PRSALA BIT - Archivio Franca Rame Dario Fo - Franca Rame
PRSALA BIT - Archivio Franca Rame Dario Fo - Franca Rame
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Uno Stato forte e credibile sa afferrare<br />
e sopportare la verità. Se è spaventato<br />
dalla verità quello Stato rinuncia<br />
a se stesso, si indebolisce, perde,<br />
si dichiara sconfitto. (…) Soltanto la verità<br />
potrà fermare il tremore delle mie mani,<br />
restituirmi una quiete capace di tenere<br />
lontani i ricordi. Voglio conoscere la verità.<br />
Non mi interessa la punizione dei colpevoli.<br />
Non mi piacciono le prigioni, non è in<br />
prigione che i colpevoli comprendono<br />
la natura dei propri errori.<br />
Per me giustizia è la consapevolezza<br />
degli uomini di che cosa è accaduto.<br />
Licia Pinelli maggio 2002
Eugenio Allegri in<br />
di <strong>Dario</strong> <strong>Fo</strong><br />
regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani<br />
scene e costumi di Carlo Sala<br />
luci di Nando Frigerio<br />
suono di Jean-Christophe Potvin<br />
con<br />
Eugenio Allegri il matto<br />
Luca Toracca il questore<br />
Giovanni Palladino commissario Bertozzo<br />
Paolo Pierobon commissario Sportivo<br />
Luca Altavilla l’agente<br />
Mercedes Martini la giornalista<br />
assistente alla regia Anna Rita Signore<br />
assistente scene e costumi Elisabetta Pajoro<br />
datori luci Rocco Colaianna, Mizio Manzotti<br />
fonico Fabrizio Ganzerli<br />
capo macchinista Giancarlo Centola<br />
macchinisti Giuseppe Marzoli, Filippo Strametto, Olivier Caretti<br />
realizzazione scene Stefano Antozzi, Simona Dossi, Simona Sacco<br />
pittori scenografi Veronica Cerri, Samuele Manni<br />
sarte Ortensia Mazzei, Maria Teresa Fumagalli<br />
amministrazione di compagnia Agnese Grassi<br />
foto di scena Alessandro Genovesi<br />
Lo spettacolo ha debuttato il 3 dicembre 2002<br />
al Teatro dell’Elfo di Milano<br />
si ringrazia<br />
Giorgio Boatti, Giulio Einaudi Editore,<br />
Gianni Barbacetto, Marco Tropea Editore, Pietro Cheli<br />
e Lucilla Morlacchi per la voce registrata del prologo
2<br />
Lo sguardo del clown<br />
Bisogna ribadire con chiarezza che i dialoghi sono<br />
stati ricostruiti su documenti autentici, non c’è<br />
stato alcun bisogno di inventare alcuna situazione.<br />
“Nulla eguaglia, come nella realtà, la stupidità degli<br />
uomini, specie quando posseggono il potere!”<br />
<strong>Dario</strong> <strong>Fo</strong><br />
Da alcuni anni assistiamo a un ritorno del teatro<br />
politico, dato per estinto in più di un’occasione. Un<br />
ritorno che si sta facendo via via più impetuoso,<br />
man mano che i tempi fanno sentire a tutti l’urgenza<br />
di spazi di espressione e di libertà. E proprio<br />
il teatro, elementare e magnifico, autogestibile e a<br />
basso costo, si dimostra uno strumento efficacissimo<br />
per riconquistare e difendere questi spazi.<br />
Il teatro viene dunque riscoperto per il suo più<br />
elementare valore d’uso, quello di luogo di espressione<br />
primario, e, se il linguaggio della scena è<br />
assai difficile da padroneggiare, l’urgenza etica dei<br />
temi può far passare in secondo piano le questioni<br />
della forma. Inoltre, il fare teatro comporta già<br />
un’aggregazione inconsueta per la società di oggi:<br />
la creazione di un gruppo e la gestione di un progetto<br />
collettivo e sociale che, per quanto piccolo,<br />
costringe all’esercizio del dibattito, dello scambio,<br />
del confronto e della progettazione indipendente.<br />
Il nostro certificato di nascita porta la data della<br />
stagione 1972/73, con Zumbì un testo di Augusto<br />
Boal che raccontava le vicende del primo, forse<br />
unico, stato nero indipendente, creato nel continente<br />
sudamericano alla fine del ‘600 da una<br />
rivolta di schiavi fuggitivi: il regno di Palmares, in<br />
Amazzonia. E gli anni di apprendistato del nostro<br />
gruppo sono segnati da una scelta, anche se molto<br />
anomala, di teatro politico. L’Elfo infatti inventò e<br />
sviluppò, per tutti gli anni 70, una forma particolare<br />
di teatro-festa che coinvolgeva gli spettatori in<br />
maniera molto diversa dagli ingessati riti ideologici<br />
del teatro politico di allora. Ma teatro politico<br />
il nostro lo era in tutti i sensi,a cominciare dalle<br />
modalità di gestione della cooperativa, basate sul<br />
principio della democrazia e sul rispetto formale<br />
scrupoloso delle sue regole nei rapporti interni.<br />
Fino al 1977 il nostro teatro mantenne un legame<br />
molto forte con i movimenti e i gruppi della sinistra<br />
extraparlamentare e la nostra sede fu il primo<br />
Leoncavallo, mentre lavoravamo occasionalmente<br />
in altri centri sociali come il Santa Marta e L’Isola.<br />
A partire dal 1977, dai giorni delle manifestazioni a<br />
Bologna contro la repressione, cominciò a delinearsi<br />
una separazione sempre più netta dalla pratica<br />
politica di allora: non riuscivamo più a condividerne<br />
né il linguaggio né molti degli obbiettivi, anche se<br />
ci accomunavano ancora senso di appartenenza e<br />
orizzonti ideali.<br />
La nostra origine comunque ci ha segnato, e ci<br />
segna ancora: l’Elfo ha una continuità profonda<br />
con quegli anni, anche se la strada nel lavoro teatrale<br />
ci ha portato verso orizzonti assai lontani dalle<br />
scelte di allora. In un certo senso siamo l’ultimo<br />
gruppo teatrale, fra i mille di quella stagione, che<br />
ha vissuto fino ad ora senza perdere lo spirito di<br />
quel progetto iniziale.<br />
Cosa c’è di meglio quindi che festeggiare i trent’anni<br />
con una riflessione sul teatro che unisca il filo del<br />
lavoro di quegli anni alla realtà di oggi. Abbiamo<br />
scelto due testi, Morte accidentale di un anarchico<br />
di <strong>Dario</strong> <strong>Fo</strong>, creato a Milano nel 1970 e Some<br />
Explicit Polaroids di Mark Ravenhill, che trent’anni<br />
più tardi è stato scritto a Londra. Si tratta di due<br />
testi assai diversi in tutti i sensi, di due estremi<br />
riconducibili solo parzialmente ad un’unica categoria.<br />
Ma tutti e due, per motivi diversi, emblematici.<br />
Di Ravenhill parleremo a tempo debito, ora siamo<br />
al lavoro su <strong>Dario</strong> <strong>Fo</strong>.<br />
•••••<br />
Il testo di <strong>Fo</strong> nacque, dunque, a un anno dalla<br />
strage di piazza <strong>Fo</strong>ntana del 12 dicembre 1969.<br />
È l’esempio più famoso di teatro politico di quegli<br />
anni, per il 95% una farsa irresistibile contro le verità<br />
all’italiana, e usa abbondantemente il paradosso<br />
per ottenere un effetto comico travolgente.<br />
Fu uno spettacolo storico, fu un colpo di genio<br />
vero, un guizzo d’artista, un salto mortale da<br />
grande trapezista, una sfida beffarda al potere,<br />
una risposta acutissima a un clima in cui si giocava<br />
cinicamente con la verità e il dolore per colpire<br />
l’opposizione e ridurla in un angolo. <strong>Dario</strong> <strong>Fo</strong> fece<br />
alla grande la sua parte da giullare rovesciando sul<br />
tavolo le sue carte nonostante i pericoli, le intimidazioni,<br />
i rischi anche penali: la sua capacità corrosiva<br />
di far ridere, usando sé stesso scrittore al servizio<br />
del suo talento di attore infinito, gli permise di sbef-
feggiare impunemente il potere, denunciando non<br />
tanto le menzogne, transeunte e occasionali, ma la<br />
menzogna del potere in quanto tale.<br />
Attraverso il meccanismo della farsa, <strong>Fo</strong> saccheggiava<br />
spietatamente verbali e dichiarazioni dei<br />
protagonisti – se li era letti tutti davvero, li conserva<br />
ancora e ci sono le sue annotazioni – e segnava<br />
con la matita rossa le molte contraddizioni presenti<br />
nelle dichiarazioni dei funzionari di polizia. Metteva<br />
così in ridicolo i contorcimenti del potere, allora<br />
impegnatissimo con ogni mezzo legale o illegale,<br />
a far quadrare i conti tra una truculenta e paludosa<br />
realtà inconfessabile – quella delle bombe nere<br />
con complicità di stato – e una verità ufficiale,<br />
una soluzione preconfezionata con cura, priva di<br />
ogni fondamento, che si voleva presentare alla<br />
coscienza degli italiani: la pista rossa degli anarchici<br />
di Roma e Milano.<br />
I consigli degli avvocati, che gli fecero cambiare<br />
tutti i nomi nel testo per evitare grane, invece di<br />
limitare la fantasia di <strong>Fo</strong>, la favorirono cosicché il<br />
testo non perse nulla della sua mordacità e guadagnò<br />
in libertà. Tutto questo si può capire bene<br />
leggendo con attenzione il primo manoscritto,<br />
purtroppo mutilo delle ultime pagine, dove figurano<br />
i nomi Pinelli, Guida, Calabresi, Valpreda. Vi si<br />
trovano anche le prime correzioni a mano dell’autore<br />
per l’inserimento del prologo americano, poi<br />
divenuto celebre, su Andrea Salsedo, l’anarchico<br />
americano amico di Sacco e Vanzetti che fu defenestrato<br />
nel 1920 dal 14 piano dell’ufficio della<br />
Polizia di New York, durante un interrogatorio. Una<br />
simmetria impressionante con la vicenda di Pino<br />
Pinelli, essendo gli anarchici, anche in quel caso,<br />
totalmente innocenti.<br />
Mentre l’attività incessante di chi cercava di fare<br />
informazione vera sulla strage e i suoi retroscena<br />
(allora si chiamava controinformazione) ci forniva<br />
inquietanti domande e le prime, ancora più inquietanti,<br />
risposte, <strong>Fo</strong> con il suo spettacolo ci fece dono<br />
di un’impensata catarsi, in cui le parti che sostenevamo<br />
nella vita reale si erano miracolosamente<br />
invertite, con i poliziotti interrogati e sotto torchio,<br />
al punto di essere lì lì per buttarsi dalla finestra<br />
distrutti dal pressing psicologico del loro torturatore.<br />
Sul palcoscenico della Comune di via Colletta la<br />
strategia della tensione era sconfitta e vinceva “la<br />
presa di coscienza delle masse popolari” che metteva<br />
ko, attraverso il matto, incarnato da <strong>Fo</strong> stesso,<br />
i rappresentanti dell’ordine costituito.<br />
•••••<br />
…Quasi che solo guardando con l’occhio<br />
imperturbabile di un clown quanto è<br />
accaduto, si possa navigare tra le<br />
zavorre della memoria. E della storia.<br />
Giorgio Boatti, Piazza <strong>Fo</strong>ntana<br />
Dunque il testo è, prima ancora che teatro politico,<br />
farsa e satira. E la satira fa uso del grottesco<br />
e del paradossale, utilizza cioè elementi reali per<br />
stravolgerli attraverso la lente e lo specchio della<br />
caricatura. Ma la realtà era già di per sé, spesso,<br />
una caricatura, nelle vicende tragicissime di quei<br />
giorni. <strong>Fo</strong> inventa allora una Questura di Milano<br />
alquanto essenziale, animata da pochi personaggi,<br />
una sorta di sintesi dell’italietta intera, eterna<br />
e drammaticamente inadeguata, che ancora oggi<br />
produce i suoi paradossali frutti. Il Questore, il<br />
Commissario dolcevita e il Commissario Bertozzo<br />
e persino l’agente Pisanin – strepitoso piccolo ruolo<br />
