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la Biblioteca di via Senato
mensile
Milano
anno I
n.6 – ottobre 2009
Quell’amicizia
doc tra Gobetti
e Malaparte
matteo noja
L’esperanto
“visivo” delle
italiche lettere
giovanni baule
Jonathan Swift,
o dell’economia
politica “irish”
giuseppe sertoli
The only sensible thing to do with
is to them.
Sir Richard Branson, entrepreneur extraordinaire and adventurer.
His never ending quest for the next big idea brings
him to the inspirational solace of Necker, his island.
He always travels with Samsonite ProDLX,
the only bag that can keep up with him.
Sir Richard Branson’s proceeds from the photo shoot were donated to the Virgin Unite foundation. www.virginunite.com
samsonite.com
la Biblioteca di via Senato - Milano
MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO I – N.6 – MILANO, OTTOBRE 2009
Sommario
4
12
22
25
42
Un carteggio “ragionato”
MALAPARTE E GOBETTI,
DUE PENNE AMICHE
di Matteo Noja
Traduzioni “visive”
PAESE CHE VAI,
LIBRO CHE TROVI.
ITALIANI IN COPERTINA
di Giovanni Baule
I 70 anni di un antico artista
GLI ALBERI E I BORGHI
DI MINEZZI, PITTORE
DEI LIBRI E SUI LIBRI
di Matteo Tosi
inSEDICESIMO – Le rubriche
RECENSIONI, CATALOGHI,
ASTE, ANNIVERSARI,
MOSTRE E APPUNTAMENTI
Visita allo Studio Pellini
L’ULTIMO ATELIER
SCAPIGLIATO DI MILANO
di Elena Bellini
e Matelda Pellini
46
48
52
60
62
Un libro ritrovato
AD PERPETUAM MEMORIAM
di Chiara Bonfatti
Libri illustrati
FRANS MASEREEL,
CHE CORSE SUL “FILO”
di Chiara Nicolini
Uno swift “economico”
PER 108.000 STERLINE
DA MEZZO “PENNY”*
di Giuseppe Sertoli
La Fiera letteraria
INFORMARE
SUI FORMATI
di R. Obredi
Novità in collezione
UNA RACCOLTA SEMPRE
PIÙ RICCA, OGNI MESE
di Chiara Bonfatti, Giacomo
Corvaglia e Annette Popel Pozzo
* tratto da “l’Erasmo” n.18,
novembre – dicembre 2003
Consiglio di amministrazione della
Fondazione Biblioteca di via Senato
Marcello Dell’Utri (presidente)
Giuliano Adreani, Carlo Carena,
Fedele Confalonieri, Maurizio Costa,
Ennio Doris, Paolo Andrea Mettel,
Fabio Perotti Cei, Fulvio Pravadelli,
Carlo Tognoli
Segretario Generale
Angelo De Tomasi
Collegio dei Revisori dei conti
Achille Frattini (presidente)
Gianfranco Polerani,
Francesco Antonio Giampaolo
Fondazione Biblioteca di via Senato
Elena Bellini segreteria mostre
Chiara Bonfatti sala Campanella
Sonia Corain segreteria teatro
Giacomo Corvaglia sala consultazione
Claudio Ferri direttore
Luciano Ghirelli servizi generali
Matteo Noja conservatore della
Biblioteca
Donatella Oggioni responsabile teatro
e ufficio stampa
Annette Popel Pozzo responsabile
del Fondo Antico
Gaudio Saracino servizi generali
Stampato in Italia
© 2009 – Biblioteca di via Senato
Edizioni
Tutti i diritti riservati
Direttore responsabile
Angelo Crespi
Ufficio di redazione
Matteo Tosi e Gianluca Montinaro
Progetto grafico e impaginazione
Elena Buffa
Fotolito e stampa
Galli Thierry, Milano
Referenze fotografiche
Saporetti Immagini d’Arte Snc,
Milano
L’editore si dichiara disponibile
a regolare eventuali diritti
per immagini o testi di cui
non sia stato possibile reperire
la fonte
Immagine in copertina:
Caricatura di Curzio Malaparte, 1921,
fatta da Deiva De Angelis
Questo periodico è associato alla
Unione Stampa Periodica Italiana
Direzione e redazione
Via Senato, 14 – 20121 Milano
Tel. 02 76215318
Fax 02 782387
segreteria@bibliotecadiviasenato.it
www.bibliotecadiviasenato.it
Bollettino mensile della
Biblioteca di via Senato Milano
distribuito gratuitamente
Reg. Trib. di Milano n. 104 del
11/03/2009
MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO I – N.6 – MILANO, OTTOBRE 2009
Editoriale
la Biblioteca di via Senato - Milano
In autunno si moltiplicano le fiere, i mercati
e i mercatini di libri antichi, rari, usati
e d’occasione. Come cercatori di funghi,
i bibliofili rasentano i banchi in modo
circospetto in cerca delle loro prede, scostando
pile di libri non interessanti come fossero foglie
morte sul terreno, allontanando gelosamente
altri cercatori dal territorio che stanno battendo,
rovistando tra i detriti di questi grandi boschi
di carta.
Nell’attesa della quinta edizione del Salone
del libro usato (dal 5 all’8 dicembre, Fiera
Milano-City), uno dei più importanti
appuntamenti del settore, bisogna fare una
considerazione. Negli ultimi tempi il pubblico
di queste rassegne non è composto solo
da bibliofili. Il crescente interesse dei comuni
lettori verso i libri usati, quindi non solo rari
o da collezione, fa pensare.
Quasi l’ostinazione della lettura e della passione
libraria voglia così rispondere a un’editoria
sempre più disattenta verso il suo pubblico,
a volte troppo munifica nel numero dei volumi
pubblicati, ma spesso assai avara nella qualità
delle proposte, sempre incline a occupare
massicciamente ma senza giudizio i banchi
delle librerie.
Forse anche perché i bouquiniste,
i bancarellai, i librai antiquari o d’occasione,
si pongono davanti a ogni libro come frutto
di una ricerca critica, volta a considerare il ruolo
che il libro andrà a svolgere nel contesto
in cui verrà accolto, queste rassegne
rappresentano un luogo dove i libri stessi
imparano a conoscersi, dove i lettori
si confrontano e familiarizzano con autori e testi
che non ricorrono più, ma forse non lo hanno
mai fatto, ai facili effetti patinati ma che ancora
– nonostante numerosi anni e numerose dita
li abbiano compulsati, scorsi, sfogliati –,
solamente per le loro qualità, ammiccano al loro
unico amico, il lettore, con fascino immutato.
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 5
Un carteggio “ragionato” dall’archivio Malaparte della BvS
MALAPARTE E GOBETTI,
DUE PENNE AMICHE
Coetanei ma molto diversi, si stimarono reciprocamente
In un anno ricco di cambiamenti, di tensioni e di scontri,
due giovani di grande talento si incontrano per la
prima volta. È la primavera del 1922 quando Curzio
Malaparte (che ancora si chiama Kurt Erich Suckert) conosce
Piero Gobetti. Hanno press’a poco la stessa età,
formazione e interessi diversi ma intellettualmente si stimano
e tra loro si instaura subito un’amicizia «vera, affettuosa,
inalterabile».
L’Italia che Malaparte ritrova dopo esser stato in
Belgio e in Polonia come addetto culturale del ministro
Tommasini non lo convince. Partecipa del disagio morale
che accomuna tutta la gioventù di allora e vede nel fascismo
la possibilità di compiere quella rivoluzione italiana
per la quale era partito volontario a sedici anni partecipando
alla prima guerra mondiale.
Gobetti si sta laureando a Torino;
ha come insegnanti Luigi Einaudi,
Gaetano Mosca, Francesco Ruffini
e Gioele Solari. Al liceo ha studiato
filosofia con Balbino Giuliano,
che collabora all’Unità di Salvemini.
I suoi interessi sono rivolti ai problemi
sociali. Ha appena chiuso una rivista,
Energie Nuove, ne ha appena
aperto un’altra, La Rivoluzione Liberale
(12 febbraio 1922); è critico tea-
A sinistra: caricatura di Curzio
Malaparte (che ancora si fa chiamare
Curzio Erich Suckert) fatta
da Deiva De Angelis nel 1921.
A destra: copertina del libro di
Malaparte edito da Gobetti nel 1925
MATTEO NOJA
trale del gramsciano Ordine Nuovo. Eugenio Montale,
che lo conosce in quegli anni, lo descrive come un «adolescente
scarruffato e occhialuto, di costituzione molto fragile,
eppure con in corpo un’energia diabolica».
Nel Memoriale che Malaparte abbozza nel 1946, ricorda
così il suo incontro con Gobetti: «Nella primavera
del 1922, conobbi anche Piero Gobetti […], il quale
m’invitò a collaborare prima alla sua rivista Energie Nuove,
poi alla sua famosa rivista Rivoluzione Liberale, che si
stampavano a Torino e che in breve tempo avevano raccolto
intorno a Gobetti il fiore dell’intellettualismo antifascista.
In quelle due riviste sono apparsi vari miei saggi
sul “dramma della modernità” e sul contrasto insanabile
fra civiltà protestante e civiltà cattolica etc. […].
«Erano saggi letterari, nutriti di cultura storica, dai
quali esulava ogni pensiero e ogni intendimento
politici. Mi legai ben
presto di affettuosa amicizia a Pietro
Gobetti, il quale, tutte le volte che da
Torino veniva a Roma, non mancava
di farmi visita (abitavo allora in una
stanza ammobiliata in via Lucina,
presso certi signori Manara), per
scambiare con me idee, giudizi, specie
letterari, impressioni, previsioni
etc. Passavamo lunghe ore insieme a
discutere ogni sorta di problemi sociali,
letterari, poltici, religiosi.
«Su un punto solo non eravamo
d’accordo: sulla guerra, egli svalutava
l’importanza morale della
guerra per le giovani generazioni che
vi avevano preso parte, io, forse, la
6 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
sopravvalutavo. Egli era più giovane di me, non aveva
partecipato alla guerra, e perciò era molto più freddo, più
sereno, più obiettivo di fronte al dramma della guerra.
Era anche molto più libero nei suoi giudizi, poiché non
era impacciato e appesantito dalla retorica patriottica di
noi reduci. La guerra per me era una mia tradizione personale,
la mia prima fondamentale esperienza di vita.
Non potevo, perciò, essere obiettivo, né libero di fronte
alla guerra. Ed è appunto il fatto “guerra” che mi ha impedito
di essere un antifascista, allora».
Il “fatto guerra” sarà sempre centrale nella vita dello
scrittore (decorato con medaglia di bronzo e croci di
guerra italiane e francesi e che a Bligny respirò l’iprite tedesca),
che in un passo del postumo Diario di uno straniero
a Parigi [Vallecchi, 1966], ricordando un comizio di protesta
per l’aumento del costo della vita, organizzato in
Place de la Concorde dai veterani della Prima guerra
mondiale e disperso brutalmente dai poliziotti con manganelli
e calci, scrive: «Quell’immenso, invincibile esercito
di veterani, fuggì, si disperse; sul selciato della sterminata
piazza rimasero abbandonati, tristi e lugubri, berretti,
grucce, bandiere. Addossato ad una colonna, frenavo
a stento le lacrime. Fu quel giorno che sentii oscuramente
che la mia generazione aveva perso la guerra».
In un altro punto del suo Memoriale scrive: «Io ero
più compromesso con la letteratura classica, con i vecchi
schemi della letteratura latina e italiana; egli era meno
nutrito di classici, più teoricamente esperto di problemi
sociali moderni; io possedevo un’esperienza, sia pur modesta,
di azione politica e sociale, che egli non possedeva
(ma a cui aspirò sempre, ma vanamente, in tutta la sua
breve vita). […] Serbavamo entrambi un’assoluta libertà
di critica reciproca: spesso eravamo dissenzienti su questo
o quel problema, spesso abbiamo polemizzato garbatamente.
Ma la nostra amicizia non ebbe incrinature».
Malaparte inizia a collaborare a La Rivoluzione Liberale,
anche se il suo primo articolo, Il dramma della modernità
[4 giugno 1922], non trova il plauso di tutti i lettori;
Maffeo Pantaleoni scrive al direttore della rivista per protestare
e aggiunge: «Le accludo L. 20 a patto di non ricevere
più La Rivoluzione Liberale e le interdico nel modo
più formale di spacciarmi presso altri come sostenitore,
aderente o collaboratore».
Nell’articolo Malaparte parla della crisi morale che
attraversa l’Italia, che però non è crisi di una nazione ben-
sì di un’intera civiltà. «Il contrasto, irriducibile, non è più
nella concezione dell’al di là, ma dell’al di qua: il “mondo”,
la mala bestia nemica di Cristo, che il cattolicismo ha
combattuto con la rinunzia e con l’espiazione, con l’amore
del sacrificio e del dolore, oggi trionfa, non più in
aspetto di bellissime femmine tentatrici, o di monaci
grassi predicatori di eresie, ma nelle varie e innumerevoli
forme della modernità». Il dramma della modernità per
l’Italia, paese refrattario alle categorie culturali e sociali
che vanno affermandosi nel mondo, si rivela come «una
forma culturale regressiva anziché progressiva».
Nell’ottobre del 1922, Malaparte scrive a Gobetti
ringraziando per un articolo di Sapegno su di lui e scrive:
«Aspetto che ella risponda subito a questa mia. Voglio sapere
quanto ella si è meravigliato di conoscermi, oltre che
come letterato, come organizzatore sindacalista. Più che
Daniele e i leoni, più che Orfeo e le pietre, mi par d’essere
Ulisse e Proteo: – Regardez bien le Prothée, pendant que
je le tiens!, caro Gobetti».
Per arrivare al tu, nello scambio abbastanza fitto di
missive, bisogna aspettare il luglio del ’23. Parlando di un
libro di Malaparte, Viaggio verso l’inferno, che poi non
uscirà, Gobetti scrive: «Caro Suckert, va bene 10 lire ai
prenotatori? Mandami la scheda compilata come ti pare
più opportuno: io te ne posso stampare e mandare subito
200 copie. Organizzerò réclame fortissima: sarai contento
di me […] Credimi affettuosamente tuo Piero Gobetti.
Mi è venuto il tu: ma non ti pare meglio, dati i nostri rapporti
di collaborazione?».
Il 17 gennaio dell’anno successivo, Gobetti recensisce
sul Lavoro la nuova edizione de La rivolta dei santi maledetti
[Roma, Rassegna Internazionale, 1923]. L’articolo
s’intitola Profili di contemporanei: L’eroe di corte; il giudizio
nei confronti di Suckert Malaparte è duro ma, allo stesso
tempo, affettuoso. In sostanza, non ne capisce o, meglio,
non ne concepisce il fascismo. Teme che l’amico abbia
venduto la sua penna prodigiosa, che abbia trovato posto
alla corte di Mussolini come tanti stavano facendo. Non
capisce che il suo entusiasmo di essere il primo letterato a
capo di «un’organizzazione economica sindacalista, forte
di 68 corporazioni e di 7400 iscritti» nasce dal fatto di
intravedere in ciò il compimento della rivoluzione che
prima di essere fascista è e deve, per lui, essere italiana. Il
suo pensiero in merito sarà esplicito nelle pagine della sua
rivista La Conquista dello Stato.
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 7
Gobetti chiude l’articolo con queste frasi: «Dopo lo
sforzo penoso di un secolo di civiltà laica e democratica
l’Italia ritorna ai suoi istinti cattolici e ricostruisce la corte,
e assolda i cortigiani. Lasciate che tra questa genìa noi
ci compiacciamo di ritrovare in Suckert un bel tipo di
scrittore aulico, eroico e ortodosso, anche dove si abbandoni
agli scherzi poetici che sono in uso nelle regge».
La replica di Malaparte non si fa attendere. Il 21
gennaio gli scrive: «Tu sai bene che io non stupisco di nulla
[…] Sai bene che ti sono amico, che ti ammiro e che non
potrei in nessun modo arrabbiarmi con te: preferisco arrabbiarmi
con i filosofi ginevrini, inglesi etc., moderni,
protestanti etc., filosemiti, anticristiani, etc. etc., che tanto
hanno influito a far di te un curiosissimo e simpaticissimo
esemplare di eretico. Mi arrabbio con il tuo mondo,
non con te». Dopo aver ribattuto puntualmente ad alcuni
suoi passi polemici, continua: «Sono rimasto quello che
ero, libero e squattrinato. Dal fascismo non ho mai preso
e non prendo un soldo, e seguito la mia vita di bohème,
quantunque mi trovi nella condizione di poter agevolmente
trarre guadagno dal mio lavoro politico. Non temo
gli infortuni e non temo perciò nemmeno gli attacchi.
Ma preferirei che venissero da altri, non da te. Tu capisci
che anch’io avrei potuto attaccarti, non l’ho fatto; anzi ti
ho difeso sempre. E poi perché vuoi dipingermi come un
Malaparte al confino a Lipari (1933)
dilettante? Io sono tutto, fuorché un dilettante. […] Deduco
che tu non mi conosci, non mi conosci affatto. Hai
parlato troppo poco con me. Praticami e vedrai che sono
diverso da quello che credi. Ti assicuro che se io credessi
veramente alla sincerità e alla esattezza del tuo articolo,
abbandonerei immediatamente le lettere. Che diavolo!
La prospettiva di diventare una specie di buffone di corte,
è tale da avvilirmi profondamente. Mussolini è troppo
istintivamente intelligente per desiderare di abbassarmi
nel suo concetto, al livello di un cortigiano. Egli sa chi sono
e mi stima. Sa che io non ho la stoffa del buffone; i buffoni
sono traditori ed io non ho mai tradito e non tradirò
mai nessuno, fuorché me stesso. Un consiglio, caro Gobetti,
se vuoi occuparti di me per l’avvenire, occupati di
me seriamente. Ti assicuro, e tu lo sai, che lo merito».
Nel frattempo, Gobetti, in una cartolina che gli
spedisce qualche giorno prima dell’uscita dell’articolo
(ma che verosimilmente Suckert leggerà dopo), terrà a
precisare: «Ti ho recensito Santi Maledetti sul Lavoro. Temo
che la cosa ti spiacerà. Sono stato sincero fino alla brutalità:
ma tu non sei l’ultimo venuto e vi leggerai dentro
tutto il mio affetto per te e la fiducia nella tua arte». L’ami-
8 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
Lettera di Gobetti a Malaparte datata 14 agosto 1925
co, letta la cartolina, gli scriverà: «Caro Gobetti, mi viene
rimessa la tua cartolina in data 14. Se me l’avessero data
prima non ti avrei scritto la lettera di ieri, perché avrei visto
che la tua posizione a mio riguardo è una posizione di
amicizia e di sincerità. Ma insisto nel ritenere che tu abbia
di me un concetto errato. Se avessi il tipo e l’aspetto picaresco
di Barilli, mi giudicheresti più esattamente. Ma la
mia aria moderna e “confortabile” inganna. Ci rivedremo
più in là se le cose mi andranno bene».
L’anno 1924 si rivelerà drammatico per l’Italia. In
febbraio a Parigi viene assassinato Nicola Bonservizi,
giornalista italiano, fondatore del giornale Italie Nouvelle
come anche del primo Fascio parigino; a giugno, viene
ucciso Giacomo Matteotti. Farinacci chiama Malaparte a
testimoniare durante il processo per la morte del giornalista
in quanto, nel 1923 a Parigi, lo scrittore aveva incontrato
Bonservizi che, tra le altre cose, gli confidava timori
per le minacce di morte che riceveva; in proposito gli aveva
fatto leggere una lettera nella quale Amerigo Dumini
lo metteva in guardia nei confronti di Matteotti. Malaparte
verrà chiamato a testimoniare anche durante il processo
Matteotti del 1947.
In una lettera scritta il 10 giugno Gobetti avverte
l’amico che la polizia gli ha sequestrato in casa numerose
lettere e documenti, oltre al numero della Rivoluzione Liberale
che avrebbe dovuto uscire proprio in quel giorno;
salvato per miracolo il manoscritto di Viaggio in inferno,
che Gobetti vorrebbe pubblicare, lo informa che tra le
lettere sequestrate ve ne sono alcune sue. «Questi metodi
– scrive nella lettera –, come tu puoi ben capire, danneggiano
gravemente l’opera del partito e del governo fascista.
Credi che è umiliante avere a che fare con simili avversari.
Anche noi preferiamo dal fascismo una condotta
più intelligente perché è sempre meglio trovarsi con degli
avversari sul serio. Il prefetto di Torino va diffamando
con le sue gaffes l’opera del governo, in fin dei conti è un
governo italiano e se il fascismo a Torino fa ridere certo si
deve in gran parte all’opera sua. Spero che tu non avrai
noie, per quanto sia evidente che in tutto ciò si tenta soprattutto
di giocarti un colpo mancino. Mi affretto ad avvisarti
e tu vedi un po’ di far finire questo stato di cose provinciale
da Messico».
La risposta di Curzio non tarda; il giorno dopo infatti
gli scrive: «Caro Gobetti, non tocca a me giudicare
della maggiore o minore opportunità della perquisizione
operata in casa tua. Il prefetto di Torino è solo, per il momento,
giudice. Né mi interessa se hanno requisito le mie
lettere. Io scrivo, caro mio, a chi mi pare e piace e non
debbo certo render conto a nessun prefetto del Regno
delle mie amicizie […] Ti prego […] di avvisarmi telegraficamente
delle precauzioni da te prese per sottrarre definitivamente
il mio manoscritto alle grinfie del prefetto
che certo non deve masticar molta letteratura, se ha creduto
opportuno di ficcare il naso nei miei rapporti letterari
con te. Oggi vedrò forse a Roma Rossi e gli parlerò
anche di queste faccende […]». Due settimane più tardi,
trionfante, gli scriverà: «Caro Gobetti, sono felicissimo
che il tuo prefetto Palmieri abbia pagato il fio delle sue
dabbenaggini. Prosit! Aspetto sempre il tuo giudizio sulla
seconda parte del Viaggio in Inferno. Ti prego vivacemente
di inviarmi subito un articolo per il settimanale politico
che uscirà tra giorni (da me diretto) La Conquista dello Stato.
Devi spedirmelo subito! Sia come sia, anche tremendo.
Sono in attesa di un tuo sollecito riscontro. Debbo dichiararti
che il giorno stesso in cui ti avvertii per lettera, e
cioè il giorno 11 giugno, mercoledì, mi recai dal generale
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 9
De Bono, il quale mi assicurò che né il Presidente, né lui
avevano ordinato la perquisizione e il sequestro, e che il
Presidente ne era rimasto seccatissimo. Fai uso discreto
di questa notizia».
Il primo numero de La Conquista dello Statoesce il 10
luglio 1924. Con questo giornale Malaparte vuole riformare
il partito ed elenca i 9 punti attraverso cui si vuole attuare
la riforma che deve essere integrale: Mussolini, che
ha suggerito il titolo della testata, ne discute e infine approva
le linee fondamentali. Nel terzo numero, del 30 luglio,
un lungo articolo è dedicato a Gobetti e alla sua rivista.
Il titolo dell’articolo è Tempi e contrattempi di Rivoluzione
Liberale. Il primo paragrafo, intitolato Mussolini e la
rivoluzione rivoluzionaria di Gobetti, riporta un immaginario
dialogo tra Suckert e il Duce.
«Si narra che il nostro Direttore, il quale si ostina a
rimaner buon amico di Piero Gobetti (nonostante il contrario
avviso del prefetto Palmieri, ormai, con somma
gioia dei fascisti e degli antifascisti torinesi, allontanato
per sempre da Torino), si recasse un giorno dall’on. Mussolini,
e che fra loro si svolgesse il seguente dialogo:
– Eccellenza, Piero Gobetti vuol fare la rivoluzione.
– Lasciamogliela fare.
– Ma la vuole liberale, liberalissima.
– Daremo disposizioni ai prefetti perché riesca liberalissima.
– Eccellenza, e se Gobetti non avesse il coraggio di
fare le cose sul serio?
– Ve l’obbligheremo.
– E se non potesse agire per mancanza d’armi?
– Faremmo armare lui e tutti i suoi fieri seguaci dalle
autorità militari.
– E se esigesse, per decidersi ad agire, il permesso di
V.E.?
– Gli daremo il permesso per iscritto.
– E se Gobetti avesse paura che la sua rivoluzione
potesse essere avversata da Amendola e da Albertini,
che sono liberali antirivoluzionari?
– Faremmo avvertire il senatore Albertini dal ministro
Casati, e l’on. Amendola da Prezzolini, che non
stiano a far arrabbiare Gobetti, che è tanto simpatico
e così ferocemente antifascista.
– E se Gobetti facesse sul serio?
– Perbacco! allora lo faremmo commendatore!».
