Le Anfore del Liceo Ginnasio Statale Vittorio Emanuele II di Napoli

LICEO GINNASIO STATALE
VITTORIO EMANUELE II
NAPOLI
ANNA MARIA GEMELLI
Le Anfore del Liceo Ginnasio Statale
Vittorio Emanuele II di Napoli
Prefazione
Francesco Di Vaio
NAPOLI 2010
NELLA SEDE DEL LICEO

ANNA MARIA GEMELLI
Le Anfore del Liceo Ginnasio Statale
Vittorio Emanuele II di Napoli
Prefazione
Francesco Di Vaio
NAPOLI 2010
NELLA SEDE DEL LICEO
3

Prefazione
L’area occidentale fuori le mura di Neapolis, occupata dai monasteri di
S. Sebastiano (ora Liceo Vittorio Emanuele e Convitto Nazionale) e S. Maria
di Costantinopoli (ora scuola media omonima), era già nota da tempo come
zona cimiteriale. Infatti B. Capasso citava l’erudito F. Giordano per il rinvenimento
di tombe fatte con grandi tegoloni di tufo verso la metà del Cinquecento
nel giardino di S. Sebastiano e la scoperta fatta nel 1872 di dieci
tombe a tegoloni di tufo e di un’altra con lastre di marmo nel giardino di
S. Maria di Costantinopoli 1 .
Nel 1896 A. Sogliano, ex alunno del nostro Liceo, divenuto Direttore
degli Scavi di Pompei, informava: “Demolendosi taluni locali appartenenti
a questo Liceo ginnasiale Vittorio Emanuele, e propriamente quelli che
erano a ridosso della chiesa di s. Sebastiano, tornò a luce, verso la metà di
marzo, una lastra marmorea alta m. 0,31 e larga m. 0,51, già adoperata
come soglia e recante l’epigrafe: C.IU[li]US.ANDRO/NICUS.ARCHON/ET.
IULIA.EUPORIA/EX.VOTO.DONUM/DEDERUNT... la lapide dal cav.
Enrico Pucci, preside-rettore del Liceo ginnasiale Vittorio Emanuele, fu consegnata
al direttore del Museo Nazionale” 2 .
F. Colonna, oltre al rinvenimento della suddetta epigrafe, precisava nel
1898: “A circa m. 0,50 dal piano di calpestio venne fuori il pavimento della
antica chiesa di S. Sebastiano composto di un battuto a cemento e mattoni pesti,
ed a circa m. 1,00 di profondità nell’angolo a sinistra del compreso ritornarono
alla luce due tombe in tufo ricoperte da tegoli battentati...” 3 .
1 B. CAPASSO, Napoli greco-romana, Napoli, 1905 (opera postuma pubblicata a cura
di Giulio De Petra), p. 110.
2 A. SOGLIANO in Notizie degli scavi di Antichità, Napoli, 1896, p. 103. La lapide è
stata pubblicata da E. Miranda in Napoli antica, Napoli, 1985, p. 389.
3 F. COLONNA, Scoperte di antichità dal 1876 a tutto il 1897, Napoli, 1898, p. 486.
5

L’area su cui si elevava la chiesa di S. Sebastiano, che si trovava in fondo
al nostro cortile, demolita negli anni cinquanta e sessanta del ’900, era
sul pomerio esterno delle mura greco-romane e, perciò, destinata, come era
costume dei Romani, a tombe, probabilmente lungo una via.
Nel mese di aprile del 2004, nel materiale di riporto di uno scavo effettuato
in fondo al cortile tra gli ingressi al Convitto e alla Residenza dei
Gesuiti, allo scopo di creare una riserva idrica di emergenza, chi scrive rinvenne
i cocci delle anfore, ora esposti in una vetrina e qui studiati. A poco
più di un metro di profondità si osservava allora uno spesso strato di cocci,
evidentemente riportati e ammassati ab antiquo alla rinfusa, forse da una
vicina discarica o fornace. Non si vedevano, infatti, vasi interi né ambienti.
Si ringrazia la Dott. Anna Maria Gemelli per il contributo scientifico
che ci ha fornito, che servirà come strumento didattico ai nostri professori
e studenti. Si ringrazia, inoltre, Michele Innangi per le fotografie.
6
Luglio, 2010
Il Dirigente
Francesco Di Vaio