- sono incarnazioni di una terribile inconsistenza<br />
burocratica dei nostri apparati polizieschi e giudiziari<br />
di allora, che ci deve sempre mettere in guardia:<br />
ciò che ci appare a prima vista ridicolo, come<br />
nel caso di certi golpe, o di certi depistaggi, non ci<br />
deve ingannare un solo secondo, è ridicolo ma è<br />
anche pericoloso. Qualcosa di peggio della banalità<br />
del male: una specie di iperrealistica ma non meno<br />
surreale comicità del male.<br />
<strong>Fo</strong> sembra rischiare persino di travolgere la vittima,<br />
Pinelli stesso, nella farsa. La vicenda di Pinelli ha<br />
una dimensione – privata e pubblica – tragicamente<br />
sconvolgente. Ma l’abbassamento a farsa è già<br />
nelle dichiarazioni autentiche degli stessi poliziotti,<br />
davvero ridicole e impacciate, che resero tragicomica<br />
persino quella morte. Grottescamente patetici,<br />
li definì <strong>Fo</strong>, perché il volo di Pinelli diventava, nelle<br />
ricostruzioni enfatiche, un gesto atletico recitato<br />
da un clown.<br />
Strano destino: veniamo sfiorati da un turbamento<br />
umoristico persino leggendo le conclusioni<br />
(il “malore attivo” di Pinelli) della sentenza del<br />
giudice D’Ambrosio, il magistrato che riaprì il caso<br />
con un lavoro serissimo. Quel giudice era andato<br />
3
4<br />
finalmente a fare le domande giuste e i necessari<br />
riscontri, ma alla fine riuscì solo a trovare quella<br />
buffa definizione, che chiuse per sempre, senza<br />
grandi certezze purtroppo, la vicenda Pinelli. Riuscì<br />
almeno ad aprire alcuni squarci di luce, ma non<br />
a sgombrare il campo del tutto da quella “morte<br />
accidentale” senza responsabili, sostenuta nella<br />
precedente sentenza di archiviazione del caso, che<br />
diede lo spunto per il titolo a <strong>Fo</strong>.<br />
Lo spettacolo venne replicato incessantemente per<br />
tre anni, in via Colletta e in tournée. Ogni serata<br />
era preceduta da un cappello improvvisato da<br />
<strong>Fo</strong> stesso con maestria ineguagliabile, basato su<br />
aggiornamenti da fonti di controinformazione e<br />
su notizie della giornata. Andando alla Comune,<br />
oltre allo spettacolo si assisteva di fatto a un giornale<br />
radio militante condotto da <strong>Fo</strong>, che pareva<br />
instancabile nel “portare avanti” il dibattito con il<br />
pubblico. Il testo quindi subiva cambiamenti, legati<br />
anche alle critiche più frequenti che emergevano<br />
in quegli infuocati “dopo teatro”, che erano in<br />
realtà un secondo spettacolo. I cambiamenti, come<br />
abbiamo potuto constatare solo di recente, grazie<br />
alla gentilezza di <strong>Franca</strong> <strong>Rame</strong> che ci ha fornito le<br />
numerose stesure del testo, riguardavano essenzialmente<br />
il prologo (che si fondeva in realtà con il cappello<br />
politico iniziale di <strong>Fo</strong>, in eterna evoluzione) e il<br />
lungo finale. Quello scritto da <strong>Fo</strong> originariamente, il<br />
più teatrale, lasciò spazio progressivo a un discorsoinvettiva,<br />
anch’esso in continua evoluzione, in cui<br />
il personaggio del matto-vescovo lasciava spazio<br />
a <strong>Dario</strong> <strong>Fo</strong> stesso e il discorso si faceva politico e<br />
diretto, con sempre meno mediazioni e legami con<br />
la vicenda narrata. Poi il finale sparì del tutto, per<br />
lasciare posto al solo discorso.<br />
Non è qui il luogo per una analisi accurata degli<br />
spostamenti di senso più significativi che questa<br />
sparizione del finale comportava, ma un accenno è<br />
indispensabile, soprattutto perché nel nostro attuale<br />
allestimento abbiamo optato per la reintroduzione<br />
quasi integrale del finale originario.<br />
<strong>Fo</strong> stesso circoscriveva fortemente le possibilità<br />
interpretative del suo lavoro, inscrivendolo in un<br />
contesto ideologico molto forte e non suscettibile<br />
– quanto almeno alle dichiarazioni di intento – di<br />
alcuna ambiguità, affermando di sentire come suo<br />
dovere di militante comunista, che usa il teatro<br />
come strumento di lotta politica, di non volersi<br />
limitare alla denuncia o alla richiesta di verità, ma<br />
di voler arrivare a svelare la natura intimamente<br />
ideologica dello stesso stato borghese e dei suoi<br />
strumenti di oppressione.<br />
… (Nel) lavoro complessivo di <strong>Dario</strong> <strong>Fo</strong> e della<br />
Comune, una doppia consapevolezza. Alla base<br />
del testo, della serie di scatenata di invenzioni<br />
grottesche in cui si articola – come penosamente<br />
grotteschi sono i risvolti delle vicende cui il testo fa<br />
riferimento – , c’è la riflessione leninista della teoria<br />
dello stato e delle sue funzioni. La magistratura e la<br />
polizia, che lo spettacolo mette sotto accusa, non<br />
sono istituzioni da criticare o da correggere, sulle<br />
quali far pressioni per evitarne le disfunzioni: sono<br />
le espressioni più dirette dello stato borghese, del<br />
nemico di classe da abbattere. D’altra parte, per<br />
quanto riguarda la natura di questo strumento per<br />
la lotta politica, facciamo nostra la convinzione di<br />
un teatro che “possa descrivere il mondo d’oggi<br />
agli uomini d’oggi, solo a patto che lo descriva<br />
come un mondo che può (e deve) essere cambiato”.<br />
Purché, nel suo modo di essere e di operare,<br />
sappia legarsi correttamente agli sviluppi della lotta<br />
di classe, oggi, nel nostro paese.<br />
In questo discorso è sintetizzata più che un’epoca,<br />
un’epica e un mondo.<br />
Da una parte c’è la bellissima intuizione anarchica<br />
del testo, il carnevale che ribalta il mondo facendo<br />
diventare giudice il Matto, un personaggio di nobili<br />
ascendenze, un fool o clown shakespeariano, di<br />
quelli che tengono testa a re e a principi, che si infilano<br />
in una vicenda che pare ispirata a mille fonti,<br />
dal Revisore di Gogol, all’Arte della commedia di<br />
Eduardo. C’è la forza stessa del teatrante che attraversa<br />
i secoli e sopravvive alle catastrofi facendosi<br />
beffe del potere con mille trucchi e imbrogli.<br />
Commissario<br />
Sì, fai lo spiritoso, ...Qui la denuncia dice che ti sei<br />
fatto passare per psichiatra, professore già docente<br />
all’università di Padova... Lo sai che per millantato<br />
credito c’è la galera?<br />
Indiziato<br />
Sì, per il millantato credito messo in piedi da uno<br />
sano. Ma io sono matto: matto patentato... guardi
qua il libretto clinico: sono stato ricoverato già<br />
sedici volte... e sempre per la stessa ragione: ho<br />
la mania dei personaggi, si chiama “istrionomania”<br />
viene da istriones che vuol dire attore. Ho l’hobby<br />
di recitare delle parti insomma, sempre diverse.<br />
Soltanto che io sono per il teatro verità, quindi ho<br />
bisogno che la mia compagnia di teatranti sia composta<br />
da gente vera... che non sappia di recitare.<br />
D’altra parte io non ho mezzi, non potrei pagarli...<br />
ho chiesto sovvenzioni al ministero dello spettacolo<br />
ma, siccome non ho appoggi politici...<br />
Dall’altra c’è il <strong>Fo</strong> più ideologico che per dire la<br />
sua importante verità da militante tra militanti,<br />
si tradisce da solo perché usa sempre i mezzi, i<br />
trucchi, gli imbrogli del teatro. Ne è un esempio<br />
questa gustosa alterazione aprocrifa ad uso e<br />
consumo della Teoria dello scandalo come concime<br />
della socialdemocrazia, catarsi liberatoria di ogni<br />
tensione sociale.<br />
Matto<br />
D’altronde, san Gregorio Magno, quando, appena<br />
eletto pontefice, scoprì che si cercava, con<br />
intrallazzi e maneggi vari, di coprire gravi scandali,<br />
incollerito, si mise a urlare la famosa frase:<br />
“Nolimus aut velimus, omnibus gentibus, justitiam<br />
et veritatem…”<br />
Giornalista<br />
La prego eminenza… sono stata bocciata tre volte<br />
in latino…<br />
Matto<br />
Ha ragione, in poche parole, disse: “Lo si voglia<br />
o non lo si voglia, giustizia e verità io impongo,<br />
farò l’impossibile perché gli scandali esplodano nel<br />
modo più clamoroso; e non temiate che, nel loro<br />
marcio, venga sommersa ogni autorità. Ben venga<br />
lo scandalo, che, su di esso, si fonda il potere più<br />
duraturo dello stato!”<br />
Giornalista<br />
In poche parole, salta fuori che lo scandalo, anche<br />
quando non c’è, bisognerebbe inventarlo, perché<br />
è un mezzo straordinario per mantenere il potere<br />
scaricando le coscienze degli oppressi.<br />
Matto<br />
Certo: la catarsi liberatoria d’ogni tensione… E<br />
voi giornalisti indipendenti ne siete i sacerdoti<br />
benemeriti.<br />
Giornalista<br />
Benemeriti? Beh, non certo per il nostro governo<br />
che smania e corre come un matto a tamponare<br />
ogni volta che noi si scopre uno scandalo.<br />
Matto<br />
Smania, appunto, il nostro di governo... che è<br />
ancora borbonico… precapitalista… ma guardi<br />
invece quelli evoluti... tipo nord Europa?! Lei si<br />
ricorda dello scandalo “Profumo” in Inghilterra? Il<br />
ministro della guerra coinvolto in un giro di prostitute,<br />
droga, spionaggio…!!! Crollò forse lo stato?<br />
la borsa?<br />
Nient’affatto, anzi, borsa e stato non furono mai<br />
cosi forti come dopo quello scandalo. La gente<br />
pensava: “Si, il marcio c’è, però viene a galla...”<br />
Noi ci nuotiamo in mezzo e lo beviamo pure, ma<br />
nessuno ci viene a raccontare che è tè al limone! E<br />
questo è quel che conta!<br />
Questore<br />
Ma no! Sarebbe come dire che lo scandalo è il<br />
concime della socialdemocrazia!<br />
Matto<br />
Giusto! L’ha detto! Lo scandalo è il concime<br />
della socialdemocrazia! Dirò di piu: lo scandalo<br />
è il miglior antidoto al peggior veleno, che è la<br />
presa di coscienza del popolo: se il popolo prende<br />
coscienza siamo fregati! Infatti l’America, che è un<br />
paese veramente socialdemocratico, ha mai messo<br />
censure per quello che riguarda le stragi fatte dagli<br />
americani in Vietnam? Anzi: su tutti i quotidiani<br />
sono venute fuori fotografie di donne sgozzate,<br />
bambini massacrati, villaggi distrutti.<br />
(…)<br />
Non si è messa mai censura per questi scandali.<br />
Ma è giusto! Così la gente ha la possibilità di<br />
indignarsi, orripilarsi: ma che razza di governo è?<br />
Generali schifosi. Assassini! E s’indigna, s’indigna e<br />
burp! Il ruttino liberatore.<br />
Anche se l’idea del ruttino liberatore non è priva di<br />
fascino e ha il suo bel fondamento, la teoria che gli<br />
sta dietro ci sembra davvero meno convincente di<br />
quanto, forse, poteva apparire allora.<br />
A noi sembra che gli anni successivi non abbiano<br />
mostrato, né in America né in Europa, e men che<br />
meno in Italia – in particolare per quel che riguarda<br />
i tragici episodi legati alla cosiddetta “strategia<br />
della tensione” – una vocazione allo scandalo<br />
come concime della socialdemocrazia quanto piuttosto<br />
una volontà e una capacità di insabbiamento<br />
terrificante.<br />
5
6<br />
