semio 5.indd - Andrea Valle - Università degli Studi di Torino
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SEMIOTICHE<br />
Serie <strong>di</strong>retta da Gian Paolo Caprettini<br />
ANANKE
Con il patrocinio del Dipartimento <strong>di</strong> Discipline Artistiche, Musicali e dello Spettacolo<br />
<strong>Università</strong> <strong>degli</strong> <strong>Stu<strong>di</strong></strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />
Direttore responsabile: Gian Paolo Caprettini (paolo.caprettini@unito.it)<br />
Redazione: <strong>Andrea</strong> <strong>Valle</strong> (andrea.valle@unito.it), Miriam Visalli (miriam.visalli@unito.it)<br />
Dipartimento <strong>di</strong> Discipline Artistiche, Musicali e dello Spettacolo<br />
Via S. Ottavio, 20 - 10124 <strong>Torino</strong> - www.<strong>semio</strong>tiche.it<br />
© 2006 ANANKE srl<br />
Tutti i <strong>di</strong>ritti riservati / All rights reserved<br />
ANANKE e<strong>di</strong>zioni srl<br />
Via Lo<strong>di</strong> 27/C – 10152 <strong>Torino</strong> (Italy)<br />
www.ananke-e<strong>di</strong>zioni.com E-Mail: info@ananke-e<strong>di</strong>zioni.com<br />
Direttore responsabile: paolo.caprettini@unito.it<br />
ISBN 88-7325-XXX-X<br />
Immagine <strong>di</strong> copertina: Ave Appiano.<br />
Immagini interne: elaborazioni grafiche delle seguenti opere: pag. 5 - P. John, Vecchi ricor<strong>di</strong>;<br />
pag. 17 - G. Moreau, Giove e Semele; pag. 35 - H. Lewis, Campo da gioco tra gli slums; pag.<br />
59 - A. Stieglitz, Paula a Berlino;pag. 77 - J. Baader, Collage su manifesto <strong>di</strong> Haussman; pag.<br />
101 - P. Strand, Ombre; pag. 123 - R. Magritte, La con<strong>di</strong>zione umana; pag. 143 - <strong>Stu<strong>di</strong></strong>o Guibert,<br />
Toulouse-Lautrec mentre posa; pag. 161 - A. Genthe, Scena <strong>di</strong> cortile; pag. 187 - H. Bayer,<br />
Metamorfosi; pag. 209 - G. Richter, Gruppo <strong>di</strong> personaggi.<br />
Le opere sono riprodotte in Il sacro e il profano nell’arte dei Simbolisti a cura <strong>di</strong> Luigi Carluccio,<br />
Galleria Civica <strong>di</strong> Arte Moderna, <strong>Torino</strong> 1969 e Combattimento per un’immagine. Fotografi e pittori,<br />
a cura <strong>di</strong> Daniela Palazzoli e Luigi Carluccio, Galleria Civica <strong>di</strong> Arte Moderna, <strong>Torino</strong> 1973.
3<br />
5/06<br />
novembre 2006<br />
Testo, pratiche, immanenza<br />
A cura <strong>di</strong><br />
Pierluigi Basso<br />
Sommario<br />
Pierluigi Basso<br />
Introduzione ..........................................................................................5<br />
François Rastier<br />
Doxa e semantica nel corpus ..............................................................17<br />
Anne Beyaert-Geslin<br />
Photo d’art et photo de presse: Enquête sur la vie intime des textes et<br />
des pratiques .......................................................................................35<br />
Gian Maria Tore<br />
Per una <strong>semio</strong>tica della foto ricordo ..................................................59<br />
Giacomo Festi<br />
Il giro del mondo intorno al testo. Un percorso metodologico per<br />
testualizzare le pratiche (ipnotiche) ...................................................77<br />
<strong>Andrea</strong> <strong>Valle</strong><br />
Eliche e bivalvi: sulla relazione tra ascolto e oggetti sonori a partire da<br />
Pierre Schaeffer ................................................................................101<br />
Clau<strong>di</strong>o Paolucci<br />
“Antilogos”. Imperialismo testualista, pratiche <strong>di</strong> significazione e<br />
<strong>semio</strong>tica interpretativa ....................................................................123
Jean-François Bordron<br />
Réflexions sur l’immanence.<br />
Quelques réflexions sur la <strong>di</strong>alectique du sens ................................143<br />
Jacques Fontanille<br />
Pratiche <strong>semio</strong>tiche ..........................................................................161<br />
Denis Bertrand<br />
Rhétorique et praxis sémiotique. Pour une sémiotique de l’absence .... 187<br />
Pierluigi Basso<br />
Testo, pratiche e teoria della società ................................................209
INTRODUZIONE<br />
Pierluigi Basso<br />
1. UN NUMERO IN UNA CORNICE PIÙ AMPIA<br />
Nei più recenti convegni e seminari internazionali si è potuto assistere a uno sforzo<br />
comune <strong>di</strong> ridefinizione <strong>di</strong> alcune nozioni <strong>di</strong> base della <strong>semio</strong>tica, soprattutto<br />
alla luce <strong>degli</strong> avanzamenti della teoria generale e dei confini <strong>di</strong> campo che la<br />
ricerca <strong>di</strong>sciplinare sta continuamente risoppesando e ricontrattando. Al centro<br />
<strong>di</strong> questo lavoro <strong>di</strong> ridefinizione concettuale si pongono aspetti epistemologici<br />
e metodologici (l’immanentismo), eventuali <strong>di</strong>versificazioni o riunificazioni <strong>di</strong><br />
para<strong>di</strong>gmi <strong>di</strong> indagine (testualismo, socio<strong>semio</strong>tica, <strong>semio</strong>tica interpretativa,<br />
<strong>semio</strong>tica delle culture, pragmatica, ecc.), rinnovati <strong>di</strong>aloghi inter<strong>di</strong>sciplinari.<br />
Questo numero nasce con l’obiettivo <strong>di</strong> cominciare a tesaurizzare il <strong>di</strong>battito in<br />
atto e <strong>di</strong> mappare nuovamente convergenze, controversie e <strong>di</strong>ssi<strong>di</strong>. In particolare,<br />
è il “testualismo” ad essere messo in questione sotto la spinta <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica<br />
delle pratiche che pare essere punto <strong>di</strong> confluenza <strong>di</strong> prospettive teoriche che<br />
storicamente si erano <strong>di</strong>varicate.<br />
Certo, sarebbe una falsa partenza quella <strong>di</strong> ritenere le pratiche un oggetto<br />
nuovo per gli stu<strong>di</strong> <strong>semio</strong>tici, soprattutto in Italia, dove la socio<strong>semio</strong>tica,<br />
5
ispirata ai lavori <strong>di</strong> Floch e <strong>di</strong> Landowski, si è notevolmente sviluppata, apparendo<br />
talvolta persino come il nuovo mainstream della ricerca. Questa nuova<br />
centralità dell’indagine delle pratiche non ha corrisposto, tuttavia, a una mo<strong>di</strong>ficazione<br />
del modello teorico generale; ha piuttosto colto in Dell’imperfezione<br />
<strong>di</strong> Greimas la base per poter estendere pretese descrittive e campi d’indagine,<br />
permettendo alla ricerca <strong>di</strong> restare saldamente ancorata al progetto originario<br />
della <strong>semio</strong>tica generativa, fondata sulla virtuosa circolarità tra elaborazione <strong>di</strong><br />
modelli e stu<strong>di</strong> testuali. Sul piano teorico generale la socio<strong>semio</strong>tica ha trovato<br />
come testo fondatore La società riflessa <strong>di</strong> Landowski (1989) e come emblema<br />
della fattibilità metodologica dell’indagine <strong>di</strong> pratiche il saggio <strong>di</strong> Floch sulla<br />
metropolitana parigina. Arricchito ulteriormente dalla profonda conoscenza<br />
della lezione barthesiana, il contributo in Italia <strong>di</strong> Gianfranco Marrone (2001)<br />
ha esemplificato lo spettro <strong>di</strong> indagini in cui la socio<strong>semio</strong>tica può sistematicamente<br />
addentrarsi, rilanciando la centralità <strong>di</strong> temi su cui la <strong>di</strong>sciplina dei<br />
segni <strong>di</strong>batteva negli anni Sessanta, visto che essi rappresentano una posta che<br />
il presente deve saper raccogliere. Del resto, gli scritti critico-<strong>semio</strong>logici <strong>di</strong><br />
Eco, la lezione <strong>di</strong> Rossi Lan<strong>di</strong> e i contributi <strong>di</strong> Paolo Fabbri ricostruiscono una<br />
linea “italiana”, quasi ininterrotta, <strong>di</strong> ricerca <strong>semio</strong>tica vocata allo stu<strong>di</strong>o delle<br />
pratiche sociali.<br />
Tuttavia, sul finire <strong>degli</strong> anni Novanta, quella che appariva come una spaccatura<br />
<strong>di</strong> interessi tra, da una parte, la ricerca socio<strong>semio</strong>tica e, dall’altra, la<br />
complessificazione del modello generale della teoria, sull’onda della <strong>semio</strong>tica<br />
delle passioni, prima, e della <strong>semio</strong>tica tensiva, poi, ha trovato delle saldature<br />
<strong>di</strong> interessi in grado <strong>di</strong> riportare in gioco il senso <strong>di</strong> un ri<strong>di</strong>battimento delle<br />
rispettive posizioni. In primo luogo, ha acquisito bilateralmente sempre più<br />
importanza lo stu<strong>di</strong>o della <strong>di</strong>mensione sensibile della significazione; in secondo<br />
luogo, la riemersione del corpo e dell’esperienza estesica, ha inevitabilmente<br />
messo sotto tensione (se non in crisi) i modelli narrativi classici (in primo luogo,<br />
la generalità dello schema narrativo canonico).<br />
Ma questo non è stato un <strong>di</strong>battito che ha coinvolto solo le <strong>di</strong>ramazioni filo- o<br />
post-greimasiane della ricerca; esso ha rimesso fortemente in gioco la necessità<br />
<strong>di</strong> un loro nuovo confronto con le prospettive teoriche <strong>di</strong> stampo interpretativo<br />
(in primo luogo, la <strong>semio</strong>tica echiana e la semantica interpretativa <strong>di</strong> Rastier).<br />
Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> quali saranno gli esiti, non si può che accogliere positivamente<br />
questo riprofilarsi <strong>di</strong> sno<strong>di</strong> teorici comuni alle <strong>di</strong>verse prospettive <strong>di</strong> ricerca, e<br />
non perché si auspica che esse possano confluire in un para<strong>di</strong>gma più generale,<br />
ma proprio perché si offre loro la possibilità <strong>di</strong> aumentare l’intelligibilità e il<br />
raffinamento concettuale dei loro <strong>di</strong>stinguo.<br />
La comparsa recente sulla scena <strong>di</strong> importanti contributi originali con l’aperta<br />
vocazione a proporre una ripartenza nell’approccio alle pratiche (in particolare,<br />
Rastier 2001 e Fontanille 2004b) ha suscitato una vivace accelerazione nella<br />
ri<strong>di</strong>scussione o approfon<strong>di</strong>mento delle proprie ipotesi <strong>di</strong> partenza e del proprio<br />
approccio metodologico. Di ciò, il paesaggio generale della ricerca non potrà<br />
che trarne beneficio, al <strong>di</strong> là dei punti <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> ciascuno.<br />
6
In un contributo recente, ad esempio, Marrone, pur ritenendo possibile e<br />
meritorio lo stu<strong>di</strong>o <strong>semio</strong>tico <strong>di</strong> pratiche (si veda il suo stu<strong>di</strong>o intitolato “L’agire<br />
spaziale”, in Marrone 2005), ha riba<strong>di</strong>to come un programma <strong>di</strong> ricerca socio<strong>semio</strong>tico<br />
non comporti minimamente, <strong>di</strong> per sé, un necessario travalicamento<br />
della <strong>di</strong>mensione testuale. Ciò per la ragione che:<br />
“ogni esperienza vissuta è già <strong>di</strong> per sé una totalità significante, un<br />
insieme conchiuso <strong>di</strong> forme espressive e forme semantiche in continuo<br />
<strong>di</strong>venire, dunque un testo; e, parallelamente, ogni testo è una pratica<br />
all’interno <strong>di</strong> un ambiente socio-culturale, che risponde a pratiche<br />
precedenti e ne provoca <strong>di</strong> ulteriori. Testi, esperienze e pratiche sono,<br />
da prospettive <strong>di</strong>verse, la stessa cosa (...) Ancora una volta, il miglior<br />
modo per stu<strong>di</strong>are le pratiche è andare a vedere come i testi (...) le<br />
raccontano nel loro piano del contenuto” (Marrone 2005, p. 119 e<br />
p. 123).<br />
Una tale conclusione è motivata dal fatto che i testi non “barano”, si denunciano<br />
apertamente come un prodotto culturale nient’affatto neutro, ma quanto meno<br />
oggettivabile intersoggettivamente, se non altro in termini <strong>di</strong> attestazione e<br />
implementazione pubblica.<br />
“Le esperienze e le pratiche, invece, non godono <strong>di</strong> questa prerogativa:<br />
o sono costruite ad hoc, artificialmente, per essere soggette a specifiche<br />
analisi <strong>di</strong> laboratorio; oppure, per essere stu<strong>di</strong>ate, hanno costitutivo<br />
bisogno delle maglie interpretative – ossia delle articolazioni testuali<br />
implicite (narrative, <strong>di</strong>scorsive, figurative, ecc.) – d’un osservatore che,<br />
prima ancora <strong>di</strong> esaminarle, deve metterle a fuoco, selezionarle, raccoglierle,<br />
collezionarle” (ivi, 123).<br />
Il fatto che in qualche modo non si sfugga alla testualità è ricondotto da Marrone<br />
a una posizione che demarca l’approccio della socio<strong>semio</strong>tica italiana<br />
(Marsciani, Pozzato, ecc.), ma giustamente non manca <strong>di</strong> sottolineare che<br />
“il ricorso ai testi (...) evita i rischi della generalizzazione affrettata” (ivi).<br />
Se ne deduce la crucialità, per la socio<strong>semio</strong>tica, <strong>degli</strong> stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> corpora. Si<br />
deve osservare, tuttavia, che tali stu<strong>di</strong>, benché certo praticati, hanno visto una<br />
rarefatta problematizzazione della loro costituzione e investigazione, nonché<br />
si è registrata, almeno nel recente passato, la mancata emergenza <strong>di</strong> una teoria<br />
dell’azione elaborata per comparazione contrastiva <strong>di</strong> corpora.<br />
Recentemente, Eric Landowski ha pubblicato uno dei suoi più importanti<br />
contributi (2006) alla socio<strong>semio</strong>tica, Les interactions risquées. Esso si basa<br />
su una logica dell’esempio, più che su effettivi stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> corpora (peraltro praticati,<br />
in altre occasioni, dall’autore), ma ha il pregio <strong>di</strong> offrirsi come una nuova<br />
modellizzazione, strutturalmente definita, delle interazioni, pur non volendosi<br />
con ciò porre al <strong>di</strong> fuori dell’epistemologia <strong>semio</strong>tica del passato. Il lavoro <strong>di</strong><br />
7
Landowski in questi campi è pluridecennale, ma si ha la sensazione che proprio<br />
la tensione del <strong>di</strong>battito attuale gli abbia sollecitato, e in qualche modo<br />
permesso, una sistematizzazione complessiva dei suoi contributi, portando un<br />
numero nient’affatto esiguo <strong>di</strong> nuove categorie descrittive già metodologicamente<br />
operative. Il mero confronto interattanziale <strong>di</strong> tipo polemico-contrattuale<br />
si arricchisce e si <strong>di</strong>ffrange, così come le configurazioni narrative moltiplicano i<br />
loro possibili assetti rispetto al monocorde presupposizionalismo dello schema<br />
narrativo.<br />
Nella sua prefazione al lavoro <strong>di</strong> Landowski, Fontanille sottolinea come<br />
l’integrazione <strong>di</strong> nuovi piani descrittivi (quello delle interazioni) necessita<br />
<strong>di</strong> una correlativa pertinentizzazione <strong>di</strong> un piano dell’espressione: “se<br />
posso esprimere un auspicio per l’avvenire, questo è che, a <strong>di</strong>fferenza della<br />
<strong>semio</strong>tica narrativa standard, la <strong>semio</strong>tica delle interazioni non consideri<br />
affatto come acquisita e implicita la questione del piano dell’espressione”<br />
(Fontanille 2006, 5). Tali rilievo - che ha molti echi nella presente raccolta<br />
- emerge soprattutto perché l’approccio landowskiano, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quello<br />
della socio<strong>semio</strong>tica italiana, non è rimasto affatto strettamente ancorato<br />
alla testualità; ecco allora che nella descrizione delle interazioni in atto il<br />
corpo potrebbe fornire il giusto livello <strong>di</strong> pertinenza per reperire il loro piano<br />
dell’espressione. Resta il problema, usciti dalla testualità, <strong>di</strong> come accedere<br />
metodologicamente alla descrizione del farsi <strong>di</strong> una pratica all’interno<br />
<strong>di</strong> uno scenario sociale. Se <strong>di</strong>scipline come la sociologia o l’antropologia<br />
hanno speso decenni <strong>di</strong> riflessioni su tale questione, risulterà <strong>di</strong>fficile, oltre<br />
che sospetto, sottrarvisi.<br />
Uno <strong>degli</strong> autori che maggiormente ha lottato teoricamente perché fosse<br />
evidenziata la specificità dei testi, la crucialità della loro analisi per lo stu<strong>di</strong>o<br />
delle culture e il fondamentale ancoraggio delle pratiche <strong>semio</strong>tiche all’investigazione<br />
<strong>di</strong> corpora, è certamente François Rastier. Il suo intervento più<br />
sistematico sulla <strong>semio</strong>tica delle pratiche (Rastier 2001), seguito oramai da<br />
una folta serie <strong>di</strong> altri contributi, parte tuttavia proprio dall’idea che non si<br />
possa considerare ogni fatto umano come un testo, dato che le performance<br />
linguistiche non possono <strong>di</strong>venire modello <strong>di</strong> tutte le attività culturali. Inoltre,<br />
semantiche linguistiche e conoscenza non possono essere identificate, dato<br />
che quest’ultima è un’azione, ancorché spesso rimossa nell’ontologizzazione<br />
dei saperi. Le entità linguistiche (<strong>di</strong>scorso, genere, testo) non possono essere<br />
ridotte alle entità sociali (tipo <strong>di</strong> pratica, pratica, corso d’azione), ancorché è<br />
compito <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica delle culture stu<strong>di</strong>are le forme della loro relazione.<br />
Quando si tratta <strong>di</strong> elaborare una nozione esplicativa del passaggio all’atto,<br />
Rastier non si tuffa imme<strong>di</strong>atamente in corpora testuali per estrapolarvi la<br />
concezione che <strong>di</strong> esso emerge (per quanto ciò possa risultare interessante,<br />
per esempio al fine <strong>di</strong> <strong>di</strong>scernere un’ideologia dell’agire); pensa piuttosto<br />
che si possa ricorrere a una descrizione capace <strong>di</strong> ancorarsi all’embo<strong>di</strong>ment<br />
delle istanze sociali. In tal senso, formula il passaggio all’atto in termini <strong>di</strong><br />
“mancanza temporanea <strong>di</strong> inibizioni” (Rastier 2001, 203-04). Se per un se-<br />
8
mantica del testo pretende <strong>di</strong> convocare un’economia minimale della soggettività<br />
che vi si articola, sul piano delle pratiche trova opportuno sottolineare<br />
l’immaginazione come un fatto <strong>di</strong>scriminante dell’azione umana, dato che<br />
permette la presa in considerazione <strong>di</strong> cose in absentia o <strong>di</strong> pensare come<br />
veri testi finzionali.<br />
Sono solo alcune note semplificatorie del suo contributo, ma già danno<br />
l’idea <strong>di</strong> una <strong>di</strong>versificazione <strong>di</strong> approccio ai testi e alle pratiche che solo in<br />
seconda battuta può eventualmente riunificarsi in un programma federatore.<br />
Una tale <strong>di</strong>varicazione è in buona parte emersa anche all’interno del biennio<br />
che il Seminario Inter<strong>semio</strong>tico <strong>di</strong> Parigi ha de<strong>di</strong>cato al tema delle pratiche,<br />
anche se con accenti <strong>di</strong>versi, con preoccupazioni soprattutto metodologicodescrittive,<br />
e con un programma apertamente “continuista”, basato esattamente<br />
su quell’epistemologia che Rastier rifiuta anche per la <strong>semio</strong>tica testuale:<br />
ossia, il principio <strong>di</strong> immanenza. I contributi del seminario hanno contemperato<br />
generalmente cautela epistemologica - al fine <strong>di</strong> preservare una specificità<br />
<strong>di</strong>sciplinare - e arricchimento dei modelli descrittivi - con l’obiettivo<br />
<strong>di</strong> articolare in un programma <strong>di</strong> ricerca effettivo la semplice asserzione che<br />
il contesto emerge come problema irrisolto solo lì dove si è mal ritagliato il<br />
proprio oggetto <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o. Una serie <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Jacques Fontanille, in rapida<br />
successione, hanno fornito un piano <strong>di</strong> consistenza a uno sviluppo alternativo,<br />
ma non incommensurabile (anzi, articolabile) con la ricerca landowskiana.<br />
Il saggio qui presentato in traduzione italiana (“Pratiche <strong>semio</strong>tiche”) contiene<br />
un’efficace sintesi <strong>di</strong> questa proposta organica; sarebbe qui pleonastico<br />
indulgervi. Allo stesso modo i ponti possibili che possono essere gettati tra<br />
il nuovo approccio <strong>di</strong> Fontanille e la socio<strong>semio</strong>tica <strong>di</strong> Landowski sono ben<br />
esemplificati, in modo personale e proficuamente trasversale, dal contributo <strong>di</strong><br />
Denis Bertrand. Quest’ultimo, del resto, aveva già offerto una riconnessione<br />
tra retorica e <strong>semio</strong>tica delle pratiche in Parler pour convaincre; e questo<br />
nodo trova qui un livello <strong>di</strong> notevole problematizzazione teorica grazie agli<br />
intrecci del suo saggio con le proposte, sul medesimo terreno, <strong>di</strong> Fontanille<br />
e <strong>di</strong> Jean-François Bordron. Tra l’altro, proprio in questi autori (Bertrand,<br />
Bordron, Fontanille) la ri<strong>di</strong>scussione e riaffermazione dell’immanentismo<br />
trova una specifica e ampia trattazione. Nel caso <strong>di</strong> Bordron, abbiamo poi<br />
una proposta teorica globale sulle pratiche che mostra come esse traspongano<br />
dall’una all’altra piani <strong>di</strong> immanenza. Anne Beyaert trasferisce questa visione<br />
teorica sul piano concreto <strong>di</strong> pratiche che si avvicendano traslando il piano<br />
<strong>di</strong> pertinenze testuali su cui si articola la significazione.<br />
Parallelamente a quanto era accaduto nel primo numero <strong>di</strong> Semiotiche, si<br />
è deciso <strong>di</strong> affiancare alla robusta e fidata partecipazione <strong>di</strong> alcuni elementi<br />
<strong>di</strong> spicco della <strong>semio</strong>tica internazionale, un gruppo <strong>di</strong> giovani “compagni <strong>di</strong><br />
ricerca” (Festi, Paolucci, <strong>Valle</strong> e il sottoscritto, a cui si è aggiunto Tore) che si<br />
ritrovano da qualche anno a <strong>di</strong>scutere assieme un <strong>di</strong>screto numero <strong>di</strong> questioni<br />
<strong>semio</strong>tiche, uniti dal modo <strong>di</strong> concepire la ricerca e conseguentemente vocati<br />
a <strong>di</strong>ffrangere i loro rispettivi punti <strong>di</strong> vista.<br />
9
2. PRESENTAZIONE DEI CONTRIBUTI<br />
I testi qui raccolti, tutti redatti nel 2005, partono, in un modo o nell’altro, da una<br />
propria originale prospettiva che non ricalca il filo rosso della socio<strong>semio</strong>tica<br />
per come si è sviluppata negli anni Novanta, ma <strong>di</strong> cui non mancano i riflessi<br />
per le poste teoriche che ha saputo mettere in luce. Inoltre, la raccolta offre<br />
approcci e accenti alquanto <strong>di</strong>versificati, tanto da costruire un tessuto <strong>di</strong> voci<br />
non sovrapponibili, ma che nell’insieme vanno a costituire un quadro <strong>di</strong> mobilitazione<br />
della ricerca <strong>semio</strong>tica nel suo complesso. In questo senso, nel presente<br />
numero <strong>di</strong> Semiotiche il lettore non troverà alcun programma comune in vista <strong>di</strong><br />
una socio<strong>semio</strong>tica (o <strong>semio</strong>tica delle pratiche), al punto che alcuni contributi<br />
criticano dall’esterno le stesse basi su cui è costituita la relativa specificità <strong>di</strong><br />
questo in<strong>di</strong>rizzo <strong>di</strong> ricerca. Quello che il lettore potrà sperabilmente trovare è<br />
uno spirito con<strong>di</strong>viso nel praticare la <strong>semio</strong>tica, basato sul rifiuto <strong>di</strong> riduzionismi,<br />
soprattutto quando, come in questo caso, si ha la sensazione <strong>di</strong> inoltrarsi<br />
in terreni malcerti, almeno rispetto al proprio ambito <strong>di</strong>sciplinare. L’auspicio è<br />
così che anche questa serie <strong>di</strong> saggi possa testimoniare allora della vocazione<br />
con cui è nata la rivista Semiotiche sotto l’impulso <strong>di</strong> Gian Paolo Caprettini,<br />
vale a <strong>di</strong>re quella <strong>di</strong> uscire da atteggiamenti <strong>di</strong> scuola per un confronto libero,<br />
trasversale ma anche vivamente contrastato delle posizioni registrabili oggi nel<br />
nostro campo <strong>di</strong>sciplinare.<br />
La natura originaria dei contributi qui raccolti è <strong>di</strong>versa; alcuni hanno un<br />
impianto più strettamente saggistico, altri sono testi <strong>di</strong> relazioni convegnistiche<br />
lasciate nella loro originaria stesura per la lettura. I loro punti <strong>di</strong> convergenza<br />
tematici sono il testo e le pratiche; l’approfon<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> una o <strong>di</strong> entrambe le<br />
nozioni viene declinato come ri<strong>di</strong>segnamento <strong>di</strong> un’intera problematica <strong>di</strong>sciplinare.<br />
In questo senso, il percorso argomentativo che i contributi raccolti<br />
hanno in comune sfocia generalmente in una ra<strong>di</strong>calizzazione consequenziale<br />
a queste assunzioni concettuali <strong>di</strong> base, implicate, del resto, in qualsivoglia<br />
approccio <strong>semio</strong>tico.<br />
Proprio perché in passato siamo già intervenuti in maniera sistematica sulla<br />
relazione tra testo e pratiche (Basso 2002), non vogliamo qui surrettiziamente<br />
rischiare <strong>di</strong> imporre una lettura privilegiata sui saggi qui contenuti e abbiamo<br />
preferito allargare il paesaggio attuale della ricerca, giustapponendo anche<br />
<strong>di</strong>rezioni teoriche che qui potrebbero non trovare <strong>di</strong>rettamente manifestazione.<br />
La ricchezza del momento attuale sta proprio nella pluralità <strong>di</strong> vedute e nella<br />
qualità dei <strong>di</strong>versi contributi.<br />
Per tale ragione ci siamo limitati ad offrire al lettore solo una breve sintesi<br />
dei no<strong>di</strong> teorici affrontati <strong>degli</strong> articoli, senza entrare nel merito o nei meriti<br />
<strong>di</strong> essi.<br />
Per quanto sia importante ragionare sulla testualità, resta poi il fatto che l’analisi<br />
testuale <strong>di</strong> singoli casi non consente alla <strong>semio</strong>tica <strong>di</strong> porsi in <strong>di</strong>alogo con le altre<br />
scienze umane rispetto a questioni che riguardano le trasformazioni storiche<br />
10
(gli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong>acronici latitano), l’emergenza <strong>di</strong> topoi nel <strong>di</strong>battito comunitario, le<br />
tensioni conflittuali interne alla produzione <strong>di</strong> documenti propri a uno specifico<br />
dominio sociale. Il saggio d’apertura <strong>di</strong> François Rastier ritorna ad affrontare<br />
quei rapporti tra ideologie e formazioni <strong>di</strong>scorsive che la <strong>semio</strong>tica ha, per<br />
qualche tempo, ritenuto quasi compromessi, visto il <strong>di</strong>stacco dall’oramai desueta<br />
“politica militante” della <strong>di</strong>sciplina. Per contro, Rastier mostra come lo stu<strong>di</strong>o<br />
<strong>di</strong> corpora offra <strong>di</strong> per sé l’accesso a una prospettiva critica della semantica<br />
della doxa. Inoltre, piuttosto che la ricostruzione <strong>di</strong> uno spettro enciclope<strong>di</strong>co<br />
dei valori doxastici, si tratta <strong>di</strong> ricostruire una polemologia inter-doxastica che<br />
anima ogni cultura. Una tale prospettiva non può che accogliere scetticamente,<br />
se non con aperto sospetto, ogni analisi <strong>semio</strong>tica <strong>di</strong> uno scenario culturale che<br />
ricostruisce delle definizioni categoriali univoche e <strong>di</strong>stintive rispetto ad altre<br />
culture. È certamente a un livello <strong>di</strong> complessificazione maggiore, quello della<br />
forma <strong>di</strong> regolazione delle tensioni filo-doxastiche e para-doxastiche, che le<br />
culture potranno essere raffrontate. Tutto ciò non solo ha una ricaduta teorica<br />
importante su una teoria delle pratiche, ma - come mostra perfettamente Rastier<br />
- ha anche un impatto rilevante sul nostro modo <strong>di</strong> concepire il lessico e tutti<br />
quei fenomeni chiamati da Greimas “cristallizzazione della parole”.<br />
Il saggio <strong>di</strong> Anne Beyaert si pone il problema del trasferimento <strong>di</strong> un tipo <strong>di</strong><br />
testualità (la fotografia) da una pratica all’altra, per esempio da quella giornalistica<br />
a quella artistica e viceversa. Ma mostra anche come l’implementazione<br />
pubblica dei testi sia tutt’altro che riducibile a un momento istituzionale <strong>di</strong><br />
iscrizione in contesto e in specifici corpora. La vita dei testi è avventurosa e<br />
c’è da chiedersi quanto della loro significazione derivi dalla memoria <strong>di</strong> queste<br />
“peripezie esistenziali”, e soprattutto come si possa pe<strong>di</strong>narne lo sviluppo.<br />
Rispetto alla “finzione” teorica <strong>di</strong> aver <strong>di</strong> fronte un testo, ecco che nella circolazione<br />
me<strong>di</strong>ale dei <strong>di</strong>scorsi assistiamo a una serie continua <strong>di</strong> trasposizioni <strong>di</strong><br />
formato, <strong>di</strong> scenari pre<strong>di</strong>cativi d’iscrizione, e così via. Affrontando in particolare<br />
il problema della temporalità, Beyaert <strong>di</strong>mostra come la sua declinazione testuale<br />
<strong>di</strong>penda dall’afferenza a una pratica, e come dalla significazione d’eventi<br />
intensivi (garanzia <strong>di</strong> un impatto imme<strong>di</strong>ato <strong>di</strong> una foto <strong>di</strong> reportage) si possa<br />
così passare (per esempio attraverso il trasferimento verso una pratica artistica)<br />
alla messa in valore <strong>di</strong> stati <strong>di</strong> cose che, garantiti da una sufficiente durata<br />
dell’apprensione, risultano infine pienamente “leggibili”.<br />
Il saggio <strong>di</strong> Tore mette al centro della riflessione l’esperienza testuale, mostrando<br />
come un testo, una volta ricondotto a una pratica e a un genere che me<strong>di</strong>a la<br />
loro articolazione, finisca per essere un “nodo <strong>di</strong> instabilità” irriducibile a una<br />
ipostatizzazione delle sue strutture. Le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> esperienza del testo devono<br />
entrare chiasmaticamente in relazione con le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> caratterizzazione<br />
della pratica che ne regola il valere dei valori. All’isolamento del testo, Tore<br />
contrappone la congiunturalità dell’incontro con il testo, che lo rende sempre<br />
significante sulla base <strong>di</strong> altri testi co-occorrenti o comunque <strong>di</strong> altre esperienze<br />
11
testuali compossibili. La foto ricordo - l’esempio portato da Tore - può offrirsi<br />
come il terreno testuale per una riappropriazione della figura del corpo, ma questa<br />
sua <strong>di</strong>sponibilità, da un lato si declina nella singolarità dei casi (testo come<br />
esperienza locale), dall’altro si impernia su pratiche che la riconducono a una<br />
forma <strong>di</strong> vita, e <strong>di</strong> qui alla regolazione strategica <strong>di</strong> un’attività modellizzante.<br />
Il contributo <strong>di</strong> Giacomo Festi mette in tensione un’idea <strong>di</strong> testo come archivio <strong>di</strong><br />
senso <strong>di</strong>sponibile con una visione <strong>di</strong>sciplinare preliminarmente <strong>di</strong>ffidente verso<br />
le pratiche, dato che il loro senso, non essendo mai depositato definitivamente,<br />
risulta infine inoggettivabile. La prima mossa <strong>di</strong> Festi è non <strong>di</strong>sgiungere il testo<br />
dalla relazione che intrattiene con il soggetto che lo mette a significare; la seconda<br />
è quella <strong>di</strong> vedere il testo come una partitura che viene sempre eseguita all’interno<br />
<strong>di</strong> uno specifico contesto immersivo. Esplorando la tenuta della recenti in<strong>di</strong>cazioni<br />
<strong>di</strong> Fontanille (2004b), Festi mette al centro della sua indagine l’ipnosi, rilevando<br />
come all’interno <strong>di</strong> tale pratica si gestiscano “in presa <strong>di</strong>retta <strong>degli</strong> effetti <strong>di</strong> senso<br />
secondo un circolo <strong>di</strong> auto-osservazione sempre attivo”. Il plesso <strong>di</strong> relazioni tra<br />
corso d’azione, verbalizzazione e corporalità non può essere <strong>di</strong>saggregato pena<br />
la per<strong>di</strong>ta delle articolazioni <strong>di</strong> senso che bypassano l’eterogeneità <strong>di</strong> istanze e <strong>di</strong><br />
piani <strong>di</strong> manifestazioni. Casomai è la pratica clinica che opera uno sganciamento<br />
<strong>di</strong> istanze identitarie (la carne può affacciarsi come “motore” <strong>di</strong> <strong>semio</strong>tizzazione<br />
autonomo) al fine <strong>di</strong> significare tale possibilità (liberazione) o con l’obiettivo <strong>di</strong><br />
profilare nuove possibili solidarizzazioni tra <strong>di</strong> esse.<br />
<strong>Andrea</strong> <strong>Valle</strong> mostra come i legami tra testo e pratica siano sempre stati interni<br />
al pensiero <strong>semio</strong>tico, da una parte perché il primo è stato concepito come il prodotto<br />
<strong>di</strong> una pratica d’analisi, dall’altra per via della messa in valore delle tracce<br />
enunciazionali, connesse all’attività <strong>di</strong> produzione che è alla base del testo stesso.<br />
Tuttavia, da questi riconoscimenti, quasi taciti, si è provveduto spesso a una rimozione<br />
della centralità della produzione segnica, della stratificazione enunciazionale<br />
e dei livelli <strong>di</strong> pertinenza sotto cui inquadrare la relazione tra testo e pratiche.<br />
In particolare, incentrandosi su una <strong>semio</strong>tica dell’u<strong>di</strong>bile, <strong>Valle</strong> modellizza una<br />
ricorsività delle pratiche d’ascolto attraverso le quali si continua a trasdurre senso<br />
sotto costituzioni significanti che hanno in memoria la tappa precedente. Passando<br />
allora attraverso la nozione schaefferiana <strong>di</strong> oggetto sonoro, <strong>Valle</strong> esemplifica<br />
come il testo si muova entro una costituzione pertinenziale plurilivellare, dove<br />
a ciascun passaggio ricorsivo della pratica d’ascolto corrisponde una relazione<br />
specifica tra oggetto e struttura (struttura <strong>di</strong> cui l’oggetto è una componente, e<br />
struttura <strong>di</strong> cui esso stesso è costituito). Ecco che al testo come “dato” si sostituisce<br />
tutt’al più una visione teorica che lo coglie come stabilizzazione locale <strong>di</strong><br />
un flusso ricorsivo <strong>di</strong> pratiche <strong>di</strong> apprensione.<br />
Clau<strong>di</strong>o Paolucci interviene anch’egli sulla ipostatizzazione della funzione<br />
segnica e sulla deproblematizzazione della sua costituzione locale. La spiegazione<br />
<strong>di</strong> ciò è colta esattamente nella feticizzazione ed estensione smodata<br />
12
della nozione <strong>di</strong> testualità, la quale porta perniciosamente con sé l’idea <strong>di</strong><br />
un’oggettivazione immanente <strong>di</strong> relazioni <strong>semio</strong>tiche predeterminate. Il saggio<br />
<strong>di</strong> Paolucci si offre come un rilancio <strong>di</strong> un’epistemologia strutturale ra<strong>di</strong>cale<br />
che sappia trarre vantaggio dalla lezione deleuziana, capace <strong>di</strong> svincolarsi dalla<br />
fascinazione per una fenomenologia (quella merleau-pontiana) che ha anteposto<br />
l’inarticolazione silente dell’esperienza sensibile alla linguisticizzazione, alla<br />
logica strutturale. Per contro si tratta <strong>di</strong> riconoscere come ogni <strong>di</strong>mensione della<br />
significazione comporti la costituzione locale <strong>di</strong> commensurabilità (ratio) tra<br />
elementi eterogenei; ciò dovrebbe <strong>di</strong>venire il centro <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica interpretativa<br />
concepita come fabbrica <strong>di</strong> produzioni segniche.<br />
Jean-François Bordron esemplifica la sua argomentazione attraverso un esempio<br />
che mette in tensione i rapporti tra testo e pratiche e che getta una luce sulla<br />
questione dell’immanenza; lungo il corso della sua vita Maine de Biran si ritrova<br />
ad esercitare due generi contemporaneamente: il saggio filosofico e il <strong>di</strong>ario intimo.<br />
Il secondo finisce con l’interferire con il primo, non quanto a contenuti, ma<br />
proprio per la pratica scritturale che ne sta alla base, anzi più in generale per la<br />
<strong>di</strong>soccultazione della fatica e dei costi interiori dello scrivere. Tale esempio serve<br />
a Bordron per mostrare come ogni pratica intervenga su un prodotto culturale già<br />
dotato <strong>di</strong> una propria organizzazione immanente, per riformulare le pertinenze<br />
<strong>di</strong> quest’ultima al fine <strong>di</strong> iscriverla dentro una nuova immanenza, fondata, per<br />
esempio, su un registro <strong>di</strong>scorsivo <strong>di</strong>verso. A regime, le pratiche dunque si concatenano<br />
inventando nuovi piani <strong>di</strong> immanenza entro cui giocarsi il senso <strong>di</strong> testi,<br />
e pur restando sempre all’interno delle forme simboliche <strong>di</strong> una cultura, esse le<br />
mettono in tensione. Una <strong>semio</strong>tica della pratica in atto è allora foriera dello stu<strong>di</strong>o<br />
del suo farsi, del suo costituire un proprio dominio d’immanenza traspositivo o<br />
riformulativo d’altri. Il saggio <strong>di</strong> Bordron si introduce poi nella <strong>di</strong>samina teorica<br />
dei piani dell’espressione e del contenuto <strong>di</strong> una pratica, del ritmo che le è proprio,<br />
dei débrayage/embrayage soggettali e oggettali che la sottendono, del necessario<br />
adattamento all’aleatorietà del <strong>di</strong>venire che sempre la attraversa.<br />
Nel contributo <strong>di</strong> Fontanille la <strong>di</strong>fesa del principio d’immanenza è un tutt’uno con<br />
la salvaguar<strong>di</strong>a della specificità della <strong>semio</strong>tica; similmente a Bordron, l’enunciazione<br />
in atto costituisce una attività <strong>di</strong> schematizzazione che istituisce delle<br />
relazioni significanti: <strong>di</strong> esse la <strong>semio</strong>tica deve rendere conto. Non riconoscendosi,<br />
tuttavia, in posizioni che estendono smodatamente la nozione <strong>di</strong> testo, Fontanille<br />
intende enucleare dei piani <strong>di</strong> immanenza <strong>di</strong>versificati e incassati tra loro - è questo<br />
il programma <strong>di</strong> base da cui è partita la sua elaborazione <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica delle<br />
pratiche, nonché la sua riflessione sulla <strong>semio</strong>tica in quanto pratica. Nel presente<br />
saggio Fontanille comincia a mettere alla prova le proprie categorie descrittive<br />
confrontandosi con la retorica e in particolare con la pratica argomentativa;<br />
evidenzia l’esistenza <strong>di</strong> generi prassici che si esplicano poi in generi testuali, ma<br />
soprattutto comincia a mappare le relazioni tra pratiche e testo, non limitandosi<br />
semplicemente a riven<strong>di</strong>carne l’esistenza e/o la crucialità.<br />
13
Se nel saggio <strong>di</strong> Fontanille, la retorica <strong>di</strong>viene un terreno <strong>di</strong> prova per il modello<br />
<strong>di</strong> <strong>semio</strong>tica delle pratiche recentemente avanzato, riportando finalmente<br />
attenzione sull’argomentazione, l’intervento <strong>di</strong> Denis Bertrand parte proprio<br />
dalla retorica come luogo in cui emergono i paradossi interni alle pratiche, consigliandoci<br />
<strong>di</strong> non assumerle come un dato referenziale deproblematizzato. La<br />
retorica <strong>di</strong>viene così l’angolo prospettico che questiona la “falsa concretezza”<br />
della pratica e la riconduce a un asse tensivo sotteso dall’opposizione giustezza<br />
vs improprietà; un asse che è sempre <strong>di</strong>pendente da una inevidenza, da un’assenza,<br />
da uno sfalsamento tra la datità e le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> sviluppo <strong>di</strong> proprietà<br />
pertinenti al gioco linguistico che si sta conducendo. Il saggio <strong>di</strong> Bertrand si<br />
addentra poi nella <strong>di</strong>stinzione e riarticolazione tra una retorica pensata come<br />
gestione in <strong>di</strong>scorso dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> esistenza dei valori e una retorica che afferisce<br />
alle tecniche <strong>di</strong> persuasione efficace rispetto a un u<strong>di</strong>torio, soprattutto grazie a<br />
un uso figurativo dei linguaggi.<br />
Infine, il saggio dello scrivente chiude la raccolta compiendo una perlustrazione<br />
<strong>di</strong> una possibile ridefinizione della testualità e confrontando le recenti proposte<br />
<strong>di</strong> Fontanille con uno spettro <strong>di</strong> problematiche che possono emergere nello<br />
stu<strong>di</strong>o delle pratiche. Avendo deciso opportunamente <strong>di</strong> evacuare da questa<br />
introduzione il nostro punto <strong>di</strong> vista critico sul panorama della ricerca, ne abbiamo<br />
infine lasciato qualche traccia più estesa nell’intervento finale.<br />
14
Bibliografia<br />
Basso, Pierluigi<br />
2002 Il dominio dell’arte, Roma, Meltemi.<br />
Bertrand, Denis<br />
1999 Parler pour convaincre, Paris, Gallimard Education.<br />
Floch, Jean-Marie<br />
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Centro Scientifico E<strong>di</strong>tore, 1991.<br />
Fontanille, Jacques<br />
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2004b “Textes, objets, situations et formes de vie. Les niveaux de pertinence du plan de l’expression<br />
dans une sémiotique des cultures”, in E/C, www.associazione<strong>semio</strong>tica.it.; poi<br />
in D. Bertrand & M. Costantini (eds.), Transversalité du Sens, Paris, P.U.V., 2006.<br />
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2006b “Pratiques sémiotiques: immanence et pertinence, efficience et optimisation, Nouveaux<br />
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1989 La societé réfléchie, Paris, Seuil; trad. it. La società riflessa, Roma, Meltemi, 1999.<br />
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2001a “L’action et le sens. Pour une sémiotique des cultures”, Journal des anthropologues,<br />
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2002 “Antropologie linguistique et sémiotique de la culture”, in F. Rastier & S. Bouquet, Une<br />
introduction aux sciences de la culture, Paris, Puf, 2002.<br />
15
DOXA E SEMANTICA NEL CORPUS *<br />
François Rastier<br />
1. POSIZIONI E PROPOSTE<br />
1.1. La doxa e l’Essere<br />
L’ontologia si è costituita attraverso il ripu<strong>di</strong>o della doxa: aspirando alla conoscenza,<br />
i filosofi opposero la verità, insegnata all’interno <strong>di</strong> piccoli gruppi<br />
esoterici (come, per esempio, quelli pitagorici), all’opinione comune, sedotta<br />
dagli idoli dell’agorà o del foro.<br />
Partendo dalla <strong>di</strong>versità delle credenze in mutua opposizione, la <strong>di</strong>alettica socratica<br />
ritenne <strong>di</strong> poter accedere al “vero” proprio perché esse si fronteggiavano<br />
sullo sfondo <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne “naturale” delle cose, la cui conoscenza consentirebbe<br />
al saggio <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care rettamente.<br />
Ecco allora che la stabilità definitoria dell’Essere mette sotto accusa la variabilità<br />
della doxa, permettendo <strong>di</strong> denunciarne l’assenza <strong>di</strong> fondamento e <strong>di</strong><br />
* Il presente stu<strong>di</strong>o, qui per la prima volta tradotto in italiano e proposto in una nuova versione, è stato<br />
pubblicato in francese anche in una versione <strong>di</strong>versa e più estesa che può essere reperita sulla rivista<br />
Texto! (www.revue-texto.net). La traduzione è stata curata da Pierluigi Basso.<br />
17
icusarla, infine, come una illusione. Per contro, la retorica, richiamandosi alla<br />
doxa per garantirsi un potere <strong>di</strong> convinzione e inventariandone gli elementi nella<br />
topica, prende le <strong>di</strong>stanze da qualsiasi referenzialità e si espone alla condanna<br />
platonica che la bolla come un inganno deliberato, un’illusione in<strong>di</strong>scernibile<br />
in quanto tale.<br />
Le opinioni false sarebbero solo un travestimento della verità che appartiene<br />
all’or<strong>di</strong>ne delle Idee; questo or<strong>di</strong>ne irenico, invariabile e non contrad<strong>di</strong>ttorio,<br />
consentirebbe <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care con criterio le contrad<strong>di</strong>zioni <strong>degli</strong> uomini. Il fondamento<br />
ontologico <strong>di</strong> tale principio regolatore del giu<strong>di</strong>zio fu innanzi tutto<br />
riconosciuto come il Dio - senza rivelazione - dei filosofi, e infine ribaltato nei<br />
termini <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne della Natura.<br />
Trasponendo la natura delle cose nella “materia del sociale”, il ribaltamento<br />
marxista situò la verità nell’or<strong>di</strong>ne materiale dell’organizzazione sociale e, più<br />
precisamente, dei rapporti <strong>di</strong> produzione. Esso fece delle credenze una ideologia<br />
e mantenne la <strong>di</strong>stinzione tra, da una parte, le credenze vere (il marxismo),<br />
ovvero l’ideologia scientifica, e, dall’altra, le credenze necessarie (alle classi<br />
<strong>degli</strong> oppressori), ovvero quelle determinate in ultima istanza dall’or<strong>di</strong>ne economico.<br />
La denuncia materialista della credenza, sia essa sociale o in<strong>di</strong>viduale,<br />
conobbe il suo acme nelle “filosofie del sospetto” contemporanee. Dopo la<br />
stigmatizzazione marxiana della credenza quale travestimento ideologico dei<br />
rapporti <strong>di</strong> classi nelle società dello sfruttamento, giunsero Schopenhauer, e<br />
quin<strong>di</strong> Nietzsche e Freud, pronti ad ascriverle la menzogna interessata dell’Io<br />
contemporaneo: i sentimenti <strong>di</strong>vennero così nulla più che le espressioni leziose<br />
dei bisogni e delle pulsioni più istintive. Il darwinismo sociale, su questa stessa<br />
linea, fa oggi dell’altruismo il travestimento <strong>degli</strong> interessi egoistici dell’in<strong>di</strong>viduo,<br />
ossia del suo genoma (cfr. Dawkins, Il gene egoista).<br />
Ad ogni buon conto, un’istanza invariante con<strong>di</strong>ziona i travestimenti variabili<br />
della cattiva fede. L’Essere parmenideo e l’Idea platonica sono stati, in questo<br />
senso, semplicemente rimpiazzati dalla Materia, la quale assume la loro funzione<br />
trascendente in tutti i programmi <strong>di</strong> naturalizzazione: la base economica<br />
oggettiva, quin<strong>di</strong> lo strato pulsionale della psiche, e infine oggi il genoma hanno<br />
ere<strong>di</strong>tato, <strong>di</strong> volta in volta, i poteri della Physis.<br />
Se si riconosce l’autonomia relativa del <strong>semio</strong>tico, nessun criterio esterno<br />
permette <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care le credenze. Le scienze della cultura possono legittimamente<br />
assumere come obiettivo la descrizione delle credenze, ma non la loro<br />
sanzione, e ancor meno la loro denuncia. Al livello d’analisi che le compete, la<br />
linguistica può tuttavia obiettivarle attraverso un approccio comparativista.<br />
La caratterizzazione <strong>di</strong>fferenziale delle doxa, inevitabilmente pluralizzate,<br />
apporta novità notevoli. Innanzi tutto, è la loro pluralità che permette <strong>di</strong> percepire<br />
contrastivamente le doxa - il paradosso assume con ciò una <strong>di</strong>mensione<br />
critica insostituibile. Inoltre, il ruolo delle doxa deve essere descritto non in<br />
rapporto alle oscure rappresentazioni collettive, bensì in rapporto alle strutture<br />
stesse <strong>degli</strong> universi semantici e dei <strong>di</strong>versi <strong>di</strong>scorsi (letterario, scientifico,<br />
mitico, ecc.).<br />
18
1.2. Ambiguità dell’ideologia<br />
L’ideologia <strong>di</strong> Destutt de Tracy 1 si pone come una teoria delle idee; essa, essendo<br />
parte integrante della sua teoria del linguaggio, finisce col giocare, rispetto alla<br />
grammatica, il ruolo <strong>di</strong> una semantica. Marx ha ripreso - come noto - il concetto<br />
<strong>di</strong> ideologia per farne un insieme <strong>di</strong> rappresentazioni collettive, determinate, in<br />
ultima istanza, da una formazione socioeconomica. Questa concezione è ora ben<br />
ra<strong>di</strong>cata nella vulgata sociologica. Nel rinnovare la critica platonica della doxa, il<br />
monismo materialista denuncia l’ideologia come illusione e formula un programma<br />
<strong>di</strong> demistificazione al fine <strong>di</strong> ridurla a un tessuto d’apparenze. La critica della<br />
cultura (Kulturkritik) condotta dalla Scuola <strong>di</strong> Francoforte, la lezione <strong>di</strong> Althusser<br />
così come la teoria <strong>di</strong> Bour<strong>di</strong>eu procedono, pur <strong>di</strong>fferentemente, in questa <strong>di</strong>rezione.<br />
La questione delle ideologie resta legata al materialismo <strong>di</strong>alettico e ai <strong>di</strong>battiti che<br />
l’hanno accompagnato, in modo tale che il termine stesso <strong>di</strong> ideologia, vittima del<br />
concetto che esprime, resta ideologicamente marcato, sia che lo si enfatizzi, sia che<br />
lo si impieghi secondo un’accezione spregiativa. Infine, nel marxismo vulgato che<br />
riunisce correnti sociologiche influenti, la parola ideologia rinvia a rappresentazioni<br />
collettive legate a una categoria sociale, ma senza rapporti determinati con i testi e<br />
i <strong>di</strong>scorsi. Poco importa qui che la doxa venga ridotta eufemisticamente a “senso<br />
comune” o stigmatizzata in quanto “ideologia”: si ammetterà in ogni caso che il<br />
suo stu<strong>di</strong>o ha contribuito ben poco a precisare il problema delle ideologie.<br />
Le ambiguità del concetto <strong>di</strong> ideologia non autorizzano tuttavia a confondere<br />
sociologia e linguistica, né d’altro canto a trovare nel sociale le “con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong><br />
produzione” del linguistico, visto che quest’ultimo ne è parte integrante. La<br />
sud<strong>di</strong>visione <strong>di</strong>sciplinare può così configurarsi:<br />
Discipline<br />
Sociologia<br />
Linguistica<br />
Campo<br />
d’obiettività<br />
Formazione<br />
sociale<br />
Corpus <strong>di</strong><br />
riferimento<br />
19<br />
Sistemi Processi<br />
Ideologie Pratiche<br />
Doxa Discorso, generi<br />
Ciò ci pare la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> una inter<strong>di</strong>sciplinarità feconda.<br />
1.3. Prospettive <strong>di</strong> ricerca<br />
Due correnti della ricerca contemporanea trattano il problema delle norme<br />
semantiche con<strong>di</strong>vise:<br />
1 Eléments d’idéologie, Paris, Courciez, 1805-1817, 3 vol.
a) la topica cerca <strong>di</strong> identificare i luoghi comuni 2 che sottendono le argomentazioni.<br />
Sviluppata dalle correnti neoretoriche (Perelman) o pragmatiche<br />
(Ducrot), la topica prolunga la riflessione <strong>di</strong> Aristotele e della tra<strong>di</strong>zione<br />
retorica concernente gli assiomi con<strong>di</strong>visi che possono alimentare le convinzioni<br />
<strong>di</strong>ffuse.<br />
b) Se la topica si occupa <strong>di</strong> forme proposizionali e formula i topoï come proposizioni,<br />
la lessicologia si attiene a un livello d’analisi inferiore. È noto come<br />
la lessicologia, fin dal 1830, venisse chiamata ideologia 3 . All’inizio <strong>degli</strong><br />
anni Cinquanta, Matoré e Greimas, nel loro stu<strong>di</strong>o La méthode en lexicologie,<br />
ricordavano che un vocabolario esprime “uno stato <strong>di</strong> civilizzazione”.<br />
Questa considerazione trae le sue origini da un’altra tra<strong>di</strong>zione rispetto a<br />
quella della retorica aristotelica, vale a <strong>di</strong>re la linguistica <strong>di</strong> Humboldt;<br />
quest’ultimo, infatti, non aveva considerato il linguaggio semplicemente<br />
come un mezzo d’espressione, bensì come il luogo <strong>di</strong> strutturazione delle<br />
rappresentazioni collettive legate a una società e a una cultura.<br />
La nozione <strong>di</strong> doxa deve essere ridefinita in termini linguistici: dato che nella<br />
prospettiva <strong>di</strong>fferenziale si costituisce attraverso opposizioni semantiche, essa<br />
non si trova “nelle parole”, ma “tra le parole”, vale a <strong>di</strong>re nella loro relazione.<br />
Visto che tali relazioni non sono statiche ma <strong>di</strong>namiche, è necessario caratterizzare<br />
le strutture doxastiche (endoxastiche e paradoxastiche): mentre tra<br />
lessie si pongono delle soglie valutative, i percorsi generativi e interpretativi<br />
si <strong>di</strong>spiegano tra le zone che esse delimitano 4 .<br />
Da parte nostra privilegiamo qui il lessico, anche se la doxa non si riduce<br />
affatto a relazioni lessicali, così come non afferisce soltanto alla componente<br />
tematica dei testi; per esempio, nel romanzo francese del XVIII secolo, quando<br />
una donna monta a cavallo non tarda a cadervi. Questo esile motivo narrativo<br />
<strong>di</strong>pende dalla <strong>di</strong>alettica, ma il suo valore doxastico è evidente.<br />
In definitiva, lo spazio delle norme semantiche che costituisce la doxa può essere<br />
descritto in ciascuna delle componenti semantiche (cfr. Rastier 1989, I): nella<br />
tematica, la doxa istituisce una topica (fatta <strong>di</strong> temi ricorrenti); nella <strong>di</strong>alettica, dei<br />
motivi (funzioni <strong>di</strong>alettiche ricorrenti); nella <strong>di</strong>alogica, delle posture (in particolare,<br />
quelle <strong>degli</strong> attori dell’enunciazione rappresentata); nella tattica, delle <strong>di</strong>sposizioni<br />
(ad es. nel saggio scientifico, la prima introduzione è una introduzione).<br />
2 Possiamo <strong>di</strong>stinguere tre accezioni del termine topos. La più tra<strong>di</strong>zionale, dopo la retorica <strong>di</strong> Aristotele,<br />
è una forma argomentativa stereotipica. Tale accezione è stata ripresa, con un’estensione più ristretta,<br />
da certi pragmatici. La seconda accezione, da noi utilizzata (Rastier 1987), è un assioma normativo<br />
socializzato (come per esempio “I giovani fanno gli spacconi”) che permette una specifica afferenza.<br />
La terza accezione designa una struttura tematica stereotipica e familiare in storia della letteratura: in<br />
questo senso, deve intendersi il topos del locus amoenus.<br />
3 Certo, la parola ideologia evocherebbe invece Tracy (e non subito Marx), visto che egli aveva sviluppato<br />
la riflessione <strong>di</strong> autori che Bréal chiamava “i nostri padri della scuola <strong>di</strong> Con<strong>di</strong>llac” (Bréal 1897, p. 255<br />
della versione francese).<br />
4 Cfr. infra, § 2., nonché Rastier (1996 e 2000).<br />
20
Detto ciò, si può comunque considerare che la concretizzazione più semplice<br />
<strong>di</strong> una doxa (o sistema assiologico) risiede nel lessico: la doxa impone, in effetti,<br />
la costituzione <strong>di</strong> classi lessicali minimali (tassemi), e <strong>di</strong> qui poi la definizione<br />
<strong>di</strong>fferenziale dei sememi e dei semi al loro interno. Ma è bene precisare ulteriormente<br />
il quadro linguistico a partire da cui il nostro stu<strong>di</strong>o prende le mosse.<br />
1.3.1. Concezioni del lessico<br />
Il lessico non si limita ai lessemi e comprende anche i grammemi, anche se<br />
la loro <strong>di</strong>acronia non afferisce alla medesima scala temporale. Inoltre, ogni<br />
testo appartiene a un genere, e ogni genere <strong>di</strong>pende da un <strong>di</strong>scorso. Si è potuto<br />
mostrare l’incidenza dei generi e dei <strong>di</strong>scorsi sull’insieme delle categorie<br />
morfosintattiche, così come sulle variabili quale la lunghezza delle parole e<br />
delle frasi (cfr. Malrieu e Rastier, 2001). Le variazioni <strong>di</strong> ogni or<strong>di</strong>ne indotte<br />
dai generi e dai <strong>di</strong>scorsi suscitano alcuni interrogativi:<br />
a) esiste un vero e proprio lessico della lingua? La lingua esercita delle costrizioni<br />
generali (trans-generiche e trans-<strong>di</strong>scorsive) sul piano dell’espressione (sillabe,<br />
sintagmi), ma che cosa <strong>di</strong>re invece per ciò che attiene al piano del contenuto?<br />
b) i lessemi sono in<strong>di</strong>cizzati dai domini semantici che corrispondono ai <strong>di</strong>scorsi<br />
e, in ultima analisi, alle pratiche sociali. I lessici sono allora determinati<br />
dai tipi <strong>di</strong> pratica e dai <strong>di</strong>scorsi che vi afferiscono?<br />
Per chiarire tali questioni, è bene <strong>di</strong>stinguere due lessici 5 :<br />
(i) il lessico dei morfemi che appartiene alla lingua;<br />
(ii) il lessico delle lessie, quale combinazione stabilizzata <strong>di</strong> morfemi, che appartiene<br />
invece all’or<strong>di</strong>ne del <strong>di</strong>scorso o, se si vuole, della parole saussuriana;<br />
per tale ragione noi riteniamo che il lessico delle lessie non appartenga alla<br />
lingua. In effetti, conoscendo le regole <strong>di</strong> combinazione dei morfemi, posti<br />
alla base della sintassi interna della “parola”, ogni locutore può poi comporre e<br />
interpretare neologismi, vale a <strong>di</strong>re piccole combinazioni <strong>di</strong>scorsive ine<strong>di</strong>te.<br />
1.3.2. Specializzazione dei lessici<br />
L’unità del lessico sembra un artefatto della lessicografia. Inoltre, se non esiste un<br />
solo lessico, non esisterà nemmeno una doxa (cfr. infra, § 3.). La maggior porzione<br />
del lessico, quella dei lessemi, resta in effetti specializzata secondo i <strong>di</strong>versi<br />
domini; oppure, nel caso delle polisemie, assume, secondo i domini, accezioni<br />
specifiche. Nulla ci permette allora <strong>di</strong> postulare l’unità <strong>di</strong> tali lessici specializzati.<br />
Solo alcuni grammemi possono essere riscontrati in tutti i <strong>di</strong>scorsi.<br />
1.3.3. Tematica e topica<br />
Nell’ambito del lessico, la topica e la tematica si traducono attraverso delle<br />
forme <strong>di</strong> co-occorrenza ristretta: per esempio, in un corpus composto <strong>di</strong> romanzi<br />
della banca dati Frantext (1800-2000) e <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci annate <strong>di</strong> Monde, l’aggettivo<br />
5 Cfr. Rastier (1994, III, 1.3).<br />
21
più frequentemente associato a uomo è “notevole”, mentre l’epiteto preferito<br />
per donna è “nuda” 6 . Troviamo qui le opposizioni tra lo spirito e la carne, le<br />
qualità morali e quelle fisiche, ecc.<br />
2. ESEMPLIFICAZIONI<br />
2.1. Fenomeni <strong>di</strong> canonicità<br />
L’incidenza delle norme della doxa si manifesta molto semplicemente attraverso<br />
fenomeni <strong>di</strong> canonicità. Si può <strong>di</strong>re che il sistema numerale del francese<br />
appartiene al sistema della lingua, ma, <strong>di</strong> fatto, le cifre canoniche, come <strong>di</strong>x<br />
o trente-six, sono molto più frequenti che neuf o trente-sept. Ciò <strong>di</strong>pende da<br />
norme che restano da descrivere. Per esempio, nel corpus relativo ai romanzi<br />
scritti tra il 1830 e il 1970, reperibile nella banca dati Frantext e composto<br />
<strong>di</strong> 350 opere, abbiamo potuto rilevare la presenza <strong>di</strong> 4488 menzioni dell’età<br />
anagrafica. In particolare, se ne contano 2650 relative ai personaggi maschili<br />
(59%), 1838 (41%) a quelli femminili (cfr. Deza, 1999). Alcune età anagrafiche<br />
non compaiono affatto; 41 anni per le donne (mentre quarant’anni è un’età<br />
canonica) 7 , 49 per gli uomini (al contrario 50 è un’età canonica), e ancora 71<br />
anni o 92 anni. Altre età sono invece sovrarappresentate, per esempio, 15, 18<br />
e 20 per entrambi i sessi; 16 anni per i personaggi femminili (Deza, 1999, p.<br />
235). Nel romanzo francese, si ha quasi sempre vent’anni... Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> un’apparente<br />
banalità, tali risultati trasformano le intuizioni in fatti stabiliti <strong>di</strong> cui<br />
una semantica della doxa deve provvedere un’interpretazione.<br />
2.2. Antonimie<br />
Dato che la doxa è una questione <strong>di</strong> valorizzazioni e che i valori si oppongono<br />
in primo luogo a coppie, stu<strong>di</strong>amo qualche antonimia.<br />
2.2.1. Amore e denaro<br />
Dopo il Romanticismo, il romanzo ha massivamente opposto l’amore e il denaro.<br />
Nei romanzi <strong>di</strong> Balzac, presi nel loro insieme, troviamo una correlazione<br />
negativa <strong>di</strong> -0,42 tra i due termini (o più esattamente tra le due forme: amore<br />
e denaro). Vale a <strong>di</strong>re, più un romanzo parla d’amore (ad es. Le lys dans la<br />
vallée, la Duchesse de Langeais e le Mémoires de deux jeunes mariées) meno<br />
6 Dati comunicati da Gaston Gross. Ciò non sorprende nessuno, ma immaginiamo un istante l’angoscia<br />
<strong>di</strong> noi moralisti in un mondo popolato <strong>di</strong> uomini nu<strong>di</strong> e <strong>di</strong> donne notevoli.<br />
7 Troviamo qui – in termini <strong>di</strong> percezione semantica – un peraltro frequente fenomeno <strong>di</strong> inibizione<br />
laterale: le donne <strong>di</strong> 41 anni sono “assorbite” dalle donne <strong>di</strong> quaranta, gli uomini <strong>di</strong> 49 da quelli <strong>di</strong><br />
cinquanta.<br />
8 I contrasti tra i termini effettivi sono tali che sono trascurabili le polisemie. Ben inteso, il francese argent<br />
(denaro) è polisemico, come <strong>di</strong>mostrano i contesti in cui esso assume l’accezione <strong>di</strong> colore (argenteo),<br />
metallo (argento), valuta. Nel romanzo l’ultima accezione domina a <strong>di</strong>fferenza della poesia.<br />
22
parla <strong>di</strong> denaro 8 . Se cerchiamo ora le stesse correlazioni nell’opera <strong>di</strong> Rimbaud,<br />
otteniamo un’enorme opposizione tra le Poesie della prima giovinezza – dove<br />
l’amore è relativamente molto frequente (coefficiente 8,7) e il denaro raro (-<br />
1,7) - e le ultime lettere - dove la correlazione è inversa (-10,9 per amore e +5,4<br />
per il denaro), dal momento che i trafficanti d’armi soffrono, come sappiamo,<br />
<strong>di</strong> un deficit d’amore.<br />
Tuttavia, tale opposizione non è specifica del <strong>di</strong>scorso letterario. Nel <strong>di</strong>scorso<br />
religioso, per esempio, troviamo in Montalembert 9 : “Ma né con regali né con<br />
denaro la giovane principessa poteva sod<strong>di</strong>sfare il suo amore per i poveri <strong>di</strong><br />
Cristo”; o ancora, presso Monod: “un’ora in cui il bagliore <strong>di</strong> trenta monete<br />
d’argento nascose agli occhi dell’apostolo quello delle parole, delle opere, della<br />
santità e dell’amore <strong>di</strong> Gesù”.<br />
Nel <strong>di</strong>scorso storico ritroviamo la stessa opposizione, per esempio in R. de<br />
Vertot: “il piccolo popolo riprese coraggio, e sebbene non vi fossero a Roma né<br />
uomini, né armi, né denaro, si trovò tutto ciò in questo amore per la repubblica che<br />
costituiva il vero carattere <strong>di</strong> un romano”. Oppure, la possiamo reperire in filosofia,<br />
per esempio presso l’abate <strong>di</strong> Mably: “La sete <strong>di</strong> denaro che ci <strong>di</strong>vora ha soffocato<br />
l’amore della patria”.<br />
Questa opposizione resta vivace nel <strong>di</strong>scorso politico contemporaneo. Pren<strong>di</strong>amo<br />
per esempio per corpus i <strong>di</strong>scorsi dei primi segretari al congresso del Partito<br />
Comunista Francese. All’VIII congresso, in Thorez, l’amore (+3,9) ha la meglio<br />
sul denaro (+0,2), mentre durante il XXI congresso, che preluse all’Unione della<br />
Sinistra, il denaro (+4,8) ha la meglio sull’amore (-4). Ciò significherebbe allora che<br />
all’epoca del Fronte Popolare era prevalso il rivoluzionarismo appassionato, mentre<br />
il XXI congresso è stato l’Harrar 10 del Partito Comunista Francese? Ciò sarebbe una<br />
caricatura. Ma del resto, in tale ambito non si tratterebbe forse dello stesso amore<br />
reperibile nei romanzi, se il denaro non restasse lo stesso dappertutto.<br />
L’antinomia tra amore e denaro nel <strong>di</strong>scorso comunista del Primo Dopoguerra<br />
traduce forse ciò che Stalin definiva come il romanticismo rivoluzionario; ma non<br />
pretenderemo che esso derivi <strong>di</strong>rettamente dal romanticismo letterario. Si può parlare<br />
qui <strong>di</strong> una opposizione trans-<strong>di</strong>scorsiva. Certo, nei <strong>di</strong>fferenti <strong>di</strong>scorsi le forme amore<br />
e denaro assumono accezioni <strong>di</strong>verse e manifestano non a caso sememi ineguali.<br />
I loro tratti comuni si situano dunque a un livello inferiore, microsemantico, con<br />
una opposizione quale /espansione/vs/restrizione/. La loro ubiquità ne fa delle categorie<br />
pregnanti e storicamente stabili. Già nel Banchetto <strong>di</strong> Platone (§ 203), Eros<br />
è il figlio <strong>di</strong> Penia (la ra<strong>di</strong>ce è la stessa <strong>di</strong> penuria); e ancora ai nostri giorni, fino<br />
ad Amélie Poulain, è d’uso immaginare che i giovincelli vivano d’amore e d’aria<br />
fresca - senza nemmeno ricorrere alle carte <strong>di</strong> cre<strong>di</strong>to.<br />
9 I riferimenti sono quelli della bibliografia della banca Frantext.<br />
10 Ndt. L’autore si riferisce a Rimbaud e alla sua partenza per Harrar (in Etiopia) spinto da ragioni “commerciali”;<br />
non fu una scelta felice dato che dopo <strong>di</strong>eci anni comunque <strong>di</strong>fficili Rimbaud si ammalò e<br />
riuscì solo a tornare in patria per morirvi poco dopo trentasettenne.<br />
23
2.2.2. Mariti e amanti<br />
Nelle Confessioni (Libro V, p. 72), Rousseau formula questa riflessione illuminante<br />
sul “possesso” <strong>di</strong> una donna: “Non posso aggiungere: Auctius atque Di<br />
melius fecere; ma non importa, non mi serviva <strong>di</strong> più; non mi serviva nemmeno<br />
la proprietà: era già sufficiente per me il go<strong>di</strong>mento; ed è da tempo che <strong>di</strong>co e<br />
sento che il proprietario e il possessore sono spesso due persone molto <strong>di</strong>verse,<br />
anche lasciando da parte i mariti e gli amanti”. Ed ecco che Proudhon, in Che<br />
cos’è la proprietà?, un saggio politico che appartiene a un altro <strong>di</strong>scorso e a<br />
un altro genere, scrive: “Se oso servirmi <strong>di</strong> questa comparazione, un amante è<br />
un possessore, un marito è un proprietario” (1840, p. 157) 11 .<br />
Ecco allora che si è così ottenuta una proporzione a quattro termini suscettibile<br />
<strong>di</strong> rivelarsi piuttosto generale. Perseguendo la ricerca <strong>di</strong> omologazioni<br />
attestate nei <strong>di</strong>versi generi e <strong>di</strong>scorsi (politico, filosofico, letterario, ecc.) 12 ,<br />
siamo pervenuti a una tavola <strong>di</strong> opposizioni, notando semplicemente le opposizioni<br />
associate; per esempio in Les mémoires de deux jeunes mariées, Louise<br />
de Chaulieu scrive a Renée de Maucombe: “L’uomo che ci parla è l’amante,<br />
l’uomo che non ci parla più è il marito” (p. 230).<br />
Di debole peso statistico, tali risultati non devono nulla alla lessicometria 13 e<br />
del resto, per quanto ci riguarda, ci atteniamo all’analisi qualitativa. Ciò che<br />
ci sembra caratteristico della doxa è la correlazione tra isotopie: tra le <strong>di</strong>verse<br />
isotopie – economica (proprietario vs possessore, soldo vs gemma preziosa,<br />
ecc.), geografica (provincia vs Parigi), culinaria (mensa vs ristorante), ecc.<br />
- possono essere stabilite molteplici corrispondenze: il marito umilia il corpo,<br />
l’amante eleva l’anima, ecc. Queste omologazioni sembrano caratteristiche del<br />
mito - da cui deriva senza dubbio il <strong>di</strong>scorso letterario. Per contro, il <strong>di</strong>scorso<br />
scientifico non ammette la pluralità <strong>di</strong> isotopie, dal momento che costituisce<br />
un campo <strong>di</strong> obiettività in proprio dominio semantico. Esso ammette ancor <strong>di</strong><br />
11 Tutto questo è certamente borghese, e ci fu un tempo, sotto Enrico II, all’epoca in cui si svolge La<br />
Princesse de Clèves, in cui i mariti potevano essere <strong>degli</strong> amanti. Madame de La Fayette scriveva a<br />
proposito <strong>di</strong> M. de Clèves: “per essere suo marito, non smette <strong>di</strong> essere il suo amante, dal momento<br />
che aveva sempre da desiderare qualcosa al <strong>di</strong> là del possesso” (1678, p. 33). Non solamente la<br />
Principessa aveva un amante, ma questi era suo marito, cosicché la molla principale del romanzesco<br />
posteriore è mandata in pezzi, assieme a tutte le letture romantiche del capolavoro <strong>di</strong> Madame de La<br />
Fayette.<br />
12 Abbiamo semplicemente selezionato, nella banca Frantext, le frasi contenenti le forme amante e marito.<br />
13 I trattamenti linguistici <strong>di</strong> corpora si appoggiano frequentemente sulla lessicometria. Nata negli anni<br />
Cinquanta, la lessicometria deriva dalle teorie dell’informazione - o almeno la teoria dell’informazione le<br />
permette <strong>di</strong> articolare il qualitativo e il quantitativo, attraverso l’ipotesi che un evento raro o all’opposto<br />
frequente è più pertinente <strong>di</strong> un altro. Per via della riduzione informatica <strong>di</strong> testi a insieme <strong>di</strong> catene<br />
<strong>di</strong> caratteri, la lessicometria sconta alcuni limiti <strong>di</strong> fatto, che tuttavia non credo insuperabili: (i) essa si<br />
limita alle parole, sebbene i testi, ancor più delle frasi, non sono affatto composti <strong>di</strong> parole. Sarebbe<br />
importante, per contro, poter lavorare su testi contrassegnati in cui sono delimitate unità superiori quali<br />
le configurazioni testuali (<strong>di</strong>aloghi, descrizioni, ecc.); (ii) essa si limita in generale al ventaglio delle<br />
frequenze me<strong>di</strong>e, visto che privilegia i lessemi, e i grammemi occupano in generale le frequenze più<br />
alte. Ma per ragioni <strong>di</strong> peso statistico, essa non prende in considerazione i lessemi a bassa frequenza.<br />
Ora, le parole <strong>di</strong> frequenza 1 costituiscono in generale la metà delle occorrenze <strong>di</strong> un testo.<br />
24
meno le correlazioni inter-isotopiche ed è per tale ragione che si <strong>di</strong>scute tanto<br />
dello statuto della metafora in seno al <strong>di</strong>scorso scientifico (si pensi all’affaire<br />
Sokal). La correlazione tra domini semantici che quest’ultima stabilisce non<br />
sarebbe che rivelatoria <strong>di</strong> una “deriva” mitificante.<br />
2.3. La struttura <strong>degli</strong> universi semantici<br />
Abbiamo proposto una prima tipologia delle strutture <strong>degli</strong> universi semantici,<br />
in quadri, alberi e reti (Rastier 2003a, pp. 35-36).<br />
Fig. 1. Tipologia delle forme globali <strong>degli</strong> universi semantici.<br />
Alla struttura a rete <strong>degli</strong> universi scientifici e tecnici (che si presentano<br />
come sistemi <strong>di</strong> concetti interconnessi) si oppongono le strutture tabulari <strong>degli</strong><br />
universi mitici (religioso, letterario o persino politico), i quali congiungono,<br />
attraverso serie <strong>di</strong> omologazioni, delle opposizioni articolate su <strong>di</strong>fferenti<br />
isotopie, illustrando ciò che Lévi-Strauss chiamava la struttura a sfoglia del<br />
mito.<br />
DISCORSO LETTERARIO FILOSOFICO SCIENTIFICO<br />
Tematica (A)<br />
Isotopia(e)<br />
generica(che)<br />
Tematica B<br />
Struttura<br />
multiple limitate unica<br />
tabulare arborescente a rete<br />
Dialettica agonisti 14 attori e agonisti attori<br />
Tavola 2. Qualche criterio <strong>di</strong> caratterizzazione <strong>degli</strong> universi semantici secondo i<br />
<strong>di</strong>scorsi.<br />
14 Un agonista è un tipo costitutivo <strong>di</strong> una classe d’attori. Nei testi mitici quanto meno, è frequente che<br />
attori <strong>di</strong>pendenti da un unico agonista soggiacente siano <strong>di</strong>stribuiti e ascritti a isotopie generiche <strong>di</strong>fferenti,<br />
ma sono comunque suscettibili <strong>di</strong> relazioni metaforiche tra <strong>di</strong> loro.<br />
25
3. DIREZIONI DI RICERCA<br />
Le esemplificazioni appena fornite utilizzano in modo opportunistico dei meto<strong>di</strong><br />
relativamente rozzi; esse intersecano risultati lessicometrici con attestazioni <strong>di</strong><br />
occorrenze senza peso statistico. Resta il fatto che i meto<strong>di</strong> della “linguistica del<br />
corpus” possono trasformare il problema delle ideologie in questione empirica.<br />
3.1. Doxa e società.<br />
Le nostre riflessioni si sono basate su corpora letterari, nella maggior parte dei<br />
casi costituiti da testi dello stesso genere (romanzo). Se la letteratura, come ogni<br />
<strong>di</strong>scorso “edonico”, mette in opera delle norme semantiche della doxa, queste<br />
non le sono affatto estrinseche, ma le appartengono. Come ricordava Saussure,<br />
il linguistico è proprio del sociale; in questo senso, la doxa, in quanto formazione<br />
semantica e più generalmente <strong>semio</strong>tica, non gode d’alcuna autonomia<br />
rispetto alla sua espressione: essa non agisce su un’“altra scena”, al <strong>di</strong> qua o al<br />
<strong>di</strong> là del linguaggio e <strong>degli</strong> altri sistemi segnici.<br />
3.2. Istanze della doxa.<br />
Nella prospettiva <strong>di</strong> una semantica storica e comparata, il problema <strong>di</strong>viene quello<br />
<strong>di</strong> una descrizione dello spazio delle norme - ed estende la sua portata dalle norme<br />
linguistiche alle norme <strong>semio</strong>tiche. Non vi è alcun testo scritto solamente “in una<br />
lingua”: è scritto “in un genere”, tenendo conto delle costrizioni <strong>di</strong> una lingua. Del<br />
resto, l’analogia delle pratiche, e quella dei generi che ne <strong>di</strong>scende, permettono<br />
l’intercomprensione e favoriscono la traduzione; <strong>di</strong> qui, la necessità <strong>di</strong> tener conto<br />
dei generi in tutti gli stu<strong>di</strong> testuali <strong>di</strong> linguistica contrastiva e, spingendosi ancor più<br />
là, altrettanta attenzione dovrà essere riservata ai campi generici e ai <strong>di</strong>scorsi.<br />
Possiamo allora proporre la seguente rappresentazione:<br />
Tavola 3. Spazio <strong>di</strong> una linguistica delle norme.<br />
26
Le due linguistiche, quella della langue e quella della parole, che Saussure cercava<br />
esplicitamente <strong>di</strong> rapportare, trovano qui articolazione attraverso lo spazio delle<br />
norme. All’interno <strong>di</strong> questo spazio, il livello dei generi è certo quello che strategicamente<br />
permette <strong>di</strong> passare dalla generalità della langue alla particolarità dei<br />
testi, visto che le relazioni semantiche tra testi si stabiliscono preferenzialmente<br />
tra testi dello stesso genere. Tra spazio normativo delle regole e il <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne apparente<br />
<strong>degli</strong> usi, tra l’universale della langue e la singolarità del suo impiego, lo<br />
spazio delle norme si estende dalla generalità della doxa alla particolarità <strong>degli</strong><br />
stili (in senso i<strong>di</strong>olettale), i quali non <strong>di</strong>sdegnano affatto i paradossi.<br />
Una questione cruciale verte allora sul carattere transgenerico e trans<strong>di</strong>scorsivo<br />
della doxa: possiamo riconoscere che le norme semantiche proprie <strong>di</strong> un genere e<br />
<strong>di</strong> un <strong>di</strong>scorso costituiscono delle doxa regionali (come il romanzesco nell’Ottocento).<br />
Se tali doxa regionali racchiudono verosimilmente <strong>degli</strong> elementi comuni,<br />
sarebbe davvero tendenzioso e scorretto attribuirli alla lingua; e se comunque<br />
si opera tale attribuzione surrettizia, ciò che ne sortisce è l’idea che la lingua<br />
imporrebbe una visione del mondo, tesi oltremodo forte che - come sappiamo<br />
- è sempre stata la preferita da parte delle teorie nazionaliste più pericolose 15 . In<br />
definitiva, possiamo ottenere la seguente gerarchia:<br />
Tavola 4. Livelli della doxa.<br />
È senza dubbio la doxa trans<strong>di</strong>scorsiva quella che meglio corrisponderebbe a<br />
ciò che solitamente viene informalmente chiamato ideologia. Purtuttavia, non<br />
è affatto certo che una stessa doxa, persino ridotta a una manciata <strong>di</strong> “pregiu<strong>di</strong>zi”<br />
o <strong>di</strong> topoï, possa essere ritrovata in tutti i <strong>di</strong>scorsi. Per venire al dunque, gli<br />
15 Ci si potrebbe richiamare, a tal proposito, all’ipotesi <strong>di</strong> Sapir-Whorf, sotto la quale si confondono determinismo<br />
e relativismo. Se il determinismo linguistico, come tutti i determinismi, è riduzionista, al<br />
contrario il relativismo sottende necessariamente l’approccio comparativo proprio delle scienze della<br />
cultura, dal momento che si oppone all’universalismo <strong>di</strong> principio che ha sempre impastoiato, fino al<br />
cognitivismo incluso, la riflessione sui rapporti tra linguaggio e pensiero.<br />
27
universi semantici sono sì relativi a tipi <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorsi, campi generici e generi, ma<br />
non alle lingue, il che invalida l’idea <strong>di</strong> “mentalità” legata alla lingua, <strong>di</strong>venuta<br />
surrettiziamente “totalità chiusa” e “riserva <strong>di</strong> rappresentazioni”. Tuttavia, i <strong>di</strong>scorsi<br />
(filosofico, scientifico, letterario, religioso, ecc.) e i campi generici, anche<br />
se sono delimitati e <strong>di</strong>fferenziati in modo ineguale da lingua a lingua, conservano<br />
non meno una vali<strong>di</strong>tà translinguistica. Per esempio, fin dal Settecento, la<br />
nozione <strong>di</strong> romanzo francese non ha più quasi senso, dato che oramai è su scala<br />
europea che è necessario cogliere l’evoluzione <strong>di</strong> questo genere; la stessa cosa<br />
va detta a maggior ragione per i domini scientifici come la fisica o la geografia.<br />
Si ritrovano così in lingue <strong>di</strong>verse pratiche sociali e <strong>di</strong>scorsi comparabili, ai quali<br />
corrispondono universi semantici analoghi ma non identici.<br />
3.3. Valutazioni e paradossi.<br />
Malgrado il carattere normativo delle rappresentazioni del lessico provenute<br />
dalla lessicografia, se non ad<strong>di</strong>rittura dalla lessicologia, resta dubbio che il<br />
lessico faccia sistema nel senso forte del termine. Il lessico riflette localmente<br />
<strong>di</strong>verse forme <strong>di</strong> doxa, legate a generi o <strong>di</strong>scorsi <strong>di</strong>fferenti se non incompatibili.<br />
Per questa ragione ogni lessico esteso è eterodosso. Doxa e paradossi restano<br />
naturalmente legati, dal momento che ogni paradosso implica forzatamente una<br />
doxa: al fine <strong>di</strong> garantire senso, il paradosso definisce una norma in<strong>di</strong>viduale<br />
che si oppone a una doxa attestata o supposta.<br />
3.4. Doxa e genesi del lessico.<br />
Esaminiamo come le cristallizzazioni endoxastiche presiedono alla costituzione<br />
delle lessie. Anche se i morfemi sono unità della langue, ogni co-occorrenza <strong>di</strong><br />
morfemi è un fenomeno <strong>di</strong> parole nel senso saussuriano del termine: tutti i fenomeni<br />
<strong>di</strong> co-occorrenza ristretta, dal sintagma stereotipico alla lessia integrata,<br />
<strong>di</strong>pendono così da norme <strong>di</strong>scorsive se non testuali. In altri termini, la lessicalizzazione<br />
delle unità semantiche <strong>di</strong>pende non dalla lingua, ma da norme <strong>di</strong> una<br />
doxa costituita nei (e attraverso i) testi e nelle altre performanze <strong>semio</strong>tiche. Per<br />
esempio, nel caso dell’espressione francese “l’œuvre de chair” (“l’opera della<br />
carne”) si può scorgere la pregnanza <strong>di</strong> una formula relativa alla connessione<br />
semantica tra “lavoro” e “adulterio”. Inoltre, la presenza del significante œuvre<br />
trascende la <strong>di</strong>stinzione tra “opera carnale” e “opera artistica”, ecc 16 .<br />
16 Paul Bourget offre attestazione <strong>di</strong> ciò per ben tre volte: “Ce venin de l’adultère, dont il avait infecté<br />
cette créature, accomplirait son œuvre de destruction” (Un crime d’amour, 1886, p. 271; cfr. anche p.<br />
286; e Cruelle énigme, 1886, p. 108). Il legame stabilito tra l’adulterio e l’opera (o quantomeno tra le<br />
parole francesi adultère e œuvre) attiene a uno stereotipo verbale proveniente dalla tra<strong>di</strong>zione autorizzata<br />
del Decalogo: “l’opera della carne non desidererà che un matrimonio soltanto” (passo citato, tra<br />
gli altri, da Maupassant, in “La confession de Théodule Sabot”, Contes et nouvelles, 1883, p. 43; e da<br />
Roger-Victor Pilhes, La rhubarbe, 1965, p. 225). Si trovano anche svariate menzioni oblique, come<br />
quella <strong>di</strong> Joséphin Péladan (Le vice suprême, 1884, p. 234): “quelli che desiderano realizzare l’œuvre<br />
de chair al <strong>di</strong> fuori del matrimonio, quantunque non ne seguano <strong>degli</strong> effetti, peccano mortalmente”<br />
(la bibliografia <strong>di</strong> tali citazioni è quella della banca testuale Frantext).<br />
28
Con la laicizzazione progressiva della società, l’œuvre de chair si è identificata<br />
con l’adulterio, dal momento che il termine carne resta associata al<br />
peccato 17 . Comunque sia, l’espressione œuvre de chair permette <strong>di</strong> porre il<br />
problema del carattere formulaico della doxa. Le norme semantiche si concretizzano<br />
in formule <strong>semio</strong>tiche: esse non sono separabili dalle loro espressioni<br />
privilegiate, anche se ci si compiace <strong>di</strong> innovarle trovando nuove formulazioni.<br />
Le formule pregnanti sono <strong>di</strong> fatto dei passaggi <strong>di</strong> miti <strong>di</strong>menticati o almeno<br />
ritualizzati. Se anche ci poniamo al <strong>di</strong> qua della taglia <strong>di</strong> espressioni formulaiche<br />
come œuvre de chair, possiamo constatare come accada la stessa cosa per<br />
lessicalizzazioni semplici. Ritorniamo per esempio all’opposizione tra amore<br />
e denaro: non solamente queste due espressioni lessicalizzano delle accezioni<br />
<strong>di</strong>verse (si ammetterà senza fatica che l’amore <strong>di</strong>vino e l’amore profano, l’amor<br />
<strong>di</strong> patria e l’amore dei propri figli sono dei contenuti <strong>di</strong>fferenti), ma lo fanno<br />
sulla base <strong>di</strong> isotopie <strong>di</strong>verse, religiosa, erotica, politica, che si incontrano in<br />
svariati generi e <strong>di</strong>scorsi.<br />
Questo caso particolare definisce la pregnanza <strong>di</strong> un significante; ora, tale<br />
pregnanza è una caratteristica dei rituali. È noto che la legge religiosa, come<br />
del resto la legge civile, esige formule invariabili; per esempio, prima della<br />
scrittura, almeno per ciò che attiene alla Grecia arcaica, le leggi erano non<br />
solamente recitate, ma cantate e si munivano <strong>di</strong> una forma metrica in modo da<br />
favorire la memorizzazione. Andava e va nello stesso modo per la trasmissione<br />
del corpus ve<strong>di</strong>co, così come per la memorizzazione del Corano, che viene appreso<br />
per ripetizione. L’efficacia del rituale <strong>di</strong>pende dall’uso <strong>di</strong> formule adatte<br />
sia a livello <strong>di</strong> pronuncia che <strong>di</strong> cantillazione canonica 18 .<br />
Le formule rituali arcaiche hanno trovato trasposizione nel mito, quin<strong>di</strong><br />
nell’epopea: molte formule omeriche riprendono certamente titoli <strong>di</strong>vini e ne<br />
traspongono il modo compositivo agli eroi (Achille dai pie<strong>di</strong> leggeri). Gli attributi<br />
caratteristici dei personaggi dei racconti fiabeschi (Cappuccetto Rosso)<br />
o delle leggende auree (la graticola <strong>di</strong> San Lorenzo, ecc.) partecipano della<br />
stessa matrice formulaica. Ora, è notorio come il lessico si formi continuamente<br />
attraverso un processo <strong>di</strong> cristallizzazione <strong>di</strong> sintagmi, che <strong>di</strong>vengono delle<br />
lessie e quin<strong>di</strong> dei morfemi. Si può rapportare questa cristallizzazione continua,<br />
e ovunque attestata, alla formazione e alla concretizzazione della doxa.<br />
Non si tratta semplicemente <strong>di</strong> lessicalizzazione <strong>di</strong> contenuti preesistenti, ma<br />
<strong>di</strong> stabilizzazione <strong>di</strong> strutture semiche per via <strong>di</strong> un legame privilegiato, se non<br />
esclusivo, con un’espressione.<br />
17 L’espressione i peccati della carne designava l’adulterio. Il <strong>di</strong>ritto canonico non condanna in alcun<br />
modo l’œuvre de chair, ma mette in guar<strong>di</strong>a contro la fornicazione nel matrimonio – visto che l’œuvre<br />
de chair non assume come obiettivo la procreazione. Tuttavia, tali <strong>di</strong>stinzioni non sono evidentemente<br />
più comprese dai Moderni.<br />
18 Anche la teoria moderna dei performativi riprende la teoria scolastica dei sacramenti, rendendola non<br />
poco più ispida e trasponendola nel dominio delle istituzioni e <strong>degli</strong> usi sociali. Per la felicità <strong>di</strong> un<br />
performativo, è necessario in effetti che la persona abilitata pronunci una formula “consacrata”.<br />
29
Mentre il genere definisce la <strong>semio</strong>si testuale, la doxa, intesa come processo <strong>di</strong><br />
cristallizzazione, determina la <strong>semio</strong>si ai livelli inferiori: quelli dei sintagmi, delle lessie<br />
e infine dei morfemi. Si possono <strong>di</strong>stinguere, a fini <strong>di</strong>dattici, sei fasi <strong>di</strong> cristallizzazione:<br />
esse si caratterizzano per una integrazione morfologica crescente che impe<strong>di</strong>sce<br />
le inserzioni e per una desemantizzazione progressiva che traduce l’impoverimento<br />
delle relazioni contestuali in seno al sintagma. Per farla breve, si rilevano i seguenti<br />
gra<strong>di</strong> (la freccia simbolizza una cristallizzazione lungo la <strong>di</strong>acronia):<br />
Passaggio‡sintagma libero‡sintagma fraseologico‡lessia‡morfema<br />
(lessema‡grammema)<br />
È possibile così ammettere che l’attività <strong>di</strong>scorsiva, attraverso le sue ripetizioni endoxastiche<br />
in qualità <strong>di</strong> fattori <strong>di</strong> cristallizzazione, crea continuamente il lessico. È anche<br />
a questo livello che la linguistica della parole comanda quella della langue.<br />
L’integrazione sintagmatica che istituisce in unità una combinazione <strong>di</strong> morfemi,<br />
si accompagna a un’integrazione <strong>semio</strong>tica che cristallizza un sintagma in formula o<br />
una parola in simbolo. Con quest’ultimo non inten<strong>di</strong>amo né il simbolo logico - pura<br />
espressione <strong>di</strong> un contenuto variabile -, né il simbolo “romantico” o mitico - termine<br />
che schiude un contenuto in(de)finito e ieratico -, bensì un fenomeno <strong>di</strong> lessicalizzazione<br />
privilegiata attraverso l’associazione preferenziale <strong>di</strong> un significante e <strong>di</strong> una<br />
molecola semica, che istituisce il simbolo nell’accezione specificamente saussuriana.<br />
Per esempio, se in corpora romanzeschi è possibile riscontrare delle opposizioni tra<br />
desiderio e ricchezza, tenerezza e opulenza, ecc., le lessicalizzazioni amore e denaro<br />
sembrano comunque privilegiate.<br />
Il contenuto del simbolo saussuriano così ridefinito è una semia (combinazione <strong>di</strong><br />
sememi) corrispondente a un’unità testuale (tema, attore, posizione <strong>di</strong>alogica); per<br />
esempio, l’opposizione tra amore e denaro non riflette solamente una relazione tra i<br />
due termini, ma tra i due temi <strong>di</strong> cui costituiscono una lessicalizzazione privilegiata.<br />
Inseparabile dalla sua espressione, il simbolo saussuriano riveste così una funzione<br />
quasi-terminologica: esprimere un “concetto”, inteso qui come forma semantica.<br />
In quanto lessie, i simboli devono essere considerati come dei passaggi testuali,<br />
identificabili tanto per il loro contenuto, quanto per la loro espressione; ma se in questo<br />
stu<strong>di</strong>o abbiamo privilegiato le lessie, dobbiamo tenere a mente che esse non sono che<br />
dei passaggi testuali minimali.<br />
Un socioletto si compone, per la precisione, <strong>di</strong> una doxa e <strong>di</strong> un formulario (inventario<br />
<strong>di</strong> formule), cosicché possiamo <strong>di</strong>segnare lo schema seguente:<br />
30
Dato che la cristallizzazione stessa favorisce la decontestualizzazione, il<br />
passaggio doxastico-formulaico <strong>di</strong>viene eminentemente trasponibile, come<br />
si evince nel caso dei proverbi (cfr. Ca<strong>di</strong>ot & Visetti 2006); ciò favorisce la<br />
moltiplicazione delle sue occorrenze e, per questa via, la sua trasmissione<br />
culturale.<br />
Più precisamente, mentre un termine è legato a un dominio, per esempio<br />
scientifico, un simbolo mitico deve invece la sua aura al fatto che conserva<br />
lo stesso significante in <strong>di</strong>fferenti domini e può dunque essere incontrato in<br />
<strong>di</strong>versi <strong>di</strong>scorsi. Questa ubiquità è un in<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> desemantizzazione per via<br />
della virtualizzazione del sema generico relativo al dominio - la cristallizzazione<br />
dell’espressione si accompagna sempre con una tale desemantizzazione<br />
della semia 19 . In tale prospettiva, i nomi propri sono dei simboli mitici, nella<br />
misura in cui rinviano rigidamente alla stessa entità “in tutti i mon<strong>di</strong>” (almeno<br />
secondo la teoria assurda e brillante <strong>di</strong> Kripke), vale a <strong>di</strong>re “in tutti i <strong>di</strong>versi<br />
domini semantici” 20 .<br />
Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ciò, ci si può domandare se la permanenza dei referenti non è che<br />
l’effetto della decontestualizzazione propria dei simboli mitici. Il primo effetto<br />
della cristallizzazione è la <strong>di</strong>scretizzazione dei contenuti che si assumono come<br />
“oggetti”, e la loro stabilizzazione come referenti. L’oggetto reifica così un<br />
pregiu<strong>di</strong>zio con<strong>di</strong>viso: eppure culture <strong>di</strong>fferenti non concretizzano gli stessi<br />
oggetti e vi sono quelle in cui un antenato ha altrettanta oggettività, se non più,<br />
<strong>di</strong> una zucca o un albero. Se il nome, a partire dall’esempio della Grecia antica,<br />
è stato innanzitutto “nome personale” (onoma), dotato <strong>di</strong> un’aura - visto che<br />
conferito dal padre - ed immortale - potendo sopravvivere alla morte del portatore<br />
-, esso ha successivamente significato il nome proprio, poi il sostantivo,<br />
quin<strong>di</strong> la parola in generale. Il nome proprio, per via della sua forza simbolica,<br />
è senza dubbio la fonte del “mondo <strong>degli</strong> oggetti”.<br />
Ciò ci fa comprendere come il senso denotativo sia infine la reificazione della<br />
doxa e non il testimone <strong>di</strong> un’identità delle sostanze; un’identità che secondo<br />
Aristotele consentirebbe alle parole <strong>di</strong> avere un senso proprio in ragione del<br />
fatto che le cose hanno un essere. In realtà, la perennità delle sostanze tra<strong>di</strong>sce<br />
semplicemente una doxa inveterata. Correlativamente, senza postulare<br />
un’origine religiosa del linguaggio, né un’origine linguistica delle religioni (si<br />
consideri tuttavia la posizione <strong>di</strong> Cassirer 1925), possiamo avanzare l’ipotesi<br />
che il mito è la <strong>di</strong>mensione testuale or<strong>di</strong>naria del linguaggio, dal momento che<br />
gli altri <strong>di</strong>scorsi, compreso quello scientifico, devono fare <strong>degli</strong> sforzi incessanti<br />
per emanciparsene.<br />
Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ciò, è il rapporto intrattenuto dalla parola - definita come formula<br />
cristallizzata e integrata - con il testo mitico che deve essere interrogato. Si è<br />
19 Il semema è il contenuto del morfema, la semia è invece il contenuto <strong>di</strong> una lessia.<br />
20 Ciò resta relativo, dal momento che un numero non trascurabile <strong>di</strong> nomi propri restano legati a un<br />
dominio specifico (per esempio scientifico).<br />
31
spesso sottolineato che i miti sono giochi linguistici che sono riusciti, quanto<br />
meno, a farsi prendere sul serio. Ciò ci permette <strong>di</strong> precisare il rapporto complesso<br />
della parola con il testo, in occasione del passaggio al mito. Ben si conosce<br />
la circolarità tra la parola e il testo: i testi stabilizzano delle parole, sulle quali<br />
ci si poggia per comporre altri testi. D’altronde, mentre ogni cristallizzazione<br />
desemantizza i suoi elementi, semplicemente perché limita l’incidenza <strong>di</strong> nuovi<br />
contesti, il testo risemantizza le parole: dare l’iniziativa alle parole (secondo<br />
il principio <strong>di</strong> Mallarmé) si traduce nel ritrovamento e ri<strong>di</strong>spiegamento del<br />
corpus <strong>di</strong> associazioni semantiche <strong>di</strong>menticate e virtualizzate nella loro cristallizzazione<br />
21 .<br />
Risemantizzare le parole attraverso l’attività testuale, “dare un senso più puro<br />
alle parole della tribù”, è porsi contro la loro cristallizzazione in simboli ed<br />
esercitare un’attività paradossale nel senso forte del termine. Dai valori con<strong>di</strong>visi<br />
(che si concretizzano nella topica) ai valori linguistici (che si costruiscono e<br />
manifestano in mille <strong>di</strong>fferenze contestuali), il rapporto non è tuttavia quello<br />
che va dall’esterno all’interno, ma dal globale al locale. Le perturbazioni locali,<br />
come i paradossi, possono finire per perturbare l’equilibrio globale della doxa<br />
in corso. Inoltre, e per fortuna, una doxa non è mai universale: doxa alternative<br />
o opposte rivaleggiano e s’affrontano in seno allo stesso universo culturale.<br />
Pertanto, lo stu<strong>di</strong>o della doxa, compito eminente della semantica, invita a <strong>di</strong>spiegare<br />
tutto il vigore critico proprio delle <strong>di</strong>scipline ermeneutiche, visto che,<br />
