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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

CAPITOLO 1<br />

IL SECOLO GENOVESE (1559-1729)<br />

§ 1. <strong>Il</strong> secolo di ferro<br />

Tra la ribellione di Sampiero di Bastelica (1553-1559) e la grande rivoluzione, iniziata nel 1729, la Corsica attraversa<br />

circa centosessant’anni di pace. Fino a pochi anni fa si parlava di questo periodo come del “secolo di ferro”,<br />

riprendendo un’espressione dello storico Jacobi 1 . Attualmente, per reazione, gli studiosi di storia corsa tendono a<br />

riabilitare l’amministrazione genovese ed a mettere in rilievo lo sviluppo dell’agricoltura, la prosperità, il progresso<br />

intellettuale, artistico e morale dell’isola, l’ingrandimento delle città, l’ordine e la sicurezza.<br />

<strong>Il</strong> primo atto ufficiale dopo il passaggio dell’isola dal Banco di San Giorgio 2 alla Repubblica di Genova nel 1562<br />

disciplinava la distribuzione politico-giurisdizionale del paese. Le pievi costituirono la base della divisione<br />

amministrativa 3 (66 in tutto, di cui 45 per il Diquà, 21 per il Dilà), raggruppate in dieci Province, in modo da favorire<br />

l’integrazione tra zone storicamente e geograficamente separate: Bastia, Capo Corso, Aleria, Corte, Calvi, Balagna,<br />

Ajaccio, Vico, Sartena, Bonifacio. Le province erano amministrate dal Governatore in persona o da alcuni Commissari,<br />

specialmente nelle città a forte predominanza ligure, oppure ancora da Luogotenenti.<br />

Si trattava, evidentemente, di un sistema semplice che, pur rispettando la struttura tradizionale, regionalista ed<br />

autonomista dell’isola, introduceva una centralizzazione, necessaria in seguito all’aumento demografico e conforme<br />

all’evoluzione generale degli Stati europei dell’età moderna. Si trattava, chiaramente, anche di un sistema gerarchico,<br />

incentrato sul principio della sussidiarietà del potere che, partendo dalla cellula iniziale (il villaggio o la parrocchia), si<br />

estendeva alle competenze di un organismo più ampio.<br />

Figura 1: Stemma della Repubblica di Genova.<br />

1 JACOBI J.-M., Histoire générale de la Corse avec une introduction contenant un aperçu topographique et statistique de l’île, Paris 1835, p. 7; ripreso<br />

anche da AMBROSI A., Histoire des Corses et de leur civilisation, chap. IX, Bastia 1914.<br />

2 Nel 1453, Genova affidò la Corsica ad una banca genovese ricca e potente (con un proprio esercito): il Banco di San Giorgio. <strong>Il</strong> Banco si impegnò<br />

ad amministrare l’isola, a difenderla, a far regnare l’ordine e la giustizia nel rispetto degli usi e <strong>dei</strong> costumi <strong>dei</strong> suoi abitanti. In realtà, iniziò uno<br />

sfruttamento indiscriminato: dopo grandi disordini, Genova assunse direttamente l’amministrazione dell’isola nel 1562. Alla fine del XVI secolo<br />

l’ingiustizia ed il disordine opprimevano la Corsica: Sampiero di Bastelica, aiutato dalle truppe del Re di Francia Enrico II, si impossessò di Bastia, di<br />

Corte, di Ajaccio e di Calvi. Con il trattato di Cateau-Cambrésis, nell’aprile del 1559, la Francia restituì la Corsica ai genovesi. Da Marsiglia,<br />

Sampiero preparava l’insurrezione generale contro i genovesi, ma la rivolta fallì; decise di proseguire la lotta con proprie truppe: sconfisse i genovesi<br />

a Vescovato e Porto Vecchio nel 1564 e diventò presto il padrone dell’isola. Ma, nel 1567, durante un combattimento vicino a Cavru, cadde in<br />

un’imboscata e venne ucciso. La sua testa venne esposta per tre giorni dai genovesi sulla piazza di Ajaccio. Tra il 1569 ed il 1729, Genova esercitò<br />

sulla Corsica un dominio assoluto.<br />

3 Espressione con cui vengono indicate delle estensioni territoriali accomunate da una certa omogeneità economica, sociale e storica, corrispondenti<br />

agli attuali cantoni. Esse costituivano, da tempo immemorabile, la base della struttura amministrativa isolana. Con le espressioni Diquadamonti (o<br />

Terra di Comune o Cismonte) e Diladamonti (o Terra <strong>dei</strong> Signori o Pumonte) o, più spesso, Diquà e Dilà si indicano, rispettivamente, le due zone<br />

geograficamente delimitate dell’isola: il Diquàdamonti è compreso tra Calvi, Bastia, Aleria e Corte, nella zona centrale e settentrionale dell’isola<br />

(attuale Dipartimento de la Haute Corse) ed il Diladamonti tra Bonifacio, Ajaccio e Porto-Vecchio, nella zona meridionale dell’isola (attuale<br />

Dipartimento de la Corse-du-Sud).<br />

1


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

Figura 2: la Corsica in una mappa di I. Vogt del 1735 in cui è ben visibile<br />

la suddivisione in Diquadamonti e Diladamonti dell’isola.<br />

Le campagne<br />

I corsi, apparentemente, sembravano governarsi da soli. Ogni parrocchia eleggeva i propri rappresentanti: il Podestà, il<br />

Ragioniere, i due Padri di comune. L’elezione annuale si svolgeva a suffragio diretto maschile e femminile<br />

obbligatorio. Ma questo esempio di democrazia diretta risultava inevitabilmente corrotto dalla restrizione della<br />

categoria degli eleggibili alla sola classe <strong>dei</strong> notabili e, soprattutto, da una limitazione <strong>dei</strong> poteri reali <strong>dei</strong> magistrati. <strong>Il</strong><br />

Podestà aveva sia le funzioni di giudice di pace, che di commissario di polizia ed esattore delle tasse, ma i suoi compiti<br />

erano prettamente consultivi, senza un reale potere decisionale: al di là del diritto di porto d’armi, dell’esenzione dalla<br />

taglia, e della percezione di emolumenti in natura (un sacco di grano a famiglia), non aveva influenza in materia<br />

giuridica o fiscale.<br />

Le città<br />

Le città ricevettero un regime speciale, basato sulla rappresentatività. <strong>Il</strong> Consiglio Municipale (Magnifica Comunità), di<br />

numero variabile, delegava il potere ad alcuni Anziani, eletti ogni sei mesi, che si spartivano i settori più importanti<br />

della vita cittadina: mercati, polizia, viabilità, ecc… In questo caso gli statuti ed i privilegi accordati da Genova<br />

venivano rispettati a rigore, anche perché le città erano, in tutto o in parte, delle comunità liguri unite alla madrepatria<br />

da legami di sangue o da interessi economici 4 . Questo era evidente soprattutto a Calvi e Bonifacio semper fideles,<br />

garantite da franchigie ed esenzioni, mentre Bastia ed Ajaccio erano sorvegliate con occhio più attento: la loro<br />

autonomia amministrativa era limitata dal potere discrezionale del Governatore.<br />

La Regione<br />

Su scala regionale, la difesa degli interessi isolani era confidata, come nel passato, ai Nobili Dodici. I loro poteri,<br />

ristabiliti alla fine della guerra di Corsica (1553-1559), con piccole modifiche, erano molto limitati. I Dodici o Diciotto<br />

(in seguito all’aggiunta di sei membri per il Dilà) dovevano rappresentare le richieste <strong>dei</strong> loro mandanti attraverso<br />

l’elezione interna di due Oratori residenti a Genova; ogni mese, a rotazione, uno <strong>dei</strong> membri assumeva la carica di<br />

Consigliere del Governatore (con migliore retribuzione e maggiore influenza sulle direttive generali della politica<br />

isolana). Se si eccettua la competenza giudiziaria, si trattava di una carica puramente onorifica e consultiva: anche in<br />

4 Per uno studio critico degli Statuti corsi dal XVI secolo vedi FONTANA J., Essai sur l’histoire du droit privé en Corse, Paris 1905; LETTERON,<br />

Statuts et privilèges accordés à Bastia de 1484 à 1648, «Bulletin de la Société des Sciences Historiques et Naturelles de la Corse» (d’ora in poi<br />

«B.S.S.H.N.C.»), 59-60-61 (1885-86); GREGORI G.C., Statuti civili e criminali di Corsica, Lyon 1843. Per un’analisi delle fonti archivistiche cfr.<br />

Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, fondo Civile Governatore, Statuti Civili di Corsica. La maggior parte delle deliberazioni e<br />

delle ordinanze del Re Luigi XV, raccolte nel Code Corse, riprende gli Statuti civili e criminali della Corsica genovese: alcune copie del Code Corse<br />

sono conservate a Parigi nella Bibliothéque Nationale François Mitterrand; l’originale, a stampa, è scritto sia in francese che in italiano; cfr. CODE<br />

CORSE. Recueil des écrits et déclarations publiés dans l’île depuis sa soumission à l’obéissance du Roy, Paris 1778-1791 (13 volumi).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

materia giudiziaria, il potere degli Oratori si esercitava nella revisione <strong>dei</strong> processi criminali, riservata ai Syndici<br />

genovesi.<br />

<strong>Il</strong> Governatore<br />

<strong>Il</strong> Regno di Corsica era sottoposto all’autorità del Governatore. Autorità che annullava o rendeva inefficaci, su scala più<br />

ampia, le decisioni o le velleità delle comunità. <strong>Il</strong> Governatore doveva essere obbligatoriamente genovese, eletto da<br />

genovesi e nobile come i suoi elettori. Nominato per diciotto mesi (a partire dal 1572, dopo la revisione degli Statuti), in<br />

seguito per due anni, era responsabile del suo operato, alla fine dell’incarico, solo nei confronti delle autorità supreme<br />

dello Stato: il Doge, il Gran Consiglio e l’Ufficio di Corsica, fondato dopo la guerra del 1553-1559 per rilevare le<br />

competenze del Banco di San Giorgio. <strong>Il</strong> Governatore aveva diritto, oltre al trattamento economico della Repubblica ed<br />

ai numerosi vantaggi in natura che riceveva dall’isola, una percentuale non indifferente (25%) di tutte le ammende<br />

inflitte dai suoi subordinati: un vero e proprio incitamento alla severità nell’esercizio della giustizia. Si trattava quindi di<br />

una funzione molto ambita, con delle sicure garanzie di redditività (a partire dal 1608, al Governatore uscente venne<br />

interdetta l’assunzione di altre cariche per un periodo di almeno dieci anni). <strong>Il</strong> suo potere era quasi assoluto: giudice<br />

supremo nei processi civili e criminali, poteva condannare a qualsiasi tipo di pena, compresa la morte, senza<br />

l’intervento del Consiglio di Genova, relegare o espellere dall’isola donne, figli e parenti più stretti del condannato;<br />

poteva, in ambito civile, ordinare che si facesse un’istruttoria sommaria di una causa ordinaria, avocare a sé tutte le<br />

cause civili e penali pendenti nelle altre giurisdizioni e, in ultimo, discutere in appello tutte le sentenze ricevute dal<br />

giudice del Regno. Aveva inoltre il potere di sospendere i giudizi dopo averne avvisato il Magistrato di Corsica a<br />

Genova, che gli assicurava, senza dubbio, una certa docilità. Questi poteri erano lasciati al libero arbitrio di una sola<br />

persona, secondo il principio dell’ex informata conscientia, cioè della “convinzione intima”: la sentenza di un processo<br />

poteva essere pronunciata dal Governatore con l’assenza di prove formali del delitto o del crimine. Questa procedura<br />

era applicata non solo alle pene minori (frusta, gogna, corda), ma anche ai delitti maggiori (condanna alla galera o<br />

all’esilio). Inevitabilmente la critica <strong>dei</strong> corsi al sistema giudiziario genovese avrebbe costituito una delle accuse più<br />

forti al potere della Repubblica. L’unica forma di controllo al potere del Governatore era l’approvazione del Senato<br />

della Repubblica per la pubblicazione degli editti, il rispetto formale degli Statuti di Corsica e la relazione dell’operato,<br />

alla fine della carica, davanti ai Sindici di Genova.<br />

Gli Statuti ed il “Syndicato”<br />

Approvati nel dicembre 1571 ed entrati in vigore nel gennaio 1572, gli Statuti erano tenuti in gran considerazione dai<br />

corsi. Essi avevano la prerogativa di mantenere l’uguaglianza giuridica davanti alle tasse e di contenere gli aumenti del<br />

gettito fiscale entro un limite rimasto invariato per lungo tempo, lasciando, inoltre, una certa autonomia gestionale alle<br />

comunità rurali. È importante notare, a questo riguardo, che gli Statuti rimasero in vigore anche dopo la conquista<br />

francese del 1769, nonostante le frequenti critiche all’amministrazione genovese portate avanti dagli spiriti più elevati<br />

della borghesia e dell’aristocrazia corsa. Nell’esercizio della giurisdizione diretta, ovvero nel calcolo dell’imponibile<br />

delle tasse e nella fissazione <strong>dei</strong> canoni in natura, il Governatore doveva comunque prendere l’avviso <strong>dei</strong> Dodici e <strong>dei</strong><br />

Sei; era, inoltre, tenuto a rispettare le prerogative <strong>dei</strong> feudatari del Capo e del Sud, che avevano salvaguardato il diritto<br />

di pubblicare i loro statuti. Infine, i poteri giudiziari del Governatore trovavano anche un limite nel diritto ecclesiastico,<br />

specie nelle cinque Corti di Bastia, Aleria, Ajaccio, Nebbio e Sagona 5 . L’ultima barriera, almeno teorica, alzata contro<br />

l’arbitrio del Governatore era il Syndicato, sorta di tribunale supremo con funzioni diverse. Innanzitutto, e non è una<br />

limitazione, l’organismo non era affatto permanente: si riuniva al massimo un centinaio di giorni all’anno. In secondo<br />

luogo affrontava solamente cause minori: offese o abusi di potere di funzionari subalterni, ispezione delle prigioni e<br />

delle fortezze, delitti verso l’ordine pubblico, pianificazioni finanziarie, amministrative o giudiziarie. Bisogna inoltre<br />

sottolineare che il sistema giudiziario si accompagnava alla quasi totale venalità delle cariche. La Repubblica aveva<br />

sempre sottovalutato le funeste conseguenze di questo avvilimento della giustizia: il sospetto giustificato <strong>dei</strong> corsi<br />

davanti ai giudici corrotti ed impotenti della Dominante favorì l’estensione della vendetta 6 . Con il passare del tempo, il<br />

Syndicato, a maggioranza corsa, rappresentò effettivamente una specie di “difensore estremo” degli isolani: sei membri<br />

per il Diquà e sei per il Dilà, ai quali furono aggiunti due genovesi per ciascuna zona. Ma, per un sottile artificio<br />

giuridico, questa preponderanza corsa era ridotta ad una semplice parità, dato che le voci <strong>dei</strong> Sindici genovesi avevano<br />

un peso maggiore di quello <strong>dei</strong> colleghi corsi. Oltretutto, anche in caso di uguaglianza <strong>dei</strong> pareri, Genova poteva<br />

sopprimere la rappresentanza corsa per «eccessivo zelo». <strong>Il</strong> potere giudiziario apparteneva soltanto alla parte più elevata<br />

della scala sociale; nei feudi si concentrava nelle mani <strong>dei</strong> feudatari e <strong>dei</strong> loro fedeli (il luogotenente assistito dagli<br />

sbirri), ma accadeva lo stesso anche nelle comunità: il potere giudiziario, anche se elettivo, era riservato in sostanza ai<br />

notabili, mentre nelle giurisdizioni regionali il potere giudiziario era depositato nelle mani <strong>dei</strong> nobili: si trattava di un<br />

5 CASTA F.J., Évêques et curés corses dans la tradition pastorale du Concile de Trente (1570-1620), Ajaccio 1965; ID., La Diocèse d’Ajaccio,<br />

Beauchesne, Paris 1974; BARDET J.-P., MOTTE C., Paroisses et communes de France, Corse, Paris 1993.<br />

6 <strong>Il</strong> sistema repressivo della vendetta era appannaggio esclusivo del potere centrale genovese che, in caso di omicidi tra famiglie, inviava i suoi<br />

Commissari di campagna, assistiti da un plotone di soldati e di sbirri: «…essi installavano il loro quartiere generale nel paese, alloggiavano i loro<br />

uomini dai parenti dell’omicida, inviavano delle spedizioni, procedevano alle inchieste sul posto», cit. da BUSQUET J., Le droit de la vendetta e les<br />

paci corses, Paris 1994 (1 a ed. 1920).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

sistema atto ad impedire ogni forma di dissenso nei confronti dell’amministrazione genovese 7 . Si delinea, così, quel<br />

carattere di sfruttamento coloniale cinicamente ostentato e senza scrupoli tanto in odio ai corsi; è chiaro che non tutti i<br />

genovesi arrivati in Corsica erano, in linea di principio, degli sfruttatori senza ritegno, ma è altrettanto vero che Genova<br />

spediva in Corsica come ufficiali subalterni gli aristocratici decaduti, desiderosi di nuovi blasoni e di nuove ricchezze,<br />

che consideravano l’isola, già povera, come una terra di sfruttamento.<br />

Le armi<br />

La disobbedienza alle direttive della Serenissima era comunque abbastanza frequente: le forze dell’ordine erano<br />

insufficienti e poco incisive. Nelle città i genovesi riuscivano a far rispettare la legge con difficoltà. Nelle comunità<br />

dell’interno la situazione era già diversa: i grossi borghi riuscivano ad assicurare l’ordine pubblico autonomamente,<br />

malgrado le proteste dell’autorità centrale, che vedeva in questi atti delle iniziative pericolose. I villaggi delle montagne,<br />

isolati per natura dal clima e dall’assenza di strade, erano il rifugio di tutti coloro che sfuggivano ai giudizi: La macchia<br />

si popolava continuamente di condannati in contumacia, determinati a difendersi fino alla morte. I traditori, incoraggiati<br />

e ricompensati da Genova, controllavano a vista tutti i sentieri: la cattura condannava il fuggiasco all’impiccagione o<br />

alla galera. Obbedire alla giustizia era facile solo in città: qui regnava l’ordine, difeso da mercenari stranieri (svizzeri,<br />

tedeschi) o italiani (genovesi e toscani) che, comunque, non superavano mai le centoventi unità (Bastia, sede centrale<br />

del potere, arrivava a malapena a questa cifra). Nel resto dell’isola, nonostante la presenza intermittente di soldati o di<br />

scorte incaricate di proteggere gli agenti del fisco, la disobbedienza era totale. La tradizione nazionale, l’abitudine<br />

secolare alla lotta contro le diverse forme di potere, la passione per le armi da fuoco, concorsero a sviluppare una forma<br />

di insubordinazione cronica contro la quale Genova lottava senza sosta. Sicuramente da questa lotta emergeva la<br />

volontà di far regnare la calma e rispettare la legge; eppure certe misure, in sé lodevoli e benefiche, si scontravano con<br />

la mentalità isolana ed erano interpretate come <strong>dei</strong> soprusi o delle privazioni di libertà. È il caso della norma che puniva<br />

con la galera la detenzione di armi: misura vessatoria, esorbitante ed inefficace, dato che poteva essere aggirata con la<br />

presentazione di una domanda e il pagamento di una tassa 8 .<br />

Le imposte<br />

I corsi subivano pesantemente le imposte della Dominante. Forse quello che più si avvertiva nell’isola era la<br />

convinzione che le tasse valicassero i limiti del ragionevole e del sopportabile, data la mediocre condizione economica<br />

generale. I corsi erano abituati da una tradizione secolare a pagare poche e costanti tasse: l’innalzamento <strong>dei</strong> prezzi –<br />

come nel resto del continente – portava con sé l’inevitabile aumento delle impostazioni dirette. Nel dettaglio le imposte<br />

dirette erano soltanto due: la taglia ed il boatico. La taglia venne fissata a partire dal XIV secolo a venti soldi per fuoco.<br />

I notabili ne erano esenti quasi del tutto: Podestà, Padri di comune, famiglie caporalizie, gentiluomini, ecclesiastici,<br />

città (Bastia, Calvi…) o feudi (la maggior parte del Capo), in sintesi, tutti coloro che Genova considerava la clientela<br />

più sicura, i beneficiari ed i garanti dell’ordine sociale. Ne erano esenti anche le famiglie con almeno dodici figli,<br />

mentre le vedove pagavano metà dell’importo. Nell’insieme, un numero considerabile di cittadini, circa la metà, non era<br />

soggetto alla taglia. Questa situazione, inizialmente sopportabile, si deteriorò con l’aggiunta di tasse complementari, che<br />

finirono per appesantire considerevolmente le famiglie più povere dell’interno dell’isola, ridotte ad una vita sempre più<br />

difficile e progressivamente indigente. La seconda imposta diretta, il boatico, inizialmente colpiva soltanto i buoi da<br />

lavoro. Si distingueva dalla taglia per due caratteristiche: la diffusione (nessuna esenzione) e la natura (non era una tassa<br />

uniforme: poteva essere semplice o doppia, in base alle regioni), ma colpiva progressivamente tutti coloro che vivevano<br />

prevalentemente del lavoro <strong>dei</strong> campi. <strong>Il</strong> boatico era quindi considerato come una misura discriminatoria, che opponeva<br />

i contadini ai cittadini, ancora più quando venne esteso progressivamente ai prodotti dell’agricoltura ed ai capi del<br />

bestiame. A queste due imposte se ne aggiungevano altre secondarie: l’erbatico (diritto di pascolo) ed il ghiandatico<br />

(imposta per la raccolta delle ghiande, che gravava sui proprietari <strong>dei</strong> castagneti e <strong>dei</strong> querceti) 9 . Le imposte indirette<br />

7 Lentamente gli isolani venivano eliminati dalle cariche ad esclusivo vantaggio <strong>dei</strong> genovesi: nel 1588, si chiudono loro le porte del notariato e della<br />

cancelleria; nel 1624 si escludono dalle cariche di esattori d’imposte; nel 1634 da quelle di vicari e di auditori. <strong>Dal</strong> 1585 si vieta ad ogni corso la<br />

funzione giudiziaria nel paese d’origine o in quello della moglie e, per un estensione che è al limite dell’odioso e del ridicolo, in tutti i villaggi <strong>dei</strong><br />

parenti inclusi nel quarto grado di parentela. Genova giustificava una simile presa di posizione adducendo che questo era il solo modo per difendere i<br />

corsi da loro stessi, per strapparli dalle lotte di potere e per estirpare la radice stessa di innumerevoli vendette che insanguinavano l’isola. Ma in un<br />

paese che offriva poche possibilità di carriera professionale era una vera provocazione eliminare gli autoctoni da qualche funzione lucrativa. Questa<br />

linea amministrativa si estendeva anche alle funzioni più umili: appare ingiustificabile, sul piano militare, l’interdizione ai corsi di servire le<br />

guarnigioni dell’isola, il divieto di esercitare qualsiasi funzione nel villaggio natale (1612) e l’obbligo di assumere la cittadinanza genovese per<br />

l’esercizio delle cariche civili e magistratuali: simili atti condannavano all’esilio o all’emigrazione tutti gli elementi di un certo valore, facendo sentire<br />

crudelmente la differenza di trattamento tra i corsi e i genovesi trapiantati nell’isola.<br />

8 Un curioso articolo del codice penale permetteva all’assassino condannato alla pena capitale di beneficiare, dietro pagamento di un’ammenda, d’un<br />

salvacondotto di sei mesi con permesso di porto d’armi. La misura, teoricamente destinata ad assicurare la difesa di quest’uomo contro i suoi nemici,<br />

rappresentava invece una minaccia diretta per questi ultimi, che erano spinti ad armarsi e ad attaccare per primi. Per rimediare all’inconveniente si<br />

approvò una delibera sollecitata nel 1711 dagli stessi corsi ed accordata nel 1715: il porto d’armi nell’isola era permesso solo dietro il pagamento di<br />

un canone di due seini (moneta genovese) per fuoco, destinato a compensare la perdita per la soppressione delle autorizzazioni deliberate fino a quel<br />

momento; la misura, ben accolta in tutta l’isola, permise il disarmo generale, con una diminuzione notevole <strong>dei</strong> crimini di sangue. Ma per una<br />

goffaggine assurda l’imposta, che doveva durare solo una stagione, non venne mai soppressa e figura tra le rivendicazioni <strong>dei</strong> corsi alla vigilia della<br />

rivoluzione indipendentista.<br />

9 I conti ed i marchesi francesi manterranno il diritto di riscossione dell’erbatico e del terratico sugli allevatori ed i coltivatori corsi: è documentato<br />

ampiamente per il terreno di ottomila arpenti dato in concessione al principe di Bourbon-Conti negli Agriati, per il territorio di Porto Vecchio, per le<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

somigliavano a quelle già in uso nel resto del continente: percentuali prelevate sul sale, sull’alcool, sulla polvere da<br />

sparo e sulle armi da fuoco. Come nel resto d’Europa, a queste tasse si aggiungevano i diritti di concessione, le patenti,<br />

le tasse sull’importazione, sull’esportazione, il trasporto di prodotti essenziali. Tutto questo costituiva un intralcio agli<br />

scambi, in Corsica come in ogni altra regione, ed alla stessa produzione (i contadini producevano solo lo stretto<br />

necessario alla sussistenza). Come ulteriore umiliazione, scusabile ma avvertita come ingiusta e vessatoria, la<br />

percezione delle imposte, a partire dal 1665, venne interdetta ai corsi, diventando unico appannaggio <strong>dei</strong> genovesi.<br />

Infine, se si aggiungono le numerose prestazioni in natura destinate ai diversi funzionari d’autorità e che pesavano<br />

unicamente sui poveri, si comprende quale ingiusto peso dovesse avere il sistema fiscale.<br />

§ 2. La politica economica<br />

Negli anni più recenti gli studiosi di storia corsa hanno espresso pareri divergenti riguardo alla politica economica di<br />

Genova nell’isola. Attualmente si tenta, con un metodo più approfondito, di analizzare gli aspetti economico-sociali<br />

dell’occupazione genovese, evidenziando le strutture amministrative e fiscali con una luce più obiettiva (l’iniziatore di<br />

questa rivalutazione del periodo genovese è senza dubbio Antoine Casanova). Al di là degli aspetti meno conciliabili<br />

degli studiosi di storia corsa, tutti sembrano concordare su un punto: Genova portava avanti lo sviluppo economico<br />

dell’isola a suo esclusivo vantaggio. Ed è partendo da questa premessa che dobbiamo analizzare la politica economica<br />

genovese, evidenziando, se e dove è possibile, i vantaggi arrecati alla struttura economica corsa. <strong>Il</strong> grano era uno <strong>dei</strong><br />

prodotti essenziali del commercio tra Genova e la Corsica, specialmente nei periodi di maggiore carestia: la Liguria,<br />

troppo secca, era poco adatta alla coltivazione di questo cereale 10 . La Dominante comprese che l’isola poteva – e<br />

doveva – ridiventare un vero granaio, come era già stata nell’Antichità, prima che le invasioni barbariche del Medioevo<br />

riducessero la pianura orientale ad una grande e sterile palude. Questa politica, già portata avanti dal Banco di San<br />

Giorgio nel Medioevo, venne ripresa sistematicamente dopo la guerra di Corsica, durante gli ultimi decenni del XVI<br />

secolo.<br />

Figura 3: la Repubblica di Genova in una mappa del 1785 (Paris, Archives Nationales).<br />

I feudi<br />

Nel tentativo di perseguire questo tipo di politica agricola, Genova andava incontro a degli ostacoli enormi. <strong>Il</strong> primo e<br />

più importante riguardava la proprietà del suolo; il secondo la manodopera; il terzo problema era il capitale. Per<br />

risolvere il primo problema Genova decise di trasformare le parti più fertili della Corsica in feudi. A partire dal 1587, la<br />

Dominante infeudò una parte del demanio pubblico sotto forma di latifondi ereditari. Tutto questo si evince sia dai<br />

termini usati nei documenti ufficiali (in cui si parla di feudum perpetuum, nobile, liberum, francum e alienabilis), sia<br />

dalle direttive approvate dai Serenissimi Collegi: i cittadini diventavano vassalli di un Signore che possedeva tutti i<br />

diritti sovrani (specialmente il potere giudiziario di primo grado), ed erano obbligati a corrispondere una taglia diretta<br />

(in aggiunta alle imposte versate alla Repubblica). Infine, sulle terre strappate ai legittimi proprietari, si installavano <strong>dei</strong><br />

coloni liguri venuti da Genova o dalla Riviera. Dopo alterne vicende, furono costituiti due soli feudi: quello delle<br />

contee della zona di Coti-Chiavari. Cfr. Lettre du subdélégué à l’intendant La Guillauyme, Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Intendence 85, 10<br />

settembre 1787; Arch. dép. Corse-du-Sud, Série C, Intendence 98. Anche Serie B, Conseil supérieur. Vedi anche i documenti riportati da MARTINI<br />

M., Documents inédits relatifs aux concessions du littoral nord des Agriates, «B.S.S.H.N.C.», 576 (1965).<br />

10 Cfr. CASANOVA A., Forces productives rurales, peuple corse et Révolution française (1770-1815), thèse de Doctorat d’État, Université de Paris I,<br />

1988; per le fonti: Archives nationales, Paris, Serie K 1226/31, 40 (memoria sul funzionamento <strong>dei</strong> mulini per il grano corso) e K 1229/1-VIII<br />

(memoria statistica del 1774 sui pastori della zona di Mezzani, Fiumorbo e Ghisoni).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

Porette-Fiumorbo e quello di Porto Vecchio. Come era prevedibile, i corsi si opposero all’immigrazione di nuovi coloni<br />

venuti dal continente e soprattutto si mostrarono ostili alle misure che li privavano <strong>dei</strong> loro beni e <strong>dei</strong> terreni adibiti al<br />

pascolo e alla transumanza. I Dodici si fecero interpreti di questo malessere, anche se, alla prova <strong>dei</strong> fatti, questa<br />

politica d’infeudazione si rivelò un fallimento: il feudo delle Porette, alla fine del XVII secolo, diventò una semplice<br />

concessione enfiteutica, mentre quello di Porto Vecchio non ebbe più successo <strong>dei</strong> precedenti tentativi di compravendita<br />

del Banco di San Giorgio: decimati dalla malaria, i coloni si esaurirono progressivamente e non furono rimpiazzati da<br />

successivi insediamenti; la città cadde in rovina e il feudo si esaurì nel 1662, con la morte dell’ultimo feudatario.<br />

Genova prese atto di questo fallimento e a partire dal 1630 si orientò verso un altro tipo di capitalizzazione del<br />

territorio. Per capire meglio la qualità del cambiamento operato dai genovesi nella politica agricola, si può confrontare il<br />

decreto del 1638 con quello del 1587 che istituiva il sistema di infeudazione. La differenza – essenziale – appare già dai<br />

termini: non si trattava più di “feudi”, ma di “enfiteusi” 11 ; il cambiamento qualitativo è enorme. Genova controllava il<br />

dominio diretto del suolo e i diritti ad esso collegati, mentre l’enfiteuta godeva unicamente della superficie coltivabile.<br />

Nonostante i casi di decadenza, comunque, l’affittuario entrava in possesso di un bene alienabile e trasmissibile (in caso<br />

di enfiteusi perpetua) ai discendenti diretti. Si delineava, in questo modo, una classe di affittuari agricoli che costituì la<br />

base della nuova borghesia rurale. A questo si aggiungeva la possibilità di ricevere dalla Repubblica degli accordi di<br />

prestito a tasso normale: si trattava, insomma, di nuova linfa per un’economia già povera ed esasperata dal fiscalismo.<br />

La seconda differenza, non meno importante, rispetto al decreto del 1587, consiste nel cambiamento di obiettivi.<br />

Certamente la produzione di cereali restava la preoccupazione principale, anche perché la fame di grano non era ancora<br />

diminuita: la peste nera del 1630, oltre alla decimazione della popolazione, aveva fatto levitare le richieste di derrate sul<br />

continente. Tuttavia Genova tendeva ad una diversificazione delle colture, incoraggiando le piantagioni degli alberi e<br />

delle vigne e la crescita ed il miglioramento della soccida 12 , senza contare l’invito diretto all’abbandono del vecchio<br />

sistema del debbio 13 , ed alla sua sostituzione con il dissodamento in profondità. Una terza differenza, non meno<br />

importante, è l’apertura delle enfiteusi agli isolani. Quando l’infeudazione era riservata ai genovesi, i corsi potevano<br />

accedere alla proprietà soltanto in linea di principio, perché la mancanza di denaro impediva l’accesso ai territori più<br />

estesi. Sul piano dell’efficacia, la nuova politica si chiuse con un bilancio in attivo non indifferente. Le enfiteusi erano<br />

quantitativamente maggiori <strong>dei</strong> feudi creati nel 1587 e durarono a lungo: gli atti notarili dell’epoca riportano pochi<br />

fallimenti, mentre gli affitti (procoi) entrarono in crisi soltanto alla fine del XVII secolo.<br />

<strong>Il</strong> commercio<br />

Lo studio dell’attività portuaria è fondamentale per capire l’effettivo miglioramento dell’agricoltura corsa. L’aumento<br />

delle esportazioni di cereali è stato notevole ed aumentarono anche gli scambi da porto a porto. In generale raddoppiò la<br />

produzione di vino, di grano e di olio d’oliva. Quanto agli altri prodotti naturali (fave, lupini), essi seguono la stessa<br />

curva ascendente, senza contare l’aumento della produzione di materie prime come il legname ed il ferro. Ultimo ed<br />

importante indice di una evidente prosperità è l’ammontare degli introiti percepiti in Corsica da Genova tra il 1704 ed il<br />

1705, dato che provenivano almeno all’80% dai diritti di circolazione, dalla vendita delle merci e da diverse tasse,<br />

triplicate rispetto al 1575. In poche parole, la Corsica era passata da un tipo d’economia a circuito chiuso (tranne il<br />

Capo Corso, che è sempre stato la valvola di sfogo del surplus agricolo) ad un’economia estensiva. Date queste<br />

premesse, l’economia corsa sotto la dominazione genovese sembra aver avuto un forte bilancio positivo. In effetti,<br />

l’attivo della nuova politica economica genovese in Corsica era importante per controbilanciare il passivo della bilancia<br />

commerciale: dal punto di vista sociale, i corsi sono stati vittime di una discriminazione che li ha privati della maggior<br />

parte <strong>dei</strong> frutti di questa crescita. La nuova politica economica della Repubblica, nonostante molti aspetti positivi, era<br />

comunque commisurata ai bisogni della capitale. Lo stesso sviluppo dell’arboricoltura era motivato dal bisogno di<br />

generi alimentari della Dominante e la regolamentazione del libero pascolo si rivelò col passare del tempo un motivo di<br />

contrasto sociale.<br />

§ 3. La società<br />

I progressi economici fin qui descritti non avevano intaccato la struttura sociale dell’isola. Nelle regioni interne<br />

sopravviveva una struttura sociale ed amministrativa che nel corso <strong>dei</strong> secoli ha preso il nome di Terra di comune 14 . La<br />

caratteristica essenziale di questa comunità geo-antropologica era il suo aspetto comunitario. Tutto era deciso in<br />

comune: non soltanto l’elezione <strong>dei</strong> rappresentanti (Podestà e Padri di comune), ma anche gli ufficiali municipali, i<br />

procuratori, le guardie campestri, i maniscalchi, i macellai, gli scrivani pubblici, i medici. La seconda caratteristica era<br />

la partecipazione delle donne al voto. Questo forniva alla comunità un contenuto democratico davvero originale rispetto<br />

11 L’enfiteusi è una sorta di affitto di lunga durata (18-99 anni) che conferisce all’enfiteuta un diritto reale suscettibile d’ipoteca.<br />

12 Alla classica mezzadria si sostituisce, lentamente, un contratto in cui il contadino, oltre ad essere sottoposto ad un proprietario, si trasforma in<br />

produttore autonomo, gestisce gli strumenti di produzione e diventa responsabile (grazie alla sua abilità artigianale) della coltivazione <strong>dei</strong> campi.<br />

Questo accade (con forme diverse) nelle relazioni contrattuali come l’affitto o, meglio ancora, nelle relazioni operate sulla base del terratico,<br />

dell’erbatico o, per il bestiame, del contratto di soccida.<br />

13 Debbio: “rimozione superficiale delle zolle di terra, comprese erbe e radici; quest’ultime vengono poi bruciate per fertilizzare il terreno con le<br />

ceneri” (ROBERT P., Dictionnaire de droit privé, Paris 1984).<br />

14 EMMANUELLI P., Recherches sur la Terra di Commune. Documents sur les aspects de la vie administrative privée et économiques des unités<br />

communautaires en Corse aux XVI e , XVII e et XVIII e siècles. Tesi di dottorato in Diritto, Aix-en-Provence 1958, con abbondante bibliografia e<br />

numerosi testi giustificativi. Interessante anche la consultazione del Dialogo nominato Corsica di Monsignor Giustiniani del 1531.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

ad ogni altra realtà dell’epoca, in grado di porsi in diretto confronto con la società contemporanea. Una terza<br />

caratteristica, che completava ed integrava il sistema, era l’indennità: i dissidenti rispetto alle decisioni prese dalla<br />

assemblea generale del popolo potevano dissociarsi davanti ad un notaio: venivano protetti, in questo modo, anche i<br />

diritti delle minoranze 15 .<br />

La Terra di comune<br />

La comunità eleggeva i propri rappresentanti, fissava di comune accordo l’ammontare delle doti 16 ed aveva un originale<br />

sistema di sfruttamento del suolo. Si tratta di un sistema che contrastava notevolmente con quello delle terre<br />

amministrate dai genovesi, e questo permette di capire meglio l’ostilità <strong>dei</strong> corsi per la riforma agricola della<br />

madrepatria. Le terre da coltivare venivano distinte dalle terre aperte: le prime erano distribuite dall’assemblea generale<br />

tra i membri della comunità per una durata variabile (da uno a più anni). Le altre, nettamente più estese, e che<br />

comprendevano essenzialmente i terreni prossimi ai pascoli, erano considerate indivisibili e lasciate al libero pascolo<br />

delle greggi. Queste disposizioni, scritte negli Statuti civili e legate ad antiche usanze (la cui origine potrebbe essere<br />

addirittura anteriore alla rivolta di Sambucuccio d’Alando del XIV secolo), furono rispettate da Genova. La<br />

collettivizzazione era applicata, in genere, ad una comunità di base: la parrocchia. Quando venne estesa ai villaggi ed<br />

alle pievi i conflitti di giurisdizione aumentarono considerevolmente (come accadde nel XVIII secolo); eppure<br />

l’abitudine allo sfruttamento comune <strong>dei</strong> terreni era così forte, nonostante i pericoli, che riuscì a resistere per alcuni<br />

secoli in Corsica. <strong>Il</strong> pericolo maggiore proveniva dalla pratica della presa, ovvero dalla recinzione o limitazione di una<br />

parte di terra aperta per la coltivazione intensiva. Questa recinzione assicurava al contadino (o gruppo di contadini) un<br />

diritto di godimento limitato teoricamente ad un mese, ma tendente a perpetuarsi di anno in anno, fino alla<br />

trasformazione della “presa” in proprietà individuale. Era un fenomeno legato al consolidamento di una nuova classe<br />

sociale, quella <strong>dei</strong> notabili rurali. In teoria ogni membro di una comunità era azionista d’una parte <strong>dei</strong> beni collettivi.<br />

L’azione (attione) poteva essere alienata solo in favore di un altro membro della stessa comunità e non costituiva un<br />

titolo di proprietà su una porzione delimitata di questi beni, ma soltanto un usufrutto. Anche le terre coltivabili erano di<br />

proprietà della comunità, ma venivano distribuite in parti (lenze) a ciascun “fuoco”. La divisione era sottoposta ad una<br />

rotazione di alcuni anni, che corrispondeva al normale ciclo della coltura (seminario), interrotto dalla messa a riposo del<br />

suolo. Ma anche questa presa di possesso – teoricamente temporanea e sottoposta a rotazione – poteva diventare<br />

definitiva. <strong>Il</strong> processo di appropriazione delle terre coltivabili è stato lento, progressivo e comunque irreversibile.<br />

L’appropriazione individuale veniva favorita anche dalla pratica, accordata dalla comunità ad alcuni individui, di<br />

coltivare per conto proprio una parte delle terre aperte, a condizione di recintarle. Con questa pratica della recinzione 17<br />

(chioso), la piccola proprietà cominciò a prevalere sui beni comunali, che iniziarono un lento, ma costante declino fino<br />

alla seconda metà del XVIII secolo. La segmentazione territoriale delle grandi estensioni collettive è stata accentuata<br />

anche da un’altra caratteristica originale dell’agricoltura corsa: il diritto di proprietà individuale sugli alberi <strong>dei</strong> beni<br />

comunali (il cui suolo restava proprietà indivisibile della comunità). La proporzione <strong>dei</strong> beni comunali, anche se<br />

lentamente erosa dall’appropriazione individuale (legale o arbitraria), era comunque prevalente nel Nord-Ovest<br />

dell’isola: alla fine del XVIII secolo, essa variava da un percentuale del 40% ad oltre il 70% della superficie (la<br />

percentuale era meno forte nel Sud e debole nel Capo Corso, nel Nebbio e nella Castagniccia).<br />

La popolazione<br />

In età moderna l’isola ha sicuramente subito un calo demografico a seguito della peste, della Guerra di Corsica (1553-<br />

1559), delle razzie e dell’emigrazione. La popolazione doveva aggirarsi tra le centomila e le centoventimila unità.<br />

L’apporto degli immigrati era scarso: poche centinaia di coloni, spesso decimati dalla malaria come a Porto Vecchio, o<br />

in lotta con gli isolani, come a Paomia e Cargese. Soltanto le città conobbero, grazie all’immigrazione ligure e ad una<br />

flebile fusione tra corsi e genovesi, una lenta, ma regolare progressione. La Corsica, già spopolata, era anche denutrita.<br />

Alle cattive condizioni meteorologiche si univano spesso le carestie: quella del 1582, descritta da Filippini, è<br />

tristemente celebre, ma non è stata l’unica. Se ne contano almeno altre sei lungo tutto il XVII secolo, per arrivare, nel<br />

XVIII, alla grande carestia di grano del 1728-1729, all’inizio della guerra d’indipendenza. <strong>Il</strong> clima è un altro fattore che<br />

ha sicuramente contribuito, per più di un secolo, a far fallire i tentativi per migliorare l’agricoltura e l’economia<br />

insulare: una primavera troppo piovosa ed un’estate troppo secca non favorivano un’agricoltura estensiva del grano e<br />

degli altri cereali. I corsi vivevano in misere condizioni nei villaggi arroccati sulle alture, senza strade carrozzabili,<br />

specialmente nella parte interna dell’isola. Totalmente privi d’istruzione, superstiziosi, pronti a credere a tutto ciò che si<br />

riferisse a riti e credenze magiche, erano capaci di crimini efferati; rimasero così a lungo, detestati, non compresi, poco<br />

15 L’8 aprile 1586, a Belgodere, cinque donne dichiararono, davanti ad un notaio, che erano in disaccordo con la “comunità” <strong>dei</strong> loro villaggi sulla<br />

scelta del medico e si sciolsero da ogni “obbligazione” verso il detto medico (vd. EMMANUELLI R., op. cit.), vd. anche QUASTANA A.M., CASANOVA<br />

S., Femmes et identité corse, «Peuples Méditerranéens», 22-23 (Juin 1983), pp. 237-248; MARIN-MURACCIOLE M. R., L’Honneur des femmes en<br />

Corse du XIII siècle à nos jours. Moeurs et coutumes matrimoniales et extra-matrimoniales, Paris 1964.<br />

16 Deliberazione di venti parrocchie della pieve di Moriani, del 25 giugno 1656, che limita l’ammontare massimo delle doti per non ledere gli interessi<br />

<strong>dei</strong> bambini maschi; Archives dèpartementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C 93. Observations des Domaines sur le Domaine de Porto-<br />

Vecchio, Janvier 1780.<br />

17 Le prese comunali sono composte di piccoli appezzamenti familiari chiamati lenze, trasformati in seguito in proprietà privata (chiosi posti e da<br />

ponersi), mentre in altre pievi, tanto nel XVII, XVIII quanto nel XIX secolo, esse sono ancora oggetto di ridistribuzioni periodiche.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

amati e poco amabili. Pochi riuscirono a cogliere lo “spirito” corso: qualche viaggiatore, alcuni funzionari genovesi e<br />

pochi uomini di Chiesa, che li osservavano con spavento e stupore, convinti di ritrovarsi in mezzo ad un popolo respinto<br />

dal tempo. Non si deve pensare che i corsi vivessero nel loro sistema comunitario in pace, in perfetta intesa, cortesi gli<br />

uni verso gli altri, con benevolenza, praticando la giustizia, come li immaginavano molti spiriti “illuminati” del XVIII<br />

secolo: il mito rousseuiano del “buon selvaggio” era smentito dall’atroce costume della “vendetta” e dall’ondata di furti<br />

– in genere di bestiame – diffusi a tal punto da spingere alcune comunità a salvaguardarsi con la forza, sostituendosi alla<br />

giustizia genovese.<br />

§ 4. Città e villaggi<br />

A partire dal XVII secolo inizia in Corsica un forte processo di urbanizzazione. In base all’analisi di Y. Kolodny tre<br />

caratteristiche comuni definiscono la città corsa nelle diverse fasi dell’urbanizzazione: 1) la città non è mai la<br />

conseguenza di una spinta economica o sociale degli isolani di unirsi in un nuovo centro; risponde a degli imperativi<br />

imposti dalle civiltà straniere, perché gli stranieri hanno fondato le città; 2) le civiltà colonizzatrici sono legate al<br />

commercio marittimo. La città non viene mai fondata all’interno, dove la popolazione è ostile; la città rappresenta<br />

l’antagonismo che separa due società e due tipologie di vita diametralmente opposte; 3) la città è sempre fondata dal<br />

nulla, dovendo rispondere a degli imperativi che sono all’origine della sua creazione; si ritroveranno le stesse strutture<br />

funzionali nelle città fondate nello stesso periodo: popolamento, piano regolatore, scelta del territorio, posizione<br />

geografica e commercializzazione 18 . Questo schema aiuta a comprendere meglio la differenza - accentuatasi nel secolo<br />

XVII ed evidente nel XVIII – tra due modelli di vita e di civilizzazione: l’attività agro-pastorale delle comunità etniche<br />

insulari e quella commerciale delle città costiere. I grossi borghi dell’interno svolgevano una doppia funzione: da un<br />

lato punti d’appoggio militari ed amministrativi dell’occupazione genovese, dall’altro nodi di scambio tra il mondo<br />

rurale delle montagne ed il mondo urbano delle pianure. Lo sviluppo delle città intermedie fornisce, in questo senso, la<br />

conferma di un effettivo aumento demografico e di un migliore livello di vita.<br />

Bastia<br />

Bastia è la città che s’ingrandisce e si sviluppa maggiormente in questo periodo 19 . La progressione demografica è<br />

difficilmente quantificabile: secondo Ettori, Bastia passò dai 1.500 abitanti all’inizio del XVI secolo ai 7.000 della metà<br />

del XVII e a oltre 10.000 nel 1686. Kolodny, che prende come riferimento l’anno 1741, parla di 1.200 fuochi, ossia<br />

5.400 abitanti. <strong>Il</strong> progresso demografico andava di pari passo con la modernizzazione e l’abbellimento della capitale<br />

amministrativa dell’isola, che era anche il mercato dell’attività agricola dell’interno. Nel 1604 iniziò la costruzione della<br />

futura cattedrale (terminata nel 1620), mentre alla metà del XVII secolo si decise la costruzione di un nuovo ospedale.<br />

La cittadella venne ingrandita e fortificata; residenza del Governatore e del vescovo, protetta da una forte guarnigione,<br />

dotata di una prigione che poteva accogliere più di 300 prigionieri (cifre che la dicono lunga sulla criminalità o sul<br />

carattere “repressivo” della giustizia genovese), la cittadella, protetta da una cintura di forti sulle colline, era il centro<br />

della città genovese di Terra Nova, e dominava il quartiere propriamente corso di Terra Vecchia, due volte più popolato<br />

(5.000 abitanti, contro i 2.000, nel 1655, della Terra Nova), meno curato, più popolare (pescatori e contadini), meno<br />

moderno (il piano urbanistico era irregolare ed arcaico). Se si aggiunge che Bastia giocava un ruolo finanziario<br />

fondamentale e che il suo porto conobbe un netto progresso, si comprende l’importanza della città nel contesto isolano.<br />

Bastia era una città importante, ma non primaria: per le attività propriamente portuarie occupava solo il decimo posto<br />

tra le città corse; a livello demografico, secondo le stime di Kolodny (5.000 abitanti) arrivava appena al 4% della<br />

popolazione totale (circa 120.000 abitanti). Cifre, al contrario, notevoli per la loro modestia, considerato che<br />

attualmente la città possiede un quarto della popolazione isolana.<br />

18<br />

Fondamentale l’opera di KOLODNY Y., La géographie urbane de la Corse, Paris 1962, che fornisce uno studio sincronico e diacronico delle città<br />

isolane.<br />

19 e<br />

Oltre agli studi di KOLODNY Y. su Bastia, Bastia vers le milieu du XVII siècle (selon Banchero 1652-1660), «B.S.S.H.N.C.», 59-60-61 (1885-86) e<br />

Statuts et privilèges accordés à Bastia de 1484 à 1648, ibid., sono assai utili gli articoli di CASTELLANI M., La géographie et l’économie urbaines de<br />

Bastia, «B.S.S.H.N.C.», 598-599, 600-601-602 (1961).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

Figura 4: Pianta della città di Bastia nel 1781 (Biblioteca municipale di Bastia).<br />

Ajaccio<br />

Questa osservazione è confermata anche dall’esempio di Ajaccio 20 . <strong>Il</strong> progresso demografico qui è stato meno rapido e<br />

meno evidente che a Bastia: la città venne fondata più tardi ed il suo ruolo nella vita politica, religiosa e militare<br />

dell’isola, alla fine del XVII secolo, era minimo. Genova comprese l’importanza strategica della piazza e si preoccupò<br />

di fortificarla nuovamente, nel 1562, dando alla cittadella la forma esagonale che ancora la caratterizza. Ma in questo<br />

spazio ristretto la popolazione, quasi interamente ligure, era modesta. Alle cento famiglie liguri che nel 1493 avevano<br />

formato il nucleo primitivo, e che restarono etnicamente omogenee fino allo scoppio della guerra di Corsica, si<br />

aggiunse, dopo il 1553, un contingente di corsi dell’interno. Genova decise di accordare il diritto di cittadinanza nel<br />

1592, e di riservare 1/3 <strong>dei</strong> posti nell’amministrazione agli abitanti della cittadina. L’insicurezza dovuta alle continue<br />

razzie <strong>dei</strong> barbareschi arrestò l’immigrazione degli abitanti <strong>dei</strong> dintorni: si passò, secondo Pinzuti, dai 1.200 abitanti del<br />

1584 ai 5.000 del 1666 o, secondo Kolodny, dai 700 del 1493, ai 1.500 del 1582, ed ancora dai 2.400 nel 1615 ai 3.745<br />

del 1744. Progressione costante dovuta sia alle immunità accordate da Genova, sia all’insediamento di un luogotenente<br />

del Governatore e di una guarnigione. La città si estese (superando presto il limite della cittadella ed espandendosi<br />

lungo l’attuale Rue Fesch) ed il porto cominciò ad acquistare sempre maggiore importanza. A partire dal 1621-1627 era<br />

in testa al traffico di tutti i porti corsi, surclassando di molto Bastia, con un notevole aumento delle esportazioni, che<br />

ponevano Ajaccio al 4° posto tra le città costiere per il movimento portuario. Progresso che trovò, infine, la sua<br />

traduzione monumentale con la costruzione della nuova cattedrale, iniziata nel 1593, dell’Ospedale alla fine del XVI<br />

secolo e nel 1618, di un Monte di pietà (come a Corte e Bastia). Tuttavia, l’economia <strong>dei</strong> dintorni era fragile: bisognava<br />

importare la quasi totalità dell’olio e buona parte del grano necessario alla sussistenza.<br />

Figura 5: Pianta della città di Ajaccio di F.M. ACCINELLI<br />

(Archivio di Stato di Genova, Div. Corsicae, filza 2111 - 1764-1765).<br />

20 Vedi PINZUTI N., Notes sur l’histoire économique et sociale d’Ajaccio aux XVI e et XVII e siècles, «Corse historique», 13-14, 15-16 (1964). Cfr.<br />

Anche CAMPI L., Notes et documents sur la ville d’Ajaccio (1492-1789), Ajaccio 1901; BARDET J.-P. e MOTTE C., La Diocèse d’Ajaccio, Paris 1974;<br />

POMPONI F. e SILVANI P., Histoire d’Ajaccio, Ajaccio 1998.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

Porto Vecchio e San Fiorenzo<br />

Non si può dire altrettanto per altre città: Porto Vecchio non solo subì il fallimento del tentativo genovese<br />

d’infeudazione della sua pieve, ma perse anche gran parte della popolazione, decimata dalla malaria. Abbandonata dai<br />

suoi abitanti, essa diventò quasi una città fantasma, ripopolandosi soltanto nel XVIII secolo.<br />

San Fiorenzo passò, invece, dai 1.500 abitanti alla metà del XVI secolo, prima della guerra di Corsica, ai 66 della fine<br />

del XVII secolo; il crollo era dovuto sia alla malaria, sia alla perdita della funzione militare: i bastioni, ricostruiti nel<br />

1563, furono rasi al suolo nel 1667 e la guarnigione ridotta a 12 persone. All’inizio del XVI secolo, tuttavia, il porto era<br />

abbastanza attivo, dato che assicurava un traffico che la piazzava al 4° posto tra i porti genovesi in Corsica ed al 14° tra<br />

i porti isolani, molto più avanti di Bonifacio e di Calvi.<br />

Figura 6: Pianta della città di San Fiorenzo (Biblioteca Municipale di Bastia).<br />

Bonifacio<br />

Bonifacio affondava lentamente in una letargia economica terminata solo nel XIX secolo 21 . La sua popolazione passò<br />

da 5.000 abitanti nel 1528 a 700 in seguito alla peste (nello stesso anno), per risalire a 2.000 alla fine del XVII secolo<br />

(ed a 2.500 a metà del XVIII). <strong>Il</strong> porto, all’incirca nel 1627, era il 5° <strong>dei</strong> porti genovesi in Corsica ed al 16° posto tra i<br />

porti isolani, con un traffico molto ridotto, in seguito alla grave crisi agricola del territorio circostante. Le esportazioni<br />

rappresentavano una parte infima del totale (6%) ed i marinai del Capo arrivavano sulla piazza per fare concorrenza.<br />

Con il passare del tempo la situazione non migliorò: alla fine del XVII secolo le esportazioni di grano ammontavano a<br />

soli 43 ettolitri sul totale di 7.800 di tutti i porti corsi; al contrario, l’importazione d’olio aumentò sensibilmente,<br />

confermando la povertà dell’entroterra. La città esisteva soltanto grazie alle importazioni e all’intervento <strong>dei</strong> navigli<br />

corsi e stranieri.<br />

Calvi<br />

Calvi non fa eccezione alla crisi delle altre città corse. Le rovine della guerra di Corsica e l’esplosione di una polveriera<br />

nel 1567, avevano distrutto parte della città racchiusa nei bastioni. <strong>Il</strong> porto venne distrutto durante l’assedio del 1555,<br />

ma ricostruito altrettanto velocemente, diventando lo sbocco naturale <strong>dei</strong> prodotti agricoli della Balagna; ma la<br />

popolazione rimase stazionaria durante tutta l’età moderna: 1.000 abitanti durante il XVII secolo (1.200 con la<br />

guarnigione) ed appena 1.060 nel 1741. <strong>Il</strong> traffico portuario era mediocre: nel 1627, Calvi occupava il penultimo posto<br />

tra i porti genovesi ed il 19° <strong>dei</strong> porti corsi, con un totale di merci scambiate che rappresentava 1/6 di quello di Ajaccio<br />

e la metà di quello di Bonifacio. Nel 1697 la situazione era appena migliorata: le esportazioni d’olio aumentarono<br />

leggermente, ma la concorrenza d’Algajola e delle marine del Capo era così forte che la prosperità (relativa) della città<br />

si legava soprattutto alla funzione amministrativa (sede del Governatore dal 1652 al 1660) e militare.<br />

21 Per Bonifacio, vedi FERTON CH., Les premiers habitants de Bonifacio, in Congrès de l’A.F.A.S., Ajaccio 1901; ROSSI H., Les fortifications de<br />

Bonifacio au XV e siècle, «B.S.S.H.N.C.», 562 (1961); SERPENTINI A., Bonifacio, con Prefazione di LE ROY LADURIE E., Ajaccio 1994.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

Figura 7: una veduta di Calvi alla fine del XIX secolo.<br />

I borghi<br />

Le città propriamente corse, tutte dislocate all’interno dell’isola, in posizione difensiva, non superarono mai la<br />

caratteristica di grossi borghi (come Vico, Vescovato e Cervione): nel 1686 Corte contava appena 1.750 abitanti e<br />

Sartena 1.200; nel 1741 le due città raggiunsero rispettivamente la cifra di 1760 e 2.090 abitanti. Altra caratteristica<br />

comune era la presenza di una guarnigione genovese (talvolta anche di un nucleo civile ligure) anche se, comunque,<br />

l’elemento indigeno era preponderante. Inoltre, al carattere difensivo (visibile a Corte e Sartena) si univa un’eminente<br />

funzione agricola, perfino più importante, come a Vescovato, della funzione religiosa (residenza del vescovo). Tuttavia,<br />

ed è questa la differenza più grande rispetto agli altri borghi, la funzione militare era predominante. Simi ha potuto<br />

affermare a ragione che a Corte «il ruolo difensivo assorbe tutte le sue attività; Corte non è una città, ma semplicemente<br />

una piazzaforte» 22 .<br />

La situazione era leggermente diversa per Sartena, che sorvegliava la ricca valle del Rizzanese ed il golfo del Valinco,<br />

vie d’accesso obbligate per i barbareschi, ma anche (grazie alle marine: Tizzano, Campomoro, Propriano), punti di<br />

contatto e di scambio tra il mondo rurale dell’interno ed il commercio marittimo. Ancora un’altra differenza<br />

fondamentale: Corte era al centro di una regione essenzialmente pastorale, mentre Sartena era lo snodo di un territorio<br />

vasto e ricco, in cui la pastorizia era sviluppata quanto l’agricoltura. Infine, non si può dimenticare la profonda<br />

differenza della rispettiva struttura agraria: Corte era in piena Terra di comune, Sartena nella Terra <strong>dei</strong> Signori. Nella<br />

prima le terre comunali rappresentavano il 90% del totale, nell’altra tutta la terra apparteneva ai latifondisti 23 .<br />

Figura 8: Panorama di Corte in una illustrazione del 1772.<br />

22 Cfr. SIMI P., Genèse de la dépression centrale de la Corse, «B.S.S.H.N.C.», 36 (1965).<br />

23 Per quanto riguarda le altre cittadine dell’interno, almeno per quelle di cui abbiamo fonti sufficienti, è utile enumerare le cifre fornite da Mons.<br />

Mascardi, Visitatore Apostolico. A partire dall’anno 1646 nel Capo Corso: Luri contava 200 fuochi e 1.200 anime, Pino 85 fuochi e 1.500 anime,<br />

Meria 100 fuochi e 450 anime, Rogliano 244 fuochi e 1.500 anime, Centuri 140 fuochi e 700 anime, Cagnano 113 fuochi e 365 anime. Nella pieve di<br />

Brando: Vescovato, 126 fuochi e 700 anime. Cifre modeste, ma generalmente confermate. Ghisoni aveva 800 abitanti nel 1589, 900 nel 1686; Aleria<br />

scese a 60 abitanti nel 1686; Vivario, 450; Venaco, 530; Tallano, 400; Levie, 200; Zicavo, 900; Zonza, 100; Carbini meno di 600; Grosseto, 300;<br />

Cervione, sede del vescovo d’Aleria, alla fine del XVI secolo, contava solo 400 persone (1571), ed arriva appena a 700 nel 1787; Fozzano da 500<br />

abitanti passa a 368 nel 1715. L’impressione dominante è quindi che l’isola, fatta eccezione per Bastia ed Ajaccio, nella seconda metà del XVII abbia<br />

conosciuto una crisi demografica strettamente legata al ristagno economico. La Corsica appariva come un aggregato di tante piccole comunità sparse<br />

in un semi-deserto umano (con le eccezioni del Capo Corso, della Castagniccia e della Balagna), aggravato dall’inesistenza quasi totale di vie di<br />

comunicazione. Cfr. CASANOVA A., Identité corse, outillages et Révolution française, Paris 1996.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

§ 5. Gli scontri sociali<br />

La realtà corsa non può essere compresa senza un’analisi della struttura sociale ed amministrativa dell’isola in età<br />

moderna. Ad uno sguardo più attento, l’antagonismo tra corsi e genovesi (che una certa storiografia nazionalista ha<br />

presentato per lungo tempo come un odio efferato), tendeva a scemare a seconda delle classi sociali. Allo stesso tempo<br />

emerge una visione diversa dalla Corsica tradizionale ed idilliaca, senza scontri di classe: infatti, benché attenuati e<br />

deviati dall’opposizione <strong>dei</strong> due popoli, i contrasti tra benestanti e nullatenenti erano più vivi che mai. L’ordine<br />

genovese poteva cancellare solo superficialmente queste differenze.<br />

L’Aristocrazia<br />

La prima caratteristica della società corsa d’Ancien Régime è l’indebolimento della feudalità. Con la scomparsa,<br />

all’inizio del XVI secolo, degli ultimi due grandi feudatari, Gian Paolo de Leca e Rinuccio della Rocca, l’aristocrazia<br />

aveva cessato d’esercitare il suo potere sulla Terra <strong>dei</strong> Signori. Anche se nominalmente i feudi continuavano ad esistere<br />

(per esempio quelli di Ornano, Bozzi ed Istria nel Sud), la loro influenza era debole. La debolezza della feudalità<br />

tendeva ad aggravarsi con la recessione demografica, diventando quasi una piaga istituzionale: esisteva, ovviamente, il<br />

vincolo vassallatico 24 , ma, da un lato, si appoggiava su forze dell’ordine indebolite, dall’altro, era continuamente<br />

sminuito dalla proprietà individuale e collettiva <strong>dei</strong> contadini; il sistema feudale in Corsica si limitava a qualche tassa o<br />

canone in natura, ad alcune ammende, alle corvées in qualche pieve. Inoltre, i conflitti tra famiglie rivali, le eredità, i<br />

diritti riconosciuti ai figli illegittimi avevano piegato l’antica aristocrazia, appena in grado di sopravvivere ad una<br />

situazione economica in continuo degrado. La partecipazione alla Guerra di Corsica accelerò il processo di distruzione:<br />

castelli rasi al suolo, terre devastate, bestiame massacrato. <strong>Il</strong> bilancio, già pesante, venne aggravato dalla repressione<br />

sistematica di Genova nel processo di restaurazione della propria sovranità, a seguito della guerra di Corsica, contro<br />

tutti i discendenti <strong>dei</strong> ribelli guidati da Sampiero di Bastelica: privazione del diritto di riscossione della taglia, confische,<br />

ammende, esili e, nel 1623, addirittura la perdita della presenza del Governatore. In breve, la storia della nobiltà corsa<br />

sarà, da quel momento, quella di una lenta agonia: i suoi membri si voteranno all’emigrazione, alla vita mediocre o<br />

all’integrazione nei quadri dell’amministrazione e dell’esercito della Serenissima. Alcuni grandi feudi scomparvero<br />

letteralmente nel nulla: ai nobili, contestati, aggrediti e massacrati dagli stessi vassalli, indeboliti giuridicamente da<br />

Genova (che toglieva loro i diritti per concederli ai suoi luogotenenti), restavano solo <strong>dei</strong> vani titoli onorifici e <strong>dei</strong> magri<br />

privilegi. I pochi esponenti dell’antica aristocrazia isolana (una sessantina in tutto), anche se usufruivano dell’esenzione<br />

dalla taglia e di qualche privilegio, erano ridotti perfino a disputarsi i vassalli ed a sfruttare <strong>dei</strong> beni allodiali, a svolgere<br />

attività commerciale o a servire nelle armate del continente, comprese quelle di Genova. In questo modo si spense<br />

lentamente quella turbolenta feudalità che nei secoli precedenti aveva arrecato tanti danni al Banco di San Giorgio ed<br />

alla Dominante. L’aristocrazia corsa presentava una differenza sostanziale rispetto a quella del resto d’Europa, che<br />

giocava ancora, nel periodo di passaggio tra l’Ancien Régime e l’età della grande borghesia, un ruolo sociale<br />

determinante. Questa caratteristica della storia isolana è dovuta all’assenza di un vero Sovrano: anche i francesi, dopo la<br />

conquista dell’isola nel 1769, si guarderanno bene dall’equiparare i diritti dell’aristocrazia continentale con quelli della<br />

feudalità isolana, per impedire la presenza di un autonomo potere amministrativo e giudiziario.<br />

I Notabili<br />

La borghesia, prendendo il posto della feudalità esautorata, acquistò sempre più importanza nella scala sociale: favorita<br />

dall’espansione economica e dalla politica genovese (a partire dal XV secolo), essa finì per costituire una nuova classe<br />

sociale, quella <strong>dei</strong> Benemeriti, ordine sociale inferiore a quello della nobiltà, ma ben separato dal popolo. Veri e propri<br />

pensionari dello Stato grazie ai loro meriti, questi buoni e fedeli servitori godevano di privilegi (esenzione dalla taglia,<br />

diritto di porto d’armi), che li distinguevano dalla plebe e li equiparavano alla nobiltà di spada. I Principali derivavano<br />

direttamente dalle famiglie notabilari <strong>dei</strong> Caporali del XV secolo, capi delle pievi della Terra di Comune, eletti dal<br />

popolo, la cui funzione era quella di difendere i contadini dagli abusi della nobiltà. Da protettori e giudici delle<br />

comunità, i Caporali si trasformarono in Signori o Governatori, sfruttando le popolazioni e rendendo ereditarie le<br />

proprie cariche. Questo processo si accompagnò ad un arricchimento costante e molteplice: le famiglie <strong>dei</strong> Caporali di<br />

ceppo popolare si presentavano già, nel XVI e nel XVII secolo, come vere famiglie signorili, con pretese di<br />

nobilitazione: d’altronde la funzione caporalizia, divenuta ereditaria, permetteva di ottenere delle cariche pubbliche<br />

importanti (Consiglio <strong>dei</strong> Nobili Dodici; Syndicato). I Caporali, anche se già indeboliti dalle rivalità intestine e dalle<br />

continue vendette tra clan, si distinsero come la classe dominante dell’isola. Anche se la loro potenza militare terminò<br />

presto sotto gli attacchi incalzanti della Serenissima, il potere economico rimase intatto attraverso i secoli, perché<br />

fondato sulla ricchezza fondiaria. I Caporali avevano acquistato i feudi lentamente, a scapito della vecchia aristocrazia o<br />

delle comunità rurali; la posizione privilegiata di notabili permetteva loro di spossessare i contadini poveri tramite una<br />

lenta accumulazione di capitali o con il prestito ad usura ed in molti casi essi arrivavano ad investire i beni fondiari<br />

rivendendoli a Genova. L’isola deve molto ai Notabili: le regioni più ricche beneficiarono di importanti bonifiche, di<br />

piantagioni d’alberi da frutto e della semina di cereali. Se si aggiunge a questa nuova ricchezza agricola la tradizionale<br />

ricchezza isolana fondata sul capitale, sempre più concentrato nelle mani <strong>dei</strong> grandi commercianti delle città costiere, il<br />

24 <strong>Dal</strong> punto di vista giuridico, la potenza signorile era grande: la “potestas gladii”, o “coltelli” conferiva alla nobiltà feudale un diritto assoluto sui<br />

vassalli. Cfr. FONTANA J., Essai sur l’histoire du droit privé en Corse, Paris 1905.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

potere <strong>dei</strong> notabili risulta ancora più evidente. Proprietari del suolo, degli alberi e delle greggi, i notabili potevano<br />

praticare, grazie all’alleanza con i borghesi delle città, una politica di fissazione <strong>dei</strong> prezzi di produzione. In breve, essi<br />

rappresentavano la classe più attiva e più ricca di un’isola che stava uscendo dalla letargia economica. I Principali<br />

tendevano inevitabilmente a conquistare il predominio politico: favoriti dalle istituzioni, che riservavano loro i posti<br />

chiave dell’amministrazione, avvantaggiati dalla cultura, s’imposero come l’autentica classe dirigente corsa, capace di<br />

gestire la ricchezza, di mantenere l’ordine, di sedare le proteste, di parlare in nome del popolo. Essi occupavano le più<br />

alte funzioni rappresentative (Nobili Dodici e Nobili Sei), le intermedie (Podestà, Padri di comune, Capitani delle<br />

milizie) e le più basse (guardiani delle terre comunali, cacciatori o guardie campestri). La conquista di tali funzioni<br />

doveva andare di pari passo con il conservatorismo politico: prese origine, allora, uno scontro sociale che opponeva i<br />

notabili al resto delle comunità. <strong>Il</strong> potere notabilare trovava <strong>dei</strong> limiti solo nella rivalità tra pari; la struttura tradizionale<br />

dell’isola, il clan, conobbe allora un progressivo rinnovamento, incarnandosi pienamente nelle casate <strong>dei</strong> notabili 25 . In<br />

generale i borghesi corsi (rurali o cittadini) non emergevano sicuramente per ricchezza assoluta (sempre inferiore a<br />

quella <strong>dei</strong> borghesi continentali), ma per ricchezza relativa, dato che il paese era molto povero. I francesi che sbarcarono<br />

in Corsica nel XVIII secolo restarono sorpresi proprio per l’omogenea condizione economica delle varie classi sociali,<br />

specie nelle campagne.<br />

Gli ecclesiastici ed il popolo<br />

<strong>Il</strong> quadro non cambia se si passa agli uomini di Chiesa, proprio perché, tranne i vescovi (quasi tutti genovesi), essi erano<br />

reclutati nella stessa classe <strong>dei</strong> notabili rurali. Filippini, il noto cronachista, arciprete di Mariana, ne è un esempio<br />

eloquente. Arcidiaconi, vicari, canonici, pievani e rettori erano numerosi: uno per famiglia, secondo alcune<br />

testimonianze. Essi vivevano decorosamente, sicuramente meglio <strong>dei</strong> fedeli, grazie soprattutto alla condizione sociale di<br />

notabili: potevano, infatti, prelevare parte del patrimonio familiare come reddito fisso. Ne è la prova il fatto che spesso<br />

gli ecclesiastici non esitavano a diventare proprietari terrieri, a commerciare in beni fondiari o a prestare denaro ad<br />

usura, per arrotondare i propri introiti. Purtroppo ci sono pochissime fonti d’archivio che testimoniano il tenore di vita<br />

del popolo. I poveri <strong>dei</strong> villaggi, attaccati ai loro fazzoletti di terra ed alle loro greggi, erano spesso costretti a scendere<br />

in città, dove ingrossavano le fila del proletariato portuale, <strong>dei</strong> facchini, degli indigenti di ogni ordine, che gonfiavano la<br />

clientela <strong>dei</strong> notabili, oppure ad espatriare per prendere servizio sulle galere o negli eserciti del continente. Per coloro<br />

che restavano si profilava l’altrettanto triste sorte di guardiani di un dominio, per conto di un mezzadro isolano o<br />

genovese, oppure la condizione di domestici (perpetue presso i sacerdoti, servitori nei conventi, o domestici dai Signori<br />

delle città o <strong>dei</strong> borghi). Questi poveri, costantemente minacciati dalle carestie, erano anche costretti a difendersi dalla<br />

concorrenza <strong>dei</strong> Lucchesi nel lavoro di braccianti agricoli. In generale, vivevano miseramente <strong>dei</strong> prodotti della terra,<br />

nutrendosi poco, vestendosi di nulla, traendo il possibile da una pecora, da un maiale, da un castagneto. I Principali<br />

talvolta li spingevano alla rovina, obbligandoli a vendere tutto e a cercar fortuna altrove: allora, nei momenti di estrema<br />

insofferenza, si ribellavano, diventando <strong>dei</strong> fuorilegge, <strong>dei</strong> banditi. Tuttavia la Corsica non ebbe mai un proletariato di<br />

nullatenenti, proprio perché la sua economia era talmente diversificata che gli abitanti avevano la sicurezza, salvo<br />

calamità naturali, di non mancare mai del necessario.<br />

§ 6. Un rinnovamento spirituale<br />

La Corsica, alla fine del XVI secolo, aveva bisogno di un rinnovamento spirituale più delle altre regioni dell’Europa<br />

Occidentale 26 . A differenza del resto del continente, l’isola non era stata minacciata dal movimento protestante: qui non<br />

era arrivata quasi nessuna eco della Riforma che aveva scosso la Chiesa Apostolica Romana nelle sue fondamenta ed<br />

aveva fatto passare intere nazioni nel campo riformato. Quanto alle eresie propriamente dette, esse appartenevano ad un<br />

lontano passato: quella <strong>dei</strong> “Giovannali” (fine del XIV secolo) e quella <strong>dei</strong> “Battuti” (a metà del XV secolo) non<br />

avevano lasciato tracce profonde nel popolo, che viveva nell’agio di un conformismo religioso legato ad un sostrato di<br />

superstizione e paganesimo, unito ad una laicizzazione radicale <strong>dei</strong> costumi del clero. I preti delle parrocchie rurali<br />

vivevano la vita del loro gregge, in una comunione di idee e di sentimenti spesso discutibile. Ed i fedeli si<br />

riconoscevano così bene nei loro sacerdoti da mancare loro anche di riguardo, cosa che faceva rabbrividire i visitatori<br />

apostolici 27 . <strong>Il</strong> popolo aveva una vita sacramentale quasi nulla: nessun rispetto delle prescrizioni quaresimali,<br />

25 Alcuni Principali presero il posto degli antichi aristocratici del Diladamonti: i Pajnacci, i Fozzani, i Durazzo, i Pietri, gli Ortoli, che diventarono i<br />

nuovi nobili della Rocca attorno a Fozzano e Sartena. Altri continuarono, nel Diquadamonti, il ruolo delle famiglie caporalizie già segnalate nel XVI<br />

secolo dai cronachisti Ceccaldi e Filippini: Casta, Campocasso, Chiara, Matra, Pancheraccia, Quenza, Sarrola, Serra, Tavera, Pozzo di Borgo ecc. Cfr.<br />

VRYDAGHS F., Notices historiques sur la Rocca cit., p. 68 e segg., CASANOVA A., e ROVERE A., Caporaux et communautés rurales aux XIV e et XV e<br />

siècles, «Corse historique», 12, 15, 19 (1963, 1964, 1967).<br />

26 Sull’argomento vedi CASANOVA A., Historie de l’église corse, Ajaccio 1931; FONZI F., Le relazioni fra Genova e Roma al tempo di Clemente XIII,<br />

«Annuario dell’istituto italiano per l’età moderna e contemporanea», VIII (1957). Per le fonti archivistiche vedi Archivio Segreto Vaticano, fondo<br />

Segreteria di Stato, serie Corsica, fascicoli 8 e 9 ed Archivio di Stato di Roma, fondo Congregazione degli Spogli, buste 132 e 133; fondo<br />

Camerlengato, parte I, busta n. 47 (1816-1823) I. Affari esteri, disposizioni e regolamenti, fogli 6 e 7, nota <strong>dei</strong> consoli pontifici nei paesi europei,<br />

Genova.<br />

27 «Non possiamo finalmente tralasciare di dare le dovute sollecite provvidenze a due altri disordini che riconosciamo introdotti nel Clero. <strong>Il</strong> primo è<br />

che non puochi sacerdoti e chierici costituiti in Sacris si fanno lecito d’andare senza l’abito, e tonsura per le campagne, e per i paesi, non avendo il<br />

minimo riguardo all’obbligo tanto inculcato loro dal Sagro Concilio di Trento Sess. 14, cap. 6, de Reform. Di portare sempre, ed in ogni luogo vesti<br />

convenevoli al loro grado: Oportet tamen clericos vestes proprio congruentes ordini sempre deferire, ut per decentiam habitus estrinseci morum<br />

honestatem intrinsecam ostendant…omissis…Pertanto ordiniamo, che niun sacerdote, o chierico in sacris abbia ardire di comparire in pubblico sì per<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

consanguineità ed estrema precocità <strong>dei</strong> matrimoni, separazioni delle coppie e concubinaggio generalizzato. Per il clero<br />

non era poi tanto diverso: «di crassa ignoranza, vagabondo, concubinario e di modi violenti. Gli assassinii non sono<br />

rari…è un conglomerato di sradicati sotto tutti i punti di vista: temporale, intellettuale, morale e spirituale» 28 . Questo,<br />

dunque, lo scenario che si presentava in Corsica nel 1570, poco dopo la guerra di Sampiero di Bastelica e la conclusione<br />

del Concilio di Trento. Ma la situazione non cambiò molto nemmeno nel secolo successivo, se nel 1610 si vietava ai<br />

preti di portare delle armi da fuoco (ma quelli che si trovavano «in inimicizia» potevano portare una lancia o una<br />

sciabola), di praticare ogni sorta di incantesimi, magia o stregoneria e di perseguire l’usura, l’incesto ed il<br />

concubinaggio. Nessun cambiamento nemmeno nel 1711, in base alle testimonianze di Mons. Spinola: preti che non<br />

insegnavano il catechismo, che sposavano le concubine, che battezzavano i bambini anche se i padrini e le madrine<br />

ignoravano tutti i misteri della fede e non conoscevano né il Pater, né il Credo, né i comandamenti. L’alto clero corso<br />

era comunque formato da personaggi colti ed integerrimi ed aveva dato prova di una notevole crescita intellettuale <strong>dei</strong><br />

suoi membri, distintisi per i contributi negli studi sacri e profani 29 . Tuttavia, la maggior parte di questi studiosi era<br />

vissuta fuori dalla Corsica e comunque non aveva contribuito con il talento e la cultura ad un rinnovamento spirituale<br />

del clero e del popolo corso. La differenza sociale, ancora una volta, si accompagnava ad una differenza intellettuale,<br />

morale e religiosa: la maggior parte del clero corso proveniva dal notabilato che, come abbiamo visto, aveva conosciuto<br />

un miglioramento di vita qualitativo durante i secoli XVII e XVIII.<br />

§ 7. Un rinnovamento culturale<br />

Ogni rinnovamento culturale passa attraverso l’istruzione, ed in Corsica, sotto questo aspetto, bisognava cominciare dal<br />

nulla: trovare gli insegnanti e fondare le scuole. Si trattava di un compito più facile nelle città che nei villaggi.<br />

Certamente le comunità dell’interno non erano abbandonate al totale analfabetismo: almeno nel Diquà, avevano avuto<br />

la cura di pagare <strong>dei</strong> maestri incaricati di insegnare i rudimenti della grammatica e dell’aritmetica. Un po’ ovunque si<br />

trovavano <strong>dei</strong> preti, pagati per contratto in natura o in denaro. Ma in generale, nella maggior parte <strong>dei</strong> comuni<br />

mancavano gli insegnanti, oppure erano ignoranti quanto i discenti e dovevano dispensare, nello stesso tempo, il<br />

catechismo ed i rudimenti del calcolo e della scrittura. Questo alto tasso di analfabetismo emerge chiaramente da alcuni<br />

documenti relativi alla mancata elezione di alcuni candidati alla “podestatia” e dalle testimonianze <strong>dei</strong> francesi giunti<br />

nell’isola nel XVIII secolo, stupiti dell’estrema ignoranza di coloro che dovevano detenere la cultura in Corsica (preti,<br />

monaci e Podestà). Alla metà del XVII secolo potevano essere considerate vere scuole (con l’esclusione <strong>dei</strong> seminari<br />

tenuti dagli ecclesiastici), solo quella di Rogliano, nel Capo (fondata grazie alla generosità di un emigrato), quella di<br />

Oletta, tenuta dalla vedova di un militare, quella di Ersa e quella di Lucciana, tenute da sacerdoti. L’ignoranza generale<br />

si evince anche dalla necessità, per alcune comunità, di ricorrere allo scrivano pubblico pagato in natura. Nelle città, la<br />

situazione era leggermente diversa. La più grande concentrazione umana, il bisogno di commercio e di<br />

amministrazione, il miglioramento generale del livello di vita concorrevano ad una scolarizzazione alla quale la Chiesa<br />

donava tutte le sue attenzioni, conformemente alle prescrizioni del Concilio di Trento. I collegi propriamente detti erano<br />

più prosperi, anche perché gestiti dalla Chiesa: quello <strong>dei</strong> Gesuiti venne fondato nel 1601 a Bastia e nel 1617 ad<br />

Ajaccio, ed era specializzato nell’istruzione secondaria 30 . Gli effetti dell’istruzione erano deboli: i Gesuiti avevano<br />

poche decine di allievi, ancora meno gli altri: la scolarizzazione spettava a pochissimi giovani corsi, per la maggior<br />

parte appartenenti alla classe <strong>dei</strong> notabili. Non esisteva traccia di insegnamento superiore, che in genere veniva<br />

terminato presso le università italiane. Gli studi universitari erano riservati ai seminaristi che intendevano terminare gli<br />

studi a Genova, al Collegio Del Bene (una dozzina di borsisti l’anno), a Padova, alla <strong>Sapienza</strong> di Roma 31 o a Sassari. In<br />

totale, anche qui, un piccolissimo numero di privilegiati e tutti ecclesiastici. <strong>Il</strong> vuoto culturale era talmente grande che<br />

certe professioni liberali (medici, farmacisti) erano appannaggio esclusivo <strong>dei</strong> genovesi. Per quanto riguarda la<br />

diffusione della cultura, al di là del semplice insegnamento, bisogna ricordare l’insediamento a Bastia, nel 1659,<br />

dell’Accademia <strong>dei</strong> Vagabondi. Fondata nel 1645 a Venzolasca da alcuni Francescani, essa riuniva “gli spiriti più belli<br />

del luogo, le persone oneste che si interessano del bel linguaggio e sanno trattare con eleganza la lingua italiana ed il<br />

verso classico”. Copia delle innumerevoli consorelle italiane, essa testimonia l’affinamento di un gusto che restava,<br />

senza dubbio, limitato ad un circolo ristretto di borghesi, la maggior parte di origine genovese, ma che non era meno<br />

le campagne, che per i luoghi abitati senza il collare, tonsura, ed abito ecclesiastico convenevole, protestandoci, che saremo per fare una rigorosa<br />

giustizia in qualunque caso di disubbidienza». Cfr. Arch. Segreto Vaticano, fondo Segreteria di Stato, Corsica, busta 8, Editto del Visitatore<br />

Apostolico Cesare Crescenzio de Angelis, Vescovo di Segni, in Visita alle diocesi di Nebbio, Accia e Mariana.<br />

28<br />

Cfr. CASTA F.J., L’histoire religieuse de la Corse. Perspectives et orientations actuelles, «Études corses», 1 (1973), p. 21.<br />

29<br />

Mons. Sauli, vescovo d’Aleria dal 1570 al 1591, di stirpe genovese; Mons. Guidi, di Calvi, soprannominato “Dottor della gran memoria”; Pietro<br />

Morati, autore di un’opera, la Prattica Manuale, che è una preziosa risorsa del diritto e dell’amministrazione corsa del XVII secolo; Mons. Olivese,<br />

teologo di grande fama, scrittore di talento e storico dell’ordine francescano in Corsica (i suoi Ragguagli del 1671 sono importantissimi per l’ordine<br />

<strong>dei</strong> fratelli minori). Mons. Arrighi, infine, «trascorse tutta la vita a Padova come professore di giurisprudenza e direttore dell’Università. Fu<br />

esaminatore del celebre Goldoni, che fece di lui un grande elogio»; cfr. CASTA F.J., Évêques et curés corses dans la tradition pastorale du Concile de<br />

Trente (1570-1620), Ajaccio 1965.<br />

30<br />

Esistevano, poi, i collegi <strong>dei</strong> Padri delle Scuole Pie a Calvi nel 1699, <strong>dei</strong> Padri della dottrina cristiana ad Ajaccio nel 1704 (per l’insegnamento<br />

primario), degli Osservatini a Corbara nel XVII secolo (che forniva un insegnamento di un livello intermedio tra quello delle scuole <strong>dei</strong> villaggi e<br />

quello <strong>dei</strong> Gesuiti), il collegio delle Clarisse a Bastia ed Ajaccio, quello delle Orsoline, per le fanciulle di buona famiglia, e quello <strong>dei</strong> Francescani per<br />

le ragazze del popolo.<br />

31<br />

Per le relazioni tra l’Università “La <strong>Sapienza</strong>” di Roma e gli studenti corsi cfr. l’articolo di CORRADO P., Corsica e Santa Sede, «Archivio storico di<br />

Corsica», 1 (1928), pp. 1-84,<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

sintomatico di un risveglio culturale di un’isola per troppo tempo estranea alle attività culturali. Del resto, l’Italia<br />

rappresentava per i corsi la fonte della cultura, dell’erudizione, del buon gusto, oltre che il luogo prescelto per la<br />

pubblicazione delle opere dotte. Anche se con ritardo, la Corsica conobbe un certo risveglio culturale: erano timidi<br />

tentativi, che precorrevano, però, il rinnovamento del sentimento nazionale degli intellettuali e <strong>dei</strong> notabili, futura classe<br />

politica dirigente della Corsica indipendente.<br />

§ 8. L’emigrazione<br />

Molti corsi erano riusciti a trovare fortuna e realizzazione personale fuori dall’isola. L’emigrazione intellettuale era uno<br />

<strong>dei</strong> tratti permanenti della Corsica, unita ad una forte emigrazione della gente del popolo. L’esodo ha assunto talvolta<br />

proporzioni tali da far affermare che, nel XVI secolo, «non c’è avvenimento nel <strong>Mediterraneo</strong> in cui un corso non vi sia<br />

immischiato» 32 . In effetti il fenomeno migratorio era diventato così grave da indurre Genova, attraverso il Banco di S.<br />

Giorgio, a vietarlo legalmente 33 ; ciò non impediva le fughe clandestine <strong>dei</strong> corsi verso l’Italia, la Spagna, La Francia,<br />

l’Africa e le Americhe, spinti dalle difficili condizioni economiche o dal desiderio di fortuna. L’Italia era sicuramente la<br />

terra d’elezione <strong>dei</strong> corsi che emigravano: gli Stati della penisola, Genova per prima, accoglievano volentieri i civili e i<br />

militari provenienti dall’isola 34 . Nella madrepatria, fin dai tempi di Sampiero, delle compagnie corse manifestarono la<br />

loro fedeltà alla Repubblica; all’inizio del XVIII secolo, la metà degli eserciti genovesi era costituita da corsi. A<br />

Venezia, sotto gli ordini di Francesco d’Ornano, servivano, nel 1623, tredici compagnie; a Roma, oltre all’importante<br />

colonia corsa (stabilitasi dal IX secolo a Trastevere nella parrocchia di S. Crisogono), si contava una guardia pontificale<br />

composta di 600-800 corsi, sciolta nel 1664 a seguito di una sfida sanguinaria con alcune guardie dell’ambasciatore di<br />

Luigi XIV. Tra i corsi passati al servizio della Francia, il più famoso è sicuramente Alfonso d’Ornano, figlio di<br />

Sampiero di Bastelica. Partito dalla Corsica nel 1569, con 300 fedeli, egli risalì la scala della gerarchia militare e<br />

divenne Maresciallo di Francia (1595), dopo aver servito Enrico III ed Enrico IV in tutte le circostanze (Alfonso fu<br />

probabilmente l’istigatore dell’assassinio del duca di Guisa) ed aver amministrato la Guienna (A Bordeaux divenne<br />

sindaco e qui morì di cancrena nel 1610) 35 .<br />

Anche l’emigrazione civile contava numerosi corsi, specialmente a Marsiglia, città d’elezione degli isolani, che qui<br />

costituirono una colonia molto grande 36 . Ma i corsi fecero fortuna anche nella Maremma toscana (Bernardino di<br />

Raffaello), in Spagna alla corte di Filippo II (Francesco Constantini), a Venezia (de Francesco), in Sardegna (la Gallura<br />

è stata colonizzata e coltivata dai corsi esiliati 37 ), in Barberia, con Hassan Corso (ovvero Pietro de Tavera), in Marocco,<br />

dove un Davia Franceschini di Corbara divenne sultano alla fine del XVIII secolo, nelle Antille e nelle Indie come<br />

esploratori delle nuove terre americane.<br />

§ 9. <strong>Il</strong> bilancio: una società divisa ed in crisi<br />

Quando si getta uno sguardo d’insieme sulla realtà corsa del XVIII secolo non bisogna mai perdere di vista la sua<br />

atomizzazione. Una serie interminabile di confini limitava l’orizzonte politico della popolazione: innanzitutto la<br />

divisione dell’isola in Diquà e Dilà dai Monti; divisione, poi, all’interno di questa opposizione geografica e storica, tra<br />

regioni con personalità ben marcate (Castagniccia, Capo Corso, Nebbio, Niolo, Rocca, ecc.) e le 66 pievi, che<br />

definivano allo stesso tempo un territorio, una circoscrizione religiosa ed una comunità morale. La struttura territoriale<br />

mirava ad una regolamentazione e ad un equilibrio funzionale delle attività; gli abitanti erano suddivisi in lignaggi, e<br />

con la loro mediazione gli individui si inserivano nella comunità di villaggio. Questa regolamentazione aveva nello<br />

stesso tempo una valenza economica, politico-amministrativa e sociale. Essa giocava un ruolo essenziale nella vita<br />

quotidiana e mostra il peso delle comunità rurali nei rapporti sociali e nella mentalità isolana.<br />

Una valorizzazione selettiva<br />

La struttura sociale dell’isola, a partire dal XVII secolo, subì l’impatto della riforma economica. La<br />

commercializzazione, promossa da Genova, si caratterizzava essenzialmente con un vasto movimento di dissodamento<br />

e di piantagione arbustiva a vantaggio <strong>dei</strong> proprietari terrieri. La Camera, organo preposto ai finanziamenti, era un<br />

pessimo creditore e, dal 1652, esaurì i fondi. Per poter riempire di nuovo i suoi forzieri, la Serenissima Repubblica<br />

ricorse ad ogni genere di espediente: l’aumento delle imposte 38 e la capitalizzazione del suolo erano quindi finanziate<br />

32<br />

BRAUDEL F., La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris 1966 (2 ed.), vol. I, p. 145. Cfr. pp. 41-46 e 144-146 per<br />

la diaspora corsa nel <strong>Mediterraneo</strong>.<br />

33<br />

Statuti civili, cap. LXXVI; decreti del 1594, 1610, 1613; cfr. GREGORI G.C., Statuti civili e criminali di Corsica, Lyon 1843.<br />

34<br />

I corsi, a Lepanto, erano presso le ciurme <strong>dei</strong> Turchi come nella flotta di Venezia e di Genova. Vedi POMPONI F., La participation des Corses à la<br />

bataille de Lépante, Bastia 1972 e VERGÉ-FRANCESCHI M., Paoli un Corse des <strong>Lumi</strong>éres, Paris 2005, pp. 38-56.<br />

35<br />

Su Alfonso d’Ornano, vedi anche: DE QUENZA J., La fidelitè des Corses à la France: Alphonse d’Ornano, Marechal de France et Henri IV,<br />

«B.S.S.H.N.C.», 3 (1881); CANAULT, Vie d’Alphonse d’Ornano, maréchal de France (Miscellanea, Aix-en-Provence, Bibl. Méjanes).<br />

36 e<br />

Cfr. ANTONETTI P., Les corses à Marseille au XVI siècle cit. e BUSQUET R., GRISONI D., Les Grandes figures corses de Marseille, Marseille 1950;<br />

BARATTER E., DUBY G., HILDESHEIMER E., Le Commerce de Marseille aux XVII e et XVIII e siècle cit. e con GOURY M., Georges Roux de Corse,<br />

l’étrange destin d’un armateur marseillais (1703-1792), Paris 1990.<br />

37<br />

AUDIBERT P., Raccourci des histoires parallèles de la Corse et de la Sardaigne, Avignon 1972; LE LANNOU M., Pâtres et paysans en Sardaigne,<br />

Tours 1941; PROCACCI G., Profilo storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco ai piani di rinascita, Milano 1991.<br />

38<br />

<strong>Il</strong> Libro Rosso di Corsica. Cfr. il decreto del 1657 che rimette a punto i prelievi in natura ed in denaro; il decreto del 1695 che procede ad una nuova<br />

approvazione della “Composta” ed aumenta il “Boatico” a causa delle «angustie in cui si ritrova la… Camera aggravata da molti debiti»; vedi i<br />

documenti conservati all’Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, Jurisdictionalium 219. Utile anche l’opera di GIACCHERO G., Economia e<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

dai corsi, ed in particolare dai più poveri; allo stesso tempo venne lasciata una libertà totale ai notabili, ai detentori di<br />

capitali, che aumentarono le pratiche ipotecarie con le confische e le manomorte sui beni <strong>dei</strong> debitori. Le conseguenze<br />

di questi avvenimenti sono fondamentali per capire la dinamica della vicende dell’isola:<br />

1) la capitalizzazione del territorio ha provocato la diminuzione <strong>dei</strong> terreni a grano e <strong>dei</strong> terreni per il pascolo.<br />

2) La capitalizzazione è responsabile del restringimento delle comunità. L’analisi del Plan Terrier mostra che in<br />

Castagniccia, ad esempio, il 90% delle terre erano in regime di proprietà privata.<br />

3) La capitalizzazione è la causa dell’estremo frazionamento della proprietà, su cui il Plan Terrier insiste fortemente.<br />

Questa frammentazione deriva direttamente dalla commercializzazione del territorio, dalle usurpazioni, dalle confische.<br />

La valorizzazione del suolo ha avuto delle ripercussioni sociali pesantissime. La messa a coltura delle proprietà<br />

notabilari, spesso disperse sul territorio, unita all’obbligazione per i contadini di cercare i mezzi di sussistenza fuori<br />

dalle cerchie familiari determinarono, a causa della mancanza di denaro, un tipo di sfruttamento del territorio ancora<br />

vicino all’economia feudale: la mezzadria. Lamotte lo ha ben mostrato con la piramide sociale di Fozzano: alla sommità<br />

il proprietario, colui che vive nobilmente, che non ha bisogno di lavorare presso altre persone, che ha il potere politico<br />

ed alla base la clientela <strong>dei</strong> lavoratori che la debolezza delle risorse costringe a prendere a mezzadria le terre del<br />

proprietario. La dipendenza in cui si trovano questi mezzadri è contrassegnata dalla struttura stessa del villaggio, in cui<br />

le case si raggruppano attorno a quella del capo clan.<br />

Insomma, la capitalizzazione, minando le basi dell’economia isolana, è responsabile della disgregazione delle strutture<br />

comunitarie. Questa disgregazione si rafforzò con il sistema clanico, basato sulla necessità della sopravvivenza: i corsi<br />

si inserivano nella vita economica della comunità con l’intermediazione del clan e non più con quella del nucleo<br />

familiare. Questa politica agricola ha arrecato altre conseguenze alle regioni con una spiccata vocazione pastorale. I<br />

pastori non erano solamente danneggiati dalla diminuzione <strong>dei</strong> terreni da pascolo all’interno delle comunità, ma anche<br />

da altri fattori:<br />

1) La fissazione <strong>dei</strong> confini delle pievi. All’origine senza dubbio le terre aperte erano la caratteristica predominante,<br />

quanto meno tra pievi contigue 39 . Nel XVII e XVIII secolo, le pievi e le comunità impedivano il passaggio del bestiame<br />

sui terreni aperti per lasciarlo alle mandrie ed alle colture. Questa necessità, sempre più impellente, di vivere sulla<br />

propria terra e di rafforzare l’autarchia economica di ogni regione, accentuata dai particolarismi locali, fece crescere<br />

l’opposizione alla penetrazione straniera, spesso esasperando le tensioni e le rivalità interregionali. Ma questo processo<br />

ha ugualmente spezzato le strade tradizionali della transumanza e quindi aggravato le difficoltà <strong>dei</strong> pastori, che<br />

trovavano sempre meno spazi disponibili nel passaggio tra pievi confinanti.<br />

2) Le misure decretate da Genova con diverse “grida” proseguivano nella stessa direzione 40 . In termini assoluti esse<br />

avevano un carattere positivo, dato che proteggevano le colture ed assicuravano al bestiame delle condizioni di vita<br />

migliori. Ma osservate nel contesto isolano esse colpivano duramente i contadini, obbligati ad indebitarsi per comprare<br />

la paglia o pagare ammende proibitive. <strong>Il</strong> processo d’impoverimento <strong>dei</strong> piccoli coltivatori e <strong>dei</strong> pastori si accelerò<br />

mano a mano che le autorità diventavano meno scrupolose per il rispetto della legge.<br />

Ormai soltanto i notabili potevano consacrarsi all’allevamento su grande scala, perché riuscivano ad applicare la legge<br />

sulla stabulazione e a rimborsare i danni delle loro mandrie 41 . Nelle regioni pastorali si assiste alla proliferazione della<br />

struttura clanica in modo ancora più marcato rispetto alle regioni agricole e con modalità simili al sistema feudale 42 . È<br />

probabilmente questo tipo di sfruttamento che ha perpetuato nel Sud la feudalità e che ha determinato la permanenza di<br />

vecchie strutture agrarie non rintracciabili nelle statistiche sulle ripartizioni delle terre e delle colture.<br />

Una società arcaica<br />

Si possono tracciare le linee portanti della società corsa del XVIII secolo, strettamente connesse agli avvenimenti<br />

politici:<br />

1) l’isola aveva una struttura sociale ancora arcaica 43 . Questa osservazione è valida per tutta l’isola, in cui prevaleva una<br />

società del Settecento genovese, Genova 1981.<br />

39 LAMOTTE P., La structure sociale d’une communauté de la Rocca, Fozzano, «Études corses», 11 (1956), pp. 35-47; ID., Deux aspects de la vie<br />

communautaire en Corse avant 1768, ivi, 9 (1956), pp. 33-62. I Fondi del Civile Governatore abbondano di conflitti tra comunità: vd. Richiesta<br />

affinché la disputa tra le frazioni di Sorbu e Ocagnanu relativa alle terre sia sottomessa all’arbitraggio del Rev. Tomasino Moracchini e di Lazaro<br />

Maria Donati (25 febbraio 1678, C. G., arch. 521), e Lamento portato dal comune di Furiani contro le genti di Oletta che vengono a mano armata a<br />

far pascolare sul territorio di Furiani gli animali, di cui parecchi infetti di mal di lupia (28 luglio 1660). Cfr. Archives départementales de la Corsedu-Sud,<br />

Ajaccio, fondo Civile Governatore, serie C e G.<br />

40 Libro Rosso cit., grida del 20 luglio 1620, pp. 281-283; grida del 7 novembre 1642, pp. 351-356, «B.S.S.H.N.C.», 138-139 (1892). Cfr. Libro Rosso<br />

di Corsica publié par l’abbé LETTERON, «B.S.S.H.N.C.», fasc. 119-120, 139-140, 167-168, 206-208 (1891-1899).<br />

41 <strong>Il</strong> Capitano Renuccio Ornano ottenne l’autorizzazione a far pascolare le sue giumente sul territorio del Fiumorbo pagando una cauzione di 500<br />

scudi in caso di danni alle colture. Vedi Archives Dèpartementales de la Corse-du Sud, Ajaccio, Civile Governatore, Atti Fatti in Visita, C 5.<br />

42 Nel 1713, Vincente Geronimo segnalò al Governatore Spinola di essere il padrone assoluto della comunità d’Olmeto. Vedi Archives<br />

Dèpartementales de la Corse-du Sud, Ajaccio, Civile Governatore, Atti Fatti in Visita C 59; cfr. anche C 46, C 2, ecc. Vedi anche le note di PATIN DE<br />

LA FIZÉLIERE A., nelle sue Mémoire historique sur la Rocca, «Corse historique», 9-10 (1963) a proposito <strong>dei</strong> pastori di Fozzano, uomini della piana,<br />

senza alcun diritto e senza altre risorse se non il loro omaggio ai ricchi proprietari. Cfr. anche le Memoires et Tableaux concernant l’établissement des<br />

patres et bergers dans la partie orientale de l’ile de Corse del 1774: i pastori che conducono le mandrie sono descritti come «i più numerosi ed i più<br />

miserabili».<br />

43 Pomponi F., studiando il libro <strong>dei</strong> conti del convento di San Giacinto di Lota, ha potuto affermare «che nell’insieme emerge un ritmo di vita<br />

rallentato, mediocre sotto molti punti di vista, confermato dalla routine e da una condizione di vita difficile». Cfr. POMPONI F., Une exploitation<br />

rurale en Corse dans la deuxiéme moitié du XVIII e siècle d’aprés le livre de comptes du couvent Saint-Hyacinthe de Lota, in ID., Ankylose de<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 1 – <strong>Il</strong> secolo genovese (1559-1729)<br />

piccola proprietà a gestione familiare simile a quella di San Giacinto. Tuttavia, nel quadro generale, le differenze<br />

regionali erano notevoli. L’analisi delle tecniche rurali ha mostrato la stretta connessione tra gli arcaismi delle forze<br />

produttive e sociali e lo sviluppo nell’isola di settori dell’economia che si possono definire “precapitalistici”. In questa<br />

evoluzione, anche se a diversi gradi, si sviluppò un primitivo processo d’accumulazione di capitale: si trattava di una<br />

fase embrionale, limitata alla terra ed alla rendita, al predominio della piccola proprietà (che esclude per sua natura lo<br />

sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro), alla concentrazione sociale <strong>dei</strong> capitali, all’allevamento su grande<br />

scala, all’applicazione progressiva della scienza e della cultura.<br />

2) Sin dall’origine del processo di valorizzazione del suolo si assiste ad una disgregazione della struttura comunitaria,<br />

dato che essa non poteva bilanciare gli equilibri sociali ed economici. Questa dissoluzione è stata accelerata ed<br />

aggravata dal sistema amministrativo genovese. L’analisi <strong>dei</strong> dati forniti dal Libro Rosso mostra chiaramente come la<br />

Repubblica perseguisse un duplice obiettivo: ridurre la sovranità delle assemblee comunali ponendo alla loro sommità<br />

delle persone devote alla madrepatria; aumentare parallelamente i poteri e le attribuzioni delle autorità genovesi a danno<br />

degli isolani. Questa politica favorì le mosse <strong>dei</strong> notabili in ambito economico, contribuì allo squilibrio delle cellule<br />

sociali primitive ed aumentò il disagio <strong>dei</strong> più poveri. Essa accentuò anche le carestie dell’isola.<br />

<strong>Il</strong> corollario di queste strategie politiche è una grande instabilità sociale, una crescente miseria ed un’ondata di<br />

banditismo e di brigantaggio che si aggrava a partire dal XVII secolo: basta leggere qualche “grida” dell’epoca per<br />

rendersene conto 44 . La distruzione della cellula comunitaria apriva la via alla criminalità, mentre le domande di pascolo<br />

suscitavano le maggiori difficoltà amministrative. La politica di Genova, aggravata dai mali endemici della società<br />

corsa, aveva fatto precipitare ancora più in basso la miseria e l’impoverimento. Due documenti possono farci<br />

comprendere meglio la complessità del fenomeno:<br />

I) l’8 settembre 1669, gli Anziani di Sartena indirizzarono al Governatore imperiale in visita nella loro giurisdizione le<br />

seguenti richieste: 1°) che venga accordata una proroga alla comunità per il rimborso del grano prestato dalla Camera<br />

alle popolazioni afflitte da sette anni di miseria consecutivi; 2°) che i pastori del Taravo e principalmente quelli del<br />

Zicavo siano invitati a non arrecare danni alle colture e di non commettere furti; 3°) che i pesi e le misure della<br />

giurisdizione, troppo numerosi e diversi, siano normalizzati; 4°) che i mercanti non pretendano interessi troppo elevati.<br />

II) Qualche giorno dopo, il 12 dicembre, i Nobili Sei presentarono al Governatore le seguenti richieste per ottenere una<br />

migliore amministrazione della provincia: a) lo sterminio <strong>dei</strong> briganti della regione; b) la misurazione del peso <strong>dei</strong><br />

cereali con il “bacino a raso” e non “a colmo”; c) la fissazione <strong>dei</strong> prezzi <strong>dei</strong> cereali della passata raccolta venduta dai<br />

mercanti; d) la restrizione del numero degli ordini <strong>dei</strong> sequestri accordati ai creditori contro i loro debitori. <strong>Il</strong> confronto<br />

di questi due testi porta automaticamente ad una conclusione: alla struttura di crisi (espropriazione, problema <strong>dei</strong> terreni<br />

da pascolo…) si aggiunsero <strong>dei</strong> catalizzatori che aggravarono la situazione, rendendola esplosiva: i prezzi, la<br />

speculazione, i cattivi raccolti, le tasse, la cattiva amministrazione.<br />

III) In queste comunità rurali, dall’economia arcaica, in preda a contraddizioni economiche e sociali sempre più vive, le<br />

differenze sociali erano ancora più accentuate, i rapporti di classe sempre più apparenti. Essi erano imbrigliati<br />

all’interno di un sistema clanico dominato dai notabili, veri beneficiari della “pace genovese”: non bisogna mai<br />

dimenticare che il sistema clanico smorzava le rivalità sociali, alleviava i lutti, recuperava i malcontenti, impediva le<br />

prese di coscienza e tornava a vantaggio della sola borghesia.<br />

IV) Questa borghesia era essenzialmente rurale. <strong>Dal</strong> punto di vista politico, la Serenissima Repubblica escludeva i<br />

nazionali corsi dalle dignità politiche, dagli uffici e dagli impieghi della loro patria, mentre dal punto di vista economico<br />

i corsi si scontravano con il principio dell’esclusione commerciale. I ricchi produttori non potevano esportare il prodotto<br />

<strong>dei</strong> loro raccolti senza l’autorizzazione governativa; inoltre, il commercio dell’isola era orientato obbligatoriamente<br />

verso Genova, che fissava i prezzi delle derrate ai tassi più bassi. Queste restrizioni limitavano considerevolmente la<br />

potenza finanziaria della borghesia fondiaria corsa, non legata ai commerci, poco dinamica. Conseguentemente,<br />

l’accumulazione di capitale era limitata anche nelle altre attività, come nella rendita <strong>dei</strong> fondi agricoli. Le<br />

aggiudicazioni e la percezione delle imposte dirette o indirette erano riservate ai genovesi; per lo sfruttamento <strong>dei</strong> beni<br />

demaniali nell’isola, la Repubblica faceva appello agli isolani solo in casi estremi, e non permetteva comunque un<br />

campo d’azione remunerativo. Tutto questo ha deviato i notabili dalle attività finanziarie e li ha orientati verso la<br />

proprietà terriera, con una conseguente tesaurizzazione <strong>dei</strong> beni; allo stesso tempo la debolezza tecnologica e le<br />

resistenze comunitarie facevano diminuire i profitti. In pratica questa borghesia rurale non aveva la forza necessaria per<br />

trasformare le strutture economiche e risolvere le contraddizioni della crisi sociale: non aveva i mezzi per favorire uno<br />

sviluppo autonomo e raggiungeva la soddisfazione delle proprie aspirazioni solo tramite favori o tolleranze. L’accesso<br />

alle cariche politiche, amministrative e magistratuali, la libertà commerciale, finanziaria e culturale erano concepibili<br />

solo nel limitato spazio concesso della Repubblica di Genova. Atomizzazione, arcaismo, crisi sociale, debole sviluppo<br />

della borghesia isolana: da qui partirono le fiamme della lotta nazionale, con tutte le sue contraddizioni.<br />

l’économie méditeranéenne, «Cahiers de la Méditerranée», 1974, pp. 73-94.<br />

44 Ecco, ad esempio, quella inviata dal Senato di Genova al Governo il 2 dicembre 1711: «<strong>Dal</strong>l’oratore del Regno presso di noi, Angelo Luigi Matra,<br />

ci è stato esposto essere uno de’ maggiori stimoli a delinquere che abbiano i corsi, il vedersi invadere da loro emoli di propria autorità, e senza licenza<br />

d’alcun giudice, il possesso de’ beni che essi attualmente godono, che però nello Statuto di Corsica sono state proibite con rigorose pene dette<br />

invasioni…atto così criminoso e che partorisce frequentissimi omicidi» (Libro Rosso cit., p. 713).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

CAPITOLO 2<br />

I TESTI POLEMICI DELLA RIVOLUZIONE CORSA:<br />

DALLA “GIUSTIFICAZIONE” AL “DISINGANNO”<br />

§ 1. Introduzione<br />

Nel 1758, dopo quasi trent’anni di ribellione alla Repubblica di Genova, venne pubblicato a Corte un libro in cui i corsi<br />

giustificavano i motivi della loro rivoluzione. Questo libro costituiva il punto d’arrivo d’una lunga discussione interna<br />

tra capi insorti ed ecclesiastici patrioti, quando ormai la lotta contro i genovesi si stava evolvendo verso una fase<br />

conclusiva. Ben presto la Giustificazione 1 divenne la base su cui si sviluppò la propaganda isolana agli inizi degli anni<br />

‘60. Pier Maria Giustiniani, vescovo di Ventimiglia, contrappose a questo libro una sua confutazione ispirata al<br />

principio «non essere mai lecito ribellarsi contro il proprio sovrano per qualunque motivo» 2 . <strong>Dal</strong>la sua mano uscirono le<br />

Riflessioni intorno ad un libro intitolato Giustificazione della rivoluzione di Corsica, e della ferma risoluzione presa<br />

da’ corsi di mai più sottomettersi al dominio di Genova. Cominciava quindi una lunga querelle sul diritto <strong>dei</strong> corsi di<br />

ribellarsi al sovrano legittimo, in caso di aperta ingiustizia. Salvini apre la Giustificazione con uno sguardo<br />

retrospettivo, alla ricerca d’un passato che fosse d’ispirazione e d’aiuto alla solitaria ribellione degli isolani. Innanzi<br />

tutto al mondo classico, alla Grecia e a Roma: Paoli veniva paragonato ad un eroe dell’età classica e proprio in questa<br />

luce verrà visto da Alfieri, Boswell e Symonds. Sotto questo classicismo si avverte la volontà di giustificare una<br />

rivoluzione che era giunta ad una maturazione profonda e che cercava di rispecchiarsi in un passato universalmente<br />

accettato e ammirato. Tutta la polemica contro Genova è anche in lui, come nei precedenti pubblicisti corsi, un continuo<br />

disputare sulle origini e sulle forme prese dal dominio genovese nell’isola. Un punto di riferimento fondamentale per<br />

poter analizzare a fondo le radici storiche della nazione corsa è il rimpianto della nobiltà feudale dell’isola. Una delle<br />

accuse più gravi che Salvini, così come gli altri polemisti, rivolgevano al dominio genovese era di avere osteggiato e<br />

distrutto la classe nobiliare. La Serenissima aveva fatto di tutto per lasciare cadere le famiglie nobili nell’oscurità e nella<br />

miseria. Ultima e finale offesa, Genova aveva vietato agli isolani l’uso stesso <strong>dei</strong> titoli nobiliari e di quelle parole di<br />

distinzione, come ad esempio di “<strong>Il</strong>lustrissimo”, che in Italia si era soliti dare «A’ più semplici cittadini» 3 . In alcuni<br />

punti della Giustificazione vengono narrati episodi della dura lotta tra la nobiltà isolana e i governatori genovesi. Lo<br />

scoppio di passioni feudali all’interno di opere come la Giustificazione urtava contro la realtà effettiva, cioè contro<br />

l’assenza di ogni aristocrazia corsa. La colpa era <strong>dei</strong> genovesi, o comunque essi avevano accelerato questa dissoluzione,<br />

ma restava il fatto che nel momento in cui Paoli prese il potere nell’isola, la classe nobiliare era notevolmente diminuita<br />

e politicamente ininfluente, mentre il notabilato stava acquistando sempre maggiore potere ed influenza, spesso a<br />

scapito delle comunità agro-pastorali dell’interno. La realtà quotidiana del governo di Genova consisteva in una vera e<br />

propria discriminazione <strong>dei</strong> corsi: le cariche politiche erano interdette agli isolani, e il servizio militare non garantiva<br />

possibilità di avanzamento. Perfino la Chiesa s’era piegata a discriminare i corsi: i vescovi dovevano essere genovesi,<br />

mentre ogni ostacolo era frapposto alla formazione del clero. Genova, insomma, finì con l’essere odiata tanto perché era<br />

una Repubblica aristocratica quanto perché era conservatrice, mancante d’iniziativa economica e politica.<br />

L’oppressione più pesante, infatti, non era quella originata dai privilegi <strong>dei</strong> nobili genovesi, ma quella economica. Le<br />

accuse in questo caso si fanno più circostanziate e precise, riflettendo delusioni e dissapori lungamente covati nei<br />

villaggi e nelle famiglie dell’isola. In Corsica la tensione è portata all’estremo dalla distanza sociale che divide i Signori<br />

(notabili, banchieri, mercanti, marinai) e i Giornalieri (contadini, pastori) legati strettamente alla terra e ad un’economia<br />

di sussistenza. Le radici economiche della rivolta sono esaminate da Salvini con particolare accuratezza. <strong>Il</strong> quadro che<br />

egli traccia <strong>dei</strong> privilegi della capitale e dell’immiserimento dell’isola non era dissimile da altre situazioni italiane 4 . Egli<br />

ben conosceva e descriveva, per esperienza diretta, l’attrito, il conflitto che veniva a prodursi tra chi offriva e chi<br />

comprava granaglie, tra i coltivatori dell’entroterra ed i mercanti che dominavano i porti e i presidi. In Sardegna tutta la<br />

macchina per trarre grano dall’isola era controllata da funzionari di Torino e di Cagliari 5 . A Genova, a Bastia, a<br />

Bonifacio, ad Ajaccio, la mediazione statale mancava, o era inefficiente: il conflitto, il sopruso economico erano perciò<br />

tanto più risentiti. Lo sfruttamento dell’isola non avveniva attraverso un sistema di tasse particolarmente gravose: la<br />

ribellione era precisamente cominciata il giorno in cui la Repubblica aveva tentato, piuttosto timidamente, di accrescere<br />

il carico fiscale dell’isola. I traffici commerciali erano basati sul privilegio. Erano i genovesi a fissare i prezzi e questi<br />

erano bassi proprio perché venivano stabiliti per tutti i prodotti sulla base dell’annata trascorsa, che per loro era stata<br />

1<br />

Giustificazione della rivoluzione di Corsica e della ferma risoluzione presa da corsi di mai più sottomettersi al dominio di Genova, Corte 1758.<br />

Genova sospettava che gli scritti in favore <strong>dei</strong> corsi fossero stati stampati a Napoli. Agostino Lomellini, inviato dalla Repubblica, chiese<br />

insistentemente a Tanucci di prendere delle misure in proposito e questi si mostrò disposto ad accontentarlo, pur spiegandogli che, col pretesto di<br />

stampare delle comparse conclusionali, venivano spesso pubblicati degli scritti fuori d’ogni controllo <strong>dei</strong> censori. Cfr. Archivio di Stato di Genova,<br />

Lettere Ministri, Napoli, mazzo 4, 1759-60.<br />

2<br />

FONZI F., Le relazioni fra Genova e Roma nel tempo di Clemente XIII, «Annuario italiano per l’età moderna e contemporanea», VIII (1956), p. 213.<br />

3<br />

Giustificazione cit., p. 160, nota 15. Sull’esautoramento della nobiltà o <strong>dei</strong> principali della Corsica particolarmente importante l’articolo di POMPONI<br />

F., Gênes et la domestication des classes dominantes au temps de Sampiero, «Études corses», 1 (1973), p. 35.<br />

4<br />

Cfr. DAL PASSO F., <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica alla fine del XVIII secolo, «Semestrale di studi e ricerche di Geografia», 1-2<br />

(2002).<br />

5<br />

Cfr. SOTGIU D., Storia della Sardegna Sabauda, 1720-1847, Roma 1984.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

economicamente favorevole. Quanto al grano, la Dominante ne impediva una libera esportazione. Di conseguenza si<br />

abbassavano enormemente i prezzi delle vettovaglie. Genova aveva preso in passato alcune misure per lo sviluppo<br />

agricolo dell’isola, ma solo per poterla sfruttare nella maniera ad essa più vantaggiosa: agli isolani toccava la fatica<br />

della coltivazione, ai genovesi il ricavato. I mezzi di carattere finanziario di cui la Dominante si era servita per questa<br />

sua politica non avevano fatto che inasprire la situazione. I prestiti erano a breve termine: Genova si era dimostrata<br />

incapace di attendere che maturassero i frutti <strong>dei</strong> suoi capitali. L’usura gravava soprattutto sugli abbienti, che soli<br />

avevano possibilità di offrire un qualche pegno. Per loro l’impossibilità di rimborsare i prestiti significava «la<br />

desolazione delle loro case». Al privilegio economico si aggiungeva quello amministrativo: lo sfruttamento dell’isola<br />

avveniva pure attraverso i “nobili poveri” 6 là inviati come magistrati. Anche qui la debolezza dello stato peggiorava la<br />

situazione. Per non pagare i propri funzionari, Genova li faceva mantenere dai corsi. <strong>Il</strong> tentativo e lo sforzo della<br />

rivoluzione isolana per vendicare la terza delle grandi offese che i corsi di Paoli attribuivano a Genova, è sicuramente di<br />

grande rilievo. Accanto all’avvilimento e alla povertà, l’ignoranza. Gregorio Salvini denunciava per primo la volontà<br />

della Repubblica d’impedire ogni scambio culturale tra il clero ed i laici dell’isola. Quanto alle scuole pubbliche,<br />

Genova si era sempre opposta alla loro diffusione, con il fine più o meno dichiarato di chiudere ai corsi l’accesso ad<br />

ogni impiego, nella Chiesa e negli uffici. Quando l’assemblea generale del 26 dicembre 1763 decise di Errigere... in<br />

Corte una pubblica università di tutte le scienze a forma delle migliori università di terraferma… La Corsica aveva<br />

trovato finalmente una degna risposta alla troppo lunga depressione culturale in cui si sentiva mantenuta dalla<br />

dominante 7 . L’università doveva essere il simbolo della raggiunta indipendenza e libertà. <strong>Il</strong> suo statuto intendeva<br />

rispondere puntualmente alle esigenze rimaste fino ad allora insoddisfatte. Oltre alla teologia scolastico-dogmatica e a<br />

quella morale, vi si sarebbero insegnate le istituzioni civili e canoniche, l’etica, la filosofia e la rettorica. Ora, con un<br />

misto d’incitamenti, di privilegi e di proibizioni ci si sforzava, insomma, di creare rapidamente quell’élite culturale di<br />

cui i corsi si sentivano defraudati: <strong>Lumi</strong> e patria stavano alla base dell’università di Corte. Come nel campo politico ed<br />

economico, anche nella cultura la rivoluzione misurava ormai le forze necessarie per rovesciare la tirannide genovese.<br />

Anche per i <strong>Lumi</strong> che portava, la rivoluzione di Corsica era giustificata. Ma che significato poteva assumere il termine<br />

“rivoluzione” nella Corsica della metà del XVIII secolo? Se le radici sociali, economiche e culturali erano evidenti, era<br />

sicuramente più difficile trovare delle giustificazioni politiche alla ribellione, nascoste com’erano tra i risentimenti e le<br />

passioni di un intero popolo. Come già diceva il vescovo Giustiniani rispondendo al canonico Giulio Matteo Natali, nel<br />

1737, i corsi traevano la loro idea di tirannia da san Tommaso e dalla tarda Scolastica <strong>dei</strong> gesuiti spagnoli 8 . Se<br />

spingevano più oltre lo sguardo, erano portati a posarlo sulla polemica antiassolutisica dell’età finale di Luigi XIV.<br />

Salvini attribuiva a Fénelon 9 quella giustificazione della rivoluzione nata dall’oppressione <strong>dei</strong> sovrani che già sopra<br />

abbiamo notato. Pasquale Paoli disse addirittura che «uno <strong>dei</strong> libri molto necessari in Corsica», fin dal 1754, oltre<br />

all’Histoire Romaine di Rollin, era L’Esprit des Lois di Montesquieu. Paoli, infatti, era molto sensibile al problema<br />

della divisione <strong>dei</strong> poteri e alla logica interna delle diverse forme di governo. Ma né Salvini, né altri polemisti corsi<br />

accennano a Montesquieu. Per l’autore della Giustificazione, la rivoluzione corsa viene inquadrata nel diritto di mutare<br />

governo quando esso si dimostri ingiusto e indegno, e cita a questo proposito una lunga serie di ribellioni che vanno<br />

dall’età biblica all’età moderna, con una particolare attenzione al Medioevo. Particolarmente importante è l’accenno<br />

alla rivolta <strong>dei</strong> Paesi Bassi del 1564, esempio che, unitamente a quello degli svizzeri, vediamo spesso citato nelle lettere<br />

di Paoli e che ritroviamo pure sotto la penna di altri polemisti corsi, tanto favorevoli, quanto avversari della<br />

rivoluzione 10 . Assente è la Rivoluzione inglese della metà del Seicento, ma è pure notevole che sia presente invece<br />

quella del 1689 11 .<br />

6 «…Le fâcheux est que ces messieurs-là ont toujours autour d’eux des chanceliers, sous-chanceliers et bas-officiers affamés et très mal payés, sur<br />

lesquels ils se reposent souvent avec trop de confiance et de facilité. Ces sortes de gens s’embarrassant fort peu de les commettre lorsqu’il s’agit de<br />

leurs intérêts particuliers» <strong>Dal</strong>la lettera del Console Coutlet al Ministro di Francia in Genova del 27 aprile 1748, Archives Nationales, Parigi, fondo<br />

Correspondance consulaire, AEB 1 584; per la condizione <strong>dei</strong> «nobili poveri» vedi Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, Jurisdictionalium<br />

219.<br />

7 Ragguagli dell’isola di Corsica per il mese di dicembre 1763. L’esigenza di una università si era già prima affacciata tra gli insorti. Attorno al 1760<br />

vennero scritte queste caratteristiche parole: «Che il Collegio tanto bramato da popoli per insegnare le scienze a 30 o 40 giovani del regno, con la<br />

debita distribuzione delle pievi, città e luoghi, si formi in Corti e si procuri presso la Santa Sede apostolica che siano a detto collegio assegnate tutte le<br />

abbazie, benefici semplici del regno (con una rendita di circa 8500 scudi romani) e che i lettori di detto Collegio debbano essere puri nazionali<br />

corsi…» (Memoria di quello che conferirebbe al regno di Corsica cit. Archivio di Stato di Napoli, Esteri 537, Nazione Corsa, 1736 ai 1773).<br />

8 GIUSTINANI P.M., Risposta ad un libello famoso intitolato Disinganno intorno alla guerra di Corsica scoperto da Curzio Tulliano corso ad un suo<br />

amico dimorante nell’isola, con cui l’autore ha preteso di difendere come lecita la ribellione di alcuni corsi contro la Serenissima Repubblica di<br />

Genova, Friburgo 1737, p. 58.<br />

9 Cfr. FENELON (de) S.F., Les aventures de Telemaque fils d’Ulysse, Paris 1740.<br />

10 <strong>Il</strong> Supremo Consiglio di Stato del regno di Corsica affermava, il 7 settembre 1762, parlando <strong>dei</strong> sacrifici finanziari compiuti dalla nazione: «…cosa<br />

non fecero gli olandesi e i svizzeri senza riandare la storia <strong>dei</strong> romani e <strong>dei</strong> greci?». Estr. da CAMBIAGI G., Istoria del regno di Corsica, s. l. [ma<br />

Firenze], vol. IV: Contenente le cose occorse dal 1755 a tutto il 1771, 1772, p. 71. Cfr. TOMMASEO N., Lettere di Pasquale de’Paoli, «Archivio<br />

storico italiano», XI (1846), p. 31. Olandesi e Svizzeri sono per Paoli due popoli che hanno saputo costruire in mezzo a mille difficoltà, partendo da<br />

un paese povero: «I poveri olandesi non hanno tratto la loro sussistenza sopra il mare? Instabilissimo elemento! I svizzeri non hanno piantato il piede<br />

in ripidissime montagne, ove ogni cosa minaccia rovina e caduta?» (Lettres de Pascal Paoli cit., vol. III, 1890, p. 60, lettera a Mariani, da Patrimonio,<br />

26 aprile 1765). Paoli chiede spesso all’Inghilterra di fare per la Corsica quello che essa operò per stabilire la libertà dell’Olanda. «L’Olanda – scrive<br />

a Giorgio III -, deve la sua libertà e la felice sua costituzione alla generosità della nazione inglese», ivi, vol. II, p. 450.<br />

11 A Cromwell, del resto, pensò di frequente lo stesso Paoli quando, in mezzo alle fazioni, i complotti, le battaglie, gli veniva fatto non solo di<br />

giustificare, ma di esaltare la forza delle rivoluzioni: «Le guerre civili guariscono i pregiudizi delle nazioni e, quando sono finite, le rendono più<br />

rispettabili ed il governo ne diviene più forte. A questa verità deve la maggior parte delle vittorie di Luigi XIV, Cromvello e Guglielmo III» (Lettres<br />

19


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

In compagnia di questi antenati la Corsica si sente meno sola. La rivoluzione non è la prima avvenuta nel mondo, e trae<br />

anch’essa la sua origine, come afferma Salvini, dalla medesima radice di ogni altra rivoluzione: l’oppressione, la<br />

tirannia, l’incapacità <strong>dei</strong> governanti. La sua giustificazione è tanto più facile e naturale quanto più egli, allontanandosi<br />

nel passato, risale verso un mondo feudale e comunale. Nonostante la maturazione a cui era giunto il pensiero politico<br />

degli isolani ribelli, si trattava spesso, per gran parte di loro, e ancora per Salvini, non di affermare un generale diritto<br />

alla libertà, ma di continuare a rivendicare quella costituzione che la Corsica aveva posseduto nel passato e di cui era<br />

stata defraudata da Genova. L’isola non era terra di conquista, ma aveva una propria organizzazione tradizionale. La<br />

Repubblica era tirannica proprio perché aveva violato ed offeso quella tradizione 12 . Paoli, che aveva gusto e cultura<br />

giuridica, rievocò spesso l’esistenza di una tradizionale costituzione del governo di Corsica, sulla quale si era basata la<br />

“convenzione” che aveva legato l’isola a Genova. Perché non riprendere allora questa tradizione costituzionale e<br />

battersi per ristabilire una simile bilancia <strong>dei</strong> poteri? Qualcuno pensò ai pays d’état della Francia 13 . Altri all’esempio<br />

delle due altre isole italiane, Sardegna e Sicilia, che mantenevano i loro parlamenti ed erano soggette ai rispettivi<br />

sovrani attraverso un complesso sistema di statuti e di privilegi. In Corsica, il ricordo della partecipazione dagli isolani<br />

al governo <strong>dei</strong> genovesi continuò ad essere sempre presente, ma con Paoli e la sua generazione apparve sempre più<br />

evidente il baratro che divideva questa più o meno mitica costituzione dalla realtà presente. Alla supposta struttura<br />

giuridica iniziale era impossibile rifarsi perché Genova l’aveva cancellata e distrutta con le proprie mani: non aveva<br />

rispettato la dignità <strong>dei</strong> rappresentanti. Così, malgrado questi ricordi e progetti, il governo <strong>dei</strong> corsi, negli anni ‘60, non<br />

fece alcun tentativo per restaurare la mitica costituzione tradizionale. Lo Stato che usciva dalla rivoluzione fu in realtà<br />

nuovo nella forma e nella struttura 14 . <strong>Il</strong> legame maggiore che esso conservò con il passato – e la cosa è fondamentale –<br />

non stette al vertice, ma alla base, nelle pievi e nell’assemblea generale. L’amministrazione locale fu il riflesso e il<br />

risultato del modo con cui era venuto formandosi il nuovo Stato, attraverso l’aggregazione, diversa di caso in caso, delle<br />

vallate, terre e località dell’isola. Le pievi furono, infatti, legate al centro attraverso il continuo controllo che su di esse<br />

esercitava il nuovo Stato. Nell’organizzazione della Consulta a Corte confluì la convinzione di Paoli che era necessario<br />

rispettare l’«indole del popolo», e l’idea, maturatasi in lui da tutta la sua esperienza così come dalla sua cultura classica<br />

e moderna, che il governo popolare era «il più confacevole alla natura umana» 15 . Ciò che balza immediatamente agli<br />

occhi, al di là della successiva piega che prese la rivolta corsa, con l’assunzione del governo da parte di Pasquale Paoli e<br />

della creazione della Dieta, è che dietro l’apparente unità della rivolta isolana si celavano profonde differenze tra le<br />

varie forze, in particolare tra i piccoli coltivatori e i residui della vecchia feudalità, sugli obiettivi della lotta. In tal senso<br />

la Giustificazione ed il Disinganno, come gli altri testi giustificativi anonimi, rappresentarono fondamentalmente la<br />

voce di alcune fazioni, non dell’intero popolo. <strong>Dal</strong> punto di vista teorico, poi, i testi in esame possono essere collocati<br />

nel filone del pensiero cattolico che, difendendo le prerogative e i privilegi della Chiesa romana e in polemica con<br />

l’assolutismo <strong>dei</strong> sovrani, tendeva a ricondurre la potestà <strong>dei</strong> monarchi nell’ambito del diritto naturale, ammettendo il<br />

diritto alla ribellione da parte <strong>dei</strong> sudditi per gravi e motivate ragioni 16 . <strong>Il</strong> giusnaturalismo cristiano ripreso da Suarez ne<br />

rappresenta il supporto filosofico. Esso unisce la corrente rivendicazione dell’isola a porsi sotto la protezione della<br />

Chiesa con il curialismo dominante e contribuisce a mantenere la vitalità del pensiero giusnaturalista cristiano nel<br />

Settecento italiano. A questo proposito si pongono diversi problemi, che riguardano la collocazione del diritto naturale<br />

cristiano, così come fu propugnato dai corsi, nell’età dell’<strong>Il</strong>luminismo.<br />

<strong>Il</strong> XVIII secolo fu l’età del dispotismo illuminato e della sua lotta contro i privilegi e le prerogative della Chiesa. <strong>Il</strong><br />

giusnaturalismo cristiano, rifacendosi in particolare a Suarez, che nel XVI secolo si era opposto in funzione<br />

antiprotestante alla concezione teocratica dello Stato 17 , riaffermava i diritti della Chiesa in polemica col sovrano<br />

de Pascal Paoli cit., vol. II, p. 151, da Vescovato, 22 aprile 1761).<br />

12<br />

Erano le idee che stavano alla base della rivoluzione isolana nella sua fase iniziale, negli anni ’30. Cfr. soprattutto l’Argomento giustificativo le<br />

ragioni de’ corsi intorno alla loro intrapresa contro la Serenissima Repubblica di Genova del 28 settembre 1737, in CAMBIAGI G., Istoria del regno<br />

di Corsica, s. l. 1771, vol. III, p. 137. Una copia manoscritta di quest’opuscolo si trova all’Archivio di Stato di Genova, Corsica, f. 1368, 1751 in<br />

1760. Vedi anche l’articolo di ETTORI F., Le congrés des théologiens d’Orezza (4 mars 1731). Mythe et relité, «Études corses», I (1973), pp. 71 sgg.<br />

13<br />

L’autore della Descrizione geografica spiegava che nel trentennio seguito alla partenza di Alfonso d’Ornano per la Francia (1569) «si trovavano<br />

tutti i veri motivi della presente guerra di Corsica» (p. 37) e «che al centro del governo corso d’allora stava un’assemblea generale, che seduta<br />

generale chiamavano». Ed ancora: «in essa trattavano degli inconvenienti a rimediare, <strong>dei</strong> vantaggi a promuovere, delle leggi a stabilire; si parlava<br />

delle strade, <strong>dei</strong> ponti, della coltivazione, del commercio, delle cause e dell’occasioni <strong>dei</strong> delitti e <strong>dei</strong> disordini, tutto il politico ed economico v’era<br />

ben esaminato, vi prendevano le deliberazioni sopra le domande della Repubblica e <strong>dei</strong> suoi commissari: così fanno li stati di Provenza, Linguadoca,<br />

Béarn, Borgogna e Artesia sotto il più potente di tutti i re» (p. 43). Discuteva poi minutamente il meccanismo amministrativo <strong>dei</strong> «Nobili Dodici, <strong>dei</strong><br />

Sei, degli Oratori», i quali insieme «conservavano con gelosia e attenzione la libertà <strong>dei</strong> popoli» (p. 44). L’abate GERMANES nel terzo volume della<br />

sua Histoire des révolutions de Corse depuis ses premiers habitans jusqu’ à nos jours, Demonville, Paris 1776, dirà che in Francia «c’è stata la<br />

questione di mettere la Corsica come paese di Stato» (p. 32) e cercherà di dimostrare che la Corsica, dopo il 1769, era stata posta «al rango delle<br />

grandi province di Francia più privilegiate», diventando essa pure un «paese di Stato», ivi, p. 157.<br />

14<br />

Cfr. CARRINGTON D., The Corsican constitution of Pasquale Paoli (1755-1769), «The English historical Review», vol. LXXXVIII, 348 (luglio 1973),<br />

pp. 481 sgg., fondato su interessanti documenti dell’archivio di Ajaccio; ID., L’ordinamento costituzionale della Corsica durante il regime di<br />

Pasquale Paoli, «Critica Storica», n. s., XI 4 (1974), pp. 62 sgg. ed ID., Le texte original de la constituion de Pasquale Paoli, «B.S.S.H.N.C.», 619-<br />

620 (1976), p. 7 e sgg.<br />

15<br />

Paoli discusse di questi problemi con lo storico e agronomo inglese John Symonds, nel 1767.<br />

16<br />

Sulle correnti del diritto naturale cristiano vedi BULFERETTI L., L’assolutismo illuminato in Italia, Milano 1944, pp. 369 sgg., e JEMOLO A.C., Stato<br />

e Chiesa negli scrittori italiani del Seicento e del Settecento, Torino 1914, pp. 33 sgg.<br />

17<br />

Si veda, a questo proposito, VON GIERKE O., Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Torino 1943, pp. 67<br />

sgg.<br />

20


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

assoluto. Ma, nel quadro spirituale della seconda metà del secolo, quando già cominciavano embrionalmente ad<br />

apparire i limiti e l’angustia delle realizzazioni dell’assolutismo illuminato e nascevano nuovi ideali democratici che<br />

avrebbero trionfato, a fine secolo, con la Rivoluzione francese, il giusnaturalismo che i corsi portavano avanti acquisiva,<br />

specchiandosi nell’incandescente realtà dell’isola, nuova veste e nuovo significato. Distaccandosi da quella petizione di<br />

formule intese per lo più alla difesa <strong>dei</strong> privilegi della Chiesa, caratteristiche della maggior parte degli scrittori<br />

ecclesiastici del Settecento e fondendosi con un reale moto per il progresso umano, esso diventava, nel fondo, autonomo<br />

dalla lotta della Chiesa contro la concezione teocratica dello Stato. Sposandosi a una rivolta popolare che racchiudeva in<br />

sé, contraddittoriamente, tanta parte <strong>dei</strong> motivi che agitavano il pensiero politico settecentesco, la sua difesa del diritto<br />

di ribellione si storicizzava, ed entrava a far parte, sia pure da una posizione autonoma ed appartata, di quel vasto e<br />

variopinto panorama di sollevazioni di pensiero che si agitava sotto la coltre relativamente uniforme dell’assolutismo<br />

degli anni Sessanta. Filone di pensiero, dunque, autonomo ed appartato, ma non estraneo ai travagli e alle crisi della<br />

seconda metà del secolo. Detto questo, vanno verificati i rapporti di questo filone con il pensiero illuminista e con gli<br />

altri settori del pensiero giusnaturalista cristiano del secondo Settecento 18 . Va valutata, infine, la collocazione politica<br />

che il giusnaturalismo <strong>dei</strong> corsi assunse nell’ambito del pensiero del secondo Settecento, tenendo presente l’intreccio di<br />

eversione e di cautela che lo caratterizzò: in primo luogo, teorizzare il diritto di rivolta applicandolo ad una situazione<br />

concreta ed incandescente come quella della Corsica significava, nella seconda metà del XVIII secolo, precorrere i<br />

tempi, perché l’insofferenza o la rivolta intellettuale di filosofi e riformatori nei confronti dell’assolutismo illuminato<br />

non era ancora arrivata a un punto di rottura così radicale. Ma in secondo luogo, mettendo in rilievo non le masse<br />

contadine in armi, non la rivolta antifeudale e libertaria, ma la partecipazione <strong>dei</strong> Primati alla rivolta, il giusnaturalismo<br />

corso mostrava un fondo conservatore che si ritrova, sotto altre forme, in alcuni scrittori ecclesiastici dell’epoca di Pio<br />

VI, e in una parte <strong>dei</strong> cattolici democratici di fine secolo 19 .<br />

§ 2. Analisi <strong>dei</strong> testi giustificativi<br />

La storiografia sulla rivolta della Corsica nel ‘700 ha in sostanza eluso alcuni nodi storici rappresentati dal Disinganno<br />

di Giulio Matteo Natali e dalla Giustificazione di Gregorio Salvini 20 e non perché abbia ritenuto privi di importanza per<br />

il corso degli eventi questi due testi: tutti gli studiosi fanno in qualche modo riferimento agli scritti <strong>dei</strong> patrioti corsi. Più<br />

semplicemente, è mancata l’indagine approfondita per un avvenimento storico-politico che si lega con decine di<br />

sottilissimi fili, a volte quasi invisibili, ai fatti di un’Europa ricca di straordinari mutamenti. Per quaranta anni, fino al<br />

1769, in Corsica si combatte una guerriglia sfiancante, che i corsi adottano, dal 1755 sotto la direzione unica del<br />

generale Pasquale Paoli, contro le truppe genovesi, affiancate prima da rinforzi austriaci e poi francesi. Intorno a questa<br />

impari guerra, si intrecciano interessi spagnoli, francesi, austriaci, inglesi, sabaudi, toscani, napoletani e romani. E in<br />

questo groviglio, Natali e Salvini, due ecclesiastici corsi, tentano di promettere e propagandare con i loro scritti l’idea di<br />

indipendenza di un popolo governato per secoli secondo un’ottica coloniale. <strong>Il</strong> giudizio di Venturi quando scrive che,<br />

per Salvini e per “gran parte” degli altri capi rivoltosi, si tratta «non di affermare un generale diritto alla libertà, ma di<br />

continuare a rivendicare quella costituzione che la Corsica aveva posseduto nel passato e di cui era stata defraudata» 21<br />

sembra riduttivo. Gli appelli per l’indipendenza e per la libertà dal dominio genovese sono dati di fatto nel Disinganno e<br />

ancor più nella Giustificazione: appelli generali e specifici. Certamente, Natali e Salvini non rappresentano le<br />

aspirazioni di tutto il popolo corso. I due ecclesiastici non nascondono affatto le loro tendenze politiche filomonarchiche<br />

e filo-aristocratiche. Ciò non esclude che essi, seppur dal loro punto di vista, partecipino alla rivolta e<br />

svolgano un ruolo importante. Per questo sembra azzardato il giudizio di Venturi secondo cui «la volontà aristocratica<br />

esprimeva l’aspirazione a trovare quelle garanzie e quegli sbocchi che la Serenissima negava a tutti gli isolani e<br />

dispensava con mano particolarmente avara ad alcuni di loro» 22 . Più equilibrato è il giudizio di Bordini, secondo cui<br />

Natali e Salvini rappresentano «un’ala» della rivolta in quanto il contenuto politico <strong>dei</strong> due scritti «si differenzia<br />

notevolmente rispetto ad alcune innovazioni di fatto che la rivolta operò nel tessuto politico corso» 23 . Sostanzialmente<br />

imprecisa è la critica di conservatorismo culturale che Venturi ed Emmanuelli muovono ai due ecclesiastici, in<br />

particolare a Salvini, autore dell’opera più importante. Natali e Salvini, per giustificare la rivolta di fronte a Roma e di<br />

18<br />

Non sembra che i testi polemici di parte corsa possano essere avvicinati a quella corrente di «illuministi cattolici», fiorita particolarmente in<br />

Toscana, che sono stati in modo più particolare studiati da CODIONOLA E., <strong>Il</strong>luministi giansenisti e giacobini nell’Italia del Settecento, Firenze 1947,<br />

pp. 48-68, e questo soprattutto perché la maggior parte degli illuministi cattolici erano mossi da interessi prevalentemente religiosi e culturali («In loro<br />

prevale l’interesse spregiudicato del ricercatore, dell’erudito, dello storico o per lo meno una disinteressata curiosità intellettuale» (CODIONOLA E., op.<br />

cit., p. 51) mentre l’interesse politico è quello predominante nei testi polemici di parte corsa. La differenza principale che li separa, inoltre, risiede nel<br />

fatto che gli illuministi cattolici gravitano per lo più nell’ambito del dispotismo illuminato mentre i testi polemici teorici di parte corsa (così come,<br />

seppur generalmente per mere ragioni di polemica curialista, facevano tutti gli scrittori di diritto naturale cristiano) tendevano già, seppur in modo<br />

autonomo e insieme contraddittorio, a superarlo, giustificando la rivolta in armi contro il sovrano.<br />

19<br />

Sull’importanza e insieme sui limiti del movimento <strong>dei</strong> cattolici democratici di fine secolo si veda GIUNTELLA V.E., Cristianesimo e democrazia in<br />

Italia al tramonto del Settecento (appunti per una ricerca), Estratto dalla «Rassegna Storica del Risorgimento», A. XLII. Fasc. II-III (Aprile-Settembre<br />

1955).<br />

20<br />

NATALI G.M., Disinganno intorno alla guerra di Corsica scoperto da Curzio Tulliano còrso ad un suo amico dimorante nell’isola, Colonia 1736;<br />

SALVINI G., Giustificazione della rivoluzione di Corsica e della ferma risoluzione presa da’corsi di non sottomettersi mai più al dominio di Genova,<br />

Oletta 1758.<br />

21<br />

VENTURI F., Pasquale Paoli e la rivoluzione di Corsica, «Rivista storica italiana», LXXXVI (1974), p. 23.<br />

22<br />

Ivi, p. 15<br />

23<br />

BORDINI C., Rivoluzione corsa e <strong>Il</strong>luminismo italiano, Roma 1979, nell’Appendice, p. 182.<br />

21


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

fronte al popolo corso, usano le argomentazioni del giusnaturalismo cristiano, corrente di pensiero cattolica nata nei<br />

primi secoli del cristianesimo e rinvigoritasi nel ‘500 in seguito alla riforma protestante, secondo cui «è lecito abbattere<br />

il Principe quando questi diventi Tiranno». Una teoria che la Chiesa ha spesso interpretato non tanto come una forma di<br />

rispetto per l’indipendenza <strong>dei</strong> popoli, quanto piuttosto come strumento di pressione sui Principi. Per Venturi,<br />

«l’arretratezza della loro cultura li portò [i corsi] a guardare alle discussioni medievali» 24 : un giudizio che, abbandonato<br />

a se stesso, appare troppo limitativo, dato che le argomentazioni del giusnaturalismo cristiano erano usate,<br />

paradossalmente, per sostenere una rivolta. Rivolta che non era estranea ai temi dell’<strong>Il</strong>luminismo ma che ci si inseriva<br />

con un suo modo tutto peculiare. Più precisa è l’accusa di conservatorismo culturale espressa da Emmanuelli, secondo<br />

cui «est frappant, en effet, de ne trouver sous leur plume aucune référence aux notions clés de la philosophie des<br />

lumières» 25 . Tutte le critiche dello storico corso sono incentrate su questo tema, con una certa forzatura: è errato<br />

sovrapporre schemi altrui (in questo caso quelli del pensiero del secolo <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong> e <strong>dei</strong> suoi filosofi) ad una realtà ben<br />

diversa di cui soprattutto non si vedono le caratteristiche specifiche e le peculiarità. Salvini, pur non facendo riferimenti<br />

a nessun filosofo contemporaneo, propone per l’economia della futura nazione corsa misure che si possono inscrivere<br />

tra le teorie e le tendenze settecentesche: chiede, infatti, prospettive di sviluppo fisiocratiche ed un liberismo economico<br />

che ha nella libertà di commercio il suo punto di forza, in antitesi al severo sistema doganale e vincolistico genovese. È<br />

quindi importante sottolineare l’apertura all’età <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong> di queste due opere, e della Giustificazione in particolare,<br />

tanto più sensibile considerando la marginalità e la chiusura dell’ambiente culturale della Corsica, ravvivato soltanto da<br />

chi rientrava in patria dopo aver studiato nelle università straniere.<br />

§ 3. <strong>Il</strong> ruolo del clero corso nella rivolta<br />

Nel XVIII secolo, la Corsica presentava un quadro di notevole arretratezza sociale ed economica rispetto alla situazione<br />

degli altri stati italiani. La dominazione colonialista di Genova e i tenui legami con il resto del continente avevano<br />

contribuito a depauperare l’isola già di per sé priva di grandi risorse naturali. La cultura era solo religiosa: in Corsica,<br />

gli ecclesiastici rappresentavano l’elite culturale; tra loro Pasquale Paoli trovò i quadri intellettuali che fornirono un<br />

sostegno sociale, politico e diplomatico decisivo. Giulio Matteo Natali e Gregorio Salvini furono tra gli esponenti<br />

religiosi di maggior rilievo a partecipare alla rivolta, cui aderì in forme diverse soprattutto il basso clero isolano.<br />

L’importanza del ruolo del clero corso era segnalata dalla decisione della Serenissima che, nel 1730, istituì un nuovo<br />

tribunale competente per processare gli ecclesiastici colpevoli di partecipare, con proclami o in armi, al sollevamento<br />

anti-genovese. Ci fu adesione soprattutto fra i preti e i frati francescani. Diverso l’atteggiamento della maggioranza<br />

degli alti prelati: i vescovi dell’isola dovevano la loro elezione all’influenza delle Serenissima e ad essa giuravano<br />

fedeltà; molti erano genovesi e più volte, nel corso di quegli anni, l’episcopato dell’isola condannò la rivolta<br />

ammonendo basso clero e fedeli a tornare all’ordine voluto da Genova. La prudenza della Serenissima non bastò però a<br />

creare una Chiesa sottomessa. Due motivi storici indebolirono i legami tra la madrepatria e l’isola: il declassamento del<br />

clero corso rispetto a quello genovese (unito, più in generale, ad una politica di rapina della città verso l’isola) e i<br />

rapporti che legavano la Corsica a Roma. Nel 1730, un anno dopo l’inizio della rivolta, i corsi inviarono a Roma presso<br />

Clemente XII il canonico Erasmo Orticoni per riaffermare la fedeltà del popolo isolano e per chiedere aiuti. La risposta<br />

negativa di papa Corsini fu solo un atto di prudenza politica: in realtà, Roma teneva sempre sotto osservazione la<br />

vicenda della Corsica anche per l’interessamento di alcuni ecclesiastici corsi lì residenti, e influenti come Natali,<br />

nominato vescovo di Tivoli. <strong>Il</strong> clero corso si rese anche conto che il Papa non poteva non guardare preoccupato alla<br />

situazione religiosa dell’isola. Genova, nella sua lotta contro i preti ribelli, ignorava con disinvoltura le immunità<br />

personali del clero e cercava di sottomettere a sé gli ordini religiosi dell’isola, minacciando severi provvedimenti; solo i<br />

gesuiti erano esclusi da questo trattamento perché non partecipavano alla rivolta.<br />

La vera svolta per l’adesione del clero alla rivolta avvenne il 4 marzo 1731. Quel giorno, a Orezza, convennero venti<br />

ecclesiastici tra i più qualificati dell’isola; dieci regolari (di cui nove francescani) e dieci secolari, esclusi naturalmente i<br />

gesuiti per la loro fedeltà a Genova. L’assemblea, in cui per la prima volta si metteva in causa la sovranità della<br />

Repubblica sull’isola, fu convocata dopo che i capi della rivolta, i generali Ceccaldi e Gaffori, vennero a sapere della<br />

richiesta d’aiuto di Genova all’Imperatore. Tutti erano chiamati a rispondere a otto domande per stabilire se la<br />

Serenissima fosse ancora Principe oppure Tiranno e se fosse lecita, in quest’ultimo caso, la guerra. <strong>Il</strong> congresso<br />

d’Orezza è passato alla storia come il primo momento di vera rottura tra i rivoltosi e la Serenissima: forse anche il più<br />

importante, perché a “giustificare” la guerra erano degli esponenti della Chiesa in piena sintonia con il curialismo<br />

romano, che appunto non li sconfessò.<br />

Per dare un giudizio sui risultati del congresso 26 , converrà riportare le otto domande e le otto risposte:<br />

1) D. II governo genovese può essere qualificato come tirannico?<br />

R. Bisogna trattare amichevolmente con il Principe: è il modo per rimediare agli abusi.<br />

2) D. Nel caso in cui questo governo sarà dichiarato tiranno, sarà lecito e giusto impiegare contro di esso le armi<br />

difensive e offensive, se ce ne sarà bisogno?<br />

24 VENTURI F., op. cit., p. 21<br />

25 EMMANUELLI R., Disinganno, Giustificazione et philosophie des <strong>Lumi</strong>ères, «Études corses», 2 (1974), p. l07.<br />

26 Gli storici generalmente concordano nel riconoscere alla posizione <strong>dei</strong> venti ecclesiastici estrema fermezza nei confronti di Genova. Diversa è<br />

l’opinione di ETTORI F., secondo cui la «reputazione di intransigenza <strong>dei</strong> teologi di Orezza» è un mito. Lo sostiene nell’articolo Le congrés des<br />

théologiciens d’ Orezza (4 mars 1731). Mythe et réalitè, «Études corses», 1 (1973), pp. 77-86.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

R. Noi dobbiamo attendere le decisioni del Principe, con pazienza, se c’è bisogno.<br />

3) D. Si può sperare che il governo genovese possa divenire giusto e utile per il Regno?<br />

R. Si deve sperarlo.<br />

4) D. Conviene che gli ecclesiastici si uniscano alla Consulta per domandare, nel nome della Corsica, la soddisfazione<br />

delle richieste già fatte o da fare?<br />

R. Si, ma con la più grande umiltà.<br />

5) D. Supponendo che il governo genovese accordi le richieste e prometta di rispettare le concessioni, è prudente<br />

fidarsi di queste promesse?<br />

R. La Nazione deve restare armata, a scanso di qualche sorpresa.<br />

6) D. E se non si può sperare che i genovesi rispettino le concessioni accordate, è lecito e giusto stabilire un nuovo<br />

sistema di governo?<br />

R. La Nazione deve restare unita.<br />

7) D. È permesso farsi risarcire per le perdite subite da Genova?<br />

R. Non bisogna mai mancare di rispetto al Principe.<br />

8) D. Qual è il parere dell’assemblea sul “quid agendum hic et nunc”?<br />

R. Se la Repubblica si ostina a rifiutare le richieste, bisogna sostenere la guerra e, a più forte ragione, se essa viene, a<br />

forze spiegate, a opprimere i popoli.<br />

II messaggio che i venti ecclesiastici inviavano alla Serenissima era limpido. Rispettosi nelle forme (risposte 2, 4 e 7),<br />

sostengono compatti una posizione di fermezza nelle trattative affinché la Serenissima, di cui riconoscono senza<br />

incertezze gli abusi, esaudisca le giuste richieste del popolo corso. Per questo motivo, la Corsica deve rimanere armata<br />

(risposta 5) evidenziando così una mancanza di fiducia nelle reali intenzioni di Genova: formula diplomatica, da<br />

tradurre nella convinzione che la guerra era considerata inevitabile e andava appoggiata. Un punto di vista ancora più<br />

esplicito nell’ottava risposta che, appunto, chiude il documento del congresso. Si deve anche dire che, a Orezza, la<br />

Serenissima non fu bollata come Tiranno, era ancora Principe; e, secondo la dottrina tomista cui si ispiravano i venti<br />

ecclesiastici, la guerra è giusta solo se il Principe diventa Tiranno. Formalmente, il congresso non arrivò a questa<br />

conclusione ma diede spazio soltanto alle premesse del tomismo, secondo cui si può giungere alla guerra solo se il<br />

Principe continui a opprimere senza dare ascolto alle giuste e ripetute richieste di giustizia del suo popolo. <strong>Il</strong> motivo di<br />

questa posizione è sottilmente diplomatico: i capi della rivolta corsa avevano buone ragioni per mostrare all’Europa che<br />

il sollevamento nell’isola era causato dalla politica oppressiva di Genova: se i corsi prendevano le armi, lo facevano<br />

perché la Repubblica rifiutava tutte le loro giuste richieste. Roma seguì attentamente l’evoluzione della rivolta, ma non<br />

poteva intervenire direttamente senza provocare le ire di Genova, che pretendeva dalla Chiesa romana un’aperta<br />

sconfessione della causa <strong>dei</strong> rivoltosi e il ristabilimento dell’autorità <strong>dei</strong> vescovi - filogenovesi - in esilio. Né<br />

mancavano le pressioni di Paoli, che non cessava di richiamare l’attenzione di Roma sulla Corsica, chiedendo l’invio di<br />

un Visitatore apostolico che potesse rendersi conto personalmente della grave situazione esistente. La visita, per i corsi,<br />

avrebbe dovuto avere il valore di un avallo alla rivolta: mossa politica che non sfuggì a Genova, contraria da sempre a<br />

una simile eventualità. Ma il 31 luglio 1759 la commissione incaricata da Clemente XIII di vagliare la situazione, diede<br />

parere favorevole per l’invio di un Visitatore in missione esclusivamente religiosa sull’isola. La risposta di Genova fu<br />

violentissima: al “no” secco, aggiunse un tentativo di blocco navale per far sì che l’inviato di Roma non potesse<br />

sbarcare e addirittura mise una taglia da pagare a chi lo avesse catturato e consegnato alla Repubblica. Nell’aprile del<br />

1760, Cesare Crescenzio De Angelis, Visitatore apostolico, arrivò in Corsica: da quel momento, i conflitti<br />

giurisdizionalisti fra Genova e Roma, covati a lungo dietro alla questione corsa, si inasprirono irrimediabilmente. Nei<br />

suoi quattro anni di lavoro, il Visitatore apostolico tentò di riassestare la situazione religiosa dell’isola. Riuscì - almeno<br />

formalmente - sulla questione delle nomine, decise non più dal governo rivoluzionario ma da «sé medesimo»; si scontrò<br />

con Paoli soprattutto sulle questioni finanziarie 27 . La guerra aveva bisogno di nuove entrate e il Generale non si faceva<br />

scrupoli nel tassare gli ecclesiastici, decisione che Roma e il suo inviato sull’isola non potevano ammettere. Logoranti<br />

furono le trattative e forti le tensioni tra le due parti, testimoniate dalla corrispondenza tra De Angelis e il segretario di<br />

Stato Torregiani.<br />

§ 4. <strong>Il</strong> “Disinganno” di Giulio Matteo Natali<br />

Giulio Matteo Natali scrive il suo Disinganno intorno alla guerra di Corsica scoperto da Curzio Tulliano còrso ad un<br />

suo amico dimorante nell’isola nel 1736, cinque anni dopo il congresso <strong>dei</strong> teologi corsi d’Orezza. Abbattere il principe<br />

perché tiranno è il motivo ricorrente del Disinganno, opera con cui Natali si propone di dare una giustificazione teorica<br />

alla rivolta corsa. II diritto naturale cristiano è lo strumento di cui l’autore si serve per giustificare il diritto di rivolta<br />

nell’isola, attingendo a piene mani dal giusnaturalismo cristiano di Francisco Suarez 28 , esponente principale, nel XVI<br />

27 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, fondo Segreteria di Stato, serie Corsica, fascicoli 8 e 9 ed Archivio di Stato di Roma, fondo Congregazione degli<br />

Spogli, buste 132 e 133; fondo Camerlengato, parte I, busta n. 47 (1816-1823) I. affari esteri, disposizioni e regolamenti, fogli 6 e 7, nota <strong>dei</strong> consoli<br />

pontifici nei paesi europei, Genova.<br />

28 Operazione ancora più evidente nel seguente passo: «L’ubbidire a Regnanti, come insegna l’incomparabile Agostino, è legge universale bensì, ma<br />

dagli uomini istituita. Vero è che questa legge talvolta Divina s’appella, o perché come necessarissima al mondo è stata da Dio approvata, o perché<br />

ogni bene da Dio ci deriva; ma è altresì indubitato, che Umana si chiama dal Principe degli Apostoli. Infatti volle Iddio egli stesso eleggere nel suo<br />

Popolo alcuni Principi; non però volle mai, che senza il libero, e volontario consenso del medesimo popolo fossero come tali riconosciuti per<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

secolo, di quel curialismo che anima la posizione ufficiale della Chiesa cattolica di fronte all’assolutismo monarchico,<br />

in nome della difesa <strong>dei</strong> privilegi e delle prerogative della Chiesa romana. Per dimostrare la superiorità della Chiesa<br />

sullo Stato, il curialismo afferma che l’origine diretta della sovranità è puramente umana, le leggi sono valide solo se<br />

accettate dal popolo, il diritto di rivolta contro i tiranni è contemplato in due casi: «quando il principe si comportasse in<br />

modo da spingere i sudditi a mancare alla ubbidienza dovuta alla legge di Dio ponendo così in pericolo la salvezza<br />

delle loro anime; e quando la sua tirannide fosse così dura da potersi dire distruttrice dello Stato e del popolo» 29 . <strong>Il</strong><br />

secondo caso ben si adatta alla situazione corsa per il canonico che, sempre in piena ortodossia, si preoccupa di<br />

osservare (e di far osservare) un altro aspetto del pensiero curialista. È lecito, cioè, il diritto alla resistenza e alla rivolta<br />

ma che sia una rivolta di popolo e non un’azione del singolo cittadino. La rivoluzione è possibile, insomma, ma non il<br />

tirannicidio. Natali appare più sicuro nel difendere d’ufficio, eppure appassionatamente, l’antica nobiltà corsa depressa<br />

dalla politica genovese. Natali è proteso in una riaffermazione nostalgica degli antichi diritti e degli antichi privilegi e<br />

non tradisce nessuna preoccupazione nel farlo, nonostante stia scrivendo un’opera giustificativa di una rivolta che, già<br />

nel 1736, aveva assunto precisi caratteri repubblicani con l’attività delle consulte. <strong>Il</strong> corso, invece, tiene a presentarsi<br />

come il portavoce di un ceto ed elenca i nomi delle famiglie di più antica nobiltà dell’isola, ridimensionate nelle<br />

sostanze e quindi nel loro peso politico, e impone il paragone con il fasto e l’ordine dell’antica Roma e delle sue<br />

famiglie. Natali non manca di mettere in risalto anche la fedeltà e un’indiscutibile ortodossia del clero corso verso la<br />

Chiesa romana. È il punto più importante per Natali: travalicare questa linea significa perdere l’appoggio, diretto o<br />

indiretto che sia, del papa; sarebbe l’isolamento totale per la rivolta e per l’elite culturale e politica dell’isola. Un<br />

messaggio che, siamo alla metà del Disinganno, deve essere diffuso «in ogni angolo della terra». Un appello singolare,<br />

a metà strada tra un generico e altisonante gesto simbolico e una richiesta d’aiuto materiale pura e semplice, quasi una<br />

sollecitudine scritta proprio per qualcuno. Per Clemente XII, per esempio. Presso papa Corsini già nel 1750, all’inizio<br />

della rivolta, era stato inviato il canonico Orticoni con il duplice compito di riaffermare la fedeltà corsa a Roma e di<br />

chiedere aiuti per la guerra. Clemente XII, ben disposto verso la causa isolana per una serie di motivi (dall’invisa<br />

politica giurisdizionalista seguita da Genova, all’ortodossia manifesta del cattolicissimo popolo corso, al fatto di<br />

appartenere al Paese dove più calda era la simpatia per la lotta corsa: la Toscana 30 ) si mostrò tiepido, respingendo la<br />

corona offertagli dall’Orticoni e negando gli aiuti per la guerra; cosa del resto ovvia perché sarebbe inimmaginabile che<br />

qualsiasi papa, per quanto sensibile, si impegnasse militarmente senza badare agli equilibri internazionali. Clemente XII<br />

offrì però la sua mediazione, gesto comunque importantissimo se Genova lo rifiutò senza tentennamenti. Nel<br />

Disinganno questa richiesta di aiuti è rinnovata ma sembra indirizzata più verso corti laiche. «Giacché però la povertà<br />

mi toglie l’ingresso ne’ Gabinetti de’ Sovrani scrive - spero non mancheranno penne cortesi che traducendo in più<br />

lingue questo compassionevole foglio portino la notizia delle nostre ragioni in ogni angolo della terra» 31 . Quali sono<br />

questi «Gabinetti de’ Sovrani»? Non certo quelli papali, da sempre accessibili al clero corso al di là di qualsiasi<br />

professione di “povertà”: piuttosto, in modo naturalmente non esclusivo, alla corte francese dove nel 1756 dominava il<br />

cardinale Fleury 32 . La missione di Natali è delicata: come chiedere a principi e sovrani, rigidi fautori dell’ordine<br />

all’interno <strong>dei</strong> loro Stati, aiuti per una rivolta? <strong>Il</strong> corso si sforza di essere rassicurante: l’invio di mezzi ai patrioti isolani<br />

