“L'io fragile: scacco o profezia?” La forza della ... - Cottolengo
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Solo Dio è senza limite e si è fatto il più piccolo e debole di tutti, per essere accettato e<br />
noi nei nostri limiti dobbiamo imparare ad accettarci: il divino è l’accettazione, per cui<br />
il limite mi permette l’accettazione e ci fa stare insieme.<br />
Ricordiamo questo episodio di Giacobbe. Nei versetti precedenti alla lotta con l’angelo, è<br />
intento a fuggire dal fratello Esaù, che probabilmente desidera la sua morte per la<br />
primogenitura estortagli in maniera ingannevole. Giacobbe nel frattempo è divenuto molto<br />
ricco, ha ricchezze a non finire e pensa che probabilmente elargendo un cospicuo tesoro al<br />
fratello, avrebbe potuto ammansirlo. Ma neanche questo bastò a tranquillizzare Giacobbe<br />
(32, 4ss.). Poi viene la notte e Dio combatte con Giacobbe, e questi ne uscì claudicante.<br />
Giacobbe ha chiesto di diventare forte, per avere salva la vita, e Dio l’ha spezzato. Un<br />
poveraccio che trascina la gamba... Esaù arriva, forse con l’intenzione di ammazzarlo... . Ma<br />
quando lo vede così malconcio ne ha pietà. Gli corse incontro, gli si gettò al collo, lo baciò e<br />
piansero... (33, 4). Tutto ciò che Giacobbe voleva raggiungere l’ha raggiunto, ma con quale<br />
mezzo? Non con la <strong>forza</strong>, non con le ricchezze ma con la debolezza. I fatti in sé furono una<br />
disgrazia, ma per mezzo <strong>della</strong> disgrazia si realizzò il successo.<br />
E nella nostra vita: quante volte riusciamo proprio perché non siamo riusciti?<br />
È proprio vero, a volte il modo migliore per vincere è arrendersi...<br />
<strong>La</strong> povertà, i difetti, le incapacità di vario tipo possono perciò diventare la base per una<br />
donazione piena e gratuita di sé, diventando un riflesso dello sguardo del Signore che<br />
da sempre ci ha ritenuto degni di stima (Is 43, 4).<br />
C’è un bellissimo romanzo di Mario Pomilio, il primo che scrisse appena convertito al<br />
cristianesimo,“L’uccello nella cupola<strong>”</strong>, che si conclude con queste parole, «<strong>La</strong> mente a<br />
questo punto, gli corse a un’immagine tremendamente rischiosa, ma troppo suggestiva,<br />
troppo consolante perché fosse capace di rigettarla: la luce, si disse, non rivelerebbe la sua<br />
presenza se un ostacolo, interrompendone il cammino, non s’illuminasse di essa; e allo<br />
stesso modo la grazia, dilatandosi senza fine, resterebbe inefficace e forse inutile se non<br />
trovasse nella natura dell’uomo, nei suoi affetti, nei suoi stessi difetti, il luogo in cui<br />
manifestarsi». (Mario Pomilio, L’uccello nella cupola).<br />
L’unica cosa che ci viene chiesta è la nostra debolezza, il nostro peccato. Cito ancora, a<br />
questo proposito, questo splendido passo di Ch. Péguy: «Le “persone oneste<strong>”</strong> non hanno<br />
difetti nella loro struttura. Non sono ferite. <strong>La</strong> pelle <strong>della</strong> loro morale, costantemente intatta,<br />
costruisce su di loro una corazza senza difetti. Non presentano l’apertura causata da<br />
un’orribile ferita, una sventura indimenticabile, un rimorso invincibile, un punto di sutura<br />
eternamente mal cucito, un’inquietudine mortale, un’amarezza segreta, un cedimento<br />
sempre dissimulato, una cicatrice eternamente mal rimarginata. Non presentano la via di<br />
accesso alla grazia che è essenzialmente il peccato. Poiché non sono feriti, non sono<br />
vulnerabili. Poiché non mancano di nulla, non si porta loro nulla [...]. <strong>La</strong> stessa carità di<br />
Dio non cura per nulla chi non ha ferite. Il Samaritano si chinò sull’uomo ferito perché<br />
questo era a terra. Veronica asciugò il volto di Gesù perché era sporco. Ma chi non è caduto<br />
non sarà rialzato; e chi non è sporco non sarà pulito» (Charles Péguy, Œuvres en prose II).<br />
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