in ragione della sua stessa chiarezza, e a <strong>di</strong>spetto <strong>di</strong> ogni evidenza (vale a <strong>di</strong>re,<br />
<strong>di</strong> tutti i pregiu<strong>di</strong>zi), la doxa resterebbe in vero definitivamente impercepita e<br />
indescrivibile senza l’intervento <strong>di</strong> una strenua tensione critica.<br />
21 Tutta la sua impresa etimologica, quella delle Mots anglais va in questa <strong>di</strong>rezione e Raymond Roussel<br />
non la contrad<strong>di</strong>ce.<br />
32
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34
PHOTO D’ART ET PHOTO DE PRESSE. ENQUÊTE SUR<br />
LA VIE INTIME DES TEXTES ET DES PRATIQUES<br />
Anne Beyaert-Geslin<br />
“Ce n’est pas le passé qui nous obsède,<br />
ce sont les images du passé”<br />
Georg Steiner<br />
“Poreuse et dynamique”, la photographie est un lieu de passage pour toutes les<br />
pratiques artistiques contemporaines 1 . Cette avi<strong>di</strong>té témoignée au monde luimême<br />
(“pas une seule chose du monde qui n’ait été photographiée”, affirme<br />
Sontag) autant qu’aux autres genres de l’image en fait un domaine d’investigation<br />
exemplaire pour une étude des pratiques. Mon idée n’est pourtant pas<br />
d’observer toutes ces circulations mais de me concentrer sur les transformations<br />
1 Voir à ce sujet Castant (2004). La constatation prolonge celle de Sontag qui, dans son ouvrage célèbre,<br />
Sur la photographie (Sontag 1992), observe que depuis son invention en 1839, il n’est sans “pas une<br />
seule chose (du monde) qui n’ait été photographiée”. Avec la photographie, “le monde entier peut<br />
tenir dans notre tête, sous la forme d’une anthologie d’images”, <strong>di</strong>t-elle.<br />
35
qui se produisent entre deux pratiques, la photographie de presse et la photographie<br />
artistique. Le choix de celles-ci suit tout d’abord les commentaires de<br />
la critique qui, faisant état d’une “crise de l’activité journalistique”, soutient<br />
qu’une “autre information” est produite aujourd’hui avec “les moyens plastiques<br />
et théoriques de l’artiste” 2 , une observation que confirme, en maints<br />
endroits, l’actualité artistique 3 . Cette limitation à deux pratiques exemplaires<br />
manifeste également un souci heuristique et observe le précepte sémiotique<br />
selon lequel le sens apparaît dans la transformation. Un tel principe devrait me<br />
permettre de fixer quelques règles de co<strong>di</strong>fication du texte et donc, de préciser<br />
les termes de l’accord pratiques-textes.<br />
1. LE STATUT ÉPISTÉMOLOGIQUE DES PRATIQUES<br />
Avant toute investigation, il convient de <strong>di</strong>stinguer trivialement deux types de<br />
pratiques: les pratiques en production, dues au photographe, et les pratiques<br />
en réception qui traduisent la perception sociale de la photographie. Pour les<br />
pratiques en production, <strong>di</strong>fférents statuts épistémologiques sont envisageables.<br />
Par exemple, lorsqu’Henri Cartier-Bresson délaisse le monde de l’art dans les<br />
années 30, suite à la montée du fascisme, et se voue au photo-journalisme, il<br />
opère un déplacement de sa pratique et offre ses photographies à un autre univers<br />
de signification. C’est sans doute la “déviation” la plus simple. L’incidence<br />
pour les textes photographiques est tout autre lorsque Warhol s’approprie des<br />
portraits anthropométriques (face/profil) réalisés par la police pour en faire des<br />
tableaux 4 car il opère alors une reprise énonciative qui soumet l’objet de sens<br />
à une sémiosis nouvelle et surajoutée.<br />
Les exemples de mo<strong>di</strong>fication de la signification par la déviation de la pratique<br />
de réception sont extrêmement nombreux. La série de polaroïds prise<br />
par Warhol pour ses albums personnels en offre un témoignage intéressant<br />
puisqu’elle s’inscrirait très résolument dans le genre de la photo d’amateur si<br />
le statut d’artiste de Warhol autant que la célébrité des modèles (J. Nickolson,<br />
J.C. Brialy, J. Lennon et Y. Ono), n’avaient mo<strong>di</strong>fié la perception sociale<br />
des photographies, les situant dans le registre de l’art sinon dans celui de la<br />
“presse people”. En pareil cas, l’identité de l’énonciateur et des actants a suffi<br />
à infléchir la trajectoire.<br />
Si les exemples de mo<strong>di</strong>fication de la pratique sociale de réception sont trop<br />
<strong>di</strong>vers pour être précisément décrits, il reste que la signification d’une image<br />
2 Cfr. Beausse (1999, p. 44). Voir également Wolinski (2004, p. 63-64). La question est également posée<br />
par André Rouillé (2005), notamment dans le chapitre intitulé “Crise de la photographie-document” .<br />
3 La proposition la plus argumentée est sans doute l’exposition proposée à l’automne 2004 au musée<br />
départemental d’art contemporain de Rochechouart, et intitulée Paysages invisibles.<br />
4 Une illustration exemplaire est proposée par Most wanted man n°1, 1963.<br />
36
ainsi “déviée” subit l’influence d’univers de sens hétérogènes, la détermination<br />
de supports et de scènes typiques <strong>di</strong>fférents et apparaît nécessairement complexe<br />
et polémique. Ainsi, et pour suivre certaines propositions de Sontag qui<br />
nous ramènent à la photographie de presse, des photographies des camps de<br />
concentration prises en 1945, qui circulent entre un musée de la photographie,<br />
une galerie d’art contemporain, un catalogue d’exposition, les pages d’un<br />
quoti<strong>di</strong>en, d’une revue culturelle ou d’un livre, y trouvent-elles des significations<br />
à chaque fois nouvelles. “Toute image est vue à l’intérieur d’un cadre<br />
particulier”, note-t-elle 5 , ce que traduirait aisément cet adage sémiotique: tout<br />
texte appartient à son corpus. Bien trop sage, ce principe qui semble assurer<br />
la détermination a priori de la signification d’un texte, doit sans doute être<br />
relativisé dans la mesure où l’actualité laisse craindre une certaine confusion<br />
des pratiques, la <strong>di</strong>fférence entre une photographie de presse et une publicité<br />
tenant à s’estomper comme le montrent les <strong>di</strong>fférentes campagnes de Toscani<br />
pour Benetton. Certes, “les cadres se multiplient aujourd’hui”, comme le<br />
souligne encore Sontag 6 mai, plus essentiellement, les pratiques se croisent<br />
intimement, ouvrant sur des interprétations toujours plus aventureuses, si bien<br />
qu’on s’étonne à peine qu’une photographie de la chemise tachée de sang d’un<br />
soldat croate mort ou celle d’une victime du sida puisse être présentée dans<br />
une boutique de vêtements 7 .<br />
Pratiques en production, pratiques en réception, une telle typologie est<br />
bien entendu extrêmement ru<strong>di</strong>mentaire et ne permet pas de décrire les mutations<br />
sémantiques aventureuses dont l’actualité nous offre le témoignage.<br />
Cependant, elle autorise déjà plusieurs commentaires qui esquissent certaines<br />
perspectives heuristiques. Tout d’abord, ces premiers exemples tendent à<br />
montrer qu’au-delà du simple brouillage catégoriel entre le texte et son corpus,<br />
le passage d’une pratique à l’autre produit un changement de trajectoire<br />
impliquant <strong>di</strong>fférents niveaux de pertinence, du texte à la situation et aux<br />
stratégies.<br />
Avant sa reprise par Warhol qui en fit Most wanted man n° 1, la photographie<br />
prise par la police de New-York était initialement de petites <strong>di</strong>mensions<br />
et ne mesurait que quelques centimètres à peine. Sans doute illustrait-elle<br />
une fiche de carton et se trouvait-elle rangée dans une boîte ou un dossier<br />
au commissariat 8 . La reprise énonciative en a considérablement augmenté<br />
5 Sontag (2003, p. 128).<br />
6 Idem.<br />
7 Sontag revient à plusieurs reprises sur la photographie de Capa représentant un milicien espagnol frappé<br />
par une balle et publiée pour la première fois le 12 juillet 1937, en pleine page, dans le magazine Life<br />
face à une publicité pleine page pour Vitalis montrant en tennisman en plein effort. La <strong>di</strong>fférence entre<br />
image “de presse” et image publicitaire était alors considérable, irréductible, affirme-t-elle, in<strong>di</strong>quant<br />
ainsi un franc partage des univers de sens et l’univocité de la signification. Voir sa description dans<br />
Sontag (2003, p. 41 et p. 128).<br />
8 Aujourd’hui, elle intègrerait une microfiche pour être appelée à l’écran<br />
37
les <strong>di</strong>mensions, mo<strong>di</strong>fié le support (c’est désormais une toile) et la scène<br />
typique, troquant la boîte de rangement pour une cimaise de musée. De tels<br />
changements -format, support, et scène typique- s’accordent à une nouvelle<br />
construction sociale et déterminent des rapports au corps du sujet percevant<br />
très <strong>di</strong>fférents. Elle occasionne notamment un changement de <strong>di</strong>stance de<br />
perception, une possibilité de collectivisation due à l’entrée de l’œuvre au<br />
musée mais aussi, plus ra<strong>di</strong>calement, un changement de mode d’efficience<br />
puisqu’il fallait “aller chercher” la petite photo de la police (advenir) quand<br />
sa réplique artistique, considérablement agran<strong>di</strong>e, saute littéralement aux yeux<br />
sur le mode du survenir. Dans ce cas, seule les figures témoignent encore de<br />
la pratique-source, imposant les vues de face et de profil caractéristiques des<br />
exigences policières, tan<strong>di</strong>s que les autres niveaux de pertinence, du texte à<br />
la forme de vie, attestent de l’emprise de la pratique cible et de l’inflexion<br />
de la trajectoire de transformation.<br />
2. LA CIRCULARITÉ DES PRATIQUES<br />
Mais telle n’est pas l’unique leçon de Warhol. En effet, en montrant comment<br />
une image peut faire l’objet de prises en charge pré<strong>di</strong>catives <strong>di</strong>fférentes, ces<br />
exemples semblent in<strong>di</strong>quer qu’une <strong>di</strong>rection est nécessairement privilégiée<br />
dans la transformation, l’art s’imposant comme la pratique-cible qui soumet<br />
les autres images à ses reprises énonciatives. Or si l’actualité artistique fournit,<br />
des vues aériennes de Y. Arthus-Bertrand aux portraits de basketteuses<br />
de Sharon Lockhart, de multiples témoignages de son intérêt pour les autres<br />
genres photographiques, un regard attentif décrirait plutôt une circularité des<br />
pratiques. Certes, la photographie se montre avide des autres genres, et tout<br />
particulièrement de la photographie de presse, mais cette dernière n’est pas en<br />
reste et s’approprie les motifs, non de la photo d’art, mais de la peinture, par<br />
l’intermé<strong>di</strong>aire d’autres photographies de presse.<br />
En effet, nous avons tous été surpris par certaines coïncidences entre des<br />
photographie de presse et des tableaux célèbres. Pourquoi les représentations<br />
de l’exode des Palestiniens prises après 1948 prennent-elles le plus souvent<br />
le modèle des scènes du Nouveau Testament: celles de la Nativité ou de la<br />
Fuite de la Sainte Famille en Egypte 9 , notamment? Pourquoi la composition<br />
d’une photographie des manifestations <strong>di</strong>tes “de la République” d’avril 2002<br />
“ressemble”-t-elle à celle de la Liberté guidant le peuple de Delacroix?<br />
Plusieurs auteurs, tel Sontag, ont partagé ce trouble, celle-ci s’étonnant par<br />
exemple qu’une photographie représentant le corps mort de Che Guevara,<br />
étendu devant un agent des services de renseignements américains, des jour-<br />
9 Je me réfère aux photographies de l’ouvrage d’Elias Sanbar, Palestiniens, images d’une terre et de son<br />
peuple de 1839 à nos jours, Hazan ed., 2004.<br />
38
nalistes et des militaires boliviens évoque à la fois le Christ mort de Mantegna<br />
et La leçon d’anatomie de Rembrandt 10 . Sa surprise est renouvelée pour la<br />
photographie de W. Eugen Smith prise à la fin des années 60, représentant<br />
une femme du village japonais de Minamata portant le corps de son fils,<br />
intoxiqué par le plomb, qui trahit certaines ressemblances avec une Vierge<br />
de pitié 11 . Les exemples pourraient sans doute se multiplier, tel celui de cette<br />
Madone de Benthala, dont la photographie faite par Hocine et publiée le 24<br />
septembre 1997 à la une du monde entier devint l’emblème des massacres<br />
perpétrés en Algérie 12 .<br />
Si Sontag imputait de telles ressemblances au “hasard” 13 il y a vingt ans, leur<br />
récurrence a, depuis lors, été fréquemment commentée, toutes ces critiques<br />
ajoutant au <strong>di</strong>scré<strong>di</strong>t de la photographie de presse. “C’est un monde de clichés,<br />
pas la réalité dont ont besoin les mé<strong>di</strong>as”, s’insurge par exemple le critique<br />
Pierre Madrid 14 . Le photographe Gilles Saussier déplore lui aussi la “standar<strong>di</strong>sation<br />
du contenu photographique” 15 offert aux “formes canoniques de la<br />
dramatisation” 16 et tient même cette stéréotypie pour le principal critère de<br />
<strong>di</strong>stinction entre l’image de presse et la photographie documentaire.<br />
Quelles sont précisément ces formes dramatiques canoniques? Un peu d’attention<br />
révèlerait tout d’abord le modèle de la peinture d’histoire, notamment<br />
certaines compositions de Greuze et de David, ainsi que la tra<strong>di</strong>tion anti-théâtrale<br />
héritée de Diderot où des personnages, absorbés dans leurs actions, constituent<br />
une scène fermée au spectateur 17 . La peinture religieuse est une autre source<br />
d’inspiration majeure et impose des figures telles la Pieta, la Nativité, “la mater<br />
10 Susan Sontag (1992, p. 132).<br />
11 L’image est décrite par Sontag (1992, p. 131).<br />
12 L’histoire de cette photographie qui parut le même jour dans Herald Tribune, Los Angeles Times,<br />
Libération, El Pais, The Sun, The Guar<strong>di</strong>an et l’Humanité, notamment, ainsi que les critiques et procès<br />
multiples dont elle fit l’objet est relatée notamment par l’artiste Pascal Convert (2003). Pour instruire<br />
l’hypothèse de la circularité des motifs, on ajouterait que la photographie de la Madone est ensuite<br />
revenue dans le domaine de l’art, le même Pascal Convert l’ayant transformée en un bas-relief en cire<br />
polychrome intitulé Madone de Benthala, 2000-2002, aujourd’hui dans les collections du musée d’art<br />
moderne Grand-Duc Jean, au Luxembourg.<br />
13 Sontag (1992, p. 131).<br />
14 Cfr. Madrid (2001), cité par Wolinsky (2004,, p. 63).<br />
15 Cfr. Saussier (2001, p. 312).<br />
16 Sa critique (Saussier, 2001, p. 310) est extrêmement sévère : “L’adage favori d’un Roger Thérond,<br />
l’ancien <strong>di</strong>recteur général de Paris Match, selon lequel il faut être allé cent fois aux Louvre pour<br />
devenir un grand photographe’ doit être pris au pied de la lettre - <strong>di</strong>t-il - il ne s’agit pas d’inviter les<br />
jeunes photographes à mieux connaître l’histoire de l’art pour questionner les modes dominants de<br />
représentation des grands mé<strong>di</strong>as de masse, mais de servir le projet authentiquement conservateur ou<br />
réactionnaire de la perpétuation d’un modèle pictural qui a, de longue date, perdu toute valeur critique<br />
et toute pertinence historique”. Natacha Wolinski (2004, p. 64) s’insurge de même : “Contre le règne<br />
immanent des icones, une nouvelle grammaire raisonnée de la photographie est à inventer”.<br />
17 Cette figure de l’absorbement a été décrite par Michael Fried (1990). Elle caractérise par exemple deux<br />
figures du premier plan dans les photographies d’A. Boulat et M. Franck, prises lors des manifestations<br />
de la République en avril 2002 à Paris. Voir à ce sujet Beyaert (2004, p. 171-189).<br />
39
dolorosa en fichu” 18 et la face christique qui prête ses traits à l’hagiographie de<br />
Che Guevara, par exemple. A ces références historique et religieuse, il convient<br />
d’associer le modèle récurrent du portrait, infiniment reproduit, jusqu’à devenir<br />
l’emblème d’un drame comme ce fut le cas pour l’Afghan girl de S. Mac Curry<br />
(1985), ce portrait d’une jeune afghane de treize ans au regard vibrant et toute<br />
de rouge vêtue.<br />
Loin d’être incidente, la rencontre de ces trois sources d’inspiration majeures<br />
-la peinture d’histoire, la peinture religieuse, le portrait- doit retenir toute<br />
notre attention. Celles-ci correspondent en effet aux genres reconnus comme<br />
“majeurs” par l’Académie royale au 18è siècle, parce qu’ils incarnaient<br />
les actions et les passions humaines, à la <strong>di</strong>fférence de la peinture de genre<br />
considérée comme mineure et vouée, a contrario à “tout ce qui n’est point<br />
Histoire” 19 . Une telle détermination nous permet d’esquisser un parallèle<br />
entre la photographie de presse et les grands genres de la peinture qui se<br />
laissent concevoir comme des localités dévolues aux actions et aux passions<br />
humaines circonscrites, d’une part, dans le champ de la photographie et de<br />
l’autre, dans celui de la peinture. Ces données permettent en tout cas de<br />
<strong>di</strong>stinguer les deux pratiques en termes de température: la photographie de<br />
presse constitue une zone intense et chaude vis-à-vis de la zone extense de<br />
la photographie d’art qui, si rien n’autorise à la déclarer froide, apparaît en<br />
tout cas non-marquée.<br />
En matérialisant cette connivence isotopique entre les genres majeurs de la<br />
peinture et la photographie de presse -les genres “affectés” de la peinture”<br />
et la photographie dans sa forme la plus affectée puisqu’elle est dévolue à la<br />
représentation des drames humains- une telle tension autorise à envisager un<br />
passage iconographique entre les deux pratiques, qui, dans leur effort pour<br />
thématiser l’action et l’affect, se montreront légitimement attentives aux mêmes<br />
motifs. Elle permet ainsi d’instruire un système semi-symbolique pérenne où<br />
18 La figure est conspuée par Gilles Saussier (2001).<br />
19 La description faite par l’Académie royale peut être complétée par cette proposition de Diderot pour qui<br />
la peinture de genre concerne “in<strong>di</strong>stinctement, ceux qui ne s’occupent que des fleurs, des animaux, des<br />
bois, des forêts, des montagnes, et ceux qui empruntent leurs scènes de la vie commune et domestique”.<br />
On se reportera, pour une plus ample description de cette hiérarchie, à Denis Diderot, “Essais sur la<br />
peinture”, uvres complètes, Paris, P. Vernière, 1968, p. 725. J. S. Char<strong>di</strong>n, par exemple, fut reçu en<br />
1728, par l’Académie royale avec un agrément limité aux scènes de genre et la nature morte.<br />
40
des configurations emphatiques stéréotypées, proposées du plan de l’expression,<br />
accompagnent un contenu axiologique marqué, pour recomposer la sémiosis<br />
changeante mais invariable de l’histoire humaine.<br />
Ainsi conçue, cette connivence entre les configurations affectées et les drames<br />
n’aurait rien pour nous surprendre. Elle rappellerait seulement que les notions<br />
de passions et d’actions ne sont qu’un habillage pour le concept d’événement.<br />
Très simplement, il n’y a pas plus d’événement sans affect que d’événement<br />
sans humanité, ce qui corrobore la définition de l’événement du Petit Robert:<br />
“ce qui arrive à l’homme et qui a de l’importance pour l’homme” et fait écho à<br />
ce commentaire de Robert Franck “s’il est une chose que la photo doit contenir,<br />
c’est l’humanité de l’instant” 20 .<br />
3. PHOTOGRAPHIE FROIDE VS PHOTOGRAPHIE CHAUDE<br />
Opposer une photographie chaude et une photographie froide sur un trait thermique<br />
ouvre sur une double acception. La <strong>di</strong>fférence permet, en premier lieu<br />
et comme nous l’avons suggéré, de restituer une <strong>di</strong>fférence d’ordre thymique,<br />
manifestant ainsi le caractère affecté de la photographie de presse que nous<br />
avons déjà souligné. Selon cette acception, le caractère affecté, ému, de la photo<br />
de presse s’oppose à la neutralité de l’art. Mais telle n’est pas l’unique acception<br />
du trait sémantique chaud/froid peut également recouvrir une <strong>di</strong>fférence<br />
aspectuelle, validant ainsi une terminologie en usage dans la presse qui situe<br />
toujours les évènements selon une actualité chaude ou froide en fonction de<br />
l’espacement temporel. A chaud, l’événement s’acquitte des questions factuelles<br />
“qui, quoi, où, quand?” tan<strong>di</strong>s qu’à froid, il réclame un plus long commentaire,<br />
redevable des questions “comment? pourquoi?”.<br />
Ce marquage aspectuel de la photo de presse mérite toutefois commentaire<br />
dans la mesure où les stéréotypés tirés de l’histoire de l’art sont intemporels<br />
et déterminent le caractère inoubliable, donc intemporel de la photographie<br />
qui s’en inspire. D’où ce paradoxe intéressant: dans son effort pour adhérer à<br />
l’urgence, à l’inchoatif, la photographie de presse recourt à une forme intemporelle,<br />
ce qui fait du motif un “convertisseur aspectuel” propre à temporaliser<br />
l’inchoatif. Ce travail de conversion n’est que la prémisse d’un autre processus<br />
par lequel le trait thermique transforme une photo de presse en photographie<br />
documentaire, cette dernière se définissant comme une version refroi<strong>di</strong>e, sortie<br />
de l’actualité, de la première 21 . On aperçoit ainsi une conversion sémiotique<br />
remarquable par laquelle la petite localité marquée qu’est la photo de presse<br />
se refroi<strong>di</strong>t pour ainsi <strong>di</strong>re d’elle-même en rejoignant le lieu commun, la zone<br />
extense.<br />
20 Cité Sontag (1992, p. 149).<br />
21 “Dans le contexte ad’hoc, les photos de presse dont l’intérêt subsiste une fois passé le moment de leur<br />
actualité deviennent des images documentaires”, explique H. Becker (2001, p. 348).<br />
41
Fig. 2. La conversion de la photo de presse en document.<br />
4. LE MOTIF, VOYAGEUR MAIS POLÉMIQUE<br />
Fussent-elles inspirées par la peinture d’histoire ou la peinture religieuse,<br />
ces <strong>di</strong>verses figures se laissent en tout cas identifier à des motifs tels que les<br />
décrit Panofsky (1967). Cet auteur <strong>di</strong>stingue le “motif artistique porteur d’une<br />
signification primaire ou naturelle” appelé iconographique, du motif “porteur<br />
d’une signification secondaire ou conventionnelle”, <strong>di</strong>t iconologique. Si, à<br />
cette aune, une femme éplorée se laisse identifier à un motif iconographique,<br />
certains traits tels que le voile suffisent cependant à l’inscrire dans un thème<br />
qui le dote d’un contenu sémantique conventionnel pour en faire un motif<br />
iconologique: ainsi devient-elle une mater dolorosa. La madone algérienne<br />
ressemble-t-elle vraiment à une mater dolorosa? Le rapprochement prête<br />
forcément à <strong>di</strong>scussion toutefois ces arguties éventuelles (elle ressemble,<br />
elle ne ressemble pas), loin de nous éloigner de notre étude, permettent de<br />
comprendre le fonctionnement sémiotique du motif dont la particularité est<br />
justement de se <strong>di</strong>ffuser d’une pratique à l’autre en admettant l’invariance<br />
autant que la variation. L’invariance se laisse déduire de la possibilité même<br />
d’identifier le motif, la stabilité iconique n’excluant pas la variation et ce<br />
caractère polyphonique que lui attribue Deleuze: “le motif est déjà polyphonique,<br />
un élément d’une mélo<strong>di</strong>e intervenant dans le développement d’une<br />
autre et faisant contrepoint” 22 .<br />
Le fonctionnement particulier du motif permettant de pallier les aléas de<br />
la ressemblance, il semble aisé de suivre la mélo<strong>di</strong>e de nos motifs au gré des<br />
22 Deleuze et Guattari (1991, p.180).<br />
42
eprises énonciatives. De tableau en journal puis de journal en journal, ceux-ci<br />
se reproduisent, à chaque fois <strong>di</strong>fférents mais néanmoins identifiables. Chaque<br />
image de presse tend ainsi vers une autre, de drame en drame, les images de<br />
la guerre du Vietnam fournissant le répertoire iconographique de toutes les<br />
autres pour entretenir le “bégaiement visuel de l’histoire” 23 . Toutefois, cette<br />
<strong>di</strong>sposition à la protension 24 que le motif transmet spécifiquement à l’image<br />
de presse, ne saurait occulter une autre caractéristique du motif dont certaines<br />
propriétés séminales, s’imprimant dans l’épaisseur sémantique du <strong>di</strong>scours,<br />
restent en mémoire et opposent donc résistance à la réalisation de la sémiosis,<br />
comme le montre avec la plus grande acuité “l’affaire” de la Madone de<br />
Benthala, par exemple. En effet, la querelle qui s’est constituée autour de<br />
cette image portait, non seulement, sur le statut de mère conféré à l’actant 25<br />
mais surtout sur la récupération de la souffrance d’une femme musulmane par<br />
l’iconologie chrétienne, révélant ainsi que des valeurs spécifiques conférées<br />
par les pré<strong>di</strong>cations antérieures étaient imprimées dans la mémoire du motif<br />
de la mater dolorosa et, sur le principe du contrepoint de Deleuze, argumentaient<br />
la sémiosis de façon polémique 26 .<br />
Cette description fonctionnelle du motif, entre souplesse et résistance, ne<br />
doit pourtant pas nous faire perdre de vue une caractéristique plus essentielle<br />
du motif journalistique. En effet, et comme nous l’avons déjà suggéré, loin<br />
de se limiter à uns répertoires de figures –des femmes en fichu, des actants<br />
“absorbés” ou juchés sur des promontoires..- le motif se conçoit avant tout<br />
comme une mise en scène d’une action ou d’un affect. Il est donc essentiellement<br />
phorique et, à l’instar du motif des genres majeurs de la peinture qu’il<br />
est désormais plus pertinent de <strong>di</strong>re “affectés”, marque donc une aptitude<br />
à l’emphase, au “plus de plus” cher à Zilberberg, aux formes expressives<br />
paroxystiques voire, suivant la proposition de Sontag, un penchant pour les<br />
formes “convulsives” du Surréalisme que cet auteur reconnaît dans la Pieta<br />
de Minamata 27 , par exemple.<br />
23 Idem, p. 309.<br />
24 Une telle protension vient fragiliser la caractéristique accordée, de façon générique, à la photographie<br />
par Barthes qui la <strong>di</strong>t rétensive par opposition à la protension du cinéma. Crf. Barthes (1980, p.<br />
1172).<br />
25 Selon une première légende, Oum Saâd, était censée déplorer la mort de ses huit enfants alors qu’elle<br />
pleurait d’autres membres de sa famille.<br />
26 On se reportera à l’article de Pascal Convert (2003). L’auteur rend compte de la controverse en évoquant<br />
notamment le procès intenté par la justice algérienne contre le photographe et l’Agence France<br />
Presse pour <strong>di</strong>ffamation et tentative de déstabilisation du pouvoir de Liamine Zéroual et la critique<br />
de Gilles Saussier fustigeant la colonisation de l’image par des modèles iconographiques chrétiens :<br />
“Que nous <strong>di</strong>t la “Madone” d’Hocine de la réalité du massacre de Benthala, selon tout vraisemblance<br />
orchestré par la junte militaire algérienne? Rien. Pouvons-nous attribuer la douleur de cette femme,<br />
penser la complexié du politique de cet événement? Non. Seul mérite : ressasser la tra<strong>di</strong>tion occidentale<br />
et l’actualiser au prétexte de l’événement”.<br />
27 Elle ajoute : “Du seul fait qu’il crée un double du monde, une réalité au deuxième degré, plus étroite<br />
mais plus dramatique que celle que perçoit la vision naturelle” (Sontag, 1992, p. 73.<br />
43
5. L’USAGE RHÉTORIQUE DU CLICHÉ<br />
Lorsqu’ils migrent d’une pratique à l’autre, les motifs de l’image de presse<br />
manifestent en tout cas certains usages rhétoriques. Un regard superficiel suffit<br />
tout d’abord à leur accorder une fonction d’emphase, un gain de présence qui<br />
permet de marquer les esprits, et trouverait validation dans ce commentaire de<br />
Sontag à propos de la photographie de Che Guevara: “la puissance de cette<br />
photo tient en partie à ce qu’elle a en commun, du point de vue de la composition<br />
avec (des) tableaux” 28 . Dans son dernier ouvrage, celle-ci revient sur le<br />
poids de présence remarquable de certaines images, leur donnant une valeur<br />
d’emblème et s’attache à montrer qu’elles permettent de conserver un drame<br />
en mémoire sans le donner à comprendre 29 .<br />
La force élocutoire de l’”icône mé<strong>di</strong>atique” se fonde sur une double efficacité<br />
rhétorique, à la fois cognitive et affective. Comme les stéréotypes de l’écriture<br />
journalistique, et en premier lieu l’anaphore et la catachrèse, ils assurent la<br />
lisibilité immé<strong>di</strong>ate des images en interrogeant l’hypersavoir 30 de l’observateur.<br />
Celui-ci se trouvant pour ainsi <strong>di</strong>re “instruit par avance”, son activité<br />
interprétative est donc facilitée. L’efficacité se conçoit également au niveau de<br />
la réception affective de l’image. Il s’agit, selon le cas, de susciter l’empathie<br />
en proposant des portraits dont les <strong>di</strong>spositions en terme de <strong>di</strong>stance et d’interaction<br />
seront précisément contrôlées 31 , provoquant ainsi cette modélisation<br />
de l’émotion qu’a conspuée Chevrier à propos de la série Enfants de l’exode<br />
de S. Salgado, publiée dans le journal Le Monde au printemps 2000 32 . En certains<br />
cas, les motifs pourraient fonctionner à la façon des figures pathétiques<br />
d’encadrement décrites par Louis Marin qui in<strong>di</strong>quent ce qu’il faut voir mais<br />
aussi la façon de recevoir la scène. De manière générale, ils nous interrogent<br />
sur la façon de se comporter “devant la douleur des autres”. Ainsi conçus, de<br />
tels stéréotypes cognitifs et affectifs s’inscrivent en tout cas parmi les règles<br />
normatives, contextuelles et propres à la “stratégie informationnelle”, que J.M.<br />
Schaeffer 33 oppose aux règles constitutives et stables de la photographie. En<br />
tant que règles normatives, celles-ci délimitent donc “le champ de recevabilité<br />
des <strong>di</strong>fférentes manières d’aborder une image photographique”.<br />
28 Ce qui l’amène à affirmer : “Le surréalisme est au cœur même de l’entreprise photographique”. Voir<br />
à ce propos Sontag (1992, p. 132-133).<br />
29 Sontag (2003, p. 122) observe : “Laissons les images atroces nous hanter. Même si elle ne sont que<br />
des emblèmes, qui ne peuvent rendre compte de toute la réalité à laquelle elles renvoient, elles n’en<br />
accomplissent pas moins une fonction vitale”.<br />
30 Howard Becker (2001, p. 347) explique: “si elle veut être instantanément lisible, l’image ad hoc devra<br />
s’adresser aux lecteurs qui possèdent déjà un tel savoir”.<br />
31 Les con<strong>di</strong>tions proxémiques du portrait et leur incidence pour l’interaction a été soulignée notamment<br />
dans Anne Beyaert (2001).<br />
32 La polémique peut être suivie dans les é<strong>di</strong>tions du journal, du 19 avril et du 4 mai 2000.<br />
33 Schaeffer (1987, p. 110).<br />
44
Sur ces descriptions, nous commençons à mieux comprendre le fonctionnement<br />
des motifs journalistiques qui permettent de partager l’expérience par<br />
l’entremise d’un socle de réception commun. Un tel socle se prête sans doute<br />
à la critique la plus sévère dans la mesure où, comme l’ont souligné <strong>di</strong>fférents<br />
auteurs 34 , il modélise l’activité interprétative de l’observateur, cependant<br />
la légitimité des reproches n’empêcherait pas d’apercevoir certaines vertus<br />
morales dues à l’instauration d’une base éthique que chaque nouvelle image<br />
pourra convoquer et conforter en même temps. Ce socle éthique élabore notre<br />
perception sociale de l’horreur en instruisant une sorte de ciment social qui<br />
porte témoignage de notre humanité.<br />
6. MOTIF ET ANALOGIE<br />
Mais la fonction rhétorique de ces motifs pourrait sans doute être complétée.<br />
En effet, nos propositions successives tendent à montrer que la représentation<br />
d’un événement ne va pas de soi et réclame une mé<strong>di</strong>ation figurative qui<br />
lui assure la photogénie. Sur cette exigence, l’évènement donc rencontre le<br />
principe de l’analogie et du parallélisme décrit par Fontanille à propos du<br />
reportage 35 .<br />
Reprenons l’exemple de la Madone de Benthala. Dans ce cas, l’évocation<br />
de la souffrance d’une -prétendue mère- algérienne s’effectue par le biais<br />
d’une comparaison avec le sort d’une autre mère dont la représentation nous<br />
est déjà familière. Profitant des commo<strong>di</strong>tés de l’analogie, le stéréotype de<br />
la mater dolorosa agit donc à la façon du “convertisseur de croyances” de<br />
Fontanille. C’est une “prothèse cognitive” qui mobilise un hypersavoir,<br />
permet de partager l’expérience sensorielle tout en convoquant, construisant<br />
et fortifiant une scène éthique. Mais son intérêt ne s’arrête pas là. Le motif<br />
assure aussi la projection de ce que Fontanille appelle un “facteur d’évidence”<br />
36 , une fonction sur laquelle il convient de s’arrêter pour comprendre en<br />
quoi la caution apportée au <strong>di</strong>scours “court-circuite” le jugement épistémique<br />
de l’observateur.<br />
Examinons nos exemples à l’aune du Soma et séma de Fontanille (2004).<br />
Le journaliste-rédacteur qui est décrit dans cet ouvrage se montre <strong>di</strong>sponible à<br />
l’évènement, son corps agissant comme une “machine enregistreuse” <strong>di</strong>sposée<br />
à la contingence, à “l’aventure qui affleure toujours plus ou moins dans<br />
le récit du reportage” et que traduisent des détails spécifiques 37 . Au moyen<br />
d’une “visée particularisante”, cette instance énonçante s’efforce de restituer<br />
34 On reprendra les commentaires de P. Madrid (2001) et G. Saussier (2001) mentionnés ci-dessus.<br />
35 Fontanille (2004).<br />
36 Idem, p. 235.<br />
37 Idem, p. 227.<br />
45
“la vérité authentique” (Fontanille). Marqués au contraire par l’exemplarité<br />
du stéréotype, les motifs que nous décrivons fonctionnent tout autrement et<br />
dérogent au principe de la contingence en préférant la “vérité typique” (Fontanille)<br />
qu’exprime la visée sélective.<br />
Vérité typique ou vérité authentique? -L’alternative suffit en tout cas à mesurer<br />
les limites d’une figurativité a priori qui, pour mieux partager l’expérience,<br />
sacrifie la “vérité” de l’événement et met en cause cette “adéquation du<br />
langage à la réalité qu’il décrit”, qui entre dans la définition classique de<br />
la vérité 38 .<br />
7. AFFECT ET ESTHÉTIQUE<br />
Nous avons observé le travail valenciel qui transforme l’image de presse en<br />
document sans envisager encore une quelconque conversion tensive entre<br />
la photo de presse et la photo d’art. Pour commencer à argumenter ce point,<br />
il serait aisé d’avancer que cette dernière suspend le contenu évènementiel<br />
de l’image de presse, la souffrance, pour en faire un objet esthétique. En<br />
ce sens, elle effectue une conversion de l’affect en esthétique. Cependant<br />
le travail valenciel est infiniment plus raffiné et intéressant. En effet, une<br />
reprise énonciative de l’image de presse par la pratique artistique s’avère<br />
superflue puisque la conversion s’effectue pour ainsi <strong>di</strong>re de l’intérieur,<br />
la photo du journal se refroi<strong>di</strong>ssant pour ainsi <strong>di</strong>re d’elle-même, avec le<br />
temps. Avec le temps, l’affect se transforme en esthétique. Cette intrigante<br />
conversion des valeurs affectives en valeurs esthétiques du simple fait d’un<br />
passage aspectuel trouve validation auprès de Susan Sontag: “la plupart des<br />
photos ne gardent pas leur charge émotive. Les qualités et les intentions<br />
spécifiques des photos tendent à se fondre dans l’émotion poignante que<br />
suscite le passé en temps que tel 39 “ – <strong>di</strong>t-elle. Elle ajoute: “les temps finit<br />
par situer toutes les photographies, même les moins professionnelles, au<br />
niveau de l’art” 40 .<br />
En somme, si nous avions compris que le temps suffisait à “refroi<strong>di</strong>r” l’image<br />
en transformant une photographie de presse en document, il nous faut aussi<br />
concevoir un second devenir par lequel la temporalisation est aussi un processus<br />
d’esthétisation qui transforme l’affect en beauté.<br />
38 Dans un texte historique, Greimas explique : “pour parler de véri<strong>di</strong>ction, il semble opportun de se référer<br />
d’abord à la double définition, classique, de la vérité, la première l’identifiant avec la cohérence interne,<br />
la seconde la fondant sur l’adéquation du langage à la réalité qu’il décrit”. On suivra la proposition<br />
dans A.J. Greimas (1976, p. 19-20).<br />
39 Sontag (1992, p. 34).<br />
40 Idem.<br />
46
Fig. 3. la conversion de la photo de presse en objet esthétique.<br />
Cette double conversion, aspectuelle et esthétique, qui convertit la photographie de<br />
presse, d’une part en un document, et de l’autre en un objet esthétique mériterait sans<br />
doute un plus long commentaire. Ainsi conçue, elle permet d’envisager d’une part<br />
une déper<strong>di</strong>tion affective en même temps qu’un gain esthétique 41 . Il reste cependant<br />
qu’on peut s’interroger sur les dérogations éventuelles à ces conversions intimes<br />
complexes ou, pour le <strong>di</strong>re autrement, et avec une profonde inquiétude, craindre que<br />
les images les plus marquées par l’horreur et en tout premier lieu les témoignages<br />
de l’holocauste, ne se déprécient et perdent leur charge émotive avec le temps.<br />
Ces conversions intimes incitent en tout cas à préciser l’intentionnalité de la<br />
photo de presse. Très simplement, l’intentionnalité éidétique qu’elle partagent<br />
toutes se double d’une intentionnalité esthétique 42 dans le cas de la photographie<br />
artistique et d’une intentionnalité pragmatique pour la photo de presse vouée au<br />
témoignage. Or nous venons de constater l’esthétisation inéluctable des images<br />
dans le temps, cette inflexion sémantique accompagnant une suspension de l’affect.<br />
La photographie de presse serait donc esthétique malgré elle, ce qui nous amènerait<br />
à opposer l’intentionnalité esthétique de la photo-artistique à l’intentionnalité<br />
esthétique adversative de la photographie en général. Ainsi marque-t-on une tension<br />
entre l’esthétique du subir comprise comme lot commun de toutes les photos et<br />
41 Une telle alternative concerne aussi les monuments de l’horreur, et peut être ressentie dans les ruines<br />
d’Oradour-sur-Glane en Limousin, par exemple, où le visiteur ne peut qu’être incommodé par la charge<br />
esthétique qui gagne peu à peu ce qui fut pourtant un lieu de massacre.<br />
42 On pourrait récuser intentionnalité esthétique en évoquant des photographies de rebut, de crachats, ou<br />
plus simplement les photographies de scènes banales caractéristique de la postmodernité. Une telle<br />
critique soutiendrait que la photographie ne recherche pas la beauté mais au contraire, la laideur ou la<br />
banalité. Un tel argument ne résiste pourtant pas à l’examen dans la mesure où justement, la photo-artistique,<br />
en variant ainsi le motif, en montrant le monde sous forme de fragments, ne fait qu’instruire la<br />
proposition de Baudelaire relative à la beauté : “Ce qui n’est pas légèrement <strong>di</strong>fforme a l’air insensible;<br />
d’où il suit que l’irrégularité, c’est-à-<strong>di</strong>re l’inattendu, la surprise, l’étonnement sont une partie essentielle<br />
et la caractéristique de la beauté”, dans C. Baudelaire, uvres complètes, tome II, Paris, Gallimard,<br />
Bibliothèque de la Pléiade, 1975-1976, p. 656 (Fusées, VIII, 12).<br />
47
une esthétique de l’agir, voire une esthétique agissante du fait que l’œuvre d’art,<br />
en posant des références marquantes et en élargissant le champ de notre expérience<br />
sensible, détermine et instruit sans cesse notre sens de la beauté.<br />
8. LA PHOTO DE PRESSE ET L’ÉVÉNEMENT<br />
Résumons nous. Nous voulions observer les conséquences du passage entre la<br />
pratique de la photo de presse et celle de la photo d’art en observant les images,<br />
en suivant les commentaires de la critique, des artistes et des journalistes euxmêmes.<br />
Pour l’instant, nous avons découvert un travail valenciel qui se passe<br />
de toute reprise pré<strong>di</strong>cative puisqu’il s’effectue pour ainsi <strong>di</strong>re de l’intérieur:<br />
l’image de presse refroi<strong>di</strong>t toute seule et, la localité chaude perdant consistance<br />
avec le temps, elle entre dans le lieu commun de l’objet esthétique.<br />
Ce cheminement qui amène l’image affectée à perdre peu à peu sa <strong>di</strong>gnité<br />
initiale, rencontre la définition de l’événement du Précis de grammaire tensive<br />
de Zilberberg (2006). Cet auteur oppose en effet l’événement et l’état en<br />
associant l’événement à un paroxysme d’intensité (le “feu” de l’événement)<br />
et l’état à l’extensité et à la lisibilité. Il rend compte d’une conversion par<br />
laquelle le sujet parvient à configurer le contenu sémantique de l’événement en<br />
état: “l’événement entre insensiblement dans les voies de la potentialisation”,<br />
<strong>di</strong>t-il, il devient d’abord mémoire puis histoire. Il gagne ainsi en lisibilité, en<br />
intelligibilité, ce qu’il perd en acuité.<br />
Si la valence qui transforme l’événement en état ressemble fort à celle qui fait<br />
d’une image de presse un document par le simple fait d’une conversion aspectuelle,<br />
cet apport révèle sa plus grande utilité en ce qu’il montre qu’une temporalisation<br />
est nécessaire à l’assimilation de l’événement. Pur “syncrétisme de subvalences<br />
paroxystiques de tempo et de tonicité” qui restitue “l’univers de la démesure”,<br />
l’événement attaque la trame du <strong>di</strong>scours et le décontextualise, explique Zilberberg<br />
43 . C’est une exclamation contre le <strong>di</strong>scours, c’est-à-<strong>di</strong>re contigu et opposé 44 .<br />
Si l’événement se laisse effectivement définir comme une exclamation, on comprend<br />
mieux la nécessité du motif comme interface, comme “convertisseur”:<br />
“convertisseur de croyance” (Fontanille), convertisseur aspectuel qui autorise<br />
la mise en <strong>di</strong>scours et, plus ra<strong>di</strong>calement encore, convertisseur de sens.<br />
Partir de l’image, comme nous l’avons fait, autorise toutefois un apport<br />
supplémentaire. L’événement est bien ce qui survient et suscite donc l’étonne-<br />
43 Autant de précisions qui argumentent les conceptions de Shannon et Weaver qui, dans leur théorie<br />
mathématique de la communication, envisagent l’événement à partir de la notion de probabilité : une<br />
corrélation inverse associent selon eux, l’importance de l’événement à sa probabilité d’apparition : “la<br />
quantité d’information apportée par un élément dans un message est inversement proportionnelle à sa<br />
probabilité d’apparition dans ce message. Si l’apparition de E est très probable, E est peu informatif;<br />
si l’apparition de E est peu probable, E est très informatif” (Shannon & Weaver, 1949).<br />
44 Zilberberg (2006, p. 200).<br />
48
ment du sujet, ce qui autorise Zilberberg à lui attribuer le mode d’efficience du<br />
survenir, par opposition au parvenir de l’état. Pourtant, si ses valeurs d’éclat et<br />
ce survenir semblent incliner vers une définition aspectuelle singulative, l’événement<br />
tel qu’il traverse nos images de presse suppose plutôt un mode itératif:<br />
un événement est ce qui survient mais qui appelle aussi d’autres évènements<br />
avec lesquels il entre en résonance, la signification provenant de leurs rapports<br />
mutuels: l’événement concerne tout d’abord le monde naturel, il s’incarne dans<br />
l’évènement de l’image mais se perpétue dans une lignée.<br />
Une telle proposition permet en tout cas de souligner une connivence fonctionnelle<br />
entre l’itérativité de l’événement et celle du stéréotype figuratif.<br />
“Dans le monde de l’image, explique Sontag, cela s’est passé et cela se passera<br />
éternellement de la même manière” 45 . Plus tard, cet auteur reviendra sur cette<br />
terrible <strong>di</strong>sposition de l’image: “puisque les photos se font écho entre elles, il<br />
est inévitable que les corps émaciés des prisonniers bosniaques d’Omarska (…)<br />
ravivent le souvenir des photographies prises dans les camps en 1945” 46 .<br />
Il faut donc mettre en rapport les drames du monde, toujours les mêmes, et<br />
la dramaturgie, elle-même récurrente, du stéréotype. Toujours étonnant, l’événement<br />
est cependant prévisible de même que sa représentation est elle aussi<br />
prévisible et s’accomplit dans le stéréotype. Et puisque chaque nouveau récit<br />
de l’horreur vient résonner avec un récit antérieur, il n’y a finalement peut-être<br />
pas lieu de s’inquiéter lorsqu’un photographe comme G. Saussier raconte le<br />
désarroi de ses collègues qui, dans Koweit-city libérée regrettaient de ne trouver<br />
“pas une seule image de la guerre du Vietnam” 47 .<br />
9. L’ÉVÉNEMENT COMME CRITÈRE DE DIFFÉRENCIATION<br />
Si cette notion d’événement permet de vérifier nos hypothèses tensives, elle permet<br />
aussi de prévoir tous les critères de <strong>di</strong>fférenciation entre la photo de presse et la<br />
photo d’art. On note alors que, de la même façon que l’événement procède au<br />
“resserrement du champ de présence” (Zilberberg) 48 , celui-ci contraint l’image<br />
de presse et la soumet à ses modalisations déontiques: au propre comme au figuré,<br />
45 Sontag (1992, p. 197).<br />
46 Sontag (2003, p. 92).<br />
47 Saussier (2001, p. 308-309). La guerre du Vietnam est en effet la première et la dernière guerre a avoir<br />
été amplement et librement photographiée et télévisée. En marquant ainsi l’apogée de la photographieaction,<br />
elle a permis de constituer une sorte de catalogue iconographique de la guerre, dans laquelle<br />
les photographes continuent de puiser. Cette référence permanente à la guerre du Vietnam est évoquée<br />
également par Rouillé (2005, p. 178).<br />
48 Souvenons-nous tout d’abord que le corps du reporter décrit par Fontanille est avant tout un corps-point,<br />
c’est-à-<strong>di</strong>re concentré sur un point, et c’est ce corps-point inscrit sur le lieu même de l’événement,<br />
qui assure la légitimité du témoignage. La forme du point permet également à Zilberberg de décrire<br />
la morphologie de l’événement, “instantané”, “concentré”, “ponctuel” et assurant un ”resserrement<br />
du champ de présence” (Zilberberg, 2006, p. 185).<br />
49
l’évènement la “resserre” en marquant toujours l’opposition entre une localité<br />
intense où les propriétés sont marquées et une zone extense non marquée.<br />
Je vous propose de suivre ce travail de resserrement aux <strong>di</strong>fférents niveaux<br />
de pertinence de la pratique.<br />
9.1. Signes et figures<br />
Au niveau des figures, nous avons aperçu la pression des motifs iconologiques<br />
ou plus banalement iconographiques qui s’imposent comme des stéréotypes<br />
qu’on appelle aussi banalement des icônes mé<strong>di</strong>atiques. Ce sont des répertoires<br />
de figures mais aussi, plus fondamentalement, des répertoires de mises en<br />
scène qui supposent une hyperexpressivité du visage et du corps (cris, pleurs,<br />
gestualité large..) et certains points de vue particuliers, le plus caractéristique<br />
de l’expressivité épique restant la contre-plongée.<br />
D’autres prescriptions déontiques sont liées à sa lisibilité: pour représenter au<br />
mieux l’événement, l’image doit être nette, piquée et faciliter l’identification des<br />
principaux protagonistes, conformément au contrat implicite de l’exposition 49 . Ces<br />
prescriptions figuratives méritent cependant commentaire. En effet, une pratique<br />
récente incarnée notamment par le quoti<strong>di</strong>en le journal Libération tend à admettre<br />
des images floues, des personnages de dos, libérant une créativité qui modalise<br />
<strong>di</strong>versement le contrat de l’exposition. Toutes ces entorses vont néanmoins dans<br />
le sens de l’événement, témoignant d’un nouveau privilège accordé au détail<br />
spécifique sur le détail exemplaire et souscrivant, en fin de compte, au principe<br />
de contingence du récit de témoignage décrit par Fontanille (2004) 50 .<br />
9.2. Textes et-énoncés<br />
A ce niveau de pertinence, la légende s’impose comme un élément fondateur<br />
du sens de l’image, ainsi que l’ont montré <strong>di</strong>fférents auteurs tel Benjamin 51 . De<br />
49 Howard S. Becker (2001, p. 344) explique pourquoi une photographie de R. Franck représentant un<br />
fait d’actualité serait refusée par le journal : “Reproduite en première page d’un quoti<strong>di</strong>en, la même<br />
image aurait pu être lue comme une photographie de presse. Mais les personnages ne sont pas identifiés<br />
et les journaux montrent rarement des photos d’anonymes. Tout au contraire : on apprend aux<br />
photojournalistes, pour que cela devienne chez eux une seconde nature, à noter les noms de ceux qu’ils<br />
photographient ainsi que toute autre information pertinente (..). Pour qu’elle fonctionne comme photographie<br />
de presse, il faudrait que l’image ait une légende <strong>di</strong>fférente de celle que lui a donnée Franck,<br />
par exemple : ‘Le sénateur Untel du Rhode Island <strong>di</strong>scute stratégie électorale avec deux assistants’.<br />
Mais, là encore, il est peu probable que la photographie soit publiée dans un quoti<strong>di</strong>en, à cause de son<br />
grain, du flou et parce que les deux assistants nous tournent le dos”.<br />
50 Ainsi, lorsqu’une “une” célèbre du quoti<strong>di</strong>en Libération du 22 avril 2002 présente le leader du Front<br />
national, Jean Marie Le Pen le menton levé, dans une pose assez rare et sans légende, sans souci de<br />
faciliter l’identification, il faut évoquer une fonction conative du portrait patibulaire. Idem, lorsque la<br />
une du 6 mai, lendemain de l’élection présidentielle, représente le même Le Pen de ¾ dos, en plus<br />
petit, suggérant un effet de départ : l’organisation texte/image extrêmement savante va dans le sens de<br />
l’événement et congé<strong>di</strong>e déjà le can<strong>di</strong>dat décrié.<br />
51 Cet auteur se demande si la légende doit “devenir l’élément le plus essentiel du cliché” car sans<br />
elle ”toute construction photographique ne peut que rester dans l’à-peu-près”. Voir à ce sujet Walter<br />
Benjamin (1931, p. 168).<br />
50
nombreux exemples pourraient être convoqués pour lui donner raison, comme<br />
celui de Gisèle Freund qui montre, à propos d’une photographie de Doisneau,<br />
comment la légende alliée au contexte thématique, mo<strong>di</strong>fie fondamentalement<br />
le sens d’une photographie 52 . Parmi les contributions historiques à la question,<br />
citons aussi celle de Barthes qui associe au texte des fonctions d’ancrage ou de<br />
relais 53 , selon que celui-ci stabilise le sens de l’image ou livre les informations<br />
contextuelles que celle-ci ne peut livrer.<br />
Plus efficace que n’importe quelle démonstration théorique, la proposition de<br />
l’artiste allemand Thomas Ruff consistant à supprimer, dans une série intitulée<br />
Zeitungsfoto (1990), la légende de photographies tirées des journaux (une salle<br />
de conférence, un portrait, la silhouette d’un poisson sortant de l’eau…), révèle<br />
l’importance de la légende en montrant comment cette suppression libère la<br />
polysémie de l’image, la “chaîne flottante du sens” (Barthes).<br />
A ces commentaires attendus sur la fonction sémantique de la légende,<br />
Sontag ajoute une caractéristique méconnue qui, comme elle l’assure à propos<br />
d’un exposition de photographies du World trade center, ne s’impose qu’avec<br />
le temps, la proximité de l’évènement suffisant à alimenter une légende mémorielle.<br />
Une proposition qui, en dépit de sa pertinence, néglige de souligner<br />
que l’exposition évoquée, constituée de photos d’amateurs et de professionnels<br />
toutes prises le 11 septembre, impose dès l’abord son isotopie thématique en<br />
relativisant d’autant l’intérêt de la légende.<br />
Quoiqu’il en soit, les photographies <strong>di</strong>tes artistiques ne sont pas légendée,<br />
cette mention écrite trouvant alors son équivalent dans l’étiquette, également<br />
appelée “cartel”. Une telle mutation s’effectue d’ailleurs au prix d’un glissement<br />
épistémologique intéressant puisque, si la légende stabilise le sens du<br />
texte photographique lui-même, le cartel de la photo d’art stabilise le sens en<br />
intervenant à un autre niveau de pertinence, celui de l’objet, dont il rassemble<br />
les principales caractéristiques: le titre, l’auteur, les <strong>di</strong>mensions et les propriétés<br />
du support en tant que support formel et matériel. Dans le premier cas, le texte<br />
écrit est transitif et renvoie à l’événement; dans le second cas, il est intransitif<br />
(réflexif).<br />
C’est au niveau du texte que la métaphore du resserrement prend sa forme<br />
la plus figurative avec la notion de cadrage. La photo de presse cadre d’événement<br />
de près, les visages et les corps de près pour adopter ce schéma tensif<br />
basé sur une étendue (déploiement figuratif) faible et une intensité forte que<br />
nous reconnaissons d’une photographie de l’horreur à l’autre. Un tel ajustement<br />
52 Elle raconte comment une photographie de Robert Doisneau montrant “une jeune fille en train de<br />
boire un verre de vin au comptoir d’un café parisien, à côté d’un monsieur d’un certain âge” illustra<br />
une première fois un numéro du magazine Le Point consacré aux bistrots puis, confiée à une agence,<br />
apparut dans un petit journal é<strong>di</strong>té par la ligue antialcoolique puis dans une revue à scandale sous le titre<br />
“Prostitution aux Champs Elysées”, ce qui valut <strong>di</strong>fférents procès, intentés par l’homme photographié,<br />
un tranquille professeur de dessin. Voir à ce sujet Gisèle Freund (1974, pp. 173-174).<br />
53 Cfr. Barthes (1964).<br />
51
épond, nous l’avons souligné, à un souci rhétorique. Il permet d’entrer dans<br />
la <strong>di</strong>stance intime 54 , pour recueillir l’expression des visages et donc restituer<br />
l’affect, souvent paroxystique, conforme à l’événement. Serrer corps et figures<br />
au plus près, répond également à une contrainte économique, aux /devoir-faire/<br />
imposés par la pratique et le support: la photo étant <strong>di</strong>ffusée dans un journal,<br />
elle entre le plus souvent (et de plus en plus) dans une maquette contrainte où<br />
chaque ligne et chaque millimètre sont comptés.<br />
9.3. Objets et supports<br />
Comment les pratiques formatent-elles les objets et leurs supports? Les photos<br />
de presse sont imprimées sur du papier, dans un journal qui leur assigne des<br />
<strong>di</strong>mensions qui apparaissent souvent bien réduites lorsqu’on les rapporte à<br />
l’original. La photographie d’art affectionne, elle aussi, les supports-papier<br />
mais ce sont ceux des revues d’art. Il convient en outre de noter, en y voyant<br />
un témoignage de la créativité qui vient de l’interférence aventureuse des<br />
pratiques, le développement actuel d’une sorte de terme complexe, situé à la<br />
croisée des deux mondes, sous la forme du portfolio, aussi fréquent désormais<br />
dans Beaux-arts magazine que dans le Monde 2, et ouvert à des photos représentant<br />
in<strong>di</strong>fféremment l’une ou l’autre pratique –une “série artistique” signée<br />
J. Dieuzaide pour une é<strong>di</strong>tion du Monde 2; des photos du parcours de migrants<br />
clandestins camerounais en route vers l’Espagne, dans l’é<strong>di</strong>tion suivante).<br />
9.4 Pratiques et scènes<br />
La comparaison entre les deux scènes pré<strong>di</strong>catives fait toutefois apparaître des<br />
scènes typiques <strong>di</strong>stinctes qui conviennent, d’un côté, à la lecture du journal, et de<br />
l’autre à la contemplation et à l’esthésie. En cela, les deux pratiques correspondent<br />
à des expériences perceptives très <strong>di</strong>fférentes, conçues pour deux types d’actant<br />
collectif. Tan<strong>di</strong>s que la photographie d’art exposée au musée s’adresse dès l’abord<br />
à un public de visiteurs, la photo de presse vise un actant in<strong>di</strong>viduel, le lecteur de<br />
chaque journal que la multiplicité des exemplaires convertit aussitôt en actant<br />
collectif. La pratique de lecture du journal accompagne en outre l’aspectualité<br />
caractéristique de l’événement qui, en même temps qu’il entre dans la mémoire<br />
et dans l’histoire en se <strong>di</strong>ffusant dans le temps, perd son acuité.<br />
9.5. Les stratégies<br />
Nous avons patiemment mis en évidence la stratégie énonciative de la photographie<br />
soumise à la contrainte de l’événement mais il serait sans doute intéressant<br />
de voir comment l’art s’ajuste à cette stratégie pour en faire la critique et<br />
porter témoignage à sa façon. Comment l’art résoud-il finalement l’épineuse<br />
équation de l’événement? ou à l’inverse: comment l’événement, ce “je ne sais<br />
54 E.T. Hall, La <strong>di</strong>mension cachée (traduction française), Le Seuil, 1971.<br />
52
quoi qui laisse sans voix” 55 (Zilberberg 2006) peut-il s’énoncer tout de même<br />
et trouver une alternative aux clichés qui, bien que réducteurs, le rendent intelligibles?<br />
Quelle peut être l’alternative à ces convertisseurs sémantiques? Il<br />
nous semble alors que la mise en oeuvre d’un nouveau style stratégique critique<br />
oblige à intervenir dès les niveaux élémentaires de la signification, au niveau<br />
des figures et des textes. Ainsi conçues, ces stratégies critiques semblent donc,<br />
d’un point de vue sémiotique, plus ambitieuses que celle du Most wanted man<br />
de Warhol, dont la <strong>di</strong>mension figurative manifeste encore un ancrage dans la<br />
pratique source, l’appropriation artistique se faisant aux niveaux de pertinence<br />
supérieurs, au niveau de l’objet essentiellement. L’actualité artistique révèle<br />
plusieurs stratégies soucieuses de cette alternative figurative.<br />
9.5.1. La suspension de la pression temporelle de l’évènement<br />
Une première stratégie consiste à représenter l’événement par l’entremise de<br />
ce corps-point qui légitime le témoignage mais en prenant soin de relâcher le<br />
lien aspectuel, c’est-à-<strong>di</strong>re de s’acquitter de l’instantanéité de l’événement. On<br />
“refroi<strong>di</strong>t” ainsi l’image en présentant une scène désertée que l’observateur<br />
remplira à sa guise grâce à l’hypersavoir cognitif, affectif mais aussi figuratif<br />
dont il <strong>di</strong>spose: en quelque sorte, il suffit alors d’illustrer la scène avec les<br />
images d’horreur qui conviennent.<br />
Dans un premier cas de figure, l’ancrage dans l’événement reste assuré par le<br />
titre. Sophie Ristelhueber 56 , par exemple, rassemble des photographies prises en<br />
Irak représentant des champs de palmiers calcinés comme une armée en déroute.<br />
Ce sont des vestiges de la guerre Irak-Iran pourtant, en raison de l’aspectualité<br />
caractéristique de l’événement, marqué par l’itération, ils évoquent tous les<br />
conflits susceptibles de ce produire à cet endroit.<br />
Pierre Faure présente une série de photographies de pavillons représentatifs<br />
de l’architecture populaire de l’après-guerre, toutes à peu près identiques et<br />
pareillement désertées. La seule référence à l’événement, susceptible de “déclencher”<br />
l’activité interprétative vient du titre Oradour (sur-Glane) 2001, nom<br />
d’une petite commune de la Haute-Vienne dont tous les habitants furent massacrés<br />
par une <strong>di</strong>vision SS au printemps 44. Par ces photographies dépouillées<br />
de l’insoutenable, Faure rappelle que les “banques de données de l’inconscient<br />
collectif” 57 peuvent être convoquées et suffiront à “remplir” les images de leurs<br />
figures prévisibles. Dans ce cas, comme dans celui qui précède, le photographe<br />
est pour ainsi <strong>di</strong>re en retard sur l’événement à moins que, jouant sur la protension<br />
des événements, il ne soit en avance... L’événement, <strong>di</strong>sent-ils en quelque<br />
sorte, c’est “ici mais n’importe quand”.<br />
55 L’événement est un “déni du <strong>di</strong>re”, un “déni du <strong>di</strong>scours” – explique Claude Zilberberg (2006. p. 194).<br />
56 Les séries de S. Ristelhueber (Iraq, 2001) et P. Faure (Oradour, 2001) étaient présentées lors de l’exposition<br />
Paysages invisibles du musée départemental d’art contemporain de Rochechouart, à l’automne<br />
2004. La première est reproduite dans Cotton (2005, p. 166).<br />
57 Wolinski (2004, p. 63).<br />
53
Dans cette typologie pourraient également s’inscrire les Nuits de Thomas<br />
Ruff, des photographies urbaines saisies avec un instrument de vision nocturne.<br />
Inspirées à l’artiste par les images de la guerre du Golfe, celles-ci sont traitées par<br />
une couleur verte caractéristique qui suffit à transformer une banale observation<br />
en surveillance et en scrutation, corroborant ainsi le schéma tensif de la vision<br />
rapprochée (intensité forte, étendue faible). Surtout, la coloration et la résolution<br />
caractéristique des appareils de surveillance étant associées dans l’actualité télévisuelle<br />
à des contenus dysphoriques, celles-ci suffisent à dramatiser la scène et à<br />
instaurer –fût-ce sur d’ano<strong>di</strong>nes vues urbaines- une tension dysphorique, un effet<br />
de suspense effrayant: “Chaque endroit est une scène de crime en puissance”<br />
explique à ce propos Thomas Ruff 58 . En ce cas, et à la <strong>di</strong>fférence des séries précédentes,<br />
l’ancrage évènementiel n’est pas assuré par la spécification du titre –les<br />
photographies s’intitulent sobrement Nacht 1, Nacht 2…- mais seulement suggéré<br />
par les propriétés de l’image qui mobilisent l’hypersavoir de l’observateur.<br />
9.5.2. La simulation de l’événement<br />
La simulation de l’événement est une autre stratégie alternative à laquelle se<br />
sont voués de nombreux photographes qui se placent sous l’égide du “ça peut<br />
être” (Couchot) du numérique.<br />
Dans ce cas de figure, ni le corps-point du reporter ni les données spatiales<br />
et temporelles ne sont sollicitées, le motif assurant seul l’ancrage dans l’événement,<br />
dans le “ça” commun au “ça a été” de Barthes et au “ça peut être” de<br />
Couchot: le “ça” qui trouverait sa correspondance dans l’exclamatif (Zilberberg)<br />
de l’évènement.<br />
Premier exemple de simulation, l’agence Advantis Pictures se spécialise<br />
depuis 1998 dans la <strong>di</strong>ffusion de photos préfabriquées d’événement. Elle a<br />
vendu à cent cinquante magazines des photos de l’éclipse solaire d’août 1999<br />
avant que celle-ci n’ait lieu. Anticiper l’événement, c’est également ce que<br />
propose l’artiste Edouard Levé qui joue avec les clichés de la presse quoti<strong>di</strong>enne<br />
en composant de fausses photos d’actualité, comme par exemple celle d’une<br />
cérémonie de coupure de ruban, célébrée par des é<strong>di</strong>les en costume-cravate<br />
(L’inauguration, 2001) 59 .<br />
Le cas le plus exemplaire reste cependant celui de l’artiste polonais Zbigniew<br />
Libera qui, au lendemain de la prise de Bagdad par les Américains, fit paraître<br />
à la une de l’hebdomadaire polonais Przekroj, la photo d’une Irakienne étreignant<br />
un GI, une image symbole fabriquée en stu<strong>di</strong>o plusieurs semaines avant<br />
la prise de Badgad. Présentée sur une cimaise de galerie 60 , cette photo présentait<br />
58 Cité par Régis Durand (1997, p. 12).<br />
59 Cette photographie est intéressante à plus d’un titre car elle révèle à un regard un peu exercé quelques<br />
arcanes du changement de pratique. Ainsi certains éléments textuels (le cadrage est trop large, la presse<br />
locale s’autoriserait à couper les pieds des actants ) voire figuratifs (un ruban rouge et non tricolore)<br />
suffisent à révéler la simulation et l’emprise de la pratique artistique.<br />
60 La série était présentée Magda Danysz en novembre-décembre 2004.<br />
54
la particularité de conserver les marques de la reprise énonciative. Elle affichait<br />
l’image telle qu’elle fut publiée dans l’hebdomadaire, en dévoilant l’épaisseur<br />
de la revue et la typographie de la une, c’est-à-<strong>di</strong>re le texte avec son support,<br />
de façon à thématiser le niveau de pertinence de l’objet.<br />
En conservant de telles marques <strong>di</strong>scursives, l’image propose de faire son<br />
propre commentaire et valide, en même temps que sa fonction méta<strong>di</strong>scursive,<br />
son statut d’œuvre moderne tel que l’a défini Greenberg 61 . De façon plus essentielle,<br />
la conservation de ces marques pré<strong>di</strong>catives par la pratique journalistique<br />
manifeste une incidence véri<strong>di</strong>ctoire: elle suffit à transformer l’image en un<br />
“mensonge vrai” qui, à la façon du trompe l’œil, dévoile son propre subterfuge<br />
et fonde ainsi, finalement, sa propre éthique. L’éthique de l’artiste qui joue ainsi<br />
au reporter consiste à affirmer: regardez, je vous montre comment la simulation<br />
peut être une falsification.<br />
10. CONCLUSION: ÉTHIQUE ET PARODIE<br />
Il conviendrait sans doute de <strong>di</strong>scuter plus longuement cette notion d’éthique,<br />
les photographies de Z. Libera donnant une consistance très particulière à nos<br />
interrogations en déployant une troisième stratégie, la paro<strong>di</strong>e.<br />
En effet, une autre stratégie de cet artiste, incarnée par la série Des corps<br />
désinvoltes dans l’histoire, consiste à imiter la composition des photographies<br />
de presse les plus célèbres –cette fillette vietnamienne brûlée au napalm courant<br />
sur un chemin; des soldats allemands alignés soulevant allègrement la<br />
barrière de la frontière polonaise; le cadavre de Che Guevara allongé devant<br />
des militaires- mais en opérant le renversement axiologique qu’assure un<br />
parti-pris burlesque. Au lieu de représenter des affects négatifs, ces images<br />
subissent ainsi une valorisation positive que confortent la connotation lu<strong>di</strong>que<br />
ou sportive de certains accessoires et l’expression voyeuse des protagonistes:<br />
la fillette devient une naturiste courant au milieu d’adeptes de l’aile volante;<br />
les soldats allemands sont des cyclistes et Che Guevara fume une cigarette au<br />
milieu d’un cercle amical… Libera décrit sa démarche comme une façon de se<br />
réapproprier la culture: “la culture, tout comme la nature devient petit à petit<br />
l’environnement naturel de l’homme” – assure-t-il. “Je considère mes œuvres<br />
comme un moyen de contrôle sur ce qui a modelé mon moi” 62 .<br />
Or il reste qu’en renversant le contenu sémantique d’évènements insoutenables,<br />
ces images persistent dans l’insoutenable comme le révèle l’atroce paro<strong>di</strong>e<br />
de la célèbre photographie prise à la libération du camp de Buchenwald, où<br />
les déportés, vus par Libera, deviennent des sortes de campeurs hilares. Ces<br />
photographies laissent sans voix, tout jugement esthétique perdant lamentable-<br />
61 Voir à ce sujet le célèbre essai de Clement Greenberg (1989).<br />
62 Voir l’interview de l’artiste sur le carton d’invitation de la galerie M. Danysz.<br />
55
ment consistance et cédant devant le jugement de valeur, mais elles rappellent<br />
néanmoins une dérogation admise par Sontag. Certes toutes les photographies,<br />
fussent-elles représentatives d’une souffrance, prennent inéluctablement la<br />
beauté du passé, assure cet auteur, cependant certaines pourraient bien résister<br />
tout de même à l’esthétisation: ce sont précisément les images de camp de<br />
concentration qui, à chaque fois que nous les revoyons, expriment l’inhumanité<br />
comme la première fois où nous les avons vues.<br />
56
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71.<br />
Schaeffer, Jean-Marie<br />
1987 L’image précaire, Du <strong>di</strong>spositif photographique, Paris, Le Seuil.<br />
Shannon, Claude & Weaver, Warren<br />
1949 The mathematical theory of communication, Urbana, University of Illinois Press.<br />
Sontag, Susan<br />
1992 Sur la photographie, Le Seuil.<br />
2003 Devant la douleur des autres, Paris, C. Bourgois ed.<br />
Wolinski, Natacha<br />
2004 “La vérité flouée”, Beaux-arts, 246.<br />
Zilberberg, Claude<br />
2006 Précis de grammaire tensive, Limoges, Pulim.<br />
58
PER UNA SEMIOTICA DELLA FOTO RICORDO 1<br />
Gian Maria Tore<br />
1. BREVE INTRODUZIONE TEORICA A “TESTI”, “PRATICHE” E<br />
“VALORE”<br />
In questo saggio si stu<strong>di</strong>erà il senso della foto ricordo. Si mostrerà come la foto<br />
ricordo consista in una figurazione ben particolare, che acquista il suo senso per<br />
il fatto <strong>di</strong> appartenere ad una pratica. Una “foto ricordo” è una foto che entra<br />
in una pratica <strong>semio</strong>tica in cui le foto sono testi che possono “ricordare” <strong>degli</strong><br />
eventi personali. La pratica, dunque, predefinisce il ruolo della figurazione<br />
fotografica, la rende significativa per un certo fine, secondo un certo senso.<br />
1 Questo stu<strong>di</strong>o nasce come intervento orale al Seminario Intere<strong>semio</strong>tico <strong>di</strong> Parigi dell’anno<br />
2004/05, sul tema delle “Pratiche <strong>semio</strong>tiche”. Perciò, almeno nelle tematiche con cui ambisce<br />
confrontarsi, è debitore <strong>degli</strong> organizzatori del seminario: Jacques Fontanille in particolare, nonché<br />
Denis Bertrand, Jean-François Bordron e Claude Zilberberg. Un debito particolare lega inoltre<br />
questa riflessione al lavoro <strong>di</strong> Pierluigi Basso, che da tempo e con grande determinazione ha<br />
problematizzato il rapporto tra pratica, testo ed esperienza in <strong>semio</strong>tica, e che con esso ci obbliga<br />
a confrontarci.<br />
59
Da un punto <strong>di</strong> vista <strong>semio</strong>tico l’importanza della pratica sta in ciò: dare a<br />
una figurazione attestata la possibilità <strong>di</strong> valere; nel nostro caso, far sì che una<br />
figurazione valga in quanto ricordo. Resterà da definire come ciò avvenga e<br />
qual è il senso del “ricordo”.<br />
Ma se la pratica <strong>semio</strong>tica è ciò che pre<strong>di</strong>spone una figurazione a valere in<br />
un certo senso, il senso ultimo, particolare della pratica <strong>di</strong>penderà, <strong>di</strong> volta in<br />
volta, proprio dal valore assunto, o meglio creato dalla figurazione in una data<br />
situazione. Si mostrerà allora anche come il processo <strong>semio</strong>tico legato alla foto<br />
ricordo <strong>di</strong>penda, in definitiva, da quel che accade alla figurazione.<br />
Su queste due questioni che mettono in correlazione, rispettivamente, il<br />
punto <strong>di</strong> vista della “pratica” col punto <strong>di</strong> vista del “testo” occorrerà soffermarsi<br />
brevemente con due precisazioni teoriche, prima <strong>di</strong> entrare <strong>di</strong>rettamente nel<br />
nostro stu<strong>di</strong>o sulla foto ricordo. Riguardo al primo punto, occorre esplicitare in<br />
che modo la “pratica” definisce i suoi “testi”, ovvero stabilisce la significatività<br />
<strong>di</strong> una certa figurazione. Si tratta ovviamente del genere: una foto è una foto<br />
ricordo (o una foto pubblicitaria, una foto d’arte, o una foto documentaria o una<br />
foto scientifica) poiché partecipa genericamente a una certa pratica <strong>semio</strong>tica.<br />
È per il fatto che esiste una pratica interessata ad attestare fotograficamente la<br />
presenza del soggetto o dei suoi cari, parenti o amici, in una certa situazione<br />
che si hanno delle foto ricordo. Osservazione banale forse, ma che obbliga a<br />
tenere ben in chiaro che nulla impe<strong>di</strong>sce a queste stesse foto d’essere anche<br />
delle foto d’arte o delle foto documentarie, cioè d’appartenere ad altri generi,<br />
<strong>di</strong> essere testi <strong>di</strong> altre pratiche. Ma se ciò accadesse, non sarebbe certo per il<br />
fatto che esse raffigurano il soggetto o i suoi cari, bensì per altri caratteri della<br />
figurazione, a seconda dei valori richiesti dalle altre pratiche. Per esempio, una<br />
foto ricordo, per un gioco <strong>di</strong> forme o <strong>di</strong> luci, può esser valida per la contemplazione<br />
o l’emozione estetiche; oppure, per l’attestazione <strong>di</strong> un fatto pubblico, può<br />
valere per una documentazione o per anche per una pratica politica; oppure, per<br />
il fatto <strong>di</strong> raffigurare il soggetto vicino a un monumento può esser valida per<br />
l’attestazione della pratica turistica, cioè per la figurazione <strong>di</strong> un certo rapporto<br />
del soggetto con lo spazio urbano.<br />
La posizione che bisogna trarne, e <strong>di</strong> cui in questo saggio cercherà <strong>di</strong> mostrare<br />
la portata euristica, è dunque la seguente: un testo va stu<strong>di</strong>ato per la<br />
significatività, per la valenza pratica della sua figurazione. Il valore specifico<br />
<strong>di</strong> una figurazione, ciò che le accade, è sempre motivato dalla pratica a cui<br />
essa, in quanto testo, appartiene. Si intenderà dunque per “testo” qualunque<br />
configurazione – visiva, sonora, verbale, polisensoriale, etc., poco importa 2 ;<br />
2 Sulla teoria e lo stu<strong>di</strong>o della figuratività in<strong>di</strong>pendentemente dal canale sensoriale, cf. Fontanille 2004,<br />
II.1.<br />
Al <strong>di</strong> fuori della <strong>semio</strong>tica, è oltremodo interessante notare come Chion (1990 e 2003), il più autorevole<br />
stu<strong>di</strong>oso del suono nell’au<strong>di</strong>ovisivo, giunga alle medesimi proposte: tramite innumerevoli analisi,<br />
egli mostra che il film è un fenomeno “trans-sensoriale”, una configurazione unitaria in cui suono e<br />
immagine interagiscono e si figurativizzano a vicenda: senza suoni vedremmo tutt’altro e, ascoltati<br />
senza immagini, i suoni non hanno senso.<br />
60
mentre una “pratica” sarà invece un <strong>di</strong>spositivo che regoli il valere dei valori<br />
testuali. Più precisamente, una “pratica <strong>semio</strong>tica” si in<strong>di</strong>vidua per il modo<br />
in cui mette in rapporto <strong>degli</strong> oggetti testuali con un soggetto pratico. Per<br />
definizione, la pratica è il luogo in cui ne va del proprio oggetto e del proprio<br />
soggetto.<br />
Conseguentemente, e come seconda breve premessa al nostro stu<strong>di</strong>o del<br />
“testo” e delle “pratiche”, nelle pagine che seguono parleremo e ci occuperemo<br />
del “senso pratico” dei testi, nonché del “soggetto pratico”. Ciò vorrà <strong>di</strong>re che<br />
ci si interesserà a un soggetto e un senso non puri e trascendentali, ma sempre<br />
incarnati e immanenti a un caso <strong>semio</strong>tico specifico; un senso e un soggetto<br />
non generali o universali, ma locali e singolari.<br />
Lo stu<strong>di</strong>o della foto ricordo è parso strategicamente prezioso, tanto per comprendere<br />
in che modo una pratica controlli la genericità testuale e definisca il<br />
valore <strong>di</strong> una figurazione, quanto per stu<strong>di</strong>are l’incarnazione e la non evidenza<br />
del soggetto <strong>semio</strong>tico, nonché la base esperienziale e sperimentale del senso.<br />
L’obiettivo <strong>di</strong> questo saggio è dunque duplice. In primo luogo, si tratterà <strong>di</strong><br />
definire il carattere <strong>semio</strong>tico, i contorni e le poste in gioco <strong>di</strong> quel genere <strong>di</strong><br />
testualità particolare che è la foto ricordo. Di riflesso, ci si propone <strong>di</strong> reagire<br />
alle sollecitazioni <strong>di</strong>ffuse, e a cui anche questo numero <strong>di</strong> Semiotiche partecipa,<br />
<strong>di</strong> una riconsiderazione generale della “testualità”, che è, e probabilmente resta,<br />
il terreno d’elezione della <strong>semio</strong>tica.<br />
2. ELEMENTI D’ANALISI SEMIOTICA DELL’ESPERIENZA DELLA<br />
FOTO RICORDO<br />
2.1. La moralizzazione<br />
Come accostarsi alla foto ricordo? In base alle posizioni appena esposte,<br />
proporremo d’abord <strong>di</strong> interessarci al valore che essa può assumere e che<br />
fa circolare. Prenderemo le mosse osservando, in maniera del tutto empirica,<br />
le regolarità della pratica testuale, il modo in cui la foto ricordo sembra<br />
valere.<br />
Ad un primissimo approccio, la pratica delle foto ricordo presenta almeno<br />
due regolarità osservabili. Innanzi tutto, la sua <strong>di</strong>ffusione: le foto ricordo sono<br />
probabilmente il tipo <strong>di</strong> immagine più <strong>di</strong>ffusa nei focolai domestici. Chiunque,<br />
a prescindere dall’età, dalla classe sociale o dal grado <strong>di</strong> istruzione, colleziona,<br />
coccola o regala foto ricordo. In secondo luogo, il carattere decisamente poco<br />
nobile, ano<strong>di</strong>no e piatto delle foto ricordo: è molto facile considerare le foto<br />
ricordo come delle foto mancate, mal riuscite, ratées. Le foto ricordo sono più<br />
o meno brutte, non riuscite, sia esteticamente che, spesso, proprio in quanto<br />
foto ricordo. E ad ogni modo, a parte per i <strong>di</strong>retti interessati, esse si presentano<br />
come assolutamente insignificanti.<br />
Insomma, le foto ricordo, per quanto assai <strong>di</strong>ffuse, normalmente sono assai<br />
poco apprezzate. Esse circolano regolarmente sigillate da un giu<strong>di</strong>zio d’ap-<br />
61
prezzamento che molto facilmente è tutt’altro che positivo 3 . Così - fatto davvero<br />
curioso dal punto <strong>di</strong> vista teorico - è come se la pratica delle foto ricordo<br />
prevedesse regolarmente una chiusura moralizzante, che consisterebbe nella<br />
squalifica dei testi attorno ai quali la pratica stessa s’è svolta.<br />
Ora, il fenomeno della “moralizzazione” è da subito illuminante, per vari aspetti.<br />
Innanzi tutto, esso chiarisce in che cosa il fatto esperienziale <strong>di</strong> non/apprezzare una<br />
fotografia, <strong>di</strong> non/trovarla riuscita, sia precisamente ed esemplarmente un fatto <strong>di</strong><br />
linguaggio: in che cosa l’uso della foto ricordo è essenzialmente una pratica <strong>semio</strong>tica.<br />
Inoltre, la moralizzazione rivela la <strong>di</strong>mensione passionale dell’esperienza<br />
della foto ricordo. I due fenomeni, pratica <strong>semio</strong>tica e <strong>di</strong>mensione passionale,<br />
non sono affatto separati. È quanto <strong>di</strong>mostra lo stu<strong>di</strong>o fondamentale <strong>di</strong> Greimas e<br />
Fontanille, sulla <strong>semio</strong>tica delle passioni, in cui si illustra come la passione sia un<br />
processo <strong>semio</strong>tico, regolare ed osservabile, cioè una pratica culturale. In essa, la<br />
“moralizzazione” è definita come il momento finale, che sigilla e convalida intersoggettivamente<br />
il senso esperito corporalmente. “L’emozione si manifesta attraverso<br />
un comportamento osservabile che è l’oggetto principale delle valutazioni etiche ed<br />
estetiche che abbiamo convenuto <strong>di</strong> chiamare moralizzazione” 4 : “la moralizzazione<br />
è […] concepita prima <strong>di</strong> tutto per regolare la comunicazione passionale all’interno<br />
<strong>di</strong> una data comunità. La moralizzazione quin<strong>di</strong>, sia essa <strong>di</strong> origine in<strong>di</strong>viduale o<br />
collettiva, segnala l’inserzione <strong>di</strong> una configurazione passionale all’interno <strong>di</strong> uno<br />
spazio comunitario. Si manifesta […] generalmente tramite giu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> eccesso, <strong>di</strong><br />
insufficienza o <strong>di</strong> misura” 5 . La moralizzazione sancisce dunque la <strong>semio</strong>ticità <strong>di</strong><br />
un’esperienza del soggetto, e cioè che “non c’è passione solitaria. Qualunque configurazione<br />
passionale sarebbe intersoggettiva, con al suo interno almeno due soggetti:<br />
il soggetto della passione e il soggetto che si assume la moralizzazione” 6 .<br />
Due questioni emergono. Una è che la moralizzazione consiste in un giu<strong>di</strong>zio,<br />
tanto estetico quanto etico, che sdoppia il “soggetto” dell’esperienza testuale.<br />
Costui, emettendo un giu<strong>di</strong>zio tanto sulla non/bellezza quanto sulla non/“bontà”<br />
della foto, assume il ruolo <strong>di</strong> “osservatore” dell’esperienza stessa. Si tratta <strong>di</strong><br />
una sorta <strong>di</strong> “riflessione” del soggetto pratico sul valore esperito. La seconda<br />
questione rilevante è, conseguentemente, il processo <strong>semio</strong>tico dell’esperienza<br />
fotografica, sul quale verte il giu<strong>di</strong>zio d’apprezzamento. Dal punto <strong>di</strong> vista del<br />
soggetto, si tratta della sua emozione.<br />
3 Zilberberg (Fontanille e Zilberberg 1998, voci “valenza” e “valore”; Zilberberg 2002) ha messo a punto<br />
alcuni preziosissimi strumenti concettuali per analizzare questi fenomeni. <strong>Stu<strong>di</strong></strong>ando la circolazione<br />
dei valori e le operazioni <strong>semio</strong>tiche che li manipolano, egli <strong>di</strong>stingue, tra l’altro, le pratiche a “regime<br />
<strong>di</strong> valori universali” e quelle a “regime <strong>di</strong> valori assoluti” o “eclatanti”. Le prime sarebbero le pratiche<br />
a carattere estensivo, “<strong>di</strong>ffuso” e a intensità “raffreddata”; le seconde sarebbero concentrate, “selezionate”<br />
e ad alta forìa. Dal punto <strong>di</strong> vista della loro circolazione sociale, le foto ricordo rientrerebbero<br />
sicuramente nel primo tipo. Ottimi esemplari del secondo tipo sarebbero invece le foto d’arte; mentre<br />
le foto <strong>di</strong> reportage rappresenterebbero un misto variabile tra i due.<br />
4 Greimas e Fontanille 1991, p. 242 tr. it.<br />
5 Greimas e Fontanille 1991, p. 134 tr. it.<br />
6 Greimas e Fontanille 1991, pp. 144-145 tr. it.<br />
62
Su queste ricognizioni teoriche e sulle osservazioni empiriche che precedono<br />
si può abbozzare una prima analisi sulla pratica <strong>semio</strong>tica della foto ricordo. Si<br />
può sostenere che questa consiste, tra l’altro, in un’emozione legata all’esperienza<br />
<strong>di</strong> una figurazione che il soggetto fa <strong>di</strong> sé (o dei suoi intimi, delle persone<br />
che in un certo senso appartengono alla sua stessa sfera pratica): il soggetto<br />
e il suo mondo “sono in” una foto. Ma, proprio per il fatto <strong>di</strong> trovarsi “nella”<br />
foto, il soggetto mette in causa la veri<strong>di</strong>cità della figurazione fotografica. Egli<br />
enuncia un giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong>s/approvativo.<br />
2.2. (S)figurazione ed emozione<br />
Quale che sia il luogo o il momento in cui la foto è stata scattata, la situazione<br />
<strong>di</strong> cui in teoria la foto dovrebbe conservare il “ricordo” conta assai poco 7 . Quel<br />
che sembra valere è piuttosto una specie <strong>di</strong> presente, in cui ha senso <strong>di</strong>re “guarda<br />
come sono/sei bello” o (soprattutto) “guarda come sono/sei brutto qui”. Il<br />
soggetto guarda la foto e il minimo che gli possa capitare è <strong>di</strong> trovare che lui<br />
o un suo caro hanno un sorriso un po’ stupido, uno sguardo assente, un gesto<br />
esagerato. A volte succede anche che, “nella” foto, egli vede <strong>di</strong> avere un collo<br />
troppo lungo, una posizione un po’ gobba; e che in un tal momento egli inclina<br />
la testa in un modo che non gli appartiene, e che in talaltra circostanza si ritrova<br />
con un naso o una pettinatura inimmaginabili, e via <strong>di</strong>cendo. Alla fine dei<br />
conti, è assai raro che lui, o i suoi cari, siano “nella” foto. Che la foto ritragga<br />
sua madre trent’anni anni prima o un’ora fa, quel che conta non pare essere<br />
tanto il ritrovare un momento passato, ma il modo in cui si può riconoscerla ed<br />
apprezzarla: “qui sembra vecchia”, “qui ha dei begli occhi”.<br />
Il nostro assunto teorico è che una pratica consista in un certo interesse <strong>di</strong> una<br />
configurazione, una certa possibilità <strong>di</strong> valere <strong>di</strong> cui essa <strong>di</strong>spone. Ora, pare che la<br />
pratica della foto ricordo si interessi nel ritrovare se stessi o i propri cari “in” una<br />
fotografia. Così, l’esperienza testuale che la pratica implica consiste nell’emozione<br />
suscitata da come il soggetto si trova “nella” fotografia, o da come “vi” trova i suoi<br />
intimi. Da un lato, soggettivamente, per ritrovare, riconoscere se stessi o i propri<br />
cari “in” una foto occorrono delle concessioni: l’assunzione della figurazione<br />
testuale è chiamata in questione. Dall’altro, ciò implica che, oggettivamente, la<br />
foto ricordo enuncia una (s)figurazione del corpo del soggetto pratico.<br />
In un celebre episo<strong>di</strong>o, Proust descrive splen<strong>di</strong>damente l’esperienza della<br />
7 Sottolineiamo ancora una volta che non si sta sostenendo che una fotografia non possa attestare una<br />
situazione passata; ma solo che, in quel caso, forse paradossalmente, si sarebbe in presenza <strong>di</strong> una foto<br />
turistica, una foto documentaria, una foto scientifica, o altro ancora. Se siamo in una foto scattata a<br />
Bologna una decina d’anni fa, far valere la foto per mostrare lo stato <strong>di</strong> un angolo <strong>di</strong> Bologna dell’epoca<br />
o il nostro passaggio in quella strada, vuole <strong>di</strong>re praticare una documentazione o del turismo. La nostra<br />
tesi è che il modo in cui fa senso una foto ricordo, in quanto tale, è tutt’altro, e in queste pagine stiamo<br />
cercando <strong>di</strong> definirlo. Ma, lo ripetiamo, una stessa fotografia può essere il testo <strong>di</strong> un numero indefinito<br />
<strong>di</strong> pratiche. Soltanto, essa varrà ogni volta in modo <strong>di</strong>fferente.<br />
63
visione fotografica dei propri cari. Il narratore della Recherche arriva <strong>di</strong> sorpresa<br />
dalla nonna che non vedeva da tanto tempo, e la coglie in un momento in cui<br />
lei non si accorge <strong>di</strong> lui. Allora, per un istante non la riconosce:<br />
“Di me – per l’effimero privilegio grazie al quale, nel breve istante del<br />
ritorno, ci è dato d’assistere improvvisamente alla nostra stessa assenza<br />
– non era presente che il testimone, l’osservatore, l’estraneo in cappello<br />
e soprabito da viaggio, colui che non è <strong>di</strong> casa, il fotografo venuto a<br />
ritrarre luoghi che non rivedremo mai più. E ciò che, meccanicamente,<br />
si formò nei miei occhi quando vi<strong>di</strong> la nonna, fu appunto una fotografia.<br />
[…] Come avrei potuto, poiché alla fronte, alle gote della nonna affidavo<br />
il compito <strong>di</strong> esprimere quanto v’era <strong>di</strong> più delicato e inalterabile<br />
nella sua mente, e poiché ogni sguardo che nasce dall’abitu<strong>di</strong>ne è una<br />
negromanzia e ogni viso che amiamo è uno specchio del passato,<br />
come avrei potuto non omettere ciò che in lei s’era appesantito e mutato<br />
[…]? Se, invece del nostro occhio, a guardare sarà un obiettivo<br />
puramente materiale, una lastra fotografica, allora [è] come un malato<br />
il quale, non vedendosi da molto tempo e seguitando a comporre quel<br />
volto ch’egli non vede […] in<strong>di</strong>etreggia se scorge in uno specchio, nel<br />
mezzo <strong>di</strong> un volto arido e deserto, la sopraelevazione obliqua e rosata<br />
d’un naso gigantesco come una piramide d’Egitto. [Così] io per cui la<br />
nonna non era altri che me stesso, […] ora, d’improvviso, nel nostro<br />
salotto che apparteneva a un mondo nuovo, quello del tempo, quello<br />
dove vivono gli estranei <strong>di</strong> cui si <strong>di</strong>ce “invecchia bene”, per la prima<br />
volta e per un solo istante […] vi<strong>di</strong> […] una vecchia donna prostrata<br />
che non conoscevo”. 8<br />
Un altro celebre e niti<strong>di</strong>ssimo esempio è l’esperienza <strong>di</strong> visione <strong>di</strong> Barthes<br />
nel racconto della Camera chiara 9 . La vulgata vorrebbe che in questo libro<br />
Barthes sostenga che l’essenza della foto sia il “ça a été” 10 . In realtà, il mo-<br />
8 Proust,1920, pp. 166-167 tr. it.<br />
9 Barthes 1980.<br />
10 “Ça a été” è una formula <strong>di</strong> ardua traduzione. La versione <strong>di</strong> Gui<strong>di</strong>eri per Einau<strong>di</strong> ha stabilito un semplice<br />
“è stato”. Non siamo sicuri che questa traduzione, vicina al significato della formula, ne riproduca<br />
anche il senso dato dall’uso. Quando in Francia si torna da un viaggio o si esce da un esame, l’amico<br />
domanda “ça a été”? col che, ovviamente, egli non vuol affatto sapere se “è stato”, ma se la cosa si è<br />
ben conclusa, se è finita e con l’approvazione dell’interessato. Michel Dupré (2004, pp. 23-35) accosta<br />
spiritosamente la formula barthesiana a quella del cameriere, che quando sparecchia le portate del cliente,<br />
tra un piatto e un altro o alla fine del pasto, domanda a quest’ultimo “ça a été?”. Ma al <strong>di</strong> là del fatto che<br />
l’“è stato” è assolutamente inadeguato per tali usi linguistici, ciò che depone globalmente a sfavore <strong>di</strong><br />
una tale traduzione è che “ça a été” è una formula che esiste in francese, e che la si usa negli eventi a<br />
cui si prende parte nella quoti<strong>di</strong>anità; mentre enunciare “è stato”, e basta, in italiano è improponibile. A<br />
ciò va aggiunto che il “ça” per Barthes non può non avere reminscenze freu<strong>di</strong>ane (il “ça” è, in francese,<br />
l’Es psicanalitico). Ciò spiega perché Barthes può associare il “ça a été” al “punctum”, al momento <strong>di</strong><br />
“jouissance” spersonalizzante e soggettivante. Invece, accostare “è stato” all’id suona molto curioso.<br />
64
tore <strong>di</strong> quest’“avventura <strong>semio</strong>tica” è l’insod<strong>di</strong>sfazione che Barthes prova<br />
davanti alla gran quantità <strong>di</strong> fotografie che falliscono nel dargli l’Immagine<br />
della madre; e che quin<strong>di</strong> lo motivano a un’accanita ricerca della buona fotografia<br />
(e durante tal ricerca Barthes, con tutte le foto mal riuscite su cui si<br />
imbatte, si guarda bene dal <strong>di</strong>re “ça a été!”). In altri termini, il libro sostiene<br />
non tanto che ogni fotografia significhi che la cosa che essa rappresenta è<br />
stata, è accaduta davvero e si è chiusa; ma che la fotografia è “la scienza<br />
impossibile dell’essere unico”, ricerca dell’ “immagine vera”, “allucinazione<br />
dell’immagine folle” 11 , della rappresentazione veri<strong>di</strong>ca poiché a noi<br />
conveniente, della figurazione che ci faccia esclamare “questa sì, è andata<br />
bene!”: “ça a été!”.<br />
Ciò che pare quin<strong>di</strong> costituire l’esperienza visiva delle foto ricordo non è<br />
tanto un “questa è stata”, ma piuttosto un “questa sì”, oppure, assai più frequentemente,<br />
un “questa poi!” 12 . Il senso pratico <strong>di</strong> una foto ricordo non è<br />
tanto quello <strong>di</strong> riaccendere un “ricordo”, ossia realizzare un virtualizzato, fare<br />
tornare a essere ciò che “è stato”. Il senso della foto ricordo non è un “questa<br />
è stata”, quanto piuttosto un “questa, può darsi” 13 , cioè la potenzialità <strong>di</strong> un<br />
attuale. La foto, in un certo senso, espande il corpo proprio del soggetto, la<br />
sua attualità, rendendola variabile, declinandola, rendendo possibile una serie<br />
aperta <strong>di</strong> manifestazioni. Oggettivamente, cioè dal punto <strong>di</strong> vista testuale, si<br />
tratta <strong>di</strong> una vera e propria sfigurazione. Soggettivamente, la variazione del<br />
corpo proprio costituisce un’emozione.<br />
2.3. Credenza e testualità<br />
“Noi guar<strong>di</strong>amo le foto come dei ricor<strong>di</strong> e non è che una specie <strong>di</strong><br />
anonimato dei ricor<strong>di</strong> che ci trattiene […]: questo non m’è familiare,<br />
questo mondo mi è comunque contemporaneo eppure mi sono sfuggiti<br />
tutti i suoi segni; la fotografia ci ha dunque insegnato che noi viviamo<br />
su una piccolissima parte del mondo, incompletamente recensita. […]<br />
L’immagine inaugura quel che ci ricorda, e non tanto ciò che rappresenta:<br />
quel che ci ricorda non è dunque questo viso, ma l’affetto […] Non mi<br />
richiama a ciò che so ma a ciò che sono; per esempio mi commuove<br />
[…] Ed è dunque come una macchina istantanea che fabbrica il passato,<br />
[…] che si potrebbe chiamare il passato attuale […]: una specie <strong>di</strong><br />
altrove attivo nell’immagine. L’immagine non designa una volta passata,<br />
ma un altrove” 14<br />
11 Barthes 1980, rispettivamente pp. 72, 109, 115 tr. it.<br />
12 Nel nostro intervento francese le formule che proponevamo <strong>di</strong> affiancare al “ça a été” erano “oui c’est<br />
ça” (quel che si <strong>di</strong>ce quando si approva, anche ironicamente, ciò l’interlocutore propone: “sì sì”) e<br />
specialmente “ça alors” (esclamazione <strong>di</strong> quando si è interdetti <strong>di</strong> colpo: “questa sì che è bella!”)<br />
13 “Ca, peut-être bien”.<br />
14 Schefer 1986, pp. 110-113, tr. nostra.<br />
65
Il senso <strong>di</strong> ciò che si suol chiamare una foto ricordo non è tanto il ricordarsi<br />
<strong>di</strong> una certa cosa successa, passata. Infatti, che cosa avrebbe mai potuto<br />
“passare”, accadere? Assai banalmente, il fatto che il soggetto fosse presente<br />
in tal luogo con la tal espressione, la tal posizione, etc. - tutte cose che, in<br />
sé, non costituiscono un gran evento, e che fan sì che le foto ricordo, prese<br />
in sé, siano piuttosto insipide, sciocche, vuote. Il senso pratico della foto<br />
ricordo, l’evento che essa costituisce, è che invece si veda che un qualcosa<br />
riguardante l’identità del soggetto sia potuta accadere. Il fatto che il soggetto<br />
abbia potuto essere così, che il suo corpo proprio possa passare per quelle<br />
manifestazioni.<br />
È un potenziale e non un virtuale, una potenza ed un evento piuttosto che un<br />
vero e proprio passato a costituire un tal processo <strong>semio</strong>tico. La foto ricordo<br />
“funziona” non in quanto semplice congelamento <strong>di</strong> un momento vissuto, bensì<br />
per una certa emozione suscitata da una (s)figurazione. Il senso pratico della<br />
foto ricordo si produce per l’introduzione del principio <strong>di</strong> variabilità figurale<br />
della foto, a cui corrisponde, nel soggetto, l’emozione. Si ha cioè un evento,<br />
che si declina, oggettivamente, attraverso le vicissitu<strong>di</strong>ni della figurazione<br />
(sfigurazione e riconfigurazione), e, soggettivamente, nelle vicende passionali<br />
(emozione e poi moralizzazione).<br />
La foto ricordo crea una tensione <strong>di</strong>fferenziante tra due realtà <strong>semio</strong>tiche:<br />
da un lato, oggettivamente, la figurazione enunciata dalla fotografia stessa,<br />
un’attualità; dall’altro, soggettivamente, la figurazione attesa dal soggetto del<br />
“ricordo”, una potenzialità. Questa tensione, che crea <strong>di</strong>fferenzialmente il senso<br />
<strong>di</strong> oggetto e soggetto, testo e passione, nasce con l’evento fotografico. Infatti,<br />
finché al soggetto non capiti <strong>di</strong> vedere la fotografia, la figurazione che egli ha<br />
del proprio corpo è un sapere in atto, la costruzione <strong>di</strong> una realtà. Ma quando<br />
egli fa l’esperienza della foto ricordo, il suo sapere attuale entra in concorrenza<br />
con quello implicato dalla foto, e quin<strong>di</strong> si sospende, cioè si allontana dal<br />
