A metà strada...
Sono passati sei mesi dall’inizio dell’anno sacerdotale voluto dal papa Benedetto XVI.
A metà strada, quindi, di questo kairós; all’incontro di una festività di eccezionali risonanze
sacerdotali: il Natale. Certo, non il Natale dei grandi magazzini, né il Natale asettico,
imposto dal criterio del “politicamente corretto”, ormai consacrato anche in ambito
religioso. Piuttosto, il Natale del “mistero”, così vigorosamente presentato dalla liturgia e
da un suo grandissimo esegeta, san Leone Magno, che ha lasciato nei suoi sermoni natalizi,
appunto, una lettura interpretativa di quello stesso “mistero”, difficilmente superabile.
Non è certo questo il luogo per estendersi in suggestive citazioni tratte dell’opera di
san Leone – peraltro di vastissima risonanza – ma solo ricordare, succintamente, alcuni
punti della sua comprensione del mistero natalizio per intuire – nel senso più
squisitamente etimologico del termine – quanta ricchezza offre per nutrire una robusta
spiritualità sacerdotale.
Se è vero che un cristiano non vive solo di dottrine, né di valori concettuali, a maggior
ragione un consacrato, che non lascia casa, padre, madre, figli e moglie per un pugno
di idee, anche se sublimi. Se così fosse, ciò significherebbe pagare un prezzo
eccessivamente esoso per professare quelle verità. Un consacrato vive di
un’esperienza fondamentale che dà colore alla sua vita in maniera originale e
differente. E questa esperienza è l’incontro esistenziale con Cristo, l’«admirabile
commercium” della liturgia natalizia – espressione usata anche da Giovanni Paolo II in
“Dono e mistero” per definire la vocazione sacerdotale –, sempre personale e allo
stesso tempo ecclesiale, un’esperienza di fede, un’esperienza di amore.
Ma, in che consiste questo incontro con il Cristo vivo? L’incontro è più che un
momento, sebbene possa essere tale. È piuttosto un’esperienza profonda che si dilata
nel tempo e si sviluppa in diverse maniere, fintanto che si verifichi l’anelato “faccia a
faccia”, quando Cristo sarà “tutto in tutti”. Per caratterizzarlo in qualche modo,
possiamo dire – interpretando il pensiero di san Leone Magno – che si tratta di
un’esperienza mistica, che tocca il nucleo più profondo del cuore umano:
un’esperienza teologica, che supera le categorie della pietà e della devozione. È un
incontro sacramentale che manifesta e rivela l’esperienza simultanea dell’Incarnazione
e della Pasqua di Cristo. Un’esperienza etica che, prima che nei valori, si basa
sull’imitazione, il discepolato e la sequela di Cristo. Un’esperienza che si proietta nella
compassione verso i sofferenti della storia e nella comunione con tutti gli uomini
considerati come fratelli, fino ad arrivare a vivere con «gli stessi sentimenti di Gesù»
(Fil 2, 5). In ultimo, si tratta di un’esperienza che si proietta nella missione: non si può
tacere ciò che «abbiamo visto, toccato e udito rispetto al Verbo della Vita» (1 Gn 1,1).
In poche parole, è una vera teologia e spiritualità sacerdotale, attuale e stimolante,
quella che ci regala la liturgia natalizia, letta e compresa alla luce di una potente
personalità di pastore e maestro di pastori.
BIBBIA
A PARTIRE DALLA NUOVA
TRADUZIONE DELLA BIBBIA DELLA CEI
I lettori dell’Eco conoscono ormai da tempo la nuova traduzione della Bibbia, curata dalla
Conferenza Episcopale Italiana (CEI) e pubblicata nel 2008 in una coedizione dell’Unione
Editori e Librai Cattolici Italiani (UELCI), che coinvolge 30 case editrici.
S
i tratta della traduzione italiana
dai testi biblici nelle
lingue originali secondo le
loro edizioni critiche attualmente in
uso. La nuova traduzione è stata già
introdotta per le letture della liturgia
e progressivamente sostituirà la precedente
traduzione della CEI in tutta
la vita liturgica come negli altri vari
ambiti della vita ecclesiale. L’esperienza
ne metterà in luce pregi e difetti,
come è accaduto per la precedente
traduzione italiana e come è
sempre avvenuto nella storia delle
Chiese cristiane; ma non è su questo
punto che intendo soffermarmi.
Il fatto, che sia una traduzione e
che si possa presentare in un unico
volume non troppo ingombrante, ha
limitato al massimo il ricorso a introduzioni
ai libri biblici e alle note. Ma
anche così, le nuove introduzioni e
le nuove note sono spesso alquanto
diverse da quelle delle edizioni precedenti.
È già uscita qualche edizione
della Bibbia con la nuova traduzione,
corredata da introduzioni e
note desunte o variamente ritoccate
da precedenti edizioni; tuttavia, anche
in questo caso, occorrerà del
tempo prima di poter avere qualcosa
di realmente aggiornato secondo il
progresso degli studi biblici.
In questa prospettiva si colloca un
progetto editoriale della casa editrice
San Paolo per una collana dal titolo
Comprendere la Bibbia – strumenti
di base. Con essa si intende offrire
una serie di volumetti agili, che accompagneranno
in prima battuta la
traduzione della CEI e, tra non molto,
La Bibbia Via, Verità e Vita delle
edizioni San Paolo. Con questo progetto
editoriale si pensa a testi accessibili
a un pubblico ampio, anche
“laico”, scritti però da persone competenti
nel proprio ambito di ricerca,
così da fornire le coordinate necessarie
per un informato e corretto approccio
al testo biblico.
Fino ad ora, di questo progetto era
già uscito un volumetto sui Salmi:
F. Serafini, Come e perché cambiano
i Salmi. Le principali modifiche della
nuova traduzione italiana, San Paolo,
Cinisello Balsamo (Mi) 2009.
Sono stato abbastanza impegnato
durante l’anno paolino: settembre
2008 negli USA allo Shrine per i
confratelli barnabiti; dicembre 2008
ad Addis Abeba e ad Adigrat in Etiopia
per l’Università Urbaniana; aprile
2009 a Damasco in Siria; maggio
2009 a Roma all’Urbaniana. Tuttavia,
prima per posta elettronica e poi
per un incontro diretto alla biblioteca
del Pontificio Istituto Biblico sono
stato contattato da un membro del
comitato di redazione della sopra citata
collana della San Paolo per scrivere
un contributo. L’idea era però
piuttosto nuova: si trattava di presentare
le antiche versioni della Bibbia,
dell’Antico e Nuovo Testamento, e le
traduzioni della Bibbia in italiano
come interpretazioni del testo biblico.
Ordinariamente le antiche versioni
della Bibbia in aramaico, greco, latino
e siriaco, per citare solo le principali,
sono utilizzate per la discussione
dei punti controversi del testo
biblico nelle sue lingue originarie:
ebraico, aramaico e greco per l’Antico
Testamento; greco per il Nuovo
Testamento. Anche le traduzioni in
lingua italiana ordinariamente sono
prese in considerazione per la loro
maggiore minore fedeltà rispetto ai
testi biblici nelle loro lingue originarie.
Con la proposta della casa editrice
San Paolo mi veniva offerto di trattare
ciò, su cui da quasi 15 anni sono
impegnato: mettere in luce come le
antiche versioni della Bibbia non
siano solo traduzioni da testi originali
in lingue diverse, ma sono an-
2
Eco dei Barnabiti 4/2009
BIBBIA
che vere e proprie interpretazioni,
esegesi in atto del testo biblico nell’ambito
delle tradizioni giudaiche e
cristiane alle quali appartengono.
Gli antichi traduttori, anche quando
s’impegnano a tradurre il più esattamente
possibile, non possono e non
vogliono evitare di introdurre quanto
la viva e autorevole tradizione orale
del giudaismo o del cristianesimo
era andata comprendendo ed elaborando
sul significato e sulla comprensione
del testo biblico. Lo stesso
fenomeno è stato inevitabile anche
nelle traduzioni della Bibbia in lingua
italiana: dall’epoca rinascimentale
fino all’ultima traduzione curata
dalla CEI.
Avevo già studiato la questione attraverso
il confronto dei libri dei Profeti
Minori dell’Antico Testamento
secondo il testo ebraico, la versione
greca e la parafarsi aramaica (1992-
2001); avevo già scritto alcuni saggi
sulla versione siriaca della Peshitta
dell’Antico Testamento (2004; 2008)
e avevo studiato le edizioni della
Bibbia, antiche e moderne, presenti
nella biblioteca dell’Urbaniana (2006).
La proposta della casa editrice San
Paolo mi era decisamente congeniale
e in poco tempo feci una prima
stesura del contributo, che naturalmente
risultò troppo ampia, ma la
casa editrice mi propose subito di
farne due volumetti distinti: uno per
le versioni antiche della Bibbia e uno
per le traduzioni italiane.
Il primo è uscito in ottobre: Le antiche
versioni della Bibbia. Traduzioni,
tradizioni e interpretazioni, San
Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2009.
Come già brevemente accennato, il
titolo prevede che siano messi in
luce alcuni fenomeni principali e i
principi generali, dai quali si spiega
come nelle antiche versioni della
Bibbia, fatte da ebrei e da cristiani,
compaiano anche tradizioni e interpretazioni
che provengono dalle rispettive
autorevoli tradizioni orali,
così che le versioni sono traduzioni
ma anche nuove interpretazioni rispetto
ai testi originali, segno in non
pochi casi di un vero e proprio progresso
della rivelazione biblica, nel
giudaismo come nel cristianesimo.
In questa prospettiva, nell’antica
versione greca del testo ebraico della
Bibbia, nota già nel giudaismo
come la Settanta (secondo la leggenda
dei 72 traduttori) e poi passata
nella tradizione cristiana, nelle
antiche parafrasi sinagogali del testo
biblico in lingua aramaica (i Targum),
nella versione siriaca della
Peshitta dell’Antico Testamento e
nelle antiche versioni cristiane del
testo biblico dal greco (la Vetus Latina)
e dall’ebraico (la Vulgata di S.
Girolamo), il materiale presente è
praticamente sterminato. La difficoltà
è stata quella di esemplificare
in modo significativo e sintetico.
L’attesa del messia diventa vivacissima
sia nella Settanta come nei Targum
giudaici; le riletture cristiane
dell’Antico Testamento sono esplicitate
nel Nuovo Testamento e vengono
applicate nella Vetus Latina e
nella Vulgata; la stessa traduzione
della Peshitta può avere un senso
specifico se letta in ambito giudaico
e un altro se letta con occhi cristiani.
Attualizzazione del testo biblico,
inculturazione della fede, ampliamenti
esplicativi e trasposizioni stilistiche
oltre che linguistiche trovano
larghissima ospitalità in queste antiche
versioni, dove la tradizione, nel
senso forte e alto della parola, irrompe
nella traduzione. Nelle Chiese
cristiane antiche le Scritture erano
lette e pregate in larghissima prevalenza
attraverso queste versioni.
Gli antichi traduttori ebrei e cristiani
erano certi che la tradizione ripresa
come interpretazione del testo biblico
fosse già presente nella parola
inesauribile della Sacra Scrittura; solo
la tradizione giudaica ci tenne a
precisare che i Targum non avrebbero
mai dovuto sostituire il testo ebraico
nella liturgia.
In epoca più recente, dal XV secolo
in poi, anche nelle tradizioni cristiane
si fece chiara la distinzione tra
traduzione e interpretazione, ma non
è stato mai possibile separarle definitivamente
quando si è voluto tradurre
nuovamente la Bibbia dai testi originali
in una delle lingue moderne.
Come e perché questo sia avvenuto
e avvenga ancora nelle più recenti
traduzioni italiane, in ambito giudaico
e cristiano, i lettori dell’Eco lo
potranno trovare nel mio prossimo
volumetto sulle traduzioni italiane,
già in stampa e che uscirà dopo le
vacanze di Natale.
Giovanni Rizzi
RICORRENZE 2009
50° Sacerdozio
p. Giuseppe Bassotti (9.XII)
p. Nicola Calvano (9.XII)
p. Costantino Frisia (9.XII)
p. Giuseppe Griffa (9.XII)
p. Giuseppe Montesano (9.XII)
p. Luigi Peraboni (9.XII)
50° Professione
p. Severo Ferrari (8.XII)
A tutti i migliori auguri
e una preghiera di ringraziamento
al Signore
Eco dei Barnabiti 4/2009 3
VOCABOLARIO ECCLESIALE
Vocabolario ecclesiale a cura di Franco Monti
CULTURA – “Con il termine generico di «cultura»
si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali
l’uomo affina e sviluppa le molteplici capacità della
sua anima e del suo corpo; procura di ridurre in
suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il
lavoro; rende più umana la vita sociale, sia nella
famiglia che in tutta la società civile, mediante il
progresso del costume e delle istituzioni; infine,
con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva
nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni
spirituali, affinché possano servire al progresso
di molti, anzi di tutto il genere umano”. Così il
Concilio nella costituzione pastorale Gaudium et
spes al n° 53.
Parole ben soppesate. Questa sorta di definizione
aiuta a sgomberare anche nel cuore dell’uomo semplice
l’idea di trovarsi di fronte, in fatto di cultura,
… al dottorone, intelligenza sopra la media, un sudato
titolo di studio alle spalle e una carriera invidiabile,
che rende. Per lui “dottore” si spreca, “signore”
non basta.
Peraltro l’uomo semplice ha spesso a che fare col
lavoro della terra che, guarda caso, proprio con la
coltura ha a che fare. Coltura e cultura sono parole
cugine, anzi, forse sorelle: discendono dal verbo
latino còlere, coltivare. Anche la più tenera mammina,
insieme col suo uomo, fa coltivazione; forse
anche di peperoni nel suo fazzoletto di terra, ma
soprattutto di bimbi, se il Signore gliene regala. E
sono una benedizione, per la famiglia umana: il
tasso di umanità, di cultura nel mondo ne beneficia.
Anche al bifolco analfabeta è dato di coltivare
la sapienza del cuore. Dietro atavici analfabetismi
non di rado si celano talenti, spunta saggezza,
esplodono risorse.
Torniamo alla definizione di cui sopra. Cultura ha
a che fare con l’uomo e col suo impegno ad essere
pienamente se stesso e, trovandosi immerso nella
società, per contribuire a che ogni suo simile concerti
con lui e si venga gradatamente a capo di tutta
la creazione, come da “manuale” (leggi: libro della
Genesi): Dio disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra e soggiogatela … (sul ‘soggiogare’
siamo andati a nozze, fin troppo, fino a intossicarci
nella frenesia di sfruttarla).
Perché, mi domando, il buon Dio, creatore e Signore
di tutte le cose, onnisciente da penetrare i segreti
dei cuori, di tutti e di ciascuno, – e sa quanto
di sconveniente vi si possa annidare! – si è fidato
dei suoi piccoli al punto di affidar loro la creazione
senza storcere il naso? Li ha dotati – ciliegina sulla
torta – di libertà e si guarda bene dallo smontare il
suo giocattolino anche se questi dovesse imperversare
sul prossimo. La resa dei conti, semmai, nella
valle di Giosafat.
Continua il documento del Vaticano II a suffragare
quanto detto: È proprio della persona umana il non
poter raggiungere un livello di vita veramente e pienamente
umano se non mediante la cultura, coltivando
cioè i beni e i valori della natura. Non male
e in qualche modo sorprendente questa definizione
di cultura. Ci si sarebbe aspettati un «se non mediante
la cultura, promuovendo cioè le cattedre
universitarie …» o chesso io. Si consoli – mi vien
da dire – l’uomo qualunque, l’uomo che governa la
sua mandria, la mamma assediata da una tribù di figli
che le rubano e tempo e cuore, il travet, l’impiegatuccio
condannato a un lavoro ripetitivo finché
morte – pardon – finché pensione non lo sollevi …
Se lavorano per l’uomo, anche negli impieghi più
umili, laurea-esenti, fanno cultura, ci mettono del
loro in un concerto di valori umani.
E l’umanità cresce, non solo in cifre; anche in
saggezza. Se il figlio talentuoso si sta facendo strada
nella società, a dargli man forte c’è alle spalle un
papà esperto in rassicuranti strizzatine d’occhio e
pacche sulle spalle, una madre che se lo mangia
con gli occhi come quando gli uscì dal grembo,
una tifoseria di fratelli e sorelle degna di un oro
olimpico. Se il mondo va avanti nonostante le brutture
che i mezzi di comunicazione sociale denunciano
con reiterata assordante pignoleria che rasenta
un sotterraneo non voluto favoreggiamento, è
perché … il bene non fa notizia (o il giornalista non
ci sa fare).
