05.06.2013 Views

da dante a brUno da dante a brUno - prof. Leonardo Sebastio

da dante a brUno da dante a brUno - prof. Leonardo Sebastio

da dante a brUno da dante a brUno - prof. Leonardo Sebastio

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

<strong>Leonardo</strong> SebaStio<br />

<strong>da</strong> <strong>da</strong>nte a <strong>brUno</strong><br />

introdUzioni e teSti


naScita deLLa cULtUra Laica<br />

tutte le opere di <strong>da</strong>nte, <strong>da</strong>lla Vita nuova alla Commedia, mettono a fuoco quella<br />

che per i due secoli successivi sarà la problematica fon<strong>da</strong>mentale della riflessione<br />

teorica sulla poesia e sul poeta: la dignità e la legittimità dell’una e dell’altro<br />

nel sistema delle scienze ed in quello più ampio della umana esistenza. non<br />

ostante l’alighieri ponga in termini risolutivi il tema della giustificazione del<br />

linguaggio poetico, del comunicare poeticamente, per la necessità di chiudere<br />

medievalmente il sistema mondo, tuttavia esso resta a lungo irrisolto, sia perché<br />

l’alighieri basa la sua argomentazione su un versante di pensiero fortemente<br />

impregnato di laicismo, sia perché laicamente opera con originalità e orgoglioso<br />

coraggio, sia perché un’opera fon<strong>da</strong>mentale come il De vulgari, meno esposto<br />

della Commedia a contestazioni d’altra natura, resta ignoto sino al 1529. così è<br />

che a muovere contestazioni alla comunicazione poetica sono <strong>da</strong> un verso gli<br />

aristotelici, che si fanno forti della natura fortemente logica della lingua della<br />

conoscenza inevitabilmente avversa ad ogni possibilità d’equivoco insita nella<br />

metafora e nella fabula (eccezion fatta per quella divina dove i quattro livelli<br />

di comunicazione, letterale, allegorico, tropologico ed anagogico, sono tutti<br />

veridici). <strong>da</strong>ll’altro gli agostiniani nei quali agiva fortemente la preclusione<br />

delle origini classiche della poesia, e quanto di terrestrità era commesso alle<br />

finalità della scrittura letteraria e della sua lettura. nient’affatto secon<strong>da</strong>ria<br />

nell’opposizione alla poesia fu la considerazione che la formazione d’uno statuto<br />

per la comunicazione letteraria sanciva la nascita di una classe di intellettuali e di<br />

una società di destinatari alternative a quelle, finora unica (almeno sostanzialmente),<br />

della societas christianorum formata <strong>da</strong>l pastore e <strong>da</strong>l gregge dei credenti, nella<br />

quale forme, contenuti e finalità erano ben fissate ed immediatamente reversibili<br />

in una teocratica struttura politica.<br />

i timori ecclesiastici erano pienamente giustificati <strong>da</strong>ll’operazione laicizzante<br />

di Federico ii, il quale per sottrarsi alla tutela papale era ricorso alla formazione<br />

di una classe di esperti di diritto (con le Università di bologna e di napoli), con<br />

il recupero della cultura filosofica greca, araba ed ebraica, con un largo impiego<br />

del mecenatismo artistico e letterario. di lì era derivata tanta parte dell’ideologia<br />

letteraria e politica dell’alighieri, di lì quella di albertino Mussato: l’uno e l’altro<br />

sostenitore dell’idea imperiale, della cultura letteraria, del primato del letterato<br />

nella politica. e prima dell’alighieri – in un contesto non ancora aristotelizzante,<br />

ma significativo di una ideologia classica e laica – di brunetto Latini che nel Trésor<br />

e nel commento alla Rhetorica ad Herennium aveva sostenuto con stupefacente<br />

candore (o coraggio ?) essere la retorica l’arte di governare. La comunicazione<br />

retorica e letteraria è strumento (<strong>da</strong> Federico a brunetto, <strong>da</strong> <strong>da</strong>nte a Mussato)<br />

di conoscenza della storia ed insieme rivelazione della verità che nella storia,<br />

secondo il libro di dio, è scritta.<br />

È chiaro che in un simile contesto non c’era possibilità alcuna di conciliazione<br />

tra la cultura laica e quella clericale, benché la canonica classificazione delle<br />

arti praticata nelle scuole prevedesse l’insegnamento della retorica: si trattava<br />

tuttavia dell’insegnamento elementare, immediatamente successivo alla prima<br />

alfabetizzazione della grammatica. d’altra parte cosa ci si aspettasse <strong>da</strong>lla


etorica anche in quella che era la centrale pressoché unica della scrittura, la curia<br />

pontificia, risulta chiaramente <strong>da</strong>lla quinta del xiii libro delle Familiari di Petrarca:<br />

« hoc unum a me requiri ut humiliare ingenium – utor enim verbis illorum – et<br />

inclinare stilum assuescerem ».<br />

Una via di conciliazione era quella di sganciare la comunicazione letteraria <strong>da</strong>lla<br />

prassi – e dunque <strong>da</strong>l potere politico –. È quello che fa Petrarca quando, nella<br />

collatio laureationis o nell’Invectiva contra medicum, afferma che la poesia non ha affatto<br />

uno scopo pratico, o meglio pragmatico. L’operazione di Francesco è di grande<br />

rilievo teorico e storico. Semplificando: l’inutilità della comunicazione letteraria<br />

– garanzia, si badi, della sua nobiltà – è fatto del tutto nuovo nella storia, non solo<br />

in quella prossima della generazione di <strong>da</strong>nte ed albertino, ma anche di quella<br />

classica ciceroniana. egli di fatto staccava il linguaggio artificiato tanto <strong>da</strong>ll’azione,<br />

quanto <strong>da</strong>lla conoscenza e ne faceva un sistema per sé dignitoso, autosufficiente<br />

espressione diretta dell’umana spiritualità. La comunicazione letteraria è<br />

comunicazione del sé senz’altra finalità se non quella di manifestarsi. andrà<br />

ribadito che quanto siamo venuti dicendo testé risponde ad una semplificazione<br />

che volutamente non tiene conto dei precedenti che ci furono e non secon<strong>da</strong>ri,<br />

a cominciare <strong>da</strong> cicerone per finire alle teorie poetiche provenzali. Ma quella<br />

semplificazione può rivelarsi utile per comprendere come la letteratura – non solo<br />

italiana – con Petrarca si avviasse a diventare, e a rimanere per secoli – soprattutto<br />

in italia –, un sistema pressoché esclusivamente formale. tale sistema formale,<br />

in quanto espressione del sé, allora doveva trovare una giustificazione che per<br />

forza di cose era etica: « nec enim parvus aut index animi sermo est aut sermonis<br />

moderator est animus » [Fam. i, 9]: il Secretum dà la misura delle difficoltà che si<br />

potevano incontrare su questo piano, sul quale vuoi la retorica assumeva il ruolo<br />

di disciplina interiore, vuoi l’etica – cristiana, e non solo cristiana – subiva una<br />

sorta di strumentalizzazione in vista della gloria, terrena, dello scrittore.<br />

a ben vedere tuttavia le contraddizioni e le difficoltà si commisuravano<br />

alla sensibilità religiosa e alla cultura dello scrittore: ché l’aspirazione alla<br />

letteraria gloria terrena potrà apparire meno peccaminosa via via che terra e<br />

cielo s’avvicineranno. così come i contenuti di derivazione classica andranno<br />

accostandosi sino ad una loro definitiva collimazione. allora la comunicazione<br />

letteraria potrà giustificarsi per la valenza etica supposta simile a quella cristiana.<br />

Per il momento il docere ed il delectare venivano sottratti ad ogni utilizzazione<br />

pratica ed erano perfettamente ed irrimediabilmente circoscritti agli ambiti eticoformali.<br />

con un’ulteriore conseguenza che non è possibile tralasciare: staccati<br />

<strong>da</strong>lla prassi e chiusi nella forma utilità e diletto, e a maggior ragione se la lingua<br />

ufficiale della comunicazione culturale e letteraria era il latino, erano destinati a<br />

quelli che <strong>da</strong>lla forma erano in grado di trarre giovamento e piacere. insomma,<br />

la nozione della comunicazione letteraria che nella forma esprime la spiritualità<br />

dell’emittente comporta che il destinatario sappia decodificare un messaggio,<br />

che non si esplicita in contenuti, sia pur parzialmente, comuni e quindi accessibili<br />

attraverso un processo di riflessione e di maturazione, ma che si distende nella<br />

sola elaborazione del messaggio, nell’arte con cui è confezionato, che tutta deve<br />

essere posseduta per poter essere valutata, compresa e tradotta in termini<br />

d’eticità. di qui le accuse di obscuritas che Petrarca, boccaccio, Francesco <strong>da</strong> Fiano,


coluccio Salutati, dovettero controbattere.<br />

di fatto si limitava il pubblico della comunicazione letteraria ai dotti: nasceva<br />

insomma una classe di intellettuali, tutti contemporaneamente produttori e<br />

fruitori delle humanae litterae; una classe estesa al di là dei confini nazionali, ma<br />

staccata <strong>da</strong>l vulgus, <strong>da</strong>lla realtà e <strong>da</strong>lla storia. tal che il pe<strong>da</strong>gogismo politico e<br />

civile di <strong>da</strong>nte si trasformava nell’insegnamento di una etica a priori rispetto alla<br />

società, nell’incitamento ad un’humanitas tutta interiore, forzata a prescindere<br />

<strong>da</strong>lla storia (o incapace d’affrontarla ?). neppure il tentativo di Giovanni boccaccio<br />

di riagganciare la realtà mantenendo ferma la tesi petrarchesca, chiaramente<br />

riconoscibile nell’exquisita locutio, varrà a ristabilire la <strong>da</strong>ntesca dimensione politica<br />

della comunicazione letteraria (si ricorderà come per <strong>da</strong>nte negli «scritti dei<br />

filosofi» sta tutta la scienza che costituisce la beatitudo huius vite e lo scopo della<br />

monarchia universale).<br />

L’orizzonte politico è pressoché assente nelle Genealogie deorum gentilium: v’è<br />

l’insistenza sul cicerioniano « fervor inveniendi » che è scintilla divina nei poeti.<br />

ed è acquisto rilevante e definitivo, benché non sempre compreso appieno, nella<br />

storia della poesia: ché, a differenza dell’imitazione così cara al Petrarca, riconosceva<br />

al poeta la capacità di inventare cose non mai dette prima e d’esprimere una<br />

sua personale verità; nello stesso tempo affi<strong>da</strong>va alla comunicazione letteraria<br />

la funzione d’esprimere l’innovazione ed accrescere il patrimonio d’humanitas.<br />

Sempre la fabula del poeta è sostanziata di verità, naturale o morale, filosofica<br />

o teologica: perciò abbisogna d’un’exquisita locutio che sia all’altezza della verità<br />

espressa e costituisca una barriera per gli indotti. di qui una nozione dell’artificio<br />

scrittorio che deve compaginare insieme l’invenzione del poeta, la verità espressa,<br />

la dignità dell’una e dell’altra e l’elitarietà del prodotto letterario. 1<br />

<strong>da</strong>nte aLiGHieri<br />

<strong>da</strong>nte ha nozione civile dell’impegno intellettuale, ancora non ben distinto tra<br />

letteratura e scienza, tra letteratura e filosofia. La politicità della nozione implica il<br />

privilegiamento della sua funzione comunicativa. anzi, le fon<strong>da</strong>menta filosofiche<br />

della sua visione della letteratura spingono a individuare nella comunicazione,<br />

ben più che nel possesso o nella ricerca del sapere, lo specifico dell’attività<br />

intellettuale: è dovere, scrive <strong>da</strong>nte nell’Epistola xiii, di chi possegga la scienza,<br />

intervenire nella vita civile a correggere quegli errori che potrebbero ostacolare<br />

la libera espressione dell’umana razionalità.<br />

benché mai il Poeta rivendichi all’intellettuale un ruolo nella gestione politica<br />

simile a quello che Platone riservava ai filosofi nella Repubblica, con gli anni ne<br />

amplierà le responsabilità sino a manifestare l’opportunità che al sapiente sia<br />

affi<strong>da</strong>ta la formulazione delle leggi: « non meraviglia che non legato <strong>da</strong>lle leggi »<br />

l’uomo colto « sia chiamato a fare le leggi ». dove non si allude soltanto alla pura


e semplice funzione di legislatore, ma ad una vera e propria dimensione di maître<br />

à penser, di comunicatore e, come tale, di realizzatore della scienza. a ciò era<br />

indotto <strong>da</strong>lla matrice aristotelico­averroistica del suo pensiero, che identificava<br />

nella scienza la felicità terrena dell’uomo: la scienza­felicità non era, però,<br />

conseguibile <strong>da</strong>ll’individuo – troppo limitato perché potesse mai dirsi soddisfatto<br />

della quantità di sapere posseduta – nel privato; poteva attuarsi soltanto nella<br />

universa collettività, nel concorso generale degli uomini: insomma, nell’insieme<br />

dell’umanità unita nella monarchia universale nella quale ciascun individuo<br />

avrebbe riversato la sua pur limitata porzione di scienza. Proprio per questo il<br />

sapere doveva uscire <strong>da</strong>l privato per diventare sociale e politico; proprio per<br />

questo la funzione comunicativa era eminente nell’attività intellettuale; proprio<br />

per questo gli fu necessario rivendicare al volgare, parlato <strong>da</strong>lla maggioranza<br />

dei cittadini, la capacità di farsi portatore di scienza come era per il latino. La<br />

comunicazione e la comunicazione in volgare costituiscono, così, gli strumenti ed<br />

insieme i luoghi concreti della possibile felicità terrena.<br />

La posizione di <strong>da</strong>nte è quindi il risultato di un cammino intellettuale non facile e<br />

non del tutto privo di compromessi, ma anche di rivoluzioni. il cammino era iniziato<br />

<strong>da</strong>lla Vita nuova, che rappresenta un vero e proprio strappo <strong>da</strong>lla tradizione lirica<br />

trobadorica d’oltralpe che s’era prolungata poi nella Sicilia di Federico ii e nella<br />

scuola toscana pre­ e post­guittoniana. il momento della frattura è in quell’« aprire<br />

per prosa », cui vien sottoposto il canone letterario metaforico e personificatorio.<br />

i rimatori in volgare (il gruppo d’amici che si riuniva attorno a Guido cavalcanti<br />

a formare la così detta scuola del Dolce Stil Nuovo) utilizzano il medesimo canone<br />

linguistico dei poeti latini: Virgilio, orazio, ovidio; ma a differenza dei primi rozzi,<br />

« grossi », poeti in volgare, il loro canone obbedisce ad una logica interna, che<br />

trasforma la autocomunicazione letteraria (al più allargata alla corte edotta della<br />

lingua e del jeu d’amour) in comunicazione, diretta ad un pubblico non noto, il<br />

quale, non in base ad un preciso codice di simboli e di comportamenti, bensì<br />

grazie ad un criterio di – dotta – razionalità può decodificare il messaggio del<br />

poeta. costui, se continua ad avere come destinataria privilegiata la donna amata,<br />

esibisce e comunica la propria etica e la propria sapienza (o la propria qualità di<br />

sapiente) al più vasto pubblico borghese: « grande vergogna sarebbe a colui che<br />

rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, doman<strong>da</strong>to, non<br />

sapesse denu<strong>da</strong>re le sue parole <strong>da</strong> cotale vesta, in guisa che avessero verace<br />

intendimento. e questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così<br />

rimano stoltamente ».<br />

il canone metaforico, ora pur coll’implicito « verace intendimento », adottato<br />

<strong>da</strong>gli stilnovisti esige « soavità » di lingua, giacché, all’altezza della Vita nuova, per<br />

un verso connota la produzione lirica; per altro verso impone un preciso limite<br />

degli argomenti trattabili che devono attenere solo all’amore: « e questo è contra<br />

coloro che rimano sopra altra matera che amorosa ». a questa determinazione<br />

<strong>da</strong>ntesca concorrono la con<strong>da</strong>nna aristotelica della metafora, alla quale veniva<br />

opposto il sillogismo come unico strumento conoscitivo e comunicativo della<br />

verità, e la coscienza della intrinseca debolezza della lingua a farsi efficace canale<br />

di argomenti gravi e complessi.<br />

negli anni successivi alla Vita nuova <strong>da</strong>nte si concentra sulla sperimentazione


della lingua proprio nella direzione di quella poesia « sopra altra matera che<br />

l’amorosa »: sono gli anni delle Rime allegoriche e dottrinali, che ebbero, tra gli<br />

altri, alcuni non secon<strong>da</strong>ri esiti teorici in fatto di filosofia della lingua e della<br />

lingua volgare in particolare. di quest’ultima, infatti, egli poteva accertare ora<br />

l’efficacia riconoscendone la capacità di « ben manifestare » il « concetto » e<br />

quella strumentale, vuoi a livello di comunicazione della scienza (« questo mio<br />

volgare fu introduttore di me ne la via di scienza, che è ultima perfezione »), vuoi<br />

a livello di comunicazione per così dire politica e civile (« Questo mio volgare<br />

fu congiugnitore de li miei generanti, che con esso parlavano, sì come ’l fuoco è<br />

disponitore del ferro al fabbro che fa lo coltello »). conta in quest’ultimo caso la<br />

natura di « cagione efficiente » della sua nascita e della sussistenza stessa della<br />

vita civile e, dunque, non di mero passivo strumento che il retore gestisce in tutto<br />

e per tutto allo scopo di persuadere: i genitori del poeta si sono incontrati per ed<br />

in grazia al semplice fatto che essi utilizzavano la lingua volgare, fuori, cioè, <strong>da</strong><br />

ogni canone letterario o retorico.<br />

riconosciuta l’oggettiva efficacia comunicativa della lingua, la battaglia per<br />

la sua adozione non poteva che combattere atteggiamenti di rifiuto privi di<br />

giustificazione razionale o, ma è lo stesso, morale. il primo degli atteggiamenti<br />

di rifiuto del volgare è l’ignoranza (« cechitade di discrezione ») di coloro che<br />

pur dovrebbero vedere e non vedono, e di coloro che, soprattutto appartenenti<br />

alla classe più popolare, non possono vedere perché trascinati <strong>da</strong> interessi più<br />

immediati. il secondo atteggiamento è costituito <strong>da</strong>ll’illusione di nascondere la<br />

propria ignoranza sotto la scusa della inefficacia dello strumento. il terzo attiene<br />

alla vanagloria di coloro che, appresa una lingua straniera, la lo<strong>da</strong>no oltre il giusto.<br />

il quarto deriva invece <strong>da</strong>ll’invidia di chi, per sminuire l’opera altrui, spregia lo<br />

strumento utilizzato. come si vede, l’alighieri elenca per con<strong>da</strong>nnarle forme di<br />

disonestà intellettuale, che nel rifiuto del volgare italiano nascondono la reale<br />

impossibilità, o non volontà, di comunicare il sapere di cui si è – o non si è – in<br />

possesso.<br />

il quinto ed ultimo atteggiamento negativo è individuato nella pusillanimità<br />

(« viltà d’animo »): contro i pusillanimi vengono utilizzate le parole più dure, e<br />

significativamente: « questi cotali sono li abominevoli cattivi d’italia che hanno<br />

a vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna [cosa], non è se non in<br />

quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri ». Sono quegli intellettuali<br />

che, pur avendo la possibilità di correggere gli errori che impediscono alla società<br />

di appropriarsi quel sapere che la renderebbe libera e felice, si sottraggono per<br />

mancanza di coraggio al loro dovere.<br />

Si chiude così la trilogia degli elementi costitutivi della comunicazione: 1)<br />

la nobiltà dell’intellettuale laico si manifesta 2) nella generosa e coraggiosa<br />

<strong>prof</strong>essione della scienza 3) per mezzo di una lingua capace di esprimere con<br />

esattezza i concetti della mente. ebbene, i tre elementi di questa trilogia sono,<br />

ciascuno per sé, di tale dirompente innovazione rispetto alla tradizione medievale,<br />

che non si può non restare ammirati <strong>da</strong>lla modernità delle vedute di cui <strong>da</strong>nte si fa<br />

il portavoce più coerente e determinato. Qui ci limiteremo ad annotare la nascita<br />

insieme di un organico disegno e di un’etica della comunicazione, sui quali sarà<br />

poi possibile innestare gli elementi che la connotano in chiave letteraria.


tali elementi continueranno ad essere quelli allegorici e personificatori della<br />

tradizione classica, rivisitati <strong>da</strong> una imprescindibile ottica medievale e biblica:<br />

risulteranno costretti, tuttavia, in spazi viepiù limitati, se non limitatissimi, nella<br />

prassi dei commenti alle canzoni (e nelle canzoni stesse) del Convivio e in quella<br />

compositiva della Commedia. benché <strong>da</strong>nte, tanto nel De vulgari eloquentia quanto<br />

nel contemporaneo Convivio, insista sull’aspetto retorico e metrico in sede di<br />

definizione (la poesia « nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita »;<br />

« le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro<br />

sensi »), di fatto le esigenze imposte <strong>da</strong>lla filosofia politica della comunicazione<br />

spingeranno il poeta a utilizzare preferibilmente la forma della parabola e<br />

dell’exemplum, in particolar modo nella Commedia, fatta salva la dimensione<br />

metrica. infatti, l’identificazione dell’allegoria (« velame ») come elemento<br />

discriminatorio tra comunicazione funzionale e comunicazione letteraria (ma<br />

per l’alighieri si inten<strong>da</strong> sempre funzionale­letteraria) non vale in <strong>da</strong>nte tanto<br />

come discriminazione estetica: l’una e l’altra tipologia di comunicazione servono<br />

alla trasmissione della sapienza, l’una in prosa l’altra in versi. Si tratta piuttosto<br />

di differenze di ambito: l’una, la prosa, attraverso lo scarno, ma certissimo,<br />

linguaggio del sillogismo, si muoverà in un ambito filosofico; l’altra, la poesia, con<br />

non minore certezza – e sotto « velame » talora, più spesso in forma d’esempio<br />

– atterrà all’ambito dell’enunciazione di quelle parti del sapere (e, dunque,<br />

ancora sostanzialmente filosofia) che non si possono esporre attraverso il ferreo<br />

snocciolarsi del sillogismo, e che pure sono assiomaticamente evidenti: « e qui<br />

si conviene sapere che li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le<br />

quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni,<br />

ne le quali si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento:<br />

e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di beatitudine, lo quale è<br />

massimo bene in Paradiso » [Conv., iii, xv, 2].<br />

il trittico che compagina rigi<strong>da</strong>mente la comunicazione <strong>da</strong>ntesca, se di<br />

fatto relega in secondo piano la dimensione estetica « exornatio [est] alicuius<br />

convenientis additio » 2 [D. v. e., ii, i, 9], garantisce alla comunicazione letteraria un<br />

campo d’azione esterno alla letteratura ed ai letterati; anzi, in modo assai nuovo,<br />

il destinatario della Commedia è individuato anche nella fascia popolare, oltre<br />

che borghese e nobiliare, della società verso cui ripropone la tipologia scrittoria<br />

educativa del Medioevo, predicatoria ed agiografica: il pubblico dei dotti, degli<br />

addottrinati, dei letterati infine, è, nell’orizzonte <strong>da</strong>ntesco, ancora lontano o, come<br />

le Eglogae a Giovanni del Virgilio lasciano chiaramente intendere, ignorato.


inFerno<br />

canto i<br />

nel mezzo del cammin di nostra vita<br />

mi ritrovai per una selva oscura,<br />

ché la diritta via era smarrita.<br />

ahi quanto a dir qual era è cosa dura<br />

esta selva selvaggia e aspra e forte<br />

che nel pensier rinova la paura!<br />

tant’ è amara che poco è più morte;<br />

ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,<br />

dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.<br />

io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,<br />

tant’ era pien di sonno a quel punto<br />

che la verace via abbandonai.<br />

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,<br />

là dove terminava quella valle<br />

che m’avea di paura il cor compunto,<br />

guar<strong>da</strong>i in alto e vidi le sue spalle<br />

vestite già de’ raggi del pianeta<br />

che mena dritto altrui per ogne calle.<br />

allor fu la paura un poco queta,<br />

che nel lago del cor m’era durata<br />

la notte ch’i’ passai con tanta pieta.<br />

e come quei che con lena affannata,<br />

uscito fuor del pelago a la riva,<br />

si volge a l’acqua perigliosa e guata,<br />

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,<br />

si volse a retro a rimirar lo passo<br />

che non lasciò già mai persona viva.<br />

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,<br />

ripresi via per la piaggia diserta,<br />

sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.<br />

ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,<br />

una lonza leggiera e presta molto,<br />

che di pel macolato era coverta;<br />

e non mi si partia dinanzi al volto,<br />

anzi ’mpediva tanto il mio cammino,<br />

ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.<br />

temp’ era <strong>da</strong>l principio del mattino,<br />

e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle<br />

ch’eran con lui quando l’amor divino<br />

mosse di prima quelle cose belle;<br />

sì ch’a bene sperar m’era cagione<br />

di quella fiera a la gaetta pelle<br />

l’ora del tempo e la dolce stagione;<br />

ma non sì che paura non mi desse<br />

la vista che m’apparve d’un leone.<br />

Questi parea che contra me venisse<br />

con la test’ alta e con rabbiosa fame,<br />

sì che parea che l’aere ne tremesse.<br />

ed una lupa, che di tutte brame<br />

sembiava carca ne la sua magrezza,<br />

e molte genti fé già viver grame,<br />

questa mi porse tanto di gravezza<br />

con la paura ch’uscia di sua vista,<br />

ch’io perdei la speranza de l’altezza.<br />

e qual è quei che volontieri acquista,<br />

e giugne ’l tempo che perder lo face,<br />

che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;<br />

tal mi fece la bestia sanza pace,<br />

che, venendomi ’ncontro, a poco a poco<br />

mi ripigneva là dove ’l sol tace.<br />

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,<br />

dinanzi a li occhi mi si fu offerto<br />

chi per lungo silenzio parea fioco.<br />

Quando vidi costui nel gran diserto,<br />

«Miserere di me», gri<strong>da</strong>i a lui,<br />

«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».<br />

rispuosemi: «non omo, omo già fui,<br />

e li parenti miei furon lombardi,<br />

mantoani per patrïa ambedui.<br />

nacqui sub iulio, ancor che fosse tardi,<br />

e vissi a roma sotto ’l buono augusto<br />

nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.<br />

Poeta fui, e cantai di quel giusto<br />

figliuol d’anchise che venne di troia,<br />

poi che ’l superbo ilïón fu combusto.<br />

Ma tu perché ritorni a tanta noia?<br />

perché non sali il dilettoso monte<br />

ch’è principio e cagion di tutta gioia?».<br />

«or se’ tu quel Virgilio e quella fonte<br />

che spandi di parlar sì largo fiume?»,<br />

rispuos’ io lui con vergognosa fronte.<br />

«o de li altri poeti onore e lume,<br />

vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore<br />

che m’ha fatto cercar lo tuo volume.<br />

tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,<br />

tu se’ solo colui <strong>da</strong> cu’ io tolsi<br />

lo bello stilo che m’ha fatto onore.<br />

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;<br />

aiutami <strong>da</strong> lei, famoso saggio,<br />

ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».<br />

«a te convien tenere altro vïaggio»,<br />

rispuose, poi che lagrimar mi vide,<br />

«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;<br />

ché questa bestia, per la qual tu gride,<br />

non lascia altrui passar per la sua via,<br />

ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;<br />

e ha natura sì malvagia e ria,<br />

che mai non empie la bramosa voglia,<br />

e dopo ’l pasto ha più fame che pria.<br />

Molti son li animali a cui s’ammoglia,<br />

e più saranno ancora, infin che ’l veltro<br />

verrà, che la farà morir con doglia.<br />

Questi non ciberà terra né peltro,<br />

ma sapïenza, amore e virtute,<br />

e sua nazion sarà tra feltro e feltro.<br />

di quella umile italia fia salute<br />

per cui morì la vergine cammilla,<br />

eurialo e turno e niso di ferute.<br />

Questi la caccerà per ogne villa,<br />

fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,<br />

là onde ’nvidia prima dipartilla.<br />

ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno<br />

che tu mi segui, e io sarò tua gui<strong>da</strong>,<br />

e trarrotti di qui per loco etterno;<br />

ove udirai le disperate stri<strong>da</strong>,<br />

vedrai li antichi spiriti dolenti,<br />

ch’a la secon<strong>da</strong> morte ciascun gri<strong>da</strong>;<br />

e vederai color che son contenti<br />

nel foco, perché speran di venire<br />

quando che sia a le beate genti.


a le quai poi se tu vorrai salire,<br />

anima fia a ciò più di me degna:<br />

con lei ti lascerò nel mio partire;<br />

ché quello imperador che là sù regna,<br />

perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,<br />

non vuol che ’n sua città per me si vegna.<br />

in tutte parti impera e quivi regge;<br />

quivi è la sua città e l’alto seggio:<br />

oh felice colui cu’ ivi elegge!».<br />

e io a lui: «Poeta, io ti richeggio<br />

per quello dio che tu non conoscesti,<br />

a ciò ch’io fugga questo male e peggio,<br />

che tu mi meni là dov’ or dicesti,<br />

sì ch’io veggia la porta di san Pietro<br />

e color cui tu fai cotanto mesti».<br />

allor si mosse, e io li tenni dietro.<br />

canto ii<br />

Lo giorno se n’an<strong>da</strong>va, e l’aere bruno<br />

toglieva li animai che sono in terra<br />

<strong>da</strong> le fatiche loro; e io sol uno<br />

m’apparecchiava a sostener la guerra<br />

sì del cammino e sì de la pietate,<br />

che ritrarrà la mente che non erra.<br />

o muse, o alto ingegno, or m’aiutate;<br />

o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,<br />

qui si parrà la tua nobilitate.<br />

io cominciai: «Poeta che mi guidi,<br />

guar<strong>da</strong> la mia virtù s’ell’ è possente,<br />

prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.<br />

tu dici che di Silvïo il parente,<br />

corruttibile ancora, ad immortale<br />

secolo andò, e fu sensibilmente.<br />

Però, se l’avversario d’ogne male<br />

cortese i fu, pensando l’alto effetto<br />

ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale<br />

non pare indegno ad omo d’intelletto;<br />

ch’e’ fu de l’alma roma e di suo impero<br />

ne l’empireo ciel per padre eletto:<br />

la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,<br />

fu stabilita per lo loco santo<br />

u’ siede il successor del maggior Piero.<br />

Per quest’ an<strong>da</strong>ta onde li <strong>da</strong>i tu vanto,<br />

intese cose che furon cagione<br />

di sua vittoria e del papale ammanto.<br />

andovvi poi lo Vas d’elezïone,<br />

per recarne conforto a quella fede<br />

ch’è principio a la via di salvazione.<br />

Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?<br />

io non enëa, io non Paulo sono;<br />

me degno a ciò né io né altri ’l crede.<br />

Per che, se del venire io m’abbandono,<br />

temo che la venuta non sia folle.<br />

Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».<br />

e qual è quei che disvuol ciò che volle<br />

e per novi pensier cangia proposta,<br />

sì che <strong>da</strong>l cominciar tutto si tolle,<br />

tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa,<br />

perché, pensando, consumai la ’mpresa<br />

che fu nel cominciar cotanto tosta.<br />

«S’i’ ho ben la parola tua intesa»,<br />

rispuose del magnanimo quell’ ombra,<br />

«l’anima tua è <strong>da</strong> viltade offesa;<br />

la qual molte fïate l’omo ingombra<br />

sì che d’onrata impresa lo rivolve,<br />

come falso veder bestia quand’ ombra.<br />

<strong>da</strong> questa tema acciò che tu ti solve,<br />

dirotti perch’ io venni e quel ch’io ’ntesi<br />

nel primo punto che di te mi dolve.<br />

io era tra color che son sospesi,<br />

e donna mi chiamò beata e bella,<br />

tal che di coman<strong>da</strong>re io la richiesi.<br />

Lucevan li occhi suoi più che la stella;<br />

e cominciommi a dir soave e piana,<br />

con angelica voce, in sua favella:<br />

“o anima cortese mantoana,<br />

di cui la fama ancor nel mondo dura,<br />

e durerà quanto ’l mondo lontana,<br />

l’amico mio, e non de la ventura,<br />

ne la diserta piaggia è impedito<br />

sì nel cammin, che vòlt’ è per paura;<br />

e temo che non sia già sì smarrito,<br />

ch’io mi sia tardi al soccorso levata,<br />

per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.<br />

or movi, e con la tua parola ornata<br />

e con ciò c’ha mestieri al suo campare,<br />

l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.<br />

i’ son beatrice che ti faccio an<strong>da</strong>re;<br />

vegno del loco ove tornar disio;<br />

amor mi mosse, che mi fa parlare.<br />

Quando sarò dinanzi al segnor mio,<br />

di te mi loderò sovente a lui”.<br />

tacette allora, e poi comincia’ io:<br />

“o donna di virtù sola per cui<br />

l’umana spezie eccede ogne contento<br />

di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,<br />

tanto m’aggra<strong>da</strong> il tuo coman<strong>da</strong>mento,<br />

che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;<br />

più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.<br />

Ma dimmi la cagion che non ti guardi<br />

de lo scender qua giuso in questo centro<br />

de l’ampio loco ove tornar tu ardi”.<br />

“<strong>da</strong> che tu vuo’ saver cotanto a dentro,<br />

dirotti brievemente”, mi rispuose,<br />

“perch’ i’ non temo di venir qua entro.<br />

temer si dee di sole quelle cose<br />

c’hanno potenza di fare altrui male;<br />

de l’altre no, ché non son paurose.<br />

i’ son fatta <strong>da</strong> dio, sua mercé, tale,<br />

che la vostra miseria non mi tange,<br />

né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.<br />

donna è gentil nel ciel che si compiange<br />

di questo ’mpedimento ov’ io ti mando,<br />

sì che duro giudicio là sù frange.<br />

Questa chiese Lucia in suo dimando<br />

e disse: — or ha bisogno il tuo fedele<br />

di te, e io a te lo raccomando —.<br />

Lucia, nimica di ciascun crudele,<br />

si mosse, e venne al loco dov’ i’ era,<br />

che mi sedea con l’antica rachele.<br />

disse: — beatrice, lo<strong>da</strong> di dio vera,<br />

ché non soccorri quei che t’amò tanto,<br />

ch’uscì per te de la volgare schiera?


non odi tu la pieta del suo pianto,<br />

non vedi tu la morte che ’l combatte<br />

su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? —.<br />

al mondo non fur mai persone ratte<br />

a far lor pro o a fuggir lor <strong>da</strong>nno,<br />

com’ io, dopo cotai parole fatte,<br />

venni qua giù del mio beato scanno,<br />

fi<strong>da</strong>ndomi del tuo parlare onesto,<br />

ch’onora te e quei ch’udito l’hanno”.<br />

Poscia che m’ebbe ragionato questo,<br />

li occhi lucenti lagrimando volse,<br />

per che mi fece del venir più presto.<br />

e venni a te così com’ ella volse:<br />

d’inanzi a quella fiera ti levai<br />

che del bel monte il corto an<strong>da</strong>r ti tolse.<br />

dunque: che è? perché, perché restai,<br />

perché tanta viltà nel core allette,<br />

perché ardire e franchezza non hai,<br />

poscia che tai tre donne benedette<br />

curan di te ne la corte del cielo,<br />

e ’l mio parlar tanto ben ti promette?».<br />

Quali fioretti <strong>da</strong>l notturno gelo<br />

chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,<br />

si drizzan tutti aperti in loro stelo,<br />

tal mi fec’ io di mia virtude stanca,<br />

e tanto buono ardire al cor mi corse,<br />

ch’i’ cominciai come persona franca:<br />

«oh pietosa colei che mi soccorse!<br />

e te cortese ch’ubidisti tosto<br />

a le vere parole che ti porse!<br />

tu m’hai con disiderio il cor disposto<br />

sì al venir con le parole tue,<br />

ch’i’ son tornato nel primo proposto.<br />

or va, ch’un sol volere è d’ambedue:<br />

tu duca, tu segnore e tu maestro».<br />

così li dissi; e poi che mosso fue,<br />

intrai per lo cammino alto e silvestro.<br />

canto XiX<br />

o Simon mago, o miseri seguaci<br />

che le cose di dio, che di bontate<br />

deon essere spose, e voi rapaci<br />

per oro e per argento avolterate,<br />

or convien che per voi suoni la tromba,<br />

però che ne la terza bolgia state.<br />

Già eravamo, a la seguente tomba,<br />

montati de lo scoglio in quella parte<br />

ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.<br />

o somma sapïenza, quanta è l’arte<br />

che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,<br />

e quanto giusto tua virtù comparte!<br />

io vidi per le coste e per lo fondo<br />

piena la pietra livi<strong>da</strong> di fóri,<br />

d’un largo tutti e ciascun era tondo.<br />

non mi parean men ampi né maggiori<br />

che que’ che son nel mio bel San Giovanni,<br />

fatti per loco d’i battezzatori;<br />

l’un de li quali, ancor non è molt’ anni,<br />

rupp’ io per un che dentro v’annegava:<br />

e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni.<br />

Fuor de la bocca a ciascun soperchiava<br />

d’un peccator li piedi e de le gambe<br />

infino al grosso, e l’altro dentro stava.<br />

Le piante erano a tutti accese intrambe;<br />

per che sì forte guizzavan le giunte,<br />

che spezzate averien ritorte e strambe.<br />

Qual suole il fiammeggiar de le cose unte<br />

muoversi pur su per la strema buccia,<br />

tal era lì <strong>da</strong>i calcagni a le punte.<br />

«chi è colui, maestro, che si cruccia<br />

guizzando più che li altri suoi consorti»,<br />

diss’ io, «e cui più roggia fiamma succia?».<br />

ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti<br />

là giù per quella ripa che più giace,<br />

<strong>da</strong> lui saprai di sé e de’ suoi torti».<br />

e io: «tanto m’è bel, quanto a te piace:<br />

tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto<br />

<strong>da</strong>l tuo volere, e sai quel che si tace».<br />

allor venimmo in su l’argine quarto;<br />

volgemmo e discendemmo a mano stanca<br />

là giù nel fondo foracchiato e arto.<br />

Lo buon maestro ancor de la sua anca<br />

non mi dipuose, sì mi giunse al rotto<br />

di quel che si piangeva con la zanca.<br />

«o qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,<br />

anima trista come pal commessa»,<br />

comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto».<br />

io stava come ’l frate che confessa<br />

lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,<br />

richiama lui per che la morte cessa.<br />

ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto,<br />

se’ tu già costì ritto, bonifazio?<br />

di parecchi anni mi mentì lo scritto.<br />

Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio<br />

per lo qual non temesti tòrre a ’nganno<br />

la bella donna, e poi di farne strazio?».<br />

tal mi fec’ io, quai son color che stanno,<br />

per non intender ciò ch’è lor risposto,<br />

quasi scornati, e risponder non sanno.<br />

allor Virgilio disse: «dilli tosto:<br />

“non son colui, non son colui che credi”»;<br />

e io rispuosi come a me fu imposto.<br />

Per che lo spirto tutti storse i piedi;<br />

poi, sospirando e con voce di pianto,<br />

mi disse: «dunque che a me richiedi?<br />

Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,<br />

che tu abbi però la ripa corsa,<br />

sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;<br />

e veramente fui figliuol de l’orsa,<br />

cupido sì per avanzar li orsatti,<br />

che sù l’avere e qui me misi in borsa.<br />

di sotto al capo mio son li altri tratti<br />

che precedetter me simoneggiando,<br />

per le fessure de la pietra piatti.<br />

Là giù cascherò io altresì quando<br />

verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,<br />

allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.<br />

Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi<br />

e ch’i’ son stato così sottosopra,<br />

ch’el non starà piantato coi piè rossi:<br />

ché dopo lui verrà di più lai<strong>da</strong> opra,<br />

di ver’ ponente, un pastor sanza legge,<br />

tal che convien che lui e me ricuopra.