processo <strong>di</strong> stabilizzazione <strong>semio</strong>tica del reale, si potenzializza.<br />
Il soggetto pratico si trova <strong>di</strong>nanzi a un’attualità, a una figurazione <strong>di</strong>fferente;<br />
e che <strong>di</strong>verrà il suo nuovo sapere. Al contempo, quel che prima era il<br />
suo sapere, figurazione attuale, ora <strong>di</strong>venta credenza, figurazione potenziale.<br />
Il soggetto credeva che avrebbe visto la tal cosa e ne vede un’altra. Così,<br />
mentre oggettivamente si stabilisce il senso del testo fotografico, il soggetto fa<br />
l’esperienza della propria credenza; egli si sperimenta in quanto soggetto che<br />
interpreta e che crede.<br />
3. ESPERIENZA E SPERIMENTAZIONE<br />
3.1. Considerazioni sul senso come processo oggettivante e soggettivante<br />
Ad una prima analisi, sembra evidente che il senso della foto ricordo si giochi tra i<br />
mo<strong>di</strong> in cui il soggetto può apparire su una foto da un lato, e le manifestazioni che<br />
egli si attende dall’altro. Il fatto <strong>semio</strong>tico si presenta dunque come un evento a<br />
66
doppia declinazione, un nodo singolare 15 : il nodo che <strong>di</strong> volta in volta collega una<br />
“oggettualità” (le manifestazioni attestate, la figurazione attuale) a una “soggettalità”<br />
(l’emozione <strong>di</strong> una figurazione potenzializzata, creduta e assunta dal soggetto).<br />
Si parlerà quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> “oggettalità/soggettalità”, e non <strong>di</strong> “oggettività/soggettività”,<br />
perché, come sarà ormai evidente, nel senso <strong>di</strong> un testo c’è ben poco <strong>di</strong><br />
oggettivo; né tanto meno risulterebbe interessante invocare la soggettività <strong>di</strong> una<br />
certa situazione. Piuttosto, ha molto più senso e pare <strong>di</strong> gran lunga più interessante<br />
parlare <strong>di</strong> un doppio processo in cui consiste la <strong>semio</strong>si: il processo <strong>di</strong> s/oggettivazione;<br />
e <strong>di</strong> una conseguente bipolarità che ne risulta, l’istanza s/oggettale. Si<br />
tratta certamente <strong>di</strong> una generalità concernente ogni processo <strong>semio</strong>tico. Si può<br />
assumere infatti che, per definizione, ogni <strong>semio</strong>si è un processo <strong>di</strong> formazione <strong>di</strong><br />
un s/oggetto; ed ogni evento è, <strong>semio</strong>ticamente, messa in tensione tra le due facce<br />
del processo, cortocircuito tra il polo soggettale e il polo oggettale del senso 16 .<br />
La foto ricordo presenta dunque un doppio or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> questioni. Da una<br />
parte, vi sono le questioni <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne oggettale, che concernono le vicissitu<strong>di</strong>ni<br />
della figurazione. Nella tal fotografia si rappresenta la tal scena riconoscibile,<br />
coi tali attori nei tali luoghi e nelle tali circostanze. A tal proposito si parlerà<br />
<strong>di</strong> “testualizzazione” o “oggettivazione”. Si tratta del processo in cui, sotto il<br />
controllo <strong>di</strong> un’istanza soggettale, <strong>di</strong> una competenza <strong>semio</strong>tica, si oggettivano<br />
dei dati dell’ambiente visivo in configurazioni riconoscibili.<br />
Ma dall’altra parte e allo stesso tempo vi sono questioni <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne soggettale,<br />
che se lasciate da parte fanno perdere totalmente il senso della pratica, ivi<br />
compreso l’aspetto oggettale. Se da una parte il soggetto opera un’oggettivazione,<br />
testualizza, configura secondo un sapere, dall’altra parte l’oggetto-testo<br />
forma delle prospettive, <strong>degli</strong> effetti temporali e passionali, insomma opera<br />
una soggettivazione. Una figurazione implica sempre delle attese, modula ogni<br />
volta delle credenze. Nel caso della foto ricordo, le vicissitu<strong>di</strong>ni della propria<br />
immagine aprono una sfida al sapere del soggetto e <strong>di</strong>spiegano una serie <strong>di</strong><br />
possibilità del suo corpo proprio.<br />
3.2. L’evento fotografico: il senso come sperimentazione<br />
Il senso non è mai “semplice”, cioè “oggettivo” o “soggettivo”. Una scena <strong>di</strong><br />
una foto ricordo non ha nessuna esistenza <strong>semio</strong>tica senza un soggetto dato<br />
che (se) la figura, che la istituisce non solo percettivamente, in quanto scena<br />
visiva, ma proprio in quanto figurazione <strong>di</strong> un “ricordo”. E tuttavia, nemmeno<br />
il soggetto del “ricordo” della foto ha senso senza l’esperienza fornitagli dalla<br />
pratica fotografica stessa, e da tutte le altre che, similmente, attiveranno le sue<br />
credenze, genereranno le sue emozioni, motiveranno i suoi giu<strong>di</strong>zi.<br />
15 Il concetto, centrale dell’ultimo Barthes (1980, p. 10 tr. it.), <strong>di</strong> “mathesis singularis”, coglie anch’esso,<br />
partendo dalla fotografia, la necessità <strong>di</strong> un <strong>di</strong>scorso anti-universale e pratico sul senso.<br />
16 Di conseguenza, pare decisamente inopportuno il progetto <strong>di</strong> una “<strong>semio</strong>tica oggettale” da un lato, e<br />
una “<strong>semio</strong>tica soggettale” dall’altro, com’è stato invece proposto con un certo successo da Coquet<br />
(1997). Questa <strong>di</strong>visione può anche esser utile, ma ci sembra rilevi piuttosto <strong>di</strong> una fase “primitiva”,<br />
<strong>di</strong>dattica, della <strong>semio</strong>tica, privata <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> possibilità euristiche.<br />
67
Ora, lo stu<strong>di</strong>o del processo <strong>semio</strong>tico della foto ricordo, oggettivante e soggettivante,<br />
implica la rivisitazione <strong>di</strong> alcune concezioni basilari della <strong>semio</strong>tica,<br />
nonché, è il caso <strong>di</strong> <strong>di</strong>rlo, <strong>di</strong> alcuni cliché che ingombrano la riflessione<br />
sulla fotografia. Si <strong>di</strong>ce solitamente che la fotografia è impronta (la cattura<br />
dell’impronta <strong>di</strong> un corpo che “è stato”); e che la <strong>semio</strong>si è interpretazione per<br />
rinvenimento e riconoscimento <strong>di</strong> impronte (c’è <strong>semio</strong>si quando aliquid stat<br />
pro aliquo) 17 . Ma quel che la pratica della foto ricordo illustra chiaramente, anzi<br />
emblematicamente, è che i suoi testi sono certo delle impronte, ma a con<strong>di</strong>zione<br />
che, per una serie <strong>di</strong> tentativi e <strong>di</strong> adeguamenti esperimentati, il soggetto<br />
possa “starci dentro”. La questione è infatti tutta nell’essere “nella” figurazione<br />
fotografica. Perciò, se proprio si tratterà <strong>di</strong> riconoscimento dell’impronta, sarà<br />
certo un riconoscimento produttore, costruttivo. Impronta certo, ma, più che<br />
interpretata, sperimentata.<br />
I <strong>semio</strong>tici sanno bene con quale facilità ed eleganza Floch ha saputo mostrare<br />
come la fotografia, se anche fosse impronta, significherebbe non in quanto impronta<br />
pura, ma solamente per le svariate forme che quest’ultima può assumere 18 .<br />
Ma questa <strong>di</strong>mostrazione è stata per Floch tanto più facile nella misura in cui<br />
sono state prese in conto solo delle “foto d’arte”. La questione che invece ci si<br />
pone qui è: che ne è del senso pratico <strong>di</strong> quest’altro genere testuale che sono le<br />
“foto ricordo”? Queste fotografie che, per la loro norma d’uso, sono supposte<br />
non fare altro che fissare un momento della nostra storia personale, non sono<br />
forse delle pure impronte, che conserverebbero l’esistenza <strong>di</strong> fenomeni che si<br />
sono svolti e che, altrimenti, rischierebbero <strong>di</strong> restare nel virtuale del nostro<br />
percorso storico? In realtà, si è visto in queste pagine, persino nel caso emblematico<br />
delle foto ricordo, non è il passato che entra in gioco. La semplice<br />
impronta del fatto passato catturata dalla fotografia può benissimo essere ciò<br />
che costituisce il funzionamento fisico dell’apparecchio, ma dal punto <strong>di</strong> vista<br />
<strong>semio</strong>tico, in cui i fatti valgono in quanto fatti <strong>di</strong> linguaggio, cioè per il senso<br />
della loro lettura, le cose vanno in tutt’altro modo 19 .<br />
Da quest’ultimo punto <strong>di</strong> vista, sembra molto più opportuno considerare la<br />
fotografia secondo le forme e le formazioni dell’esperienza cui essa dà luogo.<br />
La foto ricordo è un regolatore <strong>semio</strong>tico dell’identità del corpo proprio, la<br />
cui enveloppe visibile 20 è <strong>di</strong>versamente formata, oggettivamente sfigurata. Ma<br />
essa è anche modulatore cognitivo e affettivo, generatore <strong>di</strong> una sorta <strong>di</strong> effetto<br />
temporale, cioè formatore soggettivante.<br />
17 Il noto riferimento è Eco 1984.<br />
18 Floch 1986.<br />
19 Già Schaeffer (1987, cap. 1) iniziava il suo stu<strong>di</strong>o classico sulla foto affermando che “occorre <strong>di</strong>stinguere<br />
la produzione del visibile dal problema della sua riproduzione. […] Il campo dell’irra<strong>di</strong>amento<br />
fotonico non è mai una duplicazione del visibile umano” (pp. 20-21, tr. nostra); sicché egli proponeva <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>stinguere il materiale dal <strong>semio</strong>tico, il “fotonico” dal “fotografico”, l’“impronta” dall’“analogon”.<br />
20 Sulla formazione delle figure dell’“involucro corporeo”, e sulla <strong>semio</strong>tica del corpo proprio in generale,<br />
cf. Fontanille 2004.<br />
68
In generale, la foto ricordo è il luogo <strong>di</strong> un’apertura dell’esperienza: il soggetto<br />
pratico e il senso della foto ricordo sono soggetto e senso sperimentali. E,<br />
forse, si può anche affermare che il senso della figurazione della foto ricordo<br />
è una soggettività sperimentale. Nella foto ricordo (e a fortiori nelle foto che<br />
non saranno “<strong>di</strong> ricordo”) è molto meno questione <strong>di</strong> passato che <strong>di</strong> presente,<br />
se non <strong>di</strong> futuro. Il processo <strong>di</strong> testualizzazione è lo strumento <strong>di</strong> un’apertura<br />
dell’orizzonte attuale del soggetto, e quin<strong>di</strong> del suo futuro, che è “ciò che sta<br />
per essere, ciò che accadrà”: caso, accidente.<br />
3.3. Conclusioni sull’esperienza della foto ricordo<br />
Il “ricordo” che figura nella fotografie è come il ricordo nella Recherche prustiana:<br />
ha senso non poiché evoca ed espone una memoria, ma in quanto insegna a<br />
leggere il presente. L’esperienza che esso genera tange non quel che è successo,<br />
ma quel che potrà succedere, accadere 21 . Detto ancor meglio, il senso del testo<br />
fotografico è che quest’ultimo si pone come figurazione futura, figurazione che<br />
accade, eventualità dell’orizzonte presente, accidente.<br />
Appare allora chiaro come figurazione e soggettivazione vanno <strong>di</strong> pari<br />
passo. In base a quanto esposto sin qui, si <strong>di</strong>rà che la foto ricordo si istituisce<br />
e acquista il suo senso mentre modula la competenza del soggetto secondo tre<br />
mo<strong>di</strong> almeno:<br />
(i) Secondo il modo fattitivo – la foto ricordo fa vedere ciò che altrimenti<br />
sarebbe invisibile: essa costituisce quin<strong>di</strong> una protesi 22 ;<br />
(ii) Secondo il modo aletico – la foto ricordo sospende il dover-essere del soggetto:<br />
in quanto “caso” ed “accidente” della figurazione del corpo proprio, la<br />
foto ricordo <strong>di</strong>spiega, attualizza una figurazione “contingente” e “possibile” 23 .<br />
In altri termini, essa costituisce un evento. Si tratta del cuore dell’enunciato<br />
fotografico: la foto ricordo rende visibile ciò che il corpo del soggetto della<br />
pratica può essere - ovviamente: “essere” in senso non ontologico ma <strong>semio</strong>tico,<br />
esistenza significativa, avatar del corpo proprio, oltre che della figura.<br />
(iii) Secondo il modo epistemico – la foto ricordo potenzializza il sapere del soggetto,<br />
rendendolo “incerto” e “probabile”: la foto attiva una credenza 24 .<br />
Insomma, se la foto ricordo è certamente un testo visivo, esso va considerato<br />
almeno secondo tre aspetti contemporaneamente, i quali in<strong>di</strong>cano chiaramente<br />
che il senso del testo si costituisce come un’esperienza e come una sperimentazione<br />
<strong>di</strong> un soggetto pratico.<br />
21 È la nota, brillante tesi <strong>di</strong> Deleuze 1970 2 .<br />
22 Per la fattitività e la teoria modale in generale, cf. Greimas 1976. Per una prima concettualizzazione<br />
<strong>semio</strong>tica della protesi, cf. Eco 1997, 6.10.<br />
23 Per Greimas (Greimas e Courtés 1979, p. 29 tr. It) “contingente” e “possibile” costituiscono l’asse del<br />
neutro del semantismo aletico, cioè legato al dovere.<br />
24 Per Greimas (Greimas e Courtés 1979, p. 127 tr. it.) “incerto” e “probabile” costituiscono l’asse del<br />
neutro, cioè il luogo della sospensione del semantismo epistemico.<br />
69
Questo dunque è l’insegnamento dello stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> una pratica <strong>semio</strong>tica: che la<br />
<strong>semio</strong>si non è tanto un soggetto che interpreta un testo o un’impronta, quanto<br />
piuttosto un soggetto che si costruisce assieme all’impronta o al testo stessi 25 .<br />
Generalizzando il complesso modale triplice appena esposto, enunciamo<br />
dunque, molto succintamente, i tre aspetti che sono parsi essenziali allo stu<strong>di</strong>o<br />
del testo fotografico. Essi sviluppano l’assunto della <strong>semio</strong>si come processo<br />
s/oggettivante 26 .<br />
4. PER UNO STUDIO DEL SENSO PRATICO<br />
4.1. Figura e passione<br />
Figurar(si) il corpo proprio: in ciò consiste il senso dell’enunciazione della<br />
foto ricordo. È un processo oggettivante, gestito da un’istanza soggettale.<br />
“Oggettivante” perché origina un testo; “processuale” e “gestito da un’istanza<br />
soggettale” perché un testo non va mai da sé. Se un testo è una configurazione<br />
stabilita, allora, come minimo, la figurazione si stabilisce in capo a un processo<br />
in cui: (1) la figurazione è controllata da un sapere e da una credenza, che<br />
pre-figurano sempre una scena in cui poter esperire il senso; (2) la scena, in<br />
quanto tale, resta generale, tipica, e perciò è messa in tensione dalla figurazione<br />
attestata, occorrenza singolare; (3) la figurazione attestata è evento, vicissitu<strong>di</strong>ne<br />
nella scena pre<strong>di</strong>sposta, attesa, creduta.<br />
Riappropriarsi della figura del corpo: questa è l’esperienza della foto ricordo. La<br />
figurazione attestata dalla foto ricordo non va mai senza un processo soggettivante,<br />
che il testo stesso gestisce. La “soggettivazione” è un processo probabilmente più<br />
evidente <strong>di</strong> quello <strong>di</strong> oggettivazione appena accennato, ma non<strong>di</strong>meno più <strong>di</strong>fficile<br />
da analizzare. Sicuramente esso è meno lineare del processo <strong>di</strong> testualizzazione;<br />
25 Già Deleuze (1953) formulava, in area proto-strutturale, una riflessione a tutt’oggi stimolante sulla<br />
“soggettività pratica”, che “si costituisce nel dato”.<br />
26 Il <strong>semio</strong>tico non si stupirà che i processi <strong>di</strong> oggettivazione e <strong>di</strong> soggettivazione emergano da una<br />
seria riconsiderazione delle logiche modali. Infatti è proprio con esse che Greimas intese superare la<br />
<strong>semio</strong>si dello “spettacolo semplice”, della scena fissa e “permanente” (Greimas 1966, pp. 236-237) e<br />
introdurre una variabilità <strong>di</strong> principio nel senso. Il senso è così concepito come evento, trasformazione<br />
in un ambiente.<br />
In effetti - con buona pace <strong>degli</strong> avversari attuali della <strong>semio</strong>tica del corpo - è a partire dello stu<strong>di</strong>o<br />
delle modalità dell’essere che la <strong>semio</strong>si si incarna. Con tale stu<strong>di</strong>o, si pone che il semantismo <strong>di</strong> base<br />
è costituito dallo spazio timico, “che […] è considerato rappresentare le manifestazioni elementari<br />
dell’essere vivente in relazione con il suo ambiente”; e lo “spazio modale” non è che “un’escrescenza<br />
e una sovra-articolazione <strong>di</strong> quest’ultimo” (Greimas 1979, p. 91). Sicché, in una <strong>semio</strong>tica “incorporata”<br />
e “ambientale”, “i soggetti <strong>di</strong> stato sono per definizione dei soggetti inquieti, mentre i soggetti<br />
<strong>di</strong> fare sono soggetti velleitari” (p. 98, sott. nel testo). Una tale prospettiva apre irreversibilmente “la<br />
problematica della costruzione del soggetto [a cui] deve corrispondere una <strong>semio</strong>tica dell’oggetto”<br />
(Greimas 1983, p. 11, sott. nel testo). Perciò, la teoria modale è lo stu<strong>di</strong>o delle “logiche soggettive” e<br />
delle “logiche oggettive” (Greimas 1976, p. 77).<br />
Per una rilettura critica e dettagliata della teoria modale in Del senso 2 alla luce della ricerca <strong>semio</strong>tica<br />
attuale, cf. Fontanille e Tore 2006.<br />
70
soprattutto esso è plurivoco, molteplice. In primo luogo, lo si è appena riba<strong>di</strong>to, la<br />
testualizzazione non ha mai luogo senza attese, saperi, invenzioni: senza credenze<br />
ed inferenze. In secondo luogo, la soggettivazione si genera perché un testo non è<br />
mai la messa in scena del medesimo spettacolo 27 : ogni testo riconfigura il sapere<br />
del soggetto che interpreta, riattiva la credenza del soggetto che sperimenta.<br />
Ma questo è ancora poco, e in ogni caso troppo generale. L’esperienza della<br />
foto ricordo è “soggettivante” in modo particolare perché consta <strong>di</strong> una protesi<br />
installata e assunta (embrayée) sul corpo del soggetto. Con la fotografia, il<br />
soggetto esperisce e sperimenta il proprio <strong>di</strong>venire. La foto ricorda proietta il<br />
corpo proprio in uno spazio <strong>di</strong> figurazioni potenziali.<br />
È solo <strong>di</strong>sinstallando ed enunciando (débrayage) la foto-protesi che, perciò,<br />
la soggettivazione si chiude, il potenziale <strong>di</strong>venta attuale, un nuovo sapere e<br />
una figurazione sono stabiliti. Così, il soggetto pratico <strong>di</strong>venta, da soggetto<br />
sperimentale (o attante-“soggetto” propriamente detto), soggetto <strong>di</strong> sapere<br />
(o attante-“osservatore”). Così, la scossa sfigurante dell’“emozione” <strong>di</strong>venta<br />
assestamento riconfigurante della “moralizzazione”. “Questa, sì” o “questa è<br />
orribile, è venuta male” sono i passaggi critici che sigillano l’enunciato fotografico.<br />
Così si chiude l’esperienza della visione della foto ricordo: il corpo<br />
proprio sarà più o meno figurativizzato (oggettivazione); la figura del corpo<br />
sarà più o meno appropriata (soggettivazione).<br />
A questo punto emerge con maggiore chiarezza il nesso tra l’esperienza della<br />
foto ricordo e la <strong>semio</strong>tica delle passioni, che presentivamo dall’inizio, quando<br />
era apparsa subito l’importanza della “moralizzazione”. L’esperienza della foto<br />
ricordo è un evento, un casus, un accidente della figurazione. La “passione”<br />
della foto ricordo è racchiusa da una doppia prospettiva su quest’evento, su un<br />
tale caso 28 . Prospettivamente, l’evento della foto ricordo è una sfida: “ve<strong>di</strong>amo<br />
come figuro”; retrospettivamente, esso è la sopportazione della variabilità della<br />
propria immagine: l’appropriatezza della (s)figurazione del corpo 29 .<br />
L’una non va senza l’altra; ma ciò non tanto perché sfida e capacità <strong>di</strong><br />
sopportazione si implichino <strong>semio</strong>ticamente 30 , ma soprattutto perché esse<br />
delimitano lo spazio <strong>di</strong> appassionamento veri<strong>di</strong>ttivo che pare insito nel genere<br />
27 Il senso come messa in scena del medesimo spettacolo è la concezione <strong>semio</strong>tica comunicazionale<br />
e non trasformazionale (cf. nota precedente); ma è anche la concezione positivista, oggettiva, e non<br />
evenemenziale (cf. le precocissime e già puntuali critiche <strong>di</strong> Bachtin 1929).<br />
28 Fontanille (2003 2 , p. 197 ss.) ha mostrato l’importanza della prospettiva nella logica passionale, poiché<br />
in essa, <strong>di</strong>fferentemente dalla logica narrativa, “un processo non è considerato dal punto <strong>di</strong> vista del<br />
suo risultato, ma dal punto <strong>di</strong> vista del suo peso <strong>di</strong> presenza” (p. 222, traduzione nostra). È proprio ciò<br />
che fa della passione non un semplice scenario programmabile, ma appunto un evento.<br />
29 Così Barthes (1980, p. 103 tr. it.): “come potrei, io che mi sento soggetto incerto, amitico, trovarmi<br />
somigliante? […] tutt’al più posso <strong>di</strong>re che su certe foto io mi sopporto, o non mi sopporto, secondo<br />
che mi trovi conforme all’immagine che vorrei dare <strong>di</strong> me”.<br />
30 <strong>Stu<strong>di</strong></strong>ando la sfida con approccio lessicografico, Greimas (1983) aveva rilevato che la sua efficacia<br />
fattitiva è legata alla manipolazione della competenza del soggetto, che agisce per esercitare, e quin<strong>di</strong><br />
mostrare, una capacità. Rispetto al nostro stu<strong>di</strong>o, l’aspetto più interessante dell’analisi greimassiana<br />
resta il fatto che nella sfida è in gioco il “riconoscersi” nell’“immagine”.<br />
71
della foto ricordo. La foto ricordo “<strong>di</strong>ce vero”, e cioè è “somigliante”, quando<br />
essa conviene all’identità del soggetto, quando questi aderisce alla figurazione<br />
attestata. La <strong>di</strong>mensione passionale rivela quin<strong>di</strong> che la “somiglianza” non è<br />
qualità intrinseca dell’immagine, ma affare <strong>di</strong> un soggetto sperimentale, che<br />
si sfida e si sopporta “nella” foto ricordo. Un soggetto che (si) produce e non<br />
che constata; un soggetto pratico che, davanti a una foto ricordo, <strong>di</strong>rà, come<br />
per un vestito o per un misfatto, “questa, mi sta bene!” 31 .<br />
4.2. L’appassionamento veri<strong>di</strong>ttivo<br />
La figurazione fotografica è sottoposta all’appassionamento del soggetto; e<br />
quin<strong>di</strong> è dall’appassionamento che <strong>di</strong>penderanno le qualità attribuite alla figurazione,<br />
la sua “somiglianza”, la sua “verità”. La somiglianza è meno “detta”<br />
dalla foto che “riconosciuta” dal soggetto pratico. La figurazione fotografica<br />
sarà somigliante, e perciò veri<strong>di</strong>ca, solo per una pratica locale, in cui si forma un<br />
soggetto sperimentale. La somiglianza è il frutto <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> accomodamenti,<br />
d’ajustements ipoiconici: interpretazioni, sempre tentate e incerte, della figura;<br />
sperimentazioni rischiose e arrischiate <strong>di</strong> un soggetto che si forma.<br />
Se riconoscimento si avrà, bisognerà dare al “riconoscimento” una valenza,<br />
più che interpretativa, esperienziale e sperimentale. Nella pratica della foto<br />
ricordo non si riconosce una realtà preesistente (“riconoscere” nel senso <strong>di</strong><br />
“conoscere <strong>di</strong> nuovo”). Nella foto ricordo si riconosce una realtà che si ammette<br />
per il futuro, una realtà che si vuol sperimentare (“riconoscere” nel senso<br />
<strong>di</strong> “assumere” - p. es. “chi legge questo pagine mi riconosce come autore” -,<br />
ma anche nel senso <strong>di</strong> “gratitu<strong>di</strong>ne” - p. es. “un autore è sempre riconoscente<br />
verso i suoi lettori”).<br />
“Questa foto sono io”, “questa no”, “questa andrebbe bene se non fosse che”:<br />
è palmare come nella veri<strong>di</strong>zione della fotografia, nel riconoscerla, ne vada<br />
tanto dello statuto della foto quanto <strong>di</strong> quello del soggetto. La foto ricordo dovrà<br />
essere riconosciuta come tale, cioè come una foto che attesti un “ricordo”. Il<br />
soggetto dovrà in<strong>di</strong>viduarsi come tale, cioè osservarsi come soggetto della/alla<br />
esperienza fotografica. Quest’ultimo punto è particolarmente importante e delicato.<br />
Riassumiamolo: per una scissone attanziale, il soggetto pratico si <strong>di</strong>vide<br />
in soggetto sperimentale (o soggetto della credenza, “soggetto” propriamente<br />
detto) e soggetto epistemico (o soggetto del sapere informativo, cioè “osservatore”).<br />
Il campo epistemico, messo in tensione, genera una “riflessione”, o,<br />
come si suole <strong>di</strong>re, una “coscienza”. A questo proposito e più precisamente, in<br />
<strong>semio</strong>tica si parlerà <strong>di</strong> “assunzione”.<br />
4.3. I casi e la forma <strong>di</strong> vita<br />
Conclu<strong>di</strong>amo sulla questione dell’assunzione. L’assunzione è l’istanziazione<br />
soggettale o oggettale, una “deittizzazione” della realtà <strong>semio</strong>tica. In queste<br />
31 “Ça me ressemble”.<br />
72
pagine ci si è occupati essenzialmente del processo che sta a monte della formazione<br />
della realtà <strong>semio</strong>tica, il processo soggettivante o oggettivante. Noi<br />
l’abbiamo definito come l’esperienza testuale. Si è visto come ogni foto ricordo<br />
è un nodo <strong>di</strong> instabilità tanto figurale che soggettale. Questa doppia instabilità fa<br />
sì che l’esperienza della visione della fotografia sia sempre un caso singolare,<br />
momento <strong>di</strong> una declinazione, accidente <strong>di</strong> un <strong>di</strong>venire. Ogni foto ricordo è un<br />
caso che accoppia una declinazione figurativa <strong>di</strong> un corpo proprio (oggettivazione)<br />
con un grado <strong>di</strong> appropriazione (soggettivazione).<br />
E tuttavia, non si può prescindere dal fatto che la pratica prevede che ogni<br />
fotografia si trovi in una situazione, che ogni caso <strong>di</strong> s/oggettivazione sia istanziato,<br />
situato. L’esperienza testuale <strong>di</strong> una figurazione e <strong>di</strong> un appassionamento<br />
si situano, vivono in un milieu.<br />
Innanzi tutto, ogni foto coesiste, almeno potenzialmente, con un certo numero<br />
<strong>di</strong> altre foto, in una “congiuntura”. E in generale, ogni pratica <strong>semio</strong>tica<br />
fa accadere i propri casi in uno spazio congiunturale, in una sincronia più o<br />
meno estesa <strong>di</strong> esperienze - per esempio, nella foto ricordo, uno spazio <strong>di</strong> fatto<br />
illimitato, lo spazio infinito <strong>di</strong> tutti i mo<strong>di</strong> in cui la foto può figurare il corpo<br />
del soggetto.<br />
Ma in secondo luogo, essa prevede anche una compossibilità <strong>di</strong> esperienze<br />
testuali, <strong>di</strong> casi. Tra tutte le figurazioni fotografiche del soggetto in una certa<br />
situazione, egli ne assume una, due, tre, un “gruppo”. E questo gruppo si definirà<br />
per la sua coesistenza <strong>di</strong>acronica con tutte le altre che sono appropriate<br />
ed approvate, in passato e in futuro. I casi entrano in “serie” <strong>di</strong> compossibili.<br />
Assumere una foto in una situazione fa senso per il fatto che ne è stata assunta/se<br />
ne assumerà un’altra in un’altra situazione. È così che la figurazione si<br />
istanzia in una forma <strong>di</strong> vita. La serie delle esperienze s/oggettivanti profilano<br />
un’identità, una costanza attraverso, anzi grazie, alla variazione.<br />
Così, passare dalla “situazione” alla “forma <strong>di</strong> vita”, vuol <strong>di</strong>re cogliere<br />
l’estensione <strong>di</strong> uno spazio sincronico <strong>di</strong> possibili secondo l’esclusione <strong>di</strong>acronica<br />
capace <strong>di</strong> profilare uno stile, una costanza. E in definitiva, passare, ancora più<br />
a monte, dal punto <strong>di</strong> vista dell’esperienza del singolo testo, al punto <strong>di</strong> vista<br />
inglobante della pratica <strong>semio</strong>tica, vuol <strong>di</strong>re portare alla luce che l’identità non<br />
si dà come semplice polarità, singolarità <strong>di</strong> una situazione, ma come variazione<br />
su tema, identificazione in una traversata temporale 32 .<br />
Insomma, la <strong>semio</strong>tica testuale è sempre <strong>semio</strong>si <strong>di</strong> una tattica locale, singolarità<br />
dei casi. Invece, la <strong>semio</strong>tica delle pratiche, che situa i testi e li include<br />
nelle forme <strong>di</strong> vita, è strategia modellizzante. Nella forma <strong>di</strong> vita, il senso si<br />
generalizza: in essa le esperienze testuali sono regolate e quin<strong>di</strong> regolarizza-<br />
32 Lo stu<strong>di</strong>o del senso come variazione su un “tema”, formazione “profilata” costituisce il cuore del brillante<br />
saggio <strong>di</strong> Ca<strong>di</strong>ot e Visetti 2001. Il senso come identità nella <strong>di</strong>fferenza, passaggio dal “gruppo”<br />
alla “serie”, stile nella variazione è, tra l’altro, nelle pagine <strong>di</strong> Deleuze 1970 2 ; mentre il passaggio<br />
dall’“estensione” all’“esclusione” è concettualizzato in Deleuze 1953.<br />
73
te, perciò riproducibili. È come se i casi, gli accidenti dei corpi in situazione<br />
trovassero i para<strong>di</strong>gmi delle loro declinazioni. Ogni caso <strong>di</strong> esperienza <strong>di</strong> un<br />
testo, cioè la figurazione e l’appassionamento si formano in seno a un campo,<br />
mentre nello stile che si delinea nel passaggio da un caso all’altro si ha una<br />
messa in prospettiva <strong>di</strong> tale campo.<br />
Così, il senso pratico ha due facce: il senso locale, tattico, della <strong>semio</strong>tica<br />
dei casi, e il senso sostenuto e regolato, strategico, della <strong>semio</strong>tica dei modelli.<br />
E parallelamente, la meta-<strong>semio</strong>tica avrà due aspetti: la casistica e il modellismo<br />
33 .<br />
33 Il “modellismo” <strong>semio</strong>tico è stato felicemente coniato da Fabbri (1998, p. 85). Per lo stu<strong>di</strong>o casistico,<br />
Fontanille è certamente colui che meglio aiuta a pensare una tale prospettiva quando prospetta una<br />
“teratologia del <strong>di</strong>scorso”, una non-canonicità delle manifestazioni del senso (2004, p. 63).<br />
74
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76
IL GIRO DEL MONDO INTORNO AL TESTO.<br />
UN PERCORSO METODOLOGICO PER<br />
TESTUALIZZARE LE PRATICHE (IPNOTICHE) 1<br />
Giacomo Festi<br />
0. INTRODUZIONE<br />
Il <strong>semio</strong>tico trova in casa propria la questione delle pratiche, dal momento in cui<br />
il testo <strong>di</strong>venta un campo <strong>di</strong> battaglia in cui le operazioni vanno sotto il nome <strong>di</strong><br />
convocazione, segmentazione, comparazione, in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> relazioni, ecc.<br />
È pur vero che lo scontro si è spesso concluso con una resa incon<strong>di</strong>zionata del<br />
testo, alimentando la fiducia illusoria che l’inerzia materiale <strong>di</strong> un oggetto <strong>di</strong><br />
linguaggio coincida con una sua incapacità <strong>di</strong> esercitare una qualche forma <strong>di</strong><br />
influenza sullo sguardo (il metodo) <strong>di</strong> chi mira a restituirne il senso con altro<br />
linguaggio. Sappiamo che non dovrebbe essere mai così, che l’incontro a due,<br />
1 Il presente saggio è una libera rielaborazione dell’intervento al colloquio “Le texte en question: actualités<br />
de la sémiotique”, Limoges, 23/24 marzo 2005.<br />
77
il <strong>semio</strong>tico e il testo, allestisce un orizzonte popolato <strong>di</strong> voci, una moltitu<strong>di</strong>ne<br />
che mina costantemente sia la presunta soggettività del ricercatore sia la tenuta<br />
<strong>di</strong> un oggetto compatto <strong>di</strong> significazione.<br />
Si potrebbe argomentare <strong>di</strong> converso che l’interazione tra viventi, il dominio<br />
della pratica, è stato un terreno scomodo per il <strong>semio</strong>tico e quin<strong>di</strong> poco battuto,<br />
proprio perché l’influenzamento è apparso fin da subito ineliminabile e pervasivo,<br />
e si è avvertita l’instabilità <strong>di</strong> un senso mai depositato definitivamente<br />
e che attraversa <strong>di</strong> continuo l’esperienza dei soggetti implicati in un qualsiasi<br />
corso <strong>di</strong> azione.<br />
Il nostro intervento vuole allestire uno spazio <strong>di</strong> traducibilità tra problemi<br />
propri ai due domini <strong>di</strong> senso, esplorando la possibilità <strong>di</strong> una continuità tra<br />
la costituzione rischiosa della testualità come oggetto <strong>di</strong> sapere <strong>semio</strong>tico e<br />
l’indagine delle articolazioni significanti nelle pratiche culturali. Condurremo<br />
il nostro stu<strong>di</strong>o a partire da un campo <strong>di</strong> osservazione piuttosto marginale all’interno<br />
della letteratura <strong>semio</strong>tica, l’ipnosi 2 .<br />
Milton H. Erickson, uno dei massimi ipnotisti del secolo scorso, è, tra le<br />
altre cose, l’inventore <strong>di</strong> una modalità <strong>di</strong> induzione ipnotica propriamente<br />
spettacolare, da lui chiamata “tecnica <strong>di</strong> confusione”. Prenderemo le mosse da<br />
qui, dal resoconto che fa Erickson del primo esperimento tentato per testare le<br />
possibilità trasformatrici della sua nuova tecnica, la quale prevede tipicamente<br />
una situazione a tre: l’ipnotista, una seconda persona, nel caso Miss K, usuale<br />
collaboratrice <strong>di</strong> Erickson in ragione della facilità con cui “entra” in ipnosi,<br />
e un terzo osservatore/vittima, all’occasione un certo Dr. G. Le tre persone si<br />
<strong>di</strong>stribuiscono su altrettante se<strong>di</strong>e poste su tre vertici <strong>di</strong> un ipotetico quadrato,<br />
con una quarta se<strong>di</strong>a vuota a completare le posizioni previste. Erickson e il Dr. G<br />
da un lato, Miss K e la se<strong>di</strong>a vuota, <strong>di</strong> fronte. Al Dr. G viene affidato il compito<br />
<strong>di</strong> ascoltare attentamente cosa gli <strong>di</strong>ca la donna, anche prendendo appunti, non<br />
prima <strong>di</strong> aver sentito Erickson affidare a Miss K una serie <strong>di</strong> istruzioni, tra cui<br />
riportiamo le seguenti:<br />
And now Miss K, slowly at first and then more and more rapidly until you<br />
are talking at a good speed, explain to Dr. G that while he thinks he is<br />
here and you are there, that you are here and that he is there even as I<br />
think that chair is there and I am here and you are there, and just as soon<br />
as you are saying it rapidly and Dr. G is beginning to understand that he<br />
is here and you are there, still talking rapidly, you slowly change from this<br />
[pointing at A] chair to that [pointing at B] chair, but keep his attention on<br />
your explanation of how each of us can think be here and be there or be<br />
there and think be here and when he sees you sitting there, and thinks<br />
2 Notevole eccezione è il saggio <strong>di</strong> Fabbri (2000) sulla catarsi. Il testo <strong>di</strong> Eugeni sulla “relazione d’incanto”<br />
(2002) non problematizza le pratiche ipnotiche in quanto tali, ma trasporta assetti categoriali<br />
propri al <strong>di</strong>scorso ipnotico nell’analisi <strong>di</strong> <strong>di</strong>versi aspetti dell’enunciazione filmica.<br />
78
you are here, gently return, still explaining and even laughing at him for<br />
thinking you are there when you are here, and then not recognizing that<br />
you are there while he is still thinking you are here. [Erickson, 1964, p.<br />
194, corsivo nel testo]<br />
A quel punto Miss K, già precedentemente ipnotizzata, esegue il compito<br />
affidatole ripetendo a velocità crescente quello che sembra un innocuo gioco<br />
<strong>di</strong> parole, rivolta al Dr. G, personaggio decisivo nell’evoluzione per certi<br />
versi drammatica della situazione. Quest’ultimo inizia infatti a sperimentare<br />
progressivamente nausea, capogiro e vertigine fino a non vedere, da quanto si<br />
riuscirà a ricostruire ex post, che Miss K cambia <strong>di</strong> se<strong>di</strong>a mentre recita il brano<br />
in questione (allucinazione negativa). Lo sviluppo sorprendente dell’esperimento<br />
non sembra però casuale, sorpresa forse maggiore, dato che Erickson l’ha<br />
ripetuto più volte, ottenendo risultati simili, ovvero constatando verbalizzazioni<br />
sovrapponibili dell’esperienza patita dai soggetti, che riportavano senso <strong>di</strong><br />
nausea, capogiro, vertigine.<br />
Il brano appena citato si sostiene su un testo preparato a tavolino, una sorta <strong>di</strong><br />
canovaccio, che assume lo statuto <strong>di</strong> un testo notazionale attentamente pre<strong>di</strong>sposto<br />
ed eseguito sulla scena. Siamo allora già in grado <strong>di</strong> esemplificare una <strong>di</strong>fferenza<br />
<strong>di</strong> base tra testualità nella sua accezione più classica e pratica. Un conto, infatti,<br />
è il testo-canovaccio, purificabile dalla presenza della situazione a tre, isolabile<br />
e considerabile nella sua <strong>di</strong>mensione <strong>semio</strong>-linguistica, un altro è valutare<br />
l’immersione del testo nel corso <strong>di</strong> azione specifico, con il problema <strong>di</strong> decidere<br />
cosa rendere pertinente della situazione, come allestire un insieme significante.<br />
La sfida <strong>semio</strong>tica è ragionare sulle <strong>di</strong>fferenze specifiche tra due punti <strong>di</strong> vista<br />
potenzialmente complementari e capire se si possa avere o meno una presa metodologica<br />
su alcune <strong>di</strong>mensioni epistemologicamente rilevanti della pratica, fino<br />
a costituirla eventualmente in quanto oggetto <strong>di</strong> sapere <strong>semio</strong>tico. Un problema<br />
classico <strong>di</strong> frontiera <strong>di</strong>sciplinare, che accosta (pericolosamente) la <strong>semio</strong>tica alla<br />
psicologia sociale o alla microsociologia, deriva dalla rilevanza epistemologica<br />
e dalla contemporanea inaccessibilità metodologica del vissuto <strong>degli</strong> attori nella<br />
pratica in corso. La pronuncia del testo, nel nostro caso, si appaia a un’attività <strong>di</strong><br />
semantizzazione temporalizzata da parte <strong>degli</strong> altri attori interagenti: nel nostro<br />
esempio, gli effetti somatico/esperienziali constatabili sul Dr. G non sono riducibili<br />
a effetti <strong>di</strong> senso del testo, dato che comunque prevedono lo snodo precipuamente<br />
<strong>semio</strong>tico <strong>di</strong> una donazione <strong>di</strong> senso, per <strong>di</strong> più chiaramente incarnata 3 . In questo<br />
primo senso la pratica si <strong>di</strong>scosta nettamente dalla testualità che vi compare come<br />
parte <strong>di</strong> un tutto più ampio. Rimane aperta allora la domanda centrale: il vissuto<br />
vertiginoso è o meno una costruzione <strong>di</strong> senso da comprendere nella sua relazione<br />
all’induttore principale, la parola detta?<br />
La risposta a questa questione insistente, comparsa più volte e in forme<br />
3 Sulla <strong>di</strong>fferenza tra effetti <strong>di</strong> senso e effetti <strong>di</strong> vita, cfr. Basso (2002, cap. 4).<br />
79
<strong>di</strong>verse nella tra<strong>di</strong>zione <strong>semio</strong>tica 4 e antropologica 5 , può essere abbozzata<br />
all’incrocio <strong>di</strong> due percorsi che intraprenderemo separatamente, uno più generale<br />
<strong>di</strong> carattere teorico-metodologico e un secondo più specifico, inerente alle<br />
pratiche ipnotiche ericksoniane.<br />
1. PER UNA SEMIOTICA DELLE PRATICHE<br />
La prima mossa che faremo è <strong>di</strong> spostare il punto <strong>di</strong> vista dall’attore al complesso<br />
della situazione <strong>semio</strong>tica. A questo livello <strong>di</strong> osservazione, produzione <strong>di</strong><br />
senso e interpretazione <strong>di</strong>ventano due ingre<strong>di</strong>enti a pari titolo, che presentano<br />
il vantaggio <strong>di</strong> una visibilità pubblica. L’ipotesi epistemologica è quella <strong>di</strong> una<br />
costitutiva intersoggettività della vita culturale: se le culture identificano e nominano<br />
pratiche particolari è perché un orizzonte <strong>di</strong> senso sembra stabilizzarsi,<br />
configurando le semantizzazioni <strong>degli</strong> attori come parte <strong>di</strong> un tutto leggibile.<br />
Temperando l’apertura <strong>di</strong> senso dovuta alla presenza <strong>di</strong> più enunciazioni che<br />
possono costantemente mettere in variazione il valore dell’agire, la stabilità <strong>di</strong><br />
una pratica <strong>di</strong>venta un’ipotesi <strong>di</strong> lavoro che permette <strong>di</strong> costituire un insieme<br />
significante con una sua taglia specifica.<br />
La <strong>di</strong>mensione pubblica del senso in una pratica è particolarmente rimarcata<br />
da alcuni autori ponte tra sociologia e <strong>semio</strong>tica, come Charles Goodwin,<br />
secondo cui<br />
The necessity of social action having this public, prospectively relevant<br />
visibility, so that multiple participants can collaborate in an ongoing course<br />
of coor<strong>di</strong>nated action, casts doubts on the adequacy of any model of<br />
pragmatic action that focuses exclusively on the mental life of a single<br />
participant such as the speaker. Within this process the production of<br />
action is linked reflexively to its interpretation. (Goodwin 2000, pp.<br />
1491-1492)<br />
Su un simile versante sembrano procedere le recenti proposte <strong>di</strong> Fontanille<br />
(2004b, 2004c) in materia <strong>di</strong> pratiche. È un dominio che nelle sue ricerche si<br />
colloca come ultima tappa <strong>di</strong> un lungo percorso <strong>di</strong> problematizzazione della<br />
4 Ve<strong>di</strong> ad es. il cap. 5 <strong>di</strong> Marrone (2001) sulla relazione tra testo architettonico-spaziale e pratiche sociali<br />
<strong>di</strong> vandalismo.<br />
5 Pensiamo alla grande fioritura <strong>di</strong> letteratura sul caso dell’efficacia simbolica lévi-straussiana (1949),<br />
che sembra ruotare proprio intorno alla <strong>di</strong>alettica tra il testo-canto e la pratica sciamanica complessiva.<br />
Le rilevazioni critiche <strong>di</strong> Severi (2000), per non citare che un esempio, aprono un fronte <strong>di</strong> pertinenze<br />
nuove rispetto a quanto notava Lévi-Strauss sul momento esecutivo del canto, fronte che integra in un<br />
insieme significante decisamente più complesso il <strong>di</strong>spositivo spaziale, la sintassi figurativa del fumo<br />
odoroso delle fave <strong>di</strong> cacao che avvolge la partoriente e infine lo statuto peculiare del locutore-sciamano.<br />
80
<strong>di</strong>scorsività, con un progressivo allargamento <strong>di</strong> orizzonte <strong>di</strong> indagine <strong>semio</strong>tica<br />
alla percezione, sub specie “mo<strong>di</strong> del sensibile”, e alla corporeità, sub specie<br />
“figure del corpo”.<br />
Ricostruiamo per punti alcuni passaggi significativi delle proposte fontanilliane:<br />
i) le pratiche sono uno dei possibili livelli <strong>di</strong> costruzione analitica interna<br />
a una <strong>semio</strong>tica delle culture, laddove si tenti <strong>di</strong> articolare una gerarchia<br />
delle <strong>semio</strong>tiche-oggetto, dal segno al testo (nel senso goodmaniano <strong>di</strong><br />
testo notazionale), passando per gli oggetti e le pratiche, fino alle forme <strong>di</strong><br />
vita e alle culture nella loro globalità. Su cosa si basa questa <strong>di</strong>stinzione <strong>di</strong><br />
strati? Non è tanto un tentativo <strong>di</strong> riconoscere livelli <strong>di</strong> generalità crescente,<br />
quanto una presa <strong>di</strong> posizione epistemologica che espliciti i <strong>di</strong>versi tipi <strong>di</strong><br />
esperienza analitica del <strong>semio</strong>logo: un conto è l’esperienza del segno come<br />
unità minima (operazioni <strong>di</strong> segmentazione, identificazione, ecc.), un altro è<br />
il testo come totalità (prensione globale), altro ancora è l’esperienza <strong>di</strong> corpi<br />
in interazione (aggiustamento tra enunciazioni incarnate). In particolare,<br />
al livello delle pratiche: a) non acce<strong>di</strong>amo <strong>di</strong>rettamente a una testualità, se<br />
non come dato inglobato dalla pratica (ad es. pratiche <strong>di</strong> fruizione <strong>di</strong> testi);<br />
b) riconosciamo un’eterogeneità generalizzata, sia sul piano enunciazionale<br />
(pluralità <strong>di</strong> attori incarnati, <strong>di</strong> istanze <strong>di</strong> enunciazione delegate, ad<br />
esempio negli oggetti), sia a livello <strong>di</strong> modalità <strong>semio</strong>tiche significanti, <strong>di</strong><br />
cui andrà decisa la pertinenza <strong>semio</strong>tica, ossia il contributo alle forme <strong>di</strong><br />
valorizzazione proprie alla pratica; c) imputiamo una stabilità relativa, solamente<br />
strategica, alla “situazione <strong>semio</strong>tica” definita allora come “quella<br />
configurazione eterogenea che raccoglie tutti gli elementi necessari alla<br />
produzione e all’interpretazione della significazione <strong>di</strong> un’interazione sociale”<br />
(Fontanille, 2004b, p. 7, trad. nostra). L’intersoggettività, o meglio<br />
l’intercorporalità <strong>di</strong> umani e cose, è così un dato <strong>di</strong> partenza nell’esperienza<br />
<strong>di</strong> corsi <strong>di</strong> azione e quin<strong>di</strong> nell’assetto <strong>di</strong> una pratica.<br />
ii) Come conseguenza <strong>di</strong> questa postura epistemologica, il livello proprio alle<br />
pratiche è trattato metodologicamente come costituzione progressiva <strong>di</strong> una<br />
testualità attraverso un processo <strong>di</strong> “risoluzione delle eterogeneità”. Se è vero<br />
che le pratiche non si offrono come testi, possono tuttavia <strong>di</strong>ventarlo sotto certe<br />
con<strong>di</strong>zioni. In questo senso Fontanille riven<strong>di</strong>ca una continuità <strong>di</strong> fondo con il<br />
progetto <strong>semio</strong>tico greimasiano immanentista, ponendosi <strong>di</strong> fatto in una via <strong>di</strong><br />
mezzo tra chi procede per contiguità deproblematizzata tra comportamenti e<br />
testualità 6 e coloro che invece rompono nettamente tra testualità e pratiche 7 . Le<br />
pratiche sono qui un testo al futuro: l’esito del percorso dell’analista è arrivare<br />
a <strong>di</strong>spiegare e correlare <strong>di</strong>spositivi espressivi e forme del contenuto specifiche<br />
6 Si veda l’ere<strong>di</strong>tà landowskiana (cfr. Landowski 1989).<br />
7 Pensiamo alla teoria delle pratiche <strong>di</strong> Rastier (2001b) o alla federazione <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica del testo con<br />
una <strong>semio</strong>tica delle pratiche culturali proposta da Basso (2002, cap. 0).<br />
81
alla situazione <strong>semio</strong>tica considerata. Ciò che conta davvero è allora il processo<br />
stesso <strong>di</strong> costituzione della testualità, il modo in cui si lavora sia su valori in<br />
trasformazione attribuibili a un piano del contenuto (assetto enunciazionale,<br />
narratività, modalità, aspettualità, passioni, ecc.), sia sulle forme <strong>di</strong> iscrizione<br />
<strong>di</strong> contenuti in configurazioni espressive.<br />
Mentre la <strong>semio</strong>tica greimasiana si è sviluppata concentrandosi principalmente<br />
sulla gerarchia interna al piano del contenuto, una <strong>semio</strong>tica delle culture<br />
ridà peso all’assestarsi della funzione <strong>semio</strong>tica, problematizzando in modo<br />
decisivo il costituirsi <strong>di</strong> un piano dell’espressione.<br />
Una conseguenza <strong>di</strong> quanto detto finora è che Fontanille, imputando l’eterogeneità<br />
all’oggetto <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o, afferma - per ora senza trarne tutte le conseguenze<br />
- che la posta in gioco <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica delle pratiche è incontrovertibilmente<br />
anche ermeneutica, dato che l’analista trova un or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> complessità del senso<br />
non <strong>di</strong>ssimile da quello che fronteggiano gli attori interni alla pratica.<br />
iii) Dal punto <strong>di</strong> vista dei risultati descrittivi, le prime categorie esplorative che<br />
mette in gioco Fontanille sono scena e strategia, come due mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> cogliere<br />
una pratica 8 : la scena è colta a partire dal reperimento dei <strong>di</strong>spositivi enunciazionali<br />
stabili (testi interni e oggetti in particolare), la strategia a partire<br />
dall’aggiustamento delle <strong>di</strong>verse enunciazioni nel tempo e rispetto all’intorno<br />
<strong>semio</strong>tico. È chiaro, per prendere un paio <strong>di</strong> esempi agli estremi, che in una<br />
conversazione casuale la <strong>di</strong>mensione scenica tende a scomparire a favore <strong>di</strong><br />
una <strong>di</strong>mensione strategica dominante, dato che ogni singola enunciazione<br />
rimette potenzialmente in variazione qualsiasi valore enunciato. La pratica<br />
dell’andare al cinema, al contrario, almeno nel suo aspetto performativo della<br />
visione, avrà una <strong>di</strong>mensione scenica predominante, con i ruoli ben marcati e<br />
rinforzati dalla <strong>di</strong>stribuzione topologica (spazio spettatoriale, spazio <strong>di</strong> proiezione,<br />
spazio <strong>di</strong> attraversamento, ecc.) a <strong>di</strong>scapito <strong>di</strong> un aspetto strategico,<br />
ampiamente “depositato” nell’allestimento scenico <strong>degli</strong> spazi <strong>di</strong> fruizione<br />
(la presenza <strong>di</strong> un grande vano porta bicchieri, lattine o confezioni <strong>di</strong> pop<br />
corn sulle poltrone <strong>di</strong> ultima generazione rappresenta l’iscrizione in oggetto<br />
<strong>di</strong> una strategia <strong>di</strong> aggiustamento non conflittuale <strong>di</strong> due possibili programmi<br />
in parallelo intrapresi dallo spettatore, nutrirsi e vedere).<br />
Aggiungiamo due note <strong>di</strong> commento al percorso <strong>di</strong> Fontanille:<br />
i) se le pratiche sono trattate come testi, ciò è possibile perché la testualità<br />
stessa è stata profondamente messa in variazione nella <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> un<br />
costruttivismo più ra<strong>di</strong>cale. La riven<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> un empirismo <strong>semio</strong>tico,<br />
infatti, a partire da una datità materiale dei testi, è stata spesso confusa<br />
con una presunta trasparenza del significante che garantiva un accesso ai<br />
contenuti, posta in gioco predominante <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica greimasiana. Il<br />
contatto prolungato con testi non verbali e sincretici, in cui l’opacità del<br />
significante <strong>di</strong>venta spesso la sola evidenza, ha invitato a risoppesare <strong>di</strong>-<br />
8 Per una prima applicazione condotta sui manifesti urbani cfr. Fontanille (2004c).<br />
82
versamente lo statuto della funzione <strong>semio</strong>tica nell’analisi <strong>semio</strong>tica. Valga<br />
su tutti l’efficace sintesi <strong>di</strong> Rastier, per cui<br />
Enfin, le signifiant n’en est pas le point de départ, malgré les théories<br />
inférentielles ou associationnistes, car il a lui même à être reconnu. En<br />
d’autres termes, les relations qui établissent le sens vont de signifié en<br />
signifié, aussi bien que du signifié vers le signifiant. (Rastier, 2001a, p.<br />
152).<br />
Lo sviluppo <strong>di</strong> una retorica del visibile attenta alle conseguenze ingenerate dal<br />
considerare la pluralità dei materiali <strong>semio</strong>tici convocati nei testi 9 e la problematizzazione<br />
della figuratività 10 , in grado <strong>di</strong> manifestare una propria autonomia<br />
significante e in particolare <strong>di</strong> essere letta a partire dal contributo <strong>di</strong>namico e<br />
tensivo <strong>di</strong> valenze concorrenti che invitano a installare una <strong>semio</strong>si percettiva<br />
al cuore del livello più “superficiale” del percorso generativo, sono altrettanti<br />
in<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> come la testualità stia <strong>di</strong>ventando davvero ciò che viene interamente<br />
ricostruito dall’analista, cercando <strong>di</strong> evacuare o <strong>di</strong> resistere a qualsiasi ingenuità<br />
fenomenologica.<br />
La testualità non è più un dato né un terreno omogeneo in cui compiere le<br />
operazioni dell’analisi: nel momento in cui si problematizza la relazione tra<br />
espressioni e contenuti ci si trova ad affrontare lo stesso processo <strong>di</strong> risoluzione<br />
delle eterogeneità proprio al livello delle pratiche. In sintesi: la <strong>di</strong>fferenza è <strong>di</strong><br />
taglia e <strong>di</strong> esperienza presupposta dell’analista, ma non <strong>di</strong> metodo.<br />
ii) Il <strong>di</strong>verso modo <strong>di</strong> caratterizzare la testualità in relazione alle pratiche implica<br />
una revisione delle caratteristiche in<strong>di</strong>cate a suo tempo da Ricœur come<br />
perno per allargare il para<strong>di</strong>gma testualista all’interpretazione dell’azione<br />
sociale ovvero al campo delle scienze umane nel loro complesso 11 . Tentando<br />
<strong>di</strong> gettare un ponte ambizioso tra testualità (intesa come iscrizione materiale<br />
staccata dall’evento <strong>di</strong> parola, deposito inerte pre<strong>di</strong>sposto alle operazioni<br />
interpretative dell’ermeneuta) e azione (intesa come prassi significante e<br />
quin<strong>di</strong> come enunciazione <strong>di</strong> senso a tutti gli effetti), Ricœur in<strong>di</strong>cava alcuni<br />
tratti pertinenti attribuibili all’azione per farla rientrare nella <strong>di</strong>alettica <strong>di</strong><br />
comprensione e spiegazione, ovvero per aprirla al metodo ermeneutico.<br />
Il filosofo si allineava senz’altro a una prospettiva <strong>semio</strong>tica dal momento<br />
che riconosceva nell’azione non solo una <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> produttività enunciazionale,<br />
ma anche la capacità <strong>di</strong> costituire delle strutture proposizionali (azione<br />
come manifestazione <strong>di</strong> una sintassi narrativa interattanziale), <strong>di</strong> <strong>di</strong>spiegare un<br />
9 Non a caso l’eterogeneità del visibile è il tema dei colloqui internazionali <strong>di</strong> <strong>semio</strong>tica visiva promossi<br />
dalle università <strong>di</strong> Bologna, Limoges e Liegi.<br />
10 Ve<strong>di</strong> il cap. 4 <strong>di</strong> Figure del corpo (Fontanille, 2004a).<br />
11 L’influenza teorica <strong>di</strong> quel saggio è stata senz’altro maggiore per l’antropologia più che per la <strong>semio</strong>tica.<br />
A parte la nota ripresa geertziana ricor<strong>di</strong>amo il lavoro <strong>di</strong> terreno <strong>di</strong> Lambek alle isole Mayotte (1981)<br />
e la <strong>di</strong>scussione critica su cui è centrato il collettaneo <strong>di</strong> Bibeau e Corin (1995).<br />
83
mondo (apertura ad una figuratività propria all’azione, che Ricœur in<strong>di</strong>cava in<br />
termini <strong>di</strong> opera aperta), <strong>di</strong> mo<strong>di</strong>ficare l’altro (<strong>di</strong>mensione illocutiva).<br />
Si capisce tuttavia come Ricœur, prendendo interamente in conto la prospettiva<br />
che va dall’attore verso l’interazione con il mondo e con gli altri, non<br />
valorizzi la costitutiva intersoggettività delle pratiche e del loro senso. Muovendo<br />
dal locale al globale non sembra preoccuparsi dell’interazione <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse<br />
<strong>semio</strong>tiche nella costituzione dell’insieme significante che chiamiamo pratica.<br />
L’azione in soggettiva è per lui sufficiente a in<strong>di</strong>viduare un piano pertinenziale<br />
sufficientemente produttivo dal punto <strong>di</strong> vista interpretativo, lasciando in ombra<br />
le tensioni interne all’eventuale situazione <strong>semio</strong>tica complessiva. La possibilità<br />
<strong>di</strong> fare dell’azione un testo documentale, in effetti, è per lui il ritrovamento <strong>di</strong><br />
un’omogeneità prospettica sicuramente aperta all’eterogeneità interpretativa ma<br />
non altrettanto, ci sembra, alla pluralità <strong>di</strong> linguaggi che le sono costitutivi.<br />
2. LE PRATICHE IPNOTICHE, QUADRO D’INSIEME<br />
Riprendendo la questione iniziale sullo statuto da assegnare all’esperienza dei<br />
soggetti in situazione, si osservi come nelle pratiche ipnotiche, similmente ad altri<br />
generi <strong>di</strong> pratiche, il vissuto dei soggetti non è solo una presenza implicita della<br />
situazione, ma anche una posta in gioco esplicita dell’agire dell’ipnotista, se non<br />
altro perché il corpo viene costantemente convocato in <strong>di</strong>scorso, che “parla” <strong>di</strong><br />
sensazioni e cognizioni: c’è insomma una riflessività della pratica rispetto a quello<br />
che vi accade. Il ripiegamento della pratica, che incrementa da un certo punto <strong>di</strong><br />
vista la complessità situazionale, ci permette però <strong>di</strong> muoverci in modo simile a<br />
quanto è stato fatto in <strong>semio</strong>tica testuale nel momento in cui si è cercato <strong>di</strong> dare<br />
piena <strong>di</strong>gnità allo stu<strong>di</strong>o dei mo<strong>di</strong> della percezione: si sceglievano quei testi che la<br />
tematizzavano esplicitamente, luoghi da cui iniziare a in<strong>di</strong>viduare delle configurazioni<br />
categoriali che potessero spiegare precisi fenomeni testuali. Trasponendo,<br />
se le semantizzazioni dei soggetti sono uno dei principali problemi delle pratiche,<br />
cominciamo proprio da quelle che le integrano attivamente al proprio interno.<br />
Per sviluppare questo punto vale la pena introdurre criticamente alcuni aspetti<br />
propri alle pratiche ipnotiche e in particolare alla loro declinazione ericksoniana:<br />
il fine è quello <strong>di</strong> tratteggiare meglio lo sfondo su cui si collocheranno le nostre<br />
elaborazioni analitiche ulteriori. Vorremmo precisare in che senso questo tipo<br />
<strong>di</strong> pratiche siano un terreno favorevole per mettere alla prova alcuni aspetti sia<br />
metodologici (processo <strong>di</strong> risoluzione delle eterogeneità), sia epistemologici<br />
(stabilità relativa delle pratiche), rilevando le tensioni interpretative che animano<br />
da dentro e da fuori l’ipnosi <strong>di</strong> Erickson.<br />
L’impresa ericksoniana può essere caratterizzata fondamentalmente come<br />
elaborazione <strong>di</strong> un’ipnosi sperimentale a vocazione scientifica e terapeutica,<br />
non essendo, quin<strong>di</strong>, ipnosi da palcoscenico. Ma cosa significa per una pratica<br />
interattiva che si apre all’incontro con l’altro, testimoniare <strong>di</strong> un approccio<br />
scientifico? Lungo questo interrogativo la nostra indagine recupera un <strong>di</strong>scorso<br />
84
ermeneutico proprio a quella parte dell’epistemologia contemporanea che ci offre<br />
una versione quantomeno interessante della storia delle pratiche ipnotiche, <strong>di</strong> cui<br />
ne rielaboreremo le aperture più o meno espressamente <strong>semio</strong>tiche. Ci riferiamo<br />
principalmente al lavoro <strong>di</strong> Isabelle Stengers, che ha lungamente collaborato con<br />
l’ipnotista Léon Chertok nel quadro della sua indagine complessiva sulle scienze<br />
moderne 12 . L’epistemologa belga ha recentemente pubblicato una serie <strong>di</strong> saggi 13 in<br />
cui tenta <strong>di</strong> raccontare in che modo l’ipnosi possa o meno essere intesa in quanto<br />
pratica scientifica, chiedendosi quale sia il significato delle tecniche ipnotiche<br />
moderne, anche in relazione a tecniche “non modernizzate”.<br />
I principali esiti interpretativi cui perviene la Stengers possono essere riassunti<br />
in due punti:<br />
i) ciò che oggi chiamiamo ipnosi raccoglie pratiche molto <strong>di</strong>verse tra loro, con<br />
un tronco genealogico comune che prevede sostanzialmente il passaggio<br />
dal magnetismo mesmeriano al sonnambulismo ottocentesco, all’ipnotismo<br />
charcotiano fino all’ipnosi moderna 14 . In questa serie <strong>di</strong> passaggi una costante<br />
è la forte vocazione scientifica, che sigla infine un’alleanza tra ipnosi<br />
e laboratorio in quanto luogo <strong>di</strong> sperimentazione scientifica, ere<strong>di</strong>tandone<br />
i problemi costitutivi. Le pratiche ipnotiche sono state sempre minate dal<br />
dubbio <strong>di</strong> esistenza, incertezza che ha spinto a moltiplicare le prove che<br />
certificassero la presenza <strong>di</strong> fenomeni ipnotici da un lato e che mettessero in<br />
scacco le accuse <strong>di</strong> simulazione, <strong>di</strong> azione <strong>di</strong> flui<strong>di</strong> magnetici, <strong>di</strong> manipolazione<br />
dell’ipnotista, dall’altro. Rispetto alla questione della simulazione sempre<br />
possibile dei comportamenti ipnotici, ricor<strong>di</strong>amo l’esemplare tentativo <strong>di</strong><br />
Chertok <strong>di</strong> produrre bruciature che non fossero simulabili a piacere, laddove<br />
i comportamenti catalettici, seppur <strong>di</strong>fficilmente, possono essere simulati.<br />
La prova <strong>di</strong> esistenza è il tentativo protratto <strong>di</strong> provocare delle impronte del<br />
fenomeno, in una connessione in<strong>di</strong>cale con l’evento ipnotico in grado <strong>di</strong><br />
costituirlo come in<strong>di</strong>fferente alle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> messa in scena (irriducibilità<br />
ad un regime finzionale). Non è un caso se oggi il termine ipnosi sostituisce<br />
“ipnotismo” e “sonnambulismo”, assumendo volutamente un’aura <strong>di</strong><br />
scientificità dal momento che intende riferirsi ad un presunto “stato” del<br />
soggetto, al <strong>di</strong> là della con<strong>di</strong>zione sperimentale.<br />
ii) Il tentativo <strong>di</strong> permettere all’ipnosi <strong>di</strong> marcarsi, <strong>di</strong> fissarsi, <strong>di</strong> lasciare impronta<br />
<strong>di</strong> sé (si potrebbe <strong>di</strong>re: <strong>di</strong> fare testo) è sostanzialmente fallito. Manca<br />
un “marcatore” laboratoriale del fenomeno.<br />
Le marqueur assure la stabilité d’une “convention” sans la quelle tous et<br />
chacun seraient vulnérable à l’accusation qu’ils font peser eux-mêmes sur<br />
12 Ricor<strong>di</strong>amo le parallele collaborazioni con Prigogine per la fisica e con Bansaude-Vincent per la chimica. Chertok<br />
è stato anche il collaboratore d’eccellenza per l’indagine stengersiana sul rapporto psicanalisi-scienza.<br />
13 Cfr. Stengers 1998 (introduzione al testo <strong>di</strong> Melchior), 2001, 2002.<br />
14 Per una storia problematizzata dell’ipnosi, si veda l’ormai classico lavoro monografico <strong>di</strong> Méheust<br />
(1999).<br />
85
les “charlatans”: participer à une entreprise qui profite de la crédulité du<br />
public et de la demande d’aide venant de ceux qui souffrent. (Stengers<br />
2002, pp. 118-119).<br />
Il laboratorio è luogo <strong>di</strong> convocazione <strong>di</strong> una comunità scientifica: la necessità<br />
<strong>di</strong> marcare il fenomeno è una necessità in primis deittica, dato che bisogna<br />
raccogliere la comunità dei ricercatori intorno a qualcosa che sia la stessa cosa<br />
per tutti, in<strong>di</strong>pendentemente dal modo in cui questo qualcosa sarà poi descritto<br />
o messo in variazione.<br />
La Stengers da un lato mostra molto bene come la storia della pratica<br />
ipnotica sia una serie <strong>di</strong> tentativi mancati <strong>di</strong> ridurre il fenomeno a qualche<br />
cosa d’altro (l’inconscio, la sottomissione, la suggestione, un quarto stato<br />
psicofisiologico accanto a veglia, sonno e sogno), dall’altro evidenzia l’in<strong>di</strong>ssociabilità<br />
dell’ipnosi dalle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> volta in volta locali <strong>di</strong> messa in<br />
scena, attraverso un <strong>di</strong>spositivo sempre particolare 15 . Le tecniche ipnotiche<br />
non sono oggi nella con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> riven<strong>di</strong>care un posto nella classe delle<br />
tecniche modernizzate dalla scienza. Questo fallimento, tuttavia, non implica<br />
necessariamente la caduta <strong>di</strong> interesse o l’abbandono del loro esercizio, che<br />
anzi si mostra promettente nella possibilità <strong>di</strong> innescare un <strong>di</strong>venire identitario<br />
dei protagonisti. Si tratta piuttosto <strong>di</strong> delineare il posto per un para<strong>di</strong>gma<br />
più ermeneutico, che consideri la produttività della <strong>semio</strong>si nel quadro delle<br />
pratiche ipnotiche.<br />
2.1. Il caso Erickson<br />
Come si colloca Milton Erickson rispetto a questa tra<strong>di</strong>zione problematica?<br />
Posse<strong>di</strong>amo a tutt’oggi un vasto corpus <strong>di</strong> testi molto <strong>di</strong>versi tra loro (trascrizioni,<br />
video, commenti a osservazioni partecipanti, ecc.) che testimoniano<br />
a <strong>di</strong>verso titolo dell’attività dell’ipnotista americano, il quale ha sempre<br />
promosso un monitoraggio del proprio agire, accettando finanche la presen-<br />
15 L’autrice, che qui lasciamo, prosegue tuttavia nella sua indagine, chiedendosi quale sia l’interesse <strong>di</strong><br />
questo fallimento. La ragione sta nel suo coinvolgere le pratiche laboratoriali su soggetti umani, capaci<br />
<strong>di</strong> interessarsi alle con<strong>di</strong>zioni della messa in scena, anche (e soprattutto) nella forma della compiacenza.<br />
È così che le categorie della psicologia, “psichismo”, “in<strong>di</strong>viduo”, “volontà”, ecc. sono messe alla<br />
prova <strong>di</strong> una relazione a due piuttosto particolare e costitutivamente finzionale. Un esempio notevole<br />
è il trattamento che l’ipnotista Delboeuf fa della volontà. Contemporaneo <strong>di</strong> Freud, nota con i suoi<br />
esperimenti: “Quand on met le bras du sujet en catalepsie et qu’on lui ordonne d’essayer de le baisser,<br />
il ne fait nullement les efforts appropriés. Au contraire, il fait agir les muscles antagonistes, et fait<br />
ainsi semblant de ne pouvoir baisser les bras. C’est une catalepsie simulée et il est la propre dupe de<br />
sa simulation. C’est dans ce sens que je <strong>di</strong>t qu’il se prête complaisamment à jouer la catalepsie. Cette<br />
complaisance est inconsciente L’hypnotisme n’annihile pas, il exalte la volonté” (Delboeuf 1993, p.<br />
368, cit. in Stengers 2002). Se la sottomissione è passiva, la compiacenza è segno <strong>di</strong> volontà, anche<br />
inconscia. La complessità vertiginosa della situazione vede in gioco un corpo messo a significare nella<br />
sua capacità <strong>di</strong> osservare dei comportamenti e <strong>di</strong> assumerli in modo variabile.<br />
16 Ad Erickson va ascritto il merito <strong>di</strong> aver evidenziato il paradosso dell’osservatore partecipante, che<br />
a volte finisce ipnotizzato al solo assistere a delle sedute, manifestando amnesia <strong>di</strong> quanto accaduto.<br />
L’ipnosi è pratica contagiosa.<br />
86
za <strong>di</strong> terzi 16 . Possiamo affermare che il macro-testo ericksoniano è la fonte<br />
che ha permesso <strong>di</strong> elaborare un <strong>di</strong>scorso sulla sua pratica, <strong>di</strong> estrapolare<br />
delle regolarità a partire dalle singolarità della sperimentazione. Il tentativo<br />
è evidentemente quello <strong>di</strong> stabilizzarne il senso, al fine <strong>di</strong> rendere la pratica<br />
riproducibile, trasmissibile (scientifica) e infine terapeutica. La coppia riproducibilità/trasmissibilità<br />
ci ricorda che gli attori responsabili dei <strong>di</strong>spositivi<br />
<strong>di</strong> induzione mirano a gestire le variabili rilevanti del processo ipnotico e<br />
rappresenta pertanto l’in<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> una stabilizzazione, per quanto precaria. È<br />
noto che la rete costituita intorno alle pratiche ericksoniane assomma ormai<br />
istituti <strong>di</strong> formazione su scala mon<strong>di</strong>ale, alleanze con <strong>di</strong>verse psicoterapie o<br />
trattamenti me<strong>di</strong>ci, convegni internazionali, pubblicazioni, ecc. Si tratta, come<br />
<strong>di</strong>rebbe Bruno Latour 17 , <strong>di</strong> una rete lunga: pur non essendo <strong>di</strong> per sé prova<br />
alcuna <strong>di</strong> scientificità, significa quantomeno che il controllo locale dell’agire<br />
dell’ipnotista presenta una promessa <strong>di</strong> regolarità.<br />
Per Erickson, “L’ipnosi è essenzialmente una comunicazione, rivolta a<br />
un paziente, <strong>di</strong> idee e concezioni, in modo tale che egli sarà estremamente<br />
ricettivo alle idee presentate e quin<strong>di</strong> motivato a esplorare le potenzialità<br />
<strong>di</strong> controllo delle risposte e del comportamento psicologico e fisico possedute<br />
dal suo corpo” (Erickson, Rossi 1979, p. 115). La sua definizione, per<br />
quanto ridotta e lacunosa, ci fa capire come l’ipnotista sia particolarmente<br />
interessato al modo in cui la persona interpreta quanto lui <strong>di</strong>ce e alla qualità<br />
specifica <strong>di</strong> questa attività <strong>di</strong> semantizzazione: l’ipnosi è gestione in presa<br />
<strong>di</strong>retta <strong>degli</strong> effetti <strong>di</strong> senso secondo un circolo <strong>di</strong> auto-osservazione sempre<br />
attivo. Il lavoro <strong>di</strong> Erickson è <strong>semio</strong>ticamente rilevante proprio perché<br />
tenta <strong>di</strong> rendere tracciabile e modellizzabile l’attività <strong>di</strong> semantizzazione <strong>di</strong><br />
un corpo enunciante, a partire da una centralità della parola detta. La sua è<br />
infatti un’ipnosi prevalentemente verbale, o meglio, fa della parola il perno<br />
decisivo <strong>di</strong> manipolazione e controllo della situazione, un operatore potente<br />
entro i labili confini della pratica.<br />
Purtuttavia, leggendo i testi teorici <strong>di</strong> Erickson si può rimanere perplessi<br />
dal continuo mescolamento <strong>di</strong> una prospettiva genericamente psicologica, che<br />
tenta <strong>di</strong> render conto delle operazioni cognitive dell’altro e fa dell’ipnosi uno<br />
stato del soggetto 18 , e <strong>di</strong> una visione più relazionale e pubblica, centrata sulle<br />
operazioni compiute dall’ipnotista. La prassi del soggetto agente è l’unica<br />
<strong>di</strong>mensione davvero accessibile dal suo punto <strong>di</strong> vista, con la conseguenza<br />
<strong>di</strong> pensare l’ipnosi non più in quanto stato soggettivo ma come rapport, relazione<br />
affettiva ipnotista-ipnotizzando all’interno <strong>di</strong> un <strong>di</strong>spositivo allestito<br />
localmente.<br />
17 Cfr. l’ormai classico Latour (1987).<br />
18 Si pensi ad esempio alla sistematizzazione del proce<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> induzione con l’in<strong>di</strong>viduazione delle<br />
cinque tappe canoniche: fissazione dell’attenzione, depotenziamento <strong>degli</strong> abituali schemi <strong>di</strong> riferimento,<br />
ricerca inconscia, processo inconscio e risposta ipnotica. È un processo colto unicamente dal punto <strong>di</strong><br />
vista del destinatario dell’azione.<br />
87
È questa seconda modalità interpretativa che è stata recentemente rilanciata,<br />
approfon<strong>di</strong>ta e sistematizzata da Melchior (1998), all’interno <strong>di</strong> un para<strong>di</strong>gma<br />
comunicazionale dell’ipnosi, focalizzato sul rapporto a due colto dalla<br />
soggettiva del terapista-ipnotista. Metodologicamente compatibile con una<br />
prospettiva <strong>semio</strong>tica, Melchior in<strong>di</strong>rizza la propria attenzione esclusivamente<br />
sul fare dell’ipnotista e in particolare sulla “retorica” alla base della sua parola,<br />
ridefinendo l’ipnosi come operatore <strong>di</strong> recadrage. Il concetto <strong>di</strong> recadrage<br />
è leggibile come tentativo <strong>di</strong> identificare <strong>di</strong>versi regimi <strong>di</strong> semantizzazione<br />
dell’esperienza: quando compare sulla scena interattiva, il termine “ipnosi”<br />
funge da significante vuoto che valorizza un’esperienza “altra” qualsiasi<br />
rispetto a quella or<strong>di</strong>naria 19 , nel segno <strong>di</strong> una mobilitazione continua del<br />
quadro <strong>di</strong> valorizzazione <strong>di</strong> quanto sta accadendo al soggetto. Evacuata una<br />
definizione sostanzialista, la tecnica ipnotica <strong>di</strong>venta una pratica comunicativa<br />
che manipola non solo il rapporto tra sé e sé, tra sé e gli altri, tra sé e mondo,<br />
quanto soprattutto la cornice interpretativa del proprio modo <strong>di</strong> dare senso,<br />
da cui l’impressione esterna <strong>di</strong> una capacità “magica” <strong>di</strong> mo<strong>di</strong>ficare ra<strong>di</strong>calmente<br />
la frontiera tra propriocezione e esterocezione (ve<strong>di</strong> il caso della voce<br />
dell’ipnotista percepita come una voce interna al soggetto).<br />
Quale peso dare, da un punto <strong>di</strong> vista <strong>semio</strong>tico, alle teorizzazioni <strong>degli</strong><br />
attori interni alla pratica? Questa domanda non è la banale rie<strong>di</strong>zione per le<br />
pratiche del ruolo delle poetiche o delle opinioni dell’autore nell’analisi del<br />
testo classica. Possiamo affermare che l’insieme significante <strong>di</strong> partenza, ciò<br />
che viene mirato dall’analista come gomitolo <strong>di</strong> isotopie e iscrizioni (dove<br />
l’intrasparenza regna sovrana), è un campo saturo, composto anche dalle<br />
suddette teorie, che informano l’agire dei soggetti, partecipano alla costruzione<br />
<strong>di</strong> visibilità e costituiscono quin<strong>di</strong> una messa in prospettiva dei valori<br />
in gioco, delle strategie adottate, della percepibilità stessa della situazione 20 .<br />
Dal punto <strong>di</strong> vista metodologico, dunque, l’insieme significante lavorabile<br />
comprende anche le teorie <strong>degli</strong> attori. In questo caso specifico, inoltre, la<br />
necessità <strong>di</strong> rendere trasmissibile e controllabile lo sviluppo dell’interazione<br />
rappresenta <strong>di</strong> fatto una possibilità per il <strong>semio</strong>tico <strong>di</strong> ritrovare un processo<br />
<strong>di</strong> risoluzione delle eterogeneità delegato sull’ipnotista, come attore interno<br />
che gestisce proprio questa moltiplicazione <strong>di</strong> sistemi <strong>semio</strong>tici concorrenti,<br />
al fine <strong>di</strong> regolarne l’assestamento reciproco. Così come l’enunciazione è<br />
stata stu<strong>di</strong>ata a partire dall’enunciazione enunciata per poi rimontare verso<br />
19 Una definizione “retorica” <strong>di</strong> questo tipo incontra inevitabilmente le critiche relative alla presunta<br />
“or<strong>di</strong>narietà” dell’esperienza (comparabili al classico <strong>di</strong>battito su letterale e figurato o su norma e<br />
devianza). In verità Melchior non è interessato a cosa costituisca una fantomatica or<strong>di</strong>narietà, quanto<br />
a rendere possibile localmente l’apertura <strong>di</strong> uno spazio allotopico su uno sfondo isotopico, spazio che<br />
agisca da perno metamorfico per il soggetto.<br />
20 Su questo punto, ve<strong>di</strong> l’interessante <strong>di</strong>scussione dell’etnopsichiatra Nathan (1988, introduzione) sullo<br />
statuto costruttivo delle <strong>di</strong>verse teorie psicanalitiche, che orientano <strong>di</strong>versamente perfino la micropercezione<br />
sintomatica e si pongono quali costituenti “mitiche” del campo interattivo.<br />
88
l’idea <strong>di</strong> un’enunciazione in atto che lascia traccia <strong>di</strong> sé nell’organizzazione<br />
del materiale e non solo nell’allestimento <strong>di</strong> simulacri, similmente il processo<br />
<strong>di</strong> risoluzione delle eterogeneità è incassato nella pratica nel modo in cui<br />
l’ipnotista pensa e esplicita il proprio modo <strong>di</strong> gestire il senso dell’interazione.<br />
L’ipnotista è un <strong>semio</strong>tico naturale delle pratiche.<br />
3. RIPRESA DELLA TECNICA DI CONFUSIONE<br />
È venuto finalmente il momento <strong>di</strong> tornare al nostro esempio iniziale per<br />
esplorare più analiticamente alcuni dei problemi metodologici e descrittivi che<br />
ci pone, iniziando proprio dalla <strong>di</strong>varicazione tra il testo notazionale interno<br />
e il corso <strong>di</strong> azione, per quanto possiamo comprenderlo dalla descrizione<br />
ericksoniana. L’insieme della tecnica, va detto, prevede tre fasi principali, <strong>di</strong><br />
cui il brano iniziale corrisponde alla seconda. All’inizio, dopo la <strong>di</strong>sposizione<br />
<strong>degli</strong> attori, Erickson comincia a parlare, rivolto a Miss K, pronunciando frasi<br />
costruite come le seguente:<br />
Yet, I want you to know that that chair [pointing at A] you are in is<br />
here to you [pointing at B] is there, but to Dr. G this chair [A] is here<br />
and that chair [B] is there, but as we go around the square, I am here<br />
and you are there, but you know you are here and you know I am<br />
there (Erickson 1964, p. 11, corsivo nel testo).<br />
La seconda fase è quella del mandato a Miss K, la terza comprende la doppia<br />
performance <strong>di</strong> Miss K, che da un lato ripete quanto le ha detto Erickson,<br />
dall’altro si sposta da una se<strong>di</strong>a all’altra, mentre il Dr. G esegue la sua performance<br />
cognitiva e passionale.<br />
Isoliamo in un primo tempo il testo canovaccio riportato all’inizio, del<br />
quale possiamo notare la tensione interna, a suo modo classica, tra un piano<br />
dell’enunciato e un piano dell’enunciazione, manifestato principalmente e in<br />
modo significativo dall’uso dei deittici. Il piano dell’enunciato è costituito<br />
principalmente da enunciati <strong>di</strong> stato, locativi (“x è qui”, “y è là”) e da enunciati<br />
che tematizzano un fare cognitivo (“riconoscere”, “pensare”) imputato<br />
<strong>di</strong> volta in volta ai <strong>di</strong>versi attori co-presenti che coprono successivamente il<br />
ruolo <strong>di</strong> soggetto attanziale. L’enunciato si presenta come un campo affermativo<br />
che si conclude con la negazione del fare cognitivo attribuito a G, il<br />
quale “non riconoscerà” il compiersi dell’unica trasformazione pragmatica<br />
dell’enunciato, lo spostamento <strong>di</strong> Miss K dalla sua se<strong>di</strong>a a quella <strong>di</strong> fronte a<br />
lei. Abbiamo quin<strong>di</strong> una trasformazione pragmatica e una cognitiva: sembra<br />
essere quest’ultima a definire il perno valoriale dello sviluppo narrativo. La<br />
connessione tra la parte affermativa e quella negativa, si noti, non è <strong>di</strong> natura<br />
logico-causale, dato che non ritroviamo alcuna figura <strong>di</strong> anti-soggetto: il fare<br />
cognitivo, all’interno del testo, non incontra ostacoli e resistenze <strong>di</strong> alcun tipo.<br />
89
Si perviene semplicemente alla sua negazione senza spiegare ulteriormente<br />
il passaggio dalla prima fase alla seconda.<br />
Il piano dell’enunciato risulta solo parzialmente autonomo rispetto all’affacciarsi<br />
dell’enunciatore, al quale continuano a rinviare i deittici e i pronomi<br />
personali, sullo sfondo <strong>di</strong> una temporalità sempre al presente. Rileviamo<br />
quin<strong>di</strong> una doppia struttura della persona, una relazione io/tu che concerne<br />
Erickson e Miss K (embrayage enunciazionale), e un egli per il Dr. G (debrayage<br />
attanziale enunciativo).<br />
Il <strong>di</strong>scorso muta costantemente il soggetto frastico, spostando a rotazione<br />
la prospettiva da Erickson a Miss K al Dr. G. Ciascun soggetto è convocato in<br />
quanto opera un fare cognitivo <strong>di</strong> valutazione delle posizioni rispettive <strong>di</strong> Miss<br />
K e della se<strong>di</strong>a vuota. Gli spostamenti prospettici, collocabili a un livello <strong>di</strong><br />
testualizzazione (decisione <strong>di</strong> quale fare sintattico selezionare al momento della<br />
realizzazione linguistica), si accompagnano a un uso insistito dei deittici che<br />
rinviano alla posizione dell’enunciatore, oltre a costituire un’evidente isotopia<br />
ritmica e assonante dal punto <strong>di</strong> vista espressivo (“here” e “there”).<br />
Sintetizzando, rileviamo molteplici tensioni interne al <strong>di</strong>scorso, in primo<br />
luogo tra: i) un punto <strong>di</strong> vista stabile dell’osservatore enunciazionale, deciso<br />
linguisticamente dai deittici (embrayage cognitivo); ii) una delega <strong>di</strong> un<br />
fare cognitivo-osservativo tematizzato sul piano dell’enunciato (débrayage<br />
cognitivo). Un secondo perno tensivo è tra: i) uno spostamento continuo<br />
della prospettiva narrativa, ogni enunciato selezionando attori <strong>di</strong>versi in posizione<br />
<strong>di</strong> soggetto; ii) un’identità <strong>di</strong> enunciato circolante (nelle due varianti<br />
<strong>di</strong> enunciato <strong>di</strong> stato e <strong>di</strong> enunciato <strong>di</strong> un fare cognitivo <strong>di</strong> un soggetto). Un<br />
terzo livello tensivo è tra: i) la duplicità <strong>di</strong> spazi in<strong>di</strong>cati (le due se<strong>di</strong>e) e ii)<br />
l’assonanza linguistica dei termini che li designano (“here” e “there”), che<br />
ne mina la <strong>di</strong>fferenza.<br />
L’analisi del testo rileva quin<strong>di</strong> alcune tensioni semantiche che lo abitano,<br />
ma poco ci <strong>di</strong>ce sugli effetti che questo è in grado <strong>di</strong> scatenare una volta<br />
immerso nel corso <strong>di</strong> azione, dal momento che non sappiamo ancora nulla<br />
dell’arrangiamento spaziale e del tipo <strong>di</strong> esecuzione scelta (dove la velocità<br />
<strong>di</strong> pronuncia sembra avere un suo ruolo), tanto per citare due variabili imme<strong>di</strong>atamente<br />
rilevanti. Abbiamo quin<strong>di</strong> bisogno <strong>di</strong> costruire un secondo testo<br />
che consideri la globalità della situazione <strong>semio</strong>tica, aprendo lo sguardo alle<br />
altre <strong>di</strong>mensioni con cui il piano verbale entra in relazione, riconfigurando<br />
l’insieme delle pertinenze.<br />
A partire dai valori semantici che vengono irra<strong>di</strong>ati dal testo, che funge metodologicamente<br />
da enzima coagulante l’eterogeneità situazionale, possiamo<br />
rendere pertinenti almeno tre altre <strong>di</strong>mensioni <strong>semio</strong>tiche con cui la parola<br />
entra in relazione (complessivamente contrastiva, come vedremo):<br />
i) in primo luogo la morfologia spaziale a<strong>di</strong>bita, piuttosto stabile alle apparenze<br />
(salvo “mettersi a girare” per il Dr. G al momento della vertigine) e costituita<br />
dalla triangolazione dei corpi e dalla <strong>di</strong>sposizione in quadrato delle se<strong>di</strong>e, che<br />
assumono però un orientamento particolare (ve<strong>di</strong> fig. 1).<br />
90
Fig. 1. Il <strong>di</strong>spositivo spaziale nella tecnica <strong>di</strong> confusione.<br />
Notiamo come la <strong>di</strong>sposizione delle quattro se<strong>di</strong>e agli angoli <strong>di</strong> un quadrato<br />
immaginario con i tre attori seduti costituisca in realtà uno spazio<br />
potenzialmente complesso, la cui lettura morfologica <strong>di</strong>penderà anche dalle<br />
valorizzazioni promosse dal <strong>di</strong>scorso. La circolazione della parola tra attori<br />
umani configura uno spazio triangolare <strong>di</strong> relazione <strong>di</strong>a<strong>di</strong>che (prima da<br />
C a A, quando Erickson parla a Miss K, non rivolta a lui, e poi da A a D,<br />
quando Miss K parla al Dr. G). Le se<strong>di</strong>e <strong>di</strong>segnano uno spazio geometrico<br />
elementare, un quadrato immaginario in cui la frontalità <strong>di</strong> Miss K e della<br />
se<strong>di</strong>a vuota sembra costituire un asse scenico in senso teatrale (spazio della<br />
performanza, lo spostamento <strong>di</strong> K), parzialmente debraiato rispetto alla<br />
posizione parallela e spettatoriale <strong>di</strong> Erickson e del Dr. G (che coprono<br />
nel testo i ruoli rispettivi <strong>di</strong> destinante manipolatore e sanzionatore). La<br />
<strong>di</strong>sposizione spaziale complessiva andrebbe a costituire la <strong>di</strong>mensione<br />
scenica della pratica, volendo riprendere l’opposizione tra scena e strategia<br />
introdotta precedentemente.<br />
Prima osservazione metodologica: il testo recitato tematizza lo spazio circostante,<br />
ci parla <strong>di</strong> posizioni, e questi posti non solo sono presenti ma manifestano<br />
altre proprietà significanti, non esplicitate dal testo: l’orientamento e le <strong>di</strong>stanze<br />
reciproche equilibrate e omogenee (possiamo parlare <strong>di</strong> spazio compatto). Se<br />
Miss K fosse seduta frontalmente a Erickson o al Dr. G, o se le se<strong>di</strong>e fossero<br />
91
<strong>di</strong>sposte su uno spazio circolare, si presume che gli effetti sarebbero <strong>di</strong>versi,<br />
probabilmente non altrettanto clamorosi 21 ;<br />
ii) altra <strong>di</strong>mensione rilevante è quella della gestualità indessicale dei protagonisti,<br />
ovvero il puntare <strong>di</strong> Erickson verso l’una o l’altra se<strong>di</strong>a. In<br />
particolare, possiamo notare una relazione cooperativa tra il verbale e<br />
il gestuale-in<strong>di</strong>cale, che raddoppia in certi punti e rafforza (in termini<br />
<strong>di</strong> assunzione enunciazionale) il contenuto <strong>di</strong>scorsivo. Il gesto è usato<br />
tipicamente in corrispondenza <strong>di</strong> un deittico linguistico, permettendo<br />
una traduzione tra una <strong>semio</strong>tica <strong>di</strong>scorsiva e una <strong>semio</strong>tica del mondo<br />
naturale. In questo senso la gestualità fa da ponte tra il piano del contenuto<br />
verbale e la morfologia spaziale, compartecipando alla costituzione <strong>di</strong> un<br />
senso integrato 22 ;<br />
iii) in terzo luogo riconosciamo la presenza <strong>di</strong> altre istanze <strong>di</strong> semantizzazione<br />
rispetto all’esecutore del testo, altri attori/enunciatori in scena, il cui<br />
eventuale ruolo per una <strong>semio</strong>tica delle pratiche è tutto da esplicitare, in<br />
particolare in relazione al portato <strong>di</strong> una corporeità evidentemente sollecitata.<br />
Si tratta per noi <strong>di</strong> mettere alla prova i modelli esistenti <strong>di</strong> <strong>semio</strong>si<br />
incarnata, per vedere se offrono delle possibilità euristiche rispetto alla<br />
situazione considerata.<br />
Due considerazioni per proseguire: i) il <strong>di</strong>scorso pronunciato costruisce sia<br />
un simulacro <strong>di</strong> destinatario (il Dr. G), sia un tracciato delle operazioni enunciazionali<br />
che possono essere replicate e assunte dai presenti 23 . Il flusso <strong>di</strong>scorsivo<br />
è così un teatro <strong>di</strong> operazioni semantiche che designa profili <strong>di</strong> semantizzazione<br />
possibili; ii) la semantizzazione <strong>di</strong> cui si parla va riferita alla pratica, non al solo<br />
<strong>di</strong>scorso verbale, ovvero va integrata alla morfologia spaziale (già <strong>semio</strong>tica) e<br />
alla <strong>di</strong>mensione indessicale. Il testo, infatti, è già pre<strong>di</strong>sposto per l’inserimento<br />
in una situazione poliattoriale e polimodale.<br />
Sappiamo che la risposta somatica <strong>di</strong> G è prevista, mirata e ricercata attivamente<br />
da Erickson. Oltre ad “entrare in confusione”, il Dr G, ci viene riferito,<br />
comincia a manifestare un nistagmo oculare, un movimento involontario <strong>degli</strong><br />
occhi, segno che sulla retina le immagini non sono ben a fuoco (la visione<br />
risulta <strong>di</strong>sturbata). Ad un certo punto la stanza comincerà a girargli intorno,<br />
provocando nausea, mal <strong>di</strong> testa e senso <strong>di</strong> vertigine (<strong>di</strong> tipo rotatorio). Cos’è,<br />
<strong>semio</strong>ticamente, una vertigine 24 ? Qual è l’esatta amalgama <strong>semio</strong>tica che la<br />
rende possibile “artificialmente” in un <strong>di</strong>spositivo interattivo?<br />
21 Sfortunatamente non siamo nella con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> poter sperimentare la tecnica con commutazione <strong>di</strong><br />
variabili, ma consideriamo le scelte <strong>di</strong> Erickson come ottimali rispetto agli obiettivi ricercati, valorizzando<br />
la sua esperienza in materia.<br />
22 Sul ruolo dei deittici nel montaggio <strong>di</strong> più <strong>semio</strong>tiche è fondamentale il contributo <strong>di</strong> Charles Goodwin,<br />
cfr. ad esempio Goodwin (2003).<br />
23 Sull’opposizione tra una prospettiva simulacrale e una prospettiva operazionale nell’analisi dell’enunciazione,<br />
cfr. Fontanille (1994).<br />
24 Per una <strong>semio</strong>tica della vertigine intesa come “desolidarizzazione del regime polisensoriale”, cfr. Basso<br />
(2005).<br />
92
Si tratta allora <strong>di</strong> relare le tensioni semantiche del testo (che sono altrettante<br />
aperture alla semantizzazione dell’altro) con le variabili <strong>semio</strong>tiche<br />
dell’intorno (deissi e morfologia spaziale), per capire come venga profilata<br />
una strategia <strong>di</strong> semantizzazione che porti alla “confusione” del soggetto. La<br />
pronuncia del testo, evidentemente, non basta <strong>di</strong> per sé a provocare vertigine.<br />
Sappiamo che Erickson si rivolge a Miss K mentre lei ha <strong>di</strong> fronte la se<strong>di</strong>a,<br />
per cui la relazione testuale embraiata io/tu confligge con una spazialità che<br />
pone Miss K in uno spazio parzialmente debraiato (v. sopra) rispetto alla coppia<br />
Erickson-Dr. G. La posizione del Dr G, viceversa, appartiene allo stesso<br />
spazio <strong>di</strong> Erickson, mentre questi ne parla in terza persona. Si capisce allora<br />
come le tensioni semantiche del testo vengano raddoppiate dalla <strong>di</strong>sposizione<br />
spaziale <strong>di</strong> uomini e se<strong>di</strong>e.<br />
Rileviamo inoltre la presenza <strong>di</strong> un formante circolare, rotatorio, nel modo in<br />
cui Erickson muove le prospettive interne alla parola (“go around”), passando<br />
sia nella prima che nella seconda fase dell’induzione, dalla sua posizione a<br />
quella <strong>di</strong> Miss K al Dr. G. Si tratta <strong>di</strong> un formante <strong>di</strong>namico che sembra avere<br />
un ruolo al momento in cui si verifica un capogiro del soggetto osservatore,<br />
come se assumesse nella propria carne sensibile questo formante trasmutandolo<br />
in un giramento <strong>di</strong> capo.<br />
Stiamo cominciando a focalizzare gli elementi che partecipano all’ingresso in<br />
uno stato confusionario <strong>di</strong> G. Questi non incontra nel testo gli ostacoli al proprio<br />
fare cognitivo <strong>di</strong> riconoscimento delle posizioni (tema dell’enunciato semanticamente<br />
coerente), ma li ritrova nella tensione tra piano enunciazionale, giochi<br />
prospettici e morfologia spaziale. Sembra chiaro che a livello <strong>di</strong> enunciazione<br />
verbo-gestuale ciò che viene detto è intensamente assunto, adesione che <strong>di</strong>venta<br />
attesa <strong>di</strong> coerenza per l’altro. La forte isotopia spaziale, lessicale e ritmica non è<br />
però garanzia <strong>di</strong> un senso sostenibile nel tempo. Il continui giochi <strong>di</strong> debrayage/<br />
embrayage <strong>di</strong>scorsivi sono in tensione contrastiva con la morfologia spaziale<br />
a<strong>di</strong>bita e rendono sempre più <strong>di</strong>fficile integrare le prese <strong>di</strong> posizioni successive<br />
che muovono costantemente il <strong>di</strong>scorso. La semantizzazione fa oscillare la centratura<br />
deittica del campo <strong>di</strong>scorsivo, in particolare tra la posizione del corpo <strong>di</strong><br />
G e quella <strong>di</strong> Erickson. Ecco che ad un certo punto l’intensità dell’assunzione<br />
enunciazionale si ripresenta, <strong>di</strong> fronte all’impossibilità <strong>di</strong> un’integrazione semantica<br />
da parte del destinatario della comunicazione, come emersione <strong>di</strong>sforica della<br />
carne. Il sé <strong>di</strong>scorsivo, non riuscendo più a posizionarsi, si <strong>di</strong>schiude all’intensità<br />
emergente del me-carne 25 . L’affondamento del sé sembra comportare inoltre una<br />
crisi parziale della <strong>di</strong>stinzione soggetto/mondo, dato che il formante rotatorio<br />
precedentemente rilevato viene proiettato figuralmente sul mondo che comincia<br />
a girare per lui (vertigine rotatoria esterocettiva).<br />
25 Ripren<strong>di</strong>amo la terminologia proposta da Fontanille (2004a), che in<strong>di</strong>vidua una tensione costitutiva<br />
della corporeità tra un me-carne, istanza <strong>di</strong> riferimento intensiva, e un sé-corpo, istanza <strong>di</strong>scorsiva,<br />
prodotta dall’apertura/confronto con l’alterità dell’intorno.<br />
93
Il corpo, insomma, per il modo in cui riemerge, sembra assumere l’instabilità<br />
del proprio posizionamento, significandola attivamente. In questo senso,<br />
si mette a far figura (la vertigine), riattivando una memoria incarnata <strong>di</strong> una<br />
situazione <strong>di</strong> instabilità interdeittica (da cui la variazione i<strong>di</strong>osincratica nelle<br />
risposte somatiche) attraverso un processo <strong>di</strong> richiamo analogico.<br />
Un ultimo punto: non ci siamo chiesti perché l’ipnotista adotti questa strategia<br />
induttiva. Al <strong>di</strong> là dell’aspetto sperimentale, la situazione <strong>di</strong> confusione, ci <strong>di</strong>ce<br />
Erickson, mette il soggetto in cerca <strong>di</strong> istruzioni chiare, <strong>di</strong> una prensione netta cui<br />
appigliarsi. Un’istruzione definita, <strong>di</strong>fatti, ri-posiziona bruscamente il soggetto,<br />
fornendogli <strong>di</strong> nuovo un’identità <strong>di</strong>scorsiva sostenibile (il sé-corpo riprende<br />
il controllo del me-carne), al prezzo <strong>di</strong> accettarne il contenuto. Il contenuto<br />
enunciato, quin<strong>di</strong>, è retto e quasi avvolto da una serie <strong>di</strong> strati modalizzanti,<br />
come spesso accade nelle strategie <strong>di</strong> induzione (effetto matrioska).<br />
4. EFFETTI DI CAMPO<br />
Si <strong>di</strong>rebbe a questo punto che per comprendere l’operatività della parola ipnotica<br />
sia utile una teoria <strong>degli</strong> effetti <strong>di</strong> campo, ma non tanto una teoria che<br />
permetta <strong>di</strong> descrivere le operazioni rispetto a un campo pre<strong>di</strong>cativo unico<br />