<strong>Fo</strong>sse scoppiato allora, negli anni 70, uno scandalo<br />
sulle inchieste e sui processi per la strage di Piazza<br />
<strong>Fo</strong>ntana! Invece, solo di recente, l’inchiesta del<br />
giudice Salvini ci ha rivelato l’ossatura dei giochi<br />
politici che hanno portato alla strategia della tensione<br />
e alle stragi, in particolare a questa. Altro che<br />
ruttino: la mancata esplosione di uno scandalo ha<br />
reso efficace la strategia degli autori della strage, e<br />
noi paghiamo ancora oggi il prezzo del silenzio di<br />
stato durato molti, troppi anni davvero.<br />
Ma lo spettacolo di <strong>Fo</strong> nel 1970 fu una grande<br />
liberazione per molti di noi, fu un rito di transizione<br />
per molti adolescenti di allora, fu un atto<br />
di fondazione della propria identità e della propria<br />
appartenenza alla sinistra rivoluzionaria. Fu una<br />
liberazione catartica dall’afasia a cui la strategia<br />
della tensione voleva costringere ogni oppositore<br />
all’ordine costituito. Proprio perché coglieva un<br />
aspetto tipicamente italiano dell’eversione nera e<br />
di stato, quello della faciloneria e del pressappochismo,<br />
che non la rendeva però meno pericolosa e<br />
meno fatale. Una continuità con la tragicommedia<br />
del fascismo raffrontata con la tragedia assoluta<br />
del nazismo, che non ci deve mai consolare, ma<br />
inquietare se mai sempre di più.<br />
Ci deve far riflettere o no il fatto che troppo spesso<br />
la storia in Italia prende le forme della commedia o<br />
della farsa, e che i suoi protagonisti sono a dir poco<br />
dei comici improvvisati o dei furbi, ironici istrioni?<br />
Sono queste eterne maschere, in bilico fra commedia<br />
dell’arte e commedia all’italiana che il nostro<br />
spettacolo prende di mira, fra cataste frananti di<br />
documenti inevasi, fra dune di faldoni accumulate<br />
da una burocrazia barocca e kafkiana. In questa<br />
cornice allucinata, ma assolutamente realistica per<br />
chiunque abbia messo piede in un ministero o in un<br />
archivio, si muovono, deformati anche fisicamente<br />
dai loro ruoli, quelli che una volta, con espressione<br />
sintetica, venivano definiti i “servi del potere”.<br />
Arroganti con i sottoposti, crudeli con gli indiziati,<br />
zuccherosi e tremebondi con i (presunti) superiori,<br />
ora si chiamano questore, commissario, appuntato,<br />
ma sotto la divisa, sotto i doppiopetti eccoli<br />
lì: Balanzone, Pantalone, il Capitano, Arlecchino,<br />
insopportabili ed eterne maschere di questa Italia<br />
che non riesce a fare a meno di essere così prevedibilmente<br />
italiana.<br />
In mezzo a loro, a svelare vecchi trucchi e nuove<br />
astuzie il Matto di Eugenio Allegri – attore molto<br />
amato dal nostro pubblico, col quale inizia una<br />
collaborazione non episodica – che con stralunata<br />
lievità chapliniana smonta le architetture di menzogne<br />
dei commissari e dei questori di Paolo Pierobon,<br />
di Giovanni Palladino, di Luca Toracca, aiutato dalla<br />
solare e formosa giornalista di Mercedes Martini,<br />
che abbiamo voluto anni luce lontana dal clichè<br />
della ‘donna di sinistra’ tutta eskimo e anfibi, sotto<br />
gli occhi attoniti e divertiti dell’ineffabile appuntato<br />
Pisanin di Luca Altavilla.<br />
Con questo gruppo ci siamo divertiti a ricreare le<br />
situazioni a volte irresistibili di questo testo, ma<br />
abbiamo anche condiviso momenti di riflessione e<br />
di rilettura di una vicenda che a più di trent’anni di<br />
distanza continua a sembrarci una delle più dolorose<br />
e vergognose della nostra storia più recente.<br />
E se siamo spesso riusciti a farlo col sorriso sulle<br />
labbra è perché uno dei doni del teatro è di sapersi<br />
vendicare della storia.<br />
Quello che purtroppo allora non è successo succederà<br />
su questo palcoscenico, ora, sera dopo sera.<br />
Buono spettacolo quindi e buone letture: ci auguriamo<br />
che chi non lo ha fatto, prenda spunto da<br />
questa occasione per leggere i libri da cui sono<br />
tratti i brani che abbiamo utilizzato per questo<br />
programma.<br />
Ferdinando Bruni Elio De Capitani<br />
Milano 26 novembre 02
Il male dentro di noi<br />
“Ma nessuno, stranamente,” mi ha detto il vecchio<br />
e un poco pazzo commissario in pensione<br />
“ha finora considerato un’altra ipotesi. Nel cuore<br />
della città, in pieno giorno, città che si vantava<br />
fino a ieri di essere esempio di civiltà e progresso,<br />
sono state ammazzate selvaggiamente quattordici<br />
persone che non avevano alcuna colpa da pagare<br />
e altre decine sono state colpite e ferite, alcune<br />
mutilate, straziate, decurtate, smembrate, che<br />
forse moriranno anche loro.<br />
“Subito tutti, nella stretta dello spavento e dell’orrore,<br />
si sono chiesti: chi è stato? chi sono stati? E<br />
ciascuno ha subito pensato ai suoi nemici. La macchina<br />
della polizia si era già messa immediatamente<br />
in moto, ma avanzava a tentoni nella nebbia.<br />
I bianchi? i neri? i rossi? i morzi? gli ugonotti? i<br />
decembristi? i cinesi? i comunardi? i nichilisti? E si<br />
rilevavano le impronte, si raccoglievano gli indizi,<br />
si facevano parlare i testimoni, si misurava, si controllava,<br />
si pensava.<br />
“Ma può darsi che tutto questo affanno sia una<br />
corsa dietro al vento,” diceva il vecchio e saggio<br />
commissario “forse il criminale, i criminali non<br />
esistono. È esistito e non esiste più. Sono esistiti<br />
e non esistono più (per ora). Il maledetto, i maledetti<br />
erano soltanto creature del male concepite,<br />
generate e gestite proprio da noi.<br />
“lo, augurando la malora a chi la pensava al contrario<br />
di me, costruivo, di quel demonio, qualche<br />
migliaia di cellule, tu gettando la maledizione su<br />
chi ti offendeva o umiliava costruivi del demonio<br />
un dito della mano, lui desiderando la rovina, lo<br />
squartamento, la morte di chi era più fortunato<br />
di lui, costruiva del demonio un ginocchio, il pancreas,<br />
il naso, e a poco a poco, odiando, pezzo<br />
per pezzo lo abbiamo messo al mondo, e alla<br />
fine, odiando odiando, gli abbiamo dato il gelido<br />
cervello capace di... non si ha il coraggio di dirlo.<br />
Dopodiché il trasparente invisibile demonio creato<br />
dal nulla ad opera nostra si è sguinzagliato per le<br />
strade della città e con la astuzia che gli abbiamo<br />
dato si è messo a fabbricare la morte.<br />
“Ed è altrettanto naturale” diceva il vecchio un<br />
po’ matto commissario in pensione “che, una<br />
volta scatenatosi nel sangue il demonio messo<br />
al mondo da noi, da me, da te, da lui, col nostro<br />
odio che di giorno in giorno cresceva perché io mi<br />
sentivo odiato sempre più e così tu ti sentivi odiato<br />
sempre più e così lui e così noi tutti, e perciò a<br />
nostra volta odiavamo, e l’aria era tutta brulicante<br />
di odî, una volta esplosa nel sangue la ferocia del<br />
mostro da noi generato, ecco la vergogna lo sgomento<br />
il rimorso il disonore, e il demonio all’improvviso<br />
non esiste più, è rientrato con fulmineo<br />
risucchio in noi stessi, un occhio è rientrato in me,<br />
un’unghia è rientrata in te, un dente è rientrato in<br />
quella ragazza che passa per la strada, un ossicino<br />
è rientrato nello studente barbuto seduto al caffè,<br />
all’improvviso il nefasto demonio grondante sangue<br />
non esiste più, e la brava polizia si affanna a<br />
seguire le piste più sottili ed intricate ma si perde<br />
in un labirinto senza fine e mai e poi mai forse ne<br />
verrà a capo perché il massacratore la belva l’orco<br />
orrendo non esiste più, è esistito per poche ore,<br />
pochi giorni, grazie al concentramento fatale degli<br />
odî nostri e vostri e loro, talmente forte da parto-<br />
rire la follia, ma per il momento non esiste più.<br />
“Senonché quello che lui ha compiuto, dolore e<br />
vergogna e sangue, rischia di moltiplicare, domani<br />
o dopodomani, ciò che lo ha creato, vale a dire<br />
l’odio, il desiderio abbietto di vedere annientato e<br />
scannato il presunto o vero nemico, il presunto o<br />
vero sopraffattore, il presunto o vero affamatore”<br />
a questo punto il vecchio commissario si è passata<br />
la mano sulla fronte. “E allora sì viene la paura.”<br />
Dino Buzzati<br />
Corriere della Sera, 16 dicembre 1969<br />
7
8<br />
Colpevole senza colpa<br />
(…) Pinelli, ferroviere, animatore del circolo anarchico<br />
Ponte della Ghisolfa, è in questura dal pomeriggio<br />
del 12 dicembre. Due ore dopo lo scoppio<br />
della bomba di Piazza <strong>Fo</strong>ntana è stato fermato,<br />
nella sede di via Scaldasole, dal commissario Luigi<br />
Calabresi. Anzi, non fermato, “invitato. Calabresi<br />
l’ha trovato in via Scaldasole, alla sede anarchica, e<br />
gli ha detto di seguirlo con il suo motorino”. (…)<br />
Centinaia di perquisizioni, nella sola Milano, sono<br />
in corso in quelle ore: ma, tra le tante, Calabresi<br />
sovraintende personalmente a quella che si svolge<br />
nel circolo anarchico. (…)<br />
Il questore di Milano, Marcello Guida, ha il compito<br />
di coordinare le indagini in questa fase iniziale.<br />
Ai giornalisti va subito ad annunciare il suo proposito,<br />
tanto ovvio quanto tragicamente smentito dai<br />
fatti, “di condurre nel modo migliore le indagini,<br />
completarle e riuscire nel più breve tempo possibile<br />
a sgombrare il campo da criminali del genere e<br />
ottenere che episodi come questo non funestino<br />
più Milano”. (…)<br />
A poche ore dalle prime dichiarazioni, il questore<br />
di Milano parla ancora. Assediato dalle domande<br />
dei cronisti afferma che “le indagini continuano in<br />
tutte le direzioni” ma, sibillino, aggiunge, “però<br />
adesso abbiamo una preferenza”.<br />
Il concetto di preferenza è certo estraneo al lavoro<br />
investigativo costruito su dati obiettivi. Ma il<br />
questore è della vecchia guardia, estraneo a certe<br />
sottigliezze della moderna investigazione. Così,<br />
dopo aver fatto una sapiente pausa, prosegue:<br />
“Il riserbo non mi permette di aggiungere altro su<br />
quello che riguarda l’identità ideologica del gruppo<br />
extraparlamentare nelle cui fila potrebbero trovarsi<br />
i responsabili del tragico fatto di Piazza <strong>Fo</strong>ntana”.<br />
Affermazione che, dietro l’apparente negazione<br />
(“il riserbo non mi permette”) e il condizionale<br />
(“potrebbero trovarsi”), svela parecchio sulle coordinate<br />
che stanno guidando le indagini.<br />
Strano riserbo, infatti, quello che guida il questore<br />
di Milano. Immediatamente rotto dai dati che vengono<br />
forniti alla stampa sui fermati. Sarebbero, in<br />
totale, 150 persone e di queste 27 avrebbero già<br />
lasciato la questura, trasferite al carcere milanese di<br />
San Vittore: non si sa bene se perché imputate di<br />
precisi reati o, come sostiene un po’ confusamente<br />
il questore, “anche per una questione organizzativa”.<br />
Comunque tutta la stampa è concorde nell’affermare<br />
che le persone coinvolte negli accertamenti<br />
