2 Chichibìo Numero 21/22 – anno V, gennaio-aprile 2003 Rie<strong>di</strong>zione elettronica a cura <strong>di</strong> Palumbo multime<strong>di</strong>a Competenze, problematiche, bisogni <strong>Il</strong> punto della situazione Enrico Carini Partirei dall’osser vazione piuttosto banale che le competenze <strong>di</strong> un insegnante <strong>di</strong> lettere attengono alla letteratura… e c’è da chiedersi <strong>di</strong> quale utilità possono essere tali competenze oggi, nell’ambito <strong>di</strong> una istituzione come la scuola che costa allo Stato investimenti cospicui, seppur inferiori a quelli profusi da altri paesi <strong>eu</strong>ropei. Guidare dei ragazzi all’acquisizione <strong>di</strong> strumenti che consentano <strong>di</strong> analizzare nei loro rapporti reciproci le varie componenti <strong>di</strong> un sistema complesso quale è un testo letterario e <strong>di</strong> inserirlo in un contesto storico e culturale determinato, significa promuovere in loro un’esperienza formativa che travalica i confini specifici della singola <strong>di</strong>sciplina; più volte Luperini ha avuto modo <strong>di</strong> sottolineare come più <strong>di</strong>scipline vengano coinvolte in tale pratica, d’altro canto essa stessa, con il suo rigore <strong>di</strong> metodo, abitua ad operare criticamente e scientificamente, rivelandosi momento imprescin<strong>di</strong>bile, quando ciò che siamo soliti chiamare “scuola” voglia essere una forma privilegiata <strong>di</strong> educazione e non semplice addestramento, poiché l’inglese, l’informatica e quant’altro, nella loro indubbia utilità, se ricondotti a fini imme<strong>di</strong>atamente pratici, hanno valore limitato; paradossalmente proprio lo stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong>sinteressato, cioè mirante alla costruzione <strong>di</strong> un soggetto armonico e capace <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care e <strong>di</strong> scegliere, è quello che sulla <strong>di</strong>stanza abilita al “saper cambiare” i propri mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> pensare ed agire in relazione ai tempi, alle circostanze, alle esigenze mutevoli che <strong>di</strong> volta in volta insorgono. Ovviamente il continuo evolversi delle conoscenze umane impone sempre nuove definizioni della mappa dei saperi e, per ciò che ci riguarda, della funzione che in essa può svolgere la letteratura. Non è cosa facile, come sanno coloro che si sono cimentati nell’impresa, a causa dei <strong>di</strong>versi punti <strong>di</strong> vista e degli interessi contrastanti: la <strong>di</strong>atriba tra cultura umanistica e cultura scientifica continua, sia pure con varia intensità; la “querelle” tra linguisti e letterati mi sembra ancora ben lungi dall’essere risolta; sul piano pratico un intervento “amministrativo” come la riforma dell’esame <strong>di</strong> Stato ha <strong>di</strong> fatto ri<strong>di</strong>mensionato lo stu<strong>di</strong>o della letteratura nelle me<strong>di</strong>e superiori. Se consideriamo gli or<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> problemi con i quali oggi debbono fare i conti coloro che insegnano essi mi sembrano <strong>di</strong> tre tipi, tra loro strettamente correlati: rispetto al passato abbiamo nuovi studenti; ci muoviamo in un contesto nuovo; abbiamo a <strong>di</strong>sposizioni nuovi strumenti. Gli studenti sono “nuovi” non solo per noi vecchi docenti, ma anche per i colleghi più giovani, a causa del rapido mutamento dei modelli, che complica ulteriormente il già problematico rapporto tra generazioni: valori come famiglia, amicizia, amore, lavoro, religione, politica, conoscenza… mutano, sono intesi in modo <strong>di</strong>verso e, talora, scompaiono sostituiti da altro, che ieri valore non era: per quanti tra i ragazzi che frequentano le nostre scuole, ad esempio, lo Stato costituisce oggi un valore? Quoti<strong>di</strong>anamente ci lamentiamo che i giovani manchino <strong>di</strong> memoria storica, ma chi e come gliela tra- smette? E quanto la memoria storica ha spazio nello stesso universo della