«Perciò, ogniqualvolta si tratta della vita umana,
natura e cultura sono quanto mai strettamente
connesse». Che non si debba leggere, in filigrana,
e con linguaggio sotto sotto ecclesiale, qualcosa
che assomigli a “comunione”? Non si arriva a trovar
la chiave del big bang (ier l’altro è bastata
un’innocua briciola di pane per spegnere il mostro
ingegneristico di Ginevra), ma qui si ha a che fare
con qualcosa che del creato ne è il tessuto spirituale
sul quale è stata adagiata la materia dei primordi
e che dà senso a quel pullulare di creature
fatte a immagine e somiglianza dell’Increato, fatte
per amare.
4
Eco dei Barnabiti 4/2009
VITA CONSACRATA
FRONTIERA
Tra le funzioni caratteristiche della vita religiosa molti le assegnano la caratteristica missione di
arrivare dove la Chiesa nelle sue strutture territoriali o nella sua pastorale «normale» non
arriva. Non si da con questo nessun giudizio sommario sulla realtà della Chiesa o sulla sua
fedeltà. È solo una costatazione che esistono persone, circostanze o categorie che rimangono
impermeabili al ritmo normale di impegno e diffusione della Chiesa.
C
hi ha capacità maggiore di
duttilità e interesse vero che
nessuno resti fuori dal dialogo
salvatore sono i religiosi, per la
freschezza della loro adesione al
Vangelo e per il fervore missionario
autentico.
Dal punto di vista della riflessione
così lo segnala Metz: «Le congregazioni
rivestono una funzione innovatrice
nei confronti della Chiesa; hanno
la funzione di ‘modelli produttivi’
per la prassi e la vita della grande
chiesa in nuove situazioni socio-economiche
e spiritual-culturali. Non di
rado esse sono nate come movimenti
‘di frontiera’, hanno avuto origine là
dove hanno incominciato, prima che
altrove, a farsi sentire e ad imporsi i
mutamenti sociali... Le congregazioni
sono, quanto meno, dei «correttivi»;
sono, per chiarire subito il nostro
pensiero, una specie di terapia d’urto
dello Spirito Santo per la grande
chiesa: contro i pericolosi accomodamenti
e i discutibili compromessi,
cui la grande istituzione della Chiesa
puo essere sempre incline: esse rivendicano
l’assenza di compromessi
propria dell’evangelo e della ‘sequela’.
In questo senso ‘esse sono la forma
istituzionalizzata di una memoria
sovversiva nel cuore della Chiesa’. In
fondo, per lo più, esse non sono sorte
nei periodi di fioritura della Chiesa,
ma in quelli di profondo disorientamento
e di insicurezza» (Johann
Baptist METZ, Tempo di religiosi,
Queriniana, Brescia 1977).
Lo sottolinea nei documenti ufficiali
Paolo VI: «Grazie alla loro
consacrazione religiosa, essi sono
per eccellenza volontari e liberi per
lasciare tutto e per andare ad annunziare
il Vangelo fino ai confini
del mondo. Essi sono intraprendenti
e il loro apostolato è spesso contrassegnato
da una originalità, una genialità,
che costringono all’ammirazione.
Sono generosi: li si trova
spesso agli avamposti della missione,
ed assumono i più grandi rischi
per la loro salute e per la loro stessa
vita. Sì, veramente, la Chiesa deve
molto a loro» (Paolo VI, Evangelii
nuntiandi, 69). «Dio ha voluto affidarci
una parola sua, una parola
che si è fatta carisma. La vita consacrata
è chiamata a essere ‘esegesi’
vivente della Parola di Dio (cf. Benedetto
XVI, 2 febbraio 2008), è essa
stessa una parola con cui Dio
continua a parlare alla Chiesa e al
mondo». In questo senso, alla conclusione
del Sinodo si ringraziavano
«le persone consacrate della loro testimonianza
del Vangelo e della loro
disponibilità a proclamarlo nelle
frontiere geografiche e culturali della
missione mediante i loro servizi
carismatici» (Omelia di Mons. Jesús
Sanz Montes nella Assemblea di
Confer 2008).
dal centro... alla periferia
Chi sono oggi quelli che rappresentano
la frontiera, o che sfida la
Eco dei Barnabiti 4/2009 5
VITA CONSACRATA
Chiesa a riceve dai renitenti e impegna
i religiosi a gettare un ponte?
Anzitutto c’è quell’immenso ambito
che si chiama la nuova povertà.
Termine così generico che comprende
tutto quello che scomoda e angustia
la società contemporanea dal
punto di vista materiale, ma anche
culturale; dal punto di vista personale,
ma anche sociale; dal punto di vista
intellettuale, ma anche emotivo
... vale a dire oves et boves. Ma per
la sua genericità non è meno vera
questa sfida ai portatori di buona notizia.
Ha bisogno di buona notizia
precisamente chi vive alieno da essa.
Obbliga la Chiesa e i religiosi a riscoprire
assiomi antichi come: «Homo
sum: nihil humani a me alienum
puto» di Terenzio e che, per esempio,
Unamuno pone all’inizio del
suo Sentimiento trágico de la vida e
che rappresenta una costante nella
storia degli ordini religiosi provocati
dalla malattia, dalla prigionia, dai
pestilenti, dagli orfani, dai «mostri»,
dai ricchi ... .
Oggi i nuovi poveri sono legione;
alcuni lo sanno e altri no e sono (o
siamo) ancora più poveri.
E l’altro assioma, che si redime solo
quel che si assume: «La Redenzione
comincia con l’Incarnazione, mediante
la quale il Figlio di Dio assume,
eccetto il peccato, tutto dell’uomo,
secondo le solidarietà istituite
dalla Sapienza divina creatrice, e tutto
coinvolge nel Suo dono d’Amore
redentore. Da questo Amore l’uomo
è raggiunto nell’interezza del suo essere:
essere corporeo e spirituale, in
relazione solidale con gli altri. Tutto
l’uomo – non un’anima separata o
un essere chiuso nella sua individualità,
ma la persona e la società delle
persone – è implicato nell’economia
salvifica del Vangelo» (Pontificio
Consiglio della Giustizia e della Pace,
Compendio della dottrina sociale
della Chiesa, 65).
fra tanti, alcuni esempi
Una lunga e luminosa esperienza
permette ai religiosi di credere nel
proficuo contagio della consolazione.
Ci sono regioni dell’umanità e regioni
dell’uomo che richiedono questa
presenza discreta, senza la quale
resterebbero macchie oscure in troppe
zone e in troppi ambiti. Padre Damiano
ci ricorda che la lebbra guarisce
anche se ammazza; Padre Hurtado
ci mostra che i conflitti sociali
hanno urgente bisogno di Vangelo;
De Foucauld redime la forza del silenzioso
stare a fianco... Son solo
esempi di presenza in frontiera: non
danno normalmente risultati clamorosi,
ma testimonianze limpide.
Altra categoria di persone che richiede
questo tipo di presenza sono
gli amanti delle scorciatoie. Chi vede
nell’esperienza religiosa solo un linimento
per circostanze limitate e speciali
ma senza ripercussione nella vita
intera e vera. Il religioso con il suo
impegno a tempo completo, con la
sua fedeltà a tutta prova, con la sua
donazione senza riserve è la luce di
cui ha bisogno chi deve uscire da un
atteggiamento religioso strumentale.
Senza arroganza il religioso vive e
propone una donazione senza riserve
e la sua presenza a fianco di chi
strumentalizza la scelta religiosa può
aiutare a superare la frivolezza e volubilità
proprie di troppi approcci religiosi.
E fanno parte della sua convinzione
alcuni paradossi che sono
propri della sua preghiera permanente.
Il primo è quella osservazione
provocante che proviene dall’infinito
salmo della legge: «Prima di essere
afflitto, andavo errando, ma ora
osservo la tua parola. ... È stata un
bene per me l’afflizione subìta, perché
imparassi i tuoi statuti» (Sal
119[118],67.71). L’autosoddisfazione
non è una buona pedagoga nella
vita e neppure nella fede: la prova
dura è buona maestra. Assieme
a quella lezione sediziosa appare
l’altra, relativa alla maledizione
della prosperità: «Liberami, con la
tua mano, dagli uomini, o SIGNO-
RE, dagli uomini del mondo, il cui
compenso è solo in questa vita, e il
cui ventre tu riempi con i tuoi beni;
di questi si saziano i loro figli, e lasciano
il resto dei loro averi ai loro
bambini» con cui sintomaticamente
il Salmo 17,14 stigmatizza chi
pone tutta la sua speranza in questa
vita e in quello che può dare.
«Se il servizio autentico di Dio, secondo
Gesù, consiste nell’annuncio
del regno escatologico, la ricchezza
si rivela un bene ambiguo
per il fatto che non scavalca l’orizzonte
terrestre. Pertanto non si può
servire a Dio e alla ricchezza perché
la ricchezza è un bene che
chiude l’uomo di fatto nei confini
dell’eone presente, mentre Dio in
Cristo prospetta l’imminenza di un
altro eone» (Pagano, La vita religiosa,
Roma 1972, IV, 11).
l’obiettivo: “essere regno”
Il religioso concretamente fa una
scelta cosciente per Cristo e per il
suo Regno: «È lui, dunque, il ‘regno’
predetto dai profeti. Chi accoglie
Gesù corona tutte le sue speranze,
raggiunge la pienezza della vita, diventa
egli stesso regno di Dio e vive
6
Eco dei Barnabiti 4/2009
VITA CONSACRATA
con Lui la vita eterna. In Lui l’amore
di Dio, l’Amore che è Dio, ci viene
donato e offerto; nell’accoglienza e
nella comunione con Lui raggiungiamo
la vita piena e partecipiamo
la gioia senza fine. Anche oggi questa
suprema rivelazione non viene
accolta. L’uomo pone la sua speranza
nei beni di questo mondo, nei
progressi della scienza e nell’evoluzione
automatica della umanità. Si
tratta, però, di ‘piccole speranze’
che, certamente, ognuno può coltivare
perché lo incoraggiano nei suo
impegno e lo aiutano a procedere
nel cammino, ma non possono costituire
la ‘grande speranza’, quella
che risponde al bisogno di vita perenne
e di amore indistruttibile. Chi
vuol vivere per sempre non può essere
soddisfatto da ciò che è destinato
a morire. Eppure gli uomini
continuano a porre la loro speranza
nell’ampliamento dei propri orizzonti
e nel prolungamento delle
proprie aspettative terrene. Il salto
di qualità che caratterizza la speranza
cristiana, che consiste nel passaggio
dall’incontro e dal possesso
dei beni terreni all’incontro e al
possesso di Dio, molto spesso non
viene recepito: gli stessi credenti
continuano a confondere, non di rado,
il regno di Davide (beni terreni)
con il regno di Dio (comunione con
Dio)» (Card. Franc Rodé, Omelia
nella Giornata della Vita consacrata,
2 febbraio 2008). Paolo ricordava
che il tempo della ‘prosperità’
può essere il più pericoloso, propizio
all’indolente negligenza (cfr.
1Tes. 5,3).
le difficoltà dell’“incarnazione”
Nel limite si trovano oggi anche
molti scoraggiati. Sono troppi quelli
che hanno chiuso bottega e vanno
incontro alla vita senza attesa alcuna.
Les jeux sont faits, credono in
troppi, e il religioso dice a chi ha
chiuso il conto che molto ancora c’è
da vedere. «Il periodo di difficoltà
che sta attraversando la vita consacrata
non ci può far dimenticare
che, dopo Gesù, l’incomprensione,
la debolezza, l’emarginazione e la
morte stessa, diventano luoghi in cui
fermenta la vita. Sono questi i momenti
in cui siamo chiamati a rendere
più trasparenti gli atteggiamenti,
che costituiscono le strutture portanti
della sequela evangelica: la fiducia
in Dio e il dono di sé. È nella
prova che siamo chiamati a rendere
più evidente la scelta radicale che
abbiamo fatto. Già Giovanni Paolo II
aveva ricordato ‘che a ciascuno è richiesto
non tanto il successo, quanto
l’impegno della fedeltà... La sconfitta
della vita consacrata non sta nel declino
numerico, ma nel venir meno
dell’adesione spirituale al Signore e
alla propria vocazione e missione’»
(VC 63). Per il resto sappiamo che
«la Chiesa non può assolutamente
rinunciare alla vita consacrata» (VC
105) e al suo «insostituibile contributo
alla trasfigurazione del mondo»
(VC 110), perché, come diceva Paolo
VI, è la missione stessa della
Chiesa che verrebbe ad essere compromessa
(ET 3). Già santa Teresa,
edotta dallo stesso Signore e pur
prendendo atto che gli Istituti non
erano affatto fiorenti, aveva scritto:
«Che sarebbe del mondo se non vi
fossero i religiosi?» (Vita 32, 11). Benedetto
XVI, riportando un pensiero
di San Bernardo e di un antico scrittore
ecclesiastico sulla responsabilità
dei monaci per l’intero organismo
della Chiesa, afferma: «Il genere
umano vive grazie a pochi; se non ci
fossero quelli il mondo perirebbe»
(SS 15). Il Concilio, a sua volta, ha
solennemente affermato che la vita
consacrata «appartiene indiscutibilmente
alla vita e alla santità della
Chiesa» (LG 44). Questo significa,
aggiunge Giovanni Paolo II, che essa
«non potrà mai mancare alla Chiesa
come un suo elemento irrinunciabile
e qualificante» (VC 29). Per questo
la vocazione alla vita consacrata...
nonostante le sue rinunce e le sue
prove, ed anzi in forza di esse, è
cammino «di luce», sul quale veglia
lo sguardo del Redentore: «Alzatevi
e non temete» (VC 40) (Card. Franc
Rodé, cit.). Basterebbe rifornire il
mondo di quella quantità necessaria
di fede nelle cose quotidiane che gli
danno nuovo orizzonte. La fedeltà e
luminosità del religioso anche in
questo caso non è stridente, ma ricorda
semplicemente ai suoi contemporanei
le cose accantonate o
dimenticate la cui assenza rende
strana la vita. Forse una cosa così:
«Io potrei magari fabbricare figure
che abbiano cuore, coscienza, passioni,
sentimenti, moralità. Ma nessuno
al mondo ne vuol sapere.
Quello che vogliono: a questo mondo
sono soltanto le curiosità, i mostri.
Ecco quello che vogliono, i mostri!»
(ROTH, Joseph, La milleduesima
notte, in Opere 1931-1939,
Bompiani Milano 1991, p. 1284).
Bene: il religioso rifiuta da rimpolpare
la produzione di mostri e fabbrica
quelle figure o quelle realtà che il
mondo sembra non volere, ma di
cui ha un bisogno ineludibile e che
inoltre nessun altro gli darà.
Sono, al limite, riduttori di qualunque
segno, anche quelli che dimenticano
sistematicamente che «Queste
Eco dei Barnabiti 4/2009 7
VITA CONSACRATA
un gruppo di persone che pregano
insieme, ma anche parlano insieme;
che ridono in comune e scambiano
favori; scherzano insieme e insieme
sono seri; a volte hanno divergenze,
ma senza animosità, per rinforzare
l’accordo abituale. Imparano uno
dall’altro o insegnano gli uni agli
altri. Rimpiangono penosamente gli
assenti. Accolgono con allegria chi
arriva. Inventano manifestazioni del
cuore per quelli che si amano,
espresse nel volto, nella lingua, negli
occhi, in mille gesti di tenerezza. E
cucinano insieme gli alimenti della
casa, dove le anime si articolano in
unità e dove gli eterogenei, in definitiva,
arrivano a essere uno».
Giulio Pireddu
sono le cose che bisognava fare, senza
tralasciare le altre» (Mt 23.23; Lc
11,42). Per questo i carismi della vita
consacrata sono quasi infiniti e sono
capaci di rinverdire i mille aspetti
dell’incontro dell’uomo con Dio. A
chi solo prega ricorderà che bisogna
rimboccarsi le maniche come fa lo
stesso Dio con Mosè: «Il Signore disse
a Mosè: “Perché gridi a me? Di’ ai
figli d’Israele che si mettano in marcia”»
(Es 14,15). Ai sorpreso Natanaele
per la coincidenza che ha visto
con attenzione dove stava: «quando
eri sotto il fico, io ti ho visto» ricorderà
che sa perfino dove starà: ‘vedrai
cose maggiori di queste’ (Gv
1,48.50). Agli amanti della grandezza
ricorderà che la vera grandezza è
il servizio: «chiunque, tra di voi,
vorrà essere primo sarà servo di tutti»
(Mc 10,44). E così via.
