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Bruno Cartosio Mito e storia - Università degli studi di Bergamo

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ma anche la parola che, costruendo il mito nazionale, lo spoglia della sua complessità storica, della sua<br />

stessa storicità relegandolo, come <strong>di</strong>ce Bachtin, in una specie <strong>di</strong> passato assoluto. Ma la vera specificità<br />

statunitense sta nel fatto che l’”assolutezza” non può proprio essere quella del passato epico, perché gli eroi<br />

protagonisti della mitopoiesi nazionale sono tutti contemporanei. E’ il contesto in cui vengono collocati che<br />

quin<strong>di</strong> deve essere destoricizzato. Da qui la prassi curiosa <strong>di</strong> far fare agli uomini storici Daniel Boone, Davy<br />

Crockett, Kit Carson, Billy the Kid, Buffalo Bill Cody cose che non hanno mai fatto (e spesso che non<br />

avrebbero mai potuto fare), in ambienti che hanno soltanto vaghe colleganze con le realtà politiche, sociali,<br />

culturali - in una parola, storiche - in cui essi si muovevano realmente nello stesso tempo in cui i mitografi si<br />

sbizzarrivano su <strong>di</strong> loro.<br />

Il punto è che deve trattarsi, se non <strong>di</strong> un vero passato assoluto della nazione, <strong>di</strong> un “ieri” che non è<br />

temporalmente lontano ma spazialmente <strong>di</strong>staccato: in quell’imprecisa e lontana entità chiamata Ovest<br />

avvengono oggi cose che nell’Est appartengono, forse, e più o meno, a un passato lontano <strong>di</strong> cui rimangono<br />

poche tracce. Storie <strong>di</strong> scontri con gli in<strong>di</strong>ani e <strong>di</strong> conquista, <strong>di</strong> aristocratici e selvaggi, <strong>di</strong> civiltà e barbarie<br />

che servono alla Nazione per darsi, in certo modo, vestigia <strong>di</strong> un passato. La loro funzione è analoga al<br />

persistere dei monumenti e alla conservazione dei documenti nelle società europee: legittimazione<br />

dell’esistente attraverso la testimonianza data dall’esistenza del passato nel presente. La mitologia della<br />

frontiera serve, un po’ più precisamente, all’Est statunitense - che si pone come depositario della coscienza,<br />

oltre che del potere economico-politico della nazione - per riconoscersi come ormai <strong>di</strong>verso, ma anche per<br />

ricondurre a sé quel nuovo mondo in quanto configurabile nei termini <strong>di</strong> un proprio passato epico: se l’Ovest<br />

è oggi come noi siamo stati, allora potremo far <strong>di</strong>ventare anch’esso come noi siamo oggi e, forse anche più<br />

importante, se comportamenti e obiettivi sono gli stessi che noi abbiamo avuto - l’eliminazione dei selvaggi e<br />

la conquista del territorio - allora la qualità americana (l’Americanness) è un dato reale della nazione, una<br />

costante nella sua <strong>storia</strong>, un fattore esclusivo <strong>di</strong> identità spirituale. E’ questo il sostrato ideologico della<br />

raffigurazione turneriana della ciclicità nella <strong>storia</strong> della frontiera: la ciclicità come sicurezza, certezza della<br />

riproducibilità del modello e quin<strong>di</strong> soli<strong>di</strong>tà dei destini nazionali.<br />

La Americanness, a sua volta, deve avere i caratteri dell’eroismo e della virilità, esattamente come la<br />

romanità dei romani doveva essere ripercorribile fino a ritrovare la sua scaturigine nell’eroe troiano Enea,<br />

che arriva da Oriente a fertilizzare la nuova terra, della cui ricettività è simbolo la donna che egli sposa.<br />

L’eroe Enea o John Smith (o Daniel Boone, ma anche Hernán Cortez, volendo) arriva a fertilizzare con il suo<br />

seme la futura nuova sede dell’Impero. Questo eroe maschio deve essere combattente e valoroso, perché la<br />

sua è sempre una conquista territoriale e politico-militare, ma anche moralmente superiore e virile, per<br />

attrarre a sé i conquistati: “Come le vergini sabine, [il Messico] imparerà presto ad amare i suoi<br />

conquistatori”, scriveva il “New York Herald” dell’8 ottobre 1847, quando ancora era <strong>di</strong>battuta l’ipotesi <strong>di</strong><br />