nuovo iasón sarà, di cui si legge<br />

ne’ Maccabei; e come a quel fu molle<br />

suo re, così fia lui chi Francia regge».<br />

io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,<br />

ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:<br />

«deh, or mi dì: quanto tesoro volle<br />

nostro Segnore in prima <strong>da</strong> san Pietro<br />

ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?<br />

certo non chiese se non “Viemmi retro”.<br />

né Pier né li altri tolsero a Matia<br />

oro od argento, quando fu sortito<br />

al loco che perdé l’anima ria.<br />

Però ti sta, ché tu se’ ben punito;<br />

e guar<strong>da</strong> ben la mal tolta moneta<br />

ch’esser ti fece contra carlo ardito.<br />

e se non fosse ch’ancor lo mi vieta<br />

la reverenza de le somme chiavi<br />

che tu tenesti ne la vita lieta,<br />

io userei parole ancor più gravi;<br />

ché la vostra avarizia il mondo attrista,<br />

calcando i buoni e sollevando i pravi.<br />

di voi pastor s’accorse il Vangelista,<br />

quando colei che siede sopra l’acque<br />

puttaneggiar coi regi a lui fu vista;<br />

quella che con le sette teste nacque,<br />

e <strong>da</strong> le diece corna ebbe argomento,<br />

fin che virtute al suo marito piacque.<br />

Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;<br />

e che altro è <strong>da</strong> voi a l’idolatre,<br />

se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?<br />

ahi, costantin, di quanto mal fu matre,<br />

non la tua conversion, ma quella dote<br />

che <strong>da</strong> te prese il primo ricco patre!».<br />

e mentr’ io li cantava cotai note,<br />

o ira o coscïenza che ’l mordesse,<br />

forte spingava con ambo le piote.<br />

i’ credo ben ch’al mio duca piacesse,<br />

con sì contenta labbia sempre attese<br />

lo suon de le parole vere espresse.<br />

Però con ambo le braccia mi prese;<br />

e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,<br />

rimontò per la via onde discese.<br />

né si stancò d’avermi a sé distretto,<br />

sì men portò sovra ’l colmo de l’arco<br />

che <strong>da</strong>l quarto al quinto argine è tragetto.<br />

Quivi soavemente spuose il carco,<br />

soave per lo scoglio sconcio ed erto<br />

che sarebbe a le capre duro varco.<br />

indi un altro vallon mi fu scoperto.<br />

PUrGatorio<br />

canto Vi<br />

Quando si parte il gioco de la zara,<br />

colui che perde si riman dolente,<br />

repetendo le volte, e tristo impara;<br />

con l’altro se ne va tutta la gente;<br />

qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,<br />

e qual <strong>da</strong>llato li si reca a mente;<br />

el non s’arresta, e questo e quello intende;<br />

a cui porge la man, più non fa pressa;<br />

e così <strong>da</strong> la calca si difende.<br />

tal era io in quella turba spessa,<br />

volgendo a loro, e qua e là, la faccia,<br />

e promettendo mi sciogliea <strong>da</strong> essa.<br />

Quiv’ era l’aretin che <strong>da</strong> le braccia<br />

fiere di Ghin di tacco ebbe la morte,<br />

e l’altro ch’annegò correndo in caccia.<br />

Quivi pregava con le mani sporte<br />

Federigo novello, e quel <strong>da</strong> Pisa<br />

che fé parer lo buon Marzucco forte.<br />

Vidi conte orso e l’anima divisa<br />

<strong>da</strong>l corpo suo per astio e per inveggia,<br />

com’ e’ dicea, non per colpa commisa;<br />

Pier <strong>da</strong> la broccia dico; e qui proveggia,<br />

mentr’ è di qua, la donna di brabante,<br />

sì che però non sia di peggior greggia.<br />

come libero fui <strong>da</strong> tutte quante<br />

quell’ ombre che pregar pur ch’altri prieghi,<br />

sì che s’avacci lor divenir sante,<br />

io cominciai: «el par che tu mi nieghi,<br />

o luce mia, espresso in alcun testo<br />

che decreto del cielo orazion pieghi;<br />

e questa gente prega pur di questo:<br />

sarebbe dunque loro speme vana,<br />

o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?».<br />

ed elli a me: «La mia scrittura è piana;<br />

e la speranza di costor non falla,<br />

se ben si guar<strong>da</strong> con la mente sana;<br />

ché cima di giudicio non s’avvalla<br />

perché foco d’amor compia in un punto<br />

ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;<br />

e là dov’ io fermai cotesto punto,<br />

non s’ammen<strong>da</strong>va, per pregar, difetto,<br />

perché ’l priego <strong>da</strong> dio era disgiunto.<br />

Veramente a così alto sospetto<br />

non ti fermar, se quella nol ti dice<br />

che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.<br />

non so se ’ntendi: io dico di beatrice;<br />

tu la vedrai di sopra, in su la vetta<br />

di questo monte, ridere e felice».<br />

e io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,<br />

ché già non m’affatico come dianzi,<br />

e vedi omai che ’l poggio l’ombra getta».<br />

«noi anderem con questo giorno innanzi»,<br />

rispuose, «quanto più potremo omai;<br />

ma ’l fatto è d’altra forma che non stanzi.<br />

Prima che sie là sù, tornar vedrai<br />

colui che già si cuopre de la costa,<br />

sì che ’ suoi raggi tu romper non fai.<br />

Ma vedi là un’anima che, posta<br />

sola soletta, inverso noi riguar<strong>da</strong>:<br />

quella ne ’nsegnerà la via più tosta».<br />

Venimmo a lei: o anima lombar<strong>da</strong>,<br />

come ti stavi altera e disdegnosa<br />

e nel mover de li occhi onesta e tar<strong>da</strong>!<br />

ella non ci dicëa alcuna cosa,<br />

ma lasciavane gir, solo sguar<strong>da</strong>ndo<br />

a guisa di leon quando si posa.<br />

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando<br />

che ne mostrasse la miglior salita;<br />

e quella non rispuose al suo dimando,<br />

ma di nostro paese e de la vita<br />

ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava


«Mantüa…», e l’ombra, tutta in sé romita,<br />

surse ver’ lui del loco ove pria stava,<br />

dicendo: «o Mantoano, io son Sordello<br />

de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.<br />

ahi serva italia, di dolore ostello,<br />

nave sanza nocchiere in gran tempesta,<br />

non donna di province, ma bordello!<br />

Quell’ anima gentil fu così presta,<br />

sol per lo dolce suon de la sua terra,<br />

di fare al cittadin suo quivi festa;<br />

e ora in te non stanno sanza guerra<br />

li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode<br />

di quei ch’un muro e una fossa serra.<br />

cerca, misera, intorno <strong>da</strong> le prode<br />

le tue marine, e poi ti guar<strong>da</strong> in seno,<br />

s’alcuna parte in te di pace gode.<br />

che val perché ti racconciasse il freno<br />

iustinïano, se la sella è vòta?<br />

Sanz’ esso fora la vergogna meno.<br />

ahi gente che dovresti esser devota,<br />

e lasciar seder cesare in la sella,<br />

se bene intendi ciò che dio ti nota,<br />

guar<strong>da</strong> come esta fiera è fatta fella<br />

per non esser corretta <strong>da</strong> li sproni,<br />

poi che ponesti mano a la predella.<br />

o alberto tedesco ch’abbandoni<br />

costei ch’è fatta indomita e selvaggia,<br />

e dovresti inforcar li suoi arcioni,<br />

giusto giudicio <strong>da</strong> le stelle caggia<br />

sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,<br />

tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!<br />

ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,<br />

per cupidigia di costà distretti,<br />

che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.<br />

Vieni a veder Montecchi e cappelletti,<br />

Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:<br />

color già tristi, e questi con sospetti!<br />

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura<br />

d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;<br />

e vedrai Santafior com’ è oscura!<br />

Vieni a veder la tua roma che piagne<br />

vedova e sola, e dì e notte chiama:<br />

«cesare mio, perché non m’accompagne?».<br />

Vieni a veder la gente quanto s’ama!<br />

e se nulla di noi pietà ti move,<br />

a vergognar ti vien de la tua fama.<br />

e se licito m’è, o sommo Giove<br />

che fosti in terra per noi crucifisso,<br />

son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?<br />

o è preparazion che ne l’abisso<br />

del tuo consiglio fai per alcun bene<br />

in tutto de l’accorger nostro scisso?<br />

ché le città d’italia tutte piene<br />

son di tiranni, e un Marcel diventa<br />

ogne villan che parteggiando viene.<br />

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta<br />

di questa digression che non ti tocca,<br />

mercé del popol tuo che si argomenta.<br />

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca<br />

per non venir sanza consiglio a l’arco;<br />

ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.<br />

Molti rifiutan lo comune incarco;<br />

ma il popol tuo solicito risponde<br />

sanza chiamare, e gri<strong>da</strong>: «i’ mi sobbarco!».<br />

or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:<br />

tu ricca, tu con pace e tu con senno!<br />

S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.<br />

atene e Lacedemona, che fenno<br />

l’antiche leggi e furon sì civili,<br />

fecero al viver bene un picciol cenno<br />

verso di te, che fai tanto sottili<br />

provedimenti, ch’a mezzo novembre<br />

non giugne quel che tu d’ottobre fili.<br />

Quante volte, del tempo che rimembre,<br />

legge, moneta, officio e costume<br />

hai tu mutato, e rinovate membre!<br />

e se ben ti ricordi e vedi lume,<br />

vedrai te somigliante a quella inferma<br />

che non può trovar posa in su le piume,<br />

ma con <strong>da</strong>r volta suo dolore scherma.<br />

canto iX<br />

La concubina di titone antico<br />

già s’imbiancava al balco d’orïente,<br />

fuor de le braccia del suo dolce amico;<br />

di gemme la sua fronte era lucente,<br />

poste in figura del freddo animale<br />

che con la co<strong>da</strong> percuote la gente;<br />

e la notte, de’ passi con che sale,<br />

fatti avea due nel loco ov’ eravamo,<br />

e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;<br />

quand’ io, che meco avea di quel d’a<strong>da</strong>mo,<br />

vinto <strong>da</strong>l sonno, in su l’erba inchinai<br />

là ’ve già tutti e cinque se<strong>da</strong>vamo.<br />

ne l’ora che comincia i tristi lai<br />

la rondinella presso a la mattina,<br />

forse a memoria de’ suo’ primi guai,<br />

e che la mente nostra, peregrina<br />

più <strong>da</strong> la carne e men <strong>da</strong>’ pensier presa,<br />

a le sue visïon quasi è divina,<br />

in sogno mi parea veder sospesa<br />

un’aguglia nel ciel con penne d’oro,<br />

con l’ali aperte e a calare intesa;<br />

ed esser mi parea là dove fuoro<br />

abbandonati i suoi <strong>da</strong> Ganimede,<br />

quando fu ratto al sommo consistoro.<br />

Fra me pensava: ’Forse questa fiede<br />

pur qui per uso, e forse d’altro loco<br />

disdegna di portarne suso in piede’.<br />

Poi mi parea che, poi rotata un poco,<br />

terribil come folgor discendesse,<br />

e me rapisse suso infino al foco.<br />

ivi parea che ella e io ardesse;<br />

e sì lo ’ncendio imaginato cosse,<br />

che convenne che ’l sonno si rompesse.<br />

non altrimenti achille si riscosse,<br />

li occhi svegliati rivolgendo in giro<br />

e non sappiendo là dove si fosse,<br />

quando la madre <strong>da</strong> chirón a Schiro<br />

trafuggò lui dormendo in le sue braccia,<br />

là onde poi li Greci il dipartiro;<br />

che mi scoss’ io, sì come <strong>da</strong> la faccia<br />

mi fuggì ’l sonno, e diventa’ ismorto,


come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.<br />

<strong>da</strong>llato m’era solo il mio conforto,<br />

e ’l sole er’ alto già più che due ore,<br />

e ’l viso m’era a la marina torto.<br />

«non aver tema», disse il mio segnore;<br />

«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;<br />

non stringer, ma rallarga ogne vigore.<br />

tu se’ omai al purgatorio giunto:<br />

vedi là il balzo che ’l chiude dintorno;<br />

vedi l’entrata là ’ve par digiunto.<br />

dianzi, ne l’alba che procede al giorno,<br />

quando l’anima tua dentro dormia,<br />

sovra li fiori ond’ è là giù addorno<br />

venne una donna, e disse: “i’ son Lucia;<br />

lasciatemi pigliar costui che dorme;<br />

sì l’agevolerò per la sua via”.<br />

Sordel rimase e l’altre genti forme;<br />

ella ti tolse, e come ’l dì fu chiaro,<br />

sen venne suso; e io per le sue orme.<br />

Qui ti posò, ma pria mi dimostraro<br />

li occhi suoi belli quella intrata aperta;<br />

poi ella e ’l sonno ad una se n’an<strong>da</strong>ro».<br />

a guisa d’uom che ’n dubbio si raccerta<br />

e che muta in conforto sua paura,<br />

poi che la verità li è discoperta,<br />

mi cambia’ io; e come sanza cura<br />

vide me ’l duca mio, su per lo balzo<br />

si mosse, e io di rietro inver’ l’altura.<br />

Lettor, tu vedi ben com’ io innalzo<br />

la mia matera, e però con più arte<br />

non ti maravigliar s’io la rincalzo.<br />

noi ci appressammo, ed eravamo in parte<br />

che là dove pareami prima rotto,<br />

pur come un fesso che muro diparte,<br />

vidi una porta, e tre gradi di sotto<br />

per gire ad essa, di color diversi,<br />

e un portier ch’ancor non facea motto.<br />

e come l’occhio più e più v’apersi,<br />

vidil seder sovra ’l grado sovrano,<br />

tal ne la faccia ch’io non lo soffersi;<br />

e una spa<strong>da</strong> nu<strong>da</strong> avëa in mano,<br />

che reflettëa i raggi sì ver’ noi,<br />

ch’io dirizzava spesso il viso in vano.<br />

«dite costinci: che volete voi?»,<br />

cominciò elli a dire, «ov’ è la scorta?<br />

Guar<strong>da</strong>te che ’l venir sù non vi nòi».<br />

«donna del ciel, di queste cose accorta»,<br />

rispuose ’l mio maestro a lui, «pur dianzi<br />

ne disse: “an<strong>da</strong>te là: quivi è la porta”».<br />

«ed ella i passi vostri in bene avanzi»,<br />

ricominciò il cortese portinaio:<br />

«Venite dunque a’ nostri gradi innanzi».<br />

Là ne venimmo; e lo scaglion primaio<br />

bianco marmo era sì pulito e terso,<br />

ch’io mi specchiai in esso qual io paio.<br />

era il secondo tinto più che perso,<br />

d’una petrina ruvi<strong>da</strong> e arsiccia,<br />

crepata per lo lungo e per traverso.<br />

Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,<br />

porfido mi parea, sì fiammeggiante<br />

come sangue che fuor di vena spiccia.<br />

Sovra questo tenëa ambo le piante<br />

l’angel di dio sedendo in su la soglia<br />

che mi sembiava pietra di diamante.<br />

Per li tre gradi sù di buona voglia<br />

mi trasse il duca mio, dicendo: «chiedi<br />

umilemente che ’l serrame scioglia».<br />

divoto mi gittai a’ santi piedi;<br />

misericordia chiesi e ch’el m’aprisse,<br />

ma tre volte nel petto pria mi diedi.<br />

Sette P ne la fronte mi descrisse<br />

col punton de la spa<strong>da</strong>, e «Fa che lavi,<br />

quando se’ dentro, queste piaghe» disse.<br />

cenere, o terra che secca si cavi,<br />

d’un color fora col suo vestimento;<br />

e di sotto <strong>da</strong> quel trasse due chiavi.<br />

L’una era d’oro e l’altra era d’argento;<br />

pria con la bianca e poscia con la gialla<br />

fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento.<br />

«Quandunque l’una d’este chiavi falla,<br />

che non si volga dritta per la toppa»,<br />

diss’ elli a noi, «non s’apre questa calla.<br />

Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa<br />

d’arte e d’ingegno avanti che diserri,<br />

perch’ ella è quella che ’l nodo digroppa.<br />

<strong>da</strong> Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri<br />

anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,<br />

pur che la gente a’ piedi mi s’atterri».<br />

Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,<br />

dicendo: «intrate; ma facciovi accorti<br />

che di fuor torna chi ’n dietro si guata».<br />

e quando fuor ne’ cardini distorti<br />

li spigoli di quella regge sacra,<br />

che di metallo son sonanti e forti,<br />

non rugghiò sì né si mostrò sì acra<br />

tarpëa, come tolto le fu il buono<br />

Metello, per che poi rimase macra.<br />

io mi rivolsi attento al primo tuono,<br />

e ’te deum lau<strong>da</strong>mus’ mi parea<br />

udire in voce mista al dolce suono.<br />

tale imagine a punto mi rendea<br />

ciò ch’io udiva, qual prender si suole<br />

quando a cantar con organi si stea;<br />

ch’or sì or no s’intendon le parole.<br />

ParadiSo<br />

canto i<br />

La gloria di colui che tutto move<br />

per l’universo penetra, e risplende<br />

in una parte più e meno altrove.<br />

nel ciel che più de la sua luce prende<br />

fu’ io, e vidi cose che ridire<br />

né sa né può chi di là sù discende;<br />

perché appressando sé al suo disire,<br />

nostro intelletto si <strong>prof</strong>on<strong>da</strong> tanto,<br />

che dietro la memoria non può ire.<br />

Veramente quant’ io del regno santo<br />

ne la mia mente potei far tesoro,<br />

sarà ora materia del mio canto.<br />

o buono appollo, a l’ultimo lavoro<br />

fammi del tuo valor sì fatto vaso,<br />

come dimandi a <strong>da</strong>r l’amato alloro.<br />

infino a qui l’un giogo di Parnaso


assai mi fu; ma or con amendue<br />

m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.<br />

entra nel petto mio, e spira tue<br />

sì come quando Marsïa traesti<br />

de la vagina de le membra sue.<br />

o divina virtù, se mi ti presti<br />

tanto che l’ombra del beato regno<br />

segnata nel mio capo io manifesti,<br />

vedra’mi al piè del tuo diletto legno<br />

venire, e coronarmi de le foglie<br />

che la materia e tu mi farai degno.<br />

Sì rade volte, padre, se ne coglie<br />

per trïunfare o cesare o poeta,<br />

colpa e vergogna de l’umane voglie,<br />

che parturir letizia in su la lieta<br />

delfica deïtà dovria la fron<strong>da</strong><br />

peneia, quando alcun di sé asseta.<br />

Poca favilla gran fiamma secon<strong>da</strong>:<br />

forse di retro a me con miglior voci<br />

si pregherà perché cirra rispon<strong>da</strong>.<br />

Surge ai mortali per diverse foci<br />

la lucerna del mondo; ma <strong>da</strong> quella<br />

che quattro cerchi giugne con tre croci,<br />

con miglior corso e con migliore stella<br />

esce congiunta, e la mon<strong>da</strong>na cera<br />

più a suo modo tempera e suggella.<br />

Fatto avea di là mane e di qua sera<br />

tal foce, e quasi tutto era là bianco<br />

quello emisperio, e l’altra parte nera,<br />

quando beatrice in sul sinistro fianco<br />

vidi rivolta e riguar<strong>da</strong>r nel sole:<br />

aguglia sì non li s’affisse unquanco.<br />

e sì come secondo raggio suole<br />

uscir del primo e risalire in suso,<br />

pur come pelegrin che tornar vuole,<br />

così de l’atto suo, per li occhi infuso<br />

ne l’imagine mia, il mio si fece,<br />

e fissi li occhi al sole oltre nostr’ uso.<br />

Molto è licito là, che qui non lece<br />

a le nostre virtù, mercé del loco<br />

fatto per proprio de l’umana spece.<br />

io nol soffersi molto, né sì poco,<br />

ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,<br />

com’ ferro che bogliente esce del foco;<br />

e di sùbito parve giorno a giorno<br />

essere aggiunto, come quei che puote<br />

avesse il ciel d’un altro sole addorno.<br />

beatrice tutta ne l’etterne rote<br />

fissa con li occhi stava; e io in lei<br />

le luci fissi, di là sù rimote.<br />

nel suo aspetto tal dentro mi fei,<br />

qual si fé Glauco nel gustar de l’erba<br />

che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.<br />

trasumanar significar per verba<br />

non si poria; però l’essemplo basti<br />

a cui esperïenza grazia serba.<br />

S’i’ era sol di me quel che creasti<br />

novellamente, amor che ’l ciel governi,<br />

tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.<br />

Quando la rota che tu sempiterni<br />

desiderato, a sé mi fece atteso<br />

con l’armonia che temperi e discerni,<br />

parvemi tanto allor del cielo acceso<br />

de la fiamma del sol, che pioggia o fiume<br />

lago non fece alcun tanto disteso.<br />

La novità del suono e ’l grande lume<br />

di lor cagion m’accesero un disio<br />

mai non sentito di cotanto acume.<br />

ond’ ella, che vedea me sì com’ io,<br />

a quïetarmi l’animo commosso,<br />

pria ch’io a diman<strong>da</strong>r, la bocca aprio<br />

e cominciò: «tu stesso ti fai grosso<br />

col falso imaginar, sì che non vedi<br />

ciò che vedresti se l’avessi scosso.<br />

tu non se’ in terra, sì come tu credi;<br />

ma folgore, fuggendo il proprio sito,<br />

non corse come tu ch’ad esso riedi».<br />

S’io fui del primo dubbio disvestito<br />

per le sorrise parolette brevi,<br />

dentro ad un nuovo più fu’ inretito<br />

e dissi: «Già contento requïevi<br />

di grande ammirazion; ma ora ammiro<br />

com’ io trascen<strong>da</strong> questi corpi levi».<br />

ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro,<br />

li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante<br />

che madre fa sovra figlio deliro,<br />

e cominciò: «Le cose tutte quante<br />

hanno ordine tra loro, e questo è forma<br />

che l’universo a dio fa simigliante.<br />

Qui veggion l’alte creature l’orma<br />

de l’etterno valore, il qual è fine<br />

al quale è fatta la toccata norma.<br />

ne l’ordine ch’io dico sono accline<br />

tutte nature, per diverse sorti,<br />

più al principio loro e men vicine;<br />

onde si muovono a diversi porti<br />

per lo gran mar de l’essere, e ciascuna<br />

con istinto a lei <strong>da</strong>to che la porti.<br />

Questi ne porta il foco inver’ la luna;<br />

questi ne’ cor mortali è permotore;<br />

questi la terra in sé stringe e aduna;<br />

né pur le creature che son fore<br />

d’intelligenza quest’ arco saetta,<br />

ma quelle c’hanno intelletto e amore.<br />

La provedenza, che cotanto assetta,<br />

del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto<br />

nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;<br />

e ora lì, come a sito decreto,<br />

cen porta la virtù di quella cor<strong>da</strong><br />

che ciò che scocca drizza in segno lieto.<br />

Vero è che, come forma non s’accor<strong>da</strong><br />

molte fïate a l’intenzion de l’arte,<br />

perch’ a risponder la materia è sor<strong>da</strong>,<br />

così <strong>da</strong> questo corso si diparte<br />

talor la creatura, c’ha podere<br />

di piegar, così pinta, in altra parte;<br />

e sì come veder si può cadere<br />

foco di nube, sì l’impeto primo<br />

l’atterra torto <strong>da</strong> falso piacere.<br />

non dei più ammirar, se bene stimo,<br />

lo tuo salir, se non come d’un rivo<br />

se d’alto monte scende giuso ad imo.<br />

Maraviglia sarebbe in te se, privo<br />

d’impedimento, giù ti fossi assiso,


com’ a terra quïete in foco vivo».<br />

Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.<br />

canto ii<br />

o voi che siete in piccioletta barca,<br />

desiderosi d’ascoltar, seguiti<br />

dietro al mio legno che cantando varca,<br />

tornate a riveder li vostri liti:<br />

non vi mettete in pelago, ché forse,<br />

perdendo me, rimarreste smarriti.<br />

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;<br />

Minerva spira, e conducemi appollo,<br />

e nove Muse mi dimostran l’orse.<br />

Voialtri pochi che drizzaste il collo<br />

per tempo al pan de li angeli, del quale<br />

vivesi qui ma non sen vien satollo,<br />

metter potete ben per l’alto sale<br />

vostro navigio, servando mio solco<br />

dinanzi a l’acqua che ritorna equale.<br />

Que’ glorïosi che passaro al colco<br />

non s’ammiraron come voi farete,<br />

quando iasón vider fatto bifolco.<br />

La concreata e perpetüa sete<br />

del deïforme regno cen portava<br />

veloci quasi come ’l ciel vedete.<br />

beatrice in suso, e io in lei guar<strong>da</strong>va;<br />

e forse in tanto in quanto un quadrel posa<br />

e vola e <strong>da</strong> la noce si dischiava,<br />

giunto mi vidi ove mirabil cosa<br />

mi torse il viso a sé; e però quella<br />

cui non potea mia cura essere ascosa,<br />

volta ver’ me, sì lieta come bella,<br />

«drizza la mente in dio grata», mi disse,<br />

«che n’ha congiunti con la prima stella».<br />

Parev’ a me che nube ne coprisse<br />

luci<strong>da</strong>, spessa, soli<strong>da</strong> e pulita,<br />

quasi a<strong>da</strong>mante che lo sol ferisse.<br />

Per entro sé l’etterna margarita<br />

ne ricevette, com’ acqua recepe<br />

raggio di luce permanendo unita.<br />

S’io era corpo, e qui non si concepe<br />

com’ una dimensione altra patio,<br />

ch’esser convien se corpo in corpo repe,<br />

accender ne dovria più il disio<br />

di veder quella essenza in che si vede<br />

come nostra natura e dio s’unio.<br />

Lì si vedrà ciò che tenem per fede,<br />

non dimostrato, ma fia per sé noto<br />

a guisa del ver primo che l’uom crede.<br />

io rispuosi: «Madonna, sì devoto<br />

com’ esser posso più, ringrazio lui<br />

lo qual <strong>da</strong>l mortal mondo m’ha remoto.<br />

Ma ditemi: che son li segni bui<br />

di questo corpo, che là giuso in terra<br />

fan di cain favoleggiare altrui?».<br />

ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra<br />

l’oppinïon», mi disse, «d’i mortali<br />

dove chiave di senso non diserra,<br />

certo non ti dovrien punger li strali<br />

d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi<br />

vedi che la ragione ha corte l’ali.<br />

Ma dimmi quel che tu <strong>da</strong> te ne pensi».<br />

e io: «ciò che n’appar qua sù diverso<br />

credo che fanno i corpi rari e densi».<br />

ed ella: «certo assai vedrai sommerso<br />

nel falso il creder tuo, se bene ascolti<br />

l’argomentar ch’io li farò avverso.<br />

La spera ottava vi dimostra molti<br />

lumi, li quali e nel quale e nel quanto<br />

notar si posson di diversi volti.<br />

Se raro e denso ciò facesser tanto,<br />

una sola virtù sarebbe in tutti,<br />

più e men distributa e altrettanto.<br />

Virtù diverse esser convegnon frutti<br />

di princìpi formali, e quei, for ch’uno,<br />

seguiterieno a tua ragion distrutti.<br />

ancor, se raro fosse di quel bruno<br />

cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte<br />

fora di sua materia sì digiuno<br />

esto pianeto, o, sì come comparte<br />

lo grasso e ’l magro un corpo, così questo<br />

nel suo volume cangerebbe carte.<br />

Se ’l primo fosse, fora manifesto<br />

ne l’eclissi del sol, per trasparere<br />

lo lume come in altro raro ingesto.<br />

Questo non è: però è <strong>da</strong> vedere<br />

de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,<br />

falsificato fia lo tuo parere.<br />

S’elli è che questo raro non trapassi,<br />

esser conviene un termine <strong>da</strong> onde<br />

lo suo contrario più passar non lassi;<br />

e indi l’altrui raggio si rifonde<br />

così come color torna per vetro<br />

lo qual di retro a sé piombo nasconde.<br />

or dirai tu ch’el si dimostra tetro<br />

ivi lo raggio più che in altre parti,<br />

per esser lì refratto più a retro.<br />

<strong>da</strong> questa instanza può deliberarti<br />

esperïenza, se già mai la provi,<br />

ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’ arti.<br />

tre specchi prenderai; e i due rimovi<br />

<strong>da</strong> te d’un modo, e l’altro, più rimosso,<br />

tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.<br />

rivolto ad essi, fa che dopo il dosso<br />

ti stea un lume che i tre specchi accen<strong>da</strong><br />

e torni a te <strong>da</strong> tutti ripercosso.<br />

ben che nel quanto tanto non si sten<strong>da</strong><br />

la vista più lontana, lì vedrai<br />

come convien ch’igualmente risplen<strong>da</strong>.<br />

or, come ai colpi de li caldi rai<br />

de la neve riman nudo il suggetto<br />

e <strong>da</strong>l colore e <strong>da</strong>l freddo primai,<br />

così rimaso te ne l’intelletto<br />

voglio informar di luce sì vivace,<br />

che ti tremolerà nel suo aspetto.<br />

dentro <strong>da</strong>l ciel de la divina pace<br />

si gira un corpo ne la cui virtute<br />

l’esser di tutto suo contento giace.<br />

Lo ciel seguente, c’ha tante vedute,<br />

quell’ esser parte per diverse essenze,<br />

<strong>da</strong> lui distratte e <strong>da</strong> lui contenute.<br />

Li altri giron per varie differenze<br />

le distinzion che dentro <strong>da</strong> sé hanno


dispongono a lor fini e lor semenze.<br />

Questi organi del mondo così vanno,<br />

come tu vedi omai, di grado in grado,<br />

che di sù prendono e di sotto fanno.<br />

riguar<strong>da</strong> bene omai sì com’ io vado<br />

per questo loco al vero che disiri,<br />

sì che poi sappi sol tener lo guado.<br />

Lo moto e la virtù d’i santi giri,<br />

come <strong>da</strong>l fabbro l’arte del martello,<br />

<strong>da</strong>’ beati motor convien che spiri;<br />

e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,<br />

de la mente <strong>prof</strong>on<strong>da</strong> che lui volve<br />

prende l’image e fassene suggello.<br />

e come l’alma dentro a vostra polve<br />

per differenti membra e conformate<br />

a diverse potenze si risolve,<br />

così l’intelligenza sua bontate<br />

multiplicata per le stelle spiega,<br />

girando sé sovra sua unitate.<br />

Virtù diversa fa diversa lega<br />

col prezïoso corpo ch’ella avviva,<br />

nel qual, sì come vita in voi, si lega.<br />

Per la natura lieta onde deriva,<br />

la virtù mista per lo corpo luce<br />

come letizia per pupilla viva.<br />

<strong>da</strong> essa vien ciò che <strong>da</strong> luce a luce<br />

par differente, non <strong>da</strong> denso e raro;<br />

essa è formal principio che produce,<br />

conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro».<br />

canto XVii<br />

Qual venne a climenè, per accertarsi<br />

di ciò ch’avëa incontro a sé udito,<br />

quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;<br />

tal era io, e tal era sentito<br />

e <strong>da</strong> beatrice e <strong>da</strong> la santa lampa<br />

che pria per me avea mutato sito.<br />

Per che mia donna «Man<strong>da</strong> fuor la vampa<br />

del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca<br />

segnata bene de la interna stampa:<br />

non perché nostra conoscenza cresca<br />

per tuo parlare, ma perché t’ausi<br />

a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».<br />

«o cara piota mia che sì t’insusi,<br />

che, come veggion le terrene menti<br />

non capere in trïangol due ottusi,<br />

così vedi le cose contingenti<br />

anzi che sieno in sé, mirando il punto<br />

a cui tutti li tempi son presenti;<br />

mentre ch’io era a Virgilio congiunto<br />

su per lo monte che l’anime cura<br />

e discendendo nel mondo defunto,<br />

dette mi fuor di mia vita futura<br />

parole gravi, avvegna ch’io mi senta<br />

ben tetragono ai colpi di ventura;<br />

per che la voglia mia saria contenta<br />

d’intender qual fortuna mi s’appressa:<br />

ché saetta previsa vien più lenta».<br />

così diss’ io a quella luce stessa<br />

che pria m’avea parlato; e come volle<br />

beatrice, fu la mia voglia confessa.<br />

né per ambage, in che la gente folle<br />

già s’inviscava pria che fosse anciso<br />

l’agnel di dio che le peccata tolle,<br />

ma per chiare parole e con preciso<br />

latin rispuose quello amor paterno,<br />

chiuso e parvente del suo proprio riso:<br />

«La contingenza, che fuor del quaderno<br />

de la vostra matera non si stende,<br />

tutta è dipinta nel cospetto etterno;<br />

necessità però quindi non prende<br />

se non come <strong>da</strong>l viso in che si specchia<br />

nave che per torrente giù discende.<br />

<strong>da</strong> indi, sì come viene ad orecchia<br />

dolce armonia <strong>da</strong> organo, mi viene<br />

a vista il tempo che ti s’apparecchia.<br />

Qual si partio ipolito d’atene<br />

per la spietata e perfi<strong>da</strong> noverca,<br />

tal di Fiorenza partir ti convene.<br />

Questo si vuole e questo già si cerca,<br />

e tosto verrà fatto a chi ciò pensa<br />

là dove cristo tutto dì si merca.<br />

La colpa seguirà la parte offensa<br />

in grido, come suol; ma la vendetta<br />

fia testimonio al ver che la dispensa.<br />

tu lascerai ogne cosa diletta<br />

più caramente; e questo è quello strale<br />

che l’arco de lo essilio pria saetta.<br />

tu proverai sì come sa di sale<br />

lo pane altrui, e come è duro calle<br />

lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.<br />

e quel che più ti graverà le spalle,<br />

sarà la compagnia malvagia e scempia<br />

con la qual tu cadrai in questa valle;<br />

che tutta ingrata, tutta matta ed empia<br />

si farà contr’ a te; ma, poco appresso,<br />

ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.<br />

di sua bestialitate il suo processo<br />

farà la prova; sì ch’a te fia bello<br />

averti fatta parte per te stesso.<br />

Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello<br />

sarà la cortesia del gran Lombardo<br />

che ’n su la scala porta il santo uccello;<br />

ch’in te avrà sì benigno riguardo,<br />

che del fare e del chieder, tra voi due,<br />

fia primo quel che tra li altri è più tardo.<br />

con lui vedrai colui che ’mpresso fue,<br />

nascendo, sì <strong>da</strong> questa stella forte,<br />

che notabili fier l’opere sue.<br />

non se ne son le genti ancora accorte<br />

per la novella età, ché pur nove anni<br />

son queste rote intorno di lui torte;<br />

ma pria che ’l Guasco l’alto arrigo inganni,<br />

parran faville de la sua virtute<br />

in non curar d’argento né d’affanni.<br />

Le sue magnificenze conosciute<br />

saranno ancora, sì che ’ suoi nemici<br />

non ne potran tener le lingue mute.<br />

a lui t’aspetta e a’ suoi benefici;<br />

per lui fia trasmutata molta gente,<br />

cambiando condizion ricchi e mendici;<br />

e portera’ne scritto ne la mente<br />

di lui, e nol dirai»; e disse cose


incredibili a quei che fier presente.<br />

Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose<br />

di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie<br />

che dietro a pochi giri son nascose.<br />

non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,<br />

poscia che s’infutura la tua vita<br />

vie più là che ’l punir di lor perfidie».<br />

Poi che, tacendo, si mostrò spedita<br />

l’anima santa di metter la trama<br />

in quella tela ch’io le porsi ordita,<br />

io cominciai, come colui che brama,<br />

dubitando, consiglio <strong>da</strong> persona<br />

che vede e vuol dirittamente e ama:<br />

«ben veggio, padre mio, sì come sprona<br />

lo tempo verso me, per colpo <strong>da</strong>rmi<br />

tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;<br />

per che di provedenza è buon ch’io m’armi,<br />

sì che, se loco m’è tolto più caro,<br />

io non perdessi li altri per miei carmi.<br />

Giù per lo mondo sanza fine amaro,<br />

e per lo monte del cui bel cacume<br />

li occhi de la mia donna mi levaro,<br />

e poscia per lo ciel, di lume in lume,<br />

ho io appreso quel che s’io ridico,<br />

a molti fia sapor di forte agrume;<br />

e s’io al vero son timido amico,<br />

temo di perder viver tra coloro<br />

che questo tempo chiameranno antico».<br />

La luce in che rideva il mio tesoro<br />

ch’io trovai lì, si fé prima corusca,<br />

quale a raggio di sole specchio d’oro;<br />

indi rispuose: «coscïenza fusca<br />

o de la propria o de l’altrui vergogna<br />

pur sentirà la tua parola brusca.<br />

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,<br />

tutta tua visïon fa manifesta;<br />

e lascia pur grattar dov’ è la rogna.<br />

ché se la voce tua sarà molesta<br />

nel primo gusto, vital nodrimento<br />

lascerà poi, quando sarà digesta.<br />

Questo tuo grido farà come vento,<br />

che le più alte cime più percuote;<br />

e ciò non fa d’onor poco argomento.<br />

Però ti son mostrate in queste rote,<br />

nel monte e ne la valle dolorosa<br />

pur l’anime che son di fama note,<br />

che l’animo di quel ch’ode, non posa<br />

né ferma fede per essempro ch’aia<br />

la sua radice incognita e ascosa,<br />

né per altro argomento che non paia».<br />

canto XXiX<br />

Quando ambedue li figli di Latona,<br />

coperti del Montone e de la Libra,<br />

fanno de l’orizzonte insieme zona,<br />

quant’ è <strong>da</strong>l punto che ’l cenìt inlibra<br />

infin che l’uno e l’altro <strong>da</strong> quel cinto,<br />

cambiando l’emisperio, si dilibra,<br />

tanto, col volto di riso dipinto,<br />

si tacque bëatrice, riguar<strong>da</strong>ndo<br />

fiso nel punto che m’avëa vinto.<br />

Poi cominciò: «io dico, e non dimando,<br />

quel che tu vuoli udir, perch’ io l’ho visto<br />

là ’ve s’appunta ogne ubi e ogne quando.<br />

non per aver a sé di bene acquisto,<br />

ch’esser non può, ma perché suo splendore<br />

potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,<br />

in sua etternità di tempo fore,<br />

fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,<br />

s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.<br />

né prima quasi torpente si giacque;<br />

ché né prima né poscia procedette<br />

lo discorrer di dio sovra quest’ acque.<br />

Forma e materia, congiunte e purette,<br />

usciro ad esser che non avia fallo,<br />

come d’arco tricordo tre saette.<br />

e come in vetro, in ambra o in cristallo<br />

raggio resplende sì, che <strong>da</strong>l venire<br />

a l’esser tutto non è intervallo,<br />

così ’l triforme effetto del suo sire<br />

ne l’esser suo raggiò insieme tutto<br />

sanza distinzïone in essordire.<br />

concreato fu ordine e costrutto<br />

a le sustanze; e quelle furon cima<br />

nel mondo in che puro atto fu produtto;<br />

pura potenza tenne la parte ima;<br />

nel mezzo strinse potenza con atto<br />

tal vime, che già mai non si divima.<br />

ieronimo vi scrisse lungo tratto<br />

di secoli de li angeli creati<br />

anzi che l’altro mondo fosse fatto;<br />

ma questo vero è scritto in molti lati<br />

<strong>da</strong> li scrittor de lo Spirito Santo,<br />

e tu te n’avvedrai se bene agguati;<br />

e anche la ragione il vede alquanto,<br />

che non concederebbe che ’ motori<br />

sanza sua perfezion fosser cotanto.<br />

or sai tu dove e quando questi amori<br />

furon creati e come: sì che spenti<br />

nel tuo disïo già son tre ardori.<br />

né giugneriesi, numerando, al venti<br />

sì tosto, come de li angeli parte<br />

turbò il suggetto d’i vostri alimenti.<br />

L’altra rimase, e cominciò quest’ arte<br />

che tu discerni, con tanto diletto,<br />

che mai <strong>da</strong> circüir non si diparte.<br />

Principio del cader fu il maladetto<br />

superbir di colui che tu vedesti<br />

<strong>da</strong> tutti i pesi del mondo costretto.<br />

Quelli che vedi qui furon modesti<br />

a riconoscer sé <strong>da</strong> la bontate<br />

che li avea fatti a tanto intender presti:<br />

per che le viste lor furo essaltate<br />

con grazia illuminante e con lor merto,<br />

sì c’hanno ferma e piena volontate;<br />

e non voglio che dubbi, ma sia certo,<br />

che ricever la grazia è meritorio<br />

secondo che l’affetto l’è aperto.<br />

omai dintorno a questo consistorio<br />

puoi contemplare assai, se le parole<br />

mie son ricolte, sanz’ altro aiutorio.<br />

Ma perché ’n terra per le vostre scole<br />

si legge che l’angelica natura


è tal, che ’ntende e si ricor<strong>da</strong> e vole,<br />

ancor dirò, perché tu veggi pura<br />

la verità che là giù si confonde,<br />

equivocando in sì fatta lettura.<br />

Queste sustanze, poi che fur gioconde<br />

de la faccia di dio, non volser viso<br />

<strong>da</strong> essa, <strong>da</strong> cui nulla si nasconde:<br />

però non hanno vedere interciso<br />

<strong>da</strong> novo obietto, e però non bisogna<br />

rememorar per concetto diviso;<br />

sì che là giù, non dormendo, si sogna,<br />

credendo e non credendo dicer vero;<br />

ma ne l’uno è più colpa e più vergogna.<br />

Voi non an<strong>da</strong>te giù per un sentiero<br />

filosofando: tanto vi trasporta<br />

l’amor de l’apparenza e ’l suo pensiero!<br />

e ancor questo qua sù si comporta<br />

con men disdegno che quando è posposta<br />

la divina Scrittura o quando è torta.<br />

non vi si pensa quanto sangue costa<br />

seminarla nel mondo e quanto piace<br />

chi umilmente con essa s’accosta.<br />

Per apparer ciascun s’ingegna e face<br />

sue invenzioni; e quelle son trascorse<br />

<strong>da</strong>’ predicanti e ’l Vangelio si tace.<br />

Un dice che la luna si ritorse<br />

ne la passion di cristo e s’interpuose,<br />

per che ’l lume del sol giù non si porse;<br />

e mente, ché la luce si nascose<br />

<strong>da</strong> sé: però a li Spani e a l’indi<br />

come a’ Giudei tale eclissi rispuose.<br />

non ha Fiorenza tanti Lapi e bindi<br />

quante sì fatte favole per anno<br />

in pergamo si gri<strong>da</strong>n quinci e quindi:<br />

sì che le pecorelle, che non sanno,<br />

tornan del pasco pasciute di vento,<br />

e non le scusa non veder lo <strong>da</strong>nno.<br />

non disse cristo al suo primo convento:<br />

’an<strong>da</strong>te, e predicate al mondo ciance’;<br />

ma diede lor verace fon<strong>da</strong>mento;<br />

e quel tanto sonò ne le sue guance,<br />

sì ch’a pugnar per accender la fede<br />

de l’evangelio fero scudo e lance.<br />

ora si va con motti e con iscede<br />

a predicare, e pur che ben si ri<strong>da</strong>,<br />

gonfia il cappuccio e più non si richiede.<br />

Ma tale uccel nel becchetto s’anni<strong>da</strong>,<br />

che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe<br />

la perdonanza di ch’el si confi<strong>da</strong>:<br />

per cui tanta stoltezza in terra crebbe,<br />

che, sanza prova d’alcun testimonio,<br />

ad ogne promession si correrebbe.<br />

di questo ingrassa il porco sant’ antonio,<br />

e altri assai che sono ancor più porci,<br />

pagando di moneta sanza conio.<br />

Ma perché siam digressi assai, ritorci<br />

li occhi oramai verso la dritta stra<strong>da</strong>,<br />

sì che la via col tempo si raccorci.<br />

Questa natura sì oltre s’ingra<strong>da</strong><br />

in numero, che mai non fu loquela<br />

né concetto mortal che tanto va<strong>da</strong>;<br />

e se tu guardi quel che si revela<br />

per <strong>da</strong>nïel, vedrai che ’n sue migliaia<br />

determinato numero si cela.<br />

La prima luce, che tutta la raia,<br />

per tanti modi in essa si recepe,<br />

quanti son li splendori a chi s’appaia.<br />

onde, però che a l’atto che concepe<br />

segue l’affetto, d’amar la dolcezza<br />

diversamente in essa ferve e tepe.<br />

Vedi l’eccelso omai e la larghezza<br />

de l’etterno valor, poscia che tanti<br />

speculi fatti s’ha in che si spezza,<br />

uno manendo in sé come <strong>da</strong>vanti».


FranceSco Petrarca<br />

La lettera a tommaso <strong>da</strong> Messina [Fam., i, 8] è certamente uno dei momenti<br />

in cui più si condensa la meditazione petrarchesca sull’ufficio del letterato,<br />

e dell’intellettuale in genere, nei confronti non – si badi – della società civile,<br />

ma nei confronti di coloro che dovrebbero essere i destinatari delle sue opere.<br />

tommaso, infatti, oppone che gli uomini possono essere persuasi al bene assai<br />

più ed assai meglio <strong>da</strong>ll’imitazione delle buone azioni che <strong>da</strong>i discorsi, sia pure<br />

eleganti e persuasivi: è tesi assai diffusa nella predicazione medievale [diceva s.<br />

bonaventura in un Sermone domenicale: « Quoniam efficacius persuadet vita quam<br />

lingua et exemplum quam verbum hinc est quod dominus noster iesus christus<br />

cuius quaelibet actio nostra est instructio ut exemplo vitae suae ad resistendum<br />

diabolo ceteros efficaciter informaret voluit a spiritu dirigi deinde in deserto morari<br />

et postea a diabolo tentari »], 3 che traeva alimento <strong>da</strong>lla lettera di s. Giacomo. a<br />

petto della comunicazione non verbale implicita in tanta parte della religiosità<br />

medievale, Petrarca non sa opporre se non una funzione corollaria e di supporto<br />

della comunicazione retorica (e letteraria). accettata la veridicità, e non poteva non<br />

esserlo, della posizione dell’interlocutore, Petrarca riservava alla comunicazione<br />

verbale una zona d’efficenza tra i molti, egli scrive, cui ancora non è bastato<br />

l’esempio. L’originalità della scelta del pubblico, quello dei peccanti, mentre<br />

trova spiegazione nell’incertezza del poeta a liberarsi con coraggio dell’eredità<br />

religiosa all’atto della fissazione dei princìpi così come aveva fatto <strong>da</strong>nte, rivela<br />

la ricerca per la comunicazione letteraria di parallelismi e di complementarità<br />

nell’utilizzazione e nei valori con la cultura cristiana.<br />

torna a questo fine utile a Francesco dimostrare che anche la comunicazione<br />

verbale, quella resa più consistente <strong>da</strong>lla retorica e <strong>da</strong>lla poetica, può avere<br />

un’efficacia paragonabile a quella delle buone azioni nell’opera di divulgazione<br />

della morale evangelica. cadono qui in proposito gli usurati esempi di orfeo e<br />

di anfione che vengono suggeriti a paradigma del moderno oratore che si trova<br />

a dover fronteggiare uomini resi bestiali <strong>da</strong>lla cupidigia e <strong>da</strong>lla lussuria. Per<br />

questa via la comunicazione letteraria, che pur sempre in Petrarca conserverà<br />

nominalmente come oggetto la generale scienza e verità, di fatto perderà i<br />

contenuti del quadrivio (matematica, geometria, musica, astronomia) largamente<br />

presenti nei versi della precedente generazione poetica.<br />

Lo sforzo di Petrarca si concentra sul legame tra la retorica e la morale, per<br />

giungere a proporre un varco che gli permetta di superare lo squilibrio tra opera<br />

(eticamente meritevole) e parola (eticamente accettabile), che è quanto dire<br />

appianare l’opposizione tra cultura cristiana e classica. andrà avvertito sin d’ora<br />

che l’operazione petrarchesca ha come campo privilegiato quello della morale<br />

individuale, quello già canonizzato <strong>da</strong> catone e cicerone dell’« homo bonus<br />

dicendi peritus ». Un campo, cioè, ben diverso <strong>da</strong> quello <strong>da</strong>ntesco: ché in <strong>da</strong>nte<br />

la comunicazione è atto etico in sé e realizzazione di uno dei fini assegnati <strong>da</strong> dio<br />

« Poiché la vita persuade più efficacemente della lingua e l’esempio più della parola, deriva che il nostro<br />

signore Gesù Cristo, ogni azione del quale è un insegnamento per noi, per istruire gli altri a resistere al demonio,<br />

volle che lo Spirito <strong>da</strong>pprima lo spingesse e poi lo facesse dimorare nel deserto ed infine inducesse<br />

il demonio a tentarlo ».<br />

« Uomo onesto, esperto dell’arte di parlare ».


all’umanità che s’avvale d’uomini sapienti, non necessariamente esperti dell’arte<br />

del dire; in Petrarca la comunicazione retorica è manifestazione artificiosamente<br />

elaborata della moralità del parlante, la quale non si differenzia <strong>da</strong> quella nota<br />

e diffusa. Vengono fuori due atteggiamenti contrapposti e contraddittori: giacché<br />

se il contenuto del messaggio è quello noto, che prima di tutto deve esprimersi<br />

nelle buone azioni, e che è già stato tutto detto e per di più <strong>da</strong>lla parola divina,<br />

allora la forma sarà in buona misura superflua e dovrà ben guar<strong>da</strong>rsi <strong>da</strong>ll’apportare<br />

variazioni al contenuto: « l’animo ben disposto, come un immobile cielo sereno,<br />

è sempre placido e tranquillo: sa quel che vuole …; e anche se mancano gli<br />

ornamenti dell’arte oratoria, trae <strong>da</strong> se stesso espressioni splendide e solenni e<br />

certo conformi a se stesso ». Per converso, in opposizione e nello stesso tempo in<br />

concomitanza, in quanto proiezione della moralità del comunicante, l’artificio sarà<br />

segno della qualità etica della sua anima, e pertanto, quanto più l’elaborazione<br />

stilistica sarà spinta, tanto più il livello qualitativo della moralità dell’artista sarà<br />

alto: « infatti, come il discorso è espressione dell’animo, cosí l’animo governa il<br />

discorso. L’uno dipende <strong>da</strong>ll’altro: quello rimane nascosto in di noi, questo va<br />

fuori in pubblico; quello prepara questo ad uscire e lo forma quale vuole che sia;<br />

questo uscendo manifesta quale sia quello; si obbedisce alla volontà del primo, si<br />

crede alla testimonianza del secondo; bisogna dunque provvedere ad ambedue<br />

così che quello sia sobriamente severo verso questo, e questo sappia essere<br />

veracemente magnifico verso quello; anche se è vero che, una volta che si sia<br />

provveduto all’animo, il discorso non può riuscire trascurato, cosí come per contro<br />

il discorso non può risultare dignitoso, se manchi all’animo la sua maestà ».<br />

Se si può ammettere che l’atto del parlare sia necessario innanzi tutto alla<br />

mente che lo compie e che disponendo i propri pensieri in una forma elaborata<br />

con arte in qualche misura si migliora, non è possibile non prendere atto che la<br />

comunicazione, se acquista <strong>da</strong>l punto di vista letterario, perde in fatto di contenuti:<br />

« non so degli altri: ma per quanto mi riguar<strong>da</strong>, non potrei sufficientemente<br />

spiegare quanto mi giovino nella mia solitudine alcune voci familiari e note –<br />

non solo quando le penso nella mente, ma proprio quando le pronunzio con la<br />

bocca –, con le quali sono solito svegliare l’animo addormentato; quanto diletto<br />

inoltre io tragga <strong>da</strong>llo sfogliare di quando in quando gli scritti degli altri e miei, e<br />

quanto <strong>da</strong> quella lettura mi senta liberare <strong>da</strong> gravissime ed amarissime pene ».<br />

benché nel polemico Contra medicum quem<strong>da</strong>m, ed altrove, Petrarca insista sul<br />

fatto che la letteratura si faccia portatrice di qualsiasi contenuto, di fatto la forte<br />

opzione formale condizionerà irrimediabilmente la scelta dei destinatari: « non è<br />

di tutti seguire questi studi: ma, solo quelli che hanno ingegno, natura e sostanze<br />

necessarie a vivere: le abbiano avute <strong>da</strong>lla fortuna o possano disprezzarle perché<br />

possiedono la virtù. ed è così che taluni si dedicano all’agricoltura, altri alla<br />

navigazione, altri alla medicina. […]Questa è la vera ragione della oscurità dei<br />

poeti; non che sia conveniente nascondersi (come tu dici cercando di metter su<br />

un sillogismo che pare ogni momento doverti cadere tra via), ma perché fine della<br />

poesia è non ingannare nessuno e piacere a pochi. e i pochi sono i dotti ».<br />

il piano formale, area privilegiata di competenza del letterato, di fatto si<br />

oppone alla comunicazione generalizzata, sostenuta <strong>da</strong>gli aristotelici, la quale<br />

avrebbe permesso una dialettica, sia pure pe<strong>da</strong>gogicamente unidirezionata, con


tutte le componenti della vita civile. S’è già alluso come in Petrarca la nozione di<br />

scienza per<strong>da</strong> l’efficacia felicitante dell’intera società; s’aggiunga la coincidenza<br />

del messaggio con l’etica evangelica: era conseguente che l’obscuritas tornasse ad<br />

essere la più seria connotazione del poeta, fortemente discriminante rispetto<br />

al « volgo di ingegno debole ». non era esclusiva tuttavia: giacché era condivisa<br />

con i filosofi e con gli scrittori sacri: <strong>da</strong> un lato i dotti, <strong>da</strong>ll’altro i rozzi, della cui<br />

ignoranza valeva interessarsi nella misura in cui essa diventava (ed era inevitabile<br />

che diventasse) malvagità e vizio.<br />

È interessante seguire l’argomentazione con la quale Petrarca difende la poesia<br />

<strong>da</strong>ll’accusa che l’oscurità, identificata con l’« allegoria », nasca <strong>da</strong>ll’invidia. opporrà<br />

prima una personale dichiarazione d’innocenza: « io non invidio nessuno », che<br />

naturalmente non attinge ad alcun valore dimostrativo; come nessun valore<br />

dimostrativo ha l’aggiunta che Virgilio era onesto, Stazio gentile, modesto Lucano.<br />

Poi ricorrerà ad una assai trita nozione, che risaliva ai primordi dell’esegesi biblica<br />

– e significativamente egli cita s. agostino –, secondo la quale, intanto la colpa è<br />

della rozzezza degli indotti, e quindi che l’obscuritas: « è il pungolo per richiamare<br />

maggiormente l’attenzione, e l’occasione per un maggiore esercizio scrittorio ».<br />

Le citazioni <strong>da</strong> s. agostino giungono in un momento <strong>da</strong>vvero illuminante del<br />

discorso: giacché non sfugge al Petrarca che l’oscurità e la polisemia delle Sacre<br />

Scritture erano annesse ad una comunicazione che per definizione era universale,<br />

sia diacronicamente sia sincronicamente; ora, aggiunge, se quel tipo di<br />

scrittura comporta una non lieve difficoltà di comprensione, una scrittura che non<br />

ha le stesse dimensioni universalistiche, sul piano sincronico, anzi vuol essere<br />

riservata a pochi se non a pochissimi, a maggior ragione dovrà avvalersi della<br />

oscurità dell’allegoria: « Se questo è stato detto giustamente per quelle scritture<br />

che si dirigono ad un vasto pubblico, quanto più giustamente calzeranno alle<br />

scritture che son riservate a pochissimi ? dunque […] in poesia si mantiene una<br />

certa maestosa dignità dello stile. e questo non per invidia verso chi può capire,<br />

ma, proposta come una dolce fatica, si offre diletto e si sollecita la memoria. ci<br />

sono infatti più care le cose che abbiamo cercato tra difficoltà e con più cura le<br />

conserviamo ».<br />

L’allegoria diviene a questo punto capace di individuare uno strumento<br />

comunicativo non solo ben definito, ma anche alternativo a quello quotidianamente<br />

utilizzato <strong>da</strong>lla gente volgare. È operazione esattamente opposta a quella <strong>da</strong>ntesca.<br />

il livello, lo stile serve anche ad allontanare gli indotti <strong>da</strong>lla comunicazione<br />

letteraria (« e ci si cura anche dei non capaci, che spaventati si soffermino in<br />

superficie e, se non sono del tutto sciocchi, s’allontanino <strong>da</strong>lla soglia. onde avviene<br />

che respinti di qui si diano a percorrere altre vie, soprattutto dopo che abbiano<br />

cominciato a fare i conti e aver constatato che <strong>da</strong>lla poesia non si gua<strong>da</strong>gna nulla,<br />

se non il diletto dell’animo e la fama del nome ») e crea un canone linguistico<br />

entro il quale i letterati soltanto si riconosceranno, e si riconosceranno non per la<br />

dottrina espressa, ma per il livello di elaborazione. tale livello sarà l’indice della<br />

superiorità morale e sapienziale del letterato che non dovrà più confrontarsi col<br />

reale – non a caso il medico contro cui si scaglierà aveva rilevato l’inutilità della<br />

poesia, e Francesco aveva frainteso o voluto fraintendere denunziando che ogni<br />

intenzione di quello mirava al vil denaro –. V’è di più: la lingua ed il livello della


comunicazione messi a contatto col vivere civile addirittura perdono la forma ed il<br />

valore stesso di discorso umano. L’episodio, narrato nella lettera a Francesco dei<br />

santi apostoli, è significativo. chiamato <strong>da</strong>lla curia per assumere l’incarico di segretario<br />

apostolico fu sottoposto ad una prova pratica: occorreva scrivere una lettera<br />

in uno stile ed in una lingua facilmente comprensibili. La richiesta era motivata:<br />

benché nella lettera Petrarca non allu<strong>da</strong> minimamente, è pensabile si trattasse di<br />

una scrittura funzionale alla prassi del governo della chiesa. il Poeta non supera<br />

l’esame: se ne dice felice perché così ha potuto esimersi <strong>da</strong>l presentare un rifiuto<br />

al Pontefice. il suo stile è tanto elaborato che risulta incomprensibile per un<br />

destinatario forse non preparato culturalmente, certo impreparato a ricevere una<br />

comunicazione elegante ma ambigua se non equivoca.<br />

conta la teorizzazione che ne consegue: « <strong>da</strong> tullio sappiamo che tre sono<br />

gli stili che egli chiama ’ figure ’: il ’ magniloquente ’, che egli chiama ’ grave ’;<br />

il ’ moderato ’, che chiama ’ mediocre ’; l’’ umile ’ che egli chiama ’ dimesso ’. il<br />

primo di questi, oggi, non è coltivato <strong>da</strong> nessuno; il secondo lo è <strong>da</strong> pochi; il<br />

terzo <strong>da</strong> molti. tutto ciò che sta sotto, non occupa nessun posto nei valori del<br />

discorso, ma è piuttosto uno sproloquio plebeo rozzo e <strong>da</strong> servi. Sebbene sia<br />

adoperato continuamente <strong>da</strong> mille anni, tuttavia non può avere <strong>da</strong>l tempo quella<br />

dignità che gli manca di natura ». La comunicazione scritta è possibile solo con<br />

l’adozione di un codice ben stabilito e stabile. Fuori non esiste, non che lo stile,<br />

neppure un linguaggio organizzato. il codice risolve definitivamente la possibilità<br />

stessa di un destinatario socialmente indifferenziato e generale: esiste un abisso<br />

tra l’« effusio » plebea e lo stile, sia pure « dimesso », se non altro perché manca<br />

il riconoscimento, <strong>da</strong> parte del destinatario, del codice utilizzato <strong>da</strong>ll’emittente.<br />

di qui lo straordinario rilievo che nel discorso petrarchesco assume l’imitazione;<br />

rilievo in buona misura anche sorprendente <strong>da</strong>l punto di vista storico: <strong>da</strong>l<br />

momento che, ad esempio, la Vita nuova xxv rivendicava parità di valori tra poeti<br />

antichi e moderni, e il De vulgari proponeva modelli contemporanei, e la Commedia<br />

prendeva le distanze <strong>da</strong>l maestro ed « auttore » proprio quando se ne dichiarava<br />

dipendente. Più, se non del tutto, supina l’imitazione petrarchesca, sino alla copiatura:<br />

« del qual consiglio Macrobio non la sostanza sola ma le precise parole inserí<br />

ne’ Saturnali: per modo che a me pare ch’egli ad un tempo contravvenisse coi fatti<br />

a quello che leggendo e scrivendo aveva approvato. infatti non prese a convertire<br />

in favi i fiori che <strong>da</strong> Seneca aveva raccolti, ma pari pari, quali sugli altrui rami li<br />

trovò, intatti li riprodusse. Sebbene, come potrei dire che è d’altrui una cosa,<br />

quantunque <strong>da</strong> un altro elaborata, mentre so, per testimonianza di Seneca stesso,<br />

che epicuro insegnava che le buone massime <strong>da</strong> chiunque dette non sono di chi<br />

le disse, ma nostre ? non è dunque <strong>da</strong> porsi a colpa di Macrobio, il fatto che gran<br />

parte di una epistola non dirò traducesse ma copiasse nel proemio dell’opera<br />

sua: che anch’io talvolta per caso, ed altri di me piú grandi facemmo lo stesso ».<br />

il passaggio <strong>da</strong>lle « api » ai « bachi » nell’argomentazione del Petrarca attenua<br />

la sommissione ai classici solo sotto il <strong>prof</strong>ilo della persuasione, lasciando<br />

impregiudicati sia i limiti sia i modi dell’imitazione: « né sia lo stile di questo o<br />

di quello: composto in uno <strong>da</strong> molti, questo pure sia nostro. degni invero di lode<br />

maggiore sono taluni che non a modo delle api qua e là raccogliendo, ma a guisa<br />

di certi bachi un po’ piú grossi che <strong>da</strong>lle viscere cavan la seta, aman formarsi <strong>da</strong> se


stessi il concetto e lo stile, purché il pensiero sia giusto e grave, ornato l’eloquio<br />

ed elegante ».<br />

tal che si può affermare che la vera e propria comunicazione petrarchesca sia<br />

prima di tutto nel rispetto del codice retorico. il contenuto del comunicato è la sua<br />

elaborazione formale: Petrarca lo manifesta chiaramente quando affi<strong>da</strong> capacità<br />

consolatorie all’aspetto formale del discorso, quando individua esclusivamente nei<br />

dotti i destinatari del messaggio, quando infine rifiuta ogni implicazione pragmatica<br />

alla scrittura. L’imitazione dei classici costituisce codice di autoriconoscimento<br />

dell’emittente e di riconoscimento di lui <strong>da</strong> parte del destinatario dotto, l’unico<br />

capace di decodificare il messaggio, capace altresì di autoriconoscersi in quel<br />

metalinguaggio o lingua a­storica e a­pragmatica e, appunto per questo, eterna.<br />

non è un caso che Petrarca cerchi la gloria certamente con un’ansia e con<br />

una perseveranza <strong>da</strong> costituire motivo di fon<strong>da</strong>to timore per la salvezza della<br />

sua anima. addirittura agostino, nel Secretum, arriverà ad ipotizzare che l’amore<br />

stesso per Laura sia l’esito, il paravento dell’amore della gloria. tuttavia si ve<strong>da</strong><br />

altresì come quella gloria sia perseguita sul piano della forma: « potrei facilmente<br />

dimostrarvi che i poeti, sotto il velo dell’invenzione, trattarono questioni ora di<br />

fisica, ora di morale, ora di storia, sicché è vero quello che spesso affermo: tra la<br />

funzione del poeta e quella dello storico e del filosofo (morale o naturale) c’è la<br />

stessa differenza che tra un cielo nuvoloso e uno sereno: la luce che si cela sotto<br />

l’uno e sotto l’altro è la stessa, ma si differenzia secondo la capacità di percezione<br />

di chi guar<strong>da</strong>. e tuttavia, tanto più dolce diventa la poesia, quanto più laboriosa<br />

è la ricerca della verità, che rende più e più dolci i suoi frutti: basti aver detto<br />

questo, non tanto di me stesso quanto del valore della <strong>prof</strong>essione poetica: e<br />

infatti, per quanto mi piaccia scherzare a mo’ dei poeti, non vorrei apparire tanto<br />

poeta, <strong>da</strong> non essere altro che poeta ».<br />

conta alla fin fine che in queste defunzionalizzazione e formalizzazione si ponga<br />

il momento genetico della comunicazione letteraria: ora si fissano i parametri<br />

certi del livello aulico; <strong>da</strong> ora in poi, per lo meno per due secoli, ogni deviazione<br />

