sai tu, lasso! forse in quella parte<br />
or di tua lontananza si sospira.<br />
et in questo penser l’alma respira.<br />
canzone, oltra quell’alpe<br />
là dove il ciel è più sereno et lieto<br />
mi rivedrai sovr’un ruscel corrente,<br />
ove l’aura si sente<br />
d’un fresco et odorifero laureto.<br />
ivi è ’l mio cor, et quella che ’l m’invola;<br />
qui veder pûi l’imagine mia sola.<br />
13<br />
Pace non trovo, et non ò <strong>da</strong> far guerra;<br />
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;<br />
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;<br />
et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.<br />
tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,<br />
né per suo mi riten né scioglie il laccio;<br />
et non m’ancide amore, et non mi sferra,<br />
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.<br />
Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;<br />
et bramo di perir, et cheggio aita;<br />
et ò in odio me stesso, et amo altrui.<br />
Pascomi di dolor, piangendo rido;<br />
egualmente mi spiace morte et vita:<br />
in questo stato son, donna, per voi.<br />
137<br />
L’avara babilonia à colmo il sacco<br />
d’ira di dio, e di vitii empii et rei,<br />
tanto che scoppia, ed à fatti suoi dèi<br />
non Giove et Palla, ma Venere et bacco.<br />
aspectando ragion mi struggo et fiacco;<br />
ma pur novo sol<strong>da</strong>n veggio per lei,<br />
lo qual farà, non già quand’io vorrei,<br />
sol una sede, et quella fia in bal<strong>da</strong>cco.<br />
Gl’idoli suoi sarranno in terra sparsi,<br />
et le torre superbe, al ciel nemiche,<br />
e i suoi torrer’ di for come dentro arsi.<br />
anime belle et di virtute amiche<br />
terranno il mondo; et poi vedrem lui farsi<br />
aurÎo tutto, et pien de l’opre antiche.<br />
138<br />
Fontana di dolore, albergo d’ira,<br />
scola d’errori, et templo d’eresia,<br />
già roma, or babilonia falsa et ria,<br />
per cui tanto si piange et si sospira;<br />
o fucina d’inganni, o pregion dira,<br />
ove ’l ben more, e ’l mal si nutre et cria,<br />
di vivi inferno, un gran miracol fia<br />
se cristo teco alfine non s’adira.<br />
Fon<strong>da</strong>ta in casta et humil povertate,<br />
contra’ tuoi fon<strong>da</strong>tori alzi le corna,<br />
putta sfacciata: et dove ài posto spene?<br />
ne gli adùlteri tuoi? ne le mal nate<br />
richezze tante? or constantin non torna;<br />
ma tolga il mondo tristo che ’l sostene.<br />
189<br />
Passa la nave mia colma d’oblio<br />
per aspro mare, a mezza notte il verno,<br />
enfra Scilla et caribdi; et al governo<br />
siede ’l signore, anzi ’l nimico mio.<br />
a ciascun remo un penser pronto et rio<br />
che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno;<br />
la vela rompe un vento humido eterno<br />
di sospir’, di speranze, et di desio.<br />
Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni<br />
bagna et rallenta le già stanche sarte,<br />
che son d’error con ignorantia attorto.<br />
celansi i duo mei dolci usati segni;<br />
morta fra l’onde è la ragion et l’arte,<br />
tal ch’incomincio a desperar del porto.<br />
23<br />
o cameretta che già fosti un porto<br />
a le gravi tempeste mie di¸rne,<br />
fonte se’ or di lagrime nocturne,<br />
che ’l dí celate per vergogna porto.<br />
o letticciuol che requie eri et conforto<br />
in tanti affanni, di che dogliose urne<br />
ti bagna amor, con quelle mani eburne,<br />
solo ver ’me crudeli a sí gran torto!<br />
né pur il mio secreto e ’l mio riposo<br />
fuggo, ma più me stesso e ’l mio pensero,<br />
che, seguendol, talor levommi a volo;<br />
e ’l vulgo a me nemico et odïoso<br />
(ch ’l pensò mai?) per mio refugio chero:<br />
tal paura ò di ritrovarmi solo.<br />
268<br />
che debb’io far? che mi consigli, amore?<br />
tempo è ben di morire,<br />
et ò tar<strong>da</strong>to più ch’i’ non vorrei.<br />
Madonna è morta, et à seco il mio core;<br />
et volendol seguire,<br />
interromper conven quest’anni rei,<br />
perché mai veder lei<br />
di qua non spero, et l’aspettar m’è noia.<br />
Poscia ch’ogni mia gioia<br />
per lo suo dipartire in pianto è volta,<br />
ogni dolcezza de mia vita è tolta.<br />
amor, tu ’l senti, ond’io teco mi doglio,<br />
quant’è il <strong>da</strong>mno aspro et grave;<br />
e so che del mio mal ti pesa et dole,
anzi del nostro, perch’ad uno scoglio<br />
avem rotto la nave,<br />
et in un punto n’è scurato il sole.<br />
Qual ingegno a parole<br />
poria aguagliare il mio doglioso stato?<br />
ahi orbo mondo, ingrato,<br />
gran cagion ài di dever pianger meco,<br />
ché quel bel ch’era in te, perduto ài seco.<br />
caduta è la tua gloria, et tu nol vedi,<br />
né degno eri, mentr’ella<br />
visse qua giù, d’aver sua conoscenza,<br />
né d’esser tocco <strong>da</strong>’ suoi sancti piedi,<br />
perché cosa sí bella<br />
devea ’l ciel adornar di sua presenza.<br />
Ma io, lasso, che senza<br />
lei né vita mortal né me stesso amo,<br />
piangendo la richiamo:<br />
questo m’avanza di cotanta spene,<br />
et questo solo anchor qui mi mantene.<br />
oïmè, terra è fatto il suo bel viso,<br />
che solea far del cielo<br />
et del ben di lassù fede fra noi;<br />
l’invisibil sua forma è in paradiso,<br />
disciolta di quel velo<br />
che qui fece ombra al fior degli anni suoi,<br />
per rivestirsen poi<br />
un’altra volta, et mai più non spogliarsi,<br />
quando alma et bella farsi<br />
tanto più la vedrem, quanto più vale<br />
sempiterna bellezza che mortale.<br />
Più che mai bella et più leggiadra donna<br />
tornami inanzi, come<br />
là dove più gradir sua vista sente.<br />
Questa è del viver mio l’una colomna,<br />
l’altra è ’l suo chiaro nome,<br />
che sona nel mio cor sí dolcemente.<br />
Ma tornandomi a mente<br />
che pur morta è la mia speranza, viva<br />
allor ch’ella fioriva,<br />
sa ben amor qual io divento, et (spero)<br />
vedel colei ch’è or sí presso al vero.<br />
donne, voi che miraste sua beltate<br />
et l’angelica vita<br />
con quel celeste portamento in terra,<br />
di me vi doglia, et vincavi pietate,<br />
non di lei ch’è salita<br />
a tanta pace, et m’à lassato in guerra:<br />
tal che s’altri mi serra<br />
lungo tempo il camin <strong>da</strong> seguitarla,<br />
quel ch’amor meco parla,<br />
sol mi ritien ch’io non reci<strong>da</strong> il nodo.<br />
Ma e’ ragiona dentro in cotal modo:<br />
Pon’ freno al gran dolor che ti trasporta,<br />
ché per soverchie voglie<br />
si perde ’l cielo, ove ’l tuo core aspira,<br />
dove è viva colei ch’altrui par morta,<br />
et di sue belle spoglie<br />
seco sorride, et sol di te sospira;<br />
et sua fama, che spira<br />
in molte parti anchor per la tua lingua,<br />
prega che non extingua,<br />
anzi la voce al suo nome rischiari,<br />
se gli occhi suoi ti fur dolci né cari. <br />
Fuggi ’l sereno e ’l verde,<br />
non t’appressare ove sia riso o canto,<br />
canzon mia no, ma pianto:<br />
non fa per te di star fra gente allegra,<br />
vedova, sconsolata, in vesta negra.<br />
269<br />
rotta è l’alta colonna e ’l verde lauro<br />
che facean ombra al mio stanco pensero;<br />
perduto ò quel che ritrovar non spero<br />
<strong>da</strong>l borrea a l’austro, o <strong>da</strong>l mar indo al mauro.<br />
tolto m’ài, Morte, il mio doppio thesauro,<br />
che mi fea viver lieto et gire altero,<br />
et ristorar nol pò terra né impero,<br />
né gemma orïental, né forza d’auro.<br />
Ma se consentimento è di destino,<br />
che posso io più, se no aver l’alma trista,<br />
humidi gli occhi sempre, e ’l viso chino?<br />
o nostra vita ch’è sí bella in vista,<br />
com perde agevolmente in un matino<br />
quel che ’n molti anni a gran pena s’acquista!<br />
272<br />
La vita fugge, et non s’arresta una hora,<br />
et la morte vien dietro a gran giornate,<br />
et le cose presenti et le passate<br />
mi dànno guerra, et le future anchora;<br />
e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora,<br />
or quinci or quindi, sí che ’n veritate,<br />
se non ch’i’ ò di me stesso pietate,<br />
i’ sarei già di questi penser’ fòra.<br />
tornami avanti, s’alcun dolce mai<br />
ebbe ’l cor tristo; et poi <strong>da</strong> l’altra parte<br />
veggio al mio navigar turbati i vènti;<br />
veggio fortuna in porto, et stanco omai<br />
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,<br />
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.<br />
273<br />
che fai? che pensi? che pur dietro guardi<br />
nel tempo, che tornar non pote omai?<br />
anima sconsolata, che pur vai<br />
giungnendo legne al foco ove tu ardi?<br />
Le soavi parole e i dolci sguardi<br />
ch’ad un ad un descritti et depinti ài,<br />
son levati de terra; et è, ben sai,<br />
qui ricercarli intempestivo et tardi.
deh non rinovellar quel che n’ancide<br />
non seguir più penser vago, fallace,<br />
ma saldo et certo, ch’a buon fin ne guide.<br />
cerchiamo ’l ciel, se qui nulla ne piace:<br />
ché mal per noi quella beltà si vide,<br />
se viva et morta ne devea tûr pace.<br />
302<br />
Levommi il mio penser in parte ov’era<br />
quella ch’io cerco, et non ritrovo in terra:<br />
ivi, fra lor che ’l terzo cerchio serra,<br />
la rividi più bella et meno altera.<br />
Per man mi prese, et disse: in questa spera<br />
sarai anchor meco, se ’l desir non erra:<br />
i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra,<br />
et compie’ mia giornata inanzi sera.<br />
Mio ben non cape in intelletto humano:<br />
te solo aspetto, et quel che tanto amasti<br />
e là giuso è rimaso, il mio bel velo. <br />
deh perché tacque, et allargò la mano?<br />
ch’al suon de’ detti sí pietosi et casti<br />
poco mancò ch’io non rimasi in cielo.<br />
310<br />
zephiro torna, e ’l bel tempo rimena,<br />
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,<br />
et garrir Progne et pianger Philomena,<br />
et primavera candi<strong>da</strong> et vermiglia.<br />
ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;<br />
Giove s’allegra di mirar sua figlia;<br />
l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;<br />
ogni animal d’amar si riconsiglia.<br />
Ma per me, lasso, tornano i più gravi<br />
sospiri, che del cor <strong>prof</strong>ondo tragge<br />
quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;<br />
et cantar augelletti, et fiorir piagge,<br />
e ’n belle donne honeste atti soavi<br />
sono un deserto, et fere aspre et selvagge.<br />
320<br />
Sento l’aura mia anticha, e i dolci colli<br />
veggio apparire, onde ’l bel lume nacque<br />
che tenne gli occhi mei mentr’al ciel piacque<br />
bramosi et lieti, or li tèn tristi et molli.<br />
o caduche speranze, o penser’ folli!<br />
Vedove l’erbe et torbide son l’acque,<br />
et vòto et freddo ’l nido in ch’ella giacque,<br />
nel qual io vivo, et morto giacer volli,<br />
sperando alfin <strong>da</strong> le soavi piante<br />
et <strong>da</strong> begli occhi suoi, che ’l cor m’ànn’arso,<br />
riposo alcun de le fatiche tante.<br />
o’ servito a signor crudele et scarso:<br />
ch’arsi quanto ’l mio foco ebbi <strong>da</strong>vante,<br />
or vo piangendo il suo cenere sparso.<br />
353<br />
Vago augelletto che cantando vai,<br />
over piangendo, il tuo tempo passato,<br />
vedendoti la notte e ’l verno a lato<br />
e ’l dí dopo le spalle e i mesi gai,<br />
se, come i tuoi gravosi affanni sai,<br />
cosí sapessi il mio simile stato,<br />
verresti in grembo a questo sconsolato<br />
a partir seco i dolorosi guai.<br />
i’ non so se le parti sarian pari,<br />
ché quella cui tu piangi è forse in vita,<br />
di ch’a me Morte e ’l ciel son tanto avari;<br />
ma la stagione et l’ora men gradita,<br />
col membrar de’ dolci anni et de li amari,<br />
a parlar teco con pietà m’invita.<br />
366<br />
Vergin bella, che di sol vestita,<br />
coronata di stelle, al sommo Sole<br />
piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose,<br />
amor mi spinge a dir di te parole:<br />
ma non so ’ncominciar senza tu’ aita,<br />
et di colui ch’amando in te si pose.<br />
invoco lei che ben sempre rispose,<br />
chi la chiamò con fede:<br />
Vergine, s’a mercede<br />
miseria extrema de l’humane cose<br />
già mai ti volse, al mio prego t’inchina,<br />
soccorri a la mia guerra,<br />
bench’i’ sia terra, et tu del ciel regina.<br />
Vergine saggia, et del bel numero una<br />
de le beate vergini prudenti,<br />
anzi la prima, et con più chiara lampa;<br />
o saldo scudo de l’afflicte genti<br />
contra colpi di Morte et di Fortuna,<br />
sotto ’l qual si trïumpha, non pur scampa;<br />
o refrigerio al cieco ardor ch’avampa<br />
qui fra i mortali sciocchi:<br />
Vergine, que’ belli occhi<br />
che vider tristi la spietata stampa<br />
ne’ dolci membri del tuo caro figlio,<br />
volgi al mio dubbio stato,<br />
che sconsigliato a te vèn per consiglio.<br />
Vergine pura, d’ogni parte intera,<br />
del tuo parto gentil figliola et madre,<br />
ch’allumi questa vita, et l’altra adorni,<br />
per te il tuo figlio, et quel del sommo Padre,<br />
o fenestra del ciel lucente altera,<br />
venne a salvarne in su li extremi giorni;<br />
et fra tutt’i terreni altri soggiorni<br />
sola tu fosti electa,<br />
Vergine benedetta,<br />
che ’l pianto d’eva in allegrezza torni.<br />
Fammi, ché puoi, de la Sua gratia degno,
senza fine o beata,<br />
già coronata nel superno regno.<br />
Vergine santa d’ogni gratia piena,<br />
che per vera et altissima humiltate<br />
salisti al ciel onde miei preghi ascolti,<br />
tu partoristi il fonte di pietate,<br />
et di giustitia il sol, che rasserena<br />
il secol pien d’errori oscuri et folti;<br />
tre dolci et cari nomi ài in te raccolti,<br />
madre, figliuola et sposa:<br />
Vergina glorïosa,<br />
donna del re che nostri lacci à sciolti<br />
et fatto ’l mondo libero et felice,<br />
ne le cui sante piaghe<br />
prego ch’appaghe il cor, vera beatrice.<br />
Vergine sola al mondo senza exempio,<br />
che ’l ciel di tue bellezze innamorasti,<br />
cui né prima fu simil né secon<strong>da</strong>,<br />
santi penseri, atti pietosi et casti<br />
al vero dio sacrato et vivo tempio<br />
fecero in tua verginità fecon<strong>da</strong>.<br />
Per te pò la mia vita esser iocon<strong>da</strong>,<br />
s’a’ tuoi preghi, o Maria,<br />
Vergine dolce et pia,<br />
ove ’l fallo abondò, la gratia abon<strong>da</strong>.<br />
con le ginocchia de la mente inchine,<br />
prego che sia mia scorta,<br />
et la mia torta via drizzi a buon fine.<br />
Vergine chiara et stabile in eterno,<br />
di questo tempestoso mare stella,<br />
d’ogni fedel nocchier fi<strong>da</strong>ta gui<strong>da</strong>,<br />
pon’ mente in che terribile procella<br />
i’ mi ritrovo sol, senza governo,<br />
et ò già <strong>da</strong> vicin l’ultime stri<strong>da</strong>.<br />
Ma pur in te l’anima mia si fi<strong>da</strong>,<br />
peccatrice, i’ no ’l nego,<br />
Vergine; ma ti prego<br />
che ’l tuo nemico del mio mal non ri<strong>da</strong>:<br />
ricorditi che fece il peccar nostro,<br />
prender dio per scamparne,<br />
humana carne al tuo virginal chiostro.<br />
Vergine, quante lagrime ò già sparte,<br />
quante lusinghe et quanti preghi in<strong>da</strong>rno,<br />
pur per mia pena et per mio grave <strong>da</strong>nno!<br />
<strong>da</strong> poi ch’i’ nacqui in su la riva d’arno,<br />
cercando or questa et or quel’altra parte,<br />
non è stata mia vita altro ch’affanno.<br />
Mortal bellezza, atti et parole m’ànno<br />
tutta ingombrata l’alma.<br />
Vergine sacra et alma,<br />
non tar<strong>da</strong>r, ch’i’ son forse a l’ultimo anno.<br />
i dí miei più correnti che saetta<br />
fra miserie et peccati<br />
sonsen’ an<strong>da</strong>ti, et sol Morte n’aspetta.<br />
Vergine, tale è terra, et posto à in doglia<br />
lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne<br />
et de mille miei mali un non sapea:<br />
et per saperlo, pur quel che n’avenne<br />
fûra avenuto, ch’ogni altra sua voglia<br />
era a me morte, et a lei fama rea.<br />
or tu donna del ciel, tu nostra dea<br />
(se dir lice, e convensi),<br />
Vergine d’alti sensi,<br />
tu vedi il tutto; e quel che non potea<br />
far altri, è nulla a la tua gran vertute,<br />
por fine al mio dolore;<br />
ch’a te honore, et a me fia salute.<br />
Vergine, in cui ò tutta mia speranza<br />
che possi et vogli al gran bisogno aitarme,<br />
non mi lasciare in su l’extremo passo.<br />
non guar<strong>da</strong>r me, ma chi degnò crearme;<br />
no ’l mio valor, ma l’alta Sua sembianza,<br />
ch’è in me, ti mova a curar d’uom sí basso.<br />
Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso<br />
d’umor vano stillante:<br />
Vergine, tu di sante<br />
lagrime et pïe adempi ’l meo cor lasso,<br />
ch’almen l’ultimo pianto sia devoto,<br />
senza terrestro limo,<br />
come fu ’l primo non d’insania vòto.<br />
Vergine humana, et nemica d’orgoglio,<br />
del comune principio amor t’induca:<br />
miserere d’un cor contrito humile.<br />
che se poca mortal terra caduca<br />
amar con sí mirabil fede soglio,<br />
che devrò far di te, cosa gentile?<br />
Se <strong>da</strong>l mio stato assai misero et vile<br />
per le tue man’ resurgo,<br />
Vergine, i’ sacro et purgo<br />
al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile,<br />
la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri.<br />
Scorgimi al miglior guado,<br />
et prendi in grado i cangiati desiri.<br />
il dí s’appressa, et non pòte esser lunge,<br />
sí corre il tempo et vola,<br />
Vergine unica et sola,<br />
e ’l cor or coscïentia or morte punge.<br />
raccoman<strong>da</strong>mi al tuo figliuol, verace<br />
homo et verace dio,<br />
ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace.
GioVanni boccaccio<br />
La riflessione sulla poesia torna di frequente nel più maturo periodo di<br />
esercizio letterario: <strong>da</strong>l Decameron alle Genealogie, <strong>da</strong>l(i) Trattatello in Laude di Dante<br />
alle Esposizioni sopra la «Comedia»; e torna sempre intrisa della polemica viva attorno<br />
alla poesia suscitata <strong>da</strong>gli aristotelici, epperciò densa di umori e di passioni<br />
indubbiamente, ma non certo per questo sminuita negli spessori teoretici: i<br />
ritorni, infatti, si poggiano a punti fermi, variati di poco nel trentennio che va <strong>da</strong>lla<br />
prima re<strong>da</strong>zione del Trattatello (1350) alle Esposizioni (1375).<br />
Uno dei punti fermi della meditazione boccacciana è l’exquisita locutio che<br />
nelle Genealogie deriva direttamente <strong>da</strong>llo spirito infuso <strong>da</strong>l « seno di dio »,<br />
nelle Esposizioni è operazione umana diretta all’esaltazione degli dèi. nell’uno e<br />
nell’altro caso la raffinatezza del linguaggio, cui, in maniera non scindibile, deve<br />
aggiungersi il velo allegorico, è ciò che distingue la poesia <strong>da</strong>lla comunicazione<br />
funzionale. Gli esseri umani vollero ben presto rivolgere alla divinità parole di<br />
lode: dettero ai sacerdoti il compito di ricercare un linguaggio a<strong>da</strong>tto alla divinità:<br />
« conoscendo non essere degna cosa a tanta deità dir parole simili a quelle che<br />
noi, l’uno amico con l’altro, familiarmente diciamo, o il signore al servo suo ».<br />
La letteratura nasce, dunque, <strong>da</strong> una precisa volontà di allontanamento <strong>da</strong>l<br />
quotidiano e <strong>da</strong> quel funzionale per il quale il linguaggio è stato <strong>da</strong>to agli uomini:<br />
« il linguaggio ci è stato <strong>da</strong>to per comunicare il necessario non il superfluo ». anzi,<br />
la metrica è per prima cosa mezzo d’abbellimento musicale, o connotazione formale<br />
della comunicazione poetica, via di straniamento <strong>da</strong>lla lingua funzionale: i<br />
sacerdoti, infatti, per differenziare le parole della preghiera « per farle ancora più<br />
strane <strong>da</strong>ll’usitato parlare degli uomini, artificiosamente le composero in versi »;<br />
in secon<strong>da</strong> battuta è elemento connotativo della poesia.<br />
La via di boccaccio diverge <strong>prof</strong>on<strong>da</strong>mente <strong>da</strong> quella di Petrarca: quanto<br />
questi, infatti, insiste sull’elaborazione tutta umana, dotta e acculturatissima,<br />
ma sempre affi<strong>da</strong>ta allo studio perseverante di uomini eletti del canone poetico<br />
classico, per appropriarsene grazie all’imitazione (come le api o i bachi); tanto<br />
boccaccio l’anno<strong>da</strong> al divino, ad una inson<strong>da</strong>bilità miracolosa e insieme originaria.<br />
È chiaro che il tempo impone forme e contenuti di pensiero: certo che le varianti,<br />
con cui lo scrittore di certaldo esprime la inson<strong>da</strong>bilità della nascita nel poeta<br />
dell’intuizione poetica e delle forme della sua comunicazione, esprimono il<br />
tentativo di sottrarre la poesia alla pura techné imitativa, cui l’aveva affi<strong>da</strong>ta – e<br />
ridotta – l’amico e maestro Petrarca.<br />
così è che adesso nelle Esposizioni l’altro elemento essenziale alla comunicazione<br />
poetica, il velo allegorico, nasce come mezzo escogitato <strong>da</strong>i sacerdoti per<br />
impedire che la nobiltà dei concetti – divini – espressi potesse an<strong>da</strong>r perduta<br />
nella divulgazione popolare. nelle Genealogie la favola è una delle forme della<br />
comunicazione, dotata di una funzionalità razionale che, inglobando l’invenzione<br />
fantastica, la rende alternativa alla lingua che <strong>da</strong>lla natura è stata <strong>da</strong>ta all’uomo. il<br />
termine fabula deriva <strong>da</strong>l latino for, faris, <strong>da</strong> cui confabulare, che è vocabolo utilizzato<br />
e dunque autorizzato <strong>da</strong>ll’evangelista Luca, vuoi nella forma, vuoi nel contenuto.<br />
dunque: comporre favole non è peccato: « perché altro <strong>da</strong>lla natura è stato <strong>da</strong>to
solo all’uomo di parlare, se non perché colloquiamo tra noi ed attraverso le parole<br />
comunichiamo i nostri concetti ? ». Per questa via boccaccio giungeva a trasformare<br />
la comunicazione letteraria in comunicazione funzionale senza abbassarne il livello<br />
stilistico: « La favola è sotto la finzione un discorso esemplare o dimostrativo;<br />
rimossa la corteccia si appalesa l’intenzione del favolista. e così è che se sotto il<br />
velo favoloso si cela qualcosa di sapido: allora non sarà superfluo aver composto<br />
favole ».<br />
La comunicazione letteraria ha sue specifiche forme, e le vedremo, e sue<br />
specifiche funzioni: l’esempio e la dimostrazione, e quest’ultima in comune con<br />
la mo<strong>da</strong>lità linguistica del sillogismo. Veniva evitato il rischio d’una eccessiva<br />
enfatizzazione del momento formale, in cui era incorso il Petrarca, e in virtù<br />
della quale la comunicazione letteraria aveva finito (e finirà ancora per secoli)<br />
per distinguere gli emittenti, per portarli, talora ghettizzarli, in una classe di<br />
cultura superiore, separata <strong>da</strong>lla realtà politica e civile, sulla quale il letterato<br />
può al più riflettere, ma che non può modificare, mancandogli l’intermediazione<br />
politica, anche quando il politico di turno è un dotto se non il dotto che scrive. La<br />
comunicazione letteraria di boccaccio invece esemplifica e dimostra, è colloquio<br />
ben innestato nel tronco della lingua con la quale « comunichiamo i nostri<br />
concetti ». Semmai l’enfatizzazione boccacciana è in direzione opposta rispetto al<br />
perseguimento petrarchesco di un linguaggio metastorico, verso la funzionalità:<br />
è nella scia <strong>da</strong>ntesca nella ricerca d’una lingua illustre dell’hinc et nunc con cui<br />
rivolgersi ai contemporanei per i quali è scritta l’opera letteraria. boccaccio accentuerà<br />
la valenza funzionale, tanto <strong>da</strong> superare la differenza <strong>da</strong> <strong>da</strong>nte stabilita tra<br />
poesia e prosa, alla quale il Poeta affi<strong>da</strong>va le dimostrazioni certe della filosofia. di<br />
qui una forte caratterizzazione comunicativa, che trova espressione nella precisa<br />
individuazione del destinatario dell’opera sua, ben collocato nella dimensione<br />
storica.<br />
Prima d’affrontare il ruolo del destinatario si badi: la comunicazione letteraria<br />
così come è concepita <strong>da</strong> boccaccio, non perde nulla della sua elaborazione formale<br />
e non perde nulla del fantastico e dell’immaginario: giacché alla base sta un certo<br />
fervore di scrivere elegantemente ciò che l’invenzione detta: è una frenesia, o<br />
pazzia divina di esprimere e comunicare quello che la fantasia detta: « […] armare<br />
re, condurli in guerra, spedire in mare flotte, descrivere il cielo, la terra e il mare,<br />
ornare le fanciulle di ghirlande e fiori, designare gli atti degli uomini secondo<br />
le qualità, tenere desti i sonnacchiosi, <strong>da</strong>re coraggio ai pusillanimi, raffrenare<br />
i temerari, convincere i violenti, innalzare con meritate lodi gli illustri, e molte<br />
altre cose simili ». nel passo appena citato si ve<strong>da</strong> come fantasia e funzionalità<br />
s’intreccino senza soluzione di continuità argomentativa: « armare re … ornare<br />
le fanciulle di ghirlande … <strong>da</strong>re coraggio … »: tutte le funzioni della poesia che<br />
la tradizione medievale e classica aveva annoverato vengono fatte tutt’insieme<br />
scaturire <strong>da</strong>l « seno di dio », in un’unità appasionata sicuramente, e altrettanto<br />
sicuramente non più ripetuta.<br />
in quell’unità trova posto, non secon<strong>da</strong>rio, né però principale, la forma: « Questo<br />
fervore produce effetti sublimi, come quello di spingere la mente al desiderio di<br />
dire, immaginarsi rare e mai piú udite invenzioni; esporre le cose immaginate<br />
con un ordine ben preciso; ornare con un’inusitata testura di parole e sentenze
la composizione; e nascondere la verità sotto un congruente velo di favole ».<br />
anzi, « perraro impulsus conmen<strong>da</strong>bile perficit aliquid » quando gli strumenti<br />
dell’espressione non siano adeguati a frenare e a perfezionare le invenzioni. certo,<br />
tali strumenti della comunicazione letteraria si trovano canonizzati nella retorica<br />
antica: tuttavia la presenza del canone classico non impone mai nello scrittore di<br />
certaldo l’imitazione. a volte pare che il possesso degli strumenti retorici derivi<br />
insieme col fervor <strong>da</strong>l « seno di dio ». tant’è che molti poeti hanno <strong>da</strong>to prove<br />
egregie di capacità poetica in volgare e, dunque, fuori <strong>da</strong>l canone classico, e non<br />
solo per la lingua usata. S’aggiunga che la poesia è ben altro <strong>da</strong>lla retorica. La<br />
retorica, infatti, quella classica, giuridica e politica probabilmente (boccaccio<br />
non precisa) ha una sua peculiare inventio: questa è, però, diversa <strong>da</strong> quella della<br />
poesia: « sui velami delle finzioni non vi sono insegnamenti della retorica: poesia<br />
è tutto quello che componiamo sotto velame e narriamo in maniera elegante ».<br />
Pare, insomma che la poesia nasca nella mente dello scrittore tutt’una con la forma,<br />
teorizzabile, più che teorizzata, nella precettistica retorica; o nasca in una mente<br />
in cui esistano già una precettistica formale e una serie di contenuti ’scientifici’<br />
dei quali la fabula si sostanzia: « È altresì necessario conoscere i principi delle arti<br />
liberali, e delle scienze morali, e naturali; e ancora potersi avvalere di una grande<br />
abbon<strong>da</strong>nza di vocaboli; conoscere le storie degli antenati; ricor<strong>da</strong>re le storie dei<br />
popoli; sapere le regioni del mondo, e dove si trovano i mari, i fiumi, e i monti ».<br />
accanto al momento genetico della poesia si colloca nella definizione della<br />
comunicazione letteraria, con molti spunti di modernità, il ruolo del destinatario.<br />
Se il destinatario petrarchesco si proiettava sul piano metastorico della gloria,<br />
quello boccacciano insiste su quello storico con tale perentorietà <strong>da</strong> interloquire<br />
abbastanza concretamente con l’emittente. abbiamo più su notato come la fabula<br />
venisse fatta derivare <strong>da</strong> for, faris per cui condivideva con confabulare l’origine e il<br />
valore di colloquio. il Proemio al Decameron recupera la funzione consolatoria prima<br />
della comunicazione in generale (ma i ragionamenti sono pure sempre « piacevoli »)<br />
e poi della comunicazione letteraria (che in Petrarca era stata autoconsolatoria) in<br />
particolare, e dispone questa sul piano della colloquialità e dunque del pubblico<br />
reale al quale l’opera è destinata: « … mi fu egli di grandissima fatica a sofferire,<br />
… per soverchio fuoco nella mente concetto <strong>da</strong> poco regolato appetito: il quale,<br />
per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava un tempo stare, più di<br />
noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea. nella qual noia tanto<br />
rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli<br />
consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io<br />
non sia morto ». il paradigma è quello <strong>da</strong>ntesco del Convivio: « e io adunque, che …<br />
conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati… » [i, i, 10]: così Giovanni<br />
sente il dovere di offrire a coloro che soffrono la consolazione che egli ha tratta<br />
<strong>da</strong>lle parole degli amici: « Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la<br />
memoria fuggita de’ benefici già ricevuti, <strong>da</strong>timi <strong>da</strong> coloro à quali per benivolenza<br />
<strong>da</strong> loro a me portata erano gravi le mie fatiche: ne passerà mai, sì come io credo,<br />
se non per morte. e per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre<br />
virtù è sommamente <strong>da</strong> commen<strong>da</strong>re e il contrario <strong>da</strong> biasimare, per non parere<br />
ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in<br />
cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che
me atarono alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura<br />
non abbisogna, a quegli almeno a qual fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. e<br />
quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia<br />
a bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove<br />
il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì ancora perché più vi<br />
fia caro avuto ». conta, nella posizione boccacciana, la proposta di una letteratura<br />
che assolva alle medesime funzioni che per lungo tempo erano state attribuite,<br />
prima dell’aristotelismo scolastico, alla filosofia sulla scorta del De consolatione<br />
di Severino boezio e che comunque avevano continuato ad esserlo se ancora<br />
nel Convivio <strong>da</strong>nte confessa d’essersi risolto allo studio cercando l’argento della<br />
consolazione per la morte di beatrice, ed aveva trovato l’oro della sapienza [ii,<br />
xii, 5]. Questa valenza consolatoria della letteratura non significa affatto che essa<br />
si faccia portatrice di contenuti etici com’erano le consolationes classiche e cristiane,<br />
o che nella sua eleganza si compongano e si rasserenino gli animi travagliati<br />
dello scrittore o del lettore. ché essa si fa carico di « piacevoli ragionamenti »,<br />
sempre «esemplari e dimostrativi», confluendo nei quali, la partecipazione ed il<br />
confronto dei casi personali del lettore possano fornire a questo il conforto della<br />
consonanza sentimentale e la soli<strong>da</strong>rietà dello scrittore. insomma, la letteratura<br />
propone un colloquio e trova convali<strong>da</strong> nella partecipazione del lettore ad esso.<br />
in quanto colloquio, la comunicazione letteraria richiede un destinatario la cui<br />
qualità maggiore sta tutta nella sua capacità e possibilità di rispondere, d’entrare<br />
in sintonia sentimentale con l’emittente. La proiezione della letteratura verso la<br />
gloria e l’eternità, quale Petrarca aveva postulato, è sostituita <strong>da</strong> una proiezione<br />
tutta indirizzata all’hinc et nunc, epperciò in apparenza inferiore e più limitata,<br />
come fu ritenuta a lungo la tipologia scrittoria della novella, ma viva e percorsa <strong>da</strong><br />
reciproci condizionamenti.<br />
così nella Conclusione del Decameron boccaccio esprime la certezza che la<br />
valutazione morale dell’opera è dipendente <strong>da</strong>ll’etica personale del lettore. non<br />
esiste nulla, egli dice, che non possa essere valutato come sconveniente <strong>da</strong> una<br />
mente corrotta, tuttavia ciò che è onesto non teme lo sguardo di chi non abbia<br />
la mente ben disposta. il registro linguistico utilizzato è la prima preoccupazione<br />
del certaldese: ebbene, non è possibile vietare allo scrittore il linguaggio che<br />
tutto il giorno, ogni uomo ed ogni donna adopera. d’altra parte l’artista ha il diritto<br />
di ritrarre il male, di ritrarre la realtà anche quando quella realtà può essere<br />
sgradevole. nessuno nega tale diritto ai pittori che raffigurano il demonio sotto<br />
forma di serpente, o il drago in cui s’incarnò di volta in volta il demonio. Se lo<br />
scrittore esprime (e ne ha il diritto) la realtà e adopera il linguaggio di questa, è<br />
responsabilità del fruitore fare buon o cattivo uso dell’opera d’arte: « ciascuna<br />
cosa in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva<br />
di molte; e così dico delle mie novelle. chi vorrà <strong>da</strong> quelle malvagio consiglio o<br />
malvagia operazion trarre, elle nol vieteranno ad alcuno, se forse in sé l’hanno, e<br />
torte e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol negheranno,<br />
né sarà mai che altro che utili e oneste sien dette o tenute, se a que’ tempi o a<br />
quelle persone si leggeranno, per cui se pe’ quali state sono raccontate. chi ha a<br />
dir paternostri o a fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare: elle non<br />
correranno di dietro a niuna a farsi leggere ». Per questa via boccaccio ribadisce
l’ingenuità dello scrittore che obbedisce alla sola sua, divina, voglia di dire.<br />
ribadisce altresì che non esiste un canone prefissato, valido sempre e<br />
<strong>da</strong>ppertutto, in base al quale leggere e giudicare l’opera: vuoi perché lo<br />
scrittore, pur attento contadino, non potrà far sì che nel suo campo non nascano<br />
assolutamente piante selvatiche o inutili; vuoi perché non è possibile che, in<br />
una moltitudine di cose, tutte siano al medesimo livello qualitativo ed estetico;<br />
vuoi, infine, perché l’opera prodotta è in qualche modo opera aperta, nella quale si<br />
scontrano <strong>da</strong> parte del lettore accettazioni e ripudi dei messaggi dello scrittore<br />
e del suo canone stilistico, linguistico e così via: « Saranno per avventura alcune<br />
di voi che diranno che io abbia … Saranno similmente di quelle che diranno qui<br />
esserne alcune … e ancora, credo, sarà tal che dirà che… ». Va <strong>da</strong> sé che boccaccio<br />
non giunge ad enunciare il concetto di un’opera codificabile e decodificabile<br />
all’infinito <strong>da</strong>ll’infinito numero dei potenziali destinatari. È però altrettanto vero<br />
che rinunciando al codice classicistico unico di stampo petrarchesco, poneva<br />
seriamente le basi per una più dialettica relazione tra destinatari e opera d’arte,<br />
che comunque rimaneva sal<strong>da</strong>mente ancorata ad una genesi misteriosamente<br />
divina. L’opera d’arte veniva così garantita come espressione dell’inventio che<br />
lo scrittore propone al lettore e che il lettore può accettare o rifiutare ma nella<br />
consapevolezza della dimensione umana (e quindi limitata) in cui si muove.<br />
decaMeron<br />
Giornata prima – Novella secon<strong>da</strong><br />
Abraam giudeo, <strong>da</strong> Giannotto di Civignì stimolato, va in corte<br />
di Roma; e veduta la malvagità de’ cherici, torna a Parigi e fassi<br />
cristiano.<br />
[…]<br />
Mostrato n’ha Panfilo nel suo novellare la benignità<br />
di dio non guar<strong>da</strong>re a’ nostri errori, quando <strong>da</strong> cosa<br />
che per noi veder non si possa proce<strong>da</strong>no; e io nel<br />
mio intendo di dimostrarvi quanto questa medesima<br />
benignità, sostenendo pazientemente i difetti di<br />
coloro li quali d’essa ne deono <strong>da</strong>re e colle opere e<br />
colle parole vera testimonianza, il contrario operando,<br />
di se’ argomento d’infallibile verità ne dimostri,<br />
acciò che quello che noi crediamo con più fermezza<br />
d’animo seguitiamo.<br />
Sì come io, graziose donne, già udii ragionare, in Parigi<br />
fu un gran mercatante e buono uomo, il quale fu<br />
chiamato Giannotto di civignì, lealissimo e diritto e<br />
di gran traffico d’opera di drapperia; e avea singulare<br />
amistà con uno ricchissimo uomo giudeo, chiamato<br />
abraam, il qual similmente mercatante era e diritto<br />
e leale uomo assai. La cui dirittura e la cui lealtà veggendo<br />
Giannotto, gl’incominciò forte ad increscere<br />
che l’anima d’un così valente e savio e buono uomo<br />
per difetto di fede an<strong>da</strong>sse a perdizione. e per ciò<br />
amichevolmente lo cominciò a pregare che egli lasciasse<br />
gli errori della fede giu<strong>da</strong>ica e ritornasse alla<br />
verità cristiana, la quale egli poteva vedere, sì come<br />
santa e buona, sempre prosperare e aumentarsi;<br />