Più sotto, nel capitoletto Mussolini e gli appoggi finanziari
a Gobetti, si legge: «Si narra che tre mesi or sono il
nostro Direttore si sia recato dall’on. Mussolini e gli abbia
Cartolina di Gobetti a Malaparte, senza data (1924)
fatte presenti le difficoltà finanziarie che impedivano a
Piero Gobetti, il simpatico direttore di Rivoluzione liberale,
di dare uno sviluppo maggiore al suo noto settimanale e
alle sue iniziative editoriali improntate, come tutti sanno,
al più feroce e ostinato antifascismo. Dopo aver esposta
all’on. Mussolini l’utilità della campagna intrapresa dal
gruppo di scrittori di Rivoluzione Liberale, e l’opportunità
di non lasciar perire, per mancanza di fondi, l’opposizione
di Piero Gobetti (si sa che le opposizioni, se non ci fossero,
bisognerebbe crearle), il nostro Direttore ha concluso
proponendo all’on. Mussolini di far finanziare Gobetti da
qualche industriale torinese. A quanto si dice, infatti, l’on.
Mussolini avrebbe fatto sapere al comm. Gualino, ricchissimo
industriale e banchiere torinese, che se egli avesse
aiutato largamente Piero Gobetti avrebbe compiuto
un atto graditissimo al governo fascista».
Il 1925 vede la pubblicazione di Italia barbara nelle
Edizioni Gobetti. Nell’agosto Malaparte gli scrive: «Caro
Gobetti, ti ho lasciato in pace fino ad oggi. Ora ti rompo
l’alto sonno nella testa. Comincia subito la composizione
dell’Italia barbara, perché deve essere in vetrina alla
10 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
fine di settembre». Gobetti gli scrive
in risposta una lettera piena di amichevole
amarezza perché per lui l’amico
non capisce come i fascisti lo
strumentalizzino. «Caro Suckert, sarebbe
ora che ti mettessi su a fare la
persona seria. Non capisci che perdi
tempo, che i fascisti ti giocano, che
nel partito sei un uomo di quint’ordine,
che i tuoi scritti da un anno a questa
parte non valgono niente? Io credo
che sia giusto che tu rimanga nel
partito fascista perché sei un fascista
nato, uno dei tipi autentici. Ma abbi
un po’ di accortezza, tu sei anche nato
artista e non devi perderti interamente.
Da due o tre anni io vado giurando
a tutti che tu sei un grande
scrittore, che tutto ti può essere perdonato per i capolavori
che darai: e tu a smentirmi ogni giorno con le solite
sciocchezze […]».
Nonostante gli scriva che «Italia barbara è un pessimo
libro», lo stamperà e gli premetterà una breve nota:
«Presento al mio pubblico il libro di un nemico. Coi nemici
si vuole essere generosi: qui poi Curzio Suckert ci
aiuta a combatterlo. Mi piace essere settario-intransigente,
non settario-filisteo. Ho giurato di non rinunciare mai
a capire né ad essere curioso. Curzio Suckert dunque è la
più forte penna del fascismo: io non gli farò l’oltraggio di
confutarlo. Confutare immagini, opporre politica a variopinta
fantasia e a stile pittoresco non è di mio gusto. Il
mio antifascismo non combatte mulini a vento. Gli spiriti
bizzarri amo lasciar sbizzarrire e anche della loro faziosa
toscana letteratura, quando è letteratura, applaudirli. Sono
oppositore: né melanconico, né pedante». Sulla copertina
austera, beige con il riquadro ocra, sotto al titolo,
il motto greco, disegnato da Casorati, Ti moi sun douloisin?
(che ho a che fare con gli schiavi?) che idealmente li accomuna:
ambedue non furono mai schiavi di nessuno.
Nel dicembre del 1925, Malaparte scriverà all’amico
con tono mesto e preoccupato dopo la soppressione
della casa editrice per “attività nettamente antinazionale”:
«Caro Gobetti, soltanto ieri ho avuto modo
di parlare della tua questione con qualcuno del governo.
Come tu ben sapevi il provvedimento non risale
né al prefetto né al ministro. Non
c’è niente da fare. Le mie previsioni
e i miei reiterati avvertimenti, le
mie premure, le mie ammonizioni
amichevoli avevano un fondamento.
Se ti occuperai ancora di politica,
non ti lasceranno pubblicare più
nulla, cioè ti fregheranno completamente
annullando il tuo paziente
e faticoso lavoro editoriale di alcuni
anni […] Tra qualche mese non
ci sarà in Italia un solo editore che
oserà e potrà pubblicare un libro
politico o letterario di un antifasci-
Piero Gobetti con la moglie
sta. E non v’è già più ora un solo
Ada Prospero
giornale che osi pubblicare un articolo
di qualche noto nemico del
Regime (salvo qualche foglio tipo
Mondo che morirà presto). Figurati quel che sarà tra
qualche tempo.
«E allora? Io non ti consiglio di mutare opinione.
Ho troppa stima di te per permettermi di mancarti di rispetto
[…] Ti avverto che non ti lasceranno continuare.
Perciò cambia materia. Ti avevo ben avvertito di far presto
a metter fuori il mio nome! Ora bisogna che tu scelga
tra gli uomini del Regime, politici o letterati, i buoni in
criterio assoluto, e che tu tolga alla Casa Editrice il cachet
di parte. Vi sono, nel Regime, uomini che possono scrivere
cose buone, non c’è mica bisogno che tu pubblichi dei
panegirici e delle retoriche apologie del fascismo. Vi sono
dei fior di antifascisti che passano per editori in buona col
Regime. […] E ricordati che sei giovane e che potrai fare
molto se sai fare. La storia dà sempre ragione a chi sa
prendersi la ragione. E tu hai modo di aver ragione se non
insisti a rimanere dalla parte del torto […]».
Dopo aver subito persecuzioni e botte, il 6 febbraio
del ’26 Gobetti si reca a Parigi da solo, lasciando la moglie
Ada e il figlio Paolo, appena nato, a Torino; pochi giorni
dopo si ammala di una bronchite che aggraverà i suoi problemi
cardiaci. Trasportato in una clinica a Neuilly, muore
la mezzanotte del 15 febbraio: ha appena 25 anni.
Malaparte nel 1933 verrà condannato a cinque anni
di confino. Dopo un primo periodo abbastanza duro passato
a Lipari, la sua amicizia con Ciano lo aiuterà ad avere
delle condizioni meno difficili. Il suo fascismo, quello rivoluzionario,
in cui credette in gioventù e che avrebbe
voluto veder realizzato, era già tramontato.
12 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
La traduzione visiva. Forme dell’accesso ipertestuale
Paese che vai, libro che trovi
Gli italiani in copertina
La mostra Copy in Italy. Autori italiani nel
mondo dal 1945 a oggi, curata da Fondazione
Arnoldo e Alberto Mondadori, è stata allestita presso
la Biblioteca Nazionale Braidense - con una sezione
decentrata alla Triennale di Milano - in occasione
del convegno annuale di IFLA, tenutosi a Milano
dal 23 al 27 agosto 2009, e si conclude il 20 ottobre.
Il volume omonimo, al tempo stesso catalogo
e strumento per ulteriori approfondimenti,
è pubblicato per i tipi di Effigie (pp.236, €35,00).
Presentato per la prima volta all’inizio del 2008,
il progetto ha beneficiato dell’adesione di Regione
Lombardia, Fondazione Cariplo, Aie, Aib, Triennale
Milano e di alcune università di Milano e Roma.
Il contributo che segue è una sintesi del saggio
di Giovanni Baule (Politecnico di Milano) compreso
nel catalogo e intitolato La traduzione visiva.
Forme dell’accesso peritestuale.
GIOVANNI BAULE
Il “libro di traduzione” porta con sé il senso del passaggio
e le tracce dei trasferimenti, tutte quelle trasformazioni
che questi processi implicano: è dunque
un artefatto dinamico, e un po’ con quest’occhio va
guardato. Il libro di traduzione porta con sé mutazioni
che coinvolgono aspetti che vanno oltre il testo: al testo
tradotto si affiancano, infatti, quegli elementi che costituiscono
i “dintorni” del testo (copertine, indici, titolazioni…);
la forma del testo, nelle sue riedizioni tipografiche
e nelle scansioni degli impaginati, ha come risultante
quelle diverse “forme del libro” che costituiscono
una condizione imprescindibile nella sua fruizione.
Un libro, nelle sue diverse forme visibili, è in
realtà “molti libri”. Con il termine traduzione “visiva”
possiamo allora inquadrare le componenti grafico-visive
che accompagnano l’editoria di traduzione.
Rappresentano un tragitto parallelo, un’area da esplo-
14 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
rare dove un vasto bacino tipo-iconografico viene
messo alla prova degli artefatti editoriali così come si
presentano nella loro espressione tangibile. Si tratta
peraltro di un terreno di incontro dove si consumano
processi culturali dettati da scelte editoriali e da forti
componenti intersoggettive, impossibili da ridurre a
un piano di coerenze secondo rigide intelaiature: se è
difficile fissare regole evolutive, paradigmi certi, ci
sono indizi sufficienti per tratteggiare il paesaggio che
sta di fronte all’”occhio del lettore”.
Siamo consapevoli dell’uso di un termine suscettibile
di qualche distinzione: la nozione di “traduzione
visiva” si mostra tuttavia utile per aprire uno spiraglio
su quella “zona” comunicativa che introduce al testo e
accompagna le sue mutazioni; dove, se è ovvio che la
ragione conduttrice non è il vincolo linguistico, come
è nella pratica traduttiva del testo, entrano invece in
primo piano variazioni parallele che producono fenomeni
di rilievo sia nella prassi di produzione editoriale
sia nelle pratiche di ricezione-lettura. Il tema sotteso è
quello della “visibilità dei testi” che prelude al libro
come oggetto nella sua materialità: un oggetto di
design globale già prodotto dalla protoindustria, perché
questa è la sua origine, e che solo se visto in questa
chiave può rivelare tutta la propria specificità o, magari,
le vere ragioni di resistenza e di parziale irriducibilità
al libro digitale; confermandoci così che «il testo
visibile è il progetto di un percorso o la matrice di una
serie di percorsi visivi che rappresentano comunque la
base di un’esperienza non solo percettiva, ma anche
cognitiva, emotiva, esistenziale».
Nei percorsi visivi e interpretativi che coinvolgono
impaginazione e illustrazione, e che confluiscono
nelle edizioni di traduzione si aprono le ulteriori
imprescindibili strade della vita di un testo. Ci è utile,
in questo caso, far nostra quell’idea di traduzione che
privilegia la “translatio” non solo nel senso di «cambiamento»
ma anche di «”trasporto”, passaggio bancario
di denaro, innesto… Trasportare da un luogo a un
altro, prima ancora che “tradurre” da una lingua a
un’altra».
Dentro il «flusso concreto dei testi visibili», che
è anche un continuo trasferimento da un supporto a un
altro, da un formato editoriale a un altro, possiamo
immaginare di accostare, una dopo l’altra, non solo le
diverse versioni di un testo, ma, come appunto nel
nostro caso, le differenti edizioni del libro tradotto;
per restituire, in chiave sincronica, “mappe di mutazioni”.
Perché, se il libro si propone come artefatto
complesso, non è esclusivamente il testo a passare per
un filtro traduttivo; ed è un flusso che si fa mappabile,
sul piano delle trasformazioni linguistiche, tecniche,
oltre che propriamente di destinazione geografica e di
scansione temporale.
Una geografia delle trasformazioni del libro registra
una vera e propria metamorfosi dell’artefatto editoriale
che comprende dunque, accanto alla versione
tradotta del testo, tutte le mutazioni del formato editoriale
(tipo di carta, dimensioni, tipo di stampa, impostazione
grafica di gabbia, caratteri…) che modificano
la consistenza visibile dell’artefatto.
La copertina come dispositivo peritestuale
Un punto di vista possibile sul mondo dei libri
tradotti sta nel mettere sotto osservazione gli «stili di
accoglienza», o quelli che, con Jabès, potremmo vedere
come “modi dell’ospitalità”: ospitalità nei confronti
di un testo che approda in una terra “straniera” non
solo sul piano delle lingue ma anche su quello delle
culture visive.
Per il suo forte indice di visibilità vale la pena di
soffermarsi sulla copertina come principale “dispositi-
GRADI DI ICONICITÀ La traduzione visiva agisce tramite
un diverso peso delle componenti visive, operando
gradualmente sull’intera «scala di iconicità». Si va dalla sola
titolazione graficamente connotata (iconicità della scrittura)
al bilanciamento di titolazione e immagine, fino all’assoluta
prevalenza dell’immagine a piena copertina (protagonismo
iconico). Italo Calvino, Palomar
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 15
vo peritestuale”. Le copertine,
come ci ricordava Gérard Genette,
sono elementi chiave di quel “peritesto”
editoriale che configura una
categoria spaziale ben definita: si
posizionano prima del testo,
«davanti a tutto», occupando una
posizione strategica dal punto di
vista comunicativo; e in questo
modo si offrono come “dispositivi
di anticipazione”: prefigurano un
contenuto testuale tramite linguaggi
propri. Fanno da volano, da
motore di avviamento al flusso della
lettura; ne disegnano i tragitti possibili,
ne tracciano le rotte.
Propongono implicitamente un
progetto di lettura; sono uno spazio
grafico visivo che predispone al
percorso testuale, un suggeritore ai
tragitti dello sguardo. Possono
comprendere una componente iconica, basata su diversi
tipi di immagine riprodotta, accanto a tutte quelle
informazioni scritte (titolazioni ecc.) che assumono a
loro volta una determinata forma grafica: dunque un
sistema di visualizzazione che per una certa parte è soggetto
anche a una traduzione di tipo testuale.
Sulla copertina le funzioni dell’immagine riprodotta
si intrecciano in modo inscindibile, con pesi
diversi e in forma diversa, con le componenti tipografiche
del peritesto: caratteri e peso delle titolazioni e
delle altre funzioni testuali, disposizione sulla gabbia
dei diversi elementi in reciproca interazione, impaginazione
complessiva dello spazio secondo una strategia
di messa in pagina propria del “design degli involucri
o dei contenitori”.
Ma è il formato grafico nel suo insieme, che
coniuga testo e immagine, a fare del peritesto un dispositivo
unico per la distribuzione e l’articolazione
delle funzioni informative ed evocative e per evidenziare
la natura particolare del libro di traduzione:
dichiarando, tramite un nuovo assetto visivo, che si
tratta inequivocabilmente di un’“edizione tradotta”.
Queste copertine costituiscono dei “dispositivi di
transizione” perché favoriscono il passaggio da un
mondo linguistico a un altro, comunicando in modo
immediato l’avvenuta traduzione testuale, in molti casi
già attraverso un primo espediente segnaletico, quello
del titolo tradotto.
Ecco la specificità della
“messa in scena traduttiva” di un’edizione:
si «illustra» un testo, ma
se ne comunica indirettamente
anche l’avvenuta traduzione nella
nuova lingua, tramite una sorta di
«avviso metalinguistico».
Le linee evolutive di un peritesto
grafico di traduzione si declinano
a partire da ragioni differenti,
anche distanti tra loro: dallo stile
editoriale dell’editore di accoglienza,
all’introduzione al Paese e al
contesto culturale di provenienza,
alle forme di presentazione dell’autore…
Nella produzione editoriale,
il peritesto è anche, e necessariamente,
un’operazione di posizionamento
editoriale, e la copertina del
“libro tradotto” dichiara dunque
tutti gli eventuali adattamenti su
questo piano.
Sotto ciascuno di questi aspetti, in un complesso
sistema comunicativo, si esercita il «passaggio» a un’edizione
nella quale al testo tradotto in un’altra lingua
si accompagna un nuovo design dell’artefatto. La formula
adottata nelle strategie peritestuali è quella della
“comunicazione breve”, dei linguaggi di sintesi, quel
distillato di senso che riesce a sintetizzare in uno spazio
minimo informazioni ed elementi essenziali del
contenuto che segue. In questo beve spazio si gioca
l’accessibilità di un testo anche a chi ne è geograficamente,
culturalmente, linguisticamente distante.
La traduzione editoriale è dunque occasione di
una nuova trasposizione peritestuale, di una nuova
confezione visiva che tiene conto in misura diversa
della forma visiva dell’edizione originale, fino a distanziarsene
completamente. La trasposizione peritestuale
è occasione per riaprire i giochi interpretativi anche su
questo fronte.
Le copertine di traduzione costituiscono in questi
casi un altro punto di vista su un’opera e sul suo
autore. La “grafica dell’accesso” opera tramite questi
veri e propri “dispositivi di accoglienza” che favoriscono
la comprensione, facilitano l’approdo a un testo
nato in altro contesto geografico-linguistico; in quanto
strumenti per l’accesso comunicativo, aiutano a passare
le frontiere, incoraggiano l’attraversamento di
confini.
16 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
Traduzioni di traduzioni
«Già sotto lo specifico di “edizione” si prefigura
la possibilità che un testo venga pubblicato, ed eventualmente
ripubblicato e proposto al pubblico con una
o più presentazioni più o meno diverse». C’è già dunque
un carattere di variabilità implicito nelle funzioni
stesse del libro: i libri sono fatti per riprodursi in forme
sempre diverse. Con la traduzione si moltiplica in
modo esponenziale questa variabilità riproduttiva. Nei
“peritesti di traduzione”, in particolare, si realizza un
doppio passaggio.
Un “primo livello” di traduzione visiva è già
quello riscontrabile nel passaggio dal testo in quanto
tale alla prima versione a stampa, dove si realizza la
prima sintesi grafico-visiva, l’immagine del libro in
edizione originale. Perché si potrebbe, a tutti gli effetti,
già definire come “processo traduttivo” questo
primo passaggio dal contenuto testuale a un linguaggio
grafico-visivo (una «traduzione intersistemica», o
una «trasmutazione di materia» secondo Umberto
Eco) che viene messo in atto nella costruzione del
peritesto grafico della prima edizione. È un livello
chiaramente traspositivo, di trasferimento mediante
tecniche e linguaggi specifici che sono propri della
pratica grafico-illustrativa e dotati di una forte valenza
interpretativa.
Si tratta di una pratica illustrativa in senso lato:
quella propria delle tecniche di visualizzazione che è
alle origini dell’illustrazione dei testi: una scelta di
nodi colti nel tessuto del testo che, a posteriori e nel
moltiplicarsi delle edizioni e delle versioni illustrate, si
pongono come vere e proprie ricorrenze e invarianti,
per sottolineare quei nuclei di senso che costellano una
struttura narrativa e che nel tempo divengono costanti
di una «lettura» per immagini, secondo modalità che
una moderna “iconografia editoriale” potrebbe analiticamente
affrontare. È proprio della funzione illustrativa
l’uso di qualunque forma di immagine riprodotta
con tecniche diverse, ma comunque mediate da un’operazione
di sintesi che sottintende un lavoro d’interpretazione
del testo, di lettura (o di sottolineatura) di
alcune sue parti, con un forte intento evocativo e
secondo un certo «punto di vista».
Il “secondo livello” della traduzione visiva coincide
con il libro di traduzione e con la sua nuova confezione
peritestuale non sempre decifrabile nella sua
genesi: può trattarsi di un nuovo e diretto processo di
trasmutazione dal testo alla sintesi grafica peritestuale
ad opera del nuovo editore, che ripercorre dall’inizio
quel passaggio di campo semiotico che va dal testo alla
soluzione grafica; può trattarsi di una chiara evoluzione
“intralinguistica”, cioè un passaggio dalla copertina
MODULAZIONI TIPO-GRAFICHE La traduzione modifica lo stile dell’accesso, attraverso logotipi editoriali che
lavorano sull’iconicità delle scritture: un titolo «forte» viene usato come logotipo, come elemento prevalente e con forte
valenza segnaletica. Come nel caso di qualunque logotipo, la connotazione grafica del titolo costruisce l’identità del
prodotto editoriale. Nei passaggi alle versioni di traduzione i logotipi subiscono variazioni, ma dentro la medesima logica
comunicativa. Elsa Morante, La Storia
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 17
«originale» alla copertina «tradotta», l’evoluzione da
una sintesi visiva a un’altra; può trattarsi di un incrocio
di entrambi i processi: un occhio alla copertina originale,
un altro a ciò che il testo “direttamente” suggerisce
per una nuova versione grafico-visiva.
È in questo senso che si potrebbe a buon diritto
sostenere, proprio a partire dalla grafica del peritesto,
che “la grafica è traduzione”. Lo è in quanto ritrascrive
con linguaggi e tecniche proprie un contenuto
testuale, lo sintetizza secondo le forme della “comunicazione
breve” e secondo un codice interpretativo. La
grafica dei peritesti o dell’accesso, in particolare, è un
facilitatore comunicativo. La confezione editoriale è
un contenitore profondamente connesso al testo contenuto:
lo contiene in quanto lo preserva fisicamente,
informa sugli «ingredienti» contenuti, delinea istruzioni
o suggerimenti per l’uso. Il packaging editoriale
«marca» la versione tradotta proprio mutando la veste
editoriale, immettendola così nella catena traduttiva.
Gradi di iconicità
La traduzione visiva lavora su diversi gradi di
cooperazione delle componenti verbo-visive del peritesto;
così da assegnare pesi differenti ai diversi elementi
mentre si organizzano sullo spazio dell’impaginato.
La misura di questi «ingredienti» è un aspetto
determinante nella «ricetta» della comunicazione visiva:
su un impaginato di copertina, lo spostamento di
accento da una titolazione a un’immagine, o viceversa,
modifica gli equilibri sintattici del discorso comunicativo.
Il doppio gioco titolo-immagine costituisce un
doppio rinvio, in funzione di una triangolazione col
testo «contenuto».
È possibile allineare, in un’ideale sequenza, le
edizioni tradotte dove le componenti visive si dispongono
in modo graduale secondo una “scala di iconicità”.
Si possono così registrare visivamente gli slittamenti
da una titolazione graficamente connotata nella
selezione del carattere (iconicità della scrittura) a una
convergenza di titolo e immagine, fino a una prevalenza
dell’immagine (protagonismo iconico). In questo
caso le diverse traduzioni visive agiscono anche tramite
questa variazione di linguaggi, operando sull’intera
scala di iconicità.
In assenza di illustrazioni nel corso del testo spetta
esclusivamente alla copertina “mettere in figura” il
contenuto; questo compito dell’illustrazione unica
diventa ancora più significativo: rappresenta una scelta
decisiva che lavora in profondità sul fronte interpretativo.
Come già aveva avuto modo di sottolineare Elio
Vittorini, «esistono due modi di illustrare il libro: o
corrispondere al suo linguaggio, al suo stile, o interpretarne
il fondo con uno stile da rabdomante che
trova ciò che lo scrittore stesso non poteva sapere d’aver
detto».
I diversi gradi di iconicità lungo la sequenza
metamorfica della traduzione visiva sono di grande
evidenza: si potrebbe sostenere che, proprio giocando
con gradi diversi di consistenza iconica, è possibile
rendere visibili le variazioni che sono proprie di ogni
edizione tradotta.
La prevalenza della componente iconica sulle
titolazioni può essere diversamente calibrata, con
effetti differenti sul piano della percezione. In quanto
dispositivo figurato la copertina illustrata ci riporta a
quell’apparato visivo, a quella sintesi simbolica che nel
18 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
libro classico era costituita dall’“antiporta”: un vero e
proprio ingresso monumentale al testo, una forma
retorica dell’accesso, una soglia figurata da oltrepassare
per entrare nella stanza del testo. Così, nel “passaggio
traduttivo”, «marcare la soglia» mediante trasformazioni
di copertina significa segnare un altro ingresso,
quello al testo trasferito in una nuova lingua.
Lo stile dell’editore
Col passaggio della traduzione visiva, nell’adattamento
al nuovo format editoriale, ci sono casi in cui
prevale il sistema comunicativo, dunque l’identità, del
nuovo editore; di conseguenza, a dare l’impronta al
libro di traduzione è lo stile della casa editrice dotata
di una propria forte impostazione grafica.
In questo passaggio traduttivo il singolo titolo
smette totalmente le sembianze istituzionali dell’editore
di provenienza e acquista quelle dell’editore di accoglienza;
non acquisisce una propria individuale identità,
ma è inglobato nell’“invariante di collana”. Come
avviene peraltro con tutti gli altri titoli della medesima
collana, il nuovo libro assume integralmente i colori
della nuova «scuderia», la divisa della nuova squadra.
Solitamente, questa soluzione visiva “istituzionale”
coincide con un’immagine editoriale di prestigio: si
assiste dunque a un adeguamento nel quale una identità
singola si immerge in quella collettiva, perdendo
qualcosa ma, con ogni probabilità, guadagnando anche
qualcosa.
Sappiamo anche come le logiche di linea editoriale
o di brand editoriale, di collana o di coordinamento
del sistema dei prodotti editoriali, giochino in parallelo
su queste scelte, imponendo caratterizzazioni di
linea e di stile grafico che vengono via via applicate e
adattate ai singoli titoli.