<strong>da</strong>lla norma sarà commisurata come deviazione <strong>da</strong>l canone fissato <strong>da</strong> Petrarca e<br />

sarà deviazione non significativa d’originalità sebbene più spesso d’errore e di<br />

antiletterarietà.<br />

iL canzoniere<br />

(rerUM VULGariUM FraGMenta)<br />

1<br />

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono<br />

di quei sospiri ond’io nudriva ’l core<br />

in sul mio primo giovenile errore<br />

quand’era in parte altr’uom <strong>da</strong> quel ch’i’ sono,<br />

del vario stile in ch’io piango et ragiono<br />

fra le vane speranze e ’l van dolore,<br />

ove sia chi per prova inten<strong>da</strong> amore,<br />

spero trovar pietà, nonché perdono.<br />

Ma ben veggio or sí come al popol tutto<br />

favola fui gran tempo, onde sovente<br />

di me mesdesmo meco mi vergogno;<br />

et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,<br />

e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente<br />

che quanto piace al mondo è breve sogno.<br />

2<br />

Per fare una leggiadra sua vendetta<br />

et punire in un dí ben mille offese,<br />

celatamente amor l’arco riprese,<br />

come huom ch’a nocer luogo et tempo aspetta.<br />

era la mia virtute al cor ristretta<br />

per far ivi et ne gli occhi sue difese,


quando ’l colpo mortal là giù discese<br />

ove solea spuntarsi ogni saetta.<br />

Però, turbata nel primiero assalto,<br />

non ebbe tanto né vigor né spazio<br />

che potesse al bisogno prender l’arme,<br />

overo al poggio faticoso et alto<br />

ritrarmi accortamente <strong>da</strong> lo strazio<br />

del quale oggi vorrebbe, et non pò, aitarme.<br />

3<br />

era il giorno ch’al sol si scoloraro<br />

per la pietà del suo factore i rai,<br />

quando i’ fui preso, et non me ne guar<strong>da</strong>i,<br />

ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.<br />

tempo non mi parea <strong>da</strong> far riparo<br />

contra colpi d’amor: però m’an<strong>da</strong>i<br />

secur, senza sospetto; onde i miei guai<br />

nel commune dolor s’incominciaro.<br />

trovommi amor del tutto disarmato<br />

et aperta la via per gli occhi al core,<br />

che di lagrime son fatti uscio et varco:<br />

però al mio parer non li fu honore<br />

ferir me de saetta in quello stato,<br />

a voi armata non mostrar pur l’arco.<br />

5<br />

Quando io movo i sospiri a chiamar voi,<br />

e ’l nome che nel cor mi scrisse amore,<br />

LaU<strong>da</strong>ndo s’incomincia udir di fore<br />

il suon de’ primi dolci accenti suoi.<br />

Vostro stato real, che ’ncontro poi,<br />

raddoppia a l’alta impresa il mio valore;<br />

ma: taci, gri<strong>da</strong> il fin, ché farle honore<br />

è d’altri homeri soma che <strong>da</strong>’ tuoi.<br />

cosí LaU<strong>da</strong>re et reverire insegna<br />

la voce stessa, pur ch’altri vi chiami,<br />

o d’ogni reverenza et d’onor degna:<br />

se non che forse apollo si disdegna<br />

ch’a parlar de’ suoi sempre verdi rami<br />

lingua mortal presumpt¸osa vegna.<br />

7<br />

La gola e ’l sonno et l’otïose piume<br />

ànno del mondo ogni vertù sbandita,<br />

ond’è <strong>da</strong>l corso suo quasi smarrita<br />

nostra natura vinta <strong>da</strong>l costume;<br />

et è sí spento ogni benigno lume<br />

del ciel, per cui s’informa humana vita,<br />

che per cosa mirabile s’addita<br />

chi vòl far d’elicona nascer fiume.<br />

Qual vaghezza di lauro, qual di mirto?<br />

Povera et nu<strong>da</strong> vai philosophia,<br />

dice la turba al vil gua<strong>da</strong>gno intesa.<br />

Pochi compagni avrai per l’altra via:<br />

tanto ti prego più, gentile spirto,<br />

non lassar la magnanima tua impresa.<br />

11<br />

Lassare il velo o per sole o per ombra,<br />

donna, non vi vid’io<br />

poi che in me conosceste il gran desio<br />

ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra.<br />

Mentr’io portava i be’ pensier’ celati,<br />

ch’ànno la mente desïando morta,<br />

vidivi di pietate ornare il volto;<br />

ma poi ch’amor di me vi fece accorta,<br />

fuor i biondi capelli allor velati,<br />

et l’amoroso sguardo in sé raccolto.<br />

Quel ch’i’ più desiava in voi m’è tolto:<br />

sí mi governa il velo<br />

che per mia morte, et al caldo et al gielo,<br />

de’ be’ vostr’occhi il dolce lume adombra.<br />

12<br />

Se la mia vita <strong>da</strong> l’aspro tormento<br />

si può tanto schermire, et <strong>da</strong>gli affanni,<br />

ch’i’ veggia per vertù de gli ultimi anni,<br />

donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento,<br />

e i cape’ d’oro fin farsi d’argento,<br />

et lassar le ghirlande e i verdi panni,<br />

e ’l viso scolorir che ne’ miei <strong>da</strong>nni<br />

a llamentar mi fa pauroso et lento:<br />

pur mi <strong>da</strong>rà tanta bal<strong>da</strong>nza amore<br />

ch’i’ vi discovrirò de’ mei martiri<br />

qua’ sono stati gli anni, e i giorni et l’ore;<br />

et se ’l tempo è contrario ai be’ desiri,<br />

non fia ch’almen non giunga al mio dolore<br />

alcun soccorso di tardi sospiri.<br />

16<br />

Movesi il vecchierel canuto et biancho<br />

del dolce loco ov’à sua età fornita<br />

et <strong>da</strong> la famigliuola sbigottita<br />

che vede il caro padre venir manco;<br />

indi trahendo poi l’antiquo fianco<br />

per l’extreme giornate di sua vita,<br />

quanto più pò, col buon voler s’aita,<br />

rotto <strong>da</strong>gli anni, et <strong>da</strong>l cammino stanco;<br />

et viene a roma, seguendo ’l desio,<br />

per mirar la sembianza di colui<br />

ch’ancor lassù nel ciel vedere spera:<br />

cosí, lasso, talor vo cerchand’io,<br />

donna, quanto è possibile, in altrui<br />

la disïata vostra forma vera.<br />

32


Quanto più m’avicino al giorno extremo<br />

che l’umana miseria suol far breve,<br />

più veggio il tempo an<strong>da</strong>r veloce et leve,<br />

e ’l mio di lui sperar fallace et scemo.<br />

i’ dico a’ miei pensier’: non molto andremo<br />

d’amor parlando omai, ché ’l duro et greve<br />

terreno incarco come frescha neve<br />

si va struggendo; onde noi pace avremo:<br />

perché co llui cadrà quella speranza<br />

che ne fe’ vaneggiar sí lungamente,<br />

e ’l riso e ’l pianto, et la paura et l’ira;<br />

sí vedrem chiaro poi come sovente<br />

per le cose dubbiose altri s’avanza,<br />

et come spesso in<strong>da</strong>rno si sospira.<br />

35<br />

Solo et pensoso i più d eserti campi<br />

vo mesurando a passi tardi et lenti,<br />

et gli occhi porto per fuggire intenti<br />

ove vestigio human l’arena stampi.<br />

altro schermo non trovo che mi scampi<br />

<strong>da</strong>l manifesto accorger de le genti,<br />

perché negli atti d’alegrezza spenti<br />

di fuor si legge com’io dentro avampi:<br />

sí ch’io mi credo omai che monti et piagge<br />

et fiumi et selve sappian di che tempre<br />

sia la mia vita, ch’è celata altrui.<br />

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge<br />

cercar non so ch’amor non venga sempre<br />

ragionando con meco, et io co llui.<br />

36<br />

S’io credesse per morte essere scarco<br />

del pensiero amoroso che m’atterra,<br />

colle mie mani avrei già posto in terra<br />

queste mie membra noiose, et quello incarco;<br />

ma perch’io temo che sarrebbe un varco<br />

di pianto in pianto, et d’una in altra guerra,<br />

di qua <strong>da</strong>l passo anchor che mi si serra<br />

mezzo rimango, lasso, et mezzo il varco.<br />

tempo ben fûra omai d’avere spinto<br />

l’ultimo stral la dispietata cor<strong>da</strong><br />

ne l’altrui sangue già bagnato et tinto;<br />

et io ne prego amore, et quella sor<strong>da</strong><br />

che mi lassò de’ suoi color’ depinto,<br />

et di chiamarmi a sé non le ricor<strong>da</strong>.<br />

50<br />

ne la stagion che ’l ciel rapido inchina<br />

verso occidente, et che ’l dí nostro vola<br />

a gente che di là forse l’aspetta,<br />

veggendosi in lontan paese sola,<br />

la stancha vecchiarella pellegrina<br />

raddoppia i passi, et più et più s’affretta;<br />

et poi cosí soletta<br />

al fin di sua giornata<br />

talora è consolata<br />

d’alcun breve riposo, ov’ella oblia<br />

la noia e ’l mal de la passata via.<br />

Ma, lasso, ogni dolor che ’l dí m’adduce<br />

cresce qualor s’invia<br />

per partirsi <strong>da</strong> noi l’eterna luce.<br />

come ’l sol volge le ’nfiammate rote<br />

per <strong>da</strong>r luogo a la notte, onde discende<br />

<strong>da</strong>gli altissimi monti maggior l’ombra,<br />

l’avaro zappador l’arme riprende,<br />

et con parole et con alpestri note<br />

ogni gravezza del suo petto sgombra;<br />

et poi la mensa ingombra<br />

di povere vivande,<br />

simili a quelle ghiande,<br />

le qua’ fuggendo tutto ’l mondo honora.<br />

Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora,<br />

ch’i’ pur non ebbi anchor, non dirò lieta,<br />

ma riposata un’hora,<br />

né per volger di ciel né di pianeta.<br />

Quando vede ’l pastor calare i raggi<br />

del gran pianeta al nido ov’egli alberga,<br />

e ’nbrunir le contrade d’orïente,<br />

drizzasi in piedi, et co l’usata verga,<br />

lassando l’erba et le fontane e i faggi,<br />

move la schiera sua soavemente;<br />

poi lontan <strong>da</strong> la gente<br />

o casetta o spelunca<br />

di verdi frondi ingiuncha:<br />

ivi senza pensier’ s’a<strong>da</strong>gia et dorme.<br />

ahi crudo amor, ma tu allor più mi ’nforme<br />

a seguir d’una fera che mi strugge,<br />

la voce e i passi et l’orme,<br />

et lei non stringi che s’appiatta et fugge.<br />

e i naviganti in qualche chiusa valle<br />

gettan le menbra, poi che ’l sol s’asconde,<br />

sul duro legno, et sotto a l’aspre gonne.<br />

Ma io, perché s’attuffi in mezzo l’onde,<br />

et lasci Hispagna dietro a le sue spalle,<br />

et Granata et Marroccho et le colonne,<br />

et gli uomini et le donne<br />

e ’l mondo et gli animali<br />

aquetino i lor mali,<br />

fine non pongo al mio obstinato affanno;<br />

et duolmi ch’ogni giorno arroge al <strong>da</strong>nno,<br />

ch’i’ son già pur crescendo in questa voglia<br />

ben presso al decim’anno,<br />

né poss’indovinar chi me ne scioglia.<br />

et perché un poco nel parlar mi sfogo,<br />

veggio la sera i buoi tornare sciolti<br />

<strong>da</strong> le campagne et <strong>da</strong>’ solcati colli:<br />

i miei sospiri a me perché non tolti<br />

quando che sia? perché no ’l grave giogo?<br />

perché dí et notte gli occhi miei son molli?<br />

Misero me, che volli


quando primier sí fiso<br />

gli tenni nel bel viso<br />

per iscolpirlo imaginando in parte<br />

onde mai né per forza né per arte<br />

mosso sarà, fin ch’i’ sia <strong>da</strong>to in pre<strong>da</strong><br />

a chi tutto diparte!<br />

né so ben ancho che di lei mi cre<strong>da</strong>.<br />

canzon, se l’esser meco<br />

<strong>da</strong>l matino a la sera<br />

t’à fatto di mia schiera,<br />

tu non vorrai mostrarti in ciascun loco;<br />

et d’altrui lo<strong>da</strong> curerai sí poco,<br />

ch’assai ti fia pensar di poggio in poggio<br />

come m’à concio ’l foco<br />

di questa viva petra, ov’io m’appoggio.<br />

53<br />

Spirto gentil, che quelle membra reggi<br />

dentro le qua’ peregrinando alberga<br />

un signor valoroso, accorto et saggio,<br />

poi che se’ giunto a l’onorata verga<br />

colla qual roma et i suoi erranti correggi,<br />

et la richiami al suo antiquo vïaggio,<br />

io parlo a te, però ch’altrove un raggio<br />

non veggio di vertù, ch’al mondo è spenta,<br />

né trovo chi di mal far si vergogni.<br />

che s’aspetti non so, né che s’agogni,<br />

italia, che suoi guai non par che senta:<br />

vecchia, otïosa et lenta,<br />

dormirà sempre, et non fia chi la svegli?<br />

Le man’ l’avess’io avolto entro’ capegli.<br />

non spero che già mai <strong>da</strong>l pigro sonno<br />

mova la testa per chiamar ch’uom faccia,<br />

sí gravemente è oppressa et di tal soma;<br />

ma non senza destino a le tue braccia,<br />

che scuoter forte et sollevarla ponno,<br />

è or commesso il nostro capo roma.<br />

Pon’ man in quella venerabil chioma<br />

securamente, et ne le treccie sparte,<br />

sí che la neghittosa esca del fango.<br />

i’ che dí et notte del suo strazio piango,<br />

di mia speranza ò in te la maggior parte:<br />

che se ’l popol di Marte<br />

devesse al proprio honore alzar mai gli occhi,<br />

parmi pur ch’a’ tuoi dí la gratia tocchi.<br />

L’antiche mura ch’anchor teme et ama<br />

et trema ’l mondo, quando si rimembra<br />

del tempo an<strong>da</strong>to e ’n dietro si rivolve,<br />

e i sassi dove fur chiuse le membra<br />

di ta’ che non saranno senza fama,<br />

se l’universo pria non si dissolve,<br />

et tutto quel ch’una ruina involve,<br />

per te spera sal<strong>da</strong>r ogni suo vitio.<br />

o grandi Scipïoni, o fedel bruto,<br />

quanto v’aggra<strong>da</strong>, s’egli è anchor venuto<br />

romor là giù del ben locato officio!<br />

come cre’ che Fabritio<br />

si faccia lieto, udendo la novella!<br />

et dice: roma mia sarà anchor bella.<br />

et se cosa di qua nel ciel si cura,<br />

l’anime che lassù son citadine,<br />

et ànno i corpi abandonati in terra,<br />

del lungo odio civil ti pregan fine,<br />

per cui la gente ben non s’assecura,<br />

onde ’l camin a’ lor tecti si serra:<br />

che fur già sí devoti, et ora in guerra<br />

quasi spelunca di ladron’ son fatti,<br />

tal ch’a’ buon’ solamente uscio si chiude,<br />

et tra gli altari et tra le statue ignude<br />

ogni impresa crudel par che se tratti.<br />

deh quanto diversi atti!<br />

né senza squille s’incommincia assalto,<br />

che per dio ringraciar fur poste in alto.<br />

Le donne lagrimose, e ’l vulgo inerme<br />

de la tenera etate, e i vecchi stanchi<br />

ch’ànno sé in odio et la soverchia vita,<br />

e i neri fraticelli e i bigi e i bianchi,<br />

coll’altre schiere travagliate e ’nferme,<br />

gri<strong>da</strong>n: o signor nostro, aita, aita.<br />

et la povera gente sbigottita<br />

ti scopre le sue piaghe a mille a mille,<br />

ch’anibale, non ch’altri, farian pio.<br />

et se ben guardi a la magion di dio<br />

ch’arde oggi tutta, assai poche faville<br />

spegnendo, fien tranquille<br />

le voglie, che si mostran sí ’nfiammate,<br />

onde fien l’opre tue nel ciel lau<strong>da</strong>te.<br />

orsi, lupi, leoni, aquile et serpi<br />

ad una gran marmorea colomna<br />

fanno noia sovente, et a sé <strong>da</strong>nno.<br />

di costor piange quella gentil donna<br />

che t’à chiamato a ciò che di lei sterpi<br />

le male piante, che fiorir non sanno.<br />

Passato è già più che ’l millesimo anno<br />

che ’n lei mancar quell’anime leggiadre<br />

che locata l’avean là dov’ell’era.<br />

ahi nova gente oltra misura altera,<br />

irreverente a tanta et a tal madre!<br />

tu marito, tu padre:<br />

ogni soccorso di tua man s’attende,<br />

ché ’l maggior padre ad altr’opera intende.<br />

rade volte adiven ch’a l’alte imprese<br />

fortuna ingiurïosa non contrasti,<br />

ch’agli animosi fatti mal s’accor<strong>da</strong>.<br />

ora sgombrando ’l passo onde tu intrasti,<br />

famisi perdonar molt’altre offese,<br />

ch’almen qui <strong>da</strong> se stessa si discor<strong>da</strong>:<br />

però che, quanto ’l mondo si ricor<strong>da</strong>,<br />

ad huom mortal non fu aperta la via<br />

per farsi, come a te, di fama eterno,<br />

che puoi drizzar, s’i’ non falso discerno,<br />

in stato la più nobil monarchia.<br />

Quanta gloria ti fia<br />

dir: Gli altri l’ait‚r giovene et forte;<br />

questi in vecchiezza la scampò <strong>da</strong> morte.<br />

Sopra ’l monte tarpeio, canzon, vedrai


un cavalier, ch’italia tutta honora,<br />

pensoso più d’altrui che di se stesso.<br />

digli: Un che non ti vide anchor <strong>da</strong> presso,<br />

se non come per fama huom s’innamora,<br />

dice che roma ognora<br />

con gli occhi di dolor bagnati et molli<br />

ti chier mercé <strong>da</strong> tutti sette i colli.<br />

62<br />

Padre del ciel, dopo i perduti giorni,<br />

dopo le notti vaneggiando spese,<br />

con quel fero desio ch’al cor s’accese,<br />

mirando gli atti per mio mal sí adorni,<br />

piacciati omai col tuo lume ch’io torni<br />

ad altra vita et a più belle imprese,<br />

sí ch’avendo le reti in<strong>da</strong>rno tese,<br />

il mio duro adversario se ne scorni.<br />

or volge, Signor mio, l’undecimo anno<br />

ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo<br />

che sopra i più soggetti è più feroce.<br />

Miserere del mio non degno affanno;<br />

reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo;<br />

ramenta lor come oggi fusti in croce.<br />

81<br />

io son sí stanco sotto ’l fascio antico<br />

de le mie colpe et de l’usanza ria<br />

ch’i’ temo forte di mancar tra via,<br />

et di cader in man del mio nemico.<br />

ben venne a dilivrarmi un grande amico<br />

per somma et ineffabil cortesia;<br />

poi volò fuor de la veduta mia,<br />

sí ch’a mirarlo in<strong>da</strong>rno m’affatico.<br />

Ma la sua voce anchor qua giù rimbomba:<br />

o voi che travagliate, ecco ’l camino;<br />

venite a me, se ’l passo altri non serra.<br />

Qual gratia, qual amore, o qual destino<br />

mi <strong>da</strong>rà penne in guisa di colomba,<br />

ch’i’ mi riposi, et levimi <strong>da</strong> terra?<br />

90<br />

erano i capei d’oro a l’aura sparsi<br />

che ’n mille dolci nodi gli avolgea,<br />

e l’vago lume oltra misura ardea<br />

di quei begli occhi, ch’or ne son sí scarsi;<br />

e ’l viso di pietosi color’ farsi,<br />

non so se vero o falso, mi parea:<br />

i’ che l’ésca amorosa al petto avea,<br />

qual meraviglia se di sùbito arsi?<br />

non era l’an<strong>da</strong>r suo cosa mortale,<br />

ma d’angelica forma; et le parole<br />

sonavan altro, che pur voce humana.<br />

Uno spirito celeste, un vivo sole<br />

fu quel ch’i’vidi: et se non fosse or tale,<br />

piagha per allentar d’arco non sana.<br />

92<br />

Piangete, donne, et con voi pianga amore;<br />

piangete, amanti, per ciascun paese,<br />

poi ch’è morto collui che tutto intese<br />

in farvi, mentre visse, al mondo honore.<br />

io per me prego il mio acerbo dolore,<br />

non sian <strong>da</strong> lui le lagrime contese,<br />

et mi sia di sospir’ tanto cortese,<br />

quanto bisogna a disfogare il core.<br />

Piangan le rime anchor, piangano i versi,<br />

perché ’l nostro amoroso messer cino<br />

novellamente s’è <strong>da</strong> noi partito.<br />

Pianga Pistoia, e i citadin perversi<br />

che perduto ànno sí dolce vicino;<br />

et rallegresi il cielo, ov’ello è gito.<br />

106<br />

nova angeletta sovra l’ale accorta<br />

scese <strong>da</strong>l cielo in su la fresca riva,<br />

là ’nd’io passava sol per mio destino.<br />

Poi che senza compagna et senza scorta<br />

mi vide, un laccio che di seta ordiva<br />

tese fra l’erba, ond’è verde il camino.<br />

allor fui preso; et non mi spiacque poi,<br />

sí dolce lume uscia degli occhi suoi.<br />

126<br />

chiare, fresche et dolci acque,<br />

ove le belle membra<br />

pose colei che sola a me par donna;<br />

gentil ramo ove piacque<br />

(con sospir’ mi rimembra)<br />

a lei di fare al bel fiancho colonna;<br />

herba et fior’ che la gonna<br />

leggiadra ricoverse<br />

co l’angelico seno;<br />

aere sacro, sereno,<br />

ove amor co’ begli occhi il cor m’aperse:<br />

<strong>da</strong>te udïenza insieme<br />

a le dolenti mie parole extreme.<br />

S’egli è pur mio destino<br />

e ’l cielo in ciò s’adopra,<br />

ch’amor quest’occhi lagrimando chiu<strong>da</strong>,<br />

qualche gratia il meschino<br />

corpo fra voi ricopra,<br />

et torni l’alma al proprio albergo ignu<strong>da</strong>.<br />

La morte fia men cru<strong>da</strong><br />

se questa spene porto<br />

a quel dubbioso passo:<br />

ché lo spirito lasso<br />

non poria mai in più riposato porto<br />

né in più tranquilla fossa


fuggir la carne travagliata et l’ossa.<br />

tempo verrà anchor forse<br />

ch’a l’usato soggiorno<br />

torni la fera bella et mans¸eta,<br />

et là ’v’ella mi scorse<br />

nel benedetto giorno,<br />

volga la vista disïosa et lieta,<br />

cercandomi; et, o pietà!,<br />

già terra in fra le pietre<br />

vedendo, amor l’inspiri<br />

in guisa che sospiri<br />

sí dolcemente che mercé m’impetre,<br />

et faccia forza al cielo,<br />

asciugandosi gli occhi col bel velo.<br />

<strong>da</strong>’ be’ rami scendea<br />

(dolce ne la memoria)<br />

una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo;<br />

et ella si sedea<br />

humile in tanta gloria,<br />

coverta già de l’amoroso nembo.<br />

Qual fior cadea sul lembo,<br />

qual su le treccie bionde,<br />

ch’oro forbito et perle<br />

eran quel dí a vederle;<br />

qual si posava in terra, et qual su l’onde;<br />

qual con un vago errore<br />

girando parea dir: ­ Qui regna amore. ­<br />

Quante volte diss’io<br />

allor pien di spavento:<br />

costei per fermo nacque in paradiso.<br />

cosí carco d’oblio<br />

il divin portamento<br />

e ’l volto e le parole e ’l dolce riso<br />

m’aveano, et sí diviso<br />

<strong>da</strong> l’imagine vera,<br />

ch’i’ dicea sospirando:<br />

Qui come venn’io, o quando?;<br />

credendo d’esser in ciel, non là dov’era.<br />

<strong>da</strong> indi in qua mi piace<br />

questa herba sí, ch’altrove non ò pace.<br />

Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia,<br />

poresti arditamente<br />

uscir del boscho, et gir in fra la gente.<br />

128<br />

italia mia, benché ’l parlar sia in<strong>da</strong>rno<br />

a le piaghe mortali<br />

che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,<br />

piacemi almen che ’ miei sospir’ sian quali<br />

spera ’l tevero et l’arno,<br />

e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.<br />

rettor del cielo, io cheggio<br />

che la pietà che ti condusse in terra<br />

ti volga al tuo dilecto almo paese.<br />

Vedi, Segnor cortese,<br />

di che lievi cagion’ che crudel guerra;<br />

e i cor’, che ’ndura et serra<br />

Marte superbo et fero,<br />

apri tu, Padre, e ’ntenerisci et sno<strong>da</strong>;<br />

ivi fa che ’l tuo vero,<br />

qual io mi sia, per la mia lingua s’o<strong>da</strong>.<br />

Voi cui Fortuna à posto in mano il freno<br />

de le belle contrade,<br />

di che nulla pietà par che vi stringa,<br />

che fan qui tante pellegrine spade?<br />

perché ’l verde terreno<br />

del barbarico sangue si depinga?<br />

Vano error vi lusinga:<br />

poco vedete, et parvi veder molto,<br />

ché ’n cor venale amor cercate o fede.<br />

Qual più gente possede,<br />

colui è più <strong>da</strong>’ suoi nemici avolto.<br />

o diluvio raccolto<br />

di che deserti strani<br />

per inon<strong>da</strong>r i nostri dolci campi!<br />

Se <strong>da</strong> le proprie mani<br />

questo n’avene, or chi fia che ne scampi?<br />

ben provide natura al nostro stato,<br />

quando de l’alpi schermo<br />

pose fra noi et la tedesca rabbia;<br />

ma ’l desir cieco, e ’ncontr’al suo ben fermo,<br />

s’è poi tanto ingegnato,<br />

ch’al corpo sano à procurato scabbia.<br />

or dentro ad una gabbia<br />

fiere selvagge et mans¸ete gregge<br />

s’anni<strong>da</strong>n sí che sempre il miglior geme:<br />

et è questo del seme,<br />

per più dolor, del popol senza legge,<br />

al qual, come si legge,<br />

Mario aperse sí ’l fianco,<br />

che memoria de l’opra ancho non langue,<br />

quando assetato et stanco<br />

non più bevve del fiume acqua che sangue.<br />

cesare taccio che per ogni piaggia<br />

fece l’erbe sanguigne<br />

di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.<br />

or par, non so per che stelle maligne,<br />

che ’l cielo in odio n’aggia:<br />

vostra mercé, cui tanto si commise.<br />

Vostre voglie divise<br />

guastan del mondo la più bella parte.<br />

Qual colpa, qual giudicio o qual destino<br />

fastidire il vicino<br />

povero, et le fortune afflicte et sparte<br />

perseguire, e ’n disparte<br />

cercar gente et gradire,<br />

che sparga ’l sangue et ven<strong>da</strong> l’alma a prezzo?<br />

io parlo per ver dire,<br />

non per odio d’altrui, né per disprezzo.<br />

né v’accorgete anchor per tante prove<br />

del bavarico inganno<br />

ch’alzando il dito colla morte scherza?<br />

Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l <strong>da</strong>nno;<br />

ma ’l vostro sangue piove<br />

più largamente, ch’altr’ira vi sferza.


<strong>da</strong> la matina a terza<br />

di voi pensate, et vederete come<br />

tien caro altrui che tien sé cosí vile.<br />

Latin sangue gentile,<br />

sgombra <strong>da</strong> te queste <strong>da</strong>nnose some;<br />

non far idolo un nome<br />

vano senza soggetto:<br />

ché ’l furor de lassù, gente ritrosa,<br />

vincerne d’intellecto,<br />

peccato è nostro, et non natural cosa.<br />

non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?<br />

non è questo il mio nido<br />

ove nudrito fui sí dolcemente?<br />

non è questa la patria in ch’io mi fido,<br />

madre benigna et pia,<br />

che copre l’un et l’altro mio parente?<br />

Perdio, questo la mente<br />

talor vi mova, et con pietà guar<strong>da</strong>te<br />

le lagrime del popol doloroso,<br />

che sol <strong>da</strong> voi riposo<br />

dopo dio spera; et pur che voi mostriate<br />

segno alcun di pietate,<br />

vertù contra furore<br />

prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto:<br />

ché l’antiquo valore<br />

ne gli italici cor’ non è anchor morto.<br />

Signor’, mirate come ’l tempo vola,<br />

et sí come la vita<br />

fugge, et la morte n’è sovra le spalle.<br />

Voi siete or qui; pensate a la partita:<br />

ché l’alma ignu<strong>da</strong> et sola<br />

conven ch’arrive a quel dubbioso calle.<br />

al passar questa valle<br />

piacciavi porre giù l’odio et lo sdegno,<br />

vènti contrari a la vita serena;<br />

et quel che ’n altrui pena<br />

tempo si spende, in qualche acto più degno<br />

o di mano o d’ingegno,<br />

in qualche bella lode,<br />

in qualche honesto studio si converta:<br />

cosí qua giù si gode,<br />

et la stra<strong>da</strong> del ciel si trova aperta.<br />

canzone, io t’ammonisco<br />

che tua ragion cortesemente dica,<br />

perché fra gente altera ir ti convene,<br />

et le voglie son piene<br />

già de l’usanza pessima et antica,<br />

del ver sempre nemica.<br />

Proverai tua ventura<br />

fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.<br />

di’ lor: ­ chi m’assicura?<br />

i’ vo gri<strong>da</strong>ndo: Pace, pace, pace. ­<br />

129<br />

di pensier in pensier, di monte in monte<br />

mi gui<strong>da</strong> amor, ch’ogni segnato calle<br />

provo contrario a la tranquilla vita.<br />

Se ’n solitaria piaggia, o rivo, o fonte,<br />

se ’nfra duo poggi siede ombrosa valle,<br />

ivi s’acqueta l’alma sbigottita;<br />

et come amor l’envita,<br />

or ride, or piange, or teme, or s’assecura;<br />

e ’l volto che lei segue ov’ella il mena<br />

si turba et rasserena,<br />

et in un esser picciol tempo dura;<br />

onde a la vista huom di tal vita experto<br />

diria: Questo arde, et di suo stato è incerto.<br />

Per alti monti et per selve aspre trovo<br />

qualche riposo: ogni habitato loco<br />

è nemico mortal degli occhi miei.<br />

a ciascun passo nasce un penser novo<br />

de la mia donna, che sovente in gioco<br />

gira ’l tormento ch’i’ porto per lei;<br />

et a pena vorrei<br />

cangiar questo mio viver dolce amaro,<br />

ch’i’ dico: Forse anchor ti serva amore<br />

ad un tempo migliore;<br />

forse, a te stesso vile, altrui se’ caro.<br />

et in questa trapasso sospirando:<br />

or porrebbe esser vero? or come? or quando?<br />

ove porge ombra un pino alto od un colle<br />

talor m’arresto, et pur nel primo sasso<br />

disegno co la mente il suo bel viso.<br />

Poi ch’a me torno, trovo il petto molle<br />

de la pietate; et alor dico: ahi, lasso,<br />

dove se’ giunto! et onde se’ diviso!<br />

Ma mentre tener fiso<br />

posso al primo pensier la mente vaga,<br />

et mirar lei, et oblïar me stesso,<br />

sento amor sí <strong>da</strong> presso,<br />

che del suo proprio error l’alma s’appaga:<br />

in tante parti et sí bella la veggio,<br />

che se l’error durasse, altro non cheggio.<br />

i’ l’ò più volte (or chi fia che mi ’l cre<strong>da</strong>?)<br />

ne l’acqua chiara et sopra l’erba verde<br />

veduto viva, et nel tronchon d’un faggio<br />

e ’n bianca nube, sí fatta che Le<strong>da</strong><br />

avria ben detto che sua figlia perde,<br />

come stella che ’l sol copre col raggio;<br />

et quanto in più selvaggio<br />

loco mi trovo e ’n più deserto lido,<br />

tanto più bella il mio pensier l’adombra.<br />

Poi quando il vero sgombra<br />

quel dolce error, pur lí medesmo assido<br />

me freddo, pietra morta in pietra viva,<br />

in guisa d’uom che pensi et pianga et scriva.<br />

ove d’altra montagna ombra non tocchi,<br />

verso ’l maggiore e ’l più expedito giogo<br />

tirar mi suol un desiderio intenso;<br />

indi i miei <strong>da</strong>nni a misurar con gli occhi<br />

comincio, e ’ntanto lagrimando sfogo<br />

di dolorosa nebbia il cor condenso,<br />

alor ch’i’ miro et penso,<br />

quanta aria <strong>da</strong>l bel viso mi diparte<br />

che sempre m’è sí presso et sí lontano.<br />

Poscia fra me pian piano:


che sai tu, lasso! forse in quella parte<br />

or di tua lontananza si sospira.<br />

et in questo penser l’alma respira.<br />

canzone, oltra quell’alpe<br />

là dove il ciel è più sereno et lieto<br />

mi rivedrai sovr’un ruscel corrente,<br />

ove l’aura si sente<br />

d’un fresco et odorifero laureto.<br />

ivi è ’l mio cor, et quella che ’l m’invola;<br />

qui veder pûi l’imagine mia sola.<br />

13<br />

Pace non trovo, et non ò <strong>da</strong> far guerra;<br />

e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;<br />

et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;<br />

et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.<br />

tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,<br />

né per suo mi riten né scioglie il laccio;<br />

et non m’ancide amore, et non mi sferra,<br />

né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.<br />

Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;<br />

et bramo di perir, et cheggio aita;<br />

et ò in odio me stesso, et amo altrui.<br />

Pascomi di dolor, piangendo rido;<br />

egualmente mi spiace morte et vita:<br />

in questo stato son, donna, per voi.<br />

137<br />

L’avara babilonia à colmo il sacco<br />

d’ira di dio, e di vitii empii et rei,<br />

tanto che scoppia, ed à fatti suoi dèi<br />

non Giove et Palla, ma Venere et bacco.<br />

aspectando ragion mi struggo et fiacco;<br />

ma pur novo sol<strong>da</strong>n veggio per lei,<br />

lo qual farà, non già quand’io vorrei,<br />

sol una sede, et quella fia in bal<strong>da</strong>cco.<br />

Gl’idoli suoi sarranno in terra sparsi,<br />

et le torre superbe, al ciel nemiche,<br />

e i suoi torrer’ di for come dentro arsi.<br />

anime belle et di virtute amiche<br />

terranno il mondo; et poi vedrem lui farsi<br />

aurÎo tutto, et pien de l’opre antiche.<br />

138<br />

Fontana di dolore, albergo d’ira,<br />

scola d’errori, et templo d’eresia,<br />

già roma, or babilonia falsa et ria,<br />

per cui tanto si piange et si sospira;<br />

o fucina d’inganni, o pregion dira,<br />

ove ’l ben more, e ’l mal si nutre et cria,<br />

di vivi inferno, un gran miracol fia<br />

se cristo teco alfine non s’adira.<br />

Fon<strong>da</strong>ta in casta et humil povertate,<br />

contra’ tuoi fon<strong>da</strong>tori alzi le corna,<br />

putta sfacciata: et dove ài posto spene?<br />

ne gli adùlteri tuoi? ne le mal nate<br />

richezze tante? or constantin non torna;<br />

ma tolga il mondo tristo che ’l sostene.<br />

189<br />

Passa la nave mia colma d’oblio<br />

per aspro mare, a mezza notte il verno,<br />

enfra Scilla et caribdi; et al governo<br />

siede ’l signore, anzi ’l nimico mio.<br />

a ciascun remo un penser pronto et rio<br />

che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno;<br />

la vela rompe un vento humido eterno<br />

di sospir’, di speranze, et di desio.<br />

Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni<br />

bagna et rallenta le già stanche sarte,<br />

che son d’error con ignorantia attorto.<br />

celansi i duo mei dolci usati segni;<br />

morta fra l’onde è la ragion et l’arte,<br />

tal ch’incomincio a desperar del porto.<br />

23<br />

o cameretta che già fosti un porto<br />

a le gravi tempeste mie di¸rne,<br />

fonte se’ or di lagrime nocturne,<br />

che ’l dí celate per vergogna porto.<br />

o letticciuol che requie eri et conforto<br />

in tanti affanni, di che dogliose urne<br />

ti bagna amor, con quelle mani eburne,<br />

solo ver ’me crudeli a sí gran torto!<br />

né pur il mio secreto e ’l mio riposo<br />

fuggo, ma più me stesso e ’l mio pensero,<br />

che, seguendol, talor levommi a volo;<br />

e ’l vulgo a me nemico et odïoso<br />

(ch ’l pensò mai?) per mio refugio chero:<br />

tal paura ò di ritrovarmi solo.<br />

268<br />

che debb’io far? che mi consigli, amore?<br />

tempo è ben di morire,<br />

et ò tar<strong>da</strong>to più ch’i’ non vorrei.<br />

Madonna è morta, et à seco il mio core;<br />

et volendol seguire,<br />

interromper conven quest’anni rei,<br />

perché mai veder lei<br />

di qua non spero, et l’aspettar m’è noia.<br />

Poscia ch’ogni mia gioia<br />

per lo suo dipartire in pianto è volta,<br />

ogni dolcezza de mia vita è tolta.<br />

amor, tu ’l senti, ond’io teco mi doglio,<br />

quant’è il <strong>da</strong>mno aspro et grave;<br />

e so che del mio mal ti pesa et dole,


anzi del nostro, perch’ad uno scoglio<br />

avem rotto la nave,<br />

et in un punto n’è scurato il sole.<br />

Qual ingegno a parole<br />

poria aguagliare il mio doglioso stato?<br />

ahi orbo mondo, ingrato,<br />

gran cagion ài di dever pianger meco,<br />

ché quel bel ch’era in te, perduto ài seco.<br />

caduta è la tua gloria, et tu nol vedi,<br />

né degno eri, mentr’ella<br />

visse qua giù, d’aver sua conoscenza,<br />

né d’esser tocco <strong>da</strong>’ suoi sancti piedi,<br />

perché cosa sí bella<br />

devea ’l ciel adornar di sua presenza.<br />

Ma io, lasso, che senza<br />

lei né vita mortal né me stesso amo,<br />

piangendo la richiamo:<br />

questo m’avanza di cotanta spene,<br />

et questo solo anchor qui mi mantene.<br />

oïmè, terra è fatto il suo bel viso,<br />

che solea far del cielo<br />

et del ben di lassù fede fra noi;<br />

l’invisibil sua forma è in paradiso,<br />

disciolta di quel velo<br />

che qui fece ombra al fior degli anni suoi,<br />

per rivestirsen poi<br />

un’altra volta, et mai più non spogliarsi,<br />

quando alma et bella farsi<br />

tanto più la vedrem, quanto più vale<br />

sempiterna bellezza che mortale.<br />

Più che mai bella et più leggiadra donna<br />

tornami inanzi, come<br />

là dove più gradir sua vista sente.<br />

Questa è del viver mio l’una colomna,<br />

l’altra è ’l suo chiaro nome,<br />

che sona nel mio cor sí dolcemente.<br />

Ma tornandomi a mente<br />

che pur morta è la mia speranza, viva<br />

allor ch’ella fioriva,<br />

sa ben amor qual io divento, et (spero)<br />

vedel colei ch’è or sí presso al vero.<br />

donne, voi che miraste sua beltate<br />

et l’angelica vita<br />

con quel celeste portamento in terra,<br />

di me vi doglia, et vincavi pietate,<br />

non di lei ch’è salita<br />

a tanta pace, et m’à lassato in guerra:<br />

tal che s’altri mi serra<br />

lungo tempo il camin <strong>da</strong> seguitarla,<br />

quel ch’amor meco parla,<br />

sol mi ritien ch’io non reci<strong>da</strong> il nodo.<br />

Ma e’ ragiona dentro in cotal modo:<br />

­ Pon’ freno al gran dolor che ti trasporta,<br />

ché per soverchie voglie<br />

si perde ’l cielo, ove ’l tuo core aspira,<br />

dove è viva colei ch’altrui par morta,<br />

et di sue belle spoglie<br />

seco sorride, et sol di te sospira;<br />

et sua fama, che spira<br />

in molte parti anchor per la tua lingua,<br />

prega che non extingua,<br />

anzi la voce al suo nome rischiari,<br />

se gli occhi suoi ti fur dolci né cari. ­<br />

Fuggi ’l sereno e ’l verde,<br />

non t’appressare ove sia riso o canto,<br />

canzon mia no, ma pianto:<br />

non fa per te di star fra gente allegra,<br />

vedova, sconsolata, in vesta negra.<br />

269<br />

rotta è l’alta colonna e ’l verde lauro<br />

che facean ombra al mio stanco pensero;<br />

perduto ò quel che ritrovar non spero<br />

<strong>da</strong>l borrea a l’austro, o <strong>da</strong>l mar indo al mauro.<br />

tolto m’ài, Morte, il mio doppio thesauro,<br />

che mi fea viver lieto et gire altero,<br />

et ristorar nol pò terra né impero,<br />

né gemma orïental, né forza d’auro.<br />

Ma se consentimento è di destino,<br />

che posso io più, se no aver l’alma trista,<br />

humidi gli occhi sempre, e ’l viso chino?<br />

o nostra vita ch’è sí bella in vista,<br />

com perde agevolmente in un matino<br />

quel che ’n molti anni a gran pena s’acquista!<br />

272<br />

La vita fugge, et non s’arresta una hora,<br />

et la morte vien dietro a gran giornate,<br />

et le cose presenti et le passate<br />

mi dànno guerra, et le future anchora;<br />

e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora,<br />

or quinci or quindi, sí che ’n veritate,<br />

se non ch’i’ ò di me stesso pietate,<br />

i’ sarei già di questi penser’ fòra.<br />

tornami avanti, s’alcun dolce mai<br />

ebbe ’l cor tristo; et poi <strong>da</strong> l’altra parte<br />

veggio al mio navigar turbati i vènti;<br />

veggio fortuna in porto, et stanco omai<br />

il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,<br />

e i lumi bei che mirar soglio, spenti.<br />

273<br />

che fai? che pensi? che pur dietro guardi<br />

nel tempo, che tornar non pote omai?<br />

anima sconsolata, che pur vai<br />

giungnendo legne al foco ove tu ardi?<br />

Le soavi parole e i dolci sguardi<br />

ch’ad un ad un descritti et depinti ài,<br />

son levati de terra; et è, ben sai,<br />

qui ricercarli intempestivo et tardi.


deh non rinovellar quel che n’ancide<br />

non seguir più penser vago, fallace,<br />

ma saldo et certo, ch’a buon fin ne guide.<br />

cerchiamo ’l ciel, se qui nulla ne piace:<br />

ché mal per noi quella beltà si vide,<br />

se viva et morta ne devea tûr pace.<br />

302<br />

Levommi il mio penser in parte ov’era<br />

quella ch’io cerco, et non ritrovo in terra:<br />

ivi, fra lor che ’l terzo cerchio serra,<br />

la rividi più bella et meno altera.<br />

Per man mi prese, et disse: ­ in questa spera<br />

sarai anchor meco, se ’l desir non erra:<br />

i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra,<br />

et compie’ mia giornata inanzi sera.<br />

Mio ben non cape in intelletto humano:<br />

te solo aspetto, et quel che tanto amasti<br />

e là giuso è rimaso, il mio bel velo. ­<br />

deh perché tacque, et allargò la mano?<br />

ch’al suon de’ detti sí pietosi et casti<br />

poco mancò ch’io non rimasi in cielo.<br />

310<br />

zephiro torna, e ’l bel tempo rimena,<br />

e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,<br />

et garrir Progne et pianger Philomena,<br />

et primavera candi<strong>da</strong> et vermiglia.<br />

ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;<br />

Giove s’allegra di mirar sua figlia;<br />

l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;<br />

ogni animal d’amar si riconsiglia.<br />

Ma per me, lasso, tornano i più gravi<br />

sospiri, che del cor <strong>prof</strong>ondo tragge<br />

quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;<br />

et cantar augelletti, et fiorir piagge,<br />

e ’n belle donne honeste atti soavi<br />

sono un deserto, et fere aspre et selvagge.<br />

320<br />

Sento l’aura mia anticha, e i dolci colli<br />

veggio apparire, onde ’l bel lume nacque<br />

che tenne gli occhi mei mentr’al ciel piacque<br />

bramosi et lieti, or li tèn tristi et molli.<br />

o caduche speranze, o penser’ folli!<br />

Vedove l’erbe et torbide son l’acque,<br />

et vòto et freddo ’l nido in ch’ella giacque,<br />

nel qual io vivo, et morto giacer volli,<br />

sperando alfin <strong>da</strong> le soavi piante<br />

et <strong>da</strong> begli occhi suoi, che ’l cor m’ànn’arso,<br />

riposo alcun de le fatiche tante.<br />

o’ servito a signor crudele et scarso:<br />

ch’arsi quanto ’l mio foco ebbi <strong>da</strong>vante,<br />

or vo piangendo il suo cenere sparso.<br />

353<br />

Vago augelletto che cantando vai,<br />

over piangendo, il tuo tempo passato,<br />

vedendoti la notte e ’l verno a lato<br />

e ’l dí dopo le spalle e i mesi gai,<br />

se, come i tuoi gravosi affanni sai,<br />

cosí sapessi il mio simile stato,<br />

verresti in grembo a questo sconsolato<br />

a partir seco i dolorosi guai.<br />

i’ non so se le parti sarian pari,<br />

ché quella cui tu piangi è forse in vita,<br />

di ch’a me Morte e ’l ciel son tanto avari;<br />

ma la stagione et l’ora men gradita,<br />

col membrar de’ dolci anni et de li amari,<br />

a parlar teco con pietà m’invita.<br />

366<br />

Vergin bella, che di sol vestita,<br />

coronata di stelle, al sommo Sole<br />

piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose,<br />

amor mi spinge a dir di te parole:<br />

ma non so ’ncominciar senza tu’ aita,<br />

et di colui ch’amando in te si pose.<br />

invoco lei che ben sempre rispose,<br />

chi la chiamò con fede:<br />

Vergine, s’a mercede<br />

miseria extrema de l’humane cose<br />

già mai ti volse, al mio prego t’inchina,<br />

soccorri a la mia guerra,<br />

bench’i’ sia terra, et tu del ciel regina.<br />

Vergine saggia, et del bel numero una<br />

de le beate vergini prudenti,<br />

anzi la prima, et con più chiara lampa;<br />

o saldo scudo de l’afflicte genti<br />

contra colpi di Morte et di Fortuna,<br />

sotto ’l qual si trïumpha, non pur scampa;<br />

o refrigerio al cieco ardor ch’avampa<br />

qui fra i mortali sciocchi:<br />

Vergine, que’ belli occhi<br />

che vider tristi la spietata stampa<br />

ne’ dolci membri del tuo caro figlio,<br />

volgi al mio dubbio stato,<br />

che sconsigliato a te vèn per consiglio.<br />

Vergine pura, d’ogni parte intera,<br />

del tuo parto gentil figliola et madre,<br />

ch’allumi questa vita, et l’altra adorni,<br />

per te il tuo figlio, et quel del sommo Padre,<br />

o fenestra del ciel lucente altera,<br />

venne a salvarne in su li extremi giorni;<br />

et fra tutt’i terreni altri soggiorni<br />

sola tu fosti electa,<br />

Vergine benedetta,<br />

che ’l pianto d’eva in allegrezza torni.<br />

Fammi, ché puoi, de la Sua gratia degno,


senza fine o beata,<br />

già coronata nel superno regno.<br />

Vergine santa d’ogni gratia piena,<br />

che per vera et altissima humiltate<br />

salisti al ciel onde miei preghi ascolti,<br />

tu partoristi il fonte di pietate,<br />

et di giustitia il sol, che rasserena<br />

il secol pien d’errori oscuri et folti;<br />

tre dolci et cari nomi ài in te raccolti,<br />

madre, figliuola et sposa:<br />

Vergina glorïosa,<br />

donna del re che nostri lacci à sciolti<br />

et fatto ’l mondo libero et felice,<br />

ne le cui sante piaghe<br />

prego ch’appaghe il cor, vera beatrice.<br />

Vergine sola al mondo senza exempio,<br />

che ’l ciel di tue bellezze innamorasti,<br />

cui né prima fu simil né secon<strong>da</strong>,<br />

santi penseri, atti pietosi et casti<br />

al vero dio sacrato et vivo tempio<br />

fecero in tua verginità fecon<strong>da</strong>.<br />

Per te pò la mia vita esser iocon<strong>da</strong>,<br />

s’a’ tuoi preghi, o Maria,<br />

Vergine dolce et pia,<br />

ove ’l fallo abondò, la gratia abon<strong>da</strong>.<br />

con le ginocchia de la mente inchine,<br />

prego che sia mia scorta,<br />

et la mia torta via drizzi a buon fine.<br />

Vergine chiara et stabile in eterno,<br />

di questo tempestoso mare stella,<br />

d’ogni fedel nocchier fi<strong>da</strong>ta gui<strong>da</strong>,<br />

pon’ mente in che terribile procella<br />

i’ mi ritrovo sol, senza governo,<br />

et ò già <strong>da</strong> vicin l’ultime stri<strong>da</strong>.<br />

Ma pur in te l’anima mia si fi<strong>da</strong>,<br />

peccatrice, i’ no ’l nego,<br />

Vergine; ma ti prego<br />

che ’l tuo nemico del mio mal non ri<strong>da</strong>:<br />

ricorditi che fece il peccar nostro,<br />

prender dio per scamparne,<br />

humana carne al tuo virginal chiostro.<br />

Vergine, quante lagrime ò già sparte,<br />

quante lusinghe et quanti preghi in<strong>da</strong>rno,<br />

pur per mia pena et per mio grave <strong>da</strong>nno!<br />

<strong>da</strong> poi ch’i’ nacqui in su la riva d’arno,<br />

cercando or questa et or quel’altra parte,<br />

non è stata mia vita altro ch’affanno.<br />

Mortal bellezza, atti et parole m’ànno<br />

tutta ingombrata l’alma.<br />

Vergine sacra et alma,<br />

non tar<strong>da</strong>r, ch’i’ son forse a l’ultimo anno.<br />

i dí miei più correnti che saetta<br />

fra miserie et peccati<br />

sonsen’ an<strong>da</strong>ti, et sol Morte n’aspetta.<br />

Vergine, tale è terra, et posto à in doglia<br />

lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne<br />

et de mille miei mali un non sapea:<br />

et per saperlo, pur quel che n’avenne<br />

fûra avenuto, ch’ogni altra sua voglia<br />

era a me morte, et a lei fama rea.<br />

or tu donna del ciel, tu nostra dea<br />

(se dir lice, e convensi),<br />

Vergine d’alti sensi,<br />

tu vedi il tutto; e quel che non potea<br />

far altri, è nulla a la tua gran vertute,<br />

por fine al mio dolore;<br />

ch’a te honore, et a me fia salute.<br />

Vergine, in cui ò tutta mia speranza<br />

che possi et vogli al gran bisogno aitarme,<br />

non mi lasciare in su l’extremo passo.<br />

non guar<strong>da</strong>r me, ma chi degnò crearme;<br />

no ’l mio valor, ma l’alta Sua sembianza,<br />

ch’è in me, ti mova a curar d’uom sí basso.<br />

Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso<br />

d’umor vano stillante:<br />

Vergine, tu di sante<br />

lagrime et pïe adempi ’l meo cor lasso,<br />

ch’almen l’ultimo pianto sia devoto,<br />

senza terrestro limo,<br />

come fu ’l primo non d’insania vòto.<br />

Vergine humana, et nemica d’orgoglio,<br />

del comune principio amor t’induca:<br />

miserere d’un cor contrito humile.<br />

che se poca mortal terra caduca<br />

amar con sí mirabil fede soglio,<br />

che devrò far di te, cosa gentile?<br />

Se <strong>da</strong>l mio stato assai misero et vile<br />

per le tue man’ resurgo,<br />

Vergine, i’ sacro et purgo<br />

al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile,<br />

la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri.<br />

Scorgimi al miglior guado,<br />

et prendi in grado i cangiati desiri.<br />

il dí s’appressa, et non pòte esser lunge,<br />

sí corre il tempo et vola,<br />

Vergine unica et sola,<br />

e ’l cor or coscïentia or morte punge.<br />

raccoman<strong>da</strong>mi al tuo figliuol, verace<br />

homo et verace dio,<br />

ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace.


GioVanni boccaccio<br />

La riflessione sulla poesia torna di frequente nel più maturo periodo di<br />

esercizio letterario: <strong>da</strong>l Decameron alle Genealogie, <strong>da</strong>l(i) Trattatello in Laude di Dante<br />

alle Esposizioni sopra la «Comedia»; e torna sempre intrisa della polemica viva attorno<br />

alla poesia suscitata <strong>da</strong>gli aristotelici, epperciò densa di umori e di passioni<br />

indubbiamente, ma non certo per questo sminuita negli spessori teoretici: i<br />

ritorni, infatti, si poggiano a punti fermi, variati di poco nel trentennio che va <strong>da</strong>lla<br />

prima re<strong>da</strong>zione del Trattatello (1350) alle Esposizioni (1375).<br />

Uno dei punti fermi della meditazione boccacciana è l’exquisita locutio che<br />

nelle Genealogie deriva direttamente <strong>da</strong>llo spirito infuso <strong>da</strong>l « seno di dio »,<br />

nelle Esposizioni è operazione umana diretta all’esaltazione degli dèi. nell’uno e<br />

nell’altro caso la raffinatezza del linguaggio, cui, in maniera non scindibile, deve<br />

aggiungersi il velo allegorico, è ciò che distingue la poesia <strong>da</strong>lla comunicazione<br />

funzionale. Gli esseri umani vollero ben presto rivolgere alla divinità parole di<br />

lode: dettero ai sacerdoti il compito di ricercare un linguaggio a<strong>da</strong>tto alla divinità:<br />

« conoscendo non essere degna cosa a tanta deità dir parole simili a quelle che<br />

noi, l’uno amico con l’altro, familiarmente diciamo, o il signore al servo suo ».<br />

La letteratura nasce, dunque, <strong>da</strong> una precisa volontà di allontanamento <strong>da</strong>l<br />

quotidiano e <strong>da</strong> quel funzionale per il quale il linguaggio è stato <strong>da</strong>to agli uomini:<br />

« il linguaggio ci è stato <strong>da</strong>to per comunicare il necessario non il superfluo ». anzi,<br />

la metrica è per prima cosa mezzo d’abbellimento musicale, o connotazione formale<br />

della comunicazione poetica, via di straniamento <strong>da</strong>lla lingua funzionale: i<br />

sacerdoti, infatti, per differenziare le parole della preghiera « per farle ancora più<br />

strane <strong>da</strong>ll’usitato parlare degli uomini, artificiosamente le composero in versi »;<br />

in secon<strong>da</strong> battuta è elemento connotativo della poesia.<br />

La via di boccaccio diverge <strong>prof</strong>on<strong>da</strong>mente <strong>da</strong> quella di Petrarca: quanto<br />

questi, infatti, insiste sull’elaborazione tutta umana, dotta e acculturatissima,<br />

ma sempre affi<strong>da</strong>ta allo studio perseverante di uomini eletti del canone poetico<br />

classico, per appropriarsene grazie all’imitazione (come le api o i bachi); tanto<br />

boccaccio l’anno<strong>da</strong> al divino, ad una inson<strong>da</strong>bilità miracolosa e insieme originaria.<br />

È chiaro che il tempo impone forme e contenuti di pensiero: certo che le varianti,<br />

con cui lo scrittore di certaldo esprime la inson<strong>da</strong>bilità della nascita nel poeta<br />

dell’intuizione poetica e delle forme della sua comunicazione, esprimono il<br />

tentativo di sottrarre la poesia alla pura techné imitativa, cui l’aveva affi<strong>da</strong>ta – e<br />

ridotta – l’amico e maestro Petrarca.<br />

così è che adesso nelle Esposizioni l’altro elemento essenziale alla comunicazione<br />

poetica, il velo allegorico, nasce come mezzo escogitato <strong>da</strong>i sacerdoti per<br />

impedire che la nobiltà dei concetti – divini – espressi potesse an<strong>da</strong>r perduta<br />

nella divulgazione popolare. nelle Genealogie la favola è una delle forme della<br />

comunicazione, dotata di una funzionalità razionale che, inglobando l’invenzione<br />

fantastica, la rende alternativa alla lingua che <strong>da</strong>lla natura è stata <strong>da</strong>ta all’uomo. il<br />

termine fabula deriva <strong>da</strong>l latino for, faris, <strong>da</strong> cui confabulare, che è vocabolo utilizzato<br />

e dunque autorizzato <strong>da</strong>ll’evangelista Luca, vuoi nella forma, vuoi nel contenuto.<br />

dunque: comporre favole non è peccato: « perché altro <strong>da</strong>lla natura è stato <strong>da</strong>to


solo all’uomo di parlare, se non perché colloquiamo tra noi ed attraverso le parole<br />

comunichiamo i nostri concetti ? ». Per questa via boccaccio giungeva a trasformare<br />

la comunicazione letteraria in comunicazione funzionale senza abbassarne il livello<br />

stilistico: « La favola è sotto la finzione un discorso esemplare o dimostrativo;<br />

rimossa la corteccia si appalesa l’intenzione del favolista. e così è che se sotto il<br />

velo favoloso si cela qualcosa di sapido: allora non sarà superfluo aver composto<br />

favole ».<br />

La comunicazione letteraria ha sue specifiche forme, e le vedremo, e sue<br />

specifiche funzioni: l’esempio e la dimostrazione, e quest’ultima in comune con<br />

la mo<strong>da</strong>lità linguistica del sillogismo. Veniva evitato il rischio d’una eccessiva<br />

enfatizzazione del momento formale, in cui era incorso il Petrarca, e in virtù<br />

della quale la comunicazione letteraria aveva finito (e finirà ancora per secoli)<br />

per distinguere gli emittenti, per portarli, talora ghettizzarli, in una classe di<br />

cultura superiore, separata <strong>da</strong>lla realtà politica e civile, sulla quale il letterato<br />

può al più riflettere, ma che non può modificare, mancandogli l’intermediazione<br />

politica, anche quando il politico di turno è un dotto se non il dotto che scrive. La<br />

comunicazione letteraria di boccaccio invece esemplifica e dimostra, è colloquio<br />

ben innestato nel tronco della lingua con la quale « comunichiamo i nostri<br />

concetti ». Semmai l’enfatizzazione boccacciana è in direzione opposta rispetto al<br />

perseguimento petrarchesco di un linguaggio metastorico, verso la funzionalità:<br />

è nella scia <strong>da</strong>ntesca nella ricerca d’una lingua illustre dell’hinc et nunc con cui<br />

rivolgersi ai contemporanei per i quali è scritta l’opera letteraria. boccaccio accentuerà<br />

la valenza funzionale, tanto <strong>da</strong> superare la differenza <strong>da</strong> <strong>da</strong>nte stabilita tra<br />

poesia e prosa, alla quale il Poeta affi<strong>da</strong>va le dimostrazioni certe della filosofia. di<br />

qui una forte caratterizzazione comunicativa, che trova espressione nella precisa<br />

individuazione del destinatario dell’opera sua, ben collocato nella dimensione<br />

storica.<br />

Prima d’affrontare il ruolo del destinatario si badi: la comunicazione letteraria<br />

così come è concepita <strong>da</strong> boccaccio, non perde nulla della sua elaborazione formale<br />

e non perde nulla del fantastico e dell’immaginario: giacché alla base sta un certo<br />

fervore di scrivere elegantemente ciò che l’invenzione detta: è una frenesia, o<br />

pazzia divina di esprimere e comunicare quello che la fantasia detta: « […] armare<br />

re, condurli in guerra, spedire in mare flotte, descrivere il cielo, la terra e il mare,<br />

ornare le fanciulle di ghirlande e fiori, designare gli atti degli uomini secondo<br />

le qualità, tenere desti i sonnacchiosi, <strong>da</strong>re coraggio ai pusillanimi, raffrenare<br />

i temerari, convincere i violenti, innalzare con meritate lodi gli illustri, e molte<br />

altre cose simili ». nel passo appena citato si ve<strong>da</strong> come fantasia e funzionalità<br />

s’intreccino senza soluzione di continuità argomentativa: « armare re … ornare<br />

le fanciulle di ghirlande … <strong>da</strong>re coraggio … »: tutte le funzioni della poesia che<br />

la tradizione medievale e classica aveva annoverato vengono fatte tutt’insieme<br />

scaturire <strong>da</strong>l « seno di dio », in un’unità appasionata sicuramente, e altrettanto<br />

sicuramente non più ripetuta.<br />

in quell’unità trova posto, non secon<strong>da</strong>rio, né però principale, la forma: « Questo<br />

fervore produce effetti sublimi, come quello di spingere la mente al desiderio di<br />

dire, immaginarsi rare e mai piú udite invenzioni; esporre le cose immaginate<br />

con un ordine ben preciso; ornare con un’inusitata testura di parole e sentenze


la composizione; e nascondere la verità sotto un congruente velo di favole ».<br />

anzi, « perraro impulsus conmen<strong>da</strong>bile perficit aliquid » quando gli strumenti<br />

dell’espressione non siano adeguati a frenare e a perfezionare le invenzioni. certo,<br />

tali strumenti della comunicazione letteraria si trovano canonizzati nella retorica<br />

antica: tuttavia la presenza del canone classico non impone mai nello scrittore di<br />

certaldo l’imitazione. a volte pare che il possesso degli strumenti retorici derivi<br />

insieme col fervor <strong>da</strong>l « seno di dio ». tant’è che molti poeti hanno <strong>da</strong>to prove<br />

egregie di capacità poetica in volgare e, dunque, fuori <strong>da</strong>l canone classico, e non<br />

solo per la lingua usata. S’aggiunga che la poesia è ben altro <strong>da</strong>lla retorica. La<br />

retorica, infatti, quella classica, giuridica e politica probabilmente (boccaccio<br />

non precisa) ha una sua peculiare inventio: questa è, però, diversa <strong>da</strong> quella della<br />

poesia: « sui velami delle finzioni non vi sono insegnamenti della retorica: poesia<br />

è tutto quello che componiamo sotto velame e narriamo in maniera elegante ».<br />

Pare, insomma che la poesia nasca nella mente dello scrittore tutt’una con la forma,<br />

teorizzabile, più che teorizzata, nella precettistica retorica; o nasca in una mente<br />

in cui esistano già una precettistica formale e una serie di contenuti ’scientifici’<br />

dei quali la fabula si sostanzia: « È altresì necessario conoscere i principi delle arti<br />

liberali, e delle scienze morali, e naturali; e ancora potersi avvalere di una grande<br />

abbon<strong>da</strong>nza di vocaboli; conoscere le storie degli antenati; ricor<strong>da</strong>re le storie dei<br />

popoli; sapere le regioni del mondo, e dove si trovano i mari, i fiumi, e i monti ».<br />

accanto al momento genetico della poesia si colloca nella definizione della<br />

comunicazione letteraria, con molti spunti di modernità, il ruolo del destinatario.<br />