Le Anfore del Liceo Ginnasio Statale
Vittorio Emanuele II di Napoli
Le anfore sono i contenitori da trasporto più utilizzati nel mondo
antico fin da epoca antichissima 1 e, come risulta dalla ricca documentazione
archeologica, rappresentavano il recipiente più diffuso soprattutto nei
commerci marittimi per il trasporto e la conservazione di numerosi prodotti
alimentari liquidi e solidi commercializzati via mare, tra cui in particolare
vino, olio, salsa di pesce (garum) ma anche frutta, frutta sciroppata,
carne essiccata, miele, allume, olive, pesce salato in tranci (salsamenta)
o sott’olio, ecc. Le anfore erano pertanto trasportate sulle navi non in
quanto di per sé oggetto di scambi commerciali, come nel caso della ceramica
e di altri manufatti di terracotta, ma semplicemente come contenitori
di merci 2 .
1 Fonti letterarie, epigrafiche e soprattutto testimonianze archeologiche (anfore “cananee”,
cosiddette dalla regione di origine, databili dal XVIII all’VIII secolo a.C., sono
state rinvenute nelle regioni costiere della Siria e della Palestina e rappresentano il tipo
più antico di anfore da trasporto finora attestato archeologicamente) documentano l’impiego
di anfore come contenitori da trasporto in paesi del bacino orientale del Mediterraneo
sin da epoche molto antiche. In particolare, già dalla seconda metà del III millennio
a.C., testimonianze epigrafiche attestano l’uso di anfore o di recipienti simili di
terracotta sia in Mesopotamia che in Siria, paese al quale si riferiscono alcune indicazioni
relative a consegne di vino, registrate su tavolette fittili, rinvenute negli scavi della
famosa città di Ebla (Gianfrotta, 1980, pag. 146). L’impiego di anfore continua senza
interruzioni attraverso una grande varietà di tipi e di forme, utilizzati in luoghi ed epoche
diverse fino alla tarda età imperiale romana, epoca in cui, ad esempio, per il trasporto
del vino si cominciarono ad utilizzare le botti (si veda Gianfrotta, 1980, pp. 144-
145). 2 Naturalmente, a seconda della merce trasportata, venivano adoperati anche altri
tipi di contenitori, come nel caso ad esempio del grano e dei cereali in genere, solitamente
racchiusi in sacchi oppure deposti sfusi nella stiva della nave che poteva essere
suddivisa in settori, utilizzando delle strutture provvisorie, per separare carichi misti o
7