è un’azione che darà al monarca fama e gloria, giammai l’immagine di un popolo che lotta contro il proprio principe<br />

sarà un modello esportabile verso altri Stati. «Non si darebbe già occasione ad altri popoli soggetti d’eccitar sedizioni, e<br />

tumulti; piuttosto crescerebbe ne’ Sudditi l’amore verso de’ suoi Regnanti». Assicurazione, a dire il vero, piuttosto<br />

fragile ma che potrebbe trovare nella delicata situazione di buona parte dell’Italia un certo riscontro. Con il piglio dello<br />

storico, Natali però torna ad argomentazioni più serrate: Genova era tiranna per «l’esercizio dell’ingiustizia» e «ancora<br />

per difetto di vero titolo di dominare». La giustizia è il perno su cui Natali fa ruotare l’intera sua costruzione in quanto<br />

rappresenta la vera anima del diritto naturale cristiano. Non a caso uno scrittore a lui contemporaneo, Ludovico Antonio<br />

Muratori, delinea nei suoi Rudimenti di filosofia morale la figura del “buon principe” come vigile sulla condotta <strong>dei</strong><br />

giudici e protettore <strong>dei</strong> poveri e <strong>dei</strong> deboli 33 . Natali passa dunque a dimostrare la tirannia di Genova per «difetto di vero<br />

titolo di dominare». È una lunga confutazione storica che interessa notare solo per le citate posizioni di Roma nel corso<br />

<strong>dei</strong> secoli quando, per tre volte, nel 1077 Gregorio VII, nel 1360 Innocenzo VI e nel 1444 Eugenio IV, attaccarono<br />

duramente il dominio genovese sulla Corsica. Prese di posizione molto diverse - Natali non lo dice espressamente ma<br />

certo non scrive la confutazione per caso - dalle cautele di Clemente XII. La pars destruens del Disinganno è finita.<br />

Affilate le armi del giusnaturalismo, elencate le colpe di Genova, l’autore deve ora concretizzare la sua opera politica<br />

conciliare così a Principi l’amore de’ Sudditi, il quale è custode del Principato assai più valido delle alte Torri dette in Grecia nidi de’ Tiranni».<br />

NATALI G.M., Disinganno cit., pp. 10-<strong>11.</strong><br />

29<br />

JEMOLO A.C., Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, Torino 1914, p. 14.<br />

30<br />

BORDINI C., Rivoluzione corsa cit., pp. 47-75.<br />

31<br />

NATALI G.M., Disinganno cit., p. 52.<br />

32<br />

II tutore di Luigi XV era impegnato in quegli anni ad assicurare la Lorena alla Francia approfittando della guerra di Successione polacca: un<br />

orecchio forse disattento agli affari di Corsica, considerando che la politica estera del Fleury era volta soprattutto ad evitare impegni militari.<br />

33<br />

«<strong>Il</strong> vero fine del Regnante, in promuovere la felicità <strong>dei</strong> popoli, può essere l’onore e la gloria» e soprattutto «amministrare una retta giustizia».<br />

Ipotizzare un’influenza del Muratori sul Natali è avventato. Se è vero che il giovane canonico corso avrebbe potuto leggere il Rerum italicarum<br />

scriptores apparso nel 1723, è fuori discussione che l’altra grande opera del Muratori storico, gli Annali della storia d’Italia, uscita tra il 1744 e il<br />

1749, non poteva essergli conosciuta. Di sicuro, il “buon gusto” muratoriano, l’espressione concreta della ragione (vedi Riflessioni sopra il buon<br />

fausto nelle scienze e nelle arti, 1708), resta fondamentalmente un problema filologico, di ragionevolezza nel giudizio, di buon senso nel distinguere il<br />

vero e non entra nel merito <strong>dei</strong> fondamenti politici, ideologici e religiosi dell’autorità. <strong>Il</strong> “buon gusto” di Natali segue piuttosto la seconda strada.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

dando sfogo all’idea di governo preferita. È la «perfettissima monarchia»: «Ove il comando risegga presso di molti<br />

(Ottimati o Plebei) non v’è quel bell’ordine, che si ritrovava nella Monarchia» 34 . Va detto che Natali già<br />

precedentemente aveva lasciato intravedere la sua posizione politica quando, affrontando ancora il problema della<br />

giustizia in Corsica, chiede che i delitti siano puniti «come si costuma ne’ felicissimi Regni della Francia». È a Parigi<br />

dunque che guarda, è lì il modello di governo da imitare, con un giudizio entusiasta ma anche - sarà l’unica volta –<br />

leggermente sbilanciato rispetto all’andamento sostanzialmente prudente del Disinganno. Infatti, se ogni riferimento<br />

alla monarchia franca scompare in questa dichiarazione di voto finale, ritorna in quel «si ritrovava nella Monarchia».<br />

Natali si aiuta con l’imperfetto, richiamandosi a un passato indefinito e perciò meno compromettente: può rimescolare<br />

le carte, far passare in secondo piano la sua opzione parigina. Meglio dire che cosa non è gradito, un governo<br />

oligarchico come quello di Genova o, a ritroso nella storia, come quello della Repubblica romana. Significativo (e<br />

ancora prudente) il silenzio di Natali sulla forma democratica: una cosa è prenderne le distanze scegliendo senza appello<br />

la monarchia, un’altra sarebbe stata metterla all’indice insieme ai sistemi genovese e romano, con il rischio di strascichi<br />

seri nei rapporti con le altre componenti della rivolta, operanti nelle consulte. D’altra parte, Natali non ha nessuna<br />

remora, come abbiamo già visto in queste pagine, a presentarsi come un esponente della rivolta vicino alla nobiltà<br />

isolana. Lo ribadisce con disinvoltura in fondo al suo Disinganno, quando l’oligarchico sistema veneziano non è<br />

accomunato a quello di Genova ma è ammirato per la conduzione della giustizia e per il «rispetto de’ Nobili» ivi<br />

portato.<br />

Figura 9: Fregio della Giustificazione di Gregorio Salvini. Biblioteca Apostolica Vaticana.<br />

§ 5. La Giustificazione di Gregorio Salvini<br />

Amico di Natali e di Paoli, Gregorio Salvini scrive nel 1758 la sua Giustificazione della rivoluzione di Corsica e della<br />

ferma risoluzione presa decorsi di mai più sottomettersi al dominio di Genova, edito in Corte 35 , altro importantissimo<br />

punto di riferimento di quella polemica tra i patrioti corsi e Genova che accompagnò la rivolta fin dai suoi primi passi.<br />

Con la Giustificazione il prete corso intendeva rispondere a un pamphlet che il vescovo genovese di Sagona, Pier Maria<br />

Giustiniani, aveva scritto contro il Disinganno di Natali; ma Giustiniani, punto sul vivo dalla prosa efficace e<br />

documentata della Giustificazione, decise di ribattere anche alle accuse del Salvini, pubblicando un’altra confutazione 36 .<br />

Nella prima parte della Giustificazione 37 , Salvini afferma che Genova è tiranna per difetto di titolo e per l’esercizio del<br />

34 NATALI G.M., Disinganno cit., p. 65.<br />

35 In realtà, pare che il libro sia stato stampato a Napoli. Una seconda edizione uscì lo stesso anno con il titolo leggermente diverso: Giustificazione<br />

della rivoluzione di Corsica e della ferma risoluzione presa da’ corsi di non sottomettersi mai più al dominio di Genova con luogo di edizione in<br />

Oletta. Anche in questo caso, si pensa che il libro sia stato stampato non in Corsica ma in Toscana, forse a Livorno. Vedi VENTURI F., op. cit., p. 5.<br />

36 GIUSTINIANI P.M., Riflessioni intorno a un libro intitolato Giustificazione della rivoluzione di Corsica e della ferma risoluzione presa da’corsi di<br />

mai più sottomettersi al dominio di Genova, snt. L’abate corso non perse tempo: nel 1764, fece ristampare il suo libro a Corte inserendo il libello del<br />

vescovo genovese tra un capitolo e l’altro per una confutazione diretta e variò adeguatamente il titolo in Giustificazione della rivoluzione di Corsica<br />

combattuta dalle riflessioni di un Genovese e difesa dalle osservazioni di un Corso. Diversa è anche la prefazione mentre appaiono <strong>dei</strong> testi aggiuntivi<br />

e una dedica a «Sua Eccellenza il signor Paoli, generale del Regno e capo del Supremo magistrato di Corsica». Particolare degno di nota, in quanto<br />

conferma che il libro uscì con l’approvazione del capo della rivolta isolana. E che questi ovviamente ne condivideva sia il fine polemicopropagandistico<br />

contro Genova, sia i contenuti politici e le indicazioni da esso scaturiti.<br />

37 D’ora in poi, per il nostro discorso, seguiremo la numerazione delle pagine dell’edizione di Oletta del 1758.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

potere in Corsica, motivi ricorrenti nella pamphlettistica contemporanea antigenovese. L’abate si assume, dunque, il<br />

compito di difendere d’ufficio innanzitutto la nobiltà, citando anche nomi e cognomi di quegli isolani di rango che più<br />

sono stati danneggiati dal dominio di Genova. Con una serie di documenti, date e decreti riportati - saranno una costante<br />

della Giustificazione – Salvini documenta la «proposizione terza» che riguarda l’esclusione <strong>dei</strong> corsi dai pubblici uffici<br />

e il problema della giustizia nell’isola. Genova, dice, ha messo in piedi un «governo da lupi». La sua nobiltà è composta<br />

da una parte ricca e da un’altra meno abbiente: per questa ultima, la Serenissima metteva a disposizione la Corsica, terra<br />

di conquista dove poteva avere mano libera per arricchirsi. Anche Salvini, come Natali, dovendosi affidare al diritto<br />

naturale cristiano per giustificare la rivolta corsa, vuole mettere un freno all’iniziativa del singolo negando che un<br />

privato cittadino possa uccidere il tiranno. No al tirannicidio, nè ad una rivolta immediata, dunque. «In terzo luogo -<br />

aggiunge - diciamo che, prima di fare alcun attentato contro il Tiranno, si dee ricorrere a Dio coll’orazione, e a lui<br />

colle suppliche e colle rimostranze: che se poi tutto ciò siasi inutilmente tentato, e non vi sia altro rimedio per<br />

assicurare la conservazione, e la tranquillità dello stato, e per provvedere al ben pubblico, è comune consiglio,<br />

especialmente de’ Primati, deporre nella debita, e prescritta forma il Tiranno» 38 .<br />

Prima di giungere alla parte finale, vero capolavoro della Giustificazione, Salvini racconta le vicende oscure e le<br />

battaglie avvenute dall’inizio della rivolta, sempre con dovizia di particolari. Per più di cento pagine, Salvini si dedica a<br />

tessere la sua trama diplomatica, fatta di appelli, inviti, ragionamenti. Siamo alla conclusione. È qui che il prete corso<br />

mostra di avere una precisa personalità (finora in qualche modo celata dietro una narrazione puntuale da cronista),<br />

rivelata da quella amalgama di appelli rispettosi e richiami alla realtà assai poco retorici, al limite di modi un po’<br />

bruschi con cui si rivolge ai principi d’Europa. <strong>Il</strong> patriota corso svolge qui una lezione di politica fine. In sostanza,<br />

avverte che chiunque appoggi Genova nel sottomettere la Corsica, si troverà sempre un focolaio di guerra pronto a<br />

scoppiare. Non solo: anche i corsi possono avere di nascosto il sostegno di qualche principe («per compassione, o per<br />

interesse, o per ambizione», straordinaria espressione di realismo politico che induce a meditare sulla maturità <strong>dei</strong> capi<br />

della rivolta) e da qui a insinuare una “gelosia” tra i regnanti il passo è breve. Salvini tenta di inserire il problema corso<br />

in un contesto europeo, operazione che quanto meno rivela una profonda cognizione della storia militare e diplomatica<br />

contemporanea. Sa che la Corsica, per la sua collocazione nel <strong>Mediterraneo</strong>, è sempre un territorio ambito; che<br />

l’equilibrio europeo, dopo i trattati di Utrecht e Rastadt, si gioca su ogni angolo di terra conosciuto, dalla Sicilia<br />

all’isola di San Cristoforo nelle Antille; che la presenza di Federico II di Prussia sul palcoscenico internazionale, nel<br />

1758, era ancora una pericolosa incognita contro i poteri consolidatisi nei secoli (Francia e Austria in particolare),<br />

nonostante in quel momento fosse impegnato nella difficile guerra <strong>dei</strong> Sette Anni con alterne fortune. E si renderà conto<br />

Salvini, insieme a Paoli, che la neutralità dell’Inghilterra (la più vicina alla causa corsa) e soprattutto la<br />

marginalizzazione dell’Italia dal conflitto saranno fatali a questa operazione. Nel fare la storia della rivolta, Salvini usa<br />

il diritto naturale cristiano e le armi della fede ad esso connesso. Rivolgendosi ai monarchi d’Europa, li invita ad aiutare<br />

i corsi a spezzare il dominio genovese nell’isola «perché Dio stesso è quello, che a ciò fare vi esorta» 39 . Un concetto che<br />

ribadisce poco più avanti, richiamandosi alla questione centrale del giusnaturalismo: la giustizia. Ma Salvini deve ora<br />

chiudere il suo discorso e restringe il campo <strong>dei</strong> destinatari del messaggio a un solo monarca: Luigi XV di Francia. Lo<br />

fa con un piccolo colpo di scena, se badiamo al valore delle due congiunzioni iniziali, di rottura la prima,<br />

consequenziale la seconda: Ma poiché Voi, Re Cristianissimo, siete quello che pieno di Santissima intenzione, vi siete<br />

più di qualunque altro interessato per pacificare la Corsica, a Voi in particolare indirizziam ora la parola. II patriota<br />

corso, rifacendo la storia degli interessi francesi in Corsica, invita Luigi XV ad aiutare la causa isolana, a leggersi il<br />

libro e a non fidarsi di «que’compendiosi rapporti» stilati dai suoi collaboratori; anche perché questo scritto è l’unico<br />

modo per arrivare direttamente a Parigi in quanto «l’arte <strong>dei</strong> nostri Avversari s’è studiata d’impedire, che alcuno de’<br />

Nostri non abbia avuto giammai alla Vostra Reggia l’accesso».<br />

<strong>Il</strong> corso non cita naturalmente le fonti di queste informazioni, ma dovrebbero essere Torino e Roma. La corte sabauda<br />

aveva promesso aiuti militari alla Corsica nel 1764, riporta Salvini nella sua Giustificazione; i Savoia erano un sostegno<br />

diplomatico pressoché certo, considerando anche i cattivi rapporti tra Torino e Genova. A Roma, con l’elezione nel<br />

1743 di papa Clemente XIII, la questione corsa trovava uno degli ascoltatori più sensibili. Mettere a disposizione,<br />

seppur discretamente, la diplomazia vaticana in favore di Paoli era certo meno pericoloso dell’esporsi alle ire di Genova<br />

con l’invio del Visitatore Apostolico in Corsica, decisione presa nel 1760. Nell’ultima pagina della Giustificazione,<br />

Salvini chiarisce al Re Cristianissimo le richieste <strong>dei</strong> corsi: il disegno <strong>dei</strong> patrioti corsi a questo punto è chiaro. <strong>Il</strong> 16<br />

agosto del 1756 a Compiègne - due anni prima dell’uscita della Giustificazione – la Francia era diventata a pieno titolo<br />

l’unico arbitro della situazione dell’isola, concedendo sussidi e aiuti militari a Genova con il presidio di alcune<br />

posizioni-chiave della costa. Nello stesso tempo, Parigi cercava di «non compromettere i rapporti con i ribelli corsi, con<br />

i quali non si volevano rompere i ponti» 40 . La speranza di Paoli è di vedere - magari alla fine della guerra <strong>dei</strong> Sette Anni<br />

(1756-1763) - la Francia al suo fianco, rompendo l’apparente equidistanza che guidava in quegli anni Choiseul.<br />

L’offerta <strong>dei</strong> corsi dovrebbe essere allettante: il «Soave Dominio» altro non è che l’Alto Dominio offerto negli anni ‘30<br />

38 Ivi, p. 131. Più avanti, Salvini insiste sul concetto più caro al giusnaturalismo: l’origine umana della sovranità. «Ora - scrive - il diritto che ha ogni<br />

popolo di provvedere alla propria conservazione, e sicurezza per essere naturale, è maggiore del diritto, che ha un Principe sopra i suoi Sudditi, il<br />

quale in se stesso è assolutamente umano». «È Massima universale, che il Prencipato è istituito per beneficio de’ Popoli, non già del Prencipe»<br />

(Giustificazione cit., pp. 132-133).<br />

39 Ivi, p. 272.<br />

40 VALSECCHI F., L’Italia nel Settecento cit., p. 196.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

al papa, già esercitato dalla Chiesa romana nei tempi passati. Oppure la “protezione”, variazione sul tema che concede<br />

nella formula forse qualcosa di più, ma non certo l’annessione. Qui è il punto: la trama che Parigi tesse da anni ha come<br />

obiettivo finale l’annessione dell’isola; la politica di Paoli promette invece sovranità nominale in cambio di effettiva<br />

indipendenza. Tuttavia i corsi si fidano ancora del Re Cristianissimo. Cosa che nel 1764, anno della terza edizione della<br />

Giustificazione, non avviene più. <strong>Il</strong> 6 agosto dello stesso anno, ancora a Compiègne, Genova ottiene nuovi aiuti da<br />

Parigi in cambio di quattro piazzeforti: Ajaccio, Calvi, S. Fiorenzo, l’Algaiola, date per “deposito”. Anche adesso i<br />

francesi si guardano bene dal penetrare all’interno o cercare scontri con gli insorti: ma certo crescono i sospetti sulle<br />

vere intenzioni di questa spedizione, di cui Paoli chiederà ragguagli a Parigi con una lettera del 5 gennaio 1765, pochi<br />

giorni dopo lo sbarco <strong>dei</strong> nuovi contingenti francesi nell’isola.<br />

Figura 10: Antica mappa della città di Genova (Archivio di Stato di Genova, Archivio segreto, f. 2111).<br />

§ 6. Conclusioni<br />

Natali e Salvini hanno scritto le loro opere innanzitutto con intenti polemici per controbattere la pubblicistica genovese:<br />

le accuse della Serenissima vengono ribaltate, il sistema di governo di rapina denunciato all’opinione pubblica europea;<br />

il diritto al dominio negato con argomentazioni teologiche-politiche serrate. Comune è anche lo spirito che spinge i due<br />

ecclesiastici a intraprendere, in tempi storici diversi, la realizzazione delle opere, necessarie ad una causa di cui<br />

rappresentano i ceti intellettuali: entrambi si sono formati nei più importanti centri culturali italiani, entrambi hanno<br />

coscienza della grave situazione sociale dell’isola e coscienza personale per la propria condizione di esuli politici.<br />

Si può anche dire che nella Giustificazione si trovano gli stessi temi del Disinganno: qui però finiscono le analogie.<br />

Natali e Salvini trattano lo stesso argomento su piani diversi, per il momento storico, per la costruzione, per lo stile: tre<br />

aspetti da vedere nei particolari per poter riconoscere ai due autori, al di là di ogni lecita analogia, l’originalità che li<br />

distingue e che diede loro una certa eco negli ambienti intellettuali e politici dell’Europa settecentesca. Ventidue anni<br />

trascorsero tra l’uscita del Disinganno (1736) e quella della Giustificazione (1758). Un periodo relativamente breve, ma<br />

intenso per la rivolta corsa e per i destini europei. Natali scrive la sua opera quando la situazione dell’isola è piuttosto<br />

incerta. Nello stesso anno, nel giro di otto mesi, si consuma il regno di Teodoro nel quale i capi della rivolta avevano<br />

riposto le loro speranze di liberarsi dal dominio genovese; speranze documentate dal Disinganno, dove Natali elegge la<br />

monarchia come migliore forma di governo, come suprema garanzia di ordine interno. Paoli non è ancora il capo della<br />

rivolta, le mire francesi sulla Corsica non sono ancora definite: due fatti che invece fanno da contorno alla<br />

Giustificazione, frutto evidente di una lunga e ragionata collaborazione tra i capi rivoltosi. Salvini scrive sotto l’era di<br />

Paoli, anni in cui la partita rischia di chiudersi definitivamente a sfavore <strong>dei</strong> corsi. Nella Giustificazione, questo clima è<br />

palpabile: l’autore procede con grande attenzione nel denunciare gli abusi e le ingiustizie del sistema di potere della<br />

Serenissima nell’isola, citando fonti e documenti per ogni accusa. La comparsa, nella seconda edizione, della Lettera di<br />

un Corso abitante in Corsica ad un altro dimorante a Venezia è forse la prova più interessante di questo discorso<br />

benché sia stata inserita come post scriptum: è facile concludere che la Giustificazione scritta da un solo autore, ma<br />

concordata con il capo della rivolta (cui viene pure dedicata), è un documento importantissimo per la conoscenza della<br />

storia della rivoluzione di Corsica e per quella del suo capo indiscusso. Se lo stile di Natali e di Salvini è diverso, come<br />

il clima politico in cui scrivono, la costruzione delle loro opere è addirittura inversa. <strong>Il</strong> primo parte dal giusnaturalismo<br />

cristiano per affermare la liceità dell’abbattimento del Principe, ormai dannoso per lo Stato e per il bene pubblico, per<br />

poi passare a dimostrare gli abusi della Serenissima in Corsica e l’inesistenza <strong>dei</strong> suoi diritti sull’isola. Salvini inizia la<br />

sua requisitoria da quest’ultimo motivo per proseguire contro i misfatti dell’amministrazione genovese e infine<br />

affermare la legittimità della rivolta contro i tiranni. I due autori vanno affiancati nuovamente quando si parla della loro<br />

posizione politica. Entrambi, si deve ricordare, usano toni appassionati in difesa della nobiltà dell’isola (cui, tra l’altro,<br />

Salvini appartiene per estrazione familiare) depressa dalla politica della Repubblica, e stessi toni di sufficienza, se non<br />

dispregiativi (la «canaglia» salviniana), verso il popolo minuto che rappresenta la vera base della rivolta. Questo settore,<br />

animato dai proprietari terrieri e dalla nobiltà isolana, aspirante a una monarchia regnante in Corsica, è quello cui si<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

possono ricollegare Natali e Salvini, pur con alcune sfumature. Tali sfumature aumentano quando la presenza militare e<br />

diplomatica francese in Corsica si fa più forte. Nel 1756, un anno dopo l’elezione di Paoli a Generale e unico capo della<br />

rivolta, con una memoria inviata al re di Francia la nobiltà corsa chiede che gli «anciens feudataires» possano tornare in<br />

possesso delle «seigneuries» di cui la Serenissima li ha privati. E, dopo la conquista francese dell’isola, un editto<br />

dell’aprile del 1770 «organisera en effet une procédure de reconnaissance de la noblesse corse, dont bénéficieront plus<br />

de 78 groupes de familles». Quasi nello stesso momento, tra il 1765 e il 1769, un patriota aristocratico, Matteo<br />

Buttafuoco, chiede a Jean Jacques Rousseau di scrivere un Projet de constitution pour la Corse 41 . <strong>Il</strong> filosofo ginevrino<br />

dimostra, nel Progetto una discreta conoscenza della situazione corsa e si inserisce nella polemica tra Corsica e Genova<br />

(di cui ha letto i testi più importanti, compresi il Disinganno e la Giustificazione) con proposte politiche di segno<br />

diverso rispetto alle aspirazioni monarchiche e filo-nobiliari di Natali e Salvini. Oltre alla nobiltà, che al di là delle<br />

aspirazioni di casta partecipava comunque alla rivolta, c’era la base popolare rappresentata nelle consulte, dove avevano<br />

voce in capitolo i capi villaggio, scelti a loro volta tra i capi famiglia, secondo una struttura e una gerarchia sociale<br />

arcaica e di clan ma che assicurava a Paoli un’effettiva unità delle forze. Dire che Natali e Salvini, vicini all’ala più<br />

conservatrice, siano <strong>dei</strong> ciechi reazionari e attenti soltanto alla causa nobiliare è sicuramente un errore di<br />

sottovalutazione. René Emmanuelli è stato finora il solitario critico che con una certa organicità ha affrontato le<br />

proposizioni del Disinganno e della Giustificazione. Emmanuelli riconosce innanzitutto la superiorità dell ’ opera di<br />

Salvini su quella di Natali, in quanto quest’ultima è piuttosto una «polemica sommaria» e ha una struttura<br />

«prefilosofica». Un giudizio di merito che non esclude il riconoscimento di temi comuni, di obiettivi identici, di<br />

destinatari analoghi per le due opere. Per lo storico francese non c’è nessun dubbio che le posizioni espresse da Natali e<br />

Salvini vadano incontro ad aspettative conservatrici, in un’ottica culturale lontana da quella del secolo <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>.<br />

«L’ignorance presque totale» scrive Emmanuelli «des idées nouvelles, l’influence marquée de la réaction<br />

aristocratique» sono pesanti tanto più che «en vain qu’on chercherait dans la Giustificazione et le Disinganno quelque<br />

allusion aux idées de liberté, de tolérance, de progrès, de droits fondamentaux de la personne humaine, alors par<br />

exemple qu’il aurait été utile de rappeler ces deniers du fonctionnement de la justice génoise». Tuttavia, per<br />

Emmanuelli, se Salvini e Natali non sono certo «novateurs» non sono nemmeno «des arriérés, des rétrogrades, mais des<br />

hommes de leur temps, d’un temps où les adeptes des lumières, quelles les que soient leur activité et leur influence, ne<br />

constituent encore q’une minorité, même au sein des classes cultivées, et une minorile combattue. Natali et Salvini<br />

n’ont certes pas été touchés prématurément par la grâce du progrès: on ne volt pas qu’on puisse le leur reprocher, car en<br />

définitive leurs idées a ce moment sont celles du plus grand nombre». <strong>Il</strong> giudizio è forse ingeneroso per almeno due<br />

motivi: perché Salvini, affrontando la questione dell’economia della futura nazione corsa rivela di essere molto<br />

sensibile alle teorie sulla materia in voga proprio nel ‘700; e perché Emmanuelli opera una sovrapposizione ideologica<br />

del pensiero illuminista nato a Parigi sulla realtà corsa di cui non vede la sua peculiarità. Non si capisce perché Natali e<br />

Salvini, non utilizzando concetti illuministi, «n’ont certes pas été touchés prématurément par la grace du progrès»: il<br />

modello di “progrès” in Corsica, in un particolare quadro culturale, sociale ed economico è ovviamente diverso da<br />

quello francese. Un errore che Emmanuelli persegue quando rimprovera a Natali e Salvini (che esibiscono generiche<br />

lamentele per le imposte gravose) di non suggerire per la riforma del fisco «l’egalité devant l’impot», principio<br />

illuminista. Oltre a non riconoscere la peculiarità della situazione corsa (dove un’eventuale eguaglianza è tutta da<br />

vedere), lo storico pecca di idealismo: quale sovrano, in questo secolo di grandi riforme, applica questo principio<br />

rischiando la collisione (in Francia, per esempio) con l’aristocrazia e il clero? Per ultimo, un’osservazione non certo<br />

minore, ma da tener presente affrontando questo tema: non si può dimenticare che Natali e Salvini partecipano a una<br />

rivolta che, in netto anticipo su quella francese, si batte nientemeno che per l’eliminazione del Principe. Nella sua<br />

Giustificazione, Salvini poi si schiera a favore del liberismo, ponendosi contro i vincoli al commercio imposti dalla<br />

Serenissima e avvicinandosi alle teorie <strong>dei</strong> fisiocratici. Peccato che Emmanuelli conceda a questo passo della<br />

Giustificazione un minimo accenno, anche se alla fine riconosce l’importanza, per <strong>dei</strong> quadri intellettuali in fondo<br />

lontani dai centri del dibattito illuministico europeo, delle nozioni economiche del secolo. La battaglia fisiocratica per la<br />

libera circolazione del grano era diretta in realtà contro l’intero sistema vincolistico e doganale dell’Ancien Régime. Gli<br />

esponenti più avanzati premevano poi per un allargamento del principio liberistico a tutti i settori, per l’affermarsi del<br />

laissez faire o del contemporaneo free trade teorizzato da Adam Smith. La posizione di Salvini si inserisce proprio tra<br />

queste punte estreme del pensiero fisiocratico che, in qualche modo, toccano anche la Serenissima. È del 1751 la legge<br />

che regola il porto-franco nei territori della Repubblica: una legge di compromesso per la tradizionale politica<br />

commerciale genovese che permette una riforma molto limitata là dove non era ormai rinviabile, cercando anche di non<br />

investire delicate questioni di principio e interessi costituiti. L’economia è, nella Giustificazione, l’unico campo in cui<br />

Salvini, dopo aver presentato metodi ed effetti del malgoverno genovese, delinea una prospettiva di sviluppo ponendo<br />

di fronte all’Europa il governo rivoluzionario di Paoli quale valida alternativa al potere della Serenissima. È<br />

probabilmente un segnale per il pubblico particolare che in quel momento segue interessato le fasi della rivolta in<br />

Corsica, un altro biglietto da visita da accompagnare all’opzione monarchica, dichiarata anche in Natali. Ciò che sembra<br />

non vedere Emmanuelli, che accusa la Giustificazione di restare «muette» sulle aspirazioni <strong>dei</strong> corsi e sulle<br />

«perspectives d’avenir»: certi silenzi vanno eventualmente ascritti alla Ragion di Stato che domina soprattutto, ne<br />

abbiamo già parlato, le ultime fasi della rivolta e più precisamente l’era di Paoli. È anche sbagliato classificare<br />

41 ROUSSEAU J.J., Projet de Constitution pour la Corse, in ID., Œuvres Complètes, III, Paris 1964, pp. 901-950<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”<br />

negativamente Natali e Salvini per le loro posizioni giusnaturaliste. Emmanuelli lamenta la mancanza nei due libri di<br />

qualsiasi accenno ai valori di autonomia e di libertà <strong>dei</strong> popoli, vuoto che le argomentazioni di Suarez, presenti nel<br />

Disinganno e nella Giustificazione, non possono colmare. Tuttavia, non si può negare che Natali e Salvini, per il tempo<br />

in cui operarono e per la particolarità del loro agire, abbiano dato una tinta d’eversione a questa corrente di pensiero<br />

cattolico, oltretutto complessa e sicuramente non classificabile come una semplice scuola di pensiero.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

CAPITOLO 3<br />

LA PRIMA FASE DELLA RIVOLUZIONE CORSA (1729-1755)<br />

§1. 1729-1733: Moti o Rivoluzione?<br />

La storiografia contemporanea è ancora in forte discussione sulla definizione di rivoluzione alla guerra d’indipendenza<br />

corsa del XVIII secolo. Al di là delle contrapposizioni, più o meno forti, tra gli storici corsi e francesi, spesso il<br />

problema è stato discusso senza un’analisi approfondita delle fonti archivistiche; si è trattato, a volte, di prese di<br />

posizione nazionalistiche per la difesa della “Corsica piccola nazione all’interno della Francia grande nazione”, oppure<br />

della dimostrazione, più o meno scientifica, della continuità ideologica tra la Rivoluzione corsa e la Rivoluzione<br />

francese; oppure lo studio della Corsica paolina è stato affrontato solo in prospettiva dell’avvento di Napoleone,<br />

dimenticando l’identità, la specificità ed i limiti delle vicende isolane. Sotto questo aspetto, dall’analisi della<br />

storiografia francese, inglese ed italiana più recente e grazie allo spoglio di nuove fonti archivistiche, sembrerebbe che il<br />

grande sconvolgimento dell’isola a cavallo tra la dominazione genovese e quella francese, sorto inizialmente come una<br />

rivolta, sia diventato, con il passare degli anni (e dopo l’intervento di Pasquale Paoli) una rivoluzione a carattere<br />

nazionale 1 .<br />

La tradizione vuole che tutto abbia avuto inizio il 27 dicembre 1729, in un villaggio del Bozio, a Bustanico. Un<br />

contadino miserabile (Antonfrancesco Lanfranchi, detto Cardone), si vide rifiutare come falso il baiocco che gli<br />

reclamava il collettore d’imposte e venne minacciato d’arresto. Egli allora coinvolse i suoi concittadini nella disputa,<br />

che si sollevarono contro il percettore genovese e lo costrinsero alla fuga: l’immaginario popolare, che ha bisogno di<br />

concretizzare la storia, ha fatto di Lanfranchi il simbolo dell’oppressione genovese.<br />

Le cause profonde<br />

Come abbiamo notato, nel 1715 Genova istituì l’imposta <strong>dei</strong> “due seini” per mettere fine all’irritante questione del porto<br />

d’armi in Corsica. Approfittando dell’occasione, la Repubblica iniziò a ritirare tutte le armi ed a vietarne la vendita<br />

attraverso un contributo straordinario (che non doveva estendersi oltre i dieci anni) corrispondente alla somma di tredici<br />

soldi e quattro denari: era precisamente questa la tassa straordinaria che gli abitanti della Casinca e della Castagniccia si<br />

rifiutarono di pagare dopo l’incidente di Bustanico. Fino a questo punto niente distingueva il moto di rabbia da una<br />

jacqueries. La miseria generale, esasperata tra il 1728 ed il 1729 dalla congiunzione di «una primavera troppo piovosa e<br />

di un’estate troppo secca» 2 , aveva provocato un po’ ovunque <strong>dei</strong> piccoli incidenti, sporadici ma violenti, che<br />

inquietavano le autorità. Genova non comprese la gravità della situazione: le riflessioni del governatore Pinelli<br />

testimoniano la cecità <strong>dei</strong> funzionari, sempre sorpresi, e talvolta esasperati, dagli avvenimenti 3 . Proprio quando la<br />

Repubblica aveva deciso saggiamente di arrestare il prelievo delle imposte, il Governatore recepì al contrario questa<br />

misura ed ordinò la requisizione delle tasse dell’anno precedente. Ma le conseguenze dell’avvenimento e lo scoppio <strong>dei</strong><br />

moti del 1729 avevano cause molteplici e molto più lontane nel tempo 4 . Le radici affondavano nell’eccessiva pressione<br />

fiscale della Dominante: le taglie pesanti e le ingiustificate gabelle sul sale erano sempre meno sopportabili in un<br />

contesto economico di grave crisi ciclica; le eterne lagnanze sugli abusi di ogni sorta a cui erano sottoposti i corsi nella<br />

percezione delle imposte erano uno <strong>dei</strong> motivi scatenanti della rivolta. In altri casi prevaleva il senso di riscatto dalla<br />

capitalizzazione delle terre comuni, dalla crisi sociale, dal sistema politico-amministrativo genovese. Si ritrova, infine,<br />

l’eco dell’insicurezza generale - cronica ed esacerbata dalla carestia – in cui l’isola era finita per colpa <strong>dei</strong> banditi, che<br />

la Repubblica si illudeva di eliminare con delle spedizioni punitive di cui facevano le spese più gli innocenti che i<br />

colpevoli 5 . La richiesta del ripristino del porto d’armi era una rivendicazione motivata dalla preoccupazione –<br />

tradizionale in Corsica – di assicurare la propria incolumità e di poter far giustizia da sé. Le rivendicazioni contro le<br />

disuguaglianze fomentate dalla Dominante (specie sull’ammontare della taglia), infiammavano il municipalismo delle<br />

comunità: ogni pieve replicava solo per se stessa e la Corsica si mostrava come un aggregato incompleto di parti<br />

disunite. Bisogna dunque sfatare l’immagine convenzionale di una Corsica unanime nelle rivendicazioni, e di una<br />

rivoluzione cosciente fin dalle sue premesse: all’inizio si trattava solo di moti spontanei, accomunati dal rifiuto delle<br />

imposte. Ma si trattava anche di un movimento con una coloritura sociale subito evidente: infatti furono le masse<br />

popolari, le più povere, a sollevarsi dal caos per regolare i conti con i notabili, genovesi e corsi. Questa opposizione di<br />

classe si fondava su un sentimento di frustrazione economica, aggravato dalla politica agricola di Genova: la creazione<br />

<strong>dei</strong> feudi, in un primo tempo, e <strong>dei</strong> domini a base enfiteutica, in un secondo tempo, non era stata mai accettata dai<br />

1 Cfr. la NOTA BIBLIOGRAFICA.<br />

2 Cfr. ETTORI F., Histoire de Corse, Toulouse 1971, cap. IX, p. 98.<br />

3 Vedi la Relazione <strong>dei</strong> tumulti di Corsica del Governatore Pinelli, pubblicata nel 1854 a Bastia da SANTELLI A.F.<br />

4 Vedi l’analisi di POMPONI F., Émeutes populaires en Corse: aux origines de l’insurrection contre la domination génoise (décembre 1729-juillet<br />

1931), «Annales du Midi», to. 84, 107 (aprile-giugno 1972), pp. 151-181.<br />

5 La repressione della vendetta era appannaggio esclusivo del potere centrale genovese che, in caso di omicidi tra famiglie, inviava i suoi Commissari<br />

di campagna, assistiti da un plotone di soldati e di sbirri: «…essi installavano il loro quartiere generale nel paese, alloggiavano i loro uomini dai<br />

parenti dell’omicida, inviavano delle spedizioni, procedevano alle inchieste sul posto», cit. da BUSQUET J., Le droit de la vendetta e les paci corses,<br />

Paris 1920 (2° ed. 1994). Vd. Anche BOURDE P., En Corse, l’esprit de clan, les mœurs politiques, les vendettas, le banditisme, Marseille 1983;<br />

VERSINI X., Un siècle de banditisme en Corse. 1814-1914, Paris 1964, pp. 59-60; HOBSBAWM E.J., Les Bandits, Paris 1972; PAPADACI E., Les<br />

bandits corses. Honneur et dignité, Clamecy 1995.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

pastori e dai piccoli coltivatori 6 . Da qui emerge quell’aspetto di jacquerie della prima fase rivoluzionaria, con assalti<br />

alle proprietà private o, come nel caso di Sartena nel 1730, alla città-simbolo della spoliazione delle terre di<br />

transumanza. Era l’aspetto anacronistico – e allo stesso tempo reazionario – di una rivoluzione a base pastorale. La<br />

Corsica tradizionale si era, per così dire, risvegliata nell’opposizione ad un’economia ed una società urbane. Non<br />

dovrebbe stupire nemmeno, date queste premesse, l’importanza decisiva assunta, nella prima fase della rivolta, dalla<br />

regione pastorale per eccellenza, il Niolo, la cui economia poggiava quasi esclusivamente sull’allevamento.<br />

Sembrerebbe, quindi, di poter delineare il quadro d’insieme della rivolta come una forma di rivendicazione a sfondo<br />

sociale, in cui l’elemento nazionale non aveva alcun peso, ed in cui prevaleva l’antagonismo di classe. Tuttavia, è<br />

importante notare che i ribelli saccheggiarono per primi tutti quei domini, città e roccaforti in cui i genovesi erano<br />

predominanti, o rappresentavano la classe dirigente. Al momento dello scoppio della ribellione non era ben chiaro cosa<br />

realmente stesse accadendo: basta leggere la Relazione <strong>dei</strong> tumulti di Corsica del governatore Pinelli o i Ragguagli<br />

degl’ultimi tumulti seguiti nell’isola di Corsica sino al presente di Orazio Buttafuoco 7 per rendersene conto. <strong>Il</strong><br />

Governatore sapeva bene che la penuria di grano era una delle cause della rivolta e protestò con la capitale per una<br />

maggiore sollecitudine nell’invio di derrate; ma la violenza e la velocità degli avvenimenti lo sconcertarono: Pinelli<br />

decise di usare la maniera forte, non senza aver tentato di compromettere i notabili corsi nel tentativo di ristabilire<br />

l’ordine. <strong>Il</strong> Governatore credeva di dover lottare contro la febbre passeggera di un popolo pronto a ribellarsi, con una<br />

ferocia ancestrale e incontrollata e, d’altro lato, era rassicurato dalla matrice “spontanea” della prima sedizione: alla<br />

rivolta delle piazzeforti si mescolava il semplice banditismo, ed è altrettanto vero che alcuni villaggi e pievi rifiutarono<br />

di unirsi agli insorti, offrendo il loro soccorso a Genova. I Governatori genovesi, date queste premesse, non potevano<br />

prevedere le conseguenze <strong>dei</strong> primi tumulti; l’atteggiamento <strong>dei</strong> notabili e di una parte del clero, inoltre, li rassicurava<br />

sulla lealtà della borghesia isolana. È significativo, ad esempio, che alcuni <strong>dei</strong> futuri capi dell’insurrezione nazionale<br />

presero volontariamente la decisione di mantenere l’ordine e riappacificare gli animi 8 . Atteggiamento, con le dovute<br />

sfumature, tipico della maggior parte <strong>dei</strong> notabili, che s’interponevano per riportare i ribelli alla ragione o, come nel<br />

Sartenese, nell’Ornano o nel Capo Corso, mettendosi alla testa di spedizioni punitive contro il “popolaccio”. A questo si<br />

aggiungeva la fedeltà <strong>dei</strong> latifondisti e del clero secolare: è importante sottolineare, prefigurando quello che accadde in<br />

Francia all’inizio della Rivoluzione del 1789, che il clero rifletteva, sul piano ideologico, la diversa estrazione sociale<br />

<strong>dei</strong> propri componenti. Infatti l’alta gerarchia – interamente genovese – era evidentemente schierata dalla parte della<br />

Repubblica (anche se con grande moderazione e con la preoccupazione di riportare gli spiriti alla calma), mentre il clero<br />

secolare, reclutato nella classe <strong>dei</strong> notabili, si divideva in filogenovesi ed in patrioti. <strong>Il</strong> clero regolare, d’origine<br />

popolare, portò tutto il suo sostegno – perfino con le armi – alla rivolta (collette di denaro, asilo nei conventi) 9 . La<br />

fisionomia di questa prima fase della rivolta si delineò in modo chiaro subito dopo lo scoppio iniziale: è necessario,<br />

quindi, seguirne da vicino gli avvenimenti più significativi 10 .<br />

Gli avvenimenti<br />

La scintilla che fece divampare l’incendio è stata, come si è detto, l’incidente accaduto a Bustanico il 27 dicembre 1729.<br />

Gli abitanti <strong>dei</strong> villaggi vicini si rifiutarono di pagare l’imposta, costringendo gli sbirri del collettore a ritirarsi a Corte.<br />

<strong>Il</strong> moto si estese a macchia d’olio nelle altre pievi: imbaldanziti dal successo iniziale e dall’umiliazione inflitta alle<br />

truppe regolari, i ribelli cercarono di coinvolgere chiunque si opponesse alla politica genovese. Alcuni banditi<br />

approfittarono del caos generale per fare <strong>dei</strong> colpi di mano. Questi attacchi non contribuirono ad esaltare l’immagine di<br />

facciata della rivolta agli occhi delle autorità genovesi e <strong>dei</strong> notabili corsi, diffidenti davanti al dilagare della rivolta ed<br />

intimoriti dalle spoliazioni <strong>dei</strong> beni demaniali. Ma in un primo tempo la sollevazione sembrava dilagante: grazie al<br />

saccheggio <strong>dei</strong> depositi di armi, gli insorti erano in grado di predisporre un’operazione militare in grande stile. Nel<br />

febbraio 1730 una piccola armata mise a sacco Bastia per tre giorni. Nello stesso anno furono attaccate San Fiorenzo,<br />

Algajola, Ajaccio e la colonia greca di Paomia, soccorsa in seguito dai genovesi. In Corsica vigeva la totale anarchia: il<br />

vuoto politico venne rapidamente colmato da tutti coloro che potevano dare un contenuto a questa prima rivoluzione: i<br />

notabili e i Nobili Dodici. Non si può dire con certezza se, da parte loro, si è trattato di un abile recupero di un<br />

movimento che li aveva inizialmente sorpresi ed inquietati o, al contrario, della presa di coscienza delle reali cause della<br />

rivolta e di un sincero desiderio di assumerne la responsabilità. Di sicuro coloro che avevano inizialmente assecondato<br />

il governatore Pinelli nella riappacificazione civile e nella repressione della rivolta si erano messi a capo degli insorti.<br />

L’evoluzione <strong>dei</strong> fatti accelerò il rovesciamento delle posizioni: nel dicembre 1730, a San Pancrazio di Furiani, i<br />

6 Cfr. DEFRANCESCHI J., Pasteurs et cultivateurs en Corse au XVIII e siècle, «B.S.S.H.N.C.», 1 (1974), pp. 543 sgg.<br />

7 L’analisi delle 26 voci di questi ragguagli è particolarmente istruttiva sull’atteggiamento <strong>dei</strong> Nobili, che «dicono ed intendono voler vivere<br />

inviolabilmente in una fedeltà incorrotta e nell’obbedienza verso la Serenissima Repubblica di Genova, unico Principe e Sovrano del Regno». Cfr.<br />

BUTTAFUOCO O., Ragguagli degl’ultimi tumulti seguiti nell’isola di Corsica sino al presente, Lucca 1731.<br />

8 È il caso, per non prendere che i principali, di Andrea Ceccaldi, di Luigi Giafferi e di Giacinto Paoli.<br />

9 LAMOTTE P. ha citato uno pseudo-complotto contro Genova, tramato da alcuni francescani corsi nel 1677; questo mostra chiaramente che i monaci<br />

mendicanti erano ostili alla giustizia genovese e sensibili alla miseria <strong>dei</strong> loro compatrioti. Cfr. LAMOTTE P., Baux emphytéotiques et mise en valeur<br />

des biens ecclésiastiques du XIII e au XVIII e siècle, «Études corses», 5 (1955), pp. 18-20.<br />

10 Oltre alla Relazione <strong>dei</strong> tumulti di Corsica del Governatore Pinelli, vedi anche le Memorie dell’abate Rostini (1715-1740) pubblicate dall’abate<br />

LETTERON nel «B.S.S.H.N.C.», dal n. 1 al 30 (1881-1882), quelle di GUELFUCCI B. (1729-1764), pubblicate da Ollagner nel «B.S.S.H.N.C.», 18-20<br />

(1882). Cfr. anche ORESTE G., La prima insurrezione corsa del secolo XVIII, 1730-1733, «Archivio storico di Corsica», 1940-41 e l’articolo citato di<br />

POMPONI F., Émeutes populaires en Corse.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

rivoluzionari elessero tre capi: Luigi Giafferi, per i notabili d’origine popolare; Andrea Ceccaldi Colonna, di Vescovato,<br />

per i nobili; Marc’Aurelio Raffaelli, d’Orezza, per il clero 11 . I tre “Stati” della società erano ormai alleati, anche se gli<br />

obiettivi <strong>dei</strong> capi erano modesti e portavano l’impronta ideologica della classe dominante. Questi interessi si<br />

traducevano perfettamente nelle lamentele presentate dalle pievi al nuovo commissario generale, Veneroso, nel maggio<br />

1731 e comprendevano esigenze d’origine popolare, borghese e feudale, rispecchiando l’amalgama ideologico della<br />

prima fase rivoluzionaria.<br />

Le lamentele sull’eccessiva fiscalità genovese erano prevalentemente di matrice popolare. I contadini ed i pastori<br />

proponevano di ridurre la taglia a 20 soldi, con la soppressione dell’imposta <strong>dei</strong> due seini; aggiungevano, poi, le<br />

doglianze sulla gabella del sale 12 , le recriminazioni contro l’insicurezza dovuta al banditismo e le richieste per il<br />

ristabilimento del porto d’armi. Le richieste <strong>dei</strong> notabili possono essere ricondotte alla nostalgia di una feudalità quasi<br />

scomparsa: richiesta di ripristino del titolo di Baroni del Regno, della primogenitura e di altre prerogative feudali. Più<br />

concrete e dettagliate le richieste della classe borghese-notabilare, intenzionata ad ottenere l’accesso alle cariche di<br />

responsabilità nell’amministrazione, nell’esercito, nella magistratura e nel clero. Propriamente economiche, infine, le<br />

lamentele del notabilato fondiario, promotore dell’espansione agricola isolana: proteste contro le tasse eccessive, contro<br />

il monopolio <strong>dei</strong> mercanti genovesi, contro il protezionismo di Genova e contro tutti gli intralci alla prosperità<br />

economica, con conseguente richiesta di sovvenzioni per l’agricoltura.<br />

Nell’insieme, quindi, nulla di sovversivo, di rivoluzionario. L’ordine sociale non era messo in discussione; il principio<br />

di obbedienza alla Repubblica, di fedeltà al Principe era costantemente riaffermato. Non è facile comprendere quando<br />

sia avvenuto il punto di rottura tra i ribelli e la Dominante: probabilmente la moderazione <strong>dei</strong> capi si è trasformata in<br />

rottura per la scarsa attenzione <strong>dei</strong> Serenissimi Collegi. La presa di Bastia, nel febbraio 1730, aveva costretto i genovesi<br />

ad una politica più energica: il nuovo governatore, Veneroso, fece esporre sulle mura della città il corpo del bandito<br />

Fabio Vinciguerra e mise a ferro e fuoco Vico e Furiani, villaggi focolai della ribellione. A questa repressione seguì un<br />

nuovo attacco <strong>dei</strong> ribelli contro Bastia: in città scoppiò il panico e molti ricchi commercianti si rifugiarono in Italia. <strong>Il</strong><br />

successore di Veneroso, aiutato dal vescovo di Mariana, ottenne una tregua di quattro anni, concedendo la diminuzione<br />

delle imposte. Apparentemente, la pace sembrava raggiunta: in realtà gli insorti avevano preso coscienza della loro<br />

forza ed i nuovi capi eletti nella Consulta di San Pancrazio, nel dicembre 1730, preparavano un nuovo attacco.<br />

La Consulta d’Orezza<br />

Nell’aprile 1731 si aprì una nuova Consulta al Convento di Orezza, cui presero parte venti teologi, presieduta dal<br />

canonico Orticoni, che nel 1730 aveva dato prova di una prudente riserva davanti alle prime manifestazioni di rivolta.<br />

Quest’uomo di Chiesa si impegnò con prudenza ad invitare i corsi ad attendere il termine delle negoziazioni intavolate<br />

con Genova 13 . I capi militari giocarono subito la carta del negoziato, ma allo stesso tempo cercarono degli alleati in<br />

Italia e presso le grandi potenze europee, preparando l’estensione militare del movimento antigenovese: fu indirizzato<br />

anche un appello ai corsi del Diladamonti. Giafferi si recò a Livorno per perorare la causa <strong>dei</strong> ribelli presso quella<br />

colonia corsa, mentre il canonico Orticoni partì per Roma per sollecitare l’intervento del papa Clemente XII. Orticoni si<br />

rivolse anche all’infante don Carlos (futuro Re di Napoli e di Sicilia), al Granduca di Toscana ed al al Re Filippo V.<br />

Questi rinnovò, nel giugno dello stesso anno, la promessa d’intervento diretto, ma il gioco diplomatico internazionale<br />

non permise mai al Re di Spagna d’intervenire direttamente negli affari di Corsica.<br />

Gli Imperiali in Corsica<br />

Genova, al contrario, prese l’iniziativa e trovò un potente alleato nell’Imperatore d’Austria Carlo VI. Inquieto per le<br />

mire spagnole sull’Italia che, dopo il 1715, era diventata quasi un suo dominio riservato, l’Imperatore Carlo VI accettò<br />

di buon cuore la richiesta d’aiuto presentata da Genova. Così, nell’agosto 1731, agli ordini del colonnello-barone<br />

Wachtendonck, sbarcarono a Bastia 8.000 uomini d’artiglieria. Congiuntisi alle truppe genovesi di Doria, essi non<br />

ebbero alcuna difficoltà a rovesciare una situazione militare decisamente sfavorevole a Genova. Come altre volte in<br />

passato i corsi, poco armati e impreparati per attacchi frontali in campo aperto, dovettero retrocedere di fonte a soldati<br />

di mestiere, organizzati e disciplinati. Ma Wachtendonck, che aspettava invano <strong>dei</strong> rinforzi e l’approvvigionamento<br />

promesso da Genova, decise di negoziare un armistizio e di fermarsi a Bastia, da cui si limitò, per tutto l’autunno e<br />

11 STAGNARA V., Le sens de la révolution corse, «Les Temps Modernes», avril 1976, pp. 1670-1686. Vd. Anche VINCENTELLI M., Evénements<br />

survenus après la Révolution corse de 1729, Marseille 1983 ed ID., Récit de la révolution corse: recueil de documents secrets d’Etats, Paris 1981.<br />

12 Per il commercio del sale tra Genova e la Corsica, cfr. i documenti dell’Archivio di Stato di Genova: fondo Archivio Segreto, fascicolo 2111 (1764-<br />

1765), Lettera di Agostino Spinoni del 13 luglio 1765; l’art. 15 del Progetto sulla pratica di corsica consegnato a me seg.rio dal mag.co Ambr.o<br />

D’Oria del 30 novembre 1767, fondo Diversorum Corsicae, mazzo 2110; il Piano deliberato dai Ser.mi Collegi li 21 feb.o 1768 nel fondo Archivio<br />

Segreto, fascicolo 2112; il Biglietto <strong>dei</strong> calici al Minor Consiglio del 25 gennaio 1768, fondo Diversorum Corsicae fascicolo 2111; Nota sulla vendita<br />

del Sale in Bastia (10 agosto 1768) nel fondo Archivio Segreto, fascicolo 2112 e rispettive tabelle esplicative <strong>dei</strong> prezzi.<br />

13 Cfr. ETTORI F., Le congrès des théologiens d’Orezza cit. Sull’argomento vedi anche CASANOVA A., Historie de l’église corse cit.; JEMOLO A.C.,<br />

Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, Torino 1914; LABARRE DE RAILLICOURT, Les comtes du Pape en France,<br />

Paris 1965-1967; PASTOR (VON) L., Storia <strong>dei</strong> Papi dalla fine del Medioevo, voll. XV e XVI, Roma 1933-34; BORDINI C., Rivoluzione corsa cit.;<br />

FONZI F., Le relazioni fra Genova e Roma al tempo di Clemente XIII, «Annuario dell’istituto italiano per l’età moderna e contemporanea», VIII<br />

(1957). Per le fonti archivistiche vedi Archivio Segreto Vaticano, fondo Segreteria di Stato, serie Corsica, fascicoli 8 e 9 ed Archivio di Stato di<br />

Roma, fondo Congregazione degli Spogli, buste 132 e 133; fondo Camerlengato, parte I, busta n. 47 (1816-1823) I. affari esteri, disposizioni e<br />

regolamenti, fogli 6 e 7, nota <strong>dei</strong> consoli pontifici nei paesi europei, Genova.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

l’inverno 1731-1732, a lanciare qualche spedizione, talvolta anche fortunosa 14 . <strong>Il</strong> disaccordo con il Governatore<br />

genovese, la simpatia per i corsi, del cui coraggio egli rimase impressionato, la riprovazione <strong>dei</strong> metodi di guerra<br />

genovesi, spiegavano l’atteggiamento di attesa di Wachtendonck. Ed infatti Genova, non soddisfatta <strong>dei</strong> deboli risultati<br />

ottenuti, lo rimpiazzò nel maggio 1732 con il principe di Wurtenberg. I capi dell’insurrezione riuniti a Vescovato<br />

lanciarono invano, nel febbraio 1732, un appello ai corsi del continente 15 : il principe di Wurtemberg, con una politica<br />

ferma, unita alla promessa dell’amnistia generale, riuscì a far imprigionare Giafferi e Colonna e a sottomettere gli<br />

insorti, sensibili alla mediazione dell’armata Imperiale. L’Imperatore, tenendo fede alle promesse, fece pressione su<br />

Genova per spingerla ad una politica di riappacificazione. Nel gennaio 1733 furono pubblicate le Concessioni graziose,<br />

abilmente costruite per disarmare la ribellione con delle misure che interessavano tutte le classi sociali 16 . La nobiltà vide<br />

ristabiliti i propri privilegi; al clero corso furono riservati numerosi benefici, mentre i popolani ottennero il perdono ed<br />

il condono da tutte le imposte non pagate. Tra le altre disposizioni, veniva riconosciuta la figura dell’Oratore presso<br />

Genova, di un Magistrato per la difesa degli isolani e di un Avvocato, scelto tra i Diciotto, per perorare le cause delle<br />

vittime degli abusi amministrativi. Infine, delle misure più generali contribuivano a raggirare i notabili: fondazione di<br />

un Collegio in Scienze divine ed umane, creazione di tre Promotori delle arti e del commercio, istituzione, in ciascuna<br />

pieve, di un Uditore come tribunale civile, incoraggiamento per la produzione della seta. Queste Concessioni,<br />

completate da ulteriori misure alla fine del gennaio 1733, testimoniavano comunque un desiderio di pace e di equità,<br />

confermato dalla liberazione <strong>dei</strong> capi dell’insurrezione e dalla partenza delle truppe imperiali. Questa partenza segna la<br />

fine della prima fase dell’insurrezione e, sul piano internazionale, dell’intervento austriaco.<br />

§ 2. La Costituzione del 1735 ed il Re Teodoro.<br />

La ripresa delle ostilità venne riaffermata, nel novembre 1733, da Giacinto Paoli, nella pieve di Rostino, quando mise in<br />

fuga i genovesi venuti ad arrestarlo. La politica repressiva di Genova e l’arresto <strong>dei</strong> capi storici (Ceccaldi, Giafferi,<br />

Aitelli, Raffaelli), rinchiusi, contrariamente alle promesse fatte nella pace di Corte, nel carcere di Genova, esasperò le<br />

relazioni tra le Parti. Alla notizia del ritorno del Governatore Pinelli, nel 1734, l’insurrezione riprese vigore.<br />

I genovesi dovettero affrontare la rivolta del Golo e di Ampugnani, ma riuscirono a sottomettere Corte. I ribelli,<br />

incoraggiati dalla promessa di un aiuto straniero, cercarono ad estendere la sollevazione, guadagnando una parte del<br />

Diladamonti. <strong>Il</strong> ritorno di Giafferi e di Aitelli e la nomina di Giacinto Paoli a Generalissimo erano la prova evidente<br />

della ripresa delle ostilità. La congiuntura internazionale sembrava favorevole agli insorti e sfavorevole a Genova: lo<br />

scoppio della guerra di Successione polacca costrinse gli ultimi contingenti austriaci ad abbandonare la Corsica. Gli<br />

insorti invocarono allora l’aiuto della Spagna: il canonico Orticoni propose a Filippo V di mettere l’isola sotto la sua<br />

protezione. Si aspettavano soccorsi anche dall’Italia: Carlo III di Borbone era salito sul trono di Napoli ed era un<br />

protettore ed un amico di molti capi corsi. Anche la Francia osservava l’evolversi delle vicende isolane con la massima<br />

attenzione: la Corsica costituiva uno degli interessi primari della diplomazia francese.<br />

La Consulta di Corte e la Costituzione del 1735<br />

Rassicurati sotto l’aspetto militare, gli insorti si preoccuparono di dare alla rivolta una base giuridica che permettesse<br />

loro di apparire, agli occhi dell’opinione internazionale, non più come <strong>dei</strong> semplici ribelli, ma come <strong>dei</strong> patrioti in lotta<br />

per la conquista dell’indipendenza. Questo è il significato profondo della Consulta di Corte, da cui emerse quella che è<br />

stata chiamata la Costituzione del 1735: preparata dall’avvocato Sebastiano Costa, arrivato nell’isola dall’Italia nel<br />

dicembre 1734, la Costituzione organizzava la Corsica come uno Stato sovrano 17 . La storiografia tradizionale si è a<br />

lungo dibattuta sulla presunta o reale concezione democratica del testo rivoluzionario: alle considerazioni di Paul<br />

Arrighi e Jean Marie Castellin, che consideravano i provvedimenti disciplinati dalla carta addirittura come precursori<br />

della costituzione della Francia rivoluzionaria del 1792, si sono contrapposte le analisi di Fernand Ettori e di René<br />

Emmanuelli, tese a sminuire completamente il valore di questo testo. Bisogna convenire, con quest’ultimo, che la<br />

costituzione del 1735 rispondeva all’esigenza della classe dirigente di fortificare i propri poteri. <strong>Il</strong> testo era più un<br />

insieme di risoluzioni, che una vera carta costituzionale: esso sanciva il potere di Giafferi, Paoli e Ceccaldi (i Primati) e<br />

di una Giunta di dodici membri. È sicuramente esagerato parlare di democrazia per un governo insurrezionale<br />

provvisorio ed autolegittimato, ma è anche vero che era delegato al popolo (attraverso i Padri di comune) il controllo<br />

<strong>dei</strong> poteri locali. <strong>Il</strong> Governo, costituito da un triumvirato, delegava una parte <strong>dei</strong> poteri ad una Giunta eletta<br />

dall’esecutivo. Furono istituiti degli Inquisitori di Stato incaricati di rintracciare e punire coloro che pensavano di<br />

14 A Calenzana esiste ancora il campo <strong>dei</strong> tedeschi in cui riposano 500 soldati sconfitti dagli uomini e dalle donne che difesero il villaggio. Cfr.<br />

COSTA S., grand chancelier du roi de Corse Théodore de Neuhoff, Mémoires (1732-1736), éd. critique, traduction et notes par LUCIANI R., Paris/Aix<br />

1975, p. 21 e BONAPARTE P., La Bataille de Calenzana, Paris 1915.<br />

15 Nell’appello, tra l’altro, si affermava che «I secoli a venire conserveranno la memoria di questi corsi che preferirono morire tutti piuttosto che<br />

vivere più a lungo nella schiavitù…La patria è in pericolo…Ah! Lasciate le vostre piume e prendete le vostre armi…Nati con noi, venite a morire con<br />

noi. Morire in patria è una sorte gradevole».<br />

16 L’accordo tra corsi e genovesi era stato concluso a Corte, l’11 maggio 1732, con le seguenti condizioni: 1) Amnistia generale; 2) Rinuncia ad ogni<br />

indennità per i fatti di guerra; 3) Abbandono di tutte le tasse precedenti; 4) Ammissione <strong>dei</strong> corsi ad ogni impiego civile, militare o ecclesiastico; 5)<br />

Diritto di fondare <strong>dei</strong> collegi e libertà dell’insegnamento; 6) Ristabilimento <strong>dei</strong> Dodici, <strong>dei</strong> Sei e di un Oratore con tutti i suoi privilegi; 7) Diritto di<br />

difesa per gli imputati; 8) Creazione di un tribunale incaricato di denunciare i funzionari pubblici. Questa convenzione così vantaggiosa per i corsi,<br />

doveva essere eseguita sotto la garanzia dell’Imperatore. Cfr. Chronique de Simeon de Buochberg cit., chap. VII, p. 153.<br />

17 Cfr. il testo della Costituzione all’Archives dèpartementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, serie N, cartons 3 e 4.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

negoziare con Genova e bruciati simbolicamente gli Statuti e le leggi accordate dalla Repubblica fino a quel momento.<br />

Si trattava di misure di guerra che testimoniavano la volontà di tagliare i ponti con la madrepatria e di provocare<br />

l’irreparabile. Molti storici hanno concluso, un po’ frettolosamente 18 , che la Costituzione del 1735 proclamava a viso<br />

aperto l’indipendenza della Corsica, dimenticando, da un lato, che la parola “indipendenza” non figurava nel testo e che,<br />

dall’altro, si continuava a sperare nell’intervento della Spagna. In ultima analisi questa costituzione del 1735 era<br />

l’immagine di un governo di notabili che prendeva su di sé un movimento insurrezionale d’origine popolare e che,<br />

abilmente, accordava al popolo la gestione degli interessi comunali. Concessione politica unita ad una concessione<br />

spirituale: la Corsica venne posta sotto la protezione della Vergine, come recitava l’inno nazionale (Dio vi salvi<br />

Regina) 19 . Sul piano militare, la Dominante rispose agli insorti con un blocco economico che rese insostenibile la<br />

situazione alimentare dell’isola e con azioni di rappresaglia nelle città presidiate. Sul piano diplomatico, la situazione<br />

internazionale giocava a favore di Genova: se l’Austria non poteva accorrere in suo aiuto, la Spagna si asteneva dal dare<br />

l’assenso ai ribelli, ormai avviliti. <strong>Il</strong> Governatore Pinelli, richiamato per l’eccessiva severità, venne sostituito con Gian<br />

Battista Rivarola, più moderato e diplomatico. La situazione era in stallo e non sembrava esserci via d’uscita quando,<br />

nel 1736, sbarcò ad Aleria un personaggio inaspettato.<br />

Figura 11: <strong>Il</strong> Convento di Alisgiani, dove venne siglata la Costituzione del 1735.<br />

<strong>Il</strong> Re Teodoro<br />

Teodoro di Neuhoff non ha goduto di molta fortuna presso gli storici francesi ed ha giustamente sollevato la<br />

considerazione di Emmanuelli: «non c’è mai stato, in tutta la storia della Corsica, un personaggio più maltrattato del Re<br />

Teodoro» 20 . La storiografia inglese, al contrario, ha ridelineato la figura del Re di Corsica in maniera più oggettiva,<br />

riconoscendogli quei meriti che, forse ingiustamente, la maggioranza della storiografia francese gli aveva negato 21 . La<br />

cosa più sorprendente, nell’avventura rocambolesca di questo ricco avventuriero tedesco intenzionato a creare un Regno<br />

nell’isola, è il fatto che l’abbiano posto in trono gli stessi corsi. <strong>Il</strong> tentativo di Teodoro aveva l’appoggio di alcuni capi<br />

della rivolta, come Orticoni e Costa, intenzionati a donare all’isola un nuovo Principe. Dopo quattro anni di preparativi<br />

e di intrighi, il barone di Neuhoff 22 sbarcò il 12 marzo 1736 sulla spiaggia di Aleria, dove venne ricevuto da tutti i capi<br />

18 Cfr. ARRIGHI J.M., CASTELLIN P., Projets de constitution pour la Corse, Ajaccio 1980, pp. 15-27. Vedi anche CARRINGTON D., The Dream Hunters<br />

of Corsica, London 1995; ID., This Corsica: a complete guide, London 1962 e AA.VV., Le bicentenaire et ces îles que l’on dit françaises, Bastia<br />

1989.<br />

19 <strong>Testo</strong> integrale dell’inno corso: «Diu vi salvi Regina /E madre universale/ Per cui si sale/ Al paradisu. Voi siete gioia e risu/ Di tutti i scunsulati/ Di<br />

tutti i tribulatti/ Unica speme. A voi sospira è geme/ <strong>Il</strong> nostru afflitu core/ In un mar di dolore/ E d’amarezza. Maria, mar di dolcezza/ I vostri occhi<br />

pietosi/ Materni ed amorosi/ A noi volgete. Noi miseri accogliete/ Nel vostru santu velu/ <strong>Il</strong> vostru figliu in celu/ A noi mostrate. Gradite ed ascultate/<br />

O vergine Maria/ Dolce e clemente e pia/ Gli afflati nostri accogliete. Voi da nemici nostri/ A noi date vittoria/ E poi l’eterna gloria/In paradisu».<br />

20 Cfr. EMMANUELLI R., Précis d’Histoire Corse, Ajaccio 1970, p. 142; Altre considerazioni sulla figura del Re Teodoro provengono anche dai<br />

letterati illuministi: VOLTAIRE ha messo in scena Teodoro esiliato a Venezia che riceve l’elemosina da Candide. PAISIELLO G. gli ha consacrato<br />

un’opera buffa: <strong>Il</strong> Re Teodoro (1784), che fu tradotta in francese e recitata davanti a Napoleone nel 1806.<br />

21 Cfr., per la storiografia inglese sul Re Teodoro: ANON J., History of Theodore, London 1739; FREDERICK D., Description of Corsica by a man who<br />

claimed to be the son of Theodore Neuhoff, King of Corsica, London 1795; FITZGERALD P., King Theodore of Corsica, London 1890; PIRIE V., His<br />

Majesty of Corsica - a biography of King Theodore - a racy story about a racy man, who died a pauper in London, London 1939.<br />

22 Figlio di un barone tedesco e di una borghese fiamminga, Teodoro nacque a Colonia nel 1694. Paggio della Duchessa d’Orleans, madre del<br />

Reggente Filippo II di Francia, passò in seguito al servizio del Primo ministro del Re di Svezia, Carlo XII, che lo incaricò di alcune missioni in<br />

Spagna, dove conobbe il cardinale Alberoni. Dopo aver sposato una delle damigelle d’onore di Elisabetta Farnese, entrò nelle grazie del futuro Primo<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

ribelli dell’isola. Eletto Re per acclamazione, approvò una costituzione monarchica 23 che prevedeva una Dieta di 24<br />

membri (16 per il Diquà, 8 per il Dilà), un’imposta modesta, un’Università, un ordine per la nobiltà e l’accesso <strong>dei</strong> corsi<br />

agli impieghi pubblici. Divenuto Re dell’isola, acclamato, posto sotto la protezione della Trinità e dell’Immacolata<br />

Vergine Maria, Teodoro prese il suo ruolo sul serio. Se è vero che la folla poteva essere sedotta dalla luce di questo<br />

nuovo personaggio, i notabili che lo avevano accolto forse credevano di poterlo neutralizzare rapidamente: all’ombra<br />

della sua regalità, che adulava il loro orgoglio, essi tenevano le fila del potere. Teodoro fondò un ordine di Cavalleria<br />

(l’Ordine della Liberazione), distribuì titoli onorifici e nominò a profusione titoli di marchesi e di conti. Al di là<br />

dell’aspetto farsesco del regno teodoriano, bisogna comunque notare, con Emmanuelli, che il Re di Corsica era<br />

effettivamente intenzionato a governare ed amministrare nel miglior modo possibile l’isola, anche in contrapposizione<br />

ai capi rivoluzionari.<br />

Innanzitutto, Teodoro tentò di organizzare un esercito regolare, di fornirgli delle armi e degli obiettivi, ma con scarso<br />

successo e con la quasi totale indifferenza <strong>dei</strong> capi rivoluzionari. Era riuscito a proclamare qualche atto, come la<br />

creazione di una moneta 24 , ma le casse dello Stato erano vuote. Altro atto significativo è stato quello di estendere il<br />

dazio d’importazione alle materie prime ed ai prodotti manifatturieri: decisione eccellente, ma che non poteva bastare a<br />

risvegliare l’economia isolana. Teodoro fece, inoltre, appello agli operai stranieri ed ai banchieri giu<strong>dei</strong> d’Algeria per<br />

favorire la loro permanenza sull’isola, fondò concerie, fabbriche d’armi, saline e contemporaneamente ridusse la gabella<br />

sul sale. A questo bisogna aggiungere una decisione che gli rende onore e che sorprese i corsi: il riconoscimento della<br />

libertà religiosa, a cui teneva personalmente sin dal suo arrivo. Considerando le cose nella loro complessità, Teodoro si<br />

era comportato meglio di quanto declamava la propaganda genovese, indispettita nel vedersi messa in scacco da un<br />

personaggio sconosciuto, che non aveva nessuna garanzia presso le Corti europee. La fine della monarchia era<br />

inevitabile e venne provocata dagli stessi corsi e dall’indifferenza ostile e contrariata delle grandi potenze. La Francia<br />

era inquieta, perché vedeva in Teodoro un agente dell’Inghilterra, della Spagna o di Napoli (gli ambasciatori ed i<br />

consoli francesi non riuscivano a capire quali amicizie coltivasse nelle corti europee quest’uomo diabolico);<br />

l’Inghilterra prese addirittura il partito estremo di vietare ai suoi sudditi ogni forma di aiuto; la Spagna e l’Austria si<br />

mantenevano prudenti. Genova era riuscita a screditare Teodoro con un’intensa propaganda (mista di calunnia e di pura<br />

fantasia) e, soprattutto, Teodoro non era riuscito a portare alcun successo militare: questa sicuramente è stata una delle<br />

cause della disaffezione <strong>dei</strong> sudditi. La creazione dell’Ordine della Liberazione non poteva certo far riconquistare al Re<br />

l’appoggio <strong>dei</strong> notabili, che avevano aperto gli occhi e compreso l’inanità delle promesse di un aiuto esterno. Teodoro si<br />

rese conto che tutto era ormai perduto e volle chiudere in bellezza: nominò Paoli e Giafferi comandanti supremi del<br />

Dilà, Ornano governatore del Diquà e l’11 novembre 1736 si imbarcò per Livorno travestito da prete. Così si concluse<br />

un’avventura, durata appena sette mesi, che ha lasciato delle tracce profonde nell’immaginario collettivo <strong>dei</strong> corsi.<br />

Infatti, il significato dell’episodio teodoriano si trova nel contrasto tra la popolarità del Re presso il popolo delle<br />

campagne e la diffidenza <strong>dei</strong> notabili, che dopo gli entusiasmi iniziali l’abbandonarono al suo destino. Teodoro non era<br />

partito senza la speranza di poter tornare; nel settembre 1738 il Re si ripresentò alla testa di una piccola squadra di tre<br />

vascelli e sbarcò ad Aleria con diverse armi: ben accolto dai contadini, non trovò nessuno <strong>dei</strong> suoi vecchi collaboratori<br />

ad attenderlo e decise di ritirarsi a Napoli. Nel 1743 un nuovo sbarco del Re Teodoro all’Isola Rossa con l’aiuto degli<br />

inglesi, terminò con uno scacco definitivo 25 .<br />

ministro spagnolo Riperda; passò in Francia con il suo protettore, il cardinale Alberoni, e conobbe John Law, trovandosi intrappolato nella rovina<br />

finanziaria del ministro francese. Da qui passò in Olanda, in Inghilterra ed alla fine a Livorno, dove incontrò gli esuli corsi (Giafferi, Ceccaldi, Aitelli,<br />

Orticoni e Costa). Questi ultimi furono sedotti dal bell’aspetto, dall’eloquenza, dalle arie da gran signore e dalle belle parole del barone, che si<br />

vantava di poter guadagnare ai corsi la fiducia di molte Corti europee, dove aveva effettivamente degli amici. Essi credevano di aver trovato<br />

l’aggancio con le più forti potenze del mondo, ma Teodoro in realtà si era visto chiudere molte porte nelle capitali europee, riuscendo a trovare aiuto<br />

solamente a Tunisi, da dove preparò la spedizione in Corsica.<br />

23 Si riportano alcuni articoli della Constitution d’Alisgiani, riportata da LETTERON nel «B.S.S.H.N.C.», 154 (1893): «…omissis…Articolo 5: Che a tal<br />

fine debba stabilirsi, ed ellegersi una Dieta nel Regno, la quale debba esser composta di 24 Soggetti de’ più qualificati benemeriti, cioè 16 du quà da<br />

Monti, et 8 del di là da Monti, et che tre soggetti della medesma Dieta, cioè due di quà da Monti, et uno di là da Monti debbano sempre rissiedere<br />

dove serà la Corte del Sovrano, e Re, il quale potrà senza il consenso di detta Dieta prendere risoluzione alcuna, nè quanto all’imposizione di Dazj, nè<br />

quanto a Determinazioni di guerra …omissis… Articolo 11: Che la robba, e merci de’ Nazionali da estraersi dal Regno per Terra Ferma, o da<br />

trasportirsi di luogo in luogo, o di scalo in scalo per il Regno, non siano soggetti a dazio, o Gabella alcuna…omissis…Articolo 13: Che il Tributto, o<br />

sia taglia annuale da pagarsi dai corsi non debba eccedere lire tre monetta corrente per ciasched’un Capo di famiglia, e che restino abolite le mezze<br />

taglie, che solevano pagar le Vedove, e li Pupilli sino all’età d’anni 14, doppo de’ quali dovranno esser anche loro obligati come li altri…omissis…<br />

Articolo 16: Che dal Re si faccia subito, e constituisca nel regno un ordine di vera Nobiltà per il decoro del Regno, e Beni Nazionali».<br />

24 Le iniziali T. R. (Theodorus Rex) erano interpretate sia come Tutto Rame dai nemici di Teodoro, quanto Tutti Ribelli dai genovesi. Vedi CALVET-<br />

BENETTI R., Scudi et soldi du Roi Théodore, «Corse historique», 26 (1967), pp. 13-35.<br />

25 Errando di paese in paese (Italia, Germania, Olanda), Teodoro si ritirò finalmente a Londra, dove condusse una vita miserabile, suscitando il<br />

pubblico riso. Imprigionato per debiti e tentato omicidio, venne liberato, ma finì i suoi giorni in miseria totale nel dicembre 1756.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

Figura 12: la Corsica in una mappa di Homann del 1732.<br />

§ 3. <strong>Il</strong> Primo intervento francese (1736-1742)<br />

La guerra, anche senza il Re Teodoro, non era finita: tra gli insorti lo scoraggiamento era grande ed i capi domandarono<br />

invano una tregua. Genova nel frattempo si era rivolta alla Francia, alleata e protettrice naturale, anche perché<br />

l’Imperatore d’Austria, alle prese con i Turchi, non poteva prestarle soccorso. L’entrata in scena della Francia era<br />

prevedibile da lungo tempo. Con la Guerra di Successione Spagnola (1700-1713) e l’avvento di Filippo V al trono di<br />

Spagna, la posizione strategica della Corsica destava l’interesse della Francia, opposta all’Impero, all’Inghilterra ed<br />

all’Olanda. I trattati di Utrecht e Rastadt (1713-1714), che consegnavano, di fatto, l’Italia all’Austria, spensero<br />

momentaneamente l’interesse francese verso la Corsica 26 . La Question de la Corse tornò all’ordine del giorno per<br />

volontà di Chauvelin, segretario di Stato agli affari esteri, e del cardinale Fleury, ministro di Luigi XV. Probabilmente si<br />

pensava già ad un’annessione della Corsica alla Francia, da quanto emerge dalla lettura del dispaccio di Chauvelin a<br />

Campredon del 26 aprile 1735: le linee direttive e l’obiettivo finale erano stati già tracciati fermamente. L’abilità<br />

diplomatica della Francia consisteva nel preparare Genova per prima, l’Europa poi, ad un effettivo passaggio di poteri.<br />

Per il momento non si poteva parlare di annessione pura e semplice, perché la Francia non pensava ad un trasferimento<br />

di sovranità, anche se era esplicitamente previsto che Genova potesse «accomodarsi con Noi per un trattato di<br />

cessione» 27 .<br />

Dopo la parentesi teodoriana, la politica di Campredon cominciò a portare i suoi frutti. Le migliori teste della<br />

26 I Trattati di Utrecht (1713) e di Rastadt (1714) avevano concesso all’Impero il Milanese, i presidi della Toscana, la Sardegna e Napoli, poi perduta a<br />

beneficio della Spagna; nonostante il trattato di Vienna (1731), che sottolineava il ritorno della Spagna (il ducato di Parma passò a Don Carlos), a<br />

Carlo VI restava ancora la Lombardia. Cfr. VENTURI F., Settecento Riformatore, vol. V**, da Muratori a Beccaria, pp. 9-15 e BROCHE G.E., La<br />

République de Gênes et la France pendant la guerre de Succession d’Autriche (1740-1748), Paris 1935.<br />

27 <strong>Il</strong> testo del dispaccio di Chauvelin è fondamentale per la comprensione <strong>dei</strong> successivi trent’anni di politica francese. I mezzi a breve termine erano<br />

definiti chiaramente: «Bisogna cominciare da oggi a formare sottilmente in Corsica un partito e fare in modo che cresca saggiamente e<br />

segretamente…sforzarsi di condurre le cose a tal punto che tutti gli abitanti in Corsica si dichiarino d’un colpo solo sotto tutela francese; allora il Re<br />

invierà sul campo delle truppe, perché gli abitanti lo avranno chiesto». Era necessaria una certa duplicità diplomatica: «Noi dichiareremo, allo stesso<br />

tempo, a Genova che abbiamo inviato le truppe per impedire ai corsi di vendersi a qualcun altro, e che siamo pronti a rimettere, se è possibile, il<br />

popolo all’obbedienza della Repubblica, a meno che Essa non ritenga di doversi accomodare con Noi per un trattato di cessione». Cfr. il Dispaccio del<br />

M. Chauvelin a Campredon, lettre 26 avril 1736, Archives Nationales, Parigi, fondo M//1018/11/2 Papiers trouvés dans le cabinet de M. le Comte de<br />

Boissieux lieutenant general, comandant les troupes de S. M. en Corse, aprés sa mort arrivée en Corse en 1739. Vedi anche i documenti riportati<br />

dall’abate LETTERON, Correspondance des agents de France a Gênes avec le Ministére, Anno 1730 e seguenti, «B.S.S.H.N.C.», XXI a., 241-247<br />

(1901). Cfr. anche le fonti dell’Archives Nationales, Paris, Correspondance consulaire B 1 581, relative al periodo 1729-1744.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

Repubblica si comportavano esattamente come Chauvelin aveva previsto dieci anni prima: l’abilità consisteva<br />

nell’associare, sulla carta, il Re di Francia e l’Imperatore d’Austria. In questo modo si potevano evitare sia la<br />

suscettibilità di Carlo VI, sia i timori dell’Inghilterra e della Spagna. La convenzione firmata il 10 novembre a<br />

Fontainebleau 28 , comportò una clausola carica di conseguenze per l’avvenire: era riconosciuta, infatti, una diminutio<br />

potestatis per Genova, costretta a rapportarsi alla giustizia di Sua Maestà e dell’Imperatore per fissare l’eventuale<br />

accordo di pace con i corsi. La Repubblica aveva sottovalutato questo scacco diplomatico: la Corsica era di nuovo<br />

diventata una pedina sullo scacchiere internazionale.<br />

Boissieux e Maillebois<br />

L’8 febbraio 1738 un corpo di spedizione francese di 3.000 uomini sbarcò a Bastia, al comando del Conte di Boissieux.<br />

Da parte corsa, come da parte francese, non si pensava affatto alla guerra. Gli ordini impartiti al capo francese erano di<br />

dar prova di moderazione e di interporsi tra Genova ed i corsi come mediatore ed arbitro. Dopo la disfatta di Neuhoff,<br />

Boisseux pretese il disarmo generale <strong>dei</strong> corsi, confermando gli ordini impartiti da Genova. Ma la fuoriuscita<br />

improvvisa delle truppe francesi dalle loro piazzeforti in direzione di Borgo fece di nuovo scoppiare la polveriera corsa:<br />

i francesi, attaccati dai ribelli, furono costretti a ritirarsi in disordine a Bastia (13 dicembre 1738). Questa disfatta di<br />

Borgo, cui è stato dato il nome di Vespri corsi, segnarono la fine della missione di Boissieux. I francesi, colpiti nel<br />

profondo per lo smacco subito, cercarono di risollevare il loro prestigio, tentando di riprendere in mano la situazione.<br />

<strong>Il</strong> compito di riorganizzare le truppe francesi fu affidato, nel marzo 1739, al marchese di Maillebois. Conformemente<br />

alle istruzioni ricevute, egli condusse l’azione su due fronti: militare, per sedare le ribellioni, e politico, per persuadere i<br />

corsi che la Francia non aveva altro obiettivo che il benessere e la tranquillità del paese. La campagna militare si<br />

concluse presto nel Diquà, meno agevolmente nel Dilà, che tenne testa ai francesi fino al 1740. I capi corsi nel luglio<br />

1739 s’imbarcarono per l’Italia 29 : a Maillebois erano bastati meno di due mesi per pacificare la Corsica; ora si trattava<br />

di consolidare la conquista sul piano politico. Egli prese le distanze dalle direttive del Governatore genovese ed iniziò<br />

una politica d’apertura al partito francese: questo partito si costituì attorno ad alcuni notabili ed aristocratici, tra cui una<br />

dama di Sartena, Bianca Rossi Colonna, che sembra sia stata un agente segreto della Francia. Maillebois, che si vantava<br />

d’aver «trovato la Corsica in mano ai demoni» e d’averne fatto «l’isola degli angeli», promosso Maresciallo di Francia,<br />

si sforzò di convincere la corte, con una memoria del 21 agosto 1739, che l’interesse della Francia consisteva nel<br />

sostituirsi a Genova nell’amministrazione diretta della Corsica. L’ambasciatore francese tentò invano di persuadere la<br />

Repubblica della purezza d’intenzioni di Parigi: Genova, com’era prevedibile, rifiutò questo tipo d’interessamento.<br />

Tuttavia la morte dell’Imperatore Carlo VI (ottobre 1740) e l’inizio della guerra di Successione austriaca, costrinsero la<br />

Francia ad abbandonare temporaneamente il progetto di annessione dell’isola 30 . La presenza di Maillebois nell’isola, per<br />

quanto breve, testimoniava lo scarso potere militare ed amministrativo di Genova: la Repubblica appariva ormai<br />

incapace di spegnere la rivolta senza l’aiuto straniero. D’altro lato, era ormai evidente, agli occhi della diplomazia<br />

europea, che la Francia aveva <strong>dei</strong> progetti ben precisi sulla Corsica e che il suo intervento armato nascondeva <strong>dei</strong><br />

disegni - nemmeno troppo velati - di annessione 31 . La partenza di Maillebois, che ha concluso il primo ciclo francese<br />

(poco più di tre anni: febbraio 1738 - maggio 1741), cambiò sicuramente i sentimenti <strong>dei</strong> corsi verso la Francia, ma non<br />

placò affatto l’odio verso Genova. La lotta sarebbe ricominciata alla prima occasione.<br />

28<br />

10 novembre 1738: a Fontainebleau venne siglata la convenzione tra la Francia e Genova, conformemente alle proposizioni del 5 agosto. Cfr.<br />

MONTI A.D., La grande revolte des corses contre Gênes 1729-1769, Cervioni 1978, p. 20.<br />

29<br />

«<strong>Il</strong> 10 luglio 1739 Giacinto Paoli, suo figlio Pasquale, di 14 anni, Giovan Giacomo Ambrosi, Luigi Giafferi, Don Antonio Giabiconi, Francesco<br />

Maria Natali ed altri patrioti (in tutto 29 persone) presero la rotta dell’esilio. Un battello francese li condusse dalla Padulella a Porto Longone. La<br />

maggior parte si diresse a Napoli, arruolandosi nelle armate del re di Napoli e di Sicilia» (MONTI A.D., La grande revolte des corses contre Gênes<br />

1729-1769, cit., pp. 26-27). Paoli e Giafferi furono nominati colonnelli del reggimento Real corso. Vedi i ritratti adulatori di Giacinto Paoli e di Luigi<br />

Giafferi nel tomo I dell’opera Révolutions de Corse dell’abate Germanes: di Giacinto Paoli l’abate dice che «non c’era niente di più dolce della sua<br />

compagnia, niente di più affascinante <strong>dei</strong> suoi discorsi»; di Giafferi che «gli si addicono meglio le qualità di soldato che di uomo di gabinetto…aveva<br />

meno arte che genio».<br />

30<br />

Tra la fine del 1740 e l’inizio del 1741 circolarono numerose Memorie ed indicazioni per mantenere la Corsica nella pace e nell’obbedienza al<br />

Sovrano. All’Archives Nationales di Parigi è stato depositato, tra le numerose carte del fondo M M//1018/11/2 Papiers trouvés dans le cabinet de M.<br />

le Comte de Boissieux cit., un Plan du commissaire génois severamente criticato da Maillebois. <strong>Il</strong> piano prevedeva la: «…récupération, au moins en<br />

partie, des dépenses de guerre et des impôts non perçus depuis 10 ans; établissement d’un corps de troupes et de fonctionnaires de justice aux frais des<br />

Corses; indemnisation des Corses fidèles à la République qui ont souffert de la guerre; expulsion des familles des responsables de la révolte et<br />

confiscation de leurs biens; expulsions de prêtres et de moines; importation de colonies étrangères; destruction des villages de Nuceta et Loretu, des<br />

châtaigniers de l’Alisgiani et de la plupart des couvents». A questo piano (di cui non esistono corrispondenze valide per l’Archivio di Stato di<br />

Genova) la Corte di Francia rispose, il 12 gennaio 1740, con una Mémoire de la Cour de France sur la Corse adressé à Jonville et destiné au Sénat de<br />

Gênes. La Mémoire «Posant comme principes l’aversion des Corses pour la domination de la République et la détermination française de ne pas<br />

laisser passer l’île en d’autres mains, on propose: les Génois retirent leurs troupes; les Français se chargent de d’administration de la justice et de la<br />

perception des impôts; la France s’engage à restituer la Corse après un certain nombre d’années; l’Empereur, garant, conjointement avec la France, du<br />

traité de 1737, sera informé». La Francia aveva posto come prima condizione che la Mémoire fosse discussa con un piccolo (e segreto) numero di<br />

commissari, tra cui Giambattista Grimaldi e Carlo Emmanuele Durazzo. Per un ragguaglio sulla situazione diplomatica, vedi BROCHE G.E., La<br />

République de Gênes et la France pendant la guerre de Succession d’Autriche (1740-1748), Paris 1935.<br />

31<br />

L’opera politica e diplomatica di Maillebois vide il suo coronamento con la fondazione, nel 1739 di un reggimento francese reclutato in Corsica, il<br />

Real Corso presso l’esercito del Re Cristianissimo.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

Figura 13: La Corsica in una mappa di Homann del 1740.<br />

§ 4. 1742-1755. Inghilterra, Austria, Sardegna e Francia in Corsica<br />

La guerra tra Genova e la Corsica riprese in un contesto diplomatico già condizionato dalla guerra di Successione<br />

austriaca. Genova si era trovata coinvolta, suo malgrado, nel conflitto e subì i contraccolpi dell’antagonismo giocato tra<br />

le Corti straniere ed il suo territorio, Corsica inclusa. In seguito alla partenza dell’ultimo contingente francese, la<br />

stanchezza degli insorti e l’impotenza di Genova a riconquistare l’isola procurarono alla Corsica un periodo di<br />

tranquillità: nessuno <strong>dei</strong> due contendenti aveva la minima intenzione di riprendere le ostilità. Genova comprese<br />

finalmente che la soluzione del conflitto era politica: venne eletto nuovo commissario generale, nel giugno 1734, Pier<br />

Maria Giustiniani 32 . Questi fece delle concessioni: ristabilimento del porto d’armi, contribuzione fiscale dimezzata,<br />

ristabilimento della taglia all’aliquota primitiva, garanzia delle libertà individuali e, soprattutto, soppressione del diritto<br />

del Governatore di giudicare “ex informata conscientia”; a questo si aggiungeva l’accesso <strong>dei</strong> corsi a tre vescovati ed a<br />

quattro incarichi di luogotenente e la creazione di un ordine della nobiltà con trasmissione per primogenitura.<br />

Curiosamente queste concessioni, che non erano trascurabili e superavano ogni limite di legittimità, giunsero troppo<br />

tardi: i capi corsi, ormai, avevano preso coscienza della loro forza. Con la Consulta di Orezza (agosto 1745), gli insorti<br />

organizzarono una Reggenza, nuova struttura politica con il compito apparente di garantire l’amministrazione della<br />

giustizia, ma che in realtà assunse il potere politico ed amministrativo dell’isola. Genova aveva fallito anche con la<br />

predicazione religiosa: nonostante la missione, dal maggio al novembre 1744, di padre Leonardo da Porto Maurizio 33 , i<br />

corsi non retrocedettero dalle loro posizioni. La sostituzione di Giustiniani con il commissario de Mari e la nuova<br />

congiuntura internazionale fecero riesplodere il conflitto.<br />

<strong>Il</strong> 13 settembre 1743 era stata firmata un’alleanza 34 tra Carlo Emanuele III, Re di Sardegna, l’Imperatrice d’Austria<br />

Maria Teresa e l’Elettore di Sassonia, diretta contro la Francia e contro Genova. La Corsica faceva parte delle mire<br />

espansionistiche del Re di Sardegna, che voleva estendere il proprio dominio sul Tirreno. Genova, per difendersi da<br />

questi attacchi, poteva soltanto contare sull’amicizia della Francia e sulla neutralità dell’Inghilterra. La Francia assicurò<br />

immediatamente la sua protezione a Genova, ma l’Inghilterra, che aveva delle mire precise nel <strong>Mediterraneo</strong> e che<br />

poteva contare sulle basi di Gibilterra e di Minorca, cercò di contrastare la lunga mano francese sull’isola alleandosi con<br />

32 L’opera più famosa di Pier Maria Giustiniani è la risposta alla Giustificazione di Gregorio Salvini: Riflessioni intorno ad un libro intitolato<br />

Giustificazione della rivoluzione di Corsica, e della ferma risoluzione presa da’corsi di non sottomettersi più al dominio di Genova, Oletta 1760. La<br />

celebre Giustificazione di Salvini lo salutava come «forse il Genovese più ingenuo e più integro che abbia veduto la Corsica». Cfr. EMMANUELLI R.,<br />

“Disinganno”, “Giustificazione” et philosophie de <strong>Lumi</strong>ères, «Études corses», 2 (1974), pp. 88-96.<br />

33 «Le 11 janvier 1745. Le consul Coutlet au Ministre... Missionnaire apostolique de Porto-Maurizio, le Révérend Père Leonardo a prolongé de<br />

quelques jours le Triduum qu’il avait commencé dans l’église-cathédrale de Saint-Laurent, ne l’ayant terminé que mercredi au soir. <strong>Il</strong> a toujours eu un<br />

concours prodigieux. Ce bon missionnaire étant en grande vénération, il ne prêche point en chaire comme les autres prédicateurs, mais on lui élève un<br />

échafaud au milieu de l’Eglise où il reste souvent des deux heures en pied avec une espèce de bourdon, exhortant le peuple à la pénitence et à la<br />

piété...». Archives nationales, Paris, Correspondance consulaire B 1 581/1 e 581/2.<br />

34 <strong>Il</strong> 13 settembre 1743 venne firmato il trattato di Worms tra Inghilterra, Austria e Sardegna. L’articolo 10 del trattato era diretto contro Genova, dato<br />

che prevedeva la cessione da parte di Maria Teresa <strong>dei</strong> diritti sul marchesato di Finale, possedimento della Repubblica, a Carlo Emanuele di Savoia.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

Carlo Emanuele III. La Francia e la Spagna, riavvicinatesi davanti al comune pericolo inglese, promisero di garantire<br />

l’integrità del territorio genovese, Corsica compresa 35 . L’Inghilterra, l’Austria e la Sardegna replicarono<br />

immediatamente con un’alleanza (6 ottobre 1745) che, sotto il pretesto della difesa della Corsica dalle brame francospagnole,<br />

nascondeva un vero tentativo di conquista militare. La Corsica divenne così un nuovo teatro in cui inglesi,<br />

sardi e francesi si affrontavano davanti agli occhi di Genova, la cui autorità sfumava di giorno in giorno.<br />

Inglesi e sardi in Corsica<br />

Le operazioni militari degli Anglo-sardi cominciarono, nel novembre 1745, con il bombardamento navale di Bastia:<br />

mentre la flotta inglese distruggeva la città a cannonate, alcuni contingenti corsi occuparono la cittadella. All’interno<br />

dell’isola, Corte si arrese a Gaffori e San Fiorenzo capitolò davanti ai ribelli. Se la flotta inglese avesse continuato a<br />

dare il suo sostegno, la Corsica sarebbe stata definitivamente sottratta ai genovesi. Ma Londra mirava a riconciliarsi con<br />

la Spagna (dove il Re Filippo V stava per morire) ed intendeva offrire la Corsica all’Infante di Spagna. L’accordo tra<br />

Inghilterra e Spagna fallì a causa delle proteste di Madrid per la presenza inglese a Gibilterra: da quel momento gli<br />

inglesi non infersero più l’attacco definitivo. Senza l’appoggio inglese il Re di Sardegna e gli insorti non potevano<br />

vincere; d’altro canto, tra gli stessi corsi non vigeva una perfetta sintonia, anche perché i capi, al di là di una<br />

compattezza di facciata, si opponevano violentemente l’uno l’altro. Tra questi capi della seconda generazione<br />

rivoluzionaria, il più famoso era sicuramente Gian Pietro Gaffori 36 , che impersonificava perfettamente la classe <strong>dei</strong><br />

notabili isolani: il suo obiettivo era di non legarsi definitivamente ai belligeranti per poter negoziare meglio la gestione<br />

del potere, mentre Gian Domenico Rivarola 37 sollecitava l’alleanza <strong>dei</strong> ribelli con il Re di Sardegna.<br />

Figura 14: il porto di Finale alla fine del XVIII secolo (Archivio di Stato di Genova).<br />

La rivalità tra Gaffori, Rivarola e gli altri capi (tra cui Alerio Matra 38 e Michele Durazzo 39 ) disperdeva le energie <strong>dei</strong><br />

rivoluzionari, mentre Genova, attaccata dalla flotta inglese, occupata dalle truppe austriache e costretta ad una<br />

contribuzione enorme, non poteva momentaneamente pensare alla Corsica. I ribelli sollecitarono un nuovo rinforzo da<br />

Torino, ma l’arrivo delle truppe anglo-sarde nel maggio 1748 non era sufficiente a ristabilire una situazione ormai<br />

sfuggita di mano: lentamente Genova riuscì, con l’aiuto francese, a capovolgere le difficoltà. La pace, stipulata<br />

nell’ottobre del 1748 ad Aix la Chapelle 40 , lasciò alla Corsica una pace precaria. L’ambiguo atteggiamento <strong>dei</strong> ribelli<br />

35<br />

<strong>Il</strong> 1° maggio 1745 venne siglato il trattato di Aranjuez tra la Spagna, la Francia ed il Regno delle Due Sicilie per garantire l’integrità territoriale<br />

della Repubblica di Genova.<br />

36<br />

Nato a Corte nel 1710, dottore in medicina, era stato il “segretario di guerra e di gabinetto” del Re Teodoro e Ministro del Tesoro; sedotto<br />

politicamente da Boisseux, in seguito divenne ostile al suo Regolamento del 1733. Venne esiliato in Italia, da cui tornò nel 1743.<br />

37<br />

Domenico Rivarola era segretario di Stato e della Guerra di Teodoro di Neuhoff; esiliato da Genova, in seguito ad intrighi con gli inglesi, il<br />

Piemonte e l’Austria, venne nominato colonnello di un reggimento corso al servizio del Re di Sardegna nel 1744.<br />

38<br />

Alerio Matra faceva parte di uno <strong>dei</strong> “clan” più grandi e ricchi della Pianura Orientale attorno ad Aleria. Arruolatosi nel “Real Corso” di Maillebois,<br />

disertò l’esercito alla ripresa delle ostilità in Corsica. Nominato “Generale” alla Consulta d’Orezza nell’agosto 1745, cognato di Gaffori (che aveva<br />

sposato sua sorella), Matra «rappresenta il prototipo del capo corso». Cfr. AMBROSI CH., La Corse insurgée et la seconde intervention française au<br />

XVIII e siècle (1743-1753), Grenoble 1950, p. 48.<br />

39<br />

Vedi LAMOTTE P., Michele Durazzo, «Études corses», 15 (1955) e VRYDAGHS R.P., Notices historiques sur la Rocca cit., p. 177 e segg. Partigiano<br />

alla causa nazionale, alleato di Teodoro, che seguì nella fuga in Italia (1736), Michele Durazzo rientrò in Corsica, dove urtò l’ostilità del fratello;<br />

prese le parti <strong>dei</strong> francesi, ma, nel 1745, ritrovandosi colonnello di reggimento su ordine del commissario genovese, assicurò la sua fedeltà alla<br />

madrepatria, riappacificando il Sud e la Rocca con l’aiuto di Luca Ornano.<br />

40<br />

Non esiste ancora una “Questione corsa” nel trattato di Aquisgrana, ma si afferma chiaramente l’integrità del territorio di Genova, Corsica<br />

compresa. Vedi le opere di BROCHE G.E., La République de Gênes et la France pendant la guerre de Succession d’Autriche (1740-1748), Paris 1935<br />

e di AMBROSI CH., La Corse insurgée et la seconde intervention française au XVIII e siècle (1743-1753), Grenoble 1950.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

verso la Francia 41 mostrava che il grado di coscienza politica della rivoluzione non era ancora giunto alla piena<br />

maturità.<br />

<strong>Il</strong> secondo intervento francese: il Marchese de Cursay<br />

Le costanti richieste di aiuto contro i ribelli da parte di Genova segnano l’inizio del secondo intervento militare<br />

francese, guidato dal marchese di Cursay. Salvaguardando la sovranità teorica di Genova, egli tendeva a prendere la<br />

direzione dell’amministrazione pubblica per mostrare alla popolazione che il benessere, la prosperità ed il progresso<br />

non erano possibili, in Corsica, senza l’aiuto diretto e disinteressato della Francia. La debolezza <strong>dei</strong> soldati effettivi al<br />

suo seguito impediva una ripresa delle ostilità: l’azione del Marchese si limitò, pertanto, alla consegna delle piazze<br />

occupate dagli insorti. Riportata la pace nell’isola, Cursay s’impegnò attivamente nella riforma dell’amministrazione: il<br />

primo obiettivo era di ristabilire, con il concorso <strong>dei</strong> capi corsi, una giustizia imparziale e severa, anche con l’aiuto delle<br />

spedizioni punitive e delle esecuzioni <strong>dei</strong> colpevoli. <strong>Il</strong> secondo obiettivo era di ridare vita ad un’economia indebolita<br />

dalle incessanti operazioni militari: Cursay ripartì equamente le imposte, da cui si potevano detrarre i fondi per le<br />

infrastrutture; aumentò la remunerazione per gli agenti dello Stato; ridusse i diritti d’esportazione per i prodotti agricoli<br />

(olio, castagne), aumentando le tasse d’entrata (classica politica protezionista che doveva favorire la ripresa<br />

economica); pianificò lo sviluppo marittimo della Balagna e del Capo, ricostruì i ponti e le strade; tutto questo in<br />

cambio della possibilità, per i francesi, di sfruttare le risorse del territorio isolano (boschi, castagne, vino, olio, ecc.). <strong>Il</strong><br />

terzo obiettivo del generale era di legare i notabili al partito francese: egli sfruttò alla perfezione la sete di titoli e di<br />

riconoscimenti ufficiali <strong>dei</strong> notabili, emarginando il basso clero. Coinvolse la borghesia mercantile nello sviluppo del<br />

sistema dell’istruzione (Cursay promise di costruire l’Università che i corsi attendevano da tempo) e nella vita culturale<br />

(ridiede vita all’Accademia <strong>dei</strong> vagabondi, fondata nel 1659, ma inattiva da circa 25 anni) incarnando a pieno, agli<br />

occhi <strong>dei</strong> corsi, l’ideale del sovrano illuminato. L’ostilità <strong>dei</strong> capi rivoluzionari e la sfiducia di Genova, tuttavia,<br />

segnarono il limite estremo dell’azione del Generale. La Repubblica aveva un alleato in Chauvelin, che convinse il<br />

Ministro degli affari esteri, conte d’Argenson, della nocività di Cursay, accusato di rinfocolare la rivolta politica contro<br />

Genova e di agire sotto la spinta dell’ambizione personale. Cursay venne arrestato ed imprigionato ad Antibes alla fine<br />

del 1752, con l’accusa di non aver spiegato chiaramente al Re quale fosse la situazione in Corsica. L’amministrazione<br />

di Cursay, per quanto breve e difficile, gettò le basi della futura occupazione francese dell’isola. Anche se non si è<br />

trattato di un governo stabile, esso ha comunque rafforzato il partito francese 42 . Con la partenza di Cursay, la situazione<br />

in Corsica peggiorò notevolmente: le truppe francesi abbandonarono l’isola e la Repubblica tentò di riprendere in mano<br />

il potere facendo annullare le ultime disposizioni giudiziarie. Infine, davanti al tentativo di Gaffori di istituire un<br />

governo provvisorio con poteri militari, giudiziari e finanziari, Genova ricorse alla soluzione estrema: l’assassinio 43 .<br />

Gaffori, tradito dal fratello per motivi d’eredità e caduto in un agguato, venne ucciso a Corte il 20 ottobre 1753.<br />

<strong>Il</strong> quadro generale del primo Trentennio rivoluzionario<br />

Nell’arco del primo trentennio rivoluzionario in Corsica emergono delle contraddizioni strettamente legate alla natura<br />

profonda della società isolana. Infatti, se è vero che nelle linee generali la rivoluzione si estese e predispose<br />

progressivamente gli strumenti per la futura indipendenza, un’analisi più profonda mostra, ad ogni livello, che le forze<br />

centrifughe erano potenti almeno quanto i fattori unitari. Quest’unità deve essere vista con le dovute sfumature: le<br />

opposizioni regionali erano ancora forti. Nella lotta, almeno fino a questo periodo, il Nord ed il Sud dell’isola non<br />

hanno mai camminato alla stessa velocità: è significativo che dal Sud non sia mai partito alcun segnale di rivolta e che i<br />

capi della rivoluzione fossero tutti del Diquadamonti. Ciò è dovuto, con buona probabilità, alla diversa struttura sociale<br />

ed economica delle pievi settentrionali, abituate da secoli alla gestione comune delle terre, ad un’organizzazione<br />

giurisdizionale ed amministrativa meno vincolata dalle grandi famiglie notabilari e ad una tradizione politica incline<br />

all’elezione diretta <strong>dei</strong> rappresentanti delle pievi. Tra le due parti dell’isola esistevano delle differenze economiche,<br />

sociali, politiche enormi: questo ritardo politico rifletteva le strutture semifeudali di queste regioni (in cui i Notabili, i<br />

“sgiò”, erano integrati nel sistema genovese), e le profonde divisioni storiche, che portarono spesso le due parti<br />

41 Gli articoli del Trattato di Aquisgrana che interessavano la Corsica erano il n. 2 (un oubli général pour tout ce qui a pu être commis pendant la<br />

guerre qui vient de se terminer), ed il numero 14 (la République de Gênes doit réentrer en possession de tous ses Etats). La Consulta di Venzolasca<br />

del 21 e 22 ottobre 1748, con la partecipazione di Gaffori, rinnovava la dichiarazione di guerra a Genova da parte <strong>dei</strong> ribelli.<br />

42 I cui capi erano il canonico Orto, intrigante e venale; il canonico Orticoni, che aveva perso ogni speranza nell’intervento spagnolo; Gian Quilico<br />

Casabianca, fedele luogotenente di Gaffori e la dama Bianca Colonna, avventuriera interessata alla causa francese.<br />

43 L’omicidio di Gaffori è imputabile alle manovre del Commissario Grimaldi, che stimava la scomparsa di questo capo necessaria al ristabilimento<br />

della sovranità genovese sull’isola. Grimaldi contava, certamente, di beneficiare dell’appoggio di Giuliani e <strong>dei</strong> suoi sostenitori, favorevoli ad<br />

un’intesa con la Repubblica. Le conseguenze di questo omicidio furono particolarmente gravi, perché la maggioranza <strong>dei</strong> corsi dichiarò «una guerra<br />

eterna a Genova». Per l’analisi delle impressioni francesi su questo attentato, è interessante leggere il resoconto di Coutlet a d’Argenson in questa<br />

lettera del 5 ottobre 1753: «Les députés du Magistrato suprême corse sont arrivés à Bastia. Leur chef fit un discours fort élégant et respectueux,<br />

témoignant le véritable désir qu’ils avaient de voir la paix et la tranquillité rétablies dans leur patrie, et remirent un mémoire de 21 articles que le<br />

Commissaire Général envoya aussitôt. <strong>Il</strong>s repartiront à Corte. Gafforio a été assassiné. <strong>Il</strong> s’était attiré un crédit et une autorité qui l’y faisaient agir en<br />

maître absolu, il serait parvenu à la souveraineté pour peu qu’il eût vécu. <strong>Il</strong> ne s’agit plus d’accommodement que le «Magistrato Supremo» établi à<br />

Corte, avait envoyé à M. de Grimaldi. Giuliani qui a paru assez incliné en faveur de la République pourrait bien succéder à ce défunt, mais il est à<br />

craindre que les partisans de celui-ci, qui sont en grand nombre ne s’y opposent de toutes leurs forces. Cinq des maisons des assassins de Gafforio ont<br />

été détruites de fond en comble à Corte, dans l’une desquelles on prétend qu’il y avait une bibliothèque fort estimée. Quelques assassins se sont<br />

réfugiés à Calvi, le Gouverneur les en a chassés...» Archives nationales, Paris, Correspondance consulaire. Gênes. A. E. B 589.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

dell’isola ad una profonda divisione. Non si andava mai oltre un debole federalismo: il Sud optò per la secessione non<br />

appena Gaffori si affermò come unico capo della rivoluzione; solo con l’abilità il Generale riuscì ad ottenere un’intesa.<br />

Questo non significa, d’altro canto, che al Nord l’unanimità fosse totale: quando Teodoro venne incoronato Re, il<br />

Nebbio si proclamò apertamente filogenovese, mentre il Capo Corso non prese mai parte ad alcun movimento: gli<br />

interessi economici e le attività commerciali dipendevano troppo da Genova. Queste opposizioni e divisioni regionali si<br />

riflettevano nell’organizzazione <strong>dei</strong> poteri pubblici. A partire dal 1735, tutti i governi furono istituiti con il principio<br />

della collegialità e della rotazione delle cariche: questo mostra sia la volontà (cosciente o incosciente) d’imitare il<br />

modello genovese, sia l’intenzione di soddisfare il più grande numero possibile di Notabili locali, investendoli di<br />

cariche che solleticavano l’orgoglio delle pievi d’appartenenza. Anche quando venne scritta e proclamata l’unità<br />

nazionale con la costituzione paolina, le forze centrifughe, i particolarismi e gli egoismi mostravano costantemente la<br />

difficoltà nel mantenerla di fatto. Ad uno sguardo ancora più ravvicinato, emerge chiaramente la divisione del potere<br />

esecutivo nel momento in cui la rivolta cominciava ad estendersi ed iniziava a formarsi il primo nucleo dello Stato<br />

nazionale: due Generali nel 1732, tre Primati nel 1735, quattro Generali a Sant’Antonio della Casabianca il 10 agosto<br />

1746. La Consulta di Vallerustia dell’ottobre 1752 consacrò la divisione ed il sistema federale: Dodici Presidenti che si<br />

succedevano mensilmente alla testa del Magistrato Supremo. Quanto al Consiglio di Stato, che doveva simboleggiare<br />

l’unità nazionale, esso appariva, piuttosto, come il garante degli interessi locali. La potenza delle forze centrifughe si<br />

mostrò chiaramente tra il 1753 ed il 1755, quando i Presidenti si disputarono il potere l’uno contro l’altro. Gaffori era<br />

riuscito a superare queste divisioni, ma l’unità che aveva costruito non era organica. Pievi e regioni non erano solidali<br />

sul piano economico (rifiutavano la mediazione di un mercato nazionale) e non potevano sentirsi solidali nemmeno sul<br />

piano politico. Genova ne era ben consapevole quando fece assassinare Gaffori.<br />

Le rivalità claniche<br />

La personalizzazione del potere, riflesso ed espressione del municipalismo, mostra l’atomizzazione delle realtà isolane e<br />

delle strutture sociali fondate sul sistema clanico. Le opposizioni regionali o microregionali si articolano sempre attorno<br />

alle rivalità personali, che le sottintendono; ma anche all’interno del processo generale che porta dalla jacquerie alla<br />

rivoluzione, la lotta nazionale appare, ad uno sguardo più ravvicinato, come una combinazione delle lotte tra clan<br />

accresciuta dalla pressione popolare e dagli interventi stranieri. In effetti, sotto tutti i punti di vista, i capi isolani erano<br />

<strong>dei</strong> capi di partito, per i quali spesso l’ambizione personale superava l’ambito della rivoluzione. Questo dato evidenzia<br />

sia il debole sviluppo della borghesia corsa, sia il grado di sudditanza delle masse popolari, che dipendevano<br />

economicamente dai grandi proprietari. Queste opposizioni erano soltanto la parte più visibile di una realtà più<br />

complessa. Era infinitamente più grave il fatto che ovunque in Corsica si reagiva secondo gli stessi principi: bastava<br />

avere qualche partigiano per proclamare la libertà e l’indipendenza e rifiutare l’obbedienza ai capi. D’altro canto, nel<br />

Journal di Antonio Buttafoco, si afferma chiaramente che i Generali passavano la maggior parte del tempo a percorrere<br />

le pievi per sedare le rivolte suscitate da questo o quel piccolo signore della guerra, piuttosto che a combattere i<br />

genovesi. Questo ha spinto l’autore a scrivere: «Ognuno cercava di creare un partito ed in Corsica non si vedevano che<br />

stravaganze ed inimicizie. Era arrivato il momento in cui chi voleva fare del male, lo commetteva impunemente;<br />

ognuno pretendeva di non obbedire a nessun altro» 44 . Se a questo humus bellicus uniamo anche la presenza <strong>dei</strong><br />

genovesi, riusciamo a comprendere la gravità della situazione generale. <strong>Il</strong> sistema a clan poteva sempre rimettere in<br />

discussione i risultati ottenuti, soprattutto durante le invasioni straniere. L’esempio di Bianca Colonna sembra<br />

sintetizzare la realtà corsa e le sue contraddizioni: Bianca, ostile a Genova, si era ritirata nella macchia con un gruppo di<br />

patrioti. <strong>Il</strong> suo comportamento era curioso: si oppose a Gaffori, cercò in ogni modo di impedire l’arruolamento delle<br />

truppe di Rivarola (al servizio del re di Sardegna), ma, per contro, aiutò con tutte le sue forze i francesi e fece rovesciare<br />

da questi ultimi la regione che controllava con una stretta rete di alleanze. Interi gruppi di ribelli agivano in maniera<br />

contraddittoria, si schieravano con una fazione o con un’altra a seconda delle circostanze, controllando con i loro<br />

movimenti una o più pievi e rendendo la Rivoluzione sempre più fragile.<br />

Pressioni popolari e recuperi notabilari<br />

In questa situazione di scontri generalizzati, la pressione popolare aveva assunto un ruolo predominante. Durante questa<br />

serie di rivolte, che avevano ogni volta elevato il grado della lotta, sembra ci sia stato l’impulso sempre più forte di<br />

quella che si potrebbe chiamare una “corrente popolare nazionale”. Gli studi, in questo senso, sono ancora scarsi: la<br />

fisiologia <strong>dei</strong> movimenti di fondo delle rivoluzioni di Corsica è ancora sconosciuta, mentre l’analisi delle singole rivolte<br />

non riesce a fornire una visione d’insieme. Verso il 1730, da una jacquerie iniziale, la Castagniccia sembrava prendere<br />

delle posizioni più radicali, dando alla lotta un contenuto più “nazionale”, più politico 45 . Sotto questo aspetto, l’episodio<br />

di Teodoro è ancora più significativo. Non appena egli mise piede sull’isola, «senza dar tempo a consultare e deliberare,<br />

il popolaccio acclamò il baron Teodoro Re di Corsica», afferma il Padre Guelfucci 46 . In effetti, il “popolo minuto” è<br />

stato il più fervido sostenitore del Re. Forse si identificava nella sua figura il mezzo per superare le rivalità personali<br />

che conducevano il paese alla rovina, o si considerava l’elezione del Re come il punto di non ritorno, da cui non era più<br />

44 BUTTAFUOCO A., Fragments pour servir à l'histoire de Corse de 1764 à 1769, Bastia, 1859, p. 21.<br />

45 Cfr. il curioso testo pubblicato da ROSSI A., op. cit., libro VI, pp. 61-62; questo testo si trova anche in CAMBIAGI G., op. cit., III, p. 14.<br />

46 GUELFUCCI P.B., Memorie, p. 65.<br />

41


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 3 – La prima fase della Rivoluzione corsa (1729-1755)<br />

possibile alcun accomodamento con i genovesi, immettendo in lui un’autentica speranza nazionale. Per le masse<br />

popolari l’indipendenza assunse quasi l’immagine della liberazione, un modo per reagire e rivendicare la trasformazione<br />

della società. Anche se ancora mancano degli studi approfonditi sul ruolo e sulle aspirazioni delle masse popolari<br />

durante la rivoluzione, la distanza con i movimenti del 1789 sembra enorme: negli anni ‘30 il popolo non sembra in<br />

grado di condurre la guerra; non sceglie di sua iniziativa i capi; non viene creata in alcun modo una struttura capace di<br />

portare a termine la rivolta. Ed è assolutamente normale: l’odio verso i genovesi non bastava a far superare i limiti della<br />

comunità o della pieve; al massimo si osservavano le necessità della propria regione. Oltretutto, nella lotta contro la<br />

Repubblica, ad ogni passo avanti compiuto dai capi corsi sotto la pressione popolare corrispondeva il contraccolpo<br />

dell’intervento straniero, che esasperava le contraddizioni interne. <strong>Il</strong> movimento di fondo che obbligava i Notabili a<br />

deviare dalle posizioni originali venne sfruttato da chi, come Gaffori nel 1738, se ne servì per far trionfare le proprie<br />

posizioni. Nella Corsica del XVIII secolo i Notabili erano la sola classe politica dirigente in grado di fornire la base<br />

necessaria per la costruzione di una nazione. Ma per questa classe il sentimento nazionale veniva sempre dopo le<br />

esigenze materiali, o mancava del tutto. Questa classe sociale non ha mai rivendicato l’indipendenza perché non era mai<br />

stata animata dalla certezza che la nazione corsa avrebbe risolto da sola i suoi problemi: al massimo restava in disparte<br />

per vedere cosa avrebbe apportato la libertà.<br />

Figura 15: la Repubblica di Genova in una mappa di Matthaus Sutter del XVIII secolo.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

CAPITOLO 4<br />

LA SECONDA FASE DELLA RIVOLUZIONE CORSA: PASQUALE PAOLI (1755-1769)<br />

§ 1. Pasquale Paoli: l’indipendenza della Corsica.<br />

L’assassinio di Gaffori non portò alcun vantaggio a Genova: i patrioti corsi decisero di continuare la lotta ad oltranza.<br />

Riunitisi a Corte il 22 ottobre 1753, essi nominarono, tra i membri del Consiglio supremo, un Direttorio di quattro<br />

membri presieduto da Clemente Paoli, il primogenito di Giacinto Paoli (ritiratosi a Napoli nel 1739), preparandosi ad<br />

una guerra senza tregua, che doveva coinvolgere gli altri paesi europei 1 . Le grandi potenze non avevano alcun interesse<br />

a rompere l’equilibrio stabilitosi con il recente trattato di Aix-la-Chapelle (1748). Alcuni corsi, tra cui l’abate Natali,<br />

autore del celebre Disinganno, ripresero il vecchio progetto di cedere la Corsica all’Ordine di Malta. I negoziati di<br />

questa cessione prevedevano la donazione di una forte somma di denaro, destinata al mantenimento delle truppe che,<br />

dopo aver conquistato l’isola, l’avrebbero ceduta all’Ordine. Ma l’Ordine di Malta non aveva realmente intenzione di<br />

provocare una nuova guerra con le grandi potenze europee, mentre i patrioti cominciavano ad aprire gli occhi sugli<br />

intrighi, le macchinazioni e i piani nascosti <strong>dei</strong> loro inviati. Bisognava rinunciare a questi progetti e preoccuparsi della<br />

situazione interna, che era sempre più complicata. <strong>Il</strong> “Direttorio”, nonostante la buona volontà, non era in grado di<br />

gestire azioni ad ampio respiro; mancava l’intesa tra i capi rivoluzionari. Clemente Paoli, cosciente <strong>dei</strong> propri limiti, si<br />

rivolse al fratello cadetto e gli altri capi si uniformarono alla sua scelta. Entrava così in scena, proprio quando la lotta<br />

sembrava destinata a finire, l’uomo che ha incarnato agli occhi dell’Europa la libertà e l’indipendenza della Corsica.<br />

La giovinezza di Paoli<br />

Non si conoscono con esattezza i dettagli della giovinezza di Antonio Filippo Pasquale Paoli 2 , figlio cadetto di Giacinto<br />

Paoli e di Dionisia Valentini. Nato alla Stretta, frazione di Morosaglia, nella pieve di Rostino il 6 aprile 1725, seguì il<br />

padre durante l’esilio volontario del 1739. A Napoli, dove il padre era colonnello del Reggimento Corsica, fece presto<br />

carriera nell’esercito come sottoluogotenente nel Real Farnese (a partire dal 1749). Non si può sapere con esattezza se<br />

Pasquale Paoli frequentò le lezioni universitarie di Antonio Genovesi (1713-1769); in ogni caso è chiaro che proprio<br />

dalla scuola di Genovesi apprese l’etica (ma non l’economia politica, che il filosofo insegnò in un periodo successivo).<br />

In questi anni Pasquale lesse molti classici e si appassionò alle Vite Parallele di Plutarco, apprezzando la gloria nelle<br />

armi e le virtù eroiche <strong>dei</strong> personaggi. Tra gli autori moderni, sicuramente apprese l’Histoire romaine di Rollin (1661-<br />

1741), o almeno la sua Histoire ancienne; le Considérations sur les causes de la grandeur des Romains (1734), l’Esprit<br />

des Lois (1748) e forse le Lettres Persanes di Montesquieu, oltre alle opere di Machiavelli, Dante, Ariosto e Tasso:<br />

cultura italiana, quindi, con una buona conoscenza anche della letteratura francese ed inglese. Ma ancora più<br />

importante, nell’analisi di questi primi anni di studio, è la serietà con cui, prima di essere designato dai membri del<br />

Consiglio supremo, Pasquale Paoli predispose per la Corsica un piano militare, un piano politico ed un piano<br />

economico. <strong>Il</strong> piano militare era incredibilmente ottimista e si proponeva degli obiettivi (conquista di Bastia, Ajaccio,<br />

San Fiorenzo, Calvi, ecc.) che non furono raggiunti nemmeno alla fine del generalato. <strong>Il</strong> piano economico (vendita e<br />

commercializzazione delle saline d’Aleria) ed il piano politico (confisca delle rendite <strong>dei</strong> genovesi, delle decime <strong>dei</strong><br />

vescovi e alleggerimento della taglia) erano limitati e più realistici.<br />

Le Consulte di Caccia e di S. Antonio della Casabianca: nascita del Governo rivoluzionario<br />

Paoli sbarcò alla foce del Golo 3 il 16 aprile 1755, ben cosciente delle contraddizioni che minacciavano la rivolta <strong>dei</strong><br />

compatrioti; secondo il suo parere, si poteva evitare la divisione soltanto concentrando il potere nelle mani di una sola<br />

persona. Da qui derivava l’impegno per elaborare delle istituzioni che elevassero la qualità della lotta e rafforzassero la<br />

coesione della nazione. Cinque giorni dopo il suo arrivo, «il 20, 21 e 22 aprile 1755, i principali capi del regno si<br />

riunirono al convento di Caccia per rimediare ai disaccordi che si manifestavano ogni giorno tra i membri del governo».<br />

Nella Consulta furono approvati regolamenti e decreti che riorganizzavano la giustizia ed abolivano la funesta pratica<br />

della vendetta: nomina d’arbitri (paceri), nomina di un giudice per ogni pieve, creazione di tribunali delle province e di<br />

un Magistrato Supremo, istituzione della pena di morte per l’assassinio e dell’esilio per la famiglia e creazione di un<br />

esercito itinerante per l’esecuzione delle sentenze. In questo modo veniva ripresa l’opera della Consulta d’Orezza del<br />

1 Famoso l’Appello all’Europa del 27 gennaio 1754, in cui i ribelli proclamarono la loro volontà di morire, piuttosto che arrendersi. Vedi il testo<br />

integrale in GAI D., op. cit., p. 202 e in GIROLAMI-CORTONA C., op. cit., pp. 335-336.<br />

2 Tra le opere “classiche” sulla vita di Pasquale Paoli vedi: ARRIGHI A., Histoire de P. Paoli (1843), GIANMARCHI P., Vita politica di P. Paoli (1858).<br />

Tra le opere recenti, vedi THRASHER A., Pascal Paoli, an enlightened hero 1725-1807, London 1970. Notevole il recente lavoro di VERGÉ-<br />

FRANCESCHI M., Paoli un Corse des <strong>Lumi</strong>éres, Paris 2005. Per gli altri riferimenti vd. la NOTA BIBLIOGRAFICA.<br />

3 «…Le frère de Clément Paoli est arrivé de Porto Longone avec deux Corses de ses amis; ils ont débarqué et ont été reçus avec de grandes marques<br />

de joie par un nombre considérable de rebelles armés, qui les ont conduits comme en triomphe dans leurs quartiers de Casinca. C’est un jeune homme<br />

de mérite, fort accrédité parmi la Nation, capitaine d’infanterie au service du Roi des Deux-Siciles et il pourrait succéder à Gafforio. Cet événement<br />

donnera lieu bientôt à quelque nouveauté dans ce pays-ci». Archives Nationales, Paris, Corréspondance consulaire. Gênes, gennaio 1754 - giugno<br />

1755. B 1590, Le consul Coutlet au Ministre, 21 avril 1754.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

1751 e continuata la riforma della giustizia intrapresa da Gaffori, riforma che testimoniava la presenza endemica del<br />

malessere isolano. La Consulta di Caccia doveva imprimere una nuova forma al governo isolano: il testo predisposto<br />

dai deputati corsi merita un’analisi ancora più dettagliata, perché si riconosce facilmente, dietro i provvedimenti di<br />

riforma, la volontà occulta di Paoli. Innanzitutto, nell’enunciato <strong>dei</strong> principi, era affermata solennemente e chiaramente<br />

la sovranità nazionale, che s’incarnava nel potere esecutivo: il Magistrato Supremo, delegato del potere ricevuto dal<br />

popolo. Al Magistrato erano affidati <strong>dei</strong> poteri piuttosto ampi, tali da elevarlo al di sopra <strong>dei</strong> particolarismi provinciali:<br />

si instaurò di diritto, per la prima volta, un potere forte, immagine vivente della nazione sotto il profilo istituzionale,<br />

oltre che politico. Indubbiamente questa decisione costituiva un progresso nella costruzione dello Stato nazionale, dato<br />

che fino ad allora l’autorità era divisa tra il Magistrato Supremo ed il Consiglio di Stato senza una specificazione<br />

costituzionale <strong>dei</strong> ruoli; inoltre i Generali, come Gaffori, avevano comunque esercitato una dittatura ufficiosa. Ormai il<br />

potere, legalmente definito e senza equivoci, era esercitato da un solo corpo istituzionale. La Consulta di Caccia<br />

testimonia inoltre il marchio dell’abilità e dell’astuzia politica di Paoli: il Magistrato Supremo, unico organismo<br />

direttivo, era composto da dodici presidenti di provincia e da 36 consultatori per il Diquà, e da sei presidenti ed otto<br />

consultatori per il Dilà. <strong>Il</strong> Capo Corso restava escluso fino a «quando si disponga ad unirsi in un corpo con noi» 4 . Al di<br />

là della mancata unificazione nazionale, il gran numero di membri del Magistrato, testimoniava la volontà di lasciare<br />

inattiva questa struttura, dato che per adottare una legge era sufficiente la maggioranza <strong>dei</strong> due terzi <strong>dei</strong> votanti.<br />

Nella successiva Consulta di Sant’Antonio della Casabianca del 13 ed il 14 luglio, Paoli venne nominato “Capo<br />

Generale” 5 , ma non ricevette la totalità <strong>dei</strong> poteri: in particolare, non aveva la facoltà di siglare le “deliberazioni di<br />

Stato” e quindi non poteva concludere trattati. Nella prima Consulta il Magistrato era investito della sovranità in virtù di<br />

principi costituzionali; qui il Generale, sommo capo, viene assistito da un Consiglio di Stato, vale a dire dal Magistrato,<br />

ricevendo legalmente il potere esecutivo. Si tratta di un salto di qualità enorme rispetto alla posizione già occupata da<br />

Gaffori: Paoli si presentava come l’eletto ed il portavoce della nazione, sottoposto solo al controllo del suo organismo<br />

dirigente, il Consiglio di Stato. A Sant’Antonio della Casabianca furono affermati con forza i principi dello Stato: il<br />

popolo corso era dichiarato indipendente ed il benessere della nazione doveva essere assicurato da una costituzione. <strong>Il</strong><br />

pensiero di numerosi filosofi del XVIII secolo, che identificavano la nazione con la libertà ed il contratto sociale, si<br />

ripresentava nei principi generali del testo costituzionale. Queste linee ideologiche di fondo non furono più riprese nelle<br />

altre Consulte: si trovano enunciate per la prima ed ultima volta nel 1755, come un fatto acquisito, di cui non bisognava<br />

più occuparsi. Lo stesso può essere detto per la definizione <strong>dei</strong> poteri del Generale: le sue prerogative furono fissate una<br />

volta per tutte nella prima consulta e non venne più scritto alcun articolo sulle sue funzioni. La Consulta aveva stabilito<br />

anche la composizione del Consiglio di Stato, che aveva la suprema autorità nella sfera politica, militare ed economica.<br />

<strong>Il</strong> Consiglio era composto di 36 presidenti e 108 consiglieri, che si riunivano in udienza plenaria due volte l’anno; i<br />

presidenti cambiavano a rotazione di tre ogni mese, i consiglieri ogni dieci giorni; questi ultimi formavano con il<br />

Generale, membro del Consiglio di Stato, l’organo esecutivo. Così il Generale non sarebbe stato più eletto dal Consiglio<br />

di Stato, ma ne diventava un membro a pieno titolo: in parole povere, il generalato era un incarico legale. Da un punto<br />

di vista giuridico-costituzionale, il potere di Paoli risultò enormemente rafforzato: egli aveva un ruolo predominante nel<br />

Consiglio di Stato, di cui era il solo elemento permanente e il suo voto valeva il doppio degli altri. L’evoluzione<br />

costituzionale era così terminata: la razionalizzazione delle istituzioni testimoniava un forte senso dello Stato da parte<br />

del Legislatore, che intendeva certamente dare una coscienza nazionale alle popolazioni dell’isola.<br />

Paoli, tuttavia, non aveva completamente debellato il fronte interno: l’ostilità di molti notabili era serrata. Una volta<br />

eliminato il pericolo del clan Matra (con cui era iniziata una guerra intestina nel 1757), Paoli cercò di estendere il<br />

proprio potere sul Diladamonti. Nel Dilà, nonostante qualche amico fidato (Santo Folacci, Pietro Maria Cacciaguerra),<br />

Paoli doveva scontrarsi con i partigiani del partito genovese e del partito francese. Inizialmente ostili, i Signori 6 finirono<br />

per allinearsi definitivamente nel 1763. La loro ostilità era strettamente connessa agli interessi dell’aristocrazia feudale<br />

ed a quelli della Chiesa, che rifiutava la politica giurisdizionalista di Paoli. L’ostilità si trasformò in alleanza quando<br />

Paoli, sottilmente, si riconciliò con il Vaticano rimettendo al Visitatore Apostolico i fondi delle rendite ecclesiastiche a<br />

partire dall’aprile 1760. I corsi partitanti per la Francia subirono una sorte simile: essi si dichiararono risolutamente<br />

ostili a Genova ed a Paoli già dal settembre 1757; ma con un’incredibile abilità diplomatica Paoli propose ad Antonio<br />

Colonna (capo del partito francese) il comando dell’intero Diladamonti. Privato, nel frattempo, dell’appoggio militare<br />

<strong>dei</strong> francesi, Colonna accettò la proposta nell’agosto del 1758; la sua deposizione, nel 1761, ad opera di un luogotenente<br />

di Paoli eliminava definitivamente l’ultimo ostacolo all’unità dell’isola. La Corsica venne sottomessa ben presto<br />

all’autorità del Generale, tranne le grandi città della costa: questo fatto costituiva una fonte di incertezza sull’avvenire<br />

dello Stato e si rivelò una delle debolezze del Governo rivoluzionario.<br />

4 ROSSI A., Osservazioni Storiche sopra la Corsica, 14 vol., rédigés sous l’Empire, publiés par l’abbé Letteron, «B.S.S.H.N.C.», XI (1895-1906).<br />

5 <strong>Il</strong> testo della Consulta si trova in ROSSI A., op. cit., libro X, pp. 124-126 e in CAMBIAGI G., op. cit., IV, pp. 3-5.<br />

6 Vedi l’opera citata di VRYDAGHS R.P., Notices historiques sur la Rocca, p. 199 e segg. Le decisioni della Consulta di Sartena, presidiata da Paoli,<br />

sono state pubblicate integralmente da LAMOTTE P., Pascal Paoli administrateur. L’administration de la province de la Rocca, «Corse historique», 2<br />

(1953), pp. 24-33. Lamotte sottolinea, a giusto titolo, che Paoli «era riuscito a far entrare la provincia della Rocca nel governo nazionale, accordando<br />

l’indipendenza amministrativa ed i privilegi che gratificavano le suscettibilità e gli interessi locali» (ivi, p. 25).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

Figura 16: il Convento di Sant’Antonio della Casabianca, luogo prescelto per la Consulta del 13-14 luglio 1755.<br />

La Costituzione<br />

La Costituzione 7 adottata a Corte nel novembre 1755, riprendeva fortemente i principi stabiliti a Caccia, nell’aprile<br />

dello stesso anno. Essa era dichiarata democratica e riconosceva espressamente la sovranità popolare. I corsi, elettori<br />

dall’età di 25 anni, eleggevano, a livello comunale, un delegato ogni mille abitanti per la Dieta Generale, che deteneva<br />

il potere legislativo. La Dieta votava le leggi con la maggioranza di due terzi, fissava le imposte, dichiarava guerra.<br />

Paoli aveva istituzionalizzato la funzione già svolta dalle consulte, trasformandole da assemblee tumultuose di<br />

partigiani in un’assemblea periodica di rappresentanti eletti regolarmente. In questa codificazione si ritrovava la stessa<br />

razionalizzazione delle cariche governative: il senso civico doveva permettere alle popolazioni di superare il<br />

particolarismo e di tendere all’interesse generale. In sostanza, l’unione era il fine ultimo dell’organizzazione<br />

istituzionale. <strong>Il</strong> potere esecutivo era affidato ad un Consiglio di Stato, inizialmente (1755) di 144 membri nominati a<br />

vita dalle assemblee provinciali, in seguito (1764) di 9 consiglieri soltanto, rinnovabili annualmente. I Consiglieri<br />

dovevano avere almeno 35 anni ed aver già esercitato le funzioni di Podestà Maggiore. Questo Consiglio, diviso in tre<br />

sezioni (Guerra, Finanze, Giustizia) era, teoricamente, l’organo supremo dello Stato, con il potere di controllo sulle<br />

direttive del Generale ed il diritto di veto sospensivo sui suoi decreti. Non era questa l’unica forma di controllo al potere<br />

del Generale: a partire dal 1764 (da quando, cioè, i Consiglieri furono eletti annualmente) le ordinanze dell’esecutivo<br />

passarono al vaglio di un comitato di cinque Syndici, eletti dall’Assemblea. I Syndici, percorrendo il paese, vegliavano<br />

anche sul buon funzionamento della giustizia e dell’amministrazione, ascoltando le lamentele <strong>dei</strong> cittadini e<br />

pronunciando delle sentenze inappellabili. <strong>Il</strong> Generale presiedeva il Consiglio, da cui doveva ricevere formalmente<br />

l’incarico: era il comandante generale dell’esercito ed il rappresentante supremo del Paese all’estero; la sua sede era a<br />

Corte, capitale dello Stato, da cui dirigeva gli affari dell’isola. <strong>Il</strong> potere giudiziario venne riorganizzato in conformità<br />

con le tradizioni e le inclinazioni dell’epoca. Si conservò la figura del Podestà, eletto nella pieve, sindaco e giudice di<br />

pace nello stesso tempo, assistito da due Padri di comune per gli affari di maggiore importanza (il Podestà, da solo,<br />

poteva giudicare solo i reati minori). La giurisdizione provinciale era composta da un Presidente, da due Assessori e da<br />

un Avvocato (designato dal Consiglio di Stato). Alla sommità di questa piramide giudiziaria c’era una Rota civile,<br />

formata da tre dottori in legge, nominati a vita, che operavano come una Corte d’Assise. Per gli affari criminali era<br />

istituita una Giuria di sei padri di famiglia, mentre una Giunta di tre membri, presieduta da un Consigliere di Stato,<br />

formava l’Alta Corte di Giustizia, incaricata di informare sui crimini, di prevenirli e di far regnare l’ordine. La severità<br />

di questa struttura ha ben meritato una terribile reputazione: la “giustizia paolina” operava come una sorta di Terrore,<br />

dato che le garanzie elementari di giustizia non erano sempre rispettate.<br />

Bisogna dare un giudizio ponderato a questa Costituzione di Paoli, al di là degli entusiasmi o delle contrapposizioni. In<br />

effetti, ci troviamo di fronte ad un sistema ambiguo, che può essere definito democratico nell’elezione <strong>dei</strong><br />

rappresentanti delle pievi alla Dieta legislativa, ed aristocratico nella gestione del potere esecutivo. In teoria, tutti i corsi<br />

erano chiamati a partecipare all’elezione diretta <strong>dei</strong> loro rappresentanti, ma, di fatto, nella maggioranza delle pievi del<br />

7 Per la lettura del testo integrale della Costituzione del 1755, firmata da Pasquale Paoli, vedi FONTANA M., La constitution du généralat de Pascal<br />

Paoli en Corse, Paris 1907 e BATTESTI J., Un gouvernement démocratique au XVIII e siècle, Paris 1937; sul testo vedi soprattutto CARRINGTON D.,<br />

Pascal Paoli et sa “constitution” (1755-1769), «Annales Historiques de la Revolution Française» 1 (1974), p. 513 e sgg. Interessante anche l’articolo<br />

di TANDORI M., Eighteenth-Century legislation of Corsica, «Acta Universitatis Szegediensis – Acta Hispanica», t. VII (2002), pp. 29-44. Per un<br />

confronto tra i diversi testi costituzionali corsi del Settecento, vd. anche ARRIGHI J.M., CASTELLIN P., Projets de constitution pour la Corse cit.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

Diladamonti ed in quelle costiere del Diquà, votavano esclusivamente i notabili. Le uniche elezioni democratiche, a<br />

suffragio universale maschile e femminile, avvenivano nelle pievi del centro dell’isola, da secoli abituate ad un sistema<br />

elettivo legato alle consulte delle rispettive comunità 8 . L’azione di Paoli era motivata dal raggiungimento dello scopo<br />

ultimo del suo governo: l’indipendenza dell’isola. Non si potrebbe vedere nel regime paolino una democrazia diretta<br />

contemporanea (come ha sostenuto D. Carrington 9 ), e sarebbe uno sbaglio giudicarlo in tal senso. Ma non si deve<br />

nemmeno, come hanno scritto F. Ettori ed A. Albitreccia, vedere nel sistema di Paoli una semplice dittatura di salute<br />

pubblica temperata dall’influenza <strong>dei</strong> notabili. Sicuramente l’Assemblea Generale, sovrana ed unica dispensatrice di<br />

poteri al Consiglio di Stato, si riuniva soltanto una o due volte l’anno ed è altrettanto vero che esistevano <strong>dei</strong> membri di<br />

diritto (ecclesiastici, magistrati, figli o fratelli <strong>dei</strong> morti per la patria), ma non si può non vedere nel progetto<br />

costituzionale di Paoli una chiara mossa diplomatica, motivata dal bisogno costante di ordine e di potere. È chiaro che<br />

nel Dilà, dove la struttura clanica era predominante, si doveva dare importanza e prestigio ad alcune famiglie patrizie;<br />

l’unico modo per affiliarle al regime era farle sentire di nuovo decisive nell’organizzazione amministrativa statale. Ma è<br />

altrettanto vero che nelle pievi del Diquà, specialmente nelle zone pastorali dell’interno, Paoli permetteva ai<br />

rappresentanti del popolo di partecipare attivamente alla Dieta, anche se sotto il suo controllo ed il suo patrocinio. È<br />

stato detto che Paoli permetteva al clero di partecipare alla Dieta con <strong>dei</strong> seggi permanenti per rafforzare il proprio<br />

potere decisionale sulle comunità 10 , ma non si deve dimenticare che lo stesso Paoli istigava al saccheggio <strong>dei</strong> beni delle<br />

chiese per farne monete ed aveva più volte ordinato la soppressione del pagamento delle decime. <strong>Il</strong> controllo era l’unico<br />

modo per mantenere, in questo periodo storico, l’unità e l’ordine dell’isola: l’opera di Paoli è stata innovativa proprio<br />

nell’organizzazione <strong>dei</strong> tre poteri, conciliando il principio unitario con il rispetto delle autonomie regionali.<br />

La razionalizzazione del Consiglio di Stato<br />

<strong>Il</strong> Consiglio di Stato istituito nel 1755 appariva come una macchina amministrativa pesante, costituita da 146 membri di<br />

cui 36 presidenti, 108 consiglieri, il Generale ed un Segretario di Stato. <strong>Il</strong> Consiglio era riunito in comitato ristretto per<br />

la maggior parte dell’anno, data la rapida rotazione <strong>dei</strong> rappresentanti, ed il suo carattere d’instabilità contrastava<br />

fortemente con la fissità della carica del Generale: esso forniva un’immagine dello Stato ancora sfocata, ma rispondeva<br />

alla necessità politica di guadagnare il massimo numero possibile di partigiani. Alla Consulta di Nebbio del 14-16<br />

settembre 1758, quando l’autorità di Paoli si era ormai stabilizzata, venne decretata una razionalizzazione di<br />

quest’organo amministrativo: «…Nella prima Consulta generale che dovrà tenersi, si verrà all’elezione di dieci otto<br />

consiglieri di Stato, dovendo durare per sei mesi continui almeno in governo, a fissare la loro residenza alla città di<br />

Corti» 11 . <strong>Il</strong> cambiamento era fondamentale e non si traduceva solamente con una sensibile diminuzione del numero <strong>dei</strong><br />

consiglieri, ma anche con la stabilità del loro impiego: infatti coloro che erano stati eletti a vita nel 1755 per particolari<br />

meriti conservarono la carica, a partire dal 1758, per soli sei mesi. Alla Consulta di Corte del maggio 1764 venne<br />

apportata un’ulteriore modifica: si decise di eleggere nove consiglieri designati per un anno (sei per il Diquà, tre per il<br />

Dilà, cioè uno per provincia) alternati in numero di tre ogni quattro mesi; questa fu la cifra definitiva <strong>dei</strong> consiglieri di<br />

Stato. La Consulta di Corte del 1755 aveva giustificato la rotazione della carica con l’elevato numero degli eletti; anche<br />

se nel 1764 i consiglieri erano solo nove, il principio di rotazione venne mantenuto. La spiegazione dev’essere cercata,<br />

probabilmente, nella volontà del Generale di oltrepassare le opposizioni regionali: ormai, a rotazione, tre deputati si<br />

occupavano degli affari di tutta l’isola. Queste disposizioni rendevano più omogenei gli interessi della classe dirigente e<br />

riversavano nei corsi il senso dello Stato e l’obbedienza al Governo.<br />

§ 2. La ricerca dell’unità amministrativa<br />

Confermati i propri poteri decisionali, Paoli si proponeva di realizzare una vera unità di base: questo significava<br />

raggruppare le province in un corpo solo, superare il sistema federale ed organizzare una reale unificazione<br />

amministrativa. Si doveva, in parole povere, raggiungere un’effettiva centralizzazione, eliminare le forze centrifughe e<br />

ramificare attraverso le regioni una fitta rete di funzionari.<br />

La riforma economica<br />

Amministrare l’isola era sicuramente la necessità primaria, in un paese in cui il particolarismo giocava un ruolo difficile<br />

8<br />

Per le elezioni delle pievi del Dilà, gestite dall’aristocrazia feudale e dai proprietari terrieri, vedi i fondi dell’Archives départementales de la Corsedu-Sud,<br />

serie 1B 108-156; i dati sul sistema agricolo e sulla ripartizione della proprietà ad Ajaccio tra il 1759 ed il 1780 sono reperibili nel Registro<br />

delle dichiarazioni delle terre esistenti net territorio di questa citta e communità d’Ajaccio (1775), Arch. com. d’Ajaccio, H.H. Carton 2, Registre 4.<br />

Per le elezioni alla Dieta delle pievi del Diquà vedi i fondi della Serie E (dépôts communaux) sugli “Stati di sezione” indirizzati nel 1792 a Tomino ed<br />

a Centuri nel Capo Corso. Si tratta degli unici documenti di questo tipo in Corsica. Quello di Tomino, oltre alla professione di ogni contribuenteelettore,<br />

riporta la situazione del terreno, il tipo di coltivazione, la superficie, il numero di zolle appartenenti allo stesso proprietario. Lo stato di<br />

Centuri è incompleto e privo di dati sulla superficie posseduta dai contribuenti, am riporta numerosi fogli sulle elezioni alle consulte locali. Per<br />

l’elezione <strong>dei</strong> rappresentanti alla Dieta nelle zone centrali dell’isola (Corte, Castagniccia, Nebbio), cfr. Arch. Dép. Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C 93.<br />

Rapport de l’Inspecteur des Domaines; il fondo 2Q 38 e tutta la Serie C, Fondo Civile Governatore C 50-C 89.<br />

9<br />

Vd. CARRINGTON D., Pascal Paoli et sa “constitution” (1755-1769) cit.; EAD., Granite Island. A portrait of Corsica, London 1971, pp. 29-39;<br />

EAD., Sources de l’Histoire de la Corse au Public Record Office de Londres, Ajaccio 1983; EAD., The Dream Hunters of Corsica, London 1995, pp.<br />

55-59. Vedi anche l’opera colletiva AA.VV., Le bicentenaire et ces îles que l’on dit françaises, Bastia 1989.<br />

10<br />

FONTANA M., La constitution du généralat de Pascal Paoli cit., pp. 126-129; ma anche LAMOTTE P., Pascal Paoli mis en accusation par la<br />

Convention, «Corse Historique» 5-6 (1962), pp. 12-13.<br />

11<br />

Cfr. Archives Départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C7 Affaires administratives, f. 9.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

da gestire. Ma bisognava anche, per rendere più salde le basi dello Stato, garantire una vita economica prospera,<br />

immettere nuova linfa nell’agricoltura, creare un’industria manifatturiera, rianimare il commercio. In agricoltura la<br />

nuova politica si caratterizzò con una fusione tra conservatorismo ed innovazione: era tipicamente conservatore<br />

l’incoraggiamento dato all’arboricoltura, specialmente alle piantagioni di castagni (ricchezza tradizionale della<br />

Castagniccia) e di ulivi (base della ricchezza della Balagna e del Capo). Innovativa l’introduzione della patata, diffusa<br />

in Francia da Parmentier, che rappresentava in Corsica un complemento utilissimo alla farina di castagne.<br />

L’incoraggiamento alla coltivazione della vite, delle more, dell’orzo, del mais, continuava ed amplificava la<br />

capitalizzazione del suolo intrapresa da Genova, ma in questo caso con immediato profitto degli agricoltori locali.<br />

Altrettanto innovativo è stato il progetto di bonifica degli stagni della Piana orientale e per la costruzione di strade e di<br />

ponti. Stessa volontà di rinnovamento e di espansione anche nel settore industriale: riattamento delle vie di<br />

comunicazione, delle miniere, sviluppo nella fabbricazione di armi ed utensili 12 . Infine, il rinnovamento agricolo ed<br />

industriale doveva necessariamente tradursi nel progresso del commercio, nella creazione di una flotta commerciale e di<br />

un porto, Isola Rossa (1758), destinato a far concorrenza a Calvi ed Algajola.<br />

La difesa nazionale<br />

Uno stato che intendeva uscire dal letargo e ricostruire le rovine accumulate dopo trent’anni di guerra, doveva avere un<br />

esercito ed una flotta: qui le difficoltà erano maggiori e quasi insormontabili, anche perché bisognava creare un’armata<br />

nazionale permanente. Si opponevano a questa esigenza la mentalità corsa, gli imperativi della coltivazione, il pessimo<br />

stato delle finanze e i dubbi di Paoli 13 . Eppure di fronte alle difficoltà della leva <strong>dei</strong> cittadini, Paoli decise di creare due<br />

reggimenti di mercenari comandati dagli isolani ma anche da ufficiali stranieri (prussiani, svizzeri o francesi): si trattava<br />

di un sistema in forte contraddizione con quello del servizio nazionale, ma inevitabile in quel momento storico. <strong>Il</strong><br />

servizio allo Stato era dovuto dai sedici ai sessanta anni, ma si limitava a <strong>dei</strong> contingenti mal equipaggiati, mal<br />

addestrati, che si scioglievano nei periodi di mietitura e che non costituirono mai un esercito in grado di condurre delle<br />

azioni contro <strong>dei</strong> soldati di mestiere. La mancanza di artiglieria costituiva una deficienza insormontabile in una guerra<br />

di postazione contro le piazzaforti genovesi. Lo stesso può esser detto per la flotta, con <strong>dei</strong> risultati comunque migliori: i<br />

vascelli da corsa, acquistati in Italia o costruiti in Corsica, permisero a Paoli non solo la conquista del Capo Corso (nel<br />

1761), ma anche dell’isola di Capraia (febbraio 1767), operazione di prestigio che apportava anche un vantaggio<br />

strategico, dato che l’isola si trova sulla rotta marittima tra Bastia e Livorno. Anche se non si trattava di una vera<br />

minaccia per le flotte dell’epoca, indubbiamente la marina corsa era abbastanza insidiosa da pregiudicare il commercio<br />

di Genova nel mar Tirreno.<br />

Un’unità militare<br />

Paoli, nell’opera di riorganizzazione amministrativa dell’isola, non aveva messo mano all’organizzazione municipale,<br />

rimasta invariata dall’occupazione genovese. Nelle comunità e nelle pievi si ritrovavano le stesse cariche di sempre:<br />

Padri di comune, Podestà, Estimatori… tutti eletti dagli abitanti e quasi tutti capi <strong>dei</strong> clan locali. Anche se queste figure<br />

rappresentavano gli interessi particolari delle pievi, o di qualche personaggio influente, Paoli non chiedeva il loro<br />

sostegno per assicurare la propria autorità: in questo dettaglio si rivela il vero volto dell’opera del Generale. Egli voleva<br />

fare della Corsica una nazione unita anche attraverso l’organizzazione militare: con la lotta intendeva riversare nei corsi<br />

un sentimento d’interesse comune, unificare la coscienza nazionale e forgiare uno spirito di resistenza in grado di<br />

sollevare contemporaneamente tutte le comunità. D’altronde, solo con l’aiuto delle pievi più fedeli si poteva provocare<br />

la ribellione nelle province e nelle pievi che erano ancora sottoposte a Genova: il combattimento doveva essere<br />

nazionalizzato. Con la Consulta di Corte (novembre 1755) Paoli organizzò l’amministrazione militare sotto l’ordine<br />

esclusivo del Generale 14 . Anche se la modalità di reclutamento degli effettivi venne modificata nella Consulta del 1768,<br />

per fronteggiare con maggiore efficacia le truppe del Re di Francia, il sistema rimase sostanzialmente lo stesso. In<br />

effetti Paoli, grazie ai Commissari, controllava tutte le pievi ed era teoricamente sicuro del loro contributo alla lotta 15 .<br />

12 Cfr. il testo di questo proclama del 1767: «…omissis… Quarto. Inerendo al desiderio de’ veri amatori della libertà, quali in ogni cosa vorrebbero,<br />

che avesse uguale influenza, ed ardentemente sollecitano per l’abbolimento d’ogni qualunque residuo dell’antica servitù: siccome ancora per averne<br />

quel profitto che ne ritraggono gli altri stati, si è stabilito di far coniare colle armi del Regno una quantità proporzionata di moneta di rame, e<br />

d’argento, per servirne agl’usi correnti dentro il regno. La quale moneta non potrà esser rifiutata da alcuno, e nella quale solamente la Camera, ed i<br />

tribunali riceveranno i pagamenti, i dazj, le tasse ordinarie, ed estraordinarie, e altro &c. per maggior comodo de’Popoli in ogni provincia, e fersi<br />

anche pieve sarà deputata persona, a cui potrà ricorrere chiunque per far qualche pagamento pubblico avrà bisogno di cambiar moneta forestiera colla<br />

corrente del Regno, e di questa colla forestiera per il commercio, ed usi fuori di Stato». Archivio Segreto Vaticano, Roma, fondo Segreteria di Stato,<br />

Corsica, busta 9.<br />

13 «In un paese libero ciascun cittadino deve essere soldato e tenersi pronto a difendere i suoi diritti con le armi. Le truppe regolari sono più adatte al<br />

dispotismo che alla libertà…Con l’esercito permanente si stabilisce uno spirito di corpo: si parla del coraggio di tale reggimento, di tale compagnia,<br />

che sono due mali più gravi di quel che si pensa ed è bene evitarli finche ciò è possibile». Vd. PERELLI D., Lettres de Pascal Paoli publiées par M. le<br />

Dr. Perelli, «B.S.S.H.N.C.», 12 (1884).<br />

14 «La necessaria prontezza per l’osservazione dell’ordini che disciplina… rende indispensabile la confirmazione di un commissario per pieve, ed un<br />

capitano ed un tenente d’armi per ogni pieve. Si come de’ migliori, e più zelanti patriotti delle pievi doveranno essere commissarii, la di cui elezione<br />

appartenerà al Generale ed al Consiglio di Stato»; i capitani ed i luogotenenti sarebbero stati certamente eletti dalle comunità, ma «dovranno esser i<br />

più accreditati della parrocchia» e quest’elezione «sarà valida quando avrà avuta la confirmazione dal generale e dal Consiglio di Stato». Cfr. La<br />

Costituzione del 1755 conservata all’Archives Dèpartementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C7.<br />

15 In una lettera del 20 maggio 1762, il Generale insediò come commissario nella pieve di Moriani un certo Felice Giovanni Agostini, per essere al<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

Per far eseguire i suoi ordini non aveva bisogno di interpellare i Podestà o i Padri di comune; disponeva di uomini che<br />

aveva disposto personalmente e che garantivano una mobilitazione in massa. Furono redatte anche delle istruzioni per<br />

gli Inquisitori di Stato, incaricati di vigilare sui sediziosi 16 . Gli esempi potrebbero essere moltiplicati all’infinito: i<br />

commissari e gli inquisitori garantivano al governo di Corte la fedeltà del paese. Essi esercitavano una sorta di controllo<br />

di salute pubblica senza pietà per i sospetti ed i partigiani di Genova ed il loro potere era ancora più rafforzato dalla<br />

Giunta di Guerra, un tribunale straordinario delegato dal Governo dell’autorità suprema, che percorreva l’isola<br />

amministrando la famosa “giustizia paolina”.<br />

<strong>Il</strong> compromesso con il Dilà da Monti<br />

L’unità dell’isola poteva essere raggiunta soltanto con la partecipazione del Dilàdamonti. Alla Consulta di Sant’Antonio<br />

della Casabianca, in cui Paoli venne eletto Generale, il Sud non era stato rappresentato. I notabili meridionali avevano<br />

già posto delle condizioni a Gaffori e non erano affatto disposti a seguire uno sconosciuto come Paoli: la<br />

regolamentazione della giustizia e dell’amministrazione militare richiedevano in quelle regioni un impegno diverso.<br />

L’influenza del partito francese nel Sud crebbe considerevolmente con l’arrivo delle truppe reali a seguito della firma<br />

del primo trattato di Compiégne (14 agosto 1756): queste truppe, pur non partecipando a nessuna iniziativa militare,<br />

avevano stretto <strong>dei</strong> rapporti molto forti con le popolazioni locali e con la famiglia Colonna 17 . In ogni pieve venne<br />

stabilito un Consiglio di governo civile, incaricato d’applicare le deliberazioni del governo, e venne istituito un<br />

Consiglio di Stato con un Presidente ed alcuni Consiglieri. Si trattava di una vera secessione: metà dell’isola non solo si<br />

dichiarava indipendente dall’altra, ma si rivolgeva deliberatamente ad una potenza straniera. Paoli comprese il pericolo<br />

e dopo numerose pressioni del suo partigiano del Sud, Santo Folacci, oltrepassò i monti il 10 dicembre 1756<br />

intraprendendo una missione politica finalizzata a riavvicinare le popolazioni e guadagnare la loro fiducia alla causa<br />

nazionale. Egli percorse tutte le pievi, parlò ai popoli riunendoli in consulte e stabilì in ogni provincia un tribunale sul<br />

modello di quelli del Nord. Paoli cercò di soddisfare le esigenze del particolarismo locale e forse tentò di sedurre gli<br />

umili offrendo loro una giustizia più equa di quella disciplinata dai feudatari e dalle grandi famiglie notabilari. Egli<br />

confermò anche la sua volontà di un’unione amministrativa dell’isola «che si era riservato in petto» inviando, dopo il<br />

suo ritorno nel Diquà, <strong>dei</strong> commissari e degli ufficiali nelle province del Sud. I risultati non furono immediati: il Sud<br />

era in preda a troppe divisioni e la Rocca appariva come un inespugnabile bastione genovese. Ma in una Consulta<br />

convocata ad Istria le divergenze <strong>dei</strong> partiti filogenovese e filofrancese consacrarono definitivamente il ruolo di arbitro<br />

della situazione a Paoli, che poteva denunciare facilmente l’incapacità di Colonna ed accettare l’incarico di comandante<br />

<strong>dei</strong> popoli del Sud. Con la partenza del conte di Vaux nel 1759, Colonna perdeva inoltre l’appoggio delle truppe<br />

francesi: la disfatta del suo partito venne confermata con la nomina di due luogotenenti di Paoli nelle regioni<br />

meridionali. L’ultimo ostacolo al governo di unità nazionale erano i notabili del Diladamonti. Questi ultimi, sempre più<br />

isolati per la fedeltà alla Repubblica, avevano deciso di controbattere il potere di Paoli rafforzando i propri legami e<br />

salvaguardando l’indipendenza politico-amministrativa. Questa solidarietà derivava dalla necessità di tenere Paoli<br />

lontano dal Sud quanto più possibile 18 . Tuttavia nella Consulta di Sartena del 1763 il Generale regolò definitivamente la<br />

questione dell’autonomia delle pievi meridionali: il Dilà venne dotato di un «Magistrato incaricato di guidare la<br />

giustizia civile e criminale e di presiedere agli affari di guerra». Riguardo ai crimini commessi in queste province,<br />

giudicati in appello da una Rota Civile, venne stabilita una procedura straordinaria; allo stesso modo le questioni<br />

economiche furono regolate da una Camera eletta dalla Consulta provinciale in ragione di un deputato per pieve. Paoli<br />

si era trovato di fronte ad una realtà ben più complessa di quella del Diquà e decise di non forzare l’autonomia delle<br />

pievi meridionali: il compromesso con i Notabili del Sud sancì la definitiva esistenza dello Stato corso.<br />

La Cultura<br />

Paoli organizzò anche una Zecca di Stato, insediata inizialmente a Murato (1762), poi a Corte (1765), per produrre<br />

corrente delle vicende locali, sorvegliare i sospetti e far applicare i suoi ordini: «Vogliamo perciò che in questi casi tutti i capi d’armi, ufficiali e<br />

fugilieri di detta pieve si debbano ubbidire e riconoscere come nostro commissionato sotto le più gravi pene a noi arbitratorvi»; contemporaneamente<br />

Paoli, il 18 maggio, si complimentò con un certo Costa per la sua azione e «Ora resta a carico nostro d’adottare le misure più proprie, e moderare per<br />

ridurre alla quiete gli animi insospettiti». Archives départementales Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C 7, Affaires administratives.<br />

16 Lettera del 26 novembre 1755: «Oggetto di questi signori sarà esaminare condotta e gli andamenti di ciascheduno nella provincia, e d’aver l’occhio<br />

sopra a quelli che sono sospetti di tener carteggi ed aver maneggi con li Ministri della Repubblica nei Presidii. A tale effetto in ciaschedun paese,<br />

potranno sostituire persona che li tenga ragguagliati su ogni cosa». PERELLI D., Lettres de Paoli cit., 1 a serie, «B.S.S.H.N.C.», 58 (1885), p. 150.<br />

17 <strong>Il</strong> fine ultimo del partito francese era di affossare la sovranità genovese e di donare l’isola a Versailles; in questa prospettiva Antonio Colonna<br />

convocò nel 1756 ad Istria una Consulta a cui presero parte i rappresentanti delle pievi di Ornano, Talavo e Rocca. Le decisioni prese in questa<br />

riunione meritano un’analisi più precisa: «Si dichiari da tutti li popoli del nostro di qua dà monti una protesta finale di vivere e morire in unione con<br />

l’altra parte <strong>dei</strong> monti in quanto riguarda l’aborrimento del nome genovese, dichiarando però nello stesso tempo un’autentica separazione in quello<br />

riguarda il governo economico» (ROSSI A., op. cit., libro X, p. 171).<br />

18 Negli archivi dipartimentali di Ajaccio si trova un fondo importantissimo, che permette di cogliere la crisi <strong>dei</strong> notabili del Dilà: esso non è datato,<br />

come la maggior parte <strong>dei</strong> documenti corsi di questo periodo, ma la sua scrittura risale probabilmente agli anni tra il 1760 ed il 1763. In questo fondo<br />

sono riportate le risoluzioni di una Consulta tenutasi a Sartena, in cui si decise di «formar un governo o sia Vigenza quale governi, rega ed administri<br />

fedelmente una imparziale giustizia»; questo governo doveva prendere la forma di un consiglio di dodici persone, con a capo un presidente. Nel<br />

documento non si faceva cenno al governo della Repubblica, né a quello di Corte, ma si trattava evidentemente del tentativo di formare<br />

un’amministrazione autonoma, come mostra chiaramente il raggruppamento <strong>dei</strong> Notabili attorno a Gianandrea Susini, ex partigiano genovese, nel<br />

1757: Francesco Maria Pietri, Paolo Maria Susini ed il padre Giovanni Agostini (consigliere di Stato, di posizioni filo-francesi nel precedente governo<br />

di Antonio Colonna).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

monete d’argento e bronzo, in mancanza dell’oro. Data la scarsità <strong>dei</strong> metalli, infatti, furono inizialmente fuse le monete<br />

del Re Teodoro, in seguito si fece appello al senso civico <strong>dei</strong> laici e <strong>dei</strong> religiosi 19 (1766). Questa moneta, che non<br />

venne mai quotata all’estero ed aveva potere solo nell’isola, valse a Paoli l’accusa di furfanteria (lo si accusò di<br />

speculare sul tasso di cambio) e venne ritirata dalla circolazione nel 1768. La volontà di fondare il nuovo Stato si evince<br />

anche dalla scelta della bandiera ufficiale: nella Consulta di Corte del 1762, si decise di adottare ufficialmente la celebre<br />

testa di Moro 20 come simbolo nazionale; l’emblema, che non era una creazione di Paoli, appariva già su una delle facce<br />

delle monete di Teodoro.<br />

17 18<br />

Figure 17 e 18: le monete coniate dal governo di Paoli (riprod. dal Musée de la Corse di Corte).<br />