Se il destinatario petrarchesco si proiettava sul piano metastorico della gloria,<br />

quello boccacciano insiste su quello storico con tale perentorietà <strong>da</strong> interloquire<br />

abbastanza concretamente con l’emittente. abbiamo più su notato come la fabula<br />

venisse fatta derivare <strong>da</strong> for, faris per cui condivideva con confabulare l’origine e il<br />

valore di colloquio. il Proemio al Decameron recupera la funzione consolatoria prima<br />

della comunicazione in generale (ma i ragionamenti sono pure sempre « piacevoli »)<br />

e poi della comunicazione letteraria (che in Petrarca era stata autoconsolatoria) in<br />

particolare, e dispone questa sul piano della colloquialità e dunque del pubblico<br />

reale al quale l’opera è destinata: « … mi fu egli di grandissima fatica a sofferire,<br />

… per soverchio fuoco nella mente concetto <strong>da</strong> poco regolato appetito: il quale,<br />

per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava un tempo stare, più di<br />

noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea. nella qual noia tanto<br />

rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli<br />

consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io<br />

non sia morto ». il paradigma è quello <strong>da</strong>ntesco del Convivio: « e io adunque, che …<br />

conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati… » [i, i, 10]: così Giovanni<br />

sente il dovere di offrire a coloro che soffrono la consolazione che egli ha tratta<br />

<strong>da</strong>lle parole degli amici: « Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la<br />

memoria fuggita de’ benefici già ricevuti, <strong>da</strong>timi <strong>da</strong> coloro à quali per benivolenza<br />

<strong>da</strong> loro a me portata erano gravi le mie fatiche: ne passerà mai, sì come io credo,<br />

se non per morte. e per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre<br />

virtù è sommamente <strong>da</strong> commen<strong>da</strong>re e il contrario <strong>da</strong> biasimare, per non parere<br />

ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in<br />

cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che


me atarono alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura<br />

non abbisogna, a quegli almeno a qual fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. e<br />

quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia<br />

a bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove<br />

il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì ancora perché più vi<br />

fia caro avuto ». conta, nella posizione boccacciana, la proposta di una letteratura<br />

che assolva alle medesime funzioni che per lungo tempo erano state attribuite,<br />

prima dell’aristotelismo scolastico, alla filosofia sulla scorta del De consolatione<br />

di Severino boezio e che comunque avevano continuato ad esserlo se ancora<br />

nel Convivio <strong>da</strong>nte confessa d’essersi risolto allo studio cercando l’argento della<br />

consolazione per la morte di beatrice, ed aveva trovato l’oro della sapienza [ii,<br />

xii, 5]. Questa valenza consolatoria della letteratura non significa affatto che essa<br />

si faccia portatrice di contenuti etici com’erano le consolationes classiche e cristiane,<br />

o che nella sua eleganza si compongano e si rasserenino gli animi travagliati<br />

dello scrittore o del lettore. ché essa si fa carico di « piacevoli ragionamenti »,<br />

sempre «esemplari e dimostrativi», confluendo nei quali, la partecipazione ed il<br />

confronto dei casi personali del lettore possano fornire a questo il conforto della<br />

consonanza sentimentale e la soli<strong>da</strong>rietà dello scrittore. insomma, la letteratura<br />

propone un colloquio e trova convali<strong>da</strong> nella partecipazione del lettore ad esso.<br />

in quanto colloquio, la comunicazione letteraria richiede un destinatario la cui<br />

qualità maggiore sta tutta nella sua capacità e possibilità di rispondere, d’entrare<br />

in sintonia sentimentale con l’emittente. La proiezione della letteratura verso la<br />

gloria e l’eternità, quale Petrarca aveva postulato, è sostituita <strong>da</strong> una proiezione<br />

tutta indirizzata all’hinc et nunc, epperciò in apparenza inferiore e più limitata,<br />

come fu ritenuta a lungo la tipologia scrittoria della novella, ma viva e percorsa <strong>da</strong><br />

reciproci condizionamenti.<br />

così nella Conclusione del Decameron boccaccio esprime la certezza che la<br />

valutazione morale dell’opera è dipendente <strong>da</strong>ll’etica personale del lettore. non<br />

esiste nulla, egli dice, che non possa essere valutato come sconveniente <strong>da</strong> una<br />

mente corrotta, tuttavia ciò che è onesto non teme lo sguardo di chi non abbia<br />

la mente ben disposta. il registro linguistico utilizzato è la prima preoccupazione<br />

del certaldese: ebbene, non è possibile vietare allo scrittore il linguaggio che<br />

tutto il giorno, ogni uomo ed ogni donna adopera. d’altra parte l’artista ha il diritto<br />

di ritrarre il male, di ritrarre la realtà anche quando quella realtà può essere<br />

sgradevole. nessuno nega tale diritto ai pittori che raffigurano il demonio sotto<br />

forma di serpente, o il drago in cui s’incarnò di volta in volta il demonio. Se lo<br />

scrittore esprime (e ne ha il diritto) la realtà e adopera il linguaggio di questa, è<br />

responsabilità del fruitore fare buon o cattivo uso dell’opera d’arte: « ciascuna<br />

cosa in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva<br />

di molte; e così dico delle mie novelle. chi vorrà <strong>da</strong> quelle malvagio consiglio o<br />

malvagia operazion trarre, elle nol vieteranno ad alcuno, se forse in sé l’hanno, e<br />

torte e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol negheranno,<br />

né sarà mai che altro che utili e oneste sien dette o tenute, se a que’ tempi o a<br />

quelle persone si leggeranno, per cui se pe’ quali state sono raccontate. chi ha a<br />

dir paternostri o a fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare: elle non<br />

correranno di dietro a niuna a farsi leggere ». Per questa via boccaccio ribadisce


l’ingenuità dello scrittore che obbedisce alla sola sua, divina, voglia di dire.<br />

ribadisce altresì che non esiste un canone prefissato, valido sempre e<br />

<strong>da</strong>ppertutto, in base al quale leggere e giudicare l’opera: vuoi perché lo<br />

scrittore, pur attento contadino, non potrà far sì che nel suo campo non nascano<br />

assolutamente piante selvatiche o inutili; vuoi perché non è possibile che, in<br />

una moltitudine di cose, tutte siano al medesimo livello qualitativo ed estetico;<br />

vuoi, infine, perché l’opera prodotta è in qualche modo opera aperta, nella quale si<br />

scontrano <strong>da</strong> parte del lettore accettazioni e ripudi dei messaggi dello scrittore<br />

e del suo canone stilistico, linguistico e così via: « Saranno per avventura alcune<br />

di voi che diranno che io abbia … Saranno similmente di quelle che diranno qui<br />

esserne alcune … e ancora, credo, sarà tal che dirà che… ». Va <strong>da</strong> sé che boccaccio<br />

non giunge ad enunciare il concetto di un’opera codificabile e decodificabile<br />

all’infinito <strong>da</strong>ll’infinito numero dei potenziali destinatari. È però altrettanto vero<br />

che rinunciando al codice classicistico unico di stampo petrarchesco, poneva<br />

seriamente le basi per una più dialettica relazione tra destinatari e opera d’arte,<br />

che comunque rimaneva sal<strong>da</strong>mente ancorata ad una genesi misteriosamente<br />

divina. L’opera d’arte veniva così garantita come espressione dell’inventio che<br />

lo scrittore propone al lettore e che il lettore può accettare o rifiutare ma nella<br />

consapevolezza della dimensione umana (e quindi limitata) in cui si muove.<br />

decaMeron<br />

Giornata prima – Novella secon<strong>da</strong><br />

Abraam giudeo, <strong>da</strong> Giannotto di Civignì stimolato, va in corte<br />

di Roma; e veduta la malvagità de’ cherici, torna a Parigi e fassi<br />

cristiano.<br />

[…]<br />

Mostrato n’ha Panfilo nel suo novellare la benignità<br />

di dio non guar<strong>da</strong>re a’ nostri errori, quando <strong>da</strong> cosa<br />

che per noi veder non si possa proce<strong>da</strong>no; e io nel<br />

mio intendo di dimostrarvi quanto questa medesima<br />

benignità, sostenendo pazientemente i difetti di<br />

coloro li quali d’essa ne deono <strong>da</strong>re e colle opere e<br />

colle parole vera testimonianza, il contrario operando,<br />

di se’ argomento d’infallibile verità ne dimostri,<br />

acciò che quello che noi crediamo con più fermezza<br />

d’animo seguitiamo.<br />

Sì come io, graziose donne, già udii ragionare, in Parigi<br />

fu un gran mercatante e buono uomo, il quale fu<br />

chiamato Giannotto di civignì, lealissimo e diritto e<br />

di gran traffico d’opera di drapperia; e avea singulare<br />

amistà con uno ricchissimo uomo giudeo, chiamato<br />

abraam, il qual similmente mercatante era e diritto<br />

e leale uomo assai. La cui dirittura e la cui lealtà veggendo<br />

Giannotto, gl’incominciò forte ad increscere<br />

che l’anima d’un così valente e savio e buono uomo<br />

per difetto di fede an<strong>da</strong>sse a perdizione. e per ciò<br />

amichevolmente lo cominciò a pregare che egli lasciasse<br />

gli errori della fede giu<strong>da</strong>ica e ritornasse alla<br />

verità cristiana, la quale egli poteva vedere, sì come<br />

santa e buona, sempre prosperare e aumentarsi;<br />

dove la sua, in contrario, diminuirsi e venire al niente<br />

poteva discernere.<br />

il giudeo rispondeva che niuna ne credeva né santa<br />

né buona fuor che la giu<strong>da</strong>ica, e che egli in quella era<br />

nato e in quella intendeva e vivere e morire; né cosa<br />

sarebbe che mai <strong>da</strong> ciò il facesse rimuovere. Giannotto<br />

non stette per questo che egli, passati alquanti<br />

dì, non gli rimovesse simiglianti parole, mostrandogli,<br />

così grossamente come il più i mercatanti sanno<br />

fare, per quali ragioni la nostra era migliore che la<br />

giu<strong>da</strong>ica. e come che il giudeo fosse nella giu<strong>da</strong>ica<br />

legge un gran maestro, tuttavia, o l’amicizia grande<br />

che con Giannotto avea che il movesse, o forse parole<br />

le quali lo Spirito Santo sopra la lingua dell’uomo<br />

idiota poneva che sel facessero, al giudeo cominciarono<br />

forte a piacere le dimostrazioni di Giannotto;<br />

ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger non<br />

si lasciava.<br />

così come egli pertinace dimorava, così Giannotto di<br />

sollecitarlo non finava giammai, tanto che il giudeo,<br />

<strong>da</strong> così continua instanzia vinto, disse:<br />

– ecco, Giannotto, a te piace che io divenga cristiano,<br />

e io sono disposto a farlo, sì veramente che io voglio<br />

in prima an<strong>da</strong>re a roma, e quivi vedere colui il quale<br />

tu dì che è vicario di dio in terra, e considerare i suoi<br />

modi e i suoi costumi e similmente dei suoi fratelli<br />

cardinali; e se essi mi parranno tali che io possa tra<br />

per le tue parole e per quelli comprendere che la<br />

vostra fede sia migliore che la mia, come tu ti se’ ingegnato<br />

di dimostrarmi, io farò quello che detto t’ho;<br />

ove così non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi


sono.<br />

Quando Giannotto intese questo, fu in se’ stesso oltremodo<br />

dolente, tacitamente dicendo:<br />

–Perduta ho la fatica, la quale ottimamente mi parea<br />

avere impiegata, credendomi costui aver convertito;<br />

per ciò che, se egli va in corte di roma e vede la vita<br />

scelerata e lor<strong>da</strong> de’ cherici, non che egli di giudeo si<br />

faccia cristiano, ma, se egli fosse cristiano fatto, senza<br />

fallo giudeo si ritornerebbe – .<br />

e ad abraam rivolto disse:<br />

– deh, amico mio, perché vuoi tu entrare in questa<br />

fatica e così grande spesa, come a te sarà d’an<strong>da</strong>re<br />

di qui a roma? senza che, e per mare e per terra, ad<br />

un ricco uomo come tu se’, ci è tutto pien di pericoli.<br />

non credi tu trovar qui chi i1 battesimo ti dea? e,<br />

se forse alcuni dubbi hai intorno alla fede che io ti<br />

dimostro, dove ha maggiori maestri e più savi uomini<br />

in quella, che son qui, <strong>da</strong> poterti di ciò che tu vorrai<br />

o domanderai dichiarire? Per le quali cose al mio parere<br />

questa tua an<strong>da</strong>ta è di soperchio. Pensa che tali<br />

sono là i prelati quali tu gli hai qui potuti vedere e<br />

puoi, e tanto ancor migliori quanto essi son più vicini<br />

al pastor principale. e perciò questa fatica, per mio<br />

consiglio, ti serberai in altra volta ad alcuno perdono,<br />

al quale io per avventura ti farò compagnia.<br />

a cui il giudeo rispose:<br />

– io mi credo, Giannotto, che così sia come tu mi favelli,<br />

ma, recandoti le molte parole in una, io son del<br />

tutto (se tu vuogli che io faccia quello di che tu m’hai<br />

cotanto pregato) disposto ad an<strong>da</strong>rvi, e altramenti<br />

mai non ne farò nulla.<br />

Giannotto, vedendo il voler suo, disse:<br />

– e tu va con buona ventura– ; e seco avvisò lui mai<br />

non doversi far cristiano, come la corte di roma veduta<br />

avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette.<br />

il giudeo montò a cavallo e, come più tosto potè, se<br />

n’andò in corte di roma, là dove pervenuto dà suoi<br />

giudei fu onorevolmente ricevuto. e quivi dimorando,<br />

senza dire ad alcuno per che an<strong>da</strong>to vi fosse,<br />

cautamente cominciò a riguar<strong>da</strong>re alle maniere del<br />

papa e de’ cardinali e degli altri prelati e di tutti i<br />

cortigiani; e tra che egli s’accorse, sì come uomo che<br />

molto avveduto era, e che egli ancora <strong>da</strong> alcuno fu<br />

informato, egli trovò <strong>da</strong>l maggiore infino al minore<br />

generalmente tutti disonestissimamente peccare in<br />

lussuria, e non solo nella naturale, ma ancora nella<br />

soddomitica, senza freno alcuno di rimordimento o<br />

di vergogna, in tanto che la potenzia delle meretrici<br />

e de’ garzoni in impetrare qualunque gran cosa non<br />

v’era di picciol potere. oltre a questo, universalmente<br />

gulosi, bevitori, ebriachi e più al ventre serventi a<br />

guisa d’animali bruti, appresso alla lussuria, che ad<br />

altro, gli conobbe apertamente.<br />

e più avanti guar<strong>da</strong>ndo, in tanto tutti avari e cupidi<br />

di denari gli vide, che parimente l’uman sangue, anzi<br />

il cristiano, e le divine cose, chenti che elle si fossero,<br />

o a’ sacrifici o a’ benefici appartenenti, a denari<br />

e vendevano e comperavano, maggior mercatantia<br />

faccendone e più sensali avendone che a Parigi di<br />

drappi o di alcun’altra cosa non erano, avendo alla<br />

manifesta simonia “ procureria “ posto nome, e alla<br />

gulosità “sustentazioni “, quasi iddio, lasciamo stare<br />

il significato de’ vocaboli, ma la ’ntenzione de’ pessimi<br />

animi non conoscesse, e a guisa degli uomini a’<br />

nomi delle cose si debba lasciare ingannare. Le quali<br />

cose, insieme con molte altre le quali <strong>da</strong> tacer sono,<br />

sommamente spiacendo al giudeo, sì come a colui<br />

che sobrio e modesto uomo era, parendogli assai<br />

aver veduto, propose di tornare a Parigi, e così fece.<br />

al quale, come Giannotto seppe che venuto se n’era,<br />

niuna cosa meno sperando che del suo farsi cristiano,<br />

se ne venne, e gran festa insieme si fecero; e, poi<br />

che riposato si fu alcun giorno, Giannotto il domandò<br />

quello che del santo padre e de’ cardinali e degli altri<br />

cortigiani gli parea.<br />

al quale il giudeo prestamente rispose:<br />

– Parmene male, che iddio dea a quanti sono; e di<br />

coti così che, se io ben seppi considerare, quivi niuna<br />

santità, niuna divozione, niuna buona opera o essemplo<br />

di vita o d’altro in alcuno che cherico fosse<br />

veder mi parve; ma lussuria, avarizia e gulosità, fraude,<br />

invidia e superbia e simili cose e piggiori (se piggiori<br />

essere possono in alcuno) mi vi parve in tanta<br />

grazia di tutti vedere, che io ho più tosto quella per<br />

una fucina di diaboliche operazioni che di divine. e<br />

per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con<br />

ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro<br />

pastore, e per consequente tutti gli altri, si procaccino<br />

di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana<br />

religione, là dove essi fon<strong>da</strong>mento e sostegno<br />

esser dovrebber di quella.<br />

e per ciò che io veggio non quello avvenire che essi<br />

procacciano, ma continuamente la vostra religione<br />

aumentarsi e più luci<strong>da</strong> e più chiara divenire, meritamente<br />

mi par di scerner io Spirito Santo esser d’essa,<br />

sì come di vera e di santa più che alcun’altra, fon<strong>da</strong>mento<br />

e sostegno. Per la qual cosa, dove io rigido e<br />

duro stava a’ tuoi conforti e non mi volea far cristiano,<br />

ora tutto aperto ti dico che io per niuna cosa lascerei<br />

di cristian farmi. andiamo adunque alla chiesa: e<br />

quivi, secondo il debito costume della vostra santa<br />

fede, mi fa battezzare.<br />

Giannotto, il quale aspettava dirittamente contraria<br />

conclusione a questa, come lui così udì dire fu il più<br />

contento uomo che giammai fosse. e a nostra <strong>da</strong>ma<br />

di Parigi con lui insieme an<strong>da</strong>tosene, richiese i cherici<br />

di là entro che ad abraam dovessero <strong>da</strong>re il battesimo.<br />

Li quali, udendo che esso l’addoman<strong>da</strong>va, prestamente<br />

il fecero: e Giannotto il levò del sacro fonte e<br />

nominollo Giovanni; e appresso a gran valenti uomini<br />

il fece compiutamente ammaestrare nella nostra<br />

fede la quale egli prestamente apprese, e fu, poi<br />

buono e valente uomo e di santa vita.<br />

Giornata prima – Novella terza<br />

Melchisedech giudeo, con una novella di tre anella, cessa un gran<br />

pericolo <strong>da</strong>l Saladino apparecchiatogli.<br />

Poiché, commen<strong>da</strong>ta <strong>da</strong> tutti la novella di neifile,<br />

ella si tacque, come alla reina piacque, Filomena così<br />

cominciò a parlare.<br />

La novella <strong>da</strong> neifile detta mi ritorna a memoria il<br />

dubbioso caso già avvenuto ad un giudeo. Per ciò


che già e di dio e della verità della nostra fede è assai<br />

bene stato detto, il discendere oggimai agli avvenimenti<br />

e agli atti degli uomini non si dovrà disdire; e<br />

a narrarvi quella verrò, la quale udita, forse più caute<br />

diverrete nelle risposte alle quistioni che fatte vi fossero.<br />

Voi dovete, amorose compagne, sapere che, sì<br />

come la sciocchezza spesse volte trae altrui di felice<br />

stato e mette in grandissima miseria, così il senno di<br />

grandissimi pericoli trae il savio e ponlo in grande<br />

e in sicuro riposo. e che vero sia che la sciocchezza<br />

di buono stato in miseria altrui conduca, per molti<br />

essempli si vede, li quali non fia al presente nostra<br />

cura di raccontare, avendo riguardo che tutto ’l dì<br />

mille essempli n’appaiano manifesti. Ma che il senno<br />

di consolazione sia cagione, come promisi, per una<br />

novelletta mosterrò brievemente.<br />

il Saladino, il valore del qual fu tanto che non solamente<br />

di piccolo uomo il fe’ di babillonia sol<strong>da</strong>no,<br />

ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani<br />

gli fece avere, avendo in diverse guerre e in grandissime<br />

sue magnificenze speso tutto il suo tesoro, e,<br />

per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli<br />

una buona quantità di <strong>da</strong>nari, né veggendo donde<br />

così prestamente come gli bisognavano aver gli<br />

potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui<br />

nome era Melchisedech, il quale prestava ad usura<br />

in alessandria, e pensossi costui avere <strong>da</strong> poterlo<br />

servire quando volesse; ma sì era avaro che di sua<br />

volontà non l’avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva<br />

fare; per che, strignendolo il bisogno, rivoltosi<br />

tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse,<br />

s’avvisò di fargli una forza <strong>da</strong> alcuna ragion colorata.<br />

e fattolsi chiamare e familiarmente ricevutolo, seco il<br />

fece sedere e appresso gli disse:<br />

– Valente uomo, io ho <strong>da</strong> più persone inteso che tu<br />

se’ savissimo e nelle cose di dio senti molto avanti;<br />

e per ciò io saprei volentieri <strong>da</strong> te quale delle tre<br />

leggi tu reputi la verace, o la giu<strong>da</strong>ica o la saracina o<br />

la cristiana.<br />

il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avvisò<br />

troppo bene che il Saladino guar<strong>da</strong>va di pigliarlo<br />

nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione,<br />

e pensò non potere alcuna di queste tre più l’una<br />

che l’altra lo<strong>da</strong>re, che il Saladino non avesse la sua<br />

intenzione. Per che, come colui al qual pareva d’aver<br />

bisogno di risposta per la quale preso non potesse<br />

essere, aguzzato lo ’ngegno, gli venne prestamente<br />

avanti quello che dir dovesse, e disse:<br />

– Signor mio, la quistione la qual voi mi fate è bella,<br />

e a volervene dire ciò che io ne sento, mi vi convien<br />

dire una novelletta, qual voi udirete.<br />

Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito<br />

dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale, intra<br />

l’altre gioie più care che nel suo tesoro avesse,<br />

era uno anello bellissimo e prezioso; al quale per lo<br />

suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore<br />

e in perpetuo lasciarlo né suoi discendenti, ordinò<br />

che colui de’ suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli<br />

<strong>da</strong> lui, fosse questo anello trovato, che colui<br />

s’intendesse essere il suo erede e dovesse <strong>da</strong> tutti<br />

gli altri essere come maggiore onorato e reverito.<br />

e colui al quale <strong>da</strong> costui fu lasciato il simigliante or­<br />

dinò né suoi discendenti e così fece come fatto avea<br />

il suo predecessore; e in brieve andò questo anello<br />

di mano in mano a molti successori; e ultimamente<br />

pervenne alle mani ad uno, il quale avea tre figliuoli<br />

belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per<br />

la qual cosa tutti e tre parimente gli amava. e i giovani,<br />

li quali la consuetudine dello anello sapevano,<br />

sì come vaghi d’essere ciascuno il più onorato tra’<br />

suoi ciascuno per se’, come meglio sapeva, pregava<br />

il padre, il quale era già vecchio, che, quando a morte<br />

venisse, a lui quello anello lasciasse.<br />

il valente uomo, che parimente tutti gli amava, né sapeva<br />

esso medesimo eleggere a qual più tosto lasciar<br />

lo dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di<br />

volergli tutti e tre sodisfare; e segretamente ad uno<br />

buono maestro ne fece fare due altri, li quali sì furono<br />

simiglianti al primiero, che esso medesimo che<br />

fatti gli avea fare appena conosceva qual si fosse il<br />

vero. e venendo a morte, segretamente diede il suo<br />

a ciascun de’ figliuoli. Li quali, dopo la morte del padre,<br />

volendo ciascuno la eredità e l’onore occupare,<br />

e l’uno negandolo all’altro, in testimonianza di dover<br />

ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il<br />

suo anello. e trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro<br />

che qual di costoro fosse il vero non si sapeva conoscere,<br />

si rimase la quistione, qual fosse il vero erede<br />

del padre, in pendente, e ancor pende.<br />

e così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli<br />

<strong>da</strong>te <strong>da</strong> dio padre, delle quali la quistion proponeste:<br />

ciascuno la sua eredità, la sua vera legge e i suoi<br />

coman<strong>da</strong>menti dirittamente si crede avere e fare; ma<br />

chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la<br />

quistione.<br />

il Saladino conobbe costui ottimamente essere saputo<br />

uscire del laccio il quale <strong>da</strong>vanti a’ piedi teso<br />

gli aveva; e per ciò dispose d’aprirgli il suo bisogno<br />

e vedere se servire il volesse; e così fece, aprendogli<br />

ciò che in animo avesse avuto di fare, se così discretamente,<br />

come fatto avea, non gli avesse risposto.<br />

il giudeo liberamente d’ogni quantità che il Saladino<br />

richiese il servì; e il Saladino poi interamente il<br />

soddisfece; e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e<br />

sempre per suo amico l’ebbe e in grande e onorevole<br />

stato appresso di se’ il mantenne.<br />

Giornata prima – Novella quarta<br />

Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione,<br />

onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa,<br />

si libera <strong>da</strong>lla pena.<br />

Già si tacea Filomena, <strong>da</strong>lla sua novella espedita,<br />

quando dioneo, che appresso di lei sedeva, senza<br />

aspettare <strong>da</strong>lla reina altro coman<strong>da</strong>mento, conoscendo<br />

già, per l’ordine cominciato, che a lui toccava<br />

il dover dire, in cotal guisa cominciò a parlare.<br />

amorose donne, se io ho bene la ’ntenzione di tutte<br />

compresa, noi siam qui per dovere a noi medesimi<br />

novellando piacere; e per ciò, solamente che contro<br />

a questo non si faccia, estimo a ciascuno dovere essere<br />

licito (e così ne disse la nostra reina, poco avanti,<br />

che fosse) quella novella dire che più crede che


possa dilettare; per che, avendo udito per li buoni<br />

consigli di Giannotto di civignì abraam aver l’anima<br />

salvata Melchisedech per lo suo senno avere le sue<br />

ricchezze <strong>da</strong>gli agguati del Saladino difese, senza riprensione<br />

attender <strong>da</strong> voi, intendo di raccontar brievemente<br />

con che cautela un monaco il suo corpo <strong>da</strong><br />

gravissima pena liberasse.<br />

Fu in Lunigiana, paese non molto <strong>da</strong> questo lontano,<br />

uno monistero già di santità e di monaci più copioso<br />

che oggi non è, nel quale tra gli altri era un<br />

monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza<br />

né i digiuni né le vigilie Potevano macerare. il quale<br />

per ventura un giorno in sul mezzodì, quando gli altri<br />

monaci tutti dormivano, an<strong>da</strong>ndosi tutto solo <strong>da</strong>ttorno<br />

alla sua chiesa, la quale in luogo assai solitario<br />

era, gli venne veduta una giovinetta assai bella, forse<br />

figliuola d’alcuno de’ lavoratori della contra<strong>da</strong>, la<br />

quale an<strong>da</strong>va per gli campi certe erbe cogliendo; né<br />

prima veduta l’ebbe, che egli fieramente assalito fu<br />

<strong>da</strong>lla concupiscenza carnale.<br />

Per che, fattolesi più presso, con lei entrò in parole<br />

e tanto andò d’una in altra, che egli si fu accor<strong>da</strong>to<br />

con lei e seco nella sua cella ne la menò, che<br />

niuna persona se n’accorse. e mentre che egli, <strong>da</strong><br />

troppa volontà trasportato, men cautamente con lei<br />

scherzava, avvenne che l’abate, <strong>da</strong> dormir levatosi<br />

e pianamente passando <strong>da</strong>vanti alla cella di costui,<br />

sentì lo schiamazzio che costoro insieme faceano; e<br />

per conoscere meglio le voci, chetamente s’accostò<br />

all’uscio della cella ad ascoltare e manifestamente<br />

conobbe che dentro a quella era femina e tutto fu<br />

tentato di farsi aprire; poi pensò di voler tenere in<br />

ciò altra maniera e, tornatosi alla sua camera, aspettò<br />

che il monaco fuori uscisse.<br />

il monaco, ancora che <strong>da</strong> grandissimo suo piacere e<br />

diletto fosse con questa giovane occupato, pur nondimeno<br />

tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito<br />

alcuno stropiccio di piedi per lo dormentorio, ad<br />

un piccolo pertugio pose l’occhio e vide apertissimamente<br />

l’abate stare ad ascoltarlo e molto bene comprese<br />

l’abate aver potuto conoscere quella giovane<br />

essere nella sua cella. di che egli, sappiendo che di<br />

questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu<br />

dolente; ma pur, senza del suo cruccio niente mostrare<br />

alla giovane, prestamente seco molte cose<br />

rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne<br />

potesse; e occorsegli una nuova malizia, la quale al<br />

fine imaginato <strong>da</strong> lui dirittamente pervenne. e faccendo<br />

sembiante che esser gli paresse stato assai<br />

con quella giovane, le disse:<br />

– io voglio an<strong>da</strong>re a trovar modo come tu esca di qua<br />

entro senza esser veduta; e per ciò statti pianamente<br />

infino alla mia tornata.<br />

e uscito fuori e serrata la cella colla chiave, dirittamente<br />

se n’andò alla camera dello abate, e presentatagli<br />

quella, secondo che ciascuno monaco faceva<br />

quando fuori an<strong>da</strong>va, con un buon volto disse:<br />

– Messere, io non potei stamane farne venire tutte le<br />

legne le quali io avea fatte fare, e perciò con vostra<br />

licenzia io voglio an<strong>da</strong>re al bosco e farlene venire.<br />

L’abate, per potersi più pienamente informare del<br />

fallo commesso <strong>da</strong> costui, avvisando che questi ac­<br />

corto non se ne fosse che egli fosse stato <strong>da</strong> lui veduto,<br />

fu lieto di tale accidente, e volentier prese la<br />

chiave e similmente li die’ licenzia. e, come il vide<br />

an<strong>da</strong>to via, cominciò a pensar qual far volesse più tosto,<br />

o in presenza di tutti i monaci aprir la cella di costui<br />

e far loro vedere il suo difetto, acciò che poi non<br />

avesser cagione di mormorare contra di lui quando il<br />

monaco punisse, o di voler prima <strong>da</strong> lei sentire come<br />

an<strong>da</strong>ta fosse la bisogna. e, pensando seco stesso che<br />

questa potrebbe essere tal femina o figliuola di tale<br />

uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna<br />

d’averla a tutti i monaci fatta vedere, s’avvisò<br />

di voler prima veder chi fosse e poi prender partito;<br />

e chetamente an<strong>da</strong>tosene alla cella, quel la aprì ed<br />

entrò dentro e l’uscio richiuse.<br />

La giovane, vedendo venire l’abate, tutta smarrì, e<br />

temendo di vergogna cominciò a piagnere. Messer<br />

l’abate, postole l’occhio addosso e veggendola bella<br />

e fresca, ancora che vecchio fosse, sentì subitamente<br />

non meno cocenti gli stimoli della carne che sentiti<br />

avesse il suo giovane monaco, e fra se’ stesso cominciò<br />

a dire: – deh, perché non prendo io del piacere<br />

quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che il<br />

dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno<br />

apparecchiati? costei è una bella giovane, ed è qui<br />

che niuna per sona del mondo il sa; se io la posso<br />

recare a fare i piacer miei, io non so perché io nol mi<br />

faccia. chi saprà? ai più; io estimo che egli sia gran<br />

senno a pigliarsi del bene, quando domenedio ne<br />

man <strong>da</strong> altrui –. e così dicendo, e avendo del tutto<br />

mutato proposito <strong>da</strong> quello per che an<strong>da</strong>to v’era, fattosi<br />

più presso alla giovane, pianamente la cominciò<br />

a confortare e a pregarla che non piagnesse; e, d’una<br />

parola in altra procedendo, ad aprirle il suo desiderio<br />

pervenne.<br />

La giovane, che non era di ferro né di diamante, assai<br />

agevolmente si piegò a’ piaceri dello abate; il quale,<br />

abbracciatala e baciatala più volte, in sul letticello<br />

del monaco salitosene, avendo forse riguardo al<br />

grave peso della sua dignità e alla tenera età della<br />

giovane, temendo forse di non offenderla per troppa<br />

gravezza, non sopra il petto di lei salì, ma lei sopra<br />

il suo petto pose, e per lungo spazio con lei si trastullò.<br />

il monaco, che fatto avea sembiante d’an<strong>da</strong>re al bosco,<br />

essendo nel dormentorio occultato, come vide<br />

l’abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicurato,<br />

estimò il suo avviso dovere avere effetto; e veggendol<br />

serrar dentro, l’ebbe per certissimo. e, uscito<br />

di là dov’era, chetamente n’andò ad un pertugio, per<br />

lo quale ciò che l’abate fece o disse, e udì e vide. Parendo<br />

allo abate essere assai colla giovanetta dimorato,<br />

serratala nella cella, alla sua camera se ne tornò;<br />

e dopo al quanto, sentendo il monaco e credendo lui<br />

esser tornato <strong>da</strong>l bosco, avvisò di riprenderlo forte e<br />

di farlo incarcerare, acciò che esso solo possedesse<br />

la gua<strong>da</strong>gnata pre<strong>da</strong>; e fattoselo chiamare, gravissimamente<br />

e con mal viso il riprese e comandò che<br />

fosse in carcere messo.<br />

il monaco prontissimamente rispose:<br />

– Messere, io non sono ancora tanto all’ordine di san<br />

benedetto stato, che io possa avere ogni particula­


ità di quello apparata; e voi ancora non m’avavate<br />

mostrato che i monaci si debban far <strong>da</strong>lle femine<br />

priemere, come <strong>da</strong> digiuni e <strong>da</strong>lle vigilie; ma ora che<br />

mostrato me l’avete, vi prometto, se questa mi perdonate,<br />

di mai più in ciò non peccare, anzi farò sempre<br />

come io a voi ho veduto fare.<br />

L’abate, che accorto uomo era, prestamente conobbe<br />

costui non solamente aver più di lui saputo, ma<br />

veduto ciò che esso aveva fatto. Perché, <strong>da</strong>lla sua<br />

colpa stessa rimorso, si vergognò di fare al monaco<br />

quello che egli, sì come lui, aveva meritato. e perdonatogli<br />

e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio,<br />

onestamente misero la giovinetta di fuori, e poi più<br />

volte si dee credere ve la facesser tornare.<br />

Giornata terza – Novella quarta<br />

Don Felice insegna a frate Puccio come egli diverrà beato faccendo<br />

una sua penitenzia; la quale frate Puccio fa, e don Felice in<br />

questo mezzo con la moglie del frate si dà buon tempo.<br />

[…]<br />

Madonna, assai persone sono che, mentre che essi si<br />

sforzano d’an<strong>da</strong>rne in paradiso, senza avvedersene<br />

vi man<strong>da</strong>no altrui; il che ad una nostra vicina, non ha<br />

ancor lungo tempo, sì come voi potrete udire, intervenne.<br />

Secondo che io udii già dire, vicino di san brancazio<br />

stette un buon uomo e ricco, il quale fu chiamato<br />

Puccio di rinieri, che poi, essendo tutto <strong>da</strong>to allo<br />

spirito, si fece bizzoco di quegli di san Francesco, e<br />

fu chiamato frate Puccio, e seguendo questa sua vita<br />

spirituale, per ciò che altra famiglia non avea che una<br />

sua donna e una fante, né per questo ad alcuna arte<br />

attender gli bisognava, usava molto la chiesa. e per<br />

ciò che uomo idiota era e di grossa pasta, diceva suoi<br />

paternostri, an<strong>da</strong>va alle prediche, stava alle messe,<br />

né mai falliva che alle laude che cantavano i secolari<br />

esso non fosse, e digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi<br />

che egli era degli scopatori.<br />

La moglie, che monna isabetta avea nome, giovane<br />

ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella<br />

e ritondetta che pareva una mela casolana, per la<br />

santità del marito e forse per la vecchiezza, faceva<br />

molto spesso troppo più lunghe diete che voluto non<br />

avrebbe; e, quand’ella si sarebbe voluta dormire o<br />

forse scherzar con lui, ed egli le raccontava la vita<br />

di cristo e le prediche di frate nastagio o il lamento<br />

della Mad<strong>da</strong>lena o così fatte cose.<br />

tornò in questi tempi <strong>da</strong> Parigi un monaco chiamato<br />

don Felice, conventuale di san brancazio, il quale<br />

assai giovane e bello della persona era e d’aguto<br />

ingegno e di <strong>prof</strong>on<strong>da</strong> scienza, col qual frate Puccio<br />

prese una stretta dimestichezza. e per ciò che costui<br />

ogni suo dubbio molto bene gli solvea, e oltre a ciò,<br />

avendo la sua condizion conosciuta, gli si mostrava<br />

santissimo, se lo incominciò frate Puccio a menare<br />

talvolta a casa e a <strong>da</strong>rgli desinare e cena, secondo<br />

che fatto gli venia; e la donna altressì per amor di<br />

fra Puccio era sua dimestica divenuta e volentier gli<br />

faceva onore.<br />

continuando adunque il monaco a casa di fra Puccio<br />

e veggendo la moglie così fresca e ritondetta, s’av­<br />

visò qual dovesse essere quella cosa della quale<br />

ella patisse maggior difetto; e pensossi, se egli potesse,<br />

per tor fatica a fra Puccio, di volerla supplire.<br />

e, postole l’occhio addosso e una volta e altra bene<br />

astutamente, tanto fece che egli l’accese nella mente<br />

quello medesimo disidero che aveva egli; di che accortosi<br />

il monaco, come prima destro gli venne, con<br />

lei ragionò il suo piacere. Ma, quantunque bene la<br />

trovasse disposta a dover <strong>da</strong>re all’opera compimento,<br />

non si poteva trovar modo, per ciò che costei in<br />

niun luogo del mondo si voleva fi<strong>da</strong>re ad esser col<br />

monaco se non in casa sua; e in casa sua non si potea,<br />

perché fra Puccio non an<strong>da</strong>va mai fuor della terra; di<br />

che il monaco avea gran malinconia.<br />

e dopo molto gli venne pensato un modo <strong>da</strong> dover<br />

potere essere colla donna in casa sua senza sospetto,<br />

non ostante che fra Puccio in casa fosse. ed essendosi<br />

un dì an<strong>da</strong>to a star con lui frate Puccio, gli<br />

disse così:<br />

– io ho già assai volte compreso, fra Puccio, che tutto<br />

il tuo disidero è di divenir santo, alla qual cosa<br />

mi par che tu vadi per una lunga via, là dove ce n’è<br />

una che è molto corta, la quale il papa e gli altri suoi<br />

maggior prelati, che la sanno e usano, non vogliono<br />

che ella si mostri; per ciò che l’ordine chericato, che il<br />

più di limosine vive, incontanente sarebbe disfatto,<br />

sì come quello al quale più i secolari né con limosine<br />

né con altro attenderebbono. Ma, per ciò che tu<br />

se’mio amico e ha’ mi onorato molto, dove io credessi<br />

che tu a niuna persona del mondo l’appalesassi, e<br />

volessila seguire, io la t’insegnerei.<br />

Frate Puccio, divenuto disideroso di questa cosa,<br />

prima cominciò ’a pregare con grandissima instanzia<br />

che gliele insegnasse, e poi a giurare che mai, se non<br />

quanto gli piacesse, ad alcuno nol direbbe, affermando<br />

che, se tal fosse che esso seguir la potesse,<br />

di mettervisi.<br />

– Poi che tu così mi prometti, – disse il monaco – e<br />

io la ti mosterrò . tu dei sapere che i santi dottori<br />

tengono che a chi vuol divenir beato si convien fare<br />

la penitenzia che tu udirai; ma intendi sanamente: io<br />

non dico, che dopo la penitenzia tu non sii peccatore<br />

come tu ti se’; ma avverrà questo, che i peccati che<br />

tu hai infino all’ora della penitenzia fatti, tutti si purgheranno<br />

e sarannoti per quella perdonati; e quegli<br />

che tu farai poi non saranno scritti a tua <strong>da</strong>nnazione,<br />

anzi se n’andranno con l’acqua benedetta, come ora<br />

fanno i veniali.<br />

conviensi adunque l’uomo principalmente con gran<br />

diligenzia confessare de’ suoi peccati quando viene<br />

a cominciar la penitenzia; e appresso questo li convien<br />

cominciare un digiuno e una astinenzia grandissima,<br />

la qual convien che duri quaranta dì, ne’quali,<br />

non che <strong>da</strong> altra femina, ma <strong>da</strong> toccare la propria tua<br />

moglie ti conviene astenere. e oltre a questo si conviene<br />

avere nella tua propria casa alcun luogo donde<br />

tu possi la notte vedere il cielo, e in su l’ora della<br />

compieta an<strong>da</strong>re in questo luogo, e quivi avere una<br />

tavola molto larga ordinata in guisa che, stando tu in<br />

pie’, vi possi le reni appoggiare, e tenendo gli piedi<br />

in terra distender le braccia a guisa di crucifisso; e<br />

se tu quelle volessi appoggiare ad alcun cavigliuolo,


puoil fare; e in questa maniera guar<strong>da</strong>ndo il cielo, star<br />

senza muoverti punto insino a matutino. e, se tu fossi<br />

litterato, ti converrebbe in questo mezzo dire certe<br />

orazioni che io ti <strong>da</strong>rei; ma, perché non se’, ti converrà<br />

dire trecento paternostri con trecento avemarie a<br />

reverenzia della trinità, e riguar<strong>da</strong>ndo il cielo, sempre<br />

aver nella memoria iddio essere stato creatore<br />

del cielo e della terra, e la passion di cristo, stando<br />

in quella maniera che stette egli in su la croce.<br />

Poi, come matutino suona, te ne puoi, se tu vuogli,<br />

an<strong>da</strong>re e così vestito gittarti sopra ’l letto tuo e<br />

dormire: e la mattina appresso si vuole an<strong>da</strong>re alla<br />

chiesa, e quivi udire almeno tre messe e dir cinquanta<br />

paternostri con altrettante avemarie; e appresso<br />

questo con simplicità fare alcuni tuoi fatti, se a far<br />

n’hai alcuno, e poi desinare, ed essere appresso al<br />

vespro nella chiesa e quivi dire certe orazioni che io<br />

ti <strong>da</strong>rò scritte, senza le quali non si può fare; e poi<br />

in su la compieta ritornare al modo detto. e faccendo<br />

questo, sì come io feci già, spero che anzi che la<br />

fine della penitenzia venga, tu sentirai maravigliosa<br />

cosa della beatitudine etterna, se con divozione fatta<br />

l’avrai.<br />

Frate Puccio disse allora:<br />

– Questa non è troppo grave cosa, né troppo lunga, e<br />

deesi assai ben poter fare; e per ciò io voglio al nome<br />

di dio cominciar domenica.<br />

e <strong>da</strong> lui partitosene e an<strong>da</strong>tosene a casa, ordinatamente,<br />

con sua licenzia perciò, alla moglie disse ogni<br />

cosa.<br />

La donna intese troppo bene per lo star fermo infino<br />

a matutino senza muoversi ciò che il monaco voleva<br />

dire; per che, parendole assai buon modo, disse che<br />

di questo e d’ogn’altro bene, che egli per l’anima sua<br />

faceva, ella era contenta, e che, acciò che iddio gli facesse<br />

la sua penitenzia <strong>prof</strong>ittevole, ella voleva con<br />

esso lui digiunare, ma fare altro no.<br />

rimasi adunque in concordia, venuta la domenica,<br />

frate Puccio cominciò la sua penitenzia, e messer<br />

lo monaco, convenutosi colla donna, ad ora che veduto<br />

non poteva essere, le più delle sere con lei se<br />

ne veniva a cenare, seco sempre recando e ben <strong>da</strong><br />

mangiare e ben <strong>da</strong> bere, poi con lei si giaceva infino<br />

all’ora del matutino, al quale levandosi se n’an<strong>da</strong>va,<br />

e frate Puccio tornava al letto.<br />

era il luogo, il quale frate Puccio aveva alla sua penitenzia<br />

eletto, allato alla camera nella quale giaceva<br />

la donna, né <strong>da</strong> altro era <strong>da</strong> quella diviso che <strong>da</strong> un<br />

sottilissimo muro; per che, ruzzando messer lo monaco<br />

troppo colla donna alla scapestrata ed ella con<br />

lui, parve a frate Puccio sentire alcuno dimenamento<br />

di palco della casa; di che, avendo già detti cento de’<br />

suoi paternostri, fatto punto quivi, chiamò la donna<br />

senza muoversi, e domandolla ciò che ella faceva.<br />

La donna, che motteggevole era molto, forse cavalcando<br />

allora senza sella la bestia di san benedetto o<br />

vero di san Giovanni Gualberto, rispose:<br />

– Gnaffe, marito mio, io mi dimeno quanto io posso.<br />

disse allora frate Puccio:<br />

– come ti dimeni? che vuol dir questo dimenare?<br />

La donna ridendo, che e di buona aria e valente donna<br />

era, e forse avendo cagion di ridere, rispose:<br />

– come non sapete voi quello che questo vuol dire?<br />

ora io ve l’ho udito dire mille volte: chi la sera non<br />

cena, tutta notte si dimena.<br />

credettesi frate Puccio che il digiunare, il quale ella<br />

a lui mostrava di fare, le fosse cagione di non poter<br />

dormire, e per ciò per lo letto si dimenasse, per che<br />

egli di buona fede disse<br />

– donna, io t’ho ben detto, non digiunare; ma, poiché<br />

pur l’hai voluto fare, non pensare a ciò, pensa di riposarti;<br />

tu <strong>da</strong>i tali volte per lo letto, che tu fai dimenar<br />

ciò che ci e’.<br />

disse allora la donna:<br />

– non ve ne caglia no; io so ben ciò ch’i’mi fo; fate pur<br />

ben voi, ché io farò bene io, se io potrò .<br />

Stettesi adunque cheto frate Puccio e rimise mano à<br />

suoi paternostri; e la donna e messer lo monaco <strong>da</strong><br />

questa notte innanzi, fatto in altra parte della casa<br />

ordinare un letto, in quello, quanto durava il tempo<br />

della penitenzia di frate Puccio, con grandissima festa<br />

si stavano, e ad una ora il monaco se n’an<strong>da</strong>va<br />

e la donna al suo letto tornava, e poco stante <strong>da</strong>lla<br />

penitenzia a quello se ne venia frate Puccio.<br />

continuando adunque in così fatta maniera il frate la<br />

penitenzia e la donna col monaco il suo diletto, più<br />

volte motteggiando disse con lui:<br />

– tu fai fare la penitenzia a frate Puccio, per la quale<br />

noi abbiam gua<strong>da</strong>gnato il paradiso.<br />

e parendo molto bene stare alla donna, sì s’avvezzò<br />

à cibi del monaco che, essendo <strong>da</strong>l marito lungamente<br />

stata tenuta in dieta, ancora che la penitenzia di<br />

frate Puccio si consumasse, modo trovò di cibarsi in<br />

altra parte con lui, e con discrezione lungamente ne<br />

prese il suo piacere.<br />

di che, acciò che l’ultime parole non sieno discor<strong>da</strong>nti<br />

alle prime, avvenne che, dove frate Puccio,<br />

faccendo penitenzia sé credette mettere in paradiso,<br />

egli vi mise il monaco, che <strong>da</strong> an<strong>da</strong>rvi tosto gli<br />

avea mostrata la via, e la moglie, che con lui in gran<br />

necessità vivea di ciò che messer lo monaco, come<br />

misericordioso, gran divizia le fece.<br />

Giornata terza – Novella decima<br />

Alibech diviene romita, a cui Rustico monaco insegna rimettere il<br />

diavolo in inferno; poi, quindi tolta, diventa moglie di Neerbale.<br />

dioneo, che diligentemente la novella della reina<br />

ascoltata avea, sentendo che finita era e che a lui<br />

solo restava il dire, senza coman<strong>da</strong>mento aspettare,<br />

sorridendo cominciò a dire.<br />

Graziose donne, voi non udiste forse mai dire come il<br />

diavolo si rimetta in inferno; e per ciò, senza partirmi<br />

guari <strong>da</strong>llo effetto che voi tutto questo dì ragionato<br />

avete, io il vi vo’dire; forse ancora ne potrete gua<strong>da</strong>gnare<br />

l’anima avendolo apparato, e potrete anche<br />

conoscere che, quantunque amore i lieti palagi e le<br />

morbide camere più volentieri che le povere capanne<br />

abiti, non è egli per ciò che alcuna volta esso fra’ folti<br />

boschi e fra le rigide alpi e nelle diserte spelunche<br />

non faccia le sue forze sentire; il perché comprender<br />

si può alla sua potenza essere ogni cosa suggetta.<br />

adunque, venendo al fatto, dico che nella città di<br />

capsa in barberia fu già un ricchissimo uomo, il quale


tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella<br />

e gentilesca, il cui nome fu alibech. La quale, non<br />

essendo cristiana e udendo a molti cristiani che nella<br />

città erano molto commen<strong>da</strong>re la cristiana fede e il<br />

servire a dio, un dì ne domandò alcuno in che maniera<br />

e con meno impedimento a dio si potesse servire.<br />

il quale le rispose che coloro meglio a dio servivano<br />

che più delle cose del mondo fuggivano, come coloro<br />

facevano che nelle solitudini de’ diserti di tebai<strong>da</strong><br />

an<strong>da</strong>ti se n’erano.<br />

La giovane, che semplicissima era e d’età forse di<br />

quattordici anni, non <strong>da</strong> ordinato disidero ma <strong>da</strong> un<br />

cotal fanciullesco appetito mossa, senza altro farne<br />

ad alcuna persona sentire, la seguente mattina ad<br />

an<strong>da</strong>r verso il diserto di tebai<strong>da</strong> nascosamente tutta<br />

sola si mise; e con gran fatica di lei, durando l’appetito,<br />

dopo alcun dì a quelle solitudini pervenne; e veduta<br />

di lontano una casetta, a quella n’andò, dove un<br />

santo uomo trovò sopra l’uscio, il quale, maravigliandosi<br />

di quivi vederla, la domandò quello che ella an<strong>da</strong>sse<br />

cercando. La quale rispose, che, spirata <strong>da</strong> dio<br />

an<strong>da</strong>va cercando d’essere al suo servigio, e ancora<br />

chi le ’nsegnasse come servire gli si conveniva.<br />

il valente uomo, veggendola giovane e assai bella,<br />

temendo non il demonio, se egli la ritenesse, lo<br />

’ngannasse, le commendò la sua buona disposizione;<br />

e <strong>da</strong>ndole alquanto <strong>da</strong> mangiare radici d’erbe e<br />

pomi salvatichi e <strong>da</strong>tteri e bere acqua, le disse:<br />

– Figliuola mia, non guari lontan di qui è un santo<br />

uomo, il quale di ciò che tu vai cercando è molto migliore<br />

maestro che io non sono; a lui te n’andrai – ; e<br />

misela nella via.<br />

ed ella, pervenuta a lui e avute <strong>da</strong> lui queste medesime<br />

parole, an<strong>da</strong>ta più avanti, pervenne alla cella<br />

d’uno romito giovane, assai divota persona e buona,<br />

il cui nome era rustico, e quella diman<strong>da</strong> gli fece che<br />

agli altri aveva fatta. il quale, per volere fare della<br />

sua fermezza una gran pruova, non come gli altri la<br />

mandò via o più avanti, ma seco la ritenne nella sua<br />

cella; e venuta la notte, un lettuccio di frondi di palma<br />

le fece <strong>da</strong> una parte e sopra quello le disse si<br />

riposasse.<br />

Questo fatto, non preser guari d’indugio le tentazioni<br />

a <strong>da</strong>r battaglia alle forze di costui; il quale, trovandosi<br />

di gran lunga ingannato <strong>da</strong> quelle, senza troppi<br />

assalti voltò le spalle e rendessi per vinto; e lasciati<br />

stare <strong>da</strong>ll’una delle parti i pensier santi e l’orazioni e<br />

le discipline, a recarsi per la memoria la giovinezza<br />

e la bellezza di costei ’ncominciò, e oltre a questo a<br />

pensar che via e che modo egli dovesse con lei tenere,<br />

acciò che essa non s’accorgesse lui come uomo<br />

dissoluto pervenire a quello che egli di lei disiderava.<br />

e tentato primieramente con certe domande, lei<br />

non aver mai uomo conosciuto conobbe e così essere<br />

semplice come parea; per che s’avvisò come, sotto<br />

spezie di servire a dio, lei dovesse recare a’ suoi<br />

piaceri. e primieramente con molte parole le mostrò<br />

quanto il diavolo fosse nemico di domeneddio; e appresso<br />

le diede ad intendere che quello servigio che<br />

più si poteva far grato a dio si era rimettere il diavolo<br />

in inferno, nel quale domeneddio l’aveva <strong>da</strong>nnato.<br />

La giovinetta il domandò, come questo si facesse.<br />

alla quale rustico disse:<br />

– tu il saprai tosto, e perciò farai quello che a me<br />

far vedrai – ; e cominciossi a spogliare quegli pochi<br />

vestimenti che aveva, e rimase tutto ignudo, e così<br />

ancora fece la fanciulla, e posesi ginocchione a guisa<br />

che adorar volesse e dirimpetto a sé fece star lei.<br />

e così stando, essendo rustico più che mai nel suo<br />

disidero acceso per lo vederla così bella, venne la<br />

resurrezion della carne, la quale riguar<strong>da</strong>ndo alibech<br />

e maravigliatasi, disse:<br />

– rustico, quella che cosa è che io ti veggio che così<br />

si pigne in fuori, e non l’ho io?<br />

– o figliuola mia, – disse rustico – questo è il diavolo<br />

di che io t’ho parlato. e vedi tu? ora egli mi dà<br />

grandissima molestia, tanta che io appena la posso<br />

sofferire.<br />

allora disse la giovane:<br />

– oh lo<strong>da</strong>to sia iddio, ché io veggio che io sto meglio<br />

che non stai tu, ché io non ho cotesto diavolo io.<br />

disse rustico:<br />

– tu di’vero, ma tu hai un’altra cosa che non la ho io,<br />

e haila in iscambio di questo.<br />

disse alibech: – o che?<br />

a cui rustico disse:<br />

– Hai il ninferno; e dicoti che io mi credo che iddio<br />

t’abbia qui man<strong>da</strong>ta per la salute della anima mia,<br />

per ciò che se questo diavolo pur mi <strong>da</strong>rà questa<br />

noia, ove tu vogli aver di me tanta pietà e sofferire<br />

che io in inferno il rimetta, tu mi <strong>da</strong>rai grandissima<br />

consolazione e a dio farai grandissimo piacere e servigio,<br />

se tu per quello fare in queste parti venuta se’,<br />

che tu di’.<br />

La giovane di buona fede rispose:<br />

– o padre mio, poscia che io ho il ninferno, sia pure<br />

quando vi piacerà.<br />

disse allora rustico:<br />

– Figliuola mia, benedetta sia tu; andiamo dunque, e<br />

rimettiamlovi sì che egli poscia mi lasci stare.<br />

e così detto, menata la giovane sopra uno de’ loro<br />

letticelli, le ’nsegnò come star si dovesse a dovere<br />

incarcerare quel maladetto <strong>da</strong> dio.<br />

La giovane, che mai più non aveva in inferno messo<br />

diavolo alcuno, per la prima volta sentì un poco di<br />

noia, per che ella disse a rustico:<br />

– Per certo, padre mio, mala cosa dee essere questo<br />

diavolo, e veramente nimico di dio, ché ancora al<br />

ninferno, non che altrui, duole quando egli v’è dentro<br />

rimesso.<br />

disse rustico:<br />

– Figliuola, egli non avverrà sempre così.<br />

e per fare che questo non avvenisse, <strong>da</strong> sei volte,<br />

anzi che di su il letticel si movessero, ve ’l rimisero,<br />

tanto che per quella volta gli trasser sì la superbia<br />

del capo, che egli si stette volentieri in pace.<br />

Ma, ritornatagli poi nel seguente tempo più volte, e<br />

la giovane ubbidiente sempre a trargliele si disponesse,<br />

avvenne che il giuoco le cominciò a piacere, e<br />

cominciò a dire a rustico:<br />

– ben veggio che il ver dicevano que’valentuomini<br />

in capsa, che il servire a dio era così dolce cosa; e<br />

per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra ne<br />

facessi che di tanto diletto e piacer mi fosse, quanto


è il rimetter il diavolo in inferno; e per ciò io giudico<br />

ogn’altra persona, che ad altro che a servire a dio attende,<br />

essere una bestia.<br />

Per la qual cosa essa spesse volte an<strong>da</strong>va a rustico,<br />

e gli dicea:<br />

– Padre mio, io son qui venuta per servire a dio e<br />

non per istare oziosa; andiamo a rimettere il diavolo<br />

in inferno.<br />

La qual cosa faccendo, diceva ella alcuna volta:<br />

– rustico, io non so perché il diavolo si fugga del ninferno;<br />

ché, s’egli vi stesse così volentieri come il ninferno<br />

il riceve e tiene, egli non se ne uscirebbe mai.<br />

così adunque invitando spesso la giovane rustico e<br />

al servigio di dio confortandolo, sì la bambagia del<br />

farsetto tratta gli avea, che egli a tal ora sentiva freddo<br />

che un altro sarebbe su<strong>da</strong>to; e per ciò egli incominciò<br />

a dire alla giovane che il diavolo non era <strong>da</strong><br />

gastigare né <strong>da</strong> rimettere in inferno se non quando<br />

egli per superbia levasse il capo: – e noi per la grazia<br />

di dio l’abbiamo sì sgannato, che egli priega iddio di<br />

starsi in pace – ; e così alquanto impose di silenzio<br />

alla giovane.<br />

La qual, poi che vide che rustico più non la richiedeva<br />

a dovere il diavolo rimettere in inferno, gli disse<br />

un giorno:<br />

– rustico, se il diavolo tuo è gastigato e più non ti<br />

dà noia, me il mio ninferno non lascia stare; per che<br />

tu farai bene che tu col tuo diavolo aiuti attutare la<br />

rabbia al mio ninferno, com’io col mio ninferno ho<br />

aiutato a trarre la superbia al tuo diavolo.<br />

rustico, che di radici d’erba e d’acqua vivea, poteva<br />

male rispondere alle poste; e dissele che troppi diavoli<br />

vorrebbono essere a potere il ninferno attutare,<br />

ma che egli ne farebbe ciò che per lui si potesse; e<br />

così alcuna volta le sodisfaceva, ma sì era di rado,<br />

che altro non era che gittare una fava in bocca al leone;<br />

di che la giovane, non parendole tanto servire a<br />

dio quanto voleva, mormorava anzi che no.<br />

Ma, mentre che tra il diavolo di rustico e il ninferno<br />

d’alibech era, per troppo disiderio e per men potere,<br />

questa quistione, avvenne che un fuoco s’apprese<br />

in capsa, il quale nella propria casa arse il padre<br />

d’alibech con quanti figliuoli e altra famiglia avea;<br />

per la qual cosa alibech d’ogni suo bene rimase erede.<br />

Laonde un giovane chiamato neerbale, avendo<br />

in cortesia tutte le sue facultà spese, sentendo costei<br />

esser viva, messosi a cercarla e ritrovatala avanti che<br />

la corte i beni stati del padre, sì come d’uomo senza<br />

erede morto, occupasse, con gran piacere di rustico<br />

e contra al volere di lei la rimenò in capsa e per moglie<br />

la prese, e con lei insieme del gran patrimonio<br />

divenne erede. Ma, essendo ella doman<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>lle<br />