“appartengono in maggioranza a gruppi neoanarchici<br />
collegati a gruppi internazionalisti”.<br />
L’anarchico Ardau, fermato in via Scaldasole assieme<br />
a Pino Pinelli, è tra coloro che - su regolare provvedimento<br />
della magistratura - vengono trasferiti a<br />
San Vittore.<br />
Pino Pinelli, invece, rimane in questura. Esattamente<br />
entro le 19 di domenica 14 dicembre dovrebbe<br />
essere presa una decisione sulla sua posizione. Il<br />
fermo di polizia infatti può protrarsi sino a quarantotto<br />
ore, a partire dal momento in cui viene notificato.<br />
Oltre i due giorni s’aprono due possibilità: il<br />
fermo viene prorogato dal magistrato che, come ha<br />
fatto per Ardau, ordina il trasferimento al carcere;<br />
oppure cessa e la persona trattenuta deve essere<br />
rimessa in libertà.<br />
Pino Pinelli, domenica sera, non viene trasferito a<br />
San Vittore. Né rimesso in libertà. Viene trattenuto<br />
illegalmente e questo, fuor di ogni dubbio, deciderà<br />
della sua vita.<br />
La ricostruzione sulle ultime ore dell’anarchico<br />
Pinelli s’affida a spezzoni di testimonianze raccolte<br />
nel corso dell’inchiesta sulla sua tragica morte, in<br />
questura, la notte tra il 15 e il 16 dicembre.<br />
Queste testimonianze - soprattutto dopo l’insorgere<br />
di una vasta campagna giornalistica che<br />
attribuisce la responsabilità diretta della morte agli<br />
uomini delle forze dell’ordine presenti nella stanza<br />
al quarto piano dalla quale volò Pinelli - non sono<br />
riuscite a ricostruire, senza possibilità di dubbio<br />
alcuno, cosa sia accaduto immediatamente prima<br />
del tragico “volo”. Così, per quanto riguarda la fine<br />
del ferroviere anarchico, ci si deve attenere alla sentenza<br />
del giudice D’Ambrosio che esclude l’ipotesi<br />
dell’omicidio volontario.<br />
Per il giudice è, altresì, “possibile ma inverosimile”<br />
che Pinelli si sia suicidato. (…)<br />
La sentenza, invece, propende nettamente per altra<br />
ipotesi, quella del “malore attivo”:<br />
Pinelli dalle 18.30 del 12 dicembre sino a pochi<br />
minuti prima delle 24 del 15 dicembre, fu sottoposto<br />
a una serie di stress, non consumò pasti<br />
regolari e dormì solo poche ore, una sola volta<br />
steso in una branda. Pinelli infatti, fermato intorno<br />
alle 18.30, fu collocato in un salone del quarto<br />
piano dell’ufficio politico ove via via vennero<br />
accompagnati e lasciati i numerosi fermati, subì<br />
certamente l’emozione derivante dall’apprendere<br />
i particolari e l’efferatezza degli attentati e dal
constatare che ancora una volta la polizia concentrava<br />
quasi tutta la sua attenzione sui gruppi di<br />
sinistra e in particolare sugli anarchici. Alle 3 del<br />
mattino fu sottoposto al primo interrogatorio e<br />
sopportò lo stress fra il dire la verità e compromettere<br />
la speranza di libertà del compagno Pulsinelli<br />
già detenuto da diversi mesi e l’inventare un alibi<br />
che in seguito avrebbe potuto, per l’accertata<br />
falsità, rivolgersi contro di lui come prova d’accusa.<br />
Rimase ancora nello stesso stanzone senza<br />
possibilità di stendersi e di beneficiare di un sonno<br />
ristoratore sino alle 22.30 del 13 dicembre, ora in<br />
cui venne accompagnato nelle camere di sicurezza<br />
della questura. La mattina fu ricondotto nel salone<br />
dell’ufficio politico e subì lo stress di un nuovo<br />
interrogatorio. Finalmente dopo le 20.40 [...] subì<br />
ancora lo stress di un nuovo interrogatorio. Il fatto<br />
che questa volta a chiedergli dell’alibi fosse un<br />
esperto funzionario anziché un sottufficiale e che<br />
gli facessero sottoscrivere il verbale dovette fargli<br />
capire se non proprio dargli la certezza, posto che<br />
la sera precedente era ufficialmente entrato nelle<br />
camere di sicurezza, che qualcosa nella faccenda<br />
dell’alibi non era andato secondo le sue previsioni.<br />
Subì quindi ancora lo stress dell’attesa di<br />
un nuovo interrogatorio che questa volta la sua<br />
esperienza doveva suggerirgli non sarebbe stato<br />
solo diretto a ottenere da lui elementi di prova<br />
contro il “sanguinario VaIpreda” ma anche a fargli<br />
fare ammissioni che lo compromettessero. Il fatto<br />
che venissero man mano rilasciati tutti i compagni<br />
anarchici fermati dopo di lui, non dovette poi<br />
certo tranquillizzarlo. Alle ore 19 del 15 dicembre,<br />
senza che avesse potuto beneficiare di un sonno<br />
ristoratore in un letto, fu chiamato di nuovo per<br />
un interrogatorio. “Valpreda ha confessato”, esordì<br />
il commissario Calabresi. Era vero o era il solito<br />
“saltafosso” della polizia?<br />
Il dubbio dovette quanto meno sfiorargli la<br />
mente, se è vero che disse al Valitutti “se è stato<br />
un compagno lo uccido con le mie mani”. Ma<br />
non poteva concedersi il lusso di pensarci sopra;<br />
l’interrogatorio proseguiva e doveva prestare la<br />
massima attenzione alle domande che gli venivano<br />
rivolte; doveva ben meditare le risposte che<br />
andava dando per evitare di cadere in contraddizioni<br />
e prestare così il fianco al gioco degli inquirenti.<br />
La mancanza di sonno, di un’alimentazione<br />
adeguata (non aveva cenato e da quando era in<br />
questura i pasti erano costituiti da panini ripieni),<br />
le numerosissime sigarette fumate, dettero il loro<br />
contributo allo stato di stanchezza che derivò.<br />
“Ogni tanto palesava momenti di assenza [...] il<br />
verbale fu rifatto tre o quattro volte in quanto<br />
il Pinelli non ricordava”, afferma il commissario<br />
all’udienza del 14 ottobre 1970. L’interrogatorio<br />
è terminato e nulla è emerso contro Pinelli ma lo<br />
stato di tensione per lui non si allenta.<br />
Cosa deciderà di lui il dottor Allegra? Finirà a San<br />
Vittore con l’infamante marchio di complice di<br />
uno dei più efferati delitti della storia d’ltalia o<br />
tornerà finalmente libero a casa? Pinelli accende<br />
la sigaretta che gli offre Mainardi. L’aria della<br />
stanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si<br />
avvicina alla ringhiera per respirare una boccata<br />
d’aria fresca, un’improvvisa vertigine, un atto di<br />
difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla<br />
ringhiera e precipita nel vuoto.<br />
Molti, a tanti anni di distanza, trovano ancora difficile<br />
accogliere il verdetto del giudice D’Ambrosio.<br />
Ma, da opporvi, non hanno una verità perentoria,<br />
documentata e obiettiva.<br />
Allineano, piuttosto, una serie di contestazioni.<br />
Pongono domande, che - certo - indicano la difficoltà<br />
d’accettare quella tesi del “malore attivo”<br />
come dice il giudice (o del “suicidio colposo”,<br />
come altri la chiamano). Queste domande su<br />
quanto davvero accadde in questura quella notte<br />
del 15 dicembre, le incongruenze emerse nelle<br />
successive ricostruzioni date dai testi, sono frammenti<br />
di una storia che - fittamente - s’intreccia<br />
con la strage del 12 dicembre. Debbono, dunque,<br />
essere ricordate.<br />
Le testimonianze - rese dal giornalista che per<br />
primo accorse, cercando invano di prestare soccorso<br />
all’uomo precipitato dal quarto piano e<br />
da altri tre cronisti - affermano che la caduta è<br />
successiva di qualche minuto (tre o quattro) alla<br />
mezzanotte.<br />
La chiamata, effettuata dal centralino della questura,<br />
dell’autoambulanza della Croce Bianca<br />
che soccorre Pinelli morente è di 58 secondi<br />
successiva alla mezzanotte, dato inoppugnabile<br />
della registrazione elettronica delle chiamate<br />
di soccorso. E’ accaduto, tante volte, che - nel<br />
drammatico prodursi di una tragedia - si ritardi la<br />
chiamata del soccorso. Ma quale possa essere il<br />
senso di una chiamata che precede il prodursi di<br />
9
10<br />
una tragedia (la caduta di Pinelli) nessuno è mai<br />
riuscito a spiegarlo.<br />
L’ufficio dove Pinelli viene interrogato è di dimensioni<br />
piuttosto ridotte. Secondo l’accertamento<br />
eseguito dai periti (Cesare Stevan, della difesa;<br />
Pier Angelo Spardini, della parte civile; il brigadiere<br />
Mascia della squadra scientifica, consulente<br />
d’ufficio) misura metri 3,56 per 4,40. La porta<br />
(metri 2,11 per 0,90) s’apre su una delle due<br />
pareti più corte e la finestra balcone (larga metri<br />
1,50) s’apre sul lato opposto. La porta finestra<br />
- munita di una balaustra di ferro a filo del muro,<br />
esterna ai vetri, alta centimetri 92 - s’apre all’interno.<br />
Nel locale vi è una scrivania, un tavolino<br />
portatelefono, uno scaffale per la macchina da<br />
scrivere, uno scaffale portariviste, uno schedario,<br />
un termosifone, un attaccapanni, una poltroncina<br />
e quattro sedie.<br />
Al momento del “volo” sono nella stanza -<br />
secondo la deposizione del tenente dei carabinieri<br />
Sabino Lograno - lo stesso Lograno e poi “tra<br />
la porta e la scrivania, c’erano i due sottufficiali<br />
Mainardi e Panessa vicino alla finestra, Caracuta<br />
alla macchina da scrivere e Mucilli accanto a un<br />
mobiletto. Calabresi si allontanò per portare il<br />
verbale dell’interrogatorio ad AIlegra”.<br />
È da questo affollato e ristretto locale che Pinelli<br />
vola. Senza che nessuno riesca a fermarlo. Per<br />
Panessa è stato “uno scatto felino…”, per Mucilli:<br />
“Si è tuffato...”, per Lograno: “L’ho visto scattare<br />
e saltare oltre...“, per Caracuta: “Ha fatto un<br />
balzo repentino...“, per Mainardi: “Si è slanciato<br />
di scatto…”. Una totale sintonia, insomma.<br />
Incrinatasi, tuttavia, al dibattimento: come nota<br />
nella sua sentenza il giudice D’Ambrosio i testi<br />
“abbandonano i toni prima tanto univoci, sicuri,<br />
sia sulla repentinità dello scatto che sul tuffo<br />
volontario oltre la ringhiera”.<br />
Sconvolgente è quanto accade dopo che Pinelli è<br />
caduto. Solo il capitano Lograno ha una reazione<br />
comprensibile: “Ho allora gridato subito: «Si è<br />
buttato». Sono uscito nel corridoio e correndo<br />
ho continuato a urlare: «Si è buttato». Dall’ufficio<br />
nel quale si trovavano sono allora usciti Allegra<br />
e Calabresi. Poi sempre correndo mi precipitai<br />
verso l’uscita per andare giù. L’ascensore non<br />
funzionava. Così scesi a piedi. Raggiunsi il cortile.<br />
In un angolo buio c’era Pinelli. Era ancora vivo [...]<br />
non c’era nessuno quando sono arrivato io. Arrivò<br />
altra gente. Dissi di chiamare subito un’autoambulanza.<br />
Di quelli del quarto piano che erano con<br />
me non c’era nessuno…“.<br />
Come ricorda ancora il giudice D’Ambrosio nella<br />
sua sentenza “ci furono da parte dei presenti reazioni<br />
di sgomento dovute non tanto a sentimenti<br />
di pietà verso Pinelli quanto a considerazioni più<br />
o meno conscie delle conseguenze negative personali<br />
che da quell’episodio potevano derivare.<br />
Ne sono prova evidente la circostanza che il dott.<br />
Allegra e lo stesso dott. Calabresi non si preoccuparono<br />
di precipitarsi in cortile e di accertare le<br />