Al limite, anche a chi scommette
la sua vita sull’azzardo, che crede
che la sorte maligna o benigna traccia
i solchi della sua esistenza, per
cui deve rassegnarsi a essere vissuta,
ed eventualmente potrà in qualche
rara occasione sapere dove va il suo
destino, ma non guidarlo. In questo
caso i religiosi si fanno forti della ricerca
della virtù, oggetto dei libri sapienziali
nei quali solo i distratti potranno
vedere una morale piccoloborghese
rinchiusa nei suoi minuti
interessi; in realtà è una struttura di
vita che si gioca sulla donazione di
sé e sulle scelte da compiere giornalmente.
Il religioso sa benone che la
scelta per Dio e il suo Regno, manifestata
nella professione in definitiva
poi si rinverdisce giorno dopo giorno
e nulla verrà per oroscopo ma sarà
costruito dalle sue opzioni oculate e
costanti, per cui non vale nessun atteggiamento
infantilmente provvidenzialista.
«Donner des gages et encore des
gages!, le salut est là!». Offrire occasioni
e ulteriori occasioni, questa è
la salvezza, secondo il Bernanos de
L’imposture. Lì le frontiere per i religiosi
sono infinite e sempre nuove. Si
tratta di tener d’occhio i «nuovi aeropaghi»
di cui parla Giovanni Paolo II
nell’esortazione apostolica post-sinodale
sulla Vita religiosa e che sono
esattamente quei campi aperti, e apparentemente
refrattari al contagio
evangelico (Vita consecrata, 96-99).
Si può assumere anche senza odiosa
arroganza che i religiosi siano avanguardia:
non tappabuchi ma capaci
di aprire strade.
un segno
Non sono riuscito a trovare la fonte
precisa, ma chi la offre giura e
spergiura che questa è una definizione
agostiniana della vita religiosa.
Comunque può essere un simpatico
punto di riferimento e non si può negare
che è una definizione abbastanza
suggestiva e realista di una vera
vita comune: «Un gruppo cristiano è
APOSTOLATO BARNABITICO
DELLA PREGHIERA 2009
CON SAN PAOLO,
LA FAMIGLIA ZACCARIANA UNITA
SI RIVOLGE AL PADRE
Novembre: Per le Missionarie di
S. Teresina, perché insieme a Paolo
scoprano che la gioiosa donazione
di sè è la forma più autentica di
servizio,
– e tutto fra loro in carità si faccia
(cfr. 1 Corinti 16, 14).
Dicembre: Per le Suore del Preziosissimo
Sangue, perché insieme a
Paolo vivano in continua azione di
grazie a Cristo per avere accettato
di essere lo strumento della nostra
redenzione,
– diventando così strumento di espiazione
dei nostri peccati per mezzo
del suo sangue (cfr. Romani 3, 23-25).
8
Eco dei Barnabiti 4/2009
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Download a cura di Giovanni Giovenzana
TUTTA QUESTA ELET-
TRONICA PIACE AL-
L’UOMO? – «Il 29 ottobre
1969 alle 22,30
di Los Angeles, il professor
Leonard Kleinrock,
insieme a un assistente,
tenta il primo
collegamento fra un computer dell’Ucla e un altro all’Università
di Stanford. Nel frattempo ci parlavamo
per telefono, racconta oggi Kleinrock. Io dovevo scrivere
“login”. Scrissi la lettera elle. “Ricevuta”, mi dissero.
Poi la o. “Ricevuta”. Quando digitai la terza lettera,
il sistema andò in crash». Una sconfitta che però
ha preannunciato un futuro radioso. Oggi, non possiamo
non ricordare un evento così importante per il progresso
dell’umanità.
Sempre in questo articolo de Il Sole 24 Ore on line,
il prof. Kleinrock continua «Un giorno non lontano, la
maggior parte del traffico internet non sarà fatto dagli
esseri umani, ma dalle macchine. Le capacità di calcolo
e di comunicazione si stanno dilagando: sensori,
attuatori, memorie, display, microfoni. Tutto quanto ci
circonda sarà collegato in rete, per dare informazioni
e servizi sulla realtà circostante. Potremo controllare a
distanza la crescita delle piante, la popolazione ittica
di un fiume. Un sistema cooperativo di strumenti che
radunano le informazioni e ordinano ad altri strumenti
di mantenere l’equilibrio».
Soffermiamoci sull’ultima frase. Un sistema di strumenti
che mantiene l’equilibrio del sistema Terra con
l’ausilio di altri strumenti. Si intende l’equilibrio di
tutti i processi che permettono la sopravvivenza dell’uomo,
ma anche l’equilibrio di tutti i processi che
gli rendono la vita più comoda e confortevole. Ecco
allora che nasce la domanda: tutta questa tecnologia
che si sostituisce al lavoro dell’uomo, non rischia di
snaturarne la vita? Quando si parla di futuro dell’umanità,
di predominio odierno della tecnica sull’etica
oppure semplicemente quando sto maneggiando il
cellulare, ormai da diversi mesi, mi torna alla mente
questa domanda.
Dopo 40 di internet, la discussione di coloro che
studiano l’impatto della tecnologia sulla vita dell’uomo
comincia a portare a dei primi bilanci. Tra questi,
alcuni arrivano all’osservazione che queste nuove
scoperte e invenzioni elettroniche e di microelettronica
non necessariamente sostituiranno gli strumenti
“tradizionali” della nostra vita quotidiana. Infatti se
partiamo dall’assunto che l’uomo deve sentirsi a proprio
agio, deve essere comodo, nell’utilizzo di uno
strumento, allora sembra che ci siano alcuni oggetti
o strumenti che riescono meglio nel soddisfare le richieste
dell’uomo. Anzi, alcuni di questi strumenti
sono così importanti da diventare oggetti amati dall’uomo.
Prendiamo ad esempio i libri. Nonostante l’invenzione
dell’e-book, il libro digitale, sembra che già oggi
ci siano persone che non riescono a rinunciare al
libro stampato su carta (e tra queste ci sono anch’io).
Dopo questa invenzione molti profetizzavano la fine
dei libri. Finora non è stato così. È infatti verificabile
da molti la differenza che c’è tra le sensazioni e reazioni
che provoca un libro (il suo buon profumo di
stampa fresca; la carta della pagina che stringiamo,
tastiamo tra le dita con soddisfazione e che possiamo
pasticciare con le più diverse penne e pennarelli che
abbiamo a disposizione; il rumore dello sfogliare le
pagine) e quelle che dà un monitor di computer o di
palmare.
Discorsi simili si possono fare per molti altri strumenti
che usiamo ogni giorno e che nel tempo sono
diventati meno freddi e virtuali di uno strumento elettronico.
L’uomo ha la capacità di “animare” gli strumenti
che usa a seconda delle impressioni, emozioni
e sensazioni che questi gli suscitano. Sembra allora
che nonostante il boom degli ultimi decenni si stia
per prospettare una rivincita della Meccanica sull’Elettronica,
degli strumenti “naturali” su quelli basati
sui bit.
La spiegazione si trova nell’origine dell’uomo. L’uomo
è da sempre inserito in un mondo reale, naturale,
dalla sua apparizione sulla Terra, e si è evoluto in
questo ambiente. Risulta quindi davvero fantascientifico
immaginare un futuro come quello presentatoci
da films come “Matrix”, dove si descrive la possibilità
di una realtà virtuale, tutta ricreata dai computer. Il
desiderio della maggioranza degli uomini di usare i
5 sensi così “al naturale”, come Dio li ha creati, è una
cosa istintiva, originaria, che sembra far parte della
vocazione dell’umanità. La dimensione spirituale dell’uomo,
se ci pensiamo, si alimenta soprattutto con
ciò che è stato creato da Dio. È difficile trovare ad
esempio del romantico o del poetico in un computer
che snocciola migliaia di calcoli al secondo. Piuttosto
ci si emoziona per le capacità strabilianti dell’inventore
di quel computer.
Verifichiamo allora quanto è necessaria la tecnologia
che ci circonda quotidianamente e troviamole il
giusto spazio che le compete.
Eco dei Barnabiti 4/2009 9
ECUMENISMO
MISSIONE E UNITÀ CRISTIANA
PER TESTIMONIARE CRISTO OGGI
Nel ricordo dei cent’anni dalla Conferenza missionaria mondiale delle Società missionarie
protestanti di Edimburgo, considerata come il punto di partenza del Movimento ecumenico
contemporaneo, si celebrerà dal 18 al 25 gennaio 2010 la Settimana di preghiera per l’unità dei
cristiani che avrà per tema “Missione e unità”. Sarà l’occasione per ricordare e ricordarci che
l’ecumenismo «...è un sacro obbligo per tutti i cristiani... è il cantiere della Chiesa del futuro».
al tema il testo preparato
dal gruppo di lavoro
E`dedicato
nominato dal Pontificio Consiglio
per la Promozione dell’Unità
dei Cristiani e dalla Commissione
Fede e Costituzione del Consiglio
Ecumenico delle Chiese (CEC), in vista
della Settimana di preghiera per
l’unità dei cristiani che sarà celebrata
nei Paesi dell’emisfero nord dal
18 al 25 gennaio 2010, traendo ispirazione
dal mandato di Gesù risorto
ai discepoli: «di questo voi siete testimoni»
(Lc 24,48). La preparazione
dei testi per la riflessione e la preghiera
di ogni giorno è stata affidata
a esponenti delle Chiese cristiane
della Scozia, nazione che ha visto la
nascita del Movimento ecumenico
moderno nel contesto della Conferenza
missionaria mondiale delle Società
missionarie protestanti che ha
avuto luogo a Edimburgo nell’estate
del 1910.
La scelta del gruppo scozzese ha
voluto intenzionalmente ricordare il
centenario di quella Conferenza missionaria
mondiale, convocata per approfondire
il tema: «L’evangelizzazione
del mondo in questa generazione».
Era naturale quindi che i
cristiani scozzesi fossero invitati a
preparare la Settimana del 2010. Da
tempo infatti stanno organizzando
attivamente la celebrazione centenaria
con un processo di studio preliminare
in vista della convocazione
di una nuova Conferenza mondiale,
sempre a Edimburgo, più inclusiva e
rappresentativa della Chiesa universale,
sul tema: «Testimoniare Cristo
oggi». Il tema richiama quello del
1910 ed è rimbalzato a livello internazionale
con un particolare riferimento
al passo evangelico di Luca
24, all’icona di Emmaus.
logo della Settimana di preghiera 2010
un evento che ha segnato la storia
Oltre all’evangelizzazione e alla sua
organizzazione, quella storica Conferenza
aveva posto l’accento sulla collaborazione
missionaria e, successivamente,
sull’unità dei cristiani. A motivo
della seria preoccupazione per l’unità,
la Conferenza di Edimburgo viene generalmente
considerata come il punto
di partenza del Movimento ecumenico
contemporaneo, anche se allora non
era presente alcun delegato ortodosso e
cattolico romano. Quell’evento straordinario
comunque ha segnato la storia:
è stato l’anticipazione profetica di un
nuovo movimento proteso al ristabilimento
dell’unità delle Chiese, anche se
questo problema non era e non poteva
essere nell’ordine del giorno della Conferenza
in modo esplicito. Ma i partecipanti
ben presto si resero conto che
non ci si poteva accontentare di organizzare
una collaborazione missionaria
tra formazioni cristiane separate: le
cause della loro divisione dovevano essere
affrontate con coraggio e verificate,
col proposito di rimuoverle. È ciò che
avverrà in seguito, specialmente grazie
al movimento di Fede e costituzione,
nato per aiutare le Chiese a superare le
loro divergenze dottrinali (Losanna
1927). Nel corso dell’anno avremo modo
di riprendere il discorso relativo all’evento
missionario di Edimburgo che
merita un’attenta rilettura. Ha infatti ancora
molto da insegnare e suggerire a
proposito della missione e dell’unità.
la divisione danneggia
l’evangelizzazione
All’inizio del decreto del Concilio
sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio
(UR), spiccano alcune affermazioni, la
terza in particolare, che motivano l’impegno
ecumenico irreversibile di tutti i
cattolici, «fedeli e pastori» (UR 5): «la
divisione contraddice apertamente alla
logo del Consiglio Ecumenico delle
Chiese a Ginevra (CEC)
10
Eco dei Barnabiti 4/2009
ECUMENISMO
volontà di Cristo, è di scandalo al mondo
e danneggia la santissima causa della
predicazione del Vangelo a ogni
creatura» (UR 1). L’imput ecumenico
per il ristabilimento dell’unità cristiana
è venuto proprio dalla missione, cioè
dall’esigenza missionaria della evangelizzazione
del mondo. Non poteva e
non può essere diversamente. Non si
può infatti pretendere di evangelizzare
o addirittura di ri-evangelizzare rimanendo
divisi, senza collaborare, dimenticando
l’essenziale dell’identità e della
vocazione cristiana! La separazione dei
cristiani compromette l’evangelizzazione
e la loro testimonianza. La preoccupazione
missionaria sta quindi alle origini
del movimento ecumenico e rimane
sempre attualissima. Per rendersene
direttamente conto basterebbe consultare
i preziosi indici analitici degli otto
volumi dell’Enchiridion oecumenicum,
alle voci missione, evangelizzazione,
testimonianza...
unità e credibilità
Nel luglio scorso a Lione il Patriarca
ecumenico Bartolomeo I, nel contesto
della celebrazione del 50° anniversario
della fondazione della Conferenza delle
Chiese d’Europa (KEK), ha affermato
che «le Chiese in Europa saranno in
grado di proclamare efficacemente il
Vangelo di Cristo solo se dialogheranno
e lavoreranno a stretto contatto tra
loro», e ha proposto una cooperazione
meglio organizzata e strutturata tra la
KEK, voce delle diverse Chiese e Comunità
ecclesiali europee, e il Consiglio
delle Conferenze episcopali
d’Europa (CCEE), voce della Chiesa
cattolica: «siamo convinti che una
icona copta dell’Amico di Cristo
Conferenza di tutte le Chiese europee
possa all’unisono rispondere al meglio
al comandamento sacro di ristabilire la
comunione ecclesiale e servire l’uomo
contemporaneo posto di fronte a una
moltitudine di problemi complessi». La
proposta è stata inoltrata a Benedetto
XVI e ci si augura che, ricordando i
cento anni da Edimburgo, possa essere
realizzata anche come risposta concreta
all’ispirazione dello Spirito che non
cessa di sorprendere nel sollecitare
sempre nuovi passi verso la piena comunione
cristiana mondiale pure attraverso
circostanze, date, celebrazioni,
persone... Ma un’ipotesi di lavoro comune
è stato notato, esiste già: è la
Charta Oecumenica (Strasburgo 2001)
... ancora da recepire a livello europeo!
E, sempre a Lione, fr. Alois di
Taizé ha posto una domanda molto seria:
«Come essere credibili, parlando di
un Dio dell’amore, se i cristiani restano
separati?». Nè sono da dimenticare gli
atti della 13 a Conferenza mondiale sulla
missione e l’evangelizzazione del
nuovo millennio (Atene 2005), che
aveva tra i temi in agenda: «come mettere
a punto una teologia missionaria
che abbia respiro ecumenico».
la diaconìa ecumenica
non è un lusso, ma un dovere
Dalla Conferenza di Edimburgo,
certamente non improvvisata, da quell’inizio
ecumenicamente imprevedibile,
non si è più tornati indietro! Si continua,
infatti, a camminare in avanti
con fiducia, tra gioie e fatiche, luci e
ombre, verso l’unità, grazie allo Spirito
del Signore che persegue, comunque,
l’attuazione del suo disegno, «con sapienza
e pazienza» (UR1). Non cessa,
infatti, di sorprendere, ripeto, nell’ispirare
nuovi pensieri, nell’indicare nuove
prospettive e iniziative, nel suggerire
nuove vie e nuove mete intermedie,
ma soprattutto nel richiamare alla conversione
del cuore, alla santità della
vita, alla preghiera privata e pubblica
per l’unità dei cristiani. Il decreto conciliare
citato è arrivato a dire che queste
ultime, ma fondamentali esigenze,
devono essere ritenute come «l’anima
di tutto il movimento ecumenico e si
possono giustamente chiamare ecumenismo
spirituale» (UR 4).