Tuttavia esse, dal momento che sono tra i materiali meno deperibili
in quanto, per la loro stessa composizione, sono più resistenti all’azione
corrosiva del tempo e alla prolungata immersione in mare o sottoterra (lo
stesso dicasi per le ceramiche, gli oggetti in terracotta, i marmi, le macine
di pietra, i laterizi e alcuni tipi di metalli come piombo, stagno, rame),
costituiscono i reperti archeologici più diffusi nei rinvenimenti sottomarini
oltre che nei siti archeologici terrestri e rivestono pertanto una straordinaria
validità come strumento di indagine storica.
Infatti lo studio della enorme quantità di anfore, rinvenute in modo
fortuito o attraverso scavi archeologici scientifici, ha contribuito a ricostruire
alcuni aspetti significativi della storia economica antica, consentendo
l’individuazione di alcune importanti rotte commerciali, delle attività produttive
presenti nel bacino del Mediterraneo in epoca antica, dei principali
luoghi di fabbricazione, dei caratteri e delle forme delle diverse produzioni,
delle merci trasportate e dell’ambito cronologico e geografico di
diffusione.
Naturalmente, perché questo sia possibile, occorre che i ritrovamenti
non siano soggetti a recuperi arbitrari ma siano il frutto di uno scavo condotto
in maniera sistematica, così da documentare il contesto originario e
una conseguente quantità di dati scientifici che andrebbero altrimenti irrimediabilmente
perduti.
Nel caso delle anfore conservate nel Liceo Ginnasio Statale Vittorio
Emanuele II le circostanze della loro scoperta, avvenuta nel mese di aprile
del 2004, in modo del tutto casuale, fra i materiali di riporto, emersi
durante gli scavi che furono effettuati in occasione della costruzione della
riserva idrica di emergenza in fondo al cortile della scuola, e le modalità
di recupero hanno necessariamente limitato i meccanismi di ricostruzione
archeologica e le possibilità interpretative.
Tuttavia, ognuna delle anfore esaminate, pur decontestualizzate, è riconducibile
a delle forme specifiche delle quali è possibile indicare l’area
merci appartenenti a proprietari differenti. La deperibilità del carico e le modalità del
trasporto spiegano, pertanto, come di un commercio così vasto che, solo per il rifornimento
della città di Roma, impiegava annualmente numerose navi da carico per l’importazione
di tonnellate di grano dall’Africa settentrionale, dall’Egitto, dalla Sicilia e, in
misura minore, dalla Spagna, non sia rimasta quasi traccia nei relitti e lo stesso dicasi
di altri generi alimentari o prodotti di vario consumo e generi di lusso deperibili (seta
e altri tessuti pregiati, tappeti, pellami, papiro, spugne, coloranti e materie prime come
il legname, pellicce e parrucche, unguenti e profumi, spezie esotiche, ecc.) che dovevano
d’altronde costituire una componente essenziale dei traffici commerciali marittimi,
per altri versi ben documentata da attestazioni letterarie ed epigrafiche (si veda Gianfrotta,
1980, pp. 134-136).
8

di produzione, il prodotto trasportato e l’ambito cronologico e geografico
di diffusione per cui, pur in mancanza di dati, si può fornire un inquadramento
cronologico ampio che copre tutto l’arco di produzione e diffusione
della forma individuata.
Ai fini più propriamente didattici, inoltre, si forniranno indicazioni
di carattere generale sulla forma, le caratteristiche e la funzione delle anfore,
sulle tecniche e le varie fasi di fabbricazione, sui prodotti contenuti
e sulle modalità del trasporto.
Nonostante gli studi compiuti sulle numerose varianti tipologiche che
permettono, attraverso la classificazione delle forme, di ricostruirne caratteristiche,
dimensioni e modalità di impiego, stabilendo un criterio di individuazione
geografica e cronologica della loro produzione e diffusione,
occorre innanzitutto premettere che la forma base dell’anfora, in quanto
legata alla sua funzionalità, è rimasta nel tempo sostanzialmente la stessa
nelle sue componenti fondamentali. Infatti ogni anfora è formata da varie
parti: imboccatura, orlo, collo, ansa, spalla, pancia o corpo, puntale o
piede (fig. 1). Naturalmente all’interno della forma vi possono essere delle
varianti che individuano i diversi tipi.
1. Imboccatura
2. Orlo
3. Ansa
4. Collo
5. Spalla
6. Pancia o Corpo
7. Puntale o Piede
Figura 1. Le parti di cui è composta un’anfora.
9