Ma, al di là di questi simboli esterni di potere, Paoli cercò di basare il nuovo Stato su fondamenta ben più salde e<br />

durature: come uomo <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>, egli comprese che la cultura era il primo titolo di gloria di una nazione e cercò la<br />

giustificazione suprema di un’opera destinata a far entrare a pieno titolo nella storia un popolo che, fino a quel<br />

momento, doveva cercare all’estero i fregi della cultura: fondò quindi un’Università. La fondazione del nuovo Ateneo<br />

avvenne a Corte il 3 gennaio 1765. La nuova Università era misera nei mezzi e nelle strutture, ma corrispondeva al<br />

progetto ambizioso di formare le future classi dirigenti dell’isola, come si evince dall’editto del 1764, che annunciava la<br />

creazione di «scuole necessarie e proporzionali al bisogno attuale <strong>dei</strong> nostri popoli» 21 . Limitata nelle sue ambizioni,<br />

l’Università di Corte aveva anche scarsi mezzi di sussistenza: biblioteche scarne, pochi insegnanti e fondi iniqui, ma in<br />

compenso era gratuita ed i più poveri potevano usufruire di borse di studio e di forniture garantite dallo Stato.<br />

Nonostante i suoi limiti e le sue debolezze, essa era comunque la prima vera Università dell’isola, il simbolo della<br />

rinascita di un popolo che voleva ritrovare la propria cultura, la propria identità e l’indipendenza. La vita intellettuale<br />

del nuovo Stato non si fermò all’Università, ma continuò con la proclamazione della libertà di stampa: nel maggio 1762<br />

apparve il primo numero <strong>dei</strong> Ragguagli dell’Isola di Corsica (quattro o otto pagine in-folio), una sorta di «Gazzetta<br />

Ufficiale» in cui si pubblicavano gli atti del Governo, gli avvisi ufficiali e le notizie delle Province Oltramontane e delle<br />

Province Cismontane 22 . Venne pubblicato anche un altro giornale, il Gazzettino di Corsica, destinato ai corsi fuoriusciti<br />

dall’isola, anche se apparve solo il numero del gennaio 1769. Questo giornale, redatto da Paoli in persona, testimoniava,<br />

come i Ragguagli, la volontà di celebrare i fasti ed i malesseri della patria. Dato che l’unica stamperia corsa si trovava a<br />

Bastia (ed era stata fondata, come si ricorda, da Cursay), Paoli ne fondò un’altra alle Prunete nel 1758, e la fece<br />

trasferire a Corte nel 1764. Da questa stamperia uscì la celebre Giustificazione della Rivoluzione di Corsica dell’abate<br />

Salvini, oltre ad altri innumerevoli manifesti e memorie del governo. Nell’insieme, il bilancio del suo generalato è quasi<br />

del tutto in attivo: era riuscito a creare uno Stato dalla massa informe delle tradizioni, <strong>dei</strong> provincialismi e delle<br />

difficoltà della Corsica, e per di più dopo trent’anni di guerra intestina. <strong>Il</strong> passivo, inevitabile, non può essere imputato<br />

unicamente al suo operato. <strong>Il</strong> problema fondamentale era il tempo: qualche anno appena per conquistare, unificare e<br />

trasformare un Paese era troppo poco ed i problemi emersero presto. Lo stato di guerriglia permanente, poi, se non di<br />

19 Infatti, le chiese ed i conventi furono sottomessi a delle requisizioni d’oggetti di culto (calici, tabernacoli) ed ad una tassa. Cfr. il testo della lettera<br />

di Pietro Angelo Maria Grosso, di Calvi, dell’8 ottobre 1765: «…omissis… i bastim.ti francesi in buona parte della riviera di Ponente forniti dalla<br />

bandiera, hanno fatta la più forte estraz.ne di d.o genere da quel scalo, p. cui dà corsi esigesi il cinque p. cento sul valore, e prezzo dell’oglio, ed<br />

ugualm.te sull’ammontare delle merci che ivi vendono i rispettivi P.roni, e secondo il bisogno che tiene il Capo dè Pauli di far coniare Lire e mezze<br />

lire nella sua zecca, fa ritirare dà P.roni e sia Mercanti tutti i scudi di Francia recati p. l’impiego dell’oglio, dando à medesimi l’equivalente in Corsa<br />

moneta, con la quale religiosam.te accettata, effettuano sud.a compra…omissis…» (Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, f. 2112).<br />

20 Sulla questione, controversa, dell’origine della testa di Moro, vedi lo studio di BERTHELOT A. e CECCALDI F. in Les cartes de la Corse, de Ptolomée<br />

au XIX siècle, Paris 1939 e lo studio di ARRIGHI P. nella sua Histoire de la Corse, pp. 89-90. Si ritiene in genere che la testa di Moro sia apparsa per<br />

la prima volta in una carta della Corsica della fine del XVI secolo, ma è noto che questo simbolo risale al XIII secolo, quando la Corsica e la Sardegna<br />

furono donate (1297) al Re d’Aragona dal papa Bonifacio VIII (infatti anche lo stemma sardo presenta quattro teste di Moro, chiamate Giudicati). <strong>Il</strong><br />

significato resta ancora avvolto nel mistero: forse è riferito alla conquista della Corsica sui Saraceni da parte del mitico Ugo Colonna, nel IX secolo.<br />

21 Le discipline contemplate nell’editto costitutivo erano la teologia scolastica e dogmatica; la teologia morale; le istituzioni civili e canoniche; l’etica;<br />

la filosofia e i fondamenti della matematica; la retorica; un minimo insegnamento del diritto civile e criminale e, in previsione, la medicina, la<br />

chirurgia, la storia e la geografia. Questo progetto didattico era destinato a formare nell’immediato i sacerdoti, gli avvocati, i professori, gli ingegneri<br />

e i medici, in parole povere la classe dirigente isolana quale si andava già perfezionando sul continente e che restava mal volentieri nell’isola (Paoli<br />

decretò il rifiuto del passaporto ai corsi che intendevano studiare nelle Università italiane).<br />

22 La gazzetta, pubblicata a Livorno, centro politico votato alla causa <strong>dei</strong> patrioti corsi, non era evidentemente gradita alla corte di Luigi XV che<br />

intendeva evitare la diffusione di scritti atti a provocare motivi di tensione per essere palesemente intrisi di sentimenti antifrancesi. Al fine di evitare<br />

un possibile incidente diplomatico il Governo toscano decise di ordinare la proibizione della gazzetta stampata a Livorno e di censurare inoltre le<br />

notizie contrarie alla Francia in procinto di apparire su altri fogli a stampa. Per attuare una migliore forma di controllo sui fogli “politici” pubblicati<br />

nel Granducato, negli anni seguenti il Governo toscano cercò di limitarne il numero attraverso la concessione di una privativa per la pubblicazione di<br />

notizie estere. L’esistenza di questo privilegio non impedì al Granduca di derogare da tale impegno in occasione della richiesta avanzata da Luca<br />

Malanima di poter stampare a Livorno una «gazzetta, ove fossero notizie d’ogni genere». Alcune copie <strong>dei</strong> Ragguagli (anni 1763, 1764 e 1765) sono<br />

consultabili all’Archivio di Stato di Genova, fondo Archivio Segreto, f. 2194.<br />

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CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

semi-anarchia, alimentato da Genova e dai suoi alleati, oltre alle gelosie <strong>dei</strong> clan e <strong>dei</strong> notabili rendevano il nuovo Stato<br />

poco sicuro all’interno e poco saldo all’esterno.<br />

La Religione<br />

La politica di Paoli verso la Chiesa cattolica è stata sicuramente ambigua: al di là del dubbio sulla partecipazione di<br />

Paoli alla frammassoneria 23 , non si può negare in lui una sfiducia enorme nella Chiesa, presa nella sua accezione<br />

temporale. In questo modo si spiega l’aspetto contraddittorio della politica religiosa del nuovo stato. Da un lato egli si<br />

scagliava contro l’alta gerarchia ed i gesuiti filogenovesi. <strong>Dal</strong>l’altro, lo stesso uomo che confiscava le decime <strong>dei</strong><br />

vescovi, che faceva imprigionare alcuni ecclesiastici, che spingeva il basso clero contro i superiori, tentava di assicurare<br />

alla Corsica la protezione di Roma. Paoli sollecitò l’invio di un visitatore apostolico che testimoniasse la miseria del<br />

popolo corso e la necessità di un rinnovamento della Chiesa; in segno di riconoscenza e di fedeltà approvò nella<br />

Consulta di Corte del 10 maggio 1760 la remissione delle decime episcopali con la solenne promessa di non ingerirsi<br />

più nell’amministrazione <strong>dei</strong> beni ecclesiastici, assicurando al Papa la sua devozione filiale 24 . La chiave di questo<br />

atteggiamento apparentemente contraddittorio risale alla formazione di Paoli, persuaso, come molti spiriti illuminati del<br />

suo tempo, della necessità di separare il governo e la Chiesa, la politica e la religione e di non permettere alla gerarchia<br />

ed ai suoi servitori di ostacolare l’operato del Principe. Ma la costante sollecitudine di Paoli nei riguardi del basso clero,<br />

il fatto che egli occupasse la posizione di Oratore del popolo nelle consulte, di Uditore o di giudice nei tribunali civili,<br />

che egli avesse per confidenti e segretari <strong>dei</strong> religiosi (tra cui Padre Bonfiglio Guelfucci e l’abate Rostini), spiegava<br />

l’atteggiamento di assoluta lealtà <strong>dei</strong> religiosi verso il nuovo Stato 25 . Al di là degli scontri in campo aperto con i soldati<br />

genovesi, i corsi dovevano provare la legittimità teorica della rivolta; il pensiero politico dell’epoca, dopo Bossuet, era<br />

interamente guadagnato alla teoria della monarchia di diritto divino, che rendeva empio e sacrilego ogni tentativo di<br />

ribellione al Sovrano legittimo. I teologi corsi furono i primi a ribaltare completamente questa teoria, risalendo alla<br />

politica di S. Tommaso d’Aquino. Nel 1736 il canonico Natali, nel Disinganno aveva dimostrato che, contrariamente a<br />

quello che affermavano i genovesi, i corsi non erano soggetti alla Repubblica, ma legati ad essa da una convenzione che<br />

metteva i due popoli in una condizione di uguaglianza. Questa argomentazione fu ripresa dall’abate Salvini, nel 1758,<br />

nella Giustificazione: legando le argomentazioni di Natali alla definizione tomistica <strong>dei</strong> genovesi come “padroni<br />

illegittimi” per usurpazione (l’isola apparteneva di diritto allo Stato della Chiesa) e per abuso di potere, la rivolta <strong>dei</strong><br />

corsi poteva essere dichiarata legittima nei confronti della morale divina. Evidentemente Paoli cercava di giustificare la<br />

ribellione contro la Repubblica usando i principi della “giusta rivolta” espressi dal diritto canonico, abilità che gli<br />

conciliò le grazie di Roma.<br />

La debolezza maggiore del nuovo stato, ad ogni modo, era l’inconsistenza economica: la condizione di guerra perenne,<br />

le rivalità tradizionali tra pastori ed agricoltori, la mancanza di denaro e l’asfissia <strong>dei</strong> commerci, dovuta all’assenza di<br />

porti (la fondazione dell’Isola Rossa non poteva dare alcun risultato economico cospicuo in tempi ristretti) non<br />

consentivano una politica in grado di legare le diverse realtà sociali al potere centrale. Paoli non ebbe il tempo<br />

necessario per risollevare l’economia isolana: la situazione eccezionale in cui si trovava, la mancanza di maturità ed<br />

intelligenza politica della classe dirigente, gli interessi personali, le opposizioni ed i freni allo sviluppo dell’isola,<br />

richiedevano tempo, calma e risorse economiche: tutte cose che, in quel periodo, i rivoluzionari non possedevano.<br />

Corsica ed opinione internazionale.<br />

L’Europa <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong> s’interessò in ritardo della Corsica: la rivolta del 1729 aveva posto per la prima volta in primo piano<br />

un’isola fino ad allora semi sconosciuta in Europa. I grandi dizionari storici ripetevano <strong>dei</strong> giudizi stereotipati, poco<br />

lusinghieri, sul suolo malsano, sull’abbondanza delle castagne, sui costumi barbari degli abitanti. La straordinaria<br />

avventura di Teodoro di Neuhoff, che aveva appassionato l’Europa, non modificò queste opinioni: ci si interessava di<br />

Teodoro più come una burla, per ridere della credulità del popolo, non civilizzato, beffato da un «Re da Carnevale» 26 .<br />

Se i viaggiatori europei coltivavano – ed i francesi in modo particolare – un certo interesse per la Corsica, ne<br />

riportavano tuttavia <strong>dei</strong> ricordi terribili: di ritorno sul continente, questi osservatori erano disarmati e sembravano non<br />

voler nascondere la gioia di essere fuggiti a <strong>dei</strong> nemici perfidi e irriducibili; le descrizioni <strong>dei</strong> militari non facevano<br />

eccezione a questa regola. L’Europa intera aveva verso i corsi gli stessi sentimenti di curiosità e di incomprensione.<br />

23 Cfr. GUGLIELMI PH., La Franc-Maçonnerie dans le rural corse, Cervioni 2000, pp. 2-3; sulla massoneria in Corsica, vd. anche AMIABLE L., La<br />

Loge des neufs sœurs, Paris 1897, réédition 1989; BRENGUES J., La Franc-Maçonnerie du bois, Paris 1973; ANGELINI J.V., Histoire secrète de la<br />

Corse, Paris 1977; NICOLAI J.B., Les sociétés secrètes en Corse, Ajaccio 1988; SANTONI CH., Chroniques de la Franc-Maçonnerie en Corse 1772-<br />

1920, Ajaccio 1999; VERGÉ-FRANCESCHI M., Paoli un Corse des <strong>Lumi</strong>éres, Paris 2005.<br />

24 Cfr., ad esempio, il bando del “Supremo Generale e Consiglio di Stato” conservato all’Archivio Segreto Vaticano, Roma, fondo Segreteria di Stato,<br />

Corsica, busta 9. Sulla missione del visitatore apostolico, Mons. De Angelis, nell’aprile 1760, vedi CASANOVA A., Histoire de l’église corse cit., pp.<br />

176-197. Per la politica religiosa di Paoli, nella stessa opera, II, pp. 156-176.<br />

25 La politica amministrativa di Paoli può essere ascritta nel più ampio dibattito giurisdizionalista dell’epoca, come emerge più volte nella sua<br />

corrispondenza: «la religione non deve opporsi agli ordini del Governo, anche se questi sono ingiusti, al di fuori del tribunale di penitenza»; tuttavia il<br />

generale comprendeva bene il valore della religione per unificare, controllare e governare i corsi: «la religione è una parte essenziale dell’ordine<br />

pubblico: senza la fede in Dio, noi perderemmo fiducia nella vittoria». Questo dato spiega anche perché le giustificazioni teologiche<br />

dell’indipendenza e della legittimità della rivolta fossero state scritte da sacerdoti.<br />

26 Cfr. <strong>Il</strong> ritratto di Teodoro in VOLTAIRE, Candide, in ID., Œuvres historiques, Paris 1957. L’impressione generale sui corsi non cambiava nemmeno<br />

per gli osservatori ed i partecipanti al primo intervento francese: «…crudeli, avari, ladri, dissimulatori, vendicativi, assassini, fannulloni, gelosi fino<br />

alla vendetta, anche se sobri, agili, infaticabili nella guerra»: questo è il commento di un ufficiale anonimo che prese parte alla campagna del 1739-41.<br />

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CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

Montesquieu, che non conosceva nulla dell’isola, era sensibile all’oppressione che Genova faceva pesare sulla Corsica<br />

ed appoggiava l’aspirazione alla libertà del piccolo popolo, anche se restava un esempio isolato. <strong>Il</strong> quadro cambiò<br />

completamente con l’avvento del governo di Paoli e dopo l’intervento francese del 1768-1769: il generale ottenne una<br />

gloria universale e venne celebrato più come philosophe, che come patriota in lotta per l’indipendenza. In Paoli i<br />

propugnatori delle idee e delle riforme del secolo <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong> videro lo strumento con cui il desiderio di libertà <strong>dei</strong> corsi<br />

poteva essere esaudito. I salotti si popolavano di filo-corsi (la marchesa di Deffand vide in Paoli un legislatore esperto<br />

di «Bontà, verità, ragione e giustizia» e lo paragonò ad Horace Walpole). Voltaire, inizialmente reticente e poco<br />

informato su questo paese «assai miserabile», cambiò rapidamente opinione e, informato dagli amici stabilitisi nell’isola<br />

aggiunse, nel 1769, un capitolo sulla Corsica al suo Précis du siècle de Louis XV, in cui mostrò di avere informazioni<br />

dettagliate ed un senso molto acuto della psicologia isolana 27 .<br />

Se Voltaire lodava altamente le qualità di legislatore di Paoli, l’opinione pubblica europea lo considerava un eroe. In<br />

Italia, la simpatia <strong>dei</strong> fratelli Verri era completamente devoluta a Paoli, in cui riconoscevano uno <strong>dei</strong> nemici del<br />

dispotismo aristocratico 28 ; Alfieri dedicò a Paoli la tragedia Timoleone nel 1788, mentre Parini abbozzò un panegirico<br />

di Paoli, esaltandone l’opera. Federico il Grande di Prussia inviò a Paoli una spada d’onore con le parole “Patria,<br />

Libertas” incise sulla lama, mentre Grimm dichiarò apertamente la sua ammirazione per questo popolo in lotta contro il<br />

detestabile governo <strong>dei</strong> genovesi e paragonò Paoli a Solone e Licurgo. Sicuramente lo scrittore che contribuì più di tutti<br />

alla gloria di Paoli è stato l’inglese James Boswell, giovane amico e futuro biografo di Samuel Johnson che, come molti<br />

altri compatrioti, una volta terminati gli studi di diritto ad Edimburgo aveva intrapreso un tour attraverso l’Europa.<br />

Sbarcato a Centuri nell’ottobre 1765, passò otto giorni in compagnia di Pasquale Paoli a Sollacaro; da questa settimana<br />

di conversazioni Boswell riuscì a trarre un libro che diede a Paoli maggiore prestigio di migliaia di opuscoli di<br />

propaganda. <strong>Il</strong> ritratto <strong>dei</strong> corsi era a tinte fosche: lo stato arretrato del paese, dell’agricoltura, <strong>dei</strong> costumi venne<br />

descritto senza eufemismi. Ma il capo <strong>dei</strong> ribelli era descritto come un personaggio delle vite parallele di Plutarco 29 . Ai<br />

suoi occhi Paoli incarnava «l’idea più alta della natura umana», era l’eroe <strong>dei</strong> tempi moderni; quest’immagine<br />

lusinghiera di Paoli s’impose in Europa e fece del libro di Boswell non soltanto un successo editoriale, ma anche un<br />

classico, giunto fino ai nostri giorni.<br />

Figura 19: rappresentazione <strong>dei</strong> diversi viaggi di Boswell, Maupassant e Merimée in Corsica<br />

§ 3. Trionfo e tragedia: dall’indipendenza all’occupazione francese<br />

Proprio quando tutto sembrava volgere al meglio e l’Europa lo osservava con sorpresa ed ammirazione, Paoli vide<br />

27<br />

«…I corsi avevano bisogno di essere civilizzati ed erano oppressi; bisognava addolcirli e li si rendeva ancora più feroci» e così, a proposito di Ponte<br />

Novo: «l’arma principale <strong>dei</strong> corsi era il loro coraggio…ovunque combattevano c’era valore, e queste azioni si vedono solo nei popoli liberi». Questo<br />

corto capitolo XL del Precis du siécle de Louis XV, pp. 1543-1553 (dell’edizione Pommeau, Paris 1962), è un sunto della storia della Corsica, che si<br />

dilunga maggiormente nel XVIII secolo (il paragrafo su Teodoro si intitola «Un avventuriero della bassa Germania»). Voltaire rende omaggio al<br />

secolare coraggio <strong>dei</strong> corsi («più robusti e più saldi <strong>dei</strong> loro dominatori») e a qualche capo: i d’Ornano, Giafferi, Giacinto Paoli, Rivarola, Orticoni,<br />

Pasquale Paoli («Qualsiasi cosa sia stato detta su di lui, non è possibile che questo capo non abbia avuto delle grandi qualità…Non ha potuto fare<br />

molto per rendere libera la Corsica, né per governarla pienamente, ma ha fatto moltissimo per acquistare gloria (…). L’Europa lo guarda come il<br />

legislatore ed il vendicatore della sua patria»).<br />

28<br />

Ma per il cambiamento di opinione <strong>dei</strong> fratelli Verri su Paoli, oltre a BORDINI C., Rivoluzione corsa…cit., pp. 25-39, vedi anche il Carteggio di<br />

Pietro ed Alessandro VERRI, Milano 1923, vol. II. Cfr. anche le opinioni di ROSSI A., Della Monarchia – libro dell’Avvocato Antonio Rossi<br />

napoletano, Campo, Napoli 1779 e di TANUCCI B., Lettere a Ferdinando Galiani, con introduzione e note di NICOLINI F., Bari 1914.<br />

29<br />

<strong>Il</strong> ritratto fisico di Paoli è eloquente: «He is tall, strong and well made, of a fair complexion, a sensible, free and open countenance and a mainly and<br />

noble carriage» (BOSWELL J., An account cit., p. 12).<br />

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CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

crollare rapidamente il suo disegno politico. Isolato, in lotta da una lato con l’incomprensione <strong>dei</strong> propri amici,<br />

dall’altro con l’ostilità latente o dichiarata <strong>dei</strong> nemici, incapace di venire a capo militarmente della presenza genovese,<br />

che asfissiava l’economia isolana con l’occupazione <strong>dei</strong> porti, Paoli si scontrò con l’offensiva diplomatica e militare<br />

della più grande potenza dell’epoca: la Francia.<br />

Figura 20: le frontiere della Francia dal 1601 al 1766 (Bibliothéque Nationale François Mitterrand, Paris).<br />

Choiseul<br />

Le oscure manovre diplomatiche di Choiseul si manifestavano sempre più apertamente 30 . Ministro degli Affari Esteri<br />

dopo il 1758, Choiseul riprese, con energia e cinismo, la politica <strong>dei</strong> suoi predecessori per annettere la Corsica alla<br />

Francia. Già dal 1756, al momento dello scoppio della Guerra <strong>dei</strong> Sette Anni tra la Francia, l’Austria e la Russia da una<br />

parte, l’Inghilterra e la Prussia dall’altra, Choiseul cercò di impedire all’Inghilterra di mettere piede in Corsica. Genova<br />

poteva contare stabilmente sull’appoggio francese, formalizzato con il primo trattato di Compiègne (16 agosto 1756): il<br />

30 Cfr. Anche la Relazione al Minor Consiglio del Magnifico Sorba del 28 agosto 1765: «Considerano inoltre lor Sig.rie Ser.me due essere<br />

relativamente alla Corsica le circostanze più rovinose per la Rep.ca, e quelle per conseguenza che devono ad ogni costo evitarsi; una cioè se la<br />

Corsica rimanesse intieramente in mano <strong>dei</strong> Ribelli, e divenissero questi una nuova Potenza in mezzo del <strong>Mediterraneo</strong>, ed in tanta vicinanza <strong>dei</strong> Stati<br />

di Terraferma; L’altra se il Ser.mo Governo tra qui e tre anni fosse nuovam.te costituito nella necessità di difendere con i propri mezzi le Piazze, e di<br />

ritornare quindi in quelle spese immense, che le Sig.rie loro ben sanno se sono ormai più sopportabili a questa nazione. Né forse minori sarebbero i<br />

danni e pregiudizi della Rep.ca se le Piazze sud.e cadessero in mano o del Ré di Sardegna, o del Gran Duca di Toscana. Premesso quanto sopra hanno<br />

appreso i Ser.mi Collegi, che nella combinaz.ne delle circostanze presenti fosse più opportuno di comunicare quest’istessi sentimenti con altre<br />

uniformi considerazioni in Linea di massime invariabili ai Regi Ministri, e di lasciar loro in qualche modo la cura di proporre un piano, il quale<br />

quando sarà da loro proposto, potranno le Sig.rie Loro aggiungervi o diminuirvi alcuno di quegli articoli, che ritrovassero o più adattati, o non<br />

accettabili». Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, filza 2112.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

Re Cristianissimo accordò <strong>dei</strong> sussidi e nuovi contingenti militari, concentrati a Calvi per ragioni strategiche. Terminata<br />

la Guerra <strong>dei</strong> Sette Anni (1763), la Francia, che aveva sofferto numerose perdite (il Canada e l’India), considerò il<br />

progetto di annessione della Corsica sempre più indispensabile per contrastare lo strapotere inglese nel <strong>Mediterraneo</strong>.<br />

Genova intanto, dopo il tentativo infruttuoso di arrivare ad un accordo con i nazionalisti corsi (1761), vide diminuire la<br />

speranza di sconfiggere Paoli. La disfatta di Matra rappresentò il fallimento dell’ultimo tentativo di Genova di sedare<br />

dall’interno i focolai rivoluzionari e segnò contemporaneamente l’inizio <strong>dei</strong> rapporti privilegiati tra la Repubblica e la<br />

Francia. Choiseul, infatti, concedette a Genova numerosi vantaggi economici e militari, con l’unico scopo di tessere<br />

attorno alla Dominante una tela inestricabile e rimettere piede in Corsica. Egli esigeva, in cambio <strong>dei</strong> sussidi e delle<br />

truppe, la cessione alla Francia di una piazzaforte. Davanti al rifiuto di Genova ed al pericolo di rottura delle<br />

negoziazioni (Genova intavolava trattative anche con l’Austria e l’Inghilterra), si arrivò ad un compromesso. <strong>Il</strong> secondo<br />

trattato di Compiégne (6 agosto 1764) permetteva alle truppe francesi di occupare nuovamente Bastia, Calvi, Algajola,<br />

San Fiorenzo ed Ajaccio per un periodo non superiore a quattro anni. La situazione negoziale sembrava identica a<br />

quella di pochi anni prima, ma la Francia era riuscita ad aprirsi un notevole varco d’azione: le piazzeforti, infatti, erano<br />

sotto diretta amministrazione francese (il conte di Marbeuf ne era il comandante supremo). Una delle clausole del<br />

trattato prevedeva, inoltre, che l’eventuale riappacificazione passasse attraverso l’intervento diretto <strong>dei</strong> capi francesi e di<br />

«tutti gli abitanti dell’isola indistintamente». La finzione della sovranità genovese era mantenuta, così come l’ipocrisia<br />

del ruolo di mediatrice della Francia nel conflitto: era chiaro, però, che l’isola era passata definitivamente nelle mani<br />

della diplomazia francese. Nulla poteva più frapporsi: né Genova, che era impotente, né Paoli, che pagava tutte le<br />

conseguenze di un intervento così pericoloso per la politica e la sopravvivenza dello Stato corso.<br />

L’atteggiamento di Paoli<br />

Paoli, già nel 1755 e nel 1763, aveva preso <strong>dei</strong> contatti segreti con Luigi XV per concertare una sorta di sovranità<br />

nominale dell’isola sotto la protezione della Francia, in cambio della cessione di alcuni porti 31 . L’atteggiamento neutrale<br />

delle truppe francesi sbarcate dopo il primo trattato di Compiègne (1756), le offerte d’amicizia del loro capo, il<br />

marchese di Castries, convinsero Paoli della possibilità di intendersi con Parigi e - approfittando della rivalità francoinglese<br />

nel <strong>Mediterraneo</strong> - d’ottenere per la Corsica un protettorato francese. Ma si trattava inevitabilmente di un<br />

dialogo tra sordi: Choiseul non poteva nascondere l’irritazione davanti alle pretese esorbitanti del Generale, mentre<br />

Paoli giocava d’astuzia per non urtare la sensibilità del terribile ministro. Dopo alterne proposte e scambi reciproci di<br />

accuse, Choiseul propose a Paoli la sovranità nominale e la corona del regno di Corsica «sotto la sovranità di Genova e<br />

la garanzia della Francia», rivendicando solo la cessione di qualche porto. A questa proposta Paoli pose la condizione<br />

della rinuncia di Genova ad ogni diritto sull’isola, che doveva essere considerata come «uno Stato totalmente libero ed<br />

indipendente» (lettera del 18 maggio 1766). La successiva azione di forza di Choiseul, che occupò nel gennaio 1768<br />

Bastia, S. Fiorenzo e tutto il Capo Corso ponendole sotto diretta amministrazione francese, sancì la rottura definitiva <strong>dei</strong><br />

rapporti fra i due uomini (lettera del maggio 1768) 32 . <strong>Il</strong> 15 maggio 1768, infine, accadde l’irrimediabile: venne siglato il<br />

trattato di Versailles tra Genova e la Francia per la cessione della Corsica. <strong>Il</strong> secondo trattato di Compiégne stava per<br />

scadere e la Francia doveva ritirare le sue truppe dalla Corsica, ma la capitolazione dell’isola di Capraia nel 1767 per<br />

mano <strong>dei</strong> ribelli e l’incapacità per Genova di sedare la rivoluzione fecero precipitare la situazione.<br />

31 Cfr. La Mémoire du Suprême Conseil d’Etat des représentants du Clergé séculier et régulier, des Présidents des Provinces et des Procureurs des<br />

pièves du Royaume de Corse rassemblés le 2 février 1763 dans la ville de Corte, résidence ordinaire du dit Suprême Conseil — Transmis au Ministre<br />

par le consul Régny le 7 mars 1763, conservata alle Archives nationales, Paris, Correspondance consulaire B1593: «Toute l’Europe a été informée<br />

des artifices trompeurs avec lesquels la République de Gênes s’est efforcée d’opprimer la Nation corse pendant tout le temps de la guerre, pour la<br />

remettre dans l’esclavage et il paraît inutile d’en renouveler l’ennuyeuse histoire...».<br />

32 A questa pretesa, giudicata inaccettabile, Choiseul rispose con una minaccia: «…se la vostra condotta obbliga le truppe francesi a restare in Corsica,<br />

la vostra nazione diventerà ancora più infelice. Rifletteteci». Paoli rispose alle minacce affermando che avrebbe cercato l’aiuto delle altre potenze<br />

europee, ma Choiseul ironizzò su questa intenzione: «Se la Repubblica facesse altrettanto, cercando un difensore, voi sareste puniti». Affermò, poco<br />

tempo dopo, che «…la Francia doveva occupare necessariamente due piazze in Corsica».<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

Figura 21: mappa dell’isola di Capraia e della sua fortezza (Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, filza 2110).<br />

Choiseul giocò abilmente attorno alla paura della disfatta militare: prendendo a pretesto una mossa maldestra di Genova<br />

(che, dal gennaio al luglio 1767 aveva dato rifugio in Corsica a migliaia di gesuiti cacciati dalla Spagna, nello stesso<br />

momento in cui il re di Francia stava per espellerli dal suo regno), decise di far evacuare Calvi, Algajola ed Ajaccio. La<br />

Repubblica comprese di dover valutare la decisione che si era sempre rifiutata di esaminare: l’abbandono totale<br />

dell’isola. Nelle sedute del Minor Consiglio, a Genova, il nobile Doria affermava pubblicamente che: «bisogna dire<br />

chiaramente ai francesi che intendiamo abbandonare la Corsica» (2 marzo 1767). <strong>Il</strong> doge Marcello Durazzo credette di<br />

trovare la soluzione giuridica del problema della sovranità di Genova sull’isola proponendo un deposito indefinito della<br />

Corsica alla Francia. <strong>Il</strong> 4 luglio 1767, con l’intermediazione dell’ambasciatore genovese a Versailles, Agostino Sorba 33 ,<br />

Genova propose la cessazione della sovranità dell’isola, in cambio dell’abbandono <strong>dei</strong> crediti reali e di qualche sussidio<br />

supplementare. In seguito a progetti, controprogetti, ricatti di Choiseul 34 , ipotesi di un intervento inglese, sardo o<br />

toscano, pressioni ed intimidazioni su Paoli ed ogni sorta di sottigliezza diplomatica, si arrivò finalmente, il 15 maggio<br />

1768, al trattato di Versailles.<br />

15 maggio 1768: il Trattato di Versailles<br />

<strong>Il</strong> primo articolo del nuovo trattato (composto in tutto di 16 articoli e 2 commi segreti), prevedeva che Bastia, S.<br />

Fiorenzo, Algajola, Calvi, Ajaccio, Bonifacio «e tutte le altre piazze, forti, torri o porti» fossero occupate da truppe<br />

francesi. L’articolo 2° precisava che questa occupazione militare si accompagnava a «tutti i diritti di sovranità» e<br />

serviva come risarcimento per le spese impiegate dalla Francia fino a quel momento. L’abbandono della sovranità<br />

«intera ed assoluta» era richiamato dall’articolo 3°, ma, da un lato, si vietava la cessione dell’isola «in favore di terzi<br />

senza il consenso della Repubblica», dall’altro, si riconosceva la fine della sovranità francese nel caso in cui la<br />

Repubblica fosse stata in grado di risarcire le spese dell’occupazione (art. 4°). La sovranità francese era considerata<br />

estesa all’isola sia come entità territoriale, sia come personalità giuridica (inclusi, pertanto, i poteri sull’amministrazione<br />

della giustizia, delle finanze, ecc...). Infine i due articoli segreti rassicuravano Genova sulla totale impossibilità che la<br />

Francia concedesse l’indipendenza ai corsi e disciplinavano un sussidio di 200.000 lire tornesi l’anno per dieci anni alla<br />

Repubblica. <strong>Il</strong> trattato di Versailles non ha mai cessato d’alimentare polemiche tra gli studiosi di storia corsa. La<br />

questione è sempre la stessa: si tratta di capire se la Corsica sia stata venduta da Genova alla Francia e a quali<br />

condizioni. Apparentemente il trattato sembrava affermare esplicitamente, nel sottotitolo, la «Conservazione dell’isola<br />

di Corsica alla Repubblica di Genova». Nel concreto, però, si è trattato di una vera e propria compravendita: questa<br />

formula non era altro che una precauzione oratoria nei confronti delle altre potenze europee, per mascherare, con la<br />

33 Agostino Sorba, d’origine corsa, era ministro plenipotenziario di Genova in Francia dopo il 1749. Rimase a Parigi fino al dicembre 1771, svolgendo<br />

un ruolo importante nelle relazioni diplomatiche tra i due paesi per la negoziazione che portò al trattato di Versailles.<br />

34 Ristretto del dispaccio di Sorba de i 30 settembre 1767: «omissis… Sentimento di Sorba: Crede che Choiseul abbia nell’animo di dare in Corsica<br />

una forma diversa da quella che la Repub.ca ha in mira con l’offerta della cessione; e che sino a che questa offerta non sia accompagnata con le più<br />

ampie specificazioni forse il Regio Ministro penserà ad un sistema assai consimile della di lui lettera di 23 marzo al Paoli, di modo che senza perdere<br />

di vista l’oggetto della Francia nella tal quale terminazione dell’affare si consiglierà di far trovare ai corsi di che soddisfare la loro ambizione e alla<br />

Repub.ca di che essere in guardia della loro successiva fellonia, e risarcirsi con qualche sussidio dal provento naturale che con la nuova forma della<br />

Corsica dovesse abbandonare…omissis…Che insomma la buona maniera con cui fossero trattati nel memoriale l’abbandono di tutta l’Isola al Re, e<br />

l’indifferenza della Repub.ca all’ulteriore sosta <strong>dei</strong> corsi nell’interno dell’Isola darebbe molta forza alla giusta riserva delle condizioni relative alla<br />

tranquillità dello Stato di Terra Ferma farebbe cessare il sospetto sulle sincerità dell’offerta o depone l’idea d’ogni altro sistema». Archivio di Stato di<br />

Genova, Archivio Segreto, filza 2111, fascicolo 15.<br />

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CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

finzione della cessione temporanea, la realtà di una vendita. Bisognerebbe capire se si sia trattato di una vendita tout<br />

court o di un contratto, dato che quest’ultima interpretazione risulta, dai documenti d’archivio e dalle testimonianze<br />

dell’epoca, la tesi più accreditata. Ma i contemporanei più perspicaci non avevano dubbi al riguardo: nel 1777<br />

Vergennes scrisse che «l’intenzione del Re era di comprare la Corsica irrevocabilmente e che la denominazione data<br />

all’acquisto era una simulazione» 35 , mentre Voltaire, nel Précis du siècle de Louis XV affermava che: «con questo<br />

trattato il regno di Corsica non è affatto donato al Re di Francia, ma è comprato… resta ancora da sapere se gli uomini<br />

hanno il diritto di vendere altri uomini: ma è una questione che non si esaminerà mai in nessun trattato» 36 .<br />

Ponte Novo<br />

Del resto i corsi non avevano alcuna ragione di sentirsi offesi: ceduti o venduti alla Francia, essi rifiutavano comunque<br />

una transazione avvenuta sulle loro teste. <strong>Il</strong> 22 maggio 1768 i deputati della Dieta, riunita a Corte, giurarono<br />

solennemente di «vincere o morire» ed ordinarono una leva generale di tutti gli uomini validi dai sedici ai sessanta anni.<br />

Un primo scontro tra gli indipendentisti ed i francesi a Borgo vide la disfatta delle truppe reali: a Versailles si<br />

cominciava già a parlare di rinuncia, ma l’insistenza di Choiseul convinse il Re a continuare l’azione militare. La<br />

seconda fase della guerra tra corsi e francesi cominciò nella primavera del 1769. La campagna non durò molto: anche se<br />

Paoli poteva contare su un esercito numeroso quanto quello francese, i suoi uomini erano male equipaggiati e poco<br />

armati. Egli commise un errore tattico, rimproveratogli da Napoleone: quello di aver rinunciato alla guerriglia ed aver<br />

accettato una battaglia in campo aperto con <strong>dei</strong> soldati di mestiere. Probabilmente Paoli accettò lo scontro aperto per<br />

ragioni politiche: la guerriglia gli avrebbe sicuramente permesso di mantenere il controllo della macchia, ma i nazionali<br />

rischiavano di passare, agli occhi dell’opinione internazionale, per <strong>dei</strong> fuorilegge. Inoltre Paoli cercava una battaglia<br />

campale per impedire sedizioni e fratture all’interno del fronte nazionale: la guerra costituiva un importante fattore di<br />

coesione interna.<br />

22 23<br />

Figure 22 e 23: la battaglia di Ponte Novo tra gli eserciti corsi e francesi.<br />

Lo spiegamento delle operazioni mostra come il piano francese fosse concepito intelligentemente: gli ordini<br />

prevedevano di non attaccare i villaggi, di seguire la linea di marcia e di portarsi sul Golo. L’8 maggio Paoli lanciò una<br />

controffensiva non riuscendo, però, a sfondare le linee francesi. Passando il Golo a Ponte Novo la colonna corsa avanzò<br />

in direzione di Lento per sorprendere il fianco dell’esercito francese, ma subì il contrattacco di Vaux. <strong>Il</strong> Ponte Novo era<br />

cassato da un muro dietro al quale Paoli aveva piazzato <strong>dei</strong> mercenari svizzeri e prussiani con l’ordine di tirare su<br />

chiunque si presentasse. Obbedendo alla lettera, i mercenari spararono sui nazionali che, presi tra due fuochi, trovarono<br />

la morte sul ponte o nelle acque del fiume 37 . Questa battaglia segnò la fine dell’indipendenza corsa: lo scontro, che<br />

35 «…Les biens des Génois confisqués lors des troubles ont été rendus. En 1778, on trouve une demande formulée par les Giustiniani à laquelle<br />

Vergennes a répondu: «<strong>Il</strong> me semble que cette contestation n’a pas de consistance réelle, car si messieurs les Génois veulent venir cultiver les terres<br />

en Corse, il n’y aura pas de difficultés à les rendre propriétaires, mais des propriétaires incontestables seraient encore sollicités de cultiver puisque ce<br />

n’est qu’à cette condition que le Bien public, sur lequel le souverain veille, peut être effectué. Necker a fait entendre à l’ambassadeur génois à<br />

Versailles, Christophe Spinola qu’il ne voyait pas de solution plus juste que de faire accorder aux propriétaires une indemnité compensatrice...». Cfr.<br />

Le lettere di Vergennes conservate all’Archives Nationales, Paris, Corrsepondance consulaire, Gênes, Q1 587.<br />

36 VOLTAIRE, Précis du siècle de Louis XV, in ID., Œuvres historiques, Paris 1957, p. 68.<br />

37 «…Quattro mesi dopo il combattimento, il ponte era ancora coperto di sangue, così come i sentieri attorno e le rocche lontane, dove i corsi si erano<br />

trascinati per morire fuori dal campo di battaglia». Vd. POMMEREUL F.R., Histoire de l’isle de Corse, Berne, 1779, 2° vol., p. 138. Le cifre relative ai<br />

morti ed ai feriti nella battaglia di Pontenovo non sono certe: Guibert ed il generale Vaux stimano la perdita di 4 ufficiali e di 50 o 60 soldati per i<br />

francesi e 500-600 uomini, di cui 250 sul ponte, per i corsi.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

poteva risolversi in una sconfitta passeggera, si era trasformato in una disfatta 38 .<br />

24 25<br />

Figure 24 e 25: scene della battaglia di Ponte Novo (1769).<br />

L’effetto psicologico fu terribile: le pievi, una ad una, si sottomisero ai francesi. La sconfitta fu dovuta anche al<br />

tradimento <strong>dei</strong> luogotenenti e degli alleati del Generale: al di là dell’inferiorità tattica <strong>dei</strong> corsi, bisogna sottolineare<br />

l’esistenza di un forte partito francese. Corruzione, interesse personale, arrivismo, simpatia sincera e disinteressata,<br />

sfiducia nei riguardi di Paoli, tutto contribuì a minare dall’interno la resistenza nazionale. Le dichiarazioni ambigue <strong>dei</strong><br />

capi francesi spingevano i corsi a dissociarsi dai tentativi indipendentisti e facevano sperare nella fine del dominio<br />

genovese, mostrando l’inutilità della resistenza militare nei confronti di un’invasione liberatrice. La stessa indipendenza<br />

dell’isola veniva posta come pura utopia: il governo di Paoli aveva ormai perso credibilità. <strong>Il</strong> notabilato isolano,<br />

eterogeneo, ma compatto nella difesa <strong>dei</strong> propri interessi, non vedeva più in Paoli un garante del potere politicoamministrativo<br />

ed alla prova <strong>dei</strong> fatti tutte le crepe dell’edificio paolino fecero crollare la struttura portante. Quali siano<br />

state le motivazioni profonde, la realtà era sotto agli occhi: la rivoluzione di Corsica era fallita.<br />

§ 4. Le cause della sconfitta<br />

Le ragioni della sconfitta <strong>dei</strong> nazionalisti sono molteplici. La ricerca dell’unità era uno degli imperativi fondamentali<br />

della lotta per la liberazione, tuttavia le basi sulle quali essa poggiava erano precarie: in questo risiedeva il dramma<br />

della politica paolina. <strong>Il</strong> compromesso con il Diladamonti avvenne, a quanto pare, in un momento in cui la corrente<br />

popolare a favore del Generale guadagnava terreno. Allora apparve chiaramente il limite di questo fattore in una società<br />

arcaica, con una struttura clanica. Paoli sapeva bene, al di là dell’importanza che rivestiva l’appoggio popolare nella sua<br />

politica, di non poter combattere le grandi famiglie del Sud. L’ostilità tra le due parti dell’isola era secolare e non si<br />

basava solo sulla distanza geografica. Nel Nord, Paoli poteva contare su una corrente antigenovese irreversibile ed<br />

aveva delle persone fidate su cui basare la sua autorità. Nel Sud, anche se il Generale poteva far affidamento<br />

sull’appoggio popolare, non aveva delle persone potenti per far rispettare gli ordini. Santo Folacci, il primo partigiano<br />

paolista della regione, anche se appartenente ad una «famiglia tra le più distinte del suo cantone e provincia, sia per<br />

nascita sia per fama e ricchezza» 39 , non era riuscito a farsi obbedire. <strong>Il</strong> fronte interno era sempre stato un ostacolo<br />

insormontabile: l’unica certezza di Paoli consisteva nel governare il Diquà in maniera esemplare, per esporlo come<br />

modello alle popolazioni del Sud.<br />

I clan: la base della centralizzazione<br />

<strong>Il</strong> sistema di centralizzazione politico-amministrativa del governo paolino, nel Diquà, corrispondeva al sistema clanico.<br />

I commissari in missione e la Giunta di guerra restavano comunque degli organi eccezionali. I commissari delle pievi<br />

erano i veri rappresentanti del governo: la carica permanente e la condizione di “capi partito” li poneva in una<br />

condizione di controllo e di potere. Questo fenomeno socio-politico mostra quanto Paoli dipendesse dai capi locali,<br />

nella scelta degli agenti. Ben presto Paoli divenne prigioniero delle strutture sociali isolane; la sua azione mostrava la<br />

curiosa fusione tra una volontà tendente ad assicurare un ordine centrale (e spesso il Generale diede prova di una<br />

fermezza incrollabile ai faziosi o ai fomentatori di disordini) e la necessità di far affidamento sui clan familiari che, da<br />

un lato, egli doveva combattere, ma che, dall’altro, erano l’unica garanzia dell’unità del paese. Paoli era costantemente<br />

di fronte ad un dilemma: combattere il sistema clanico o utilizzarlo (e quindi indirettamente rafforzarlo) per mantenere<br />

38 «La loro arma principale era il coraggio. Quel coraggio era così grande che in un combattimento verso una delle rive del Golo, si erano fatti scudo<br />

con i loro morti per avere il tempo di caricare ancora le armi ed avere il tempo di ritirarsi; i feriti si mescolavano ai morti per rinforzare le trincee. Un<br />

valore siffatto si vede solo presso i popoli liberi». VOLTAIRE, Précis du siécle de Louis XV cit., p. 124.<br />

39 ROSSI A., op. cit., libro X, p. 147.<br />

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CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

l’ordine. <strong>Il</strong> Generale ne era consapevole sin dall’inizio del suo governo, ed è per questo che strinse delle relazioni di<br />

parentela con alcune grandi famiglie. Ma tutto questo rileva il peso delle realtà sociali: esse costringevano Paoli a<br />

percorrere la Corsica senza sosta per mostrare alle popolazioni la sua presenza fisica ed ispirare la stima e la fedeltà<br />

verso la sua persona.<br />

Figura 26: Bando del Governo indipendentista sulla Presa di Capraia (5 giugno 1767).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

La Consulta: una struttura clanica?<br />

Non si deve credere che le consulte riuscissero a superare le contraddizioni claniche. Forse proprio in questo settore,<br />

malgrado le leggi ed i decreti approvati, si mostrava chiaramente la debolezza del Legislatore, posto costantemente di<br />

fronte a <strong>dei</strong> poteri alternativi. La Consulta di Corte del 1755 aveva previsto che la Dieta Generale si sarebbe riunita una<br />

volta l’anno dietro la convocazione del Generale, ma c’erano pochissime indicazioni relative alla scelta <strong>dei</strong> partecipanti:<br />

in pratica furono convocati i rappresentanti delle comunità, <strong>dei</strong> consigli provinciali, del clero, senza una particolare<br />

fissazione del loro numero 40 . A partire dal 1763 i Padri di Comune ed i Podestà non furono più convocati, mentre al<br />

loro posto furono nominati «zelanti patrioti», senza una particolare enunciazione delle cariche. Ad ogni modo, furono<br />

convocati tutti coloro che avevano già rivestito il ruolo di Consiglieri di Stato, un procuratore per ogni comunità, un<br />

procuratore per ogni chiesa collegiale, un procuratore per il basso clero delle parrocchie pievane, un procuratore della<br />

Chiesa cattedrale, un procuratore per la Magistratura, un deputato per ogni convento ed i superiori <strong>dei</strong> vari conventi.<br />

Bisogna sottolineare l’importanza attribuita al clero: la causa, probabilmente era collegata alle forti preoccupazioni di<br />

Paoli nel garanire la maggioranza di governo 41 . Così nella Consulta tenutasi il 2 febbraio, l’importanza numerica del<br />

clero mostra una valenza politica ben precisa: Paoli aveva coinvolto il clero per ottenere sussidi ed i preti, le monache, i<br />

frati spogliarono le chiese ed i conventi per far dono <strong>dei</strong> preziosi alla Zecca. Nella Consulta di Corte del 26 ottobre 1763<br />

si superò questa obbligazione materiale per prendere delle decisioni in materia di rappresentanza popolare: si doveva<br />

eleggere un solo procuratore per pieve (e non più per comunità) ed un solo rappresentante per il Magistrato.<br />

Ciononostante, senza che fosse intervenuta alcuna ordinanza per legalizzare questa nuova procedura, alla Consulta di<br />

Corte del 25 dicembre 1764, tenutasi contemporaneamente all’annuncio dell’arrivo delle truppe francesi, furono<br />

convocati, ancora una volta per rispondere ad una situazione contingente e senza alcun rispetto delle leggi, tutti coloro<br />

che erano già stati Consiglieri di Stato, tutti i presidenti delle province, tutti i commissari delle pievi ed infine tutti i<br />

“capi principali”. Ultima variazione: alla Consulta generale del maggio 1766 si decise che ormai i membri sarebbero<br />

stati eletti tra i “capi di famiglia” di ogni comunità ed il voto, obbligatorio dal 1764, sarebbe stato segreto. Questa<br />

misura, diretto complemento della riforma che aveva interessato il Consiglio di Stato nel 1764, aveva come scopo la<br />

definizione, una volta per tutte, della rappresentanza nazionale in senso democratico. Ma questa democrazia era<br />

autentica soltanto per le pievi ed i villaggi amministrati dalle comunità agro-pastorali dell’interno (Talcini, Venaco,<br />

Vallerustia, Rogna, Bozio), mentre nelle pievi in cui prevaleva il sistema clanico-familiare, le deputazioni alla Dieta<br />

erano costituite dai membri delle famiglie più influenti. Questo “compromesso” costituì la base del potere, ma anche<br />

della precarietà, del governo nazionale istituzionalizzato da Paoli. La costruzione politica era stata delineata in base al<br />

tessuto sociale: questo dato mostra l’ampiezza del fossato che separava le intenzioni del Legislatore dalla realtà <strong>dei</strong> fatti.<br />

Nel Sud della Corsica, infatti, si ritrovano delle formule leggermente diverse da quelle del Diquà: nei documenti erano<br />

scritti i nomi degli elettori «li quali insieme compongono la più migliore parte e quasi tutta la comunità, uomini, popolo,<br />

ed università del sopraddetto luogo di…» che avevano il compito di eleggere i delegati per la Consulta 42 . Si potrebbe<br />

ritenere che questo fenomeno interessasse unicamente il Sud dell’isola, dove la struttura feudale era maggioritaria e<br />

l’autorità di Paoli si faceva meno sentire. Effettivamente, nel Nord si adoperava più spesso la formula: «<strong>Il</strong> Podestà ed i<br />

Padri di comune e con essi tutti e se non tutti quasi tutti gli uomini della comunità hanno eletto ecc…». Questa formula<br />

democratica, anche se passibile di diverse interpretazioni, aveva la caratteristica di estendere la partecipazione allo<br />

scrutinio a tutti i “capi di famiglia”: ci troviamo in presenza di una procedura di voto che risaliva addirittura, in Corsica,<br />

al XIV secolo. Essa tuttavia non era uniforme: nelle comunità di una stessa pieve si ritrovano sia i documenti relativi<br />

all’affermazione di un voto a suffragio generale, sia di un voto ristretto ai capi 43 . Sicuramente, se non può essere negata<br />

40 Per l’assemblea tenutasi il 23 novembre 1762, nella capitale, era stata inviata una convocazione per ciascuna pieve in cui si invitavano «non solo li<br />

molti illustrissimi Signori Procuratori, Vicari, Foranei delle rispettive Diocesi, i molto illustrissimi P.P. Provinciali e Superiori delle religioni regolari,<br />

che tutti i Signori Presidenti, e consultori <strong>dei</strong> rispettivi magistrati, Commissari, Procuratori, Podestà, P.P. del Comune, e Capitani d’armi delle Pievi,<br />

com’eppure i più zelanti ed illuminati Patriotti affine che ognuno possa liberamente proporre» (ivi, p. 91).<br />

41 La Consulta di Vescovato del maggio 1761 aveva previsto nel IV articolo «il conio di una moneta d’argento o di rame, con le armi del Regno…per<br />

abolire ogni residuo dell’antica servitù e per avere gli stessi profitti degli altri Stati», ma il conio venne rimandato al marzo 1763 per mancanza di<br />

metallo. Cfr. ROSSI A., op. cit., libro XI, p. 160.<br />

42 Essi erano 18 a Zicavo, 23 per tutta la pieve di Talavo (che contava 3528 abitanti nel 1794, in base ai dati del Plan Terrier). Ma i due casi più<br />

interessanti riguardano Sartena e la comunità d’Arro. Ad Arro, l’8 aprile 1768, «<strong>Il</strong> Signor Paolo Andrea Colonna Podestà maggiore e li Signori Franco<br />

Colonna e Gio. Maestracci padri del Comune della villa d’Arro, e capi popoli del suddetto luogo li quali compongono la maggior parte e quasi tuta la<br />

comunità, uomini popolo ed università nel detto luogo d’Arro, convocati, congregati, coduniti secondo il solito e nelle forme consulte nella piazza di<br />

Santo…hanno di loro propria concorde volontà costituito, creato e fatto, siccome costituiscono, creano e fanno procuratore e sindaco di loro<br />

comunità… il Signore Paolo Andrea Colonna del detto luogho d’Arro». A Sartena, l’8 maggio 1768 «…Alla presenza dell’illustrissimo Magistrato<br />

della Rocca, li Magnifici Stefano Durazzo, Gio. Antonio Pietro, Paolo Maria Rocca Serra e Cesare Ortoli anziani di Sartena…hanno detto ed<br />

eleggono come procuratore di questa magnifica comunità il magnifico Gio. Gregorio Ortoli di quella città». Cfr. Archives départementales Corse-du-<br />

Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C 7; Affaires administratives; Fonds Paoli, C 1, carton 1, Administration Corse, consultes.<br />

43 Così, a Rostino, «Li signori Angelo Leonardo Saliceti dal Saliceto, Piermatteo Pasqualini di Vicinato, Padri del Comune e con egli tutti gli uomini<br />

della Parrocchia di Santo Cesaro (hanno eletto) Antonio Saliceti». Ma a Morosaglia di Rostino «Li Signori Pietro Antonio Polidori, Giovanni<br />

Geronimi Podestà e con essi li Signori di Consiglio Sindici e Procuratori li quali compongono la maggior parte e quasi tutta la comunità…». La stessa<br />

cosa si ritrova nei documenti relativi a Pastorecchia di Rostino ed a Riscamene di Rostino, per non parlare di Centuri, Barrettali, Olcani per il Capo<br />

Corso, Muro per la Balagna…prove evidenti della diversificazione geografica (e addirittura temporale, in base ai diversi periodi esaminati) del<br />

sistema elettivo delle consulte. Cfr. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C 1, carton 1, Administration Corse,<br />

consultes, f. 2.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

un’effettiva partecipazione popolare all’elezione <strong>dei</strong> rappresentanti, si deve riconoscere l’influenza <strong>dei</strong> Notabili negli<br />

affari delle diverse comunità. La formula democratica veniva mantenuta anche da quei Notabili che redigevano i<br />

processi verbali in numero di tre o quattro per comunità, e che decidevano per l’intera collettività: soltanto Corte, dove<br />

aveva sede il governo nazionale, si conformava perfettamente alla legge 44 . Si tratta dell’unico caso in cui la procedura<br />

stabilita nel 1766 sia stata descritta ed applicata con il sistema a suffragio generale: anche se Corte, nel 1794, contava<br />

1711 abitanti ed i votanti effettivi erano, nel 1768, centoundici.<br />

Figura 27: Bando del Governo indipendentista del 22 maggio 1768 in cui si proclama la mobilitazione generale della Nazione.<br />

44 Qui, il 22 maggio 1768, «Cento e undici Capi di Famiglia, fattasi in conformità delle leggi del Regno dal Podestà ed Anziani la nomina di esso<br />

Procuratore da eleggersi nell’illustrissimi Signori Giantomaso Arrighi e Giuseppe Maria Montera e nell’illustrissimo Signore Franco Gafforio, ed indi<br />

passati uno dopo l’altro a voti segreti dal popolo e quelli regolarmente raccolti si è ritrovato…che avendo esso Signore Gaffori riportato inclusi ne di<br />

più di due terzi di voti favorevoli è stato egli a tenere dalle leggi del Regno eletto come si elegga Deputato…». Cfr. Archives départementales de la<br />

Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C 1, carton 1, Administration Corse, consultes, f. 2-3.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

La forza del costume e del mito<br />

Nella Corsica rivoluzionaria, al di là degli sforzi di Paoli per elaborare delle norme costituzionali, per garantire,<br />

attraverso le consulte, un significato reale alla rappresentanza popolare e per allargare le basi sociali del potere, si<br />

mostrava sempre più potentemente la forza del costume. La feudalità, che sosteneva nel Dilà e nella Piana orientale il<br />

potere e l’autorità del Generale, continuava a rivestire nei propri territori un ruolo decisivo. Paoli metteva il massimo<br />

impegno per far eseguire i provvedimenti stabiliti dalla Dieta di Corte, ma le antiche strutture sociali <strong>dei</strong> villaggi e delle<br />

pievi lasciavano poco spazio all’espressione nazionale: in ogni pieve le comunità costituivano <strong>dei</strong> mondi a parte ed i<br />

notabili continuavano a dirigere i loro affari. Questo aspetto delle istituzioni comunali non emerge soltanto dalla lettura<br />

<strong>dei</strong> testi delle consulte, ma fa parte del bagaglio genetico del popolo corso: le disposizioni governative, man mano che si<br />

scendeva nella scala sociale, si dileguavano davanti ai meandri degli interessi particolari, perdendo il loro contenuto e la<br />

possibilità di una realizzazione concreta. Solo partendo da questo dato di fatto si può comprendere la variazione<br />

costante <strong>dei</strong> testi di legge ed il tentativo di Paoli di riorganizzare il potere mediante il coinvolgimento del maggior<br />

numero possibile di deputati: tutti dovevano avere lo stesso interesse per l’espressione della volontà generale. Da questo<br />

contesto emerge la mitizzazione della figura del Generale: di fronte alle difficoltà di una società in crisi, in cui le forze<br />

centrifughe minacciavano costantemente lo scoppio delle strutture esistenti, l’unità doveva reggersi sul mito. Paoli<br />

divenne un simbolo, un’unità ideale, un esempio ed un fine per tutti gli individui che componevano la società corsa.<br />

L’epiteto coniato per Paoli è significativo: egli era il “Babbu”, il capo famiglia che conduceva e dirigeva i suoi uomini.<br />

Capo carismatico, egli concretizzava i sogni, le speranze e la determinazione degli umili: ed era a lui, non soltanto ad<br />

un’entità chiamata “Nazione” o “Patria” che si indirizzavano i giuramenti di fedeltà. Uno <strong>dei</strong> grandi meriti di Paoli è<br />

stato quello di aver colto il momento giusto; egli era tornato in Corsica proprio quando i diversi tentativi per formare un<br />

governo nazionale, dopo l’esperienza di Gaffori, avevano mostrato l’impossibilità della gestione collettiva della lotta:<br />

solo un capo poteva condurre a termine la guerra di liberazione nazionale. Agli occhi del popolo, Paoli identificava lo<br />

Stato: tutte le istituzioni erano intimamente, fisicamente legate alla sua persona. Questa assimilazione ha decretato la<br />

forza, ma anche la debolezza, dell’immagine del Generale, dato che il suo edificio mostrava inevitabilmente una grande<br />

fragilità.<br />

La necessità fatta legge<br />

L’incapacità della Corsica di superare il sistema clanico nella formazione dello stato e l’ipoteca pesante <strong>dei</strong> legami di<br />

famiglia e di clientela sulle decisioni testimoniavano, nei fatti, che ogni clan funzionava come uno stato, ma anche che<br />

ogni capo clan poteva pretendere di giocare il ruolo di “generale alternativo”. Questo dato emerge chiaramente<br />

dall’analisi delle istituzioni corse: il sistema comunitario, presente sin dal XIV secolo, lasciava emergere in ogni pieve e<br />

comunità i Notabili rurali, volti ai soli problemi della dominazione locale o regionale; questo stato di cose era ben poco<br />

compatibile con la realizzazione di uno stato nazionale, dato che le aristocrazie locali interpretavano e deformavano le<br />

leggi per l’esclusivo beneficio <strong>dei</strong> “capi populo”. In effetti, uno <strong>dei</strong> fenomeni più curiosi nella Corsica del XVIII secolo<br />

è stata la resurrezione della categoria sociale <strong>dei</strong> “Caporali”, veri signori della guerra che conducevano i loro affari in<br />

modo autonomo ed indipendente, come i loro omologhi del Medio Evo. Questo fatto costituisce la prova evidente che<br />

una gran parte della nuova classe dirigente isolana non aveva colto la differenza tra la lotta delle pievi (condotta tra i<br />

contadini ed i pastori per il possesso delle terre <strong>dei</strong> Notabili e <strong>dei</strong> Signori) e quella delle masse popolari contro Genova,<br />

in vista dell’indipendenza dell’isola. Senza l’analisi di queste realtà sociali di lungo periodo della storia isolana non si<br />

comprenderebbero i motivi dell’adesione <strong>dei</strong> pastori-coltivatori e <strong>dei</strong> notabili alla rivoluzione indipendentista.<br />

L’attaccamento <strong>dei</strong> pastori alla proprietà comunitaria e quello <strong>dei</strong> coltivatori alla proprietà privata, l’ostilità <strong>dei</strong> primi<br />

alla coltivazione della pianura e quella <strong>dei</strong> secondi alla transumanza, furono senza dubbio tra le cause <strong>dei</strong> malumori<br />

della Corsica nel XVIII secolo. All’origine dell’insurrezione del 1729 c’era, come abbiamo visto, la politica di<br />

colonizzazione e di coltivazione della pianura corsa, perseguita dai genovesi tra il XVII e il XVIII secolo 45 .<br />

<strong>Il</strong> conflitto sociale prese un carattere nazionale poiché opponeva i pastori corsi delle montagne ai coloni liguri della<br />

costa: le proclamazioni infiammate <strong>dei</strong> patrioti accusavano i genovesi di volerli rigettare all’interno, per poterli<br />

assoggettare. L’espulsione <strong>dei</strong> genovesi non modificò questi conflitti. Se prima del 1729 il focolaio d’agitazione era<br />

situato sulle montagne, al tempo dell’indipendenza nazionale i movimenti di opposizione partirono dalla pianura. È<br />

interessare notare come tutte le opposizioni al regime partirono dalle regioni agricole per irrompere nelle regioni<br />

pastorali: si può vedere in questo semplice fatto un episodio della lotta tra il collettivismo <strong>dei</strong> pastori e l’individualismo<br />

<strong>dei</strong> coltivatori. Dopo la conquista francese, la montagna riprese il suo ruolo tradizionale di focolaio d’agitazioni, al<br />

contrario della pianura. Questo stato di cose ricorda quello che era accaduto sotto il dominio genovese, come mostra la<br />

somiglianza delle politiche favorevoli all’espansione della proprietà privata e, di conseguenza, contrarie agli interessi<br />

45 È sufficiente, per convincersi di questo, consultare le proteste degli abitanti di Niolo, contro la concessione del territorio di Galeria, il 23 agosto<br />

1704, al nobile genovese Saoli, e altrettanto quelle degli abitanti delle pievi di Ornano e Talavo contro lo stabilimento, nel 1714, della colonia di Coti-<br />

Chiavari vicino ad Ajaccio, così come le lamentele <strong>dei</strong> coloni contro le invasioni <strong>dei</strong> corsi. Sin dal 25 gennaio 1715, i capi delle colonie imploravano<br />

le autorità di mettere fine ai misfatti <strong>dei</strong> corsi. Ma in risposta alle affermazioni del Governatore, rinnovate parecchie volte nei villaggi di Campo,<br />

Quasquara, Frasseto e Zevaco, i montanari continuarono le loro incursioni devastatrici, nonostante le pene severe in cui incorrevano: «Proibiamo a<br />

qualunque si sia persona il poter più in avvenire entrare nei suddetti terreni della detta colonia né fare in quelli alcuno atto di sementare né introdurre<br />

in quelli bestiami di sorte alcuna a pascoli né tam poco tagliare macchia o altre sorte d’alberi sotto pena a contrafacenti di anni di galera...» (10 marzo<br />

1716). Ajaccio, Archives départementales de la Corse-du-Sud, fondo Civile Governatore C1<strong>11.</strong><br />

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CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

<strong>dei</strong> pastori. In virtù dell’articolo 9 del Trattato di Versailles, i beni confiscati dai genovesi e dai corsi filogenovesi<br />

furono restituiti durante la rivoluzione. Inoltre la maggior parte delle terre e delle colonie agricole vennero ridistribuite<br />

su tutta la superficie dell’isola: quelle <strong>dei</strong> greci a Cargese, quelle <strong>dei</strong> lorenesi sotto il demanio delle Porette, sempre<br />

contro gli interessi immediati <strong>dei</strong> pastori che, davanti all’inutilità delle loro proteste, si rivoltarono contro i proprietari.<br />

Negli ultimi decenni del Settecento gli scontri si moltiplicarono: rottura degli steccati, incendi <strong>dei</strong> raccolti, sradicamenti<br />

delle vigne, abbattimenti degli olivi, devastazioni delle proprietà 46 . Paoli aveva compreso questi problemi e queste<br />

difficoltà: non si sentiva mai legato troppo strettamente alla deontologia delle regole scritte. Avendo ricevuto il potere<br />

di convocare le consulte generali, invitava volta per volta le persone che gli sembravano più idonee alle esigenze del<br />

momento. Egli convocava, inoltre, di propria iniziativa, delle consulte regionali con il potere di legiferare alla stregua<br />

delle consulte generali (come nella Consulta del Capo Corso del 6 gennaio 1762). Infatti, più che risolvere i problemi<br />

costituzionali, ciò che interessava al Generale era promuovere l’efficacia degli atti governativi: Paoli non si<br />

preoccupava solo di assicurare un avvenire politico stabile, ma anche di garantire l’efficienza <strong>dei</strong> suoi ordini. <strong>Il</strong><br />

Generale era in costante viaggio nell’isola per regolare di persona i conflitti, mettendo alle strette le famiglie o le pievi<br />

non allineate: sotto questo aspetto si comprendono anche le ragioni delle numerose variazioni “autocostituzionali”, che<br />

decidevano la composizione del Consiglio di Stato o delle consulte, destinate principalmente a fare fronte a situazioni<br />

ben precise. Ad uno sguardo più ravvicinato, il consenso raccolto nelle assemblee era indice della fondatezza di una<br />

politica, più che un’investitura istituzionale. I fedeli erano il vero strumento del potere ed il programma serviva solo a<br />

suscitare l’allineamento degli altri membri: il progetto politico divenne fondamentale solo in un secondo momento,<br />

quando, cioè, la sua applicazione poteva sollevare una corrente popolare legata al consenso generale 47 . Nello Stato<br />

paolino erano essenziali le relazioni tenute quotidianamente dal Generale ai quattro angoli dell’isola, spesso con<br />

un’attività epistolare smisurata: da questo si evincono gli sforzi incessanti per risolvere le difficoltà locali e il costante<br />

lavorio per tessere nell’isola una rete di amicizie e di affetti in grado di sostenere la causa nazionale. Non bisogna<br />

considerare il progetto indipendentista solo in una pretesa costituzione, ma anche nel lavoro diplomatico con cui Paoli<br />

cercava di realizzare attorno alla sua persona un’unità che superasse le rivalità regionali e personali.<br />

46 Le lamentele del concessionario di Santa Giulia, M. de Maimbourg, sono sotto questo punto di vista significative: «Gli abitanti di Porto Vecchio, si<br />

sono presi gioco di Santa Giulia, senza pagare nulla: in seguito all’abbandono di M. Giustiniani (il governatore genovese) hanno fatto tutto ciò che era<br />

in loro potere per mantenersi all’interno di questo territorio». E aggiungeva: «nel tentativo di scoraggiare i miei sforzi e di restare i padroni del<br />

territorio, dopo il mio abbandono, distrussero un piccolo vivaio da 5 a 6.000 piedi d’alberi superbi che avevo fatto circondare da una doppia siepe».<br />

Per finire, domandò che fossero fatti pagare a tutta la comunità di Porto Vecchio i danni che aveva subito. Cfr. Archives départementales de la Corsedu-Sud,<br />

Ajaccio, fondo Civile governatore, C112.<br />

47 Una lettera di Clemente Paoli a Venturini, quando quest’ultimo era ancora Presidente, scritta verosimilmente qualche giorno prima della Consulta<br />

della Casabianca, è piena di spunti interessanti: «Convocare il Congresso a Rostino o a Caccia, in modo che voi ne esprimiate il desiderio, non ci<br />

sembra una cosa convenevole: quelli del Diladamonti sarebbero obbligati a fare un viaggio più lungo. Altre ragioni: in questo momento non conviene<br />

convocare gli abitanti della Balagna, anche se pieni di buona volontà, in una località che è stata il teatro di recenti problemi, senza contare la gelosia<br />

che ecciterebbe nello spirito degli abitanti di altri luoghi. Quanto a Caccia, voi non avete dimenticato, senza dubbio, i sacrifici sofferti dagli abitanti<br />

durante le riunioni di altre Assemblee ed all’epoca delle due spedizioni in Balagna, di cui essi hanno molto sofferto; così, ci sembra necessario riunire<br />

il congresso a Corte o a Sant’Antonio della Casabianca. Ma il nostro invito è di tenere la riunione a Corte, in cui ciascuno arriverà munito delle<br />

provvigioni necessarie, senza che il paese abbia a sopportare alcun carico». Cfr. Lettera di Clemente Paoli a Venturini, senza data, Lettres de Paoli di<br />

PERELLI D., «B.S.S.H.N.C.», 57 (1884), p. 3.<br />

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CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

Figura 28: Ordinanza <strong>dei</strong> francesi del 22 agosto 1768.<br />

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CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

Un edificio senza basi di massa<br />

La struttura clanica reggeva la società corsa ad ogni livello. Su di essa posava anche l’edificio paolino: il progetto<br />

consisteva nell’assorbimento di questa struttura per metterla, in un secondo momento, al servizio della nazione.<br />

L’unione si basava sull’annullamento (relativo ed episodico) delle forze centrifughe sotto la pressione degli<br />

avvenimenti: la mancanza di prospettive politiche per i notabili (specie dopo il secondo intervento francese), la<br />

crescente pressione popolare, la fusione delle aspirazioni della classe borghese e delle masse popolari; tutto doveva<br />

convergere all’unità della nazione. Per riuscire pienamente nell’intento bisognava risolvere i problemi economici e<br />

sociali che avevano fatto scattare la jacquerie e suscitato l’allineamento <strong>dei</strong> notabili nella lotta contro Genova. In parole<br />

povere, si doveva mettere fine al problema agrario da un lato, e dall’altro dare soddisfazione alla borghesia rurale.<br />

Quest’ultima aveva aderito alla rivoluzione con un programma preciso di rivendicazioni: incarichi ed onori (che<br />

l’indipendenza garantiva) e soprattutto, con un programma economico al quale essa era attaccata e che figurava sempre<br />

nelle prime pagine <strong>dei</strong> progetti di pace formulati dal 1730 al 1753. Ignorare la crisi sociale (aggravata da quarant’anni di<br />

guerra) e le sue cause profonde significava non riuscire a mettere fine ai problemi interni e deludere le aspettative degli<br />

umili; ignorare le rivendicazioni <strong>dei</strong> Notabili significava separarli dalla causa nazionale e lasciar loro un campo<br />

d’azione troppo vasto, che avrebbe coinvolto anche un gran numero di partigiani. Se si considera, inoltre, che questi<br />

Notabili erano molto attaccati alla pace sociale e che i loro interessi economici erano in contrasto con l’interesse della<br />

popolazione, si misura la ristrettezza del margine d’azione di Paoli, proprio quando il superamento di queste<br />

contraddizioni era fondamentale per la formazione della nazione.<br />

La povertà<br />

In quest’analisi della Corsica rivoluzionaria non devono essere mai tralasciati i fattori economici e sociali, origine di<br />

numerose rivendicazioni e di lotte tra i nazionali e gli stranieri 48 . La debolezza del sistema militare paolino è evidente:<br />

gli abitanti erano costretti a mettere in secondo piano gli interessi materiali immediati di fronte alla lotta per<br />

l’indipendenza. Ma si assisteva anche a delle manifestazioni d’indifferenza verso la causa nazionale: gli ufficiali si<br />

mostravano spesso poco diligenti nell’esecuzione degli ordini di governo ed il desiderio di centralizzazione e di unità<br />

che animava il generale incontrava spesso delle resistenze. Paoli era bloccato dalle poche risorse che offriva il paese:<br />

35.000 uomini, al massimo, erano in grado di portare le armi, mentre il peso delle strutture economiche arcaiche faceva<br />

passare in secondo piano l’interesse generale rispetto all’interesse di una comunità o di una pieve. Ancora più<br />

significativo era l’aumento delle ammende verso chi disertava le marce, aumento che lascia supporre un gran numero di<br />

refrattari: i disertori non si mostrarono particolarmente attaccati a queste misure, dato che non solo continuarono a<br />

mancare all’appello, ma resistettero anche alle multe. Sarebbe semplicistico mettere questi esempi sul piano della<br />

mancanza d’interessi o della cattiva volontà: partire in guerra, anche per una spedizione di qualche giorno, significava<br />

abbandonare il lavoro nei campi e nell’isola la miseria era davvero grande. Le fonti d’archivio testimoniano anche le<br />

enormi difficoltà economiche del governo centrale 49 . La bancarotta era totale: l’indigenza della popolazione non<br />

garantiva alcun guadagno allo Stato. L’indigenza generale era imputabile, in prima istanza, ai cattivi raccolti,<br />

particolarmente frequenti nel quindicennio paolino: d’altronde la crisi agricola era diffusa in tutto il bacino del<br />

<strong>Mediterraneo</strong>. Paoli si preoccupava attivamente dello sviluppo dell’agricoltura: nella Consulta generale del maggio<br />

1764, prese delle misure per lo sviluppo agricolo del territorio isolano 50 . Ma il Governo era incapace di mantenere fissi i<br />

prezzi, nonostante la creazione <strong>dei</strong> “Minestrali”, che «debbono invigilare sopra i pesi e misure». L’aumento <strong>dei</strong> prezzi<br />

portava necessariamente il popolo all’esasperazione, con rischi molto seri per la stabilità del governo. In fondo, il<br />

governo rivoluzionario non era riuscito a migliorare la condizione miserevole delle masse contadine proprio a causa<br />

48 <strong>Il</strong> 22 giugno 1762, Massesi richiese ai Niolini uno sforzo di guerra considerevole: «<strong>Il</strong> motivo per cui viene intimata numerosa la marcia alla vostra<br />

pieve si è che niun’altra è meno disoccupata come codesta in questi tempi, quando per il contrario tutte le altre sono nella maggiore per la racolta», di<br />

cui il nemico ha approfittato. Contemporaneamente il commissario d’Aquale, il 12 novembre 1762 rispose allo stesso Massesi che, con grande<br />

rammarico, non poteva eseguire gli ordini perché «presentemente la gente stava tutta per spiagiare». <strong>Il</strong> verbo “spiagiare” indica la diserzione<br />

dall’esercito per il proseguimento del lavoro nei campi. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C 7, Affaires<br />

administratives.<br />

49 Nel novembre 1763, Paoli scriveva a Casabianca di chiedere «al signore Cannelli che ci faccia trovare almeno 8 o 10.000 lire per aggiustare la<br />

truppa» lettera di Paoli a Casabianca del 26 novembre 1763, in PERELLI D., Lettres de Paoli, «B.S.S.H.N.C.», s. II (1886), p. 591. <strong>Il</strong> 20 febbraio<br />

dell’anno seguente Paoli confessava a Salvini «mio padre non mi ha prestato danaro»; il capo del governo corso non poteva nemmeno imporre che ci<br />

si servisse della moneta nazionale, rifiutata da tutti: «Sentiamo con nostro stordimento che, in questa provincia, ci sono molti che ricusano la moneta<br />

nazionale»; «Quella partita d’undici mila lire, se potesse ridursi in moneta forestiera onde con quelle cominciassi a pagar la truppa, farebbe<br />

buonissimo effetto, e trovarei più gente e migliore». Vd. Lettera di Paoli al Magistrato della Balagna, 24 settembre 1768, e lettera di Paoli da<br />

Belgodere, 25 ottobre 1768, in PERELLI D., Lettres de Paoli, «B.S.S.H.N.C.», s. III (1890), pp. 134 e 332.<br />

50 Nel XIII articolo si decise, infatti, che «Resta a carico del Supremo Governo di eleggere due o più soggetti di ciascuna Provincia, li quali<br />

promuovano nelle maniere più proprie la coltivazione <strong>dei</strong> terreni, la piantagione delle vigne, e di ogni sorte d’alberi»; l’articolo XXXI novellava che<br />

«chiunque possiede orti, vigne, chiosi, serrati debba ogni anno ai tempi proprii, seminare ceci, pisi, fave, fagioli ed ogni altro genere di legumii». <strong>Il</strong><br />

problema era trovare il denaro per gli investimenti, dato che i contadini non riuscivano nemmeno a pagare le tasse. <strong>Il</strong> Governo era povero quanto la<br />

popolazione e non poteva promuovere una politica di prestiti all’agricoltura. La situazione rimase assolutamente identica, se non peggiore, a quella<br />

del periodo genovese, e le velleità di rinnovamento rimasero nella sfera delle speranze irrealizzabili. La carestia trascinava con sé il rialzo <strong>dei</strong> prezzi e<br />

la speculazione. L’articolo XII della Consulta del 1764 decretava che «Saranno deputati dal Supremo Governo due consoli per rivedere la qualità ed i<br />

prezzi di ogni genere di mercanzie, e per dare quei provvedimenti che intorno a ciò si crederanno necessari per l’utilità <strong>dei</strong> popoli a vantaggio del<br />

commercio». Ma, come disse Paoli in una lettera del 1767, i prezzi di quell’annata aumentavano in ragione della penuria e «niuno arriva a venderne<br />

che non ne domandi di vantaggio»; cfr. Lettera di Paoli a Belgodere cit.<br />

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CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

della guerra. Ma è grave il fatto che Paoli non avesse riconosciuto le ragioni profonde della rivolta, in parte analizzate<br />

da Natali e da Salvini: erano state la cattiva amministrazione e la giustizia venale degli occupanti a spingere gli isolani<br />

alla ribellione contro la madrepatria. Le conseguenze sociali ed economiche della cattiva amministrazione genovese<br />

aggravavano pesantemente le difficili condizioni dell’isola. La ricerca delle misure, degli editti concernenti il diritto di<br />

pascolo, il problema <strong>dei</strong> terreni comuni o le questioni della proprietà erano sempre stati secondari rispetto alla questione<br />

sociale ed economica, ma gli unici riferimenti trovati finora negli articoli delle consulte condannavano il pascolo sulle<br />

terre coltivate ed i proprietari che si facevano giustizia da soli in caso di usurpazione <strong>dei</strong> beni. Tutto questo era<br />

insufficiente per regolare la questione e Paoli probabilmente aveva rimandato la soluzione del problema sociale per dare<br />

spazio all’esigenza primaria: l’indipendenza. La crisi interna, generatrice di divisioni e fonte d’instabilità politica, era<br />

presente sin dallo scoppio della rivoluzione e si percepiva ancora nelle lotte che insanguinavano le pievi nelle questioni<br />

di confine. Paoli era in parte responsabile di questi avvenimenti: aveva voltato le spalle alla questione sociale, credendo<br />

di poterla tamponare con una giustizia rapida e rigorosa; il rigore ispirava il timore ma lasciava intatte le cause del<br />

malcontento. <strong>Il</strong> banditismo, figlio della miseria, non era sparito e le sue radici erano ancora fresche; sembra addirittura<br />

che esso sia aumentato nel quindicennio indipendentista e che fosse utilizzato dai genovesi e dai francesi, dai nemici<br />

personali del Generale e dagli abitanti del Fiumorbo per annullare gli sforzi del Governo, che nel frattempo si sfiancava<br />

in marce e spedizioni per ristabilire l’ordine e «sterminare i banditi» (Paoli identificava con questa parola tutti coloro<br />

che non obbedivano alle leggi della nazione). <strong>Il</strong> motore della loro azione era la fame: da quando i corsi si erano<br />

sollevati, il governo non aveva voluto e potuto risolvere le difficoltà endemiche dell’isola. Le fondamenta del sistema<br />

amministrativo paolino avevano delle crepe profonde.<br />

Insormontabili contraddizioni<br />

Nonostante i numerosi tentativi di Paoli di creare una rete di commerci interni ed esterni all’isola, le frequenti carestie<br />

costringevano più volte il governo rivoluzionario a vietare il commercio di viveri, bloccando lo sviluppo economico. I<br />

notabili avevano aderito alla rivolta per ottenere degli obiettivi fondamentali, tra cui il libero commercio: tutte le<br />

contraddizioni della società corsa si annodavano su questa problematica. Gli abitanti <strong>dei</strong> Presidi avevano conosciuto per<br />

la prima volta la penuria e la fame: bloccati all’interno da ogni tipo di approvvigionamento, erano stati abbandonati<br />

anche da Genova, incapace materialmente di aiutarli. Inoltre, in tutte le consulte rivoluzionarie era stato decretato il<br />

divieto di commercio con le città costiere ed erano stati nominati <strong>dei</strong> Commissari per evitare questa eventualità. Ma il<br />

generale, ancora una volta, doveva accettare il peso degli interessi privati ed il commercio clandestino delle derrate 51 .<br />

Paoli voleva regolare e sottoporre a tariffa il commercio interno: decretò un calmiere generale nella Consulta del<br />

maggio 1764, ma senza il consenso <strong>dei</strong> notabili che, sin dal 1729, facevano proclamare il libero commercio in tutte le<br />

assemblee. Sicuramente il governo riusciva ad accattivarsi le simpatie del popolo, il cui livello di vita era salvaguardato,<br />

anche se solo teoricamente, dal rialzo <strong>dei</strong> prezzi. Ma ad un certo punto le masse popolari cominciarono a lamentarsi<br />

della tassazione, che causava l’effetto opposto a quello previsto, ed i contadini sospettarono che lo Stato fosse<br />

l’istigatore di presunte malversazioni. Questa politica aveva tutti gli inconvenienti del sistema genovese, senza<br />

mantenerne i vantaggi. La Consulta del 1764 proclamò all’articolo XXIV il divieto assoluto di commercio con i Presidi;<br />

ma, come affermava Rossi, le popolazioni soffrivano terribilmente l’assenza del piccolo commercio con i porti<br />

genovesi: stoffe, utensili ed altre cose indispensabili alla vita quotidiana. Ogni giorno gli ordini del governo, incapace di<br />

risolvere il problema economico, venivano infranti: come si poteva vivere sull’isola quando i porti appartenevano ad<br />

una potenza nemica? <strong>Il</strong> porto dell’Isola Rossa non poteva reggere il confronto con i presidi: era una creazione troppo<br />

recente ed era poco frequentato dai mercanti stranieri. Esso funzionò soprattutto come porto d’esportazione delle<br />

castagne. L’Isola Rossa finì per ricadere in una delle contraddizioni profonde della Corsica: nel porto si vietava il<br />

commercio con le navi <strong>dei</strong> Presidi ma si autorizzava con i battelli battenti bandiera straniera, anche se l’equipaggio era<br />

genovese; per commerciare bastava l’assicurazione verbale che le derrate imbarcate non fossero destinate a Bastia,<br />

Calvi o Ajaccio.<br />

I notabili ed i contadini si rallegravano delle prese di posizione del governo, ma ancora di più i genovesi: potevano<br />

comunque rifornirsi e rallentare le pressioni del popolo di Bastia, che si lamentava e minacciava di sollevarsi contro il<br />

governatore per la mancanza di grano. La soluzione attuata dal governo rivoluzionario era pericolosa, perché andava<br />

contro gli interessi della nazione e provocava il malcontento delle categorie sociali ostili a Genova. Questa politica era<br />

anche rivelatrice dell’empirismo dell’azione governativa e delle sue intime contraddizioni: si agiva in base alle<br />

51 Nel 1759, nonostante il cattivo raccolto, «sento che alcuni di codesto paese [Olmeta], sotto pretesto di mandarlo a macinare [il grano], ne facciano<br />

passare in Calvi gran quantità. Io vi prego d’impedire questo disordine, il quale, levando la fame ai presidiani ed ai bastiesi, potrebbe introdurla nel<br />

Regno». Nel 1765 il Consiglio di Stato affermava che «Sentiamo che giornalmente passa quantità di farina in Calvi… Ella sanno benissimo quanto sia<br />

scarsa l’apparenza dell’annata e, prevedendovi una deplorabile sterilità, non deve permettersi, sotto qualsivoglia pretesto, l’estrazione de viveri,<br />

mentre, ciò che abbisogna alla nazione, non deve accordarsi ad alcuno»; cfr. Lettera di Pasquale Paoli a Giudicelli, 31 luglio 1759, PERELLI D.,<br />

Lettres de Paoli, «B.S.S.H.N.C.», s. I (1884), pp. 362-363. <strong>Il</strong> Magistrato di Balagna e Paoli, invece di punire, si contentavano di pregare che il<br />

commercio clandestino terminasse, ma nonostante i richiami formali i balagnini continuarono ad agire allo stesso modo; infatti, il 29 novembre 1768<br />

il governo di Corte ordinò per la seconda volta di far cessare questo genere di attività, pregiudizievole non solo alle popolazioni dell’interno, ma<br />

anche «agli altri interessi dello Stato». Evidentemente il sentimento patriottico non riusciva a soffocare chi approfittava delle carestie per trafficare<br />

granaglie e generi alimentari: gli interessi privati erano incompatibili con i divieti. <strong>Il</strong> commercio con il Capo Corso era autorizzato «mediante la<br />

credenziale che i patroni di bastimenti dovranno produrre dal magistrato di quella Provincia, e non per altrove». Cfr. Arch. Dep. Corse-du-Sud,<br />

Ajaccio, Fonds Paoli, C 7, Affaires administratives.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 4 – La seconda fase della Rivoluzione corsa: Pasquale Paoli (1755-1769)<br />

circostanze, dando soddisfazione un po’ agli uni, un po’ agli altri, indisponendo generalmente tutti: insomma, non era<br />

stata modificata nessuna delle linee direttrici che avevano regolato l’attività amministrativa genovese. Un simile<br />

comportamento spiegava la lenta disaffezione popolare, ma provava anche la mancanza di reali prospettive da parte<br />

della borghesia isolana, specialmente della borghesia rurale, incapace di promuovere una rivoluzione nel paese. Questa<br />

debolezza oggettiva si rifletteva nel contenuto ideologico che si era voluto dare alla rivolta: un simile atteggiamento,<br />

prima o poi, avrebbe privato la rivolta delle sue basi di massa e obbligava Paoli a tener conto e ad integrare le<br />

aspirazioni <strong>dei</strong> notabili. Quando Paoli proponeva a Choiseul «la libertà della mia nazione sotto l’alta protezione della<br />

Francia» 52 , quando negoziava con Valcroissant, inviato del ministro di Luigi XV, si inscriveva nello stesso pensiero di<br />

coloro che domandavano l’annessione alla Francia. Paoli dava prova di realismo politico, eppure, nello spirito della<br />

maggior parte di coloro su cui si appoggiava, questa formula era una soluzione di convenienza per delle aspirazioni più<br />

profonde: affidarsi alla Francia per ottenere ciò che Genova non era stata in grado di offrire e che il governo<br />

rivoluzionario non aveva potuto realizzare. Quando venne firmato il Trattato di Versailles, suonò l’ora della verità: gli<br />

uomini che, secondo il Generale, erano stati pagati dalla Francia, si dichiararono apertamente, seguiti da quelli che<br />

avevano osato occupare le piazze rimaste vacanti 53 . Mentre preparava la guerra contro De Vaux, Paoli era costretto a<br />

condurre delle spedizioni nelle pievi che si erano sollevate: questo accadeva nel Nord, dato che il Sud, dal 15 maggio<br />

1768, non era più controllabile. Le numerose lettere che Ottavio Colonna d’Istria inviò al Generale nella seconda metà<br />

del 1768, fino alla prima metà del 1769, sono una lunga enumerazione di tradimenti, di marce contro i faziosi, di<br />

diserzioni. La battaglia di Ponte Novo congiunse tutti i fattori che sottostavano allo svolgimento della storia isolana<br />

durante i tragici e gloriosi quarant’anni: la debolezza economica, il peso dello straniero, le contraddizioni e le divisioni<br />

di una rivoluzione che non era mai veramente diventata totale nell’isola. Sul suo destino pesavano troppe ipoteche: la<br />

struttura sociale clanica, per essenza incompatibile con l’idea nazionale; il disinteresse, nel corso degli anni, delle masse<br />

contadine, le grandi vittime di un cinquantennio di lotte e per le quali non era stato fatto nulla; la debolezza della<br />

borghesia isolana. Quest’ultima rimase sempre una borghesia rurale: nell’insieme aveva poco interesse per il mercato<br />

nazionale, fondamentalmente chiuso, e per il mercato internazionale, a cui non aveva mai partecipato. Indirizzata verso<br />

Genova per le attività più importanti, essa si scontrava con l’arcaismo di un mondo rurale che non era in grado di<br />

trasformare. Bloccata, limitata dall’atomizzazione delle strutture economiche, sociali, politiche, la borghesia non poteva<br />

diventare una classe rivoluzionaria. Senza una classe rivoluzionaria nessuna nazione riesce a sopravvivere alle<br />

ingerenze straniere: un uomo, per quanto grandi siano i suoi meriti ed il suo genio, non può sostituirsi alle masse,<br />

quando quest’ultime falliscono.<br />

52 Lettera di Paoli a Choiseul, 18 maggio 1766, PERELLI D., Carteggio fra Paoli e Choiseul, «B.S.S.H.N.C.», 69 (1886), pp. 493-497.<br />

53 Nel giugno del 1768 i fratelli Fabiano fomentarono delle rivolte in Balagna; in agosto, Gaffori e Ceccaldi rifiutarono d’obbedire al governo; in<br />

settembre Casabianca, l’amico fedele di Paoli, venne seriamente rimproverato per la sua debolezza e per quella <strong>dei</strong> suoi partigiani; in ottobre tutti i<br />

Buttafoco abbandonarono il Generale: conseguentemente il loro feudo, la Casinca, entrò in sedizione e non obbedì più al governo. A poco, a poco le<br />

altre pievi seguirono l’esempio della Casinca: la pieve di Mariana si sottomise ai francesi nel settembre del 1768 ed il Fiumorbo scelse la secessione.<br />

Accanto ai grandi capi clan, ce n’erano altri, oscuri, altrettanto numerosi: «nella mossa generale bisogna ad aver l’occhjo sopra. Perché mi conta che<br />

alcuni sono insinuati di mettersi nella folla per fomentare e tumultuare». Paoli non si sbagliava: correvano le notizie più curiose, che creavano<br />

disordini generalizzati e ribellioni che il Generale cercava di sedare scrivendo ai tumultuanti per dare coraggio o mostrare la sua autorità. Arch. Dép.<br />

Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C7, Affaires administratives.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

CAPITOLO 5<br />

JEAN JACQUES ROUSSEAU ED<br />

IL PROGETTO DI COSTITUZIONE PER LA CORSICA<br />

§ 1. Premessa<br />

La fine dell’indipendenza corsa era stata ormai segnata dalla sconfitta di Pontenovo. Paoli, esule in Toscana e poi a<br />

Londra, sarebbe tornato ad avere un ruolo di primo piano nelle vicende corse solo durante il periodo della Rivoluzione<br />

francese: a partire dal 1790 il destino personale del Generale a quello dell’isola tornarono ad essere di nuovo collegati.<br />

Durante il ventennio compreso tra Pontenovo e l’inizio della Rivoluzione francese sorse e si sviluppò in Europa il<br />

“mito” di Paoli: la risonanza delle tristi vicende legate alla sconfitta <strong>dei</strong> corsi ed all’eroismo del Generale percorsero il<br />

continente in lungo e in largo. Paoli divenne il centro di un’intensa corrispondenza che comprendeva numerosi<br />

personaggi di spicco della politica e della cultura europea dell’epoca. Anche Jean Jacques Rousseau partecipò<br />

attivamente alle vicende isolane con la stesura del Projet de constitution pour la Corse, un vero e proprio corpus<br />

normativo scritto a seguito <strong>dei</strong> contatti avuti dal filosofo ginevrino con alcuni esponenti del governo indipendentista<br />

corso.<br />

§ 2. Corrispondenza tra Buttafoco e Rousseau nel 1764<br />

A partire dal mese di luglio del 1762, Rousseau, al centro di una vera tempesta di critiche sollevatesi dopo la<br />

pubblicazione a Parigi e a Ginevra del Contratto sociale e dell’Emilio, si rifugia a Môtiers, che faceva parte del<br />

principato prussiano di Neuchâtel. Si rivolge chiedendo asilo a Federico II, un sovrano per il quale non aveva mai<br />

nascosto la sua avversione («pensa da filosofo e si comporta da re») 1 . In quel periodo Rousseau ritiene di aver toccato il<br />

fondo: non ha più volontà, né speranze, né la forza di vivere. Ma il soggiorno a Môtiers finirà per rivelarsi piacevole: è<br />

circondato da molti amici, tormentato da non pochi ammiratori e seccatori, nonché al centro di una fitta rete di<br />

corrispondenze. Ma dopo la condanna delle Lettres de la Montagne (bruciate a L’Aia nel gennaio, a Parigi nel marzo, e<br />

condannate a Ginevra dal “Petit Conseil” nel febbraio del 1765), anche a Môtiers la situazione diventa difficile.<br />

Rifugiandosi il 12 settembre 1765 nell’isola di Saint-Pierre, in mezzo al lago di Brienne, Rousseau portava con sé il<br />

manoscritto del Progetto di costituzione per la Corsica. Nel Contratto sociale aveva definito la Corsica: «Un paese<br />

capace di ricevere una legislazione (...) il valore e la tenacia con cui questo popolo coraggioso ha saputo difendere la<br />

sua libertà meriterebbero proprio che qualche saggio gl’insegnasse a conservarla. Ho non so quale presentimento che un<br />

giorno questa piccola isola stupirà l’Europa» 2 . Scesa in lotta nel 1729 contro l’oppressione genovese, la Corsica era<br />

stata argomento di appassionati dibattiti. Francesco <strong>Dal</strong>mazzo Vasco scrisse, come Rousseau, un piano di legislazione;<br />

James Boswell, dopo una visita a Rousseau il 3 dicembre 1764, soggiornò nell’isola, presso Pasquale Paoli,<br />

nell’autunno dell’anno successivo. Pubblicherà poi a Londra nel 1768 quell’Account to Corsica che avrà ampia<br />

risonanza in tutta Europa. A Rousseau, invece, si era rivolto, nell’agosto del 1764, il capitano Matteo Buttafoco,<br />

aiutante maggiore del Reggimento Reale Italiano che combatteva contro i genovesi sotto il comando di Pasquale Paoli 3 .<br />

Buttafoco, che era su posizioni filonobiliari e aristocratiche e che agiva all’insaputa di Paoli, si era rivolto a Rousseau<br />

nell’illusione di potersi servire della sua opera come di un’alternativa alla politica democratica dello stesso Paoli.<br />

Scartata l’idea di un viaggio in Corsica, Rousseau chiese a Buttafoco una esatta descrizione dell’isola, della sua<br />

geografia, <strong>dei</strong> suoi ordinamenti, della sua storia. Accanto a una serie di documenti, Buttafoco inviò a Rousseau due sue<br />

memorie di ispirazione decisamente filoaristocratica. Probabilmente Buttafoco si era mosso di sua iniziativa, spinto da<br />

ambizioni politiche e da quella propensione per la Francia che gli derivava da tradizioni di famiglia e dalle campagne da<br />

lui combattute nelle fila dell’armata francese 4 . Durante il suo soggiorno in Corsica, il 12 febbraio, a Vescovato, aveva<br />

1 ROUSSEAU J.J., Œuvres cit., I, p. 1085.<br />

2 ID., Contrat Social, II, X.<br />

3 «Al Sig. J. -J. Rousseau, cittadino di Ginevra, attualmente a Neuchâtel, Meziéres, 31 agosto 1764. Vorrete permettere, Signore, ad un Corso pieno di<br />

stima per voi, d’osare di distrarvi dal vostro ritiro. Le vostre occupazioni non hanno per scopo che il benessere degli uomini; soltanto questo mi darà<br />

la fiducia d’indirizzarmi a voi quando non detestereste la tirannia, quando non v’interessaste più al malessere che essa arreca. Voi avete fatto<br />

menzione <strong>dei</strong> corsi nel vostro “Contratto sociale” come di un popolo in una condizione molto favorevole; un simile elogio è lusinghiero quando parte<br />

da una penna così sincera: niente è migliore per eccitare l’emulazione e il desiderio di far meglio; ciò fa ben augurare alla nazione che voi vorreste<br />

essere quell’uomo saggio che potrebbe procurare i mezzi per conservare quella libertà che è stata raggiunta a costo di tanto sangue. I corsi sperano che<br />

voi vorreste fare buon uso per loro <strong>dei</strong> vostri talenti, della vostra generosità, della vostra virtù, del vostro zelo, a vantaggio degli uomini, soprattutto<br />

per quelli che sono stati vittime della più insopportabile tirannia. Una nazione non si deve illudere di diventare felice e fiorente se non per mezzo di<br />

una buona istituzione politica. La nostra isola, come voi avete ben detto, Signore, è in grado di ricevere una buona legislazione; ma la deve fare un<br />

legislatore, la deve fare un uomo con i vostri princìpi, un uomo la cui fortuna sia indipendente da noi, un uomo che conosca a fondo la natura umana,<br />

e che, nel progresso <strong>dei</strong> tempi, si sia guadagnata una gloria lontana, che abbia voluto lavorare in un secolo e gioire nell’altro. Vorreste degnarvi,<br />

tracciando il piano del sistema politico, di cooperare alla felicità di tutta una nazione?». Lettera di Matteo Buttafuoco a Rousseau in DEDECK-HERY<br />

E., Jean-Jacques Rousseau et le Projet de constitution pour la Corse, Philadelphia 1932.<br />

4 Interessante è il pamphlet di Napoleone, che evidenzia il sentimento che Matteo Buttafuoco suscitava tra le famiglie patriotte, Lettre de M.<br />

Buonaparte à M. Matteo Buttafuoco, député de la Corse à l’Assemblée Nationale, del 23 gennaio, anno II, in NAPOLEON, Manuscrits inédits. 1786-<br />

1791, Frédéric Masson e Guido Biagi, Société d’éditions littéraires et artistiques, Paris 1910, pp. 446 sgg. Paoli gli consigliò di non pubblicare nulla<br />

su Buttafuoco, attirando così l’attenzione su chi «Non può aver credito presso un popolo che ha sempre stimato l’onore e che ora ha riacquistata la sua<br />

libertà», scriveva nel 1791. «Col nominarlo se gli fa piacere; egli non può aspirare ad altra celebrità che a quella che cercò l’incendiario del tempio di<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

terminato la scrittura di una Memoria sopra la constituzione politica da stabilire nel regno di Corsica nella quale si dà<br />

un piano generale delle cose più essenziali che constituiscono un governo in repubblica mista. Matteo Buttafoco<br />

narrerà poi di aver letto questo suo memoriale «in piena Consulta l’anno in cui fu scritta» 5 e di per se stessa questa<br />

Memoria di Buttafoco è rivelatrice della situazione dell’isola nel 1764. Si diceva convinto che fosse giunto il momento<br />

di dare una costituzione all’isola. È probabile fosse influenzato da quanto Rousseau aveva scritto in proposito nel<br />

Contrat social. Notevole era il valore politico delle sue pagine: le sue richieste risuonavano come una denuncia allo<br />

Stato d’incertezza, di precarietà in cui si trovavano le istituzioni di Paoli. All’inizio del 1764 egli si era ancora limitato a<br />

sottolineare la necessità d’una nuova costituzione. Non era una minaccia a Paoli, ma pur sempre un monito,<br />

un’insinuazione. L’elemento essenziale della proposta di Buttafoco consisteva nel metter l’accento non sull’elemento<br />

egualitario e democratico, ma sul problema delle garanzie costituzionali, sui controlli ed i contrappesi che egli riteneva<br />

fosse necessario stabilire nei confronti dello strapotere del Generale e del suo governo. Buttafoco poneva l’accento sulla<br />

«bilancia tanto necessaria negli affari di stato», sulla «buona distribuzione <strong>dei</strong> tre poteri» e portava all’estremo<br />

l’esigenza della loro separazione. Del resto, se la costituzione è intesa quale un sistema di garanzie più che come<br />

organizzazione del potere, si presenta spontanea l’esigenza di un corpo sociale indipendente, tutore <strong>dei</strong> diritti di tutti.<br />

Ma, dietro simili richieste, si affaccia prepotente la volontà di distinzioni e di privilegi <strong>dei</strong> capi, <strong>dei</strong> principali dell’isola.<br />

Buttafoco entra qui in diretto contrasto con Paoli. È la virtualità aristocratica e patrizia della rivoluzione corsa a farsi<br />

luce in questa sua Memoria: «È inevitabile l’esistenza della nobiltà in Corsica. L’oppressione <strong>dei</strong> genovesi è caduta<br />

anche con più violenza sopra le famiglie nobili per ridurle allo Stato popolare...Perciò dovrebbonsi rimettere le antiche<br />

famiglie nelle loro prerogative». I vantaggi, le “prerogative”, di coloro che sarebbero stati così iscritti nel libro della<br />

nobiltà erano innanzitutto di carattere molto pratico: «essere ammesi di preferenza all’altre agl’impieghi della milizia<br />

regolata e volontaria». Fuori dell’esercito tuttavia non era facile innestare i privilegi che egli voleva ricostruire sulla<br />

società corsa che l’attorniava. Un fondamentale egualitarismo sembrava resistere ed opporsi alle sue proposte. Per quel<br />

che riguardava le elezioni egli non trovava altro da suggerire che una sorta di voto plurimo delle famiglie nobili: «Nelle<br />

cose civili avranno le case nobili la prerogativa di un voto o voce per ciascun maschio di essa pervenuto all’età di sedici<br />

anni nell’elezione <strong>dei</strong> procuratori delle parrocchie rispettive, mentre le altre famiglie avranno il solo voto del capofamiglia».<br />

Anche in materia tributaria l’esenzione <strong>dei</strong> nobili dai carichi generali era subito compensata, nel suo<br />

pensiero, da «una imposizione da fissarsi sopra ciascun maschio che abbia voce nell’elezione ed inoltre da un dono<br />

gratuito quando il bisogno dello Stato lo richiedesse, essendo cosa giusta che quello che gode nello Stato più vantaggi<br />

degli altri ne abbia ancora maggior carico». Nobiltà che Buttafoco non concepiva come del tutto chiusa. L’accesso<br />

sarebbe stato aperto a coloro che per quattro volte fossero stati eletti a far parte del consiglio supremo. Una aristocrazia<br />

militare e politica, dunque, che, almeno in questo progetto, non osava confessare le proprie nostalgie feudali. Queste,<br />

tuttavia, verranno rapidamente affiorando più tardi, nella successiva azione politica di Buttafoco, quando divenne un<br />

conte di nomina francese e un deputato della nobiltà agli Stati generali del 1789. Un venticinquennio prima, nel 1764,<br />

erano ancora sottili, anche se gravi, le incrinature che egli portava con questa sua Memoria alle idee costituzionali di<br />

Pasquale Paoli. Quel che mancava in lui, possiamo concludere, era il fervore per la “padria”, che sospingeva invece<br />

Paoli e gli indipendenstisti. La discussione così iniziata tra Vescovato e Corte venne ben presto portata, per iniziativa di<br />

Matteo Buttafoco, su un piano più largo e generale. Nell’agosto egli era a Mézières, in Provenza, deciso ad acquistare<br />

alla causa della Corsica un appoggio di singolare favore. <strong>Il</strong> 31 dicembre di quell’anno scriveva a Jean-Jacques<br />

Rousseau, che, come abbiamo già visto, si trovava allora a Môtiers, vicino Neuchâtel. Gli proponeva di diventare il<br />

legislatore dell’isola e così facendo di cooperare alla felicità di tutta la nazione. Correva intanto voce che Buttafoco<br />

avesse esteso anche a Diderot questo suo tentativo 6 . Probabilmente, con queste sue mosse, Buttafoco contribuì ad<br />

attirare su di sé l’attenzione del duca di Choiseul. <strong>Il</strong> 23 ottobre questi lo convocava per un incontro 7 . Aveva deciso di<br />

servirsi di lui per promuovere l’influenza francese in Corsica. Offriva di staccare un Reggimento corso da quello<br />

italiano affidando il comando di queste truppe a lui o, se accettava, a Pasquale Paoli. Mossa senza originalità: tutti gli<br />

stati coinvolti nelle vicende corse ritenevano di poter risolvere il problema dell’isola con le promozioni e i gradi<br />

militari. Buttafoco accettò l’offerta francese; Paoli rifiutò. Buttafoco divenne «gran partitante francese», come disse un<br />

contemporaneo, mentre Paoli, con quel rifiuto, si mise sulla strada che doveva portarlo al conflitto con la Francia.<br />

Efeso. Egli scrive e parla per far credere che qui ei sia di qualche conseguenza. Se ne vergognano li stessi suoi parenti. Lasciatelo al disprezzo e alla<br />

pubblica noncuranza». LIVI G., Lettere inedite di Pasquale dè Paoli, «Archivio Storico Italiano», s. V, to. VI (1890), p. 305, da Bastia, 2 aprile 1791.<br />

5 Correspondance complète de Rousseau J.J., a cura di LEIGH A., Oxford 1976, vol. XXVII, p. 126, 16 ottobre 1765.<br />

6 Ecco quanto si leggeva nei Mémoires secrets pour servir à l’histoire de la république des Lettres en France depuis 1762 jusqu’à nos jours, di<br />

BACHAUMONT L., Londres 1784, vol. II, p. 122, sotto la data del 21 novembre 1764: «I nomi di Jean-Jacques Rousseau e di Diderot sono così<br />

conosciuti nel mondo che non c’è bisogno di richiamare la loro celebrità: bisogna riportare un fatto troppo importante da non essere riferito. I ribelli<br />

della Corsica li hanno delegati per compilare a loro indirizzo un codice che possa fissare il loro governo, aborrendo tutto ciò che è venuto loro dai<br />

genovesi. Jean-Jacques ha risposto che l’opera è al di sopra delle sue forze, ma non oltre il suo zelo, e che quindi ci lavorerà. Quanto a Diderot, si è<br />

difeso sull’impossibilità di rispondere a questo invito, non avendo affatto studiato gli argomenti per poter trattare <strong>dei</strong> costumi del paese, dello spirito<br />

degli abitanti e del clima, che devono entrare in gran parte nello spirito di una legislazione atta alla preparazione di un codice di leggi. Non sorprende<br />

quindi che i corsi si siano indirizzati a Rousseau, autore del Contratto sociale dove, in un punto assai vantaggioso, ha predetto la grandezza inevitabile<br />

di questa repubblica. Ma allo sguardo di Diderot non si sa chi ha meritato una distinzione così lusinghiera».<br />

7 BUTTAFUOCO M., Fragments cit., I, pp. 35-36: «Signore, devo parlarvi riguardo ad alcune cose che interessano il servizio del Re ed è necessario che<br />

voi partiate non appena vi sarà pervenuta la mia lettera, per ricevervi qui e darvi le disposizioni da parte di Sua Maestà».<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

<strong>Il</strong> doppio gioco di Buttafoco<br />

Quasi contemporaneamente alla lettera di Choiseul, Buttafoco ne ricevette una da Rousseau, scritta il 22 settembre<br />

1764: «È superfluo, Signore, cercare di eccitare il mio zelo per intraprendere ciò che voi mi proponete. La sola idea<br />

m’innalza l’anima e mi trasporta. Vedrò impiegati nobilmente e virtuosamente il resto <strong>dei</strong> miei giorni...se potrò dare<br />

qualche consiglio utile al vostro degno capo e a voi tutti; riferite questo su di me dalle vostre parti: la mia vita e il mio<br />

cuore sono con voi» 8 . Se letta attentamente, questa lettera fornisce un’osservazione di estrema importanza: Rousseau<br />

prende per scontato, all’inizio, il fatto di associare il nome di Paoli e quello di Buttafoco nell’offerta che gli è stata fatta.<br />

Risponde a Buttafoco, ma la lettera è indirizzata a tutt’e due, vale a dire che considera evidentemente le offerte fatte da<br />

Buttafoco a nome della nazione corsa, come se fosse stata scritta per volontà di Paoli, il capo della nazione. La lettera di<br />

Buttafoco sembra invece scritta sotto il proprio nome, e quello di Paoli non appare che accidentalmente. <strong>Il</strong> passaggio in<br />

cui si trova questa menzione di Paoli 9 è, del resto, il più vago e quasi il più imbarazzato della lettera. Bisogna ricordare<br />

che Buttafoco non accenna mai alle riforme portate avanti da Paoli, e che effettivamente Paoli era riuscito non solo a<br />

cacciare i genovesi dall’isola, ma anche ad elaborare una costituzione che era stata subito applicata in Corsica. Questa<br />

costituzione conteneva delle leggi eccezionali, necessarie in tempo di guerra e in un paese “selvaggio”, ma allo stesso<br />

tempo possedeva le basi di un’opera solida e grandiosa che si sarebbe mostrata gradualmente. L’Europa aveva già<br />

riconosciuto in Paoli un grande generale e un buon legislatore: come mai allora Buttafoco parlava come se niente fosse<br />

accaduto in Corsica e come se nessuno fosse stato capace di organizzare il paese? Questo sospetto, comunque, non pare<br />

abbia colpito Rousseau più di tanto: accettò l’offerta di Paoli, di Buttafoco e della nazione corsa, sia per il forte<br />

interesse che aveva per l’isola e le sue vicende, sia perché, per la prima volta, poteva mettere in pratica le idee esposte<br />

nel Contratto sociale. Presentò comunque delle obiezioni, ma più che altro per conoscere meglio il paese: si fece inviare<br />

<strong>dei</strong> resoconti ben precisi sulla Corsica e sui suoi abitanti. Una questione, più delle altre, lo inquietava: la Corsica non era<br />

ancora libera, continuava la lotta con Genova e, ugualmente, la Francia aveva inviato delle truppe: domandava a Paoli e<br />

a Buttafoco di tranquillizzarlo su questi punti per poter intraprendere un’opera così difficile: «Non è per rifiutare il<br />

vostro invito, Signore, che faccio queste obiezioni, ma per sottoporle al vostro esame e a quello di Pasquale Paoli. Vi<br />

reputo persone troppo dabbene, sia l’uno che all’altro, per volere che l’impegno dedicato alla vostra patria mi faccia<br />

consumare il poco tempo che mi resta, e non per <strong>dei</strong> compiti che non sarebbero buoni a niente. Esaminate dunque,<br />

Signori, giudicate voi stessi, e siate sicuri che l’impresa per cui mi avete trovato degno non verrà mai meno per mia<br />

volontà». Infine, prima di spedire la sua lettera, Rousseau aggiunge un post-scriptum: infatti, dopo aver riletto la lettera<br />

di Buttafoco, nota che non gli aveva domandato «un corpus completo di leggi», come aveva creduto, ma semplicemente<br />

una istituzione politica: «Considerate forse che la Corsica abbia già un corpo di leggi civili sulle quali si tratterà di<br />

calcare una forma di governo che si rapporti ad esse?» Rousseau mette il dito sulla lacuna della lettera di Buttafoco.<br />

Egli avrebbe bisogno, per vedere cosa può fare, di un «ragguaglio completo» delle leggi corse. Ma non è sicuro che<br />

emerga un quadro più chiaro di quello che risulterebbe elaborando l’intera legislazione. Buttafoco gli risponde senza<br />

tardare da Parigi, il 3 ottobre. È felice che Rousseau abbia accettato la richiesta e riprende le sue obiezioni per<br />

confutarle; risponde inoltre alle domande, ma in modo oscuro a quelle che riguardano Paoli. Lo nomina, è vero,<br />

all’inizio della sua lettera: «È inutile, Signore, riferirvi il piacere che ho provato ricevendo la vostra lettera. È degno di<br />

voi, della vostra virtù, della generosità della vostra anima, d’abbracciare con calore, con fuoco e con passione, la causa<br />

dell’umanità. I corsi gemeranno, malgrado i loro successi, se una mano benefica non li condurrà al bene tramite una<br />

saggia istituzione politica. Gioisco in anticipo per la prosperità che ne risulterà, e preparo a Paoli un momento gradevole<br />

portandogli una così buona notizia durante il viaggio che vado a fare in Corsica». In questa lunga lettera c’è un solo<br />

punto in cui si nomina Paoli. Ma è proprio vero, come si legge, che Buttafoco aveva ricevuto l’incarico di richiedere<br />

una costituzione a Rousseau? Buttafoco si trovava in Francia, Paoli in Corsica, e non esiste alcun documento d’archivio<br />

che testimoni la corrispondenza tra i due uomini. Comunque sia, sembra molto strano che Buttafoco parlasse ancora<br />

della Corsica come di un paese senza costituzione e senza un capo capace di dettarne una, dopo le numerose riforme<br />

attuate da Paoli sia come capo dell’esercito, che come legislatore. Inoltre, leggendo più a fondo la lettera, Buttafoco<br />

afferma: «Noi faremo del nostro meglio per farvi pervenire i chiarimenti e le memorie che desideravate». E questo<br />

«Noi» farebbe pensare a Paoli e Buttafoco. Quando Boswell, che all’epoca non era che uno sconosciuto di venticinque<br />

anni, incontrò il Generale egli fornì con sollecitudine i materiali per il suo celebre Account of Corsica. Non avrebbe<br />

potuto fare anche di più per il grand’uomo al quale si pensava di conferire il destino del suo paese? Probabilmente<br />

Buttafoco si era rivolto a Rousseau all’insaputa di Paoli, con l’intento di scavalcare la sua autorità e di instaurare un tipo<br />

di governo filonobiliare, grazie anche all’aiuto di un grande scrittore e filosofo (che naturalmente era all’oscuro di<br />

tutto). Ciò non toglie nulla al contenuto del Progetto di costituzione per la Corsica, ma di sicuro mette in luce diversa<br />

l’origine, il significato e il valore innovativo dell’opera.<br />

§ 3. I primi rapporti tra Rousseau e la Corsica<br />

Rousseau aveva già avuto occasione in gioventù di riflettere sulla sorte della Corsica. Alla fine del 1749 il marchese de<br />

8 Cfr. DEDECK-HERY E., Jean-Jacques Rousseau et le Projet cit., pp. 16-17.<br />

9 Cfr. ivi, pp. 15-16: «Mi rammenterò di procurarvi le chiarificazioni sulla Corsica di cui potreste aver bisogno, e che Paoli, generale della nazione, vi<br />

fornirà. Questo degno capo, e quelli <strong>dei</strong> miei compatrioti che sono in grado di conoscere le vostre opere, condividono insieme a tutta l’Europa, i<br />

sentimenti di stima che vi sono dovuti per un motivo così giusto».<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

Cursay aveva fatto rivivere a Bastia l’Accademia <strong>dei</strong> vagabondi, ritenendo di contribuire anche così all’incivilimento<br />

del paese a lui affidato da Luigi XV. La pace di Aquisgrana, del 1748, aveva arrecato una relativa calma anche in quella<br />

parte d’Europa. Era tempo che le lettere rifiorissero. L’accademia proponeva come tema di concorso: Qual è la virtù più<br />

necessaria ad un eroe, e quali sono gli eroi ai quali questa virtù è mancata? Domanda apparentemente tutta scolastica e<br />

retorica. Ma Rousseau capì benissimo che era legata alla vita della Corsica, ribollente di virtù guerresche, e che tanto<br />

stentava a trovare un equilibrio civile. Scrisse dunque il richiesto Discours, accettando le convenzioni d’un simile<br />

genere letterario, parlando continuamente della Grecia e di Roma, ma alludendo all’isola lontana. Terminatolo, ebbe un<br />

moto di ripugnanza. Finì per considerarlo non soltanto «malvagio», ma addirittura un «torche-cul». Non lo spedì a<br />

Bastia ed esso rimase tra le sue carte fino al 1768, quando a sua insaputa esso venne diffuso per le stampe 10 . Alla luce<br />

della biografia di Rousseau e della storia corsa, le ragioni di una simile ripulsa appaiono evidenti. Nel suo Discours egli<br />

aveva finito con l’accettare la posizione del marchese di Cursay. <strong>Il</strong> valor militare, l’eroismo, erano una gran bella cosa,<br />

ma portavano desolazione e morte. La saggezza derivava dalla ragione, dall’equilibrio, dalla cultura. Sia pure<br />

indirettamente, finiva col giustificare la funzione civilizzatrice della Francia, coll’attribuire alle scienze e alle arti una<br />

funzione positiva. Esattamente il contrario di quel che aveva sostenuto, sia pure dopo ben note esitazioni, discussioni e<br />

ripensamenti, quando aveva risposto al quesito dell’Accademia di Digione, Se il rinascimento delle scienze e delle arti<br />

abbia contribuito alla purificazione <strong>dei</strong> costumi. <strong>Il</strong> testo che doveva essere mandato a Bastia andava così contro la<br />

tendenza più profonda dello sviluppo del pensiero di Rousseau e si comprende la repulsione per una evidente<br />

contraddizione del suo pensiero politico. Ma, intanto, egli si era lasciato sedurre dall’opera politica e culturale che il<br />

marchese di Cursay si sforzava di compiere in Corsica 11 . In Cursay egli vedeva unita l’energia del guerriero pronto<br />

all’intervento e alla difesa dell’isola e la saggezza tesa ad assicurarne la felicità. Non l’elemento ribelle, ma il desiderio<br />

di migliorare, di incivilirsi era posto al centro del suo giudizio sulla Corsica. Idee che Rousseau ripudiò dapprima<br />

mettendo nel cassetto questo suo discorso e che confutò, poi, pubblicamente nella prefazione al Narcisse, all’inizio del<br />

1753: «La repubblica di Genova, cercando di sottomettere più duramente i corsi, non ha trovato <strong>dei</strong> mezzi più sicuri che<br />

di stabilire presso di loro un’accademia» 12 .<br />

Una decina d’anni più tardi, l’elezione di Paoli, le vittoriose lotte con i genovesi persuasero anche Rousseau che l’isola<br />

si trovava ormai alla soglia della propria maturazione. Nel Contratto sociale, apparso nel 1762, una frase fermò<br />

l’attenzione di tutti i lettori: «In Europa c’è ancora un paese capace di legislazione; è l’isola di Corsica. <strong>Il</strong> valore e la<br />

costanza con cui questo popolo valoroso ha saputo ricuperare e difendere la sua libertà, meriterebbero proprio che<br />

qualche uomo saggio gli insegnasse a conservarla. Ho il presentimento che un giorno questa piccola isola meraviglierà<br />

l’Europa» 13 .<br />

Affermazioni che acquistano il loro senso preciso se reinserite nel contesto <strong>dei</strong> capitoli intitolati Del popolo. L’opera<br />

d’ogni legislatore presupponeva la conoscenza della situazione, del momento storico e psicologico in cui si trovava il<br />

popolo al quale avrebbe dovuto indirizzarsi. Talvolta le violente rivoluzioni erano in grado di ridare ai popoli questa<br />

gioventù. Ma anche in questo caso la rigenerazione non poteva avvenire che una sola volta. <strong>Dal</strong>la “barbarie”, così come<br />

dalla “révolution”, si poteva passare alla libertà, mai dalla decadenza, dall’asservimento. Una volta spezzato il proprio<br />

“senso civile” un popolo non meritava più un liberatore, ma un padrone. Nel cogliere quest’occasione unica stava la<br />

virtù del legislatore. Se l’intervento era compiuto al momento sbagliato, troppo presto o troppo tardi, la sua opera<br />

sarebbe fallita. Gli stati europei erano o troppo piccoli o troppo grandi per la libertà: la Corsica, abitata da un popolo<br />

antico e nuovo insieme, gli sembrava giunta al momento decisivo della sua esistenza. Accettò perciò l’invito, cercò in<br />

tutti i modi di documentarsi, scrisse e ricevette un gran numero di lettere. Finì col trovarsi, da una parte compiaciuto,<br />

dall’altra preoccupato, al centro di una vera e propria rete europea di filocorsi, quasi d’una congiura per fornire agli<br />

isolani idee e mezzi, appoggi morali e materiali. Le idee più interessanti ed i dubbi più preoccupanti Rousseau li ebbe<br />

dal suo amico Alexandre Deleyre, allora a Parma insieme a Condillac 14 . Si complimentava del compito di legislatore<br />

che si era assunto; non certo come sentiva dire attorno a sé, per aver così soddisfatto «l’ambizione filosofica», la<br />

volontà <strong>dei</strong> riformatori illuministi di partecipare al governo del mondo, ma unicamente allo scopo di formare «un<br />

popolo libero». Lo esortava tuttavia a farsi un’idea più precisa della situazione dell’isola, i corsi: «…potrebbero essere<br />

degni di sciogliere il giogo <strong>dei</strong> loro tiranni repubblicani, ma non sono capaci di ricevere una legislazione buona e<br />

sensata, tale che voi non potreste fare a meno di dettarla». Gravi incertezze pesavano d’altronde sulla situazione<br />

internazionale <strong>dei</strong> ribelli: già era una cosa indegna l’appoggio che i francesi davano ai genovesi, figuriamoci se<br />

l’influenza inglese non poteva essere ancora più nociva. Spettava ai corsi decidere se davvero erano in grado di<br />

«sottrarsi all’influenza delle nazioni straniere». Ora, alla fine del 1764, Deleyre lo poneva di fronte ancora una volta a<br />

questi problemi: Come accettare i compromessi, le menzogne che un’azione politica come quella che Rousseau<br />

10 Apparve dapprima nell’«Année littéraire», 1768, fasc. VII, pp. 63 sgg., con una lettera di presentazione datata da Parigi, 14 ottobre 1768.<br />

11 Lo aveva definito: «Un guerriero filosofo e benefico che con una mano abituata a maneggiare le armi allontana dal vostro seno le calamità di una<br />

lunga e funesta guerra e fa brillare in mezzo a voi con una magnificenza reale le scienze e le arti. O spettacolo degno <strong>dei</strong> tempi eroici! Io vedo le<br />

Muse in tutto il loro splendore marciare con passo sicuro tra i vostri battaglioni, Apollo e Marte s’incoronano reciprocamente e la vostra isola ancora<br />

fumante per le rovine provocate dai fulmini, nell’affrontare d’ora in avanti le folgori ha la protezione di questi due (dèi) coperti di gloria».<br />

12 ROUSSEAU J.J., Œuvres complétes, édition publiée sous la direction de GAGNEBIN B. et RAYMOND M., vol. II, Paris 1961, p. 1268.<br />

13 ID., Du contrat social, ivi, vol. III, Paris 1964, libro II, capitolo X, p. 385. <strong>Il</strong> confronto con la prima versione del Contrat, ivi, pp. 281 sgg. lascia<br />

pensare che le parole sulla Corsica siano state scritte tra il 1760 e il 1761.<br />

14 Cfr. MOLINIER M., Les relations de Deleyre et de Rousseau. 1753-1778, «Studies on Voltaire and the eighteenth century», LXX (1970), pp. 43 sgg.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

intendeva condurre in Corsica non poteva non comportare? Come accordarla con i pensieri che Rousseau aveva sempre<br />

avuto? «Siete forse nato per distruggere degli errori generali e per introdurre o fomentare quelli particolari? Pensate<br />

forse, come la maggior parte degli antichi legislatori, che basta rendere utili le menzogne dannose e di farle usare per la<br />

conoscenza della verità? Vorreste, in parole povere, diventare un uomo insicuro <strong>dei</strong> propri princìpi, acquistando la<br />

reputazione di uno <strong>dei</strong> grandi politici del mondo?». Soltanto di fronte ad un compito che permettesse di «rendere un<br />

servizio importante e durevole» per tutti gli uomini, «senza compromettere la giustizia e la verità», Deleyre si<br />

dichiarava disposto ad un’integrale collaborazione con Rousseau. Evidentemente la Corsica non valeva ai suoi occhi un<br />

simile sacrificio <strong>dei</strong> propri pensieri e, se necessario, delle proprie capacità e della propria vita 15 . Del resto, le probabilità<br />

di successo erano molto scarse. Deleyre si convinceva sempre di più della precaria, disperata situazione degli isolani.<br />

Ormai la minaccia della Francia si era fatta sempre più grave: i genovesi avrebbero certo preferito mettere a pegno o<br />

vendere la loro libertà se questo fosse stato il prezzo per la distruzione dell’indipendenza corsa. Né esisteva un popolo<br />

deciso ad aiutare i corsi, «assai generosi per vendicare e difendere l’umanità». Anch’egli aveva dapprima riposto le sue<br />

speranze nell’Inghilterra, ma anche la Gran Bretagna si trovava, egli ne era convinto, sull’orlo della rovina morale e<br />

politica. Solo una «rivoluzione insanguinata» avrebbe potuto salvarla. Davvero Rousseau sarebbe stato in grado<br />

d’affrontare i rischi e le difficoltà di una simile impresa? «In quest’incertezza di un successo legittimo, devo correre il<br />

rischio di un male morale? Perché c’è la possibilità che le menzogne e questo labirinto d’azioni equivoche non facciano<br />

altro che condurre deliberatamente all’azione coloro che tentano di agitare e di cambiare le sorti degli stati…».<br />

§ 4. Lettere ed informazioni dall’isola<br />

Tra tutte le notizie e i ragguagli ricevuti da Rousseau sulla situazione corsa, particolarmente importante e ricca era la<br />

Memoria scritta da Buttafoco a Vescovato nel febbraio del 1764, che già abbiamo largamente esaminato. Insieme ad<br />

essa Rousseau ebbe da lui un Examen historique, politique et justificatif de la révolution de l’isle de Corse contre la<br />

République de Gênes 16 . Buttafoco l’aveva scritto qualche mese prima, contemporaneamente alla Memoria di<br />

Vescovato 17 . Buttafoco parlava inoltre dell’altro suo manoscritto «sulla rivoluzione della Corsica, attinto da J. J.<br />

Rousseau, Montesquieu, Gordon, Algernon Sidney, etc. etc.». Non si mostrava sicuramente modesto nel considerare le<br />

pagine del suo Examen come il punto di contatto delle diverse idee politiche dell’<strong>Il</strong>luminismo francese e della tradizione<br />

repubblicana inglese, ma a dire la verità l’autore riusciva a staccarsi con difficoltà dalla tradizionale apologia della<br />

rivoluzione isolana. La prima frase era identica a quella che apriva la Giustificazione di Salvini: «Sono più di trent’anni<br />

che i popoli dell’isola di Corsica si sono sollevati contro il governo della repubblica di Genova...». Insistente è il ritorno<br />

sui temi della tirannia, della crudeltà, della malafede <strong>dei</strong> genovesi. Ripeteva, ancora una volta, che gli isolani non erano<br />

«schiavi della repubblica di Genova, ma al contrario sudditi convenzionati» e che questa verità storica non era mai stata<br />

smentita nel corso della lunga polemica con la Dominante. Buttafoco tentava effettivamente di servirsi di formule di<br />

Rousseau, di Machiavelli e di Algernon Sidney per asserire il diritto <strong>dei</strong> suoi compatrioti alla libertà. Spiegava poi come<br />

fossero giunti alla rivolta: l’oppressione, diceva, era stata per lungo tempo così forte da impedire ogni tentativo di<br />

ribellione, ma a poco, a poco, sotto la sferza <strong>dei</strong> genovesi, «lo spirito pubblico» si era venuto formando, «l’amore della<br />

libertà» era cresciuto. Nella continua guerra, «ogni cittadino è soldato»; servizio militare che equivaleva ad una pesante<br />

imposta, ma di fronte ad essa non si erano fermati coloro «gioivano del piacere di contribuire al sostegno della causa<br />

comune». Prima dell’oppressione genovese «La nobiltà era in grado di sostenere con le sue ricchezze il lustro della<br />

nascita, non c’erano persone al limite dell’indigenza, le città erano fiorenti. Oggi esse sono deserte, le province, se<br />

abitate, sono diventate di una solitudine spaventosa. Tutto è confuso, tutto è avvilito, tutto è distrutto. Uno cerca la<br />

Corsica nella Corsica e non la ritrova più, non è più riconoscibile». Genova non aveva favorito il commercio e<br />

l’industria. Aveva schiacciato ogni iniziativa sotto i propri monopoli e il proprio fiscalismo. I genovesi avevano<br />

provveduto, per stabilire la loro tirannia, ad estirpare la «nobiltà ricca e potente» che avevano trovato nell’isola: il<br />

governatore Pinelli, nel 1729, aveva dichiarato che la nobiltà corsa non esisteva più, «e che tutti questi isolani sono per<br />

essa (Genova) di uguale condizione». Tutto quel che era rimasto dell’antica nobiltà era il rimpianto delle famiglie<br />

spossessate e, da parte <strong>dei</strong> popoli, «il ricordo di un’antica subordinazione». Né si doveva pensare che Genova avesse<br />

distrutto la vecchia aristocrazia per produrne una nuova, a lei legata e fedele. La repubblica non aveva avuto altra<br />

intenzione che quella di distruggere.<br />

La rivolta aveva precisamente avuto il compito di rovesciare una simile politica e di risolvere i problemi economici e<br />

sociali creati dal dominio genovese. In ogni momento decisivo della rivoluzione si erano viste le forze della nazione<br />

volte a migliorare la situazione dell’economia e a ridare forza e potere a chi era in grado di agire in modo più efficiente<br />

per la liberazione dell’isola. All’epoca di Gaffori gli omicidi erano cessati. Nel 1748 il marchese di Cursay aveva saputo<br />

15 ROUSSEAU J.-J., Correspondance compléte cit., vol. XXII, 1974, p. 99, 21 novembre 1764.<br />

16 Rousseau chiedeva alla signora Boy de la Tour, residente a Lione, questo materiale il 18 novembre 1764. Dovette dunque riceverlo in dicembre.<br />

Buttafuoco gli mandò pure <strong>dei</strong> libri. <strong>Il</strong> 3 ottobre gli aveva parlato di «molte opere sulla Corsica», aggiungendo «ci sono due libri di giustificazioni<br />

della presente guerra (Natali e Salvini?); non sono fatte con mani da maestro, ma le ragioni e le lagnanze della nazione sono discusse a lungo; non<br />

manca loro che una forma scorrevole» (Correspondance générale cit., vol. XI, p. 322).<br />

17 Sicuramente è anteriore all’estate del 1764, quando le truppe francesi vennero a presidiare le città della costa. Infatti leggiamo: «Paoli ha creato una<br />

piccola marina grazie alla quale la repubblica è ridotta allo stremo per la conservazione delle postazioni marittime, ed egli ha motivo di credere che<br />

finirà per impadronirsene se i genovesi non otterranno immediatamente dalla Francia le truppe che hanno domandato con insistenza per difendersi da<br />

una caduta inevitabile».<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

mostrare con particolare energia ed abilità quello che era necessario fare; la sua «dirittura ed imparzialità» aveva<br />

persuaso gli isolani a non farsi più giustizia da sé. Ottimo era stato il suo piano di pacificazione, approvato dal consiglio<br />

del re di Francia e che avrebbe dovuto essere garantito dalla sua autorità. La colpa del fallimento del marchese di<br />

Cursay ricadeva sui genovesi, incapaci ancora una volta di vedere dov’era il loro vero interesse. Quando, poi, nel 1753,<br />

i francesi abbandonarono l’isola e Paoli venne eletto generale, si aprì in Corsica un nuovo periodo di trasformazione<br />

interna. Di nuovo, nel 1755: «l’incorruttibilità e la giustizia hanno portato la calma e la sicurezza in tutto il reame...<br />

Sotto l’attuale amministrazione i corsi sono laboriosi come non mai. Sentono i vantaggi di vivere sotto un buon reame,<br />

animato dall’attrattiva del bene, dalla sicurezza della protezione... Fanno enormi sforzi per migliorare l’agricoltura,<br />

l’industria, il commercio più di quanto possano permettere i mezzi del paese. Posso assicurare che prima di due anni la<br />

produzione dell’isola sarà raddoppiata, perché è stato incoraggiato il lavoro e garantite tutte le facilitazioni per<br />

procurarsi la maggior quantità di derrate che può produrre il paese». Merito certo di chi governava l’isola, di un uomo<br />

«Che comanda per merito, dotato delle più eminenti qualità per governare, occupato senza tregua a ristabilire l’ordine,<br />

la giustizia, le leggi e la religione che la tirannia aveva calpestato, e che non ha altre ambizioni se non quella di rendere<br />

la patria fiorente e felice, liberandola dal giogo crudele che essa ha portato negli ultimi quattro secoli». Elogio<br />

magniloquente di Paoli, ma poco incisivo. Ma, come nella Memoria scritta a Vescovato, Buttafoco insisteva sulla<br />

necessità di stabilire <strong>dei</strong> limiti costituzionali ad ogni potere, suggerendo implicitamente che sarebbe stato necessario<br />

limitare quello di Paoli: «Non è naturale che coloro che presiedono alla società abbiano un potere troppo esteso.<br />

Potrebbero fare del male impunemente e l’uomo purtroppo è facilmente trasportato dalle sue passioni. Allo stesso modo<br />

la potenza della gente in piazza dovrebbe essere limitata. Non si devono prendere meno precauzioni contro le loro [<strong>dei</strong><br />

capi] irregolarità che contro quelle del popolo». Insisteva sulla necessità di stabilire un governo della legge: scopo del<br />

potere doveva essere la virtù e la sicurezza di tutti, non quello di «soddisfare l’ambizione» di chi governava. Solo nella<br />

pietà chi comandava doveva esser simile alla divinità. Anche nel ritratto di Paoli che Buttafoco fornì più tardi in una<br />

lettera a Rousseau, su richiesta di quest’ultimo, è evidente una certa rattenutezza, uno stare in guardia, pur nascosto<br />

sotto i finti elogi e i buoni sentimenti. Non nascondeva che il potere del generale al momento della sua elezione era<br />

stato esorbitante: «Non è stato mai assoluto di diritto, ma lo è stato di fatto. Non ha abusato di niente, ha placato questi<br />

sbalzi: ha creato <strong>dei</strong> magistrati subalterni per il diritto civile, ha eretto il consiglio supremo, dove il generale è il<br />

presidente; questo corpo rappresenta la sovranità quando l’assemblea delle pievi non è riunita». Per questa strada<br />

costituzionale, lasciava intendere Buttafoco, era necessario continuare a camminare senza altro indugio. Provocato da<br />

Rousseau, egli giungeva a prevedere la possibilità, e in qualche modo la necessità, d’una sostituzione di Paoli: «Lo<br />

stimo troppo per non pensare che diventerà volentieri cittadino nella sua patria dopo esserne stato il salvatore, se il bene<br />

della nazione lo richiedesse...mi sembra lo stesso quando il suo amore per il bene pubblico non lo trascinerà più: la<br />

gloria e la celebrità di un nome attraverso i secoli a venire lo faranno risorgere. Se l’abdicazione di Silla, dopo essere<br />

stato il distruttore della sua patria, gli ha attirato la stima e l’ammirazione <strong>dei</strong> suoi compatrioti e di tutta la terra, a<br />

maggior ragione si apprezzerebbe un tale atto dal generale <strong>dei</strong> corsi, dopo aver rotto le sbarre che imprigionavano la<br />

nazione» 18 .<br />

I progetti costituzionali di Rousseau ed i piani di politica estera di Buttafoco, diceva in sostanza quest’ultimo, potevano<br />

render necessario il sacrificio di Pasquale Paoli.<br />

§ 5. L’atteggiamento di Paoli<br />

La reazione di Paoli nei confronti di queste vicende non era mai univoca, ma variava a seconda <strong>dei</strong> momenti e delle<br />

circostanze. Sapeva bene che nell’isola erano numerosi i Principali disposti ad ascoltare con interesse i progetti<br />

nobiliari di Buttafoco. Quando, al momento del suo ritorno in Corsica nel 1764, apparve chiaramente che questi era<br />

diventato un portavoce della politica francese, la distanza tra i due uomini si fece sempre maggiore. Eppure proprio<br />

perché Buttafoco parlava a nome di Choiseul, Paoli non poteva permettersi il lusso di rompere con lui. Quando le truppe<br />

di Luigi XV presidiavano le città costiere, era pur necessario mantenere con i francesi i migliori rapporti possibili,<br />

sempre in funzione antigenovese. Anche quando si giunse alla rottura, Paoli continuò a sperare che l’azione di<br />

Buttafoco potesse in qualche modo servire ad evitare alla Corsica le peggiori conseguenze. Dichiarò ad un inviato del<br />

governo inglese, John Stewart, nell’agosto del 1768, che considerava ancora Buttafoco un «uomo onesto». Soltanto la<br />

lotta finale separò per sempre i due uomini e mostrò palesemente le conseguenze della loro politica, impegnata l’una<br />

nell’indipendenza dell’isola e basata l’altra sulla ricerca di un legame sempre più stretto con la Francia. La rottura tra i<br />

due uomini fu allora definitiva. Non dobbiamo d’altronde dimenticare che l’intervento di Rousseau, anche se provocato<br />

indirettamente, era molto lusinghiero per Paoli e poteva contribuire in gran misura a dimostrare all’Europa la bontà<br />

della causa corsa 19 . Né è da escludere un autentico interesse del Generale per le idee politiche di Rousseau, contrarie sui<br />

punti essenziali, come presto poté verificare, a quelle di Buttafoco. Paoli si prestò dunque di buona grazia ad invitare<br />

Rousseau e ad incaricarlo d’un lavoro legislativo, anche se Buttafoco aveva fatto da tramite. Gli parlava nella sua lettera<br />

— che non abbiamo più, ma di cui possiamo leggere un riassunto che ci ha dato A. Burnaby — della «Mitezza del<br />

18 ROUSSEAU J.-J., Correspondance compléte cit., vol. XXII, 1974, p. 35, 10 novembre 1764.<br />

19 Una testimonianza curiosa ci è fornita da LEMBERG M., Le memorial d’un Mondaini, Capo Corso 1774, p. 47. A casa di Rivarola nel 1769,<br />

Clemente, il fratello di Pasquale Paoli, gli avrebbe detto «A proposito di Rousseau di Ginevra: non è affatto l’uomo di cui ha bisogno la Corsica per<br />

ricevere un codice di leggi; avevo proposto a mio fratello di chiamare Wilkes per questa impresa, ma lui disse che il genio di Rousseau era<br />

superiore...Io lo credevo, risposi, ma Wilkes sa essere libero».<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

clima, <strong>dei</strong> favori che dovrebbe aspettarsi e l’onore e la stima che riceverebbe dalla gente in caso che venisse presso di<br />

loro. Questi desiderava soltanto una cosa da lui, ovvero che non s’intromettesse con la religione e gli affari della<br />

Chiesa» 20 . Da tutti questi contatti Rousseau dovette ben presto trarre la conclusione che il problema era più complesso e<br />

difficile di quanto egli non avesse pensato. Una cosa era proclamare teoricamente la Corsica suscettibile di legislazione<br />

ed un’altra era farsi un’idea chiara della reale consistenza dello Stato governato da Paoli. Era questo sufficientemente<br />

solido e indipendente perché valesse la pena di tentare di riorganizzare la struttura in forma costituzionale? E che<br />

politica avrebbero dovuto seguire i corsi rispetto ai francesi che, proprio mentre egli andava così indagando e<br />

meditando, avevano fatto il passo decisivo di stabilirsi a Bastia, Calvi, Ajaccio, ecc.? I problemi che gli poneva la<br />

personalità di Paoli impallidivano di fronte a questi fondamentali quesiti. <strong>Il</strong> 27 ottobre 1764 Lenieps gli scriveva da<br />

Parigi: «I corsi sono tranquilli? <strong>Il</strong> partito di Paoli ha trionfato su tutti gli ostacoli? I tempi non sono pronti per questa<br />

legislazione». Nel settembre del 1764 Rousseau aveva scritto a Buttafoco che i corsi «con un capo come quello che<br />

hanno...non dovrebbero temere nulla dai genovesi», mentre l’atteggiamento di «un così buon patriota» come Buttafoco,<br />

era per lui una garanzia che l’isola non aveva nulla da temere dai francesi. Restava pur vero che l’indipendenza<br />

dell’isola sarebbe stata assicurata solo il giorno in cui l’avrebbero riconosciuta tutte le altre potenze. Valeva davvero la<br />

pena di lavorare ad una legislazione della Corsica prima di ottenere una simile garanzia? Prima di decidersi bisognava<br />

sapere «ciò che la Francia vuole fare di questa povera gente», scriveva al principe L. E. di Wurtenberg. Buttafoco<br />

cercava di rassicurarlo, il 3 ottobre, dicendogli che riponeva le proprie speranze in una «neutralità perfetta» delle truppe<br />

di Luigi XV. Al massimo esse sarebbero servite per una mediazione. Pur senza riconoscimenti espliciti, l’esistenza dello<br />

Stato corso era ormai un fatto accettato, diceva, da molti stati vicini: «<strong>Il</strong> Papa ha mandato un visitatore apostolico al<br />

governo nazionale. La Toscana è tutta per noi; i bastimenti di questa nazione vengono sulle nostre coste per fare <strong>dei</strong><br />

piccoli commerci; essi ci portano tutto quello di cui abbiamo bisogno, perfino le munizioni di guerra, senza che i<br />

genovesi osino controllarli. La bandiera corsa è ricevuta, considerata, protetta a Livorno... I re di Napoli e di Sardegna<br />

permettono ai loro sudditi di commerciare con noi...». Bisognava approfittare di questa favorevole situazione per<br />

concentrare tutta l’attenzione sui problemi interni, economici e politici. Posizione che coincideva con quella di Paoli in<br />

quei mesi, nell’inverno 1764-65. Ma anche un programma simile rendeva un suono diverso sulla bocca di chi, come<br />

Buttafoco, sperava di potersi servire della Francia per portare a compimento le sue idee politiche, sociali e<br />

costituzionali.<br />

§ 6. La Corsica come Repubblica<br />

Nonostante tutti i dubbi e le incertezze, Rousseau non rinunciò al compito che si era assunto. Tra il gennaio e il<br />

settembre del 1765 scrisse il suo Projet de constitution pour la Corse. Non lo pubblicò mai, né lo inviò a coloro ai quali<br />

era destinato. Rimasto sconosciuto ai contemporanei, il Projet non è soltanto un documento del pensiero politico di<br />

Rousseau, ma un’opera rivoluzionaria rispetto a tutte le altre scritte dal ginevrino: analizzandola per grandi temi, infatti,<br />

noteremo sia la similitudine di alcuni passi con il Contratto sociale, sia l’enorme differenza, rispetto a quest’ultimo,<br />

nella concezione dell’aristocrazia.<br />

Rousseau, pur essendo convinto che “legittimi” fossero solo gli stati conformi ai princìpi delineati nel Contratto sociale,<br />

ritenne possibile dare a tutti i popoli una costituzione repubblicana. Alcuni gli sembravano a priori inetti a riceverla,<br />

altri li reputava già troppo avanzati sulla via della decadenza perché potessero ancora assumersi i gravi compiti della<br />

libertà repubblicana. L’ordine repubblicano può essere introdotto solo nel momento in cui il popolo avverte già un<br />

bisogno di socializzazione, ma non ha ancora perduto completamente la «semplicità naturale». Rousseau chiama questo<br />

periodo la «giovinezza di un popolo» e paragona il momento più adatto per la costituzione dello Stato repubblicano allo<br />

sviluppo razionale seguente alla fase educativa dell’individuo. Rousseau non esclude certamente le rivoluzioni, ma ne<br />

limita la possibilità di successo ai popoli ancora “barbari”, e come esempi cita il rinnovamento di Sparta ad opera di<br />

Licurgo, Roma dopo la cacciata <strong>dei</strong> Tarquini, l’Olanda e la Svizzera dopo la sconfitta <strong>dei</strong> tiranni. Nella premessa del<br />

Progetto, Rousseau afferma che «Ci sono popoli che, qualunque strada si scelga, non possono essere governati bene<br />

perché la legge da loro non fa presa, e un governo senza legge non può essere un buon governo. [<strong>Il</strong> popolo corso], al<br />

contrario, mi sembra dotato delle più felici disposizioni naturali per accogliere una buona amministrazione» 21 . I corsi<br />

possono tranquillamente aspirare all’istituzione di un regime repubblicano proprio perché, come i popoli per certi<br />

aspetti ancora barbari, conservano il ricordo e il sentimento vivo dell’indipendenza, ed obbediscono controvoglia solo<br />

perché costretti. I popoli già civilizzati, invece, proprio perché hanno disimparato ad amare la legge e la libertà civile,<br />

sono perduti per sempre. La loro rivolta non potrebbe più appoggiarsi al sentimento naturale della libertà, dato che non<br />

riescono più a riconoscerla. I corsi, invece, costretti a sopravvivere con le loro forze e pieni di ardore nel difendere la<br />

loro libertà, sono riusciti ad unirsi più degli altri popoli e questo non può che suscitare l’ammirazione di Rousseau:<br />

«Bravi corsi, chi, meglio di voi, sa tutto ciò che si può ricavare da se stessi? Senza amici, senza appoggi, senza denaro,<br />

20 BURNABY A., Journal of a tour in Corsica in the year 1766, by the rev. Burnaby at that time chaplain to the British Factory at Leghorn with a<br />

series of original letters from general Paoli to the author, Luke Hansard, London 1804, pp. 20 sgg. Burnaby riportava le critiche di Paoli all’assunto<br />

stesso da cui partiva Rousseau, la disponibilità cioè della Corsica a ricevere una costituzione nuova e completa. «Egli era consapevole dell’errore che<br />

si commetteva nel creare un sistema ideale di leggi, per poi imporle al popolo; principalmente per il fatto che esso non era in uno stato maturo per<br />

ricevere un qualsiasi intero codice di leggi. Sapeva che le loro maniere dovevano essere cambiate prima di portarli a un temperamento simile, che<br />

dovevano essere preparati gradualmente, dovevano esser formati prima per una sola legge, poi per tutte le altre...».<br />

21 Progetto di Costituzione per la Corsica, in ROUSSEAU J.-J., Scritti politici, a cura di E. GARIN, Roma-Bari 1972, p. 117.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

senza esercito, assoggettati da padroni terribili, da soli avete scosso via il giogo. Li avete visti volta a volta chiamare a<br />

far lega contro di voi i più temibili potentati d’Europa, inondare la vostra isola di eserciti stranieri; avete superato tutto.<br />

La vostra tenacia ha ottenuto da sola ciò che il denaro non avrebbe potuto ottenere...» 22 . Un popolo tenace, fiero e<br />

compatto, e quindi adatto ad un regime repubblicano: ma quale forma di governo poteva andar bene per un’isola grande<br />

come la Corsica?<br />

§ 7. La democrazia<br />

Dopo aver fissato il momento più adatto di cui il legislatore deve tener conto, Rousseau si volge al problema<br />

dell’estensione ottimale della repubblica. Egli condanna la massima degli stati che credono di dover aumentare la<br />

propria potenza con le conquiste (Manoscritto di Ginevra, I, p. 485). <strong>Il</strong> limite inferiore risulta dal postulato russoiano<br />

dell’autarchia, mentre il limite superiore richiede delle spiegazioni più dettagliate. <strong>Il</strong> motivo per cui egli postula<br />

strutture statali relativamente piccole è che «più il legame sociale si estende, più si allenta» (C. S., II, 9). <strong>Il</strong> grande stato<br />

non può più presentare quella associazione stretta che costituisce la condizione necessaria della repubblica di Rousseau.<br />

Ma nello stesso tempo lo Stato diventa anche «relativamente più debole» perché una parte della sua energia (o l’energia<br />

del governo) dev’essere spesa per conservare la sua coesione. Con la maggiore estensione del paese anche<br />

l’amministrazione diventa più difficile, pertanto un paese povero dev’essere piccolo per il solo fatto che, altrimenti,<br />

sarebbe eccessivamente gravato da un’amministrazione onerosa. Ma dato che una relativa povertà conta fra le<br />

condizioni preliminari della costituzione di una repubblica, se ne può concludere che è necessario che tutte le<br />

repubbliche debbano avere territori relativamente piccoli. Ora, la Corsica è un’isola piuttosto grande, con accanto <strong>dei</strong><br />

nemici sicuramente molto potenti: «Esposti dal lato della terra e da quello del mare, costretti a guardarsi da tutte le parti,<br />

che fine farebbero? Sarebbero alla mercé di tutti; impossibilitati, nella loro debolezza, a concludere un trattato<br />

commerciale favorevole, si vedrebbero dettar legge da tutti» 23 . Se fosse troppo debole verrebbe utilizzata come terra di<br />

conquista, ma se fosse prospera attirerebbe gli occhi <strong>dei</strong> suoi temibili vicini. Dato per fondato il carattere tenace e<br />

primitivo degli isolani, Rousseau propone una forma di governo democratica, quando, nel Contratto sociale, indicava il<br />

governo aristocratico come il più adatto agli stati di media grandezza. Perché? Sicuramente perché la democrazia è la<br />

forma di governo meno dispendiosa per un paese povero e la più favorevole all’agricoltura, unica attività che possa<br />

consentire ai corsi di mantenere l’indipendenza e la compattezza del popolo: «La forma di governo che dobbiamo<br />

scegliere è da un lato la meno dispendiosa, perché la Corsica è povera, e dall’altro la più favorevole all’agricoltura,<br />

perché l’agricoltura è per il momento la sola attività che possa conservare al popolo corso l’indipendenza conquistata<br />

dandogli la consistenza necessaria. L’amministrazione meno dispendiosa è quella che passa attraverso il minor numero<br />

di gradi gerarchici e che comporta il minor numero di classi diverse; tale è, in generale, lo Stato repubblicano, e, in<br />

particolare, quello democratico» 24 . Naturalmente, però, non dev’essere un governo democratico puro ad amministrare<br />

l’isola, perché essa è troppo grande: «Infatti il governo puramente democratico conviene a una piccola città più che a<br />

una nazione. Non sarebbe possibile riunire in assemblea tutta la popolazione di una regione come si riunisce quella di<br />

una città e se l’autorità suprema è affidata a deputati il governo muta diventando aristocratico. Alla Corsica conviene un<br />

governo misto, in cui il popolo si riunisca solo per gruppi e in cui i depositari del suo potere vengano spesso mutati» 25 .<br />

Uno <strong>dei</strong> vantaggi che Rousseau considera basilari in una forma di governo mista è che l’amministrazione poteva essere<br />

affidata solo a poche persone, favorendo così la scelta degli individui più “illuminati”. L’altro «Di far partecipare<br />

all’autorità suprema tutti i membri dello Stato, il che mettendo tutto il popolo perfettamente allo stesso livello, gli<br />

consente di spandersi su tutta la superficie dell’isola e di popolarla ovunque nella stessa misura. È questo il principio<br />

fondamentale della nostra costituzione» 26 . Ma che cosa intendeva esattamente Rousseau quando, come abbiamo<br />

evidenziato, parlava di uno stesso livello per tutto il popolo? È forse un attacco diretto a Buttafoco e all’aristocrazia<br />

dell’isola?<br />

§ 8. La polemica contro il regime feudale<br />

Finché esisterà in Corsica una classe aristocratica che detiene il potere, sarà impossibile pervenire ad una perfetta<br />

uguaglianza di diritti: questa è la chiave di volta per poter portare a compimento l’opera legislativa proposta da<br />

Rousseau. Contrariamente a quanto pensava di fare Buttafoco, che aveva scritto deliberatamente a Rousseau con l’unico<br />

scopo di poter avere il suo appoggio autorevole per restaurare il potere delle famiglie d’antica nobiltà ed eliminare il<br />

governo di Paoli, Rousseau si scaglia duramente contro l’aristocrazia feudale e contro i corsi che rimpiangevano la sua<br />

presenza sull’isola. In una delle parti più interessanti del Projet, infatti, afferma: «[I genovesi] si sono anche dedicati<br />

alla distruzione della nobiltà, a privarla delle sue dignità, <strong>dei</strong> suoi titoli, a estinguere i grandi feudi; è una fortuna per voi<br />

che si siano incaricati dell’aspetto odioso dell’impresa: forse non avreste potuto attuarla se non l’avessero fatto loro<br />

prima di voi. Non esitate a portare a compimento l’opera loro: credendo di lavorare per sé essi lavoravano per voi. Solo<br />

il fine è ben diverso: quello <strong>dei</strong> genovesi si esauriva nella cosa stessa, mentre il vostro è nei suoi risultati. Essi volevano<br />

solo umiliare la nobiltà, mentre voi volete nobilitare la nazione. Questo è un punto su cui vedo che i corsi non hanno le<br />

22 Ivi, p. 120.<br />

23 Ivi, p. 117.<br />

24 Ivi, p. 123.<br />

25 Ivi, pp. 124-125. Questa concezione è simile a quella proposta da Buttafuoco nelle sue Memorie da Vescovato.<br />

26 Ivi, p. 125.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

idee chiare. In tutte le memorie giustificative, nella loro protesta di Aix-la-Chapelle 27 , si sono lamentati che i genovesi<br />

avevano avvilito, o piuttosto distrutto, la loro nobiltà. Era senza dubbio un motivo di risentimento, ma non una<br />

disgrazia; al contrario è un vantaggio, senza cui non avrebbero la possibilità di restar liberi. Riporre la dignità di uno<br />

stato nei titoli di pochi suoi membri significa scambiar l’ombra col corpo. Quando il regno di Corsica apparteneva a<br />

Genova, poteva tornargli utile aver marchesi, conti e titolati che facessero, per così dire, da mediatori al popolo corso<br />

presso la Repubblica. Ma ora, contro chi gli sarebbero utili protettori del genere, meno adatti a salvaguardarlo dalla<br />

tirannia che a usurparla per sé, che lo affliggerebbero con le loro vessazioni e i loro contrasti, finché uno di loro, avendo<br />

assoggettato tutti gli altri, facesse di tutti i suoi concittadini i suoi sudditi?» 28 . Andando avanti nella lettura di queste<br />

pagine del Projet, notiamo come Rousseau distingua due tipi di nobiltà: «La nobiltà feudale, propria della monarchia, e<br />

la nobiltà politica, propria dell’aristocrazia. La prima include parecchi ordini o gradi, gli uni con titolo, gli altri senza<br />

titolo, dai grandi vassalli ai semplici gentiluomini. La seconda, al contrario, unita in un sol corpo indivisibile i cui diritti<br />

sono tutti nel corpo, non nei membri, costituisce una parte talmente essenziale del corpo politico che non può sussistere<br />

senza questo, né questo senza di lei, e tutti gl’individui che la compongono, uguali fra loro per nascita in titoli, privilegi,<br />

autorità, sono accomunati dallo stesso nome di patrizi» 29 . La nobiltà corsa, per i suoi titoli e per gli estesi feudi che<br />

possedeva, con alcuni diritti che rasentavano la sovranità, rientrava sicuramente nella prima classe, derivando<br />

probabilmente le sue origini dagli antichi conquistatori arabi o francesi, o addirittura dalle famiglie degli antichi papi<br />

che governarono l’isola. Questo genere di nobiltà, secondo Rousseau: «Rientra tanto poco in una repubblica<br />

democratica o mista che neanche può essere ammesso in un’aristocrazia, in quanto l’aristocrazia riconosce solo <strong>dei</strong><br />

diritti di corpo, non <strong>dei</strong> diritti individuali. La democrazia non riconosce altra nobiltà, dopo la virtù, che la libertà, come<br />

l’aristocrazia non conosce altra nobiltà che l’autorità» 30 . Da qui il consiglio di Rousseau di lasciare a tutti gli altri stati i<br />

titoli di marchesi e di conti, poiché sono un’offesa per i semplici cittadini: «La legge fondamentale della vostra<br />

costituzione dev’essere l’uguaglianza. Tutto deve riferirsi ad essa, persino l’autorità, che è istituita solo per difenderla;<br />

tutti devono essere uguali per diritto di nascita. Lo Stato deve accordare distinzioni solo al merito, alle virtù, ai servizi<br />

resi alla patria, distinzioni che non devono essere ereditarie più di quanto non lo siano le qualità su cui si fondano» 31 .<br />

In ragione di questo fatto, Rousseau consiglia ai corsi di abolire per sempre il sistema feudale: «Tutti i feudi, gli<br />

omaggi, i canoni e i diritti feudali in precedenza aboliti resteranno dunque aboliti per sempre e lo Stato riscatterà quelli<br />

che ancora sussistono, dimodoché tutti i titoli e diritti feudali risulteranno estinti e soppressi nell’intera isola» 32 . <strong>Il</strong><br />

Progetto di costituzione per la Corsica costituisce un caso unico tra gli scritti politici di Rousseau proprio per la sua<br />

ferrea contrapposizione al sistema aristocratico d’Ancien Régime. Ma fino a che punto Rousseau si era scagliato contro<br />

la feudalità prima della Rivoluzione corsa? E perché soltanto in quest’opera si avverte un astio profondo, radicato,<br />

contro la classe nobiliare?<br />

a) La polemica antiaristocratica nelle opere precedenti al “Progetto di costituzione per la Corsica”<br />

Già nel Discorso sull’origine della disuguaglianza, Rousseau aveva affermato che le prime società umane si erano<br />

governate aristocraticamente (l’antica aristocrazia era quella degli anziani tra gli Ebrei, <strong>dei</strong> geronti a Sparta e del senato<br />

a Roma), ma che con il passare del tempo: «L’ambizione <strong>dei</strong> maggiorenti profittò di tali circostanze per perpetuare le<br />

loro cariche nelle famiglie; il popolo, già avvezzo alla soggezione, alla quiete e ai comodi della vita, e già incapace di<br />

spezzare le sue catene, consentì a lasciar aumentare la sua schiavitù per consolidare la sua tranquillità: e così i capi,<br />

divenuti ereditari, s’avvezzarono a considerare se stessi come i proprietari dello Stato, di cui in origine non erano che<br />

ufficiali; a chiamar loro schiavi i cittadini; a contarli, come bestiame, nel novero delle cose che loro appartenevano; e a<br />

chiamare se stessi uguali agli <strong>dei</strong> e re <strong>dei</strong> re. (...) Se seguiamo il progresso della disuguaglianza in queste diverse<br />

rivoluzioni, troveremo che la fondazione della legge e del diritto di proprietà ne fu il primo termine, l’istituzione della<br />

magistratura il secondo, e il terzo e ultimo fu il cambiamento del potere legittimo in arbitrario; di modo che la<br />

distinzione di ricco e povero fu legittimata dalla prima epoca, quella di potente e debole dalla seconda, e dalla terza<br />

quella di padrone e schiavo, che è l’ultimo grado della disuguaglianza, e il termine cui mettono capo infine tutti gli altri,<br />

fin che nuove rivoluzioni dissolvano del tutto il governo e lo ravvicinino alla legittima istituzione» 33 . Proseguendo nella<br />

lettura del Discorso, Rousseau faceva notare che le distinzioni principali nella società erano la ricchezza, la nobiltà, la<br />

potenza e il merito personale, ma non spiegava esattamente in cosa consistessero queste differenze. La ricchezza era<br />

quindi la causa della distinzione sociale tra gli uomini, ma soprattutto era l’origine del predominio politico <strong>dei</strong> potenti<br />

sui più deboli. Nel Discorso sull’Economia politica, Rousseau continuava ad affrontare questo tema affermando che:<br />

«Ciò che in un governo è più necessario e forse anche più difficile è quella ferma integrità che permette di render<br />

27<br />

La pace di Aix-la-Chapelle o di Aquisgrana del 1748, al termine della guerra di Successione austriaca, ristabiliva il dominio genovese in Corsica.<br />