quanto piuttosto un modello che preveda la possibilità <strong>di</strong> montare assieme,<br />
<strong>di</strong> aggiustare contemporaneamente più campi, più morfologie <strong>semio</strong>tiche<br />
concorrenti, passibili <strong>di</strong> stratificazioni complesse e <strong>di</strong> dominanze interne <strong>di</strong>versificate.<br />
È infatti preve<strong>di</strong>bile, almeno nel caso dell’ipnosi, che il responsabile<br />
della pratica agisca strategicamente rispetto al montaggio dei campi attivabili,<br />
avendo a <strong>di</strong>sposizione come sottocampi, accanto al flusso <strong>di</strong>scorsivo e alla<br />
morfologia spaziale 26 , i mo<strong>di</strong> del sensibile attivabili dai suoi operatori corporei<br />
principali: lo sguardo, la voce e la respirazione. In sostanza l’ipnotista sfrutta<br />
la plasticità generalizzata <strong>di</strong> un’interazione tra corpi, che consente <strong>di</strong> rendere<br />
significanti e rilevanti <strong>di</strong>versi campi del sensibile (è l’uso, quin<strong>di</strong>, a determinare<br />
la pertinenza <strong>semio</strong>tica dei campi osservabili). Rispetto al processo delegato <strong>di</strong><br />
risoluzione delle eterogeneità, si noti come il clinico produca dell’eterogeneo,<br />
moltiplichi le <strong>di</strong>mensioni significanti in interazione proprio nell’intento <strong>di</strong><br />
scar<strong>di</strong>nare l’omogeneità eventuale dell’altro (la sua resistenza al cambiamento<br />
interpretata in termini <strong>di</strong> “chiusura”). È un proce<strong>di</strong>mento che va sotto il nome<br />
<strong>di</strong> “depotenziamento <strong>degli</strong> abituali schemi <strong>di</strong> riferimento” e che mostra il potere<br />
configurativo dei <strong>di</strong>versi mo<strong>di</strong> del sensibile.<br />
La voce, ad esempio, si presenta nell’attività clinica come corpo sonoro che<br />
designa un suo campo, lo <strong>di</strong>mensionalizza, lo centra, seleziona una <strong>di</strong>rezionalità,<br />
manifesta un’intensità, un timbro, una calibratura. L’ipnotista può così<br />
26 Si noti come la morfologia spaziale venga automaticamente estromessa dal tipico processo <strong>di</strong> “<strong>di</strong>sinvestimento<br />
del mondo esterno” presente nelle induzioni standard: basta chiedere la chiusura <strong>degli</strong> occhi<br />
per far sparire un “rumore” visivo potenzialmente <strong>di</strong>sturbante.<br />
94
sperimentare <strong>di</strong>versi usi significativi del campo vocale in relazione al campo<br />
<strong>di</strong>scorsivo verbale. Un processo <strong>di</strong> <strong>di</strong>stensione raccontato oralmente (“ed ora<br />
senti i pie<strong>di</strong> che appoggiano per terra, e il respiro si fa più calmo”) può essere<br />
classicamente rinforzato da un abbassamento del volume <strong>di</strong> voce.<br />
La plasticità locale della voce in ipnosi è testimoniata al più alto grado dai<br />
destini dell’attorializzazione: si pensa usualmente che la voce sia una delle tante<br />
impronte della persona, in<strong>di</strong>calmente connessa al corpo materiale dell’in<strong>di</strong>viduo<br />
(la grana). Dal punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong>scorsivo, una voce designa un’identità, è manifestazione<br />
stabile <strong>di</strong> un attore. Ebbene, sperimentando in ipnosi, Erickson <strong>di</strong>mostra<br />
<strong>di</strong> poter far <strong>di</strong>ventare la propria voce la voce <strong>di</strong> chiunque, per sesso, età, ruolo,<br />
ecc 27 . L’ipnotista può scegliere un ruolo finzionale con cui giocarsi la relazione<br />
immaginaria in corso, mettendo così proprio l’attorializzazione in variazione, sulla<br />
base <strong>di</strong> una esclusiva presenza vocale per l’ipnotizzando, dato che quest’ultimo<br />
accede solo allo stimolo vocale dell’ipnotista (gli occhi sono chiusi).<br />
Il montaggio tra campi <strong>di</strong>versi ci permette inoltre <strong>di</strong> integrare nel sistema delle<br />
pertinenze quelle <strong>di</strong>mensioni corporee <strong>di</strong> solito relegate all’involontarietà, come<br />
il respiro o i micromovimenti <strong>di</strong> aggiustamento corporeo. Quando l’ipnotista,<br />
durante un’induzione standard, enuncia a tempo sull’espirazione del soggetto,<br />
sta promuovendo un evidente semi-simbolismo tra inspirazione/tensione vs.<br />
espirazione/<strong>di</strong>stensione e i contenuti del <strong>di</strong>scorso che vengono contagiati dalla<br />
polarizzazione e contagiano a loro volta la situazione corporea. Ecco che la<br />
plasticità <strong>di</strong>ffusa del corpo si mette a significare secondo modalità semi-simboliche,<br />
similmente a quanto accade ai linguaggi <strong>di</strong> cui si consideri il lavorio<br />
intorno al piano dell’espressione. Un micro-co<strong>di</strong>ce vede localmente la luce e<br />
viene messo in con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> valere per il corpo dell’altro, in<strong>di</strong>pendentemente<br />
dalla sua razionalizzazione cosciente.<br />
Un ultimo esempio ci permette <strong>di</strong> spingerci oltre nel precisare le <strong>di</strong>namiche<br />
sintattiche <strong>di</strong> campo e richiamare uno dei temi controversi in materia <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o<br />
della <strong>di</strong>scorsività: se sia necessario o meno implementare operazioni <strong>di</strong> mira<br />
(visée) e prensione (saisie), ricorrendo agli attanti posizionali (sorgente, bersaglio<br />
e controllo), per descrivere le manovre <strong>di</strong> un’enunciazione sensibile<br />
presente al <strong>di</strong>scorso che sta producendo 28 .<br />
Il vantaggio del nostro caso è che non siamo in presenza <strong>di</strong> una <strong>di</strong>scorsività<br />
realizzata, ma <strong>di</strong> un testo da (ri)costruire a partire da una pratica: accettare la<br />
tracciabilità visibile delle semantizzazioni <strong>degli</strong> attori comporta la possibilità<br />
<strong>di</strong> osservare se le operazioni <strong>di</strong> mira e prensione siano variabili rilevanti della<br />
pratica stessa, possibili poste in gioco dell’enunciazione ipnotica.<br />
27 Cfr. la <strong>di</strong>scussione con Haley in Erickson 1959.<br />
28 Per una critica ai rischi <strong>di</strong> fenomenologismo ingenuo, che risalga a un’ante-pre<strong>di</strong>catività pre-linguistica<br />
e che quin<strong>di</strong> non colga l’essere sempre culturalizzata della percezione e <strong>di</strong> qualsiasi enunciazione, cf.<br />
Basso 2001, introduzione.<br />
95
Nell’induzione Erickson si focalizza spesso sulla propriocezione, tematizzando<br />
quelle che chiama le “sensazioni attuali” del soggetto ovvero mettendo<br />
in <strong>di</strong>scorso una corporeità sensibile, ad esempio invitando il soggetto a sentire<br />
le mani appoggiate sulle gambe, ad auscultare la propria respirazione, il battito<br />
car<strong>di</strong>aco, ecc. Nel gergo ipnotico si chiamano truismi, espressioni che ricalcano<br />
una possibile quanto generica esperienza in corso, raddoppiandola verbalmente<br />
e invitando il soggetto ad aderire a quanto affermato. Naturalmente dal punto <strong>di</strong><br />
vista <strong>semio</strong>tico possiamo riconoscere come l’ipnotista prenda in prestito dalla<br />
cultura occidentale una retorica specifica della sensazione.<br />
In ogni caso, dopo aver creato un campo <strong>di</strong>scorsivo affermativo (modalizzato<br />
come un non poter non essere), introduce delle piccole mo<strong>di</strong>fiche oppure invita<br />
il soggetto a sentire certe sensazioni volutamente vaghe che possono essere<br />
(ri)prodotte dal soggetto.<br />
Pren<strong>di</strong>amo come micro esemplare un semplice enunciato, commentato anche<br />
da Melchior (1998, pp. 103-104). Durante un processo induttivo l’ipnotista,<br />
dopo una serie <strong>di</strong> truismi, può affermare: “tu puoi forse sentire certe sensazioni<br />
nella mano destra”. Il soggetto è invitato a <strong>di</strong>rigere la propria attenzione su una<br />
determinata parte del corpo per trovarvi una qualche sensazione volutamente<br />
non meglio specificata. La modalizzazione dell’enunciato (“tu puoi”) conferisce<br />
al soggetto l’iniziativa dell’azione così come il controllo, da osservatore,<br />
delle proprie sensazioni. La sensazione, qualunque essa sia vista l’assenza <strong>di</strong><br />
determinazioni specifiche, assume un regime semantico del “trovato”, come<br />
se la sensazione esistesse già, e non, invece, dell’“indotto”. La forma stessa<br />
della domanda, purtuttavia, con una modalizzazione così esplicita, è per gli<br />
ipnotisti un invito in<strong>di</strong>rizzato, in modo apparentemente paradossale, anche<br />
alla carne del soggetto, affinché essa assecon<strong>di</strong> la richiesta, per un principio<br />
inerziale, visto che non c’è alcun interesse a interrompere lo stato <strong>di</strong> benessere<br />
e <strong>di</strong> abbandono in cui ci si trova (il campo affermativo comporta un’adesione<br />
intima del soggetto). Il soggetto-destinatario della comunicazione può occupare<br />
due posizioni attanziali volutamente <strong>di</strong>ssociate, ricoprendo da un lato il ruolo<br />
<strong>di</strong> osservatore <strong>di</strong> un processo (tra la parola sorgente e la carne bersaglio, l’attenzionalità<br />
del soggetto funge da attante <strong>di</strong> controllo, che si <strong>di</strong>rige sulla zona<br />
enunciata), dall’altro ponendo la propria carne come soggetto <strong>di</strong> trasformazioni<br />
(la carne è sorgente <strong>di</strong> un processo <strong>di</strong> mo<strong>di</strong>ficazione).<br />
C’è un problema <strong>di</strong> regime <strong>di</strong> semantizzazione della percezione (recadrage):<br />
essa è già là, realizzata, precedendo la pre<strong>di</strong>cazione dell’ipnotista, o la segue,<br />
provocata e quin<strong>di</strong> virtuale al momento dell’enunciazione, adattandosi, quasi<br />
risucchiata dalla parola ipnotica? Il fenomeno è tanto più interessante quanto più<br />
lo accostiamo all’ossessione referenzialista delle scienze del linguaggio, anche<br />
nella loro evoluzione <strong>semio</strong>tica verso l’analisi <strong>degli</strong> effetti <strong>di</strong> realtà nei <strong>di</strong>scorsi,<br />
ossessione che impe<strong>di</strong>sce <strong>di</strong> dare rilevanza a fenomeni in cui non si <strong>di</strong>a tanto un<br />
problema <strong>di</strong> confronto tra la lingua e il mondo, ma tra un corso d’azione, una<br />
verbalizzazione e una corporeità sensibile. A pensarci, non possiamo rinunciare<br />
a nessuna delle tre <strong>di</strong>mensioni appena elencate per caratterizzare un fenomeno<br />
96
<strong>di</strong> questo tipo, non riconducibile ad una scena <strong>di</strong> confronto soggetto/mondo o<br />
parola/mondo. Il nostro episo<strong>di</strong>o rinvia piuttosto al terreno del bio-feedback (si<br />
pensi alle esperienze <strong>di</strong> controllo del battito car<strong>di</strong>aco da parte <strong>di</strong> un soggetto<br />
in situazione sperimentale una volta che si inserisca un ritmo acustico esterno<br />
che faccia da guida), in cui viene tematizzata la retroazione <strong>di</strong> un sistema ad<br />
una variazione esterna al sistema stesso. L’enunciato dell’ipnotista costituisce<br />
una sanzione anticipata che favorisce il comportamento richiesto (performance<br />
della carne), <strong>di</strong> carattere sensori-motorio, senza bisogno <strong>di</strong> scomodare la volontà<br />
del soggetto. In questa <strong>di</strong>rezione possiamo pensare davvero ad effetti <strong>di</strong><br />
campo, nel senso che l’azione si verifica, si dà sensazione <strong>di</strong> un qualcosa (che<br />
può poi <strong>di</strong>ventare <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> un movimento, ovvero manifestare un formante<br />
vettoriale emergente a partire dal rumore <strong>di</strong> fondo dei micro-movimenti corporei<br />
sempre presenti), <strong>di</strong> cui al contempo si neutralizza l’imputabilità (è il corpo? è<br />
l’inconscio? è la volontà dell’ipnotista? è la formula emessa? è il <strong>di</strong>spositivo nel<br />
suo complesso?). Con questa enunciazione, inoltre, l’ipnotista promuove una<br />
posizione <strong>di</strong> pura osservazione del processo da parte del soggetto, favorendo<br />
una <strong>di</strong>ssociazione tra carne sensibile e istanza <strong>di</strong>scorsiva del soggetto, <strong>di</strong>varicazione<br />
testimoniata dal fatto che il soggetto non assume il movimento successivo<br />
come proprio, ovvero come connesso a un’istanza <strong>di</strong>scorsiva in <strong>di</strong>venire. Ma<br />
lo sviluppo <strong>di</strong> questa sintassi <strong>di</strong>ssociativa richiederà ulteriori approfon<strong>di</strong>menti<br />
che in questa sede non affronteremo.<br />
Si potrebbe osservare infine come le pratiche ipnotiche scommettano sulla<br />
costituzione <strong>semio</strong>tica della carne del soggetto, che <strong>di</strong> fatto semantizza la<br />
richiesta dell’ipnotista: la carne viene messa in con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> ascoltare’ in<strong>di</strong>pendentemente<br />
dalla volontà del soggetto, è una macchina <strong>semio</strong>tica a pieno<br />
titolo e non semplicemente un territorio <strong>di</strong> turbolenze e conflitti più o meno<br />
stabili tra forze e materie estranee all’articolarsi della significazione.<br />
Al termine del nostro percorso, un rilancio. La stabilizzazione <strong>di</strong> una situazione<br />
interattiva, nostra ipotesi <strong>di</strong> lavoro, resta non <strong>di</strong> meno sempre precaria, sotto un<br />
regime <strong>di</strong> senso sottoposto alle pressioni delle enunciazioni che vi prendono<br />
parte. Il <strong>semio</strong>tico può così rilevare le tensioni semantiche che la abitano, i nervi<br />
scoperti in cui sia possibile intervenire per aprirla a un <strong>di</strong>venire <strong>di</strong>fferente. In<br />
questa <strong>di</strong>rezione va esplorato un destino possibile del <strong>semio</strong>tico, se cioè sarà<br />
in grado <strong>di</strong> costituire alleanze con attori responsabili <strong>di</strong> pratiche o della loro<br />
gestione per mobilitare il senso dell’agire dei soggetti. Nel caso della clinica,<br />
ad esempio, <strong>di</strong> fronte al terapeuta quale attore sociale responsabile dello sviluppo<br />
dell’interazione con un paziente, l’interesse costruttivo del <strong>semio</strong>tico<br />
può affiancarsi alla necessità strategica del clinico <strong>di</strong> capire meglio i processi<br />
<strong>di</strong> influenzamento e manipolazione reciproca 29 .<br />
29 Ci permettiamo <strong>di</strong> richiamare a questo proposito il nostro lavoro sull’uso della voce nella clinica<br />
etnopsichiatrica (Casadei, Festi, Inglese, 2005) impostato su una collaborazione <strong>di</strong> questo tipo.<br />
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99
ELICHE E BIVALVI: SULLA RELAZIONE TRA<br />
ASCOLTO E OGGETTI SONORI A PARTIRE DA<br />
PIERRE SCHAEFFER 1<br />
<strong>Andrea</strong> <strong>Valle</strong><br />
1. PRATICA E SENSIBILE<br />
101<br />
Per Emma e Marta<br />
1.1. Testo e produzione<br />
Tipicamente in <strong>semio</strong>tica il testo si configura come un deposito <strong>di</strong> tracce. Questo<br />
deposito <strong>di</strong> tracce fonda l’attività analitica precedendola <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto: non a caso, il<br />
testo è, classicamente, una “grandeur considerée anterieurement à son analyse”<br />
(Greimas-Courtés 1979: v. Texte, 5), “tout de signification” (Greimas-Courtés 1979:<br />
v. Analyse) che quest’ultima articola a partire da un atto che si caratterizza come<br />
primo riconoscimento. È infatti “la reconnaissance et le choix des unités maximales”<br />
1 Questo lavoro riprende <strong>Valle</strong> 2004a, 2004b e 2005 nella prospettiva <strong>di</strong> una lettura unitaria. Presentato<br />
al seminario Le texte en question: Actualités de la sémiotique, 24-25 Mars 2005, Limoges, Faculté des<br />
Lettres et des Sciences Humaines
che permette l’abbrivo della procedura d’analisi (Greimas-Courtés 1979: v. Texte,<br />
3). La forza teorica del testo sta nel mettere in scena icasticamente quella che, per<br />
la <strong>semio</strong>tica generativa come per quella interpretativa, costituisce la determinazione<br />
irrinunciabile del senso: il senso è sempre a posteriori ed è sempre il risultato <strong>di</strong><br />
un processo <strong>di</strong> ricostruzione a partire da una sua “esternazione“. Questo postulato<br />
<strong>semio</strong>tico dell’aposteriori, che colloca saldamente la <strong>semio</strong>tica all’interno <strong>di</strong> un<br />
“para<strong>di</strong>gma in<strong>di</strong>ziario” 2 , trova cioè nel testo un suo luogo elettivo. E tuttavia, a ben<br />
vedere, il testo è fatto oggetto dalla stessa attività analitica <strong>di</strong> un riconoscimento<br />
doppio che lo pone, non una, ma due volte sotto la luce della figuratività. In primo<br />
luogo, come fin’ora osservato, il primo riconoscimento ne fa emergere la <strong>di</strong>mensione<br />
che si <strong>di</strong>rebbe “strutturale”, per cui il testo è un insieme <strong>di</strong> elementi che fanno tenuta<br />
attraverso le relazioni che li definiscono nelle reciproche posizioni. Si valorizza<br />
così la <strong>di</strong>mensione del testo in quanto “tessuto”. Ma d’altra parte è ovvio che ogni<br />
traccia rimanda ad un tracciare, ogni tessuto è (stato) tessuto, così come l’iscrizione<br />
è insieme il risultato e l’operazione che vi conduce. C’è una duplicità insopprimibile<br />
che lega, derri<strong>di</strong>anamente, genesi e struttura o, greimasianamente, struttura e storia.<br />
E, d’altra parte, che questa <strong>di</strong>mensione “icnologica“ (Ferraris 1997) sia costitutiva<br />
della <strong>semio</strong>tica è ampiamente <strong>di</strong>mostrato: “attestato“, si <strong>di</strong>rebbe, a partire da alcuni<br />
luoghi classici della riflessione <strong>semio</strong>tica. A partire dal “Dictionnaire” che chiude<br />
l’entrata Texte ricordando la proposta kristeviana del “texte comme productivité”,<br />
concetto “qui cherche à tenir compte, en même temps, des propriétés sémiotiques de<br />
l’énonciation et de l’énoncé” (Greimas e Courtés 1979: Texte, 5). Si potrebbe così<br />
rilevare come questa duplicità sia stata articolata anche da Prieto, nei termini <strong>di</strong> un<br />
doppio funzionamento della significazione. La produzione <strong>di</strong> senso richiede infatti<br />
per il <strong>semio</strong>logo argentino due “in<strong>di</strong>cazioni”. La prima è l’in<strong>di</strong>cazione “significativa”,<br />
che riconduce il fatto al suo statuto <strong>semio</strong>tico <strong>di</strong> segno rispetto ad un sistema,<br />
secondo un presupposto <strong>di</strong> tipo “strutturale”. La seconda in<strong>di</strong>cazione è l’in<strong>di</strong>cazione<br />
“notificativa”: essa effettua una prima strutturazione, per così <strong>di</strong>re, <strong>di</strong> cornice che<br />
conduce dalla produzione del segnale al riconoscimento dell’intenzionalità della<br />
produzione stessa. È infatti sull’in<strong>di</strong>cazione notificativa, intesa come prima determinazione<br />
“enunciazionale”, che s’innesta l’in<strong>di</strong>cazione significativa: “il segnale<br />
in<strong>di</strong>ca al ricevente che il [senso] che l’emittente vuole trasmettergli è uno <strong>di</strong> quelli<br />
che esso ammette” (Prieto 1966: 50). Così in Greimas e nella <strong>semio</strong>tica generativa<br />
la <strong>di</strong>mensione dell’enunciazione si affianca come riconoscimento <strong>di</strong> una logica <strong>di</strong><br />
produzione al riconoscimento strutturale della testualità: e la sua importanza, trascurata<br />
inizialmente in favore della componente strutturale, ha permesso <strong>di</strong> descriverne<br />
la formulazione teorica ad<strong>di</strong>rittura nei termini <strong>di</strong> un “avvento” (Fabbri e Marrone<br />
2001). In particolare, l’idea <strong>di</strong> “prassi enunciazionale” (Fontanille e Zilberberg 1998)<br />
permette <strong>di</strong> recuperare l’ipotesi <strong>di</strong> pertinenza <strong>di</strong> una logica <strong>di</strong> produzione del testo,<br />
che presenta notevoli affinità con la teoria dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> produzione segnica <strong>di</strong> Eco.<br />
Il concetto <strong>di</strong> “prassi enunciazionale” trova il suo proprium in un insieme <strong>di</strong> aspetti<br />
2 Fabbrichesi Leo (2004: 123ss) mutua l’espressione da Ginzburg per descrivere la costruzione del sapere<br />
in Peirce.<br />
102
che presiedono alla conversione delle “forme” in “operazioni”, secondo la definizione<br />
che Fontanille e Zilberberg (1998: 128) mutuano dalla voce énonciation del<br />
Dictionnaire greimasiano. Infatti, “l’énonciation est une mé<strong>di</strong>ation entre l’actualisé<br />
(en <strong>di</strong>scours) et le réalisé (dans le monde naturel)”: essa è allora “une praxis dans<br />
l’exacte mesure où elle donne un certain statut de réalité - à définir - aux produits<br />
de l’activité de langage” (Fontanille e Zilberberg 1998: 128). La teoria dei mo<strong>di</strong><br />
<strong>di</strong> produzione segnica occupa la seconda parte dell’echiano Trattato <strong>di</strong> <strong>semio</strong>tica<br />
generale e si presenta come il momento dell’immissione della processualità rispetto<br />
alla teoria dei co<strong>di</strong>ci, che ne occupa la prima parte. Rispetto al modello della spazio<br />
semantico come magnetizzazione delle biglie d’acciaio in una scatola (Eco 1975:<br />
176-77), “la teoria dei co<strong>di</strong>ci è solo interessata al risultato <strong>di</strong> questo gioco, così come<br />
si presenta dopo la magnetizzazione”, mentre “la teoria della produzione segnica<br />
e del mutamento dei co<strong>di</strong>ci è interessata al processo per cui la regola è imposta<br />
sull’indeterminatezza della fonte” (Eco 1975: 179). La tipologia dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> produzione<br />
segnica è dunque il modo in cui la storicità può essere pensata internamente<br />
alla <strong>semio</strong>tica, nei termini della ricostruzione necessariamente a posteriori delle<br />
strategie <strong>di</strong> un soggetto operatore. Essa è, insieme, una matrice <strong>di</strong> storie possibili<br />
(si noti la modalizzazione) della <strong>semio</strong>si in quanto processo. È allora interessante<br />
osservare come analogamente la <strong>di</strong>scussione sulla prassi enunciazionale muova<br />
dal Dictionnaire greimasiano, in cui la “production” è infatti strettamente connessa<br />
con l’ “énonciation”, e <strong>di</strong>stinta dalla “génération”: la “génération” riguardando la<br />
competenza del soggetto parlante (una teoria dei co<strong>di</strong>ci, a cui è de<strong>di</strong>cata la prima<br />
parte del Trattato echiano), la “production” essendo propriamente “caractéristique<br />
de la performance” (una teoria della produzione, che è punto d’arrivo dello stesso<br />
Trattato) (Greimas e Courtés 1979, v. production). Questa rilevanza della prassi<br />
enunciazionale come logica della produzione segnica stabilisce definitivamente<br />
la priorità <strong>di</strong> una teoria <strong>di</strong>namica della <strong>semio</strong>si rispetto ai modelli classici che ne<br />
descrivono la statica. Due ulteriori in<strong>di</strong>zi assolutamente eterogenei <strong>di</strong> quest’urgenza<br />
metodologica possono essere ritrovati, da un lato, nel rinnovato interesse per le<br />
pratiche, dall’altro, nell’emergere, nel dominio dell’intelligenza artificiale e dei<br />
sistemi complessi, della nozione non <strong>di</strong> “<strong>semio</strong>tica”, ma <strong>di</strong> “<strong>di</strong>namica <strong>semio</strong>tica”<br />
(“<strong>semio</strong>tic dynamics”, Steels e Kaplan 1999) 3 .<br />
1.2. Testo e pratica<br />
Si potrebbe allora osservare come la relazione tra testo e produzione sia costitutivamente<br />
doppia. Da un lato il testo è il risultato <strong>di</strong> una pratica del testo: come già<br />
ricordato è assunto del Dictionnaire che sia la pratica dell’analisi a costituire il<br />
testo. Dall’altro il testo porta iscritta al suo interno una logica <strong>di</strong> produzione che è<br />
ricostruibile a partire dalle tracce <strong>di</strong> cui il testo stesso costituisce il deposito. È già<br />
il testo che perciò apre alla pratica del testo, perché propriamente non esiste senza<br />
3 Questa rilevanza della processualità è alla base della riflessione <strong>di</strong> La Matina (2004), che oppone alle<br />
teorie basate su una nozione <strong>di</strong> competenza cristallizzata, una teoria “cronosensitiva”, che accolga la<br />
<strong>di</strong>mensione evenemenziale del senso. Ad altro luogo la <strong>di</strong>scussione.<br />
103
pratica del testo. Il riconoscimento del senso del testo è produzione del senso del<br />
testo da parte del soggetto del riconoscimento. E d’altra parte si riconosce il testo<br />
in quanto “produzione prodotta” <strong>di</strong> senso da parte <strong>di</strong> un soggetto della produzione.<br />
Ne consegue che:<br />
a) il riconoscimento del senso è una produzione <strong>di</strong> senso: un lavoro <strong>di</strong> produzione<br />
<strong>semio</strong>tica;<br />
b) ogni produzione <strong>semio</strong>tica perché esista <strong>semio</strong>ticamente dev’essere riconosciuta<br />
in quanto produzione (ogni lavoro <strong>di</strong> produzione <strong>semio</strong>tica richiede<br />
cioe un doppio lavoro).<br />
Ora, l’analisi è propriamente una pratica analitica, cioè una intepretazione come<br />
produzione <strong>di</strong> senso attraverso il lavoro <strong>semio</strong>tico del riconoscimento che il soggetto<br />
epistemologico dell’analisi fa del lavoro <strong>di</strong> produzione iscritto nel testo.<br />
Come si è visto, già il “Dictionnaire” assume che questo testo sia propriamente<br />
il prodotto della pratica analitica. Generalizzando, si può allora assumere che:<br />
c) ogni pratica istanzi dei testi attraverso il loro riconoscimento.<br />
Questo meccanismo sancisce la <strong>di</strong>fferenza posizionale tra riconoscimento e produzione<br />
e la loro identità essenziale. È possibile allora tentare un’articolazione della<br />
relazione tra pratica e testo. Rispetto ad una catena <strong>di</strong> riconoscimenti e <strong>di</strong> produzioni,<br />
si ha, nel caso del testo, un soggetto epistemologico (3) che è insieme il soggetto<br />
(2) che riconosce il soggetto della produzione (1); nel caso della pratica il soggetto<br />
del riconoscimento (2) coincide con il soggetto della produzione (1). Nella pratica,<br />
il soggetto epistemologico (3) è allora soggetto <strong>di</strong> un riconoscimento portato ad<br />
un testo costituito dal riconoscimento che il soggetto della produzione fa della sua<br />
stessa produzione. In altre parole, laddove si voglia articolare la <strong>di</strong>fferenza tra testo<br />
e pratica, si potrebbe <strong>di</strong>stinguere tra tre posizioni attanziali <strong>di</strong>fferenti:<br />
1. soggetto della produzione;<br />
2. soggetto del riconoscimento;<br />
3. soggetto epistemologico<br />
La <strong>di</strong>stinzione testo/pratica <strong>di</strong>penderebbe allora da uno spostamento del sincretismo.<br />
Nella definizione del “testo”, il soggetto epistemologico è insieme il<br />
soggetto del riconoscimento (2/3) della produzione (1), nella pratica invece il<br />
soggetto del riconoscimento riconosce la sua stessa produzione (1/2) e questa riconoscimento<br />
è la produzione riconosciuta dal soggetto epistemologico (3). Questa<br />
ipotesi ha tre conseguenze <strong>di</strong> rilievo: a) recupera il concetto <strong>di</strong> produzione segnica<br />
echiana in vista <strong>di</strong> una generalizzazione del concetto <strong>di</strong> prassi enunciazionale; b)<br />
coincide in buona sostanza con la <strong>di</strong>scussione prietiana sulla relazione tra significazione<br />
e pratiche, permettendo un recupero del modello formale ricorsivo delle<br />
pratiche che Prieto ha proposto; c) pare compatibile, nel mantenere uno sguardo<br />
eminentemente posizionale e funzionale, con l’ipotesi <strong>di</strong> un modello stratificato<br />
dei “niveaux de pertinence sémiotique” proposta da Jacques Fontanille (2004b).<br />
Ciò rende possibile un trattamento integrato alla luce dello stesso para<strong>di</strong>gma<br />
in<strong>di</strong>ziario <strong>di</strong> ciò che è dell’or<strong>di</strong>ne del testo e <strong>di</strong> ciò che è dell’or<strong>di</strong>ne della pratica,<br />
ma allo stesso tempo stabilisce un’asimmetria tra i due.<br />
104
1.3 Pratica e sensibile<br />
Questa ipotesi pare <strong>di</strong> rilievo rispetto al sensibile. Qual è l’interesse apportato<br />
dallo stu<strong>di</strong>o del sensibile alla <strong>semio</strong>tica? I punti nodali sono due:<br />
1. il primo è (esclusivamente) tematico: il corpo rientra nella descrizione <strong>semio</strong>tica<br />
che ne articola gli effetti. Questi effetti sono effetti evidentemente testuali. Filosoficamente<br />
si potrebbe <strong>di</strong>re che “la aisthesis è sensibile per la sua provenienza,<br />
non per il modo in cui si registra nell’anima” (Ferraris 1997: 49).<br />
2. il secondo è epistemologico/metodologico: da un lato conduce ad un ra<strong>di</strong>cale<br />
ripensamento dell’intero statuto formale della <strong>di</strong>sciplina (Fontanille 2004);<br />
dall’altro quantomeno mette in luce, minimalmente, che ha senso parlare del<br />
sensibile in maniera <strong>di</strong>fferente rispetto all’approccio testuale soltanto nel momento<br />
in cui si suppone che il sensibile sia una pratica del sensibile: un luogo<br />
in cui il soggetto del riconoscimento coincide con quello della produzione.<br />
1.4. Sensibile e u<strong>di</strong>bile<br />
Dunque, il sensibile è una pratica del sensibile. A tal proposito si può osservare<br />
come l’u<strong>di</strong>bile si ponga come caso assai più adatto del visibile per esemplificare la<br />
<strong>di</strong>mensione prasseologica del sensibile. In generale, la logica che governa l’u<strong>di</strong>bile<br />
è una logica dell’evento: il suono è necessariamente qualcosa che accade nel tempo.<br />
Di qui una declinazione peculiare della figuratività, che si presenta all’u<strong>di</strong>bile<br />
primariamente nella forma <strong>di</strong> una meccanica figurativa. In sostanza, si <strong>di</strong>rebbe che<br />
nell’u<strong>di</strong>bile il “che cos’è” richieda sempre una formulazione nei termini <strong>di</strong> un “che<br />
cos’è che fa”: alla risposta visibile nei termini <strong>di</strong> una configurazione risultante si<br />
oppone la risposta u<strong>di</strong>bile in quelli <strong>di</strong> un processo <strong>di</strong> configurazione. Nota opportunamente<br />
Bayle che “fonctionellement l’écoute est vigilance” (Bayle 1993: 101),<br />
uno stare all’erta rispetto all’evenemenzialità. Di qui una sovradeterminazione temporale<br />
delle figure u<strong>di</strong>bili: nell’approccio ecologico <strong>di</strong> Bregman l’oggetto u<strong>di</strong>bile<br />
è sempre “flusso”, “stream” (Bregman 1990), e l’ascolto è sempre un’operazione<br />
<strong>di</strong> ripartizione in flussi, striatura attorializzante del dominio liscio dell’u<strong>di</strong>bile.<br />
Quest’operazione, che prende il nome <strong>di</strong> “analisi della scena u<strong>di</strong>tiva” (“au<strong>di</strong>tory<br />
scene analysis”) è però sempre provvisoria e <strong>di</strong>pende caratteristicamente ad un<br />
insieme <strong>di</strong> euristiche peculiarmente vasto: non traduzione, più o meno lineare, del<br />
fisico nello psicofisico, ma contrattazione accanita in cui:<br />
“heuristic criteria must be used to decide how to group the acoustic evidence.<br />
These criteria are allowed to combine their effects in a process<br />
very much like voting”. (Bregman 1990: 33)<br />
Tra questi criteri, la storicità dell’ascolto ha così un ruolo centrale. E d’altra parte<br />
che l’ascoltare sia un saper ascoltare risulta ovvio non appena si consideri la<br />
varietà <strong>degli</strong> ascolti rispetto al musicale. Ne consegue una peculiare molteplicità<br />
ed instabilità delle figure u<strong>di</strong>bili, che <strong>di</strong>pende appunto dalla varietà delle pratiche<br />
<strong>di</strong> riconoscimento. Si tratterà ora <strong>di</strong> chiedersi come declinare la relazione testo/<br />
pratica rispetto all’u<strong>di</strong>bile. L’unico tentativo teorico conciliabile con un approc-<br />
105
cio <strong>semio</strong>tico resta quello che Pierre Schaeffer ha denominato “aculogia”, e che<br />
costituisce <strong>di</strong> conseguenza il solitario antecedente <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica dell’u<strong>di</strong>bile.<br />
L’aculogia, che ha il suo testo <strong>di</strong> fondazione nel Traité des objets musicaux<br />
(Schaeffer 1966, d’ora in vanti TOM) prevede una teoria dell’ascolto –inteso come<br />
pratica d’ascolto– ed una teoria dell’oggetto sonoro -inteso come testo/oggetto<br />
che quella pratica istanzia. Si tratterà perció <strong>di</strong> procedere partitamente 4 .<br />
2. MODI DI ASCOLTO<br />
La nozione <strong>di</strong> ascolto richiede un’articolazione più raffinata affinché, per il<br />
suo tramite, si possano descrivere le pratiche sociali: primo merito <strong>di</strong> Pierre<br />
Schaeffer è allora questa riarticolazione dell’ascolto in una quadruplice partizione.<br />
L’ipotesi teorica schaefferiana della moltiplicazione <strong>degli</strong> ascolti muove<br />
da un’analisi <strong>di</strong> semantica linguistica. La grammatica del concetto <strong>di</strong> ascolto<br />
prevede infatti una quadruplice determinabilità che emerge nei verbi (francesi)<br />
écouter, ouïr, entendre, comprendre.<br />
1. Ascoltare in<strong>di</strong>ca l’ascolto figurativo nel senso pieno della figuratività greimasiana,<br />
cioè come riconduzione ad una macro<strong>semio</strong>tica del mondo naturale:<br />
un “ascolto delle cause” che ricostruisce in<strong>di</strong>calmente un paesaggio <strong>di</strong> oggetti<br />
sonanti e risonanti, <strong>di</strong> percussori, <strong>di</strong> risonatori, <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffusori. Il mondo-enunciatore<br />
parla il linguaggio figurativo delle cose, che narrativizza costituendole attanzialmente<br />
nella microforma episo<strong>di</strong>ca <strong>di</strong> un’ “aneddottica energetica”, rispetto<br />
alla quale si orienta la prensione del soggetto enunciatario: prensione curiosa<br />
ma allo stesso tempo appagata dalla riconduzione ad un’economia narrativa.<br />
2. U<strong>di</strong>re, come seconda modalità d’ascolto, implica invece una riflessione<br />
verso il soggetto della percezione. La modalità dell’u<strong>di</strong>re è allora quella che<br />
permette una (ri)semantizzazione “plastica”, intesa come sospensione <strong>di</strong> una<br />
figuratività imme<strong>di</strong>ata e tentativo <strong>di</strong> una lettura altra. L’u<strong>di</strong>re è per Schaeffer<br />
allora, da un lato, il deposito del semantizzabile, dall’altro una cassetta <strong>degli</strong><br />
attrezzi: rispetto alla concrezione dell’oggetto sonoro “ascoltato”, si tratta <strong>di</strong> un<br />
poter u<strong>di</strong>re altro che può portare, strumentalmente, ad un ascoltare (ma anche<br />
ad un intendere o un comprendere) <strong>di</strong>verso.<br />
3. Intendere in<strong>di</strong>ca una pertinentizzazione selettiva. È chiaro che non si può<br />
mai u<strong>di</strong>re senza intendere: non c’è u<strong>di</strong>re puro se non come passaggio al limite.<br />
Come per l’epistemologia <strong>semio</strong>tica, per Schaeffer la valorizzazione è costitutiva.<br />
Valga a proposito l’esempio dell’orologio: ascolto il ticchettio e “malgré<br />
moi, je lui impose un ryhtme” (TOM: 107). L’intendere richiede <strong>di</strong> conseguenza<br />
4 Una <strong>di</strong>samina approfon<strong>di</strong>ta della relazione tra ascolto e oggetto sonoro in Schaeffer è affrontata in <strong>Valle</strong><br />
2004. Alcune proposte sono state ulteriormente elaborate in Lombardo e <strong>Valle</strong> 2005.<br />
106
un’operazione che Schaeffer chiama “qualification”: cioè la pertinentizzazione<br />
<strong>di</strong> alcuni tratti in funzione <strong>di</strong> un valore.<br />
4. Comprendere richiede <strong>di</strong> trattare il suono come un segno secondo la relazione<br />
saussuriana <strong>di</strong> arbitrarietà rispetto al suo senso (TOM: 115). Come nell’ascoltare,<br />
l’oggetto sonoro è allora nuovamente evacuato nella sua datità sonora rispetto al<br />
senso cui rinvia. Il comprendere si centra cioè sulla sollecitazione <strong>di</strong> una semantica<br />
<strong>di</strong> tipo eminentemente (e tra<strong>di</strong>zionalmente) linguistico, secondo una teoria forte<br />
dei co<strong>di</strong>ci ed una cristallizzazione e stratificazione socio<strong>semio</strong>tica delle competenze<br />
(si pensi alla tipologia adorniana <strong>degli</strong> ascolt(ator)i, Adorno 1962).<br />
I quattro ascolti sono raggruppati in una quadripartizione (Figura 1), secondo<br />
due assi: in verticale oggettivo/soggettivo e in orizzontale astratto/concreto.<br />
In particolare l’oggettività dell’ascoltare e del comprende può essere pensata<br />
come l’intersoggettività “naturale” delle macro<strong>semio</strong>tiche del mondo e della<br />
lingua, a cui si oppone la soggettività dell’u<strong>di</strong>re e dell’intendere. Intendere e<br />
comprendere rappresentano il lato astratto, formale, rispetto al lato concreto<br />
dell’ascoltare (che sottolinea la <strong>di</strong>mensione evenemenziale) e dell’u<strong>di</strong>re (che<br />
sottolinea una privatezza, in realtà inaccessibile in quanto tale, del sensibile).<br />
Fig. 1. Tableau des fonctions del’écoute, da TOM: 116.<br />
107
3. IPOTESI PER UNA SINTASSI DELLE PRATICHE D’ASCOLTO<br />
Supponendo <strong>di</strong> definire ognuna delle declinazioni dell’ascolto come un modo<br />
d’ascolto, <strong>di</strong>venta possibile riscrivere la quadripartizione attraverso un grafo in<br />
cui i vertici rappresentano i mo<strong>di</strong> stessi e gli archi che li connettono le possibili<br />
relazioni <strong>di</strong> successione tra <strong>di</strong> essi. La modellizzazione dell’ascolto attraverso<br />
la quadripartizione è ammessa da Schaeffer a due con<strong>di</strong>zioni:<br />
1. c’è circolazione continua tra i mo<strong>di</strong> (TOM: 148);<br />
2. ogni pratica d’ascolto si caratterizza però per una <strong>di</strong>fferente valorizzazione<br />
<strong>degli</strong> stessi mo<strong>di</strong> e delle loro relazioni.<br />
Poiché in ogni pratica d’ascolto c’è una continua circolazione tra i quattro mo<strong>di</strong>,<br />
il grafo risultante è il grafo completo K4 (Figura 2).<br />
Fig. 2. Grafo dei mo<strong>di</strong> d’ascolto.<br />
3.1. Azioni d’ascolto e pratiche d’ascolto<br />
Dall’ipotesi <strong>di</strong> una valorizzazione dei mo<strong>di</strong> consegue una prima definizione:<br />
1 Ogni cammino sul grafo, inteso in quanto sequenza or<strong>di</strong>nata <strong>di</strong> vertici,<br />
rappresenta una specifica azione <strong>di</strong> ascolto che si sviluppa in quanto sequenza<br />
<strong>di</strong> mo<strong>di</strong>. In altre parole, con “ascolto” si deve intendere un’azione<br />
<strong>di</strong> ascolto nel senso tecnico <strong>di</strong> un cammino definito sul grafo K4.<br />
Ne consegue la possibilità <strong>di</strong> una seconda definizione:<br />
2 Una pratica d’ascolto è un grafo K4 in cui alcuni cammini sono più frequenti<br />
<strong>di</strong> altri: in altri termini, ogni pratica effettua una pesatura <strong>degli</strong> archi<br />
definiti sul grafo. Questa pesatura determina il valore <strong>di</strong> ogni relazione tra<br />
i mo<strong>di</strong> nella pratica in questione 5 .<br />
Il fatto che azione d’ascolto e pratica d’ascolto siano entrambe sottografi <strong>di</strong> K4<br />
in<strong>di</strong>ca che non c’è <strong>di</strong>fferenza “<strong>di</strong> natura” tra le due determinazioni: una pratica<br />
d’ascolto è semplicemente un’azione d’ascolto socio<strong>semio</strong>ticamente attestata.<br />
5 Figurativamente si potrebbe pensare a questa pesatura del valore nei termini <strong>di</strong> uno “scavo” o inversamente<br />
<strong>di</strong> una “se<strong>di</strong>mentazione” che <strong>di</strong>pende dall’uso <strong>degli</strong> archi.<br />
108
3.1.1. Azioni d’ascolto: un esempio<br />
A tal proposito, si consideri la situazione, celebre in letteratura e molto complessa<br />
per l’ascolto, del cocktail party, che costituisce un contesto ideale per l’emergere<br />
<strong>di</strong> azioni d’ascolto <strong>di</strong>verse. All’interno del brusio <strong>di</strong>ffuso e mascherante causato<br />
dall’ammassarsi delle voci, se ne percepisce una in particolare, quella <strong>di</strong> un parlante:<br />
si tratta <strong>di</strong> una ricostruzione a partire dal materiale sonoro del produttore, “qualcuno<br />
parla” ([2,1]). D’altra parte, è tipico anche il cammino contrario che muove dalla<br />
percezione <strong>di</strong> una voce ad una messa a fuoco percettiva, come quando si “tende<br />
l’orecchio” ([1,2]). Sempre nel cocktail party ci si può rendere conto non soltanto<br />
che qualcuno parla, ma che lo fa in francese: si tratta <strong>di</strong> una “qualificazione” del<br />
materiale rispetto ad un sistema <strong>di</strong> pertinenze, quello fonologico del francese ([2,3]).<br />
Può darsi poi che “qualcuno parli in francese <strong>di</strong> politica”: qui il sistema <strong>di</strong> pertinenze<br />
garantisce l’accesso al senso ([3,4]). L’ascolto tipicamente linguistico può essere<br />
pensato come connessione <strong>di</strong>retta tra l’ascoltare e il comprendere ([1,4]): infatti,<br />
l’ascolto della parola è eminentemente costituzione <strong>di</strong> una relazione tra la voce <strong>di</strong> un<br />
enuciatore e il senso dell’enunciato che questa veicola ([1,4]): “che cosa stai <strong>di</strong>cendo?<br />
”), e simmetricamente ricostituzione dell’enunciatore a partire dalla comprensione<br />
dell’enunciato (“chi l’ha detto? ”). In effetti, quando si ascolta una persona conosciuta,<br />
l’apprezzamento della “sonorità” della voce (2) avviene tipicamente soltanto quando<br />
il tono della voce manifesta una qualche peculiarità: soltanto in questo caso l’azione<br />
d’ascolto sembra descrivibile come [1,2,4]. D’altra parte, nell’ascoltare una voce<br />
conosciuta la pertinenza del sistema linguistico è usualmente scontata, a <strong>di</strong>fferenza<br />
<strong>di</strong> quando si ascolta qualcuno parlare in una lingua poco compresa: in questo caso<br />
<strong>di</strong>viene esplicitamente rilevante l’intendere, e l’azione d’ascolto sembra piuttosto<br />
essere [1,3,4]. Per tornare all’esempio del cocktail party, se invece in partenza si<br />
conosce una voce in particolare, la si può ricercare nel brusio: a partire da un insieme<br />
<strong>di</strong> tratti che la caratterizzano (il suo “timbro) si può ritrovarne il possessore<br />
([3,1]), oppure, nel caso questo riconoscimento figurativo fallisca, risalirvi porgendo<br />
nuovamente attenzione al materiale sonoro ([3,2,1]). D’altronde, proprio il brusio<br />
che risulta dall’interazione <strong>di</strong> un numero molto elevato <strong>di</strong> produttori “acusmatizza”<br />
la situazione d’ascolto, nel senso che impe<strong>di</strong>sce statisticamente una correlazione<br />
visuo-au<strong>di</strong>tiva: in questa situazione eminentemente immersiva si ha una continua<br />
circolazione tra 2 e 3: l’estrazione <strong>di</strong> stringhe <strong>di</strong> fonemi da una sorgente complessa<br />
([2,3]) opera in parallelo con il riapprezzamento “sostanziale” <strong>di</strong> lacerti fonologici<br />
ricondotti al percepibile ([3,2]). Infine, proprio il caso della situazione estremamente<br />
complessa del cocktail party favorisce l’oscillazione instabile tra il comprendere e<br />
l’u<strong>di</strong>re: da un lato, si ha estrazione <strong>di</strong> brandelli semantici dal brusio ([2,4]), dall’altro<br />
un tipico effetto <strong>di</strong> “svaporamento” del senso ([4,2]).<br />
3.2. Relazioni tra le pratiche d’ascolto: iterazioni<br />
La quadripartizione schaefferiana <strong>degli</strong> ascolti sembra descrivere una statica<br />
delle pratiche d’ascolto. E tuttavia Schaeffer ha anche messo in luce la peculiarità<br />
dell’ascolto dello specialista, dell’“inten<strong>di</strong>tore”, il cui ascolto pare istituire<br />
una nuova pratica. Nota Schaeffer:<br />
109
“Le specialiste s’isole par rapport au monde de significations banales prenant<br />
naissance au secteur 3; mais ce faisant, il institue un nouveau monde<br />
des significations, le quel à son tour met en jeu dans un nouveau secteur<br />
3 des finesses de perception Ðfinesses dont l’habitude consacre bientt<br />
la banalité- qui consituent peut-être le germe du développement d’autres<br />
pratiques au<strong>di</strong>tives ultérieures. Ainsi la surenchère des qualifications apparaît<br />
comme illimitée. Autrement <strong>di</strong>t, toute écoute praticienne suggère<br />
des attentions spécialisées qui la rendront banale” (TOM: 118).<br />
Dunque la riflessione sull’ascolto dell’inten<strong>di</strong>tore, <strong>di</strong> colui che, in senso proprio,<br />
intende, permette <strong>di</strong> descrivere la relazione tra due pratiche come una trasformazione<br />
centrata sull’u<strong>di</strong>re, in cui quello che era il momento dell’intendere della<br />
pratica precedente <strong>di</strong>venta momento del comprendere in quella che ne deriva,<br />
la pratica dell’inten<strong>di</strong>tore. La relazione <strong>di</strong> derivazione può essere rappresentata<br />
attravero la Figura 3.<br />
Fig. 3. Ascolto dell’inten<strong>di</strong>tore come costruzione per iterazione.<br />
3.2.1. Azioni, pratiche e iterazioni: un esempio me<strong>di</strong>co<br />
L’auscultare è una pratica <strong>semio</strong>tica (propria della semeiotica me<strong>di</strong>ca) che<br />
consiste nel “riconoscere con l’orecchio (...) i suoni normali o anormali che<br />
provengono dagli organi interni” (Zingarelli, v. Auscultare). Si noti come una<br />
situazione acusmatica (la “tenda pitagorica” <strong>di</strong> un involucro corporeo) venga<br />
ricondotta ad un paesaggio figurativo, ad un corpo, si <strong>di</strong>rebbe rispetto a quello<br />
senz’organi, invece pienamente organico (fortemente semantizzato) perché<br />
effettivamente popolato d’organi a regime <strong>di</strong> funzionamento. È dunque un<br />
ascolto in<strong>di</strong>cale quello della pratica dell’auscultazione, che punta alla figuratività<br />
dell’ascoltare. Si pensi all’auscultazione polmonare del me<strong>di</strong>co, che invita il<br />
paziente a produrre un colpo <strong>di</strong> tosse. Questa pratica ha come scopo precipuo<br />
110
quello <strong>di</strong> una ricostruzione dello stato del corpo attraverso la sua messa in risonanza,<br />
secondo una qualificazione propriamente “semeiotica” <strong>di</strong> una causalità<br />
organica. Tuttavia, rispetto all’ascolto or<strong>di</strong>nario, viene invece sospesa una<br />
semantizzazione del tossito sia nei termini <strong>di</strong> significazioni patemiche culturalmente<br />
attestate (4), sia in quelli <strong>di</strong> un’in<strong>di</strong>calità corporea complessiva, molare<br />
(1): si tratterebbe cioè <strong>di</strong> narcotizzare l’isotopia (rispetto all’u<strong>di</strong>bile doppiamente<br />
specificata come semantizzazione in<strong>di</strong>cale e simbolica), del “corpo sofferente”.<br />
Le caratteristiche (3) <strong>di</strong> un colpo <strong>di</strong> tosse (2) che or<strong>di</strong>nariamente attiva il senso<br />
della sofferenza (4) <strong>di</strong> un corpo umano (1) sono per il me<strong>di</strong>co che ausculta il<br />
risultato (4’ = 3) <strong>di</strong> un insieme <strong>di</strong> tratti <strong>di</strong>versi (3’) dello stesso colpo <strong>di</strong> tosse<br />
(2’ = 2) prodotto dal funzionamento del corpo fisiologico (1’).<br />
3.3. Osservazioni <strong>di</strong>namiche: eliche<br />
Generalizzando il passaggio precedente, a partire da Schaeffer la relazione tra<br />
pratiche può essere pensata come una catena ricorsiva <strong>di</strong> trasformazioni centrate<br />
sull’u<strong>di</strong>re, in cui, ad ogni iterazione, quello che era il momento dell’intendere<br />
<strong>di</strong> una pratica precedente <strong>di</strong>venta momento del comprendere in quella che ne<br />
deriva. In ogni pratica si staglia sullo sfondo <strong>di</strong> un’altra pratica. Dalla costruzione<br />
delle relazioni tra pratiche d’ascolto consegue una sorta <strong>di</strong> elica, secondo<br />
quanto rappresentato in Figura 4. Una catena <strong>di</strong> pratiche è costruita mantenendo<br />
come perno della costruzione il modo dell’u<strong>di</strong>re: ad ogni iterazione, l’intendere<br />
<strong>di</strong>venta comprendere, e si specifica un ascoltare <strong>di</strong>fferente.<br />
Fig. 4. Relazione tra le pratiche.<br />
111
Sono possibili alcune considerazioni a margine <strong>di</strong> questa modellizzazione ad<br />
elica.<br />
1. L’oggetto sonoro dell’u<strong>di</strong>re costituisce il perno della costruzione. Questo<br />
movimento rende conto dell’abissalità sottrattiva della percezione, della<br />
sua oggettività negativa. L’u<strong>di</strong>re è inteso come il limite all’infinito del movimento.<br />
Figurativamente, si potrebbe pensare ad una sorta <strong>di</strong> prospettiva<br />
in cui l’u<strong>di</strong>re è il punto <strong>di</strong> fuga.<br />
2. Ad ogni iterazione si producono due nuovi vertici, 1 e 3. Ogni qualificazione<br />
istituisce la precedente come “già semantizzato” del proprio comprendere<br />
(come suo vertice 4), e attiva una nuovo paesaggio <strong>di</strong> corpi sonori.<br />
3. La definizione <strong>di</strong> una “or<strong>di</strong>narietà” dell’ascolto è possibile in una prospettiva<br />
socio<strong>semio</strong>tica laddove si assuma uno stato dell’ascolto come punto<br />
<strong>di</strong> osservazione, come primo piano rispetto al quale definire un sistema <strong>di</strong><br />
piani ulteriori.<br />
4. OGGETTI SONORI<br />
Il concetto <strong>di</strong> oggetto sonoro è quello che più indelebilmente segna il contributo<br />
teorico della ricerca <strong>di</strong> Pierre Schaeffer, anche se una certa <strong>di</strong>ffusione recente<br />
della locuzione pare misconoscerne l’origine 6 . Rispetto alla sua fondazione fenomenologica,<br />
è il correlato oggettale <strong>di</strong> una pratica d’ascolto che ne costituisce il<br />
lato soggettale. Si danno in realtà due accezioni compresenti <strong>di</strong> oggetto sonoro,<br />
che paiono riprendere la duplicità della nozione peirciana <strong>di</strong> Oggetto:<br />
1. l’oggetto sonoro è il garante epistemologico della possibilità <strong>di</strong> una<br />
descrizione del sonoro: esso è definito rigorosamente ex negativo come<br />
il limite della funzione dell’ascolto. La sua costituzione è, si <strong>di</strong>rebbe, <strong>di</strong><br />
tipo trascendentale, giacché in<strong>di</strong>vidua una con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> possibilità della<br />
conoscenza e non un oggetto attuale della conoscenza stessa. L’oggetto<br />
sonoro è ciò che garantisce il movimento ad elica delle pratiche d’ascolto:<br />
“puro percettivo” al limite della riduzione, asintotica possibilità della<br />
percezione. Sull’oggetto sonoro, in questa accezione peircianamente<br />
6 La rinnovata popolarità del termine deriva in sostanza da una apertura tecnologica laterale rispetto<br />
alla tra<strong>di</strong>zione schaefferiana, apertura tipicamente informatica ed immemore (ma non sempre)<br />
dell’origine del concetto. Più preoccupante l’in<strong>di</strong>fferenza (che pare quasi fasti<strong>di</strong>o) verso l’ere<strong>di</strong>tà<br />
schaefferiana sul versante filosofico ed estetico (come già osserva ad esempio Augoyard 1999: 106<br />
a proposito <strong>di</strong> La Philosophie du son <strong>di</strong> Casati e Dokic). Se pure si può parlare a tutti gli effetti <strong>di</strong><br />
“oggetti sonori” in relazione <strong>di</strong>retta alla tra<strong>di</strong>zione fenomenologica e gestaltistica (Piana 1993: 32)<br />
in cui pure (certo, lateralmente) Schaeffer si iscrive, pare curiosa la totale assenza <strong>di</strong> riferimenti al<br />
Traité in un testo de<strong>di</strong>cato a “L’altra estetica”, in cui, lamentando che la filosofia del Novecento<br />
“ha parlato pochissimo <strong>di</strong> oggetti” (Ferraris 2001a: XI), si ripercorrono alcuni motivi pre-kantiani<br />
dell’estetica come riflessione sull’aisthesis: così che si possono ricercare nel Settecento alcuni autori<br />
che avrebbe posto il problema dell’ “oggetto sonoro” senza definire il concetto, e tantomeno rispetto<br />
a Schaeffer (Arbo 2001).<br />
112
“<strong>di</strong>namica”, non vi può essere nulla da <strong>di</strong>re, poiché esso richiede, appunto,<br />
soltanto una definizione al negativo, non ammettendo attribuzione<br />
positive;<br />
2. l’oggetto sonoro è il risultato attuale <strong>di</strong> una peculiare pratica d’ascolto:<br />
esso è allora un percetto stabilizzato e determinato, ed in questo senso può<br />
effettivamente essere <strong>di</strong>chiarato “irrefutable” rispetto a quella stessa pratica<br />
che l’ha costituito, salvo poi essere oggetto <strong>di</strong> una successiva ricostituzione<br />
da parte <strong>di</strong> una pratica <strong>di</strong>versa. L’oggetto sonoro è allora inteso da Schaeffer<br />
come un peirciano Oggetto Imme<strong>di</strong>ato, “Oggetto come il Segno stesso<br />
lo rappresenta, e la cui esistenza <strong>di</strong>pende dunque dalla Rappresentazione<br />
<strong>di</strong> esso nel Segno” (C.P. 4.536, in Peirce 2003: 219). In questo senso, è<br />
effettivamente possibile per il soggetto dell’ascolto giungere all’oggetto<br />
sonoro.<br />
Così, al contrario <strong>di</strong> quello che pare assumere Schaeffer in alcuni luoghi, è<br />
chiaro per la <strong>semio</strong>tica che, se la me<strong>di</strong>azione è costituente, da essa non si esce<br />
per accedere ad una anteriore nu<strong>di</strong>tà dell’oggetto: si tratta <strong>di</strong> non confondere<br />
le due determinazioni peirciane che il concetto <strong>di</strong> oggetto sonoro convoglia<br />
unitariamente. A partire da questa seconda accezione è possibile costruire, come<br />
avviene nei libri IV, V eVI del Traité des objets musicaux, una teoria descrittiva,<br />
non dell’oggetto sonoro in quanto tale, ma della molteplicità <strong>di</strong> oggetti sonori<br />
che la molteplicità delle pratiche può instanziare.<br />
4.1. Relazione tra struttura e oggetto: il nodo bivalve<br />
Uno dei no<strong>di</strong> teorici cruciali che il concetto <strong>di</strong> oggetto sonoro solleva concerne<br />
un problema <strong>di</strong> taglia: questione tipicamente <strong>semio</strong>tica che riguarda infatti la<br />
<strong>di</strong>mensione dei fenomeni <strong>di</strong> pertinenza dell’analisi. Il problema della taglia è<br />
chiaramente percepito da Schaeffer, poiché “dans nul autre domaine nous ne<br />
verrons posé avec autant de clarté le problème de la délimitation des unités par<br />
rapport aux structures, et, de là, par rapport au système et à l’intention dominante”<br />
(TOM: 284). L’opzione schaefferiana (nel modello che si <strong>di</strong>rebbe “formale”)<br />
pre<strong>di</strong>lige una determinazione dell’ascolto come costruzione multilivellare<br />
basata sulla relazione ricorsiva tra oggetti e strutture <strong>di</strong> oggetti, “chaque objet<br />
constituant une structure pour des objets composants (<strong>di</strong>stingués à un niveau<br />
plus élémentaire), ou entrant dans une structure composée (d’autres objets à<br />
un niveau superiéur de complexité)” (Schaeffer 1967: 36).<br />
4.2. Modellizzazione<br />
Schematicamente la modellizzazione della relazione tra oggetto (O) e struttura<br />
(S), “ce double jeu de l’objet-structure” 7 , si presenta così:<br />
...SO_SO_SO...<br />
7 TOM: 280. Lo schema è adattato da TOM: 280.<br />
113
SO è a destra l’oggetto sonoro “identifié” dalla struttura <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne superiore alla<br />
sua sinistra (la relazione è in<strong>di</strong>cata dal tratto), e a sinistra la “structure d’identification”<br />
per gli oggetti <strong>di</strong> livello inferiore 8 . È sempre possibile percorrere la<br />
“chaîne” nei due sensi. Andrebbe allora sottolineato come la teoria dell’oggetto<br />
sonoro stricto sensu non sia tale, poiché è invece propriamente una teoria della<br />
relazione tra struttura e oggetto che ha come portato la possibilità della descrizione<br />
dell’oggetto stesso. Il vero oggetto della teoria che una <strong>semio</strong>tica dell’u<strong>di</strong>bile<br />
mutua da Schaeffer non è l’oggetto sonoro in quanto tale ma invece il nodo<br />
bivalve SO, membrana che guarda formalmente dai due lati, a destra verso la<br />
struttura <strong>di</strong> cui è oggetto, a sinistra verso gli oggetti <strong>di</strong> cui è struttura.<br />
4.2.1. La relazione oggetto-struttura: un esempio<br />
La <strong>di</strong>scussione sulla “couple objet-structure” muove dall’esempio, <strong>di</strong> lunga<br />
tra<strong>di</strong>zione fenomenologico-gestaltista, <strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> note. L’osservazione<br />
che le note siano “les objets composants de cette structure” in<strong>di</strong>ca, nella sua<br />
apparente ovvietà, come ciò che si impone imme<strong>di</strong>atamente non sia l’oggetto<br />
ma la struttura. Laddove la pertinenza si sposti, con un incremento <strong>di</strong> risoluzione,<br />
verso una delle note componenti, ricorsivamente la nota stessa assume la<br />
posizione <strong>di</strong> struttura rispetto agli oggetti che ne costituiscono “la complexité<br />
interne” (ad esempio, prima <strong>di</strong> Barthes, la già schaefferiana “grana”, TOM:<br />
277). E d’altronde, rispetto al gruppo <strong>di</strong> note è certamente possibile risalire<br />
la catena ricorsiva assumendo che il gruppo si costituisca ad oggetto <strong>di</strong> una<br />
struttura superor<strong>di</strong>nata, ad esempio come oggetto della taglia del “motivo”<br />
rispetto ad una costellazione <strong>di</strong> motivi.<br />
4.3. Operazioni<br />
La coppia terminologica che Schaeffer, pur implicitamente, in<strong>di</strong>vidua per descrivere<br />
i due lati in questione è “contexte”/“contexture”. Nella glossa <strong>di</strong> Chion:<br />
“Le contexte d’un objet sonore est la structure d’ensemble où il est identifié<br />
comme unité et dont on l’extrait pour l’esaminer en particulier; sa<br />
contexture est la structure dont il est lui-même constitué, et qui permet<br />
de le décrire et de le qualifier, selon le principe d’emboîtement de la<br />
regle Objet/Structure” (Chion 1983: 61).<br />
Questo movimento lungo la catena ricorsiva deve essere descritto doppiamente,<br />
in funzione dell’orientamento che assume: il nodo SO deve essere cioè articolato<br />
attraverso due operazioni simmetriche e solidali. Da un lato si tratta <strong>di</strong> identificare<br />
gli oggetti nel “contesto” della loro struttura, dall’altro <strong>di</strong> descriverne la<br />
strutturalità della “contestura” Dunque, l’ “identificazione” muove da sinistra<br />
a destra, declinando cioè il nodo SO come oggetto per la struttura <strong>di</strong> livello<br />
8 TOM: 280.<br />
114
superiore, mentre la “qualificazione” muove da destra a sinistra, declinando<br />
lo stesso nodo dal lato della struttura (assumendo cioè l’oggetto come struttura).<br />
Le due operazioni <strong>di</strong> identificazione e qualificazione si danno insieme:<br />
per identificare un oggetto sonoro in un continuum è richiesta in entrata una<br />
competenza <strong>di</strong> tipo qualificante (è necessaria, cioè, una teoria capace <strong>di</strong> descrivere<br />
l’oggetto cercato), per qualificare (per descrivere “internamente”) un<br />
oggetto è necessario averlo identificato come <strong>di</strong>scontinuità dotata <strong>di</strong> una sua<br />
unità. Ogni identificazione richiede una qualificazione, e viceversa: si passa<br />
sempre dagli oggetti alla struttura (identificazione) e dalla struttura agli oggetti<br />
(qualificazione).<br />
4.3.1. Operazioni: un esempio<br />
Si riconsideri l’esempio gestaltico dell’invarianza attoriale della melo<strong>di</strong>a nelle<br />
<strong>di</strong>verse trasposizioni: “c’est (...) comme objet que je la vise (identifié dans <strong>di</strong>vers<br />
contexte); j’explique alors sa permanence par sa structure, qui la qualifie”<br />
(TOM: 277).<br />
4.4. Il doppio <strong>di</strong>spositivo: tipo-morfologia (o morfo-tipologia)<br />
Questa duplicità è all’origine del doppio <strong>di</strong>spositivo descrittivo allestito da<br />
Schaeffer, che prevede da un lato una “typologie” intesa come insieme <strong>di</strong><br />
criteri atti all’identificazione <strong>degli</strong> oggetti rispetto ad una struttura (al loro<br />
contesto), dall’altro una “morphologie”, intesa invece come qualificazione,<br />
nel senso <strong>di</strong> una descrizione delle qualità interne dell’oggetto sonoro, cioè<br />
della sua contestura: la “typo-morphologie” è allora la scienza doppia capace<br />
<strong>di</strong> descrivere l’oggetto sonoro inteso come nodo bivalve SO. Data una collezione<br />
<strong>di</strong> oggetti sonori eterocliti, “les comparer entre eux, de toutes sortes de<br />
façons, dans leurs contextes ou leurs contextures, est notre seul recours. Cette<br />
activité est celle de la morphologie sonore”. Ma come si arriva alla collezione<br />
<strong>di</strong> oggetti? Si tratta cioè <strong>di</strong> “les séparer des continuum où il se trouvaient<br />
d’une part, et les classer entre eux, d’autre part”. È questo l’ambito <strong>di</strong> intervento<br />
<strong>di</strong> una “typologie”, intesa come “art de séparer les objets sonores”. E<br />
tuttavia essa si basa su criteri morfologici: “il était impossible d’arrêter une<br />
typologie sans définir une morphologie” (cfr. TOM: 398-99). C’è dunque una<br />
circolarità tra tipologia e morfologia. Lo strutturalismo <strong>di</strong> Schaeffer trova il<br />
suo fondamento in questa logica della relazione che prevede sempre un meccanismo<br />
<strong>di</strong> solidarietà tra la struttura e gli elementi che la compongono: nel<br />
nodo SO gli elementi si danno cioè insieme, nello stesso tempo, alla relazione<br />
che li definisce, così da <strong>di</strong>spiegare sempre da un lato un contesto e dall’altro<br />
una contestura. In particolare, la ricorsività della relazione SO si affianca<br />
come lato oggettale a quella assicurata dalla surenchère sul lato soggettale<br />
<strong>di</strong> una teoria dell’ascolto. Si tratta allora dello stesso meccanismo formale <strong>di</strong><br />
annidamento che è stato possibile ritrovare anche in una teoria dell’ascolto.<br />
In particolare, è in funzione <strong>di</strong> questo passaggio al limite, o ai limiti se si<br />
considerano i due orientamenti del <strong>di</strong>spositivo, che emerge l’accezione <strong>di</strong><br />
115
oggetto sonoro come come peirciano oggetto <strong>di</strong>namico: l’oggetto sonoro è<br />
infatti invarianza al limite delle operazioni <strong>di</strong> strutturazione (identificazione<br />
e qualificazione).<br />
4.4.1. Risultati: tipologia<br />
La tipologia è una descrizione esterna del nodo SO, a lato structurae.<br />
A partire da un insieme <strong>di</strong> sei criteri è possibile definire una tipologia <strong>di</strong><br />
oggetti sonori che risponda al problema del triage <strong>degli</strong> stessi oggetti.<br />
Questa tipologia n-<strong>di</strong>mensionale, ricondotta ad uno spazio bi<strong>di</strong>mensionale,<br />
prende la forma <strong>di</strong> una vera e propria geografia del sonoro: la descrizione<br />
<strong>di</strong> questo territorio conduce ad una ripartizione in classi tipologiche, vere e<br />
proprie regioni in cui ogni oggetto sonoro dovrebbe trovare la propria sede<br />
(5). Ogni oggetto sarà dunque <strong>di</strong> tipo x perché riconducibile alla regione<br />
x della tipologia.<br />
Fig. 5. Partizione in classi tipologiche dello spazio <strong>degli</strong> oggetti sonori, da<br />
Schaeffer 1996: 442.<br />
4.4.2 Risultati: morfologia<br />
Rispetto al dominio <strong>degli</strong> oggetti sonori, la morfologia è invece una descrizione<br />
interna, a lato objecti. La morfologia è dunque lo stu<strong>di</strong>o del nodo SO in quanto<br />
struttura, ovvero della sua contestura: uno sguardo verso l’interno che mira ad<br />
una descrizione delle sue proprietà. Come preve<strong>di</strong>bile, queste proprietà sono<br />
le stesse già incontrate nella tipologia, ma sono riorganizzate in sette criteri<br />
116
morfologici (su cui non è possibile soffermarsi in questa sede) al fine <strong>di</strong> ottenere<br />
una descrizione che aspiri ad essere esaustiva (cfr. 6) 9<br />
Fig. 6. Criteri morfologici.<br />
5. IPOTESI INTORNO ALLA RELAZIONE TRA PRATICHE<br />
D’ASCOLTO ED OGGETTI SONORI<br />
Come si è visto, la relazione struttura-oggetto è descritta formalmente da una<br />
ricorsiva “chaîne infinie”. È così possibile notare in primo luogo come teoria dell’ascolto<br />
e teoria dell’oggetto sonoro con<strong>di</strong>vidano a livello formale lo stesso tipo<br />
<strong>di</strong> meccanismo definitorio: in entrambi i casi, la logica soggiacente è una logica<br />
ricorsiva, per cui gli ascolti si riscrivono come altri ascolti allo stesso modo in cui<br />
gli oggetti sono passibili <strong>di</strong> essere riscritti come altri oggetti. Ma come è possibile<br />
costruire un <strong>di</strong>spositivo che in qualche modo si costituisca a “strumento <strong>di</strong> misurazione<br />
fenomenologica” delle qualità <strong>degli</strong> oggetti? Questo <strong>di</strong>spositivo costituirebbe<br />
la <strong>di</strong>mensione tecnica <strong>di</strong> una certa pratica, il modo in cui la pratica d’ascolto lavora<br />
i propri oggetti sonori. In particolare emergono quattro domande, due <strong>di</strong> carattere<br />
generale e due più specifiche, che concernono la tipo-morfologia:<br />
1. Perché questo <strong>di</strong>spositivo piuttosto che un altro?<br />
2. Quale relazione tra teoria dell’ascolto e teoria dell’oggetto sonoro è definita<br />
dal <strong>di</strong>spositivo?<br />
9 Non ci si può soffermare analiticamente sulle categorie tipo-morologiche definite da Scaheffer.<br />
Per una rilettura <strong>semio</strong>ticamente interessata cfr. Lombardo e <strong>Valle</strong> 2005, cap. 11, che comprende,<br />
oltre alla <strong>di</strong>scussione della morfologia, una ridefinizione dello spazio tipologico come continuum<br />
tri<strong>di</strong>mensionale.<br />
117
3. La spazio tipologico è costruito a partire da sei <strong>di</strong>mensioni. Quali sono i<br />
valori tipici <strong>di</strong> queste <strong>di</strong>mensioni che permettono una ripartizione <strong>degli</strong><br />
oggetti in classi tipologiche?<br />
4. La morfologia prevede, con un numero primo un po’ sospetto, sette criteri:<br />
perchè non altri? Ad esempio, la letteratura sui cosiddetti spazi timbrici <strong>di</strong><br />
fatto rende pertinenti anche altre categorie descrittive del sonoro, in alcuni<br />
casi <strong>di</strong> sicuro rilievo (Cogan 1984 può ad esempio proporre, a partire da<br />
Jakobson, 13 categorie fondamentali).<br />
Alla prima domanda, che resta sempre lecita, si può rispondere osservando<br />
come il <strong>di</strong>spositivo schaefferiano abbia il suo punto <strong>di</strong> forza, per <strong>di</strong>rla con Fabbri<br />
(1998: X), nella “fragile generalizzazione” a cui mira.<br />
5.1. Auto<strong>di</strong>mostrazioni: Schaeffer par lui-même<br />
Alle altre tre domande Schaffer ha fornito una risposta sostanziale che impatta<br />
sulla formalità del <strong>di</strong>spositivo, ma che allo stesso tempo è una <strong>di</strong>mostrazione<br />
del funzionamento delle pratiche d’ascolto rispetto agli oggetti sonori. Questa<br />
risposta prende la forma <strong>di</strong> una teoria della “convenance”.<br />
5.1.1. Convenance<br />
Al concetto formale del nodo bivalve SO si affianca così il concetto sostanziale<br />
<strong>di</strong> “objet convenable”, che ha il preciso scopo <strong>di</strong> bloccare la produttività frattale<br />
delle iterazioni oggetto-struttura: “il sera bon de nous limiter aux objets les plus<br />
simples, les moins in<strong>di</strong>catifs, les moins anecdotiques, porteur d’une musicalité plus<br />
spontanée encore que plus depouillée”. Il limite imposto alla procedura iterativa<br />
permette <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare un insieme <strong>di</strong> “objets sonores convenables” che Schaeffer<br />
ritiene “les objets sonore les plus généraux” (TOM: 339). A tal proposito, infatti,<br />
più volte si assume nel Traité che lo stu<strong>di</strong>o <strong>degli</strong> oggetti sonori è lo stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> oggetti<br />
“convenables pour une musicalité à définir” (TOM: 348): analogamente, si tratta<br />
<strong>di</strong> rifiutare “et les objets trop musicaux et les objets trop sonores” per ritrovare<br />
“des objets particulièrment convenables” (TOM: 392). Convenienti rispetto a che<br />
cosa? Rispetto ad una certa pratica compositiva, <strong>di</strong> cui Schaeffer è risaputamente<br />
l’iniziatore, quella che da lui prende il nome <strong>di</strong> musique concrète 10 .<br />
5.1.2. Tecniche: acusmatizzazione e ripetizione<br />
Di questa rilevanza derri<strong>di</strong>ana della relazione tra <strong>semio</strong>tica e tecnica per il tramite<br />
<strong>di</strong> una iterabilità del segno e delle pratiche è testimone il <strong>di</strong>spositivo allestito<br />
dall’autore del Traité per giungere all’ascolto ridotto. La possibilità <strong>di</strong> accesso<br />
a quest’ultimo passa infatti per due tecniche, che si suppongono, in quanto tali,<br />
appren<strong>di</strong>bili: acusmatizzazione e ripetizione. La messa tra parentesi dell’in<strong>di</strong>cale<br />
richiede l’acusmatizzazione, in cui, attraverso l’occultamento della visibilità (tipi-<br />
10 A tal proposito, sono <strong>di</strong> massimo interesse le considerazioni sullo stabilirsi della relazione tra ascolto<br />
e oggetti contenute nei due journals de la musique concrète, Schaeffer 1952.<br />
118
camente ma non esclusivamente) del corpo sonoro produttore, si suppone restituire<br />
“a l’ouïe seule l’entière responsabilité d’une perception d’or<strong>di</strong>naire appuyée sur<br />
d’autres témoignages sensibles” (TOM: 91): vera e propria “expérience initiatique”<br />
che condurrebbe alla “réalité perceptive d’un son en tant que tel” (ibid.),<br />
è un tentativo <strong>di</strong> risalita alla prototipicità dell’u<strong>di</strong>bile rispetto alla multimodalità<br />
dell’enunciazione 11 . L’esclusione del simbolico passa invece per la ripetizione<br />
che “impose peu à peu l’objet sonore” (TOM: 94): attraverso l’ascolto iterato si<br />
producono vere e proprie variazioni d’ascolto, così che, nella ripetizione, date<br />
le stesse con<strong>di</strong>zioni fisiche, ne conseguono “éclairages particuliers”, “<strong>di</strong>rections<br />
chaque fois précises et revelant chaque fois un nouvel aspect de l’objet” (TOM:<br />
94). La ripetizione è una rilettura -si <strong>di</strong>rebbe secondo l’uso- <strong>di</strong> tipo plastico,<br />
che mira ad escludere, per il tramite della ri-presentificazione, l’insieme delle<br />
determinazioni semantiche: si tratta <strong>di</strong> una procedura <strong>di</strong> tipo informazionale,<br />
per saturazione progressiva delle isotopie attivabili e conseguente decremento<br />
progressivo della quantità <strong>di</strong> informazione imme<strong>di</strong>atamente <strong>di</strong>sponibile.<br />
5.1.3. Ascolto ridotto e oggetto sonoro (imme<strong>di</strong>ato)<br />
Dunque in Schaeffer una specifica pratica d’ascolto corredata da una specifica<br />
tecnica -l’ascolto ridotto- in<strong>di</strong>vidua i suoi oggetti specifici -gli oggetti sonori<br />
che <strong>di</strong>ventano convenable per antonomasia-, oggetti ad essa convenienti in vista<br />
<strong>di</strong> uno specifico uso compositivo, co<strong>di</strong>ficato ad esempio in un preciso stile <strong>di</strong><br />
composizione elettroacustica, lo “style GRM”. Schaeffer compositore <strong>di</strong>mostra,<br />
attraverso la sua pratica, il funzionamento previsto dal <strong>di</strong>spositivo analitico (teoria<br />
dell’ascolto e teoria dell’oggetto sonoro) approntato dallo Schaeffer teorico: non<br />
a caso, in molte opere elettroacustiche parigine (per le quali il Trattato schaefferiano<br />
si pone dunque come descrizione <strong>di</strong> una pratica <strong>di</strong> produzione), è stato<br />
possibile in<strong>di</strong>viduare un’ “aire de famille”, “un souci commun d’articulation et<br />
de contrôle du <strong>di</strong>scours musical” (Dhomont 1986: 75).<br />
5.2. Pratica e storia<br />
Questa <strong>di</strong>namica della convenance permette una considerazione <strong>semio</strong>tica più<br />
generale. È noto che la <strong>semio</strong>tica, prima della riproposizione <strong>di</strong> una <strong>di</strong>mensione<br />
prasseologica attraverso il concetto <strong>di</strong> “prassi enunciazionale”, ha pensato la<br />
11 Schaeffer <strong>di</strong>scrimina opportunamente tra ascolto acusmatico e ascolto ridotto: “il y a objet sonore lorsque<br />
j’ai accompli (...) une réduction plus rigoureuse encore que la réduction acousmatique: non seulement,<br />
je m’en tiens aux reinsegnements fournis par mon oreille (...) mais ce reinsegnements ne concernent<br />
plus que l’événement sonore lui-même” (TOM: 268). C’è quin<strong>di</strong> un doppio movimento: prima l’ascolto<br />
acusmatico, poi l’ascolto ridotto come suo sottinsieme. Ma si può praticare l’ascolto ridotto anche in<br />
situazione non acusmatica: è soltanto più <strong>di</strong>fficile, l’acusmatizzazione essendo appunto una tecnica per<br />
accedervi più facilmente. D’altra parte, è altrettanto vero, come nota Chion <strong>di</strong>scutendo specificamente<br />
dell’enunciazione multimodale nell’au<strong>di</strong>ovisione, che “l’acusmatico esaspera in partenza l’ascolto<br />
causale”, la stessa acusmatizzazione richiedendo l’attivazione <strong>di</strong> una logica della produzione, per cui<br />
“colui che ascolta è condotto a porsi due volte la domanda “che cos’è? (da tradurre con la domanda<br />
che cosa causa questo suono?)” (Chion 1990: 34).<br />
119
storicità come una delimitazione dell’insieme delle possibilità combinatorie<br />
che la struttura dell’universo semantico in sé permette: l’uso hjelmsleviano è<br />
per Greimas una clôture. Analogamente, si puó assumere che l’insieme liscio<br />
ed eterogeneo del sonoro venga striato dalle pratiche d’ascolto e <strong>di</strong> produzione<br />
che stabilizzano e sanzionano socio<strong>semio</strong>ticamente insiemi <strong>di</strong>screti <strong>di</strong> oggetti<br />
convenables. Dunque, come sottolinea Michel Chion, l’ipotesi <strong>di</strong> una convenance<br />
in qualche misura ontologicamente ancorata (stabilita a priori e dunque<br />
estranea alla prassi che ne sarebbe posteriore) non tiene poiché, proprio rispetto<br />
alla tipologia schaefferiana, centrata intorno agli “objets convenables”, si è <strong>di</strong><br />
fatto assistito negli ultimi anni ad una valorizzazione estetica e compositiva<br />
dell’eccentrico, nel senso etimologico per cui gli oggetti risultanti si trovano<br />
lontani da quel centro previsto nella griglia tipologica del Traité. L’ “objet convenable”<br />
è allora un “être impossible” (Chion 1998: 172) laddove lo si pensi<br />
sul piano formale: ma sul piano sostanziale resta invece oggetto possibile <strong>di</strong><br />
una socio<strong>semio</strong>tica dell’u<strong>di</strong>bile.<br />
6. CONCLUSIONI<br />
Si può allora assumere che, da un punto <strong>di</strong> vista statico:<br />
1) ogni pratica costituisce una sua stabilizzazione della catena SO e, <strong>di</strong> conseguenza,<br />
ogni pratica bilancia il <strong>di</strong>spositivo tipo-morfologico. Viceversa,<br />
un certo bilanciamento tipo-morfologico implica una certa pratica.<br />
Si può infine osservare da un punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong>namico:<br />
2) ogni pratica è uno sganciamento rispetto ad una pratica precedente, un’iterazione<br />
sull’elica delle pratiche d’ascolto. Quest’iterazione definisce un punto<br />
<strong>di</strong> riferimento rispetto alle catena infinita dei no<strong>di</strong> bivalvi SO, che descrivono<br />
formalmente lo statuto dell’oggetto sonoro. Poiché la tipomorfologia <strong>di</strong>pende<br />
dalla definizione della relazione tra oggetto e struttura (che determina il<br />
contesto e la contestura dell’oggetto sonoro), questo posizionamento è <strong>di</strong><br />
fatto un bilanciamento del doppio <strong>di</strong>spositivo tipomorofologico.<br />
Dunque, in fine <strong>di</strong> partita, quale relazione tra testo e pratica? È stato fatto<br />
osservare che l’oggetto proprio all’u<strong>di</strong>bile dovrebbe essere descritto nei termini<br />
<strong>di</strong> un flusso (“stream”, Bregman 1990, cfr. anche Albertazzi 1993). Come ogni<br />
pratica istanzia i suoi testi, ogni pratica d’ascolto istanzia un testo <strong>di</strong> oggetti<br />
sonori ottenuti stabilizzando una molteplicità <strong>di</strong> flussi u<strong>di</strong>bili, leibnizianamente<br />
“compossibili”.<br />
120
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122
ANTILOGOS. IMPERIALISMO TESTUALISTA,<br />
PRATICHE DI SIGNIFICAZIONE E SEMIOTICA<br />
INTERPRETATIVA<br />
Clau<strong>di</strong>o Paolucci<br />
1. SEMIOTICA, SEMIOTICHE, INTERPRETAZIONE<br />
Alla vecchia idea della <strong>semio</strong>tica come <strong>di</strong>sciplina imperialista, già <strong>di</strong>scussa e criticata<br />
nel Trattato <strong>di</strong> <strong>semio</strong>tica generale <strong>di</strong> Eco (1975: 17), pare essersi sostituita<br />
oggi una nuova forma <strong>di</strong> imperialismo <strong>semio</strong>tico, locale e costruttivista, che vede<br />
nel testo l’equivalente <strong>di</strong> ciò che il selvaggio era per l’antropologo. Proprio la<br />
scuola che si è opposta ad una <strong>semio</strong>tica generale <strong>di</strong> tipo enciclope<strong>di</strong>co, considerata<br />
<strong>di</strong>sciplina troppo filosofica e non in grado <strong>di</strong> rendere conto delle organizzazioni<br />
locali del senso, 1 pare infatti avere dato vita ad una nuova forma <strong>di</strong> imperialismo<br />
<strong>semio</strong>tico, meno ambizioso e più innocuo perché quasi interamente metaforico,<br />
che ha portato ad omogeneizzare sotto gli stessi oggetti teorici cose ra<strong>di</strong>calmente<br />
eterogenee come un romanzo, una zuppa al pesto, la degustazione <strong>di</strong> un sigaro,<br />
1 Cfr. Greimas 1983: 120.<br />
123
la città, il <strong>di</strong>alogo tra le culture, l’avarizia, le strategie <strong>di</strong> mercato, la generosità, il<br />
design, più miti antichi, la pubblicità del detersivo, Proust. Questa omogeneizzazione,<br />
i cui oggetti sembrano essere tratti da una tassonomia <strong>di</strong> Borges 2 , si vuole<br />
allora costitutivamente locale, dal momento che si è fatto del senso obiettivato<br />
localmente un oggetto quasi esclusivo dell’analisi <strong>semio</strong>tica; e costruttivista, dal<br />
momento che non si è visto nel testo una “cosa” 3 , bensì l’effetto <strong>di</strong> una metodologia<br />
d’analisi che mira il suo oggetto=x e ne effettua una prensione <strong>semio</strong>tica. Si tratta<br />
in realtà anche e soprattutto <strong>di</strong> un problema <strong>di</strong> sviluppo storico della <strong>di</strong>sciplina, che<br />
in questa tra<strong>di</strong>zione nasce davvero a partire dallo stu<strong>di</strong>o dei “testi” in senso stretto.<br />
Se in principio la metodologia originariamente elaborata da Greimas si applicava<br />
infatti ai racconti, ai miti e ad altri ambiti <strong>di</strong>sciplinari piuttosto circoscritti, si è poi<br />
deciso <strong>di</strong> operare un’estensione verso nuovi campi d’indagine, ma <strong>di</strong> norma lo si è<br />
fatto senza che questi nuovi oggetti a cui ci si doveva hjelmslevianamente adeguare<br />
venissero considerati come una fonte <strong>di</strong> possibile problematizzazione <strong>degli</strong> oggetti<br />
teorici della teoria, continuando invece semplicemente a leggere quello che la teoria<br />
consentiva <strong>di</strong> leggere (strutture profonde, articolazione narrativa, trasformazioni<br />
valoriali modalizzate etc.). E “leggere” va qui inteso in senso letterale, dal momento<br />
che tutti questi nuovi ambiti <strong>di</strong> analisi (oggetti, cibo, relazioni sociali, pratiche, spazi,<br />
culture etc.) non erano altro che nuovi “testi” e venivano considerati in quanto tali.<br />
Si tratta del passaggio, sottile quanto decisivo, dall’estensione virtuosa <strong>di</strong> una stessa<br />
metodologia d’analisi a nuovi ambiti <strong>di</strong>sciplinari, all’estensione cancerosa <strong>di</strong> una<br />
semplice metafora che finisce per rendere visibile negli oggetti analizzati soltanto<br />
quello che si è in grado <strong>di</strong> cercare.<br />
All’omogeneizzazione costitutiva che è propria della <strong>semio</strong>tica come <strong>di</strong>sciplina<br />
dei testi, opponiamo allora una <strong>semio</strong>tica interpretativa come <strong>di</strong>sciplina trasduttiva<br />
in grado <strong>di</strong> costruire concatenamenti tra elementi eterogenei senza che con<br />
questo essi cessino <strong>di</strong> restare eterogenei. Una <strong>semio</strong>tica <strong>di</strong> questo tipo pare allora<br />
fondarsi proprio sullo stesso principio <strong>semio</strong>tico che è stato oggetto <strong>di</strong> rimozione<br />
epistemologica da parte della tra<strong>di</strong>zione generativa, e che attraverso la sua scomparsa<br />
ha così dato vita alla <strong>semio</strong>tica come <strong>di</strong>sciplina immanente dei testi. Rispetto<br />
a quest’ultima, proporremo allora un’altra concezione della <strong>semio</strong>tica, del suo<br />
sguardo e dei suoi compiti; concezione fondata proprio sul principio oggetto <strong>di</strong><br />
questa stessa rimozione. Per quanto ci riguarda, occorrerà allora risalire fino alle<br />
ra<strong>di</strong>ci epistemologiche che hanno reso possibile il para<strong>di</strong>gma testualista, al fine<br />
<strong>di</strong> ritrovare quei principi che sono autenticamente costitutivi dell’identità stessa<br />
<strong>degli</strong> elementi <strong>semio</strong>tici. A quel punto sarà possibile in<strong>di</strong>viduare le specificità<br />
della <strong>semio</strong>tica rispetto alle altre <strong>di</strong>scipline, e questa mossa darà vita per noi<br />
2 È nota infatti questa tassonomia deliziosa attribuita da Borges ad un’Enciclope<strong>di</strong>a cinese, secondo cui<br />
gli animali si <strong>di</strong>viderebbero in: 1) appartenenti all’imperatore; (2) imbalsamati; (3) addomesticati; (4)<br />
maialini <strong>di</strong> latte; (5) sirene; (6) favolosi; (7) cani in libertà; (8) inclusi nella presente classificazione;<br />
(9) che si agitano follemente; (10) innumerevoli; (11) <strong>di</strong>segnati con un pennello finissimo <strong>di</strong> peli <strong>di</strong><br />
cammello; (12) et caetera; (13) che fanno l’amore; (14) che da lontano sembrano mosche.<br />
3 Cfr. Tore 2005.<br />
124
ad una <strong>di</strong>fferente immagine della <strong>semio</strong>tica nella sua totalità, tanto che questa<br />
“nuova <strong>semio</strong>tica” 4 finirà per portare con sè i germi propri dell’interpres e <strong>di</strong> una<br />
<strong>semio</strong>tica che si vuole costitutivamente interpretativa.<br />
Si tratterà allora <strong>di</strong> procedere con or<strong>di</strong>ne, quasi con cautela, cominciando da<br />
una vera e propria operazione <strong>di</strong> recupero archeologico.<br />
Una <strong>semio</strong>tica interpretativa consente infatti <strong>di</strong> reintrodurre all’interno <strong>di</strong><br />
un’epistemologia <strong>semio</strong>tica <strong>di</strong> tipo <strong>di</strong>fferenziale quello che è stato il vero e<br />
proprio rimosso dell’intera tra<strong>di</strong>zione strutturalista, e cioè la prima accezione,<br />
o <strong>di</strong>mensione, che è costitutiva del valore saussuriano. In effetti,<br />
stando agli storici della lingua, la parola interpres designa in origine colui<br />
che me<strong>di</strong>a una transazione, colui i cui buoni uffici sono necessari perché<br />
un oggetto possa cambiare <strong>di</strong> mano (...). L’interpres assicura dunque un<br />
passaggio; contemporaneamente sta attento a riconoscere l’esatto valore<br />
dell’oggetto trasmesso, ed assiste alla trasmissione in modo da constatare<br />
che l’oggetto passi da una mano ad un’altra nella sua integrità (Starobinski<br />
1974: 23).<br />
L’interpres è così colui che me<strong>di</strong>a tra elementi eterogenei, garantendo il passaggio<br />
da un punto ad un altro, e ci insegna dunque la bellezza delle strutture<br />
<strong>di</strong> frontiera, delle istanze <strong>di</strong> passaggio, dello “stare-tra”. Ecco allora che ben<br />
lungi dall’essere in grado <strong>di</strong> costruire un dominio propriamente <strong>semio</strong>tico in<br />
cui un’eterogeneità vastissima <strong>di</strong> fenomeni possa essere trattata secondo una<br />
metodologia omogenea riconducibile a quella <strong>di</strong> un’analisi testuale, la <strong>semio</strong>tica<br />
si caratterizza per noi come il ben più complesso tentativo <strong>di</strong> garantire una<br />
traducibilità propriamente <strong>semio</strong>tica tra elementi eterogenei. Si tratta cioè <strong>di</strong><br />
garantire una possibilità <strong>di</strong> scambio attraverso l’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> un livello<br />
<strong>semio</strong>tico in cui si rende possibile il passaggio da un dominio <strong>di</strong>sciplinare ad<br />
un altro. Ben più che riportare elementi eterogenei in un dominio <strong>semio</strong>tico,<br />
si tratta <strong>di</strong> tra(s)durre elementi tra un dominio ed un altro dominio eterogeneo<br />
attraverso la <strong>semio</strong>tica. Quest’opera <strong>di</strong> tra(s)duzione, che è per noi costitutiva<br />
dell’identità stessa della <strong>semio</strong>tica, rimanda allora alla prima accezione del<br />
valore saussuriano, dalla quale si tratta <strong>di</strong> partire innanzi tutto.<br />
2. LA PRIMA DIMENSIONE DEL VALORE SAUSSURIANO E LA<br />
SEMIOTICA COME DISCIPLINA EN PLEIN AIR. SU ALCUNE RIMO-<br />
ZIONI COSTITUTIVE DELL’EPISTEMOLOGIA SEMIOTICA<br />
Com’è noto, secondo Saussure (1922) l’identità <strong>di</strong> qualsiasi elemento <strong>semio</strong>tico<br />
consiste in un valore, ed un valore è costituito sempre da due <strong>di</strong>mensioni, entrambe<br />
4 L’espressione è <strong>di</strong> Fabbri (1998): cfr. infra, paragrafo 6.<br />
125
puramente <strong>di</strong>fferenziali e relazionali, e non è nulla al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> esse. La prima<br />
<strong>di</strong>mensione da cui <strong>di</strong>pende un valore risiede infatti nella sua corrispondenza con<br />
delle entità esterne al sistema all’interno del quale esso è considerato. Per esempio<br />
il valore <strong>di</strong> un pezzo da cinque franchi è determinato dal fatto “che lo si può<br />
scambiare con una determinata quantità <strong>di</strong> una cosa <strong>di</strong>versa, per esempio con<br />
del pane”. 5 La seconda <strong>di</strong>mensione consiste invece nelle relazioni che un valore<br />
contrae con altri valori interni al sistema <strong>di</strong> cui è membro. Per esempio “lo si può<br />
confrontare con un valore similare del medesimo sistema, per esempio un pezzo<br />
da un franco, o con una moneta <strong>di</strong> un altro sistema (un dollaro)” 6 . Queste due <strong>di</strong>mensioni<br />
relazionali, una trascendente e l’altra immanente al sistema considerato,<br />
sono entrambe costitutive della nozione stessa <strong>di</strong> valore: un valore si dà solamente<br />
quando è scambiato con un “fuori” e confrontato con un “dentro” al sistema<br />
<strong>di</strong> cui è parte, dal momento che è solamente confrontandosi all’interno del suo<br />
sistema più proprio e scambiandosi al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> esso che un elemento=x <strong>di</strong>venta<br />
un valore. Saussure identifica allora questa doppia <strong>di</strong>mensione che è costitutiva<br />
dell’identità <strong>di</strong> un valore col <strong>semio</strong>tico, dal momento che il valore è “l’entità<br />
concreta dei sistemi <strong>semio</strong>logici” (134), il “personaggio” della loro “storia”.<br />
Nei sistemi <strong>semio</strong>logici, come la lingua, in cui gli elementi si tengono<br />
reciprocamente in equilibrio secondo regole determinate, la nozione <strong>di</strong><br />
identità si confonde con quella <strong>di</strong> valore e viceversa. Ecco perché, in<br />
definitiva, la nozione <strong>di</strong> valore ricopre quella <strong>di</strong> unità, <strong>di</strong> entità concreta,<br />
e <strong>di</strong> realtà (Saussure 1922: 134).<br />
Ecco in cosa consiste la specificità dei “sistemi <strong>semio</strong>logici”, ed ecco cosa<br />
popola il loro territorio: elementi in cui l’identità si confonde con quella <strong>di</strong><br />
valore e la cui concretezza è la concretezza propria <strong>di</strong> un valore, in entrambe le<br />
sue <strong>di</strong>mensioni costitutive. Al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> questa identificazione non c’è impresa<br />
<strong>semio</strong>tica: c’è un altro sistema, come <strong>di</strong>ce Saussure.<br />
Ora, in Raison et poétique du sens, e proprio in riferimento alle due accezioni<br />
del valore saussuriano, Claude Zilberberg (1983: 17) notava molto giustamente<br />
come l’intera <strong>semio</strong>tica strutturale e generativa “si sia costituita attraverso l’adozione<br />
del secondo principio e l’abbandono non teorizzato del primo”. Questo<br />
abbandono della <strong>di</strong>mensione trascendente costitutiva della prima accezione del<br />
valore in Saussure è stato probabilmente effetto dell’identificazione dell’elemento<br />
<strong>di</strong>ssimile al sistema <strong>di</strong>fferenziale con il referente, o con un campioneparametro.<br />
A partire da Hjelmslev infatti, la tra<strong>di</strong>zione <strong>semio</strong>tica strutturalista<br />
non ha mai saputo cogliere la relazionalità <strong>di</strong>fferenziale costitutiva del valore<br />
<strong>semio</strong>tico anche nella sua accezione trascendente (prima <strong>di</strong>mensione) ed ha<br />
sempre finito per confonderla col riferimento ad un campione-parametro, se<br />
non ad<strong>di</strong>rittura con quello ad un denotatum extravaloriale.<br />
5 Saussure 1922: 140.<br />
6 Saussure 1922: 140.<br />
126
Il paragone con il valore <strong>di</strong> scambio zoppica su un punto fondamentale: […]<br />
il valore <strong>di</strong> scambio è definito per il fatto che corrisponde ad una quantità<br />
determinata <strong>di</strong> merce, e questo fatto serve a dargli un fondamento basato<br />
su dati naturali, mentre in linguistica i dati naturali sono del tutto assenti. Il<br />
valore economico è per definizione un termine a due facce: non solo ha il<br />
ruolo <strong>di</strong> costante rispetto alle unità concrete, ma restando identico ha il ruolo<br />
<strong>di</strong> variabile rispetto ad una quantità stabilita <strong>di</strong> merce che gli serve come<br />
riferimento. In linguistica, invece, non c’è nulla che corrisponda al riferimento<br />
(Hjelmslev 1959: 100).<br />
Lo stesso Rastier (2003b), da sempre <strong>di</strong>fensore del para<strong>di</strong>gma <strong>di</strong>fferenziale in<br />
<strong>semio</strong>tica, non pare cogliere la <strong>di</strong>fferenzialità relazionale costitutiva dell’accezione<br />
trascendente saussuriana e, in una ra<strong>di</strong>calizzazione dell’idea hjelmsleviana,<br />
finisce ad<strong>di</strong>rittura per identificarla con un richiamo al referente, cosa che lo<br />
porta a sostenere la saggezza della tra<strong>di</strong>zione generativa nell’averla abbandonata<br />
a favore esclusivo della seconda accezione:<br />
la significazione consiste nel valore “interno”, e questo si accorda con<br />
l’abbandono decisivo <strong>di</strong> ogni riferimento. Così la <strong>di</strong>fferenza tra mutton e<br />
sheep consiste nella loro compresenza, e dunque nella loro ripartizione<br />
<strong>di</strong>fferenziale […], ma non in una <strong>di</strong>fferenza a priori delle loro significazioni<br />
che si baserebbe sulla <strong>di</strong>fferenza dei loro referenti (Rastier<br />
2003b: 3).<br />
Ora, questo qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>ssimile con cui un valore può essere scambiato per costituirsi<br />
in quanto valore deve necessariamente essere un campione, un referente,<br />
un termine-parametro o qualcosa <strong>di</strong> simile ad una riserva aurea? Non può invece<br />
essere semplicemente un “fuori” rispetto ai rapporti <strong>di</strong>fferenziali che sono costitutivi<br />
della seconda accezione, un “fuori” con cui essi stessi si scambiano e si traducono<br />
continuamente nelle pratiche <strong>di</strong> significazione?<br />
In Dynamiques et structures en langue, già David Piotrowski (1997) insisteva<br />
sulla <strong>di</strong>mensione puramente <strong>di</strong>fferenziale costitutiva anche della prima accezione. In<br />
effetti, per noi la prima accezione del valore saussuriano, incarnata alla perfezione<br />
nella teoria dell’interpretazione peirciana, insegna non a definire un livello omogeneo<br />
in funzione del quale <strong>degli</strong> oggetti possano essere determinati e trattati in quanto<br />
<strong>semio</strong>tici; bensì a definire concatenamenti locali con un fuori, in cui gli effetti <strong>di</strong><br />
senso sono sempre funzione <strong>degli</strong> elementi esterni al sistema con cui si scambiano<br />
incessantemente. Questi concatenamenti con un fuori istituiscono allora delle commensurabilità<br />
locali (ratio) tra elementi che non cessano <strong>di</strong> restare eterogenei, ma <strong>di</strong><br />
cui si concatena una forma <strong>di</strong> relazione comune. In questo modo, la <strong>semio</strong>tica è per<br />
noi tale esclusivamente attraverso le altre <strong>di</strong>scipline con cui non cessa <strong>di</strong> tradursi:<br />
essa le assume, ne mobilizza dei frammenti, ne costruisce concatenamenti, ne usa<br />
gli oggetti teorici per affrontare e costruire i propri. Per questo esiste una <strong>semio</strong>tica<br />
dell’arte <strong>di</strong>stinta dalle <strong>di</strong>scipline artistiche; per questo esiste una <strong>semio</strong>tica della<br />