Il collo era di solito allungato, l’imboccatura era stretta per evitare la
fuoriuscita del contenuto durante il trasporto e terminava in un orlo ingrossato
che facilitava la chiusura ermetica del vaso, chiuso da tappi per lo più
di sughero e di argilla, sigillati con pece, resina, pozzolana o calce (fig. 2).
Le pareti dell’anfora erano in genere piuttosto spesse in modo da limitare
danni e rotture durante le operazioni di trasporto. Il puntale dalla caratteristica
forma a punta permetteva di impilare facilmente le anfore, disponendole
generalmente su più livelli all’interno della stiva della nave oneraria
e costituiva, insieme alle anse, un ulteriore punto di presa durante le operazioni
di spostamento del carico e di svuotamento del suo contenuto.
Le diverse parti che componevano l’anfora venivano lavorate separatamente
ed unite insieme prima della cottura che avveniva in un apposito
forno. Il corpo del vaso era realizzato con il tornio come pure l’orlo e il
collo mentre le anse e il puntale erano eseguiti a mano. Infatti alla base
dell’ansa si può spesso notare il segno del polpastrello usato per pressare e
far aderire l’ansa al corpo dell’anfora.
Le anfore, come si è detto, erano utilizzate soprattutto per il trasporto
di prodotti alimentari liquidi e solidi, tra cui in particolare vino, olio e
salsa di pesce (garum).
Per quanto riguarda il vino, dopo la vendemmia e la pigiatura dell’uva
il mosto prodotto veniva lasciato fermentare in grossi vasi di terracotta
(pithoi) per alcuni mesi durante i quali veniva continuamente schiumato.
In primavera il vino veniva travasato nelle anfore per essere trasportato
e venduto e, per favorire la conservazione e diminuirne l’acidità, si
trattava il prodotto con acqua di mare o resina, erbe aromatiche e miele.
10
Figura 2. Disegno ricostruttivo di un tappo di terracotta sigillato
con resina o pozzolana.

In particolare la resinatura era un trattamento particolare che consentiva
una maggiore impermeabilità dell’argilla, garantendo una migliore conservazione
del liquido e consisteva nel riscaldare, all’interno del recipiente,
della resina, ad esempio di larice, di abete o di pino fino a portarla allo
stato liquido. L’anfora veniva poi agitata in modo da distribuire uniformemente
al suo interno il rivestimento che veniva quindi fatto solidificare.
Questo procedimento conferiva al vino un forte aroma di resina e un sapore
particolare. Per rendere l’argilla impermeabile, le anfore internamente
potevano anche essere impeciate.
A Roma, durante l’operazione dell’immagazzinamento, il vino poteva
essere filtrato e riscaldato per evitare un’ulteriore fermentazione e questo
trattamento produceva l’effetto di sterilizzare il prodotto con una sorta di
pastorizzazione.
Nella penisola italica la produzione del vino avvenne in maniera intensiva
solo a partire dal III a.C. quando comparve in alcuni centri della
costa tirrenica la cosiddetta anfora greco-italica tarda, sostituita intorno
alla metà del II a.C. nella stessa fascia costiera da un nuovo tipo di contenitore,
la Dressel 1.
Quest’ultimo tipo di anfora fu adibita al trasporto dei vini italici di
maggior pregio della Campania, del Lazio meridionale e dell’Etruria (tra i
vini più famosi ricordiamo il Falernum di cui sono note diverse qualità
come il Cecubo, il Fundanum, il Faustianum, il Massicum, il Formianum,
il Tudernum, il Geminum e lo Helveolum) che divennero in breve tra i più
apprezzati ed esportati in tutte le regioni del Mediterraneo in una fase di
forte sviluppo economico delle aziende agricole locali a manodopera schiavistica.
Nel medesimo arco cronologico ma nel versante adriatico della penisola
si produceva un altro tipo di anfora vinaria, la Lamboglia 2, dal
nome dello studioso che per primo ne individuò la forma.
Intorno alla metà del I a.C. si verificò un cambiamento nel quadro
produttivo della penisola e l’anfora Dressel 1 fu sostituita dalla Dressel 2-
4, più facilmente trasportabile per mare in quanto più leggera e meno
voluminosa, che fu prodotta nelle officine dell’Italia centro-meridionale tirrenica
(Etruria, Lazio e Campania) fino alla prima età imperiale, epoca in
cui nei grandi centri di consumo della costa tirrenica la Dressel 2-4 fu
sostituita da anfore dell’Italia centrale interna e dell’Italia centro settentrionale
adriatica, che registrarono una continuità di produzione ancora per
qualche decennio (II secolo), avendo Roma come principale mercato di
riferimento 3 .
3 Panella, 1989, pp. 140-146.
11