28<br />

Progetto cit., p. 126.<br />

29<br />

Ivi, p. 127.<br />

30<br />

Ibid.<br />

31<br />

In uno <strong>dei</strong> Frammenti sparsi del Progetto troviamo una nota molto interessante, riferita ancora una volta alla necessità di disfarsi della nobiltà<br />

isolana: «D’onde vennero alla Corsica i dissensi, le dispute, le guerre civili che la straziarono per tanti anni e la costrinsero infine a ricorrere ai Pisani<br />

prima, ai genovesi poi? Non fu tutto ciò opera della sua nobiltà, non fu questa a ridurre il popolo alla disperazione, forzandolo a preferire una<br />

tranquilla schiavitù ai mali che soffriva sotto tanti tiranni? E il popolo, dopo aver scosso il giogo, vorrà ora tornare alla condizione che lo obbligò a<br />

subirlo?» (ibid.).<br />

32<br />

Ivi, p. 128.<br />

33<br />

Discorso sulle origini della disuguaglianza, in ID., Scritti politici cit., v. I, pp. 72-73.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

giustizia a tutti e soprattutto a proteggere il povero dalla tirannia del ricco. <strong>Il</strong> peggiore <strong>dei</strong> mali è già stato commesso se<br />

già ci sono <strong>dei</strong> poveri da difendere e <strong>dei</strong> ricchi da tenere a freno. È soltanto su una condizione media che si può<br />

esercitare completamente la forza delle leggi; esse sono egualmente impotenti sia contro i tesori del ricco che contro la<br />

miseria del povero; il primo la elude, il secondo la sfugge; l’uno rompe la tela, l’altro ci passa attraverso» 34 . In un altro<br />

punto della stessa opera troviamo invece: «Tutti i vantaggi della società non sono forse per i potenti e per i ricchi? Tutte<br />

le operazioni lucrative non sono forse in mano loro? Tutte le grazie, ogni esenzione, non sono forse a loro uso<br />

esclusivo? E l’autorità pubblica non assume forse sempre un atteggiamento favorevole nei loro confronti? (...) Com’è<br />

differente la situazione del povero!...Se vi sono corvées o milizie da radunare, è sempre a lui che viene accordata la<br />

preferenza; è sempre costretto ad addossarsi oltre ai suoi pesi anche quelli del suo vicino, che, essendo più ricco, è in<br />

grado di farsene esentare...Deve reputarsi fortunato se riesce a sfuggire ai soprusi del seguito manesco del giovane<br />

duca..Riassumiamo in poche parole il patto sociale <strong>dei</strong> due stati: Tu hai bisogno di me perché io sono ricco mentre tu sei<br />

povero; facciamo dunque un accordo tra di noi: io ti concedo l’onore di servirmi, ma a condizione di consegnarmi quel<br />

po’ che ti resta, per ripagarmi della fatica che mi costerà il darti degli ordini» 35 . Poveri e ricchi, dunque, come sinonimo<br />

di potenti e deboli, ovvero di detentori di diritti politici ed esenti dagli stessi, non per una questione di merito o<br />

demerito, ma per ragioni di potenza.. Bisogna arrivare al Contratto sociale per avere <strong>dei</strong> chiarimenti e delle prese di<br />

posizione più precise: nel quarto paragrafo del primo libro (Della schiavitù), c’è un riferimento al sistema feudale: «I<br />

combattimenti particolari, i duelli, gli scontri, sono atti che non costituiscono uno stato; e quanto alle guerre private,<br />

autorizzate dalle istituzioni di Luigi IX re di Francia, e sospese dalla tregua di Dio, sono abusi del governo feudale,<br />

sistema assurdo se mai ve ne fu, contrario ai principi del diritto naturale e a ogni buona costituzione di stato» 36 . Sempre<br />

nel Contratto sociale, ma nel terzo libro, Rousseau passa alla descrizione <strong>dei</strong> diversi tipi di governo, avendo già<br />

affermato, però, che essi presuppongono la repubblica come la sola forma legittima di stato 37 . <strong>Il</strong> patto sociale, che aveva<br />

garantito l’uguaglianza <strong>dei</strong> diritti di tutti i cittadini in quanto sovrani e sudditi, eliminava il problema di un’usurpazione<br />

di principio del potere politico. Nel paragrafo riguardante l’aristocrazia, oltre a riprendere l’argomento già trattato nel<br />

Discorso sull’origine della disuguaglianza relativo alle sue antiche origini, Rousseau tenta di dare una spiegazione alle<br />

cause della sua degenerazione: «Ma, a misura che la disuguaglianza d’istituzione la vinse sulla disuguaglianza naturale,<br />

la ricchezza o il potere furono preferiti all’età, e l’aristocrazia divenne elettiva. Infine il potere, trasmesso coi beni dal<br />

padre ai figli, nel rendere patrizie le famiglie, rese il governo ereditario, e si videro senatori di venti anni». In parole<br />

povere, Rousseau non condannava l’aristocrazia in sé, come forma di governo, ma il principio della sua ereditarietà:<br />

«Vi son dunque tre specie di aristocrazia: naturale, elettiva, ereditaria. La prima non conviene che a popoli semplici; la<br />

terza è il peggiore di tutti i governi. La seconda è il governo migliore: è l’aristocrazia propriamente detta».<br />

L’aristocrazia elettiva garantiva la scelta di membri illuminati e capaci, permettendo ai migliori di governare lo Stato. In<br />

una repubblica così composta dovevano emergere gli spiriti più elevati per qualità morali e personali, non soltanto per<br />

eredità o per ricchezza. Mettendo in luce l’uguaglianza di diritto <strong>dei</strong> cittadini, Rousseau non pensava nemmeno<br />

lontanamente ad una uguaglianza di fatto <strong>dei</strong> loro beni e della loro condizione economica. Rousseau era piuttosto<br />

propenso all’ideale di una repubblica meritocratica, dove la “virtù” sarebbe servita da discriminante nella scelta delle<br />

persone più adatte al governo dello Stato. La polemica antifeudale non deriverebbe, quindi, soltanto da una semplice<br />

polemica contro le ricchezze o i titoli, ma dall’idea stessa di aristocrazia come governo <strong>dei</strong> migliori. I migliori sono<br />

coloro che riescono a sacrificare il proprio interesse personale in nome dell’utilità pubblica: non una nobiltà da lasciare<br />

in eredità ai discendenti, né una ricchezza o un potere senza limiti, bensì la pubblica stima e gli “onori” che discendono<br />

dal servizio reso allo Stato. Lo stesso potere politico deve essere quindi servizio e ricompensa, frutto della preferenza<br />

accordata al merito e fonte, per chi lo detiene, di obblighi e di riconoscenza. Su questa base, nel Contratto sociale,<br />

Rousseau argomenta l’eccellenza del governo aristocratico elettivo. Rousseau considera errato il potere dell’aristocrazia<br />

feudale sia nel principio dell’ereditarietà del potere, sia nella sua attuazione pratica, in quanto non è il governo <strong>dei</strong><br />

migliori, cioè <strong>dei</strong> virtuosi, ma il governo <strong>dei</strong> titolati.<br />

34 Discorso sull’Economia politica, in ID., Scritti Politici cit., p. 1<strong>11.</strong> Inevitabile il richiamo al Contratto sociale, II, 11: «Se volete dunque dare<br />

solidità allo Stato, riavvicinate i grandi estremi per quanto sia possibile; non tollerate né gente opulenta né pezzenti. Questi due stati, naturalmente<br />

inseparabili, sono ugualmente funesti al bene comune; dall’uno escono i fautori della tirannia, dall’altro i tiranni: fra essi sempre si fa traffico della<br />

libertà pubblica: uno la compra, l’altro la vende».<br />

35 Ivi, p. 118. Questo passo fu ripreso da MARX K., <strong>Il</strong> Capitale, I, 8, 30: «Io permetterò — dice il capitalista — che voi abbiate l’onore di servirmi, a<br />

condizione che mi concediate il poco che vi resta, per la pena che prenderò a comandarvi». <strong>Il</strong> termine capitalista è aggiunto da Marx.<br />

36 Contratto sociale, I, 4, in ID., Scritti politici cit., p. 282.<br />

37 Vedi Contratto Sociale, II, 6, ivi, p. 127. «Ogni governo legittimo è repubblicano». La divisione <strong>dei</strong> governi concerne solo il numero delle persone<br />

incaricate dell’amministrazione del potere esecutivo, mentre la legislazione non può che appartenere al popolo.<br />

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Figura 29: l’Europa attorno al 1740.<br />

FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

b) Le Considerazioni sul governo di Polonia<br />

Appena cinque anni dopo la stesura del Progetto di costituzione per la Corsica, Rousseau era stato interpellato da<br />

Wielhorski, agente della confederazione di Bar, per esporre le sue idee sulla difficile situazione della Polonia: le<br />

Considérations sur le Gouvernement de Pologne et sur sa réformation projetée (Considerazioni sul governo di Polonia<br />

e sul suo progetto di riforma), vennero completate tra l’ottobre del 1770 e il giugno del 1771. La struttura politica della<br />

Polonia era in piena crisi: la nobiltà feudale controllava completamente il potere esecutivo. Nonostante ci fosse una<br />

distanza abissale tra i grandi signori dell’aristocrazia, che di fatto governavano il paese (come i Czartoryski, i Potocki e<br />

i Radziwill) e la piccola nobiltà di campagna (la szlachta, che comunque aveva il diritto di voto nella dieta locale,<br />

poteva pretendere tutti i privilegi giuridici della grande nobiltà e tiranneggiare i contadini), di fatto tutta la classe<br />

nobiliare polacca aveva il completo controllo delle istituzioni. In seguito all’elezione di Stanislao-Augusto Poniatowski<br />

(1764), il paese era ormai allo sbando. Nel 1768, un movimento d’opposizione al re e alla politica d’occupazione di<br />

Caterina II di Russia (di cui Poniatowski era l’amante), si riunì a Bar sotto forma di “Confederazione” (che aveva il<br />

diritto, secondo le abitudini <strong>dei</strong> polacchi, di proclamare lo Stato d’assedio nella Repubblica). Conservatori, fedeli alla<br />

causa nazionale, cattolici, opposti alle riforme progettate dal re, desiderosi di riportare in Polonia le vecchie leggi della<br />

repubblica, i nobili della Confederazione si trasformarono in insorti armati e, dopo due anni di esitazione e di<br />

confusione, riuscirono a riprendere le redini del paese. Agli occhi di Rousseau, la Polonia aveva una tradizione<br />

singolare e si domandava come avesse fatto «uno stato costituito in modo così bizzarro ad esistere per così lungo<br />

tempo» 38 . Fenomeno tanto più sorprendente in quanto, ovunque in Europa, erano andati moltiplicandosi i segni d’una<br />

generale decadenza di tutte le forme politiche esistenti. «Io vedo tutti gli stati d’Europa correre alla propria rovina». In<br />

mezzo a un simile deperimento generale la Polonia, «questa regione spopolata, devastata, oppressa, aperta ai suoi<br />

aggressori», spiegava invece tutta la sua energia e operava per il proprio rinnovamento: «È in catene e discute i mezzi<br />

per conservare la libertà» 39 . Bisognava accettare e sviluppare un simile slancio. Non alla scienza, non all’interesse si<br />

38<br />

ROUSSEAU J.-J., Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa réformation projetée, in Œuvres, a cura di GAGNEBIN B. e RAYMOND<br />

M., Paris 1964, vol. III, p. 951.<br />

39<br />

Nel Contratto sociale (III, 11), Rousseau aveva svolto il tema dell’inevitabile morte del corpo politico, presentando come causa di morte il venir<br />

meno del potere legislativo, che è il cuore dello Stato, mentre al cervello dello Stato era paragonato il potere esecutivo. Qui si esprime la fiduciosa<br />

convinzione che, a differenza di quanto avviene nei grandi Stati europei, solo in apparenza fiorenti, in Polonia la volontà generale operi ancora,<br />

mantenendo la capacità di darsi leggi buone che vincano l’azione corrosiva esercitata dai cattivi governi. Sempre nel Contratto sociale (II, 8) la<br />

perdita della libertà era considerata irreparabile, salvo casi rarissimi, in cui il popolo rinasce dalle sue ceneri. Non pare sia questo il caso della Polonia:<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

doveva fare appello, ma al cuore: bisognava procedere con gran circospezione, per non rischiare di indebolire o recidere<br />

ciò che permetteva alla Polonia di sopravvivere e di combattere. Tutti criticavano l’anarchia. Ma non bisognava<br />

dimenticare che: «Le anime di patrioti che vi hanno salvato dal giogo si sono formate in seno all’anarchia che vi riesce<br />

odiosa» 40 . I polacchi, come aveva detto Stanislao Leszczynski, dovevano preferire la «pericolosa libertà», alla «pacifica<br />

schiavitù». La repulsione per un incivilimento portato alla conquista, che già aveva spinto Rousseau a schierarsi con i<br />

corsi in lotta contro Luigi XV, così come la sua sempre più accentuata polemica con i philosophes, sboccavano qui in<br />

un appello alla rivolta, all’originalità, all’indipendenza della Polonia. Era convinto che il pericolo che sovrastava quel<br />

paese era terribile: non rischiava soltanto di perdere la guerra e di essere invaso, ma addirittura di perdere la propria<br />

anima, di rinnegare le proprie tradizioni e di confondersi con il mondo circostante. Come i corsi gli erano apparsi<br />

qualche anno prima l’unico popolo in Europa ancora capace di libertà, così i polacchi erano gli unici capaci di difendere<br />

«una fisionomia nazionale». Gli altri popoli in Europa si somigliavano quasi tutti, ma i polacchi avevano conservato<br />

un’istituzione particolare, che permetteva loro di mantenere una «forma nazionale». I loro nemici erano perciò tanto più<br />

pericolosi in quanto si presentavano come benefattori politici, sociali, economici. Rousseau spingeva i polacchi ad<br />

allontanare il più possibile i russi dai confini, ed insieme a loro tutte le usanze che li caratterizzavano: all’imitazione<br />

bisognava contrapporre lo sviluppo delle forze contenute nella tradizione nazionale. Un nobile orgoglio doveva guidare<br />

la nazione. Solo così essa avrebbe ripreso «tutto il vigore di una nazione nascente». Ma come operare una simile<br />

rinascita? Rousseau non nasconde le contraddittorietà del suo assunto, del suo programma conservatore e rinnovatore<br />

insieme. Le sue soluzioni non vogliono essere <strong>dei</strong> compromessi, ma degli avviamenti ad una mutazione profonda. <strong>Il</strong><br />

fatto che la Polonia fosse uno stato grande era un «vizio capitale», perché tutti i grandi popoli gemevano «schiacciati<br />

dalle loro masse». Era quindi indispensabile ristringere i confini. Forse proprio grazie alla guerra si sarebbe giunti a<br />

«una confederazione di trentatré piccoli stati», unendo così «la forza delle grandi monarchie e la libertà delle piccole<br />

repubbliche». Ma Rousseau sapeva bene che in Polonia una simile soluzione era particolarmente difficile, perché ogni<br />

riforma rischiava di aprire la strada al nemico. <strong>Il</strong> punto fermo, dal quale non bisognava deviare, era uno solo: mantenere<br />

la costituzione. Rousseau si metteva sulla via delle riforme, ma dichiarava tuttavia fermamente di volerne mantenere i<br />

fondamenti: «Ah, non lo ripeterò mai abbastanza, pensateci bene prime di modificare le vostre leggi, soprattutto quelle<br />

che hanno fatto di voi ciò che siete». I re dovevano restare elettivi, e bisognava conservare i tre elementi essenziali della<br />

struttura politica del paese: la dieta <strong>dei</strong> nobili, il senato e la monarchia: «La repubblica di Polonia, si è spesso detto e<br />

ripetuto, è composta di tre ordini: l’ordine equestre, il senato e il re. Io preferirei dire che la nazione polacca si compone<br />

di tre ordini: i nobili, che sono tutto; i borghesi, che non sono nulla; i contadini, che sono meno di nulla». Rousseau<br />

sosteneva che la nobiltà avrebbe dovuto conservare il monopolio del potere politico: «Ma in Polonia, togliete l’ordine<br />

equestre e non c’è più senato, perché nessuno può essere senatore se non è prima nobile polacco (...) il re stesso, che<br />

presiede la Dieta, non ha allora il diritto di votare se non è un nobile polacco». Ma anche se la nobiltà polacca aveva<br />

l’obbligo di mantenere il potere, doveva ugualmente cercare di aprire le sue porte alla borghesia, attraverso una costante<br />

opera di allargamento <strong>dei</strong> ranghi e grazie ad una politica volta al bene dello Stato: «Nobili polacchi, siate qualcosa in<br />

più: siate uomini! Solo allora sarete felici e liberi, ma non vi illudete mai di esserlo finché terrete i vostri fratelli in<br />

catene». La liberazione delle plebi <strong>dei</strong> servi sarebbe stata una «grande e buona opera», ma non in quel momento;<br />

bisognava prima educarli alla libertà e proprio alla nobiltà spettava questo compito: «Prima di tutto bisogna renderli<br />

degni della libertà e capaci di tollerarla i servi che si vogliono liberare. Esporrò più oltre uno <strong>dei</strong> mezzi che si possono<br />

impiegare a tal fine (...) Ma qualunque esso sia, ricordatevi che i vostri servi sono uomini come voi, che hanno in sé la<br />

stoffa per divenire tutto ciò che siete: cominciate col puntare su questo e liberate i loro corpi solo quando avrete liberato<br />

le loro anime». Rousseau proponeva alla nobiltà polacca di adottare «il Libro d’Oro di Venezia» e l’idea, veneziana<br />

anch’essa, di aprire «alla borghesia la porta della nobiltà e degli onori» attraverso le cariche affidate ai cittadini: in<br />

parole povere, Rousseau cercava di modificare la struttura politica della Polonia, ma senza stravolgere immediatamente<br />

la sua legislazione: prima bisognava garantire la sopravvivenza del paese, difeso dalla confederazione <strong>dei</strong> nobili, poi<br />

riformare gradualmente il sistema feudale in una forma mista tra monarchia e aristocrazia, sotto l’egida di un governo<br />

repubblicano. La Polonia non doveva fare altro che sostituire lentamente ad un sistema aristocratico-feudale un sistema<br />

aristocratico-meritocratico. È significativo che Rousseau abbia consigliato ai polacchi di evitare una monarchia<br />

ereditaria: «Per esprimere in poche parole il mio parere in proposito, ritengo che una corona elettiva col più assoluto<br />

potere sarebbe sempre meglio, per la Polonia, di una corona ereditaria con potere quasi nullo. Al posto di questa legge<br />

fatale che renderebbe la corona ereditaria ne proporrei una nettamente contraria che, se venisse accolta, manterrebbe la<br />

libertà della Polonia. Consisterebbe nel prescrivere con una legge fondamentale che mai la corona passi dal padre in<br />

figlio e che ogni figlio di re di Polonia resti escluso per sempre dal trono (...) sottraendo al re ogni speranza di usurpare<br />

e trasmettere ai figli un potere arbitrario, si trasferisce tutta la loro attività verso la gloria e la prosperità dello Stato,<br />

unica prospettiva che resti aperta alla loro ambizione». Ma a prescindere da questo provvedimento particolare, lo Stato<br />

stesso doveva essere conformato in modo da suscitare e dirigere verso le mete più alte l’ambizione di ogni cittadino. A<br />

ciò si richiedeva che, per principio, ogni posto nello Stato fosse accessibile a chiunque, nei limiti del possibile. In<br />

Polonia anche al re doveva rimanere sino alla fine della sua vita una possibilità di “promozione”: la sentenza emessa<br />

la Polonia in catene non ha perduto la libertà di decidere: lotta per conservarla. Nell’inverno ‘70-71, quando Rousseau scriveva, la lotta pareva tra<br />

l’altro promettere un esito favorevole ai polacchi che validamente contrattaccavano giungendo persino a passare all’offensiva contro la Russia.<br />

40 ROUSSEAU J.-J., Considérations sur le gouvernement cit., in Œuvres, p. 954.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

dopo la sua morte da un tribunale convocato espressamente a questo fine, poteva dichiararlo “principe giusto e buono” e<br />

concedere alla famiglia una serie di onori e privilegi, ovvero cancellarne il nome dal registro <strong>dei</strong> re di Polonia se egli<br />

aveva regnato male, se cioè aveva attentato alla libertà pubblica 41 . Rousseau, quindi, nonostante trovasse una terra<br />

ancora governata dalla grande aristocrazia feudale e una monarchia controllata dalla nobiltà, cercava di portare<br />

lentamente queste strutture verso un sistema elettivo, basato sul merito. Come ha affermato Irvin Fetscher 42 «in<br />

Rousseau l’ambizione di ogni cittadino può dunque trovare davanti a sé un campo d’azione illimitato che però consiste<br />

esclusivamente nel servizio della comunità: «Perché ognuno veda libera davanti a sé la strada per arrivare ovunque...» 43 .<br />

L’uguaglianza postulata da Rousseau non significa dunque livellamento completo della cittadinanza, ma solo<br />

un’uguaglianza di chances. In Corsica come in Polonia, Rousseau prevede una stratificazione legale della popolazione<br />

e, nel caso della Polonia, non intende nemmeno abolire ad un tratto la servitù della gleba né la nobiltà, pur considerando<br />

almeno la prima come un male. Ma anche fra i cittadini di prima classe vuole introdurre un’ulteriore gerarchia che<br />

favorisca l’ambizione. <strong>Il</strong> desiderio di onore che anima i cittadini dello Stato (e, in Polonia, soprattutto i nobili) è una<br />

sorgente inesauribile per il popolo. Così ogni membro del Magistrato deve, per esempio, appartenere a una gerarchia<br />

riconoscibile anche esteriormente da placche di metallo. La classe più bassa porta placche d’oro, la più alta d’acciaio<br />

azzurro, affinché mediante quest’inversione della stima del valore <strong>dei</strong> metalli si rendano ben consapevoli i cittadini 44<br />

che il bene più grande non è la ricchezza ma l’onore di aver servito lo Stato virtuosamente e felicemente. I tre gradi si<br />

chiamano servitore dello Stato, cittadino d’elezione e guardiano delle leggi. Anche se, per principio, ogni funzionario<br />

può pervenire al grado di guardiano delle leggi, solo pochissimi raggiungeranno quel rango supremo. I membri di una<br />

gerarchia formano nello stesso tempo delle corporazioni politiche che assolvono determinate funzioni: i cittadini<br />

d’elezione per esempio, devono costituire il tribunale chiamato «a sentenziare sulla condotta di governo del defunto re».<br />

Ma al di là di questi esempi, è evidente che Rousseau aveva in mente uno stato meno ieratico e più fluido, in cui la<br />

nobiltà feudale doveva lasciare gradualmente i titoli ereditari per acquisirne altri sulla base <strong>dei</strong> servizi resi alla patria, in<br />

cui la monarchia poteva essere giudicata sulla base del suo operato, in cui anche ai semplici borghesi fosse consentito il<br />

passaggio alle classi nobiliari. Un lento cambiamento, non una rivoluzione. Qui non si parla di distruzione della nobiltà,<br />

ma di una sua evoluzione, di una sua apertura. Perché allora il tono che ha usato Rousseau nel Progetto di costituzione<br />

per la Corsica sembra tanto diverso? Anche nel Projet aveva consigliato ai corsi di «accordare distinzioni solo al<br />

merito, alle virtù, ai servizi resi alla patria, distinzioni che non devono essere ereditarie più di quanto non lo siano le<br />

qualità su cui si fondano», ma aveva anche detto: «non esitate a portare a compimento l’opera loro (cioè <strong>dei</strong> genovesi)»<br />

nell’eliminazione <strong>dei</strong> titoli, delle dignità e <strong>dei</strong> feudi nobiliari: <strong>Il</strong> cambiamento di tono e di contenuto è evidente. Sia la<br />

Corsica che la Polonia erano accerchiate da nemici potenti e rischiavano l’invasione straniera: ma in Corsica era già in<br />

atto una rivoluzione, la feudalità era già stata eliminata quasi del tutto e la struttura interna era pronta per una forma di<br />

governo democratica. La Polonia, invece, doveva prima salvare la sua identità nazionale (messa in pericolo<br />

dall’ingerenza russa) con l’aiuto dell’aristocrazia e solo in un secondo momento doveva cercare di modificare la sua<br />

struttura politica, estendendo alla borghesia la gestione del potere. Questa è la spiegazione più verosimile. D’altronde la<br />

Corsica rappresentava per Rousseau l’unico campo di prova delle sue teorie politiche: il paese sembrava aver realizzato<br />

già prima del suo progetto di legislazione tutte le riforme che avrebbero garantito l’ordine interno e l’uguaglianza <strong>dei</strong><br />

diritti. <strong>Il</strong> grado di maturazione e di compattezza raggiunto dalla Corsica non era paragonabile a quello di nessun altro<br />

paese europeo. L’isola lottava da quarant’anni per la sua autonomia, e le riforme del governo indipendentista la<br />

rendevano pronta per un sistema democratico. Solo in un secondo momento la Corsica avrebbe potuto «darsi<br />

un’amministrazione più brillante». <strong>Il</strong> governo aristocratico che Rousseau auspicava per l’isola era un governo<br />

meritocratico in cui i migliori, coloro cioè che più avevano contribuito al bene della patria, dovevano preoccuparsi<br />

dell’amministrazione senza rilanciare vecchi titoli e privilegi ereditari, ma solo il servizio al bene comune. In Polonia<br />

questo messaggio doveva essere temperato dall’augurio che la feudalità, superate le difficoltà contingenti, fosse<br />

disposta ad allargare le fila alla borghesia cittadina: prima di tutto perché il paese avrebbe rischiato il collasso e poi<br />

perché, tolta la nobiltà con le sue diete, i suoi privilegi e le sue strutture, non sarebbe sopravvissuto nemmeno lo Stato.<br />

In parole povere, La Corsica era già matura per una costituzione, mentre la Polonia poteva arrivare ad una maturazione<br />

politica soltanto dopo essersi salvaguardata dal disfacimento. Questo non poteva trattenere Rousseau da una<br />

partecipazione viva e profonda alla causa <strong>dei</strong> ribelli corsi, che erano riusciti, «senza amici, senza appoggi, senza denaro,<br />

senza esercito» a togliere il giogo <strong>dei</strong> genovesi e a stabilire un regime di uguaglianza.<br />

c) L’atteggiamento di Rousseau verso l’aristocrazia feudale nelle Confessioni.<br />

La spiegazione di questo “sbilanciamento” antiaristocratico nel Progetto di costituzione per la Corsica non può essere<br />

giustificata soltanto dalla particolare situazione storica dell’isola. Si tratta di capire perché Rousseau si sia mostrato<br />

41 Ivi, p. 1255.<br />

42 FETSCHER I., La Filosofia politica di Rousseau cit., p. 177.<br />

43 ROUSSEAU J.-J., Considérations sur le gouvernement cit., p. 1057.<br />

44 Cfr. a questo proposito la svalutazione <strong>dei</strong> metalli nobili nell’Utopia di Tommaso Moro: «Poiché, mentre (gli Utopiani) mangiano e bevono in vasi<br />

di creta o di vetro, bellissimi senza dubbio, ma di nessun valore, dell’oro e dell’argento, non negli alberghi comuni soltanto, ma anche nelle case<br />

private, fanno comunemente vasi da notte o destinati agli usi più vili, e inoltre si formano con gli stessi metalli anche catene e grossi ceppi per legare<br />

gli schiavi. (...) Così in tutti i modi cercano presso di loro di far avere in ispregio l’oro e l’argento...». Tr. it. L’Utopia o la migliore forma di<br />

repubblica, a cura di FIORE T., Bari 1971, pp. 96-97.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

titubante nel resto <strong>dei</strong> suoi scritti a scagliarsi altrettanto duramente verso quella nobiltà che, volente o nolente,<br />

conservava ancora influenza e prestigio nell’Europa <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Come ha affermato Casini, «nessun altro <strong>dei</strong> grandi<br />

teorici della politica sotto l’Ancien Régime ebbe un’esperienza così diretta <strong>dei</strong> bassifondi della società contemporanea,<br />

della degradazione umana, osservata dal punto di vista del reietto e del picaro» 45 . Nelle Confessioni, emerge la triste<br />

esperienza di chi ha vissuto le contraddizioni sociali e gli abusi delle istituzioni come esperienze reali, vive, pagate di<br />

persona. Si può dire che in tutta la sua vita Rousseau sia stato costretto ai margini della grande società: i traumi della<br />

prima infanzia, il periodo di apprendistato a Ginevra e l’esilio, le frustrazioni del catecumeno e del lacché a Torino, gli<br />

espedienti del musico dilettante, i viaggi, la singolare educazione sentimentale dovuta a Madame de Warens, la tarda<br />

iniziazione letteraria dell’autodidatta, i vari servizi di precettore e di segretario 46 , lo avevano portato ad un conflitto<br />

multiforme, sordamente coltivato per anni, tra la sua semplicità interiore e il bel mondo <strong>dei</strong> salotti parigini, dove la ricca<br />

aristocrazia e gli intellettuali illuminati sembravano reggere i fili del mondo. Rousseau era venuto spesso a contatto con<br />

l’aristocrazia francese e anche con quella tedesca, specialmente dopo la pubblicazione del Contratto sociale, quando fu<br />

costretto a cambiare ripetutamente sede a causa della condanna della sua opera. Ma non si era potuto mai esporre<br />

chiaramente in virtù di una condizione esistenziale che lo costringeva a chiedere aiuto e appoggio ai grandi signori<br />

dell’epoca, non ultimo Federico II di Prussia. In realtà egli si sentiva «una specie di essere a parte» che (come afferma<br />

nelle Confessioni), proprio per il fatto di non avere una collocazione precisa nella società, è stato costretto a vivere nelle<br />

situazioni più bizzarre: «Ho conosciuto tutte le condizioni, ho vissuto in tutte, dalle più basse alle più elevate, eccettuato<br />

il trono. I grandi uomini non conoscono che grandi uomini, i piccoli uomini non conoscono che i piccoli uomini... Non<br />

essendo nessuno, non volendo nulla, io non imbarazzavo né importunavo nessuno...qualche volta mangiavo al mattino<br />

con i principi e la sera cenavo con <strong>dei</strong> contadini...In qualunque oscurità io abbia potuto vivere, se ho pensato di più e<br />

meglio <strong>dei</strong> re, la storia della mia anima è più interessante di quella della loro».<br />

Figura 30: Ritratto di Jean-Jacques Rousseau di<br />

Maurice-Quentin de La Tour al<br />

Musée Antoine Lécuyer, Saint-Quentin.<br />

§ 9. <strong>Il</strong> livellamento dell’isola<br />

Oltre ad aver favorito l’eliminazione dell’aristocrazia dell’isola, i genovesi avevano apportato inconsapevolmente altri<br />

enormi vantaggi ai corsi: prima di tutto la quasi totale assenza di commercio con l’estero, che Rousseau sconsigliava<br />

vivamente per tutto il periodo della costruzione del nuovo stato. E poi il sistema giurisdizionale delle pievi, che gli<br />

oppressori avevano mantenuto a scopo fiscale. Se la democrazia era attuabile, secondo il pensiero espresso nel<br />

Contratto sociale, soltanto in una città di modeste dimensioni, le suddivisioni capillari esistenti in Corsica avrebbero<br />

permesso di adattarla ad un paese di quella grandezza: era necessario riequilibrare le pievi tra loro, in modo che con <strong>dei</strong><br />

leggeri cambiamenti la Corsica si sarebbe trovata divisa in dodici giurisdizioni 47 . Un simile sistema amministrativo<br />

avrebbe permesso di continuare, una volta ottenuta la pace, la lotta contro le città costiere, riducendone l’importanza e il<br />

peso nella vita della nazione 48 . Anche il centro amministrativo del paese, che Rousseau pensava situato a Corte, doveva<br />

45 CASINI P., Introduzione A Rousseau, Bari 1974.<br />

46 ROUSSEAU J.-J., Confessions, in Œuvres cit., I-VI.<br />

47 «Perché tutte le parti dello Stato mantengano tra loro, per quanto è possibile, quell’uniformità di livello che tentiamo di stabilire fra gl’individui, si<br />

determineranno i confini <strong>dei</strong> distretti, delle pievi e delle giurisdizioni in modo da diminuire gli estremi squilibri che vi si fanno notare (...) Con questi<br />

lievi mutamenti, l’isola di Corsica che suppongo del tutto libera, si troverebbe a esser divisa in dodici giurisdizioni che non sarebbero eccessivamente<br />

sproporzionate, soprattutto quando si sarà ridotto il peso della giurisdizione delle città restringendone come di dovere i diritti municipali» (ID., Projet<br />

de Constitution pour la Corse cit., p. 128).<br />

48 «Le città sono utili in un paese in proporzione allo sviluppo del commercio e delle arti, ma solo a detrimento del sistema che abbiamo adottato. I<br />

loro abitanti sono impegnati nell’agricoltura oppure sfaccendati. Ora, l’agricoltura rende sempre di più in mano ai coloni che ai cittadini e, quanto<br />

all’ozio, è la fonte di tutti i vizi che fin qui hanno afflitto la Corsica». Ivi, p. 128.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

essere piuttosto un capoluogo che una capitale 49 . In questo caso Rousseau contraddice ciò che aveva scritto nel<br />

Contratto sociale a proposito <strong>dei</strong> mezzi per mantenere l’autorità sovrana 50 . Le città erano state in passato «i nidi della<br />

tirannide». Sarebbero state in futuro, se non se ne riduceva l’importanza, <strong>dei</strong> centri di corruzione sociale e politica. La<br />

Corsica forniva pertanto un efficace esempio dell’indispensabile lotta delle campagne contro le città; Corte, invece,<br />

essendo lontana dal mare, era riuscita a conservare la semplicità e il carattere originario del popolo corso e non è un<br />

caso che proprio da questa città Paoli aveva diretto la sua ribellione e istituito l’unica università tuttora esistente<br />

sull’isola.<br />

§ 10. La suddivisione del corpo sociale<br />

Sicuramente questa è una delle parti più originali ed interessanti del Progetto di costituzione per la Corsica: Rousseau,<br />

dopo aver livellato il territorio e i diritti politici degli abitanti, propone ora una struttura triadica per la suddivisione <strong>dei</strong><br />

poteri e <strong>dei</strong> compiti del governo. Premesso che i mezzi più rapidi e sicuri per fare in modo che il popolo ami<br />

l’occupazione che gli si vuole dare sono il legame dell’uomo alla terra (e quindi, come vedremo, lo sviluppo<br />

dell’agricoltura) e il rafforzamento <strong>dei</strong> vincoli della famiglia, Rousseau divide l’insieme della popolazione in tre classi,<br />

la cui disuguaglianza è legata soltanto alle funzioni, non ai beni o ai feudi. Alla classe <strong>dei</strong> Cittadini appartengono tutti i<br />

corsi al di sopra <strong>dei</strong> venti anni d’età. <strong>Il</strong> loro primo atto è un solenne giuramento che sancisce l’unità dello Stato:<br />

«Tutta la nazione corsa si riunirà con un giuramento solenne in un solo corpo politico e, da quel momento, tanto i corpi<br />

che devono formarlo come gl’individui saranno i suoi membri. Quest’atto d’unione sarà celebrato nello stesso giorno in<br />

tutta l’isola e tutti i corsi vi assisteranno per quanto sarà possibile, ognuno nella sua città, borgata o parrocchia come<br />

sarà più dettagliatamente disposto. Formula del giuramento pronunciato sotto il cielo e con la mano sulla Bibbia: In<br />

nome di Dio onnipotente e sui santi Vangeli, con un giuramento sacro e irrevocabile, mi unisco col corpo, coi beni, con<br />

la volontà e con ogni mio potere alla nazione Corsa, per appartenerle in assoluta proprietà, io e tutto ciò che dipende da<br />

me. Giuro di vivere e di morire per essa, di osservare tutte le sue leggi e di obbedire ai suoi capi e magistrati legittimi in<br />

tutto quello che sarà conforme alle leggi. Così Dio mi aiuti in questa vita e accordi la sua pietà all’anima mia. Viva<br />

sempre la libertà, la giustizia e la repubblica <strong>dei</strong> corsi. Amen. E tutti, tenendo alta la mano destra risponderanno: amen».<br />

Non si può non vedere in questo giuramento un riferimento al patto sociale (cfr. C. S., I, 6); un patto sociale in cui tutti i<br />

contraenti alienano se stessi e i loro diritti alla comunità, che con questo atto si forma, e di cui ciascuno è parte<br />

integrante come sovrano e come suddito. Ciò significa che ognuno mantiene nello Stato sociale la sua libertà naturale,<br />

in quanto ubbidendo alle leggi che ha contribuito a fissare, di fatto non ubbidisce che alla propria volontà. Eppure nel<br />

giuramento si riesce ad avvertire una presenza quasi religiosa, confacente comunque alle direttive russoiane della<br />

“religione civile”, in cui il quarto dogma è proprio quello della «santità del contratto sociale e delle leggi» 51 . Tornando<br />

alla classe <strong>dei</strong> Cittadini, in un frammento separato del Projet, Rousseau aveva disposto che ogni giovane che si fosse<br />

sposato prima <strong>dei</strong> venti anni compiuti o solo dopo i trenta, o che avesse sposato una ragazza minore di quindici anni, o<br />

una persona, nubile o vedova, con una differenza d’età di oltre vent’anni, sarebbe rimasto escluso dall’ordine <strong>dei</strong><br />

cittadini, a meno che non vi sarebbe giunto nuovamente per pubblica ricompensa per servizi resi allo Stato. Mentre, in<br />

un altro frammento ancora, Rousseau consigliava di garantire ad ogni figlia di cittadino che sposava un corso di<br />

qualsiasi classe una dote dalla pieve dello sposo; questa dote doveva consistere sempre e comunque in un terreno, e<br />

doveva garantire allo sposo il suo passaggio dalla classe degli aspiranti a quella <strong>dei</strong> patrioti. Alla classe degli Aspiranti<br />

appartengono tutti i nati nell’isola che non hanno ancora raggiunto il ventesimo anno d’età. Ogni aspirante legalmente<br />

coniugato con <strong>dei</strong> beni in proprio viene iscritto alla classe <strong>dei</strong> Patrioti. Ogni patriota con due figli viventi, una propria<br />

abitazione e un pezzo di terra sufficiente per dargli da vivere entra automaticamente nella classe <strong>dei</strong> Cittadini. Purtroppo<br />

l’incompletezza dell’opera non permette di capire le ragioni alla base di queste suddivisioni. Né Rousseau ha avuto<br />

modo di spiegare, se non in pochi frammenti, la funzione di altre strutture amministrative e politiche che aveva in mente<br />

di disporre. Ad esempio, molto dura appare la considerazione <strong>dei</strong> celibi: «Ogni corso che a quarant’anni compiuti non<br />

sarà sposato né lo sarà mai stato, sarà privato per tutta la vita del diritto di cittadinanza». E ancora: «Nessun celibe potrà<br />

testare; tutti i suoi beni passeranno alla comunità». Mentre sono favorite quelle coppie che prolificheranno il maggior<br />

numero di figli: «Ogni bambino nato nell’isola sarà cittadino e membro della repubblica, alla debita età, in conformità<br />

49 «L’isola, che non è abbastanza grande per rendere necessaria una simile divisione [in stati confederali], lo è troppo per poter fare a meno di una<br />

capitale. Ma questa capitale deve costituire il punto d’incontro di tutte le giurisdizioni senza attirarne gli abitanti; deve essere in comunicazione con<br />

tutto, ma tutto deve restare al suo posto. In una parola, la sede del governo supremo, più che una capitale, deve essere un capoluogo...Corte, situata nel<br />

mezzo dell’isola, è in una posizione press’a poco equidistante da tutte le coste. Collocata esattamente tra le due grandi partizioni, di qua e di là dai<br />

monti, si trova ugualmente alla portata di tutto» (ivi, p. 130). Poco prima Rousseau aveva detto a proposito delle capitali: «Se dunque le città sono<br />

dannose, le capitali lo sono ancora di più. Una capitale è un baratro in cui la nazione, quasi per intero, sprofonda corrompendo i suoi costumi, le sue<br />

leggi, il suo coraggio, la sua libertà...dalla capitale incessantemente si sprigionano esalazioni pestilenziali che minano la nazione e finiscono col<br />

distruggerla». Inevitabile il confronto con l’Emile, in Œuvres cit, V, p. 703: «Sono le grandi città che esauriscono uno stato e cagionano la sua<br />

debolezza: la ricchezza che esse producono è una ricchezza apparente e illusoria; è molto denaro e poco effetto. Si dice che la città di Parigi valga una<br />

provincia al re di Francia; io credo che gliene costi parecchie, che sotto più rispetti Parigi è nutrita dalle provincie e la maggior parte <strong>dei</strong> loro proventi<br />

sono riversati in questa città e vi restano, senza mai ritornare né al popolo né al re».<br />

50 «Tuttavia, se non si può ridurre lo Stato a giusti limiti, resta ancora un espediente: di non tollerarvi una capitale, di far risiedere il governo<br />

alternativamente in ogni città, e di adunarvi anche, a vicenda, le assemblee del paese» (Contratto sociale, III, 13, in ID., Scritti politici cit., p. 321).<br />

51 Cfr. Contratto sociale, IV, 8 ed ancora il Manoscritto di Ginevra: «Non appena gli uomini vivono in società hanno bisogno di una religione che ve<br />

li mantenga...Facendo della patria l’oggetto dell’adorazione <strong>dei</strong> cittadini, insegna loro che servire lo Stato significa servire Dio...» in ID., Scritti<br />

politici cit., v. II, p. 79.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

degli statuti; nessuno potrà esserlo in nessun’altra maniera. Per ogni figlio in più oltre i cinque sarà concesso un<br />

patrimonio sui beni comuni. I padri che avranno figli assenti non potranno tenerne conto se non dopo il loro ritorno e di<br />

quelli che resteranno per un intero anno fuori dell’isola non si potrà tener conto neppure dopo il ritorno».<br />

Notiamo subito il giudizio molto severo per chi abbandona l’isola, come anche per chi decide di cambiare pieve, mentre<br />

diventa ancora più difficile per uno straniero entrare a far parte della nazione corsa: «Ogni privato che mutando<br />

domicilio passerà da una pieve all’altra, perderà il suo diritto di cittadinanza per tre anni e in capo a questo periodo sarà<br />

iscritto nella nuova pieve pagando un diritto, senza di che continuerà ad essere escluso dal diritto di cittadinanza fino a<br />

quando non abbia pagato. Si eccettuano dal precedente articolo tutti coloro che coprono cariche pubbliche; questi<br />

devono godere di tutti i diritti di cittadinanza nella pieve in cui si trovano finché vi risiedono per dovere d’ufficio. <strong>Il</strong><br />

diritto di cittadinanza non potrà essere accordato a nessuno straniero, eccetto un’unica volta in cinquant’anni, a una sola<br />

persona che si presenti a chiederlo e ne sia giudicata degna, o la più degna di quanti si presenteranno. La sua<br />

ammissione sarà una festa generale, in tutta l’isola». Nei Frammenti sparsi Rousseau parlava anche di alcune cariche<br />

politiche di cui non conosciamo esattamente la funzione: si tratta <strong>dei</strong> “Custodi delle leggi” e del “Gran Podestà”,<br />

quest’ultimo, probabilmente, una sorta di Statholder.<br />

Riguardo alle milizie, Rosusseau afferma che esse non potevano mai costituire una categoria a parte, ma dovevano<br />

essere sempre sottoposte ai magistrati e considerarsi come «i ministri <strong>dei</strong> ministri della legge»; questo perché «Se la<br />

nobiltà avesse delle prerogative, delle distinzioni tra le truppe, quelli che hanno cariche nell’esercito non tarderebbero a<br />

credersi al di sopra <strong>dei</strong> funzionari civili; i capi della repubblica sarebbero guardati solo come <strong>dei</strong> legulei e lo Stato<br />

governato militarmente piomberebbe con gran rapidità nel dispotismo». Come si vede, gli elementi essenziali della<br />

Rivoluzione corsa erano accettati da Rousseau e trasposti su un terreno di principio, egualitario e democratico.<br />

Figura 31: Rappresentazione della Corsica nel 1730<br />

(fonte: POMPONI F., Histoire de la Corse, Paris 1979).<br />

§ <strong>11.</strong> L’agricoltura<br />

Fra i mezzi e i provvedimenti che devono servire alla conservazione della repubblica e dello spirito repubblicano <strong>dei</strong><br />

cittadini, le misure economico-politiche occupano per Rousseau un posto non trascurabile. Considerando il suo pensiero<br />

non si deve tuttavia dimenticare che l’economia non costituiva un ambito culturale indipendente, che egli non conobbe<br />

leggi peculiari dell’economia né si propose di tenere conto nei suoi provvedimenti di punti di vista puramente<br />

economici. A questo proposito è tipico, come nel caso della Corsica, che egli non solo volesse creare repubbliche<br />

autarchiche, ma anche all’interno di un paese, non che adattare la produzione agricola alle condizioni produttive delle<br />

diverse regioni, voleva che, nella misura del possibile, in ogni distretto si coltivassero tutti i prodotti di prima necessità,<br />

essendo più importante «adoperare nel modo più giusto gli uomini che la terra». Pur di ottenere un vantaggio politico,<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

egli accetta dunque consapevolmente un danno economico: «…È un indiscutibile vantaggio destinare ogni terreno alla<br />

produzione che più gli si confà; questa è fra tutte la strada migliore per ricavare da un paese un raccolto più abbondante<br />

ed agevole. Ma questa considerazione, per importante che sia, resta solo secondaria. Meglio vale che la terra produca un<br />

po’ meno e che gli abitanti abbiano un ordinamento migliore». Fine supremo di ogni politica è, secondo Rousseau, la<br />

fondazione e la conservazione dell’unità e della concordia di una repubblica e a questo fine devono essere subordinati<br />

tutti i provvedimenti, anche quelli di politica economica. Ma il pericolo forse più grave e tipico che minaccia la<br />

sicurezza dello Stato è l’esorbitante brama di ricchezza, che assegna una funesta preponderanza all’esclusivo interesse<br />

privato. Già per questo la politica economica non deve proporsi come proprio ideale la massima produzione, perché più<br />

si produce, più crescono i bisogni; e poiché i nuovi bisogni per principio possono essere soddisfatti solo da pochi, ciò<br />

significa anche nuova disuguaglianza e nuovo stimolo ad un’attività economica illimitata nell’interesse esclusivo <strong>dei</strong><br />

privati. Nel Contratto sociale, che pur contiene ben poche norme economiche concrete, si legge: «Nessun cittadino<br />

dev’essere abbastanza ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da esser costretto a vendersi» 52 . In un<br />

frammento su «il lusso, il commercio, le arti» Rousseau indica la condizione economica che lo Stato dovrebbe<br />

procurare col nome di abundance e la definisce «Una condizione in cui nel paese si trovano riunite tutte le cose<br />

necessarie per vivere, in quantità sufficiente perché ciascuno possa, col lavoro, mettere insieme senza difficoltà tutto ciò<br />

che gli occorre per il proprio mantenimento». Ognuno deve insomma vivere del proprio lavoro e la società più adatta a<br />

ricevere una costituzione repubblicana è quella in cui ciascuno possiede «qualche cosa» e nessuno possiede «troppo» 53 .<br />

Sono fatali soprattutto le differenze eccessive di beni, non solo perché istituiscono relazioni di dipendenza fra i cittadini,<br />

ma anche perché la soverchia ricchezza dà la possibilità di sottrarsi alle leggi e l’eccessiva povertà produce<br />

un’indifferenza completa per gli affari pubblici. Ma anche dove non si è ancora arrivati a tanto, la concentrazione della<br />

ricchezza in poche mani dà vita a una sorta di secondo governo; proprio nel Progetto di costituzione per la Corsica<br />

Rousseau infatti afferma: «Ovunque dominano le ricchezze il potere e l’autorità sono abitualmente separati, perché i<br />

mezzi di acquistare le ricchezze e i mezzi di giungere all’autorità non essendo gli stessi, di rado sono impiegati dalle<br />

stesse persone. Allora il potere apparente è nelle mani <strong>dei</strong> magistrati e quello reale è nelle mani <strong>dei</strong> ricchi» 54 .<br />

<strong>Il</strong> governo, la cui funzione è di applicare ai casi particolari le norme generali della volontà pubblica (amministrazione e<br />

giurisdizione), diventa così sempre più impotente e lo Stato repubblicano deve perire o «assumere un’altra forma» 55 ,<br />

cioè trasformarsi in tirannide. Rousseau presuppone dunque come una cosa ovvia che i ricchi impieghino la loro forza<br />

nell’interesse privato delle proprie persone, o comunque della propria classe, e non per il benessere generale. Ma<br />

altrettanto indesiderabile dell’eccessiva ricchezza è la grande povertà o addirittura la nullatenenza, sia perché i poveri<br />

tendono a vendere la loro libertà ai ricchi, sia perché non forniscono alla società e al suo organo esecutivo, il governo,<br />

alcuna garanzia di adempiere ai loro doveri civili. La proprietà, come sottolinea Rousseau nell’articolo sull’Economia<br />

politica, è infatti «il vero fondamento della società civile e la vera garanzia dell’impegno <strong>dei</strong> cittadini: infatti, se i beni<br />

non fossero garanti delle persone, niente sarebbe più facile che eludere i propri doveri e burlarsi delle leggi» 56 . Perciò,<br />

nonostante la tendenza ad estendere anche al campo economico la richiesta di uguaglianza e a rendere lo Stato il più<br />

forte possibile, Rousseau non auspica un sistema economico in cui lo Stato abbia il monopolio della proprietà <strong>dei</strong> mezzi<br />

di produzione. Nel Progetto di costituzione per la Corsica si legge infatti: «lungi dal volere che lo Stato sia povero,<br />

vorrei, al contrario, che avesse tutto e ciascuno partecipasse alle comuni disponibilità solo in misura <strong>dei</strong> suoi servigi».<br />

<strong>Il</strong> diritto del sovrano (e del governo che ne è l’esecutivo) di disporre si estende a tutte le proprietà <strong>dei</strong> cittadini, ma<br />

questo diritto non può essere scambiato con quello <strong>dei</strong> proprietari. Nessun privato può essere espropriato dallo Stato<br />

perché la proprietà privata <strong>dei</strong> cittadini è il fondamento giuridico della società politica e, con l’istituzione della<br />

repubblica, il puro possesso si è trasformato in una proprietà giuridica tutelata dalla legge. Certo, si può immaginare che<br />

il sovrano decida che non debba più esserci proprietà privata (sebbene questa decisione sembrerebbe folle a Rousseau),<br />

ma non può mai permettere che singoli cittadini siano espropriati 57 , perché in tal modo, sarebbe distrutto il principio<br />

dell’uguaglianza giuridica e soppressa la giustizia. Poiché la legge può sempre riguardare soltanto un certo ambito di<br />

azioni in generale, mai singole azioni o persone in particolare, è anche impossibile una «legge retroattiva» 58 . Questa<br />

52 Contratto sociale cit., libro II, 11, p. 125.<br />

53 Ivi, libro I, par. 9.<br />

54 Progetto cit. in ID., Scritti politici, v. III, p. 159.<br />

55 Lettre à d’Alembert, in ID., Œuvres, I, p. 256: «In una monarchia, in cui tutte le classi occupano una posizione intermedia fra il principe e il popolo,<br />

può essere indifferente che alcuni uomini passino dall’una all’altra...ma in una democrazia, in cui i sudditi e il sovrano non sono che gli stessi uomini<br />

considerati sotto diversi rapporti, non appena una minoranza prevale in ricchezza sulla maggioranza lo Stato deve necessariamente perire o mutare<br />

forma...».<br />

56 Articolo sull’Economia politica, I, in ID., Scritti politici cit., p. 300. Inversamente, perciò, anche a una popolazione di nullatenenti non è più<br />

possibile imporre un dominio ordinato: «..la sovranità e la proprietà sono incompatibili... I diritti del principe non sono fondati che su quelli <strong>dei</strong><br />

sudditi e...è impossibile comandare per lungo tempo a un popolo che non ha più niente da perdere». Certo, se la virtù <strong>dei</strong> cittadini fosse perfetta, essi<br />

potrebbero vivere in società anche senza possedere alcun bene, ma in tal caso non servirebbe più neanche un ordine politico.<br />

57 Emile, tr. cit., in ID., Œuvres, pp. 433: «Se l’autorità sovrana è fondata sul diritto di proprietà, deve rispettare tale diritto più di ogni altro, deve<br />

considerarlo inviolabile e sacro finché permane un diritto privato e particolare; ma non appena sia considerato comune a tutti i cittadini, esso si trova<br />

sottoposto alla volontà generale e questa volontà può annullarlo. Così il sovrano non ha alcun diritto di toccare i beni di uno o di più privati cittadini,<br />

ma può legittimamente impadronirsi <strong>dei</strong> beni di tutti, come avvenne a Sparta al tempo di Licurgo...».<br />

58 In ID., Scritti Politici cit., p. 54: «...In una parola, qualunque funzione che si riferisca a un oggetto particolare non appartiene al potere legislativo ed<br />

è questa una delle ragioni per cui una legge non può avere effetto retroattivo, perché avrebbe deliberato a proposito di un fatto particolare, anziché in<br />

generale su una specie di azioni che, non essendo ancora quelle di nessuno, non hanno nulla di individuale se non dopo la pubblicazione della legge e<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

norma impedisce l’esproprio <strong>dei</strong> cittadini i cui beni hanno oltrepassato un determinato limite, cosicché quello Stato<br />

sociale che Rousseau considera la premessa necessaria di una comunità politica che funzioni bene (la mancanza di<br />

ricchezza e povertà estreme), non può più essere restaurato per via legale una volta che sia andato perduto. La società<br />

può, invece, decidere che in futuro nessuno possa più acquistare se non un determinato stato patrimoniale, giacché una<br />

legge generale come questa non concerne alcuno in particolare ma ognuno, favorito dalle circostanze, può, in linea di<br />

principio, trovarsi in tale condizione e perciò esprimere il proprio voto nell’assemblea nazionale. Nel Progetto di<br />

costituzione per la Corsica Rousseau prevede espressamente che «Nessuno potrà possedere più di [...] di terra<br />

(probabilmente egli si riservava di fissare la misura massima di questa quota sulla base di una conoscenza più<br />

approfondita del paese, <strong>dei</strong> suoi prodotti, ecc.). Chi ne avrà in questa quantità potrà, attraverso scambi, aver terre in<br />

quantità pari, ma non superiore, quando anche si tratti di terre meno buone, e tutti i doni o legati che gli potranno esser<br />

destinati in terre saranno nulli» 59 . La base sociale ideale della repubblica russoiana è una società di piccoli proprietari<br />

che coltivano direttamente il loro fondo, o di artigiani che producono coi loro propri strumenti i beni necessari alla vita<br />

e li scambiano con le eccedenze dell’agricoltura. Mentre nell’Emilio veniva esaltato l’artigiano che esercita un mestiere<br />

utile (in contrasto col fabbricante di articoli di lusso), nel Progetto Rousseau attribuisce maggior valore alla prosperità<br />

<strong>dei</strong> contadini. Nella sane famiglie contadine, che devono vivere distribuite il più ugualmente possibile in tutta l’isola,<br />

egli vede il terreno in cui meglio si radica la libertà repubblicana: «il commercio produce la ricchezza, ma l’agricoltura<br />

assicura la libertà» 60 . Questa diversa valutazione è dovuta al fatto che in Corsica bisogna allevare <strong>dei</strong> buoni cittadini e<br />

legare il più saldamente possibile gli uomini alla loro patria, e la proprietà contadina rappresenta il legame più stretto<br />

che si possa concepire con un paese 61 . <strong>Il</strong> sistema rurale è anche l’unico possibile in Corsica, perché solo chiudendosi in<br />

se stessa (e quindi evitando il commercio) l’isola avrebbe evitato le crescenti tensioni che già si vedevano affiorare.<br />

Questa esaltazione dell’agricoltura farebbe pensare ad una contraddizione nella concezione dell’economia di Rousseau.<br />

Infatti nel Discorso sull’origine della disuguaglianza e nel Saggio sull’origine delle lingue aveva esaltato la vita<br />

pastorale; nel Progetto di costituzione per la Corsica, come abbiamo visto, e nella Nuova Eloisa, l’agricoltura;<br />

nell’Emilio l’artigianato. Ma in realtà queste tre forme sono solo in apparente contraddizione: non si possono ascrivere a<br />

un’evoluzione del suo pensiero, ma si devono considerare quasi come livelli di un ideale adattato ai diversi stadi di<br />

sviluppo storico della società. <strong>Il</strong> pensiero di Rousseau si potrebbe così formulare nel modo più semplice: il genere<br />

umano raggiunse la sua condizione più felice e più libera quando la terra era popolata da grandi famiglie di pastori,<br />

unite non troppo strettamente e perfettamente autarchiche e libere. L’avvento dell’agricoltura rappresentò sicuramente<br />

per l’uomo un progresso verso una migliore utilizzazione della natura, ma il nuovo modo di vita comportò, con la<br />

proprietà fondiaria e la possibilità di escluderne una parte degli uomini, il pericolo di una prima disuguaglianza, quella<br />

<strong>dei</strong> poveri e <strong>dei</strong> ricchi. In confronto con l’età pastorale e con la vita <strong>dei</strong> pastori, l’età dell’agricoltura e la vita <strong>dei</strong><br />

contadini furono dunque meno felici e meno libere. In una repubblica costituita da cittadini di quasi uguale agiatezza, il<br />

ceto rurale può tuttavia formare la base di una società libera. Ma se invece di paragonare, retrospettivamente, la vita <strong>dei</strong><br />

contadini a quella <strong>dei</strong> pastori, la confrontiamo con quella che sarà la vita cittadina, essa ci appare infinitamente più sana<br />

e più vicina alla natura, più autentica e più morale. Tutto ciò dipende certamente dal fatto che lo Stato, in cui vive<br />

l’agricoltore, sia una repubblica legittima o una tirannide. Negli stati corrotti è più conveniente per il privato non essere<br />

legato ad un possesso fondiario, ma, al contrario, possedere nella propria abilità (nella sua specialità artigiana) un<br />

capitale che egli possa portare sempre con sé. Rousseau rettifica, per così dire, a poco a poco, il suo ideale nella misura<br />

in cui la società si è sviluppata ed allontanata sempre più dalla sua origine. Egli non propone alcun ideale assoluto,<br />

eternamente valido, ma ricerca, per ogni epoca, le migliori possibilità di vita morale e umana per contrastare il processo<br />

naturale di decadenza. <strong>Il</strong> modo migliore di vita è per lui sempre il più naturale compatibile con il grado di sviluppo<br />

raggiunto dalla società. Alcune delle pagine più belle del Progetto di costituzione per la Corsica riguardano il confronto<br />

fatto da Rousseau tra la Corsica e la Svizzera, entrambe osservate con affetto, entrambe viste come terre abitate da<br />

popoli fieri e capaci di vivere isolati dai lussi e dagli ozi degli altri paesi. Sicuramente Rousseau ricordava, nel portare<br />

gli esempi descritti nel Projet, alla comunità <strong>dei</strong> Montagnons presso Neuchâtel, che conobbe nella sua giovinezza, che è<br />

forse quanto vi sia di più conforme al suo ideale sociale. I Montagnons non sono solo agricoltori che producono tutti i<br />

mezzi di sostentamento di cui hanno bisogno, ma, nello stesso tempo, anche artigiani abilissimi, anzi artisti, che hanno<br />

raggiunto un alto livello di civiltà. Nella loro comunità l’infausta divisione del lavoro, che ha causato la dipendenza<br />

reciproca degli uomini, è nuovamente vinta e ogni famiglia produce ogni cosa e consuma tutto ciò che produce<br />

(eccettuata un’eccedenza di prodotti di meccanica di precisione che essi possono esportare). Perciò le famiglie <strong>dei</strong><br />

Montagnons rappresentano quello che i corsi sarebbero dovuti diventare: delle famiglie economicamente indipendenti<br />

per la volontà di chi le commette».<br />

59 Progetto cit., in ID., Scritti politici, vol. III, p. 163.<br />

60 Ivi, p. 123. Su questo punto Rousseau si allontana in modo significativo da Montesquieu, che distingue fra lo spirito commerciale, valutato<br />

positivamente, e una smodata accumulazione, distruttrice dell’uguaglianza e degna di essere criticata: «Vero è che, quando la democrazia è fondata<br />

sul commercio, può accadere assai facilmente che <strong>dei</strong> privati posseggano grandi ricchezze senza che i costumi siano corrotti. In effetti lo spirito<br />

commerciale porta con sé lo spirito di frugalità, d’economia, di moderazione, di lavoro, di saggezza, di tranquillità, d’ordine, e di regolatezza. Così,<br />

finché esiste questo spirito, le ricchezze che esso produce non hanno alcun effetto cattivo. <strong>Il</strong> male giunge quando l’eccessiva ricchezza distrugge<br />

questo spirito commerciale; tutt’a un tratto si vedono sorgere i disordini della disuguaglianza...» (MONTESQUIEU, Esprit des Lois cit., XXI, p. 14).<br />

61 «I contadini sono attaccati alla loro terra molto più di quanto i cittadini non lo siano alle loro città. L’uguaglianza, la semplicità del vivere rustico ha<br />

per chi non ne conosce altro un’attrattiva che esclude il desiderio di un mutamento. Di qui la contentezza del proprio stato che rende l’uomo pacifico,<br />

di qui l’amore della patria che lo lega alla sua costituzione» (ivi, p. 122).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

fra loro, in cui il loro regime sociale riposa esclusivamente sull’inclinazione naturale. Se Rousseau fosse stato un<br />

idealista utopista avrebbe generalizzato questi Montagnons come modello desiderabile; ma, da quel realistico pessimista<br />

che egli fu sempre, rimase consapevole del carattere eccezionale di quella piccola comunità di svizzeri e riporta nel<br />

Progetto la loro degenerazione 62 . Per Rousseau niente è per sempre, neanche il progetto di costituzione per un paese per<br />

tanti versi esaltato come ancora «primitivo» e proprio per questo «adatto ad una legislazione». Dietro le sue teorie e i<br />

suoi consigli si nasconde sempre la coscienza della degenerazione e del fallimento di tutto ciò che è umano.<br />

§ 12. <strong>Il</strong> fisco<br />

Lo Stato, ossia l’unione <strong>dei</strong> cittadini costituenti la repubblica, deve disporre <strong>dei</strong> fondi sufficienti per retribuire i suoi<br />

magistrati (funzionari), costruire edifici pubblici e per poter costruire depositi per i periodi di carestia. Si tratta perciò di<br />

stabilire il modo migliore in cui lo Stato possa procurarsi queste entrate. Innanzi tutto si pone qui, per Rousseau, un<br />

problema giuridico. Da una parte, infatti, la proprietà privata è il presupposto del diritto di cittadinanza, che dovrà<br />

essere tutelata e rispettata con tutti i mezzi dalla repubblica. Se si prescinde dal caso ideale, in cui i cittadini consegnino<br />

spontaneamente allo Stato la quota necessaria delle loro proprietà o <strong>dei</strong> loro redditi, si arriva alla spiacevole alternativa:<br />

o contributi volontari, il cui gettito di regola è nullo, o imposti e allora illegittimi. E «la difficoltà d’una giusta e saggia<br />

economia sta in questa crudele alternativa di lasciar perire lo Stato o di attaccare il sacro diritto di proprietà che ne è la<br />

base» 63 . Rousseau vede la miglior soluzione di questo dilemma nell’istituzione di demani dello Stato, dal cui gettito<br />

possano essere coperte le spese pubbliche 64 . <strong>Il</strong> fondo statale (che può consistere anche in denaro, soluzione che<br />

Rousseau considera però meno desiderabile per diverse ragioni) dev’essere stabilito e approvato dall’assemblea del<br />

popolo. Oltre al gettito del pubblico demanio Rousseau considera anche il reddito da imposte. <strong>Il</strong> carico fiscale<br />

dev’essere ripartito sulla popolazione in rapporto alle sue facoltà. Nell’articolo sull’Economia politica Rousseau<br />

prevede non solo un’imposta progressiva, ma prende inoltre in considerazione delle agevolazioni speciali per i ceti più<br />

poveri 65 . Una ragione di questa forte progressione dell’onere tributario è vista nel fatto che i vantaggi, che ciascuno<br />

ricava dal consorzio civile sono assai disuguali, perché questo «protegge fortemente gl’immensi possessi del ricco,<br />

mentre a un miserabile concede a malapena di godere della capanna che ha costruito con le proprie mani». Da questa<br />

osservazione e dalla descrizione particolareggiata dell’effettiva difesa giuridica di cui godono i ricchi, e dall’inanità di<br />

quella riservata ai poveri e ai deboli, risulta chiaramente che Rousseau aveva qui di mira lo Stato corrotto del suo tempo<br />

e — come il suo grande modello Vauban 66 — pensava esclusivamente a una serie di misure amministrative per<br />

l’eliminazione <strong>dei</strong> singoli abusi economici. Degne di nota nel Progetto di costituzione per la Corsica sono le riflessioni<br />

economiche che Rousseau elabora esaminando l’imposta fondiaria (tassa sulle terre) o la tassa sul grano. <strong>Il</strong> primo<br />

inconveniente di un’elevata imposizione pecuniaria sui coltivatori consiste nel fatto che con queste misure il denaro<br />

scorre unicamente nelle città senza rifluire in ugual quantità nella campagna. Ciò dipende dal fatto che i proventi fiscali<br />

passano dalle mani del governo o <strong>dei</strong> finanzieri in quelle di chi esercita le arti o il commercio, da cui non tornano più, o<br />

solo in minima parte, agli agricoltori. Rousseau paragona questa circolazione a senso unico a quella di un organismo<br />

dotato sì di vene, ma non di arterie. Egli vuole ovviare a questo inconveniente proponendo che le imposte <strong>dei</strong> contadini<br />

siano esatte fondamentalmente in prodotti naturali; allo stesso tempo si dovrebbe provvedere, mediante misure<br />

adeguate, affinché gli esattori siano onesti. L’inconveniente principale di un’elevata imposta pecuniaria sui coltivatori<br />

consiste nel fatto che li costringe a vendere frumento e, in tal modo, ne mantiene basso il prezzo anche negli anni di<br />

cattivo raccolto. Rousseau mette così in rilievo la differenza fondamentale tra un’imposta sulle terre e un’imposta sulle<br />

merci. <strong>Il</strong> contadino tassato in ragione del suo fondo o del raccolto, deve procurarsi l’equivalente del tributo richiestogli<br />

vendendo una quantità corrispondente di frumento, ma vendendo solo in epoche fisse, non può rifarsi delle imposte che<br />

ha pagato. Con l’aumento della produzione di merci superflue e l’aumento, connesso, della massa di denaro circolante,<br />

il contadino diventa relativamente più povero e la crescita, corrispondente ai bisogni del governo, porta per di più ad un<br />

aumento della tassazione. Ciò significa che l’onere dell’agricoltore aumenta senza che crescano le sue entrate. Agli<br />

occhi del filosofo questa era la situazione degli agricoltori francesi nella seconda metà del secolo XVIII, che perciò<br />

condanna con parole taglienti la politica fiscale contemporanea, rea di portare il paese sull’orlo della rovina<br />

distruggendo quel ceto rurale che è la base della nazione. Al posto della rovinosa imposta pecuniaria sul grano e<br />

anzitutto sul suolo, Rousseau raccomanda perciò una serie di tributi che colpiscano in primo luogo le merci di lusso:<br />

62<br />

«Un po’ alla volta si corruppero e non furono altro che <strong>dei</strong> mercenari. <strong>Il</strong> gusto del denaro li portò ad accorgersi di essere poveri; il disprezzo del loro<br />

stato ha distrutto lentamente le virtù che ne derivavano, e gli Svizzeri sono diventati uomini da cinque soldi, come i francesi sono uomini da quattro...<br />

La povertà si è fatta sentire in Svizzera solo quando ha cominciato a circolare la moneta. Ha creato una disparità di risorse corrispondente alla<br />

disparità di fortune; è diventata un gran mezzo d’acquisto tolto a chi non aveva nulla...la vita oziosa ha introdotto la corruzione e moltiplicato gli<br />

stipendiati <strong>dei</strong> potenti; l’amor di patria, spento in tutti i cuori, ha fatto posto al solo amore del denaro...Ecco <strong>dei</strong> grandi insegnamenti per il popolo<br />

corso» (Progetto cit., in ID., Scritti politici cit., vol. III, pp. 134-135).<br />

63<br />

Scritti sull’Economia politica, I, in ID., Scritti politici cit., p. 302.<br />

64<br />

«Voglio, in una parola, che la proprietà dello Stato sia tanto grande e forte e la proprietà <strong>dei</strong> cittadini tanto piccola e debole quanto è possibile...<br />

L’istituzione del pubblico demanio non è, ne convengo, così facile da attuarsi nella Corsica d’oggi, già divisa fra i suoi abitanti...Tuttavia so che resta<br />

nell’isola una gran quantità di terre incolte, da cui il governo potrebbe trar partito con gran facilità...» (Progetto cit., in ID., Scritti politici, III, p. 151).<br />

65<br />

L’imposizione non dev’essere stabilita solo in ragione <strong>dei</strong> beni del contribuente, ma in ragione composta della differenza delle condizioni e del<br />

superfluo <strong>dei</strong> beni. Operazione di grande importanza e difficoltà...» (Scritti sull’Economia politica, in ID., Scritti politici, I, p. 311).<br />

66<br />

VAUBAN S., La dîme royale, 1707. Rousseau accoglie il sistema tributario di Vauban nelle Considerazioni sul Governo di Polonia, in ID., Scritti<br />

politici cit., II, p. 240.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

tasse che sarebbero pagate “volontariamente” in quanto nessuno è costretto ad acquistare tali merci. Così egli propone,<br />

per esempio, di mettere un alto dazio d’importazione sulle merci di cui i cittadini hanno desiderio senza che siano<br />

necessarie al paese; ma anche un dazio d’esportazione sugli articoli che non superano il fabbisogno interno e che sono<br />

richiesti urgentemente dai paesi stranieri. E anzitutto vorrebbe tassare i «prodotti delle arti inutili e troppo lucrose» e, in<br />

generale «tutti i generi di lusso» 67 . Imposte di questo genere presentano il vantaggio che «alleviano la povertà e gravano<br />

sulla ricchezza» 68 . Bisogna tuttavia badare che non aumenti troppo lo stimolo al contrabbando, perché i cittadini che<br />

siano stati indotti a praticarlo una volta potrebbero diventare facilmente anche nel resto persone disoneste e cattivi<br />

cittadini. <strong>Il</strong> principio secondo cui sarebbe compito del governo «salvaguardare i privati dalla lusinga <strong>dei</strong> profitti<br />

illegittimi» indica d’altronde la posizione caratteristica di Rousseau: piuttosto che fondare lo Stato sulla speranza,<br />

sempre dubbia, che i cittadini si comportino moralmente, è necessario disporre in maniera tale affinché ciascuno trovi il<br />

proprio tornaconto comportandosi conformemente alla legge. Ma questo non cambia nulla nel compito fondamentale<br />

dello Stato, quello di educare i cittadini alla virtù indirizzandone l’ambizione verso azioni gloriose e introducendo il<br />

patriottismo come termine medio fra l’egoismo privato e l’ideale morale.<br />

Ma anche se l’alta tassazione dovesse danneggiare la produzione <strong>dei</strong> beni di lusso non sarebbe un male, perché in tal<br />

modo diminuirebbe anche il fiscalismo delle corti e potrebbero affluire (o riaffluire) alla campagna forze lavorative, col<br />

risultato di aumentare la produzione agricola. Così Rousseau spera anche che misure fiscali di questo genere avvicinino<br />

«insensibilmente tutte le fortune a quella media condizione che fa la vera forza di uno Stato». Nel Progetto di<br />

costituzione per la Corsica l’imposta progressiva e la tassazione degli articoli di lusso non hanno lo stesso ruolo che nel<br />

Discorso sull’Economia politica data l’ipotesi che nell’isola le fortune non presentino differenze così grandi e che la<br />

corrispondente corruzione abbia fatto minori progressi. In Corsica, oltre alle entrate demaniali, Rousseau vuole<br />

riscuotere anzitutto una “decima” corrispondente a quella percepita dalla chiesa. La stessa proposta egli fa anche ai<br />

polacchi: «Tutti i beni reali, terrieri, ecclesiastici e soggetti a oneri feudali, devono pagare ugualmente, ossia in<br />

proporzione all’estensione e al reddito, chiunque ne sia il proprietario». Si potrebbe anche evitare la complicata<br />

compilazione di un catasto: «Fissando l’imposta, non direttamente sulla terra, ma sui suoi prodotti, il che sarebbe anche<br />

più giusto; si tratterebbe cioè di stabilire, nella proporzione che venisse giudicata opportuna [qui si può pensare anche a<br />

un’aliquota progressiva], una decima da prelevare in natura sul raccolto, come la decima ecclesiastica...». Per<br />

giustificare questa riscossione in natura dell’imposta sul reddito Rousseau adduce il fatto che risulterebbero meno facili<br />

le malversazioni da parte degli esattori. Per quanto possibile, l’esazione non dev’essere affidata ad appaltatori (sistema<br />

à ferme), che hanno sempre interesse a cavar fuori da un territorio, per le proprie tasche, più di quanto occorra allo<br />

Stato, ma avvenire attraverso un’amministrazione statale (en regie), anche se questa dovesse riscuotere meno.<br />

L’esazione delle imposte non dovrebbe essere un mestiere (métier), ma esclusivamente una sorta di «noviziato <strong>dei</strong><br />

pubblici impieghi e il primo passo per arrivare alle magistrature» 69 . Nel Progetto di costituzione per la Corsica<br />

Rousseau propone che l’amministrazione dello Stato, determinando l’equivalente pecuniario delle quantità di derrate (e<br />

dunque fissando il prezzo di queste), eserciti un’efficace influenza sul rapporto fra la produzione agraria e quella<br />

manifatturiera. In questa idea si può scorgere un primo tentativo di politica congiunturale dello Stato 70 .<br />

Assegnando, qui, al governo il compito di mantenere la proporzione ottimale fra agricoltura e manifattura (e artigianato)<br />

mediante misure di politica economica, Rousseau interviene a fondo nella legge propria della società e ancora una volta<br />

manifesta chiaramente la sua concezione anti-liberale dell’economia. Si deve del resto considerare che questi<br />

provvedimenti non si trovano più in alcun rapporto dichiarabile con le leggi (in quanto espressioni della volontà della<br />

repubblica), ma sono rimessi al giudizio di amministratori specializzati. Compito di quest’organo esecutivo della<br />

volontà generale non è di tener conto delle mutate condizioni sociali (per es. dello spostamento di parte della<br />

popolazione agricola nel totale della popolazione), ma di impedire, per quanto possibile, tali mutamenti. <strong>Il</strong> gettito<br />

tributario può discostarsi in due modi dalla proporzione calcolata come giusta: quando la quantità di derrate risulta<br />

relativamente maggiore del previsto, e minori le entrate pecuniarie — o nel caso opposto. È degno della massima<br />

considerazione che lo stesso Rousseau contraddica, qui, la tendenza economica del suo Progetto di costituzione,<br />

chiaramente orientato verso la creazione di piccole aziende agricole autarchiche. Egli vede molto bene che questo «stato<br />

ideale» renderebbe le famiglie <strong>dei</strong> contadini «troppo selvatiche», cioè completamente indipendenti, perciò insiste sulla<br />

67 «Si impongano forti tasse sui domestici, sugli equipaggi, sugli specchi, sui lampadari e gli articoli d’arredamento, sulle stoffe e le dorature, sulle<br />

corti e sui giardini <strong>dei</strong> palazzi, sugli spettacoli d’ogni genere, sulle professioni improduttive; come saltimbanchi, cantanti, istrioni; in una parola su<br />

quella congerie di generi di lusso, fatti per lo svago e l’ozio, che tutti gli occhi vedono e che non possono nascondersi, tanto più perché la loro<br />

funzione è proprio di farsi vedere, in quanto se nessuno li vedesse, sarebbero inutili». Vd. Scritti sull’Economia politica, in ID., Scritti politici cit., vol.<br />

I, pp. 314-315.<br />

68 «Bisogna prevenire il continuo aumento della disparità di fortune, l’asservimento ai ricchi di una folla di operai e di servitori inutili, il moltiplicarsi<br />

di gente oziosa nelle città, l’abbandono delle campagne» (in ID., Scritti politici cit., p. 315).<br />

69 Quest’idea gli fu ispirata dall’Hôtel Dieu (Ospedale maggiore) di Lione, che, all’opposto dell’ospedale di Parigi, era amministrato da funzionari i<br />

quali, più tardi, speravano di salire a più alti gradi e si preoccupavano perciò di agire in modo onesto e coscienzioso. La stessa proposta Rousseau fece<br />

del resto anche ai polacchi, laddove, oltre agli scrupolosi amministratori dell’ospedale maggiore di Lione, cita, come modelli, i questori dell’esercito<br />

Romano. Vd. Considérations sur le gouvernement de Pologne, in ID., Scritti politici, II, p. 239).<br />

70 «Poiché i privati saranno sempre liberi di pagare la loro aliquota in denaro o in derrate nella misura stabilita anno per anno in ogni singola<br />

giurisdizione, il governo, una volta calcolata la miglior proporzione che deve esservi tra le due specie di contributo, appena la proporzione si altererà,<br />

sarà in grado di accorgersene subito, di cercarne la causa e di apportarvi rimedio. È qui la chiave del nostro governo politico, la sola parte che richieda<br />

un’arte, <strong>dei</strong> calcoli, della riflessione. Perciò la Camera <strong>dei</strong> conti, che altrove, dappertutto, è solo un tribunale molto in sott’ordine, qui sarà al centro<br />

degli affari, metterà in moto tutta l’amministrazione e sarà composta dalle migliori teste dello Stato» (Progetto cit., in ID., Scritti politici, III, p. 155).<br />

85


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

necessità di una minima produzione industriale, che faccia dello stato l’istanza regolatrice per lo scambio delle merci fra<br />

i diversi gruppi della popolazione. Solo se anche i contadini hanno bisogno di qualche manufatto, come i lavoratori<br />

della manifatture (e gli artigiani) hanno bisogno <strong>dei</strong> prodotti agricoli, si rende necessario un solido ordinamento di cui è<br />

garante lo Stato, il cui compito in politica interna risulterebbe altrimenti nullo. Ma subito Rousseau torna al suo ideale e<br />

spiega che questo difetto di proporzione è poco da temere, è anzi un «segno infallibile di prosperità» (ibid.). Lo stesso<br />

non vale, però, per il difetto opposto, «perché quando i contribuenti forniranno più denaro che derrate, ciò sarà indizio<br />

sicuro di un eccesso di esportazione all’estero, di un commercio che diventa troppo facile, dell’estendersi delle arti<br />

lucrative nell’isola a danno dell’agricoltura e quindi del fatto che la semplicità di costume e tutte le virtù ad essa<br />

collegate cominciano a degenerare».<br />

Purtroppo a questo punto si interrompe il ragionamento puramente economico di Rousseau e le misure atte a ristabilire<br />

il giusto rapporto fra agricoltura e produzione manifatturiera non sono descritte. È detto solo, un po’ laconicamente:<br />

«Gli abusi che determinano questa alterazione indicano i rimedi che si devono apportare». Nel seguito del discorso si<br />

rimanda soprattutto all’educazione al patriottismo e alla stima dell’onore repubblicano anziché delle ricchezze. I<br />

provvedimenti economici a cui Rousseau può aver pensato si riducono alla conversione dell’equivalente pecuniario<br />

fissato per i prodotti naturali. Rousseau ammette che gli agricoltori paghino le imposte in natura, mentre le aziende<br />

manifatturiere le paghino in denaro. Ora, se — come si suppone nel primo caso — il gettito fiscale in denaro<br />

diminuisce, si può ovviare ribassando il prezzo delle derrate. Ciò non significa che gli agricoltori debbano pagare più<br />

tasse, ma che i proventi della manifatture salirebbero perché il tenore di vita <strong>dei</strong> lavoratori e le materie prime sarebbero<br />

meno costosi. <strong>Il</strong> caso opposto dovrebbe verificarsi qualora fosse aumentato il valore in contanti <strong>dei</strong> prodotti agricoli.<br />

Scopo di queste misure è, come s’è detto, il mantenimento del rapporto giudicato una volta per tutte vantaggioso, o la<br />

salvaguardia del carattere prevalentemente agricolo dell’economia nazionale. Quanto gli stia a cuore consolidare<br />

anzitutto la prosperità degli agricoltori, risulta altresì dal fatto che Rousseau insiste che si dovrebbe fare in modo che gli<br />

operai delle manifatture restino il più vicino possibile al modo di vita <strong>dei</strong> contadini. Ma «in caso di contrasti interni è<br />

nella natura della nostra costituzione che sia il colono a dettar legge all’operaio». La Corsica deve restare un paese<br />

agricolo, in cui le manifatture servono esclusivamente a produrre gli oggetti utili, necessari al paese stesso e a rendere la<br />

repubblica indipendente all’estero. Al di sopra delle contribuzioni in natura e in denaro Rousseau colloca tuttavia le<br />

prestazioni personali dirette <strong>dei</strong> cittadini a favore della repubblica, che devono essere preferite ad ogni altra forma di<br />

entrata dello Stato perché esse si valgono veramente di ciascuno con uguale intensità e mettono i singoli in grado di<br />

contribuire attivamente alla creazione del bene comune 71 . A questa convinzione Rousseau rimase fedele anche nel<br />

Progetto di costituzione per la Corsica e nelle Considerazioni sul governo di Polonia, pur se là non rifiuta così<br />

radicalmente il pagamento delle imposte: nel Progetto egli cita le corvée come la terza fonte di entrate dello Stato, dopo<br />

il demanio e le decime 72 .<br />

La spiccata predilezione di Rousseau per le prestazioni personali — che gli fa rifiutare o considerare come un male sia<br />

gli eserciti mercenari che i rappresentanti del popolo e le imposte pecuniarie — getta una luce significativa sulla sua<br />

concezione della libertà. Infatti, considerando il progresso della libertà dal punto di vista liberale, difficilmente si<br />

troverebbe un peggior segno di schiavitù che l’impiego forzato di cittadini per lavori pubblici. Certo, Rousseau sarebbe<br />

pienamente d’accordo con gli avversari liberali delle corvées nel rifiutare servizi di questo genere a beneficio di singole<br />

persone privilegiate dell’aristocrazia, ma egli introduce una differenza di principio fra le prestazioni per il monarca o<br />

per i signori, quali si praticavano in Francia, e quelle di un libero repubblicano per la sua repubblica.<br />

§ 13. L’Autarchia<br />

Gli uomini naturali originari ipotizzati da Rousseau erano pienamente autarchici, non avevano bisogno né fisicamente<br />

né moralmente degli altri uomini e, in questa loro autosufficienza, Rousseau aveva visto il presupposto della libertà o,<br />

più esattamente, dell’ indépendance. <strong>Il</strong> male, la finzione, la falsità erano apparsi nel mondo quando gli uomini si resero<br />

71 «Non appena il servizio pubblico cessi di essere il principale impegno <strong>dei</strong> cittadini e questi preferiscano servire con la loro borsa piuttosto che di<br />

persona, lo Stato è già prossimo alla rovina. Bisogna andare a combattere? Pagano delle truppe e restano a casa; si deve andare al consiglio? Eleggono<br />

<strong>dei</strong> deputati e restano a casa. A forza di pigrizia e di denaro finiscono con l’avere <strong>dei</strong> soldati per asservire la patria e <strong>dei</strong> rappresentanti per venderla. A<br />

cambiare in denaro le prestazioni personali sono le preoccupazioni del commercio e delle arti, l’avido interesse di guadagno, la mollezza e l’amore<br />

delle comodità. Si cede una parte <strong>dei</strong> propri profitti per aumentarli più comodamente. Date denaro e presto avrete catene. La parola finanza è una<br />

parola da schiavi; è sconosciuta in uno Stato libero. In uno Stato veramente libero i cittadini fanno tutto con le loro mani e nulla col denaro: anziché<br />

pagare per esimersi dai loro doveri, pagherebbero per adempierli di persona. Io sono molto lontano dalle idee correnti: credo le corvées meno<br />

contrarie alla libertà che non le tasse» (ivi, p. 148).<br />

72 «Una terza specie di entrata, la più sicura e la migliore, la ricavo dagli uomini stessi, impiegando il loro lavoro, le loro braccia e il loro cuore<br />

piuttosto che la loro borsa al servizio della patria, sia per la sua difesa chiamandoli a prestar servizio nell’esercito, sia per migliorare le sue<br />

attrezzature, facendoli partecipare ai lavori pubblici mediante corvées. Come questo termine corvées spaventa i repubblicani! So che in Francia è<br />

detestato; ma lo è forse in Svizzera? Le strade vi si costruiscono anche mediante corvées e nessuno si lamenta. L’apparente comodità del pagare può<br />

far presa solo su spiriti superficiali, mentre è una regola certa che, meno intermediari ci sono fra il bisogno e il servizio, meno il servizio deve risultare<br />

oneroso». Progetto cit., in ID., Scritti politici, III, p. 152. E similmente nelle Considerazioni sul Governo della Polonia: «Vorrei che sempre si<br />

mettessero a contributo più le braccia degli uomini che la loro borsa; vorrei che le strade, i ponti, gli edifici pubblici, il servizio del principe e dello<br />

Stato si facessero mediante corvées, e non dietro pagamento in denaro. Questa specie d’imposta, è, in fondo, la meno onerosa e soprattutto quella di<br />

cui meno si può abusare; infatti il danaro, uscendo dalle mani che lo pagano, sparisce, mentre ciascuno vede in cosa gli uomini sono impiegati e<br />

sovraccaricarli in pura perdita è impossibile. So che questo metodo è inattuabile dove regnano il lusso, il commercio e le arti, ma niente è così agevole<br />

presso un popolo semplice e di buoni costumi e niente è più utile per mantenerli tali». Vd. Considerations sur le Gouvernement de la Pologne, in ID.,<br />

Scritti politici, vol. III, p. 238.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

a poco a poco sempre più indipendenti gli uni dagli altri e ciascuno cominciò ad aspirare al proprio vantaggio personale.<br />

Ognuno tentò di assoggettare a sé ogni altro o lo costrinse a stimare la propria persona per tornare così ad essere<br />

«indipendente». Tuttavia, da quando fu introdotta la divisione del lavoro e dopo che il possesso privato divenne<br />

proprietà garantita dalla legge ad esclusione di tutti gli altri, non si poté più pensare all’autarchia <strong>dei</strong> singoli. Anche<br />

Èmile, che pur viene educato come un «selvaggio» destinato a vivere nelle città, non è propriamente autarchico, bensì in<br />

condizione di guadagnarsi ovunque da vivere in cambio delle prestazioni della sua specialità artigianale. Infine, i<br />

Montagnons, descritti nella Lettre sur les spectacles, rappresentano una fortunata eccezione. Ma l’ideale autarchico,<br />

ormai irraggiungibile per i singoli, può nondimeno risorgere su un piano più elevato e costituire la meta dell’economia<br />

repubblicana. Già nel Contratto sociale Rousseau menziona l’autarchia fra le condizioni preliminari per l’istituzione di<br />

una legittima repubblica: «Qual è dunque il popolo adatto a ricever delle leggi? (...) quello che può fare a meno degli<br />

altri popoli e di cui tutti gli altri popoli possono fare a meno» 73 . Ugualmente Rousseau nel Progetto di costituzione per<br />

la Corsica, dopo aver elogiato i corsi per la loro tenacia nel difendere la propria indipendenza, afferma: «Ecco dunque i<br />

principi che secondo me devono stare alla base della loro legislazione: trar partito dal loro paese quanto più sarà<br />

possibile; coltivare e collegare le proprie forze poggiando solo su di esse, e quanto alle potenze straniere farne lo stesso<br />

conto che se non esistessero affatto» 74 . Resta sempre decisivo il fatto che un paese non deve mai avere più abitanti di<br />

quanti ne possa nutrire e che si deve disporre di una base sufficiente di alimentazione da sfruttare completamente grazie<br />

a una densità massima di popolazione di cui Rousseau stabilisce l’optimum. Probabilmente egli preferirebbe conservare<br />

questo stato ottimale di forza di un paese, ma sa — almeno nel Progetto di costituzione per la Corsica — che lo<br />

sviluppo procede oltre questo punto di «saturazione» 75 . Rousseau sa bene, dunque, che la condizione che egli stima<br />

ideale è transitoria, ma poiché ad essa non potrà seguire che una funesta decadenza <strong>dei</strong> costumi, desidera almeno<br />

prolungarla il più possibile. In una altro passo del Projet Rousseau sembra perfino approvare e auspicare il progresso<br />

oltre il punto di saturazione demografica: «Quando il paese è saturo di popolazione, l’agricoltura non ne può più<br />

assorbire l’eccedenza, che va impiegata nell’industria, nel commercio, nelle arti e questo nuovo sistema (sociale)<br />

richiede un’altra (sorta di) amministrazione. Possa ciò che la Corsica sta per realizzare metterla presto nella necessità di<br />

un simile mutamento. Ma finché non avrà più uomini di quanti ne possa nutrire, finché resterà nell’isola un pollice di<br />

terra non dissodata, deve attenersi al sistema rurale per mutarlo soltanto quando l’isola diventerà insufficiente». L’idea<br />

autarchica corre come un filo rosso attraverso il Progetto di costituzione per la Corsica: «Chiunque dipende da altri e<br />

non trova in sé le proprie risorse è nell’impossibilità di essere libero», leggiamo quasi all’inizio. E subito l’agricoltura è<br />

indicata come la condizione preliminare dell’autarchia 76 . Fortunatamente la Corsica non ha nessun bisogno d’importare,<br />

può anzi nutrire molti più abitanti di quanti al momento vivano nell’isola: il governo che deve compilare «un preciso<br />

registro delle mercanzie importate nell’isola durante un certo numero d’anni» e questo registro fornirà informazioni<br />

attendibili sulle merci «di cui non può fare a meno» 77 . <strong>Dal</strong>le importazioni, così stabilite, si possono inoltre sottrarre le<br />

merci che in futuro potranno essere prodotte nell’isola stessa. Concludendo, Rousseau parla delle misure necessarie per<br />

raggiungere il fine della più ampia autarchia possibile: per prima cosa si devono assicurare le fonti necessarie di materie<br />

prime. Occorre innanzi tutto tutelare il patrimonio forestale e, se è possibile, trovare il ferro di cui Rousseau sospetta la<br />

presenza. È sfiorata anche la questione <strong>dei</strong> luoghi più favorevoli agli impianti industriali 78 . In nessun caso si devono<br />

installare manifatture nelle zone fertili dell’isola, dove si affollerebbero masse troppo grandi di uomini, bensì nei<br />

territori sterili, non sufficientemente popolati. Una volta impiantate le manifatture indispensabili, la necessità di<br />

importare sarà limitata a pochissimo ed anche qui si potrebbe fare a meno del denaro.<br />

L’ideale autarchico non si limita alla repubblica nel suo insieme, ma vale anche — mutatis mutandis — per le singole<br />

provincie, distretti e parrocchie, anzi, da ultimo, persino per la stessa economia domestica <strong>dei</strong> coloni. Intento di<br />

quest’autarchia locale, così perseguita, è di rendere superfluo il commercio da cui derivano tanti abusi e allettamenti al<br />

vizio, e dal quale può nascere la disuguaglianza sociale. Ma per il momento le province dipendono ancora le une dalle<br />

altre: la provincia di Capo Corso, per esempio, produce solo vino e ha bisogno del grano e dell’olio che le vengono<br />

73 ROUSSEAU J.-J., Contratto sociale, v. II, in Scritti politici cit., p. 10.<br />

74 ID., Progetto cit., in Scritti politici, v. III, p. 121.<br />

75 «In questo caso [si riferisce evidentemente alla fase, che seguirà inevitabilmente, della sovrappopolazione], si deve impiegare l’eccedenza <strong>dei</strong><br />

prodotti dell’industria e dell’artigianato per acquistare all’estero ciò di cui una popolazione diventata così numerosa abbisogna per il proprio<br />

sostentamento. Allora nasceranno anche, a poco a poco, i vizi connessi necessariamente con queste istituzioni (manifatture e commercio privato), vizi<br />

che corrompendo gradualmente il gusto e i principi della nazione, finiscono per corrompere e distruggere la forma dello Stato. Questa sciagura è<br />

inevitabile; e poiché tutte le cose umane devono un giorno perire, è bello ed è bene che uno stato, dopo un’esistenza lunga e vigorosa, perisca per<br />

eccesso di popolazione» (Progetto cit., in Scritti politici, v. III, p. 158).<br />

76 «L’agricoltura è il solo mezzo di mantenere uno stato indipendente dagli altri. Se anche aveste tutte le ricchezze del mondo, non avendo di che<br />

nutrirvi dipendereste dagli altri. I vostri vicini possono attribuire al vostro denaro il prezzo che vogliono perché possono attendere; ma il pane che ci è<br />

necessario ha per noi un prezzo su cui non potremmo discutere e in ogni specie di commercio a dettar legge all’altro è sempre quello che ha meno<br />

fretta» (ivi, p. 122). Su questo punto, ma solo su questo, Rousseau concorda con la concezione fisiocratica.<br />

77 Le sole merci di cui si sentì veramente la mancanza durante il blocco degli anni 1735-36 furono «munizioni per la guerra (...), cuoio (...), cotone per<br />

gli stoppini; ma il cotone fu sostituito col midollo di certe canne» (ibid.).<br />

78 Ivi, p. 147: «Nell’isola si è trovata, dicono, una miniera di rame; è una bella cosa, ma le miniere di ferro valgono anche di più. Nell’isola ce ne sono<br />

di certo; la situazione delle montagne, la natura del suolo, le acque termali che vi si trovano nella provincia di Capo Corso e altrove, tutto mi fa<br />

credere che cercando bene e impiegando nella ricerca persone qualificate si troveranno parecchie di queste miniere. Supponendo che sia vero, non se<br />

ne permetterà uno sfruttamento privo di regole ma si sceglieranno le ubicazioni più favorevoli, più prossime ai boschi e ai fiumi per installarvi delle<br />

ferriere e dove si possano aprire le strade più comode per i trasporti».<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

forniti dalla Balagna e così via. Ma, primo, «col concorso del governo, questo commercio può avvenire in gran parte<br />

attraverso scambi», secondo, «con lo stesso concorso e per mezzo <strong>dei</strong> naturali sviluppi della nostra istituzione, tale<br />

commercio e tali scambi devono diminuire di giorno in giorno riducendosi infine a pochissima cosa» 79 . Rousseau<br />

descrive questo sistema con insolita ricchezza di particolari: in ogni parrocchia (comune) dev’essere istituito un<br />

pubblico deposito o, comunque, un registro in cui siano annotati i prodotti e il bisogno di materie prime. Le parrocchie e<br />

le provincie si scambiano questi registri e il governo può fissare il prezzo di scambio <strong>dei</strong> prodotti 80 . <strong>Il</strong> risultato è che gli<br />

agricoltori non producono più merci per il mercato, ma esclusivamente gli oggetti del loro fabbisogno e quelli che<br />

servono allo scambio diretto con qualche prodotto mancante. Ma poiché gli scambi sono sempre meno comodi e meno<br />

sicuri che il produrre per proprio conto, Rousseau fa assegnamento su un progressivo adeguamento della produzione di<br />

ogni provincia, anzi di ogni parrocchia e fattoria, al fabbisogno locale: «Ognuno si sforzerà di avere in natura e<br />

coltivandole in proprio tutte le cose che gli sono necessarie». L’ideale dell’autarchia locale non si estende però alla<br />

produzione artigiana e manifatturiera, perché in tal caso avremmo già davanti a noi i nostri bravi Montagnons di<br />

Neuchâtel, la cui comunità idillica lo stesso Rousseau considera, invece, solo come un caso fortunato. L’autarchia<br />

dell’agricoltore corso ha e deve avere i suoi limiti. Trattando <strong>dei</strong> piani di politica congiunturale abbiamo già accennato a<br />

un importante passo del Progetto di costituzione per la Corsica in cui Rousseau metteva in relazione il grado di<br />

dipendenza <strong>dei</strong> singoli dal governo con la prosperità delle manifatture: quando la produzione manifatturiera diminuisce,<br />

è segno che gli agricoltori son diventati «troppo indipendenti, troppo selvatici», troppo poco interessati alle cose del<br />

governo. <strong>Il</strong> che significa che solo per lo scambio <strong>dei</strong> prodotti agricoli, manifatturieri e artigianali, il colono (quanto al<br />

resto perfettamente autarchico) ha bisogno della protezione e dell’intervento dello Stato. Poiché, in teoria, l’agricoltore<br />

assolutamente autarchico potrebbe vivere in un regime d’anarchia, Rousseau diventa, qui, infedele al suo ideale<br />

economico e invoca espressamente una sia pur limitata promozione <strong>dei</strong> bisogni, di cui in verità egli dovrebbe<br />

dispiacersi. L’unica spiegazione di questa apparente contraddizione di Rousseau è proprio che egli pensava in modo<br />

troppo realistico per considerare ripristinabile l’estrema autarchia individuale e per contentarsi di un legame puramente<br />

ideale della società civile. Perché, in teoria, sarebbe anzi possibile immaginare, per le famiglie autarchiche <strong>dei</strong> piccoli<br />

coltivatori corsi, una convivenza pacifica e armonica in sommo grado: una comunità siffatta si riunirebbe solo per le<br />

feste comuni e in caso di necessità, per la comune difesa o per la costruzione di opere di utilità generale; quanto al resto,<br />

i suoi membri sarebbero affatto indipendenti fra loro e dallo Stato. I cittadini di questo stato potrebbero — sempre in<br />

teoria — unirsi come puri spiriti in modo libero e perfetto dato che la loro parte materiale rimane, per così dire, al di<br />

fuori e al di sotto della società politica, in un isolamento protetto e autosufficiente.<br />

§ 14. Conclusioni<br />

Era una simile visione d’un mondo contadino prospero senza esser ricco e d’uno stato ricco senza commerci e senza<br />

moneta intenzionalmente volta contro i tentativi di sviluppo commerciale, monetario e minerario che s’andarono<br />

compiendo proprio in quegli anni in Corsica? È molto probabile 81 . Rousseau sente quanto sia debole la concorrenza che,<br />

su questo terreno, l’isola può opporre ai grandi stati che la circondano, alla Francia soprattutto, e cerca perciò un piano<br />

nuovo e diverso su cui porre l’economia e la politica della Corsica. Soltanto con l’isolamento e con la coscienza della<br />

propria singolarità, della propria natura egualitaria e democratica l’isola avrebbe potuto sopravvivere ed affermarsi.<br />

Imitando gli altri si sarebbe perduta. È difficile dire quanto contribuissero a distogliere Rousseau dal proseguire nella<br />

sua esperienza corsa le ragioni personali (timore di muoversi, ansia di fronte alla responsabilità del compito assunto,<br />

sospetti sempre più gravi che i suoi nemici si servissero di questi suoi progetti per renderlo ridicolo di fronte al mondo)<br />

e quanto pesassero invece le contraddizioni politiche interne del compito che aveva voluto assumersi 82 . Che peso avesse<br />

la Corsica nell’animo di Rousseau lo si vide tuttavia ancora, alla fine degli anni ‘60, quando il problema gli tornò di<br />

fronte, in occasione della pubblicazione del suo Discorso sull’eroe del 1750 e dell’invasione francese dell’isola. Non gli<br />

fu difficile constatare che i tagli apportati dall’«Année littéraire», non potevano che essere intenzionali. Come spiegarsi<br />

altrimenti l’omissione del suo «bell’elogio del popolo corso» e dell’elogio «ancora più bello delle truppe francesi e del<br />

loro generale»? 83 . Anche nell’animo suo la rivoluzione isolana era sconfitta ed egli era tornato a guardare con qualche<br />

79 Progetto cit., in ROUSSEAU J.-J., Scritti politici, vol. III, p. 140.<br />

80 Ivi, pp. 141-42: «Vedo che sotto i governatori genovesi, che opponevano mille divieti ed intralci al traffico delle derrate tra una provincia e l’altra, i<br />

comuni creavano <strong>dei</strong> depositi di grano, vino, olio, per aspettare il momento favorevole in cui il traffico era consentito, e questi depositi servivano di<br />

pretesto ai funzionari genovesi per mille odiosi monopoli. L’idea di tali depositi, non essendo una novità, sarà tanto più facile da mettere in pratica e<br />

fornirà per gli scambi un mezzo comodo e semplice per il pubblico e per i privati senza il rischio degl’inconvenienti che ne facevano ricadere gli oneri<br />

sul popolo».<br />

81 In un frammento poi non utilizzato egli scriveva: «I corsi si trovano ancora quasi allo Stato di naturale purezza, ma per conservarli così occorre una<br />

grand’arte, perché i loro pregiudizi tendono ad allontanarli dallo Stato attuale: hanno esattamente ciò che va bene per loro, ma vogliono ciò che non<br />

va bene; i loro sentimenti sono retti; sono i loro falsi lumi che li ingannano. Vedono il falso splendore delle nazioni vicine e bruciano dal desiderio di<br />

essere come loro, perché non ne avvertono la miseria e non si rendono conto di essere infinitamente migliori». Ivi, p. 158.<br />

82 DEDECK-HERY E., Jean Jacques Rousseau et le Projet cit., p. 49 e sgg. Già nella primavera del 1766 la voce correva di questa sua rinunzia. «<strong>Il</strong><br />

celebre Sig. Rousseau a cui i corsi si sono rivolti per ottenere la sua assistenza per formare le loro leggi, — scriveva «The London chronicle» del 5-8<br />

aprile, — ha addotto la sua salute debole e incerta come scusa per declinare l’incarico che avrebbe richiesto un enorme sforzo mentale. Egli,<br />

comunque, è impegnato a scrivere in onore <strong>dei</strong> coraggiosi isolani, trattando la loro storia; riguardo a questo numerosi documenti sono stati raccolti<br />

dall’Abbé Rostini. Ci aspettiamo un grande interesse nel vedere il selvaggio filosofo apparire nei panni di uno storico: la sua straordinaria eloquenza<br />

non potrebbe mai essere maggiormente esercitata che nel trasmettere alla posterità gli annali della Corsica».<br />

83 ROUSSEAU J.-J., Correspondance complète, Genève-Oxford 1980, vol. XXXVII, p. 328, lettera del 12 marzo 1770. L’opera Correspondance<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

simpatia ai programmi di riforma del marchese di Cursay. Ciò non impediva che egli considerasse la recente conquista,<br />

compiuta per volontà del marchese di Choiseul, come una «Iniqua e ridicola spedizione, che offende la giustizia,<br />

l’umanità, la politica, la ragione. Spedizione che, col suo successo, è ancora più ignominiosa, per il fatto che «non<br />

avendo conquistato questo popolo con il ferro, l’ha conquistato con l’oro». Ormai, in Europa, diceva, non esisteva più,<br />

dopo la fine dell’indipendenza corsa, «un altro popolo nato per distruggere, né un altro grande uomo per denigrare il suo<br />

illustre e virtuoso capo». Rivendicava altamente, di fronte al ministro di Luigi XV, la responsabilità del suo tentativo<br />

d’aiutare e appoggiare la Corsica e Pasquale Paoli: «Si saprà che io ho visto il primo popolo disciplinabile e libero in<br />

tutt’Europa quando sembrava ancora un mucchio di ribelli e di banditi; che ho visto germogliare le palme di questa<br />

passione nascente, che mi ha scelto per innaffiarle...che i suoi primi combattimenti furono delle vittorie, che non<br />

potendo più vincerlo, si era dovuto comprarlo?».<br />

Certo Choiseul aveva vinto, era riuscito a sconfiggere insieme i liberi isolani e lui, il solitario Jean-Jacques. Al<br />

momento della conquista dell’isola la sua sensibilità troppo grande, esacerbata dalla sofferenza, aveva a poco a poco<br />

determinato il suo delirio di persecuzione, di cui non si liberò mai per tutta la vita. Credeva di essere in cima all’odio di<br />

Choiseul, odio che attribuiva a un passaggio male interpretato del Contratto sociale 84 ; aveva la debolezza di credere che<br />

Choiseul avesse conquistato la Corsica semplicemente per togliergli l’occasione di legiferare per essa, come afferma<br />

nelle Confessioni: «Avevo sempre sospettato il signor di Choiseul di essere l’autore nascosto di tutte le persecuzioni che<br />

soffrivo in Svizzera... E non credevo di avere in Francia altro nemico potente che il duca di Choiseul» 85 .<br />

<strong>Il</strong> ricordo di Buttafoco, guadagnato dalla corte francese proprio quando Rousseau s’accingeva a scrivere la Costituzione,<br />

continuava a tormentarlo. Si chiedeva se, accettando quell’invito, egli non avesse contribuito in qualche modo alla<br />

rovina <strong>dei</strong> corsi, coll’assicurare a Buttafoco quella fama e quel prestigio di cui questi si era poi servito per indebolire e<br />

scalzare Pasquale Paoli. «La scelta, - diceva, - ha fatto la sua sfortuna (di questa nazione nascente) e la mia» 86 . La<br />

mancata divulgazione del progetto costituzionale di Rousseau lasciò libera la briglia a chi volle tentar d’indovinare<br />

quale sarebbe stata la soluzione da lui proposta del problema corso e suscitò una serie di discordanti interpretazioni del<br />

suo pensiero. Ci fu addirittura chi diede questo progetto per già pubblicato 87 .<br />

<strong>Il</strong> silenzio, la rinuncia di Jean-Jacques erano un invito a tentar di prendere il suo posto, a proporsi come legislatori della<br />

Corsica. Nel 1766 <strong>Dal</strong>mazzo Francesco Vasco intitolava Suite du Contrat social il suo progetto di costituzione per<br />

l’isola e, scrivendo a Rousseau, gli diceva quanto egli avesse cercato d’ispirarsi al suo pensiero. Anche dopo<br />

l’annessione alla Francia, Pommereul venne influenzato da quanto poté filtrare delle idee di Rousseau e cercò<br />

d’indovinarne e discuterne il pensiero. Quanto a Rousseau, ormai vecchio, e stanco di dover girovagare attraverso gli<br />

stati d’Europa per trovare un angolo di pace, rimase profondamente deluso per l’esito della rivoluzione. Nelle<br />

Confessioni ricorderà sempre con emozione il periodo in cui pensava di poter trascorrere gli ultimi anni di vita<br />

sull’isola 88 , ma la coscienza della propria inevitabile fine e il timore di non poter essere veramente d’aiuto ai corsi,<br />

impedirono a Rousseau di poter realizzare questo sogno: «Era chiaro che non avrei più potuto disporre di me stesso, e<br />

che, trascinato, mio malgrado, in un turbine per il quale non ero nato, vi avrei condotto una vita del tutto contraria ai<br />

miei gusti e mi sarei mostrato in maniera a me svantaggiosa. Prevedevo che, sostenendo male con la mia presenza<br />

complète de Jean-Jacques Rousseau è edita da LEIGH R. e pubblicata in 52 volumi (1965-98); contiene circa 7.000 lettere di cui 2.700 scritte dallo<br />

stesso Rousseau. I corrispondenti di Rousseau erano numerosi ed appartenevano a diverse categorie sociali, dai sovrani (Federico II, Gustavo III) e<br />

dagli autori (Diderot, Hume, Buffon, Linnaeus e Voltaire) a uomini di chiesa, dottori, semplici lavoratori ed orologiai.<br />

84 Vedi ROUSSEAU J.-J., Contratto sociale, in Scritti politici cit., libro III, capitolo VI (della monarchia). Rousseau aveva scritto: «Ma se è difficile che<br />

un grande stato sia ben governato, molto più difficile è che sia governato bene da un solo uomo; e ciascuno sa ciò che avviene, quando il re si crei <strong>dei</strong><br />

sostituti. Un difetto essenziale e inevitabile, che metterà sempre il governo monarchico al di sotto di quello repubblicano, è in ciò: che in questo la<br />

designazione pubblica non innalza mai ai primi posti se non uomini illuminati e capaci, che li occupano con onore; là dove quelli che arrivano nelle<br />

monarchie non sono spesso che piccoli imbroglioni, piccoli bricconi, piccoli intriganti, ai quali le piccole capacità, che nelle corti fanno arrivare ai<br />

grandi posti, non servono che a mostrare al pubblico la loro inettitudine, appena vi siano arrivati. <strong>Il</strong> popolo si inganna in questa scelta assai meno che<br />

il principe; e un uomo di vero merito è quasi tanto raro nel ministero, quanto uno sciocco a capo di un governo repubblicano. Così quando, per<br />

qualche caso fortunato, uno di questi uomini, nati per governare, prenda il timone degli affari in una monarchia ridotta quasi all’estremo da queste<br />

masnade di ministri galanti, si resta tutti stupefatti <strong>dei</strong> mezzi che sa trovare; e ciò segna un’era in un paese».<br />

85 ID., Confessions, libro XII, p. 1120.<br />

86 ID., Lettera a Saint-Germain del 26 febbraio 1770. In Correspondance complète cit., vol. XXXVII, 1980, pp. 290 sgg.<br />

87 <strong>Il</strong> redattore di una delle più influenti riviste politiche d’Europa, il Mercure historique et politique, che si pubblicava in Olanda, scriveva nel<br />

settembre del 1765: «Circola a Livorno la copia di un nuovo codice di leggi ad uso degli isolani redatto da Jean-Jacques Rousseau, che dividerà con<br />

Licurgo e Solone la gloria della legislazione. Le lettere aggiungono che queste leggi si fanno ammirare per la loro saggezza e per la loro profondità.<br />

Noi crediamo che per comporle Rousseau avrà intinto la sua penna nel sangue di Dracone. Avrà consultato l’umanità. Senza dubbio le sue leggi<br />

faranno onore alla filosofia». Cfr. «Mercure historique et politique», settembre 1765, pp. 277. Questo periodico continuava ad esprimere la propria<br />

ammirazione per Rousseau anche l’anno seguente (gennaio 1766). Dopo aver esortato i corsi a vivere liberi, «secondo il loro ingegno e le loro leggi»,<br />

dedicandosi ai lavori di pace e non usando delle armi che per difendersi aggiungeva: «Inoltre essi consultino il loro saggio, il grande Rousseau, a cui,<br />

come di costume, la terra non renderà giustizia sufficiente che quando non esisterà più...Potrebbe accadere che Rousseau, prima di recarsi a Londra,<br />

prenderà un giorno la decisione di rifugiarsi dai corsi, i quali, se ciò che abbiamo previsto e che abbiamo riportato si avvera, saranno felici di non<br />

essere secondi a nessun altro popolo e di sottomettersi a lui».<br />

88 «Ma quando le persecuzioni di Môtiers mi fecero pensare di lasciare la Svizzera, questo desiderio si rinnovò con la speranza di trovare finalmente<br />

presso quegli isolani il riposo che non mi si concedeva in nessun posto. Una cosa sola mi spaventava di quel viaggio; era l’inattitudine e l’avversione<br />

che ho sempre avuto per la vita attiva alla quale stavo per essere condannato. Fatto per meditare a mio agio nella solitudine, non lo ero per parlare,<br />

agire, trattare di affari con gli uomini.. la natura che mi aveva dato la prima capacità mi aveva rifiutata l’altra. Tuttavia, sentivo che, anche senza<br />

prender parte direttamente agli affari pubblici, sarei stato costretto non appena in Corsica ad abbandonarmi alla foga del popolo, e a conferire molto<br />

spesso coi capi. L’oggetto stesso del mio viaggio esigeva che, anziché cercare un ritiro cercassi, in seno alla nazione, i <strong>Lumi</strong> di cui avevo bisogno».<br />

ID., Confessions in Œuvres cit., p. 1118.<br />

89


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica<br />

l’opinione di capacità che i miei libri avevano potuto dar loro, mi sarei screditato presso i corsi e avrei perduto, con loro<br />

e con mio danno, la fiducia che mi avevano dato e senza la quale non potevo compiere con successo l’opera che<br />

attendevano da me. Ero sicuro che, uscendo così dai miei limiti, sarei divenuto loro inutile, e che mi sarei reso infelice».<br />

L’esito disastroso della rivoluzione l’aveva ancora più demoralizzato. Non affrontò più il problema della conquista<br />

francese dell’isola se non sporadicamente. L’ultima volta che Rousseau parlò ancora della Corsica fu in una lunga<br />

lettera a M. de Saint Germain, il 26 febbraio 1770, otto anni prima della morte. Tutto era finito, la Corsica era ormai<br />

vinta, annessa alla Francia, Paoli era partito, a sua volta, cercando rifugio in Inghilterra. Non gli restava che difendere le<br />

sue scelte, le sue idee, la sua personalità: del grande sogno di una nazione giovane, potente e libera resteranno solo <strong>dei</strong><br />

frammenti sparsi, l’ultimo <strong>dei</strong> quali è, forse, il più bello e significativo: «Nobile popolo, non voglio darvi leggi<br />

artificiali e sistematiche inventate da uomini, ma ricondurvi sotto le sole leggi della natura e dell’ordine che comandano<br />

ai cuori senza tiranneggiare le volontà».<br />

Figura 32: <strong>Il</strong> trattato di Versailles del 1768 conservato all’Archives Nationales, Paris.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

CAPITOLO 6<br />

IL SISTEMA COSTITUZIONALE DI PASQUALE PAOLI<br />

§ 1. Premessa<br />

<strong>Il</strong> sistema di governo istituito da Pasquale Paoli durante il suo generalato in Corsica ha suscitato opinioni contrastanti. I<br />

filosofi non mancarono d’applaudire l’impresa con la quale gli isolani, durante la ribellione del 1729, erano riusciti a<br />

liberare la maggior parte del loro paese dalla dominazione coloniale <strong>dei</strong> genovesi. Abbiamo appena osservato, inoltre,<br />

quanta influenza avesse avuto nel pensiero politico di Rousseau la fase finale della Rivoluzione corsa e quanta<br />

ammirazione avesse il filosofo ginevrino per il Generale. Ma Rousseau non era affatto isolato: lo scrittore James<br />

Boswell, nel 1765, decise di rendere visita a Paoli, studiò il suo regime e lo descrisse come «il miglior modello che sia<br />

mai esistito nella forma democratica». <strong>Il</strong> giudizio di Voltaire, contemporaneo alla sconfitta di Pontenovo, è più sfumato:<br />

Paoli, uomo di «grandi qualità - scriveva - non chiede mai il titolo di re… Ma lo fugge in maniera diversa mettendosi<br />

alla testa di un governo democratico». Legislatore del popolo per Boswell, reggente costituzionale per Voltaire, Paoli è<br />

piuttosto «un despota che mira alla dittatura», come affermava Pommereul, ufficiale francese che si era informato sul<br />

suo regime durante i combattimenti del 1769. Eppure Pommereul, discepolo <strong>dei</strong> Philosophes, non si esime dal fare<br />

l’elogio della Dieta, assemblea legislativa stabilita da Paoli 1 . La tesi di una democrazia corsa ante litteram, che prevalse<br />

nel corso del XIX secolo, fu messa in dubbio in seguito. Mentre Mathieu Fontana, autore nel 1907 della sola opera<br />

interamente consacrata alla costituzione di Paoli, segue la scia della tradizione boswelliana, storici più recenti tendono a<br />

considerare Paoli come un despota, dichiarato o meno, e a contestare il carattere democratico del suo regime. Altri<br />

ancora non vedono nel suo sistema che un amalgama di istituzioni troppo instabili perché si possa parlare di una<br />

costituzione 2 . Le fonti più importanti sull’argomento sono conservate all’Archivio di Stato di Genova ed all’Archives<br />

départementales de la Corse du Sud, che racchiudono i rapporti sulle sessioni della Dieta, gli atti di votazioni legislative<br />

e numerose corrispondenze amministrative che coprono tutta la durata <strong>dei</strong> tredici anni e mezzo di regime. Informazioni<br />

altrettanto utili provengono dalla raccolta delle lettere di Paoli, che includono diversi documenti di Stato. Non bisogna,<br />

inoltre, trascurare la Cronaca di Ambrogio Rossi, storico della fine del XVIII secolo, che ha usato fonti dell’epoca. Nel<br />

quadro delle conoscenze fino a qui acquisite, le narrazioni-testimonianze di Boswell e di Pommereul prendono un posto<br />

secondario, pur conservando un notevole valore.<br />

§ 2. Proclamazione della Costituzione<br />

Le fonti d’archivio hanno finora attirato poco l’attenzione degli storici corsi e francesi: la scoperta di un documento<br />

originale che annunciava la creazione di un sistema di governo di Paoli è stata accolta con sorpresa. Lunga meno di<br />

dieci pagine, questa lunga lettera è firmata “Pasquale Paoli”. Per Paoli e per i suoi compatrioti si trattava veramente di<br />

un costituzione, come è affermato nella premessa:<br />

La Dieta Generale del populo di Corsica, lecitimamente Patrone di se medesimo, secondo la forma dal generale<br />

convocata nella Cita di Corti sotto li giorni 16, 17, 18 novembre 1755. Volendo, riacquistata la sua libertà, dar forma<br />

durevole, e costante al suo governo riducendoli a costituzione tale, che da essa ne derivi la felicità della nazione 3 .<br />

La sovranità del popolo, «legittimamente Padrone di sé medesimo», è stata dichiarata senza equivoci, sette anni prima<br />

della pubblicazione del Contratto sociale di Rousseau. <strong>Il</strong> popolo sovrano si arroga il diritto di redigere una costituzione<br />

volta ad assicurare il proprio benessere: questa sembra una presa di posizione nuova in assoluto. In effetti, R. R. Palmer,<br />

studioso delle rivoluzioni del XVIII secolo, ma che ignorava il movimento che si manifestava allora in Corsica,<br />

segnalava il popolo del Massachusetts come il primo ad erigere un «potere costituente», quando promulgò la<br />

costituzione del 1780. Le idee esposte in questo testo di Paoli, nel loro contenuto come nella loro forma, sembrerebbero<br />

anticipare di molti decenni i temi rivoluzionari fondamentali americani e francesi. La libertà, come risulta dal termine<br />

“riacquistata”, viene considerata un diritto naturale; la parola “nazione”, intesa qui come l’insieme del popolo sovrano,<br />

sembrerebbe piena di un contenuto rivoluzionario, contenuto che diverrà la regola durante la Rivoluzione francese 4 .<br />

Come è potuto accadere che i corsi, abitanti di un paese isolato, con un’economia e <strong>dei</strong> costumi notoriamente arcaici, si<br />

siano mostrati, in questa occasione, all’avanguardia del pensiero politico dell’epoca? Non c’è alcun dubbio che l’autore<br />

del testo citato sia Pasquale Paoli; e Paoli, come sappiamo, aveva preso conoscenza delle dottrine <strong>dei</strong> filosofi durante i<br />

suoi studi a Napoli, dove aveva accompagnato suo padre durante l’esilio. Se l’influenza del pensiero di Rousseau è da<br />

escludere in ragione delle date delle sue pubblicazioni maggiori, non si può dire lo stesso per Montesquieu, di cui Paoli<br />

aveva portato le opere in Corsica al momento del suo rientro nel 1755, con la speranza di farsi nominare capo degli<br />

insorti 5 . Anche se la lettura di Montesquieu non basta a spiegare il livello giuridico del documento, la costituzione di<br />

1<br />

BOSWELL J., An Account of Corsica cit., p. 161. VOLTAIRE, Précis du siècle de Louis XV, in Œuvres historiques, Paris 1957, p. 1550. (DE)<br />

POMMEREUL F.R., Histoire de l’isle de Corse, Berna 1779.<br />

2<br />

FONTANA M., La constitution du généralat de Pascal Paoli, Paris 1907. Sulla costituzione corsa vedi anche ETTORI F., La révolution de Corse<br />

(1729-1769), in Histoire de la Corse a cura di ARRIGHI P., Toulouse 1971.<br />

3<br />

Siamo debitori a LAMOTTE P., archivista corso, della scoperta di questo documento, così come della copia che abbiamo fornito.<br />

4 e<br />

GODECHOT J., Nation, Patrie et Patriotisme en France au XVIII siècle, «Annales historique de la Révolution française», 43 (1971).<br />

5<br />

«Questi libbri son molto necessari in Corsica», scriveva a suo padre. Cfr. la Lettera di Paoli, allora sull’isola d’Elba, del novembre 1754, in cui<br />

domanda al padre di inviargli le Causes de la grandeur des Romains... e l’Esprit des Lois.<br />

91


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

Paoli è marchiata delle impronte dell’Esprit des Lois: lo si intende dall’estensione <strong>dei</strong> poteri che questi si è dato in<br />

quanto capo dello Stato e soprattutto dalla separazione del potere legislativo e dell’esecutivo in due corpi distinti, ma<br />

interdipendenti. Senza dubbio Paoli è debitore a Montesquieu dello stesso termine di “costituzione”, utilizzato per la<br />

prima volta per designare il sistema di governo. La scelta di questa parola denota la volontà di rompere con il passato, di<br />

mettere un termine al carattere provvisorio delle istituzioni che avevano fino ad allora retto la nazione. Nello spirito di<br />

Paoli si trattava, dunque, di una carta costituzionale che doveva predisporre il sistema politico attraverso le istituzioni<br />

legislative, esecutive e giudiziarie. Detto questo, bisogna ammettere che la lettura del testo originale, dopo<br />

l’impressionante preambolo, è piuttosto deludente. Soltanto un quarto della raccolta è destinato alle istituzioni; il resto<br />

tratta della procedura giudiziaria e della legislazione criminale. La descrizione delle istituzioni, assai sommaria, resta<br />

oscura in certi punti essenziali e non permette una conoscenza più approfondita del regime paolino. Ciononostante, i<br />

poteri accordati a Paoli, così come la struttura dell’esecutivo e della Dieta, sono assai ben dettagliati; non è detto nulla<br />

riguardo alle funzioni legislative e fiscali della Dieta, né della sua composizione, nemmeno una parola che sottolinei<br />

l’originalità, sorprendente per l’epoca, di essere in parte formata da membri eletti con suffragio universale. <strong>Il</strong><br />

documento non può essere compreso a pieno se non viene ricordato che il sistema di cui si tratta non era del tutto<br />

nuovo, né interamente imposto da Paoli. Al contrario, era il risultato di una serie di tentativi d’organizzazione politica<br />

intrapreso sin dai primi anni della ribellione contro i genovesi. Nel 1755, le istituzioni essenziali esistevano già ed erano<br />

funzionanti, sebbene in modo assai confuso ed irregolare. <strong>Il</strong> ruolo di Paoli è stato quello di rimodellarle, di coordinarle<br />

(e in questo contesto il suo compito assume un notevole rilievo), per integrarle in una struttura stabile e coerente. Per<br />

intraprendere questo compito egli si ispira in parte a Montesquieu, in modo che la sua costituzione può essere<br />

considerata come il risultato di una convergenza storica <strong>dei</strong> principi di Montesquieu e delle tradizioni politiche corse.<br />

§ 3. Tradizioni politiche e strutture sociali<br />

Nonostante le continue dominazioni straniere, i corsi avevano conservato e sviluppato le loro tradizioni politiche e<br />

sociali, le cui origini risalivano all’età medievale. L’abitudine alle elezioni era costante presso le comunità rurali:<br />

numerose famiglie, come si è detto, avevano usurpato <strong>dei</strong> privilegi di carattere feudale riuscendo a rendere ereditarie le<br />

funzioni di cui erano state investite, prendendole in virtù di un’antica usanza di capitaneria elettiva. Nel XIV secolo, la<br />

feudalità venne eliminata in una parte dell’isola da una fazione popolare sostenuta da Genova, che sfruttò<br />

quest’occasione per impadronirsi della Corsica. I signori feudali scampati a questa rivoluzione sociale furono eliminati<br />

a loro volta dal governo coloniale, in modo che prima della fine del XVI secolo la nobiltà isolana si trovava da una parte<br />

spossessata, dall’altra ridotta all’impotenza 6 . Affidandosi a Genova, gli isolani avevano cambiato una dominazione<br />

feudale con una dominazione coloniale, anche se i genovesi, arroccati in una decina di città fortificate sul litorale, non<br />

intervenivano che in minima parte nelle questioni rurali, ovvero nella percezione delle imposte e nell’amministrazione<br />

della giustizia di grado superiore. I corsi rimasero fortemente attaccati all’idea di potersi governare autonomamente,<br />

come già facevano, in larga misura, con l’intermediazione <strong>dei</strong> loro rappresentanti. Si videro sorgere, da un periodo<br />

all’altro della storia dell’isola, delle assemblee rappresentative nazionali o regionali, che sembravano riflettere un tipo di<br />

governo sempre presente nello spirito della popolazione. Già nel 1264 (molto prima della conquista genovese), il nobile<br />

Giudice de Cinarca era stato nominato provvisoriamente capo dell’isola e convocava i rappresentanti delle signorie e<br />

delle comunità libere per far loro adottare una forma rudimentale di governo nazionale 7 . Alcuni capi isolani nei periodi<br />

di ribellione e di guerra civile, e talvolta gli stessi genovesi, riunirono nel corso <strong>dei</strong> secoli delle assemblee di questo<br />

genere, conosciute con il nome di consulte o vedute. Queste tendenze mostravano ai capi della rivoluzione del XVIII<br />

secolo la via da seguire nella ricerca di un’organizzazione nazionale. <strong>Il</strong> popolo aveva già una lunga abitudine, sul piano<br />

locale, ad una forma di governo che sarebbe azzardato al giorno d’oggi chiamare democratico, ma che rispondeva ad un<br />

costume ben ancorato di amministrazione elettiva. La nobiltà allora era in piena decadenza; soltanto quattro famiglie<br />

conservavano le vestigia <strong>dei</strong> privilegi feudali, ed una sola, quella degli Istria, disponeva di un feudo di qualche<br />

importanza. Non che le differenze di condizione sociale fossero allora sconosciute: nel corso <strong>dei</strong> centosessant’anni di<br />

“pace genovese”, una nuova fascia di popolazione aveva acquistato autorità e una certa agiatezza. Si trattava <strong>dei</strong><br />

notabili, che i documenti contemporanei designavano come patricii, principali, o più semplicemente migliori. Per la<br />

maggior parte mercanti nelle città, in campagna erano <strong>dei</strong> proprietari terrieri che approfittavano <strong>dei</strong> reali<br />

incoraggiamenti concessi all’agricoltura da Genova e che spesso si arricchivano con l’esportazione <strong>dei</strong> loro prodotti.<br />

Nondimeno questi notabili erano, tra gli isolani, quelli che si sentivano più danneggiati dal regime coloniale, perché<br />

Genova imponeva <strong>dei</strong> monopoli che intralciavano le loro attività commerciali. Come ha mostrato Francis Pomponi, i<br />

notabili rurali si erano accaparrati, a poco a poco nel corso del XVIII secolo, il controllo degli affari comunali. Essi<br />

erano i Capi populo, che menavano il giogo alle elezioni e si arrogavano le cariche principali, in modo che la<br />

concezione primitiva ed egualitaria della comunità si trovava ad essere già alterata. Non bisogna dimenticare,<br />

comunque, che i villaggi che gestivano ancora le terre comunali rappresentavano quasi il 30% della superficie<br />

dell’isola 8 e che lo spirito egualitario era ancora così sentito da colpire gli stranieri che arrivavano in Corsica nel corso<br />

6<br />

Vedi CASANOVA A., Essai d’étude sur la seigneurie banale en Corse cit., p. 19. Per gli avvenimenti, EMMANUELLI R., L’Implantation génoise, in<br />

Histoire de la Corse a cura di ARRIGHI P., cit.<br />

7<br />

DELLA GROSSA G., Cronaca cit., pp. 181-82.<br />

8 e<br />

ALBITRECCIA A., Le Plan Terrier de la Corse au XVIII siècle, Paris 1942, Marseille 1981.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

del XVIII secolo: è il caso, tra gli altri, di Boswell e del conte di Marbeuf 9 . I notabili rurali non erano privi d’istruzione:<br />

come quelli delle città, fornivano alla Corsica medici, uomini di Chiesa e di legge, e quasi tutti avevano studiato nelle<br />

università italiane. Fino allo scoppio della rivoluzione contro Genova, essi furono i creatori dell’organizzazione<br />

nazionale. Si presenta immediatamente un’analogia tra il ruolo <strong>dei</strong> principali nella Rivoluzione corsa e quello della<br />

classe borghese nella Rivoluzione francese, sebbene con notevoli differenze sostanziali. <strong>Il</strong> termine “classe borghese”<br />

non è applicabile alla società corsa, la cui specificità esige un vocabolario ancora da definire. I notabili non formavano<br />

una classe sociale propriamente detta, se proprio si vuole denominare così un gruppo capace di mostrarsi solidale nella<br />

lotta contro gli altri strati della scala sociale. La società isolana era allora divisa piramidalmente in numerosi gruppi,<br />

ognuno con un capo, una famiglia dominante, degli alleati, <strong>dei</strong> dipendenti ed una clientela più o meno importante. Si<br />

trattava di una struttura arcaica, la cui impronta non è mai sparita dall’isola fino ai giorni nostri. Questi gruppi, vere e<br />

proprie potenze territoriali, e che conviene chiamare partiti o clan, vivevano in uno stato di continua rivalità, se non di<br />

ostilità, e riducevano sempre l’efficacia del movimento insurrezionale. Ciononostante, bisogna notare che all’epoca<br />

della rivoluzione non emersero quasi mai segnali di disaccordo tra i notabili e i contadini. Affievolita, certamente, dai<br />

conflitti tra i capi, e diversamente seguita a seconda delle regioni dell’isola, la rivoluzione acquistò forza sufficiente per<br />

far nascere la coesione tra le diverse categorie sociali dell’isola.<br />

§ 4. Cause ed obiettivi della Rivoluzione. Sviluppo di una coscienza nazionale<br />

La rivoluzione scoppiò nel dicembre del 1729 da una rivolta contadina contro l’esazione delle imposte. Dapprima<br />

esitanti, i notabili si unirono con il clero (eccetto i vescovi, tutti conniventi con i genovesi). Numeroso in rapporto alla<br />

popolazione, ma povero, il clero corso non suscitava alcun sentimento d’ostilità in un popolo poco incline a mettere in<br />

dubbio le dottrine religiose. Monaci e preti secolari si segnalavano per la loro dedizione alla causa nazionale. Così, nello<br />

spazio di un anno, il movimento rivoluzionario si trovò organizzato sotto la direzione di due generali: uno nobile, l’altro<br />

notabile, ed un membro del clero, tutti e tre proclamati capi per volontà popolare. Abbiamo già analizzato gli<br />

avvenimenti <strong>dei</strong> quarant’anni di nascita e sviluppo della Rivoluzione corsa: in sostanza, i genovesi persero il controllo<br />

effettivo dell’interno dell’isola sin dalla prima campagna e non arrivarono mai a riprenderlo in modo durevole, mentre<br />

gli insorti non riuscirono mai a prendere possesso delle piazzeforti marittime. In diversi momenti i belligeranti ricorsero<br />

agli aiuti stranieri: i genovesi chiesero l’intervento dell’Imperatore Carlo VI (1731-32), in seguito della Francia (in<br />

maniera intermittente dal 1738), fino a quando non cedettero i loro diritti sulla Corsica a Luigi XV nel 1768. Gli insorti<br />

beneficiarono dell’intervento dell’Inghilterra, della Sardegna e dell’Austria, in seguito alla guerra di Successione<br />

austriaca. Per molto tempo i ribelli furono uniti più dalle lamentele che da un vero programma nazionale. Tutti<br />

reclamavano una diminuzione delle imposte; tutti erano esasperati dalla giustizia debole e corrotta, che ritenevano<br />

responsabile <strong>dei</strong> 900 omicidi commessi annualmente nell’isola e del brigantaggio generalizzato. <strong>Il</strong> malcontento era per<br />

di più aggravato dal dispotismo altezzoso <strong>dei</strong> membri del governo coloniale. D’altro lato, all’interno del movimento, i<br />

differenti gruppi sociali esprimevano delle rivendicazioni eterogenee. I contadini si accanivano soprattutto contro una<br />

fiscalità onerosa; i nobili decaduti domandavano la restituzione degli antichi privilegi e il clero il diritto di accedere alle<br />

alte cariche ecclesiastiche, riservate solo ai nativi di Genova. <strong>Dal</strong>la lettura della Cronica di Ambrogio Rossi, nel 1731,<br />

gli insorti sembrano ripartiti in tre posizioni: quella del partito indipendentista, che mirava a proclamare la Corsica<br />

repubblica indipendente: era la soluzione estremista, che la maggior parte della popolazione considerava irrealizzabile.<br />

Quella del partito protezionista, che voleva assicurare la protezione di un qualsiasi principe straniero per non dipendere<br />

più da Genova. Infine il partito concessionista, che voleva soltanto strappare delle concessioni a Genova, al limite con<br />

le armi. Movimento di decolonizzazione, la Rivoluzione corsa mancò, all’inizio, di una base ideologica. Se Genova<br />

avesse accolto l’insieme di queste rivendicazioni, la società corsa sarebbe potuta diventare più stabile e prospera, ma al<br />

tempo stesso più gerarchizzata: le numerose trattative intraprese con Genova furono un continuo fallimento. La<br />

speranza di trovare una protezione straniera venne ugualmente delusa. La Spagna rifiutò di interessarsi alla Corsica,<br />

mentre la Francia aspettò fino all’ultimo l’offerta di cessione che le venne da Genova soltanto nel 1768. La coscienza<br />

nazionale si sviluppò dietro lo stupore di queste continue delusioni. La soluzione di una repubblica indipendente,<br />

rigettata all’inizio, si presentava ogni volta di più come valida. Ridotti alle loro sole forze, gli insorti si trovarono<br />

obbligati a stabilire un’organizzazione politica per continuare l’azione rivoluzionaria e a creare in fretta una parvenza<br />

d’ordine tra una popolazione già demoralizzata dalla pessima amministrazione giudiziaria di Genova. Ne risultarono<br />

una serie di tentativi di organizzazione nazionale che terminarono nel 1755 con il governo di Paoli. Durante questo<br />

quarto di secolo, che Fernand Ettori descrive giustamente come «il passaggio dalla rivolta alla rivoluzione», le<br />

rivendicazioni <strong>dei</strong> diversi gruppi sociali cambiarono per forza di cose. Così Paoli riuscì a fare accettare un sistema<br />

egualitario nel suo concetto di fondo, borghese nella pratica, che contentava la massa, ma che indispose, a suo<br />

detrimento, la maggior parte <strong>dei</strong> nobili e <strong>dei</strong> notabili.<br />

9<br />

Comandante delle truppe francesi in Corsica, 1764-68, il conte di Marbeuf fu governatore militare dell’isola nel periodo compreso tra il 1770 ed il<br />

1786.<br />

93


LA CORSICA NEL XVIII SECOLO<br />

FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

Figura 33: Ripartizione delle principali zone sociali ed economiche dell’isola nel XVIII secolo.<br />

§ 5. Tentativi d’organizzazione politica: le Consulte<br />

<strong>Il</strong> primo saggio d’organizzazione politica di cui abbiamo testimonianza come documento originale è datato 30 gennaio<br />

1735 10 . L’insieme delle istituzioni adottate in questa occasione non merita certo il nome di costituzione; si tratta, come<br />

precisa Rossi, di un sistema di governo provvisorio, con la finalità di rafforzare l’unione <strong>dei</strong> ribelli e mettere un freno ai<br />

sanguinosi lutti tra le famiglie. Così una legislazione criminale caratterizzata da una grande severità andava di pari<br />

passo con le istituzioni, come sarà poi la regola per la maggior parte <strong>dei</strong> sistemi di governo corsi, compreso quello di<br />

Paoli. L’uso frequente dell’espressione «che s’elegga» all’interno di queste istituzioni non deve ingannare<br />

sull’estensione <strong>dei</strong> poteri <strong>dei</strong> tre generali (uno <strong>dei</strong> quali era Giacinto Paoli, padre di Pasquale) che sono chiamati<br />

Primati. La Giunta di Governo (corpo dotato di funzioni a un tempo legislative ed esecutive) e la Dieta Generale<br />

(assemblea rappresentativa della nazione, munita di poteri fiscali) erano elettive, ma si legge in un altro punto che i<br />

Primati conservavano il diritto di nominare i membri delle due assemblee. Si deve supporre che le elezioni potessero<br />

essere annullate dai Primati. Questo sistema, che ha avuto per risultato quello di confermare l’autorità <strong>dei</strong> generali, fu<br />

comunque approvato dai rappresentanti delle comunità, riunite in Consulta a Corte. Riallacciandosi all’antica pratica di<br />

convocare tali assemblee, i capi della rivoluzione non fecero altro che sviluppare un’istituzione abituale, appropriata<br />

alle circostanze ed in grado di aumentare i loro poteri. Delle Consulte furono convocate durante tutto il periodo <strong>dei</strong><br />

primi venticinque anni di rivoluzione. Rossi ne enumera settanta per quell’epoca, delle quali solo una quarantina<br />

influenzarono realmente l’insieme <strong>dei</strong> territori impegnati nel movimento insurrezionale. La loro frequenza variava a<br />

seconda delle esigenze della situazione politica: più numerose all’inizio della rivoluzione (se ne contano cinque nel solo<br />

1731), alla fine furono convocate al ritmo di due o tre per anno, aumentando notevolmente nei momenti più difficili<br />

della rivoluzione ed interrompendosi quando il paese finì provvisoriamente sotto il controllo delle potenze straniere. I<br />

capi militari indicavano nelle loro convocazioni le categorie di persone che speravano di vedere: erano sempre invitati i<br />

Padri di comune, i Podestà di tanto in tanto; inoltre erano convocati <strong>dei</strong> procuratori, eletti per la circostanza, con il fine<br />

di rappresentare la propria parrocchia e qualcuna delle sessantasette pievi. Potevano essere chiamate in causa almeno<br />

300 parrocchie: una Consulta poteva raggiungere un numero davvero elevato di partecipanti in rapporto ad una<br />

popolazione inferiore ai 100.000 abitanti; Rossi, a questo riguardo, racconta che una Consulta nel 1731 riunì 4.000<br />

persone. Un’assemblea numerosa costituiva un segnale di fiducia per i capi che l’avevano convocata e quindi essi<br />

10 Pubblicato da LAMOTTE P., La declaration d’indipendance de la Corse. Consulte de Corte du 30 janvier 1735, «Etudes corses», 2° trimestre 1954.<br />

94<br />

Prevalenza del sistema signorile<br />

Prevalenza del sistema mezzadrile legato ai commerci<br />

Prevalenza del sistema comunitario agro-pastorale<br />

Prevalenza del sistema mezzadrile legato al grande latifondo


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

incoraggiavano a presentarsi, oltre alle persone appartenenti alle categorie già citate, un numero indeterminato di capi e<br />

buoni patriotti, capi de’ paesi o persone di buon senso e qualità. Si trattava, come si capisce, di potenti e di notabili ed è<br />

probabile che i Podestà, i Padri di comune e i procuratori fossero di condizione assimilabile. Nondimeno le consulte<br />

erano rivestite di una funzione di rappresentanza nazionale nella quale si rifletteva il costume del suffragio accessibile,<br />

in via di principio, a tutti i maggiorenni. Attraverso le consulte furono adottati i sistemi di governo successivi, che<br />

diedero alla Rivoluzione corsa il suo carattere originale. Durante questo periodo difficile, lo spirito d’inventiva politica<br />

degli isolani non venne mai meno. Anche quando Teodoro di Neuhoff, nell’aprile 1736, si fece incoronare re di Corsica,<br />

essi l’obbligarono ad accettare un regime di monarchia costituzionale. Gli fu aggiunto, infatti, un consiglio di<br />

ventiquattro membri, eletti per rappresentare le differenti regioni del paese, in modo da togliergli, di fatto, ogni potere<br />

reale. Teodoro abbandonò la Corsica verso la fine di quell’anno: il suo regno fu seguito da un intervento francese. Nel<br />

1739 gli insorti furono battuti e i loro capi andarono in esilio, compreso Giacinto Paoli, che si ritirò a Napoli con il<br />

figlio Pasquale, allora quattordicenne. I tentativi di organizzazione politica ripresero in seguito con le consulte, ma solo<br />

dopo la partenza <strong>dei</strong> francesi. Diversi sistemi di governo furono adottati successivamente nelle consulte del 1743, 1745,<br />

1746, 1747. Le nuove istituzioni non presentavano che delle minime variazioni: la carica di presidente fu concessa a un<br />

collegio di due o quattro generali (ugualmente chiamati presidenti o protettori); essi erano assistiti da alcuni corpi di<br />

magistrati nominati individualmente dalle consulte. In determinati periodi, essi esercitavano le loro cariche a turno, e lo<br />

stesso valeva per i capi di Stato. Giocando il ruolo di un’assemblea nazionale in modo più evidente e continuo rispetto<br />

alle altre diete e consigli convocati fino ad allora nei diversi regimi, tutti precari, le consulte arrivarono ben presto a<br />

costituire la base di un sistema oclocratico diretto dal notabilato. Non c’è affatto bisogno di sottolineare i difetti di<br />

questo sistema: non era stato previsto alcun meccanismo per rinnovare il personale <strong>dei</strong> governi stabiliti dalle consulte e<br />

tanto meno per convocare le consulte stesse, che restavano l’unica sicurezza della struttura politica della nazione.<br />

Questa struttura, del resto, era rudimentale: c’era una continua confusione tra le funzioni militari e civili, tra il potere<br />

esecutivo e quello giudiziario e mancava un’autorità legislativa definita e riconosciuta. Tuttavia, alla fine del 1752,<br />

dopo un secondo intervento francese e sotto l’impulso del generale Gaffori, fu adottato un altro sistema di governo<br />

nazionale, che non faceva altro che ripetere gli errori precedenti su scala più grande. <strong>Il</strong> potere supremo venne posto<br />

nelle mani di un tribunale, il Consiglio supremo, comprendente 103 membri che esercitavano a turno le loro cariche.<br />

Altri consigli furono investiti di poteri ad un tempo giudiziari ed esecutivi. I tre magistrati furono sottoposti alla<br />

sorveglianza di un corpo di sindacatori, istituzione ripresa dal governo genovese. L’assassinio di Gaffori nel 1753 fece<br />

vacillare il movimento insurrezionale e riportò in Corsica Pasquale Paoli. Prima di tornare, egli propose ai capi una<br />

nuova forma di governo: apparentemente quello che fu adottato da una Consulta composta dai rappresentanti del nord<br />

dell’isola, riunitasi qualche giorno prima del suo sbarco nell’aprile 1755. Essa si distingueva per un’estensione della<br />

pratica elettorale e per l’autorità quasi illimitata accordata ai corpi giudiziari. <strong>Il</strong> paese doveva essere retto da un<br />

consiglio di 72 magistrati, eletti nelle singole province, che, oltre ad esercitare il loro potere, dovevano riunirsi a Corte<br />

due volte all’anno. Le loro decisioni, compresi i giudizi sui delitti, sarebbero state prese a scrutinio segreto. La loro<br />

competenza non poteva essere messa in discussione, salvo nei rapporti con le potenze straniere; in questo caso, non<br />

potevano decidere nulla senza il consiglio di dodici assistenti, chiamati statisti, ed i rappresentanti delle pievi 11 . <strong>Il</strong> 15<br />

luglio seguente, Paoli si fece eleggere Generale Capo. A questa Consulta parteciparono solo sedici pievi. Inoltre si<br />

presentò un candidato rivale, Emmanuele Matra, che non tardò a farsi proclamare generale in una nuova Consulta<br />

riunita con i suoi sostenitori.<br />

§ 6. Creazione della Dieta<br />

Benché si trovasse in una situazione alquanto precaria, Paoli convocò un’altra Consulta nel novembre dello stesso anno:<br />

essa adottò la costituzione del 1755. A questa Consulta, Paoli diede il nome di Dieta generale: con un vero colpo da<br />

maestro egli non solo trasformò la struttura, ma anche il carattere del governo nazionale. Secondo la costituzione il<br />

Generale (vale a dire Paoli) aveva l’obbligo di convocare la Dieta una volta all’anno; in questo modo Paoli elevò a<br />

istituzione l’abituale assemblea nazionale. Con questa mossa, egli si guardò allo stesso tempo con abilità dagli intrighi<br />

di Matra o di altri capi rivali. Infatti, poiché la Dieta, che confermava la sua posizione, era un corpo dello Stato, tutte le<br />

altre consulte convocate dagli altri capi rivestivano, ormai, una forma irregolare e sovversiva. Tanto più che si era<br />

arrogato il diritto, di sua spontanea iniziativa in quanto capo dello Stato, di convocare delle assemblee di altro genere,<br />

congressi generali e particolari. In questo modo egli usò i mezzi più innocui per mettere fuori legge tutti i dissidenti<br />

politici e tutte le consulte convocate senza il suo consenso. Qualsiasi cosa si possa pensare del regime di Paoli, è<br />

evidente che la creazione della Dieta, che instaurava la separazione del potere legislativo e di quello esecutivo, donò al<br />

paese un’organizzazione che, rispetto a quelle precedenti, ben merita il titolo di costituzione. La Dieta ereditò le<br />

funzioni esercitate dalle consulte, vale a dire quelle di decretare le leggi, fissare le imposte e decidere della politica<br />

nazionale. In effetti, i deputati della Dieta erano perfettamente coscienti del loro ruolo tradizionale. <strong>Il</strong> testo di una<br />

risoluzione presa nella sessione del dicembre 1763 si richiamava alle antiche usanze del paese («inerendo alle antiche<br />

costumanze del regno»); le proposte presentate all’assemblea dovevano essere votate a scrutinio segreto («li voti segreti<br />

di tutti i vocali») e a maggioranza <strong>dei</strong> suffragi. Le decisioni prese dovevano essere rispettate come se i membri della<br />

Dieta avessero trattato di affari pubblici nelle loro assemblee parrocchiali: «come se vi fossero intervenuti li medesimi<br />

11 Vedi la lettera di Paoli a suo padre, 20 ottobre 1754, in PERELLI D., Lettres de Pascal Paoli cit.<br />

95


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

Populi con li loro Podestà e Padri del Comune». La Dieta godeva di un’indipendenza sconosciuta alle antiche consulte.<br />

Mentre i generali, un tempo, presiedevano le consulte, Paoli non aveva un seggio nella Dieta; non era che il presidente<br />

permanente di un consiglio esecutivo designato dalla Dieta stessa. D’altronde la Dieta, in quanto legislatura nazionale,<br />

aveva il potere di modificare la costituzione di cui Paoli era stato teoricamente l’autore. Che la costituzione del<br />

novembre 1755 sia stata opera di Paoli non c’è alcun dubbio; nondimeno viene mostrata come un’emanazione della<br />

Dieta, che rappresentava il popolo sovrano. La Dieta decretava l’istituzione del consiglio esecutivo, il Consiglio di Stato<br />

e a quest’ultimo conferiva l’autorità suprema negli affari politici, militari ed economici, e procedeva all’elezione di tutti<br />

i membri.<br />

§ 7. Limiti ed estensioni <strong>dei</strong> poteri di Paoli<br />

Secondo le disposizioni comprese nel regime del 1752, i membri del Consiglio erano numerosi: 36 presidenti e 108<br />

consiglieri, divisi in numero uguale nelle tre camere delle finanze, di giustizia e di guerra. Essi si riunivano due volte<br />

all’anno; nel resto del tempo assolvevano le loro cariche a turno per periodi di un mese per il presidente, e di soli dieci<br />

giorni per i consiglieri. Una tale composizione era concepita per soddisfare le pretese del maggior numero possibile di<br />

ambiziosi e per impedire a ciascuno di essi di prendere troppo potere. D’altronde, se essi non avessero esercitato le loro<br />

funzioni per un periodo molto limitato, secondo la costituzione del 1755, sarebbero stati eletti a vita o sarebbero arrivati<br />

a ergersi a gruppo dominante della nazione. Non sappiamo se furono i timori di Paoli o quelli della Dieta a spingere<br />

l’assemblea a modificare la composizione del Consiglio: nel 1758, esso venne ridotto a 18 membri eletti per sei mesi,<br />

con l’obbligo di risiedere a Corte, per essere poi portato, nel 1764, a 9 membri eletti per un anno. Ridotto e<br />

riorganizzato, il Consiglio di Stato aumentò il suo potere. D’altra parte, secondo Pommereul, da quando fu trasferito a<br />

Corte, subì ancora di più l’influenza di Paoli: egli era stato nominato a vita Generale della nazione. Anche se questo non<br />

era scritto da nessuna parte, era considerato scontato: nel maggio 1764 la Dieta decretò le modalità dell’elezione di un<br />

nuovo generale nel caso in cui il posto fosse vacante per la sua morte, o «in qualunque altra maniera». Questa maniera<br />

non poteva essere che una destituzione pronunciata dalla Dieta. Secondo la costituzione del 1755, Paoli doveva aprire<br />

ogni sessione con un discorso sugli atti del suo governo, per attendere poi «con sottomissione il giudizio del Popolo».<br />

Prendendo autorità dalla Dieta, Paoli dipendeva comunque dalle sue decisioni. In quanto capo generale e presidente<br />

permanente del Consiglio di Stato, i suoi poteri erano determinati con precisione, ma aveva doppia voce nelle<br />

deliberazioni del Consiglio e, in materia di guerra, il suo parere era decisivo. Era poi incaricato personalmente <strong>dei</strong><br />

rapporti con le potenze straniere. Questa importante funzione non è menzionata nel documento del luglio 1755, ma gli<br />

fu accordata, con numerose riserve, alla fine della sua elezione al generalato nella Consulta del 1755. In questa<br />

occasione, fu deciso che Paoli sarebbe stato «capo politico ed economico», ma che non poteva trattare gli affari esteri<br />

senza consultare i rappresentanti della nazione 12 . Facendosi attribuire questi poteri, Paoli si considerava verosimilmente<br />

come un reggente costituzionale, facendo riferimento al monarca descritto da Montesquieu nel suo capitolo sulla<br />

costituzione inglese dell’Esprit des Lois 13 . Secondo Montesquieu, «il potere esecutivo deve essere nelle mani di un<br />

monarca», così come il comando dell’esercito e la politica estera e tutte le «cose che dipendono dal diritto delle genti».<br />

Rossi racconta che i corsi erano soddisfatti della loro costituzione, perché credevano che essa somigliasse non soltanto a<br />

quella di Sparta e a quella della Roma repubblicana, ma anche a quella inglese. Per contro, l’esistenza della Camera di<br />

Giustizia nel seno del Consiglio di Stato è in piena contraddizione con l’opinione di Montesquieu della separazione <strong>dei</strong><br />

poteri, come affermava nello stesso capitolo dell’Esprit des Lois 14 . La Camera di Giustizia era il tribunale supremo<br />

della nazione; solo qui si poteva condannare all’esilio o a morte. Non era soltanto un tribunale: essa rappresentava la più<br />

alta autorità nelle questioni politiche e generali. Come era stato affermato nei documenti del novembre 1755, ciascuna<br />

delle tre camere doveva essere incaricata di una parte essenziale del governo, «cosicché quella del politico si dirà la<br />

Camera di Giustizia». In questo articolo della costituzione, Paoli non faceva che seguire la tradizione politica corsa, ma<br />

di fatto ebbe il controllo <strong>dei</strong> beni e della vita <strong>dei</strong> suoi concittadini. In pratica la Camera di Giustizia non giudicava che i<br />

crimini più gravi. Le altre questioni, di materia penale e civile, erano rimesse a diversi tribunali e magistrati, eletti in<br />

parte dal Consiglio di Stato, in parte dalla Dieta, in parte direttamente dal popolo, e rispetto all’esecutivo avevano una<br />

certa libertà d’azione 15 . Paoli sorvegliava comunque la giustizia ad ogni livello per mezzo del Syndicato. Istituzione<br />

ripresa dal regime del 1752, a un tempo tribunale dell’inquisizione e corte d’appello, il Syndicato venne stabilito, nel<br />

novembre 1755, per permettere alla Dieta di controllare i magistrati e i funzionari. Doveva essere composto dal generale<br />

e da quattro membri designati dalla Dieta. Le testimonianze contemporanee mostrano che il Syndicato, riunito a<br />

intervalli irregolari, funzionava come un tribunale itinerante, pratica che offriva a Paoli delle grandi possibilità per<br />

assicurare il proprio potere su tutta l’estensione dello Stato. I racconti di Boswell e Pommereul concordano<br />

12 Paoli non poteva trattare «di materia di Stato» senza l’intervento <strong>dei</strong> «deputati e rispettivi rappresentanti» (ROSSI A., op. cit., L. X, p. 124).<br />

«Materia di Stato» sarebbe un’espressione poco chiara se non conoscessimo il testo dell’aprile del 1755, dove senza alcun dubbio «materie<br />

appartenenti allo Stato» significa affari esteri: «Dichiariamo per ciò che dovendosi trattar con qualsivoglia Principe di materie appartenenti allo<br />

Stato...».<br />

13 MONTESQUIEU, De l’esprit des lois, in Oeuvres complètes, ed. A. MASSON, Paris 1950-1955, to. 1, pp. 168, 173, 163.<br />

14 «Non c’è affatto libertà se il potere di giudizio non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo» (MONTESQUIEU, op. cit., t. 1, p. 164).<br />

15 La Rota civile, composta di 3 dottori in diritto nominati a vita dal Consiglio; le magistrature provinciali, in cui il presidente era eletto dalla Dieta<br />

per un periodo di 6 mesi. I giudici eletti in ogni pieve dal popolo; i podestà che avevano la funzione di giudici di pace nelle loro parrocchie. Secondo<br />

Boswell, i nobili (cioè quelli che ancora avevano qualche feudo) erano incaricati di esercitare la giustizia nei loro domini, senza la sorveglianza <strong>dei</strong><br />

magistrati provinciali, ma sempre sottoposti all’autorità della camera di Giustizia e del Sindicato. Fu l’unico privilegio che Paoli accordò alla nobiltà.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

nell’affermare che il Syndicato agiva con uno spirito di conciliazione e di clemenza. Tutt’altra cosa era la Giunta della<br />

guerra, tribunale non previsto dalla costituzione del 1755, ma istituito dalla Dieta in tempo di crisi per infierire contro i<br />

traditori e i banditi. I suoi membri percorrevano il paese con pieni poteri, avendo anche il diritto di chiedere l’aiuto<br />

dell’esercito; potevano far rinchiudere in prigione, torturare, confiscare e distruggere i beni del condannato. Lo stesso<br />

diritto di condannare a morte, riservato alla sola Camera di Giustizia, fu aggiunto quando Paoli, già presidente del<br />

Consiglio di Stato, venne nominato presidente anche di questa giunta. Così nel maggio 1762, la Dieta ordinò la<br />

creazione di un Giunta della guerra, con Paoli presidente, «con la facoltà di procedere sino alla pena di sangue contro i<br />

sediziosi e perturbatori della pubblica quieta». Se un simile tribunale poteva essere giustificato in tempo di guerra è<br />

perché in realtà forniva a Paoli un formidabile strumento di dittatura. Era con questa terribile giunta, secondo<br />

Pommereul, che Paoli annientava i suoi antagonisti, all’epoca numerosi e minacciosi. Infatti, durante i primi otto anni<br />

del suo regime, aveva dovuto lottare contro <strong>dei</strong> nemici dichiarati: nel nord dell’isola c’era la fazione di Matra, aiutata da<br />

Genova, che si opponeva con le armi in pugno; nel sud quella di Antonio Colonna, nobile sostenuto dai francesi, che<br />

riuscì a riunire un partito filo-genovese nella Consulta del 1758. Soltanto alla fine del 1763 Paoli riuscì a sconfiggere<br />

questi gruppi ostili, in concomitanza con la cacciata <strong>dei</strong> genovesi dal Capo Corso e dalle loro ultime roccaforti, fatta<br />

eccezione, come già sappiamo, per le città costiere.<br />

Figura 34: Antica mappa del 1766 di Louis Brion de la Tour.<br />

§ 8. Paoli e la Dieta: Composizione dell’assemblea<br />

Le testimonianze contemporanee portano a credere che a partire dal 1763, da quando era riuscito ad assicurare la<br />

propria posizione e a consolidare la liberazione dello stato, Paoli si fosse impegnato a dominare la Dieta. Una volta<br />

definiti i poteri della costituzione, egli la utilizzò per assicurare i propri. Paoli si trovò così ad aver creato un’istituzione<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

assolutamente eccezionale e con un enorme potere, che in seguito venne ridotto. La Dieta corsa era eccezionale per la<br />

sua stessa esistenza: infatti nessun paese d’Europa era dotato, allora, di una legislazione con un carattere di<br />

rappresentanza nazionale. I suoi poteri erano notevolmente estesi: essa decretava le leggi e fissava le imposte, come<br />

faceva il Parlamento inglese: ma dato che le decisioni di quel parlamento erano sottoposte alla volontà del re, la Dieta<br />

disponeva di una libertà ancora maggiore. Essa designava i capi dell’esecutivo, mentre in Inghilterra la nomina <strong>dei</strong><br />

ministri apparteneva al monarca. Inoltre, secondo la costituzione corsa, la Dieta aveva un potere di censura e di<br />

destituzione verso qualsiasi membro dell’esecutivo, Paoli compreso. In quanto corpo dello Stato rappresentante la<br />

nazione, la Dieta (secondo le disposizioni della Consulta del luglio 1755), poteva esercitare, almeno in teoria, un<br />

controllo sulla politica estera. Non sorprende, quindi, che Pommereul, preso dal culto contemporaneo per la libertà,<br />

parlasse con entusiasmo di questa assemblea: «in essa risiede pienamente e senza limitazioni il potere legislativo e il<br />

potere sovrano» a differenza degli Stati generali d’Olanda e del Parlamento inglese, che ai suoi occhi non erano che<br />

delle «barriere contro il potere assoluto». Senza dubbio Pommereul non aveva considerato l’influenza che il parlamento<br />

inglese aveva preso sull’esecutivo con la “scappatoia” del ministro di Gabinetto. E verosimilmente ignorava la<br />

contemporanea costituzione della Svezia, dove il Rikstag possedeva gli stessi poteri della Dieta corsa e nominava<br />

anch’esso i membri del consiglio esecutivo ed in cui il re, come Paoli, non era che il presidente, con una doppia voce<br />

nelle sue deliberazioni 16 . L’aspetto più liberale ed originale della Dieta corsa risiedeva nelle elezioni attraverso cui il<br />

popolo si faceva rappresentare. Durante tutta la durata del regime, non fu richiesta alcuna particolare qualità agli elettori<br />

e agli eletti, se non quella di avere più di venticinque anni 17 . Questo principio era la continuazione di una antica<br />

abitudine praticata attraverso i secoli nell’amministrazione delle parrocchie. Nell’Europa di quell’epoca, pertanto, una<br />

tale organizzazione appariva come una sorprendente novità. Nessuno aveva ancora progettato, in nessun paese,<br />

l’elezione <strong>dei</strong> membri di una legislatura nazionale con suffragio universale. Le assemblee che esistevano allora erano<br />

elette e controllate da alcuni settori ristretti e privilegiati della società. Né il parlamento inglese né il Rikstag svedese<br />

sfuggivano a queste regole. È stato detto che la Dieta derivava la sua struttura dalle consulte, ma non è stato detto nulla<br />

circa la sua composizione nel documento del novembre 1755; era evidente che i membri dell’assemblea nazionale<br />

sarebbero stati reclutati nello stesso modo che nel passato. Ora, nonostante queste abitudini tradizionali, i membri eletti<br />

dal popolo non erano più i soli a partecipare alla Dieta. Paoli, conformemente alle prerogative esercitate dai suoi<br />

predecessori, si riservò di convocare altre categorie di persone. Così nel maggio del 1762, invitò i presidenti e i<br />

consiglieri delle magistrature provinciali a riunirsi nella successiva sessione della Dieta, ed ugualmente fece per i<br />

commissari delle pievi 18 ; questi ultimi erano <strong>dei</strong> comandanti militari che erano stati designati dal Consiglio di Stato,<br />

vale a dire, di fatto, da lui. A partire dal 1763, invitò il clero a partecipare alla Dieta; nella sua lettera di convocazione<br />

del gennaio dello stesso anno, fece convocare i vicari foranei e i pievani (preti che avevano autorità nelle singole<br />

pievi) 19 . In seguito il clero ebbe il suo specifico sistema rappresentativo, in ragione del quale aveva la possibilità<br />

d’inviare alla Dieta 136 membri. Lo stesso Rossi non si faceva illusioni riguardo ai motivi che spinsero Paoli a dare al<br />

clero una voce così potente nell’assemblea: accettava le richieste che gli venivano fatte per renderli docili. In effetti, il<br />

clero si piegava alle esigenze dello Stato acconsentendo ad una contribuzione finanziaria generosa. La Chiesa corsa fu<br />

per Paoli un’alleata sicura ed egli non si era fatto alcuno scrupolo nell’usurparne i privilegi. Molto prima che il clero<br />

fosse ammesso alla Dieta, l’assemblea aveva decretato una legge per sottometterlo al diritto comune 20 . Anche se non<br />

sedeva di persona nella Dieta, Paoli aveva comunque i mezzi per influenzarla. <strong>Il</strong> suo discorso d’apertura all’inizio di<br />

ogni sessione, in cui doveva rendere conto del suo operato come capo del governo, gli forniva l’occasione d’inserire<br />

all’ordine del giorno le questioni che considerava più urgenti: la creazione di una moneta, di una marina, di<br />

un’università, così come le modificazioni da apportare alla costituzione. Per imporsi aveva bisogno di una maggioranza<br />

sicura e fedele. È per questo motivo, senza dubbio, che egli convocò il clero, docile e patriota, i commissari, che gli<br />

erano debitori del loro compito, e diversi membri dell’esecutivo e del giudiziario sui quali, lo si può pensare, esercitava<br />

una certa influenza. In compenso sembrava che Paoli cercasse di ridurre il numero degli eletti dal popolo. Questo risulta<br />

già dalle lettere di convocazione del maggio 1762 e del gennaio 1763: il generale non invitava i rappresentanti delle<br />

parrocchie, in numero di trecento e più, ma quelli delle sessantasette pievi 21 . Questi ordini verosimilmente non furono<br />

seguiti, tanto che nel dicembre 1763, la Dieta, riunita per la seconda volta durante l’anno, in sessione straordinaria,<br />

decretò una legge per limitare, per l’avvenire, i rappresentanti del popolo a uno per pieve, scelti a sostegno delle<br />

elezioni di secondo grado. Paoli aveva convocato in questa sessione non soltanto le categorie di persone che avevano<br />

partecipato alle sessioni precedenti, ma anche i Podestà e i Padri di comune di ogni parrocchia. Gli eletti dal popolo,<br />

anche se tutte le parrocchie avevano inviato i loro procuratori, si sarebbero dunque trovati in minoranza. Tenerli in<br />