dove la sua, in contrario, diminuirsi e venire al niente<br />
poteva discernere.<br />
il giudeo rispondeva che niuna ne credeva né santa<br />
né buona fuor che la giu<strong>da</strong>ica, e che egli in quella era<br />
nato e in quella intendeva e vivere e morire; né cosa<br />
sarebbe che mai <strong>da</strong> ciò il facesse rimuovere. Giannotto<br />
non stette per questo che egli, passati alquanti<br />
dì, non gli rimovesse simiglianti parole, mostrandogli,<br />
così grossamente come il più i mercatanti sanno<br />
fare, per quali ragioni la nostra era migliore che la<br />
giu<strong>da</strong>ica. e come che il giudeo fosse nella giu<strong>da</strong>ica<br />
legge un gran maestro, tuttavia, o l’amicizia grande<br />
che con Giannotto avea che il movesse, o forse parole<br />
le quali lo Spirito Santo sopra la lingua dell’uomo<br />
idiota poneva che sel facessero, al giudeo cominciarono<br />
forte a piacere le dimostrazioni di Giannotto;<br />
ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger non<br />
si lasciava.<br />
così come egli pertinace dimorava, così Giannotto di<br />
sollecitarlo non finava giammai, tanto che il giudeo,<br />
<strong>da</strong> così continua instanzia vinto, disse:<br />
– ecco, Giannotto, a te piace che io divenga cristiano,<br />
e io sono disposto a farlo, sì veramente che io voglio<br />
in prima an<strong>da</strong>re a roma, e quivi vedere colui il quale<br />
tu dì che è vicario di dio in terra, e considerare i suoi<br />
modi e i suoi costumi e similmente dei suoi fratelli<br />
cardinali; e se essi mi parranno tali che io possa tra<br />
per le tue parole e per quelli comprendere che la<br />
vostra fede sia migliore che la mia, come tu ti se’ ingegnato<br />
di dimostrarmi, io farò quello che detto t’ho;<br />
ove così non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi
sono.<br />
Quando Giannotto intese questo, fu in se’ stesso oltremodo<br />
dolente, tacitamente dicendo:<br />
–Perduta ho la fatica, la quale ottimamente mi parea<br />
avere impiegata, credendomi costui aver convertito;<br />
per ciò che, se egli va in corte di roma e vede la vita<br />
scelerata e lor<strong>da</strong> de’ cherici, non che egli di giudeo si<br />
faccia cristiano, ma, se egli fosse cristiano fatto, senza<br />
fallo giudeo si ritornerebbe – .<br />
e ad abraam rivolto disse:<br />
– deh, amico mio, perché vuoi tu entrare in questa<br />
fatica e così grande spesa, come a te sarà d’an<strong>da</strong>re<br />
di qui a roma? senza che, e per mare e per terra, ad<br />
un ricco uomo come tu se’, ci è tutto pien di pericoli.<br />
non credi tu trovar qui chi i1 battesimo ti dea? e,<br />
se forse alcuni dubbi hai intorno alla fede che io ti<br />
dimostro, dove ha maggiori maestri e più savi uomini<br />
in quella, che son qui, <strong>da</strong> poterti di ciò che tu vorrai<br />
o domanderai dichiarire? Per le quali cose al mio parere<br />
questa tua an<strong>da</strong>ta è di soperchio. Pensa che tali<br />
sono là i prelati quali tu gli hai qui potuti vedere e<br />
puoi, e tanto ancor migliori quanto essi son più vicini<br />
al pastor principale. e perciò questa fatica, per mio<br />
consiglio, ti serberai in altra volta ad alcuno perdono,<br />
al quale io per avventura ti farò compagnia.<br />
a cui il giudeo rispose:<br />
– io mi credo, Giannotto, che così sia come tu mi favelli,<br />
ma, recandoti le molte parole in una, io son del<br />
tutto (se tu vuogli che io faccia quello di che tu m’hai<br />
cotanto pregato) disposto ad an<strong>da</strong>rvi, e altramenti<br />
mai non ne farò nulla.<br />
Giannotto, vedendo il voler suo, disse:<br />
– e tu va con buona ventura– ; e seco avvisò lui mai<br />
non doversi far cristiano, come la corte di roma veduta<br />
avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette.<br />
il giudeo montò a cavallo e, come più tosto potè, se<br />
n’andò in corte di roma, là dove pervenuto dà suoi<br />
giudei fu onorevolmente ricevuto. e quivi dimorando,<br />
senza dire ad alcuno per che an<strong>da</strong>to vi fosse,<br />
cautamente cominciò a riguar<strong>da</strong>re alle maniere del<br />
papa e de’ cardinali e degli altri prelati e di tutti i<br />
cortigiani; e tra che egli s’accorse, sì come uomo che<br />
molto avveduto era, e che egli ancora <strong>da</strong> alcuno fu<br />
informato, egli trovò <strong>da</strong>l maggiore infino al minore<br />
generalmente tutti disonestissimamente peccare in<br />
lussuria, e non solo nella naturale, ma ancora nella<br />
soddomitica, senza freno alcuno di rimordimento o<br />
di vergogna, in tanto che la potenzia delle meretrici<br />
e de’ garzoni in impetrare qualunque gran cosa non<br />
v’era di picciol potere. oltre a questo, universalmente<br />
gulosi, bevitori, ebriachi e più al ventre serventi a<br />
guisa d’animali bruti, appresso alla lussuria, che ad<br />
altro, gli conobbe apertamente.<br />
e più avanti guar<strong>da</strong>ndo, in tanto tutti avari e cupidi<br />
di denari gli vide, che parimente l’uman sangue, anzi<br />
il cristiano, e le divine cose, chenti che elle si fossero,<br />
o a’ sacrifici o a’ benefici appartenenti, a denari<br />
e vendevano e comperavano, maggior mercatantia<br />
faccendone e più sensali avendone che a Parigi di<br />
drappi o di alcun’altra cosa non erano, avendo alla<br />
manifesta simonia “ procureria “ posto nome, e alla<br />
gulosità “sustentazioni “, quasi iddio, lasciamo stare<br />
il significato de’ vocaboli, ma la ’ntenzione de’ pessimi<br />
animi non conoscesse, e a guisa degli uomini a’<br />
nomi delle cose si debba lasciare ingannare. Le quali<br />
cose, insieme con molte altre le quali <strong>da</strong> tacer sono,<br />
sommamente spiacendo al giudeo, sì come a colui<br />
che sobrio e modesto uomo era, parendogli assai<br />
aver veduto, propose di tornare a Parigi, e così fece.<br />
al quale, come Giannotto seppe che venuto se n’era,<br />
niuna cosa meno sperando che del suo farsi cristiano,<br />
se ne venne, e gran festa insieme si fecero; e, poi<br />
che riposato si fu alcun giorno, Giannotto il domandò<br />
quello che del santo padre e de’ cardinali e degli altri<br />
cortigiani gli parea.<br />
al quale il giudeo prestamente rispose:<br />
– Parmene male, che iddio dea a quanti sono; e di<br />
coti così che, se io ben seppi considerare, quivi niuna<br />
santità, niuna divozione, niuna buona opera o essemplo<br />
di vita o d’altro in alcuno che cherico fosse<br />
veder mi parve; ma lussuria, avarizia e gulosità, fraude,<br />
invidia e superbia e simili cose e piggiori (se piggiori<br />
essere possono in alcuno) mi vi parve in tanta<br />
grazia di tutti vedere, che io ho più tosto quella per<br />
una fucina di diaboliche operazioni che di divine. e<br />
per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con<br />
ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro<br />
pastore, e per consequente tutti gli altri, si procaccino<br />
di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana<br />
religione, là dove essi fon<strong>da</strong>mento e sostegno<br />
esser dovrebber di quella.<br />
e per ciò che io veggio non quello avvenire che essi<br />
procacciano, ma continuamente la vostra religione<br />
aumentarsi e più luci<strong>da</strong> e più chiara divenire, meritamente<br />
mi par di scerner io Spirito Santo esser d’essa,<br />
sì come di vera e di santa più che alcun’altra, fon<strong>da</strong>mento<br />
e sostegno. Per la qual cosa, dove io rigido e<br />
duro stava a’ tuoi conforti e non mi volea far cristiano,<br />
ora tutto aperto ti dico che io per niuna cosa lascerei<br />
di cristian farmi. andiamo adunque alla chiesa: e<br />
quivi, secondo il debito costume della vostra santa<br />
fede, mi fa battezzare.<br />
Giannotto, il quale aspettava dirittamente contraria<br />
conclusione a questa, come lui così udì dire fu il più<br />
contento uomo che giammai fosse. e a nostra <strong>da</strong>ma<br />
di Parigi con lui insieme an<strong>da</strong>tosene, richiese i cherici<br />
di là entro che ad abraam dovessero <strong>da</strong>re il battesimo.<br />
Li quali, udendo che esso l’addoman<strong>da</strong>va, prestamente<br />
il fecero: e Giannotto il levò del sacro fonte e<br />
nominollo Giovanni; e appresso a gran valenti uomini<br />
il fece compiutamente ammaestrare nella nostra<br />
fede la quale egli prestamente apprese, e fu, poi<br />
buono e valente uomo e di santa vita.<br />
Giornata prima – Novella terza<br />
Melchisedech giudeo, con una novella di tre anella, cessa un gran<br />
pericolo <strong>da</strong>l Saladino apparecchiatogli.<br />
Poiché, commen<strong>da</strong>ta <strong>da</strong> tutti la novella di neifile,<br />
ella si tacque, come alla reina piacque, Filomena così<br />
cominciò a parlare.<br />
La novella <strong>da</strong> neifile detta mi ritorna a memoria il<br />
dubbioso caso già avvenuto ad un giudeo. Per ciò
che già e di dio e della verità della nostra fede è assai<br />
bene stato detto, il discendere oggimai agli avvenimenti<br />
e agli atti degli uomini non si dovrà disdire; e<br />
a narrarvi quella verrò, la quale udita, forse più caute<br />
diverrete nelle risposte alle quistioni che fatte vi fossero.<br />
Voi dovete, amorose compagne, sapere che, sì<br />
come la sciocchezza spesse volte trae altrui di felice<br />
stato e mette in grandissima miseria, così il senno di<br />
grandissimi pericoli trae il savio e ponlo in grande<br />
e in sicuro riposo. e che vero sia che la sciocchezza<br />
di buono stato in miseria altrui conduca, per molti<br />
essempli si vede, li quali non fia al presente nostra<br />
cura di raccontare, avendo riguardo che tutto ’l dì<br />
mille essempli n’appaiano manifesti. Ma che il senno<br />
di consolazione sia cagione, come promisi, per una<br />
novelletta mosterrò brievemente.<br />
il Saladino, il valore del qual fu tanto che non solamente<br />
di piccolo uomo il fe’ di babillonia sol<strong>da</strong>no,<br />
ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani<br />
gli fece avere, avendo in diverse guerre e in grandissime<br />
sue magnificenze speso tutto il suo tesoro, e,<br />
per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli<br />
una buona quantità di <strong>da</strong>nari, né veggendo donde<br />
così prestamente come gli bisognavano aver gli<br />
potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui<br />
nome era Melchisedech, il quale prestava ad usura<br />
in alessandria, e pensossi costui avere <strong>da</strong> poterlo<br />
servire quando volesse; ma sì era avaro che di sua<br />
volontà non l’avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva<br />
fare; per che, strignendolo il bisogno, rivoltosi<br />
tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse,<br />
s’avvisò di fargli una forza <strong>da</strong> alcuna ragion colorata.<br />
e fattolsi chiamare e familiarmente ricevutolo, seco il<br />
fece sedere e appresso gli disse:<br />
– Valente uomo, io ho <strong>da</strong> più persone inteso che tu<br />
se’ savissimo e nelle cose di dio senti molto avanti;<br />
e per ciò io saprei volentieri <strong>da</strong> te quale delle tre<br />
leggi tu reputi la verace, o la giu<strong>da</strong>ica o la saracina o<br />
la cristiana.<br />
il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avvisò<br />
troppo bene che il Saladino guar<strong>da</strong>va di pigliarlo<br />
nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione,<br />
e pensò non potere alcuna di queste tre più l’una<br />
che l’altra lo<strong>da</strong>re, che il Saladino non avesse la sua<br />
intenzione. Per che, come colui al qual pareva d’aver<br />
bisogno di risposta per la quale preso non potesse<br />
essere, aguzzato lo ’ngegno, gli venne prestamente<br />
avanti quello che dir dovesse, e disse:<br />
– Signor mio, la quistione la qual voi mi fate è bella,<br />
e a volervene dire ciò che io ne sento, mi vi convien<br />
dire una novelletta, qual voi udirete.<br />
Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito<br />
dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale, intra<br />
l’altre gioie più care che nel suo tesoro avesse,<br />
era uno anello bellissimo e prezioso; al quale per lo<br />
suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore<br />
e in perpetuo lasciarlo né suoi discendenti, ordinò<br />
che colui de’ suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli<br />
<strong>da</strong> lui, fosse questo anello trovato, che colui<br />
s’intendesse essere il suo erede e dovesse <strong>da</strong> tutti<br />
gli altri essere come maggiore onorato e reverito.<br />
e colui al quale <strong>da</strong> costui fu lasciato il simigliante or<br />
dinò né suoi discendenti e così fece come fatto avea<br />
il suo predecessore; e in brieve andò questo anello<br />
di mano in mano a molti successori; e ultimamente<br />
pervenne alle mani ad uno, il quale avea tre figliuoli<br />
belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per<br />
la qual cosa tutti e tre parimente gli amava. e i giovani,<br />
li quali la consuetudine dello anello sapevano,<br />
sì come vaghi d’essere ciascuno il più onorato tra’<br />
suoi ciascuno per se’, come meglio sapeva, pregava<br />
il padre, il quale era già vecchio, che, quando a morte<br />
venisse, a lui quello anello lasciasse.<br />
il valente uomo, che parimente tutti gli amava, né sapeva<br />
esso medesimo eleggere a qual più tosto lasciar<br />
lo dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di<br />
volergli tutti e tre sodisfare; e segretamente ad uno<br />
buono maestro ne fece fare due altri, li quali sì furono<br />
simiglianti al primiero, che esso medesimo che<br />
fatti gli avea fare appena conosceva qual si fosse il<br />
vero. e venendo a morte, segretamente diede il suo<br />
a ciascun de’ figliuoli. Li quali, dopo la morte del padre,<br />
volendo ciascuno la eredità e l’onore occupare,<br />
e l’uno negandolo all’altro, in testimonianza di dover<br />
ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il<br />
suo anello. e trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro<br />
che qual di costoro fosse il vero non si sapeva conoscere,<br />
si rimase la quistione, qual fosse il vero erede<br />
del padre, in pendente, e ancor pende.<br />
e così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli<br />
<strong>da</strong>te <strong>da</strong> dio padre, delle quali la quistion proponeste:<br />
ciascuno la sua eredità, la sua vera legge e i suoi<br />
coman<strong>da</strong>menti dirittamente si crede avere e fare; ma<br />
chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la<br />
quistione.<br />
il Saladino conobbe costui ottimamente essere saputo<br />
uscire del laccio il quale <strong>da</strong>vanti a’ piedi teso<br />
gli aveva; e per ciò dispose d’aprirgli il suo bisogno<br />
e vedere se servire il volesse; e così fece, aprendogli<br />
ciò che in animo avesse avuto di fare, se così discretamente,<br />
come fatto avea, non gli avesse risposto.<br />
il giudeo liberamente d’ogni quantità che il Saladino<br />
richiese il servì; e il Saladino poi interamente il<br />
soddisfece; e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e<br />
sempre per suo amico l’ebbe e in grande e onorevole<br />
stato appresso di se’ il mantenne.<br />
Giornata prima – Novella quarta<br />
Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione,<br />
onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa,<br />
si libera <strong>da</strong>lla pena.<br />
Già si tacea Filomena, <strong>da</strong>lla sua novella espedita,<br />
quando dioneo, che appresso di lei sedeva, senza<br />
aspettare <strong>da</strong>lla reina altro coman<strong>da</strong>mento, conoscendo<br />
già, per l’ordine cominciato, che a lui toccava<br />
il dover dire, in cotal guisa cominciò a parlare.<br />
amorose donne, se io ho bene la ’ntenzione di tutte<br />
compresa, noi siam qui per dovere a noi medesimi<br />
novellando piacere; e per ciò, solamente che contro<br />
a questo non si faccia, estimo a ciascuno dovere essere<br />
licito (e così ne disse la nostra reina, poco avanti,<br />
che fosse) quella novella dire che più crede che
possa dilettare; per che, avendo udito per li buoni<br />
consigli di Giannotto di civignì abraam aver l’anima<br />
salvata Melchisedech per lo suo senno avere le sue<br />
ricchezze <strong>da</strong>gli agguati del Saladino difese, senza riprensione<br />
attender <strong>da</strong> voi, intendo di raccontar brievemente<br />
con che cautela un monaco il suo corpo <strong>da</strong><br />
gravissima pena liberasse.<br />
Fu in Lunigiana, paese non molto <strong>da</strong> questo lontano,<br />
uno monistero già di santità e di monaci più copioso<br />
che oggi non è, nel quale tra gli altri era un<br />
monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza<br />
né i digiuni né le vigilie Potevano macerare. il quale<br />
per ventura un giorno in sul mezzodì, quando gli altri<br />
monaci tutti dormivano, an<strong>da</strong>ndosi tutto solo <strong>da</strong>ttorno<br />
alla sua chiesa, la quale in luogo assai solitario<br />
era, gli venne veduta una giovinetta assai bella, forse<br />
figliuola d’alcuno de’ lavoratori della contra<strong>da</strong>, la<br />
quale an<strong>da</strong>va per gli campi certe erbe cogliendo; né<br />
prima veduta l’ebbe, che egli fieramente assalito fu<br />
<strong>da</strong>lla concupiscenza carnale.<br />
Per che, fattolesi più presso, con lei entrò in parole<br />
e tanto andò d’una in altra, che egli si fu accor<strong>da</strong>to<br />
con lei e seco nella sua cella ne la menò, che<br />
niuna persona se n’accorse. e mentre che egli, <strong>da</strong><br />
troppa volontà trasportato, men cautamente con lei<br />
scherzava, avvenne che l’abate, <strong>da</strong> dormir levatosi<br />
e pianamente passando <strong>da</strong>vanti alla cella di costui,<br />
sentì lo schiamazzio che costoro insieme faceano; e<br />
per conoscere meglio le voci, chetamente s’accostò<br />
all’uscio della cella ad ascoltare e manifestamente<br />
conobbe che dentro a quella era femina e tutto fu<br />
tentato di farsi aprire; poi pensò di voler tenere in<br />
ciò altra maniera e, tornatosi alla sua camera, aspettò<br />
che il monaco fuori uscisse.<br />
il monaco, ancora che <strong>da</strong> grandissimo suo piacere e<br />
diletto fosse con questa giovane occupato, pur nondimeno<br />
tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito<br />
alcuno stropiccio di piedi per lo dormentorio, ad<br />
un piccolo pertugio pose l’occhio e vide apertissimamente<br />
l’abate stare ad ascoltarlo e molto bene comprese<br />
l’abate aver potuto conoscere quella giovane<br />
essere nella sua cella. di che egli, sappiendo che di<br />
questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu<br />
dolente; ma pur, senza del suo cruccio niente mostrare<br />
alla giovane, prestamente seco molte cose<br />
rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne<br />
potesse; e occorsegli una nuova malizia, la quale al<br />
fine imaginato <strong>da</strong> lui dirittamente pervenne. e faccendo<br />
sembiante che esser gli paresse stato assai<br />
con quella giovane, le disse:<br />
– io voglio an<strong>da</strong>re a trovar modo come tu esca di qua<br />
entro senza esser veduta; e per ciò statti pianamente<br />
infino alla mia tornata.<br />
e uscito fuori e serrata la cella colla chiave, dirittamente<br />
se n’andò alla camera dello abate, e presentatagli<br />
quella, secondo che ciascuno monaco faceva<br />
quando fuori an<strong>da</strong>va, con un buon volto disse:<br />
– Messere, io non potei stamane farne venire tutte le<br />
legne le quali io avea fatte fare, e perciò con vostra<br />
licenzia io voglio an<strong>da</strong>re al bosco e farlene venire.<br />
L’abate, per potersi più pienamente informare del<br />
fallo commesso <strong>da</strong> costui, avvisando che questi ac<br />
corto non se ne fosse che egli fosse stato <strong>da</strong> lui veduto,<br />
fu lieto di tale accidente, e volentier prese la<br />
chiave e similmente li die’ licenzia. e, come il vide<br />
an<strong>da</strong>to via, cominciò a pensar qual far volesse più tosto,<br />
o in presenza di tutti i monaci aprir la cella di costui<br />
e far loro vedere il suo difetto, acciò che poi non<br />
avesser cagione di mormorare contra di lui quando il<br />
monaco punisse, o di voler prima <strong>da</strong> lei sentire come<br />
an<strong>da</strong>ta fosse la bisogna. e, pensando seco stesso che<br />
questa potrebbe essere tal femina o figliuola di tale<br />
uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna<br />
d’averla a tutti i monaci fatta vedere, s’avvisò<br />
di voler prima veder chi fosse e poi prender partito;<br />
e chetamente an<strong>da</strong>tosene alla cella, quel la aprì ed<br />
entrò dentro e l’uscio richiuse.<br />
La giovane, vedendo venire l’abate, tutta smarrì, e<br />
temendo di vergogna cominciò a piagnere. Messer<br />
l’abate, postole l’occhio addosso e veggendola bella<br />
e fresca, ancora che vecchio fosse, sentì subitamente<br />
non meno cocenti gli stimoli della carne che sentiti<br />
avesse il suo giovane monaco, e fra se’ stesso cominciò<br />
a dire: – deh, perché non prendo io del piacere<br />
quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che il<br />
dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno<br />
apparecchiati? costei è una bella giovane, ed è qui<br />
che niuna per sona del mondo il sa; se io la posso<br />
recare a fare i piacer miei, io non so perché io nol mi<br />
faccia. chi saprà? ai più; io estimo che egli sia gran<br />
senno a pigliarsi del bene, quando domenedio ne<br />
man <strong>da</strong> altrui –. e così dicendo, e avendo del tutto<br />
mutato proposito <strong>da</strong> quello per che an<strong>da</strong>to v’era, fattosi<br />
più presso alla giovane, pianamente la cominciò<br />
a confortare e a pregarla che non piagnesse; e, d’una<br />
parola in altra procedendo, ad aprirle il suo desiderio<br />
pervenne.<br />
La giovane, che non era di ferro né di diamante, assai<br />
agevolmente si piegò a’ piaceri dello abate; il quale,<br />
abbracciatala e baciatala più volte, in sul letticello<br />
del monaco salitosene, avendo forse riguardo al<br />
grave peso della sua dignità e alla tenera età della<br />
giovane, temendo forse di non offenderla per troppa<br />
gravezza, non sopra il petto di lei salì, ma lei sopra<br />
il suo petto pose, e per lungo spazio con lei si trastullò.<br />
il monaco, che fatto avea sembiante d’an<strong>da</strong>re al bosco,<br />
essendo nel dormentorio occultato, come vide<br />
l’abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicurato,<br />
estimò il suo avviso dovere avere effetto; e veggendol<br />
serrar dentro, l’ebbe per certissimo. e, uscito<br />
di là dov’era, chetamente n’andò ad un pertugio, per<br />
lo quale ciò che l’abate fece o disse, e udì e vide. Parendo<br />
allo abate essere assai colla giovanetta dimorato,<br />
serratala nella cella, alla sua camera se ne tornò;<br />
e dopo al quanto, sentendo il monaco e credendo lui<br />
esser tornato <strong>da</strong>l bosco, avvisò di riprenderlo forte e<br />
di farlo incarcerare, acciò che esso solo possedesse<br />
la gua<strong>da</strong>gnata pre<strong>da</strong>; e fattoselo chiamare, gravissimamente<br />
e con mal viso il riprese e comandò che<br />
fosse in carcere messo.<br />
il monaco prontissimamente rispose:<br />
– Messere, io non sono ancora tanto all’ordine di san<br />
benedetto stato, che io possa avere ogni particula
ità di quello apparata; e voi ancora non m’avavate<br />
mostrato che i monaci si debban far <strong>da</strong>lle femine<br />
priemere, come <strong>da</strong> digiuni e <strong>da</strong>lle vigilie; ma ora che<br />
mostrato me l’avete, vi prometto, se questa mi perdonate,<br />
di mai più in ciò non peccare, anzi farò sempre<br />
come io a voi ho veduto fare.<br />
L’abate, che accorto uomo era, prestamente conobbe<br />
costui non solamente aver più di lui saputo, ma<br />
veduto ciò che esso aveva fatto. Perché, <strong>da</strong>lla sua<br />
colpa stessa rimorso, si vergognò di fare al monaco<br />
quello che egli, sì come lui, aveva meritato. e perdonatogli<br />
e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio,<br />
onestamente misero la giovinetta di fuori, e poi più<br />
volte si dee credere ve la facesser tornare.<br />
Giornata terza – Novella quarta<br />
Don Felice insegna a frate Puccio come egli diverrà beato faccendo<br />
una sua penitenzia; la quale frate Puccio fa, e don Felice in<br />
questo mezzo con la moglie del frate si dà buon tempo.<br />
[…]<br />
Madonna, assai persone sono che, mentre che essi si<br />
sforzano d’an<strong>da</strong>rne in paradiso, senza avvedersene<br />
vi man<strong>da</strong>no altrui; il che ad una nostra vicina, non ha<br />
ancor lungo tempo, sì come voi potrete udire, intervenne.<br />
Secondo che io udii già dire, vicino di san brancazio<br />
stette un buon uomo e ricco, il quale fu chiamato<br />
Puccio di rinieri, che poi, essendo tutto <strong>da</strong>to allo<br />
spirito, si fece bizzoco di quegli di san Francesco, e<br />
fu chiamato frate Puccio, e seguendo questa sua vita<br />
spirituale, per ciò che altra famiglia non avea che una<br />
sua donna e una fante, né per questo ad alcuna arte<br />
attender gli bisognava, usava molto la chiesa. e per<br />
ciò che uomo idiota era e di grossa pasta, diceva suoi<br />
paternostri, an<strong>da</strong>va alle prediche, stava alle messe,<br />
né mai falliva che alle laude che cantavano i secolari<br />
esso non fosse, e digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi<br />
che egli era degli scopatori.<br />
La moglie, che monna isabetta avea nome, giovane<br />
ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella<br />
e ritondetta che pareva una mela casolana, per la<br />
santità del marito e forse per la vecchiezza, faceva<br />
molto spesso troppo più lunghe diete che voluto non<br />
avrebbe; e, quand’ella si sarebbe voluta dormire o<br />
forse scherzar con lui, ed egli le raccontava la vita<br />
di cristo e le prediche di frate nastagio o il lamento<br />
della Mad<strong>da</strong>lena o così fatte cose.<br />
tornò in questi tempi <strong>da</strong> Parigi un monaco chiamato<br />
don Felice, conventuale di san brancazio, il quale<br />
assai giovane e bello della persona era e d’aguto<br />
ingegno e di <strong>prof</strong>on<strong>da</strong> scienza, col qual frate Puccio<br />
prese una stretta dimestichezza. e per ciò che costui<br />
ogni suo dubbio molto bene gli solvea, e oltre a ciò,<br />
avendo la sua condizion conosciuta, gli si mostrava<br />
santissimo, se lo incominciò frate Puccio a menare<br />
talvolta a casa e a <strong>da</strong>rgli desinare e cena, secondo<br />
che fatto gli venia; e la donna altressì per amor di<br />
fra Puccio era sua dimestica divenuta e volentier gli<br />
faceva onore.<br />
continuando adunque il monaco a casa di fra Puccio<br />
e veggendo la moglie così fresca e ritondetta, s’av<br />
visò qual dovesse essere quella cosa della quale<br />
ella patisse maggior difetto; e pensossi, se egli potesse,<br />
per tor fatica a fra Puccio, di volerla supplire.<br />
e, postole l’occhio addosso e una volta e altra bene<br />
astutamente, tanto fece che egli l’accese nella mente<br />
quello medesimo disidero che aveva egli; di che accortosi<br />
il monaco, come prima destro gli venne, con<br />
lei ragionò il suo piacere. Ma, quantunque bene la<br />
trovasse disposta a dover <strong>da</strong>re all’opera compimento,<br />
non si poteva trovar modo, per ciò che costei in<br />
niun luogo del mondo si voleva fi<strong>da</strong>re ad esser col<br />
monaco se non in casa sua; e in casa sua non si potea,<br />
perché fra Puccio non an<strong>da</strong>va mai fuor della terra; di<br />
che il monaco avea gran malinconia.<br />
e dopo molto gli venne pensato un modo <strong>da</strong> dover<br />
potere essere colla donna in casa sua senza sospetto,<br />
non ostante che fra Puccio in casa fosse. ed essendosi<br />
un dì an<strong>da</strong>to a star con lui frate Puccio, gli<br />
disse così:<br />
– io ho già assai volte compreso, fra Puccio, che tutto<br />
il tuo disidero è di divenir santo, alla qual cosa<br />
mi par che tu vadi per una lunga via, là dove ce n’è<br />
una che è molto corta, la quale il papa e gli altri suoi<br />
maggior prelati, che la sanno e usano, non vogliono<br />
che ella si mostri; per ciò che l’ordine chericato, che il<br />
più di limosine vive, incontanente sarebbe disfatto,<br />
sì come quello al quale più i secolari né con limosine<br />
né con altro attenderebbono. Ma, per ciò che tu<br />
se’mio amico e ha’ mi onorato molto, dove io credessi<br />
che tu a niuna persona del mondo l’appalesassi, e<br />
volessila seguire, io la t’insegnerei.<br />
Frate Puccio, divenuto disideroso di questa cosa,<br />
prima cominciò ’a pregare con grandissima instanzia<br />
che gliele insegnasse, e poi a giurare che mai, se non<br />
quanto gli piacesse, ad alcuno nol direbbe, affermando<br />
che, se tal fosse che esso seguir la potesse,<br />
di mettervisi.<br />
– Poi che tu così mi prometti, – disse il monaco – e<br />
io la ti mosterrò . tu dei sapere che i santi dottori<br />
tengono che a chi vuol divenir beato si convien fare<br />
la penitenzia che tu udirai; ma intendi sanamente: io<br />
non dico, che dopo la penitenzia tu non sii peccatore<br />
come tu ti se’; ma avverrà questo, che i peccati che<br />
tu hai infino all’ora della penitenzia fatti, tutti si purgheranno<br />
e sarannoti per quella perdonati; e quegli<br />
che tu farai poi non saranno scritti a tua <strong>da</strong>nnazione,<br />
anzi se n’andranno con l’acqua benedetta, come ora<br />
fanno i veniali.<br />
conviensi adunque l’uomo principalmente con gran<br />
diligenzia confessare de’ suoi peccati quando viene<br />
a cominciar la penitenzia; e appresso questo li convien<br />
cominciare un digiuno e una astinenzia grandissima,<br />
la qual convien che duri quaranta dì, ne’quali,<br />
non che <strong>da</strong> altra femina, ma <strong>da</strong> toccare la propria tua<br />
moglie ti conviene astenere. e oltre a questo si conviene<br />
avere nella tua propria casa alcun luogo donde<br />
tu possi la notte vedere il cielo, e in su l’ora della<br />
compieta an<strong>da</strong>re in questo luogo, e quivi avere una<br />
tavola molto larga ordinata in guisa che, stando tu in<br />
pie’, vi possi le reni appoggiare, e tenendo gli piedi<br />
in terra distender le braccia a guisa di crucifisso; e<br />
se tu quelle volessi appoggiare ad alcun cavigliuolo,
puoil fare; e in questa maniera guar<strong>da</strong>ndo il cielo, star<br />
senza muoverti punto insino a matutino. e, se tu fossi<br />
litterato, ti converrebbe in questo mezzo dire certe<br />
orazioni che io ti <strong>da</strong>rei; ma, perché non se’, ti converrà<br />
dire trecento paternostri con trecento avemarie a<br />
reverenzia della trinità, e riguar<strong>da</strong>ndo il cielo, sempre<br />
aver nella memoria iddio essere stato creatore<br />
del cielo e della terra, e la passion di cristo, stando<br />
in quella maniera che stette egli in su la croce.<br />
Poi, come matutino suona, te ne puoi, se tu vuogli,<br />
an<strong>da</strong>re e così vestito gittarti sopra ’l letto tuo e<br />
dormire: e la mattina appresso si vuole an<strong>da</strong>re alla<br />
chiesa, e quivi udire almeno tre messe e dir cinquanta<br />
paternostri con altrettante avemarie; e appresso<br />
questo con simplicità fare alcuni tuoi fatti, se a far<br />
n’hai alcuno, e poi desinare, ed essere appresso al<br />
vespro nella chiesa e quivi dire certe orazioni che io<br />
ti <strong>da</strong>rò scritte, senza le quali non si può fare; e poi<br />
in su la compieta ritornare al modo detto. e faccendo<br />
questo, sì come io feci già, spero che anzi che la<br />
fine della penitenzia venga, tu sentirai maravigliosa<br />
cosa della beatitudine etterna, se con divozione fatta<br />
l’avrai.<br />
Frate Puccio disse allora:<br />
– Questa non è troppo grave cosa, né troppo lunga, e<br />
deesi assai ben poter fare; e per ciò io voglio al nome<br />
di dio cominciar domenica.<br />
e <strong>da</strong> lui partitosene e an<strong>da</strong>tosene a casa, ordinatamente,<br />
con sua licenzia perciò, alla moglie disse ogni<br />
cosa.<br />
La donna intese troppo bene per lo star fermo infino<br />
a matutino senza muoversi ciò che il monaco voleva<br />
dire; per che, parendole assai buon modo, disse che<br />
di questo e d’ogn’altro bene, che egli per l’anima sua<br />
faceva, ella era contenta, e che, acciò che iddio gli facesse<br />
la sua penitenzia <strong>prof</strong>ittevole, ella voleva con<br />
esso lui digiunare, ma fare altro no.<br />
rimasi adunque in concordia, venuta la domenica,<br />
frate Puccio cominciò la sua penitenzia, e messer<br />
lo monaco, convenutosi colla donna, ad ora che veduto<br />
non poteva essere, le più delle sere con lei se<br />
ne veniva a cenare, seco sempre recando e ben <strong>da</strong><br />
mangiare e ben <strong>da</strong> bere, poi con lei si giaceva infino<br />
all’ora del matutino, al quale levandosi se n’an<strong>da</strong>va,<br />
e frate Puccio tornava al letto.<br />
era il luogo, il quale frate Puccio aveva alla sua penitenzia<br />
eletto, allato alla camera nella quale giaceva<br />
la donna, né <strong>da</strong> altro era <strong>da</strong> quella diviso che <strong>da</strong> un<br />
sottilissimo muro; per che, ruzzando messer lo monaco<br />
troppo colla donna alla scapestrata ed ella con<br />
lui, parve a frate Puccio sentire alcuno dimenamento<br />
di palco della casa; di che, avendo già detti cento de’<br />
suoi paternostri, fatto punto quivi, chiamò la donna<br />
senza muoversi, e domandolla ciò che ella faceva.<br />
La donna, che motteggevole era molto, forse cavalcando<br />
allora senza sella la bestia di san benedetto o<br />
vero di san Giovanni Gualberto, rispose:<br />
– Gnaffe, marito mio, io mi dimeno quanto io posso.<br />
disse allora frate Puccio:<br />
– come ti dimeni? che vuol dir questo dimenare?<br />
La donna ridendo, che e di buona aria e valente donna<br />
era, e forse avendo cagion di ridere, rispose:<br />
– come non sapete voi quello che questo vuol dire?<br />
ora io ve l’ho udito dire mille volte: chi la sera non<br />
cena, tutta notte si dimena.<br />
credettesi frate Puccio che il digiunare, il quale ella<br />
a lui mostrava di fare, le fosse cagione di non poter<br />
dormire, e per ciò per lo letto si dimenasse, per che<br />
egli di buona fede disse<br />
– donna, io t’ho ben detto, non digiunare; ma, poiché<br />
pur l’hai voluto fare, non pensare a ciò, pensa di riposarti;<br />
tu <strong>da</strong>i tali volte per lo letto, che tu fai dimenar<br />
ciò che ci e’.<br />
disse allora la donna:<br />
– non ve ne caglia no; io so ben ciò ch’i’mi fo; fate pur<br />
ben voi, ché io farò bene io, se io potrò .<br />
Stettesi adunque cheto frate Puccio e rimise mano à<br />
suoi paternostri; e la donna e messer lo monaco <strong>da</strong><br />
questa notte innanzi, fatto in altra parte della casa<br />
ordinare un letto, in quello, quanto durava il tempo<br />
della penitenzia di frate Puccio, con grandissima festa<br />
si stavano, e ad una ora il monaco se n’an<strong>da</strong>va<br />
e la donna al suo letto tornava, e poco stante <strong>da</strong>lla<br />
penitenzia a quello se ne venia frate Puccio.<br />
continuando adunque in così fatta maniera il frate la<br />
penitenzia e la donna col monaco il suo diletto, più<br />
volte motteggiando disse con lui:<br />
– tu fai fare la penitenzia a frate Puccio, per la quale<br />
noi abbiam gua<strong>da</strong>gnato il paradiso.<br />
e parendo molto bene stare alla donna, sì s’avvezzò<br />
à cibi del monaco che, essendo <strong>da</strong>l marito lungamente<br />
stata tenuta in dieta, ancora che la penitenzia di<br />
frate Puccio si consumasse, modo trovò di cibarsi in<br />
altra parte con lui, e con discrezione lungamente ne<br />
prese il suo piacere.<br />
di che, acciò che l’ultime parole non sieno discor<strong>da</strong>nti<br />
alle prime, avvenne che, dove frate Puccio,<br />
faccendo penitenzia sé credette mettere in paradiso,<br />
egli vi mise il monaco, che <strong>da</strong> an<strong>da</strong>rvi tosto gli<br />
avea mostrata la via, e la moglie, che con lui in gran<br />
necessità vivea di ciò che messer lo monaco, come<br />
misericordioso, gran divizia le fece.<br />
Giornata terza – Novella decima<br />
Alibech diviene romita, a cui Rustico monaco insegna rimettere il<br />
diavolo in inferno; poi, quindi tolta, diventa moglie di Neerbale.<br />
dioneo, che diligentemente la novella della reina<br />
ascoltata avea, sentendo che finita era e che a lui<br />
solo restava il dire, senza coman<strong>da</strong>mento aspettare,<br />
sorridendo cominciò a dire.<br />
Graziose donne, voi non udiste forse mai dire come il<br />
diavolo si rimetta in inferno; e per ciò, senza partirmi<br />
guari <strong>da</strong>llo effetto che voi tutto questo dì ragionato<br />
avete, io il vi vo’dire; forse ancora ne potrete gua<strong>da</strong>gnare<br />
l’anima avendolo apparato, e potrete anche<br />
conoscere che, quantunque amore i lieti palagi e le<br />
morbide camere più volentieri che le povere capanne<br />