Il vino contenuto nelle anfore dell’Italia centrale interna era di largo
consumo e a basso prezzo 4 e la sua diffusione si spiega probabilmente anche
con la crisi di una parte della viticoltura campana in seguito all’eruzione
del Vesuvio, oltre che come conseguenza dei bisogni crescenti della
capitale. Infatti il fabbisogno di vino, soprattutto a Roma, aumentò considerevolmente
in epoca imperiale quando le distribuzioni gratuite alla plebe
divennero una consuetudine e un aspetto importante della politica degli
imperatori, al punto che fu necessario anche ricorrere all’importazione
di vino spagnolo di media qualità e adatto al consumo quotidiano.
Infatti già dalla fine del I secolo d.C. si andarono affermando alcune
importanti produzioni provinciali come quelle spagnole e galliche, le quali
conobbero un rapido sviluppo e dopo la metà del III secolo invasero in
quantità consistenti i mercati mediterranei con la concomitante contrazione
dei prodotti italici.
Tra le anfore conservate nel Liceo Ginnasio Statale Vittorio Emanuele
II sono state individuate due anfore del tipo “Dressel 2-4” (cat. n. 1 e
2) per le quali, in base a quanto emerso dagli studi su questa classe di
contenitori da trasporto prodotti in Italia, è possibile, in mancanza di altri
dati contestuali, fissare un ambito cronologico di produzione e di diffusione
compreso tra la seconda metà del I a.C. e la fine del I d.C.
Un altro prodotto di largo consumo era l’olio, utilizzato nell’alimentazione,
nella cosmesi per la produzione di unguenti e profumi, nella medicina
per la fabbricazione di balsami e unguenti e anche nell’illuminazione
per il funzionamento delle lucerne. In Italia l’olivo veniva coltivato in
prevalenza nelle zone costiere della Magna Grecia ma famoso e apprezzato
era anche l’olio prodotto a Venafro 5 , nel territorio del Sannio. Le fonti
antiche descrivono diversi tipi di olio: quello di prima qualità, derivato
dalla prima spremitura delle olive, detto olei flos, l’olio della seconda spremitura,
di qualità inferiore, detto oleum sequens e quello risultante dalle
spremiture residue, vale a dire, l’oleum cibarium.
In età imperiale la Betica (Spagna meridionale) fu la regione più famosa
per la produzione di olio di ottima qualità, che provvide nei primi
tre secoli dell’impero al fabbisogno di diverse zone del Mediterraneo occidentale,
venendo esportato largamente soprattutto nella penisola italica fino
4 Le fonti letterarie raccolte da A. Tchernia (Tchernia, 1986, pp. 254-255) consentono
di indicare anche il nome del vitigno, vale a dire hirtiola o irtiola, pianta tipica
dell’Umbria, nota già a Columella e a Plinio.
5 Plinio (NH, XV, 8) indicava l’olio di Venafro come superiore per qualità e quantità
a quello prodotto nella regione spagnola della Betica.
12