Tutte le Confessioni cristiane sono
concordi nel riconoscere che, nonostante
l’impegno nel lavoro ecumenico,
l’unità rimane sempre un dono di
icona dei due discepoli di Emmaus
con Gesù lungo la strada
Dio da richiedere insistentemente con
fede, ma è soprattutto negli ultimi anni
che tale esigenza è emersa con maggiore
evidenza e urgenza. Ci si sta accorgendo
sempre meglio, infatti, che
assemblee, convegni, dichiarazioni,
studi, visite, incontri ufficiali, realizzazioni...,
non bastano, pur riconoscendone
la preziosità e l’importanza. I nostri
progetti e programmi sono sempre
limitati, come pure le nostre forze...
perché siamo umani e la causa a noi
affidata è altissima. Con realismo riconosciamo
che alcune difficoltà persistenti
potrebbero scoraggiare e frenare
l’impegno ecumenico, ma con altrettanto
realismo dobbiamo riconoscere
che non mancano positivi spiragli risolutivi
che ravvivano la speranza. È sotto
gli occhi di tutti, ad esempio, il cambiamento
di clima attuale, in particolare
nel dialogo ortodosso-cattolico e
anglicano-cattolico. La recente Costituzione
apostolica di Benedetto XVI, audace
e generosa nei confronti degli anglicani,
è una conseguenza del lungo
dialogo ecumenico tra la Chiesa cattolica
e la Comunione anglicana.
Gesù Cristo non si stanca di ripetere
al Padre la sua preghiera: «siano
una cosa sola come noi e il mondo
creda che tu mi hai mandato» (Gv
17, 21-22), ricordando così a tutti i
cristiani che l’obiettivo dell’unità
non ha un fine in sè stesso, non è solo
quello di un’unità tra loro e a loro
esclusivo beneficio, ma è per la missione,
l’unità e la pace nel mondo
intero, a servizio quindi dell’umanità.
È la tipica diaconìa ecumenica.
Eco dei Barnabiti 4/2009 11
ECUMENISMO
Ecco perché recentemente, ancora
una volta, il card. W. Kasper, a Frisinga
ha affermato con determinazione
che «l’ecumenismo non è un lusso
che va ad aggiungersi alla normale
attività ecclesiale e pastorale, ma è
un dovere essenziale e al contempo
molto attuale della Chiesa e di tutti i
icona dei discepoli di Emmaus a cena con Gesù
cristiani. Oggi si tratta di una condizione
fondamentale affinché l’Europa,
la nostra Europa possa avere un
futuro». In altre circostanze era arrivato
a dire che l’ecumenismo «non è
il pallino di pochi matti... o una scelta
opzionale, ma è un sacro obbligo
per tutti i cristiani... Non esiste alternativa
all’ecumenismo: è il cantiere
della Chiesa del futuro». Il mondo
intero, nel particolare contesto della
globalizzazione in atto, ha bisogno
di un futuro di pace nella giustizia e
nella verità, nella libertà e nella fraternità
ritrovata, che comporta l’impegno
della cooperazione, secondo i
princìpi tra loro connessi della sussidiarietà
e della solidarietà, come manifestazioni
particolari della carità
(Cfr. Benedetto XVI, Caritas in veritate
57-58). L’unità, in obbedienza al
vangelo, è per la missione nel mondo,
a tutto campo. In questo tempo,
che è così ricco di richiami, opportunità
e responsabilità, ma anche di sfide
e problematiche comuni, come
cristiani siamo chiamati a sperare insieme,
a cercare insieme, a lottare insieme,
a testimoniare insieme.
occorrono cristiani
con le braccia alzate
Nonostante le mete ecumeniche
raggiunte, e non sono poche, addirittura
notevoli e inimmaginabili solo
pochi decenni fa’, grazie agli impulsi
divini, manca ancora – per rimanere
nel pensiero dell’abbé
Couturier o nell’immagine del p.
Tillard e dei padri spirituali del movimento
ecumenico – quel non so
che, quel soffio che fa scoccare la
scintilla, genera la fiamma e provoca
l’incendio dell’unità,. Benedetto
XVI ha detto che occorre oggi una
preghiera che renda «capaci di produrre
un nuovo pensiero e di esprimere
nuove energie a servizio di un
vero umanesimo integrale... cristiano...
Lo sviluppo ha bisogno di cristiani
con le braccia alzate verso
Dio nel gesto della preghiera, cristiani
mossi dalla consapevolezza
che l’amore pieno di verità... non è
da noi prodotto, ma ci viene
donato» (Caritas in veritate 78-79).
Anche lo sviluppo del movimento
ecumenico, con la sua peculiare
missione che torna a beneficio dell’intera
umanità, ha bisogno delle
braccia alzate di tutti i cristiani verso
Dio, da veri mendicanti. Tale sviluppo
è certamente generatore di
nuovo pensiero e di nuove energie a
favore della piena comunione cristiana,
senza dimenticare il dialogo
e la collaborazione con le grandi
Religioni a favore della giustizia e
della pace mondiale, nel reciproco
rispetto, alla ricerca della verità.
L’invito della Chiesa cattolica e
delle altre Chiese e Comunità ecclesiali
a tenere regolarmente le braccia
alzate per la causa ecumenica è costante.
Anche il nuovo Segretario
Generale del CEC, il Pastore luterano
norvegese Olav Fykse Tveit, nel giorno
dell’elezione (28.08.2009) ha invitato
a «non smettere mai di pregare
per l’unità». Non si tratta infatti di limitare
la preghiera ecumenica solo
nella classica Settimana di gennaio,
ma l’invito richiama i cristiani a «trovare
anche altre occasioni durante
l’anno per esprimere il progresso, il
grado di comunione che le Chiese
hanno raggiunto e per pregare insie-
12
Eco dei Barnabiti 4/2009
ECUMENISMO
me al fine di giungere alla piena
unità voluta da Cristo».
Lo stesso sussidio preparato per la
Settimana è destinato ad essere ripreso
lungo tutto l’anno, come già
avviene tra coloro che hanno a cuore
la causa dell’unità, al fine di tenere
viva la fiamma della passione
ecumenica in maniera costante,
sempre ricordando che «se il Signore
non costruisce la casa, invano si
affaticano i costruttori» (Sal 127,1).
Un rilevante aiuto in tale senso può
venire dal volume del card. Kasper:
L’ecumenismo spirituale. Linee guida
per la sua attuazione (Città Nuova,
Roma 2006).
è compito di tutti
Taizè: la preghiera nella chiesa della riconciliazione
Non si tratta di un invito diretto
solo agli addetti ai lavori, agli specialisti,
ad una élite, ma a tutto il popolo
di Dio. È questo un compito
che ancora stenta a farsi strada nella
mentalità e nella coscienza comune.
Oggi l’ecumenismo di base, di popolo,
è decisivo. Il compito dell’unità
spetta a ogni cristiano e non
può essere delegato. Giovanni XXIII
ha detto che «nell’ultimo giorno
del giudizio particolare e del giudizio
universale sarà chiesto alla coscienza
di ciascuno non se ha fatto
l’unità, ma se per essa ha pregato,
lavorato e sofferto; se si è imposta
una disciplina saggia, prudente e
lungimirante, e se ha dato vigore
agli slanci della carità» (Radiomessaggio
natalizio del 1962). Cristo
chiederà a ciascuno: ‘Che cosa hai
fatto tu per il ristabilimento dell’unità
nella mia Chiesa?’
Il tema della Settimana di gennaio
2010, suggerito dalle Confessioni
cristiane della Scozia, intende aiutare
non solo a verificare quali e
quanti cambiamenti dalla Conferenza
di Edimburgo sono avvenuti in
Europa e nel mondo, nelle Chiese,
nelle Comunità ecclesiali e nei rapporti
con le altre Religioni, favoriti
da varie cause, ma anche a verificarne
le conseguenze. I mutamenti
negativi più evidenti riguardano
soprattutto la secolarizzazione e la
decristianizzazione. I nuovi mezzi
di comunicazione hanno invaso il
mondo. Hanno facilitato, in un certo
senso, anche le relazioni interconfessionali
e i dialoghi interreligiosi,
ma positività e negatività si intrecciano
dappertutto. Il mondo è
diventato piccolo, è una casa comune;
tutto è vicino, tutto entra in ogni
casa... Eppure certe distanze rimangono
e ne nascono di nuove, con
tante nuove problematiche da affrontare
e risolvere. In campo ecumenico
si stenta ancora a trovare un
linguaggio comune e una traiettoria
condivisa per tradurre nel concreto
le spinte della base (cfr. Sibiu 2007).
Taizè: la tomba di fr. Roger
insieme si può
Ma è il Cristo risorto che anche
oggi, come sulla strada di Emmaus,
continua ad accostarsi ai suoi discepoli
per riaccendere la speranza
nel loro cuore e risvegliarne la fiducia,
chiedendo di riconoscere la
sua presenza e di testimoniare la
sua azione anche dentro le prove e
le difficoltà che non mancano mai,
Eco dei Barnabiti 4/2009 13
ECUMENISMO
pure nella vita della sua Chiesa, verificando
i risultati positivi delle risposte
date ai suoi suggerimenti,
ma senza temere di riconoscere sinceramente
pigrizie, remore e rifiuti,
per pentirsi e rinnovare l’impegno.
Rimane sempre urgente, comunque,
il compito missionario fondamentale
di tutti i cristiani, quello di
rendere testimonianza al Cristo vivo
in ogni settore, e groviglio dei cambiamenti
della storia contemporanea,
col gusto della missione e senza
paura, per non essere tacciati
come «sciocchi e tardi di cuore»
(Lc 24,25).
testimoni ecumenici
Annunciare e testimoniare insieme
si può e pertanto si deve. Come?
Perseverando innanzitutto in un
cammino di dialogo e di riconciliazione.
Il mondo deve sapere che,
nonostante le difficoltà, i cristiani
convergono sull’essenziale e lo annunciano
con la parola e con la vita,
sforzandosi di lavorare generosamente
per la loro piena comunione.
Con Cristo ciò è possibile ed è sempre
lui che ricorda loro il fondamentale
legame tra missione e unità e
pertanto la contraddizione della divisione
nell’annuncio del vangelo.
Accontentarsi di rimanere separati è
un delitto e accontentarsi dei risultati
raggiunti è una squalifica. Cristo
ha pregato: «siano perfetti nell’unità»
(Gv 17,23). È vero che siamo
testimoni di tante meraviglie ecumeniche
e non possiamo tacerle, ma è
altrettanto vero che ne vedremo di
nuove se proseguiremo il cammino
lasciandoci guidare da Cristo, come
i discepoli di Emmaus, di inizio in
inizio. Anche a proposito dell’impegno
ecumenico Paolo VI ha affermato
che «l’uomo contemporaneo
ascolta più volentieri i testimoni che
i maestri o, se ascolta i maestri, lo fa
perché sono testimoni... Tacitamente
o con alte grida, ma sempre con forza,
ci domandano: Credete veramente
quello che annunziate? Vivete
quello che credete? Predicate
veramente quello che vivete? La
testimonianza della vita è divenuta
più che mai una condizione essenziale
per l’efficacia profonda della
predicazione. Per questo motivo, eccoci
responsabili, fino ad un certo
punto, della riuscita del Vangelo che
proclamiamo» (cfr. Evangelii nuntiandi
41.76).
predicare il Vangelo, insieme
un particolare della cerimonia della posa della prima pietra della nuova
chiesa ortodossa-romena in Bari (20 settembre 2009)
All’inizio della Conferenza di Edimburgo
nessuno pensava all’unità come
prima esigenza. Non era nel programma.
Ma nel corso dei lavori un
delegato delle giovani Chiese dell’Estremo
Oriente ha dichiarato: «Voi
ci avete inviato dei missionari che ci
hanno fatto conoscere Gesù Cristo:
non possiamo che ringraziarvi. Ma
voi ci avete portato anche le vostre
distinzioni e le vostre divisioni: alcuni
ci predicano il metodismo, altri il
luteranesimo, il congregazionalismo
o l’episcopalismo. Noi vi chiediamo
di predicare il vangelo e di lasciare a
Cristo Signore di suscitare lui stesso
all’interno dei nostri popoli, sotto la
sollecitazione del suo Santo Spirito,
la Chiesa di Cristo in Cina, la Chiesa
di Cristo in India, libera finalmente
da tutti gli ‘ismi’ con cui voi avete
classificato la predicazione del vangelo
in mezzo a noi». Un intervento
chiaro, coraggioso, ispirato, che ha
aiutato tutti i delegati non solo a riflettere
seriamente sul valore e l’organizzazione
della missione e sulla
forza della testimonianza cristiana,
ma anche sul valore dell’inscindibile
rapporto che collega la missione all’unità
della Chiesa, con l’invito a
non continuare a esportare divisioni
e discordie.
Siamo già testimoni del Risorto,
perché radicati nell’unico battesimo,
ma non lo siamo ancora come dovremmo
essere, in pienezza. L’ecumenismo
aiuta a comprendere che è
possibile ritrovare il cammino della
riconciliazione e testimoniare sempre
meglio il vangelo di Cristo. Guidati
in ogni giorno della Settimana
dal testo del vangelo di Luca 24, siamo
chiamati a riflettere sulla situazione
delle nostre divisioni ecclesiali
e sui rimedi che concretamente possiamo
porre insieme come testimoni
del Risorto – mai gli uni contro gli altri,
ma con e per gli altri – dialogando
con lui e tra noi. L’esperienza di
Emmaus continua. Sì, perché in definitiva
è Cristo la fonte della comunione
ecclesiale: è lui che incontra,
dialoga e riunisce, forma e invia nel
mondo, lui è il legame fondamentale
tra la missione e l’unità, lui è la ragione
che sollecita, incoraggia e rinnova
di continuo l’impegno di tutti
per il ristabilimento della piena comunione
cristiana. Sì, arriveremo insieme
a spezzare lo stesso pane e a
bere allo stesso calice.
Enrico Sironi
14
Eco dei Barnabiti 4/2009
SPIRITUALITÀ BARNABITICA
IL SACERDOTE SECONDO IL CUORE
DI CRISTO E DI PAOLO:
LO ZELO PER LE ANIME
Terminato il 29 giugno l’anno santo dedicato a s. Paolo, per volere di papa Benedetto XVI si è
aperto quello sacerdotale, con il richiamo della figura di s. Giovanni Maria Vianney, a modello
di vita sacerdotale. Tanto l’apostolo delle Genti quanto il santo “Curato d’Ars” hanno come
denominatore comune lo zelo per Dio e per la salvezza delle anime. Ci soffermiamo, pertanto,
sullo “zelo”: una virtù che, per quanto propria di tutti i cristiani, è particolarmente richiesta e
auspicata nel sacerdote. Ci viene in aiuto, ancora una volta, l’opera del padre Sigismondo
Laurenti, che mette in luce questa virtù “sacerdotale” in s. Paolo.
P
arlando dello zelo, s. Agostino
dice che è un effetto
della carità; per cui, quanto
più l’amore è intenso per la cosa
che si ama, tanto più è intenso lo zelo.
Infatti, poiché l’amore è un certo
moto verso l’oggetto amato, l’amore
fa ogni sforzo per escludere tutto ciò
che gli ripugna e gli è di impedimento,
così fa anche lo zelo se è vestito
della veste di carità; e, in tal caso,
acquista il titolo di amore casto (In
Ps. 118). Ne segue che, essendo lo
zelo effetto della carità – la quale ha
due aspetti: uno riguarda Dio e l’altro
il prossimo –, esso, dice s. Tommaso
d’Aquino, con un occhio guarda
l’onore e la gloria della Divina
Maestà, osservando i suoi comandamenti,
e con l’altro, la salvezza del
suo prossimo e il bene delle anime.
Così che lo zelo verso Dio altro non
è che un fuoco dentro il cuore e una
brama ardente che ha l’anima, perché
Dio sia glorificato e onorato e,
vedendo accadere altrimenti, si duole
e si cruccia. Questo zelo, dice ancora
s. Tommaso, viene generato
dalla carità, dal fuoco dell’amore divino,
il quale procura la sola gloria
di Dio, sommo bene e principio di
ogni bontà, Creatore, Redentore e
Padre nostro.
lo zelo: effetto della carità
Intorno a questo zelo si legga anche
s. Gregorio Magno, il quale dice
che, quando lo si ha nel petto, muove
il cuore a darne un segno chiaro
ed evidente (In Ez 12); e ciò lo prova
s. Dionigi l’Areopagita con l’esempio
di Davide, allorquando, essendo pieno
di carità, diceva: Mi divora lo zelo
per la tua casa, ricadono su di me
gli oltraggi di chi ti insulta (Sl 69,10).
Lo zelo della vostra santa casa, Signore,
e del vostro onore consuma e
brucia le mie viscere e il mio cuore,
perché le ingiurie, che sono fatte alla
vostra Maestà, sono ingiurie e offese
fatte a me; e l’onore, che si dà a voi,
è la mia gloria (De div. Nom. 4); e s.