127
percezione <strong>di</strong>stinta dalla percettologia; per questo esiste una <strong>semio</strong>tica della musica<br />
<strong>di</strong>stinta dalla musicologia, per questo esiste una <strong>semio</strong>tica della letteratura <strong>di</strong>stinta<br />
dalle analisi letterarie etc. Si <strong>di</strong>rebbe un “ornitorinco <strong>di</strong>sciplinare”, nel senso in cui<br />
l’ornitorinco è un animale fatto con pezzi <strong>di</strong> altri animali, o forse, gli altri animali<br />
sono fatti con pezzi dell’ornitorinco (cfr. Eco 1997).<br />
Perché quello che succede con la <strong>semio</strong>tica sembra infatti essere del tutto<br />
peculiare. A <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> tutte le altre <strong>di</strong>scipline, che hanno un oggetto che<br />
<strong>di</strong>segna un dentro <strong>di</strong>sciplinare, la <strong>semio</strong>tica ha un oggetto, il senso, che la pone<br />
imme<strong>di</strong>atamente fuori da un dominio chiuso, essendo il senso qualcosa che<br />
circola all’interno <strong>di</strong> tutti i domini <strong>di</strong>sciplinari. Per questo la <strong>semio</strong>tica è esente<br />
da ogni rapporto esclusivo con un solo oggetto, e la sua <strong>di</strong>mensione è l’aria<br />
aperta delle pratiche <strong>di</strong> significazione in cui il senso solamente si dà. Il senso<br />
non si dà nel dominio <strong>semio</strong>tico, si dà in quello <strong>di</strong> tutti gli altri: per questo la<br />
<strong>semio</strong>tica è costitutivamente sempre fuori e non ha dominio, non cessando così<br />
<strong>di</strong> concatenare domini eterogenei.<br />
Al contrario, relegando la prima accezione del valore nel non teorizzato ed<br />
erigendo il proprio e<strong>di</strong>ficio esclusivamente nel “dentro” della seconda (<strong>di</strong>mensione<br />
immanente), la <strong>semio</strong>tica ha operato la costruzione <strong>di</strong> un sistema omogeneo<br />
all’interno del quale i valori <strong>semio</strong>tici si scambiavano esclusivamente con<br />
altri valori simili. “Testo”, ed ora “<strong>semio</strong>tica-oggetto”, 7 sono gli oggetti teorici<br />
attraverso i quali si è operata questa omogeneizzazione. Si tratterà allora <strong>di</strong><br />
mostrare brevemente come e, soprattutto, come sia possibile uscirne verso un<br />
fuori che è costitutivo della <strong>semio</strong>tica come <strong>di</strong>sciplina en plein air.<br />
3. ALLE RADICI DELL’EPISTEMOLOGIA SEMIOTICA: STRUTTU-<br />
RALISMO E FENOMENOLOGIA, DISCORSIVO E PERCETTIVO,<br />
“DIRE” E “MOSTRARE”<br />
In un saggio che è a fondamento dell’intera epistemologia strutturale, Gilles<br />
Deleuze (1967) in<strong>di</strong>viduava innanzi tutto un primo criterio molto generale da<br />
cui si riconosceva lo strutturalismo. Nel porre all’origine dello strutturalismo la<br />
linguistica, Deleuze si affrettava infatti a precisare che se in seguito lo strutturalismo<br />
si estende ad altri domini <strong>di</strong>sciplinari non è affatto per importare meto<strong>di</strong><br />
equivalenti a quelli che hanno dato buona prova <strong>di</strong> sé nell’analisi del linguaggio,<br />
ma è invece essenzialmente per un problema costitutivo della stessa epistemologia<br />
strutturale; e più precisamente per un problema <strong>di</strong> oggetto e <strong>di</strong> sguardo, e<br />
cioè per un problema che riguarda ciò che una <strong>di</strong>sciplina “vede” nel momento<br />
in cui “guarda” qualcosa, ciò che sa riconoscere nelle cose che guarda.<br />
In realtà - scrive Deleuze - non c’è struttura se non <strong>di</strong> ciò che è linguaggio,<br />
fosse pure un linguaggio esoterico o ad<strong>di</strong>rittura non verbale. Non<br />
7 Cfr. Fontanille 2005.<br />
128
c’è una struttura dell’inconscio se non nella misura in cui l’inconscio<br />
parla ed è linguaggio. Non c’è una struttura dei corpi se non nella<br />
misura in cui si ritiene che i corpi parlino con un linguaggio che è<br />
quello dei sintomi. Le cose stesse hanno una struttura solo nella misura<br />
in cui tengono un <strong>di</strong>scorso silenzioso, che è il linguaggio dei segni<br />
(Deleuze 1967: 12).<br />
Questa idea non ha allora niente a che vedere con la vecchia concezione del<br />
linguocentrismo barthesiano o del linguaggio come sistema modellizzante primario<br />
<strong>di</strong> Lotman, che ponevano entrambe al centro <strong>di</strong> ogni sistema <strong>semio</strong>tico<br />
il modello del linguaggio verbale. Si tratta qui <strong>di</strong> tutt’altro. Deleuze non sta<br />
affatto <strong>di</strong>cendo che ogni struttura deve fondarsi sul modello del linguaggio e che<br />
anche i sistemi non linguistici devono basarsi sulla struttura <strong>di</strong> quelli linguistici;<br />
sta invece <strong>di</strong>cendo che non esiste struttura se non <strong>di</strong> ciò che è linguaggio, e<br />
che dunque ogni linguaggio è essenzialmente una struttura e che dunque una<br />
struttura per sua stessa essenza “parla”, e cioè possiede un’essenza <strong>di</strong>scorsiva,<br />
e non percettiva o presentativa. È il suo metodo per uscire dalla fenomenologia<br />
attraverso la <strong>semio</strong>tica strutturale (cfr. Deleuze 1968, 1983: capitolo 3). È il<br />
suo metodo per uscire finalmente<br />
dall’approccio che parte dall’esperienza originaria, fondamentale complicità<br />
con il mondo che darebbe luogo alla nostra possibilità <strong>di</strong> parlarne<br />
e costituirebbe il visibile come base dell’enunciabile (la fenomenologia, il<br />
“Mondo parla”, come se le cose visibili mormorassero già un senso che il<br />
nostro linguaggio dovrebbe soltanto risvegliare, o come se il linguaggio<br />
si appoggiasse a un silenzio espressivo) (Deleuze 1983: 62).<br />
Ecco allora che quando Deleuze ci <strong>di</strong>ce che non c’è struttura se non <strong>di</strong> ciò<br />
che è linguaggio sta innanzi tutto affermando il primato della <strong>di</strong>scorsività<br />
del “<strong>di</strong>re” sulla visibilità del “mostrare”, il primato dell’elemento evenemenziale<br />
della struttura, la singolarità, sulla complicità fenomenologica tra<br />
corpo e mondo che costituirebbe un “visibile” sensibile e percettivo posto a<br />
fondamento dell’enunciabile. Si tratta del rovesciamento del primato della<br />
percezione sulle altre attività cognitive <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne superiore. Questa posizione,<br />
oggi largamente minoritaria non solo in <strong>semio</strong>tica, ma anche in semantica e in<br />
scienze cognitive, era allora esattamente quella sostenuta da Peirce nel saggio<br />
“Some consequences of four incapacities” in cui, attraverso la riduzione<br />
<strong>di</strong> qualsiasi “classe <strong>di</strong> mo<strong>di</strong>ficazioni <strong>di</strong> coscienza” (sentimenti, percezioni,<br />
emozioni etc.) alla struttura <strong>semio</strong>tica dell’inferenza valida, Peirce fondava<br />
la <strong>semio</strong>tica sul rovesciamento del primato dell’estesico rispetto al logico,<br />
del percettivo rispetto al <strong>di</strong>scorsivo, del presentativo rispetto al ripresentativo<br />
(cfr. CP 5.264-317).<br />
Si tratta allora <strong>di</strong> insistere sulla nozione capitale <strong>di</strong> singolarità che, come <strong>di</strong>ce<br />
129
Deleuze, è al centro <strong>di</strong> tutti i campi in cui c’è struttura: 8 la singolarità è un punto<br />
in cui succede qualcosa che corrisponde ai valori dei rapporti <strong>di</strong>fferenziali,<br />
in entrambe le <strong>di</strong>mensioni costitutive del valore. In funzione del valore <strong>di</strong> un<br />
rapporto, si hanno punti corrispondenti (singolari e regolari). Per Deleuze è<br />
esattamente questa concezione della struttura che permette <strong>di</strong> uscire dal primato<br />
del sensibile e del percettivo; dal momento che, come vedremo, è la nozione<br />
stessa <strong>di</strong> singolarità che presiede al <strong>di</strong>spiegamento del sensibile nella funzione<br />
<strong>semio</strong>tica, e dunque al concetto <strong>di</strong> “testo” o <strong>di</strong> “<strong>semio</strong>tica-oggetto”. È per questo<br />
che per lo strutturalismo il “<strong>di</strong>re” possiede un primato che non è possibile<br />
fondare in alcun modo su <strong>di</strong> un silenzio espressivo sensibile e percettivo che ne<br />
rappresenterebbe la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> possibilità. Ed è per questo che è attraverso<br />
lo strutturalismo che Deleuze intende uscire dalla fenomenologia.<br />
Chi infatti è convinto che il linguaggio si appoggi <strong>di</strong>rettamente ad un silenzio<br />
espressivo che lo rende possibile è proprio Merleau-Ponty. In Merleau-Ponty<br />
(1964) le cose parlano perché esiste un’esperienza precategoriale in cui si assiste<br />
alla “nascita del senso o un senso selvaggio, un’espressione dell’esperienza attraverso<br />
l’esperienza che chiarifica il dominio speciale del linguaggio” (204). È<br />
allora solamente perché esiste questo spazio <strong>di</strong> presentazione pura che il senso<br />
si ritrova ad essere “l’integrale <strong>di</strong> tutte le <strong>di</strong>fferenziazioni […] in cui tutto il<br />
paesaggio è occupato dalle parole come attraverso un’invasione che lo rende<br />
nient’altro che una variante della parola […]. Come <strong>di</strong>ce Valery il linguaggio<br />
è tutto, dal momento che esso non è la voce <strong>di</strong> nessuno, perché esso è la voce<br />
stessa delle cose, delle onde, dei boschi” (203-4).<br />
Là dove Deleuze ci <strong>di</strong>ceva che ogni esperienza è una lingua, Merleau-Ponty<br />
ci <strong>di</strong>ce che ogni lingua è un’esperienza, selvaggiamente originaria e precategoriale.<br />
Là dove Deleuze ci <strong>di</strong>ceva che l’esperienza nasce solo grazie al senso<br />
(al linguaggio, alla struttura), fondando così la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> possibilità <strong>di</strong><br />
qualsiasi esperienza su processi <strong>semio</strong>tici, Merleau-Ponty ci <strong>di</strong>ce invece che il<br />
senso nasce grazie all’esperienza, un’esperienza originaria e selvaggia posta<br />
a fondamento stesso del senso. Là dove lo strutturalismo ci <strong>di</strong>ce che il senso<br />
si dà attraverso rapporti <strong>di</strong>fferenziali, Merleau-Ponty ci <strong>di</strong>ce invece che esso è<br />
l’integrale <strong>di</strong> tutte le <strong>di</strong>fferenziazioni, e cioè il proce<strong>di</strong>mento esattamente opposto<br />
che risolve ed annulla le <strong>di</strong>fferenze riducendole a varianti. È noto infatti come<br />
in matematica i rapporti <strong>di</strong>fferenziali tra elementi in determinazione reciproca<br />
vengano risolti attraverso l’integrale che definisce la curva nelle loro vicinanze,<br />
8 In tutti i campi in cui c’è struttura ad eccezione della <strong>semio</strong>tica, come vedremo, dal momento che proprio<br />
la <strong>semio</strong>tica che si è voluta strutturale ha abbandonato completamente il momento della costruzione della<br />
funzione <strong>semio</strong>tica a partire dalla coniugazione <strong>di</strong> singolarità, al fine <strong>di</strong> operare un’omogeneizzazione<br />
dei problemi <strong>semio</strong>tici sotto il concetto-ombrello <strong>di</strong> “testo”. Con alcune notevoli eccezioni ovviamente<br />
(cfr. Petitot 1977, 1985 e 1992 e, con una posizione più ibrida <strong>di</strong> ispirazione fenomenologica ma non<br />
senza sensibilità al problema, Fontanille e Zilberberg 1998).<br />
130
non essendo così l’integrale altro che il proce<strong>di</strong>mento opposto e risolutivo <strong>di</strong><br />
ogni <strong>di</strong>fferenziazione. L’integrale risolve le <strong>di</strong>fferenze e fa sparire i rapporti<br />
<strong>di</strong> determinazione reciproca tra gli elementi <strong>di</strong>fferenziali.<br />
Non è allora un caso che ad ispirarsi esplicitamente a Merleau-Ponty sia<br />
proprio quella <strong>semio</strong>tica che tende a ridurre la centralità della <strong>di</strong>fferenza e dei<br />
valori <strong>di</strong>fferenziali all’interno della propria epistemologia, al fine <strong>di</strong> fondarla su<br />
valenze tensive. 9 Questa <strong>semio</strong>tica pone infatti con forza il primato della percezione<br />
e del sensibile in <strong>semio</strong>tica; posizione che non è quella dello strutturalismo<br />
deleuziano-foucaultiano e non è quella della <strong>semio</strong>tica interpretativa <strong>di</strong> Peirce.<br />
Ma ben prima della <strong>semio</strong>tica tensiva, questa ibridazione tra strutturalismo e<br />
fenomenologia era ben evidente già in Greimas, ed ha dato vita a ciò che si è<br />
definito “imperialismo testualista” in <strong>semio</strong>tica.<br />
4. L’IMPERIALISMO TESTUALISTA DELLA SEMIOTICA GENE-<br />
RATIVA<br />
La <strong>semio</strong>tica generativa pare infatti avere assunto l’idea deleuziana <strong>di</strong>scussa in<br />
precedenza nella sua declinazione merleau-pontiana, finendo così semplicemente<br />
per sostituire la parola “testo” a quella “linguaggio”. Ecco allora che, per parafrasare<br />
Deleuze, non esiste <strong>semio</strong>tica se non <strong>di</strong> ciò che è testo, fosse pure un testo<br />
esoterico, oggettuale, sociale o non verbale. Non esiste una <strong>semio</strong>tica <strong>degli</strong> oggetti<br />
se non nella misura in cui gli oggetti parlano e sono testi. Non esiste una <strong>semio</strong>tica<br />
delle pratiche sociali se non nella misura in cui si ritiene che esse possano essere<br />
lette in quanto testi. Non esiste una <strong>semio</strong>tica delle arti se non nella misura in cui<br />
si ritiene che esse parlino un linguaggio che è quello del visibile e possano a loro<br />
volta essere trattate come testi. Non esiste <strong>semio</strong>tica se non <strong>di</strong> ciò che è testo, dal<br />
momento che “fuori dal testo non c’è salvezza”, come <strong>di</strong>ceva Greimas.<br />
Ecco allora quello che vede questa <strong>semio</strong>tica: vede testi dappertutto. Negli oggetti,<br />
nei corpi, nel cibo, nelle relazioni sociali, nelle pratiche, nelle culture etc. Ben lungi<br />
dal concatenare elementi eterogenei costituendone una commensurabilità locale<br />
senza che con questo essi cessassero <strong>di</strong> essere eterogenei, la <strong>semio</strong>tica generativa<br />
definiva così un livello omogeneo in cui tutto era rapportabile ad un’unica forma<br />
profonda incarnata dalla testualità. Il “testo” è il vero e proprio “mana” <strong>di</strong> questa<br />
<strong>semio</strong>tica: ciò che circola nel momento stesso in cui l’analisi mira il suo oggetto e ne<br />
effettua una prensione <strong>semio</strong>tica. Esattamente come nel “Saggio sul dono” <strong>di</strong> Mauss<br />
(1950) ciò che circolava non erano <strong>degli</strong> oggetti eterogenei, bensì la forza profonda<br />
(“mana” o “hau”) <strong>di</strong> cui essi erano il puro supporto; così la vita vera della significazione,<br />
con tutti i suoi elementi eterogenei, è il puro supporto della circolazione <strong>di</strong><br />
un unico elemento propriamente <strong>semio</strong>tico che li omogeneizza tutti: il testo. Tutti<br />
gli oggetti riportati nel “dentro” della <strong>semio</strong>tica <strong>di</strong>ventano magicamente dei testi,<br />
9 Cfr. Fontanille e Zilberberg 1998, in particolare le voci “Valence” e “Valeur”.<br />
131
in<strong>di</strong>pendentemente dalla loro natura eterogenea. Paradossalmente, nel rifiutare la<br />
prima accezione del valore saussuriano per paura <strong>di</strong> un campione-parametro (riserva<br />
aurea), la <strong>semio</strong>tica generativa finiva per ergere la propria immanenza a campioneparametro<br />
stesso: tutti gli elementi del senso circolavano sempre in quanto testi e<br />
venivano definiti nel loro valore in riferimento ad una testualità costitutiva che li<br />
omogeneizzava. Ma a che prezzo?<br />
Floch (1990) definiva un testo attraverso le proprietà <strong>di</strong> “chiusura, coerenza<br />
e coesione”. È allora ben evidente come le pratiche significanti siano invece<br />
aperte, spesso incoerenti e ben poco coese. Nel riprendere questa idea <strong>di</strong> Floch,<br />
Fabbri e Marrone (2000: 8-9) notano allora come<br />
la nozione <strong>di</strong> testo non comprende soltanto i testi propriamente detti, ossia i<br />
supporti materiali scritti <strong>di</strong> cui si occupano i filologi, e nemmeno tutti i prodotti<br />
comunicativi <strong>di</strong> ogni altro linguaggio […], ma, più in generale, qualsiasi<br />
porzione <strong>di</strong> realtà significante che può venire stu<strong>di</strong>ata dalla metodologia<br />
<strong>semio</strong>tica, acquisendo quei tratti formali <strong>di</strong> chiusura, coerenza, coesione,<br />
articolazione narrativa, molteplicità dei livelli ecc., che si riscontrano con<br />
maggiore facilità nei testi propriamente detti, ma che, a ben guardare, li<br />
eccedono.<br />
Si tratta <strong>di</strong> una sorta <strong>di</strong> messa in posa artificiale per una foto: c’è il ritmo vivo<br />
della “realtà significante” che scorre e la <strong>semio</strong>tica non fa altro che metterlo<br />
in posa per fargli delle foto con una buona luce, in modo da farlo sembrare<br />
sempre più bello <strong>di</strong> quello che è in realtà (coeso, coerente, chiuso). Il testo<br />
è così il “mana” o l’“hau” della <strong>semio</strong>tica: esso circola ininterrottamente e<br />
lo fa nella forma chiusa, coerente e coesa della foto in buona luce. Il testo è<br />
la foto in buona luce della vita vera della significazione (<strong>semio</strong>si o “realtà<br />
significante”).<br />
Era del resto l’effetto <strong>di</strong> un’epistemologia che ha portato, nel momento in cui<br />
sembrava funzionare nella pratica, non tanto al tentativo <strong>di</strong> potenziamento delle<br />
categorie esplicative della <strong>di</strong>sciplina in funzione dei nuovi oggetti <strong>di</strong> analisi,<br />
quanto piuttosto ad una visione <strong>di</strong> questi stessi nuovi oggetti in quanto testi,<br />
e <strong>di</strong> conseguenza ad un allargamento smisurato del concetto stesso <strong>di</strong> testo, a<br />
cui non ci sembra oggi <strong>di</strong> poter riconoscere uno statuto che sia poco più che<br />
metaforico. Si veda ad esempio l’estensione smodata assunta dalla nozione <strong>di</strong><br />
testo nella socio<strong>semio</strong>tica <strong>di</strong> Landowski (1989: 278):<br />
il reale che la socio<strong>semio</strong>tica si assegna come oggetto, identificato con<br />
le con<strong>di</strong>zioni socialmente costruite dalla capacità <strong>di</strong> significare dei nostri<br />
<strong>di</strong>scorsi e delle nostre azioni, non è per lei null’altro che un’ulteriore<br />
forma testuale.<br />
E tuttavia che brutta e stanca idea: il mondo come testo, un’idea così speculare a<br />
quella del mondo come libro, un’idea così vicina al grande libro della natura <strong>di</strong><br />
132
Galileo Galilei (si <strong>di</strong>rebbe: il grande testo della cultura). Questa idea del mondo<br />
come testo è allora tutt’altro che esclusivamente costitutiva <strong>di</strong> un approccio<br />
generativo alla <strong>semio</strong>tica, ma rappresenta anzi una tentazione trasversale, alle<br />
cui sirene molti non hanno saputo resistere. Rastier (2001) notava infatti molto<br />
giustamente come una <strong>semio</strong>tica puramente inferenziale, costitutiva <strong>di</strong> quello<br />
che Ginzburg (1983) avrebbe chiamato un “para<strong>di</strong>gma in<strong>di</strong>ziario” 10 , fosse fin<br />
dalle origini tentata <strong>di</strong> abbracciare un para<strong>di</strong>gma testualista e la sua metafora<br />
del mondo come testo. Nell’inferenza<br />
un relatum è antecedente, l’altro conseguente - temporalmente, casualmente<br />
o in qualsiasi altra maniera. Si <strong>di</strong>rà dunque che il primo è segno<br />
dell’altro, come una nuvola è segno <strong>di</strong> pioggia. […] In generale, la tra<strong>di</strong>zione<br />
non <strong>di</strong>fferenzia, per ciò che concerne l’inferenza, l’interpretazione<br />
del mondo e l’interpretazione del testo (Rastier 2001: 84).<br />
Ecco allora che nel delineare quelli che ritengono essere i rapporti tra <strong>semio</strong>tica<br />
e interpretazione, Pisanty e Pellerey (2004: 67) possono ad esempio sostenere<br />
come “in base a questa accezione allargata, un testo è ogni porzione <strong>di</strong> mondo<br />
sensibile sulla quale qualcuno decide <strong>di</strong> esercitare la propria attività interpretativa.<br />
In un certo senso, tutto il mondo fisico è un grande testo da interpretare:<br />
il compito istituzionale <strong>degli</strong> scienziati è per l’appunto <strong>di</strong> leggere i fenomeni<br />
naturali come se fossero i segni visibili <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> leggi fisiche da scoprire.<br />
Un testo è insomma una qualunque occorrenza espressiva che qualcuno decide<br />
<strong>di</strong> interpretare come il segno <strong>di</strong> un contenuto ancora da stabilire” 11 .<br />
Strano corto circuito davvero quello <strong>di</strong> chi arriva da strade opposte ad un’unica<br />
grande metafora del taglio del mondo sensibile e della sua conseguente trasformazione<br />
espressiva in un testo. Con tutti i problemi che essa comporta: dall’identificazione<br />
<strong>di</strong> piano dell’espressione e mondo sensibile (ad esempio il “mondo intelligibile”<br />
non è un testo, è un contenuto); fino a questa idea propria del pensiero magico, per<br />
cui, nel momento in cui l’attività interpretativa propria del <strong>semio</strong>tico si esercita<br />
sul mondo, essa lo trasforma in mana testuale che non smette <strong>di</strong> circolare senza<br />
interruzione, in<strong>di</strong>pendentemente dal supporto che lo incarna (la “zuppa al pesto”<br />
come testo, ad esempio). Un testo è una qualsiasi porzione sensibile correlata a un<br />
contenuto, così che per Marrone (2001) basta ad esempio un piano dell’espressione<br />
e un piano del contenuto a rendere qualsiasi cosa un testo.<br />
Allo statuto oramai poco più che metaforico <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica come <strong>di</strong>sciplina<br />
dei testi, opponiamo allora l’idea <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica come fabbrica, come<br />
10 Per un accostamento tra le idee <strong>di</strong> Ginzburg e quelle <strong>di</strong> Peirce, si veda Fabbrichesi Leo, 2004.<br />
11 Ci pare che la <strong>semio</strong>tica interpretativa <strong>di</strong> Eco, sebbene abbia certamente tenuto insieme testo e mondo<br />
all’interno <strong>di</strong> un para<strong>di</strong>gma <strong>semio</strong>tico inferenziale, non abbia mai abbracciato questa idea, nemmeno<br />
quando la affrontava <strong>di</strong>rettamente come nei Limiti dell’interpretazione. Di sicuro il suo approccio<br />
generale è esattamente quello opposto: si veda più avanti la teoria dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> produzione segnica del<br />
Trattato <strong>di</strong> <strong>semio</strong>tica generale.<br />
133
teoria incarnata dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> produzione <strong>di</strong> funzioni <strong>semio</strong>tiche interpretanti,<br />
e vedremo come questa strada si riveli molto più feconda proprio nell’analisi,<br />
dal momento che essa consente <strong>di</strong> costruire le categorie <strong>semio</strong>tiche localmente,<br />
tagliandole sull’oggetto in questione, in funzione del piano <strong>di</strong>sciplinare in cui<br />
ci si installa.<br />
Non pare allora andare in questa <strong>di</strong>rezione la recente sostituzione fontanilliana<br />
del concetto <strong>di</strong> “testo” con quello <strong>di</strong> “<strong>semio</strong>tica-oggetto”, che sembra anzi<br />
rappresentare un passo in<strong>di</strong>etro rispetto alle posizioni sostenute in Figure del<br />
corpo 12 . Parlare <strong>di</strong> “<strong>semio</strong>tiche-oggetto” serve infatti senz’altro a liberarci della<br />
metafora del testo, nel senso che una zuppa al pesto non sembra più essere un<br />
testo, così come non lo sembra più essere il gustarsi un sigaro, né tanto meno<br />
il “reale” che la socio<strong>semio</strong>tica si assegna come oggetto (cfr. Fontanille 2005:<br />
1). E tuttavia, a livello teoretico ed analitico, questa sostituzione non pare però<br />
mo<strong>di</strong>ficare le carte in tavola, visto che una <strong>semio</strong>tica-oggetto non sembra essere<br />
altro che una relazione che associa un’espressione a un contenuto:<br />
Questa relazione che associa un piano dell’espressione e un piano<br />
del contenuto è il minimo richiesto perchè si possa trattare qualsivoglia<br />
fenomeno, ivi compresa una strategia o una forma <strong>di</strong> vita, come una<br />
“<strong>semio</strong>tica-oggetto” (Fontanille 2005: 12).<br />
E questa è esattamente la stessa definizione che Landowski, Marrone, Pisanty<br />
e Pellerey davano del testo. Non ci si esprime più metaforicamente, ma l’essenziale<br />
non cambia nella sostanza. Perché, ed è esattamente questo il punto<br />
fondamentale, la funzione <strong>semio</strong>tica non è mai un punto <strong>di</strong> partenza, ma è<br />
sempre un effetto che va costruito. Non è cioè vero che la con<strong>di</strong>zione minimale<br />
perché ci sia una <strong>semio</strong>tica-oggetto sia la funzione tra espressione e contenuto,<br />
perché è la funzione stessa che fa problema e va costruita localmente <strong>di</strong> volta<br />
in volta nell’analisi. Un approccio per livelli <strong>di</strong> pertinenza (n, n+1 etc.), com’è<br />
quello proposto recentemente da Fontanille per l’analisi delle pratiche <strong>di</strong><br />
significazione, parte dalla funzione <strong>semio</strong>tica e la presuppone, quando invece<br />
è la funzione <strong>semio</strong>tica stessa a dover essere costruita.<br />
Per comprendere meglio i termini del problema, vale allora senz’altro la pena riprendere<br />
un bell’esempio <strong>di</strong> Giacomo Festi (2003: 192) sulla degustazione del vino:<br />
Rispetto all’impostazione greimasiana tra<strong>di</strong>zionale […] passa la stessa<br />
<strong>di</strong>fferenza che] c’è tra un <strong>semio</strong>logo che stu<strong>di</strong> i <strong>di</strong>scorsi <strong>degli</strong> enologi<br />
al fine <strong>di</strong> categorizzare il mondo dei vini in opposizioni del tipo vino<br />
strutturato VS vino non strutturato (categorie <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica del mondo<br />
naturale secondo Greimas) e un <strong>semio</strong>logo che si impratichisca invece<br />
in degustazione e cerchi <strong>di</strong> capire quali sensazioni vadano in<strong>di</strong>cizzate e<br />
12 Cfr. Fontanille 2004 e il seguito <strong>di</strong> questo lavoro.<br />
134
iconosciute per <strong>di</strong>chiarare se quel vino è o meno strutturato, imparando<br />
lui stesso a riconoscerlo. La seconda opzione, potenzialmente <strong>semio</strong>tica<br />
quanto la prima, considererebbe rilevante il processo <strong>di</strong> negoziazione<br />
tra sensazioni e categorizzazione attesa, cioè tematizzerebbe un piano<br />
generativo dell’espressione con una componente morfo-sintattica.<br />
Concor<strong>di</strong>amo. Io non imparo a nuotare riproducendo sulla sabbia i movimenti<br />
del maestro <strong>di</strong> nuoto o chiedendogli che cosa devo fare, ma imparo quando<br />
immergo tentativamente la materia del mio corpo all’interno della materia <strong>di</strong><br />
una corporeità “altra” a cui mi apro in un incontro, quando il mio corpo combina<br />
alcuni suoi punti singolari con i moti principali dell’onda 13 . Io non imparo ad<br />
essere un buon sommelier stu<strong>di</strong>ando la categorizzazione testuale dei vini, ma<br />
imparo quando la materia della mia lingua <strong>di</strong>viene commensurabile alla materia<br />
del vino e ne in<strong>di</strong>cizza dei formanti can<strong>di</strong>dati a <strong>di</strong>venire l’espressione <strong>di</strong> un<br />
contenuto possibile. In entrambi i casi, il mio corpo deve finire col riuscire ad<br />
abitare il corpo dell’altro, adattandosi localmente alle sue singolarità significanti<br />
(cfr. Fontanille 2004: 214).<br />
Il problema è però come questo possa essere fatto.<br />
5. LA COSTRUZIONE DELLA FUNZIONE SEMIOTICA E L’INSTAU-<br />
RAZIONE DI COMMENSURABILITÀ: SINGOLARITÀ E RATIO.<br />
Secondo Fontanille (2004: 415-6):<br />
per accedere al piano del contenuto si deve innanzi tutto […] <strong>di</strong>simplicare la<br />
maniera in cui le figure dell’espressione prendono forma a partire dal substrato<br />
materiale delle iscrizioni e dal gesto che ve le ha inscritte […]. La <strong>semio</strong>tica<br />
strutturale classica non ha certo ignorato questa <strong>di</strong>mensione […]. Tuttavia, lo<br />
faceva mettendo tra parentesi il carattere corporale sia del substrato materiale<br />
d’iscrizione sia del gesto d’enunciazione. […] La <strong>semio</strong>tica dell’impronta presta<br />
attenzione al modus operan<strong>di</strong> della produzione testuale, così come a quello<br />
dell’interpretazione, dal momento che mette in gioco l’ipotesi che l’interpretazione<br />
sia un’esperienza che consiste nel ritrovare le forme <strong>di</strong> un’altra esperienza<br />
<strong>di</strong> cui non resta che l’impronta (Fontanille 2004: 415-6).<br />
Ora, una <strong>semio</strong>tica interpretativa che prestava attenzione al modus operan<strong>di</strong> della<br />
produzione testuale e in cui l’interpretazione non era altro che la produzione <strong>di</strong><br />
segni interpretanti in funzione dei “vari mo<strong>di</strong> in cui si producono materialmente<br />
oggetti destinati alla funzione segnica” 14 , costituiva il paragrafo 3.6 del Trattato<br />
13 Cfr. Deleuze 1967: 44.<br />
14 Eco 1975: quarta <strong>di</strong> copertina.<br />
135
<strong>di</strong> <strong>semio</strong>tica generale <strong>di</strong> Umberto Eco, sotto il titolo piuttosto programmatico <strong>di</strong><br />
Teoria dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> produzione segnica. Il fatto che la <strong>semio</strong>tica post-generativa<br />
arrivi oggi ad avvertire l’esigenza <strong>di</strong> una teoria che integri una <strong>semio</strong>tica della<br />
materia unitamente al modus operan<strong>di</strong> della produzione testuale non può che farci<br />
piacere, e ci permette così <strong>di</strong> tenere insieme <strong>semio</strong>tica interpretativa e <strong>semio</strong>tica<br />
del corpo in una stretta sintesi <strong>di</strong>sgiuntiva. Tuttavia, il problema è allora come<br />
prestare attenzione a questo modus operan<strong>di</strong> della produzione testuale.<br />
Per quanto ci riguarda, ciascun dominio, ciascun oggetto d’analisi, ciascuna pratica<br />
<strong>di</strong> senso presenta sempre delle singolarità proprie che la <strong>di</strong>fferenziano rispetto<br />
a quelle che sono proprie <strong>di</strong> un altro dominio. Una <strong>semio</strong>tica hjelmslevianamente<br />
adeguata al suo oggetto sarà allora una <strong>semio</strong>tica in grado <strong>di</strong> curvare le proprie<br />
singolarità su quelle dell’oggetto <strong>di</strong> cui si occupa, al fine <strong>di</strong> aprirsi ad un incontro,<br />
come il nuotatore apre i punti sensibili del suo corpo al movimento dell’onda che<br />
sopraggiunge. Al contrario, la <strong>semio</strong>tica ha storicamente sempre operato una serie<br />
<strong>di</strong> operazioni <strong>di</strong> prelevamento sull’oggetto che trattava, al fine <strong>di</strong> omogeneizzarne<br />
la molteplicità alle singolarità del para<strong>di</strong>gma testualista (molteplicità <strong>di</strong> livelli,<br />
strutture profonde, articolazione narrativa etc.); e anche quando ha cercato <strong>di</strong> uscire<br />
da questo para<strong>di</strong>gma, si è sempre comunque fondata sulla funzione <strong>semio</strong>tica e sul<br />
concetto <strong>di</strong> <strong>semio</strong>tica-oggetto, che sono invece esattamente ciò che fa problema<br />
e ciò che deve essere costruito localmente nell’analisi.<br />
Per noi è allora la nozione capitale <strong>di</strong> singolarità a costituire l’oggetto teorico<br />
chiave su cui si fonda la costruzione della funzione <strong>semio</strong>tica stessa e, dunque,<br />
qualsiasi tipo <strong>di</strong> <strong>semio</strong>tica-oggetto.<br />
Per mostrarlo partiremo allora da qualcosa <strong>di</strong> molto concreto: i materiali.<br />
Anche nel caso in cui ci arrivino grezzi e non lavorati, i materiali da un lato si<br />
presentano sempre con una loro forma propria, e dall’altro presentano sempre delle<br />
singolarità, e cioè dei punti in cui succede qualcosa alla loro stessa materialità.<br />
Ad esempio l’acqua ha due singolarità a 0 e 100 gra<strong>di</strong> in cui cambia il suo statuto<br />
stesso <strong>di</strong> materiale passando a stati <strong>di</strong> fase <strong>di</strong>fferenti (da materiale liquido <strong>di</strong>venta<br />
materiale solido - a 0 gra<strong>di</strong> - da materiale liquido <strong>di</strong>venta materiale gassoso - a<br />
100 gra<strong>di</strong> -) e ha altresì una serie <strong>di</strong> ulteriori singolarità riguardanti ad esempio<br />
la sua composizione chimica come combinazione <strong>di</strong> idrogeno e ossigeno.<br />
Ora, il problema della <strong>semio</strong>tica è allora come questi substrati materiali<br />
dotati <strong>di</strong> singolarità fisiche possano <strong>di</strong>ventare <strong>degli</strong> attanti materiali dotati <strong>di</strong><br />
singolarità <strong>semio</strong>tiche, cioè dotati <strong>di</strong> punti in cui succede qualcosa non dal<br />
lato delle loro trasformazioni materiali (ad esempio l’acqua che bolle trova a<br />
100 gra<strong>di</strong> un punto in cui succede qualcosa dal punto <strong>di</strong> vista fisico), bensì da<br />
quello della <strong>di</strong>fferenziazione del senso nella costruzione della funzione <strong>semio</strong>tica<br />
stessa. Il problema è cioè capire come delle figure materiali <strong>di</strong>fferenzino<br />
qualcosa sul piano del contenuto, <strong>di</strong>fferenziandosi a loro volta esse stesse al<br />
fine <strong>di</strong> <strong>di</strong>venire-espressioni <strong>di</strong> certi contenuti mirati. Come nell’esempio del<br />
sommelier, occorre mettere in gioco le materie del corpo e <strong>degli</strong> oggetti al fine<br />
<strong>di</strong> in<strong>di</strong>cizzarne delle porzioni can<strong>di</strong>date a <strong>di</strong>venire espressioni <strong>di</strong> un determinato<br />
contenuto (ad esempio “vino strutturato”).<br />
Si tratta cioè del problema opposto a quello della costruzione <strong>di</strong> un linguaggio pla-<br />
136
stico a partire dalla sospensione <strong>di</strong> contenuti figurativi. Non si tratta infatti <strong>di</strong> capire<br />
come <strong>degli</strong> elementi plastici possano costituire un piano dell’espressione “altro” e<br />
veicolare così contenuti non figurativi, bensì si tratta <strong>di</strong> capire come un substrato<br />
materiale possa essere commensurabile ad un piano del contenuto ancora solamente<br />
mirato e <strong>di</strong>fferenziarsi esso stesso al fine <strong>di</strong> costituirne l’espressione all’interno <strong>di</strong><br />
una funzione <strong>semio</strong>tica. Ora, questo problema <strong>di</strong> commensurabilità, messo in luce<br />
per la prima volta da Umberto Eco nella teoria dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> produzione segnica,<br />
è il problema della ratio. Ratio, traduzione latina del greco logos, significa infatti<br />
rapporto, ma lo significa in un senso molto particolare, dal momento che un rapporto<br />
riconducibile ad una ratio definisce un tipo particolare <strong>di</strong> relazione che presuppone<br />
una commensurabilità tra gli elementi considerati; tanto che, ad esempio in matematica,<br />
i numeri irrazionali, e cioè quelli non riconducibili a ratio, definiscono sì dei<br />
rapporti, ma dei rapporti che sono paradossalmente dei non-rapporti, dal momento<br />
che si instaurano tra elementi che non sono commensurabili tra <strong>di</strong> loro. È come se<br />
gli elementi si accordassero solo all’interno <strong>di</strong> una tensione, <strong>di</strong> un non-accordo,<br />
<strong>di</strong> una dolorosa lacerazione. Vi è sì accordo, ma accordo <strong>di</strong>scordante, armonia<br />
nel dolore <strong>di</strong> una non-proporzione che per essenza rende essa stessa possibile una<br />
proporzione, tanto che la ratio sembra essere qualcosa che emerge sempre da una<br />
non-ratio in cui è possibile ripiombare, nel momento in cui il rapporto smetta <strong>di</strong><br />
essere commensurabile e si esca da un determinato sistema attestato.<br />
Per la teoria dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> produzione segnica <strong>di</strong> Eco (1975: 246-8), esistono allora<br />
due tipi <strong>di</strong> ratio in <strong>semio</strong>tica: la ratio è facilis nel momento in cui un’occorrenza<br />
espressiva si accorda ad un tipo espressivo preesistente; la ratio è invece<br />
<strong>di</strong>fficilis quando non esiste un tipo dell’espressione preformato e l’occorrenza<br />
espressiva viene <strong>di</strong>rettamente correlata al proprio contenuto.<br />
Porre all’insegna <strong>di</strong> una ratio una teoria della produzione segnica significa dunque<br />
fondarla per essenza su <strong>di</strong> una commensurabilità innanzi tutto tra tipo ed occorrenza<br />
espressiva (caso <strong>di</strong> ratio facilis) e poi, in ultima analisi, tra espressione e<br />
contenuto tout court (caso <strong>di</strong> ratio <strong>di</strong>fficilis). E tuttavia quest’operazione, questa<br />
commensurabilità, se pare piuttosto naturale e giustificabile in casi <strong>di</strong> ratio facilis<br />
quali quelli della produzione linguistica, in cui si dà vita ad un’occorrenza<br />
espressiva in funzione <strong>di</strong> un tipo preformato, sembra invece <strong>di</strong>ventare molto più<br />
problematica in casi quali quelli dell’appren<strong>di</strong>mento del nuotatore o dell’in<strong>di</strong>cizzazione<br />
della materia sensibile del sommelier. È infatti esattamente una possibile<br />
commensurabilità che è in gioco e che costituisce la posta stessa <strong>di</strong> quel tipo <strong>di</strong><br />
esperienze. Sono infatti esattamente la materia della mia lingua e la materia del<br />
vino a dover <strong>di</strong>venire commensurabili nell’incontro con un altro da me che io non<br />
conosco e che sto cercando <strong>di</strong> imparare a gestire (e non è affatto detto che io ce la<br />
faccia, infatti non tutti siamo dei bravi sommelier). È esattamente la materia della<br />
mia lingua a contatto con l’alterità della materia del vino a doversi <strong>semio</strong>tizzare al<br />
fine <strong>di</strong> in<strong>di</strong>cizzare formanti corporali (sensazioni gustative ad esempio) che si can<strong>di</strong><strong>di</strong>no<br />
a <strong>di</strong>venire espressioni commensurabili per un determinato contenuto (vino<br />
strutturato, ad esempio). Ed è esattamente su questa possibile commensurabilità<br />
137
tra la materia del mio corpo e la materia dell’oggetto, ed in seguito tra la materia<br />
in<strong>di</strong>cizzata come possibile espressione <strong>di</strong> un possibile contenuto, che si fonda la<br />
possibilità stessa della costruzione <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica-oggetto. Nella produzione<br />
<strong>semio</strong>tica, la ratio è infatti spesso un qualcosa che va costruito localmente e che<br />
non si ritrova <strong>di</strong>sponibile in un tipo preformato.<br />
Il concetto <strong>di</strong> ratio <strong>di</strong>venta allora capitale per una <strong>semio</strong>tica che desideri coniugare<br />
le prerogative <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica dell’impronta e <strong>di</strong> una teoria dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> produzione<br />
segnica, al fine da uscire dalle impasses <strong>di</strong> una sterile prospettiva puramente<br />
testualista. Esso interviene infatti in almeno tre fasi <strong>di</strong>stinte: 1) Tra soma e soma,<br />
ad esempio nell’appren<strong>di</strong>mento del nuotatore o nella pratica <strong>di</strong> degustazione del<br />
vino come incontro tra singolarità materiali, punti singolari somatici che occorre<br />
rendere commensurabili nell’incontro con una materialità “altra”. 2) Tra sema e<br />
soma nella pertinentizzazione <strong>di</strong> una materia corporale che deve essere in<strong>di</strong>cizzata<br />
al fine <strong>di</strong> <strong>di</strong>venire l’espressione <strong>di</strong> un contenuto semico mirato (problema <strong>di</strong> quali<br />
sono le sensazioni che possono <strong>di</strong>venire espressione del contenuto “vino strutturato”,<br />
ad esempio). 3) Tra espressione e contenuto nella produzione segnica che<br />
installa la funzione tra le due facce del foglio <strong>di</strong> carta saussuriano.<br />
È allora ben visibile come il problema non sia quello <strong>di</strong> riconoscere un insieme <strong>di</strong><br />
opposizioni semantiche testualizzate o un insieme <strong>di</strong> effetti <strong>di</strong> senso, bensì quello<br />
<strong>di</strong> adeguare la materia del mio corpo alla materia dell’oggetto, <strong>di</strong> coniugare le<br />
reciproche singolarità al fine <strong>di</strong> instaurare una ratio, e cioè una commensurabilità<br />
tra soma e soma, tra sema e soma e tra espressione e contenuto. Questa commensurabilità<br />
si incarna allora in una materia che si fa espressione, <strong>semio</strong>tizzando la<br />
sua corporalità in funzione <strong>di</strong> un contenuto mirato con cui si instaura una commensurabilità<br />
che non esiste come <strong>semio</strong>tica-oggetto prima dell’istituzione <strong>di</strong> una<br />
ratio. Commensurabilità tra le singolarità materiali dunque, come nell’esempio<br />
del nuotatore o <strong>di</strong> chi tenta <strong>di</strong> impratichirsi nella degustazione del vino, ma anche<br />
commensurabilità tra sema e soma nel momento in cui si scommette che le<br />
singolarità materiali precedentemente in<strong>di</strong>cizzate <strong>di</strong>fferenzino qualcosa sul piano<br />
del contenuto, <strong>di</strong>fferenziandosi a loro volta loro esse stesse al fine <strong>di</strong> <strong>di</strong>venire<br />
espressioni <strong>di</strong> certi contenuti mirati. Ed infine commensurabilità tra espressione<br />
e contenuto all’interno della produzione della funzione <strong>semio</strong>tica, in cui la prassi<br />
enunciazionale lavora per produrre senso sempre contemporaneamente sui due<br />
piani, in una <strong>semio</strong>si che funziona ora come una fabbrica che produce senso e<br />
non più come un teatro che lo mette in scena leggendolo nei testi.<br />
6. ANTILOGOS E SEMIOTICA INTERPRETATIVA.<br />
Possiamo allora <strong>di</strong>re che là dove la <strong>semio</strong>tica si è sviluppata definendo un<br />
livello omogeneo, testo o <strong>semio</strong>tica-oggetto, in cui gli elementi propriamente<br />
<strong>semio</strong>tici si scambiavano solamente con elementi simili interni al proprio<br />
sistema, in funzione della seconda accezione del valore saussuriano; ciò che<br />
138
il concetto stesso <strong>di</strong> ratio ci insegna è l’istituzione <strong>di</strong> commensurabilità locali<br />
in cui i valori <strong>semio</strong>tici <strong>di</strong>vengono tali solamente scambiandosi anche con un<br />
fuori, “fuori” con cui essi si determinano reciprocamente in modo puramente<br />
privativo e <strong>di</strong>fferenziale. È solamente in questo modo che essi <strong>di</strong>vengono dei<br />
valori <strong>semio</strong>tici (per esempio, una “<strong>semio</strong>tica-oggetto”). Questo comporta allora<br />
una <strong>di</strong>fferenza costitutiva proprio nel modo <strong>di</strong> prestare attenzione a ciò che<br />
Fontanille definiva il modus operan<strong>di</strong> della produzione testuale, oltre che nel<br />
modo in cui la <strong>semio</strong>tica tratta i <strong>di</strong>fferenti oggetti che il para<strong>di</strong>gma testualista<br />
omogeneizzava tutti sotto il concetto metaforico <strong>di</strong> “testo”. Leggiamo allora<br />
questo bel passo <strong>di</strong> Paolo Fabbri (1998: 101, 104):<br />
La vecchia <strong>semio</strong>tica <strong>di</strong>videva i vari linguaggi secondo i vari canali, le<br />
varie sostanze dell’espressione: c’erano dunque il segno visivo, il segno<br />
acustico, il segno cinematografico, il segno televisivo, il segno gestuale<br />
etc. Il problema della <strong>semio</strong>tica attuale è invece quello <strong>di</strong> sostituire a<br />
queste <strong>di</strong>visioni per sostanze delle <strong>di</strong>visioni per forme organizzative,<br />
per <strong>di</strong>agrammi comuni. (...) Faccio l’esempio […] della spazialità. È<br />
molto probabile che i modelli fondamentali del linguaggio siano <strong>di</strong> tipo<br />
spaziale […]. Non è possibile confrontare parole e sillabe, da un lato,<br />
con architravi e colonne, dall’altro; è possibile invece paragonare le<br />
forme spaziali usate dalla semantica linguistica con quelle prese in carico<br />
dalla semantica architettonica. In questo modo, architettura e linguaggio<br />
<strong>di</strong>ventano traducibili.<br />
Là dove la <strong>semio</strong>tica dell’impronta fontanilliana si proponeva per esempio <strong>di</strong> “<strong>di</strong>fferenziare<br />
le impronte fotografiche (il cui vettore è un corpo luminoso) da quelle<br />
pittoriche (il cui vettore è un corpo in movimento)” 15 ; Fabbri, con questa sua bella<br />
e con<strong>di</strong>visibile idea, pone al centro stesso della “nuova <strong>semio</strong>tica” l’interpretazione<br />
come costruzione <strong>di</strong> commensurabilità locali tra elementi eterogenei appartenenti<br />
a domini <strong>di</strong>fferenti. Questa centralità della trasduzione, del trasporto tra un dominio<br />
ed un altro, significa innanzi tutto prendere finalmente in considerazione il processo<br />
genetico <strong>di</strong> traducibilità, o <strong>di</strong> instaurazione <strong>di</strong> commensurabilità (ratio). È infatti<br />
esclusivamente il porre al centro questo processo che porta ad una <strong>di</strong>stinzione dei<br />
sistemi <strong>semio</strong>tici non più fondata su <strong>di</strong>visioni per sostanze, bensì su <strong>di</strong>agrammi,<br />
e cioè ad una <strong>di</strong>stinzione fondata su forme <strong>di</strong> relazione comuni che concatenano<br />
sistemi eterogenei che restano comunque eterogenei, pur potendo venire localmente<br />
tradotti l’uno nell’altro (linguaggio/architettura secondo l’esempio <strong>di</strong> Fabbri).<br />
L’impresa della <strong>semio</strong>tica non consiste minimamente nella costruzione del<br />
suo micro-metalinguaggio da camera da offrire alle altre <strong>di</strong>scipline, come voleva<br />
Greimas (1970), bensì consiste nell’allacciare brandelli del linguaggio dell’altro,<br />
nel concatenarli e nel garantirne propriamente una traducibilità e una commensurabilità<br />
locale, che è quella propria dell’interpres. Data la molteplicità eterogenea<br />
15 Fontanille 2004: 416.<br />
139
della vita vera della significazione, la <strong>semio</strong>tica non riporta questa molteplicità<br />
all’unità omogenea delle sue categorie, bensì costruisce concatenamenti locali<br />
che consentono <strong>di</strong> tradurre da un dominio <strong>di</strong>sciplinare ad un altro. È soltanto<br />
in questo modo che essa può svolgere in seno alle scienze umane il ruolo che<br />
Hjelmslev attribuiva alla lingua, e cioè quello <strong>di</strong> assicurare la traducibilità tra<br />
gli altri sistemi 16 . Ma assicurare la traducibilità tra sistemi altri implica costruire<br />
commensurabilità locali trasducendo elementi eterogenei da un dominio ad un<br />
altro, in funzione della prima accezione del valore saussuriano, nella quale i<br />
valori si scambiano sempre con un fuori. Assicurare la traducibilità tra sistemi<br />
altri, federare le scienze della cultura come vuole ad esempio Rastier (2003a),<br />
implica per essenza questa sintesi <strong>di</strong>sgiuntiva dell’eterogeneo, e non un riportare<br />
la molteplicità viva delle pratiche della significazione in un dentro omogeneo,<br />
“mana” o testo, in cui raccoglierne le proprietà comuni.<br />
Proprio per questo la <strong>semio</strong>tica è per noi un antilogos. Com’è noto, articolare<br />
il logos significa infatti “raccogliere o raccogliersi, or<strong>di</strong>nare o legare, <strong>di</strong>videre e<br />
mettere insieme quanto si ap-prende in modo sparso” (Bodei 1997: 75). Logos<br />
è infatti la sostantivazione <strong>di</strong> legein (raccogliere). In italiano, la ra<strong>di</strong>ce “leg-”<br />
si è conservata in “legume”, ed è sufficiente pensare proprio alla struttura del<br />
legume per capire che cosa significhi articolare il logos: <strong>di</strong>versi frutti sparsi che<br />
con<strong>di</strong>vidono proprietà vengono raccolti sotto un unico baccello. Si è articolato il<br />
logos quando una molteplicità viene raccolta sotto una <strong>di</strong>mensione supplementare<br />
d’unità che pretende <strong>di</strong> definire gli elementi a cui è comune (il “mana” testuale<br />
ad esempio); oppure quando qualcosa che si manifesta viene rimandato ad una<br />
<strong>di</strong>mensione profonda in cui si troverebbe organizzato “anteriormente alla sua<br />
manifestazione” (Greimas 1970: 168). Non raccogliendo gli oggetti che si manifestano<br />
sotto un baccello comune che li omogeneizzerebbe e non articolandoli<br />
in una struttura profonda che ne rappresenterebbe sempre una <strong>di</strong>mensione superiore,<br />
la <strong>semio</strong>tica interpretativa si propone come un antilogos. Essa costruisce<br />
commensurabilità locali e rende traducibili sistemi eterogenei senza con questo<br />
raccoglierne le proprietà comuni sotto una <strong>di</strong>mensione superiori <strong>di</strong> baccello.<br />
Per questo per noi la <strong>semio</strong>tica è un antilogos, là dove il testo è invece sempre<br />
stato il legume della <strong>semio</strong>tica, il baccello comune sotto cui essa ha sempre<br />
raccolto i suoi frutti sparsi, il “mana” leguminoso <strong>di</strong> cui la vita vera della significazione<br />
era solo un supporto. E questo era assolutamente evidente ad esempio<br />
in Greimas, nella cui zuppa al pesto c’erano un chilo <strong>di</strong> fagioli freschi ancora<br />
da sgusciare e 350 grammi <strong>di</strong> fagiolini 17 . Non sono pochi.<br />
16 Cfr. Fontanille e Zilberberg 1998.<br />
17 Cfr. Greimas 1983: 151.<br />
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1974: 168-182 (tr. it. Le ragioni del testo, Bruno Mondadori, Milano, 2003: 7-27).<br />
Tore, Gian Maria<br />
2005 “Le texte en question”, in E/C, rivista online dell’AISS, http://www.associazione<strong>semio</strong>tica.<br />
it/ec/pdf/tore_08_06_05.pdf<br />
Zilberberg, Claude<br />
1983 Raison et poétique du sens, PUF, Paris.<br />
142
IMMANENCE ET PRATIQUE. QUELQUES<br />
RÉFLEXIONS SUR LA DIALECTIQUE DU SENS<br />
Jean-François Bordron<br />
Le “postulat d’immanence”, tel que l’a formulé Hjelmslev a toujours été reçu<br />
avec une certaine ambivalence. On lui accorde volontiers d’être à la source<br />
d’une grande rigueur et donc d’une certaine efficacité descriptive et explicative.<br />
Étu<strong>di</strong>er une sémiotique “en elle-même et pour elle-même” engage presque<br />
nécessairement une conception systématique de cette sémiotique conforme à<br />
la définition de la structure comme “système de dépendances internes”. On<br />
se représente alors une sémiotique comme un vaste jeu dont il faut découvrir<br />
les règles sans se soucier au fond de savoir comment il serait en fait possible<br />
de jouer. Il y a le jeu mais qu’en est-il de l’acte de jouer? Ainsi s’introduit la<br />
question de la “pratique” que l’on suppose assez généralement mettre en crise<br />
le postulat d’immanence et sans doute quelques-unes de ses conséquences<br />
prochaines. Je me propose d’examiner d’abord la logique exacte de cette objection,<br />
ce qu’elle présuppose, et d’essayer ensuite de montrer qu’en elle-même<br />
la notion de pratique n’oblige pas à renoncer au principe d’immanence mais,<br />
au contraire, invite à en étendre le champ d’application.<br />
143
La critique du principe d’immanence est un lieu commun des <strong>di</strong>sciplines<br />
qui reven<strong>di</strong>quent l’étude de “positivités” existant antérieurement aux actes qui<br />
les constituent en objets de connaissance ou de pratique. Si de telles entités<br />
existent indépendamment des sémiotiques qui les informent, il paraît légitime<br />
de penser que ces structures sémiotiques sont sous la dépendance d’entités qui<br />
apparaissent alors comme leurs “bases réelles”. Ce raisonnement se rencontre<br />
selon des modalités <strong>di</strong>verses dans les sciences humaines qui sont aisément<br />
enclines à rechercher des “bases” ou des “infrastructures”, qu’elles soient<br />
sociales, psychologiques, cognitives, économiques. Même si, au moins dans<br />
la tra<strong>di</strong>tion marxiste, il est admis que le langage ne soit pas une “superstructure”,<br />
il semble <strong>di</strong>fficile de penser que les formes sémiotiques et les pratiques<br />
de toute sorte décrites par ces <strong>di</strong>sciplines, soient de même nature. L’objection<br />
portée au principe d’immanence revient donc à <strong>di</strong>re que les pratiques sociales,<br />
les opérations cognitives, les actions économiques ne sont pas des sémiotiques<br />
mais qu’elles sont cependant nécessaires pour expliquer l’usage que l’on peut<br />
faire de celles-ci. Un exemple intéressant de cette attitude d’esprit nous est<br />
fourni par Pierre Bour<strong>di</strong>eu dans son livre précisément nommé Le sens pratique.<br />
Dans ce texte, l’auteur engage une <strong>di</strong>alectique subtile qui nous intéresse<br />
au plus haut point car elle concerne le rapport des systèmes symboliques 1 à<br />
la pratique. Il nous semble que le passage suivant résume assez nettement sa<br />
position épistémologique:<br />
“L’objectivisme constitue le monde social comme un spectacle offert à<br />
un observateur qui prend “un point de vue” sur l’action et qui, important<br />
dans l’objet les principes de sa relation à l’objet, fait comme s’il était<br />
destiné à la seule connaissance et si toutes les interactions s’y réduisaient<br />
à des échanges symboliques. Ce point de vue est celui que l’on prend à<br />
partir des positions élevées de la structure sociale d’où le monde social se<br />
donne comme une représentation – au sens de la philosophie idéaliste,<br />
mais aussi de la peinture et du théâtre – et d’où les pratiques ne sont que<br />
rôles de théâtre, exécutions de<br />
partitions ou applications de plans. La théorie de la pratique rappelle,<br />
contre le matérialisme positiviste, que les objets de connaissance sont<br />
construits, et non passivement enregistrés, et, contre l’idéalisme intellectualiste,<br />
que le principe de cette construction est le système des <strong>di</strong>spositions<br />
structurées et structurantes qui se constituent dans la pratique et qui est<br />
toujours orientée vers des fonctions pratiques.” 2<br />
1 La notion de système symbolique désigne pour nous les sémiotiques pour lesquelles on n’envisage pas<br />
les <strong>di</strong>mensions iconique et in<strong>di</strong>cielle (ce qui ne veut pas <strong>di</strong>re qu’elle ne soient pas présentes). Dans ce<br />
texte je n’envisagerai la pratique que dans ses rapports à des systèmes symboliques pris en ce sens et<br />
laisserai de côte la pratique des sémiotiques iconique et, à une exception près, celle des sémiotiques<br />
in<strong>di</strong>cielles.<br />
144
Ce texte met clairement en place deux attitudes opposées, l’une consistant<br />
à croire à l’existence des objets de connaissance avant leur élaboration<br />
théorique (matérialisme positiviste) et l’autre (l’idéalisme intellectualiste)<br />
qui semble ignorer que l’existence sociale n’est pas un spectacle ou un<br />
pur et simple système symbolique, mais le lieu d’une <strong>di</strong>alectique pratique.<br />
L’enjeu du débat porte sur les places respectives qu’il faut attribuer aux<br />
structures symboliques et à la pratique, ce qui est précisément notre sujet.<br />
On remarquera que Pierre Bour<strong>di</strong>eu ne tient pas simplement à éviter deux<br />
affirmations également dogmatiques mais suggère aussi que l’une au moins<br />
de ces affirmations n’est pas seulement une thèse, <strong>di</strong>scutable comme toutes<br />
les autres thèses, mais la conséquence d’une attitude de classe qui consiste<br />
à voir dans la société une scène ou un théâtre conformément à un habitus<br />
hérité de cette même position sociale. En d’autres termes, le recours à la<br />
pratique, ici la pratique sociale, n’est pas seulement une solution <strong>di</strong>alectique<br />
pour éviter deux erreurs contraires mais a aussi pour fonction de désigner,<br />
et même de dénoncer, la cause de ces erreurs. Ne faut-il pas pour que cela<br />
soit possible, pour que l’on puisse déduire d’une conception théorique la<br />
position sociale qui en serait la source et la raison d’être, et serait en outre<br />
condamnable, que soit présupposé un substrat social pratique en réalité<br />
imperméable à toute <strong>di</strong>alectique? La <strong>di</strong>fficulté est de fait délicate à cerner<br />
car elle repose sur l’opacité même du terme de “pratique”. On peut voir<br />
une manifestation de cette <strong>di</strong>fficulté dans la dernière phrase citée où deux<br />
sens <strong>di</strong>stincts du mot “pratique” sont étrangement à l’œuvre. Il y a d’abord<br />
la “pratique” qui est le milieu dans lequel se constituent des <strong>di</strong>spositions<br />
“structurées et structurantes”. Le sens de “pratique” est dans ce cas clairement<br />
<strong>di</strong>alectique puisqu’il s’agit au fond de comprendre comment des<br />
actes, dépendant nécessairement de structurations préexistantes, sont euxmêmes<br />
causes de structurations nouvelles. Mais il y a aussi l’affirmation<br />
selon laquelle ce système <strong>di</strong>alectique est lui-même “toujours orienté vers<br />
la pratique”. Le terme “pratique” fait alors fonction de pré<strong>di</strong>cat à valeur<br />
éternelle (“toujours”) exprimant une propriété essentielle de toute action<br />
sociale, ce qui semble le contraire d’un mouvement <strong>di</strong>alectique. Si la<br />
pratique est une <strong>di</strong>alectique, il y a manifestement, sous-jacente à elle, un<br />
substrat qu’il faut bien <strong>di</strong>re inanalysable. L’auteur est d’ailleurs le premier<br />
à le souligner en ces termes:<br />
“L’idée de logique pratique, logique en soi, sans réflexion consciente ni<br />
contrôle logique, est une contra<strong>di</strong>ction dans les termes, qui défie la logique<br />
logique. Cette logique paradoxale est celle de toute pratique ou, mieux,<br />
de tout sens pratique: happée par ce dont il s’agit, totalement présente<br />
au présent et aux fonctions pratiques qu’elle y découvre sous la forme<br />
2 Pierre Bour<strong>di</strong>eu (1980, p. 87).<br />
145
de potentialités objectives, la pratique exclut le retour sur soi (c’est-à-<strong>di</strong>re<br />
sur le passé), ignorant les principes qui la commandent et les possibilités<br />
qu’elle enferme et qu’elle ne peut découvrir qu’en les agissant, c’est-à-<strong>di</strong>re<br />
en les déployant dans le temps 3 .”<br />
Ce texte montre lumineusement que derrière l’impossibilité affirmée d’une<br />
logique pratique, au sens strict de logique, se cachent les questions entremêlées<br />
de la présence, du temps présent et de sa propriété essentielle d’être le seul à<br />
être perçu. Derrière, ou sous-jacente à la pratique comme <strong>di</strong>alectique se trouve<br />
la pratique pathique, en elle-même mystérieuse mais susceptible de se déployer<br />
dans un agir.<br />
Prenons un exemple. Dans son analyse des mythes et surtout dans celle des<br />
structures de parentés, Pierre Bour<strong>di</strong>eu fait valoir, au-delà des structures symboliques<br />
telles que Lévi-Strauss a pu les décrire, l’importance de contraintes<br />
<strong>di</strong>verses que l’on peut regrouper sous le registre des “pratiques sociales” dont<br />
le concept d’habitus tente de comprendre les effets comportementaux. Citons<br />
un passage parmi beaucoup d’autres déployant le même thème:<br />
“Réagir, comme le fait Lévi-Strauss, contre les lectures externes qui<br />
jettent le mythe dans la “stupi<strong>di</strong>té primitive” en rapportant <strong>di</strong>rectement<br />
les structures des systèmes symboliques aux structures sociales ne doit<br />
pas conduire à oublier que les actions magiques ou religieuses sont<br />
fondamentalement “mondaines”, comme <strong>di</strong>t Weber, et que, toutes<br />
entières dominées par le souci d’assurer la réussite de la production et<br />
de la reproduction, bref la survie, elles sont orientées vers les fins les<br />
plus dramatiquement pratiques, vitales et urgentes: leur extraor<strong>di</strong>naire<br />
ambiguïté tient au fait qu’elles mettent au service des fins tragiquement<br />
réelles et totalement irréalistes qui s’engendrent en situation de détresse<br />
(surtout collective), comme le désir de triompher de la mort ou du malheur,<br />
une logique pratique, produite en dehors de toute intention consciente,<br />
par un corps et une langue, structurés et structurants, générateurs automatiques<br />
d’actes symboliques 4 .”<br />
De même, en ce qui concerne plus spécifiquement les structures de parentés:<br />
“Rappeler que les relations de parenté sont quelque chose que l’on<br />
fait et dont on fait quelque chose, ce n’est pas seulement, comme<br />
les taxinomies en vigueur pourraient le faire croire, substituer une interprétation<br />
“fonctionnaliste” à une interprétation “structuraliste”; c’est<br />
mettre ra<strong>di</strong>calement en question la théorie implicite de la pratique qui<br />
3 Opus cité p.154.<br />
4 Opus cité p.160.<br />
146
porte la tra<strong>di</strong>tion ethnologique à appréhender les relations de parenté<br />
“sous forme d’objet ou d’intuition”, comme <strong>di</strong>t Marx, plutôt que sous la<br />
forme des pratiques qui les produisent, les reproduisent ou les utilisent<br />
par référence à des fonctions nécessairement pratiques. Si tout ce qui<br />
touche à la famille n’était pas entouré de dénégation, il ne serait pas<br />
besoin de rappeler que les relations entre ascendants et descendants<br />
elles-mêmes n’existent et ne subsistent qu’au prix d’un travail incessant<br />
d’entretien et qu’il y a une économie des échanges matériels et symboliques<br />
entre les générations. Quant aux relations d’alliance, c’est<br />
seulement lorsqu’on les enregistre comme fait accompli, à la façon de<br />
l’ethnologue qui établit une généalogie, que l’on peut oublier qu’elles<br />
sont le produit de stratégies orientées en vue de la satisfaction d’intérêts<br />
matériels et symboliques et organisées par référence à un type déterminé<br />
de con<strong>di</strong>tions économiques et sociales 5 .”<br />
Ces quelques citations étaient nécessaires pour saisir le lieu exact où la<br />
notion de pratique permet de porter une objection au principe d’immanence.<br />
Si l’on pense aux structures de parenté, que l’on peut considérer comme un<br />
bon exemple de structures symboliques (ou sémiotiques), il est clair que<br />
beaucoup de contingences <strong>di</strong>verses influent sur leur usage social, de telle<br />
sorte que leur simple étude “en immanence” risque de laisser dans l’ombre<br />
une part essentielle de leur réalité. Jusqu’à ce point, l’objection au principe<br />
d’immanence semble porter. On ne peut cependant s’empêcher de remarquer<br />
que le saut, considérable du point de vue logique -Pierre Bour<strong>di</strong>eu le<br />
remarque lui-même- entre le symbolique et le pratique laisse dans l’ombre<br />
le fait que les pratiques, en particulier les pratiques économiques, peuvent<br />
être aussi considérées comme relevant de systèmes symboliques. Les règles<br />
qui gouvernent implicitement les actions économiques des membres<br />
d’une société ont tout autant de droit à prétendre être décrites comme des<br />
systèmes symboliques que les règles régissant les relations d’alliance, de<br />
filiation et de consanguinité en quoi consistent les structures de parentés.<br />
On <strong>di</strong>ra sans doute que cela ne fait que déporter d’une étape le recours à<br />
une instance pratique, voire “tragiquement pratique” comme le <strong>di</strong>t Pierre<br />
Bour<strong>di</strong>eu. Mais on reconnaîtra que, le même raisonnement pouvant être itéré<br />
autant de fois qu’il est nécessaire, l’instance pratique semble se dérober à<br />
nous ou, tout au moins, ne pas vouloir se présenter comme un au-delà de<br />
l’immanence mais plutôt comme une succession de plans d’immanence<br />
articulés entre eux.<br />
Une objection sérieuse reste cependant à prendre en considération. On <strong>di</strong>ra<br />
en effet qu’aussi loin que l’on veuille reculer le moment où il devient nécessaire<br />
de faire appel à une instance pratique, il n’en demeure pas moins que ce<br />
5 Opus cité p. 280.<br />
147
moment finit toujours par devenir inéluctable. Rappelons, pour que le problème<br />
soit clair, que nous ne <strong>di</strong>scutons pas le fait qu’il ait une <strong>di</strong>mension pratique de<br />
notre expérience, mais le fait que l’on doive faire appel, pour l’expliquer, à une<br />
instance d’une nature logiquement <strong>di</strong>fférente de celle des systèmes symboliques.<br />
Nous <strong>di</strong>scutons donc le fait qu’il y ait une logique pratique <strong>di</strong>stincte par<br />
essence de la “logique logique” comme le <strong>di</strong>t Pierre Bour<strong>di</strong>eu. Dans l’exemple<br />
précédent doit-on considérer que l’intérêt économique, incontestablement actif<br />
dans l’usage des structures de parentés, soit de nature <strong>di</strong>fférente de ces structures?<br />
Nous avons vu que l’on peut considérer les structures économiques comme<br />
étant d’une nature comparable aux structures de parenté. Mais qu’en est-il<br />
de l’“intérêt” lui-même comme passion? On dramatise cette notion d’intérêt<br />
en prenant des situations dans lesquelles cet intérêt est vital et s’assimile par<br />
là à une nécessité. Mais beaucoup de passions n’ont-elles pas cette propriété<br />
d’être vitales sans pour autant apparaître d’une nature <strong>di</strong>stincte des systèmes<br />
symboliques? Ainsi, si nous suivons Montesquieu, l’honneur, passion structurante<br />
des régimes monarchiques, n’est-il pas ce qu’il est précisément par<br />
ce qu’il est à la fois vital, dans le duel par exemple, et symbolique? L’intérêt,<br />
considéré comme passion structurante des sociétés bourgeoises, est sans doute<br />
encore plus meurtrier que l’honneur des sociétés aristocratiques, et donc encore<br />
plus vital pour celui qui ne s’enrichit pas et peut mourir de misère. Mais l’on<br />
ne peut pour autant <strong>di</strong>ssocier cette passion de l’intérêt de l’organisation symbolique<br />
de ce type de société car elle en est un ressort essentiel. En d’autres<br />
termes, les passions, même en ce qu’elles peuvent avoir de vital, ne relèvent<br />
pas nécessairement d’une autre logique que les systèmes symboliques qui les<br />
actualisent et qu’elles rendent en un sens possibles. Les passions se déploient<br />
à même l’immanence.<br />
Si l’on accepte ce raisonnement, on doit conclure qu’il n’existe pas deux<br />
logiques irréductibles, comme le voudrait Pierre Bour<strong>di</strong>eu, mais une seule<br />
et même logique dont les structures symboliques et celles de la pratique sont<br />
deux composantes in<strong>di</strong>ssociables, deux aspects de la même réalité. Nous<br />
n’avons donc pas à présupposer l’existence d’une instance quelconque en<br />
laquelle viendrait se légitimer la pratique mais à essayer de comprendre<br />
comment s’ordonnent ce qui relève essentiellement du déploiement d’une<br />
force ou d’une puissance (la pratique) et ce qui peut se caractériser comme<br />
le devenir d’une forme (système symbolique).<br />
Il semble cependant que la notion de pratique porte en elle un sens qui<br />
résiste encore à la <strong>di</strong>alectique entre force et forme telle que nous venons de<br />
la suggérer. Ces deux notions gardent une résonance trop générale et trop<br />
théorique pour satisfaire totalement à l’idée de pratique que l’on perçoit<br />
toujours comme in<strong>di</strong>viduelle et concrète. Mais comment <strong>di</strong>re ce qui est in<strong>di</strong>viduel<br />
et concret? Reprenons l’exemple du jeu, si souvent invoqué lorsqu’il<br />
s’agit de langage.<br />
Si un jeu peut être défini comme un ensemble de règles, il n’en demeure<br />
pas moins que savoir jouer ne se résume pas à connaître les règles. On peut<br />
148
même <strong>di</strong>re que cette connaissance est la plupart du temps peu de chose au<br />
regard de la complexité de certains jeux (les échecs par exemple). On <strong>di</strong>ra<br />
dans ce cas que le savoir faire pratique a une importance bien plus grandes<br />
que la connaissance des règles. Mais savoir jouer comporte nécessairement<br />
des éléments tactiques, stratégiques, un certain art de la décision intuitive que<br />
l’on peut espérer formaliser comme des règles relevant de la pratique. Il n’en<br />
reste pas moins que chaque partie, et à l’intérieur de chaque partie, chaque<br />
coup est dépendant de circonstances singulières qui tiennent au caractère des<br />
joueurs, à leur connaissance du jeu, à l’émotion du moment et à tous les aléas<br />
imprévisibles qui font, pour partie, l’intérêt du jeu. On peut de ce point de<br />
vue comparer la rencontre de deux joueurs à celle de deux armées telle que<br />
l’a décrite Clausewitz dans son traité De la guerre 6 . Le moment que nous<br />
cherchons à déterminer et qui échappe à la fois à la stratégie et à la tactique<br />
est traité par Clausewitz dans un chapitre intitulé “La friction en guerre”. Le<br />
terme de “friction” est importé de la mécanique:<br />
“La notion de friction est la seule qui corresponde de manière assez<br />
générale à ce qui <strong>di</strong>stingue la guerre réelle de celle qu’on peut lire<br />
dans les livres. La machine militaire, c’est-à-<strong>di</strong>re l’armée et tout ce qui<br />
en fait partie, est au fond très simple, et paraît par conséquent facile à<br />
manier. Mais il faut se rappeler qu’aucune de ses parties n’est faite d’une<br />
seule pièce, que tout s’y compose d’in<strong>di</strong>vidus, dont chacun conserve<br />
sa propre friction sous tous ses aspects 7 .”<br />
La première cause de friction est donc l’in<strong>di</strong>vidualité. C’est elle qui empêche<br />
de déduire simplement l’action d’une armée de la rigueur de son organisation<br />
interne et le résultat de cette action de la justesse des plans. De même peut-on<br />
voir surgir des phénomènes particuliers:<br />
“Ce frottement excessif que l’on ne peut, comme en mécanique, concentrer<br />
sur quelques points, se trouve donc partout en contact avec<br />
le hasard; il engendre alors des phénomènes imprévisibles, justement<br />
parce qu’ils appartiennent en grande partie au hasard. L’un de ces<br />
hasard est le temps, par exemple. Tantôt le brouillard empêche de<br />
découvrir l’ennemi en temps voulu, un canon de partir au bon moment,<br />
et un message d’atteindre l’officier qui commande. Tantôt la pluie empêche<br />
un bataillon d’arriver, un autre d’arriver en temps voulu parce<br />
qu’au lieu de marcher trois heures, il a peut-être marché huit heures,<br />
la cavalerie de marcher efficacement parce qu’elle enfonce dans le<br />
sol détrempé, etc 8 .”<br />
6 Carl Von Clausewitz, De la guerre, traduction de Camille Rougeron, Paris, Minuit, 1955.<br />
7 Opus cité p.110.<br />
8 Opus cité p.110<br />
149
La friction désigne ici le “contact avec le hasard” dû au nombre illimité des<br />
circonstances particulières. L’in<strong>di</strong>vidualité (telle qu’elle se manifeste par<br />
exemple dans le corps à corps) et le hasard sont presque interdéfinissables tant<br />
il est vrai que l’in<strong>di</strong>vidu, en ce qu’il a d’irréductible, ne peut être que le fait du<br />
hasard et, pour cette même raison, ne peut qu’en engendrer lui-même. Nous<br />
sommes là à la pointe ultime de ce que l’on appelle la pratique, entrelacs de<br />
l’in<strong>di</strong>vidualité et du hasard.<br />
Résumons brièvement les conclusions auxquelles il nous semble être parvenu:<br />
- La pratique ne nous paraît en aucune façon mettre en cause le principe<br />
d’immanence mais, au contraire, comme nous allons le voir, nous pousse à<br />
élargir sont champ d’application. La pratique ne peut se concevoir réellement<br />
hors des formes symboliques, ce qui ne veut pas <strong>di</strong>re qu’elle se confonde avec<br />
elles. On peut, pour l’essentiel, la concevoir comme l’interaction entre deux<br />
formes symboliques <strong>di</strong>stinctes.<br />
- A la limite de tout système symbolique, à son bord extrême, mais aussi<br />
bien à chaque instant de son usage, dans son immanence, la pratique ouvre les<br />
incertitudes conjuguées de l’in<strong>di</strong>vidualité et du hasard. La friction de Clausewitz<br />
n’est rien d’autre que le monde des in<strong>di</strong>ces, par essence incertain, mais<br />
composant le soubassement de la présence.<br />
Il nous faut maintenant <strong>di</strong>re, d’une façon un peu plus formelle, comment<br />
on peut concevoir la pratique et sa place dans un <strong>di</strong>spositif sémiotique. Puis<br />
nous examinerons un cas particulier dans lequel la pratique mo<strong>di</strong>fie, au moins<br />
localement, le système sémiotique lui-même.<br />
Remarquons d’abord que la notion de pratique est relative à un système symbolique.<br />
Il y a une pratique de la langue dans l’effectuation du <strong>di</strong>scours, une pratique<br />
des structures de parenté comme nous venons de le voir avec Pierre Bour<strong>di</strong>eu, une<br />
pratique des structures économiques, des jeux, etc. Cette relativité de la pratique<br />
est double puisque toute pratique dépend à la fois du système symbolique par<br />
rapport auquel elle est pratique mais aussi de celui dans l’immanence dans laquelle<br />
elle se situe. Ainsi la pratique de la langue est régie par la langue elle-même mais<br />
aussi par le système symbolique qui lui sert de scène énonciative (raconter une<br />
histoire, lire des vers, plaider dans un tribunal, etc.), par le choix d’un genre, et<br />
par une multitude de référentiels constituant le champ plus ou moins occasionnel<br />
d’une pratique. Nous cherchons à comprendre comment il est possible de décrire<br />
une pratique en tenant compte de cette double articulation.<br />
Il est possible, en première approximation, de définir une pratique selon un<br />
triple enchaînement. Pour qu’il y ait pratique, il faut qu’une énergie quelconque<br />
soit mise en jeu. Ceci est vrai pour la pratique rhétorique qui demandera<br />
l’énergie d’un orateur, la pratique d’un jeu, et toute forme d’énonciation. Cette<br />
énergie, lorsqu’elle est celle d’un sujet, est mise en forme par un <strong>di</strong>spositif<br />
modal, comme l’a montré Jean-Claude Coquet 9 . Elle suit en outre un parcours<br />
9 Cfr. Coquet (1984, tomo 1).<br />
150
qui a en charge de la <strong>di</strong>stribuer dans le temps et l’espace avec plus ou moins<br />
de durée, d’intensité, de rythme. Cette <strong>di</strong>stribution de l’énergie correspond à<br />
ce que l’on peut appeler le <strong>di</strong>spositif technique de la pratique, au sens où l’on<br />
parle de la technique rhétorique. La technique est alors l’“art du faire”. Enfin,<br />
et c’est le but de cet art, il faut qu’il s’articule avec le système symbolique<br />
dont il est la pratique. Toute la <strong>di</strong>fficulté du problème se concentre sur ce point<br />
d’articulation qu’il nous faut maintenant prendre en considération.<br />
Il peut sembler en effet qu’ainsi décrite, la pratique ne soit pas bien <strong>di</strong>fférente<br />
de ce que l’on pourrait <strong>di</strong>re de n’importe quelle action, en particulier dans un<br />
contexte narratif. On peut décrire une pratique comme des schèmes actantiels<br />
mais l’on sent pourtant que l’on laisse par là échapper une bonne part du problème.<br />
L’histoire racontée et le fait de la raconter, qu’il s’agisse d’un conte ou<br />
de l’histoire des nations, sont deux choses <strong>di</strong>stinctes. Nous avons plus haut<br />
refusé la solution qui consiste à opposer l’histoire racontée et l’histoire comme<br />
pratique réelle et donc la conception de la pratique comme réalité excédant par<br />
nature les contraintes symboliques. Nous cherchons au contraire à montrer que<br />
nous sommes toujours dans l’immanence d’un langage. Mais cela ne doit pas<br />
nous conduire à confondre le langage comme grammaire et le langage comme<br />
action ou, plus exactement, le langage qui donne ses règles aux énoncés et<br />
celui qui les donne à l’effectuation des énoncés. Toute énonciation, quel que<br />
soit le système symbolique que l’on envisage, met ainsi en jeu une dualité entre<br />
deux ordres de règles dont les unes sont des règles de production et les autres<br />
des règles constituantes des énoncés produits. La <strong>di</strong>fficulté, déjà aperçue par<br />
Saussure 10 , consiste à comprendre la <strong>di</strong>alectique qui articule ces deux ordres de<br />
règles. Essayons d’en déterminer quelque éléments avant de préciser la raison<br />
pour laquelle nous parlons de “<strong>di</strong>alectique”.<br />
On reconnaîtra d’abord que la caractéristique la plus apparemment simple,<br />
mais aussi la plus constante, de la pratique est de consister en un ajustement<br />
entre une action, des règles (par exemple celles d’un langage) et des circonstances.<br />
John Searle 11 a théorisé une partie du problème lorsqu’il a parlé de la<br />
“<strong>di</strong>rection d’ajustement” qu’il voyait varier entre le langage et le monde. Tantôt<br />
en effet le langage, lorsqu’il s’agit de décrire ou de théoriser, doit se rendre<br />
le plus possible conforme à ce qu’est le monde (les circonstances), tantôt il<br />
faut rendre le monde conforme à ce qui est <strong>di</strong>t. L’exemple le plus évident de<br />
ce dernier cas est la promesse. Cette remarque de John Searle laisse cependant<br />
10 Dans le chapitre III de la première partie du Cours de linguistique générale, Saussure consacre une<br />
section à l’étude de la “Dualité interne de toutes les sciences opérant sur des valeurs”. Cette dualité<br />
est celle qui oppose, en particulier, la synchronie et la <strong>di</strong>achronie, le système de valeur dans un état de<br />
langue et les règles qui gouvernent l’évolution des langues. Or, même si l’évolution en <strong>di</strong>achronie n’est<br />
pas la même chose que l’effectuation dont nous parlons, elle partage avec elle la propriétés d’être une<br />
action. Il y a toujours dualité entre des règles d’action, qui sont celles d’un travail, et la configuration<br />
interne d’un système, quel qu’il soit.<br />
11 En particulier in John Searle (1972).<br />
151
dans l’ombre l’ajustement entre l’acte d’énonciation et les énoncés porteurs de<br />
signification. Même un acte aussi co<strong>di</strong>fié que la promesse n’est jamais tel que<br />
son intention soit entièrement remplie, et d’une façon parfaitement adéquate,<br />
par l’énoncé résultant. De même, l’énoncé résultant n’exprime jamais l’intention<br />
de l’acte dans une parfaite adéquation et cela malgré toutes les “con<strong>di</strong>tions de<br />
félicité” que l’on a pu inventer. Il en résulte que l’ajustement entre les trois<br />
composantes de la pratique que sont l’action, les règles symboliques et les<br />
circonstances, est la première qualification de la <strong>di</strong>alectique. L’ajustement<br />
n’est qu’une forme pauvre des mécanismes régulateurs qu’il faudrait pouvoir<br />
décrire plus en détail.<br />
Un autre aspect élémentaire mais essentiel de la pratique est qu’elle est le<br />
fait d’acte de natures <strong>di</strong>verses. Il y a une <strong>di</strong>versité pratique au même sens qu’il<br />
y a une polysensorialité. Plusieurs types de pratique sont la plus part du temps<br />
entrelacés. Même s’il est sans doute impossible de faite un inventaire exhaustif<br />
des types d’actes, on peut au moins proposer la classification suivante:<br />
- Il y a les actes qui transforment en quelque façon leur objet soit parce qu’ils<br />
exercent sur lui une certaine force, soit parce qu’ils changent ses con<strong>di</strong>tions<br />
spatiales ou temporelles.Ce sont des actes transformateurs.<br />
- Il y a les actes qui laissent être leur objet. Ce sont des actes contemplatifs.<br />
Les plus évidents sont les actes scopiques (voir, regarder). Mais la plupart<br />
des sens possèdent un usage semblable (écouter, sentir, toucher). Goûter<br />
est, par contre, un acte transformateur.<br />
- On peut enfin <strong>di</strong>stinguer les actes qui ont une certaine autonomie par rapport<br />
à un sujet en ce sens qu’ils semblent s’accomplir seuls, de leur propre<br />
mouvement. Appelons ces actes des automatismes. Le réflexe est un acte<br />
de ce genre, mais aussi les manies, certains rituels.<br />
Cette classification, aussi sommaire soit-elle, a un premier avantage. Elle<br />
montre que la notion duale d’embrayage et de débrayage n’est pas seulement<br />
une notion dynamique mais aussi une notion catégorisante. Il y a des actes<br />
embrayés sur leur objet mais pas nécessairement sur leur sujet (casser un<br />
verre par hasard). Il y a les actes qui, symétriquement, sont embrayés sur<br />
leur sujet mais par sur leur objet (contempler). Les actes embrayés sur le<br />
sujet et l’objet forment un autre ensemble. Les actes sans sujet ni objet sont<br />
en général le propre des choses. Ainsi une lampe qui brûle seule dans la nuit.<br />
Mais les automatismes humains peuvent parfois aller jusqu’à appartenir à<br />
ce groupe (un tic, une posture figée). Il est clair que cette classification ne<br />
concerne que le faire transformateur, car les actes cognitifs ou esthétiques<br />
peuvent être embrayés sur leurs objets sans pour autant les transformer.<br />
Ils sont des actes contemplatifs, pour autant que ces deux termes puissent<br />
aller ensemble.<br />
La pratique peut ainsi être spécifiée selon des catégories issues des <strong>di</strong>fférentes<br />
formes d’embrayages et se décrire en intensité (tensivement) selon les variations<br />
nécessairement progressives et incertaines de l’ajustement.<br />
Une autre propriété essentielle de la pratique est son rythme. Un bon exem-<br />
152
ple de variation rythmique nous est fourni par les arts. On a observé que, selon<br />
les cas, les arts pouvaient se jouer sur un nombre variable de temps. Henri<br />
Gouhier (1989) décrit le théâtre comme un art à deux temps. Dans les arts<br />
à un temps, comme la peinture, l’œuvre vient à l’existence en même temps<br />
qu’elle est créée. Dans les arts à deux temps, comme le théâtre, il ne suffit<br />
pas de créer la pièce, il faut la jouer et la rejouer sans cesse pour la maintenir<br />
dans l’existence. La musique est aussi dans ce cas, du moins la musique<br />
possédant des partitions. On voit en quoi la pratique est concernée par cette<br />
remarque: le théâtre ne comporte pas une seule pratique mais deux <strong>di</strong>sposées<br />
en un certain ordre. Chacune d’elle conduit à un plan d’immanence (la pièce<br />
écrite, la pièce jouée) possédant des propriétés bien <strong>di</strong>stinctes et pouvant embrayer<br />
vers d’autres pratiques (la lecture, le spectacle) sans pour autant faire<br />
<strong>di</strong>sparaître leur mise en séquence canonique (écrire puis jouer). En réalité, les<br />
temps des pratiques artistiques sont bien plus <strong>di</strong>vers que les deux étu<strong>di</strong>és par<br />
H. Gouhier. En architecture, le plan et le dessin sont des étapes antérieures<br />
à la réalisation de l’œuvre qui elle-même pourra être orientée vers des usages<br />
<strong>di</strong>vers. On a ainsi un premier temps de conception (le plan, l’esquisse,<br />
le dessin), un temps de réalisation (le bâtiment), un temps d’utilisation (les<br />
usages possibles et successifs). Il en va quelquefois de même pour l’architecture.<br />
Ainsi Dubuffet avait-il l’habitude de réaliser des statues de petite<br />
taille en polystyrène qui étaient ensuite réalisées en grande taille. On passait<br />
ainsi d’un usage privé à un usage public. On voit ainsi que la conception, la<br />
réalisation, l’exécution, l’usage forment quatre temps ordonnés mais soumis<br />
à des pratiques <strong>di</strong>stinctes et pouvant à chaque instant <strong>di</strong>verger vers des usages<br />
imprévisibles. Il existe une vie livresque de l’architecture qui donne lieu à<br />
des pratiques quasi littéraires comme l’atteste l’œuvre de Ledoux. Une fois<br />
bâtis, les palais deviennent des musées, les entrepôts des galeries, etc. Il est<br />
sans doute prévisible que les temps des arts ou d’autres sémiotiques soient en<br />
réalité beaucoup plus nombreux que la séquence de quatre temps décrite plus<br />
haut. Mais l’important réside dans le schéma lui-même: les temps sont des<br />
plans d’immanence entre lesquels se jouent des pratiques ouvrant elles-mêmes<br />
vers d’autres plans. L’incertitude que Clausewitz met au centre de la pratique<br />
se formalise alors aisément. Il suffit de presque rien en effet pour qu’un dessin<br />
devienne un bâtiment ouvert aux aléas de l’histoire ou reste l’élément d’un<br />
livre, une pièce dans une archive, chacun de ces destins ouvrant d’autres<br />
pratiques encore et d’autres destins. On voit que les sémiotiques constituant<br />
les plans d’immanence, et les pratiques qui mènent de l’un à l’autre de ces<br />
plans, forment un peu comme les nœuds et les arcs d’un réseau, tantôt en<br />
train de se constituer dans les pratiques créatrices, tantôt plus prévisible et<br />
plus contraint lorsqu’il existe des séquences canoniques.<br />
Résumons brièvement les caractéristiques essentielles de la pratique telles<br />
qu’il nous semble les avoir dégagées des réflexions qui précédent.<br />
1 La pratique n’est pas <strong>di</strong>stincte dans son principe d’une sémiotique. Elle est<br />
une sémiotique en acte, c’est-à-<strong>di</strong>re le déploiement d’une force, qui s’exerce<br />
153
sur une sémiotique agie. La sémiotique agie peut être tenue pour le plan<br />
d’expression et la sémiotique en acte le plan du contenu. Nous reviendrons<br />
sur ce point.<br />
2 Deux opérations paraissent fondamentales: l’embrayage / débrayage et<br />
l’ajustement. L’une est catégorisante, l’autre graduelle.<br />
3 Il existe des séquences rythmiques de pratiques. Elles peuvent être décrites<br />
comme engendrant (ou parcourant, selon le cas) un réseau dont les nœuds<br />
serait des plans d’immanence et les arcs des pratiques.<br />
4- Le hasard des pratiques, leur effet de “friction”, peut être décrit comme l’incertitude<br />
quant à leur destin à chaque nœud du réseau. On ne sait jamais si<br />
une musique sera jouée, comment, ni ce qui en résultera.<br />
5- L’image du réseau, bien que commode, est cependant insuffisante car elle<br />
laisse dans l’ombre ce qui est en jeu pour chaque pratique à chaque nœud:<br />
le destin de la valeur. La dualité saussurienne implique que le déploiement<br />
dans le temps, qui est le propre de la pratique, soit en quelque façon aveugle<br />
à ce qu’il produit. Ainsi le développement historique d’une langue,<br />
selon Saussure, ne permet pas de pré<strong>di</strong>re la logique inhérente à un état<br />
synchronique car celui-ci est d’ordre systématique et non historique. Les<br />
exemples que Saussure prend dans l’économie nous ont amené à parler<br />
ailleurs d’“économie du sens”. Mais il vaut mieux sans doute <strong>di</strong>re “<strong>di</strong>alectique<br />
du sens”, expression plus conforme à l’usage. On entendra alors par<br />
<strong>di</strong>alectique le procès et le destin des valeurs.<br />
Cette <strong>di</strong>alectique, comme nous venons de le voir, suppose que la fonction<br />
sémiotique et son déploiement dans le temps, la sémiose, ne soient pas concevables<br />
indépendamment des actes ou pratiques qui l’animent. On peut donc <strong>di</strong>re<br />
que la caractéristique essentielle de la sémiose ainsi comprise est de contenir<br />
en elle son énonciation ou effectuation. Ce que la sémiose exprime, son sens,<br />
est donné par le rapport de son énonciation à ce qu’elle vise. Ainsi le sens d’un<br />
jeu n’est-il rien d’autre que la somme des actes consistant à jouer en tant qu’ils<br />
ont un gain comme horizon d’attente. Si nous reprenons l’exemple de Pierre<br />
Bour<strong>di</strong>eu, le sens des structures de parentés, lorsqu’elles sont soumises à une<br />
stratégie économique ayant pour but un certain intérêt, n’est rien d’autre que la<br />
somme des actes effectués pour satisfaire cette stratégie. Bien sûr, les structures<br />
de parenté n’en perdent pas pour autant leur signification intrinsèque. Mais, cet<br />
exemple le montre clairement, il y a une dualité manifeste entre ces structures<br />
et le sens accompli par la stratégie économique qui est, dans cette hypothèse,<br />
le moteur de leur pratique.<br />
On peut généraliser cette réflexion à toute organisation sémiotique. Un<br />
plan d’expression, quel qu’il soit, contient son énonciation, ainsi que l’horizon<br />
de cette énonciation, au titre de son contenu. La pratique fait ainsi partie<br />
du contenu de l’expression, ce qui ne veut pas <strong>di</strong>re qu’elle soit le tout de ce<br />
contenu. Mais cela explique pourquoi il est légitime de <strong>di</strong>re que la sémiose est<br />
une <strong>di</strong>alectique dans laquelle se joue le destin des valeurs. Le schéma suivant<br />
résume notre propos:<br />
154
Nous allons maintenant nous demander en quel sens il est possible pour<br />
une pratique d’être créatrice. Une chose en effet est de suivre des règles, une<br />
autre d’en créer ou de mo<strong>di</strong>fier celles déjà existantes. Si une sémiotique n’est<br />
pas seulement un code, c’est bien parce qu’elle est capable, par sa pratique, de<br />
créer de nouvelles règles.<br />
Nous prendrons comme exemple l’œuvre de Maine de Biran dont on peut <strong>di</strong>re<br />
qu’elle présente deux aspects <strong>di</strong>stincts mais profondément coordonnés. Biran<br />
a écrit une œuvre philosophique relativement vaste même si elle se présente<br />
comme une succession de livres jamais véritablement achevés, se présentant<br />
plutôt comme les étapes d’une entreprise désespérée. Il a, par ailleurs, écrit un<br />
journal intime, qui n’était sans doute pas destiné à la publication bien qu’un<br />
jugement de cette sorte soit toujours <strong>di</strong>fficile à fonder. C’est probablement le<br />
premier philosophe à avoir écrit un tel journal ou du moins dont un tel journal<br />
nous soit parvenu. Il est sans doute aussi un des premiers écrivains à l’avoir<br />
fait si l’on entend “journal” au sens strict d’une écriture quoti<strong>di</strong>enne (<strong>di</strong>ariste)<br />
non destinée à la publication. Le lien entre ces deux aspects de l’œuvre n’est<br />
pas simple car, même si le journal contient des remarques philosophiques, on<br />
ne peut pas <strong>di</strong>re qu’il s’agisse à proprement parler d’un journal philosophique<br />
comme le sera explicitement le Journal métaphysique de Gabriel Marcel. Il ne<br />
s’agit donc pas d’une extension du genre (ou de l’hyper-genre) philosophique<br />
vers un territoire nouveau mais plutôt, comme nous le verrons, de l’émergence<br />
d’une pratique qui interfère avec le contenu des œuvres philosophiques par son<br />
écriture même beaucoup plus que par les pensées qu’elle engendrerait. Ce n’est<br />
donc pas une “philosophie au quoti<strong>di</strong>en” mais plutôt une pratique quoti<strong>di</strong>enne<br />
se convertissant peu à peu en une éventuelle source d’œuvre philosophique. En<br />
un mot, le journal de Biran nous apparaît comme prémonitoire d’un nouveau<br />
“sujet” de la philosophie, non plus le sujet cartésien mais le sujet existentiel qui<br />
se manifestera chez Kierkegaard ou chez Nietzsche, sujet ouvert à la contingence,<br />
à la passion et aux aléas du corps. Une autre postérité considérable, ne<br />
serait-ce que thématiquement, se rencontre dans les philosophies accordant un<br />
primat à la perception et au corps comme chez Merleau-Ponty ou Michel Henry.<br />
155
Dans le contexte de notre présente recherche, nous essayons de comprendre<br />
comment cette pratique du journal intime s’ajuste au <strong>di</strong>scours philosophique et<br />
laisse prévoir une certaine mo<strong>di</strong>fication du statut de son énonciation.<br />
Il nous faut, ne serait-ce que très brièvement, situer la philosophie de Biran<br />
dans son contexte historique. Le point de départ peut être situé chez Con<strong>di</strong>llac.<br />
Une des questions fondamentales de sa philosophie est de comprendre comment<br />
nos sensations peuvent nous donner un monde extérieur:<br />
“D’un côté toutes nos connaissances viennent des sens; de l’autre, nos<br />
sensations ne sont que des manières d’être. Comment pouvons voir des<br />
objets hors de nous? En effet il semble que nous ne devrions voir que<br />
notre âme mo<strong>di</strong>fiée <strong>di</strong>fféremment 12 .”<br />
La réponse de Con<strong>di</strong>llac est que le sens du toucher est celui qui nous fait percevoir<br />
l’extériorité:<br />
“Or, l’œil, comme l’odorat, l’ouïe et le goût, est un organe qui se borne<br />
à mo<strong>di</strong>fier l’âme. C’est le toucher qui instruit ces sens 13 .”<br />
Destutt de Tracy reconnaîtra qu’en réalité le toucher ne suffit pas à lui seul<br />
pour produire le sentiment d’extériorité mais que c’est dans son mouvement<br />
que réside son efficace. A cela il faut ajouter la résistance de l’objet et l’effort<br />
nécessaire au mouvement. Ainsi se constitue peu à peu un problème dont Biran<br />
héritera. On voit en effet que, même si l’on parvenait à expliquer le sentiment<br />
d’extériorité, l’être subjectif n’en demeurerait pas moins un mystère. Pour<br />
Destutt de Tracy, le moi est l’unité des sensations comme un bal est l’unité des<br />
danseurs. Mais, pour qu’il y ait extériorité, il faut aussi qu’il y ait une volonté<br />
dont le mouvement soit arrêté malgré elle:<br />
“En un mot, quand un être organisé de manière à vouloir et agir sent en<br />
lui une volonté et une action, et en même temps une résistance à cette<br />
action voulue et sentie, il est assuré de son existence et de l’existence de<br />
quelque chose qui n’est pas lui. Action voulue et sentie, d’une part, et<br />
résistance de l’autre, voilà le lien entre notre moi et les autres êtres, entre<br />
les êtres sentant et les êtres sentis 14 .”<br />
Ici naît la question proprement biranienne: comment cet être peut-il s’éprouver<br />
lui-même et pas seulement rencontrer un monde extérieur qui le présuppose?<br />
12 Con<strong>di</strong>llac Traité des sensations, Précis de la deuxième partie, Corpus des philosophes français, Paris,<br />
PUF, 1947.<br />
13 Idem.<br />
14 Destutt de Tracy Eléments d’Idéologie Tome 1, Paris, Vrin, 1970, p.402.<br />
156
Il faut trouver un fait primitif lors duquel la force motrice de la volonté viendrait<br />