condizioni di salute del Pinelli…”. Accertamento<br />
che, evidentemente, viene ritenuto superfluo.<br />
Quando viene raccolto in un’aiuola della questura<br />
Pinelli è morente. Spira al pronto soccorso<br />
dell’ospedale Fatebenefratelli senza aver ripreso<br />
conoscenza. Né, ai suoi familiari, viene data la<br />
possibilità di avvicinarlo finché è in vita.<br />
Però, non è finita l’odissea del Pinelli che, nella<br />
stessa notte in cui muore, viene ucciso per la<br />
seconda volta. Nuova ma non ultima vittima di<br />
una strage che continua a uccidere anche dopo<br />
l’esplosione del 12 dicembre.<br />
Uno dei giornalisti presenti quella notte in questura<br />
ricostruisce la prima delle tre conferenze<br />
stampa tenute dal questore Marcello Guida.<br />
Il questore “ci ha detto il nome del caduto, precisando<br />
che si trattava di un anarchico individualista,<br />
fermato il venerdì precedente. Ha aggiunto<br />
che era fortemente indiziato e che il gesto, per lui,<br />
era un’autoaccusa”.<br />
Parole pesanti come pietre. Sono le prime di una<br />
forsennata lapidazione.<br />
Pinelli – spiega ai giornalisti il questore Marcello<br />
Guida nella prima delle tre improvvisate conferenze<br />
stampa che hanno luogo nella notte tra il 15 e<br />
il 16 dicembre – “era fortemente indiziato di concorso<br />
in strage [...] il suo alibi era caduto”. (…)<br />
È passata da mezz’ora l’una quando Guida tiene<br />
la sua seconda conferenza stampa. Lo ascoltano<br />
gli inviati dei più importanti giornali italiani. Le<br />
parole che il questore scandisce raggiungono, il<br />
giorno successivo, milioni di persone: “Pinelli era<br />
fortemente indiziato. Il suo alibi era caduto. Si era<br />
visto perduto. È stato un gesto disperato, una<br />
specie di autoaccusa”.<br />
Qualcuno, davanti ad affermazioni così decise, gli<br />
chiede se Pinelli fosse già in arresto o se, invece,<br />
ancora in stato di fermo. Guida non ha dubbi: “Il
suo era un fermo di polizia, prorogato dall’Autorità”.<br />
Come appurerà il giudice D’Ambrosio,<br />
Pinelli, invece, era trattenuto illegalmente. (…)<br />
La mattina di martedì il questore Marcello Guida<br />
si presenta ai giornalisti. È la terza conferenza<br />
stampa dopo la morte di Giuseppe Pinelli. Davanti<br />
al montare dei sospetti e delle supposizioni il<br />
questore ribadisce, ancor più decisamente, le cose<br />
dette nella notte: “Non vorrete mica pensare che<br />
l’abbiamo ucciso noi! Quel poveretto ha agito<br />
in modo coerente con le sue idee. Quando si è<br />
accorto che lo stato che lui combatte lo stava per<br />
incastrare, ha agito come avrei agito io se fossi un<br />
anarchico”. (…)<br />
In realtà, già mentre stanno procedendo al fermo<br />
di Pinelli, gli investigatori milanesi - difficile affermare<br />
se per convinzione effettiva o per pressioni<br />
giunte dalla capitale - hanno deciso di inserirsi<br />
con decisione nella pista che i loro colleghi romani<br />
hanno imboccato. Già a poche ore dagli attentati.<br />
Corre, questa pista, lungo gli itinerari delineati<br />
da “Andrea” - alias Salvatore Ippolito, agente<br />
di pubblica sicurezza al quale da qualche mese è<br />
stata affidata la missione di infiltrarsi, tra le tante<br />
possibili organizzazioni della nuova sinistra, nel<br />
circolo anarchico romano 22 Marzo. Circolo 22<br />
Marzo vuoI dire, appunto, Valpreda.<br />
E’ la pista rossa, la pista anarchica: la “preferenza”,<br />
insomma, alla quale aveva accennato il<br />
questore di Milano Guida. Evidente l’obiettivo<br />
della questura di Milano: inserirsi, con una propria<br />
autonomia d’iniziativa, nel percorso che i romani<br />
- accostando sbrindellate confessioni di infiltrati,<br />
provocatori e sbandati confluiti attorno al 22<br />
Marzo - stanno battendo a spron battuto.<br />
Non a caso i primi interrogatori, negli uffici del<br />
Fatebenefratelli, mirano a stabilire, attraverso<br />
Pinelli, un collegamento tra gli attentati del 12<br />
dicembre e la precedente catena di atti terroristici<br />
- da quelli alla Fiera Campionaria a quelli dell’8<br />
agosto ai treni - per i quali sono già stati accusati,<br />
e incarcerati, diversi militanti anarchici milanesi.<br />
Per il suo ruolo di animatore del circolo anarchico<br />
Ponte della Ghisolfa, per i contatti che intrattiene<br />
non solo nell’area dell’anarchia ma, anche, con<br />
numerosi militanti della sinistra ed esponenti della<br />
Nuova sinistra giovanile, Pinelli può rappresentare<br />
un tassello importante nella costruzione che le<br />
indagini vogliono delineare.<br />
Nessuna forzatura viene risparmiata per accostare<br />
elementi sparsi e contraddittori. Per far procedere,<br />
a qualsiasi costo, una ricerca di indizi che si rivela,<br />
ben presto, a senso unico.<br />
Sforzo esasperato: teso a far discendere, da<br />
un’ipotesi complessiva che non si vuole - o si può<br />
- mutare, responsabilità e connessioni rastrellate<br />
senza nessun rispetto delle regole.<br />
Cosi si passa sopra a ogni verità, o elemento di<br />
realtà, che contraddica “la preferenza” investigativa<br />
che si è imposta. La verità – proprio perché<br />
non viene accettata – viene ignorata. O peggio,<br />
quando viene riconosciuta, semplicemente e brutalmente,<br />
viene soppressa.<br />
Giorgio Boatti<br />
Piazza <strong>Fo</strong>ntana, Einaudi, Torino, 1999<br />
11
12<br />
Corto circuito<br />
(…) Un mondo piccolo. Questo è quanto traspare<br />
a lato della vicenda, grande e tragica di Piazza<br />
<strong>Fo</strong>ntana.<br />
Un mondo piccolo: di relazioni incredibilmente<br />
allacciate, di ruoli opposti accostati con vertiginoso<br />
azzardo. Specchio dove si rifrangono - l’una<br />
nell’altra - le contrapposizioni più ardite.<br />
Si guardi al minuscolo universo del circolo anarchico<br />
22 Marzo, additato, all’indomani del 12 dicembre,<br />
come covo e culla degli sbrindellati artefici<br />
della strage. Vi aderiscono, in tutto, una decina di<br />
ribelli più confusi che persuasi, privi d’esperienza,<br />
velleitari e rozzi. Per poche settimane, alla vigilia<br />
degli attentati del dicembre 1969, danno vita a<br />
una scheggia organizzativa assolutamente irrilevante<br />
nel gran mare tempestoso dell’agitato e<br />
popolatissimo universo che si muove nell’autunno<br />
caldo.<br />
Eppure - a cavallo di questa meteora anarchica<br />
assolutamente trascurabile e transitoria - si piazza<br />
un infiltrato a tempo pieno: è il “compagno”<br />
Andrea Politi, vale a dire l’agente della squadra<br />
politica della questura di Roma Salvatore Ippolito.<br />
A far da leader carismatico del gruppo giunge,<br />
accanto a uno sbiaditissimo Pietro Valpreda, un<br />
provocatore di professione come Mario Merlino.<br />
Il suo tragitto politico dal nazismo all’anarchia<br />
nonché le sue più che salde connessioni con<br />
Stefano Delle Chiaie (“il bombardiere di Roma”)<br />
sono assolutamente note all’ufficio politico della<br />
questura di Roma.<br />
Non solo: a dimostrazione che il mondo è proprio<br />
piccolo, Merlino, pur procedendo dal nazismo<br />
all’anarchia, ha tempo di riaccostarsi alla Chiesa<br />
cattolica. E, tra le migliaia di sacerdoti che a<br />
Roma potrebbero fargli da direttore spirituale, si<br />
rivolge a don Mario Venini, un sacerdote legato al<br />
commissario Luigi Calabresi da rapporti di totale<br />
amicizia, di assoluta confidenza. Legame, quello<br />
tra il sacerdote e il commissario, molto intenso: e<br />
nel quale è provato si sia parlato, e molto, anche<br />
del tribolato tragitto del giovane Merlino.<br />
Non basta: accanto a Merlino, nuovo leader del<br />
22 Marzo, incrocia le sue piste Stefano Serpieri<br />
che dal 1965 è al servizio del Sid come informatore.<br />
Semplice fare quattro conti.<br />
A ridosso del circolo anarchico appena sorto (neppure<br />
dieci persone in tutto) operano:<br />
- un agente della pubblica sicurezza che riferisce<br />
non all’ultimo dei marescialli ma al responsabile<br />
della squadra politica della questura di Roma;<br />
- un provocatore nazifascista che ha molta più<br />
esperienza di quanto faccia supporre la sua giovane<br />
età;<br />
- un informatore che fa capo ai servizi segreti<br />
militari, vale a dire al Sid.<br />
Nel cerchio appena più esterno, lontano per chilometri<br />
ma assai vicino per percezione informativa di<br />
quel che sta accadendo, si colloca il commissario<br />
Calabresi, della squadra politica di Milano.<br />
Singolare la coincidenza poi che, il pomeriggio<br />
stesso della strage, porta il commissario Calabresi<br />
- l’investigatore che a Milano tira le prime fila dell’indagine<br />
- a recarsi presso il circolo anarchico di<br />
via Scaldasole a prelevarvi Pinelli. Quasi che tra le<br />
centinaia di perquisizioni in corso in quelle ore in<br />
tutta Milano l’unica che meriti di essere condotta<br />
direttamente sia quella che, attraverso il coinvolgimento<br />
anarchico, intende puntare sulla concatenazione<br />
tra la bomba di Piazza <strong>Fo</strong>ntana e gli attentati<br />
alla Fiera Campionaria e ai treni già attribuiti<br />
- erroneamente - alla sinistra libertaria. (…)<br />
E allora avanza la seconda ipotesi. Per qualche<br />
ragione il 22 Marzo, ancor prima degli attentati<br />
del 12 dicembre, viene posto nel cono di luce di<br />
controlli polizieschi eccezionali. Assolutamente<br />
incomprensibili a meno che li si voglia spiegare<br />
con quanto accade dopo. Quando, avvenuta la<br />
strage, tasselli dispersi scivolano agevolmente al<br />
loro posto.<br />
Il provocatore Merlino, pur accollandosi - con le<br />
rivelazioni che s’appresta a fare - imputazioni da<br />
ergastolo, si trasforma in “precettore” degli inquirenti<br />
romani sui retroscena della strage. Traccia i<br />
primi passi della lunga, fallace pista anarchica<br />
che, come fosse un copione perfettamente predisposto,<br />
va in scena negli uffici degli inquirenti di<br />
Roma e di Milano. Anni dopo, questa costruzione,<br />
eretta sugli sbrindellati militanti del 22 Marzo, si<br />
dimostrerà depistante e sgangherata.<br />
Eppure grazie alla tempestiva evocazione di questo<br />
“piccolo mondo” allestito in poche settimane<br />
da Mago Magò (così gli anarchici del 22 Marzo<br />
chiamano Merlino) e portato alla luce già a poche<br />
ore dagli attentati, si fa fruttare in modo insperato<br />
quello che pareva un piccolo, casuale investimento<br />
in prevenzione investigativa.<br />
Ciò che si è seminato grazie all’infiltrazione nel 22
Marzo viene raccolto, con stupefacente rapidità,<br />
in poche ore.<br />
Colossale mietitura che, a tanto tempo di distanza,<br />
forse non è stata ancora del tutto valutata<br />
nelle sue articolatissime conseguenze: ciò che<br />
prende posto in quelle poche ore, negli uffici<br />
dove s’interroga Merlino e si mette a confronto<br />
Valpreda, inciderà per anni nella storia del paese.<br />
Muterà rapporti di forza sociali e politici. Sottrarrà<br />
i responsabili della strage al rischio di una rapida<br />