abiti, non è egli per ciò che alcuna volta esso fra’ folti<br />
boschi e fra le rigide alpi e nelle diserte spelunche<br />
non faccia le sue forze sentire; il perché comprender<br />
si può alla sua potenza essere ogni cosa suggetta.<br />
adunque, venendo al fatto, dico che nella città di<br />
capsa in barberia fu già un ricchissimo uomo, il quale
tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella<br />
e gentilesca, il cui nome fu alibech. La quale, non<br />
essendo cristiana e udendo a molti cristiani che nella<br />
città erano molto commen<strong>da</strong>re la cristiana fede e il<br />
servire a dio, un dì ne domandò alcuno in che maniera<br />
e con meno impedimento a dio si potesse servire.<br />
il quale le rispose che coloro meglio a dio servivano<br />
che più delle cose del mondo fuggivano, come coloro<br />
facevano che nelle solitudini de’ diserti di tebai<strong>da</strong><br />
an<strong>da</strong>ti se n’erano.<br />
La giovane, che semplicissima era e d’età forse di<br />
quattordici anni, non <strong>da</strong> ordinato disidero ma <strong>da</strong> un<br />
cotal fanciullesco appetito mossa, senza altro farne<br />
ad alcuna persona sentire, la seguente mattina ad<br />
an<strong>da</strong>r verso il diserto di tebai<strong>da</strong> nascosamente tutta<br />
sola si mise; e con gran fatica di lei, durando l’appetito,<br />
dopo alcun dì a quelle solitudini pervenne; e veduta<br />
di lontano una casetta, a quella n’andò, dove un<br />
santo uomo trovò sopra l’uscio, il quale, maravigliandosi<br />
di quivi vederla, la domandò quello che ella an<strong>da</strong>sse<br />
cercando. La quale rispose, che, spirata <strong>da</strong> dio<br />
an<strong>da</strong>va cercando d’essere al suo servigio, e ancora<br />
chi le ’nsegnasse come servire gli si conveniva.<br />
il valente uomo, veggendola giovane e assai bella,<br />
temendo non il demonio, se egli la ritenesse, lo<br />
’ngannasse, le commendò la sua buona disposizione;<br />
e <strong>da</strong>ndole alquanto <strong>da</strong> mangiare radici d’erbe e<br />
pomi salvatichi e <strong>da</strong>tteri e bere acqua, le disse:<br />
– Figliuola mia, non guari lontan di qui è un santo<br />
uomo, il quale di ciò che tu vai cercando è molto migliore<br />
maestro che io non sono; a lui te n’andrai – ; e<br />
misela nella via.<br />
ed ella, pervenuta a lui e avute <strong>da</strong> lui queste medesime<br />
parole, an<strong>da</strong>ta più avanti, pervenne alla cella<br />
d’uno romito giovane, assai divota persona e buona,<br />
il cui nome era rustico, e quella diman<strong>da</strong> gli fece che<br />
agli altri aveva fatta. il quale, per volere fare della<br />
sua fermezza una gran pruova, non come gli altri la<br />
mandò via o più avanti, ma seco la ritenne nella sua<br />
cella; e venuta la notte, un lettuccio di frondi di palma<br />
le fece <strong>da</strong> una parte e sopra quello le disse si<br />
riposasse.<br />
Questo fatto, non preser guari d’indugio le tentazioni<br />
a <strong>da</strong>r battaglia alle forze di costui; il quale, trovandosi<br />
di gran lunga ingannato <strong>da</strong> quelle, senza troppi<br />
assalti voltò le spalle e rendessi per vinto; e lasciati<br />
stare <strong>da</strong>ll’una delle parti i pensier santi e l’orazioni e<br />
le discipline, a recarsi per la memoria la giovinezza<br />
e la bellezza di costei ’ncominciò, e oltre a questo a<br />
pensar che via e che modo egli dovesse con lei tenere,<br />
acciò che essa non s’accorgesse lui come uomo<br />
dissoluto pervenire a quello che egli di lei disiderava.<br />
e tentato primieramente con certe domande, lei<br />
non aver mai uomo conosciuto conobbe e così essere<br />
semplice come parea; per che s’avvisò come, sotto<br />
spezie di servire a dio, lei dovesse recare a’ suoi<br />
piaceri. e primieramente con molte parole le mostrò<br />
quanto il diavolo fosse nemico di domeneddio; e appresso<br />
le diede ad intendere che quello servigio che<br />
più si poteva far grato a dio si era rimettere il diavolo<br />
in inferno, nel quale domeneddio l’aveva <strong>da</strong>nnato.<br />
La giovinetta il domandò, come questo si facesse.<br />
alla quale rustico disse:<br />
– tu il saprai tosto, e perciò farai quello che a me<br />
far vedrai – ; e cominciossi a spogliare quegli pochi<br />
vestimenti che aveva, e rimase tutto ignudo, e così<br />
ancora fece la fanciulla, e posesi ginocchione a guisa<br />
che adorar volesse e dirimpetto a sé fece star lei.<br />
e così stando, essendo rustico più che mai nel suo<br />
disidero acceso per lo vederla così bella, venne la<br />
resurrezion della carne, la quale riguar<strong>da</strong>ndo alibech<br />
e maravigliatasi, disse:<br />
– rustico, quella che cosa è che io ti veggio che così<br />
si pigne in fuori, e non l’ho io?<br />
– o figliuola mia, – disse rustico – questo è il diavolo<br />
di che io t’ho parlato. e vedi tu? ora egli mi dà<br />
grandissima molestia, tanta che io appena la posso<br />
sofferire.<br />
allora disse la giovane:<br />
– oh lo<strong>da</strong>to sia iddio, ché io veggio che io sto meglio<br />
che non stai tu, ché io non ho cotesto diavolo io.<br />
disse rustico:<br />
– tu di’vero, ma tu hai un’altra cosa che non la ho io,<br />
e haila in iscambio di questo.<br />
disse alibech: – o che?<br />
a cui rustico disse:<br />
– Hai il ninferno; e dicoti che io mi credo che iddio<br />
t’abbia qui man<strong>da</strong>ta per la salute della anima mia,<br />
per ciò che se questo diavolo pur mi <strong>da</strong>rà questa<br />
noia, ove tu vogli aver di me tanta pietà e sofferire<br />
che io in inferno il rimetta, tu mi <strong>da</strong>rai grandissima<br />
consolazione e a dio farai grandissimo piacere e servigio,<br />
se tu per quello fare in queste parti venuta se’,<br />
che tu di’.<br />
La giovane di buona fede rispose:<br />
– o padre mio, poscia che io ho il ninferno, sia pure<br />
quando vi piacerà.<br />
disse allora rustico:<br />
– Figliuola mia, benedetta sia tu; andiamo dunque, e<br />
rimettiamlovi sì che egli poscia mi lasci stare.<br />
e così detto, menata la giovane sopra uno de’ loro<br />
letticelli, le ’nsegnò come star si dovesse a dovere<br />
incarcerare quel maladetto <strong>da</strong> dio.<br />
La giovane, che mai più non aveva in inferno messo<br />
diavolo alcuno, per la prima volta sentì un poco di<br />
noia, per che ella disse a rustico:<br />
– Per certo, padre mio, mala cosa dee essere questo<br />
diavolo, e veramente nimico di dio, ché ancora al<br />
ninferno, non che altrui, duole quando egli v’è dentro<br />
rimesso.<br />
disse rustico:<br />
– Figliuola, egli non avverrà sempre così.<br />
e per fare che questo non avvenisse, <strong>da</strong> sei volte,<br />
anzi che di su il letticel si movessero, ve ’l rimisero,<br />
tanto che per quella volta gli trasser sì la superbia<br />
del capo, che egli si stette volentieri in pace.<br />
Ma, ritornatagli poi nel seguente tempo più volte, e<br />
la giovane ubbidiente sempre a trargliele si disponesse,<br />
avvenne che il giuoco le cominciò a piacere, e<br />
cominciò a dire a rustico:<br />
– ben veggio che il ver dicevano que’valentuomini<br />
in capsa, che il servire a dio era così dolce cosa; e<br />
per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra ne<br />
facessi che di tanto diletto e piacer mi fosse, quanto
è il rimetter il diavolo in inferno; e per ciò io giudico<br />
ogn’altra persona, che ad altro che a servire a dio attende,<br />
essere una bestia.<br />
Per la qual cosa essa spesse volte an<strong>da</strong>va a rustico,<br />
e gli dicea:<br />
– Padre mio, io son qui venuta per servire a dio e<br />
non per istare oziosa; andiamo a rimettere il diavolo<br />
in inferno.<br />
La qual cosa faccendo, diceva ella alcuna volta:<br />
– rustico, io non so perché il diavolo si fugga del ninferno;<br />
ché, s’egli vi stesse così volentieri come il ninferno<br />
il riceve e tiene, egli non se ne uscirebbe mai.<br />
così adunque invitando spesso la giovane rustico e<br />
al servigio di dio confortandolo, sì la bambagia del<br />
farsetto tratta gli avea, che egli a tal ora sentiva freddo<br />
che un altro sarebbe su<strong>da</strong>to; e per ciò egli incominciò<br />
a dire alla giovane che il diavolo non era <strong>da</strong><br />
gastigare né <strong>da</strong> rimettere in inferno se non quando<br />
egli per superbia levasse il capo: – e noi per la grazia<br />
di dio l’abbiamo sì sgannato, che egli priega iddio di<br />
starsi in pace – ; e così alquanto impose di silenzio<br />
alla giovane.<br />
La qual, poi che vide che rustico più non la richiedeva<br />
a dovere il diavolo rimettere in inferno, gli disse<br />
un giorno:<br />
– rustico, se il diavolo tuo è gastigato e più non ti<br />
dà noia, me il mio ninferno non lascia stare; per che<br />
tu farai bene che tu col tuo diavolo aiuti attutare la<br />
rabbia al mio ninferno, com’io col mio ninferno ho<br />
aiutato a trarre la superbia al tuo diavolo.<br />
rustico, che di radici d’erba e d’acqua vivea, poteva<br />
male rispondere alle poste; e dissele che troppi diavoli<br />
vorrebbono essere a potere il ninferno attutare,<br />
ma che egli ne farebbe ciò che per lui si potesse; e<br />
così alcuna volta le sodisfaceva, ma sì era di rado,<br />
che altro non era che gittare una fava in bocca al leone;<br />
di che la giovane, non parendole tanto servire a<br />
dio quanto voleva, mormorava anzi che no.<br />
Ma, mentre che tra il diavolo di rustico e il ninferno<br />
d’alibech era, per troppo disiderio e per men potere,<br />
questa quistione, avvenne che un fuoco s’apprese<br />
in capsa, il quale nella propria casa arse il padre<br />
d’alibech con quanti figliuoli e altra famiglia avea;<br />
per la qual cosa alibech d’ogni suo bene rimase erede.<br />
Laonde un giovane chiamato neerbale, avendo<br />
in cortesia tutte le sue facultà spese, sentendo costei<br />
esser viva, messosi a cercarla e ritrovatala avanti che<br />
la corte i beni stati del padre, sì come d’uomo senza<br />
erede morto, occupasse, con gran piacere di rustico<br />
e contra al volere di lei la rimenò in capsa e per moglie<br />
la prese, e con lei insieme del gran patrimonio<br />
divenne erede. Ma, essendo ella doman<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>lle<br />
donne di che nel diserto servisse a dio, non essendo<br />
ancor neerbale giaciuto con lei, rispose che il serviva<br />
di rimettere il diavolo in inferno, e che neerbale<br />
aveva fatto gran peccato d’averla tolta <strong>da</strong> così fatto<br />
servigio.<br />
Le donne doman<strong>da</strong>rono: – come si rimette il diavolo<br />
in inferno?<br />
La giovane, tra con parole e con atti, il mostrò loro.<br />
di che esse fecero sì gran risa che ancor ridono, e<br />
dissono:<br />
– non ti <strong>da</strong>r malinconia, figliuola, no, ché egli si fa<br />
bene anche qua; neerbale ne servirà bene con esso<br />
teco domeneddio.<br />
Poi l’una all’altra per la città ridicendolo, vi ridussono<br />
in volgar motto che il più piacevol servigio che a dio<br />
si facesse era il rimettere il diavolo in inferno; il qual<br />
motto passato di qua <strong>da</strong> mare ancora dura.<br />
e per ciò voi, giovani donne, alle quali la grazia di dio<br />
bisogna, apparate a rimettere il diavolo in inferno,<br />
per ciò che egli è forte a grado a dio e piacer delle<br />
parti, e molto bene ne può nascere e seguire.<br />
Giornata quarta – Novella secon<strong>da</strong><br />
Frate Alberto dà a vedere ad una donna che l’Agnolo Gabriello<br />
è di lei innamorato, in forma del quale più volte si giace con lei;<br />
poi, per paura de’ parenti di lei della casa gittatosi, in casa d’uno<br />
povero uomo ricovera, il quale in forma d’uomo salvatico il dì<br />
seguente nella piazza il mena, dove, riconosciuto, è <strong>da</strong>’ suoi frati<br />
preso e incarcerato.<br />
[…]<br />
Pampinea, a sé sentendo il coman<strong>da</strong>mento venuto,<br />
più per la sua affezione cognobbe l’animo delle compagne<br />
che quello del re per le sue parole, e per ciò,<br />
più disposta a dovere al quanto recrear loro che a<br />
dovere, fuori che del coman<strong>da</strong>mento solo, il re contentare,<br />
a dire una novella, senza uscir del proposto,<br />
<strong>da</strong> ridere si dispose, e cominciò.<br />
Usano i volgari un così fatto proverbio: – chi è reo e<br />
buono è tenuto, può fare il male e non è creduto –.<br />
il quale ampia materia a ciò che m’è stato proposto<br />
mi presta di favellare, e ancora a dimostrare quanta<br />
e quale sia la ipocresia de’ religiosi, li quali, co’ panni<br />
larghi e lunghi e co’ visi artificialmente pallidi e con le<br />
voci umili e mansuete nel doman<strong>da</strong>r l’altrui, e altissime<br />
e rubeste in mordere negli altri li loro medesimi<br />
vizi e nel mostrare sé per torre e altri per lor donare<br />
venire a salvazione, e oltre a ciò, non come uomini<br />
che il paradiso abbiano a procacciare come noi, ma<br />
quasi come possessori e signori di quello, <strong>da</strong>nti a ciaschedun<br />
che muore, secondo la quantità de’ <strong>da</strong>nari<br />
loro lasciata <strong>da</strong> lui, più e meno eccellente luogo, con<br />
questo prima sé medesimi, se così credono, e poscia<br />
coloro che in ciò alle loro parole <strong>da</strong>n fede, sforzansi<br />
d’ingannare. de’ quali, se quanto si convenisse fosse<br />
licito a me di mostrare, tosto dichiarerei a molti semplici<br />
quello che nelle lor cappe larghissime tengon<br />
nascoso. Ma ora fosse piacer di dio che così delle lor<br />
bugie a tutti intervenisse, come ad un frate minore,<br />
non miga giovane, ma di quelli che de’ maggior ch’ha<br />
ascesi era tenuto a Vinegia; del quale sommamente<br />
mi piace di raccontare, per alquanto gli animi vostri,<br />
pieni di compassione per la morte di Ghismon<strong>da</strong>,<br />
forse con risa e con piacere rilevare.<br />
Fu adunque, valorose donne, in imola uno uomo di<br />
scelerata vita e di corrotta, il qual fu chiamato berto<br />
della Massa; le cui vituperose opere molto <strong>da</strong>gli<br />
imolesi conosciute a tanto il recarono che, non che la<br />
bugia, ma la verità non era in imola chi gli credesse;<br />
per che, accorgendosi quivi più le sue gherminelle<br />
non aver luogo, come disperato, a Vinegia d’ogni<br />
bruttura ricevitrice si trasmutò, e quivi pensò di tro
vare altra maniera al suo malvagio adoperare che<br />
fatto non avea in altra parte. e, quasi <strong>da</strong> conscienzia<br />
rimorso delle malvagie opere nel preterito fatte <strong>da</strong><br />
lui, <strong>da</strong> somma umiltà soprapreso mostrando si, e oltre<br />
ad ogni altro uomo divenuto catolico, andò e sì<br />
si fece frate minore, e fecesi chiamare frate alberto<br />
<strong>da</strong> imola; e in tale abito cominciò a far per sembianti<br />
una aspra vita e a commen<strong>da</strong>r molto la penitenzia e<br />
l’astinenzia, né mai carne mangiava né bevea vino,<br />
quando non n’avea che gli piacesse.<br />
né se ne fu appena avveduto alcuno, che di ladrone,<br />
di ruffiano, di falsario, d’omici<strong>da</strong>, subitamente<br />
fu un gran predicatore divenuto, senza aver per ciò i<br />
predetti vizi abbandonati, quando nascosamente gli<br />
avesse potuti mettere in opera. e oltre a ciò fattosi<br />
prete, sempre all’altare, quando celebrava, se <strong>da</strong><br />
molti veduto era, piagneva la passione del Salvatore,<br />
sì come colui al quale poco costavano le lagrime<br />
quando le volea.<br />
e in brieve, tra colle sue prediche e le sue lagrime,<br />
egli seppe in sì fatta guisa li viniziani adescare, che<br />
egli quasi d’ogni testamento che vi si faceva era fedecommessario<br />
e dipositario, e guar<strong>da</strong>tore di denari<br />
di molti, confessore e consigliatore quasi della maggior<br />
parte degli uomini e delle donne; e così faccendo,<br />
di lupo era divenuto pastore, ed era la sua fama<br />
di santità in quelle parti troppo maggior che mai non<br />
fu di san Francesco ad ascesi.<br />
ora avvenne che una giovane donna bamba e sciocca,<br />
che chiamata fu madonna Lisetta <strong>da</strong> ca’ Quirino,<br />
moglie d’un gran mercatante che era an<strong>da</strong>to con le<br />
galee in Fiandra, s’andò con altre donne a confessar<br />
<strong>da</strong> questo santo frate. La quale essendogli a’ piedi, sì<br />
come colei che viniziana era, ed essi son tutti bergoli,<br />
avendo parte detta de’ fatti suoi, fu <strong>da</strong> frate alberto<br />
addoman<strong>da</strong>ta se alcuno amadore avesse.<br />
al quale ella con un mal viso rispose:<br />
– deh, messere lo frate, non avete voi occhi in capo?<br />
Paionvi le mie bellezze fatte come quelle di queste<br />
altre? troppi n’avrei degli amadori, se io ne volessi;<br />
ma non sono le mie bellezze <strong>da</strong> lasciare amare né<br />
<strong>da</strong> tale né <strong>da</strong> quale. Quante ce ne vedete voi, le cui<br />
bellezze sien fatte come le mie, che sarei bella nel<br />
paradiso?<br />
e oltre a ciò, disse tante cose di questa sua bellezza,<br />
che fu un fastidio ad udire.<br />
Frate alberto conobbe incontanente che costei sentia<br />
dello scemo e, parendogli terreno <strong>da</strong>’ ferri suoi,<br />
di lei subitamente e oltre modo s’innamorò; ma, riserbandosi<br />
in più comodo tempo le lusinghe, pur,<br />
per mostrarsi santo, quella volta cominciò a volerla<br />
riprendere e a dirle che questa era vanagloria, e altre<br />
sue novelle; per che la donna gli disse che egli era<br />
una bestia e che egli non conosceva che si fosse più<br />
una bellezza che un’altra. Per che frate alberto, non<br />
volendola troppo turbare, fattale la confessione, la<br />
lasciò an<strong>da</strong>r via con l’altre.<br />
e stato alquanti dì, preso un suo fido compagno, n’andò<br />
a casa madonna Lisetta, e trattosi <strong>da</strong> una parte in<br />
una sala con lei e non potendo <strong>da</strong> altri esser veduto,<br />
le si gittò <strong>da</strong>vanti ginocchione e disse:<br />
– Madonna, io vi priego per dio che voi mi perdo<br />
niate di ciò che io domenica, ragionandomi voi della<br />
vostra bellezza, vi dissi, per ciò che sì fieramente la<br />
notte seguente gastigato ne fui, che mai poscia <strong>da</strong><br />
giacere non mi son potuto levar se non oggi.<br />
disse allora donna Mestola:<br />
– e chi ve ne gastigò così?<br />
disse frate alberto:<br />
– io il vi dirò. Standomi io la notte in orazione, sì<br />
come io soglio star sempre, io vidi subitamente nella<br />
mia cella un grande splendore, né prima mi pote’volgere<br />
per veder che ciò fosse, che io mi vidi sopra un<br />
giovane bellissimo con un grosso bastone in mano, il<br />
quale, presomi per la cappa e tiratomisi a’ piè, tante<br />
mi diè che tutto mi ruppe. il quale io appresso<br />
doman<strong>da</strong>i perché ciò fatto avesse, ed egli rispose:<br />
– Per ciò che tu presummesti oggi di riprendere le<br />
celestiali bellezze di madonna Lisetta, la quale io<br />
amo, <strong>da</strong> dio in fuori, sopra ogni altra cosa –. e io allora<br />
doman<strong>da</strong>i: – chi siete voi? – a cui egli rispose che<br />
era l’agnolo Gabriello. – o signor mio –, dissi io – io vi<br />
priego che voi mi perdoniate –. e egli allora disse :– e<br />
io ti perdono per tal convenente, che tu a lei va<strong>da</strong><br />
come tu prima potrai, e facciti perdonare; e dove ella<br />
non ti perdoni, io ci tornerò e <strong>da</strong>rottene tante che<br />
io ti farò tristo per tutto il tempo che tu ci viverai –.<br />
Quello che egli poi mi dicesse, io non ve l’oso dire,<br />
se prima non mi perdonate.<br />
donna zucca al vento, la quale era anzi che no un<br />
poco dolce di sale, godeva tutta udendo queste parole<br />
e verissime tutte le credea, e dopo alquanto<br />
disse:<br />
– io vi diceva bene, frate alberto, che le mie bellezze<br />
eran celestiali; ma, se dio m’aiuti, di voi m’incresce,<br />
e in fino ad ora, acciò che più non vi sia fatto male, io<br />
vi perdono, sì veramente che voi mi diciate ciò che<br />
l’agnolo poi vi disse.<br />
Frate alberto disse:<br />
– Madonna, poi che perdonato m’avete, io il vi dirò<br />
volentieri; ma una cosa vi ricordo, che cosa che io vi<br />
dica voi vi guardiate di non dire ad alcuna persona<br />
che sia nel mondo, se voi non volete guastare i fatti<br />
vostri, che siete la più avventurata donna che oggi<br />
sia al mondo.<br />
Questo agnol Gabriello mi disse che io vi dicessi che<br />
voi gli piacevate tanto, che più volte a starsi con voi<br />
venuto la notte sarebbe, se non fosse per non spaventarvi.<br />
ora vi man<strong>da</strong> egli dicendo per me, che a<br />
voi vuol venire una notte e dimorarsi una pezza con<br />
voi; e per ciò che egli è agnolo e venendo in forma<br />
d’agnolo voi nol potreste toccare, dice che per diletto<br />
di voi vuol venire in forma d’uomo, e per ciò dice<br />
che voi gli mandiate a dire quando volete che egli<br />
venga, e in forma di cui ed egli ci verrà; di che voi, più<br />
che altra donna che viva, tener vi potete beata.<br />
Madonna baderla allora disse che molto le piaceva<br />
se l’agnolo Gabriello l’amava; per ciò che ella amava<br />
ben lui, né era mai che una candela d’un mattapan<br />
non gli accendesse <strong>da</strong>vanti dove dipinto il vedeva;<br />
e che, quale ora egli volesse a lei venire, egli fosse<br />
il ben venuto, ché egli la troverebbe tutta sola nella<br />
sua camera, ma con questo patto, che egli non dovesse<br />
lasciar lei per la Vergine Maria, che l’era detto
che egli le voleva molto bene, e anche si pareva, ché<br />
in ogni luogo che ella il vedeva, le stava ginocchione<br />
innanzi; e oltre a questo, che a lui stesse di venire in<br />
qual forma volesse, purché ella non avesse paura.<br />
allora disse frate alberto:<br />
– Madonna, voi parlate saviamente; e io ordinerò<br />
ben con lui quello che voi mi dite. Ma voi mi potete<br />
fare una gran grazia, e a voi non costerà niente; e la<br />
grazia è questa, che voi vogliate che egli venga con<br />
questo mio corpo. e udite in che voi mi farete grazia:<br />
che egli mi trarrà l’anima mia di corpo e metteralla in<br />
paradiso, ed egli enterrà in me, e quanto egli starà<br />
con voi, tanto si starà l’anima mia in paradiso.<br />
disse allora donna Pocofila:<br />
– ben mi piace; io voglio che, in luogo delle busse<br />
le quali egli vi diede a mie cagioni, che voi abbiate<br />
questa consolazione.<br />
allora disse frate alberto:<br />
– or farete che questa notte egli truovi la porta della<br />
vostra casa per modo che egli possa entrarci, per ciò<br />
che vegnendo in corpo umano, come egli verrà, non<br />
potrebbe entrare se non per l’uscio.<br />
La donna rispose che fatto sarebbe. Frate alberto si<br />
partì, ed ella rimase faccendo sì gran galloria che non<br />
le toccava il cul la camicia, mille anni parendole che<br />
l’agnolo Gabriello a lei venisse.<br />
Frate alberto, pensando che cavaliere, non agnolo,<br />
esser gli convenia la notte, con confetti e altre buone<br />
cose s’incominciò a confortare, acciò che di leggier<br />
non fosse <strong>da</strong> caval gittato. e avuta la licenzia, con uno<br />
compagno, come notte fu, se n’entrò in casa d’una<br />
sua amica, <strong>da</strong>lla quale altra volta aveva prese le mosse<br />
quando an<strong>da</strong>va a correr le giumente; e di quindi,<br />
quando tempo gli parve, trasformato se n’andò a<br />
casa la donna, e in quella entrato, con sue frasche<br />
che portate avea, in agnolo si trasfigurò, e salitosene<br />
suso, se n’entrò nella camera della donna.<br />
La quale, come questa cosa così bianca vide, gli s’inginocchiò<br />
innanzi, e l’agnolo la benedisse e levolla in<br />
piè e fecele segno che a letto s’an<strong>da</strong>sse. il che ella,<br />
volenterosa d’ubbidire, fece prestamente, e l’agnolo<br />
appresso colla sua divota si coricò.<br />
era frate alberto bello uomo del corpo e robusto, e<br />
stavangli troppo bene le gambe in su la persona; per<br />
la qual cosa con donna Lisetta trovandosi, che era<br />
fresca e morbi<strong>da</strong>, altra giacitura faccendole che il marito,<br />
molte volte la notte volò senza ali, di che ella<br />
forte si chiamò per contenta; e oltre a ciò molte cose<br />
le disse della gloria celestiale. Poi, appressandosi<br />
il dì, <strong>da</strong>to ordine al ritornare, co’ suoi arnesi fuor se<br />
n’uscì e tornossi al compagno suo, al quale, acciò che<br />
paura non avesse dormendo solo, aveva la buona femina<br />
della casa fatta amichevole compagnia.<br />
La donna, come desinato ebbe, presa sua compagnia,<br />
se n’andò a frate alberto e novelle gli disse<br />
dello agnolo Gabriello e ciò che <strong>da</strong> lui udito avea<br />
della gloria di vita etterna, e come egli era fatto, aggiugnendo<br />
oltre a questo maravigliose favole.<br />
a cui frate alberto disse:<br />
– Madonna, io non so come voi vi steste con lui; so<br />
io bene che stanotte, vegnendo egli a me e io avendogli<br />
fatta la vostra ambasciata, egli ne portò subi<br />
tamente l’anima mia tra tanti fiori e tra tante rose,<br />
che mai non se ne videro di qua tante, e stettimi in<br />
uno de’ più dilettevoli luoghi che fosse mai infino a<br />
stamane a matutino; quello che il mio corpo si divenisse,<br />
io non so.<br />
– non ve ’l dich’io? – disse la donna – il vostro corpo<br />
stette tutta notte in braccio mio con l’agnol Gabriello;<br />
e se voi non mi credete, guateretevi sotto la poppa<br />
manca là dove io diedi un grandissimo bacio all’agnolo,<br />
tale che egli vi si parrà il segnale parecchi dì.<br />
disse allora frate alberto:<br />
– ben farò oggi una cosa che io non feci già è gran<br />
tempo più, che io mi spoglierò per vedere se. voi<br />
dite il vero.<br />
e dopo molto cianciare la donna se ne tornò a casa;<br />
alla quale in forma d’agnolo frate alberto andò poi<br />
molte volte senza alcuno impedimento ricevere.<br />
Pure avvenne un giorno che, essendo madonna Lisetta<br />
con una sua comare e insieme di bellezze quistionando,<br />
per porre la sua innanzi ad ogn’altra, sì<br />
come colei che poco sale aveva in zucca, disse:<br />
– Se voi sapeste a cui la mia bellezza piace, in verità<br />
voi tacereste dell’altre.<br />
La comare, vaga d’udire, sì come colei che ben la conoscea,<br />
disse:<br />
– Madonna, voi potreste dir vero, ma tuttavia, non<br />
sappiendo chi questi si sia, altri non si rivolgerebbe<br />
così di leggiero.<br />
allora la donna, che piccola levatura avea, disse:<br />
– comare, egli non si vuol dire, ma lo ’ntendimento<br />
mio è l’agnolo Gabriello, il quale più che sé m’ama, sì<br />
come la più bella donna, per quello che egli mi dica,<br />
che sia nel mondo o in maremma.<br />
La comare ebbe allora voglia di ridere, ma pur si tenne<br />
per farla più avanti parlare, e disse:<br />
– in fè di dio, madonna, se l’agnolo Gabriello è vostro<br />
intendimento e dicevi questo, egli dee bene esser<br />
così; ma io non credeva che gli agnoli facesson<br />
queste cose.<br />
disse la donna:<br />
– comare, voi siete errata; per le plaghe di dio, egli il<br />
fa meglio che mio marido, e dicemi che egli si fa anche<br />
colassù; ma, per ciò che io gli paio più bella che<br />
niuna che ne sia in cielo, s’è egli innamorato di me e<br />
viensene a star meco bene spesso; mo vedì vu?<br />
La comare, partita <strong>da</strong> madonna Lisetta, le parve<br />
mille anni che ella fosse in parte ove ella potesse<br />
queste cose ridire; e ragunatasi ad una festa con una<br />
gran brigata di donne, loro ordinatamente raccontò la<br />
novella. Queste donne il dissero a’ mariti e ad altre<br />
donne, e quelle a quell’altre, e così in meno di due<br />
dì ne fu tutta ripiena Vinegia. Ma tra gli altri a’ quali<br />
questa cosa venne agli orecchi furono i cognati di lei,<br />
li quali, senza alcuna cosa dirle, si posero in cuore<br />
di trovare questo agnolo e di sapere se egli sapesse<br />
volare; e più notti stettero in posta.<br />
avvenne che di questo fatto alcuna novelluzza ne<br />
venne a frate alberto agli orecchi; il quale, per riprender<br />
la donna, una notte an<strong>da</strong>tovi, appena spogliato<br />
s’era, che i cognati di lei, che veduto l’avevan venire,<br />
furono all’uscio della sua camera per aprirlo. il che<br />
frate alberto sentendo, e avvisato ciò che era, leva
tosi, non veggendo altro rifugio, aperse una finestra<br />
la qual sopra il maggior canal rispondea, e quindi si<br />
gittò nell’acqua.<br />
il fondo v’era grande ed egli sapeva ben notare, sì<br />
che male alcun non si fece; e, notato <strong>da</strong>ll’altra parte<br />
del canale, in una casa che aperta v’era prestamente<br />
se n’entrò, pregando un buono uomo che dentro<br />
v’era che per l’amor di dio gli scampasse la vita, sue<br />
favole dicendo perché quivi a quella ora e ignudo<br />
fosse.<br />
il buono uomo, mosso a pietà, convenendogli an<strong>da</strong>re<br />
a far sue bisogne, nel suo letto il mise, e dissegli che<br />
quivi infino alla sua tornata si stesse; e dentro serratolo,<br />
andò a fare i fatti suoi.<br />
i cognati della donna entrati nella camera trovarono<br />
che l’agnolo Gabriello, quivi avendo lasciate l’ali, se<br />
n’era volato; di che quasi scornati grandissima villania<br />
dissero alla donna, e lei ultimamente sconsolata<br />
lasciarono stare e a casa lor tornarsi con gli arnesi<br />
dello agnolo.<br />
in questo mezzo, fattosi il dì chiaro, essendo il buono<br />
uomo in sul rialto, udì dire come l’agnolo Gabriello<br />
era la notte an<strong>da</strong>to a giacere con madonna Lisetta<br />
e <strong>da</strong>’ cognati trovatovi, s’era per paura gittato nel<br />
canale, né si sapeva che divenuto se ne fosse; per<br />
che prestamente s’avvisò colui che in casa avea esser<br />
desso. e là venutosene e riconosciutolo, dopo molte<br />
novelle, con lui trovò modo che, s’egli non volesse<br />
che a’ cognati di lei il desse, gli facesse venire cinquanta<br />
ducati; e così fu fatto.<br />
e appresso questo, disiderando frate alberto d’uscir<br />
di quindi, gli disse il buono uomo:<br />
– Qui non ha modo alcuno, se già in uno non voleste.<br />
noi facciamo oggi una festa, nella quale chi mena<br />
uno uomo vestito a modo d’orso e chi a guisa d’uom<br />
salvatico, e chi d’una cosa e chi d’un’altra, e in su la<br />
piazza di San Marco si fa una caccia, la qual fornita, è<br />
finita la festa; e poi ciascun va, con quel che menato<br />
ha, dove gli piace. Se voi volete, anzi che spiar si possa<br />
che voi siate qui, che io in alcun di questi modi vi<br />
meni, io vi potrò menare dove voi vorrete; altramenti<br />
non veggio come uscirci possiate che conosciuto non<br />
siate; e i cognati della donna, avvisando che voi in<br />
alcun luogo quincentro siate, per tutto hanno messe<br />
le guardie per avervi.<br />
come che duro paresse a frate alberto l’an<strong>da</strong>re in cotal<br />
guisa, pur per la paura che aveva de’ parenti della<br />
donna vi si condusse, e disse a costui dove voleva<br />
esser menato, e come il menasse era contento.<br />
costui, avendol già tutto unto di mele ed empiuto di<br />
sopra di penna matta, e messagli una catena in gola<br />
e una maschera in capo, e <strong>da</strong>togli <strong>da</strong>ll’una mano un<br />
gran bastone e <strong>da</strong>ll’altra due gran cani, che <strong>da</strong>l macello<br />
avea menati, mandò uno al rialto, che bandisse<br />
che chi volesse veder l’agnolo Gabriello an<strong>da</strong>sse in<br />
su la piazza di San Marco: e fu lealtà viniziana questa.<br />
e questo fatto, dopo alquanto il menò fuori e miseselo<br />
innanzi, e an<strong>da</strong>ndol tenendo per la catena di<br />
dietro, non senza gran romore di molti, che tutti diceano:<br />
– che xè quel? che xè quel? – il condusse in<br />
su la piazza, dove tra quegli che venuti gli eran dietro<br />
e quegli ancora che, udito il bando, <strong>da</strong> rialto venuti<br />
v’erano, erano gente senza fine. Questi là pervenuto,<br />
in luogo rilevato e alto legò il suo uomo salvatico ad<br />
una colonna, sembianti faccendo d’attendere la caccia;<br />
al quale le mosche e’tafani, per ciò che di mele<br />
era unto, <strong>da</strong>van grandissima noia.<br />
Ma poi che costui vide piazza ben piena, faccendo<br />
sembianti di volere scatenare il suo uom salvatico, a<br />
frate alberto trasse la maschera dicendo:<br />
– Signori, poi che il porco non viene alla caccia, e non<br />
si fa, acciò che voi non siate venuti in vano, io voglio<br />
che voi veggiate l’agnolo Gabriello, il quale di cielo<br />
in terra discende la notte a consolare le donne viniziane.<br />
come la maschera fu fuori, così fu frate alberto incontanente<br />
<strong>da</strong> tutti conosciuto; contro al quale si levaron<br />
le gri<strong>da</strong> di tutti, dicendogli le più vituperose parole<br />
e la maggior villania che mai ad alcun ghiotton si<br />
dicesse, e oltre a questo per lo viso gettandogli chi<br />
una lordura e chi un’altra; e così grandissimo spazio il<br />
tennero, tanto che per ventura la novella a’ suoi frati<br />
pervenuta, infino a sei di loro mossisi quivi vennero,<br />
e gittatagli una cappa in dosso e scatenatolo, non<br />
senza grandissimo romor dietro, infino a casa loro nel<br />
menarono, dove, incarceratolo, dopo misera vita si<br />
crede che egli morisse.<br />
così costui, tenuto buono e male adoperando non<br />
essendo creduto, ardì di farsi l’agnolo Gabriello, e di<br />
questo in un uom salvatico convertito, a lungo an<strong>da</strong>re,<br />
come meritato avea, vituperato senza pro pianse<br />
i peccati commessi. così piaccia a dio che a tutti gli<br />
altri possa intervenire.<br />
Giornata sesta – Novella decima<br />
Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna<br />
dell’agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli<br />
dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.<br />
essendo ciascuno della brigata della sua novella<br />
riuscito, conobbe dioneo che a lui toccava il dover<br />
dire; per la qual cosa, senza troppo solenne coman<strong>da</strong>mento<br />
aspettare, imposto silenzio a quegli che il<br />
sentito motto di Guido lo<strong>da</strong>vano, incominciò:<br />
Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio<br />
di poter di quel che più mi piace parlare, oggi io non<br />
intendo di volere <strong>da</strong> quella materia separarmi della<br />
qual voi tutte avete assai acconciamente parlato; ma,<br />
seguitando le vostre pe<strong>da</strong>te, intendo di mostrarvi<br />
quanto cautamente con subito riparo uno de’ frati di<br />
santo antonio fuggisse uno scorno che <strong>da</strong> due giovani<br />
apparecchiato gli era. né vi dovrà esser grave<br />
perché io, per ben dir la novella compiuta, alquanto<br />
in parlar mi disten<strong>da</strong>, se al sol guarderete il qual è<br />
ancora a mezzo il cielo.<br />
certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un castel<br />
di Val d’elsa posto nel nostro contado, il quale,<br />
quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d’agiati<br />
fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi<br />
trovava, usò un lungo tempo d’an<strong>da</strong>re ogni anno una<br />
volta a ricoglier le limosine fatte loro <strong>da</strong>gli sciocchi<br />
un de’ frati di santo antonio, il cui nome era frate ci
polla, forse non meno per lo nome che per altra divozione<br />
vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che quel<br />
terreno produca cipolle famose per tutta toscana.<br />
era questo frate cipolla di persona piccolo, di pelo<br />
rosso e lieto nel viso e il miglior brigante del mondo:<br />
e oltre a questo, niuna scienzia avendo, sì ottimo<br />
parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse,<br />
non solamente un gran rettorico l’avrebbe stimato,<br />
ma avrebbe detto esser tulio medesimo o forse<br />
Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contra<strong>da</strong> era<br />
compare o amico o benivogliente.<br />
il quale, secondo la sua usanza, del mese d’agosto<br />
tra l’altre v’andò una volta, e una domenica mattina,<br />
essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville<br />
<strong>da</strong> torno venuti alla messa nella calonica, quando<br />
tempo gli parve, fattosi innanzi disse:<br />
– Signori e donne, come voi sapete, vostra usanza è<br />
di man<strong>da</strong>re ogni anno à poveri del baron messer santo<br />
antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi<br />
poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua,<br />
acciò ché il beato santo antonio vi sia guardia de’<br />
buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre; e<br />
oltre a ciò solete pagare, e spezialmente quegli che<br />
alla nostra compagnia scritti sono, quel poco debito<br />
che ogni anno si paga una volta. alle quali cose<br />
ricogliere io sono <strong>da</strong>l mio maggiore, cioè <strong>da</strong> messer<br />
l’abate, stato man<strong>da</strong>to, e per ciò, con la benedizion<br />
di dio, dopo nona, quando udirete sonare le campanelle,<br />
verrete qui di fuori della chiesa là dove io<br />
al modo usato vi farò la predicazione, e bacerete la<br />
croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco<br />
del barone messer santo antonio, di spezial<br />