In questi casi si ha la “prevalenza” del sistema
coordinato del nuovo editore (se la sua natura sistemica
impone vincoli e continuità sulle variabili) perché
l’immagine di collana ospitante fa da protagonista,
assume il ruolo di soggetto; si mette così l’accento
comunicativo sul fatto che un determinato editore
abbia accolto – tradotto e pubblicato – un certo testo
in una propria collana dalla fisionomia riconoscibile,
senza assegnare nuovi caratteri comunicativi ma riconoscendolo
come parte di essa.
Questa linea si configura sempre, anche fuori dal
passaggio traduttivo, quando l’identità di editore o di
collana è la linea grafica prevalente; ma nell’editoria di
traduzione assume un peso particolare perché sottoli-
nea un avvenuto passaggio e l’avvenuta piena integrazione
in un nuovo formato linguistico e grafico-visivo.
Omografie. La variante debole
Se tradurre è «dire una cosa quasi nello stesso
modo», la traduzione visiva fa i conti con gradi diversi
e diversi modi di intendere la “fedeltà” al contenuto in
quella che abbiamo chiamato traduzione di primo
livello, quell’interpretazione di sintesi che viene visualizzata
sulla copertina. Come per la traduzione testuale,
c’è un grado di coincidenza o, all’opposto, di distanza,
che si manifesta anche tra la copertina del libro in
versione originale e la copertina di traduzione.
Sappiamo, innanzitutto, che in molti casi la traduzione
impone il tradimento formale, un modo totalmente
diverso per poter «dire la stessa cosa» in un’altra
lingua. L’immagine di copertina sceglie spesso e
programmaticamente di “parlar d’altro” per aprire le
porte alle pratiche della ricezione, per sottolineare la
natura aperta delle allegorie, visive e non. Quanto
accade nella «traduzione visiva di primo livello»,
quando il testo si muta in immagine di copertina, prelude
anche a quel percorso parallelo che è proprio
della traduzione del testo.
Talvolta si ha “quasi la stessa forma” di accesso
grafico nel trasferimento all’edizione tradotta; proprio
come è stata definita la vicinanza traduttiva di un testo.
Potremmo chiamare “omografie” tutti quei casi in cui
la copertina di traduzione è molto simile alla copertina
originale non solo per coincidenze visive (stessa
immagine, stessa grafica di titolazione), ma in quanto
usano modi stilistici simili, simile stile illustrativo o
simili modi nella grafica di titolazione. Insomma, si
tratta di una variante «debole» all’interno delle variabili
di traduzione visiva.
In alcuni casi registriamo un vero e proprio riuso
delle immagini. In particolare, nel caso di ripetizione
di un’immagine appositamente creata per l’edizione in
lingua originale, si tratta di un riutilizzo. Nel caso di
un’immagine preesistente e «citata» nell’edizione originale,
potremmo parlare di «citazione di citazioni».
Modulazioni tipo-grafiche
Ci sono casi nei quali, data la prevalenza degli
elementi testuali (titolo, nome dell’autore, binomio
autore-titolo, ecc.), queste componenti assumono una
forza iconica propria, una propria incisività dovuta
quasi esclusivamente alle dimensioni (corpo) e alle
caratteristiche formali (carattere).
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 19
Diventano elemento principale d’identificazione
e di memorizzazione della copertina. Si comportano
come veri e propri “logotipi editoriali” che sostituiscono
le immagini perché sono essi stessi immagine, lavorano
sull’iconicità delle scritture, conferiscono una
particolare enfasi al sistema di comunicazione del peritesto.
In questi casi la traduzione visiva modifica parzialmente
la forma della scrittura di titolazione, mantenendo
però questo stile d’accesso tramite logotipi
editoriali che accentuano la componente iconica della
scrittura.
Le tecniche di titolazione già lavorano per ridurre
un testo a una sintesi comunicativa efficace; la grafica
di titolazione continua questo processo. Un titolo
«forte» può essere usato come “logotipo”, come elemento
prevalente (una prevalenza dimensionale o visiva
all’interno della copertina) e con forte valenza
segnaletica. La tecnica del lettering, in particolare,
riscrive la titolazione; e spesso, nel passaggio traduttivo,
conserva questa modalità, ritoccando lo stile grafico
del disegno dei caratteri.
Variabili iconiche
Il “protagonismo iconico” è una delle forme del
peritesto visivo comune a un gran numero di libri, e di
libri di traduzione: le immagini funzionano come
interfacce visive, filtri che si interpongono tra il
mondo del lettore e il mondo del testo attraverso i
modi della raffigurazione, del “mettere in figura”; agevolano
l’accesso mediante indicatori visivi che supportano
il passaggio dal titolo al testo.
Le copertine di traduzione ospitano un’estesa
varietà di forme dell’immagine riprodotta e potrebbero
a tutti gli effetti costituire nel loro insieme un grande
catalogo visivo, un campionario di tipologie della
raffigurazione e delle tecniche di visualizzazione.
Nella traduzione visiva si alternano fonti iconografiche
diverse e differenti linguaggi: dalla simbolizzazione
grafica al disegno di illustrazione, dalle tecniche pittoriche
ai linguaggi fotografici; attraversano l’intera
gamma delle tecniche della rappresentazione visiva.
Motivi e temi iconografici incrociano tecniche e linguaggi
che le traduzioni visive adottano, visualizzando
«una parte per il tutto», indirizzando i repertori in
filoni identificabili, riconoscibili come sequenze
coerenti.
Come per ogni funzione illustrativa, operano
secondo uno “sguardo diegetico”: selezionano minime
unità narrative, puntano alla massima sintesi secondo
una selezione in apparenza casuale, intercettando uno
scorcio, una finestra, un taglio, elementi cruciali del
flusso narrativo. Così si colgono i nodi essenziali, i
L’AMBIENTAZIONE VISIVA L’iconografia di copertina funziona come accesso visivo al contesto narrativo, costruisce
uno scenario con una funzione di «ambientazione». A maggior ragione nell’editoria di traduzione, l’evocazione di luoghi
diventa cruciale: riporta all’accezione di «traduzione» come trasporto e richiama il repertorio letterario-iconografico
delle «vedute» del paesaggio italiano. Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia
20 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
punti di vista sul racconto; che mutano in sede di editoria
di traduzione, dando la misura del moltiplicarsi
dei punti di vista su un tema comune. Il sistema iconografico
della traduzione visiva costruisce così grandi
repertori d’immagine capaci di istituire un racconto
parallelo, oltre che una grande cornice figurata che fa
da soglia a tutte le versioni del testo.
Le metamorfosi dell’oggetto
Gli oggetti hanno un peso specifico di grande
rilevanza sul piano comunicativo. Se gli oggetti sono
dispositivi simbolici, parte di un’idea di totalità – in
una logica di “oggetto sociale totale” che va da Mauss
a Lévi-Strauss –, proprio perché protagonisti della
scena nell’universo pagano della nostra quotidianità,
l’efficacia evocativa della loro rappresentazione è evidente.
Nei legami che connettono la narrazione
testuale all’“interpretazione peritestuale” di titolo e
immagine di copertina, quella valenza simbolica si fa
retorica visiva.
Gli oggetti raffigurati in copertina sono un efficace
catalizzatore visivo della narrazione. Escono dall’ovvio
quotidiano, si confermano come deposito di
senso: si «raffigura simultaneamente qualcosa di più e
qualcosa di meno rispetto alla loro natura fisica [...].
L’oggetto diventa ora soggetto, protagonista, e viene
contemplato per se stesso». Si rafforza vicendevolmente
con il titolo che lo evoca, dentro quella relazione
reticolare che lega testo e immagine, avviando un
gioco di sponda che rinvia al testo nella sua interezza.
Se guardati su un piano orizzontale, i «libri con
oggetti» costituiscono una “collezione iconografica” di
tutto rispetto, tante sono le cose rappresentate nella
loro varietà: un ipotetico «sistema degli oggetti» nel
mondo delle raffigurazioni editoriali.
Ma, se guardiamo alle edizioni tradotte, siamo di
fronte a un vero e proprio “repertorio iconologico”:
una rassegna di immagini che subiscono ulteriori traduzioni
visive nel loro adeguarsi alle diverse edizioni;
una sequenza continua, dove uno stesso oggetto si
anima e si trasforma, si deforma e si muove creando
una catena di mutazioni che riporta alle parallele mutazioni
del testo tradotto.
Iconografia dell’autore
L’iconografia dell’autore segnala, visivamente, la
“prevalenza dell’autore”. Cioè la scelta editoriale di
lasciare, come prima cosa, la parola all’autore stesso:
riconoscendone la rilevanza, l’immagine non illustra il
titolo dell’opera ma “il nome” dell’autore rendendone
“visibile” la voce. Il volto dell’autore prevale sul titolo
e come tale introduce al testo: l’immagine non fa riferimento
diretto al contenuto narrato, ma mette avanti
la presenza visibile dell’autore che da “voce narrante”
si fa “volto narrante”. Entra in gioco la figura, la persona
dell’autore che incarna un vissuto, che porta con
sé la memoria di altri testi.
L’autore è in primo o in primissimo piano, alla
lettera, nel taglio dell’immagine che lo ritrae: il volto,
lo sguardo lo avvicinano al lettore e prefigurano un
discorso, o un dialogo, diretto. La voce dell’autore
acquista una forte personalizzazione: la “grana visiva”
del ritratto rimanda alla grana della voce e alla grana
della scrittura, tracciando una sorta di continuità che
riconnette autore e testo; leggere è sempre più ascoltare
parole dalla bocca di un autore.
L’ambientazione visiva
L’iconografia di copertina funziona in molti casi
come accesso visivo a un contesto narrativo, crea uno
scenario con una funzione di ambientazione.
Ambientare il testo è uno dei compiti primari della
comunicazione dell’accesso: introduce al testo, così
come l’ambientazione intratestuale introduce al percorso
narrativo; ha una funzione di soglia.
L’evocazione visiva di luoghi lontani o sconosciuti – e a
maggior ragione nel caso dell’editoria di traduzione –
diventa cruciale: conferma l’accezione di traduzione
come trasporto e richiama il repertorio letterario-iconografico
del “paesaggio italiano”.
Il paesaggio italiano e il viaggio in Italia, se costituiscono
di per sé un topos letterario, oltre che un luogo
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 21
dell’immaginario o un bacino di
stereotipi, diventano matrice privilegiata
per l’illustrazione del peritesto
di traduzione. Si procede per
variazioni di scala e di tecniche di
raffigurazione.
La raffigurazione visiva di
paesaggio si muove allora in una
molteplicità di forme: dall’immagine
fotografica e dalla panoramica
d’ambiente – nelle sottospecie della
fotografia di paesaggio o di reportage
di luoghi – alla paesaggistica
pittorica delle vedute, al disegno
illustrativo di scorci paesaggistici,
fino al dettaglio d’ambiente in
equilibrio tra natura e natura antropizzata;
fino a quella specifica
forma di scrittura grafica che è lo
schizzo da carnet de voyage: qui la
forma autoriale del diario di viaggio,
esplorazione sentimentale
sempre in terra altra, straniera, incrocia l’annotazione
scritta con appunti visivi, tracce della memoria di luoghi
che si fanno racconto visivo.
Le suggestioni iconografico-paesaggistiche del
peritesto di traduzione riproducono dunque una
sovrapposizione di luoghi: quello della provenienza
dell’autore tradotto, dell’origine linguistica del testo
tradotto, dell’ambientazione del testo narrativo tradotto.
Riportano alla metafora della lettura come “viaggio”,
e della traduzione come viaggio in luoghi altri,
lontani. Le variazioni visive sul paesaggio italiano nell’editoria
di traduzione costituirebbero nel loro insieme
una peculiare, interessante iconografia del paesaggio
italiano: un punto di vista mediato dalla traduzione
dell’immaginario visivo che si dipana in parallelo ai
diversi “viaggi in Italia”.
Arcipelago bestseller
Nel caso del bestseller, il libro di grande e immediato
successo, le alte tirature e la grande diffusione
internazionale comportano fasi accelerate per l’evoluzione
visivo-editoriale: le traduzioni visive procedono
secondo un più accentuato processo di sintesi.
Per ogni bestseller, i tempi di distribuzione si
contraggono, mentre si estendono le geografie di diffusione;
su un asse temporalmente compresso si dispongono
innumerevoli edizioni tradotte che affronta-
no il nodo della traduzione visiva
senza lasciare spazio alla sedimentazione
dei processi editoriali di
traduzione.
Una fortuna rapida non lascia
tempi per una fisiologica stratificazione
dell’immagine e degli immaginari
che solitamente presiedono a
una mutazione delle variabili di
stile e degli adeguamenti traduttivi.
Come nella formazione di un arcipelago
di origine vulcanica, un’improvvisa
esplosione genera un arcipelago
di mille diverse isole con un
comune denominatore geologico:
un rapido processo di sintesi porta
a un’evoluzione rapida dell’iconografia
originaria, a un sistema moltiplicatore
di variabili ravvicinate
nel tempo.
Dominano, a partire dall’edizione
originale, alcune componenti
iconografiche forti, declinate come in un sistema di
identità visiva che richiede da un lato una continuità
riconoscibile, come un marchio comune, dall’altro la
massima visibilità, una visibilità incisiva, di tipo segnaletico.
Spesso una componente cromatica, che sappiamo
essere massimo fattore di identificazione, viene
derivata dall’originale e si declina su elaborazioni grafiche
e modulazioni della stessa cromia. Variazioni di
elementi iconografici comuni si ripropongono tramite
elaborazioni diverse.
La compressione temporale e i meccanismi di
distribuzione fanno sì che la traduzione filmica s’inserisca
nella catena traduttiva diventando trainante,
anche sul piano dell’immagine, per molte edizioni in
lingua: così all’iconografia originale, dotata di un proprio
filone di identità grafico-visiva, si sovrappone l’iconografia
della traduzione filmica: tramite soluzioni
diverse, le copertine ospitano dettagli o frammenti
dell’immagine filmica.
Nell’insieme un filo rosso lega l’uno all’altro,
titolo per titolo, i libri di traduzione: questo legame
sotterraneo conferma la loro appartenenza a un unico
mondo in cui vivono separatamente, distanti tra loro,
invisibili l’uno all’altro ma indiscutibilmente connessi.
Un filo rosso li unisce nella sequenza della traduzione
visiva. È così che si incontrano le mille vite e i mille
volti di uno stesso libro.
22 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
UN DISEGNATORE ANTICO, DI SETTANT’ANNI
Gli alberi e i borghi di Minezzi,
pittore dei libri e sui libri
«Mi piace
collegare le immagini della mia
pittura alla trascrizione di un breve testo
letterario. Non è desiderio di citazione,
ma semplice ammissione di un debito: questa immagine
ha preso visibilità dalla riflessione o dall’illuminazione
suscitata da quella scrittura; oppure, in senso contrario,
l’osservazione del dipinto rimanda il pensiero a incisive
parole che il tempo non cancella dalla mente».
Scrive così Antonio Minezzi, di sé e della sua
arte, e già basterebbero queste poche righe per lasciare
intendere che non si tratta del solito giovane “creativo”
emergente, tutto colore e istintività (se non, peggio,
provocazione e multimedialità), ma di un uomo
maturo e di un pittore formato, settant’anni esatti di
vita alle spalle, quasi la metà dei
quali passati a dipingere e quindi a
esporre nelle gallerie di tutta Italia
e non solo.
Nipote d’arte, disegnatore e
pittore da sempre – anche se lui
preferisce dire che «la pittura si è
dedicata a me dagli anni dei giochi»
–, in realtà, Minezzi un emergente
creativo non lo è mai stato,
nemmeno quando giovane lo era
davvero. E non semplicemente
perché ha iniziato a esporre e a fare
della pittura la propria vita solo
quasi alla soglia dei quaranta, ma
anche e soprattutto perché, proprio
negli anni in cui trionfava quell’orribile
deriva nichilistica e informale
che ha umiliato la pittura rinne-
MATTEO TOSI
gando il “vero” e il “bello” come fossere accademismi
stantii (e sempre, da lì in poi, anche se oggi sembra di
essere tornati a vedere la luce), lui ha incondizionatamente
scelto di non seguire l’onda né il mercato,
omaggiando la figura e il “genere”, quasi sempre attraverso
le piccole dimensioni e una sapientemente contenuta
scala cromatica.
L’esatto contrario di quel concettualismo estremo
e di quella sudditanza alla “sensazione” che per
troppi decenni sono parsi quasi l’unica cifra distintiva
del “contemporaneo”, insomma, nonostante qualche
curiosa stravaganza se la sia ben concessa anche il lui.
Non solo per quella fusione poetica di testi e immagini
annunciata sopra – che anzi pare perfettamente in
linea con il miglior fare scapigliato
o futurista –, ma perché quel rapporto
intimo tra la pagina scritta e
il foglio su cui disegnare, lungo il
suo cammino, si è fatto così intenso
e fondante da diventare “base”,
materia della sua arte. Supporto nel
senso artisticamente più letterale
del termine, quello di superficie su
cui intervenire.
Non di rado, infatti, e in alcune
“stagioni” anche con altissima
frequenza, i suoi oli, i suoi pastelli e
Pagina miniata, olio, preparazione
materica su tela e pagina
da antifonario settecentesco
(datato 1772) cm 60x40 (2003)
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 23
Da sinistra: Libro d’ore, olio, preparazione materica su tela e pagina da libro d’ore seicentesco, cm. 35x45 (2003);
Libri sul cassettone, olio, preparazione materica su tela e frammento di salterio settecentesco, cm.70x80 (2001)
le sue pitture più materiche hanno preso forma sopra
un collage di tela e pagine a stampa, fogli volanti o
“rubati” da qualche libro per trovare nuova vita insieme
e accanto – dentro, diremmo – alla sinuosità del
suo gesto e all’eleganza dei suoi colori, alla semplicità
delle sue forme e al rigore delle sue composizioni. Il
tutto, con un’innata predilezioni per i «materiali vecchi
e antichi» che, istintivamente, potrebbe far rabbrividire
più di qualche appassionato bibliofilo, forse rassicurato
dal sapere che il “sacrilegio” non si compie
mai e che, semplicemente, «qualche volta la fortuna
premia la pazienza della ricerca come quando un
amico, restauratore di carte e libri antichi, mi invita al
suo laboratorio per cartoni da legatura o carte manoscritte
sfogliate da un registro non più meritevole di
restauro o pagine a stampa di un compendio seicentesco,
troppo incompleto o lacerato per giovarsi delle
sue cure», che per lui diventano «presagi di pittura».
Una, due, tre o quattro pagine provenienti da un
manoscritto o da un messale del XVII secolo, oppure
da un antifonario o da un salterio settecentesco, si fondono
così con la tela e ne diventano le prime protagoniste,
spesso suggerendo con le proprie “righe” e le
proprie illustrazioni anche miniate, la partizione e il
“ritmo” compositivo dello spazio, e quasi sempre det-
tando anche la sfumatura cromatica dell’opera che su
di esse (e insieme a loro) sta per nascere, indirizzandone
lo sviluppo anche “morfologico”
Qualche natura morta e qualche paesaggio bucolico,
ma soprattutto il profilo di un piccolo borgo dolcemente
abbarbicato su un colle e stretto attorno al
proprio campanile – immagine certamente figlia dei
dintorni appenninici della “sua” Modena – e ancora
più spesso la sagoma di un albero, sempre quello e
sempre lo stesso, un «solenne ippocastano, “meraviglia”
della natura e dell’arte» che lo folgorò nel giardino
di un amico che lo aveva invitato a organizzare lì
una «festosa presentazione» dei suoi lavori.
Non mancano, naturalmente, quadri “tradizionali”,
dove alberi, borghi e vedute si disegnano su supporti
più lineari – una tela, una carta “povera” o una
lamina di legno –, ma più spesso, quando le pagine
stampate non sono l’oggetto su cui colare la sua arte, i
libri diventano il soggetto della sua pittura, con intimi
scorci di scrittoi nella penombra, primi piani di scaffali
traboccanti di dorsi e “ritratti” di volumi istoriati.
Se esordisse adesso, verrebbe citato tra i nostri
nuovi figurativi tanto in voga, ma lui è un uomo antico,
e quando Sgarbi se ne occupò, tra il 1988 e l’89, i
tempi del vero non erano ancora maturi per la fama.
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 25
inSEDICESIMO
RECENSIONI, CATALOGHI DI BIBLIOFILIA, ASTE E FIERE
ANNIVERSARI EDITORIALI, MOSTRE, APPUNTAMENTI
LIBRI CHE PARLANO DI LIBRI
Grandi rifiuti, eterne paure, romanzi
d’esordio, satira politica e altre storie
di matteo noja e matteo tosi
TUTTI I “SILURATI” ILLUSTRI
DELLE UNIVERSALI LETTERE
Dire di no a una persona
è sempre difficile, molto più semplice
affettare un frettoloso si senza
discutere. Anche se può avere un valore
assoluto, questo assunto nel mondo
editoriale non funziona. Anzi, verrebbe
da dire che vale solo l’opposto. Le frasi
di rito sono molte “Ci dispiace ma la sua
opera non rientra nel nostro
programma editoriale”, “La ringraziamo
per aver pensato alla nostra Casa
editrice ma per il momento ci troviamo
costretti a restituirle il manoscritto”
e così via; il risultato non cambia,
il sunto è sempre quello: “No”.
A volte però il rifiuto diventa
un boomerang per l’editore: l’opera
riconsegnata nelle mani dell’autore
viene pubblicata da un altro editore e,
in alcuni casi, ha successo. Mario
Baudino offre con la nuova edizione
di questo libro [prima ed. Milano,
Longanesi, 1991] un agile repertorio
di rifiuti eccellenti: da Dostoevskij
a Gadda, da Hemingway a Lawrence,
da Tomasi di Lampedusa a Tolkien,
racconta una serie di gustosi aneddoti
letterari inediti o poco conosciuti.
Se la vicenda editoriale
del Gattopardo è nota, almeno
per sommi capi – il duplice rifiuto
di Vittorini, per Einaudi e Mondadori,
l’entusiasmo scatenato dalla lettura
in Bassani e Soldati che lo farà
pubblicare da Feltrinelli –, quella di altri
libri non è nota al grande pubblico.
La vicenda che riguarda il quarto
capitolo di Delitto e castigo [1866]
che Dostoevskij dovette a forza
cambiare per motivi di morale religiosa
per farlo accettare dalla rivista, Russkyi
Vestnik, su cui appariva
a puntatenonostante fosse già
un autore affermato, fu ricostruita
recentemente da Leonid Grossman
nella sua celebre biografia. Se per
Gadda è vero che era piuttosto lui a non
consegnare le opere promesse agli
editori che desideravano ardentemente
di pubblicargliele, Comisso per Le mie
stagioni [1952] collezionò ben tre rifiuti
prima che Longanesi gli dicesse «Il tuo
libro è un bel libro, avvincente, ma sono
sicuro che non lo venderemmo».
Hemingway, grazie al rifiuto della Boni
& Liveright che non volle pubblicargli
il suo secondo romanzo Torrenti di
primavera [1926], riuscì ad approdare
finalmente a un grande editore,
Scribner’s, che si adoperò per farlo
conoscere in tutto il mondo.
Il libro non si presenta quindi
come “un’enciclopedia del rifiuto”,
ma piuttosto come un’antologia
di vicende, ispirata dal gusto personale
dell’autore, giornalista e scrittore
torinese, per cercare di decifrare
le ragioni di alcuni dinieghi, e riflettere
sulla imprevedibilità del successo.
E se è vero che le modalità
per esordire e pubblicare sono cambiate
radicalmente nel breve volgere
di qualche anno, Baudino riflette
che «il problema vero sta diventando
quello di ottenere che il libro venga
anche letto e non faccia un mesto
e rapido viaggio dallo scaffale
della libreria al macero».
Mario Baudino, Il gran rifiuto. Storie
di autori e di libri rifiutati dagli
editori. Passigli editore, Firenze,
2009, pp.134, €14,00
26 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
LE PAURE DEI BIBLIOFILI
ANCHE PRIMA DEL DIGITALE
Radio, televisione, cinema,
computer sono stati visti in tempi
recenti come la possibile causa della
fine del libro, di tutti i libri. In realtà
la preoccupazione è antica e i nemici,
indicati come possibili cause della loro
estinzione, molteplici; già Riccardo
de Bury nel 1344, nel suo Philobiblon,
scriveva che i libri dovevano fuggire
quello che secondo lui era il loro
nemico tradizionale, la donna, «bestia
bipede» da fuggire «più della vipera e
del basilisco». Probabilmente, si
cominciò a parlare della fine dei libri già
il giorno della loro invenzione. Tuttavia,
fortunatamente, i libri continuano a
essere compagni sapienti e discreti della
nostra vita.