16<br />

Vedi SVANSTROM M. e PALMSTIERNA C., A short History of Sweden, Oxford 1934, pp. 189-253. <strong>Il</strong> Rikstag era composto da quattro stati, in cui uno<br />

rappresentava i contadini. I nobili non erano mai eletti, ma assistevano di diritto alle sedute; essi predominavano al consiglio esecutivo, come anche<br />

nel Comitato segreto, organo potente nel seno del Rikstag, dove i contadini erano esclusi.<br />

17<br />

Non si può sapere con sicurezza se questa regola, che non figura in nessuna legge, si applicava agli elettori come agli eletti. Paoli precisò, in una<br />

lettera circolare di convocazione della Dieta del 1764, che i procuratori dovevano essere «uomini che siano maggiori di anni 25 finiti», ma non<br />

spiegava se questa specifica età fosse richiesta agli elettori.<br />

18<br />

Lettera circolare del 16 maggio 1762, Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7.<br />

19<br />

Lettera circolare del 7 gennaio 1763, ibidem.<br />

20<br />

ROSSI A., Osservazioni storiche sopra la Corsica cit., XI, p. 71. <strong>Il</strong> clero fornì <strong>dei</strong> metalli provenienti dagli oggetti di culto ecclesiastici per il conio<br />

delle monete.<br />

21<br />

Lettere circolari del 16 maggio 1762 e 7 gennaio 1763, Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

minoranza in maniera permanente era lo scopo della legislazione che fu allora adottata dall’assemblea 22 . Se la nuova<br />

legge fosse stata rispettata, gli eletti del popolo sarebbero stati ridotti a sessantasette, numero veramente insignificante<br />

in confronto a quello del clero, a cui erano state aggiunte altre persone che potevano sedere nella Dieta. Ma questa legge<br />

non fu rispettata. Boswell e Pommereul si accordarono nell’affermare che le parrocchie oltrepassavano la legge<br />

continuando ad inviare alla Dieta ogni loro rappresentante eletto a suffragio diretto. Inoltre, allo stato attuale, non è stato<br />

ritrovato un solo documento concernente l’elezione di un procuratore di una pieve al secondo grado, anche se le<br />

attestazioni delle elezioni <strong>dei</strong> procuratori delle parrocchie sono numerose negli archivi corsi. Si può immaginare che la<br />

nuova legge sia stata male accolta, a giudicare dal procedimento piuttosto contorto, usato da Paoli per presentarla alla<br />

convocazione della sessione della Dieta del maggio 1764. Egli non fece parola, nella sua lettera circolare, delle elezioni<br />

<strong>dei</strong> rappresentanti di pievi, ma invitava ogni parrocchia e viceparrocchia a procedere all’elezione di un procuratore,<br />

spingendo ogni cittadino a votare con il rischio di incorrere in un’ammenda. <strong>Il</strong> procuratore doveva essere munito <strong>dei</strong><br />

poteri prescritti in un formulario stampato, aggiunto alla lettera di convocazione 23 . Si tratta di un documento di più di<br />

mille parole, redatto in forma di attestazione notarile, in vista dell’elezione del procuratore di una parrocchia. Questi era<br />

autorizzato ad assistere alla Dieta, dove aveva il potere di «suggerire, insinuare, dire, proporre, domandare, rispondere,<br />

opporre o contraddire tutti ciocchè stimerà buono, espediente utile, o necessario per lo suo Populo, Comunità ed<br />

Università, ed uomini della medesima, e per tutto il Comune del regno e nazione tutta» 24 . <strong>Il</strong> repertorio delle sue funzioni<br />

era costituito da altre 500 parole, costituendo un’esposizione completa delle funzioni della Dieta. Solo verso la fine del<br />

documento si legge che il procuratore, munito di tanti poteri e responsabilità, aveva anche l’autorità di riunirsi con gli<br />

altri della sua pieve per eleggere uno o più procuratori rappresentanti la pieve intera. La nuova legge non venne quindi<br />

presentata come un ordine, ma come un invito ad esercitare un nuovo potere ed era già stata modificata per permettere<br />

l’elezione di più procuratori rappresentanti della pieve. I procuratori eletti nelle parrocchie erano, in effetti, muniti di<br />

queste attestazioni; negli archivi corsi se ne trovano circa trentaquattro per l’anno 1765. La maggior parte di esse (ma<br />

non tutte), fanno menzione del diritto che aveva l’eletto di procedere all’elezione di uno o più procuratori per<br />

rappresentare l’intera pieve; tuttavia non è stato ancora trovato alcun documento che permetta di supporre che una tale<br />

elezione al secondo grado sia mai avvenuta. Mancano le informazioni per sapere quali motivi o circostanze abbiano<br />

potuto ispirare una nuova legge elettorale nel 1766. Comunque la Dieta di quell’anno decretò un regolamento che ha<br />

cambiato radicalmente la maniera di eleggere i procuratori nelle parrocchie. Per comprendere questo sistema alquanto<br />

complicato, e che Rossi riporta in modo inesatto, è necessario risalire al documento originale conservato all’Archives di<br />

Ajaccio. Attraverso lo studio di questo documento si può affermare che la libera scelta tradizionale <strong>dei</strong> procuratori era<br />

stata abolita. Ormai, in ogni parrocchia, i candidati, in numero di tre, venivano proposti agli elettori dal Podestà e dai<br />

Padri di comune. Allo stesso tempo, era stato abolito il suffragio universale: solo i capifamiglia avevano diritto di voto.<br />

Ciascuno di essi votava, con scrutinio segreto, a favore o contro uno <strong>dei</strong> tre candidati. Sarebbe stato eletto quello<br />

riportava più <strong>dei</strong> due terzi <strong>dei</strong> suffragi. Se, al contrario, ciascuno <strong>dei</strong> tre non otteneva la maggioranza <strong>dei</strong> due terzi,<br />

doveva avere luogo un’altra elezione, per la quale i candidati venivano proposti dai capi delle famiglie. Se qualcuno <strong>dei</strong><br />

tre candidati così scelti otteneva una maggioranza di due terzi, la parrocchia sarebbe stata privata della rappresentanza a<br />

quella sessione della Dieta, «pena della disunione in cui vive». L’esame delle 248 attestazioni delle elezioni <strong>dei</strong><br />

procuratori alla Dieta del 1768 indica che questo sistema, in generale, non era stato ben seguito. Solo cinque di esse<br />

precisano in modo chiaro ed indiscutibile che le elezioni si erano svolte secondo le prescrizioni della nuova legge.<br />

Notiamo che queste non menzionano in nessun modo il diritto <strong>dei</strong> procuratori di procedere ad un’elezione, al secondo<br />

turno, <strong>dei</strong> rappresentanti delle loro pievi. La legge elettorale del 1766 diede scacco a quella del 1763 25 . Si deve supporre<br />

che Paoli avesse rinunciato al disegno di ristringere il numero degli eletti. È pertanto difficile capire le ragioni che lo<br />

hanno potuto spingere a formulare la legge elettorale del 1766, ammesso che egli ne fosse l’autore. Gli scopi della<br />

nuova legge potevano essere: la concessione della scelta <strong>dei</strong> candidati a uomini abituati a trattare gli affari pubblici, la<br />

limitazione del suffragio ad elettori con la facoltà di un giudizio ponderato o l’assicurazione che lo scrutinio, ormai<br />

segreto, si svolgesse secondo un ordine rigoroso. Le nostre conoscenze del sistema elettorale corso e della politica di<br />

Paoli consentono di trarre anche altre conclusioni: limitare il voto ai soli capifamiglia era un modo per impedire alle<br />

famiglie composte da molti membri maschi d’imporsi alle elezioni; era un fatto impensabile, in Corsica, che un figlio<br />

votasse diversamente dal padre. In questo modo Paoli poteva difendersi dalle ambizioni delle famiglie numerose, o<br />

secondo l’espressione corsa, «ricche in uomi». Stabilire lo scrutinio segreto era un altro modo per frenare la loro<br />

influenza nelle elezioni. Allo stesso tempo, la scelta <strong>dei</strong> candidati al primo turno era messa nelle mani degli ufficiali<br />

municipali, persone sulle quali Paoli aveva la possibilità di esercitare qualche pressione. Insomma, si può pensare che la<br />

legge del 1766 sia stata approvata per fare da contrappeso alle ambizioni <strong>dei</strong> clan locali.<br />

22<br />

Lettera circolare, 29 novembre 1763, ibidem. In questa stessa sessione fu accordato ai magistrati provinciali il diritto d’eleggere i loro propri<br />

rappresentanti nella Dieta.<br />

23<br />

Un esemplare di questo formulario si trova all’Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7.<br />

24<br />

Lettera circolare del 29 marzo 1764: Formulario della scrittura Da Stendersi di ciascheduna Parrocchia, e Vice-Parrocchia per costituire li Sindici<br />

e Procuratori di essi.<br />

25<br />

Rapporto della Dieta del maggio 1766. «Mentre soffre per la disunione nella quale vive». Le disposizioni della legge del 1766 non erano senza<br />

precedenti nei costumi locali tradizionali; le elezioni nelle assemblee parrocchiali, d’altro canto, potevano essere valide agli occhi degli<br />

amministratori genovesi, dovendo essere fatte dai due terzi della popolazione: in certi villaggi votavano solo i capifamiglia. Cfr. Archives<br />

départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C8.<br />

99


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

§ 9. Elettori ed eletti<br />

Chi veniva eletto alla Dieta, e da chi? Le risposte a queste domande potrebbero chiarirci le idee sugli intrighi di Paoli e<br />

dare un’immagine più esatta al carattere del suo governo. Come prime testimonianze abbiamo le attestazioni elettorali<br />

conservate all’Archives départementales de la Corse du Sud (Ajaccio); se ne possono contare 34 per l’anno 1765 e 248<br />

per il 1768. L’analisi dettagliata di questi documenti, tenuto conto <strong>dei</strong> dati provenienti da altre fonti, fornisce delle<br />

chiarificazioni sulla condizione sociale degli eletti e degli elettori, permettendo di comprendere, relativamente ad alcune<br />

zone, in quale proporzione la popolazione si servisse del diritto di voto. Quello che stupisce all’inizio della lettura delle<br />

attestazioni, è il numero ristretto di persone che sembrano aver partecipato alle elezioni. Conviene evidentemente<br />

considerare con riserva i documenti del 1768, quando il voto era limitato ai soli capifamiglia, anche se non sono state<br />

rinvenute fonti che attestino il rispetto effettivo di questo regolamento. Secondo il formulario distribuito da Paoli nel<br />

1764, il procuratore di una parrocchia doveva essere nominato nel corso di una riunione composta dal Podestà, dai<br />

Padri di comune, «e con essi tutti del detto luogo... le quali compongono la maggior parte, e quasi tutta la Comunità».<br />

Quando arriviamo ad esaminare le attestazioni, troviamo molto spesso che i nomi del Podestà e <strong>dei</strong> Padri di comune<br />

(qualche volta designati come “i nobili”), sono seguiti da un piccolo numero di persone che avevano un’importanza<br />

ufficiale o sociale in seno alla comunità, o una descrizione collettiva di quelle persone che pretendevano di comporre la<br />

maggior parte della comunità. Tanto che, nel 1765, sono menzionati a Pino, con i loro nomi, otto anziani (ufficiali<br />

municipali), e a Canari sei; a Casaglione è una questione di “capi populi”, a Morosaglia <strong>dei</strong> “sign. di consiglio sindici”<br />

(membri di un consiglio municipale). Anche se si trattava soltanto di formule stereotipate, possiamo supporre che si<br />

trattasse realmente di una assemblea parrocchiale plenaria, come a Moriani, dove sono «radunati tutto il Populo e<br />

homini». In aperto contrasto, bisogna citare Sartena, città che contava allora circa 800 abitanti, dove solo due anziani,<br />

con il notaio e i suoi testimoni, dichiaravano di aver costituito il procuratore della città. Probabilmente il popolo, in<br />

principio, si era disinteressato delle elezioni, o lasciava nominare i suoi rappresentanti dagli ufficiali municipali e da<br />

qualche nobile. I documenti in questione, si ricorda, non sono <strong>dei</strong> processi-verbali sullo svolgimento delle elezioni, ma<br />

delle attestazioni che «tali persone sono state elette». Ufficiali municipali, notai, testimoni, notabili, assistevano dunque<br />

alla registrazione di una scelta: non veniva detto che erano i soli a farla. Secondo la formula prescritta da Paoli nel 1764,<br />

questa selezione è sempre descritta come unanime: il procuratore viene eletto a unanime consenso. Non viene mai fatta<br />

menzione <strong>dei</strong> candidati rivali, o di una qualsiasi opposizione (salvo, beninteso, in quei documenti che riflettono la legge<br />

elettorale del 1766). Le attestazioni, nella maggior parte <strong>dei</strong> casi, si presentano dunque come testimonianze della fase<br />

finale delle discussioni che avevano portato alla scelta di un rappresentante. Fino al 1766, sembra che seguendo l’antico<br />

costume delle assemblee parrocchiali, il voto sia stato fatto per acclamazione. La legge del 1766 introdusse lo scrutinio<br />

segreto: nelle attestazioni <strong>dei</strong> villaggi dove i regolamenti sono stati pienamente rispettati, si trova menzionata, per la<br />

prima volta, l’urna. Si votava a favore o contro i candidati con <strong>dei</strong> biglietti bianchi o neri, come è indicato a Corte e a<br />

Fozzano. Queste due comunità fornivano delle cifre precise riguardo al numero <strong>dei</strong> votanti. A Corte 11 capifamiglia si<br />

erano recati alle urne. Un censimento fatto nel 1768, durante l’occupazione francese, permette di constatare che esisteva<br />

oltre il 50% di astensione al voto, dato che questa città di 1369 abitanti contava allora 229 capifamiglia maschi. A<br />

Fozzano, i 75 votanti indicati nell’attestazione del 1768 corrispondevano esattamente al numero di fuochi segnalati<br />

nello stesso censimento. Le attestazioni nel 1768 di altri villaggi che fornivano delle indicazioni sulle modalità del voto,<br />

mostrano la lista nominativa degli elettori, il cui numero non era affatto in rapporto con quello <strong>dei</strong> capifamiglia censiti<br />

un anno dopo. Ad Algajola votarono 40 uomini, nonostante ci fossero nel 1769 solo 32 capifamiglia; a Castifao una<br />

cinquantina, mentre i capifamiglia erano 70; a Zicavo, capoluogo della pieve di Talavo, con 125 capifamiglia e 686<br />

abitanti, nelle attestazioni elettorali si trovano soltanto i nomi di 14 persone, oltre agli ufficiali municipali, che<br />

dichiaravano di essere «la più e migliore e maggior parte, e quasi tutta la comunità». Nello stesso tempo, sette piccoli<br />

villaggi <strong>dei</strong> dintorni si unirono per eleggere i propri procuratori servendosi di un solo notaio; non si trattava<br />

dell’elezione di un rappresentante della pieve, ma di una unione di convenienza, conclusa verosimilmente per limitare le<br />

spese notarili. Ciascun villaggio inviava «nel luogo detto Tiga», i Podestà e i Padri di comune e almeno le comunità più<br />

importanti, una o due altre persone. Si può supporre che essi costituissero i loro procuratori secondo una scelta<br />

prestabilita nelle loro parrocchie e non è da escludere che il popolo influì più sulle elezioni di quanto appare, a prima<br />

vista, nelle attestazioni notarili. Tra gli eletti si riscontrano molti nomi di famiglie ben conosciute nella storia dell’isola,<br />

e appartenenti ad alcune classi della società costituite da nobili decaduti e da notabili ambiziosi. La maggior parte di<br />

queste famiglie riuscirono a farsi attribuire <strong>dei</strong> titoli nobiliari in seguito alla conquista francese. A Sartena fu eletto un<br />

Petri, a Olmeto un Peretti, a Zerubia un Susini, a Santa Maria d’Ornano un discendente della celebre famiglia di<br />

feudatari di quel luogo. Un Muraccioli fu eletto a Vivario, un Savelli a Cateri. A Corte, nel 1768, Francesco Gafforio<br />

riportò la maggioranza <strong>dei</strong> voti; figlio del generale capo <strong>dei</strong> patrioti assassinato nel 1752, abbandonò Paoli in seguito<br />

all’invasione francese e si segnalò come realista durante la Rivoluzione. Uno <strong>dei</strong> suoi antagonisti nell’elezione di Corte<br />

fu un Arrighi, membro di una famiglia che divenne illustre sotto l’Impero nella persona del duca di Padova, parente di<br />

Napoleone. Nello stesso 1768, i pastori di Casamaccioli, villaggio su un altopiano, scelsero come loro procuratore un<br />

certo Sansone Ordioni, «uno <strong>dei</strong> migliori di detto luogo», il cui discendente fu generale e barone dell’Impero. Che i<br />

notabili fossero predominanti nella Dieta era una cosa quasi inevitabile. Le parrocchie, senza dubbio, giudicavano<br />

importante farsi rappresentare da persone istruite, che facessero buona impressione all’assemblea, e che fossero capaci<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

di sopportare le spese della loro carica: era necessario, infatti, che i deputati riuscissero a pagare la spesa del viaggio a<br />

Corte ed il soggiorno nella capitale, che poteva durare anche tre settimane, come previsto nella sessione del maggio<br />

1764. In questa occasione Paoli ebbe bisogno di ricordare ai procuratori che loro dovevano sopperire ai loro bisogni<br />

personali senza contare sull’ospitalità della città. Fu comunque permesso loro di farsi rimborsare dalle rispettive<br />

comunità alcune spese, ma non quelle relative alle guardie del corpo, ai pedoni e fucilieri, che potevano portare a Corte.<br />

Boswell affermava che il sussidio <strong>dei</strong> procuratori era fissato a una lira al giorno, che si rivelò insufficiente sin<br />

dall’inizio: questa somma era infatti il salario normale di un bracciante 26 .<br />

§ 10. Paoli contro la Dieta<br />

Leggendo i testi relativi alle elezioni, notiamo che i notabili erano proprio le persone che Paoli desiderava vedere nella<br />

Dieta. <strong>Il</strong> testo della legge elettorale del dicembre 1763 incitava il popolo a scegliere come procuratori i cittadini che non<br />

soltanto erano i più illuminati e zelanti, ma anche i più facoltosi; questi stessi ordini sono ripetuti, a più riprese, in<br />

termini quasi identici, nella lettera attraverso la quale Paoli convocò la sessione della Dieta nel marzo 1764. <strong>Il</strong> testo<br />

della legge del 1766 insiste ugualmente sulla necessità di scegliere <strong>dei</strong> procuratori illuminati, pieni di zelo, e oltretutto<br />

ben visti; c’era ancora un’allusione ai migliori. I risultati delle elezioni sembravano dunque ben rispondere alla volontà<br />

del capo dello Stato 27 . Comunque, egli si muoveva su un campo disseminato di mine. Se trovava tra i notabili qualche<br />

collaboratore di valore, doveva sempre attendersi che qualcuno di loro gli si rivoltasse contro, utilizzando la propria<br />

famiglia e i propri alleati. Nobili e notabili gli erano stati contrari nei primi anni del suo regime e alcuni di essi lo<br />

tradirono durante l’invasione francese. In quel frangente bisognava capire che il malcontento era cresciuto: i nobili, che<br />

avevano sperato di riacquistare gli antichi privilegi durante la rivoluzione antigenovese, si trovarono al contrario<br />

sottoposti ad un regime a carattere democratico; i notabili, privati della libertà di commercio, trovarono i migliori porti<br />

dell’isola nelle mani <strong>dei</strong> genovesi, che tra l’altro mantenevano il blocco navale. Senza dubbio la verità è nella<br />

confessione che fece Paoli, nel 1769 dopo la sua sconfitta, a Saverio Bettinelli, come testimonia una sua lettera: «…non<br />

è mai stato padrone in Corsica ed ha sempre avuto attorno a sé le gelosie derivate dalla sua gloria e dalla sua autorità» 28 .<br />

Queste gelosie appartenevano precisamente alla categoria della popolazione che forniva i membri eletti alla Dieta; e la<br />

Dieta, non va dimenticato, aveva il potere di destituire il capo dello Stato in qualsiasi sessione. Visti i pericoli che<br />

rappresentava la Dieta per Paoli, non è strano che egli tentasse apertamente e subdolamente di ridurre il potere di questa<br />

assemblea. Anche quando la Dieta si riunì nel maggio 1764, Paoli l’attaccò frontalmente domandando di accordare al<br />

Consiglio di Stato un diritto di veto. Secondo Pommereul, egli avrebbe all’inizio domandato il diritto di veto assoluto,<br />

che avrebbe avuto l’effetto di «renderlo sovrano»; ma questo proposito, sempre secondo Pommereul, fu vivamente<br />

contrastato dall’assemblea. Essa comunque finì per adottare un progetto modificato con il diritto di veto sospensivo.<br />

Anche Boswell ha parlato di un veto sospensivo, affermando che questa proposta riscontrò un’opposizione tale che<br />

dubitava sarebbe stata mai accettata. Secondo la legge che fu alla fine promulgata, una “risoluzione” della Dieta per<br />

avere forza di legge doveva ottenere i due terzi <strong>dei</strong> voti dell’assemblea e l’approvazione del Consiglio di Stato. In caso<br />

di rifiuto la risoluzione poteva comunque essere riconsiderata, dopo che il Consiglio aveva spiegato le ragioni del<br />

dissenso, in una successiva sessione della Dieta. Le risoluzioni che avevano raccolto soltanto la metà <strong>dei</strong> voti potevano<br />

essere ripresentate una seconda e una terza volta nella medesima sessione. Quelle che raccoglievano meno della metà<br />

<strong>dei</strong> voti sarebbero state rifiutate; esse potevano comunque essere ripresentate in una sessione futura, a condizione che il<br />

Consiglio di Stato lo consentisse. Per Paoli questa non era che una mezza vittoria: in tutte queste lotte con la Dieta non<br />

era stato sostenuto dall’autorità del suo ruolo: Montesquieu non aveva forse scritto che il potere esecutivo fa parte del<br />

legislativo «per la facoltà di astenersi»? Le testimonianze contemporanee indicavano che dopo questo affronto Paoli<br />

indurì il suo atteggiamento verso la Dieta cercando di governare il più possibile con il solo potere esecutivo. Secondo i<br />

termini della sua elezione al generalato nel giugno 1755, doveva consultare i rappresentanti della nazione tutte le volte<br />

che trattava con i paesi stranieri. I rappresentanti della nazione erano i membri della Dieta: pertanto, per quello che<br />

riguardava gli affari esteri, Paoli, piuttosto che riunire la Dieta, si serviva del diritto che gli era stato accordato dalla<br />

costituzione del novembre 1755 di convocare <strong>dei</strong> congressi particolari. Così, quando bisognava adottare una politica<br />

nazionale verso le truppe francesi stabilitesi nelle città marittime a partire dall’agosto 1764, Paoli convocò, nell’ottobre<br />

dello stesso anno, un Congresso straordinario, nel quale invitò i consiglieri di Stato dimessi, soprattutto quelli che erano<br />

stati riconosciuti come capi popoli e alcuni membri dell’esecutivo che esercitavano in quel momento le loro cariche. Al<br />

Congresso presenziavano, senza dubbio, tutte le persone che erano attaccate, o che dipendevano, dalla sua autorità. Le<br />

decisioni prese in questo congresso e i risultati che ne derivarono furono comunicate alla Dieta solo alla fine della<br />

sessione ordinaria del maggio 1765 29 . Ci fu comunque un momento ancora più critico, nel 1767, quando la<br />

corrispondenza diplomatica che Paoli intratteneva con Choiseul portò ad una bozza di accordo tra la nazione corsa e<br />

Genova. Paoli riunì allora un altro congresso particolare, di composizione simile al precedente, al quale diede il nome di<br />

Gran consiglio della Nazione. Pommereul sosteneva che attraverso questo procedimento, Paoli aveva trasformato un<br />

26 Lettera circolare di Paoli, 27 aprile 1764, Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7.<br />

27 Rapporto della Dieta del dicembre 1763; lettera circolare di Paoli del 29 marzo 1764; rapporto della Dieta del maggio 1766. Vd. Archives<br />

départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7.<br />

28 BETTINELLI S., Observations sur M. de Paoli écrites à Madame de l’Hopital cit., p. 1881.<br />

29 Secondo la spiegazione più precisa di Ambrogio Rossi, Paoli invitò a questo congresso, oltre ai consiglieri di Stato dimessi: «tutti l’impiegati<br />

attualmente»; cfr. il discorso di Paoli alla Dieta del maggio 1765, Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

sistema di governo democratico in un sistema aristocratico 30 . Comunque, secondo le testimonianze dell’epoca, Paoli<br />

aveva abilmente raggirato la costituzione, senza mai violare i suoi principi. Nella sua lettera di convocazione alla<br />

sessione della Dieta del 1767, aveva invitato ad assistere gli ex-consiglieri di Stato: in questo modo la Dieta fu<br />

rappresentata al Gran consiglio una volta in più.<br />

§ <strong>11.</strong> Paoli e la nazione<br />

Nelle diverse opere che hanno trattato la costituzione di Paoli, si riscontrano fondamentalmente due interpretazioni. Da<br />

una parte, quella di Paoli come capo di uno stato democratico, adorato dall’intera nazione: è la tesi proposta da Boswell<br />

e che è diventata, per così dire, una leggenda storica. <strong>Dal</strong>l’altra la tesi di un Paoli che, a dispetto del sistema<br />

rappresentativo di cui era stato l’autore, ripiegò, per desiderio personale, verso il dispotismo, la dittatura: così viene<br />

giudicato il capo dello Stato da Pommereul ed anche, con qualche titubanza, da Rossi e da alcuni storici recenti (tra cui<br />

Venturi ed Ettori). Nessuna delle due tesi è sostenibile in base alle testimonianze analizzate. Se volessimo seguire il<br />

ragionamento di Boswell, che ha descritto Paoli, in modo convincente, come l’idolo <strong>dei</strong> contadini corsi, dovremmo<br />

riconoscere che comunque egli ha dovuto lottare contro l’opposizione tenace di un partito di nobili e di notabili che<br />

poteva contare sull’appoggio popolare. Questi capi, molto più <strong>dei</strong> contadini analfabeti, erano in grado di resistere alle<br />

strutture del regime. <strong>Il</strong> problema di Paoli era di non poter governare senza i notabili. Per risolverlo egli cercava di<br />

rafforzare in continuazione la sua autorità. Ma questa politica, praticata insidiosamente, con scaltrezza ed astuzia,<br />

contrastava con un paese che si voleva già liberare da un regime. In pratica Paoli, che secondo la costituzione da lui<br />

concessa, aveva meno poteri di qualsiasi sovrano <strong>dei</strong> suoi tempi (con l’eccezione, senza dubbio, del re di Svezia e del<br />

monarca eletto in Polonia), fu vivamente tacciato di dispotismo. Come ha scritto Rossi, egli fu «terribilmente accusato<br />

di cercare in tutti i modi di avvilire la nazione», essendosi proclamato «Principe assoluto» 31 . Accusa in genere ripetuta<br />

in seguito, senza tenere conto delle idee, veramente originali per l’epoca, che hanno ispirato il suo sistema. Infatti,<br />

malgrado tutto, Paoli credeva nel sistema repubblicano; una concezione del governo e dell’esecutivo, certamente, che<br />

non corrisponde alla disciplina attuale. La professione di fede pronunciata nella premessa della costituzione del 1755<br />

venne confermata in una lettera del 1764: «La perfetta uguaglianza è il punto desiderabile in uno stato democratico, ed è<br />

quel punto che rende felici gli Svizzeri, e gli Ollandini».<br />

La Corsica, ai suoi occhi, non meno della Svizzera e dell’Olanda, era un paese felice: regnava l’uguaglianza; ognuno<br />

poteva candidarsi per un impiego nello Stato, «la pluralità <strong>dei</strong> voti è quella che decide». Era un paese libero, dove il<br />

popolo «veramente sente la propria libertà» 32 . Si può ammettere che Paoli non avesse affatto torto alla condizione,<br />

beninteso, di considerare il suo regime nel contesto dell’epoca. <strong>Il</strong> sistema offriva un grado di rappresentanza e di libertà<br />

poco comune nell’Europa della metà del XVIII secolo. Garantiva l’uguaglianza davanti alla legge e l’assenza <strong>dei</strong><br />

privilegi nobiliari o ereditari; tutti gli impieghi e le cariche pubbliche, come sottolineava Paoli nella lettera citata, erano<br />

accessibili per via elettiva. Per la maggior parte della durata del suo regime, ogni maggiorenne aveva il diritto di votare<br />

alle elezioni legislative, ed anche quando il suffragio venne ristretto, a partire dal 1766, non si considerava il voto per<br />

censo. La Dieta, tutto sommato poco paragonabile all’idea attuale di una assemblea nazionale democratica, offriva<br />

comunque alla nazione <strong>dei</strong> mezzi, eccezionali per l’epoca, per controllare il destino del paese. Senza dubbio, quando<br />

Paoli rientrò nel 1755, la Corsica, liberata dal sistema feudale, dotata di antiche strutture elettive e comunitarie, gli<br />

doveva apparire come una terra predisposta a mettere in atto la sua concezione del governo repubblicano. Ma la base<br />

egualitaria della società sulla quale egli contava era più ideale che reale. Le antiche tradizioni comunitarie erano<br />

decadute da lungo tempo; la nazione era governata da capi avidi di ricchezza e di potere. Ma il sistema istituito dal<br />

Generale si prestava ad una flessibilità enorme, e poteva facilmente essere adattato a realtà diverse socialmente ed<br />

economicamente (si pensi, ad esempio, al tipo particolare di rappresentanza istituito nel Dilà, garantito da enormi<br />

autonomie amministrative ed elettorali). L’unico scopo che spingeva Paoli ad agire era il raggiungimento<br />

dell’indipendenza dell’isola, anche a costo di sacrificare la stabilità del sistema politico. Le diverse realtà isolane, con<br />

zone a prevalenza pastorale (legate alla comunione <strong>dei</strong> beni, all’amministrazione democratica ed alla gestione<br />

plurifamiliare degli strumenti di produzione, corrispondente, secondo le fonti, alla Corsica centrale), zone a prevalenza<br />

agricola (legate alla proprietà individuale, all’amministrazione mezzadrile <strong>dei</strong> beni ed alla gestione familiare nucleare<br />

degli strumenti di produzione, corrispondente alle regioni settentrionali) e zone a prevalenza demaniale (legate ai grandi<br />

latifondi, alla proprietà notabilare ed alla forte fiscalità, specie nella zona meridionale dell’isola), non poteva permettere<br />

una gestione omogenea del potere. Paoli era costretto ad usare il sistema elettivo della Dieta, a seconda delle situazioni<br />

e delle necessità, in maniera diversa. Questo dato di fatto, inevitabilmente, indeboliva la struttura del potere, che rimase,<br />

al di là della volontà democratica del generale, fortemente legato ai clan notabilari.<br />

Quando intervenne la Francia, nobili e notabili passarono in massa al nemico, mentre il popolo rispose con una leva in<br />

massa che, per un anno intero, tenne in scacco l’armata francese 33 . La permanenza delle strutture amministrative,<br />

economiche e politiche isolane nel periodo successivo alla conquista testimoniano l’impossibilità, anche da parte di una<br />

30 Ambrogio Rossi afferma che il congresso era composto da membri del Consiglio di Stato e dai Capi popolo. François René de Pommereul ritiene<br />

che esso era formato da tutti i consiglieri di Stato dimessi dopo il 1761.<br />

31 ROSSI A., Osservazioni storiche sopra la Corsica cit., XI, p. 87: «Nullameno il medesimo generale fu terribilmente accusato che tirando le sue mire<br />

all’indipendenza dell’isola, e lui esserne il Principe assoluto, cercasse ogni mezzo di avvilir la Nazione».<br />

32 Paoli a Giovan Quilico Casabianca. 16 luglio 1764, cit. da ETTORI, La revolution de Corse cit., p. 360.<br />

33 Vedi CARRINGTON D., The Corsican constitution of Pasquale Paoli, «The English historical review», 88 (1973), pp. 481-503.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 6 – <strong>Il</strong> sistema costituzionale di Pasquale Paoli<br />

potenza di prim’ordine come la Francia, di gestire dall’alto la specifica realtà sociale dell’isola.<br />

Figura 35: il Palazzo sede della Dieta generale a Corte.<br />

103


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

CAPITOLO 7<br />

IL SISTEMA SOCIALE ED ECONOMICO DELLA CORSICA:<br />

IL PLAN TERRIER (1769-1791)<br />

§ Premessa<br />

<strong>Il</strong> Plan Terrier è senza dubbio il progetto più importante portato avanti dagli agrimensori francesi, immediatamente dopo<br />

l’annessione della Corsica nel 1769, ed è stato notificato con un editto dell’aprile 1770 «per l’organizzazione delle terre di<br />

dominio del Re e per la creazione di una camera <strong>dei</strong> domini in Corsica» 1 .<br />

Figura 36: Planimetria generale del Plan Terrier de la Corse, 1773. (Paris, Arch. Nat., Paris, Q 1 298 1 ).<br />

L’obiettivo <strong>dei</strong> francesi era duplice: stabilire l’ordine nelle proprietà e realizzare una descrizione dettagliata e circostanziata<br />

del paese. <strong>Il</strong> risultato del lavoro fu il regesto di un piano terriero-catastale veramente ammirevole, completato tra il 1773 ed il<br />

1795, diviso in 17 volumi di commentario e 37 rotoli di mappe disegnate in maniera sorprendente, che “fotografano”<br />

perfettamente la Corsica di quegli anni. <strong>Il</strong> Plan era la gloria <strong>dei</strong> geometri francesi: essi lo avevano tracciato tra enormi<br />

difficoltà, tra cui la resistenza <strong>dei</strong> proprietari, giustamente inquieti per la clausola che precisava come «tutto ciò che si<br />

trovava senza legittimo proprietario apparteneva di diritto al Re» 2 . Una delegazione di proprietari corsi, nel 1775, protestò<br />

contro il Re per la predisposizione del Plan, dato che si prestava inevitabilmente al sospetto della volontà di spoliazione e di<br />

parzialità della Monarchia. Infatti, se le vecchie famiglie di feudatari e di notabili non avevano alcun problema a presentare i<br />

titoli di proprietà 3 , non poteva accadere lo stesso per le famiglie di bassa condizione, per le quali il possesso del suolo,<br />

complicato dalla comunione <strong>dei</strong> beni immobili, era spesso un affare affidato alla trasmissione orale. La spoliazione fu tanto<br />

più violenta nelle terre che, da secoli, erano ritenute di proprietà comune. Questa è stata la prima, grande incomprensione tra<br />

corsi e francesi: non si poteva seriamente pensare di trasformare in poco tempo una terra abituata agli usi comunitari delle<br />

proprietà in una provincia francese. Le terre gestite dalle comunità furono subito incamerate nei domini del Sovrano o<br />

consegnate alle grandi famiglie, corse o francesi, come ricompensa della loro fedeltà 4 . Questa pratica scosse profondamente<br />

l’ordine sociale dell’isola e provocò un enorme risentimento delle classi agricole e pastorali della Corsica verso gli<br />

“invasori” francesi ed i signori locali, unificando il risentimento nazionale con la protesta sociale.<br />

§1. la società corsa e la sua evoluzione prima del 1789<br />

§ dati generali<br />

Le fonti storiche relative alla società corsa ed al suo sviluppo tra l’XI ed il XIX secolo sono scarse e solo recentemente sono<br />

stati affrontati studi in grado di fornire un quadro esauriente della Corsica in età moderna. Le forme d’organizzazione sociale<br />

del lavoro agricolo hanno sempre avuto una struttura dualista: coltivazione ed organizzazione familiare da un lato, gestione-<br />

1 1 1 1 7<br />

I fondi Q 298 fino a Q 298 conservati all’Archives Nationales, Paris, raccolgono i microfilm del Plan Terrier General de la Corse. Recensements de la<br />

population 1769-1791.<br />

2<br />

CODE CORSE cit., art. 17.<br />

3<br />

POMPONI F., in Un siècle d’histoire des biens communaux en Corse dans le Delà des Monts (1770-1870), «Études corses», 3 (1974), ha mostrato<br />

chiaramente che soltanto dopo la pubblicazione del Plan Terrier si costituirono definitivamente, attorno a Porto Vecchio, nel Fiumorbo ed attorno a Coti-<br />

Chiavari, i grandi domini che avevano fatto la fortuna <strong>dei</strong> notabili. Si tratta, secondo Pomponi, di una politica che aiutava il “partito francese” a<br />

consolidarsi.<br />

4<br />

Cfr. Archives Départementales Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C 93. Observations des Domaines sur le Domaine de Porto-Vecchio, Janvier 1780.<br />

104


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CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

regolamentazione comunitaria <strong>dei</strong> beni (nella scala del villaggio e della pieve) dall’altro. Con un’evoluzione costante, questa<br />

struttura si ripete dall’XI al XIX secolo; tuttavia, sia la proprietà ed i modi di gestione familiare, sia i diritti e le<br />

regolamentazioni comunitarie subiscono <strong>dei</strong> cambiamenti nel lungo periodo. <strong>Il</strong> processo si accompagna all’evoluzione <strong>dei</strong><br />

rapporti tra le classi, che si organizzano nel quadro di una struttura dualista. Questa struttura subisce, a sua volta, una<br />

trasformazione interna, come accade per i conflitti agrari di cui essa è, ad un tempo, causa ed effetto: nel corso <strong>dei</strong> secoli,<br />

infatti, il lavoro produttivo si perfeziona ed acquista maggiore complessità. Le tappe sono lunghe e diverse a seconda delle<br />

regioni, con grande disparità tra il Diquà ed il Dilà 5 . Questo lento processo permette di comprendere l’indissolubilità di due<br />

fenomeni paralleli: da un lato la permanenza delle unità familiari legate alla produzione e alla cooperazione in comunità<br />

rurali e, dall’altro, le forti differenziazioni in classi ed in strutture sociali. Da quest’evoluzione prendono origine delle forme<br />

particolari come, ad esempio, le capitanerie rurali e le strutture comunitarie durante la crisi delle signorie nobiliari (alla fine<br />

del XIV secolo nel Diquà ed alla fine del XV nel Dilà) ed ancora, a partire del XV secolo, l’ascesa <strong>dei</strong> grandi proprietari<br />

terrieri (latifondo). La società corsa si inserisce, dunque, in maniera originale nell’evoluzione generale delle strutture<br />

economiche, sociali e culturali delle campagne europee. <strong>Il</strong> polo dominante qui è costituito dall’aristocrazia <strong>dei</strong> grandi<br />

proprietari fondiari, che si era stabilita a partire dal XV secolo. Attraverso frequenti conflitti tra clan, questa classe di<br />

capopopoli, di principali, di prepotenti, si è trovata associata alla gestione ed al funzionamento della struttura amministrativa<br />

statale, dalla dominazione genovese alla monarchia francese. L’aristocrazia fondiaria ha avuto, sin dal 1770, la possibilità di<br />

rafforzare la propria influenza ed i mezzi di coercizione sui contadini e di condizionare l’evoluzione generale dell’isola. Lo<br />

sfruttamento <strong>dei</strong> produttori rurali avviene in maniera complessa: un ruolo importante deriva dai prelievi operati<br />

indirettamente sui contadini-salariati attraverso i contratti verbali di mezzadria: il proprietario si attribuisce una parte della<br />

produzione, il mezzadro riceve il resto. Questi contratti si basano sulle terre con il terratico, o sul bestiame, con prelievi che<br />

vanno da un quarto alla metà della produzione. Altri metodi di sfruttamento delle famiglie contadine sono l’usura e la<br />

confisca <strong>dei</strong> beni comunali: i contadini sono costretti a pagare diritti ed affitti – generalmente il terratico e l’erbatico per la<br />

coltivazione o il pascolo – per l’uso di spazi di godimento comunitario, indispensabili al funzionamento del sistema agropastorale.<br />

Questo tipo di dominazione e di sfruttamento del lavoro contadino diventa a poco, a poco analogo al sistema<br />

signorile: l’innalzamento <strong>dei</strong> prelievi sui contadini con il contratto di mezzadria e la presenza – grazie al controllo delle<br />

istituzioni politiche e giudiziarie <strong>dei</strong> villaggi e delle pievi – di obblighi extra-economici, consentono ai grandi Principali di<br />

condizionare le comunità rurali. Con notevoli differenze, storiche e geografiche, questo sistema ha seguito un percorso<br />

simile a quello delle altre regioni del bacino occidentale del <strong>Mediterraneo</strong>, non subendo modifiche sostanziali nemmeno<br />

durante la Rivoluzione corsa e la Rivoluzione francese.<br />

Figura 37: mappa generale della Corsica e delle pievi attorno al 1770<br />

(Bibliothéque Nat. François Mitterrand, Paris, Rez de Jardin).<br />

§ La ripartizione della popolazione<br />

Le caratteristiche demografiche generali dell’isola alla fine del XVIII secolo, ad un primo sguardo, testimoniano i tratti<br />

essenziali del livello tecnico raggiunto. Questi i due aspetti maggiori:<br />

1. la Corsica, anche se poco popolata, è composta di una popolazione prevalentemente rurale. La popolazione varia dai<br />

148.000 ai 150.000 abitanti (dopo il Plan Terrier 6 ). Si tratta di un aumento generale (vedi Grafico 1), che ha fatto passare la<br />

Corsica dai 120.000 abitanti del 1740 ai 130.000 del 1770 ed ai 186.000 del 1786. La densità media è scarsa 7 . <strong>Il</strong> tasso di<br />

5 Si ricorda che con i termini Diquà e Dilà si indicano le regioni del Diquàdamonti, nel Nord-Est dell’isola, e del Dilàdamonti, nel Sud-Ovest, separate dalla<br />

Catena centrale corsa (M. Cinto, 2710 m), corrispondenti approssimativamente agli attuali dipartimenti dell’Haute Corse (cap. Bastia) e della Corse-du-Sud<br />

(cap. Ajaccio).<br />

6 Cfr. SIMI P., Démographie et mise en valeur de la Corse, in Mélanges d’Études Corses offerts à Paul Arrighi, Aix-en-Provence 1971, pp. 248-249.<br />

7 Corrisponde a 15 ab/km 2 . Sul continente all’epoca la densità media era di di 50 ab/km 2 . Cfr. LEMEE R., Un dénombrement des Corses, an 1770, in AA.<br />

VV., Problémes d’Histoire de la Corse (de l’Ancien Régime à 1815). Actes du Colloque d’Ajaccio, «Société des Études robespierristes» - «Société<br />

d’Histoire moderne», Paris 1971, pp. 22-43. COMITI V.P., La géographie médicale de la Corse à la fin du XVIII e siècle, Genève-Paris 1980, pp. 65-81.<br />

105


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

urbanizzazione per l’isola è dell’11,5%. Le sei città principali (vedi Tabella 1) nel 1786, hanno un numero di abitanti<br />

compreso tra gli 809 di Sartena ed i 5386 di Bastia. La struttura sociale è essenzialmente rurale ed i primi insediamenti<br />

“industriali” vengono installati nelle campagne.<br />

2. La ripartizione regionale della popolazione verso il 1786-1789 presenta una netta disparità tra il Diquà ed il Dilà. Nel<br />

1786 quest’ultimo raggruppa il 34% della popolazione contro il 66% del Diquà. <strong>Il</strong> fenomeno attesta il mantenimento nel<br />

1789 dell’ineguale sviluppo delle forze e delle capacità produttive che caratterizza l’evoluzione storica delle due grandi<br />

regioni insulari. <strong>Il</strong> Plan Terrier attribuisce così al Dilà il 46% della superficie totale della Corsica, il 53% della superficie<br />

coltivabile e soltanto il 34% della superficie coltivata. <strong>Il</strong> Diquà, con il 54,70% della superficie totale insulare, detiene il 45%<br />

della terra incolta coltivabile ed il 66% della superficie coltivata (Grafico n° 2).<br />

Migliaia<br />

160000<br />

140000<br />

120000<br />

100000<br />

80000<br />

60000<br />

40000<br />

20000<br />

0<br />

Bastia<br />

Corte<br />

Aleria<br />

Balagna<br />

Popolazione generale della Corsica<br />

Nebbio<br />

Giurisdizioni<br />

Capo Corso<br />

Grafico 1: Risultati generali <strong>dei</strong> censimenti del 1740, 1770 e 1786 (Cfr. LEMÉE R., «Un dénombrement des Corses», p. 39).<br />

106<br />

Vico<br />

Bonifacio<br />

Ajaccio<br />

Sartena<br />

CITTÀ POPOLAZIONE NEL 1786<br />

Bastia 5286<br />

Corte 1378<br />

Calvi 1042<br />

Ajaccio 3907<br />

Bonifacio 2468<br />

Sartena 809<br />

Totale 14 890<br />

Tabella 1: Le principali città corse nel 1786.<br />

CORSICA<br />

1786<br />

1770<br />

1740<br />

Anni<br />

1740<br />

1770<br />

1786


45%<br />

66%<br />

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Diquàdamonti<br />

51%<br />

Superficie totale<br />

Superficie coltivata<br />

Superficie incolta<br />

coltivabile<br />

107<br />

53%<br />

34%<br />

Dilàdamonti<br />

46%<br />

Superficie totale<br />

Superficie coltivata<br />

Superficie incolta<br />

coltivabile<br />

Grafico 2: Parte della superficie totale, della superficie coltivata ed incolta coltivabile della Corsica relativa al Diquà ed al Dilà (in base al Plan<br />

Terrier).<br />

Percentuali<br />

Ripartizione della superficie agraria nelle due grandi zone della<br />

Corsica<br />

50%<br />

45%<br />

40%<br />

35%<br />

30%<br />

25%<br />

20%<br />

15%<br />

10%<br />

5%<br />

0%<br />

Diquà Dilà<br />

Regioni<br />

Corsica<br />

Grafico 3: Ripartizione della superficie agraria nelle due grandi zone della Corsica.<br />

% di suolo coltivato<br />

% di suolo incolto<br />

% di suolo<br />

§ L’universalità del Sistema Agro-Pastorale<br />

La natura globale delle forze produttive in Corsica alla fine del XVIII secolo può essere analizzata alla luce di quanto<br />

riportato nel Plan Terrier. Le fonti relative all’andamento o alle statistiche degli anni 1775-1790 mostrano che l’asse<br />

portante è costituito da un sistema agricolo di tipo agro-pastorale 8 ; questo sistema si basa sull’associazione di una<br />

cerealicoltura estensiva e di un allevamento senza foraggio che sin dall’Alto Medio Evo prevale in Corsica ed in Italia 9 .<br />

Presente in tutto il bacino <strong>Mediterraneo</strong>, questo sistema detiene un’importanza capitale in Corsica prima del 1789 10 . Lo si<br />

percepisce subito dall’esame degli estratti <strong>dei</strong> geometri del Plan terrier 11 . <strong>Il</strong> Grafico n° 4 riunisce i dati concernenti i cinque<br />

dipartimenti della Corsica 12 . La ripartizione globale delle superfici coltivate è eloquente: i boschi occupano il 30% della<br />

8 Cfr. GEORGES P., Précis de géographie rurale, Paris 1967, pp. 139-140: «l’insieme delle tecniche si basa sullo sfruttamento per trarne un reddito»; in<br />

questo quadro «la realtà supera largamente il senso letterale delle parole: si tratta difatti, in primo luogo, della combinazione culturale che risponde molto<br />

esplicitamente all’accettazione precisa ed esplicita del termine, ma anche di tutto ciò che può essergli integrato (allevamento, pesca, raccolta)». Cfr. anche<br />

LEBEAU R., Les grands types de structures agraires dans le monde, Paris 1969, p. 8. Sul collegamento tra movimento storico, tecniche, rapporti sociali,<br />

strutture agrarie e paesaggi, cfr. FAVORY P., Propositions pour une modélisation des cadastres ruraux antiques, in AA. VV., Cadastres et espace rural.<br />

Approches et réalités antiques. Table ronde de Besançon, mai 1980. Pubblicato sotto la direzione di Monique Clavel-Levêque, Paris 1980, pp. 51-135.<br />

9 Questo sistema è caratterizzato allora dalla «preminenza delle attività dell’allevamento brado e della caccia su quelle dell’agricoltura» e dalla «diffusione<br />

sulle rare terre a cultura <strong>dei</strong> sistemi agrari del debbio e a campi ed erba» come ha scritto Emilio Sereni nella sua notevole sintesi sulla Storia del Paesaggio<br />

agrario italiano, Bari 1964, pp. 54-55. Cfr. anche JONES P.J., Per la storia agraria nel medio evo: lineamenti e problemi, «Studi di storia agraria italiana»,<br />

«Rivista storica italiana», a. LXXVI, 1964, II, pp. 287-348. Sull’evoluzione <strong>dei</strong> sistemi di coltivazione (e dell’insieme delle forze produttive) nelle<br />

campagne italiane dalla metà del XVIII secolo alla fine del XIX secolo, cfr. VILLANI P., Feudalità, riforme capitalismo agrario, Bari 1968, in particolare le<br />

pp. 111-167.<br />

10 Pierre Birot e Jean Dresch vedono nell’associazione <strong>dei</strong> pascoli estensivi e delle culture cerealicole nomadi un tipo di utilizzazione del suolo ancora<br />

diffusa. Cfr. BIROT P., DRESCH J., La Méditerranée et le Moyen-Orient, I, Paris 1966, pp. 110-120 e pp. 246-254.<br />

11 Per una presentazione di insieme del Plan Terrier, cfr. ALBITRECCIA A., Le Plan terrier de la Corse au XVIII e siècle, Paris 1942.<br />

12 Questi dati, relativi a diversi dipartimenti, sono stati riuniti a partire dalle cifre fornite per ogni comune e cantone dagli autori del Plan terrier. Nelle


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CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

superficie totale ed il grano il 54%. L’arboricoltura (castagni, viti, olivi) detiene soltanto il 16% del suolo. La vite<br />

rappresenta solamente il 4% dello spazio coltivato e gli olivi l’1,24%. La parte essenziale (il 10,70%) del territorio dedicato<br />

all’arboricoltura è devoluta ai castagni: le castagne e la farina di castagne, infatti, forniscono il succedaneo del pane di<br />

cereali. Questa situazione è confermata dall’esempio <strong>dei</strong> tre dipartimenti del Diquà durante l’inchiesta dell’anno X: su 186<br />

villaggi che rispondono alla domanda n° 255 (Di quali e quante specie di biada si fa il pane?) e 112 (Per quanti mesi<br />

dell’anno si mangia comunemente nel paese il pane di castagne?) del prefetto del Golo, due consumano solamente il pane di<br />

grano, 28 consumano pane di grano e/o di orzo con l’aggiunta, talvolta, del miglio, 75 (o il 40,50%) mangiano un pane fatto<br />

di grano, di orzo o di segale 70 (o il 37,60%) e fanno ricorso durante l’anno al pane di castagne come complemento/sostituto<br />

del frumento, dell’orzo o della segale, del mais o <strong>dei</strong> lupini. Questi villaggi si incontrano soprattutto nel Dipartimento di<br />

Corte (34 sui 47 totali del Diquà): essi rappresentano il 46% delle comunità rurali. La distribuzione geografica quasi<br />

universale di questa struttura mostra chiaramente la sua potente egemonia: tutti i dipartimenti della Corsica lasciano al<br />

boschivo ed ai cereali il maggiore investimento dello spazio agrario coltivato. I cantoni della Castagniccia (quelli di<br />

Piedicroce di Orezza e di Valle di Alesani nel dipartimento di Corte 13 , quelli della Porta e di Mariana nel dipartimento di<br />

Bastia) sfuggono a questo dato generale, ma danno preponderanza al castagno. Solo nei cantoni del Capo Corso come quelli<br />

di Centuri-Rogliano, di Cardo e di Brando le viti e gli olivi conquistano, alla fine del XVIII secolo, la parte preponderante<br />

dello spazio coltivato. Ma nella percentuale totale delle coltivazioni del Capo Corso, il grano costituisce oltre il 55% del<br />

suolo messo a coltura.<br />

Giurisdizioni<br />

BASTIA<br />

Totale Dilà<br />

SARTENA<br />

AJACCIO<br />

Le coltivazioni in Corsica alla fine del XVIII secolo (dopo il Plan terrier)<br />

Totale<br />

Totale<br />

CALVI<br />

CORTE<br />

0 500000 1000000 1500000 2000000 2500000<br />

Estensione (in arpenti)<br />

Grafico 4: Estensione delle terre coltivate nelle diverse giurisdizioni dell’isola (1770-1790)<br />

108<br />

Coltivata<br />

Totale<br />

tabelle n. 12 e 13 si ritrova la ripartizione delle colture nei dipartimenti della Corsica. Cfr. anche i dati forniti in Serie C, Plan terrier de La Corse, volume I,<br />

Description générale et détaillée de l’île, état présent, article troisième (p. 31 e seguenti). Paris, Arch. Nat. - Microfiches Plan Terrier.<br />

13 Cfr. CASANOVA A., Forces productives rurales, peuple corse et Révolution française (1770-1815), thèse de Doctorat d’État, Université de Paris I, 1988.


giurisdizioni<br />

Boschivo<br />

Prati<br />

Grano<br />

Castagni<br />

Vigne<br />

Ulivi<br />

Totale Diquà<br />

Per il fuoco<br />

Totale<br />

CALVI<br />

BASTIA<br />

CORTE<br />

Totale Dilà<br />

SARTENA<br />

AJACCIO<br />

Come materiale da<br />

costruzione ed<br />

equipaggiamento delle case<br />

Come mangime per il<br />

bestiame<br />

Come materiale per la<br />

fabbricazione di mezzi di<br />

produzione (botti ed aratri)<br />

Per la fabbricazione di<br />

oggetti domestici<br />

Non precisato<br />

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Dettaglio delle superfici coltivate<br />

0% 20% 40% 60% 80% 100%<br />

percentuali<br />

Grafico 5: Dettaglio dell’uso <strong>dei</strong> terreni in Corsica alla fine del XVIII secolo (dopo il Plan terrier)<br />

L’uso del legname nel Nord Est della Corsica alla fine del XVIII secolo (in seguito alle<br />

domande 13 e 134 dell’Elenco dell’anno X)<br />

numero di cantoni<br />

40<br />

35<br />

30<br />

25<br />

20<br />

15<br />

10<br />

5<br />

0<br />

Corte (15 cantoni) Bastia (19 cantoni) Calvi (5 cantoni) Diquà (39 cantoni)<br />

Grafico 6: L’uso del legname nel Nord Est della Corsica alla fine del XVIII secolo (in seguito alle domande 13 e 134 dell’Elenco dell’anno X).<br />

109


Risposte<br />

141<br />

121<br />

101<br />

81<br />

61<br />

41<br />

21<br />

1<br />

Non precisati<br />

Grano solo<br />

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Grano ed Orzo<br />

Grano, Orzo, Lupini e Miglio<br />

Grano, Orzo, Segale<br />

Ingredienti del pane<br />

Grano, Orzo, Castagne<br />

Grano, Orzo, Segale e Castagne<br />

Cereali<br />

Grano, Orzo, Lupini, Mais, Segale<br />

110<br />

Grano, Orzo, Lupini, Castagne<br />

Grano, Orzo, Lupini, Castagne, Mais,<br />

Segale<br />

Grafico 7: Gli ingredienti del pane nei villaggi del Diquà nell’anno X.<br />

Orzo, Segale<br />

Orzo, Castagne<br />

Segale, Castagne<br />

Diquà<br />

CALVI<br />

BASTIA<br />

CORTE<br />

§ 2. evoluzione storica della società e natura <strong>dei</strong> rapporti sociali tra il 1770 ed il 1780<br />

I dati relativi alla struttura agricola corsa ed i caratteri generali delle forze produttive alla fine del XVIII secolo possono<br />

aiutare a chiarire i processi evolutivi risalenti ai secoli precedenti; quest’analisi <strong>dei</strong> caratteri originali della storia rurale corsa<br />

è utile, a sua volta, per capire le strutture, le contraddizioni, le lotte e le tensioni scoppiate nell’isola alla fine del XVIII<br />

secolo e dopo il 1789. Solo in questa prospettiva si possono comprendere le caratteristiche originali della società rurale<br />

corsa. I rapporti tra forze produttive e strutture sociali, così come si presentano nel decennio 1770-1780 sono, infatti, il<br />

risultato di un lungo, complesso e singolare processo storico.<br />

§. Pievi, paesi, famiglie: una struttura dualistica<br />

Gli atteggiamenti e le forme sociali di organizzazione del lavoro sono in stretta connessione, nelle campagne corse, con<br />

l’evoluzione delle forze produttive di cui abbiamo rievocato le caratteristiche. Queste forze produttive acquistano una reale<br />

efficacia solo nel quadro delle diverse forme di organizzazione del lavoro, che lentamente, ma inesorabilmente, vengono<br />

messe in tensione e trasformate. Esse si presentano in Corsica, da tempo immemorabile, con una struttura dualistica 14 :<br />

sfruttamento ed organizzazione familiare da un lato, gestione comunitaria dall’altro. Questi poli contrapposti della vita<br />

comunitaria intrattengono <strong>dei</strong> rapporti complementari e contrapposti. Questo dualismo rimane stabile dall’XI al XIX secolo.<br />

Le relazioni tra la proprietà familiare e la regolamentazione comunitaria subiscono delle modifiche a seconda delle attività<br />

produttive e delle classi sociali.<br />

§ Sfruttamento familiare e collaborazione <strong>dei</strong> lignaggi<br />

Si può, innanzitutto, sottolineare un dato essenziale: l’uso delle risorse nel bacino del <strong>Mediterraneo</strong> rende per molto tempo<br />

difficile qualsiasi altra forma di commercializzazione che non sia legata all’«artigianato» agrario e al piccolo sfruttamento<br />

familiare. Al livello di ciascuno degli elementi che le compongono (allevamento, cerealicoltura, giardinaggio, arboricoltura,<br />

mantenimento e costruzione delle abitazioni, fabbricazioni domestiche) e a fortiori della loro combinazione, le forze<br />

produttive del sistema agricolo insulare possono essere attivate solo da produttori dotati personalmente di particolari<br />

attitudini professionali 15 . Nelle comunità corse, lo sfruttamento combinato delle tecniche dell’allevamento e della policoltura<br />

può essere realizzato solo all’interno di una cornice familiare; questa unità economica di base, necessaria alla realizzazione<br />

della produzione, trova le sue condizioni ottimali nel quadro della cooperazione familiare o all’interno di lignaggi più estesi.<br />

14 Per un approccio ai problemi teorici posti dallo studio comparativo del processo d’evoluzione della struttura dualista in diversi contesti socio-culturali,<br />

cfr. i contributi riassunti in AA. VV., Communautés rurales, capitalisme, socialisme, «Recherches Internationales à la lumiére du marxisme», 90 (1977).<br />

Cfr. anche PARAIN C., Outils, ethnies et développement historique, «Recherches internationales à la lumiére du marxisme», 58 (1979), pp. 425-459.<br />

15 «…La ricerca degli elementi costitutivi di un ciclo agricolo - nota Faucher - mi sembra necessariamente contornato di brancolamenti, di speranze più o<br />

meno fatte di osservazioni diverse, coordinate poco, a poco… Nello stesso tempo, il contadino deve, se non scoprire, quanto meno adattare le tecniche<br />

elementari grazie a cui può preparare il terreno, inseminarlo, curare le colture, raccoglierle, conservare e trasformare i prodotti. Nel fare l’inventario<br />

dettagliato <strong>dei</strong> lavori da compiere durante tutto l’anno, non ci si sorprende di constatare la loro varietà, la loro complessità e le loro interferenze». FAUCHER<br />

D., Routine et innovation dans la vie paysanne, «Journal de psychologie normale et pathologique», 1948 (n. speciale su «le travail et les techniques», p. 92).<br />

Cfr. anche ID., Le paysan et la machine, Libro I, pp. 13-36. Cfr. anche gli studi di BLANCHE J., L’aménagement du travail agricole, «Études rurales», 1<br />

(1965) e RAMBAUD P., Le travail agraire et l’évolution de la société rurale, «Études rurales», 22, 23, 24 (1966).


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

Le pratiche testamentarie degli umili contadini corsi dal XVI al XVIII secolo lo testimoniano con precisione 16 : la<br />

cooperazione familiare era necessaria; nel caso <strong>dei</strong> beni inalienabili (pena l’azzeramento del loro valore) i testatori<br />

attribuiscono la proprietà a parecchi legatari, ciascuno con una parte indivisibile; lo stesso accade per gli strumenti di<br />

produzione (case, stenditoi, presse), per i quali i testatori stipulano una comunione assoluta dovuta all’importanza della loro<br />

destinazione economica.<br />

§ Proprietà e regolamentazione comunitaria<br />

A questo livello delle forze produttive, il lavoro familiare presuppone la regolamentazione e la mutua assistenza comunitaria<br />

(di pieve e/o di villaggio). Le ragioni sono evidenti: la coltivazione esige una costante regolamentazione, che assicuri la<br />

lavorazione equilibrata <strong>dei</strong> principali elementi (cereali, allevamento estensivo). Come nel caso <strong>dei</strong> villaggi della Balagna e<br />

delle signorie del Capo Corso, le soluzioni adottate per regolamentare le comunità erano simili: ripartizione del territorio<br />

della pieve per assicurare l’allevamento estensivo, mantenimento <strong>dei</strong> percorsi di transumanza, protezione reciproca contro le<br />

devastazioni degli animali. Tutto questo per rispondere alla necessità di far riposare il suolo seminato a cereali. Questa<br />

organizzazione costituisce così un vero strumento sociale con cui le famiglie che compongono la comunità assicurano<br />

un’efficace valorizzazione degli elementi costitutivi del loro livello tecnico. Le famiglie sono così portate necessariamente<br />

ad intrattenere (di fatto e di diritto) <strong>dei</strong> continui legami collettivi, mentre ogni pretesa di individualismo (pericoloso per il<br />

mantenimento della struttura) viene escluso durevolmente dall’essenza stessa del sistema. In questo quadro, la gestione di<br />

mezzi di produzione come le foreste, i pascoli e le terre coltivabili, può essere soltanto collettiva. La gestione comunitaria<br />

della pieve e/o del villaggio si manifesta in due modalità principali, le cui relazioni reciproche si evolvono nelle differenti<br />

regioni corse in funzione delle modifiche delle forze produttive e <strong>dei</strong> ruoli sociali giocati dalle componenti rurali.<br />

§. <strong>Il</strong> destino della proprietà comunitaria<br />

La prima tipologia essenziale di gestione comunitaria è caratterizzata dal mantenimento, attraverso i secoli, dalla proprietà<br />

comune <strong>dei</strong> pascoli e delle terre arabili. Questa proprietà coesiste dall’Alto Medioevo con la proprietà privata basata sugli<br />

orti, sui vigneti, sugli uliveti e sui terreni coltivati a cereali. La coesistenza di lunga durata conferisce alla società rurale corsa<br />

una solida struttura dualista in costante evoluzione: il progresso delle colture, la diffusione dell’arboricoltura tende allo<br />

stesso tempo a restringere la parte globale della proprietà comunitaria ed a limitare questa proprietà alle terre incolte e non<br />

coltivabili. La crescita della proprietà privata è particolarmente netta nelle zone a forte prevalenza della vite e dell’olivo; essa<br />

rende sempre più acuta la domanda di godimento e di divisione della proprietà tra comunità, signori e principali, e<br />

(soprattutto all’inizio del XIX secolo) tra famiglie di differenti classi sociali. La situazione della proprietà collettiva<br />

rappresentata dal Plan terrier mostra chiaramente questo doppio processo evolutivo. Considerata rispetto al totale della<br />

superficie delle pievi e <strong>dei</strong> villaggi, la proprietà comunale occupa una posizione ancora importante (il 26% del suolo nel<br />

Diquà, il 37,56% nel Dilà, quasi il 32% per l’insieme della Corsica), corrispondente al ruolo predominante <strong>dei</strong> legami<br />

comunitari nelle attività delle famiglie contadine. Ma considerando solo questi dati si trascura l’altro (e capitale) aspetto<br />

delle realtà storiche isolane: il rafforzamento considerevole e multiforme della proprietà privata. Questo rafforzamento è<br />

strettamente connesso alle lotte ed agli obiettivi che hanno accompagnato, nel lungo periodo, i processi quantitativi<br />

(estensione delle superfici coltivate) e qualitativi (sviluppo dell’arboricoltura) delle forze produttive.<br />

I dati forniti dal Plan terrier sono illuminanti: considerata non in rapporto all’insieme delle terre, ma solo rispetto alla<br />

superficie coltivata, la proprietà comunale si trova ovunque in posizione di inferiorità rispetto alla proprietà privata:<br />

quest’ultima rappresenta l’81% del suolo contro l’11% della proprietà collettiva nel Diquà; il 59% contro il 36% nel Dilà; il<br />

70% contro il 23% nel totale dell’isola. Più ci si inoltra nelle zone in cui i sistemi di coltura riservano un posto importante<br />

alla vite ed all’olivo, più la proprietà comunale arretra: nei dipartimenti di Calvi e di Bastia, essa costituisce rispettivamente<br />

il 9,37% ed il 3% del suolo coltivato (contro il 70,63% ed il 94% della proprietà privata). Significativo il caso del Capo<br />

Corso: viti ed olivi occupano il 52% del suolo (il 7% nel Diquà, il 5% nell’insieme dell’isola) mentre la proprietà privata<br />

rappresenta l’89,80% dello spazio coltivato. Ogni volta che diventa preponderante la parte di terreno riservata<br />

all’arboricoltura (si arriva all’81,50% del suolo coltivato nel cantone di Rogliano), regredisce lo spazio della proprietà<br />

comunale (lo 0,31% nello stesso cantone).<br />

Tuttavia, questi processi fondamentali non potrebbero, da soli, dare un’idea completa delle trasformazioni storiche che<br />

hanno modificato la struttura dualistica delle campagne corse. Bisogna considerare anche altri fenomeni: l’aumento delle<br />

confische <strong>dei</strong> grandi proprietari e le concessioni fondiarie a lunga permanenza <strong>dei</strong> beni comunali mediante le appropriazioni<br />

di Stato (come fece Genova nel XVI e XVII secolo e la monarchia francese tra il 1769 ed il 1789). Testimone di questo<br />

processo è quel 10% di proprietà demaniale presente nel dipartimento di Calvi nel 1789 (si tratta essenzialmente del vasto<br />

territorio demaniale nella zona di Galeria) ed il 22% di territorio nella regione di Sartena. Bisogna ricordare, infine, che<br />

questi dati del Plan terrier non tengono conto <strong>dei</strong> precedenti processi di confisca attuati dai grandi proprietari sulle terre<br />

gestite collettivamente 17 . I dati del Plan terrier non possono tener conto nemmeno di altri processi sottili e contraddittori: è il<br />

16 Sulle relazioni tra forze produttive, comunità rurali, famiglie nucleari e forme di cooperazione tra le coppie nel quadro delle famiglie estese, è utile lo<br />

studio (per il Niolo tra il XIX ed il XX secolo) di LENCLUD G., Des feux introuvables. L’organisation familier dans un village de la Corse traditionnelle,<br />

«Études Rurales», 76 (1979), pp. 7-51. Per la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo cfr., nella stessa opera, la I parte, capitolo IV.<br />

17 Così, nella pianura orientale dell’isola, la parte detenuta dal Demanio è enorme (specialmente nella regione di Porto-Vecchio). Più a nord, invece, i<br />

padroni di Migliacciaro (il cui potere è tenacemente contestato dai pastori-coltivatori) controllano quasi il 15% delle famiglie ed il 17% delle terre coltivate<br />

a cereali. Nel settore di Sari, Conca, Lecce, il Demanio detiene il 99% della superficie coltivata a cereali e controlla l’85% delle famiglie <strong>dei</strong> pastori-<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

caso dell’estensione del controllo <strong>dei</strong> grandi proprietari corsi sulla proprietà collettiva (coltivata e coltivabile) attuata<br />

«ricomprando» (in cambio di cereali o di denaro, impiego di mezzadri precari, «protezioni» ed altro...) i diritti di usufrutto<br />

delle terre 18 . Ne consegue, paradossalmente, un allargamento della proprietà privata <strong>dei</strong> principali proprio attraverso i diritti<br />

comunitari: i grandi Notabili giungono spesso a rivendicare la proprietà di grandi estensioni di terre comunali, anche<br />

appropriandosi delle briciole di terra <strong>dei</strong> turni di capanne <strong>dei</strong> pacciali 19 lavorate dai loro mezzadri 20 .<br />

Si tratta di un processo che la piccola e media classe contadina cerca di contrastare in ogni modo, preoccupata di conservare<br />

il godimento delle terre comunali o, almeno (a partire dalla fine del XVIII secolo), di assicurare la loro equa ripartizione. Si<br />

assiste così, con il passare <strong>dei</strong> secoli, alla trasformazione della struttura dualistica <strong>dei</strong> villaggi corsi. Questa struttura<br />

dualistica, basata sull’evoluzione delle forze produttive, non potrebbe essere compresa senza i difficili e costanti scontri di<br />

classe. Proprietà familiare, usufrutto comunitario delle terre (sotto forma di lotti coltivati e/o di spazi per il pascolo),<br />

organizzazione collettiva della vita sociale e dello spazio hanno costituito il fondamento dell’esistenza e delle lotte della<br />

classe contadina e della reiterazione <strong>dei</strong> rapporti feudali. Questo processo ha conosciuto una forza singolare in Corsica tra<br />

l’XI ed il XVI secolo. La trasformazione della struttura dualistica ha fatto emergere, con il passare <strong>dei</strong> secoli, la<br />

preponderanza della proprietà privata sulla proprietà comune delle terre e contemporaneamente ha favorito lo scoppio di<br />

conflitti sociali di enorme portata: l’assorbimento della proprietà collettiva sarà attuata ad esclusivo vantaggio della grande<br />

proprietà fondiaria <strong>dei</strong> Principali, attraverso la riduzione forzata <strong>dei</strong> contadini in mezzadri e la divisione coatta della<br />

proprietà comune.<br />

§. L’organizzazione collettiva dello spazio e la sua storia<br />

La seconda tipologia essenziale di gestione è la regolamentazione comunitaria dello spazio agricolo. Le terre arabili (e in<br />

tempi remoti anche il bestiame) sono essenzialmente proprietà ed oggetto del lavoro familiare, ma quest’ultimo può<br />

concretizzarsi solo se viene inserito in un sistema collettivo di rotazione e ridistribuzione dello spazio produttivo. I<br />

riferimenti di alcune fonti d’archivio, e soprattutto, i documenti <strong>dei</strong> Signori del Capo Corso, permettono di vedere le forme<br />

assunte, fin dal Medio Evo, dalla regolamentazione comunitaria nei rapporti tra allevamento e cerealicoltura. Nelle signorie<br />

<strong>dei</strong> Da Mare e <strong>dei</strong> Gentile, il bestiame viene confinato in una parte di territorio ben delimitata (chiamata reghione) e non<br />

viene lasciato uscire durante il periodo della semina. Un’altra porzione è riservata alla coltivazione estensiva <strong>dei</strong> cereali<br />

locali: si tratta della presa, che, nel nord della Corsica, sembra risalire almeno all’XI secolo 21 . La presa, a partire dai secoli<br />

XIV e XV, si impianta anche nelle regioni più evolute dell’isola, come il Capo Corso e la Balagna. Questo modello si ritrova<br />

in tutti i paesi del <strong>Mediterraneo</strong> in cui era necessario combinare le esigenze della semina con quelle di un allevamento<br />

assetato di spazi 22 . Le trasformazioni intervenute nella regolamentazione collettiva sono collegate alla lenta trasformazione<br />

del sistema delle colture. Nel Capo Corso ed in Balagna, questo problema si presenta fin dal Medioevo: un terzo del<br />

territorio veniva difeso permanentemente dal bestiame e riservato alla coltivazione della vite e degli alberi da frutto: si tratta<br />

del circolo della vite. Questa organizzazione è largamente attestata nel Diquà a partire dal XVI secolo: in Balagna si ritrova<br />

nelle pievi attorno a Bastia, nella pieve di Alesani ed in alcune pievi attorno a Corte (a Castifao) 23 . Nel territorio ajaccino è<br />

testimoniato a partire dal XVI e XVII secolo 24 .<br />

I caratteri particolari che riveste questo sistema cambiano da una pieve all’altra, da un villaggio all’altro e sono suscettibili di<br />

coltivatori. Nell’insieme, verso il 1780, il Demanio nella zona di Porto-Vecchio possiede delle terre ripartite in sei “cantoni” (Sari, Conca, Lecce, Favone,<br />

Tozze, Porto-Vecchio, Ficaja) per un totale di circa 124.200 arpenti (Cfr. Archives Départementales Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C 93. Observations des<br />

Domaines sur le Domaine de Porto-Vecchio, Janvier 1780). Queste terre sono contese tra lo Stato, alcuni grandi principali (i Peretti, gli Ettori, i Quenza) e i<br />

comuni. Qui il Demanio, come mostra il Plan terrier, rappresenta il 75,21% del totale delle terre contro lo 0,10% <strong>dei</strong> comuni ed il 24,70% <strong>dei</strong> privati.<br />

Queste terre rappresentano il 12% delle terre coltivate (a cereali per il 99%), il 22% delle terre incolte ed il 31% delle terre incolte del dipartimento di<br />

Sartena.<br />

18<br />

Nella provincia di Sartena verso il 1770-1785 i grandi proprietari sono ostili alla divisione egualitaria <strong>dei</strong> beni comunali «…che impedirebbe», nota Patin<br />

de la Fizelière, «di condurre nei terreni il loro numeroso bestiame». Al momento della divisione periodica delle terre coltivabili tra le famiglie, essi<br />

avrebbero comprato per una debole somma il diritto alla porzione comunale «di coloro che non hanno le bestie ed i grani per seminare». Cfr. PATIN DE LA<br />

FIZELIÈRE A., Mémoire sur la province de la Rocca, p. 96. <strong>Il</strong> controllo privato delle terre per la coltivazione ed il pascolo è praticato nelle zone del Talavo e<br />

dell’Ornano nel sud-est dell’isola già nel XVII secolo (Cfr. Arch. Dép. Corse-du-Sud, Serie C 522. Civile Governatore. Moca Croce 1690) e nel XVIII<br />

secolo (Cfr. C 517. Contentieux de Santa Maria Sicche Memoire du Subdélégué d’Ajaccio, 25 settembre 1779).<br />

19<br />

Si tratta delle piccole estensioni di terra, spesso attorno ad una capanna, di proprietà di un gruppo di pastori, utilizzate per il foraggio nel periodo della<br />

transumanza.<br />

20<br />

Fortemente radicato e sviluppatosi negli anni attorno al 1770, questo processo incontra la resistenza di diversi gruppi contadini (Cfr. Arch. Dép. Corsedu-Sud,<br />

Serie C 93. Rapport de l’Inspecteur des Domaines, 28 janvier 1778). Appariranno in tutta la loro violenza durante la Rivoluzione francese (Cfr.<br />

Arch. dép. Corse-du-Sud, 2Q 38).<br />

21<br />

Su questo processo e sull’evoluzione delle strutture agrarie e sociali della Corsica nel Medioevo, cfr. CASANOVA A., Révolution féodale, pensée<br />

paysanne, «Études corses», 15 (1980), pp. 19-91 ed ID., Évolution historique des sociétés et voies de la Corse, ivi, 18-19 (1982), pp. 105-146.<br />

22<br />

Probabilmente è stato preceduto, in Corsica, da un sistema di organizzazione del territorio meno rigido, come lascia supporre l’esempio del Fiumorbo<br />

(dove l’allevamento regna sovrano da secoli): nel XVI secolo questa regione presentava, infatti, un modello di regolamentazione collettiva poco strutturato<br />

ed i contadini richiedevano proprio l’adozione del sistema delle prese. In seguito alle guerre ed ai tumulti della metà del XVI secolo, gli abitanti del<br />

Fiumorbo si sforzano di ottenere un regolamento che restringa il percorso del bestiame ed assicuri una coesistenza efficace tra agricoltura e pascolo.<br />

Contrari all’idea di chiudere i terreni seminati, essi stimano inutili le recinzioni, inefficaci contro i percorsi del bestiame senza pastore; così domandano al<br />

governatore di impedire il disordinamento del bestiame senza pastore e l’imposizione nel Fiumorbo del sistema d’organizzazione collettiva del territorio<br />

(con prese e accantonamento del bestiame): «E che in l’avenire si faccian le prese con le tenute delle biade como si suole per tutto il restante dell’Isola e in<br />

Aleria confina da Fiumorbo», febbraio 1589, Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Fondo Civile Governatore C 50.<br />

23<br />

Arch. dép. Corse-du-Sud, Fondo Civile Governatore, 68 (ottobre 1574).<br />

24<br />

Arch. Mun. D’Ajaccio, Libro Grosso ff 272-273; cfr. anche PINZUTI N., Histoire economique et sociale d’Ajaccio, «Corse historique», 13-16 (1964).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

una grande varietà di sfumature, in funzione della natura delle terre, dell’evoluzione demografica locale, del movimento<br />

delle forze produttive, delle tensioni e delle lotte sociali che hanno per oggetto la regolamentazione collettiva. Nella Balagna<br />

del XV secolo, le prese sono costituite essenzialmente da terre destinate ai cereali: campi e lenze rappresentano, in<br />

proporzione, i 9/10 del territorio coltivato. Non è esclusa la coltivazione, in alcune prese, di alberi da frutto (fichi e peri) o,<br />

raramente, di vigne. Le comunità contadine sembrano disporre abbastanza presto di prese diversificate con cui ricomporre o<br />

adattare le coltivazioni in base ai cambiamenti delle forze produttrici e <strong>dei</strong> rapporti sociali 25 . Ma esiste anche un altro tipo di<br />

presa, quella di San Colombano: in questo caso, dopo un anno di lavorazione il territorio viene lasciato a maggese per<br />

cinque anni. Le prese comunali sono composte di piccoli appezzamenti familiari chiamati lenze, trasformati in seguito in<br />

proprietà privata (chiosi posti e da ponersi), mentre in altre pievi, tanto nel XVII, XVIII quanto nel XIX secolo, esse sono<br />

ancora oggetto di ridistribuzioni periodiche 26 . Nello stesso periodo la comunità di Ajaccio arriva all’elaborazione di un<br />

modello simile, ma più complesso, di regolamentazione: oltre al circolo, l’insieme delle terre comunali viene diviso in tre<br />

prese o terzieri, dedicati rispettivamente alla cerealicoltura, al pascolo del grande e a quello del piccolo bestiame; ossia tre<br />

anni per ogni tipologia di presa e dunque un ciclo completo che si esaurisce in nove anni. La vasta presa collettiva devoluta<br />

per tre anni alla coltivazione è a sua volta divisa in tre porzioni, con conseguente rotazione <strong>dei</strong> cereali (un anno a mais, due<br />

anni a grano nei secoli XVII e XVIII). Nell’insieme, alla fine del XVIII secolo, le rotazioni <strong>dei</strong> cereali sono relativamente<br />

diversificate. Esse dipendono dalla natura delle terre, dalla presenza <strong>dei</strong> concimi e dall’estensione della superficie per i<br />

contadini.<br />

In generale, la regolamentazione a circoli tende, alla fine del XVIII secolo, a diventare il modello sociale e tecnico<br />

predominante, con cui si manifesta anche una lenta, ma costante evoluzione). Questo sistema è predominante nei<br />

dipartimenti di Calvi e di Bastia (il sistema a circoli domina in dieci cantoni su quindici nel Capo Corso; in otto su tredici nel<br />

Nebbio; in sei su nove nella Casinca). Al contrario, nel dipartimento di Corte la regolamentazione delle reghioni, prese e<br />

circoli nel periodo 1789-1800 non è ancora completa e prevale la gestione comunitaria della proprietà. <strong>Il</strong> caso del Diquà<br />

mostra così la realtà, la lentezza e la complessità di questa evoluzione.<br />

§. Struttura dualistica, parentela e modelli storici <strong>dei</strong> rapporti di classe<br />

L’evoluzione delle forze produttive in Corsica include la divisione e l’organizzazione del lavoro nel quadro di una struttura<br />

dualistica in cui si articolano gestione, proprietà familiare e regolamentazione comunitaria. A causa del lungo predominio<br />

dell’organizzazione familiare e parentale del lavoro, i rapporti di produzione sono stati percepiti come <strong>dei</strong> rapporti tra<br />

famiglie nello spazio ristretto della pieve e del villaggio. Le transazioni economiche, sociali e politiche sono state concepite<br />

necessariamente come relazioni tra parenti, tra famiglie e gruppi di famiglie all’interno delle varie comunità rurali. Queste<br />

relazioni sono unite strettamente ad investimenti e a tensioni familiari. Al contrario, i rapporti di parentela comportano<br />

inevitabilmente <strong>dei</strong> rapporti di cooperazione o di sfruttamento sociale: lo sfruttamento (dall’XI al XVI secolo) signorile <strong>dei</strong><br />

contadini, o quello delle comunità e delle famiglie rurali da parte <strong>dei</strong> caporali e degli altri grandi principali (dal XV al XVIII<br />

secolo) si sviluppano sotto forma di rapporti personalizzati da lignaggio a lignaggio, di «servizi» e «benefici», in relazione al<br />

livello di parentela. Le rivalità, i conflitti e le cooperazioni tra i membri delle classi dominanti per il mantenimento e<br />

l’estensione <strong>dei</strong> mezzi (terre, castelli, alleanze strategiche) e <strong>dei</strong> poteri sulla classe contadina hanno deviato e finalizzato i<br />

rapporti di parentela. Questi processi peseranno per molto tempo sulle relazioni familiari a livello economico, sociale e<br />

politico: purtroppo manca ancora uno studio dettagliato sulla funzione delle donne, degli uomini e del matrimonio nelle<br />

grandi tappe della storia sociale dell’isola 27 .<br />

I diversi processi evolutivi delle proprietà familiari da un lato, e della regolamentazione collettiva dall’altro, saranno<br />

l’oggetto di conflitti tra classi e strati sociali all’interno delle pievi. Solo considerando questi processi si riescono ad<br />

inquadrare i due aspetti fondamentali della genesi e dell’evoluzione economica in Corsica: essi sono strettamente connessi<br />

alla nascita e all’instaurazione della società feudale. È necessario, pertanto, rievocare i sistemi che hanno trasformato e<br />

rinnovato il dominio dell’aristocrazia fondiaria dopo la scomparsa del sistema delle signorie.<br />

§. <strong>Il</strong> nuovo dominio sociale dell’aristocrazia rurale dal XV al XVIII secolo<br />

La presenza di una forte aristocrazia feudale aveva spinto la Repubblica di Genova, già dalla fine del XIV secolo, ad<br />

appoggiare, nella gestione amministrativa, giurisdizionale e politica dell’isola, il notabilato corso. Genova era riuscita, con il<br />

passare <strong>dei</strong> secoli e con l’attuazione di una forte politica repressiva, ad eliminare quasi completamente i Signori dal potere,<br />

concedendo in appalto o in affidamento diretto ai clan notabilari (ed ai vari “caporali”) la gestione dell’intera macchina<br />

burocratica isolana. Al momento della scomparsa delle signorie rurali (nella seconda metà del XIV secolo nel Diquà,<br />

25 Così il villaggio di Spanno, che possiede tre prese all’inizio del XIV secolo, fraziona la presa di Lama e ne crea una nuova, quella di Chiaffusi,<br />

documentata nel 1381. Numerose comunità dispongono generalmente di due prese: è il caso, nel Nebbio, della pieve di Mariana e di quella di Alesani; in<br />

Balagna, all’inizio del XVII secolo, nel villaggio di Belgodere, si consumano alternativamente due prese comunali, la presa soprana, e la presa sottana.<br />

L’analisi delle deliberazioni contadine di un intero ventennio mostra che le prese sono soggette alternativamente a due anni di lavorazione e a due anni di<br />

riposo. Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie E, Fondi del notaio Giacomo di Belgodere (1585-1605).<br />

26 Specialmente nel Dilà, nelle pievi di Ornano e Taravo; cfr. LAMOTTE P., Deux aspects de la vie communautaire en Corse avant 1768 cit., pp. 88-93.<br />

Sempre nel Dilà, nell’anno X, nelle pievi di Nebbio e Murato. Le risposte alle domande 37 e 38 dell’inchiesta prevostale mostrano l’esistenza di tre prese,<br />

ognuna seminata per un anno e lasciata in giacenza per due anni. Al momento della coltivazione ogni presa «si divide per mezzinate o bacinate ad ogni<br />

famiglia».<br />

27 Cfr. CASANOVA A., Mariage et communauté rurale: l’exemple corse, «Cahiers du centre d’études et de recherches marxistes», 1965-1966; cfr. anche ID.,<br />

Femmes corses et femmes méditerranéennes, n. speciale di «Études corses», 6-7 (1976).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

all’inizio del XVI secolo nel Dilà) le forze produttive non erano ancora abbastanza evolute per accelerare la scomparsa della<br />

piccola proprietà e delle strutture comunitarie. «L’artigianato» agrario e la gestione familiare assicuravano soltanto la<br />

permanenza del sistema agro-pastorale, che tendeva ad arricchirsi con lo sviluppo delle colture arbustive. L’evoluzione<br />

dell’agricoltura e la crescente differenziazione sociale all’interno delle comunità favorirono lo sfruttamento delle famiglie<br />

contadine da parte <strong>dei</strong> notabili rurali, specie nelle pievi che avevano maggiormente sviluppato l’allevamento e l’agricoltura<br />

di mercato. Ripresero vigore le antiche forme di sfruttamento sociale, adattate alle nuove condizioni. Alla classica mezzadria<br />

si sostituisce, lentamente, un contratto in cui il contadino, oltre ad essere sottoposto ad un proprietario, si trasforma in<br />

produttore autonomo, gestisce gli strumenti di produzione e diventa responsabile della coltivazione <strong>dei</strong> campi. Questo è<br />

evidente nelle relazioni contrattuali come l’affitto o, meglio ancora, nelle relazioni operate sulla base del terratico,<br />

dell’erbatico o, per il bestiame, del contratto di soccida. <strong>Il</strong> disegno di fondo del boatico è analogo a quello dell’usura, diffusa<br />

nelle campagne corse tra il XIV ed il XVIII secolo: il creditore (curato, «caporale» grande proprietario, commerciante<br />

genovese o corso) preleva sul debitore una forte rendita. Quest’ultimo si trova comunque in una situazione di dipendenza: è<br />

sfruttato sia come produttore indipendente, sia come autonomo utente <strong>dei</strong> propri strumenti di produzione. Oltre a lavorare<br />

con i propri mezzi su terre che gli appartengono, deve anche affrontare la responsabilità <strong>dei</strong> raccolti, da cui dovrà decurtare<br />

(in natura o in denaro) il prelievo per il Signore.<br />

La presenza delle piccole proprietà contadine era comunque troppo diffusa per permettere ai Signori di assoggettare<br />

facilmente queste comunità: esistono numerosi piccoli proprietari che non sono né loro salariati né loro mezzadri, né loro<br />

debitori. I grandi proprietari non possono trarre profitto dal loro lavoro come facevano (a livello fiscale) i padroni delle<br />

signorie banali nella seconda metà del XIV secolo. Non vogliono tuttavia abbandonare quei surplus già ampiamente sfruttati<br />

in passato dai nobili, dai signori di vassalli, e dai padroni delle castellanie.<br />

I notabili di campagna, a partire dalla fine del XIV secolo, cercano di risolvere questi problemi adattandosi alle nuove<br />

esigenze ed alle nuove realtà. I primi a tentare una soluzione furono i grandi ed influenti proprietari del Diquà che<br />

dominavano le pievi ed i villaggi più sviluppati dell’isola, tra il 1360 e la prima metà del XV secolo 28 . Emersi dal seno<br />

dell’antica nobiltà, priva ormai del potere banale, ma soprattutto dalle famiglie «popolari» fuoriuscite della rozzezza<br />

(attraverso i servizi feudali e soprattutto attraverso l’accaparramento <strong>dei</strong> beni e delle funzioni ecclesiastiche), spesso<br />

sobillatrici di rivolte antifeudali, queste famiglie di caporali non riescono a sostituirsi ai padroni delle signorie banali e<br />

rilevare, sotto questa forma, delle rendite feudali sui contadini. I tentativi <strong>dei</strong> principali (nel lungo periodo) si possono<br />

riassumere in tre tipologie essenziali:<br />

1. <strong>Il</strong> mantenimento e l’estensione del loro potere in bestiame, terre e, soprattutto, lo sfruttamento (con forme che vanno della<br />

devastazione all’usura) del più grande numero possibile di famiglie contadine.<br />

2. <strong>Il</strong> controllo (a partire da una base di lignaggi-dipendenze e di catene parentali) delle istituzioni politiche <strong>dei</strong> villaggi e<br />

delle pievi, predisponendo, direttamente o indirettamente (attraverso amici, parenti, famiglie di notabili, «obbligati»...), una<br />

rete di clan quanto più possibile estesa. Questo tipo di controllo presenta parecchi vantaggi essenziali: innanzitutto permette<br />

alle famiglie caporalizie di estendere e sviluppare l’impiego o l’usurpazione (o ancora l’usurpazione-appropriazione privata)<br />

<strong>dei</strong> beni comunali e <strong>dei</strong> diritti collettivi più fruttuosi. In ragione della stessa struttura dualistica delle comunità rurali, questo<br />

controllo permette al «caporale» ed agli altri principali di imporre gradualmente “obblighi” e di accedere al beneficio <strong>dei</strong><br />

beni comunali (diritti di uso, protezione giudiziale, fiscale...).<br />

I grandi notabili possono così esercitare un’efficace pressione sui contadini, anche su quelli che non sono loro mezzadri o<br />

loro debitori. Pressione che permette di ricavare una rendita costante (derivata direttamente dalla rendita feudale), sotto<br />

forma di regalie estorte con diversi pretesti (spostamenti, matrimonio, pretesa protezione contro le decisioni statali) 29 .<br />

3. L’estensione di questo controllo delle pievi e <strong>dei</strong> villaggi procura allo stesso tempo ai principali un ultimo vantaggio<br />

essenziale, complementare ai precedenti. Si tratta del potere socio-politico, che permette di negoziare meglio col potere<br />

statale (instauratosi a partire dalla fine del XIV secolo) e di partecipare alla rendita centralizzata (con lo sviluppo del sistema<br />

fiscale e delle strutture amministrative): poteva trattarsi di sussidi versati regolarmente (come le «pensioni» che Vincetello di<br />

Istria, allora principe-conte dell’isola, regolarizza all’inizio XV secolo), di posti o «uffici» nella giustizia e<br />

nell’amministrazione, di vantaggi agrari, fiscali, commerciali, ecc...<br />

§ 3. I rapporti sociali dominanti nelle campagne corse (1770-1780)<br />

La diversa tipologia <strong>dei</strong> rapporti sociali analizzati finora rimane nella sfera del metodo di produzione feudale, pur<br />

costituendo un rinnovamento qualitativo, una forma di adattamento allo sviluppo delle forze produttive, degli scambi, <strong>dei</strong><br />

rapporti sociali, culturali, politici in Corsica e nel <strong>Mediterraneo</strong>. La realizzazione concreta del sistema sociale si attua in<br />

momenti diversi, che richiedono un’attenzione specifica.<br />

§ Le caratteristiche <strong>dei</strong> rapporti di produzione verso il 1770<br />

Questi rapporti (tenuto conto degli effetti e <strong>dei</strong> cambiamenti) strutturano il sistema sociale delle campagne corse nel corso<br />

del XVIII secolo. <strong>Il</strong> polo dominante in questo tipo di rapporti sociali è costituito dall’aristocrazia <strong>dei</strong> grandi proprietari<br />

28 Sulle caratteristiche dell’evoluzione economica e sociale nei secoli XIV, XV e XVI e l’ascesa <strong>dei</strong> grandi notabili rurali, cfr. CASANOVA A., Notes sur les<br />

Caporaux et les communautés rurales corses fin XIV e et XV e siècles, «Corse Historique», 9-10 (1963).<br />

29 Sul processo di estensione della rendita di tipo feudale e della “protezione”, cfr. il caso del massiccio prelievo in denaro ed in natura operato nel XV<br />

secolo dai grandi notabili, con la scusa di esentare le famiglie contadine da un trasferimento a Porto-Vecchio.<br />

114


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

terrieri, di cui abbiamo appena rievocato l’origine a partire dal XV secolo. La classe <strong>dei</strong> capopopoli, principali, prepotenti,<br />

attraverso frequenti conflitti di clan, si è trovata associata alla gestione ed al funzionamento dell’apparato statale in Corsica<br />

dall’epoca del dominio genovese, fino a Paoli (che non poteva escluderla dalla gestione amministrativa del potere politico) 30 ,<br />

ed alla monarchia francese. Essa possiede così, fino al 1770, la possibilità di rafforzare il proprio ascendente ed i mezzi di<br />

coercizione extra-economica sulla vita <strong>dei</strong> contadini. È essenziale precisare che la natura <strong>dei</strong> rapporti di produzione generata<br />

da questa evoluzione forma il quadro strutturale in cui, e contro cui, opera l’evoluzione delle forze produttive materiali ed<br />

umane nelle campagne.<br />

I rapporti di produzione che questi grandi proprietari intrattengono con la classe contadina non hanno nulla di paragonabile<br />

con la feudalità francese, che sfruttava i piccoli proprietari delle comunità rurali attraverso una complessa associazione di<br />

corvées, tasse in natura e tasse in denaro (quest’ultimo prelevato da un proprement seigneurial attraverso banalità, poteri<br />

giudiziali ed amministrativi). Non si tratta nemmeno di una borghesia rurale «all’inglese», che gestiva le grandi proprietà<br />

con una manodopera di salariati liberi. <strong>Il</strong> processo di sfruttamento <strong>dei</strong> produttori rurali corsi prima e dopo il 1770, è<br />

complesso: esso agisce indirettamente sul «salariato misto» e soprattutto attraverso la predominanza di contratti (spesso<br />

verbali) di mezzadria sugli introiti. Sulle terre, l’aristocrazia fondiaria prelevava i beni con il terratico (prelievo che nel<br />

Diquà vale da un quarto alla metà del prodotto) o sul bestiame (con un prelievo che va da un quarto alla metà nel Diquà, alla<br />

metà nel Dilà) 31 . Mezzadria precaria dunque, piuttosto che affitto (per il bestiame il nome del contratto è livello). Lo<br />

sfruttamento <strong>dei</strong> produttori al dettaglio si attua attraverso l’usura, molto diffusa (soprattutto dopo le crisi di sussistenza), ma<br />

anche in altri modi. <strong>Il</strong> dominio <strong>dei</strong> grandi notabili si attua anche attraverso il controllo fiscale: fenomeno è evidente<br />

soprattutto durante il generalato di Paoli. Questo dominio, che implica necessariamente <strong>dei</strong> rapporti clientelari tra contadini e<br />

prepotenti e le liti tra i clan, si evolve lentamente con il passare <strong>dei</strong> secoli. Come i caporali <strong>dei</strong> secoli XIV, XV e XVI, i<br />

principali del XVII e XVIII secolo, in collegamento con il lento movimento delle forze produttive, mantengono in Corsica<br />

un rapporto di produzione di tipo feudale, che s’immette nel sistema capitalistico attraverso la mezzadria generalizzata. Pur<br />

con notevoli differenze storiche e geografiche, questo processo ha tracciato il suo percorso in tutte le terre del bacino<br />

occidentale del <strong>Mediterraneo</strong> (dall’Italia del centro, del sud e delle isole, fino al Portogallo) 32 .<br />

§ 4. Le classi sociali nelle campagne corse alla fine del XVIII secolo<br />

È molto difficile, allo stato attuale della documentazione archivistica, avere un’idea chiara delle caratteristiche e <strong>dei</strong> limiti<br />

delle principali classi sociali dell’isola alla fine del XVIII secolo, specialmente riguardo alla proprietà fondiaria ed alla<br />

percentuale della popolazione. Alle consuete difficoltà di questo tipo di ricerche, si aggiungono gli ostacoli della realtà<br />

corsa: le fonti sono eterogenee e prive di informazioni statistiche; lo studio delle classi sociali è appena agli inizi e manca<br />

una bibliografia esauriente sul territorio; sono scarse le informazioni catastali e fondiarie 33 , enormi le lacune degli inventari<br />

<strong>dei</strong> beni nazionali, quasi inesistenti gli stati di sezione 34 . Alcuni documenti 35 forniscono tuttavia <strong>dei</strong> dati relativamente precisi<br />

sulla proprietà fondiaria e sulle caratteristiche di classi e strati sociali rappresentativi <strong>dei</strong> principali sistemi di cultura delle<br />

forze produttive. Altre informazioni utili sulle professioni e sulle «condizioni sociali» sono reperibili nei verbali delle<br />

assemblee di villaggio delle pievi a sud di Ajaccio 36 (che elaborarono i Cahiers de Doléances) e nei registri parrocchiali 37 .<br />

Tuttavia il contributo di queste fonti può dare adito a molteplici interpretazioni, in ragione della loro stessa natura. Lo stato<br />

di sezione di Tomino mostra chiaramente quanto siano profonde le differenze sociali rispetto ai mezzi di produzione. A<br />

partire da questi dati, oscuri e difficili, si è stato tentato di tracciare brevemente i lineamenti delle classi e degli strati sociali<br />

che popolano le campagne corse nel periodo 1770-1780.<br />

§ I Giornalieri<br />

30 Cfr. ROVERE A., La Corse au temps de Pascal Paoli, in ID., Peuple corse Révolution et Nation Française, Paris 1979, pp. 15-107.<br />

31 Questi dati si mostrano chiaramente nelle risposte al Questionario dell’Anno X, volume annesso I, cap. XI, notizia documentaria I e tabelle n. 7, 8, 9 e 10.<br />

32 Cfr. VILLANI P., Feudalità, riforme cit. e SERENI E., Storia del paesaggio rurale italiano cit., pp. 244 e 280-285. Cfr. anche SOBOUL A., La révolution<br />

française dans l’histoire du monde contemporain, in ID., Les voies de la révolution bourgeoise, «Recherche Internationales à la lumière du marxisme», 62<br />

(1970), ed ID., Problèmes paysans de la Révolution (1789-1848), Paris 1976 pp. 9-23 e 335-431 ed anche GIORGETTI G., Capitalismo e agricoltura in<br />

Italia, Roma 1977, pp. 51, 263-273 e 331-352.<br />

33 Cfr. quelle della Rebbia nel Bozio, vicino a Corte. Arch. dép. Corse-du-Sud (Serie C. Intendence 580) e quelle della provincia di Vico (Serie C.<br />

Intendence 1). Queste ultime sono state utilizzate da MAGDENEL E. nelle Recherches sur les communautés rurales en Corse au XVIII e siècle, op. cit.<br />

34 Allo stato attuale della documentazione si dispone solamente di due sezioni ritrovate da M. Lacroix, direttore degli Archivi dipartimentali dell’Haute-<br />

Corse. Si tratta di quelli di Tomino e di Centuri nel nord del Capo Corso. Lo stato di Centuri è incompleto e presenta solamente delle indicazioni<br />

superficiali. Quello di Tomino permette invece di afferrare con una rara precisione le relazioni tra tipi di coltura, proprietà, classi e strati sociali.<br />

35 Si tratta delle Tabelles del 1774 (in cui risultano censite le famiglie di pastori-coltivatori di diciassette villaggi della Piana Orientale dell’isola),<br />

dell’estratto delle proprietà di Città di Pietrabugno nel 1785 (a nord di Bastia), dello stato delle proprietà di Ajaccio del 1775, dello stato di sezione di<br />

Tomino. <strong>Il</strong> contributo di questi testi può essere completato in parte con i dati frammentari forniti dai documenti della Sovvenzione della Rebbia e della<br />

provincia di Vico nel 1772.<br />

36 Arch. dép. Corse-du-Sud. Série C 637, Cahiers de Doléances de la province d’Ajaccio. In questo fondo si trovano 47 Quaderni <strong>dei</strong> villaggi che<br />

appartengono a sette pievi dell’est e del sud-est della provincia di Ajaccio.<br />

37 Arch. dép. Corse-du-Sud. Série II E, Registres paroissiaux. In certi villaggi, ma senza regolarità cronologica, i curati indicano la professione e la<br />

«condizione» delle persone iscritte nei loro registri. Queste menzioni sono particolarmente frequenti negli atti di matrimonio. L’analisi di queste fonti<br />

permette di conoscere in modo molto approssimativo la natura delle «condizioni» sociali di alcuni villaggi come Aregno in Balagna, Murato nel Nebbio,<br />

Luri nel Capo Corso, Santa Lucia nel Bozio, Albertacce nel Niolo, Quenza nel Sartenese. Si è tentato anche un sondaggio più sistematico nei villaggi delle<br />

pievi di Tavagna, Casinca, Casacconi, Rostino, Ampugnani, Orezza. I primi due sono localizzati nelle colline della pianura orientale, gli altri si trovano<br />

nella Castagniccia (Orezza) e nella zona montagnosa centrale.<br />

115


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

La maggioranza della popolazione <strong>dei</strong> villaggi corsi, nel periodo 1770-1780, sembra composta da produttori al dettaglio e da<br />

piccoli proprietari, relativamente padroni <strong>dei</strong> mezzi di sussistenza e sottoposti ad un processo di sfruttamento differenziato.<br />

In questo insieme, una classe dai tratti specifici è costituita da contadini quasi totalmente privi di terra, che sopravvivono<br />

facendo delle «giornate» di lavoro presso altri agricoltori. Queste persone, che vendono regolarmente la propria forza-lavoro,<br />

sono qualificate dagli inquirenti, dagli osservatori o dai curati parrocchiali come giornalieri, o persone di zappa, o povera<br />

gente, reputata di «condizione miserabile» o «infima»; i dati delle città di Pietrabugno, di Ajaccio e soprattutto di Tomino<br />

permettono di identificare abbastanza chiaramente i caratteri generali di questa categoria. Le famiglie <strong>dei</strong> giornalieri<br />

detengono tra l’1% e l’1,5% del suolo. Queste comunità agricole costituiscono la base delle micro-proprietà familiari,<br />

comprese tra 1,30 (ad Ajaccio) o 1,70 (a Tomino) bacinate, cioè dieci-undici are 38 . Nei villaggi della Piana Orientale la terra<br />

coltivata in proprio dai giornalieri è praticamente inesistente, perché si aggira attorno alle 0,70 bacinate. La classe <strong>dei</strong><br />

giornalieri rappresenta una percentuale compresa tra il 10 (a Pietrabugno) ed il 15-16% (rispettivamente a Tomino ed ad<br />

Ajaccio) della popolazione. La proporzione è simile nelle pievi della Piana Orientale. I dati di Tomino e di Pietrabugno<br />

lasciano supporre che questi lavoratori avessero generalmente un patrimonio ed un reddito fondiario estremamente debole. È<br />

difficile valutare il peso globale della classe <strong>dei</strong> giornalieri, sprovvista quasi interamente di terre, nella società rurale corsa<br />

degli anni settanta del XVIII secolo. Nel Capo Corso e nella terra di Ajaccio, rappresenta probabilmente il 10-15% della<br />

popolazione, contro l’8-15% delle pievi agro-pastorali della costa orientale. Probabilmente la percentuale diminuisce nelle<br />

comunità rurali dell’interno. Nella provincia di Vico, verso il 1775, questi contadini hanno un reddito compreso tra 0 ed 1<br />

lira e costituiscono l’1-1,5% degli abitanti. I dati fondiari e fiscali non vengono completati dalle informazioni fornite dai<br />

Cahiers de Doléances <strong>dei</strong> villaggi o dai registri parrocchiali. <strong>Dal</strong>l’analisi <strong>dei</strong> Cahiers si ha l’impressione che i giornalieri,<br />

abbastanza numerosi nei villaggi attorno ad Ajaccio, si attestino tra il 3 ed il 4% della popolazione. L’esame <strong>dei</strong> registri<br />

parrocchiali della giurisdizione della Porta fornisce dati diversi, ma ancora più incerti. I giornalieri sembrano costituire il 4%<br />

della popolazione <strong>dei</strong> villaggi delle pievi montanare ed agro-pastorali contro una percentuale variabile tra il 20 ed il 30%<br />

nella Casinca. Forse i giornalieri agricoli compongono allora una percentuale compresa tra il 3-4 ed il 15% <strong>dei</strong> contadini<br />

nelle zone a prevalenza agro-pastorale. Potrebbero assestarsi attorno al 10-15% nelle regioni più evolute, con<br />

un’arboricoltura di mercato, arrivando forse al 20% in Casinca.<br />

38 Vd. MONTI A.D., Essai sur les anciennes unites de mesure utiliseés en corse avant l’adoption du systeme metrique, Cervioni 1982: «la bacinata est la<br />

superficie de terrain capable de recevoir un bacinu de semence en céréales. Pour un bacinu déterminé, cette mesure variait en fonction de la qualité de la<br />

terre. En effet, l’ensemencement était plus dense dans les terres riches que dans les terres pauvres: «la pianura riceve più semente che la collina e le terre<br />

macchiose». Voici une correspondance avec le système métrique: bonnes terres 3,01 ares, terres médiocres 3,93 ares, mauvaises terres 4,63 ares. Le<br />

Chanoine Casanova donne la correspondance suivante: 10 arpents valent 139,9 bacinate en bonnes terres, 107,11 en terres médiocres, 84,63 en terres<br />

mauvaises. En comptant l’arpent de Paris 34,18869 ares, on obtient pour la bacinata: 2,44 ares en bonnes terres, 3,19 en terres médiocres, 4,04 en terres<br />

mauvaises. Bien entendu, il faut aussi tenir compte du bacinu local. En 1839, le juge de Cervioni estime à 5 ares la bacinata dans la plaine alluviale de<br />

Fiumalisgiani. Lors de l’estimation des biens nationaux de la communauté de Brandu, faite le 13 floréal en VI, la bacinata vaut 3,6 ares (Arch. dép. Ajaccio<br />

1 Q 43)». Per le fonti sulle unità di misura in Corsica, cfr. Elenco di dimande fatte dal prefetto del Golo alli Sotto-Prefetti, Maires, e Giudici di Pace del<br />

detto Dipartimento sulla Statistica (1801), Communes de Cervione, San Giuliano et Valle di Cervione. Arch. Dép. Ajaccio, 13 M2; «Tavole di ragguaglio<br />

per le misure, i pesi e monete moderne e antiche» trascritte dal Pellegrino, Consigliere Nobili, Vice-Presidente Reggio, tip. Torregiana e Compagnia, 1829<br />

«U Muntese», 52 (1959).<br />

116


Percentuali<br />

50<br />

45<br />

40<br />

35<br />

30<br />

25<br />

20<br />

15<br />

10<br />

5<br />

0<br />

FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

Tomino<br />

La ripartizione della proprietà in alcune pievi della Corsica (1770-1780)<br />

Pietrabugno<br />

Ajaccio<br />

Rogna<br />

Castello<br />

Cursa<br />

Covasina<br />

Cantoni<br />

117<br />

Porto-Vecchio<br />

Valore medio<br />

Grande Aristocrazia fondiaria 1<br />

Borghesia 1<br />

Giornalieri 1<br />

mezzadri-giornalieri 1<br />

Contadini autonomi 1<br />

mezzadri-proprietari 1<br />

Grafico 8: La ripartizione della proprietà in alcune pievi della Corsica verso il 1770-1780. Percentuale rispetto alla popolazione<br />

Percentuali<br />

100<br />

75<br />

50<br />

25<br />

0<br />

Tomino<br />

La ripartizione della proprietà in alcune pievi della Corsica verso il 1770-<br />

1780 - percentuale di terra coltivata<br />

Pietrabugno<br />

Ajaccio<br />

Rogna<br />

Castello<br />

Cantoni<br />

Cursa<br />

Covasina<br />

Porto Vecchio<br />

Valore medio<br />

Grafico 9: ripartizione della proprietà e percentuali<br />

Grande Aristocrazia fondiaria<br />

Borghesia<br />

Contadini autonomi<br />

mezzadri-proprietari<br />

mezzadri-giornalieri<br />

Giornalieri


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

§. <strong>Il</strong> vasto gruppo <strong>dei</strong> contadini dipendenti di tipo misto<br />

Al di sotto questa classe contadina quasi interamente priva di terra, che vive della vendita della propria forza-lavoro, si trova<br />

il vasto insieme <strong>dei</strong> piccoli proprietari, mezzadri e giornalieri saltuari o (relativamente) regolari. Si tratta di una categoria<br />

variabile, ma che lascia discernere al suo interno i contorni di tre strati sociali ben delineati.<br />

a) I piccoli proprietari giornalieri-mezzadri<br />

La prima classe è costituita da famiglie qualificate come “miserabili”, anche se dispongono di una maggiore quantità di terra<br />

rispetto ai giornalieri: in media 2/5 bacinate o 14/37 are. Resta comunque una quantità misera, che le obbliga a cercare<br />

sussistenza nelle attività salariali e nella mezzadria, come accade nel Capo Corso. Nella pieve di Tomino questa categoria<br />

sociale, rappresentata dalle famiglie che possiedono in media 5 bacinate, comprende i giornalieri, alcuni vignaioli e <strong>dei</strong><br />

marinai. Queste persone detengono circa il 9% del suolo comunale, rappresentano il 32% della popolazione e dispongono di<br />

un reddito fondiario che, approssimativamente, si aggira tra una e cinque lire. A sud del Capo Corso, a Pietrabugno, questi<br />

micro-proprietari detengono tra le due e le cinque bacinate e possiedono il 7,5% del suolo, rappresentando il 29% della<br />

popolazione. Ogni famiglia detiene in media 2,25 bacinate. Nella terra d’Ajaccio, attorno al 1775, si trova una situazione<br />

simile: la proprietà familiare è in media di 3,28 bacinate. I lavoratori detengono poco più del 2% della superficie censita,<br />

dove costituiscono il 25% della popolazione <strong>dei</strong> capi famiglia iscritti nelle dichiarazioni di proprietà. Contemporaneamente<br />

nelle pievi della Piana Orientale questi contadini micro-proprietari dipendenti mantengono lo status di mezzadri precari. La<br />

loro condizione è simile a quella <strong>dei</strong> «miserabili» giornalieri, ma si distinguono per l’affitto e la semina annuale di una<br />

quantità di terra circoscritta tra le pievi di Rogna, Cursa e Porto-Vecchio 39 . In media questi pastori-coltivatori (mezzadri<br />

precari) coltivano da tre a quattro bacinate per famiglia. La loro presenza cresce proporzionalmente al passaggio dalla pieve<br />

di Rogna fino a quella di Porto-Vecchio 40 , per assestarsi intorno al 25% della popolazione ed al 15% della superficie<br />

seminata. <strong>Il</strong> gruppo sociale <strong>dei</strong> micro-proprietari dipendenti sembra così rappresentare dal 7 al 10% della popolazione nelle<br />

zone dove predomina un’agricoltura caratterizzata dalla forte presenza dell’olivicoltura e soprattutto della viticoltura. In<br />

questo tipo di terre, i contadini micro-proprietari dipendenti sono piuttosto <strong>dei</strong> proprietari-giornalieri. Nelle regioni dove<br />

predominano i sistemi di coltura agro-pastorali, i micro-proprietari dipendenti si presentano con caratteristiche diverse. Si<br />

tratta di contadini che possono svolgere delle giornate di lavoro per aumentare il reddito, ma che vivono essenzialmente con<br />

la presa di terra e con il bestiame a mezzadria precaria; rappresentano circa il 25% della popolazione nei villaggi della Piana<br />

Orientale dell’isola. Nella provincia di Vico, attorno al 1775, i contadini che ricevono da una a cinque lire di reddito annuale<br />

costituiscono il 20-21% del totale. Al centro dell’isola (a Rebbia, nel Bozio, vicino a Corte) rappresentano il 17% circa della<br />

popolazione. Generalmente queste famiglie di produttori al dettaglio sfruttati come giornalieri-mezzadri o come mezzadri<br />

costituiscono forse il 7-10% della popolazione nei territori del Capo Corso ed il 20-25% nelle zone agro-pastorali. I<br />

contadini appartenenti a questi strati sociali sono accomunati da un accesso limitato alle forze produttive esistenti sul suolo<br />

delle loro pievi.<br />

b) Lavoratori e vignaroli proprietari-mezzadri<br />

Un’altra tipologia di contadini dipendenti è costituita dalle famiglie di proprietari e mezzadri precari. La parte di proprietà<br />

delle famiglie di questo terzo gruppo è più sostanziale: si estende generalmente tra 5/10 bacinate. A Tomino i contadini<br />

possiedono in media 8,6 bacinate per famiglia di cui 3,5 devoluti alla vite, 4,4 alla macchia, con frammentarie porzioni ad<br />

olivi (0,40 bacinate) e cereali (0,20 bacinate). A Pietrabugno i contadini della stessa categoria detengono sette bacinate per<br />

famiglia. Si riscontra una minore quantità di macchia, una percentuale leggermente maggiore in cereali (0,75 bacinate) e,<br />

riguardo all’arboricoltura, un’inferiore presenza delle vigne. Una struttura simile, attorno al 1775, si ritrova ad Ajaccio. La<br />

gamma delle colture è qui più completa rispetto a quella <strong>dei</strong> ceti contadini precedentemente esaminati: la vite ed i cereali,<br />

tuttavia, sono quasi del tutto assenti. Anche se la proprietà <strong>dei</strong> mezzi di produzione, sia per l’estensione delle terre che per il<br />

sistema di coltivazione, è più forte che negli altri due gruppi sociali <strong>dei</strong> contadini-microproprietari e contadini-dipendenti,<br />

non riesce comunque ad assicurare la sussistenza. Perciò a Tomino gli abitanti che possiedono da cinque a dieci bacinate<br />

fanno ricorso alle locazioni di terra o alle attività salariate. Queste famiglie sono composte essenzialmente da vignaioli, da<br />

giornalieri e da marinai. <strong>Il</strong> reddito fondiario annuo delle loro terre si aggira tra le cinque e le dieci lire.<br />

Nelle terre caratterizzate dall’egemonia dell’arboricoltura (come il Capo Corso) o dalla sua prevalenza, questo strato sociale<br />

può rappresentare dal 9 al 15% (talvolta anche il 24%) della popolazione 41 e detenere dal 3 al 12% del territorio 42 . I villaggi<br />

delle zone agro-pastorali sembrano contenere una maggiore proporzione di contadini di statuto misto, che dispongono di un<br />

reddito fondiario variabile tra 1 e 5 lire. Nelle comunità della Piana Orientale essi rappresentano circa il 44% della<br />

popolazione. Coltivano ogni anno il 57-60% della superficie censita nelle Tabelles. Queste famiglie sono meglio fornite in<br />

mezzi di produzione (e non sottoposte alle usurpazioni della mezzadria) rispetto a quelle <strong>dei</strong> pastori-coltivatori,<br />

generalmente formate da mezzadri precari. Infatti detengono la maggior parte del bestiame ed una magra porzione di terre 43 .<br />

39<br />

I pastori-coltivatori che vivono solamente di mezzadria coltivano ogni anno undici/dodici bacinate nella pieve di Rogna, sei/sette in quelle di Castello e di<br />

Covasina, una in quelle di Cursa e di Porto-Vecchio.<br />

40<br />

I mezzadri rappresentano l’8% della popolazione delle Tabelles nella pieve di Rogna, il 17% in quella di Covasina, il 23% in quella di Cursa, il 25% in<br />

quella di Castello, il 37% in quella di Porto-Vecchio.<br />

41<br />

il 9% a Tomino, il 24% a Città di Pietrabugno, il 15% ad Ajaccio.<br />

42<br />

il 4% a Tomino, il 2,80% ad Ajaccio, il 12% a Città di Pietrabugno.<br />

43<br />

Questa porzione è ridotta. Nella pieve di Rogna, i contadini di statuto misto che affittano il bestiame e sono proprietari della loro terra o che coltivano <strong>dei</strong><br />

118


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

Nell’insieme, l’attività e la gestione familiare di questi contadini mezzadri-proprietari è quantitativamente e qualitativamente<br />

più equilibrata rispetto alle altre due classi di contadini dipendenti. La superficie di terra coltivata annualmente, più forte<br />

nella pieve di Rogna, ancora molto debole in quella di Porto-Vecchio, si aggira tra le dodici e le tredici bacinate, di cui i 2/3<br />

coltivati a grano. Queste famiglie possiedono l’attacco per i buoi soltanto nelle pievi di Rogna e di Castello ma, in ciascuno<br />

<strong>dei</strong> diciassette villaggi, i pastori-coltivatori dispongono di una mucca. Le greggi allevate da ogni famiglia sono più numerose<br />

e presentano una più ampia presenza di ovini 44 .<br />

Nell’insieme questi contadini proprietari e mezzadri sono generalmente qualificati di «condizione miserabile» e di<br />

«condizione mediocre». Le classificazioni dominanti nelle campagne corse li distinguono tra giornalieri o tra famiglie rurali<br />

quasi interamente immerse nella mezzadria. Qualificati come coloni o pastori, i mezzadri puri sono inclusi dai curati o dagli<br />

autori delle Tabelles nella «condizione miserabile». I contadini di statuto misto sono spesso distinti dai produttori al<br />

dettaglio, che riescono a vivere del lavoro <strong>dei</strong> propri mezzi di produzione. Questi ultimi sono <strong>dei</strong> lavoratori <strong>dei</strong> propri beni,<br />

<strong>dei</strong> lavoratori del proprio 45 o <strong>dei</strong> lavoratori (o travagliatori) e pastori a suo uso 46 . I contadini semi-dipendenti sono invece,<br />

nelle stesse comunità rurali, qualificati soltanto come lavoratori o travagliatori. A Quenza, nel Sartenese sono detti<br />

lavoratori di conditione paesana. Nel Capo Corso, i curati registrano spesso i lavoratori o i vignaioli, e talvolta precisano<br />

anche le loro attività 47 . Questo non significa, comunque, che essi appartengano ad una classe sociale economicamente<br />

stabile, anche perché sono facilmente sospinti alla miseria o alla delinquenza dalle malattie, dai lutti, dai debiti o dai cattivi<br />

raccolti. Considerate nella loro globalità, queste famiglie di produttori dipendenti o semi-dipendenti sembrano rappresentare<br />

il nocciolo principale della popolazione <strong>dei</strong> villaggi corsi nei decenni che precedono la Rivoluzione francese. Durante il<br />

periodo della Rivoluzione corsa, la maggioranza delle pievi costituite da questa categoria di persone eleggeva, attraverso il<br />

sistema elettivo comunitario, i propri deputati alla Dieta di Corte.<br />

Al di là delle differenze che la costituiscono, questa classe presenta due caratteri essenziali: 1) l’insufficiente possesso <strong>dei</strong><br />

mezzi di produzione, che permettono di vivere in modo relativamente autonomo; 2) l’immissione in rapporti di produzione<br />

determinati e chiusi. I contadini non sono sfruttati in qualità di giornalieri, ma come lavoratori di unità produttive familiari<br />

che hanno la responsabilità <strong>dei</strong> mezzi di produzione ricevuti dall’alto. Essi provvedono al loro mantenimento a partire dal<br />

lavoro effettuato con il bestiame e con il godimento delle terre, completando o in parte sostituendo il profitto con i beni<br />

comunali. Con questi caratteri generali, i contadini dipendenti o semi-dipendenti occupano un posto di primo piano nella<br />

struttura sociale <strong>dei</strong> villaggi della Corsica, anche se con differenze notevoli all’interno dell’isola. Infatti, nei comuni dove<br />

predomina un sistema agricolo-pastorale, l’insieme <strong>dei</strong> contadini-lavoratori rappresenta il 40-50% degli abitanti 48 . Sembra si<br />

raggiunga una percentuale simile nei villaggi delle zone agro-pastorali come la provincia di Vico o nelle pievi del centro<br />

montano 49 . Questi fenomeni si trovano quantitativamente e qualitativamente rafforzati nelle zone dove l’egemonia della<br />

grande proprietà fondiaria è più accentuata. Infatti la percentuale <strong>dei</strong> contadini-mezzadri e <strong>dei</strong> proprietari-mezzadri si alza<br />

fino al 70% tra i pastori-coltivatori <strong>dei</strong> villaggi della Piana Orientale, dove si trova, tra l’altro, una percentuale di giornalieri<br />

vicina al 14%. Le caratteristiche di questi territori sono inscindibili dalla presenza della grande proprietà fondiaria. Nella<br />

provincia di Sartena, i documenti del contenzioso fiscale confermano le opinioni di Patin de la Fizelière 50 , secondo cui le<br />

grandi famiglie nobili controllano come mezzadri-associati (in terra, in bestiame ed in «corporazioni») la maggioranza <strong>dei</strong><br />

villaggi. Nelle comunità rurali della Piana Orientale, i Frediani ed i Morelli, padroni del Migliacciaro, ed i grandi fittavoli<br />

del Demanio Reale (per molto tempo gli Ettori ed i Rocca-Serra) hanno alle loro dipendenze solo il 36% <strong>dei</strong> pastoricoltivatori<br />

che vivono di mezzadria 51 . Questa classe di produttori al dettaglio, a partire dai contratti di mezzadria precaria<br />

(come il terratico, la corporazione, la soccida, il cinquino, il guadagno 52 ) dipende così dai capi di villaggio e, più ancora, dai<br />

beni comunali costituiscono l’8% <strong>dei</strong> contadini di statuto misto ed ogni anno coltivano ventisei bacinate di terra. Nella pieve di Castello, rappresentano il<br />

3% <strong>dei</strong> contadini proprietari dipendenti e possiedono, in media, diciassette bacinate di terra coltivata per famiglia. Nella pieve di Cursa questi contadini<br />

sono l’8% del totale dell’insieme a statuto misto e dispongono in ogni proprietà di tre o quattro bacinate a famiglia (su un totale di sette/otto coltivate ogni<br />

anno). Nella pieve di Covasina grazie alla presenza <strong>dei</strong> beni comunali coltivabili goduti dalle comunità rurali, i contadini che non sono obbligati ad affittare<br />

la loro terra costituiscono il 21% dello strato sociale <strong>dei</strong> pastori coltivatori di statuto misto; coltivano ogni anno sei/sette bacinate di terra, proveniente per il<br />

74%, da fondi comunali.<br />

44<br />

Queste famiglie possiedono in media tre maiali ed un gregge di piccola taglia, produttore di latte (37 capi in tutto, di cui il 70% di caprini ed il 30% di<br />

ovini). Nelle famiglie <strong>dei</strong> puri mezzadri, la taglia media del gregge preso ad affitto è di 25-30 capi di cui il 71,50% di caprini ed il 28,50% di ovini.<br />

45<br />

Registro parrocchiale del villaggio di Ghisoni II E 142 (1785).<br />

46<br />

Registri parrocchiali <strong>dei</strong> villaggi di Albertacce e di Calasima nell’alta valle del Niolo.<br />

47<br />

<strong>Il</strong> registro parrocchiale di Luri nel Capo Corso li classifica nel 1771 come lavoratori de mediocre conditione vivente colla propria fatica.<br />

48<br />

il 41% a Tomino, il 53% a Città di Pietrabugno, il 40% ad Ajaccio. I dati forniti dall’esame <strong>dei</strong> registri parrocchiali della giurisdizione della Porta non<br />

forniscono indicazioni statistiche precise. Al massimo si possono trarre delle considerazioni: le pievi di Casinca e Tavagna sembrano avere circa il 10-11%<br />

<strong>dei</strong> contadini mezzadri (ed il 30-40% di contadini giornalieri) ed il 45-65% di contadini di statuto misto.<br />

49<br />

L’esame <strong>dei</strong> registri parrocchiali del Rostino, di Ampugnani, di Orezza mostra che la classe <strong>dei</strong> contadini di statuto misto in ciascuna di questi pievi<br />

dovrebbe essere del 70,52 e 25% contro il 22,10 e 11% per i contadini totalmente dipendenti, composti da coloni o pastori mezzadri. In queste pievi la<br />

proporzione <strong>dei</strong> capifamiglia che vivono solamente del lavoro agricolo salariato, qualificati come giornalieri, sembra attestata tra il 4% (il Rostino) ed il 10-<br />

11% (Orezza ed Ampugnani).<br />

50<br />

Infatti 68 capifamiglia di Giuncheto, la maggioranza della popolazione del villaggio, sono compagnoni o hanno preso a soccida delle mandre (greggi) per<br />

conto di alcuni grandi proprietari di Sartena.<br />

51<br />

In questa zona le Tabelles mostrano che il 7% <strong>dei</strong> pastori-coltivatori ha preso della terra in mezzadria dipendente da tre grandi notabili, ognuno con 10-20<br />

mezzadri; l’8% <strong>dei</strong> pastori-coltivatori dipende dai sette proprietari che hanno 5-10 mezzadri ed il 7% dai 28 contadini proprietari che hanno 1-5 mezzadri.<br />

52<br />

TIPOLOGIA DEI CONTRATTI PASTORALI: LIVELLO: colui che prende il bestiame paga in moneta il proprietario (20 soldi a capo) o in natura (3 lire di<br />

formaggio secco nel cantone di Venaco). CINQUINO: il pastore riceve dal padrone del bestiame una retribuzione in natura come rimborso-spesa, ossia 1<br />

pelone, 1 ascia e 6 bacini di farina per gruppi di 10 pecore (Santo Pietro, Morosaglia, Gavignano, Belgodere). Gli spetta 1/5 della lana e di formaggio, 1<br />

agnello macellato su 5 e una delle bestie divenute adulte su 15 o 20 capi. MEZZADRIA: <strong>Il</strong> produttore immediato prende carico e responsabilità del capitale<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

grandi latifondisti, che hanno una grande influenza sui poteri amministrativi e che, con il controllo <strong>dei</strong> beni comunali,<br />

dispongono di mezzi di costrizione extra-economici su tutta la classe contadina.<br />

Questo tipo di rapporto sociale non permette ai contadini-dipendenti o semi-dipendenti di sviluppare le forze produttive, di<br />

perfezionare o di rendere più complesso l’allevamento ed il sistema agricolo della loro regione: si tratta, al contrario, di una<br />

situazione che rende problematica l’estensione <strong>dei</strong> mezzi di sussistenza.<br />

§ Le caratteristiche <strong>dei</strong> «lavoratori <strong>dei</strong> propri beni»<br />

Ad un livello superiore si trova la classe <strong>dei</strong> contadini che riescono, generalmente, a vivere con i propri mezzi di produzione<br />

o grazie ai beni comunali. La denominazione caratteristica di questi contadini è quella di lavoratori <strong>dei</strong> propri beni o<br />

lavoratori del proprio, o ancora lavoratori o pastori a suo uso e la loro condizione è dichiarata mediocre o talvolta onesta. <strong>Il</strong><br />

reddito fondiario annuo medio sembra coincidere tra 10 e 50 lire. A Tomino tra i contadini che possiedono almeno<br />

dieci/quindici bacinate, non figurano né giornalieri né marinai. Quasi tutti sono <strong>dei</strong> vignaroli che, con più o meno difficoltà,<br />

vivono del lavoro delle loro terre. La possibilità di disporre di surplus relativamente regolare e di arrivare all’agiatezza, pur<br />

rimanendo nella classe sociale <strong>dei</strong> contadini, implica il possesso di 40/70 bacinate (3/5 ettari 53 ).<br />

Nelle regioni dell’isola a prevalenza agro-pastorale, la proprietà varia tra 93 e 120 bacinate (7/9 ettari) di cui 30/40 coltivate.<br />

Lo stesso vale per i villaggi della Piana Orientale. I contadini che vivono <strong>dei</strong> propri mezzi di produzione sono distinti e<br />

caratterizzati nettamente dagli autori delle Tabelles: tuttavia esse indicano solamente la superficie di terra seminata ogni<br />

anno dai pastori-coltivatori, per cui la superficie seminata annualmente e la superficie posseduta non si identificano: è molto<br />

difficile chiarire il rapporto tra proprietà familiare e superficie coltivata ogni anno a cereali. Nella pieve di Rogna (l’unica<br />

dove questa classe è preponderante 54 ), i contadini indipendenti coltivano ogni anno 25-30 bacinate e, tenendo conto del tipo<br />

di rotazione in vigore in queste terre mediocri, dovrebbero possedere circa 90 bacinate. Questo gruppo sociale che comporta,<br />

come vedremo, delle notevoli disparità interne, sembra rappresentare il 37% della popolazione a Tomino, il 34% a Città di<br />

Pietrabugno ed Ajaccio e forse include quasi il 40% degli abitanti <strong>dei</strong> villaggi montagnosi come quelli della provincia di<br />

Vico 55 . Nella pieve di Rogna, in cui prevale la coltivazione a gestione comunale, la classe <strong>dei</strong> contadini in grado di<br />

sopravvivere autonomamente rappresenta il 38% della popolazione. Questa classe tende invece a ridursi quando prevale la<br />

grande proprietà: è il caso della provincia di Sartena. Nei villaggi della Piana Orientale, i contadini appartenenti a questa<br />

tipologia dovrebbero corrispondere al 17% della popolazione, ma la proporzione si assottiglia al 14%, all’8%, per sparire del<br />

tutto, quando si scende nelle pievi (come quella di Cursa e di Castello di Porto-Vecchio) in cui è più forte il peso <strong>dei</strong><br />

latifondisti del Migliacciaro o del Demanio Reale. I contadini-proprietari possono detenere delle porzioni di terra<br />

particolarmente grandi (dal 55% al 67%) in una regione dall’agricoltura complessa ed intensiva come il Capo Corso 56 . La<br />

percentuale scende tra il 20 ed il 35% nelle pievi agro-pastorali rinserrate dalla presenza della grande proprietà 57 . Cade<br />

invece tra il 20 ed il 15% nelle zone con forte presenza di proprietari di media grandezza 58 . La presenza più o meno diffusa<br />

<strong>dei</strong> principali è consequenziale all’assottigliamento o alla scomparsa della piccola proprietà contadina indipendente.<br />

In questo insieme sociale si trovano diverse gradazioni d’autonomia: messa in difficoltà dal dominio <strong>dei</strong> grandi capipopolo<br />

sui beni comunali, gravemente pressata dalla fiscalità genovese, paolina e monarchica, una parte di questa classe si trova<br />

sprovvista di mezzi di produzione e negli anni di crisi viene pesantemente minacciata. Non è a caso, dunque, che i primi<br />

focolai rivoluzionari, motivati dalla difesa del territorio comunale e dal rifiuto della fiscalità genovese prima, francese poi,<br />

siano avvenuti proprio nelle pievi caratterizzate da questa struttura socio-economica. Alcuni <strong>dei</strong> suoi membri possono cadere<br />

(attraverso l’indebitamento e l’usura) nella dipendenza. <strong>Il</strong> caso di questi contadini è chiaramente segnalato dagli autori delle<br />

Tabelles: nel loro commento introduttivo, ritengono che si tratti di contadini che «coltivano e seminano i campi quel tanto<br />

che essi credono sufficiente per la sussistenza della loro famiglia e niente di più 59 ». L’analisi dettagliata <strong>dei</strong> dati codificati<br />

nelle Tabelles permette di constatare che questa situazione era particolarmente diffusa nella pieve di Castello. Nelle zone<br />

devolute all’arboricoltura, le famiglie di piccoli proprietari autosufficienti detengono tra 10/15 e 30/40 bacinate. A Tomino,<br />

si tratta in media di vignaioli benestanti, con circa trentaquattro bacinate. Con un reddito fondiario variabile tra le dieci e le<br />

venti lire, essi sono reputati di «mediocre» o «di onesta condizione»; rappresentano il 23% della popolazione e coltivano il<br />

23% del territorio. La situazione di questi contadini è riscontrabile anche a Città di Pietrabugno e ad Ajaccio 60 .<br />

Nella Piana Orientale la tipologia <strong>dei</strong> lavoratori di propri beni è presente soprattutto nella pieve di Rogna. I contadini<br />

che può ricavare dalle sue bestie. Le perdite ricadono su di lui, salvo i casi in cui si può dimostrare che sono causate da un predatore. Alla fine del contratto<br />

(un anno per le pecore, tre anni per i maiali, da 3 a 6 anni per le mucche), il prodotto (lana, latte, bestiame) è diviso a metà. È un sistema chiamato anche<br />

SOCCIDA, GUADAGNO, CAPITALE. CAPEZZO: il pastore fornisce un terzo del capitale e il padrone le altre due parti; alla fine <strong>dei</strong> 3 anni si divide il bestiame a<br />

metà; le perdite sono a carico dell’incaricato.<br />

53<br />

Ossia una media per famiglia di 59 bacinate (di cui 15 a vite, 4-5 ad olivi, 3-4 a cereali, 34 a macchia) a Tomino, 42-43 a Città di Pietrabugno (di cui 14-<br />

15 a vite, 12-13 ad olivi, 0,65 ad ortaggi, 6 a cereali, 8-9 a macchia) e 51 (di cui 33 a vite, 3 ad ortaggi, 7-8 a cereali, 7 a macchia) ad Ajaccio.<br />

54<br />

Rappresenta il 38% della popolazione <strong>dei</strong> villaggi e detiene il 56% del suolo coltivato contro il 26% della popolazione ed il 25% del suolo coltivato in<br />

quella di Covasina, il 14% degli abitanti ed il 20% del suolo nella pieve di Castello, l’8% degli abitanti a Cursa, lo 0% nella zona di Porto-Vecchio.<br />

55<br />

L’insieme <strong>dei</strong> contadini che hanno un reddito fondiario annuo di 10-50 lire sembra rappresentare il 41% della popolazione.<br />

56<br />

Ossia il 55% del suolo a Tomino, il 67% a Città di Pietrabugno.<br />

57<br />

Nella Piana Orientale, la pieve di Rogna presenta un caso di questo tipo. I pastori-coltivatori proprietari possiedono il 35% del suolo <strong>dei</strong> villaggi.<br />

58<br />

È il caso di Ajaccio, dove la grande proprietà detiene il 56,50% del suolo ed i contadini proprietari il 16%.<br />

59<br />

Tabelles, cit., Préliminaires, f. 2.<br />

60<br />

A Città di Pietrabugno questa classe di contadini proprietari possiede 15/20 bacinate per famiglia ed un patrimonio fondiario di 400/1000 lire, occupa il<br />

24% del suolo e costituisce il 23% della popolazione. Ad Ajaccio questi piccoli proprietari hanno 22/23 bacinate per famiglia ma detengono soltanto l’11%<br />

del suolo, pur rappresentando il 29% <strong>dei</strong> proprietari di terre censiti in città. I capifamiglia di questo strato sociale non possiedono qualifica.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

coltivano 20/35 bacinate, possiedono buoi, mucche e greggi di piccola taglia (in genere ottanta capi) e concedono piccoli<br />

appezzamenti a mezzadria ad altri contadini. Nelle terre che hanno maggiormente sviluppato l’arboricoltura, questo strato di<br />

contadini proprietari possiede dalle 30/40 alle 70 bacinate (2/5 ettari). A Tomino, si trovano famiglie che possiedono 59<br />

bacinate (di cui 34 a macchia) in cui la preponderanza della vite si accompagna (diversamente dal resto della classe<br />

contadina) ad una netta presenza degli olivi e <strong>dei</strong> cereali. Questi vignaioli hanno un reddito fondiario di 30/50 lire e sono «di<br />

onesta condizione»: costituiscono il 14% della popolazione e detengono il 36-37% del territorio. A Città di Pietrabugno, le<br />

famiglie possiedono in media 42 bacinate ciascuna (quasi tre ettari), ma la parte di macchia è ridotta a 9 bacinate, mentre la<br />

superficie della vite è equivalente a quella di Tomino; si riscontrano anche 12/13 bacinate coltivate ad olivi, 6 a cereali e<br />

quasi sette ad ortaggi. Queste persone hanno un patrimonio fondiario variabile tra le mille e le tremila lire, detengono il 42%<br />

del suolo e costituiscono il 31% della popolazione. I loro omologhi di Ajaccio possiedono 51 bacinate a famiglia. La<br />

proprietà, in questo caso, è caratterizzata dal predominio della vite e da una notevole presenza di agrumi e cereali. La fascia<br />

di popolazione occupa il 5% del suolo e costituisce il 5% del totale. Nonostante il 65% della popolazione risulti non<br />

classificato, il 30% si vede conferire il titolo di signori, attribuito generalmente ai ricchi proprietari.<br />

§ I Signori della borghesia rurale<br />

L’insieme sociale i cui i membri si vedono designati come Signori sembra, complessivamente, delineare i contorni di una<br />

borghesia rurale. I caratteri costitutivi li distinguono qualitativamente dai contadini proprietari e dalla grande aristocrazia<br />

fondiaria. Vi si trovano inclusi, infatti, i commercianti e gli armatori che investono nei prodotti agricoli destinati al mercato<br />

insulare o continentale 61 . Si notano ancora più frequentemente <strong>dei</strong> personaggi legati alla produzione al dettaglio, generati<br />

dalla classe contadina, che dispongono di una solida proprietà fondiaria e di un vasto equipaggiamento (per il lavoro<br />

salariato e la mezzadria) trasformatisi da ricchi contadini in produttori-venditori permanenti. È il caso <strong>dei</strong> ricchi vignaroli del<br />

Capo Corso e <strong>dei</strong> facoltosi lavoratori della comunità di Vico. <strong>Il</strong> 31% <strong>dei</strong> lavoratori ha un reddito fondiario annuo compreso<br />

tra le 50 e le 200 lire, mentre il 13-14% di questa stessa categoria dispone di una somma variabile tra le 100 e le 400 lire 62 .<br />

Essi formano la tipologia <strong>dei</strong> notabili contadini, che costituiscono allo stesso tempo la base della borghesia rurale e la radice<br />

di altri elementi di questa stessa borghesia campagnola, come i notai, i medici ed i curati (canonici ed arcipreti). Infatti il<br />

notabile che, sulla scala del villaggio o della pieve, «è un grosso produttore...costituisce sempre la base della produzione<br />

contadina. Da contadino diventa ufficiale municipale, occupa delle funzioni più importanti a livello di pieve poi è eletto agli<br />

Stati della Corsica. Se ha ricevuto qualche insegnamento, diventa notaio, medico o membro del clero» 63 .<br />

Questi proprietari possiedono il 21% del suolo e costituiscono il 4-7% della popolazione. Non esistono fonti precise per le<br />

regioni agro-pastorali; tuttavia, nella provincia di Vico la loro presenza sembra sia stata importante. Nei villaggi della Piana<br />

Orientale i capi hanno da due a venti mezzadri 64 e possiedono circa il 42% del suolo coltivato dai pastori-coltivatori. Anche<br />

le fonti relative a Tomino, Città di Pietrabugno ed Ajaccio sono poco precise: si trovano dati compresi tra le 70/80 e le 500<br />

bacinate (5/6 ettari e 35/37 ettari), con uno sfruttamento familiare medio che a Tomino, è di un centinaio di bacinate (circa<br />

7/8 ettari); in queste regioni il notabilato agricolo esprime a pieno tutte le possibilità produttive, pur privilegiando la<br />

viticoltura e (in misura inferiore) l’olivicoltura; alle 34 bacinate coltivate a viti (due ettari e mezzo) si uniscono 8 bacinate ad<br />

olivi, 2 ad ortaggi, 2 a cereali, 34 a macchia. Una struttura simile si riscontra a Città di Pietrabugno: su 113 bacinate (circa<br />

otto ettari) posseduti in media dalle famiglie della borghesia, 31 sono coltivate a vite, 24 ad olivi, 7 ad ortaggi ed agrumi, una<br />

bacinata a castagni e 15 a cereali e sodaglia (35 /37 bacinate). Ad Ajaccio la superficie coltivata è più vasta, perché i cereali<br />

qui assumono un ruolo preponderante: essa varia tra le 138 e le 337 bacinate (o tra dieci e ventitre ettari), di cui una buona<br />

parte (tra le 75 e le 266 bacinate) a cereali, dalle 20 alle 26 a macchia, una trentina a viti e 6-18 ad agrumi. Nelle terre ancora<br />

essenzialmente agro-pastorali, i notabili <strong>dei</strong> villaggi dispongono di tutta la gamma delle forze produttive, combinano<br />

l’allevamento degli ovini, di caprini, di bestiame da tratto o da trasporto (come buoi, muli, cavalli) alla coltivazione di<br />

castagni, viti ed olivi. I loro mezzi di produzione sono qualitativamente e quantitativamente più complessi, meglio<br />

equilibrati. Nella provincia di Vico, se il 31% <strong>dei</strong> fuochi possiede meno di dieci capi di pecore o di capre, il 3,20%<br />

(corrispondente ai borghesi di villaggio) ne ha più di cento 65 . Nella stessa Vico, la proprietà degli ovini è quasi interamente<br />

inclusa in tre fuochi. Questo è ancora più evidente per la vite (i produttori-venditori di vino a Vico sono inscritti in due<br />

canoniche); i notabili della comunità possiedono quasi la metà degli olivi e <strong>dei</strong> buoi da lavoro 66 . Arricchitisi con le terre <strong>dei</strong><br />

beni comunali (come mostrano i documenti di procedura delle proteste <strong>dei</strong> grandi proprietari corsi o francesi contro le<br />

concessioni demaniali della Monarchia assoluta dopo il 1770), questi personaggi erano economicamente molto attivi. Essi<br />

«prestano» i loro buoi agli altri contadini contro boatico, concedono degli appezzamenti in affitto e a terratico, dispongono<br />

del surplus fornito dal lavoro <strong>dei</strong> pastori delle loro terre o delle comunità vicine con i contratti di mezzadria (soccida,<br />

61<br />

Questa è la situazione del Capo Corso. <strong>Il</strong> catasto di Tomino (più preciso) mostra che la classe <strong>dei</strong> proprietari fondiari agiati è costituita da commercianti,<br />

padroni di navi e ricchi vignaroli.<br />

62<br />

L’analisi <strong>dei</strong> dati della sovvenzione di Vico permette di vedere che tra i lavoratori di questa grossa comunità l’1,20% dispone di un reddito fondiario<br />

annuo di mezza lira (e sono in effetti <strong>dei</strong> lavoratori-giornalieri); il 13% di un reddito da una a dieci lire; il 10,40% di un reddito da dieci a venti lire; il<br />

42,80% di un reddito da venti a cinquanta lire; l’11% da cento a duecento lire; il 2,60% oltre le duecento lire.<br />

63 e<br />

MAGDENEL E., Recherches sur les communautés rurales corses au XVllI siècle. La province de Vico cit., p. 165.<br />

64<br />

I proprietari che hanno da 2 a 20 mezzadri controllano il 42% del suolo ed il 21% <strong>dei</strong> pastori-coltivatori.<br />

65<br />

MAGDENEL E., op. cit., p. 86. Nel villaggio di Appriciani, Domenico Colonna possiede 353 bestie sulle 854 censite nel 1770, ossia il 42,30% del<br />

bestiame, detiene il 75% delle mucche, il 20% <strong>dei</strong> buoi, il 38% delle capre, il 74% <strong>dei</strong> maiali.<br />

66<br />

Quasi il 68% <strong>dei</strong> fuochi della provincia di Vico non possiede buoi, lo 0,50% ne conta più di cinque (Censimento della popolazione. Provincia di Vico,<br />

Archives Nat., Paris, serie Q 1 .298 4).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

guadagno, capitale o cinquino): si preoccupano di utilizzare pienamente tutte le possibilità produttive di cui dispongono<br />

sviluppando la coltivazione <strong>dei</strong> cereali, degli ortaggi, delle viti e degli olivi nelle terre comunali incolte, a costo di<br />

rivendicarne la proprietà. Questo processo è evidente nelle zone costiere della regione di Vico e nella provincia di Ajaccio. I<br />

notabili delle pievi di Ornano, di Celavo, di Talavo hanno costruito case, forni, mulini e presse, estendendo la coltivazione<br />

del grano, delle viti e degli olivi anche prima del 1770 67 . Questa borghesia fondiaria, spesso preponderante nelle istituzioni<br />

municipali, tende ad orientare a proprio vantaggio il funzionamento <strong>dei</strong> diritti di uso e la gestione <strong>dei</strong> beni comunali (da<br />

sempre divisi in maniera equa tra i contadini) per estendere i propri domini 68 . Ma viene costantemente minacciata dagli<br />

intrighi <strong>dei</strong> grandi proprietari capopopoli, successori <strong>dei</strong> caporali, che cercano di bloccare l’estensione delle proprietà,<br />

l’utilizzazione della forza-lavoro rurale e gli investimenti in greggi, grano, olivi e viti. Non bisogna sottovalutare la realtà<br />

concreta di questa contraddizione: l’esame <strong>dei</strong> dati forniti dalle Tabelles mostra che la classe <strong>dei</strong> capipopolo occupa un posto<br />

preminente nelle pievi in cui il peso della grande proprietà è meno forte, come a Rogna e Castello, mentre la borghesia rurale<br />

viene indebolita, o addirittura soffocata, nelle pievi in cui si sviluppa il grande latifondo 69 . La politica della monarchia<br />

francese contribuirà ad acuire questa contraddizione. Ad esempio, nella provincia di Vico, le concessioni demaniali prelevate<br />

sulle terre già commercializzate si accompagneranno a scambi falsamente compensatori, disastrosi per i contadini-produttori:<br />

le perdite <strong>dei</strong> ricchi proprietari delle comunità contadine saranno considerevoli 70 .<br />

Questo conflitto non esclude affatto l’esistenza di altri processi evolutivi, che si sviluppano nel quadro <strong>dei</strong> rapporti di<br />

produzione dell’Ancien Régime ed in contraddizione con essi. <strong>Il</strong> ricorso alla mezzadria, all’usura, al lavoro salariato<br />

specializzato (con modalità e tempi diversi in base alla dislocazione geografica) nelle relazioni sociali <strong>dei</strong> borghesi rurali,<br />

possono associarsi alla presa in affitto delle decime ecclesiastiche 71 o addirittura al controllo <strong>dei</strong> territori <strong>dei</strong> grandi<br />

proprietari. Nel concreto questa classe ha decretato il successo, e poi lo smacco, delle istituzioni stabilite da Pasquale Paoli<br />

nel periodo dell’indipendenza isolana: è riuscita a garantire la presenza ed il potere <strong>dei</strong> propri rappresentanti (i capifamiglia)<br />

all’interno della compagine governativa del generale corso ed ha segnato, allo stesso tempo, il successo delle truppe francesi<br />

quando il sistema parlamentare di Paoli aveva mostrato i propri limiti nella gestione e nell’accaparramento delle terre<br />

comunali. Non è facile quantificare con precisione il reddito fondiario delle famiglie di questa classe sociale: esso varia tra<br />

un primo livello compreso tra le 50 e le 100 lire annuali ad altri livelli compresi tra le 500 e le 600 lire. Tra queste persone<br />

figurano, quindi, <strong>dei</strong> signori classificati di migliore conditione, o ancora di conditione civile o cittadina. La percezione<br />

sociale delle loro attività li qualifica come personaggi assistenti a suoi affari, vivente per se, medici, notai padroni di navi o<br />

ricchi proprietari, coltivatori di suoi beni e vivente colle rendite <strong>dei</strong> suoi poderi.<br />

Ad uno sguardo generale, notiamo subito che i curati, i pievani ed i canonici fanno parte di questa complessa borghesia<br />

rurale. La natura <strong>dei</strong> terreni che detengono in gestione diretta ed il loro livello di reddito fondiario li avvicina alla classe altoborghese.<br />

Questa realtà è difficilmente percepibile, dato che le fonti e gli inventari <strong>dei</strong> beni ecclesiastici in Corsica sono<br />

precisi soltanto per 57 villaggi del Dilà e per 14 villaggi del Capo Corso. L’esame <strong>dei</strong> documenti archivistici permette,<br />

tuttavia, d’intravedere alcuni tratti contraddittori nei rapporti di produzione del clero durante i due decenni che precedono la<br />

Rivoluzione francese. Curati e pievani entrano direttamente in commercio con i giornalieri ed i mezzadri, delegando una<br />

porzione sostanziale della proprietà ecclesiastica <strong>dei</strong> villaggi. Detengono generalmente <strong>dei</strong> terreni estesi tra le sessanta e le<br />

ottanta bacinate (il 66% a cereali, il 30% a vite, il 31% ad olivi) nel Capo Corso, tra le sessanta e le centoquaranta bacinate<br />

(il 14% a macchia, l’85% a cereali, lo 0,50% a vite, lo 0,15% ad ortaggi) nelle comunità rurali del circondario di Ajaccio 72 . <strong>Il</strong><br />

reddito fondiario annuo medio di questi ecclesiastici di campagna non è valutabile per il Capo Corso. I dati del Dilà<br />

permettono di localizzarlo tra le 100 e le 400 lire, o addirittura ad un livello superiore, che eguaglia quello degli altri notabili<br />

di villaggio. Sembra che soltanto una piccola percentuale di curati non raggiunga le cinquanta lire di reddito fondiario annuo.<br />

Nella provincia di Vico, in base all’elenco delle sovvenzioni, l’88% <strong>dei</strong> curati, pievani e canonici gode di un reddito<br />

fondiario variabile tra le 50 e le 400 lire ed il 55% tra le100 e le 400 lire. Inoltre, curati e pievani traggono vantaggio (anche<br />

se in maniera limitata) dal potere fondiario della Chiesa e dai benefici feudali. I dati di cui disponiamo sono molto limitati,<br />

ma forniscono comunque degli spunti interessanti su due gruppi di villaggi situati all’estremità della Corsica, ai poli opposti<br />

67 I notabili corsi lo ricordano con forza col passare degli anni e lo confermeranno nel 1789. Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C (Intendence), Cahiérs de<br />

doléances della provincia di Ajaccio. cfr. MAGDENEL E., op. cit., pp. 163-171. Esempi dettagliati di usurpazioni a Renno nel 1787 in Arch. dép. Corse-du-<br />

Sud, Intendence 131 e 524.<br />

68 Manca uno studio preciso di questa materia. Alcuni documenti lasciano intravedere un’evoluzione contraddittoria dalla fine del XVII secolo. Così, nel<br />

Sartenese, una richiesta <strong>dei</strong> «poveri di Moca-Croce» (Arch. dép. Corse-du-Sud, fondo Civile Governatore C 522, agosto 1690) indica che le terre delle<br />

pianure vicine al mare erano divise in porzioni uguali tra i fuochi del villaggio al momento <strong>dei</strong> lavori. I «proprietari <strong>dei</strong> buoi» pretendono «che quelli che<br />

non hanno buoi non hanno nessuno diritto su queste terre» e «questo anno hanno voluto appropriarsi di tutto».<br />

69 Nelle pievi di Cursa, di Covasina e di Porto-Vecchio dove pesa l’egemonia <strong>dei</strong> padroni del Migliacciaro, il Demanio Reale, i principali (spesso fittavoli<br />

del Demanio), ed i grandi proprietari di villaggio (che hanno <strong>dei</strong> mezzadri pastori-coltivatori) possiedono dal 44 al 47% della proprietà del suolo (nei<br />

villaggi di Cursa e di Covasina) per sparire completamente nella zona di Porto-Vecchio.<br />

70 I 34 proprietari che hanno <strong>dei</strong> beni nella zona dell’Ombriccia del Pero, presa dal Demanio nel 1770, si vedono scambiare i loro piccoli appezzamenti<br />

contro le terre di taglia leggermente superiore della zona di Paomia. Le stesse perizie ufficiali danno a queste nuove proprietà un valore considerevolmente<br />

inferiore. Per i sette maggiori proprietari, le perdite in valore e qualità si attestano tra il 50 ed il 60%. Un rappresentante di questa borghesia rurale come<br />

Domenico Colonna del villaggio di Appriciani subisce una perdita in valore del 51% con questo «scambio». Cfr. i documenti che riguardano questo<br />

scambio presentato da MAGDENEL E., op. cit., pp. 169-170.<br />

71 Monsignor Guernes, vescovo di Aleria, consente nel 1778 ad un notabile della pieve di Vallerustia un affitto triennale al prezzo di 1085 lire, per<br />

incamerare le decime delle pievi. <strong>Il</strong> pagamento si effettuava con il versamento di 45 stare di grano in agosto e di 545 franchi in denaro al Natale di ogni<br />

anno. Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C 326. Controllo degli atti d’ufficio di Cervione.<br />

72 Nella zona di Ajaccio e di Vico, i curati gestiscono direttamente la proprietà fondiaria della Chiesa. Nel Vicolese, possiedono in media 40 bacinate per<br />

villaggio; nelle zone Est e Sud-est di Ajaccio, possiedono dalle 164 alle 206 bacinate.<br />

122


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

del sistema agricolo insulare. In base a questi dati parrocchiali, l’estensione della proprietà fondiaria della Chiesa non è<br />

affatto trascurabile: rappresenta il 2% delle terre coltivate nel 1789 nella zona di Vico, il 18% nei cantoni a sud di Ajaccio, il<br />

12% nel Capo Corso. Ai redditi guadagnati con la commercializzazione diretta di una parte di queste terre si uniscono quelli<br />

provenienti dalla manomorta (o livello) e, soprattutto, quelli delle decime e <strong>dei</strong> lasciti. La somma totale di questi prelievi, nei<br />

villaggi attorno ad Ajaccio, sembra rappresentare l’80-84% di un reddito lordo vicino alle novecento lire. Sottraendo le<br />

spese, il reddito medio annuo al netto di un curato delle pievi a sud di Ajaccio dovrebbe aggirarsi attorno alle 800 lire.<br />

Negli anni compresi tra il 1770 ed il 1780 questa borghesia rurale sembra costituire il 4% della popolazione <strong>dei</strong> villaggi del<br />

Capo Corso ed il 7% <strong>dei</strong> proprietari terrieri di Ajaccio; rappresenta il 12-13% degli abitanti <strong>dei</strong> territori agro-pastorali della<br />

provincia di Vico ed il 16% della popolazione del Boziu: probabilmente si trattava del 10-12% della popolazione<br />

complessiva. Si tratta di una categoria sociale con <strong>dei</strong> caratteri qualitativamente distinti, ma costituita allo stesso tempo da<br />

realtà nettamente diversificate. A livello regionale, esistono delle differenze pratiche, tecniche e culturali tra i vignaroli, i<br />

commercianti, i padroni delle navi, gli imprenditori agricoli del Capo Corso (legati da sempre al capitale commerciale,<br />

all’investimento nelle attrezzature marittime, alla viticoltura da mercato) ed i capipopuli produttori-venditori della costa<br />

orientale o della regione di Vico, la cui attività commerciale è più circoscritta, a vantaggio della mezzadria. Differenze<br />

ancora più sensibili sembrano caratterizzare i poteri e le pratiche sociali dell’alta borghesia rurale. Questo è il ceto delle<br />

famiglie maggiormente provviste di terra e di potere economico-sociale: si tratta <strong>dei</strong> padroni-proprietari di almeno dieciventi<br />

mezzadri nei villaggi della Piana Orientale o <strong>dei</strong> notabili campagnoli della regione di Vico o delle ricche famiglie<br />

ajaccine. Anche se a considerevole distanza dai ricchi prepotenti, sia nel potere fondiario reale che in quello simbolico 73 , le<br />

persone di questo strato sociale hanno spesso <strong>dei</strong> titoli ecclesiastici o magistratuali e possiedono in media 337 bacinate<br />

ciascuno (contro le 1075 <strong>dei</strong> grandi aristocratici). Essi sono perfettamente inseriti nelle attività della borghesia corsa<br />

dell’epoca, pur mirando ad integrarsi nella grande aristocrazia fondiaria. <strong>Il</strong> caso della famiglia Bonaparte (il registro delle<br />

proprietà di Ajaccio del 1775 permette di localizzare con precisione la posizione della famiglia nei rapporti sociali cittadini)<br />

è illuminante e singolare: negli anni ‘70 questa famiglia cerca (con successo) di far approvare la richiesta di nobilitazione. I<br />

Bonaparte appartenevano ad una frangia di notabili vicina all’alta aristocrazia fondiaria: le loro vicende rivelano le esitazioni<br />

e le contraddizioni di tutta la borghesia corsa. Questa classe, fortemente inserita nei rapporti sociali d’Ancien Régime e<br />

contemporaneamente protagonista di nuove pratiche produttive e sociali, teme la grande aristocrazia <strong>dei</strong> principali e<br />

combatte l’estensione del suo potere, pur volendo spesso imitarlo. Si tratta, insomma, di processi e contraddizioni che<br />

saranno aumentati e prolungati dalla politica di rinnovamento e rafforzamento del dominio aristocratico a seguito<br />

dall’annessione francese, ma che avevano toccato il loro punto critico già durante il governo di Paoli.<br />

§. Le casate <strong>dei</strong> «Prepotenti» dell’aristocrazia fondiaria<br />

Rappresentata inegualmente nelle differenti regioni dell’isola, la vera classe dirigente è quella <strong>dei</strong> grandi proprietari fondiari.<br />

Le sue origini sono complesse, come la sua evoluzione, derivata dall’ascesa <strong>dei</strong> «caporali» del XV secolo al rango di grandi<br />

notabili, principali e prepotenti, che dominano la società corsa nella seconda metà del XVIII secolo 74 . Questi potenti<br />

lignaggi possiedono grandi greggi e fondi estesi parecchie centinaia di ettari: «una grande parte [degli abitanti della Rocca]<br />

sarebbe molto ricca, nota Patin de la Fizelière, se coltivasse i propri campi. Ce ne sono sette od otto che potrebbero stabilire<br />

delle intere colonie» 75 . Questa classe di grandi proprietari si è stabilita particolarmente nel Dilà, nel Sartenese. Nel Diquà,<br />

anche se si manifesta in un contesto in cui la proprietà fondiaria (latifondo e semi-latifondo) e l’estrema precarietà <strong>dei</strong> diritti<br />

<strong>dei</strong> mezzadri sulla terra e sul bestiame sono meno dominanti, il loro potere si fa ben sentire nel Nebbio, in Castagniccia, in<br />

Casina e nei villaggi della Piana Orientale. I livelli e l’influenza di questa classe verso il 1770-1780 possono essere<br />

apprezzati quantitativamente nel territorio di Ajaccio e (in parte) nelle pievi e nei villaggi del bordo orientale dell’isola. <strong>Il</strong><br />

suo ascendente sembra considerevole: ad Ajaccio le famiglie di questo strato sociale rappresentano il 3% della popolazione<br />

<strong>dei</strong> proprietari censiti nel 1774 e controllano il 56-57% del suolo. Sulla costa orientale, i Frediani ed i Morelli ed alcune<br />

potenti casate che hanno preso in affitto il Demanio Reale, possiedono il 21% del suolo coltivato nel 1775 ed il 36% <strong>dei</strong><br />

pastori-coltivatori.<br />

La proprietà <strong>dei</strong> signori, qualificati anche come nobili e magnifici, sembra corrispondere ad un’estensione inclusa tra le 500<br />

e le 1.000 bacinate (o tra 37-38 e 76 ettari) fino alle 3-4.000 bacinate (da 200 a 300 ettari) nella terra di Ajaccio, dove<br />

prevale un’agricoltura intensiva. Ogni famiglia di questi nobili signori possiede qui in media 1.705 bacinate (o 128 ettari) di<br />

cui l’83% a cereali, l’1,37% a vite, l’1% in orti-frutteti, il 15% a macchia. Queste superfici aumentano nelle zone agropastorali<br />

della Piana Orientale, nelle regioni di Porto-Vecchio, Sartenese ed Ornano.<br />

I dati archivistici permettono di vedere meglio alcuni <strong>dei</strong> caratteri essenziali della classe signorile, i rapporti di produzione<br />

73<br />

I capifamiglia di questo strato superiore della borghesia sono signori mentre quelli che appartengono alla grande proprietà fondiaria sono quasi tutti nobili<br />

signori.<br />

74<br />

Vi si trovano incluse alcune famiglie di antichi feudatari: i nobili di Ornano, che si scontravano con le comunità delle pievi di Ornano e di Talavo per il<br />

godimento <strong>dei</strong> beni comunali coltivabili ed i Gentile di Brando, che nel XVI secolo avevano ricevuto delle concessioni nelle zone costiere della provincia di<br />

Vico. Vi si trovano inclusi anche i discendenti <strong>dei</strong> «Caporali» del XV secolo: i Matra, i Casabianca, i Campocassi o i discendenti delle famiglie genovesi<br />

(come i Sauli, padroni del feudo di Galeria, gli Spinola, i Fieschi), o corse come i Buttafoco ed i Luccioni in Castagniccia, i Boccheciampe ed i Morati<br />

(padroni di feudi nel Nebbio), i Fabiani in Balagna, i Morelli ed i Frediani (che possedevano il Migliacciaro sulla costa orientale). Tali ancora, nel centro, i<br />

Gaffory a Corte, i Panzani o i Martinetti a Ghisoni. Nel Dilà troviamo le famiglie di sjo (signori) della zona di Porto-Vecchio e Sartena, come gli Ettori, i<br />

Quenza, i Rocca-Serra, i Cesari-Rocca (che avevano contribuito al processo di frazionamento di 40.000 ettari di terre comunali a Porto-Vecchio), i Ponte<br />

(che pretendevano il dominio delle isole Sanguinarie), i Bacciochi, i Peraldi, i Tortaroli nella comunità di Ajaccio.<br />

75<br />

PATIN DE LA FIZELIÉRE A., Mémoire cit., p. 78.<br />

123


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

che contraddistinguono il suo dominio ed il rapporto con le forze produttive. L’aristocrazia <strong>dei</strong> grandi principali appare<br />

infatti saldamente impiantata nelle regioni agro-pastorali: è poco presente nel Capo Corso ed assai diffusa nelle province di<br />