Agostino disse bene a tale proposito:
Colui che quando vede che qualcosa
non va, si sforza di correggerla, cerca
di rimediarvi, non si dà pace: se non
trova rimedio, sopporta e geme (In
Ioh. 10,9). Un tale sentimento adotta
l’anima devota, quando, vedendo
Dio poco onorato, gene e sospira;
come faceva il profeta Davide: Mi divora
lo zelo della tua casa, perché i
miei nemici dimenticano le tue parole
(Sl 119,139). Dallo stesso fuoco fu
arso Geremia, che disse: Nel mio
cuore c’era come un fuoco ardente,
chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di
contenerlo, ma non potevo. Sentivo
le insinuazioni di molti: Terrore all’intorno!
(Ger 20,9-10); e similmente
il cuore di Elia, toccato da questo
zelo: Sono pieno di zelo per il Signore
degli eserciti, poiché gli Israeliti
hanno abbandonato la tua alleanza
(1 Re 19,10). Anche Pincas, per il
grande zelo verso Dio e la sua santa
legge, vedendolo vilipeso e la legge
violata, uccise quel temerario: Seguì
quell’uomo di Israele nella tenda e li
trafisse tutti e due, l’uomo d’Israele e
la donna (Num 25,8). Un simile omicidio
fece Mattatia, uccidendo il sacrilego
che adorava gli idoli: Ciò vedendo,
Mattatia arse di zelo; fremettero
le sue viscere ed egli ribollì di
giusto sdegno. Fattosi avanti di corsa,
lo uccise sull’altare; uccise nel medesimo
tempo il messaggero del re,
che costringeva a sacrificare, e distrusse
l’altare. Egli agiva per zelo
verso la legge del Signore come aveva
fatto Pincas con Zambri figlio di
Salmon (1 Mac 2,24-26). Davide
stesso ha ragione di piangere, vedendo
commettersi nel mondo tanti mali
e tali sciagure contro la legge divina:
Fiumi di lacrime mi scendono dagli
Eco dei Barnabiti 4/2009 15
SPIRITUALITÀ BARNABITICA
lo per l’onore di Dio e, dall’altra,
non si scordò della pietà verso il suo
popolo, impetrandogli da Dio il perdono
totale. Per altro, Dio stesso nella
sacra Scrittura è chiamato il Dio di
zelo: il Signore si chiama Geloso:
egli è un Dio geloso, che punisce la
colpa (Es 20,5; 34,14); così come ci
insegna che è la dolcezza stessa e ha
viscere di pietà: perché è misericordioso
e benigno, tardo all’ira e ricco
di benevolenza (Gl 2,13); e più oltre:
Il Signore si mostri geloso per la sua
terra e si muova a compassione del
suo popolo (Gl 2,18). Quindi s. Gregorio
Magno disse che: La vera giustizia
sa comprendere, mentre quella
falsa nutre disprezzo. Altro è però
ciò che si compie sotto il pungolo
dell’orgoglio e altro ciò che è suggerito
dallo zelo per la rettitudine (In
Ev. 34, 2).
Noi sappiamo che Cristo è la giustizia
stessa e insieme il fonte della
carità: Dio è carità (1 Gv 4,16). Per
cui, chi ha questo zelo discreto è
molto simile a Dio, al quale non si
può fare maggior piacere che, oltre
ad avere zelo per la sua gloria, mostrarsi
anche con la compassione
verso le anime ricomperate con il
suo prezioso sangue; e, dice s. Gregorio
Magno: Nessun sacrificio è così
accetto a Dio onnipotente quanto
lo zelo per le anime (In Ez. 12,30).
Lo conferma s. Giovanni Crisostomo,
che aggiunge che ha maggiore merito
salvare un’anima, che avere la
grazia di fare miracoli sulla terra, e
con ciò si assicura la salvezza propria
e di quella del suo fratello. Per
questo s. Giacomo disse: Chi riconduce
un peccatore dalla sua vita di
errore, salverà la sua anima dalla
morte (Gc 5,20).
Paolo: il Cacciatore di Cristo
L. Ghiberti, Mosé riceve sul Sinai le tavole della Legge
occhi, perché non osservano la tua
legge (Sl 119,136).
È tutto vero, quanto si dice, ma si
deve avvertire che il santo zelo di
Dio deve essere sempre accompagnato
dalla virtù della compassione e
pietà verso le mancanze altrui, come
accenna s. Agostino, raccontando il
fatto di Mosè, che, essendo sceso dal
monte e intendendo essersi fatta dal
popolo ebreo l’adorazione di un falso
Dio in forma di vitello d’oro con
tanto vilipendio di Dio, per zelo ruppe
le Tavole della Legge, scritta col
proprio dito da Dio e datagli sul
monte con tanta solennità e con un
lungo digiuno di quaranta giorni;
con tutto ciò, intenerito nel cuore,
Mosè stesso, mosso a compassione
del suo popolo, si rivolse a Dio pieno
di pietà, con tutto l’affetto del suo
cuore, e gli disse: Se tu perdonassi il
loro peccato… E se no, cancellami
dal tuo libro che hai scritto! (Es
32,32). Fu questa un’azione tanto
grande e un fatto così singolare, dicono
s. Agostino e s. Giovanni Crisostomo,
che superò di gran lunga tutte
le altre azioni meravigliose da lui
compiute con tanti segni sulla terra e
nel cielo al cospetto del faraone, perché,
da una parte, mostrò il santo ze-
S. Paolo ebbe zelo in eccesso di ricondurre
i peccatori a Dio e di salvare
le anime; e per raffigurarlo al vivo,
per ora chiamerei l’Apostolo il Cacciatore
di Cristo. Cacciatore veramente
spirituale, del quale Cristo
stesso disse in s. Luca, d’averlo eletto:
per portare il mio nome dinanzi
ai popoli, ai re e ai figli d’Israele (At
9,15); così come Pietro viene chiamato
Pescatore del Signore, al quale,
come a tutti gli Apostoli, Cristo in
persona disse: Seguitemi, vi farò pescatori
di uomini (Mt 4,19).
Paolo fu uno di quei primi cacciatori
di Cristo, ai quali fa accenno Geremia
e dei quali Dio disse: Ecco, io
invierò numerosi cacciatori, che daranno
loro la caccia su ogni monte,
su ogni colle e nelle fessure delle
rocce (Ger 16,16). Paolo andò a cac-
San Paolo
16
Eco dei Barnabiti 4/2009
SPIRITUALITÀ BARNABITICA
cia per le valli, per i monti e per tutto
il mondo, traendo moltissime anime
dalle cieche e oscure grotte dell’ignoranza
e dalle profonde caverne
del peccato e dell’inferno; e Dio gli
pose ai fianchi gli sproni della carità:
Ci spinge l’amore di Cristo (2 Cor
5,14), perché proseguisse questa
caccia spirituale, non di belve, ma di
anime e di uomini peccatori, peggiori
delle stesse belve; per cui andava
là dove Dio voleva, fino agli ultimi
confini della terra e fino là fece sentire
la sua voce, come di tromba di
Dio: Mi sono fatto un punto di onore
di non annunziare il Vangelo se non
dove ancora non era giunto il nome
di Cristo (Rm 15,20), per cui, con
particolare ragione si deve cantare di
Paolo in modo conforme a quello
che la Chiesa canta degli altri Apostoli:
Per tutta la terra si diffonde la
loro voce e ai confini del mondo la
loro parola (Sl 19,5); poiché il suono
della sua voce e la predicazione del
santo Vangelo di Cristo si udì ovunque,
spargendo fiamme di zelo e
fuoco di carità per l’universo. Fiamme
e fuoco a cui accenna Ezechiele
quando dice: Prendi una teglia di ferro
(Ez 4,3); e che cosa fare di tale
strumento? Risponde s. Gregorio secondo
lo spirito: per arrostire le anime
in un santo sacrificio a Dio con il
fuoco della carità, come aveva fatto
della sua nel medesimo fuoco: Sì, lo
zelo spirituale fa friggere l’anima di
ogni dottore, perché egli si cruccia
molto, quando vede i deboli abbandonare
le cose eterne e dilettarsi in
quelle temporali. Come aveva preso
seriamente la teglia di ferro Paolo,
quando, tormentato dallo zelo per le
anime, diceva: Chi è debole, che anch’io
non lo sia? Chi riceve scandalo,
che io non frema? (2 Cor 11,29).
Il medesimo suo cuore, che si accendeva
di zelo per le anime, che altro
era diventato se non una teglia in cui
ardeva di amore per le virtù contro i
vizi? Ciò che bruciava era la teglia.
Prendeva fuoco e cuoceva, perché si
accendeva di amarezza, ma con l’afflizione
del suo cuore preparava alimenti
di virtù (In Ez. 12, 29).
L’Apostolo si struggeva per lo zelo
che aveva di provvedere il cibo a Cristo,
con il cuocere i cuori con il fuoco
del divino amore; per cui doveva
dire con il Signore, che portò il fuoco
dell’amore divino dal cielo sulla terra:
Come vorrei che fosse già acceso!
(Lc 12,49) Così come in effetti egli
bruciò molte anime, introducendole
nelle viscere di Cristo, tra le fiamme
della carità, che vi avvampavano:
Dio mi è testimonio del profondo affetto
che ho per tutti voi nell’amore
di Cristo Gesù (Fil 1,8).
Lo zelo fu in lui tanto grande che,
nel mezzo dei travagli nei quali stava
immerso, non si perse mai d’animo,
né di cuore, né abbandonò mai l’impresa,
ancorché si trovasse circondato
da infiniti mali: molto di più nelle
fatiche, molto di più nelle prigionie,
infinitamente di più nelle percosse,
spesso in pericolo di morte (2 Cor
11,23); e avesse grandi contrasti con
i nemici, i demoni, il mondo e la carne:
battaglie all’esterno, timori al di
dentro (2 Cor 7,5); oltre la sollecitudine
e l’affanno continui, che aveva
per le Chiese: il mio assillo quotidiano,
la preoccupazione per tutte le
Chiese (2 Cor 11,28). Senza interrompere
mai le fatiche per qualsiasi
sinistro incontro, la sua soddisfazione
e la sua gloria era trovare nei fedeli
una costanza invincibile e ferma e il
loro progresso nelle virtù, come scrisse
ai Tessalonicesi: Ora sì ci sentiamo
rivivere, se rimanete saldi nel Signore
(1 Ts 3,8). Per cui s. Giovanni
Crisostomo osserva che Paolo attese
al frutto e al solo bene del suo prossimo,
tanto da scrivere ai Corinti: Vi
ho scritto, perché apparisse chiara la
vostra sollecitudine per noi davanti a
Dio. Ecco quello che ci ha consolati
(2 Cor 7,12-13); e ai Tessalonicesi:
Abbiamo avuto fiducia nel nostro
Dio di annunciarvi il vangelo di Dio
con molta sollecitudine (1 Ts 2,2).
Quanto a noi, fratelli, dopo poco
tempo che eravamo separati da voi,
di persona ma non con il cuore, eravamo
nell’impazienza di rivedere il
vostro volto, tanto il nostro desiderio
era vivo, ma satana ce lo ha impedito
(1 Ts 2,17-18). Per questo, non potendo
più resistere, mandai a prendere
notizie sulla vostra fede (1 Ts 3,5).
Ho infatti un vivo desiderio di vedervi
per comunicarvi qualche dono spirituale,
perché ne siate fortificati, o
meglio, per rinfrancarmi con voi e tra
voi mediante la fede che abbiamo in
comune, voi e io (Rm 1,11-12).
Tanto era lo zelo delle anime in lui
che, per aiutarle, si accontentò di
stare nel mondo, piuttosto che in cielo,
perché stimava più il loro acquisto
che il godimento di Dio faccia a
faccia, anteponendo salvezza degli
altri ai gusti del paradiso: Sono messo
alle strette tra queste due cose: da
una parte il desiderio di essere sciolto
dal corpo per essere con Cristo, il
che sarebbe assai meglio; d’altra parte,
è più necessario per voi che io rimanga
nella carne (Fil 1,23). Insomma,
tale era il suo zelo che, dopo
aver mostrato l’affetto di un padre
amorevole verso i suoi figlioli: Potreste
avere anche diecimila pedagoghi
in Cristo, ma non certo molti padri
(1 Cor 4,15), mostra anche l’affetto di
una madre amorevole: Figlioli miei,
che io di nuovo partorisco nel dolore,
finché non sia formato Cristo in
voi! (Gal 4,19).
lo zelo verso Dio
Il simbolo dello zelo verso Dio: il
ferro ardente e infuocato; e il motto:
Noli me tangere.
Lo si dice di Paolo, quando si trattava
della difesa dell’onore di Dio:
egli si faceva tutto fuoco, come fece
contro alcuni di Corinto, che si erano
intiepiditi nel servizio di Dio: Che
volete, devo venire a voi con la verga?
(1 Cor 4,21).
L’Apostolo, desideroso che tutti si
mostrassero zelanti nel servizio divino,
come egli stesso mostrava di fare,
istruì i Corinti ad essere zelanti verso
la sua Divina Maestà con l’osservanza
della sua legge e dei suoi santi
precetti, onorandoli e abbracciandoli
volentieri, poiché la circoncisione
era abrogata; e lo prova con questa
ragione: La circoncisione non conta
Eco dei Barnabiti 4/2009 17
SPIRITUALITÀ BARNABITICA
S. Botticelli, La calunnia
nulla e la non circoncisione non
conta nulla; conta invece l’osservanza
dei comandamenti. Ciascuno rimanga
nella condizione in cui era,
quando è stato chiamato (1 Cor 7,19-
20); così come scrisse agli Ebrei: Proprio
per questo bisogna che ci applichiamo
con maggiore impegno a
quelle cose che abbiamo udito (Eb
2,1). Infatti, tale osservanza è il mezzo
per farci conoscere Dio, scrive
s. Giovanni: Da questo sappiamo di
averlo conosciuto: se osserviamo i
suoi comandamenti (1 Gv 2,3); e ciò
in modo conforme alla dottrina del
Savio nei suoi Proverbi: Conserva il
consiglio e la riflessione, né si allontanino
mai dai tuoi occhi: saranno
vita per te e grazia per il tuo collo
(Pr 2,21-22). Se con zelo osserverai la
santa legge di Dio e i suoi consigli,
sarà vita per la tua anima e dolcezza
al tuo palato, che è la dolcezza di
cui disse Davide, che l’aveva gustata:
Quanto sono dolci al mio palato
le tue parole: più del miele per la
mia bocca (Sl 139,103); e ciò perché
era un diligente osservatore dei precetti
divini: Corro per la via dei tuoi
comandamenti (Sl 119,32).
Per questo Dio lo favorì tanto, così
come favorisce coloro che davvero
lo amano, perché: Quelli che mettono
in pratica la legge saranno giustificati
(Rm 2,13). Perciò non si deve
considerare difficile la sua osservanza,
sebbene a prima vista possa apparire
dura, perché dopo è soave e
dolce: Il mio giogo è dolce e il mio
carico leggero (Mt 11,30); e ciò per
effetto della carità, che è l’ambrosia
stessa: Il fine di questo richiamo è la
carità (1 Tm 1,5). Tuttavia, ciò si gusta
quando il cuore è puro e netto da
ogni colpa: Sgorga da un cuore puro,
da una buona coscienza e da una fede
sincera. Proprio deviando da questa
linea, alcuni si sono volti a fatue
verbosità, pretendendo di essere dottori
della legge, mentre non capiscono
né quello che dicono, né alcuna
di quelle cose che danno per sicure.
Certo, noi sappiamo che la legge è
buona (1 Tm 1,5-7).
Quindi Paolo invita i Romani all’osservanza
e allo zelo di essa, con
il dare a Dio il dovuto tributo del loro
cuore: Perché con un solo animo
e una sola voce rendiate gloria a
Dio, come sta scritto: Per questo ti
celebrerò tra le nazioni pagane e
canterò inni al tuo nome (Rm 15,6.9).
Di questa osservanza ne parla anche
s. Giacomo: Siate di quelli che mettono
in pratica la parola e non soltanto
ascoltatori, illudendo voi stessi
(Gc 1,22); e poco oltre: Chi fissa lo
sguardo sulla legge perfetta, la legge
della libertà, e le resta fedele, non
come un ascoltatore smemorato, ma
come uno che la mette in pratica,
questi troverà la sua felicità nel praticarla
(Gc 1,25). Per questo l’Apostolo
esorta quelli di Corinto a rifiutare
le leggi degli infedeli: Non lasciatevi
legare al giogo estraneo degli infedeli.
Quale rapporto infatti ci può essere
tra la giustizia e l’iniquità, o quale
unione tra la luce e le tenebre? Quale
intesa tra Cristo e Beliar, o quale
collaborazione tra un fedele e un infedele?