rencontrer quelque résistance interne. Là est le point de départ de Biran:<br />
comment comprendre, par delà le problème de l’objectivité, l’émergence<br />
nécessaire d’une subjectivité. Une des thèses essentielle de la philosophie de<br />
Biran est que le moi, le sujet, naît de par la rencontre entre une force motrice<br />
et la résistance musculaire. Le moi n’est pas avant cette rencontre mais après.<br />
Il est toujours de ce fait non pas substantiel mais façonné par la dualité entre<br />
la force et la résistance. Le moi est l’effet d’une rencontre. Comme le <strong>di</strong>ra<br />
Merleau-Ponty (1997):<br />
“Il ne s’agit pas d’une philosophie empiriste qui remplirait la conscience<br />
de fait musculaires, mais d’une philosophie qui reconnaît comme originaire<br />
une certaine anti-thèse, celle du sujet et du terme sur lequel porte<br />
ses initiatives”.<br />
Ou encore:<br />
“Le fait primitif est la conscience d’une relation entre deux termes irréductibles<br />
eux-mêmes”.<br />
Le moi biranien n’est pas une entité substantielle, ni même l’unité des sensations,<br />
comme chez Tracy, mais une dualité qui se constitue à même le corps.<br />
On peut <strong>di</strong>re qu’il est non seulement dual mais qu’il l’est deux fois car s’il est<br />
action et résistance il est aussi spirituel et physique. Selon le point sur lequel<br />
on fait porter l’accent, on peut voir dans Biran un précurseur du positivisme<br />
ou un précurseur du romantisme.<br />
Les textes philosophiques de Biran ont, du point de vue de leur composition,<br />
une facture classique. Il s’agit d’un <strong>di</strong>scours conceptuel qui souvent procède<br />
en <strong>di</strong>scutant des auteurs classiques comme Leibniz, Descartes, Malebranche,<br />
en analysant et en classifiant. etc. Ainsi, pour ne prendre que cet exemple, le<br />
Mémoire sur la décomposition de la pensée se présente comme un vaste projet<br />
d’analyse des facultés humaines, de la sensibilité et des opérations élémentaires<br />
de l’intelligence. Il se situe lui-même dans le cadre d’une <strong>di</strong>scussion avec les<br />
idéologues auxquels il propose, au titre d’une nouvelle étape une “idéologie<br />
subjective”:<br />
“Ces questions sont bien vraiment fondamentales: elles tendent à décider<br />
s’il y a une science métaphysique, ou plutôt une conscience réfléchie de<br />
nos actes <strong>di</strong>stincte de la connaissance des mo<strong>di</strong>fications et des idées<br />
quelconques, dont l’analyse et la classification font l’objet de cette science<br />
universelle connue de nos jours sous le non d’Idéologie et pratiquée,<br />
appliquée sous beaucoup de rapports avec tant de succès par les mêmes<br />
philosophes qui lui ont donné son titre: ce titre dont le seul défaut est d’être<br />
trop général demanderait lieu de demander dans notre but actuel, s’il n’y<br />
157
a pas une idéologie subjective, qui se concentre dans le sein même du<br />
sujet pensant et pénètre les rapports qu’il a avec lui-même dans ses modes<br />
les plus intimes et les actes qui naissent de son propre fond; <strong>di</strong>stincte par<br />
conséquent de l’idéologie objective qui fixe les rapports de dépendance<br />
de l’être sensible dans les <strong>di</strong>verses impressions qu’il reçoit des choses<br />
extérieures, les représentations qu’il s’en fait, etc. 15 ”<br />
La scène philosophique ainsi construite comprend la situation de l’auteur dans<br />
le contexte de son époque (l’Idéologie), le problème central qui s’y trouve traité<br />
(Y a-t-il une connaissance métaphysique du sujet?) et l’apport critique qui sera<br />
sa marque. L’écriture est donc, en apparence du moins, tout à fait académique<br />
comme il convient aux circonstances de son énonciation (il s’agit d’un mémoire<br />
couronné par l’institut en 1805). Mais l’on sait que Biran interrompit la publication<br />
de ce mémoire et que, d’une façon générale, comme l’atteste l’é<strong>di</strong>tion<br />
de ses œuvres que nos venons de citer, il ne parvint jamais à être satisfait de<br />
ses propres textes, les ratura sans cesse et finit par en abandonner plusieurs. Il<br />
y a donc, si l’on considère maintenant les ratures et les innombrables répétitions,<br />
les échecs, une énonciation très particulière qui ne peut se résumer au<br />
cadre académique de l’énonciation telle qu’elle est énoncée. Cette tension<br />
entre l’énonciation comme pratique (l’énonciation énonçante) et l’énonciation<br />
énoncée se trouve redoublée par l’écriture du journal.<br />
Le journal de Biran, si l’on ne tient pas compte des carnets de jeunesse écrits<br />
à l’imitation de Rousseau, débute en 1814. Cette date correspond à la fois à la<br />
fin de l’Empire, si l’on excepte l’épisode des Cent jours, et à un certain tournant<br />
dans ses conceptions philosophiques, marqué en particulier par un retour<br />
à la notion de substance. Même si l’on ne peut déduire de ce point de départ<br />
des conséquences certaines il semble bien que le journal prenne sa source à la<br />
rencontre d’une situation politique (la restauration), à laquelle Biran contribue,<br />
et d’un état particulier de sa pensée. Un des thème les plus constant du journal<br />
est en effet l’impossibilité de penser, aussi bien pour des raisons intimes que<br />
pour des raisons politiques, mondaines, cosmologiques (le mauvais temps, la<br />
chaleur, etc). Le journal, contrairement à l’œuvre philosophique, lie en permanence<br />
plusieurs scènes que presque seul, sans doute, ce genre autorise à mêler.<br />
Il est fréquent de le voir commencer par des considérations abondantes sur le<br />
temps qu’il fait et les conséquences physiologiques qui en résultent. L’ennui<br />
des réunions mondaines mais aussi de ses tâches politiques sont également des<br />
thèmes constants. A cela s’oppose le bonheur éprouvé à Grateloup, son petit<br />
château près de Bergerac, quelques rencontres philosophiques avec Ampère<br />
par exemple ou le jeune Victor Cousin. La scène du journal est donc multiple,<br />
15 Maine de Biran, Mémoire sur la décomposition de la pensée, Paris, Vrin, 1988, Tome III des Œuvres<br />
é<strong>di</strong>té par François Azouvi, p. 25.<br />
158
eaucoup plus que nous ne pouvons le suggérer en quelques lignes. Les considérations<br />
philosophiques, parfois assez importantes, viennent le plus souvent<br />
à la fin sans qu’un ordre soit suivi de façon manifeste. Le journal offre donc<br />
une <strong>di</strong>versité sans structure apparente dont les problèmes philosophiques sont<br />
des morceaux parmi d’autres. Quels liens exacts, quels déplacements, peut-on<br />
supposer alors entre le journal et les traités philosophiques pour l’essentiel<br />
inachevés?<br />
La première évidence est que le journal et les textes philosophiques ont un<br />
centre de gravité commun. Il s’agit toujours de la vie intérieure de l’esprit dans<br />
tous ses registres (impression, jugement, etc). Mais le journal déploie essentiellement<br />
les empêchements, les contraintes, les impossibilités, tout ce qui,<br />
autour de la pensée comme en son intérieur, la rend incertaine, douloureuse. Le<br />
journal agit ce que les livres décrivent ou théorisent. La scène philosophique<br />
connue de Biran n’autorisait sans doute pas à se plaindre, dans un traité, de<br />
l’impossibilité de penser. Il est non moins vrai que cette même impossibilité,<br />
quelle que soit la façon dont on la thématise, est centrale quant au statut de la<br />
pensée. Ainsi peut-on <strong>di</strong>re que le journal commence là où les livres ne peuvent<br />
que s’achever. Le journal retourne le propos des livres, en inverse le point de<br />
vue, transforme l’objet en sujet le rendant par là à la fois méconnaissable et<br />
sensible. On aimerait pouvoir <strong>di</strong>re que le journal est aux livres ce que, chez<br />
Clausewitz, la “friction” est au traité de stratégie. Biran serait comme un stratège<br />
qui choisirait de décrire la guerre en partant du corps à corps. Alors, en<br />
effet, comme dans le journal et comme dans certains passages de Clausewitz,<br />
le temps qu’il fait, l’humeur, le hasard, une mauvaise <strong>di</strong>sposition, deviendraient<br />
le centre de tout.<br />
Nous avons essayé de suggérer par cet exemple le mouvement de retournement<br />
qui mène d’un genre à un autre et par là le renouvelle. Le point essentiel<br />
est que le second genre devient la pratique de ce qui était l’objet dans le premier.<br />
Nous espérons avoir montré par là, ou du moins illustré, la <strong>di</strong>fficulté inhérente<br />
à la notion de pratique. On ne peut simplement l’opposer à l’immanence d’un<br />
système symbolique représenté ici par un genre. La pratique bouleverse l’immanence<br />
non pas la quittant vers quelque sol empirique mais plutôt en inventant<br />
un autre plan pour une nouvelle immanence, un autre registre de <strong>di</strong>scours.<br />
159
Bibliographie<br />
Bour<strong>di</strong>eu, Pierre<br />
1980 Le sens pratique, Paris, Minuit.<br />
Coquet, Jean-Claude<br />
1984 Le <strong>di</strong>scours et son sujet, Paris, Klincksieck, 1984.<br />
Gouhier Henri<br />
1989 Le théâtre et les arts à deux temps, Paris, Flammarion.<br />
Merleau-Ponty, Marcel<br />
1997 L’union de l’âme et du corps chez Malebranche, Biran et Bergson, Paris, Vrin, 1997.<br />
Saussure, Fer<strong>di</strong>nand de<br />
1916 Cours de linguistique générale, Paris, Payot, 1972.<br />
Searle, John<br />
1972 Les actes de langage, Paris, Hermann.<br />
160
PRATICHE SEMIOTICHE *<br />
Jacques Fontanille<br />
1. INTRODUZIONE. IMMANENZA E PERTINENZA<br />
“Fuori dal testo non v’è salvezza!” è uno slogan che ha fatto il suo tempo, e questo<br />
tempo era quello in cui bisognava resistere alle sirene del contesto e alle tentazioni<br />
<strong>di</strong> pratiche ermeneutiche, specialmente nel campo letterario, che cercavano delle<br />
“spiegazioni” in un insieme <strong>di</strong> dati extra-testuali e extra-linguistici. “Fuori dal<br />
testo non v’è salvezza!” è stato lo slogan <strong>di</strong> un’ascesa metodologica feconda che<br />
ha permesso <strong>di</strong> spingere il più avanti possibile la ricerca dei modelli necessari a<br />
un’analisi immanente e <strong>di</strong> delimitare il campo <strong>di</strong> investigazione <strong>di</strong> una <strong>di</strong>sciplina<br />
e <strong>di</strong> una teoria, la <strong>semio</strong>tica del testo e del <strong>di</strong>scorso.<br />
Ma se le tentazioni sono, a questo proposito, sempre d’attualità, l’orizzonte<br />
epistemologico e <strong>di</strong>sciplinare è cambiato:<br />
1. da un lato, lo sviluppo delle ricerche cognitive pone delle questioni sempre<br />
più pressanti alla <strong>semio</strong>tica, in particolare perché essa prenda posizione<br />
* Traduzione <strong>di</strong> Sara Spinelli.<br />
161
sullo statuto delle operazioni <strong>di</strong> “produzione <strong>di</strong> senso” che reperisce nelle<br />
analisi del <strong>di</strong>scorso: queste sono operazioni cognitive dei produttori o <strong>degli</strong><br />
interpreti? Delle routines culturali? Delle attività proprie delle <strong>semio</strong>ticheoggetto,<br />
considerate come “macchine significanti”?<br />
2. dall’altro lato, la pratica <strong>semio</strong>tica stessa, continuando sempre a farsi forte<br />
dello slogan “Fuori dal testo non v’è salvezza!”, ha largamente oltrepassato<br />
i limiti testuali, interessandosi all’architettura, all’urbanistica, al design<br />
<strong>degli</strong> oggetti, alle strategie <strong>di</strong> mercato, alle situazioni sociali, ad<strong>di</strong>rittura<br />
alla degustazione <strong>di</strong> un sigaro o <strong>di</strong> un vino.<br />
Sembra dunque giunta l’ora <strong>di</strong> ridefinire la natura <strong>di</strong> ciò <strong>di</strong> cui si occupa la<br />
<strong>semio</strong>tica (le “<strong>semio</strong>tiche-oggetto”), se non altro per evitare che queste <strong>di</strong>gressioni<br />
fuori dal testo sfuggano all’imposizione minimale <strong>di</strong> una solidarietà tra<br />
espressioni e contenuti.<br />
Eppure il principio <strong>di</strong> immanenza si è rivelato <strong>di</strong> una grande potenza teorica,<br />
poiché la restrizione che impone all’analisi è una delle con<strong>di</strong>zioni della modellizzazione<br />
e, <strong>di</strong> conseguenza, dell’arricchimento della proposta teorica globale: senza<br />
il principio <strong>di</strong> immanenza non ci sarebbe una teoria narrativa, ma una semplice<br />
logica dell’azione applicata a dei motivi narrativi; non ci sarebbe una teoria delle<br />
passioni, ma una semplice importazione <strong>di</strong> modelli psicanalitici; non ci sarebbe<br />
una <strong>semio</strong>tica del sensibile, ma solamente una riproduzione o una sistemazione<br />
delle analisi fenomenologiche. Dietro al principio <strong>di</strong> immanenza si profila un’ipotesi<br />
forte e produttiva secondo la quale la prassi <strong>semio</strong>tica (l’enunciazione “in<br />
atto”) sviluppa essa stessa un’attività <strong>di</strong> schematizzazione, una “meta-<strong>semio</strong>tica<br />
interna”, attraverso la quale possiamo “cogliere” il senso e che l’analisi ha il<br />
compito <strong>di</strong> raccogliere e <strong>di</strong> riformulare in metalinguaggio.<br />
Tutte le linguistiche e le <strong>semio</strong>tiche che hanno rinunciato al principio <strong>di</strong> immanenza<br />
si presentano oggi in due branche: una branca forte, quando affrontano<br />
<strong>di</strong>rettamente il loro oggetto, e una branca debole e <strong>di</strong>ffusa, quando eleggono<br />
a materia <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o quello che chiamano “contesto” del loro oggetto. In breve<br />
si tratterebbe dunque non <strong>di</strong> immergere l’oggetto dell’analisi nel suo contesto,<br />
ma al contrario <strong>di</strong> integrare il contesto nell’oggetto d’analisi 1 .<br />
Bisognerebbe dunque <strong>di</strong>stinguere (i) il principio <strong>di</strong> immanenza in sé, e (ii) la<br />
determinazione dei limiti dell’immanenza; questi limiti, provvisori e arbitrari, sono<br />
stati a suo tempo fissati al testo-enunciato; ma se è vero, come <strong>di</strong>ce Hjelmslev,<br />
che i dati del linguista si presentano come “testo”, questo non è più vero per il<br />
<strong>semio</strong>logo che ha a che fare con <strong>degli</strong> “oggetti”, delle “pratiche” e delle “forme <strong>di</strong><br />
vita” che strutturano intere parti della cultura. Il principio <strong>di</strong> immanenza è dunque<br />
applicabile in tutto il suo rigore soltanto se si <strong>di</strong>stinguono dei piani <strong>di</strong> immanenza,<br />
che obbe<strong>di</strong>scono ciascuno a un principio <strong>di</strong> pertinenza specifico.<br />
1 Il richiamo al contesto non è che la confessione <strong>di</strong> una delimitazione non pertinente della <strong>semio</strong>ticaoggetto<br />
analizzata e, più precisamente, <strong>di</strong> una inadeguatezza tra il tipo <strong>di</strong> strutturazione ricercata e il<br />
livello <strong>di</strong> pertinenza stabilito.<br />
162
2. PIANI DI IMMANENZA E LIVELLI DI PERTINENZA<br />
La serie dei livelli <strong>di</strong> pertinenza del piano dell’espressione è stata presentata recentemente<br />
per esteso in “Textes, objects, situations et formes de vie. Les niveaux de<br />
pertinence du plan de l’expression dans une sémiotique des cultures” 2 così ci accontenteremo<br />
qui <strong>di</strong> riassumerne la sostanza, prima <strong>di</strong> commentarne le conseguenze.<br />
2.1. Dai segni ai testi-enunciati<br />
La prima <strong>di</strong>stinzione è quella che ci fa passare dai segni ai primi “insiemi significanti”,<br />
i testi: si considera che l’unità pertinente del piano dell’espressione<br />
per operare le commutazioni, le segmentazioni e le catalisi che svilupperanno<br />
i significati e i valori non è più la figura, bensì il testo-enunciato 3 .<br />
2.2. Dal testo all’oggetto …e alla situazione<br />
Un “testo-enunciato” è un insieme <strong>di</strong> figure <strong>semio</strong>tiche organizzate in un insieme<br />
omogeneo grazie alla loro <strong>di</strong>sposizione su uno stesso supporto o veicolo 4 (uni-, bi- o<br />
tri<strong>di</strong>mensionale). Nel complesso il testo-enunciato si presta ad essere colto, dal lato<br />
dell’espressione, come un <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> iscrizione, se si accetta <strong>di</strong> dare al termine<br />
“iscrizione” un’estensione più vasta <strong>di</strong> quella che gli accorda il senso comune.<br />
Nessun “testo-enunciato” sfugge a quella regola che, del resto, era già stata<br />
formulata nella vecchia teoria delle “funzioni” del linguaggio e della comunicazione,<br />
come l’esigenza <strong>di</strong> un “canale”: la lingua dei segni ha anche un “supporto”,<br />
uno spazio-tempo centrato sul corpo del soggetto che produce i segni<br />
(e che è egli stesso uno <strong>degli</strong> elementi del supporto <strong>di</strong> iscrizione). La lingua<br />
orale ha ugualmente un supporto (un “me<strong>di</strong>um”, <strong>di</strong>cono alcuni), un substrato<br />
fisico capace <strong>di</strong> trasmettere delle vibrazioni.<br />
Il “supporto” è un’“interfaccia” costituita:<br />
(i) da una faccia “testuale”, il supporto formale, che è un’organizzazione sintagmatica<br />
potenziale, o materializzata per la raccolta delle figure del testo, e<br />
(ii) da una faccia “prassica 5 ”, il supporto materiale, che è un corpo (struttura<br />
materiale + involucro) che può essere manipolato nel corso <strong>di</strong> una pratica.<br />
2 Fontanille (2004).<br />
3 Questo salto metodologico è stato a suo tempo presentato come un “progresso” e come una linea <strong>di</strong> <strong>di</strong>visione<br />
tra due tipi <strong>di</strong> <strong>semio</strong>tiche. Ma il “progresso” in questo caso non risiede nel cambiamento <strong>di</strong> livello <strong>di</strong><br />
pertinenza, ma nel cambiamento <strong>di</strong> strategia teorica: l’analisi dei segni e delle figure sembrava essere votata<br />
a una tassonomia proliferante e sterile, mentre l’analisi dei testi e dei <strong>di</strong>scorsi sembrava potersi orientare<br />
verso lo stu<strong>di</strong>o delle strutture sintattiche dei processi significanti. Ma l’evoluzione recente delle <strong>semio</strong>tiche<br />
peirciane, particolarmente in Umberto Eco, mostra bene che questa ripartizione <strong>di</strong> ruoli non è intoccabile.<br />
4 Difficilmente si sfugge alle metafore, e ancora meno al momento <strong>di</strong> designare il substrato materiale d’iscrizione;<br />
“supporto” è il termine più neutro, ma rinvia a un’opposizione che non si è obbligati ad assumere<br />
(“apporto/supporto”), nella misura in cui presuppone talvolta che l’“apporto” esista preliminarmente alla sua<br />
iscrizione sul “supporto”. La scelta del termine “supporto” non comporta per noi alcuna assunzione teorica<br />
<strong>di</strong> questo tipo.<br />
5 N.d.T. Si è scelto <strong>di</strong> tradurre l’originale praxique con “prassico”, termine ampiamente attestato in psicologia<br />
e in pedagogia. L’esigenza è quella <strong>di</strong> ricondurre l’aggettivo alla prassi, e non genericamente alla pratica.<br />
163
Certe pratiche (come la produzione <strong>di</strong> testi elettronici) <strong>di</strong>ssociano le due “facce”<br />
(il supporto formale “schermo” è <strong>di</strong>stinto dal supporto materiale “tastiera-calcolatore”),<br />
ma queste però appartengono a una medesima “macchina” e in ogni<br />
caso sono obbligatoriamente connesse perché la pratica possa avere luogo.<br />
Un esempio permetterà <strong>di</strong> illustrare concretamente come si compie l’integrazione<br />
del testo all’oggetto e alla pratica, e perché questo spostamento ne<br />
comporterà un altro, fino alla situazione. Pren<strong>di</strong>amo in considerazione, banalmente,<br />
la corrispondenza postale. Il testo della lettera è iscritto su fogli <strong>di</strong> carta,<br />
infilati in una busta sulla quale è in<strong>di</strong>cato l’in<strong>di</strong>rizzo del destinatario, talora anche<br />
quello del destinante, oltre a qualche figura e impronta (francobollo, timbro,<br />
etc.) attraverso le quali l’interme<strong>di</strong>ario convalida la conformità del processo<br />
<strong>di</strong> trasmissione, e marca il compimento del suo ruolo.<br />
Le stesse in<strong>di</strong>cazioni (il nome e l’in<strong>di</strong>rizzo del destinatario) possono trovarsi<br />
al tempo stesso sulla lettera e sulla busta. Ma la loro iscrizione su due parti<br />
<strong>di</strong>fferenti dell’oggetto-supporto conferisce loro dei ruoli attanziali <strong>di</strong>versi: (i)<br />
sulla lettera il nome e l’in<strong>di</strong>rizzo del destinatario partecipano <strong>di</strong> una struttura<br />
<strong>di</strong> enunciazione, un “in<strong>di</strong>rizzo” che manifesta la relazione enunciazionale propria<br />
al testo della lettera; (ii) sulla busta il nome e l’in<strong>di</strong>rizzo del destinatario<br />
partecipano <strong>di</strong> due pratiche <strong>di</strong>fferenti e concomitanti: da un lato costituiscono<br />
un’istruzione per gli interme<strong>di</strong>ari postali, al momento delle operazioni <strong>di</strong><br />
classificazione, <strong>di</strong> scelta <strong>di</strong> <strong>di</strong>rezione, <strong>di</strong> trasporto e <strong>di</strong> <strong>di</strong>stribuzione finale;<br />
dall’altro permettono <strong>di</strong> scegliere tra tutti i destinatari possibili della lettera<br />
il destinatario legittimo, cioè quello che ha il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> aprire la lettera, e <strong>di</strong><br />
addentrarsi nella lettura.<br />
La frontiera tra le due configurazioni è lo stato della busta: se è chiusa, solo la<br />
seconda è realizzabile; se è aperta, può attivarsi la prima. Si incontrano dunque<br />
qui, associate a una morfologia particolare dell’oggetto <strong>di</strong> scrittura, due tipi<br />
<strong>di</strong> pratiche, una che <strong>di</strong>pende dal genere epistolare, e l’altra dal genere “comunicazione<br />
e circolazione <strong>degli</strong> oggetti in società”, incassate l’una nell’altra.<br />
Ciascuna corrisponde a una parte e a uno stato dell’oggetto, così come a delle<br />
iscrizioni specifiche, che permettono <strong>di</strong> gestire il confronto con altre pratiche<br />
eventualmente concorrenti che <strong>di</strong>pendono da altri generi.<br />
Si vede dunque formarsi qui un altro livello <strong>di</strong> pertinenza, che è a mezza<br />
strada tra quello <strong>degli</strong> oggetti e quello delle situazioni in generale: quello delle<br />
pratiche – nel caso specifico, pratiche <strong>di</strong> scrittura, pratiche <strong>di</strong> comunicazione<br />
sociale, e pratiche <strong>di</strong> manipolazione <strong>di</strong> oggetti. Inoltre appare anche un’altra<br />
<strong>di</strong>mensione, quella dell’interazione e della selezione tra le pratiche: alcune sono<br />
sollecitate, proposte o imposte, altre scartate o inibite. Si constata allora che<br />
l’oggetto gioca un ruolo su un altro piano <strong>di</strong> immanenza, quello delle strategie<br />
(gli adattamenti tra le pratiche).<br />
È necessario infine precisare il carattere “materiale” dell’oggetto-supporto:<br />
“materiale” deve essere inteso qui nel senso <strong>di</strong> Hjelmslev, ovvero come substrato<br />
sensibile delle <strong>semio</strong>tiche-oggetto. Se si comparano ad esempio le pratiche<br />
<strong>di</strong>vinatorie dei Romani e dei Dogon, queste obbe<strong>di</strong>scono evidentemente allo<br />
164
stesso principio: definire nello spazio naturale un supporto <strong>di</strong> iscrizione, dei<br />
limiti e delle <strong>di</strong>rezioni, e interpretare gli attraversamenti <strong>degli</strong> animali (l’uccello<br />
per i Romani, la volpe per i Dogon) nella “griglia” così costituita: eppure la<br />
griglia romana (il templum) è proiettata sul cielo, mentre quella dei Dogon è<br />
tracciata sul suolo. La <strong>di</strong>fferenza tra i due supporti “materiali”, uno terrestre e<br />
solido e l’altro aereo e intangibile, è <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne sensibile e sostanziale, e induce<br />
anche delle <strong>di</strong>fferenze nei potenziali espressivi dei due supporti formali: da un<br />
lato il templum può sfruttare una terza <strong>di</strong>mensione nello spazio, la profon<strong>di</strong>tà,<br />
e anche delle velocità e delle durate <strong>di</strong> passaggio, ma senza poter tenere traccia<br />
delle figure tranne che all’interno della memoria visiva; dall’altro, la griglia<br />
dei Dogon non può gestire che delle tracce <strong>di</strong> passi sul suolo, ma il supporto<br />
ne conserva la memoria sotto forma d’impronta durevole. Eppure questi due<br />
“oggetti” <strong>di</strong> scrittura hanno <strong>di</strong>ritto al medesimo statuto <strong>di</strong> oggetto-supporto,<br />
sebbene le loro proprietà sensibili siano assai <strong>di</strong>verse.<br />
2.3. Due tipi <strong>di</strong> situazioni <strong>semio</strong>tiche: pratiche e strategie<br />
Una situazione <strong>semio</strong>tica è una configurazione eterogenea che raccoglie tutti<br />
gli elementi necessari alla produzione e all’interpretazione della significazione<br />
<strong>di</strong> un’interazione comunicativa.<br />
Quelle che chiamiamo situazioni <strong>semio</strong>tiche, seguendo Landowski (1989),<br />
possono in realtà essere analizzate in due <strong>di</strong>mensioni <strong>di</strong>stinte e gerarchizzate:<br />
(i) sia come un’interazione con un testo, passando per i suoi supporti materiali,<br />
o con uno o più oggetti, e che si organizza intorno a una pratica,<br />
(ii) sia come l’adattamento tra <strong>di</strong>verse interazioni parallele, tra <strong>di</strong>verse pratiche<br />
complementari o concorrenti: è la situazione-congiuntura, che raccoglie l’insieme<br />
delle pratiche e delle circostanze pertinenti in una stessa strategia.<br />
2.3.1. La scena pre<strong>di</strong>cativa delle pratiche .<br />
Il primo tipo, attualizzato in una pratica, costituisce un piano <strong>di</strong> immanenza<br />
autonomo, fondato sulla <strong>di</strong>mensione pre<strong>di</strong>cativa <strong>di</strong> una scena pratica. La<br />
pratica si presenta a questo proposito sotto forma <strong>di</strong> uno o più processi (uno<br />
o più pre<strong>di</strong>cati) e <strong>di</strong> atti d’enunciazione che implicano dei ruoli attanziali,<br />
sostenuti tra l’altro dal testo-enunciato medesimo (testo verbale, immagine,<br />
etc.), dal suo supporto, dagli elementi dell’ambiente, dal passante, l’utente o<br />
l’osservatore, tutto ciò che forma la “scena” tipica <strong>di</strong> una pratica. Essa consiste<br />
anche in relazioni tra questi <strong>di</strong>fferenti ruoli, essenzialmente relazioni modali,<br />
ma anche passionali. Infine la pratica induce più spesso un cambiamento dei<br />
corpi e delle figure, e dunque una sintassi figurativa. L’insieme (ruoli, atti,<br />
modalizzazioni, passioni e sintassi figurativa) costituisce l’essenziale <strong>di</strong> questo<br />
piano <strong>di</strong> immanenza.<br />
Gli utensili e le pratiche tecniche forniscono l’esempio più semplice possibile<br />
della scena pre<strong>di</strong>cativa pratica: un oggetto, configurato in vista <strong>di</strong> un certo<br />
uso, assumerà un ruolo attanziale all’interno <strong>di</strong> una pratica tecnica (il cui uso<br />
è l’attualizzazione enunciazionale) che consiste in una azione su un segmento<br />
165
figurativo del mondo naturale (il “substrato” della pratica): questo segmentosubstrato,<br />
l’utensile e l’utente sono allora associati all’interno <strong>di</strong> una stessa<br />
scena pre<strong>di</strong>cativa, <strong>di</strong> cui assumono i principali ruoli attanziali, e il contenuto<br />
semantico del pre<strong>di</strong>cato (tagliare, raschiare, lisciare, etc.: la tematica della<br />
pratica) deve essere compatibile con la natura figurativa del substrato.<br />
2.3.2. L’adattamento 6 strategico.<br />
La seconda <strong>di</strong>mensione delle situazioni è la strategia. “Strategia” significa qui<br />
che la situazione <strong>semio</strong>tica è più o meno preve<strong>di</strong>bile, o persino programmabile<br />
e, più in generale, che ogni scena pre<strong>di</strong>cativa deve conformarsi 7 , nello spazio<br />
e nel tempo, alle altre scene e pratiche, concomitanti o non concomitanti. Si<br />
tratta insomma <strong>di</strong> gestire le congiunture, le successioni, le sovrapposizioni o<br />
la concorrenza tra le pratiche.<br />
La <strong>di</strong>mensione strategica raccoglie delle pratiche per farne dei nuovi insiemi<br />
significanti, più o meno preve<strong>di</strong>bili (<strong>degli</strong> usi sociali, dei riti, dei comportamenti<br />
complessi), che questo avvenga per programmazione dei percorsi e delle loro<br />
intersezioni o per adattamento in tempo reale.<br />
2.4. Dalle strategie alle forme <strong>di</strong> vita<br />
Un ultimo ostacolo deve essere superato, con le forme <strong>di</strong> vita. Una forma <strong>di</strong> vita<br />
sussume un insieme <strong>di</strong> strategie, procurando loro, nel complesso, un’identità<br />
riconoscibile, uno “stile”, che caratterizzano un modo <strong>di</strong> essere al mondo e in<br />
società.<br />
Se si prende l’esempio delle strategie <strong>di</strong> spostamento e <strong>di</strong> comportamento<br />
negli spazi pubblici complessi dobbiamo, per accedere alle forme <strong>di</strong> vita,<br />
neutralizzare in primo luogo le specificità figurative e tematiche <strong>di</strong> ciascuno<br />
<strong>degli</strong> spazi e delle strategie associate (la metropolitana, l’esposizione, la città,<br />
l’ipermercato, o anche, per estensione a altri tipi <strong>di</strong> spazio da percorrere, il libro,<br />
il catalogo, la banca dati, il <strong>di</strong>zionario o il sito Internet).<br />
Restano allora <strong>di</strong>sponibili, al livello <strong>di</strong> pertinenza delle forme <strong>di</strong> vita, l’insieme<br />
delle proprietà ritmiche e aspettuali (<strong>di</strong>ciamo complessivamente, “tensive<br />
e sensibili”) che riguardano più in particolare il trattamento delle transizioni<br />
e dei raffronti tra le pratiche. In breve: le proprietà tensive <strong>di</strong> una classe <strong>di</strong><br />
strategie. Prendono forma allora due tipi <strong>di</strong> uso che associano in una relazione<br />
semi-simbolica da un lato <strong>degli</strong> “stili” ritmici, e dall’altro delle “attitu<strong>di</strong>ni” <strong>di</strong><br />
valorizzazione o svalorizzazione delle scene-ostacolo 8 .<br />
6 N.d.T.: “Ajustement” nel testo originale.<br />
7 Sulla questione della strategia in <strong>semio</strong>tica e in particolare sulla <strong>di</strong>stinzione tra strategie <strong>di</strong> programmazione<br />
e <strong>di</strong> adeguamento, cfr. Bertin (2003), come pure l’introduzione <strong>di</strong> Eric Landowski (2003). Quanto<br />
all’“adattamento” propriamente detto, questo è oggetto <strong>di</strong> precisi sviluppi in Landowski (2004).<br />
8 Questa relazione, che associa un piano dell’espressione e un piano del contenuto, è il requisito minimo<br />
perché si possa trattare un fenomeno quale che sia, ivi compresa una strategia o una forma <strong>di</strong> vita, come<br />
una “<strong>semio</strong>tica-oggetto”.<br />
166
Dal punto <strong>di</strong> vista del piano dell’espressione, una forma <strong>di</strong> vita risulta dunque<br />
dalla ripetizione e dalla regolarità dell’insieme <strong>di</strong> soluzioni strategiche adottate<br />
per adeguare le scene pre<strong>di</strong>cative tra loro.<br />
Un altro caso <strong>di</strong> figura permetterà <strong>di</strong> porre la questione in un’ottica più generale:<br />
è quello delle affordances. Il concetto <strong>di</strong> affordance compare nella teoria<br />
“ecologica” <strong>di</strong> Gibson 9 per rendere conto delle costrizioni e delle proprietà<br />
interattive che non possono essere positivamente situate né nella mente dell’utente,<br />
né nella struttura dell’oggetto o del mondo materiale. Infatti il mondo<br />
materiale, e più in particolare la struttura tecnica <strong>degli</strong> oggetti culturali, resiste,<br />
impone, propone, suggerisce, e non si lascia ridurre allo statuto trasparente <strong>di</strong><br />
pretesto, <strong>di</strong> occasione o <strong>di</strong> supporto per delle esperienze puramente cognitive.<br />
E inversamente, questa realtà materiale non è decisiva, poiché gli utenti sono<br />
in grado <strong>di</strong> accettare, <strong>di</strong> rifiutare o <strong>di</strong> deviare queste proprietà morfologiche.<br />
L’ affordance è dunque il concetto che riassume l’insieme <strong>degli</strong> atti che la<br />
morfologia qualitativa del mondo e dei suoi oggetti compie nei confronti <strong>di</strong><br />
coloro che se ne avvalgono e delle risposte e <strong>degli</strong> atti <strong>degli</strong> utenti. Occorre<br />
dunque badare a non <strong>di</strong>menticare il principio “interattivo” e ecologico dell’affordance,<br />
pena la riduzione funzionalista. Così, partendo dalla banale constatazione<br />
che una se<strong>di</strong>a ci “offra” <strong>di</strong> sedersi, l’affordance potrebbe essere ridotta<br />
a una semplice funzionalità dell’oggetto, come nell’analisi semica <strong>degli</strong> anni<br />
’60 (il “per sedersi” <strong>di</strong> B. Pottier), mentre invece l’affordance è un sistema<br />
immateriale complesso <strong>di</strong> proposizioni, <strong>di</strong> promesse, <strong>di</strong> risposte e <strong>di</strong> usi che<br />
non appartengono propriamente né all’oggetto né all’utente.<br />
Ragione per cui il concetto <strong>di</strong> affordance attira l’attenzione del <strong>semio</strong>logo.<br />
Con quello che Michela Deni (2005) ha chiamato il “funzionamento fattitivo”<br />
<strong>degli</strong> oggetti, bisogna intendere un certo numero <strong>di</strong> proprietà attanziali, modali<br />
e figurative che caratterizzano le interazioni manipolatorie reciproche tra<br />
oggetti e utenti 10 . Poiché queste costrizioni e queste strutture significanti non<br />
appartengono esclusivamente né al cervello <strong>degli</strong> utenti, né alla struttura <strong>degli</strong><br />
oggetti, occorre postulare una “<strong>semio</strong>tica-oggetto” che li sussuma. Questo piano<br />
<strong>di</strong> immanenza, dove interagiscono il testo o l’oggetto, da un lato, e gli utenti,<br />
dall’altro, non può essere quello dei testi-enunciati o <strong>degli</strong> oggetti, e deve essere<br />
situato almeno al livello delle pratiche.<br />
Infatti, se ci si interroga sul modo <strong>di</strong> esistenza <strong>di</strong> questi <strong>di</strong>spositivi <strong>di</strong> manipolazione<br />
interattiva, è evidente che, anche se li si può qualificare come “fattitivi”,<br />
gli oggetti non realizzano il “fare”; questo vi è soltanto potenzialmente e<br />
parzialmente inscritto. Se si vuole accedere contemporaneamente al complesso<br />
della struttura pre<strong>di</strong>cativa e alle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> realizzazione del fare, è necessario<br />
9 Cfr. Gibson (1979).<br />
10 Siccome il concetto <strong>di</strong> “fattitività” si declina quasi imme<strong>di</strong>atamente in “far fare”, “far sapere”, “far<br />
credere”, etc. e in un’analisi attanziale e modale, esso resiste più efficacemente che l’affordance alla<br />
riduzione funzionale, poiché l’interattività e la manipolazione sono qui centrali e irriducibili.<br />
167
porre l’esistenza <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica-oggetto inglobante, <strong>di</strong> livello superiore, che<br />
è qui una pratica quoti<strong>di</strong>ana, una sequenza gestuale: in questa pratica soltanto<br />
si consolida effettivamente e completamente.<br />
Ma è appunto il carattere “incompleto” e “potenziale” della presenza del fare<br />
nell’oggetto che permette il <strong>di</strong>spiegamento delle strategie e delle forme <strong>di</strong> vita,<br />
poiché l’interazione tra oggetto e utente non è interamente regolata in anticipo,<br />
né dalla morfologia dell’oggetto, né dalle abitu<strong>di</strong>ni cognitive dell’utente. Gli<br />
adattamenti si fanno in tempo reale, cioè nel tempo dell’interazione, e se questi<br />
adattamenti sono determinati dalle norme, dalle tendenze o dagli stili, questo<br />
non può essere che a un livello superiore <strong>di</strong> pertinenza, quello delle forme <strong>di</strong><br />
vita. Di conseguenza caratterizzare le affordances che si manifestano in un<br />
ambiente, qualsiasi esso sia, viene a definire una forma <strong>di</strong> vita.<br />
3. DUE QUESTIONI TEORICHE AFFERENTI<br />
3.1. Il contesto e le proprietà sensibili e materiali<br />
Cominciamo ponendoci queste due questioni:<br />
i) ciò che appare come “contesto” a un livello “n” forma l’armatura pre<strong>di</strong>cativa,<br />
attanziale, modale e tematica del livello “n+1”;<br />
ii) quelle che appaiono come proprietà sensibili e materiali non pertinenti al<br />
livello “n” formano la <strong>di</strong>mensione figurativa del livello “n+1”.<br />
Il contesto e la sostanza non sono dunque pertinenti al livello “n”, e gli elementi<br />
che essi comportano, riconfigurati in costituenti pertinenti del livello “n+1” non<br />
sono più allora né “contestuali” né “sostanziali”.<br />
In un altro registro, lo statuto dell’enunciazione e delle istanze enuncianti,<br />
molto <strong>di</strong>scusso da Jean-Claude Coquet, obbe<strong>di</strong>sce alla medesima <strong>di</strong>stinzione: al<br />
livello della pertinenza del testo, l’enunciazione non è pertinente a meno che non<br />
vi sia rappresentata (enunciazione enunciata), mentre l’enunciazione detta “presupposta”<br />
è un puro artefatto senza osservabili. Ma al livello <strong>di</strong> pertinenza <strong>degli</strong><br />
oggetti-supporti, o ad<strong>di</strong>rittura delle pratiche che li integrano, l’enunciazione ritrova<br />
tutta la sua pertinenza: gli attori vi ritrovano un corpo e una identità, lo spazio e<br />
il tempo dell’enunciazione procurano loro un ancoraggio deittico, e gli stessi atti<br />
dell’enunciazione possono inscriversi figurativamente nella materialità stessa <strong>degli</strong><br />
oggetti <strong>di</strong> iscrizione (cfr. supra, la lettera e la sua busta sigillata o aperta).<br />
Lo stesso <strong>di</strong>casi delle proprietà sensibili e materiali, ma con qualche conseguenza<br />
complementare che conviene sottolineare qui.<br />
L’introduzione del “sensibile” e del “corpo” nella problematica <strong>semio</strong>tica<br />
comporta, infatti, alcune <strong>di</strong>fficoltà che non sono state superate finora, e che<br />
riguardano il fatto che questo “sensibile” e questo “corpo” non devono necessariamente<br />
essere rappresentati nel testo o nell’immagine per essere “pertinenti”,<br />
soprattutto se si tratta <strong>di</strong> articolare l’enunciazione su una esperienza sensibile<br />
e su una corporeità profonda. Non basta, per esempio, rinviare le nozioni che<br />
168
<strong>di</strong>pendono dalla “foria” e della “tensività” a un livello “proto-<strong>semio</strong>tico” per<br />
procurare loro uno statuto chiaro e operativo.<br />
Le valenze percettive della tensività, fra l’altro, sono state spesso criticate<br />
per via dell’assenza <strong>di</strong> un qualsiasi ancoraggio; tale assenza assegna al loro<br />
utilizzo imprudente un carattere particolarmente speculativo. La “percezione”<br />
semantica e assiologica <strong>di</strong> cui tale valenze rendono conto fa parte della cornice<br />
sostanziale (e non pertinente) dell’enunciazione testuale; ma a livello superiore,<br />
quello delle pratiche <strong>semio</strong>tiche (le pratiche <strong>di</strong> “produzione <strong>di</strong> senso”, le pratiche<br />
interpretative, in particolare), queste valenze percettive trovano tutta la<br />
loro pertinenza: un universo sensibile è dato da apprendere all’interno <strong>di</strong> una<br />
tale pratica, attraverso le figure <strong>di</strong> un testo, ed è allora che le valenze giocano<br />
il loro ruolo, come “filtro” prassico della costruzione assiologica.<br />
Pertanto sostenere che l’enunciazione <strong>di</strong> un <strong>di</strong>scorso si fonda su una o parecchie<br />
“esperienze”, o persino che l’oggetto dell’analisi è l’esperienza in quanto<br />
tale (la sperimentazione del senso), non basta più. Sono proprio tali esperienze<br />
che devono essere a loro volta configurate in “pratiche” o in “situazioni <strong>semio</strong>tiche”<br />
per <strong>di</strong>venire delle <strong>semio</strong>tiche-oggetto analizzabili. In realtà, ogni livello<br />
<strong>di</strong> pertinenza è associato a un tipo <strong>di</strong> esperienza che può essere riconfigurato in<br />
costituenti pertinenti <strong>di</strong> un livello gerarchicamente superiore.<br />
La proposta che facciamo rimette dunque in <strong>di</strong>scussione <strong>di</strong>verse strategie<br />
teoriche, che consistono nell’attribuire a dei concetti o a delle operazioni<br />
necessari alla costruzione teorica <strong>degli</strong> statuti epistemologici ambigui e poco<br />
operativi, come “presupposizione”, “contesto”, “proto-<strong>semio</strong>tica”, “esperienza<br />
soggiacente”, etc. Essa propone <strong>di</strong> accordare loro uno statuto a un livello <strong>di</strong><br />
pertinenza gerarchicamente superiore, dove questi sono dei costituenti <strong>di</strong> una<br />
<strong>semio</strong>tica-oggetto il cui piano dell’espressione è <strong>di</strong> una modalità <strong>di</strong>versa, e il<br />
piano del contenuto <strong>di</strong> tipo pratico o strategico.<br />
3.2. I sincretismi e le sinestesie<br />
Gli “effetti” apparenti <strong>di</strong> sincretismi (complessi detti talvolta “plurico<strong>di</strong>ci” o “multimodali”)<br />
o <strong>di</strong> sinestesie (complessi detti “polisensoriali”) al livello “n” subiscono<br />
una re<strong>di</strong>stribuzione sulle <strong>di</strong>fferenti componenti pre<strong>di</strong>cative, tematiche e figurative<br />
del livello “n+1”, dove trovano la loro coerenza e la loro omogeneità.<br />
Per esempio, nel funzionamento <strong>di</strong> un pittogramma in quanto “testo-enunciato”,<br />
si potrà solamente osservare che coesistono delle <strong>semio</strong>tiche verbali,<br />
iconiche e oggettali, e che si ha dunque a che fare con una <strong>semio</strong>tica-oggetto<br />
multimodale. Ma, ri<strong>di</strong>stribuiti in una pratica quoti<strong>di</strong>ana o tecnica, ciascuno <strong>degli</strong><br />
elementi <strong>di</strong> queste <strong>semio</strong>tiche multimodali (ivi compresi le figure e i caratteri<br />
del pittogramma) assume uno dei ruoli che costituiscono la scena pre<strong>di</strong>cativa<br />
(strumenti, oggetti, agenti, etc.), o investe una delle modalizzazioni (deittiche,<br />
spazio-temporali, fattuali) <strong>di</strong> questi ruoli.<br />
Altro esempio: nel funzionamento <strong>di</strong> una “pietanza”, le <strong>di</strong>fferenti prensioni<br />
sensoriali (visibili, tattili, olfattive e gustative, persino u<strong>di</strong>tive) formeranno delle<br />
associazioni polisensoriali, se si tratta una “pietanza” come un “testo” (me<strong>di</strong>ante una<br />
169
sorta <strong>di</strong> appiattimento <strong>di</strong> tutte le proprietà figurative e sensoriali); dato che questa<br />
integrazione ascendente fa apparire delle equivalenze tra gli or<strong>di</strong>ni sensoriali, si<br />
potrà anche inferire la presenza <strong>di</strong> una “sinestesia”. Però, se si alza l’analisi al livello<br />
superiore, quello della pratica <strong>di</strong> degustazione, ciascuno dei mo<strong>di</strong> del sensibile troverà<br />
un posto in un insieme <strong>di</strong> operazioni che li associano agli altri mo<strong>di</strong> sensibili<br />
(annunciare, promettere, verificare, convalidare, assaporare, etc.); così, le proprietà<br />
visive annunciano delle proprietà <strong>di</strong> testura, le proprietà olfattive promettono delle<br />
proprietà gustative, <strong>di</strong> modo che i mo<strong>di</strong> del sensibile intrattengano dunque non<br />
soltanto dei rapporti para<strong>di</strong>gmatici (equivalenza o <strong>di</strong>fferenza), ma sintagmatici e<br />
pre<strong>di</strong>cativi (gli uni annunciano, promettono o verificano gli altri).<br />
Tutto sommato, particolarmente nel passaggio dai “testi-enunciati” alle “pratiche”<br />
(passando per il livello interme<strong>di</strong>o <strong>degli</strong> “oggetti” e dei “supporti”), la gerarchizzazione<br />
dei livelli <strong>di</strong> pertinenza permette <strong>di</strong> opporre due mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> analisi:<br />
a) L’“appiattimento” al livello “n” (integrazione ascendente):<br />
Le strutture formali e il contorno sostanziale sono situati allo stesso livello, le<br />
une essendo ritenute pertinenti, e gli altri <strong>di</strong>chiarati “non pertinenti”, o nel<br />
caso delle teorie a frontiera “porosa”, saranno chiamate nel corso dell’analisi<br />
a titolo <strong>di</strong> “contesto” o <strong>di</strong> “esperienza”.<br />
b) La “messa in rilievo” al livello “n+1” (integrazione <strong>di</strong>scendente):<br />
Le strutture formali del livello “n” trovano un posto e un ruolo all’interno<br />
delle strutture inglobanti, le quali assegnano anche un ruolo e un posto a ciò<br />
che, a livello “n”, era considerato come sostanziale, materiale o contestuale.<br />
Tutto sommato il percorso <strong>di</strong> integrazione dei <strong>di</strong>fferenti livelli <strong>di</strong> pertinenza<br />
prende qui la piega <strong>di</strong> un “percorso generativo dell’espressione” in cui, partendo<br />
da una situazione <strong>di</strong> amalgama, che costituisce uno “sfondo” sostanziale da cui si<br />
staccano solamente delle “figure-segni” elementari, ve<strong>di</strong>amo progressivamente<br />
formarsi delle nuove <strong>di</strong>mensioni pertinenti, e queste <strong>di</strong>mensioni acquisire poco<br />
a poco la loro autonomia:<br />
(i) il supporto formale del testo-enunciato fa emergere la <strong>di</strong>mensione tabulareplastica<br />
dei testi,<br />
(ii) la materialità resistente <strong>degli</strong> oggetti manifesta la <strong>di</strong>mensione corporale<br />
delle pratiche,<br />
(iii) le strutture spazio-temporali <strong>di</strong> raccolta delle scene e <strong>degli</strong> adattamenti tra<br />
scene costituiscono la <strong>di</strong>mensione topo-cronologica delle situazioni.<br />
È dunque in ragione dell’accumulazione <strong>di</strong> queste <strong>di</strong>mensioni che si può parlare<br />
<strong>di</strong> “percorso generativo” dell’espressione.<br />
4. RETORICHE ASCENDENTI E DISCENDENTI<br />
Abbiamo evocato anticipatamente a più riprese le procedure <strong>di</strong> “integrazione”<br />
e le eventuali “sincopi” che le riguardano. L’ “integrazione” è una operazione<br />
<strong>di</strong> montaggio espressivo che permette <strong>di</strong> manifestare un piano <strong>di</strong> immanenza<br />
all’interno <strong>di</strong> un altro piano <strong>di</strong> immanenza. Le “sincopi” sono delle integrazioni<br />
170
<strong>di</strong>rette tra due piani <strong>di</strong> immanenza che non si succedono <strong>di</strong>rettamente nella<br />
gerarchia dei livelli <strong>di</strong> pertinenza.<br />
Infatti l’organizzazione gerarchica del percorso implica un modo <strong>di</strong> integrazione<br />
progressivo canonico: i testi integrano le figure, gli oggetti integrano<br />
i testi, le pratiche integrano gli oggetti, le strategie integrano le pratiche, etc.<br />
Questo percorso <strong>di</strong> integrazione ascendente è canonico e, a questo titolo, le sue<br />
realizzazioni concrete possono supportare numerose varianti, e in particolare<br />
dei movimenti inversi (integrazione <strong>di</strong>scendente), ma anche delle sincopi,<br />
ascendenti o <strong>di</strong>scendenti.<br />
4.1. Integrazioni e sincopi ascendenti<br />
Le sincopi ascendenti consistono nel “saltare” uno o più livelli nel percorso <strong>di</strong><br />
integrazione canonico. Per esempio, la “dematerializzazione” del supporto delle<br />
scritture, che sopprime il livello dell’oggetto, ci fa <strong>di</strong>rettamente passare dal testo<br />
alla pratica; sappiamo che bisogna <strong>di</strong>ffidare dei <strong>di</strong>scorsi sulla “dematerializzazione”<br />
della nostra vita quoti<strong>di</strong>ana, ma i mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> pagamento elettronico, per<br />
esempio, se non eliminano l’ “oggetto” che è sfruttato in una pratica (la carta<br />
magnetica, per esempio), offrono però un’alternativa ai supporti <strong>di</strong> iscrizione<br />
delle unità del valore monetario (le banconote). Peraltro, essendo stato occultato<br />
dalla linguistica strutturale lo statuto materiale del <strong>di</strong>scorso verbale orale, la<br />
maggior parte delle analisi delle interazioni orali poggia su questa stessa sincope<br />
“dematerializzante”, che “<strong>di</strong>sincarna” le pratiche relative al linguaggio e che<br />
deve evidentemente essere rimessa in <strong>di</strong>scussione.<br />
La sincope ascendente può essere ancora più ra<strong>di</strong>cale: sospendendo tutti i<br />
livelli anteriori, essa permette a uno dei livelli del percorso <strong>di</strong> prendere una<br />
sua autonomia e <strong>di</strong> passare per “originario”: così troveremo <strong>degli</strong> oggetti senza<br />
figure-segni né testi apparenti, come la maggior parte <strong>degli</strong> utensili o delle<br />
macchine. Quest’ultima possibilità ci conduce apparentemente ai limiti del<br />
dominio che è tra<strong>di</strong>zionalmente assegnato alla <strong>semio</strong>tica, giacché essa procura<br />
uno statuto <strong>semio</strong>tico a delle manifestazioni sociali e culturali che, al limite,<br />
possono non comportare nessuna “figura-segno”, nessun “testo-enunciato”, e<br />
a fortiori, nessun rapporto con una qualsiasi manifestazione verbale.<br />
Allo stesso modo, si potrebbe essere tentati <strong>di</strong> riconoscere delle pratiche<br />
senza oggetto materiale e <strong>di</strong>rettamente ra<strong>di</strong>cate in una “topo-cronologia”, come<br />
la danza e il mimo. Ma, oltre al fatto che la danza implica un testo musicale,<br />
questo significherebbe <strong>di</strong>menticare che questa topo-cronologia è una struttura<br />
<strong>di</strong> raccolta che fa significare dei corpi. Alcuni non sono “oggetti” nel senso<br />
corrente, ma sono eppure dei supporti <strong>di</strong> iscrizione: l’espressione coreografica<br />
consiste per l’appunto nell’iscrivere delle figure sui corpi dei ballerini, come<br />
or<strong>di</strong>nariamente si fa sugli oggetti, e sono sempre questi “corpi” danzanti che<br />
manifestano il principio <strong>di</strong> resistenza e <strong>di</strong> permanenza proprio del livello oggettuale.<br />
Infine, sincopi ascendenti <strong>di</strong> questo tipo non invalidano la gerarchia dei livelli<br />
<strong>di</strong> pertinenza nella misura in cui nel senso dell’integrazione <strong>di</strong>scendente (cfr.<br />
171
infra) questi utensili o queste pratiche possono creare l’oggetto <strong>di</strong> una notazione<br />
o <strong>di</strong> una rappresentazione testuale, sia anteriore (e allora abbiamo a che<br />
fare con un testo o con un’immagine <strong>di</strong> prefigurazione, per esempio lo schema<br />
grafico <strong>di</strong> un utensile), sia posteriore (e allora abbiamo a che fare con dei testi<br />
e delle immagini <strong>di</strong> rappresentazione, per esempio su una nota <strong>di</strong> montaggio<br />
la fotografia <strong>di</strong> un mobile da montare). Nei fatti talvolta può essere molto <strong>di</strong>fficile,<br />
in assenza <strong>di</strong> un’inchiesta genetica, sapere se si ha a che fare con delle<br />
“prefigurazioni” o con delle “rappresentazioni”, e questo tanto più che ciò che<br />
può passare per una rappresentazione a posteriori per alcuni non sarà che una<br />
prefigurazione a priori per altri.<br />
4.2. Integrazioni e sincopi <strong>di</strong>scendenti<br />
Ogni livello superiore è suscettibile <strong>di</strong> essere manifestato nei livelli inferiori, secondo<br />
il percorso <strong>di</strong> integrazione <strong>di</strong>scendente. L’integrazione ascendente procede<br />
per complessificazione e aggiungendo delle <strong>di</strong>mensioni supplementari, mentre<br />
l’integrazione <strong>di</strong>scendente procede per riduzione del numero <strong>di</strong> <strong>di</strong>mensioni. Ma i<br />
due percorsi non sono l’uno l’inverso dell’altro: nell’integrazione ascendente un<br />
testo si troverà iscritto su un oggetto e manipolato in una pratica; nell’integrazione<br />
<strong>di</strong>scendente una pratica si troverà emblematizzata da un oggetto, o messa in scena<br />
in un testo. La <strong>di</strong>fferenza tra i due percorsi poggia sulla reciprocità dei percorsi<br />
<strong>di</strong> integrazione: la pratica integra un testo (senso gerarchico ascendente), il testo<br />
integra una pratica (senso gerarchico <strong>di</strong>scendente).<br />
Il caso della danza è particolarmente interessante poiché, da un lato, risponde<br />
perfettamente ai criteri <strong>di</strong> una pratica, schematizzabile in “scena pre<strong>di</strong>cativa” e,<br />
dall’altro, integra evidentemente <strong>degli</strong> “adattamenti” tra i corpi in movimento.<br />
Ora gli adeguamenti spazio-temporali <strong>di</strong>pendono dalle strategie e quando si parla<br />
<strong>di</strong> adattamenti tra due corpi in movimento bisognerebbe per essere più precisi<br />
parlare <strong>di</strong> adattamento tra delle pratiche che implicano corpi in movimento. (che<br />
è il caso della maggior parte delle situazioni della vita quoti<strong>di</strong>ana). In realtà la<br />
danza è una pratica più o meno co<strong>di</strong>ficata che integra (nel senso <strong>di</strong>scendente)<br />
delle forme <strong>di</strong> adattamento strategico e che, a partire da quelli che si presentano<br />
nella vita quoti<strong>di</strong>ana come <strong>degli</strong> adattamenti tra pratiche autonome e concorrenti,<br />
costruisce una sola pratica per due o più corpi. Dunque, proprio come le<br />
pratiche possono essere “messe in testo” in tipi <strong>di</strong> testi particolari, le strategie<br />
possono essere “messe in pratica” in tipi <strong>di</strong> pratiche specifiche.<br />
Nel caso della sincope <strong>di</strong>scendente, una forma <strong>di</strong> vita (ideologia, credenza,<br />
racconti, miti, etc.) può essere condensata e rappresentata in un solo rito (una<br />
pratica particolare), se non ad<strong>di</strong>rittura in una sola figura; in un certo senso è<br />
a una tale sincope e a una tale condensazione che Pascal si appella, quando<br />
raccomanda “mettevi in ginocchio, pregate e crederete”: una forma <strong>di</strong> vita nella<br />
sua totalità si trova allo stesso tempo condensata figurativamente in una pratica<br />
quoti<strong>di</strong>ana, la preghiera, se non nel testo e nel suo libro-supporto, perché questa<br />
pratica è suscettibile <strong>di</strong> generare essa stessa un nuovo <strong>di</strong>spiegamento completo<br />
della forma <strong>di</strong> vita; insomma l’insieme del processo non è “efficace” che nel<br />
172
caso in cui la sincope <strong>di</strong>scendente (dalla forma <strong>di</strong> vita verso la pratica o il testo),<br />
al momento della produzione, provoca una tensione <strong>semio</strong>tica che si risolve, al<br />
momento dell’interpretazione, attraverso un nuovo <strong>di</strong>spiegamento ascendente<br />
(dalla pratica verso la forma <strong>di</strong> vita).<br />
Fatte le debite proporzioni, il logo <strong>di</strong> una marca obbe<strong>di</strong>sce formalmente allo<br />
stesso principio <strong>di</strong> sincope e <strong>di</strong> condensazione “<strong>di</strong>scendente”; ma, siccome si<br />
tratta <strong>di</strong> un “testo”, se non ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> una semplice “figura”, questa condensazione<br />
è prodotta da una sincope <strong>di</strong> più grande portata, la quale produce un<br />
effetto <strong>di</strong> “simbolizzazione”: il logo manifesta allora senza me<strong>di</strong>azione tanto<br />
una scena figurativa tipica (un testo), una pratica (il mestiere della marca),<br />
che una forma <strong>di</strong> vita (dei valori, uno stile strategico, etc.). Allo stesso modo<br />
l’efficacia strategica <strong>di</strong> questa condensazione <strong>di</strong>pende dalla sua capacità <strong>di</strong><br />
produrre una tensione problematica, che invita a un nuovo <strong>di</strong>spiegamento<br />
interpretativo ascendente.<br />
L’integrazione <strong>di</strong>scendente può beninteso procedere senza sincope, e non<br />
produce necessariamente una condensazione della forma <strong>di</strong> vita o della pratica;<br />
al contrario, può anche accompagnarsi a una segmentazione canonica estensiva,<br />
come in una nota tecnica <strong>di</strong> montaggio, che tenta <strong>di</strong> ottimizzare la testualizzazione<br />
<strong>di</strong> una pratica; essa può anche essere accompagnata da una estensione<br />
“esplicativa”, con commenti e analisi (come in un resoconto d’osservazione<br />
etnografica, o un resoconto d’esperienza scientifica).<br />
In questi casi <strong>di</strong> integrazione <strong>di</strong>scendente estensiva (particolarmente quando<br />
una strategia o una pratica sono prese in carico in un testo), “generi” specifici<br />
impongono le loro regole <strong>di</strong> enunciazione e <strong>di</strong> composizione (vale a <strong>di</strong>re le regole<br />
dell’integrazione <strong>di</strong>scendente): questi sono allora, per esempio, delle ricette <strong>di</strong><br />
cucina, dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> impiego, delle istruzioni <strong>di</strong> montaggio, dei <strong>di</strong>scorsi dotti o<br />
tecnici che funzionano, in rapporto alle situazioni stesse, come dei <strong>di</strong>scorsi <strong>di</strong><br />
istruzioni (a proposito della ricetta <strong>di</strong> cucina Greimas parlava più specificamente<br />
<strong>di</strong> “<strong>di</strong>scorsi <strong>di</strong> programmazione”); in una versione ridotta, il testo può anche<br />
essere apposto sull’oggetto, e si ritrova allora la problematica delle iscrizioni<br />
<strong>degli</strong> oggetti-supporto.<br />
4.3. Movimenti combinati<br />
Ma i testi iscritti sugli oggetti implicati nelle pratiche non hanno tutti il medesimo<br />
statuto. Il testo letterario, iscritto in un libro, generalmente non <strong>di</strong>ce niente<br />
del modo in cui bisogna organizzare la pratica nella quale funzionerà come testo;<br />
in compenso la nota <strong>di</strong> montaggio, attaccata su un kit da assemblare, descrive e<br />
organizza la pratica <strong>di</strong> montaggio. Il primo testo è integrato soltanto nel senso<br />
ascendente, mentre il secondo è oggetto d’un doppio movimento: (i) la pratica<br />
è integrata nel testo come prefigurazione <strong>di</strong>scorsiva (nel senso <strong>di</strong>scendente) e<br />
il testo ottenuto è integrato nell’oggetto e nella pratica che lo costruisce come<br />
iscrizione (nel senso ascendente).<br />
Ci si accorge quin<strong>di</strong> che al <strong>di</strong> là del valore metodologico e teorico della<br />
gerarchia dei livelli <strong>di</strong> pertinenza, questo percorso del piano dell’espressione<br />
173
offre delle gran<strong>di</strong> opportunità euristiche, grazie alla combinazione e alla messa<br />
in sequenza dei <strong>di</strong>fferenti percorsi <strong>di</strong> integrazione ascendenti e <strong>di</strong>scendenti.<br />
Gli etnologi hanno spesso descritto delle pratiche terapeutiche africane che<br />
combinano, in realtà, <strong>di</strong>verse operazioni: il <strong>di</strong>sturbo patologico <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo,<br />
manifestato attraverso dei segni (primo livello, quello delle figure) è preso in<br />
carica collettivamente, nel corso <strong>di</strong> una scena co<strong>di</strong>ficata e quasi-rituale (livello<br />
delle pratiche); uno dei momenti chiave <strong>di</strong> questa scena è la produzione <strong>di</strong> un<br />
oggetto (livello <strong>degli</strong> oggetti) che condensa al tempo stesso il <strong>di</strong>sturbo e la ricerca<br />
collettiva <strong>di</strong> una soluzione; l’oggetto in sé susciterà delle verbalizzazioni<br />
(livello dei testi) e altre fasi rituali (pratiche), etc. Infine l’efficacia dell’insieme<br />
<strong>di</strong>pende dalle credenze con<strong>di</strong>vise, da un modo <strong>di</strong> stare insieme, da interazioni<br />
collettive che si fondano su una stessa forma <strong>di</strong> vita (ultimo livello).<br />
I movimenti <strong>di</strong> integrazione si invertono e le sincopi, nei due sensi, si succedono:<br />
il livello d’analisi pertinente è la terapia, in quanto strategia (quinto livello),<br />
ma questa terapia percorre e mette in relazione tutti gli altri livelli <strong>di</strong> pertinenza,<br />
facendo giocare sull’asse sintagmatico parecchi concatenamenti sincretici.<br />
A seconda del caso, l’integrazione <strong>di</strong>scendente è dunque più o meno figurativa,<br />
più o meno intensiva o estensiva, e combinata o meno con delle sincopi<br />
<strong>di</strong> portata più o meno grande. In alcune combinazioni queste integrazioni <strong>di</strong>scendenti<br />
hanno una <strong>di</strong>mensione incitativa o prescrittiva, in altre simbolica o<br />
anche magica; ma in tutti i casi esse partecipano <strong>di</strong> effetti <strong>di</strong>dattici, persuasivi,<br />
connotativi e/o meta-<strong>semio</strong>tici.<br />
4.4. Il caso de Le relazioni pericolose (Laclos)<br />
A questo proposito vorremmo esaminare un caso molto particolare <strong>di</strong> integrazione<br />
<strong>di</strong>scendente, preso a prestito dalla letteratura 11 . Il romanzo epistolare<br />
<strong>di</strong> Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose 12 , si apre infatti, prima della<br />
presentazione delle lettere stesse, con una “Avvertenza dell’e<strong>di</strong>tore” e con una<br />
“Prefazione del redattore”.<br />
L’Avvertenza dell’e<strong>di</strong>tore mette in <strong>di</strong>scussione la questione dell’ “autenticità”<br />
della raccolta <strong>di</strong> lettere e in particolare, sotto forma <strong>di</strong> un’evidente antifrasi, la<br />
verosimiglianza dei costumi che vi sono messi in scena.<br />
Quanto alla Prefazione del redattore, essa si <strong>di</strong>lunga sui proce<strong>di</strong>menti <strong>di</strong> composizione<br />
della raccolta: la selezione e l’or<strong>di</strong>namento delle Lettere, le proposte<br />
e i tentativi <strong>di</strong> accorciamento o <strong>di</strong> mo<strong>di</strong>fica stilistica <strong>di</strong> alcune <strong>di</strong> queste (rifiutati<br />
dagli autori, ci viene detto). Essa affronta in seguito gli obiettivi e le possibili<br />
ricezioni <strong>di</strong> questa pubblicazione: mettere in guar<strong>di</strong>a i lettori dalle persone<br />
<strong>di</strong> cattivi costumi, far conoscere le strategie <strong>di</strong> corruzione per suscitare delle<br />
resistenze o delle contro-strategie; per <strong>di</strong> più, il “redattore” si abbandona a una<br />
11 Questo esempio ci è stato fornito da Y. Matsushito - dottorando dell’<strong>Università</strong> <strong>di</strong> Limoges - nella sua<br />
tesi de<strong>di</strong>cata ai paradossi dell’enunciazione e della prospettiva, nella letteratura e nella pittura.<br />
12 Choderlos de Laclos, Pierre A. F. Les liaisons dangereuses, Durand Neveu, 1782 (trad. it. Le relazioni<br />
pericolose, Garzanti, Milano, 1977, n.e.).<br />
174
curiosa rassegna <strong>degli</strong> anti-lettori (quelli a cui il libro non piacerà): i depravati,<br />
i rigoristi, gli spiriti forti, le persone <strong>di</strong> gusti raffinati, etc.<br />
Questo <strong>di</strong>spositivo mostra insomma la gerarchia concreta (attoriale) che<br />
ricopre quella che viene chiamata l’ “enunciazione presupposta” del romanzo:<br />
<strong>degli</strong> autori che producono delle lettere, un redattore che le sceglie, le ritocca<br />
e le mette in or<strong>di</strong>ne, e un e<strong>di</strong>tore che pubblica il tutto 13 . Ma, facendo questo,<br />
integra parecchi livelli <strong>di</strong> pertinenza:<br />
Degli enunciatori manipolano <strong>degli</strong> enunciatari per via epistolare.<br />
Il redattore mette in scena le lettere entro una pratica letteraria (scelta, riscrittura,<br />
composizione, etc.) i cui interlocutori sono predefiniti: (i) autori che<br />
hanno ancora un <strong>di</strong>ritto sui loro enunciati, (ii) un redattore che mostra il suo<br />
ethos, svela le ragioni della sua scelta, e definisce la tematica della manifestazione<br />
principale e (iii) una serie <strong>di</strong> tipologie <strong>di</strong> lettori che resistono a questa<br />
manipolazione per delle ragioni proprie.<br />
L’e<strong>di</strong>tore installa anche lui un gioco <strong>di</strong> ruoli: <strong>di</strong> fronte a lui non si trovano<br />
dei “lettori” (che sono gli interlocutori accre<strong>di</strong>tati del precedente), ma un<br />
“Pubblico”, ossia un attore collettivo suscettibile <strong>di</strong> comprare l’opera e <strong>di</strong><br />
confrontarla con altre informazioni e esperienze <strong>di</strong> un’altra natura rispetto a<br />
quella della lettura. Il suo <strong>di</strong>scorso poggia essenzialmente sulla non concordanza<br />
tra queste esperienze e quella che procurerà la lettura dell’opera. Il redattore<br />
avrebbe raccolto delle lettere che esprimevano dei costumi <strong>di</strong> un altro luogo e/o<br />
<strong>di</strong> un altro tempo, per farli passare per costumi attuali e francesi. Quin<strong>di</strong> questo<br />
<strong>di</strong>scorso concerne l’ “adattamento” tra pratiche <strong>di</strong>stinte e tra le esperienze che<br />
corrispondono loro: il tema dell’inautenticità e del <strong>di</strong>vario presuppone che sia<br />
stato qui cambiato il livello <strong>di</strong> pertinenza e che ci si interessi alla congruenza e<br />
all’adattamento strategici. Insomma, denunciando qui l’incongruenza del quadro<br />
dei costumi che si costituirà durante la lettura del libro in considerazione delle<br />
osservazioni e delle pratiche quoti<strong>di</strong>ane e contemporanee dei lettori, l’E<strong>di</strong>tore<br />
ci fa passare al livello delle “strategie”.<br />
L’integrazione <strong>di</strong>scendente che permette <strong>di</strong> “mettere in testo” al tempo stesso<br />
la strategia (e<strong>di</strong>toriale e commerciale), la pratica (redazionale) e lo scambio<br />
testuale (epistolare) s’accompagna a parecchi effetti degni <strong>di</strong> nota.<br />
Per cominciare, una segmentazione del testo in tre “generi” <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>versi,<br />
l’avvertenza, la prefazione e le lettere, che pone dei temibili problemi a chi<br />
voglia definire i limiti del “testo”. Questa <strong>di</strong>fferenziazione <strong>di</strong> generi permette<br />
anche <strong>di</strong> compensare l’ “appiattimento” del <strong>di</strong>spositivo <strong>semio</strong>tico: ribattute<br />
all’interno <strong>di</strong> uno stesso testo, le <strong>di</strong>fferenti istanze che sono la strategia, la<br />
pratica e il testo-enunciato sono ancora riconoscibili e gerarchizzate attraverso<br />
il loro genere (avvertenza, prefazione e lettere).<br />
13 Sotto certi aspetti questa stratificazione <strong>di</strong> ruoli coincide parzialmente con quella <strong>di</strong> Ducrot, poiché<br />
potremmo ritrovare qui, grosso modo e fatte le debite proporzioni, dei “lettori-enunciatari” (nei confronti<br />
del testo), dei “lettori in quanto tali” (nei confronti del libro), e dei “lettori-esseri del mondo”<br />
(nei confronti della pubblicazione, e<strong>di</strong>zione dell’opera).<br />
175
Formalmente e secondo la concezione tra<strong>di</strong>zionale dei “piani <strong>di</strong> enunciazione”<br />
questi tre generi <strong>di</strong>pendono da tre enunciazioni che si incassano le une<br />
nelle altre. Eppure le cose sembrano un po’ più complesse, appena si osserva<br />
che questi piani <strong>di</strong> enunciazione non sono “fermi” e che è ammesso un certo<br />
numero <strong>di</strong> interazioni:<br />
- Il redattore propone delle mo<strong>di</strong>fiche agli autori delle lettere, i quali le rifiutano.<br />
- Il redattore giu<strong>di</strong>ca il comportamento <strong>degli</strong> autori delle lettere in qualità <strong>di</strong><br />
autori dei costumi raccontati.<br />
- Il redattore cerca <strong>di</strong> persuadere della sua buona fede e della sincerità l’insieme<br />
dei lettori potenziali, ivi compreso l’e<strong>di</strong>tore.<br />
- L’e<strong>di</strong>tore reputa inautentico il testo proposto dal redattore, e non si lascia<br />
dunque persuadere.<br />
Non possiamo dunque considerare che questi <strong>di</strong>fferenti piani <strong>di</strong> enunciazione<br />
sono dei semplici “strati” autonomi; a una certa con<strong>di</strong>zione tutte queste enunciazioni<br />
interagiscono tra loro: questa con<strong>di</strong>zione è quella dell’integrazione<br />
ascendente o <strong>di</strong>scendente che fa sì che, per esempio, il redattore e gli autori<br />
possano scambiarsi, poiché appartengono in questo momento alla stessa pratica<br />
(quella della revisione/composizione della raccolta); o ancora che l’e<strong>di</strong>tore e<br />
il redattore non possano scambiarsi che in modo unilaterale, nella misura in<br />
cui il primo non ha ammesso il secondo come interlocutore nel <strong>di</strong>spositivo<br />
strategico che valuta.<br />
Per chiarire l’insieme, si è dunque portati a considerare che lo stesso attore<br />
assumerà dei ruoli tematici e attanziali <strong>di</strong>fferenti a seconda del livello <strong>di</strong> pertinenza<br />
nel quale lo si colga: così gli “autori” delle lettere sono:<br />
(i) enunciatori nelle lettere, per gli enunciatari e i protagonisti;<br />
(ii) autori responsabili nella prefazione, per il redattore e i lettori, e<br />
(iii) persone che testimoniano dei costumi nell’avvertenza, per l’e<strong>di</strong>tore e il<br />
Pubblico.<br />
Ma questa integrazione <strong>di</strong>scendente produce pure un raffronto che resta indeci<strong>di</strong>bile,<br />
tra la “verosimiglianza” e la “verità” <strong>di</strong> queste lettere.<br />
(i) il redattore confessa <strong>di</strong> aver sacrificato, suo malgrado, la verosimiglianza<br />
(composizionale, stilistica) alla verità: egli ha dovuto conservare le “vere”<br />
lettere scritte dagli autori, e<br />
(ii) l’e<strong>di</strong>tore denuncia l’ “autenticità” (la verità) a partire da un errore <strong>di</strong> verosimiglianza<br />
(la non congruenza tra i costumi attuali e i costumi messi in<br />
scena);<br />
(iii) questo raffronto non è indeci<strong>di</strong>bile (chi ha ragione?) che in ragione dell’integrazione<br />
<strong>di</strong>scendente che li posiziona nello stesso testo; ma se si <strong>di</strong>spiegano<br />
i livelli <strong>di</strong> pertinenza, non ci si stupirà più che, in una prospettiva etica<br />
(quella del redattore), la verosimiglianza e la verità si combattano e che,<br />
in una prospettiva <strong>di</strong> strategia e<strong>di</strong>toriale e commerciale, la prima prevalga<br />
sulla seconda.<br />
176
Questa messa in scena è essa stessa propria <strong>di</strong> un’epoca e <strong>di</strong> una cultura, dove<br />
le mises en abîme e le enunciazioni incassate sono particolarmente apprezzate,<br />
il tutto nel corso <strong>di</strong> una crisi della rappresentazione letteraria. Essa sviluppa<br />
una sorta <strong>di</strong> “meta-<strong>semio</strong>tica” del testo <strong>di</strong> finzione, in cui si può riconoscere<br />
contemporaneamente un’estetica, un’etica e un’ideologia della produzione<br />
letteraria.<br />
Infine essa procura all’utente-lettore un percorso <strong>di</strong> manipolazione-identificazione<br />
particolarmente sofisticato, mettendo in scena per lui, e in tre strati<br />
successivi, il suo “ingresso in materia”: pubblico per l’e<strong>di</strong>zione, lettore per<br />
l’opera redatta, e narratario in<strong>di</strong>screto della finzione epistolare. Questo percorso<br />
è in se stesso inevitabile, ma la sua iscrizione nel testo lo problematizza<br />
e permette, attraverso il raffronto indeci<strong>di</strong>bile delle posizioni, <strong>di</strong> sottometterlo<br />
a una valutazione critica e dunque <strong>di</strong> manipolare sistematicamente i <strong>di</strong>versi<br />
ruoli che l’enunciatario deve assumere.<br />
4.5. La retorica dei livelli <strong>di</strong> pertinenza<br />
Queste inversioni e queste sincopi del percorso <strong>di</strong> integrazione dei livelli<br />
<strong>di</strong> pertinenza non sono altro che operazioni retoriche che operano su delle<br />
espressioni per indurre una problematizzazione dei contenuti e delle tensioni<br />
da risolvere.<br />
Per esempio, la condensazione <strong>di</strong> una pratica in un pittogramma produce un<br />
“appiattimento” <strong>di</strong> parecchi elementi della pratica quoti<strong>di</strong>ana corrispondente<br />
ma, facendo questo, essa potenzializza le loro relazioni, in particolare attanziali<br />
e modali, e ciò in ragione del fatto che non prende in carico la totalità dei ruoli<br />
della scena pre<strong>di</strong>cativa: l’interpretazione del pittogramma imporrà allora una<br />
“ricostituzione” della scena, vale a <strong>di</strong>re un ri-<strong>di</strong>spiegamento e una “messa in<br />
rilievo” al livello superiore, e una realizzazione <strong>di</strong> ciò che non era che potenziale<br />
nel pittogramma.<br />
Riguardando gli oggetti, la sincope ascendente (quella che sopprime ogni<br />
riferimento a un testo o a delle figure-segno identificabili) virtualizza la funzione<br />
<strong>di</strong> iscrizione della superficie dell’oggetto; ma l’analisi funzionale delle sue<br />
parti e l’analisi plastica mostrano che, in un modo o nell’altro, esso continua a<br />
comunicare all’utente qualche regola <strong>di</strong> utilizzo; peraltro, alla lunga, la patina<br />
dell’uso si ristabilirà sulla superficie dell’oggetto, come per un palinsesto, il<br />
“testo” delle impronte accumulate. Anche virtualizzata, la superficie <strong>di</strong> iscrizione<br />
(l’oggetto come “supporto materiale”in attesa <strong>di</strong> un testo) resta un orizzonte<br />
<strong>di</strong> interpretazione: è così che lo stu<strong>di</strong>oso <strong>di</strong> preistoria riconosce un utensile,<br />
identificando sia una morfologia <strong>di</strong>fferenziale dell’oggetto (iscrizioni legate<br />
alla loro concezione), sia delle tracce che segnalano delle zone <strong>di</strong> impatto<br />
(iscrizioni legate all’uso).<br />
Queste inversioni del movimento <strong>di</strong> integrazione, e queste sincopi che lo<br />
colpiscono, inducono e nascondono dunque, da un punto <strong>di</strong> vista strategico,<br />
delle sostituzioni, delle tensioni e delle competizioni tra i <strong>di</strong>fferenti livelli<br />
dell’espressione, e delle operazioni sui mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> esistenza (virtualizzazione,<br />
177
potenzializzazione, attualizzazione e realizzazione). Questo insieme <strong>di</strong> proprietà<br />
- da una parte tensioni e competizioni per accedere al piano dell’espressione,<br />
dall’altra risoluzioni e ri-<strong>di</strong>spiegamenti in virtù delle mo<strong>di</strong>ficazioni dei mo<strong>di</strong><br />
<strong>di</strong> esistenza - costituisce la base concettuale stessa della <strong>di</strong>mensione retorica<br />
nella prospettiva <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica tensiva.<br />
5. L’ARGOMENTAZIONE E L’ARTE RETORICA COME “PRATICHE”<br />
L’argomentazione, così come è presa in conto dalla retorica generale, è una<br />
pratica, e la pertinenza <strong>di</strong> ogni argomentazione particolare non può essere definitivamente<br />
stabilita che all’altezza <strong>di</strong> una strategia, se non ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> una<br />
forma <strong>di</strong> vita. Il “testo” stesso dell’argomentazione non permette che <strong>di</strong> fare<br />
delle ipotesi sul funzionamento delle strategie argomentative, sulle costrizioni<br />
che impone a queste strategie (o, inversamente, sulle scelte testuali che queste<br />
ultime impongono) o, al limite, <strong>di</strong> abbozzare dei “simulacri” <strong>degli</strong> interlocutori<br />
dell’interazione.<br />
5.1. I costituenti della pratica argomentativa<br />
Il persistente silenzio della teoria <strong>semio</strong>tica sull’argomentazione e la retorica<br />
generale non si spiega solamente attraverso il carattere “pre-scientifico”<br />
delle <strong>di</strong>scipline che se ne occupano ancora negli anni ’70 o ’80; in modo<br />
significativo la voce “Retorica” nel Dictionnaire raisonné de la théorie du<br />
langage (Greimas, Courtés, 1979) non ritiene pertinenti che la “<strong>di</strong>spositio”<br />
(piegandola sulla segmentazione), l’ “inventio” (piegandola sullo stu<strong>di</strong>o della<br />
tematizzazione) e l’ “elocutio” (piegandola su quello della figuratività). Ma<br />
la retorica come “prassi” non comincia a attirare l’attenzione che alla fine<br />
<strong>degli</strong> anni ’90, quando la <strong>di</strong>mensione retorica della “prassi enunciazionale”<br />
è presa in conto dai <strong>semio</strong>logi. Eppure, la “prassi” enunciazionale, in questo<br />
periodo, non fa ancora alcun riferimento a una teoria delle “pratiche” 14 . Infatti<br />
per poter parlare con qualche efficacia dell’argomentazione e della retorica, è<br />
necessario poter convocare, al <strong>di</strong> là del testo persuasivo, la scena della <strong>di</strong>sputa,<br />
la pratica dell’influenza in generale, e trattarli come delle <strong>semio</strong>tiche-oggetto<br />
a parte intera.<br />
A questo proposito, il “testo” persuasivo non è che uno <strong>degli</strong> elementi della<br />
situazione <strong>di</strong> argomentazione, perché devono essere presi in considerazione:<br />
(i) i rispettivi ruoli <strong>degli</strong> interlocutori, che si definiscono in termini attanziali<br />
e in termini <strong>di</strong> ruoli tematici e figurativi;<br />
14 Quanto alla linguistica argomentativa, in particolare quella detta dell’ “argomentazione nella lingua”,<br />
sviluppata attorno e a partire dai lavori <strong>di</strong> O. Ducrot, essa costituisce molto esattamente una forma <strong>di</strong><br />
“appiattimento” testuale, un ribaltamento della pratica all’interno del piano <strong>di</strong> immanenza del testoenunciato,<br />
dove l’insieme delle procedure argomentative, colte nel lessico e nella sintassi, <strong>di</strong>pendono<br />
allora da una “enunciazione enunciata”.<br />
178
(ii) l’ethos preliminare dell’oratore per l’u<strong>di</strong>torio, che non può ridursi a una<br />
competenza e che è una configurazione complessa, comprendente delle<br />
isotopie figurative e tematiche, delle posizioni assiologiche e dei “simulacri”<br />
modali e passionali;<br />
(iii) la rappresentazione preliminare dell’u<strong>di</strong>torio per l’oratore (dello stesso<br />
tipo configurativo dell’ “ethos”);<br />
(iv) una cultura comune che definisce i generi, i luoghi, i mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> ragionamento,<br />
accettabili o meno, adatti o meno, vale a <strong>di</strong>re un certo numero <strong>di</strong> costrizioni<br />
e <strong>di</strong> tipi argomentativi preliminari all’interazione, che fissano a loro volta dei<br />
contenuti semantici e dei processi sintattici in una prospettiva normativa.<br />
5.2. Le interazioni tra testo, pratica e strategia <strong>di</strong> persuasione<br />
Anche la “situazione <strong>di</strong> argomentazione” si estende qui, come si vede, in due<br />
sensi:<br />
(i) in un senso ristretto, come “scena <strong>di</strong> una pratica” comprendente dei ruoli<br />
attanziali, la loro identità modale e tematica relativa, e i pre<strong>di</strong>cati tipo dell’atto<br />
persuasivo;<br />
(ii) in un senso più ampio, come “strategia”, estesa sia nel tempo e nello spazio<br />
che per quello che riguarda il numero <strong>degli</strong> attori (poiché sono menzionate<br />
delle “culture” e dei “gruppi sociali”); questa “strategia” tiene conto in particolare<br />
della memoria collettiva delle interazioni argomentative anteriori<br />
e dell’identità costruita e acquisita <strong>degli</strong> interlocutori.<br />
5.2.1. Ethos dell’enunciatore e rappresentazione dell’enunciatario<br />
Nella pratica argomentativa tutti questi elementi interagiscono e la comprensione<br />
del <strong>di</strong>scorso persuasivo è incompleta se non si possono apprezzare gli effetti<br />
dell’ethos e delle rispettive e reciproche rappresentazioni <strong>degli</strong> interlocutori<br />
sulla forza persuasiva <strong>degli</strong> argomenti.<br />
Infatti, l’ethos dell’oratore influisce sulla forza persuasiva <strong>degli</strong> argomenti che<br />
utilizza. Perelman (1958) ha mostrato che a seconda del suo contenuto e del suo<br />
orientamento, egli poteva indebolire o rinforzare gli argomenti utilizzati e che,<br />
all’inverso, il valore <strong>degli</strong> argomenti mo<strong>di</strong>fica l’ethos: è questo che egli chiama<br />
l’effetto “palla <strong>di</strong> neve”; invocare la “forza” <strong>degli</strong> argomenti è invocare la loro<br />
efficacia persuasiva, che bisogna allora <strong>di</strong>stinguere dalla loro “forma” persuasiva:<br />
la “forma” è osservabile nel testo, mentre la “forza” non può essere apprezzata e<br />
pertinentizzata che entro la pratica, in funzione delle reazioni dell’u<strong>di</strong>torio.<br />
Allo stesso modo, la rappresentazione dell’u<strong>di</strong>torio influisce sulla scelta dei<br />
luoghi e dei mo<strong>di</strong> dell’argomentazione; l’u<strong>di</strong>torio “ideale” è una costruzione del<br />
<strong>di</strong>scorso, ma che risulta da un’analisi e da un adattamento tra il suo “profilo”<br />
presunto e i luoghi o i tipi <strong>di</strong> argomenti che si confanno a questo profilo.<br />
Le interazioni possono dunque <strong>di</strong>venire estremamente complesse, poiché, per<br />
esempio, se la scelta <strong>degli</strong> argomenti può avere un effetto sull’ethos dell’oratore,<br />
e se la scelta <strong>degli</strong> argomenti <strong>di</strong>pende da un’analisi delle attese dell’u<strong>di</strong>torio,<br />
allora in fin dei conti la costruzione dell’ “immagine dell’u<strong>di</strong>torio” e quella dell’<br />
179
“immagine del sé” sono legate per transitività. Ma non si può rendere conto <strong>di</strong><br />
questa transitività (e reciprocità) delle interazioni che andando e venendo dal<br />
testo persuasivo al fuori testo, vale a <strong>di</strong>re piazzandosi all’altezza <strong>degli</strong> elementi<br />
attanziali, tematici e modali della pratica stessa.<br />
5.2.2. L’intersezione assiologica<br />
La selezione dei luoghi, in particolare, <strong>di</strong>pende strettamente dalle interazioni<br />
prassiche, poiché in definitiva, comincia per ricostituire potenzialmente le rispettive<br />
ideologie <strong>degli</strong> interlocutori dell’argomentazione, e mira in seguito a<br />
un’ipotetica intersezione negoziabile tra questi loro <strong>di</strong>versi sistemi <strong>di</strong> valori. Se<br />
uno <strong>degli</strong> interlocutori utilizza <strong>di</strong> preferenza i luoghi della quantità (il numero<br />
più grande vale <strong>di</strong> più del numero più piccolo) e se l’altro non è sensibile che<br />
agli argomenti della quantità (lo scandalo, la rarità e l’eccellenza valgono <strong>di</strong><br />
più del grande numero), allora l’oratore non ha che due soluzioni:<br />
(i) o una strategia <strong>di</strong> compromesso: egli non utilizzerà i luoghi della quantità che<br />
nella misura in cui restano compatibili con lo scandalo e l’eccellenza;<br />
(ii) o una strategia <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza enunciativa: grazie a un gioco polifonico <strong>di</strong><br />
citazioni e <strong>di</strong> allusioni, egli farà assumere i luoghi della quantità da una<br />
“voce” debraiata, la quale gli permetterà <strong>di</strong> non compromettere il suo ethos<br />
agli occhi del suo interlocutore che preferisce l’altro tipo <strong>di</strong> argomento.<br />
Le due soluzioni sviluppano un’“intersezione assiologica”: il compromesso,<br />
sotto forma <strong>di</strong> intersezione para<strong>di</strong>gmatica, pre<strong>di</strong>sponendo una zona comune;<br />
la <strong>di</strong>stanza enunciativa, sotto forma <strong>di</strong> una co-esistenza sintagmatica, grazie<br />
all’istallazione <strong>di</strong> una terza enunciazione.<br />
La negoziazione dell’intersezione assiologica non può descriversi che all’altezza<br />
della pratica, poiché nel solo testo non si potrà osservare che il risultato<br />
linguistico (<strong>degli</strong> enunciati assiologicamente neutri, o <strong>degli</strong> eventuali scarti tra<br />
piani <strong>di</strong> enunciazione). Il caso <strong>di</strong> questi ultimi è particolarmente significativo<br />
poiché, per riconoscere l’effetto strategico <strong>di</strong> questi scarti enunciazionali, bisogna<br />
identificare la <strong>di</strong>vergenza assiologica, ricostituire i sistemi in presenza e<br />
imputarli a ciascun interlocutore; tanto vale <strong>di</strong>re: bisogna, come Buffon con il<br />
suo osso fossile, ricostituire l’insieme della scena pratica.<br />
Inoltre appena si tenta <strong>di</strong> rendere conto <strong>di</strong> questi tipi <strong>di</strong> effetti argomentativi<br />
in termini <strong>di</strong> intensità (la “forza” <strong>di</strong> impegno e/o <strong>di</strong> persuasione) e <strong>di</strong> estensione<br />
(la portata dell’argomentazione, e l’estensione dell’u<strong>di</strong>torio suscettibile<br />
<strong>di</strong> essere persuaso), vale a <strong>di</strong>re poggiandosi sulle tensioni tra valenze inverse<br />
(la valenza <strong>di</strong> intensità e la valenza <strong>di</strong> quantità), si convoca ipso facto la scena<br />
pre<strong>di</strong>cativa della pratica. Infatti, solo gli interlocutori della pratica pre<strong>di</strong>cativa,<br />
e non le istanze enuncianti del solo testo, possono esercitare una percezione<br />
delle valenze graduali e assumere le posizioni assiologiche estreme definite da<br />
queste due valenze, quand’anche le forme testuali (compromesso e <strong>di</strong>stanza<br />
enunciativa) riguardano la neutralità e i gra<strong>di</strong> più deboli. Insomma la valutazione<br />
delle “valenze” argomentative è un atto che è ancorato nella pratica, mentre i<br />
valori <strong>di</strong>fferenziali che derivano si manifestano nel testo stesso.<br />
180
5.2.3. Le presunzioni<br />
La questione della “presunzione” è veramente molto complessa: sappiamo che<br />
al momento dell’interazione le attese dell’ascoltatore, come anche la reputazione<br />
dell’oratore, possono essere solo oggetto <strong>di</strong> “presunzioni”: per esempio,<br />
nel genere giu<strong>di</strong>ziario ciascuno dei due interlocutori può attribuire all’altro<br />
dei “pregiu<strong>di</strong>zi” a proposito della causa che deve essere stabilita e giu<strong>di</strong>cata;<br />
i “pregiu<strong>di</strong>zi” non derivano <strong>di</strong>rettamente dall’interpretazione delle posizioni<br />
adottate nel <strong>di</strong>scorso argomentativo e devono essere l’oggetto <strong>di</strong> un “calcolo”<br />
e <strong>di</strong> una imputazione a titolo <strong>di</strong> “potenziale” e <strong>di</strong> credenza preliminare; non<br />
sono dunque che delle presunzioni, e si sa che queste presunzioni indeboliscono<br />
gli argomenti che utilizza l’oratore, dal momento che esse sembrano allora più<br />
determinate dalle posizioni e dalle credenze anteriori e potenziali che gli vengono<br />
attribuite piuttosto che dalla preoccupazione <strong>di</strong> costruire la verità davanti<br />
all’u<strong>di</strong>torio e <strong>di</strong> fornire a quest’ultimo gli elementi per giu<strong>di</strong>care.<br />
Nel testo le presunzioni possono funzionare come semplici presupposti,<br />
eventualmente ricostruibili a partire dagli enunciati prodotti: è il caso <strong>di</strong> ogni<br />
argomento, per esempio, che “fa come se” l’accusato fosse già stato reputato più<br />
o meno colpevole, o più vagamente, “condannabile”. Ma in questo caso non è più<br />
possibile <strong>di</strong>stinguere i presupposti or<strong>di</strong>nari che non hanno effetti sull’orientamento<br />
argomentativo dai presupposti <strong>di</strong> credenza che funzionano come presunzioni.<br />
Più in generale, anche, non si può interpretare un presupposto come presunzione<br />
a meno che non ci si riferisca all’orizzonte d’attesa dello scambio argomentativo,<br />
una sorta <strong>di</strong> promessa implicita che è associata al fatto stesso <strong>di</strong> avviare un tale<br />
scambio. Vale a <strong>di</strong>re che, se si cerca <strong>di</strong> persuadere un altro, è per con<strong>di</strong>videre con<br />
lui una verità in costruzione, e non per imporgli un’opinione preliminare; in altri<br />
termini, la presunzione non può essere intesa come tale che sullo sfondo <strong>di</strong> una<br />
struttura tensiva la quale, all’altezza della pratica argomentativa o anche della<br />
strategia, associa attraverso una correlazione inversa la forza <strong>degli</strong> argomenti<br />
attuali e il grado <strong>di</strong> anteriorità delle credenze su cui questi poggiano.<br />
Lo statuto dei presupposti (e della maggior parte <strong>degli</strong> impliciti) potrebbe<br />
vantaggiosamente essere riconsiderato alla luce delle pratiche, cose che permetterebbe<br />
<strong>di</strong> <strong>di</strong>sfarsi della loro definizione effettivamente troppo logicista (perché<br />
indebitamente troppo testuale). In realtà il presupposto deriva, nel testo, da un<br />
semplice calcolo semantico il cui prodotto è considerato virtuale; in compenso<br />
nella pratica la presunzione è un’attribuzione <strong>di</strong> credenza o <strong>di</strong> pregiu<strong>di</strong>zio, da<br />
uno <strong>degli</strong> interlocutori all’altro; questa attribuzione ha il carattere sia <strong>di</strong> un<br />
giu<strong>di</strong>zio, sia <strong>di</strong> un simulacro passionale proiettato sull’altro e modalizzato<br />
(credere, poter essere, voler essere, etc.), e deriva quin<strong>di</strong> da un atto strategico<br />
e non più da un calcolo semantico.<br />
Inoltre, e anche nel testo, la maggior parte delle figure che poggiano su una<br />
presunzione sfuggono a una simile ricostruzione semantica per presupposizione.<br />
Sono dunque dei componenti della pratica la cui incidenza sulla composizione<br />
testuale resta in<strong>di</strong>retta: Perelman fa osservare, per esempio, che per neutralizzare<br />
anticipatamente ogni presunzione, colui che vuole calunniare deve costringersi<br />
181
a congratularsi all’inizio, o che colui che vuole congratularsi deve fare posto<br />
alla critica e al riserbo, tutto con qualche effetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza nell’assunzione<br />
enunciazionale. Strategia paradossale che, nel testo, non si potrebbe capire,<br />
dopo aver constatato la coesistenza <strong>di</strong> due posizioni contrarie, se non come<br />
l’effetto <strong>di</strong> un’etica della misura, del giusto equilibrio.<br />
Ma, come precisa Perelman, la giusta misura e il senso dell’equilibrio non<br />
sono che <strong>degli</strong> effetti secondari e superficiali (nel testo) <strong>di</strong> una strategia più<br />
profonda e più sofisticata (nella pratica): si tratta <strong>di</strong> <strong>di</strong>ssuadere preliminarmente<br />
l’u<strong>di</strong>torio dall’attribuire all’oratore dei pregiu<strong>di</strong>zi sfavorevoli (quando vuole<br />
biasimare) o favorevoli (quando vuole lodare), e <strong>di</strong> inibire un tipo <strong>di</strong> controstrategia<br />
e <strong>di</strong> routine <strong>di</strong>fensiva che tutto l’u<strong>di</strong>torio potrebbe mettere in opera.<br />
Questa strategia mira insomma a separare da un lato la valutazione che l’u<strong>di</strong>torio<br />
esprimerà sulle argomentazioni, e dall’altra quella che esprime già sulle<br />
presunte opinioni dell’oratore: come <strong>di</strong>ce Perelman si tratta <strong>di</strong> “contenere” il<br />
rapporto tra l’atto (gli argomenti) e la persona (i pregiu<strong>di</strong>zi e l’ethos). Ma nella<br />
prospettiva che abbiamo delineato si tratta anche <strong>di</strong> “contenere” il rapporto tra<br />
il contenuto <strong>degli</strong> argomenti (che si può osservare a livello testuale) e l’ethos<br />
acquisito dell’oratore (che non si può osservare che a livello prassico).<br />
5.2.4. Retorica delle integrazioni e sincopi persuasive<br />
Le strategie che vertono sulle presunzioni, l’ethos e le rappresentazioni <strong>degli</strong><br />
interlocutori si appoggiano dunque in parte sulla maggiore o minore solidarietà<br />
tra il testo (il suo contenuto, la sua forma, i suoi argomenti, la sua cre<strong>di</strong>bilità) e gli<br />
altri elementi della pratica. La strategia consiste dunque qui, molto precisamente,<br />
in operazioni <strong>di</strong> integrazione ascendente e <strong>di</strong>scendente (tra il testo, l’enunciato<br />
<strong>degli</strong> argomenti, da una parte e gli elementi della pratica dall’altra), così come<br />
<strong>di</strong> sincopi che possono mascherare o sospendere questa integrazione.<br />
Le operazioni della retorica integrativa tra i piani <strong>di</strong> immanenza non sono<br />
dunque soltanto “descrittive”, ma anche “esplicative” e operative. Nel caso del<br />
<strong>di</strong>scorso argomentativo il percorso e la retorica <strong>di</strong> integrazione così come li<br />
abbiamo definiti sono veramente efficienti e i loro effetti <strong>di</strong>pendono giustamente,<br />
secondo la tra<strong>di</strong>zione, dalla retorica generale. I “contenimenti” e le “rotture”<br />
descritti da Perelman a proposito della pratica argomentativa possono dunque<br />
essere qui definiti come delle strategie retoriche che consistono nel riaffermare<br />
o nell’indebolire l’integrazione ascendente o <strong>di</strong>scendente tra il testo persuasivo<br />
e la pratica argomentativa, e ad<strong>di</strong>rittura la situazione inglobante.<br />
5.2.5. Il tempo della pratica e della strategia<br />
Per <strong>di</strong> più è da molto che è stato fatto osservare (in particolare da Aristotele)<br />
che il tempo della persuasione giocava anche un ruolo nella significazione e<br />
nel peso <strong>degli</strong> argomenti. Ma questo “tempo” è evidentemente quello <strong>di</strong> una<br />
pratica <strong>di</strong>scorsiva e non quello <strong>di</strong> un testo enunciato.<br />
Per esempio si constata che l’adesione dell’ascoltatore al <strong>di</strong>scorso fluttua in<br />
funzione della rapi<strong>di</strong>tà o della lentezza, dell’urgenza o della <strong>di</strong>lazione, ed essa<br />
182
“prende un certo tempo” incomprimibile ma elastico. L’argomentazione può<br />
essere ripetuta, interrotta, ripresa: questo tempo non è quello del testo bensì<br />