Questa preoccupazione è
protagonista di tre racconti, ora tradotti
per la prima volta in italiano, dello
scrittore francese Louis Octave Uzanne
[1852-1926], straordinario poligrafo,
narratore e raffinato saggista, fondatore
e direttore di riviste che hanno
contribuito allo sviluppo della tipografia
moderna e della bibliofilia, lui stesso
bibliofilo tra i più accaniti. Sono tratti
da Racconti per bibliofili, pubblicato a
Parigi nel 1880 dalla Maison Quantin in
un’edizione per gli amanti del libro,
illustrata in modo raffinato da Albert
Robida [1848-1926], grande artista e
narratore, inventore del celeberrimo
personaggio di Saturnino Farandola.
Uzanne e Robida furono, per la loro
sensibilità ed eleganza, tra i principali
promotori della diffusione del libro
illustrato in Francia nella seconda metà
dell’Ottocento.
Nel primo di questi racconti,
L’eredità Sigismond, la vicenda si snoda
come un dramma della gelosia, come
“una storia di una inconciliabile rivalità”,
dove la fine dei libri va intesa
nell’accezione di un annientamento
fisico, nella loro distruzione. Il secondo,
La fine dei libri, narra di un convegno di
eruditi bibliofili nel quale si immaginano
SATIRA, PARODIE E CARICATURE DALLA PRIMA REPUBBLICA
AI GIORNI NOSTRI: PER RIDERE, MA ANCHE RIFLETTERCI SU
Si intitola
“Satyricon.
La satira politica
in Italia” ed è la quinta
edizione dell’Almanacco
Guanda (Milano 2009,
pp.198, €23,00),
diretto
da Ranieri Polese.
Il quale, per l’occasione,
si chiede che significato
possa ancora avere
la satira, oggi e in
Italia, insieme ai dieci
vignettisti italiani
per eccellenza (Altan,
Bucchi, Disegni,
Ellekappa, Forattini,
Giannelli, Pericoli,
Staino, Vauro, Vincino),
messi a confronto con
gli interventi di
Riccardo Barenghi,
Marco Belpoliti, Gianni
Biondillo, Francesco
Bonami, Carlo Alberto
Brioschi, Claudio
Carabba, Oreste
del Buono, Dario Fo,
Giuseppe Genna, Marco
Giusti, Luca
Mastrantonio, Gianluca
Morozzi, Luisa Pronzato,
Alessandro Robecchi,
Michele Serra
e Stefania Ulivi.
le estreme conseguenze dell’uso dei
media che si stanno affermando in quel
momento: dal teatrofono al fonografo,
al kinetografo, per non parlare della
fotografia che a quel tempo è già
un’arte consolidata, tutte queste
invenzioni sono temibili nemici e
concorreranno alla distruzione delle
biblioteche. L’ultimo, Polveriera e
biblioteca, ambientato durante la
grande rivoluzione, racconta di due frati
diventati “cittadini” che assistono
impotenti all’installazione di una
polveriera sotto i locali della loro
abbazia e dell’annessa biblioteca: facile
immaginare quale sarà la fine dei libri.
Octave Uzanne, La fine dei libri
(a cura di Pino di Branco), testo
francese a fronte. La Vita Felice
(Collana “Liberilibri”, 5), Milano,
2009, Pp.187, €10,50
FIRENZE E I SUOI CAFFÉ
LETTERARI, UNA STORIA
Se è vero che è a Firenze
che è nata la nostra letteratura, e forse
non solo la nostra, e che poi, ancora
lì, molto sempre si è fatto per rinnovarla
e conservarla insieme, sovente
mettendola a contatto e a confronto
con le altre arti, la storia dei caffè
letterari fiorentini, dei loro
frequentatori, dei loro ambienti e delle
loro mode, non può che affascinare
ogni appassionato intellettuale.
Ma il volume curato da Teresa Spignoli
per i tipi di Polistampa, Caffé letterari
a Firenze (2009, pp.112, €16,00) non è
solo per addetti ai lavori, anzi, perché
attraverso lo sguardo dei protagonisti
delle diverse stagioni storiche,
le immagini d’archivio e quelle
del presente, racconta un’affascinante
storia che dalla fine del Settecento
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 27
si snoda lungo tutto il secolo successivo
e, ancora, fino a ben dopo la Seconda
guerra mondiale, costituendo l’ossatura
della storia intellettuale della città.
Il Michelangiolo, il Gambrinus,
le Giubbe Rosse, il Paszkowski, il Gilli,
il Caffè San Marco e altri locali meno
noti, ma sempre “curiosi”, infatti, hanno
sempre ospitato tra i loro tavolini ampie
riunioni “critiche” e dotte, ma anche
eventi estemporanei, improvvisazioni
d’autore e, ovviamente, turbinii
di confronti e amicizie, scontri e amori.
Una multiforme fucina di idee e
vita vissuta, spesso raccontata in diretta
da una delle sue realtà più influenti,
come quando si affida la parola al
futurista Alberto Viviani per sbirciare
la quotidianità del mitico Le Giubbe
Rosse: «Nei divani lungo le pareti,
al centro, sedevano sempre Papini
con a fianco Soffici e Palazzeschi.
Io sedevo accanto a Palazzeschi; egli
era quasi sempre taciturno e d’inverno
abbottonato fino al collo in un suo
magnifico pastrano marrone,
nonostante il caldo creato
da tutta quella gente e surriscaldato
dai termosifoni. Däubler e Tavolato
formavano la terna con Arturo Reghini
davanti al tavolo di Papini,
e generalmente discutevano tra loro
in tedesco a voce alta».
Teresa Spignoli, Caffé letterari
a Firenze, Edizioni Polistampa,
Firenze, 2009, pp.112, €16,00
CINQUANTOTTO DIPINTI DI FATTORI E QUASI OTTO ANNI DI STUDI
E RESTAURI, RACCONTATI IN PRESA DIRETTA, TELA DOPO TELA
Il “progetto Fattori”,
e cioè lo studio
e il restauro di 58
opere dell'artista
livornese custodite nella
Galleria d'arte moderna
a Palazzo Pitti, è durato
quasi otto anni,
coinvolgendo storici
dell’arte, restauratori,
istituti e centri di ricerca
diversi.
Un lungo lavoro con
approccio rigorosamente
scientifico che oggi
IL TUO SCRIITORE PREFERITO
È UNA RAGAZZA. O UN’ALTRA
“La vera storia dietro i libri
di culto di JT Leroy” è l’intrigante
sottotitolo dello strabiliante memoir
di Savannah Knoop, una ragazza di San
Francisco che aveva coperto la propria
identità non solo con il nome, ma anche
con le fattezze del suddetto scrittore,
presto consacrato da pubblico e critica
Usa come l'enfant prodige della
narrativa americana. Lo stile delle sue
storie autobiografiche, ma anche
(e forse soprattutto) il suo passato da
gigolo dei camionisti e di ragazzo dalla
sessualità confusa, si erano conquistate
l’interesse di moltissimi lettori, e quando
Savannah Knoop ha svelato l’arcano in
questa sua “nuova” autobiografia
il New York Times ne ha parlato come
della «più grande beffa letteraria degli
ultimi anni».
Questo “imbroglio”, quindi,
è la vera storia della doppia e bizzarra
vita di Savannah e dei suoi incontri,
sotto le spoglie di JT Leroy, con artisti e
produce, oltre al
risultato diretto degli
interventi, l’uscita
di uno splendido volume
intitolato “Con la matita
e col pennello. Giovanni
Fattori. Indagini e
restauri dei dipinti della
Galleria d'Arte Moderna
di Palazzo Pitti” (Mauro
Pagliai Editore, Firenze
2009, pp. 384, €34,00).
Un'opera unica, a cura
di Muriel Vervat
e Giovanna Damiani, che
analizza l’intero percorso
creativo di Fattori
facendo risaltare alcune
peculiarità recniche,
oltre che stilistiche.
celebrità del calibro di Courtney Love,
Madonna, Winona Ryder, Calvin Klein,
Gus Van Sant che “lo” osannavano
come una star.
Ma c’è un altro imbroglio ancora,
perhé Savannah era JT, ma non la sua
penna, nel senso che lei si era prestata a
impersonificarlo negli appuntamenti
ufficiali o nelle “presentazioni”,
ma a scrivere i libri era Laura Albert.
E qui, per la prima volta,
Savannah Knoop racconta la propria
verità. Facendo leva soprattutto
sul fatto che il sentirsi percepita come
un ragazzo le abbia regalato una
sicurezza e un'autostima prima
impensabili, ma non trascurando
nemmeno il suo lancinante affaire
con Asia Argento o il reiterato tentativo
di fuggire al controllo della Albert
sul suo personaggio. E, infine, la sua
voglia di essere “vera”.
Savannah Knoop, L'imbroglio JT
Leroy. La vera storia dietro i libri
di culto di JT Leroy, Fazi Editore,
Roma, 2009, pp.224, €14,00
28
IL CATALOGO
DEGLI ANTICHI
Libri da leggere
per comprare libri
di annette popel pozzo
CAPOLAVORI E RARITÀ
DAL CINQUE AL SETTECENTO
Librairie Lardanchet
Livres Choisis du XVe au XXe Siècle
Come di consueto, anche l’ultimo
catalogo dei librai antiquari parigini
Pierre e Bertrand Meaudre si presenta
molto ben curato e arrichito di belle
immagini. Purtroppo il collezionista
bibliofilo si accorge una volta di più
che acquistare dei bei libri è diventato
un lusso molto costoso.
Molto importante la prima
edizione latina delle Institutiones
geometricae di Albrecht Dürer (Parigi,
Wechel, 1532, legatura di fine
Settecento, copia molto marginosa,
€18.000). L’autore pubblicò questo
fondamentale corso di misurazione in
quattro libri per la prima volta in tedesco
con il titolo Underweysung der Messung
tre anni prima della sua morte
a Norimberga nel 1525. L’opera dedicata
alla prospettiva e pensata per l’uso di
pittori, architetti, orefici, carpentieri, ebbe
comunque una grande diffusione anche
tra scienziati come Erasmus, Kepler,
Galilei e studiosi della prospettiva come
Bosse, Maignan, Nicéron e Kirchner.
Il libro costituisce “the foundation
of accepted aesthetic dogma until the
nineteenth century” (Printing and the
Mind of Man, no 54). Un libro parecchio
curioso è poi quello di Lodovico
Moscardo (1611-1681), Note overo
memorie del Museo di Lodovico Moscardo
(Padova, Frambetto, 1656, legatura
in pelle coeva, €12.000). Questa prima
edizione descrive la “Wunderkammer”,
la camera delle meraviglie appartenuta
al nobile veronese, assai nota in tutta
l’Europa colta dell’epoca. Il “Museo
Moscardo” raccoglieva reperti
archeologici, bronzi, statue, epigrafi
e medaglie, ma anche oggetti naturali
come frutti esotici, conchiglie e animali.
Né mancavano naturalmente curiosità
come, per fare un esempio, mani
mummificate provenienti dall’Egitto.
Il museo fu meta di numerosi visitatori.
Mabillon lo cita nel suo resoconto
del viaggio in Italia, Museum Italicum
(1687-1689) e Montfaucon lo ricorda
nel suo Diarium Italicum (1702). Dispersa
in gran parte già nella seconda metà
del Settecento, una parte degli antichità
si trova oggi presso la fondazione
Miniscalchi-Erizzo di Verona.
Librairie Lardanchet
100, rue du Faubourg-Saint-Honoré
FR – 75008 Paris
www.lardanchet.fr – meaudre@online.fr
la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
CHICCHE D’ITALIA IN DORATA
SALSA MITTELEUROPEA
Antiquariat Norbert Donhofer
Schöne Bücher des 15. bis 20.
Jahrhunderts
L’ultimo catalogo dello studio
bibliografico viennese (settembre 2009)
offre tra numerosi titoli legati all’Austria
alcune chicche italiche. Segnaliamo la
prima edizione di Guidobaldo Del Monte
(1545-1607), Mechanicorum liber
(Pesaro, Girolamo Concordia, 1577,
legatura in pergamena seicentesca,
€14.500). Questa opera prima del
matematico e astronomo pesarese è
considerata la pubblicazione più
importante sulla meccanica dai tempi
di Archimede e infatti rimase valida fino
all’uscire dei Discorsi e dimostrazioni
matematiche, intorno a due nuove
scienze attenenti alla mecanica di Galileo
Galilei nel 1638. Molto particolare è la
Curiosa relatione del viaggio fatto da quel
coraggioso soldato del polacco Georg
Franz Kolschitzky (Venezia, Bosio, 1683,
€1.800). Il titolo descrive la missione
dell’autore, travestito all’orientale,
nell’accampamento turco fuori Vienna
per raccogliere informazioni importanti
sulla consistenza e le tattiche delle
truppe nemiche prima dell’assedio alla
capitale austriaca nel 1683. L’edizione è
di grande rarità; la sua presenza (con
varianti tipografiche) viene segnalata
soltanto in poche biblioteche. La
leggenda vuole inoltre che fosse
Kolschitzky ad aprire uno dei primi caffè
a Vienna, avendo chiesto e ottenuto le
bacche lasciate dai turchi come
compenso per i servizi dovuti. Il caffè
ebbe un successo enorme e divenne una
delle bevande più diffuse dell’epoca.
Antiquariat Norbert Donhofer
Renngasse 4 (Palais Schönborn-
Batthyány) A – 1010 Wien
www.antiquariat-donhofer.at
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 29
IL CATALOGO
DEI MODERNI
Libri da leggere
per comprare libri
di matteo noja
IL NOVECENTO TRA MISSIVE,
AUTOGRAFI E BEI VOLUMI
In un originale novella di Stefan
Zweig [Mendel dei libri, Adelphi, 2008,
pp.53, €5,50], si narra di Jakob Mendel,
rigattiere di libri che i libri non leggeva,
ma ne sapeva tutto: titolo, autore, prezzo,
edizione. Leggeva per tutto il tempo
i cataloghi, ne mandava a memoria
prodigiosamente tutto il contenuto.
E per il bibliofilo, la lettura del catalogo
di un libraio antiquario è sempre
un viaggio fantastico nel mondo dei libri,
con le sue mete, i suoi spostamenti,
le sue gioie e le sue fatiche, i suoi miraggi
e vaneggiamenti. Forse, come per Mendel,
una piacevole fuga dal mondo, dalla sua
mondanità che a volte tutto travolge.
Per ciò che riguarda i libri moderni,
diciamo stampati nell’Otto e Novecento,
trovare cataloghi appassionanti è ancora
difficile. Fa eccezione un bel catalogo
della libreria Letteratura Tattile di Rimini
dal titolo Qualche buon libro 2009; in
realtà, per arrivare ai buoni libri bisogna
sfogliare alcune pagine, essendo la prima
parte dedicata ad autografi e lettere di
personaggi famosi, italiani e non.
Passando attraverso un incompiuto
menabò per un’opera sull’arte milanese
di Antonio Alburzio [complessive 256
pagine, in un volume in-folio, €1.300]
e altri curiosi cimeli ci si può imbattere
in un gruppo di 6 cartoline anni 1948-55
inviate da Giorgio Bassani all’amico
letterato Antonio Rinaldi [€1.600] in cui
consigli e spronature si mescolano
a bisticci, fraintendimenti e a riferimenti
al mondo letterario di quegli anni. Poco
oltre, un elzeviro di Dino Buzzati per il
Corriere della Sera, dal titolo Scandalo alla
Scala [5 pp. dattiloscritte, ricche di
correzioni e ripensamenti, €1.100], ci fa
gustare l’irresistibile verve del celebre
scrittore; una serie di disegni originali
del padre del design italiano Giò Ponti
[8 cartoncini di varie dimensioni
con illustrazioni a colori a tempera,
€3.000] ci aiuta a conoscere meglio l’arte
dell’architetto milanese.
In una lunga lettera [8 pagine,
€3.200] indirizzata a Giulio Ricordi,
Giacomo Puccini racconta del suo viaggio
in Argentina e a Montevideo, intrapreso
con la moglie nel 1905 dietro invito
del giornale di Buenos Aires La Prensa,
soprattutto per ricevere un’accoglienza
trionfale e sovrintendere all’allestimento
della versione definitiva dell’Edgar,
ma anche, forse, per trovare notizie
sulla vita e sulla scomparsa del fratello
Michele, emigrato nel 1888 in cerca
di fortuna e morto pochi anni dopo.
Nel nostro viaggio sorvoliamo
lettere di Capuana al padre sul soggiorno
milanese come critico letterario e teatrale
al Corriere [5 pagine, €900], pagine
musicali di Donizetti [€2.600], Mario
Castelnuovo Tedesco [€850] e alcune
notazioni di Gian Francesco Malipiero
[€300]; scorgiamo una lunga lettera
di Ugo La Malfa al direttore del Resto del
Carlino, Alfredo Pieroni [5 pagine, €170];
più oltre alcune lettere dell’erudito storico
Pompeo Litta all’avvocato ferrarese,
celebre archeologo e numismatico,
Gaetano De Minicis [12 lettere, €1000],
sullo stato delle sue ricerche araldiche.
Ancora, Ludovico Antonio Muratori,
Mercadante, Palazzeschi… Infine merita
una citazione l’interessante manoscritto
sulla Genealogia dell’antichissima Nobiltà
Schiaffinata… di Carlo Schiaffinati
milanese [1736, 12 carte, €890] che si
interroga sulle vicende della sua famiglia.
Come detto, alla fine troviamo quei
buoni libri che danno il titolo al catalogo.
Dopo una prima edizione delle Rime di
Carducci di San Miniato [1857, Tipografia
Ristori, €1750], troviamo le tre opere
del poeta, commediografo e librettista
Giuseppe Carpani dedicate a Haydn
e a Rossini [saccheggiate e plagiate
dal giovane Henri Beyle che, ancora poco
noto, si nascondeva dietro il nome
di Stendhal] e in risposta a un libro del
veneziano Andrea Majer [Le Haydine…,
1823; Le Rossiniane, 1824; Le Majeriane,
1824, tutti editi a Padova dalla Tipografia
della Minerva, €800]. Seguono una rara
prima edizione della Vita di Alberto Pisani
scritta da Carlo Dossi [stampata in 100
copie a Milano da Luigi Perelli nel 1870,
€1500], l’Ortis di Foscolo con la falsa
data Londra 1814 [Zurigo, Orell & Fussli,
1816; €900] notevole perché prima
a riportare la Notizia bibliografica intorno
alle Ultime lettere di Jacopo Ortis.
Poi, una rassegna di libri del ’900
tra cui spiccano alcuni volumi futuristi:
Paolo Buzzi, L’Ellisse e la spirale [Milano,
Ed. Futuriste di Poesia, 1915; €1.600];
L’altalena dei sensi di Alceo Folicaldi
[Roma, Ed. Futuriste di Poesia (ma Lugo,
Tipografia Michele Cortesi), 1934; €650];
Maria Ginanni, Montagne trasparenti
[Firenze, Ed. de L’Italia futurista, 1917;
€980]; il Canzoniere futurista amoroso
guerriero di Marinetti, Farfa, Acquaviva,
Giuntini [Savona, Istituto Grafico Brizio,
1943; €800]; Ruggero Vasari, Tre razzi
rossi. Sintesi [Milano, Ed. Futuriste di
Poesia, 1921; €650].
32 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
ASTE, FIERE E MOSTRE MERCATO
L’autunno è la stagione del bibliofilo
e l’Europa è tutta un incanto
di annette popel pozzo
IL 20 OTTOBRE, PARIGI
Asta – Vente Manuscrits et Autographes
Info: www.alde.fr
Quasi 400 lotti. Soprattutto degno
d’attenzione un manoscritto autografo
di Marcel Proust, una pagina che riguarda
il risorgere del passato attraverso
l’episodio della Madeleine (lotto 335,
stima €10.000-12.000).
IL 24 OTTOBRE, AMSTERDAM
Asta – Fine & Rare Books and Prints, Art
& Architecture
Info: www.adamsamsterdam.com
Una nuova stella nel firmamento
presenta la sua seconda asta.
Particolarmente interessante una ricca
collezione di 82 lotti sull’arte della
scherma, come per esempio: Camillo
Agrippa, Trattato di scientia d’arme,
Roma: Blado, 1553 (lotto 4, stima
€1.500-2.500), Francesco Ferdinando
Alfieri, L’arte di ben maneggiare la spada,
Padova: Sardi, 1653; legato con: idem,
La Picca, e la Bandiera, Padova: Sardi,
1641 (lotto 6, stima €3.000-4.000),
o Ridolfo Capoferro da Cagli,
Gran simulacro dell’arte e dell’uso della
scherma, Siena: Marchetti e Turk, 1610
(lotto 14, stima €2.000-3.000).
DAL 27 AL 30 OTTOBRE,
KÖNIGSTEIN IM TAUNUS
Asta – Bücher, Handschriften,
Sonderauktion Brasilien
Info: www.reiss-sohn.de
L’asta autunnale di Reiss & Sohn
presenta ben 4 cataloghi che
contengono quasi 5.000 lotti di libri,
manoscritti, carte geografiche, vedute e
grafica. Particolarmente interessante il
catalogo 131, dedicato esclusivamente
al Brasile, con 141 lotti.
Vengono offerte una rara prima
edizione Iournal oft daghelijcx-register
van de voyagie na Rio de Plata
(Amsterdam, 1603, lotto 78, stima
€65.000) che descrive uno dei primi
viaggi olandesi nel Brasile a cura
del capitano Hendrik Ottsen, la Relation
historique et geographique, de la grande
rivière des Amazones dans l’Amérique di
Blaise François de Pagan (Parigi, 1656,
lotto 79, stima €25.000) e la prima
edizione di Reise in Brasilien in den
Jahren 1817 bis 1820 di von Spix e von
Martius (Monaco, 1823-1831, 5 volumi
compresi 2 atlanti, lotto 97, stima
€8.000).
IL 29 OTTOBRE,
LONDRA
Asta - Books and Manuscripts from the
English Library of Archibald, 5th Earl of
Rosebery and Midlothian, K.G., K.T.
Info: www.sothebys.com
Colto e noto bibliofilo ottocentesco,
Rosebery visitò l’Italia nel 1870. In asta
la bellissima copia di William Hamilton,
Campi phlegraei (Napoli, 1776-1779,
prima edizione, lotto 54, stima £35.000-
50.000) contenente le osservazioni
sui vulcani delle Due Sicilie.
DAL 30 OTTOBRE
AL 1° NOVEMBRE, GENOVA
Mostra mercato – LIBRIDINE, Salone del
libro antico, esaurito, introvabile
Info: www.fiera.ge.it
Librai antiquari, bancarelle,
bouquinistes, studi bibliografici e
rivenditori di fumetti, riviste e materiale
cinematografico si danno
appuntamento per il secondo anno
consecutivo in questa kermesse
all’insegna del libro, che si svolge in
corrispondenza della venticinquesima
edizione di “Tuttantico”, mostra mercato
d’ogni sorta
di antiquariato che vanta ogni anno
migliaia di visitatori.
DAL 2 AL 4 NOVEMBRE,
BERLINO
Asta – Bücher und Graphik,
Sonderkatalog “Geographie, Reisen,
Reisefotografie”
giugno 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano
Info: www.hauff-und-auvermann.de
In asta una collezione di vues
d’optique che comprende anche vedute
di città italiane (per esempio
il Foro Bonaparte a Milano, Augusta,
Carmine, ca. 1810, lotto 78, stima €150;
A View of Marcellus Theatre at Rome,
Parigi, Daumont, 1750, lotto 84, stima
€180; Venezia, Berlino, Winckelmann &
Söhne, ca. 1850, lotto 89, stima €150).
IL 6 E 7 NOVEMBRE,
LONDRA
Mostra mercato – The Antiquarian Book
Fair Chelsea 2009
Info: www.chelseabookfair.com
Presso Justin Croft Antiquarian
Books troviamo l’edizione di lusso
dai torchi di Cazin di Michel Jean
Sedaine, La tentation de S. Antoine
(Parigi, 1781, £2.000) con le 5 tavole
erotiche spesso mancanti.
Da Jonkers Rare Books
si può acquistare la prima edizione
di The Hobbit di Tolkien
(1937, con firma autografa dell’Autore,
1/1.500 copie, £45.000).
IL 7 NOVEMBRE,
FIRENZE
Asta – Libri & Grafica
Info: www.gonnelli.it/aste
Già storica libreria
antiquaria fiorentina,
Gonnelli torna a vestire i
panni di casa d’aste dopo
oltre cinquant’anni.
Questo suo “primo”
incanto comprende 485
lotti, molti dedicati a
manoscritti
e libri d’argomento toscano.
L’8 NOVEMBRE,
MILANO
Mostra mercato – Piazza Diaz, Vecchi
libri in piazza
Info: www.maremagnum.com
Il tradizionale appuntamento
mensile meneghino ragruppa
attualmente più di 100 espositori.