grazia vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la<br />
quale io medesimo già recai <strong>da</strong>lle sante terre d’oltremare:<br />
e questa è una delle penne dell’agnol Gabriello,<br />
la quale nella camera della Vergine Maria rimase<br />
quando egli la venne ad annunziare in nazaret.<br />
e questo detto, si tacque e ritornossi alla messa.<br />
erano, quando frate cipolla queste cose diceva, tra<br />
gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto,<br />
chiamato l’uno Giovanni del bragoniera e l’altro biagio<br />
Pizzini li quali, poi che alquanto tra sé ebbero<br />
riso della reliquia di frate cipolla, ancora che molto<br />
fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di<br />
fargli di questa penna alcuna beffa. e avendo saputo<br />
che frate cipolla la mattina desinava nel castello<br />
con un suo amico, come a tavola il sentirono così se<br />
ne scesero alla stra<strong>da</strong> e all’albergo dove il frate era<br />
smontato se n’an<strong>da</strong>rono con questo proponimento:<br />
che biagio dovesse tenere a parole il fante di frate<br />
cipolla e Giovanni dovesse tralle cose del frate<br />
cercare di questa penna, chente che ella si fosse, e<br />
torgliele, per vedere come egli di questo fatto poi<br />
dovesse al popol dire.<br />
aveva frate cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano<br />
Guccio balena e altri Guccio imbratta, e chi<br />
gli diceva Guccio Porco: il quale era tanto cattivo, che<br />
egli non è vero che mai Lippo topo ne facesse alcun<br />
cotanto. di cui spesse volte frate cipolla era usato di<br />
motteggiare con la sua brigata e di dire:<br />
– il fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualunque<br />
è l’una di quelle fosse in Salamone o in aristotile<br />
o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù,<br />
ogni lor senno, ogni lor santità. Pensate adunque che<br />
uom dee essere egli, nel quale né vertù né senno né<br />
santità alcuna è, avendone nove.<br />
ed, essendo alcuna volta doman<strong>da</strong>to quali fossero<br />
queste nove cose, ed egli, avendole in rima messe,<br />
rispondeva:<br />
– dirolvi: egli è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente,<br />
disubidente e maldicente; trascutato, smemorato<br />
e scostumato; senza che egli ha alcune altre taccherelle<br />
con queste, che si taccion per lo migliore. e quel<br />
che sommamente è <strong>da</strong> rider de’ fatti suoi è che egli in<br />
ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a pigione; e<br />
avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte<br />
esser bello e piacevole, che egli s’avisa che quante<br />
femine il veggano tutte di lui s’innamorino, ed essendo<br />
lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la coreggia.<br />
e’ il vero che egli m’è d’un grande aiuto, per<br />
ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che<br />
egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che<br />
io d’alcuna cosa sia doman<strong>da</strong>to, ha sì gran paura che<br />
io non sappia rispondere, che prestamente risponde<br />
egli e sì e no, come giudica si convenga.<br />
a costui, lasciandolo all’albergo, aveva frate cipolla<br />
coman<strong>da</strong>to che ben guar<strong>da</strong>sse che alcuna persona<br />
non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce,<br />
per ciò che in quelle erano le cose sacre.<br />
Ma Guccio imbratta, il quale era più vago di stare in<br />
cucina che sopra i verdi rami l’usignolo, e massimamente<br />
se fante vi sentiva niuna, avendone in quella<br />
dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal<br />
fatta, con un paio di poppe che parean due ceston<br />
<strong>da</strong> letame e con un viso che parea de’ baronci, tutta<br />
su<strong>da</strong>ta, unta e affumicata, non altramenti che si gitti<br />
l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate cipolla<br />
aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si<br />
calò. e ancora che d’agosto fosse, postosi presso al<br />
fuoco a sedere, cominciò con costei, che nuta aveva<br />
nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile<br />
uomo per procuratore e che egli aveva de’ fiorini più<br />
di millantanove, senza quegli che egli aveva a <strong>da</strong>re<br />
altrui, che erano anzi più che meno, e che egli sapeva<br />
tante cose fare e dire, che domine pure unquanche.<br />
e senza riguar<strong>da</strong>re a un suo cappuccio sopra il quale<br />
era tanto untume, che avrebbe condito il calderon<br />
d’altopascio, e a un suo farsetto rotto e ripezzato e<br />
intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume,<br />
con più macchie e di più colori che mai drappi<br />
fossero tartereschi o indiani, e alle sue scarpette<br />
tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato<br />
fosse il siri di castiglione, che rivestir la voleva e rimetterla<br />
in arnese, e trarla di quella cattività di star<br />
con altrui e senza gran possession d’avere ridurla in<br />
isperanza di miglior fortuna e altre cose assai; le quali<br />
quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte<br />
in vento convertite, come le più delle sue imprese<br />
facevano, tornarono in niente.<br />
trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno<br />
alla nuta occupato; della qual cosa contenti, per<br />
ciò che mezza la lor fatica era cessata, non contradicendolo<br />
alcuno nella camera di frate cipolla, la quale<br />
aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne
lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la<br />
penna; la quale aperta, trovarono in un gran viluppo<br />
di zen<strong>da</strong>do fasciata una piccola cassettina; la quale<br />
aperta, trovarono in essa una penna di quelle della<br />
co<strong>da</strong> d’un pappagallo, la quale avvisarono dovere<br />
esser quella che egli promessa avea di mostrare a’<br />
certaldesi.<br />
e certo egli il poteva a quei tempi leggiermente far<br />
credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze<br />
d’egitto, se non in piccola quantità, trapassate in<br />
toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento<br />
di tutta italia son trapassate: e dove che elle<br />
poco conosciute fossero, in quella contra<strong>da</strong> quasi in<br />
niente erano <strong>da</strong> gli abitanti sapute; anzi, durandovi<br />
ancora la rozza onestà degli antichi, non che veduti<br />
avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior parte<br />
mai uditi non gli avean ricor<strong>da</strong>re.<br />
contenti adunque i giovani d’aver la penna trovata,<br />
quella tolsero e, per non lasciare la cassetta vota, vedendo<br />
carboni in un canto della camera, di quegli la<br />
cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia<br />
come trovata avevano, senza essere stati veduti,<br />
lieti se ne vennero con la penna e cominciarono<br />
a aspettare quello che frate cipolla, in luogo della<br />
penna trovando carboni, dovesse dire.<br />
Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano,<br />
udendo che veder dovevano la penna dell’agnol<br />
Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono<br />
a casa; e dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare<br />
all’altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti uomini<br />
e tante femine concorsono nel castello, che appena<br />
vi capeano, con desiderio aspettando di veder<br />
questa penna.<br />
Frate cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto<br />
dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la<br />
moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere<br />
la penna vedere, mandò a Guccio imbratta che<br />
lassù con le campanelle venisse e recasse le sua bisacce.<br />
il quale, poi che con fatica <strong>da</strong>lla cucina e <strong>da</strong>lla<br />
nuta si fu divelto, con le cose addiman<strong>da</strong>te con fatica<br />
lassù n’andò: dove ansando giunto, per ciò che il<br />
ber dell’acqua gli avea molto fatto crescere il corpo,<br />
per coman<strong>da</strong>mento di frate cipolla an<strong>da</strong>tone in su la<br />
porta della chiesa, forte incominciò le campanelle a<br />
sonare.<br />
dove, poi che tutto il popolo fu ragunato, frate cipolla,<br />
senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse<br />
stata mossa, cominciò la sua predica, e in acconcio<br />
de’ fatti suoi disse molte parole; e dovendo venire al<br />
mostrar della penna dell’agnolo Gabriello, fatta prima<br />
con grande solennità la confessione, fece accender<br />
due torchi, e soavemente sviluppando il zen<strong>da</strong>do,<br />
avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta<br />
ne trasse. e dette primieramente alcune parolette<br />
a laude e a commen<strong>da</strong>zione dell’agnolo Gabriello e<br />
della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come<br />
piena di carboni vide, non sospicò che ciò che Guccio<br />
balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva<br />
<strong>da</strong> tanto, né il maladisse del male aver guar<strong>da</strong>to che<br />
altri ciò non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé,<br />
che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa,<br />
conoscendol, come faceva, negligente, disubidente,<br />
trascurato e smemorato. Ma non per tanto, senza mutar<br />
colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che<br />
<strong>da</strong> tutti fu udito:<br />
– o iddio, lo<strong>da</strong>ta sia sempre la tua potenzia!<br />
Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse:<br />
– Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io<br />
ancora molto giovane, io fui man<strong>da</strong>to <strong>da</strong>l mio superiore<br />
in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi<br />
commesso con espresso coman<strong>da</strong>mento che io cercassi<br />
tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana,<br />
li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto<br />
più utili sono a altrui che a noi.<br />
Per la qual cosa messom’io cammino, di Vinegia<br />
partendomi e an<strong>da</strong>ndomene per lo borgo de’ Greci<br />
e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e<br />
per bal<strong>da</strong>cca, pervenni in Parione, donde, non senza<br />
sete, dopo alquanto per venni in Sardigna. Ma perché<br />
vi vo io tutti i paesi cerchi <strong>da</strong> me divisando? io<br />
capitai, passato il braccio di San Giorgio, in truffia<br />
e in buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e<br />
di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti<br />
de’ nostri frati e d’altre religioni trovai assai, li quali<br />
tutti il disagio an<strong>da</strong>van per l’amor di dio schifando,<br />
poco dell’altrui fatiche curandosi, dove la loro utilità<br />
vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo<br />
che senza conio per quei paesi: e quindi passai in<br />
terra d’abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno<br />
in zoccoli su pe’monti, rivestendo i porci delle lor<br />
busecchie medesime; e poco più là trovai gente che<br />
portano il pan nelle mazze e ’l vin nelle sacca: <strong>da</strong>’<br />
quali alle montagne de’ bachi pervenni, dove tutte<br />
le acque corrono alla ’ngiù.<br />
e in brieve tanto an<strong>da</strong>i adentro, che io pervenni mei<br />
infino in india Pastinaca, là dove io vi giuro, per l’abito<br />
che io porto addosso che io vidi volare i pennati,<br />
cosa incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò<br />
non mi lasci mentire Maso del Saggio, il quale gran<br />
mercante io trovai là, che schiacciava noci e vendeva<br />
gusci a ritaglio.<br />
Ma non potendo quello che io an<strong>da</strong>va cercando trovare,<br />
perciò che <strong>da</strong> indi in là si va per acqua, indietro<br />
tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove<br />
l’anno di state vi vale il pan freddo quattro denari, e<br />
il caldo v’è per niente. e quivi trovai il venerabile padre<br />
messer nonmiblasmete Sevoipiace, degnissimo<br />
patriarca di Jerusalem. il quale, per reverenzia dell’abito<br />
che io ho sempre portato del baron messer<br />
santo antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie<br />
le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante<br />
che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei<br />
a capo in parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi<br />
sconsolate, ve ne dirò alquante.<br />
egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito<br />
Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto<br />
del serafino che apparve a san Francesco, e una dell’unghie<br />
de’ Gherubini, e una delle coste del Verbum<br />
caro fatti alle finestre, e de’ vestimenti della Santa Fé<br />
catolica, e alquanti de’ raggi della stella che apparve<br />
à tre Magi in oriente, e un ampolla del sudore di san<br />
Michele quando combatté col diavole, e la mascella<br />
della Morte di san Lazzaro e altre.<br />
e per ciò che io liberamente gli feci copia delle piag
ge di Monte Morello in volgare e d’alquanti capitoli<br />
del caprezio, li quali egli lungamente era an<strong>da</strong>ti cercando,<br />
mi fece egli partefice delle sue sante reliquie,<br />
e donommi uno de’ denti della santa croce, e in una<br />
ampolletta alquanto del suono delle campane del<br />
tempio di Salomone e la penna dell’agnol Gabriello,<br />
della quale già detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san<br />
Gherardo <strong>da</strong> Villamagna (il quale io, non ha molto,<br />
a Firenze donai a Gherardo di bonsi, il quale in lui<br />
ha grandissima divozione) e diedemi de’ carboni, co’<br />
quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le<br />
quali cose io tutte di qua con meco divotamente le<br />
recai, e holle tutte.<br />
e’ il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto che<br />
io l’abbia mostrate infino a tanto che certificato non<br />
s’è se desse sono o no; ma ora che per certi miracoli<br />
fatti <strong>da</strong> esse e per lettere ricevute <strong>da</strong>l Patriarca fatto<br />
n’è certo m’ha conceduta licenzia che io le mostri; ma<br />
io, temendo di fi<strong>da</strong>rle altrui, sempre le porto meco.<br />
Vera cosa è che io porto la penna dell’agnol Gabriello,<br />
acciò che non si guasti, in una cassetta e i carboni<br />
co’ quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra; le quali<br />
son sì simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi<br />
vien presa l’una per l’altra, e al presente m’è avvenuto;<br />
per ciò che, credendomi io qui avere arrecata<br />
la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella<br />
dove sono i carboni. il quale io non reputo che stato<br />
sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia<br />
stata di dio e che egli stesso la cassetta de’ carboni<br />
ponesse nelle mie mani, ricor<strong>da</strong>ndom’io pur testé<br />
che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì. e per<br />
ciò, volendo iddio che io, col mostrarvi i carboni co’<br />
quali esso fu arrostito, raccen<strong>da</strong> nelle vostre anime<br />
la divozione che in lui aver dovete, non la penna che<br />
io voleva, ma i benedetti carboni spenti <strong>da</strong>ll’omor<br />
di quel santissimo corpo mi fe’pigliare. e per ciò, figliuoli<br />
benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente<br />
v’appresserete a vedergli.<br />
Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque <strong>da</strong><br />
questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello<br />
anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non<br />
si senta.<br />
e poi che così detto ebbe, cantando una laude di<br />
san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni;<br />
li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe<br />
con ammirazione reverentemente guar<strong>da</strong>ti, con grandissima<br />
calca tutti s’appressarono a frate cipolla e,<br />
migliori offerte <strong>da</strong>ndo che usati non erano, che con<br />
essi gli dovesse toccare il pregava ciascuno.<br />
Per la qual cosa frate cipolla, recatisi questi carboni<br />
in mano, sopra li lor camisciotti bianchi e sopra<br />
i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare<br />
le maggior croci che vi capevano, affermando che<br />
tanto quanto essi scemavano a far quelle croci, poi<br />
ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte<br />
aveva provato.<br />
e in cotal guisa, non senza sua grandissima utilità<br />
avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento<br />
fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli<br />
la penna, avevan creduto schernire. Li<br />
quali stati alla sua predica e avendo udito il nuovo<br />
riparo preso <strong>da</strong> lui e quanto <strong>da</strong> lungi fatto si fosse<br />
e con che parole, avevan tanto riso che eran creduti<br />
smascellare. e poi che partito si fu il vulgo, a lui an<strong>da</strong>tisene,<br />
con la maggior festa del mondo ciò che fatto<br />
avevan gli discoprirono, e appresso gli renderono<br />
la sua penna; la quale l’anno seguente gli valse non<br />
meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni.<br />
Giornata nona – Novella decima<br />
Donno Gianni ad istanzia di compar Pietro fa lo ’ncantesimo per<br />
far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar<br />
la co<strong>da</strong>, compar Pietro, dicendo che non vi voleva co<strong>da</strong>, guasta<br />
tutto lo ’ncantamento.<br />
Questa novella <strong>da</strong>lla reina detta diede un poco <strong>da</strong><br />
mormorare alle donne e <strong>da</strong> ridere a’ giovani; ma poi<br />
che ristate furono, dioneo così cominciò a parlare.<br />
Leggiadre donne, infra molte bianche colombe aggiugne<br />
più di bellezza uno nero corvo, che non farebbe<br />
un candido cigno; e così tra molti savi alcuna<br />
volta un men savio è non solamente un accrescere<br />
splendore e bellezza alla lor maturità, ma ancora diletto<br />
e sollazzo.<br />
Per la qual cosa, essendo voi tutte discretissime e<br />
moderate, io, il qual sento anzi dello scemo che no,<br />
faccendo la vostra virtù più lucente col mio difetto,<br />
più vi debbo esser caro che se con più valore quella<br />
facessi divenir più oscura; e per conseguente più<br />
largo arbitrio debbo avere in dimostrarmi tal qual io<br />
sono, e più pazientemente dee <strong>da</strong> voi esser sostenuto<br />
che non dovrebbe se io più savio fossi, quel dicendo<br />
che io dirò. dirovvi adunque una novella non<br />
troppo lunga, nella quale comprenderete quanto diligentemente<br />
si convengano osservare le cose imposte<br />
<strong>da</strong> coloro che alcuna cosa per forza d’incantamento<br />
fanno, e quanto piccol fallo in quelle commesso<br />
ogni cosa guasti <strong>da</strong>llo incantator fatta.<br />
L’altr’anno fu a barletta un prete, chiamato donno<br />
Gianni di barolo, il qual, per ciò che povera chiesa<br />
avea, per sostentar la vita sua, con una cavalla cominciò<br />
a portar mercatantia in qua e in là per le fiere<br />
di Puglia e a comperare e a vendere. e così an<strong>da</strong>ndo,<br />
prese stretta dimestichezza con uno che si chiamava<br />
Pietro <strong>da</strong> tresanti, che quello medesimo mestiere<br />
con uno suo asino faceva, e in segno d’amorevolezza<br />
e d’amistà, alla guisa pugliese, nol chiamava se non<br />
compar Pietro; e quante volte in barletta arrivava,<br />
sempre alla chiesa sua nel menava, e quivi il teneva<br />
seco ad albergo, e come poteva l’onorava.<br />
compar Pietro d’altra parte, essendo poverissimo e<br />
avendo una piccola casetta in tresanti, appena bastevole<br />
a lui e ad una sua giovane e bella moglie e<br />
all’asino suo, quante volte donno Gianni in tresanti<br />
capitava tante sel menava a casa, e come poteva, in<br />
riconoscimento dell’onor che <strong>da</strong> lui in barletta riceveva,<br />
l’onorava. Ma pure, al fatto dello albergo, non<br />
avendo compar Pietro se non un piccol letticello, nel<br />
quale con la sua bella moglie dormiva, onorar nol poteva<br />
come voleva, ma conveniva che, essendo in una<br />
sua stalletta allato all’asino suo allogata la cavalla di<br />
donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanto di<br />
paglia si giacesse.
La donna, sappiendo l’onor che il prete al marito faceva<br />
a barletta, era più volte, quando il prete vi veniva,<br />
volutasene an<strong>da</strong>re a dormire con una sua vicina,<br />
che avea nome zita carapresa di Giudice Leo, acciò<br />
che il prete col marito dormisse nel letto, e avevalo<br />
molte volte al prete detto, ma egli non aveva mai voluto;<br />
e tra l’altre volte, una le disse:<br />
– comar Gemmata, non ti tribolar di me, ché io sto,<br />
bene, per ciò che quando mi piace io fo questa mia<br />
cavalla diventare una bella zitella e stommi con essa,<br />
e poi quando voglio la fo diventar cavalla, e perciò <strong>da</strong><br />
lei non mi partirei.<br />
La giovane si maravigliò e credettelo, e al marito il<br />
disse, aggiugnendo:<br />
– Se egli è così tuo come tu di’, ché non ti fai tu insegnare<br />
quello incantesimo, ché tu possa far cavalla<br />
di me e fare i fatti tuoi con l’asino e con la cavalla, e<br />
gua<strong>da</strong>gneremo due cotanti, e quando a casa fossimo<br />
tornati, mi potresti rifar femina come io sono.<br />
compar Pietro, che era anzi grossetto uom che no,<br />
credette questo fatto e accordossi al consiglio, e<br />
come meglio seppe, cominciò a sollicitar donno<br />
Gianni, che questa cosa gli dovesse insegnare. donno<br />
Gianni s’ingegnò assai di trarre costui di questa<br />
sciocchezza, ma pur non potendo, disse:<br />
– ecco, poi che voi pur volete, domattina ci leveremo,<br />
come noi sogliamo, anzi dì, e io vi mosterrò come<br />
si fa. e’ il vero che quello che più è malagevole in<br />
questa cosa si è l’appiccar la co<strong>da</strong>, come tu vedrai.<br />
compar Pietro e comar Gemmata, appena avendo<br />
la notte dormito (con tanto desidero questo fatto<br />
aspettavano), come vicino a dì fu, si levarono e chiamarono<br />
donno Gianni, il quale, in camicia levatosi,<br />
venne nella cameretta di compar Pietro e disse:<br />
– io non so al mondo persona a cui io questo facessi,<br />
se non a voi, e per ciò, poi che vi pur piace, io il farò;<br />
vero è che far vi conviene quello che io vi dirò, se voi<br />
volete che venga fatto.<br />
costoro dissero di far ciò che egli dicesse. Per che<br />
donno Gianni, preso un lume, il pose in mano a compar<br />
Pietro e dissegli:<br />
– Guata ben come io farò, e che tu tenghi bene a men<br />
te come io dirò, e guar<strong>da</strong>ti, quanto tu hai caro di non<br />
guastare ogni cosa, che per cosa che tu o<strong>da</strong> o veggia,<br />
tu non dica una parola sola; e priega iddio che la<br />
co<strong>da</strong> s’appicchi bene.<br />
compar Pietro, preso il lume, disse che ben lo farebbe.<br />
appresso donno Gianni fece spogliare ignu<strong>da</strong> nata<br />
comar Gemmata, e fecela stare con le mani e co’ pie<br />
di in terra, a guisa che stanno le cavalle, ammaestrandola<br />
similmente che di cosa che avvenisse motto non<br />
facesse; e con le mani cominciandole a toccare il viso<br />
e la testa, cominciò a dire: – Questa sia bella testa di<br />
cavalla –; e toccandole i capelli, disse: – Questi sieno<br />
belli crini di cavalla –; e poi toccandole le braccia,<br />
disse: – e queste sieno belle gambe e belli piedi di<br />
cavalla –; poi toccandole il petto e trovandolo sodo e<br />
tondo, risvegliandosi tale che non era chiamato e su<br />
levandosi, disse: – e questo sia bel petto di cavalla<br />
–; e così fece alla schiena e al ventre e alle groppe e<br />
alle coscie e alle gambe. e ultimamente, niuna cosa<br />
restandogli a fare se non la co<strong>da</strong>, levata la camicia e<br />
preso il piuolo col quale egli piantava gli uomini e<br />
prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse:<br />
– e questa sia bella co<strong>da</strong> di cavalla.<br />
compar Pietro, che attentamente infino allora aveva<br />
ogni cosa guar<strong>da</strong>ta, veggendo questa ultima e non<br />
parendonegli bene, disse:<br />
– o donno Gianni, io non vi voglio co<strong>da</strong>, io non vi<br />
voglio co<strong>da</strong>.<br />
era già l’umido radicale, per lo quale tutte le piante<br />
s’appiccano, venuto, quando donno Gianni tiratolo<br />
indietro, disse:<br />
– ohimè, compar Pietro, che hai tu fatto? non ti<br />
diss’io, che tu non facessi motto di cosa che tu vedessi?<br />
La cavalla era per esser fatta, ma tu favellando<br />
hai guasto ogni cosa, né più ci ha modo di poterla<br />
rifare oggimai.<br />
compar Pietro disse:<br />
– bene sta, io non vi voleva quella co<strong>da</strong> io. Perché<br />
non diciavate voi a me –<br />
Falla tu –? e anche l’appiccavate troppo bassa.<br />
disse donno Gianni:<br />
– Perché tu non l’avresti per la prima volta saputa<br />
appiccar sì com’io.<br />
La giovane, queste parole udendo, levatasi in piè, di<br />
buona fè disse al marito:<br />
– deh, bestia che tu se’, perché hai tu guasti li tuoi<br />
fatti e’miei? Qual cavalla vedestu mai senza co<strong>da</strong>? Se<br />
m’aiuti iddio, tu se’povero, ma egli sarebbe ragione<br />
che tu fossi molto più.<br />
non avendo adunque più modo a dover fare della<br />
giovane cavalla, per le parole che dette avea compar<br />
Pietro, ella dolente e malinconosa si rivestì, e compar<br />
Pietro con uno asino, come usato era, attese a<br />
fare il suo mestiere antico, e con donno Gianni insieme<br />
n’andò alla fiera di bitonto, né mai più di tal<br />
servigio il richiese.
L’UManeSiMo<br />
L’Umanesimo – manterremo il termine per quel movimento d’idee che nato nel<br />
xiv giunge sino alla fine del xv secolo – nelle sue due componenti, l’Umanesimo<br />
latino e quello volgare, ap<strong>prof</strong>ondì i due momenti che abbiamo visto caratterizzare<br />
la teoria della comunicazione precedente. L’imitazione dei classici, su cui aveva<br />
insistito Petrarca, con quel che comportava in fatto di pubblico, venne ripresa ed<br />
ap<strong>prof</strong>ondita, sia nei termini contenutistici sia in quelli formali e produsse nuove<br />
vie di sintesi che giungono all’affermazione di Giorgio <strong>da</strong> trebison<strong>da</strong> secondo<br />
la quale l’uomo non sarebbe in grado di produrre il bene senza la mediazione<br />
della parola: « La ragione non produce alcun bene se non s’incarna nel discorso »<br />
(Rhetoricorum libri duo). La comunicazione letteraria non solo è manifestazione della<br />
virtù interiore dello scrivente, il secondo dei punti di riferimento dell’epoca precedente,<br />
ma diviene garante dell’onestà dei contenuti. La coraggiosa presa di distanze<br />
<strong>da</strong> cicerone di coluccio Salutati che diffi<strong>da</strong> di una tecnica di persuasione che<br />
finisca con l’identificarsi con la commozione della passioni e, conseguentemente,<br />
con l’oscuramento del retto giudizio, valeva non solo ad allontanare <strong>da</strong>lla poesia<br />
l’accusa di falsità ed <strong>da</strong>i poeti quella di disonesti (« poeta virum optimum esse<br />
debere », De laboribus Herculis); valeva a riaffermare l’identità di ragione e discorso,<br />
di contenuti filosofici scientifici etici e comunicazione letteraria in funzione della<br />
creazione di una società basata essa sulla virtù. naturalmente, commozione e<br />
persuasione restano nel discorso salutatiano: esse costituiscono il feed-back che<br />
l’opera letteraria deve avere, ma sono commozione e persuasione della fantasia<br />
che è l’anticamera della conoscenza razionale.<br />
Per questa via si giungeva alla dimensione civile dell’Umanesimo. infatti in<br />
quella sintesi di ratio (si legga anche phantasia) ed oratio si perdevano, valori e funzioni<br />
d’autoreferenzialità largamente presenti, ad esempio in Francesco Petrarca.<br />
La fabula non è più, com’era in boccaccio, gioiosa invenzione, ma strumento,<br />
anche privilegiato della comunicazione letteraria. Fabula che dev’essere il più<br />
trasparente possibile per essere civilmente efficace. talora non lo è (o non lo<br />
stata) ed allora occorre uno sforzo ermeneutico del lettore che con la sua risposta<br />
dà la misura dell’efficacia della comunicazione. non è un caso che un Giovanni<br />
dominici, nella Lucula noctis, torni, contro il Salutati, alle accuse di oscurità della<br />
letteratura e di falsità della favole a petto della semplicità e verità evangelica.<br />
Significava riaffermare la superiorità della comunicazione evangelica e della<br />
cultura ecclesiastica e l’inefficacia di quell’« harmonia metrica » che proponeva<br />
insieme un modello culturale e intellettuali laici.<br />
tanto più che la direzione civile dell’intero movimento sembrava aprire le<br />
porte ad un pubblico più vasto. La fabula, poiché nasce <strong>da</strong>lla ed è destinata alla<br />
fantasia, infatti è capace di suscitare anche il consenso più immediato dilettevole,<br />
diremmo, ma non limitato al solo diletto, di un pubblico meno colto. oltre,<br />
naturalmente, a quello del pubblico dotto che nella favola coglierà anche i valori<br />
filosofici, scientifici, etici che vi sono contenuti. È chiaro che tale apertura, per<br />
così dire, democratica, risponde alla situazione sociale degli stati italiani ed in<br />
particolare della repubblica prima e poi della Signoria fiorentina: qui il potere<br />
era nelle mani dei banchieri e degli imprenditori e commercianti tessili che aveva
espresso chiaramente le proprie scelte culturali con il successo straordinario<br />
decretato al Decameron e che si allargherà sempre più nel secolo successivo<br />
quando il successo dei poemi cavallereschi genererà una vasta produzione di<br />
letteratura popolare. Per il momento conta l’apertura, forse per la prima volta così<br />
decisa e così disponibile, di <strong>Leonardo</strong> bruni ad un pubblico capace di fruire solo<br />
in parte della comunicazione letteraria: le « belle cose, con gentilezza di rima<br />
esplicate, prendono la mente di ciascuno che legge, e molto più di quelli che più<br />
intendono » (Vita di Dante). La scrittura letteraria si disponeva così a una duplicità<br />
di livelli di lettura senza che questo costituisca un limite per l’autore che parla<br />
così a quel volgo per il quale Petrarca aveva nutrito diffidenza, se non l’odio di<br />
oraziana memoria.<br />
il progetto bruniano che comprende la possibilità che la naturale propensione<br />
alla bellezza si affinasse attraverso le letture e, per converso, che il progressivo<br />
affinamento culturale portasse ad una maggiore comprensione delle letture<br />
implicava il superamento definitivo dell’imitazione petrarchesca il nome di una<br />
comunicazione letteraria personale e personalizzata, che si modulava secondo<br />
le esigenze e la sensibilità dell’autore e non <strong>da</strong> un insieme di regole fissate una<br />
volta per sempre. come avverrà con Pietro bembo, che sembrerà voler ristabilire<br />
il primato dell’accademia e di una élite culturale contro le forze centrifughe<br />
popolari o popolareggianti. nella prima parte del xv secolo il liberismo letterario<br />
di bruni trova conferma in Lorenzo Valla il quale accentua il valore civile della<br />
comunicazione letteraria sì <strong>da</strong> farne il luogo in cui si concretizza l’humanitas.<br />
L’humanitas di Valla è nozione politica: la lingua degli scrittori pone in atto,<br />
realizza, il bisogno dell’uomo e la tensione al bello: come per l’alighieri la lingua<br />
era il luogo in cui s’era depositato tutto il sapere dell’uomo, in cui cioè l’intelletto<br />
possibile era divenuto in atto epperciò costituiva l’essenza stessa della monarchia<br />
universale, così nella comunicazione letteraria si realizzava e diventava in qualche<br />
modo tangibile l’armonia del vivere sociale che è osmosi di etica e di estetica.<br />
in fondo le tesi di Valla sono la traduzione in prosa del mito di orfeo che, in e<br />
sotto la tutela politicoculturale di Lorenzo il Magnifico, trova larghe attestazioni<br />
in coluccio Salutati, in <strong>Leonardo</strong> bruni, in cristoforo Landino, in Marsilio Ficino,<br />
fon<strong>da</strong>tore del platonismo fiorentino, in agnolo Poliziano e, naturalmente, in<br />
Lorenzo. il mito si compaginava con la teoria del Fedro platonico secondo la quale<br />
il poeta scrive invasato <strong>da</strong> un furor, grazie al quale egli contempla e dice l’ideale.<br />
La più famosa delle attestazioni del mito è quella della polizianesca Favola d’Orfeo<br />
che si fa carico del tema della capacità persuasoria della poesia, se il canto di orfeo<br />
piega le leggi dell’inferno e desta la commozione della stessa Morte: Proserpina<br />
a Plutone:<br />
i’ non credetti, o dolce mie consorte,<br />
che Pietà mai veisse in questo regno:<br />
hor la veggio regnare in nostra corte<br />
et io sento di lei tutto ’l cor pregno;<br />
né solo i tormentati, ma la Morte<br />
veggio che piange del suo caso indegno:<br />
dunque tua dura legge a lui pieghi,<br />
pel canto, pell’amor, pe’ giusti prieghi. [vv. 289296]
Ma il platonismo fiorentino ebbe più complessi ed organici atteggiamenti che<br />
coniugavano amore per il bello, sapere filosofico, funzione civile e civilizzatrice.<br />
Punto di riferimento potrebbe essere il Comento de’ miei sonetti di Lorenzo nel quale<br />
il modello formale di Petrarca si trova integrato con la « grave sostanza » di <strong>da</strong>nte:<br />
« Quella che è vera laude della lingua è l’essere copiosa e abon<strong>da</strong>nte ed atta ad<br />
esprimere bene il senso e il concetto della mente. e però si giudica la lingua greca<br />
più perfetta che la latina e la latina più che l’ebrea, perché l’una più che l’altra<br />
meglio esprime la mente di chi ha o detto o scritto alcuna cosa. L’altra condizione<br />
che più degnifica la lingua è la dolcezza ed armonia che risulta più d’una che<br />
di un’altra; e, benché l’armonia sia cosa naturale e proporzionata con l’armonia<br />
dell’anima e del corpo nostro » (Comento de’ miei sonetti).<br />
naturalmente non è possibile tracciare neppure un quadro di quello<br />
straodinariamente articolato movimento che fu l’Umanesimo, all’interno del quale<br />
va annotata la proliferazione di manuali di grammatica e retorica che sollecitò lo<br />
stabilizzarsi di una mo<strong>da</strong>lità aulica della comunicazione letteraria, divenuta sempre<br />
più fine a se stessa e vuota. Pico della Mirandola denunciava lo scollamento tra<br />
forme e contenuti e rimproverava ad ermolao barbaro la traduzione d’aristotele in<br />
latino ciceroniano. a livello europeo, di lì a qualche tempo, erasmo <strong>da</strong> rotter<strong>da</strong>m<br />
poneva il medesimo problema nel De ratione studii: la vera eloquenza era quella che<br />
compaginava la bella forma e la saggezza. Lo sviluppo della retorica riguar<strong>da</strong>va in<br />
modo particolare il latino: la sua progressiva sterilizzazione si affiancava al bisogno<br />
di allargamento del pubblico della cultura. era evidente che allo scopo era di gran<br />
lunga più efficace il volgare le cui possibilità comunicative non necessitavano di<br />
prove: il problema era, e lo era sin <strong>da</strong>i tempi del De vulgari eloquentia, quello della<br />
capacità del volgare di diventare strumento della cultura e dell’arte. Su questo<br />
piano un posto di grande rilevanza è occupato <strong>da</strong> Leon battista alberti che fu<br />
quello che con più fortemente insisté sulla natura comunicativa del linguaggio <strong>da</strong><br />
cui conseguiva, se non il primato, l’efficacia del volgare:<br />
… e prudenti mi loderanno s’io, scrivendo in modo che ciascuno m’inten<strong>da</strong>, prima cerco giovare<br />
a molti che piacere a pochi: ché sai quanto siano pochissimi a questi dì e letterati; […] e se io non<br />
fuggo essere come inteso cosí giudicato <strong>da</strong> tutti e’ nostri cittadini, piaccia quando che sia a chi mi<br />
biasima o deponer l’invidia o pigliar più utile materia in qual sé demonstrino eloquenti. Usino<br />
quando che sia la perizia sua in altro che in vituperare chi non marcisce in ozio. io non aspetto<br />
d’essere commen<strong>da</strong>to se non della volontà qual me muove a quanto in me sia ingegno, opera e<br />
industria porgermi utile a’ nostri alberti; e parmi più utile cosí scrivendo essercitarmi, che tacendo<br />
fuggire el giudicio de’ detrattori » (I libri della famiglia).<br />
abbiamo largheggiato nella citazione perché alberti fa confluire nella<br />
comunicazione letteraria, volgare, anche una sorta di imperativo interiore a<br />
rendersi utile agli altri, e agli alberti in specie, scrive: sì che la tensione civile<br />
dell’Umanesimo fiorentino si poneva come premessa della scelta dello strumento<br />
della comunicazione, oltre che come fine di un esercizio letterario che non riusciva<br />
a superare i limiti dell’élite. basti solo un cenno ad agnolo Poliziano e a Lorenzo<br />
il Magnifico che affermano la letterarietà del volgare in termini che risalgono al<br />
Convivio <strong>da</strong>ntesco, ripetuto tanto pedissequamente quanto orgogliosamente nel<br />
citato Comento <strong>da</strong> Lorenzo.