quello dell’azione, cioè quello della sua prassi enunciazionale.<br />
Nello stesso modo, quando la tattica argomentativa organizza l’or<strong>di</strong>ne <strong>degli</strong><br />
argomenti (nel testo), essa agisce anche sul tempo dell’adesione, delle resistenza<br />
e delle accettazioni (nella scena pratica), poiché si tratta allora <strong>di</strong> modulare non<br />
più soltanto l’or<strong>di</strong>ne testuale ma la forza relativa <strong>degli</strong> argomenti, in funzione<br />
della supposta evoluzione della ricettività postulata dell’enunciatario, evoluzione<br />
che si produce nel corso dello svolgimento della scena pratica, e non nel<br />
testo. Si tratta sempre del tempo della pratica.<br />
In compenso <strong>di</strong>pendono dal tempo della strategia le fasi anteriori e posteriori<br />
alla scena argomentativa propriamente detta, che non<strong>di</strong>meno esercitano<br />
un’influenza decisiva sulla condotta dell’argomentazione:<br />
- le fasi anteriori: costituzione dell’ethos acquisito, reputazione, notorietà,<br />
etc.; accumulo <strong>di</strong> luoghi, <strong>di</strong> usi retorici, motivazioni della <strong>di</strong>sputa o della<br />
produzione del <strong>di</strong>scorso; eventi <strong>di</strong>versi, esperienze che devono essere oggetto<br />
<strong>di</strong> ricor<strong>di</strong>, <strong>di</strong> racconti e <strong>di</strong> interpretazione e che “motivano” il <strong>di</strong>scorso<br />
argomentativo;<br />
- le fasi posteriori: cambiamento <strong>di</strong> credenza, acquisizione <strong>di</strong> conoscenze,<br />
sviluppo della competenza, passaggio alla decisione e all’azione, etc., che<br />
orientano e finalizzano il <strong>di</strong>scorso argomentativo.<br />
Le une e le altre fanno parte <strong>di</strong> altre pratiche rispetto a quella in corso. In<br />
particolare, è bene mettere l’accento sulla fase ulteriore rispetto alla scena<br />
strettamente argomentativa: la credenza, l’adesione, la decisione, o l’azione che<br />
si ritiene possano seguire la conclusione argomentativa - almeno se questa è<br />
stata riconosciuta e con<strong>di</strong>visa - costituiscono anche il momento <strong>di</strong> ricompensa<br />
e <strong>di</strong> riconoscimento dell’attante persuasivo. Inoltre, il passaggio alla decisione<br />
o all’azione può essere ritardato: una struttura aspettuale permette dunque <strong>di</strong><br />
strutturare il tempo argomentativo che anche in questo caso eccede non soltanto<br />
il testo, ma anche la sua enunciazione pratica, poiché si basa su un programma<br />
d’azione più vasto, all’interno del quale essa stessa viene compresa.<br />
Queste proprietà temporali possono essere eventualmente e parzialmente<br />
manifestate nel testo, ma non può essere che sotto forma <strong>di</strong> simulacri, <strong>di</strong><br />
rappresentazioni virtuali o proiettate: il testo può rappresentare questi tempi<br />
della pratica e della strategia argomentativa, ma unicamente in ragione delle<br />
possibili integrazioni <strong>di</strong>scendenti che permettono la “messa in testo” dei livelli<br />
<strong>di</strong> pertinenza superiori.<br />
Ma soprattutto, come ha fatto osservare Aristotele 15 , seguito in questo da<br />
Denis Bertrand (1999), i gran<strong>di</strong> generi della retorica rappresentano anche <strong>di</strong>-<br />
15 Cfr. Aristotele: “V’è chi decide sul futuro, come il membro dell’asssemblea; quello che decide sul<br />
passato, come il giu<strong>di</strong>ce; quello che decide sul talento dell’oratore, cioè lo spettatore; cosicché necessariamente<br />
vi saranno tre generi della retorica: il deliberativo, il giu<strong>di</strong>ziario, l’epi<strong>di</strong>ttico”. (Retorica,<br />
libro 1, capitolo III, 4; trad. it., Opere. Vol. X, Laterza, Roma-Bari, 1973).<br />
183
versi mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> situarsi nel tempo, attraverso l’interme<strong>di</strong>azione della sequenza<br />
narrativa <strong>di</strong> cui costituiscono ciascuno una tappa.<br />
Il deliberativo è rivolto verso il futuro, verso le cose da realizzare, verso i<br />
programmi dell’azione da svolgere, esso anticipa e prevede; il <strong>di</strong>battito, l’arringa,<br />
le <strong>di</strong>scussioni per “rifare il mondo”, il saggio <strong>di</strong> futurologia, l’utopia<br />
politica, il giornale meteo sono alcuni generi <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorso che sfruttano questa<br />
<strong>di</strong>rezione del tempo.<br />
L’epi<strong>di</strong>ttico si occupa del presente (eventualmente allargato) dei valori: quale<br />
che sia la posizione temporale dell’atto o della persona da valutare, è sempre<br />
quella che è valida in questo momento che è enunciata, messa in scena, presentata<br />
come vivente per lo spettatore; l’orazione, il <strong>di</strong>tirambo, l’apologia, il<br />
complimento, il brin<strong>di</strong>si, le felicitazioni, il biasimo: tutti questi generi decidono<br />
dell’assiologia al presente e “in presenza”.<br />
Il giu<strong>di</strong>ziario decide infine del passato, valuta il compimento <strong>di</strong> un atto e,<br />
retrospettivamente, rapporta le azioni a intenzioni e a obiettivi anteriori, così<br />
come all’insieme dei giu<strong>di</strong>zi della stessa natura <strong>di</strong> cui la collettività ha serbato<br />
il ricordo: la storia, l’inchiesta, il giornalismo investigativo, la perorazione e<br />
la requisitoria ne sono dei generi derivati.<br />
È molto chiaro che questi tre orientamenti temporali (prospettivo, presentificante,<br />
retrospettivo) non funzionano che all’altezza della pratica argomentativa,<br />
e che, se con<strong>di</strong>zionano alcune scelte temporali nel testo stesso (cosa che non è<br />
assicurata), non sono completamente compresi nella narrazione; nel testo, per<br />
esempio, il genere giu<strong>di</strong>ziario può presentarsi semplicemente come un racconto<br />
(dei fatti da ricostruire) e non è che nella pratica inglobante che esso assumerà<br />
tutta la sua <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> sanzione.<br />
Più in generale se c’è una sequenza narrativa canonica soggiacente alla<br />
sud<strong>di</strong>visione dell’arte retorica in tre generi, essa non può rendere conto che<br />
della struttura narrativa (attanti, modalità, trasformazioni) <strong>di</strong> una pratica argomentativa<br />
collettiva (<strong>di</strong> una macro-scena pre<strong>di</strong>cativa), la cui portata è quella<br />
dell’intera vita <strong>di</strong> una comunità umana. Ciascuno dei tre generi caratterizza<br />
e specifica dei momenti <strong>di</strong> questa pratica definendo delle “sottopratiche” e<br />
colorendo <strong>di</strong>fferentemente i ruoli e le relazioni attanziali allo stesso tempo dei<br />
regimi temporali. Dunque, non è che all’interno <strong>di</strong> questi generi prassici che è<br />
possibile definire dei “generi testuali” (per esempio, per il genere della prassi<br />
giu<strong>di</strong>ziaria, i sotto-generi testuali storici e giornalistici), sapendo che questi<br />
sotto-generi testuali fanno appello alle proprietà attanziali e narrative del genere<br />
prassico inglobante.<br />
6. PER FINIRE: ACCENNI TIPOLOGICI<br />
Questa presentazione che mirava principalmente a stu<strong>di</strong>are le relazioni e interazioni<br />
tra “testi” (testi verbali, immagini, etc.) e “scene pratiche” ha permesso<br />
<strong>di</strong> fare l’inventario provvisorio delle relazioni critiche tra questi due piani <strong>di</strong><br />
184
immanenza, che devono essere esplorati più attentamente e essere fatti oggetto,<br />
eventualmente, <strong>di</strong> descrizioni tipologiche e sintattiche. Esse sono essenzialmente:<br />
i. Il ruolo giocato dal testo all’interno dei ruoli e dei costituenti canonici della<br />
scena; può essere aiutante, destinante, oggetto, etc.; può essere il vettore <strong>di</strong><br />
una manipolazione modale o passionale, o semplicemente <strong>di</strong> una prescrizione<br />
circostanziale e tecnica, etc.<br />
ii. Si potrebbe anche, più precisamente, esaminare lo statuto del testo in quanto<br />
oggetto della pratica: può essere prodotto, utilizzato, consumato, <strong>di</strong>strutto,<br />
trasposto, tradotto, etc., e fluttua allora non soltanto tra due ruoli attanziali<br />
(per esempio oggetto modale/oggetto <strong>di</strong> valore) ma anche tra due universi<br />
<strong>di</strong> valore <strong>di</strong>fferenti (a seconda che sia trattato come unico, singolare, eclatante,<br />
o moltiplicabile, riproducibile, ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong>struttibile).<br />
iii. Le interazioni tra i mo<strong>di</strong> <strong>semio</strong>tici e sensibili: da un lato, quello proprio del<br />
testo, e dall’altro, quello <strong>degli</strong> altri costituenti della pratica: si tratta allora<br />
dell’organizzazione tattica dei sincretismi e delle associazioni sensoriali.<br />
iv. Le operazioni <strong>di</strong> integrazione ascendente e <strong>di</strong>scendente, con o senza sincopi,<br />
vale a <strong>di</strong>re la retorica generale dei mo<strong>di</strong> <strong>semio</strong>tici; abbiamo notato in particolar<br />
modo il valore euristico, specialmente nelle pratiche argomentative,<br />
delle interazioni passionali e persuasive tra il testo e la scena pratica.<br />
Resta la sfida maggiore per la <strong>semio</strong>tica delle culture: dopo aver istituito la<br />
<strong>di</strong>versità e la gerarchia dei piani <strong>di</strong> immanenza, occorre prendere delle decisioni<br />
sulla forma del contenuto <strong>di</strong> ciascuno <strong>di</strong> questi piani. Perché finora niente ha<br />
potuto addurre la <strong>di</strong>mostrazione della loro uniformità (le stesse strutture del<br />
contenuto si ritroveranno a tutti i livelli) o della loro <strong>di</strong>stinzione (ogni livello <strong>di</strong><br />
pertinenza <strong>di</strong>sporrebbe delle sue proprie strutture del contenuto). E, per quanto<br />
riguarda il piano <strong>di</strong> immanenza esplorato proprio qui, bisognerà ben domandarsi<br />
se il senso pratico <strong>di</strong>fferisce dal senso testuale e dal senso strategico.<br />
185
Bibliografia<br />
Bertin, Erik<br />
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Bruxelles (trad. it. Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, <strong>Torino</strong>, Einau<strong>di</strong>,<br />
1989).<br />
186
RHÉTORIQUE ET PRAXIS SÉMIOTIQUE.<br />
POUR UNE SÉMIOTIQUE DE L’ABSENCE<br />
Denis Bertrand<br />
Avant-note<br />
Initialement proposé sous le titre “Pratiques rhétoriques” dans le programme du Séminaire<br />
intersémiotique de Paris (2004-05), le texte qu’on va lire s’attache à justifier<br />
les termes de son nouvel intitulé: praxis plutôt que pratique, en raison d’abord des<br />
connotations référentialistes du mot “pratique”, et surtout parce que s’agissant ici de<br />
l’énonciation du sens ou du sens en acte, rapporté à des instances, le mot “praxis”<br />
paraît moins ambigu. Et puis pour une sémiotique de l’absence, par référence et<br />
<strong>di</strong>fférence, par jeu aussi, avec la “sémiotique de la présence” dont on a beaucoup<br />
entendu parler ces dernières années, et qui pourtant, à mes yeux, présuppose certaines<br />
qualités et propriétés de l’absence. On y reviendra bien entendu.<br />
1. INTRODUCTION<br />
Le thème du séminaire cette année manifeste le vœu d’une ouverture considérable<br />
de la sémiotique: comme s’il s’agissait de libérer cette <strong>di</strong>scipline du carcan<br />
187
méthodologique de l’immanence, aussi bien du côté du texte-objet, considéré<br />
comme un “tout de signification” refermé sur lui-même, que du côté de la<br />
théorie contrainte par la règle structurale des <strong>di</strong>fférences, des dépendances et<br />
des tensions internes, considérées comme seules voies d’accès scientifiquement<br />
légitimes à la saisie et à la description des significations. Cette ouverture, du<br />
reste, est déjà depuis longtemps pratiquée par de nombreux sémioticiens: entre<br />
autres, Jean-Claude Coquet, qui oppose au principe d’immanence le principe de<br />
réalité dans une phénoménologie incorporée du langage; ou Eric Landowski, qui<br />
développe aussi depuis longtemps une sémiotique des interactions effectives,<br />
trans-subjectives et trans-objectales, dans l’expérience sensible et actualisée<br />
du sens. Mais cette ouverture néanmoins inquiète: en ouvrant la boîte de Pandore<br />
du réel, la sémiotique ne risque-t-elle pas de perdre son âme, identifiable<br />
justement par la double exigence absolue des règles de pertinence adossées au<br />
principe d’immanence?<br />
De ce point de vue, le texte inaugural de Jacques Fontanille peut être compris<br />
comme une mise en garde, doublée d’une mise en place d’un vaste filet<br />
de protection qui permet de préserver ces règles et ce principe tout en étendant<br />
le champ de la description à l’ensemble des parties prenantes du sens, dans<br />
une sémio-pragmatique générale. Le modèle alors proposé, comme parcours<br />
génératif du plan de l’expression, se présente comme un étagement raisonné<br />
des <strong>di</strong>fférents niveaux d’articulation et d’intégration progressives, allant du<br />
signe aux formes de vie, en passant par les textes, les supports, les pratiques et<br />
les stratégies, ou en sens inverse, remontant les strates, des formes de vie, le<br />
sens globalement vécu, aux textes et aux signes qui en sont les traces locales<br />
et les voies d’accès singulières, avec les conversions et les <strong>di</strong>storsions qui<br />
ne manquent de survenir en chemin, et que l’analyse à travers ce modèle en<br />
quelque sorte prévoit.<br />
Il s’agit d’un modèle d’intégration remarquable, dont les rouages de conversion<br />
d’un niveau à l’autre sont soigneusement verrouillés, et j’ai pu moimême<br />
le vérifier en l’expérimentant lors d’une intervention récente devant les<br />
responsables du design de la RATP qui s’interrogeaient sur les transformations<br />
possibles de la fameuse “tête de vache”, la marque d’arrêt des autobus é<strong>di</strong>fiée<br />
sur les trottoirs parisiens, et m’avaient demandé de leur présenter une analyse<br />
sémiotique de ce signe nommé “potelet” Car le titre “Pratiques sémiotiques”<br />
peut aussi être légitimement entendu comme “exercices pratiques” Et j’aimerais<br />
alors évaluer ce modèle en le confrontant à une autre pratique, d’un<br />
tout autre ordre mais pourtant tout aussi réelle, celle de la lecture d’un auteur<br />
controversé - très précisément parce qu’on ne peut pas s’en tenir à l’immanence,<br />
au sens tra<strong>di</strong>tionnel, de son texte, ou plutôt parce qu’il y a un risque éthique<br />
évident à s’en tenir à cette seule <strong>di</strong>mension, et donc un malaise dans la lecture:<br />
je veux parler de Louis-Fer<strong>di</strong>nand Céline.<br />
Mais le propos que je voudrais développer d’abord concerne les con<strong>di</strong>tions de<br />
la praxis, en envisageant sous un certain angle, que certains jugeront peut-être<br />
trop particulier, le paradoxe de la pratique. Ce paradoxe se fonde, en termes<br />
188
véri<strong>di</strong>ctoires, sur la fausse évidence du concret. Fausse évidence derrière laquelle<br />
je voudrais déceler, en m’en tenant aux catégories de la véri<strong>di</strong>ction, non pas<br />
un “secret” ou un mystère qu’il s’agirait de mettre à nu ou de révéler, ni une<br />
illusion ou un mensonge qu’il s’agirait, à la manière de Nietzsche, c’est-à-<strong>di</strong>re<br />
même “au sens extra-moral”, de dénoncer, mais plus ra<strong>di</strong>calement, une fausse<br />
évidence du concret dans la pratique, au sens du dernier terme restant sur le<br />
carré, et qui ne manque pas de faire problème, celui de la “fausseté”.<br />
C’est là que je situerai ma <strong>di</strong>scussion sur l’absence, auquel je préférerai<br />
substituer en cours d’analyse le terme “d’impropriété”, qui justifie à mes yeux<br />
la montée en puissance d’un champ problématique nouveau, celui de “l’ajustement”<br />
dont Jacques Fontanille a parlé à la suite d’Eric Landowski, et que,<br />
pour ma part, je référerai à la question de la “justesse”, la justesse comme<br />
forme de vie, sur laquelle j’ai travaillé il y a une quinzaine d’années, et qui,<br />
me semble-t-il, permet d’envisager une réponse à la question: ajustement entre<br />
quoi et quoi? Sur la base de quels critères? Dans ce milieu flottant du sens en<br />
pratique, ou plutôt de la praxis du sens, je verrai ainsi se dessiner la place de<br />
la rhétorique, véritable <strong>di</strong>scipline de l’absence et de l’impropriété du sens, qui<br />
en articule l’espace ouvert et peuple de signes sensibles une vacuité toujours<br />
menaçante.<br />
Voilà, à grands traits, le programme que je vais m’efforcer de suivre, avant<br />
de proposer, en seconde partie, les implications d’une telle démarche sur la<br />
saisie effective de la praxis à travers l’exemple que j’ai évoqué.<br />
1. LE PARADOXE DE LA PRATIQUE<br />
Un peu de prétérition… après tout, nous sommes en rhétorique! Je ne parlerai<br />
donc pas des définitions du mot “pratique” dans les <strong>di</strong>ctionnaires, ni de son<br />
histoire (cf. Alain Rey 1 ). Mais je retiendrai pourtant quelques éléments définitionnels¥<br />
Tout d’abord le champ catégoriel de base: praktikê (sous-entendu<br />
tekhnê, comme on parle de tekhnè rhetorikè), qui désigne “la vie active, la conduite<br />
effective, l’application des règles et principes”, est opposé, depuis Platon,<br />
à theoretikê (théorie) ou gnôstikê (gnose) qui désignent l’activité spéculative.<br />
Cette catégorie, dans le projet collectif de ce séminaire, tend à être dépassée,<br />
car il s’agit bien de construire sémiotiquement la théorie de cette pratique.<br />
En deuxième lieu, l’aspectualisation: la <strong>di</strong>mension aspectuelle de la pratique<br />
est double. En effet, d’un côté, par son ancrage originel dans le verbe<br />
prassein (“accomplir, faire, achever”), c’est l’aspect accompli qui y est manifesté,<br />
avec ses valeurs de réalisation effective, d’irréductible achèvement, de<br />
1 N.d.C. Alain Rey, forse meno noto dal pubblico italiano, è un linguista e lessicografo francese che ha<br />
collaborato fin dai primi anni cinquanta con Paul Robert alla stesura del celebre, omonimo <strong>di</strong>zionario e<br />
che è <strong>di</strong>venuto l’emblema <strong>di</strong> una ricerca sulle culture me<strong>di</strong>ata dallo stu<strong>di</strong>o del lessico (si veda l’appena<br />
e<strong>di</strong>to Dictionnaire Culturel en langue française).<br />
189
ce sur quoi on ne peut pas revenir, parce que “c’est fait”; et, d’un autre côté, la<br />
définition courante de la pratique comprend un autre trait aspectuel, celui de<br />
l’itérativité: c’est la “manière habituelle de faire quelque chose” qui se confirme<br />
dans nombre d’expressions figées “avoir la pratique, avoir une bonne pratique<br />
de qqch.”, c’est-à-<strong>di</strong>re “une expérience, une habitude des choses”, et cela va<br />
jusqu’au “par cœur” (je renvoie à “faire qqch. de pratique” aujourd’hui <strong>di</strong>sparu)<br />
et jusqu’à la répétition du rituel: la “pratique religieuse” par exemple. Par cette<br />
double aspectualisation, à la fois accomplie et itérative, la pratique intègre la<br />
<strong>di</strong>mension de l’usage, comprenant la sé<strong>di</strong>mentation temporelle de la mémoire<br />
et la <strong>di</strong>mension impersonnelle, toutes deux échappant à l’assomption immé<strong>di</strong>ate<br />
du jugement in<strong>di</strong>viduel et intégrant de fait une <strong>di</strong>mension de partage collectif.<br />
C’est pourquoi, en reprenant cette notion d’usage au sens hjelmslévien, je<br />
rapporterai la pratique à la praxis, terme qui, depuis son acception chez Marx,<br />
ajoute la <strong>di</strong>mension narrative de la transformation (“transformation du milieu<br />
naturel par l’homme pour répondre à des besoins”, en vue donc d’un résultat),<br />
transformation qui a pour effet d’engager l’in<strong>di</strong>vidu dans la structure sociale.<br />
Rapporté à la signification <strong>di</strong>scursive, le domaine de la pratique, ou de la<br />
praxis, est déjà largement pris en charge par les sciences du langage. Et on<br />
peut craindre d’enfoncer des portes depuis longtemps ouvertes C’est bien,<br />
depuis deux millénaires, l’objet de la rhétorique, on va y revenir. Mais c’est<br />
aussi celui, depuis quelques décennies, de la pragmatique linguistique, dans<br />
laquelle la prise en compte de la situation est constitutive de la définition même<br />
de l’énonciation. Comme on le sait, en suivant O. Ducrot par exemple, les paramètres<br />
de locution et les formes de la polyphonie renvoient à <strong>di</strong>fférents niveaux<br />
d’ancrage repérables dans le <strong>di</strong>scours et dans la situation de <strong>di</strong>scours, qui font<br />
que l’énonciation est conçue comme une résultante de ce qui s’accomplit dans<br />
cet acte de <strong>di</strong>scours.<br />
A cela, bien sûr, il faudrait ajouter les orientations convergentes de la sémiotique<br />
depuis une <strong>di</strong>zaine d’années: la problématique du <strong>di</strong>scours en acte<br />
ou de la signification en acte, l’approche de l’intimité du sens, saisi “au plus<br />
près” de son émergence, dans le corps (J.-C. Coquet), dans les tensions internes<br />
qui se jouent au sein de la catégorie (sémiotique tensive), dans les modes de<br />
coexistence simultanée, éventuellement compétitives, de grandeurs <strong>di</strong>fférentes<br />
et <strong>di</strong>fférenciées par leur mode d’existence et d’avènement (rhétorique tensive),<br />
dans la sémiotique de la présence, des interactions, des ajustements stratégiques<br />
et des effets de contagion du sens (Landowski).<br />
Je voudrais ici, pour terminer cette évocation lapidaire, souligner l’enjeu<br />
paradoxal de la problématique qu’on nomme “pratique”: c’est par le plus proche<br />
et par le plus ténu, par l’intime et le non-articulé, par ce qui est “sans nom”<br />
comme les passions ainsi innommées d’Eric Landowski, par ce qui se noue<br />
au creux de l’esthésie pour que la perception “prenne” et fasse sens (comme<br />
l’iconicité de Jean-François Bordron), c’est par les formes les plus en amont<br />
de l’épreuve signifiante (“l’éprouvé” d’A. Hénault) que se dessinent les voies<br />
190
qui doivent permettre d’appréhender, en aval, la globalité de l’expérience<br />
effective, celle de la signification concrètement vécue, celle que condense le<br />
mot “pratique”.<br />
2. L’ABSENCE, AU CŒUR DE LA PRATIQUE<br />
Ce paradoxe justifie la localisation de mon intervention. Ainsi, à première<br />
vue, la notion de “pratiques sémiotiques” pourrait être assimilée à la prise en<br />
charge de la réalité syncrétique d’une présence du sens. Or, mon objectif est<br />
de suggérer, et de montrer si possible, comment cette présence est en fait con<strong>di</strong>tionnée<br />
par une absence qui lui est corrélée et qu’elle présuppose, ou encore<br />
comment la pratique du sens est fondée sur la réalité impérative d’une absence<br />
(je mets ainsi l’accent sur cela “qui se dérobe”, selon l’expression de Greimas<br />
dans De l’imperfection).<br />
Qu’est-ce que cette absence? Sans chercher à la définir, ni esquisser une<br />
typologie des modes du non-paraître, ou des formes de l’abstention du sens,<br />
je voudrais in<strong>di</strong>quer combien cette problématique forme une véritable trame<br />
dans l’histoire de l’interrogation sémantique, et surtout in<strong>di</strong>quer son lien qui<br />
me paraît essentiel avec la rhétorique.<br />
Il est important de souligner tout d’abord, en effet, combien ce motif de l’absence<br />
est de longue date décliné, depuis le Cratyle de Platon, “Sur la justesse<br />
des noms”, où Hermogène déclare ne “pouvoir (se) persuader que la justesse<br />
du nom soit autre chose qu’un accord et une convention”. Puisque, je cite, “la<br />
nature n’assigne aucun nom en propre à aucun objet”, la chose n’est qu’”affaire<br />
d’usage et de coutume chez ceux qui ont pris l’habitude de donner des noms.” 2 .<br />
Mais, par delà “l’arbitraire du signe” bien connu, et dans beaucoup d’autres<br />
<strong>di</strong>rections, ce motif de l’inadéquation du langage à la réalité a connu de multiples<br />
développements en philosophie, en philosophie du langage, en sémiotique,<br />
développements si nombreux et sans doute si variés dans leurs attendus et dans<br />
leurs implications qu’il serait utile de voir une étude spécifiquement consacrée<br />
à l’examen de ce motif dans l’histoire des idées jusqu’à aujourd’hui. Pour ma<br />
part, je n’en retiendrai que quelques traces, manifestées sous les <strong>di</strong>verses formes<br />
de l’inaccessibilité, de l’imperfection, du manque, de l’impropriété:<br />
- C’est par exemple l’inaccessibilité du “quoi” de l’objet dans la psychologie<br />
de la perception et dans la phénoménologie, de Erwin Strauss à<br />
Merleau-Ponty, la perception se construisant comme <strong>di</strong>scours dans les<br />
collaborations pluri-sensorielles, comblant ainsi les manques et les vides<br />
pour donner consistance à un objet en lui-même insaisissable, en raison<br />
de l’écart irréductible entre l’objet visé et l’objet saisi, écart fondateur de<br />
2 Cité par F. Warin et Ph. Car<strong>di</strong>nali, in F. Nietzsche, Vérité et mensonge au sens extra-moral, [Ecrits<br />
posthumes, 1970-1873], Actes sud, 1997, p. 48.<br />
191
l’intentionnalité (je renvoie ici au noème husserlien, écran et passerelle du<br />
sens, dont l’analyse récente de J.-F. Bordron en termes de fait de langage<br />
articulé en plans de l’expression et du contenu, sous la forme de l’in<strong>di</strong>ce, de<br />
l’iconicité et du symbole régulé, constitue la version, à mes yeux magistrale,<br />
la plus récente.<br />
- D’une autre manière, mais articulant le même motif dans le cadre de son<br />
approche de l’esthétique, on doit situer l’axiologisation aspectuelle de l’imperfection<br />
chez Greimas, fondée sur le paraître imparfait du sens, qu’illustre<br />
cette définition hyper-modalisée de la figurativité, comme “écran du paraître<br />
dont la vertu consiste à entr’ouvrir, à laisser entrevoir, grâce ou à cause de<br />
son imperfection, comme une possibilité d’outre-sens.” (p. 78) Définition,<br />
soit <strong>di</strong>t en passant, qui n’a rien à voir avec les thématiques littéraires et<br />
esthétisantes de l’évanescence et de l’in<strong>di</strong>cible, quoi que celles-ci soient<br />
probablement des formes secondes, in<strong>di</strong>rectes et idéologisées manifestant<br />
de cette réalité de l’absence.<br />
- Et on peut encore aussi rattacher à ce même motif le moteur dynamique<br />
du manque en narrativité, fondement de son orientation téléologique, où la<br />
hantise de l’absence et de la privation figurativise l’inadéquation fondatrice<br />
du sens en l’investissant dans des objets revêtus de valeurs, objets qui<br />
n’existent, en propre, qu’à travers elles.<br />
- Or, j’ai pu constater récemment que c’est encore le même motif qui se trouve<br />
exprimé dans les premières pages du document d’Habilitation à Diriger des<br />
Recherches d’un éminent chercheur en biologie du développement cellulaire<br />
à partir des cellules souches, Bruno Canque (Ecole Pratique des Hautes<br />
Etudes, Paris). Celui-ci place en effet son travail sur l’hématopoïèse (centré<br />
sur les étapes précoces des mécanismes de formation des lymphocytes<br />
dans l’embryon) sous le signe de “l’impropriété du langage”, impropriété<br />
“dont les implications biologiques commencent seulement à être ressenties”<br />
(p. 6). Ce terme, poursuit le chercheur, “qualifie l’inadéquation relative,<br />
l’ajustement imparfait, d’une désignation à son objet.” (id.) Mais l’intérêt<br />
de ce rapprochement se précise lorsqu’on lit, quelques lignes plus loin, que<br />
“cette impropriété constitue très vraisemblablement l’un des caractères<br />
essentiels des systèmes biologiques, non pas du fait de la souplesse, source<br />
d’adaptabilité, qu’elle serait supposer leur conférer, mais plutôt parce qu’il<br />
s’agit très certainement, avec la capacité de mémorisation de l’information,<br />
de l’un des deux déterminants majeurs de l’évolution des êtres vivants.”<br />
(id.) Ce déterminant le conduit à proposer, pour articuler le passage du<br />
physico-chimique non-vivant au vivant, la catégorie de base “inerte” vs<br />
“impropre”! Ainsi, dans la genèse cellulaire du vivant, l’impropriété rend<br />
compte de cette caractéristique qu’ont les agencements complexes qui leur<br />
sont propres, “de se constituer immé<strong>di</strong>atement en objets historiques capables<br />
à la fois d’adaptation, de reproduction et d’évolution” (id.). Et cette<br />
transmission de traits et de caractères <strong>di</strong>stinctifs “inclut nécessairement un<br />
certain degré d’indétermination.” (p. 7)<br />
192
Le terme choisi, “impropriété”, est riche d’implications, et c’est pourquoi je<br />
l’élirai, en le mettant au centre de ma réflexion. En effet, impropriété “provient<br />
à la fois”, comme l’in<strong>di</strong>que le Dictionnaire historique de la langue française<br />
d’Alain Rey, de “impropre” et de “propriété”; mieux, il condense en un lexème<br />
les qualités de l’“impropre” et de la “propriété”. Ainsi, sans forcer le sens, on<br />
peut dégager le conflit sémantique à l’œuvre dans l’impropriété qui signale<br />
simultanément l’inadéquation à l’objet, qu’il ne peut toucher en propre, et<br />
la construction de propriétés qui lui confèrent une existence autonome, des<br />
modalités de régulation, ces caractères qu’ont les “agencements complexes”,<br />
cellules souches ou phénomènes sémantiques, “de se constituer immé<strong>di</strong>atement<br />
en objets historiques” et de faire sens.<br />
C’est ainsi que je voudrais établir ma réflexion sur cette isotopie de base<br />
de l’absence, en en enrichissant la notion et en l’articulant à travers la composition<br />
double et tensive de l’“impropriété”, où se joue cette scène que je<br />
viens d’évoquer de l’impropre et de l’inajusté aux choses mêmes d’un côté<br />
mais aussi, de l’autre côté et de manière complémentaire, des propriétés qui<br />
assurent l’efficience du sens. On peut alors considérer que les “pratiques sémiotiques”<br />
comme prise en charge de la globalité du réel, entre le corps sensible<br />
et les interactions entre sujets et objets de <strong>di</strong>vers ordres dans l’événement de<br />
signification, impliquent que les langages et les croisements de <strong>di</strong>scours qui y<br />
concourent y parviennent effectivement parce qu’il ne touchent pas au réel en<br />
lui-même, mais tracent des parcours, croisent des liaisons, tentent les chances<br />
d’une affectation, précisément à partir de leur impropriété fondatrice, c’està-<strong>di</strong>re<br />
le non-propre d’un côté et le jeu des “propriétés” de l’autre. On parle<br />
bien abusivement d’un sens “propre”. En allant plus loin, on pourrait <strong>di</strong>re que<br />
l’impropre est la con<strong>di</strong>tion de développement des propriétés.<br />
Dans ce cadre général, mon hypothèse est que la rhétorique peut être considérée<br />
à bon droit comme la <strong>di</strong>scipline de cette absence et de cette impropriété. Et<br />
j’entends ici <strong>di</strong>scipline à la fois comme domaine de connaissance et comme<br />
instrument de régulation ou de contrôle. Mon objectif essentiel sera de soutenir<br />
cette hypothèse et d’en développer quelques implications. Pour renforcer et<br />
attester ce caractère d’impropriété, je voudrais renvoyer aux propositions de<br />
Claude Zilberberg sur la rhétorisation des structures élémentaires 3 . Il pose, je<br />
cite, que “la moitié de la rhétorique tropologique, celle qui est “utile” à tout<br />
un chacun, gravite autour de l’intensification, de l’emphase, d’une quête du<br />
retentissement.” Et en se référant ensuite à Tension et signification, il étend<br />
cette catégorie de l’intensification à son complémentaire inverse, en soulignant<br />
que la sémiotique tensive a “mis en avant les notions d’ascendance et<br />
de décadence, lesquelles s’opposent l’une à l’autre, mais non à elles-mêmes.”<br />
3 C. Zilberberg, “Remarques sur le double con<strong>di</strong>tionnement tensif et rhétorique des structures élémentaires<br />
de la signification”, in D. Bertrand et M. Costantini, eds., Transversalité du sens (à par.).<br />
193
De là se dégagent selon lui quatre dynamiques signifiantes, quatre propriétés<br />
caractéristiques du champ rhétorique: celle du relèvement et du redoublement<br />
qui commandent l’intensification et l’emphase; et celle de l’atténuation “qui<br />
éloigne de la saturation et de la plénitude” et de l’amenuisement “qui achemine<br />
jusqu’à la nullité”. Mais, si on accepte que les contenus effectifs de saturation,<br />
de plénitude ou, à l’inverse, de nullité, ne sont pas en eux-mêmes assignables à<br />
une localité définie et restent donc mouvants, soumis à des évaluations fluctuantes<br />
(comme les critères de goût), alors force est de constater que la <strong>di</strong>mension<br />
rhétorique du <strong>di</strong>scours se construit sur l’impropriété sinon fondamentale, du<br />
moins fondatrice, de la signification.<br />
Pour préciser ce point, je voudrais évoquer un caractère essentiel dans l’histoire<br />
de la rhétorique, à savoir ses deux grands modes de manifestation, sa<br />
grande <strong>di</strong>sjonction en deux massifs.<br />
3. LES DEUX MODES DE MANIFESTATION DU RHÉTORIQUE<br />
Dans son exposé introductif sur les “Pratiques sémiotiques”, Jacques Fontanille<br />
a convoqué à deux reprises la <strong>di</strong>mension rhétorique.<br />
Tout d’abord, lorsqu’il analyse ce qu’il a appelé les “rhétoriques ascendantes<br />
et descendantes”. Là se réalise au sein de ce qu’il a défini comme le parcours<br />
génératif de l’expression, des “intégrations et des syncopes”, dans un sens ou<br />
dans l’autre, entre les <strong>di</strong>fférents niveaux d’articulation qu’il a dégagés: du signe<br />
au texte, du texte à son support d’inscription, du support à l’objet, de l’objet<br />
à la pratique, de la pratique aux ajustements stratégiques et de ceux-ci, enfin,<br />
aux formes de vie. Le phénomène de syncope, on s’en souvient, consiste à<br />
‘sauter’ un ou plusieurs niveaux dans le parcours d’intégration canonique”. Il<br />
rejoint clairement le motif de l’absence, à travers les espaces qu’il condense,<br />
synthétise ou libère, à ceci près qu’il suppose une structure sous-jacente fluide<br />
et pleine, non-syncopée. On peut s’interroger sur la nature de cette “plénitude”:<br />
n’est-elle pas avant tout celle du modèle? 4<br />
Et il convoque cette <strong>di</strong>mension rhétorique du <strong>di</strong>scours, en second lieu, lorsqu’il<br />
examine l’argumentation - la tekhnê rhétorique -, en termes de situation, de<br />
pratique et de stratégie, comme interaction effective entre orateur et au<strong>di</strong>teur<br />
(pp. 31-37), et plus largement, lorsqu’il suggère de traiter “la pratique de l’in-<br />
4 J. Fontanille écrit ainsi : “Ces inversions du mouvement d’intégration, et ces syncopes qui l’affectent,<br />
induisent et recouvrent donc, d’un point de vue stratégique, des substitutions, des tensions et des<br />
compétitions entre les <strong>di</strong>fférents niveaux de l’expression, et des opérations sur les modes d’existence<br />
(virtualisation, potentialisation, actualisation et réalisation). L’ensemble : tensions et compétitions en<br />
vue d’accéder au plan de l’expression, résolutions et redéploiement grâce aux mo<strong>di</strong>fications des modes<br />
d’existence, constitue la base conceptuelle même de la <strong>di</strong>mension rhétorique dans la perspective d’une<br />
sémiotique tensive.”, version tapuscrite de l’exposé, p. 24.<br />
194
fluence” comme une sémiotique-objet. Le problème de l’ethos de l’orateur,<br />
celui des présomptions dont il doit contrôler le réglage, celui des phénomènes<br />
de “freinage” et de “rupture” (louer pour blâmer, etc.), celui des orientations<br />
temporelles, etc., ne relèvent pas du texte, mais plutôt, comme il le souligne,<br />
des ajustements stratégiques au sein de la pratique.<br />
Les deux définitions de la rhétorique sont-elles identiques dans chaque cas, leurs<br />
fondements sont-ils les mêmes? Dans le cas des inversions et des syncopes dans<br />
le parcours d’intégration des composantes, il s’agit de la rhétorique telle qu’elle<br />
est définie, selon une approche tensive, d’abord dans Sémiotique et littérature ,<br />
et plus précisément dans “Tensions rhétoriques” (Langages, 2000). A savoir une<br />
problématisation des contenus co-occurrents, mis en concurrence et opérant sur<br />
les modes d’existence du sens (virtualisation, actualisation, réalisation), comme<br />
autant de tensions à résorber ou à résoudre, se donnant comme aire de jeu les<br />
jeux du sens inaccompli. Dans le cas de la tekhnê argumentative, il s’agit cette<br />
fois de la gestion des écarts et des relations entre orateur et au<strong>di</strong>toire, à travers<br />
les ajustements stratégiques des partenaires de la communication.<br />
Comment s’intègrent ces deux approches du phénomène rhétorique?<br />
On peut se demander tout d’abord si elles ne recoupent pas l’ancienne <strong>di</strong>stinction<br />
majeure dans l’histoire de la rhétorique, qui a imposé la frontière, aux<br />
XV e -XVI e siècles, entre la première rhétorique (celle de la prose et de l’argumentation)<br />
et la seconde rhétorique (la poétique), cette <strong>di</strong>stinction s’approfon<strong>di</strong>ssant<br />
par la suite dans le fossé qui s’est creusé entre, d’un côté, la rhétorique<br />
de l’inventio et de la <strong>di</strong>spositio, et de l’autre, la rhétorique de l’elocutio, entre<br />
celle des lieux et des techniques opératoires les plus aptes à convaincre ou a<br />
persuader un au<strong>di</strong>toire, et celle des figures d’ornementation du <strong>di</strong>scours les plus<br />
aptes à susciter l’adhésion sensible du plaire et de l’émouvoir.<br />
Surprenante fracture, qu’on ne saurait réduire à une quantification sous<br />
forme de rhétorique étendue et de rhétorique restreinte (Genette), et qui mériterait<br />
d’être réarticulée plus profondément dans le champ de l’histoire de cette<br />
<strong>di</strong>scipline et de ce qu’elle révèle dans la conception du langage.<br />
Dans la présentation ici évoquée, la <strong>di</strong>stinction est frappante entre, d’un côté,<br />
une rhétorique qui joue sur les creux du sens dans l’échafaudage des niveaux<br />
d’articulation et de leurs plans d’expression, et une rhétorique qui fonde son efficience<br />
sur les marges de manœuvre entre les partenaires du <strong>di</strong>scours en situation.<br />
Cette <strong>di</strong>stinction ne prend-elle pas acte de l’autre <strong>di</strong>stinction attestée par ailleurs,<br />
dans l’histoire de la rhétorique, dont elle proposerait une nouvelle formulation,<br />
en révélant du même coup le fonds commun qui les relie l’une à l’autre?<br />
Or, ce qui ferait en effet étroitement le lien entre ces approches <strong>di</strong>stinctives<br />
et fonderait l’unité des deux massifs rhétoriques, serait précisément cette impropriété<br />
qui est au cœur de la signification en acte, celle précisément qui est<br />
à l’œuvre dans la pratique sémiotique. Et on pourrait alors en dégager deux<br />
régimes d’impropriétés, opérant à deux niveaux <strong>di</strong>fférents, l’un relevant de<br />
la dénomination des choses, et l’autre relevant de l’interaction entre acteurs<br />
(personnes ou objets).<br />
195
4. LES DEUX RÉGIMES D’IMPROPRIÉTÉ: D’OÙ SORTENT LES<br />
INSTANCES?<br />
Avant d’envisager ces deux régimes et pour argumenter la définition générale<br />
que j’ai proposée de la rhétorique comme <strong>di</strong>scipline de l’impropriété,<br />
il me paraît révélateur d’envisager les grands “noyaux sémiques” de cette<br />
<strong>di</strong>scipline - générateurs d’un bon nombre de ses termes-clefs. J’en verrais<br />
quatre, termes stratégiques à mon sens, dont l’agencement est susceptible de<br />
former un véritable schéma rhétorique: ce sont la topie, la phorie, la bolie et<br />
la tropie. Et je m’attacherai, tout en ayant bien conscience des limites d’une<br />
démarche étymologique mais en reconnaissant cependant sa vali<strong>di</strong>té dans un<br />
domaine de lexicalisations savantes peu sujettes aux variations de l’usage,<br />
aux significations originelles, détournées sans doute, mais néanmoins résistantes,<br />
de ces termes.<br />
- La topie (> des topiques à l’isotopie). Le terme, comme chacun sait, est<br />
issu de topos, avec son double sens: “ce qui est relatif à un lieu” et “ce<br />
qui est installé en un lieu”. C’est la problématique centrale des “lieux”<br />
du sens, et plus précisément des “lieux communs” (dans les topiques<br />
aristotéliciennes), ceux qui sont convoqués dans le <strong>di</strong>scours pour asseoir<br />
l’efficacité des enthymèmes, c’est-à-<strong>di</strong>re valant comme “preuve” (les lieux<br />
d’enthymème), assurant la persuasion et le partage du sens entre l’orateur<br />
et son au<strong>di</strong>toire. L’isotopie sémiotique, fille de l’ancienne topique, mais<br />
définie aspectuellement par l’itération d’un élément sémantique dans le<br />
texte, est rapportée à l’immanence du sens, mais elle peut également, sans<br />
altération de sa définition, être comprise comme con<strong>di</strong>tion fondamentale<br />
de la mise en communauté et en partage de la signification <strong>di</strong>scursive,<br />
dans la lecture, dans la conversation, dans l’échange.<br />
- La phorie (> avec au premier rang la célèbre métaphore) vient de pherein,<br />
“porter, supporter, transporter, se mouvoir” (phora, “action de se<br />
mouvoir”). Comme on le sait, ce terme de phorie a été réactivé par la<br />
sémiotique des passions pour désigner le foyer sensible et la mise en<br />
mouvement de la masse thymique, en se catégorisant selon les deux<br />
orientations affectives de l’eu-phorie et de la dys-phorie.<br />
- La * bolie (> avec les métaboles et le symbole et la parabole) est issue<br />
du grec ballein ”jeter, atteindre d’un trait”, le symbole consistant à “jeter<br />
ensemble” du concret et de l’abstrait, et la parabole à “jeter auprès de”,<br />
d’où “mettre côte à côte, comparer”.<br />
- La tropie enfin (avec l’ensemble des figures ainsi techniquement nommées<br />
tropes) articule sa double source grecque, trepein “tourner, <strong>di</strong>riger vers”<br />
et tropos, “qui qualifie généralement tout ce qui concerne le changement”<br />
(A. Rey) et particulièrement le changement de <strong>di</strong>rection, ou plus précisément<br />
encore une réaction d’orientation (cf. les “tropismes” de Nathalie<br />
Sarraute).<br />
196
La sélection de ces quatre termes peut être <strong>di</strong>scutée, mais ils recouvrent selon<br />
moi le foyer rhétorique de la signification. Ainsi, il est frappant de constater que<br />
seul “topie” désigne un contenu localisé, stabilisé, statique, alors que les trois<br />
autres, au contraire, désignent, de manière aspectuellement évolutive, d’abord<br />
la mise en mouvement d’un corps (phorie), puis un déplacement orienté (bolie),<br />
et finalement un changement de <strong>di</strong>rection du sens (tropie). C’est un véritable<br />
schéma! On pourrait alors considérer que la topique forme le référent interne<br />
des autres opérations, chargées en quelque sorte de l’animer. Mais la topique<br />
elle-même est instable, comme le montrent les jeux du “bien entendu” et du<br />
“malentendu” dans l’enthymème. Et toute tentative de référentialiser la topique<br />
dans une ontologie du lieu (en passant de ce qui a lieu d’être dans le <strong>di</strong>scours<br />
au lieu de l’être du sujet, et à son enracinement - dans spatium, il y a spes, dans<br />
espace, il y a espoir… 5 ), tentative effectuée par les phénoménologues de l’Ecole<br />
de Kyôto (Nishida Kitarô) qui ont identifié le sujet et le lieu, est bien sujet à<br />
caution (cf. l’adhésion au totalitarisme qui a marqué cette école philosophique<br />
à la fin des années 1930). Ainsi, la topique, lieu virtuel, incertain et vacillant du<br />
sens voit sa potentialité réalisée dès lors qu’elle prise en charge par les forces<br />
actualisantes de la phorie, de la bolie et, plus généralement, de la tropie.<br />
J’aimerais, dans ce contexte, isoler le caractère propre du trait “bolique”. En<br />
effet s’il agit bien dans l’heureuse réunion du symbolique, transcendant la signification<br />
sensible, et de même dans l’hyperbolique, pour actualiser d’une autre<br />
manière les ascendances du sens, c’est que, préalablement, ces mouvements<br />
reposent logiquement sur une opération première de séparation, de découplage<br />
du réel inaccessible, opération qui pose le “<strong>di</strong>a-bole” avant le “sym-bole”,<br />
ou le <strong>di</strong>a-bolique avant le symbolique. Il faut donc d’abord <strong>di</strong>aboliser pour<br />
pouvoir ensuite symboliser ou hyperboliser. Evidemment, le mouvement de<br />
<strong>di</strong>abolisation, tel que je l’emploie ici doit être entendu avec une valeur neutralisée:<br />
en <strong>di</strong>sant par exemple que la symbolisation est une présupposante et que<br />
la <strong>di</strong>abolisation est une présupposée. La <strong>di</strong>abolie peut être à l’émergence de<br />
contenus ce que le débrayage fondateur est à l’énonciation, une petite schizie,<br />
enfouie dans chaque mot, nécessaire à l’avènement rhétorique du sens, et qui<br />
prend acte de son impropriété fondatrice.<br />
A partir de là, il est possible de revenir aux deux régimes d’impropriétés manifestées<br />
par l’analyse rhétorique du <strong>di</strong>scours, laquelle implique, rappelons-le,<br />
la réalité de son effectuation comme pratique.<br />
4.1. Le premier régime d’impropriété<br />
Le premier régime d’impropriété concerne la dénomination. Je me réfère ici<br />
au texte de Nietzsche, extrait des p. 14 à 16 de Vérité et mensonge au sens<br />
extra-moral (cf. note 1), texte lui-même très court (une trentaine de pages),<br />
5 Cf. H. Mal<strong>di</strong>ney, “Topos, logos, aisthesis”, in coll., Le sens du lieu, Ousia, 1996, p. 14 et 17.<br />
197
un des premiers du philosophe, publié dans les Ecrits posthumes, et portant<br />
en germe selon ses commentateurs la plupart des thèmes futurs de la réflexion<br />
nietzchéenne: la critique de l’humanisme et de l’anthropomorphisme de toute<br />
connaissance (ultérieurement formulée sous le concept de “perspectivisme”),<br />
l’analyse du rôle du langage porteuse de la dénonciation à venir de la “philosophie<br />
de la grammaire” faite de la confusion entre les mots et les choses,<br />
la critique du cogito et des illusions de la conscience, l’analyse des valeurs<br />
comme expression de “besoins vitaux”, la compréhension de l’éthique comme<br />
oubli d’une politique fonctionnant sur le mode de la réminiscence, et surtout<br />
la question de la “vérité”, etc.<br />
Cette liste thématique, développée par les commentateurs François Warin et<br />
Philippe Car<strong>di</strong>nali dans l’é<strong>di</strong>tion de ce texte, en 1997 chez Actes sud, montre<br />
le caractère central de la thèse ici développée, dans le cadre précisément d’un<br />
cours de philologie et de rhétorique, à savoir “l’absence” au creux de la dénomination<br />
elle-même et son statut originellement tropique et métaphorique.<br />
C’est la métaphore et non le concept qui est premier, et celui-ci résulte d’un<br />
engendrement par métaphorisation. On ne sort jamais du champ métaphorique<br />
- et ce texte lui-même l’assume, tout plein qu’il est de métaphores - puisque<br />
le concept même de métaphore est une métaphore, une “translation spatiale”,<br />
imposant donc le <strong>di</strong>scours comme une mise en abyme de métaphores, comme<br />
“métaphores de la métaphore”, selon l’expression de Sarah Koffman, dans<br />
Nietzsche et la métaphore.<br />
Le postulat fondamental est celui de l’inaccessibilité des choses mêmes<br />
(“l’énigmatique X de la chose en soi”, “un X qui reste pour nous inaccessible<br />
et indéfinissable”). A partir de là, la dénonciation consiste à rejeter la “suture<br />
symbolique”, qui verrait dans les sons émis par la voix les “symboles” des<br />
affections de l’âme (selon la tra<strong>di</strong>tion aristotélicienne) et à lui opposer une<br />
“rupture <strong>di</strong>abolique”, au sens où je viens de proposer d’entendre cette image, à<br />
savoir une <strong>di</strong>sjonction préalable entraînant une série <strong>di</strong>sjonctive infinie. Celle-ci<br />
opère en trois temps:<br />
1. Disjonction entre les choses et l’excitation sensorielle dans la perception:<br />
première métaphore. (“Une excitation nerveuse d’abord transposée en une<br />
image! première métaphore.”, p. 13).<br />
2. Disjonction entre l’excitation sensorielle et le mot formé pour désigner:<br />
deuxième métaphore. (“L’image à son tour remodelée en un son! Deuxième<br />
métaphore.”, p. 13).<br />
3. Disjonction entre le mot et le concept, par où s’opèrent les attributions de<br />
valeurs génériques, hiérarchisées, commandantes, et finalement abstraites:<br />
troisième métaphore.<br />
On peut ici noter que la coexistence compétitive du sens, telle qu’elle est<br />
aujourd’hui analysée par la rhétorique tensive, se trouve déjà présente et manifeste,<br />
dès le premier niveau. Au total, “Qu’est-ce donc que la vérité? Une<br />
198
armée mobile de métaphores, de métonymies, d’anthropomorphismes, bref une<br />
somme de corrélations humaines qui ont été poétiquement et rhétoriquement<br />
amplifiées, transposées, enjolivées, et qui, après un long usage, semblent à un<br />
peuple stables, canoniques et obligatoires.” (id., p. 16).<br />
La boucle de mon schéma rhétorique est ainsi bouclée: la topique est tropique.<br />
Mais je voudrais surtout insister sur deux énoncés, dont le premier est antérieur à<br />
l’extrait cité: “La “chose en soi” (ce qui serait précisément la vérité toute pure et<br />
sans effets) reste entièrement insaisissable même pour le créateur de langue et ne<br />
lui paraît nullement désirable.” (p. 13) et le second marque la fin de l’avant-dernier<br />
paragraphe de l’extrait: “Les vérités sont des illusions dont on a oublié qu’elles<br />
le sont, des métaphores qui ont été usées et vidées de leur force sensible”.<br />
Ces deux énoncés séquentialisent, narrativisent et surtout temporalisent le<br />
processus de métaphorisation; des acteurs modalisés prennent place et réalisent<br />
des parcours.<br />
- La phase initiale préside à la création de langue. Elle est marquée par la<br />
non compétence cognitive du créateur: la chose en soi reste inaccessible au<br />
connaître. Et cette modalisation est immé<strong>di</strong>atement doublée d’une autre, de<br />
l’ordre du vouloir, ou plutôt du non-vouloir, cette fois: la chose en soi “ne<br />
lui paraît nullement désirable”, pourquoi? Parce qu’elle romprait le lien de<br />
“perspective”, la corrélation par laquelle les choses sont rapportées à l’homo<br />
loquens grâce à l’image, et par laquelle il contrôle, maintient et entretient<br />
sa relation avec les choses. Qu’en serait-il du face à face du corps sensible<br />
avec les choses mêmes? (on pense aux expériences de mescaline du poète<br />
Henri Michaux, qui “verbalisent” dans l’infra-verbal cet affrontement).<br />
- La phase finale <strong>di</strong>ssipe le créateur de langue dans un collectif in<strong>di</strong>fférencié,<br />
“un peuple” <strong>di</strong>t le texte, les générations d’utilisateurs, de passants de<br />
langue, les vecteurs du “long usage” grâce auquel les figures semblent<br />
“stables, canoniques et obligatoires”. L’usage devient usure, et l’usure est<br />
la con<strong>di</strong>tion de l’impression véri<strong>di</strong>ctoire; je vais y revenir.<br />
Ainsi esquissée, cette histoire de la formation des illusions de vérité dans le<br />
langage est non seulement inscrite dans une pratique, elle est littéralement constituée<br />
par cette pratique, ou plutôt cette praxis, ouvrant la <strong>di</strong>sponibilité des figures,<br />
en fonction de leurs propriétés <strong>di</strong>sjointes des objets, à l’accueil d’une signification<br />
toujours ordonnée par la perspective du <strong>di</strong>scours. A cette considération s’attachent<br />
les analyses de la sémantique structurale (cf. la “tête” de Greimas et non le<br />
“siège” de Pottier) et, exemple parmi tant d’autres dont on a parlé à propos des<br />
relations entre temps et <strong>di</strong>scours, la <strong>di</strong>sponibilité des temps verbaux à accueillir<br />
et à manifester les formes les plus <strong>di</strong>verses de la temporalité.<br />
Ainsi donc aussi, deuxième conséquence, le rhétorique se situe bien en deçà<br />
de la tekhnê qui articule cet espace dans l’intersubjectivité, il tapisse les vides,<br />
s’occupe des impropriétés, et invente les lieux dans le mouvement même de<br />
la désignation.<br />
199
4.2. Le second régime d’impropriété<br />
Le second régime d’impropriété concerne l’argumentation: il correspondrait à<br />
une seconde articulation de l’impropriété première. Et là, je rejoindrai les propositions<br />
de Jacques Fontanille sur “la pratique de l’influence”, fondée sur les<br />
configurations modales du croire non pas inscrites dans le texte, mais émergeant<br />
de la situation, des positions, des rôles et des stratégies d’ajustement. Elles<br />
intègrent les jeux croisés de l’ethos et du pathos, l’ethos centré sur l’orateur et<br />
le pathos sur l’au<strong>di</strong>toire, l’un n’allant pas sans l’autre, l’un étant la raison de<br />
l’autre, parce que, précisément, il n’y a pas de place préalablement assignable<br />
aux positions de sujet dans l’échange des croire.<br />
Mais j’insisterai cependant sur l’espace rhétorique de l’argumentation en<br />
le fondant sur l’impropriété première dont elle est, en quelque sorte, le prolongement<br />
et la résultante. La rupture entre les deux massifs de l’inventio /<br />
<strong>di</strong>spositio d’un côté, et de l’elocutio de l’autre est de cette manière résolue.<br />
Car, si on suit l’analyse de l’impropriété telle qu’elle est développée par<br />
Nietzsche, l’elocutio avec sa figuration première fondée sur l’impropre est<br />
évidemment de part en part et toujours à l’œuvre. Tout se passe en quelque<br />
sorte comme si on avait accepté la normalisation stabilisatrice de l’usage pour<br />
ouvrir le champ aux espaces stratégiques de l’argumentation, alors même<br />
que ceux-ci ne peuvent se déployer que dans les con<strong>di</strong>tions modales d’inaccessibilité,<br />
d’imperfection et de manque qui caractérisent les mouvements<br />
intensificateurs et amenuisants, hyperboliques ou hypoboliques de l’elocutio,<br />
et en justifient les réglages incertains.<br />
Je ne prendrai pour exemple que l’enthymème, mode central du raisonnement<br />
rhétorique, qui prend en charge justement les lieux comme instruments<br />
de preuve, ou pièces à conviction. On a évoqué le cas d’un orateur qui exploiterait<br />
la topique de la quantité (plus vaut mieux que moins) devant un au<strong>di</strong>toire<br />
plutôt sensible à la rareté qualitative. Deux stratégies persuasives sont alors<br />
<strong>di</strong>sponibles pour opérer l’ajustement entre les partenaires du <strong>di</strong>scours, celle<br />
du compromis (quantité oui, mais éclatante) ou celle de la <strong>di</strong>stanciation (en<br />
faisant assumer par un autre dans son <strong>di</strong>scours les valeurs de la quantité). Mais,<br />
derrière ces stratégies se trouve l’impropriété constitutive de tout enthymème,<br />
à savoir qu’un terme décisif au raisonnement échappe à la manifestation, reste<br />
sinon inaccessible, du moins hors de portée de l’énonciation, c’est le terme<br />
qui instituerait en vérité le critère de l’évaluation. Et, dans cette situation,<br />
l’enthymème, comme son nom l’in<strong>di</strong>que, puise à la ressource de la thymie, le<br />
fonds sensible de l’humeur. L’orateur, par exemple, peut séduire en changeant<br />
le régime même de son <strong>di</strong>scours, en figurativisant par exemple la quantité (par<br />
des métaphores et des exemples), en exploitant les possibilités proso<strong>di</strong>ques,<br />
en sollicitant l’émotion, etc.<br />
Il me semble donc que l’impropriété est le matériau premier de la rhétorique,<br />
enraciné aux sources même des langages. Et que les deux versants du rhétorique<br />
ne forment, au fond, que deux manières d’en prendre acte.<br />
200
1) L’impropriété du côté du plan des contenus énoncés, dans le rapport à la<br />
chose même, qui appelle à l’existence les propriétés du plan de l’expression,<br />
autonomisées, qui vont jusqu’à la consistance substitutive du poétique.<br />
2) L’impropriété du côté de la co-énonciation, dans l’argumentation par exemple,<br />
qui appelle à l’existence les stratégies conduisant à l’incorporation, à<br />
l’appropriation, au faire sens de ces propriétés pour soi.<br />
Ainsi, la conclusion nietzschéenne, dans ce texte, de l’inconsistance liée à<br />
l’inconscience et à l’oubli générateurs d’un effet illusoire de vérité, me semble<br />
ne pas prendre en compte ici la force des propriétés substitutives, iconisantes,<br />
et finalement constitutives, des formes que le rhétorique met en œuvre pour<br />
occuper l’espace de la pratique du sens<br />
Pour conclure ce point, je voudrais <strong>di</strong>re un mot sur un emploi qui me paraît<br />
révélateur du mot “rhétorique”. On utilise souvent ce mot pour qualifier, avec<br />
une légitime impatience, une utilisation dévoyée du langage, vidant le sens de<br />
toute sa substance, un “<strong>di</strong>scours creux”: cette critique accompagne la rhétorique<br />
depuis son émergence, depuis Platon, et est encore aujourd’hui d’un emploi<br />
courant. Le “rhétorique” signifie le superfétatoire, ou mieux, le vide du sens.<br />
Je me demande si, en réalité, ce reproche ne manifeste pas plutôt l’horreur du<br />
vide sur lequel est, de toutes façons, suspendu le langage, l’anxiété devant cette<br />
vacance que la rhétorique justement révèle dans le fourmillement des simulacres<br />
propres à donner l’illusion du plein!<br />
Mais tout ici est peut-être une affaire de mesure: d’où le point suivant que<br />
j’ai annoncé, celui des stratégies d’ajustement.<br />
5. LES STRATÉGIES D’AJUSTEMENT<br />
Sur le fond de toile de cette absence ou de cette impropriété con<strong>di</strong>tionnante<br />
circule donc le sens, ses vectorisations, ses <strong>di</strong>rections, ses analogies, ses résonances,<br />
ses partages négociés ou non. C’est le niveau des stratégies (développé<br />
notamment par Eric Landowski), entre sujets bien entendu, mais également<br />
entre sujets et objets, et entre les <strong>di</strong>fférents niveaux de manifestation et modes<br />
d’existence de ces sujets et / ou de ces objets. Le concept-clé qui tend à s’imposer<br />
est ici celui d’ajustement.<br />
Ce concept n’est pas vraiment stabilisé, comme l’attestent les <strong>di</strong>fférences de<br />
définition et d’approches des auteurs qui le reven<strong>di</strong>quent. E. Landowski, par<br />
exemple, oppose la tra<strong>di</strong>tionnelle conception “jonctive” du sens (conjonction et<br />
<strong>di</strong>sjonction en sémiotique narrative) à celle qui est commandée par le régime de<br />
l’union. La première donne lieu, en matière d’interaction, à la “confrontation”,<br />
et la seconde précisément à l’“ajustement”. La confrontation se sub<strong>di</strong>vise en<br />
polarités contractuelle ou polémique; et il en est de même pour l’ajustement.<br />
Celui-ci peut donner lieu, version contractuelle, à un accompagnement du<br />
partenaire de manière à ce que l’accomplissement de celui-ci se réalise comme<br />
201
con<strong>di</strong>tion de l’accomplissement de l’accompagnateur (version “amour”!); ou<br />
il peut donner lieu, version destructrice, à un accompagnement des virtualités<br />
négatives du partenaire, de manière à ce que leur actualisation se retourne contre<br />
lui et qu’ainsi il s’auto-détruise (version “perverse”, ou simplement polémologique)<br />
6 . Il n’en va pas ainsi chez J. Fontanille, où ce sont les contraintes propres<br />
au déploiement des situations et de leurs scènes pré<strong>di</strong>catives qui appellent un<br />
ajustement entre les pratiques et un ajustement à l’environnement. Tel est le<br />
programme des stratégies. Ici, il s’agit davantage d’optimisation des parcours<br />
en fonction de critères définis, au sein des parcours croisés qui caractérisent<br />
les pratiques (usages sociaux, rites, comportements complexes), que de formes<br />
d’interaction sensibles entre partenaires 7 .<br />
Mais dans les deux cas, une question se pose: ajustement entre quoi et quoi<br />
au juste? ou plutôt quelle est la mesure et quel sont les repères de l’ajustement?<br />
L’intérêt de ce concept d’ajustement est qu’il ne prévoit pas de critère fixe en<br />
fonction duquel il peut s’établir. Et chez les deux auteurs, c’est la scène seule<br />
qui <strong>di</strong>cte, à chaque fois, dans l’interaction effective, le régime de l’ajustement.<br />
C’est que celui-ci se réalise précisément sur fond d’absence et d’impropriété.<br />
Dès lors, je crois qu’on peut développer cette problématique en mettant en évidence<br />
trois opérateurs de l’ajustement: la justesse, le milieu et la praxis. Dans<br />
le parcours qui conduit de l’un à l’autre se consoliderait pas à pas le flottement<br />
modal qui lui semble inhérent.<br />
1. La justesse. Je me permets de renvoyer ici à une étude ancienne que j’avais<br />
faite de cette notion, identifiée précisément comme “forme de vie”, c’est-à<strong>di</strong>re<br />
comme ce qui culmine au sommet de la pratique (selon le modèle proposé<br />
par Jacques Fontanille). Or, l’analyse montrait que la justesse marquait<br />
un lieu vide par excellence, comme l’attestent les <strong>di</strong>fférents paramètres de<br />
ses emplois: sur le plan figural, la justesse dessine un espace flottant entre<br />
le milieu et un bord (“c’est juste” peut valoir in<strong>di</strong>fféremment pour “c’est<br />
un peu juste”, ou “trop juste”); sur le plan aspectuel, la justesse combine<br />
le perfectif et l’imperfectif (“il est mi<strong>di</strong> juste” et “il est tout juste mi<strong>di</strong>”, à<br />
peine); sur le plan narratif, la justesse marque l’équilibre instabilisé de<br />
l’échange, signale le déséquilibre virtuel de la transaction, installe la valence<br />
plus que la valeur (cf. le ton juste qu’un rien dégrade dans l’exercice<br />
de la politesse); sur le plan axiologique, la justesse est accueillante à l’ensemble<br />
des axiologies (elle tend à la justice dans l’axiologie éthique, à la<br />
6 E Landowski. Passions sans nom, Paris, PUF, 2004, p. 31-32.<br />
7 J. Fontanille, “La <strong>di</strong>mension stratégique consiste pour l’essentiel en un déploiement figuratif, spatial<br />
et temporel de la situation (notamment en termes d’ancrage déictique ou non-déictique), ainsi qu’en<br />
contraintes <strong>di</strong>verses (modales, isotopiques, aspectuelles et rythmiques) qui participent à l’ajustement à<br />
l’environnement. Elle rassemble des pratiques pour en faire de nouveaux ensembles signifiants, plus ou<br />
moins prévisibles (des usages sociaux, des rites, des comportements complexes), que ce soit par programmation<br />
des parcours et de leurs intersections, ou par ajustement en temps réel.”, op. cit., p. 12.<br />
202
eauté dans l’axiologie esthétique, à la vérité dans l’axiologie cognitive, à<br />
la bonté dans l’axiologie relationnelle); sur le plan passionnel, elle occupe<br />
une position d’équilibre instable entre l’insuffisance et l’excès. Bref, sous<br />
tous ces éclairages, la modalité centrale est celle de l’incertain. Et la résolution<br />
de cette instabilité ne peut être trouvée que dans l’ordre esthésique<br />
du sensible, qui en est le recours ultime. Et le mot de Musil, “nous vivons<br />
dans l’excitation de la justesse” illustre simultanément le lien avec le stade<br />
premier du parcours de Nietzsche, celui de “l’excitation nerveuse transposée<br />
en image”, et avec la béance de l’impropriété.<br />
2. Le milieu. Première stabilisation. Le milieu, topique des topiques? le milieu,<br />
le mi-chemin parcouru. Mais là aussi, il faudrait se pencher sur les<br />
<strong>di</strong>fférents sémèmes du milieu: il y a d’un côté, la mé<strong>di</strong>été, le juste milieu,<br />
l’aurea me<strong>di</strong>ocritas, “ce juste milieu qui vaut de l’or”, et de l’autre, l’espace<br />
ambiant, sans borne, pur foyer d’émergence, marquant là aussi, dans son<br />
indétermination, le voisinage de l’impropriété (cf. la reven<strong>di</strong>cation juri<strong>di</strong>que<br />
du milieu); et puis il y a, en troisième lieu, l’énergie, la vitesse (cf.<br />
Deleuze).<br />
3. La praxis, enfin; la praxis énonciative. Au regard de l’approche proposée<br />
ici, le concept est décisif, la praxis apparaissant comme l’instrument de<br />
stabilisation. Il me semble qu’on peut <strong>di</strong>stinguer deux acceptions <strong>di</strong>fférentes<br />
de l’expression “praxis énonciative”, dans l’usage qui en est fait au sein de<br />
la sémiotique.<br />
- D’un côté, la mise en œuvre effective et in<strong>di</strong>viduelle de l’énonciation<br />
dans son déploiement sur fond d’usage, et non plus seulement à titre de<br />
présupposition comme dans l’approche strictement textuelle. En d’autres<br />
termes, l’énonciation envisagée à travers ses agencements en situation, les<br />
rôles qu’elle projette en interaction, l’ajustement spatial et temporel entre<br />
les pratiques qu’elle instaure.<br />
- De l’autre côté, la prise en compte plus ra<strong>di</strong>cale de la <strong>di</strong>mension impersonnelle<br />
de l’énonciation, modelée par l’usage et l’histoire, dont les formants de<br />
<strong>di</strong>mension <strong>di</strong>verse indéfiniment convocables se sé<strong>di</strong>mentent en métaphores<br />
affaiblies ou éteintes, en phraséologie calcifiée, en schémas <strong>di</strong>scursifs,<br />
en représentations figées dans la stéréotypie des lieux communs, tout ce<br />
matériau qui assure, à la base, la communication du sens, et qui se trouve,<br />
de fait, mobilisé au sein des pratiques. L’usage modelant jouit alors d’un<br />
surplomb sur les pratiques in<strong>di</strong>viduelles, puisqu’il est à la fois façonné et<br />
façonnant dans l’histoire collective, puisqu’il est pris dans le mouvement des<br />
amenuisements et des relèvements (selon les mots de Claude Zilberberg),<br />
des extinctions et des resensibilisations, puisqu’il prend acte de la “vieillesse<br />
de la langue” 8 et de ses forces de révocation ou de renouvellement.<br />
8 La vieillesse de la langue. Cf. Jacques Roubaud, La vieillesse d’Alexandre; cf. aussi J. Mouton, Sombr’héros<br />
203
C’est cette seconde acception que pour ma part je retiens. Le schème qui la<br />
caractérise à la base, serait alors le suivant:<br />
usage > usure > soudure<br />
L’usage implique l’usure qui implique la soudure. L’usage conduit à l’usure:<br />
c’est la métaphore dont parlait Nietzsche tout à l’heure, qui “se vide de sa force<br />
sensible”, et entre dans des agencements de métaphores à la fois entrecroisées<br />
et éteintes. Mais cette usure est aussi la con<strong>di</strong>tion de la soudure des formants<br />
sémantiques entre eux. Cette soudure opère comme ces objets usés dans la<br />
conception lévi-straussienne du bricolage, qui grâce à cela se découvrent des<br />
compatibilités nouvelles et servent de nouvelles fins, ou comme ces matériaux<br />
élimés qui, perdant les bornes de leur spécificité, se fondent les uns dans les<br />
autres donnant alors forme à une matière métissée nouvelle.<br />
Cet enchaînement de l’usage à l’usure et de celle-ci à la soudure est précisément<br />
ce qui, gommant l’utopie d’une expérience sensible originelle, résulte de<br />
la praxis et la constitue, tout en assurant, dans l’épaisseur d’histoire que chaque<br />
fragment recèle comme mémoire, la consolidation illusoire et pourtant réelle<br />
du sens.<br />
On peut donc <strong>di</strong>re que les stratégies d’ajustement dans la praxis sémiotique présupposent<br />
l’inadéquation des significations aux choses mêmes, l’absence et plus<br />
précisément l’impropriété. Ces ajustements se fondent sur les critères incertains<br />
et instables de la justesse, immergés dans un milieu, soumis aux pressions de<br />
la praxis. La rhétorique est la <strong>di</strong>scipline des ajustements ainsi compris. On en<br />
suggérera quelques exemples dans la seconde partie de cette étude.<br />
6. LA RHÉTORIQUE ET SES AJUSTEMENTS<br />
Claude Zilberberg réclame la “sémiotisation de la rhétorique et la rhétorisation<br />
de la sémiotique”. Je partage ce souhait. Les pistes que j’ai explorées jusqu’ici<br />
dans cette perspective reposent in<strong>di</strong>rectement sur les propositions que j’ai essayé<br />
de formuler au cours de la première partie. Elles portent sur quelques notions<br />
rhétoriques, avec comme position de départ que tel ou tel concept rhétorique, et<br />
peut-être tous, recouvre un champ phénoménal dans la pratique du <strong>di</strong>scours qui<br />
n’a pas été épuisé par la définition tra<strong>di</strong>tionnelle de ce concept, plus ou moins<br />
figé dans ses acceptions scolaires, champ phénoménal qui se trouve ainsi en<br />
quelque sorte masqué par cela même qui le révèle.<br />
C’est ainsi que j’ai évoqué tout à l’heure le concept central de topique, qui<br />
me paraît devoir être mis en relation avec l’esthésie. La topique, qui installe un<br />
lieu de convenances pour le <strong>di</strong>scours et assure les con<strong>di</strong>tions de son partage;<br />
son lien avec la signification sensible du “lieu”, ancrage, lieu d’être, lieu de<br />
l’être, à commencer par la généalogie, topique par excellence (l’origine, la cause<br />
204
première, la raison ultime, etc.). Cf. La critique des schèmes généalogiques par<br />
F. Noudelmann, Pour en finir avec la généalogie.<br />
Je pourrais rappeler aussi quelques autres motifs de la rhétorique auxquels<br />
je me suis intéressé ces dernières années, sans considération de la <strong>di</strong>stinction<br />
entre les deux blocs de la rhétorique, mais en fondant l’approche sur le fond<br />
d’absence et d’impropriété, de non ajustement préalable, qui installe l’aire de<br />
jeu des significations et les modalités de leur prise en charge.<br />
L’enthymème, et son mode de raisonnement “troué”, qui tend la perche et<br />
cherche son partenaire pour compléter.<br />
La catachrèse, mère des métaphores, foyer de leur déploiement, qui émerge<br />
d’un milieu de dénominations par ajustement approximatif; ainsi la métaphore<br />
serait par essence graduelle, prise dans le jeu des convocations et des révocations<br />
de la praxis énonciative, à partir de quelque catachrèse originaire?<br />
La prosopopée, qui donne de la voix à une absence, qui transforme l’absence<br />
en instance de <strong>di</strong>scours.<br />
Le phénomène de l’impropre m’a ainsi conduit à mettre en avant la question<br />
de l’instanciation. L’instance est ainsi comprise comme le foyer inaperçu, inaccessible,<br />
l’actant en attente de manifestation et de prise de contrôle du sens.<br />
L’instance est ce qui réclame avènement (instamment): elle manifeste la prise<br />
en charge d’un sens en attente. Dans ce cadre, les modes d’existence forment le<br />
milieu des instances. La rhétorique, à travers la finesse de sa grille phénoménale,<br />
est l’instrument qui donne le jour à ces instances (ou plutôt nomme et qualifie<br />
cette venue au jour du sens des instances enfouies).<br />
7. L’EXEMPLE DE CÉLINE, ENVISAGÉ COMME PRATIQUE DU<br />
SENS EN LECTURE<br />
Mais venons-en maintenant à l’exemple. En grec moderne, le mot metaphoros<br />
désigne l’autobus, sur fond de translation spatiale (cf. supra, l’absolu de la<br />
métaphore, selon Nietzsche). Et Céline, lorsqu’il parle de sa “petite invention”,<br />
celle de l’écriture émotive, “embraque”, <strong>di</strong>t-il “tout [son] monde dans le métro,<br />
pardon!... je fonce avec: j’emmène tout le monde!... de gré ou de force!... avec<br />
moi!... le métro émotif, le mien!...” (Entretiens avec le Professeur Y, Pléiade,<br />
T. 4, p. 536-537). Au regard des considérations ici développées, je crois qu’on<br />
peut <strong>di</strong>re que ces incidences communes de figures (ces co-incidences) font en<br />
elles-mêmes partie intégrante de la problématique que j’essaie de présenter.<br />
La prise en compte de la lecture comme pratique invite à sortir, comme cela a<br />
déjà été souligné, de la relation exclusive entre le texte dans son immanence<br />
et un lecteur abstrait ou idéal. Qu’il s’agisse des types de livres, des genres et<br />
de leurs implications, des formes et moments de la lecture, de la relation que<br />
le lecteur prévoit d’entretenir avec les contenus, etc., la lecture entre dans le<br />
205
champ de la pratique et est soumise du même coup aux <strong>di</strong>verses régulations<br />
que chaque constituant fait intervenir à son niveau.<br />
Or, dans le cas particulier d’un genre, le roman, qui appelle une pratique de<br />
lecture linéaire, et qui tend à suspendre toute relation avec le monde extérieur,<br />
dans le temps de la “petite hallucination momentanée” qu’il provoque chez<br />
le lecteur (selon le mot de Valéry), je voudrais évoquer le cas qui me paraît<br />
particulier de la lecture de Céline. Lire Céline pose me semble-t-il clairement<br />
quelques problèmes <strong>di</strong>rectement liés à la lecture comme pratique.<br />
Et, pour nourrir la thèse que j’ai présentée et soutenue, je voudrais montrer<br />
que la lecture de Céline repose tout entière, et de manière ra<strong>di</strong>cale, sur le fond<br />
d’impropriété d’où émerge, cahin-caha, les significations du <strong>di</strong>scours. Comment<br />
se manifestent ces impropriétés? Sans examen systématique, un peu en<br />
désordre, je les listerai comme suit.<br />
- Tout d’abord, du point de vue du genre textuel, on sait que le genre “roman”<br />
exerce sur le lecteur un certain type de contraintes, d’ordre actantiel et spatio-temporel,<br />
qui régissent le pacte de lecture. Ce sont les <strong>di</strong>stinctions qu’il<br />
impose au lecteur entre l’auteur, l’énonciateur, le narrateur, l’acteur, chacun<br />
à sa place, <strong>di</strong>sposé selon des protocoles soigneusement mis en place par les<br />
poétiques narratives et dépliés par la théorie du récit. Or, chez Céline, ces<br />
<strong>di</strong>stinctions sont brouillées, travaillées par l’in<strong>di</strong>stinction, sous le couvert<br />
d’un “je” constant, <strong>di</strong>rigeant la totalité des huit romans qui, du même coup,<br />
lieux, personnages, époque et temporalité aidant, ne semblent plus relever<br />
de ce genre mais plutôt de celui de l’autobiographie, tout en n’en relevant<br />
tout de même pas du tout, en raison des bifurcations, déplacements, constructions<br />
<strong>di</strong>verses qui inter<strong>di</strong>sent cette nouvelle définition générique. On<br />
est dans le “ni-ni”.<br />
- Ensuite, la modalité véri<strong>di</strong>ctoire est elle aussi malmenée, instabilisant le<br />
statut de la fiction. Le continuum des référents historiques, les identités<br />
croisées de personnages à la fois fictionnellement et référentiellement identifiés,<br />
les événements rapportés tout autant que ceux dont la rumeur se fait<br />
entendre en arrière-plan, tout cela rend indécidable la modalité véri<strong>di</strong>ctoire<br />
du <strong>di</strong>scours qui relève simultanément de plusieurs contrats énonciatifs,<br />
habituellement contra<strong>di</strong>ctoires ou exclusifs. On est dans le ”et-et”.<br />
- Pour ne retenir que ces traits, dans le “ni-ni” et dans le “et-et”, force est<br />
de constater que lecteur se trouve toujours confronté au “non-propre”, à<br />
l’impropre, à l’altération des propriétés. Or, ce qui est plus important, c’est<br />
que cette position dans la poétique narrative se trouve corrélée à une quête,<br />
la quête célinienne par excellence, qui est celle de combattre avec acharnement<br />
l’impropriété originaire du langage, celle qui fait que les mots ne<br />
touchent pas les choses. C’est en effet très exactement le rôle dévolu à ce<br />
que Céline appelle “l’écriture émotive”, “le métro émotif”, celle qui tend<br />
à nier le débrayage fondateur, la <strong>di</strong>a-bolie, pour manifester en continu un<br />
régime <strong>di</strong>scursif qui serait celui du “proto-embrayage”. Cette manière de<br />
raconter des histoires implique non seulement le corps globalement, dans<br />
206
le régime vocal hurlant de l’oralité, mais aussi et surtout le corps interne, la<br />
chair, la viande, celle de l’énonciateur mais aussi celle du lecteur: “descendre<br />
dans l’intimité des choses, dans la fibre, le nerf, l’émotion des choses, la<br />
viande, et aller droit au but, à son but, dans l’intimité, en tension poétique,<br />
constante, en vie interne, comme le “métro” en ville interne droit au but”<br />
(Lettre à Claude Jamet, avril 44). Et ce voyage incorpore le lecteur: “j’emmène<br />
tout le monde!... de gré ou de force!... avec moi!... le métro émotif,<br />
le mien!” (Entretiens, déjà cité).<br />
- Enfin, dernière phase, cette incorporation du lecteur au cœur de ces réseaux<br />
d’impropriété implique du même coup la rencontre avec l’auteur et ses<br />
pratiques, ses engagements et ses aberrations idéologiques. L’antisémitisme<br />
rageur des pamphlets, mais qui se trouve aussi dans les romans. Ainsi, le<br />
lecteur se trouve soumis à des contraintes qui l’obligent à un compagnonnage<br />
révulsant, l’obligeant à des contorsions entre l’admiration pour le génie<br />
du style et la révolte pour la barbarie idéologique. Il n’y a pas de lieu de la<br />
lecture, pas de topie stabilisée.<br />
Pour conclure en deux mots sur ce point, je <strong>di</strong>rais que le texte de Nietzsche<br />
sur l’empire absolu de la métaphore éclaire l’interprétation qu’on peut faire<br />
de cette pratique de lecture. Le texte célinien se présente comme illustration<br />
et “preuve” rhétorique de l’argumentation nietzschéenne. Dès lors, en effet,<br />
que se trouve assumée à ce niveau d’intensité le phénomène de l’impropriété<br />
du langage et de l’illusion fondatrice qu’il véhicule, l’isotopie fondamentale<br />
est celle de la non-vérité. La quête utopique et forcenée de l’adéquation dans<br />
l’écriture émotive atteste, à rebours, cette assomption de l’inaccessible vérité<br />
du sens. Dès lors, toutes les catégories ordonnatrices de la narration, celles qui<br />
semblent “à tout un peuple, stables, canoniques et obligatoires”, mais aussi<br />
toutes les catégories de la pratique de lecture, celles qui forcent l’adhésion,<br />
l’empathie, la participation, sont entraînées dans cette dénégation généralisée. La<br />
fiction coexiste avec la non fiction, le roman avec le non roman, la construction<br />
élaborée d’une esthétique avec la spontanéité émotionnelle du cri, les passions<br />
altruistes comme la générosité avec les passions éra<strong>di</strong>catrices comme la haine,<br />
etc. Et le lecteur, dans sa pratique même se trouve contraint d’affronter, à chacun<br />
de ces niveaux, le choc de la résistance à la stabilisation du sens.<br />
Et pour conclure globalement, et justifier le titre de cette étude, ce sont là<br />
les raisons pour lesquelles il me semble qu’on peut mettre la praxis sémiotique<br />
sous l’éclairage d’une rhétorique revisitée, dès lors qu’on assume que son objet,<br />
depuis l’origine de la <strong>di</strong>scipline et à travers ses très nombreux avatars, est de<br />
s’occuper de l’inadéquation fondatrice du sens dans les langages (y compris celui<br />
du monde naturel), et de s’attacher à en arpenter l’espace pour rendre compte<br />
des processus signifiants en interaction effective, dans la praxis sémiotique.<br />
207
Bibliographie<br />
Coquet, Jean-Claude<br />
1997 La quête du sens, Paris, Puf.<br />
Fontanille Jaques<br />
2004 “Textes, objets, situations et formes de vie. Les niveaux de pertinence du plan de l’expression<br />
dans une sémiotique des cultures”, in E/C, www.associazione<strong>semio</strong>tica.it.; poi<br />
in D. Bertrand & M. Costantini (eds.), Transversalité du Sens, Paris, P.U.V., 2006.<br />
Greimas, Algirdas Julien<br />
1987 De l’imperfection, Périgueux, Fanlac.<br />
Landowski, Eric<br />
2004 Passions sans nom, Paris, PUF.<br />
Zilberberg, Claude<br />
2006 “Remarques sur le double con<strong>di</strong>tionnement tensif et rhétorique des structures élémentaires<br />
de la signification”, in D. Bertrand et M. Costantini, eds., Transversalité du sens, Paris,<br />
P.U.V.<br />
208
TESTO, PRATICHE E TEORIA DELLA SOCIETÀ *<br />
Pierluigi Basso<br />
“Se il mondo coincide con la totalità del caso, il fare<br />
non si lascia includere in questa totalità. In altri termini<br />
ancora, il fare fa sì che la realtà non sia totalizzabile”<br />
(Ricœur 1986, 260).<br />
1. TESTO E TESTUALITÀ<br />
1.1. Accoppiamenti e intervalli <strong>di</strong> confidenza<br />
Pensare il senso testuale come <strong>di</strong>simplicabile a partire dalla situazione comunicativa<br />
significa non comprendere che anche il contesto interazionale, nonché le pratiche<br />
che vi hanno corso, vivono delle loro determinazioni <strong>di</strong> senso, o meglio del loro<br />
essere costantemente interrogate in termini <strong>di</strong> poste <strong>di</strong> significazione da gestire nel<br />
* Il testo è il frutto dell’accorpamento <strong>di</strong> due interventi, tenuti a breve <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tempo (Limoges, marzo<br />
2005 e Parigi, giugno 2005), e nati in stretta relazione l’uno con l’altro (ed anche con Basso 2005).<br />
Dato che il <strong>di</strong>battito in corso su tali questioni ha già avuto ulteriori sviluppi, abbiamo preferito, per<br />
correttezza, mantenere i testi originali presentati ai convegni, per quanto essi siano imperfetti.<br />
209
tempo. Approcci immanentisti e approcci pragmatici, polemicamente contrapposti,<br />
possono risolversi solo nella federazione <strong>di</strong> prospettive incrociate. I testi, assunti<br />
all’interno <strong>di</strong> certe pratiche, sono costantemente in grado <strong>di</strong> riarticolare le relazioni e<br />
il tenore <strong>di</strong> esse, nonché <strong>di</strong> modulare le competenze <strong>degli</strong> attori sociali coimplicati;<br />
possono anche descrivere e risignificare la pratica in corso. Come il contesto mette<br />
in prospettiva i testi, anche questi ultimi, una volta assunti all’interno <strong>di</strong> una pratica,<br />
possono <strong>di</strong>venire guida e orizzonte <strong>di</strong> senso del corso d’azione. Le connessioni tra<br />
testo e pratiche sono bilaterali; non possiamo allora costruire una relazione gerarchica<br />
tra <strong>semio</strong>tica del testo e <strong>semio</strong>tica delle pratiche: esistono solo accoppiamenti<br />
tra testi e pratiche sotto l’egida <strong>di</strong> una gestione del senso (cfr. Basso, 2002).<br />
Se proprio si vuole portare il ragionamento a una deriva paradossale, allora<br />
si potrà riconoscere che per quanto i testi siano suscettibili <strong>di</strong> descrivere le<br />
pratiche, essi a loro volta necessitano <strong>di</strong> una pratica <strong>di</strong> lettura. Questa “superiorità”<br />
gerarchica delle pratiche è adducibile argomentativamente come loro<br />
sigillo d’irriducibilità alla testualità, ma non meno si dovrà riconoscere che le<br />
prassi si tramandano testualmente (memoria culturale) e che l’incassamento<br />
delle prospettive testuali e pragmatiche conduce, risultativamente, al circuitare<br />
del senso all’interno <strong>di</strong> un accoppiamento.<br />
I testi sono funzione delle pratiche <strong>di</strong> produzione e ricezione che li costituiscono<br />
come configurazioni <strong>di</strong> senso; essi risultano <strong>di</strong> fatto illeggibili se non<br />
vengono ricondotti ad esse. L’autotelia del testo estetico è una pura “finzione”<br />
da questo punto <strong>di</strong> vista, a partire dal fatto che esso deve essere “colto” come<br />
tale, ossia come un oggetto culturale dotato <strong>di</strong> un certo statuto che ne governa<br />
l’implementazione pubblica.<br />
Nei testi le strategie <strong>di</strong> gestione del senso si imperniano sulla costituzione <strong>di</strong> una<br />
configurazione linguistica grazie a cui si patteggia la tesaurizzazione e l’autonomizzazione<br />
relativa – rispetto all’ancoraggio spaziotemporale dell’enunciazione<br />
– <strong>di</strong> percorsi <strong>di</strong> senso; nel caso delle pratiche, tali strategie si esplicano invece<br />
nei termini <strong>di</strong> una conduzione in atto della semantizzazione rispetto agli scenari<br />
con cui ci si confronta, al fine <strong>di</strong> ponderare e decidere una presa <strong>di</strong> iniziativa.<br />
Questa asimmetria, pur all’interno <strong>di</strong> una reciproca messa in prospettiva, porta<br />
a <strong>di</strong>ssimilare l’assunzione strategica del testo come un “tutto <strong>di</strong> significazione”<br />
dalla caratterizzazione tattica delle pratiche come sintassi <strong>di</strong> mosse. Per esempio,<br />
ricondurre una situazione conversazionale allo scenario unificato <strong>di</strong> una configurazione<br />
<strong>di</strong>scorsiva globale, in grado <strong>di</strong> omogeneizzare i turni <strong>di</strong> parola in un fascio<br />
<strong>di</strong> semantizzazioni integrate, significherebbe deproblematizzare esattamente la<br />
posta in gioco <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica delle pratiche: vale a <strong>di</strong>re descrivere l’articolarsi<br />
<strong>di</strong> mosse <strong>di</strong> attori sociali <strong>di</strong>versi, la permutazione <strong>di</strong> regimi <strong>di</strong> semantizzazione,<br />
la gestione del senso lungo una pluralità <strong>di</strong> accessi (traduzioni, interpretazioni,<br />
interrogazioni, ecc.). Ridurre la situazione a una configurazione <strong>di</strong>scorsiva pensata<br />
come un tutto <strong>di</strong> significazione equivarrebbe ad assumere una posizione dall’alto,<br />
e non dal basso (ossia quella occupata dall’attore sociale implicato). Una visione<br />
dall’alto dei fenomeni <strong>di</strong> significazione comporta la derubricazione della questione<br />
della conduzione del senso da parte <strong>di</strong> un attore sociale in situazione.<br />
210
Ciò è, del resto, quanto ci insegna la linguistica della parole ricercata da Saussure;<br />
per il parlante la langue non è qualcosa che gli preesiste e che deve essere<br />
“spesa” in situazione. La langue si costituisce e si rigenera costantemente nel suo<br />
essere agita, contribuendo alla ristrutturazione semantica e sintattica delle relazioni<br />
tra gli interlocutori: è in tal prospettiva, ad esempio, che Saussure sostiene che<br />
non si dà alcun significato letterale, nemmeno come uso me<strong>di</strong>o o prototipico.<br />
Sostenere l’esistenza <strong>di</strong> un senso letterale come statisticamente rilevabile in una<br />
comunità <strong>di</strong> parlanti è frutto <strong>di</strong> una visione dall’alto che non corrisponde in nulla<br />
al posizionamento <strong>di</strong> un attore sociale. Del resto, anche la statistica non riesce a<br />
restare sul piano quantitativo, tanto da <strong>di</strong>venire la scienza che maggiormente usa<br />
la categoria della significatività. Infatti, i rilievi statistici hanno un bel po’ <strong>di</strong> fattori<br />
da riven<strong>di</strong>care per risultare valevoli: l’atten<strong>di</strong>bilità (correttezza dell’indagine), la<br />
non casualità (la possibile generalizzazione dei dati), la non speciosità (la cogenza<br />
rispetto al fenomeno stu<strong>di</strong>ato). In particolare, significatività è termine tecnico in<br />
statistica che riconduce la prospettiva <strong>di</strong>sciplinare dall’“osservazione dall’alto”<br />
a quella “dal basso”, tanto che si lega al rapporto tra stima statistica e intervallo<br />
<strong>di</strong> confidenza. Se non la statistica si emancipa dalla significatività, figuriamoci<br />
se lo può fare l’agire sociale, dove in gioco non è la letteralità o la denotazione,<br />
bensì la familiarità, la <strong>di</strong>mestichezza, il saper gestire il senso in quell’intervallo <strong>di</strong><br />
confidenza che anche in statistica in<strong>di</strong>ca il range <strong>di</strong> valori stimati come attribuibili<br />
a una data grandezza; e l’affidarsi a una stima <strong>di</strong> tali valori è ragionevole perché il<br />
loro <strong>di</strong>venire non ha altra via nomologica per essere indagata (indeterminazione<br />
<strong>di</strong> localizzazione e/o causazione).<br />
Ciò che una <strong>semio</strong>tica delle pratiche ci insegna è allora che la prospettiva<br />
“dal basso” è l’unica che ci consenta <strong>di</strong> porci a livello delle strategie <strong>di</strong> valorizzazione.<br />
Rispetto a una gestione del senso interna alle pratiche, la testualità si<br />
propone come tentativo <strong>di</strong> autonomizzazione <strong>di</strong> una configurazione significante,<br />
così come i sistemi linguistici si pongono come un tentativo <strong>di</strong> calmierare<br />
l’infinitizzazione dei sensi possibili, facendo leva sul loro carattere socializzato<br />
e minimamente istituzionalizzato (attraverso il patteggiamento <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong><br />
convenzioni). L’autonomizzazione <strong>di</strong> una configurazione significante è la posta<br />
stessa della sua costituzione, vale a <strong>di</strong>re la sua trasmissibilità culturale e la sua<br />
capacità <strong>di</strong> porsi come memoria <strong>di</strong> percorsi <strong>di</strong> senso che sono già stati possibili,<br />
sotto l’egida <strong>di</strong> un certo sistema linguistico (nel senso debole sopra esposto).<br />
In questa prospettiva, l’autonomizzazione relativa del testo non risponde più<br />
solamente ai criteri epistemologici <strong>di</strong> descrivibilità; ciò si evince non appena<br />
si assume il quadro teorico integrato <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica delle culture, ove la<br />
costituzione <strong>di</strong> testualità risponde <strong>di</strong> una gamma <strong>di</strong> pratiche <strong>di</strong> cui l’analisi<br />
<strong>semio</strong>tica è parte.<br />
1.2. A quali con<strong>di</strong>zioni si può parlare <strong>di</strong> testualità<br />
Ci si può domandare legittimamente a quali con<strong>di</strong>zioni un oggetto costituito<br />
nell’intorno esperienziale <strong>di</strong> un soggetto osservatore possa essere assunto come<br />
testo; in Peirce qualsiasi cosa può essere assunta come segno e persino come<br />
211
segno <strong>di</strong> sé stesso (ostensione): possiamo <strong>di</strong>re lo stesso della testualità? Ve<strong>di</strong>amo<br />
<strong>di</strong> rispondere a tale quesito, in apparenza, piuttosto obliquo.<br />
Si può ritenere che la <strong>semio</strong>tizzazione attraversi ogni dominio esperienziale,<br />
per cui ogni determinazione <strong>di</strong> senso è articolazione <strong>di</strong> espressione e contenuto;<br />
tuttavia, qualsiasi configurazione sensibile costituita lungo il flusso esperienziale<br />
è passibile <strong>di</strong> essere semantizzata altrimenti. È ciò che succede quando<br />
cogliamo una relazione tra una serie <strong>di</strong> alberi ad alto fusto e una coltre <strong>di</strong> dense<br />
nubi basse come une tensione drammatizzata tra forme: il fusto è colto come<br />
un protovettore verso l’alto e la coltre come una massa materica passibile <strong>di</strong><br />
esercitare una resistenza. Le torsioni della semantizzazione sono almeno due:<br />
una semantizzazione plastica che si articola a partire dall’opposizione verticale/orizzontale<br />
e una semantizzazione figurale in cui la modalizzazione e le<br />
proprietà corporali costituzionali sono funzione <strong>di</strong> una prefigurazione <strong>di</strong> una<br />
sintassi immaginaria non riconducibile alle proprietà materiali <strong>degli</strong> oggetti;<br />
vale a <strong>di</strong>re, colgo gli alberi come se potessero librarsi in aria - sensomotricità - e<br />
le nubi come se avessero davvero un involucro capace <strong>di</strong> opporre resistenza.<br />
Da questo esempio evinciamo una serie <strong>di</strong> considerazioni:<br />
a) la demoltiplicazione <strong>degli</strong> accessi al senso, ossia la sintassi <strong>di</strong> semantizzazioni,<br />
pertiene alla ecologia esperienziale ed è modulata dalle forme <strong>di</strong><br />
vita antropiche;<br />
b) ogni configurazione ha in memoria non solo il processo della sua costituzione<br />
<strong>semio</strong>tica, ma la sua relazione sintattica con altri or<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> semantizzazione;<br />
c) i fasci <strong>di</strong> pertinentizzazioni che costituiscono – rispetto alla materia del<br />
mondo-ambiente - espressioni e contenuti propri <strong>di</strong> ogni singola semantizzazione<br />
non conquistano una <strong>di</strong>mensione socializzabile fintantoché non<br />
sono calmierati da un gra<strong>di</strong>ente <strong>di</strong> normatività proprio a pratiche istituite:<br />
il gra<strong>di</strong>ente più intenso <strong>di</strong> tale normatività è la riconduzione delle configurazioni<br />
costituibili a linguaggi e a regimi <strong>di</strong> testualità allografiche;<br />
d) la costituzione e riconduzione <strong>di</strong> una configurazione a un linguaggio, quand’anche<br />
sotto regime allografico, non neutralizza affatto la memoria <strong>di</strong> una<br />
primaria costituzione <strong>di</strong>pendente dall’afferenza <strong>di</strong> ogni segno pubblicamente<br />
prodotto alla <strong>di</strong>mensione esperienziale.<br />
Perché si abbia un’immagine, ad esempio, vi è bisogno che uno spazio<br />
d’esperienza possa essere ritagliato e risemantizzato come “terreno fittivo” in<br />
grado <strong>di</strong> supportare nuove articolazioni significanti <strong>di</strong>pendenti da uno specifico<br />
gioco linguistico (sia pure esso a bassissima grammaticalizzazione). In questo<br />
caso uno scenario sensibile (per esempio, un paesaggio) viene trasposto in una<br />
<strong>di</strong>alettica tra valori operanti e valori operativi che gode <strong>di</strong> una relativa autonomia;<br />
l’immagine viene ricondotta a una soppesazione estetica, al filo della<br />
rimemorazione in<strong>di</strong>viduale, al rilievo geologico, ecc. Vi è testualità perché la<br />
configurazione <strong>di</strong>viene terreno <strong>di</strong> una moltiplicazione <strong>di</strong> accessi al senso, <strong>di</strong>pendenti<br />
non solo da traslazioni pertinenziali, ma anche da forme <strong>di</strong> me<strong>di</strong>azione,<br />
quale innanzi tutto i tipi <strong>di</strong> spazio entro cui l’immagine si iscrive.<br />
212
Non ci sarebbero problemi <strong>di</strong> gestione del senso senza moltiplicazione <strong>di</strong><br />
semantizzazioni; i testi non solo reclamano strategie <strong>di</strong> gestione dei percorsi<br />
<strong>di</strong> senso che si rendono possibili grazie ad essi, ma sono essi stessi una forma<br />
<strong>di</strong> gestione, in particolare una forma <strong>di</strong> emancipazione relativa del senso dal<br />
contesto <strong>di</strong> produzione e <strong>di</strong> sua tesaurizzazione tentativa nel tempo. L’iscrizione<br />
testuale può essere impermanente, sul piano materiale; ma, per esempio, si<br />
parla del carattere memorabile <strong>di</strong> un’immagine che si è avuta, incidentalmente,<br />
<strong>di</strong> un certo paesaggio o <strong>di</strong> una persona. Il memorabile è un “cassetto” sempre<br />
aperto del nostro arredamento identitario che garantisce accessi dati nel tempo<br />