al III d.C. 6 quando si cominciò a registrare un cambiamento di tendenza
con la diffusione nei mercati mediterranei di un altro tipo di olio, anch’esso
di notevole pregio, quello africano, in concomitanza con l’ascesa al trono
dell’imperatore Settimio Severo, originario di Leptis Magna nella Libia
attuale. Questi infatti favorì le grandi aziende produttrici africane, localizzate
nelle province corrispondenti alle attuali Tunisia e Libia, in quanto,
come è emerso dagli studi di numerosi bolli impressi sulle anfore olearie
africane, queste aziende agricole erano di proprietà dell’imperatore o di
personaggi legati alla sua famiglia.
Per quanto riguarda le anfore conservate nel Liceo Ginnasio Statale
Vittorio Emanuele II, sono state individuate, in base alla forma, due anfore
del tipo “Africana I” (cat. n. 4-5) e un’anfora del tipo “Africana II”
(cat. n. 6) che i numerosi studi, effettuati su questa classe di contenitori
da trasporto, consentono di inquadrare cronologicamente tra la seconda
metà del II d.C. e la fine del IV - inizi V d.C. con un ambito di diffusione
che investe le regioni del Mediterraneo occidentale e vaste zone dell’Europa
centrale ed orientale, un’anfora del tipo “Tripolitana I” (cat. n.
7), la cui produzione è documentata dagli inizi del I d.C. fino alla metà
del II d.C. e un’anfora del tipo “Tripolitana II” (cat. n. 8), attestata dalla
metà del I d.C. fino a tutto il IV d.C., entrambe a diffusione in prevalenza
regionale o al massimo limitata in Occidente alle coste tirreniche
dell’Italia da Luni a Pompei e in Oriente alla Cirenaica e a Petra, oltre ad
un’anfora del tipo “Anfore cilindriche di grandi dimensioni” (cat. n. 9),
la cui forma è attestata dalla metà del V alla metà del VII d.C., prevalentemente
nelle regioni del Mediterraneo occidentale.
Questi tipi di anfore trasportavano, come si è detto, soprattutto olio
o, nel caso dell’Africana I e II e della Tripolitana II, anche una salsa di
pesce (garum), di origine orientale – garon è infatti una parola greca usata
per indicare la specie di pesce utilizzata per la sua fabbricazione 7 mentre
in latino il prodotto era noto come liquamen - particolarmente apprezzata
dagli antichi Romani e ricavata dagli intestini e dalla coda di alcuni tipi
6 L’anfora impiegata per il trasporto dell’olio betico era quella classificata dal Dressel
con il numero 20, corrispondente al posto occupato nella sua tavola tipologica, e
presentava un caratteristico corpo globulare, basso collo con orlo ingrossato, grosse anse
a bastone e pareti spesse. La Dressel 20, che poteva contenere fino a 70 litri di prodotto,
fu sostituita nel corso del III secolo d.C. dalla Dressel 23, di minori dimensioni e
dal corpo piriforme piuttosto che globulare, ma ormai le esportazione iberiche di olio
erano state gradualmente sostituite sul mercato dalle produzioni olearie dell’Africa settentrionale.
7 Plinio (NH, XXXI, 93).
13

di pesce tra cui il tonno, lo sgombro e la murena da cui si estraevano le
qualità migliori (il garum excellens, il garum flos flos e il flos murae), indicate
in lettere dipinte sulle anfore insieme all’anno di produzione.
Le interiora venivano messe dentro una grande vasca o una cisterna
aperta, aggiungendo pesciolini e molto sale con funzione antisettica e venivano
lasciate macerare all’aria, rimescolandole spesso per formare una
crema e fatte fermentare al sole, fino ad ottenere, attraverso un lungo e
complesso procedimento, un liquido, il flos floris, la qualità extra, che veniva
filtrato e posto all’interno delle anfore per la conservazione e il trasporto.
Il residuo del filtraggio costituiva l’hallex o faex, raccolto e conservato
in anfore o vasa faecaria.
L’hallex si preparava anche con le acciughe ed era la salsa dei poveri,
di qualità inferiore e venduta a minor prezzo. Esisteva anche un garum
allungato con l’acqua (lumpa) ed un altro aromatizzato con le erbe.
Tra le anfore del Liceo Ginnasio Statale Vittorio Emanuele II l’anfora
orientale (cat. n. 10) è senz’altro di particolare interesse in quanto sul
collo, tra le due anse, reca un’iscrizione dipinta in rosso, su una sola riga,
in lettere greche (titulus pictus) (fig. 3), di difficile lettura e, al di sotto di
essa, un altro segno dipinto a carattere più grande sull’ingubbiatura. Restano
inoltre tracce di un secondo titulus pictus sulla spalla tra le due anse
ma lo stato lacunoso non ci permette di saperne di più riguardo la produzione
del recipiente e il suo contenuto.
Infatti iscrizioni impresse (bolli), dipinte (tituli picti) o graffite erano
frequenti sulle anfore e, a seconda dei casi, potevano fornire informazioni
utili riguardo la merce trasportata, la provenienza del prodotto, il nome
14
Figura 3. Particolare dell’anfora orientale (cat. n. 10)
con iscrizione dipinta in lettere greche.