società adulta, pressata dai ritmi frenetici dell’oggi, spinta ad un oblio <strong>di</strong> comodo e confusa da interessati revisionismi? I nostri studenti usano linguaggi <strong>di</strong>versi dai nostri, anch’essi in continuo mutamento; persino quella che per noi è comune lingua <strong>di</strong> comunicazione risulta spesso per loro linguaggio specialistico che necessita <strong>di</strong> continue spiegazioni. Mutato è il contesto mon<strong>di</strong>ale; l’abbattimento del muro <strong>di</strong> Berlino aveva in molti fatto sorgere la speranza <strong>di</strong> una società più giusta e più libera, più culturalmente aperta e solidale; le cose sono andate <strong>di</strong>versamente: ci siamo trovati <strong>di</strong> fronte all’insorgere <strong>di</strong> particolarismi ed egoismi, <strong>di</strong> integralismi palesi o mascherati, al proliferare <strong>di</strong> guerre, e ci troviamo oggi ad essere più barbari <strong>di</strong> ieri, sotto qualsiasi latitu<strong>di</strong>ne, con buona pace <strong>di</strong> chi, per insipienza o per calcolo, ama <strong>di</strong>videre l’umanità in buoni e cattivi, in regno del bene e regno del male. La globalizzazione ha reso più piccolo questo pianeta litigioso e, mentre tarda a mostrare i vantaggi che pur potrebbe arrecare, <strong>di</strong>spensa non pochi danni. Ci avviamo verso una società multietnica e multiculturale, ma tale movimento troppo <strong>di</strong> frequente sembra orientato non nella <strong>di</strong>rezione da noi auspicata e auspicabile, <strong>di</strong> arricchimento e <strong>di</strong> <strong>di</strong>alettica integrazione tra culture, ma piuttosto in quella delle contrapposizioni e delle <strong>di</strong>scriminazioni, cementate da una funzionale rimozione del passato quando non anche da una solida e ostentata ignoranza Rispetto al passato abbiamo a <strong>di</strong>sposizione nuovi e stimolanti strumenti. L’uso degli au<strong>di</strong>ovisivi ci consente pratiche un tempo impensabili e può costituire un prezioso aggancio con i giovani, particolarmente sensibili ai messaggi iconici, ma è anche vero che la cultura dell’immagine può convertirsi in cultura dell’apparenza, specie sotto la spinta dei modelli veicolati dai mass me<strong>di</strong>a. L’informatica ha aperto affascinanti prospettive, l’universo intero ci sembra a portata <strong>di</strong> clic e le nuove tecniche sollecitano la creatività <strong>di</strong> studenti e insegnanti. Ma i problemi non mancano; si ritiene che tutto si possa trovare nella rete; in effetti ci si trova quanto c’è stato messo, e chi ci mette qualcosa lo fa ovviamente secondo la sua cultura e i suoi interessi, che possono essere più o meno nobili; si è <strong>di</strong> fronte ad un oceano, ma è assai <strong>di</strong>fficile, se non impossibile, <strong>di</strong>stinguere in quest’immensità il vero dal falso, l’atten<strong>di</strong>bile dall’inatten<strong>di</strong>bile. Tra i quoti<strong>di</strong>ani esiti controproducenti non voglio soffermarmi sulla pratica piuttosto <strong>di</strong>ffusa tra i ragazzi <strong>di</strong> svolgere “ricerche” (le famose e famigerate “ricerche”!) scaricando materiale da Internet ed esibendolo, stampato con accattivanti caratteri e illustrazioni fascinose, senza averlo neanche letto; penso invece all’uso dell’ipertesto, che consente gli accessi più svariati e i percorsi più personali e soggettivi: per chi ne è solo fruitore, e « la cultura dell’immagine può convertirsi in cultura dell’apparenza » non entra almeno un po’ nella logica della progettazione, c’è il rischio <strong>di</strong> smarrirsi; nel caso specifico dell’approccio ad un testo letterario è necessario aver già chiara in qualche modo la struttura dell’opera nel suo or<strong>di</strong>ne materiale e le intenzioni dell’autore, che potranno ben essere demistificate dalla nostra lettura, ma che sono comunque elemento imprescin<strong>di</strong>bile per la comprensione; in sostanza chi già in qualche modo conosce l’opera e l’autore può trarre vantaggio, e spesso non poco, da approcci trasversali e talora precedentemente inusitati, chi non