Quale accordo tra il tempio
di Dio e gli idoli? Noi siamo infatti il
tempio del Dio vivente (2 Cor 6, 14-
16). Dovrebbero farsi mutilare coloro
che vi turbano. Voi infatti, fratelli,
18
Eco dei Barnabiti 4/2009
SPIRITUALITÀ BARNABITICA
siete stati chiamati a libertà, purché
questa libertà non divenga un pretesto
per vivere secondo la carne (Gal
5,12-13). Non partecipate alle opere
infruttuose delle tenebre (Ef 5,11).
Altrimenti, chi conosce la verità e
non la mette in pratica, avrà maggiore
colpa, dice s. Isidoro: Male minore
è non conoscere ciò che brami, anziché
non compiere ciò che conosci.
Paolo, dunque, mosso da santo zelo
per il mantenimento dell’osservanza
della legge di Dio, scrisse anche a
Tito di fuggire i faziosi come la peste,
che infetta e dà la morte spirituale:
Dopo una o due ammonizioni
sta’ lontano da chi è fazioso (Tt
3,10); e a Timoteo, esortandolo ad
avere in se questo zelo: Partendo per
la Macedonia, ti raccomandai di rimanere
in Efeso, perché tu invitassi
alcuni a non insegnare dottrine diverse
e a non badare più a favole e a
genealogie interminabili, che servono
più a vane discussioni che al disegno
divino manifestato nella fede
(1 Tm 1,3-4). Allo stesso scrive con il
medesimo zelo: Quelli poi che risultano
colpevoli, riprendili alla presenza
di tutti, perché anche gli altri ne
abbiano timore (1 Tm 5,20); e la
stessa cosa consiglia anche a Tito: Vi
sono infatti, soprattutto fra quelli che
provengono dalla circoncisione molti
spiriti insubordinati, chiacchieroni
e ingannatori della gente. A questi
tali bisogna chiudere la bocca (Tt
1,10-11). Perciò correggili con fermezza,
perché rimangano nella sana
dottrina e non diano più retta a favole
giudaiche (Tt 1,13-14).
Nel contempo, mostra gli inconvenienti,
che nascono, allorché cessa
lo zelo santo verso la legge divina:
Se qualcuno insegna diversamente e
non segue le sane parole del Signore
nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo
la pietà, costui è accecato
dall’orgoglio, non comprende nulla
ed è preso dalla febbre di cavilli e di
questioni oziose. Da ciò nascono le
invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti
cattivi, i conflitti di uomini corrotti
nella mente e privi della verità
(1 Tm 6,3-5).
lo zelo verso il prossimo
Il simbolo dello zelo verso il prossimo:
la gallina che cova le uova di
varie specie di polli. Il motto: Donec
formentur.
Quale gallina, che con infinita sofferenza
sta covando le uova di vario
tipo fino a quando non nascono i
pulcini, così s. Paolo, per lo zelo indicibile
che aveva indifferentemente
verso le anime, non pensava ad altro
che a correggerle, purificarle, istruirle
e perfezionarle, fino a quando fossero
unite perfettamente a Dio; per
cui diceva: Sono debitore verso i
Greci come verso i barbari, verso i
dotti come verso gli ignoranti (Rm
1,14), scrivendo ai Galati: Figlioli
miei, che io di nuovo partorisco nel
dolore finché non sia formato Cristo
in voi! (Gal 4,19).
L’Apostolo, sembrandogli poco nutrire
in petto il fuoco di questo santo
zelo, si sforzò di suscitarlo con ogni
mezzo anche nel cuore di ogni buon
cristiano; e particolarmente i coloro
ai quali, come a tanti pastori, da Dio
era stata commessa la cura del suo
gregge, ricuperando dalle fauci e dalla
tirannia di quell’antico lupo, che
in cento modi lo insidiava. Per cui
scrive a Timoteo: Vigila su te stesso e
sul tuo insegnamento e sii perseverante:
così facendo salverai te stesso
e coloro che ti ascoltano (1 Tm
4,16). Sta attento prima a te stesso e
poi alla dottrina: cioè all’ammaestramento
del tuo prossimo, per salvare
prima te stesso e poi loro. Altrove,
manifestò lo stesso pensiero con altre
parole: Nessuno cerchi l’utile proprio,
ma quello altrui (1 Cor 10,24).
Non cercate l’amore interessato di
voi stessi, ma di usare la carità verso
gli altri, poiché la messe è molta e
gli operai sono pochi! (Mt 9,37). Poiché
pochi sono gli operai buoni di
Cristo; maggiore è il numero delle
anime che si dannano per mancanza
d’aiuto, di quelle che si salvano:
Molti sono i chiamati, ma pochi eletti
(Mt 22,14).
Per questo s. Giovanni Crisostomo
grida: Ohimè, se vedi un cieco,
che va a cadere in un fosso, tu
l’aiuti; e non ti muovi per le anime,
che se ne vanno all’inferno e che
sono costate tanto a Cristo, ricomprate
con lo spargimento del suo
prezioso sangue? (Ad pop. 16). Infatti
siete stati comprati a caro
prezzo (1 Cor 6,20). Per cui il Savio
dice: Aiuta il tuo prossimo secondo
la tua possibilità (Sir 29,20).
Quindi Paolo si fa tutto a tutti, né
si sottrae alla fatica per salvarli:
Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la
vita, la morte, il presente, il futuro:
tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo
(1 Cor 3,22-23). Perciò conviene
anche a voi avere le viscere di
pietà e questo santo zelo a lei congiunto.
Rivestitevi dunque come
amati di Dio, santi e diletti, di viscere
di misericordia, di bontà, di
umiltà, di mansuetudine, di pazienza
(Col 3,12). È necessaria la compassione
per guadagnarsi i cuori e
per acquistare anime al Signore:
Mediante la carità siate al servizio
gli uni degli altri (Gal 5,13); e conclude:
Soltanto desideriamo che
ciascuno di voi dimostri il medesimo
zelo, perché la sua speranza
abbia compimento sino alla fine
(Eb 6,11). Spiegando quel passo
s. Agostino disse che l’Apostolo ebbe
questo zelo, congiunto con la
pietà. Chi è debole, che anch’io
non lo sia? (2 Cor 11,29). Imparatelo
dal vostro Maestro, Cristo, il
quale scese dal cielo in terra, mandato
dal Padre per la salvezza degli
uomini: Egli non ha risparmiato il
proprio Figlio, ma lo ha dato per
tutti noi (Rm 8,32).
Eco dei Barnabiti 4/2009 19
SPIRITUALITÀ BARNABITICA
mondo alla ricerca delle anime così
debole, stanco e infiacchito, che, per
sfinimento, sedeva presso il pozzo; e,
quantunque sia affamato per il viaggio,
non vuole mangiare, ancorché
pregato dai suoi discepoli; anzi, con
cuore zelante, ansioso di ridurre sotto
le sue ali una tale anima e farne acquisto,
risponde loro: Ho da mangiare
un cibo che voi non conoscete (Gv
4,32). Levate i vostri occhi e guardate
i campi che già biondeggiano per la
mietitura (Gv 4,35).
Noi dobbiamo essergli simili, dice
s. Agostino, con l’avere tanto zelo
per le anime e con l’essere tanto solleciti
e diligenti per il loro acquisto:
che questa cura sollecita ci tenga
fiacchi, deboli e dimentichi di tutte
le nostre comodità, così come se ne
dimenticarono Cristo e Paolo, suo
imitatore. S. Gregorio Magno tratteggia
un tale affetto di carità e di zelo
verso il nostro prossimo, rappresentando
il cuore di Paolo ferventissimo,
come posto dentro a una teglia infuocata
e bollente, mentre dice: è
più necessario per voi che io rimanga
nella carne (Fil 1,24); e ne ricava
quale debba essere lo zelo del nostro
cuore, per farne un’oblazione e sacrificio
a Dio, con queste parole:
Quanto plachi Dio onnipotente l’ardore
del cuore prodotto dallo zelo
spirituale, lo dimostra chiaramente la
prescrizione della Legge di offrire in
sacrificio fior di farina. A questo proposito
è scritto: Il sacerdote succeduto
di diritto al padre friggerà il fior di
farina in una teglia cosparsa d’olio e
l’offrirà calda, in odore soavissimo al
Signore; e soggiunge: Il fior di farina
si frigge nella teglia, quando l’anima
pura del giusto viene divorata dall’ardore
di un santo zelo. Dev’essere
cosparsa d’olio, cioè bisogna mescolare
allo zelo la misericordia della
carità, che arde e splende davanti al
Signore onnipotente (In Ez. 12,30).
Vuole che arda la mente e il cuore,
ma dentro all’olio bollente della
compassione verso i deboli e gli infermi
per i peccati commessi, aspettando
la ricompensa promessa da
Dio all’Apostolo stesso, dove disse:
Ciascuno riceverà la sua mercede secondo
il proprio lavoro. Siamo, infatti,
collaboratori di Dio (1 Cor 3,8-9).
a cura di Mauro Regazzoni
L’Apostolo vuole che, come figli di
Dio, ci rivestiamo anche noi di queste
viscere di pietà, come santi e diletti
di Dio, per assimilarsi alla sua
condizione e a quel sommo sacerdote,
del quale egli disse: Non abbiamo
un sommo sacerdote che non sappia
compatire le nostre infermità (Eb
4,15). Perciò anche noi dobbiamo
compatire volentieri il nostro prossimo,
come Cristo compatì tutto il
mondo, il che si vede in modo tutto
singolare nell’esempio della samaritana.
Che cosa non fece Cristo per
guadagnare quell’anima? S. Giovanni
tratteggia in modo vivo questo affetto
compassionevole, quando dice: Gesù,
stanco del viaggio, sedeva presso
il pozzo (Gv 4,6); e a questo proposito,
s. Agostino dice che Cristo, con
molta ragione, si paragona a una gallina:
Quante volte ho voluto raccogliere
i tuoi figli, come una gallina
raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi
non avete voluto? (Mt 23,37). Perché,
egli dice, gli altri uccelli si riconoscono
se sono madri, o no, se non quando
si vedono nei loro nidi; ma la gallina
si riconosce sempre essere madre,
anche se non è seguita dai
pulcini, perché basta osservare il suo
solo aspetto: nel vederla distrutta,
scaduta e magra; poiché non mangia
e, sempre singhiozzando, sta vigilante
e attenta solo al governo e alla difesa
dei suoi figliuoli. Tale si dimostra
Cristo in questo caso: andava per il
20
Eco dei Barnabiti 4/2009
Osservatorio paolino
OSSERVATORIO PAOLINO
DOVE VANNO GLI STUDI
SU PAOLO?
Due studiosi italiani di Paolo, Antonio
Pitta (nato nel 1959) e Stefano
Romanello (nato nel 1961), hanno
tracciato una interessante mappa degli
studi moderni su san Paolo. Il primo,
a conclusione di un suo studio
su «Paolo, la Scrittura e la Legge –
Antiche e nuove prospettive» (EDB,
2008); il secondo, sulla rivista Teologia
– rivista della facoltà teologica
dell’Ialia settentrionale, 1/2009, pp.
15-32.
Le mappe non si sovrappongono
perfettamente, perché privilegiano
punti di vista diversi, ma sono altrettanto
utili per orientarsi nel variegato
e complesso mondo degli studi paolini
degli ultimi decenni.
A conclusione dell’anno paolino, è
sembrato utile darne conto dettagliato
per chi voglia avvicinarsi e approfondire
la conoscenza di Paolo.
1. La mappa di Antonio Pitta
Nel tracciare la sua mappa, Antonio
Pitta pone l’attenzione su due
versanti fondamentali: A) un bilancio
delle «nuove prospettive» (al plurale)
apparse su Paolo e le sue lettere nell’ultimo
trentennio; B) le loro conseguenze
per la teologia paolina.
Quanto alle «nuove prospettive»,
Pitta riconosce a E.P. Sanders il merito
della «svolta» delle ricerche su
Paolo, con la sua opera «Paolo e il
giudaismo palestinese» (1977, trad.
italiana Paideia Brescia, 1986). Sanders
ha scardinato il vecchio pregiudizio
che interpretava il giudaismo
come la religione dei meriti e del
particolarismo, mentre il cristianesimo
era la religione della grazia e dell’universalismo.
Per Sanders, entrambi
– giudaismo e cristianesimo – condividono
il «nomismo del patto». In
altre parole, entrare nel patto, nell’alleanza
con Dio, è un dono di Dio;
ma permanere nel patto, nel popolo
dell’alleanza, esige comunque una
sottomissione e una obbedienza alla
legge (nòmos, in greco).
Per quanto variegate potessero essere
le correnti del giudaismo prima
della distruzione del Tempio ad opera
di Vespasiano e Tito (70 d.C.) – farisei,
esseni, sadducei, apocalittici –,
e per quanto variegate potessero essere
le correnti all’interno dello stesso
movimento cristiano, o «via» cristiana,
gli uni e gli altri si riconoscevano
nel Monoteismo, nella Scrittura,
nella Legge e nel Culto: e tutto questo
li distingueva dalle altre religioni
antiche. La prima generazione cristiana
viveva senza drammi nel seno
della religione ebraica.
Altre «nuove prospettive» riguardano
la storia e la sociologia del cristianesimo
delle origini.
La separazione delle «vie», iniziata
con Gesù all’interno del giudaismo,
prosegue con Paolo e si radicalizza
con la distruzione del secondo Tempio.
Si deve a Paolo l’assunto della
giustificazione per la fede, senza il
concorso delle opere della Legge, e
l’uso delle Scritture in prospettiva cristologica
ed ecclesiologica: questi
due motivi conferirono una accelerazione
nella separazione tra il giudaismo
rabbinico e il cristianesimo
(J.D.G. Dunn, 1991; G. Jossa, 2004).
Soprattutto nell’ambiente della diaspora,
cioè degli ebrei che vivevano
fuori della Palestina, le prime comunità
paoline si configurarono come
«chiese domestiche», frequentate da
credenti in gran parte di estrazione
umile (schiavi e liberti). In esse le
donne svolgevano funzioni di rilievo
e non soltanto di servizio familiare.
Le assemblee dei credenti in Cristo,
tollerate in un primo momento dalle
autorità imperiali, sono caratterizzate
dalla frequentazione della Scrittura,
dalla frazione del pane e dalla condivisione
della mensa tra giudei e
gentili, tra i più agiati e i poveri, e tra
i forti e i deboli (E.W. Stegemann-W.
Stegemann, 1995).
Un altro approccio interessante è
quello intrapreso da H.D. Betz che
nel suo commento alla Lettera ai Galati
(1975) ha introdotto l’analisi retorica
dell’epistolario paolino. Ricostruire
il contesto del mittente e dei
destinatari permette di qualificare i
punti nodali distinguendoli dalle argomentazioni
funzionali.
L’analisi puntigliosa delle lettere
paoline ha poi permesso di intravvedere
– nei momenti polemici – l’esistenza
di numerosi gruppi di ‘oppositori
cristiani di origine giudaica’ a
Corinto, in Galazia e a Filippi; sicché
si tende ad abbandonare la classica e
limitante opposizione tra ‘petrinismo’
e ‘paolinismo’.
Un ulteriore ambito nel quale si
segnalano «nuove prospettive» è
quello dell’uso delle sacre Scritture
di Israele nell’epistolario paolino
(J.M. Scott, 1995; F. Watson, 2004).
Nelle sue lettere, infatti, Paolo più
che rifarsi al Gesù storico, ai racconti
della sua vita e ai suoi detti («loghia»),
rilegge la Scrittura sacra di
Israele nell’ottica di Gesù Messia
(Cristo), morto in croce e risorto per
noi, in cui solo c’è salvezza per
quanti crederanno e professeranno la
fede in lui: i chiamati, la chiesa.
Le «nuove prospettive» determinano
«ritratti nuovi» di Paolo e della
sua teologia. E questo fin dall’episodio
paradigmatico di Damasco. Esso
ormai viene letto non più e solo con
il classico modello della conversione,
quanto piuttosto con il modello
della vocazione. Paolo è stato chiamato
in modo forte e misterioso alla
sequela di quel Gesù, la cui «via»
egli perseguitava (K. Stendahl, 1976;
C. Dietzfelbinger, 1985; S. Kim, 2002;
F. Philip, 2005).
Aderendo al movimento cristiano,
Paolo vi ha portato la sua educazione
alla lettura delle Scritture, come
era tipico dei farisei, ascoltatori della
parola e dediti alle opere di culto.
Un altro punto che è stato riconsiderato
alla luce delle «nuove prospettive»
è la classica dottrina paolina
della «giustificazione per la fede».
Oggi si preferisce utilizzare il modello
della salvezza attraverso la «partecipazione»
dei credenti alla morte e
risurrezione di Cristo (A. Schweitzer,
1930). Le «opere della Legge» non
riguardano più la via della giustificazione,
bensì i ‘marchi di identità’ che
separano i giudei dai gentili.