DAL 9 ALL’11 NOVEMBRE,
MONACO DI BAVIERA
Asta – Bücher, Manuskripte,
Autographen und Grafik
Info: www.hartung-hartung.com
IL 10 NOVEMBRE,
LONDRA
Asta - Travel, Atlases,
Maps and Natural History
Info: www.sothebys.com
268 lotti tra libri, fotografie,
atlanti, carte geografiche e vedute che
riflettono il viaggio perpetuo per il
mondo. Molto particolare un album di
fine Cinquecento di Bartell Schachman,
sindaco di Danzica, che comprende
disegni a colori dell’impero turco
(lotto 43, stima £150.000-200.000).
Un libro noto ma sempre bello
l’edizione di David
Roberts, The Holy Land,
Syria, Idumea, Arabia,
Egypt & Nubia, Londra,
Moon, 1842-1849
(prima edizione di 6
volumi in folio, lotto 86,
stima £25.000-30.000).
IL 10
NOVEMBRE,
LONDRA
Asta - Printed Books &
Manuscripts
33
Info: www.bonhams.com
Questa volta in asta soltanto circa
130 lotti con soprattutto materiale
manoscritto e autografo.
DALL’11 AL 13 NOVEMBRE,
MONACO DI BAVIERA
Asta – Handschriften, Autografen,
Bücher, Landkarten, Stadtansichten
und Dekorative Grafik
Info: www.zisska.de
Segnaliamo l’incunabolo di
Petrus Lombardus, Sententiarum libri
IV., Norimberga, Anton Koberger, 1491,
prima edizione a cura di Johann
Beckenhaub, lotto 173, stima €15.000.
DAL 13 AL 15 NOVEMBRE,
BOSTON
Mostra mercato – Boston International
Antiquarian Book Fair
Info: www.bostonbookfair.com
Ci saranno circa 120 librai
antiquari provenienti in maggior parte
dagli Stati Uniti ma anche importanti
presenze dall’Europa: Rodolphe
Chamonal da Parigi, Adrian
Harrington, Peter Harrington e Bernard
J. Shapero da Londra, Antiquariaat
Forum BV e Asher Rare Books dai Paesi
Bassi.
34
GRAZIE “CITTÀ NUOVA”
Compie mezzo secolo la grande
casamadre dei testi patristici
di marco respinti
Sostanzialmente nel silenzio,
compie cinquant’anni uno dei
colossi dell’editoria italiana. Uno
dei colossi veri, intendiamo, il che non
significa affatto strass e paillette, (solo)
Buchmesse e infotainment, bensì lavoro
serio e ricerca rigorosa, cura scientifica
e intelletto d’amore. Parliamo, cioè, di
Città Nuova, la casa editrice romana che
aprì i battenti promossa nel 1959 e che
da allora in poi è protetta (ed è un gran
complimento) nonché nutrita dal
Movimento dei Focolari, ovvero Opera
di Maria, il movimento laico fondato in
seno alla Chiesa Cattolica dalla trentina
Chiara Lubich (1920-2008) allo scopo
“statutario” di realizzare l’unità tra le
persone auspicata dalla preghiera
di Gesù nel Vangelo secondo Giovanni,
«perché tutti siano una sola cosa. Come
tu, Padre, sei in me e io in te, siano
anch'essi in noi una cosa sola, perché
il mondo creda che tu mi hai mandato»
(17, 21, ). Da codesta prospettiva deriva
infatti una precisa vocazione ecumenica
e una limpida intenzione di dialogo con
i diversi settori della cultura, cattolici
e non. La Lubich ha del resto elaborato
anche una visione economica propria,
“l’Economia di Comunione”, a pieno
titolo annoverabile fra le opzioni del
cosiddetto “personalismo economico”,
certo nel quadro generale dell’economia
libera di mercato e forse non lontana
dalla sensibilità “umanistica” espressa
dall’economista protestante tedesco
Wilhelm Röpke (1899-1966) – ”padre”
della Soziale Marktwirtschaft, ovvero
Social Market Economy –, oggi cara
all’arcivescovo cattolico di Monaco
di Baviera e di Frisinga Reinhard Marx –
se ne veda il suo Il capitale. Una critica
la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
Sopra: immagine da Ms. gr. 548, fol. 87v, Biblioteca Nazionale di Parigi: san Cipriano al lavoro (in
alto) e san Gregorio mentre scrive il panegirico di san Cipriano (in basso). Sotto: Miniatura da un
manoscritto medioevale anonimo rappresentante Severino Boezio e Madonna Filosofia
cristiana alle ragioni del mercato (trad.
it., Rizzoli, Milano 2009) – e certamente
consona al disegno dell'enciclica
“sociale” Caritas in veritate, pubblicata
da Papa Benedetto XVI il 29 giugno
2009.
Ebbene, in mezzo secolo di attività
fulgida e preziosa l’editrice Città Nuova
ha dato carne e sangue alla vocazione
sociale e culturale propria dei Focolarini.
Anzi, il suo stesso nome è la visione
concreta e non utopica di una nuova
polis coronamento dell’“umanesimo”
autentico (non le sue caricature o
ideologizzazioni), ovvero – per
adoperare la formula felice di Giovanni
Paolo II (1920-2005), 264° papa dal
1978 – una «società a misura di uomo e
secondo il piano di Dio» (Discorso
ai partecipanti al Convegno ecclesiale
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 35
della CEI, Conferenza Episcopale
Italiana, del 31-10-1981).
Unendo, cioè, professionalità e
devozione, Città Nuova ha attraversato
il Novecento delle “guerre fredde”
mostrando che è possibile essere uomini
di fede e scienziati cristallini senza
“doppie verità” né falsi pudori,
“concordismi” sterili o perniciose
autocensure. Così facendo, la casa
editrice dei Focolarini si è dunque
meritatamente guadagnata un posto
d’onore fra i vanti della cultura italiana,
proponendo sia agli studiosi sia ai
“profani colti”, sia ai bibliofili sia ai
lettori intelligenti ma occasionali una
messe di materiali di prima qualità
e d’indubbio valore, vale a dire una
biblioteca monumentale di opere
imprescindibili, le quali, più che
Chiara
Lubich
IL MAGAZZINO DI SANTI E BEATI IN EDIZIONE
DE LUXE. NÉ MANCANO GLI ORIENTALI
Non manca, fra le
perle di Città Nuova,
la Bibliotheca
Sanctorum, la prima e più
completa rassegna di santi,
beati, venerabili, servi di
Dio e personaggi dell’Antico
e del Nuovo Testamento:
dodici volumi, più gl’indici,
a cui se ne aggiungono altri
rispondere alle chimere enciclopediste
tipiche della “sindrome da capitano
Nemo” (il sogno irrealizzabile e illusorio
d’immagazzinare l’intero scibile umano
a solo beneficio d’inventario),
costituiscono un arsenale della memoria
d’inestimabile valore.
Un esempio su tutti lo illustra con
spolvero. È l’impareggiabile collana
“Testi patristici”, che in volumetti agili
di 13 x 20 cm. raccoglie e pubblica da
decenni un panorama ragionato della
patristica cristiana (gli scritti dei Padri
della Chiesa in Occidente e in Oriente
dal secolo II al secolo VII), molti dei
UNA FLOTTA DI “GRANDI OPERE”, ATLANTI E DIZIONARI. PER NON
PERDERE MAI LA BUSSOLA A NCHE NEL MARE IN TEMPESTA
Con l’Enciclopedia
delle religioni,
coedita assieme
alla milanese Jaca Book,
il catalogo Città Nuova
ricupera il mastodontico
e nobile progetto della
Encyclopedia of Religion
ideato dal fenomenologo
romeno del sacro Mircea
Eliade (1907-1986,
nella foto).
Figure del pensiero
medioevale, opera diretta
da monsignor Inos Biffi e
dal suo inseparabile sodale
scientifico Costante
Marabelli (tra i migliori
esperti italiani di teologia
dell’ “Età di mezzo”), prevede
sei volumi e Storia
della mariologia, diretta
da Silvano Maggiani, tre.
Da non dimenticare
sono poi i quattordici volumi
della Storia del cri-
stianesimo, la collana di
volumi tematici Storia
del monachesimo, nonché
i molti grandi atlanti
e dizionari storici.
due di appendici, tutti in
formato 19,5 x 28 cm.,
stampati su carta patinata
con rilegature in tela e in
oro, e con sovraccopertina.
Vi vengono studiati la vita,
l’attività, l’influenza sulla
società e sulla cultura, il
culto, le pie leggende, il folclore
nonché le tradizioni
popolari. La collezione si
completa poi naturalmente
con i due tomi dedicati ai
santi de Le Chiese Orientali.
quali sono stati proposti in prima
(e magari unica) traduzione e curatela
italiane. Da san Gregorio Nazianzeno
e san Beda detto il Venerabile ai meno
“famosi” esicasti san Barsanufio e san
Giovanni di Gaza, la collana “Testi
patristici” conquista con facilità il cuore
e le menti dei lettori, proponendosi pure
di elevarne lo spirito e di guidarne
l’anima. Ed è un bel fare, giacché
chiunque voglia conoscere qualcosa
di vero e di serio sulle origini fondative
e fondamentali del cristianesimo – fede,
cultura, civiltà – altro non può fare che
interrogare i Padri per adeguatamente
poi interloquire con i figli, vale a dire
sondare l’interpretatio authentica, che,
qualsiasi cosa poi si pensi liberamente
sul conto della Chiesa, del cristianesimo
e di Cristo, costituisce il passo primo
e imprescindibile di ogni indagine,
elucubrazione, critica e giudizio.
Altrimenti si finisce facilmente
per lasciarsi ammaestrare e condurre
dai vari Dan Brown e Corrado Augias,
il cui primo e più grave torto è quello
di raccontare una storia inesistente,
un errore metodologico compiuto
nel nome del dogmatismo più
oscurantista. Basterebbe anche solo
questa minieria di autentico oro per
encomiarne lo sforzo, ma nella nova
civitas c’è molto altro.
COMUNICAZIONE
SOCIALE
Ogni anno Mediaset offre sulle sue reti passaggi
televisivi gratuiti ad associazioni no-profit che
operano nel nostro Paese per fini sociali e umanitari.
LA PRIMA
CONCESSIONARIA IN EUROPA
www.publitalia.it
38 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
ANDANDO PER MOSTRE
L’iconografia “de oro”, i disegni del nostro
Novecento e un omaggio all’utopia
di matteo tosi
LA SPAGNA BAROCCA E I
SUOI CAPOLAVORI ILLUSTRATI
Esposizioni di materia libraria,
ma anche piccole o grandi mostre
di arti figurative sul tema del
disegno, della grafica e dell’illustrazione
ne vediamo ogni mese. Ma qualche volta
capita di avere notizia di avvenimenti
davvero imperdibili per ogni appassionato
bibliofilo. La meta obbligata di chiunque
si riconosca in questa definizione,
quindi, per questo autunno non può
essere altro che la dotta Pavia, che
proprio nel Salone Teresiano della
Biblioteca Universitaria espone “i libri
illustrati barocchi”, di iberica
provenienza, appartenenti alla
collezione del suo prestigioso ateneo.
La scusa, o meglio lo spunto, è stata la
DA CERVANTES A CARAMUEL
LIBRI ILLUSTRATI BAROCCHI
DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA
PAVIA, SALONE TERESIANO
DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA,
FINO AL AL 14 NOVEMBRE,
CATALOGO: IBIS
contemporanea grande esposizione
pittorica che il Castello Visconteo dedica
in città alla “collezione spagnola”
dell’Ermitage di San Pietroburgo, Da
Velázquez a Murillo (fino al 17 gennaio
2010). Un parallelismo che si avverte
già nel titolo di questo “secondo” evento,
Da Cervantes a Caramuel, e che si
completa nella perfetta sintonia storica
delle due esposizioni, entrambe riferite al
“dorato” Seicento spagnolo. Una
“vicinanza” non solo temporale, in più, e
Sopra: Una pagina di Vidas y hechos del Ingenioso cavallero Don Quixote de la Mancha, Anversa,
J.B. Verdussen, 1697 Sotto: Pedro de Villafranca, Veduta dell'Escorial, da Francisco de los Santos,
Descripción breve del Monasterio de San Lorenzo el Real del Escorial, Madrid, Imprenta real., 1657
quindi non solo di substrato cultura e
“ambiente”, ma anche artistica, e quindi,
di stili e di linguaggi, perché le “immagini”
che impreziosiscono le pagine di questi
pregiati volumi non sono semplici
illustrazioni delle loro storie, ma l’opera
intera riletta da altri artisti.
Le splendide illustrazioni esposte,
infatti, raccontano tutti gli ambiti
dell’iconografia barocca di Spagna,
facendo riferimento a testi provenienti dai
settori più diversi, dalla letteratura
ai viaggi, dalla religione alle scienze
e dalla storia alle arti.
Numerosissime, ovviamente, le
versioni del Don Chisciotte, che vide la
luce proprio all’inizio di quel XVII secolo,
ma il percorso espositivo non rinuncia a
stupire con alcune particolarità.
Perché, almeno in Lombardia,
quando si parla di Spagna e di Seicento,
non si può far finta che la cosa
non interessasse già da vicino.
E due secoli di dominazione spagnola,
infatti, hanno lasciato a Milano
e in tutto il suo “contado” luminose tracce
librarie ed editoriali, commissioni nobiliari,
documenti e pregiate edizioni, che la
mostra vuole mettere in evidenza, fino
alla figura emblematica del vescovo
spagnolo di Vigevano.
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 39
MODÌ, UN “PEPATO” DIPINTO
INEDITO E I SUOI DISEGNI
Il titolo dell’esposizione, “Modigliani.
Una storia segreta” (Milano, Museo
Fondazione Luciana Matalon, fino al
20 novembre, tel. 02/45471179),
fa diretto riferimento all’unico dipinto
presente in mostra, una tela inedita
in Italia che svela una “brutta” pagina
della storia del grande Amedeo
Modigliani, diventato padre due volte
nel giro di un anno e da due donne
diverse: la prima, una dottoressa
parigina che lui subito dimentica
(degnandola di un solo incontro anche
quando questa lo segue fino in Costa
Azzurra con il loro piccolo Gérald
al seguito), e la seconda, da poco
incontrata, quella che sarà la donna
angelo di tutta la sua vita, l’unica
Adesso a Milano, e
il prossimo
inverno a Roma,
l’Italia si gusta, quasi
tutto in anteprima,
il magnifico talento
figurativo di Edward
Hopper, l’unico artista
a stelle e strisce, capace
di emergere a suon
di ritratti e paesaggi là
dove astrattismo, Pop
e multimedialità non
sembravano conoscere
rivali. Hopper, però,
illustratore, disegnatore
e pittore di livello,
AFTER UTOPIA: LA NUOVA SCENA CREATIVA
BRASILIANA IN MOSTRA AL PECCI DI PRATO
Questa volta non
ci sono libri, né
carte, né arti
grafiche, ma dalla
“Biblioteca dell’Utopia”
non potevamo certo
lasciarci scappare un
grande evento intitolato
“After Utopia”: la mostra
che il Centro per l’arte
capace di stregarlo davvero
e di regalargli momenti di intensa
serenità e una vera e propria “voglia
di famiglia”.
Ma al di là di questo aspetto
un po’ gossipparo e da reality,
l’esposizione, organizzata
in collaborazione con il “Modigliani
Institut Archives Legales Paris-Rome”,
ha l’affascinante merito di farci
conoscere l’uomo Modì nella sua più
semplice e consueta quotidianità, grazie
a un nutrito nucleo di missive, fogli
autografi, fotografie, ritagli di giornale,
documenti personali e fogli volanti su
LA GRANDE PITTURA DI EDWARD HOPPER È IL LATO BUONO DEL
SOGNO AMERICANO PERCHÉ DIETRO LA FIGURA C’È IL DISEGNO
non si cura di nulla, se
non del mondo che ha
intorno, e lo racconta
“dal vivo”, come al
cinema, dicono tutti.
Ma è un artista antico,
tradizionale: disegna
e ama la carta, e ancora
disegna come studio per
poi dipingere. A Milano,
Palazzo Reale, fino al 24
gennaio 2010; info: tel.
199/202202.
cintemporanea Luigi
Pecci di Prato (a view on
Brazilian contemporary
art, fino al 14 febbraio
2010, info: tel. ) dedica
alla nuova scuola
creativa carioca,
selezionando opere di 27
artisti che guardano
all'arte come a un
terreno di scambio.
Sospesi nello spazio e
nel tempo, dobbiamo
trovare il modo di
interagire con l’altro.
cui il sommo livornese schizzava al volo
il ritratto di persone appena incrociate,
per convincerle a posare per lui o, nel
caso di benestanti, per farsi
commissionare qualche ritratto.
Gli anni di Parigi e della sua vita
bohémien, infatti, sono quelli meglio
censiti dalle opere raccolte, che però
indagano anche gli anni più misteriosi
della sua giovinezza in Toscana
e della sua prima produzione.
E la vera chicca dell’evento, titolo
e relativa tela a parte, è una speciale
sezione che raccoglie undici disegni
inediti appartenuti alla collezione
dell’amico, “collega” e collezionista
Aristide Sommati, uno dei primi
ad apprezzarlo e quindi capace
di collezionare moltissima della sua
produzione giovanile, perlomeno quella
che Dedonon bruciava per usare la
cenere per disegnare le ombre.
40 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
APPUNTAMENTI CON LE PAGINE
SCRITTE E LA VOGLIA DI LEGGERE
Premi, rassegne in noir e con-corsi
di matteo tosi
CARICAL, NOVE SCRITTORI NEL
SEGNO DEL MEDITERRANEO
“Identità mediterranee di oggi
e di domani” è il tema scelto per la terza
edizione del “Premio Carical
per la Cultura Mediterranea”, nato
su iniziativa della Fondazione Cassa
di Risparmio di Calabria e Lucania
per «valorizzare, divulgare e mettere
a confronto le tante anime
di popolazioni e stati che si affacciano
sul mare nostrum». Quattro le sezioni
in concorso (società civile; narrativa;
storia del pensiero; creatività) più
un Premio della giuria per un totale
di nove vincitori – Giorgio Agamben,
Dunja Badnjevic, Enzo Bianchi, Matteo
Collura, Drago Janãar, Mauro Francesco
Minervino, Bruno Morelli e Sergio
Romano –, premiati il 29 ottobre
a Cosenza, presso il Teatro Rendano.
Si inizia con una tavola rotonda
dal titolo “Cultura o culture
del Mediterraneo? Storia, tradizioni
e sistema della globalizzazione”, a cui
prendono parte lo scrittore basco Juan
Bas, l'intellettuale e traduttrice serba
Dunja Badnievic, il Priore della
Comunità Monastica di Bose Enzo
Bianchi, lo scrittore sloveno Drago
Jancar, lo scrittore ed editorialista
Sergio Romano e Younis Tawfik, esule
iracheno esperto in storia e cultura
dell'Islam (moderati dal giornalista Rai
Franco di Mare), e la serata esplora
i percorsi frutto delle contaminazioni
tra i popoli del Mediterraneo con letture
di brani di David Grossman, Malika
Mokeddem, Orhan Pamuk e Alki Zei,
oltre che con le note dei 7Sóis Orkestra,
sette artisti provenienti da Andalusia,
Israele, Italia, Marocco e Portogallo.
IL PONENTE SI TINGE DI DARK
CON OMAGGIO AI VAMPIRI
Tra ottobre e dicembre si snoda
il succulento programma della quarta
edizione di Autunnonero, Festival
Internazionale di Folklore e Cultura
Horror del Ponente ligure. Tema
di quest’anno, le "Dark Tales – le fiabe
nere", racconti di paura declinati
in workshop, reading, mostre, concerti,
spettacoli e proiezioni nei luoghi più
suggestivi dela Riviera come il Castello
dei Doria di Dolceacqua (IM), Triora,
il borgo delle streghe, Villa Hanbury
a Ventimiglia, Palazzo Oddo ad Albenga
(SV) e il Castello d’Albertis a Genova.
Neò weekend del 17 e 18 ottobre,
il Castello di dolce acqua è interamente
dedicato ai vampiri, con la mostra
“Dracula, mito e realtà”: una carrellata
di testi rari, collezioni, edizioni straniere,
fumetti, manifesti cinematografici,
illustrazioni, cd-rom, gadget vari, film,
video e tanto altro sul non-morto più
famoso della storia, omaggiato anche
dall’anteprima italiana del Dracula
di Hamilton Deane e John Balderston,
la pièce di Broadway fine anni Venti
a cui si sono ispirate infinite pellicole.
Dal 24 ottobre al 13 dicembre,
ancora, Palazzo Oddo ospita “FAVOLE -
Gothic Art Exhibition”, una mostra delle
più belle illustrazioni dell’artista
spagnola Victoria Francés, e “FIABE DI
NEROINCHIOSTRO – Comic Art
Exhibition”, un percorso attraverso
le tavole originali di storie a tinte dark
della Sergio Bonelli Editore (Dampyr,
Dylan Dog e Brendon). L’appuntamento
con il fumetto si rinnova anche il 7 e 8
novembre con un workshop dedicato
allo Storytelling, dalla sceneggiatura
alla pagina disegnata e alla colorazione
digitale, con tre docenti della Scuola
di Comics di Reggio Emilia.
Info: www.autunnonero.com
TUTTI I “SILURATI” ECCELLENTI
DELLE UNIVERSALI LETTERE
A sei mesi da quella notte
maledetta in cui la terra d’Abruzzo
ha tremato senza pietà, il mondo
della cultura continua a mostrarsi vicino
alle popolazioni colpite dal sisma.
Dal 22 al 25 ottobre, infatti,
il Centro per il Libro del MiBAC
e l’Associazione Minimondi
con la Libreria Fiaccadori di Parma
tornano a L’Aquila, insieme a numerose
organizzazioni locali, per dar vita
a laboratori, spettacoli e letture per i più
piccoli, oltre a un ciclo di incontri
e dibattiti con scrittori e giornalisti
dedicati agli adulti.
Info: tel. 0521/282445
42 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
Pur essendo già stato ampiamente trattato nei numeri
precedenti di questa rivista, vorremmo ricordare
che la mostra La Scapigliatura e Angelo
Sommaruga in corso presso la Biblioteca di via Senato è
dedicata alla figura di quest’ultimo, editore ingiustamente
dimenticato che con la sua casa editrice e le sue
riviste è stato nei primi anni ’80 dell’Ottocento al centro
dell’attività letteraria italiana. Egli infatti contribuì
ad ammodernare l’intero sistema culturale e stampò libri
di molti importanti autori come Carducci, D’Annunzio,
de Amicis, Capuana, Scarfoglio.
Nell’esposizione viene mostrata una parte del
Fondo Angelo Sommaruga che, oltre a raccogliere tutta
la produzione libraria della sua casa editrice e la raccolta
completa delle riviste “Cronaca Bizantina” e
“Forche Caudine”, comprende quanto è rimasto del
suo archivio personale in parte disperso: lettere e cartoline
dei suoi autori e collaboratori (tra cui molte inedite),
contratti e ricevute di pagamenti, lettere ai familiari,
ritagli di giornali in cui si parla
delle sue vicende.
Sono esposti i volumi dei
principali autori della Scapigliatura;
una sezione della mostra è dedicata
alla caricatura; sono inoltre
presenti alcuni dipinti e sculture di
vari artisti, fra cui Eugenio Pellini,
scultore scapigliato che lavorava a
Milano, in uno studio nella zona di
Porta Romana.
Nella fase preparatoria della
mostra in cui la Fondazione stava
Una mostra, tante mostre
L’ULTIMO ATELIER
SCAPIGLIATO DI MILANO
La visita guidata allo Studio Pellini
di Elena Bellini
valutando, assieme ai curatori, la scelta delle opere da
esporre, si è entrati in contatto con gli eredi Pellini,
prestatori di alcune opere esposte in mostra, dai quali si
è potuto approfondire la conoscenza di questo artista.
Lo Studio è l’unico atelier del periodo scapigliato che è
rimasto tutt’ora esistente, grazie al figlio di Eugenio,
Eros, anch’egli scultore, e agli eredi che hanno contribuito
con tanta passione e volontà a mantenerne vivo il
ricordo e a diffonderne l’opera.
La Fondazione, come da consuetudine per ogni
singolo evento espositivo, organizza numerose attività
didattiche collaterali, rivolte alle Scuole di ogni ordine
e grado, al pubblico adulto, a gruppi di visitatori o a visitatori
singoli. Per arricchire la conoscenza di questo
artista, la Fondazione ha organizzato una speciale visita
guidata allo Studio Pellini sabato 19 settembre. Il pubblico
che ha dapprima visitato la mostra in via Senato,
accompagnato dalla spiegazione di
una guida di Ad Artem, si è recato
successivamente in via Siracusa,
una strada privata nella zona tra
Porta Romana e Porta Vittoria, dove
è situato l’atelier e dove è stato
accolto dalle spiegazioni dei curatori
dello stesso Studio.