ha già questa conoscenza corre il rischio <strong>di</strong> perdere il messaggio nel momento stesso in cui pretende <strong>di</strong> analizzarlo. Di fronte a questi problemi come formare gli insegnanti? Come porli in grado <strong>di</strong> affrontare gli scenari <strong>di</strong>versi che, <strong>di</strong> volta in volta, compaiono loro <strong>di</strong>nanzi? P e r s o n a l - mente, da varia posizione, ho sperimentato il susseguirsi dei vari meto<strong>di</strong> per l’arco <strong>di</strong> oltre un trentennio: ho affrontato l’esame <strong>di</strong> abilitazione e il concorso a cattedra per accedere all’insegnamento; sono stato docente <strong>di</strong> corso abilitante negli anni Settanta e tutor d’aula nell’ultimo corso <strong>di</strong> formazione per docenti neoassunti; ho seguito corsi <strong>di</strong> aggiornamento, vi ho insegnato, li ho organizzati, li ho <strong>di</strong>retti. Un tempo nella nostra formazione erano preminenti in modo quasi esclusivo gli aspetti <strong>di</strong>sciplinari, e le nostre conoscenze <strong>di</strong> <strong>di</strong>dattica erano pressoché nulle; entrando in classe per la prima volta il <strong>nostro</strong> modello finiva per essere quello costituito dai buoni insegnanti che avevamo avuto al liceo (se ne avevamo avuti!), ci sentivamo come Daniele nella fossa dei leoni, e ci facevamo le ossa sulla pelle degli studenti, a darci una mano in genere era l’entusiasmo, il che non è poco. Nei decenni successivi l’interesse per la <strong>di</strong>dattica è andato progressivamente aumentando, sono maturate importanti esperienze, sono state create istituzioni ad hoc; le offerte in tal senso si sono moltiplicate, e se consideriamo gli ultimi anni le iniziative proposte dai vari enti e oggetto <strong>di</strong> finanziamenti finalizzati vertono principalmente sulla <strong>di</strong>dattica e assai meno sugli aspetti più specificamente <strong>di</strong>sciplinari. <strong>Il</strong> pendolo nelle sue oscillazioni mi sembra andato dal poco o nulla <strong>di</strong> <strong>di</strong>dattica al troppo <strong>di</strong> <strong>di</strong>dattica. Talora si ha l’impressione che lo spessore figurale della Comme<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Dante o la struttura <strong>di</strong> un romanzo <strong>di</strong> Calvino abbiano un rilievo del tutto marginale nell’ambito dell’insegnamento e possano essere agevolmente sostituiti dalla teoria e dalla pratica del tresette, gioco per altro nobile e denso <strong>di</strong> memoria storica! D’altro canto <strong>di</strong> recente un illustre personaggio ha invitato a smetterla col solito Manzoni, poiché sul mercato internazionale tira assai poco... Molti <strong>di</strong> noi da tempo si lamentano del trionfo del “<strong>di</strong>dattichese”, del proliferare cioè <strong>di</strong> termini e schemi sempre più astratti e lontani dalla pratica dell’insegnamento, che ingabbiano il <strong>nostro</strong> lavoro; in un periodo <strong>di</strong> crescente ed asfissiante burocratizzazione come quello attuale, siamo sommersi da prospetti, relazioni, modelli e quant’altro: paradossalmente non si è mai consumata nella scuola tanta carta come da quando vi ha fatto ingresso l’informatica… per piacere, salviamo l’Amazzonia! Scherzi a parte (ma non scherzavo poi tanto!), a mio avviso il pendolo dovrebbe essere riequilibrato. L’impegno nella formazione <strong>di</strong>dattica deve essere sostanziato da una vera e propria riappropriazione della <strong>di</strong>mensione specifica delle nostre <strong>di</strong>scipline in una <strong>di</strong>mensione non settaria ma aperta e inter<strong>di</strong>sciplinare. La collaborazione condotta avanti in questi anni nel Lazio tra insegnanti, IRR SAE (ora IRRE) ed Università mi sembra preziosa e degna d’essere continuata e potenziata; essa ha avuto il merito <strong>di</strong> evidenziare ed affrontare, in vario modo e a vari livelli, alcuni no<strong>di</strong> problematici che rispondono ai bisogni della scuola che cambia: dalla <strong>di</strong>dattica della letteratura e della storia letteraria ai linguaggi