LUiGi PULci<br />
il culto del latino nell’umanesimo mirò alla restaurazione della latinità,<br />
ed il ciceronianesimo fu il segno della lotta contro l’età barbara che operò<br />
<strong>prof</strong>on<strong>da</strong>mente nella creazione del nuovo gusto. La cultura umanistica si propose<br />
di superare la rozzezza linguistica del medioevo volgare. il Petrarca venne<br />
considerato il restauratore della eloquenza. tale restaurazione della sensibilità<br />
classica è l’aspetto più evidente del distacco <strong>da</strong>l Medioevo. infatti <strong>da</strong>l punto<br />
di vista dei contenuti e dell’ideologia tra il Medioevo e il rinascimento non si<br />
avverte alcuna frattura fra rinascita sviluppatasi dopo il Mille e ciò che continua<br />
nei secoli XV e XVi. La differenza sta tutta fra gusto gotico e gusto classico, che il<br />
Petrarca e certo boccaccio instaurano.<br />
La lingua mostra lo stesso distacco fra il latino scolastico, gotico e il latino<br />
umanistico. Quando, alla fine del Quattrocento la letteratura in volgare rifiorisce, gli<br />
è perché in questo sono trasferite le caratteristiche morfosintattiche e stilistiche<br />
del latino: attraverso il latino si forma la nuova lingua italiana unitaria. L’italiano<br />
deve farsi in certo qual modo latino per acquistare la sua vera natura di lingua<br />
razionale, totalmente definita nella sua morfologia e nei suoi suoni.<br />
Per tutto il Quattrocento, tuttavia, l’uso del latino segnò una grave crisi del<br />
volgare e della letteratura in generale. Gli umanisti non fecero o non seppero<br />
incidere nella coscienza coscienza popolare, anzi ap<strong>prof</strong>ondirono il distacco<br />
tra cultura e nazione, tra cultura e realtà storica. divenne, se non naturale,<br />
connaturato alla cultura della penisola la nozione che la letteratura la filosofia<br />
l’arte fossero al di sopra degli eventi storici e della fatica del vivere. e, salvo<br />
rari casi, che l’intellettuale dipendesse <strong>da</strong>i gruppi egemoni quali che fossero.<br />
<strong>da</strong>nte aveva scritto per tutti gli uomini in volgare, mantenendosi indipendente<br />
<strong>da</strong>l potere politico vuoi papale vuoi imperiale, scrivendo contro l’uno e l’altro<br />
potere, a vantaggio dell’umanità. con Petrarca si istaura il distacco <strong>da</strong>lla politica<br />
(né bastano le pochissime rime dedicate all’argomento per attestare il contrario);<br />
con l’umanesimo gruppo (e classe) egemone e gruppo colto coincidono quando<br />
non si identificano e la cultura diviene strumento di pompa, ornamento della<br />
politica, al servizio della politica.<br />
La letteratura volgare che si fermò alla ripetizione dei temi, dei generi<br />
tradizionali le laudi, le ballate, gli strambotti. La lingua volgare, priva del continuo<br />
sforzo di affinamento, di regolarizzazione <strong>da</strong> parte degli elementi più dotati di<br />
cultura e di esperienza letteraria, restò affi<strong>da</strong>ta alla improvvisazione popolare,<br />
alla corruzione quotidiana.<br />
con il certame coronano e con la propria opera personale L. b. alberti cercò di<br />
riabilitare il volgare e di portarlo a nuova norma. Ma il tentativo fallì: mancò una<br />
una vera sintesi dei due usi linguistici.<br />
il Pulci ebbe mentalità avversa all’ideologia umanistica, nella sua opera letteraria<br />
si rifece alla materia popolare e al volgare. il Morgante pur con le sproporzioni<br />
derivanti <strong>da</strong> un disegno che si allargò molto al di là del piano iniziale, si giovò<br />
di un’assai vivace forza di comicità e di una notevole bravura psicologica. La<br />
presentazione della ribalderia di Margutte, l’irrisione popolare della religione
erano fatte con notevole efficacia. La scrittura fu sciolta, non priva di esperienza<br />
letteraria, di reminiscenze <strong>da</strong>ntesche, di scaltrite movenze. Ma mancarono, in<br />
genere, all’autore l’ambizione e il senso dell’arte, la <strong>prof</strong>ondità dell’intuizione,<br />
il vigore della costruzione. Quella del Pulci fu come una ripresa del dialetto<br />
in opposizione al latino. non poté bastare a vincere la battaglia per il volgare.<br />
Mancò, nel Quattrocento, uno sforzo di innalzamento della letteratura volgare.<br />
belcari restò allo stesso livello.<br />
MorGante<br />
cantare deciMottaVo<br />
110. carlo in Parigi nella sua tornata<br />
Meredïana volse riman<strong>da</strong>re<br />
a carador, che l’ha tanto aspettata;<br />
e lei più in Francia non volea già stare,<br />
<strong>da</strong> poi ch’Ulivier suo l’avea lasciata.<br />
Morgante volle questa accompagnare,<br />
e finalmente, dopo alcun dimoro,<br />
rappresentolla al gran re caradoro.<br />
111. e pochi giorni con lei dimoròe,<br />
perché e’ voleva an<strong>da</strong>r verso Soria,<br />
dove era orlando, e licenzia pigliòe<br />
e sol soletto si misse per via;<br />
Meredïana al partir lo pregòe<br />
che l’avvisassi d’Ulivier che sia,<br />
e ritornassi qualche volta a quella,<br />
che rimanea scontenta e meschinella.<br />
112. Giunto Morgante un dì in su ’n un crocicchio,<br />
uscito d’una valle in un gran bosco,<br />
vide venir di lungi, per ispicchio,<br />
un uom che in volto parea tutto fosco.<br />
dètte del capo del battaglio un picchio<br />
in terra, e disse: “costui non conosco”;<br />
e posesi a sedere in su ’n un sasso,<br />
tanto che questo capitòe al passo.<br />
113. Morgante guata le sue membra tutte<br />
più e più volte <strong>da</strong>l capo alle piante,<br />
che gli pareano strane, orride e brutte:<br />
dimmi il tuo nome, dicea vïan<strong>da</strong>nte. <br />
colui rispose: il mio nome è Margutte;<br />
ed ebbi voglia anco io d’esser gigante,<br />
poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto:<br />
vedi che sette braccia sono appunto. <br />
11 . disse Morgante: tu sia il ben venuto:<br />
ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato,<br />
che <strong>da</strong> due giorni in qua non ho beuto;<br />
e se con meco sarai accompagnato,<br />
io ti farò a camin quel che è dovuto.<br />
dimmi più oltre: io non t’ho doman<strong>da</strong>to<br />
se se’ cristiano o se se’ saracino,<br />
o se tu credi in cristo o in apollino. <br />
115. rispose allor Margutte: a dirtel tosto,<br />
io non credo più al nero ch’a l’azzurro,<br />
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;<br />
e credo alcuna volta anco nel burro,<br />
nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,<br />
e molto più nell’aspro che il mangurro;<br />
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,<br />
e credo che sia salvo chi gli crede;<br />
116. e credo nella torta e nel tortello:<br />
l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;<br />
e ’l vero paternostro è il fegatello,<br />
e posson esser tre, due ed un solo,<br />
e diriva <strong>da</strong>l fegato almen quello.<br />
e perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo,<br />
se Macometto il mosto vieta e biasima,<br />
credo che sia il sogno o la fantasima;<br />
117. ed apollin debbe essere il farnetico,<br />
e trivigante forse la tregen<strong>da</strong>.<br />
La fede è fatta come fa il solletico:<br />
per discrezion mi credo che tu inten<strong>da</strong>.<br />
or tu potresti dir ch’io fussi eretico:<br />
acciò che invan parola non ci spen<strong>da</strong>,<br />
vedrai che la mia schiatta non traligna<br />
e ch’io non son terren <strong>da</strong> porvi vigna.<br />
118. Questa fede è come l’uom se l’arreca.<br />
Vuoi tu veder che fede sia la mia?,<br />
che nato son d’una monaca greca<br />
e d’un papasso in bursia, là in turchia.<br />
e nel principio sonar la ribeca<br />
mi dilettai, perch’avea fantasia<br />
cantar di troia e d’ettore e d’achille,<br />
non una volta già, ma mille e mille.<br />
119. Poi che m’increbbe il sonar la chitarra,<br />
io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso.<br />
Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra,<br />
e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso,<br />
mi posi allato questa scimitarra<br />
e cominciai pel mondo an<strong>da</strong>re a spasso;<br />
e per compagni ne menai con meco<br />
tutti i peccati o di turco o di greco;<br />
120. anzi quanti ne son giù nello inferno:<br />
io n’ho settanta e sette de’ mortali,<br />
che non mi lascian mai lo state o ’l verno;<br />
pensa quanti io n’ho poi de’ venïali!<br />
non credo, se durassi il mondo etterno,<br />
si potessi commetter tanti mali<br />
quanti ho commessi io solo alla mia vita;<br />
ed ho per alfabeto ogni partita.
121. non ti rincresca l’ascoltarmi un poco:<br />
tu udirai per ordine la trama.<br />
Mentre ch’io ho <strong>da</strong>nar, s’io sono a giuoco,<br />
rispondo come amico a chiunque chiama;<br />
e giuoco d’ogni tempo e in ogni loco,<br />
tanto che al tutto e la roba e la fama<br />
io m’ho giucato, e’ pel già della barba:<br />
guar<strong>da</strong> se questo pel primo ti garba.<br />
122. non doman<strong>da</strong>r quel ch’io so far d’un <strong>da</strong>do,<br />
o fiamma o traversin, testa o gattuccia,<br />
e lo spuntone, e va’ per parentado,<br />
ché tutti siàn d’un pelo e d’una buccia.<br />
e forse al camuffar ne incaco o bado<br />
o non so far la berta o la bertuccia,<br />
o in furba o in calca o in bestrica mi lodo?<br />
io so di questo ogni malizia e frodo.<br />
123. La gola ne vien poi drieto a questa arte.<br />
Qui si conviene aver gran discrezione,<br />
saper tutti i segreti, a quante carte,<br />
del fagian, della stama e del cappone,<br />
di tutte le vivande a parte a parte<br />
dove si truovi morvido il boccone;<br />
e non ti fallirei di ciò parola,<br />
come tener si debba unta la gola.<br />
12 . S’io ti dicessi in che modo io pillotto,<br />
o tu vedessi com’io fo col braccio,<br />
tu mi diresti certo ch’io sia ghiotto;<br />
o quante parte aver vuole un migliaccio,<br />
che non vuole essere arso, ma ben cotto,<br />
non molto caldo e non anco di ghiaccio,<br />
anzi in quel mezzo, ed unto ma non grasso<br />
(pàrti ch’i’ ’l sappi?), e non troppo alto o basso.<br />
125. del fegatello non ti dico niente:<br />
vuol cinque parte, fa’ ch’a la man tenga:<br />
vuole esser tondo, nota sanamente,<br />
acciò che ’l fuoco equal per tutto venga,<br />
e perché non ne caggia, tieni a mente,<br />
la gocciola che morvido il mantenga:<br />
dunque in due parte dividiàn la prima,<br />
ché l’una e l’altra si vuol farne stima.<br />
126. Piccolo sia, questo è proverbio antico,<br />
e fa’ che non sia povero di panni,<br />
però che questo importa ch’io ti dico;<br />
non molto cotto, guar<strong>da</strong> non t’inganni!<br />
ché così verdemezzo, come un fico<br />
par che si strugga quando tu l’assanni;<br />
fa’ che sia caldo; e puoi sonar le nacchere,<br />
poi spezie e melarance e l’altre zacchere.<br />
127. io ti <strong>da</strong>rei qui cento colpi netti;<br />
ma le cose sottil, vo’ che tu cre<strong>da</strong>,<br />
consiston nelle torte e ne’ tocchetti:<br />
e’ ti fare’ paura una lampre<strong>da</strong>,<br />
in quanti modi si fanno i guazzetti;<br />
e pur chi l’ode poi convien che ce<strong>da</strong>:<br />
perché la gola ha settantadue punti,<br />
sanza molti altri poi ch’io ve n’ho aggiunti.<br />
128. Un che ne manchi, è guasta la cucina:<br />
non vi potrebbe il ciel poi rimediare.<br />
Quanti segreti insino a domattina<br />
ti potrei di questa arte rivelare!<br />
io fui ostiere alcun tempo in egina,<br />
e volli queste cose disputare.<br />
or lasciàn questo, e d’udir non t’incresca<br />
un’altra mia virtù cardinalesca.<br />
129. ciò ch’io ti dico non va insino all’effe:<br />
pensa quand’io sarò condotto al rue!<br />
Sappi ch’io aro, e non dico <strong>da</strong> beffe,<br />
col cammello e coll’asino e col bue;<br />
e mille capannucci e mille gueffe<br />
ho meritato già per questo o piùe;<br />
dove il capo non va, metto la co<strong>da</strong>,<br />
e quel che più mi piace è ch’ognun l’o<strong>da</strong>.<br />
130. Mettimi in ballo, mettimi in convito,<br />
ch’io fo il dover co’ piedi e colle mani;<br />
io son prosuntüoso, impronto, ardito,<br />
non guardo più i parenti che gli strani:<br />
della vergogna, io n’ho preso partito,<br />
e torno, chi mi caccia, come i cani;<br />
e dico ciò ch’io fo per ognun sette,<br />
e poi v’aggiungo mille novellette.<br />
131. S’io ho tenute dell’oche in pastura<br />
non doman<strong>da</strong>r, ch’io non te lo direi:<br />
s’io ti dicessi mille alla ventura,<br />
di poche credo ch’io ti fallirei;<br />
s’io uso a munister per isciagura,<br />
s’elle son cinque, io ne traggo fuor sei:<br />
ch’io le fo in modo diventar galante<br />
che non vi campa servigial né fante.<br />
132. or queste son tre virtù cardinale,<br />
la gola e ’l culo e ’l <strong>da</strong>do, ch’io t’ho detto;<br />
odi la quarta, ch’è la principale,<br />
acciò che ben si sgoccioli il barletto:<br />
non vi bisogna uncin né porre scale<br />
dove con mano aggiungo, ti prometto;<br />
e mitere <strong>da</strong> papi ho già portate,<br />
col segno in testa, e drieto le granate.<br />
133. e trapani e paletti e lime sorde<br />
e succhi d’ogni fatta e grimaldelli<br />
e scale o vuoi di legno o vuoi di corde,<br />
e levane e calcetti di feltrelli<br />
che fanno, quand’io vo, ch’ognuno assorde,<br />
lavoro di mia man puliti e belli;<br />
e fuoco che per sé lume non rende,<br />
ma con lo sputo a mia posta s’accende.<br />
13 . S’ tu mi vedessi in una chiesa solo,<br />
io son più vago di spogliar gli altari<br />
che ’l messo di contado del paiuolo;<br />
poi corro alla cassetta de’ <strong>da</strong>nari;<br />
ma sempre in sagrestia fo il primo volo,<br />
e se v’è croce o calici, io gli ho cari,<br />
e’ crucifissi scuopro tutti quanti,
poi vo spogliando le nunziate e’ santi.<br />
135. io ho scopato già forse un pollaio;<br />
s’ tu mi vedessi stendere un bucato,<br />
diresti che non è donna o massaio<br />
che l’abbi così presto rassettato:<br />
s’io dovessi spiccar, Morgante, il maio,<br />
io rubo sempre dove io sono usato;<br />
ch’io non istò a guar<strong>da</strong>r più tuo che mio,<br />
perch’ogni cosa al principio è di dio.<br />
136. Ma innanzi ch’io rubassi di nascoso,<br />
io fui prima alle strade malandrino:<br />
arei spogliato un santo il più famoso,<br />
se santi son nel ciel, per un quattrino;<br />
ma per istarmi in pace e in più riposo,<br />
non volli poi più essere assassino;<br />
non che la voglia non vi fussi pronta,<br />
ma perché il furto spesso vi si sconta.<br />
137. Le virtù teologiche ci resta.<br />
S’io so falsare un libro, iddio tel dica:<br />
d’uno iccase farotti un fio, ch’a sesta<br />
non si farebbe più bello a fatica;<br />
e traggone ogni carta, e poi con questa<br />
raccordo l’alfabeto e la rubrica,<br />
e scambiere’ti, e non vedresti come,<br />
il titol, la coverta e ’l segno e ’l nome.<br />
138. i sacramenti falsi e gli spergiuri<br />
mi sdrucciolan giù proprio per la bocca<br />
come i fichi sampier, que’ ben maturi,<br />
o le lasagne, o qualche cosa sciocca;<br />
né vo’ che tu credessi ch’io mi curi<br />
contro a questo o colui: zara a chi tocca!<br />
ed ho commesso già scompiglio e scandolo,<br />
che mai non s’è poi ravvïato il bandolo.<br />
139. Sempre le brighe compero a contanti.<br />
bestemmiator, non vi fo ignun divario<br />
di bestemmiar più uomini che santi,<br />
e tutti appunto gli ho in sul calen<strong>da</strong>rio.<br />
delle bugie nessun non se ne vanti,<br />
ché ciò ch’io dico fia sempre il contrario.<br />
Vorrei veder più fuoco ch’acqua o terra,<br />
e ’l mondo e ’l cielo in peste e ’n fame e ’n guerra.<br />
1 0. e carità, limosina o digiuno,<br />
orazïon non creder ch’io ne faccia.<br />
Per non parer provàno, chieggo a ognuno,<br />
e sempre dico cosa che dispiaccia;<br />
superbo, invidïoso ed importuno:<br />
questo si scrisse nella prima faccia;<br />
ché i peccati mortal meco eran tutti<br />
e gli altri vizi scelerati e brutti.<br />
1 1. tanto è ch’io posso an<strong>da</strong>r per tutto ’l mondo<br />
col cappello in su gli occhi, com’io voglio;<br />
com’una schianceria son netto e mondo;<br />
dovunque i’ vo, lasciarvi il segno soglio<br />
come fa la lumaca, e nol nascondo;<br />
e muto fede e legge, amici e scoglio<br />
di terra in terra, com’io veggo o truovo,<br />
però ch’io fu’ cattivo insin nell’uovo.<br />
1 2. io t’ho lasciato indrieto un gran capitolo<br />
di mille altri peccati in guazzabuglio;<br />
ché s’i’ volessi leggerti ogni titolo,<br />
e’ ti parrebbe troppo gran mescuglio;<br />
e cominciando a sciòrre ora il gomitolo,<br />
ci sarebbe faccen<strong>da</strong> insino a luglio;<br />
salvo che questo alla fine udirai:<br />
che tradimento ignun non feci mai. <br />
1 3. Morgante alle parole è stato attento<br />
un’ora o più, che mai non mosse il volto;<br />
rispose e disse: in fuor che tradimento,<br />
per quel ch’io ho, Margutte mio, raccolto,<br />
non vidi uom mai più tristo a compimento;<br />
e di’ che ’l sacco non hai tutto sciolto:<br />
non crederrei con ogni sua misura<br />
ti rifacessi a punto più natura,<br />
1 . né tanto accomo<strong>da</strong>to al voler mio:<br />
noi staren bene insieme in un guinzaglio.<br />
di tradimento guàr<strong>da</strong>ti, perch’io<br />
vo’ che tu cre<strong>da</strong> in questo mio battaglio,<br />
<strong>da</strong> poi che tu non credi in cielo a dio;<br />
ch’io so domar le bestie nel travaglio.<br />
del resto, come vuoi te ne governa:<br />
co’ santi in chiesa e co’ ghiotti in taverna.<br />
1 5. io vo’ con meco ne venga, Margutte,<br />
e che di compagnia sempre viviamo.<br />
io so per ogni parte le vie tutte.<br />
Vero che pochi <strong>da</strong>nar ne portiamo;<br />
ma mio costume all’oste è <strong>da</strong>r le frutte<br />
sempre al partir, quando il conto facciamo;<br />
e ’nsino a qui sempre all’oste, ov’io fusse,<br />
io gli ho pagato lo scotto di busse. <br />
1 6. disse Margutte: tu mi piaci troppo;<br />
ma resti tu contento a questo solo?<br />
io rubo sempre ciò ch’io do d’intoppo,<br />
s’io ne dovessi portare un orciuolo;<br />
poi al partir son mutol, ma non zoppo.<br />
Se tu dovessi tòrre un fusaiuolo,<br />
dove tu vai, to’ sempre qualche cosa;<br />
ch’io tirerei l’aiuolo a una chiosa.<br />
1 7. io ho cercato diversi paesi,<br />
io ho solcata tutta la marina,<br />
ed ho sempre rubato ciò ch’io spesi.<br />
dunque, Morgante, a tua posta camina. <br />
così dètton di piglio a’ loro arnesi;<br />
Morgante pel battaglio suo si china<br />
e col compagno suo lieto ne gìa,<br />
e dirizzossi an<strong>da</strong>r verso Soria.<br />
1 8. Margutte aveva una schiavina indosso<br />
ed un cappello a spicchi alla turchesca,<br />
salvo ch’egli era fatto d’un certo osso<br />
che gli spicchi eran d’altro che di pèsca,<br />
ed era molto grave e molto grosso,
tanto che par che spesso gli rincresca;<br />
un paio di stivaletti avea in piè gialli,<br />
ferrato e con gli spron come hanno i galli.<br />
1 9. dicea Morgante quando gli vedea:<br />
Saresti tu di schiatta di galletto?<br />
tu hai gli spron di drieto! e sorridea.<br />
disse Margutte: Questo è per rispetto,<br />
ché spesso alcun, che non se n’accorgea,<br />
se ne trovò ingannato, ti prometto:<br />
campati ho già con questi molti casi,<br />
e molti a questa pania son rimasi. <br />
150. Vannosi insieme ragionando il giorno;<br />
la sera capitorno a un ostiere,<br />
e come e’ giunson, costui domandorno:<br />
aresti tu <strong>da</strong> mangiare e <strong>da</strong> bere?<br />
e pàgati in su l’asse o vuoi nel forno. <br />
L’oste rispose: e’ ci fia <strong>da</strong> godere:<br />
e’ ci è avanzato un grosso e bel cappone. <br />
disse Margutte: e’ non fia un boccone.<br />
151. Qui si conviene avere altre vivande:<br />
noi siamo usati di far buona cera.<br />
non vedi tu costui com’egli è grande?<br />
cotesta è una pillola di gera. <br />
rispose l’oste: Mangi delle ghiande.<br />
che vuoi tu ch’io provvegga, or ch’egli è sera? <br />
e cominciò a parlar superbamente,<br />
tal che Morgante non fu pazïente:<br />
152. comincial col battaglio a bastonare;<br />
l’oste gri<strong>da</strong>va e non gli parea giuoco.<br />
disse Margutte: Lascia un poco stare.<br />
io vo’ per casa cercare ogni loco.<br />
io vidi dianzi un bufol drento entrare:<br />
e’ ti bisogna fare, oste, un gran fuoco,<br />
e che tu inten<strong>da</strong> a un fischiar di zufolo;<br />
poi in qualche modo arrostiren quel bufolo. <br />
153. il fuoco per paura si fe’ tosto;<br />
Margutte spicca di sala una stanga;<br />
l’oste borbotta, e Margutte ha risposto:<br />
tu vai cercando il battaglio t’infranga:<br />
a voler far quello animale arrosto,<br />
che vuoi tu tòrre, un manico di vanga?<br />
Lascia ordinare a me, se vuoi, il convito. <br />
e finalmente il bufol fu arrostito;<br />
15 . non creder colla pelle scorticata:<br />
e’ lo sparò nel corpo solamente.<br />
Parea di casa più che la granata:<br />
coman<strong>da</strong> e gri<strong>da</strong>, e per tutto si sente.<br />
Un’asse molto lunga ha ritrovata;<br />
apparecchiolla fuor subitamente,<br />
e vino e carne e del pan vi ponea,<br />
perché Morgante in casa non capea.<br />
155. Quivi mangioron le reliquie tutte<br />
del bufolo, e tre staia di pane o piùe,<br />
e bevvono a bigonce; e poi Margutte<br />
disse a quell’oste: dimmi, aresti tue<br />
<strong>da</strong> <strong>da</strong>rci del formaggio o delle frutte,<br />
ché questa è stata poca roba a due,<br />
o s’altra cosa tu ci hai di vantaggio? <br />
or udirete come andò il formaggio.<br />
156. L’oste una forma di cacio trovòe<br />
ch’era sei libbre, o poco più o meno;<br />
un canestretto di mele arrecòe<br />
d’un quarto o manco, e non era anche pieno.<br />
Quando Margutte ogni cosa guardòe,<br />
disse a quell’oste: bestia sanza freno,<br />
ancor s’arà il battaglio adoperare,<br />
s’altro non credi trovar <strong>da</strong> mangiare.<br />
157. È questo compagnon <strong>da</strong> fare a once?<br />
aspetta tanto ch’io torni un miccino,<br />
e servi intanto qui colle bigonce:<br />
fa’ che non manchi al gigante del vino,<br />
che non ti racconciassi l’ossa sconce.<br />
io fo per casa come il topolino:<br />
vedrai s’io so ritrovare ogni cosa,<br />
e s’io farò venir giù roba a iosa! <br />
158. Fece la cerca per tutta la casa<br />
Margutte, e spezza e sconficca ogni cassa,<br />
e rompe e guasta masserizie e vasa:<br />
ciò che trovava, ogni cosa fracassa,<br />
ch’una pentola sol non v’è rimasa;<br />
di cacio e frutte raguna una massa,<br />
e portale a Morgante in un gran sacco,<br />
e cominciorno a rimangiare a macco.<br />
159. L’oste co’ servi impaüriti sono<br />
ed a servire attendon tutti quanti;<br />
e dice fra se stesso: “e’ sarà buono<br />
non ricettar mai più simil briganti:<br />
e’ pagheranno domattina al suono<br />
di quel battaglio, e saranno contanti.<br />
Hanno mangiato tanto, che in un mese<br />
non mangerà tutto questo paese”.<br />
160. Morgante, poi che molto ebbe mangiato,<br />
disse a quell’oste: a dormir ce n’andremo;<br />
e domattina, com’io sono usato<br />
sempre a camino, insieme conteremo,<br />
e d’ogni cosa sarai ben pagato,<br />
per modo che d’accordo resteremo. <br />
e l’oste disse a suo modo pagassi;<br />
ché gli parea mill’anni e’ se n’an<strong>da</strong>ssi.<br />
161. Morgante andò a trovare un pagliaio<br />
ed appoggiossi come il lïofante.<br />
Margutte disse: io spendo il mio <strong>da</strong>naio:<br />
io non voglio, oste mio, come il gigante,<br />
far degli orecchi zufoli a rovaio;<br />
non so s’io son più pratico o ignorante,<br />
ma ch’io non sono astrolago so certo:<br />
io vo’ con teco posarmi al coperto.<br />
162. Vorrei, prima che’ lumi sieno spenti,<br />
che tu traessi ancora un po’ di vino,<br />
ché non par mai la sera io m’addormenti
s’io non becco in sul legno un ciantellino,<br />
così per risciacquare un poco i denti;<br />
e goderenci in pace un canzoncino:<br />
e’ basta un bigonciuol così tra noi,<br />
or che non ci è il gigante che c’ingoi.<br />
163. Vedes’ tu mai Margutte soggiugnea<br />
un uom più bello e di tale statura,<br />
e che tanto diluvi e tanto bea?<br />
non credo e’ ne facessi un più natura.<br />
e’ vuol, quando egli è all’oste, gli dicea<br />
che l’oste gli trabocchi la misura;<br />
ma al pagar poi, mai il più largo uom vedesti:<br />
se tu nol provi, tu nol crederresti. <br />
16 . Venne del mosto, e stanno a ragionare,<br />
e l’oste un poco si rassicurava;<br />
Margutte un canzoncin netto spiccare<br />
comincia, e poi del camin doman<strong>da</strong>va,<br />
dicendo a bambillona volea an<strong>da</strong>re.<br />
L’oste rispose che non si trovava<br />
<strong>da</strong> trenta miglia in là casa né tetto<br />
per più giornate, e vassi con sospetto.<br />
165. e disselo a Margutte, e non a sordo,<br />
che vi pensò di sùbito malizia,<br />
e disse all’oste: Questo è buon ricordo,<br />
poi che tu di’ che vi si fa tristizia.<br />
or oltre, a letto; e saren ben d’accordo,<br />
ch’io non istò a pagar con masserizia:<br />
io son lo spenditore, e degli scotti,<br />
come tu stesso vorrai, pagherotti:<br />
166. io ho sempre calcata la scarsella.<br />
deh, dimmi, tu non debbi aver domata,<br />
per quel ch’io ne compren<strong>da</strong>, una cammella<br />
ch’io vidi nella stalla tua legata;<br />
ch’io non vi veggo né basto né sella.<br />
rispose l’oste: io la tengo appiattata,<br />
una sua bardelletta ch’io gli caccio,<br />
nella camera mia sotto il primaccio.<br />
167. Per quel ch’io il faccia, credo che tu inten<strong>da</strong>:<br />
sai che qui arriva più d’un forestiere<br />
a cena, a desinare ed a meren<strong>da</strong>. <br />
disse Margutte: Lasciami vedere<br />
un poco come sta questa faccen<strong>da</strong>,<br />
poi che noi siam per ragionare e bere,<br />
e son le notte un gran cantar di cieco. <br />
e l’oste gli rispose: io te l’arreco. <br />
168. recò quella bardella il sempliciotto:<br />
Margutte vi fe’ sù tosto disegno<br />
che questa accorderà tutto lo scotto;<br />
e disse all’oste: e’ mi piace il tuo ingegno.<br />
Questo sarà il guancial ch’io terrò sotto;<br />
e dormirommi qui in su questo legno:<br />
so che letto non hai dov’io capessi,<br />
tanto che tutto mi vi distendessi.<br />
169. or vo’ saper come tu se’ chiamato. <br />
disse l’ostier: tu saprai tosto come:<br />
io son il dormi per tutto appellato. <br />
disse Margutte: “Fa’ come tu hai nome;”<br />
così fra sé “tu sarai ben destato,<br />
quando fia tempo e innanzi fien le some”.<br />
come hai tu brigatella o vuoi figliuoli? <br />
disse l’ostier: La donna ed io siàn soli. <br />
170. disse Margutte: che puoi tu pigliarci<br />
la settimana in questa tua osteria?<br />
come arai tu moneta <strong>da</strong> cambiarci<br />
qualche dobbra <strong>da</strong> spender per la via? <br />
rispose l’oste: io non vo’ molto starci,<br />
ch’io non ci ho preso, per la fede mia,<br />
<strong>da</strong> quattro mesi in qua venti ducati,<br />
che sono in quella cassetta serrati. <br />
171. disse Margutte: oh, solo in una volta<br />
con esso noi più <strong>da</strong>nar piglierai!<br />
tu la tien’ quivi: s’ella fusse tolta? <br />
disse l’ostier: non mi fu tocca mai. <br />
Margutte un occhiolin chiuse ed ascolta,<br />
e disse: “a questa volta lo vedrai!”.<br />
e per fornire in tutto la campana,<br />
un’altra malizietta trovò strana.<br />
172. Perché persona discreta e benigna <br />
dicea coll’oste troppo a questo tratto<br />
mi se’ paruto, io mi chiamo il Graffigna;<br />
e ’l <strong>prof</strong>ferer tra noi per sempre è fatto.<br />
io sento un poco difetto di tigna,<br />
ma sotto questo cappel pur l’appiatto:<br />
io vo’ che tu mi doni un po’ di burro,<br />
ed io ti donerò qualche mangurro. <br />
173. L’oste rispose: nïente non voglio:<br />
doman<strong>da</strong> arditamente il tuo bisogno,<br />
ché di tal cose cortese esser soglio. <br />
disse Margutte allora: io mi vergogno:<br />
sappi che mai la notte non mi spoglio<br />
per certo vizio ch’io mi lievo in sogno;<br />
vorrei ch’un paio di fune m’arrecasse,<br />
e legherommi io stesso in su questa asse.<br />
17 . Ma serra l’uscio ben dove tu dormi<br />
ch’io non ti dessi qualche sergozzone;<br />
se tu sentissi per disgrazia sciòrmi<br />
e che per casa an<strong>da</strong>ssi a processione,<br />
non uscir fuor. rispose presto il dormi,<br />
e disse: io mi starò sodo al macchione.<br />
così voglio avvisar la mia brigata,<br />
che non toccassin qualche tentennata. <br />
175. Le fune e ’l burro a Margutte giù reca,<br />
e disse a’ servi di questo costume:<br />
ch’ognun si guardi <strong>da</strong>lla fossa cieca<br />
e non isbuchi ignun fuor delle piume.<br />
odi ribaldo! odi malizia greca!<br />
così soletto si restò col lume,<br />
e fece vista di legarsi stretto,<br />
tanto che ’l dormi se n’andò a letto.<br />
176. come e’ sentì russar, ch’ognun dormiva,
e’ cominciò per casa a far fardello:<br />
alla cassetta de’ <strong>da</strong>nar ne giva,<br />
ed ogni cosa pose in sul cammello;<br />
e come un uscio o qualche cosa apriva,<br />
ugneva con quel burro il chiavistello;<br />
e come egli ebbe fuor la vettovaglia,<br />
appiccò il fuoco in un monte di paglia.<br />
177. e poi n’an<strong>da</strong>va al pagliaio a Morgante:<br />
non dormir più, dicea dormito hai assai.<br />
non di’ tu che volevi ire in Levante?<br />
io sono ito e tornato, e tu il vedrai.<br />
non istiàn qui, dà in terra delle piante,<br />
se non che presto il fummo sentirai. <br />
disse Morgante: che diavolo è questo?<br />
tu hai pur fatto, per dio, netto e presto. <br />
178. Poi s’avvïava, ch’aveva timore,<br />
perché quivi era un gran borgo di case,<br />
che non si lievi la gente a romore.<br />
dicea Margutte: di ciò che rimase<br />
all’oste, un birro non are’ rossore:<br />
ch’io non istò a far mai le staia rase,<br />
ma sempre in ogni parte dov’io fui<br />
sono stato cortese dell’altrui. <br />
179. Mentre che questi così se ne vanno,<br />
la casa ardeva tutta a poco a poco:<br />
prima che ’l dormi s’avvegga del <strong>da</strong>nno,<br />
era per tutto appiccato già il foco;<br />
e non credea che fussi stato inganno.<br />
Quivi la gente correa d’ogni loco;<br />
ma con fatica scampò lui e la moglie:<br />
e così spesso de’ matti si coglie.<br />
180. Quando fu giorno che l’albe apparìe,<br />
Morgante vede insino alla grattugia,<br />
e fra se stesso dicea: “tutto die<br />
de’ miglior certo s’impicca ed abbrugia:<br />
guar<strong>da</strong> costui quante ciabatte ha quie!<br />
Per dio, che troppo il capresto s’indugia!”.<br />
disse Margutte: e’ ci è insino alla secchia:<br />
non dubitar, questa è l’arte mia vecchia.<br />
181. noi abbiamo an<strong>da</strong>r per un certo paese<br />
dove <strong>da</strong> sé non ha chi non vi porta;<br />
e pure aren <strong>da</strong>nar <strong>da</strong> far le spese. <br />
e tutta la novella dice scorta<br />
della cassetta, e come il fuoco accese,<br />
come egli ebbe il cammel fuor della porta,<br />
e come il dormi se n’andò a dormire,<br />
ma il fuoco l’arà fatto risentire.<br />
182. Morgante le mascella ha sgangherate<br />
per le risa talvolta che gli abbon<strong>da</strong>,<br />
e dicea pure: “o forche sventurate,<br />
ecco che boccon ghiotto o pèsca mon<strong>da</strong>!<br />
non vi rincresca s’un poco aspettate.<br />
costui pur mena almen la mazza ton<strong>da</strong>.<br />
Quanto piacer n’arà di questo orlando,<br />
s’io lo vedrò mai più, che non so quando!”<br />
183. dicea Margutte: in questo sta il gua<strong>da</strong>gno:<br />
quanto tu lasci più il brigante scusso.<br />
tu puoi cercar per tutto d’un compagno<br />
che d’ogni cosa sia, come io, malfusso;<br />
né, per ghermire, altro sparvier grifagno<br />
non ti bisogna, o zingherlo, arbo o usso;<br />
quel che si ruba, non s’ha a saper grado;<br />
e sai ch’io comincio ora a trar pel <strong>da</strong>do.<br />
18 . io chiesi insino al burro, e dissi a quello<br />
oste ch’un poco di tigna sentivo,<br />
per ugner poi gli arpioni e ’l chiavistello,<br />
che non sentissi quando un uscio aprivo,<br />
tanto ch’io avessi assettato il cammello:<br />
a ogni malizietta io son cattivo;<br />
del livido mi guardo quant’io posso,<br />
poi non mi curo più giallo che rosso.<br />
185. or mi piacesti tu, Margutte mio! <br />
dicea Morgante. e ’ntanto un, c’ha veduta<br />
quella cammella, diceva: Per dio!<br />
ch’ella è del dormi ostier quella scrignuta. <br />
disse Margutte: il dormi sarò io.<br />
non vedi tu, babbion, che si tramuta<br />
e sgombera qua presso a un castello?<br />
e maggior bestia se’ tu che ’l cammello. <br />
186. tutto quel giorno e l’altro sono an<strong>da</strong>ti<br />
per paesi dimestichi costoro;<br />
e ’l terzo dì in un bosco sono entrati<br />
dove aspre fere facevon dimoro;<br />
ed eron pel cammin tutti affannati,<br />
né vin, né pan non avean più con loro.<br />
dicea Morgante: che farem, Margutte?<br />
Vedi che mancan qui le cose tutte.<br />
187. cerchiamo almeno appiè qua di quel monte,<br />
se vi surgessi d’acqua alcun rampollo;<br />
ché pur, se noi trovassin qualche fonte,<br />
la sete se n’andrebbe al primo crollo;<br />
ché le parole più spedite o pronte<br />
non sento, se la bocca non immollo:<br />
quel mi par luogo d’esservi dell’acque. <br />
onde a Margutte il suo consiglio piacque.<br />
188. Vanno cercando tanto, che trovorno<br />
una fontana assai niti<strong>da</strong> e fresca:<br />
quivi a sedere un poco si posorno,<br />
perché e’ convien che ’l caminar rincresca.<br />
ecco apparir di lungi un lïocorno<br />
che va cercando ove la sete gli esca.<br />
disse Margutte: Se tu guardi bene,<br />
quel lïocorno in qua per ber ne viene.<br />
189. Questa sarà la nostra cena appunto:<br />
e’ si consuma di <strong>da</strong>r nella rete;<br />
però t’appiatta tanto che sia giunto,<br />
che tragga a noi la fame e a sé la sete. <br />
il lïocorno <strong>da</strong>lla voglia è punto,<br />
e non sapea le trappole segrete:<br />
venne alla fonte e ’l corno vi metteva,<br />
e stato un poco, a suo modo beeva.