individuazione dando inizio, con incalcolabili<br />
concatenazioni, alle stragi impunite della storia<br />
recente d’Italia.<br />
La messa in scena della pista anarchica agisce<br />
poderosamente. E’ un velo che impedirà di vedere,<br />
o servirà da pretesto per non vedere, ciò che<br />
altrimenti avrebbe dovuto stare pressoché immediatamente<br />
sotto gli occhi, percepito alla prima<br />
investigazione.<br />
Giorgio Boatti<br />
Piazza <strong>Fo</strong>ntana, Einaudi, Torino, 1999<br />
13
14<br />
L’uomo della strage<br />
Delfo Zorzi<br />
“La bomba della strage di piazza <strong>Fo</strong>ntana l’ho<br />
messa io. È una nostra operazione.“ È Delfo Zorzi<br />
che parla: una confessione mai fatta ai giudici,<br />
ma a un amico, un camerata. Questi, molti anni<br />
dopo, l’ha raccontata ai magistrati. Insieme a<br />
tanti altri elementi, quella confidenza ha portato<br />
all’ultima sentenza su piazza <strong>Fo</strong>ntana, alla fine<br />
dell’ennesimo processo (l’ottavo) di una storia<br />
infinita. Zorzi è stato condannato, insieme ai neri<br />
Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni.<br />
Zorzi, militante della cellula veneta di Ordine<br />
nuovo, miscela esplosiva di misticismo orientale<br />
e spietatezza nazista, oggi ha una cinquantina<br />
d’anni, vive a Tokyo, è miliardario, non ha affatto<br />
rinnegato i suoi ideali di un tempo. Ama ancora<br />
il misticismo, crede ancora nel nazismo. Come<br />
allora. Come durante quella oscura stagione<br />
delle bombe nere, a cavallo tra gli anni sessanta<br />
e i settanta. Ma oggi è stato costretto a uscire<br />
dall’ombra, tradito dai vecchi camerati che dopo<br />
tanti anni hanno osato fare il suo nome.<br />
A snidarlo è stato un giudice con la faccia da<br />
ragazzo, che ha condotto l’ultima istruttoria<br />
sull’eversione di destra a Milano. Guido Salvini<br />
il giorno della strage di piazza <strong>Fo</strong>ntana, il 12<br />
dicembre 1969, aveva quattordici anni, era uno<br />
studente di quarta ginnasio del liceo Manzoni<br />
di Milano. Negli anni seguenti distribuiva agli<br />
studenti, all’uscita dalle lezioni, volantini firmati<br />
Collettivo socialista libertario, con una grossa A<br />
cerchiata: il simbolo dell’anarchia. Parlavano di<br />
antimilitarismo e autogestione.<br />
Al Manzoni negli anni settanta lo scontro nelle<br />
assemblee era tra quella che allora era chiamata<br />
sinistra rivoluzionaria (Movimento studentesco,<br />
Lotta continua, altri collettivi) e il Quarto gruppo<br />
(i moderati, i liberali; “i fascisti”, dicevano senza<br />
andare troppo per il sottile quelli di sinistra, e<br />
qualche volta avevano anche ragione). Lui, Salvini,<br />
era uno degli animatori di un piccolo collettivo<br />
che si rifaceva al sindacalismo anarchico della<br />
guerra civile spagnola ma, in controtendenza<br />
rispetto al clima infuocato di quegli anni, aveva<br />
scarso amore per le ideologie e nessun riferimento<br />
organizzativo esterno al liceo. Un cane sciolto,<br />
un indipendente, già allora. Chissà quante volte,<br />
senza saperlo, ha visto in faccia i suoi indagati<br />
di oggi, i neri del circolo La Fenice, i fascisti del<br />
gruppo Alfa, che dalla vicina università Cattolica<br />
(avevano la sede in via San Pio V) venivano ogni<br />
tanto a distribuire volantini agli studenti del<br />
“rosso” Manzoni...<br />
Alcuni decenni dopo, ha riaperto una partita che<br />
si credeva chiusa. Indagando sui “neri” di Milano<br />
degli anni sessanta e settanta, ha ritessuto i fili<br />
delle conoscenze sull’eversione. Nel corso di<br />
tre decenni, un piccolo gruppo di magistrati ha<br />
accumulato una montagna di conoscenze sulla<br />
strategia delle stragi. Sono nomi da ricordare,<br />
perché hanno lavorato tra difficoltà immense,<br />
attacchi, minacce, depistaggi e spesso hanno<br />
avuto la vita segnata: Giancarlo Stiz a Treviso,<br />
Giovanni Tamburino e Pietro Calogero a Padova,<br />
Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini a<br />
Milano, Emilio Ledonne a Catanzaro, Domenico<br />
Vino, Francesco Trovato, Gianpaolo Zorzi a<br />
Brescia, Rosario Minna, Claudio Nunziata, Libero<br />
Mancuso a Bologna, Carlo Mastelloni e Felice<br />
Casson a Venezia...<br />
Ora si sa tutto, o quasi. Si conosce il disegno della<br />
strategia eversiva: in Italia è stata combattuta<br />
una guerra non dichiarata e non convenzionale<br />
contro il comunismo, una guerra non ortodossa,<br />
come dicono i tecnici, “low intensity war”, un<br />
conflitto a bassa intensità; le bombe e le stragi,<br />
da imputare ai “rossi”, servivano come innesco<br />
per realizzare, o minacciare, una svolta autoritaria,<br />
o comunque per stabilizzare la situazione<br />
politica e sociale, impedendo aperture a sinistra.<br />
Protagonisti di questa guerra: gli apparati istituzionali<br />
preposti alla sicurezza, sotto ombrello<br />
atlantico, che per i lavori sporchi si servivano dei<br />
gruppi neonazisti.<br />
Se il quadro è ormai chiaro, mancano però le<br />
responsabilità specifiche: trent’anni di depistaggi<br />
istituzionali hanno nella maggior parte dei casi<br />
impedito non di individuare, ma di condannare i<br />
responsabili delle stragi.<br />
Salvini ha pazientemente ripreso a tessere la<br />
tela preparata dai suoi predecessori, ha individuato<br />
qualche responsabile della strage di<br />
piazza <strong>Fo</strong>ntana e l’ha passato alla Procura della<br />
Repubblica, ai pubblici ministeri Massimo Meroni<br />
e Grazia Pradella che nel luglio 2001 hanno ottenuto<br />
le condanne di primo grado.<br />
Ha così qualche colpevole, trentadue anni dopo,<br />
l’attentato alla Banca nazionale dell’agricoltura<br />
che costò sedici morti e ottantotto feriti. Fu la<br />
madre di tutte le stragi, l’inizio della stagione
delle bombe, il via alla guerra non ortodossa<br />
combattuta da un esercito invisibile: otto stragi<br />
tra il 1969 e il 1984, centocinquanta morti, oltre<br />
seicento feriti. Una ferita alla democrazia ancora<br />
non rimarginata.<br />
Il samurai<br />
Zorzi è ingrassato, rispetto alle foto che lo ritraggono<br />
negli anni settanta. Ha perduto i capelli sulle<br />
tempie. Ma la tempra non è mutata. “Aveva un<br />
carattere molto forte, spesso duro” racconta un<br />
suo camerata, Martino Siciliano, che ha collaborato<br />
con il giudice Salvini. “Era molto manesco e<br />
privo di quelle reazioni che in molti di noi sorgevano<br />
alla vista del sangue durante i pestaggi. Zorzi<br />
infatti si occupava personalmente anche delle<br />
punizioni da infliggere ai camerati…”<br />
Da vero soldato politico, però, univa palestra e<br />
letture. “Aveva un carattere chiuso, introverso,<br />
molto riservato. Portato quasi a una specie di<br />
misticismo. Fu lui infatti a far scoprire ad altri<br />
camerati di Ordine nuovo di Mestre, come a me<br />
stesso, il buddhismo. Nonché autori del calibro<br />
di Evola, Guenon, Steiner e altri.“ Libri e karate,<br />
racconta Siciliano. “Era una persona determinata<br />
e capace di mantenere un autocontrollo notevolissimo.<br />
Per questo era stato scelto come canale<br />
privilegiato tra Maggi e il gruppo di Mestre.”<br />
Carlo Maria Maggi, medico, è il capo di Ordine<br />
nuovo nel Veneto, l’organizzazione fondata da<br />
Pino Rauti. Zorzi diventa ben presto il braccio<br />
destro di Maggi. Giorgio Almirante, il leader del<br />
Movimento sociale italiano (il partito da cui è<br />
nata Alleanza nazionale), gli offre anche un posto<br />
nella direzione nazionale del Fronte della gioventù,<br />
l’organizzazione giovanile del MSI. Ma Delfo<br />
preferisce il lavoro periferico, il combattimento<br />
sul campo.<br />
In via Felisati, a Mestre, aveva aperto una piccola<br />
palestra con un nome giapponese: Ronin Kaj.<br />
Vale a dire: “Il samurai errante”. Lui, cintura nera<br />
di karate, vi insegnava arti marziali ma anche<br />
mistica zen, occultismo, parapsicologia. Studiava<br />
giapponese all’Istituto orientale di Napoli, dove si<br />
è laureato in lingua e letteratura giapponese con<br />
una tesi sul fascismo nipponico. Nel 1972 i giudici<br />
Giancarlo Stiz a Treviso, Gerardo D’Ambrosio ed<br />
Emilio Alessandrini a Milano cominciano a seguire<br />
la pista nera: non l’anarchico Pietro VaIpreda,<br />
subito offerto in pasto all’opinione pubblica come<br />
“la belva umana”, ma l’ambiente neofascista è<br />
l’incubatore delle bombe. Zorzi capisce che è<br />
tempo di cambiare aria: si trasferisce nell’amato<br />
Giappone. Lo aiuta Romano Vulpitta, diplomatico,<br />
orientalista, uomo di destra, che a Tokyo gli<br />
mette a disposizione i suoi ottimi rapporti con il<br />
ministero degli Esteri e la Comunità europea. Così<br />
Zorzi impianta una rete di import-export: pesce,<br />
marmo di Carrara, mobili, materiale elettronico,<br />
poi soprattutto moda. Diventa ambasciatore in<br />
Giappone del made in Italy. Funziona, ha successo.<br />
Diventa miliardario. Tanto che è lui, nel<br />
1991, a prestare da un giorno all’altro 30 miliardi<br />
a Maurizio Gucci, rampollo di una dinastia al tramonto.<br />
Gucci aveva un bisogno disperato di soldi<br />
per tentare di salvare l’azienda e il marchio dalla<br />
scalata dei soci arabi. “Li ho trovati sotto una mattonella”<br />
ha dichiarato all’epoca “una mattonella<br />
che mi è stata indicata in sogno da mio padre<br />
morto.” Quella mattonella si chiamava Delfo Zorzi.<br />
Tre mesi dopo, Gucci gli restituisce 37 miliardi.<br />
Un prestito a tassi da usura. Non servirà comunque<br />
a fargli conservare l’impero delle borsette:<br />
Maurizio perde l’azienda, tenta altre strade, si<br />
butta infine in un grande affare, costruire casinò<br />
in Svizzera. Poi nel 1995 finisce la sua avventura<br />
ammazzato sotto casa, in via Palestro a Milano.<br />
Mandante dell’omicidio, la sua ex moglie.<br />
Zorzi il samurai continua intanto i suoi commerci<br />
miliardari. Ma è inseguito dal suo passato. Dopo<br />
oltre due decenni, i suoi camerati cominciano<br />
a parlare. Era il 31 dicembre 1970, la notte di<br />
Capodanno dopo la strage. A Mestre si ritrovano<br />
tre camerati, Zorzi, Siciliano e Giancarlo Vianello.<br />
Festa in stile nazionalrivoluzionario: donne, birra,<br />
inni hitleriani suonati sul giradischi.<br />
A un certo punto, tra un canto e l’altro, Siciliano<br />
e Vianello toccano il tema del momento: la<br />
bomba scoppiata a Milano pochi giorni prima,<br />
nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura.<br />
“Zorzi prese il discorso molto alla larga” racconta<br />
Siciliano a Salvini. “Disse che non dovevamo pensare<br />
che per un nazionalrivoluzionario la morte di<br />
qualche persona potesse costituire una remora<br />
sulla strada della rivoluzione. Fece gli esempi di<br />
Dresda e Hiroshima in cui vi erano stati bombardamenti<br />
sulle popolazioni inermi e in questi casi<br />
neppure il nemico aveva avuto remore a fare centinaia<br />
di migliaia di vittime. Ci ricordò che, secon-<br />
15
16<br />
do i nostri grandi teorici, anche il sangue poteva<br />
