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FRANCESCO GUCCINI - Università degli Studi di Pavia

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“Via Paolo Fabbri 43” è un album fremente, iperattivo, combattivo, uno dei più amati da<br />

Guccini; è anche musicalmente uno dei più belli. Francesco esce dal torpore delle “Stanze<br />

<strong>di</strong> vita quoti<strong>di</strong>ana” e ritrova la voglia <strong>di</strong> scrivere e confrontarsi, grazie all’”Osteria delle<br />

dame”, agli amici che in realtà non ha mai perduto e soprattutto ad un nuovo amore. C’è in<br />

“Paolo Fabbri” (la via dove prende casa a Bologna), il riappropriarsi con orgoglio della<br />

malinconia, del dubbio, della solitu<strong>di</strong>ne incalzante. La lamentela <strong>di</strong> due anni prima si<br />

trasforma in tensione positiva, a <strong>di</strong>fesa della propria voluta povertà spettacolare, e in ode<br />

alla personale libertà artistica. Se in “Canzone <strong>di</strong> notte n. 2” e in “Canzone quasi d’amore” i<br />

temi non cambiano e continua il soliloquio notturno sul più e sul meno in chiave <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>stacco, c’è però <strong>di</strong> nuovo la convinzione nel proprio ruolo, l’orgoglio delle proprie piccole<br />

cose e <strong>di</strong> quelle gran<strong>di</strong> continuamente sfiorate: Guccini torna protagonista, si erge nel suo<br />

minimalismo, misura ed esprime in sé tutta l’umanità che conosce e che non cambia col<br />

vento. Nuova forza dunque, accentuata dalla novità (si fa per <strong>di</strong>re) dell’arrembaggio, della<br />

sparata contro i nemici, dell’ironia finalmente <strong>di</strong>vertita. Ecco quin<strong>di</strong> il soliloquio <strong>di</strong> “Via<br />

Paolo Fabbri”, ecco la splen<strong>di</strong>da “Avvelenata”, atto d’amore e <strong>di</strong> libertà, testamento <strong>di</strong><br />

onestà intellettuale, <strong>di</strong> coerenza, d’in<strong>di</strong>pendenza, sbattuto in faccia a chi l’aveva troppo<br />

presto inserito nel coro.<br />

Guccini è alle soglie del gran volo: <strong>di</strong> qui a poco uscirà dalle “dame” e si esibirà in concerti<br />

pubblici. Ma né la celebrità, né l’amore, né il tempo che passa basteranno a fargli mettere<br />

“la testa a posto”: morirà “pecora nera”, perché profonda, viscerale è la sua “anarchia”,<br />

perché l’amore per se stesso, non in chiave <strong>di</strong> presunzione, ma <strong>di</strong> tenerezza, orgoglio e<br />

auto<strong>di</strong>fesa, non gli permetteranno d’essere <strong>di</strong>verso da quel che è.<br />

Guarda, scruta, non si ferma un attimo: lo incuriosisce un pensionato al pari <strong>di</strong> Borges e<br />

non pone limiti a questa ricerca ansiosa e ostinata <strong>di</strong> tutto quello che è “umano” e del<br />

perché sia così e non altrimenti. La notte resta un regno: metà per cantare, metà per<br />

scrivere, sempre per bere. E’ lì che ferma il tempo, collega i ritagli, ri<strong>di</strong>pinge i tratteggi,<br />

fotografa le impressioni: perché questo in fondo son le canzoni, si scrivono quando<br />

vengono, quando si può; nascono e viaggiano come episo<strong>di</strong>, storie <strong>di</strong> un giorno e non<br />

hanno la pretesa <strong>di</strong> rivelare verità eterne né <strong>di</strong> illuminare il buio della notte. La notte è già<br />

luminosa <strong>di</strong> per sé, basta viverla.<br />

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