190. Morgante, che <strong>da</strong>llato era nascoso,<br />
arrandellò il battaglio ch’egli ha in mano:<br />
dèttegli un colpo tanto grazïoso<br />
che cadde stramazzato a mano a mano,<br />
e non batté poi più senso né poso;<br />
e fu quel colpo sì feroce e strano<br />
che di rimbalzo in un masso percosse,<br />
e sfavillò come di fuoco fosse.<br />
191. Quando Margutte il vide sfavillare,<br />
disse: Morgante, la cosa va gaia:<br />
forse che cotto lo potren mangiare.<br />
Per quel che di quel sasso là mi paia,<br />
noi gli faren del fuoco fuor gittare. <br />
disse Morgante: ogni prieta è focaia<br />
dove Morgante e ’l battaglio s’accosta:<br />
sempre con esso ne fo a mia posta.<br />
192. Ma tu che se’, Margutte, sì sottile,<br />
ed hai condotte tante masserizie,<br />
come non hai tu l’esca col fucile? <br />
disse Margutte: tra le mie malizie<br />
né cosa virtüosa né gentile<br />
non troverrai, ma fraude con tristizie. <br />
disse Morgante: Piglia del fien secco;<br />
vienne qua meco. e Margutte disse: ecco. <br />
193. Vanno a quel masso, e Morgante martella,<br />
ch’arebbe fatto riscal<strong>da</strong>re il ghiaccio,<br />
tal ch’a Margutte intruona le cervella,<br />
sì che quel fien gli cadeva di braccio.<br />
allor Morgante ridendo favella:<br />
Guar<strong>da</strong> se fuor le faville ti caccio. <br />
Margutte il fien per vergogna riprese<br />
e tennel tanto che ’l fuoco s’accese.<br />
19 . Poi si cavò di dosso la schiavina,<br />
e scaricò la cammella a giacere<br />
e trasse quivi fuori una cucina:<br />
apparecchiò alle spese dell’ostiere,<br />
ch’avea recato insino alla salina,<br />
e tazze ed altre vasella <strong>da</strong> bere;<br />
al lïocorno abbruciò le caluggine,<br />
e fece uno schidon d’un gran peruggine.<br />
195. cosse la bestia, e pongonsi poi a cena:<br />
Morgante quasi intera la pilucca,<br />
sì che Margutte n’assaggiava appena;<br />
e disse: il sal ci avanza nella zucca!<br />
Per dio, tu mangeresti una balena!<br />
non è cotesta gola mai ristucca:<br />
io ti vorrei per mio compagno avere<br />
a ogni cosa, eccetto ch’al tagliere. <br />
196. disse Morgante: io vedevo la fame<br />
in aria come un nugol d’acqua pregno;<br />
e certo una balena con le squame<br />
arei mangiato sanz’alcun ritegno,<br />
ovvero un lïofante con lo stame.<br />
io rido che tu vai leccando il legno. <br />
disse Margutte: S’ tu ridi, ed io piango,<br />
ché con la fame in corpo mi rimango.<br />
197. Quest’altra volta io ti ristorerò, <br />
dicea Morgante per la fede mia! <br />
dicea Margutte: anzi ne spiccherò<br />
la parte ch’io vedrò che giusta sia,<br />
e poi l’avanzo innanzi ti porrò,<br />
sì che e’ possi durar la compagnia.<br />
nell’altre cose io t’arò riverenza,<br />
ma della gola io non v’ho pazïenza:<br />
198. chi mi toglie il boccon non è mio amico,<br />
ma ogni volta par mi cavi un occhio.<br />
Per tutte l’altre volte te lo dico:<br />
ch’io vo’ la parte mia insino al finocchio,<br />
se s’avessi a divider solo un fico,<br />
una castagna, un topo o un ranocchio. <br />
Morgante rispondea: tu mi chiarisci<br />
di bene in meglio, e come oro affinisci.<br />
199. racconcia un poco il fuoco, ch’egli è spento. <br />
Margutte ritagliò di molte legne,<br />
fece del fuoco ed un alloggiamento.<br />
disse Morgante: Se quel non si spegne<br />
per istanotte, io mi chiamo contento.<br />
tu hai qui acconcio mille cose degne,<br />
tu se’ il maestro di color che sanno. <br />
così la notte a dormir quivi stanno.<br />
200. e la cammella si pasceva intorno.<br />
Ma poi che l’aürora si dimostra,<br />
disse Margutte a Morgante: egli è giorno:<br />
leviacci e seguitian l’an<strong>da</strong>ta nostra. <br />
così tutte lor cose rassettorno.<br />
or, perché l’un cantar con l’altro giostra,<br />
quel che seguì sarà nell’altro canto;<br />
e lauderemo il Padre nostro intanto.<br />
cantare VenteSiMottaVo<br />
1. L’ultima grazia, o mio Signor benigno,<br />
perché il fin mostra d’ogni cosa il tutto,<br />
non mi negar, ché ancor si mostra arcigno<br />
innanzi al tempo non maturo il frutto:<br />
fa’ ch’io paia alla morte un bianco cigno<br />
che dolce canta in su l’estremo lutto,<br />
tanto ch’io ponga in terra il mortal velo<br />
di carlo in pace, e l’anima a te in cielo:<br />
2. perché donna è costì, che forse ascolta,<br />
che mi commise questa istoria prima,<br />
e se per grazia è or <strong>da</strong>l mondo sciolta,<br />
so che tanto nel ciel n’è fatto stima,<br />
ch’io me n’andrò con l’una e l’altra volta<br />
con la barchetta mia, cantando in rima,<br />
in porto, come io promissi già a quella<br />
che sarà ancor del nostro mare stella.<br />
3. infino a qui l’aiuto di Parnaso<br />
non ho chiesto né chieggo, Signor mio,
o le Muse o le suore di Pegàso,<br />
come alcun dice, o caliopè o clio:<br />
questo ultimo cantar drieto rimaso<br />
tanto mi sprona e la voglia e ’l desio<br />
che, mentre io batto i marinai e sferzo,<br />
alla mia vela aggiugnerò alcun ferzo.<br />
. <strong>da</strong> Siragozza s’è carlo partito,<br />
arso la terra e vendicate l’onte;<br />
e il traditor di Marsilio è punito<br />
dove e’ fece il peccato a quella fonte;<br />
e cavalcando d’uno in altro lito,<br />
in molti luoghi fe’ rifare il ponte<br />
ch’egli avea prima pel cammin tagliato<br />
acciò che indrieto nessun sia tornato.<br />
5. e ritornossi a San Gianni di Porto,<br />
e non sofferse a gnun modo passare<br />
di runcisvalle, ove il nipote è morto;<br />
e dicea sempre nel suo sospirare:<br />
chi sarà quel che mi dia più conforto? <br />
tanto ch’ognun faceva lacrimare.<br />
che farà più questa anima nel petto?<br />
La vita mia omai fia sol despetto. <br />
6. or perché alcun qui dice, Ganellone<br />
sendo con certa astuzia scarcerato,<br />
che gli apparì sì gran confusïone<br />
di nebbia che l’avea tutto obumbrato,<br />
e ritornossi smarrito in prigione,<br />
ché così lo gui<strong>da</strong>va il suo peccato;<br />
dico io: non so se confirmar mi debbia,<br />
per non parere un aüttor <strong>da</strong> nebbia.<br />
7. rinaldo intanto ha confortato carlo,<br />
e tutta insieme a un grido la corte,<br />
che il traditor si dovessi straziarlo,<br />
e pensa ognun della più crudel morte:<br />
a molti par che si debba squartarlo;<br />
altri dicea di tormento più forte<br />
e ruote e croce e con ogni vergogna<br />
e mitera e berlina e scopa e gogna.<br />
8. e dopo molto disputar, fu Gano<br />
menato in sala con gran grido e tuono,<br />
incatenato come un cane alano,<br />
e tanti farisei dintorno sono<br />
che pensan solo ognun d’averne un brano;<br />
e mentre e’ volea pur chieder perdono<br />
e crede ancor forse carlo gli cre<strong>da</strong>,<br />
rinaldo il dètte a quella turba in pre<strong>da</strong>.<br />
9. carlo si stette a veder questa caccia:<br />
e come in mezzo la volpe è de’ cani,<br />
ognun fa la sua presa, ognuno straccia:<br />
chi lo mordea, chi gli storce le mani,<br />
e chi per dilegion gli sputa in faccia,<br />
chi gli dà certi sergozzoni strani,<br />
chi per la gola alle volte lo ciuffa,<br />
tanto che il cacio gli saprà di muffa;<br />
10. chi con la man, chi col piè lo percuote,<br />
chi fruga e chi sospigne e chi punzecchia,<br />
chi gli ha con l’unghie scarnate le gote,<br />
chi gli avea tutte mangiate l’orecchia,<br />
chi lo ’ntronava e gri<strong>da</strong> quanto e’ puote,<br />
chi il carro intanto col fuoco apparecchia,<br />
chi gli avea tratto con le dita gli occhi,<br />
chi il volea scorticar come i ranocchi.<br />
11. e come e’ fu sopra il carro il ribaldo,<br />
il popol gri<strong>da</strong> intorno: Muoia, muoia! <br />
intanto il ferro apparecchiato è caldo:<br />
non doman<strong>da</strong>r come e’ lo concia il boia,<br />
che non resta di carne un dito saldo,<br />
ché tutte son ricamate le cuoia:<br />
sì ch’egli era alle man di buon maestro,<br />
perché e’ facea molto l’uficio destro.<br />
12. egli aveva il capresto d’oro al collo<br />
e la corona de’ ribaldi in testa.<br />
rinaldo ancor non si chiama satollo,<br />
e ’l popol rugghia con molta tempesta,<br />
e chi gittava la gatta e chi il pollo,<br />
ed ogni volta lo imberciava a sesta:<br />
non si dipigne Lucifer più brutto<br />
<strong>da</strong>l capo a’ pie’, come e’ pareva tutto.<br />
13. Fece quel carro la cerca maggiore;<br />
e chi si cava pattìn, chi pianelle,<br />
per vedere straziare il traditore<br />
sì che di can non si strazia più pelle:<br />
tanto tumulto, strepito e romore<br />
che rimbombava insin sopra le stelle,<br />
crucifigge! gri<strong>da</strong>ndo crucifigge! <br />
e ’l manigoldo tuttavia trafigge.<br />
1 . e poi che il carro al palazzo è tornato,<br />
carlo ordinato avea quattro cavagli;<br />
e come a questi il ribaldo è legato,<br />
cominciano i fanciugli a scudisciàgli,<br />
tanto che l’hanno alla fine squartato.<br />
Poi fe’ rinaldo que’ quarti gittàgli<br />
per boschi e bricche e per balze e per macchie<br />
a’ lupi, a’ cani, a’ corvi, alle cornacchie.<br />
15. cotal fine ebbe il maladetto Gano,<br />
ché lo etterno giudicio è sempre appresso<br />
quando tu credi che sia ben lontano.<br />
or forse tu, lettor, dirai adesso<br />
come e’ gli abbi creduto carlo Mano.<br />
io ti rispondo: era così permesso;<br />
era nato costui per ingannarlo<br />
e convenia che gli credessi carlo.<br />
16. nota che carlo Magno era uom divino,<br />
e lungo tempo avea tenuto seco<br />
un dotto antico, chiamato alcuïno,<br />
ed apparò <strong>da</strong> lui latino e greco,<br />
ed ordinò lo Studio parigino;<br />
or par che sia dello intelletto cieco;<br />
onde alcun aüttor come prudente<br />
di Ganellon non iscrive nïente.
17. ed io meco medesimo disputo,<br />
quand’io ho ben raccolta la sua vita,<br />
come egli abbi un error tanto tenuto.<br />
Ma la natura divina è tradita,<br />
e non ha sanza misterio voluto,<br />
ché la sua sapïenzia è infinita:<br />
credo che iddio a buon fine permette<br />
l’opere sante, e così maladette:<br />
18. però che carlo per esperïenzia<br />
dovea molto saper, perché ne’ vecchi<br />
accade, e non in giovane, prudenzia,<br />
poi ch’ella è figurata con tre specchi;<br />
avea buon natural, buona scïenzia;<br />
e come il traditor gli era agli orecchi,<br />
e’ gli credeva ogni cosa a sua posta:<br />
sì ch’io non fermo ancor la mia risposta.<br />
19. Molte volte, anzi spesso, c’interviene<br />
che tu t’arrechi un amico a fratello,<br />
e ciò che fa ti par ch’e’ facci bene,<br />
dipinto e colorito col pennello:<br />
questo primo legame tanto tiene<br />
che, s’altra volta ti dispiace quello<br />
e qualche cosa ti farà molesta,<br />
sempre la prima impressïon pur resta.<br />
20. avea già lungo tempo carlo Magno<br />
tenuto in corte sua Gan di Maganza;<br />
ed oltre a questo vi vedea gua<strong>da</strong>gno,<br />
però che Gano avea molta possanza<br />
e qualche volta gli fu buon compagno;<br />
e perché molto può l’antica usanza,<br />
l’abito fatto d’uno in altro errore<br />
facea che carlo gli portava amore.<br />
21. altri direbbe: “dimmi ancora un poco:<br />
Gan sapea pur ch’egli aveva tradito,<br />
e che e’ doveva alfine ardere il foco:<br />
come e’ non s’era di corte partito<br />
acciò che rïuscissi netto il giuoco,<br />
sendo tanto mascagno e scalterito?”.<br />
credo ch’io l’abbi in altro cantar detto<br />
ch’ogni cosa si fa per un despetto.<br />
22. Quando Ulivier percosse il viso a Gano,<br />
io dissi allor come e’ si pose in core<br />
di vendicarsi, ché gli parve strano,<br />
sendo pur per natura traditore.<br />
ricòr<strong>da</strong>ti, lettor, del Lampognano,<br />
e non cercar d’altro antico aüttore,<br />
e sempre tien’ la paura in corazza,<br />
ché il disperato alfin mena la mazza.<br />
23. Forse che Gano ancora avea speranza<br />
di ricoprir con carlo il tradimento;<br />
ed avea tanta gente di Maganza<br />
che, come il conte orlando fussi spento,<br />
si confi<strong>da</strong>va nella sua possanza<br />
di poter le bandiere alzare al vento<br />
col favor di Marsilio e con la lancia,<br />
e coronarsi del regno di Francia.<br />
2 . or lasciàn questo traditor pe’ boschi,<br />
com’io dissi, pe’ balzi e per le fosse,<br />
perch’io son pien di molti pensier foschi:<br />
non c’è il nocchier che la mia barca mosse,<br />
e bisogna che terra io ricognoschi<br />
come se quella in alto mare or fosse,<br />
e rilevare il porto per aguglia,<br />
perché la son<strong>da</strong> alle volte ingarbuglia.<br />
25. Morto è turpino e seppellito e pianto,<br />
tanto ch’io temo nella prima vista<br />
di non uscir fuor del cammino alquanto,<br />
ché mi bisogna scambiar timonista,<br />
e nuova cetra s’apparecchia e canto;<br />
ma perché volteggiando pur s’acquista,<br />
forse che in porto condurrem la nave<br />
di ricche merce ponderosa e grave:<br />
26. sì ch’io ricorro al mio famoso arnaldo,<br />
che m’accompagni insino al fine e scorga<br />
tanto ch’io ponga in quïete rinaldo,<br />
e la sua destra mano al timon porga:<br />
che, poi che Gano ha squartato il ribaldo,<br />
d’un zucchero candito è pieno in gorga,<br />
e riforbito s’ha gli artigli e ’l becco<br />
e tratto fuor della mente lo stecco.<br />
27. e perché egli ama ancor pur Lucïana,<br />
con molta gente la mandò a Parigi,<br />
perch’ella era nipote a Gallerana;<br />
e battezzossi drento a San dionigi<br />
ed accordossi alla fede cristiana;<br />
e tanto piacque al gentile ansuïgi,<br />
perché pure era ancor giovane e bella,<br />
che finalmente disponsata ha quella.<br />
28. e ricciardetto con lei fu man<strong>da</strong>to,<br />
per piacere a rinaldo, in compagnia;<br />
e ’l padiglion ch’ella aveva donato<br />
rinaldo volle renduto gli sia<br />
per ristorarla del tempo passato,<br />
e rendé cortesia per cortesia;<br />
e sempre il tenne poi sopra il suo letto;<br />
e basti questo a lei e ricciardetto.<br />
29. rinaldo a carlo Magno un giorno disse<br />
come e’ voleva di corte partire<br />
e cercar tutto il mondo come Ulisse.<br />
carlo di duol si credette morire;<br />
ma finalmente poi lo benedisse,<br />
e non poteron nessun contraddire<br />
che, poi che vendicato aveva orlando,<br />
volea pel mondo an<strong>da</strong>r peregrinando.<br />
30. Gran pianto fece la corte di carlo;<br />
carlo gli parve rimaner sì solo<br />
che non poté mai più dimenticarlo:<br />
credo che questo fu l’ultimo duolo;<br />
e non voleva sentir ricor<strong>da</strong>rlo,<br />
come fa il padre che perde il figliuolo;<br />
e tutta Francia ne fe’ gran lamento,
poi ch’un tanto campion nel mondo è spento.<br />
31. e credo in verità che così sia:<br />
perché pur molte cose ho di lui scritto,<br />
e per virtù della sua gagliardia<br />
e’ par ch’io sia come costor già afflitto;<br />
e come peregrin rimaso in via,<br />
che va pur sempre al suo cammin diritto<br />
col pensier, con la mente e col cervello,<br />
così vo io pur seguitando quello.<br />
32. e s’io credessi di piacere ancora<br />
alla patria, a color che leggeranno,<br />
come avvien chi per fama s’innamora,<br />
io piglierei di questa istoria affanno,<br />
però che al tutto chi ne scrive ignora;<br />
ma se mie rime facultate aranno,<br />
forse che il mondo ancor leggerà questo<br />
fin che l’ultimo dì fia manifesto.<br />
33. Ma l’aüttor disopra ov’io mi specchio<br />
parmi che cre<strong>da</strong>, e forse crede il vero,<br />
che, benché e’ fusse rinaldo già vecchio,<br />
avea l’animo ancor robusto e fero<br />
e quel suon d’astarotte nello orecchio<br />
come disotto in quell’altro emispero<br />
erano e guerre e monarchie e regni,<br />
e che e’ passassi alfin d’ercule i segni.<br />
3 . e perché ancor di lui quell’angel disse:<br />
ogni cosa esser può, quando iddio vuole ,<br />
acciò che quelle gente convertisse<br />
ch’adoravan pianeti e vane fole,<br />
e se ancor vivo un giorno e’ rïuscisse<br />
<strong>da</strong>ll’altra parte ove si lieva il sole,<br />
come molti miracoli si vede,<br />
qual maraviglia? chi più sa, men crede.<br />
35. non si dice egli ancor del Vangelista?<br />
benché ciò comparar par forse scelo.<br />
Ma dove il punto o il misterio consista,<br />
sallo colui che fece il mondo e ’l cielo:<br />
questa nostra mortal caduca vista<br />
fasciata è sempre d’un oscuro velo,<br />
e spesso il vero scambia alla menzogna;<br />
poi si risveglia come fa chi sogna.<br />
36. e del <strong>da</strong>nese, che ancor vivo sia,<br />
perché tutto può far chi fe’ natura,<br />
dicono alcun, ma non la istoria mia,<br />
e che si truova in certa grotta oscura,<br />
e spesso armato a caval par che stia,<br />
sì che, chi il vede, gli mette paura:<br />
non so s’è vera oppinïone o vana;<br />
e così della spa<strong>da</strong> durlin<strong>da</strong>na,<br />
37. e come carlo la gittò nel mare,<br />
e il dì della battaglia dolorosa<br />
si vede sopra l’acqua galleggiare<br />
e mostrasi ancor tutta sanguinosa,<br />
e s’alcun va per volerla pigliare,<br />
sùbito sotto si torna nascosa:<br />
tutto esser può, ma come caso nuovo<br />
con la mia penna non l’affermo o pruovo.<br />
38. credo che al tempo di que’ paladini,<br />
perché la fede amplïasse di cristo,<br />
sendo molto potenti i saracini,<br />
molte cose a buon fin permisse cristo;<br />
ché se non fussi stato a’ lor confini<br />
carlo a pugnar per la fede di cristo,<br />
forse saremo ognun maümettisti:<br />
ergo, carole, in tempore venisti.<br />
39. Parmi carlo e domenico e Francesco<br />
abbin tanto operato per la fede,<br />
con le dottrine e col valor francesco,<br />
ch’io dirò forse che per lor si crede:<br />
ché il popol de’ cristiani stava fresco;<br />
se non che iddio a’ buon servi concede,<br />
perché ogni cosa è <strong>da</strong> lui preveduto,<br />
sempre al tempo opportun debito aiuto.<br />
0. io mi confido ancor molto qui a <strong>da</strong>nte,<br />
che non sanza cagion nel ciel sù misse<br />
carlo ed orlando in quelle croce sante,<br />
ché come diligente intese e scrisse;<br />
e così incolpo il secolo ignorante<br />
che mentre il nostro carlo al mondo visse,<br />
non ebbe un Livio, un crispo, un iustin seco<br />
o famoso scrittor latino o greco.<br />
1. Ma perch’io dissi altra volta di questo,<br />
quando al principio cominciai la istoria,<br />
forse tacere, uditor, fia onesto:<br />
poi ch’io ho collocato in tanta gloria<br />
carlo ed orlando, or basti, sia per resto,<br />
perché e’ non paia vanitate o boria<br />
a giudicar de’ segreti di sopra<br />
quel che meriti ognun secondo l’opra.<br />
2. Sempre i giusti son primi i lacerati:<br />
io non vo’ ragionar più della fede,<br />
ch’io me ne vo poi in bocca a questi frati<br />
dove vanno anche spesso le lamprede,<br />
e certi scioperon pinzocorati<br />
rapportano: il tal disse, il tal non crede ,<br />
donde tanto romor par che ci sia<br />
se “in principio era buio e buio fia”.<br />
3. in principio creò la terra e il cielo<br />
colui che tutto fe’ qual sapïente,<br />
e le tenebre al sol facevon velo;<br />
non so quel ch’e’ si fia poi finalmente<br />
nella revoluzion del grande stelo:<br />
basta che tutto giudica la Mente;<br />
e se pur vane cose un tempo scrissi,<br />
contra hypocritas tantum, pater, dissi.<br />
. non in pergamo adunque, non in panca<br />
reprendi il peccator, ma quando siedi<br />
nella tua cameretta, se e’ pur manca;<br />
salite colassù col piombo a’ piedi:<br />
la fede mia come la tua è bianca,
e farotti vantaggio anche due credi;<br />
predicate e spianate lo evangelio<br />
con la dottrina del vostro aürelio;<br />
5. e s’alcun susurrone è che v’imbocchi,<br />
palpate come tomma, vi ricordo,<br />
e giudicate alle man, non agli occhi,<br />
come dice la favola del tordo.<br />
e non sia ignun più ardito che mi tocchi,<br />
ch’io toccherò poi forse un monacordo,<br />
ch’io troverrò la solfa e’ suoi vestigi:<br />
io dico tanto a’ neri quanto a’ bigi.<br />
6. Vostri argumenti e vostri sillogismi,<br />
tanti maestri, tanti bacalari,<br />
non faranno con loïca o soffismi<br />
ch’alfin sien dolci i miei lupini amari;<br />
e non si cercherà de’ barbarismi,<br />
ch’io troverrò ben testi che fien chiari:<br />
per carità per sempre vi sia detto;<br />
e non si dirà poi più del sonetto.<br />
7. io mi parti’ <strong>da</strong> San Gianni di Porto<br />
dov’io lasciai il mio carlo mal contento;<br />
or, perché il fine è di venire a porto<br />
sempre d’ognun che si commette al vento,<br />
noi penserem qualche tragetto corto,<br />
però che un’ora omai parrebbe cento:<br />
tanto la voglia è in sé più desïosa,<br />
quanto più presso al fine è ogni cosa.<br />
8. carlo, poi ch’ebbe Ganellon punito<br />
e rimesso un dïavolo in inferno<br />
che l’ha più tempo tentato e tradito,<br />
fe’ come sempre i sapïenti ferno,<br />
che d’ogni cosa pigliar san partito;<br />
e redusse la corte e ’l suo governo<br />
in aquisgrana, ove alcun tempo visse,<br />
e molte guerre fe’ pria che morisse.<br />
9. Ma perché morte a nessun mai perdona,<br />
non riguar<strong>da</strong>ndo a tanto imperatore,<br />
poi ch’egli ebbe tenuta la corona<br />
quaranzette anni con supremo onore,<br />
l’anima sua il secolo abbandona,<br />
e ritornossi a quel lieto Fattore<br />
che si ricor<strong>da</strong> ristorare in cielo<br />
i giusti e’ buon, come dice il Vangelo.<br />
50. e benché tante cose ha fatte prima,<br />
che non iscrisse ormanno né turpino,<br />
riserberem con altra cetra e rima<br />
a cantar le sue laude ad alcuïno,<br />
che canterà le cose di più stima,<br />
dell’infanzia tacendo e di Pipino,<br />
come solevan ne’ tempi discreti<br />
cantar le laude de’ morti i poeti.<br />
51. Furon molto le essequie celebrate,<br />
e tutto il mondo quasi in veste negra,<br />
massime tutta la cristianitate,<br />
e Francia poi non si vide più allegra.<br />
or, perché molte cose ho pur lasciate,<br />
acciò che io dica la sua istoria integra<br />
tanto che e’ sia anche il dotto satollo,<br />
convien ch’io invochi a questa volta apollo.<br />
52. e per delo e per delfo e pel tuo cinto<br />
ti priego che tu temperi la lira,<br />
per la tua bella <strong>da</strong>nne e per iacinto;<br />
e quel furor che sentì già respira<br />
ismaro e cirra, Pindo ed arachinto:<br />
tanto che quel temerario tamira<br />
e Marsia invidia abbia alla cetra nostra,<br />
mentre che carlo ancor vivo si mostra.<br />
53. in aquisgrana un certo citarista<br />
era in quel tempo, Lattanzio appellato,<br />
molto gentil, molto famoso artista:<br />
per la qual cosa in alto fu montato,<br />
raccolto molte cose a una lista,<br />
della vita di carlo ammaestrato;<br />
e innanzi ad alcuïn cantando disse<br />
ciò che turpino ed ormanno già scrisse.<br />
5 . e cominciossi a carlo giovinetto:<br />
come già, sendo del regno cacciato,<br />
morto Pipino il padre, poveretto,<br />
con un pastore ha l’abito scambiato;<br />
e come e’ fu chiamato il Maïnetto<br />
in corte ove Galafro l’ha accettato;<br />
e come e’ fussi a lui menato e quando<br />
<strong>da</strong> un suo balio chiamato Morando;<br />
55. e come Gallerana, innamorata,<br />
dopo alcun tempo a lui si fece sposa,<br />
e come in Francia l’aveva menata;<br />
poi dimostrò la sua virtù nascosa<br />
quando egli ebbe la patria racquistata<br />
e la corona in testa glorïosa:<br />
perché Pipino, il suo padre, fu morto<br />
<strong>da</strong> oldorigi a tradimento, a torto;<br />
56. e come, essendo in italia venuto,<br />
con molta gente il mar passò agolante,<br />
per un buffone al quale ebbe creduto;<br />
e disse le battaglie tutte quante,<br />
e come, carlo d’almonte abbattuto,<br />
orlando, che ancora era un picciol fante,<br />
uccise finalmente questo almonte<br />
con un troncon di lancia a una fonte.<br />
57. e di Gerardo e don buoso e don chiaro,<br />
di risa e di riccier tutto cantossi;<br />
e come, poi che in Francia ritornaro,<br />
perché più volte Spagna ribellossi,<br />
l’ultima volta gli costò amaro;<br />
e come quella guerra cominciossi,<br />
e Ferraù come morì in sul ponte,<br />
e Lazzera fu presa sopra il monte;<br />
58. e come poi alla Stella Serpentino<br />
venne fuori a combatter con orlando,<br />
e come morto rimase, meschino;
sì che carlo, la impresa seguitando,<br />
riprese verso navarra il cammino,<br />
a Pampalona alla fine arrivando;<br />
e della lunga e dispietata guerra<br />
mentre che tenne assediata la terra;<br />
59. e come orlando sdegnato è partito<br />
e capitò nella Mec al Sol<strong>da</strong>no,<br />
e come Machi<strong>da</strong>nte è alfin fuggito,<br />
e Sansonetto si fe’ poi cristiano;<br />
e inverso Gerosolima fu ito<br />
e racquistò il Sepulcro con sua mano,<br />
e ricognobbe Ugon german fratello,<br />
e Sansonetto ne menòe e quello;<br />
60. e ritornato a carlo a Pampalona,<br />
dove a campo era stato già molti anni,<br />
intese che Maccario la corona<br />
e la sua sposa togliea con inganni<br />
e bisognava carlo ire in persona<br />
a racquistare i suoi reali scanni;<br />
e Malachel lo portò finalmente<br />
dove Maccario poi restò dolente.<br />
61. così, ripresa la sua signoria,<br />
a Pampalona tornò come un vento;<br />
e come desiderio di Pavia<br />
prese la terra con iscaltrimento,<br />
e poi mandò a Marsilio imbasceria,<br />
ove chiron fu morto a tradimento;<br />
e come carlo con tutta sua setta<br />
contra Marsilio giurò far vendetta;<br />
62. e finalmente si trattòe la pace;<br />
e come Ganellon fu poi man<strong>da</strong>to<br />
a Siragozza, il traditor fallace,<br />
e come il tradimento ha ordinato,<br />
e come iddio mostrò che gli dispiace;<br />
e intanto carlo a San Gianni è arrivato;<br />
e come in runcisvalle orlando è giunto,<br />
e la battaglia, com’io dissi appunto.<br />
63. e ciò che addrieto nel Morgante è scritto,<br />
ogni cosa Lattanzio in alto disse;<br />
e come tutta la Persia e lo egitto<br />
alla fede di cristo pervenisse:<br />
e bisognòe qui an<strong>da</strong>r pel segno ritto<br />
(non so se troppa mazza altrove misse),<br />
ché l’aüttor che Morgante compose<br />
non direbbe bugie tra queste cose.<br />
6 . e del <strong>da</strong>nese, e come e’ fu cristiano,<br />
e del caval chiamato duraforte;<br />
e che in prigione il tenne carlo Mano<br />
quando quel dètte a carlotto la morte,<br />
insin che venne quel bravieri strano<br />
che abbatté tutti i paladin di corte;<br />
e come e’ fu della Marca signore,<br />
ogni cosa dicea quel cantatore;<br />
65. e come poi rinaldo giovinetto<br />
con tre frategli a carlo fu man<strong>da</strong>to,<br />
che fu Guicciardo, alardo e ricciardetto,<br />
e come carlo l’aveva accettato;<br />
e perché spesso gli facea despetto,<br />
più volte l’ebbe di corte scacciato;<br />
e come e’ fe’ per arte Malagigi<br />
Montalban fare a quegli angeli bigi.<br />
66. e disse finalmente tante cose<br />
che fece tutto il popolo stupire,<br />
insin che pur la cetera giù pose<br />
e non poté di carlo tanto dire<br />
quanto l’opere sue son più famose.<br />
or pur la istoria ci convien finire,<br />
ché alcuïn, poi che Lattanzio ha detto,<br />
la cetra ha in punto, e ’l piè già in sul palchetto.<br />
67. era il popol di lacrime confuso,<br />
tanto a ciascun del suo signore increbbe,<br />
e veramente a questa volta io scuso<br />
ognun che piange quel che pianger debbe;<br />
quando alcuïn, secondo l’antico uso<br />
salito in alto, poi che guar<strong>da</strong>to ebbe<br />
la gente afflitta e lamentabil tanto,<br />
la cetra accommodò col flebil canto;<br />
68. e molto commendò colui che ha detto,<br />
Lattanzio, e disse nello essordio prima:<br />
io son fra molti dicitore eletto,<br />
e me’ di me ognun sa dire in rima:<br />
però, s’io commettessi alcun defetto,<br />
populo mio, per discrezion istima<br />
che come Filomena a cantar vegno<br />
materia ove e’ non basta uman ingegno.<br />
69. io canterò del magno imperatore<br />
la vita, e piangerò con voi la morte:<br />
perché pure era mio padre e signore<br />
e tanto tempo m’ha nutrito in corte,<br />
dove il pan de’ sospiri e del dolore<br />
convien ch’io mangi or, tanto duro e forte;<br />
ma perch’io sono alla vita obligato,<br />
non voglio anche alla morte esser ingrato.<br />
70. Pipino, il padre suo famoso e degno,<br />
tenne prima lo scettro e il nome regio,<br />
e governò per quindici anni il regno:<br />
però che al gran prefetto del collegio<br />
dinanzi a lui bastava il nome e ’l segno;<br />
ma la corona e ’l real seggio e ’l fregio<br />
tenne Pipin, come di sopra è detto,<br />
che per successïone era prefetto.<br />
71. Morto Pipin, dopo il quindecimo anno<br />
<strong>da</strong>lla sua promozion, rimase carlo,<br />
carlo Magno appellato, e carlomanno,<br />
un suo fratel; ma del signor mio parlo,<br />
ché come il regno insieme partito hanno<br />
opera mia non è di raccontarlo:<br />
io dirò tanto della sua eccellenzia<br />
quant’io ebbi oculata esperïenzia.<br />
72. La prima guerra fu con gli aquitani.
nota, lettor, che l’aquitania è Ghienna,<br />
acciò che i versi alcuna volta io spiani<br />
dov’io vedrò la discrezione accenna.<br />
Pipin v’avea prima messo le mani,<br />
come scritto fu già con altra penna;<br />
carlo v’andò fino a guerra finita,<br />
e riportonne la palma fiorita.<br />
73. e so che replicar non mi bisogna<br />
cose tanto propinque alla memoria,<br />
e come Unuldo si fuggì in Guascogna,<br />
e come doppia fu questa vittoria,<br />
<strong>da</strong> poi ch’egli ebbe il suo nimico in gogna:<br />
però che Lupo, per maggior sua gloria,<br />
il duca di Guascogna, fu prudente<br />
e dètte Unuldo e sé liberamente.<br />
7 . e perché intanto il bel paese esperio<br />
occupava il furor de’ Longobardi<br />
sotto l’insegne del re desiderio,<br />
uomini inculti, feroci e gagliardi,<br />
sì che quel tenne di italia lo imperio<br />
ventiquattro anni sotto i suoi sten<strong>da</strong>rdi,<br />
non si poteva alla fine cacciarlo,<br />
se non giugneva il soccorso di carlo.<br />
75. era venuto di verso occeàno<br />
questo popolo indomito, chiamato<br />
<strong>da</strong> narsete eünuco capitano:<br />
onde il sommo pontefice oppressato,<br />
ch’era in quel tempo il famoso adrïano,<br />
a carlo imbasciatore ebbe man<strong>da</strong>to<br />
che dovessi in italia venir quello<br />
come Pipin già fece e ’l suo Martello.<br />
76. carlo, mosso <strong>da</strong>’ prieghi santi e giusti,<br />
partì di Francia co’ suoi paladini,<br />
e bisognòe passar per luoghi angusti<br />
onde anibal passò co’ suoi barchini,<br />
perché e’ tenean que’ populi robusti<br />
i passi e’ gioghi degli alti apennini;<br />
ma passi o sbarre non valsono o ponti,<br />
ché finalmente e’ trapassò que’ monti.<br />
77. e mandò prima imbasciadori a quelli<br />
là dove desiderio era atten<strong>da</strong>to:<br />
che dovessin partir co’ lor drappelli,<br />
e come egli era in italia chiamato<br />
per discacciar della chiesa i rebelli;<br />
che si ricordin pel tempo passato<br />
come altra volta con ispa<strong>da</strong> e lancia<br />
provato avevan le forze di Francia.<br />
78. e finalmente alla battaglia venne<br />
dove il pian vercellese par che sia:<br />
il perché desiderio non sostenne<br />
e fu constretto fuggirsi in Pavia,<br />
dove carlo assediato un tempo il tenne;<br />
e intanto andò con la sua compagnia,<br />
poi ch’egli avea la sua superbia doma,<br />
a vicitare il pontefice a roma.<br />
79. Grande onor fece il sommo padre santo<br />
a carlo, lieto del suo avvenimento;<br />
restituïte le sue terre intanto,<br />
ed aggiunto Spoleti e benevento,<br />
e così in roma dimorato alquanto,<br />
per che molto adrïan ne fu contento,<br />
e satisfatto alla sua devozione,<br />
si dipartì con gran benedizione.<br />
80. e perché desiderio avea lasciato,<br />
com’io dissi, assediato in la sua terra,<br />
come fùlgore indrieto ritornato,<br />
tanto lo strinse finalmente e serra<br />
che bisognò che si fussi accor<strong>da</strong>to:<br />
e così fu terminata la guerra,<br />
e riportonne il trïunfo e le spoglie<br />
e in Francia lui co’ figliuoli e la moglie.<br />
81. così la bella italia liberata,<br />
che <strong>da</strong>’ Goti e <strong>da</strong>’ Van<strong>da</strong>li prima era<br />
e <strong>da</strong>gli Unni e <strong>da</strong>gli eruli occupata,<br />
gente bestial, molto crudele e fera,<br />
e la chiesa di dio restaürata,<br />
si ritornò con la santa bandiera;<br />
e per più gloria de’ famosi gigli<br />
seco menò di carlomanno i figli.<br />
82. io lascio molte cose egregie e degne,<br />
ch’io non posso seguir con la memoria<br />
e, in ogni parte ove fur, le sue insegne<br />
accompagnar d’una in altra vittoria;<br />
ma se morte anzi tempo non ispegne<br />
il vero lume a mostrar questa istoria,<br />
con altro stil, con altra cetra e verso<br />
sarà ancor chiara a tutto l’universo.<br />
83. or, come avvien che il generoso core<br />
cose magne ricerca insin se sogna,<br />
così intervien che il nostro imperatore,<br />
poi ch’egli ebbe aquitania e la Guascogna,<br />
e liberata la chiesa e ’l Pastore,<br />
percosse nella eretica Sansogna,<br />
ch’era più ch’altra regïone allotta<br />
<strong>da</strong>l culto falso de’ demòn corrotta.<br />
8 . Questa guerra fu più laborïosa<br />
che alcuna altra, per gli uomini strani<br />
a cui molto la nostra fede esosa<br />
era, ingannati <strong>da</strong>gli idoli vani,<br />
gente crudele e molto bellicosa<br />
che <strong>da</strong>nnava ogni legge de’ cristiani:<br />
carlo n’andò collo essercito a furia,<br />
per vendicar del suo cristo la ingiuria;<br />
85. sì che più volte, alla fede redutti,<br />
si ritornoron nello antico errore,<br />
poi che gl’idoli van furon distrutti<br />
per la virtù del nostro imperatore;<br />
pure alla fine, battezzati tutti,<br />
ricognobbono il vero redentore,<br />
e l’idolatria loro essere inganni:<br />
e così combattêr trentatré anni.