donne di che nel diserto servisse a dio, non essendo<br />

ancor neerbale giaciuto con lei, rispose che il serviva<br />

di rimettere il diavolo in inferno, e che neerbale<br />

aveva fatto gran peccato d’averla tolta <strong>da</strong> così fatto<br />

servigio.<br />

Le donne doman<strong>da</strong>rono: – come si rimette il diavolo<br />

in inferno?<br />

La giovane, tra con parole e con atti, il mostrò loro.<br />

di che esse fecero sì gran risa che ancor ridono, e<br />

dissono:<br />

– non ti <strong>da</strong>r malinconia, figliuola, no, ché egli si fa<br />

bene anche qua; neerbale ne servirà bene con esso<br />

teco domeneddio.<br />

Poi l’una all’altra per la città ridicendolo, vi ridussono<br />

in volgar motto che il più piacevol servigio che a dio<br />

si facesse era il rimettere il diavolo in inferno; il qual<br />

motto passato di qua <strong>da</strong> mare ancora dura.<br />

e per ciò voi, giovani donne, alle quali la grazia di dio<br />

bisogna, apparate a rimettere il diavolo in inferno,<br />

per ciò che egli è forte a grado a dio e piacer delle<br />

parti, e molto bene ne può nascere e seguire.<br />

Giornata quarta – Novella secon<strong>da</strong><br />

Frate Alberto dà a vedere ad una donna che l’Agnolo Gabriello<br />

è di lei innamorato, in forma del quale più volte si giace con lei;<br />

poi, per paura de’ parenti di lei della casa gittatosi, in casa d’uno<br />

povero uomo ricovera, il quale in forma d’uomo salvatico il dì<br />

seguente nella piazza il mena, dove, riconosciuto, è <strong>da</strong>’ suoi frati<br />

preso e incarcerato.<br />

[…]<br />

Pampinea, a sé sentendo il coman<strong>da</strong>mento venuto,<br />

più per la sua affezione cognobbe l’animo delle compagne<br />

che quello del re per le sue parole, e per ciò,<br />

più disposta a dovere al quanto recrear loro che a<br />

dovere, fuori che del coman<strong>da</strong>mento solo, il re contentare,<br />

a dire una novella, senza uscir del proposto,<br />

<strong>da</strong> ridere si dispose, e cominciò.<br />

Usano i volgari un così fatto proverbio: – chi è reo e<br />

buono è tenuto, può fare il male e non è creduto –.<br />

il quale ampia materia a ciò che m’è stato proposto<br />

mi presta di favellare, e ancora a dimostrare quanta<br />

e quale sia la ipocresia de’ religiosi, li quali, co’ panni<br />

larghi e lunghi e co’ visi artificialmente pallidi e con le<br />

voci umili e mansuete nel doman<strong>da</strong>r l’altrui, e altissime<br />

e rubeste in mordere negli altri li loro medesimi<br />

vizi e nel mostrare sé per torre e altri per lor donare<br />

venire a salvazione, e oltre a ciò, non come uomini<br />

che il paradiso abbiano a procacciare come noi, ma<br />

quasi come possessori e signori di quello, <strong>da</strong>nti a ciaschedun<br />

che muore, secondo la quantità de’ <strong>da</strong>nari<br />

loro lasciata <strong>da</strong> lui, più e meno eccellente luogo, con<br />

questo prima sé medesimi, se così credono, e poscia<br />

coloro che in ciò alle loro parole <strong>da</strong>n fede, sforzansi<br />

d’ingannare. de’ quali, se quanto si convenisse fosse<br />

licito a me di mostrare, tosto dichiarerei a molti semplici<br />

quello che nelle lor cappe larghissime tengon<br />

nascoso. Ma ora fosse piacer di dio che così delle lor<br />

bugie a tutti intervenisse, come ad un frate minore,<br />

non miga giovane, ma di quelli che de’ maggior ch’ha<br />

ascesi era tenuto a Vinegia; del quale sommamente<br />

mi piace di raccontare, per alquanto gli animi vostri,<br />

pieni di compassione per la morte di Ghismon<strong>da</strong>,<br />

forse con risa e con piacere rilevare.<br />

Fu adunque, valorose donne, in imola uno uomo di<br />

scelerata vita e di corrotta, il qual fu chiamato berto<br />

della Massa; le cui vituperose opere molto <strong>da</strong>gli<br />

imolesi conosciute a tanto il recarono che, non che la<br />

bugia, ma la verità non era in imola chi gli credesse;<br />

per che, accorgendosi quivi più le sue gherminelle<br />

non aver luogo, come disperato, a Vinegia d’ogni<br />

bruttura ricevitrice si trasmutò, e quivi pensò di tro­


vare altra maniera al suo malvagio adoperare che<br />

fatto non avea in altra parte. e, quasi <strong>da</strong> conscienzia<br />

rimorso delle malvagie opere nel preterito fatte <strong>da</strong><br />

lui, <strong>da</strong> somma umiltà soprapreso mostrando si, e oltre<br />

ad ogni altro uomo divenuto catolico, andò e sì<br />

si fece frate minore, e fecesi chiamare frate alberto<br />

<strong>da</strong> imola; e in tale abito cominciò a far per sembianti<br />

una aspra vita e a commen<strong>da</strong>r molto la penitenzia e<br />

l’astinenzia, né mai carne mangiava né bevea vino,<br />

quando non n’avea che gli piacesse.<br />

né se ne fu appena avveduto alcuno, che di ladrone,<br />

di ruffiano, di falsario, d’omici<strong>da</strong>, subitamente<br />

fu un gran predicatore divenuto, senza aver per ciò i<br />

predetti vizi abbandonati, quando nascosamente gli<br />

avesse potuti mettere in opera. e oltre a ciò fattosi<br />

prete, sempre all’altare, quando celebrava, se <strong>da</strong><br />

molti veduto era, piagneva la passione del Salvatore,<br />

sì come colui al quale poco costavano le lagrime<br />

quando le volea.<br />

e in brieve, tra colle sue prediche e le sue lagrime,<br />

egli seppe in sì fatta guisa li viniziani adescare, che<br />

egli quasi d’ogni testamento che vi si faceva era fedecommessario<br />

e dipositario, e guar<strong>da</strong>tore di denari<br />

di molti, confessore e consigliatore quasi della maggior<br />

parte degli uomini e delle donne; e così faccendo,<br />

di lupo era divenuto pastore, ed era la sua fama<br />

di santità in quelle parti troppo maggior che mai non<br />

fu di san Francesco ad ascesi.<br />

ora avvenne che una giovane donna bamba e sciocca,<br />

che chiamata fu madonna Lisetta <strong>da</strong> ca’ Quirino,<br />

moglie d’un gran mercatante che era an<strong>da</strong>to con le<br />

galee in Fiandra, s’andò con altre donne a confessar<br />

<strong>da</strong> questo santo frate. La quale essendogli a’ piedi, sì<br />

come colei che viniziana era, ed essi son tutti bergoli,<br />

avendo parte detta de’ fatti suoi, fu <strong>da</strong> frate alberto<br />

addoman<strong>da</strong>ta se alcuno amadore avesse.<br />

al quale ella con un mal viso rispose:<br />

– deh, messere lo frate, non avete voi occhi in capo?<br />

Paionvi le mie bellezze fatte come quelle di queste<br />

altre? troppi n’avrei degli amadori, se io ne volessi;<br />

ma non sono le mie bellezze <strong>da</strong> lasciare amare né<br />

<strong>da</strong> tale né <strong>da</strong> quale. Quante ce ne vedete voi, le cui<br />

bellezze sien fatte come le mie, che sarei bella nel<br />

paradiso?<br />

e oltre a ciò, disse tante cose di questa sua bellezza,<br />

che fu un fastidio ad udire.<br />

Frate alberto conobbe incontanente che costei sentia<br />

dello scemo e, parendogli terreno <strong>da</strong>’ ferri suoi,<br />

di lei subitamente e oltre modo s’innamorò; ma, riserbandosi<br />

in più comodo tempo le lusinghe, pur,<br />

per mostrarsi santo, quella volta cominciò a volerla<br />

riprendere e a dirle che questa era vanagloria, e altre<br />

sue novelle; per che la donna gli disse che egli era<br />

una bestia e che egli non conosceva che si fosse più<br />

una bellezza che un’altra. Per che frate alberto, non<br />

volendola troppo turbare, fattale la confessione, la<br />

lasciò an<strong>da</strong>r via con l’altre.<br />

e stato alquanti dì, preso un suo fido compagno, n’andò<br />

a casa madonna Lisetta, e trattosi <strong>da</strong> una parte in<br />

una sala con lei e non potendo <strong>da</strong> altri esser veduto,<br />

le si gittò <strong>da</strong>vanti ginocchione e disse:<br />

– Madonna, io vi priego per dio che voi mi perdo­<br />

niate di ciò che io domenica, ragionandomi voi della<br />

vostra bellezza, vi dissi, per ciò che sì fieramente la<br />

notte seguente gastigato ne fui, che mai poscia <strong>da</strong><br />

giacere non mi son potuto levar se non oggi.<br />

disse allora donna Mestola:<br />

– e chi ve ne gastigò così?<br />

disse frate alberto:<br />

– io il vi dirò. Standomi io la notte in orazione, sì<br />

come io soglio star sempre, io vidi subitamente nella<br />

mia cella un grande splendore, né prima mi pote’volgere<br />

per veder che ciò fosse, che io mi vidi sopra un<br />

giovane bellissimo con un grosso bastone in mano, il<br />

quale, presomi per la cappa e tiratomisi a’ piè, tante<br />

mi diè che tutto mi ruppe. il quale io appresso<br />

doman<strong>da</strong>i perché ciò fatto avesse, ed egli rispose:<br />

– Per ciò che tu presummesti oggi di riprendere le<br />

celestiali bellezze di madonna Lisetta, la quale io<br />

amo, <strong>da</strong> dio in fuori, sopra ogni altra cosa –. e io allora<br />

doman<strong>da</strong>i: – chi siete voi? – a cui egli rispose che<br />

era l’agnolo Gabriello. – o signor mio –, dissi io – io vi<br />

priego che voi mi perdoniate –. e egli allora disse :– e<br />

io ti perdono per tal convenente, che tu a lei va<strong>da</strong><br />

come tu prima potrai, e facciti perdonare; e dove ella<br />

non ti perdoni, io ci tornerò e <strong>da</strong>rottene tante che<br />

io ti farò tristo per tutto il tempo che tu ci viverai –.<br />

Quello che egli poi mi dicesse, io non ve l’oso dire,<br />

se prima non mi perdonate.<br />

donna zucca al vento, la quale era anzi che no un<br />

poco dolce di sale, godeva tutta udendo queste parole<br />

e verissime tutte le credea, e dopo alquanto<br />

disse:<br />

– io vi diceva bene, frate alberto, che le mie bellezze<br />

eran celestiali; ma, se dio m’aiuti, di voi m’incresce,<br />

e in fino ad ora, acciò che più non vi sia fatto male, io<br />

vi perdono, sì veramente che voi mi diciate ciò che<br />

l’agnolo poi vi disse.<br />

Frate alberto disse:<br />

– Madonna, poi che perdonato m’avete, io il vi dirò<br />

volentieri; ma una cosa vi ricordo, che cosa che io vi<br />

dica voi vi guardiate di non dire ad alcuna persona<br />

che sia nel mondo, se voi non volete guastare i fatti<br />

vostri, che siete la più avventurata donna che oggi<br />

sia al mondo.<br />

Questo agnol Gabriello mi disse che io vi dicessi che<br />

voi gli piacevate tanto, che più volte a starsi con voi<br />

venuto la notte sarebbe, se non fosse per non spaventarvi.<br />

ora vi man<strong>da</strong> egli dicendo per me, che a<br />

voi vuol venire una notte e dimorarsi una pezza con<br />

voi; e per ciò che egli è agnolo e venendo in forma<br />

d’agnolo voi nol potreste toccare, dice che per diletto<br />

di voi vuol venire in forma d’uomo, e per ciò dice<br />

che voi gli mandiate a dire quando volete che egli<br />

venga, e in forma di cui ed egli ci verrà; di che voi, più<br />

che altra donna che viva, tener vi potete beata.<br />

Madonna baderla allora disse che molto le piaceva<br />

se l’agnolo Gabriello l’amava; per ciò che ella amava<br />

ben lui, né era mai che una candela d’un mattapan<br />

non gli accendesse <strong>da</strong>vanti dove dipinto il vedeva;<br />

e che, quale ora egli volesse a lei venire, egli fosse<br />

il ben venuto, ché egli la troverebbe tutta sola nella<br />

sua camera, ma con questo patto, che egli non dovesse<br />

lasciar lei per la Vergine Maria, che l’era detto


che egli le voleva molto bene, e anche si pareva, ché<br />

in ogni luogo che ella il vedeva, le stava ginocchione<br />

innanzi; e oltre a questo, che a lui stesse di venire in<br />

qual forma volesse, purché ella non avesse paura.<br />

allora disse frate alberto:<br />

– Madonna, voi parlate saviamente; e io ordinerò<br />

ben con lui quello che voi mi dite. Ma voi mi potete<br />

fare una gran grazia, e a voi non costerà niente; e la<br />

grazia è questa, che voi vogliate che egli venga con<br />

questo mio corpo. e udite in che voi mi farete grazia:<br />

che egli mi trarrà l’anima mia di corpo e metteralla in<br />

paradiso, ed egli enterrà in me, e quanto egli starà<br />

con voi, tanto si starà l’anima mia in paradiso.<br />

disse allora donna Pocofila:<br />

– ben mi piace; io voglio che, in luogo delle busse<br />

le quali egli vi diede a mie cagioni, che voi abbiate<br />

questa consolazione.<br />

allora disse frate alberto:<br />

– or farete che questa notte egli truovi la porta della<br />

vostra casa per modo che egli possa entrarci, per ciò<br />

che vegnendo in corpo umano, come egli verrà, non<br />

potrebbe entrare se non per l’uscio.<br />

La donna rispose che fatto sarebbe. Frate alberto si<br />

partì, ed ella rimase faccendo sì gran galloria che non<br />

le toccava il cul la camicia, mille anni parendole che<br />

l’agnolo Gabriello a lei venisse.<br />

Frate alberto, pensando che cavaliere, non agnolo,<br />

esser gli convenia la notte, con confetti e altre buone<br />

cose s’incominciò a confortare, acciò che di leggier<br />

non fosse <strong>da</strong> caval gittato. e avuta la licenzia, con uno<br />

compagno, come notte fu, se n’entrò in casa d’una<br />

sua amica, <strong>da</strong>lla quale altra volta aveva prese le mosse<br />

quando an<strong>da</strong>va a correr le giumente; e di quindi,<br />

quando tempo gli parve, trasformato se n’andò a<br />

casa la donna, e in quella entrato, con sue frasche<br />

che portate avea, in agnolo si trasfigurò, e salitosene<br />

suso, se n’entrò nella camera della donna.<br />

La quale, come questa cosa così bianca vide, gli s’inginocchiò<br />

innanzi, e l’agnolo la benedisse e levolla in<br />

piè e fecele segno che a letto s’an<strong>da</strong>sse. il che ella,<br />

volenterosa d’ubbidire, fece prestamente, e l’agnolo<br />

appresso colla sua divota si coricò.<br />

era frate alberto bello uomo del corpo e robusto, e<br />

stavangli troppo bene le gambe in su la persona; per<br />

la qual cosa con donna Lisetta trovandosi, che era<br />

fresca e morbi<strong>da</strong>, altra giacitura faccendole che il marito,<br />

molte volte la notte volò senza ali, di che ella<br />

forte si chiamò per contenta; e oltre a ciò molte cose<br />

le disse della gloria celestiale. Poi, appressandosi<br />

il dì, <strong>da</strong>to ordine al ritornare, co’ suoi arnesi fuor se<br />

n’uscì e tornossi al compagno suo, al quale, acciò che<br />

paura non avesse dormendo solo, aveva la buona femina<br />

della casa fatta amichevole compagnia.<br />

La donna, come desinato ebbe, presa sua compagnia,<br />

se n’andò a frate alberto e novelle gli disse<br />

dello agnolo Gabriello e ciò che <strong>da</strong> lui udito avea<br />

della gloria di vita etterna, e come egli era fatto, aggiugnendo<br />

oltre a questo maravigliose favole.<br />

a cui frate alberto disse:<br />

– Madonna, io non so come voi vi steste con lui; so<br />

io bene che stanotte, vegnendo egli a me e io avendogli<br />

fatta la vostra ambasciata, egli ne portò subi­<br />

tamente l’anima mia tra tanti fiori e tra tante rose,<br />

che mai non se ne videro di qua tante, e stettimi in<br />

uno de’ più dilettevoli luoghi che fosse mai infino a<br />

stamane a matutino; quello che il mio corpo si divenisse,<br />

io non so.<br />

– non ve ’l dich’io? – disse la donna – il vostro corpo<br />

stette tutta notte in braccio mio con l’agnol Gabriello;<br />

e se voi non mi credete, guateretevi sotto la poppa<br />

manca là dove io diedi un grandissimo bacio all’agnolo,<br />

tale che egli vi si parrà il segnale parecchi dì.<br />

disse allora frate alberto:<br />

– ben farò oggi una cosa che io non feci già è gran<br />

tempo più, che io mi spoglierò per vedere se. voi<br />

dite il vero.<br />

e dopo molto cianciare la donna se ne tornò a casa;<br />

alla quale in forma d’agnolo frate alberto andò poi<br />

molte volte senza alcuno impedimento ricevere.<br />

Pure avvenne un giorno che, essendo madonna Lisetta<br />

con una sua comare e insieme di bellezze quistionando,<br />

per porre la sua innanzi ad ogn’altra, sì<br />

come colei che poco sale aveva in zucca, disse:<br />

– Se voi sapeste a cui la mia bellezza piace, in verità<br />

voi tacereste dell’altre.<br />

La comare, vaga d’udire, sì come colei che ben la conoscea,<br />

disse:<br />

– Madonna, voi potreste dir vero, ma tuttavia, non<br />

sappiendo chi questi si sia, altri non si rivolgerebbe<br />

così di leggiero.<br />

allora la donna, che piccola levatura avea, disse:<br />

– comare, egli non si vuol dire, ma lo ’ntendimento<br />

mio è l’agnolo Gabriello, il quale più che sé m’ama, sì<br />

come la più bella donna, per quello che egli mi dica,<br />

che sia nel mondo o in maremma.<br />

La comare ebbe allora voglia di ridere, ma pur si tenne<br />

per farla più avanti parlare, e disse:<br />

– in fè di dio, madonna, se l’agnolo Gabriello è vostro<br />

intendimento e dicevi questo, egli dee bene esser<br />

così; ma io non credeva che gli agnoli facesson<br />

queste cose.<br />

disse la donna:<br />

– comare, voi siete errata; per le plaghe di dio, egli il<br />

fa meglio che mio marido, e dicemi che egli si fa anche<br />

colassù; ma, per ciò che io gli paio più bella che<br />

niuna che ne sia in cielo, s’è egli innamorato di me e<br />

viensene a star meco bene spesso; mo vedì vu?<br />

La comare, partita <strong>da</strong> madonna Lisetta, le parve<br />

mille anni che ella fosse in parte ove ella potesse<br />

queste cose ridire; e ragunatasi ad una festa con una<br />

gran brigata di donne, loro ordinatamente raccontò la<br />

novella. Queste donne il dissero a’ mariti e ad altre<br />

donne, e quelle a quell’altre, e così in meno di due<br />

dì ne fu tutta ripiena Vinegia. Ma tra gli altri a’ quali<br />

questa cosa venne agli orecchi furono i cognati di lei,<br />

li quali, senza alcuna cosa dirle, si posero in cuore<br />

di trovare questo agnolo e di sapere se egli sapesse<br />

volare; e più notti stettero in posta.<br />

avvenne che di questo fatto alcuna novelluzza ne<br />

venne a frate alberto agli orecchi; il quale, per riprender<br />

la donna, una notte an<strong>da</strong>tovi, appena spogliato<br />

s’era, che i cognati di lei, che veduto l’avevan venire,<br />

furono all’uscio della sua camera per aprirlo. il che<br />

frate alberto sentendo, e avvisato ciò che era, leva­


tosi, non veggendo altro rifugio, aperse una finestra<br />

la qual sopra il maggior canal rispondea, e quindi si<br />

gittò nell’acqua.<br />

il fondo v’era grande ed egli sapeva ben notare, sì<br />

che male alcun non si fece; e, notato <strong>da</strong>ll’altra parte<br />

del canale, in una casa che aperta v’era prestamente<br />

se n’entrò, pregando un buono uomo che dentro<br />

v’era che per l’amor di dio gli scampasse la vita, sue<br />

favole dicendo perché quivi a quella ora e ignudo<br />

fosse.<br />

il buono uomo, mosso a pietà, convenendogli an<strong>da</strong>re<br />

a far sue bisogne, nel suo letto il mise, e dissegli che<br />

quivi infino alla sua tornata si stesse; e dentro serratolo,<br />

andò a fare i fatti suoi.<br />

i cognati della donna entrati nella camera trovarono<br />

che l’agnolo Gabriello, quivi avendo lasciate l’ali, se<br />

n’era volato; di che quasi scornati grandissima villania<br />

dissero alla donna, e lei ultimamente sconsolata<br />

lasciarono stare e a casa lor tornarsi con gli arnesi<br />

dello agnolo.<br />

in questo mezzo, fattosi il dì chiaro, essendo il buono<br />

uomo in sul rialto, udì dire come l’agnolo Gabriello<br />

era la notte an<strong>da</strong>to a giacere con madonna Lisetta<br />

e <strong>da</strong>’ cognati trovatovi, s’era per paura gittato nel<br />

canale, né si sapeva che divenuto se ne fosse; per<br />

che prestamente s’avvisò colui che in casa avea esser<br />

desso. e là venutosene e riconosciutolo, dopo molte<br />

novelle, con lui trovò modo che, s’egli non volesse<br />

che a’ cognati di lei il desse, gli facesse venire cinquanta<br />

ducati; e così fu fatto.<br />

e appresso questo, disiderando frate alberto d’uscir<br />

di quindi, gli disse il buono uomo:<br />

– Qui non ha modo alcuno, se già in uno non voleste.<br />

noi facciamo oggi una festa, nella quale chi mena<br />

uno uomo vestito a modo d’orso e chi a guisa d’uom<br />

salvatico, e chi d’una cosa e chi d’un’altra, e in su la<br />

piazza di San Marco si fa una caccia, la qual fornita, è<br />

finita la festa; e poi ciascun va, con quel che menato<br />

ha, dove gli piace. Se voi volete, anzi che spiar si possa<br />

che voi siate qui, che io in alcun di questi modi vi<br />

meni, io vi potrò menare dove voi vorrete; altramenti<br />

non veggio come uscirci possiate che conosciuto non<br />

siate; e i cognati della donna, avvisando che voi in<br />

alcun luogo quincentro siate, per tutto hanno messe<br />

le guardie per avervi.<br />

come che duro paresse a frate alberto l’an<strong>da</strong>re in cotal<br />

guisa, pur per la paura che aveva de’ parenti della<br />

donna vi si condusse, e disse a costui dove voleva<br />

esser menato, e come il menasse era contento.<br />

costui, avendol già tutto unto di mele ed empiuto di<br />

sopra di penna matta, e messagli una catena in gola<br />

e una maschera in capo, e <strong>da</strong>togli <strong>da</strong>ll’una mano un<br />

gran bastone e <strong>da</strong>ll’altra due gran cani, che <strong>da</strong>l macello<br />

avea menati, mandò uno al rialto, che bandisse<br />

che chi volesse veder l’agnolo Gabriello an<strong>da</strong>sse in<br />

su la piazza di San Marco: e fu lealtà viniziana questa.<br />

e questo fatto, dopo alquanto il menò fuori e miseselo<br />

innanzi, e an<strong>da</strong>ndol tenendo per la catena di<br />

dietro, non senza gran romore di molti, che tutti diceano:<br />

– che xè quel? che xè quel? – il condusse in<br />

su la piazza, dove tra quegli che venuti gli eran dietro<br />

e quegli ancora che, udito il bando, <strong>da</strong> rialto venuti<br />

v’erano, erano gente senza fine. Questi là pervenuto,<br />

in luogo rilevato e alto legò il suo uomo salvatico ad<br />

una colonna, sembianti faccendo d’attendere la caccia;<br />

al quale le mosche e’tafani, per ciò che di mele<br />

era unto, <strong>da</strong>van grandissima noia.<br />

Ma poi che costui vide piazza ben piena, faccendo<br />

sembianti di volere scatenare il suo uom salvatico, a<br />

frate alberto trasse la maschera dicendo:<br />

– Signori, poi che il porco non viene alla caccia, e non<br />

si fa, acciò che voi non siate venuti in vano, io voglio<br />

che voi veggiate l’agnolo Gabriello, il quale di cielo<br />

in terra discende la notte a consolare le donne viniziane.<br />

come la maschera fu fuori, così fu frate alberto incontanente<br />

<strong>da</strong> tutti conosciuto; contro al quale si levaron<br />

le gri<strong>da</strong> di tutti, dicendogli le più vituperose parole<br />

e la maggior villania che mai ad alcun ghiotton si<br />

dicesse, e oltre a questo per lo viso gettandogli chi<br />

una lordura e chi un’altra; e così grandissimo spazio il<br />

tennero, tanto che per ventura la novella a’ suoi frati<br />

pervenuta, infino a sei di loro mossisi quivi vennero,<br />

e gittatagli una cappa in dosso e scatenatolo, non<br />

senza grandissimo romor dietro, infino a casa loro nel<br />

menarono, dove, incarceratolo, dopo misera vita si<br />

crede che egli morisse.<br />

così costui, tenuto buono e male adoperando non<br />

essendo creduto, ardì di farsi l’agnolo Gabriello, e di<br />

questo in un uom salvatico convertito, a lungo an<strong>da</strong>re,<br />

come meritato avea, vituperato senza pro pianse<br />

i peccati commessi. così piaccia a dio che a tutti gli<br />

altri possa intervenire.<br />

Giornata sesta – Novella decima<br />

Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna<br />

dell’agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli<br />

dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.<br />

essendo ciascuno della brigata della sua novella<br />

riuscito, conobbe dioneo che a lui toccava il dover<br />

dire; per la qual cosa, senza troppo solenne coman<strong>da</strong>mento<br />

aspettare, imposto silenzio a quegli che il<br />

sentito motto di Guido lo<strong>da</strong>vano, incominciò:<br />

Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio<br />

di poter di quel che più mi piace parlare, oggi io non<br />

intendo di volere <strong>da</strong> quella materia separarmi della<br />

qual voi tutte avete assai acconciamente parlato; ma,<br />

seguitando le vostre pe<strong>da</strong>te, intendo di mostrarvi<br />

quanto cautamente con subito riparo uno de’ frati di<br />

santo antonio fuggisse uno scorno che <strong>da</strong> due giovani<br />

apparecchiato gli era. né vi dovrà esser grave<br />

perché io, per ben dir la novella compiuta, alquanto<br />

in parlar mi disten<strong>da</strong>, se al sol guarderete il qual è<br />

ancora a mezzo il cielo.<br />

certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un castel<br />

di Val d’elsa posto nel nostro contado, il quale,<br />

quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d’agiati<br />

fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi<br />

trovava, usò un lungo tempo d’an<strong>da</strong>re ogni anno una<br />

volta a ricoglier le limosine fatte loro <strong>da</strong>gli sciocchi<br />

un de’ frati di santo antonio, il cui nome era frate ci­


polla, forse non meno per lo nome che per altra divozione<br />

vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che quel<br />

terreno produca cipolle famose per tutta toscana.<br />

era questo frate cipolla di persona piccolo, di pelo<br />

rosso e lieto nel viso e il miglior brigante del mondo:<br />

e oltre a questo, niuna scienzia avendo, sì ottimo<br />

parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse,<br />

non solamente un gran rettorico l’avrebbe stimato,<br />

ma avrebbe detto esser tulio medesimo o forse<br />

Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contra<strong>da</strong> era<br />

compare o amico o benivogliente.<br />

il quale, secondo la sua usanza, del mese d’agosto<br />

tra l’altre v’andò una volta, e una domenica mattina,<br />

essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville<br />

<strong>da</strong> torno venuti alla messa nella calonica, quando<br />

tempo gli parve, fattosi innanzi disse:<br />

– Signori e donne, come voi sapete, vostra usanza è<br />

di man<strong>da</strong>re ogni anno à poveri del baron messer santo<br />

antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi<br />

poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua,<br />

acciò ché il beato santo antonio vi sia guardia de’<br />

buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre; e<br />

oltre a ciò solete pagare, e spezialmente quegli che<br />

alla nostra compagnia scritti sono, quel poco debito<br />

che ogni anno si paga una volta. alle quali cose<br />

ricogliere io sono <strong>da</strong>l mio maggiore, cioè <strong>da</strong> messer<br />

l’abate, stato man<strong>da</strong>to, e per ciò, con la benedizion<br />

di dio, dopo nona, quando udirete sonare le campanelle,<br />

verrete qui di fuori della chiesa là dove io<br />

al modo usato vi farò la predicazione, e bacerete la<br />

croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco<br />

del barone messer santo antonio, di spezial<br />

grazia vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la<br />

quale io medesimo già recai <strong>da</strong>lle sante terre d’oltremare:<br />

e questa è una delle penne dell’agnol Gabriello,<br />

la quale nella camera della Vergine Maria rimase<br />

quando egli la venne ad annunziare in nazaret.<br />

e questo detto, si tacque e ritornossi alla messa.<br />

erano, quando frate cipolla queste cose diceva, tra<br />

gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto,<br />

chiamato l’uno Giovanni del bragoniera e l’altro biagio<br />

Pizzini li quali, poi che alquanto tra sé ebbero<br />

riso della reliquia di frate cipolla, ancora che molto<br />

fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di<br />

fargli di questa penna alcuna beffa. e avendo saputo<br />

che frate cipolla la mattina desinava nel castello<br />

con un suo amico, come a tavola il sentirono così se<br />

ne scesero alla stra<strong>da</strong> e all’albergo dove il frate era<br />

smontato se n’an<strong>da</strong>rono con questo proponimento:<br />

che biagio dovesse tenere a parole il fante di frate<br />

cipolla e Giovanni dovesse tralle cose del frate<br />

cercare di questa penna, chente che ella si fosse, e<br />

torgliele, per vedere come egli di questo fatto poi<br />

dovesse al popol dire.<br />

aveva frate cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano<br />

Guccio balena e altri Guccio imbratta, e chi<br />

gli diceva Guccio Porco: il quale era tanto cattivo, che<br />

egli non è vero che mai Lippo topo ne facesse alcun<br />

cotanto. di cui spesse volte frate cipolla era usato di<br />

motteggiare con la sua brigata e di dire:<br />

– il fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualunque<br />

è l’una di quelle fosse in Salamone o in aristotile<br />

o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù,<br />

ogni lor senno, ogni lor santità. Pensate adunque che<br />

uom dee essere egli, nel quale né vertù né senno né<br />

santità alcuna è, avendone nove.<br />

ed, essendo alcuna volta doman<strong>da</strong>to quali fossero<br />

queste nove cose, ed egli, avendole in rima messe,<br />

rispondeva:<br />

– dirolvi: egli è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente,<br />

disubidente e maldicente; trascutato, smemorato<br />

e scostumato; senza che egli ha alcune altre taccherelle<br />

con queste, che si taccion per lo migliore. e quel<br />

che sommamente è <strong>da</strong> rider de’ fatti suoi è che egli in<br />

ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a pigione; e<br />

avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte<br />

esser bello e piacevole, che egli s’avisa che quante<br />

femine il veggano tutte di lui s’innamorino, ed essendo<br />

lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la coreggia.<br />

e’ il vero che egli m’è d’un grande aiuto, per<br />

ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che<br />

egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che<br />

io d’alcuna cosa sia doman<strong>da</strong>to, ha sì gran paura che<br />

io non sappia rispondere, che prestamente risponde<br />

egli e sì e no, come giudica si convenga.<br />

a costui, lasciandolo all’albergo, aveva frate cipolla<br />

coman<strong>da</strong>to che ben guar<strong>da</strong>sse che alcuna persona<br />

non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce,<br />

per ciò che in quelle erano le cose sacre.<br />

Ma Guccio imbratta, il quale era più vago di stare in<br />

cucina che sopra i verdi rami l’usignolo, e massimamente<br />

se fante vi sentiva niuna, avendone in quella<br />

dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal<br />

fatta, con un paio di poppe che parean due ceston<br />

<strong>da</strong> letame e con un viso che parea de’ baronci, tutta<br />

su<strong>da</strong>ta, unta e affumicata, non altramenti che si gitti<br />

l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate cipolla<br />

aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si<br />

calò. e ancora che d’agosto fosse, postosi presso al<br />

fuoco a sedere, cominciò con costei, che nuta aveva<br />

nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile<br />

uomo per procuratore e che egli aveva de’ fiorini più<br />

di millantanove, senza quegli che egli aveva a <strong>da</strong>re<br />

altrui, che erano anzi più che meno, e che egli sapeva<br />

tante cose fare e dire, che domine pure unquanche.<br />

e senza riguar<strong>da</strong>re a un suo cappuccio sopra il quale<br />

era tanto untume, che avrebbe condito il calderon<br />

d’altopascio, e a un suo farsetto rotto e ripezzato e<br />

intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume,<br />

con più macchie e di più colori che mai drappi<br />

fossero tartereschi o indiani, e alle sue scarpette<br />

tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato<br />

fosse il siri di castiglione, che rivestir la voleva e rimetterla<br />

in arnese, e trarla di quella cattività di star<br />

con altrui e senza gran possession d’avere ridurla in<br />

isperanza di miglior fortuna e altre cose assai; le quali<br />

quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte<br />

in vento convertite, come le più delle sue imprese<br />

facevano, tornarono in niente.<br />

trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno<br />

alla nuta occupato; della qual cosa contenti, per<br />

ciò che mezza la lor fatica era cessata, non contradicendolo<br />

alcuno nella camera di frate cipolla, la quale<br />

aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne


lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la<br />

penna; la quale aperta, trovarono in un gran viluppo<br />

di zen<strong>da</strong>do fasciata una piccola cassettina; la quale<br />

aperta, trovarono in essa una penna di quelle della<br />

co<strong>da</strong> d’un pappagallo, la quale avvisarono dovere<br />

esser quella che egli promessa avea di mostrare a’<br />

certaldesi.<br />

e certo egli il poteva a quei tempi leggiermente far<br />

credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze<br />

d’egitto, se non in piccola quantità, trapassate in<br />

toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento<br />

di tutta italia son trapassate: e dove che elle<br />

poco conosciute fossero, in quella contra<strong>da</strong> quasi in<br />

niente erano <strong>da</strong> gli abitanti sapute; anzi, durandovi<br />

ancora la rozza onestà degli antichi, non che veduti<br />

avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior parte<br />

mai uditi non gli avean ricor<strong>da</strong>re.<br />

contenti adunque i giovani d’aver la penna trovata,<br />

quella tolsero e, per non lasciare la cassetta vota, vedendo<br />

carboni in un canto della camera, di quegli la<br />

cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia<br />

come trovata avevano, senza essere stati veduti,<br />

lieti se ne vennero con la penna e cominciarono<br />

a aspettare quello che frate cipolla, in luogo della<br />

penna trovando carboni, dovesse dire.<br />

Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano,<br />

udendo che veder dovevano la penna dell’agnol<br />

Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono<br />

a casa; e dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare<br />

all’altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti uomini<br />

e tante femine concorsono nel castello, che appena<br />

vi capeano, con desiderio aspettando di veder<br />

questa penna.<br />

Frate cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto<br />

dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la<br />

moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere<br />

la penna vedere, mandò a Guccio imbratta che<br />

lassù con le campanelle venisse e recasse le sua bisacce.<br />

il quale, poi che con fatica <strong>da</strong>lla cucina e <strong>da</strong>lla<br />

nuta si fu divelto, con le cose addiman<strong>da</strong>te con fatica<br />

lassù n’andò: dove ansando giunto, per ciò che il<br />

ber dell’acqua gli avea molto fatto crescere il corpo,<br />

per coman<strong>da</strong>mento di frate cipolla an<strong>da</strong>tone in su la<br />

porta della chiesa, forte incominciò le campanelle a<br />

sonare.<br />

dove, poi che tutto il popolo fu ragunato, frate cipolla,<br />

senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse<br />

stata mossa, cominciò la sua predica, e in acconcio<br />

de’ fatti suoi disse molte parole; e dovendo venire al<br />

mostrar della penna dell’agnolo Gabriello, fatta prima<br />

con grande solennità la confessione, fece accender<br />

due torchi, e soavemente sviluppando il zen<strong>da</strong>do,<br />

avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta<br />

ne trasse. e dette primieramente alcune parolette<br />

a laude e a commen<strong>da</strong>zione dell’agnolo Gabriello e<br />

della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come<br />

piena di carboni vide, non sospicò che ciò che Guccio<br />

balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva<br />

<strong>da</strong> tanto, né il maladisse del male aver guar<strong>da</strong>to che<br />

altri ciò non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé,<br />

che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa,<br />

conoscendol, come faceva, negligente, disubidente,<br />

trascurato e smemorato. Ma non per tanto, senza mutar<br />

colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che<br />

<strong>da</strong> tutti fu udito:<br />

– o iddio, lo<strong>da</strong>ta sia sempre la tua potenzia!<br />

Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse:<br />

– Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io<br />

ancora molto giovane, io fui man<strong>da</strong>to <strong>da</strong>l mio superiore<br />

in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi<br />

commesso con espresso coman<strong>da</strong>mento che io cercassi<br />

tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana,<br />

li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto<br />

più utili sono a altrui che a noi.<br />

Per la qual cosa messom’io cammino, di Vinegia<br />

partendomi e an<strong>da</strong>ndomene per lo borgo de’ Greci<br />

e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e<br />

per bal<strong>da</strong>cca, pervenni in Parione, donde, non senza<br />

sete, dopo alquanto per venni in Sardigna. Ma perché<br />

vi vo io tutti i paesi cerchi <strong>da</strong> me divisando? io<br />

capitai, passato il braccio di San Giorgio, in truffia<br />

e in buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e<br />

di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti<br />

de’ nostri frati e d’altre religioni trovai assai, li quali<br />

tutti il disagio an<strong>da</strong>van per l’amor di dio schifando,<br />

poco dell’altrui fatiche curandosi, dove la loro utilità<br />

vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo<br />

che senza conio per quei paesi: e quindi passai in<br />

terra d’abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno<br />

in zoccoli su pe’monti, rivestendo i porci delle lor<br />

busecchie medesime; e poco più là trovai gente che<br />

portano il pan nelle mazze e ’l vin nelle sacca: <strong>da</strong>’<br />

quali alle montagne de’ bachi pervenni, dove tutte<br />

le acque corrono alla ’ngiù.<br />

e in brieve tanto an<strong>da</strong>i adentro, che io pervenni mei<br />

infino in india Pastinaca, là dove io vi giuro, per l’abito<br />

che io porto addosso che io vidi volare i pennati,<br />

cosa incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò<br />

non mi lasci mentire Maso del Saggio, il quale gran<br />

mercante io trovai là, che schiacciava noci e vendeva<br />

gusci a ritaglio.<br />

Ma non potendo quello che io an<strong>da</strong>va cercando trovare,<br />

perciò che <strong>da</strong> indi in là si va per acqua, indietro<br />

tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove<br />

l’anno di state vi vale il pan freddo quattro denari, e<br />

il caldo v’è per niente. e quivi trovai il venerabile padre<br />

messer nonmiblasmete Sevoipiace, degnissimo<br />

patriarca di Jerusalem. il quale, per reverenzia dell’abito<br />

che io ho sempre portato del baron messer<br />

santo antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie<br />

le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante<br />

che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei<br />

a capo in parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi<br />

sconsolate, ve ne dirò alquante.<br />

egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito<br />

Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto<br />

del serafino che apparve a san Francesco, e una dell’unghie<br />

de’ Gherubini, e una delle coste del Verbum<br />

caro fatti alle finestre, e de’ vestimenti della Santa Fé<br />

catolica, e alquanti de’ raggi della stella che apparve<br />

à tre Magi in oriente, e un ampolla del sudore di san<br />

Michele quando combatté col diavole, e la mascella<br />

della Morte di san Lazzaro e altre.<br />

e per ciò che io liberamente gli feci copia delle piag­


ge di Monte Morello in volgare e d’alquanti capitoli<br />

del caprezio, li quali egli lungamente era an<strong>da</strong>ti cercando,<br />

mi fece egli partefice delle sue sante reliquie,<br />

e donommi uno de’ denti della santa croce, e in una<br />

ampolletta alquanto del suono delle campane del<br />

tempio di Salomone e la penna dell’agnol Gabriello,<br />

della quale già detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san<br />

Gherardo <strong>da</strong> Villamagna (il quale io, non ha molto,<br />

a Firenze donai a Gherardo di bonsi, il quale in lui<br />

ha grandissima divozione) e diedemi de’ carboni, co’<br />

quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le<br />

quali cose io tutte di qua con meco divotamente le<br />

recai, e holle tutte.<br />

e’ il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto che<br />

io l’abbia mostrate infino a tanto che certificato non<br />

s’è se desse sono o no; ma ora che per certi miracoli<br />

fatti <strong>da</strong> esse e per lettere ricevute <strong>da</strong>l Patriarca fatto<br />

n’è certo m’ha conceduta licenzia che io le mostri; ma<br />

io, temendo di fi<strong>da</strong>rle altrui, sempre le porto meco.<br />

Vera cosa è che io porto la penna dell’agnol Gabriello,<br />

acciò che non si guasti, in una cassetta e i carboni<br />

co’ quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra; le quali<br />

son sì simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi<br />

vien presa l’una per l’altra, e al presente m’è avvenuto;<br />

per ciò che, credendomi io qui avere arrecata<br />

la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella<br />

dove sono i carboni. il quale io non reputo che stato<br />

sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia<br />

stata di dio e che egli stesso la cassetta de’ carboni<br />

ponesse nelle mie mani, ricor<strong>da</strong>ndom’io pur testé<br />

che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì. e per<br />

ciò, volendo iddio che io, col mostrarvi i carboni co’<br />

quali esso fu arrostito, raccen<strong>da</strong> nelle vostre anime<br />

la divozione che in lui aver dovete, non la penna che<br />

io voleva, ma i benedetti carboni spenti <strong>da</strong>ll’omor<br />

di quel santissimo corpo mi fe’pigliare. e per ciò, figliuoli<br />

benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente<br />

v’appresserete a vedergli.<br />

Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque <strong>da</strong><br />

questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello<br />

anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non<br />

si senta.<br />

e poi che così detto ebbe, cantando una laude di<br />

san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni;<br />

li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe<br />

con ammirazione reverentemente guar<strong>da</strong>ti, con grandissima<br />

calca tutti s’appressarono a frate cipolla e,<br />

migliori offerte <strong>da</strong>ndo che usati non erano, che con<br />

essi gli dovesse toccare il pregava ciascuno.<br />

Per la qual cosa frate cipolla, recatisi questi carboni<br />

in mano, sopra li lor camisciotti bianchi e sopra<br />

i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare<br />

le maggior croci che vi capevano, affermando che<br />

tanto quanto essi scemavano a far quelle croci, poi<br />

ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte<br />

aveva provato.<br />

e in cotal guisa, non senza sua grandissima utilità<br />

avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento<br />

fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli<br />

la penna, avevan creduto schernire. Li<br />

quali stati alla sua predica e avendo udito il nuovo<br />

riparo preso <strong>da</strong> lui e quanto <strong>da</strong> lungi fatto si fosse<br />

e con che parole, avevan tanto riso che eran creduti<br />

smascellare. e poi che partito si fu il vulgo, a lui an<strong>da</strong>tisene,<br />

con la maggior festa del mondo ciò che fatto<br />

avevan gli discoprirono, e appresso gli renderono<br />

la sua penna; la quale l’anno seguente gli valse non<br />

meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni.<br />

Giornata nona – Novella decima<br />

Donno Gianni ad istanzia di compar Pietro fa lo ’ncantesimo per<br />

far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar<br />

la co<strong>da</strong>, compar Pietro, dicendo che non vi voleva co<strong>da</strong>, guasta<br />

tutto lo ’ncantamento.<br />

Questa novella <strong>da</strong>lla reina detta diede un poco <strong>da</strong><br />

mormorare alle donne e <strong>da</strong> ridere a’ giovani; ma poi<br />

che ristate furono, dioneo così cominciò a parlare.<br />

Leggiadre donne, infra molte bianche colombe aggiugne<br />

più di bellezza uno nero corvo, che non farebbe<br />

un candido cigno; e così tra molti savi alcuna<br />

volta un men savio è non solamente un accrescere<br />

splendore e bellezza alla lor maturità, ma ancora diletto<br />

e sollazzo.<br />

Per la qual cosa, essendo voi tutte discretissime e<br />

moderate, io, il qual sento anzi dello scemo che no,<br />

faccendo la vostra virtù più lucente col mio difetto,<br />

più vi debbo esser caro che se con più valore quella<br />

facessi divenir più oscura; e per conseguente più<br />

largo arbitrio debbo avere in dimostrarmi tal qual io<br />

sono, e più pazientemente dee <strong>da</strong> voi esser sostenuto<br />

che non dovrebbe se io più savio fossi, quel dicendo<br />

che io dirò. dirovvi adunque una novella non<br />

troppo lunga, nella quale comprenderete quanto diligentemente<br />

si convengano osservare le cose imposte<br />

<strong>da</strong> coloro che alcuna cosa per forza d’incantamento<br />

fanno, e quanto piccol fallo in quelle commesso<br />

ogni cosa guasti <strong>da</strong>llo incantator fatta.<br />

L’altr’anno fu a barletta un prete, chiamato donno<br />

Gianni di barolo, il qual, per ciò che povera chiesa<br />

avea, per sostentar la vita sua, con una cavalla cominciò<br />

a portar mercatantia in qua e in là per le fiere<br />

di Puglia e a comperare e a vendere. e così an<strong>da</strong>ndo,<br />

prese stretta dimestichezza con uno che si chiamava<br />

Pietro <strong>da</strong> tresanti, che quello medesimo mestiere<br />

con uno suo asino faceva, e in segno d’amorevolezza<br />

e d’amistà, alla guisa pugliese, nol chiamava se non<br />

compar Pietro; e quante volte in barletta arrivava,<br />

sempre alla chiesa sua nel menava, e quivi il teneva<br />

seco ad albergo, e come poteva l’onorava.<br />

compar Pietro d’altra parte, essendo poverissimo e<br />

avendo una piccola casetta in tresanti, appena bastevole<br />

a lui e ad una sua giovane e bella moglie e<br />

all’asino suo, quante volte donno Gianni in tresanti<br />

capitava tante sel menava a casa, e come poteva, in<br />

riconoscimento dell’onor che <strong>da</strong> lui in barletta riceveva,<br />

l’onorava. Ma pure, al fatto dello albergo, non<br />

avendo compar Pietro se non un piccol letticello, nel<br />

quale con la sua bella moglie dormiva, onorar nol poteva<br />

come voleva, ma conveniva che, essendo in una<br />

sua stalletta allato all’asino suo allogata la cavalla di<br />

donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanto di<br />

paglia si giacesse.


La donna, sappiendo l’onor che il prete al marito faceva<br />

a barletta, era più volte, quando il prete vi veniva,<br />

volutasene an<strong>da</strong>re a dormire con una sua vicina,<br />

che avea nome zita carapresa di Giudice Leo, acciò<br />

che il prete col marito dormisse nel letto, e avevalo<br />

molte volte al prete detto, ma egli non aveva mai voluto;<br />

e tra l’altre volte, una le disse:<br />

– comar Gemmata, non ti tribolar di me, ché io sto,<br />

bene, per ciò che quando mi piace io fo questa mia<br />

cavalla diventare una bella zitella e stommi con essa,<br />

e poi quando voglio la fo diventar cavalla, e perciò <strong>da</strong><br />

lei non mi partirei.<br />

La giovane si maravigliò e credettelo, e al marito il<br />

disse, aggiugnendo:<br />

– Se egli è così tuo come tu di’, ché non ti fai tu insegnare<br />

quello incantesimo, ché tu possa far cavalla<br />

di me e fare i fatti tuoi con l’asino e con la cavalla, e<br />

gua<strong>da</strong>gneremo due cotanti, e quando a casa fossimo<br />

tornati, mi potresti rifar femina come io sono.<br />

compar Pietro, che era anzi grossetto uom che no,<br />

credette questo fatto e accordossi al consiglio, e<br />

come meglio seppe, cominciò a sollicitar donno<br />

Gianni, che questa cosa gli dovesse insegnare. donno<br />

Gianni s’ingegnò assai di trarre costui di questa<br />

sciocchezza, ma pur non potendo, disse:<br />

– ecco, poi che voi pur volete, domattina ci leveremo,<br />

come noi sogliamo, anzi dì, e io vi mosterrò come<br />

si fa. e’ il vero che quello che più è malagevole in<br />

questa cosa si è l’appiccar la co<strong>da</strong>, come tu vedrai.<br />

compar Pietro e comar Gemmata, appena avendo<br />

la notte dormito (con tanto desidero questo fatto<br />

aspettavano), come vicino a dì fu, si levarono e chiamarono<br />

donno Gianni, il quale, in camicia levatosi,<br />

venne nella cameretta di compar Pietro e disse:<br />

– io non so al mondo persona a cui io questo facessi,<br />

se non a voi, e per ciò, poi che vi pur piace, io il farò;<br />

vero è che far vi conviene quello che io vi dirò, se voi<br />

volete che venga fatto.<br />

costoro dissero di far ciò che egli dicesse. Per che<br />

donno Gianni, preso un lume, il pose in mano a compar<br />

Pietro e dissegli:<br />

– Guata ben come io farò, e che tu tenghi bene a men<br />

te come io dirò, e guar<strong>da</strong>ti, quanto tu hai caro di non<br />

guastare ogni cosa, che per cosa che tu o<strong>da</strong> o veggia,<br />

tu non dica una parola sola; e priega iddio che la<br />

co<strong>da</strong> s’appicchi bene.<br />

compar Pietro, preso il lume, disse che ben lo farebbe.<br />

appresso donno Gianni fece spogliare ignu<strong>da</strong> nata<br />

comar Gemmata, e fecela stare con le mani e co’ pie­<br />

di in terra, a guisa che stanno le cavalle, ammaestrandola<br />

similmente che di cosa che avvenisse motto non<br />

facesse; e con le mani cominciandole a toccare il viso<br />

e la testa, cominciò a dire: – Questa sia bella testa di<br />

cavalla –; e toccandole i capelli, disse: – Questi sieno<br />

belli crini di cavalla –; e poi toccandole le braccia,<br />

disse: – e queste sieno belle gambe e belli piedi di<br />

cavalla –; poi toccandole il petto e trovandolo sodo e<br />

tondo, risvegliandosi tale che non era chiamato e su<br />

levandosi, disse: – e questo sia bel petto di cavalla<br />

–; e così fece alla schiena e al ventre e alle groppe e<br />

alle coscie e alle gambe. e ultimamente, niuna cosa<br />

restandogli a fare se non la co<strong>da</strong>, levata la camicia e<br />

preso il piuolo col quale egli piantava gli uomini e<br />

prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse:<br />

– e questa sia bella co<strong>da</strong> di cavalla.<br />

compar Pietro, che attentamente infino allora aveva<br />

ogni cosa guar<strong>da</strong>ta, veggendo questa ultima e non<br />

parendonegli bene, disse:<br />

– o donno Gianni, io non vi voglio co<strong>da</strong>, io non vi<br />

voglio co<strong>da</strong>.<br />

era già l’umido radicale, per lo quale tutte le piante<br />

s’appiccano, venuto, quando donno Gianni tiratolo<br />

indietro, disse:<br />

– ohimè, compar Pietro, che hai tu fatto? non ti<br />

diss’io, che tu non facessi motto di cosa che tu vedessi?<br />

La cavalla era per esser fatta, ma tu favellando<br />

hai guasto ogni cosa, né più ci ha modo di poterla<br />

rifare oggimai.<br />

compar Pietro disse:<br />

– bene sta, io non vi voleva quella co<strong>da</strong> io. Perché<br />

non diciavate voi a me –<br />

Falla tu –? e anche l’appiccavate troppo bassa.<br />

disse donno Gianni:<br />

– Perché tu non l’avresti per la prima volta saputa<br />

appiccar sì com’io.<br />

La giovane, queste parole udendo, levatasi in piè, di<br />

buona fè disse al marito:<br />

– deh, bestia che tu se’, perché hai tu guasti li tuoi<br />

fatti e’miei? Qual cavalla vedestu mai senza co<strong>da</strong>? Se<br />

m’aiuti iddio, tu se’povero, ma egli sarebbe ragione<br />

che tu fossi molto più.<br />

non avendo adunque più modo a dover fare della<br />

giovane cavalla, per le parole che dette avea compar<br />

Pietro, ella dolente e malinconosa si rivestì, e compar<br />

Pietro con uno asino, come usato era, attese a<br />

fare il suo mestiere antico, e con donno Gianni insieme<br />

n’andò alla fiera di bitonto, né mai più di tal<br />

servigio il richiese.