Contro questa interpretazione (che
ha avuto i suoi esordi in Sanders) sono
insorti soprattutto molti ambienti
della Riforma, per i quali la dottrina
della giustificazione per la fede e
non per le opere rimane centrale.
Ma con maggior equilibrio oggi si
riconosce che giustificazione per la
fede e partecipazione non vanno
Eco dei Barnabiti 4/2009 21
OSSERVATORIO PAOLINO
contrapposti, ma semmai messi in
relazione.
Le «nuove prospettive» hanno
contribuito a chiarire meglio il rapporto
tra Paolo e il Gesù storico. Alcuni
studiosi (T. Stegman, 2005)
hanno tentato di delineare, accanto
alla centralità della cristologia,
quella della gesuologia paolina.
Tuttavia, è innegabile che Paolo,
quando parla della «fede di Cristo»,
intende il genitivo come genitivo
oggettivo: la fede, cioè, in
Cristo, con questo confermando
la centralità della
fede nel Signore morto e
risorto, il Signore, il Messia,
il Cristo. Anche se
non totalmente assente,
come vorrebbe D.M. Neuhaus
(2002) che afferma:
«Il Gesù terreno con
la storia della sua vita, come
appare dai vangeli, è
assente dalle lettere di
Paolo»; nelle lettere di
Paolo non è il Gesù storico
che ha il primato, ma il
Cristo risorto e oggetto
della fede. Come pure
nelle sue lettere più che i
detti di Gesù (i «loghia»)
sono rilevanti le citazioni
dirette e indirette tratte
dalle Scritture di Israele.
Ma anche in questo
campo non bisogna prestarsi
alla confusione. P.J.
Thomson (1990) e altri sostengono
che, per quanto
non più connessa alla giustificazione,
la Legge sarebbe
proposta da Paolo
come codice etico. Non è
proprio così. Le tavole dei
valori etici proposti da
Paolo alle sue comunità
non sono una riproposizione
della «halaka» biblica.
Le esortazioni paoline sono
fondate sulle relazioni con Cristo,
con lo Spirito e con il comandamento
dell’amore vicendevole, che determinano
un modo nuovo di interpretare
le Scritture; e non più sulla legge
mosaica, che non svolge più la funzione
di guida o di codice etico.
Infine ci dobbiamo domandare se
le «nuove prospettive» ci autorizzino
a parlare di un «centro» della
teologia paolina, e in che cosa esso
consista.
I nuovi studi hanno portato a
pensare che, per quanto il pensiero
di Paolo non si possa definire «incoerente»,
certamente non riveste
natura sistematica, dal momento
che non rappresenta uno sviluppo
organico. Il pensiero di Paolo appare
piuttosto determinato dalle situazioni
delle sue comunità, e
quindi frammentario e quasi ‘atomizzato’.
Ma, nonostante questo,
non si può negare che vi si possano
identificare alcuni vettori che lo
caratterizzano. «La centralità del
vangelo che in Cristo riscontra il
dato di focalizzazione (J.-N. Aletti,
1995), l’alternativa tra la giustificazione
per la fede e non mediante le
opere della Legge, l’ingresso dei
gentili nel popolo dell’alleanza,
l’adempimento della Legge nel comandamento
dell’amore e la diffusa
importanza che conferisce allo
Spirito, rappresentano alcuni dei
vettori costanti delle grandi lettere
e impediscono di considerare come
semplicemente situazionale il modo
di argomentare di Paolo» (Pitta,
op. cit., pag. 236).
Considerando infine l’«attualità» di
Paolo, Pitta ci tiene a sottolineare
due punti. Primo, contro quelli che
ritengono che Paolo abbia inferto un
colpo mortale alla tragicità della situazione
umana predicando una
morale di servi (per es. Nietzsche e
G. Steiner), Pitta sostiene
che il vangelo di Paolo è
un «vangelo tragico», che
accoglie con profonda serietà
ogni domanda umana
e la illumina con il ‘sì’ che
Dio ha detto a tutti in Cristo
e il ‘no’ che ha rivolto
per amore a se stesso.
Secondo, contro quelli a
cui fa comodo pensare a
Paolo come a un convertito
o a un apostata, Pitta
sostiene che Paolo rimane
nella sua essenza un
ebreo, raggiunto dall’irruzione
del Risorto sulla sua
strada; non un convertito,
bensì uno chiamato ad attestare
la fede paradossale
in Cristo con le stesse
Scritture che lo hanno formato
e con quella Legge
che per anni ha osservato
e può continuare a mettere
in pratica, a condizione
che non la consideri come
condizione salvifica.
Così come il defunto
Cardinal Aron Jean-Marie
Lustiger, ebreo e Cardinale
di Parigi, ha voluto lasciar
scritto sulla sua tomba:
«Sono nato ebreo.
Ho ricevuto il nome di mio
nonno paterno, Aronne.
Diventato cristiano per la
fede e il battesimo,
sono rimasto ebreo come lo erano
rimasti gli apostoli.
Ho per santo patrono il gran Sacerdote
Aronne,
l’apostolo Giovanni, santa Maria piena
di grazia.
Nominato 139° Arcivescovo di Parigi
da sua Santità il Papa Giovanni Paolo
II,
sono stato intronizzato in questa
cattedrale il 27 febbraio 1981,
22
Eco dei Barnabiti 4/2009
OSSERVATORIO PAOLINO
e da questo momento vi ho esercitato
tutto il mio ministero.
Passando, pregate per me».
2. La mappa di Stefano Romanello
Da sempre il pensiero di Paolo ha
suscitato discussioni. Durante la sua
vita, Paolo ebbe all’interno dello
stesso gruppo cristiano degli accaniti
avversari (ne parla Antonio Pitta nel
capitolo 3 del suo libro appena citato).
E la seconda Lettera di Pietro
(inizi del II secolo) afferma che nelle
lettere di Paolo «vi sono alcuni punti
difficili da comprendere, che gli
ignoranti e gli incerti travisano, al pari
delle altre Scritture, per la loro propria
rovina» (2Pt. 3, 16).
Nei tempi moderni, c’è chi lo ha
considerato come rappresentante di
una religiosità spontanea e asistematica
(A. Deismann, 1909); chi invece,
un campione del cristianesimo
che oppone in ambiente pagano
una motivazione teoretica
contro quella legalista rappresentata
da Pietro (F.C. Baur, 1845); chi
addirittura l’ha dipinto come «il secondo
fondatore del cristianesimo»
(W. Wrede, 1904).
Sino a pochi decenni fa si pensava
che la sua teologia (sulla scorta
della storica impostazione di Lutero)
fosse caratterizzata dalla dottrina
della «giustificazione per fede»
opposta a una presunta giustificazione
basata sulla Legge. Questa
impostazione, recepita e teorizzata
filosoficamente nel sec. XIX dalla
Scuola di Tubinga, faceva consistere
il «paolinismo» nel carattere gratuito
della giustizia di Dio, in opposizione
radicale alla Legge e alle
sue opere.
Per R. Bultmann (Teologia del Nuovo
Testamento, 1953) la categoria
della giustizia era categoria soteriologica
centrale in Paolo. È Dio che
rende «giusto» l’uomo. La parola
«giustizia» non designa la qualità etica
dell’uomo.
Kasemann (Saggi esegetici, 1961)
inquadrava questa visione paolina
della giustizia di Dio nell’orizzonte
dell’attesa degli ultimi tempi. «L’apocalittica
è la madre di tutta la teologia»,
egli scrive.
Fuori da coro e con una tesi per
quei tempi dirompente, K. Stendahl
(1963) affermò invece che la dottrina
della giustificazione non era una
risposta al problema del peccato
(all’epoca di Paolo – egli sostiene –
era del tutto assente una «coscienza
introspettiva», che si sarebbe affacciata
in Occidente molto più tardi,
con Agostino e, secoli dopo, con
Lutero) ma un espediente strategico
per garantire l’accesso alla comunità
dei credenti ai provenienti dal
paganesimo senza farli passare sotto
le forche caudine della Legge
ebraica (circoncisione, culto, calendario,
purità alimentari etc.). La salvezza,
vuol dire Paolo, viene da
Dio e le opere della Legge (ebraica)
sono superate.
È stato E.P. Sanders colui che ha
costituito con la sua opera “Paolo e
il giudaismo palestinese” (1983, trad.
it. Paideia Brescia 1986) il punto diacritico
dell’esegesi, da cui il dibattito
odierno in larga misura dipende.
Sanders, con la sua fondamentale categoria
del «nomismo dell’Alleanza»
(covenental nomism), ha sottolineato
che un conto è il passo dell’ingresso
nell’Alleanza – dono gratuito di Dio,
un altro il permanere nell’Alleanza –
che esige l’impegno umano, cioè
l’obbedienza e il compimento delle
clausole dell’Alleanza, l’obbedienza
cioè alla Legge. Anche in Paolo si ritrova
questa dialettica tra grazia e
impegno. Solo che ora la relazione
con Dio è costituita dalla redenzione
operata da Cristo e la risposta dell’uomo
è l’impegno a corrispondere
all’amore di Cristo. Come dice Sanders,
la formulazione soteriologica
centrale di Paolo è la «partecipazione
al Cristo», a cui corrisponde l’«essere
nello Spirito» (op. cit. pp. 700-
708). Quel che Paolo pensava si può
così sintetizzare: «…Cristo è stato
costituito Signore da Dio per la salvezza
di tutti quelli che credono,
…quelli che credono appartengono
al Signore e divengono una sola
realtà con Lui e… in virtù della loro
incorporazione nel Signore saranno
salvati nel giorno del Signore» (op.
cit. pag. 716).
La questione che Romanello esamina
di seguito è la dibattuta questione
della «teologia paolina»: se
esiste una «visione organica» in Paolo
o tutto sia condizionato dalla occasionalità
del genere epistolare. Si
può dire, con Sanders, che «Paolo fu
un pensatore coerente, ma non sistematico».
Infatti, né la giustificazione
per fede, né la «mistica» e partecipazione
del credente in Cristo, né la riconciliazione,
né l’apocalittica, né
alcun altra delle categorie teologiche
proposte dagli interpreti appare esplicitamente
tematizzata da Paolo, da
essere considerata il punto archimedeo
della sua teologia.
Di fronte a questa difficoltà, alcuni,
per esempio Ph. F. Esler (Conflitto
e identità nella Lettera ai Romani,
2003, trad. it. 2008), ritengono che
le proposizioni concettuali di Paolo
sono legate al vissuto delle comunità
cui si rivolgeva con le sue lettere occasionate,
e perciò sono prive di sistematicità
organica. L’interprete dovrebbe
perciò identificare la situazione
retorica della comunicazione
rappresentata da un particolare testo.
Le lettere sarebbero allora solo
esercizi di persuasione seducente?
Solo «retorica»? Ma la vera «retorica»,
così come sistematizzata da
Aristotele, è la qualità persuasiva del
discorso ottenuta dal carattere dell’oratore
(éthos), dal coinvolgimento
degli ascoltatori (pàthos), e anche
dalla ragionevolezza intrinseca del
discorso (lògos). Se nelle lettere paoline
non c’è sistematicità, non è per
questo esclusa, anzi è presupposta,
una dimensione logico-teoretica del
discorso.
È stato il gesuita J.-N. Aletti (1992,
1996, 1997) ad evidenziare attraverso
l’«analisi retorica» nuclei teoretici
costanti nel pensiero di Paolo, su cui
Paolo fa leva nell’interpretazione dei
vari vissuti contingenti affrontati nelle
lettere.
Ma se si va al di sotto dell’analisi
retorica non si potrà che scoprire che
le lettere di Paolo sarebbero incomprensibili
senza l’«evento Cristo». La
teologia di Paolo non potrà essere
compresa a prescindere da una memoria
costitutiva, quella dell’evento-
Cristo, e della memoria scritturistica
nella prima inscritta (Romanello-
Vignolo, 2006; F. Belli et alii, 2008;
M. Grilli, 2007).
Il punto prospettico da cui Paolo
guarda la vicenda di Gesù è costituito
dal suo mistero pasquale. «È il Cristo,
in quanto morto e risorto, ad assurgere
a punto prospettico, criterio
di valutazione non solo della vicenda
di Gesù, ma della vicenda di Paolo,
delle sue comunità e dell’intera
umanità, e, quindi, a divenire principio
di coerenza di un pensiero…»
(art. cit., pag. 27). Se al centro della
Eco dei Barnabiti 4/2009 23
OSSERVATORIO PAOLINO
INTENZIONI MENSILI
PER L’APOSTOLATO BARNABITICO DELLA PREGHIERA
Gennaio : Per tutti i sacerdoti, e specialmente per i sacerdoti Barnabiti, perchè ottengano
il dono della perseveranza, si mantengano fedeli alla preghiera, celebrino la
santa Messa con devozione sempre rinnovata, vivano in ascolto della Parola di Dio,
– e assimilino giorno dopo giorno gli stessi sentimenti ed atteggiamenti di Gesù Cristo,
il Buon Pastore.
Febbraio: Per i confratelli sacerdoti che esercitano il loro ministero nelle parrocchie,
nei gruppi e nelle varie associazioni, perchè mostrino coraggiosamente al mondo,
con la santità della vita, l’adorabile fisionomia del Cristo,
– irradiando la luce della verità e dell’amore nel servizio della parola e dei sacramenti.
Marzo: Per i Confratelli sacerdoti che esercitano il loro ministero nelle missioni,
perchè sentendo nel cuore la stessa passione evangelizzatrice che ha animato
Paolo, sappiano testimoniare con la loro vita, «fino agli ultimi confini della terra» (At 1,8),
– l’Amore che sa aiutare e servire, trasformare e far crescere in pienezza e dignità.
Aprile: Per i confratelli sacerdoti che esercitano il loro ministero nelle scuole, perchè,
ricchi di sapienza, trasmettano ai giovani loro affidati la felicità vera che nasce da un
cuore docile allo Spirito, e formino appassionatamente gli spiriti alle scienze umane,
– senza mai dimenticare di formare i cuori alla virtù e all’amore di Dio.
Maggio: Per i Confratelli sacerdoti che esercitano il loro ministero nella formazione
alla vita sacerdotale e religiosa, perchè lo Spirito conceda loro virtù e discernimento
per guidare i giovani nel loro cammino spirituale e metterli in grado di scoprire ciò
che, oggi, Cristo chiede loro,
– per essere, domani, sacerdoti e religiosi secondo il cuore di Dio.
Giugno: Per i Confratelli sacerdoti che esercitano il loro ministero negli ambiti delle
nuove marginalità, perchè in un mondo ancora pieno di infelici, sfruttati e perseguitati,
non abbiano paura di servire la Chiesa nel modo in cui meglio essa vuole essere servita,
– spendendosi nell’amore gratuito specialmente per i poveri e gli emarginati.
Luglio: Per i Fratelli Coadiutori, perchè coscienti della loro participazione al dono del
sacerdozio comune siano fedeli ai loro impegni, gelosi della propria vocazione e della
propria donazione, e vivano nella gioia per il dono ricevuto,
– in fraterna ed efficace collaborazione con i confratelli sacerdoti.
Agosto: Per le nostre comunità religiose, perchè sappiano testimoniare con intelligenza
e convinzione quanto è bello e dolce vivere insieme da fratelli (cfr. Salmo 133), per
diventare segno di concordia e di pace
– e per suscitare nuove vocazioni alla vita consacrata nella nostra famiglia religiosa.
Settembre: Per le Angeliche di S. Paolo, perchè insieme ai confratelli Barnabiti
conformino le loro parole e la loro vita a Cristo, e avanzino sulla strada della perfezione,
– con la forza di Dio come unico appoggio e con la saggezza di Dio come unico
orientamento.
Ottobre: Per i Laici di San Paolo perché dopo essersi deliziati nell’abbracciare Cristo
crocifisso, subitamente lo restituiscano vivo e vivificante,
– nei molteplici scenari del mondo in cui sono chiamati a testimoniarlo.
Novembre: Per la Gioventú zaccariana perchè si lasci guidare dalla sapienza del cuore
e sappia leggere tra le righe della storia di oggi i segni disseminati dalla presenza di Dio,
– che vuole i credenti luce e sale del mondo.
Dicembre: Per i membri degli Istituti religiosi a noi spiritualmente vicini, perchè siano
fedeli al proprio carisma e ai doni dello Spirito del Signore, e, in comunione con le
Famiglie Zaccariane,
– siano costruttori del Regno di Dio nella vita di ogni giorno.
predicazione di Gesù, nei vangeli sinottici,
c’è il «Regno di Dio» imminente,
in Paolo al centro della predicazione
c’è invece Cristo crocifisso e
risorto.