Dal cortile, nel quale sono
collocate alcune opere, si accede in
un vano coperto da una tettoia dove
un centinaio di sculture, di entrambi
gli scultori, è esposto su delle
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 43
mensole; all’interno vi è una zona
con la biblioteca personale dei due
Maestri, una stanza di dimensioni
ridotte, illuminata da un lucernario,
e, infine, una sala più grande in
cui sono collocate altre sculture.
Alle pareti si possono vedere alcuni
disegni preparatori e, in un armadio,
ancora oggi minuziosamente
ordinati, sono disposti tutti gli
utensili e i materiali utilizzati dall’artista,
sconosciuti agli estranei
del mestiere.
Durante l’incontro, sono stati
illustrati alcuni bozzetti, alcuni
strumenti necessari per svolgere il
lavoro, e narrate alcune vicende della vita “scapigliata”
di Eugenio e la storia di alcune sculture, che in realtà
meriterebbero di essere approfondite una per una.
Dietro ad un’apparentemente “semplice” opera in
marmo o in bronzo, con i contorni frastagliati tipici del
movimento scapigliato, c’è la storia di un uomo che ha
fatto dell’arte e del mestiere di scultore la propria vita.
a
PROROGA
La mostra “La Scapigliatura e
Angelo Sommaruga Dalla
bohème milanese alla Roma
bizantina” è allestita presso gli
spazi espositivi della Fondazione
Biblioteca di via Senato, in via
Senato 14 a Milano. La chiusura
della mostra, vista la grande
affluenza di pubblico, è stata
prorogata dal 22 novembre
2009 al 17 gennaio 2010.
INGRESSO GRATUITO. Da
martedì a domenica: h. 10.00 –
18.00. Chiuso lunedì.
LO STUDIO PELLINI
Nota dei curatori
dello Studio
Un unico filo conduttore che
passa attraverso due generazioni
lega la storia di Eugenio
ed Eros Pellini allo studio.
Nel loro studio di scultura si
percepisce l’arte del sacrificio, delle
ore trascorse a lavorare il marmo
con passione e della gioiosa modellazione
delle argille, imprimendo
sulla materia inerte il calore delle
emozioni.
In questo senso lo studio di via
Siracusa si racconta da solo: una vecchia bottega dove
ogni arnese è passato di padre in figlio e dove tutto rivela
l’amore per un mestiere difficile.
È un luogo in cui la memoria si è sedimentata
perché da più di cento anni tutto è stato conservato,
accumulato, utilizzato ed è passato dalle mani di Eugenio
a quelle di Eros.
44 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
Chi lo visita spesso rimane impressionato dal
pungente odore della plastilina, ma ciò che ancor più
tocca il visitatore è la visione di un luogo in cui tutto è al
suo posto e si fatica poco ad immaginare Eugenio o
Eros circondati dai loro apprendisti e ricercati dai loro
committenti.
Eugenio parte all’avventura della vita artistica poco
più che adolescente, in condizioni difficili, e giunge
a toccare il firmamento dei grandi con l’opera Madre.
Più tardi sarà Eros a raggiungere ulteriori alti traguardi
artistici.
Degli artisti si tende a conservare quello che loro
hanno fatto per il loro mestiere, ma qui nello studio c’è
anche tutto quello che era intorno a loro, che era parte
della loro vita, al di là delle loro sculture: se apri le ante
di un armadio, puoi trovare cose di cui non sospetti l’esistenza.
La memoria del tempo è anche questa, la memoria
più semplice e meno aulica. La radio, le agende, i
piccoli quaderni neri degli appunti, le fotografie, un rametto
di ulivo, le raccolta di cartoline e perfino i vecchi
sci. E poi i libri, tanti, belli, pieni di annotazioni e foglietti.
Il gusto della vita quotidiana.
Lo studio è un’appendice di casa (abitavano nella
palazzina adiacente, costruita proprio da Eugenio all’inizio
del Novecento) e la integra, ed è testimonianza
dei tanti aneddoti giunti sino a noi come quando la sera
uscendo dalla Scala con gli amici uno di loro diceva
«Andem a Paris ?» – «Andem a Paris». E andavano direttamente
alla Stazione, prendevano un treno per Parigi
e tornavano quando avevano finito tutti i soldi.
L’adesione agli ideali socialisti sottrarrà a Eugenio
EUGENIO PELLINI:
DA VARESE A MILANO,
ATTRAVERSO PARIGI
E LE BIENNALI VENEZIANE
Nato nel 1864 a Marchirolo, in
provincia di Varese, si
trasferisce a Milano presso il
fratello Oreste e inizia l’apprendistato
nella bottega del marmista Biganzoli,
dove lavora il marmo e la pietra.
Partecipa al clima attivo della
Scapigliatura e fa sue le idee
socialiste, sperimentando
personalmente fatica, miseria e
difficoltà di lavoro e di vita.
Nel 1884, è allievo di Ambrogio
Borghi a Brera nel corso di scultura. A
fine anno riceve la medaglia di
bronzo, l’anno successivo viene
premiato con la medaglia d’argento.
Nel 1891 gli viene assegnato il
premio triennale Oggioni, che prevede
la specializzazione all’Accademia di
Roma.
Inizia, allora, un lungo viaggio
attraverso l’Italia, cui fa seguito un
soggiorno a Parigi, del quale è rimasta
testimonianza in alcuni album di
disegni e taccuini con annotazioni di
viaggio e disegni da opere del passato
(uno dei quali è in mostra presso la
Biblioteca di via Senato).
A questi anni risale l’incontro
con l’opera di Medardo Rosso e
Auguste Rodin, che risulterà
fondamentale per lo sviluppo del suo
linguaggio.
Nel 1897 l’assegnazione del
premio Tantardini per la scultura
Madre lo consacra artisticamente in
maniera definitiva. Quest’opera sarà
premiata anche all’Esposizione
Universale di Parigi del 1900, e ancora
a Barcellona nel 1907, oltre a essere
stata esposta a Firenze nel 1911.
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 45
Pellini vive in prima persona la
repressione antisocialista di Bava
Beccaris ed è costretto a lasciare
Milano per due anni, rifugiandosi a
Parigi e poi a Varese, pur continuando
a lavorare.
A causa delle sue scelte
politiche, nei concorsi pubblici viene
sempre osteggiato, in particolar modo
da Bistolfi, come nel caso di quello
per il Monumento ai Mille allo Scoglio
di Quarto di Genova, a Giuseppe Verdi
a Milano (1911), e quelli per le porte
laterali del Duomo di Milano.
Di contro, ha un forte
riconoscimento da parte di
committenti privati, che vedono in lui
una delle personalità artistiche più
rappresentative della Milano dei primi
del Novecento.
Dal 1905 espone a tutte le
Biennali veneziane, alla Secessione
Romana del 1914 e del 1915, alla
Triennale di Brera. All’estero è
presente a Buenos Aires, nel 1910, e a
San Francisco nel 1915.
Nel 1903 incontra Dina
Magnani, che diventerà sua moglie;
due anni dopo nasce Nives, più volte
ritratta nelle opere di questi anni, in
particolare nell’Idolo; nel 1909 nasce
Eros e nel 1911 Silvana.
Muore a Milano il 28 maggio
1934.
è stata accolta
favorevolmente dal Pubblico e dato
L’iniziativa
il riscontro del tutto positivo, la
visita guidata alla mostra e allo Studio
Pellini si ripete nei giorni di domenica 18
ottobre e sabato 14 novembre alle ore
15.00, prenotazione obbligatoria. Nei giorni
di mercoledì 28 ottobre e 4 novembre
invece, si svolge la visita guidata serale allo
Studio Pellini, alle ore 21.00, prenotazione
vari premi e lo costringe a lasciare Milano per Parigi e poi
Varese per due anni dopo le repressioni di Bava Beccaris .
Ma al suo ritorno a Milano, la città e gli amici, come
Caldara e Majno, lo sostengono e si inaugura quella
fortunata stagione di committenza privata che gli renderà
giustizia.
Annesso alla casa voluta da Eugenio, lo studio è
stato danneggiato dai bombardamenti del ’43, ma
Eros, prima che iniziassero le piogge d’autunno, con un
lasciapassare ha attraversato tutta la città per procurarsi
del legname per sostituire le travi bruciate dagli
spezzoni incendiari, facendo sì che il laboratorio e la
casa si conservassero fino a oggi.
Quello dei Pellini non è semplicemente uno studio,
è un luogo dove tutto parla della loro anima, ad esso
eternamente legata. Parla della loro storia semplice,
una storia di tradizioni difese e rispettate, di sacrifici, di
affetti, di famiglia, di amore per il proprio mestiere.
QUALCHE ALTRA INIZIATIVA
obbligatoria. Durante tutta la durata della
mostra sono organizzate visite guidate per
visitatori singoli o gruppi e per Scuole di
ogni ordine e grado, visite guidate
nell’orario della pausa pranzo e happy
hour serali. Per prenotazioni, maggiori
informazioni e per il calendario completo
degli appuntamenti, telefonare al n. 02-
76215323/314 oppure consultare il sito
internet www.bibliotecadiviasenato.it.
46 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
Casati, Giuseppe. Collezione
delle iscrizioni lapidarie poste
nei cimiteri di Milano dalla
loro origine all’anno 1845 col
nome dei signori architetti che
delinearono i principali monumenti
compilata a cura dell’impiegato
municipale Giuseppe
Casati dedicata al nob. sig. Vitaliano
Crivelli. …Volume I [-VI].
Milano, Tamburini, 1845 – 1852.
(mm 252x170); 224; 517; 322;
353; 398; 216 p. Con le trascrizioni
delle iscrizioni lapidarie dei cimiteri
milanesi soppressi di Porta Tosa,
Porta Orientale, Porta Comasina,
Porta Vercellina, Porta Ticinese e
Porta Romana. Esemplare parzialmente
a fogli chiusi in legatura in
mezza tela con angoli firmata De
Stefanis, Milano. Titolo, filetti e
fregi in oro al dorso. Si conservano
le brossure originali stampate.
Nella dedica al nobile Vitaliano
Crivelli, l’Autore
narra del suo intento di
trascrivere tutte le epigrafi dei cimiteri
di Milano al fine di perpetuare
la memoria dei cari estinti:
“voglioso divenni di fare una perfetta
e scrupolosa raccolta di quelle
epigrafi e raccomandarla alle stampe,
onde così più lungamente tra-
UN LIBRO RITROVATO
Ad perpetuam memoriam
Le iscrizioni lapidarie dei cimiteri soppressi di Milano
di Chiara Bonfatti
Si muore una sola volta,
ma per tanto tempo
(Molière, Le dépit amoureux)
mandare ai posteri la rimembranza
de’ nostri, datando la mia fatica dal
1788, epoca dell’aprimento de’ Cimiteri
per Milano e portarla al
1845 col divisamento di continuarla
da poi”.
La triennale operazione di
trascrizione del Casati lo vide occupato
tra sei cimiteri milanesi che
furono soppressi alcuni decenni
dopo, in seguito alle trasformazioni
urbanistiche e industriali della città
e grazie anche all’apertura del Cimitero
Monumentale e del Cimitero
Maggiore.
La rara edizione gode di notevole
interesse storico e tra le
iscrizioni lapidarie si possono ritrovare
le epigrafi di uomini illustri di
grande fama, così come quelle di
personaggi minori, ma altrettanto
degni di nota.
Il Casati trascrisse dunque
tutte le iscrizioni lapidarie al suo
tempo esistite e, per le epigrafi che
più non esistevano, si rifece ad atti
parziali che rilevò negli archivi, tra
cui quello del Municipio.
Il cimitero di Porta Tosa, detto
anche cimitero di Porta Vittoria,
fu aperto il 29 ottobre 1826 per la
chiusura di quello di Porta Romana
e fu poi soppresso il 30 giugno
1896. In esso trovarono sepoltura:
Giuseppe Levati, pittore neoclassico
e professore dell’Accademia di
Belle Arti di Parigi, il tipografo Angiolo
Bonfanti e l’orefice, nonché
protettore delle Belle Arti, Ranieri
Girotti; di fronte all’entrata del cimitero
si trovava il più bel monu-
Brossura editoriale originale del
primo volume della raccolta
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 47
mento di tutti i campi santi di Milano,
eretto nel 1836 alla memoria
del Girotti e disegnato da Giuseppe
Castelli.
Il cimitero di Porta Orientale
o di San Gregorio, aperto nel 1787,
fu soppresso il 31 agosto 1883; nel
contesto delle trasformazioni urbanistiche
e industriali, un viadotto
ferroviario squarciò il lato settentrionale
dell’ormai decadente Lazzaretto
e tutta la zona di San Gregorio
venne destinata ad abitati residenziali
dal piano regolatore comunale.
Prima della soppressione, nel
cimitero dimorarono: i tipografi
Aloisio Galeazzi, Giuseppe e Luigi
Veladini e Omobono Manini; il nobile
Giacomo Sannazzari della
Rippa, ricco mercante e filantropo
milanese; il direttore d’orchestra
Luigi de Baillou; i pittori Giuseppe
e Andrea Appiani, Sigismondo
Nappi e Giovanni Migliara, Angelo
Monticelli e Giovanni Cagnola;
il drammaturgo Luigi Scevola; il
tenore Diomiro Tramezzani; il
compositore Ambrogio Minoia; la
cantante Clotilde Colombelle; il libraio
Giovanni Pietro Giegler;
l’ingegnere e architetto Nicola Pirovano;
il giornalista della Milano
napoleonica Francesco Pezzi; l’incisore
Giuseppe Longhi; il matematico
Antonio Caccianino; la
poetessa Adele Curti; gli scrittori
Carlo Tedaldi Fores, Gaetano
Franchetti, Carlo Porta e Vincenzo
Monti.
I resti di Vincenzo Monti e
Carlo Porta andarono poi dispersi e
nella cripta della Chiesa di San
Gregorio Magno è custodita la loro
lapide funebre, destino questo che
Tre iscrizioni lapidarie tra le quali
compare l’epigrafe dello scrittore
milanese Carlo Porta (1775-1821),
vol. II, Porta Orientale, p. 146
toccò anche ad altri personaggi illustri
in seguito alla soppressione
dei cimiteri.
Il cimitero di Porta Comasina
detto della Mojazza si trovava fuori
Porta Garibaldi e fu soppresso il 22
ottobre 1895. Custodiva le salme di
Cesare Beccaria e Giuseppe Parini,
dei pittori Martino Knoller, Fedele
Albertolli e Vincenzo Raggio, degli
scultori Giuseppe Franchi e Giambattista
Perabò, del geologo e naturalista
Scipione Breislak, dell’economista
e politico Melchiorre
Gioia (ora al Cimitero Monumentale),
del matematico e astronomo
Barnaba Oriani, dell’architetto
Gaetano Faroni e dell’architetto e
decoratore Giocondo Albertolli,
dell’incisore Carlo Della Rocca,
del letterato nonché bibliotecario
Robustiano Gironi, del medaglista
e incisore di monete Luigi Manfredini
e di Gaetano Cattaneo, direttore
del R. Gabinetto di medaglie e
monete di Brera.
Il cimitero di Porta Ticinese
detto il “Gentilino”, aperto nel
1787, venne chiuso il 22 ottobre
1895. Si trattava del più bello dei cimiteri
esistenti a quel tempo a Milano
per la forma e la cura che se ne
aveva. In esso ebbero sepoltura
l’incisore Giovanni Bigatti e lo scenografo
Baldassare Cavallotti.
Il cimitero di Porta Romana o
Foppone di San Rocco, consacrato
nel 1786, venne chiuso nel 1826,
poi riaperto, e chiuso definitivamente
nel 1870; nel 1875 si svolsero
lavori di bonifica dell’area e i
corpi dei defunti vennero in parte
trasferiti al cimitero di Musocco.
Illustri sepolture furono quelle del
chirurgo Angelo Riboli e del professore
di chirurgia Giovanni Battista
Monteggia di Loveno, che giace
ora al Monumentale.
Il cimitero di Porta Vercellina,
detto anche di San Giovannino
alla Paglia o di Porta Magenta, fu
soppresso il 30 novembre 1895 con
l’apertura dei due grandi cimiteri
milanesi. Sulla piazza Aquileia, a
testimoniare la sua esistenza, si può
scorgere un piccolo tabernacoloossario
con la significativa iscrizione:
“Quel che sarete voi, noi siamo
adesso. Chi si scorda di noi, scorda
se stesso”.
48 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
I libri illustrati della Biblioteca di via Senato
Durante le prime decadi del XX secolo vi fu un
gran revival della xilografia su legno di filo (cioè
su matrici lignee ricavate da tagli paralleli al senso
di crescita dell’albero), antica tecnica rimpiazzata durante
l’Ottocento dalla xilografia su legno di testa (cioè su
matrici tagliate per orizzontale). La differenza grafica fra
i due metodi consiste sostanzialmente nella definizione
dei dettagli: il legno di testa è durissimo e quindi perfetto
per l’incisione di particolari anche molto minuti, mentre
il legno di filo, seguendo l’andamento delle fibre lignee, è
morbido e cedevole e quindi si presta alla creazione di immagini
meno dettagliate, ma di grande impatto.
E di straordinario impatto è senz’altro l’opera grafica
del belga Frans Masereel (1889-1972), che portò la xilografia
su legno di filo a uno dei suoi massimi esiti artistici.
Pacifista convinto, Masereel utilizzò il suo talento per
celebrare i lati più nobili dell’umanità e condannarne i
mali. Per lui l’arte doveva arrivare alla gente comune e
contribuire al miglioramento
della società: «Non sono
abbastanza esteta da ritenermi
soddisfatto di essere semplicemente
un artista», disse
una volta. Di conseguenza, le
potenti immagini di Masereel,
che spesso irridono alla
borghesia ricca e arrogante
(come quelle in Grotesk Film,
pubblicato da J. B. Neumann
nel 1921, Fig. 1), sono entrate
a far parte dell’iconografia
FRANS MASEREEL,
CHE CORSE SUL “FILO”
Il grande incisore fece la morale al mondo, in bianco e nero
di Chiara Nicolini
comunista, anche se l’artista negò sempre qualsivoglia
lettura politica della sua opera.
Il deciso contrasto tra aree bianche e aree nere tipico
della xilografia su legno di filo era per Masereel il metodo
migliore per rappresentare pace, umanità (Fig. 2),
libertà, bellezza (Fig. 3, da Mon Pays, 1956) e i loro opposti:
guerra, ingiustizia sociale, oppressione (Fig. 4), orrore.
Con inesauribile creatività egli produsse migliaia di
immagini caratterizzate dagli stessi stilemi (forme angolari
e semplificate, prospettive sorprendenti, ritmi mutevoli)
e che propongono temi ricorrenti (la metropoli, la
fabbrica, il sole, ecc), ma che al tempo stesso sono tutte diverse
l’una dall’altra: ogni xilografia è infatti la visualizzazione
di uno specifico pensiero o sentimento dell’artista.
Sebbene Masereel non abbia mai seguito alcuna
corrente artistica, l’immediatezza con cui i suoi disegni
suggeriscono gioia (Fig. 5),
disperazione (Fig. 6), purezza
(Fig. 7), sensualità (Fig. 8,
da La Sirène, Paris, Pierre
Vorms, 1932), oscenità (da
Grotesk Film, Fig. 9), saggezza,
o pazzia (Fig. 10), porta a
pensare all’Espressionismo,
e in particolare a George
Grosz (che era amico di Masereel)
e a certe scene del primo
cinema muto tedesco.
1
Un collegamento tra le co-
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 49
struzioni angolari e vertiginose che riempiono
claustrofobicamente gli sfondi di
molte delle xilografie di Masereel e Metropolis,
capolavoro muto di Fritz Lang, sembrerebbe
perfino ovvio, se non fosse che
Metropolis uscì nel 1927, quando l’artista
belga aveva già ottenuto fama internazionale
con le sue rappresentazioni di alienazione
urbana.
6
Frans Masereel nacque nel 1889 da una benestante
famiglia fiamminga a Blankenberge, luogo di villeggiatura
sulla costa belga. Tra il 1907 e il 1910 studiò alla École
des Beaux-Arts di Gent e visitò Inghilterra, Germania e
Tunisia. Viaggiò molto per tutta la vita, cosa che contribuì
a dare alla sua opera un respiro universale. Scoprì l’arte
della xilografia su legno di filo intorno al 1911, dopo essersi
trasferito a Parigi. Lo scoppio della prima guerra
mondiale lo portò a fuggire in Svizzera e a stabilirsi a Ginevra,
dove conobbe artisti come gli scrittori Romain
Rolland e Stefan Zweig, dei quali avrebbe poi illustrato
alcune opere. La sua collaborazione con i periodici pacifisti
La Feuille (1916-1919) e Les Tablettes (1917-1920) gli
diede reputazione di interprete delle ingiustizie sociali
del suo tempo.
Fu tuttavia solo nel 1919, con la pubblicazione del
suo primo racconto per immagini (Mon Livre d’Heures,
Ginevra, Chez l’Auteur), che Masereel ottenne un successo
internazionale. Immediatamente tradotto in tedesco
come Mein Studendbuch (Monaco, Kurt Wolff,
2 3 4
1920) e in inglese come My Book of Hours
(Chez l’auteur, 1922), il libro presenta
un insieme di 167 xilografie quadrate,
stampate su un lato solo di ciascuna pagina,
del tutto prive di testo o didascalie.
L’edizione tedesca del 1927 ha un’introduzione
di Thomas Mann (che era
amico di Masereel e definì Mon Livre
d’Heures il suo «film preferito») e una
citazione da Whitman che si adatta perfettamente
alla personalità artistica di
Masereel: «Attenzione! Io non faccio paternali né la carità
a nessuno: quando dono, dono tutto me stesso».
√
Mon Livre d’Heures ritrae la vita di un giovane uomo
che va a vivere in una metropoli. All’inizio la esplora cautamente:
è affascinato dalla potenza delle macchine, ma al
tempo stesso si sente perso tra la folla anonima; osserva i
lavoratori nelle fabbriche, guarda le finestre illuminate
nella notte, si rilassa nei bar. Poi si abitua al ritmo della sua
nuova vita e inizia a divertirsi: visita gallerie d’arte, incontra
prostitute, va al mercato, cucina, va a ballare … fino a
quando non conosce una ragazza e se ne innamora. Ma lei
lo lascia e lui cade nella disperazione (Fig. 6). Dopo altre
sventure, l’uomo decide di mettersi a viaggiare: Masereel
lo ritrae in Africa (Fig. 4) e in Cina, accanto a popolazioni
straniere e ad animali esotici. Quando finalmente fa ritorno
alla metropoli, l’uomo è diverso: non ha più paura delle
convezioni borghesi (Fig. 2) e si sente libero di comportarsi
come vuole. Ma è ancora un uomo infelice. Alla fine
del racconto lo troviamo in campagna, addormentato
sotto un albero, dove la Morte lo coglie all’improvviso,
5
50 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
7 10 11 12
forse portandogli quella pace che non era mai riuscito a
trovare in vita.
Molti dei racconti per immagini di Masereel hanno
un finale tragico. Uno dei più commoventi è Histoire
sans paroles (Ginevra, Éditions du Sablier, 1920), tradotto
in tedesco come Geschichte ohne Worte (Monaco,
Kurt Wolff, 1924) e in inglese come Story Without
Words. Le sue 60 xilografie raccontano i numerosi tentativi
fatti dal protagonista per conquistare il cuore di
una donna: egli mette perfino il mondo sottosopra per
lei (Fig. 11), e la resistenza di lei lo rende quasi pazzo
(Fig. 10). Ma quando, finalmente, l’uomo riesce ad
averla (Fig. 7), ecco che non la vuole più. Tutte le immagini
del libro hanno la medesima struttura: la donna è
ritratta sempre sulla sinistra, l’uomo sulla destra, gli
scenari cambiano costantemente. Nell’ultima xilografia
l’uomo e la donna, irreparabilmente separati da una
banda verticale con su scritto “fine” voltano la schiena
l’uno all’altro e piegano la testa, disperati.
Pubblicata per la prima volta in francese, a Parigi,
da Ollendorff nel 1920, The Idea è probabilmente la più
conosciuta e geniale tra le “graphic novel” di Masereel.