L’UManeSiMo<br />

L’Umanesimo – manterremo il termine per quel movimento d’idee che nato nel<br />

xiv giunge sino alla fine del xv secolo – nelle sue due componenti, l’Umanesimo<br />

latino e quello volgare, ap<strong>prof</strong>ondì i due momenti che abbiamo visto caratterizzare<br />

la teoria della comunicazione precedente. L’imitazione dei classici, su cui aveva<br />

insistito Petrarca, con quel che comportava in fatto di pubblico, venne ripresa ed<br />

ap<strong>prof</strong>ondita, sia nei termini contenutistici sia in quelli formali e produsse nuove<br />

vie di sintesi che giungono all’affermazione di Giorgio <strong>da</strong> trebison<strong>da</strong> secondo<br />

la quale l’uomo non sarebbe in grado di produrre il bene senza la mediazione<br />

della parola: « La ragione non produce alcun bene se non s’incarna nel discorso »<br />

(Rhetoricorum libri duo). La comunicazione letteraria non solo è manifestazione della<br />

virtù interiore dello scrivente, il secondo dei punti di riferimento dell’epoca precedente,<br />

ma diviene garante dell’onestà dei contenuti. La coraggiosa presa di distanze<br />

<strong>da</strong> cicerone di coluccio Salutati che diffi<strong>da</strong> di una tecnica di persuasione che<br />

finisca con l’identificarsi con la commozione della passioni e, conseguentemente,<br />

con l’oscuramento del retto giudizio, valeva non solo ad allontanare <strong>da</strong>lla poesia<br />

l’accusa di falsità ed <strong>da</strong>i poeti quella di disonesti (« poeta virum optimum esse<br />

debere », De laboribus Herculis); valeva a riaffermare l’identità di ragione e discorso,<br />

di contenuti filosofici scientifici etici e comunicazione letteraria in funzione della<br />

creazione di una società basata essa sulla virtù. naturalmente, commozione e<br />

persuasione restano nel discorso salutatiano: esse costituiscono il feed-back che<br />

l’opera letteraria deve avere, ma sono commozione e persuasione della fantasia<br />

che è l’anticamera della conoscenza razionale.<br />

Per questa via si giungeva alla dimensione civile dell’Umanesimo. infatti in<br />

quella sintesi di ratio (si legga anche phantasia) ed oratio si perdevano, valori e funzioni<br />

d’autoreferenzialità largamente presenti, ad esempio in Francesco Petrarca.<br />

La fabula non è più, com’era in boccaccio, gioiosa invenzione, ma strumento,<br />

anche privilegiato della comunicazione letteraria. Fabula che dev’essere il più<br />

trasparente possibile per essere civilmente efficace. talora non lo è (o non lo<br />

stata) ed allora occorre uno sforzo ermeneutico del lettore che con la sua risposta<br />

dà la misura dell’efficacia della comunicazione. non è un caso che un Giovanni<br />

dominici, nella Lucula noctis, torni, contro il Salutati, alle accuse di oscurità della<br />

letteratura e di falsità della favole a petto della semplicità e verità evangelica.<br />

Significava riaffermare la superiorità della comunicazione evangelica e della<br />

cultura ecclesiastica e l’inefficacia di quell’« harmonia metrica » che proponeva<br />

insieme un modello culturale e intellettuali laici.<br />

tanto più che la direzione civile dell’intero movimento sembrava aprire le<br />

porte ad un pubblico più vasto. La fabula, poiché nasce <strong>da</strong>lla ed è destinata alla<br />

fantasia, infatti è capace di suscitare anche il consenso più immediato dilettevole,<br />

diremmo, ma non limitato al solo diletto, di un pubblico meno colto. oltre,<br />

naturalmente, a quello del pubblico dotto che nella favola coglierà anche i valori<br />

filosofici, scientifici, etici che vi sono contenuti. È chiaro che tale apertura, per<br />

così dire, democratica, risponde alla situazione sociale degli stati italiani ed in<br />

particolare della repubblica prima e poi della Signoria fiorentina: qui il potere<br />

era nelle mani dei banchieri e degli imprenditori e commercianti tessili che aveva


espresso chiaramente le proprie scelte culturali con il successo straordinario<br />

decretato al Decameron e che si allargherà sempre più nel secolo successivo<br />

quando il successo dei poemi cavallereschi genererà una vasta produzione di<br />

letteratura popolare. Per il momento conta l’apertura, forse per la prima volta così<br />

decisa e così disponibile, di <strong>Leonardo</strong> bruni ad un pubblico capace di fruire solo<br />

in parte della comunicazione letteraria: le « belle cose, con gentilezza di rima<br />

esplicate, prendono la mente di ciascuno che legge, e molto più di quelli che più<br />

intendono » (Vita di Dante). La scrittura letteraria si disponeva così a una duplicità<br />

di livelli di lettura senza che questo costituisca un limite per l’autore che parla<br />

così a quel volgo per il quale Petrarca aveva nutrito diffidenza, se non l’odio di<br />

oraziana memoria.<br />

il progetto bruniano che comprende la possibilità che la naturale propensione<br />

alla bellezza si affinasse attraverso le letture e, per converso, che il progressivo<br />

affinamento culturale portasse ad una maggiore comprensione delle letture<br />

implicava il superamento definitivo dell’imitazione petrarchesca il nome di una<br />

comunicazione letteraria personale e personalizzata, che si modulava secondo<br />

le esigenze e la sensibilità dell’autore e non <strong>da</strong> un insieme di regole fissate una<br />

volta per sempre. come avverrà con Pietro bembo, che sembrerà voler ristabilire<br />

il primato dell’accademia e di una élite culturale contro le forze centrifughe<br />

popolari o popolareggianti. nella prima parte del xv secolo il liberismo letterario<br />

di bruni trova conferma in Lorenzo Valla il quale accentua il valore civile della<br />

comunicazione letteraria sì <strong>da</strong> farne il luogo in cui si concretizza l’humanitas.<br />

L’humanitas di Valla è nozione politica: la lingua degli scrittori pone in atto,<br />

realizza, il bisogno dell’uomo e la tensione al bello: come per l’alighieri la lingua<br />

era il luogo in cui s’era depositato tutto il sapere dell’uomo, in cui cioè l’intelletto<br />

possibile era divenuto in atto epperciò costituiva l’essenza stessa della monarchia<br />

universale, così nella comunicazione letteraria si realizzava e diventava in qualche<br />

modo tangibile l’armonia del vivere sociale che è osmosi di etica e di estetica.<br />

in fondo le tesi di Valla sono la traduzione in prosa del mito di orfeo che, in e<br />

sotto la tutela politico­culturale di Lorenzo il Magnifico, trova larghe attestazioni<br />

in coluccio Salutati, in <strong>Leonardo</strong> bruni, in cristoforo Landino, in Marsilio Ficino,<br />

fon<strong>da</strong>tore del platonismo fiorentino, in agnolo Poliziano e, naturalmente, in<br />

Lorenzo. il mito si compaginava con la teoria del Fedro platonico secondo la quale<br />

il poeta scrive invasato <strong>da</strong> un furor, grazie al quale egli contempla e dice l’ideale.<br />

La più famosa delle attestazioni del mito è quella della polizianesca Favola d’Orfeo<br />

che si fa carico del tema della capacità persuasoria della poesia, se il canto di orfeo<br />

piega le leggi dell’inferno e desta la commozione della stessa Morte: Proserpina<br />

a Plutone:<br />

i’ non credetti, o dolce mie consorte,<br />

che Pietà mai veisse in questo regno:<br />

hor la veggio regnare in nostra corte<br />

et io sento di lei tutto ’l cor pregno;<br />

né solo i tormentati, ma la Morte<br />

veggio che piange del suo caso indegno:<br />

dunque tua dura legge a lui pieghi,<br />

pel canto, pell’amor, pe’ giusti prieghi. [vv. 289­296]


Ma il platonismo fiorentino ebbe più complessi ed organici atteggiamenti che<br />

coniugavano amore per il bello, sapere filosofico, funzione civile e civilizzatrice.<br />

Punto di riferimento potrebbe essere il Comento de’ miei sonetti di Lorenzo nel quale<br />

il modello formale di Petrarca si trova integrato con la « grave sostanza » di <strong>da</strong>nte:<br />

« Quella che è vera laude della lingua è l’essere copiosa e abon<strong>da</strong>nte ed atta ad<br />

esprimere bene il senso e il concetto della mente. e però si giudica la lingua greca<br />

più perfetta che la latina e la latina più che l’ebrea, perché l’una più che l’altra<br />

meglio esprime la mente di chi ha o detto o scritto alcuna cosa. L’altra condizione<br />

che più degnifica la lingua è la dolcezza ed armonia che risulta più d’una che<br />

di un’altra; e, benché l’armonia sia cosa naturale e proporzionata con l’armonia<br />

dell’anima e del corpo nostro » (Comento de’ miei sonetti).<br />

naturalmente non è possibile tracciare neppure un quadro di quello<br />

straodinariamente articolato movimento che fu l’Umanesimo, all’interno del quale<br />

va annotata la proliferazione di manuali di grammatica e retorica che sollecitò lo<br />

stabilizzarsi di una mo<strong>da</strong>lità aulica della comunicazione letteraria, divenuta sempre<br />

più fine a se stessa e vuota. Pico della Mirandola denunciava lo scollamento tra<br />

forme e contenuti e rimproverava ad ermolao barbaro la traduzione d’aristotele in<br />

latino ciceroniano. a livello europeo, di lì a qualche tempo, erasmo <strong>da</strong> rotter<strong>da</strong>m<br />

poneva il medesimo problema nel De ratione studii: la vera eloquenza era quella che<br />

compaginava la bella forma e la saggezza. Lo sviluppo della retorica riguar<strong>da</strong>va in<br />

modo particolare il latino: la sua progressiva sterilizzazione si affiancava al bisogno<br />

di allargamento del pubblico della cultura. era evidente che allo scopo era di gran<br />

lunga più efficace il volgare le cui possibilità comunicative non necessitavano di<br />

prove: il problema era, e lo era sin <strong>da</strong>i tempi del De vulgari eloquentia, quello della<br />

capacità del volgare di diventare strumento della cultura e dell’arte. Su questo<br />

piano un posto di grande rilevanza è occupato <strong>da</strong> Leon battista alberti che fu<br />

quello che con più fortemente insisté sulla natura comunicativa del linguaggio <strong>da</strong><br />

cui conseguiva, se non il primato, l’efficacia del volgare:<br />

… e prudenti mi loderanno s’io, scrivendo in modo che ciascuno m’inten<strong>da</strong>, prima cerco giovare<br />

a molti che piacere a pochi: ché sai quanto siano pochissimi a questi dì e letterati; […] e se io non<br />

fuggo essere come inteso cosí giudicato <strong>da</strong> tutti e’ nostri cittadini, piaccia quando che sia a chi mi<br />

biasima o deponer l’invidia o pigliar più utile materia in qual sé demonstrino eloquenti. Usino<br />

quando che sia la perizia sua in altro che in vituperare chi non marcisce in ozio. io non aspetto<br />

d’essere commen<strong>da</strong>to se non della volontà qual me muove a quanto in me sia ingegno, opera e<br />

industria porgermi utile a’ nostri alberti; e parmi più utile cosí scrivendo essercitarmi, che tacendo<br />

fuggire el giudicio de’ detrattori » (I libri della famiglia).<br />

abbiamo largheggiato nella citazione perché alberti fa confluire nella<br />

comunicazione letteraria, volgare, anche una sorta di imperativo interiore a<br />

rendersi utile agli altri, e agli alberti in specie, scrive: sì che la tensione civile<br />

dell’Umanesimo fiorentino si poneva come premessa della scelta dello strumento<br />

della comunicazione, oltre che come fine di un esercizio letterario che non riusciva<br />

a superare i limiti dell’élite. basti solo un cenno ad agnolo Poliziano e a Lorenzo<br />

il Magnifico che affermano la letterarietà del volgare in termini che risalgono al<br />

Convivio <strong>da</strong>ntesco, ripetuto tanto pedissequamente quanto orgogliosamente nel<br />

citato Comento <strong>da</strong> Lorenzo.


LUiGi PULci<br />

il culto del latino nell’umanesimo mirò alla restaurazione della latinità,<br />

ed il ciceronianesimo fu il segno della lotta contro l’età barbara che operò<br />

<strong>prof</strong>on<strong>da</strong>mente nella creazione del nuovo gusto. La cultura umanistica si propose<br />

di superare la rozzezza linguistica del medioevo volgare. il Petrarca venne<br />

considerato il restauratore della eloquenza. tale restaurazione della sensibilità<br />

classica è l’aspetto più evidente del distacco <strong>da</strong>l Medioevo. infatti <strong>da</strong>l punto<br />

di vista dei contenuti e dell’ideologia tra il Medioevo e il rinascimento non si<br />

avverte alcuna frattura fra rinascita sviluppatasi dopo il Mille e ciò che continua<br />

nei secoli XV e XVi. La differenza sta tutta fra gusto gotico e gusto classico, che il<br />

Petrarca e certo boccaccio instaurano.<br />

La lingua mostra lo stesso distacco fra il latino scolastico, gotico e il latino<br />

umanistico. Quando, alla fine del Quattrocento la letteratura in volgare rifiorisce, gli<br />

è perché in questo sono trasferite le caratteristiche morfo­sintattiche e stilistiche<br />

del latino: attraverso il latino si forma la nuova lingua italiana unitaria. L’italiano<br />

deve farsi in certo qual modo latino per acquistare la sua vera natura di lingua<br />

razionale, totalmente definita nella sua morfologia e nei suoi suoni.<br />

Per tutto il Quattrocento, tuttavia, l’uso del latino segnò una grave crisi del<br />

volgare e della letteratura in generale. Gli umanisti non fecero o non seppero<br />

incidere nella coscienza coscienza popolare, anzi ap<strong>prof</strong>ondirono il distacco<br />

tra cultura e nazione, tra cultura e realtà storica. divenne, se non naturale,<br />

connaturato alla cultura della penisola la nozione che la letteratura la filosofia<br />

l’arte fossero al di sopra degli eventi storici e della fatica del vivere. e, salvo<br />

rari casi, che l’intellettuale dipendesse <strong>da</strong>i gruppi egemoni quali che fossero.<br />

<strong>da</strong>nte aveva scritto per tutti gli uomini in volgare, mantenendosi indipendente<br />

<strong>da</strong>l potere politico vuoi papale vuoi imperiale, scrivendo contro l’uno e l’altro<br />

potere, a vantaggio dell’umanità. con Petrarca si istaura il distacco <strong>da</strong>lla politica<br />

(né bastano le pochissime rime dedicate all’argomento per attestare il contrario);<br />

con l’umanesimo gruppo (e classe) egemone e gruppo colto coincidono quando<br />

non si identificano e la cultura diviene strumento di pompa, ornamento della<br />

politica, al servizio della politica.<br />

La letteratura volgare che si fermò alla ripetizione dei temi, dei generi<br />

tradizionali le laudi, le ballate, gli strambotti. La lingua volgare, priva del continuo<br />

sforzo di affinamento, di regolarizzazione <strong>da</strong> parte degli elementi più dotati di<br />

cultura e di esperienza letteraria, restò affi<strong>da</strong>ta alla improvvisazione popolare,<br />

alla corruzione quotidiana.<br />

con il certame coronano e con la propria opera personale L. b. alberti cercò di<br />

riabilitare il volgare e di portarlo a nuova norma. Ma il tentativo fallì: mancò una<br />

una vera sintesi dei due usi linguistici.<br />

il Pulci ebbe mentalità avversa all’ideologia umanistica, nella sua opera letteraria<br />

si rifece alla materia popolare e al volgare. il Morgante pur con le sproporzioni<br />

derivanti <strong>da</strong> un disegno che si allargò molto al di là del piano iniziale, si giovò<br />

di un’assai vivace forza di comicità e di una notevole bravura psicologica. La<br />

presentazione della ribalderia di Margutte, l’irrisione popolare della religione


erano fatte con notevole efficacia. La scrittura fu sciolta, non priva di esperienza<br />

letteraria, di reminiscenze <strong>da</strong>ntesche, di scaltrite movenze. Ma mancarono, in<br />

genere, all’autore l’ambizione e il senso dell’arte, la <strong>prof</strong>ondità dell’intuizione,<br />

il vigore della costruzione. Quella del Pulci fu come una ripresa del dialetto<br />

in opposizione al latino. non poté bastare a vincere la battaglia per il volgare.<br />

Mancò, nel Quattrocento, uno sforzo di innalzamento della letteratura volgare.<br />

belcari restò allo stesso livello.<br />

MorGante<br />

cantare deciMottaVo<br />

110. carlo in Parigi nella sua tornata<br />

Meredïana volse riman<strong>da</strong>re<br />

a carador, che l’ha tanto aspettata;<br />

e lei più in Francia non volea già stare,<br />

<strong>da</strong> poi ch’Ulivier suo l’avea lasciata.<br />

Morgante volle questa accompagnare,<br />

e finalmente, dopo alcun dimoro,<br />

rappresentolla al gran re caradoro.<br />

111. e pochi giorni con lei dimoròe,<br />

perché e’ voleva an<strong>da</strong>r verso Soria,<br />

dove era orlando, e licenzia pigliòe<br />

e sol soletto si misse per via;<br />

Meredïana al partir lo pregòe<br />

che l’avvisassi d’Ulivier che sia,<br />

e ritornassi qualche volta a quella,<br />

che rimanea scontenta e meschinella.<br />

112. Giunto Morgante un dì in su ’n un crocicchio,<br />

uscito d’una valle in un gran bosco,<br />

vide venir di lungi, per ispicchio,<br />

un uom che in volto parea tutto fosco.<br />

dètte del capo del battaglio un picchio<br />

in terra, e disse: “costui non conosco”;<br />

e posesi a sedere in su ’n un sasso,<br />

tanto che questo capitòe al passo.<br />

113. Morgante guata le sue membra tutte<br />

più e più volte <strong>da</strong>l capo alle piante,<br />

che gli pareano strane, orride e brutte:<br />

­ dimmi il tuo nome, ­ dicea ­ vïan<strong>da</strong>nte. ­<br />

colui rispose: ­ il mio nome è Margutte;<br />

ed ebbi voglia anco io d’esser gigante,<br />

poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto:<br />

vedi che sette braccia sono appunto. ­<br />

11 . disse Morgante: ­ tu sia il ben venuto:<br />

ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato,<br />

che <strong>da</strong> due giorni in qua non ho beuto;<br />

e se con meco sarai accompagnato,<br />

io ti farò a camin quel che è dovuto.<br />

dimmi più oltre: io non t’ho doman<strong>da</strong>to<br />

se se’ cristiano o se se’ saracino,<br />

o se tu credi in cristo o in apollino. ­<br />

115. rispose allor Margutte: ­ a dirtel tosto,<br />

io non credo più al nero ch’a l’azzurro,<br />

ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;<br />

e credo alcuna volta anco nel burro,<br />

nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,<br />

e molto più nell’aspro che il mangurro;<br />

ma sopra tutto nel buon vino ho fede,<br />

e credo che sia salvo chi gli crede;<br />

116. e credo nella torta e nel tortello:<br />

l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;<br />

e ’l vero paternostro è il fegatello,<br />

e posson esser tre, due ed un solo,<br />

e diriva <strong>da</strong>l fegato almen quello.<br />

e perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo,<br />

se Macometto il mosto vieta e biasima,<br />

credo che sia il sogno o la fantasima;<br />

117. ed apollin debbe essere il farnetico,<br />

e trivigante forse la tregen<strong>da</strong>.<br />

La fede è fatta come fa il solletico:<br />

per discrezion mi credo che tu inten<strong>da</strong>.<br />

or tu potresti dir ch’io fussi eretico:<br />

acciò che invan parola non ci spen<strong>da</strong>,<br />

vedrai che la mia schiatta non traligna<br />

e ch’io non son terren <strong>da</strong> porvi vigna.<br />

118. Questa fede è come l’uom se l’arreca.<br />

Vuoi tu veder che fede sia la mia?,<br />

che nato son d’una monaca greca<br />

e d’un papasso in bursia, là in turchia.<br />

e nel principio sonar la ribeca<br />

mi dilettai, perch’avea fantasia<br />

cantar di troia e d’ettore e d’achille,<br />

non una volta già, ma mille e mille.<br />

119. Poi che m’increbbe il sonar la chitarra,<br />

io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso.<br />

Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra,<br />

e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso,<br />

mi posi allato questa scimitarra<br />

e cominciai pel mondo an<strong>da</strong>re a spasso;<br />

e per compagni ne menai con meco<br />

tutti i peccati o di turco o di greco;<br />

120. anzi quanti ne son giù nello inferno:<br />

io n’ho settanta e sette de’ mortali,<br />

che non mi lascian mai lo state o ’l verno;<br />

pensa quanti io n’ho poi de’ venïali!<br />

non credo, se durassi il mondo etterno,<br />

si potessi commetter tanti mali<br />

quanti ho commessi io solo alla mia vita;<br />

ed ho per alfabeto ogni partita.


121. non ti rincresca l’ascoltarmi un poco:<br />

tu udirai per ordine la trama.<br />

Mentre ch’io ho <strong>da</strong>nar, s’io sono a giuoco,<br />

rispondo come amico a chiunque chiama;<br />

e giuoco d’ogni tempo e in ogni loco,<br />

tanto che al tutto e la roba e la fama<br />

io m’ho giucato, e’ pel già della barba:<br />

guar<strong>da</strong> se questo pel primo ti garba.<br />

122. non doman<strong>da</strong>r quel ch’io so far d’un <strong>da</strong>do,<br />

o fiamma o traversin, testa o gattuccia,<br />

e lo spuntone, e va’ per parentado,<br />

ché tutti siàn d’un pelo e d’una buccia.<br />

e forse al camuffar ne incaco o bado<br />

o non so far la berta o la bertuccia,<br />

o in furba o in calca o in bestrica mi lodo?<br />

io so di questo ogni malizia e frodo.<br />

123. La gola ne vien poi drieto a questa arte.<br />

Qui si conviene aver gran discrezione,<br />

saper tutti i segreti, a quante carte,<br />

del fagian, della stama e del cappone,<br />

di tutte le vivande a parte a parte<br />

dove si truovi morvido il boccone;<br />

e non ti fallirei di ciò parola,<br />

come tener si debba unta la gola.<br />

12 . S’io ti dicessi in che modo io pillotto,<br />

o tu vedessi com’io fo col braccio,<br />

tu mi diresti certo ch’io sia ghiotto;<br />

o quante parte aver vuole un migliaccio,<br />

che non vuole essere arso, ma ben cotto,<br />

non molto caldo e non anco di ghiaccio,<br />

anzi in quel mezzo, ed unto ma non grasso<br />

(pàrti ch’i’ ’l sappi?), e non troppo alto o basso.<br />

125. del fegatello non ti dico niente:<br />

vuol cinque parte, fa’ ch’a la man tenga:<br />

vuole esser tondo, nota sanamente,<br />

acciò che ’l fuoco equal per tutto venga,<br />

e perché non ne caggia, tieni a mente,<br />

la gocciola che morvido il mantenga:<br />

dunque in due parte dividiàn la prima,<br />

ché l’una e l’altra si vuol farne stima.<br />

126. Piccolo sia, questo è proverbio antico,<br />

e fa’ che non sia povero di panni,<br />

però che questo importa ch’io ti dico;<br />

non molto cotto, guar<strong>da</strong> non t’inganni!<br />

ché così verdemezzo, come un fico<br />

par che si strugga quando tu l’assanni;<br />

fa’ che sia caldo; e puoi sonar le nacchere,<br />

poi spezie e melarance e l’altre zacchere.<br />

127. io ti <strong>da</strong>rei qui cento colpi netti;<br />

ma le cose sottil, vo’ che tu cre<strong>da</strong>,<br />

consiston nelle torte e ne’ tocchetti:<br />

e’ ti fare’ paura una lampre<strong>da</strong>,<br />

in quanti modi si fanno i guazzetti;<br />

e pur chi l’ode poi convien che ce<strong>da</strong>:<br />

perché la gola ha settantadue punti,<br />

sanza molti altri poi ch’io ve n’ho aggiunti.<br />

128. Un che ne manchi, è guasta la cucina:<br />

non vi potrebbe il ciel poi rimediare.<br />

Quanti segreti insino a domattina<br />

ti potrei di questa arte rivelare!<br />

io fui ostiere alcun tempo in egina,<br />

e volli queste cose disputare.<br />

or lasciàn questo, e d’udir non t’incresca<br />

un’altra mia virtù cardinalesca.<br />

129. ciò ch’io ti dico non va insino all’effe:<br />

pensa quand’io sarò condotto al rue!<br />

Sappi ch’io aro, e non dico <strong>da</strong> beffe,<br />

col cammello e coll’asino e col bue;<br />

e mille capannucci e mille gueffe<br />

ho meritato già per questo o piùe;<br />

dove il capo non va, metto la co<strong>da</strong>,<br />

e quel che più mi piace è ch’ognun l’o<strong>da</strong>.<br />

130. Mettimi in ballo, mettimi in convito,<br />

ch’io fo il dover co’ piedi e colle mani;<br />

io son prosuntüoso, impronto, ardito,<br />

non guardo più i parenti che gli strani:<br />

della vergogna, io n’ho preso partito,<br />

e torno, chi mi caccia, come i cani;<br />

e dico ciò ch’io fo per ognun sette,<br />

e poi v’aggiungo mille novellette.<br />

131. S’io ho tenute dell’oche in pastura<br />

non doman<strong>da</strong>r, ch’io non te lo direi:<br />

s’io ti dicessi mille alla ventura,<br />

di poche credo ch’io ti fallirei;<br />

s’io uso a munister per isciagura,<br />

s’elle son cinque, io ne traggo fuor sei:<br />

ch’io le fo in modo diventar galante<br />

che non vi campa servigial né fante.<br />

132. or queste son tre virtù cardinale,<br />

la gola e ’l culo e ’l <strong>da</strong>do, ch’io t’ho detto;<br />

odi la quarta, ch’è la principale,<br />

acciò che ben si sgoccioli il barletto:<br />

non vi bisogna uncin né porre scale<br />

dove con mano aggiungo, ti prometto;<br />

e mitere <strong>da</strong> papi ho già portate,<br />

col segno in testa, e drieto le granate.<br />

133. e trapani e paletti e lime sorde<br />

e succhi d’ogni fatta e grimaldelli<br />

e scale o vuoi di legno o vuoi di corde,<br />

e levane e calcetti di feltrelli<br />

che fanno, quand’io vo, ch’ognuno assorde,<br />

lavoro di mia man puliti e belli;<br />

e fuoco che per sé lume non rende,<br />

ma con lo sputo a mia posta s’accende.<br />

13 . S’ tu mi vedessi in una chiesa solo,<br />

io son più vago di spogliar gli altari<br />

che ’l messo di contado del paiuolo;<br />

poi corro alla cassetta de’ <strong>da</strong>nari;<br />

ma sempre in sagrestia fo il primo volo,<br />

e se v’è croce o calici, io gli ho cari,<br />

e’ crucifissi scuopro tutti quanti,


poi vo spogliando le nunziate e’ santi.<br />

135. io ho scopato già forse un pollaio;<br />

s’ tu mi vedessi stendere un bucato,<br />

diresti che non è donna o massaio<br />

che l’abbi così presto rassettato:<br />

s’io dovessi spiccar, Morgante, il maio,<br />

io rubo sempre dove io sono usato;<br />

ch’io non istò a guar<strong>da</strong>r più tuo che mio,<br />

perch’ogni cosa al principio è di dio.<br />

136. Ma innanzi ch’io rubassi di nascoso,<br />

io fui prima alle strade malandrino:<br />

arei spogliato un santo il più famoso,<br />

se santi son nel ciel, per un quattrino;<br />

ma per istarmi in pace e in più riposo,<br />

non volli poi più essere assassino;<br />

non che la voglia non vi fussi pronta,<br />

ma perché il furto spesso vi si sconta.<br />

137. Le virtù teologiche ci resta.<br />

S’io so falsare un libro, iddio tel dica:<br />

d’uno iccase farotti un fio, ch’a sesta<br />

non si farebbe più bello a fatica;<br />

e traggone ogni carta, e poi con questa<br />

raccordo l’alfabeto e la rubrica,<br />

e scambiere’ti, e non vedresti come,<br />

il titol, la coverta e ’l segno e ’l nome.<br />

138. i sacramenti falsi e gli spergiuri<br />

mi sdrucciolan giù proprio per la bocca<br />

come i fichi sampier, que’ ben maturi,<br />

o le lasagne, o qualche cosa sciocca;<br />

né vo’ che tu credessi ch’io mi curi<br />

contro a questo o colui: zara a chi tocca!<br />

ed ho commesso già scompiglio e scandolo,<br />

che mai non s’è poi ravvïato il bandolo.<br />

139. Sempre le brighe compero a contanti.<br />

bestemmiator, non vi fo ignun divario<br />

di bestemmiar più uomini che santi,<br />

e tutti appunto gli ho in sul calen<strong>da</strong>rio.<br />

delle bugie nessun non se ne vanti,<br />

ché ciò ch’io dico fia sempre il contrario.<br />

Vorrei veder più fuoco ch’acqua o terra,<br />

e ’l mondo e ’l cielo in peste e ’n fame e ’n guerra.<br />

1 0. e carità, limosina o digiuno,<br />

orazïon non creder ch’io ne faccia.<br />

Per non parer provàno, chieggo a ognuno,<br />

e sempre dico cosa che dispiaccia;<br />

superbo, invidïoso ed importuno:<br />

questo si scrisse nella prima faccia;<br />

ché i peccati mortal meco eran tutti<br />

e gli altri vizi scelerati e brutti.<br />

1 1. tanto è ch’io posso an<strong>da</strong>r per tutto ’l mondo<br />

col cappello in su gli occhi, com’io voglio;<br />

com’una schianceria son netto e mondo;<br />

dovunque i’ vo, lasciarvi il segno soglio<br />

come fa la lumaca, e nol nascondo;<br />

e muto fede e legge, amici e scoglio<br />

di terra in terra, com’io veggo o truovo,<br />

però ch’io fu’ cattivo insin nell’uovo.<br />

1 2. io t’ho lasciato indrieto un gran capitolo<br />

di mille altri peccati in guazzabuglio;<br />

ché s’i’ volessi leggerti ogni titolo,<br />

e’ ti parrebbe troppo gran mescuglio;<br />

e cominciando a sciòrre ora il gomitolo,<br />

ci sarebbe faccen<strong>da</strong> insino a luglio;<br />

salvo che questo alla fine udirai:<br />

che tradimento ignun non feci mai. ­<br />

1 3. Morgante alle parole è stato attento<br />

un’ora o più, che mai non mosse il volto;<br />

rispose e disse: ­ in fuor che tradimento,<br />

per quel ch’io ho, Margutte mio, raccolto,<br />

non vidi uom mai più tristo a compimento;<br />

e di’ che ’l sacco non hai tutto sciolto:<br />

non crederrei con ogni sua misura<br />

ti rifacessi a punto più natura,<br />

1 . né tanto accomo<strong>da</strong>to al voler mio:<br />

noi staren bene insieme in un guinzaglio.<br />

di tradimento guàr<strong>da</strong>ti, perch’io<br />

vo’ che tu cre<strong>da</strong> in questo mio battaglio,<br />

<strong>da</strong> poi che tu non credi in cielo a dio;<br />

ch’io so domar le bestie nel travaglio.<br />

del resto, come vuoi te ne governa:<br />

co’ santi in chiesa e co’ ghiotti in taverna.<br />

1 5. io vo’ con meco ne venga, Margutte,<br />

e che di compagnia sempre viviamo.<br />

io so per ogni parte le vie tutte.<br />

Vero che pochi <strong>da</strong>nar ne portiamo;<br />

ma mio costume all’oste è <strong>da</strong>r le frutte<br />

sempre al partir, quando il conto facciamo;<br />

e ’nsino a qui sempre all’oste, ov’io fusse,<br />

io gli ho pagato lo scotto di busse. ­<br />

1 6. disse Margutte: ­ tu mi piaci troppo;<br />

ma resti tu contento a questo solo?<br />

io rubo sempre ciò ch’io do d’intoppo,<br />

s’io ne dovessi portare un orciuolo;<br />

poi al partir son mutol, ma non zoppo.<br />

Se tu dovessi tòrre un fusaiuolo,<br />

dove tu vai, to’ sempre qualche cosa;<br />

ch’io tirerei l’aiuolo a una chiosa.<br />

1 7. io ho cercato diversi paesi,<br />

io ho solcata tutta la marina,<br />

ed ho sempre rubato ciò ch’io spesi.<br />

dunque, Morgante, a tua posta camina. ­<br />

così dètton di piglio a’ loro arnesi;<br />

Morgante pel battaglio suo si china<br />

e col compagno suo lieto ne gìa,<br />

e dirizzossi an<strong>da</strong>r verso Soria.<br />

1 8. Margutte aveva una schiavina indosso<br />

ed un cappello a spicchi alla turchesca,<br />

salvo ch’egli era fatto d’un certo osso<br />

che gli spicchi eran d’altro che di pèsca,<br />

ed era molto grave e molto grosso,


tanto che par che spesso gli rincresca;<br />

un paio di stivaletti avea in piè gialli,<br />

ferrato e con gli spron come hanno i galli.<br />

1 9. dicea Morgante quando gli vedea:<br />

­ Saresti tu di schiatta di galletto?<br />

tu hai gli spron di drieto! ­ e sorridea.<br />

disse Margutte: ­ Questo è per rispetto,<br />

ché spesso alcun, che non se n’accorgea,<br />

se ne trovò ingannato, ti prometto:<br />

campati ho già con questi molti casi,<br />

e molti a questa pania son rimasi. ­<br />

150. Vannosi insieme ragionando il giorno;<br />

la sera capitorno a un ostiere,<br />

e come e’ giunson, costui domandorno:<br />

­ aresti tu <strong>da</strong> mangiare e <strong>da</strong> bere?<br />

e pàgati in su l’asse o vuoi nel forno. ­<br />

L’oste rispose: ­ e’ ci fia <strong>da</strong> godere:<br />

e’ ci è avanzato un grosso e bel cappone. ­<br />

disse Margutte: ­ e’ non fia un boccone.<br />

151. Qui si conviene avere altre vivande:<br />

noi siamo usati di far buona cera.<br />

non vedi tu costui com’egli è grande?<br />

cotesta è una pillola di gera. ­<br />

rispose l’oste: ­ Mangi delle ghiande.<br />

che vuoi tu ch’io provvegga, or ch’egli è sera? ­<br />

e cominciò a parlar superbamente,<br />

tal che Morgante non fu pazïente:<br />

152. comincial col battaglio a bastonare;<br />

l’oste gri<strong>da</strong>va e non gli parea giuoco.<br />

disse Margutte: ­ Lascia un poco stare.<br />

io vo’ per casa cercare ogni loco.<br />

io vidi dianzi un bufol drento entrare:<br />

e’ ti bisogna fare, oste, un gran fuoco,<br />

e che tu inten<strong>da</strong> a un fischiar di zufolo;<br />

poi in qualche modo arrostiren quel bufolo. ­<br />

153. il fuoco per paura si fe’ tosto;<br />

Margutte spicca di sala una stanga;<br />

l’oste borbotta, e Margutte ha risposto:<br />

­ tu vai cercando il battaglio t’infranga:<br />

a voler far quello animale arrosto,<br />

che vuoi tu tòrre, un manico di vanga?<br />

Lascia ordinare a me, se vuoi, il convito. ­<br />

e finalmente il bufol fu arrostito;<br />

15 . non creder colla pelle scorticata:<br />

e’ lo sparò nel corpo solamente.<br />

Parea di casa più che la granata:<br />

coman<strong>da</strong> e gri<strong>da</strong>, e per tutto si sente.<br />

Un’asse molto lunga ha ritrovata;<br />

apparecchiolla fuor subitamente,<br />

e vino e carne e del pan vi ponea,<br />

perché Morgante in casa non capea.<br />

155. Quivi mangioron le reliquie tutte<br />

del bufolo, e tre staia di pane o piùe,<br />

e bevvono a bigonce; e poi Margutte<br />

disse a quell’oste: ­ dimmi, aresti tue<br />

<strong>da</strong> <strong>da</strong>rci del formaggio o delle frutte,<br />

ché questa è stata poca roba a due,<br />

o s’altra cosa tu ci hai di vantaggio? ­<br />

or udirete come andò il formaggio.<br />

156. L’oste una forma di cacio trovòe<br />

ch’era sei libbre, o poco più o meno;<br />

un canestretto di mele arrecòe<br />

d’un quarto o manco, e non era anche pieno.<br />

Quando Margutte ogni cosa guardòe,<br />

disse a quell’oste: ­ bestia sanza freno,<br />

ancor s’arà il battaglio adoperare,<br />

s’altro non credi trovar <strong>da</strong> mangiare.<br />

157. È questo compagnon <strong>da</strong> fare a once?<br />

aspetta tanto ch’io torni un miccino,<br />

e servi intanto qui colle bigonce:<br />

fa’ che non manchi al gigante del vino,<br />

che non ti racconciassi l’ossa sconce.<br />

io fo per casa come il topolino:<br />

vedrai s’io so ritrovare ogni cosa,<br />

e s’io farò venir giù roba a iosa! ­<br />

158. Fece la cerca per tutta la casa<br />

Margutte, e spezza e sconficca ogni cassa,<br />

e rompe e guasta masserizie e vasa:<br />

ciò che trovava, ogni cosa fracassa,<br />

ch’una pentola sol non v’è rimasa;<br />

di cacio e frutte raguna una massa,<br />

e portale a Morgante in un gran sacco,<br />

e cominciorno a rimangiare a macco.<br />

159. L’oste co’ servi impaüriti sono<br />

ed a servire attendon tutti quanti;<br />

e dice fra se stesso: “e’ sarà buono<br />

non ricettar mai più simil briganti:<br />

e’ pagheranno domattina al suono<br />

di quel battaglio, e saranno contanti.<br />

Hanno mangiato tanto, che in un mese<br />

non mangerà tutto questo paese”.<br />

160. Morgante, poi che molto ebbe mangiato,<br />

disse a quell’oste: ­ a dormir ce n’andremo;<br />

e domattina, com’io sono usato<br />

sempre a camino, insieme conteremo,<br />

e d’ogni cosa sarai ben pagato,<br />

per modo che d’accordo resteremo. ­<br />

e l’oste disse a suo modo pagassi;<br />

ché gli parea mill’anni e’ se n’an<strong>da</strong>ssi.<br />

161. Morgante andò a trovare un pagliaio<br />

ed appoggiossi come il lïofante.<br />

Margutte disse: ­ io spendo il mio <strong>da</strong>naio:<br />

io non voglio, oste mio, come il gigante,<br />

far degli orecchi zufoli a rovaio;<br />

non so s’io son più pratico o ignorante,<br />

ma ch’io non sono astrolago so certo:<br />

io vo’ con teco posarmi al coperto.<br />

162. Vorrei, prima che’ lumi sieno spenti,<br />

che tu traessi ancora un po’ di vino,<br />

ché non par mai la sera io m’addormenti


s’io non becco in sul legno un ciantellino,<br />

così per risciacquare un poco i denti;<br />

e goderenci in pace un canzoncino:<br />

e’ basta un bigonciuol così tra noi,<br />

or che non ci è il gigante che c’ingoi.<br />

163. Vedes’ tu mai ­ Margutte soggiugnea<br />

­ un uom più bello e di tale statura,<br />

e che tanto diluvi e tanto bea?<br />

non credo e’ ne facessi un più natura.<br />

e’ vuol, quando egli è all’oste, ­ gli dicea<br />

­ che l’oste gli trabocchi la misura;<br />

ma al pagar poi, mai il più largo uom vedesti:<br />

se tu nol provi, tu nol crederresti. ­<br />

16 . Venne del mosto, e stanno a ragionare,<br />

e l’oste un poco si rassicurava;<br />

Margutte un canzoncin netto spiccare<br />

comincia, e poi del camin doman<strong>da</strong>va,<br />

dicendo a bambillona volea an<strong>da</strong>re.<br />

L’oste rispose che non si trovava<br />

<strong>da</strong> trenta miglia in là casa né tetto<br />

per più giornate, e vassi con sospetto.<br />

165. e disselo a Margutte, e non a sordo,<br />

che vi pensò di sùbito malizia,<br />

e disse all’oste: ­ Questo è buon ricordo,<br />

poi che tu di’ che vi si fa tristizia.<br />

or oltre, a letto; e saren ben d’accordo,<br />

ch’io non istò a pagar con masserizia:<br />

io son lo spenditore, e degli scotti,<br />

come tu stesso vorrai, pagherotti:<br />

166. io ho sempre calcata la scarsella.<br />

deh, dimmi, tu non debbi aver domata,<br />

per quel ch’io ne compren<strong>da</strong>, una cammella<br />

ch’io vidi nella stalla tua legata;<br />

ch’io non vi veggo né basto né sella.<br />

rispose l’oste: ­ io la tengo appiattata,<br />

una sua bardelletta ch’io gli caccio,<br />

nella camera mia sotto il primaccio.<br />

167. Per quel ch’io il faccia, credo che tu inten<strong>da</strong>:<br />

sai che qui arriva più d’un forestiere<br />

a cena, a desinare ed a meren<strong>da</strong>. ­<br />

disse Margutte: ­ Lasciami vedere<br />

un poco come sta questa faccen<strong>da</strong>,<br />

poi che noi siam per ragionare e bere,<br />

e son le notte un gran cantar di cieco. ­<br />

e l’oste gli rispose: ­ io te l’arreco. ­<br />

168. recò quella bardella il sempliciotto:<br />

Margutte vi fe’ sù tosto disegno<br />

che questa accorderà tutto lo scotto;<br />

e disse all’oste: ­ e’ mi piace il tuo ingegno.<br />

Questo sarà il guancial ch’io terrò sotto;<br />

e dormirommi qui in su questo legno:<br />

so che letto non hai dov’io capessi,<br />

tanto che tutto mi vi distendessi.<br />

169. or vo’ saper come tu se’ chiamato. ­<br />

disse l’ostier: ­ tu saprai tosto come:<br />

io son il dormi per tutto appellato. ­<br />

disse Margutte: “Fa’ come tu hai nome;”<br />

così fra sé “tu sarai ben destato,<br />

quando fia tempo e innanzi fien le some”.<br />

­ come hai tu brigatella o vuoi figliuoli? ­<br />

disse l’ostier: ­ La donna ed io siàn soli. ­<br />

170. disse Margutte: ­ che puoi tu pigliarci<br />

la settimana in questa tua osteria?<br />

come arai tu moneta <strong>da</strong> cambiarci<br />

qualche dobbra <strong>da</strong> spender per la via? ­<br />

rispose l’oste: ­ io non vo’ molto starci,<br />

ch’io non ci ho preso, per la fede mia,<br />

<strong>da</strong> quattro mesi in qua venti ducati,<br />

che sono in quella cassetta serrati. ­<br />

171. disse Margutte: ­ oh, solo in una volta<br />

con esso noi più <strong>da</strong>nar piglierai!<br />

tu la tien’ quivi: s’ella fusse tolta? ­<br />

disse l’ostier: ­ non mi fu tocca mai. ­<br />

Margutte un occhiolin chiuse ed ascolta,<br />

e disse: “a questa volta lo vedrai!”.<br />

e per fornire in tutto la campana,<br />

un’altra malizietta trovò strana.<br />

172. Perché persona discreta e benigna ­<br />

dicea coll’oste ­ troppo a questo tratto<br />

mi se’ paruto, io mi chiamo il Graffigna;<br />

e ’l <strong>prof</strong>ferer tra noi per sempre è fatto.<br />

io sento un poco difetto di tigna,<br />

ma sotto questo cappel pur l’appiatto:<br />

io vo’ che tu mi doni un po’ di burro,<br />

ed io ti donerò qualche mangurro. ­<br />

173. L’oste rispose: ­ nïente non voglio:<br />

doman<strong>da</strong> arditamente il tuo bisogno,<br />

ché di tal cose cortese esser soglio. ­<br />

disse Margutte allora: ­ io mi vergogno:<br />

sappi che mai la notte non mi spoglio<br />

per certo vizio ch’io mi lievo in sogno;<br />

vorrei ch’un paio di fune m’arrecasse,<br />

e legherommi io stesso in su questa asse.<br />

17 . Ma serra l’uscio ben dove tu dormi<br />

ch’io non ti dessi qualche sergozzone;<br />

se tu sentissi per disgrazia sciòrmi<br />

e che per casa an<strong>da</strong>ssi a processione,<br />

non uscir fuor. ­ rispose presto il dormi,<br />

e disse: ­ io mi starò sodo al macchione.<br />

così voglio avvisar la mia brigata,<br />

che non toccassin qualche tentennata. ­<br />

175. Le fune e ’l burro a Margutte giù reca,<br />

e disse a’ servi di questo costume:<br />

ch’ognun si guardi <strong>da</strong>lla fossa cieca<br />

e non isbuchi ignun fuor delle piume.<br />

odi ribaldo! odi malizia greca!<br />

così soletto si restò col lume,<br />

e fece vista di legarsi stretto,<br />

tanto che ’l dormi se n’andò a letto.<br />

176. come e’ sentì russar, ch’ognun dormiva,


e’ cominciò per casa a far fardello:<br />

alla cassetta de’ <strong>da</strong>nar ne giva,<br />

ed ogni cosa pose in sul cammello;<br />

e come un uscio o qualche cosa apriva,<br />

ugneva con quel burro il chiavistello;<br />

e come egli ebbe fuor la vettovaglia,<br />

appiccò il fuoco in un monte di paglia.<br />

177. e poi n’an<strong>da</strong>va al pagliaio a Morgante:<br />

­ non dormir più, ­ dicea ­ dormito hai assai.<br />

non di’ tu che volevi ire in Levante?<br />

io sono ito e tornato, e tu il vedrai.<br />

non istiàn qui, dà in terra delle piante,<br />

se non che presto il fummo sentirai. ­<br />

disse Morgante: ­ che diavolo è questo?<br />

tu hai pur fatto, per dio, netto e presto. ­<br />

178. Poi s’avvïava, ch’aveva timore,<br />

perché quivi era un gran borgo di case,<br />

che non si lievi la gente a romore.<br />

dicea Margutte: ­ di ciò che rimase<br />

all’oste, un birro non are’ rossore:<br />

ch’io non istò a far mai le staia rase,<br />

ma sempre in ogni parte dov’io fui<br />

sono stato cortese dell’altrui. ­<br />

179. Mentre che questi così se ne vanno,<br />

la casa ardeva tutta a poco a poco:<br />

prima che ’l dormi s’avvegga del <strong>da</strong>nno,<br />

era per tutto appiccato già il foco;<br />

e non credea che fussi stato inganno.<br />

Quivi la gente correa d’ogni loco;<br />

ma con fatica scampò lui e la moglie:<br />

e così spesso de’ matti si coglie.<br />

180. Quando fu giorno che l’albe apparìe,<br />

Morgante vede insino alla grattugia,<br />

e fra se stesso dicea: “tutto die<br />

de’ miglior certo s’impicca ed abbrugia:<br />

guar<strong>da</strong> costui quante ciabatte ha quie!<br />

Per dio, che troppo il capresto s’indugia!”.<br />

disse Margutte: ­ e’ ci è insino alla secchia:<br />

non dubitar, questa è l’arte mia vecchia.<br />

181. noi abbiamo an<strong>da</strong>r per un certo paese<br />

dove <strong>da</strong> sé non ha chi non vi porta;<br />

e pure aren <strong>da</strong>nar <strong>da</strong> far le spese. ­<br />

e tutta la novella dice scorta<br />

della cassetta, e come il fuoco accese,<br />

come egli ebbe il cammel fuor della porta,<br />

e come il dormi se n’andò a dormire,<br />

ma il fuoco l’arà fatto risentire.<br />

182. Morgante le mascella ha sgangherate<br />

per le risa talvolta che gli abbon<strong>da</strong>,<br />

e dicea pure: “o forche sventurate,<br />

ecco che boccon ghiotto o pèsca mon<strong>da</strong>!<br />

non vi rincresca s’un poco aspettate.<br />

costui pur mena almen la mazza ton<strong>da</strong>.<br />

Quanto piacer n’arà di questo orlando,<br />

s’io lo vedrò mai più, che non so quando!”<br />

183. dicea Margutte: ­ in questo sta il gua<strong>da</strong>gno:<br />

quanto tu lasci più il brigante scusso.<br />

tu puoi cercar per tutto d’un compagno<br />

che d’ogni cosa sia, come io, malfusso;<br />

né, per ghermire, altro sparvier grifagno<br />

non ti bisogna, o zingherlo, arbo o usso;<br />

quel che si ruba, non s’ha a saper grado;<br />

e sai ch’io comincio ora a trar pel <strong>da</strong>do.<br />

18 . io chiesi insino al burro, e dissi a quello<br />

oste ch’un poco di tigna sentivo,<br />

per ugner poi gli arpioni e ’l chiavistello,<br />

che non sentissi quando un uscio aprivo,<br />

tanto ch’io avessi assettato il cammello:<br />

a ogni malizietta io son cattivo;<br />

del livido mi guardo quant’io posso,<br />

poi non mi curo più giallo che rosso.<br />

185. or mi piacesti tu, Margutte mio! ­<br />

dicea Morgante. e ’ntanto un, c’ha veduta<br />

quella cammella, diceva: ­ Per dio!<br />

ch’ella è del dormi ostier quella scrignuta. ­<br />

disse Margutte: ­ il dormi sarò io.<br />

non vedi tu, babbion, che si tramuta<br />

e sgombera qua presso a un castello?<br />

e maggior bestia se’ tu che ’l cammello. ­<br />

186. tutto quel giorno e l’altro sono an<strong>da</strong>ti<br />

per paesi dimestichi costoro;<br />

e ’l terzo dì in un bosco sono entrati<br />

dove aspre fere facevon dimoro;<br />

ed eron pel cammin tutti affannati,<br />

né vin, né pan non avean più con loro.<br />

dicea Morgante: ­ che farem, Margutte?<br />

Vedi che mancan qui le cose tutte.<br />

187. cerchiamo almeno appiè qua di quel monte,<br />

se vi surgessi d’acqua alcun rampollo;<br />

ché pur, se noi trovassin qualche fonte,<br />

la sete se n’andrebbe al primo crollo;<br />

ché le parole più spedite o pronte<br />

non sento, se la bocca non immollo:<br />

quel mi par luogo d’esservi dell’acque. ­<br />

onde a Margutte il suo consiglio piacque.<br />

188. Vanno cercando tanto, che trovorno<br />

una fontana assai niti<strong>da</strong> e fresca:<br />

quivi a sedere un poco si posorno,<br />

perché e’ convien che ’l caminar rincresca.<br />

ecco apparir di lungi un lïocorno<br />

che va cercando ove la sete gli esca.<br />

disse Margutte: ­ Se tu guardi bene,<br />

quel lïocorno in qua per ber ne viene.<br />

189. Questa sarà la nostra cena appunto:<br />

e’ si consuma di <strong>da</strong>r nella rete;<br />

però t’appiatta tanto che sia giunto,<br />

che tragga a noi la fame e a sé la sete. ­<br />

il lïocorno <strong>da</strong>lla voglia è punto,<br />

e non sapea le trappole segrete:<br />

venne alla fonte e ’l corno vi metteva,<br />

e stato un poco, a suo modo beeva.