giovanili, alla scrittura intesa anche nei suoi rapporti con la lettura e come scrittura creativa. <strong>Il</strong> rapporto con l’Università, inoltre, mettendo a contatto gli insegnanti con nuovi in<strong>di</strong>rizzi <strong>di</strong> ricerca e nuove meto<strong>di</strong>che, contribuisce non solo a meglio qualificarli scientificamente ma anche a suscitare in loro quell’entusiasmo che è in<strong>di</strong>spensabile nell’insegnamento, se insegnare è, come è, rapporto tra persone e non si può certo coinvolgere gli altri su qualcosa che non sia da noi sempre <strong>di</strong> nuovo rivissuta e reinterpretata. Tra i nuovi bisogni che premono con urgenza vorrei infine ricordare la necessità <strong>di</strong> aprirci consapevolmente e fattivamente ad una <strong>di</strong>mensione interculturale, per rispondere ad istanze che ci si impongono, prima che come insegnanti, come citta<strong>di</strong>ni e come uomini; il problema dell’insegnamento dell’Italiano a studenti <strong>di</strong> altra madre lingua <strong>di</strong>viene ogni giorno più pressante, ma la soluzione sembra tutt’altro che prossima, anche perché non si tratta solo <strong>di</strong> far apprendere meccanicamente una lingua a chi non la sa, ma <strong>di</strong> svolgere una operazione <strong>di</strong> me<strong>di</strong>azione culturale, per la quale le competenze <strong>di</strong> un insegnante <strong>di</strong> lettere possono essere preziose, ma non certo sufficienti; appare quin<strong>di</strong> necessaria la creazione d’una figura professionale specificamente formata; anche in quest’ambito però, per sperare in risultati significativi, e non affidarsi per l’ennesima volta al volontarismo, è necessario elaborare piani organici <strong>di</strong> intervento e <strong>di</strong>sporre <strong>di</strong> finanziamenti adeguati e certi. In proposito desta quanto meno perplessità il fatto che esista una Commissione Ministeriale per l’educazione interculturale, ma che essa non sia stata più convocata dall’inse<strong>di</strong>amento del nuovo governo. • Quello che precede è, con qualche taglio, il testo della relazione <strong>di</strong> Enrico Carini all’incontro <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> “Apostoli o avvelenatori? Identità e professionalità dell’insegnante <strong>di</strong> lettere” organizzato dall’ADI-SD in collaborazione con l’IRRE del Lazio e tenutosi a Roma presso l’Università “La Sapienza” il 4 e 5 ottobre 2002. Hanno collaborato a questo numero <strong>di</strong> Chichibìo: Marisa Bernar<strong>di</strong>ni, che insegna Italiano e Latino in un Liceo scientifico <strong>di</strong> La Spezia Stefano Borgarelli, che insegna Italiano e Storia in un I.T.I. a San Donà <strong>di</strong> Piave (VE) Massimo Bruno, che insegna Latino e Greco nel Liceo classico <strong>di</strong> Trapani Enrico Carini, che insegna Italiano e Latino in un Liceo scientifico <strong>di</strong> Roma Pietro Catal<strong>di</strong>, che insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università per stranieri <strong>di</strong> Siena Roberto Centi, che insegna Italiano e Latino in un Liceo scientifico <strong>di</strong> La Spezia ed è supervisore del Tirocinio presso la SSIS dell’Università <strong>di</strong> Genova Silvia Ferraresso, che insegna Italiano e Storia in un I.T.I. a San Donà <strong>di</strong> Piave (VE) Elena Fumi, che insegna Italiano in un Liceo socio-psico-pedagogico <strong>di</strong> Pisa Franca Olivo Fusco, che insegna poesia italiana e straniera all’Università della LiberEtà <strong>di</strong> Trieste Gli specializzan<strong>di</strong> SSIS <strong>di</strong> Torino Gli insegnanti dell’ITIS «A. Volterra» <strong>di</strong> San Donà <strong>di</strong> Piave (VE) Sergio Guarente, che insegna Storia e Filosofia nel Liceo classico <strong>di</strong> To<strong>di</strong> ed è supervisore per il tirocinio presso la SSIS dell’Università <strong>di</strong> Perugia Maria Luisa Jori, che insegna Italiano e Storia in un triennio linguistico ed è supervisore <strong>di</strong> tirocinio alla SSIS <strong>di</strong> Torino Antonio La Penna, che a lungo ha