Sartena e nelle pievi di Sud-ovest; detiene comunque delle solide posizioni nelle zone vitivinicole (come Ajaccio) ed ha il<br />

predominio in quelle dedite all’olivicoltura. Ma il caso di Ajaccio, come ha rivelato Patin de la Fizelière, mostra che i<br />

domini <strong>dei</strong> prepotenti hanno un orientamento ed una struttura produttiva ben diversi dalla borghesia rurale, dovuta proprio<br />

alla notevole estensione del loro potere fondiario. I sjo della terra d’Ajaccio possiedono, ad esempio, delle enormi estensioni<br />

di terre destinate alla produzione di grano ed all’allevamento.<br />

Nel Capo Corso, le famiglie della borghesia rurale possiedono terreni di un centinaio di bacinate in cui la vite, gli olivi, gli<br />

ortaggi, gli agrumi e gli alberi da frutto occupano dal 44% (a Tomino) al 55% (a Città di Pietrabugno) del suolo, le macchie<br />

dal 30 al 54%, i cereali dal 2 al 13%. Ad Ajaccio, nelle proprietà della stessa borghesia, la parte lasciata a macchia si aggira<br />

tra il 6 ed il 19%, mentre quella coltivata a cereali si estende fino al 54% e, in alcune zone, al 78%; l’arboricoltura arretra ma<br />

rimane sostanziale (dal 15 al 27% del territorio). Per le famiglie dell’aristocrazia fondiaria la situazione è notevolmente<br />

diversa, perché delle 1.700 bacinate possedute in media, il 2-37% è devoluto alla vite ed agli orti 76 , contro il 15% lasciato a<br />

macchia e l’83% a cereali. I grandi proprietari dispongono così di un’estensione di terre e di una gamma di forze produttive<br />

che permettono di dominare le campagne. Contemporaneamente, tra il 1770 ed il 1780, essi manifestano un’egemonia<br />

assoluta nella commercializzazione <strong>dei</strong> prodotti della mezzadria precaria. Questo accade specialmente per la cerealicoltura e<br />

l’allevamento, mentre la viticoltura e l’olivicoltura incontrano, alla fine del XVIII secolo, delle difficoltà maggiori. In questo<br />

contesto appare più efficace l’attività <strong>dei</strong> giornalieri specializzati, assai rari in un tipo di produzione legata allo sfruttamento<br />

<strong>dei</strong> contadini e <strong>dei</strong> mezzadri micro-proprietari. I grandi proprietari si sforzano di accrescere i loro guadagni, nel quadro<br />

dell’evoluzione globale <strong>dei</strong> rapporti di produzione, attraverso la vendita di prodotti agricoli sui mercati locali, regionali,<br />

insulari e continentali. È ancora in questo quadro che essi tentano di rinvestire le loro risorse monetarie attraverso l’usura, i<br />

prestiti in denaro, i censi e la gestione delle imposte 77 (settore comunque controllato dal patriziato genovese).<br />

I caratteri generali della classe dominante non escludono affatto l’esistenza di differenze di ricchezza, di mentalità, di<br />

intenzioni al suo interno. Alcune differenze sono particolarmente evidenti nell’atteggiamento <strong>dei</strong> notabili del Capo Corso,<br />

del Nebbio, di Ajaccio e <strong>dei</strong> loro omologhi delle regioni agro-pastorali. Anche attraverso queste concrete divergenze, le<br />

famiglie <strong>dei</strong> prepotenti (in cui si ritrovano gli eredi delle castellanie medievali, quelli delle casate caporalizie del XIV e XV<br />

secolo ed i discendenti delle famiglie giunte allo status di alti principali nel XVI e XVII secolo) costituiscono, alla fine del<br />

XVIII secolo, la vera classe dominante corsa. Nell’insieme questi lignaggi rappresentano solamente una minoranza, anche se<br />

gli unici dati precisi di cui disponiamo per gli anni ‘70 sono relativi alla comunità di Ajaccio, dove i grandi signori e nobili<br />

fondiari costituiscono il 3% <strong>dei</strong> proprietari censiti nel 1775 (comunque nessun altro documento sembra opporsi alla stima del<br />

3%, o forse meno, rispetto alla popolazione complessiva dell’isola). <strong>Il</strong> valore patrimoniale dell’aristocrazia fondiaria<br />

potrebbe essere calcolato con precisione solo attraverso l’analisi statistica degli atti notarili. I dati limitati e parziali forniti<br />

dagli inventari <strong>dei</strong> beni degli emigrati, del patrimonio ecclesiastico e delle doti, relativi al Diquadamonti fra il 1770 ed il<br />

1785, costituiscono una base utile e relativamente esauriente. Essi mostrano che le casate aristocratiche, integrate alla nobiltà<br />

francese dopo il 1770, dispongono di fortune e di redditi talmente elevati da attribuire ai loro bambini delle doti (in denaro o<br />

in beni immobili) comprese tra le 5.000 e le 8.000 lire, potendo arrivare anche alle 10.000 lire 78 . Non poteva essere<br />

diversamente, per la classe più ricca e potente dell’isola.<br />

Con forme originali, nate dall’evoluzione storica <strong>dei</strong> capipopolo rurali e delle strutture pievane in signorie feudali ed in<br />

seguito con l’ascesa <strong>dei</strong> caporali nel XV secolo come classe dominante, fino alla costituzione di particolari rapporti sociali<br />

(simili a quelli descritti da Emilio Sereni per l’Italia meridionale 79 ), la Corsica mantiene una struttura singolare rispetto<br />

all’evoluzione economica, sociale e culturale del resto d’Europa. È in questo quadro che le forze produttive diventano al<br />

tempo stesso tappe ed elementi di accelerazione delle lotte sociali, specie a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. I<br />

grandi principali dispongono di un insieme di poteri economici ed extra-economici (controllo diretto o indiretto delle<br />

istituzioni di pieve e di villaggio, associazione al potere statale) ed intendono sviluppare il commercio, aumentare la<br />

produzione agricola e pastorale utilizzando tutte le potenzialità del livello tecnico, trasformando senza tregua<br />

l’organizzazione e la gestione <strong>dei</strong> beni comunali, <strong>dei</strong> diritti di uso, della struttura agricola collettiva, al punto da renderli<br />

assoggettabili. Essi tendevano a creare le condizioni per un maggiore controllo sui produttori indipendenti, per l’estensione<br />

dell’usura e della mezzadria precaria, fino a rendere impossibile la riproduzione dinamica <strong>dei</strong> mezzi di produzione rurale.<br />

76<br />

Questo 2,37% di proprietà dedicata alla vite ed agli orti piantati ad agrumi nel 1775 è costituito da quaranta bacinate, ossia una superficie maggiore di<br />

quella che detengono in media le famiglie della borghesia.<br />

77<br />

Si tratta di una tipica forma di rendita corsa. <strong>Il</strong> creditore può chiedere una rendita in natura o in denaro sul prodotto del lavoro del debitore; il lavoro viene<br />

realizzato dal debitore (che è generalmente un contadino produttore al dettaglio) sulle proprie terre. Questo tipo di investimento è praticato frequentemente<br />

nel XVII secolo (cfr. POMPONI F., Essai sur les notables ruraux...cit., p. 183) e nel XVIII secolo. Annibale Folacci, grande proprietario divenuto nobile nel<br />

1772, Tesoriere della provincia di Ajaccio, concede (tra il 1754 ed il 1762), sette prestiti (per un importo totale di 200 lire) sotto forma di rendite con un<br />

interesse medio del 13%. Folacci concederà altri quattordici prestiti (per un importo totale di 1713 lire) tra il 1772 ed il 1780. Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud,<br />

Serie 2 B-307. Inventario dopo il decesso dell’eredità di Annibale Folacci.<br />

78<br />

A titolo indicativo si rammenta che Letizia Ramolino, la cui famiglia sembra essere stata inclusa in questa classe prima <strong>dei</strong> Bonaparte, aveva ricevuto (in<br />

appartamenti botteghe, vigne) una dote di 6705 lire. Cfr. MIRTIL M., Napoléon d’Ajaccio, Paris 1948, p. 77. Sui Ramolino, cfr. CARRINGTON D., Les<br />

parents de Napoléon, «Annales historiques de la Révolution française», 242 (1980).<br />

79<br />

Cfr. SERENI E., <strong>Il</strong> capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino 1948; ID., Comunità rurali nell’Italia antica, s.l., 1955; ID., La lotta per la conquista<br />

della terra nel Mezzogiorno, «Cronache meridionali», v. IV, 3 (1957), p. 100; ID., La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Torino 1975; ID.,<br />

Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1972.<br />

124


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 7 – <strong>Il</strong> sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)<br />

Tutto questo, ovviamente, con notevoli differenze sociali e geografiche. Così la classe <strong>dei</strong> capipopolo, di cui si è tentato di<br />

delimitare i contorni verso il 1770-1780, dispone <strong>dei</strong> mezzi necessari per sviluppare tutta la gamma delle forze produttive ed<br />

agisce sia con la propria forza-lavoro, sia con lo sfruttamento <strong>dei</strong> contadini-mezzadri, avocando a sé la gestione <strong>dei</strong> beni<br />

comunali e monopolizzando (con la gestione amministrativa dello stato, il fisco, la violenza, le armi) la struttura economicosociale<br />

dell’isola. I produttori autonomi (lavoratori di suoi beni) ed i contadini dipendenti o semi-dipendenti lottano contro<br />

gli usurpatori (prima genovesi, poi francesi), contro le trasformazioni della gestione <strong>dei</strong> beni comunali e <strong>dei</strong> diritti collettivi e<br />

contro lo sfruttamento <strong>dei</strong> borghesi di paese e <strong>dei</strong> prepotenti, conducendo una guerra in cui si mescolano problemi sociali,<br />

economici e politici. In questo senso, la struttura e la potenzialità delle forze produttive alla fine del XVIII secolo non<br />

possono essere comprese al di fuori <strong>dei</strong> processi e delle tendenze del lungo periodo. Allo stesso tempo, non potrebbero<br />

essere comprese senza l’analisi delle tendenze e <strong>dei</strong> processi legati all’annessione francese.<br />

Figura 38: dettaglio della Mappa dell’isola di Corsica di I. Vogt del 1735.<br />

125


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

CAPITOLO 8<br />

CORSICA E RIVOLUZIONE FRANCESE: I «CAHIERS DES DOLEANCES» (1787-1789)<br />

<strong>Il</strong> rapporto tra la società corsa e la Rivoluzione del 1789 non può essere affrontato senza l’analisi della politica di<br />

«riforma» della Monarchia assoluta sulle strutture amministrative, politiche ed economiche.<br />

Questa politica di riforma è, nell’insieme, profondamente contraddittoria: ha condotto ad un vicolo cieco, ad una crisi<br />

globale che la monarchia ha cercato di modificare con la convocazione degli Stati Generali. L’orientamento<br />

contraddittorio della politica monarchica è evidente già dall’evoluzione delle strutture signorili: adattamento e<br />

razionalizzazione della percezione <strong>dei</strong> diritti feudali 1 (appalti agli affaristi, riattamento <strong>dei</strong> terreni per una gestione più<br />

efficace; aumento delle confische sui beni comunali e lotta ai diritti d’uso) permettono alla nobiltà di approfittare dello<br />

sviluppo degli scambi e del rialzo <strong>dei</strong> prezzi per rafforzare i diritti feudali. <strong>Il</strong> potere politico ed i rapporti di produzione<br />

vengono utilizzati per aumentare i guadagni dell’aristocrazia, deviando a suo esclusivo vantaggio gli effetti<br />

dell’evoluzione delle forze produttive ed il movimento degli scambi. Questo orientamento non sembra avere risolto le<br />

contraddizioni dell’Ancien Régime. Oggetto di un attacco feudale e monarchico ancora più rigoroso, i contadini non<br />

riescono a diventare pienamente <strong>dei</strong> produttori-commercianti 2 . La «reazione aristocratica», che sembra adottare in<br />

maniera contraddittoria <strong>dei</strong> metodi capitalistici per un tipo di produzione ancora feudale ha avuto probabilmente degli<br />

effetti molto seri sull’evoluzione della congiuntura economica e sull’aggravamento delle crisi sociali tra il 1770 ed il<br />

1789.<br />

La politica riformatrice della monarchia mira a sopprimere o a diminuire gli antichi privilegi (come le corvées, per<br />

garantire, almeno in linea di principio, l’uguaglianza fiscale), a razionalizzare l’amministrazione, il sistema giudiziario<br />

(depenalizzazione delle procedure, diminuzione <strong>dei</strong> poteri politici delle corti giudiziarie) in modo da adattare il dominio<br />

dell’aristocrazia alle nuove condizioni e permetterle di custodire i suoi privilegi nello stato e nella società. Questa<br />

politica di «riforme» che non metteva in discussione la tipologia <strong>dei</strong> rapporti feudali, aggrava inevitabilmente la<br />

situazione delle masse rurali, scontenta la borghesia, non regola la crisi finanziaria e segna il punto di rottura tra la<br />

classe politica e la società. Di fronte a questa situazione, l’aristocrazia si dividerà sull’opportunità e sulla tipologia delle<br />

riforme da compiere. Una parte (la nobiltà di toga in particolare) farà anche ricorso allo sciopero ed alla sommossa<br />

contro lo Stato: il 1788 rappresenta l’apice della crisi politica dell’Ancien Régime.<br />

È difficile capire con precisione come sia stato vissuto in Corsica questo contraddittorio orientamento riformatore<br />

dell’Ancien Régime. Nelle sue caratteristiche essenziali, l’azione della monarchia rappresenta il dispiegarsi <strong>dei</strong> disegni<br />

dello stato assoluto ed il risultato dell’adattamento alle realtà insulari. I militari, gli amministratori, i ministri trovano<br />

nell’isola <strong>dei</strong> grandi proprietari che non possiedono i diritti della nobiltà francese. In Corsica non esiste venalità delle<br />

cariche, non ci sono Parlamenti, né poteri giudiziali ed amministrativi banali e la monarchia si guarda bene dal creare<br />

nell’isola ciò che intendeva riformare sul continente. Già prima dell’89 esisteva in Corsica una relativa uguaglianza<br />

fiscale, corredata dall’assenza di banalità e di venalità delle cariche. Gli amministratori francesi tendono perciò a<br />

salvaguardare ed aumentare il potere economico e politico <strong>dei</strong> grandi proprietari e si preoccupano di nobilitare questa<br />

classe senza instillare al suo interno le stesse velleità politiche dell’aristocrazia continentale. Così lo Stato monarchico<br />

non conferisce <strong>dei</strong> diritti banali, né privilegi fiscali analoghi a quelli <strong>dei</strong> nobili francesi, ma permette ai Signori di<br />

disporre di maggiori mezzi economici e di aumentare la rendita ed il surplus sui produttori-coltivatori e si prodiga nel<br />

creare in favore di questi grandi proprietari <strong>dei</strong> privilegi giuridici e politici efficaci. Con diverse variazioni, i caratteri<br />

essenziali di questa politica si estendono dall’epoca di Marbeuf al 1789. Del resto, essa è sostenuta attivamente dalla<br />

classe <strong>dei</strong> principali e <strong>dei</strong> prepotenti, che possono perseguire gli obiettivi che non avevano potuto realizzare al tempo di<br />

Genova e durante la rivoluzione di Paoli. A livello politico, il sistema <strong>dei</strong> diritti e delle istituzioni riflette la<br />

preponderanza sociale della casta <strong>dei</strong> grandi proprietari. I poteri municipali sono nelle mani degli alti notabili e spesso<br />

restano nelle mani delle stesse persone per lunghi anni: è ciò che accade a Bastia, dove il nobile Rigo si era fatto<br />

1 SOBOUL A., De la pratique des terriers à la veille de la Révolution, «Annales» 19 ème année, 6 (nov.-dic. 1964) e BLUCH F., in Les magistrats du<br />

Parlement de Paris au XVIII e siecle, Paris 1960, hanno mostrato l’unità della nobiltà nella diversità degli strati che la compongono nel XVIII secolo<br />

(cfr. p. 386) ed il fatto che i nobili parlamentari del XVIII secolo, al di là delle apparenze, non sono mai entrati nel rapporto di produzione capitalista,<br />

ma praticavano una «gestione borghese» (p. 237) <strong>dei</strong> beni nobili e <strong>dei</strong> diritti feudali. Senza dubbio questo atteggiamento (evolutosi diversamente in<br />

base alle province) <strong>dei</strong> nobili mirava a rispondere in modo più efficace agli stimoli legati allo sviluppo degli scambi, pur rimanendo nella cornice di<br />

un mantenimento <strong>dei</strong> rapporti di produzione feudali, che provoca un aggravamento delle lotte sociali nelle campagne alla fine del XVIII secolo. LE<br />

ROY LADURIE E., Révoltes et contestations rurales en France de 1675 à 1788, «Annales», 1974, n. janvier-février; ed in Histoire de la France rurale,<br />

II: L’âge classique des paysans de 1340 à 1789, Paris 1975, pp. 554-575 rileva ed analizza questo processo, non tenendo conto della specificità<br />

contraddittoria di questi rapporti sociali e parlando di demanio «capitalista signorile». Non c’è giustapposizione, ma sforzo di razionalizzazione, di<br />

adattamento al mercato nel quadro ed al servizio del «complesso feudale». L’eventuale ricorso, per una parte delle terre <strong>dei</strong> Signori, agli investimenti<br />

diretti in capitale fisso o all’impiego di salariati o il fatto di dare in affitto una parte del terreno si inseriscono in un sistema globalmente dominante di<br />

rapporti sociali e di struttura politica contrassegnate dal complesso feudale e dai privilegi. A livello della vita delle campagne, è ancora la rendita<br />

feudale (modernizzata) che avvolge e domina la rendita fondiaria capitalista. (cfr. in dettaglio GINDIN C., La rente foncière en France de l’Ancien<br />

Régime à L’Empire, «Annales historiques de la Révolution Française», 247 (1982), pp. 1-34. Con delle modalità qualitativamente diverse, ritroviamo<br />

qui <strong>dei</strong> processi vicini a quelli delle signorie dell’Europa danubiana, centrale ed orientale, cfr. ID., Le deuxième servage en Europe centrale et<br />

orientale, «Recherches internationales à la lumiére du marxisme», 63-64 (1970).<br />

2 Cfr. GAUTHIER F., Les luttes entre les différentes voies de développement du capitaliste en France à la fin de l’Ancien Régime et pendant la<br />

Révolution. L’exemple de la Picardie, thèse de doctorat de III cycle, Université de Paris I, 1975.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

riconoscere Podestà a vita. La tutela degli amministratori e <strong>dei</strong> commissari del Re diventa sempre più pesante.<br />

Dispensati dalle tasse, i neo-nobili si vedono attribuire legalmente degli importanti privilegi politici: hanno il monopolio<br />

dell’attività giudiziaria, amministrativa, politica dell’isola ed il controllo della scala sociale. I Collegi reali e le scuole<br />

militari sono riservate ai loro rampolli. Solo i nobili possono diventare ufficiali superiori (al Real Corso ed al<br />

Reggimento provinciale) o ancora membri del Consiglio Superiore. Soprattutto, solo i nobili possono entrare nella<br />

Commissione permanente <strong>dei</strong> Dodici (8 membri per il Diquà e 4 per il Dilà) che s’insedia tra le due sessioni degli Stati<br />

della Corsica. La tutela della burocrazia monarchica diventa più pesante dopo il 1781; tra il 1785 ed il 1788 le elezioni<br />

municipali sembrano sospese: in numerosi Quaderni di villaggi si chiede espressamente che l’elezione <strong>dei</strong> magistrati<br />

municipali si faccia nel rispetto della «pluralità <strong>dei</strong> suffragi» e non a discrezione del governo, mentre gli Stati<br />

provinciali vengono convocati una sola volta in sette anni (nel 1785). Strettamente legati al potere, i grandi notabili<br />

hanno comunque <strong>dei</strong> limiti: i loro diritti, prerogative e trattamenti (per la nobiltà di toga) sono inferiori a quelli degli<br />

omologhi continentali. Nel Quaderno generale della nobiltà si richiede espressamente la piena uguaglianza con i nobili<br />

di Francia e l’estensione <strong>dei</strong> privilegi e <strong>dei</strong> diritti feudali. Alcuni nobili corsi manifestano un’esplicita volontà di ritorno<br />

alla situazione del Medio Evo; particolarmente nette sono, a questo riguardo, le esigenze <strong>dei</strong> nobili delle regioni di<br />

Ajaccio e di Sartena 3 : il Cahiér des dolèances della nobiltà locale chiede che i consigli comunali siano costituiti dagli<br />

eletti del Terzo Stato, ai quali dovrebbero unirsi come membri di diritto, per l’elezione del Podestà e <strong>dei</strong> Padri di<br />

comune, tutti i nobili del luogo. I deputati di Sartena presentano anche delle riserve sulla partecipazione alle elezioni <strong>dei</strong><br />

pastori e <strong>dei</strong> contadini della loro giurisdizione. Questa politica di rafforzamento della classe <strong>dei</strong> grandi proprietari ha<br />

avuto delle manifestazioni e delle conseguenze rintracciabili nell’evoluzione delle forze produttive e <strong>dei</strong> rapporti sociali<br />

nelle campagne.<br />

§ 1. La politica della monarchia assoluta e l’evoluzione agraria in Corsica<br />

§ Le concessioni demaniali<br />

La monarchia francese ha favorito il mantenimento e l’estensione della grande proprietà fondiaria. La politica delle<br />

concessioni demaniali detiene un ruolo essenziale: a partire dal 1770 lo Stato mette mano sui vasti territori dell’isola,<br />

occupandoli come beni del Demanio Reale. I diritti e le terre ereditate della Repubblica di Genova vengono inglobati a<br />

pieno titolo nel Demanio, così come accade per i beni comunali, adibiti dalle comunità rurali all’allevamento ed alla<br />

libera coltivazione: si trattava di spazi comunitari che avevano favorito la nascita della piccola proprietà privata,<br />

appartenenti ai coltivatori di propri beni (notai, curati, grandi possidenti) ed ai coltivatori autonomi. Ad ogni modo, la<br />

confisca demaniale è vissuta dai corsi come una vera spoliazione: lo testimoniano i documenti relativi ai processi ed alle<br />

proteste popolari, soprattutto perché i tribunali e l’amministrazione regia concludono i processi quasi sempre a favore<br />

del Demanio e <strong>dei</strong> grandi concessionari. Queste terre sono, infatti, date dallo Stato in concessione privata 4 per la loro<br />

capitalizzazione (da cui lo stato riscuote anche un plusvalore fiscale) ad una trentina di nobili. Queste concessioni si<br />

localizzano soprattutto nelle zone dell’isola che erano state già in precedenza appannaggio della grande proprietà. I<br />

contratti di concessione portano ad un rafforzamento del potere economico <strong>dei</strong> grandi proprietari, sempre più equiparati<br />

ai grandi nobili continentali: anche se i potenti non ricevono diritti giuridici e banalità... possono comunque sottomettere<br />

i contadini (come quelli del marchesato di Marbeuf, in base alla confessione del subdelegato di Ajaccio) ad un vero<br />

dispotismo signorile: nessun riconoscimento della municipalità, scarso rispetto degli editti reali, ecc. Ad ogni modo, i<br />

conti ed i marchesi hanno il diritto di riscossione dell’erbatico e del terratico sugli allevatori ed i coltivatori 5 . Le<br />

conseguenze di questa politica saranno molto pesanti per le comunità rurali dell’interno che utilizzavano abitualmente le<br />

pianure e le colline costiere. Le confische rappresentano almeno l’11% della superficie totale dell’isola, ma questa<br />

percentuale si alza al 23% nel dipartimento di Sartena ed al 36% in quello di Calvi. <strong>Il</strong> loro peso aumenta<br />

considerevolmente nella zona degli Agriati (dipartimento di Bastia) e nella pianura di Aleria (dipartimento di Corte)<br />

mentre nei dipartimenti di Calvi, Sartena ed Ajaccio sono numerose le superfici coltivate e che passano sotto il diretto<br />

controllo <strong>dei</strong> grandi aristocratici 6 . <strong>Il</strong> dominio sui terreni e sui beni comunali privava i piccoli allevatori-agricoltori <strong>dei</strong><br />

3 Cfr. articolo 70 <strong>dei</strong> Cahiers: «Che la nobiltà della Corsica sia reintegrata nei suoi diritti feudali nel possesso dai quali era al tempo del governo del<br />

Repubblica di Genova e che il Comandante in capo della Provincia sia autorizzato a ricevere a nome di Sua Maestà il giuramento <strong>dei</strong> signori<br />

feudatari» e l’articolo 93 «Che i Nobili della suddetta giurisdizione di Ajaccio aveva mantenuto nei loro diritti feudali o aveva reintegrato<br />

diversamente, ed in particolare i feudatari di Bozi e Locari che avevano il più grande numero di vassalli, secondo i voti contenuti nel Quaderno delle<br />

doglianze della detta giurisdizione secondo le memorie che si riservano di dare a questo proposito». Cfr. FRY HYSLOP B., A guide of Generals Cahiers<br />

of 1789, «American Historical Review», Vol. 42, 2 (1937), pp. 313-314 e PONCIN L., Les problémes de la Corse â travers les Cahiers de 1789,<br />

Ajaccio 1988.<br />

4 Rapport sur les domaines nationaux à l’Isle de Corse fait au nom du Comité des Domaines par M. Barrère, député des Hautes-Pyrénées (septembre<br />

1791), Paris, Bibliothèque Nationale François Mitterrand, Rez de Jardin, doc. 688/fr.<br />

5 È documentato ampiamente per il terreno di ottomila arpenti dato in concessione al principe di Bourbon-Conti negli Agriati, per il territorio di Porto-<br />

Vecchio, per le contee della zona di Coti-Chiavari. I nobili possono riscuotere anche le rendite signorili in natura, le decime (1/10 su tutte le<br />

produzioni, di cui 1/3 al concessionario e 2/3 al re) ed i censi (dieci soldi per casa): è il caso <strong>dei</strong> Casabianca ad Aleria, <strong>dei</strong> Colonna nella Cinarca, <strong>dei</strong><br />

Maimbourg a Porto-Vecchio (che ricevono anche la terza parte <strong>dei</strong> beni comunitari), <strong>dei</strong> Colonna di Istria e del conte di Marbeuf nel Vicolese. Cfr.<br />

Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie B (Consiglio superiore) 1 B3. Estratti <strong>dei</strong> registri del Consiglio di Stato, p. 55. Colonna, conte di Cinarca riceve 2000<br />

arpenti nel territorio di Sia. Lettera patente, 7 ottobre 1787, Paris, Archives Nationales, fondo Q 1 .298.<br />

6 Cfr. CASANOVA A., Forces productives cit., vol. annexes I, cap. XII, tabella n. 4, colonna III (i prati rappresentano il 20% del coltivato nel<br />

dipartimento di Calvi, il 12% in quello di Sartena, lo 0,27% per quello di Corte), colonna IV (il 50% del coltivabile nel dipartimento di Calvi, il 22%<br />

in quello di Sartena, il 21% in quello di Ajaccio, dall’1% al 2% in quello di Corte). Colonna V (il 43% dell’incoltivabile nel dipartimento di Calvi, il<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

diritti di uso per la caccia, per la pesca e per la macerazione negli stagni, ma soprattutto faceva diminuire i campi adibiti<br />

alla transumanza, all’allevamento e alle coltivazioni. Spesso si impediva anche il controllo dell’acqua, come mostrano<br />

le lamentele delle comunità di Serra e Conca-Lecci contro i prepotenti Rocca-Serra, Ettori e Giudicelli. I contadini sono<br />

costretti a pagare la decima (champart), l’erbatico ed il terratico per l’usufrutto di beni e diritti comunali che gli<br />

appartenevano da secoli. Questi prelievi si aggiungono alle decime reali ed alle tasse comuni, rendendo insopportabile il<br />

peso fiscale negli anni di mediocre o cattivo raccolto: numerosi contadini sono costretti ad indebitarsi verso i grandi<br />

proprietari o gli appaltatori delle tasse, spesso esponenti della stessa famiglia. Ma questa politica suscita anche la collera<br />

della borghesia rurale in evoluzione, che si vede contestare l’uso delle terre comunali e la proprietà privata, fondata<br />

sulle stesse terre comunali: questo fenomeno è evidente nelle zone di Porto-Vecchio e di Vico e giustifica la<br />

partecipazione, fin da 1772 <strong>dei</strong> capi locali al movimenti di protesta contro i coloni greci di Cargese e contro il<br />

marchesato di Marbeuf.<br />

§ Politica fiscale ed evoluzione <strong>dei</strong> rapporti di classe<br />

Abbiamo analizzato una delle direzioni essenziali della politica agraria della monarchia e <strong>dei</strong> grandi proprietari insulari.<br />

Ne ritroveremo gli orientamenti a livello fiscale. Si tratta di una realtà poco studiata, poco compresa e tuttavia di<br />

importanza capitale.<br />

I nobili corsi sono sottomessi, ovviamente, alla tassa diretta; sono esentati tuttavia da quelle forme di costrizione<br />

particolarmente penose come la corvée per il rifacimento delle strade o per l’alloggio delle truppe di guerra. Oltre a<br />

questi obblighi, per i non privilegiati intervengono anche le tasse indirette, come le gabelle o le tasse sul commercio <strong>dei</strong><br />

beni, numerose in tutto il regno. Questi prelievi in Corsica possono variano dal 15% fino al 25% del valore <strong>dei</strong> prodotti.<br />

La gabella sul sale (importato della Sardegna e rivenduto nei granai reali) era gravemente sofferta nell’isola, dato che<br />

gravava soprattutto sul popolo e sulla borghesia commerciale. Tra i sessantatre Cahiers de Doléances documentati per<br />

la Corsica figurano numerose richieste di soppressione della gabella sul sale; si riscontra la stessa richiesta nel<br />

Quaderno Generale del Terzo Stato, mentre in quello <strong>dei</strong> nobili figura soltanto la richiesta di una diminuzione. Non<br />

deve essere dimenticata l’esistenza (e l’aumento nel 1785) della tassa sulla carta bollata, estesa a tutti gli atti degli<br />

ufficiali municipali. Questo diritto si ritorce essenzialmente contro il popolo che, in caso di devastazione <strong>dei</strong> raccolti per<br />

il passaggio del bestiame, esita oramai a richiedere perizie e procedure a causa dell’elevato prezzo <strong>dei</strong> diritti di controllo<br />

e delle carte bollate, come testimoniano le lamentele scritte nei Quaderni <strong>dei</strong> villaggi della giurisdizione della Porta e<br />

del villaggio di Calacuccia.<br />

§ Sovvenzione, rendita centralizzata ed aristocrazia corsa<br />

La tassa diretta, chiamata allora sovvenzione, si ricollega nelle sue ispirazioni di principio agli orientamenti<br />

raccomandati in materia fiscale dai ministri riformatori della Monarchia. La riscossione della sovvenzione era prevista<br />

originariamente in denaro, ma di fronte all’incapacità <strong>dei</strong> contadini di accumulare risparmi a causa delle crisi di<br />

sussistenza e delle agitazioni (specie nel periodo 1773-1776 e, nel Sud 7 , nel 1777-1778), ed in seguito all’enorme<br />

accumulo degli arretrati (che provocarono delle soprattasse e l’acquartieramento delle milizie o dragonnades), il<br />

sistema venne riformato nel 1778. Da allora, la tassa è stata percepita in natura. La sua pesantezza ed il suo carattere<br />

classista è stato finora totalmente ignorato o profondamente sottovalutato negli studi sulla Corsica d’Ancien Regime.<br />

Infatti, osservando i dati solo superficialmente, la sovvenzione può apparire come il segno di una politica fiscale giusta<br />

e sopportabile, perché pesa in linea di principio su tutte le categorie sociali, proporzionalmente al prodotto <strong>dei</strong> raccolti<br />

(il ventesimo del prodotto annuo, sottratta la quantità dalle sementi). I meccanismi concreti dell’imponibile e soprattutto<br />

della percezione di questo contributo in natura inducono ad osservare diversamente il suo peso e la sua funzione nei<br />

rapporti sociali. <strong>Il</strong> livello contributivo, regolato in base alla produzione, permette ai contribuenti più potenti di fornire<br />

delle false dichiarazioni, assicurando una contribuzione ben più leggera rispetto alle capacità effettive 8 . Trattenuti dal<br />

timore di questi grossi contribuenti, gli ufficiali municipali, a dire degli stessi commissari, pronunciano <strong>dei</strong> giudizi che<br />

avallano queste false dichiarazioni. Ma la funzione sociale della sovvenzione si manifesta soprattutto nella sua<br />

riscossione: i proprietari più ricchi dispongono di un potere che permette loro di aggirare la tassa e di trarre profitto dal<br />

lavoro <strong>dei</strong> contadini di ogni pieve. A partire dal 1778, la tassa diretta viene riscossa, come si è detto, in natura e non in<br />

denaro: questo fenomeno è indice del debole grado di realizzazione, nella Corsica degli anni ‘70, di una rete stretta e<br />

completa di scambi (base necessaria, tra l’altro, dell’unità nazionale). Come si trasformavano i grani, le castagne e gli<br />

29% in quello di Sartena, l’1,30% in quello di Corte).<br />

7 Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, 534. La corrispondenza (la sola ininterrotta durante questi anni) di Folacci, tesoriere della provincia di<br />

Ajaccio, torna continuamente sulle difficoltà di pagamento malgrado l’invio di truppe nei villaggi nel 1775, 1776, 1777. Nel 1778 e 1779 testimonia<br />

l’«universale miseria» e la fuga disperata <strong>dei</strong> contadini contribuenti fuori dai villaggi.<br />

8 Lettre des commissaires du roi aux députés des piéves à l’Assemblée de la province d’Ajaccio du 16 janvier 1781. Archivi municipali di Ajaccio,<br />

BB 34, F. 23, 24. <strong>Il</strong> contenzioso della provincia di Sartena (Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C 585, 586, 587) mostra che gli appaltatori non sono<br />

nobili ed alti principali, ma affittuari <strong>dei</strong> villaggi; essi non sono in grado di far pagare i grandi proprietari fondiari. Infatti, come Lucchini, appaltatore<br />

del villaggio di Giuncheto e Poli di Olmeto, un altro “povero uomo” appaltatore nel 1786 a Zerubia, non riesce ad ottenere il pagamento della<br />

sovvenzione sulle terre e sul bestiame <strong>dei</strong> contadini mezzadri <strong>dei</strong> grandi proprietari di Sartena. Generalmente sostenuti dai Nobili Dodici (che<br />

assistono l’intendente nelle sessioni degli Stati della Corsica), i principali secondo un rapporto del giudice reale Patin de la Fizeliére (settembre 1785,<br />

Serie C 585) agiscono sugli ufficiali municipali <strong>dei</strong> villaggi «come su una molla» per far sotto-tassare o esentare le loro terre. Con minor precisione e<br />

regolarità, la Corrispondenza <strong>dei</strong> Nobili Dodici (Serie C, 567, 568, 569) lascia intravedere <strong>dei</strong> processi analoghi nel Nord-est dell’isola.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

altri prodotti <strong>dei</strong> villaggi in denaro per la Cassa Reale? La sovvenzione viene data in aggiudicazione in base alle pievi.<br />

Quattro volte all’anno, l’appaltatore deve versare in denaro contante alla Cassa civile le somme prefissate: la riscossione<br />

delle derrate, la loro vendita e la consegna della somma prefissata restano a suo carico. Con tali obblighi, possono<br />

diventare appaltatori di pieve soltanto i grandi proprietari, come i Campocassi nella regione di San-Fiorenzo nel 1789.<br />

Spesso si tratta anche di magistrati municipali, come Biagini, appaltatore della pieve di Vallerustia e Podestà di Corte<br />

nel 1789, oppure di nobili 9 . Gli appaltatori dispongono di un esercito privato per costringere gli inadempienti a pagare<br />

(attraverso le dragonnades), hanno autorizzazione al porto d’armi e sono membri di diritto delle assemblee di pieve.<br />

Questi privilegi e strumenti di pressione non sono trascurabili: permettono agli appaltatori di agire con la massima<br />

libertà, di pagare la Cassa, di poter rientrare nelle spese e di trarre un beneficio supplementare, una vera estorsione, in<br />

collegamento con il sistema amministrativo dello Stato. I metodi sono diversi, ma fondamentalmente consistono<br />

nell’indebita estensione della sovvenzione ai prodotti animali o vegetali che, pur non essendo soggetti all’imposta, non<br />

ne sono tuttavia esplicitamente esentati. È il caso, ad esempio, delle castagne, oggetto di consumazione domestica, e del<br />

bestiame, necessario al fabbisogno familiare. Un altro metodo consiste nel condannare arbitrariamente i contadini a<br />

versare il quadruplo <strong>dei</strong> prodotti con il pretesto di dichiarazioni inesatte o di ritardo nei versamenti 10 . <strong>Il</strong> procedimento<br />

più oneroso e più diffuso, screditato e condannato da numerosi Quaderni <strong>dei</strong> villaggi (41 su 63) consisteva nel<br />

richiedere la ventesima parte, non sul prodotto al netto (cioè con la sottrazione <strong>dei</strong> semi e delle spese di coltivazione),<br />

ma al lordo, che ne aumentava considerevolmente il peso. Anche il Quaderno generale del Terzo Stato chiede<br />

(all’articolo 7) di prelevare sementi e spese per la coltivazione prima del pagamento della ventesima e della decima<br />

parte; quello della nobiltà ammette la necessità di sottrarre le spese di semina, particolarmente per gli anticipi dati ai<br />

mezzadri.<br />

§ Confische legalizzate, speculazione in denaro<br />

<strong>Il</strong> potere degli appaltatori cresce anche perché l’incameramento legale di masse enormi di derrate permette loro di<br />

influenzare i prezzi <strong>dei</strong> mercati e di speculare negli anni di carestia. <strong>Il</strong> loro ascendente si rafforza a scapito della classe<br />

contadina: incapaci di pagare le tasse, addirittura di disporre di semi per lavorare, migliaia di piccoli contadini chiedono<br />

credito, in grano o in castagne, agli appaltatori, che prestano i propri beni ad usura. Contemporaneamente, nei periodi di<br />

cattivo raccolto, di carestia, di innalzamento <strong>dei</strong> prezzi, questi personaggi, che possiedono le scorte alimentari grazie<br />

all’appalto delle tasse in natura, speculano ed aspettano il momento favorevole per riversare il loro grano sui mercati<br />

corsi o italiani. Agenti attivi e considerevoli del rialzo <strong>dei</strong> prezzi, essi realizzano <strong>dei</strong> profitti supplementari. La fiscalità<br />

monarchica in Corsica non ha avuto, dunque, l’influenza indolore che le era stata accreditata: in realtà essa ha favorito<br />

solo i grandi proprietari. Inizialmente costretti a pagare la sovvenzione, gli esponenti di questa classe riescono a<br />

scaricarsela di dosso in poco tempo. Soprattutto, essi sono i soli a poter mobilitare le risorse e ad avere la possibilità di<br />

diventare appaltatori di pieve. Eludendo gli obblighi, essi estendono la loro influenza sui contadini-produttori riuscendo<br />

a realizzare degli enormi guadagni in denaro. L’appalto della sovvenzione in natura mette i grandi principali (che<br />

costituiscono ormai la nobiltà), nella condizione di incamerare una rendita centralizzata in natura (integrata alla tassa<br />

diretta) e di disporre di prelievi supplementari in prodotti. Questi prodotti, tenuto conto del potere e delle possibilità<br />

conferite dalla struttura statale, permettono agli appaltatori di praticare l’usura su larga scala e, in collegamento con i<br />

grandi mercanti di Bastia, di incidere speculativamente sui prezzi.<br />

In queste condizioni, per riprendere i termini di un osservatore francese, «…la sovvenzione è una tassa cara e tanto più<br />

pesante quando manca il raccolto. <strong>Il</strong> Re ne ricava poco, e i sudditi ne sono schiacciati. Si vedono gli appaltatori<br />

ritirare ogni volta più denaro di quello che entra nei forzieri del Re» 11 . Giudizio confermato dalla lettura delle diverse<br />

memorie 12 redatte dall’amministrazione e dalla corrispondenza <strong>dei</strong> Nobili Dodici tra il 1780 ed il 1789 13 .<br />

Si verifica così in Corsica, dopo il 1778, una forte osmosi tra le grandi fortune fondiarie e il sistema fiscale statale.<br />

L’investimento nella macchina fiscale e finanziaria rappresenta per i nobili principali (anche grazie ai mancati<br />

9<br />

Questo fatto viene confermato da un’analisi più attenta <strong>dei</strong> documenti relativi al contenzioso sulla sovvenzione nella provincia di Sartena tra il 1779<br />

ed il 1789, cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Intendence 585, 586; i dati mostrano che gli appaltatori di pieve sono <strong>dei</strong> proprietari nobili. Nella<br />

pieve di Sartena si tratta, tra il 1779 ed il 1788, <strong>dei</strong> Peretti di Levie, poi <strong>dei</strong> Pietri; in quella di Tallano, degli Ortoli; in quella di Porto-Vecchio, <strong>dei</strong><br />

Quenza, poi degli Ettori e <strong>dei</strong> Cesari-Rocca; in quella di Viggiono, <strong>dei</strong> Durazzo.<br />

10<br />

Questi processi sono denunciati dall’Assemblea provinciale di Bastia nelle sedute del 16, 17 e 19 febbraio 1781. Cfr. Procès verbal de l’Assemblée<br />

provinciale de Bastia convoquée à Bastia le 15 février 1781. Publié par ordre et de l’autorisation du Roi. Bastia 1781. Fondi della Biblioteca<br />

municipale di Bastia.<br />

11<br />

CRISSE T., Mémoire sur la Corse. Réflexion et observations sur les différents impôts, la manière de les percevoir, les inconvénients qui peuvent en<br />

résulter. Arch. nat., Paris, K. 1225-<strong>11.</strong><br />

12<br />

Cfr. particolarmente l’esame critico operato dai servizi di Versailles, Tableau de l’administration de la Corse (febbraio 1788), Fondi degli Arch.<br />

mun., «Piéces ministérielles Statistiques», collezione Mattei SM G 1. La memoria mostra che la pesantezza della sovvenzione cresce perché<br />

l’amministratore (con l’accordo <strong>dei</strong> Nobili Dodici, <strong>dei</strong> subdelegati e degli ufficiali municipali) ad ogni nuova aggiudicazione «fa stampare un<br />

Quaderno delle cariche e non manca di fare <strong>dei</strong> cambiamenti al precedente per estendere la sovvenzione a qualche oggetto in più» (p. 79). Quanto agli<br />

appaltatori, essi hanno «dissipato il prodotto» della sovvenzione che hanno percepito e non li si persegue che «con indulgenza» (p. 80-82).<br />

13<br />

Facendo il bilancio, il 4 gennaio 1788, <strong>dei</strong> 71.613 libri degli appaltatori per i tre anni precedenti, i Nobili Dodici notano che se i contribuenti sono<br />

costretti a pagare molto, gli appaltatori tendono a considerare la tassa diretta come una rendita legalizzata (con l’appoggio dell’apparato dello Stato)<br />

per il proprio tornaconto: «Ognuno sà che i contribuiti sono solleciti a pagare la loro sovvenzione, e le persecuzioni, alle quali sono soggetti da parte<br />

degl’aggiudicatari, se non riempiono esattamente quel carico. <strong>Il</strong> debito dunque è degl’aggiudicatari, la maggiore parte de’ quali convertono il danaro<br />

ed i proventi della sovvenzione in proprio loro beneficio e migliorando la loro sorte, ed il loro patrimonio, impoveriscono cosi la Cassa della<br />

provincia», in Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Intendence 568. Corrispondenza <strong>dei</strong> Nobili Dodici (1788).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

versamenti alla Cassa Reale) uno strumento che assicura un guadagno enorme in prodotti naturali ed un controllo<br />

privilegiato sui mercati corsi, già fonti di profitti elevati. Questa realtà, pur con caratteristiche specifiche, somiglia<br />

fortemente ai contemporanei processi attuati in Europa dalle altre strutture fiscali statali, che garantivano <strong>dei</strong> profitti in<br />

denaro alle classi dirigenti.<br />

§ Sistema fiscale, forze produttive e produttori al dettaglio<br />

Al contrario, questo meccanismo fiscale instaurato dalla Monarchia contribuisce a contrastare la piena utilizzazione<br />

delle potenzialità produttive <strong>dei</strong> produttori al dettaglio. Ciò si verifica con due modalità diverse, anche se collegate fra<br />

loro. <strong>Il</strong> gettito fiscale frena l’accumulazione <strong>dei</strong> capitali necessari agli anticipi <strong>dei</strong> piccoli contadini e <strong>dei</strong> proprietari<br />

agiati, che vogliono sviluppare l’arboricoltura e modernizzare le tecniche per vendere meglio sul mercato. Al prelievo<br />

fiscale statale, bisogna aggiungere in numerose regioni quello legato alle concessioni demaniali e, dovunque, la decima<br />

(da cui i nobili sono esenti). Anche se caratterizzata da una quotazione variabile (è più pesante nel Dilà) la decima<br />

toglie generalmente da un decimo ad un ventesimo del prodotto lordo. <strong>Il</strong> suo peso non è trascurabile e ventiquattro<br />

Cahiers de Doléances su sessanta <strong>dei</strong> villaggi conosciuti ne richiedono l’abbassamento o la soppressione 14 . <strong>Il</strong> peso del<br />

carico fiscale globale pesa soprattutto sulla povera classe contadina, che sopporta anche gli effetti delle tasse indirette,<br />

delle gabelle, <strong>dei</strong> diritti di controllo e della carta bollata, tra l’altro aumentata nel 1785 15 . Meno colpita, la borghesia<br />

urbana e rurale si preoccupa degli investimenti per modernizzare l’agricoltura e sviluppare il commercio, anche se<br />

risente <strong>dei</strong> cattivi effetti del gettito fiscale. Occorrerebbe, cosa molto ardua data l’assenza di documenti adeguati,<br />

stimare il peso di questo carico fiscale: un osservatore dell’epoca lo valuta, comprendendo tutte le tasse, al 30% del<br />

reddito lordo di un proprietario olivicoltore, ovvero a cento barili d’olio del reddito lordo: il 33% della spesa di raccolta,<br />

il 10% della spesa di spremitura, il 15% <strong>dei</strong> diritti di uscita, il 10% <strong>dei</strong> diritti di tratta ambulante, il 5% di sovvenzione,<br />

corrispondente ad un reddito netto del 27% rispetto al totale. Anche se limitati ad una tipologia particolare di<br />

produzione, questi dati forniscono un chiarimento solo parziale. La stima globale <strong>dei</strong> prelievi subiti dai produttori agropastorali<br />

(che costituiscono allora la maggioranza della classe contadina) è difficile: si può azzardare soltanto una cifra<br />

approssimativa. In questa prospettiva, la sovvenzione (che in Corsica era allo stesso tempo una tassa reale ed un<br />

prelievo diretto <strong>dei</strong> grandi proprietari appaltatori) può essere stimata nel 1789 attorno ai 2/20 (il 10%) del prodotto<br />

lordo. La decima si aggira almeno ad 1/200 (o il 5%) di questo stesso prodotto. Nelle contee, nei grandi campi e nelle<br />

concessioni, i prelievi sotto forma di champart, di erbatico e terratico si aggirano in media attorno ad 1/5 o 1/6 del<br />

prodotto raccolto (il 15-20%). Abbiamo così caratterizzato un prelievo fiscale che si attesta intorno al 25-35% del<br />

prodotto lordo <strong>dei</strong> lavoratori, calcolato in base alla tassa reale, alle decime ed ai versamenti ai grandi proprietari. A<br />

queste detrazioni andrebbero aggiunte le tasse indirette.<br />

Non si potrebbero comprendere le conseguenze della fiscalità (ed in modo particolare della sovvenzione in natura)<br />

sull’evoluzione delle forze produttive senza localizzarle nella cornice <strong>dei</strong> dati relativi al livello tecnico insulare alla fine<br />

del XVIII secolo. La sovvenzione mette in crisi l’accesso e l’utilizzazione degli elementi di base del sistema agropastorale<br />

<strong>dei</strong> contadini dipendenti: essa costituisce un prelievo in natura su <strong>dei</strong> beni (bestiame, cereali, castagne) appena<br />

sufficienti ad assicurare la semplice riproduzione dell’esistenza e <strong>dei</strong> mezzi di produzione (rinnovo del bestiame,<br />

sementi): «La sovvenzione in natura pesa sul “necessario assoluto”, in un paese in cui generalmente si raccoglie<br />

soltanto ciò che occorre per la semina; gli abitanti sarebbero ridotti alla miseria assoluta se non avessero alcune<br />

buone annate» 16 . Con degli effetti simili a quelli delle banalità, la sovvenzione provoca confusione anche a causa della<br />

modalità di riscossione e di controllo imposto dagli appaltatori; costituisce infine (in stretto rapporto con la tendenza<br />

permanente degli appaltatori ad appesantire la sua applicazione ed a diffonderla alle nuove produzioni) un vero<br />

disincentivo allo sviluppo dell’allevamento, delle viti, degli olivi <strong>dei</strong> culture ortofrutticole e degli alberi da frutto 17 .<br />

§ Sovvenzione e produzione agricola<br />

Le conseguenze negative della sovvenzione in natura per la riproduzione e lo sviluppo delle forze produttive materiali<br />

ed umane <strong>dei</strong> contadini si manifestano, in modo specifico ed illuminante, nella produzione del vino e dell’olio. Nel<br />

territorio dell’aggiudicazione, che costituisce, per molti versi, una vera «periferia» 18 , i raccolti di uva o di olive non<br />

14<br />

Ovvero sette Quaderni (su quattordici) nella giurisdizione della Porta e diciassette (su quarantasei) nella provincia di Ajaccio che ne denunciano la<br />

pesantezza, ne richiedono la diminuzione (chiedendo che sia riportata ad 1/20, ad 1/30 o alleggerita della metà) o la soppressione contro un<br />

trattamento fisso per i vescovi, i curati, i pievani. Ma le critiche contro la gestione degli ecclesiastici riguardo ai beni della chiesa, alle decime,<br />

all’insegnamento ed al comportamento verso i beni parrocchiali si ritrovano in trentadue villaggi (venticinque nella provincia d’Ajaccio). Cfr. Arch.<br />

dép. Corse-du-Sud, C 571, Quaderni della giurisdizione de la Porta ed anche C 637, Quaderni della provincia di Ajaccio.<br />

15<br />

<strong>Il</strong> decreto del 30 settembre 1785 porta a nove denari il prezzo di mezzo foglio di carta intestata che si vendeva a sei denari. Arch. dép. Corse-du-<br />

Sud, Serie A 10.<br />

16<br />

CRISSE T., Arch. Nat. K 1225-<strong>11.</strong><br />

17<br />

La Corrispondenza <strong>dei</strong> Nobili Dodici (Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C Intendence 568 e 569) riporta numerosi casi di estorsione di questo tipo. In<br />

generale favorevoli agli appaltatori, questi magistrati segnalano tuttavia talvolta <strong>dei</strong> gravi pericoli; gli «eccessi» si rivolgono contro il nuovo<br />

potenziale produttivo agricolo ed ancor più all’estensione delle culture esistenti ed all’introduzione di nuove colture. <strong>Il</strong> 24 marzo 1788 la sovvenzione<br />

viene estesa ai meli ed ai peri domestici, alle cipolle destinate alla consumazione familiare (30 settembre 1788), alle patate (19 novembre 1789);<br />

all’uva ed ai fichi destinati alla fabbricazione <strong>dei</strong> mustosi, biscotti del Sartenese che i Peretti, grandi proprietari ed appaltatori, tassano nel 1781 a<br />

Sartena (cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C Intendence 585).<br />

18<br />

I poteri dell’appaltatore sulla sua circoscrizione sono definiti da un decreto del 1778 e precisati, col passare delle contestazioni, dall’amministratore<br />

o dalla commissione <strong>dei</strong> Nobili Dodici. Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Intendence 568, Corrispondenza <strong>dei</strong> Nobili Dodici (1788), pp. 16 e<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

possono essere lavorati e pressati prima del controllo degli esattori, a costo di pagare il quadruplo della tassa. I<br />

produttori devono inoltre recarsi obbligatoriamente ai torchi della circoscrizione fiscale sulla quale si trovano le terre<br />

che hanno coltivato. È vietato andare altrove, anche se si tratta del proprio villaggio di residenza, senza l’espressa<br />

autorizzazione dell’appaltatore 19 . <strong>Il</strong> detentore del potere fiscale dispone inoltre di un diritto di requisizione per<br />

l’utilizzazione prioritaria di strumenti (come i barili) destinati a conservare prima della vendita le quantità di beni<br />

previste a titolo d’imposta. In questo quadro istituzionale, l’intero processo fiscale ostacola la piena utilizzazione delle<br />

potenzialità tecniche ed umane per la spremitura dell’uva o delle olive.<br />

Si comprende da ciò la confusione provocata dal controllo del grande proprietario appaltatore sul lavoro e sugli<br />

strumenti di produzione <strong>dei</strong> contadini e lo scoraggiamento <strong>dei</strong> produttori nell’applicazione di tecniche agricole migliori,<br />

finalizzate, in ultima analisi, solo al pagamento della sovvenzione in natura: il caos, incontestabile, è denunciato dai<br />

contribuenti e notato dagli stessi Nobili Dodici. Appare incomprensibile la lunga attesa causata dall’interdizione alla<br />

lavorazione dell’uva e delle olive prima del passaggio degli appaltatori fiscali. In più di un villaggio, questa attesa<br />

veniva raddoppiata dalle lunghe code presso i torchi di Pieve. I Nobili Dodici si rassicurano dichiarandosi convinti<br />

dell’esistenza di un numero di torchi sufficiente («siamo convinti che in ogni territorio ci sono <strong>dei</strong> palmenti e quando<br />

un particolare ne sia privo cié la facilità e l’uso di servirsi di quelli degli altri» 20 ). I documenti relativi al contenzioso e<br />

le loro prese di posizione mostrano, tuttavia, il contrario. Questa attesa di parecchi giorni, aggravata dall’autorizzazione<br />

dell’appaltatore per poter spremere altrove, genera importanti e rapide perdite e contribuisce a rovinare la qualità<br />

dell’olio e del vino. A tutto questo va aggiunto il controllo esercitato dagli addetti sulle operazioni: il processo di<br />

trattamento risulta inevitabilmente ritardato. La confusione diventa ancora più grande quando i proprietari vengono<br />

minacciati di confisca delle giare d’olio o <strong>dei</strong> barili di vino perché l’appaltatore requisisce gli utensili della comunità e<br />

vende il proprio raccolto prima degli altri 21 . <strong>Il</strong> fatto è particolarmente grave negli anni di abbondanza, quando la<br />

conservazione <strong>dei</strong> prodotti diventa necessaria all’esportazione.<br />

§ 2. Contraddizioni delle forze produttive<br />

In Corsica, tra il 1770 ed il 1789, l’azione dello Stato e quella <strong>dei</strong> grandi proprietari favorisce la costituzione <strong>dei</strong> potenti<br />

principali in casta nobiliare. Filippo Buonarroti aveva, in gran parte, afferrato l’essenza e la natura di questa evoluzione,<br />

tanto da affermare, nel 1793, a proposito della politica monarchica in Corsica: «Ognuno ambisce ai titoli di nobiltà, ai<br />

posti, all’oro e agli sguardi di un amministratore; delle concessioni immense avevano arricchito alcune famiglie e fatto<br />

risorgere i principi del regime feudale. Le vecchie virtù si erano rifugiate all’ombra <strong>dei</strong> castagni e degli abeti» 22 . <strong>Il</strong><br />

processo in corso seguiva ed aggravava l’evoluzione <strong>dei</strong> rapporti sociali nell’isola prima del 1770. <strong>Il</strong> processo tendeva a<br />

trasformare la classe contadina delle comunità rurali in un vasto popolo di mezzadri precari: una forma particolarmente<br />

lenta e temibile di passaggio dall’Ancien Régime al capitalismo.<br />

§ L’influenza della politica monarchica e l’accentuazione delle contraddizioni della società corsa<br />

Gli aspetti riformatori, innovativi, gli elementi di ammodernamento economico, di razionalizzazione delle strutture<br />

istituzionali ed amministrative (dopo quaranta anni di guerra in Corsica) sono incontestabili e di profonda portata<br />

durante il periodo 1770-1789. La politica della monarchia francese è incomparabilmente meno arcaica, meno<br />

contraddittoria (e quindi più razionale e meno arbitraria) del regime genovese. Ma questi processi sono allo stesso<br />

tempo all’origine di contraddizioni più gravi, perché orientati al rafforzamento della tutela burocratica dello Stato reale<br />

ed all’egemonia della casta <strong>dei</strong> grandi proprietari. D’altro canto proprio al capovolgimento di fronte <strong>dei</strong> grandi<br />

proprietari si deve una delle cause principali della disfatta del governo nazionale di Pasquale Paoli: la Francia poteva<br />

garantire molti più vantaggi a questa categoria sociale rispetto ad uno Stato corso indipendente. Un comandante militare<br />

francese, il visconte di Barrin, ha mostrato chiaramente le contraddizioni di questa politica in una lettera confidenziale<br />

al suo ministro, scritta il 31 agosto 1789: «Probabilmente ai corsi sono stati concessi gli Stati, ma senza fare molto<br />

attenzione alle loro richieste. Si è seguito quasi sempre il principio dell’autorità sostenuta dalla forza. Abbiamo avuto<br />

<strong>dei</strong> desideri generosi, particolarmente quello di migliorare l’agricoltura, ma i progressi si sono fermati per i carichi e<br />

le pastoie che gravano sul paese, come per i considerevoli diritti sul commercio. Sono state date in concessione le terre<br />

del Re, o pretese tali, e buona parte di esse era stata già richiesta da alcuni individui, per non parlare delle loro<br />

169; cfr. anche Intendence 533, contenzioso relativo alla Balagna.<br />

19 Cfr. le precisazioni <strong>dei</strong> Nobili Dodici del 21 agosto 1788 (Arch. dép. Corse sud, serie C 568, Corrispondenza <strong>dei</strong> Nobili Dodici, p. 169). I Nobili<br />

Dodici stimano che dovessero essere valide ovunque in Corsica le stipulazioni ottenute dall’appaltatore delle comunità di Bastia, Pietrabugno e Santa<br />

Maria di Lota: i proprietari che possedevano delle vigne sul territorio di questi villaggi «saranno tenuti a pressare le uve nei tini (palmenti) di questo<br />

stesso territorio. Se non esiste un torchio su questo territorio, i proprietari saranno tenuti ad avvertire l’appaltatore, in modo tale che possa autorizzare<br />

per iscritto, a pressare le uve nella comunità di loro residenza, e ciò separando queste uve dagli altri raccolti...».<br />

20 Lo si vede in Balagna per la presenza di frantoi “commerciali”, presso i quali si poteva fare triturare e spremere le olive versando un diritto<br />

(chiamato lému) al proprietario del mulino. Lo si vede anche per le installazioni private destinate ai gestori agricoli, che ne sono proprietari. A Sartena<br />

nel 1784, il vinaio Mancini è costretto dall’appaltatore (che è anche il Podestà di pieve) ad interrompere la spremitura (alla pressa ad albero) della<br />

vinaccia che è nel suo troglio (o palmento) per riprenderlo solamente in presenza degli addetti. Cfr. Corrispondenza <strong>dei</strong> Nobili Dodici, Arch. dép.<br />

Corse-du-Sud, serie C, Intendence 568 (1788), 21 agosto 1788.<br />

21 Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Intendence 586. Affare <strong>dei</strong> barili necessari al nobile Ettori, appaltatore. Sul contenzioso ed il controllo delle otri<br />

d’olio, cfr. Serie C, Intendence 568, Corrispondenza <strong>dei</strong> Nobili Dodici (1788).<br />

22 BUONARROTI F., Giornale Patriottico di Corsica, «B.S.S.H.N.C.», fasc. 389-392 e 421-424 (1919 e 1921).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

rimostranze...» 23 . Queste contraddizioni si manifestano con forza nell’evoluzione delle forze produttive nelle loro<br />

connessioni con i rapporti sociali.<br />

§ Convergenze e Divergenze<br />

La percezione (limitata, ma più netta) di queste contraddizioni si esprime in parte nelle richieste e nelle diverse tendenze<br />

<strong>dei</strong> grandi proprietari nobili negli anni compresi tra il 1785 ed il 1787. In generale, i grandi principali si accordano per<br />

mantenere ed estendere il loro controllo per lo sfruttamento <strong>dei</strong> beni comunali. Essi vogliono allo stesso tempo orientare<br />

la polizia agraria verso un rafforzamento delle attività e delle possibilità <strong>dei</strong> piccoli produttori pastori-coltivatori,<br />

mantenendo e sviluppando la politica fiscale e demaniale dello Stato in vigore dal 1770. Due tendenze diverse che si<br />

sovrappongono e (in parte) si contrastano, ma che comunque si compenetrano. Infatti i concessionari nobili, corsi o<br />

continentali, come quelli della zona di Porto-Vecchio o della Rocca, non si disinteressano affatto <strong>dei</strong> miglioramenti e<br />

degli investimenti agricoli: queste persone, tuttavia, cercano soprattutto di estendere le loro entrate in surplus<br />

commerciale e la loro sfera di influenza sociale mantenendo ed aumentando la quantità di prodotti ottenuti con la<br />

mezzadria, estendendo i prelievi dell’erbatico o del terratico con la nuova politica demaniale e con la crescita del loro<br />

potere nell’ambito del sistema fiscale. Non si preoccupano tanto dell’aumento degli investimenti produttivi, ma di un<br />

allargamento del loro ascendente diretto ed indiretto sul lavoro delle famiglie contadine, che continuano a sopravvivere<br />

in condizioni sociali aggravate dallo sfruttamento delle forze produttive. Questo atteggiamento è comune alla quasi<br />

totalità <strong>dei</strong> grandi concessionari.<br />

Nel rifiuto di questa politica e degli orientamenti che essa sviluppa in materia di attuazione delle potenzialità produttive<br />

si costituisce una larga convergenza e un netto divario tra classe contadina e la borghesia. Queste contraddizioni, che si<br />

manifesteranno con forza durante la Rivoluzione francese, ma che erano già evidenti durante il governo di Pasquale<br />

Paoli, si radicano nei complessi processi <strong>dei</strong> rapporti di produzione. La borghesia insulare sostiene le forze produttive<br />

agrarie attraverso la mezzadria, l’usura, le pressioni (effettuate grazie all’ingerenza nei poteri <strong>dei</strong> villaggi e delle pievi) e<br />

con la gestione <strong>dei</strong> beni comunali, della polizia agraria e dell’appalto della sovvenzione 24 . Queste realtà si intrecciano<br />

organicamente e contraddittoriamente con lo sviluppo degli scambi e degli investimenti produttivi, con l’impiego di<br />

attrezzature e di metodi a più alto rendimento, con il ricorso a lavoratori salariati specializzati e qualificati. La<br />

preponderanza accordata all’uno o all’altro di questi poli, si presenta in modo differente a seconda delle regioni<br />

dell’isola; può essere mobile e diversificarsi nel seno di una stessa famiglia. Ma in tutti questi aspetti dell’evoluzione<br />

sociale (comprese le speranze di accedere in parte ai vantaggi della nobiltà) la borghesia insulare è urtata sempre più dai<br />

caratteri essenziali della politica dell’Ancien Régime: colpita dalle gabelle 25 , dalla politica demaniale, dalla sovvenzione,<br />

dai privilegi nobiliari, non aveva nessuno strumento per partecipare ad una gestione degli affari pubblici in maniera<br />

conforme ai suoi interessi. La borghesia considera la lotta contro le concessioni e la captazione aristocratica <strong>dei</strong> beni<br />

comunali come una “riconquista” delle terre, il che non implica affatto la loro restituzione alle comunità rurali o la<br />

divisione egualitaria, ma una caccia alle aste pubbliche. Ciò rende la borghesia corsa piuttosto diffidente nei confronti<br />

delle rivendicazioni e delle azioni contadine, proprio come era già successo nel periodo dell’indipendenza isolana. Su<br />

queste basi l’insieme della borghesia delle campagne insorgerà contemporaneamente contro la grande aristocrazia<br />

insulare e contro la tutela e la politica imposta in Corsica dalla monarchia assoluta. Perciò darà prova di una volontà<br />

riformatrice netta (chiedendo la soppressione del sistema fiscale-finanziario, la chiusura delle concessioni e la<br />

democratizzazione delle istituzioni politiche), ma limitata. Per certi versi, questa presa di posizione corrisponde a quella<br />

che ha caratterizzato il governo di Pasquale Paoli. È intorno a questa posizione che nasceranno, dopo il 1789, delle<br />

evoluzioni e delle oscillazioni legate all’avvicinamento ai sostenitori dell’antico regime o, al contrario, a più nette<br />

radicalizzazioni rivoluzionarie.<br />

§ La crisi del «modello antico» in Corsica dal 1770 al 1789: aspetti e problemi.<br />

L’evoluzione <strong>dei</strong> rapporti di produzione si accompagna alla crisi del modello economico, che contribuisce<br />

probabilmente a spiegare i tratti specifici della Corsica durante il periodo 1770-1789. I ritmi delle oscillazioni e <strong>dei</strong><br />

movimenti del tempo sociale nell’isola nei secoli XVII, XVIII (e XIX) sono ancora poco studiati. La stessa analisi per<br />

gli anni 1770-1789 incontra delle difficoltà considerevoli ed in gran parte poco superabili. L’approccio provvisorio che<br />

ne è stato tracciato autorizza tuttavia due constatazioni essenziali. La prima riguarda l’esistenza di quattro grandi periodi<br />

di crisi (1769-1774; 1777-1779; 1781-1784 e, in numerose regioni, il 1787; 1788-1789). Queste crisi sono segnalate<br />

dalle fiammate <strong>dei</strong> prezzi del grano e dell’orzo (aumento del 50%, 100% o addirittura del 200%), dalla malnutrizione e<br />

dall’indigenza aggravata che estende notevolmente l’indice di mortalità (rispetto al consueto periodo di agosto e<br />

23 BARRIN, Lettre â La Tour du Pin, Arch. nat., Paris, F 7 36671.<br />

24 Per i notabili <strong>dei</strong> villaggi, si tratta raramente della sovvenzione di pieve: l’appalto della sovvenzione <strong>dei</strong> villaggi può rivelarsi rovinosa. L’attrazione<br />

per queste pratiche, la volontà di dividere i vantaggi di cui beneficia la parte più potente della nobiltà corsa dal 1770, sono forti soprattutto nell’alta<br />

borghesia. Si tratta di famiglie piuttosto potenti, che dominano il grande latifondo agricolo, e che vivono con la compravendita delle terre, delle<br />

rendite a credito e con l’esercizio delle libere professioni (è il caso di Carlo Andrea Pozzo di Borgo, di Carlo Bonaparte). <strong>Il</strong> loro prestigio economico e<br />

simbolico deriva spesso dall’appoggio francese (anche se i più grandi principali, nobilitati dalla monarchia, discendevano dai lignaggi dell’antica<br />

nobiltà corsa, le casate, come i Casabianca, i Rocca-Serra).<br />

25 I Quaderni del Terzo Stato di Corsica sottolineano il rafforzamento della politica agraria, il rafforzamento delle chiusure (chiudende),<br />

all’individualismo, e pretendono che non ci siano più concessioni territoriali senza un accordo delle parti interessate. Cahier de doléances du Tiers<br />

État de Corse, Bastia 18 maggio 1789. Arch. dép. Corse-du-Sud, serie C 638. Legislazione civile. Agricoltura, articoli 1, 5. 6 e 8.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

settembre) e dalle epidemie stagionali.<br />

La seconda constatazione è che queste crisi si manifestano con intervalli sempre più ravvicinati. Per la stragrande<br />

maggioranza <strong>dei</strong> contadini corsi la fase 1770-1789 rappresenta una lunga depressione ventennale, in cui le difficoltà<br />

conoscono una lunghezza, un’estensione ed una profondità fortemente accentuate, specie dopo il 1778. Le crisi più<br />

grandi sono quelle degli anni 1780-1784 e 1788-1789. Questi periodi critici, nonostante le favorevoli condizioni<br />

meteorologiche, sono separati soltanto da deboli momenti di tregua. Per il loro ravvicinamento e per la tendenza<br />

all’estensione sull’intero spazio insulare, essi tendono (come giustamente ha notato R. Lemée), a rallentare<br />

considerevolmente la ripresa demografica iniziata nel 1774, subito dopo i quarant’anni di guerra per l’indipendenza.<br />

Le caratteristiche delle crisi spingono per molteplici aspetti a riconsiderare l’inflessione alla base dell’evoluzione<br />

sociale (e le relazioni per lo scambio delle forze produttive). Questo tipo di inflessione (soprattutto dopo il 1778, data<br />

dell’instaurazione della sovvenzione in natura) accentua la depressione economica e le sue cause recondite 26 . Rispetto a<br />

tutti i prelievi fiscali anteriori alla conquista francese, l’esistenza della sovvenzione in natura garantisce ai grandi<br />

proprietari appaltatori la possibilità di riscuotere una rendita estendibile a tutti i produttori. Allo stesso tempo, essa<br />

fornisce agli appaltatori ed ai grandi commercianti (legati fra loro) le condizioni legali per l’accaparramento di una<br />

enorme quantità di derrate alimentari e, come abbiamo visto, l’istituzionalizzazione della speculazione. Tutto questo<br />

contribuisce a rafforzare le manovre speculative <strong>dei</strong> grandi proprietari e <strong>dei</strong> commercianti. I processi economici che<br />

abbiamo analizzato provocano delle sacche d’indigenza all’interno di una relativa abbondanza o, comunque,<br />

contribuiscono a far nascere delle crisi cicliche (come nel 1785) anche nelle pievi maggiormente produttive.<br />

L’estorsione fiscale del grano necessario alla sussistenza e delle forze produttive delle famiglie contadine,<br />

l’incameramento delle derrate ad opera degli appaltatori e la loro esportazione fuori dalla pieve d’origine determina<br />

infatti delle considerevoli carestie di cereali ed un forte rialzo <strong>dei</strong> prezzi. Colpiti da questa crisi economica con radici<br />

sociali, gli «abitanti senza proprietà» delle pievi dell’interno sono costretti allora (a partire dal mese di marzo e fino al<br />

mese di giugno) ad acquistare le castagne a prezzo d’usura dagli appaltatori o dai commercianti di Bastia o delle città<br />

vicine. <strong>Il</strong> loro indebitamento aumenta e la loro salute tende a rovinarsi alla fine dell’estate: essi sono le vittime abituali<br />

di epidemie regolari e violente (specialmente dissenteria e febbri tifoidi) che i rapporti medici qualificano spesso come<br />

«malattia della miseria» e «della malnutrizione» 27 .<br />

Questi fenomeni si collegano a vecchi e nuovi prelievi fiscali, all’estensione delle confische e alle frustrazioni di terre<br />

legate allo sviluppo delle concessioni. Dopo il 1778, aumentano fortemente i rischi di degradazione del potenziale<br />

produttivo della classe contadina, sia in modo diretto che indiretto 28 . Nel 1779, 1780, 1781 1784, 1787 in quasi tutta la<br />

Corsica, i piccoli proprietari contadini sono costretti a ricorrere al soccorso di sementi di grano. I grandi proprietari<br />

appaltatori, forti delle enormi scorte accumulate (come mostra la corrispondenza <strong>dei</strong> Nobili Dodici) ed i grandi<br />

commercianti di Bastia, diventano concorrenti in questi acquisti; intascano i contributi pubblici per acquistare grano<br />

destinato alla semina, a basso costo e di pessima qualità. L’impiego di questi grani darà risultati disastrosi negli anni<br />

successivi alle semine 29 . <strong>Il</strong> carattere delle crisi e delle fluttuazioni economiche in Corsica tra il 1770 ed il 1789 si radica<br />

così nel movimento <strong>dei</strong> rapporti sociali, accusando ed amplificando le contraddizioni essenziali del Paese. La crisi che<br />

scoppia nel 1788-1789 riflette ed acuisce il movimento di queste contraddizioni della società corsa; esso acquista<br />

ampiezza rivoluzionaria in virtù di una crisi politica globale: la convocazione degli Stati Generali ne è al tempo stesso il<br />

simbolo ed il punto di svolta.<br />

§ 3 La Corsica e la crisi del 1788-1789<br />

Nel periodo 1788-1789, la congiuntura economica isolana contribuisce ad esasperare tutte le contraddizioni sociali,<br />

passando attraverso una crisi di sussistenza generale, ma con un’andatura ed uno svolgimento specifico.<br />

§ La crisi di sussistenza in Corsica e le contraddizioni sociali.<br />

Nel 1788, le intemperie (in modo particolare la permanenza di vento secco, come ricorda un rapporto dell’intendenza<br />

del 15 aprile 1789) sono all’origine di un cattivo raccolto di cereali, particolarmente evidente nella provincia di Ajaccio.<br />

26 L’amministrazione reale provoca questi fenomeni. Sono significative a questo riguardo le analisi presentate dal subdelegato di Sartena in una<br />

lettera-rapporto all’amministratore della Corsica nel 1787: «Sarebbe auspicabile, Signore, che si usasse lo stesso espediente per il commercio interno<br />

dell’isola, altrimenti le diverse pievi, sebbene ricche di derrate di prima necessità, non saranno mai dotate del necessario per la sussistenza del Popolo.<br />

Vedo, infatti, Signore, che le pievi di Sartena, Istria, Viggiano abbondano di grano ed orzo e che tuttavia gli abitanti che non hanno nessuna proprietà<br />

sono ridotti tutti gli anni alla carestia e sopravvivono solo grazie ad un aiuto che li rende sempre più miserabili, cioè grazie alle castagne che i signori<br />

di Bastia ed i commercianti li costringono a pagare fino a 45 soldi a bacinella. Questo inconveniente è provocato dall’esportazione <strong>dei</strong> grani, che<br />

viene perseguita senza lasciare il necessario per l’isola. È crudele per le persone nate in una pieve fertile, dopo avere contribuito all’abbondanza con i<br />

loro lavori, vedersi costretti a mendicare in pievi lontane e pagare a caro prezzo un mezzo di sussistenza che è oltretutto pernicioso alla salute nei mesi<br />

di marzo, aprile e maggio, periodo in cui una parte degli abitanti di qui è costretta a sopravvivere con le castagne». Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C,<br />

Intendence C 62 (1). Rapporti sulla sussistenza.<br />

27 Su questo tipo di epidemie rurali alla fine del XVIII ed all’inizio del XIX secolo, si trovano numerose tracce in Arch. dép. Corse-du-Sud, 5M<br />

(Salute pubblica e igiene). Fogli 89-130 (Epidemie). <strong>Il</strong> contenuto è spesso illuminante per la conoscenza delle reali condizioni di vita, di lavoro e di<br />

riproduzione della forza lavoro.<br />

28 La sovvenzione subisce un continuo incremento dal 1778 al 1788. Nel 1788 viene elevata ai 2/20 del prodotto lordo.<br />

29 <strong>Il</strong> Quaderno generale della Nobiltà protesterà nel 1789 contro delle pratiche diventate frequenti dopo il 1779: «il grano e l’orzo distribuiti nel 1787<br />

per la carestia, essendo di cattiva qualità ed incapaci di germogliare da soli, hanno obbligato le popolazioni a procurarsi gli indennizzi per le perdite»<br />

(articolo 69).<br />

133


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

Con diverse gradazioni 30 , tuttavia, le zone più colpite dell’isola sono la Casinca, la Castagniccia, il Nebbio, il Capo<br />

Corso, Bastia, la zona di Corte, la provincia di Vico, il Sartenese, Bonifacio. <strong>Il</strong> cattivo raccolto porta delle conseguenze<br />

molto più serie rispetto alle crisi che colpiscono in quel periodo la Francia e l’Italia. In Corsica, la situazione è<br />

aggravata da un inverno rigoroso, insostenibile per il bestiame. Malgrado interdizioni e multe, i contadini del Bozio<br />

(zona di Corte) sono costretti a tagliare per tutto l’inverno delle frasche per nutrire le bestie, minacciate dalla carestia.<br />

<strong>Il</strong> cattivo raccolto si trasforma rapidamente in carestia, sotto l’effetto di meccanismi legati più ai rapporti sociali ed<br />

all’atteggiamento contraddittorio dell’amministrazione reale, che al clima. Intendenti e subdelegati tentano di frenare<br />

una speculazione ed un rialzo <strong>dei</strong> prezzi che gli appaltatori della tassa, i grandi proprietari ed i ricchi commercianti<br />

nutrono e rinforzano sulla base anche del gioco delle istituzioni fiscali e delle decisioni governative. Si può, grazie<br />

soprattutto al lungo rapporto dell’intendenza dell’aprile 1789 31 , delineare il carattere generale di questo processo.<br />

Inquieti, fin dall’ottobre 1788, per la situazione delle regioni di Ajaccio e di Vico, l’amministratore ed il subdelegato<br />

generale si sforzano di inviare orzo e castagne in enormi quantità in diverse zone della Corsica. Nel gennaio 1789, essi<br />

tentano anche di vietare le esportazioni fuori dall’isola. I Nobili Dodici si oppongono invocando la necessità, per gli<br />

appaltatori detentori delle scorte, di esportare e vendere ad alto prezzo per pagare la Cassa della Corsica. I grandi<br />

commercianti di Bastia, alla fine dell’inverno 1789, appena il mare si calma, spediscono in fretta delle grandi quantità di<br />

castagne a Livorno, dove il grano è carissimo. Nel Capo Corso, che si era rifornito in Italia (via Livorno)... si riesporta<br />

in Provenza per approfittare degli alti prezzi di Tolone (dove domina la carestia). Premi e direttive pubblicate<br />

dall’amministrazione reale incitano ad andare in questa direzione.<br />

Insomma, le derrate scarseggiano ed i prezzi aumentano; gli appaltatori corsi accumulano scorte aspettando che i prezzi<br />

si impennino ancora, per vendere ciò che non hanno esportato: essi realizzano <strong>dei</strong> profitti mentre la carestia e la<br />

mancanza di sementi diventano ossessive per le famiglie più povere 32 .<br />

In generale, l’amministrazione reale sembra voler frenare ogni misura che trascinerebbe la caduta <strong>dei</strong> prezzi in poco<br />

tempo. Un’inchiesta della municipalità di Bastia (del marzo-aprile 1790) e la corrispondenza delle autorità reali<br />

mostrano che l’editto del Consiglio del 9 maggio 1789, che accordava <strong>dei</strong> premi a chi esportava delle derrate in Corsica,<br />

non è stato pubblicato, né affisso nell’isola, «sotto pretesto che prima che l’ordinanza giunga in Corsica, il paese era<br />

approvvigionato, il raccolto di orzo già fatto, quella di grano imminente» 33 . Le conseguenze della carestia sono gravi:<br />

la tassa diretta diventa sempre più difficile da pagare. Nella primavera del 1789 in Balagna, nel Nebbio, in Casinca, in<br />

Castagniccia, nel Rostino, nella provincia di Ajaccio, i contadini sono costretti a chiedere degli anticipi in sementi agli<br />

appaltatori, anticipi da rimborsare a tasso d’usura e con le more della tassa non pagata. Nell’agosto e nel settembre<br />

1789, gli appaltatori premono sulle guardie per fare ritirare la tassa con la forza; i contadini devono pagare anche le<br />

decime. Peraltro, l’azione delle tasse sul commercio continua a farsi sentire: esse irritano la borghesia e sono<br />

considerate responsabili del rialzo del costo della vita per le masse popolari. In questo processo di impoverimento della<br />

maggioranza <strong>dei</strong> piccoli contadini, gli abitanti di alcuni villaggi invadono i boschi in inverno per tagliare la frasca ed<br />

evitare la moria del bestiame; il mantenimento delle pratiche pastorali diventa vitale. La repressione si amplifica: le<br />

multe per reati agrari e forestali si moltiplicano e si aggiungono a quelle <strong>dei</strong> periodi anteriori. Questi prelievi,<br />

impossibili da pagare, contribuiscono ad esasperare la collera popolare. Si riscontra un analogo appesantimento della<br />

situazione per le tasse devolute ai conti, ai marchesi ed agli altri concessionari <strong>dei</strong> grandi domini: tasse come il terratico<br />

e l’erbatico pesano su terre che i contadini giudicano di loro appartenenza; la mediocrità <strong>dei</strong> raccolti e la carestia,<br />

rendono ancora più insopportabile il pagamento di tasse ai Signori. L’alto costo della vita crea problemi anche per il<br />

pubblico impiego: si ravvivano le rivendicazioni <strong>dei</strong> pescatori, <strong>dei</strong> marinai (sottomessi alle tasse per uso boschivo),<br />

degli artigiani delle corporazioni di Bastia 34 e di Ajaccio 35 . La collera per la concorrenza <strong>dei</strong> pescatori napoletani, per<br />

l’impiego di stranieri sulle barche (particolarmente le navi postali) si esaspera. A Bastia sarà uno <strong>dei</strong> temi principali<br />

dell’assemblea generale rivoluzionaria del 14 agosto 1789. L’alto costo della vita e la carestia acuiscono anche il<br />

problema del lavoro nei campi. <strong>Il</strong> subdelegato di Ajaccio segnala l’esistenza, nelle pievi vicine, di centinaia di<br />

capifamiglia costretti a cercare lavoro salariato per sopravvivere: l’esercito li costringe a costruire strade e ponti ed a<br />

30<br />

Arch. dép. Corse-du-Sud, Intendence C 62 (1), C 572. Cfr. anche C 569, Corrispondenza <strong>dei</strong> Nobili Dodici nel 1789; il registro delle deliberazioni<br />

della municipalità di Bastia nel 1789 e 1790, permette di seguire l’evoluzione della crisi di sussistenza.<br />

31<br />

Arch. dép. Corse-du-Sud, Intendence C 61. Lettera dell’Intendente a Puységur (29 gennaio 1789). <strong>Il</strong> freddo e la malnutrizione provocano<br />

un’epidemia epizootica nel sud-ovest dell’isola.<br />

32<br />

Questi fatti sono testimoniati dalle richieste d’aiuto a Souiris, subdelegato di Ajaccio: egli decide, verso la metà di aprile del 1789, di bloccare<br />

l’aggravamento della carestia con l’invio di navi finanziate dai commercianti di Sartena e soprattutto di Bastia, e con l’acquisto del carico di due<br />

barche armeggiate ad Ajaccio. In realtà le sue azioni sono dettate più dalla paura delle sommosse popolari che dal senso dello Stato. Arch. dép. Corsedu-Sud,<br />

Intendence C 62. Lettere di Souiris al subdelegato generale Renault dell’11 marzo 1789, 28 marzo 1789 e 1° aprile 1789.<br />

33<br />

<strong>Il</strong> paese viene rifornito così poco e così male, che il timore della carestia si manifesta frequentemente nella zona di Bastia per tutta l’estate e<br />

l’autunno del 1789. Anche ad Ajaccio, all’inizio del mese di agosto 1789, mentre si aspetta il nuovo raccolto, l’inquietudine e l’emozione sono ancora<br />

così vivi che la popolazione cerca di opporsi con la forza alla partenza per Rogliano di due barche capocorsine cariche di cereali Arch. dép. Corse-du-<br />

Sud, Intendence C 62. Lettera di Souiris a Renault, 11 agosto 1789. A partire dalla fine del mese di agosto 1789, i Nobili Dodici constatano la<br />

persistenza e la gravità generale della carestia con le sue conseguenze (le tasse non ritornano, il malcontento si diffonde). Cfr. Arch. dép. Corse-du-<br />

Sud, Intendence C 569, Registro di corrispondenza, particolarmente le constatazioni generali del 31 agosto, pp. 117-118; 10 settembre, p. 129; 24<br />

settembre, p. 144; 26 settembre, p. 150; 13 ottobre, pp. 161-166; 4 dicembre, p. 223.<br />

34<br />

Sull’atteggiamento delle corporazioni <strong>dei</strong> pescatori, artigiani marinai e le loro agitazioni a Bastia, dall’aprile 1789 al momento delle assemblee<br />

elettorali delle corporazioni di mestiere Cfr. Lettera di La Guillaumye a Puységur (16 maggio 1789). Arch. nat. BA 34.<br />

35<br />

Rivendicazione contro le tasse per l’uso <strong>dei</strong> boschi nelle concessioni. Cfr. Arch. nat. F7 33671. Rapporto a La Tour du Pin dell’11 settembre 1789.<br />

134


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

lavorare gratuitamente nei vigneti del Demanio. Souiris si rallegra di questa situazione perché obbliga numerosi piccoli<br />

contadini a lavorare a basso costo, favorendo gli interessi <strong>dei</strong> grandi proprietari, costretti a pagare profumatamente i<br />

lavoratori specializzati.<br />

§ Identità corsa e conflitto tra Nobiltà e Terzo Stato<br />

La crisi economica inizia ad assumere una portata inedita, in Corsica, in ragione dell’esistenza di una crisi politica<br />

generale. Gli effetti politici della crisi di sussistenza del 1788-1789 saranno seri e profondi: il rialzo <strong>dei</strong> prezzi, la<br />

carestia ed il rincaro del pane creano un legame tra le rivendicazioni delle masse popolari urbane e quelle delle<br />

popolazioni rurali. La crisi concentra l’attenzione della classe contadina contro i grandi proprietari concessionari e gli<br />

appaltatori di pieve, accaparratori ed usurai, la cui responsabilità è percepita come indissolubile da quella dello Stato e<br />

del suo apparato: doganieri, subdelegati, direttori del Demanio, tesorieri, Nobili Dodici, ecc. Essa rende sempre più<br />

insopportabile un sistema politico in cui, dal livello del villaggio o della pieve a quello dell’isola, il Terzo Stato nelle<br />

sue diverse componenti (e per ragioni diverse a seconda che si tratti <strong>dei</strong> contadini, degli artigiani o della borghesia<br />

urbana) sembra non avere voce in capitolo. Queste prese di posizione sembrano affermarsi attraverso la coscienza della<br />

specificità della Corsica e <strong>dei</strong> corsi. Lo studio <strong>dei</strong> Cahiers de Doléances delle comunità permette di analizzare la<br />

complessità della coscienza isolana: perciò occorre deplorare, ancora una volta, la scomparsa della stragrande<br />

maggioranza <strong>dei</strong> Quaderni <strong>dei</strong> villaggi. La coscienza di una specificità etnica della Corsica e <strong>dei</strong> corsi si manifesta<br />

chiaramente, con forme diverse nei Quaderni delle comunità: 12 su 16 villaggi nella zona Calvi-Corte-Bastia, 36 su 63<br />

nella zona di Ajaccio. Lo prova inoltre l’attaccamento agli Stati di Corsica, che si vorrebbero con gli stessi diritti e<br />

privilegi di quelli Linguadoca, cioè di un Pays d’Etat. Lo prova anche la richiesta fatta da quattro comunità della<br />

giurisdizione di Ajaccio del diritto di navigazione per le navi corse con la bandiera a testa di moro. Lo testimonia ancora<br />

la distinzione operata in due Quaderni della Porta e in altri tre della zona di Ajaccio tra corsi, francesi residenti da molto<br />

tempo in Corsica (giudicati affini ai corsi), ed altri francesi. Nelle doléances si manifesta anche una forte esigenza<br />

(sottolineata in vent’otto Quaderni) della piena uguaglianza tra corsi e francesi nell’accesso alle cariche ed agli uffici<br />

reali in Corsica o nel resto del Regno.<br />

Risposte<br />

39<br />

36<br />

33<br />

30<br />

27<br />

24<br />

21<br />

18<br />

15<br />

12<br />

9<br />

6<br />

3<br />

0<br />

Atteggiamento verso la Francia<br />

Corte<br />

Calacuccia<br />

Calvi<br />

Olmi-Capella<br />

La Porta<br />

Ampugnani<br />

Casinca<br />

Casacconi<br />

Rostino<br />

Tavagna<br />

Orezza<br />

Ajaccio<br />

Ornano<br />

Cauro<br />

Celavo<br />

Talavo<br />

Cinarca<br />

Mezzana<br />

Cantoni<br />

135<br />

Totale Quaderni<br />

Altre posizioni<br />

Favorevoli al Regno<br />

Autonomia con pari diritti<br />

Integrazione alla Francia<br />

Grafico 10.<br />

Questo grafico distingue, classifica e raggruppa i villaggi in base a quattro (I, II, III, IV) diversi atteggiamenti rispetto ai problemi della Corsica e <strong>dei</strong><br />

corsi nel Regno.<br />

<strong>Il</strong> segno in verde raggruppa le comunità che non hanno posto veti all’inclusione della Corsica nel Regno di Francia.<br />

<strong>Il</strong> segno rosso raggruppa i villaggi che hanno espresso delle rivendicazioni relative alla bandiera a testa di moro o all’accesso <strong>dei</strong> corsi agli impieghi<br />

pubblici a parità di diritto <strong>dei</strong> francesi naturalizzati corsi.<br />

<strong>Il</strong> segno azzurro raggruppa i villaggi che chiedono con diverse modalità (o direttamente ed espressamente, o rifiutando i vescovi liguri, o chiedendo<br />

l’assimilazione della Corsica allo statuto degli altri Paesi di Stato, particolarmente a quello della Linguadoca) che la Corsica sia definitivamente ed a<br />

pieno titolo integrata al Regno.<br />

<strong>Il</strong> segno giallo raggruppa l’insieme <strong>dei</strong> villaggi in cui le questioni relative alla posizione <strong>dei</strong> corsi e della Corsica nel Regno sono state espresse in<br />

maniera diversa.


Numero di richieste<br />

30<br />

27<br />

24<br />

21<br />

18<br />

15<br />

12<br />

9<br />

6<br />

3<br />

0<br />

FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

Calacuccia<br />

Olmi-Capella<br />

Ampugnani<br />

Casinca<br />

Casacconi<br />

Rostino<br />

Tavagna<br />

Orezza<br />

Cahiers des Doléances<br />

Cantoni<br />

Ajaccio<br />

Ornano<br />

Cauro<br />

Celavo<br />

Talavo<br />

Cinarca<br />

Mezzana<br />

136<br />

Totale Quaderni<br />

non classificabili<br />

Piena integrazione<br />

Accesso agli impieghi<br />

Bandiera a testa di moro<br />

Grafico 11: Coscienza corsa e Francia nei Quaderni <strong>dei</strong> villaggi nel 1789.<br />

<strong>Il</strong> segno azzurro riunisce i villaggi che ignorano la domanda della posizione della Corsica rispetto al Regno.<br />

<strong>Il</strong> segno viola riunisce le rivendicazioni relative alla bandiera a testa di moro, che si vorrebbe equiparare ai vessilli delle altre province francesi o al<br />

padiglione reale o chiedendo il diritto di inalberare una o l’altra bandiera a scelta.<br />

<strong>Il</strong> segno giallo raggruppa le domande che richiedono l’accesso <strong>dei</strong> corsi agli impieghi reali in Corsica: sia senza altra considerazione, sia chiedendo la<br />

precedenza ai corsi ed ai francesi che vivono in Corsica.<br />

<strong>Il</strong> segno rosso raggruppa i villaggi che hanno manifestato la volontà di integrare la Corsica al regno: chiedendolo direttamente; esigendo che non ci<br />

fossero più vescovi stranieri (liguri); chiedendo per la Corsica le stesse tariffe fiscali delle altre province; chiedendo un aumento della presenza delle<br />

truppe reali; chiedendo un principe di sangue per governare l’isola.<br />

La coscienza di questa specificità e delle rivendicazioni che l’accompagnano non è vista come un distacco dal Regno di<br />

Francia. Se l’ossessione del ritorno del dominio genovese traspare direttamente o indirettamente dal rifiuto di vescovi<br />

«liguri» in Corsica 36 , il mantenimento della specificità corsa ed il rifiuto di ogni statuto di inferiorità <strong>dei</strong> corsi è<br />

considerato in piena associazione al Regno. Si chiede così che la Corsica abbia diritto alla bandiera a testa di moro<br />

come si fa per le altre province. Esigenza di rispetto <strong>dei</strong> diritti <strong>dei</strong> corsi ed esigenza di equiparazione al resto del regno<br />

sono legati frequentemente. Più generalmente, la rivendicazione che appare fondamentale è quella della piena<br />

uguaglianza di diritti tra corsi e francesi, tra la Corsica e le altre province del Regno: in materia economica, in materia<br />

di cariche ed impieghi, in materia di strutture politiche. I corsi reclamano per il Consiglio superiore ed i loro consiglieri<br />

le stesse prerogative <strong>dei</strong> Parlamenti, per gli Stati di Corsica gli stessi diritti degli Stati della Linguadoca; due villaggi<br />

chiedono anche che la Corsica abbia come governatore un principe di sangue. Ciò che appare predominante ed<br />

essenziale nei trentasei Quaderni delle comunità è la richiesta della piena uguaglianza tra corsi e francesi, la piena<br />

incorporazione al Regno a parità di diritti con le altre province. Le località che formulano delle rivendicazioni relative<br />

alla bandiera a testa di moro, o all’accesso <strong>dei</strong> corsi agli impieghi reali, si pongono in questa prospettiva (diciassette<br />

comunità, quattro nel nord-est e tredici nella zona di Ajaccio). Numerose sono peraltro le comunità che associano<br />

queste domande ad esplicite richieste (sul piano economico, politico o giuridico) di integrazione al Regno a parità di<br />

diritti con le altre province. È il caso di undici comunità, sei nel nord-est, cinque al sud, mentre sette località fanno<br />

riferimento solo a questo tipo di richieste. L’esigenza del rispetto <strong>dei</strong> diritti <strong>dei</strong> corsi e della piena integrazione al Regno<br />

accomuna in parte le aspirazioni del Terzo Stato e <strong>dei</strong> Nobili 37 . Ma si tratta comunque di richieste profondamente<br />

contraddittorie. <strong>Il</strong> Quaderno generale della Nobiltà corsa chiede il godimento degli stessi diritti <strong>dei</strong> nobili del continente:<br />

in questo caso la concezione del rispetto della Corsica e dell’uguaglianza tra corsi e francesi tende ad un’estensione <strong>dei</strong><br />

privilegi nell’isola 38 . Al contrario i Quaderni delle Comunità pongono con forza la richiesta della necessaria<br />

36 I Quaderni di Venzolasca e La Porta, manifestano questa ossessione in maniera eloquente. Nella provincia di Ajaccio, si manifesta nel rifiuto di<br />

vescovi stranieri, vale a dire “liguri”, “genovesi”. Cfr. Quaderni di Ajaccio, Appietto Sari d’Orcino, Sarrola-Carcopino, Cuttoli e Perito. L’ostilità al<br />

ritorno <strong>dei</strong> genovesi si manifesta sotto forma di “rumori”, di “paure”, nell’estate e nell’autunno del 1789. In un libello, i Nobili-Dodici accusano il<br />

partito rivoluzionario di spargere questi rumori per seminare torbidi. Lettera <strong>dei</strong> Nobili Dodici, 1° ottobre 1789. Stampata a Bastia (Fondi della Bibl.<br />

di Bastia, Lettere politiche diverse).<br />

37 L’articolo 1 del Quaderno generale della Nobiltà chiede che la Corsica sia «incorporata espressamente alla Corona e faccia parte integrante di<br />

questa monarchia». L’articolo 4 chiede che gli Stati provinciali della Corsica godano della libertà, <strong>dei</strong> diritti e <strong>dei</strong> privilegi di cui godono gli Stati<br />

delle altre parti del Regno.<br />

38 Questo atteggiamento si manifesterà con una viva ostilità ai decreti dell’Assemblea Nazionale ed alle Lettere Patenti del Re scritte su questi decreti,<br />

che abolivano la nobiltà ereditaria. Questa ostilità è visibile nel Sud della Corsica. A Sartena, la nobiltà manifesta con le armi contro questo decreto.<br />

Cfr. documento pubblicato e presentato da GAULEJAC B. (de) e LAMOTTE P., Protestation de la noblesse de Sartène contre la suppression des titres


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

uguaglianza tra nobili corsi e Terzo Stato corso. Questo problema preoccupa i villaggi in modo più diretto rispetto a<br />

quello della giusta posizione e <strong>dei</strong> diritti della Corsica nel Regno: quarantotto villaggi su un totale di sessantatre (contro<br />

trentasei su sessantatre) lo manifestano e condannano tutti o parte <strong>dei</strong> privilegi essenziali della nobiltà corsa. Infine una<br />

trentina di villaggi, essenzialmente situati nella provincia di Ajaccio, rigettano duramente, l’abbiamo visto, concessioni<br />

demaniali e monopoli signorili su boschi, pascoli e stagni. Diciassette villaggi chiedono la soppressione delle esenzioni<br />

<strong>dei</strong> nobili dalle corvées, e dall’alloggio delle truppe di guerra.<br />

Quarantotto villaggi rifiutano così di ammettere i privilegi della nobiltà in Corsica, con diverse modalità: undici<br />

condannano al tempo stesso i grandi domini, i privilegi sociali (esenzioni, monopolio dell’accesso ai Collegi Reali ed ai<br />

gradi di ufficiali superiori) ed i privilegi politici (diritto di essere eletto tra i Nobili Dodici, a non essere sottomessi alle<br />

sentenze degli ufficiali municipali...) <strong>dei</strong> Nobili. Sette villaggi sono al tempo stesso ostili alle concessioni demaniali ed<br />

ad un solo tipo (sociale o politico) di privilegio, mentre ventuno comunità condannano almeno un gruppo di privilegi (le<br />

grandi concessioni demaniali, i privilegi sociali o i privilegi politici). Allo stesso modo, quarantotto Quaderni delle<br />

Giurisdizioni su sessantatre si schierano contro le richieste <strong>dei</strong> nobili corsi in materia di ristabilimento <strong>dei</strong> diritti feudali,<br />

di voto per ordine, di riforma oligarchica delle istituzioni municipali.<br />

60<br />

55<br />

50<br />

45<br />

40<br />

35<br />

30<br />

25<br />

20<br />

15<br />

10<br />

5<br />

0<br />

Calacuccia<br />

Olmi-Capella<br />

Ampugnani<br />

Casinca<br />

Rostino Tavagna<br />

Orezza<br />

Appoggio al Terzo Stato<br />

Ajaccio<br />

Ornano<br />

Cauro<br />

Celavo<br />

Talavo<br />

137<br />

Cinarca<br />

Mezzana<br />

Totale Quaderni<br />

0 5 10 15 20 25<br />

Grafico 12: i Quaderni delle Comunità, i privilegi <strong>dei</strong> Nobili e le rivendicazioni del Terzo Stato corso.<br />

La grandezza delle sfere indica le aspirazioni del Terzo Stato insulare: i villaggi che esigono al tempo stesso il libero accesso del Terzo agli impieghi,<br />

la partecipazione uguale o maggioritaria del Terzo alle strutture governative dell’isola e la democrazia municipale (con sottomissione <strong>dei</strong> Nobili agli<br />

ufficiali municipali).<br />

de noblesse, «Études corses», 2 (1955), pp. 72-78.


Arpenti<br />

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CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

240000<br />

220000<br />

200000<br />

180000<br />

160000<br />

140000<br />

120000<br />

100000<br />

80000<br />

60000<br />

40000<br />

20000<br />

0<br />

Calvi<br />

Bastia<br />

Concessioni demaniali<br />

Corte<br />

Cantoni<br />

Totale Diquà<br />

Ajaccio<br />

Sartena<br />

Totale Dilà<br />

138<br />

Totale Corsica<br />

Coltivata<br />

Coltivabile<br />

Incolta<br />

Grafico 13: Valutazione dell’importanza delle concessioni demaniali fatte tra il 1770 ed il 1789 (misurazioni in Arpenti).<br />

Queste richieste sono enunciate con modi e livelli diversi: trentadue villaggi presentano almeno uno <strong>dei</strong> tre grandi tipi di<br />

rivendicazioni: accesso del Terzo Stato a tutte le funzioni ed impieghi, partecipazione (in parti eguali o con diritto alla<br />

metà delle sedi), alle strutture di governo delle province o della Corsica intera, democrazia municipale con libera<br />

elezione degli ufficiali municipali e sottomissione <strong>dei</strong> nobili alle sentenze di questi ultimi. Otto località presentano<br />

congiuntamente due di queste richieste, mentre altre nove le formulano tutte insieme. Infine, considerata la richiesta del<br />

Terzo di gestire gli affari dell’isola congiuntamente ai Nobili ed ai francesi, alcuni Quaderni <strong>dei</strong> villaggi ed il Quaderno<br />

generale pongono la richiesta <strong>dei</strong> diritti del Terzo Stato nel suo insieme: essi cercano un’unica soluzione per tutto il<br />

Regno.<br />

Le Comunità attorno a Bastia (giurisdizione della Porta) richiedono espressamente ai deputati del Terzo Stato corso agli<br />

Stati Generali di «formulare le stesse domande di quelli delle altre province» e affermano «che i deputati che, nel loro<br />

interesse personale, trascureranno il bene pubblico siano tenuti alla restituzione delle spese di viaggio» e siano, inoltre,<br />

biasimati pubblicamente e sanciti 39 ; all’articolo 10 si chiede che la Corsica «goda di ogni diritto e vantaggio di cui<br />

godono le altre province». La libertà per il Terzo della Corsica, la libertà per il Terzo della Francia e la lotta contro il<br />

dispotismo ed i privilegi sono sentite come inseparabili. Questo modo brusco di porre le richieste in termini politici<br />

globali a partire dalle realtà corse è stato facilitato dagli effetti sociali della crisi di sussistenza; la coscienza<br />

dell’interesse generale si è potuta sviluppare grazie alla trasformazione della crisi politica del regno, che si manifesta<br />

apertamente con la convocazione degli Stati Generali, con la campagna elettorale e con la stesura <strong>dei</strong> Cahiers des<br />

doléances. In questo modo, le richieste delle masse rurali corse guadagnano forza ed ampiezza non con il rifiuto,<br />

l’ignoranza o l’opposizione al movimento rivoluzionario del Terzo Stato, ma proprio a partire dall’intensa attività<br />

politica apertasi nel regno con la convocazione degli Stati Generali. Nell’aprile 1789, l’elezione <strong>dei</strong> delegati e la stesura<br />

<strong>dei</strong> Quaderni trascina una veloce ed intensa mobilitazione politica. L’analisi ed il confronto esaustivo (per la Corsica e<br />

per tutta la Francia) <strong>dei</strong> Quaderni resta un lavoro ancora da compiere: l’elaborazione di questi documenti è stata fatta in<br />

un momento essenziale di confronto, di dibattito di circolazione delle idee, di mobilitazione e di elevazione qualitativa<br />

del livello di coscienza delle masse popolari. Elaborazione che ha costituito un atto riformatore fondamentale (per la<br />

mobilitazione che ha provocato) della situazione politica generale. Conviene, in questo caso, fornire delle osservazioni<br />

limitate. In Corsica, i Quaderni rappresentano un’opportunità di chiarimento, discussione, formulazione di<br />

rivendicazioni più o meno ristrette, localizzate (strade, ponti, conflitti fra municipalità, curati o conventi), e di riforme<br />

globali (come gli articoli contro la sovvenzione, le gabelle, la decima o le rivendicazioni per l’uguaglianza con i nobili e<br />

con i francesi; l’esigenza della partecipazione del Terzo Stato alle riunioni <strong>dei</strong> Nobili Dodici, ecc.). Questa esperienza<br />

insegna al popolo ed ai borghesi a percepire i legami che esistono tra i problemi del Terzo Stato in Corsica ed i<br />

problemi del Terzo Stato nel resto del Regno. Le elezioni e la redazione <strong>dei</strong> Quaderni diventano così un momento di<br />

assembramento, riflessione e circolazione delle idee. Nelle città si leggono opuscoli, libelli, formule innovatrici, critiche<br />

e preoccupazioni per delle vere riforme; si leggono soprattutto i testi inviati dai corsi del continente, condannati<br />

39 Nella provincia d’Ajaccio, i Quaderni <strong>dei</strong> villaggi della pieve d’Ornano (i più serrati contro i privilegi <strong>dei</strong> conti e <strong>dei</strong> marchesi) sono spesso<br />

preceduti da una premessa che mostra come la fiscalità reale, la fiscalità ecclesiastica, le tasse e le rendite sulle concessioni demaniali, i privilegi e le<br />

esenzioni nobiliari gravino tutte sul Terzo Stato. <strong>Il</strong> Terzo Stato viene definito «fondamento o sia sostentamento di tutta la macchina» e «fatta la<br />

deduzione di tutti li sopra detti gravami li rimane appena la ventesima parte <strong>dei</strong> suoi sudori».<br />

Totale


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

dall’amministrazione reale 40 .<br />

Con diverse forme ed a livelli vari, a seconda delle zone e delle classi, risulta da tutto questo processo una larga<br />

mobilitazione politica. La pratica, intensa nell’isola, delle assemblee generali, dell’elezione <strong>dei</strong> delegati, stabilisce<br />

quadri e strutture organizzative per l’azione concreta. Gli avvenimenti di Bastia 41 (fine aprile-inizio maggio 1789) e<br />

quelli di Ajaccio (all’inizio di agosto) ne sono una prova. Queste strutture politiche spontanee si confondono più di una<br />

volta nelle campagne con le strutture municipali. Si combatte con gli ufficiali municipali (a Vico, nel Bozio) dopo averli<br />

costretti alla resa (a Zicavo) o dopo averli sostituiti (a Corte, a Bastia). Risulta così, da tutta questa fase di attività<br />

politica nei mesi di aprile e maggio 1789, concomitante alla crisi di sussistenza, un’intensa attesa di cambiamento, di<br />

riforme profonde: riforme per cui il popolo ha discusso nei villaggi, per cui gli Stati si sono riuniti in assemblea a<br />

Bastia, per cui quattro deputati sono partiti il 10 giugno 1789, con un ritardo dovuto a circostanze ed a peripezie<br />

elettorali. Riforme, infine, per cui la Corsica è pronta a lottare a Versailles.<br />

§ 4. Conclusioni<br />

§. La crisi produttiva dell’Ancien Régime<br />

I dati sembrano confermare la profondità del processo economico europeo alla fine del XVIII secolo e all’inizio del<br />

XIX attraverso la contraddizione tra il regime di produzione feudale e le trasformazioni delle forze produttive. I<br />

contadini sono allora al tempo stesso i produttori e gli agenti di trasformazioni legate alle attrezzature, agli<br />

atteggiamenti, alle forme di cooperazione sociale, alle aspirazioni. Le classi contadine, di fronte alle costrizioni della<br />

fiscalità signorile, sentiranno sempre più forte l’esigenza di diventare libere nella produzione e nella vendita <strong>dei</strong> prodotti<br />

e di poter sviluppare tutti gli aspetti della loro individualità.<br />

Alla base del processo di transizione dal feudalismo al capitalismo risiede, infatti, lo sviluppo delle forze produttive,<br />

l’esigenza delle potenzialità individuali di migliaia di produttori-venditori e lo sviluppo (anche nell’ambito delle unità<br />

familiari <strong>dei</strong> produttori autonomi, artigiani e contadini) del lavoro agricolo salariato, connesso ai piccoli e grandi<br />

produttori-venditori, vivaio del sistema capitalistico. In questo senso le trasformazioni che segnano l’evoluzione delle<br />

forze produttive nelle comunità acquistano un valore antropologico. Questo tipo di trasformazione suscita allora <strong>dei</strong><br />

bisogni e delle esigenze crescenti nei contadini-produttori al dettaglio: essi tendono a voler dominare l’impiego annuo<br />

del tempo di lavoro, ad instaurare <strong>dei</strong> nuovi rapporti con la terra, con i mezzi di produzione e con il potere politico, per<br />

assicurare il pieno sviluppo delle proprie capacità. Nell’Europa del Settecento, questo movimento dai ritmi lenti,<br />

modesti, diversamente evoluti ma di consistenza sempre maggiore, si delinea all’interno delle condizioni e <strong>dei</strong> limiti<br />

delle strutture feudali. Queste modifiche e trasformazioni presentano <strong>dei</strong> caratteri comuni. Nell’insieme, la classe<br />

dominante è portata ad assegnare ai prelievi sul lavoro delle famiglie e delle comunità rurali delle finalità e degli<br />

obiettivi che non erano stati elaborati originariamente. Si tratta di garantire un tipo di sub-lavoro sconosciuto nel<br />

modello di produzione feudale originario, dove predominava il valore d’uso e dove il sub-lavoro era circoscritto nel<br />

cerchio di bisogni determinati. <strong>Il</strong> sub-lavoro è destinato oramai a fornire alla nobiltà <strong>dei</strong> crescenti introiti monetari:<br />

l’aristocrazia si sforza di ottenere la crescita <strong>dei</strong> redditi non con gli investimenti in capitale fisso e con l’impiego <strong>dei</strong><br />

liberi salariati, ma con l’adattamento ed il rafforzamento diretto ed indiretto <strong>dei</strong> prelievi sul lavoro <strong>dei</strong> contadini. Questi<br />

ultimi (differenza qualitativa essenziale con il lavoratore salariato propriamente detto) possiedono e/o gestiscono i<br />

mezzi di produzione (attrezzi, piante, bestiame, rapporto con la terra, forme di cooperazione) e devono assicurare la<br />

propria sopravvivenza. I modi e le caratteristiche per operare l’adattamento della produzione feudale e per ottenere<br />

l’aumento <strong>dei</strong> redditi in denaro differiscono profondamente nell’Europa centrale ed orientale, in Francia o in Italia.<br />

Questi obiettivi alla fine del XVIII secolo e (per l’Europa dell’Est) nella prima metà del XIX secolo, possono essere<br />

accomunati dall’egemonia schiacciante della rendita feudale sul lavoro agricolo; si tratta di un sistema di pesanti e<br />

crescenti corvées sulle riserve demaniali <strong>dei</strong> nobili, imposte ai produttori contadini. In Francia il rapporto di produzione<br />

feudale ha assunto una forma complessa, in cui diverse categorie di prelievi fiscali si uniscono a delle banalità in natura,<br />

specie nel quadro della signoria locale, ed in denaro (in modo particolare attraverso la rendita centralizzata, elevata a<br />

tassazione dall’apparato finanziario della monarchia) sul lavoro <strong>dei</strong> contadini o sui piccoli proprietari. In Italia, i<br />

prelievi feudali in natura ed in denaro pesano su una classe contadina che (soprattutto nell’Italia centrale e meridionale)<br />

è composta allo stesso tempo da mezzadri e da precari. Dovunque, secondo modelli convergenti e contrastanti, le<br />

potenzialità, i bisogni e le esigenze (che si ricollegano al ruolo crescente del mercato ed all’evoluzione delle forze<br />

produttive), mettono sempre più profondamente in discussione la produzione feudale e la crescita della produttività del<br />

lavoro. Questo modello socio-economico (a stadi diversi da un estremo all’altro dell’Europa) è fondato sull’esistenza di<br />

una classe contadina di produttori-venditori relativamente autonomi nella gestione <strong>dei</strong> loro mezzi di produzione e su<br />

una forte tendenza della nobiltà alla confisca delle terre (specie comunali) e del periodo di lavoro (settimanale o<br />

annuale) delle famiglie contadine. <strong>Il</strong> modello produttivo feudale, nel suo tentativo di aumentare i redditi monetari della<br />

40 Sul contenuto di questi libelli inviati in massa dal continente e l’atteggiamento (ostile, ma prudente) dell’amministrazione reale, cfr. Arch. dép.<br />

Corse-du-Sud, C 636, Convocazione degli Stati Generali. Corrispondenza (fine aprile-inizio maggio 1789) tra il subdelegato generale ed i subdelegati<br />

di Ajaccio. Cfr. anche FRANCESCHINI E., Les assemblées générales de la Corse. Les élections aux États Généraux de 1789, «B.S.S.H.N.C.», 1°<br />

trimestre 1920.<br />

41 Si tratta delle agitazioni del 1° maggio, nel corso dai quali la popolazione di Bastia si solleva contro il sindaco, Rigo il cui un cugino viene ucciso<br />

durante i moti. Nei primi giorni di agosto, Rigo passerà in Italia. Su questi avvenimenti del 1° maggio, cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Intendence C<br />

636. Rapporto (datato 16 maggio 1789) dell’Intendente a Puységur; Arch. dép. Corse-du-Sud (Consiglio superiore) I B 23, seduta del 4 maggio 1789.<br />

139


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

classe dirigente, tende a frenare e contrastare le forze produttive agricole, sempre più fondate sulla diversificazione<br />

delle attrezzature e sulle attitudini individuali <strong>dei</strong> produttori-venditori.<br />

In Francia, i nobili si sforzano di aumentare il reddito con prodotti in natura (come l’olio, rivenduto poi sui mercati) a<br />

partire da un’utilizzazione più rigorosa e sistematica del diritto di banalità sui torchi e sui mulini. Questo orientamento<br />

contrasta inevitabilmente, alla fine del XVIII secolo, con l’utilizzazione sociale delle trasformazioni tecniche, che<br />

permettono di perfezionare quantitativamente e qualitativamente la macinazione del grano o la spremitura delle uve e<br />

delle olive. Questi fenomeni, con caratteristiche diverse, si ritrovano in Italia, in Spagna in Portogallo. Le crisi, le<br />

tensioni e le soluzioni appaiono così di ampia e molteplice portata a seconda delle possibilità (economiche, sociali,<br />

culturali, individuali) delle forze produttive contadine e del tipo di produzione feudale.<br />

La Rivoluzione francese si inserisce in un lungo processo europeo di trasformazione tra feudalesimo e capitalismo. Lo<br />

sviluppo e la trasformazione delle forze produttive umane, il ruolo del mercato e della commercializzazione delle<br />

campagne, lo sviluppo della borghesia, quello delle lotte sociali e delle elaborazioni culturali in cui queste realtà si<br />

esprimono e pensano, fondano le basi per delle nuove esigenze e delle nuove realtà. Queste riguardano le attrezzature,<br />

gli atteggiamenti, le forme di cooperazione sociale, le aspirazioni <strong>dei</strong> contadini, degli artigiani, <strong>dei</strong> salariati, della<br />

borghesia. Tutti (ma a diversi livelli di coscienza, secondo gli strati, le classi ed i paesi) provano sempre più, dal 1750<br />

alla metà del XIX secolo, il bisogno di liberarsi dalla vasta rete di prelievi (in corvées o in tasse signorili), privilegi ed<br />

istituzioni con cui gli aristocratici si assicurano rango e ricchezze.<br />

La volontà di trasformazione dalla vecchia alla nuova società borghese cresce così in numerosi paesi, con esiti e<br />

caratteristiche diverse. Nei paesi dell’Europa orientale e mediterranea, ad esempio, il capitalismo s’inserisce in una<br />

cornice di riforme limitate, fondate su un’intesa tra le aristocrazie (in posizione dominante) e la borghesia, alle spalle<br />

<strong>dei</strong> contadini, costretti a versare delle pesanti indennità in terra e denaro ai nobili. Un tentativo particolare, in parte<br />

simile al precedente, è stato fatto in Francia, tra il 1789 ed il 1791: esso ha assunto la forma di un compromesso politico<br />

tra l’alta borghesia e l’aristocrazia; compromesso incomparabilmente più radicale di quelli dell’Europa orientale o<br />

mediterranea, ma socialmente fondato sull’obbligo per i contadini di pagare <strong>dei</strong> pesanti diritti di riscatto ai nobili.<br />

L’evoluzione e l’acuirsi delle lotte sociali e politiche tra Rivoluzione e Terrore, l’azione <strong>dei</strong> sanculotti e, soprattutto le<br />

lunghe, massicce e molteplici iniziative autonome del movimento contadino, imposero finalmente un’altra via: quella<br />

del rifiuto di una transizione strettamente borghese e dell’affermazione di una via democratica, legata ad un<br />

compromesso tra borghesia e masse popolari; compromesso contrassegnato dall’abolizione definitiva e senza indennità<br />

(nel 1793) <strong>dei</strong> diritti signorili e con l’instaurazione (o almeno la proclamazione) in ogni campo di una forza democratica<br />

allora sconosciuta altrove.<br />

§ Transizioni, nazioni, regioni ed evoluzione delle identità etniche<br />

<strong>Il</strong> caso singolare e limitato delle realtà insulari ha condotto un’altra serie di problemi, complessi, difficili ed ancora poco<br />

studiati. Questo campo di problemi riguarda un aspetto dell’inesauribile movimento di connessione tra caratteri originali<br />

(“nazionali”) di transizione e processi differenziati di trasformazione, rinnovamento delle basi sociali e delle identità<br />

delle regioni che partecipano al movimento di uno stesso percorso nazionale:<br />

1. <strong>Il</strong> dominio di una grande aristocrazia fondiaria di principali sui diversi ceti di produttori contadini si esercita in gran<br />

parte con prelievi fondiari diretti; si esercita anche attraverso uno sforzo costante di questa aristocrazia per acquisire il<br />

controllo diretto o gestionale degli spazi comunali. Questi rapporti di sfruttamento e di dominio si fondono al tempo<br />

stesso al dominio delle casate (o lignaggi) aristocratiche, ed ai conflitti ed alleanze claniche tra le varie famiglie; queste<br />

strutture sono anche (contraddittoriamente) strumenti della resistenza delle differenti classi contadine al dominio degli<br />

alti principali che la monarchia riconosce come nobiltà dopo il 1770.<br />

2. La conoscenza del movimento delle forze produttive permette di percepire quale sia stato l’incremento del potere<br />

dell’aristocrazia fondiaria e l’aumento delle difficoltà per i contadini nella valorizzazione delle potenzialità produttive<br />

esistenti nella Corsica d’Ancien Régime, dal periodo di instaurazione di un governo nazionale (1755-1769) al periodo<br />

dell’amministrazione monarchica (1770-1789).<br />

3. A partire da queste realtà si stagliano i caratteri originali degli antagonismi che segnano le campagne corse tra il 1755<br />

ed il 1815, così come le modalità della loro articolazione sul conflitto nazionale e globale tra Rivoluzione e Terrore.<br />

Questi antagonismi si radicano nelle azioni e nelle strategie contraddittorie che aristocrazia, borghesia e classe<br />

contadina sviluppano rispetto al sistema fiscale, rispetto alla domanda <strong>dei</strong> beni nazionali e del controllo delle terre<br />

comuni.<br />

4. <strong>Dal</strong>le dense e complesse lotte ed esperienze realizzate in questi processi si comprende la trasformazione delle basi e<br />

<strong>dei</strong> simboli dell’identità insulare. Questi fenomeni sono inseparabili dai nuovi e complessi caratteri che, dal 1789 al<br />

1815, fanno nascere le lotte sociali che segnano la fine dell’Ancien Régime nell’isola; ciò accade a livelli diversi. In<br />

ragione stessa della partecipazione organica della Corsica alla vita politica francese, si constata, infatti, da un lato lo<br />

sviluppo di nuovi caratteri di differenziazione (dovuti all’esperienza <strong>dei</strong> combattimenti, alla natura delle esperienze<br />

sociali e delle rappresentazioni politiche realizzate tra il 1789 ed il 1815), rispetto alle zone dell’Italia con cui l’isola<br />

possiede delle reali parentele sociali e culturali. Contrariamente a ciò che vivono i contadini corsi (progressi, delusioni,<br />

ritorno all’Ancien Régime, consolidamento limitato del sistema dominante nel 1789), i contadini della Toscana o<br />

dell’Italia del Sud acquisteranno coscienza <strong>dei</strong> loro diritti molto più tardi e l’esperienza della Rivoluzione sarà meno<br />

140


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

vissuta. Se le riforme portate avanti dal 1800 al 1815 non sono da sottovalutare, globalmente in Italia ci troviamo di<br />

fronte ad una rivoluzione agraria mancata (nell’Italia meridionale vige il sistema del riscatto <strong>dei</strong> diritti signorili,<br />

l’allargamento della grande proprietà fondiaria, la schiacciante predominanza della mezzadria), che caratterizzerà la vita<br />

di queste regioni anche dopo l’unità nazionale. Ormai la Corsica, attraverso l’integrazione alla Rivoluzione francese,<br />

vede sviluppare nel proprio tessuto sociale delle esperienze, delle realtà, che introducono delle differenze qualitative<br />

all’interno delle stesse parentele dall’area culturale italiana. Queste esperienze, realtà e rappresentazioni risultano dalla<br />

partecipazione (dal 1789 in poi) ad un tipo di processo agrario, sociale, economico, culturale, politico legato<br />

all’avanzamento nazionale della Francia nel sistema capitalistico.<br />

Ma i caratteri dell’evoluzione dell’isola riguardano anche, ed allo stesso tempo, i caratteri specifici che si manifestano<br />

rispetto ad altre regioni della Francia. In ragione delle forme prese in Corsica dai rapporti sociali prima del 1789, con<br />

l’indipendenza dell’isola sotto il governo di Pasquale Paoli; in ragione della natura originale dell’avanzamento delle<br />

lotte di classe e del carattere delle realtà sperimentate durante la Rivoluzione, in modo particolare tra il 1794 ed il 1796,<br />

periodo in cui, a differenza di tutte le altre zone della Francia, l’isola ha vissuto un’esperienza sociale di<br />

controrivoluzione (Regno Anglo-Corso). Uguale esperienza porterà i contadini corsi a stabilire nuovamente delle forti<br />

connessioni tra la riforma del sistema sociale e la politica del vecchio Regime. Queste stesse realtà conducevano<br />

peraltro i contadini insulari a vedere <strong>dei</strong> collegamenti tra il regno anglo-corso (con riferimenti nazionali, sociali ed<br />

economici «inglesi») ed il ritorno delle costrizioni sociali, agrarie e fiscali della politica aristocratica filofrancese. Le<br />

conseguenze di queste sperimentazioni saranno notevoli per l’evoluzione politica e sociale dell’identità corsa.<br />

§ I diversi contenuti dell’identità corsa nel 1789<br />

<strong>Il</strong> caso della Corsica permette di mettere in luce alcuni <strong>dei</strong> processi attraverso i quali tra il 1789 ed il 1815 sono state<br />

modificate le basi sociali di una comunità etnica e la trasformazione della rappresentazione di questa identità.<br />

Alla vigilia della Rivoluzione, la coscienza sociale dell’originalità e della specificità del popolo corso esisteva in modo<br />

netto e vigoroso. Tale coscienza era il frutto ed il risultato di un’evoluzione storica complessa, i cui tratti sono ancora<br />

poco studiati. La coscienza della comunità corsa ingloba l’intera isola e supera la cornice <strong>dei</strong> villaggi e delle pievi con le<br />

loro signorie: si estende al di là delle unità micro-regionali e <strong>dei</strong> due grandi territori del Diquà e del Dilà. <strong>Dal</strong>l’XI al<br />

XVIII secolo, il processo unitario cammina in collegamento con l’evoluzione delle forze produttive, <strong>dei</strong> rapporti<br />

commerciali, delle lotte contadine, <strong>dei</strong> conflitti tra signorie e famiglie caporalizie. Possiamo far risalire agli sforzi di<br />

Giudice de Cinarca, nel XIII secolo (sotto forma di un principato feudale) la nascita dell’identità e delle basi sociali e<br />

politiche dell’unità etnica corsa. Questo processo si accompagna alla prima (ma ancora fragile e contraddittoria)<br />

affermazione della coscienza sociale di un’identità nazionale. L’evoluzione storica della Corsica dal XIV alla seconda<br />

metà del XVIII secolo favorisce una costante evoluzione della coscienza autoctona, assumendo sempre più una<br />

coloritura indipendentista. A partire dalla fine del XVII secolo, questo movimento si sviluppa contro gli effetti del<br />

dominio economico, sociale e politico del patriziato genovese. Al momento delle guerre contro Genova e del generalato<br />

di Paoli, i processi economici, sociali, politici avevano portato la classe contadina, gli strati della borghesia rurale ed i<br />

grandi principali dell’aristocrazia fondiaria a pensare alla specifica identità nazionale con contenuti di classe differenti.<br />

Mancava la coesione sociale tra le varie classi, non la coscienza della propria identità: questo è stato il vero banco di<br />

prova di Paoli. Nel 1789, dalla lettura <strong>dei</strong> Cahiers de Doléances, si ritrova la coscienza di un’identità corsa, ma i<br />

riferimenti all’unità nazionale sembrano nascosti, quasi protetti all’interno di uno Stato molto più grande ed in grado di<br />

garantire degli interessi generali: l’occupazione francese, anche se violava l’identità culturale e storica dell’isola,<br />

garantiva notevoli vantaggi. Se a questo si accompagna il rifiuto del dispotismo politico e militare e, più ancora, del<br />

ritorno alla dominazione genovese, si comprende come questa coscienza “nazionale” non escludesse l’inserimento nella<br />

cornice dello Stato francese.<br />

Durante la Rivoluzione, la coscienza dell’identità corsa varia a seconda delle esigenze e <strong>dei</strong> vantaggi della nobiltà o del<br />

Terzo Stato insulare. Le lotte di classe che accompagnano l’avanzamento della Corsica si inseriscono nel quadro sociale<br />

del 1789, anche se con numerose eccezioni: in Corsica si attendeva una rivoluzione sociale ed economica, più che una<br />

rivoluzione politica e culturale.<br />

§ Rivoluzione francese, Impero ed identità nazionale<br />

Le successive sperimentazioni sociali <strong>dei</strong> venticinque anni trascorsi tra il 1789 ed il 1815 (con le fasi 1789-1793, del<br />

regno anglo-corso, del Consolato e dell’Impero) vedono realizzarsi gli insuccessi delle imprese (agrarie, sociali,<br />

politiche) della Controrivoluzione. È nel corso di questi processi che vengono distrutti gli sforzi dell’aristocrazia<br />

fondiaria per spingere i corsi a vivere e rappresentare l’identità nazionale come separazione dalla “nazione<br />

rivoluzionaria” francese. Al contrario, queste successive sperimentazioni sociali sviluppano una serie di esigenze e di<br />

atteggiamenti che costituiscono un nuovo modello di coscienza sociale dell’identità corsa. Questa coscienza è quella del<br />

legame organico che esiste tra liberazione sociale dall’Ancien Régime, la promozione della Corsica e <strong>dei</strong> corsi come<br />

partecipanti alla “libertà, uguaglianza e fraternità” rivoluzionarie, ed all’azione di Napoleone Bonaparte. L’esperienza<br />

sviluppatasi dal 1800 aveva così, attraverso le contraddizioni e le crisi del regime imperiale, sostituito e prolungato le<br />

esperienze fatte all’inizio della Rivoluzione francese. Rifiuto di qualsiasi ritorno al modello sociale antecedente al 1789<br />

(caratterizzato dall’estensione <strong>dei</strong> prelievi e dall’estensione del controllo delle terre per conto dell’aristocrazia <strong>dei</strong><br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

grandi principali), esigenze di mantenimento della migliore qualità di vita e di lavoro, opposizione massiccia ad ogni<br />

tentativo di separazione della nazione francese, diventano i maggiori caratteri dell’identità corsa. Questi tratti si<br />

condensano nella figura di Napoleone I. L’Imperatore, come in altre regioni della Francia, appare nel 1815 come il<br />

garante ed il rappresentante della difesa delle esperienze sociali e <strong>dei</strong> simboli della Rivoluzione, il baluardo contro<br />

l’Ancien Régime. Napoleone è stato, sotto questo aspetto, lo strumento migliore per una “francesizzazione” forzata<br />

dell’isola.<br />

Gli avvenimenti del 1814 e del 1815 mostrano che una politica di reazione e di restaurazione non poteva ignorare e<br />

mettere in discussione il nuovo prolungamento che la pratica sociale degli anni della Rivoluzione e dell’impero avevano<br />

portato all’identità etnica corsa nelle masse popolari dell’isola. L’appartenenza alla Francia rappresentava la liberazione<br />

dal duro giogo dell’aristocrazia fondiaria isolana, la garanzia contro i tentativi genovesi ed inglesi di riconquista<br />

dell’isola. I corsi, non avendo di fronte a sé nessuna controparte favorevole alla loro difesa ed al loro mantenimento<br />

(l’Italia era ancora frastagliata nella miriade <strong>dei</strong> suoi Stati, la Spagna in piena decadenza, l’Inghilterra, per quanto<br />

benevola, distante culturalmente ed economicamente dalla realtà isolana) non potevano che abbracciare la nazione<br />

sorella, specie in un periodo, come quello rivoluzionario, di grandi sconvolgimenti sociali.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

APPENDICE<br />

Figura 39: Mappa del Cantone di Tomino dal Plan Terrier de la Corse 1770-1795 (Paris, Archives Nationales).<br />

Figura 40: Mappa del Capo Corso dal Plan Terrier de la Corse 1770-1795 (Paris, Archives Nationales).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

Figura 41: anteprima del Plan Terrier per la pieve di Pietacorbara.<br />

Figura 42: - Mappa della Pieve di Rostino dal Plan Terrier de la Corse 1770-1795 (Paris, Archives Nationales).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doleances (1787-1789)<br />

Figura 43: lo stato delle finanze del Regno di Francia nel 1774.<br />

Figura 44: La tassa sul sale in Francia.<br />

145


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

CAPITOLO 9<br />

IL SISTEMA CLANICO E LA “VENDETTA” CORSA<br />

146<br />

Sale e vindetta ùn merziscenu mai.<br />

A vindetta, à chì la fà l’aspetta<br />

- proverbi corsi -<br />

§ 1. Premessa<br />

L’analisi della realtà politica ed economica della Corsica alla fine del XVIII secolo risulterebbe incompleta senza lo<br />

studio delle dinamiche sociali che hanno caratterizzato, da secoli, l’evoluzione della storia isolana. Si tratta, in effetti, di<br />

collegare alla storia della Rivoluzione corsa quelle linee portanti della società isolana che hanno contribuito, nel lungo<br />

periodo, alla formazione dell’identità corsa, alla sua maggiore o minore autodeterminazione rispetto agli avvenimenti, ai<br />

poteri ed alla congiuntura economica. <strong>Il</strong> quadro generale della storia événementielle della Corsica rivoluzionaria appare<br />

come un mare continuamente increspato da lotte, guerre, contrapposizioni e giochi di potere; al di sotto di questa<br />

superficie è sempre stato presente, comunque, un autonomo ambito culturale, politico ed economico, difficilmente<br />

assimilabile alle altre realtà dell’Europa continentale: la Corsica è apparsa, sotto questi aspetti, come uno spazio storico<br />

notevolmente interessante ed originale.<br />

La storia sociale appare allora come l’immobile fondale su cui le diverse correnti politiche, economiche e culturali che<br />

hanno investito l’isola nel corso del XVIII e del XIX secolo hanno lasciato segni più o meno evidenti del loro<br />

passaggio: la società corsa è fatta, come vedremo, di immobilismi, di ritualità, di partecipazione e di isolamento. In<br />

questa parte del presente studio si cercherà di legare ed analizzare le vicende storiche con le caratteristiche sociologiche<br />

ed antropologiche del popolo corso, cercando di far affiorare le caratteristiche “sedimentarie” dello spazio isolano.<br />

§ 2. L’evoluzione del sistema politico<br />

Quando si leggono la Chronica di Giovanni della Grossa, che riporta il resoconto delle lotte che devastarono la Corsica<br />

dall’XI al XIV secolo o le Memorie di Sebastianu Costa che descrive, giorno per giorno, gli avvenimenti che segnarono<br />

la rivoluzione all’inizio del XIII secolo, si rimane colpiti dalla permanenza degli stessi conflitti nella società insulare. A<br />

sei secoli di distanza, il corpo sociale è lacerato dalle stesse tensioni, al punto da far sembrare contemporanee le due<br />

opere.<br />

Secondo la Chronica di Giovanni della Grossa, sei grandi categorie coprono il ventaglio delle lotte politiche: 1. le<br />

inimicizie tra famiglie; 2. le rivalità all’interno delle famiglie; 3. le lotte tra comunità; 4. le rivolte del popolo<br />

(comunità) contro i “signori” ed i “conti”; 5. le guerre <strong>dei</strong> corsi contro il potere straniero; 6. le guerre tra le potenze<br />

straniere per il possesso della Corsica, a cui partecipano le grandi famiglie insulari.<br />

Queste sei categorie si annodano tra loro in maniera sottile, generando <strong>dei</strong> conflitti secondari: per esempio,<br />

un’inimicizia tra due famiglie o due rami di una stessa famiglia può esplodere ed innestarsi all’interno di una rivalità<br />

che oppone due comunità ovvero sommarsi all’opposizione tra Genova e Pisa, che si contendono la Corsica.<br />

Nelle Memorie di Sebastianu Costa si ritrovano alcune di queste categorie tra cui: 1. alcune inimicizie tra famiglie; 2.<br />

alcune guerre tra comunità paesane e pievane; 3. le lotte <strong>dei</strong> corsi contro il potere straniero. Anche qui, i conflitti si<br />

sublimano, lasciando apparire delle costanti più sottili: lotte tra fazioni o clan che si affrontano in base all’atteggiamento<br />

di adesione o di ostilità nei riguardi della Repubblica di Genova, ecc.<br />

L’esistenza degli stessi tipi di conflitti, testimoniati da della Grossa e manifestati da Costa, pone degli interrogativi sulla<br />

dinamica politica della società corsa, nonostante tutti i cambiamenti e gli apporti esterni che ha subito nel tempo.<br />

Ancora oggi, con forme diverse, si constata pressappoco la stessa dinamica <strong>dei</strong> conflitti sociali.<br />

Sarà utile, allora, analizzare i tratti essenziali della società isolana, non dimenticando che questa dinamica è anche<br />

espressione del doppio movimento che scuote la società corsa: la resistenza e l’apertura alla storia.<br />

§ 3. La segmentazione egualitaria della società corsa<br />

Quando due corsi che non si conoscono si incontrano per caso, si pongono l’un l’altro due domande: di quale site (di<br />

chi siete, a quale famiglia appartenete)? Di induve site (di dove siete, di quale villaggio)?<br />

Essere “corso” significa appartenere prima di tutto ad una famiglia ed ad un villaggio; queste due entità ne<br />

presuppongono un’altra, che le ingloba: l’isola, il corpo primitivo.<br />

Ciascuno di questi tre campi di appartenenza definisce un aspetto dell’identità corsa; i tre insiemi definiscono l’essenza<br />

di cui il corso ha bisogno per riconoscersi come tale. I tre piani si mescolano e si completano, ricoprendo anche la<br />

funzione paradigmatica degli altri. Sotto una prospettiva particolare, il villaggio è percepito come una famiglia, così<br />

come l’isola; da un’altra angolazione, la famiglia ed il villaggio sono considerati come i corpi primitivi che si<br />

riproducono su scala inferiore. Per comprendere il sottile legame che intercorre tra la famiglia, il villaggio e l’isola<br />

bisogna analizzare i loro rispettivi ruoli nella definizione dell’identità 1 .<br />

1 Si ritrovano le stesse fasi di identificazione presso i greci di Cipro: «Le tre categorie sociali con cui un greco si identifica sono la famiglia, la


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

La famiglia è la prima area di appartenenza dell’individuo. Quest’ultimo si trova nel villaggio come se facesse parte di<br />

un gruppo familiare, identificato dal cognome. Vista dell’esterno — dal punto di vista della comunità — una persona<br />

non ha identità se non in quanto parte di un gruppo familiare. Ogni famiglia ha la propria economia, il rispettivo campo<br />

di sfruttamento, <strong>dei</strong> diritti specifici: è un’entità autonoma che si afferma nel villaggio, di fronte alle altre famiglie. In un<br />

certo senso, l’individuo esiste come parte di un tutto: se scoppia un conflitto tra due individui che appartengono a due<br />

famiglie diverse — soprattutto se il conflitto ha il carattere di un reato — automaticamente la questione diventa un<br />

regolamento tra due blocchi. La responsabilità collettiva è la regola <strong>dei</strong> rapporti comunitari. Tuttavia, all’interno della<br />

famiglia, ogni individuo ha la propria autonomia: anche se sottomesso all’autorità ed al potere decisionale del<br />

capofamiglia — il nonno —, ognuno esprime il proprio parere personale, come accadeva già all’epoca delle assemblee<br />

familiari, riunite per discutere degli affari più importanti: matrimoni, vendetta, richieste di patrimonio familiare.<br />

Occorre, certo, che la famiglia appaia unanime all’esterno, ed inevitabilmente l’opinione contraria a quella generale o a<br />

quella del capofamiglia viene sacrificata con la sottomissione; ma bisogna comprendere che questa sottomissione non<br />

significa necessariamente uno schiacciamento della volontà individuale. Ogni individuo concepisce la propria volontà<br />

come quella di una parte del gruppo familiare (un corpo unico), ma cerca, attraverso l’opinione personale, di convergere<br />

verso l’opinione generale. Nella maggior parte <strong>dei</strong> casi esistono delle regole tacite, abituali, che operano come i criteri<br />

di una scelta: regole di solidarietà nella vendetta, regole di trasmissione del patrimonio, regole di gestione del bilancio<br />

familiare. Per tutti i problemi esiste un ventaglio limitato di risposte, sempre le stesse, come accade in tutte le società<br />

tradizionali.<br />

La famiglia corsa — famiglia estesa — presenta in genere due facciate: una volta all’esterno, che deve presentare un<br />

solo viso, senza fessure, ed un’altra volta all’interno; in questo caso le divergenze possono manifestarsi, ma devono<br />

essere lentamente eliminate. Questa facciata riguarda soltanto la sopravvivenza giuridica del gruppo familiare: sotto un<br />

altro punto di vista, la vita privata <strong>dei</strong> membri della famiglia si unisce strettamente a quella della comunità. Per tutta una<br />

serie di lavori domestici, dal bucato alla cottura del pane, alla filatura della lana, il lavoro è collettivo: i membri di uno<br />

stesso quartiere o di uno stesso villaggio si incontrano nello stesso luogo, utilizzano lo stesso forno, si radunano per<br />

sbucciare i fagioli o i piselli sulla piazza. Le case sono aperte: i vicini ed i bambini, durante la giornata, entrano senza<br />

preoccuparsi e senza bussare alla porta. L’interno delle case deve essere trasparente, non deve avere niente da<br />

nascondere. L’intimità della vita corrisponde al destino collettivo: il fondo oscuro della soggettività non deve essere<br />

custodito nella psicologia privata, ma si proietta piuttosto verso le credenze, verso gli antenati, verso i morti — con cui i<br />

vivi intrattengono delle relazioni potenti e quotidiane (attraverso i sogni, le pratiche rituali, i gesti e le parole).<br />

Si ritrova così una sfaldatura costante tra l’esterno e l’interno della famiglia: presentando una superficie trasparente alla<br />

comunità, essa salvaguarda un’opacità interna. Ma questa opacità si sfalda in se stessa, nella vita interiore della<br />

famiglia: ogni individuo si mantiene nella chiarezza dell’accettazione delle norme familiari, nel suo contributo alla<br />

solidarietà comune. Quanto alla vita privata, essa si realizza all’interno <strong>dei</strong> modelli collettivi e nel rapporto con la<br />

morte.<br />

L’oscillazione tra questi due aspetti della famiglia si ritrova sul piano del villaggio. Anch’esso ha una vita propria,<br />

chiusa in se stessa, ed una vita volta all’esterno. In quanto originario di un villaggio, il corso si presenta ai corsi degli<br />

altri villaggi come se provenisse da un centro: tutto il resto è periferia. Ed egli sa che rispetto agli altri villaggi, il<br />

proprio luogo di origine custodisce il suo segreto, il suo esoterismo, la sua identità.<br />

Come la famiglia, il villaggio costituisce un’unità economica autonoma: possiede terre e macchia, pascoli e aree<br />

coltivate, utilizzate da ogni famiglia in base ad un regime di rotazione. La proprietà comunale era così estesa, in<br />

Corsica, che i terreni privati costituirono, fino alla I Guerra Mondiale, circa il 10% del totale dell’imposta fondiaria.<br />

Anche se iniziato molto presto, il processo di appropriazione privata delle terre si è svolto molto lentamente.<br />

Ciò ha contribuito probabilmente ad attenuare le differenze tra gli strati sociali: i più bisognosi, quelli che non avevano<br />

né proprietà, né gregge, si servivano abbondantemente, nella sfera comunale, <strong>dei</strong> boschi, della selvaggina, delle<br />

castagne. Nonostante le differenze micro-regionali, ed i due grandi tipi di stratificazione che ha conosciuto la Corsica<br />

tradizionale — la Terra di comune nel Diquadamonti e la Terra <strong>dei</strong> Signori nel Diladamonti — si possono rintracciare<br />

tre principali categorie nella società rurale: quella <strong>dei</strong> notabili e degli sgiò — che possedevano terre e beni sufficienti<br />

per non avere bisogno di lavorare — le cui case, separate della massa delle costruzioni del villaggio (che formano <strong>dei</strong><br />

blocchi uniti, muro contro muro) si notano ancora per la loro grandezza ed il loro aspetto massiccio; quella <strong>dei</strong><br />

lavoratori che, non possedendo sufficiente proprietà e bestiame sono obbligati a lavorare per sopperire ai bisogni della<br />

famiglia (arando le terre, o affittandole a regime di mezzadria); infine, quella <strong>dei</strong> giornalieri, già nominati, operai<br />

agricoli che lavorano alla giornata. Ma tutte le famiglie, anche le più povere, hanno almeno un maiale e parecchie<br />

pecore o capre: ogni mattina, il pastore del villaggio viene a prenderle dal recinto — o addirittura dalla cantina —<br />

familiare, riunendo questo “gregge comunale” per pascolarlo fino a sera (nei villaggi corsi esisteva ancora, negli anni<br />

cinquanta, un gregge di questo tipo). La ripartizione della popolazione contadina secondo questi strati mostra che il 60%<br />

del totale appartiene alla categoria degli agricoltori e pastori, circa il 20% ai notabili ed al clero, il resto alla classe degli<br />

artigiani, <strong>dei</strong> liberi professionisti e <strong>dei</strong> commercianti. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che queste cifre possono subire<br />

<strong>dei</strong> cambiamenti importanti a seconda delle regioni, particolarmente quando si passa da una pieve a predominanza<br />

comunità d’origine e la nazione. Esse gli procurano, nella maggior parte <strong>dei</strong> contesti, la dualità necessaria alla differenziazione, alla separazione — ed<br />

all’opposizione — tra il Noi e il Loro». PERISTIANY J.C., Honour and Shame: the values of Mediterranean society, London 1965, p. 173.<br />

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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

agricola ad un’altra a dominazione pastorale (come il Niolo, al centro della Corsica).<br />

In generale, il villaggio corso tradizionale non conosce delle stratificazioni sociali molto nette: non esistono né grandi<br />

proprietari fondiari, né miserabili. <strong>Il</strong> territorio comunale protegge gli abitanti dalla miseria (legata al contrario,<br />

dall’estensione della proprietà privata) 2 . Nella pieve, che ingloba parecchi comuni, ogni villaggio si definisce per<br />

opposizione agli altri: i blasoni paesani manifestano al tempo stesso le tensioni ed i rapporti privilegiati che<br />

intrattengono certi villaggi: tra Venzolasca e Vescovato si tesse tutta una rete di relazioni, fatta di rivalità, di gelosie e di<br />

aiuto; tra Loreto e Vescovato, sempre nella pieve di Casinca, prevale il disprezzo. Queste relazioni si trasmettono<br />

concretamente in svariati modi, dai processi sui contributi da pagare per un lavoro pubblico — un ponte che divide i due<br />

comuni —, fino a delle vere battaglie per un territorio disputato o per il possesso della statua di un santo, fino alle<br />

spedizioni omicide dovute ad un matrimonio contestato (coniugi che appartengono a due villaggi differenti ed<br />

antagonisti) 3 .<br />

Nel villaggio, quando si vive la propria quotidianità, l’equilibrio della vita sociale si rivolge all’interno <strong>dei</strong> nuclei<br />

familiari, bilanciando le tensioni che l’attraversano e che presuppongono, come si è visto, un larvale stato di<br />

opposizione tra clan. Quando esplode un conflitto tra villaggi, le tensioni interne spariscono o sono rinviate: tutte le<br />

famiglie fanno fronte comune contro il villaggio “nemico”. La solidarietà paesana preme allora sui conflitti interni. Le<br />

liti e le inimicizie si cancellano davanti al pericolo comune; gli abitanti si radunano per la difesa <strong>dei</strong> diritti del villaggio.<br />

Questi conflitti che esplodono tra famiglie di due comunità differenti e che provocano delle morti, impegnano l’insieme<br />

della popolazione: sono i Procuratori <strong>dei</strong> due comuni che si dirigono dal Governatore (al tempo del dominio genovese)<br />

per discutere dell’affare; in caso di pace ottenuta grazie ai Parolanti (mediatori), sono ancora loro (e non le famiglie<br />

rivali) che firmano i trattati di pace, davanti al notaio 4 .<br />

Si ha così un primo quadro della dinamica segmentaria corsa: delle unità politiche di base (le famiglie) si uniscono in<br />

un’unità più vasta (il villaggio) per lottare contro il nemico comune. Si tratta di un movimento che definisce la fusione<br />

<strong>dei</strong> segmenti o unità politiche; queste stesse unità si dividono quando il pericolo esterno sparisce, ed entrano in uno<br />

stato di conflitto potenziale: la scissione sfalda il villaggio in famiglie rivali. Quando si passa dalla famiglia al villaggio,<br />

la responsabilità e la solidarietà si estendono, trasferendosi alle intere comunità.<br />

Ma questa dinamica non si ferma alle opposizioni tra villaggi. Si estende alle pievi ed all’isola, in base al tipo di<br />

conflitto.<br />

La pieve è un’unità territoriale, economica, politica e religiosa: corrisponde in generale ad una o più valli e copre un<br />

territorio in cui si trovano due, tre o addirittura dieci comuni. Con l’instaurazione dell’amministrazione francese e la<br />

creazione <strong>dei</strong> dipartimenti e <strong>dei</strong> cantoni, la pieve è sparita ufficialmente; tuttavia, ha custodito — soprattutto durante la<br />

prima metà del XIX secolo — la sua forza nei costumi delle relazioni tra villaggi: talvolta corrisponde ad una<br />

parrocchia, con una chiesa in mezzo alla valle. <strong>Dal</strong> punto di vista economico, la pieve detiene delle proprietà e <strong>dei</strong><br />

pascoli usufruiti dai comuni; a livello politico elegge <strong>dei</strong> rappresentanti presso il Governatore genovese, con il compito<br />

di esercitare la giustizia all’interno <strong>dei</strong> confini amministrativi.<br />

La pieve entra nel gioco segmentario allo stesso titolo della famiglia o del villaggio. Anche se i conflitti tra pievi non<br />

impegnano sempre la solidarietà di villaggi di un dipartimento, ed appaiono così meno pregnanti nella dinamica<br />

segmentaria, essi non sono meno importanti: basti pensare alle guerre secolari tra i pastori del Niolo e gli abitanti del<br />

Cortenese; o ancora, tra i Niolini ed i Balagnini, sempre per le stesse ragioni: le contestazioni sulla proprietà <strong>dei</strong> pascoli<br />

che gli abitanti di Corte e della Balagna volevano vietare alle greggi del Niolo, che scendevano per pascolare durante<br />

l’inverno. Si evidenzia così, nella stratificazione delle unità politiche della Corsica tradizionale, un incastro che<br />

definisce la dinamica del conflitto: queste unità, che si distinguono per la loro autonomia economica e politica,<br />

discendono, per così dire, le une dalle altre, essendo al tempo stesso agenti nel conflitto e, ad un livello superiore, spazi<br />

di pace. <strong>Il</strong> villaggio, in cui esplodono le inimicizie interfamiliari, è anche lo spazio dove esse devono essere risolte; allo<br />

stesso modo la guerra tra villaggi trova la sua soluzione nella pieve. Si stabilisce un rapporto preciso tra il conflitto e gli<br />

ordini nella gerarchia delle unità politiche: l’autonomia politica del villaggio, così come la sua natura comunitaria,<br />

dipende dalla struttura conflittuale delle relazioni tra famiglie; parimenti, la pieve è un’unità territoriale che estende ad<br />

una comunità più vasta i conflitti tra villaggi. In breve, i conflitti e le tensioni tra unità inferiori nascono e si decidono<br />

nell’unità immediatamente superiore. Alla fine del processo le pievi tendono ad unirsi per combattere l’invasore o il<br />

potere straniero — come attestano certi periodi della storia della Corsica, particolarmente all’inizio della rivoluzione<br />

che, nel XVIII secolo, culmina nell’indipendenza politica 5 .<br />

2 Vd., per un periodo preciso, CARRINGTON D., Aperçu sur les inégalités sociales en Corse rurale au XVIII e siècle, «Annuario Storico Italiano per<br />

l’età moderna e contemporanea», XXXI-XXXII (1979-1980).<br />

3 <strong>Il</strong> fondo Civile Governatore abbonda di conflitti tra comunità: «Richiesta affinché la disputa tra le frazioni di Sorbu e Ocagnanu relativa alle terre sia<br />

sottomessa all’arbitraggio del Rev. Tomasino Moracchini e di Lazaro Maria Donati» (25 febbraio 1678, C. G., arch. 521), o il «Lamento portato dal<br />

comune di Furiani contro le genti di Oletta che vengono a mano armata a far pascolare sul territorio di Furiani gli animali, di cui parecchi infetti di<br />

mal di lupia» (28 luglio 1660). Cfr. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, fondo Civile Governatore, serie C e G.<br />

4 Le guerre tra villaggi potevano raggiungere, in Corsica, una durata straordinaria: quella tra Pastoreccia di Rostino ed il vecchio villaggio di Brocca si<br />

è prolungata per tutto il tredicesimo secolo. Queste guerre sono state un costante focolaio di agitazioni: quando Felice Pinelli assume la carica di<br />

Governatore di Genova in Corsica, nel 1728, si deve confrontare subito con una serie di conflitti sociali tra cui figurano, al primo posto per numero e<br />

gravità, quelli che oppongono le comunità per i diritti di pascolo. Cfr. PINELLI F., Relazione del governatore Felice Pinelli (1728-1730), scritta dal<br />

medesimo e tratta per la prima volta dagli archivi della famiglia Brignole-Sale, Bastia 1854.<br />

5 <strong>Il</strong> ruolo della pieve nella dinamica segmentaria deve essere precisato. L’utilizzazione del modello delineato finora si rivela, in questo caso,<br />

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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

Figura 45: la Corsica in una mappa di Jean Bleau 1662-1665 (Bibl. Fesch - Ajaccio)<br />

Certamente questa dinamica non opera in modo automatico e perfetto, secondo la legge della fusione-fissione, ma<br />

corrisponde sicuramente ad una tendenza profonda — ad una logica — del sistema politico. Se non funziona sempre in<br />

modo “puro” è perché la Corsica ha subito l’innesto di sistemi di potere venuti dall’esterno, che hanno provocato, o<br />

almeno avvantaggiato, la formazione di organizzazioni politiche particolari (specie quella <strong>dei</strong> clan, la cui caratteristica<br />

principale è quella di piegare la dinamica egualitaria a vantaggio di una famiglia o di un gruppo di famiglie).<br />

<strong>Dal</strong> punto di vista di quelli che si potrebbero chiamare i “livelli di identità”, le tre unità (la famiglia il villaggio e l’isola)<br />

si completano: sono i livelli di riconoscimento del singolo individuo. Nella famiglia il soggetto si sente incluso in un<br />

insieme unico, specifico, in cui la profondità genealogica lo colloca nella comunità <strong>dei</strong> morti e <strong>dei</strong> vivi. <strong>Il</strong><br />

riconoscimento dell’individuo all’interno del blocco familiare dipende, tuttavia, anche dalla sua apertura all’esterno.<br />

L’identità individuale richiede propriamente una dimensione sociale che, grazie allo spazio pubblico del villaggio, può<br />

affermarsi come rappresentativa di una determinata famiglia. Per le stesse ragioni, ogni individuo deve partecipare alla<br />

“vita sociale” del villaggio quando si rivolge al settore più vasto della pieve e dell’isola (quest’ultimo è il settore della<br />

guerra a carattere “nazionale”). In questo caso l’individuo si ritrova integrato in una comunità politica più estesa: è il<br />

grado in cui tutti si riconoscono “corsi” 6 . Questa scala <strong>dei</strong> livelli di riconoscimento, dalla famiglia fino all’isola,<br />

particolarmente delicato, perché gli manca la dimensione storica; la segmentazione, con le sue divisioni in unità come la famiglia, il villaggio e la<br />

pieve «non terrebbe conto del processo di occupazione dello spazio». Così, prima che il villaggio si caratterizzi come un’unità politica definita, la<br />

pieve era il fulcro delle comunità: nel Medio Evo, l’urbanizzazione dispersa in frazioni e piccoli agglomerati (cittadine e città) corrispondeva ad<br />

un’economia pastorale fortemente nomade. La comunità rurale pievana aveva le sue istituzioni: l’assemblea, gli eletti, la chiesa parrocchiale;<br />

comprendeva le popolazioni di una o più valli, di un altopiano o, talvolta, diversi quartieri di uno stesso borgo. Alla fine del Medio Evo e fino al XVI<br />

secolo, si assiste allo sviluppo del villaggio come unità politica e territoriale, con un’assemblea paesana, una specifica comunità, delle istituzioni<br />

periferiche. Questo sviluppo è accompagnato dal declino della pieve; ma, in genere, e fino al XVIII secolo, i due tipi di comunità coesistono. Lo<br />

sviluppo del villaggio è avvenuto, probabilmente, a detrimento della pieve; ma l’apparizione tardiva del villaggio non può essere considerata una<br />

valida ragione per rifiutare il modello di segmentazione clanica. Anzi, l’applicazione di questo modello risulta maggiormente utile se calata in realtà<br />

spaziali e temporali ben contraddistinte: per la segmentazione clanica medievale si può tranquillamente scavalcare il piano del villaggio, dato che<br />

prima del XV secolo lo spazio di risoluzione <strong>dei</strong> conflitti interfamiliari era la pieve (la struttura a famiglia estesa o lignaggio era l’unità<br />

fondamentale); con un lento processo di municipalizzazione, il villaggio prende parzialmente il posto della pieve, che si trasforma in unità superiore<br />

del sistema segmentario (cambiando, certamente, alcune sue funzioni). L’assemblea di villaggio sostituisce in parte l’assemblea pievana, ma le vedute<br />

interpievane persistono ancora e diventano la base, nel XVIII secolo, delle consulte nazionali: prova evidente degli spostamenti di competenza che la<br />

struttura segmentaria ha provocato all’interno della pieve. Queste osservazioni rispondono in parte alle obiezioni formulate da RAVIS-GIORDANI G.<br />

sull’utilizzazione del modello segmentario di Edward Evans-Pritchard: «sarebbe interessante vedere come questi spazi si inseriscano gli uni negli<br />

altri. Si potrebbe dire che all’interno della pieve il cerchio di riferimento sia la comunità e dentro alla comunità sia il villaggio (...). Questo modello, in<br />

Corsica è tanto più allettante quanto inefficace. Certo, esso funziona abbastanza bene; ma non tiene conto di tutto, in particolare ha il difetto di<br />

congelare un lungo e lento processo di investimento, di addomesticamento e di appropriazione dello spazio». Cfr. RAVIS-GIORDANI G., Bergers<br />

corses, les communautés villageoises du Niolu, Aix-en-Provence 1983, pp. 91-92. <strong>Il</strong> libro di Ravis-Giordani descrive in modo preciso e dettagliato la<br />

struttura, il funzionamento ed i ruoli delle unità socio-economiche: la famiglia, la comunità paesana e la «Corsica».<br />

6 Ancora un tratto somigliante ai ciprioti greci: «<strong>Il</strong> cipriota greco si sente se stesso nelle relazioni con i suoi compatrioti di villaggio: è l’agente di una<br />

famiglia e, fuori dal villaggio, l’agente del suo villaggio, della sua provincia (o isola) o della nazione». PERISTIANY J. C., op. cit., p. 14.<br />

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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

corrisponde ad un ciclo di identità: la famiglia è un’unità politica, anche se “privata” nel suo cerchio interiore; l’insieme<br />

delle famiglie forma il villaggio, che costituisce un’unità politica territoriale; l’isola, il corpo primitivo, ha la funzione<br />

di chiudere il ciclo dell’identità individuale e collettiva, presentandosi come un livello astratto — quasi mitico —<br />

assente ai livelli inferiori: l’isola rappresenta il potere estremo, che giustifica e garantisce tutti gli altri poteri, fino<br />

all’affermazione dell’indipendenza politica.<br />

<strong>Il</strong> corpo primitivo è innanzitutto la patria. La letteratura insulare è ricca di questi temi: la Corsica è percepita dagli<br />

isolani, già da diversi secoli, come il luogo natale che segna la differenza con gli altri popoli. Si tratta, certamente, di un<br />

effetto precoce — rispetto al resto dell’Europa, in cui il nazionalismo appare prevalentemente con la nascita dello Stato<br />

— delle guerre che i corsi hanno dovuto condurre contro gli invasori. Non stupisce affatto di leggere negli scritti di<br />

Pietro Cirneo delle frasi che si riferiscono senza ambiguità alla terra natale come ad una “patria” 7 . Ma ci sono due altre<br />

ragioni che spingono a quest’esigenza di un’identità nazionale e riguardano la dinamica stessa della segmentazione<br />

corsa. Questa dinamica è quella del potere: si tratta, per l’individuo che si afferma come membro di una famiglia, di<br />

riconoscersi nell’assoluto possesso <strong>dei</strong> propri poteri. L’affermazione di sé, <strong>dei</strong> propri diritti e della propria autonomia<br />

deve essere completa; deve estendersi a tutti i livelli di potere, altrimenti si troverebbe mutilata 8 . L’autonomia della<br />

famiglia (che impegna l’onore) richiede un diritto che la garantisca ad un livello di potere più elevato di quello del<br />

villaggio ed al quale i diritti locali siano sottomessi. Questo livello estremo è quello del governo di tutta l’isola: il pieno<br />

riconoscimento <strong>dei</strong> diritti privati implica il riconoscimento <strong>dei</strong> diritti specifici della comunità corsa, considerata come<br />

un’unità territoriale globale, politica ed etnica. Questa funzione giuridico-politica del corpo primitivo si evince in modo<br />

particolare dalla connessione delle unità segmentarie. Abbiamo visto che esiste una sorta di incastro della famiglia nel<br />

villaggio, del villaggio nella pieve e della pieve nell’isola. Ciascuna di queste unità costituisce uno spazio di tensioni<br />

latenti ed aperte ed è, al tempo stesso, lo spazio di risoluzione <strong>dei</strong> conflitti dell’unità immediatamente inferiore — la<br />

famiglia grazie alla sua assemblea sotto l’autorità del capo, agisce come un’entità giuridica pacificatrice <strong>dei</strong> conflitti<br />

individuali; il villaggio possiede i dispositivi di potere necessari al regolamento <strong>dei</strong> conflitti tra famiglie — attraverso la<br />

Consulta (anche detta Dieta o Assemblea). Le Consulte eleggono gli ufficiali comunali, i Padri di comune, il Podestà<br />

(le cui funzioni giudiziali, nel XVIII secolo, si limitavano ai casi non superiori alle 4 lire), i Procuratori della pieve<br />

(spesso assistiti <strong>dei</strong> Padri di comune nei conflitti tra villaggi) ed, infine, i Nobili Dodici ed i Nobili Sei, incaricati di<br />

rappresentare le popolazioni del Diquà e del Dilà presso il potere genovese: questa istituzione, oltre alle funzioni<br />

amministrative e fiscali, aveva il compito di consigliare il Governatore nell’amministrazione della giustizia nelle pievi e<br />

costituiva, agli occhi delle popolazioni, una sorta di istituzione nazionale. Ad ogni scala conflittuale corrispondono delle<br />

costituzioni giuridico-politiche ad acta, che esercitano la loro autorità sulle unità inferiori. Queste istituzioni, create dal<br />

popolo, erano state accettate da Genova, che le aveva adattate all’amministrazione, fissando i limiti della loro<br />

giurisdizione ed imponendo le funzioni (specie a livello fiscale) tipiche di un sistema politico coloniale.<br />

È significativo il fatto che l’organizzazione giudiziaria ed amministrativa popolare non si occupi della vendetta.<br />

Quest’ultima è appannaggio esclusivo del potere centrale genovese che, in caso di omicidi tra famiglie, invia i suoi<br />

Commissari di campagna, assistiti da un plotone di soldati e di sbirri: «…essi installavano il loro quartiere generale nel<br />

paese, alloggiavano i loro uomini dai parenti dell’omicida, inviavano delle spedizioni, procedevano alle inchieste sul<br />

posto» 9 . Tutto il diritto genovese è volto alla repressione della vendetta: essa sfugge alla giurisdizione locale ed è<br />

disciplinata direttamente dalla legge dello Stato 10 . Genova ha voluto estendere la responsabilità collettiva, nei casi di<br />

omicidio per vendetta, non solo alla famiglia, come era costume, ma al villaggio e all’intera pieve: la Dominante ha<br />

allargato il carattere particolare del conflitto tra famiglie, provocando indirettamente delle vendette trasversali. La classe<br />

dirigente genovese ha trovato in Corsica una tradizione talmente radicata da non poter fare appello a nessuna istituzione<br />

locale per bloccare la vendetta; la violenza familiare diventa un affare di Stato, perché lo Stato deve detenere il<br />

«monopolio della violenza legittima» 11 . Rendendo delle intere pievi responsabili degli omicidi e <strong>dei</strong> danni commessi<br />

all’epoca delle guerre tra famiglie, Genova ha trasformato le norme abituali che regolavano la vendetta: il suo territorio<br />

7 Vedi, ad esempio, questo brano della sua Cronaca, scritta verosimilmente verso la fine del XV secolo, che descrive un episodio del seggio di<br />

Bonifaziu (nel 1420) contro il Re Alfonso d’Aragona: «Gaggio, passando di riga in riga (gli eserciti), infiammava con delle parole brucianti la collera<br />