190. Morgante, che <strong>da</strong>llato era nascoso,<br />

arrandellò il battaglio ch’egli ha in mano:<br />

dèttegli un colpo tanto grazïoso<br />

che cadde stramazzato a mano a mano,<br />

e non batté poi più senso né poso;<br />

e fu quel colpo sì feroce e strano<br />

che di rimbalzo in un masso percosse,<br />

e sfavillò come di fuoco fosse.<br />

191. Quando Margutte il vide sfavillare,<br />

disse: ­ Morgante, la cosa va gaia:<br />

forse che cotto lo potren mangiare.<br />

Per quel che di quel sasso là mi paia,<br />

noi gli faren del fuoco fuor gittare. ­<br />

disse Morgante: ­ ogni prieta è focaia<br />

dove Morgante e ’l battaglio s’accosta:<br />

sempre con esso ne fo a mia posta.<br />

192. Ma tu che se’, Margutte, sì sottile,<br />

ed hai condotte tante masserizie,<br />

come non hai tu l’esca col fucile? ­<br />

disse Margutte: ­ tra le mie malizie<br />

né cosa virtüosa né gentile<br />

non troverrai, ma fraude con tristizie. ­<br />

disse Morgante: ­ Piglia del fien secco;<br />

vienne qua meco. ­ e Margutte disse: ­ ecco. ­<br />

193. Vanno a quel masso, e Morgante martella,<br />

ch’arebbe fatto riscal<strong>da</strong>re il ghiaccio,<br />

tal ch’a Margutte intruona le cervella,<br />

sì che quel fien gli cadeva di braccio.<br />

allor Morgante ridendo favella:<br />

­ Guar<strong>da</strong> se fuor le faville ti caccio. ­<br />

Margutte il fien per vergogna riprese<br />

e tennel tanto che ’l fuoco s’accese.<br />

19 . Poi si cavò di dosso la schiavina,<br />

e scaricò la cammella a giacere<br />

e trasse quivi fuori una cucina:<br />

apparecchiò alle spese dell’ostiere,<br />

ch’avea recato insino alla salina,<br />

e tazze ed altre vasella <strong>da</strong> bere;<br />

al lïocorno abbruciò le caluggine,<br />

e fece uno schidon d’un gran peruggine.<br />

195. cosse la bestia, e pongonsi poi a cena:<br />

Morgante quasi intera la pilucca,<br />

sì che Margutte n’assaggiava appena;<br />

e disse: ­ il sal ci avanza nella zucca!<br />

Per dio, tu mangeresti una balena!<br />

non è cotesta gola mai ristucca:<br />

io ti vorrei per mio compagno avere<br />

a ogni cosa, eccetto ch’al tagliere. ­<br />

196. disse Morgante: ­ io vedevo la fame<br />

in aria come un nugol d’acqua pregno;<br />

e certo una balena con le squame<br />

arei mangiato sanz’alcun ritegno,<br />

ovvero un lïofante con lo stame.<br />

io rido che tu vai leccando il legno. ­<br />

disse Margutte: ­ S’ tu ridi, ed io piango,<br />

ché con la fame in corpo mi rimango.<br />

197. Quest’altra volta io ti ristorerò, ­<br />

dicea Morgante ­ per la fede mia! ­<br />

dicea Margutte: ­ anzi ne spiccherò<br />

la parte ch’io vedrò che giusta sia,<br />

e poi l’avanzo innanzi ti porrò,<br />

sì che e’ possi durar la compagnia.<br />

nell’altre cose io t’arò riverenza,<br />

ma della gola io non v’ho pazïenza:<br />

198. chi mi toglie il boccon non è mio amico,<br />

ma ogni volta par mi cavi un occhio.<br />

Per tutte l’altre volte te lo dico:<br />

ch’io vo’ la parte mia insino al finocchio,<br />

se s’avessi a divider solo un fico,<br />

una castagna, un topo o un ranocchio. ­<br />

Morgante rispondea: ­ tu mi chiarisci<br />

di bene in meglio, e come oro affinisci.<br />

199. racconcia un poco il fuoco, ch’egli è spento. ­<br />

Margutte ritagliò di molte legne,<br />

fece del fuoco ed un alloggiamento.<br />

disse Morgante: ­ Se quel non si spegne<br />

per istanotte, io mi chiamo contento.<br />

tu hai qui acconcio mille cose degne,<br />

tu se’ il maestro di color che sanno. ­<br />

così la notte a dormir quivi stanno.<br />

200. e la cammella si pasceva intorno.<br />

Ma poi che l’aürora si dimostra,<br />

disse Margutte a Morgante: ­ egli è giorno:<br />

leviacci e seguitian l’an<strong>da</strong>ta nostra. ­<br />

così tutte lor cose rassettorno.<br />

or, perché l’un cantar con l’altro giostra,<br />

quel che seguì sarà nell’altro canto;<br />

e lauderemo il Padre nostro intanto.<br />

cantare VenteSiMottaVo<br />

1. L’ultima grazia, o mio Signor benigno,<br />

perché il fin mostra d’ogni cosa il tutto,<br />

non mi negar, ché ancor si mostra arcigno<br />

innanzi al tempo non maturo il frutto:<br />

fa’ ch’io paia alla morte un bianco cigno<br />

che dolce canta in su l’estremo lutto,<br />

tanto ch’io ponga in terra il mortal velo<br />

di carlo in pace, e l’anima a te in cielo:<br />

2. perché donna è costì, che forse ascolta,<br />

che mi commise questa istoria prima,<br />

e se per grazia è or <strong>da</strong>l mondo sciolta,<br />

so che tanto nel ciel n’è fatto stima,<br />

ch’io me n’andrò con l’una e l’altra volta<br />

con la barchetta mia, cantando in rima,<br />

in porto, come io promissi già a quella<br />

che sarà ancor del nostro mare stella.<br />

3. infino a qui l’aiuto di Parnaso<br />

non ho chiesto né chieggo, Signor mio,


o le Muse o le suore di Pegàso,<br />

come alcun dice, o caliopè o clio:<br />

questo ultimo cantar drieto rimaso<br />

tanto mi sprona e la voglia e ’l desio<br />

che, mentre io batto i marinai e sferzo,<br />

alla mia vela aggiugnerò alcun ferzo.<br />

. <strong>da</strong> Siragozza s’è carlo partito,<br />

arso la terra e vendicate l’onte;<br />

e il traditor di Marsilio è punito<br />

dove e’ fece il peccato a quella fonte;<br />

e cavalcando d’uno in altro lito,<br />

in molti luoghi fe’ rifare il ponte<br />

ch’egli avea prima pel cammin tagliato<br />

acciò che indrieto nessun sia tornato.<br />

5. e ritornossi a San Gianni di Porto,<br />

e non sofferse a gnun modo passare<br />

di runcisvalle, ove il nipote è morto;<br />

e dicea sempre nel suo sospirare:<br />

­ chi sarà quel che mi dia più conforto? ­<br />

tanto ch’ognun faceva lacrimare.<br />

­ che farà più questa anima nel petto?<br />

La vita mia omai fia sol despetto. ­<br />

6. or perché alcun qui dice, Ganellone<br />

sendo con certa astuzia scarcerato,<br />

che gli apparì sì gran confusïone<br />

di nebbia che l’avea tutto obumbrato,<br />

e ritornossi smarrito in prigione,<br />

ché così lo gui<strong>da</strong>va il suo peccato;<br />

dico io: non so se confirmar mi debbia,<br />

per non parere un aüttor <strong>da</strong> nebbia.<br />

7. rinaldo intanto ha confortato carlo,<br />

e tutta insieme a un grido la corte,<br />

che il traditor si dovessi straziarlo,<br />

e pensa ognun della più crudel morte:<br />

a molti par che si debba squartarlo;<br />

altri dicea di tormento più forte<br />

e ruote e croce e con ogni vergogna<br />

e mitera e berlina e scopa e gogna.<br />

8. e dopo molto disputar, fu Gano<br />

menato in sala con gran grido e tuono,<br />

incatenato come un cane alano,<br />

e tanti farisei dintorno sono<br />

che pensan solo ognun d’averne un brano;<br />

e mentre e’ volea pur chieder perdono<br />

e crede ancor forse carlo gli cre<strong>da</strong>,<br />

rinaldo il dètte a quella turba in pre<strong>da</strong>.<br />

9. carlo si stette a veder questa caccia:<br />

e come in mezzo la volpe è de’ cani,<br />

ognun fa la sua presa, ognuno straccia:<br />

chi lo mordea, chi gli storce le mani,<br />

e chi per dilegion gli sputa in faccia,<br />

chi gli dà certi sergozzoni strani,<br />

chi per la gola alle volte lo ciuffa,<br />

tanto che il cacio gli saprà di muffa;<br />

10. chi con la man, chi col piè lo percuote,<br />

chi fruga e chi sospigne e chi punzecchia,<br />

chi gli ha con l’unghie scarnate le gote,<br />

chi gli avea tutte mangiate l’orecchia,<br />

chi lo ’ntronava e gri<strong>da</strong> quanto e’ puote,<br />

chi il carro intanto col fuoco apparecchia,<br />

chi gli avea tratto con le dita gli occhi,<br />

chi il volea scorticar come i ranocchi.<br />

11. e come e’ fu sopra il carro il ribaldo,<br />

il popol gri<strong>da</strong> intorno: ­ Muoia, muoia! ­<br />

intanto il ferro apparecchiato è caldo:<br />

non doman<strong>da</strong>r come e’ lo concia il boia,<br />

che non resta di carne un dito saldo,<br />

ché tutte son ricamate le cuoia:<br />

sì ch’egli era alle man di buon maestro,<br />

perché e’ facea molto l’uficio destro.<br />

12. egli aveva il capresto d’oro al collo<br />

e la corona de’ ribaldi in testa.<br />

rinaldo ancor non si chiama satollo,<br />

e ’l popol rugghia con molta tempesta,<br />

e chi gittava la gatta e chi il pollo,<br />

ed ogni volta lo imberciava a sesta:<br />

non si dipigne Lucifer più brutto<br />

<strong>da</strong>l capo a’ pie’, come e’ pareva tutto.<br />

13. Fece quel carro la cerca maggiore;<br />

e chi si cava pattìn, chi pianelle,<br />

per vedere straziare il traditore<br />

sì che di can non si strazia più pelle:<br />

tanto tumulto, strepito e romore<br />

che rimbombava insin sopra le stelle,<br />

­ crucifigge! ­ gri<strong>da</strong>ndo ­ crucifigge! ­<br />

e ’l manigoldo tuttavia trafigge.<br />

1 . e poi che il carro al palazzo è tornato,<br />

carlo ordinato avea quattro cavagli;<br />

e come a questi il ribaldo è legato,<br />

cominciano i fanciugli a scudisciàgli,<br />

tanto che l’hanno alla fine squartato.<br />

Poi fe’ rinaldo que’ quarti gittàgli<br />

per boschi e bricche e per balze e per macchie<br />

a’ lupi, a’ cani, a’ corvi, alle cornacchie.<br />

15. cotal fine ebbe il maladetto Gano,<br />

ché lo etterno giudicio è sempre appresso<br />

quando tu credi che sia ben lontano.<br />

or forse tu, lettor, dirai adesso<br />

come e’ gli abbi creduto carlo Mano.<br />

io ti rispondo: era così permesso;<br />

era nato costui per ingannarlo<br />

e convenia che gli credessi carlo.<br />

16. nota che carlo Magno era uom divino,<br />

e lungo tempo avea tenuto seco<br />

un dotto antico, chiamato alcuïno,<br />

ed apparò <strong>da</strong> lui latino e greco,<br />

ed ordinò lo Studio parigino;<br />

or par che sia dello intelletto cieco;<br />

onde alcun aüttor come prudente<br />

di Ganellon non iscrive nïente.


17. ed io meco medesimo disputo,<br />

quand’io ho ben raccolta la sua vita,<br />

come egli abbi un error tanto tenuto.<br />

Ma la natura divina è tradita,<br />

e non ha sanza misterio voluto,<br />

ché la sua sapïenzia è infinita:<br />

credo che iddio a buon fine permette<br />

l’opere sante, e così maladette:<br />

18. però che carlo per esperïenzia<br />

dovea molto saper, perché ne’ vecchi<br />

accade, e non in giovane, prudenzia,<br />

poi ch’ella è figurata con tre specchi;<br />

avea buon natural, buona scïenzia;<br />

e come il traditor gli era agli orecchi,<br />

e’ gli credeva ogni cosa a sua posta:<br />

sì ch’io non fermo ancor la mia risposta.<br />

19. Molte volte, anzi spesso, c’interviene<br />

che tu t’arrechi un amico a fratello,<br />

e ciò che fa ti par ch’e’ facci bene,<br />

dipinto e colorito col pennello:<br />

questo primo legame tanto tiene<br />

che, s’altra volta ti dispiace quello<br />

e qualche cosa ti farà molesta,<br />

sempre la prima impressïon pur resta.<br />

20. avea già lungo tempo carlo Magno<br />

tenuto in corte sua Gan di Maganza;<br />

ed oltre a questo vi vedea gua<strong>da</strong>gno,<br />

però che Gano avea molta possanza<br />

e qualche volta gli fu buon compagno;<br />

e perché molto può l’antica usanza,<br />

l’abito fatto d’uno in altro errore<br />

facea che carlo gli portava amore.<br />

21. altri direbbe: “dimmi ancora un poco:<br />

Gan sapea pur ch’egli aveva tradito,<br />

e che e’ doveva alfine ardere il foco:<br />

come e’ non s’era di corte partito<br />

acciò che rïuscissi netto il giuoco,<br />

sendo tanto mascagno e scalterito?”.<br />

credo ch’io l’abbi in altro cantar detto<br />

ch’ogni cosa si fa per un despetto.<br />

22. Quando Ulivier percosse il viso a Gano,<br />

io dissi allor come e’ si pose in core<br />

di vendicarsi, ché gli parve strano,<br />

sendo pur per natura traditore.<br />

ricòr<strong>da</strong>ti, lettor, del Lampognano,<br />

e non cercar d’altro antico aüttore,<br />

e sempre tien’ la paura in corazza,<br />

ché il disperato alfin mena la mazza.<br />

23. Forse che Gano ancora avea speranza<br />

di ricoprir con carlo il tradimento;<br />

ed avea tanta gente di Maganza<br />

che, come il conte orlando fussi spento,<br />

si confi<strong>da</strong>va nella sua possanza<br />

di poter le bandiere alzare al vento<br />

col favor di Marsilio e con la lancia,<br />

e coronarsi del regno di Francia.<br />

2 . or lasciàn questo traditor pe’ boschi,<br />

com’io dissi, pe’ balzi e per le fosse,<br />

perch’io son pien di molti pensier foschi:<br />

non c’è il nocchier che la mia barca mosse,<br />

e bisogna che terra io ricognoschi<br />

come se quella in alto mare or fosse,<br />

e rilevare il porto per aguglia,<br />

perché la son<strong>da</strong> alle volte ingarbuglia.<br />

25. Morto è turpino e seppellito e pianto,<br />

tanto ch’io temo nella prima vista<br />

di non uscir fuor del cammino alquanto,<br />

ché mi bisogna scambiar timonista,<br />

e nuova cetra s’apparecchia e canto;<br />

ma perché volteggiando pur s’acquista,<br />

forse che in porto condurrem la nave<br />

di ricche merce ponderosa e grave:<br />

26. sì ch’io ricorro al mio famoso arnaldo,<br />

che m’accompagni insino al fine e scorga<br />

tanto ch’io ponga in quïete rinaldo,<br />

e la sua destra mano al timon porga:<br />

che, poi che Gano ha squartato il ribaldo,<br />

d’un zucchero candito è pieno in gorga,<br />

e riforbito s’ha gli artigli e ’l becco<br />

e tratto fuor della mente lo stecco.<br />

27. e perché egli ama ancor pur Lucïana,<br />

con molta gente la mandò a Parigi,<br />

perch’ella era nipote a Gallerana;<br />

e battezzossi drento a San dionigi<br />

ed accordossi alla fede cristiana;<br />

e tanto piacque al gentile ansuïgi,<br />

perché pure era ancor giovane e bella,<br />

che finalmente disponsata ha quella.<br />

28. e ricciardetto con lei fu man<strong>da</strong>to,<br />

per piacere a rinaldo, in compagnia;<br />

e ’l padiglion ch’ella aveva donato<br />

rinaldo volle renduto gli sia<br />

per ristorarla del tempo passato,<br />

e rendé cortesia per cortesia;<br />

e sempre il tenne poi sopra il suo letto;<br />

e basti questo a lei e ricciardetto.<br />

29. rinaldo a carlo Magno un giorno disse<br />

come e’ voleva di corte partire<br />

e cercar tutto il mondo come Ulisse.<br />

carlo di duol si credette morire;<br />

ma finalmente poi lo benedisse,<br />

e non poteron nessun contraddire<br />

che, poi che vendicato aveva orlando,<br />

volea pel mondo an<strong>da</strong>r peregrinando.<br />

30. Gran pianto fece la corte di carlo;<br />

carlo gli parve rimaner sì solo<br />

che non poté mai più dimenticarlo:<br />

credo che questo fu l’ultimo duolo;<br />

e non voleva sentir ricor<strong>da</strong>rlo,<br />

come fa il padre che perde il figliuolo;<br />

e tutta Francia ne fe’ gran lamento,


poi ch’un tanto campion nel mondo è spento.<br />

31. e credo in verità che così sia:<br />

perché pur molte cose ho di lui scritto,<br />

e per virtù della sua gagliardia<br />

e’ par ch’io sia come costor già afflitto;<br />

e come peregrin rimaso in via,<br />

che va pur sempre al suo cammin diritto<br />

col pensier, con la mente e col cervello,<br />

così vo io pur seguitando quello.<br />

32. e s’io credessi di piacere ancora<br />

alla patria, a color che leggeranno,<br />

come avvien chi per fama s’innamora,<br />

io piglierei di questa istoria affanno,<br />

però che al tutto chi ne scrive ignora;<br />

ma se mie rime facultate aranno,<br />

forse che il mondo ancor leggerà questo<br />

fin che l’ultimo dì fia manifesto.<br />

33. Ma l’aüttor disopra ov’io mi specchio<br />

parmi che cre<strong>da</strong>, e forse crede il vero,<br />

che, benché e’ fusse rinaldo già vecchio,<br />

avea l’animo ancor robusto e fero<br />

e quel suon d’astarotte nello orecchio<br />

come disotto in quell’altro emispero<br />

erano e guerre e monarchie e regni,<br />

e che e’ passassi alfin d’ercule i segni.<br />

3 . e perché ancor di lui quell’angel disse:<br />

­ ogni cosa esser può, quando iddio vuole ­,<br />

acciò che quelle gente convertisse<br />

ch’adoravan pianeti e vane fole,<br />

e se ancor vivo un giorno e’ rïuscisse<br />

<strong>da</strong>ll’altra parte ove si lieva il sole,<br />

come molti miracoli si vede,<br />

qual maraviglia? chi più sa, men crede.<br />

35. non si dice egli ancor del Vangelista?<br />

benché ciò comparar par forse scelo.<br />

Ma dove il punto o il misterio consista,<br />

sallo colui che fece il mondo e ’l cielo:<br />

questa nostra mortal caduca vista<br />

fasciata è sempre d’un oscuro velo,<br />

e spesso il vero scambia alla menzogna;<br />

poi si risveglia come fa chi sogna.<br />

36. e del <strong>da</strong>nese, che ancor vivo sia,<br />

perché tutto può far chi fe’ natura,<br />

dicono alcun, ma non la istoria mia,<br />

e che si truova in certa grotta oscura,<br />

e spesso armato a caval par che stia,<br />

sì che, chi il vede, gli mette paura:<br />

non so s’è vera oppinïone o vana;<br />

e così della spa<strong>da</strong> durlin<strong>da</strong>na,<br />

37. e come carlo la gittò nel mare,<br />

e il dì della battaglia dolorosa<br />

si vede sopra l’acqua galleggiare<br />

e mostrasi ancor tutta sanguinosa,<br />

e s’alcun va per volerla pigliare,<br />

sùbito sotto si torna nascosa:<br />

tutto esser può, ma come caso nuovo<br />

con la mia penna non l’affermo o pruovo.<br />

38. credo che al tempo di que’ paladini,<br />

perché la fede amplïasse di cristo,<br />

sendo molto potenti i saracini,<br />

molte cose a buon fin permisse cristo;<br />

ché se non fussi stato a’ lor confini<br />

carlo a pugnar per la fede di cristo,<br />

forse saremo ognun maümettisti:<br />

ergo, carole, in tempore venisti.<br />

39. Parmi carlo e domenico e Francesco<br />

abbin tanto operato per la fede,<br />

con le dottrine e col valor francesco,<br />

ch’io dirò forse che per lor si crede:<br />

ché il popol de’ cristiani stava fresco;<br />

se non che iddio a’ buon servi concede,<br />

perché ogni cosa è <strong>da</strong> lui preveduto,<br />

sempre al tempo opportun debito aiuto.<br />

0. io mi confido ancor molto qui a <strong>da</strong>nte,<br />

che non sanza cagion nel ciel sù misse<br />

carlo ed orlando in quelle croce sante,<br />

ché come diligente intese e scrisse;<br />

e così incolpo il secolo ignorante<br />

che mentre il nostro carlo al mondo visse,<br />

non ebbe un Livio, un crispo, un iustin seco<br />

o famoso scrittor latino o greco.<br />

1. Ma perch’io dissi altra volta di questo,<br />

quando al principio cominciai la istoria,<br />

forse tacere, uditor, fia onesto:<br />

poi ch’io ho collocato in tanta gloria<br />

carlo ed orlando, or basti, sia per resto,<br />

perché e’ non paia vanitate o boria<br />

a giudicar de’ segreti di sopra<br />

quel che meriti ognun secondo l’opra.<br />

2. Sempre i giusti son primi i lacerati:<br />

io non vo’ ragionar più della fede,<br />

ch’io me ne vo poi in bocca a questi frati<br />

dove vanno anche spesso le lamprede,<br />

e certi scioperon pinzocorati<br />

rapportano: ­ il tal disse, il tal non crede ­,<br />

donde tanto romor par che ci sia<br />

se “in principio era buio e buio fia”.<br />

3. in principio creò la terra e il cielo<br />

colui che tutto fe’ qual sapïente,<br />

e le tenebre al sol facevon velo;<br />

non so quel ch’e’ si fia poi finalmente<br />

nella revoluzion del grande stelo:<br />

basta che tutto giudica la Mente;<br />

e se pur vane cose un tempo scrissi,<br />

contra hypocritas tantum, pater, dissi.<br />

. non in pergamo adunque, non in panca<br />

reprendi il peccator, ma quando siedi<br />

nella tua cameretta, se e’ pur manca;<br />

salite colassù col piombo a’ piedi:<br />

la fede mia come la tua è bianca,


e farotti vantaggio anche due credi;<br />

predicate e spianate lo evangelio<br />

con la dottrina del vostro aürelio;<br />

5. e s’alcun susurrone è che v’imbocchi,<br />

palpate come tomma, vi ricordo,<br />

e giudicate alle man, non agli occhi,<br />

come dice la favola del tordo.<br />

e non sia ignun più ardito che mi tocchi,<br />

ch’io toccherò poi forse un monacordo,<br />

ch’io troverrò la solfa e’ suoi vestigi:<br />

io dico tanto a’ neri quanto a’ bigi.<br />

6. Vostri argumenti e vostri sillogismi,<br />

tanti maestri, tanti bacalari,<br />

non faranno con loïca o soffismi<br />

ch’alfin sien dolci i miei lupini amari;<br />

e non si cercherà de’ barbarismi,<br />

ch’io troverrò ben testi che fien chiari:<br />

per carità per sempre vi sia detto;<br />

e non si dirà poi più del sonetto.<br />

7. io mi parti’ <strong>da</strong> San Gianni di Porto<br />

dov’io lasciai il mio carlo mal contento;<br />

or, perché il fine è di venire a porto<br />

sempre d’ognun che si commette al vento,<br />

noi penserem qualche tragetto corto,<br />

però che un’ora omai parrebbe cento:<br />

tanto la voglia è in sé più desïosa,<br />

quanto più presso al fine è ogni cosa.<br />

8. carlo, poi ch’ebbe Ganellon punito<br />

e rimesso un dïavolo in inferno<br />

che l’ha più tempo tentato e tradito,<br />

fe’ come sempre i sapïenti ferno,<br />

che d’ogni cosa pigliar san partito;<br />

e redusse la corte e ’l suo governo<br />

in aquisgrana, ove alcun tempo visse,<br />

e molte guerre fe’ pria che morisse.<br />

9. Ma perché morte a nessun mai perdona,<br />

non riguar<strong>da</strong>ndo a tanto imperatore,<br />

poi ch’egli ebbe tenuta la corona<br />

quaranzette anni con supremo onore,<br />

l’anima sua il secolo abbandona,<br />

e ritornossi a quel lieto Fattore<br />

che si ricor<strong>da</strong> ristorare in cielo<br />

i giusti e’ buon, come dice il Vangelo.<br />

50. e benché tante cose ha fatte prima,<br />

che non iscrisse ormanno né turpino,<br />

riserberem con altra cetra e rima<br />

a cantar le sue laude ad alcuïno,<br />

che canterà le cose di più stima,<br />

dell’infanzia tacendo e di Pipino,<br />

come solevan ne’ tempi discreti<br />

cantar le laude de’ morti i poeti.<br />

51. Furon molto le essequie celebrate,<br />

e tutto il mondo quasi in veste negra,<br />

massime tutta la cristianitate,<br />

e Francia poi non si vide più allegra.<br />

or, perché molte cose ho pur lasciate,<br />

acciò che io dica la sua istoria integra<br />

tanto che e’ sia anche il dotto satollo,<br />

convien ch’io invochi a questa volta apollo.<br />

52. e per delo e per delfo e pel tuo cinto<br />

ti priego che tu temperi la lira,<br />

per la tua bella <strong>da</strong>nne e per iacinto;<br />

e quel furor che sentì già respira<br />

ismaro e cirra, Pindo ed arachinto:<br />

tanto che quel temerario tamira<br />

e Marsia invidia abbia alla cetra nostra,<br />

mentre che carlo ancor vivo si mostra.<br />

53. in aquisgrana un certo citarista<br />

era in quel tempo, Lattanzio appellato,<br />

molto gentil, molto famoso artista:<br />

per la qual cosa in alto fu montato,<br />

raccolto molte cose a una lista,<br />

della vita di carlo ammaestrato;<br />

e innanzi ad alcuïn cantando disse<br />

ciò che turpino ed ormanno già scrisse.<br />

5 . e cominciossi a carlo giovinetto:<br />

come già, sendo del regno cacciato,<br />

morto Pipino il padre, poveretto,<br />

con un pastore ha l’abito scambiato;<br />

e come e’ fu chiamato il Maïnetto<br />

in corte ove Galafro l’ha accettato;<br />

e come e’ fussi a lui menato e quando<br />

<strong>da</strong> un suo balio chiamato Morando;<br />

55. e come Gallerana, innamorata,<br />

dopo alcun tempo a lui si fece sposa,<br />

e come in Francia l’aveva menata;<br />

poi dimostrò la sua virtù nascosa<br />

quando egli ebbe la patria racquistata<br />

e la corona in testa glorïosa:<br />

perché Pipino, il suo padre, fu morto<br />

<strong>da</strong> oldorigi a tradimento, a torto;<br />

56. e come, essendo in italia venuto,<br />

con molta gente il mar passò agolante,<br />

per un buffone al quale ebbe creduto;<br />

e disse le battaglie tutte quante,<br />

e come, carlo d’almonte abbattuto,<br />

orlando, che ancora era un picciol fante,<br />

uccise finalmente questo almonte<br />

con un troncon di lancia a una fonte.<br />

57. e di Gerardo e don buoso e don chiaro,<br />

di risa e di riccier tutto cantossi;<br />

e come, poi che in Francia ritornaro,<br />

perché più volte Spagna ribellossi,<br />

l’ultima volta gli costò amaro;<br />

e come quella guerra cominciossi,<br />

e Ferraù come morì in sul ponte,<br />

e Lazzera fu presa sopra il monte;<br />

58. e come poi alla Stella Serpentino<br />

venne fuori a combatter con orlando,<br />

e come morto rimase, meschino;


sì che carlo, la impresa seguitando,<br />

riprese verso navarra il cammino,<br />

a Pampalona alla fine arrivando;<br />

e della lunga e dispietata guerra<br />

mentre che tenne assediata la terra;<br />

59. e come orlando sdegnato è partito<br />

e capitò nella Mec al Sol<strong>da</strong>no,<br />

e come Machi<strong>da</strong>nte è alfin fuggito,<br />

e Sansonetto si fe’ poi cristiano;<br />

e inverso Gerosolima fu ito<br />

e racquistò il Sepulcro con sua mano,<br />

e ricognobbe Ugon german fratello,<br />

e Sansonetto ne menòe e quello;<br />

60. e ritornato a carlo a Pampalona,<br />

dove a campo era stato già molti anni,<br />

intese che Maccario la corona<br />

e la sua sposa togliea con inganni<br />

e bisognava carlo ire in persona<br />

a racquistare i suoi reali scanni;<br />

e Malachel lo portò finalmente<br />

dove Maccario poi restò dolente.<br />

61. così, ripresa la sua signoria,<br />

a Pampalona tornò come un vento;<br />

e come desiderio di Pavia<br />

prese la terra con iscaltrimento,<br />

e poi mandò a Marsilio imbasceria,<br />

ove chiron fu morto a tradimento;<br />

e come carlo con tutta sua setta<br />

contra Marsilio giurò far vendetta;<br />

62. e finalmente si trattòe la pace;<br />

e come Ganellon fu poi man<strong>da</strong>to<br />

a Siragozza, il traditor fallace,<br />

e come il tradimento ha ordinato,<br />

e come iddio mostrò che gli dispiace;<br />

e intanto carlo a San Gianni è arrivato;<br />

e come in runcisvalle orlando è giunto,<br />

e la battaglia, com’io dissi appunto.<br />

63. e ciò che addrieto nel Morgante è scritto,<br />

ogni cosa Lattanzio in alto disse;<br />

e come tutta la Persia e lo egitto<br />

alla fede di cristo pervenisse:<br />

e bisognòe qui an<strong>da</strong>r pel segno ritto<br />

(non so se troppa mazza altrove misse),<br />

ché l’aüttor che Morgante compose<br />

non direbbe bugie tra queste cose.<br />

6 . e del <strong>da</strong>nese, e come e’ fu cristiano,<br />

e del caval chiamato duraforte;<br />

e che in prigione il tenne carlo Mano<br />

quando quel dètte a carlotto la morte,<br />

insin che venne quel bravieri strano<br />

che abbatté tutti i paladin di corte;<br />

e come e’ fu della Marca signore,<br />

ogni cosa dicea quel cantatore;<br />

65. e come poi rinaldo giovinetto<br />

con tre frategli a carlo fu man<strong>da</strong>to,<br />

che fu Guicciardo, alardo e ricciardetto,<br />

e come carlo l’aveva accettato;<br />

e perché spesso gli facea despetto,<br />

più volte l’ebbe di corte scacciato;<br />

e come e’ fe’ per arte Malagigi<br />

Montalban fare a quegli angeli bigi.<br />

66. e disse finalmente tante cose<br />

che fece tutto il popolo stupire,<br />

insin che pur la cetera giù pose<br />

e non poté di carlo tanto dire<br />

quanto l’opere sue son più famose.<br />

or pur la istoria ci convien finire,<br />

ché alcuïn, poi che Lattanzio ha detto,<br />

la cetra ha in punto, e ’l piè già in sul palchetto.<br />

67. era il popol di lacrime confuso,<br />

tanto a ciascun del suo signore increbbe,<br />

e veramente a questa volta io scuso<br />

ognun che piange quel che pianger debbe;<br />

quando alcuïn, secondo l’antico uso<br />

salito in alto, poi che guar<strong>da</strong>to ebbe<br />

la gente afflitta e lamentabil tanto,<br />

la cetra accommodò col flebil canto;<br />

68. e molto commendò colui che ha detto,<br />

Lattanzio, e disse nello essordio prima:<br />

­ io son fra molti dicitore eletto,<br />

e me’ di me ognun sa dire in rima:<br />

però, s’io commettessi alcun defetto,<br />

populo mio, per discrezion istima<br />

che come Filomena a cantar vegno<br />

materia ove e’ non basta uman ingegno.<br />

69. io canterò del magno imperatore<br />

la vita, e piangerò con voi la morte:<br />

perché pure era mio padre e signore<br />

e tanto tempo m’ha nutrito in corte,<br />

dove il pan de’ sospiri e del dolore<br />

convien ch’io mangi or, tanto duro e forte;<br />

ma perch’io sono alla vita obligato,<br />

non voglio anche alla morte esser ingrato.<br />

70. Pipino, il padre suo famoso e degno,<br />

tenne prima lo scettro e il nome regio,<br />

e governò per quindici anni il regno:<br />

però che al gran prefetto del collegio<br />

dinanzi a lui bastava il nome e ’l segno;<br />

ma la corona e ’l real seggio e ’l fregio<br />

tenne Pipin, come di sopra è detto,<br />

che per successïone era prefetto.<br />

71. Morto Pipin, dopo il quindecimo anno<br />

<strong>da</strong>lla sua promozion, rimase carlo,<br />

carlo Magno appellato, e carlomanno,<br />

un suo fratel; ma del signor mio parlo,<br />

ché come il regno insieme partito hanno<br />

opera mia non è di raccontarlo:<br />

io dirò tanto della sua eccellenzia<br />

quant’io ebbi oculata esperïenzia.<br />

72. La prima guerra fu con gli aquitani. ­


nota, lettor, che l’aquitania è Ghienna,<br />

acciò che i versi alcuna volta io spiani<br />

dov’io vedrò la discrezione accenna.<br />

­ Pipin v’avea prima messo le mani,<br />

come scritto fu già con altra penna;<br />

carlo v’andò fino a guerra finita,<br />

e riportonne la palma fiorita.<br />

73. e so che replicar non mi bisogna<br />

cose tanto propinque alla memoria,<br />

e come Unuldo si fuggì in Guascogna,<br />

e come doppia fu questa vittoria,<br />

<strong>da</strong> poi ch’egli ebbe il suo nimico in gogna:<br />

però che Lupo, per maggior sua gloria,<br />

il duca di Guascogna, fu prudente<br />

e dètte Unuldo e sé liberamente.<br />

7 . e perché intanto il bel paese esperio<br />

occupava il furor de’ Longobardi<br />

sotto l’insegne del re desiderio,<br />

uomini inculti, feroci e gagliardi,<br />

sì che quel tenne di italia lo imperio<br />

ventiquattro anni sotto i suoi sten<strong>da</strong>rdi,<br />

non si poteva alla fine cacciarlo,<br />

se non giugneva il soccorso di carlo.<br />

75. era venuto di verso occeàno<br />

questo popolo indomito, chiamato<br />

<strong>da</strong> narsete eünuco capitano:<br />

onde il sommo pontefice oppressato,<br />

ch’era in quel tempo il famoso adrïano,<br />

a carlo imbasciatore ebbe man<strong>da</strong>to<br />

che dovessi in italia venir quello<br />

come Pipin già fece e ’l suo Martello.<br />

76. carlo, mosso <strong>da</strong>’ prieghi santi e giusti,<br />

partì di Francia co’ suoi paladini,<br />

e bisognòe passar per luoghi angusti<br />

onde anibal passò co’ suoi barchini,<br />

perché e’ tenean que’ populi robusti<br />

i passi e’ gioghi degli alti apennini;<br />

ma passi o sbarre non valsono o ponti,<br />

ché finalmente e’ trapassò que’ monti.<br />

77. e mandò prima imbasciadori a quelli<br />

là dove desiderio era atten<strong>da</strong>to:<br />

che dovessin partir co’ lor drappelli,<br />

e come egli era in italia chiamato<br />

per discacciar della chiesa i rebelli;<br />

che si ricordin pel tempo passato<br />

come altra volta con ispa<strong>da</strong> e lancia<br />

provato avevan le forze di Francia.<br />

78. e finalmente alla battaglia venne<br />

dove il pian vercellese par che sia:<br />

il perché desiderio non sostenne<br />

e fu constretto fuggirsi in Pavia,<br />

dove carlo assediato un tempo il tenne;<br />

e intanto andò con la sua compagnia,<br />

poi ch’egli avea la sua superbia doma,<br />

a vicitare il pontefice a roma.<br />

79. Grande onor fece il sommo padre santo<br />

a carlo, lieto del suo avvenimento;<br />

restituïte le sue terre intanto,<br />

ed aggiunto Spoleti e benevento,<br />

e così in roma dimorato alquanto,<br />

per che molto adrïan ne fu contento,<br />

e satisfatto alla sua devozione,<br />

si dipartì con gran benedizione.<br />

80. e perché desiderio avea lasciato,<br />

com’io dissi, assediato in la sua terra,<br />

come fùlgore indrieto ritornato,<br />

tanto lo strinse finalmente e serra<br />

che bisognò che si fussi accor<strong>da</strong>to:<br />

e così fu terminata la guerra,<br />

e riportonne il trïunfo e le spoglie<br />

e in Francia lui co’ figliuoli e la moglie.<br />

81. così la bella italia liberata,<br />

che <strong>da</strong>’ Goti e <strong>da</strong>’ Van<strong>da</strong>li prima era<br />

e <strong>da</strong>gli Unni e <strong>da</strong>gli eruli occupata,<br />

gente bestial, molto crudele e fera,<br />

e la chiesa di dio restaürata,<br />

si ritornò con la santa bandiera;<br />

e per più gloria de’ famosi gigli<br />

seco menò di carlomanno i figli.<br />

82. io lascio molte cose egregie e degne,<br />

ch’io non posso seguir con la memoria<br />

e, in ogni parte ove fur, le sue insegne<br />

accompagnar d’una in altra vittoria;<br />

ma se morte anzi tempo non ispegne<br />

il vero lume a mostrar questa istoria,<br />

con altro stil, con altra cetra e verso<br />

sarà ancor chiara a tutto l’universo.<br />

83. or, come avvien che il generoso core<br />

cose magne ricerca insin se sogna,<br />

così intervien che il nostro imperatore,<br />

poi ch’egli ebbe aquitania e la Guascogna,<br />

e liberata la chiesa e ’l Pastore,<br />

percosse nella eretica Sansogna,<br />

ch’era più ch’altra regïone allotta<br />

<strong>da</strong>l culto falso de’ demòn corrotta.<br />

8 . Questa guerra fu più laborïosa<br />

che alcuna altra, per gli uomini strani<br />

a cui molto la nostra fede esosa<br />

era, ingannati <strong>da</strong>gli idoli vani,<br />

gente crudele e molto bellicosa<br />

che <strong>da</strong>nnava ogni legge de’ cristiani:<br />

carlo n’andò collo essercito a furia,<br />

per vendicar del suo cristo la ingiuria;<br />

85. sì che più volte, alla fede redutti,<br />

si ritornoron nello antico errore,<br />

poi che gl’idoli van furon distrutti<br />

per la virtù del nostro imperatore;<br />

pure alla fine, battezzati tutti,<br />

ricognobbono il vero redentore,<br />

e l’idolatria loro essere inganni:<br />

e così combattêr trentatré anni.


86. carlo poi per istatici doman<strong>da</strong><br />

diecimila di lor, come prudente,<br />

ed ordinò che per tutto si span<strong>da</strong><br />

pe’ paesi di Francia quella gente<br />

e pe’ liti di ilan<strong>da</strong> e di Silan<strong>da</strong>:<br />

così la lor perfidia finalmente,<br />

diradicata come falsa legge,<br />

aggiunse nuova torma alla sua gregge.<br />

87. protettor del buon cefas in terra,<br />

o defensor delle cristiane squadre,<br />

o santa spa<strong>da</strong> a gastigar chi erra,<br />

o Moïsè del popol di dio padre,<br />

o Papirio cursor famoso in guerra,<br />

o Scipio amico all’opere leggiadre,<br />

o fido specchio ove ogni ben s’è mostro,<br />

o fama, o pregio, o gloria al secol nostro!<br />

88. era in quel tempo medesimo Spagna<br />

d’altra prava eresia più maculata,<br />

quando l’alta corona tanto magna<br />

apparecchiò lo essercito e l’armata,<br />

e passa i fiumi e’ colli e la montagna<br />

con la santa bandiera <strong>da</strong>l ciel <strong>da</strong>ta,<br />

e fa tremare ogni lito, ogni terra,<br />

come in ispagna è vulgata la guerra.<br />

89. Furono adunque in su’ campi alle mani<br />

carlo e sua gente, onde la fama suona;<br />

ma non resson le forze degli ispani.<br />

restava augusta solo e Pampalona<br />

a redurre alla fede de’ cristiani:<br />

il perché il magno re v’andò in persona,<br />

e finalmente, dopo lungo tedio,<br />

le conquistò con forza e con assedio.<br />

90. e poi che Pampalona fu acquistata<br />

dopo molte battaglie e molti omèi,<br />

e che tutta la Spagna è battezzata<br />

e Macon rinnegato e i falsi iddei,<br />

carlo, tornando con la sua brigata,<br />

poi che i salti rivide Pirenei,<br />

non sanza <strong>da</strong>nno dell’altrui vergogna<br />

nelle insidie percosse di Guascogna.<br />

91. Quivi fu la battaglia sanguinosa<br />

dove anselmo morì col suo nipote<br />

in runcisvalle ancor tanto famosa;<br />

ma tutte queste cose vi son note,<br />

che non fu la vittoria glorïosa,<br />

però che il tradimento tutto puote;<br />

e perché carlo il tempo e ’l modo aspetta,<br />

come sapete, fe’ crudel vendetta.<br />

92. così furon l’inganni de’ Guasconi<br />

puniti, e prima battezzata Spagna.<br />

e seguitò la guerra de’ brettóni;<br />

e poi che fu ancor doma la brettagna,<br />

rivolse verso italia i gonfaloni,<br />

perché roma d’araïso si lagna,<br />

il qual di benevento era signore<br />

e minacciava la chiesa e ’l Pastore.<br />

93. carlo, giunto in italia, come io dico,<br />

redusse alle sue voglie il folle duce<br />

sì che quel fece al pontefice amico,<br />

e molti in Francia statici conduce.<br />

o quante cose magne io non replìco!<br />

ché, come il sole in ogni parte luce,<br />

a conseguir famose opere e degne<br />

in ogni luogo apparîr le sue insegne;<br />

9 . sì che, più volte di roma lo imperio<br />

restaürato come il buon camillo,<br />

tornato in Francia, il gran duca baverio,<br />

apparecchiato sua gente, tassillo,<br />

recor<strong>da</strong>to del suocer desiderio,<br />

congiurato con gli Unni a un vessillo,<br />

come mal consigliato <strong>da</strong>lla moglie<br />

cercando andò le sue future doglie.<br />

95. Lo imperator, che apparato già era,<br />

non aspettò del nimico la insegna,<br />

ma féssi incontra a lui con sua bandiera<br />

insino al fiume che divide e segna<br />

la Magna e le provincie di baviera;<br />

e bisognòe che alfin tassillo vegna<br />

a consentir ciò che carlo gli chiede<br />

e giurar servitù, tributo e fede.<br />

96. i Velatabi intanto gli abroditi<br />

molestavan, qual suoi confederati;<br />

ma poi che il nostro re gli ebbe puniti,<br />

in questo tempo gli Ungher congregati,<br />

populi detti per l’addrieto Sciti,<br />

gente <strong>da</strong>pprima in Pannonia arrivati<br />

<strong>da</strong>lle estreme provincie della terra,<br />

apparecchiavan contra carlo guerra.<br />

97. Questa guerra durò circa otto anni;<br />

ma carlo alfin, superati costoro<br />

non sanza grande occisïone e <strong>da</strong>nni,<br />

ne riportò le ricchezze e ’l tesoro,<br />

ch’egli avevon con forza e con inganni<br />

in molte parte pre<strong>da</strong>to già loro,<br />

in Francia bella con vittoria e fama:<br />

sì che la gloria fiorì in ogni rama.<br />

98. e poi che la gran guerra d’Ungheria<br />

se<strong>da</strong>ta fu, ridotta sotto il giglio<br />

di Francia e la boemia e normandia,<br />

abbattuta <strong>da</strong> carlo primo figlio,<br />

mandò papa Leone imbasceria,<br />

perch’egli era constretto e in gran periglio,<br />

cacciato di sua sede, in Francia a carlo,<br />

che dovessi tornare a liberarlo.<br />

99. così la terza volta ritornato<br />

carlo in italia, il pontefice santo<br />

restituì dond’egli era cacciato<br />

nella sua sede, col papale ammanto.<br />

Per che il sommo Pastor, non sendo ingrato,<br />

recor<strong>da</strong>to del suo precessor tanto


quanto di sé, benemerito e giusto,<br />

gli aggiunse al titol regio il nome agusto.<br />

100. dunque carlo fu Magno e imperatore<br />

di tutto l’universo e re di roma,<br />

ed aggiunse al suo segno, per più onore,<br />

il grande uccel che di Giove si noma.<br />

e licenziato <strong>da</strong>l santo Pastore,<br />

poi ch’egli aveva ogni arroganza doma,<br />

nel suo tornar, per più magnificenzia,<br />

rifece e rinnovòe l’alma Florenzia,<br />

101. e templi edificò per sua memoria,<br />

e dètte a quella doni e privilegi;<br />

e ritornò con gran trïunfo e gloria<br />

in Francia, il nostro re degli altri regi.<br />

e non è questa l’ultima vittoria<br />

onde più splen<strong>da</strong> la corona e’ fregi:<br />

tante altre cose ha fatto il signor nostro<br />

che manca il suon, la voce e carta e inchiostro.<br />

102. io non posso piangendo cantar versi,<br />

tanto contrario è l’uno all’altro effetto;<br />

e pur convien che il cor lacrime versi,<br />

quando quell’è <strong>da</strong> giusto duol constretto.<br />

Per tanti tempi e paesi diversi<br />

ha fatto carlo più che io non ho detto<br />

per la fede di cristo e pel Vangelo:<br />

ma tutto è scritto e rigistrato in cielo.<br />

103. Quivi i meriti suoi saranno tutti;<br />

quivi tutto vedrà nel santo volto;<br />

quivi corrà del suo ben fare i frutti;<br />

quivi sarà <strong>da</strong>l buon Gesù suo accolto;<br />

quivi in canti fia sempre sanza lutti;<br />

quivi il seggio regal mai sarà tolto;<br />

quivi il pan gusterà che sempre piace;<br />

quivi impetri per noi della sua pace. ­<br />

10 . Volea più oltre dir certo alcuïno,<br />

e dello acquisto del Sepulcro santo,<br />

e come egli andò in Grecia a Gostantino;<br />

ma non poté, ché le lacrime e ’l pianto<br />

del popol, che piangea così meschino,<br />

occupavan la cetera col canto;<br />

e forse il braccio stanco era e l’archetto:<br />

per la qual cosa sceso è del palchetto.<br />

105. e come e’ fu quel sapïente sceso,<br />

il popol ch’era prima stato attento<br />

un pianto seguitòe molto disteso,<br />

come foco talvolta pare spento<br />

e sanza fiamma si conserva acceso,<br />

poi si dimostra o per esca o per vento:<br />

così intervenne dopo il dolce canto<br />

che tutto il popol rinnovòe il pianto.<br />

106. Quivi eran le pulzelle scapigliate;<br />

quivi avean le matrone il peplo in testa;<br />

quivi piangeva tutta la cittate;<br />

quivi si straccia ognun l’oscura vesta;<br />

quivi son l’alte cose replicate;<br />

quivi si lo<strong>da</strong> la sua vita onesta;<br />

quivi si batte alcun le palme intanto;<br />

quivi si gri<strong>da</strong>: ­ Santo, santo, santo! ­<br />

107. fortunato, o ben vissuto vecchio!<br />

o felice quel giusto ch’ognuno ama!<br />

o chiaro essemplo di ben fare e specchio!<br />

o sanza invidia glorïosa fama!<br />

o ciel, tu porgi a’ suoi merti l’orecchio!<br />

o popol che il signor suo morto chiama!<br />

o buon pastor chi ben guar<strong>da</strong> sua gregge!<br />

o tanto re, quanto ei ben gui<strong>da</strong> e regge!<br />

108. in aquisgrana la chiesa maggiore,<br />

nella Virgine santa titolata,<br />

<strong>da</strong>llo eccelso e felice imperatore<br />

era suta già prima edificata:<br />

quivi meritamente a grande onore<br />

fu la sua sepultura collocata,<br />

e sopra a questa aggiunto un arco d’oro<br />

nella santa basilica del coro.<br />

109. e perché il mondo ancor possi ritrarlo,<br />

il popol verso lui fu clementissimo<br />

e nel sepulcro suo fece scultarlo;<br />

e lo epitafio diceva brevissimo:<br />

“il corpo iace qui del magno carlo<br />

imperator de’ roman cristianissimo”:<br />

ma molto importa, in sì breve idïoma,<br />

“cristianissimo” e “carlo” e “re di roma”.<br />

110. L’anno ottocentoquindici correa<br />

<strong>da</strong>lla salute della incarnazione;<br />

carlo settantadue finiti avea<br />

e quaranzette <strong>da</strong>lla promozione,<br />

de’ quali ultimi quindici tenea<br />

con la corona <strong>da</strong> papa Leone,<br />

nel vigesimoquarto dì spirato<br />

del mese il quale a Gian fu consecrato.<br />

111. e innanzi alla sua morte segni apparse:<br />

ché, dove il bel pinnaculo si bilica,<br />

fùlgore questo rovinòe e sparse,<br />

un portico cascò della basilica,<br />

e ’l ponte ch’era appresso a Magonzia arse:<br />

però, chi queste cose ben rivilica,<br />

come a cesare il ciel fece qui segno<br />

d’altro cesare in terra assai più degno.<br />

112. Fe’ come savio prima testamento:<br />

divise in molte terre il suo tesoro;<br />

lasciò tutti i suoi servi ognun contento,<br />

che molte cose partiron fra loro;<br />

e tre tavole ricche d’arïento,<br />

tutte intagliate, ed una di puro oro,<br />

condotte e fatte con mirabile arte,<br />

distribuì, com’io truovo, in tre parte:<br />

113. la prima, ove era tutta disegnata<br />

la gran città che bisanzio si noma,<br />

al santo altar di Pietro ha diputata;<br />

e l’altra, ove era sculta l’alma roma,


volle che fussi a ravenna man<strong>da</strong>ta.<br />

o gran presente, o ricca, o degna soma!<br />

o magnanimi don, memoria e segno,<br />

che minor non conviensi a tanto uom degno!<br />

11 . La terza, fatta con maggior lavoro,<br />

dove tutto descritto appare il mondo,<br />

e quell’altra ch’io dissi, tutta d’oro,<br />

a Lodovico suo figliuol giocondo<br />

rimase, ultimo erede fra costoro,<br />

morti carlo e Pipin primo e secondo:<br />

sì che Luigi era il terzo figliuolo,<br />

che succedette alla corona solo.<br />

115. or, poi che carlo è seppellito e morto<br />

e fruisce quel gaudio e quel giubillo<br />

che s’aspetta a ognun che giugne al porto<br />

di sua salute e suo stato tranquillo,<br />

a me parrebbe alla istoria far torto<br />

s’io non aggiungo qualche codicillo,<br />

acciò ch’ognun che legge benedica<br />

l’ultimo effetto della mia fatica.<br />

116. noi possiam per la istoria intender quasi<br />

come all’unico figlio Lodovico<br />

molti regni e paesi son rimasi<br />

per virtù del suo padre, come io dico,<br />

per molti tempi, effetti e vari casi:<br />

insino al re di Persia è fatto amico,<br />

tanto a sé il trasse come calamita<br />

l’opere degne del suo padre in vita;<br />

117. e la Francia e la Ghienna e la borgogna<br />

e navarra, araona con la Spagna,<br />

la Fiandra e l’inghilterra e la Guascogna,<br />

la <strong>da</strong>zia e la Germania e la brettagna<br />

e Pannonia e boemia e la Sansogna<br />

e tante gran provincie della Magna<br />

e l’istria e la <strong>da</strong>lmazia e Lombardia<br />

rimason sotto la sua monarchia.<br />

118. e veramente <strong>da</strong>l suo genitore<br />

non è questo figliuol degenerato;<br />

ma, perch’io serbo altrove a fargli onore<br />

in altro libro o libel cominciato,<br />

ritorno al nostro primo imperatore<br />

in alcun luogo che indrieto ho lasciato<br />

de’ costumi e de’ modi di sua vita,<br />

sì che la istoria dir possian finita.<br />

119. dicon molti aüttor di sua natura,<br />

della sua qualità, s’io ho ben raccolto,<br />

ch’egli aveva formosa la statura,<br />

largo nel petto e nelle spalle molto,<br />

ne’ passi grave e nella guar<strong>da</strong>tura,<br />

nel parlar grazia, e maiestà nel volto,<br />

la barba lunga e il naso alquanto giusto,<br />

l’aspetto degno e tutto in sé venusto;<br />

120. molto affabil, placabil, tutto magno,<br />

molto savio, veril, molto discreto;<br />

amico o servo o parente o compagno<br />

partia sempre <strong>da</strong> lui contento e lieto:<br />

non si sentia: “del mio signor mi lagno”;<br />

molto giusto in sua legge e suo decreto;<br />

e perché gli uomin gli piacean modesti,<br />

essemplo <strong>da</strong>va di costumi onesti.<br />

121. era al culto divin ceremonioso;<br />

edificava per ogni paese<br />

qualche magno palazzo glorïoso;<br />

fece tanti spe<strong>da</strong>l, badie e chiese<br />

ch’io credo il ver di molte sia nascoso;<br />

come cor generoso all’alte imprese,<br />

restaürava e città e castella,<br />

come e’ fece ancor già Fiorenza bella;<br />

122. fece in sul reno il ponte, com’io dissi,<br />

di cinquecento passi per lunghezza,<br />

che mostrò segno, innanzi ch’e’ morissi,<br />

come e’ cadeva anche ogni gentilezza.<br />

Mostrava, in ogni caso che avvenissi,<br />

prudenzia e temperanza con fortezza:<br />

grazie che iddio rade volte concede<br />

o per nostra salute o per la fede.<br />

123. dilettavasi a caccia an<strong>da</strong>re spesso,<br />

sempre l’ozio <strong>da</strong>nnando, come i saggi,<br />

sanza temer, <strong>da</strong>gli anni pur defesso,<br />

di freddo o luoghi difficil, selvaggi;<br />

tanto che, essendo a quel termine presso<br />

dove più oltre ognun convien che caggi<br />

perché non è più la natura forte,<br />

sollicitòe per tal cagion la morte.<br />

12 . Pigliava spesso de’ bagni diletto:<br />

quivi soleva congregar gli amici,<br />

come forse <strong>da</strong>l luogo era constretto<br />

dove i monti son freddi e le pendici.<br />

o signor giusto, o signor benedetto,<br />

o quanto furon que’ tempi felici!<br />

non sarà Francia mai sì bella o lieta<br />

o per corso di stelle o di pianeta.<br />

125. reputavano i popoli <strong>da</strong>l cielo<br />

man<strong>da</strong>to fussi in terra un tal signore<br />

per carità, per giustizia e per zelo;<br />

e se non fussi spento il vecchio errore,<br />

adorato l’arebbon come belo<br />

per reverenzia e per antico amore:<br />

tanto che alcuno, forse, auttor non falla<br />

della croce incarnata in su la spalla.<br />

126. ammaestrò i figliuoli e le figliuole<br />

d’ogni arte liberal, d’ogni dottrina;<br />

né bisognava cercare altre scuole,<br />

allor, che l’accademia parigina.<br />

Voleva appresso tutta la sua prole<br />

se e’ cavalcava <strong>da</strong> sera o mattina.<br />

talvolta, per fuggir le sue donne ozio,<br />

ministravan lanifero negozio.<br />

127. La madre sua, ch’era berta chiamata,<br />

sempre la tenne con debito onore,


acciò che fussi la legge osservata<br />

di Moïsè <strong>da</strong> quel primo dottore:<br />

era di Grecia di gran sangue nata,<br />

figlia di eraclio degno imperatore.<br />

or basti una parola, uditor mio,<br />

ch’ogni cosa ben fa chi teme iddio.<br />

128. dunque giusta la vita, retta e buona<br />

è stata del mio carlo veramente,<br />

e tenuto lo imperio e la corona<br />

come magno signor felicemente.<br />

Ma perché intanto una tuba risuona<br />

in altra parte, e per tutto si sente,<br />

benché la istoria sia degna e famosa,<br />

convien che fine pure abbi ogni cosa.<br />

129. e s’io non ho quanto conviensi a carlo<br />

satisfatto co’ versi e col mio ingegno,<br />

io non posso il mio arco più sbarrarlo<br />

tanto ch’io passi il consüeto segno;<br />

e dicone mia colpa, e ristorarlo<br />

aspetto al tempo del figliuol suo degno,<br />

ch’io farò in terra più che semideo,<br />

dove sarà ciriffo calvaneo.<br />

130. io ho condotto in porto la mia barca:<br />

non vo’ più tentare ora abila e calpe,<br />

per che più oltre il mio nocchier non varca<br />

per non trovarsi come spesso talpe,<br />

o come quel che entrò nella santa arca<br />

tanto che’ monti si scuoprino o l’alpe<br />

pel tempo ancor pur nebuloso e torbo,<br />

ed aspettar che ritorni a me il corbo.<br />

131. non ch’io pensi star surto sempre fermo,<br />

ché, s’io vorrò passar più là che Ulisse,<br />

donna è nel ciel che mi fia sempre schermo;<br />

ma non pensai che innanzi al fin morisse!<br />

Questa fia la mia stella e ’l mio santo ermo,<br />

e perché prima in alto mar mi misse,<br />

come spirto beato tutto vede,<br />

ricorderassi ancor della mia fede.<br />

132. Sare’ forse materia accomo<strong>da</strong>ta,<br />

con la vita di carlo tanto eletta<br />

la vita di tal donna comparata,<br />

Lucrezia torna­buona, anzi perfetta,<br />

nella sedia sua antica rivocata<br />

<strong>da</strong>lla Virgine etterna benedetta<br />

che riveder la sua devota applaude;<br />

e canta or forse le sue sante laude.<br />

133. Quivi si legge or della sua Maria<br />

la vita, ove il suo libro è sempre aperto,<br />

e di esdram, di iudit e di tobia;<br />

quivi si rende giusto premio e merto;<br />

quivi s’intende or l’alta fantasia<br />

a descriver Giovanni nel deserto;<br />

quivi cantano or gli angeli i suoi versi,<br />

dove il ver d’ogni cosa può vedersi.<br />

13 . natura intese far quel ch’ella volle:<br />

una donna famosa al secol nostro,<br />

che per se stessa sé <strong>da</strong>ll’altre estolle<br />

tanto che manca ogni penna, ogni inchiostro.<br />

non la cognobbe il mondo cieco e folle,<br />

benché il vero valor chiaro fu mostro,<br />

come il Signor che colassù la serra:<br />

ché adorata l’arebbe in cielo e in terra.<br />

135. Quanti beni ha commessi! a quanto male<br />

ovvïato costei mentre era in vita!<br />

Però con la sua veste nuzïale<br />

l’anima in cielo a dio si rimarita<br />

quel dì che il santo messo aperse l’ale<br />

per la sua carità tanto infinita:<br />

sì che ancor prego che lassù m’accetti<br />

tra’ servi suoi nel numer degli eletti.<br />

136. e s’io ho satisfatto al suo desio,<br />

basta a me tanto e son di ciò contento:<br />

altro premio, altro onor non domando io,<br />

altro piacer che di godermi drento.<br />

e so ch’egli è lassù Morgante mio:<br />

però, s’alcun malivolo qui sento,<br />

a<strong>da</strong>tterà il battaglio ancor <strong>da</strong>l cielo<br />

in qualche modo, a scar<strong>da</strong>ssargli il pelo.<br />

137. Portin certi uccellacci un sasso in bocca<br />

come quelle oche al monte taüreo<br />

per non gracchiar, che poi il falcon le tocca;<br />

ch’io gli farò girar come paleo,<br />

ed ho sempre la sferza in su la scocca,<br />

perch’io fu’, prima ch’e’ gigante, reo;<br />

non mor<strong>da</strong> ignun chi ha zanne non che denti,<br />

dice il proverbio: io non dico altrimenti.<br />

138. io non domando grillande d’alloro<br />

di che i Greci e’ Latin chieggon corona;<br />

io non chieggo altra penna, altro stil d’oro<br />

a cantar d’aganippe e d’elicona:<br />

io me ne vo pe’ boschi puro e soro<br />

con la mia zampognetta che pur suona,<br />

e basta a me trovar tirsi e <strong>da</strong>meta;<br />

ch’io non son buon pastor, non che poeta;<br />

139. anzi non son prosuntüoso tanto<br />

quanto quel folle antico citarista<br />

a cui tolse già apollo il vivo ammanto,<br />

né tanto satir quant’io paio in vista.<br />

altri verrà con altro stile e canto,<br />

con miglior cetra, e più sovrano artista;<br />

io mi starò tra faggi e tra bifulci<br />

che non disprezzin le muse de’ Pulci.<br />

1 0. io me n’andrò con la barchetta mia<br />

quanto l’acqua comporta un piccol legno,<br />

e ciò ch’io penso con la fantasia,<br />

di piacere a ognuno è il mio disegno:<br />

convien che varie cose al mondo sia<br />

come son varii volti e vario ingegno,<br />

e piace all’uno il bianco, all’altro il perso,<br />

o diverse materie in prosa o in verso.