insegnato Letteratura latina all’Università <strong>di</strong> Firenze Franco Marchese, che insegna Italiano e Latino in un Liceo scientifico a Palermo Marilia Martinelli, che insegna Italiano e Latino in un Liceo scientifico a Napoli Stefano Nuzzoli, che insegna Italiano e Latino nel Liceo scientifico <strong>di</strong> Trescore Balneario (BG) Daniela Roversi, che insegna Lingua e Letteratura tedesca in un Liceo linguistico <strong>di</strong> Bergamo Cinzia Spingola, che insegna Italiano e Storia in un I.T.I. a Mestre Luciano Zappella, che insegna Italiano e Latino in un Liceo linguistico <strong>di</strong> Bergamo Emanuele Zinato, che insegna in un I.T.I. a Cittadella (PD) Al maestro e amico Giuseppe Petronio, scomparso il 14 gennaio 2003, Chichibìo de<strong>di</strong>cherà alcuni interventi nel prossimo numero. Chichibìo rivista bimestrale Autor. Trib. Civ. <strong>di</strong> Palermo n.10/99 del 26/4/1999 <strong>di</strong>rettori Anna Baglione Romano Luperini Franco Marchese Cinzia Spingola <strong>di</strong>rettore responsabile Anna Grazia D’Oria redazioni piemonte Maria Luisa Jori isa.jori@tin.it (Torino), Carla Sclaran<strong>di</strong>s sclaran<strong>di</strong>s@tiscalinet.it (Pinerolo) liguria Sara Cecchini cecchinis@virgilio.it lombar<strong>di</strong>a Barbara Peroni barbaraperoni@libero. it (Milano), Luigi Cepparrone luigicepparrone@libero. it (Bergamo) veneto Emanuele Zinato emanuele.zinato@tin.it emilia romagna Marisa Carlà toscana Li<strong>di</strong>a Marchiani li<strong>di</strong>amarchiani@tin.it umbria Lina D’Andrea carmdan@tin.it lazio Gabriella Margadonna etae@iol.it campania Marilia Martinelli clau<strong>di</strong>o.marilia@tin.it puglia A. Maria Bufo annambu@libero.it sicilia Paola Fertitta paolafertitta@virgilio.it Le lettere a Chichibìo (max 3.000 battute) e gli eventuali contributi (max 6.000 battute) – in assenza <strong>di</strong> redazioni regionali <strong>di</strong> riferimento – possono essere inviati a franco. marchese@libero.it e a plans@libero.it progetto grafico Vincenzo Marineo composizione Fotocomp - Palermo stampa Luxograph s.r.l. - Palermo g. b. palumbo e<strong>di</strong>tore s.p.a via B. Ricasoli 59, 90139 Palermo tel. 091334961 091588850 fax 0916111848 www.palumboe<strong>di</strong>tore.it e-mail: chichibio@palumboe<strong>di</strong>tore.it Abbonamento annuo (cinque numeri, non esce luglio/agosto) Italia Euro 10,00 / Estero Euro 20,00. Prezzo <strong>di</strong> un singolo fascicolo Euro 3,00. Annate e fascicoli arretrati costano il doppio. CCP 16271900 intestato a G. B. Palumbo & C. E<strong>di</strong>tore S.p.A. Perio<strong>di</strong>ci - Palermo Chichibìo Numero 21/22 – anno V, gennaio-aprile 2003 Rie<strong>di</strong>zione elettronica a cura <strong>di</strong> Palumbo multime<strong>di</strong>a <strong>Il</strong> cocomero <strong>di</strong> Ronchey Conversazione con Alberto Papuzzi su giornalismo e scuola a cura <strong>di</strong> Stefano Borgarelli La scrittura scolastica del tema come esercizio retorico deriva da una rispettabile tra<strong>di</strong>zione. Dalle scuole alessandrine a quelle gesuitiche, questa tra<strong>di</strong>zione s’è prolungata fino a noi. Ra<strong>di</strong>ci così robuste non può vantarle invece la scrittura dell’articolo. Accanto al saggio breve tuttavia, la prova scritta dell’esame <strong>di</strong> Stato prevede appunto la variante dell’articolo <strong>di</strong> giornale, da scrivere basandosi sul dossier fornito dal ministero. Gli insegnanti che non abbiano cambiato pigramente – e meccanicamente – solo il cappello al vecchio tema, hanno perciò dovuto misurarsi con problemi <strong>di</strong>dattici ine<strong>di</strong>ti. Al fondo, però, è cruciale la questione se la domanda <strong>di</strong> capacità stratificate <strong>di</strong> scrittura che viene dalla società, debba (e possa) trovare risposta nella scuola anche attraverso l’insegnamento delle grammatiche del giornalismo. Praticando l’analisi testuale, ma anche facendo esercitare gli studenti nella redazione <strong>di</strong> “pezzi” giornalistici veri e propri. A questo proposito, tommaso Raso – fondatore, assieme ad altri