alla significazione <strong>di</strong> quell’immagine. La registrazione <strong>di</strong> performance non dà<br />
materialità iscrizionale a un testo impermanente, ma ne estende, sotto specifiche<br />
negoziazioni sociali, un circuito <strong>di</strong> memorabilità.<br />
1.3. Testualità e testo<br />
La testualità è (i) una demarcazione strategica <strong>di</strong> una configurazione al fine <strong>di</strong><br />
poterne dare anche una semantizzazione seconda, autonoma rispetto alla sua<br />
apprensione percettiva, ed è (ii) posta sotto l’egida <strong>di</strong> una pratica istituita e <strong>di</strong> un<br />
linguaggio (ossia, <strong>di</strong> una grammatica qualunque che sia in grado <strong>di</strong> controllare<br />
e ridurre le possibilità <strong>di</strong> semantizzazione).<br />
La testualità non è coestensiva dell’identità dell’oggetto culturale chiamato<br />
testo. Esso è suscettibile <strong>di</strong> esemplificare, a livelli <strong>di</strong>versi <strong>di</strong> pertinenza, una rete<br />
<strong>di</strong>agrammatica <strong>di</strong> relazioni (configurazione), <strong>di</strong> rinviare a un’archeologia della sua<br />
istanziazione (prodotto), <strong>di</strong> offrirsi come me<strong>di</strong>atore rispetto ad altri oggetti culturali<br />
e alle relazioni che gli attori intrattengono con essi e tra <strong>di</strong> loro (<strong>di</strong>scorso).<br />
Il testo è (i) una costruzione stratificata <strong>di</strong> apprensioni e <strong>di</strong> pertinentizzazioni<br />
che tiene in memoria le sue costituzioni <strong>semio</strong>tiche in quanto configurazione,<br />
in quanto prodotto e in quanto <strong>di</strong>scorso; (ii) tale costruzione è funzione <strong>di</strong><br />
una economia <strong>di</strong> valorizzazioni sensibili, esistentive e me<strong>di</strong>azionali 1 ; (iii) le<br />
valorizzazioni attivate <strong>di</strong>pendono dalla relazione tra pratica interpretativa e<br />
istanziativa, il che in<strong>di</strong>vidua il testo come una mossa enunciazionale, cronotopicamente<br />
attestata, entro un dominio culturale.<br />
In questo senso un testo ha (1) una afferenza interpretativa (esso <strong>di</strong>pende<br />
dalla pratica che lo costituisce come tale sotto un or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> motivazioni), (2)<br />
un’afferenza storica (<strong>di</strong>pende da una pratica <strong>di</strong> attestazione e convocazione<br />
entro una rete <strong>di</strong> relazioni culturali), (3) un’afferenza linguistica (<strong>di</strong>pende da<br />
un regime allografico o autografico <strong>di</strong> funzionamento simbolico – in senso<br />
goodmaniano e da grammatiche <strong>di</strong> riferimento, che tuttavia non ne risolvono<br />
affatto il senso 2 ).<br />
Sostenere che il testo è una costruzione stratificata <strong>di</strong> apprensioni e <strong>di</strong> pertinentizzazioni<br />
significa affermare hjelmslevianamente che si danno articolazioni<br />
1 Cfr. P. Basso (2004a).<br />
2 Cfr. Basso (2003).<br />
213
<strong>semio</strong>tiche plurime dove la determinazione reciproca tra espressioni e contenuti<br />
è posta sotto l’egida <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse semantizzazioni. Tra l’altro, non bisogna<br />
confondere il carattere motivato della determinazione reciproca <strong>di</strong> espressione/<br />
contenuto, una volta scelta la prospettiva <strong>di</strong> semantizzazione, dall’arbitrarietà<br />
linguistica ere<strong>di</strong>tata dal fascio <strong>di</strong> pertinentizzazioni sui due piani (doppio fascio<br />
per i linguaggi biplanari).<br />
Ciò ci conduce a sostenere che il testo non è identificabile con la sola organizzazione<br />
<strong>di</strong>scorsiva, ma che quest’ultima non può essere nemmeno ridotta a<br />
organizzazione semantica in<strong>di</strong>pendente, dato che resta inelu<strong>di</strong>bilmente connessa<br />
con la costituzione congiunturale dei significanti.<br />
1.4. Contrad<strong>di</strong>zioni interne alla teoria testuale greimasiana<br />
Nel momento che si riconosce con Jacques Fontanille (1999) che “l’universo<br />
della significazione deve essere considerato più come una prassi che come un<br />
incassamento <strong>di</strong> forme stabilizzate” ci si può legittimamente domandare se la<br />
forte <strong>di</strong>stinzione tra manifestazione e realizzazione, posta da Hjelmslev a partire<br />
dal 1943 possa ancora suffragare la legittimità del percorso generativo greimasiano,<br />
o se - come ci in<strong>di</strong>cano Rastier e Utaker, ma ancor prima il Saussure<br />
ine<strong>di</strong>to (2002) - è necessario ritornare a una preminenza della parole. Ora, è<br />
certo vero che nella tra<strong>di</strong>zione strutturalista si è sempre pienamente riconosciuto<br />
che la manifestazione è solo un punto <strong>di</strong> vista sul testo che lo costituisce come<br />
“fatto linguistico”, pur sapendo che esso è prima <strong>di</strong> tutto un “fatto sociale”.<br />
Piuttosto, ciò che è oggi necessario avanzare è il rifiuto <strong>di</strong> assumere il fatto<br />
linguistico come qualcosa <strong>di</strong> in<strong>di</strong>pendente dalla gestione del senso: ovvero,<br />
l’autonomizzazione <strong>di</strong> una semantica linguistica deve potersi coniugare con<br />
l’idea che essa si costituisce nel quadro delle pratiche. Esse non riconducono i<br />
linguaggi a puri usi funzionali, non solo perché questi sono forgiati e costantemente<br />
rinnovati dalle <strong>di</strong>verse culture, ma perché essi stessi sono costantemente<br />
interrogati dalle poste <strong>di</strong> senso.<br />
Le <strong>semio</strong>tiche linguistiche sono una forma <strong>di</strong> gestione del senso, e ciò<br />
impe<strong>di</strong>sce <strong>di</strong> svincolare la generatività delle forme del contenuto da quelle<br />
dell’espressione. La trasposizione e traduzione <strong>di</strong> senso tra linguaggi non è<br />
data da una semantica <strong>di</strong>scorsiva in<strong>di</strong>pendente dalla giunzione con un piano<br />
dell’espressione, ma nasce dalla pratica <strong>di</strong> gestire e patteggiare possibili trasferibilità<br />
<strong>di</strong> effetti <strong>di</strong> senso nel modo con cui ci giochiamo la significazione <strong>di</strong><br />
testi <strong>di</strong> altre <strong>semio</strong>tiche. Per esempio, si è cominciato a praticare cinema astratto<br />
patteggiando livelli <strong>di</strong> semantizzazioni trasponibili dalle pratiche <strong>di</strong> fruizione<br />
della musica strumentale a quelle della ricezione cinematografica.<br />
Sostenere che “il testo è costituito unicamente dagli elementi <strong>semio</strong>tici conformi<br />
al progetto teorico della descrizione” (Greimas, Courtés 1979, voce testo)<br />
significa barare sotto la scusante della correttezza epistemologica. Si bara perché<br />
non si può decidere <strong>di</strong> semantizzare un testo se non riascrivendolo a una pratica<br />
e a uno statuto, che è cosa <strong>di</strong>versa dal sottolineare che esso sarà poi stu<strong>di</strong>ato<br />
sotto il fascio <strong>di</strong> pertinenze che sono funzione dello sguardo <strong>di</strong>sciplinare.<br />
214
Sostenere che la testualizzazione è “linearizzazione e giunzione con il<br />
piano dell’espressione una volta che il percorso generativo è interrotto” (ivi)<br />
significa pensare la generatività del senso al <strong>di</strong> qua delle pratiche della sua<br />
gestione. Greimas e Courtés sono in realtà andati oltre, spinti dalla tra<strong>di</strong>zione<br />
hjelmsleviana: la testualizzazione è “l’insieme delle procedure - volte a costituirsi<br />
in sintassi testuale - che mirano a costituire un continuum <strong>di</strong>scorsivo,<br />
anteriormente alla manifestazione del <strong>di</strong>scorso in questa o quella <strong>semio</strong>tica”<br />
(ivi, voce testualizzazione). I principi guida della testualizzazione sono la<br />
linearizzazione, l’elasticità <strong>di</strong>scorsiva e l’anaforizzazione. Ora la prima (linearizzazione)<br />
è <strong>di</strong>pendente dalla natura del significante, la seconda (elasticità<br />
<strong>di</strong>scorsiva) <strong>di</strong>pende da strategie retoriche, la terza (anaforizzazione) da strategie<br />
<strong>di</strong> <strong>di</strong>sseminazione isotopica dei valori testuali. Certo, si può sostenere che<br />
l’anteriorità della testualizzazione è propria del modello ipotetico-deduttivo<br />
<strong>di</strong> una scienza ricostruttiva e che quin<strong>di</strong> si osserva semplicemente l’assettarsi<br />
del percorso generativo in funzione della realizzazione linguistica in cui<br />
si estrinseca. Purtuttavia, i principi guida sopra ricordati <strong>di</strong>mostrano come<br />
l’organizzazione semantica del testo ha in memoria le <strong>di</strong>pendenze da forme<br />
<strong>di</strong> costituzione del significante e da pratiche <strong>di</strong> comunicazione. Per <strong>di</strong>rla con<br />
i termini del <strong>di</strong>zionario, l’analisi del testo deve ritrovare in memoria anche<br />
le procedure <strong>di</strong> sintesi, ossia quelle che stanno alla base della produzione<br />
testuale (si veda Greimas, Courtés 1979, voce: sintesi).<br />
Ora, la <strong>semio</strong>tica generativa ha lasciato come ere<strong>di</strong>tà una concezione simmetrica<br />
dell’enunciazione rispetto alle posizioni <strong>di</strong> enunciatore e <strong>di</strong> enunciatario,<br />
almeno in quanto a percorsi della semantizzazione sotto il controllo delle<br />
costrizioni testuali. Per prima cosa, allora, il posizionamento della testualizzazione<br />
nel percorso generativo doveva essere pensata come imme<strong>di</strong>atamente<br />
ribattuta anche sul piano dell’enunciazione-interpretazione. In secondo luogo,<br />
la memoria delle operazioni <strong>di</strong> sintesi interessa non solo il momento terminativo<br />
del percorso generativo, ma tutti i suoi livelli, dalla costituzione <strong>di</strong> un universo<br />
figurativo e <strong>di</strong> simulacri dell’enunciazione, fino alla categorizzazione. Sul<br />
primo punto, emerge come in memoria debba essere posta anche la gestione<br />
del significante lungo il processo <strong>di</strong> semantizzazione e non solo la memoria <strong>di</strong><br />
una necessaria articolazione con le esigenze poste da una produzione testuale<br />
che deve scegliere inevitabilmente una forma dell’espressione. Sul secondo<br />
punto, possiamo affermare che la conversione da livello a livello è memoria<br />
<strong>di</strong> una sintesi e <strong>di</strong> una attanzializzazione che sta alla base delle pratiche <strong>di</strong> gestione<br />
del senso. Il percorso generativo non parte da una semantica o sintattica<br />
profonda, ma da un’attanzializzazione che costruisce un dominio significante<br />
per qualcuno dotato <strong>di</strong> corpo (è il portato <strong>di</strong> Fontanille 2004a).<br />
Lo spostamento <strong>di</strong> prospettiva è fondamentale per articolare completamente<br />
la pragmatica fino all’interno <strong>di</strong> un para<strong>di</strong>gma <strong>semio</strong>tico generale:<br />
(i) non ci sono solo localmente vincoli posti al percorso generativo dalla produzione<br />
testuale, ma ogni conversione ed elaborazione del senso è vincolata<br />
da una pratica;<br />
215
(ii) non si potrà opporre programmazione narrativa e sviluppo della testualizzazione<br />
come in<strong>di</strong>pendenti e irrapportabili dato che in primo luogo le configurazioni<br />
narrative sono elaborate e gestite grazie a una pratica istituita e a un linguaggio<br />
d’afferimento; in secondo luogo, anche la testualizzazione non può darsi che<br />
come una drammatizzazione della istanziazione e della interpretazione sotto<br />
l’egida <strong>di</strong> una teoria dell’enunciazione e della narratività.<br />
Oramai, la nostra riflessione si pone a molta <strong>di</strong>stanza dall’affermazione del<br />
<strong>di</strong>zionario che in fondo il testo è una “rappresentazione semantica del <strong>di</strong>scorso<br />
(...) in<strong>di</strong>fferente ai mo<strong>di</strong> <strong>semio</strong>tici <strong>di</strong> manifestazione” (Greimas, Courtés 1979,<br />
voce textualisation). Non ci appare lecito pensare il testo come un’organizzazione<br />
sintagmatica definita da un preciso inventario <strong>di</strong> unità (Greimas 1983, “Fatti<br />
testuali nelle scienze umane”), dato che esse non sono colte in<strong>di</strong>pendentemente<br />
dalle strategie <strong>di</strong> costituzione e <strong>di</strong> assunzione delle configurazioni <strong>semio</strong>tiche<br />
demarcabili.<br />
Nella tra<strong>di</strong>zione greimasiana classica, l’oblio dell’afferenza testuale alle<br />
pratiche e ai domini culturali era mascherato dalla costituzione in vitro dell’analista,<br />
confondendo così il rigore dell’approccio epistemologico con il necessario<br />
confronto con le strategie e i regimi <strong>di</strong> semantizzazione.<br />
In particolare, la pre<strong>di</strong>lezione teorica iniziale per i testi allografici ha spinto<br />
a riconoscere l’autonomizzazione della testualità dalla costituzione <strong>di</strong> configurazioni<br />
sensibili significanti, e tale svincolamento è stato ritenuto tanto ra<strong>di</strong>cale<br />
da derubricare il piano dell’espressione a puro supporto dell’organizzazione<br />
semantica. La testualità è stata concepita sul modello delle lingue naturali, ma<br />
sovrapponendo nell’argomentazione due questioni <strong>di</strong>stinte: la doppia articolazione<br />
e il regime allografico della testualità. In “Semiotica del mondo naturale”<br />
Greimas, rapportando comunicazione gestuale e comunicazione linguistico-verbale,<br />
giunge a sostenere che “è proprio la trasposizione da un or<strong>di</strong>ne sensoriale<br />
in un altro che crea le con<strong>di</strong>zioni adeguate per una articolazione autonoma del<br />
significante, le cui figure vengono a trovarsi così opportunamente <strong>di</strong>stanziate<br />
rispetto alle figure del contenuto. Viceversa, finché una tale trasposizione non<br />
abbia avuto modo <strong>di</strong> prodursi, la significazione del mondo non potrà mai completamente<br />
liberarsi dalla sua piattaforma fenomenica” (Greimas, 1970, trad.<br />
it. 86). L’argomentazione ha una dose <strong>di</strong> ambiguità: per un verso rappresenta<br />
una fondamentale esemplificazione <strong>di</strong> come non si possa confondere piano<br />
dell’espressione e configurazione sensibile. Dall’altro lato, si affaccia la liberazione<br />
della testualità dalla piattaforma fenomenica; i significanti possono<br />
essere visti come configurazioni <strong>di</strong> femi, svincolate da una stretta attinenza al<br />
sensibile e funzione delle configurazioni semantiche che devono supportare;<br />
inoltre, la memoria istanziativa dell’espressione può essere narcotizzata proprio<br />
perché, sul modello dell’allografia, si può pensare un ra<strong>di</strong>cale svincolamento<br />
dei testi dalla storia della loro produzione (il che ha comportato l’in<strong>di</strong>fferenza<br />
del metodo rispetto al <strong>di</strong>fferente statuto genetico delle immagini).<br />
Riassumendo: come con<strong>di</strong>zione per la piena affermazione <strong>di</strong> una doppia<br />
articolazione dei linguaggi Greimas pare porre in gioco la messa a lato tattico-<br />
216
metodologica <strong>di</strong> qualsiasi au<strong>di</strong>zione/mostrazione in quanto imprudente base<br />
<strong>di</strong> partenza nello stu<strong>di</strong>o dell’economia testuale, dato che la conservazione del<br />
canale modale tra costituzione percettiva <strong>di</strong> un valore e apprensione del piano<br />
dell’espressione del testo che lo pre<strong>di</strong>ca porterebbe a una mancata <strong>di</strong>stinzione<br />
tra il linguistico e il fenomenico. Fatta la giusta <strong>di</strong>stinzione, quest’ultimo non<br />
viene più ritenuto pertinente per la significazione testuale. In secondo luogo,<br />
la piena autonomizzazione della testualità viene esemplificata dai testi allografici<br />
dove l’identità <strong>di</strong> compitazione (sameness of spelling) che li in<strong>di</strong>vidua va<br />
colta rispetto a un fascio <strong>di</strong> pertinentizzazioni che narcotizzerebbero qualsiasi<br />
effetto <strong>di</strong> senso <strong>di</strong>pendente dall’apprensione del piano dell’espressione (per es.<br />
grafematica) e dalla memoria <strong>di</strong>scorsiva della sua istanziazione.<br />
Prima <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>re la questione posta dal regime allografico bisogna<br />
riconoscere che al Greimas che e<strong>di</strong>fica il percorso generativo e una nozione<br />
<strong>di</strong> testualità entrambi autonomizzati dal piano generativo dell’espressione, si<br />
contrappone un altro Greimas, quello del <strong>di</strong>scorso poetico (si veda l’introduzione<br />
agli Essais de sémiotique poétique del 1972). È il Greimas che mette al centro<br />
dell’attenzione la rimotivazione nel rapporto espressione/contenuto, che affianca<br />
la poli-femia accanto alla polisemia, che parla <strong>di</strong> organizzazioni <strong>di</strong>scorsive che<br />
<strong>di</strong>pendono anche dalla ricerca <strong>di</strong> regolarità fonemiche, che ragiona sul fatto<br />
- per usare le sue parole - che così come “la significazione “aggancia” la sonorità”<br />
altrettanto si dovrà riconoscere che “l’espressione seleziona il contenuto”<br />
(Greimas, 1972). Da questi stu<strong>di</strong> emergeva l’idea <strong>di</strong> una testualità <strong>di</strong>pendente<br />
da una manipolazione <strong>di</strong> sistemi <strong>di</strong> <strong>di</strong>pendenze incrociate tra espressione e<br />
contenuto data dalla congiunturalità della loro determinazione; come ci hanno<br />
insegnato Rastier e Zilberberg, la proso<strong>di</strong>a non è che la forma d’organizzazione<br />
della testualità che maggiormente trasuda <strong>di</strong> tale inter<strong>di</strong>pendenza. Ma proso<strong>di</strong>a<br />
e testualizzazione non sono rimasti che riconoscimenti residuali, nel modello<br />
generativo, della implicazione reciproca e irresolubile tra un percorso E_C e un<br />
percorso C_E, ossia tra quelli che Fontanille chiama “punto <strong>di</strong> vista testuale” e<br />
“punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong>scorsivo” (Fontanille, 1999b). Solo un modello che rende conto<br />
<strong>di</strong> tale implicazione reciproca, la quale procede per processi in parallelo, può<br />
rendere davvero conto della <strong>semio</strong>ticità come prassi <strong>di</strong> gestione del senso.<br />
Pensare il testo come realizzazione del <strong>di</strong>scorso vuol <strong>di</strong>re derubricare la<br />
problematica della costituzione del testo <strong>di</strong>pendente dal quadro <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica<br />
delle pratiche e dal para<strong>di</strong>gma <strong>di</strong> una significazione pensata essa stessa<br />
come prassi. La costituzione del testo in quanto organizzazione <strong>di</strong>scorsiva che<br />
risolve l’eterogeneità <strong>semio</strong>tica e regola la polifonia enunciazionale <strong>di</strong>pende<br />
da una pratica; e come detto, non è nemmeno la sola costituzione che in<strong>di</strong>vidua<br />
il testo. Il testo è funzione <strong>di</strong> una demarcazione strategica a fini interpretativi<br />
e <strong>di</strong> un processo <strong>di</strong> attestazione; come sottolinea Rastier, il testo non possiede<br />
una definizione morfosintattica.<br />
L’analisi testuale dovrebbe cercare <strong>di</strong> costruire un piano <strong>di</strong> commensurabilità<br />
dei mo<strong>di</strong> con cui mettiamo a significare un testo costituendolo come configurazione,<br />
come prodotto e come <strong>di</strong>scorso. Definire le modalità <strong>di</strong> accesso al testo<br />
217
non significa non poter costruire un modello generalizzabile del modo con cui<br />
esso si articola con le <strong>di</strong>verse strategie <strong>di</strong> semantizzazione. Una teoria del testo<br />
deve cooptare un modello <strong>semio</strong>tico che tiene in memoria le pratiche da cui<br />
<strong>di</strong>pende, in modo tale che si possa caratterizzare la gestione locale del senso<br />
che esso stesso me<strong>di</strong>a, ossia la sua interpretazione. Quest’ultima <strong>di</strong>pende da<br />
un’osservazione <strong>di</strong> secondo or<strong>di</strong>ne sulla moltiplicazione <strong>degli</strong> accessi al senso,<br />
e pertiene tanto all’ambito <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica dell’esperienza, quanto <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica<br />
testuale, oltre naturalmente a quello delle pratiche. Queste <strong>semio</strong>tiche<br />
possono essere federate sotto un para<strong>di</strong>gma comune (<strong>semio</strong>tica della cultura)<br />
posto all’insegna della gestione del senso (Basso, 2002).<br />
1.5. Proposte<br />
Tematizzaziamo alcune soluzioni possibili dei no<strong>di</strong> irrisolti della tra<strong>di</strong>zione<br />
greimasiana attorno alla questione del testo.<br />
a) Il testo non deve essere necessariamente fissato su un supporto come iscrizione<br />
persistente; si può parlare <strong>di</strong> testo per le forme <strong>di</strong> espressione orale e in genere<br />
per le performance sotto regime autografico prive <strong>di</strong> iscrizione permanente;<br />
anzi, esse esemplificano ancor meglio come nella testualità non sia in gioco<br />
una fissazione delle sua significazione, ma una sua gestione rispetto alle <strong>di</strong>verse<br />
possibilità <strong>di</strong> costituirlo come configurazione, come prodotto e come<br />
<strong>di</strong>scorso. Per esempio, nei testi orali vi è in ogni caso: i) la continua messa<br />
in valore della sintassi figurativa istanziatrice, (ii) l’emancipazione dall’intenzionalismo<br />
e dai riferimenti ostensivi per via delle forme <strong>di</strong> soggettività<br />
delegata e la costituzione <strong>di</strong> assi <strong>di</strong> inter-referenza tra costituzioni <strong>semio</strong>tiche<br />
<strong>di</strong>versificate (<strong>di</strong>scorso e mondo-ambiente), iii) l’estensione potenziale dei<br />
destinatari visto la <strong>di</strong>fficile “separatezza” dei luoghi della performance, ma<br />
soprattutto vista la trasmissibilità orale, iv) l’attestazione che è funzione della<br />
memoria sociale e <strong>di</strong> procedure <strong>di</strong> ritualizzazione.<br />
b) Per quanto l’enunciazione possa emanciparsi da un’au<strong>di</strong>zione/mostrazione<br />
dei valori figurativi declinati (non conserva cioè il canale modale normalmente<br />
deputato ad apprenderli), essa non può mai bypassare completamente<br />
la costituzione del testo in quanto configurazione sensibile. In tale<br />
prospettiva, ciò che era stato costituito come piano dell’espressione dell’organizzazione<br />
<strong>di</strong>scorsiva si presta ad essere ripertinentizzato in funzione<br />
<strong>di</strong> un’apprensione percettiva. Ciò vale anche nel caso <strong>di</strong> testi sotto regime<br />
allografico. È certo vero che nella semantizzazione <strong>di</strong> questo tipo <strong>di</strong> testi<br />
si può ritenere che le qualità sensibili della notazione, così come la traccia<br />
della sua iscrizione, non siano pertinenti per gli effetti <strong>di</strong> senso, ma è anche<br />
vero che tale <strong>di</strong>mensione sensibile è riguadagnata dall’esecuzione, la sola<br />
che conduce ad una piena implementazione pubblica del testo. È altrettanto<br />
vero che lungo la fruizione dell’esecuzione <strong>di</strong> un testo allografico, esso non<br />
viene costituito come una configurazione che satura tutta la densità dei tratti<br />
coglibili, così come avviene per il testo autografico; infatti, il contratto enunciazionale<br />
statutivo del regime allografico sollecita la pertinentizzazione,<br />
218
in vista della costituzione del piano dell’espressione testuale, dei soli tratti<br />
rinviabili a un linguaggio ed aventi una qualche relazione <strong>di</strong> “generatività”<br />
o <strong>di</strong>pendenza rispetto alla notazione: è quella che Goodman chiama riduzione<br />
allografica. Tale riduzione allografica della classe d’invarianza delle<br />
esecuzioni è tuttavia alla base della costituzione del testo in quanto <strong>di</strong>scorso,<br />
e nulla toglie che possa essere costituito altrimenti, mettendo in valore gli<br />
elementi accidentali <strong>di</strong> una singola esecuzione oppure l’esecuzione come<br />
prodotto <strong>di</strong> un interprete (rilettura autografica).<br />
c) Oltre al gra<strong>di</strong>ente <strong>di</strong> autonomia della costituzione testuale (dal regime autografico<br />
a quello allografico) va considerato che l’identità <strong>di</strong> un oggetto<br />
culturale può essere articolata su una classe <strong>di</strong> varianti testuali (versioni),<br />
sulla frammentarietà <strong>di</strong> un reperto testuale, su una attestazione che <strong>di</strong>stingue<br />
configurazioni testuali identiche ma afferenti a perio<strong>di</strong> storici <strong>di</strong>versi.<br />
1.6. Testo e oggetto culturale<br />
Operativamente, il quadro <strong>di</strong> riflessioni che abbiamo messo in campo dovrebbe<br />
riproblematizzare come la determinazione strategica della testualità in sede<br />
d’analisi deve essere riconnessa a un quadro <strong>di</strong> pratiche <strong>di</strong> istanziazione e <strong>di</strong><br />
assunzione proprie della <strong>semio</strong>tica <strong>di</strong> una cultura. In secondo luogo, la costituzione<br />
della testualità emerge come plurale e <strong>di</strong>pendente dalla demoltiplicazione<br />
<strong>degli</strong> accessi al senso. In terzo luogo, l’assunzione del testo come <strong>di</strong>scorso non<br />
resta incommensurabile rispetto alla sua costituzione come configurazione<br />
sensibile, in quanto sempre implementato in uno spazio sociale d’apprensione,<br />
e come prodotto, in quanto tiene memoria del suo processo <strong>di</strong> istanziazione.<br />
La <strong>semio</strong>tica deve assumere una visione sulla significazione nei termini <strong>di</strong> una<br />
gestione del senso nel tempo e <strong>di</strong> una intersemantica che connette articolazioni<br />
significanti costituite a livelli <strong>di</strong>versi.<br />
Ecco allora che la pluralità <strong>di</strong> “letture” (plastica, figurativa, figurale) che la<br />
tra<strong>di</strong>zione <strong>semio</strong>tica ha riconosciuto, la rilevazione delle tracce dell’enunciazione<br />
(enunciazione enunciata, le pieghe metatestuali e le <strong>di</strong>verse apprensioni<br />
della significazione (molare, sensibile, utopica, critica) possono e debbono<br />
ritrovare un piano unificato <strong>di</strong> trattazione che meglio si riconosca in un modello<br />
semantico <strong>di</strong>pendente da una <strong>semio</strong>tica delle pratiche, ossia quello che abbiamo<br />
posto sotto l’etichetta <strong>di</strong> una gestione del senso. La prospettiva enunciazionale,<br />
proprio perché pensata come comune tanto al produttore quanto al ricevente,<br />
pone il testo come una risorsa che è sempre possibile “giocare” sotto <strong>di</strong>versi<br />
rispetti. È bene allora costruire una cartografia delle prospettive sotto cui il<br />
testo può essere costituito, stratificando la sua semantica.<br />
Spostiamo dunque per un attimo allora la prospettiva che coglie il testo come<br />
una configurazione le cui reti strutturali (<strong>di</strong>agrammatiche) sono suscettibili <strong>di</strong><br />
imbrigliare dei percorsi <strong>di</strong> semantizzazione (piano dell’enunciato), verso la<br />
relazione che l’assetto enunciazionale detiene nei riguar<strong>di</strong> dello scenario <strong>di</strong><br />
implementazione: ecco che il testo quale risorsa ci appare come uno snodo<br />
locale, un crocevia <strong>di</strong> percorsi interpretativi, se si vuole, come un segno. Tale<br />
219
prospettiva è quella che consente una riunificazione della prospettiva testualista<br />
greimasiana con quella peirciana. Ne <strong>di</strong>amo qui una presentazione sinottica,<br />
dove è reperibile una mappatura delle costituzioni testuali che nel loro insieme<br />
restituiscono l’identità <strong>di</strong> un oggetto culturale.<br />
VALENZE<br />
DIPENDENTI DALLE _<br />
TRE CATEGORIE<br />
CENOPITAGORICHE<br />
configurazione<br />
prodotto<br />
<strong>di</strong>scorso<br />
_<br />
COSTITUZIONI<br />
PERTINENZIALI<br />
DEL TESTO<br />
IN RAPPORTO<br />
ALL’ENUNCIAZIONE<br />
Primità<br />
(valenze<br />
<strong>di</strong>agrammatiche)<br />
QUALISEGNO<br />
_determinabilità<br />
<strong>di</strong>agrammatica<br />
ICONA<br />
_memorabilità<br />
esperienziale<br />
REMA<br />
_statuto<br />
220<br />
Secon<strong>di</strong>tà<br />
(valenze esistentive)<br />
SINSEGNO<br />
_determinazione<br />
figurativa<br />
INDICE<br />
_archeologia<br />
esistentiva<br />
DICISEGNO<br />
_testualità<br />
Terzità<br />
(valenze me<strong>di</strong>azionali)<br />
LEGISEGNO<br />
_determinazione<br />
operazionale<br />
SIMBOLO<br />
_ determinazione<br />
identitaria e<br />
genealogia<br />
istituzionale<br />
ARGOMENTO<br />
_metatestualità<br />
Su questo punto, ci limitiamo qui a una brevissima illustrazione. Ogni oggetto<br />
culturale:<br />
i) può essere terreno <strong>di</strong> determinazioni plurime e aperte (determinabilità<br />
<strong>di</strong>agrammatica), restando un costituendo dentro una istruttoria in fieri della<br />
sua fungibilità semantica;<br />
ii) viene determinato dentro uno scenario inter-attanziale (determinazione<br />
figurativa);<br />
iii) è ascritto a una famiglia <strong>di</strong> oggetti riconosciuta come “moneta corrente”<br />
(ossia come risorsa operativa/operabile) dentro pratiche specifiche (determinazione<br />
operazionale);<br />
iv) si apre a una sintassi <strong>di</strong> frequentazioni che collezionano e stratificano le qualità<br />
e relazioni interne che esso esemplifica (memorabilità esperienziale);<br />
v) si offre come traccia in<strong>di</strong>ziaria dell’istanziazione che ne è alla base (archeologia<br />
esistentiva);
vi) viene riconosciuto come un costrutto simbolico afferente a uno specifico<br />
dominio sociale (determinazione identitaria e genealogia istituzionale);<br />
vii) è ritenuto suscettibile <strong>di</strong> ricoprire una certa posizione all’interno <strong>di</strong> un<br />
sistema <strong>di</strong> relazioni <strong>di</strong>scorsive (statuto);<br />
viii) viene assunto come qualcosa in grado <strong>di</strong> pre<strong>di</strong>care autonomamente tutti i<br />
tipi <strong>di</strong> valenze (testualità);<br />
ix) gli si imputa la capacità <strong>di</strong> mettere in prospettiva porzioni della cultura <strong>di</strong><br />
cui è parte integrante (metatestualità).<br />
Non c’è testo che non abbia anche una <strong>di</strong>mensione “oggettale”, così come<br />
non vi sono oggetti che non vengano costituiti anche come agenti <strong>di</strong>scorsivi,<br />
come testi <strong>di</strong> una memoria culturale in fieri.<br />
Le valenze esistentive circolano <strong>di</strong>scorsivamente sulla base <strong>di</strong> una contrattazione<br />
in<strong>di</strong>ziaria <strong>di</strong> prove e su effetti <strong>di</strong> veri<strong>di</strong>zione, ma non meno esse<br />
conoscono dei gra<strong>di</strong> <strong>di</strong> pregnanza percettiva, <strong>di</strong> cogenza esperienziale e <strong>di</strong><br />
inerenza pragmatica. Spetta alle valenze esistentive innescare (in positivo o in<br />
negativo) il confronto con tutti i tipi <strong>di</strong> valori. Le valenze me<strong>di</strong>azionali sono<br />
quelle che si frappongono a qualsiasi opposizione esclusiva e che trovano<br />
piani <strong>di</strong> commensurabilità tra valori e prospettive <strong>di</strong> apprensione. Il loro ruolo<br />
è fondamentale per costruire l’appaiamento tra l’elaborazione esperienziale e<br />
l’elaborazione <strong>di</strong>scorsiva dei valori e la gestione integrata delle loro valenze. Le<br />
valenze <strong>di</strong>agrammatiche sono quelle che propongono forme <strong>di</strong> organizzazione<br />
relazionale, sia afferenti alle proprietà esemplificate, sia afferenti al rapporto<br />
<strong>di</strong> esse con l’osservatore.<br />
La gestione del senso è sempre <strong>di</strong>pendente dalla costituzione <strong>di</strong> una configurazione<br />
<strong>di</strong>agrammatica, la quale può essere definita, a livello figurativo<br />
dell’esperienza, come un quadro <strong>di</strong> relazioni inter-attanziali dotata <strong>di</strong> un certo<br />
assetto e <strong>di</strong> una certa <strong>di</strong>namica; parleremo <strong>di</strong> scenario non appena tale configurazione<br />
sarà <strong>di</strong>mensionalizzata da memoria e prefigurazione <strong>di</strong> assetti futuri,<br />
e <strong>di</strong> situazione non appena lo scenario verrà riferito alla se<strong>di</strong>mentazione e<br />
istituzionalizzazione <strong>di</strong> una pratica sociale. Ciò ci inoltra nel secondo versante<br />
<strong>di</strong> questo stu<strong>di</strong>o che prende ad oggetto le pratiche.<br />
2. PRATICHE E GESTIONE DEL SENSO<br />
2.1. La questione socio<strong>semio</strong>tica<br />
Per prima cosa, non è affatto la stessa cosa parlare <strong>di</strong> socio<strong>semio</strong>tica e <strong>di</strong> <strong>semio</strong>tica<br />
delle culture: la cultura informa esperienza, testualità, e pratiche sociali.<br />
È una me<strong>di</strong>azione <strong>semio</strong>tica ubiqua, coestensiva del nostro mondo-ambiente<br />
(<strong>semio</strong>sfera). Ora, porre in gioco una socio<strong>semio</strong>tica dovrebbe significare<br />
assumere ad oggetto il carattere sociale della comunicazione e della gestione<br />
della significazione lungo le pratiche. Ma è davvero opportuno separare lo<br />
stu<strong>di</strong>o delle pratiche sociali, ossia pretendere una specificità dello sguardo<br />
socio<strong>semio</strong>tico? Ve<strong>di</strong>amo.<br />
221
Le pratiche a) me<strong>di</strong>ano produzione e ricezione dei testi; b) “incorniciano”<br />
le esperienze <strong>degli</strong> in<strong>di</strong>vidui, dando loro un orizzonte <strong>di</strong> senso che trascende<br />
il campo <strong>di</strong> presenza fenomenico. A loro volta, le pratiche c) si offrono a una<br />
continua reinterpretazione grazie alla loro rifigurazione narrativa nei testi; d)<br />
<strong>di</strong>vengono intelligibili solo se vengono anche riconnesse alla <strong>di</strong>mensione corporale<br />
e all’or<strong>di</strong>ne dei vissuti <strong>di</strong> significazione.<br />
Ecco allora che qualsiasi tentativo <strong>di</strong> <strong>di</strong>sconnettere esperienza, testualità<br />
e pratiche appare come profondamente riduzionistico. Inoltre, già nei padri<br />
fondatori della <strong>semio</strong>tica (Saussure e Peirce), il carattere sociale della langue<br />
o <strong>degli</strong> interpretanti è fortemente affermato. Per tali ragioni si potrebbe<br />
ritenere, <strong>di</strong> primo acchito, che la pretesa <strong>di</strong> uno specifico sguardo socio<strong>semio</strong>tico<br />
sia fallace e immotivata. Ve<strong>di</strong>amo, tuttavia, <strong>di</strong> esaminare una serie<br />
<strong>di</strong> osservazioni che potrebbero spingersi ad assumere eventualmente una<br />
posizione contraria:<br />
a) per prima cosa è opportuno rilevare che ogni teoria può operare delle <strong>di</strong>stinzioni<br />
senza pretendere che le entità così <strong>di</strong>stinte siano <strong>di</strong>sconnesse e<br />
autonome;<br />
b) il fatto <strong>di</strong> riven<strong>di</strong>care giustamente che la me<strong>di</strong>azione <strong>semio</strong>tica è ubiqua<br />
non significa sostenere che l’indagine <strong>di</strong> tale me<strong>di</strong>azione non richieda punti<br />
<strong>di</strong> vista <strong>di</strong>versi e accortezze epistemologiche specifiche;<br />
c) la <strong>semio</strong>tica strutturale si è costruita attorno all’indagine della testualità; ma<br />
non è solo l’estensione incontrollata della nozione <strong>di</strong> testo che può risultare<br />
sospetta, quanto il fatto che così facendo si è infine indagata la significazione<br />
stu<strong>di</strong>ando solo un versante dell’accoppiamento che rela testo e interprete<br />
secondo una gamma <strong>di</strong> doppie <strong>di</strong>pendenze; in ombra, sono rimaste così i<br />
mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> costituzione ed assunzione della testualità;<br />
d) per quanto si sia infine adottata la prospettiva dell’enunciazione in atto<br />
(Fontanille, 1999), ciò non si è tradotto in una vera e propria indagine del<br />
modo con cui gestiamo e negoziamo il senso;<br />
e) si constata una totale mancanza in <strong>semio</strong>tica, ed in larga parte anche nella<br />
socio<strong>semio</strong>tica, <strong>di</strong> una teoria della società, se non nella riduzione <strong>di</strong> quest’ultima<br />
ai testi che essa produce e in cui si riflette (Landowski 1989).<br />
La necessità <strong>di</strong> una teoria della società può apparire del tutto surrettizia in<br />
<strong>semio</strong>tica; per tale ragione la considereremo sub iu<strong>di</strong>ce, e solo nel corso<br />
della nostra argomentazione cercheremo <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrarne l’inelu<strong>di</strong>bilità per<br />
una <strong>semio</strong>tica delle culture.<br />
2.2. La <strong>semio</strong>tica delle pratiche in J. Fontanille<br />
In un contributo recente <strong>di</strong> Fontanille (2004b) possiamo riscontrare come esperienza,<br />
testualità e pratiche sono convocate assieme sotto uno sguardo teorico<br />
comune che risulta esplicativo rispetto a livelli d’analisi <strong>di</strong>versificati ma incassati<br />
e gerarchizzati. Nel contempo troviamo un problema metodologico generale:<br />
l’eterogeneità costitutiva <strong>di</strong> ogni livello <strong>di</strong> pertinenza <strong>semio</strong>tico deve trovare<br />
una qualche soluzione a fini <strong>di</strong> significazione.<br />
222
Due prime osservazioni:<br />
a) se il minimum <strong>di</strong> <strong>semio</strong>ticità a livello <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica del corpo è una relazione<br />
inter-attanziale, la <strong>semio</strong>ticità a livello prassico deve essere reperita<br />
nella preservazione <strong>di</strong> un’istanza formale che prende in carico delle istanze<br />
materiali e sensibili;<br />
b) in Fontanille (2004b) possiamo inoltre notare come la messa a fuoco della<br />
situazione <strong>di</strong> comunicazione provenga dalla “esperienza <strong>di</strong> interazione con<br />
il testo attraverso i suoi supporti materiali”: ossia, esso viene colto come<br />
oggetto.<br />
Per prima cosa, anche l’esperienza sensibile me<strong>di</strong>ata dal corpo è già “formatrice”,<br />
ossia “<strong>semio</strong>tizzatrice”, cosa che Fontanille stu<strong>di</strong>a in maniera alquanto<br />
approfon<strong>di</strong>ta in Figure del corpo. In secondo luogo, la situazione comunicativa<br />
resta uno scenario esperienziale. In tale quadro, è allora proprio la testualità<br />
che deve ritrovare un’adeguata concettualizzazione, cosa che abbiamo tentato<br />
<strong>di</strong> intraprendere nella prima parte <strong>di</strong> questo stu<strong>di</strong>o.<br />
Ora, secondo Fontanille, una situazione comunicativa trova una propria<br />
<strong>di</strong>mensione pre<strong>di</strong>cativa grazie alla conversione <strong>di</strong> un’esperienza pratica in<br />
“<strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> espressione <strong>semio</strong>tica”: vale a <strong>di</strong>re essa viene convertita in<br />
uno scenario attanzializzato dove i ruoli enunciazionali sono giocati da testi,<br />
utenti, elementi ambientali, ecc. La scena pre<strong>di</strong>cativa si allarga - per così <strong>di</strong>re<br />
- dal testo alla città: un principio <strong>di</strong> razionalità <strong>semio</strong>tica guida l’idea <strong>di</strong> cogliere<br />
quest’ultima come una configurazione significante i cui effetti <strong>di</strong> senso<br />
siano <strong>di</strong>pendenti da una integrazione delle enunciazioni incassate, in modo<br />
da ricostruirla come un tutto coerente. I principi metodologici del testualismo<br />
vengono proiettati sugli scenari socio<strong>semio</strong>tici e il principio <strong>di</strong> immanenza può<br />
essere salvaguardato. La città esemplifica questa idea <strong>di</strong> “cantiere <strong>semio</strong>tico”<br />
che preallestisce percorsi <strong>di</strong> senso in virtù delle situazioni ad alta o bassa istituzionalizzazione<br />
e <strong>degli</strong> scenari pre<strong>di</strong>cativi.<br />
Con la situazione-strategia (Fontanille, 2004b), ossia con la <strong>di</strong>mensione<br />
strategica della situazione <strong>di</strong> comunicazione, cambia completamente il punto <strong>di</strong><br />
vista teorico; la configurazione <strong>di</strong> uno scenario figurativo <strong>di</strong>viene congiunturalmente,<br />
per via <strong>di</strong> un’assunzione, il problema da gestire da parte <strong>di</strong> un soggetto<br />
che deve adattarsi, coor<strong>di</strong>narsi rispetto alla concomitanza/successione <strong>di</strong> scene e<br />
pratiche. Ma tale cambiamento <strong>di</strong> prospettiva (che sfalda il quadro pre<strong>di</strong>cativo,<br />
<strong>di</strong>venendo scenario decisivo per qualcuno) viene poi controbilanciato e persino<br />
deproblematizzato teoricamente dalla cristallizzazione delle scena-strategia: essa<br />
è preve<strong>di</strong>bile e lavorabile pragmaticamente secondo prassi o procedure. L’aspetto<br />
configurativo è recuperato e il fare stesso <strong>di</strong>viene solo un sistema <strong>di</strong> rientro (reentry)<br />
entro un quadro <strong>di</strong> auto-organizzazione delle situazioni attorno a pratiche<br />
interconnesse. L’effabilità dell’agire è colto dall’esterno e già pre-giu<strong>di</strong>cato dalla<br />
razionalizzazione della sua eterogeneità <strong>di</strong> base. Al fare strategico che deve procedere<br />
per aggiustamenti, si sostituisce la situazione-strategia: all’agire si sostituisce<br />
la procedura che trova già decisa a monte la sua sensatezza. Tuttavia, Fontanille<br />
affianca il problema dell’ottimizzazione in tempo reale delle connessioni signifi-<br />
223
canti tra pratiche: solo che tale appaiamento teorico (preve<strong>di</strong>bilità/ottimizzazione)<br />
nasconde una <strong>di</strong>scontinuità: non è più la configurazione-forma che deve essere<br />
presa in carico dalla teoria, ma esattamente il configurare.<br />
Le forme <strong>di</strong> vita sono un modo per recuperare la centralità del soggetto<br />
(in<strong>di</strong>viduale o comunitario): esse emergono come stili (ritmici e strategici),<br />
ossia come “effetti <strong>di</strong> presenza” isotopici dell’attore rispetto alla sintagmatica<br />
dell’agire. Si pone però una questione; sono “effetti <strong>di</strong> presenza” rispetto a<br />
situazioni-strategiche stereotipiche (dunque, ne a<strong>di</strong>biscono eventualmente una<br />
deformazione coerente) o invece tali effetti si pongono sul filo <strong>di</strong> soluzioni<br />
strategiche in fieri? Il problema non è specioso: la forma <strong>di</strong> vita, che riteniamo<br />
una delle nozioni <strong>semio</strong>tiche più produttive <strong>degli</strong> ultimi anni, è l’articolazione <strong>di</strong><br />
una proso<strong>di</strong>a esistenziale con un regime <strong>di</strong> valorizzazioni. Ma per una <strong>semio</strong>tica<br />
delle pratiche il problema non è cogliere la forma <strong>di</strong> vita se<strong>di</strong>mentata e archiviata<br />
testualmente; si tratta <strong>di</strong> cogliere la forma <strong>di</strong> vita come quadro <strong>di</strong> reggenza della<br />
significazione che deve scendere a patti con le circostanze congiunturali. Già<br />
la nozione stessa <strong>di</strong> forma <strong>di</strong> vita non dovrebbe mancare <strong>di</strong> suggerirci <strong>di</strong> porre<br />
l’accento sulla sua tenuta, sul suo sapersi preservare o ripensare.<br />
Sintetizzando i nostri rilievi, possiamo <strong>di</strong>re che il lavoro recente <strong>di</strong> Fontanille<br />
si offre come la massima estensione possibile, lo sfruttamento più ottimizzato<br />
della <strong>semio</strong>tica testuale all’ambito delle situazioni comunicative. Il rifiuto <strong>di</strong><br />
un riduzionismo nell’impostazione del quadro teorico convoca la problematica<br />
relazione tra esperienza, testualità e pratica, ma finisce per schiacciare la natura<br />
specifica <strong>di</strong> tali istanze teoriche l’una sull’altra, e ciò perché Fontanille non è<br />
<strong>di</strong>sposto ad accettare il travalicamento delle pertinenze <strong>semio</strong>tiche tra<strong>di</strong>zionali,<br />
visto che ciò potrebbe comportare uno sconfinamento <strong>di</strong>sciplinare non più controllabile.<br />
Per contro, si tratta <strong>di</strong> continuare a stu<strong>di</strong>are configurazioni significanti,<br />
<strong>di</strong> taglia <strong>di</strong>versa, oggettivando i mo<strong>di</strong> specifici con cui queste controllano dei<br />
percorsi <strong>di</strong> significazione.<br />
In tal senso l’impostazione fontanilliana è accorta: i punti critici da noi rilevati<br />
possono <strong>di</strong>venire pertinenti solo nel momento in cui <strong>di</strong>vengono problematiche<br />
abbordabili per una <strong>semio</strong>tica, cosa tutta da <strong>di</strong>mostrare. O meglio, essa è<br />
<strong>di</strong>mostrata, ma sotto un altro para<strong>di</strong>gma, quello interpretativo, che cerca solo<br />
con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> descrivibilità locali e mette al centro l’ermeneutica materiale,<br />
per <strong>di</strong>rla con Rastier.<br />
Ora, consentiamoci tre riflessioni esplorative:<br />
a) Come l’esperienza è irriducibile al testo, così la pratica risulta irriducibile<br />
alla situazione.<br />
b) Se testo e situazione sono articolabili per via <strong>di</strong> scenari pre<strong>di</strong>cativi prototipici<br />
e risultano descrivibili sotto l’egida <strong>di</strong> una teoria dell’enunciazione,<br />
esperienza e pratica affacciano la problematica <strong>di</strong> una gestione del senso e<br />
sono abbordabili sotto l’egida <strong>di</strong> una teoria dell’interpretazione.<br />
c) Come abbiamo visto fin dall’inizio, l’eventuale <strong>di</strong>scriminazione <strong>di</strong> queste<br />
prospettive non significa affatto <strong>di</strong>sconnetterle, anzi esse vanno pensate<br />
come punti <strong>di</strong> vista incrociati.<br />
224
Di fatto, è su questa base che abbiamo elaborato il programma <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica<br />
delle culture come federazione <strong>di</strong> tre prospettive epistemologiche <strong>di</strong>versificate<br />
ed incrociate: <strong>semio</strong>tica dell’esperienza, <strong>semio</strong>tica del testo e socio<strong>semio</strong>tica<br />
(Basso, 2002). Non perderemo qui tempo a illustrare le nostre posizioni generali:<br />
ci è sufficiente mostrare come tale quadro fornisce piena legittimità alla<br />
proiezione della prospettiva testualista sulle pratiche, ma estende nel contempo<br />
il numero delle prospettive esplicative, per cui vale anche al contrario: si può<br />
assumere una prospettiva socio<strong>semio</strong>tica sulla testualità, e così via.<br />
PROSPETTIVA<br />
EPISTEMOLOGICA<br />
regime <strong>di</strong><br />
significazione<br />
assetto della<br />
comunicazione<br />
forme <strong>di</strong> soggettività<br />
implicate<br />
apporti specifici<br />
pertinenza testuale<br />
incrociata<br />
pertinenza<br />
esperienziale<br />
incrociata<br />
pertinenza<br />
socio<strong>semio</strong>tica<br />
incrociata<br />
memoria semantica<br />
SEMIOTICA<br />
DELL’ESPERIENZA<br />
in presentia<br />
SEMIOTICA DEL TESTO SOCIOSEMIOTICA<br />
presenza vicaria/<br />
assenza delegativa<br />
225<br />
doppio regime (in<br />
presentia e in absentia)<br />
identità/prossimalità simulacralità <strong>di</strong>stalità<br />
me-carne, sé-corpo<br />
proprio<br />
inter-attanzialità<br />
esperita (innesco dei<br />
valori)<br />
iscrizione ed<br />
apprensione della<br />
testualità<br />
costituzione e<br />
stabilizzazione<br />
percettiva <strong>di</strong> uno<br />
scenario interattanziale<br />
sensibilizzazione del<br />
sociale (aisthesis<br />
collettiva)<br />
memoria incorporata<br />
(percorso<br />
esperienziale)<br />
identità narrativa<br />
ruoli identitari in<br />
situazione<br />
domini, contesti<br />
<strong>di</strong>scorsività configurata istituzionali, pratiche,<br />
statuti e generi<br />
(trattamento dei valori) contrattati (circolazione<br />
regolata dei valori)<br />
immanenza testuale<br />
drammatizzazione<br />
<strong>di</strong>scorsiva<br />
dell’esperienza<br />
testualizzazione e<br />
rifigurazione dei<br />
vincoli e delle<br />
relazioni sociali<br />
memoria <strong>di</strong>scorsiva<br />
(percorso <strong>di</strong><br />
testualizzazione)<br />
testo agito sullo<br />
sfondo <strong>di</strong> contesti<br />
istituzionali e forme<br />
<strong>di</strong> vita<br />
socializzazione<br />
dell’esperienza<br />
istituzionalizzazione<br />
dei valori e delle<br />
prassi enunciazionali<br />
memoria culturale<br />
(percorsi nelle reti<br />
semantiche dei <strong>di</strong>versi<br />
domini sociali)<br />
La posta in gioco non è affatto quella <strong>di</strong> a<strong>di</strong>bire una macchina teorica in grado <strong>di</strong><br />
produrre banalmente delle prospettive <strong>di</strong>versificate: il quadro della teoria ambisce<br />
a porsi come quadro della cultura vissuta, elaborata ed agita. Parallelamente,<br />
dovremmo <strong>di</strong>stinguere un agire esperito (vissuto), un agire rifigurato/tesauriz-<br />
A C C E S S I A L S E N S O
zato da testi e un agire socio-coor<strong>di</strong>nato. Una volta <strong>di</strong>stinti, dovremmo vedere<br />
come ciascuno si riapplica agli altri. Le reti culturali non sono configurazioni<br />
rizomatiche <strong>di</strong> rinvii, ma applicazioni ricorsive <strong>di</strong> prospettive l’una sull’altra:<br />
ciò spiega la loro natura multi<strong>di</strong>mensionale.<br />
2.3. Tre car<strong>di</strong>ni problematici per una <strong>semio</strong>tica delle pratiche<br />
Le pratiche non sono riducibili al fare: per prima cosa il fare non esiste che sotto<br />
qualche descrizione, qualche messa in prospettiva (osservazione <strong>di</strong> primo or<strong>di</strong>ne). In<br />
secondo luogo, le pratiche non accettano <strong>di</strong> ridurre la deliberazione, che sta alla base<br />
dell’iniziativa ad agire, a mero calcolo (come voleva Aristotele, con il suo sillogismo<br />
pratico). La pratica non può ridursi a previsione e intenzione finalistica dato che<br />
consiste in quanto tale (a monte e a valle dell’agire) solo lungo il monitoraggio della<br />
sua sensatezza (osservazione <strong>di</strong> secondo or<strong>di</strong>ne sulla significazione). Ogni scopo,<br />
ogni fine non si autogiustifica, cosicché la pratica si trova soggetta a un or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />
motivazioni il cui senso rimane questionabile (re-interrogabile) all’infinito.<br />
Nella riproposizione <strong>di</strong> un quadro teorico delle pratiche ci occuperemo<br />
sostanzialmente <strong>di</strong> tre questioni: a) il movente; b) l’osservazione <strong>di</strong> secondo<br />
or<strong>di</strong>ne, e in particolare l’auto-osservazione; c) la tenuta nel tempo delle valenze<br />
(intese come valere dei valori) in mancanza <strong>di</strong> un loro fondamento ultimo. Tali<br />
questioni sono strettamente interconnesse e si pongono al cuore delle <strong>di</strong>fficoltà<br />
affrontate anche dagli altri sguar<strong>di</strong> <strong>di</strong>sciplinari nel momento in cui si sono<br />
confrontati con le pratiche.<br />
2.3.1. Il movente.<br />
(i) Per prima cosa il movente <strong>di</strong>viene problematica centrale <strong>di</strong> una semantica<br />
dell’azione nel momento in cui viene riconosciuta la non sovrapponibilità<br />
tra la nozione <strong>di</strong> causa (l’agency causativa) e quella <strong>di</strong> motivo (l’agency<br />
motivazionale).<br />
(ii) Se questa <strong>di</strong>varicazione ha impegnato la filosofia analitica dell’azione, meno<br />
tematizzata è stata la <strong>di</strong>stinzione tra ragione e motivazione. Il quadro <strong>di</strong> senso<br />
dell’agire non si esaurisce né nel puro or<strong>di</strong>ne dell’intervento causativo, né<br />
in quello della razionalizzazione strategica. La sensatezza, quale or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />
motivazioni date nel tempo, esplicita come nelle pratiche non sia in gioco<br />
solamente la trasformazione <strong>di</strong> valori sotto la guida <strong>di</strong> una programmazione<br />
razionale (previsioni, procedure, strategie, ecc.): è in gioco, infatti, anche la<br />
giustificazione (il perché dell’agire) rispetto a un quadro <strong>di</strong> possibilità aperte<br />
(le alternative in memoria e gli effetti sul breve o sul lungo periodo).<br />
(iii) In terzo luogo, assistiamo a un altro passaggio qualitativo tra motivazione<br />
e movente; ciò <strong>di</strong>pende dalla centralità che assume il ruolo della decisione e<br />
dell’iniziativa. Il movente è una motivazione che non solo “viene chiamata<br />
in causa”, ma che si pone anche come fonte <strong>di</strong> mobilitazione. In questo<br />
senso, il movente drammatizza il passaggio all’azione e può affidare un<br />
ruolo all’emozione nella presa <strong>di</strong> iniziativa, anche “accecando” le poste<br />
destinali. Il desiderio, accampato come movente, è tale perché è “ragione<br />
226
d’agire” almeno quando si pone come “forza” che spinge a fare, che riempie,<br />
eventualmente, lo iato tra programma e azione, ossia si sostituisce alla decisione.<br />
La mozione del volere è in ogni caso tutt’altro che auto-assolvente,<br />
questiona l’identità del soggetto aprendo l’interpretazione della sensatezza<br />
dell’agire ancora a nuove, più recon<strong>di</strong>te ragioni.<br />
2.3.2. L’auto-osservazione.<br />
Le pratiche umane si contrad<strong>di</strong>stinguono perché ogni corso d’azione non solo<br />
viene soppesato nei termini <strong>di</strong> “cos’è meglio, cos’è preferibile?”, ma anche interrogato<br />
rispetto alla domanda: “che cosa significa adottare tale condotta?” Il fatto<br />
che le pratiche, oltre a trasformare, ci trasformano può essere opportunamente<br />
colto nei termini <strong>di</strong> una osservazione <strong>di</strong> secondo or<strong>di</strong>ne sul proprio e altrui agire.<br />
Si osserva, cioè, “l’agire guidato” e le traiettorie <strong>di</strong> senso in tal modo gestite,<br />
rendendo la semantica dell’azione altrimenti accessibile. Questa demoltiplicazione<br />
<strong>degli</strong> accessi al senso è propria dell’interpretazione. Essa si regge sempre su<br />
un’osservazione <strong>di</strong> secondo or<strong>di</strong>ne che consente una re-interrogazione del senso<br />
agito e l’apertura <strong>di</strong> un quadro eristico: il valevole apre sempre un contenzioso.<br />
2.3.3. La tenuta del senso nel tempo.<br />
Il valevole interpretato si ritrova assoggettato al <strong>di</strong>venire e al pericolo <strong>di</strong> desemantizzazione.<br />
La pratica sensata non nasconde la sua precarietà e quin<strong>di</strong><br />
risponde (ossia deve offrirsi essa stessa come risposta possibile) al deficit <strong>di</strong><br />
fondazione dei valori, e quin<strong>di</strong> del senso. La sensatezza <strong>di</strong> una pratica si dà solo<br />
fintantoché un or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> motivazioni reggono nel tempo come valevoli (per il<br />
soggetto dell’agire) o quantomeno risultano significative (per un soggetto osservatore<br />
esterno). Per questo, la pratica ha come orizzonte la gestione stessa del<br />
senso. Ecco allora che, focalizzandoci sulle pratiche, non solo passiamo dalla<br />
semantizzazione <strong>di</strong> una configurazione all’attività configurante, ma cogliamo<br />
anche quest’ultima come <strong>di</strong>pendente da una gestione tentativa del senso.<br />
2.4. Una revisione della nozione <strong>di</strong> narratività<br />
Alcune nozioni generali della <strong>semio</strong>tica vengono ridefinite da questo quadro<br />
problematico, a cominciare da quella <strong>di</strong> narratività. Parlare <strong>di</strong> narratività significa<br />
imme<strong>di</strong>atamente ra<strong>di</strong>carsi all’interno <strong>di</strong> un regime d’auto-osservazione dove<br />
l’autoascrizione dell’esperire e dell’agire non è più procedura cognitiva scontata<br />
e il senso non è più paesaggio ininterrogato (non questionato) <strong>di</strong> <strong>di</strong>sponibilità/in<strong>di</strong>sponibilità<br />
<strong>di</strong> valori. La narrativizzazione pertiene all’inevidenza, all’emergere<br />
della consapevolezza delle connessioni mancanti e della fondazione forzatamente<br />
precaria del valere dei valori. La narrativizzazione dell’esperienza è pratica <strong>di</strong>scorsiva<br />
che “si prepara” a sopperire alle lacune <strong>di</strong> senso e a ricostruire una coerenza<br />
minima della traiettoria esistenziale dei soggetti e delle loro identità.<br />
In questa prospettiva, si rigiustifica la sud<strong>di</strong>tanza dell’intenzionalità agentiva<br />
alla narrativizzazione configuratrice dell’esperienza. Come ha rilevato insospettabilmente<br />
John Searle, troviamo delle lacune <strong>di</strong> senso ovunque: tra l’intenzione<br />
227
precedente alla realizzazione dell’azione e l’intenzione-in-azione, da un lato,<br />
e tra quest’ultima e le motivazioni della continuazione dell’agire, dall’altro. Il<br />
configurare narrativamente il senso è l’unico modo per gestire un quadro <strong>di</strong> sno<strong>di</strong><br />
che fungono da conversione del valere dei valori e ricercano singolarmente un<br />
quadro <strong>di</strong> motivazioni, o persino un movente. La narratività non si regge quin<strong>di</strong><br />
su un principio <strong>di</strong> immanenza (su una chiusura e una determinazione), ma sulla<br />
gestione stessa del senso rispetto a pratiche che scendono a patti con lacune, con<br />
punti ciechi del progettare, del decidere, dell’agire. Se si può parlare ancora <strong>di</strong><br />
immanenza essa è quella che si declina secondo una serie <strong>di</strong> accoppiamenti; tra<br />
soggetto e ambiente, attore sociale e spazio istituzionale, fruitore e testo.<br />
All’interno del quadro teorico qui <strong>di</strong>segnato risuonano alcuni temi peraltro<br />
classici, e attestati per esempio in Lotman:<br />
a) la strutturazione delle pratiche e dei domini <strong>di</strong> una cultura va <strong>di</strong> pari passo<br />
con la <strong>di</strong>namica irrequieta <strong>di</strong> quest’ultima, dato che essa cerca <strong>di</strong> far fronte<br />
all’incolmabile non-finitezza (Lotman, Uspenskij 1975, p. 59) della sua<br />
costruzione <strong>di</strong> forme, saperi e fondamenti: parlare <strong>di</strong> pratiche significa<br />
assumere la cultura come un cantiere aperto;<br />
b) ad ogni bivio decisionale incontrato le pratiche tengono in memoria e<br />
custo<strong>di</strong>scono come sfondo archeologico della propria traiettoria <strong>di</strong> semantizzazione<br />
i cammini non intrapresi (Lotman 1993, 78 e ss.). Ecco allora<br />
che l’interpretazione comincia a rielaborare il senso dell’azione intrapresa<br />
secondo una prospettiva <strong>di</strong> risonanze para<strong>di</strong>gmatiche;<br />
c) in un quadro intersoggettivo, la semantica delle pratiche <strong>di</strong>pende sempre<br />
da un or<strong>di</strong>to, da un va e vieni tra, da una parte, le ascrizioni <strong>di</strong> ruolo (in<br />
ragione del comportamento attestabile <strong>degli</strong> attori coimplicati) e, dall’altra,<br />
prensioni analogizzanti dell’altrui esperienza corporale, emotiva, decisionale<br />
(Lotman, 1993, p. 52 e ss).<br />
Le pratiche sono il fronte della <strong>semio</strong>tizzazione; nell’auto-monitorarsi, una<br />
pratica non solo gestisce il senso della sua attività configuratrice, ma stabilisce<br />
punti <strong>di</strong> frontiera della <strong>semio</strong>tizzazione, espungendo dalla propria auto-organizzazione<br />
ciò che Lotman chiamava appunto l’extra<strong>semio</strong>tico.<br />
2.5. L’esempio della provocazione<br />
Abbiamo detto come la pratica non si riduca al semplice fare, e non si limita<br />
neppure alla produzione <strong>di</strong> effetti provocati da una presa <strong>di</strong> iniziativa. La pratica<br />
non si pone nemmeno, in tal senso, come una mera negazione <strong>di</strong> passività.<br />
La pratica si reclama, si autodestina a una validazione, si auto-osserva come<br />
commisurata a certi moventi e a una certa tenuta delle valenze su cui opera.<br />
Pren<strong>di</strong>amo come esempio la provocazione.<br />
Colui che viene provocato tende a denegare anticipatamente la propria responsabilità<br />
riguardo una sua eventuale risposta (“non rispondo delle mie azioni”).<br />
Ora, le migliori e più interessanti provocazioni sono quelle fini a se stesse; esse<br />
non consentono che la deresponsabilizzazione della reazione altrui possa passare<br />
per un mero trasferimento <strong>di</strong> responsabilità all’iniziativa del provocatore. La pura<br />
228
provocazione è sempre un colpo <strong>di</strong> genio nichilista: si “chiama allo scoperto”<br />
l’altro cercandone una risposta che travalichi forze e determinazioni modali inibenti.<br />
Per fare ciò, si cerca <strong>di</strong> dare sufficiente motivazione al provocato affinché<br />
deprogrammi la propria competenza e la propria moralizzazione dell’agire, solo che<br />
tale motivazione è un’offerta <strong>di</strong> senso surrettizia senza doppio fondo. Vale a <strong>di</strong>re,<br />
cedere alla provocazione è rimanere irretiti da una motivazione alla reazione che<br />
non può reggere a un teatro del valore più vasto dell’angusta sfida, fine a se stessa,<br />
in cui ci si imbattuti. Soprattutto, l’offerta <strong>di</strong> senso della provocazione si estingue<br />
reagendovi. È questo stesso esito a giustificare il programma del provocatore, per<br />
il quale non ha prezzo la conquista <strong>di</strong> pertinenza <strong>di</strong> un teatro intersoggettivo del<br />
valore bilateralmente riconosciuto; non badando a spese, è pronto a con<strong>di</strong>videre<br />
un’“estinzione del senso” accampato. Dovremmo maggiormente esplorare tale<br />
estinzione, dato che in vista <strong>di</strong> essa possono comunque concrescere e alimentarsi la<br />
sensatezza dell’agire strategico del provocatore e quella della risposta tatticamente<br />
devolutiva del provocato (costui reagisce anticipando <strong>di</strong> non rispondere <strong>di</strong> ciò che<br />
farà). Una volta innescata e accettata la provocazione, l’asimmetria delle rispettive<br />
posizioni può essere tentativamente rigiocata - per quanto risulti una partita bilateralmente<br />
“<strong>di</strong>sperata” - a favore del provocato; se il provocatore gode finalmente <strong>di</strong><br />
un teatro del valore comune, per quanto rimasto “a secco” (in effetti, la riconquista<br />
<strong>di</strong> una determinazione identitaria per confronto para<strong>di</strong>gmatico si dà nel mentre essa<br />
appare come non qualificata e non qualificante, ossia me<strong>di</strong>ocre), il provocato può<br />
profittare dell’estinzione del senso nel prodursi della sua reazione per annoverare<br />
tacitamente un dead point della ricorsività interpretativa. “Non rispondo delle mie<br />
azioni” non è banalmente <strong>di</strong>re “sarà tutta colpa tua”, bensì la reazione non avrà<br />
ulteriori determinazioni <strong>di</strong> senso oltre il quadro interpretativo della provocazione<br />
da cui si è “sensatamente” partiti. La reazione del provocato parte da una interpretazione<br />
della situazione e da un quadro <strong>di</strong> senso: estinguendosi quest’ultimo (la<br />
provocazione era fine a se stessa), non vi è spazio per ulteriori accessi al senso <strong>di</strong><br />
quanto si è agito. Insomma, il provocato mirerebbe a essere vinto dall’emozione in<br />
pace con sé stesso valendosi della conflittualità <strong>di</strong>sperata e nichilista dell’altro. Il<br />
problema è se trova pace - e non necessariamente per la “rovinosa” comparsa sulla<br />
scena <strong>di</strong> un ruolo attanziale terzo che reinterpreta l’accaduto e giu<strong>di</strong>ca. Ve<strong>di</strong>amo.<br />
Il provocato annuncia che il gioco non lo appassiona, ma che si pre<strong>di</strong>spone<br />
ad agire in preda all’onda emotiva, nel mentre tale reazione si pensa come non<br />
ascrivibile alla sua forma <strong>di</strong> vita proprio perché gli appare lecito che l’emozione<br />
“travolgente” non sia ulteriormente interpretata, ossia non venga letta come<br />
una passione che lo in<strong>di</strong>vidua. È invece il provocatore che dovrebbe rimanere<br />
nudo con la passione che lo ha evidentemente mosso. Ma se la provocazione<br />
è un gioco sempre <strong>di</strong> moda è proprio perché l’esito è sempre incerto: e tale<br />
incertezza è tale perché entrambi i contendenti mirerebbero a uno “stallo” del<br />
senso, tant’è che in qualche modo vanno d’accordo (stanno al gioco). Solo<br />
che il senso “dato” o “estinto” non è mai senza ulteriore destino: ciò che si è<br />
agito viene inevitabilmente riquestionato, perché il regime delle valenze, per<br />
l’uomo, è la sensatezza, ossia un or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> motivazioni che devono reggere il<br />
229
tempo. Per trovar pace, non c’è archiviazione che tenga; l’unica via d’uscita è<br />
la rimozione <strong>di</strong> una provocazione (o <strong>di</strong> una risposta ad essa) <strong>di</strong> troppo.<br />
3. LE PRATICHE: DELIMITAZIONI DI UN OGGETTO DI STUDIO E<br />
PROBLEMATICHE APERTE<br />
3.1. Prassi, procedure e protocolli <strong>di</strong> fronte all’escogitazione<br />
Dopo le sollecitazioni che abbiamo tratto dall’indagine precedente, è ora <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>videre alcuni punti fermi della nostra argomentazione accanto a questioni<br />
che emergono nella loro <strong>di</strong>fficile trattabilità <strong>semio</strong>tica. Ve<strong>di</strong>amo.<br />
Cercando <strong>di</strong> evidenziare alcuni dei perni fondamentali della pratica, ne presentiamo<br />
qui i termini oppositivi, lasciando sottointese le posizioni interme<strong>di</strong>e.<br />
La pratica ha:<br />
a) come spazio dell’iniziativa: uno scenario figurativo me<strong>di</strong>azionale (“terreno <strong>di</strong><br />
gioco”) che sottende una <strong>di</strong>alettica tra valori già operanti e valori operabili;<br />
b) come propri limiti preparatori: l’escogitazione o il protocollo;<br />
c) come quadro d’innesto: la decisione o l’emozione;<br />
d) come quadro ermeneutico: il movente o la legge.<br />
Tali assi prassici sono fortemente interconnessi:<br />
i) la pratica <strong>di</strong>pende da una strategia o da una tattica escogitata, a seconda<br />
del fatto che il soggetto che la intraprende detenga o meno l’iniziativa (tra<br />
cui l’aver scelto il territorio <strong>di</strong> valori su cui operare);<br />
ii) la pratica <strong>di</strong>viene prassi per potenzializzazione, procedura per convenzionalizzazione,<br />
protocollo per autovalidazione <strong>di</strong> sé come parametro <strong>di</strong><br />
razionalità. L’indebolimento dell’escogitazione che procede dalla prassi<br />
verso i protocolli è inversamente proporzionale alla plasticità dell’agire e<br />
al monitoraggio <strong>degli</strong> effetti prodotti. Più è protocollare l’agire, più esso<br />
<strong>di</strong>viene “esibizione <strong>di</strong> buone intenzioni” (Luhmann) e cecità rispetto ai<br />
caratteri incidentali dello scenario in cui opera;<br />
iii) più si va verso la prassi e la procedura, più l’agire depotenzia il ruolo delle<br />
emozioni e passa dalla drammatizzazione della decisione locale all’affidamento<br />
a pronunciamenti <strong>di</strong>stali nel tempo e nello spazio (le leggi promulgate<br />
responsabilizzano gli attori sociali solo in vista del loro rispetto);<br />
iv) anche la pratica più i<strong>di</strong>osincratica patteggia la propria sensatezza entro un<br />
arco ermeneutico che connette il proprio movente con la legge.<br />
L’escogitazione può interessare non solo la prospettiva d’intervento, ma anche<br />
la costituzione stessa <strong>di</strong> un ruolo, al <strong>di</strong> là della <strong>di</strong>stribuzione delle posizioni<br />
attanziali previste istituzionalmente; essa può prevedere, cioè, una rideterminazione<br />
del “terreno <strong>di</strong> gioco”, enfatizzando con ciò la natura esplorativa della<br />
pratica, nonché giocare talora a proprio favore il rischio <strong>di</strong> una opacizzazione<br />
dello scenario intersoggettivo (es. le pratiche <strong>di</strong> raggiro).<br />
Dalla pratica escogitativa al protocollo, si assiste sempre e in ogni caso a<br />
un monitoraggio delle valorizzazioni, in cui tutti gli scenari pre<strong>di</strong>cativi testua-<br />
230
lizzati si prestano a <strong>di</strong>venire orizzonte <strong>di</strong> controllo, mappa possibile del corso<br />
d’azione (dal libretto <strong>di</strong> istruzioni a un volume <strong>di</strong> filosofia). Vale a <strong>di</strong>re che<br />
i <strong>di</strong>spositivi <strong>di</strong>scorsivi non solo realizzano <strong>degli</strong> atti (i performativi), ma si<br />
offrono come modellizzazione <strong>di</strong>sponibile dell’agire comunicativo. Di fatto,<br />
ogni agire è comunicativo, nel senso che, ben al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> qualsiasi solipsismo<br />
intenzionalista, ogni pratica è co-gestita rispetto alla sua sensatezza. I partner<br />
semantizzano l’agire osservandosi come soggetti <strong>di</strong> semantizzazione: Dean<br />
and Juliet MacCannell (1982), per quanto <strong>di</strong>stanti dalla nostra impostazione,<br />
parlavano significativamente, a questo proposito, <strong>di</strong> second <strong>semio</strong>tics.<br />
La ricorsività <strong>di</strong> tali osservazioni viene talvolta ad<strong>di</strong>tata come negoziazione<br />
del senso, ma in realtà non vi è affatto bisogno <strong>di</strong> un carattere esplicito della cogestione<br />
del senso, né <strong>di</strong> un qualsivoglia razionalistico principio regolativo, come<br />
quello <strong>di</strong> tendere verso l’intesa (Habermas). Piuttosto la contingenza dell’intendere<br />
dell’uno e la contingenza dell’intendere dell’altro è esattamente ciò che infine fa<br />
sistema: un sistema <strong>di</strong> prospettive incrociate in cui un partner include nel proprio<br />
orizzonte <strong>di</strong> senso la possibile prospettiva <strong>di</strong> semantizzazione dell’altro e viceversa<br />
3 . Questo continuo passaggio <strong>di</strong> prospettive che si autoincludono ricorsivamente<br />
sono il sigillo dell’interpretazione come tentativo <strong>di</strong> accedere al senso sempre<br />
altrimenti; e l’interpretazione così come cerca <strong>di</strong> porre rime<strong>di</strong>o alla <strong>di</strong>stribuzione<br />
ineguale delle valorizzazioni, essendo ra<strong>di</strong>cate in prospettive <strong>di</strong>stinte (la propria<br />
e l’altrui), si ritrova inevitabilmente a riproporre nuove ineguaglianze qualitative<br />
(l’interprete <strong>di</strong>ce: “ora ho inteso meglio, o persino meglio dell’altro”).<br />
3.2. Senso e destinalità nelle pratiche<br />
Quanto sostenuto nel paragrafo precedente è sufficiente per mostrare come una<br />
semantica delle pratiche sia funzione dell’emergenza <strong>di</strong> un quadro sociale della<br />
gestione del senso. Non c’è pratica senza osservazione <strong>di</strong> secondo or<strong>di</strong>ne ed<br />
essa non ha senso senza una relazione con un aspetto para<strong>di</strong>gmatico (ethos) e<br />
un aspetto sintagmatico (habitus). La pratica non opera solo su valori, ma <strong>di</strong>stribuisce<br />
valorizzazioni ineguali tra soggetti coimplicati, assegnandosi fin dal suo<br />
esor<strong>di</strong>o alla moltiplicazione <strong>degli</strong> accessi al senso, intersoggettivamente e nel<br />
tempo. Se ciò è garanzia <strong>di</strong> sufficienti <strong>di</strong>sequilibri nel tempo 4 , favorevoli a una<br />
vita della significazione (risemantizzazioni), dall’altro lato tale moltiplicazione<br />
<strong>di</strong> accessi al senso è sopportabile solo a patto <strong>di</strong> ridurre la complessità; <strong>di</strong> qui il<br />
ruolo <strong>di</strong> grammatiche e testi. Quanto alla significazione in atto, il senso prassico<br />
non si realizza, ma si destina: a questo proposito ricor<strong>di</strong>amo come i mo<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />
esistenza in Peirce siano significativamente il virtuale, l’attuale e il destinale.<br />
Ogni determinazione <strong>di</strong> senso transita per il proprio futuro, e si pone come<br />
3 Si veda la nozione <strong>di</strong> doppia contingenza in Luhmann (1984) e la sua idea che la fiducia nell’intendersi<br />
è funzione della riduzione della complessità; si tratta <strong>di</strong> instaurare significative relazioni malgrado<br />
quozienti alti <strong>di</strong> indeterminazione, rispetto al nuvolo <strong>di</strong> possibilità in gioco.<br />
4 Le pratiche contano sulla variabilità del <strong>di</strong>venire dei valori, almeno tanto quanto aspirano a una tesaurizzazione<br />
delle valenze: non viene a caso allora l’uso del termine “gestione”.<br />
231
destino, come affidamento al suo reggere nel tempo e per altri. Ogni pratica si<br />
regge sulla precettazione destinale <strong>di</strong> un orizzonte <strong>di</strong> senso atto a gestirne la<br />
significazione, o meglio la significatività, il suo valere per qualcuno.<br />
3.3. Semantizzazione dall’interno ed estroversione<br />
Una <strong>di</strong>fficoltà insormontabile per uno stu<strong>di</strong>o <strong>semio</strong>tico delle pratiche sarebbe dato<br />
dal fatto che, rispetto all’accoppiamento strutturale soggetto/mondo-ambiente,<br />
esso si troverebbe a indagare il fascio <strong>di</strong> semantizzazione che va dall’interprete<br />
verso le configurazioni, e non quello contrario, quello cioè che coglie il tentativo<br />
dei testi <strong>di</strong> mappare e guidare un percorso <strong>di</strong> senso modellizzando una<br />
soggettività che vi si articoli. Il rischio è quello <strong>di</strong> una deriva psicologistica e<br />
<strong>di</strong> una inattingibilità dei vissuti <strong>di</strong> significazione. Ma è proprio l’autoinclusione<br />
reciproca della prospettiva altrui e il problema <strong>di</strong> ri<strong>di</strong>stribuire prospettive <strong>di</strong><br />
valorizzazioni ineguali tra i co-agenti che infine esteriorizza la significatività<br />
<strong>di</strong>fferenziale dell’agire. La significazione estroversa della pratica è data dal suo<br />
potenziale comunicativo e autocomunicativo. “Guidare” una pratica attraverso<br />
una certa condotta significa porsi nell’immanenza <strong>di</strong> un sistema <strong>di</strong> osservazioni<br />
<strong>di</strong> secondo or<strong>di</strong>ne. La necessità <strong>di</strong> una riduzione della complessità, ossia della<br />
infinità dei sensi reclamabili, nonché il socio-coor<strong>di</strong>namento dell’agire rispetto a<br />
una tempistica dell’intervento, offrono un altro quadro esplicativo alle me<strong>di</strong>azioni<br />
<strong>semio</strong>tiche: dai co<strong>di</strong>ci alla produzione <strong>di</strong> simulacri, dalle protesi alle leggi.<br />
3.4. L’ansia della sensatezza socialmente impercepita<br />
Il soggetto agente, per mostrarsi decisivo, deve avere un orizzonte <strong>di</strong> senso in<br />
qualche modo deci<strong>di</strong>bile: egli si offre al rischio della (in)sensatezza, meno a<br />
quello della mancata posta <strong>di</strong> semantizzazione ab origine: <strong>di</strong> ogni intervento<br />
reclama almeno il senso della propria iniziativa, se non della propria efficacia.<br />
L’ansia provocata da una posta <strong>di</strong> significazione suscettibile <strong>di</strong> restare socialmente<br />
impercepita si manifesta in tutte le pieghe metacomunicative dell’agire.<br />
Ecco che qualunque pratica è ritenuta suscettibile:<br />
a) <strong>di</strong> manifestare un monitoraggio <strong>di</strong> sé stessa; ogni conversazione, ad esempio,<br />
presenta sempre delle pieghe metaconversazionali in cui si cerca <strong>di</strong> controllare<br />
l’interazione in corso e la sensatezza del proprio “intervenire”;<br />
b) <strong>di</strong> emanciparsi dalla configurazione del comportamento, malgrado lasci trapelare<br />
la propria condotta; vale a <strong>di</strong>re, tra l’informatività del comportamento<br />
e la strategia comunicativa c’è sempre uno iato, dato che la pratica include<br />
la prospettiva del partner comunicativo, prevedendone le risposte.<br />
Ciò spiega perché, anche sul piano delle pratiche, l’identità si costituisca sempre<br />
sul piano dei simulacri proiettati, ossia all’interno del cantiere della soggettività<br />
<strong>di</strong>scorsiva (l’identità è sempre un’identità narrativa, ma che nasce all’interno della<br />
circolazione e del patteggiamento intersoggettivo dei simulacri). Paradossalmente,<br />
un piano meta-osservativo procede a una narrativizzazione dell’agire che tende<br />
ad espropriare la sensatezza dal quadro effettuale delle relazioni, per assegnarlo<br />
- <strong>di</strong>rebbe Goffman - alla stratificazione <strong>di</strong> frame e ai footing che li avvicendano.<br />
232
3.5. Pratiche e forme <strong>di</strong> me<strong>di</strong>azione<br />
La <strong>semio</strong>tica, uscendo dall’immanenza delle configurazioni testuali, si trova <strong>di</strong><br />
fronte alla <strong>semio</strong>tizzazione stessa, all’attività configurante e a tutto lo stuolo <strong>di</strong><br />
me<strong>di</strong>azioni che preformano la cultura. Uscendo dal confino testuale, la <strong>semio</strong>tica<br />
trova rimotivata la propria concezione del senso come trasformazione <strong>di</strong><br />
valori da gestire nel tempo, <strong>di</strong> narratività quale tentativo <strong>di</strong> suturare conversioni<br />
assiologiche e lacune motivazionali. Inoltre, si trova a restituire pienamente un<br />
ruolo predominante alla lingua agita, alla parole ed ad affiancare al para<strong>di</strong>gma<br />
<strong>di</strong>fferenziale la persistenza della <strong>di</strong>fferenziazione.<br />
La pratica è un processo <strong>di</strong> significazione cogestita e sottesa da ruoli attanziali<br />
tra loro asimmetrici, almeno ad un qualche livello. Essa ha una tensione configurante<br />
che asintoticamente reclama una chiusura, ma in realtà essa è sempre<br />
costantemente riaperta, sia dalle osservazioni <strong>di</strong> secondo or<strong>di</strong>ne, sia dalla desemantizzazione<br />
<strong>di</strong>pendente dal <strong>di</strong>venire (se non è il proprio/altrui punto <strong>di</strong> vista<br />
a traslare, è il mondo-ambiente pertinentizzato che passa da uno stato all’altro).<br />
L’imperfettività della chiusura semantica porta poi ogni pratica a dover ren<strong>di</strong>contare<br />
nel tempo la mancanza <strong>di</strong> un fondamento certo ai moventi e agli effetti.<br />
Tutte le pratiche sono me<strong>di</strong>ate: tale me<strong>di</strong>azione non è solo protesica, come<br />
nel caso <strong>degli</strong> oggetti, ma anche linguistica. I linguaggi aumentano le possibilità<br />
<strong>di</strong> riflessività ricorsiva dell’agire socio-coor<strong>di</strong>nato (me<strong>di</strong>atizzazione), mentre la<br />
me<strong>di</strong>alità, ossia l’esercizio dei me<strong>di</strong>a, consente un’emancipazione della gestione<br />
del senso dal contesto percettivo dove gli interlocutori rispettivamente si collocano.<br />
I domini (l’arte, la religione, il <strong>di</strong>ritto, la scienza, ecc.), a loro volta, me<strong>di</strong>ano<br />
(me<strong>di</strong>umalità) la tenuta nel tempo delle valenze, cercando <strong>di</strong> rendere periferica<br />
l’interrogazione del loro fondamento e autonoma la forma della loro surrogazione,<br />
attraverso l’istituzionalizzazione e la <strong>di</strong>fferenziazione (Basso, 2002; 2005).<br />
4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE E PROSPETTIVE DI RICERCA<br />
Lo spazio teorico per una socio<strong>semio</strong>tica non è affatto dubbio. Essa si pone a superamento<br />
della concezione della pratica come mera praxis potenzializzata dalla<br />
memoria culturale o per contro come proairesis (ragione psicologica d’agire). In un<br />
qualche modo, la socio<strong>semio</strong>tica deve ambire a collocarsi a livello della saggezza<br />
pratica, della phronesis, che inquadra l’agire come intersezione <strong>di</strong> calcolo, desiderio<br />
e iniziativa. Ma ciò non basta ancora. La semantica ha evaso problemi affidandoli<br />
come proprio scarto alla pragmatica e la pragmatica ha spesso derubricato dallo<br />
stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> credenze, intenzioni, regole, massime conversazionali il problema della<br />
gestione del senso. Attestando le prassi invalse, e il pericolo rappresentato dalla loro<br />
violazione, la pragmatica ha <strong>di</strong>segnato un orizzonte irenico delle comunicazione<br />
e l’ha depauperata in larga parte delle poste semantiche che stanno alla base della<br />
metacomunicazione e del monitoraggio interno a ogni pratica.<br />
Per contro, la semantica dell’iniziativa non si dà se non nell’inelu<strong>di</strong>bile,<br />
imminente contropiede. Non decidere è essere infine decisi. Decidere secondo<br />
233
legge è conciliare il deciso con il deci<strong>di</strong>bile. Tuttavia, anche in questo caso<br />
l’iniziativa tende a riguadagnare una propria drammatizzazione; basta un’autoosservazione<br />
ed ecco che anche la decisione più “istituzionale” è suscettibile<br />
<strong>di</strong> essere riletta come a suo modo decisiva. Il risultare decisivi è ciò che rende<br />
la decisione stessa desiderabile, quanto temibile.<br />
L’iniziativa propria ad ogni pratica può scegliere tra optare per il deci<strong>di</strong>bile<br />
istituzionalizzato, e quin<strong>di</strong> assumere la parvenza <strong>di</strong> una preservazione della<br />
totalizzazione razionale <strong>di</strong> un sistema sociale inglobante, oppure escogitare<br />
una propria decisività, e <strong>di</strong> conseguenza costituire un nuovo sistema tentativamente<br />
chiuso (ha i propri moventi), ma che non consente più un quadro <strong>di</strong><br />
totalizzazione. In quest’ultimo caso, la pratica non vanta più appoggi nelle prassi<br />
consolidate, responsabilizza l’agente e dovendo trovare motivazioni pronte<br />
a reggere nel tempo finisce per volersi proporre a sua volta come soluzione<br />
archiviabile (e rigiustificabile a posteriori) come condotta sensata.<br />
Per quanto le pratiche <strong>di</strong>pendano da forme <strong>di</strong> organizzazione sociale gerarchicamente<br />
superiori, esse sono il luogo topico <strong>di</strong> una cultura, tanto che la rendono<br />
irriducibile a una grammatica generale, a un sistema <strong>di</strong> co<strong>di</strong>ci o a una enciclope<strong>di</strong>a<br />
or<strong>di</strong>nata e coesa <strong>di</strong> testi. La cultura è tale in quanto polemologicamente<br />
agita e la sua semantica possiede il formato <strong>di</strong> una rete relazionale <strong>di</strong> risorse<br />
da gestire. L’applicazione <strong>di</strong> tali risorse è ricorsiva e posta in gioco rispetto a<br />
qualsiasi iniziativa, cosicché non è tanto la risorsa ad essere in<strong>di</strong>viduata a fini<br />
funzionali, ma le funzioni a <strong>di</strong>pendere da un paesaggio semantizzato.<br />
La pratica può innestarsi solo in un paesaggio figurativo minimamente stabilizzato,<br />
ossia un paesaggio inter-attanziale, incorporato e intersoggettivo, ma<br />
questo si costituisce solo all’insegna <strong>di</strong> un’ecologia delle relazioni, tarata sulla<br />
in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> salienze e sull’elezione <strong>di</strong> pregnanze. Ecco allora che nelle<br />
pratiche il <strong>di</strong>fferenzialismo e la determinazione in negativo dei valori propri<br />
delle <strong>semio</strong>tiche linguistiche <strong>di</strong>vengono operazioni in positivo <strong>di</strong> <strong>di</strong>ssimilazioni,<br />
<strong>di</strong> <strong>di</strong>stinzioni e <strong>di</strong> <strong>di</strong>stribuzioni ineguali delle valorizzazioni.<br />
Se le pratiche <strong>di</strong>vengono un oggetto teorico legittimo <strong>di</strong> prospettive <strong>semio</strong>tiche<br />
<strong>di</strong>versificate, l’approccio socio<strong>semio</strong>tico deve specificarsi uscendo dal confino<br />
testualista. Solo la scarsa riflessione <strong>semio</strong>tica sulla decisione meriterebbe opportuni<br />
supplementi <strong>di</strong> ricerca e una specifica <strong>di</strong> “sguardo”. Ma più in generale i<br />
problemi che abbiamo cercato <strong>di</strong> “agitare”, affinché possano palesarsi in superficie,<br />
richiedono l’elaborazione <strong>di</strong> un metodo <strong>di</strong> indagine. L’obiettivazione sotto qualche<br />
descrizione <strong>di</strong> situazioni, scenari, pratiche ha arrovellato <strong>di</strong>scipline con molta più<br />
tra<strong>di</strong>zione della <strong>semio</strong>tica, e quest’ultima non può certo permettersi <strong>di</strong> profilare un<br />
proprio contributo deproblematizzando questo nodo metodologico preliminare.<br />
Sul piano dei modelli teorici, l’ambizione <strong>di</strong> pervenire a una modellizzazione<br />
generalizzabile delle pratiche deve essere sottoposta a opportuna riflessione<br />
critica. Se la testualità è esattamente un oggetto che esemplifica al meglio un<br />
tentativo <strong>di</strong> chiusura relativa e <strong>di</strong> stabilizzazione configurazionale della significazione,<br />
le pratiche, comprese quelle della <strong>semio</strong>tica, si trovano a dover gestire<br />
il senso lungo sno<strong>di</strong> che lo riarticolano costantemente.<br />
234
Accanto a un’opportuna organizzazione concettuale per interdefinizioni, la<br />
<strong>semio</strong>tica può procedere, rispetto alle pratiche, solo all’esercizio <strong>di</strong> un’indagine<br />
articolata su un fascio <strong>di</strong> caratterizzazioni. Tali caratterizzazioni hanno il compito<br />
<strong>di</strong> “scolpire” le sfaccettature dell’agire sociale, partecipando alla sua intelligibilità<br />
e, quin<strong>di</strong>, non ultimo, al suo <strong>di</strong>venire. Non avendo qui il tempo <strong>di</strong> sviluppare argomentativamente<br />
questo delicato punto ci limitiamo a una laconica presentazione<br />
sinottica in grado <strong>di</strong> fungere, tutt’al più, da mappatura <strong>di</strong> una possibile ricerca.<br />
ASSI DI<br />
CARATTERIZZAZIONE<br />
Delimitazione del<br />
quadro valoriale<br />
in trasformazione<br />
Asimmetrizzzione<br />
del controllo sulle<br />
variabili valoriali<br />
Asimmetrizzazione<br />
della <strong>di</strong>stribuzione<br />
valoriale<br />
Mobilitazione<br />
del quadro<br />
interattanziale<br />
Risoluzione<br />
all’agire<br />
SCENARIO<br />
INTER-ATTANZIALE<br />
partizione<br />
topologica,<br />
mereologica<br />
ineguaglianze<br />
competenziali<br />
ineguaglianze<br />
qualitative<br />
tensioni<br />
trasformative<br />
convogliamento<br />
<strong>di</strong> forze<br />
235<br />
OSSERVAZIONE DI<br />
PRIMO ORDINE<br />
SULL’AGIRE<br />
OSSERVAZIONE DI<br />
SECONDO ORDINE<br />
SULL’AGIRE<br />
territorio terreno <strong>di</strong> gioco<br />
dominanza<br />
motivo<br />
calcolabilità<br />
prefigurativa<br />
risorse<br />
d’aggregazione o <strong>di</strong><br />
gerarchizzazione<br />
motivazione<br />
movente<br />
istruttoria casistica<br />
(protocollo vs<br />
escogitazione)<br />
impulso decisione<br />
Assunzione <strong>di</strong> ruolo punti singolari intervento iniziativa<br />
Performance <strong>di</strong><br />
ruolo<br />
traiettoria comportamento condotta<br />
Informatività riconfigurazione risultato efficacia<br />
Memoria<br />
Applicazione<br />
dei saperi<br />
para<strong>di</strong>gmatica<br />
configurazionale<br />
perizia<br />
classificatoria e<br />
traspositiva <strong>di</strong><br />
esperienze<br />
elaborazione <strong>di</strong><br />
modelli <strong>di</strong> e <strong>di</strong><br />
modelli per<br />
quoting framing footing
Se assumiamo come esempio il rito, ecco che tale mappatura ci permette <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>scriminare invarianti definitorie e variabili specifiche, ma anche le tensioni<br />
interne tra osservazioni <strong>di</strong> primo grado e <strong>di</strong> secondo grado. Per restare a qualche<br />
nota puramente esemplificativa, potremmo qui rilevare come il rito comporti:<br />
1. una rideterminazione elettiva <strong>di</strong> uno spazio come terreno <strong>di</strong> operazioni<br />
simboliche; ciò comporta sempre una osservazione <strong>di</strong> secondo or<strong>di</strong>ne sulla<br />
<strong>di</strong>sponibilità dei tratti territoriali a fungere fittivamente da ancoraggio a<br />
operazioni <strong>di</strong>scorsive; qualsiasi accidentalità imprevista è deliberatamente<br />
trascurata e percepita come potenzialmente <strong>di</strong>ssolutrice della “serietà” del<br />
gioco profondo che è il rito (a meno che non sia assunta come manifestazione<br />
trascendente, il che qualifica paradossalmente il rito come efficace);<br />
2. una risemantizzazione dei ruoli sociali <strong>di</strong> dominanza nei termini <strong>di</strong> una<br />
riaggregazione e ri<strong>di</strong>stribuzione <strong>di</strong> ruoli che si ancorano a un piano trascendente;<br />
3. ciò comporta che la motivazione che può eventualmente spingere a esercitare<br />
il rito deve ritradursi in un motivo non ulteriormente questionabile<br />
(l’asimmetria della <strong>di</strong>stribuzione valoriale è creduta essere detenuta da<br />
istanze trascendenti); si passa così a un’osservazione <strong>di</strong> primo or<strong>di</strong>ne;<br />
4. il coor<strong>di</strong>namento dei partecipanti al rito tende ad assumere la forma <strong>di</strong> un<br />
protocollo, perché in sé stesso, e nella sua globalità, è una soluzione <strong>di</strong> un<br />
nodo valoriale, foss’anche la sua semplice celebrazione;<br />
5. il rito sgrava il peso della decisione, e può facilmente prodursi per atti ad<br />
impulso programmato, dato che esso può prevedere l’asemanticità locale<br />
dei singoli gesti che lo portano a realizzazione; ecco allora che la gestione<br />
del senso lungo la sua realizzazione è “schermata”;<br />
6. il rito affida il problema dell’intervento a scansioni ritmiche e a forme <strong>di</strong><br />
iterazione, che tendono a de-drammatizzare la questione <strong>di</strong> una presa <strong>di</strong><br />
iniziativa; in questo senso, esso tende ad esemplificare il chiasma tra aisthesis<br />
sociale e socializzazione del sensibile;<br />
7. il problema della performance <strong>di</strong> ruolo si traduce in un’assunzione <strong>di</strong> ruolo<br />
caratterizzata da una desoggettivazione, la quale può prendere la via della<br />
mera prestazione del proprio officio, o quella della compulsività del gesto;<br />
8. l’informatività del rito non si basa su un’effettualità risultativa imme<strong>di</strong>ata<br />
(ciò sarebbe troppo rischioso per la propria economia semantica nel tempo),<br />
ma su un’efficacia che seleziona autonomamente il proprio livello <strong>di</strong><br />
pertinenza; ciò consente al rito non solo <strong>di</strong> avere un fondamento <strong>di</strong>stale<br />
(ossia afferente a una trascendenza), ma anche una imponderabilità della<br />
sua efficacia imme<strong>di</strong>ata, dato che è potenzialmente sempre rinviabile a<br />
livelli <strong>di</strong> pertinenza imperscrutabili;<br />
9. il legame tra memoria culturale e rito è tale che esso si tramanda sempre<br />
anche come modello <strong>di</strong> essa, cosicché l’esercizio del rito ha sempre un<br />
controeffetto sulla soli<strong>di</strong>ficazione della tenuta identitaria <strong>di</strong> una comunità;<br />
la perio<strong>di</strong>cità del rito è in tal senso funzionale anche alla sottolineatura della<br />
sua memorabilità;<br />
236
10. il rito inaccetta la contiguità marcata con altre pratiche; tende a demarcare<br />
la propria delimitazione, anche temporale perché deve essere un momento<br />
d’eccezione nell’habitus e una sintesi intensiva dell’ethos; in tale prospettiva<br />
esso tendenzialmente mal sopporta ogni osservazione <strong>di</strong> secondo or<strong>di</strong>ne<br />
sulla possibilità <strong>di</strong> cambiare <strong>di</strong> frame, <strong>di</strong> cornice significante alla pratica in<br />
atto; <strong>di</strong> per sé stessa, l’attualizzazione <strong>di</strong> tale possibilità squalifica o ironizza<br />
il rito stesso.<br />
Se riba<strong>di</strong>amo che non abbiamo nessuna pretesa definizionale del rito (esso deve<br />
basarsi su stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> corpus), non meno vorremmo qui mostrare come una prospettiva<br />
che proceda per fasci <strong>di</strong> caratterizzazione assuma una prospettiva interpretativa<br />
che è quella necessaria per una <strong>semio</strong>tica della pratiche. L’interpretazione,<br />
infatti, non è che un’osservazione <strong>di</strong> secondo or<strong>di</strong>ne sulla significazione, cosa<br />
che qualifica l’elaborazione culturale. Ma c’è anche un altro portato <strong>di</strong> questo<br />
breve tratteggiamento del rito; significazione e comunicazione si <strong>di</strong>mostrano<br />
<strong>di</strong>mensioni coalescenti e non gerarchizzabili delle relazioni sociali e la gestione<br />
del senso ha un assetto che non può essere <strong>di</strong>sgiunto da queste ultime. Insomma,<br />
se una <strong>semio</strong>tica delle pratiche può essere chiamata “socio<strong>semio</strong>tica” è perché<br />
una teoria delle società le è consustanziale. L’instabilità del senso è in primo<br />
luogo il riflesso della precarizzazione destinale in<strong>di</strong>viduale e dell’organizzazione<br />
sociale, e della loro <strong>di</strong>alettica. I principi <strong>di</strong> razionalità <strong>semio</strong>tica (a cominciare<br />
dallo stesso configurare senso), nonché la pratica <strong>di</strong>sciplinare stessa in quanto<br />
tale, non possono non confrontarsi con l’ecologia della significazione che i<br />
sistemi sociali a<strong>di</strong>biscono. Far luce sulla co-gestione del senso significa elaborare<br />
un modello <strong>di</strong> semantica sociale che possa davvero confarsi al para<strong>di</strong>gma<br />
programmatico <strong>di</strong> una <strong>semio</strong>tica delle culture.<br />
237
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