essere motore di una rivoluzione che, partendo<br />
dall’Italia, avrebbe salvato l’Europa difendendola<br />
dal comunismo.”<br />
Alla fine di questa premessa, Delfo si apre: “Ci<br />
fece chiaramente intendere che gli anarchici non<br />
c’entravano per nulla e che erano presi come<br />
capro espiatorio per il fatto che, per i loro precedenti<br />
come bombaroli, un’accusa nei loro confronti<br />
era credibile. In realtà gli attentati di Milano<br />
e Roma erano stati pensati e commissionati ad<br />
alto livello e materialmente eseguiti da Ordine<br />
nuovo del Triveneto”. Ordine nuovo del Triveneto,<br />
rimugina Siciliano, significa Maggi, Zorzi, Franco<br />
Freda, Giovanni Ventura, Massimiliano Fachini,<br />
Roberto Raho.<br />
Dopo poche settimane, agli inizi del 1970, Zorzi<br />
incontra a Mestre un altro camerata, Carlo Digilio,<br />
grande passione per le armi, chiamato zio Otto<br />
per il vero amore che mostrava per la sua compagna<br />
preferita, la pistola Otto Lebel. “Con un moto<br />
d’orgoglio Delfo Zorzi mi disse che aveva partecipato<br />
all’azione di Milano e che nonostante tutti<br />
quei morti, che erano dovuti a un errore, l’azione<br />
era stata importante perché aveva ridato forza<br />
alla destra e colpito le sinistre nel paese.” Digilio<br />
fa mettere a verbale queste parole esattamente<br />
ventisei anni dopo, il 20 gennaio 1996, seduto<br />
davanti al giudice Salvini.<br />
Nel 1973, racconta Digilio, Zorzi tornò con lui<br />
sull’argomento: “Mi disse testualmente: «Guarda<br />
che io ho partecipato direttamente all’operazione<br />
di collocazione della bomba alla Banca nazionale<br />
dell’agricoltura». Queste furono testualmente le<br />
sue parole, che ricordo ancora bene, anche per<br />
la loro gravità. Zorzi non parlò né di morti né<br />
di strage, ma usò il termine operazione, come<br />
se si fosse trattato di un’operazione di guerra.<br />
Aggiunse: «Me ne sono occupato personalmente<br />
e non è stata una cosa facile»“.<br />
Un’operazione di guerra: c’era da fermare l’autunno<br />
caldo delle agitazioni operaie, c’era da<br />
bloccare il sessantotto della rivolta studentesca.<br />
Senza troppi rischi: scatta una rete istituzionale<br />
di coperture e depistaggi e in galera viene subito<br />
rinchiuso Pietro Valpreda, anarchico, ballerino. Il<br />
mostro da sbattere in prima pagina, la “belva<br />
umana” che al Tg della sera un giovane Bruno<br />
Vespa, presenta a un’Italia non ancora abituata<br />
all’orrore.<br />
L’avvocato Gaetano Pecorella in quegli anni<br />
difendeva i militanti del Movimento studentesco,<br />
che manifestavano per le vie di Milano gridando:<br />
“Valpreda è innocente, la strage è di stato”. Oggi<br />
(quanto tempo è passato!) Pecorella è difensore<br />
di Delfo Zorzi, oltre che deputato di <strong>Fo</strong>rza Italia.<br />
E smentisce con zelo le notizie di stampa che<br />
riguardano il proprio cliente. Zorzi non c’entra<br />
nulla con l’organizzazione Siegfried, un gruppo<br />
armato in contatto con apparati dello Stato,<br />
composto prevalentemente da ex repubblichini<br />
e da ex carabinieri. Zorzi non c’entra nulla con<br />
la Yacuza, la potente mafia giapponese. E Zorzi,<br />
naturalmente, non c’entra nulla con la bomba<br />
di piazza <strong>Fo</strong>ntana. “Il 12 dicembre 1969 era a<br />
Napoli, all’università.”<br />
Delfo sognava una razza superiore, da ottenere<br />
incrociando ariani e nipponici. Per parte sua, ha<br />
già dato un contributo: a Tokyo ha sposato una<br />
donna giapponese, che gli ha messo al mondo<br />
una bambina con gli occhi a mandorla.<br />
L’elettricista<br />
Pochi giorni prima del 12 dicembre 1969 il gruppo<br />
dei veneti di Ordine nuovo si ritrova in Friuli.<br />
Prepara l’esplosivo: candelotti di gelignite in carta<br />
rossa, che saranno usati per la strage di Milano,<br />
per i contemporanei attentati di Milano e Roma<br />
e, prima di questi, per i due attentati messi a<br />
segno da Siciliano e Zorzi alla scuola Slovena di<br />
Trieste e al cippo di confine tra Italia e Jugoslavia<br />
a Gorizia.<br />
I timer per le bombe, costo 80mila lire, sono<br />
acquistati il 15 settembre 1969 da Franco Freda<br />
a Bologna, presso la ditta Elettrocontrolli. Per<br />
scegliere i prodotti giusti e preparare l’innesco,<br />
Freda chiede aiuto a Tullio Fabris, un elettricista<br />
di Padova. “Nel secondo semestre del 1968 la<br />
signora Freda, mia cliente, mi chiese telefonicamente<br />
se ero disponibile ad andare a montare<br />
due plafoniere nell’ufficio del figlio, avvocato.”<br />
Comincia così, per caso, l’incredibile avventura<br />
di Fabris, bombarolo senza saperlo. “Freda mi<br />
disse che volevano lanciare dei missili.” <strong>Fo</strong>rse dei<br />
fuochi d’artificio, pensa l’elettricista, che dopo<br />
aver accompagnato Freda alla Elettrocontrolli di<br />
Bologna inizia un vero e proprio corso accelerato<br />
a Freda e Ventura.<br />
La prima lezione si tiene nello studio di Freda, a
Padova: Fabris insegna a collegare una batteria,<br />
un filo al nichel-cromo, un fiammifero antivento.<br />
Il fiammifero s’incendia, l’esperimento è riuscito.<br />
La seconda lezione è tutta teorica: “Un colloquio”<br />
ha raccontato Fabris a Salvini “nel corso del quale<br />
mi fu chiesto come il congegno elettrico provato<br />
in precedenza potesse essere collegato a un timer,<br />
giustificando ciò con il ritardo che bisognava dare<br />
alla partenza di più missili”. La terza lezione è la<br />
prova generale: Fabris, Freda e Ventura collegano<br />
il congegno al timer. La bomba è pronta.<br />
Il 12 dicembre a Roma e a Milano sono collocati<br />
cinque ordigni, tra cui quello micidiale di<br />
piazza <strong>Fo</strong>ntana. A Milano entrano in azione i<br />
veneti di Ordine nuovo, nella capitale i romani di<br />
Avanguardia nazionale, guidati da Stefano Delle<br />
Chiaie, er Caccola.<br />
Il gruppo milanese La Fenice di Giancarlo Rognoni<br />
offre il supporto logistico: mette a disposizione<br />
una base nei pressi di piazza <strong>Fo</strong>ntana, dove viene<br />
avviato il timer della bomba, e prepara un’azione<br />
di copertura, con un sosia di VaIpreda, forse il<br />
fascista Nino Sottosanti, che fa un giro in taxi,<br />
per poter incastrare il colpevole designato. <strong>Fo</strong>rse<br />
Rognoni in persona si occupa del secondo attentato,<br />
quello alla Banca commerciale italiana di<br />
piazza Scala, dove la bomba non scoppia.<br />
Trent’anni dopo, è difficile che tutta la verità si<br />
possa affermare in un tribunale. Freda e Ventura<br />
sono ormai improcessabili, perché già assolti in<br />
via definitiva. Assolto anche Massimiliano Fachini,<br />
esponente veneto di Ordine nuovo, organizzatore<br />
nel 1973 di un viaggio che portò una trentina<br />
di neofascisti ad addestrarsi per un mese in un<br />
campo dei cristiano-maroniti in Libano. Fachini,<br />
comunque, qualche anno fa è morto in un incidente<br />
stradale.<br />
Assolti definitivamente, e dunque improcessabili,<br />
anche i romani Stefano Delle Chiaie, fondatore di<br />
Avanguardia nazionale, e il suo camerata Mario<br />
Merlino (è a lui che si riferisce un appunto del<br />
SID del 1969, in cui è scritto che “suo padre è<br />
amico del direttore della Banca dell’agricoltura di<br />
Milano”).<br />
Curiosa situazione: in Italia, dopo la sentenza del<br />
luglio 2001, circolano persone che sono come i<br />
centauri, né pienamente uomini, né interamente<br />
cavalli: dentro la storia delle stragi, ma innocenti<br />
per sentenza di stato.<br />
Candannati all’ergastolo, invece, Delfo Zorzi,<br />
Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni. Zorzi è in<br />
Giappone, imprendibile. E poi: molte sono ancora<br />
le responsabilità, le complicità, i depistaggi da<br />
chiarire. Ma oggi è finalmente possibile almeno<br />
ricostruire le vicende di quella stagione, individuare<br />
i protagonisti di quella guerra. Per la storia, se<br />
non per i tribunali.<br />
L’amerikano<br />
Nell’estate 1969 un gruppo di ordinovisti veneti<br />
si ritrova in un casolare di Paese, nei pressi di<br />
Treviso. Ci sono Zorzi, Ventura, Marco Pozzan. E<br />
Carlo Digilio, zio Otto. Il gruppo prepara l’esplosivo<br />
per gli attentati. È stato proprio Zio Otto a procurare<br />
la gelignite, mediando l’acquisto per conto<br />
di Zorzi. Il venditore è Roberto Rotelli, un venezia-<br />
no che, pur non disdegnando il contrabbando, di<br />
mestiere organizza i recuperi di materiali rimasti<br />
su navi affondate e dunque ha sempre a disposizione<br />
gli esplosivi che gli servono per far saltare,<br />
all’occorrenza, fiancate e paratie. Zio Otto cerca<br />
di darsi da fare anche per insegnare ai camerati<br />
l’utilizzo di timer e candelotti.<br />
Ma più di vent’anni dopo, colpo di scena. Salvini<br />
scopre un altro nome in codice dell’indaffaratissimo<br />
zio Otto: Erodoto. E un’altra sua identità<br />
segreta: “Digilio Carlo iniziò la sua attività nel<br />
1967, quando subentrò a suo padre Michelangelo<br />
nel ruolo di fiduciario CIA nel Veneto. Il nome in<br />
codice Erodoto, che fu del padre, venne da lui<br />
ripreso alla morte di questi”. Così scrive il capitano<br />
Massimo Giraudo nel rapporto del maggio<br />
1996 realizzato dal ROS (Raggruppamento operativo<br />
speciale) dei carabinieri. “L‘attività del Digilio<br />
Carlo si concretizzò principalmente nel Triveneto,<br />
anche se non mancarono incarichi per missioni<br />
all’estero”.<br />
Dunque Digilio, alias zio Otto, alias Erodoto, era<br />
un agente della CIA in Italia. Faceva parte del<br />
gruppo ordinovista veneto, maneggiava esplosivi,<br />
detonatori e timer, e poi redigeva diligenti relazioni<br />
ai suoi superiori. Che si sono ben guardati<br />
dall’intervenire per bloccare i bombaroli o almeno<br />
per fornire ai magistrati italiani elementi utili per<br />
le indagini.<br />
Digilio negli anni scorsi era riparato a Santo<br />
Domingo e ancora nel 1992 aveva lavorato per<br />
gli americani: arruolava esuli cubani da impiegare<br />
nella lotta contro Fidel Castro. Poi è stato abban-<br />
17
18<br />
donato, arrestato, espulso, rimandato in Italia.<br />
Qui ha cominciato a collaborare con il giudice<br />
Salvini, ricostruendo la catena di comando CIA in<br />
cui era inserito.<br />
Suo superiore diretto era Sergio Minetto, che<br />
oggi ha passato i settant’anni, ex combattente<br />
della Repubblica di Salò, aderente all’associazione<br />
combattentistica Sthalhelmen (“Elmetti d’acciaio”),<br />
diventato capo-rete CIA per il Triveneto.<br />
“I suoi superiori di nazionalità statunitense inseriti<br />
all’interno delle basi NATO” è scritto nel rapporto<br />
del ROS “furono il capitano David Carrett, a suo<br />
dire di stanza dal 1966 al 1974 presso la base<br />
Ftase di Verona, e il capitano Theodore Richard<br />
detto Teddy, di stanza dal 1974 al 1978 presso<br />
la base Setaf di Vicenza. Entrambi gli ufficiali<br />
facevano parte della US Navy, la Marina militare<br />