1 1. Forse coloro ancor che leggeranno,<br />

di questa tanto piccola favilla<br />

la mente con poca esca accenderanno<br />

de’ monti o di Parnaso o di Sibilla;<br />

e de’ miei fior come ape piglieranno<br />

i dotti, s’alcun dolce ne distilla;<br />

il resto a molti pur <strong>da</strong>rà diletto,<br />

e l’aüttore ancor fia benedetto.<br />

1 2. ben so che spesso, come già Morgante,<br />

lasciato ho forse troppo an<strong>da</strong>r la mazza;<br />

ma dove sia poi giudice bastante,<br />

materia c’è <strong>da</strong> camera e <strong>da</strong> piazza;<br />

ed avvien che chi usa con gigante<br />

convien che se n’appicchi qualche sprazza,<br />

sì ch’io ho fatto con altro battaglio<br />

a mosca cieca o talvolta a sonaglio.<br />

1 3. non sien <strong>da</strong>ti miei versi a Varo o tucca:<br />

e’ basta il bellincion che affermi e lodi,<br />

che porge come amico e non pilucca.<br />

i’ guarderò in sul ghiaccio ir con buon chiodi;<br />

io porterò in su gli omeri la zucca<br />

nell’acqua, cinta con sicuri nodi;<br />

e farò tanto quanto i savi fanno,<br />

di perdonare a color che non sanno.<br />

1 . ed oltre a questo, e’ ne verrà il mio antonio,<br />

per cui la nostra cetra è glorïosa<br />

del dolce verso materno aüsonio;<br />

bench’e’ si stia là in quella valle ombrosa,<br />

che fia del vero lume testimonio.<br />

ognun so che riprende qualche cosa;<br />

ma io non so s’e’ si son corvi o cigni<br />

i detrattori, o spiriti maligni.<br />

1 5. Pertanto, io non aspetto il bal<strong>da</strong>cchino,<br />

non aspetto co’ pifferi l’ombrello,<br />

non traggo fuori i nomi col verzino<br />

com’io veggo talvolta ogni libello:<br />

quand’io sarò con quel mio serafino,<br />

io gli trarrò fuor forse col cervello,<br />

perché questo agnol vi porrà la mano,<br />

nato per gloria di Montepulciano.<br />

1 6. Questo è quel divo e quel famoso alceo<br />

a cui sol si consente il plettro d’oro,<br />

che non invidia anfïone o Museo,<br />

ma stassi all’ombra d’un famoso alloro,<br />

e i monti sforza come il tracio orfeo,<br />

e sempre intorno ha di Parnaso il coro,<br />

e l’acque ferma e i sassi muove e glebe,<br />

ed a sua posta può richiuder tebe.<br />

1 7. io seguirò la sua famosa lira,<br />

tanto dolce, soave, armonizzante<br />

che come calamita a sé mi tira,<br />

tanto che insieme troverren Pallante;<br />

per che, sendo ambo messi in una pira,<br />

segni farà del nostro amor constante,<br />

d’una morte, un sepulcro, un epigramma,<br />

per qualche effetto, l’una e l’altra fiamma.<br />

1 8. noi ce n’andrem per le famose rive<br />

d’eürote e pe’ gioghi là di cinto,<br />

dove le muse aüsonie ed argive<br />

gli portan chi narciso e chi iacinto:<br />

io sentirò cose alte e magne e dive<br />

che non sentì mai Pindo o arachinto;<br />

io condurrò Pallante a delfi e delo,<br />

poi se n’andrà come Quirino in cielo.<br />

1 9. Questo sarà quel Pollïone in roma,<br />

questo sarà quel magno Mecenate<br />

a cui sempre ogni musa è perizoma.<br />

Pertanto, spirti degni, or vi svegliate,<br />

perché fiorir farà nostro idïoma,<br />

tanto fien le sue opre celebrate:<br />

materia avete innanzi agli occhi degna,<br />

che per se stessa sé lau<strong>da</strong>re insegna.<br />

150. Veggo tutte le Grazie a una a una,<br />

veggo tutte le ninfe le più belle,<br />

veggo che Palla con lor si rauna<br />

a cantar le sue laude insieme quelle;<br />

e non può contra opporsi la Fortuna,<br />

ché il sapïente supera le stelle;<br />

e la grazia del ciel gran segni mostra<br />

che questo è il vero onor della età nostra.<br />

151. Surge d’un fresco e prezïoso lauro<br />

certe piante gentil, certi rampolli,<br />

che mi par già sentir <strong>da</strong>ll’indo al Mauro<br />

tante cetre, Mercurii e tanti apolli<br />

che certo e’ sarà presto il mondo d’auro,<br />

ch’era già presso agli ultimi suoi crolli:<br />

tornano i tempi felici che furno<br />

quando e’ regnòe quel buon signor Saturno.<br />

152. benigni secul, che già lieti fêrsi,<br />

tornate a modular le nostre lire,<br />

ché la mia fantasia non può tenersi<br />

come ruota che mossa ancor vuol ire.<br />

chi negherebbe a Gallo già mai versi?<br />

Pro re, paüca dixi al mio desire.<br />

or sia qui fine al nostro ultimo canto<br />

con pace e gaudio e col saluto santo.<br />

153. Salve regina, madre glorïosa,<br />

vita e speranza sì dolce e soave;<br />

a te per colpa della antica sposa<br />

piangendo e sospirando gridiamo “ave”<br />

in questa valle tanto lacrimosa:<br />

però tu che per noi volgi la chiave,<br />

deh, volgi i pietosi occhi al nostro essilio,<br />

mostrandoci, Maria dolce, il tuo Filio.<br />

15 . degnami, se ’l mio priego è giusto e degno,<br />

ch’io possi te lau<strong>da</strong>r, Virgo sacrata;<br />

donami grazia e virtù pronta e ingegno<br />

contra a’ nimici tuoi, nostra avvocata;<br />

e perché in porto hai condotto mio legno,<br />

io ti ringrazio, Virgine beata:<br />

con la tua grazia cominciai la istoria;


con la tua grazia alfin mi <strong>da</strong>rai gloria.<br />

155. con la tua grazia, Virgine Maria,<br />

conserva la devota alma e verace<br />

mona Lucrezia tua, benigna e pia,<br />

con carità perfetta e vera pace;<br />

anzi essaudir puoi ciò che lei desia,<br />

ché sempre chiederà quel che a te piace.<br />

sì che lei prego per le sue virtute<br />

che per me impetri grazia di salute.


aGnoLo PoLiziano<br />

angelo Poliziano fu il maggiore poeta del secolo e il più grande umanista<br />

legato a un puro lavoro di forma. amò poi sempre lo stile composito, l’armonia<br />

difficile, la parola rara. <strong>da</strong> questo punto di vista egli rappresenta una eccezione<br />

nella generale tendenza del rinascimento che va verso la regolarità, la imitazione<br />

di un unico modello, il ciceronianesimo. egli fu in polemica con il cortese che<br />

difendeva il canone umanistico dell’unico modello. Per il Poliziano era invece<br />

proprio la contarninatio di più modelli che <strong>da</strong>va valore allo stile. Ma la poesia<br />

restava anche per lui un’opera di imitazione, un esercizio di stile. a poco più<br />

di 20 anni in occasione di una giostra fiorentina vinta <strong>da</strong> Giuliano, il fratello di<br />

Lorenzo, nel 1 7 , egli decise di comporre un poema mitologico­encomiastico<br />

con la descrizione di un torneo. il protagonista ha nella storia il nome di Julio; è<br />

un giovane che rifugge <strong>da</strong>ll’amore, va a caccia di cerve. Una cerva, un giorno, per<br />

opera di cupido, che vuole vendicarsi del giovane scontroso, si trasforma in una<br />

bellissima ninfa. nasce l’amore. cupido va ad annunziare alla madre la vittoria.<br />

abbiamo la descrizione del giardino di Venere; il giovane in sogno riceve l’avviso<br />

di prepararsi per il torneo.<br />

Qui il poema si interrompe probabilmente perché l’autore ha detto tutto. Si<br />

tratta di un mondo totalmente fittizio, lontano <strong>da</strong>lla dura realtà di Firenze, <strong>da</strong>lle<br />

lotte, interessi politici, religiosi, economici in cui i Medici erano fortemente<br />

coinvolti. cupido che è irritato <strong>da</strong>lla scontrosità di Julio, che lancia l’arco, che va<br />

ad annunziare a Venere la propria vittoria, il giardino di Venere, tutto ci riporta a<br />

un mondo convenzionale, astratto, vuoto.<br />

in verità l’interesse vero del poeta nell’opera è un interesse di stile, di difficile<br />

composizione, di raffinatissimo gioco di rime, di intarsi verbali e forme tratte<br />

<strong>da</strong> varie fonti, classiche, popolari, <strong>da</strong>ntesche, latine della decadenza. Questo<br />

impegno stilistico vale, in verità, assai più del resto, del tenue contenuto idillico<br />

mitologico, della storia <strong>da</strong> raccontare.<br />

L’italiano fu di un tratto riportato a nuove altezze: era di nuovo una lingua d’arte,<br />

non più, come nello Stil novo, limitato a un ambito particolare, non più legato a<br />

un certo livello di eloquenza come nel Petrarca. nelle Stanze era un linguaggio<br />

vario, popolare e squisito a un tempo, realistico e idillico, vago e acuto. il giovane<br />

Poliziano aveva compiuto <strong>da</strong> solo l’impresa di riportare il volgare alle altezze<br />

del latino, di fondere il popolaresco col classico, di fare un tutto raffinato, degno<br />

della più squisita coscienza umanistica. L’ottava, che nel boccaccio era rimasta<br />

uniforme, monotona, popolaresca, si sno<strong>da</strong>va ora in nuovi accordi, diventava<br />

varia, compatta. È <strong>da</strong> questi grandi risultati che muoverà la grande, matura arte<br />

dell’ariosto.


Stanze Per La GioStra di GiULiano de’ Medici<br />

Libro PriMo<br />

50<br />

Volta la ninfa al suon delle parole,<br />

lampeggiò d’un sì dolce e vago riso,<br />

che i monti avre’ fatto ir, restare il sole:<br />

ché ben parve s’aprissi un paradiso.<br />

Poi formò voce fra perle e viole,<br />

tal ch’un marmo per mezzo avre’ diviso;<br />

soave, saggia e di dolceza piena,<br />

<strong>da</strong> innamorar non ch’altri una Sirena:<br />

51<br />

“io non son qual tua mente invano auguria,<br />

non d’altar degna, non di pura vittima;<br />

ma là sovra arno innella vostra etruria<br />

sto soggiogata alla te<strong>da</strong> legittima;<br />

mia natal patria è nella aspra Liguria,<br />

sovra una costa alla riva marittima,<br />

ove fuor de’ gran massi in<strong>da</strong>rno gemere<br />

si sente il fer nettunno e irato fremere.<br />

52<br />

Sovente in questo loco mi diporto,<br />

qui vegno a soggiornar tutta soletta;<br />

questo è de’ mia pensieri un dolce porto,<br />

qui l’erba e’ fior, qui il fresco aier m’alletta;<br />

quinci il tornare a mia magione è accorto,<br />

qui lieta mi dimoro Simonetta,<br />

all’ombre, a qualche chiara e fresca linfa,<br />

e spesso in compagnia d’alcuna ninfa.<br />

53<br />

io soglio pur nelli ociosi tempi,<br />

quando nostra fatica s’interrompe,<br />

venire a’ sacri altar ne’ vostri tempî<br />

fra l’altre donne con l’usate pompe;<br />

ma perch’io in tutto el gran desir t’adempi<br />

e ’l dubio tolga che tuo mente rompe,<br />

meraviglia di mie bellezze tenere<br />

non prender già, ch’io nacqui in grembo a Venere.<br />

5<br />

or poi che ’l sol sue rote in basso cala,<br />

e <strong>da</strong> questi arbor cade maggior l’ombra,<br />

già cede al grillo la stanca cicala,<br />

già ’l rozo zappator del campo sgombra,<br />

e già dell’alte ville il fumo essala,<br />

la villanella all’uom suo el desco ingombra;<br />

omai riprenderò mia via più accorta,<br />

e tu lieto ritorna alla tua scorta”.<br />

55<br />

Poi con occhi più lieti e più ridenti,<br />

tal che ’l ciel tutto asserenò d’intorno,<br />

mosse sovra l’erbetta e passi lenti<br />

con atto d’amorosa grazia adorno.<br />

Feciono e boschi allor dolci lamenti<br />

e gli augelletti a pianger cominciorno;<br />

ma l’erba verde sotto i dolci passi<br />

bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.<br />

56<br />

che de’ far iulio? ahimè, ch’e’ pur desidera<br />

seguir sua stella e pur temenza il tiene:<br />

sta come un forsennato, e ’l cor gli assidera,<br />

e gli s’aghiaccia el sangue entro le vene;<br />

sta come un marmo fisso, e pur considera<br />

lei che sen va né pensa di sue pene,<br />

fra sé lo<strong>da</strong>ndo il dolce an<strong>da</strong>r celeste<br />

e ’l ventilar dell’angelica veste.<br />

57<br />

e’ par che ’l cor del petto se li schianti,<br />

e che del corpo l’alma via si fugga,<br />

e ch’a guisa di brina, al sol <strong>da</strong>vanti,<br />

in pianto tutto si consumi e strugga.<br />

Già si sente esser un degli altri amanti,<br />

e pargli ch’ogni vena amor li sugga;<br />

or teme di seguirla, or pure agogna,<br />

qui ’l tira amor, quinci il ritrae vergogna.<br />

58<br />

“U’ sono or, iulio, le sentenzie gravi,<br />

le parole magnifiche e’ precetti<br />

con che i miseri amanti molestavi?<br />

Perché pur di cacciar non ti diletti?<br />

or ecco ch’una donna ha in man le chiavi<br />

d’ogni tua voglia, e tutti in sé ristretti<br />

tien, miserello, i tuoi dolci pensieri;<br />

vedi chi tu se’ or, chi pur dianzi eri.<br />

59<br />

dianzi eri d’una fera cacciatore,<br />

più bella fera or t’ha ne’ lacci involto;<br />

dianzi eri tuo, or se’ fatto d’amore,<br />

sei or legato, e dianzi eri disciolto.<br />

dov’è tuo libertà, dov’è ’l tuo core?<br />

amore e una donna te l’ha tolto.<br />

ahi, come poco a sé creder uom degge!<br />

ch’a virtute e fortuna amor pon legge”.<br />

60<br />

La notte che le cose ci nasconde<br />

tornava ombrata di stellato ammanto,<br />

e l’usignuol sotto l’amate fronde<br />

cantando ripetea l’antico pianto,<br />

ma sola a’ sua lamenti ecco risponde,<br />

ch’ogni altro augel quetato avea già ’l canto;<br />

<strong>da</strong>lla chimmeria valle uscian le torme<br />

de’ Sogni negri con diverse forme.<br />

61<br />

e gioven che restati nel bosco erono,<br />

vedendo il cel già le sue stelle accendere,<br />

sentito il segno, al cacciar posa ferono;<br />

ciascun s’affretta a lacci e reti stendere,<br />

poi colla pre<strong>da</strong> in un sentier si schierono:<br />

ivi s’attende sol parole a vendere,<br />

ivi menzogne a vil pregio si mercono;<br />

poi tutti del bel iulio fra sé cercono.<br />

62


Ma non veggendo il car compagno intorno,<br />

ghiacciossi ognun di subita paura<br />

che qualche cru<strong>da</strong> fera il suo ritorno<br />

non li ’mpedisca o altra ria sciagura.<br />

chi mostra fuochi, chi squilla el suo corno,<br />

chi forte il chiama per la selva oscura,<br />

le lunghe voci ripercosse abondono,<br />

e “iulio iulio” le valli rispondono.<br />

63<br />

ciascun si sta per la paura incerto,<br />

gelato tutto, se non ch’ei pur chiama;<br />

veggiono il cel di tenebre coperto,<br />

né san dove cercar, bench’ognun brama.<br />

Pur “iulio iulio” suona il gran diserto;<br />

non sa che farsi omai la gente grama.<br />

Ma poi che molta notte in<strong>da</strong>rno spesono,<br />

dolenti per tornarsi il cammin presono.<br />

6<br />

cheti sen vanno e pure alcun col vero<br />

la dubia speme alquanto riconforta,<br />

ch’el sia rèdito per altro sentiero<br />

al loco ove s’invia la loro scorta.<br />

ne’ petti ondeggia or questo or quel pensiero,<br />

che fra paura e speme il cor traporta:<br />

così raggio, che specchio mobil ferza,<br />

per la gran sala or qua or là si scherza.<br />

65<br />

Ma ’l gioven, che provato avea già l’arco<br />

ch’ogni altra cura sgombra fuor del petto,<br />

d’altre speme e paure e pensier carco,<br />

era arrivato alla magion soletto.<br />

ivi pensando al suo novello incarco<br />

stava in forti pensier tutto ristretto,<br />

quando la compagnia piena di doglia<br />

tutta pensosa entrò dentro alla soglia.<br />

66<br />

ivi ciascun più <strong>da</strong> vergogna involto<br />

per li alti gradi sen va lento lento:<br />

quali i pastori a cui il fer lupo ha tolto<br />

il più bel toro del cornuto armento,<br />

tornonsi a lor signor con basso volto,<br />

né s’ardiscon d’entrar all’uscio drento;<br />

stan sospirosi e di dolor confusi,<br />

e ciascun pensa pur come sé scusi.<br />

67<br />

Ma tosto ognuno allegro alzò le ciglia,<br />

veggendo salvo lì sì caro pegno:<br />

tal si fe’, poi che la sua dolce figlia<br />

ritrovò, ceres giù nel morto regno.<br />

tutta festeggia la lieta famiglia<br />

con essi, e iulio di gioir fa segno,<br />

e quanto el può nel cor preme sua pena<br />

e il volto di letizia rasserena.<br />

68<br />

Ma fatta amor la sua bella vendetta,<br />

mossesi lieto pel negro aere a volo,<br />

e ginne al regno di sua madre in fretta,<br />

ov’è de’ picciol suoi fratei lo stuolo:<br />

al regno ov’ogni Grazia si diletta,<br />

ove biltà di fiori al crin fa brolo,<br />

ove tutto lascivo, drieto a Flora,<br />

zefiro vola e la verde erba infiora.<br />

69<br />

or canta meco un po’ del dolce regno,<br />

erato bella, che ’l nome hai d’amore;<br />

tu sola, benché casta, puoi nel regno<br />

secura entrar di Venere e d’amore;<br />

tu de’ versi amorosi hai sola il regno,<br />

teco sovente a cantar viensi amore;<br />

e, posta giù <strong>da</strong>gli omer la faretra,<br />

tenta le corde di tua bella cetra.<br />

70<br />

Vagheggia cipri un dilettoso monte,<br />

che del gran nilo e sette corni vede<br />

e ’l primo rosseggiar dell’orizonte,<br />

ove poggiar non lice al mortal piede.<br />

nel giogo un verde colle alza la fronte,<br />

sotto esso aprico un lieto pratel siede,<br />

u’ scherzando tra’ fior lascive aurette<br />

fan dolcemente tremolar l’erbette.<br />

71<br />

corona un muro d’or l’estreme sponde<br />

con valle ombrosa di schietti arbuscelli,<br />

ove in su’ rami fra novelle fronde<br />

cantano i loro amor soavi augelli.<br />

Sentesi un grato mormorio dell’onde,<br />

che fan duo freschi e lucidi ruscelli,<br />

versando dolce con amar liquore,<br />

ove arma l’oro de’ suoi strali amore.<br />

72<br />

né mai le chiome del giardino eterno<br />

tenera brina o fresca neve imbianca;<br />

ivi non osa entrar ghiacciato verno,<br />

non vento o l’erbe o li arbuscelli stanca;<br />

ivi non volgon gli anni il lor quaderno,<br />

ma lieta Primavera mai non manca,<br />

ch’e suoi crin biondi e crespi all’aura spiega,<br />

e mille fiori in ghirlandetta lega.<br />

73<br />

Lungo le rive e frati di cupido,<br />

che solo uson ferir la plebe ignota,<br />

con alte voci e fanciullesco grido<br />

aguzzon lor saette ad una cota.<br />

Piacere e insidia, posati in sul lido,<br />

volgono il perno alla sanguigna rota,<br />

e ’l fallace Sperar col van disio<br />

spargon nel sasso l’acqua del bel rio.<br />

7<br />

dolce Paura e timido diletto,<br />

dolce ire e dolce Pace insieme vanno;<br />

le Lacrime si lavon tutto il petto<br />

e ’l fiumicello amaro crescer fanno;


Pallore smorto e paventoso affetto<br />

con Magreza si duole e con affanno;<br />

vigil Sospetto ogni sentiero spia,<br />

Letizia balla in mezo della via.<br />

75<br />

Voluttà con belleza si gavazza,<br />

va fuggendo il contento e siede angoscia,<br />

el ceco errore or qua or là svolazza,<br />

percuotesi il Furor con man la coscia;<br />

la Penitenzia misera stramazza,<br />

che del passato error s’è accorta poscia,<br />

nel sangue crudeltà lieta si ficca,<br />

e la desperazion se stessa impicca.<br />

76<br />

tacito inganno e simulato riso<br />

con cenni astuti messaggier de’ cori,<br />

e fissi Sguardi, con pietoso viso,<br />

tendon lacciuoli a Gioventù tra’ fiori.<br />

Stassi, col volto in sulla palma assiso,<br />

el Pianto in compagnia de’ suo’ dolori;<br />

e quinci e quindi vola sanza modo<br />

Licenzia non ristretta in alcun nodo.<br />

77<br />

con tal milizia e tuoi figli accompagna<br />

Venere bella, madre delli amori.<br />

zefiro il prato di rugia<strong>da</strong> bagna,<br />

spargendolo di mille vaghi odori:<br />

ovunque vola, veste la campagna<br />

di rose, gigli, violette e fiori;<br />

l’erba di sue belleze ha maraviglia:<br />

bianca, cilestra, palli<strong>da</strong> e vermiglia.<br />

78<br />

trema la mammoletta verginella<br />

con occhi bassi, onesta e vergognosa;<br />

ma vie più lieta, più ridente e bella,<br />

ardisce aprire il seno al sol la rosa:<br />

questa di verde gemma s’incappella,<br />

quella si mostra allo sportel vezosa,<br />

l’altra, che ’n dolce foco ardea pur ora,<br />

langui<strong>da</strong> cade e ’l bel pratello infiora.<br />

79<br />

L’alba nutrica d’amoroso nembo<br />

gialle, sanguigne e candide viole;<br />

descritto ha ’l suo dolor iacinto in grembo,<br />

narcisso al rio si specchia come suole;<br />

in bianca vesta con purpureo lembo<br />

si gira clizia palidetta al sole;<br />

adon rinfresca a Venere il suo pianto,<br />

tre lingue mostra croco, e ride acanto.<br />

80<br />

Mai rivestì di tante gemme l’erba<br />

la novella stagion che ’l mondo aviva.<br />

Sovresso il verde colle alza superba<br />

l’ombrosa chioma u’ el sol mai non arriva;<br />

e sotto vel di spessi rami serba<br />

fresca e gelata una fontana viva,<br />

con sì pura, tranquilla e chiara vena,<br />

che gli occhi non offesi al fondo mena.<br />

81<br />

L’acqua <strong>da</strong> viva pomice zampilla,<br />

che con suo arco il bel monte sospende;<br />

e, per fiorito solco indi tranquilla<br />

pingendo ogni sua orma, al fonte scende:<br />

<strong>da</strong>lle cui labra un grato umor distilla,<br />

che ’l premio di lor ombre alli arbor rende;<br />

ciascun si pasce a mensa non avara,<br />

e par che l’un dell’altro cresca a gara.<br />

82<br />

cresce l’abeto schietto e sanza nocchi<br />

<strong>da</strong> spander l’ale a borea in mezo l’onde;<br />

l’elce che par di mèl tutta trabocchi,<br />

e ’l laur che tanto fa bramar suo fronde;<br />

bagna cipresso ancor pel cervio gli occhi<br />

con chiome or aspre, e già distese e bionde;<br />

ma l’alber, che già tanto ad ercol piacque,<br />

col platan si trastulla intorno all’acque.<br />

83<br />

Surge robusto el cerro, et alto el faggio,<br />

nodoso el cornio, e ’l salcio umido e lento;<br />

l’olmo fronzuto, e ’l frassin pur selvaggio;<br />

el pino alletta con suoi fischi il vento.<br />

L’avorniol tesse ghirlandette al maggio,<br />

ma l’acer d’un color non è contento;<br />

la lenta palma serba pregio a’ forti,<br />

l’ellera va carpon co’ piè distorti.<br />

8<br />

Mostronsi adorne le vite novelle<br />

d’abiti varie e con diversa faccia:<br />

questa gonfiando fa crepar la pelle,<br />

questa racquista le già perse braccia;<br />

quella tessendo vaghe e liete ombrelle,<br />

pur con pampinee fronde apollo scaccia;<br />

quella ancor monca piange a capo chino,<br />

spargendo or acqua per versar poi vino.<br />

85<br />

el chiuso e crespo bosso al vento ondeggia,<br />

e fa la piaggia di verdura adorna;<br />

el mirto, che sua dea sempre vagheggia,<br />

di bianchi fiori e verdi capelli orna.<br />

ivi ogni fera per amor vaneggia,<br />

l’un ver l’altro i montoni armon le corna,<br />

l’un l’altro cozza, l’un l’altro martella,<br />

<strong>da</strong>vanti all’amorosa pecorella.<br />

86<br />

e mughianti giovenchi a piè del colle<br />

fan vie più cru<strong>da</strong> e dispietata guerra,<br />

col collo e il petto insanguinato e molle,<br />

spargendo al ciel co’ piè l’erbosa terra.<br />

Pien di sanguigna schiuma el cinghial bolle,<br />

le larghe zanne arruota e il grifo serra,<br />

e rugghia e raspa e, per più armar sue forze,<br />

frega il calloso cuoio a dure scorze.


87<br />

Pruovon lor punga e <strong>da</strong>ini paurosi,<br />

e per l’amata dru<strong>da</strong> arditi fansi;<br />

ma con pelle vergata, aspri e rabbiosi,<br />

e tigri infuriati a ferir vansi;<br />

sbatton le code e con occhi focosi<br />

ruggendo i fier leon di petto <strong>da</strong>nsi;<br />

zufola e soffia il serpe per la biscia,<br />

mentre ella con tre lingue al sol si liscia.<br />

88<br />

el cervio appresso alla Massilia fera<br />

co’ piè levati la sua sposa abbraccia;<br />

fra l’erbe ove più ride primavera,<br />

l’un coniglio coll’altro s’accovaccia;<br />

le semplicette lepri vanno a schiera,<br />

de’ can secure, ad amorosa traccia:<br />

sì l’odio antico e ’l natural timore<br />

ne’ petti ammorza, quando vuole, amore.<br />

89<br />

e muti pesci in frotta van notando<br />

dentro al vivente e tenero cristallo,<br />

e spesso intorno al fonte roteando<br />

guidon felice e dilettoso ballo;<br />

tal volta sovra l’acqua, un po’ guizzando,<br />

mentre l’un l’altro segue, escono a gallo:<br />

ogni loro atto sembra festa e gioco,<br />

né spengon le fredde acque il dolce foco.<br />

90<br />

Li augelletti dipinti intra le foglie<br />

fanno l’aere addolcir con nuove rime,<br />

e fra più voci un’armonia s’accoglie<br />

di sì beate note e sì sublime,<br />

che mente involta in queste umane spoglie<br />

non potria sormontare alle sue cime;<br />

e dove amor gli scorge pel boschetto,<br />

salton di ramo in ramo a lor diletto.<br />

91<br />

al canto della selva ecco rimbomba,<br />

ma sotto l’ombra che ogni ramo anno<strong>da</strong>,<br />

la passeretta gracchia e a torno romba;<br />

spiega il pavon la sua gemmata co<strong>da</strong>,<br />

bacia el suo dolce sposo la colomba,<br />

e bianchi cigni fan sonar la pro<strong>da</strong>;<br />

e presso alla sua vaga tortorella<br />

il pappagallo squittisce e favella.<br />

92<br />

Quivi cupido e’ suoi pennuti frati,<br />

lassi già di ferir uomini e dei,<br />

prendon diporto, e colli strali aurati<br />

fan sentire alle fere i crudi omei;<br />

la dea ciprigna fra’ suoi dolci nati<br />

spesso sen viene, e Pasitea con lei,<br />

quetando in lieve sonno gli occhi belli<br />

fra l’erbe e’ fiori e’ gioveni arbuscelli.<br />

93<br />

Muove <strong>da</strong>l colle, mansueta e dolce,<br />

la schiena del bel monte, e sovra i crini<br />

d’oro e di gemme un gran palazo folce,<br />

su<strong>da</strong>to già nei cicilian camini.<br />

Le tre ore, che ’n cima son bobolce,<br />

pascon d’ambrosia i fior sacri e divini:<br />

né prima <strong>da</strong>l suo gambo un se ne coglie,<br />

ch’un altro al ciel più lieto apre le foglie.<br />

9<br />

raggia <strong>da</strong>vanti all’uscio una gran pianta,<br />

che fronde ha di smeraldo e pomi d’oro:<br />

e pomi ch’arrestar fenno atalanta,<br />

ch’ad ippomene dienno il verde alloro.<br />

Sempre sovresso Filomela canta,<br />

sempre sottesso è delle ninfe un coro;<br />

spesso imeneo col suon di sua zampogna<br />

tempra lor <strong>da</strong>nze, e pur le noze agogna.<br />

95<br />

La regia casa il sereno aier fende,<br />

fiammeggiante di gemme e di fino oro,<br />

che chiaro giorno a meza notte accende;<br />

ma vinta è la materia <strong>da</strong>l lavoro.<br />

Sovra a colonne a<strong>da</strong>mantine pende<br />

un palco di smeraldo, in cui già fuoro<br />

aneli e stanchi, drento a Mongibello,<br />

Sterope e bronte et ogni lor martello.<br />

96<br />

Le mura a torno d’artificio miro<br />

forma un soave e lucido berillo;<br />

passa pel dolce oriental zaffiro<br />

nell’ampio albergo el dì puro e tranquillo;<br />

ma il tetto d’oro, in cui l’estremo giro<br />

si chiude, contro a Febo apre il vessillo;<br />

per varie pietre il pavimento ameno<br />

di mirabil pittura adorna il seno.<br />

97<br />

Mille e mille color formon le porte,<br />

di gemme e di sì vivi intagli chiare,<br />

che tutte altre opre sarian roze e morte<br />

<strong>da</strong> far di sé natura vergognare:<br />

nell’una è insculta la ’nfelice sorte<br />

del vecchio celio, e in vista irato pare<br />

suo figlio, e colla falce adunca sembra<br />

tagliar del padre le feconde membra.<br />

98<br />

ivi la terra con distesi ammanti<br />

par ch’ogni goccia di quel sangue accoglia,<br />

onde nate le Furie e’ fier Giganti<br />

di sparger sangue in vista mostron voglia;<br />

d’un seme stesso in diversi sembianti<br />

paion le ninfe uscite sanza spoglia,<br />

pur come snelle cacciatrice in selva,<br />

gir saettando or una or altra belva.<br />

99<br />

nel tempestoso egeo in grembo a teti<br />

si vede il frusto genitale accolto,


sotto diverso volger di pianeti<br />

errar per l’onde in bianca schiuma avolto;<br />

e drento nata in atti vaghi e lieti<br />

una donzella non con uman volto,<br />

<strong>da</strong> zefiri lascivi spinta a pro<strong>da</strong>,<br />

gir sovra un nicchio, e par che ’l cel ne go<strong>da</strong>.<br />

100<br />

Vera la schiuma e vero il mar diresti,<br />

e vero il nicchio e ver soffiar di venti;<br />

la dea negli occhi folgorar vedresti,<br />

e ’l cel riderli a torno e gli elementi;<br />

l’ore premer l’arena in bianche vesti,<br />

l’aura incresparle e crin distesi e lenti;<br />

non una, non diversa esser lor faccia,<br />

come par ch’a sorelle ben confaccia.<br />

101<br />

Giurar potresti che dell’onde uscissi<br />

la dea premendo colla destra il crino,<br />

coll’altra il dolce pome ricoprissi;<br />

e, stampata <strong>da</strong>l piè sacro e divino,<br />

d’erbe e di fior l’arena si vestissi;<br />

poi, con sembiante lieto e peregrino,<br />

<strong>da</strong>lle tre ninfe in grembo fussi accolta,<br />

e di stellato vestimento involta.<br />

102<br />

Questa con ambe man le tien sospesa<br />

sopra l’umide trezze una ghirlan<strong>da</strong><br />

d’oro e di gemme orientali accesa,<br />

questa una perla alli orecchi accoman<strong>da</strong>;<br />

l’altra al bel petto e’ bianchi omeri intesa,<br />

par che ricchi monili intorno span<strong>da</strong>,<br />

de’ quai solien cerchiar lor proprie gole,<br />

quando nel ciel gui<strong>da</strong>von le carole.<br />

103<br />

indi paion levate inver le spere<br />

seder sovra una nuvola d’argento:<br />

l’aier tremante ti parria vedere<br />

nel duro sasso, e tutto il cel contento;<br />

tutti li dei di sua biltà godere,<br />

e del felice letto aver talento:<br />

ciascun sembrar nel volto meraviglia,<br />

con fronte crespa e rilevate ciglia.<br />

10<br />

nello estremo, se stesso el divin fabro<br />

formò felice di sì dolce palma,<br />

ancor <strong>da</strong>lla fucina irsuto e scabro,<br />

quasi obliando per lei ogni salma,<br />

con desire aggiugnendo labro a labro<br />

come tutta d’amor gli ardessi l’alma:<br />

e par vie maggior fuoco acceso in ello,<br />

che quel ch’avea lasciato in Mongibello.<br />

105<br />

nell’altra in un formoso e bianco tauro<br />

si vede Giove per amor converso<br />

portarne il dolce suo ricco tesauro,<br />

e lei volgere il viso al lito perso<br />

in atto paventosa; e i bei crin d’auro<br />

scherzon nel petto per lo vento avverso;<br />

la vesta ondeggia, e indrieto fa ritorno,<br />

l’una man tiene al dorso, e l’altra al corno.<br />

106<br />

Le ’gnude piante a sé ristrette accoglie<br />

quasi temendo il mar che lei non bagne:<br />

tale atteggiata di paura e doglie<br />

par chiami invan le dolci sue compagne;<br />

le qual rimase tra fioretti e foglie<br />

dolenti europa ciascheduna piagne.<br />

“europa”, suona il lito, “europa, riedi”,<br />

e ’l tor nuota e talor li bacia e piedi.<br />

107<br />

or si fa Giove un cigno or pioggia d’oro,<br />

or di serpente or d’un pastor fa fede,<br />

per fornir l’amoroso suo lavoro;<br />

or transformarsi in aquila si vede,<br />

come amor vuole, e nel celeste coro<br />

portar sospeso il suo bel Ganimede,<br />

qual di cipresso ha il biondo capo avinto,<br />

ignudo tutto e sol d’ellera cinto.<br />

108<br />

Fassi nettunno un lanoso montone,<br />

fassi un torvo giovenco per amore;<br />

fassi un cavallo il padre di chirone,<br />

diventa Febo in tessaglia un pastore:<br />

e ’n picciola capanna si ripone<br />

colui ch’a tutto il mondo dà splendore,<br />

né li giova a sanar sue piaghe acerbe<br />

perch’e’ conosca la virtù dell’erbe.<br />

109<br />

Poi segue <strong>da</strong>fne, e ’n sembianza si lagna<br />

come dicessi: “o ninfa, non ten gire,<br />

ferma il piè, ninfa, sovra la campagna,<br />

ch’io non ti seguo per farti morire;<br />

così cerva lion, così lupo agna,<br />

ciascuna il suo nemico suol fuggire:<br />

me perché fuggi, o donna del mio core,<br />

cui di seguirti è sol cagione amore?”<br />

110<br />

<strong>da</strong>ll’altra parte la bella arianna<br />

colle sorde acque di teseo si duole,<br />

e dell’aura e del sonno che la ’nganna;<br />

di paura tremando, come suole<br />

per picciol ventolin palustre canna,<br />

pare in atto aver prese tai parole:<br />

“ogni fera di te meno è crudele,<br />

ognun di te più mi saria fedele”.<br />

111<br />

Vien sovra un carro, d’ellera e di pampino<br />

coverto bacco, il qual duo tigri guidono,<br />

e con lui par che l’alta arena stampino<br />

Satiri e bacche, e con voci alte gridono:<br />

quel si vede ondeggiar, quei par che ’nciampino,<br />

quel con un cembol bee, quelli altri ridono;


qual fa d’un corno e qual delle man ciotola,<br />

quale ha preso una ninfa e qual si ruotola.<br />

112<br />

Sovra l’asin Silen, di ber sempre avido,<br />

con vene grosse nere e di mosto umide,<br />

marcido sembra sonnacchioso e gravido,<br />

le luci ha di vin rosse infiate e fumide;<br />

l’ardite ninfe l’asinel suo pavido<br />

pungon col tirso, e lui con le man tumide<br />

a’ crin s’appiglia; e mentre sì l’aizono,<br />

casca nel collo, e’ satiri lo rizono.<br />

113<br />

Quasi in un tratto vista amata e tolta<br />

<strong>da</strong>l fero Pluto, Proserpina pare<br />

sovra un gran carro, e la sua chioma sciolta<br />

a’ zefiri amorosi ventilare;<br />

la bianca vesta in un bel grembo accolta<br />

sembra i colti fioretti giù versare:<br />

lei si percuote il petto, e ’n vista piagne,<br />

or la madre chiamando or le compagne.<br />

11<br />

Posa giù del leone il fero spoglio<br />

ercole, e veste di femminea gonna<br />

colui che ’l mondo <strong>da</strong> greve cordoglio<br />

avea scampato, et or serve una donna;<br />

e può soffrir d’amor l’indegno orgoglio<br />

chi colli omer già fece al ciel colonna;<br />

e quella man con che era a tenere uso<br />

la clava ponderosa, or torce un fuso.<br />

115<br />

Gli omer setosi a Polifemo ingombrano<br />

l’orribil chiome e nel gran petto cascono,<br />

e fresche ghiande l’aspre tempie adombrano:<br />

d’intorno a lui le sue pecore pascono,<br />

né a costui <strong>da</strong>l cor già mai disgombrano<br />

le dolce acerbe cur che d’amor nascono,<br />

anzi, tutto di pianto e dolor macero,<br />

siede in un freddo sasso a piè d’un acero.<br />

116<br />

<strong>da</strong>ll’uno all’altro orecchio un arco face<br />

il ciglio irsuto lungo ben sei spanne;<br />

largo sotto la fronte il naso giace,<br />

paion di schiuma biancheggiar le zanne;<br />

tra’ piedi ha ’l cane, e sotto il braccio tace<br />

una zampogna ben di cento canne:<br />

lui guata il mar che ondeggia, e alpestre note<br />

par canti, e muova le lanose gote,<br />

117<br />

e dica ch’ella è bianca più che il latte,<br />

ma più superba assai ch’una vitella,<br />

e che molte ghirlande gli ha già fatte,<br />

e serbali una cervia molto bella,<br />

un orsacchin che già col can combatte;<br />

e che per lei si macera e sfragella,<br />

e che ha gran voglia di saper notare<br />

per an<strong>da</strong>re a trovarla insin nel mare.<br />

118<br />

duo formosi delfini un carro tirono:<br />

sovresso è Galatea che ’l fren corregge,<br />

e quei notando parimente spirono;<br />

ruotasi attorno più lasciva gregge:<br />

qual le salse onde sputa, e quai s’aggirono,<br />

qual par che per amor giuochi e vanegge;<br />

la bella ninfa colle suore fide<br />

di sì rozo cantor vezzosa ride.<br />

119<br />

intorno al bel lavor serpeggia acanto,<br />

di rose e mirti e lieti fior contesto;<br />

con varii augei sì fatti, che il lor canto<br />

pare udir nelli orecchi manifesto:<br />

né d’altro si pregiò Vulcan mai tanto,<br />

né ’l vero stesso ha più del ver che questo;<br />

e quanto l’arte intra sé non comprende,<br />

la mente imaginando chiaro intende.<br />

120<br />

Questo è ’l loco che tanto a Vener piacque,<br />

a Vener bella, alla madre d’amore;<br />

qui l’arcier frodolente prima nacque,<br />

che spesso fa cangiar voglia e colore,<br />

quel che soggioga il cel, la terra e l’acque,<br />

che tende alli occhi reti, e prende il core,<br />

dolce in sembianti, in atti acerbo e fello,<br />

giovene nudo, faretrato augello.<br />

121<br />

or poi che ad ale tese ivi pervenne,<br />

forte le scosse, e giù calassi a piombo,<br />

tutto serrato nelle sacre penne,<br />

come a suo nido fa lieto colombo:<br />

l’aier ferzato assai stagion ritenne<br />

della pennuta striscia il forte rombo:<br />

ivi racquete le triunfante ale,<br />

superbamente inver la madre sale.<br />

122<br />

trovolla assisa in letto fuor del lembo,<br />

pur mo’ di Marte sciolta <strong>da</strong>lle braccia,<br />

il qual roverso li giacea nel grembo,<br />

pascendo gli occhi pur della sua faccia:<br />

di rose sovra a lor pioveva un nembo<br />

per rinnovarli all’amorosa traccia;<br />

ma Vener <strong>da</strong>va a lui con voglie pronte<br />

mille baci negli occhi e nella fronte.<br />

123<br />

Sovra e d’intorno i piccioletti amori<br />

scherzavon nudi or qua or là volando:<br />

e qual con ali di mille colori<br />

giva le sparte rose ventilando,<br />

qual la faretra empiea de’ freschi fiori,<br />

poi sovra il letto la venia versando,<br />

qual la cadente nuvola rompea<br />

fermo in su l’ale, e poi giù la scotea.<br />

12


come avea delle penne <strong>da</strong>to un crollo,<br />

così l’erranti rose eron riprese:<br />

nessun del vaneggiar era satollo;<br />

quando apparve cupido ad ale tese,<br />

ansando tutto, e di sua madre al collo<br />

gittossi, e pur co’ vanni el cor li accese,<br />

allegro in vista, e sì lasso ch’a pena<br />

potea ben, per parlar, riprender lena.<br />

125<br />

“onde vien, figlio, o qual n’apporti nuove?”,<br />

Vener li disse, e lo baciò nel volto:<br />

“onde esto tuo sudor? qual fatte hai pruove?<br />

qual dio, qual uomo hai ne’ tuo’ lacci involto?<br />

Fai tu di nuovo in tiro mughiar Giove?<br />

o Saturno ringhiar per Pelio folto?<br />

che che ciò sia, non umil cosa parmi,<br />

o figlio, o sola mia potenzia et armi”.


Matteo Maria boiardo<br />

L’Orlando innamorato è, diciamo subito, nel suo insieme il ritratto allegorico della<br />

corte ferrarese e della corte italiana dell’ultimo trentennio del secolo. L’intreccio<br />

si basa sulla storia di orlando, paladino di Francia, innamorato di angelica, bella<br />

principessa saracena. Ma angelica nella foresta dell’ardenna ha bevuto alle<br />

fontane di Merlino che ha due getti, uno che fa innamorare, l’altro odiare: angelica<br />

ha bevuto a quello dell’amore e s’è innamorata di rinaldo, altro paladino di carlo<br />

Magno e cugino di orlando. rinaldo, a sua volta, ha bevuto al getto dell’odio ed<br />

aveva preso ad odiare angelica. costei grazie alle arti magiche di Malagise aveva<br />

sottratto a carlo Magno il meglio dei suoi paladini e li aveva condotti nella sua<br />

città, albraccà nel catai. Lo aveva fatto perché albraccà è assediata <strong>da</strong>i tartari (cui<br />

s’è unito rinaldo) di agricane. orlando, naturalmente, allettato ingannevolmente<br />

<strong>da</strong> angelica è al fianco di costei. e sarà proprio orlando ad uccidere agricane in un<br />

duello straordinario e per il valore guerriero dei cavalieri, e ancor più per i modi<br />

con cui si attua. infatti lo scontro tra i due è ancora in atto quando sopraggiunge<br />

la notte; decidono di smettere e dormire. in assoluta lealtà i due si apprestano<br />

a trascorrere nel riposo la notte, quando alla vista del cielo stellato orlando si<br />

abbandona allo sgomento per l’infinità e bellezza del creato. agricane interviene<br />

ad interromperlo:<br />

disse agricane: ­ io comprendo per certo<br />

che tu vûi de la fede ragionare;<br />

io de nulla scïenzia sono esperto,<br />

né mai, sendo fanciul, volsi imparare,<br />

e roppi il capo al mastro mio per merto;<br />

Poi non si puotè un altro ritrovare<br />

che mi mostrasse libro né scrittura,<br />

tanto ciascun avea di me paura.<br />

e così spesi la mia fanciulezza<br />

in caccie, in giochi de arme e in cavalcare;<br />

né mi par che convenga a gentilezza<br />

Star tutto il giorno ne’ libri a pensare;<br />

Ma la forza del corpo e la destrezza<br />

conviense al cavalliero esercitare.<br />

dottrina al prete ed al dottore sta bene:<br />

io tanto saccio quanto mi conviene. ­ (i, xviii, 2­ 3)<br />

Sono i due opposti ideali della corte: <strong>da</strong> un lato la cultura raffinata, <strong>da</strong>ll’altro<br />

quello guerriero ed eroico, che non si incontrano però né, soprattutto, giungono<br />

a quale che sia conclusione perché su un punto orlando ed agricane sono<br />

d’accordo: che non si può vivere senza amore e che, ahimé, la donna che essi<br />

amano è angelica. alla reciproca confessione riprendono le armi e il duello si<br />

conclude con la morte d’agricane: duello e morte non ideologici, ma provocati<br />

<strong>da</strong>ll’istinto e <strong>da</strong>lla casualità.<br />

boiardo intrecciava la vicen<strong>da</strong> di orlando rinaldo e angelica con altre storie


secon<strong>da</strong>rie, quella di Gra<strong>da</strong>sso che invade la Francia per impadronirsi della<br />

spa<strong>da</strong> di rinaldo e del cavallo di orlando. Gra<strong>da</strong>sso giunge a fare prigioniero<br />

carlo Magno che promette di esaudire le sue richieste. Ma astolfo lo sfi<strong>da</strong> a<br />

singolar tenzone abbattendolo. Le storie si accavallano alle storie, tenute insieme<br />

<strong>da</strong> tutto l’apparato di sfide, duelli, appelli al pubblico. e poi ancora una volta<br />

rinaldo ed angelica si ritrovano alle fonti di Merlino, ma adesso la donna berrà<br />

alla fonte dell’odio e il cavaliere a quella dell’amore. ancora una volta la casualità<br />

provoca il capovolgimento dei fronti, le storie si ripresentano capovolte: immutate<br />

l’ansia, l’amore, gli affanni, i tormenti e infine impossibilità di giungere ad una<br />

conclusione, a portare a termine veramente un’impresa, a riposare l’animo in un<br />

<strong>da</strong>to acquisito. il poema fluisce in un ripetersi contraddittorio e confusionario di<br />

eventi determinati <strong>da</strong>l caso e <strong>da</strong>lle passioni.<br />

di tal genere è la vicen<strong>da</strong> di Fiordespina e di bra<strong>da</strong>mante. Fiordespina si<br />

è innamorata del valore e della forza del cavaliere che ella crede maschio: la<br />

passione, neppure tanto spirituale (come lascia intendere l’allusione: « Quel che<br />

li manca ben sapre’ dir io »), celebra il culmine dell’irrazionale nell’equivoco di un<br />

amore creduto nascere <strong>da</strong>lla bellezza e <strong>da</strong>l valore virile, che cerca immediatamente<br />

i modi per cogliere i frutti della passione, e che invece non può essere esaudito:<br />

« ché gratugia a gratugia poco acquista ». intanto la realtà storica celebrava altra<br />

e più radicale contraddizione, quella di una letteratura che cantava i furori della<br />

passione e del caso per il diletto degli ascoltatori proprio quando un esercito,<br />

valoroso ma straniero, eroico ma crudele, metteva a ferro e a fuoco un intero<br />

paese, questa volta però non immaginario, bensì reale, non lontano, ma vicino<br />

e alle porte di quella corte dove ambizioni e passioni personali si intrecciavano<br />

e cercavano un’impossibile soddisfazione nel mutevole favore accor<strong>da</strong>to <strong>da</strong>l<br />

principe, <strong>da</strong>i personaggi più influenti, <strong>da</strong>lle <strong>da</strong>me.<br />

il canone cavalleresco, <strong>da</strong>ll’ottava all’eroismo cavalleresco, <strong>da</strong>i duelli di<br />

religione alla bellezza delle <strong>da</strong>me, <strong>da</strong>l moltiplicarsi ed intrecciarsi delle trame<br />

alla disperazione d’amore, era lo strumento più efficace per rappresentare la vita<br />

della corte italiana e la contraddizione che in essa si manifestava tra la ricerca di<br />

una grandezza culturale e, o di quella politica e militare. e nello stesso tempo quel<br />

canone era lo strumento per la traduzione, epperciò risoluzione, dell’equivoco<br />

cultura/politica sul piano estetico: si nascondeva così l’effettiva incapacità, vuoi<br />

del principe vuoi dello scrittore, d’avvicinarsi alla vita reale con un progetto<br />

veramente politico. il poema cavalleresco, e quello di boiardo in particolare,<br />

proprio nel momento in cui traduceva la corte in letteratura, la deformava con ed<br />

in una dimensione estetica, che se soddisfaceva ai bisogni di egemonia culturale,<br />

di fatto negava la realtà politica ed economica entro la quale la corte si sarebbe<br />

dovuta muovere.<br />

La comunicazione letteraria, insomma, avendo rivendicato l’autonomia del<br />

letterario, dell’invenzione fantastica, o, che è lo stesso, della fabula, del ritmo e<br />

dell’armonia del verso, aveva scelto di staccarsi <strong>da</strong>l reale politico e civile, <strong>da</strong> quello<br />

che un Giovanni dominici, un Giovanni Pico della Mirandola e gli altri avversari<br />

della letteratura avevano fatto dipendere ora <strong>da</strong>lla verità etica della Sacra Scrittura,<br />

ora <strong>da</strong>lla verità filosofica di un discorso rude e lontano <strong>da</strong>i lenocini della retorica.<br />

nel corso del dibattito i difensori della poesia mai avevano sostenuto l’esigenza


di una sintesi tra letteratura e scienza, di letteratura ed etica: proprio nell’esordio<br />

dell’Umanesimo un coluccio Salutati e un <strong>Leonardo</strong> bruni avevano proposto a<br />

modello di scrittore quello di cicerone accanto al quale non a caso era stato posto<br />

<strong>da</strong>nte e tuttavia la dimensione civile, e pragmatica, della comunicazione letteraria<br />

s’era sempre portata dietro l’elemento contraddittorio costituito <strong>da</strong> Petrarca che<br />

invece la spingeva sul piano più strettamente formale, ponendo come orizzonte<br />

la gloria e l’autoeducazione. La comunicazione letteraria così non rimaneva priva<br />

del tutto di funzionalità, rimaneva semmai priva di traduzione nella prassi della<br />

vita politica: il destinatario era l’altro o gli altri intellettuali ai quali l’emittente si<br />

univa in nome della superiorità e della universalità dell’arte e del sapere: Lorenzo<br />

Valla rappresenta uno dei momenti più significativi. La separazione <strong>da</strong>lla prassi<br />

politica non è ancora sociale, è semmai ideale.<br />

con la civiltà della corte i parametri universalistici tendono a scomparire:<br />

l’orizzonte è, appunto, la corte che impone il suo linguaggio e i suoi, contraddittori,<br />

modelli culturali. il destinatario accentua l’aspetto formale ed edonistico<br />

della comunicazione letteraria, protesa alla gloria non solo dell’autore, ma del<br />

committente, che coincide pressoché esclusivamente con il destinatario e che<br />

richiede di divertirsi:<br />

dirovi tutta quanta poi la cosa,<br />

Qual gli incontrò, quando fu gionto al gioco,<br />

e serà di piacere e dilettosa;<br />

Ma poi la contaremo in altro loco,<br />

Perché il cantar della storia amorosa<br />

È necessario abandonare un poco,<br />

Per ritornare a carlo imperatore,<br />

e ricontarvi cosa assai maggiore.<br />

cosa maggior, né di gloria cotanta<br />

Fu giamai scritta, né di più diletto,<br />

ché del novo rugier quivi si canta,<br />

Qual fu d’ogni virtute il più perfetto<br />

di qualunche altro che al mondo si vanta.<br />

Sì che, segnori, ad ascoltar vi aspetto,<br />

Per farvi di piacer la mente sazia,<br />

Se dio mi serva al fin la usata grazia. (i, xxix, 55­56)<br />

a voi, legiadri amanti e <strong>da</strong>migelle,<br />

che dentro ai cor gentili aveti amore,<br />

Son scritte queste istorie tanto belle<br />

di cortesia fiorite e di valore;<br />

ciò non ascoltan queste anime felle,<br />

che fan guerra per sdegno e per furore.<br />

adio, amanti e <strong>da</strong>me pellegrine:<br />

a vostro onor di questo libro è il fine. (ii, xxxi, 50)<br />

in questo circolo emittente­destinatario non solo il canone è obbligato, ma<br />

anche lo scopo ed il messaggio. boiardo si sorprende a scrivere il gioco degli<br />

impossibili amori di Fiordespina e di bra<strong>da</strong>mante, mentre fuori la realtà è di<br />

guerra e di morte. La contraddizione tra letteratura e storia gli pare irresolubile:<br />

sceglierà di tacere. Ma ormai alla comunicazione letteraria è acquisito un canone


così rigido che non sarà possibile altro che il gioco della scomposizione e della<br />

ricomposizione di unità più semplici in un gioco degli incastri che non potrà non<br />

avere come risultato un prodotto riconoscibile come letterario, ma ripetitivo e per<br />

così dire stan<strong>da</strong>rdizzato.<br />

orLando innaMorato<br />

Libro i canto PriMo<br />

canto PriMo<br />

1. Signori e cavallier che ve adunati<br />

Per odir cose dilettose e nove,<br />

Stati attenti e quïeti, ed ascoltati<br />

La bella istoria che ’l mio canto muove;<br />

e vedereti i gesti smisurati,<br />

L’alta fatica e le mirabil prove<br />

che fece il franco orlando per amore<br />

nel tempo del re carlo imperatore.<br />