del proprietario, del commerciante esportatore o di entrambi, del fabbricante
dell’anfora, le unità ponderali e a volte anche il nome dei magistrati
in carica nell’anno di produzione. I bolli, aventi forma diversa (generalmente
quadrata, rettangolare o rotonda), potevano venire impressi su diverse
parti del vaso, solitamente le anse, il collo e l’orlo prima della cottura
quando l’argilla era ancora morbida, mentre i tituli picti erano generalmente
dipinti sul collo e sul corpo dell’anfora.
Per quanto riguarda le modalità di trasporto delle anfore, occorre
innanzitutto premettere che nell’antichità la maggior parte delle spedizioni
commerciali avvenivano via mare, specialmente per le grandi distanze,
pur presentando i trasporti marittimi una periodicità irregolare con una
concentrazione massima nei mesi estivi e un’interruzione in quelli invernali
e nonostante le molte insidie del mare con il conseguente rischio di
naufragi, ampiamente documentati dai numerosi relitti, ritrovati in fondo
al mare lungo le coste mediterranee.
Il trasporto via terra, a trazione animale, era infatti molto lento e assai
costoso ed era pertanto più conveniente trasportare la merce con le navi
da un estremo all’altro dell’Impero romano, considerando che, se si fosse
invece utilizzato un carro pesante, trainato da buoi, per coprire ad esempio
la distanza di un centinaio di chilometri, esso avrebbe viaggiato all’andatura
media di appena tre km l’ora e la spesa sarebbe stata notevole.
Naturalmente nei trasporti marittimi una cura particolare doveva essere
rivolta alle modalità di carico, in modo da non compromettere in primo
luogo la stabilità dell’imbarcazione durante il viaggio per mare e da
assicurare anche un adeguato stivaggio delle merci, evitando la rottura dei
contenitori e al contempo garantendo l’utilizzo razionale dello spazio della
stiva, per trasportare la maggiore quantità possibile di prodotto.
In generale le anfore venivano impilate nella stiva delle navi, disponendole
su più livelli secondo uno schema a scacchiera che, sfruttando al
massimo lo spazio disponibile, le incastrava le une sulle altre nel modo più
razionale, mediante l’inserimento del puntale delle anfore dello strato superiore
fra tre o quattro colli di anfore dello strato sottostante mentre
quelle del primo livello erano fissate in uno strato di sabbia o di ghiaia
(fig. 4).
Lo spazio che si veniva a formare tra i vasi era colmato con l’inserimento
di paglia, giunchi o ramaglie che ammortizzavano eventuali urti e
contribuivano al fissaggio del carico.
Le navi trasportavano in ogni viaggio anche della zavorra che serviva
a dare stabilità, ad equilibrarle e a mantenere meglio la rotta. La zavorra
15

era solitamente costituita da pietre, ghiaia o sabbia, poste sul fondo dell’imbarcazione,
ma si potevano utilizzare in aggiunta anche altri tipi di
materiali, come nel caso delle macine del relitto di Kyrinia, rinvenute nel
fondo della stiva spaiate e quindi non destinate alla commercializzazione,
in quanto probabilmente utilizzate come zavorra supplementare. Quando
la nave al termine del suo viaggio veniva svuotata delle merci che trasportava,
si aggiungeva una quantità di zavorra tale da compensare l’assenza del
carico o di gran parte di esso, anche se per motivi economici l’armatore
faceva generalmente in modo che la nave trasportasse mercanzie anche nel
viaggio di ritorno.
16
Figura 4. Schema ricostruttivo della disposizione su vari livelli delle anfore
appartenenti al carico di una nave oneraria.