USA.” Sopra i capitani, secondo Digilio, c’era il<br />
colonnello Frederick Tepaski, uomo CIA di stanza<br />
in una base NATO della Germania federale. Dei<br />
diciannove agenti CIA attivi in Italia e identificati,<br />
quattro (Carlo Digilio, Sergio Minetto, Giovanni<br />
Bandoli, Robert Edward Jones) hanno ricevuto<br />
un avviso di garanzia per spionaggio politico e<br />
militare, articolo 257 del codice penale. Prevede<br />
pene pesanti: da quindici anni di reclusione fino<br />
all’ergastolo. Ma il giudice li ha dovuti assolvere:<br />
non è spionaggio lavorare per un paese alleato.<br />
Salvini ha indagato anche sull’Aginter Press,<br />
l’agenzia con sede a Lisbona che sotto la guida<br />
di Yves Guerin Serac lavorava per conto della<br />
CIA: aveva il compito di sviluppare la teoria della<br />
guerra non ortodossa contro il comunismo, di<br />
diffonderla e di preparare i soldati politici pronti<br />
a entrare in azione nei diversi paesi. Le stragi, da<br />
attribuire alla sinistra, dovevano creare una situazione<br />
di disordine a cui sarebbe seguita una vasta<br />
richiesta di ordine (destabilizzare per stabilizzare).<br />
Un intervento militare di tipo golpista era infatti<br />
previsto nel 1970 al culmine della stagione delle<br />
bombe, con manovalanza fascista, gestione istituzionale,<br />
copertura NATO. Tutt’altro che un golpe<br />
da operetta. Uno personaggio di nome Licio<br />
Gelli, allora assolutamente sconosciuto, aveva<br />
un ruolo importante in quel piano: il suo compito<br />
era di sequestrare il presidente della Repubblica<br />
Giuseppe Saragat.<br />
Un piano simile fu approntato per il giugno 1973:<br />
l’operazione Patria, con pronti a intervenire i<br />
Nuclei difesa territoriale, 36 legioni, 1500 uomini,<br />
il cuore nero di Gladio. Il golpe poi non ci fu, le<br />
stragi sì. Ma il risultato fu comunque in gran parte<br />
raggiunto: destabilizzare per stabilizzare.<br />
Conclude il rapporto del ROS: “Non si comprende<br />
perché gli Stati Uniti non abbiano nell’immediatezza<br />
della strage fornito a un loro alleato elementi<br />
utili per addivenire all’identificazione degli<br />
autori del grave fatto di sangue”.<br />
La spia gourmet<br />
Subito dopo la bomba entrano in azione coloro<br />
che devono gestire la strage. L’ufficio Affari riservati<br />
del ministero dell’Interno, diretto da Umberto<br />
Federico D’Amato (ministri in quegli anni neri<br />
furono Franco Restivo, poi Mariano Rumor, poi<br />
Paolo Emilio Taviani...), era il servizio segreto<br />
civile, progenitore del SISDE. Ebbene, quell’ufficio<br />
non solo era in stretto contatto con Guerin Serac<br />
e Delle Chiaie (entrambi ebbero incontri con<br />
D’Amato, il secondo da latitante incontrò segretamente<br />
all’estero anche Francesco Cossiga), ma<br />
aveva tra i suoi informatori anche Delfo Zorzi.<br />
D’Amato, spia gourmet che ai tempi curava una<br />
raffinata rubrica gastronomica (“Gault Millau”)<br />
sul settimanale L’Espresso, aveva già infiltrato propri<br />
uomini e ingredienti nel pentolone dei gruppi<br />
anarchici, per preparare la caccia al colpevole designato.<br />
Viene infatti subito arrestato Valpreda,<br />
di cui gli ordinovisti avevano esibito un sosia<br />
(come sarebbe stato possibile, senza un accordo<br />
preventivo?). La Squadra politica della Questura<br />
di Milano (responsabile Antonino Allegra) ferma<br />
il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, che poi<br />
cade dalla finestra della questura e muore.<br />
D’altro Iato il SID, il servizio segreto militare<br />
diretto prima dall’ammiraglio Eugenio Henke e<br />
poi dal generale Vito Miceli, prepara i depistaggi<br />
per coprire i veri responsabili. Ministri della Difesa<br />
in quegli anni furono Luigi Gui, Mario Tanassi,<br />
Franco Restivo, Giulio Andreotti...<br />
L’ex ministro dell’Interno Tanassi, prima di morire,<br />
ha raccontato: “La sera del 12 dicembre 1969<br />
il dottor Fusco, un agente di tutto rispetto del<br />
SID, defunto negli anni ottanta, stava per partire<br />
per Milano con l’ordine di impedire attentati. A<br />
Fiumicino seppe dalla radio che una bomba era<br />
scoppiata. Da Padova a Milano si mosse, per depistare<br />
le colpe verso la sinistra, un ufficiale del SID,<br />
Del Gaudio. Questi due dati sono indizi, se non
prove, di atteggiamenti contrastanti nello stesso<br />
SID. In alcuni settori del SID e dell’Arma di Milano<br />
e di Padova vi furono deviazioni”.<br />
Un giovane e promettente sottosegretario alla<br />
Difesa con delega ai servizi segreti (si chiamava<br />
Francesco Cossiga) ebbe un ruolo chiave. Fra<br />
l’altro curò gli omissis da apportare ai dossier sul<br />
progettato golpe da far scattare dopo le stragi,<br />
coprendo il ruolo di alcuni personaggi da salvare:<br />
tra questi, Licio Gelli.<br />
Ma tutto ciò, il livello politico e istituzionale,<br />
non ha potuto entrare nel processo per piazza<br />
<strong>Fo</strong>ntana. La politica ha fatto e continua a fare<br />
barriera. La verità, nella sua interezza, è affidata<br />
ora agli storici. O consegnata ai capricci della<br />
memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione,<br />
e poi li abbandona nel tempo della<br />
smemoratezza.<br />
“La giustizia vuole più dolore che collera” scriveva<br />
Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo<br />
al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme.<br />
Dice il magistrato Gherardo Colombo: “<strong>Fo</strong>rse noi<br />
magistrati non siamo riusciti finora a raggiungere<br />
tutta la verità sulle stragi anche perché i cittadini<br />
attorno a noi erano, alla fine, indifferenti, anzi<br />
forse addirittura timorosi di coltivare la memoria e<br />
di conoscerla, la verità: per paura di dover mettere<br />
in crisi le loro tranquille convinzioni”. La verità fa<br />
paura, quando è troppo orribile.<br />
Gianni Barbacetto<br />
Campioni d’Italia, storie di uomini eccellenti e no<br />
Marco Tropea Editore, Milano, 2002<br />
Ultimo atto…<br />
Il 30 giugno 2001, la II° Corte d’Assise di Milano ha dichiarato<br />
colpevoli Maggi Carlo Maria (libero-presente), Zorzi Delfo<br />
(latitante-contumace), Rognoni Giancarlo (libero-presente),<br />
(…) del reato p. e p. dagli artt. 81, II comma, 110, 112 n.<br />
1, 422, I e II comma C.P., in quanto, in concorso tra loro e<br />
con Franco Freda, Giovanni Ventura e altre persone rimaste<br />
ignote, in numero almeno pari a cinque, in esecuzione di un<br />
unico disegno criminoso, hanno commesso, al fine di uccidere,<br />
atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità e<br />
precisamente:<br />
1) hanno collocato un ordigno esplosivo con dispositivo<br />
a tempo nel pomeriggio del 12.12.1969 all’interno della<br />
Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, sede di Piazza<br />
<strong>Fo</strong>ntana, ordigno che è esploso alle ore 16.30 circa ed ha<br />
provocato la morte di:<br />
Arnoldi Giovanni, China Giulio, Corsini Eugenio, Dendena<br />
Pietro, Gaiani Carlo, Galatioto Calogero, Garavaglia Carlo,<br />
Gerli Paolo, Meloni Luigi, Mocchi Vittorio, Papetti Girolamo,<br />
Pasi Mario, Perego Carlo Luigi, Sangalli Oreste, Scaglia<br />
Angelo, Silva Carlo e Vale’ Attilio; (…)<br />
Nonché lesioni personali a 84 persone<br />
2) hanno collocato il 12.12.1969 un ordigno esplosivo analogo<br />
al precedente all’interno della Banca Nazionale del<br />
Lavoro, sede di Roma, via San Basilio n. 45 (…)<br />
3) hanno collocato il 12.12.1969 un ordigno esplosivo analogo<br />
ai precedenti all’interno della Banca Commerciale<br />
Italiana, sede di Milano, Piazza della Scala, ordigno che<br />
non è esploso per cause non dipendenti dalla volontà degli<br />
autori ed è stato fatto brillare dagli artificieri alle ore 21 del<br />
medesimo giorno.<br />
I colpevoli sono stati condannati alla pena dell’ergastolo.<br />
19
20<br />
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE<br />
AA. VV.: La strage di Stato,<br />
a cura di Edoardo di Giovanni, Marco Ligini,<br />
Savelli, Roma, 1970<br />
Giorgio Boatti: Piazza <strong>Fo</strong>ntana,<br />
Einaudi, Torino, 1999<br />
Camilla Cederna: Pinelli, una finestra sulla strage,<br />
Feltrinelli, Milano, 1971<br />
Paul Ginsborg: Storia italiana dal dopoguerra ad oggi<br />
(Volume II: Dal “miracolo economico” agli anni ‘70),<br />
Einaudi, Torino, 1989<br />
Piero Scaramucci: Licia Pinelli. Una storia quasi soltanto mia,<br />
Mondadori, Milano, 1982<br />
Soci<br />
Corinna Agustoni, Ferdinando Bruni (consigliere), Cristina Crippa (consigliere)<br />
Elio De Capitani (presidente), Rino De Pace, Roberto Gambarini (vicepresidente)<br />
Fiorenzo Grassi (consigliere), Ida Marinelli, Elena Russo Arman, Gabriele Salvatores,<br />
Luca Toracca, Gianni Valle<br />
Direzione artistica<br />
Ferdinando Bruni, Elio De Capitani<br />
Direzione organizzativa<br />
Fiorenzo Grassi<br />
Produzione<br />
Cesin Crippa, Rino De Pace, Michela Montagner, Gianmaria Monteverdi<br />
Organizzazione<br />
Stefano Carnevale, Ornella Gioé<br />
Ufficio stampa<br />
Barbara Caldarini, Veronica Pitea<br />
Promozione e comunicazione<br />
Fabrizia Amati, Nicola Manfredi, Diana Sartori<br />
Amministrazione<br />
Carmelita Scordamaglia (direzione), Roberta Belletti, Flora Cucchi<br />
Mariantonia Frigerio, Cristina Frossini<br />
Staff Teatri<br />
Luca Marengo, Franco Ponzoni (direzione sala)<br />
Marianna D’Ambrosio, Umberto Dossena, Paolo Giubileo, Ilan Hoffmann, Francesco Isella<br />
Roberta Pirola, Raffaele Serra<br />
Staff Tecnico<br />
Nando Frigerio (direzione), Francesco Cardellicchio, Giancarlo Centola, Mizio Manzotti<br />
Giuseppe Marzoli, Ortensia Mazzei, Jean-Christophe Potvin, Filippo Strametto<br />
Grafico<br />
Luciano Ferro<br />
Ferro Comunicazione&Design<br />
Teatro dell’Elfo<br />
Milano via Ciro Menotti 11, tel. 02.716791<br />
Teatro Leonardo da Vinci<br />
Milano via Ampère 1, tel. 02.26681166<br />
www.elfo.org e-mail: info@elfo.org
Il Patalogo 26<br />
Annuario del Teatro 2003<br />
Speciale “Scrivere e riscrivere,<br />
Lʼinvenzione e la memoria”<br />
pp. 352, € 49,00<br />
Corpo sottile<br />
a cura di Silvia Fanti / Xing<br />
Uno sguardo sulla nuova<br />
coreografia europea<br />
I Cahiers di teatro, pp. 272, € 21,00<br />
Thomas Bernhard<br />
Teatro (4 volumi separabili)<br />
Teatro V<br />
Il presidente, Elisabetta II, Il teatrante<br />
I testi<br />
uscita maggio 2004<br />
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Visioni di Gesù con Afrodite<br />
La collanina, pp. 56, € 8,00<br />
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Il cortile<br />
La collanina, pp. 48, € 7,30<br />
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e altri testi<br />
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I testi, pp.184, € 16,50<br />
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con testi di Bernardo Bertolucci<br />
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Romeo Castellucci<br />
Socìetas Raffaello Sanzio<br />
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