docenti, del “Servizio d’Italiano Scritto” presso l’Università <strong>di</strong> Venezia – in una conversazione sulla scrittura apparsa nel giugno scorso sulle pagine <strong>di</strong> Chichibìo, è stato categorico: « [...] la scuola non può insegnare a <strong>di</strong>ventare giornalisti. Né gli insegnanti sono in grado <strong>di</strong> preparare a questo mondo, né è giusto chiedere che lo facciano». Lei che ne pensa? Tommaso Raso ha ragione da vendere. La scuola non può (non deve) insegnare a <strong>di</strong>ventare giornalisti, come non insegna a <strong>di</strong>ventare avvocati o me<strong>di</strong>ci o ingegneri (e nemmeno insegnanti!). Tuttavia la scuola può contribuire alla conoscenza del giornalismo e soprattutto alla lettura consapevole dei giornali, innanzi tutto come testi, tenendo conto che i giornali si avvalgono al giorno d’oggi <strong>di</strong> quattro supporti: carta, ra<strong>di</strong>o, televisione, web, e che i testi giornalistici comprendono anche la fotografia e la grafica. Per quanto riguarda il quadro teorico, ritengo più che sufficiente la lettura della sezione VII, I giornali, meno <strong>di</strong> 50 pagine, nel noto saggio L’opinione pubblica <strong>di</strong> Walter Lippmann (Donzelli, Roma 2000). Per ciò che concerne la pratica giornalistica, è opportuno considerare la fondamentale <strong>di</strong>cotomia tra notizia e opinione, con modelli testuali strutturalmente <strong>di</strong>versi per la cronaca (reporting) e per il commento (view). Nel momento <strong>di</strong> passare a un’esercitazione giornalistica, può essere utile avvalersi <strong>di</strong> due regole. Una è stata esplicitata e definita: la cosiddetta regola delle cinque W, secondo la quale ogni notizia deve contenere le risposte a cinque interrogativi che in inglese iniziano con la lettera W (chi, cosa, quando, dove, perché). L’altra è una <strong>di</strong> quelle regole non dette: nella scrittura giornalistica, le idee si spiegano attraverso i fatti e i fatti si raccontano attraverso le persone. D’accordo, la scuola non dovrà insegnare a <strong>di</strong>ventare giornalisti, però il problema posto dall’esame <strong>di</strong> Stato rimane… Dell’articolo fatto scrivere in classe salverei, del resto, la sollecitazione a porsi la questione del destinatario per cui si progetta un testo, ma anche la necessità <strong>di</strong> rifarsi a vari modelli comunicativi me<strong>di</strong>atici. La regola delle cinque W troneggia in tutte le salse, ormai, nel capitolo sulla scrittura giornalistica dei manuali tappa-buco, sfornati assieme alla riforma. L’altra regola <strong>di</strong> cui lei parla, invece, quella non detta, si dovrebbe farla enucleare agli studenti con una lettura guidata degli articoli. tutti vali<strong>di</strong>, sotto questo profilo, i modelli testuali che si trovano sulle pagine dei giornali italiani? <strong>Il</strong> punto <strong>di</strong>scriminante è che un articolo giornalistico è più o meno buono in base alle informazioni che dà, non per come è scritto. La bella scrittura conta assai poco nel giornalismo. <strong>Il</strong> cuore del giornalismo resta il reporting. <strong>Il</strong> giornalista è uno che raccoglie informazioni – in una seconda fase ci sono modelli per dare forma testuale alle notizie. Mi sembra che la prova d’esame, com’è stata concepita, rischi <strong>di</strong> banalizzare la specificità del giornalismo, perché gli studenti possono essere portati a pensare che si tratti <strong>di</strong> scrivere un testo capace <strong>di</strong> sorprendere il lettore, per sensazionalismo o per eccentricità. In questo senso la regola delle cinque W resta valida, si tratta <strong>di</strong> imparare che cosa significa: le cinque W rappresentano e forzano l’ancoraggio del testo giornalistico alla fattualità dell’evento su cui s’informa. La stessa regola secondo la quale le idee si raccontano attraverso fatti e i fatti si raccontano attraverso personaggi si richiama a questo <strong>bisogno</strong> <strong>di</strong> concretezza: il giornalismo è in grado <strong>di</strong> cogliere la realtà se questa si presenta sotto forma <strong>di</strong> atto manifesto o <strong>di</strong> dato quantificabile. Sarebbe utile una conoscenza minima dei valori notizia. È chiaro che poi sono <strong>di</strong>sponibili forme <strong>di</strong>verse <strong>di</strong> elaborazione dei testi, in ogni caso riconducibili a dei modelli. Per quanto riguarda il confronto con giornali effettivamente in circolazione, vorrei suggerire la lettura dell’International Herald tribune, per due ragioni: è un prodotto del giornalismo americano, che resta il migliore del mondo (almeno per l’élite delle gran<strong>di</strong> testate); per la sua funzione tende a proporre testi costruiti su modelli-base, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> efficace valore <strong>di</strong>dattico. L’accento che lei pone sul reporting mi pare sposti l’attenzione dal commento alla cronaca, ma la strada più praticabile nella <strong>di</strong>dattica sembra piuttosto quella del commento. oltretutto, insegnare a raccogliere <strong>di</strong>rettamente le informazioni, e poi a capire cosa faccia notizia tra quelle raccolte – ammesso che ci si possa « la bella scrittura conta assai poco nel giornalismo » riuscire – sembra un’attività improbabile, tra i corridoi d’una scuola… Invece, la necessità <strong>di</strong> spremere il dossier all’esame per un “articolo”, spinge a far cercare dei modelli tra gli e<strong>di</strong>toriali e le rubriche. Delimitiamo allora il campo in modo più netto: quali ferri del suo mestiere potrebbero entrare anche nella cassetta degli attrezzi dell’insegnante, e poi in quella dello studente, facendo in modo che i due mestieri non rischino una banalizzazione che, a ben vedere, sarebbe reciproca? « cosa sarebbe la conoscenza della realtà, del mondo, senza i giornali?» L’aspetto ri<strong>di</strong>colo della prova d’esame è che impegna gli studenti su un terreno che nella professione è riservato ai giornalisti esperti e affermati – <strong>di</strong> norma un giornalista arriva a scrivere gli e<strong>di</strong>toriali dopo un certo tirocinio con il lavoro <strong>di</strong> cronaca. Anche quando non si avvale <strong>di</strong> una specifica preparazione teorica, ha però alle spalle un appren<strong>di</strong>stato empirico. <strong>Il</strong> rischio per gli studenti è che si risolva la prova in chiave <strong>di</strong> <strong>di</strong>vulgazione, mentre la <strong>di</strong>vulgazione è il contrario del giornalismo. La soluzione sarebbe impegnare gli studenti sul terreno del reporting, fornendo nel dossier note <strong>di</strong> agenzia e altri dati relativi a un evento; ma ciò accade con l’esame <strong>di</strong> Stato per i giornalisti professionisti: avremmo il paradosso <strong>di</strong> una prova della maturità con gli stessi caratteri <strong>di</strong> un esame <strong>di</strong> Stato. Questo è il risultato del modernismo comodo della burocrazia ministeriale. In ogni caso, visto che l’esame c’è e che bisogna pur prepararlo, un compromesso <strong>di</strong>gnitoso può essere stu<strong>di</strong>are i rapporti tra cronaca e commento. In realtà il commento non è svincolato dall’esigenza <strong>di</strong> aderire ai fatti – semplicemente ammette l’esercizio <strong>di</strong> opinioni, esplicitamente <strong>di</strong>chiarate. Mi spiego con un aneddoto: quando Alberto Ronchey, allora corrispondente da Mosca, scrisse il suo primo e<strong>di</strong>toriale per «La Stampa», sulla crisi economica che strozzava l’Urss, gli venne bocciato, perché troppo dotto e professorale. L’allora <strong>di</strong>rettore, Giulio de Benedetti, lo invitò ad andare al mercato e raccontare la crisi fra la gente. Ne uscì un fondo partendo dal caso <strong>di</strong> una vecchina che voleva comprare un cocomero; dall’episo<strong>di</strong>o personale si risaliva al fenomeno più generale. Lei <strong>di</strong>ce che sia pure con l’intelligenza dentro la scrittura, ma senza il cuore del reporting, perfino un commento sarà “impossibile”, nel senso delle famose Interviste <strong>di</strong> Eco, <strong>di</strong> Calvino, appunto impossibili – che però ci fanno riflettere criticamente, <strong>di</strong>vertendoci, molto