86. carlo poi per istatici doman<strong>da</strong><br />
diecimila di lor, come prudente,<br />
ed ordinò che per tutto si span<strong>da</strong><br />
pe’ paesi di Francia quella gente<br />
e pe’ liti di ilan<strong>da</strong> e di Silan<strong>da</strong>:<br />
così la lor perfidia finalmente,<br />
diradicata come falsa legge,<br />
aggiunse nuova torma alla sua gregge.<br />
87. protettor del buon cefas in terra,<br />
o defensor delle cristiane squadre,<br />
o santa spa<strong>da</strong> a gastigar chi erra,<br />
o Moïsè del popol di dio padre,<br />
o Papirio cursor famoso in guerra,<br />
o Scipio amico all’opere leggiadre,<br />
o fido specchio ove ogni ben s’è mostro,<br />
o fama, o pregio, o gloria al secol nostro!<br />
88. era in quel tempo medesimo Spagna<br />
d’altra prava eresia più maculata,<br />
quando l’alta corona tanto magna<br />
apparecchiò lo essercito e l’armata,<br />
e passa i fiumi e’ colli e la montagna<br />
con la santa bandiera <strong>da</strong>l ciel <strong>da</strong>ta,<br />
e fa tremare ogni lito, ogni terra,<br />
come in ispagna è vulgata la guerra.<br />
89. Furono adunque in su’ campi alle mani<br />
carlo e sua gente, onde la fama suona;<br />
ma non resson le forze degli ispani.<br />
restava augusta solo e Pampalona<br />
a redurre alla fede de’ cristiani:<br />
il perché il magno re v’andò in persona,<br />
e finalmente, dopo lungo tedio,<br />
le conquistò con forza e con assedio.<br />
90. e poi che Pampalona fu acquistata<br />
dopo molte battaglie e molti omèi,<br />
e che tutta la Spagna è battezzata<br />
e Macon rinnegato e i falsi iddei,<br />
carlo, tornando con la sua brigata,<br />
poi che i salti rivide Pirenei,<br />
non sanza <strong>da</strong>nno dell’altrui vergogna<br />
nelle insidie percosse di Guascogna.<br />
91. Quivi fu la battaglia sanguinosa<br />
dove anselmo morì col suo nipote<br />
in runcisvalle ancor tanto famosa;<br />
ma tutte queste cose vi son note,<br />
che non fu la vittoria glorïosa,<br />
però che il tradimento tutto puote;<br />
e perché carlo il tempo e ’l modo aspetta,<br />
come sapete, fe’ crudel vendetta.<br />
92. così furon l’inganni de’ Guasconi<br />
puniti, e prima battezzata Spagna.<br />
e seguitò la guerra de’ brettóni;<br />
e poi che fu ancor doma la brettagna,<br />
rivolse verso italia i gonfaloni,<br />
perché roma d’araïso si lagna,<br />
il qual di benevento era signore<br />
e minacciava la chiesa e ’l Pastore.<br />
93. carlo, giunto in italia, come io dico,<br />
redusse alle sue voglie il folle duce<br />
sì che quel fece al pontefice amico,<br />
e molti in Francia statici conduce.<br />
o quante cose magne io non replìco!<br />
ché, come il sole in ogni parte luce,<br />
a conseguir famose opere e degne<br />
in ogni luogo apparîr le sue insegne;<br />
9 . sì che, più volte di roma lo imperio<br />
restaürato come il buon camillo,<br />
tornato in Francia, il gran duca baverio,<br />
apparecchiato sua gente, tassillo,<br />
recor<strong>da</strong>to del suocer desiderio,<br />
congiurato con gli Unni a un vessillo,<br />
come mal consigliato <strong>da</strong>lla moglie<br />
cercando andò le sue future doglie.<br />
95. Lo imperator, che apparato già era,<br />
non aspettò del nimico la insegna,<br />
ma féssi incontra a lui con sua bandiera<br />
insino al fiume che divide e segna<br />
la Magna e le provincie di baviera;<br />
e bisognòe che alfin tassillo vegna<br />
a consentir ciò che carlo gli chiede<br />
e giurar servitù, tributo e fede.<br />
96. i Velatabi intanto gli abroditi<br />
molestavan, qual suoi confederati;<br />
ma poi che il nostro re gli ebbe puniti,<br />
in questo tempo gli Ungher congregati,<br />
populi detti per l’addrieto Sciti,<br />
gente <strong>da</strong>pprima in Pannonia arrivati<br />
<strong>da</strong>lle estreme provincie della terra,<br />
apparecchiavan contra carlo guerra.<br />
97. Questa guerra durò circa otto anni;<br />
ma carlo alfin, superati costoro<br />
non sanza grande occisïone e <strong>da</strong>nni,<br />
ne riportò le ricchezze e ’l tesoro,<br />
ch’egli avevon con forza e con inganni<br />
in molte parte pre<strong>da</strong>to già loro,<br />
in Francia bella con vittoria e fama:<br />
sì che la gloria fiorì in ogni rama.<br />
98. e poi che la gran guerra d’Ungheria<br />
se<strong>da</strong>ta fu, ridotta sotto il giglio<br />
di Francia e la boemia e normandia,<br />
abbattuta <strong>da</strong> carlo primo figlio,<br />
mandò papa Leone imbasceria,<br />
perch’egli era constretto e in gran periglio,<br />
cacciato di sua sede, in Francia a carlo,<br />
che dovessi tornare a liberarlo.<br />
99. così la terza volta ritornato<br />
carlo in italia, il pontefice santo<br />
restituì dond’egli era cacciato<br />
nella sua sede, col papale ammanto.<br />
Per che il sommo Pastor, non sendo ingrato,<br />
recor<strong>da</strong>to del suo precessor tanto
quanto di sé, benemerito e giusto,<br />
gli aggiunse al titol regio il nome agusto.<br />
100. dunque carlo fu Magno e imperatore<br />
di tutto l’universo e re di roma,<br />
ed aggiunse al suo segno, per più onore,<br />
il grande uccel che di Giove si noma.<br />
e licenziato <strong>da</strong>l santo Pastore,<br />
poi ch’egli aveva ogni arroganza doma,<br />
nel suo tornar, per più magnificenzia,<br />
rifece e rinnovòe l’alma Florenzia,<br />
101. e templi edificò per sua memoria,<br />
e dètte a quella doni e privilegi;<br />
e ritornò con gran trïunfo e gloria<br />
in Francia, il nostro re degli altri regi.<br />
e non è questa l’ultima vittoria<br />
onde più splen<strong>da</strong> la corona e’ fregi:<br />
tante altre cose ha fatto il signor nostro<br />
che manca il suon, la voce e carta e inchiostro.<br />
102. io non posso piangendo cantar versi,<br />
tanto contrario è l’uno all’altro effetto;<br />
e pur convien che il cor lacrime versi,<br />
quando quell’è <strong>da</strong> giusto duol constretto.<br />
Per tanti tempi e paesi diversi<br />
ha fatto carlo più che io non ho detto<br />
per la fede di cristo e pel Vangelo:<br />
ma tutto è scritto e rigistrato in cielo.<br />
103. Quivi i meriti suoi saranno tutti;<br />
quivi tutto vedrà nel santo volto;<br />
quivi corrà del suo ben fare i frutti;<br />
quivi sarà <strong>da</strong>l buon Gesù suo accolto;<br />
quivi in canti fia sempre sanza lutti;<br />
quivi il seggio regal mai sarà tolto;<br />
quivi il pan gusterà che sempre piace;<br />
quivi impetri per noi della sua pace. <br />
10 . Volea più oltre dir certo alcuïno,<br />
e dello acquisto del Sepulcro santo,<br />
e come egli andò in Grecia a Gostantino;<br />
ma non poté, ché le lacrime e ’l pianto<br />
del popol, che piangea così meschino,<br />
occupavan la cetera col canto;<br />
e forse il braccio stanco era e l’archetto:<br />
per la qual cosa sceso è del palchetto.<br />
105. e come e’ fu quel sapïente sceso,<br />
il popol ch’era prima stato attento<br />
un pianto seguitòe molto disteso,<br />
come foco talvolta pare spento<br />
e sanza fiamma si conserva acceso,<br />
poi si dimostra o per esca o per vento:<br />
così intervenne dopo il dolce canto<br />
che tutto il popol rinnovòe il pianto.<br />
106. Quivi eran le pulzelle scapigliate;<br />
quivi avean le matrone il peplo in testa;<br />
quivi piangeva tutta la cittate;<br />
quivi si straccia ognun l’oscura vesta;<br />
quivi son l’alte cose replicate;<br />
quivi si lo<strong>da</strong> la sua vita onesta;<br />
quivi si batte alcun le palme intanto;<br />
quivi si gri<strong>da</strong>: Santo, santo, santo! <br />
107. fortunato, o ben vissuto vecchio!<br />
o felice quel giusto ch’ognuno ama!<br />
o chiaro essemplo di ben fare e specchio!<br />
o sanza invidia glorïosa fama!<br />
o ciel, tu porgi a’ suoi merti l’orecchio!<br />
o popol che il signor suo morto chiama!<br />
o buon pastor chi ben guar<strong>da</strong> sua gregge!<br />
o tanto re, quanto ei ben gui<strong>da</strong> e regge!<br />
108. in aquisgrana la chiesa maggiore,<br />
nella Virgine santa titolata,<br />
<strong>da</strong>llo eccelso e felice imperatore<br />
era suta già prima edificata:<br />
quivi meritamente a grande onore<br />
fu la sua sepultura collocata,<br />
e sopra a questa aggiunto un arco d’oro<br />
nella santa basilica del coro.<br />
109. e perché il mondo ancor possi ritrarlo,<br />
il popol verso lui fu clementissimo<br />
e nel sepulcro suo fece scultarlo;<br />
e lo epitafio diceva brevissimo:<br />
“il corpo iace qui del magno carlo<br />
imperator de’ roman cristianissimo”:<br />
ma molto importa, in sì breve idïoma,<br />
“cristianissimo” e “carlo” e “re di roma”.<br />
110. L’anno ottocentoquindici correa<br />
<strong>da</strong>lla salute della incarnazione;<br />
carlo settantadue finiti avea<br />
e quaranzette <strong>da</strong>lla promozione,<br />
de’ quali ultimi quindici tenea<br />
con la corona <strong>da</strong> papa Leone,<br />
nel vigesimoquarto dì spirato<br />
del mese il quale a Gian fu consecrato.<br />
111. e innanzi alla sua morte segni apparse:<br />
ché, dove il bel pinnaculo si bilica,<br />
fùlgore questo rovinòe e sparse,<br />
un portico cascò della basilica,<br />
e ’l ponte ch’era appresso a Magonzia arse:<br />
però, chi queste cose ben rivilica,<br />
come a cesare il ciel fece qui segno<br />
d’altro cesare in terra assai più degno.<br />
112. Fe’ come savio prima testamento:<br />
divise in molte terre il suo tesoro;<br />
lasciò tutti i suoi servi ognun contento,<br />
che molte cose partiron fra loro;<br />
e tre tavole ricche d’arïento,<br />
tutte intagliate, ed una di puro oro,<br />
condotte e fatte con mirabile arte,<br />
distribuì, com’io truovo, in tre parte:<br />
113. la prima, ove era tutta disegnata<br />
la gran città che bisanzio si noma,<br />
al santo altar di Pietro ha diputata;<br />
e l’altra, ove era sculta l’alma roma,
volle che fussi a ravenna man<strong>da</strong>ta.<br />
o gran presente, o ricca, o degna soma!<br />
o magnanimi don, memoria e segno,<br />
che minor non conviensi a tanto uom degno!<br />
11 . La terza, fatta con maggior lavoro,<br />
dove tutto descritto appare il mondo,<br />
e quell’altra ch’io dissi, tutta d’oro,<br />
a Lodovico suo figliuol giocondo<br />
rimase, ultimo erede fra costoro,<br />
morti carlo e Pipin primo e secondo:<br />
sì che Luigi era il terzo figliuolo,<br />
che succedette alla corona solo.<br />
115. or, poi che carlo è seppellito e morto<br />
e fruisce quel gaudio e quel giubillo<br />
che s’aspetta a ognun che giugne al porto<br />
di sua salute e suo stato tranquillo,<br />
a me parrebbe alla istoria far torto<br />
s’io non aggiungo qualche codicillo,<br />
acciò ch’ognun che legge benedica<br />
l’ultimo effetto della mia fatica.<br />
116. noi possiam per la istoria intender quasi<br />
come all’unico figlio Lodovico<br />
molti regni e paesi son rimasi<br />
per virtù del suo padre, come io dico,<br />
per molti tempi, effetti e vari casi:<br />
insino al re di Persia è fatto amico,<br />
tanto a sé il trasse come calamita<br />
l’opere degne del suo padre in vita;<br />
117. e la Francia e la Ghienna e la borgogna<br />
e navarra, araona con la Spagna,<br />
la Fiandra e l’inghilterra e la Guascogna,<br />
la <strong>da</strong>zia e la Germania e la brettagna<br />
e Pannonia e boemia e la Sansogna<br />
e tante gran provincie della Magna<br />
e l’istria e la <strong>da</strong>lmazia e Lombardia<br />
rimason sotto la sua monarchia.<br />
118. e veramente <strong>da</strong>l suo genitore<br />
non è questo figliuol degenerato;<br />
ma, perch’io serbo altrove a fargli onore<br />
in altro libro o libel cominciato,<br />
ritorno al nostro primo imperatore<br />
in alcun luogo che indrieto ho lasciato<br />
de’ costumi e de’ modi di sua vita,<br />
sì che la istoria dir possian finita.<br />
119. dicon molti aüttor di sua natura,<br />
della sua qualità, s’io ho ben raccolto,<br />
ch’egli aveva formosa la statura,<br />
largo nel petto e nelle spalle molto,<br />
ne’ passi grave e nella guar<strong>da</strong>tura,<br />
nel parlar grazia, e maiestà nel volto,<br />
la barba lunga e il naso alquanto giusto,<br />
l’aspetto degno e tutto in sé venusto;<br />
120. molto affabil, placabil, tutto magno,<br />
molto savio, veril, molto discreto;<br />
amico o servo o parente o compagno<br />
partia sempre <strong>da</strong> lui contento e lieto:<br />
non si sentia: “del mio signor mi lagno”;<br />
molto giusto in sua legge e suo decreto;<br />
e perché gli uomin gli piacean modesti,<br />
essemplo <strong>da</strong>va di costumi onesti.<br />
121. era al culto divin ceremonioso;<br />
edificava per ogni paese<br />
qualche magno palazzo glorïoso;<br />
fece tanti spe<strong>da</strong>l, badie e chiese<br />
ch’io credo il ver di molte sia nascoso;<br />
come cor generoso all’alte imprese,<br />
restaürava e città e castella,<br />
come e’ fece ancor già Fiorenza bella;<br />
122. fece in sul reno il ponte, com’io dissi,<br />
di cinquecento passi per lunghezza,<br />
che mostrò segno, innanzi ch’e’ morissi,<br />
come e’ cadeva anche ogni gentilezza.<br />
Mostrava, in ogni caso che avvenissi,<br />
prudenzia e temperanza con fortezza:<br />
grazie che iddio rade volte concede<br />
o per nostra salute o per la fede.<br />
123. dilettavasi a caccia an<strong>da</strong>re spesso,<br />
sempre l’ozio <strong>da</strong>nnando, come i saggi,<br />
sanza temer, <strong>da</strong>gli anni pur defesso,<br />
di freddo o luoghi difficil, selvaggi;<br />
tanto che, essendo a quel termine presso<br />
dove più oltre ognun convien che caggi<br />
perché non è più la natura forte,<br />
sollicitòe per tal cagion la morte.<br />
12 . Pigliava spesso de’ bagni diletto:<br />
quivi soleva congregar gli amici,<br />
come forse <strong>da</strong>l luogo era constretto<br />
dove i monti son freddi e le pendici.<br />
o signor giusto, o signor benedetto,<br />
o quanto furon que’ tempi felici!<br />
non sarà Francia mai sì bella o lieta<br />
o per corso di stelle o di pianeta.<br />
125. reputavano i popoli <strong>da</strong>l cielo<br />
man<strong>da</strong>to fussi in terra un tal signore<br />
per carità, per giustizia e per zelo;<br />
e se non fussi spento il vecchio errore,<br />
adorato l’arebbon come belo<br />
per reverenzia e per antico amore:<br />
tanto che alcuno, forse, auttor non falla<br />
della croce incarnata in su la spalla.<br />
126. ammaestrò i figliuoli e le figliuole<br />
d’ogni arte liberal, d’ogni dottrina;<br />
né bisognava cercare altre scuole,<br />
allor, che l’accademia parigina.<br />
Voleva appresso tutta la sua prole<br />
se e’ cavalcava <strong>da</strong> sera o mattina.<br />
talvolta, per fuggir le sue donne ozio,<br />
ministravan lanifero negozio.<br />
127. La madre sua, ch’era berta chiamata,<br />
sempre la tenne con debito onore,
acciò che fussi la legge osservata<br />
di Moïsè <strong>da</strong> quel primo dottore:<br />
era di Grecia di gran sangue nata,<br />
figlia di eraclio degno imperatore.<br />
or basti una parola, uditor mio,<br />
ch’ogni cosa ben fa chi teme iddio.<br />
128. dunque giusta la vita, retta e buona<br />
è stata del mio carlo veramente,<br />
e tenuto lo imperio e la corona<br />
come magno signor felicemente.<br />
Ma perché intanto una tuba risuona<br />
in altra parte, e per tutto si sente,<br />
benché la istoria sia degna e famosa,<br />
convien che fine pure abbi ogni cosa.<br />
129. e s’io non ho quanto conviensi a carlo<br />
satisfatto co’ versi e col mio ingegno,<br />
io non posso il mio arco più sbarrarlo<br />
tanto ch’io passi il consüeto segno;<br />
e dicone mia colpa, e ristorarlo<br />
aspetto al tempo del figliuol suo degno,<br />
ch’io farò in terra più che semideo,<br />
dove sarà ciriffo calvaneo.<br />
130. io ho condotto in porto la mia barca:<br />
non vo’ più tentare ora abila e calpe,<br />
per che più oltre il mio nocchier non varca<br />
per non trovarsi come spesso talpe,<br />
o come quel che entrò nella santa arca<br />
tanto che’ monti si scuoprino o l’alpe<br />
pel tempo ancor pur nebuloso e torbo,<br />
ed aspettar che ritorni a me il corbo.<br />
131. non ch’io pensi star surto sempre fermo,<br />
ché, s’io vorrò passar più là che Ulisse,<br />
donna è nel ciel che mi fia sempre schermo;<br />
ma non pensai che innanzi al fin morisse!<br />
Questa fia la mia stella e ’l mio santo ermo,<br />
e perché prima in alto mar mi misse,<br />
come spirto beato tutto vede,<br />
ricorderassi ancor della mia fede.<br />
132. Sare’ forse materia accomo<strong>da</strong>ta,<br />
con la vita di carlo tanto eletta<br />
la vita di tal donna comparata,<br />
Lucrezia tornabuona, anzi perfetta,<br />
nella sedia sua antica rivocata<br />
<strong>da</strong>lla Virgine etterna benedetta<br />
che riveder la sua devota applaude;<br />
e canta or forse le sue sante laude.<br />
133. Quivi si legge or della sua Maria<br />
la vita, ove il suo libro è sempre aperto,<br />
e di esdram, di iudit e di tobia;<br />
quivi si rende giusto premio e merto;<br />
quivi s’intende or l’alta fantasia<br />
a descriver Giovanni nel deserto;<br />
quivi cantano or gli angeli i suoi versi,<br />
dove il ver d’ogni cosa può vedersi.<br />
13 . natura intese far quel ch’ella volle:<br />
una donna famosa al secol nostro,<br />
che per se stessa sé <strong>da</strong>ll’altre estolle<br />
tanto che manca ogni penna, ogni inchiostro.<br />
non la cognobbe il mondo cieco e folle,<br />
benché il vero valor chiaro fu mostro,<br />
come il Signor che colassù la serra:<br />
ché adorata l’arebbe in cielo e in terra.<br />
135. Quanti beni ha commessi! a quanto male<br />
ovvïato costei mentre era in vita!<br />
Però con la sua veste nuzïale<br />
l’anima in cielo a dio si rimarita<br />
quel dì che il santo messo aperse l’ale<br />
per la sua carità tanto infinita:<br />
sì che ancor prego che lassù m’accetti<br />
tra’ servi suoi nel numer degli eletti.<br />
136. e s’io ho satisfatto al suo desio,<br />
basta a me tanto e son di ciò contento:<br />
altro premio, altro onor non domando io,<br />
altro piacer che di godermi drento.<br />
e so ch’egli è lassù Morgante mio:<br />
però, s’alcun malivolo qui sento,<br />
a<strong>da</strong>tterà il battaglio ancor <strong>da</strong>l cielo<br />
in qualche modo, a scar<strong>da</strong>ssargli il pelo.<br />
137. Portin certi uccellacci un sasso in bocca<br />
come quelle oche al monte taüreo<br />
per non gracchiar, che poi il falcon le tocca;<br />
ch’io gli farò girar come paleo,<br />
ed ho sempre la sferza in su la scocca,<br />
perch’io fu’, prima ch’e’ gigante, reo;<br />
non mor<strong>da</strong> ignun chi ha zanne non che denti,<br />
dice il proverbio: io non dico altrimenti.<br />
138. io non domando grillande d’alloro<br />
di che i Greci e’ Latin chieggon corona;<br />
io non chieggo altra penna, altro stil d’oro<br />
a cantar d’aganippe e d’elicona:<br />
io me ne vo pe’ boschi puro e soro<br />
con la mia zampognetta che pur suona,<br />
e basta a me trovar tirsi e <strong>da</strong>meta;<br />
ch’io non son buon pastor, non che poeta;<br />
139. anzi non son prosuntüoso tanto<br />
quanto quel folle antico citarista<br />
a cui tolse già apollo il vivo ammanto,<br />
né tanto satir quant’io paio in vista.<br />
altri verrà con altro stile e canto,<br />
con miglior cetra, e più sovrano artista;<br />
io mi starò tra faggi e tra bifulci<br />
che non disprezzin le muse de’ Pulci.<br />
1 0. io me n’andrò con la barchetta mia<br />
quanto l’acqua comporta un piccol legno,<br />
e ciò ch’io penso con la fantasia,<br />
di piacere a ognuno è il mio disegno:<br />
convien che varie cose al mondo sia<br />
come son varii volti e vario ingegno,<br />
e piace all’uno il bianco, all’altro il perso,<br />
o diverse materie in prosa o in verso.
1 1. Forse coloro ancor che leggeranno,<br />
di questa tanto piccola favilla<br />
la mente con poca esca accenderanno<br />
de’ monti o di Parnaso o di Sibilla;<br />
e de’ miei fior come ape piglieranno<br />
i dotti, s’alcun dolce ne distilla;<br />
il resto a molti pur <strong>da</strong>rà diletto,<br />
e l’aüttore ancor fia benedetto.<br />
1 2. ben so che spesso, come già Morgante,<br />
lasciato ho forse troppo an<strong>da</strong>r la mazza;<br />
ma dove sia poi giudice bastante,<br />
materia c’è <strong>da</strong> camera e <strong>da</strong> piazza;<br />
ed avvien che chi usa con gigante<br />
convien che se n’appicchi qualche sprazza,<br />
sì ch’io ho fatto con altro battaglio<br />
a mosca cieca o talvolta a sonaglio.<br />
1 3. non sien <strong>da</strong>ti miei versi a Varo o tucca:<br />
e’ basta il bellincion che affermi e lodi,<br />
che porge come amico e non pilucca.<br />
i’ guarderò in sul ghiaccio ir con buon chiodi;<br />
io porterò in su gli omeri la zucca<br />
nell’acqua, cinta con sicuri nodi;<br />
e farò tanto quanto i savi fanno,<br />
di perdonare a color che non sanno.<br />
1 . ed oltre a questo, e’ ne verrà il mio antonio,<br />
per cui la nostra cetra è glorïosa<br />
del dolce verso materno aüsonio;<br />
bench’e’ si stia là in quella valle ombrosa,<br />
che fia del vero lume testimonio.<br />
ognun so che riprende qualche cosa;<br />
ma io non so s’e’ si son corvi o cigni<br />
i detrattori, o spiriti maligni.<br />
1 5. Pertanto, io non aspetto il bal<strong>da</strong>cchino,<br />
non aspetto co’ pifferi l’ombrello,<br />
non traggo fuori i nomi col verzino<br />
com’io veggo talvolta ogni libello:<br />
quand’io sarò con quel mio serafino,<br />
io gli trarrò fuor forse col cervello,<br />
perché questo agnol vi porrà la mano,<br />
nato per gloria di Montepulciano.<br />
1 6. Questo è quel divo e quel famoso alceo<br />
a cui sol si consente il plettro d’oro,<br />
che non invidia anfïone o Museo,<br />
ma stassi all’ombra d’un famoso alloro,<br />
e i monti sforza come il tracio orfeo,<br />
e sempre intorno ha di Parnaso il coro,<br />
e l’acque ferma e i sassi muove e glebe,<br />
ed a sua posta può richiuder tebe.<br />
1 7. io seguirò la sua famosa lira,<br />
tanto dolce, soave, armonizzante<br />
che come calamita a sé mi tira,<br />
tanto che insieme troverren Pallante;<br />
per che, sendo ambo messi in una pira,<br />
segni farà del nostro amor constante,<br />
d’una morte, un sepulcro, un epigramma,<br />
per qualche effetto, l’una e l’altra fiamma.<br />
1 8. noi ce n’andrem per le famose rive<br />
d’eürote e pe’ gioghi là di cinto,<br />
dove le muse aüsonie ed argive<br />
gli portan chi narciso e chi iacinto:<br />
io sentirò cose alte e magne e dive<br />
che non sentì mai Pindo o arachinto;<br />
io condurrò Pallante a delfi e delo,<br />
poi se n’andrà come Quirino in cielo.<br />
1 9. Questo sarà quel Pollïone in roma,<br />
questo sarà quel magno Mecenate<br />
a cui sempre ogni musa è perizoma.<br />
Pertanto, spirti degni, or vi svegliate,<br />
perché fiorir farà nostro idïoma,<br />
tanto fien le sue opre celebrate:<br />
materia avete innanzi agli occhi degna,<br />
che per se stessa sé lau<strong>da</strong>re insegna.<br />
150. Veggo tutte le Grazie a una a una,<br />
veggo tutte le ninfe le più belle,<br />
veggo che Palla con lor si rauna<br />
a cantar le sue laude insieme quelle;<br />
e non può contra opporsi la Fortuna,<br />
ché il sapïente supera le stelle;<br />
e la grazia del ciel gran segni mostra<br />
che questo è il vero onor della età nostra.<br />
151. Surge d’un fresco e prezïoso lauro<br />
certe piante gentil, certi rampolli,<br />
che mi par già sentir <strong>da</strong>ll’indo al Mauro<br />
tante cetre, Mercurii e tanti apolli<br />
che certo e’ sarà presto il mondo d’auro,<br />
ch’era già presso agli ultimi suoi crolli:<br />
tornano i tempi felici che furno<br />
quando e’ regnòe quel buon signor Saturno.<br />
152. benigni secul, che già lieti fêrsi,<br />
tornate a modular le nostre lire,<br />
ché la mia fantasia non può tenersi<br />
come ruota che mossa ancor vuol ire.<br />
chi negherebbe a Gallo già mai versi?<br />
Pro re, paüca dixi al mio desire.<br />
or sia qui fine al nostro ultimo canto<br />
con pace e gaudio e col saluto santo.<br />
153. Salve regina, madre glorïosa,<br />
vita e speranza sì dolce e soave;<br />
a te per colpa della antica sposa<br />
piangendo e sospirando gridiamo “ave”<br />
in questa valle tanto lacrimosa:<br />
però tu che per noi volgi la chiave,<br />
deh, volgi i pietosi occhi al nostro essilio,<br />
mostrandoci, Maria dolce, il tuo Filio.<br />
15 . degnami, se ’l mio priego è giusto e degno,<br />
ch’io possi te lau<strong>da</strong>r, Virgo sacrata;<br />
donami grazia e virtù pronta e ingegno<br />
contra a’ nimici tuoi, nostra avvocata;<br />
e perché in porto hai condotto mio legno,<br />
io ti ringrazio, Virgine beata:<br />
con la tua grazia cominciai la istoria;
con la tua grazia alfin mi <strong>da</strong>rai gloria.<br />
155. con la tua grazia, Virgine Maria,<br />
conserva la devota alma e verace<br />
mona Lucrezia tua, benigna e pia,<br />
con carità perfetta e vera pace;<br />
anzi essaudir puoi ciò che lei desia,<br />
ché sempre chiederà quel che a te piace.<br />
sì che lei prego per le sue virtute<br />
che per me impetri grazia di salute.
aGnoLo PoLiziano<br />
angelo Poliziano fu il maggiore poeta del secolo e il più grande umanista<br />
legato a un puro lavoro di forma. amò poi sempre lo stile composito, l’armonia<br />
difficile, la parola rara. <strong>da</strong> questo punto di vista egli rappresenta una eccezione<br />
nella generale tendenza del rinascimento che va verso la regolarità, la imitazione<br />
di un unico modello, il ciceronianesimo. egli fu in polemica con il cortese che<br />
difendeva il canone umanistico dell’unico modello. Per il Poliziano era invece<br />
proprio la contarninatio di più modelli che <strong>da</strong>va valore allo stile. Ma la poesia<br />
restava anche per lui un’opera di imitazione, un esercizio di stile. a poco più<br />
di 20 anni in occasione di una giostra fiorentina vinta <strong>da</strong> Giuliano, il fratello di<br />
Lorenzo, nel 1 7 , egli decise di comporre un poema mitologicoencomiastico<br />
con la descrizione di un torneo. il protagonista ha nella storia il nome di Julio; è<br />
un giovane che rifugge <strong>da</strong>ll’amore, va a caccia di cerve. Una cerva, un giorno, per<br />
opera di cupido, che vuole vendicarsi del giovane scontroso, si trasforma in una<br />
bellissima ninfa. nasce l’amore. cupido va ad annunziare alla madre la vittoria.<br />
abbiamo la descrizione del giardino di Venere; il giovane in sogno riceve l’avviso<br />
di prepararsi per il torneo.<br />
Qui il poema si interrompe probabilmente perché l’autore ha detto tutto. Si<br />
tratta di un mondo totalmente fittizio, lontano <strong>da</strong>lla dura realtà di Firenze, <strong>da</strong>lle<br />
lotte, interessi politici, religiosi, economici in cui i Medici erano fortemente<br />
coinvolti. cupido che è irritato <strong>da</strong>lla scontrosità di Julio, che lancia l’arco, che va<br />
ad annunziare a Venere la propria vittoria, il giardino di Venere, tutto ci riporta a<br />
un mondo convenzionale, astratto, vuoto.<br />
in verità l’interesse vero del poeta nell’opera è un interesse di stile, di difficile<br />
composizione, di raffinatissimo gioco di rime, di intarsi verbali e forme tratte<br />
<strong>da</strong> varie fonti, classiche, popolari, <strong>da</strong>ntesche, latine della decadenza. Questo<br />
impegno stilistico vale, in verità, assai più del resto, del tenue contenuto idillico<br />
mitologico, della storia <strong>da</strong> raccontare.<br />
L’italiano fu di un tratto riportato a nuove altezze: era di nuovo una lingua d’arte,<br />
non più, come nello Stil novo, limitato a un ambito particolare, non più legato a<br />
un certo livello di eloquenza come nel Petrarca. nelle Stanze era un linguaggio<br />
vario, popolare e squisito a un tempo, realistico e idillico, vago e acuto. il giovane<br />
Poliziano aveva compiuto <strong>da</strong> solo l’impresa di riportare il volgare alle altezze<br />
del latino, di fondere il popolaresco col classico, di fare un tutto raffinato, degno<br />
della più squisita coscienza umanistica. L’ottava, che nel boccaccio era rimasta<br />
uniforme, monotona, popolaresca, si sno<strong>da</strong>va ora in nuovi accordi, diventava<br />
varia, compatta. È <strong>da</strong> questi grandi risultati che muoverà la grande, matura arte<br />
dell’ariosto.