La prima xilografia del libro ritrae un uomo concentrato
nello sforzo di pensare, con la testa circondata da un’aureola
a forma di ragnatela (Fig. 12). Nella xilografia successiva
un fulmine lo colpisce (Fig. 13) e la sua mente finalmente
partorisce un’Idea, che ha l’aspetto di una bellissima
donna nuda (Fig. 14). Nell’arte di Masereel la
donna è spesso incantatrice lasciva o sogno irraggiungibile:
l’Idea appartiene alla seconda categoria perché il suo
corpo senza veli è simbolo di purezza e verità. Eppure,
quando il suo creatore la mette in una busta e la manda nel
mondo, ella viene accolta con grande turbamento da folle
conformiste e prive d’immaginazione (Fig. 15) che cercano
di cambiarla e di ferirla, ma alla fine riescono solo a farle
indossare dei vestiti. La bella Idea fugge da una xilografia
all’altra, inseguita da una galleria di personaggi stupidi
e grotteschi che si fanno beffe di lei (Fig. 16). L’unico a
comprenderla è un giovane uomo che se ne innamora e
per questa ragione viene imprigionato e giustiziato.
13 14 15 16
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 51
A un certo punto l’Idea
raggiunge una tipografia
e, grazie all’aiuto dei
moderni metodi di comunicazione
(telegrafo, radio,
cinema), fa il giro del
mondo (Fig. 17). Ma gli
uomini ancora non la capiscono.
Alla fine ella ritorna
dal suo creatore e lo trova
in compagnia di una nuova
neonata Idea – un’altra deliziosa
donnina pronta per
essere inviata al mondo in una busta.
La 83 xilografie di The Idea sono così pregne di significato
che, come disse Thomas Mann, «uno non si
stanca mai di guardarle». Infatti, le immagini di Masereel
non sono così semplici come potrebbero apparire a prima
vista: il loro senso è, il più delle volte, chiarissimo, ma uno
potrebbe spendere ore a scoprire tutti gli arguti dettagli
che esse contengono.
Le avventure dell’omino che spunta dalla mente di
Masereel (Fig. 18) in Le Soleil (Ginevra, Éditions du Sablier,
1919) sono meno complesse di quelle vissute dall’Idea.
In ogni xilografia il piccolo protagonista cerca di trovare
un modo per raggiungere il sole: si arrampica su per
camini (Fig. 19) e alberi altissimi (Fig. 20), si tuffa in mare
per seguire il sole quando esso tramonta (e viene salvato
da una sirena – Fig. 21), e così via, fino a quando non riesce
nell’impresa grazie esclusivamente alla propria forza di
volontà. Tuttavia, come
Icaro, non appena egli inizia
ad avvicinarsi al sole i
suoi vestiti prendono fuoco
e lui ricade all’indietro
sulla scrivania di Masereel,
che si sveglia e ride del suo
bizzarro sogno (Fig. 22).
My Book of Hours,
17 18 Story Without Words e The
Idea sono senza dubbio le
opere di Masereel più conosciute: esse sono state ristampate
molte volte e vengono considerate le antenate delle
moderne “graphic novels”. Ma l’artista belga ha illustrato
anche autori come Whitman, Tagore, Kipling, Maupassant,
Perrault, Villon, Tolstoi, Eschilo e capolavori della
letteratura mondiale come la Ballad of Reading Gaol di
Oscar Wilde (1923), Notre Dame de Paris di Victor Hugo
(1930) e il Julius Caesar di Shakespeare (1949).
Masereel trascorse la maggior parte della vita lontano
dalla sua patria. Negli anni ’30 fece diversi viaggi a Mosca
e alla fine degli anni ’50 andò in Cina, dove gli fu dedicata
una grande e prestigiosa retrospettiva. Dal 1949 si
stabilì nel sud della Francia, prima ad Avignone e poi a
Nizza. Morì nel 1972 ad Avignone. Uno dei migliori elogi
alla sua arte lo fece l’amico Stefan Zweig, che disse che
se tutti i libri, i monumenti, le fotografie e i documenti degli
anni ’20 fossero andati distrutti, il periodo avrebbe potuto
essere ricostruito attraverso le xilografie di Masereel.
©Illustration www.illustration-mag.com
19 20 21 22
52 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
Per 108.000 sterline
in monete da mezzo “penny”
Il libello economico-politico di Jonatham Swift
Dublino, ottobre 1724. In un opuscolo fresco di
stampa, firmato «M. B.» e rivolto «A tutto il
popolo d’Irlanda», i lettori potevano leggere
quanto segue:
Una popolazione abituata da tempo a un regime autoritario
perde gradualmente il concetto stesso di libertà,
finisce per considerarsi alla mercé di qualcun altro e per
accettare ogni imposizione di un potere più forte quasi
fosse “legittimo e vincolante”. […] Questa è l’origine di
quella povertà e debolezza di carattere che può essere tipica
di un intero Paese come di un singolo individuo. Così
che quando Esaù tornò dai campi stremato e quasi morto
di fatica, non c’è da meravigliarsi che abbia venduto la
primogenitura per un piatto di minestra.
Chi scriveva era Jonathan Swift
e l’opuscolo era la quarta, la più famosa
e “sediziosa”, delle cosiddette
Drapier’s Letters che da qualche mese
lo stesso, sotto lo pseudonimo di M.
B., stava inviando a commercianti,
bottegai e agricoltori – ma anche alla
gentry e alla nobiltà – del «regno d’Irlanda»
(Esaù) per metterli in guardia
contro una nuova moneta (il «piatto
di minestra») che l’«autoritario regime»
inglese voleva imporre a tutti i
costi e contro la quale lui, Swift, era
sceso in campo adottando la maschera
di un mercante di stoffe e scrivendo,
appunto, le Lettere del Drappiere.
IL DECANO, IL DRAPPIERE, L’IRLANDA
Giuseppe Sertoli
Questi i dati di fatto essenziali. Un paio d’anni prima
un certo William Wood, «venditore di ferraglie» non
nuovo a imprese del genere, aveva ottenuto da re Giorgio
I l’autorizzazione a coniare per l’Irlanda, in un periodo di
quattordici anni, monete di rame da mezzo penny pari a
un valore complessivo di 108.000 sterline (più di un quarto
della valuta allora circolante in Irlanda).
Che il mercato irlandese avesse bisogno di monete
di piccolo taglio per i traffici interni era fuori di dubbio, e
lo stesso Swift avrebbe finito per ammetterlo. Ma ciò che
suscitò le immediate proteste del Parlamento irlandese
furono le modalità e i termini con cui l’autorizzazione era
stata rilasciata. Intanto, l’iniziativa era stata presa all’insaputa
del Parlamento di Dublino, che da tempo ma sempre
invano aveva chiesto il permesso di battere moneta in
proprio , come del resto si addiceva a qualunque Stato che
non fosse una colonia.
In secondo luogo, e soprattutto,
a Wood era stato concesso di usare
una lega più scadente di quella usata
in Inghilterra per monete dello
stesso tipo, sicché il nuovo spicciolo
avrebbe avuto un valore reale notevolmente
inferiore a quello nominale,
con la possibile conseguenza di fenomeni
inflattivi devastanti per la già
precaria economia irlandese. Inoltre,
poiché l’autorizzazione non prevedeva
né controlli né sanzioni pena-
Jonathan Swift
in un’incisione ottocentesca
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 53
Londra, in Georg Braun, Frans Hogenberg, Civitates Orbis Terrarum, 1572-1617: tavola planimetrica
li, chi poteva garantire sulla correttezza dell’operato di
Wood, subito sospettato di frode nel conio del primo
quantitativo di monete inviato in Irlanda, e ancor più su
eventuali falsificazioni da parte di terzi?
Tutti questi pericoli erano stati denunciati, fra il
1722 e il 1723, dal Parlamento irlandese, che non aveva
nascosto la sua contrarietà al provvedimento avviando
un’indagine ufficiale e rivolgendo appelli al re perché la
questione venisse riconsiderata. A ciò si erano aggiunte le
prese di posizione di influenti personalità pubbliche (fra
cui l’arcivescovo di Dublino William King) e non avevano
tardato a vedere la luce, moltiplicandosi nei mesi seguenti
in tutta l’isola – specie dopo il primo intervento di
Swift (marzo 1724) –, rimostranze di corporazioni, libelli
polemici, petizioni ecc. Ma senza esiti apprezzabili.
L’unica cosa ottenuta da Londra era stata la nomina
di una commissione che aveva fatto verificare dai funzionari
della zecca (fra cui il grande Newton) peso e valore
delle monete già coniate da Wood, e che alla fine ne aveva
attestato la «bontà», cioè la corrispondenza ai termini
previsti nell’autorizzazione regia, sancendone quindi il
corso legale ed escludendo che le autorità irlandesi avessero
diritto di «ostacolarne o impedirne» la circolazione.
Per parte sua, come atto di buona volontà al fine di raggiungere
un compromesso, Wood si era dichiarato disposto
a ridurre a 40.000 sterline il valore complessivo delle
monete da coniare. La proposta aveva però avuto, in Irlanda,
il suono di una beffa – tanto più che in precedenza
Wood aveva fatto pubblicare su giornali inglesi articoli a
proprio favore nei quali, vantando gli appoggi di cui godeva
presso le “alte sfere” (il primo ministro Walpole), dichiarava
sprezzantemente che gli Irlandesi si sarebbero
dovuti rassegnare a «ingoiare» i suoi mezzi pence.
Non restava dunque che mobilitare l’opinione pubblica
con una campagna stampa che invitasse al boicottaggio
della «fraudolenta moneta di Wood». Questo è
ciò di cui si fa carico Swift, o meglio, di cui viene incaricato.
Sembra certo, infatti, che egli sia stato sollecitato a in-
54 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
Oxford, in Georg Braun, Frans Hogenberg, Civitates Orbis
Terrarum, 1572-1617: particolare
tervenire nell’affaire dalle stesse autorità irlandesi, memori
della battaglia che solo pochi anni prima Swift aveva
condotto in difesa dell’artigianato irlandese proponendo
il boicottaggio dei tessuti importati dall’Inghilterra (A
Proposal for the Universal Use of Irish Manufacture, 1720).
Da qui originano le Lettere del Drappiere che Swift scrisse
fra la primavera del ’24 e l’estate del ’25. Lettere la cui diffusione
e il cui successo furono enormi: a esse si deve se il
governo di Londra, dopo avere tentato di neutralizzare il
Drappiere arrestando il tipografo che aveva stampato le
Lettere e offrendo un premio di trecento sterline a chi
avesse rivelato l’identità dell’autore, sarà alla fine costretto
a fare marcia indietro revocando a Wood la sua licenza.
Nel loro insieme, le Lettere (cinque pubblicate più
altre due scritte ma inedite fino al 1735, quando vennero
incluse nel quarto volume delle Opere complete di Swift)
costituiscono la più appassionata e argomentata difesa
che Swift abbia fatto dell’Irlanda e dei suoi diritti non solo
economici, e un veemente atto d’accusa (superato solo
dai toni sarcastici e disperati della Modesta proposta, 1729)
dell’oppressione e dello sfruttamento esercitati dall’Inghilterra
nei confronti della «nazione» irlandese.
L’aspetto paradossale di questa vicenda è che Swift,
benché di origini anglo-irlandesi, aveva sempre disprezzato
l’Irlanda e, una volta relegato a Dublino come Decano
della cattedrale di San Patrizio (1715), aveva patito il
proprio «esilio» come una catastrofe personale, che non
solo poneva fine a tutte le sue ambizioni di carriera ecclesiastica,
ma lo tagliava fuori dalla vita letteraria e artistica
(oltre che politica) della capitale condannandolo a vivere
– e morire – in Irlanda «come un topo preso in trappola».
Tuttavia, proprio da questa condizione di emarginazione
sarebbe nato un nuovo sentimento di identificazione col
popolo irlandese, le cui miserabili condizioni avrebbero
provocato la sua «indignazione», «rabbia» e «risentimento»
per il «mortificante spettacolo di schiavitù, stupidità
e bassezza che mi circonda» (come si sarebbe
espresso in una lettera all’amico Pope di qualche anno
dopo), come scrive in numerosi opuscoli che fra il ’20 e il
’33, fra cui appunto le Lettere del Drappiere.
In primo piano, certo, oltre alla denuncia del fraudolento
tornaconto di Wood, c’è – lettera dopo lettera –
la puntigliosa elencazione delle conseguenze che l’introduzione
del mezzo penny avrà sull’economia irlandese:
aumento dei prezzi, scomparsa della moneta buona (d’oro
e d’argento), tensioni sociali, miseria, fame… Qui
Swift non fa che riprendere con un linguaggio semplice,
arricchendoli di esempi adatti al pubblico al quale si rivolgeva,
gli argomenti già messi avanti da quanti prima di lui
si erano opposti alla nuova moneta. Per esempio:
«Se un soldato semplice andrà al mercato o alla taverna
e vorrà pagare con questo denaro e se lo vedrà rifiutare,
allora potrà diventare violento e fare il gradasso e
minacciare di colpire il macellaio o l’ostessa, o potrà magari
prendere le merci con la forza buttandogli là i suoi
mezzi penny. In questo e in simili casi, i bottegai, gli osti e
tutti i commercianti, se dovranno essere pagati col denaro
di Wood, non avranno altra scelta che chiedere un
prezzo maggiorato di dieci volte: così per un quarto di
birra ci vorranno venti pence di quel denaro, e così sarà
per tutto il resto.
Supponete di andare in una taverna con quel denaro
di scarso valore e che il padrone vi dia un quarto di birra
per quattro di questi mezzi penny. Che succede all’oste?
Che il birraio suo fornitore non vorrà essere pagato con
quel denaro, e anche se fosse tanto sciocco da prenderlo,
gli agricoltori non lo vorrebbero certo in pagamento del
loro orzo, perché per contratto devono pagare l’affitto
della terra con denaro di conio regolare in Inghilterra,
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 55
non in Irlanda, e denaro buono per giunta, cosa che questo
non è; e il proprietario che gli affitta la terra non sarà
mai tanto allocco da accettare quella robaccia; sicché alla
fine quel denaro si dovrà fermare da qualche parte, e dovunque
si fermi sarà la stessa cosa, noi saremo rovinati».
C’è molta esagerazione nel quadro catastrofico che
Swift delinea, ma è chiaro che egli coglie l’occasione della
«truffa» di Wood per rilanciare la battaglia iniziata col
pamphlet sulle manifatture irlandesi spostando il discorso
– in un crescendo che culmina nella quarta lettera – sul
piano politico: quello dove in questione è la «dipendenza»
dell’Irlanda dall’Inghilterra. È questa dipendenza
che Swift contesta – con accenti che susciteranno le riserve
di alcuni fra i suoi compagni di lotta e che egli medesimo
riconoscerà «incauti», attribuendoli alla «non sempre
fortunata scelta del modo di esprimersi» del Drappiere:
«Ho esaminato tutti gli Statuti Inglesi e Irlandesi sen-
za trovare alcuna legge che dichiari che l’Irlanda dipende
dall’Inghilterra più che l’Inghilterra dall’Irlanda».
Il fatto che i due Paesi, dall’epoca di Enrico VIII in
poi, abbiano avuto lo stesso re non significa che l’uno dipenda
dall’altro, anche se ripetutamente «i Parlamenti
d’Inghilterra si sono arrogati il diritto di vincolare questo
regno con leggi promulgate lì». È vero che per statuto le
leggi promulgate dal Parlamento irlandese devono essere
sottoposte all’approvazione della Corona inglese, ma
basta questo a fare dell’Irlanda una colonia dell’Inghilterra?
Il Drappiere ci tiene a proclamare la propria «lealtà»
al re. Ma non è meno fermo nell’affermare la parità di diritti
dei due regni: «Gli Irlandesi non sono forse nati liberi
come gli Inglesi? Quand’è che hanno perso il diritto alla
loro libertà?». Richiamandosi sia a William Molyneux,
che già una trentina d’anni prima aveva rivendicato all’Irlanda
lo status di «regno autonomo» (The Case of Ireland,
1698), sia alla teoria lockiana del governo, il Drappiere ricorda
ai suoi concittadini che, benché «nella pratica un-
Da sinistra: Nicholas Garland, Una sterlina: una mela (il Cancelliere dello Scacchiere Nigel Lawson) cade in testa a Isaac
Newton (raffigurato sulla banconota); disegno a penna su “The Daily Telegraph” del 13 novembre 1984, in séguito
all’annuncio della fine del biglietto di 1 sterlina; John Law, Considérations sur le Commerce et sur l’Argent, Jean Neaulme, l’Aia
1720 (ed. francese di Money and Trade, 1705): frontespizio. Milano, Biblioteca di via Senato; Necessità, ed utilità de’ debiti,
felice produzione di penna italiana, Graziosi, Venezia 1787: frontespizio. Milano, Biblioteca di via Senato
56 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
dici uomini ben armati avranno sicuramente la meglio su
un uomo solo in maniche di camicia», «ogni tipo di governo
che non abbia il consenso dei governati diventa la
definizione stessa della schiavitù». La libertà – insieme
alla proprietà – è un «diritto naturale» dell’Uomo, ma essa
sussiste solo nella misura in cui «un popolo è governato
da leggi promulgate col suo consenso»: altrimenti quel
popolo non sarà libero ma schiavo.
Scrivendo questo, Swift volutamente sorvola sul
fatto che una legge approvata dal Parlamento inglese
qualche anno prima (Declaratory Act, 1720) aveva sancito
il diritto di quello stesso Parlamento a legiferare sull’Irlanda.
Riconoscerla, infatti, equivarrebbe ad ammettere
lo status di colonia dell’Irlanda. Contestare che essa fosse
Galwaye e Lymericke, in Georg Braun, Frans Hogenberg,
Civitates Orbis Terrarum, 1572-1617: tavole planimetriche
tale diventava quindi preliminare alla difesa della sua economia.
Swift, infatti, condivideva le tesi mercantilistiche
allora dominanti secondo cui l’economia di una colonia è
– e deve essere – subordinata a quella della madrepatria.
Di conseguenza, solo negando la «dipendenza» politica
dell’Irlanda dall’Inghilterra gli era possibile rigettarne la
dipendenza economica proponendo il boicottaggio delle
merci inglesi. Questa è la logica che sottende le Lettere del
Drappiere e che spiega l’escalation della polemica swiftiana,
dei suoi attacchi e dei suoi obiettivi. La questione era
quella della libertà – prima politica e poi economica – dell’Irlanda.
Una libertà rivendicando la quale Swift si esponeva,
si capisce, alle accuse di «sedizione» e incitamento
alla ribellione da parte dei «poteri forti» inglesi, meritandosi
per contro, dall’altra parte, il titolo (da lui rifiutato)
di «patriota» irlandese.
Se tanto è vero, non sorprende che, dopo la lettera
tutta politica al «popolo d’Irlanda» – e dopo altri interventi
di supporto e contorno –, il Drappiere si rivolga «alle
due Camere del Parlamento» con un «appello» che,
mentre ribadisce le argomentazioni contro la moneta di
Wood, va al di là di esse prospettando una serie di riforme
economiche e sociali di cui auspica che «con voce unanime»
si faccia carico, finalmente sollecito del bene comune,
il Parlamento della sua «povera e sfortunata isola».
(L’appello, che costituisce l’ultima delle Drapier’s Letters,
rimase allora inedito perché Swift ne fermò la stampa
avendo appreso che la licenza di Wood era stata revocata).
Se da un lato, di fronte all’ennesima prevaricazione
della “tirannia” inglese, è necessario reagire facendo valere
i diritti costituzionali della nazione irlandese, dall’altro,
di fronte all’enorme drenaggio di ricchezza cui l’Inghilterra
continua a sottoporre l’Irlanda, si tratta di mobilitare
tutti i ceti sociali affinché, con uno scatto d’orgoglio,
prendano coscienza dell’interesse del Paese e vi contribuiscano
ognuno per la propria parte. Come ha fatto
notare Irvin Ehrenpreis, il maggior biografo di Swift, ciò
che si delinea al fondo di queste pagine è l’idea di un’alleanza
di tutte le forze produttive irlandesi, in vista di un
riscatto e di un rilancio dell’economia nazionale.
A questo punto, però, è lecito chiedersi cosa esattamente
Swift intenda per “nazione irlandese”. Ne fanno
parte solo gli anglo-irlandesi, cioè i discendenti di quegli
inglesi (protestanti) che nel corso del tempo si sono stabiliti
in Irlanda diventandone i signori e padroni, o ne fanno
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 57
parte anche i nativi (cattolici), cioè quegli «irlandesi selvaggi
che i nostri antenati sottomisero molte centinaia di
anni fa» e che una legislazione davvero coloniale, ha privato
di quasi ogni diritto?
A chi si rivolge il Drappiere? In nome di chi parla?
E, lui, chi è: un irlandese o un anglo-irlandese? A quest’ultima
domanda la risposta non è dubbia. «I nostri antenati…»:
come Swift, il Drappiere è un erede dei conquistatori
che occuparono l’Irlanda assoggettandola al
loro dominio. Di conseguenza, è ai suoi ‘connazionali’
che egli si rivolge anzitutto e in nome dei quali parla. La
sua battaglia contro la moneta di Wood è, tipicamente, la
battaglia di ogni colonia che non vuole più essere trattata
come tale dalla madrepatria, ma chiede e pretende, una
volta ribadita la propria «incrollabile fedeltà» alla Corona,
di essere riconosciuta Stato libero e indipendente.
Che ne è però, in questa prospettiva, degli altri irlandesi,
di quei «selvaggi papisti» che restano sullo sfondo delle
Lettere e a cui il Drappiere si riferisce solo per dire che si
sono tenuti fuori dalla disputa pro o contro Wood, aggiungendo
che, «semmai fossero interpellati», vi si opporrebbero
anch’essi? Nulla più di questo inciso sintetizza
il regime di emarginazione ed esclusione che i “colonizzatori”
d’oltremare avevano imposto agli “indigeni”.
Tuttavia, sarebbe far torto alle Drapier’s Letterslimitarsi
a un rilievo del genere. Se è vero che il Drappiere tiene
a distinguere fra colonizzatori e nativi, noi e loro, protestando
contro l’immagine indiscriminata che gli Inglesi
si fanno di tutti gli abitanti d’Irlanda (ne «sanno poco
più che del Messico, oltre al fatto che è un Paese […] pieno
di paludi, abitato da Irlandesi selvaggi e papisti tenuti a
bada da truppe mercenarie inviate dall’Inghilterra»), è altrettanto
vero che il suo appello all’intero «popolo d’Irlanda»
comprende anche loro e che anche per loro parla.
In maniera reticente e ambigua, certo, come nell’Appello
al Parlamento di Dublino, quando auspica che attui «dei
sistemi efficaci per rendere più civile la vita della parte più
povera della popolazione indigena in tutte le zone del
Paese dove gli Irlandesi sono in maggioranza, introducendo
tra loro la nostra lingua e le nostre usanze, per non
lasciare che essi vivano nella peggiore ignoranza, barbarie
e povertà», tradisce la tipica arroganza del colonizzatore
che considera i nativi dei selvaggi da civilizzare, quasi
gli Irlandesi fossero altrettanti Venerdì che il Robinson
anglo-irlandese deve avviare sulla strada della Civiltà.
D’altro canto, però, il Drappiere, per legittimare la
sua battaglia, non ha forse invocato «diritti naturali» che,
Parodia del biglietto di banca della Bank of England, contro
le leggi severe per la punizione dei falsari, raffigurati
come impiccati; firmato Jack Ketch, il boia pubblico, 1819
come tali, appartengono a tutti gli uomini e dunque a tutti
gli Irlandesi, qualunque sia la loro etnia? E quando
chiama gli Inglesi «i nostri vicini» che «ci considerano
ancora selvaggi», benché «anche noi abbiamo forma
umana», non si identifica forse con gli Irlandesi, contraddicendo
la sua precedente identificazione con gli Inglesi,
che diventano “loro” rispetto a “noi”: «noi irlandesi»?
Ecco: precisamente in questa oscillazione fra due diverse
istanze identitarie, da cui discendono due diverse e anzi
opposte “lealtà”, consiste l’ambivalenza delle Drapier’s
Letters. Che sono state lette tanto in chiave di British
ascendancy quanto in chiave di patriottismo irlandese. Un
patriottismo a quel tempo ancora senza voce, ma che incomincia
ad articolarsi, sia pure indirettamente e quasi
per svista o lapsus, nelle parole del Drappiere, prefiguranti
l’unità di una nazione irlandese che (ri)trova la propria
libertà e indipendenza nella comune lotta contro il dominatore
inglese. Del resto, la natura non insegna forse «anche
alla covata di oche a stare tutte insieme quando il nibbio
volteggia sulle loro teste»?