“prendersi” tutto il Messico; e sulla stessa lunghezza d’onda il “Sun”, anch’esso <strong>di</strong> New York, scriveva<br />

qualche giorno dopo che “la razza [messicana] è del tutto abituata a essere conquistata...Liberare e<br />

innalzare, non schiavizzare e abbassare, è la nostra missione”.( xv )<br />

Detto qui per inciso, tuttavia, non è che questa rappresentazione non ponesse problemi in altri<br />

ambiti. Al <strong>di</strong> là della retorica e del richiamo nobilitante ai classici, al <strong>di</strong> sotto del livello metaforico-mitico, l’idea<br />

concreta della miscela razziale era respinta come ripugnante.( xvi ) Qualche giorno dopo aver evocato il Ratto<br />

delle sabine, tenendo conto delle tante inevitabili implicazioni della conquista sul terreno dei <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong><br />

citta<strong>di</strong>nanza, lo “Herald” pre<strong>di</strong>ceva quell’unione come “infelice e segnata da una cattiva stella”. Alcuni<br />

parlavano anche più chiaramente. Il su<strong>di</strong>sta John C. Calhoun <strong>di</strong>ceva in Congresso all’inizio <strong>di</strong> gennaio del<br />

1848: “Io so inoltre, signore, che non abbiamo mai pensato <strong>di</strong> incorporare nella nostra Unione nessun’altra<br />

razza che quella caucasica - la razza dei bianchi liberi. Incorporare il Messico, sarebbe il primo esempio <strong>di</strong><br />

incorporazione <strong>di</strong> una razza in<strong>di</strong>ana, dal momento che più della metà dei messicani sono in<strong>di</strong>ani e il resto è<br />

costituito <strong>di</strong> tribù miste. Io protesto contro una tale unione! Il nostro, signore, è il Governo <strong>di</strong> una razza<br />

bianca”. E qualche giorno prima, il “New York Evening Post” <strong>di</strong>retto da William Cullen Bryant aveva scritto: “I<br />

messicani sono in<strong>di</strong>ani - in<strong>di</strong>ani aborigeni. Sono gli in<strong>di</strong>ani che Cortez conquistò tremila (sic) anni fa, resi<br />

solo un po’ più malandrini da una civiltà bastarda...Non hanno neppure i ru<strong>di</strong>menti <strong>di</strong> un’esistenza nazionale<br />

in<strong>di</strong>pendente. Gli aborigeni del nostro paese non hanno cercato e non possono cercare <strong>di</strong> vivere da<br />

in<strong>di</strong>pendenti fianco a fianco con noi. La Provvidenza ha deciso così ed è follia non prenderne atto. I<br />

messicani sono aborigeni in<strong>di</strong>ani e devono seguire il destino della loro razza”.( xvii )<br />

Questa concezione razziale, eroica e maschile del destino manifesto implica, naturalmente, il fatto<br />

che la frontiera venga fatta avanzare con le armi in pugno e che le donne non abbiano alcun ruolo nel mito;<br />

tantomeno le donne <strong>degli</strong> eroi: né la sposa <strong>di</strong> Daniel Boone, né quelle <strong>di</strong> Davy Crockett, né le tre sposate da<br />

Kit Carson (che oltretutto sono due in<strong>di</strong>ane e una messicana). Le armi, dunque, attuano la conquista e,<br />

subito dopo, la proteggono, rendendo possibile la società. Ma se questa è l’Eneide e, per quanto riguarda le<br />

armi, la realtà, non è certo la tesi turneriana della frontiera, che raccoglie i rivoli e frammenti precedenti per<br />

rielaborarli ulteriormente, come <strong>di</strong>cevo, in una nuova sintesi. Dalla lineare e ciclica narrazione turneriana,<br />

vengono dunque espunti sia l’in<strong>di</strong>ano, l’”altro” che si oppone all’eroe in tutte le epiche precedenti fino alle<br />

forme decadute dei <strong>di</strong>me novels, sia la particolare “alterità” implicita nella <strong>di</strong>alettica tra i sessi. Proprio<br />

l’aborrita mescolanza razziale che spaventava Calhoun e i suoi contemporanei sarà sottaciuta da Turner. La

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