più <strong>di</strong> certe interviste possibili compiacenti! Lasciando da parte i velleitarismi ministeriali che lei stigmatizza, resta che la scuola italiana, da Rodari alla Zamponi, a tanti altri, ha già in<strong>di</strong>cato strade alternative sia al tema, sia alle scritture strettamente funzionali (appunti ecc.), senza per questo voler creare narratori, enigmisti o poeti <strong>di</strong> mestiere. Ciò che conta <strong>di</strong> più, insomma, mi pare sia l’appren<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> una logica, <strong>di</strong> un processo. oltre a quello sulle cose da non fare per i colleghi, è proprio impensabile un capitolo ipotetico nel suo bel Manuale del giornalista – e<strong>di</strong>to da Donzelli – sulle cose da fare, per insegnanti e studenti non giornalisti? È quasi inevitabile che gli insegnanti preferiscano le interviste impossibili a quelle reali, o almeno <strong>di</strong>chiarino questa preferenza. Provi a domandarsi che cosa accadrebbe se l’informazione fosse fatta <strong>di</strong> interviste impossibili. C’è un certo snobismo dei professori, in questo atteggiamento: trovandosi fra i pie<strong>di</strong> questo ingombro, tendono a padroneggiarlo con i propri strumenti, con la propria tra<strong>di</strong>zione, piuttosto che cercare veramente <strong>di</strong> comprenderne almeno le basi. Le ho citato Lippmann, proviamo a leggerlo. Se, alla fine, lei mi contrappone, con garbata ironia, le interviste impossibili – che personalmente ho sempre trovato un genere piuttosto scadente – il <strong>nostro</strong> rischia <strong>di</strong> essere un <strong>di</strong>alogo fra sor<strong>di</strong>. Come <strong>di</strong>rlo? <strong>Il</strong> giornalismo non è letteratura. Quanto al capitolo che mi invita a scrivere, non lo scriverò, perché non sono un insegnante, non possiedo i suoi strumenti. Però le offro un punto d’ingresso nell’universo del giornalismo, per i suoi studenti: provate a chiedervi cosa sarebbe la vostra conoscenza della realtà, del mondo, senza i giornali. Lei contrappone le interviste impossibili che farebbero riflettere criticamente <strong>di</strong>vertendo – e vabbè, passi! – alle interviste compiacenti. Ma cosa intende per inter vista compiacente? L’intervista <strong>di</strong> Pansa a Berlinguer, segretario dei comunisti italiani, che negli anni Settanta produsse un mezzo sconquasso nella sinistra, venne rivista dall’intervistato quasi riga per riga: ciò significa che fosse compiacente? Provate a chiedervi: quali sono le fonti della nostra conoscenza <strong>di</strong> ciò che accade nel mondo? Quando <strong>di</strong>scutete, come <strong>di</strong>scuterete, <strong>di</strong> Bush e Saddam, della guerra e della pace, del Papa e <strong>di</strong> Berlusconi, dei no global e del calcio, da dove prendete le informazioni che vi permettono <strong>di</strong> elaborare delle idee e formulare dei giu<strong>di</strong>zi? <strong>Il</strong> punto è che <strong>di</strong> fronte al problema delle interviste – per restare in tema –, invece <strong>di</strong> porsi degli interrogativi sulla tecnica <strong>di</strong> questo genere, che è in assoluto il più tecnico <strong>di</strong> tutti gli strumenti giornalistici, si liquida la cosa con un giu<strong>di</strong>zio esterno (interviste compiacenti) e ci si rifugia nel comodo escamotage letterario delle interviste impossibili – perché lì l’insegnante <strong>di</strong> lettere si sente a suo agio, certo della sua attrezzatura. Ma se vuole occuparsi <strong>di</strong> giornalismo, l’insegnante dovrebbe stu<strong>di</strong>arlo. O no? • Alberto Papuzzi (Bolzano, 1942) è caporedattore della sezione “Cultura e Spettacoli” del quoti<strong>di</strong>ano «La Stampa». Ha insegnato teoria e tecniche del linguaggio giornalistico all’Università <strong>di</strong> torino. Fra i suoi libri: <strong>Il</strong> provocatore, Einau<strong>di</strong>, torino 1976, Portami su quello che canta, Einau<strong>di</strong>, torino 1977, Professione giornalista, Donzelli, Roma 1998. Ha curato l’Autobiografia <strong>di</strong> Norberto Bobbio (Laterza, Bari 1997). 3