Stanze Per La GioStra di GiULiano de’ Medici<br />
Libro PriMo<br />
50<br />
Volta la ninfa al suon delle parole,<br />
lampeggiò d’un sì dolce e vago riso,<br />
che i monti avre’ fatto ir, restare il sole:<br />
ché ben parve s’aprissi un paradiso.<br />
Poi formò voce fra perle e viole,<br />
tal ch’un marmo per mezzo avre’ diviso;<br />
soave, saggia e di dolceza piena,<br />
<strong>da</strong> innamorar non ch’altri una Sirena:<br />
51<br />
“io non son qual tua mente invano auguria,<br />
non d’altar degna, non di pura vittima;<br />
ma là sovra arno innella vostra etruria<br />
sto soggiogata alla te<strong>da</strong> legittima;<br />
mia natal patria è nella aspra Liguria,<br />
sovra una costa alla riva marittima,<br />
ove fuor de’ gran massi in<strong>da</strong>rno gemere<br />
si sente il fer nettunno e irato fremere.<br />
52<br />
Sovente in questo loco mi diporto,<br />
qui vegno a soggiornar tutta soletta;<br />
questo è de’ mia pensieri un dolce porto,<br />
qui l’erba e’ fior, qui il fresco aier m’alletta;<br />
quinci il tornare a mia magione è accorto,<br />
qui lieta mi dimoro Simonetta,<br />
all’ombre, a qualche chiara e fresca linfa,<br />
e spesso in compagnia d’alcuna ninfa.<br />
53<br />
io soglio pur nelli ociosi tempi,<br />
quando nostra fatica s’interrompe,<br />
venire a’ sacri altar ne’ vostri tempî<br />
fra l’altre donne con l’usate pompe;<br />
ma perch’io in tutto el gran desir t’adempi<br />
e ’l dubio tolga che tuo mente rompe,<br />
meraviglia di mie bellezze tenere<br />
non prender già, ch’io nacqui in grembo a Venere.<br />
5<br />
or poi che ’l sol sue rote in basso cala,<br />
e <strong>da</strong> questi arbor cade maggior l’ombra,<br />
già cede al grillo la stanca cicala,<br />
già ’l rozo zappator del campo sgombra,<br />
e già dell’alte ville il fumo essala,<br />
la villanella all’uom suo el desco ingombra;<br />
omai riprenderò mia via più accorta,<br />
e tu lieto ritorna alla tua scorta”.<br />
55<br />
Poi con occhi più lieti e più ridenti,<br />
tal che ’l ciel tutto asserenò d’intorno,<br />
mosse sovra l’erbetta e passi lenti<br />
con atto d’amorosa grazia adorno.<br />
Feciono e boschi allor dolci lamenti<br />
e gli augelletti a pianger cominciorno;<br />
ma l’erba verde sotto i dolci passi<br />
bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.<br />
56<br />
che de’ far iulio? ahimè, ch’e’ pur desidera<br />
seguir sua stella e pur temenza il tiene:<br />
sta come un forsennato, e ’l cor gli assidera,<br />
e gli s’aghiaccia el sangue entro le vene;<br />
sta come un marmo fisso, e pur considera<br />
lei che sen va né pensa di sue pene,<br />
fra sé lo<strong>da</strong>ndo il dolce an<strong>da</strong>r celeste<br />
e ’l ventilar dell’angelica veste.<br />
57<br />
e’ par che ’l cor del petto se li schianti,<br />
e che del corpo l’alma via si fugga,<br />
e ch’a guisa di brina, al sol <strong>da</strong>vanti,<br />
in pianto tutto si consumi e strugga.<br />
Già si sente esser un degli altri amanti,<br />
e pargli ch’ogni vena amor li sugga;<br />
or teme di seguirla, or pure agogna,<br />
qui ’l tira amor, quinci il ritrae vergogna.<br />
58<br />
“U’ sono or, iulio, le sentenzie gravi,<br />
le parole magnifiche e’ precetti<br />
con che i miseri amanti molestavi?<br />
Perché pur di cacciar non ti diletti?<br />
or ecco ch’una donna ha in man le chiavi<br />
d’ogni tua voglia, e tutti in sé ristretti<br />
tien, miserello, i tuoi dolci pensieri;<br />
vedi chi tu se’ or, chi pur dianzi eri.<br />
59<br />
dianzi eri d’una fera cacciatore,<br />
più bella fera or t’ha ne’ lacci involto;<br />
dianzi eri tuo, or se’ fatto d’amore,<br />
sei or legato, e dianzi eri disciolto.<br />
dov’è tuo libertà, dov’è ’l tuo core?<br />
amore e una donna te l’ha tolto.<br />
ahi, come poco a sé creder uom degge!<br />
ch’a virtute e fortuna amor pon legge”.<br />
60<br />
La notte che le cose ci nasconde<br />
tornava ombrata di stellato ammanto,<br />
e l’usignuol sotto l’amate fronde<br />
cantando ripetea l’antico pianto,<br />
ma sola a’ sua lamenti ecco risponde,<br />
ch’ogni altro augel quetato avea già ’l canto;<br />
<strong>da</strong>lla chimmeria valle uscian le torme<br />
de’ Sogni negri con diverse forme.<br />
61<br />
e gioven che restati nel bosco erono,<br />
vedendo il cel già le sue stelle accendere,<br />
sentito il segno, al cacciar posa ferono;<br />
ciascun s’affretta a lacci e reti stendere,<br />
poi colla pre<strong>da</strong> in un sentier si schierono:<br />
ivi s’attende sol parole a vendere,<br />
ivi menzogne a vil pregio si mercono;<br />
poi tutti del bel iulio fra sé cercono.<br />
62
Ma non veggendo il car compagno intorno,<br />
ghiacciossi ognun di subita paura<br />
che qualche cru<strong>da</strong> fera il suo ritorno<br />
non li ’mpedisca o altra ria sciagura.<br />
chi mostra fuochi, chi squilla el suo corno,<br />
chi forte il chiama per la selva oscura,<br />
le lunghe voci ripercosse abondono,<br />
e “iulio iulio” le valli rispondono.<br />
63<br />
ciascun si sta per la paura incerto,<br />
gelato tutto, se non ch’ei pur chiama;<br />
veggiono il cel di tenebre coperto,<br />
né san dove cercar, bench’ognun brama.<br />
Pur “iulio iulio” suona il gran diserto;<br />
non sa che farsi omai la gente grama.<br />
Ma poi che molta notte in<strong>da</strong>rno spesono,<br />
dolenti per tornarsi il cammin presono.<br />
6<br />
cheti sen vanno e pure alcun col vero<br />
la dubia speme alquanto riconforta,<br />
ch’el sia rèdito per altro sentiero<br />
al loco ove s’invia la loro scorta.<br />
ne’ petti ondeggia or questo or quel pensiero,<br />
che fra paura e speme il cor traporta:<br />
così raggio, che specchio mobil ferza,<br />
per la gran sala or qua or là si scherza.<br />
65<br />
Ma ’l gioven, che provato avea già l’arco<br />
ch’ogni altra cura sgombra fuor del petto,<br />
d’altre speme e paure e pensier carco,<br />
era arrivato alla magion soletto.<br />
ivi pensando al suo novello incarco<br />
stava in forti pensier tutto ristretto,<br />
quando la compagnia piena di doglia<br />
tutta pensosa entrò dentro alla soglia.<br />
66<br />
ivi ciascun più <strong>da</strong> vergogna involto<br />
per li alti gradi sen va lento lento:<br />
quali i pastori a cui il fer lupo ha tolto<br />
il più bel toro del cornuto armento,<br />
tornonsi a lor signor con basso volto,<br />
né s’ardiscon d’entrar all’uscio drento;<br />
stan sospirosi e di dolor confusi,<br />
e ciascun pensa pur come sé scusi.<br />
67<br />
Ma tosto ognuno allegro alzò le ciglia,<br />
veggendo salvo lì sì caro pegno:<br />
tal si fe’, poi che la sua dolce figlia<br />
ritrovò, ceres giù nel morto regno.<br />
tutta festeggia la lieta famiglia<br />
con essi, e iulio di gioir fa segno,<br />
e quanto el può nel cor preme sua pena<br />
e il volto di letizia rasserena.<br />
68<br />
Ma fatta amor la sua bella vendetta,<br />
mossesi lieto pel negro aere a volo,<br />
e ginne al regno di sua madre in fretta,<br />
ov’è de’ picciol suoi fratei lo stuolo:<br />
al regno ov’ogni Grazia si diletta,<br />
ove biltà di fiori al crin fa brolo,<br />
ove tutto lascivo, drieto a Flora,<br />
zefiro vola e la verde erba infiora.<br />
69<br />
or canta meco un po’ del dolce regno,<br />
erato bella, che ’l nome hai d’amore;<br />
tu sola, benché casta, puoi nel regno<br />
secura entrar di Venere e d’amore;<br />
tu de’ versi amorosi hai sola il regno,<br />
teco sovente a cantar viensi amore;<br />
e, posta giù <strong>da</strong>gli omer la faretra,<br />
tenta le corde di tua bella cetra.<br />
70<br />
Vagheggia cipri un dilettoso monte,<br />
che del gran nilo e sette corni vede<br />
e ’l primo rosseggiar dell’orizonte,<br />
ove poggiar non lice al mortal piede.<br />
nel giogo un verde colle alza la fronte,<br />
sotto esso aprico un lieto pratel siede,<br />
u’ scherzando tra’ fior lascive aurette<br />
fan dolcemente tremolar l’erbette.<br />
71<br />
corona un muro d’or l’estreme sponde<br />
con valle ombrosa di schietti arbuscelli,<br />
ove in su’ rami fra novelle fronde<br />
cantano i loro amor soavi augelli.<br />
Sentesi un grato mormorio dell’onde,<br />
che fan duo freschi e lucidi ruscelli,<br />
versando dolce con amar liquore,<br />
ove arma l’oro de’ suoi strali amore.<br />
72<br />
né mai le chiome del giardino eterno<br />
tenera brina o fresca neve imbianca;<br />
ivi non osa entrar ghiacciato verno,<br />
non vento o l’erbe o li arbuscelli stanca;<br />
ivi non volgon gli anni il lor quaderno,<br />
ma lieta Primavera mai non manca,<br />
ch’e suoi crin biondi e crespi all’aura spiega,<br />
e mille fiori in ghirlandetta lega.<br />
73<br />
Lungo le rive e frati di cupido,<br />
che solo uson ferir la plebe ignota,<br />
con alte voci e fanciullesco grido<br />
aguzzon lor saette ad una cota.<br />
Piacere e insidia, posati in sul lido,<br />
volgono il perno alla sanguigna rota,<br />
e ’l fallace Sperar col van disio<br />
spargon nel sasso l’acqua del bel rio.<br />
7<br />
dolce Paura e timido diletto,<br />
dolce ire e dolce Pace insieme vanno;<br />
le Lacrime si lavon tutto il petto<br />
e ’l fiumicello amaro crescer fanno;
Pallore smorto e paventoso affetto<br />
con Magreza si duole e con affanno;<br />
vigil Sospetto ogni sentiero spia,<br />
Letizia balla in mezo della via.<br />
75<br />
Voluttà con belleza si gavazza,<br />
va fuggendo il contento e siede angoscia,<br />
el ceco errore or qua or là svolazza,<br />
percuotesi il Furor con man la coscia;<br />
la Penitenzia misera stramazza,<br />
che del passato error s’è accorta poscia,<br />
nel sangue crudeltà lieta si ficca,<br />
e la desperazion se stessa impicca.<br />
76<br />
tacito inganno e simulato riso<br />
con cenni astuti messaggier de’ cori,<br />
e fissi Sguardi, con pietoso viso,<br />
tendon lacciuoli a Gioventù tra’ fiori.<br />
Stassi, col volto in sulla palma assiso,<br />
el Pianto in compagnia de’ suo’ dolori;<br />
e quinci e quindi vola sanza modo<br />
Licenzia non ristretta in alcun nodo.<br />
77<br />
con tal milizia e tuoi figli accompagna<br />
Venere bella, madre delli amori.<br />
zefiro il prato di rugia<strong>da</strong> bagna,<br />
spargendolo di mille vaghi odori:<br />
ovunque vola, veste la campagna<br />
di rose, gigli, violette e fiori;<br />
l’erba di sue belleze ha maraviglia:<br />
bianca, cilestra, palli<strong>da</strong> e vermiglia.<br />
78<br />
trema la mammoletta verginella<br />
con occhi bassi, onesta e vergognosa;<br />
ma vie più lieta, più ridente e bella,<br />
ardisce aprire il seno al sol la rosa:<br />
questa di verde gemma s’incappella,<br />
quella si mostra allo sportel vezosa,<br />
l’altra, che ’n dolce foco ardea pur ora,<br />
langui<strong>da</strong> cade e ’l bel pratello infiora.<br />
79<br />
L’alba nutrica d’amoroso nembo<br />
gialle, sanguigne e candide viole;<br />
descritto ha ’l suo dolor iacinto in grembo,<br />
narcisso al rio si specchia come suole;<br />
in bianca vesta con purpureo lembo<br />
si gira clizia palidetta al sole;<br />
adon rinfresca a Venere il suo pianto,<br />
tre lingue mostra croco, e ride acanto.<br />
80<br />
Mai rivestì di tante gemme l’erba<br />
la novella stagion che ’l mondo aviva.<br />
Sovresso il verde colle alza superba<br />
l’ombrosa chioma u’ el sol mai non arriva;<br />
e sotto vel di spessi rami serba<br />
fresca e gelata una fontana viva,<br />
con sì pura, tranquilla e chiara vena,<br />
che gli occhi non offesi al fondo mena.<br />
81<br />
L’acqua <strong>da</strong> viva pomice zampilla,<br />
che con suo arco il bel monte sospende;<br />
e, per fiorito solco indi tranquilla<br />
pingendo ogni sua orma, al fonte scende:<br />
<strong>da</strong>lle cui labra un grato umor distilla,<br />
che ’l premio di lor ombre alli arbor rende;<br />
ciascun si pasce a mensa non avara,<br />
e par che l’un dell’altro cresca a gara.<br />
82<br />
cresce l’abeto schietto e sanza nocchi<br />
<strong>da</strong> spander l’ale a borea in mezo l’onde;<br />
l’elce che par di mèl tutta trabocchi,<br />
e ’l laur che tanto fa bramar suo fronde;<br />
bagna cipresso ancor pel cervio gli occhi<br />
con chiome or aspre, e già distese e bionde;<br />
ma l’alber, che già tanto ad ercol piacque,<br />
col platan si trastulla intorno all’acque.<br />
83<br />
Surge robusto el cerro, et alto el faggio,<br />
nodoso el cornio, e ’l salcio umido e lento;<br />
l’olmo fronzuto, e ’l frassin pur selvaggio;<br />
el pino alletta con suoi fischi il vento.<br />
L’avorniol tesse ghirlandette al maggio,<br />
ma l’acer d’un color non è contento;<br />
la lenta palma serba pregio a’ forti,<br />
l’ellera va carpon co’ piè distorti.<br />
8<br />
Mostronsi adorne le vite novelle<br />
d’abiti varie e con diversa faccia:<br />
questa gonfiando fa crepar la pelle,<br />
questa racquista le già perse braccia;<br />
quella tessendo vaghe e liete ombrelle,<br />
pur con pampinee fronde apollo scaccia;<br />
quella ancor monca piange a capo chino,<br />
spargendo or acqua per versar poi vino.<br />
85<br />
el chiuso e crespo bosso al vento ondeggia,<br />
e fa la piaggia di verdura adorna;<br />
el mirto, che sua dea sempre vagheggia,<br />
di bianchi fiori e verdi capelli orna.<br />
ivi ogni fera per amor vaneggia,<br />
l’un ver l’altro i montoni armon le corna,<br />
l’un l’altro cozza, l’un l’altro martella,<br />
<strong>da</strong>vanti all’amorosa pecorella.<br />
86<br />
e mughianti giovenchi a piè del colle<br />
fan vie più cru<strong>da</strong> e dispietata guerra,<br />
col collo e il petto insanguinato e molle,<br />
spargendo al ciel co’ piè l’erbosa terra.<br />
Pien di sanguigna schiuma el cinghial bolle,<br />
le larghe zanne arruota e il grifo serra,<br />
e rugghia e raspa e, per più armar sue forze,<br />
frega il calloso cuoio a dure scorze.
87<br />
Pruovon lor punga e <strong>da</strong>ini paurosi,<br />
e per l’amata dru<strong>da</strong> arditi fansi;<br />
ma con pelle vergata, aspri e rabbiosi,<br />
e tigri infuriati a ferir vansi;<br />
sbatton le code e con occhi focosi<br />
ruggendo i fier leon di petto <strong>da</strong>nsi;<br />
zufola e soffia il serpe per la biscia,<br />
mentre ella con tre lingue al sol si liscia.<br />
88<br />
el cervio appresso alla Massilia fera<br />
co’ piè levati la sua sposa abbraccia;<br />
fra l’erbe ove più ride primavera,<br />
l’un coniglio coll’altro s’accovaccia;<br />
le semplicette lepri vanno a schiera,<br />
de’ can secure, ad amorosa traccia:<br />
sì l’odio antico e ’l natural timore<br />
ne’ petti ammorza, quando vuole, amore.<br />
89<br />
e muti pesci in frotta van notando<br />
dentro al vivente e tenero cristallo,<br />
e spesso intorno al fonte roteando<br />
guidon felice e dilettoso ballo;<br />
tal volta sovra l’acqua, un po’ guizzando,<br />
mentre l’un l’altro segue, escono a gallo:<br />
ogni loro atto sembra festa e gioco,<br />
né spengon le fredde acque il dolce foco.<br />
90<br />
Li augelletti dipinti intra le foglie<br />
fanno l’aere addolcir con nuove rime,<br />
e fra più voci un’armonia s’accoglie<br />
di sì beate note e sì sublime,<br />
che mente involta in queste umane spoglie<br />
non potria sormontare alle sue cime;<br />
e dove amor gli scorge pel boschetto,<br />
salton di ramo in ramo a lor diletto.<br />
91<br />
al canto della selva ecco rimbomba,<br />
ma sotto l’ombra che ogni ramo anno<strong>da</strong>,<br />
la passeretta gracchia e a torno romba;<br />
spiega il pavon la sua gemmata co<strong>da</strong>,<br />
bacia el suo dolce sposo la colomba,<br />
e bianchi cigni fan sonar la pro<strong>da</strong>;<br />
e presso alla sua vaga tortorella<br />
il pappagallo squittisce e favella.<br />
92<br />
Quivi cupido e’ suoi pennuti frati,<br />
lassi già di ferir uomini e dei,<br />
prendon diporto, e colli strali aurati<br />
fan sentire alle fere i crudi omei;<br />
la dea ciprigna fra’ suoi dolci nati<br />
spesso sen viene, e Pasitea con lei,<br />
quetando in lieve sonno gli occhi belli<br />
fra l’erbe e’ fiori e’ gioveni arbuscelli.<br />
93<br />
Muove <strong>da</strong>l colle, mansueta e dolce,<br />
la schiena del bel monte, e sovra i crini<br />
d’oro e di gemme un gran palazo folce,<br />
su<strong>da</strong>to già nei cicilian camini.<br />
Le tre ore, che ’n cima son bobolce,<br />
pascon d’ambrosia i fior sacri e divini:<br />
né prima <strong>da</strong>l suo gambo un se ne coglie,<br />
ch’un altro al ciel più lieto apre le foglie.<br />
9<br />
raggia <strong>da</strong>vanti all’uscio una gran pianta,<br />
che fronde ha di smeraldo e pomi d’oro:<br />
e pomi ch’arrestar fenno atalanta,<br />
ch’ad ippomene dienno il verde alloro.<br />
Sempre sovresso Filomela canta,<br />
sempre sottesso è delle ninfe un coro;<br />
spesso imeneo col suon di sua zampogna<br />
tempra lor <strong>da</strong>nze, e pur le noze agogna.<br />
95<br />
La regia casa il sereno aier fende,<br />
fiammeggiante di gemme e di fino oro,<br />
che chiaro giorno a meza notte accende;<br />
ma vinta è la materia <strong>da</strong>l lavoro.<br />
Sovra a colonne a<strong>da</strong>mantine pende<br />
un palco di smeraldo, in cui già fuoro<br />
aneli e stanchi, drento a Mongibello,<br />
Sterope e bronte et ogni lor martello.<br />
96<br />
Le mura a torno d’artificio miro<br />
forma un soave e lucido berillo;<br />
passa pel dolce oriental zaffiro<br />
nell’ampio albergo el dì puro e tranquillo;<br />
ma il tetto d’oro, in cui l’estremo giro<br />
si chiude, contro a Febo apre il vessillo;<br />
per varie pietre il pavimento ameno<br />
di mirabil pittura adorna il seno.<br />
97<br />
Mille e mille color formon le porte,<br />
di gemme e di sì vivi intagli chiare,<br />
che tutte altre opre sarian roze e morte<br />
<strong>da</strong> far di sé natura vergognare:<br />
nell’una è insculta la ’nfelice sorte<br />
del vecchio celio, e in vista irato pare<br />
suo figlio, e colla falce adunca sembra<br />
tagliar del padre le feconde membra.<br />
98<br />
ivi la terra con distesi ammanti<br />
par ch’ogni goccia di quel sangue accoglia,<br />
onde nate le Furie e’ fier Giganti<br />
di sparger sangue in vista mostron voglia;<br />
d’un seme stesso in diversi sembianti<br />
paion le ninfe uscite sanza spoglia,<br />
pur come snelle cacciatrice in selva,<br />
gir saettando or una or altra belva.<br />
99<br />
nel tempestoso egeo in grembo a teti<br />
si vede il frusto genitale accolto,
sotto diverso volger di pianeti<br />
errar per l’onde in bianca schiuma avolto;<br />
e drento nata in atti vaghi e lieti<br />
una donzella non con uman volto,<br />
<strong>da</strong> zefiri lascivi spinta a pro<strong>da</strong>,<br />
gir sovra un nicchio, e par che ’l cel ne go<strong>da</strong>.<br />
100<br />
Vera la schiuma e vero il mar diresti,<br />
e vero il nicchio e ver soffiar di venti;<br />
la dea negli occhi folgorar vedresti,<br />
e ’l cel riderli a torno e gli elementi;<br />
l’ore premer l’arena in bianche vesti,<br />
l’aura incresparle e crin distesi e lenti;<br />
non una, non diversa esser lor faccia,<br />
come par ch’a sorelle ben confaccia.<br />
101<br />
Giurar potresti che dell’onde uscissi<br />
la dea premendo colla destra il crino,<br />
coll’altra il dolce pome ricoprissi;<br />
e, stampata <strong>da</strong>l piè sacro e divino,<br />
d’erbe e di fior l’arena si vestissi;<br />
poi, con sembiante lieto e peregrino,<br />
<strong>da</strong>lle tre ninfe in grembo fussi accolta,<br />
e di stellato vestimento involta.<br />
102<br />
Questa con ambe man le tien sospesa<br />
sopra l’umide trezze una ghirlan<strong>da</strong><br />
d’oro e di gemme orientali accesa,<br />
questa una perla alli orecchi accoman<strong>da</strong>;<br />
l’altra al bel petto e’ bianchi omeri intesa,<br />
par che ricchi monili intorno span<strong>da</strong>,<br />
de’ quai solien cerchiar lor proprie gole,<br />
quando nel ciel gui<strong>da</strong>von le carole.<br />
103<br />
indi paion levate inver le spere<br />
seder sovra una nuvola d’argento:<br />
l’aier tremante ti parria vedere<br />
nel duro sasso, e tutto il cel contento;<br />
tutti li dei di sua biltà godere,<br />
e del felice letto aver talento:<br />
ciascun sembrar nel volto meraviglia,<br />
con fronte crespa e rilevate ciglia.<br />
10<br />
nello estremo, se stesso el divin fabro<br />
formò felice di sì dolce palma,<br />
ancor <strong>da</strong>lla fucina irsuto e scabro,<br />
quasi obliando per lei ogni salma,<br />
con desire aggiugnendo labro a labro<br />
come tutta d’amor gli ardessi l’alma:<br />
e par vie maggior fuoco acceso in ello,<br />
che quel ch’avea lasciato in Mongibello.<br />
105<br />
nell’altra in un formoso e bianco tauro<br />
si vede Giove per amor converso<br />
portarne il dolce suo ricco tesauro,<br />
e lei volgere il viso al lito perso<br />
in atto paventosa; e i bei crin d’auro<br />
scherzon nel petto per lo vento avverso;<br />
la vesta ondeggia, e indrieto fa ritorno,<br />
l’una man tiene al dorso, e l’altra al corno.<br />
106<br />
Le ’gnude piante a sé ristrette accoglie<br />
quasi temendo il mar che lei non bagne:<br />
tale atteggiata di paura e doglie<br />
par chiami invan le dolci sue compagne;<br />
le qual rimase tra fioretti e foglie<br />
dolenti europa ciascheduna piagne.<br />
“europa”, suona il lito, “europa, riedi”,<br />
e ’l tor nuota e talor li bacia e piedi.<br />
107<br />
or si fa Giove un cigno or pioggia d’oro,<br />
or di serpente or d’un pastor fa fede,<br />
per fornir l’amoroso suo lavoro;<br />
or transformarsi in aquila si vede,<br />
come amor vuole, e nel celeste coro<br />
portar sospeso il suo bel Ganimede,<br />
qual di cipresso ha il biondo capo avinto,<br />
ignudo tutto e sol d’ellera cinto.<br />
108<br />
Fassi nettunno un lanoso montone,<br />
fassi un torvo giovenco per amore;<br />
fassi un cavallo il padre di chirone,<br />
diventa Febo in tessaglia un pastore:<br />
e ’n picciola capanna si ripone<br />
colui ch’a tutto il mondo dà splendore,<br />
né li giova a sanar sue piaghe acerbe<br />
perch’e’ conosca la virtù dell’erbe.<br />
109<br />
Poi segue <strong>da</strong>fne, e ’n sembianza si lagna<br />
come dicessi: “o ninfa, non ten gire,<br />
ferma il piè, ninfa, sovra la campagna,<br />
ch’io non ti seguo per farti morire;<br />
così cerva lion, così lupo agna,<br />
ciascuna il suo nemico suol fuggire:<br />
me perché fuggi, o donna del mio core,<br />
cui di seguirti è sol cagione amore?”<br />
110<br />
<strong>da</strong>ll’altra parte la bella arianna<br />
colle sorde acque di teseo si duole,<br />
e dell’aura e del sonno che la ’nganna;<br />
di paura tremando, come suole<br />
per picciol ventolin palustre canna,<br />
pare in atto aver prese tai parole:<br />
“ogni fera di te meno è crudele,<br />
ognun di te più mi saria fedele”.<br />
111<br />
Vien sovra un carro, d’ellera e di pampino<br />
coverto bacco, il qual duo tigri guidono,<br />
e con lui par che l’alta arena stampino<br />
Satiri e bacche, e con voci alte gridono:<br />
quel si vede ondeggiar, quei par che ’nciampino,<br />
quel con un cembol bee, quelli altri ridono;
qual fa d’un corno e qual delle man ciotola,<br />
quale ha preso una ninfa e qual si ruotola.<br />
112<br />
Sovra l’asin Silen, di ber sempre avido,<br />
con vene grosse nere e di mosto umide,<br />
marcido sembra sonnacchioso e gravido,<br />
le luci ha di vin rosse infiate e fumide;<br />
l’ardite ninfe l’asinel suo pavido<br />
pungon col tirso, e lui con le man tumide<br />
a’ crin s’appiglia; e mentre sì l’aizono,<br />
casca nel collo, e’ satiri lo rizono.<br />
113<br />
Quasi in un tratto vista amata e tolta<br />
<strong>da</strong>l fero Pluto, Proserpina pare<br />
sovra un gran carro, e la sua chioma sciolta<br />
a’ zefiri amorosi ventilare;<br />
la bianca vesta in un bel grembo accolta<br />
sembra i colti fioretti giù versare:<br />
lei si percuote il petto, e ’n vista piagne,<br />
or la madre chiamando or le compagne.<br />
11<br />
Posa giù del leone il fero spoglio<br />
ercole, e veste di femminea gonna<br />
colui che ’l mondo <strong>da</strong> greve cordoglio<br />
avea scampato, et or serve una donna;<br />
e può soffrir d’amor l’indegno orgoglio<br />
chi colli omer già fece al ciel colonna;<br />
e quella man con che era a tenere uso<br />
la clava ponderosa, or torce un fuso.<br />
115<br />
Gli omer setosi a Polifemo ingombrano<br />
l’orribil chiome e nel gran petto cascono,<br />
e fresche ghiande l’aspre tempie adombrano:<br />
d’intorno a lui le sue pecore pascono,<br />
né a costui <strong>da</strong>l cor già mai disgombrano<br />
le dolce acerbe cur che d’amor nascono,<br />
anzi, tutto di pianto e dolor macero,<br />
siede in un freddo sasso a piè d’un acero.<br />
116<br />
<strong>da</strong>ll’uno all’altro orecchio un arco face<br />
il ciglio irsuto lungo ben sei spanne;<br />
largo sotto la fronte il naso giace,<br />
paion di schiuma biancheggiar le zanne;<br />
tra’ piedi ha ’l cane, e sotto il braccio tace<br />
una zampogna ben di cento canne:<br />
lui guata il mar che ondeggia, e alpestre note<br />
par canti, e muova le lanose gote,<br />
117<br />
e dica ch’ella è bianca più che il latte,<br />
ma più superba assai ch’una vitella,<br />
e che molte ghirlande gli ha già fatte,<br />
e serbali una cervia molto bella,<br />
un orsacchin che già col can combatte;<br />
e che per lei si macera e sfragella,<br />
e che ha gran voglia di saper notare<br />
per an<strong>da</strong>re a trovarla insin nel mare.<br />
118<br />
duo formosi delfini un carro tirono:<br />
sovresso è Galatea che ’l fren corregge,<br />
e quei notando parimente spirono;<br />
ruotasi attorno più lasciva gregge:<br />
qual le salse onde sputa, e quai s’aggirono,<br />
qual par che per amor giuochi e vanegge;<br />
la bella ninfa colle suore fide<br />
di sì rozo cantor vezzosa ride.<br />
119<br />
intorno al bel lavor serpeggia acanto,<br />
di rose e mirti e lieti fior contesto;<br />
con varii augei sì fatti, che il lor canto<br />
pare udir nelli orecchi manifesto:<br />
né d’altro si pregiò Vulcan mai tanto,<br />
né ’l vero stesso ha più del ver che questo;<br />
e quanto l’arte intra sé non comprende,<br />
la mente imaginando chiaro intende.<br />
120<br />
Questo è ’l loco che tanto a Vener piacque,<br />
a Vener bella, alla madre d’amore;<br />
qui l’arcier frodolente prima nacque,<br />
che spesso fa cangiar voglia e colore,<br />
quel che soggioga il cel, la terra e l’acque,<br />
che tende alli occhi reti, e prende il core,<br />
dolce in sembianti, in atti acerbo e fello,<br />
giovene nudo, faretrato augello.<br />
121<br />
or poi che ad ale tese ivi pervenne,<br />
forte le scosse, e giù calassi a piombo,<br />
tutto serrato nelle sacre penne,<br />
come a suo nido fa lieto colombo:<br />
l’aier ferzato assai stagion ritenne<br />
della pennuta striscia il forte rombo:<br />
ivi racquete le triunfante ale,<br />
superbamente inver la madre sale.<br />
122<br />
trovolla assisa in letto fuor del lembo,<br />
pur mo’ di Marte sciolta <strong>da</strong>lle braccia,<br />
il qual roverso li giacea nel grembo,<br />
pascendo gli occhi pur della sua faccia:<br />
di rose sovra a lor pioveva un nembo<br />
per rinnovarli all’amorosa traccia;<br />
ma Vener <strong>da</strong>va a lui con voglie pronte<br />
mille baci negli occhi e nella fronte.<br />
123<br />
Sovra e d’intorno i piccioletti amori<br />
scherzavon nudi or qua or là volando:<br />
e qual con ali di mille colori<br />
giva le sparte rose ventilando,<br />
qual la faretra empiea de’ freschi fiori,<br />
poi sovra il letto la venia versando,<br />
qual la cadente nuvola rompea<br />
fermo in su l’ale, e poi giù la scotea.<br />
12
come avea delle penne <strong>da</strong>to un crollo,<br />
così l’erranti rose eron riprese:<br />
nessun del vaneggiar era satollo;<br />
quando apparve cupido ad ale tese,<br />
ansando tutto, e di sua madre al collo<br />
gittossi, e pur co’ vanni el cor li accese,<br />
allegro in vista, e sì lasso ch’a pena<br />
potea ben, per parlar, riprender lena.<br />
125<br />
“onde vien, figlio, o qual n’apporti nuove?”,<br />
Vener li disse, e lo baciò nel volto:<br />
“onde esto tuo sudor? qual fatte hai pruove?<br />
qual dio, qual uomo hai ne’ tuo’ lacci involto?<br />
Fai tu di nuovo in tiro mughiar Giove?<br />
o Saturno ringhiar per Pelio folto?<br />
che che ciò sia, non umil cosa parmi,<br />
o figlio, o sola mia potenzia et armi”.
Matteo Maria boiardo<br />
L’Orlando innamorato è, diciamo subito, nel suo insieme il ritratto allegorico della<br />
corte ferrarese e della corte italiana dell’ultimo trentennio del secolo. L’intreccio<br />
si basa sulla storia di orlando, paladino di Francia, innamorato di angelica, bella<br />
principessa saracena. Ma angelica nella foresta dell’ardenna ha bevuto alle<br />
fontane di Merlino che ha due getti, uno che fa innamorare, l’altro odiare: angelica<br />
ha bevuto a quello dell’amore e s’è innamorata di rinaldo, altro paladino di carlo<br />
Magno e cugino di orlando. rinaldo, a sua volta, ha bevuto al getto dell’odio ed<br />
aveva preso ad odiare angelica. costei grazie alle arti magiche di Malagise aveva<br />
sottratto a carlo Magno il meglio dei suoi paladini e li aveva condotti nella sua<br />
città, albraccà nel catai. Lo aveva fatto perché albraccà è assediata <strong>da</strong>i tartari (cui<br />
s’è unito rinaldo) di agricane. orlando, naturalmente, allettato ingannevolmente<br />
<strong>da</strong> angelica è al fianco di costei. e sarà proprio orlando ad uccidere agricane in un<br />
duello straordinario e per il valore guerriero dei cavalieri, e ancor più per i modi<br />
con cui si attua. infatti lo scontro tra i due è ancora in atto quando sopraggiunge<br />
la notte; decidono di smettere e dormire. in assoluta lealtà i due si apprestano<br />
a trascorrere nel riposo la notte, quando alla vista del cielo stellato orlando si<br />
abbandona allo sgomento per l’infinità e bellezza del creato. agricane interviene<br />
ad interromperlo:<br />
disse agricane: io comprendo per certo<br />
che tu vûi de la fede ragionare;<br />
io de nulla scïenzia sono esperto,<br />
né mai, sendo fanciul, volsi imparare,<br />
e roppi il capo al mastro mio per merto;<br />
Poi non si puotè un altro ritrovare<br />
che mi mostrasse libro né scrittura,<br />
tanto ciascun avea di me paura.<br />
e così spesi la mia fanciulezza<br />
in caccie, in giochi de arme e in cavalcare;<br />
né mi par che convenga a gentilezza<br />
Star tutto il giorno ne’ libri a pensare;<br />
Ma la forza del corpo e la destrezza<br />
conviense al cavalliero esercitare.<br />
dottrina al prete ed al dottore sta bene:<br />
io tanto saccio quanto mi conviene. (i, xviii, 2 3)<br />
Sono i due opposti ideali della corte: <strong>da</strong> un lato la cultura raffinata, <strong>da</strong>ll’altro<br />
quello guerriero ed eroico, che non si incontrano però né, soprattutto, giungono<br />
a quale che sia conclusione perché su un punto orlando ed agricane sono<br />
d’accordo: che non si può vivere senza amore e che, ahimé, la donna che essi<br />
amano è angelica. alla reciproca confessione riprendono le armi e il duello si<br />
conclude con la morte d’agricane: duello e morte non ideologici, ma provocati<br />
<strong>da</strong>ll’istinto e <strong>da</strong>lla casualità.<br />
boiardo intrecciava la vicen<strong>da</strong> di orlando rinaldo e angelica con altre storie
secon<strong>da</strong>rie, quella di Gra<strong>da</strong>sso che invade la Francia per impadronirsi della<br />
spa<strong>da</strong> di rinaldo e del cavallo di orlando. Gra<strong>da</strong>sso giunge a fare prigioniero<br />
carlo Magno che promette di esaudire le sue richieste. Ma astolfo lo sfi<strong>da</strong> a<br />
singolar tenzone abbattendolo. Le storie si accavallano alle storie, tenute insieme<br />
<strong>da</strong> tutto l’apparato di sfide, duelli, appelli al pubblico. e poi ancora una volta<br />
rinaldo ed angelica si ritrovano alle fonti di Merlino, ma adesso la donna berrà<br />
alla fonte dell’odio e il cavaliere a quella dell’amore. ancora una volta la casualità<br />
provoca il capovolgimento dei fronti, le storie si ripresentano capovolte: immutate<br />
l’ansia, l’amore, gli affanni, i tormenti e infine impossibilità di giungere ad una<br />
conclusione, a portare a termine veramente un’impresa, a riposare l’animo in un<br />
<strong>da</strong>to acquisito. il poema fluisce in un ripetersi contraddittorio e confusionario di<br />
eventi determinati <strong>da</strong>l caso e <strong>da</strong>lle passioni.<br />
di tal genere è la vicen<strong>da</strong> di Fiordespina e di bra<strong>da</strong>mante. Fiordespina si<br />
è innamorata del valore e della forza del cavaliere che ella crede maschio: la<br />
passione, neppure tanto spirituale (come lascia intendere l’allusione: « Quel che<br />
li manca ben sapre’ dir io »), celebra il culmine dell’irrazionale nell’equivoco di un<br />
amore creduto nascere <strong>da</strong>lla bellezza e <strong>da</strong>l valore virile, che cerca immediatamente<br />
i modi per cogliere i frutti della passione, e che invece non può essere esaudito:<br />
« ché gratugia a gratugia poco acquista ». intanto la realtà storica celebrava altra<br />
e più radicale contraddizione, quella di una letteratura che cantava i furori della<br />
passione e del caso per il diletto degli ascoltatori proprio quando un esercito,<br />
valoroso ma straniero, eroico ma crudele, metteva a ferro e a fuoco un intero<br />
paese, questa volta però non immaginario, bensì reale, non lontano, ma vicino<br />
e alle porte di quella corte dove ambizioni e passioni personali si intrecciavano<br />
e cercavano un’impossibile soddisfazione nel mutevole favore accor<strong>da</strong>to <strong>da</strong>l<br />
principe, <strong>da</strong>i personaggi più influenti, <strong>da</strong>lle <strong>da</strong>me.<br />
il canone cavalleresco, <strong>da</strong>ll’ottava all’eroismo cavalleresco, <strong>da</strong>i duelli di<br />
religione alla bellezza delle <strong>da</strong>me, <strong>da</strong>l moltiplicarsi ed intrecciarsi delle trame<br />
alla disperazione d’amore, era lo strumento più efficace per rappresentare la vita<br />
della corte italiana e la contraddizione che in essa si manifestava tra la ricerca di<br />
una grandezza culturale e, o di quella politica e militare. e nello stesso tempo quel<br />
canone era lo strumento per la traduzione, epperciò risoluzione, dell’equivoco<br />
cultura/politica sul piano estetico: si nascondeva così l’effettiva incapacità, vuoi<br />
del principe vuoi dello scrittore, d’avvicinarsi alla vita reale con un progetto<br />
veramente politico. il poema cavalleresco, e quello di boiardo in particolare,<br />
proprio nel momento in cui traduceva la corte in letteratura, la deformava con ed<br />
in una dimensione estetica, che se soddisfaceva ai bisogni di egemonia culturale,<br />
di fatto negava la realtà politica ed economica entro la quale la corte si sarebbe<br />
dovuta muovere.<br />
La comunicazione letteraria, insomma, avendo rivendicato l’autonomia del<br />
letterario, dell’invenzione fantastica, o, che è lo stesso, della fabula, del ritmo e<br />
dell’armonia del verso, aveva scelto di staccarsi <strong>da</strong>l reale politico e civile, <strong>da</strong> quello<br />
che un Giovanni dominici, un Giovanni Pico della Mirandola e gli altri avversari<br />
della letteratura avevano fatto dipendere ora <strong>da</strong>lla verità etica della Sacra Scrittura,<br />
ora <strong>da</strong>lla verità filosofica di un discorso rude e lontano <strong>da</strong>i lenocini della retorica.<br />
nel corso del dibattito i difensori della poesia mai avevano sostenuto l’esigenza
di una sintesi tra letteratura e scienza, di letteratura ed etica: proprio nell’esordio<br />
dell’Umanesimo un coluccio Salutati e un <strong>Leonardo</strong> bruni avevano proposto a<br />
modello di scrittore quello di cicerone accanto al quale non a caso era stato posto<br />
<strong>da</strong>nte e tuttavia la dimensione civile, e pragmatica, della comunicazione letteraria<br />
s’era sempre portata dietro l’elemento contraddittorio costituito <strong>da</strong> Petrarca che<br />
invece la spingeva sul piano più strettamente formale, ponendo come orizzonte<br />
la gloria e l’autoeducazione. La comunicazione letteraria così non rimaneva priva<br />
del tutto di funzionalità, rimaneva semmai priva di traduzione nella prassi della<br />
vita politica: il destinatario era l’altro o gli altri intellettuali ai quali l’emittente si<br />
univa in nome della superiorità e della universalità dell’arte e del sapere: Lorenzo<br />
Valla rappresenta uno dei momenti più significativi. La separazione <strong>da</strong>lla prassi<br />
politica non è ancora sociale, è semmai ideale.<br />
con la civiltà della corte i parametri universalistici tendono a scomparire:<br />
l’orizzonte è, appunto, la corte che impone il suo linguaggio e i suoi, contraddittori,<br />
modelli culturali. il destinatario accentua l’aspetto formale ed edonistico<br />
della comunicazione letteraria, protesa alla gloria non solo dell’autore, ma del<br />
committente, che coincide pressoché esclusivamente con il destinatario e che<br />
richiede di divertirsi:<br />
dirovi tutta quanta poi la cosa,<br />
Qual gli incontrò, quando fu gionto al gioco,<br />
e serà di piacere e dilettosa;<br />
Ma poi la contaremo in altro loco,<br />
Perché il cantar della storia amorosa<br />
È necessario abandonare un poco,<br />
Per ritornare a carlo imperatore,<br />
e ricontarvi cosa assai maggiore.<br />
cosa maggior, né di gloria cotanta<br />
Fu giamai scritta, né di più diletto,<br />
ché del novo rugier quivi si canta,<br />
Qual fu d’ogni virtute il più perfetto<br />
di qualunche altro che al mondo si vanta.<br />
Sì che, segnori, ad ascoltar vi aspetto,<br />
Per farvi di piacer la mente sazia,<br />
Se dio mi serva al fin la usata grazia. (i, xxix, 5556)<br />
a voi, legiadri amanti e <strong>da</strong>migelle,<br />
che dentro ai cor gentili aveti amore,<br />
Son scritte queste istorie tanto belle<br />
di cortesia fiorite e di valore;<br />
ciò non ascoltan queste anime felle,<br />
che fan guerra per sdegno e per furore.<br />
adio, amanti e <strong>da</strong>me pellegrine:<br />
a vostro onor di questo libro è il fine. (ii, xxxi, 50)<br />
in questo circolo emittentedestinatario non solo il canone è obbligato, ma<br />
anche lo scopo ed il messaggio. boiardo si sorprende a scrivere il gioco degli<br />
impossibili amori di Fiordespina e di bra<strong>da</strong>mante, mentre fuori la realtà è di<br />
guerra e di morte. La contraddizione tra letteratura e storia gli pare irresolubile:<br />
sceglierà di tacere. Ma ormai alla comunicazione letteraria è acquisito un canone
così rigido che non sarà possibile altro che il gioco della scomposizione e della<br />
ricomposizione di unità più semplici in un gioco degli incastri che non potrà non<br />
avere come risultato un prodotto riconoscibile come letterario, ma ripetitivo e per<br />
così dire stan<strong>da</strong>rdizzato.<br />
orLando innaMorato<br />
Libro i canto PriMo<br />
canto PriMo<br />
1. Signori e cavallier che ve adunati<br />
Per odir cose dilettose e nove,<br />
Stati attenti e quïeti, ed ascoltati<br />
La bella istoria che ’l mio canto muove;<br />
e vedereti i gesti smisurati,<br />
L’alta fatica e le mirabil prove<br />
che fece il franco orlando per amore<br />
nel tempo del re carlo imperatore.<br />