ANFORE ITALICHE
Catalogo - Schede
1. Anfora vinaria Dressel 2-4.
Produzione locale-regionale.
Seconda metà I a.C. / fine I
d.C.
2. Anfora vinaria Dressel 2-4.
Produzione locale-regionale.
Seconda metà I a.C. / fine I
d.C.
3. Anfora vinaria di forma globulare
cd. “della Baia di Napoli”.
Probabile produzione campana.
VI-VIII d.C.
17

ANFORE AFRICANE
18
4-5. Anfora olearia o da garum
Africana I “piccola”.
Produzione africana. Metà II /
fine IV - inizi V d.C.
6. Anfora olearia o da garum
Africana II “grande”.
Produzione africana. Fine II /
inizi V d.C.
7. Anfora olearia “Tripolitana I”.
Produzione nord-africana.
Inizi I d.C. / metà II d.C.
8. Anfora olearia o da garum
“Tripolitana II” (Keay IX).
Produzione nord-africana.
Metà I d.C. / III-IV d.C.

ANFORE ORIENTALI
9. Anfora olearia “Anfore cilindriche
di grandi dimensioni”
(Keay LVII.B).
Produzione nord-africana.
Metà V / metà VII d.C.
10. Anfora “Ellenistica I”. Contenuto
non identificato
(vino, olio, datteri, frutta).
Sul collo, tra le due anse,
iscrizione dipinta in rosso, su
una sola riga, in lettere greche
(titulus pictus) e, al di
sotto di essa, un altro segno
dipinto a carattere più grande
sull’ingubbiatura. Tracce
di un secondo titulus pictus
sulla spalla tra le due anse.
Produzione orientale. III a.C. /
fine età augustea.
19

20
Bibliografia 8
Arthur 1982
P. Arthur, Roman amphorae and the Ager Falernus under the Empire, in Papers of
the British School at Rome, 50, 1982, pp. 22-33.
Arthur 1984
P. Arthur, Rapporto preliminare sullo scavo a S. Patrizia, Napoli, in Archeologia
Medievale, 11, 1984, pp. 315-320.
Arthur 1993
P. Arthur, Early Medieval Amphorae, the Duchy of Naples and the food supply of
Rome, in Papers of the British School at Rome, 61, 1993, pp. 231-244.
Arthur 1994
P. Arthur (a cura di), Il Complesso Archeologico di Carminiello ai Mannesi, Napoli
(scavi 1983-1984), Galatina, 1984.
Arthur 1998
P. Arthur, Local pottery in Naples and Northern Campania in the sixth and seventh
centuries, in Ceramica in Italia: VI-VII secolo, Lucia Seguì (a cura di), Atti
del Convegno in onore di Y. W. Hayes (Roma, 11-13 maggio 1995), Firenze,
1998, pp. 491-510.
Beltrán Lloris 1970
M. Beltrán Lloris, Las ánforas romanas en España, Zaragoza, 1970.
Benoit 1952
F. Benoit, L’Archeologie sousmarine en Provence, in Rivista di Studi Liguri, 18,
1952, pp. 237-307.
8 La Bibliografia sulle anfore è abbondante e a volte dispersiva a causa della complessità
della materia e della diversità degli aspetti in essa compresi, per cui ci si limita
a fornire una selezione dei principali riferimenti bibliografici.

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«Grafica Bodoni» - Napoli
ottobre 2010