<strong>dei</strong> suoi soldati: «Pensate, diceva, alla perfidia <strong>dei</strong> nemici; contro il diritto delle genti, senza essere stati provocati, sono venuti ad attaccare la Corsica.<br />

Pensate alla loro barbarie; hanno massacrato perfino le donne ed i bambini (...). Salvate con il vostro coraggio, dunque, i vostri bambini, le vostre<br />

donne, i vostri genitori e la vostra libertà; perché oggi è per la vostra isola, per voi stessi, per la vostra libertà, per i vostri bambini, per il vostro suolo<br />

natale che siete costretti a combattere. Respingete lontano dalle vostre teste il giogo odioso di Alfonso». CIRNEO P., Istoria di Corsica di Pietro<br />

Cirneo, sacerdote d'Aleria, divisa in quatro. Recata, per la prima volta, in lingua italiana, ed illustrata da Gio. Carlo Gregorj, e quindi pubblicata<br />

per munificenza di S.E. il conte Pozzodiborgo, Parigi, dalla tipografia di Pihan Delaforest, p. 351-353, Paris 1834; rist. sul «B.S.S.H.N.C.», marzoaprile<br />

1884. Sull’autore si hanno scarsissime notizie. Nato nel 1447 in Corsica da povera famiglia, studiò a Venezia. Già sacerdote ad Aleria, prese il<br />

nome di Cyrnaeo in ricordo della patria (significa infatti: Corsico) quando si trasferì sul continente. Non si hanno più notizie di lui dopo il 1506, anno<br />

che conclude la narrazione della sua storia della Corsica (per il De rebus Corsicis, cur. MURATORI L.A., RIS, XXIV, Mediolani 1738, Praefatio, pp.<br />

411-2).<br />

8 È ciò che si verifica quando i poteri stranieri reprimono la vendetta, o vogliono regolamentarla (come è accaduto per tutte le potenze che hanno<br />

dominato la Corsica, da Pisa fino alla Francia: v. BUSQUET J., Le droit de la vendetta et les paci corses, Paris 1920). Si comprende perché il diritto<br />

«privato» delle famiglie corse si sia sempre scontrato con il diritto pubblico della potenza dominante. Questo diritto delle famiglie esige dunque,<br />

naturalmente, un prolungamento nella gerarchia <strong>dei</strong> poteri pubblici.<br />

9 Vd. BUSQUET J., op. cit., p. 171.<br />

10 Idem, I parte, Libro II.<br />

11 Idem, p. 168.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

viene allargato, le forme di arbitraggio e di conciliazione vengono cambiate; solo a livello normativo non risulta alcuna<br />

modifica sostanziale al processo tradizionale. Le istituzioni paesane e pievane subiscono l’effetto di questi<br />

cambiamenti, così come i conflitti tra villaggi e tra pievi: questi tendono ad inasprirsi, quelle a malfunzionare. <strong>Il</strong><br />

modello paradigmatico della vendetta può essere imputato anche tra i fattori scatenanti <strong>dei</strong> conflitti tra unità politiche<br />

locali, o tra i corsi e gli stranieri: le guerre tra villaggi e pievi richiedono l’intervento di paceri e, talvolta, la guerra<br />

nazionale appare come un tipo particolare di vendetta 12 . Si comprende allora la funzione politica del corpo primitivo<br />

nella dinamica segmentaria: paradossalmente, ed a causa dell’agitazione introdotta dalla politica repressiva di un potere<br />

straniero, che oppone direttamente a questa pratica giudiziale il malgoverno del sistema giuridico tradizionale, si<br />

richiede una soluzione in base al principio di sussidiarietà del potere. La ferocia generalizzata <strong>dei</strong> corsi contro la legge<br />

dello Stato trova origine, così, nel sentimento di giustizia del popolo corso contro il diritto privato e pubblico genovese.<br />

Si può affermare che, in un certo senso, la generalizzazione della vendetta ad ogni forma di conflitto tra unità politiche<br />

(le istituzioni non sono state concepite per risolvere questo tipo di violenze) ha contribuito a trasformare l’anarchia in<br />

un carattere strutturale della società corsa. Carattere che attraversa la dinamica segmentaria da parte a parte: la scissione<br />

prevale sulla fusione, ed al malfunzionamento del sistema giuridico-politico corrisponde solamente una soluzione<br />

generale, nazionale. Nell’anarchia che regna da secoli nella società insulare, rimane una base stabile che rinvia<br />

all’immagine utopistica di una comunità unita: il corpo primitivo, l’isola unificata politicamente.<br />

La seconda ragione che spinge i corsi a volersi riconoscere come membri di una sola comunità è più complessa e non<br />

meno decisiva: riguarda lo stesso concetto di patria come entità politico-culturale. La patria è la terra degli antenati, il<br />

territorio mitico-storico dell’origine della comunità. Si può pensare che, per molti corsi, la patria sia innanzitutto il<br />

villaggio; certi diranno anche che hanno solamente una patria, il loro villaggio, e che la Corsica «viene solamente<br />

dopo». Bisogna vedere in questo il risultato dell’estrema fissione delle unità segmentarie, disunite al punto tale da<br />

spingere ognuno all’interno della propria cerchia collettiva. La nozione di patria non è, tuttavia, meno presente: si tratta<br />

di un ripiegamento del corso sul villaggio natale piuttosto che un attaccamento esclusivo a quest’ultimo. <strong>Il</strong> villaggio è<br />

percepito allora secondo il modello del corpo primitivo, cioè come un mondo chiuso che ingloba la comunità <strong>dei</strong> corsi.<br />

Basta che scoppi la guerra nazionale, o che delle condizioni particolari oppongano i corsi ad una comunità straniera, per<br />

far esplodere il risentimento collettivo 13 .<br />

Le unità politiche segmentarie rappresentano, per l’individuo, <strong>dei</strong> gruppi di appartenenza attraverso cui realizzare la<br />

propria identità; quest’ultima corrisponde ai tre maggiori modelli di potere e di riconoscimento <strong>dei</strong> diritti. La famiglia, il<br />

villaggio e la patria inducono e permettono, in base a comportamenti precisi e a territori delimitati, delle separazioni o<br />

delle alleanze tra gruppi. Ora, man mano che le unità si allargano, i legami di appartenenza si distendono, il tessuto<br />

sociale e la superficie territoriale diventano meno definiti: paradossalmente, l’individuo trova nella “patria” un più<br />

grande margine di libertà ed un minor numero di elementi per il proprio riconoscimento. Nella famiglia e nel villaggio<br />

l’identità e la condizione soggettiva sono più nette ed immediatamente reperibili: tutta una rete di riferimenti cinge<br />

l’individuo e lo riporta alla sua immagine originale.<br />

Questa caratterizzazione è già inferiore nella pieve: la stessa definizione di “corso” è abbastanza sfumata, se si esclude<br />

la contrapposizione al termine “straniero”. <strong>Il</strong> fatto che i corsi si siano confrontati con <strong>dei</strong> popoli stranieri sul loro<br />

territorio ha sicuramente rafforzato il significato originario di “patria”, accelerando il sentimento di riconoscimento<br />

collettivo.<br />

Si può dire che l’idea di patria abbia rafforzato l’identità individuale del corso: quest’idea racchiude il riconoscimento<br />

dell’individuo nelle altre unità politiche. Infatti, nella famiglia e nel villaggio, l’individuo si riconosce come membro di<br />

un gruppo: in questo senso, la solidarietà e la socializzazione prevalgono sulla singolarità.<br />

Ma è nel passaggio da un gruppo all’altro — e particolarmente, da un’unità politica all’altra, da membro di una famiglia<br />

ad abitante di un villaggio — che nasce la propria singolarità. In questa dimensione l’individuo riprende la sua libertà e<br />

l’espressione individuale: nel villaggio si presenta come membro di una famiglia e tuttavia non lo è già più, è altro. C’è<br />

un margine di libertà non completamente definita dalle norme culturali che obbliga l’individuo a definire se stesso, ad<br />

agire secondo la propria singolarità. Questo è vero per il passaggio alla pieve, ma anche per ogni articolazione delle<br />

suddivisioni territoriali e politiche (quartieri di uno stesso villaggio, per esempio). Ad un livello più elevato, quello della<br />

patria, l’individuo si ritrova, per così dire, solo; quando raggiunge la più vasta comunità <strong>dei</strong> suoi compatrioti, possiede<br />

soltanto un ristretto numero di elementi che lo incorniciano sociologicamente: la libertà deve fare appello a <strong>dei</strong><br />

riferimenti interiori per opporsi allo straniero. La guerra diventa così guerra patriottica, in grado di condensare tutti gli<br />

altri livelli di identità (famiglia, villaggio, pieve). <strong>Il</strong> riconoscimento di una patria unica pone in secondo piano<br />

l’articolazione della libertà in tutte le altre unità politiche: lottando per la patria, il corso salda queste unità in un<br />

insieme, attraverso il compimento della sua singolarità nell’appartenenza al gruppo più vasto. Quei margini di libertà (in<br />

senso politico) che si aprivano all’individuo al momento del passaggio da un’unità a quella immediatamente superiore,<br />

convergono e si condensano nello spazio di libertà definito, circoscritto ed occupato dalla guerra. Ecco perché la guerra<br />

contro lo straniero è sempre stata, per il corso, una guerra patriottica ed una lotta per la libertà: attraverso la guerra si<br />

12<br />

In un canto guerriero di 1731, Sunatu hè lu cornu, si pronunciano queste strofe: «Aiò! tutti! fratelli chi hè l’ora/Di stirpà sta razza maledetta/Grida<br />

in celu, per noi vindetta/Tantu sangue è tanta infedeltà».<br />

13<br />

Nelle pubblicazioni delle comunità corse dell’Indocina o del Maghreb, al tempo dell’impero coloniale francese, si evidenzia un fenomeno curioso:<br />

un problema di identità dovuto all’oscillazione tra l’attaccamento alla «grande patria» (la Francia) ed alla «piccola patria» (la Corsica).<br />

151


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

risolvono le contraddizioni che nascono dalla necessità di appartenere ad un gruppo e di esprimere la singolarità<br />

individuale.<br />

Abbiamo appena tracciato uno schema; se si pensa che nella realtà (delle famiglie e <strong>dei</strong> villaggi corsi) le cose non<br />

accadono altrettanto semplicemente, che l’isola formicola di conflitti interfamiliari, che i limiti alla libertà sono<br />

onnipresenti, che la società corsa, nel corso <strong>dei</strong> secoli, è sempre sfociata nell’anarchia, si prende atto dell’esigenza<br />

politica che la guerra nazionale rappresenta nel dare coesione ed unità a tutto un popolo. Per completare la sua identità il<br />

corso ha bisogno di riconoscersi come membro di una comunità nazionale.<br />

Tutto ciò è testimoniato anche delle credenze e delle pratiche magico-religiose sulla morte. La divisione <strong>dei</strong> vivi ha la<br />

sua controparte nella divisione <strong>dei</strong> morti: non c’è nulla di stupefacente, dato che proprio dai morti i corsi traggono una<br />

parte del loro potere. Come membro di una famiglia, l’individuo ha il suo posto in una genealogia, in un insieme di<br />

morti e di vivi. In secondo luogo, il villaggio ha la funzione di completare il rapporto di ogni famiglia con i propri morti<br />

(grazie alle feste ed ai riti funebri ai quali sono invitate le altre famiglie). Nonostante questi riti comunitari,<br />

l’organizzazione collettiva non crea, da sola, una comunità di morti, ma solo un riflesso del gioco segmentario <strong>dei</strong> vivi:<br />

come ogni villaggio si definisce solamente attraverso l’opposizione agli altri villaggi della stessa pieve, ugualmente i<br />

morti di un villaggio formano un insieme solo attraverso l’opposizione ai morti di un’altra comunità, in genere<br />

preferenziale. In alcuni villaggi della Corsica si assiste ancora alle cerimonie di omaggio reciproco rese da una<br />

comunità ai morti della comunità rivale. <strong>Il</strong> venerdì santo, gli abitanti di Venzolasca invitano quelli di Vescovato a fare<br />

un pasto nel loro cimitero; l’indomani, sono i venzolaschesi a recarsi al cimitero di Vescovato, per mangiare. Ad Eccica<br />

Suaredda e Cavru, si usano <strong>dei</strong> riti analoghi 14 . Questi riti, causati verosimilmente dalle rivalità paesane, hanno la<br />

funzione di cementare la pace, incrociando gli scambi degli omaggi ai morti.<br />

Come è impensabile, sul piano delle relazioni tra villaggi, che una famiglia onori i morti di un’altra famiglia, allo stesso<br />

modo le divergenze genealogiche spariscono quando ci si oppone, in quanto membri di un villaggio, ad un villaggio<br />

rivale. Si può pensare allora ai propri morti come a membri di una comunità orizzontale, superando il legame<br />

“verticale” verso gli antenati, connesso ad un gruppo esclusivo di vivi. Nell’ultimo stadio della fusione segmentaria (la<br />

patria), la comunità <strong>dei</strong> morti assume un altro carattere: in questo caso il destino individuale raggiunge quello dell’intera<br />

collettività. Questa comunità ha la sua sede in un solo territorio: l’isola, il corpo primitivo, le cui frontiere definiscono<br />

naturalmente il distacco dal territorio nemico. Ma affinché l’isola diventi realmente una terra dai molteplici significati<br />

simbolici — non si tratta di una proprietà comune, ma di uno spazio mitico-reale a partire del quale (ed in cui) si<br />

possono concepire degli spazi territoriali separati dall’organizzazione politica, giuridica ed economica della società —,<br />

occorre un elemento separato da tutti, e da cui tutti possano ricevere il potere allo stesso modo. Questo elemento è la<br />

morte, non percepita come evoluzione delle genealogie, ma come un’astratta filiazione diretta (mitica), che fa<br />

coincidere il luogo d’origine <strong>dei</strong> vivi con il luogo di destinazione <strong>dei</strong> morti. La terra è mediatrice tra i cicli <strong>dei</strong> morti e<br />

<strong>dei</strong> vivi, tra il nonno che muore ed il nipote che prende il suo nome. Esistono ancora <strong>dei</strong> miti sull’origine delle<br />

montagne, <strong>dei</strong> laghi e <strong>dei</strong> fiumi corsi che raccontano come il fondo sotterraneo delle montagne sia il luogo in cui<br />

riposano i morti o dove inizia l’inferno 15 . La terra mitica, fondatrice, sostiene la cultura di tutto un popolo. La lingua<br />

comune, la diffusione delle notizie in tutta l’isola, hanno permesso l’elaborazione di una memoria storica, raccogliendo<br />

l’immagine di una Corsica-patria, di un’unità territoriale politica e mitica che unisce tutti gli isolani, vivi e morti.<br />

<strong>Il</strong> corpo primitivo dell’isola rappresenta il territorio mitico dell’origine. Molti fattori hanno contribuito all’elaborazione<br />

di questo mito: dalla trasformazione degli avvenimenti storici e guerrieri in racconti e leggende, raccontati nelle piazze<br />

<strong>dei</strong> villaggi (come è accaduto per le leggende di Orso Alamanno, nel Sud 16 , o per i racconti della guerra d’indipendenza,<br />

nel XVIII secolo) — il tempo della storia diventa così un tempo mitico, originario, l’oggetto di un’elaborazione<br />

simbolica che trasforma la cultura in folclore —, fino alla caratterizzazione dello spazio con leggende che fanno il giro<br />

dell’isola attraverso un elemento decisivo: l’esistenza di un potere politico supremo regnante su tutta la Corsica ed<br />

imposto dell’esterno. Di fronte a questo dato, i corsi si sentono come un blocco etnico separato, con i propri costumi, la<br />

propria lingua, il proprio territorio e soprattutto con un distinto potere politico. Questo potere diretto si è realizzato<br />

soltanto due volte nella storia (i due periodi di indipendenza suggellati da Paoli), anche se in precedenza non sono<br />

mancati altri tentativi di unificazione del paese. <strong>Il</strong> corpo primitivo, entità dalle molteplici funzioni, è presente anche<br />

quando l’isola è sottomessa alla dominazione straniera; la patria è l’elemento di coesione estrema della comunità <strong>dei</strong><br />

corsi in guerra con altri popoli; è sempre ricordata e vantata dal popolo e l’eroismo <strong>dei</strong> padriotti viene costantemente<br />

decantato dai cronachisti e dagli storici che attingono alla tradizione orale; la patria ha sostenuto il ruolo di un governo<br />

unificato, senza istituzioni, senza Stato, senza dirigenti, ma non per questo meno politico, perché in grado di<br />

raggiungere l’obiettivo principale di ogni potere statale: il consenso della popolazione. Infine, bisogna notare che questo<br />

governo senza Stato, questo crogiolo delle tendenze unitarie di tutto un popolo, questo territorio libero ed unito si è<br />

adeguato perfettamente alla natura egualitaria delle istituzioni popolari: è un potere non statale, non trascendente, che<br />

14 FUMAROLI V.D., Esquisse géographique et historique sur la pieve de Bastelica, «B.S.S.H.N.C.», 425-428 (1921), p. 65. Altre pratiche (o<br />

credenze?) dello stesso tipo, sono le battaglie <strong>dei</strong> mazzeri del 31 luglio. In questa data, verso mezzanotte, le confraternite <strong>dei</strong> mazzeri che<br />

appartengono a villaggi rivali, si affrontano sui colli di alcune montagne, armati di asfodeli: il risultato del combattimento determina la più o meno<br />

grande mortalità <strong>dei</strong> villaggi per l’anno successivo. (<strong>Il</strong> mazzeru è un personaggio importante del sistema magico corso. «Cacciatore di anime», egli<br />

«dona», predice ed annuncia le morti al suo villaggio).<br />

15 Vd. per queste leggende CHANAL E., Voyages en Corse, Description, récits, légendes, Paris 1890.<br />

16 Vd. CASANOVA A., Révolution féodale, pensée paysanne et caractères originaux de l’histoire sociale de la Corse, «Études corse», 15 (1980).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

impone la coesione interna. Inevitabilmente, se il corpo primitivo rappresenta un potere, è anche attraverso i morti che<br />

esso si realizza: l’isola è il luogo in cui i morti riposano, al quale accedono attraverso passaggi determinati, luoghi<br />

selvaggi che prolungano lo spazio del villaggio al di là di quello <strong>dei</strong> vivi, attraverso altre contrade, indeterminate, che<br />

circoscrivono i limiti dell’isola. Non si tratta di una comunità di «morti per la patria», analoga a quella di tanti discorsi<br />

nazionalistici (anche se è una tipica tendenza della Corsica del XVIII secolo e resta una tendenza del nazionalismo<br />

insulare nella seconda metà del XX secolo), ma piuttosto di una “patria per i morti”, di un’entità mitica e reale al tempo<br />

stesso, base estrema della comunità <strong>dei</strong> vivi 17 .<br />

I corsi hanno un doppio atteggiamento davanti all’atto di dare la morte, a seconda che si tratti di una vendetta, o della<br />

guerra. <strong>Il</strong> morto, vittima di un omicidio, non trova riposo fino a quando non viene vendicato dalla morte dell’omicida.<br />

Non ha diritto ad un funerale religioso. La credenza popolare ne fa un’“anima dannata”, uno spettro che erra nella<br />

macchia, senza la pace di un sepolcro. Ma se si tratta di guerra — e di guerra patriottica —, la vittima del nemico è<br />

come giustificata, e può essere celebrata anche per il suo coraggio ed il suo eroismo: è sepolta con il concorso del prete<br />

e la questione del debitu di sangue, che sfocia nella vendetta, non conosce tregua. Questo diverso atteggiamento è<br />

legato al fatto che la vendetta mette in gioco i rapporti tra i vivi ed i morti di una stessa comunità — rapporti fatti di un<br />

estremo timore, di doveri e di obblighi rituali, di paura, di rappresaglia da parte del morto se la famiglia non lo vendica,<br />

ecc. Quando si tratta di uno straniero, non accade la stessa cosa: tra i membri della comunità corsa e quelli della<br />

comunità straniera non ci sono legami di sangue; e così, l’intervento (una morte provocata dal nemico) dello straniero in<br />

battaglia, nel rapporto tra vivi e morti corsi, non porta nessuna agitazione, non richiede nessuno scambio. La<br />

“comunità” <strong>dei</strong> morti corsi si realizza, come quella <strong>dei</strong> vivi, solo nel confronto di tutto un popolo contro un popolo<br />

straniero.<br />

La figura dello straniero, u furesteru, sostiene un ruolo importante nella dinamica segmentaria: è una figura simbolica,<br />

polisemica, che attraversa come un filo rosso i differenti piani identificativi della società corsa, che, come abbiamo<br />

visto, si dividono e si uniscono a seconda del contesto. Lo straniero è, innanzitutto, quello che non appartiene alla<br />

propria famiglia; ma anche gli abitanti di un altro villaggio sono considerati “stranieri” 18 ; infine, i non-corsi, il<br />

“saraceno”, l’italiano, il francese, sono <strong>dei</strong> furesteri (possono essere anche detti strangeri). <strong>Il</strong> senso generale di furesteru<br />

è, quindi, «colui che non è <strong>dei</strong> nostri». Si è visto come l’invidia costituisca una causa della divisione in blocchi e della<br />

divisione segmentaria: quando un villaggio entra in conflitto con un altro villaggio, la morte, che sfocia nel rischio<br />

estremo dell’affronto, appare come qualcosa che minaccia due blocchi o due famiglie. <strong>Il</strong> simbolismo della morte<br />

coincide parzialmente con quello dello straniero: è la straniera, la nemica per eccellenza. Come lo straniero agisce nei<br />

tre piani della divisione segmentaria, i morti abitano nei territori che gli corrispondono: le regioni selvagge della<br />

macchia, i fiumi fuori dal villaggio, ma anche, come riportano i racconti e le leggende, gli spazi sotterranei delle<br />

profondità del mare o delle isole vicine 19 . La morte e lo straniero simboleggiano i nemici, nei tre livelli dell’opposizione<br />

segmentaria; e questo provoca l’unione <strong>dei</strong> corsi nel combattimento contro il comune nemico 20 .<br />

17 Ogni nazionalismo — ovviamente si parla dell’ideologia di uno Stato-nazione composto da parecchie nazionalità — vuole fondare «l’unità<br />

nazionale» sulla fusione <strong>dei</strong> morti in una stessa comunità; processo che può rivelarsi più o meno artificiale, a seconda <strong>dei</strong> legami culturali <strong>dei</strong> vivi<br />

della stessa nazionalità.<br />

18 Talvolta — ma è un caso estremo — lo «straniero» proveniente da altri villaggi è gettato fuori da tutte le comunità, perché percepito come un<br />

reietto. Così, in uno studio sulla comunità di Fuzzà, Pierre Lamotte mostra come le sette famiglie «aborigene» fondatrici del paese, praticassero,<br />

originariamente, una sorta di «comunismo»; la comunità in seguito si è stratificata; le domande di proprietà hanno giocato un ruolo decisivo nello<br />

scoppio di numerose vendette che hanno insanguinato Fuzzà; infine, nel 1854 quando si presentò la domanda di divisione <strong>dei</strong> beni comunali,<br />

nonostante la stratificazione sociale, gli abitanti di Fuzzà fecero blocco contro le pretese <strong>dei</strong> «pastori, coloni e commercianti» stranieri alla comunità,<br />

che si erano insediati sul territorio del comune. Lamotte cita la lunga «Deliberazione» del Sindaco che, parlando a nome della comunità, spiegava le<br />

ragioni del suo “rifiuto”; egli, opponendo i «diritti di promiscuità territoriale» degli abitanti di Fuzzà all’«interdizione sociale» fatta agli stranieri di<br />

integrarsi, giudicava quei «padri laboriosi, che fanno parte di questo formicaio ambulante e nomade originario di Palneca, Cozzano....», di «tendenze<br />

invidiose»; essi consideravano gli «aborigeni [di Fuzzà come] degli stranieri, per cui non provano nessun legame di fraternità»; «si capisce quanto una<br />

simile contrapposizione risenta <strong>dei</strong> contatti abituali con municipalità di altra natura; non si possono confondere questi due modi d’essere ed<br />

identificarli l’un l’altro....». Cfr. LAMOTTE P., La structure sociale d’une communauté de la Rocca: Fozzano, «Études corses», 11 (1956).<br />

19 La morte appare nei racconti sotto diverse forme: un cavaliere, una vecchia che abita nella foresta, un diavolo che vive in fondo al mare, ecc. In<br />

ogni caso appare sempre come una «straniera», venuta dall’esterno.<br />

20 Lo straniero è un fattore di coesione comunitaria non solo in tempo di guerra, ma anche in tempo di pace. Lo straniero e la minaccia che rappresenta<br />

condiziona l’importanza <strong>dei</strong> riti dell’ospitalità: «...nei giorni di festa, [i corsi] invitano cortesemente tutti gli stranieri; si dividono con loro e li fanno<br />

sedere al loro tavolo, senza servire loro tuttavia nulla più del necessario e senza alcuna ricercatezza. <strong>Il</strong> vero nobile presso di loro è quello che riceve<br />

molti ospiti e che apre la sua casa ad una folla di persone di ogni condizione. I corsi sono infatti i più ospitali tra tutti i popoli...», CIRNEO P., De rebus<br />

corsicis cit., p. 54. Si può interpretare il rito dell’ospitalità come un cerimoniale destinato a scongiurare la minaccia simboleggiata dallo straniero.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

Figura 46: Corsica – Stato delle anime della parrocchia di San Pietro d'Alata (375 persone) nel 1766<br />

(Archives Départementales de la Corse-du-Sud - AD-2A: BMS (1708-1795) Paroisse Saint-Pierre d'ALATA; Collection Départementale).<br />

§ 4. La segmentazione clanica<br />

Anche se questo schema di un processo segmentario “dal basso”, sviluppando delle unità sempre più larghe,<br />

corrisponde ad una tendenza innegabile della realtà politica, non ne fornisce comunque un’immagine completa. Ciò che<br />

oggi si presenta come una tendenza ha costituito probabilmente, in tempi remoti, l’essenza del processo politico: forse<br />

questa divisione nasce da una segmentazione molto più pura, determinata dalla logica divisione di una stirpe, come<br />

quella che Evans Pritchard ha scoperto presso i Nuer dell’Alto-Nilo. Evans-Pritchard mostra come i Nuer abbiano<br />

trovato un modo per fare coincidere le unità politiche territoriali (tribali) con i segmenti del “clan”, così che il villaggio,<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

per esempio, corrisponde ad un segmento terziario di una stirpe. In Corsica, lo stato attuale delle ricerche permette<br />

soltanto delle supposizioni 21 : in certi casi, si può pensare che i villaggi formatisi alla fine del Medio Evo, grazie alla<br />

sedentarizzazione <strong>dei</strong> pastori nomadi, siano stati fondati da una o più famiglie; in questo ultimo caso, grazie ad<br />

un’accentuata endogamia (ci si sposava tra parenti di secondo grado), gli abitanti di un solo villaggio diventavano<br />

rapidamente membri di una stessa rete parentale. Le monografie si riferiscono spesso ad un “antenato fondatore” del<br />

villaggio; peraltro, sembra che spesso i quartieri di un villaggio corrispondessero alle varie famiglie e giocassero il<br />

ruolo di unità esogamiche; ma non si può dire più 22 .<br />

Sicuramente la realtà politica insulare è molto più complessa degli schemi che abbiamo tracciato. Innanzitutto, esiste un<br />

altro tipo di segmentazione, descritta da G. Ravis-Giordani nei suoi aspetti moderni 23 , rintracciabile già nei secoli XV e<br />

XVI, quando si formavano <strong>dei</strong> partiti insulari opposti per ragioni interne o conformemente ai poteri stranieri che si<br />

battevano per il possesso dell’isola, o alle organizzazioni politiche opposte alla potenza straniera dominante.<br />

Questa segmentazione, opposta a quella che abbiamo appena descritto e fondata sull’egualitarismo del popolo corso,<br />

corrisponde ad un altro tipo di sistema politico: il clan. Si può dire, in generale, che il clanismo corso, sviluppatosi e<br />

rimasto pressoché invariato nei secoli per alcuni suoi tratti specifici, sia diventato tale perché vissuto all’ombra del<br />

potere straniero. In questo senso, esso deriva anche dagli innesti delle potenze conquistatrici su un sistema sociale e<br />

politico popolare, di natura originale. <strong>Il</strong> clan corso emerge come una forza intermedia che si articola tra il potere locale<br />

ed il potere straniero, traendo forza proprio dalla sua articolazione. Le colonizzazioni imposte da Pisa — per risalire in<br />

maniera approssimativa all’origine <strong>dei</strong> clan — poi da Genova e dalla Francia, hanno creato un enorme vuoto di potere:<br />

la grande disparità tra le istituzioni <strong>dei</strong> due sistemi politici, quello di origine autoctona e popolare e quello imposto da<br />

uno Stato straniero, ha favorito l’edificazione di un’organizzazione politica intermedia. Lo sviluppo del clanismo è stato<br />

ancora più favorito dalla fragilità intrinseca della Terra di Comune, che permetteva l’insorgenza di poteri e controlli<br />

eterogenei. Le agitazioni, la cattiva amministrazione, gli squilibri provocati dall’insediamento dello stato invasore,<br />

hanno permesso l’avanzata del sistema clanico proprio perché esso rappresentava l’unica soluzione per adattare il potere<br />

straniero alla realtà sociale e culturale insulare.<br />

<strong>Il</strong> clan si forma attorno ad una famiglia: prestando i suoi servigi alla potenza occupante, che li accetta, essa governa le<br />

popolazioni sottoposte al suo controllo attraverso un potere di vassallaggio. Grazie alla rete di fedeltà che riesce a<br />

costruire — difendendo le cause delle popolazioni presso lo Stato, creando dipendenze economiche e politiche di ogni<br />

tipo —, la famiglia clanica si trasforma in una sorta di “partito” o, piuttosto, di “fazione”. La regola della segmentazione<br />

clanica vuole che ci siano due grandi fazioni, due clan che si dividono il potere politico nell’isola. Ogni fazione esercita<br />

un potere quasi assoluto sul suo territorio: fino a non molto tempo fa, l’influenza del clan si faceva sentire ad ogni<br />

livello della vita pubblica, ad ogni grado dell’amministrazione, della giustizia, delle istituzioni. Prefetti, magistrati,<br />

impiegati della pubblica amministrazione appartenevano alla rete clanica: il clan (grazie alla complicità con il governo<br />

centrale e con l’aiuto <strong>dei</strong> gradi della gerarchia politica statale occupati dai suoi membri) faceva convocare, dimettere,<br />

condannare o assolvere davanti ai tribunali chiunque gli sembrasse meritevole. Possedendo delle terre e potendo<br />

procurare degli impieghi in Corsica ed all’estero, il clan deteneva anche il potere economico; in parole povere,<br />

controllava la totalità <strong>dei</strong> poteri all’interno dell’isola. Questo significa che nei villaggi, i minimi dettagli della vita<br />

quotidiana dipendevano da una famiglia, dai suoi rapporti di vassallaggio o di opposizione al clan al potere. Questa<br />

situazione è rimasta stabile per svariati secoli.<br />

Ravis-Giordiani ha caratterizzato la segmentazione clanica come un movimento proveniente “dal basso”. L’opposizione<br />

tra due clan sfalda in fazioni tutte le istituzioni politiche, dalla Consulta regionale al comune. Ad ogni livello si ritrova<br />

lo scontro tra il partitu ed il contrapartitu, tra un clan ed il clan avverso. Consideriamo brevemente i due tipi di<br />

segmentazione: la prima (segmentazione egualitaria) presuppone un sistema politico egualitario; trae la sua legittimità<br />

dal diritto consuetudinario e si articola nel sistema culturale magico-religioso (la vendetta, per esempio, come insieme<br />

di credenze e di riti ancestrali); tende a stabilire un equilibrio di forze nel villaggio (e fuori dal villaggio), impedendo<br />

che un potere esclusivo, esercitato da un gruppo o da una famiglia, emerga a scapito della comunità. La sua dinamica di<br />

fusione-fissione s’incentra naturalmente sulla costituzione di un’unità politica che ingloba tutte le altre (famiglie,<br />

villaggi): è il corpo primitivo nella sua funzione politica che, in determinati periodi storici, cerca di darsi una forma<br />

istituzionale (un potere unificato ed indipendente).<br />

<strong>Il</strong> secondo tipo di segmentazione (segmentazione clanica) impone un potere disuguale, venuto “dall’alto”. Divide in due<br />

tutte le unità politiche: ogni rete clanica coinvolge, all’interno del villaggio, una parte delle famiglie; nel cantone<br />

(pieve), detiene il potere su una parte <strong>dei</strong> villaggi. È un potere puramente politico, senza connotazioni magico-religiose,<br />

senza radici nella cultura. Contrariamente al primo tipo di segmentazione, la dinamica fusione-fissione non gioca a<br />

favore dell’unificazione politica dell’isola; ogni clan dipende dal vassallaggio ad un partito straniero; l’opposizione ad<br />

un clan insulare rivale - il contrapartitu - resta sempre coperta, condizionata dalle rivalità <strong>dei</strong> partiti stranieri. In effetti,<br />

non c’è dinamica: una volta costituiti i clan, la divisione tende a stabilizzarsi ed a coagularsi. In questo senso, la<br />

dinamica clanica è il fattore più potente dell’immobilismo politico della Corsica. Tutto si riduce al cambiamento di<br />

21 Gli studi sulla parentela sono recenti; Jean e Laurence Jehasse fanno corrispondere le dodici tribù primitive della Corsica, di cui parla Tolomeo, ai<br />

territori da cui presero origine le pievi medievali (cfr. JEHASSE J. e L., La Corse antique, la Corse domaine, in ARRIGHI P., Histoire de la Corse,<br />

Toulouse 1971.<br />

22 Sui quartieri <strong>dei</strong> villaggi come unità exogamiche, v. lo studio di RAVIS GIORDANI G. relativo ai villaggi del Niolu in Bergers corses cit.<br />

23 V. RAVIS-GIORDANI G., Le pouvoir politique, in CRESSWELL R., Eléments d’ethnologie, II, Paris 1975, pp. 185-186.<br />

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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

potere <strong>dei</strong> candidati, <strong>dei</strong> sindyci, <strong>dei</strong> deputati di un clan o dell’altro, all’opportunità delle elezioni, ecc… 24 .<br />

Le due segmentazioni implicano <strong>dei</strong> processi contrapposti che, in un certo senso, si escludono. L’urto di questi due<br />

processi che caratterizzano il sistema politico corso è all’origine <strong>dei</strong> molteplici malfunzionamenti del primo tipo di<br />

segmentazione; esso spiega, in parte, la disgregazione progressiva della vita insulare, che, al giorno d’oggi, raggiunge<br />

una soglia pericolosa. Quali sono gli effetti dell’opposizione delle due dinamiche?<br />

L’opposizione F1-F2 si cancella quando le due famiglie si radunano nell’opposizione comune a V2; e così via. In realtà<br />

questo schema causa malintesi, perché si potrebbe supporre che il movimento di fusione e di fissione si realizzi tra<br />

coppie di unità (famiglie, villaggi cantoni); mentre le tensioni all’interno del villaggio coinvolgono diverse famiglie (F1,<br />

F2...FN), tutte unite nell’opposizione ad un altro villaggio; a loro volta, le tensioni tra diversi villaggi cementano l’unità<br />

alla pieve, ecc.<br />

La segmentazione clanica potrebbe essere rappresentata così:<br />

Ciascuna unità della segmentazione egualitaria si trova divisa politicamente in due fazioni. <strong>Il</strong> clan cerca di sfruttare a<br />

suo vantaggio la solidarietà familiare (propria della prima divisione), costituendo delle clientele con le famiglie; è tutto<br />

un blocco familiare (e non un solo individuo) che offre il suo appoggio al capo di un clan. Mancando, tuttavia, la<br />

definizione di una regola politica di solidarietà familiare nei confronti del clan (anche nella vendetta si assumono i<br />

membri di una famiglia fino al terzo grado di parentela), la famiglia si trova spesso divisa al suo interno: una parte vota<br />

per un clan e l’altra per il clan contrario. Sul piano del villaggio, la sfaldatura è netta: esso è tagliato in due, e non<br />

secondo un’opposizione tra famiglie (non dimentichiamo che lo schema che raffigura la prima segmentazione si presta<br />

a <strong>dei</strong> malintesi: non si tratta di due, ma di molteplici famiglie). Questo significa che all’interno di uno stesso clan può<br />

nascere spesso inimicizia tra famiglie 25 ; e che può esistere, da un villaggio all’altro, una solidarietà clanica opposta alla<br />

24 È interessante notare come nella Cronica di Giovanni della Grossa, a proposito degli avvenimenti politici dell’XI secolo, appaia già la base d’urto<br />

di questi due processi contrapposti. In un racconto in cui si mescolano inestricabilmente la leggenda e la realtà, Giovanni della Grossa descrive il<br />

formidabile sconvolgimento (ed il conseguente sfaldamento dell’unità politica della Corsica) seguito all’assassinio di Arrigho Bel Messer, nell’anno<br />

mille, che esercitava il potere su tutta l’isola. Per più di due secoli, la Corsica venne devastata dalle lotte intestine tra i pretendenti al potere. <strong>Dal</strong> nord<br />

al sud è un continuo formicolio di lotte fratricide ed ogni volta la situazione si presenta nella stessa maniera: alcuni fratelli o cugini entrano in<br />

discordia, fondano <strong>dei</strong> castelli, ed impegnano le popolazioni sottoposte al loro dominio a combattere per loro. Ad un certo punto, queste si stancano<br />

delle guerre <strong>dei</strong> Signori, rompono i loro legami di sottomissione e proclamano un «governo popolare», a popolo e a commune. Eleggono alcuni loro<br />

compatrioti, nominati «conti» e delegano loro il potere di esercitare la giustizia; all’inizio, tutto sembra stabilizzato. In seguito compaiono <strong>dei</strong> regimi<br />

dispotici, di natura diversa: questi «conti» si arrogano altri poteri e trasformano la loro funzione in una carica ereditaria, finché non esplode qualche<br />

nuova rivolta che li caccia via. Si constata, in questo complesso processo, un doppio movimento: di unione, contro la divisione in fazioni imposta<br />

dall’alto, e di divisione, quando le rivalità tra i Signori obbligano le comunità ad opporsi con la forza.<br />

25 Paul Bourde descrive molti casi di questo genere. <strong>Il</strong> capo clan cerca allora di intervenire per fare la pace, riprendendo l’antico ruolo del paceru<br />

(paciere) della vendetta. Ma è chiaro che questo ruolo lo assume grazie al proprio potere: il vecchio paceru, non si sarebbe messo mai sullo stesso<br />

piano delle famiglie in vendetta, tenendosi pronto ad entrare in conflitto in caso di rottura del trattato di pace. Cfr. BOURDE P., En Corse, Paris 1887.<br />

156<br />

FIGURA 31: LA SEGMENTAZIONE EGUALITARIA<br />

P= Pieve<br />

V= Villaggio<br />

F= Famiglia<br />

FIGURA 33: LA SEGMENTAZIONE CLANICA<br />

F= Famiglia<br />

V= Villaggio<br />

P= Pieve<br />

C= Clan


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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

solidarietà paesana (secondo la quale, in certe questioni, tutti gli abitanti di uno stesso villaggio devono unirsi per lottare<br />

contro l’altro) 26 .<br />

Si nota subito una tendenza caratteristica <strong>dei</strong> due processi: l’esistenza di famiglie legate da una contraddittoria doppia<br />

alleanza - alla comunità del proprio villaggio contro un altro villaggio ed al proprio clan, che ingloba una parte del<br />

villaggio opposto. Una stessa famiglia può così trovarsi divisa nell’opposizione ad un clan e nell’obbedienza alla<br />

solidarietà familiare (che richiede un solo comportamento politico). Questa situazione è assai frequente in Corsica.<br />

Ma la conseguenza maggiore dell’innesto del sistema politico clanico nell’egualitarismo popolare è la disgregazione<br />

progressiva della solidarietà paesana. <strong>Il</strong> processo è complesso, ma è utile riportare alcuni aspetti fondamentali.<br />

Innanzitutto, si evidenzia una sfaldatura tra la sfera politica e quella socio-culturale: nonostante tutti i tentativi <strong>dei</strong> clan<br />

per mantenere lo stampo culturale del sistema politico popolare, quest’ultimo ha sempre resistito. <strong>Il</strong> clan non ha potuto<br />

riassorbire mai le inimicizie tra famiglie e villaggi imponendo il proprio potere: di colpo, esse hanno perso il loro<br />

carattere pubblico (o indirettamente pubblico) e politico; l’inimicizia è diventata, a poco a poco, un affare “culturale” o<br />

“abituale”. Questo piano politico del conflitto tra famiglie o villaggi — che si risolveva nel sistema giudiziale<br />

tradizionale e che impegnava la vita politica del villaggio — si è ristretto, si è staccato dall’insieme della vita sociale:<br />

dato che il potere reale non derivava più dall’organizzazione <strong>dei</strong> rapporti di forze tra queste unità, ma proveniva<br />

“dall’alto”, la stessa vendetta è diventata sempre più una questione “privata”. Lo scoppio e la diffusione della vendetta<br />

sono fuoriusciti dal controllo sociale, diventando una realtà marginale: tutto accade al di fuori della vita comunitaria.<br />

Questa situazione si verifica anche nella Corsica moderna: non esiste più la vendetta con i suoi riti e le sue regole, ma<br />

nascono delle vere battaglie tra famiglie, senza nessun controllo. Si dice spesso che l’impennata della vendetta nel XIX<br />

secolo (la sua proliferazione, il suo snaturamento, l’apertura permanente delle ostilità per ragioni in cui, talvolta, l’onore<br />

non era in causa) è dovuto all’assenza di un potere statale forte. Ma quel potere esisteva, così come il suo<br />

rappresentante: il clan. La verità è che il potere clanico non poteva risolvere <strong>dei</strong> conflitti che appartenevano ad un<br />

ordine politico diverso dal suo; bisogna leggere nell’esacerbazione della violenza un effetto dell’inadeguatezza del<br />

potere clanico ad una realtà politica diversa, che non è riuscita a sottomettere totalmente.<br />

La disgregazione della coesione comunitaria si è manifestata anche con il taglio dell’articolazione tra il piano familiare,<br />

sociale e politico del villaggio. La preponderanza e la presenza schiacciante del clan ha attenuato il peso politico —<br />

necessario all’equilibrio <strong>dei</strong> poteri nella comunità — delle tensioni interfamiliari. <strong>Il</strong> potere clanico è dispotico, supremo;<br />

il partitu (con il suo rappresentante nel villaggio: il sindaco) detiene la chiave <strong>dei</strong> problemi di ogni famiglia. <strong>Il</strong> rapporto<br />

di potere nel villaggio passa da un livello orizzontale — distribuito tra famiglie — ad un livello verticale, dal clan alla<br />

famiglia. La partecipazione politica della famiglia alla vita del villaggio è circoscritta dal potere clanico. Dato che la<br />

solidarietà interfamiliare non può più esercitarsi sul piano politico del villaggio, ogni famiglia ripiega su se stessa: la<br />

forza di separazione (fissione) prevale allora su quella dell’unione. La famiglia diventa, così, il rifugio estremo contro<br />

tutte le ingiustizie, l’unico settore in cui l’individuo può trovare ancora della solidarietà, l’estremo bastione contro i<br />

poteri discriminatori del clan. Questa situazione — e lo Stato su cui poggia — ha distrutto la vita comunitaria della<br />

Corsica. «Ognuno per sé» — ecco la regola della vita sociale attuale; «tutti contro tutti»: l’invidia ha libero sfogo, non<br />

esiste possibilità d’azione individuale. Sorgono allora <strong>dei</strong> comportamenti da parata che girano a vuoto, delle<br />

manifestazioni di sbaccata senza reali manifestazioni di potere. Ognuno continua, secondo i modelli culturali<br />

tradizionali, ad affiggere <strong>dei</strong> segni di potere, ad affermare i propri diritti, ma senza avere la possibilità di esercitarli<br />

realmente. Si è perso il potere, resta lo sbruffo, la parodia del potere. <strong>Il</strong> popolo corso, che ha sempre avuto un ancestrale<br />

senso dell’onore, ha perduto ogni reale potere decisionale. Questo sconvolgimento, caratteristico della Corsica moderna,<br />

la trasformazione degli atteggiamenti e delle gestualità del potere in segni apparenti è frutto dello schiacciamento del<br />

vecchio sistema politico da parte del clan e dello Stato che lo sostiene. Nel popolo resta oggi la violenza<br />

dell’incomprensione, la rivolta ed il rifiuto dell’imposizione esterna, che cerca <strong>dei</strong> nuovi sistemi di controllo.<br />

§ 5. L’origine del clan<br />

<strong>Dal</strong> confronto degli schemi precedenti, abbiamo notato la corrispondenza di due dinamiche contraddittorie. Nel lungo<br />

periodo, è la segmentazione clanica a prevalere sulla segmentazione egualitaria. Di quest’ultima non resta, d’altronde,<br />

che una tendenza globale all’unione (ed alla divisione) degli individui, nei momenti in cui entrano in gioco le antiche<br />

molle del sistema politico tradizionale. Con la scomparsa di unità amministrative come le pievi, con la distruzione della<br />

famiglia, con l’assorbimento del suo ruolo politico nel clan e con la devitalizzazione <strong>dei</strong> villaggi, è stato disgregato tutto<br />

26 La dinamica segmentaria gioca spesso in questo modo: le rivalità tra gli abitanti di villaggi diversi (spesso vicini) scatenano degli affronti;<br />

attraverso le solidarietà familiari, che formano delle trame che si estendono su altri villaggi della pieve, la primitiva rivalità si allarga fino a diventare<br />

una guerra tra blocchi di villaggi opposti. Ecco un esempio, nel XIX secolo: «Una discussione che prese presto un carattere tale da scaldare gli spiriti,<br />

si era alzata tra i fratelli Dari di Taglio ed i fratelli Marchetti di Isolaccio. Si trattava di una mucca catturata da questi ultimi e richiesta dai Dari. Dopo<br />

avere scambiato alcune parole, essi corrono alle armi; si tiravano colpi di fucile da una parte all’altra, ed uno di essi ha raggiunto una sfortunata,<br />

estranea alla contestazione. L’irritazione era al culmine. Si temeva un attacco generale tra le due frazioni di Taglio ed Isolaccio. Si era già sentito il<br />

suono del corno marino, campana a martello <strong>dei</strong> montanari corsi. Ogni partito aveva avvertito i parenti e gli amici <strong>dei</strong> paesi vicini per la terribile lotta<br />

che stava per iniziare. Aspettando, essi si osservavano accuratamente, si tenevano sulla guardia; qua e là si vedevano degli individui che prendevano<br />

posizione e si mettevano in imboscata nei dintorni di Taglio ed attorno ad Isolaccio. Alcuni abitanti del villaggio di Porri, attaccati alla famiglia<br />

Marchetti, erano accorsi, armati di tutto punto, per prestargli assistenza. Tutto annunciava l’inizio di uno scontro insanguinato...». Gazette des<br />

Tribuneaux, 23 septembre 1840, audience du 30 juin de la Cour d’Assises de Bastia, citato da SORBIER P., Dix ans de magistrature en Corse, Agen<br />

1863, p. 206.<br />

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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

il sistema politico tradizionale e la sua dinamica. <strong>Il</strong> clanismo ha congelato così a fondo la politica corsa e si è talmente<br />

ben adattato al sistema francese, che al giorno d’oggi agisce soltanto la segmentazione politica. E tuttavia il clan è alle<br />

prese con numerosi cambiamenti: la storia passata e la storia recente — con l’emergenza del nazionalismo — lo<br />

provano ampiamente. Comprendere questi cambiamenti costringe ad un esame attento del funzionamento del sistema<br />

clanico fin dalle sue origini. Ci si accorge allora che il funzionamento globale <strong>dei</strong> due schemi diventa più complesso.<br />

<strong>Il</strong> clan non si è costituito dell’esterno, con l’aiuto del potere straniero; questo ha favorito, certo, il suo sviluppo e gli ha<br />

impresso alcuni tratti, ma non l’ha generato. La sua origine, che deve essere cercata all’interno della società corsa,<br />

condiziona direttamente, e fin dall’inizio, la segmentazione egualitaria, che subisce una distorsione essenziale: il clan la<br />

usa a suo profitto e, sfruttando il movimento di fusione verso l’alto, costruisce i mezzi per la propria estensione. A<br />

partire dal basso (dalle famiglie), i clan organizzano <strong>dei</strong> vasti gruppi di potere che comprendono le famiglie, i villaggi e<br />

le pievi. L’origine del clan non è molto chiara. Potrebbe essere duplice: da una lato, esso deriverebbe<br />

dell’accumulazione di potere delle famiglie notabilari <strong>dei</strong> Caporali, capi delle pievi della Terra di Comune, eletti dal<br />

popolo. Da protettori e giudici delle comunità, i Caporali si sarebbero trasformati in Signori o Governatori, sfruttando le<br />

popolazioni e rendendo ereditarie le proprie cariche. Questo processo si accompagna ad un arricchimento costante e<br />

molteplice: le famiglie <strong>dei</strong> Caporali di origine popolare si presentano già, nel XVI e nel XVII secolo, come le vere<br />

famiglie signorili, con pretese di nobilitazione (e conseguente rivalità con l’antica aristocrazia del Sud, che vuole<br />

occupare un rango superiore nella gerarchia della rappresentatività del potere genovese) 27 . Come si sono costituite<br />

queste grandi unità politiche che oggi formano i clan? Ambroggio Rossi ritiene che esse derivino dalle guerre di<br />

vendetta: alcune famiglie, afferma Rossi, cercando di rinforzarsi contro le famiglie nemiche, si sono unite per comune<br />

interesse, nonostante l’assenza di legami di parentela: questo ha spinto i capifamiglia ad abdicare il proprio cognome e<br />

ad adottare il “nuovo” cognome della lega (o albergho) 28 . Questa nota di Rossi indica un processo preciso, di cui<br />

possiamo tracciare le linee generali: 1) La necessità di costituire delle leghe deriva dalle guerre tra famiglie; i nuovi<br />

gruppi si formano per necessità di vendetta. Da ciò deriva una trasformazione notevole delle forme di solidarietà<br />

familiare, dato che la vendetta obbliga i membri di una stessa famiglia fino al terzo grado incluso. La lega supera questo<br />

grado e crea verosimilmente una solidarietà che va oltre il legame familiare. 2) Per la stessa logica della trasformazione,<br />

le famiglie cambiano il cognome: il cognome, che è l’emblema dell’onore e del sangue, ora investe un altro tipo di<br />

associazione e di rapporti. Si può pensare che all’inizio la lega tendesse a funzionare sul modello della solidarietà<br />

familiare, secondo i legami del sangue. Tuttavia, essa non poteva diventare un’altra famiglia o un’unità familiare estesa,<br />

perché ogni nucleo continua a preservare la propria autonomia, la propria genealogia, a praticare i riti funebri <strong>dei</strong> morti<br />

ecc. Tutto questo perché la costituzione della lega trasforma gli obiettivi della lotta: formatasi per parare i pericoli delle<br />

inimicizie particolari, la lega si è mantenuta stabile anche in tempo di pace, trasformandosi da organizzazione guerriera<br />

in organizzazione politica. Conseguentemente fanno la loro prima apparizione i capi-clan, che devono sostenere spesso<br />

il ruolo di mediatori (paceri) per acquietare le inimicizie tra le famiglie dello stesso clan. Del resto, Rossi segnala la<br />

mutazione delle norme guerriere: «essi adottano certe regole militari», ed evidentemente le regole prescritte dalla<br />

vendetta subiscono un cambiamento. Tutte queste trasformazioni vanno a turbare il movimento segmentario di fusione<br />

famiglia-villaggio-pieve-paese. Come afferma ancora Rossi, le leghe comprendevano parecchi «paesi e pievi». <strong>Il</strong><br />

territorio della vendetta si allarga e le opposizioni tra clan proseguono contro il processo di fusione famiglia-villaggiopieve.<br />

Interi villaggi possono dividersi in due, ed ogni metà unirsi alle metà di altri villaggi, a villaggi interi, o ancora ai<br />

comuni di un’altra pieve, sfaldando il territorio politico. Si prenda come modello del processo il seguente movimento:<br />

a) due famiglie di uno stesso villaggio entrano in guerra;<br />

b) ciascuna di queste famiglie trova <strong>dei</strong> rinforzi in altri villaggi, dove si fronteggiano altre due famiglie.<br />

Sul piano della pieve prende forma, allora, un altro schema segmentario che divide queste unità politiche: secondo la<br />

segmentazione egualitaria, invece, esse tenderebbero ad unirsi. Ne risulta uno sfaldamento della tendenza alla fusione:<br />

uno stesso villaggio si trova diviso a metà ed ogni fazione si unisce ad una parte del villaggio opposto per combattere la<br />

fazione concorrente della propria comunità.<br />

Se una delle due tendenze alla fusione (secondo la segmentazione egualitaria e quella clanica) non trova un punto di<br />

fuga verso l’alto, cioè, se il rapporto tra il potere popolare ed il potere clanico si annulla, esplode l’anarchia: le famiglie<br />

si dividono in solidarietà contrapposte, gettandosi ora da una parte, ora dall’altra. Si verificano allora <strong>dei</strong> voltafaccia<br />

repentini, degli affrettati cambiamenti di fedeltà; oppure si scatenano delle rivolte popolari, particolarmente dure contro<br />

le famiglie <strong>dei</strong> capi-clan: il popolo si ritrae da combattimenti che avverte estranei ai propri interessi: le cronache di<br />

Giovanni della Grossa e di Filippini sono ricche di questi dettagli.<br />

La posizione <strong>dei</strong> Caporali di fronte al potere dello Stato resta ambigua: ora lo combattono — quando questo potere,<br />

volendo rompere l’influenza del clan sulle popolazioni, tende a schiacciarlo —, ora si riavvicinano — quando sperano<br />

di ottenere <strong>dei</strong> privilegi particolari 29 . Ed i capi-clan ricevono spesso <strong>dei</strong> benefici dal potere straniero che, naturalmente,<br />

si ritorcono contro il popolo (rafforzando la divisione in fazioni nemiche, mantenendo la sfaldatura che ha permesso<br />

l’estensione <strong>dei</strong> loro feudi e della clientela nel sistema politico popolare ed impedendo, al più alto livello della dinamica<br />

27 e<br />

Vd. POMPONI F., Essai sur les notables ruraux en Corse au XVII siècle, Aix-en-Provence 1962.<br />

28<br />

«Queste soleano unirsi in leghe di più parentadi con interessare interi paesi e pievi, ed usando certe regole militari»; ROSSI A., op. cit., lib. VIII, p.<br />

307; v. anche lib. I, p. 3<strong>11.</strong><br />

29<br />

L’oscillazione tra queste due tendenze spiega, per esempio, l’ambiguo atteggiamento di certi capi della prima Rivoluzione corsa, all’inizio del<br />

XVIII secolo.<br />

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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

di questo sistema, l’unione di tutto il Paese) 30 . Possiamo così delineare tre grandi movimenti nella dinamica politica<br />

corsa, che corrispondono ai tre strati di potere della società insulare ed ai tre tipi di segmentazione che abbiamo appena<br />

descritto: due “dal basso verso l’alto”, ma non coincidenti, ed il terzo “dall’alto verso il basso” (dalle divisioni politiche<br />

straniere alla segmentazione clanica) con le seguenti estrinsecazioni:<br />

1) il popolo può unirsi allo Stato straniero per bloccare il potere <strong>dei</strong> clan; si assiste allora alle lotte tra le pievi governate<br />

da regimi popolari contro i Signori che tengono altre pievi sotto il loro ascendente;<br />

2) i capi-clan possono, in alcuni casi, diventare i difensori delle aspirazioni popolari ed unirsi in un combattimento<br />

comune contro lo Stato;<br />

3) i clan, minacciati dal sollevamento popolare, si schierano dalla parte dello Stato, contrastando il movimento di<br />

fusione della segmentazione egualitaria.<br />

Questi tre casi-limite possono coesistere in uno stesso periodo, dato che i clan non costituiscono un potere unitario, ma<br />

una serie di poteri con una relativa autonomia.<br />

Figura 47: La pieve di Taravo nel 1740 (Nouvelle carte de l'Isle de Corse apartenante a la Republique de Genes. Presentement divisée et<br />

soulevée, sous les ordres du baron de Neuhoff, élu roy sous le nom de Theodore Premier / donnée au jour par Renier et Iosué Ottens. Cermoires<br />

et ordres de chevalerie du roy Theodore premier).<br />

§ 6. La dinamica segmentaria nel XVIII secolo<br />

Le Memorie di Sebastianu Costa, che descrivono gli avvenimenti antecedenti alla proclamazione dell’indipendenza da<br />

parte di Pasquale Paoli (1759) danno un’idea sorprendente della complessità di questa dinamica politica 31 . Esse<br />

riescono a mostrare il doppio movimento segmentario e la sua articolazione con la molla fondamentale della struttura<br />

egualitaria della società corsa: l’invidia. Costa descrive, per così dire, “a caldo”, la guerra delle invidie e l’equilibrio<br />

egualitario proprio nel momento in cui la divisione clanica stava per essere rafforzata dal potere straniero.<br />

Scritte per «far rivivere (...) gli sforzi <strong>dei</strong> corsi per sottrarsi alla servitù genovese», le Memorie hanno il vantaggio di<br />

prospettare al lettore la storia della Rivoluzione corsa nel suo divenire: Sebastianu Costa ci permette di seguire, quasi<br />

giorno dopo giorno, il doppio movimento che trascina ora le popolazioni verso il compromesso con Genova, ora verso<br />

la rottura e la ricerca di un potere politico indipendente 32 . <strong>Il</strong> fatto che il memorialista sia stato uno <strong>dei</strong> protagonisti degli<br />

30 In certe circostanze — come all’epoca della rivoluzione per l’indipendenza — i capi clan possono diventare i rappresentanti delle popolazioni in<br />

lotta contro lo Stato e spingere alla conclusione naturale il processo di fusione: in quel periodo, tutte le divisioni intestine (le famiglie in un villaggio; i<br />

villaggi in una pieve; le pievi nell’isola) si dissolvono. Ma anche in quel momento non esiste coincidenza tra la segmentazione egualitaria e la<br />

segmentazione clanica: si tratta piuttosto di un processo accelerato di fusione delle unità politiche.<br />

31 Vd. LUCIANI R., Mémoires de Sebastianu Costa (1732-1736), édition critique, Aix-en-Provence/Paris 1972.<br />

32 «...La Corsica era piena di persone che avrebbero venduto la loro patria, ma che riunite, l’avrebbero difesa fino alla morte...», scriveva un ufficiale<br />

di Piccardia. Cfr. Mémoires historiques sur la Corse par un Officier du régiment de Picardie, 1774-1777, «B.S.S.H.N.C.», 100-102 (1889), p. 12.<br />

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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

avvenimenti, aggiunge interesse al racconto: trovandosi tra quelli che non hanno ceduto mai alla tentazione<br />

dell’accomodamento con il potere genovese, ma non avendo una base sociale nell’isola che gli permettesse di alzarsi al<br />

rango di capo della nazione, Costa cerca di motivare, con la necessaria distanza, le ragioni dell’insuccesso dell’unione<br />

nazionale.<br />

Le ragioni che Sebastianu Costa riporta continuamente nelle sue Memorie sono: 1) la rivalità tra fazioni; 2) il desiderio<br />

di ogni capo di comandare su tutti gli altri. Non bisogna prendere le analisi dell’avvocato “fisionomista” (come si<br />

vantava di essere) come delle interpretazioni psicologiche, nel senso odierno del termine: quando Costa descrive le<br />

discordie tra i capi guerrieri, il doppio gioco degli uni, la fedeltà indefettibile degli altri, i tradimenti, il desiderio di<br />

gloria, le ambizioni, le vigliaccherie, riporta <strong>dei</strong> comportamenti “tipici” <strong>dei</strong> corsi, <strong>dei</strong> veri e propri atteggiamenti<br />

culturali. <strong>Il</strong> racconto di Sebastianu Costa comincia nel 1733. Dopo l’insuccesso della prima rivoluzione, con<br />

l’imprigionamento <strong>dei</strong> suoi quattro principali capi — Andrea Ceccaldi, Luigi Giafferri, il Reverendo Carlo Raffalli ed il<br />

pievano Giovanni Aitelli —, poi con la loro liberazione, la Corsica sembra pronta per una nuova, grande ondata<br />

rivoluzionaria. Essa è guidata da personaggi che avevano condotto la prima rivoluzione (Giafferri ed Aitelli), e da altri<br />

capi il cui potere ed il cui patriottismo emergevano su tutti gli altri (Giacinto Paoli, Fabiani, Castineta ecc.). Questi capi<br />

hanno la loro zona di influenza nelle rispettive pievi dove, come notabili, possono reclutare <strong>dei</strong> combattenti; quando le<br />

pievi diventano “zone franche” dal potere locale, i capi esercitano la giustizia, prelevano le tasse per la guerra,<br />

costituiscono delle milizie con le popolazioni fedeli. Giafferri ha il suo territorio in Tavagna, Paoli nel Rustinu, Fabiani<br />

in Balagna. Tuttavia questo potere, anche se corrispondente alla sfera d’influenza di ogni capo, non è affatto diffuso ed<br />

omogeneo: le comunità della Tavagna, per esempio, non obbediscono incondizionatamente a Giafferri e quest’ultimo<br />

deve contrastare continuamente il potere di altri capi locali schierati a favore di Genova. Appena si sente parlare della<br />

defezione di una persona fidata che, ostile ai padriotti, stabilisce <strong>dei</strong> collegamenti con i genovesi, viene subito<br />

predisposta una scorta più o meno imponente di fucilieri per colpirlo a tradimento. Alla prima occasione propizia<br />

(un’azione di giustizia, un’accoglienza particolarmente favorevole alle truppe filo-genovesi), il capo fa irruzione nel<br />

villaggio “fellone”, brucia la casa del colpevole, uccide alcuni suoi sostenitori e, seminando il terrore, impone di nuovo<br />

l’obbedienza alle popolazioni.<br />

La divisione <strong>dei</strong> poteri non è affatto netta e definitiva: la potenza dominante, Genova, occupa Bastia, Ajaccio ed altre<br />

città e presidi del litorale; l’interno, dove i capi nazionali sono riusciti a stabilire il loro dominio, formicola tuttavia di<br />

enclavi non conquistate alla rivoluzione o pronte a tradirla. Tutto il lavoro <strong>dei</strong> genovesi, all’epoca del loro declino<br />

militare — essi perdono battaglia su battaglia —, consiste nel favorire le divisioni nascenti tra i capi patrioti. La loro<br />

astuzia, la loro seduzione, le loro offerte costanti di alte cariche in cambio della pace e della sottomissione, gettano<br />

l’agitazione tra i corsi, esasperando le rivalità interne. Da allora, la rivoluzione naviga tra due scogli: il compromesso<br />

con Genova ed il desiderio di imporre all’interno del movimento nazionale il proprio partito: ecco le tentazioni che<br />

contraddistinguono la maggior parte <strong>dei</strong> capi ribelli.<br />

Queste due tendenze contraddittorie rendono impossibile l’unione nazionale. Apparentemente sembrano tendenze<br />

caratteristiche di ogni movimento rivoluzionario, ma il modo in cui si manifestano nel corso delle lotte per<br />

l’indipendenza del XVIII secolo è decisamente originale: esse sono radicate nell’organizzazione politica della società<br />

corsa.<br />

<strong>Il</strong> problema affrontato da Sebastianu Costa che, tra gli intrighi e le rivalità delle fazioni, cerca solamente il “bene<br />

comune” (egli sostiene spesso il ruolo di mediatore), era quello di realizzare l’unione <strong>dei</strong> notabili/capi guerrieri.<br />

Osservando attentamente i sentimenti <strong>dei</strong> suoi compatrioti, Costa ha rintracciato la causa delle divisioni: è «l’invidia,<br />

l’ambizione, che si insediava a poco, a poco nei cuori <strong>dei</strong> corsi e li dominava ogni giorno» 33 ; è la «rivalità del potere» 34 ,<br />

l’invidia, che spinge Giacinto Paoli ad opporsi a Giafferri, suo compagno nella lotta di liberazione nazionale:<br />

impedendogli di condurre delle spedizioni punitive in Tavagna, egli cerca di evitare che il suo “amico-rivale” sia<br />

circondato dalla gloria. Parimenti, Arrighi si rifiuta di partecipare all’assalto del presidio di San Pellegrinu, perché «le<br />

meschine ragioni dell’amor proprio e gli enormi torti della superbia fecero tutta la loro impressione su uno spirito che<br />

pensava solamente ai mezzi per rinforzare il suo partito sulle montagne per contrastare quanto più possibile Paoli» 35 .<br />

Inutile moltiplicare gli esempi. È la gelosia che oppone costantemente un capo (una fazione) all’altro, ritarda le<br />

operazioni, provoca gli insuccessi.<br />

Ma ci sono due tipi di invidia, due modalità con cui si manifesta: la prima oppone, all’interno del movimento nazionale,<br />

un capo all’altro; la seconda permette di instillare il tradimento fra i corsi, attraendo una fazione, che aveva lottato fino<br />

a quel momento contro i genovesi, nel seno della potenza dominante. La speranza di ottenere un alto grado militare<br />

nella gerarchia genovese rompe spesso, infatti, la fedeltà patriottica. C’è qualcosa di apparentemente incomprensibile in<br />

questa «incostanza» <strong>dei</strong> corsi, come afferma Sebastianu Costa. Come comprendere l’atteggiamento di un patriota come<br />

Gian-Giacomo Castineta che, dopo aver combattuto coraggiosamente per la causa corsa è pronto a presentarsi dal<br />

commissario genovese Rivarola, di recente chiamato a Bastia? C’era, è vero, l’opposizione <strong>dei</strong> “compari” 36 ; ma questa<br />

era una ragione sufficiente per ostinarsi ad impedire l’attacco del presidio di San Pellegrinu, che avrebbe inferto un<br />

33 Vd. LUCIANI R., Mémoires de Sebastianu Costa cit., p. 281<br />

34 Ivi, p. 267.<br />

35 Ivi, p. 827.<br />

36 Ivi, p. 773.<br />

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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

colpo terribile ai genovesi? Rivarola riesce nell’impresa e quando i corsi si decidono ad attaccare il presidio è ormai<br />

troppo tardi. Castineta aveva ceduto alle promesse di «grandi ricompense» che gli aveva fatto, per lettera, il governatore<br />

genovese, ritardando il progetto contro San Pellegrinu e imponendo una spedizione contro Campuloru.<br />

Lo stesso Castineta cerca di contrastare la spedizione di Campuloru; ma al momento del combattimento il suo<br />

comportamento cambia: «lo squadrone di Castineta, fin dai primi spari mostrò poco ardore e si allontanò dalle mura [di<br />

U Poghju] (...) solo M. Fabiani mostrò il suo valore; egli attaccò deliberatamente» 37 ; Castineta abbandona la sua<br />

postazione e si ritira; Fabiani riesce ad aprire una breccia e ad entrare nel villaggio fortificato; Castineta allora torna<br />

nella sua postazione e «incoraggiando il suo squadrone con l’esempio di M. Fabiani, che provoca l’invidia generale, si<br />

impossessò delle mura della chiesa...» 38 . Castineta riprende dunque attivamente il partito <strong>dei</strong> corsi, mentre doveva,<br />

verosimilmente, fare il gioco <strong>dei</strong> genovesi.<br />

Nel comportamento <strong>dei</strong> capi guerrieri c’è un costante desiderio di potere. Ma questo desiderio non mira,<br />

paradossalmente, al dominio sugli altri a vantaggio di uno solo: non si tratta di intrighi di palazzo per accedere ad un<br />

potere esclusivo; non si tratta nemmeno, per Paoli, di diminuire l’influenza di Fabiani sulla Balagna per prendere il suo<br />

posto: non esiste un potere costituito, una struttura statale da conquistare. La situazione della Corsica, in questo periodo,<br />

è quella di un paese colonizzato in rivolta, che tenta di elaborare un potere nazionale a margine del potere<br />

dell’occupante. Ciò determina la prima caratteristica di queste lotte per il potere: i capi non mirano a conquistarlo,<br />

poiché non è costituito; mirano al prestigio e, innanzitutto, al prestigio guerriero.<br />

<strong>Il</strong> gioco delle rivalità diventa così un’oscillazione continua tra le spinte verso il potere e l’arresto di questo slancio nel<br />

godimento del prestigio. Ciò che sorprende in queste lotte di invidie è proprio il secondo movimento: ci si contenta di<br />

“segnare il punto” davanti all’altro capo. Se un capo aumenta il proprio prestigio grazie ad un combattimento,<br />

sbilanciando l’uguaglianza di base, arriva un altro che vorrà fare altrettanto e di più, contrastando il prestigio nascente<br />

del primo. I due movimenti sono contemporanei: nel tentativo di fermare l’incremento del prestigio di un capo rivale,<br />

ristabilendo l’equilibrio egualitario, c’è la tendenza ad accaparrarsi tutto il prestigio possibile. Quando Arrighi, in<br />

collera contro Giacinto Paoli, decide di tornare sulle sue montagne — nel Rustinu, territorio che condivide con Paoli —<br />

lo fa per fermare la diffusione del prestigio del generale, che minaccia di assorbire completamente il suo. La lotta per il<br />

prestigio non concepisce uguaglianza.<br />

Tuttavia, se l’accaparramento esclusivo del prestigio guerriero non si accompagna ancora ad una lotta per il potere,<br />

esiste già un territorio (geograficamente, militarmente e politicamente determinato), dai contorni sempre più distinti su<br />

cui si concentrano progressivamente le diverse rivalità: la sfera del potere nazionale corso. Questo campo di battaglia si<br />

presenta, sul piano immediato della lotta per il prestigio, come una scena (uno spazio reale analogo allo spazio pubblico<br />

della sfida e della parata, nel villaggio). Ogni capo cerca la gloria, un incremento della propria influenza e del proprio<br />

splendore con prodezza guerriera; il riflesso della fama è rintracciabile ovunque: dall’entusiasmo delle popolazioni, dai<br />

gesti, dall’atteggiamento, dal comportamento e dalle parole degli altri capi, di rango superiore o inferiore. Questa<br />

immagine basta a soddisfare la propria invidia, perché, per un effetto strano, eclissa totalmente l’immagine <strong>dei</strong> rivali.<br />

Nello spazio della parata, l’invidia si riflette in se stessa; non ci si paragona più all’altro, ma si afferma il valore<br />

singolare, l’autonomia guerriera. Questo spiega perché certi capi, come Fabiani, si accontentino pienamente del proprio<br />

valore guerriero e, più generalmente, perché la lotta per il prestigio, in cui tutti si trovano impegnati, non si trasformi in<br />

guerra per il potere.<br />

L’effetto “a specchio” riproduce la doppia tendenza che abbiamo rievocato, verso l’arresto della lotta e verso la sua<br />

continuazione. Nel primo caso, entra in azione un meccanismo egualitario: ciascuno, lottando per il prestigio personale,<br />

si accontenta della fama, lasciando agli altri la libertà di fare altrettanto nello stesso territorio. Così, in certi momenti, si<br />

assiste ad una forma di tregua e di unione di tutti i capi; le gelosie cessano, le rivalità spariscono; ognuno si rallegra di<br />

sé e si complimenta con gli altri per il loro coraggio e le loro prodezze. L’invidia non ha più libero corso, poiché<br />

ciascuno ha aumentato il proprio prestigio. In questi momenti, si forma una scena nazionale che ingloba<br />

armoniosamente le scena territoriale dell’influenza personale e la scena della sfida tra i capi: è un effetto del movimento<br />

segmentario di fusione di tutte le unità politiche. Si arriva all’uguaglianza nel quadro generale del prestigio del<br />

movimento corso.<br />

Ma l’altra tendenza è altrettanto presente: agendo dall’esterno, arriva al cuore della corrente nazionale. Essa proviene<br />

dal potere oppressore, da Genova, che propugna la pace ed i benefici, i vantaggi della ricchezza, del prestigio e del<br />

potere. E, soprattutto, introduce un altro ordine di prestigio: non quello derivato della guerra, ma quello derivato da una<br />

situazione di potere: un alto rango nell’amministrazione o la nobilitazione. Queste promesse attirano i corsi, anche<br />

perché l’incertezza sull’esito del combattimento contro un potere presente da quattro secoli non fornisce nessuna<br />

garanzia sulla condizione <strong>dei</strong> notabili. L’azione di Genova, sotto questo aspetto, consiste nel progettare un’altra scena<br />

davanti ai corsi, un altro specchio in cui i capi possono contemplare la loro immagine. Chiaramente si tratta di una<br />

scena sempre presente agli occhi <strong>dei</strong> corsi, anche se le estorsioni, l’ingiustizia ed il rifiuto di nobilitare le famiglie<br />

l’hanno screditata nel corso <strong>dei</strong> secoli. Alle prime avvisaglie del pericolo, Genova si prodiga a trasformare l’immagine<br />

del potere, fingendo di metterlo al servizio <strong>dei</strong> corsi.<br />

Questo dato emerge chiaramente dalle Memorie di Sebastianu Costa. In un discorso di Giacinto Paoli, la tensione tra le<br />

37 Ivi, p. 817.<br />

38 Ivi, p. 819.<br />

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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

due scene del prestigio — una interiore, tendente all’esterno; l’altra esterna, tendente all’interno del fronte nazionale —<br />

è disegnata chiaramente. Si trattava di scegliere tra l’assalto di San Pellegrinu e l’escursione vendicatrice ad U Poghju,<br />

nel Campuloru: «Si ordina comunque la marcia e, al suono <strong>dei</strong> corni, tutti si radunano sulla piazza della chiesa<br />

parrocchiale di Castellana, Santu Niculaiu, per prendere la decisione necessaria. Si fecero molti discorsi; il generale<br />

Paoli che voleva attirarsi la benevolenza generale, mostrando di accogliere le voci ed i pareri di tutti, pronunciò una<br />

breve allocuzione: “Popoli amati, vi dedico queste ultime parole sulle nostre dispute attuali, che dividono gli spiriti<br />

sensati su quale delle due operazioni che dobbiamo scegliere sia più facile e più utile. (...) È tempo che facciate<br />

conoscere ai Signori genovesi che il nome “corso” non è così meschino come essi hanno ritenuto di far vedere alle<br />

nazioni straniere. A voi stessi, corsi, con la vostra umiltà, spetta il compito di mostrare le ragioni di questo nome, per<br />

renderlo sempre più glorioso ed illustre. (...) La lode non è altro che una testimonianza di stima per le opere che la<br />

meritano veramente; dunque per essere correttamente e ragionevolmente lodati, non c’è altro mezzo che operare<br />

valorosamente. E se, per l’ingratitudine o l’invidia <strong>dei</strong> genovesi, la vostra virtù è stata fino qui misconosciuta, che il<br />

passato non vi turbi, ma che l’avvenire vi incoraggi. Siate certi che, anche se l’invidia acuta <strong>dei</strong> genovesi ha privato la<br />

vostra virtù dal suo tributo di lodi, non gli toglierà mai l’onore. Perché la virtù, anche se non lodata, risplende da sola ed<br />

irradia i suoi potenti raggi per ferire quelli che la guardano malvolentieri — i genovesi — e per rallegrare quelli che<br />

l’amano — tutte le altre nazioni”» 39 .<br />

Paoli mostra la necessità di armonizzare le due scene del prestigio. La scena esterna, guidata da Genova, impedisce la<br />

formazione di una scena interiore nazionale. Non basta «operare valorosamente» e ricevere la lode <strong>dei</strong> compatrioti;<br />

occorre una scena esterna su cui far riecheggiare il nome corso affinché, proprio con il prestigio di questo nome, si<br />

realizzi l’unione di tutti i patrioti. Emerge allora un filo-rosso che va dall’interno all’esterno della mentalità corsa: la<br />

logica dell’incremento del prestigio e del riconoscimento. Questo filo deve tessere la scena, lo spazio globale in cui<br />

sciogliere le rivalità tra fazioni e le dispute (discurdie); se non si costruisce questo spazio, o se prevale uno schermo<br />

divisorio tra i corsi (scena interiore) e le nazioni (prolungamento di questa scena verso l’esterno), sorge allora il pericolo<br />

che rinascano le fazioni 40 . Questo schermo è costituito dalla scena proposta da Genova (una scena fatta di promesse, di<br />

poteri e di ricchezze) a scapito del sentimento nazionale. La scena nazionale, a detta di Paoli, deve essere prolungata<br />

armoniosamente verso l’esterno. A causa di un potere straniero dominante (Genova), i corsi non hanno la possibilità di<br />

ottenere il prestigio che ambiscono nello spazio del potere pubblico (o nei rapporti con la Dominante); di conseguenza,<br />

all’interno del fronte nazionale, del territorio socio-politico corso, proliferano le divisioni.<br />

<strong>Il</strong> taglio esterno-interno, non potendo estendersi secondo la dinamica della segmentazione egualitaria, si riproduce nel<br />

fronte interno, opponendo i corsi gli uni agli altri: la scena nazionale, volta all’esterno, dipende dalla dinamica della<br />

segmentazione, che esige la costituzione di unità politiche sempre più vaste. La doppia faccia, interna ed esterna, della<br />

famiglia, si trasforma nello spazio pubblico del villaggio, poi nello spazio nazionale, ognuno con il suo lato esterno ed<br />

interno. Così, ad un livello più alto, nasce il bisogno di sentire una “scena internazionale”— che rappresenta non solo<br />

uno specchio per il prestigio ma, nella trasformazione del prestigio in potere, uno spazio di potere.<br />

Le Memorie di Sebastianu Costa permettono di intravedere due movimenti contraddittori: uno che tende verso l’unità<br />

nazionale, verso la fusione <strong>dei</strong> corsi e lo scioglimento delle fazioni; l’altro che fomenta ogni giorno nuovi partiti e<br />

nuove rivalità. Queste tendenze corrispondono alle due segmentazioni già esposte. <strong>Il</strong> racconto di Costa descrive le<br />

esitazioni, le oscillazioni <strong>dei</strong> notabili trasformati in capi guerrieri. Essi ora giocano il ruolo di rappresentanti eletti dal<br />

popolo e seguono la logica della segmentazione egualitaria, guerreggiando per l’unità nazionale; ora si arrabbiano come<br />

capi-clan, vendono il loro vassallaggio al potere straniero e sposano la logica della segmentazione dall’alto, lasciando<br />

aperte tutte le sfaldature tra le fazioni. Tutto sembra girare attorno all’idea di prestigio: questa è la vera base del potere.<br />

Le apparenti contraddizioni sono soltanto espressione <strong>dei</strong> due principali modelli di prestigio, che cercano di imporre il<br />

rispettivo potere negli incerti anni della rivoluzione. In determinate condizioni sociali e storiche, predomina la prima<br />

tendenza: si assiste allora alla ribellione generale del popolo ed al tentativo di fondare l’unità nazionale. In altre<br />

circostanze, il movimento inverso prende il sopravvento: le rivalità pullulano, ciascuno si oppone al suo vicino, lo<br />

sfaldamento <strong>dei</strong> partiti si moltiplica all’infinito, proliferano i conflitti. Infine, è possibile che i due movimenti<br />

segmentari si oppongano direttamente, in un determinato periodo storico: in questo caso prevale l’anarchia 41 .<br />

I modelli descritti chiariscono la dinamica conflittuale della società corsa. La loro applicazione favorisce la costruzione<br />

di sub-modelli: in questo risiede, forse, la loro pertinenza alla realtà. Se, per esempio, si adoperano quegli schemi come<br />

39 Ivi, p. 805.<br />

40 Descrivendo i costumi <strong>dei</strong> corsi, Pietro Cirneo afferma: «Nemici nella loro patria, essi. Sono, fuori dalla loro patria, amici come fratelli. Avidi di<br />

cambiamento, preferiscono la guerra alla pace; se non hanno <strong>dei</strong> nemici stranieri da combattere, cercano di fare nascere la guerra civile». Vd. CYRNEO<br />

P., De rebus corsicis cit., p. 50.<br />

41 Riferendosi all’importanza della vendetta nel periodo che abbiamo appena rievocato - l’inizio della Rivoluzione corsa del XVIII secolo —, G.<br />

Salveti descrive nettamente l’urto delle due tendenze segmentarie: «Ma se le inimicizie tra l’uno e l’altro comune [di Venacu e di Nuceta]<br />

diventavano, col passare degli anni, più rare, quelle tra le famiglie apparivano più durature durante le lotte politiche, mentre all’epoca <strong>dei</strong> disordini<br />

civili capitava che o una fazione cercava la protezione del governo, o il governo cercava l’appoggio di una delle fazioni e, quando non poteva attirare<br />

una delle due, divideva ciascuna di esse in due tronconi. Così, si vedeva la parte di una stessa fazione sostenere il governo contro i ribelli e l’altra<br />

sostenere questi contro il governo. Nessun dato chiarisce meglio la tenacia delle inimicizie private di questo fatto curioso: quando gli uomini di una<br />

stessa fazione prendevano chi il partito del governo, chi quello <strong>dei</strong> ribelli, sebbene fossero sotto due bandiere nemiche, si ritrovavano di nuovo<br />

d’accordo gli uni con gli altri nella loro inimicizia particolare, facendo una sorta di congiura alla fazione opposta, sia che questa fosse alleata <strong>dei</strong><br />

ribelli che della Repubblica [di Genova]». SALVETI G., La vendetta in Corsica, edito a cura dell’Ass. «Gruppi di Cultura Corsa», 1952, pp. 34-35.<br />

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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

punto di partenza per l’analisi dell’epoca paolina, ci si accorge della complessità del gioco delle fazioni, <strong>dei</strong> clan e delle<br />

inimicizie e del modo con cui Pasquale Paoli ha dovuto risolvere questo problema, rompendo la dinamica clanica e<br />

quella delle vendette popolari, realizzando l’unione nazionale contro il nemico straniero. Non si può dire dunque,<br />

semplicisticamente, che l’unione nazionale sia il risultato della segmentazione popolare egualitaria. Emergono<br />

inevitabilmente altri problemi, come quello dello slittamento della vendetta provocata dalla giustizia di Genova; o<br />

quello, più generale, della compatibilità tra il potere statale ed una forma di potere egualitario segmentario: gli aspetti<br />

della Costituzione di Paoli, dell’organizzazione giudiziaria, politica e militare si comprendono solo alla luce del<br />

confronto tra il suo progetto politico — la formazione di uno Stato indipendente, la pacificazione del corpo sociale, lo<br />

schiacciamento <strong>dei</strong> clan — e le contraddizioni delle tendenze segmentarie della società corsa. <strong>Il</strong> generale era costretto a<br />

sfruttare i clan, le famiglie o le masse contadine a seconda <strong>dei</strong> casi e delle esigenze di governo: l’isola partecipava in<br />

maniera diversa alla gestione del potere politico a seconda della struttura economica, sociale ed amministrativa delle<br />

comunità. L’attività politica di Paoli, che non può essere definita unicamente come “dispotica”, “democratica”,<br />

“giustizialista” o “giurisdizionalista”, mirava all’obiettivo primario dell’indipendenza dell’isola. L’analisi della<br />

Rivoluzione corsa secondo questa prospettiva porta un’intelligibilità nuova ai movimenti profondi della società corsa.<br />

§ 7. Clan e partiti<br />

<strong>Dal</strong>la lettura delle varie “Storie” della Corsica che trattano del XVIII secolo, si ha solamente una pallida idea <strong>dei</strong><br />

cambiamenti straordinari che ha subito la società insulare con l’occupazione francese. Questa occupazione si distingue<br />

da tutte le precedenti perché ha provocato un profondo cambiamento di mentalità e perché ha esasperato la resistenza<br />

del popolo corso, al punto che la situazione non si è sedata nemmeno ai nostri giorni. Si usa abitualmente un termine<br />

specifico, complesso, difficilmente percepibile per l’evoluzione sociale e politica: l’«integrazione» della Corsica alla<br />

Francia. Si tratta in realtà di diverse integrazioni, di cui l’ultimo esempio, sul piano istituzionale, è la fallita<br />

approvazione dello «statuto particolare». Si tratta di un processo difficilissimo: se si segue il percorso tracciato dalla<br />

rivoluzione, composto da tre organizzazioni di potere che costituiscono il sistema politico corso — uno popolare e<br />

comunitario, un altro clanico ed uno straniero e statale —, ci si accorge che dopo la disfatta di Ponte Novo (1769) che<br />

sancisce il dominio francese sull’isola, lo sfruttamento, la resistenza ed il terrore non provengono sempre dalla stessa<br />

direzione.<br />

La corrente nazionale e popolare si esprime in due direzioni principali: ribellioni collettive contro la legge dello Stato<br />

(che possono andare dai sollevamenti di villaggi interi contro le forze dell’ordine per diverse richieste come la<br />

coscrizione, all’inizio del XIX secolo, o l’interdizione della vana pastura), fino alle campagne guerriere che impegnano<br />

parecchie pievi, capi degli eserciti o delle milizie (come la “Guerra del Fiumorbu”, che, tra il 1815 ed il 1816, ha<br />

mantenuto un’intera provincia in stato di insubordinazione); esistono poi le rivolte individuali, che si manifestano nel<br />

banditismo, vera espressione della componente «nazionale» corsa.<br />

Anche se queste due direzioni talvolta si incrociano (un bandito, per esempio, nega di mettersi al servizio della<br />

repressione dello Stato) 42 , la resistenza popolare può prendere delle espressioni politiche sorprendenti: il comandante<br />

Poli, capo degli insorti del Fiumorbu, non si è schierato contro la Restaurazione in nome della sua fedeltà a Napoleone<br />

(la cui politica corsa, tra l’altro, si può riepilogare in tre parole: sfruttamento degli uomini come carne da macello,<br />

abbandono e repressione). <strong>Il</strong> banditismo d’onore si tramuta rapidamente, fin dall’inizio del XIX secolo, in banditismo di<br />

racket, prendendo talvolta le peggiori forme del gangsterismo politico.<br />

Se volgiamo l’attenzione verso i clan ed il potere francese, si nota subito che, fino all’ascesa di Napoleone III, né<br />

l’Ancien Régime, né la Repubblica, né l’Impero, né la Restaurazione, né la Monarchia di Luglio hanno potuto insediare<br />

pienamente il potere dello Stato francese in Corsica. L’instabilità politica <strong>dei</strong> regimi che si succedevano a Parigi ha<br />

contribuito sicuramente; ma hanno giocato anche altri fattori, non ultima l’ambizione <strong>dei</strong> clan di regnare sull’isola. Così<br />

si assisteva a lotte infinite, scrupolose e barocche tra gli agenti dello Stato (prefetti, viceprefetti, comandanti militari,<br />

commissari di polizia) ed i notabili locali, che seminavano la discordia tra i primi 43 ; molto rapidamente, di fronte alla<br />

ragnatela intessuta dai clan per impossessarsi del potere, di fronte al banditismo dilagante di anno in anno e davanti<br />

all’insuccesso della politica, che manifestava un’evidente incomprensione <strong>dei</strong> problemi dell’isola, lo Stato si è<br />

dichiarato impotente. I prefetti fuggivano 44 ; le commissioni di inchiesta sulla situazione in Corsica si succedevano senza<br />

soluzione di continuità. Quando esplose la rivoluzione del 1848, la Francia era pronta a lasciare la Corsica 45 .<br />

Paradossalmente — ma è soltanto un paradosso apparente — l’integrazione dell’isola si è attuata grazie ai corsi, o<br />

meglio, grazie, essenzialmente, ai clan.<br />

Innanzitutto bisogna considerare la figura di Napoleone I e la sua lunga storia, piena di insegnamenti sull’evoluzione<br />

dell’atteggiamento francese nei confronti della Corsica: egli inaugura la serie di vicoli ciechi che, a poco a poco,<br />

costringe i corsi ai comportamenti politici “schizofrenici” che vediamo oggi, quando votano il clan per «votare corso».<br />

42<br />

Fu il caso del bandito Carchetto, durante la guerra di Fiumorbu.<br />

43<br />

«Ogni minuto, ogni istante, si scopre una politica diretta ora contro l’autorità giudiziaria, ora contro l’amministrazione». Vedi La Corse sous la<br />

Restauration, les rapports de Constant commissaire spécial de police en Corse (1816-1818), «B.S.S.H.N.C.», 449-452 (1923-1924), p. 102.<br />

44<br />

Tra il 1814 ed il 1830 si sono succeduti nove prefetti. I funzionari, in questo periodo, avevano solamente un desiderio: restare in Corsica il meno<br />

possibile.<br />

45<br />

Ciò sarebbe accaduto, probabilmente, se Cavaignac fosse stato eletto Presidente della Repubblica al posto di Luigi Napoleone Bonaparte alle<br />

elezioni del dicembre 1848.<br />

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CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

Napoleone non ha unificato la Corsica: l’ha semplicemente sottomessa ad un potere straniero di cui lui era a capo. Poco<br />

importava se questo potere fosse corso o francese, tanto più che era ancora viva la memoria dello stato indipendente di<br />

Paoli 46 . Si potrebbe vedere in questa “scelta di campo” lo shock e la fusione forzata degli effetti di due tendenze<br />

segmentarie opposte: quella che mira all’unificazione del paese, e quella che l’impedisce, consegnando il comando ad<br />

un potere straniero. Napoleone ha risolto il problema (aiutato in questo da una repressione feroce) evitando di trattare<br />

gli aspetti economici e sociali di una difficile situazione insulare.<br />

Egli è diventato, tra l’altro, un’immensa sorgente di fierezza per i corsi, rivestendo la grande figura mondiale, guerriera<br />

e dominatrice, celebrata da tutti i popoli. Napoleone ha trasportato la scena corsa della sfida sul piano internazionale e<br />

l’ha ingrandita alle dimensioni di un Impero: ma egli è diventato importante da solo, abbandonando il suo paese natale<br />

“alle ortiche”, obbligando i corsi ad una rivisitazione immaginaria, ad un “mito corso” inesistente in Napoleone. In<br />

effetti, la sua figura è disgiunta dal movimento reale della comunità: i corsi — quelli che hanno raccolto “l’eredità<br />

napoleonica” —, l’hanno dovuta ricostruire in modo immaginario alla loro scala, e questo ha dato origine ad un folclore<br />

pietoso, con i suoi riti le sue cerimonie «alla memoria», con canti e majorettes, di cui Ajaccio costituisce lo sfondo<br />

simbolico 47 . Ma Napoleone ha dato origine al bonapartismo, forza politica clanica che ha mantenuto il suo ascendente<br />

nell’isola fino alla fine del Secondo Impero.<br />

Se Napoleone I inaugura quell’interferenza di riferimenti che è diventata il meccanismo essenziale dell’integrazione<br />

ideologica, Napoleone III, traendone profitto, inaugurò la nuova era del clan, che insedia definitivamente lo Stato<br />

francese in Corsica. Napoleone III è il grande integratore. Rievocheremo solamente un aspetto della sua politica, che<br />

ebbe come effetto il rafforzamento del clan: l’accordo tra il potere amministrativo centrale ed i poteri clanici locali. Fino<br />

al 1851, il clan aveva un ascendente solo sulla magistratura 48 ; questo ascendente era soggetto, talvolta, alla mancanza di<br />

determinazione di certi magistrati continentali e, soprattutto, alla maggiore o minore indipendenza <strong>dei</strong> prefetti e<br />

viceprefetti nei confronti del clan 49 . Con Napoleone III, la forza e l’autorità dello Stato si fanno sentire direttamente —<br />

e pesantemente — in Corsica, particolarmente attraverso la repressione del banditismo, condotta a tamburo battente da<br />

circa 1000 gendarmi; grazie all’infiltrazione <strong>dei</strong> corsi nell’apparato statale, a Parigi, i dissensi tra funzionari e capi clan<br />

si attenuano e spariscono. Fino a quel momento, il prefetto nominato dal governo tendeva a sfuggire le influenze delle<br />

fazioni e passava il suo tempo a tentare di bilanciare i due partiti contrapposti, vedendo così la sua azione neutralizzata e<br />

ridotta all’impotenza; durante il Secondo Impero la politica dello Stato e quella del clan coincidono 50 : non ci sono più<br />

lotte con i prefetti, spariscono le contraddizioni tra il potere dello Stato e quello <strong>dei</strong> notabili, il banditismo è domato in<br />

pochi anni ed ogni velleità di opposizione (con una coloritura «nazionale corsa» abbastanza difficile da contrastare,<br />

come nel caso <strong>dei</strong> Pinnuti, società segreta in stretto rapporto con i Carbonari italiani — e di cui Luigi Napoleone<br />

Bonaparte, prima di diventare Napoleone III, fece parte...) liquidata. Inizia una nuova tappa dell’edificazione del<br />

sistema clanico.<br />

Per permettere al clan di governare l’isola, occorre predisporre due condizioni essenziali: fare in modo che detenga il<br />

potere all’interno dell’apparato statale, ed estendere il suo dominio a tutto il sistema politico corso. La seconda<br />

condizione implica l’accaparramento di una terra incognita molto estesa (il potere incontrollato), che raggiunge,<br />

all’inizio del XIX secolo, delle proporzioni straordinarie (ben manifeste nella forza del banditismo e delle rivolte<br />

popolari); bisogna, inoltre, favorire lo sviluppo del sistema clanico, fornirgli una struttura coerente, elaborando una<br />

solida rete di influenze in grado di coprire la popolazione secondo una gerarchia di potere ben determinata, distribuita<br />

tra gli agenti del partitu. Questa logica di estensione del clan aderisce perfettamente alle istituzioni politiche insulari,<br />

46 «<strong>Il</strong> sistema di Paoli vive ancora in molte teste... molte persone pensano ancora che la Corsica possa governarsi e mantenersi indipendente», notava<br />

un commissario di polizia nel 1818. cfr. FRANCESCHINI E., La Corse sous la Restauration cit., p. 128.<br />

47 Si riportano alcuni estratti de «L’Ajaccienne», canto alla gloria di Napoleone in onore del ritorno degli esiliati, scritto verso il 1848 e tuttora cantato<br />

in certe occasioni festive: «Réveille-toi ville sacrée/La Corse touojurs la première/Dans ton orgueil et ton amour/Après vingt ans d’obscurité/La<br />

Sainte Famille est rentrée/Voit le retour de la lumière/Les exilés sont de retour/Le réveil de la liberté/Oh les voici, victoire, victoire/La république les<br />

rappelle/ Qu’il soit tête dans sa maison/ L’aigle n’est plus, mais les aiglons/ L’enfant prodigue de la gloire/ A leur tour combattront pour elle/<br />

Napoléon, Napoléon/ Napoléon, Napoléon.... ce fut ici nouvelle Rome/ Que le four de l’Assomption/ Une autre fois Dieu se fit homme/ Napoléon,<br />

Napoléon».<br />

48 Questo è ciò che scriveva il commissario Constant, nel 1818: «[<strong>Il</strong> tribunale di Bastia] è composto da un presidente, M. Pallavicini, da un<br />

procuratore del Re, M. Jucherau de Saint-Denys, da tre giudici, Sigg. Froytier, Benedetti e Viale. da due supplenti, i Sigg. Milanta e Galeazzini. I<br />

Sigg. Pallavicini e Juchereau sono un tutt’uno; il giudice Viale è stato messo al posto che occupa dai due precedenti. M. Benedetti è troppo povero per<br />

avere un parere differente dal loro. I due supplenti sono ai loro ordini, dato che vogliono diventare giudici. Froytier, che è giudice istruttore, è solo<br />

contro tutti e sempre battuto. Con il pretesto di alleggerirlo, gli si ritirano tutte le cause raccomandate e tutto si fa per consorteria» (da FRANCESCHINI<br />

E., La Corse sous la restauration cit., p. 54). <strong>Il</strong> controllo del sistema giudiziario è, da sempre, essenziale al potere del clan. È attraverso la giustizia<br />

che esso può sostenere il ruolo di protettore della popolazione di fronte alla legge dello stato. La lotta per questo controllo raggiunge <strong>dei</strong> livelli<br />

straordinari nel XIX secolo e durante la Repubblica. Ecco cosa afferma un magistrato francese riguardo all’importanza della giustizia in Corsica,<br />

all’inizio del XIX secolo: «... in Corsica, [la Corte d’assise] offriva lo spettacolo di una lotta accanita tra i querelanti ed i genitori degli imputati, una<br />

lotta aperta alle famiglie nemiche, di cui l’imponente apparato della giustizia non poteva contenere l’esaltazione, l’odio e la vendetta. (...) In questa<br />

isola, la tranquillità di un’intera popolazione dipendeva talvolta dal verdetto della Giuria. La sentenza delle cause in discussione gettava i comuni<br />

nella pace o nella guerra. Si percepiva l’interesse vivo della Corsica ai dibattiti della corte di assise; lì si trattavano i grandi affari dal paese: era la<br />

parte vitale del servizio; tutto il resto passava in secondo piano». Estr. da SORBIER P., Dix ans de magistrature en Corse cit., p. 48.<br />

49 Così prende forma una vera lotta tra magistrati locali e magistrati continentali durante la Restaurazione e la Monarchia di Luglio. Per farla<br />

terminare — e per non introdurre ulteriori sobillazioni — Gavini, presidente delle corti d’Assise della Corsica, chiede nel 1848 che i funzionari<br />

restino più tempo in Corsica «per studiarne bene i costumi e comprenderne gli interessi». Estr. da Allocution de M. le Conseiller Gavini, président des<br />

Assises de la Corse, a MM. Ses Jurés (udienza del 6 gennaio 1848), Bastia 1848, p. 7.<br />

50 Tra il 1852 ed il 1870 furono nominati solo quattro prefetti.<br />

164


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

assicurando una comunicazione verticale tra la clientela elettorale ed i capi clan (eletti al Consiglio generale,<br />

all’assemblea Nazionale o al Governo), passando attraverso i consiglieri municipali, i sindaci, estendendosi ai magistrati<br />

e compatibilmente, all’amministrazione.<br />

I cambiamenti istituzionali <strong>dei</strong> regimi politici francesi e l’anarchia locale avevano impedito ai clan di costruire un tale<br />

sistema. Quest’anarchia «si esprime in modo particolare in un punto, rivelatore dello stato di non-strutturazione del<br />

sistema clanico in quanto organizzazione di potere: la congiunzione delle lotte politiche con le vendette tra grandi<br />

famiglie 51 , mai represse severamente dalla giustizia» 52 .<br />

Tutto accadeva come se, dopo il cedimento dello stato indipendente di Paoli, il corpo sociale insulare stesse esplodendo<br />

sotto la pressione dell’occupazione straniera. I tentativi di ristrutturazione <strong>dei</strong> clan — durante l’Ancien Régime, sotto il<br />

Regno Anglo-Corso e nei periodi successivi — dipendono ancora delle lotte internazionali. <strong>Il</strong> potere <strong>dei</strong> notabili rurali,<br />

fondato soprattutto sulla proprietà, non riesce ad accordarsi con le personalità che, ad Ajaccio ed a Bastia, cercano di<br />

strutturarsi politicamente e deve fare fronte al disordine sociale che scuote l’interno della Corsica. Si assiste allora<br />

all’esplosione delle inimicizie, in cui si mescolano i motivi politici ed i motivi d’onore tradizionali; talvolta questi<br />

ultimi prendono il passo sui primi, altre volte coincidono, o ancora, cozzano l’un l’altro. Questo aspetto dell’evoluzione<br />

sociale corsa alla fine del XVIII ed all’inizio del XIX secolo resta praticamente inesplorato; ma è certo che esso<br />

manifesta una tensione tra le due tendenze segmentarie già citate, entrambe legate all’organizzazione clanica.<br />

L’evoluzione sociale dell’isola dall’inizio del XVIII secolo viene condizionata così, da un lato, dalla permanenza<br />

dell’ambigua posizione <strong>dei</strong> clan (che si collocano tra il popolo ed i poteri stranieri) e dall’altro, dall’impotenza sia del<br />

sistema clanico, sia di quello statale, nel controllare l’accesso al potere politico-amministrativo.<br />

L’elezione di Luigi Napoleone Bonaparte alla più alta carica dello Stato cambia bruscamente questa situazione. Grazie<br />

all’entusiasmo che suscita nell’isola l’elezione del futuro Napoleone III, l’ordine dello Stato viene accettato e termina<br />

l’anarchia politica. <strong>Il</strong> Secondo Impero porta la pace civile ed una prosperità relativa alla Corsica: l’isola si trova di<br />

nuovo unificata da una famiglia corsa.<br />

<strong>Il</strong> lungo Regno di Napoleone III prende, in Corsica, l’andatura di un dominio patriarcale: l’isola si trova sotto l’«alto<br />

patronato» dell’Imperatore: non è il clan a dirigere come lo Stato, ma lo Stato a dominare come un grande clan. La<br />

spinta propulsiva all’integrazione si accelera: si afferma l’idea che la Corsica e la Francia abbiano un’origine storica<br />

comune (Carlo Magno), dunque una storia nazionale unica; le loro ultime grandi figure, “dello stesso sangue”<br />

(Napoleone Padre e Figlio) lo manifestano in modo inoppugnabile; la Corsica, piccola nazione, appartiene<br />

definitivamente alla grande nazione: la Francia. La presenza dell’ultimo Imperatore illumina retroattivamente la storia<br />

insulare: la storia corsa, con i suoi eroi, da Sampiero a Paoli, si comprende solo se integrata nella nuova finalità di<br />

Napoleone III… il patriottismo corso diventa, improvvisamente, inoffensivo 53 .<br />

Era necessario che un corso accedesse al potere della potenza conquistatrice per ben due volte affinché il clan<br />

realizzasse la sua opera di integrazione che, come si è visto, era indissociabile dalla sua edificazione.<br />

<strong>Il</strong> clanismo ha lavorato su una base storica di armi, di repressione brutali, di esecuzioni sommarie, di villaggi incendiati,<br />

di errori 54 . <strong>Il</strong> Paese brancola sull’orlo di un baratro: per più di un secolo ha conosciuto, quasi senza interruzioni, la<br />

guerra e talvolta la miseria; ora con Napoleone III gli si offre la pace ed il pane in cambio di una sottomissione, tra<br />

l’altro, tollerabile, anche perché proveniente da un capo di Stato corso 55 . L’integrazione alla Francia assume altre forme:<br />

riavvicinamento politico, economico, culturale (con ampia accezione: dall’insegnamento obbligatorio del francese 56 alla<br />

folklorizzazione della cultura corsa nell’opinione francese e, di riflesso, nell’isola stessa). Clan e Stato lavorano di<br />

concerto, dividendosi i compiti.<br />

Resta, comunque, un malinteso di fondo: Napoleone III era corso, ma il partito bonapartista (rappresentato dai clan<br />

degli Abbatucci, <strong>dei</strong> Gavini, <strong>dei</strong> Casabianca <strong>dei</strong> Pietri 57 ) regnava da padrone sull’isola: lo Stato si confondeva troppo<br />

51<br />

Come quella, celebre, che esplose nel 1830 tra i Durazzo, del partito supranu del villaggio di Fuzzà, ed i Carabelli, del partito suttanu e che<br />

Mérimée prese come argomento per Colomba.<br />

52<br />

Grazie alle influenze familiari e claniche. Esistevano anche casi di magistrati i cui parenti prossimi erano <strong>dei</strong> contumaci e <strong>dei</strong> banditi. Cfr. VERSINI<br />

X., Un siècle de banditisme en Corse, 1814-1914, Paris 1964, pp. 59-60.<br />

53<br />

Si erige, nel 1854, una statua di Pasquale Paoli a Corte ed una di Napoleone I a Bastia. Con un discorso memorabile, che, attraverso il problema<br />

dell’unificazione del corpo giudiziario corso (al riparo dalle fluttuazioni del potere parigino) illustra le esigenze del nuovo ordine clanico che si stava<br />

preparando, Alexandre Colonna d’Istria, primo Presidente della Corte d’Assise di Bastia, sviluppa una teoria del potere che si potrebbe riassumere<br />

così: ciò che unisce gli uomini è la legge, garanzia della forza dello Stato; la dottrina della successione della legge (In vetere novum latet: in novo<br />

vetus patet) fonda la stabilità <strong>dei</strong> legami sociali. La legge è la ragione e la ragione è il popolo; quando la ragione si incarna in un grande uomo, tutti gli<br />

elementi del potere si coniugano. Da ciò deriva la necessità di far terminare il «federalismo giudiziario» (eco delle lotte tra magistratura corsa e<br />

continentale) e di assicurare l’inamovibilità del corpo della magistratura con la legge, e quindi con il «Codice Napoleone» («generato con la legge,<br />

esso ne ha raccolto, allo stesso tempo, tutta la forza e tutta la maestà»), che ha separato il diritto privato dal diritto politico. Così si formula<br />

curiosamente l’esigenza di un assoluto ascendente del clan sulla magistratura, sotto l’egida di un potere politico forte (ma di cui non si desidera<br />

l’ingerenza negli affari giudiziari). Chiamando il Presidente della Repubblica «Restauratore della Magistratura», Colonna d’Istria finisce la sua<br />

allocuzione con queste parole: «Così, Signore, la Corsica si rivelerà degna in tutto della grande nazione a cui ha l’incontenibile gioia di appartenere,<br />

degna dell’interesse che l’illustre Capo della Repubblica porta a questa terra, patria del suo augusto Padre, il glorioso e fortunato Napoleone il<br />

Grande». Estr. da COLONNA D’ISTRIA A., Discours d’Installation de la magistrature, udienza del 30 novembre 1849, Impr. Fabiani, Bastia, p. 850.<br />

54<br />

Vd. SANTONI C., Résistance et répression en Corse 1769-1819, «Les Temps Modernes», num. sulle «Minorités nationales en France», agostosettembre<br />

1973.<br />

55<br />

Napoleone III mantiene comunque <strong>dei</strong> prefetti francesi nell’isola, nominando, al contrario, <strong>dei</strong> prefetti corsi sul continente.<br />

56<br />

Vd., per la storia dell’insegnamento del francese in Corsica, THIERS J., Aspects de francisation en Corse au XIX siècle, «Études corses», 9 (1954).<br />

57<br />

Tutte queste famiglie occupano <strong>dei</strong> posti-chiave nell’apparato statale come funzionari, imperiali, ministri, prefetti, deputati, senatori, capi di<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

con il clan, e quest’ultimo non possedeva il potere autonomo che gli occorreva. <strong>Il</strong> clan aveva bisogno di un’autorità<br />

locale senza divisioni - che provenisse esclusivamente dalle sue fila — per sfuggire alle ondate <strong>dei</strong> governi parigini; ed<br />

il bonapartismo impediva la costituzione di due grandi blocchi clanici, favorendo, al contrario, la diffusione sull’isola di<br />

una dinamica bipartita, capace di unificare il potere in un solo sistema. Sotto Napoleone III i clan detenevano un potere<br />

quasi assoluto; ma il sistema clanico soffriva la frammentazione del potere locale.<br />

Alcuni anni dopo la caduta del Secondo Impero, la fragilità del sistema clanico apparve chiaramente: il bonapartismo<br />

perse in poco tempo quasi tutto il suo potere. Questa brusca scossa era, una volta ancora, legata al cambiamento di<br />

regime a Parigi. <strong>Il</strong> bonapartismo era morto, ma restavano i clan: era necessaria una nuova mutazione per adattarli alle<br />

istituzioni repubblicane e modificare la struttura del potere.<br />

Tutto si è giocato attorno all’idea del suffragio universale. La legge elettorale del 1848, che stabiliva il suffragio<br />

universale maschile abolendo il voto per censo, ha apportato un cambiamento considerevole all’organizzazione delle<br />

reti di clientela claniche. Ormai i deputati all’Assemblea Nazionale sarebbero stati eletti da tutti i corsi ed i sindaci non<br />

sarebbero stati più nominati dai prefetti. Ogni individuo ed ogni famiglia disponeva così di un potere di intervento<br />

diretto nel gioco politico. Se il clan è riuscito a realizzare senza troppe difficoltà la transizione dal voto censitario al<br />

suffragio universale durante il Secondo Impero (con alcune agitazioni, controllate dalle forze armate, nel periodo<br />

elettorale), fu solamente grazie alla stretta connessione tra un sistema clanico compatto ed un forte potere statale. Alle<br />

elezioni cantonali del 1881, Emanuele Arene, membro del partito repubblicano (senza influenza nell’isola), proveniente<br />

da Parigi (ma corso di Ajaccio), semplice giornalista, rovescia la corrente tradizionale sconfiggendo un Abbatucci: era<br />

la prova che i notabili locali non avevano più la padronanza del potere.<br />

Curiosamente Arene non reclutò i suoi aderenti nella borghesia delle città, ma nell’elettorato rurale, dove il clan<br />

sembrava più forte. <strong>Il</strong> suffragio universale, sotto il regime repubblicano, rivelava le lacune del vecchio sistema delle<br />

fedeltà claniche. <strong>Il</strong> tipo di fedeltà che la nuova legge elettorale instaurava tra elettori e candidato sconvolgevano le<br />

regole abituali, dando ai primi un potere non controllabile dal secondo (è essenziale il fatto che la Corsica conosca in<br />

questi anni un periodo economicamente molto difficile, cui i clan non possono fare fronte). <strong>Il</strong> clanismo doveva riuscire<br />

a controllare il potere offerto ad ogni corso, creando una nuova formula di contratto tra l’elettore ed i capi di partitu, in<br />

modo da non lasciare più nessuna possibilità allo Stato (o alle forze di origine francese) di intercettare il legame<br />

politico: bisognava assoggettare la popolazione al potere clanico.<br />

Paradossalmente, fu un uomo dall’ambigua personalità, non appartenente ai clan tradizionali, generato da una famiglia<br />

di emigrati, che terminò l’opera di strutturazione del sistema clanico, fornendogli quei metodi, tuttora presenti in<br />

Corsica, che garantiscono la piena autonomia locale nei confronti dello Stato. Arene inaugurò il contratto politico che<br />

conosciamo oggi: un voto contro un servizio (una pensione, un posto nell’amministrazione). Certo, il “servizio reso” (o<br />

“raccomandazione”) era una pratica conosciuta, ma non esisteva ancora come moneta di scambio del voto politico: ora<br />

entrava negli scambi semi-feudali tra capi-clan e famiglie. Arene politicizzò totalmente il contratto clanico: la sua<br />

formula ebbe un successo folgorante, garantendo il rastrellamento <strong>dei</strong> voti nei villaggi più remoti e diffondendo i corsi<br />

in tutti gli angoli dell’impero coloniale francese.<br />

Marx ha detto, parlando del colpo di stato di Napoleone III, che «la storia presenta sotto forma di commedia ciò che<br />

prima era una tragedia». Si potrebbe aggiungere, riferendoci al “colpo di forza” ed ai metodi che portarono Emanuele<br />

Arene al potere quasi assoluto in Corsica (lo si chiamò U Re Emmanuellu, il Re Emanuele), che la storia si ripete una<br />

seconda volta sotto forma di farsa 58 . Questa lunga farsa venne mantenuta per 27 anni (1881-1908): Arene, pur<br />

difendendo le tradizioni <strong>dei</strong> suoi compatrioti contro le calunnie <strong>dei</strong> francesi, li ingannava nella maniera più cinica 59 ; si<br />

trattava di uno scherzo cinico, di un cinismo leggero, mondano, senza rimorso, come quei teatri da “boulevard” parigino<br />

di cui Arene fu un autore di successo.<br />

Napoleone I, Napoleone III, Emanuele Arene: la tendenza che seguono i capofila dell’integrazione è quasi verticale.<br />

L’ultimo Re della Corsica non è nemmeno un alto funzionario: presidente del consiglio generale, deputato, si rifiuta di<br />

diventare ministro o prefetto; come se questa scelta personale del giornalista-politico fosse dettata dalla nuova struttura<br />

del clanismo, che poteva fare a meno, ormai, di produrre un capo di Stato (Arene aveva tessuto una solida rete di<br />

influenze nell’apparato clanico e statale). Al clan bastava, adesso, che nell’isola prevalesse un capo che non ricorresse<br />

ai soccorsi del governo; qualcuno che traesse la sua autorità dal nuovo contratto clanico e la sua legittimità dal potere<br />

francese; che, una volta ancora, certificasse il potere politico in Corsica grazie ai soli meccanismi della politica insulare;<br />

che dividesse il sistema clanico da quello statale, confuso da Napoleone III e che dividesse l’articolazione armoniosa<br />

della dinamica del bonapartismo insulare con il gioco <strong>dei</strong> partiti del regime repubblicano. Prese le necessarie garanzie, i<br />

clan non avranno più bisogno di Arene: fin dagli anni ‘90, le due fazioni rivali, i Casabianca ed i Gavini, si coalizzano<br />

gabinetto ministeriali, prefetti di polizia, ecc…<br />

58 Napoleone I disse un giorno parlando <strong>dei</strong> corsi: «Bisogna guidarli con fermezza, senza trattarli arbitrariamente». Napoleone III affermò, nel 1860:<br />

«La Corsica non è per me un dipartimento come un altro, è una famiglia…». Emmanuele Arene, rispondendo ad un prefetto che si meravigliava di<br />

aver trovato in un villaggio un postino analfabeta, scrisse: «Sono io che l’ho nominato! Se avesse saputo leggere, l’avrei nominato prefetto».<br />

59 Ne abbiamo un saggio nella sua risposta ad Alfonse Daudet, che scriveva: «tutte uguali, queste antiche famiglie corse, crasse e vane. Mangiano<br />

ancora, in stoviglie piatte come le loro armi, le castagne rifiutate dai maiali»; Arena: «Potrebbero trovarsi benissimo in Corsica i Daudet. L’isola<br />

resterà l’incorreggibile paese aperto a tutti come una locanda, con le sue famiglie sempre numerose se non grandi, i cui figli popolano i reggimenti<br />

della Francia. Tutti quelli che sono partiti dai suoi confini, preti, soldati o funzionari, portano ovunque le tradizioni del suolo natale, la riconoscenza<br />

per i servizi resi, il ricordo del bene ed il disprezzo del male...». estr. da VERSINI X., Emmanuel Arène, roi de Corse sous la Troisième République,<br />

Ajaccio 1983. p. 121.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 9 – <strong>Il</strong> sistema clanico e la “vendetta” corsa<br />

contro di lui, iniziando una lunga lotta per la ripresa del potere. Un’immensa corruzione guadagna tutta la vita sociale<br />

corsa. <strong>Il</strong> contratto clanico diventa il canale di comunicazione essenziale <strong>dei</strong> corsi: Arene lo aveva istituzionalizzato, per<br />

così dire, trasformandolo in un costume corso, al punto da fare del “servizio reso” in cambio del voto politico un diritto<br />

rivendicato dalle persone. Ma soprattutto, egli ha completato la strutturazione del clan come sistema politico, grazie allo<br />

sfruttamento di certi tratti culturali del popolo corso; erigendo la deviazione della legge a metodo di governo, ha ripreso<br />

sistematicamente la tendenza ancestrale del popolo ad opporsi allo stato straniero, ma innestando altri obiettivi, tra cui il<br />

principale (mantenere la Corsica sotto il potere francese per la sopravvivenza <strong>dei</strong> clan) contraddittorio ai suoi stessi<br />

principi.<br />

Questa deviazione non viene perpetuata per la difesa della cultura e della società corse, ma in nome della fedeltà ad un<br />

clan contro un altro: la segmentazione clanica si appiattisce così sulla segmentazione popolare. A partire da Arene, tutto<br />

è permesso nella lotta delle fazioni per la presa del potere locale. <strong>Il</strong> contratto clanico diventa la molla della corruzione e<br />

la corruzione non conosce limiti, diventando una sorta di “fascismo” en plein air.<br />

Adeguandosi al principio di questa legge, sempre più deviata (si giustifica l’esercizio esclusivo della forza e la sovranità<br />

assoluta del potere), le pratiche claniche realizzano <strong>dei</strong> veri dispotismi di villaggio. Certo, tutto questo esisteva già:<br />

Arene non ha fatto altro che dare forma ad una tendenza inscritta nella natura del clan. Lo stesso può dirsi per<br />

l’articolazione del sistema clanico nel potere statale, articolazione che il primo cercava subdolamente attraverso<br />

l’occupazione francese e che Arene adatta alle istituzione repubblicane: a partire da questo momento il clan presenta<br />

due volti differenti, uno girato verso l’isola, l’altro verso il potere: forma uno schermo, un filtro, e si comporta, in<br />

Corsica, come uno Stato nello Stato. Dopo Arene, non è più l’amministrazione francese che vuole imporsi in Corsica, è<br />

la Corsica <strong>dei</strong> clan che si impone all’amministrazione: prefetti, magistrati funzionari sono ai suoi piedi.<br />

L’opera di integrazione politica del sistema clanico è finita; si confonde con l’edificazione di questo sistema nella forma<br />

odierna. Bisogna ancora “integrare” il paese, la sua lingua, la sua cultura, la forza della sua specificità.<br />

Si tratta di un lavoro delicatissimo, in cui il clan gioca un ruolo contraddittorio: mentre il consolidamento del sistema<br />

clanico e la sua osmosi al potere condanna il popolo corso alla “francesizzazione” forzata, l’autonomia locale, lo<br />

schermo culturale, la mentalità popolare e la sua vocazione all’immobilismo costituiscono ancora <strong>dei</strong> potenti fattori di<br />

preservazione delle strutture tradizionali della società insulare.<br />

A questa breve storia del clan moderno mancano i fattori contemporanei: l’intervento diretto dello stato nell’economia<br />

corsa, lo sviluppo del capitalismo, l’irruzione nazionalista e la stesura dello statuto particolare dell’isola. Tuttavia, dal<br />

punto di vista della struttura globale, il clanismo, come si presenta alla fine del “Regno di Arene”, presenta una struttura<br />

paradigmatica valida ancora ai nostri giorni.<br />

Figura 48: il giuramento della vendetta.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

CAPITOLO 10<br />

LA CORSICA FRANCESE:<br />

DALL’ANCIEN RÉGIME A NAPOLEONE (1770-1815)<br />

§ 1. La Corsica sotto l’Ancien Régime (1769-1789)<br />

La conquista della Corsica è stata veramente il capolavoro della diplomazia francese nel XVIII secolo 1 . I contemporanei<br />

erano divisi riguardo a questo successo: alcuni, come Rousseau, risposero con parole durissime all’affronto fatto al<br />

popolo corso 2 , altri, come Voltaire, pensavano che la Corsica potesse «facilmente, se ben coltivata, nutrire duecentomila<br />

uomini, fornire <strong>dei</strong> bravi soldati, e fare un giorno un utile commercio» 3 . I philosophes avevano opinioni contrastanti sul<br />

diritto d’autodeterminazione: se alcuni consideravano la conquista come un oltraggio ad una nazione libera, altri si<br />

limitavano ad ironizzare sui benefici che la Francia poteva aspettarsi da un paese montagnoso, improduttivo, senza<br />

ricchezze naturali e sulle spese necessarie per conservarlo. Ma alla fine la Corsica era di fatto francese ed i philosophes<br />

ne presero atto senza troppe lagnanze. L’interesse per l’isola si spostava dal problema sul “benessere” ed il “diritto <strong>dei</strong><br />

popoli” a quello dell’amministrazione di una terra conquistata. La parola passava agli ufficiali, agli intendenti, ai<br />

governatori. L’obiettivo ed i mezzi erano chiari e duplici: pacificare ed amministrare con fermezza.<br />

La riduzione all’obbedienza<br />

La partenza di Paoli e l’adesione alla Francia <strong>dei</strong> principali capi rivoluzionari diedero un limite provvisorio alla<br />

campagna militare. <strong>Il</strong> conte di Vaux forse scrisse troppo frettolosamente a Choiseul il 22 giugno 1769: «Tutta la Corsica<br />

è sottomessa al Re» 4 , così come erano frettolose le rassicurazioni <strong>dei</strong> notabili, riunitisi a Corte: «la nuova patria che<br />

abbiamo acquistato ci renderà solleciti a rendervi felici» 5 . I corsi adottarono un atteggiamento diffidente verso il nuovo<br />

governo: nonostante gli editti 6 del 23 maggio 1769 e del 24 maggio 1770, che prescrivevano la consegna delle armi<br />

sotto pena di morte, soltanto 1/5 <strong>dei</strong> fucili recensiti furono consegnati (12.000 su 60.000). Questa reticenza si spiega più<br />

con il secolare attaccamento <strong>dei</strong> corsi alle armi da fuoco che con la preoccupazione di non finire senza difesa alle<br />

rappresaglie del nemico o agli attacchi <strong>dei</strong> banditi. “Banditi”, “banditismo” sono parole che tornano costantemente nella<br />

corrispondenza di Vaux - costantemente irritato per l’insubordinazione generale - che sollecitava Versailles per delle<br />

misure di rappresaglia esemplari: demolizione delle case, devastazione delle proprietà, arresti inappellabili ecc...<br />

Marbeuf, che gli succedette dopo le dimissioni del maggio 1770, continuò ad esasperare questa politica di repressione,<br />

mentre la sinistra litania degli editti regi si allungava a dismisura. <strong>Dal</strong>la persecuzione <strong>dei</strong> banditi si passò direttamente a<br />

quella <strong>dei</strong> paolisti: con l’editto del 24 settembre 1770 furono condannati all’esilio, nello spazio di un mese, i parenti <strong>dei</strong><br />

patrioti che avevano seguito Paoli in Toscana. I pastori dell’interno furono costretti al domicilio coatto nelle abitazioni<br />

di fortuna sotto la minaccia della pena a tre anni di prigione; si estese la misura anche agli altri cittadini (tranne i nobili,<br />

gli ecclesiastici ed i funzionari): dopo un mese d’assenza, le case ed il bestiame potevano essere confiscati dal Demanio<br />

regio. Furono create delle giurisdizioni speciali (le quattro juntes nationales), quella di Orezza, di Caccia, di Tallano e<br />

di Mezzana, con il compito di monitorare le pievi sospette e far rispettare gli editti regi (agosto 1772). L’assassinio<br />

veniva punito con la ruota, la casa del colpevole rasa al suolo, i discendenti esclusi per sempre dalle funzioni pubbliche.<br />

Non si indietreggiava davanti a nessuna perfidia: i pastori del Fiumorbo che avevano accettato di deporre le armi furono<br />

comunque fucilati, i banditi che si arrendevano con la loro masnada ed a cui era stato promesso il perdono venivano<br />

esiliati in America: insomma, si era tornati al regime di terrore della repressione genovese.<br />

L’organizzazione amministrativa e politica<br />

Se la pacificazione era stata ottenuta con <strong>dei</strong> metodi sbrigativi, l’organizzazione amministrativa procedeva con la<br />

volontà di rispettare i particolarismi, di legare le élites e di “francesizzare” la Corsica quanto più era possibile. La<br />

ristrutturazione amministrativa si basava su una definizione giuridica che rendeva la Corsica un pays d’Etat, statuto<br />

conferito in Francia alle province con un particolarismo accentuato (Artois, Bretagna, Linguadoca, Provenza, Béarn,<br />

Borgogna). I corsi potevano eleggere 23 rappresentanti per ciascun ordine (Nobiltà, Clero, Terzo Stato), in entrambe le<br />

1 L’opera fondamentale resta, malgrado l’ottica francofila, la tesi di VILLAT L., La Corse de 1768 à 1789, 2 vol., Besançon 1924-1925 (con l’aggiunta<br />

di un volume di bibliografia critica). Si confrontino anche le sintesi di EMMANUELLI R. (cap. IX dell’Histoire de la Corse, Privat, e cap. XVI del suo<br />

Précis d’histoire de Corse cit.) e di DIANI D. nel vol. coll. Deux siècles de vie française, pp. 86 e segg. Per la storia sociale, cfr. ARRIGHI P., La vie<br />

quotidienne en Corse au XVIII e siécle, Paris 1970; utili anche le recenti opere di COLOMBANI J., Aux origines de la Corse française, Ajaccio 1978 e di<br />

DEFRANCESCHI J., La Corse française (30 nov. 1789-15 juin 1794), «Société des Études robespierristes», 1980.<br />

2 «La spedizione di Corsica, iniqua e ridicola, offende la giustizia, l’umanità, la politica e la ragione….quest’inutile e costosa conquista…». Estr. da<br />

ROUSSEAU J.J., Confessions in Œuvres complètes, IV, Paris 1964, p. 385. Un nemico di Choiseul ironizzava sul «vero motivo dell’insensato progetto<br />

di conquistare la Corsica…questo miserabile paese, che non è coltivato, né coltivabile…questo regno della miseria». Estr. da una lettera del duca<br />

d’Aiguillon, citato da VILLAT, op. cit., I, p. 136.<br />

3 VOLTAIRE, Précis du siècle de Louis XV, in ID., Œuvres historiques, Paris 1957, p. 168<br />

4 Archives Nationales, Paris, Corréspondance consulaire, B 1 591.<br />

5 Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C 93, Rapport de l’Inspecteur des Domaines, 28 janvier 1778.<br />

6 Cfr. [ACTE 1772-08-15. COMPIEGNE] Etat des 66 pieves de l’île de Corse distribuées en 4 districts pour les 4 juntes crées par l’édit d’août 1772.<br />

Conseil d’Etat de France [13-1791]. Bibliothéque Nationale François Mitterrand, Paris, Rez de Jardin.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

province dell’isola (Deçadamonts e Delàdamonts); alle assemblee rappresentative venne lasciato il nome di “Consulte”<br />

per rimarcare la continuità con le precedenti strutture amministrative: esse si riunivano ogni due anni (tra il 1770 ed il<br />

1789 si riunirono otto volte). <strong>Il</strong> ruolo delle Consulte, tuttavia, era puramente nominale: esse non potevano emettere voti<br />

ed avevano il solo, ingrato, compito di ripartire e ricevere le imposte. L’illusione dello status quo venne perpetuato fino<br />

al mantenimento nominale <strong>dei</strong> “Nobles Douze” (Nobili Dodici), a cui era confidato il ruolo di commissione permanente<br />

per conferire sulla situazione dell’isola entro lo spazio temporale di due sessioni degli Stati Provinciali. Riprendendo<br />

ancora l’antica carica genovese dell’Oratore, si permise l’elezione di tre Orateurs de la nation alla fine di ogni sessione<br />

degli Stati, incaricati di presentare al Re le richieste <strong>dei</strong> deputati, previa approvazione del Governatore e dell’Intendente.<br />

I corsi non avevano alcun potere decisionale: ogni deliberazione finale, ogni atto efficace, passava sopra le loro teste. La<br />

Monarchia concedeva solo istituzioni consultive o giurisdizioni amministrative limitate: Versailles decideva tutto 7 . Ai<br />

corsi restava solo la possibilità di presentare <strong>dei</strong> Quaderni di lamentele (Cahiers de doléance) da cui emergevano<br />

richieste confuse e diversificate, tra cui quella di un’università o della rinascita del regno di Corsica, comprovanti la<br />

reticenza alla francesizzazione. L’unica vera libertà d’azione per i corsi, bloccati a livello decisionale, restava<br />

l’amministrazione locale: rimase in vigore la figura del podestat, assistito da due péres de commun per ogni villaggio e<br />

del podestat major per la pieve; si trattava, in concreto, di un regime di notabili che assicurava la continuità con la<br />

tradizione genovese. L’unica novità riguardava la sommità della piramide del potere: il ruolo del Governatore venne<br />

diviso da due diverse figure amministrative: il Governeur e l’Intendant. <strong>Il</strong> primo assumeva i poteri militari, mentre il<br />

secondo amministrava gli affari finanziari. Questa dualità fu all’origine di innumerevoli conflitti di potere: la partenza<br />

del conte di Vaux nel 1770 e la lotta tra Marbeuf ed il suo secondo comandante Narbonne sono solo alcuni esempi. <strong>Il</strong><br />

potere effettivo di queste due figure era troppo grande rispetto all’amministrazione tradizionale dell’isola: l’Intendent ed<br />

il Governeur agivano come due veri viceré e la loro permanenza (Marbeuf dal 1770 al 1786 come governatore,<br />

Boucheporn dal 1775 al 1785 come intendente) marcò profondamente l’isola della loro personalità, imponendo una<br />

mentalità centralista che strideva con il particolarismo locale.<br />

La Giustizia<br />

<strong>Il</strong> problema che Marbeuf e l’amministrazione francese cercarono di risolvere al meglio, comprendendone la gravità, fu<br />

quello della giustizia. I francesi ebbero la saggezza di lasciare in vigore gli antichi Statuts civils nell’attesa della<br />

compilazione di un Code Corse, iniziato nel 1778 e terminato nel 1790. L’amministrazione giudiziaria venne riformata<br />

completamente: nel giugno 1768 si istituì un Consiglio superiore o Cour souveraine, omologo <strong>dei</strong> Parlamenti<br />

continentali; la sede, a Bastia, comprendeva una maggioranza di magistrati francesi (6 consiglieri su 10) presieduta<br />

dall’Intendente. Lo stesso può essere detto per le giurisdizioni inferiori, gli undici Presidial, tribunali civili di primo<br />

grado che giudicavano in appello ed applicavano gli statuts civils 8 . Ma è anche vero che esisteva una misura che<br />

attribuiva ai giudici corsi una retribuzione inferiore della metà rispetto agli omologhi del continente. La<br />

francesizzazione era un’arma a doppio taglio: da un lato permetteva ad un numero elevato di notabili corsi di accedere<br />

ai pubblici impieghi, favorendo la nascita di una classe di funzionari devoti alla Monarchia; dall’altro apriva le porte<br />

dell’isola ad una folla di nobili e notabili francesi che cercavano di arricchirsi.<br />

La Chiesa<br />

La francesizzazione si estese anche alla Chiesa. Le cinque diocesi tradizionali (Aleria, Mariana, Ajaccio, Sagona,<br />

Nebbio) rimasero inalterate, ma si cercò di inculcare al clero isolano i principi della Chiesa gallicana: la sottrazione<br />

all’obbedienza degli arcivescovati stranieri ed in una certa misura a quella del Papa, per metterla unicamente sotto<br />

l’autorità della Monarchia. Questa politica urtava con i sentimenti ultramontani del clero corso e si esprimeva con<br />

alcune misure vessatorie che risentivano dell’anticlericalismo militante del secolo <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>: diminuzione del numero<br />

<strong>dei</strong> religiosi, soppressione delle feste di precetto, espulsione <strong>dei</strong> secolari ostili ai francesi, perdita <strong>dei</strong> privilegi (per<br />

primo quello del “foro”, che sottraeva i membri del clero alla giurisdizione civile), obbligo alla sottoscrizione della<br />

dichiarazione del clero del 1682 (che aveva fondato giuridicamente il gallicanismo), nomina di tre vescovi francesi per<br />

controbilanciare l’influenza <strong>dei</strong> vescovi locali 9 , nomina regia <strong>dei</strong> maestri in teologia e <strong>dei</strong> dottori di diritto canonico,<br />

soppressione di tutti i benefici concistoriali. In breve, si trattava della disfatta della Chiesa corsa: «…con il pretesto di<br />

difendere la Chiesa, il Re aveva completamente asservito e subordinato [la Chiesa] allo Stato» 10 .<br />

La nobiltà<br />

Al contrario di quanto accadde per il clero, con la nobiltà isolana si arrivò ad un rapido accomodamento, anche perché<br />

7 Villat cita questa frase caratteristica del Ministro francese: «Fin quando è evidente che ci si propone di agire per l’utilità generale, non c’è alcuna<br />

necessità di ascoltare una provincia che è ancora troppo poco illuminata sui suoi veri interessi per sapere ciò che può esserle utile o nocivo». Estr. da<br />

VILLAT L., op. cit., II t., p. 85.<br />

8 In aggiunta esistevano i tribunali marittimi o Bureaux d’amirauté di Bastia ed Ajaccio.<br />

9 Nonostante le proteste di Roma, che proclamava di non voler «alienare né diminuire i diritti temporali di cui godeva la Santa Sede nell’isola»;<br />

Archivio Segreto Vaticano, fondo Segreteria di Stato, serie Corsica, fascicoli 8 e 9 e serie Francia fasc. 3-7; Archivio di Stato di Roma, fondo<br />

Congregazione degli Spogli, buste 132 e 133; fondo Camerlengato, parte I, busta n. 47 (1816-1823) I. affari esteri, disposizioni e regolamenti, fogli 6<br />

e 7, nota <strong>dei</strong> consoli pontificii.<br />

10 Mons. De Guernes, vescovo di Aleria, che aveva osato criticare l’amministrazione di Marbeuf, fu confinato nella sua diocesi con la clausola di non<br />

poterne uscire. Venne graziato nel 1789. Cfr. CASANOVA A., op. cit., III, p. 64.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

senza la partecipazione della classe nobiliare non poteva avvenire una reale assimilazione. La preoccupazione di far<br />

aderire un’élite sociale alla classe dirigente francese e la volontà di marcare nettamente la differenza con<br />

l’amministrazione genovese, spinsero Versailles ad aprire le porte dell’amministrazione alla nobiltà corsa. Si trattava di<br />

un’apertura che contrastava nettamente con la parsimonia genovese che, in quattro secoli, aveva nobilitato solo cinque<br />

famiglie (Cortinco de Bagnaja, Casale, Sorba, Cuneo, Matra). L’editto regio dell’aprile 1770 era di una liberalità<br />

estrema: furono riconosciute e nobilitate quasi 80 famiglie corse. Congiuntamente alla creazione di una nuova nobiltà,<br />

furono ampiamente ricompensate le persone che avevano dato prova costante di lealtà alla Francia prima della<br />

conquista. Inoltre, per favorire la fusione <strong>dei</strong> gradi militari superiori, la Monarchia accordò delle borse di studio ai<br />

giovani nobili che frequentavano le scuole militari del continente per terminare gli studi superiori (oltre al giovane<br />

Bonaparte a Brienne, partirono anche i figli <strong>dei</strong> notabili più in vista). Le giovani donne potevano beneficiare, invece,<br />

delle “borse di carità” per la scuola di Saint-Cyr, fondata nel 1685 da Luigi XIV su ispirazione di Madame de<br />

Maintenon, che assicurava l’educazione delle giovani nobili cadute in disgrazia.<br />

L’istruzione<br />

La Monarchia tendeva a perseguire la politica di francesizzazione e di integrazione con ogni mezzo: non si trattava solo<br />

di governare, ma di assimilare la Corsica e questo presupponeva la fusione dell’autonoma cultura nazionale.<br />

L’istruzione era quindi una direttiva fondamentale dell’osmosi forzata tra la Francia e la Corsica. Nonostante le<br />

promesse di riapertura, reiterate cinque volte dagli Stati provinciali, l’Università di Corte non venne più riaperta. Per<br />

quanto riguarda l’istruzione secondaria, si riaprì nel 1770 uno <strong>dei</strong> due collegi gesuiti (a Bastia), chiuso nel 1768 in<br />

conformità con l’editto del 1764, che sopprimeva la Compagnia di Gesù. Rimase chiuso anche il collegio di Ajaccio e,<br />

comunque, entrambe le istituzioni scolastiche, nel 1773, furono soppresse: gli insegnanti si dispersero in altre scuole<br />

dell’isola o presero la via dell’esilio. La fondazione, nel 1777, di quattro nuovi collegi (Bastia, Calvi, Ajaccio,<br />

Cervione) non modificò di molto la situazione: i collegi di Calvi e di Cervione furono soppressi nel 1785, quello di<br />

Bastia declinò lentamente. Al contrario, un nuovo, grande impulso venne dato all’istruzione primaria: ogni comunità<br />

possedeva il suo maestro (in genere un sacerdote), pagato in denaro o in natura; tuttavia, dato che la maggior parte degli<br />

allievi di queste scuole si indirizzava alla carriera ecclesiastica, l’amministrazione francese ne impedì lo sviluppo<br />

concreto, evitando l’erogazione di borse e di sussidi. La mentalità fortemente anticlericale giustifica la lentezza nel<br />

riaprire i seminari: a partire dal 1764, essi furono trasformati in caserme e ripresero la loro originaria attività solo tra il<br />

1783 ed il 1784. Per la formazione <strong>dei</strong> sacerdoti era prevista la frequenza ai seminari di Aix-en-Provence, di Avignone e<br />

di Autun, con l’applicazione <strong>dei</strong> criteri del numerus clausus e della condizione sociale (potevano accedere solo i<br />

membri di famiglie in grado di assicurare il mantenimento economico del seminarista). <strong>Il</strong> clero corso si era allineato<br />

solo in parte alla Monarchia: in materia ecclesiastica, il confronto tra il regime genovese ed il regime francese è<br />

sfavorevole a quest’ultimo. Gli effetti della conquista si fecero sentire in maniera pesante solo sulle masse popolari; per<br />

la nobiltà e l’alta borghesia l’affiliazione ad una Monarchia e ad uno Stato potente come quello francese, arrecava <strong>dei</strong><br />

vantaggi indiscutibili. Questo era ancora più evidente nel settore della politica economica.<br />

§ 2. La Politica economica dell’Ancien Régime<br />

I progetti della Francia per il ristabilimento di un’economia forte e prospera nell’isola erano lungimiranti 11 : «bisogna<br />

ridare all’isola quella prosperità che le spetta. Le intenzioni sono eccellenti, i regolamenti un po’ meno, la messa in<br />

pratica non vale nulla» 12 . Questo giudizio severo contrasta con i vivi elogi che Louis Villat aveva dato alla<br />

colonizzazione agricola <strong>dei</strong> francesi in Corsica. Bisogna dire che, in linea di massima, il bilancio della politica<br />

economica francese è stato positivo: le linee d’ombra sono imputabili unicamente alla mancanza di tempo (appena<br />

vent’anni) e all’incomprensione tra le intenzioni <strong>dei</strong> nuovi conquistatori e la secolare resistenza alle innovazioni tipica<br />

<strong>dei</strong> corsi, come si è già notato sotto la dominazione genovese ed in seguito alla notifica del Plan Terrier del 1770.<br />

11 Oltre all’opera già citata di VILLAT L., La Corse de 1768 à 1789, in particolare il II tomo, capp. IX e X. Cfr. anche i capp. I e III de La vie<br />

quotidienne en Corse au XVIII e siècle di ARRIGHI P. Per l’agricoltura, cfr. l’opera di SPINOSI F., Essai sur l’economie rurale corse aux XVII e et XVIII e<br />

siècle ed infine Le Plan Terrier de la Corse au XVIII e siècle di ALBITRECCIA A., cit.<br />

12 cfr. DIANI D., vol. coll. Deux siècles de vie française cit., p. 89.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

Figura 49: Planimetria del circondario di Cargese dal Plan Terrier de la Corse, 1773 (Arch. Nat., Paris, Q 1 298 6 ).<br />

L’agricoltura<br />

Conformemente alle disposizioni del Plan Terrier si tracciarono <strong>dei</strong> precisi piani per la valorizzazione dell’agricoltura.<br />

In questo caso Marbeuf poteva contare sull’appoggio dell’intendente Bouchepron e sfruttare la ricca documentazione<br />

fornita dalle inchieste agricole promosse dai francesi sin dal loro insediamento in Corsica. In Francia prevaleva un<br />

ottimismo eccessivo e fuori luogo, che generò illusioni presto smentite: Boswell, Germanés e Pommereul esaltavano la<br />

prodigiosa fertilità del suolo, a cui contrapponevano l’immobilismo o il “disgusto” <strong>dei</strong> corsi per il lavoro della terra. In<br />

seguito, prese le misure della reale estensione del territorio e verificate le sue condizioni, i francesi cominciarono una<br />

lunga opera di fertilizzazione del suolo: dissodamento, prosciugamento delle paludi, canalizzazione degli stagni,<br />

incoraggiamento alla coltivazione <strong>dei</strong> cereali e degli alberi da frutto 13 . I proprietari <strong>dei</strong> castagneti furono incentivati con<br />

un premio per le piantagioni, mentre l’esportazione delle castagne, inizialmente vietata, venne incoraggiata. I francesi<br />

cercarono di incentivare la coltivazione degli olivi per ricavare un maggiore quantitativo d’olio e favorirono la<br />

coltivazione degli agrumi, estesa a molte zone dell’isola. L’introduzione di nuove colture, come quella del tabacco, del<br />

lino, della canapa, delle patate e del gelso, favorì gli investimenti di alcuni notabili. I francesi sollecitarono anche una<br />

riorganizzazione del sistema dell’allevamento, con una serie di misure fortemente osteggiate dai pastori<br />

(regolamentazione della “vana pastura”, obbligo di recinzione, divieto della libera circolazione delle capre, degli asini e<br />

<strong>dei</strong> cavalli; stretta sorveglianza delle mandrie, regolamentazione del debbio). Si trattava, insomma, di tentativi e progetti<br />

di enorme portata, anche se non sempre allineati alla secolare struttura agricola e pastorale dell’isola.<br />

Le manifatture<br />

Le misure adottate per l’agricoltura si accompagnavano spesso a tentativi più timidi per lo sviluppo manifatturiero. La<br />

lavorazione <strong>dei</strong> prodotti in legno rimase debole per la scarsità delle vie di comunicazione. Si tentò, ma anche qui con<br />

scarso successo, di installare manifatture di sapone; si favorì la fabbricazione e l’esportazione di cera, di miele, di sego,<br />

ma con scarsi risultati. Stesso insuccesso per la seta e per le tele, entrambe prodotte per la prima volta a Bastia. Nella<br />

maggioranza <strong>dei</strong> casi, non mancava affatto la volontà o l’aiuto della Monarchia: l’insuccesso può essere imputato allo<br />

scarso spirito d’iniziativa <strong>dei</strong> corsi, che mal sopportavano l’introduzione di tecniche industriali contrarie ai loro interessi<br />

immediati. Se l’isola non ha mai avuto un vero decollo economico è colpa sia <strong>dei</strong> francesi, che non hanno compreso la<br />

peculiarità economica, politica e culturale dell’isola, sia <strong>dei</strong> corsi, poco inclini a sperimentare ed avviare le riforme<br />

promosse dalla Francia nel loro interesse.<br />

Strade e Porti<br />

I francesi riuscirono pienamente nell’impresa di sviluppo e miglioramento delle strade dell’isola, pressoché inesistenti:<br />

non esisteva una strada degna di questo nome, ma solo qualche sentiero. L’amministrazione si preoccupava soprattutto<br />

di costruire strade strategiche, la cui assenza aveva ritardato la conquista dell’isola (le prime due vie di collegamento<br />

costruite furono quelle tra Bastia ed Ajaccio, passando per Corte, e quella tra Bastia e San Fiorenzo), senza pensare di<br />

collegare i villaggi, che rimasero isolati sulle montagne. Venne incoraggiato lo sviluppo del commercio, cercando di<br />

difendere gli scambi mercantili <strong>dei</strong> corsi dalla concorrenza genovese, vietando l’apertura di nuove botteghe senza<br />

13 Arch. dép. Corse-du-Sud, Ajaccio, Série C, Intendence 98. Anche Serie B, Conseil superieur ed 1B3 pp. 105-109.<br />

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CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

l’accordo <strong>dei</strong> magistrati 14 . La politica commerciale portata avanti dalla borghesia isolana era poco equilibrata: le<br />

importazioni superavano ampiamente le esportazioni (in proporzione: 5 contro 1 nel 1787) e si sviluppava secondo lo<br />

schema tipico dell’economia coloniale: si esportavano i prodotti del suolo o dell’allevamento per importare i prodotti<br />

finiti. Le vie commerciali, infine, si snodavano tra le coste italiane ed il porto di Marsiglia, prova supplementare della<br />

progressiva integrazione dell’economia isolana nell’orbita francese. <strong>Il</strong> commercio restava comunque modesto,<br />

commisurato alla minuscola flotta isolana che, con i suoi 283 bastimenti, rappresentava, nel 1787, una massa totale di<br />

merci di appena 4041 tonnellate.<br />

Le finanze<br />

Nei primi anni dell’occupazione, i francesi scelsero delle manovre impopolari e vessatorie: ristabilimento delle corvées,<br />

delle taglie, delle gabelle, alloggiamento gratuito <strong>dei</strong> militari nei borghi e nelle città (dragonnades). A partire dal 1770,<br />

si decretò il pagamento di una modica provvigione (120.000 lire) ripartita tra le regioni dai Douze Nobles sotto il<br />

controllo <strong>dei</strong> francesi. L’evidente malafede delle dichiarazioni, le rivalità delle pievi, i secolari intrighi locali,<br />

provocarono un generale malcontento aggravato dal pesante gettito fiscale, poco naturale per un popolo povero ed<br />

abituato a pagare poche imposte. Nel 1778 viene istituita una “sovvenzione sulla frutta”, che era una vera e propria<br />

decima sui prodotti della terra, fissata ad 1/20 <strong>dei</strong> raccolti (vingtiéme): essa recava, apparentemente, l’eguaglianza<br />

fiscale, ma in realtà non era sempre proporzionata agli introiti e nemmeno facilmente controllabile 15 . Le entrate<br />

cominciarono ad aumentare nel corso del decennio 1778-1788: il Re si accontentò di prelevare costantemente 120.000<br />

lire di sovvenzione fiscale, ma le entrate del Demanio regio erano, per la maggior parte, indirette. Gran parte della<br />

storiografia francese ha sottolineato come il sistema fiscale monarchico fosse il «beneficio più sicuro che i corsi abbiano<br />

tratto dal riconoscimento della loro povertà: basti pensare che nei Cahiers de doléances del 1789 non si è ritrovata<br />

alcuna lamentela su questa forma di imposizione fiscale» 16 . Questa interpretazione della politica fiscale della Monarchia<br />

è, comunque, poco precisa: i documenti d’archivio hanno mostrato, al contrario, non soltanto una dura presa di<br />

posizione <strong>dei</strong> pastori-coltivatori contro la politica fiscale dell’amministrazione regia, ma anche una enorme presenza di<br />

«sabotatori e sediziosi» che cercavano di impedire, anche con la forza, la riscossione della vingtiéme.<br />

La colonizzazione<br />

I corsi non avevano, comunque, una fede cieca e totale sulle intenzioni <strong>dei</strong> francesi. Certe iniziative governative, in<br />

effetti, potevano inquietare la popolazione, come nei costanti tentativi di colonizzazione, spiacevolmente ispirati ai<br />

precedenti tentativi genovesi. Genova aveva introdotto nell’isola <strong>dei</strong> coloni greci (a Paomia) e progettava di far<br />

insediare degli olandesi a Porto Vecchio, anche se questi tentativi andarono in fumo per l’ostilità <strong>dei</strong> pastori corsi.<br />

Marbeuf riprese questo progetto: i greci di Paomia, rifugiatisi ad Ajaccio, furono inviati a Cargese nel 1775, una piccola<br />

città adatta al loro numero 17 . Gli sfortunati greci di Cargese subirono spesso, come altre volte in passato, la collera <strong>dei</strong><br />

corsi delle montagne: essi furono cacciati dalla città nell’ottobre 1793 e vi tornarono solo nel 18<strong>11.</strong> Anche gli altri<br />

tentativi di colonizzazione straniera subirono una sorte infelice: alcuni canadesi d’origine francese furono contattati dal<br />

governo francese per fondare una colonia nell’isola, ma il progetto fallì quasi subito. Al contrario, una cinquantina di<br />

famiglie della Lorena furono trasferite alle Porrette, attorno allo stagno di Biguglia: decimata dalla malaria, la colonia<br />

venne evacuata nel 1773. Stesso insuccesso per una colonia francese che si era insediata nelle terre di Galeria ed attorno<br />

a Calvi, costretta a fuggire per l’ostilità degli isolani. Soltanto l’immigrazione spontanea degli stranieri, tra cui molti<br />

italiani, era riuscita ad aprire un varco all’interno dell’isola.<br />

La Demografia<br />

La povertà demografica della Corsica era una preoccupazione costante per il governo francese. Un primo censimento<br />

enumerava, per il 1740, circa 120.000 abitanti 18 . Quello del 1770 permise di calcolare circa 130.000 persone; quello del<br />

1786 ne annoverava 150.000 circa. In generale il progresso fu lento, ma costante ed indica certamente un miglioramento<br />

delle condizioni di vita della popolazione. Buona parte di questa crescita demografica era dovuta al calo della mortalità,<br />

grazie alla nuova politica sanitaria: medici più numerosi e ben qualificati; migliore igiene nella città e fondazione di<br />

“uffici di sanità”; lotta contro le epidemie, modernizzazione degli ospedali, ecc. Questo aumento demografico era<br />

evidente soprattutto nelle città 19 , dove si registravano migliori condizioni di vita, ma anche nelle campagne, seppure con<br />

indici più bassi (con la sola eccezione del Niolo, vittima della ribellione del 1774 e delle rappresaglie francesi). <strong>Il</strong> dato<br />

14<br />

MARTINI M., Aspects de l’activité agricole et marittime de la Corse cit., pp. 179-206.<br />

15<br />

Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C, Intendence 585. Memoria di Collières, appaltatore di Bonifacio, concernente la frode sulle presse.<br />

16 e<br />

Cfr. DIANI D., nel vol. coll. Deux siècles de vie française, pp. 98 e segg. Cfr. inoltre ARRIGHI P., La vie quotidienne en Corse au XVIII siécle, Paris<br />

1970; utili anche le recenti opere di COLOMBANI J., Aux origines de la Corse française (Politique et institutions), Ajaccio 1978 e di DEFRANCESCHI J.,<br />

La Corse française cit.<br />

17<br />

La presenza <strong>dei</strong> greci sembrava ancora più inopportuna perché simboleggiava la prepotente ostentazione del potere francese: Marbeuf, divenuto<br />

marchese di Cargese nel 1778, fece costruire qui, nel 1780, un superbo castello circondato da un grande giardino con numerosi alberi da frutto, olivi e<br />

gelsi, dove veniva a passare una parte dell’anno con la sua famiglia. Cfr. PAPADACCI E., Histoire de Cargèse-Paomia, Paris 1967.<br />

18<br />

Secondo Roger Le Mée è una cifra plausibile. Cfr. LE MEE R., Un dénombrement des Corses en 1770, «Acte du Colloque d’Ajaccio de 1969:<br />

Problémes d’histoire de la Corse (de l’Ancien Régime à 1815)», Paris 1971, pp. 23-43.<br />

19<br />

Soprattutto a Bastia che, dal 1740 al 1786 passò da 28.000 a 36.500 abitanti; Ajaccio da 21.000 a 23.400; Sartena da 9.600 a 14.500; Corte da<br />

14.800 a 18.000.<br />

172


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

più interessante è costituito dal tasso di crescita annuo (circa 8,5‰) «cifra che poche altre province francesi potevano<br />

rivendicare» 20 . Sicuramente le cause di questo lieve incremento devono essere attribuite alla nuova urbanizzazione, alle<br />

migliore condizioni di vita generali, alle maggiori cure sanitarie, ma anche agli stessi corsi, che avevano diminuito<br />

enormemente gli omicidi e le vendette per paura delle rappresaglie del governo.<br />

Figura 50: Mappa generale delle Corti di giustizia e <strong>dei</strong> parlamenti francesi nel 1786 (Bibliothéque Nationale François Mitterrand, Paris, Rez<br />

de Jardin).<br />

Un bilancio della Corsica alla vigilia della Rivoluzione (1769-1789).<br />

Non è semplice tracciare un bilancio preciso del ventennio d’Ancien Régime in Corsica. Gli storici corsi della prima<br />

metà del XX secolo mostravano forse un eccessivo attaccamento alla causa francese, testimoniata dall’opera di Louis<br />

Villat 21 : il titolo della sua tesi “<strong>Il</strong> dono della Corsica alla Francia” è già esemplificativo. La Francia era sicuramente<br />

riuscita nella sua opera di assimilazione, anche se solo in superficie: la francesizzazione si era fermata, così come<br />

accadde per Genova, alla costa: porti, città, luoghi presidiati. A questa assimilazione orizzontale si univa anche<br />

l’assimilazione verticale: soltanto i notabili, i nobili, i militari corsi si erano sentiti partecipi della nuova nazione (con<br />

l’eccezione <strong>dei</strong> Bonaparte, inizialmente paolisti, poi riallineati ai nuovi quadri dirigenziali e nobiliari francesi). <strong>Il</strong><br />

popolo <strong>dei</strong> contadini, <strong>dei</strong> pastori, delle comunità, <strong>dei</strong> villaggi, delle pievi non era mai stato veramente genovese: allo<br />

stesso modo, non poteva passare nel giro di vent’anni all’obbedienza incondizionata alla monarchia francese. L’unica<br />

vera differenza, rispetto al governo genovese, era una maggiore potenza dell’invasore, ed un governo molto meno<br />

disposto ad accettare le differenze economiche, politiche, amministrative e culturali dell’isola. In effetti, c’erano <strong>dei</strong><br />

motivi seri dietro a questo rifiuto <strong>dei</strong> corsi: 1) l’abuso di regolamentazioni che nessuno prendeva sul serio all’interno<br />

dell’isola, anche perché poco conformi alla realtà locale; 2) la molteplicità contrastante <strong>dei</strong> poteri (Gouverneur contro<br />

Intendant; ministero della guerra contro ministero delle finanze o della giustizia); 3) gli eccessi <strong>dei</strong> funzionari francesi<br />

che, oltre alla prepotenza, aggiungevano il disprezzo per gli isolani; 4) il malessere economico dovuto al passaggio della<br />

Corsica, a partire dal 1773, sotto la giurisdizione del controllore generale delle finanze; questa tutela, durata fino al<br />

1788, si tradusse nella proliferazione di funzionari ed esperti tendenti a ridurre fortemente l’erogazione di crediti a<br />

favore dell’amministrazione isolana. A queste cause, di per sé insufficienti a spiegare l’insubordinazione delle masse<br />

popolari, si deve aggiungere il disprezzo per la lingua corsa (assimilata all’italiano e fortemente osteggiata) e la<br />

20 LEMÈE R., op. cit., p. 45. Cfr. anche SIMI P., Démographie et mise en valeur de la Corse, in AA. VV., Mélanges d’Études Corses offerts à Paul<br />

Arrighi, Aix-en-Provence 1971, pp. 248-249 e COMITI V.P., La géographie médicale de la Corse à la fin du XVIII e siècle, Genève- Paris 1980, cap.<br />

VI, pp. 65-81.<br />

21 Vedi il bilancio tracciato da AMBROSI A., nell’Histoire des Corses cit.: «Era la prima volta che un governo straniero si preoccupava di sollevare<br />

economicamente e moralmente la Corsica, senza pensare solo ad arricchirsi a sue spese».<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

conseguente imposizione del francese in tutti gli atti ufficiali, negli editti, nelle gazzette, nei tribunali, nelle scuole: la<br />

lingua degli invasori dominava la vita pubblica.<br />

Esistevano, ovviamente, anche altri seri motivi di malcontento, come ha messo bene in evidenza Diani 22 : 1) il rincaro<br />

del costo della vita, provocato dall’eccessiva tassazione sui diritti d’entrata <strong>dei</strong> materiali e <strong>dei</strong> manufatti; 2) la mentalità<br />

colonizzatrice <strong>dei</strong> francesi: essi favorivano con ogni mezzo l’ascesa <strong>dei</strong> notabili allineati al regime che, già detentori<br />

della ricchezza fondiaria, si accaparravano anche il potere politico. 3) la memoria del periodo d’indipendenza governato<br />

da Pasquale Paoli.<br />

L’integrazione alla Francia, dal punto di vista sociale, era connaturata al sistema: l’aristocrazia corsa si allineava alla<br />

Monarchia francese perché in essa ritrovava la conferma ufficiale degli antichi privilegi giuridici ed un sostegno vigile<br />

al proprio dominio economico. Anche i notabili si uniformavano ad un regime che, se non garantiva proprio tutti i posti<br />

chiave (la concorrenza francese era spietata), almeno lasciava aperte le porte della carriera militare, che garantiva il<br />

prestigio e la fama <strong>dei</strong> discendenti. <strong>Il</strong> clero, specie quello secolare, doveva avere inevitabilmente delle riserve, dato che<br />

si sentiva sorvegliato ed umiliato dagli anticlericali. Non deve stupire affatto che il popolo minuto si opponesse con<br />

forza all’occupazione francese: pastori e contadini non comprendevano lo slittamento verso un’economia di produzione<br />

industriale che ledeva i loro interessi e modificava la struttura tradizionale dell’economia isolana. Se a questo si<br />

aggiunge, poi, il lento, ma costante sommovimento delle coscienze verso le nuove idee rivoluzionarie (che in Corsica<br />

erano state già preannunciate nei quarant’anni di governo di Pasquale Paoli), si riesce a delineare un quadro esauriente<br />

della situazione isolana alla vigilia della Rivoluzione Francese.<br />

Figura 51: Mappa amministrativa della Corsica nel 1770.<br />

§ 3. La Rivoluzione francese e la Corsica: 1789-1794<br />

La sfaldatura politica tra le classi sociali apparve chiaramente allo scoppio della Rivoluzione francese. In Corsica, a<br />

differenza di quanto accadeva in Francia, pochi segni lasciavano presagire un profondo cambiamento politico: i notabili<br />

si lamentavano, già prima dell’89, di essere tenuti all’oscuro degli affari della nazione. Un documento del 1788, che<br />

riassumeva le lamentele della Corsica, si limitava a reclamare il ritorno dell’isola sotto la tutela del Département de la<br />

Guerre, richiesta esaudita nell’agosto di quell’anno. I notabili corsi deputati agli Stati Generali insistevano per far<br />

affermare solennemente «il carattere costante, fisso, ufficiale, definitivo, stabile, irrevocabile» dell’unione dell’isola alla<br />

Francia, per far tacere le voci persistenti su un imminente ritorno della Corsica a Genova 23 . Quando apparve ormai<br />

22 DIANI D., vol. coll. Deux siècles de vie française cit., p. 58 e segg.<br />

23 Esistono soltanto sessantatre Cahiers de Doléances documentati per la Corsica (quelli della giurisdizione della Porta, presso Bastia, quelli della<br />

provincia di Ajaccio e solamente un Quaderno [quello di Calacuccia] per la giurisdizione di Corte, ed un altro [quello di Olmi-Capella] per la<br />

giurisdizione di Calvi). Cfr. i documenti conservati all’Arch. dép. Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C, 637. I Quaderni di Calacuccia e di Olmi Capella si<br />

trovano negli archivi municipali di questi due villaggi. Una copia è stata depositata all’Archives départementales de la Haute-Corse a Bastia. <strong>Il</strong> testo<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

evidente, alla convocazione degli Stati Generali del 1789, che la Corsica sarebbe stata rappresentata come tutte le altre<br />

province francesi, a parità di diritti e di riconoscimenti, scoppiò l’entusiasmo <strong>dei</strong> rappresentanti: l’assimilazione alla<br />

nazione francese aveva, in tal senso, un riconoscimento ufficiale 24 .<br />

I Cahiers de doléances<br />

Non emergono sentimenti d’insofferenza verso la nuova patria dai Cahiers des doléances che i quattro deputati (l’abate<br />

Peretti per il clero, il conte Matteo Buttafoco per la nobiltà, l’avvocato Saliceti ed il conte Colonna de Cesari Rocca per<br />

il Terzo Stato) portarono a Versailles. In generale, le riforme proposte dai deputati corsi variavano da un Ordine<br />

all’altro 25 . La Nobiltà, grande beneficiaria dell’occupazione francese, si trovava d’accordo con il Terzo Stato nel<br />

sostenere la totale incorporazione della Corsica alla Francia, ma quest’ultimo proponeva che le navi corse potessero<br />

esporre la testa di Moro (emblema vietato dal 1768) insieme alla bandiera francese: era comunque il segno della<br />

sopravvivenza di un forte sentimento nazionale. <strong>Il</strong> Terzo Stato e la Nobiltà erano d’accordo – caso unico rispetto alle<br />

altre province francesi - nel promuovere una certa liberalità nell’ostensione delle prove nobiliari: i deputati corsi<br />

sostenevano che, in assenza di titoli formali, il tenore di vita ed i titoli potessero comprovare l’appartenenza<br />

all’aristocrazia. La richiesta di questo riconoscimento non impedì al Terzo Stato di reclamare la soppressione <strong>dei</strong><br />

privilegi feudali maggiormente difesi dalla Nobiltà: riscossione delle corvèes, ereditarietà delle cariche, distinzione<br />

delle pene, diritto al porto d’armi, reintegrazione <strong>dei</strong> diritti giurisdizionali riconosciuti dal governo genovese, ecc.<br />

Questo dato mostrava chiaramente come la Nobiltà corsa non fosse assimilabile all’omonima continentale, ma<br />

provenisse in gran parte dalla classe <strong>dei</strong> Notabili, attaccati più che mai alle forme esteriori, soprattutto onorifiche:<br />

infatti, al di là delle apparenze, il Terzo Stato e la Nobiltà corsa convergevano su quasi tutti i punti. Le richieste <strong>dei</strong><br />

deputati erano omogenee: da un lato si richiedeva il libero acceso a tutte le funzioni pubbliche e l’apertura degli<br />

impieghi ai corsi (rivendicazione presentata con più vigore dal Terzo Stato, che reclamava per sé la metà <strong>dei</strong> deputati<br />

agli Stati provinciali), a cui il governo monarchico rispose positivamente. <strong>Dal</strong>l’altro, si denunciava il malfunzionamento<br />

della giustizia (erano numerose le richieste per la pubblicazione di un nuovo Codice criminale, per la mitigazione delle<br />

pene e per la soppressione della lettre de cachet - ordine d’imprigionamento) e dell’amministrazione (uguaglianza di<br />

trattamento tra funzionari francesi e corsi; maggiore libertà ai poteri locali). <strong>Il</strong> Terzo Stato e la Nobiltà convergevano<br />

ancora su altri punti essenziali: l’inviolabilità del diritto di proprietà (garanzia al cittadino contro le espropriazioni dello<br />