Resta da dire qualcosa sulla strategia testuale delle
Lettere e, anzitutto, sulla maschera adottata da Swift. Che
le iniziali M. B. stiano per Marco Bruto è ipotesi suggestiva
e plausibile. Figura evocata più volte nel corpus swiftiano
(per esempio nel terzo viaggio di Gulliver), Bruto è colui
che rifiuta di chiamarsi fuori quando in gioco è la libertà
del suo Paese e la neutralità diventa complicità con
l’oppressore. Esattamente in questi termini, nella lettera
58 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
Jean Griffier il Vecchio (1652-1718), Veduta di Londra; olio su rame, 48 x 68 cm. Torino, Galleria Sabauda
a Lord Middleton (l’unica firmata con le proprie sigle anche
se lasciata «per prudenza» nel cassetto fino al ’35),
Swift giustifica la sua discesa in campo: «Una persona che
ami veramente il suo Paese può trovare difficile starsene
tranquilla da parte a osservare senza reagire, mentre nella
vita pubblica prevale l’ingiustizia che può portare l’intera
nazione alla rovina».
Identiche le motivazioni del Drappiere che, rivolgendosi
ai suoi «fratelli, amici, compatrioti», li rimprovera
della loro ignavia esortandoli a prendere posizione
su una questione dalla quale «dipendono completamente
il vostro pane, vestiario e ogni necessità primaria di vita».
Il Drappiere, dunque, è Swift. A differenza di quanto avviene
in altre opere swiftiane – in forma suprema nel Racconto
di una botte (A Tale of a Tub, 1704) ma anche nei Viaggi
di Gulliver –, nelle Lettere Swift non assume una persona
(nel senso latino del termine, “maschera” appunto) per
parodiarla e satireggiarla dall’interno. Al contrario, qui
egli fa del Drappiere il proprio alter ego. Un portavoce
scelto non solo perché più adatto del Decano della cattedrale
di San Patrizio a “rappresentare” quel «popolo»
che le Lettere intendono mobilitare, ma soprattutto perché
consente a Swift di non restare prigioniero dell’ideologia
Tory e, quindi, di non essere identificato né con un filogiacobita
né con un avvocato della gentry terriera.
Certo, gli elogi che il Drappiere riserva a Giorgio I
(«grazioso» e «magnanimo» sovrano preoccupato solo
del benessere dei suoi sudditi e ingannato dalla cricca di
Wood) e allo stesso primo ministro Walpole ( statista di
«grande senso civile»), dovettero costare non poco a
Swift, che proprio a quel re e a quel ministro doveva il suo
esilio dublinese. Ma – a parte il fatto che tali elogi suonano
molto tongue in cheek –, da un lato non conveniva moltiplicare
i nemici e dall’altro l’identità Whig del Drappiere
era la più confacente al rappresentante di una middle
class artigianale e commerciale a proposito della quale
Swift si esprime con accenti che paiono quasi tratti da Defoe.
Quando, per esempio, il Drappiere dice che «quel
poco di virtù che rimane nel mondo si trova specialmente
nelle classi intermedie della popolazione, in coloro che
non sono allettati dall’ambizione né incalzati dalla povertà»,
non sta forse ripetendo l’elogio della middle station
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 59
formulato dal saggio padre di Robinson Crusoe all’inizio
del romanzo omonimo?
Posta questa identificazione fra Swift e il Drappiere,
il problema diventava, semmai, quello di dare consistenza
alla persona evitando che si riducesse a una mera
finzione retorica, a un semplice nom de plume. A ciò servono
i molti riferimenti di M. B. al proprio lavoro e alla propria
vita: «Sono un negoziante di un certo peso in questa
città», «ho un bel negozietto di tessuti irlandesi e di seterie»,
«ho lavorato come apprendista a Londra, e lì mi sono
sistemato in proprio con un certo successo, finché, per
la morte di alcuni amici e le disgrazie toccate ad altri, sono
tornato in questo Regno e ho cominciato a occuparmi di
tutti i settori della manifattura della lana».
Sono state la sua esperienza e la conoscenza di prima
mano del mondo del commercio a indurre un uomo
«quieto e appartato» come lui, nonché di poche letture
(«però più estese di quanto sia solito in persone del mio
umile mestiere»), a prendere la penna per mettere in
guardia la «gente del [suo] ceto e condizione sociale»
contro gli «effetti fatali» prodotti dall’introduzione della
scellerata moneta di Wood.
La descrizione di tali effetti ha anche palesi risvolti
grotteschi, che sembrano quasi voler prendere in giro l’aritmetica
politica di Petty, e sono irresistibili:
«Il peso normale di queste monetine da mezzo
penny è di quattro o cinque per oncia, diciamo cinque; allora,
tre scellini e quattro pence peseranno una libbra, e di
conseguenza venti scellini faranno più o meno sei libbre.
Ora, ci sono molte centinaia di agricoltori che pagano
duecento sterline l’anno d’affitto, sicché, quando uno di
loro verrà con la metà dell’affitto di un anno, cioè cento
sterline, si porterà dietro un peso di almeno seicento libbre,
che è il carico di tre cavalli. E se un gentiluomo di
campagna deciderà di venire in città a comprare vestiti,
vino e spezie per sé e la sua famiglia, o magari per passarci
l’inverno, dovrà portarsi dietro cinque o sei cavalli carichi
di sacchi come quelli che usano i contadini per trasportare
il grano; e quando la sua signora se ne andrà in giro per
negozi con la sua carrozza, dovrà farsi seguire da un carro
pieno del denaro di Wood».
La parodia dell’aritmetica economico-politica di
Petty, ancor più feroce nella Modesta proposta, si spiega an-
che col fatto che nel suo Treatise of Ireland (1687) egli sostenne
la completa dipendenza dell’Irlanda dall’Inghilterra
e addirittura propose, per risollevarne l’economia,
la deportazione in Inghilterra di un milione di persone.
Ma nella quantificazione puntigliosa delle perdite
che ogni negoziante subirà accettando «quella robaccia»,
è perfettamente congruente (ricordiamoci ancora di Defoe)
con la mentalità del Drappiere e dei suoi lettori. Meno
lo sono i riferimenti storici e giuridici che abbondano
nelle Lettere, le citazioni di leggi, statuti e “precedenti”
che è poco verosimile fossero fra le letture di un «negoziante
illetterato» come M. B. si definisce altrove. Ma
qui, allora, egli corre ai ripari dicendo di essersi consultato
con «eminenti» avvocati e giuristi che gli hanno fornito
le necessarie «informazioni». Viceversa, i numerosi
echi biblici che costellano la sua arringa non stonano in
bocca a un protestante nutrito di Scritture più di quanto
stonerebbero nel sermone di un ecclesiastico.
È evidente, insomma, lo sforzo di Swift per tenere
in piedi il manichino del Drappiere. Non meno evidente,
d’altra parte, è che la maschera gli va stretta. Richiamandosi
fin dalla prima lettera a quell’opuscolo sulle manifatture
il cui autore non era un mistero per nessuno, il Drappiere
si pone esplicitamente all’ombra del Decano, il cui
esempio si propone di seguire e dal quale anzi dichiara di
essere stato «consigliato».
O, per meglio dire, il Drappiere è l’ombra del Decano.
Come del resto lascia capire il breve schizzo biografico
che il primo fornisce di sé: trasparentissima – e intelligibilissima
allora per chiunque – metafora della vita del
secondo. Scrivendo a Lord Middleton, Swift dirà che è irrilevante
stabilire se l’autore delle Lettere sia un drappiere
«vero o presunto», e inviando all’amico di un tempo
Lord Carteret, appena giunto da Londra come nuovo
Governatore d’Irlanda, copia della prima lettera del
Drappiere, insinuerà che essa, benché «adatta a gente di
bassa estrazione sociale», è ritenuta «opera di una mano
migliore», una mano che Carteret, e Swift lo sapeva, non
avrebbe avuto alcuna difficoltà a riconoscere.
Come sempre nei segreti, l’impulso a nascondere
convive con quello a rivelare. Nel momento stesso in cui
J. S., nascondendosi dietro M. B., nega la propria paternità
delle Lettere, le dissemina di indizi (fra cui addirittura
il riferimento a una delle sue più famose opere giovanili,
la Battaglia dei libri) che hanno la funzione di restituirgliela,
quella paternità, riaffermando la sua autorità
sul proprio testo.
60 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
INFORMARE SUI FORMATI
Richiami, segnature, registro
La determinazione
del formato di un libro
non è sempre tanto facile
come a tutta prima potrebbe
parere. In molti casi si presenta
assai complicata.
Nei libri moderni, poi, certe
denominazioni tradizionali non
hanno più ragione di essere. Diremo,
a suo luogo, il perché. Per ora
parleremo di formati riferendoci alla
vecchia carta fabbricata in fogli di
dimensioni limitate a misure abbastanza
note. Chiamiamo formato di
un libro la dimensione del libro stesso
determinata dal numero delle pagine
che ciascun foglio contiene e
che stabiliscono un dato gruppo a
seconda della ripiegatura.
di fare la carta
fu introdotta
L’arte
a Samarcanda verso
il 751 da prigionieri
di guerra cinesi. Gli arabi la
diffusero in occidente. Verso
il 1150 abbiamo delle pile
da carta in Spagna, presso
Valenza e, circa verso il
1276, in Italia a Fabriano e
a Cividale del Friuli.
I primi sistemi
di fabbricazione si
protrassero quasi senza
cambiamenti per circa 7
La Fiera del bibliofilo
Un foglio piegato in due darà
l’in folio di quattro facciate; piegato
in quattro, l’in 4º di otto facciate;
piegato in otto, l’in 8º di sedici facciate
e così di seguito. Il foglio non
ripiegato e perciò stampato a solo
due facciate, l’in plano, formato Atl
ante. Abbiamo già brevemente parlato,
nelle note precedenti delle segnature,
dei richiami, delle vergelle
e dei filoni. Ripetiamo ora soltanto
che i filoni, visibili in trasparenza nel
foglio, si tagliano ad angolo retto e si
dispongono perciò orizzontalmente
o verticalmente a seconda della ripiegatura.
Questa particolarità serve
grandemente a riconoscere il formato,
quando mancassero le segnature
o richiami. Daremo oggi una
L’A.B.C. DEL BIBLIOFILO - LA CARTA A MANO
secoli e continuano ancora
per la carta a mano, che
oggi serve solo per lusso.
Ecco il procedimento
per questa fabbricazione:
Lavati e imbiancati i cenci
di lino o di cotone
e lasciati fermentare
in mucchio, si portavano
nelle pile a pestelli dove
piccola tavola delle ripiegature del
foglio pei diversi formati; il numero
delle pagine che esso contiene e la
disposizione dei filoni.
Form. Pieg. Pag. Filoni
In fol. 2 4 perpendicolari
In 4º 4 8 orizzontali
In 8º 8 16 perpendicolari
In 12º 12 24 orizzontali
In 16º 16 32 orizzontali
In 18º 18 36 perpendicolari
In 24º 24 48 perp./orizz.
In 32º 32 64 perpendicolari
In 36º 36 72 orizzontali
In 48º 48 96 orizzontali
In 64º 64 128 orizzontali
i maglietti muniti di punte
di ferro li sfilacciavano.
Lo sfilacciato passava allora
in altre pile che lo
riducevano in fibrille
formando il pesto che,
gittato in tini di acqua
ben pura e limpida,
si stemperava in poltiglia
che serviva per le forme.
L’operaio prenditore
immergeva nella poltiglia la
forma, specie di setaccio
rettangolare, che, sollevato
orizzontalmente, lasciava
ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 61
Continuiamo la nota intorno
ai “formati”. Abbiamo già parlato
delle segnature e dei richiami. Quasi
inutili questi ultimi quando ci sono
già le segnature che determinano il
numero e il posto dei fogli, sia riguardo
a ciascun fascicolo, come per
l’ordine dei fascicoli stessi.
Dalle segnature si conosce, o
almeno si dovrebbe riconoscere, il
formato. Un in quarto – il cui foglio è
piegato in modo da formare 8 pagine
– avrà la pagina 9 per prima del secondo
fascicolo; la 17 per prima del
terzo; la 25 per prima del quarto fascicolo,
e così via. Un in ottavo – il cui
foglio comprende 16 pagine – avrà
la seconda segnatura alla pagina 17;
la terza alla pagina 33; la quarta alla
pagina 49 e così di seguito.
La cosa sarebbe molto semplice.
Ma per i formati più piccoli, il foglio,
tanto più se è di carta un po’ forte,
non si può ripiegare facilmente a
costituire fascicoli di 32, 36, 48, 64
pagine che avrebbero un dorso troppo
grosso e presenterebbero tanti
altri inconvenienti facili a intuirsi.
colare l’acqua ritenendo solo
quella quantità di pasta che
bastava per lo spessore del
foglio. Il fondo della forma
era attraversato da fili
di metallo paralleli detti
filoni (in francese
ponteseaux) distanti l’uno
dall’altro circa due dita che
sostenevano a squadra e
rafforzavano altri fili
più sottili vicinissimi detti
vergelle che formavano
il fondo dello staccio.
L’operaio ponitore, lasciata
Si seziona allora il foglio in fascicoli
che portano segnature differenti
e diverso numero di pagine.
Un in dodici per esempio, avrà
un fascicoletto apparentemente in
ottavo, cioè di 16 pagine, seguito da
un fascicoletto apparentemente in
quarto, cioè di 8 pagine.
Un in diciotto potrà dividersi in
2 fascicoli: l’uno apparentemente in
dodici, di 24 pagine, e uno apparentemente
in sesto di 12 pagine; oppure
anche in 3 fascicoli apparentemente
in sesto di 12 pagine ciascuno.
Parlando di fogli intendiamo
riferirci a carta fabbricata a mano, e
cioè di dimensioni abbastanza note e
relativamente costanti.
In Italia un’interessante scultura
in marmo esistente in Bologna
ci informa con precisione sulle antiche
misure dei fogli. Essa reca incisi,
uno dentro l’altro, quattro rettangoli
indicanti i quattro formati, coi
loro nomi e l’iscrizione «Queste sieno
le forme del Comune di Bologna
de che grandezza deve essere le carte
de Bombaze che se faranno».
sgocciolare la forma,
rovesciava con opportune
cautele il foglio su un feltro
e sul feltro un altro foglio e
così di seguito fino a
formare la pila o pasta che
veniva poi messa sotto la
pressa. Si finiva popi
di seccare il foglio all’aria:
gli si dava la colla animale,
ed era pronto per l’uso.
Una cartiera
provveduta di un tino
intorno al quale lavoravano
diversi operai poteva dare al
giorno circa 5.000 fogli la
cui dimensione massima era
di cm 74x50 circa. Oggi
certe macchine potrebbero
dare la superficie dei 5.000
fogli massimi messi insieme
in meno di 6 minuti.
I filoni e le vergelle
lasciavano sulla carta
il loro segno che è più chiaro
in trasparenza insieme alla
marca di fabbrica in
filigrana ottenuta
intrecciando alle vergelle un
sottile filo metallico in modo
Imperiale 0,740 x 0,500
Reale 0,615 x 0,445
Mezzana 0,515 x 0,345
Reçute 0,450 x 0,315
Queste misure sono tradotte
in metriche. I primi tre nomi durarono
lungamente, per secoli. L’ultimo
non si sa che sia.
In altri paesi variavano i nomi,
ma i formati rimanevano su per giù
costanti. È chiaro come dalla misura
dei fogli si potessero avere facilmente
le dimensioni dei formati dei libri.
Ma oggi, non è più così. Un foglio
grandissimo moderno, ripiegato
in quattro, può dare un formato
che, secondo le vecchie dimensioni,
si potrebbe anche chiamare in folio, e
così per le altre piegature.
Il pochissimo che abbiamo
esposto basta a far almeno rilevare
come la questione dei formati è ardua
e complicata, principalmente se
si tratta di libri moderni. L’argomento
è vasto e lo spazio è breve. Anche a
voler essere molto succinti ed elementari,
occorrerà un’altra nota.
da formare svariatissimi
disegni, lettere dell’alfabeto,
stemmi o altro che
distinguesse le cartiere.
Torneremo su questo
argomento e diremo come i
filoni e le vergelle servano
per conoscere i formati e le
marche per determinare,
quando è possibile, l’epoca
della fabbricazione della
carta, facilitando ricerche
bibliografiche e archivistiche
riguardanti le date di libri e
documenti.
LE COSE SUCCEDONO.
QUEL CHE CONTA
È AVERE
LE IDEE CHIARE
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ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 63
Acquisizioni recenti della Biblioteca di via Senato
Cantù, Cesare (1804-1895),
et al. Milano e il suo territorio.
Milano, Pirola, 1844. 2 volumi.
Prima e unica edizione di
quest’opera dedicata a Milano,
adorna di 14 tavole all’acquatinta
che illustrano le vedute più suggestive
della città, pubblicata in occasione
della VI Riunione degli
scienziati italiani. Come descritto
nell’avvertimento, esemplare che
fa parte della tiratura in carta comune
senza gli stemmi sul frontespizio,
la pianta e la carta topografica
di Milano.
Coster, Charles Théodore
Henri de (1827-1879). Die Geschichte
von Ulenspiegel und
Lamme Goedzak und ihren heldenmäßigen,
fröhlichen und
glorreichen Abenteuern im
Lande Flandern und anderwärts.
Mit Holzschnitten von
Frans Masereel. Monaco di Baviera,
Kurt Wolff, 1926. 2 volumi.
Prima edizione tedesca di
quest’epopea patriottica del romanziere
belga, contenente 150 xilografie
originali e 18 iniziali xilografiche
di Frans Masereel nell’edizione
limitata di 1.600 esemplari.
Una raccolta sempre più
ricca, mese dopo mese
rarità tedesche con masereel protagonista e non solo
di Chiara Bonfatti, Giacomo
Corvaglia e Annette Popel Pozzo
De Caro, Marino Massimo;
Parisato, Dario; Pugliese, Paola.
Galileo Galilei. Roma, a spese dell’Autore
e Stamperia Valdonega,
2007. 2 volumi.
Repertorio bibliografico delle
opere di Galileo Galilei in edizione
limitata.
Fauconney, Jehan (fl. XX
sec.). Le musée secret de Naples
et le culte des organes générateurs.
Parigi, Jehan Fauconney, ca.
1920.
Edizione arricchita da numerose
incisioni nel testo, molte a piena
pagina, che riproducono reperti
archeologici ritenuti osceni, conservati
nel Museo di Napoli.
Földes, Jolán (1902-1963).
De Straat van de visschende kat.
Gand, Snoeck-Ducaju & Zoon,
1947.
Con frontespizio xilografico
e 36 xilografie di Frans Masereel,
delle quali la prima a colori. Edizione
olandese tradotta dall’ungherese
di M. H. Székely-Lulofs di questo
romanzo che narra della difficile
vita parigina di una famiglia di
immigrati ungheresi appartenenti
alla classe operaia, nel periodo successivo
al primo conflitto mondiale.
Uno dei 500 esemplari su carta
Japon La Hulpe.
Gundappa, D. V. Le Tombeau
de la melancholie, ou Le
vray moyen de vivre ioyeux. Seconde
edition, reveuë, corrigée
& augmentée. Par le sieur D. V. .
Parigi, Charles Sevestre, 1660.
García Lorca, Federico
(1898-1936). Das kleine Don-
Cristóbal-Retabel. Posse für
Puppentheater. Wiesbaden, Insel-Verlag,
1960.
Opera per teatro di burattini
scritta da García Lorca nel 1931 e
rappresentata per la prima volta alla
Fiera del Libro di Madrid l’11
maggio 1935. Con 6 xilografie a
piena pagina e 2 vignette xilografiche,
di cui una in antiporta e una in
fine al testo teatrale, realizzate da
Frans Masereel.
Goudeau, Émile. Paris – Almanach.
Litographies par Dillon.
Parigi, Librairie Ed. Sagot, 1895
Esemplare numero 1 su 25 in
carta giapponese.
64 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009
Masereel, Frans (1889-1972).
Die Lebensalter. 35 Holzschnitte.
Berna, Herbert Lang, 1966.
Prima edizione tedesca, con
35 xilografie di Frans Masereel.
Masereel, Frans (1889-1972).
La colère. Berna, Herbert Lang,
1946.
Edizione limitata, uno dei
650 esemplari su papier mat, contenente
20 disegni di Frans Masereel,
tutti realizzati tra il 1944 e il 1945.
Massi, Cirillo (fl. 1833-1836).
Prosopopea e storia della città e
provincia di Pinerolo per Cirillo
Massi cittadino pinerolese socio
corrispondente della R. Accademia
delle Scienze di Torino pastor
arcade socio unanime e
membro delle Reali Accademie
degli Immobili di Alessandria e
di Fossano. Torino, Tipografia
Cassone, Marzorati, Vercellotti,
1833-1836. 4 volumi.
Prima edizione di questa storia
della città di Pinerolo che contiene
tavole litografiche raffiguranti
lo stemma di Pinerolo, vedute
della città con indicazione dei monumenti
e luoghi di interesse, una
veduta delle Alpi Cozzie appartenenti
alla Provincia di Pinerolo e
una tavola contenente il «Quadro
delle distanze itinerarie tra la città
di Pinerolo e cadun comune della
Provincia, e tra l’uno e l’altro de’
medesimi: de’ mandamenti, di loro
popolazioni; delle parrocchie, e vicarìe
della Diocesi; delle stazioni
de’ Carabinieri Reali; degli Uffizi
d’insinuazione, e delle Regie Poste;
De’ fiumi, torrenti, rivi e laghi; con
riepilogo generale e somma totale
ricavata da cadun capo».
Moles Trivulzio, Carlo Francesco
(duca di Parete, fl. 1731).
Discorso intorno alle imprese di
D. Carlo Francesco Moles Trivulzio
duca di Parete. Con cinquanta
imprese dal medesimo
registrate, e spiegate a parte. …
Napoli, Niccolò Parrino, 1731.
Si tratta di «un discorso intorno
alla nobilissima invenzion dell’imprese,
delle parti, che le compongono,
e delle regole, che le sostengono,
e delle condizioni, che le
assicurano, e de’ fregi, che l’abbelliscono»
(p. 1).
Dopo una prima parte teorica sull’origine
delle imprese l’autore raccoglie
e spiega una serie di cinquanta
imprese.
Rolland, Romain (1866-
1944). Johann Christof. Erster [fünfter]
Band mit Holzschnitten
von Frans Masereel. Berlino,
Rütten & Loening, 1959.
Prima edizione tedesca in cinque
volumi, con 607 incisioni di
Masereel, xilografie alle quali lavorò
tra il 1925 e il 1927.
Salazaro, Demetrio (1822-
1882). Studi sui monumenti medievali
della Sicilia, relazione
letta all’Accademia di Archeologia,
Lettere e Belle Arti nella
tornata del 11 dicembre 1877 dal
socio Demetrio Salazaro. Napoli?,
Tipografia Della Regia Università?,
1877?
Estratto dagli Atti dell’Accademia
di Archeologia, Lettere e
Belle Arti.
Velleius Paterculus (ca. 19
a.C.-31 d.C.). C. Velleii Paterculi
Quae supersunt ex Historiae
Romanae voluminibus duobus.
Cum integris scholiis, notis, variis
lectionibus, et animadversionibus
doctorum. Curante Petro
Burmanno. Leida, Samuel
Luchtmans, 1719.
Verhaeren, Emile (1855-
1916). Fünf Erzählungen. Lipsia,
Insel-Verlag e Spamersche Buchdruckerei,
1921.
Edizione limitata di 110
esemplari, contenente anche ventotto
raffinate xilografie di Frans
Masereel, di cui tredici pubblicate a
piena pagina.
Zaccaria, Francesco Antonio
(1714-1795); Hontheim, Johann
Nikolaus von (1701-1790). Theotimi
Eupistini De doctis catholicis
viris qui Cl. Justino Febronio
in scriptis suis retractandis ad
anno MDLXXX. laudabili
exemplo praeiverunt liber singularis.
Roma, Giovanni Generoso
Salomoni, 1791.
Opera di critica al Febronianesimo
di Francesco Antonio Zaccaria,
storico e scrittore italiano.
Justinus Febronius (pseudonimo
per Johann Nikolaus von Hontheim),
uno dei maggiori esponenti
del giurisdizionalismo del Settecento,
scrisse il “De Statu Ecclesiae
et legitima potestate Romani Pontificis
liber singularis ad reuniendos
dissidenti in religione christiana
compositus” (1763) con l’obiettivo
di attaccare la Curia romana e il
ruolo del papa nella Chiesa universale.
Tale scritto suscitò un vasto
scalpore in tutta Europa dando inizio
a una vasta letteratura pro e
contro, di cui questa edizione è un
esempio.
LA PIASTRA DA BORSETTA
LISCIO PERFETTO QUANDO E DOVE VUOI
Tutto quello che le donne hanno sempre desiderato da una piastra da oggi diventa portatile.
Performance, sicurezza, tecnologia, semplicità e velocità entrano nella loro borsetta
e le seguono per tutta la giornata, o anche in viaggio.
Bellissima MINI diventerà la loro piastra da borsetta, sempre a portata di mano.
LISCIO PERFETTO
LISCIO O MOSSO