Stato e le confische attuate «per motivi d’utilità pubblica» non seguite da risarcimento) e, dal punto di vista economico,<br />

sul diritto di dogana (con questa differenza: il Terzo Stato ne domandava la soppressione pura e semplice, la Nobiltà<br />

una diminuzione). I deputati <strong>dei</strong> vari Ordini convergevano anche su altri due punti essenziali: la ricostituzione<br />

dell’Università di Corte e l’estensione degli sgravi fiscali (imposta regressiva), con il conseguente aumento delle<br />

partecipazioni statali in un’isola che poteva offrire unicamente un «tributo di zelo e di fedeltà». In sostanza, non<br />

traspariva nulla di rivoluzionario nei Cahiers de doléances. <strong>Il</strong> livello ideologico e politico delle richieste <strong>dei</strong> deputati<br />

corsi era moderatamente riformista, dato che non erano messe in discussione né la Monarchia, né l’unione della Corsica<br />

alla Francia, né la struttura gerarchica della società (il Terzo Stato si limitava a chiedere una maggiore responsabilità<br />

nella direzione degli affari generali), né i fondamenti economici del sistema (il diritto di proprietà era, al contrario,<br />

solennemente riaffermato). Tutt’al più si potrebbero rintracciare le linee politiche della futura corrente girondina, data<br />

l’importanza che i deputati corsi accordavano all’autonomia provinciale, alla decentralizzazione, alla partecipazione <strong>dei</strong><br />

cittadini alla vita politica nazionale. I notabili corsi somigliavano ai loro omologhi delle province francesi: essi non<br />

aspettavano una rivoluzione, ma solo un insieme coerente di riforme.<br />

del Quaderno generale del Terzo Stato si trova alle Archives Nationales di Parigi, serie B A 34. I Quaderni generali <strong>dei</strong> tre ordini sono stati pubblicati<br />

dall’abate LETTERON nel «B.S.S.H.N.C.», VI (1897) in appendice all’edizione di ROSSI A., Osservazioni storiche sopra la Corsica, redatte tra il 1778<br />

ed il 1820, 17 vol., di cui 13 pubblicati nel «B.S.S.H.N.C.», 1895-1906, vd. vol. VI (1897, fs. 202-205), VII (1898, fs 209-213), VIII (1899, fs. 214-<br />

217), IX (1900, fs. 229-233), X (1900, fs. 237-240), XI (1902, fs. 260-265).<br />

24 Questo atto generò reazioni diverse sul continente: il giovane Bonaparte, per esempio, era profondamente ostile al riconoscimento formale della<br />

Corsica come provincia francese; dalla guarnigione di Valence egli scrisse a Paoli (per il suo 61° compleanno, il 26 aprile 1786) che «sperava sempre<br />

nella fine del giogo francese». <strong>Il</strong> 3 maggio, alla vigilia di un congedo che doveva riportarlo in Corsica dopo otto anni d’assenza, immaginava: «I<br />

compatrioti coperti di catene, che baciano tremanti la mano che li opprime…francesi, non contenti di aver rapito tutto quello che amavamo, avete<br />

anche corrotto i nostri costumi…». Tre anni più tardi, i suoi sentimenti non sembravano cambiati: «Generale, io sono nato quando la patria moriva,<br />

trentamila francesi gettati sulle nostre coste hanno affogato il trono della libertà nel sangue…la schiavitù fu il prezzo della nostra sottomissione,<br />

oppressi dalla tripla catena del soldato, del legislatore e dell’esattore, i nostri compatrioti vivono infelicemente». Cfr. BONAPARTE N., Manuscrits<br />

inédits. 1786-1791, a cura di MASSON F. e BIAGI G., Paris 1910, p. 23.<br />

25 Sulle rivendicazioni proprie del clero, il primo “ordine” secondo la gerarchia dell’Ancien Régime, non possiamo dire nulla di preciso, perché non è<br />

rimasta traccia delle richieste; molti fondi d’archivio sui Cahiers sono andati perduti, e solo con lo spoglio di quelli della Nobiltà e del Terzo Stato si<br />

possono trovare riferimenti esaurienti. In materia religiosa, contrariamente a quello che accadeva sul continente, non esisteva una vera ostilità verso la<br />

Monarchia; la sola eccezione era data dal basso clero e dal vescovo di Ajaccio, Mons. Doria, d’origine genovese.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

Figura 52: l’assalto alla Bastiglia di Jean Pierre Houel.<br />

La Rivoluzione in Corsica<br />

Gli avvenimenti in Corsica andarono ben più velocemente di quel che credeva la classe dirigente: si passò dalla<br />

Monarchia alla Repubblica con una dinamica rivoluzionaria tipica della struttura sociale e politica dell’isola, sebbene in<br />

modo conforme al processo generale del paese 26 : Gli isolani seguivano con un’attenzione crescente, con una specie di<br />

fiero entusiasmo, gli avvenimenti della Francia. Qualcuno si inquietava per le voci ricorrenti di una nuova cessione<br />

dell’isola a Genova, ma, al di là <strong>dei</strong> timori del Gouverneur, non avvenne alcuna sommossa generale. L’organizzazione<br />

rivoluzionaria era stata introdotta in Corsica da alcuni repubblicani, tra cui il più noto era il giovane Bonaparte:<br />

quest’ultimo, tornato nell’isola nel settembre 1789, si era attivato per la formazione delle milizie civiche e delle guardie<br />

nazionali. Bonaparte denunciava gli intrighi dell’amministrazione, formata da «avventurieri che vengono nel nostro<br />

paese solo per arricchirsi e lasciare l’esempio di un lusso sfrenato» 27 e raggruppava, attorno al fratello Luciano e a suo<br />

zio Fesch, i notabili ajaccini per formare la nuova guardia nazionale. Lo stesso accadde a Bastia, grazie all’intervento di<br />

Saliceti. L’esempio delle due città principali contagiò, progressivamente, il resto <strong>dei</strong> villaggi dell’isola. Francesco<br />

Gaffori, nominato nel frattempo commissario per il Diladamonti, comprese che l’agitazione stava prendendo l’aspetto<br />

di una nuova rivoluzione ed abbandonò precipitosamente Ajaccio, mentre nell’isola scoppiavano <strong>dei</strong> moti spontanei in<br />

cui si mescolavano i rimpianti dell’antica nobiltà, le aspirazioni repubblicane, i sentimenti antifrancesi e le tradizionali<br />

rivendicazioni <strong>dei</strong> pastori-coltivatori. Tuttavia, la maggioranza della classe dirigente isolana era unita alla Francia da<br />

troppi interessi e si rivolse ai deputati eletti agli Stati Generali per far confermare la Corsica come «parte integrante<br />

dello Stato».<br />

<strong>Il</strong> decreto del 30 novembre 1789.<br />

In seguito ad un dibattito confuso, su proposta del deputato Saliceti, l’Assemblea Nazionale approvò il 30 novembre il<br />

seguente testo: «L’Assemblea nazionale dichiara che la Corsica fa parte dell’Impero francese, che i suoi abitanti devono<br />

essere regolati dalla stessa costituzione degli altri francesi, che, da ora, il Re sarà supplicato di farvi pervenire ed<br />

26 Per un confronto con la Francia d’Ancien Régime e con la Francia rivoluzionaria Cfr. VOVELLE M., Ville et campagne au XVIII e siècle, Paris 1980;<br />

ID., De la cave au grenier, Québec 1980; ID., La découverte de la politique-géopolitique de la Révolution française, Paris 1992; LEFEBVRE G., Les<br />

paysans du Nord pendant la Révolution française, Paris 1924 (Réédition Paris 1972); ID., La Révolution française et les paysans, Paris 1933 (Seconda<br />

edizione in Études sur la Révolution française, Paris 1954); ID., Le deuxième servage en Europe centrale et orientale, «Recherches Internationales à<br />

la lumière du marxisme», 63-64 (1970) e soprattutto SOBOUL A., Comprendre la Révolution, Paris 1981; ID., La Révolution française. (Nuova<br />

edizione rivista ed aggiornata), Paris 1982; ID., La civilisation et la Révolution française, to. 1: La crise de l’Ancien Régime, Paris 1970; to. 2: La<br />

Révolution française, Paris 1982; to. 3: La France Napoléonienne, Paris 1983.<br />

27 CARRINGTON D., Napoleon and His Parents, London 1988, pp. 16-19.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

eseguire tutti i decreti dell’Assemblea Nazionale». A questo testo venne aggiunto un emendamento proposto da<br />

Mirabeau 28 e da Saliceti: l’articolo autorizzava il ritorno di tutti gli emigrati, tra cui Pasquale Paoli. La Corsica era in<br />

festa: Bonaparte decise di non pubblicare più la sua lettera sulla Corsica 29 , mentre la Repubblica di Genova osservava<br />

con sospetto gli avvenimenti dell’isola. L’attaccamento <strong>dei</strong> corsi alla Repubblica francese era più legato alla speranza di<br />

una rivoluzione sociale, che all’idea di patria. Le considerazioni di alcuni storici francesi, come Villat, Diani e<br />

Defranceschi 30 , che hanno sottolineato la spontanea adesione dell’isola alla Francia, sembrano delle forzature a<br />

posteriori. L’isola soffriva una dominazione straniera, così come era successo con il governo di Genova. Non esisteva<br />

unanimità nell’integrazione, così come non era esistita unanimità nell’accettazione della conquista francese. Oltretutto,<br />

gli stessi personaggi che avevano tratto i maggiori benefici dall’occupazione e dalla politica d’assimilazione della<br />

Monarchia, non provavano alcun entusiasmo davanti al capovolgimento degli avvenimenti. Si trattava, ancora una<br />

volta, di una sfaldatura generale delle classi sociali complicata, in Corsica, dallo spirito di partito. Tra i rivoluzionari ed<br />

i notabili isolani esisteva un fossato troppo grande e lo stesso clero era reticente o addirittura ostile alla Repubblica. Se<br />

la Rivoluzione, in Corsica, è stata vissuta come una sconfitta, non lasciando quasi nessuna traccia, è per colpa <strong>dei</strong><br />

numerosi personaggi che hanno parlato e legiferato di principi innovativi, senza averli introdotti nel contesto isolano.<br />

Filippo Buonarroti ne aveva perfettamente coscienza, quando denunciava il «diabolico spirito di partito e l’attaccamento<br />

ad un capo o ad un clan», che è stato il freno maggiore al successo della Rivoluzione. A seguito dell’approvazione del<br />

decreto del 30 novembre 1789, che aveva inserito la Corsica a pieno titolo nella nazione francese e del regio decreto del<br />

4 dicembre 1789, che permetteva a Paoli e agli altri esiliati di rientrare in patria, le elezioni <strong>dei</strong> deputati per l’Assemblea<br />

Nazionale si svolsero nell’euforia generale. La Corsica venne divisa in due Dipartimenti (gennaio 1790), a loro volta<br />

divisi in distretti ed in cantoni. Allo stesso tempo furono soppresse le antiche giurisdizioni (Conseil Supérieur) e si<br />

decise di eleggere un “Comitato Superiore” (marzo 1790) incaricato di mantenere l’ordine e di predisporre le elezioni. <strong>Il</strong><br />

potere passava ora ai rivoluzionari: Gaffori non sapeva dove rifugiarsi… e Paoli stava per rientrare nell’isola.<br />

<strong>Il</strong> ritorno di Paoli (luglio 1790)<br />

Paoli tornava in Corsica dopo un esilio, in parte volontario, di ventuno anni. A Londra era stato ricevuto con grandi<br />

onori, percepiva una pensione regia e frequentava la migliore società inglese; apprezzato da Boswell ed ammesso in una<br />

loggia massonica, frequentava gli intellettuali più celebri del tempo (tra cui Samuel Johnson) al Literary Club di<br />

Londra. La fama del generale era universale: era il momento della sua apoteosi. In America gli venne dedicato il nome<br />

di una cittadina della Pennsylvania, mentre altre città cambiarono il nome in Paoli, Corsica o Corsicana; Caterina di<br />

Russia gli offrì ospitalità ed una pensione annua, mentre il Gran Duca di Toscana e l’Imperatore d’Austria lo avevano<br />

ricevuto con i massimi onori; i poeti italiani, tra cui Alfieri, l’avevano celebrato come un eroe. Ma l’esilio era amaro e,<br />

soprattutto, non permetteva di avere una giusta visione degli avvenimenti. Tra la Rivoluzione e Paoli c’era un grande<br />

malinteso: «La sua formazione e le sue abitudini mentali sono tipiche dell’Ancien Régime, per lui la Monarchia è il<br />

frutto naturale della saggezza politica ed il dispotismo illuminato è l’ultimo stadio del progresso» 31 . Al di là <strong>dei</strong> dibattiti<br />

sulla reale o presunta partecipazione alla causa rivoluzionaria, Paoli si adeguò al nuovo ordine di cose: «…di chiunque<br />

sia la mano che ha dato la libertà alla nostra patria, io la bacio con tutta la sincerità del mio zelo e della mia<br />

sollecitudine» 32 . Temendo l’insorgere di complotti antifrancesi, precisò il suo pensiero affermando che «…La libertà<br />

della Patria è il mio unico scopo; e non sosterrò altro per assicurarle la protezione di una così grande nazione». Tuttavia<br />

il Generale esitava ancora a rientrare in Corsica: temeva di non avere nell’isola «alcuna parte attiva nella direzione degli<br />

affari», anche se preferiva «l’unione alle altre province francesi ad una libertà indipendente, tanto se ci venisse privata,<br />

o qualcuno la vendesse, o se ci fosse un tiranno». Alla fine, dopo lunghe tergiversazioni, smentite e riflessioni, il<br />

Generale decise di tornare in Corsica. Dopo aver accettato l’invito di una delegazione dall’Assemblea generale, Paoli si<br />

recò a Parigi il 3 aprile 1790. Accompagnato da Lafayette e Mirabeau, ricevuto dal Re, acclamato dall’Assemblea<br />

Costituente, salutato da Robespierre, il generale dichiarò ai deputati che quello era il giorno più felice della sua vita e<br />

che, trovando libera la patria che aveva abbandonato schiava, non si doveva dubitare della sua fedeltà e della sua lealtà<br />

(22 aprile 1790). <strong>Il</strong> ritorno in Corsica assunse <strong>dei</strong> toni trionfali: lungo la valle del Rodano, ad Aix, l’attendevano<br />

Giuseppe Bonaparte e Pozzo di Borgo; a Tolone, dove Paoli si imbarcò, la folla lo salutava con entusiasmo. In Corsica<br />

era il delirio: sbarcato a Macinaggio il 14 maggio, in mezzo ai colpi a salve dell’artiglieria ed al suono delle campane,<br />

Paoli ripartì il 17 per Bastia, dove venne ricevuto in maniera grandiosa. Qui il generale rincontrò il fratello Clemente,<br />

mentre da ogni parte dell’isola giungevano delegazioni per rendergli omaggio; ad Ajaccio venne eretta addirittura una<br />

statua in suo onore. Tre mesi più tardi, alla Consulta d’Orezza (settembre 1790) il Generale venne eletto, all’unanimità,<br />

Presidente del Congresso dipartimentale, ricevette in dono un’importante somma di denaro e venne nominato<br />

28 Vedi ORANO P., Mirabeau in Corsica, «Archivio storico di Corsica», 4 (1932), pp. 550-554 e soprattutto gli articoli di ETTORI F., Les Mirabeau et<br />

leur temps, pp. 93-109 negli Actes del Convegno di Aix, «Centre aixois d’études sur le XVIII e siècle», 1966. Mirabeau, che aveva partecipato<br />

effettivamente alla campagna del 1769 come sottotenente, rimase in Corsica fino al maggio 1770.<br />

29 Si trattava di un progetto concepito nel 1787, come esternazione dell’odio di Bonaparte verso i francesi ed il suo affetto per Paoli. Doveva essere<br />

una storia della Corsica, scritta sotto forma di lettera all’abate Reynal. Cfr. MASSON F., Napoleon: Manuscrits inédits. 1786-1791, Paris 1910.<br />

30 Cfr. le tesi esposte da DIANI D. nel vol. coll. Deux siècles de vie française, pp. 86 e segg.; VILLAT L., La Corse de 1768 à 1789, 2 vol., Millot,<br />

Besançon 1924-1925 (con l’aggiunta di un volume di bibliografia critica) e DEFRANCESCHI J., La Corse française (30 nov. 1789-15 juin 1794),<br />

«Société des Études robespierristes», Paris 1980.<br />

31 EMMANUELLI R., Précis d’histoire Corse, Toulouse 1979, cap. XV, p. 142.<br />

32 Paoli, Lettera ad Andrei, in PERELLI D., Lettres de Pascal Paoli cit., p. 128.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

Comandante generale delle Guardie Nazionali. Tutto sembrava sorridergli: il potere era di nuovo nelle sue mani, anche<br />

se soltanto in apparenza. La realtà era ben più complessa: i suoi avversari politici erano agguerriti e potenti; i<br />

“gafforisti” si erano ritirati a Corte e non avevano alcuna intenzione di cedere il potere. Anche se il clan venne<br />

decapitato con l’esilio di Gaffori e <strong>dei</strong> suoi congiunti, il pericolo non era affatto diminuito: il “partito Buttafoco” era<br />

ancora influente e restava sempre ostile a Paoli. <strong>Il</strong> problema principale era, innanzitutto, l’anarchia in cui la Corsica<br />

sembrava essere ripiombata nel periodo 1791-1792. Apparentemente, l’isola era pacificata e ben governata: ogni<br />

distretto era amministrato da un Consiglio, da un Direttorio e da un Procuratore Generale Sindico, incaricato di<br />

controllare l’applicazione delle leggi. Sul piano giudiziario, furono istituiti <strong>dei</strong> Tribunali distrettuali, formati da membri<br />

eleggibili. Infine, il 15 novembre 1790, l’Assemblea Nazionale scelse Bastia come capoluogo del nuovo Dipartimento:<br />

l’assimilazione alla Repubblica era completa. Tuttavia il largo potere accordato alle autorità locali lasciava la Corsica in<br />

balia <strong>dei</strong> piccoli re elettivi: l’isola, ancora una volta, era stata lasciata nelle mani <strong>dei</strong> capi clan 33 . Alcuni corsi arrivarono<br />

a chiedere all’Assemblea Costituente: «Governateci Voi, perché mai, con il nostro spirito di partito, un Corso renderà<br />

giustizia ad un altro» 34 . La stessa combinazione di favoritismi e di intrighi caratterizzò la formazione delle Guardie<br />

Nazionali e <strong>dei</strong> battaglioni di volontari: i capi clan si erano spartiti i posti di ufficiali, come si erano già accaparrati<br />

quelli di giudici. L’unica novità era che i benefici di questo caos restavano nelle mani degli isolani.<br />

La questione religiosa<br />

Le difficoltà più serie cominciarono con l’applicazione della Costituzione Civile del Clero. Un decreto del 2 novembre<br />

1789 stabiliva che i beni del clero dovevano essere «messi a disposizione della nazione». La confisca <strong>dei</strong> beni<br />

ecclesiastici richiedeva inevitabilmente una riorganizzazione della Chiesa francese: i Costituenti «non intendevano<br />

minimamente agire contro il cattolicesimo; essi manifestavano sempre apertamente il loro profondo rispetto per la<br />

religione tradizionale» 35 . Ma il turbine rivoluzionario aveva già intrapreso delle misure molto dure verso la religione<br />

cattolica: il 13 febbraio 1790 venne decretata l’abolizione degli ordini monastici; il 20 aprile 1790 venne tolta alla<br />

Chiesa l’amministrazione <strong>dei</strong> beni ecclesiastici; il 12 luglio 1790, infine, l’Assemblea approvò la Costituzione civile del<br />

Clero 36 . Queste disposizioni (che provocarono immediatamente delle rivolte nella Francia meridionale), urtavano contro<br />

la mentalità profondamente religiosa della maggioranza <strong>dei</strong> corsi, soprattutto nelle campagne, dove le nuove idee<br />

rivoluzionarie non erano penetrate. L’ostilità <strong>dei</strong> vescovi alle direttive rivoluzionarie era dilagante: nonostante la gravità<br />

delle sanzioni previste (privazione <strong>dei</strong> diritti civili, soppressione della retribuzione) nessuno, compreso il vescovo di<br />

Bastia, intendeva cedere. Anche Paoli si opponeva alla Costituzione Civile del Clero, dato che il clero secolare e<br />

regolare l’aveva ben sostenuto al tempo del suo generalato. Pio VI pronunciò una solenne condanna della Costituzione<br />

Civile e del giuramento ed incoraggiò la resistenza del clero isolano. Quest’ultimo, contrariamente a quello che stava<br />

accadendo in Francia, era compatto ed unanime nel difendere la separazione <strong>dei</strong> poteri, la persona del Papa ed i suoi<br />

rappresentanti in Corsica. Paoli, presentendo la tempesta e contravvenendo i propri principi, moltiplicò gli<br />

incoraggiamenti al rispetto della legge, facendo valere il carattere anodino del giuramento. La sua influenza fu talmente<br />

elevata che, nonostante le riserve dottrinali, il 90% del clero finì per accettare, in un clima di esultanza popolare. A<br />

Bastia si andò ben oltre il rifiuto: il Vicario generale venne eletto, suo malgrado, al posto del vescovo (7 maggio 1791);<br />

riunitasi nella chiesa di San Giovanni, arringata dai preti e dai religiosi, la folla <strong>dei</strong> fedeli proclamò il suo attaccamento<br />

al vescovo decaduto ed il 3 giugno saccheggiò le sedi <strong>dei</strong> clubs patriottici e condusse, con la corda al collo, il<br />

rivoluzionario Buonarroti al porto, dove venne fatto imbarcare con qualche sanculotto. Si era trattato di una<br />

manifestazione senza futuro, fermamente repressa da Paoli: il Generale fece occupare Bastia da migliaia di soldati,<br />

rinchiuse gli ecclesiastici compromessi, sospese la municipalità e trasferì il capoluogo del Dipartimento e la sede<br />

vescovile a Corte; per Paoli si trattava sicuramente di misure estreme, legate alla logica della conciliazione nazionale ed<br />

al rispetto della legalità costituzionale, ma i suoi nemici vi hanno visto anche una sorta di vendetta. D’altronde questa<br />

mossa gli alienò le simpatie <strong>dei</strong> bastiesi e radicalizzò le ostilità <strong>dei</strong> preti refrattari. <strong>Il</strong> clero secolare (1.667 preti nel 1789,<br />

con una densità media per abitante cinque volte superiore a quella francese) prestò giuramento in forte percentuale sia<br />

per le garanzie sul trattamento privilegiato <strong>dei</strong> curati-funzionari, sia per la maggiore fermezza del clero regolare.<br />

Soppresso con il decreto del 13 febbraio 1790, il clero regolare doveva scegliere tra l’abbandono della vita conventuale<br />

(nel qual caso si concedeva una pensione ai sacerdoti che lasciavano i conventi) e l’inserimento in nuovi istituti per<br />

coloro che decidevano di rimanere uomini di Chiesa. Nonostante la promessa della pensione, le “uscite”, nel 1790,<br />

furono poco numerose. Se esse aumentarono, nel 1791, e si accelerarono nel 1792-1793, è stato fondamentalmente per<br />

33 L’evoluzione sociale dell’isola all’inizio del XVIII secolo viene condizionata così, da un lato, dalla permanenza dell’ambigua posizione <strong>dei</strong> clan<br />

(che si collocavano tra il popolo ed i poteri stranieri) e dall’altro, dall’impotenza sia del sistema clanico, sia di quello statale, nel controllare l’accesso<br />

al potere politco-amministrativo. Cfr. GIL J., La Corse entre liberté et terreur, Paris 1991, p. 89.<br />

34 Ma cfr. quest’estratto del Moniteur Universel relativo alla Corsica: «Les élections des juges se sont terminées dans nos districts avec la plus grande<br />

tranquillité: les choix sont bons. MM. Leclerc, Chavanne, Bertagne, Dufaur, Serval et Duménil, Français d’origine, ont obtenu le vœu du peuple… M.<br />

Barrin lieutenant-général et commandant pour le roi les troupes de l’île en Corse, a quitté ce département; il a su se concilier ici l’estime et<br />

l’attachement des habitants du pays, et y maintenir la paix» (Bibl. Nationale François Mitterrand, Paris, rez de jardin).<br />

35 SOBOUL A., Histoire de la Révolution française cit. I, p. 195.<br />

36 «12.VII.90. CONSTITUTION CIVILE DU CLERGE (acceptée par le roi le 24.VIII). Saliceti et Colonna Cesari votent pour: Buttafoco et Peretti votent<br />

contre. Le nombre des évêchés est ramené à 83, un par département. Archevêques, évêques et curés doivent être élus par les citoyens à raison d’un<br />

curé fonctionnaire par paroisses de 600 habitants (le nombre des prêtres corses est évalué à 1667 pour une population de 150.000 habitants). Les cinq<br />

diocèses de la Corse (Aiacciu, Aleria, Bastia, Mariana et Nebbiu) sont donc ramenés à un seul». MONTI A.D., op. cit., p. 7.<br />

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CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

delle ragioni che non avevano nulla a che vedere con l’apostasia o la rinuncia: la confisca <strong>dei</strong> beni, la cessazione delle<br />

questue e la decisione di concentrare all’interno dell’isola i monaci conventuali. Tuttavia, il numero <strong>dei</strong> religiosi che<br />

decisero di tener fede alla loro scelta rimase elevata in Corsica (nel 1791, per esempio, 64 sacerdoti su 68 a Bastia; 107<br />

su 113 a Corte; 46 su 55 all’Isola Rossa). Bisogna poi ricordare che il numero <strong>dei</strong> religiosi pensionati non può essere<br />

interpretato come un’adesione senza riserve alla Costituzione. Gli unici sacerdoti costretti ad accettare il giuramento<br />

erano i predicatori, che, in generale, rifiutarono in blocco la Costituzione Civile. Inoltre molti religiosi ricevevano il<br />

sostegno <strong>dei</strong> laici che, senza essere legati da voti solenni, si consacravano con l’elemosina al servizio di un convento.<br />

Quando, il 10 agosto 1792, venne decretata la fine della Monarchia e si pretese un nuovo giuramento di fedeltà alla<br />

Nazione, la resistenza si fece ancora più viva: i preti refrattari aumentarono e molti preferirono emigrare in Italia,<br />

mentre altri, specie nelle comunità montane, continuarono, sotto la protezione armata <strong>dei</strong> fedeli, ad ignorare la nuova<br />

legislazione.<br />

Figura 53: Parigi nel 1789.<br />

I moti di Ajaccio (aprile 1792)<br />

Ajaccio non attese l’abbattimento della Monarchia e la fine del potere girondino per manifestare un’opposizione<br />

dichiarata alle idee rivoluzionarie 37 . L’elezione di Napoleone e di Quenza, avvenuta con numerose irregolarità e<br />

violenze, fece precipitare i rapporti di Bonaparte con Pozzo di Borgo e con Pasquale Paoli, suo protettore. La<br />

situazione, tesa ma pacifica, degenerò in moto l’8 aprile 1792, giorno di Pasqua. Gli ajaccini fedeli a Pozzo di Borgo ed<br />

a Paoli, la cui ostilità alle idee rivoluzionarie era stata esasperata dalla chiusura del convento <strong>dei</strong> Cappuccini, inveirono<br />

contro le truppe di volontari: durante una rissa, venne ucciso il luogotenente del battaglione. Come rappresaglia, i<br />

volontari spararono, il giorno dopo, sulla folla che usciva dalla messa. Questo avvenimento, importante per l’evoluzione<br />

del giovane Bonaparte e la storia delle sue relazioni con Paoli, era sintomatico del fossato che si stava innalzando tra i<br />

rivoluzionari ed i corsi, attaccati alle loro idee tradizionaliste ed alla loro religione 38 .<br />

37 <strong>Il</strong> pretesto era minimo: le elezioni degli ufficiali del II battaglione di volontari corsi. Gli intrighi di Napoleone e l’opposizione <strong>dei</strong> Bonaparte ai<br />

Pozzo di Borgo accesero la scintilla di un incendio che covava sotto la cenere. La legge del 3 febbraio 1792 non permetteva agli ufficiali dell’esercito<br />

regolare di arruolarsi nei battaglioni volontari, tranne per il grado luogotenente-colonnello. Napoleone, luogotenente dell’esercito regolare, cercava di<br />

ottenere ugualmente la nomina: egli si intese con Quenza, comandante della Guardia Nazionale di Bastia, per eliminare Pozzo di Borgo dalla lista <strong>dei</strong><br />

candidati. Oltre alle classiche opere di Chuquet e di Marcaggi sulla giovinezza di Napoleone, vedi gli Actes del convegno d’Ajaccio cit. e l’articolo di<br />

CARRINGTON D., Les Pozzo di Borgo et les Bonaparte Jusqu’en 1793 cit., pp. 101-130.<br />

38 La Pasqua d’Ajaccio testimoniava perfettamente anche l’opposizione tra i «paesani» (abitanti <strong>dei</strong> villaggi dell’interno, dove i Quenza ed i<br />

Bonaparte avevano amicizie e parentele di clan) ed i «cittadini» (i borghesi d’Ajaccio, attaccati alle loro prerogative, che infervoravano la propaganda<br />

rivoluzionaria di Saliceti e Bonaparte). Infine, dato non indifferente, emergeva sempre più l’ostilità di Paoli per i battaglioni volontari, che egli<br />

definiva «intriganti e ladri», mentre Bonaparte, dal canto suo, soprannominava gli ajaccini «cospiratori e briganti». Evidentemente la Rivoluzione<br />

stava sempre più contrapponendo, in Corsica, i difensori dell’ordine borghese e gli adepti di una nuova società. Tuttavia nell’isola, rispetto alle altre<br />

province francesi, l’atteggiamento verso la religione era diventato la pietra di paragone <strong>dei</strong> sentimenti rivoluzionari. Quanto al destino personale di<br />

Bonaparte, bisogna ricordare che i moti dell’aprile 1792 lasciarono ferite profonde nella memoria degli ajaccini, tanto da giustificare l’atteggiamento<br />

ostile della città al momento della caduta del futuro Imperatore.<br />

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CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

Figura 54: l’assalto delle Tuileries, del 10 agosto 1792, da parte <strong>dei</strong> sanculotti parigini e <strong>dei</strong> federati venuti dal resto della Francia.<br />

<strong>Il</strong> Terrore giacobino<br />

La situazione generale cominciò a degenerare, in Corsica, nella primavera del 1792. La fuga del Re ed il suo arresto a<br />

Varennes (20 giugno 1791) avevano segnato la fine delle illusioni e dell’«impossibile compromesso» 39 tra la Monarchia<br />

e la rivoluzione liberale. L’aristocrazia e la borghesia girondina, che dominavano la nuova Assemblea legislativa,<br />

concepivano il ricorso alla guerra contro le potenze straniere come una digressione dalla tempesta rivoluzionaria 40 .<br />

La guerra, cominciata nell’aprile 1792 contro l’Austria e risoltasi in una serie di sconfitte iniziali, esasperò l’ostilità <strong>dei</strong><br />

rivoluzionari verso la Monarchia. A seguito delle forti pressioni delle masse popolari, l’Assemblea votò la deportazione<br />

di tutti i preti refrattari ed un nuovo giuramento di fedeltà “alla Nazione” (14 agosto 1792). Queste misure provocarono<br />

una viva emozione in Corsica e costrinsero all’emigrazione numerosi sacerdoti, mentre altri si rifugiarono nei villaggi<br />

dell’interno. Ormai la rottura tra il clero tradizionalista e la Rivoluzione era inevitabile. A seguito dell’insurrezione del<br />

10 agosto 1792 e con l’avvento del Terrore giacobino, anche la nobiltà progressista fece fronte comune contro la<br />

Rivoluzione: l’abolizione, senza indennità, delle entrate feudali e la loro sottomissione a riscatto (25 agosto), oltre al<br />

decreto di vendita <strong>dei</strong> beni nobiliari a favore degli emigrati, sancirono la rottura sociale definitiva. Buttafoco, vedendo<br />

la partita definitivamente perduta, decise di emigrare in Italia, seguito da centinaia di altri nobili che avevano già perso<br />

(dal settembre 1791) tutti i doni, concessioni, censi e feudi accordati dall’Ancien Régime: le fila degli emigrati di<br />

Coblenza aumentava continuamente.<br />

La rottura tra Bonaparte e Paoli<br />

Per Paoli stavano iniziando delle serie difficoltà: gli Arena ed i Bonaparte si staccarono definitivamente dal suo partito.<br />

L’ammirazione cieca e totale di Napoleone per il generale, tradottasi in frasi eloquenti nella Dissertation sur le bonheur<br />

del 1791, o nella Lettre à Matteo Buttafoco, erano solo un ricordo. Del resto, al di là <strong>dei</strong> ricordi scritti nel Mémorial e<br />

delle innumerevoli leggende sui due personaggi 41 , Paoli era stato sempre reticente, sin dal suo ritorno in Corsica, verso<br />

il «figlio di Carlo»: non poteva dimenticare il tradimento del padre; l’entusiasmo di Napoleone verso di lui sembrava<br />

eccessivo ed inopportuno. Oltretutto, le velleità rivoluzionarie di Napoleone e gli intrighi di Giuseppe Bonaparte<br />

inquietavano sempre di più i pensieri del Generale. Anche Napoleone osservava il «padre della patria» con occhi<br />

diversi: con il richiamo di Paoli da parte dell’Assemblea Nazionale ed il suo arrivo in carne ed ossa nella patria ritrovata<br />

cominciò per Bonaparte la demistificazione del mito… Paoli, insediato a Corte, perdeva quel fascino dell’eroe<br />

plutarchiano dovuto alla distanza. Questo cambiamento d’atteggiamento traspariva già dai testi citati (Lettre à<br />

Buttafoco, Discours de Lyon), del 1791. Non si può dire con certezza se la rottura tra i due personaggi avvenne, come<br />

spesso è stato detto, dopo i moti d’Ajaccio dell’aprile 1791: alla fine del maggio 1792, Napoleone scrisse al padre<br />

39 SOBOUL A., La Révolution française, Paris 1982, to. 2, p. 89.<br />

40 La nuova Assemblea legislativa si stanziò il 1° ottobre 1791; rappresentavano la Corsica Bartolomeo Arena e Carlo Andrea Pozzo di Borgo.<br />

41 Famosa quella riportata da Defranceschi sull’incontro avvenuto a Ponte Novo tra Paoli e Napoleone. In questa occasione il Generale avrebbe detto<br />

al giovane luogotenente: «Tu non hai nulla di moderno! Tu appartieni completamente a Plutarco!» Ettori afferma che «non c’è alcun serio motivo di<br />

mettere in dubbio questo aneddoto»; cfr. ETTORI F., Paoli, modèle du jeune Bonaparte, Ajaccio 1976, p. 90.<br />

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CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

Giuseppe di tenersi «stretto al generale Paoli. Lui può ed è tutto» 42 . Nel settembre dello stesso anno Giuseppe era<br />

ancora favorevole a Paoli: per convinzione o per calcolo, i fratelli Bonaparte dimorarono nel 1792 nel campo paolista. <strong>Il</strong><br />

voltafaccia brutale avvenne nel settembre 1792, al momento della sconfitta di Giuseppe alle elezioni <strong>dei</strong> deputati<br />

dell’Assemblea Nazionale. Paoli aveva già rimproverato la sua corruzione, il suo dispotismo e la sua incapacità e<br />

probabilmente Giuseppe Bonaparte venne eliminato dalla lista <strong>dei</strong> deputati e da quella degli amministratori per<br />

l’intervento diretto del Generale. Inevitabilmente s’instaurò, a partire da quell’anno, una aperta inimicizia tra Paoli ed i<br />

Bonaparte.<br />

§ 4. La Spedizione in Sardegna<br />

L’inimicizia tra Paoli ed i Bonaparte si trasformò in ostilità dichiarata a seguito della fortunosa spedizione in<br />

Sardegna 43 , episodio marginale nella guerra rivoluzionaria, ma importante nell’accelerare la caduta di Paoli. La<br />

Convenzione, inorgoglita dalla vittoria di Valmy e riunitasi quello stesso giorno, dichiarò l’offensiva generale 44 . La riva<br />

sinistra del Reno, la Savoia e Nizza furono occupate dalle truppe francesi. Saliceti, sin dal giugno 1792, aveva<br />

vivamente consigliato anche l’occupazione della Sardegna e riuscì a convincere i deputati sulle presunte ricchezze<br />

dell’isola mediterranea. Paoli manifestava, al contrario, tutta la sua riprovazione per un progetto che contrastava con le<br />

proprie idee su due punti essenziali: 1) esso rappresentava un pericolo per la Corsica che «non aveva bisogno né di<br />

guerra, né di conquista, ma solo di libertà e di pace»; 2) costituiva un’aggressione ingiusta verso il Regno di Sardegna,<br />

per cui nutriva la più alta stima, dato che era sempre stato l’alleato naturale della Corsica 45 . Egli tentò con ogni mezzo<br />

di temporeggiare e far fallire questa spedizione alla quale, in qualità di luogotenente generale delle truppe della Corsica,<br />

doveva prestare man forte: invocava la sua cagionevole salute, la debolezza delle guarnigioni e <strong>dei</strong> mezzi, la<br />

disorganizzazione delle guardie nazionali, poco abituate a combattere fuori dal loro territorio. Ed infatti riuscì a<br />

raggruppare a malapena duemila uomini (1.000 francesi stazionati nell’isola ed 800 volontari corsi) sui tremila che gli<br />

erano stati chiesti; per Paoli erano comunque sufficienti per adempiere «alla più empia e scellerata delle spedizioni» 46 .<br />

Con una mossa azzardata il generale chiese l’intervento del battaglione <strong>dei</strong> volontari d’Ajaccio, comandati da Bonaparte<br />

e Quenza: «Forse Paoli pensava ad un modo per sbarazzarsi di Napoleone, o almeno per rovinare, con una sconfitta, la<br />

sua nascente fama» 47 . Ma Paoli fece anche altro: alcuni contemporanei asserivano di averlo sentito dire a Colonna<br />

Cesari, a cui aveva affidato il comando delle truppe: «Fai in modo che questa maledetta spedizione finisca in fumo». La<br />

flotta francese rimase ferma due mesi nel porto di Ajaccio e partì solo nel gennaio 1793.<br />

Figura 55: Antica Mappa della Corsica e della Sardegna di Hohmann (seconda metà XVIII sec.).<br />

42<br />

Cfr. MAC ERLEAN J.M.P., Napoleon and Pozzo di Borgo in Corsica 1764-1821 & After, London 1996, p. 98.<br />

43<br />

Cfr. l’opera di PEYROU E., Expédition de Sardaigne (1792-1793), Paris 1912 e di ROSSI H., L’échec de Colonna-Cesari dans la contre-attaque de<br />

la Sardaigne en 1793 à la lumiére des documents d’archives, «B.S.S.H.N.C.», 566 (1963), pp. 43-59. Utile anche il minuzioso studio di<br />

ESPERANDIEU E., Expédition de Sardaigne et campagne de Corse (1792-1794), Paris-Limoges 1895.<br />

44<br />

20 settembre 1792: sedevano, per la Corsica, Saliceti, Multedo, Andrei, Luce de Casabianca, Ange Chiappe e Bozio, tutti moderati favorevoli a<br />

Paoli, tranne Saliceti.<br />

45<br />

«16.XI.92. Pasquale Paoli fait savoir au ministre de la Guerre qu’il est dans l’impossibilité d’apporter un secours important à l’expédition de<br />

Sardaigne. 24.XI.92. Corti. Paoli aux députés Andrei et Bozio: «Sauf un miracle, l’expédition de Sardaigne ne peut réussir… Je ferai ce que je peux<br />

faire, mais je veillerai à ce qu’on ne mette me l’échec à dos ce que je peux supposer» (MONTI A.D., op. cit., p. 15).<br />

46<br />

«18.XI.92. Corti. Pasquale Paoli envoie copie à Colonna Cesari de deux lettres que lui a envoyées Anselme sans y joindre copie de son titre de<br />

mission, ni lui dire qu’il en sera informé par le Pouvoir exécutif: «S’ils veulent se moquer de moi, me donnant prétexte pour me démettre, ce que je<br />

ferai d’ailleurs, ils ont pris un mauvais chemin. Je répondrai à ce Monsieur que je n’ai rien reçu du ministre de la Guerre sur le sujet dont il<br />

m’entretient… Bien que n’ayant reçu aucune injonction du ministre de la Guerre ou du Pouvoir exécutif je dépends en tout ce qui concerne la défense<br />

du département, j’ai cru devoir répondre à M. Truguet, qui s’est annoncé comme responsable de l’expédition de Sardaigne et qui m’a prié de mettre à<br />

sa disposition les secours que peut fournir le pays sans mettre sa sécurité en danger, que je lui enverrai le peu de volontaires que l’on peut récupérer<br />

en si peu de temps. Et Paoli demande à Cesari de revenir aussitôt qu’il aura conféré avec Semonville, pour décider avec lui de ce qu’il doit écrire au<br />

ministre et au Pouvoir exécutif pour leur sa démission». MONTI A.D., op. cit., p. 15.<br />

47<br />

GODECHOT J., Napoléon et l’Empire cit., I, p. 34.<br />

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CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

Figura 56: Corsica and Sardinia di Philip Cluver (Cluverius) 17<strong>11.</strong><br />

Giunta nelle acque sarde, l’armata bombardò Cagliari (29 gennaio) tentando uno sbarco (15 febbraio) che si risolse in<br />

uno scompiglio generale: alla fine fu costretta a ritirarsi senza aver raggiunto alcun obiettivo. Anche la spedizione<br />

terrestre, condotta da Colonna Cesari, si risolse in un totale fallimento; a causa di motivi oscuri, che alimentavano il<br />

sospetto di tradimento, Colonna Cesari aveva perso un mese in preparativi. All’inizio, tutto sembrava volgere secondo i<br />

piani: la fanteria s’impadronì, il 23 febbraio 1793, dell’isola di Santo Stefano, da dove Napoleone iniziò a bombardare<br />

la Maddalena 48 . Mentre si preparava lo sbarco sull’isola, la corvetta francese che proteggeva il corpo di spedizione si<br />

48 Una squadra composta da 23 unità salpò il 20 febbraio 1793 da Bonifacio alla volta delle isolette dell’Arcipelago della Maddalena; al comando<br />

delle artiglierie il generale Colonna Cesari, che guidava la spedizione, aveva posto il giovane lungotenente corso Napoleone Bonaparte. Ma i<br />

maddalenini avvistati gli invasori, dopo aver posto al sicuro al centro dell’isola i vecchi, le donne e i bambini, si preparano a resistere nelle batterie di<br />

Punta Tegge, Guardia Vecchia e Forte Sant’Andrea. <strong>Il</strong> 22 febbraio la flotta nemica raggiunse l’arcipelago ma dovette rifugiarsi a Cala Villamarina,<br />

sull’isola di Santo Stefano da dove, sbarcati i cannoni, cominciò a bombardare l’abitato. <strong>Il</strong> primo giorno furono esplose 500 bombe e sparate oltre<br />

5000 palle; pare che Napoleone abbia sparato personalmente 60 cannonate. Di fronte a forze nemiche tanto preponderanti i maddalenini erano<br />

certamente costretti a soccombere, ma durante la notte, il nocchiero Domenico Millelire ed il timoniere Cesare Zonza, eluso il blocco francese,<br />

riuscirono a piazzare due cannoni allo Stintino di Capo d’Orso ed il mattino successivo aprirono il fuoco sul ridosso di Santo Stefano dove avevano<br />

trovato rifugio sicuro i legni gallo-corsi. L’impresa fu ripetuta la notte successiva ed in breve la squadra navale assediante si trovò nell’imprevista<br />

situazione di assediata. Ai francesi di Napoleone non restava che la via della fuga. <strong>Il</strong> fallito tentativo di sbarco fu l’occasione in cui la giovane<br />

collettività maddalenina ebbe modo di dimostrare con lealtà e fermezza il proprio attaccamento all’isola e alla dinastia sabauda. E questi sentimenti si<br />

concretarono nell’improvvisata bandiera fatta sventolare sul Forte Santo Stefano per incitare gli isolani alla lotta. <strong>Il</strong> drappo raffigura Santa Maria<br />

Maddalena ai piedi della croce, con un manto che rappresenta il contorno dell’isola ed il motto “Per Dio e per il Re vincere o morire”. Napoleone<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

ammutinò e, minacciando di morte il comandante, costrinse Colonna Cesari a dare l’ordine di ritirata.<br />

Figura 57: Carta nautica originale della Sardegna, Archives Dèp. Corse du Sud, Ajaccio.<br />

Si trattava di una disfatta completa, vergognosa e giustificabile solo con il tradimento. Gli avversari di Paoli alla<br />

Convenzione, tutti nei ranghi giacobini, accusarono il generale di aver compromesso il successo della spedizione.<br />

Saliceti pronunciò un’arringa infuocata: già da tempo la sua ammirazione per Paoli si era trasformata in ostilità 49 . È<br />

strano, al contrario, trovare Napoleone tra gli altri accusatori: in questa situazione il suo atteggiamento fu ambiguo 50 . A<br />

Parigi ci si imbarazzava per delle sfumature: su invito della Società repubblicana di Tolone, che attribuiva a Paoli la<br />

disfatta della spedizione e dopo un veemente intervento di Marat, che denunciava «questo vile intrigante che prende le<br />

armi per servire la sua isola e fa l’illusionista per ingannare il popolo», la Convenzione decise, il 2 aprile 1793, di<br />

sospendere Paoli dalle funzioni militari e di convocarlo a Parigi. Si trattava del risultato di un lento processo di rottura<br />

avvenuto giorno dopo giorno e che la spedizione in Sardegna aveva solo contribuito ad accelerare. I giacobini ed i loro<br />

alleati corsi (tra i quali Arena e Saliceti), inquieti per i progetti dell’Inghilterra nel <strong>Mediterraneo</strong> e per i legami<br />

sentimentali ed ideologici di Paoli verso la sua terra d’esilio, presero al volo l’occasione per abbattere un uomo che<br />

aveva subito preso le distanze da loro e che non nascondeva la sua ostilità verso una rivoluzione regicida (Luigi XVI era<br />

ebbe dunque a La Maddalena la sua prima sconfitta e a Domenico Millelire fu conferita la prima Medaglia d’Oro d’Italia.<br />

49 Gli interessi personali avevano giocato, in questa evoluzione, un ruolo importante quanto le motivazioni ideologiche: partecipe con passione alle<br />

idee giacobine, Saliceti restava comunque un uomo cupido e venale; era un nuovo ricco, un approfittatore della Rivoluzione, un uomo di clan<br />

nell’accezione più stretta del termine: accumulava tre pensioni e dilapidava il denaro pubblico a suo piacimento. Deputato alla Convenzione grazie a<br />

manovre ed intrighi oscuri, legato allo spirito di partito, regicida (l’unico fra i deputati corsi), egli era stato incaricato dalla Convenzione, il 1°<br />

febbraio 1793, di controllare le mosse militari di Paoli.<br />

50 Bonaparte iniziò la requisitoria (il 28 febbraio 1793) aggiungendo la sua firma alla lettera con cui gli ufficiali del corpo di spedizione della<br />

Maddalena assicuravano a Colonna Cesari la loro stima. Due giorni dopo redasse una “protesta <strong>dei</strong> volontari” indirizzata al Ministro della Guerra, al<br />

Comandante dell’Esercito delle Alpi ed a Paoli, in cui criticava l’impreparazione della spedizione, la fuga precipitosa della corvetta e l’ordine di<br />

ritirata, esigendo «che si ricerchino e puniscano i vigliacchi ed i traditori che ci hanno fatto fallire». Si potrebbe pensare che questa grave accusa<br />

riguardasse solo Colonna Cesari, ma leggendo tra le righe era evidente che l’accusa era rivolta anche a Paoli. <strong>Il</strong> 7 marzo 1793 il Consiglio Generale<br />

del dipartimento della Corsica si dichiarò, all’unanimità, «intimamente convinto della piena ed intera giustificazione del cittadino Colonna” e rigettò<br />

la colpa sulla “cattiva condotta <strong>dei</strong> vigliacchi che hanno costretto la corvetta a fuggire». Questa decisione provocò un voltafaccia spettacolare di<br />

Bonaparte, che assicurò la propria amcizia a Colonna Cesari, al punto che è lecito domandarsi se egli sia stato sincero o se non avesse cercato,<br />

«mettendo il nipote fuori causa, di addossare sullo zio l’intera responsabilità del fallito contrattacco e di attirargli il sospetto del governo». ROSSI H.,<br />

L’échec de Colonna-Cesari dans la contre-attaque de la Sardaigne en 1793 à la lumiée des documents d’archives, «B.S.S.H.N.C.», 566 (1963), pp.<br />

43-59.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

stato giustiziato il 21 gennaio 1793) e che gli faceva orrore. Affermare che Paoli fosse il responsabile della sconfitta<br />

della spedizione in Sardegna significa fare un salto davvero troppo grande. Chiaramente Paoli non era stato mai<br />

favorevole alla spedizione e non aveva fatto nulla per garantirne il successo; ma la spedizione non era fallita per ragioni<br />

strettamente militari. Paoli non era presente né alla spedizione navale di fronte a Cagliari, né all’ammutinamento della<br />

fregata che stava conquistando la Gallura: la rottura tra Paoli ed i rivoluzionari era diventata insanabile per altre ragioni.<br />

§ 5. La secessione della Corsica nel 1794<br />

La rottura non avvenne immediatamente: Paoli, fedele a se stesso, temporeggiava con un distacco sorprendente. I suoi<br />

fedeli reagirono violentemente alle accuse, denunciando gli intrighi di Arena 51 , fondando ad Ajaccio, in aprile, un Club<br />

che si contrapponeva a Napoleone ed ai nemici di Paoli (uniti, dal 1791, nella “Société des Amis de la Constitution”) e<br />

spingendo Paoli a giustificarsi. Ma Paoli attese il 2 maggio per rispondere a queste manifestazioni di incoraggiamento e<br />

scrisse una lettera di una neutralità così sorprendente da dare l’impressione di non rifiutare le accuse pronunciate contro<br />

di lui. È difficile giudicare se l’atteggiamento di Paoli sia stato dettato dal temporeggiamento, dal distacco o dalla<br />

doppiezza. I suoi nemici l’accusarono di aver voluto attendere il momento opportuno per separare la Corsica dalla<br />

Francia, ma inizialmente sembravano voler evitare una rottura brutale ed irrimediabile. Non appena Paoli si giustificò<br />

davanti alla Convenzione, sospendendo subito l’avviso di comparizione indirizzato il 2 aprile, Saliceti decise di<br />

convincerlo della sua volontà di pacificazione. Ma gli avvenimenti correvano troppo velocemente: la rottura definitiva<br />

era nell’aria. Già in aprile il Consiglio Generale aveva denunciato agli altri due commissari l’ambizione, l’avarizia, gli<br />

intrighi e la corruzione di Saliceti. Per tutta risposta i commissari replicarono con la creazione di un’amministrazione<br />

alternativa con sede a Bastia, per la destituzione di Paoli e la deposizione degli amministratori che gli erano devoti 52 .<br />

Avvenne quindi una scissione inevitabile alla Consulta di Corte del 27 maggio 1793: in questa occasione fu rinnovata la<br />

fiducia a Paoli; Saliceti, Multedo e Casabianca furono destituiti dal loro mandato di deputazione; i Bonaparte e gli<br />

Arena furono denunciati come seminatori di discordia e venne lanciato un appello a tutti i soldati ed ai funzionari di<br />

obbedire solo a Paoli ed ai suoi alleati. Nominato Generalissimo, padrone di tutta l’isola con l’eccezione di Bastia, di<br />

Calvi e di San Fiorenzo, Paoli poteva opporsi apertamente alla politica della Convenzione su tutti i fronti: finanziario<br />

(rifiuto degli assegnati), religioso (richiamo <strong>dei</strong> sacerdoti refrattari) 53 e militare, con il riarmo <strong>dei</strong> partigiani e<br />

l’organizzazione della difesa <strong>dei</strong> porti già controllati. La replica della Convenzione non si fece attendere. <strong>Il</strong> 17 luglio,<br />

dopo aver ascoltato gli interventi di Saliceti e Lacombe, di ritorno dalla Corsica, la Convenzione dichiarò Paoli<br />

«traditore della Repubblica francese», lo mise fuori legge insieme a Pozzo di Borgo ed incaricò le forze di terra e di<br />

mare di occupare la Corsica.<br />

51 «Quest’uomo veramente immorale…conosciuto solamente per la sua rapacità, la sua immoralità, e per la versatilità del suo carattere». Cfr. il<br />

Manifesto del Consiglio Generale della Corsica ai Dipartimenti e Clubs di Marsiglia e di Tolone, da Corte, il 22 febbraio 1793, pubblicato da<br />

LAMOTTE P., «Corse historique», 5-6 (1962), pp. 28-30.<br />

52 Vd. Lettre de Saliceti à ses collègues de Paris 27 avril 1793: «Sans ce décret fatal (quello del 2 aprile), le tout était arrangé et les affaires auraient<br />

été très bien, mais maintenant tout est en désordre». <strong>Il</strong> giorno successivo scrisse: «C’est à la prière de Paoli, que le rassemblement de Corti s’est<br />

dissout; c’est d’après son opposition que quelques paysans ont cessé de forcer les citoyens à quitter la cocarde nationale». Lettre de Saliceti à Andrei,<br />

28 avril 1793: «Sans le décret qui commandait l’arrestation de Paoli, tout se serait passé. Soit que Paoli soit mal conseillé, soit que ses intentions ne<br />

soient pas pures, il me semble qu’il a sacrifié mille ans d’histoire à la sotte vanité de régner un jour sur le pauvre peuple de Corse». Archives<br />

Nationales, Paris, Serie F 12, f. 9.<br />

53 Malgrado la volontà <strong>dei</strong> giacobini, la “decristianizzazione” della Corsica aveva avuto un successo limitato, con l’eccezione delle città dove si era<br />

visto talvolta il matrimonio <strong>dei</strong> preti, l’abiura, la remissione di oggetti sacri e la celebrazione del culto decadario. Cfr. CASTA F., Le clergé corse et les<br />

serments institutionelles, «Corse historique», 33 (1969).<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

Figura 59: Napoleone Bonaparte in un ritratto giovanile.<br />

185<br />

Figura 58: il decreto della Convenzione che<br />

ha posto fuori legge Pasquale Paoli.


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

§ 6. <strong>Il</strong> Regno Anglo-Corso (1794-1796)<br />

La Corsica era ormai divisa in due e la situazione interna era complicata ulteriormente dalle lotte intestine 54 . Paoli non<br />

aveva attorno a sé l’unanimità <strong>dei</strong> consensi: alcuni <strong>dei</strong> suoi uomini scelsero di fuggire e di ritirarsi nei porti occupati dai<br />

francesi (tra questi Abbatucci e Gentili, compagni d’esilio e difensori del Generale davanti agli attacchi di Saliceti ed<br />

Arena). <strong>Il</strong> 25 agosto Paoli inviò un emissario all’ammiraglio inglese Hood, la cui flotta si trovava davanti a Tolone; il 1°<br />

settembre, scrisse al ministro degli Affari esteri inglese per chiedergli la protezione dell’Inghilterra 55 . In quel momento<br />

si trattava solo della richiesta di un aiuto militare in una situazione di crisi, ma era il primo passo sul cammino di<br />

un’alleanza più stretta ed importante. Bisogna constatare che, nonostante il loro settarismo, i Convenzionati avevano<br />

previsto le intenzioni del Generale: il richiamo dell’Inghilterra era nell’ordine delle cose. Paoli si sentiva sinceramente<br />

attaccato ad una nazione che, ben prima del 1789, era considerata la più liberale, ma si era lasciato sedurre dai primi<br />

fuochi della Rivoluzione (dal 1789 al 1791): l’idea che la Monarchia francese potesse assumere un volto più umano e<br />

potesse assicurare alla Corsica una reale autonomia gli avevano fatto sperare in un «governo a parte…sotto l’alta<br />

protezione e garanzia della Francia» 56 . L’accusa mossa al Generale, da molti storici francesi 57 , di tradimento verso la<br />

Francia è poco corretta: bisogna ricordare che Paoli si aspettava dal governo inglese quello che aveva sperato<br />

inutilmente da quello francese: il protettorato sull’autonomia isolana, che poteva essere assicurata da un Paese in cui il<br />

«liberalismo delle istituzioni sembrava predisporlo particolarmente a giocare questo ruolo» 58 . Non bisogna, poi,<br />

trascurare l’ambizione personale, la speranza, già avuta nel 1768, di un governo effettivo, se non giuridico, sulla<br />

Corsica. Qualsiasi siano state le motivazioni di Paoli, ben presto l’isola subì un nuovo capovolgimento di fronte.<br />

L’Inghilterra, che aveva seguito e assecondato discretamente il tentativo di Teodoro di Neuhoff, che aveva sostenuto il<br />

Re di Sardegna nei suoi progetti ed aveva accolto Paoli in esilio, era di nuovo perfettamente cosciente <strong>dei</strong> vantaggi<br />

strategici che offriva la Corsica nella lotta contro la Francia rivoluzionaria. L’isola costituiva un punto d’appoggio<br />

ottimale per la flotta inglese: la possibilità di trovare gli approvvigionamenti la rendevano una base indispensabile per il<br />

blocco del Sud della Francia ed un punto d’appoggio prezioso lungo le rotte del Levante e dell’Africa. Gli obiettivi<br />

dell’Inghilterra erano noti anche ai Convenzionati: essi, ben coscienti del pericolo, organizzarono in fretta la difesa<br />

dell’isola, anche se la Corsica non era in grado, sul piano militare, di opporsi ad uno sbarco inglese. Ciò apparve<br />

chiaramente nel gennaio del 1794.<br />

La conquista militare inglese<br />

La flotta inglese, che nell’agosto del 1793 non era riuscita ad occupare Tolone, nel febbraio 1794 si gettò all’assalto di<br />

San Fiorenzo, di cui s’impadronì dopo alcuni giorni di intenso bombardamento. Bastia era riuscita a resistere più a<br />

lungo: nonostante il bombardamento della flotta dell’ammiraglio Hood e la carestia, capitolò solo in maggio, con gli<br />

onori di guerra, mentre Calvi si arrese in agosto 59 . La conquista della Corsica era stata facilitata dalla dispersione delle<br />

truppe francesi, dall’incapacità della Convenzione nel sostenerli e dall’imperizia <strong>dei</strong> capi: Lacombe, dopo aver<br />

abbandonato San Fiorenzo, lasciò Bastia nel momento più duro del combattimento, mentre Gentili e Casabianca<br />

pagarono la scarsa conoscenza strategica del territorio isolano.<br />

54<br />

Vedi lo studio fondamentale di TOMI P., Le royaume anglo-corse, «Études corses» 9 e 14 (1956-1957) e di JOLLIVET M., Les Anglais dans la<br />

Méditerranée (1794-1797). Un royaume anglo-corse, Paris 1896. Cfr. Anche MAC ERLEAN J. M. P., Le royaume anglo-corse (1794-1796), «Annales<br />

historiques de la Révolution française», LVII (1985) e GREGORY D., The ungovernable rock: a history of the Anglo Corsican kingdom and its role in<br />

Britain’s Mediterranean strategy during the revolutionary war, 1793-1797, Cambridge 1985. Cfr. inoltre: BLACK J., Natural and Necessary enemies:<br />

Anglo-French relations in the 18 th century, Athens (Georgia) 1986; LINOTTE D., La constitution anglo-corse et les constitutions françaises: théorie<br />

constitutionnelle, «B.S.S.H.N.C.» 114 (1995); RICOTTI, C. R., <strong>Il</strong> costituzionalismo britannico nel <strong>Mediterraneo</strong> (1794-1818), Roma 2005; ROVERE A.,<br />

Le temps du Governo Separato mai 1793 – mai 1794, «B.S.S.H.N.C.», 114 (1995); per i rapporti tra Paoli e la massoneria inglese vd. VERGÈ-<br />

FRANCESCHI M., Paoli un corse des <strong>Lumi</strong>ères, Paris 2005.<br />

55<br />

Cfr. Le lettere di Pasquale Paoli al Re Giorgio III ed al Primo Ministro Gueglielmo Pitt conservate a Londra: «Corte 1 Septembre 1793: Lettre de<br />

Paoli à S.M. Georges III: Délivré de tout engagement étranger, je retourne, Sire, sans tâche et sans remords aux sentiments qui me sont personnels et<br />

que Votre Majesté connaît déjà depuis longtemps. J’implore, au nom de mes compatriotes, l’appui de vos armes et votre protection pour assurer leur<br />

liberté qu’ils aiment à combiner avec tout ce qui peut contribuer aux avantages et Votre Majesté et de la nation anglaise. Vos ministres, Sire, sont<br />

informés de ma position et des démarches que j’ai faites envers Milord Hood, commandant votre flotte dans la Méditerranée». Corte 1 Septembre<br />

1793, Lettre de Paoli au Premier ministre William Pitt: «Je suis autorisé par mes compatriotes à prendre toutes les mesures que les circonstances<br />

pourraient exiger pour la défense et la sûreté de l’île… C’est en conséquence d’une autorisation pareille qu’il m’est donné enfin, après avoir épuisé<br />

tout ce que la délicatesse et la loyauté exigeaient de ma nation et de moi envers la France, de pouvoir sans tâche et sans remords renouveler à S.M.<br />

britannique les projets et les vœux que j’avais eu l’honneur de lui soumettre autrefois durant mon séjour en Angleterre». Lo stesso giorno Paoli scrisse<br />

ad Hood che il suo unico scopo è di assicurare la libertà della sua patria: «ce qui a toujours été l’objet de mes travaux et la règle de ma conduite<br />

publique». <strong>Il</strong> écrit également à Drake, ministre plénipotentiaire du roi d’Angleterre à Gênes et à Lord Grenville, secrétaire d’Etat au Foreingn Office».<br />

British Library, London, Add. Manuscripts 32866, f. 335.<br />

56<br />

Lettera ad Andrei, da Londra, 10 novembre 1789: «La libertà della Patria è il mio unico scopo; e non avrò altro desiderio che di assicurarla sotto la<br />

protezione di una così grande nazione. Quando ho suggerito un governo a parte, io intendevo sotto l’alta dominazione e garanzia; io volevo dire essere<br />

uniti nella guerra e nella pace… Appariva dunque chiaramente che il governo separato non aveva altro scopo che di rendere più adatto al genio ed ai<br />

costumi <strong>dei</strong> corsi l’amministrazione del loro governo». Estr. da TOMMASEO N., Lettere di Pasquale Paoli cit., p. 159.<br />

57<br />

Cfr. gli ACTES DU COLLOQUE D’AJACCIO, Problèmes d’histoire de la Corse de l’Ancien Régime à 1815, «Société des Études robespierristes -<br />

Société d’Histoire Moderne», 1971 (rist. 1983).<br />

58<br />

EMMANUELLI R., L’équivoque de Corse, 1768-1805, la Marge éditions, Ajaccio 1989, p. 86 ed ID., Précis d’Histoire Corse, éd. Cyrnos et<br />

Méditerranée, Ajaccio 1970, p. 129.<br />

59<br />

Durante il bombardamento di Calvi l’Ammiraglio Nelson perse un occhio.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

Figure 60 e 61: la conquista di Bastia, San Fiorenzo e Calvi nel 1794 da parte dell’esercito inglese.<br />

L’organizzazione del Regno Anglo-Corso<br />

Conquistata la Corsica, Paoli decise, in accordo con gli inglesi, di riorganizzarla 60 : fu subito convocata una Consulta a<br />

Corte, che legiferò dal 10 al 21 giugno 1794. Eletto presidente all’unanimità il 14 giugno, Paoli giustificò la separazione<br />

«assoluta e definitiva» dalla Francia ed il passaggio della Corsica sotto la protezione immediata del governo inglese con<br />

una Costituzione che garantiva la libertà della nazione. <strong>Il</strong> 15 giugno fu approvato all’unanimità il decreto che<br />

proclamava «rotto ogni legame politico e sociale» con la Francia. Le motivazioni allegate per giustificare la decisione<br />

erano numerose: 1) tirannide «che sotto il nome di libertà e di sicurezza» insanguinava la Francia; 2) disordini provocati<br />

in Corsica da una soldatesca indisciplinata che se la prendeva con la religione e gli onesti cittadini; 3) volontà <strong>dei</strong><br />

rivoluzionari d’impadronirsi delle proprietà altrui e di abolire il culto; 4) atrocità commesse dai giacobini e minacce<br />

costanti alla religione e alla proprietà. Le denunce, anche se unite a diversi risentimenti, riaffermavano i principi del<br />

conservatorismo sociale e religioso: la difesa della proprietà e della religione erano significativamente evocate insieme.<br />

<strong>Il</strong> 19 giugno 1794 la nuova Costituzione venne approvata all’unanimità: era un compromesso tra la Costituzione paolina<br />

del 1755 e le istanze degli inglesi. I principi erano semplici: si trattava di una costituzione monarchica, in cui il potere<br />

legislativo apparteneva al Re d’Inghilterra ed al Parlamento corso. Poteva essere dichiarato elettore ogni corso di<br />

almeno 25 anni, con l’unica condizione della proprietà terriera: l’eleggibilità era riservata a coloro che possedevano<br />

almeno 6.000 lire in beni mobili o immobili. I vescovi facevano parte di diritto del Parlamento, mentre ne erano esclusi<br />

i funzionari: chiaramente si cercava di equilibrare il potere legislativo ed il potere esecutivo. <strong>Il</strong> potere legislativo<br />

manteneva una certa indipendenza, ma il Re designava un vicario (Viceré) con <strong>dei</strong> poteri abbastanza estesi. <strong>Il</strong> Re<br />

d’Inghilterra era il capo dell’esercito, aveva la prerogativa della nomina <strong>dei</strong> funzionari e poteva convocare, prorogare o<br />

sciogliere il Parlamento. Egli doveva scegliere i funzionari solamente tra i corsi ed era costretto – in caso di<br />

scioglimento della Camera – a convocare un nuovo Parlamento entro quaranta giorni. <strong>Il</strong> Vice Re poteva essere<br />

richiamato in Inghilterra su richiesta del Parlamento e comunque né l’una, né l’altra figura giuridica aveva il diritto di<br />

alienare tutto o parte del territorio nazionale. Le competenze del potere legislativo erano pressoché illimitate: anche nel<br />

capitolo delle imposte il Re non poteva decidere nulla senza il consenso della Camera. La Camera aveva l’esclusiva<br />

facoltà di regolamentare, anche in disaccordo con le direttive inglesi, le norme sul commercio estero alle necessità della<br />

Costituzione. Si trattava, quindi, di un’autentica Costituzione liberale: essa recepiva l’Habeas Corpus, la libertà di<br />

stampa, la libertà di pensiero e di religione (la religione cattolica era considerata ufficiale, ma erano autorizzati anche<br />

gli altri culti). <strong>Il</strong> liberalismo della Carta costituzionale era fortemente temperato dalla designazione <strong>dei</strong> magistrati da<br />

parte del Vice Re, anche se, a livello giurisdizionale, venivano mantenuti il controllo del jury e la territorialità delle<br />

vertenze (le cause corse venivano discusse e giudicate solo in Corsica). L’unica ambiguità riguardava la reale o presunta<br />

indipendenza dell’isola. Contrariamente a quanto era accaduto con la Francia, la Corsica non era stata annessa<br />

all’Inghilterra: i deputati della Dieta dovevano solo mantenere il giuramento di fedeltà a Sua Maestà Giorgio III e<br />

prestargli fede ed omaggio, conformemente alla Costituzione. Senza dubbio, l’espressione scelta (Regno anglo-corso), il<br />

blasone (la testa di Moro unita alle armi d’Inghilterra) 61 , il motto (Amici e non di ventura) suggerito da Elliott 62 ,<br />

sembravano indicare un’associazione volontaria su un piede d’uguaglianza con la madrepatria: questa era certamente<br />

l’intenzione di Paoli 63 . Ma le intenzioni del governo inglese e di Pozzo di Borgo erano interamente guadagnate alle idee<br />

60 Su istruzione del loro governatore, Elliott e Hood avevano pregato Paoli, il 2 aprile, di far eseguire una consultazione popolare, «perché sua Maestà<br />

Giorgio III era deciso a non concludere nulla senza il libero e generale consenso del popolo corso».<br />

61 BERETTI F., Les armoiries du royaume anglo-corse, «B.S.S.H.N.C.», 600-601 (1971), pp. 27-31.<br />

62 Questo motto richiama un passo dell’Inferno (Inf. II, 60-63), con un doppio senso provocato dall’ambiguità del verso dantesco: «L’amico mio, e<br />

non de la ventura/ ne la diserta piaggia è impedito/ sì nel cammin, che volt’è per paura».<br />

63 Cfr. la lettera di Paoli a Galeazzi del 24 aprile 1794: «<strong>Il</strong> Re…sarà Re di Corsica: ma la Corsica, se la costituzione inglese aveva <strong>dei</strong> difetti, potrà<br />

correggerli in questa costituzione, per assicurare il suo benessere e la sua libertà. E, cosa che conta ancora di più, non perdiamo il nome di Nazione.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

di Elliott, fortemente desideroso d’esercitare a pieno i suoi poteri ed irritato dalle resistenze del generale. Tra i tre<br />

uomini iniziò presto una lotta sordida, non solo per prestigio e vanità. Elliott ed altri suoi collaboratori accusarono<br />

esplicitamente Paoli d’aver ambito al ruolo di Vice Re: d’altronde era possibile e profondamente legittimo da parte di<br />

un uomo che aveva già governato l’isola. Ben presto le ambizioni di Paoli si sarebbero scontrate con i progetti di Elliott<br />

e con gli intrighi <strong>dei</strong> corsi asserviti all’Inghilterra.<br />

Figura 62:il blasone del Regno Anglo-Corso con il<br />

celebre motto: «Amici e non di ventura».<br />

Sir Thomas Elliott, Vice Re di Corsica<br />

Elliott fu il responsabile, dal momento della sua nomina fino all’insediamento a Bastia, del rafforzamento autoritario<br />

della costituzione 64 : il Consiglio di Stato ed il Segretario di Stato dovevano sottostare alle sue decisioni. Pozzo di Borgo<br />

venne nominato Presidente del Consiglio di Stato in perfetta sintonia con le direttive costituzionali, dato che il Vice Re<br />

poteva nominare ad un posto di comando chiunque ritenesse opportuno. In seguito al rifiuto della presidenza da parte di<br />

Paoli (febbraio 1795), i deputati della seconda sessione del Parlamento corso (novembre-dicembre 1795) furono così<br />

docili da votare le mozioni più servili, in totale ottemperanza alla volontà del Vice Re. Per negligenza o corruzione, essi<br />

permisero l’instaurazione progressiva di una sorta di dittatura illuminata: furono votati a maggioranza <strong>dei</strong><br />

provvedimenti normativi che disciplinavano la soppressione del jury (che provocò l’ira di Paoli); l’internamento<br />

cautelativo ed arbitrario <strong>dei</strong> sospetti; il divieto d’associazione sotto pena di morte e la creazione di una Corte marziale<br />

con giudizio inappellabile. I deputati non mancarono, violando la Costituzione, di votare leggi doganali che favorivano<br />

il commercio inglese a detrimento dell’economia isolana e decreti che, limitando la vana pastura ed autorizzando la<br />

chiusura <strong>dei</strong> campi, garantivano l’influenza <strong>dei</strong> grandi proprietari terrieri del Sud, largamente rappresentati in<br />

Parlamento (Pietri, Peretti, Roccaserra). Questi grandi latifondisti, che nel settembre 1790 avevano indirizzato al Re di<br />

Francia una supplica contro l’abolizione della nobiltà ereditaria, si unirono agli altri notabili isolani per ottenere dal Re<br />

d’Inghilterra le protezioni e le garanzie necessarie al mantenimento <strong>dei</strong> propri privilegi economici. Ai Notabili ed ai<br />

Signori furono attribuiti, infatti, tutti i posti d’onore nell’amministrazione o nell’esercito: le milizie furono riorganizzate<br />

in due reggimenti con colonnelli inglesi ed ufficiali corsi. <strong>Il</strong> colpo di mano controrivoluzionario in Corsica era stato<br />

completato sotto tutti i punti di vista: il 18 maggio 1795 il Parlamento decretò la confisca <strong>dei</strong> beni <strong>dei</strong> corsi che avevano<br />

seguito i francesi sul continente, misura che indispose il partito francese e Pasquale Paoli, che la considerava un<br />

La Corsica non era più la Corsica, unita alla Francia. <strong>Il</strong> regno di Corsica sarà presto libero come quello d’Inghilterra». Estr. da PERELLI D., Lettres de<br />

Pascal Paoli cit., p. 182.<br />

64 Nato nel 1751, sir Gilbert Elliott aveva completato gli studi a Parigi, dove era diventato amico di Mirabeau. Deputato al Parlamento inglese (dal<br />

1776), nel 1793 si trovava a Tolone al momento dell’evacuazione della città da parte <strong>dei</strong> controrivoluzionari. Insediatosi a Firenze, fu incaricato di<br />

occuparsi degli affari di Corsica ed entrò in contatto con Paoli. Egli era rimasto sinceramente affascinato dalla bellezza e dalla singolarità <strong>dei</strong> costumi<br />

e <strong>dei</strong> paesaggi corsi ed era molto apprezzato dai partigiani paolisti. Al tempo stesso manteneva un candore singolare: Elliott era fortemente attaccato<br />

alle leggi del suo Paese ed era convinto «che il sistema di governo inglese era il più perfetto che il genere umano avesse mai immaginato e che i<br />

malesseri degli altri paesi provenissero dalle differenze che esistevano fra questi e l’Inghilterra». Cfr. THRASHER A., Pascal Paoli, an enlightened<br />

hero 1725-1807, Constable, London 1970, p. 123. Vedi anche la corrispondenza di Elliott sulla Corsica, «B.S.S.H.N.C.» 133-138 (1892) e 218<br />

(1899).<br />

188


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

possibile fermento di discordie intestine 65 . Paoli criticò aspramente anche la norma, ispirata da Pozzo di Borgo ed<br />

Elliott, che mirava a rimettere ordine negli affari religiosi e che si traduceva concretamente in una forte diminuzione<br />

delle secolari prerogative della Santa Sede nell’isola (riconoscimento di soli tre vescovati, soppressione delle decime,<br />

indipendenza <strong>dei</strong> vescovi da Genova e Pisa, nomina <strong>dei</strong> vescovi approvati dal Parlamento, giuramento di fedeltà degli<br />

ecclesiastici alla Costituzione inglese, ecc.), violentemente rigettata da papa Pio VI. <strong>Il</strong> Vice Re si guardò bene, in ogni<br />

caso, dall’approvarla esplicitamente.<br />

Figura 63: il Regno anglo-corso (1794-1796).<br />

La rottura definitiva<br />

Paoli, ritiratosi a Ponticello di Rostino per lo sdegno di non essere stato eletto Vice Re, covava <strong>dei</strong> seri motivi di<br />

malcontento per le direttive approvate dal Parlamento corso, deplorando: 1) l’insufficiente difesa militare dell’isola; 2)<br />

il ritorno degli emigrati francesi, che lo condannavano senza appello; 3) il ritorno <strong>dei</strong> corsi realisti (Gaffori e Buttafoco,<br />

nemici di un tempo, ancora più carichi di onori e favori); 4) la convocazione del Parlamento a Bastia, dove risiedeva<br />

Elliott, anziché a Corte; 5) la rivalità con Pozzo di Borgo, suo fedele alleato ed ora antagonista, la cui amicizia con<br />

Elliott l’esasperava ed infine, 6) l’ostinazione e la cecità di Elliott «che vede e sente solo quello che vuol vedere e<br />

sentire» 66 . Tra il vecchio Generale ed il Vice Re si era instaurata una esplicita inimicizia 67 . Elliott non aveva misurato la<br />

grandezza del malcontento che si accumulava in Corsica: come tutti i personaggi politici senza levatura, egli credeva<br />

che una singola deliberazione bastasse a ristabilire la calma e la tranquillità. Decise, infatti, di esiliare Paoli in<br />

Inghilterra. I pretesti non gli mancavano: uno <strong>dei</strong> più gravi era la responsabilità dell’insurrezione dell’agosto-settembre<br />

1795. <strong>Il</strong> moto popolare, nato da un piccolo incidente (ad Ajaccio era stato bruciato il busto di Paoli), amplificato da<br />

Paoli e dai suoi fedeli, aveva guadagnato molte pievi, assumendo l’aspetto di una ribellione contro il Parlamento e<br />

Pozzo di Borgo. Anche se il moto era stato portato avanti incontestabilmente dai suoi fedeli, Paoli voleva, a giusto<br />

titolo, rigettare la responsabilità degli abusi del governo su Pozzo di Borgo ed esortò i suoi compatrioti «alla calma ed al<br />

rispetto delle leggi» 68 . Ma né Elliott né i suoi partigiani furono convinti. <strong>Il</strong> Vice Re era ormai deciso a sbarazzarsi di un<br />

uomo il cui prestigio restava intatto agli occhi <strong>dei</strong> corsi: Elliott pregò Giorgio III di richiamare Paoli in Inghilterra, dato<br />

che il suo «soggiorno in Corsica, è incompatibile con il mantenimento del governo inglese» 69 . <strong>Il</strong> 14 ottobre 1795, Paoli<br />

65<br />

Come rappresaglia, la Convenzione decise di dichiarare ribelli tutti i corsi presi sui bastimenti che portavano il vessillo del “traditore” Paoli<br />

(Decreto di cui furono vittime undici sfortunati marinai corsi giustiziati a Tolone). Per controparte si accordò un sussidio ai repubblicani corsi<br />

emigrati in Francia.<br />

66<br />

Cfr. la lettera di Paoli del 17 agosto 1795, in PERELLI D., Lettres de Pascal Paoli cit., p. 203.<br />

67<br />

<strong>Il</strong> 2 agosto 1795 Elliott scrisse a sua moglie: «<strong>Il</strong> Generale Paoli mette una confusione del diavolo e non è lontano dal seminare un disordine totale».<br />

<strong>Il</strong> 12 settembre si lamentava dell’opposizione aperta al Governo. All’inizio d’ottobre, infine, qualche giorno prima della partenza di Paoli per il suo<br />

esilio definitivo, ricapitolando tutti i motivi di risentimento accumulati contro il generale, Elliott si stupì di vederlo ancora prendere la testa<br />

dell’opposizione al governo inglese ed al suo rappresentante in Corsica, opposizione di cui non comprendeva i motivi, perché proveniente da un<br />

«uomo che non era che un semplice cittadino, un semplice individuo». Cfr. BERETTI F., Les armoiries du royaume anglo-corse cit., pp. 9-25.<br />

68<br />

Cfr. PERELLI D., Lettres de Pascal Paoli cit., p. 215.<br />

69<br />

Cfr. CARAFFA S., Correspondance de Lord Nelson pendant sa croisière en Méditerranée, déc. 1793-févr. 1797, «B.S.S.H.N.C.», 312 (1910), p.<br />

113.<br />

189


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

s’imbarcò a San Fiorenzo per l’ultimo esilio 70 . Eliminato il Generale, le cose continuarono a peggiorare velocemente: il<br />

regno, privo di colui che ne era l’anima, resisteva solo con la clientela <strong>dei</strong> corsi al potere, mentre Pozzo di Borgo<br />

diventava sempre più impopolare. La questione finanziaria esasperava il malcontento: i corsi, disabituati a pagare delle<br />

imposte fisse sin dal 1789, presero malissimo l’istituzione di una tassa sul sale e dell’imposizione territoriale, che<br />

aggravava inopportunamente una situazione finanziaria poco brillante. Elliott decise di imporre le nuove tasse con la<br />

forza: attese la convocazione del Parlamento a Corte nel novembre del 1795 per decretare delle misure severe, che<br />

legalizzavano lo stato d’assedio: approvò l’abolizione del jury, il divieto di associazione di più di venti persone,<br />

l’insediamento di una Corte marziale. <strong>Il</strong> Vice Re credeva di poter tagliare le ali ad ogni tentativo d’insurrezione, ma<br />

s’illudeva di aver riportato la calma: nella primavera del 1796 si sollevarono i villaggi al centro dell’isola. Elliott preferì<br />

parlamentare e sacrificò Pozzo di Borgo, che si ritirò definitivamente dalla scena politica. Si trattava solamente degli<br />

ultimi colpi intimidatori: il governo inglese era vicino al crollo, mentre nell’isola si stava risvegliando il partito<br />

repubblicano simbolizzato dalla presenza, a Bocognano, <strong>dei</strong> fratelli Bonelli, inviati da Napoleone.<br />

<strong>Il</strong> ritorno <strong>dei</strong> francesi in Corsica<br />

La Francia stava preparando apertamente la riconquista dell’isola: nel frattempo, gli eserciti del Direttorio, guidati in<br />

Italia da Bonaparte, avevano conquistato la Pianura Padana (primavera 1796). A Londra apparve ormai evidente che era<br />

impossibile difendere l’isola ad oltranza: già dalla fine di agosto gli inglesi pensavano alla «immediata evacuazione»<br />

della Corsica. Elliott doveva fare fronte alle continue infiltrazioni <strong>dei</strong> repubblicani emigrati, giunti dall’Italia ed accolti<br />

dal popolo come liberatori: il Vice Re si era reso conto che la Corsica non era più gestibile. Un corpo di spedizione<br />

repubblicano sbarcò al Macinaggio nell’ottobre del 1796, marciando verso Bastia; l’esercito non entrò in città per<br />

lasciare il tempo agli inglesi di rimbarcarsi sotto la protezione di Nelson, che portava con sé un migliaio di corsi e di<br />

emigrati francesi fedeli al regno anglo-corso. <strong>Il</strong> Regno cessò ufficialmente di esistere il 19 ottobre 1796 71 : si era trattato<br />

di una costruzione effimera, che non avrebbe mai superato un eventuale cambiamento della situazione militare nel<br />

<strong>Mediterraneo</strong>. Probabilmente il Regno anglo-corso sarebbe crollato anche senza l’intervento della Francia: il malinteso<br />

fondamentale che opponeva Paoli ed Elliott sulla natura ed i limiti dell’autonomia della Corsica avrebbe provocato una<br />

crisi indipendentemente dagli altri fattori esterni. Paoli aveva capito di essersi perduto in un vicolo cieco: lo sbaglio<br />

consisteva nel voler perseguire, in un’Europa conquistata alle idee rivoluzionarie, il sogno dell’autonomia. La debolezza<br />

demografica ed economica della Corsica, l’arcaismo delle sue strutture sociali, il ritardo della sua evoluzione<br />

ideologica, la condannavano inevitabilmente a cadere alle dipendenze di un grande Stato. Un legame durevole con<br />

l’Inghilterra era poco probabile, a meno che l’isola non avesse accettato lo status di Dominion in cui sembrava<br />

prefigurarla la costituzione del 1794; con la Francia, si doveva accontentare dello status di colonia: entrambe le<br />

soluzioni escludevano, a priori, l’idea dell’indipendenza politica ed amministrativa.<br />

§ 7. La Riconquista dell’isola sotto il Direttorio<br />

La riconquista della Corsica è stata, nel concreto, opera di Bonaparte. Egli l’aveva preparata minuziosamente, sotto ogni<br />

aspetto: militare, amministrativo e psicologico. Sin dal maggio 1796 aveva fatto passare nell’isola alcuni suoi fedeli ed<br />

aveva convinto il Direttorio, in luglio, che era giunto il momento di «cacciare gli inglesi dalla Corsica». Allo stesso<br />

tempo incaricò il generale Gentili d’organizzare a Livorno un corpo di spedizione corso di 1.500 uomini che doveva<br />

introdursi nell’isola a piccoli gruppi, per preparare gradatamente il sollevamento generale. Napoleone aveva già<br />

predisposto, dal punto di vista amministrativo, la divisione dell’isola in due Dipartimenti (il Golo ed il Liamone),<br />

corrispondente «alle leggi della storia e della geografia isolana»; aveva aggiunto a Saliceti, la cui parzialità lo<br />

preoccupava, Miot de Melito; si era battuto con tutti i suoi compatrioti per far cessare lo «spirito di partito», per ottenere<br />

il perdono generale, con l’unica eccezione di «un piccolo numero di uomini perfidi che hanno messo fuori strada questo<br />

bravo popolo». Bonaparte si era anche mosso per ordinare a Gentili, il comandante del corpo di spedizione, di fare il<br />

possibile «per ristabilire la tranquillità nell’isola, soffocare gli odi e riunire alla Repubblica un paese agitato da troppo<br />

tempo», cercando di eliminare la vendetta. Questo programma non è stato, purtroppo, seguito alla lettera. Se è vero che<br />

la riconquista fu una passeggiata militare e la tranquillità interna raggiunta fin dal marzo 1797 (tanto che Bonaparte<br />

richiamò in Italia tutti gli ufficiali che aveva invitato in Corsica qualche mese prima), la riorganizzazione<br />

amministrativa, abilmente condotta da Miot, urtava con i tradizionali intrighi dello spirito di partito, il maggiore<br />

ostacolo alla amministrazione interna. Ricominciarono, allora, le frodi elettorali, l’accaparramento <strong>dei</strong> posti di prestigio<br />

da parte <strong>dei</strong> clan, la caccia alle sovvenzioni e la dilapidazione del denaro pubblico: in breve, tutto il repertorio <strong>dei</strong><br />

70 Paoli, rifugiatosi di nuovo a Londra, condusse un’esistenza solitaria (tutti i suoi amici inglesi erano morti) e triste, ricevendo una pensione mensile<br />

dal Re d’Inghilterra e seguendo da vicino gli affari del suo tempo. Egli finì per ammettere, quando la Corsica tornò sotto la dominazione francese, che<br />

«La libertà era l’oggetto delle nostre rivoluzioni; ora se ne godeva ampiamente nella nostra isola; che importa da quali mani ella ci veniva?» (lettera<br />

del 6 settembre 1802). Egli approvò con sincerità Napoleone: «il nostro compatriota che con tanto onore e tanta gloria ha vendicato la Patria dalle<br />

ingiurie che quasi tute le nazioni le avevano fatto» (lettera citata). Egli farà dono ugualmente a Pietri, prefetto di Napoleone in Corsica, nel 1805, di<br />

consigli precisi per la rifondazione dell’Università di Corte. Morì a Londra il 5 febbraio 1807 e venne sepolto nel cimitero cattolico di Saint Pancrace.<br />

All’Abbazia di Westminster si eresse un busto con un epitaffio pieno di elogi («uno <strong>dei</strong> personaggi più grandi e celebri del suo tempo»). Riposa, dal<br />

1889, nella cappella della casa natale di Morosaglia.<br />

71 <strong>Il</strong> 15 novembre Elliott, ritiratosi sull’isola d’Elba, rinunciò ufficialmente al titolo di Vice Re. Quando tornò in Inghilterra non dimenticò i suoi amici<br />

corsi esiliati: Pozzo di Borgo, Peraldi ecc. che ricevettero <strong>dei</strong> sussidi. La sua carriera continuò in maniera brillante: nominato Barone e conte di Minto,<br />

inviato straordinario a Vienna, governatore dell’India dal 1806 al 1813. Morì nel 1814 e fu sepolto nell’abbazia di Westminster.<br />

190


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

piccoli espedienti dell’Ancien Régime. A questo si aggiungevano gli eccessi delle forze dell’ordine che, sottopagate o<br />

non pagate, si autocompensavano in natura (con gran furore <strong>dei</strong> contadini), per non parlare dell’eterna ingiustizia<br />

fiscale, aggravata dalla situazione critica <strong>dei</strong> contribuenti. <strong>Il</strong> malcontento generale era arrivato all’indisposizione:<br />

«amministrativamente parlando, la Repubblica aveva mancato il suo rientro in Corsica” 72 .<br />

I Repubblicani insistevano nel loro precedente errore di voler disciplinare la politica religiosa. Bonaparte aveva ben<br />

consigliato di lasciare ai corsi “la loro religione, i loro preti, le loro campane», ma i rivoluzionari del Direttorio su<br />

questa materia erano più settari <strong>dei</strong> loro colleghi della Convenzione. Essi avrebbero dovuto comprendere che il clero<br />

corso era rimasto fedele al culto cattolico. Le fonti archivistiche mostrano che nel giugno 1797, nel cantone di Ajaccio,<br />

esistevano soltanto 5 preti fedeli alle Leggi della Repubblica, contro 16 refrattari e 24 “ritirati”: la lezione non era<br />

servita a niente. Dopo il colpo di Stato di Fruttidoro (4 settembre 1797) s’impose il nuovo giuramento (contro la<br />

monarchia e l’anarchia) sotto la pena della deportazione in Guyana. Queste misure, applicate con rigore, provocarono<br />

l’emigrazione volontaria, il ricorso alla clandestinità e l’arresto <strong>dei</strong> refrattari. Tutto questo per un magro risultato (in<br />

Corsica solo una decina di preti si decise a prestare giuramento): l’odio e l’incomprensione si accumulavano sempre di<br />

più, pronti a scoppiare al momento opportuno.<br />

La Crociata della Crocetta<br />

Nel 1798 scoppiò, al contrario, una rivolta ben più seria, chiamata enfaticamente la “Crociata della Crocetta” (gli insorti<br />

avevano cucito sui berretti una piccola croce bianca). Organizzatisi al convento di San’Antonio della Casabianca, i<br />

contadini scelsero come capo, nonostante le sue reticenze, Agostino Giafferi 73 . La rivolta si estese subito alla Casinca ed<br />

alla Castagniccia, obbligando il generale repubblicano Casata a ritirarsi; invano i contadini erano riusciti a coinvolgere<br />

Corte, Vescovato e l’Isola Rossa: la rivolta si era fermata ai paesi di Borgo e di Murato, non riuscendo ad estendersi<br />

oltre questo limite. In totale partecipavano attivamente allo scontro poche centinaia di contadini, che opposero<br />

resistenza alle armate governative per pochi giorni, scatenando delle rappresaglie durissime (il generale Giafferi venne<br />

fucilato a Bastia il 21 febbraio 1798). La repressione «durissima, senza precedenti nella storia della Corsica» 74 , prese il<br />

nome famigerato di francisata e fu l’ultimo atto delle guerre di religione che avevano avvelenato per anni la vita<br />

politica dell’isola. <strong>Il</strong> colpo di Stato di Brumaio (9 novembre 1799) riportò una calma relativa, almeno dal punto di vista<br />

spirituale: quello che restava del clero corso poteva riprendere una normale attività pastorale. <strong>Il</strong> Direttorio, rassicurato<br />

sul piano religioso, tentò di riportare il paese ad una fase più tranquilla della vita politica, facendo tornare dall’esilio i<br />

corsi che erano rimasti fedeli alla Repubblica. Si diede un nuovo sviluppo all’istruzione pubblica (organizzazione<br />

dell’istruzione primaria nel Liamone, apertura di un collegio per l’istruzione secondaria a Bastia). Ma l’attività politica<br />

restava agitata, costantemente impedita o disturbata dai soliti problemi, dall’eterno spirito di partito. In queste<br />

condizioni era vano sperare di restaurare una vera unità nazionale: paolisti, realisti, scontenti aspettavano il momento<br />

opportuno per tornare alla ribalta. L’occasione favorevole avvenne nel 1799. Sul continente, il Direttorio aveva i giorni<br />

contati; l’Italia, la riva sinistra del Reno e l’Olanda erano ormai perdute; la seconda coalizione (Inghilterra, Napoli,<br />

Russia), allineatasi il 29 dicembre 1798, minacciava direttamente l’integrità territoriale della Francia. La Corsica<br />

tornava ad essere, ancora una volta, lo scacchiere di una partita diplomatica in cui il Regno di Sardegna, la Russia e<br />

l’Inghilterra dividevano i propri interessi. Lo Zar Paolo I pensava addirittura di annettere l’isola alla Russia 75 ; il<br />

progetto di occupazione della Corsica era sempre più realistico: alle foci del Fiumorbo sbarcavano gli antichi emigrati<br />

(Colonna Cesari, Buttafoco, Peraldi) per far applaudire il nome dello Zar: il movimento guadagnò presto il Fiumorbo e<br />

la Balagna. L’energico contrattacco <strong>dei</strong> generali francesi e il lealismo di alcune città 76 , non permise alla rivolta di<br />

estendersi oltre. <strong>Il</strong> trionfo <strong>dei</strong> repubblicani s’accompagnò sfortunatamente ad «enormità degne di lacrime eterne» 77 :<br />

case, conventi, chiese e terre bruciate, impiccagioni, fucilazioni, violenze; in breve, tutti gli orrori della guerra<br />

civile…Alla fine, anche se a caro prezzo, l’ordine repubblicano regnava di nuovo nell’isola.<br />

72<br />

Idem, p. 219.<br />

73<br />

Figlio di Luigi Giafferi, compagno d’armi di Paoli nel Real Farnese, Agostino Giafferi era rientrato in Corsica nel 1790, dopo una carriera intera al<br />

servizio <strong>dei</strong> Borboni di Napoli.<br />

74<br />

Idem., p. 235.<br />

75<br />

AMBROSI A., Un projet d’annexion moscovite, «Revue de la Corse», 86, 87 (1934).<br />

76<br />

Sartena, assediata, resistette vittoriosamente dall’11 al 18 ottobre 1800. cfr. LAMOTTE P., Une page héroique de l’histoire de Sarténe: le siége de<br />

Vendemiaire an IX (octobre 1800) «Corse historique», 12 (1963), pp. 41-51.<br />

77<br />

RENUCCI F.O., Storia di Corsica, Bastia 1833-1834, vol. II, p. 165.<br />

191


Figura 64: la Francia durante l’Impero.<br />

FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

§ 8. <strong>Il</strong> Consolato e l’Impero<br />

Bonaparte ha avuto il merito di rimettere definitivamente ordine nell’isola e di mantenere la promessa che aveva fatto<br />

nel 1796: «fare in modo che la Corsica diventi una buona volta francese» 78 . Per la sua isola natale aveva già esposto<br />

delle linee-guida nel rapporto al Direttorio del 9 aprile 1797: «per far sì che la Corsica diventi irrevocabilmente<br />

attaccata alla Repubblica, bisogna: 1) mantenere sempre due dipartimenti; 2) non impiegare nessun corso nelle piazze a<br />

disposizione del Governo; 3) scegliere una cinquantina di bambini e dividerli in diversi istituti educativi a Parigi,<br />

metodo poco costoso ed essenziale. A Parigi, al di là di due o tre istituzioni nazionali, ci sono varie pensioni individuali,<br />

in cui i bambini potrebbero ricevere un’educazione migliore di quella del loro paese; oltretutto si accrescerebbe il loro<br />

attaccamento alla Francia» 79 . Questo testo spiegava chiaramente le direttive della politica corsa di Napoleone: 1)<br />

chiudere ogni possibilità di secessione: la Corsica doveva integrarsi irreversibilmente alla Francia; 2) accelerare questo<br />

processo di fusione intaccando alla base il particolarismo isolano; 3) estirpare lo spirito di partito privandolo del suo<br />

alimento essenziale: l’accaparramento degli impieghi preso lo Stato; 4) francesizzare i giovani con l’emigrazione<br />

forzata: distaccati dalla mentalità isolana e sradicati dall’isola, essi avrebbero perso le loro caratteristiche e le loro<br />

peculiarità per diventare <strong>dei</strong> francesi a tutti gli effetti. La pagina dell’autonomia era stata definitivamente chiusa: la<br />

condanna a morte del paolismo, pronunciata con l’esilio del generale nel 1795, lasciava il campo libero all’integrazione<br />

della Corsica al paese dominatore. <strong>Il</strong> piccolo “Nabulione” paolista, dall’accento italiano, divenuto simbolo di un paese<br />

che considerava ormai la sua patria, voleva trasformare ad ogni costo la Corsica in una terra francese. Anche con<br />

l’integrazione autoritaria.<br />

L’ordine<br />

In Corsica, per motivi storici, ma anche per la particolare situazione geografica, esisteva da sempre un autonomismo<br />

molto radicato 80 : «l’applicazione automatica delle leggi fatte per l’intera Francia poteva rivelarsi nocivo» 81 . Ecco perché<br />

Napoleone, prescrivendo la più grande fermezza nel mantenimento dell’ordine, donò – provvisoriamente – uno statuto<br />

speciale all’isola natale: la Corsica venne posta fuori dalla Costituzione (13 dicembre 1800). In questo modo la dualità<br />

dipartimentale, origine possibile di particolarismo e di separatismo, venne corretta con l’istituzione di un<br />

78 MAC ERLEAN J., Napoleon and Pozzo Di Borgo in Corsica and after, 1764-1821: not quite a vendetta, London 1935, p. 54.<br />

79 Vedi Lettres de Napoléon I concernant la Corse, «B.S.S.H.N.C.», 333 (1911), p. 207.<br />

80 Cfr. L’opera di CROUZATIER J.M, Géopolitique de la Méditerranée, Paris 1988.<br />

81 EMMANUELLI R., Précis d’Histoire Corse, Ajaccio 1970, p. 212.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

Amministratore generale, che coadiuvava i due prefetti e riuniva nelle sue mani tutti i poteri (militare, amministrativo,<br />

giudiziario (legge del 7 gennaio 1801). A partire dal 1801 iniziò un processo che, nel 1811, portò la Corsica alla<br />

riunificazione in un solo dipartimento fiscale e finanziario 82 .<br />

<strong>Il</strong> Fisco<br />

<strong>Il</strong> Primo Console, sia per far accettare ai corsi il rigore della giustizia francese, sia per accertarsi dell’effettiva povertà<br />

economica e finanziaria, diede all’isola uno statuto fiscale particolare, affidato a Miot, amministratore generale<br />

dell’isola dal marzo 1801. Miot decretò delle misure abili, ad un tempo politiche ed eque: esse miravano ad alleggerire<br />

l’handicap dell’insularità e a facilitare la ripresa economica della Corsica. I “decreti Miot” (decreti del 21 pratile<br />

dell’anno IX - 10 giugno 1801) riducevano i diritti di registro (matrimoni, donazioni, vendite) sopprimendo i diritti di<br />

timbro (atti e procedure in materia di abuso campestre e <strong>dei</strong> tribunali di polizia semplice), le licenze (nei comuni con<br />

meno di 1.800 abitanti, vale a dire nella quasi totalità <strong>dei</strong> borghi), esentando dalla licenza, per due anni, tutti i cittadini<br />

che iniziavano una nuova attività professionale; i decreti, inoltre, riducevano o sopprimevano i diritti di dogana per le<br />

derrate coloniali e le merci straniere. A questo si aggiunse qualche timida misura di arredo urbano per Ajaccio e Bastia<br />

e qualche illusorio progetto agricolo (coltivazione del cotone e della cocciniglia). Non si trattava di una politica<br />

lungimirante: la Corsica non aveva la possibilità di attuare quel decollo economico che sperava da tempo. In effetti, la<br />

prima preoccupazione del Console era il mantenimento dell’ordine e la riduzione all’obbedienza. Sotto questo punto di<br />

vista, furono prese tutte le misure necessarie: solo il temperamento accomodante di Miot alleggerì il peso del controllo<br />

governativo. Quando Miot ripartì per il continente (ottobre 1802) poteva illudersi, in buona fede, del suo successo<br />

politico 83 . Ma Bonaparte teneva sempre gli occhi ben aperti sulla sua isola: il 14 settembre 1802 aveva reinserito la<br />

Corsica nel dominio costituzionale francese ed aveva nominato come nuovo Amministratore generale il generale<br />

Morand (luglio 1801).<br />

Morand<br />

Morand ha lasciato un ricordo sinistro in Corsica: era un uomo duro ed autoritario. Bisogna tuttavia riconoscere, a sua<br />

discolpa, che i regolamenti che applicava con rigore erano opera di Bonaparte o di Miot. Gli storici favorevoli a<br />

Napoleone (F. Renucci o A. Ambrosi) hanno parlato di «dittatura militare» 84 : Morand aveva istituito un regime di<br />

terrore: ingresso <strong>dei</strong> militari (2 su 5) nel tribunale, giustificato da Bonaparte con la debolezza <strong>dei</strong> giudici per la loro<br />

parzialità, istituzione di un’alta polizia, soppressione del jury e del diritto d’appello per le sentenze del tribunale<br />

straordinario. Per giustificare la recrudescenza della severità, istituzionalizzata il 12 gennaio 1803 con il “decreto di<br />

pieno potere”, il Console allegò la preoccupazione per la guerra marittima tra l’Inghilterra e la Francia e la necessità di<br />

estirpare i partigiani dell’Inghilterra in Corsica. Morand, munito di poteri assoluti, che sospendevano tutte le garanzie<br />

giuridiche scritte nella Costituzione, fece la caccia ai «partigiani e pensionati» dell’Inghilterra con un’implacabile<br />

severità. Un’ondata di spie si insediava in processi verbali spesso menzogneri, nei processi sommari, nei complotti<br />

inventati per sbarazzarsi <strong>dei</strong> nemici: era la vittoria di una giustizia odiosa, che non esitava a ricorrere alle esecuzioni<br />

sommarie, alle deportazioni di massa, alla politica della “terra bruciata”. <strong>Il</strong> successore di Morand, il generale César<br />

Berthier, si comportò abilmente nei tre anni di comando in Corsica (1811-1814): non s’immischiò mai negli affari della<br />

giustizia, ma si mostrò brusco nell’imprigionare forzatamente i preti corsi che si rifiutavano di prestare giuramento di<br />

fedeltà alla Costituzione: questo comportamento maldestro provocò la sollevazione generale di Bastia nel 1814.<br />

82 Cfr. la lettera di Napoleone dell’11 novembre 1800 a Gaudin, ministro delle Finanze, a proposito della percezione delle imposte, in cui prescrive di<br />

considerare i due dipartimenti «come uno solo»; Lettres de Napoléon I concernant la Corse cit., p. 213.<br />

83 Miot scrisse al Primo Console che il paese era «generalmente tranquillo, affezionato al governo e gioioso <strong>dei</strong> vantaggi arrecati». Idem, p. 216.<br />

84 L’origine di quest’affermazione deriva da una lettera di Bonaparte a Miot, del 15 dicembre 1800, in cui veniva istituita la «colonna mobile» ed il<br />

«tribunale straordinario» e in cui si ordinava di fare «giudicare ed eseguire tutti i detenuti nella prigione d’Ajaccio come ladri, assassini o istigatori di<br />

ribellione» e di far «eseguire sul campo quattro o cinque ribelli presi con le armi alla mano». Cfr. Lettres de Napoléon I concernant la Corse cit., p.<br />

219. Cfr. gli articoli di AMBROSI A., e RÉVÉREND A., Armorial du Premier Empire. Titres, anoblissements et pairies de la Restauration 1814-30.<br />

Titres et confirmations de titres: monarchie de Juillet. II République. Second Empire. III République, «Revue de la Corse», 1940 e l’opera di<br />

RENUCCI F., Storia di Corsica, Bastia 1833-1834, vol. II, p. 187.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

Figura 65: il colpo di Stato del 18 brumaio 1799. Bonaparte davanti al Consiglio <strong>dei</strong> Cinquecento.<br />

L’opera dell’Impero.<br />

Sarebbe ingiusto voler ridurre l’impegno di Napoleone nella sua isola natale ad un semplice richiamo all’ordine. Uno<br />

<strong>dei</strong> suoi nemici l’ha accusato di aver fatto solo una fontana ed una passeggiata: in effetti, l’opera dell’Impero non è stata<br />

considerevole. L’accusa principale mossa al Primo Console è stata di aver voluto rendere la Corsica una riserva di<br />

soldati 85 . Ma la coscrizione era mal accolta dai corsi e l’insubordinazione generalizzata, al punto che Napoleone pensò,<br />

nel 1813, di attuare delle rappresaglie contro le famiglie <strong>dei</strong> refrattari. Sicuramente questo atteggiamento<br />

dell’Imperatore era motivato dalla politica favoritistica, ispirata dalla sua famiglia e dal desiderio – cosciente o meno –<br />

di riscattare la francesizzazione ai concittadini di Ajaccio. Questo dato emergeva sia dai progetti di abbellimento<br />

urbano 86 , sia dall’elevazione di Ajaccio, nel senato-consulto del 19 aprile 1811, al rango di capoluogo amministrativo<br />

della Corsica. Questa decisione provocò un vivo malcontento nella capitale storica dell’isola e fu all’origine <strong>dei</strong> moti<br />

del 1814. Al contrario, il favoritismo nazionale, concretizzato con i decreti economici e finanziari del 1811, era<br />

certamente la prova di una comprensione profonda del particolarismo dell’isola. I “decreti Miot” ed i decreti del 29<br />

dicembre 1810 e 24 aprile 1811 escludevano la Corsica dal monopolio del tabacco (di cui s’incoraggiava la<br />

coltivazione) ed accordavano degli esoneri sui diritti a cui i corsi erano storicamente più attaccati 87 . A queste<br />

disposizioni Napoleone aggiunse qualche timida riforma il cui impatto sull’economia isolana fu meno pesante rispetto<br />

85 <strong>Dal</strong> 1802, Bonaparte aveva ordinato di reclutare uomini in Corsica con ogni mezzo e fondò, nel 1802 e nel 1803, due battaglioni di soldati corsi.<br />

Nel 1805 l’Imperatore esigeva da Morand «il maggior numero possibile di coscritti» e di marinai. Nel 1806 impiegò i corsi nella lotta contro il<br />

banditismo…in Calabria. Nel 1815, chiese 500 corsi per la «giovane guardia» e 300 per la «vecchia guardia» (entrambe presenti a Waterloo). Cfr. i<br />

riferimenti contenuti nell’opera di IZZO L., Agricultura e classi rurali in Calabria dall’unità al fascismo, «Cahiers internationaux d’histoire<br />

économique et sociale», 3 (1974), pp. 1-3.<br />

86 Con il decreto del 1 novembre 1807, Napoleone aveva approvato i progetti per la risistemazione della Piazza del Diamante, del lungomare, del<br />

giardino botanico, degli acquedotti e dato l’avvio ad altri progetti urbanistici (prolungamento dell’attuale Cours Napoléon, prosciugamento dello<br />

stagno delle Saline, ecc.)<br />

87 «La filosofia della riforma imperiale è facile da capire. Per ridurre le spese di bilancio si riunirono i due dipartimenti in uno solo, comprendente<br />

tutta l’isola. Nell’unico dipartimento si sopprimono le esazioni del registro e si caricano i contributi diretti per percepire i diritti ricoperti dall’esazione<br />

soppressa…Si maggiorano i beni mobili percepiti con i Contributi diretti con una somma uguale all’ammontare <strong>dei</strong> prodotti <strong>dei</strong> diritti riuniti…Alcune<br />

di queste disposizioni non sembravano mirate alla promozione economica. Tutte sono dettate dall’intenzione di aumentare le entrate del bilancio».<br />

Estr. da NIVAGGIOLI A., Le décret impérial du 24 avril 1811, «Actes du colloque d’Ajaccio», 1969, pp. 279-280.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

alle misure fiscali: 1) modernizzazione della grande trasversale Bastia-Ajaccio (progettata nel 1801, intrapresa<br />

concretamente dal 1814); 2) spoliazione delle foreste per la predisposizione delle navi da guerra; 3) insediamento di un<br />

mattonificio e di un laboratorio di ceramica ad Ajaccio; 4) costruzione di alcuni altiforni nel Capo Corso per il<br />

trattamento <strong>dei</strong> minerali ferrosi dell’isola d’Elba. Le riforme agricole, durante l’Impero, disciplinarono essenzialmente<br />

la scelta delle razze animali da allevamento (incroci di pecore, creazione di una stazione di monta equina) e la<br />

promozione della coltivazione del gelso e del cotone, anche se con scarsi risultati. Spesso si riprendevano i progetti ed i<br />

metodi <strong>dei</strong> regimi precedenti, come nel caso dell’insediamento di una colonia maltese (1803) o del reclutamento delle<br />

galere napoletane (dissidenti verso il regime francese di Giuseppe Bonaparte). In effetti, il bilancio generale era scarso e<br />

Napoleone ne era cosciente. Durante l’esilio a Sant’Elena affermò: «…Avrei voluto migliorare le sorti della mia bella<br />

Corsica, avrei voluto dare il benessere ai miei compatrioti, ma i cattivi giorni erano arrivati e non potevo effettuare i<br />

progetti che mi ero prefissato» 88 . Non si può comunque pensare a Napoleone come ad un corso tout court; in lui non<br />

viveva la fiamma patria come in Pasquale Paoli: “Io non sono corso; sono stato allevato in Francia, dunque sono<br />

francese, come i miei fratelli» 89 . Sentiva di avere per il suo paese natale il desiderio «di esercitare una salutare influenza<br />

sui costumi, di richiamare [i corsi] alla civiltà». Per alcuni versi, era riuscito nell’intento di glorificare la sua patria<br />

d’origine con la grandezza delle imprese, ma aveva fallito quasi del tutto il tentativo di riorganizzazione interna e di<br />

modernizzazione dell’isola.<br />

L’atteggiamento di Ajaccio<br />

La nuova capitale del dipartimento di Corsica non ardeva d’amore unanime per il Primo Console ed Imperatore <strong>dei</strong><br />

francesi. I paolisti che, nel 1793, avevano occupato e bruciato la sua abitazione non erano morti e nemmeno partiti per<br />

l’esilio. I repubblicani che avevano riservato al generale Bonaparte (di ritorno dall’Egitto) una buona accoglienza, non<br />

rappresentavano affatto la maggioranza degli abitanti, dato che nel luglio 1802 (a seguito del plebiscito che rese<br />

Bonaparte Console a vita) Miot constatava con amarezza che l’elezione «non risveglia in favore di un così illustre<br />

compatriota alcun entusiasmo». La cospirazione di Ajaccio del 1809, anche se gonfiata nelle sue dimensioni da Morand<br />

e poco creduta da Napoleone, mostrava comunque che i nemici del Primo Console erano numerosi e ben armati. Anche<br />

se non esiste, dai documenti d’archivio, alcuna conferma dell’esistenza di un complotto, l’atteggiamento degli ajaccini<br />

nel 1814 provava in maniera inequivocabile che la borghesia non era bonapartista. <strong>Il</strong> 23 aprile, infatti, quando un<br />

naviglio portò la notizia dell’abdicazione di Fontainebleau e del ritorno <strong>dei</strong> Borboni, in città si inalberarono le bandiere<br />

bianche (della Monarchia), si suonarono le campane e si spararono i cannoni a salve. <strong>Il</strong> prefetto Arrighi fu il primo a<br />

protestare il suo lealismo legittimista, seguito dai notabili della Corte d’Appello (che si rifiutarono di obbedire alla<br />

convenzione che metteva la Corsica nelle mani degli inglesi). Una seconda volta (il 20 maggio) quando giunse la notizia<br />

della caduta di Napoleone, il sindaco d’Ajaccio inalberò la bandiera gigliata <strong>dei</strong> Borboni e gettò in mare il busto<br />

dell’Imperatore, cambiando nome al “Cours Napoléon”.<br />

L’atteggiamento di Bastia<br />

L’atteggiamento contrario a Napoleone venne ancora più esasperato nell’antica capitale: gli abitanti richiamarono<br />

addirittura gli inglesi (11 aprile). Gli emigrati corsi, tornati da Livorno, istituirono una municipalità autonoma,<br />

rifiutando l’obbedienza a Luigi XVIII e riservando un’accoglienza entusiasta ai battaglioni degli occupanti. <strong>Il</strong> generale<br />

inglese concesse titoli nobiliari a nome del Re d’Inghilterra e firmò una convenzione con il generale Berthiér che<br />

rimetteva la Corsica sotto sovranità inglese. Ma il lealismo francese del resto dell’isola fece fallire il progetto. Alla fine<br />

anche Bastia si riallineò, denunciando il “tiranno”, le “sue creature”, i suoi “parenti” e le empietà a cui la Provvidenza<br />

aveva messo termine; intanto i realisti emigrati, tornati in patria, cominciavano a riesumare i titoli nobiliari in attesa<br />

della Restaurazione.<br />

88 Lettres de Napoléon I concernant la Corse cit., p. 238.<br />

89 Ibidem, p. 229.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

Figura 66: Mappa di Bastia e dintorni nel 1815. (Bibliothéque Nationale François Mitterrand, Paris, Rez de Jardin).<br />

L’atteggiamento del resto della Corsica<br />

L’interno dell’isola non si discostava, nel suo atteggiamento verso Bonaparte, dalle due città principali. Dappertutto, dal<br />

Nord al Sud e nelle città che avevano chiamato gli inglesi (San Fiorenzo e l’isola Rossa), confluivano delle proteste<br />

infiammate di fedeltà a Luigi XVIII. Non appena venne firmata la Convenzione tra Luigi XVIII e gli Alleati, il 23 aprile<br />

1814 (che rimetteva la Corsica sotto sovranità francese) l’Impero sembrava completamente dimenticato, anche se<br />

l’esilio di Napoleone sull’isola d’Elba rinfocolava il sentimento di revanche bonapartista. È difficile dire se si sia<br />

trattato di incoerenza, della persistenza di un partito napoleonico (sommerso al momento della firma di Fontainebleau<br />

dal partito paolista e da quello legittimista) o della consueta divisione sociale tra notabili e masse contadine: il partito<br />

bonapartista tornò inaspettatamente alla ribalta. Durante il suo esilio sull’isola d’Elba, Napoleone aveva già predisposto<br />

un piano di sollevazione della Corsica. Incaricando alcuni suoi fedeli, raggruppati in una Giunta di governo, della futura<br />

amministrazione dell’isola, egli confidò ad un “comitato d’esecuzione” la presa di possesso e l’esecuzione degli ordini,<br />

indirizzando ai suoi compatrioti un proclama vibrante, che faceva appello al nazionalismo francese. L’attesa non venne<br />

delusa: a Corte, ad Ajaccio, a Bastia si costituirono delle falangi armate; il Fiumorbo si ribellò, mentre il generale<br />

Bruslart (che comandava Bastia) s’imbarcò per la Francia. La riconquista della Corsica venne effettuata in pochi giorni,<br />

senza opposizione (aprile 1815) 90 . Tuttavia, al di là delle apparenze, l’opposizione all’Imperatore non si era dileguata<br />

nel nulla: si aspettava soltanto il momento opportuno per rovesciare la situazione, giunto con la seconda abdicazione. <strong>Il</strong><br />

quadro d’insieme sembra mostrare un atteggiamento contrastante verso l’Imperatore: i corsi diventavano bonapartisti,<br />

repubblicani, legittimisti ad ogni cambiamento di vento. La convinzione politica era insignificante: ciò che contava<br />

nell’isola, come sempre, erano gli interessi, gli schieramenti familiari, le direttive <strong>dei</strong> capiclan. Si può certamente<br />

parlare di una Corsica bonapartista e di una Corsica realista, ma a condizione di non credere mai che questi<br />

schieramenti fossero sovrapposti sociologicamente ed ideologicamente all’indole isolana. Solo in questo modo si<br />

possono capire le palinodie apparentemente scandalose ed incomprensibili degli ajaccini che, alla notizia della morte<br />

dell’Imperatore (nota in Corsica solo il 21 luglio) furono, come ha testimoniato Renucci, sinceramente addolorati e<br />

affranti fino alle lacrime. Se è vero che “nessuno è profeta in patria”, non ci si poteva attendere verso Napoleone un<br />

90 La riconquista dell’isola è stata merito di un fedele dell’Imperatore, il comandante Bernardo Poli. Sposo della figlia di una nutrice dell’Imperatore,<br />

aveva servito lealmente Napoleone anche nella sfortuna, seguendolo sull’isola d’Elba. Nelle sue Memoires emerge un inalterabile attaccamento<br />

all’Imperatore. Cfr. POLI B., Memoires du comandant Poli, «Études corses» 3, 8 (1954-1955) e MARCHI M., Histoire de la guerre de Fiumorbo,<br />

Ajaccio 1855.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)<br />

entusiasmo unanime, proprio perché nell’isola esistevano da sempre <strong>dei</strong> nemici irriducibili, che lo perseguitavano con<br />

odio vigile e contro i quali egli non aveva potuto trovare una soluzione adeguata. In Corsica l’Imperatore ha cominciato<br />

a vivere nella leggenda solo dopo la morte: forse Napoleone si illudeva seriamente, a Sant’Elena, quando affermava che<br />

in Corsica, appoggiato ai suoi compatrioti, non avrebbe mai temuto l’abbandono della lotta.<br />

La Guerra di Fiumorbo e La Restaurazione<br />

Un’estrema fiammata bonapartista sembrò, per un momento, dare ragione alle parole di Napoleone a Sant’Elena. Nel<br />

1816 si scatenò una guerra condotta dal generale Poli nel Fiumorbo: essa mostrava che la pacificazione in Corsica era<br />

più un desiderio che una realtà. Sapendo di essere ricercato come bonapartista ed essendosi impadronito <strong>dei</strong> tesori che<br />

Murat gli aveva lasciato in deposito, Poli si era ritirato nel villaggio natale di Sari. <strong>Il</strong> marchese di Riviére “Commissario<br />

straordinario”, comprese subito il tradimento di Poli ed organizzò una campagna militare. Guidato da alcuni ufficiali<br />

corsi, iniziò le manovre nel febbraio 1816. Ritiratosi nel Fiumorbo, e sfruttando abilmente la conoscenza del territorio,<br />

Poli ed i suoi luogotenenti sconfissero le colonne nemiche una dopo l’altra, costringendo lo stesso Riviére alla ritirata.<br />

Si organizzò allora a Bastia un’operazione in grande stile: 8.000 uomini marciarono contro Sari. <strong>Il</strong> 18 aprile 1816 Poli<br />

ed i suoi compagni interruppero la marcia dell’armata franco-corsa, riuscendo quasi a catturare Riviére ed uccidendo i<br />

suoi luogotenenti: Poli, agli occhi <strong>dei</strong> corsi, era il grande vincitore. <strong>Il</strong> successore di Riviére, il conte Willot, ebbe la<br />

saggezza di proporre una «pace da coraggiosi». Invitto, assicurato dall’amnistia generale per lui ed i suoi compagni,<br />

Poli accettò l’offerta di Pace (25 maggio 1816) ed abbandonò la Corsica portando con sé il tesoro di Murat 91 . Anche se<br />

il movente apparente di questa lotta, secondo Riviére, era il predominio sul tesoro di Murat e la riduzione<br />

dell’opposizione bonapartista, questa sfortunata iniziativa aveva mostrato che i partigiani di Napoleone erano ancora<br />

numerosi e risoluti. Eppure la guerra di Fiumorbo non rivestiva, come le rivolte precedenti, un carattere antifrancese:<br />

Poli si sentiva francese come i suoi avversari. Non aveva nemmeno un carattere antimonarchico, ma antiborbonico.<br />

Quando si videro apparire «i partigiani della Restaurazione…questo potere che le potenze straniere volevano imporre in<br />

Francia» non era l’istituzione monarchica ad essere presa di mira, ma i Borboni del 1815, alleati degli avversari<br />

dell’Imperatore e tornati, secondo una celebre espressione, «nei bagagli <strong>dei</strong> nemici»: insomma, la guerra di Fiumorbo<br />

era solo l’aspetto più evidente della politica di ripresa della Corsica per mano <strong>dei</strong> Borboni. Come sempre, questa ripresa<br />

portava con sé due aspetti complementari: il ristabilimento dell’ordine e la riorganizzazione amministrativa. La prima si<br />

tradusse, oltre alla guerra, con la destituzione, l’imprigionamento, l’esilio in Francia o in Svizzera, di tutti i bonapartisti<br />

ed i repubblicani e la loro sostituzione con i realisti nei posti chiave dell’amministrazione. La Corsica conobbe allora,<br />

fortunatamente in una forma attenuata e non sanguinosa, il Terrore Bianco, reso più efficace con la creazione della<br />

“Compagnia <strong>dei</strong> volteggiatori corsi”, sorta di esercito specializzato in spedizioni punitive contro i bonapartisti. La<br />

riorganizzazione amministrativa comportò delle misure tese a punire Ajaccio, la città natale dell’Imperatore, meno<br />

legittimista di Bastia, metropoli del Nord (ed infatti a Bastia fu ricollocata la Corte d’Appello). Per il resto si trattò della<br />

tradizionale epurazione politica e giudiziaria, animata dallo spirito di partito: era il momento della rivincita per il clan<br />

Pozzo di Borgo, che riuscì a piazzare i suoi uomini in tutti i posti chiave dell’amministrazione francese. Con la fine<br />

dell’epoca napoleonica e l’inizio della Restaurazione, i notabili tornarono al potere in maniera massiccia; la Corsica era<br />

ormai sfiancata dalle lotte intestine, indebolita dallo spirito di partito e disposta ad affidarsi al nuovo governo francese<br />

con uno spirito meno insubordinato. Questa ribellione non può essere considerata né come una continuazione della<br />

guerra nazionale, né come una maschera del conflitto sociale tra i notabili alleati ai Borboni ed i contadini fedeli a Poli:<br />

era semplicemente l’ultima eroica fiammata del partito bonapartista, e come tale apparteneva già al passato. Dopo<br />

questa guerra si voltò per sempre pagina: la Corsica era, volente o nolente, sempre più integrata alla Francia e la sua<br />

storia venne circoscritta a quella di un semplice Dipartimento. Le donne e gli uomini di Fiumorbo furono gli ultimi<br />

protagonisti della Corsica profonda, sempre conquistata, ma mai sottomessa: dopo di loro si giunse ad un “addio alle<br />

armi” definitivo.<br />

91 Poli tornò in seguito in Corsica e, riconciliatosi con Willot (che divenne il padrino della figlia), si dedicò al commercio, sognando di liberare<br />

l’Imperatore che, da Sant’Elena, aveva seguito con apprensione la lotta del suo fedele partigiano.<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 11 - Conclusioni<br />

CAPITOLO 11<br />

CONCLUSIONI<br />

L’oggetto di questo studio si è esteso a numerosi versanti della realtà corsa, spesso non studiati o ignorati, specie dalla<br />

storiografia italiana. Mi riferisco, in particolare, all’analisi <strong>dei</strong> testi giustificativi e <strong>dei</strong> fondi archivistici, per la maggior<br />

parte inediti, relativi alle dinamiche sociali ed economiche della Corsica di fine Settecento. Emergono, da un confronto<br />

<strong>dei</strong> diversi piani dello spazio corso, delle interessanti linee di fondo, che intersecano le vicende dell’isola nei momenti<br />

decisivi della sua storia: la questione della democrazia corsa diventa, allora, un semplice richiamo a realtà più profonde,<br />

per alcuni versi “ancestrali”, che hanno notevolmente influenzato le vicende isolane. La storiografia francese in genere<br />

ha negato il valore dell’esperienza indipendentista dell’isola: numerosi storici hanno sostenuto l’importanza<br />

dell’intervento francese nello sviluppo e nel processo di civilizzazione della Corsica e la stretta connessione tra la<br />

Rivoluzione corsa e la Rivoluzione francese. <strong>Il</strong> governo nazionale corso è stato spesso paragonato ad un “Comitato di<br />

salute pubblica” gestito dal notabilato isolano, mentre la figura di Paoli è stata ridimensionata a quella di un despota<br />

illuminato che cercava di perseguire gli interessi del patriziato locale. Al contrario, la storiografia anglosassone (tra cui<br />

Dorothy Carrington) e quella corsa (notevole, sotto questo aspetto, il contributo di Antoine Casanova) hanno riportato<br />

alla luce l’originalità <strong>dei</strong> ribelli corsi, pur esaltando, talvolta in maniera eccessiva, la Costituzione del 1755 e la<br />

“democrazia spontanea” del popolo corso. La storiografia italiana, specie nel ventennio fascista, tendeva a sottolineare<br />

la connessione tra la Rivoluzione corsa ed il Risorgimento, scadendo spesso in una retorica di regime, pur fornendo<br />

degli spunti notevolmente interessanti sulle convergenze tra storia corsa e storia italiana (Gioacchino Volpe). <strong>Il</strong><br />

contributo storiografico più recente si è invece incentrato sul quarantennio rivoluzionario dell’isola, mettendone in luce<br />

il quadro politico (Franco Venturi), religioso (Fausto Fonzi), diplomatico e culturale (Carlo Bordini).<br />

Questo studio ha preso come riferimento le basi sociali della Rivoluzione corsa, le reali dinamiche economiche e la<br />

natura amministrativa e giuridica dell’esperienza rivoluzionaria. Alla luce della documentazione archivistica reperita,<br />

l’intero fronte storiografico sulla Rivoluzione corsa è stato riesaminato e completato. Tutte e tre le visioni storiografiche<br />

antecedenti risultano incomplete a causa della mancanza di uno studio sulla condizione socio-economica della Corsica<br />

in età moderna:<br />

- la visione nazionalista, tendente ad assimilare la Rivoluzione corsa e la Rivoluzione francese come parte di<br />

un unico processo di riforme, risulta inadeguata e poco coerente: l’isola non faceva parte del circuito politico e culturale<br />

della Francia borbonica, tantomeno presentava una struttura economica e sociale affine a quella delle altre regioni<br />

continentali, francesi o italiane.<br />

- La visione mitica, incentrata sulla democrazia spontanea della società corsa e sulla figura di Paoli come<br />

garante di questa peculiarità, risulta inevitabilmente fallace: l’isola non presentava affatto caratteristiche politiche,<br />

sociali ed economiche omogenee.<br />

- La visione dispotica non spiega per quale motivo le masse popolari ed il notabilato isolano abbiano ratificato<br />

il potere del Generale e siano state promotrici di riforme importanti all’interno dell’isola, seppur con interessi e finalità<br />

diverse.<br />

<strong>Il</strong> nodo centrale di questo lavoro, pertanto, oltre all’analisi delle Consulte e della Dieta Generale ed al concetto di<br />

democrazia nel sistema politico paolino, si è esteso, grazie al contributo delle fonti, alla realtà economica delle tre<br />

diverse amime della Corsica: quella <strong>dei</strong> signori, <strong>dei</strong> lavoratori e <strong>dei</strong> mezzadri.<br />

§ 1. <strong>Il</strong> mito: la democrazia corsa<br />

Uno <strong>dei</strong> fattori che ha maggiormente interessato la storiografia francese, inglese ed americana negli ultimi trent’anni è<br />

stata la questione della democrazia corsa. È veramente esistita nella Corsica rivoluzionaria una forma di democrazia<br />

diretta? <strong>Dal</strong>l’analisi svolta finora è possibile delineare una risposta. La Corsica paolina ha conosciuto indubbiamente<br />

forme di democrazia diretta e di suffragio universale, ma limitatamente alle pievi del Diquadamonti (la zona centrosettentrionale<br />

dell’isola) che, da secoli, avevano esercitato una forma di elezione diretta <strong>dei</strong> propri rappresentanti alle<br />

Consulte pievane o nazionali: in Castagniccia, nel Niolo, in Casinca. Queste regioni, tra l’altro, corrispondono<br />

perfettamente a quelle abitate da una popolazione caratterizzata, sin dai tempi della Terra di comune, dall’equa<br />

divisione <strong>dei</strong> beni comunali (mobili ed immobili), dallo sfruttamento e dalla coltivazione <strong>dei</strong> terreni comunitari, dalla<br />

prevalenza di una popolazione agro-pastorale e dalla scarsa presenza di famiglie aristocratiche o notabilari legate ai<br />

commerci o al latifondo. Queste micro-regioni dell’isola corrispondono, trasversalmente, a quelle che hanno<br />

maggiormente combattuto il potere genovese, che hanno appoggiato il governo di unità nazionale di Pasquale Paoli e<br />

che, tra l’altro, hanno ceduto per ultime alla dominazione francese. In queste zone il sistema sociale era sviluppato<br />

prevalentemente nella sua modalità egualitaria, ed i clan familiari avevano una funzione di controllo e di<br />

amministrazione dell’ordine sociale.<br />

La situazione era ben diversa nelle altre regioni dell’isola: tutta la zona meridionale della Corsica (Dilàdamonti), la terra<br />

d’Ajaccio, l’Ornano, il Taravo, la Cinarca, il Fiumorbo, erano caratterizzate da una forte prevalenza del sistema<br />

signorile, legato alla mezzadria ed al latifondo. In queste regioni prevaleva la segmentazione clanica della vita sociale<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 11 - Conclusioni<br />

ed il sistema politico era legato alla ratifica di un potere che apparteneva già agli esponenti della classe <strong>dei</strong> Signori. In<br />

questo contesto il regime istituito da Paoli non aveva una reale efficacia; al contrario, la presenza degli esponenti delle<br />

famiglie notabilari all’interno del Consiglio di Stato era diventata una garanzia necessaria alla gestione amministrativa<br />

dell’isola. I notabili del Dilà, cioè, accettavano la soprintendenza del potere del Generale, ma di fatto governavano<br />

autonomamente i propri territori: Paoli era comunque costretto a cercare il compromesso ed a piegarsi alle esigenze del<br />

notabilato. Quest’ultimo, nel tentativo di controllare e gestire le terre comuni nel sud dell’isola, trovò peraltro un rapido<br />

appoggio nel partito francese, che, come abbiamo visto, favorì lo smantellamento dell’amministrazione rivoluzionaria<br />

ed il passaggio della Corsica nella sfera d’influenza della monarchia.<br />

<strong>Il</strong> resto dell’isola, vale a dire le regioni marittime e maggiormente produttive come la Balagna, il Capo Corso, la Piana<br />

Orientale e le pievi attorno a Bastia, era, invece, controllato dalle classi sociali legate ai commerci, agli scambi ed alla<br />

produzione intensiva di prodotti per l’esportazione (castagne, grano, sale, frutta, manufatti). In queste regioni il sistema<br />

democratico era controllato più o meno direttamente dal Generale. Paoli cercava di garantire, da un lato, l’elezione <strong>dei</strong><br />

deputati della Dieta attraverso il sistema delle Consulte, ma scoraggiava, dall’altro, la candidatura di esponenti poco<br />

affidabili, promovendo, al loro posto, l’elezione di rappresentanti “malleabili” (tra cui anche molti ecclesiastici). <strong>Il</strong><br />

rovesciamento del potere del Generale avvenne proprio in queste terre di confine tra il sistema comunitario/agropastorale<br />

e quello notabilare/latifondista. I commercianti bastiesi, i ricchi mercanti del Capo Corso ed i contadini agiati<br />

della Balagna e della Piana orientale passarono ai francesi non appena si resero conto che il Generale non era in grado<br />

di garantire uno spazio commerciale e mercantile autonomo: fedeli a Genova nel primo periodo rivoluzionario, queste<br />

classi di lavoratori di propri beni appoggiarono Paoli con la speranza di poter sfruttare a proprio vantaggio<br />

l’indipendenza dell’isola e passarono in massa alla Francia non appena intravidero gli enormi vantaggi legati al<br />

commercio ed alle sovvenzioni della monarchia. La sottile promessa, fatta da Choiseul, di nobilitare le famiglie più<br />

ricche dell’isola, l’impossibilità, per Paoli, di conquistare le piazzeforti genovesi (necessarie agli scambi) e il fallimento<br />

del porto nazionale dell’Isola Rossa, favorirono la rottura del fronte interno.<br />

Non si può parlare, per la Corsica, di un «sistema democratico originario», come ha scritto Dorothy Carrington<br />

nell’opera Pascal Paoli et sa constitution (eccezion fatta per la Terra di comune nel Diquadamonti), né tantomeno<br />

sarebbe corretta l’assimilazione tout cour della costituzione paolina alle successive costituzioni rivoluzionarie francesi o<br />

al sistema inglese. Piuttosto si deve riconoscere a Paoli una notevole intelligenza politica, che gli permise di plasmare<br />

un sistema legislativo flessibile, misto di democrazia diretta (nelle zone da secoli aduse alla gestione comunitaria) e di<br />

aristocrazia notabilare (nelle zone controllate dal notabilato terriero o commerciale), unito ad un forte potere esecutivo<br />

(Consiglio di Stato) e giudiziario (Rota Civile e Tribunali di guerra).<br />

Si trattava, comunque, di un sistema che portava già in nuce le contraddizioni che decretarono la sua conclusione:<br />

conflitti tra gli interessi di diverse categorie sociali, scarsa incidenza sui clan, incoerenza tra le diverse anime della<br />

rivoluzione. Un sistema democratico corso è esistito, quindi, ma limitatamente ad alcune pievi, e soprattutto, non solo<br />

per merito di Paoli.<br />

Figura 67: un decreto di Paoli del 1767.<br />

§ 2. La Rivoluzione corsa: l’utopia.<br />

È realmente esistita una rivoluzione in Corsica? A questa domanda bisognerebbe replicare con una questione ancora<br />

più sottile: che tipo di rivoluzione è stata la Rivoluzione corsa? <strong>Dal</strong>l’analisi svolta finora e grazie ai contributi delle<br />

fonti, si può affermare che la Rivoluzione corsa sia stata una realtà storica inequivocabile, la cui portata, comunque,<br />

deve essere compresa alla luce delle reali problematiche dell’isola e non, come più volte è accaduto tra gli studiosi di<br />

storia corsa, nella prospettiva della successiva Rivoluzione francese, dell’avvento di Napoleone o del Risorgimento<br />

italiano.<br />

La Corsica del XVIII secolo presentava una struttura economica, politica e sociale originale, poco assimilabile alle altre<br />

terre del continente, anche vicine, come nel caso della Sardegna. Bisogna tener conto di questo dato per poter valutare<br />

199


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 11 - Conclusioni<br />

in maniera oggettiva la portata e l’importanza dell’esperienza rivoluzionaria nell’isola.<br />

Sicuramente poco è stato scritto sulle diverse “anime” della Rivoluzione corsa ed in questo studio si è tentato di fornire<br />

un approccio il più possibile ampio sulle cause e sull’evoluzione degli avvenimenti rivoluzionari. Emergono, da<br />

un’attenta lettura, tre diversi piani sociali, tre grandi “forze rivoluzionarie”:<br />

- La borghesia: la nuova borghesia corsa, nata dagli scambi commerciali con Genova, cercava di scrollarsi di dosso il<br />

peso del controllo fiscale e commerciale della madrepatria; le ragioni economiche e finanziarie della rivoluzione, infatti,<br />

emergono proprio dall’analisi <strong>dei</strong> dati forniti dal Plan Terrier, dai Cahiers de doléances e dalle Tabelles de la Corse,<br />

oltre che dai registri portuali conservati negli archivi di Genova e di Parigi. Alcune forme di opposizione al controllo<br />

straniero sui commerci interni ed esterni appaiono evidenti durante tutto il periodo della dominazione genovese e<br />

francese, senza soluzione di continuità. La borghesia isolana, probabilmente, cercava di incrementare i propri traffici e<br />

gli interessi commerciali, mercantili o immobiliari <strong>dei</strong> propri esponenti cercando di aggirare l’asfissiante presenza del<br />

fisco genovese prima, e francese in seguito. Sono significativi, a questo proposito, i resoconti <strong>dei</strong> sabotaggi attuati dalla<br />

borghesia terriera all’interno delle diverse pievi dell’isola nel periodo della dominazione diretta della monarchia<br />

francese. L’istituzione di un libero governo da parte del generale Paoli deve essere sembrato, a questa classe poco<br />

abituata alla diretta amministrazione dell’isola, una soluzione ai numerosi problemi legati ai prezzi, alle carestie, agli<br />

scambi marittimi, ma anche a quelli legati all’amministrazione del potere, alla possibilità di poter contare nella gestione<br />

della vita civile, politica e sociale dell’isola.<br />

- Le classi popolari: le classi sociali maggiormente legate alla terra ed all’allevamento, come i giornalieri, i lavoratori<br />

di onesta condizione ed i braccianti parteciparono alla sollevazione generale sperando di poter eliminare, d’emblée, il<br />

potere coercitivo <strong>dei</strong> genovesi e <strong>dei</strong> grandi proprietari capipopolo o signori. Queste categorie sociali traevano la propria<br />

forza dalla divisione comunitaria <strong>dei</strong> beni mobili ed immobili, ed erano riuscite ad evitare le dure carestie della fine del<br />

XVIII secolo grazie a questa particolare condizione; tuttavia, abbiamo visto che proprio nel periodo iniziale della<br />

sollevazione contro Genova, il notabilato terriero stava cercando di occupare le terre comunali, per poterle controllare e,<br />

in un secondo tempo, per poterle inserire nelle grandi tenute. A questa doppia velocità degli avvenimenti devono essere<br />

ricollegate le guerre intestine, le defezioni improvvise, l’apparizione più o meno immediata di nuovi capipopolo nel<br />

seno delle stesse pievi, l’appoggio tutt’altro che incondizionato a Paoli per la mediazione nelle questioni riguardanti le<br />

terre e la loro gestione. I piccoli produttori ed i pastori/coltivatori vedevano nella sollevazione contro Genova la<br />

possibilità di rovesciare una difficile tendenza al sopruso da parte <strong>dei</strong> clan filogenovesi legati al latifondo ed al<br />

notabilato. La causa nazionale paventata da Paoli diventò allora un motivo di riscatto sociale: Paoli garantiva la<br />

permanenza di strutture civili, politiche ed economiche autogene, e prometteva, come mostra la Costituzione del 1755,<br />

un maggior ordine giurisdizionale.<br />

- <strong>Il</strong> notabilato: diversa la situazione della classe notabilare corsa, formata, nella stragrande maggioranza <strong>dei</strong> casi, dagli<br />

scarsi esponenti delle antiche famiglie aristocratiche e dai proprietari terrieri: quest’ultima classe vedeva nella<br />

sollevazione contro Genova la possibilità di prendere il possesso di un potere vacante, destituito dalla rivolta delle classi<br />

popolari promossa ed appoggiata dalla Serenissima Repubblica per fiaccare la feudalità isolana. Eloquenti, sotto questo<br />

aspetto, le pagine scritte da Salvini e da Natali nei “testi giustificativi” della Rivoluzione corsa. La rivoluzione appariva,<br />

per questi ceti, come l’estremo tentativo di strappare il controllo politico ed amministrativo dell’isola dalle mani <strong>dei</strong><br />

genovesi. L’appoggio che i clan notabilari diedero a Paoli nella regolamentazione del sistema legislativo, esecutivo e<br />

giudiziario della Corsica era motivato dalla convinzione di poter occupare delle posizioni preminenti, perse o interdette<br />

durante la dominazione genovese. Era forte anche la convinzione che la rivoluzione, una volta scemata l’ondata di<br />

violenze, sarebbe stata guidata dagli esponenti più influenti <strong>dei</strong> diversi clan isolani. Niente di più astratto: in realtà,<br />

Paoli intendeva giungere ad una forma di controllo sociale finalizzato soprattutto all’indipendenza dell’isola. Quando<br />

egli pose mano all’organizzazione amministrativa della Corsica indipendente, cercò di non scontentare nessuna delle<br />

diverse “anime” rivoluzionarie, disciplinando la spinta popolare, ma scendendo anche a patti con i Signori del<br />

Diladamonti. <strong>Il</strong> Generale cercò di usare la propria figura come un collante sociale, ben sapendo che la struttura statale<br />

reggeva su basi poco solide: quando i notabili locali (i capiclan e gli esponenti della borghesia terriera e mercantile)<br />

presero atto delle insufficienti garanzie fornite da Paoli nella gestione dello Stato, passarono in massa alla Francia.<br />

Senza l’appoggio di questi poteri, nascosti ma influenti, è evidente che il Generale non poteva sperare di resistere a<br />

lungo. La battaglia di Pontenovo, sotto questo aspetto, potrebbe essere vista non tanto come un errore tattico del<br />

Generale, o come un estremo tentativo di opposizione all’invasione <strong>dei</strong> francesi, ma come la scelta disperata da parte di<br />

Paoli, cosciente del rischio a cui questa estrema misura esponeva l’indipendenza corsa, di contrapporsi in una battaglia<br />

campale ai francesi per ricucire (in caso di vittoria) le fratture, le scissioni, gli odi e le vendette trasversali che stavano<br />

decimando il fronte <strong>dei</strong> “nazionali”. Come abbiamo visto erano assai numerose le lettere, i biglietti e le informazioni<br />

che annunciavano a Paoli l’imminente sfaldatura della compagine rivoluzionaria, specie per la defezione <strong>dei</strong> clan legati<br />

ai latifondisti del Sud dell’isola. Pontenovo avrebbe rappresentato, in una situazione di grave difficoltà, la prova<br />

definitiva della compattezza del fronte ribelle: per Paoli significava, ad un tempo, la risoluzione delle fratture interne tra<br />

i clan e l’estremo tentativo di sollevare la questione corsa a livello internazionale. La sconfitta segnò un passaggio di<br />

poteri, più che l’invasione o la compravendita dell’isola: le fratture all’interno del fronte nazionale avevano<br />

improvvisamente mostrato la debolezza del sistema politico paolino.<br />

200


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 11 - Conclusioni<br />

§ 3. La realtà del lungo periodo<br />

È molto difficile riuscire a delineare la realtà sociale, politica, culturale ed economica dell’isola nell’arco della sua<br />

lunga storia, ma sotto questo aspetto, l’unico modo per poter valutare ed analizzare la portata, l’ampiezza e le<br />

caratteristiche della rivoluzione è quello di inquadrarla all’interno di una storia di lungo periodo, una storia geografica.<br />

È per questo che, a livello metodologico, gli avvenimenti del “quarantennio rivoluzionario” (1729-1769) sono stati<br />

inseriti all’interno di una prospettiva che va dal dominio genovese (a partire, cioè, dal XV secolo) fino al periodo<br />

successivo alla conquista francese. La Rivoluzione corsa, osservata da questa prospettiva, può apparire allora come<br />

l’akmé di movimenti ed evoluzioni sociali (la lotta tra le comunità ed i latifondisti, la contrapposizione tra il potere<br />

genovese/francese e quello <strong>dei</strong> clan, l’opposizione tra il Diquadamonti ed il Dilàdamonti, la dicotomia tra il sistema<br />

comunitario/democratico e quello notabilare/aristocratico, ecc…), che non sono affatto nati con la rivoluzione e che non<br />

si sono esauriti con essa. Paoli appare, in questo contesto, come una pietra di volta, come l’interprete, più che l’artefice,<br />

delle forze politiche e sociali nascoste nelle profondità dell’anima corsa, in grado di convogliare e valorizzare le diverse<br />

componenti della società isolana verso l’indipendenza.<br />

<strong>Il</strong> mito della democrazia corsa appare, in questo contesto, come una realtà legata alle vicende più antiche della storia<br />

corsa, come un’esperienza che si è ripetuta e si ripete nel tempo, come un’istituzione che Paoli ha semplicemente<br />

convogliato su un piano nazionale. La stessa utopia della Rivoluzione corsa, vista da numerosi filosofi e pensatori del<br />

Settecento come la prima, vera contrapposizione all’Ancien Régime (vedi Rousseau, ma anche Robespierre, Buonarroti,<br />

Mably, Morelly, Verri) appare, allora, come una notevole forzatura rispetto alla storia dell’isola: Paoli ed i ribelli non<br />

cercavano di contrapporsi ad un potere notabilare/clanico costituito, né intendevano scatenare una guerra sociale<br />

all’interno delle pievi: l’unica forza che muoveva Paoli ed il suo governo era l’indipendenza della Corsica. <strong>Il</strong> tentativo<br />

paolino era quello di mediare tra queste anime. La sconfitta era invitabile, perché inevitabili erano le contraddizioni che<br />

esistevano, da parecchi secoli, all’interno dell’isola: né Sampiero di Bastelica, né Paoli, né la Rivoluzione, né<br />

Napoleone, né la Restaurazione, né la Repubblica francese sono mai riusciti a risolvere queste contraddizioni intestine<br />

dello spazio corso.<br />

<strong>Il</strong> fatto che la Corsica, anche a seguito dell’annessione francese, non sia stata mai del tutto sottomessa, che Paoli sia<br />

riuscito a tornare nell’isola nel 1790 - appoggiato dai giacobini francesi e da Robespierre - e abbia subito trovato la<br />

possibilità di riprendere la lotta per l’indipendenza e la stessa esperienza del Regno anglo-corso (1794-1796), solleva<br />

dunque una serie di domande a cui la storiografia dell’ultimo trentennio non è riuscita a dare sempre delle risposte<br />

esaustive.<br />

Solo la lettura della realtà corsa nel lungo periodo fornisce delle risposte: l’isola ha introiettato da tempo immemorabile<br />

l’abitudine ad essere gestita, amministrata, a volte anche sfruttata, dalle potenze straniere. Di questa sottomissione, essa<br />

ha fatto un punto di forza: è riuscita, nel corso <strong>dei</strong> secoli, a lasciare invariata la propria struttura sociale, a salvaguardare<br />

il proprio “corpo primitivo”, ad impedire un’eccessiva intromissione degli stranieri all’interno di una serie di immutabili<br />

leggi sociali. Probabilmente è per questo che, ancora oggi, la Corsica rappresenta un banco di prova difficile per<br />

l’amministrazione francese (vedi l’Accordo di Matignon con il governo Jospin), ma anche per l’Unione Europea (la<br />

Carta delle Minoranze Linguistiche del 1992, che contempla la lingua e la cultura corsa, non è stata ancora recepita<br />

nell’ordinamento francese).<br />

Quando la mattina del 30 ottobre 2003, alla vigilia della sua seconda visita in Corsica dal fallimento del referendum<br />

sull’autonomia, il Ministro dell’Interno francese Nicolas Sarkozy annuncia alla stampa di voler “neutralizzare la deriva<br />

mafiosa del nazionalismo corso”, in molti sull’isola si sono chiesti se si trattasse della bordata di un politico o, piuttosto,<br />

di un tecnicismo. I 273 attentati compiuti in Corsica tra la primavera del 2003 e l’inverno del 2004 sembrano<br />

accreditare l’ipotesi di un nazionalismo logorato da vent’anni di scissioni interne, i cui protagonisti, oggi più che mai,<br />

sono i clan legati alle attività finanziarie dell’isola piuttosto che allo storico movimento politico e culturale. Nicolas<br />

Sarkozy pronuncia queste parole nel novembre del 2003, un giro di vite annunciato di fronte allo spettro del fallimento<br />

della politica francese nella gestione della regione, ma le radici di questa pericolosa connessione tra politica, finanza e<br />

controllo capillare del territorio risalgono almeno a due secoli prima.<br />

La storia della Corsica è rimasta, dunque, anche dopo la conquista francese del XVIII secolo, sostanzialmente ripetitiva;<br />

possiamo affermare, in un certo senso, che essa non è realmente cambiata, nonostante le devastazioni e le<br />

colonizzazioni che hanno svuotato, se non spezzato, le strutture fondamentali della società isolana. Non a caso, gli<br />

autonomisti corsi si riferiscono sempre alla loro storia millenaria. Questa Corsica millenaria è presente ancora oggi: la<br />

sua presenza non si manifesta soltanto in rivendicazioni parziali, tipiche <strong>dei</strong> movimenti autonomistici, ma in una<br />

sedimentazione “emotiva”, che ha creato <strong>dei</strong> circuiti e delle reti nella società corsa. Nelle scuole, la storia di Corsica è<br />

stata occultata, deformata dall’istruzione francese – una delle maggiori battaglie degli autonomisti, sul fronte culturale,<br />

è stata ed è quella di far rivivere questo passato fatto di rivolte, ribellioni, rivoluzioni, sommosse popolari, quasi sempre<br />

dirette contro gli invasori – così che si potesse dire che la storia di cui i corsi sono fieri non ha mai avuto luogo, salvo<br />

all’epoca dell’indipendenza conquistata da Pasquale Paoli.<br />

I corsi, avendo conosciuto il potere diretto solo in brevi periodi, hanno sempre vissuto, politicamente, come spossessati.<br />

Attraverso i secoli, infatti, il potere dell’isola si è trasmesso nelle mani degli stranieri ed ogni volta, nonostante le<br />

devastazioni, i massacri, la mescolanza delle popolazioni, l’isola ha salvaguardato e fatto evolvere la sua identità. La<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

CAPITOLO 11 - Conclusioni<br />

situazione geografica gioca, in questo caso, un ruolo decisivo.<br />

La Corsica non ha potuto avere una storia perché, tranne brevi periodi, è stata vittima della storia: di colpo, la geografia<br />

si è vendicata. I corsi hanno costruito per vie traverse una società comunitaria strettamente connessa alla geografia.<br />

Dato che il potere, la legge, le istituzioni, appartenevano agli stranieri, essi si sono posti fuori dal potere, dalle leggi,<br />

dalle istituzioni. La gerarchia del rapporto con il potere politico è stata rovesciata; non è lo Stato che legittima la vita<br />

nella società, non è importante quello che accade superficialmente, ma ciò che sopravvive alle distruzioni, ai<br />

cambiamenti di potere. Questa geografia è costituita da un grande corpo primitivo: l’isola. I legami che i corsi hanno<br />

intessuto con questo corpo non somigliano affatto a quelli che intercorrono, per esempio, tra il contadino e la terra. C’è<br />

innanzitutto un legame di potere (e sul potere): là dove circolano delle forti passioni, si torna al grande corpo primitivo.<br />

La geografia è, in definitiva lo spazio-storico dell’autodifesa secolare, uno spazio chiuso in sé, appena intaccato dalla<br />

vita delle grandi città del litorale (Ajaccio Calvi, Bastia Porto-Vecchio, Bonifacio) dove i corsi coesistono con i<br />

dominatori, adottando spesso il loro stile di vita, le loro leggi, il loro potere. Solo con la consapevolezza di queste realtà<br />

sociali ed economiche, di questa particolare forma di “isolamento ed autodeterminazione”, possono essere lette ed<br />

interpretate le rivoluzioni dell’isola.<br />

§ 4. la Corsica come simbolo<br />

La Rivoluzione corsa si inserisce nel contesto di crisi dell’Ancien Régime in maniera originale: la sollevazione generale<br />

non si espresse soltanto nello scontro dominati/dominatori, ma coinvolse la struttura politica, amministrativa,<br />

economica e sociale dell’isola, avviando un sistema costituzionale ed amministrativo alternativo a quello vigente, ed<br />

anticipando temi, problematiche ed azioni che si sono ripetute, seppur in maniera più ampia e con conseguenze diverse,<br />

in altre zone critiche del Vecchio Regime. Si trattava, in estrema sintesi, di uno <strong>dei</strong> tanti laboratori delle teorie<br />

illuministe, attuato in una situazione unica, sotto certi versi, e sostanzialmente irripetibile. La democrazia corsa, con la<br />

modalità e le particolarità che abbiamo visto, contribuì ad alimentare una discussione politica, giuridica e culturale<br />

notevole, con interventi di autorevoli personalità dell’età <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Non a caso la figura del Generale è stata spesso<br />

assimilata, dalla storiografia contemporanea e da quella più recente, a quella di un “despota illuminato”, di un monarca<br />

costituzionale, di un notabile riformatore o di un condottiero che esprimeva gli ideali antidispotici dell’età <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong> e<br />

anticipava sentimenti ribelli già in nuce nella seconda metà del secolo.<br />

Tutte queste particolarità hanno contribuito a far nascere e ad estendere il “mito” del governo di Paoli oltre i confini del<br />

continente europeo: questo mito non si è esaurito con la sconfitta di Pontenovo, con l’annessione della Corsica alla<br />

Francia e nemmeno con l’ascesa di Napoleone.<br />

L’appoggio quasi incondizionato <strong>dei</strong> corsi, nei momenti più alti, all’operato di Paoli e la permanenza, anche ai nostri<br />

giorni, della sua figura come simulacro dell’indipendenza e della libertà isolane, testimoniano il segno tangibile di un<br />

fascino storico. Sotto certi aspetti, l’isola è diventata a poco, a poco un simbolo: il simbolo dell’applicazione delle teorie<br />

illuministe e contemporaneamente della loro sconfitta e, insieme, il simbolo di un radicale e sentito antidispotismo.<br />

La Corsica, in realtà, vive ed è vissuta di tutte queste contraddizioni, senza nessuna parzialità. <strong>Il</strong> governo di Paoli,<br />

seppure per poco tempo e con numerose difficoltà, è riuscito a liberare i diversi volti dell’isola per darne, all’esterno ed<br />

all’interno, uno compatto. Queste contraddizioni, unite alle ineguali presenze delle forze sociali nell’isola, hanno<br />

contribuito all’eterogeneità delle interpretazioni storiche.<br />

Figura 68: un manifesto del Fronte di Liberazione Nazionale.<br />

202<br />

Fabrizio <strong>Dal</strong> <strong>Passo</strong>


♦ Fonti pubblicate<br />

FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

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Ajaccio 1764.<br />

MEMORIA di quello che conferirebbe al regno di Corsica per la di lui quiete, felicità e per lo stabilimento d’esso nella<br />

perpetua fedeltà del serenissimo governo, archivio di stato di Napoli, esteri 537, nazione corsa, 1736 ai 1773;<br />

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203


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

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1940); le général J.-P. Abbatucci (1723-1813); le général Ch. Abbatucci (1771-1796); le garde des sceaux<br />

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indicata include altri studi, oltre a quelli citati nelle note, utili per una visione più completa della questione corsa.<br />

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partire dal 1881. Questa società, presieduta dal canonico Letteron ed in seguito dal canonico Leschi, ha tradotto in<br />

francese e pubblicato in più di 600 numeri una grande quantità di documenti, tra cui lo Statuto concesso ai corsi dal<br />

Duca di Milano (1883-1884); gli accordi tra Genova ed il Banco di San Giorgio, il testo <strong>dei</strong> capitula corsorum (1881),<br />

la visita pastorale di Monsignor Marliani del 1646 (1890); il processo a 26 notabili bastiesi del maggio1746, n. 50-53<br />

(1885); i Cahiers de doléances del 1789 (1897); le lettere di Paoli (1881, 82, 83, 85, 86, 87, 88, 89, 93, 94, 96, 99,<br />

1929), etc. L’ultimo numero (670-671) ha esposto gli Atti del Convegno “Le royaume Anglo-Corse (1794-1796)”,<br />

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YVIA-CROCE H., Anthologie des écrivains corses, Ajaccio 1931;<br />

ID., Panorama de la presse corse aux XVIII e et XIX e siècles (1762-1852), «Corse historique», 23-24 (1966);<br />

ID., Vingt années de corsisme 1920-1939, Ajaccio 1979;<br />

ID., Quarante ans de gloire et de misère, Ajaccio 1996;<br />

ZIMMERMANN C.C., GALPIN C., A systematic source book in rural society, New York 1965;<br />

ZUCCARELLI C., La libération de Bastia, Bastia 1956.<br />

227


FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

INDICE<br />

INDICE<br />

PREMESSA pag. I<br />

Nota Bibliografica pag. III<br />

CAPITOLO 1 – IL SECOLO GENOVESE (1559-1729)<br />

§ 1. <strong>Il</strong> secolo di ferro pag. 1<br />

§ 2. La politica economica pag. 5<br />

§ 3. La società pag. 6<br />

§ 4. Città e villaggi pag. 8<br />

§ 5. Gli scontri sociali pag. 12<br />

§ 6. Un rinnovamento spirituale pag. 13<br />

§ 7. Un rinnovamento culturale pag. 14<br />

§ 8. L’emigrazione pag. 15<br />

§ 9. <strong>Il</strong> bilancio: una società divisa ed in crisi pag. 15<br />

CAPITOLO 2 – I TESTI POLEMICI DELLA RIVOLUZIONE CORSA: DALLA<br />

“GIUSTIFICAZIONE” AL “DISINGANNO”<br />

§ 1. Introduzione pag. 18<br />

§ 2. Analisi <strong>dei</strong> testi giustificativi pag. 21<br />

§ 3. <strong>Il</strong> ruolo del clero corso nella rivolta pag. 22<br />

§ 4. <strong>Il</strong> Disinganno di Giulio Matteo Natali pag. 23<br />

§ 5. La Giustificazione di Gregorio Salvini pag. 25<br />

§ 6. Conclusioni pag. 27<br />

CAPITOLO 3 – LA PRIMA FASE DELLA RIVOLUZIONE CORSA (1729-1755)<br />

§ 1. 1729-1733: Moti o Rivoluzione? pag. 30<br />

§ 2. Ripresa delle ostilità: la Costituzione del 1735. <strong>Il</strong> Re Teodoro pag. 33<br />

§ 3. <strong>Il</strong> Primo intervento francese (1736-1742) pag. 36<br />

§ 4. 1742-1755. Inghilterra, Austria, Sardegna e Francia in Corsica pag. 38<br />

CAPITOLO 4 – LA SECONDA FASE DELLA RIVOLUZIONE CORSA: PASQUALE PAOLI<br />

(1755-1769)<br />

§ 1. Pasquale Paoli: l’indipendenza della Corsica pag. 43<br />

§ 2. La ricerca dell’unità amministrativa pag. 44<br />

§ 3. Trionfo e tragedia: dall’indipendenza all’occupazione francese pag. 51<br />

§ 4. Le cause della sconfitta pag. 56<br />

CAPITOLO 5 – JEAN JACQUES ROUSSEAU ED IL PROGETTO DI COSTITUZIONE PER<br />

LA CORSICA<br />

§ 1. Premessa pag. 66<br />

§ 2. Corrispondenza tra Buttafoco e Rousseau nel 1764 pag. 66<br />

§ 3. I primi rapporti tra Rousseau e la Corsica pag. 68<br />

§ 4. Lettere ed informazioni dall’isola pag. 70<br />

§ 5. L’atteggiamento di Paoli pag. 71<br />

§ 6. La Corsica come Repubblica pag. 72<br />

§ 7. La democrazia pag. 73<br />

§ 8. La polemica contro il regime feudale pag. 73<br />

§ 9. <strong>Il</strong> livellamento dell’isola pag. 79<br />

§ 10. La suddivisione del corpo sociale pag. 80<br />

§ <strong>11.</strong> L’agricoltura pag. 81<br />

§ 12. <strong>Il</strong> fisco pag. 84<br />

§ 13. L’Autarchia pag. 86<br />

§ 14. Conclusioni pag. 88<br />

CAPITOLO 6 – IL SISTEMA COSTITUZIONALE DI PASQUALE PAOLI<br />

§ 1. Premessa pag. 91<br />

§ 2. Proclamazione della Costituzione pag. 91<br />

§ 3. Tradizioni politiche e strutture sociali pag. 92<br />

§ 4. Cause ed obiettivi della rivoluzione. Sviluppo di una coscienza nazionale pag. 93<br />

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FABRIZIO DAL PASSO, <strong>Il</strong> <strong>Mediterraneo</strong> <strong>dei</strong> <strong>Lumi</strong>. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni<br />

INDICE<br />

§ 5. Tentativi d’organizzazione politica: le consulte pag. 94<br />

§ 6. Creazione della Dieta pag. 95<br />

§ 7. Limiti ed estensioni <strong>dei</strong> poteri di Paoli pag. 96<br />

§ 8. Paoli e la Dieta: Composizione dell’assemblea pag. 97<br />

§ 9. Elettori ed eletti pag. 100<br />

§ 10. Paoli contro la Dieta pag. 101<br />

§ <strong>11.</strong> Paoli e la nazione pag. 102<br />

CAPITOLO 7 – IL SISTEMA SOCIALE ED ECONOMICO DELLA CORSICA: IL PLAN<br />

TERRIER (1769-1791)<br />

§ Premessa pag. 104<br />

§ 1. La societa’ corsa e la sua evoluzione prima del 1789 pag. 104<br />

§ 2. Evoluzione storica della società e natura <strong>dei</strong> rapporti sociali tra il 1770 ed il 1780 pag. 110<br />

§ 3. I rapporti sociali dominanti nelle campagne corse (1770-1780) pag. 114<br />

§ 4. Le classi sociali nelle campagne corse alla fine del XVIII secolo pag. 115<br />

CAPITOLO 8 – CORSICA E RIVOLUZIONE FRANCESE: I “ CAHIERS DES DOLEANCES”<br />

(1787-1789)<br />

§ 1. La politica della monarchia assoluta e l’evoluzione agraria in Corsica pag. 127<br />

§ 2. Contraddizioni delle forze produttive pag. 131<br />

§ 3. La Corsica e la crisi del 1788-1789 pag. 133<br />

§ 4. Conclusioni pag. 139<br />

CAPITOLO 9 – IL SISTEMA CLANICO E LA “VENDETTA” CORSA<br />

§ 1. Premessa pag. 146<br />

§ 2. L’evoluzione del sistema politico pag. 146<br />

§ 2. La segmentazione egualitaria della società corsa pag. 146<br />

§ 4. La segmentazione clanica pag. 154<br />

§ 5. L’origine del clan pag. 157<br />

§ 6. La dinamica segmentaria nel XVIII secolo pag. 159<br />

§ 7. Clan e partiti pag. 163<br />

CAPITOLO 10 – LA CORSICA FRANCESE: DALL’ANCIEN RÉGIME A NAPOLEONE<br />

(1770-1815)<br />

§ 1. La Corsica sotto l’Ancien Régime (1769-1789) pag. 168<br />

§ 2. La Politica economica d’Ancien Régime pag. 170<br />

§ 3. La Rivoluzione Francese e la Corsica: 1789-1794 pag. 174<br />

§ 4. La Spedizione in Sardegna pag. 181<br />

§ 5. La secessione della Corsica del 1794 pag. 184<br />

§ 6. <strong>Il</strong> Regno Anglo-Corso (1794-1796) pag. 186<br />

§ 7. La Riconquista dell’isola sotto il Direttorio pag. 190<br />

§ 8. <strong>Il</strong> Consolato e l’Impero pag. 192<br />

CAPITOLO 11 – CONCLUSIONI<br />

§ 1. <strong>Il</strong> mito: la democrazia corsa pag. 198<br />

§ 2. La Rivoluzione corsa: l’utopia pag. 199<br />

§ 3. La realtà del lungo periodo pag. 201<br />

§ 4. La Corsica come simbolo pag. 202<br />

BIBLIOGRAFIA pag. 203<br />

INDICE pag. 228<br />

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