Le prospettive nuove su Paolo si
chiudono nella rassegna di Romanello
con due costatazioni: in primo
luogo, la persistente validità rivelativa
delle Scritture ebraiche per
le comunità che si riconoscono in
Cristo. L’annuncio della morte e risurrezione
di Cristo fatta da Paolo
ai Corinti (1 Cor. 15, 3-5) è «secondo
le Scritture» di Israele. La novità
di Cristo non elimina le Scritture
antiche, ma esse sono lette alla luce
del suo mistero. In secondo luogo,
la relazione di Paolo con il giudaismo.
«Paolo non si prefigge la costituzione
della Chiesa come entità
antagonista e nemmeno separata da
Israele» (art. cit., pag. 29). Una teoria
della sostituzione non sembra
proponibile. “…la fede in Cristo
non costituisce i credenti in una
realtà, la Chiesa, di per sé antitetica
ad Israele. Appartenenza alla Chiesa
e a Israele non sono due realtà
reciprocamente esclusive. Paolo è
‘israelita’ e, contemporaneamente,
‘credente in Cristo’” (art. cit., pag.
31). Per usare una formula significativa
di Pitta, “più che ‘deluteranizzato’
o ‘riluteranizzato’, Paolo
andrebbe ‘rigiudeizzato’” (Niebuhr,
1992).
L’innesto dell’olivastro nell’olivo
buono (Rom. 11, 17-24) «ricorda come
i credenti provenienti dalle genti
siano innestati su di una storia ad essi
precedente, della cui fecondità sono
permanentemente debitori e verso cui
non possono che nutrire un’incondizionata
stima» (art. cit., pag. 32).
Giuseppe Cagnetta
Abbiamo parlato di:
Antonio Pitta. Paolo, la Scritture e
la Legge – Antiche e nuove prospettive,
Edizioni Dehoniane Bologna,
2008.
Stefano Romanello. Dove si stanno
dirigendo gli studi su Paolo? Alcune
considerazioni in occasione dell’anno
paolino, in Teologia – rivista della
facoltà teologica dell’Italia settentrionale
1/2009, pp. 15-32.
24
Eco dei Barnabiti 4/2009
STORIA DELL’ORDINE
LA CASA DEI SANTI BARNABITI
Il Centro Studi Storici dei PP. Barnabiti ha aderito all’iniziativa «Le Case dei Santi», coordinata
dai Camilliani e patrocinata dall’Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione del
Comune di Roma. Dal 6 al 7 novembre 2009 anche San Carlo ai Catinari ha così aperto le porte
di casa, che dall’anno 1575 vedono passare i barnabiti della Città Eterna per dedicarsi alla cura
pastorale e alla carità, all’assistenza della gioventù, ai servizi alla Sede Apostolica, all’apostolato
intellettuale e al servizio della Congregazione.
Roma, San Carlo ai Catinari,
Habitatione de’ Chierici Regolari di
S. Paolo detti Bernabiti, particolare
del palazzo (Giovanni Battista Falda,
XVII secolo)
P
erché San Carlo ai Catinari
può dirsi Casa dei
Santi? Qui non vi sono
custodite le spoglie mortali del
S. Fondatore, Antonio M. Zaccaria
(Cremona, 1502-1539; si trovano
presso la Chiesa dei Santi Apostoli
Paolo e Barnaba a Milano), neppure
quelle di Sant’Alessandro Sauli (Milano,
1534-Calosso d’Asti 1592; si
trovano presso la Chiesa di Sant’Alessandro
a Pavia) o di San Francesco
Saverio M. Bianchi (Arpino
1743-Napoli 1815; si trovano presso
la Chiesa di Santa Maria di Caravaggio
a Napoli). Per non parlare poi di
quelle di San Carlo Borromeo, patrono
secondario della Congregazione
o dell’Apostolo San Paolo, titolare e
patrono principale della medesima.
Benché Antonio M. non abbia mai
toccato il suolo romano della cosiddetta
Terra Santa della Latinità, si
può legittimamente affermare che in
sua rappresentanza vi venne a fondare
la Casa di San Carlo il p. Tito degli
Alessi (1525 ca.-1595) – uno dei primissimi
suoi discepoli – grazie al felice
e determinante incontro per la
sua scelta vocazionale avuto proprio
con lui, nel 1537, a Vicenza. Sant’Alessandro
Sauli e San Carlo scesero
poi insieme a Roma per il Giubileo
dell’anno 1575, e, molti anni più tardi,
San Francesco Saverio M. Bianchi
si fermò a San Carlo nel periodo della
sua formazione, per iniziarvi lo
studio della Teologia, dal novembre
1765 alla primavera del 1766.
Del resto, la Casa di San Carlo – ricca
di memorie storiche, culturali e artistiche
– raccoglie i volumi della Biblioteca
barnabitica romana – e non
solo – sui quali studiarono confratelli
di grande valore, diversi dei quali oggi
avviati alla gloria degli altari, come
il Venerabile Cesare Barzaghi o il Servo
di Dio Giovanni Semeria; è sede
dell’Archivio Generalizio, che custodisce
e valorizza la memoria storica
dell’Ordine (per esempio, si vedano
gli Scritti autografi del Santo Fondatore:
scritti-reliquia); ospita la Postulazione
Generalizia, che conserva la
documentazione e le reliquie, promuovendo
il culto dei Barnabiti Venerabili,
tra essi Canale (1605-1681),
Schilling (1835-1907), De Marino
(1863-1929), Barzaghi (1863-1941),
Ghidini (1902-1924), Bascapè (1550-
1615), o ancora Servi di Dio: Recrosio
(1657-1732), Castelli (1752-1771),
Redolfi (1777-1850), Raineri (1895-
1918), Pagni (1556-1624), Priscolo
(1761-1853), Semeria (1867-1931),
Coroli (1900-1982); infine è la sede
del Centro Studi Storici, che, sovraintendendo
a tutto questo patrimonio di
grande valore, promuove e diffonde
gli studi barnabitici.
san Carlo, lato del palazzo che si
affaccia su Piazza Cairoli
Per questo, costituendo un tutt’uno
con la Chiesa, la Casa di San Carlo
appare quasi un “museo vivente”, custode
dell’identità dell’Ordine, dove
tutto richiama l’anelito di Sant’Antonio
M. affinché «ti santifichi e ti dia a
Dio» (Sermone III); un invito a «diventare
gran santi» (Lettera XI).
Roma
I Barnabiti si trovano a Roma dal
1575, ossia da ben 434 anni. Costruirono
la prima Chiesa al mondo
dedicata a San Carlo Borromeo, che
ha amato l’Urbe come sua patria spirituale,
conseguendo il titolo di cittadino
romano. La posa ufficiale della
prima pietra avvenne il 26 febbraio
1612, sul luogo ove sorgeva la chiesa
parrocchiale di San Biagio de
Anulo (dell’Anello), nell’area oggi
compresa tra vicolo dei Chiodaroli e
via Monte della Farina. Parrocchia
decana dell’Ordine, ha visto qui nascere
e svilupparsi la devozione alla
Madonna della Divina Provvidenza,
mentre oggi ospita le spoglie mortali
della Serva di Dio Rosa Giovanetti e
la lapide commemorativa della Venerabile
Madre Maria Elena Bettini,
Eco dei Barnabiti 4/2009 25
STORIA DELL’ORDINE
pianta della Chiesa e della Casa di San Carlo ai Catinari, aggiornata da
Alessandro La Rocca nel 2008 (complesso delimitato da Piazza Cairoli,
Via Borgi, Via di Sant’Anna, Via Monte della Farina)
che diede vita all’Istituto delle Figlie
della Divina Provvidenza, del quale
il p. Tommaso Manini, barnabita, fu
il cofondatore.
Anche il palazzo fu costruito dai
Barnabiti nel XVII secolo, poi confiscato
dallo Stato italiano nell’Ottocento
e infine restituito alla Santa Sede
con il Trattato del 1929. Oggi
ospita anche la Società Archeologica
Romana e la sede della nascente Onlus
dell’Ordine. Qui fu il Centro Nazionale
dell’Apostolato della Preghiera
e della devozione al S. Cuore, prima
che i Barnabiti lo cedessero ai
Gesuiti durante la Grande Guerra.
Qui risiedette la Curia Generalizia
(quando scese da Milano nel 1662),
prima di essere portata al Gianicolo
nel 1931. Qui nacque il Seminario
per i Chierici poveri fondato dal
p. Maresca e il Ricreatorio-Oratorio
S. Cuore, fondato dal p. Vitale. Nelle
altre ali del palazzo, separate e indipendenti,
si trovano il Pontificio Istituto
Polacco di Studi Ecclesiastici e la
Domus Sanctae Mariae Guadalupe.
moderna. I luoghi e le immagini. Tra
i relatori, Sofia Boesch Gajano, Presidente
dell’Associazione italiana per
lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia,
e Robert Godding, Presidente
della Société des Bollandistes.
Il giorno dopo hanno aperto contemporaneamente
le loro porte le
Case di sette Santi, protagonisti – direttamente
o indirettamente – delle
vicende culturali e spirituali dell’Urbe
tra il 1500 e il 1700, e tutti “non
romani”: Sant’Antonio M. Zaccaria
(Barnabiti), San Camillo de Lellis (Camilliani),
San Carlo da Sezze (Francescani),
San Giovanni Leonardi
(Chierici Regolari della Madre di
Dio), San Giuseppe Calasanzio (Scolopi),
Sant’Ignazio di Loyola (Gesuiti),
e San Leonardo da Porto Maurizio
(Francescani).
E così per due giorni – da venerdì
6 a sabato 7 novembre, dalle 9.00
alle 13.00 e dalle 15.00 alle 17.00 –
attraverso visite guidate gratuite, il
pubblico ha avuto l’opportunità di
conoscere alcuni luoghi altamente
simbolici per la Città Eterna, inglobati
all’interno di capolavori dell’architettura
ecclesiastica romana. L’evento
è stato altresì arricchito da due serate
musicali (venerdì 6 e sabato 7
novembre), sempre a ingresso libero,
organizzate dal Centro Culturale Aracoeli
dei Frati Minori della Provincia
Romana presso la Chiesa S. Bonaventura
al Palatino e la Chiesa S.
San Carlo, i caratteristici corridoi
le Case dei Santi
Prima nel suo genere, l’interessante
iniziativa si è proposta di rendere
accessibili al grande pubblico quegli
spazi o luoghi della memoria
– usualmente privati – in cui hanno
vissuto i Santi, o ne viene principalmente
custodita la memoria, contribuendo
alla vita e alla storia di
Roma. È stata opportunamente preceduta
dal Convegno svoltosi il 5
novembre 2009, presso la Sala Baldini
in piazza Campitelli, dal titolo:
Santi e Ordini religiosi a Roma in età
la locandina dell’iniziativa
26
Eco dei Barnabiti 4/2009
STORIA DELL’ORDINE
Francesco a Ripa. Non sono mancati
diversi comunicati stampa e articoli
giornalistici, come quello apparso su
“Avvenire” del 25 ottobre 2009, dal
titolo In sette luoghi di Roma si prepara
un cammino di memoria e di fede,
a firma di Marina Corradi, che si
chiedeva: «Che cercheranno nelle
case dei santi i visitatori, tra un incrocio
e l’altro di Roma, mentre inferociscono
i clacson e procedono
compatte le falangi di turisti di fine
stagione? Forse quello che cercano
nella casa di Bernardette a Lourdes,
o nella cella di Padre Pio a San Giovanni
Rotondo: tracce. Orme, di una
umanità uguale alla nostra, eppure
profondamente trasformata. Morta,
come tutti gli uomini muoiono; e
però non vinta dalla morte… E in
quelle loro case anche i muri sembrano,
nel silenzio, ancora pregni di
una stupefatta memoria».
sette Case per sette Santi
SANT’ANTONIO M. ZACCARIA
(1502-1539). Ingresso da Piazza Benedetto
Cairoli, 117. Ritornato in auge
lo studio di San Paolo nel XVI secolo,
il primo Istituto religioso “paolino”
nella Storia della Chiesa ebbe
inizio nel 1530 con Sant’Antonio M.
Zaccaria (Cremona, 1502-1539). Egli
è il fondatore principale della Congregazione
dei Chierici Regolari di
San Paolo Decollato, detti Barnabiti
dal nome della loro Casa madre di
San Barnaba in Milano. Di nobile e
benestante famiglia, dopo gli studi di
Medicina all’Università di Padova,
tornato a Cremona, si diede a «vita
spirituale», dedicandosi all’insegnamento
del catechismo ai fanciulli
nella chiesetta di San Vitale e istituendo
il gruppo dell’Amicizia per
gli adulti. Ordinato sacerdote il 20
febbraio 1529, sotto la direzione del
domenicano Fra’ Battista Carioni da
Crema, diede vita alla nascente Congregazione
dei Figli di San Paolo,
che fu poi approvata ufficialmente
da Clemente VII il 18 febbraio 1533.
Nello stesso periodo lo Zaccaria
fondò l’Istituto delle Suore Angeliche,
approvato dal Pontefice il 15
gennaio 1535 (non obbligate alla
clausura, esse collaboravano attivamente
con i Barnabiti nel comune
cammino verso “la perfezione” e con
l’azione apostolica), e i Maritati di
San Paolo o Società dei Coniugati,
che condividevano a pieno titolo lo
spirito e l’apostolato dei Padri. Oltre
alla devozione a San Paolo (patrono
principale della Congregazione), la
spiritualità della triplice Famiglia
Zaccariana si caratterizza per un’intensa
vita di rinnovamento interiore,
incentrato sul Crocifisso e sull’Eucarestia,
per uno spiccato senso comunitario
e per uno speciale impegno
alla riforma dei costumi. Nel XVII secolo
l’educazione scolastica della
gioventù divenne l’attività prevalente,
accanto alla conduzione di parrocchie,
case di ministero e di spiritualità,
e l’assunzione di missioni.
Morì a Cremona il 5 luglio 1539. Fu
canonizzato da Leone XIII il 27 maggio
1897. Le sue spoglie mortali si
conservano nella chiesa di San Barnaba
in Milano.
SAN CAMILLO DE LELLIS (1550-
1614). Ingresso da Piazza della Maddalena,
53. Camillo de Lellis, nato a
Bucchianico (Chieti) il 25 maggio
1550, il 15 agosto 1582 ha l’ispirazione
a creare una compagnia che si
prenda cura degli infermi gratuitamente
e con amore di madre. Il 18
marzo 1586 la compagnia diventa
Congregazione e il 21 settembre
1591 Ordine religioso. Camillo muore
a Roma il 14 luglio 1614, nella
Casa della Maddalena. Viene canonizzato
nel 1746 da Papa Benedetto
XIV e nel 1886 Leone XIII lo dichiara
patrono degli ospedali e dei malati. Il
28 agosto 1930 viene proclamato, da
Pio XI, Patrono degli infermieri. La
chiesa, presente sin dal 1320 e dedicata
a Santa Maria Maddalena, diventa
la nuova sede di Camillo e dei
suoi seguaci nel 1586. Contigua alla
chiesa è la Casa della Maddalena,
sede ufficiale dell’Ordine dei Ministri
degli Infermi, all’interno della quale
si trova la stanza, o cubiculum, dove
Camillo muore. Ricca di oggetti appartenuti
al Santo, ne custodisce il ricordo
più prezioso, il suo cuore.
SAN CARLO DA SEZZE (1613-
1670). Ingresso della chiesa di San
Francesco a Ripa in piazza San Francesco
d’Assisi, 88. Carlo da Sezze
ebbe, fin dall’inizio della sua vocazione
francescana, un rapporto privilegiato
con il convento di San Francesco
a Ripa in Trastevere, la più antica
abitazione romana dei Frati
Minori e segnata dalla presenza di
Francesco d’Assisi. Fu qui che si recò
la prima volta, il 9 maggio 1635, appena
arrivato a Roma per essere ricevuto
dall’Ordine. Vi ritornò, dopo il
noviziato a Nazzano nel 1650, come
sagrestano. Vi soggiornò ancora nel
1652 e nel 1664. L’importanza di
questo luogo per il Santo sta nel fatto
che qui, per la prima volta, esercitò
la sofferenza e la virtù dell’obbedienza
verso i Superiori. Carlo da Sezze
muore a San Francesco a Ripa il 6
gennaio 1670 e lì si conserva il suo
corpo stigmatizzato dall’Eucarestia.
SAN GIOVANNI LEONARDI (1541-
1609). Ingresso da Piazza Campitelli,
9. Presso la Chiesa di Santa Maria in
Portico in Campitelli sono conservate
le reliquie di San Giovanni Leonardi
(Decimo, Lucca 1541 – Roma
1609). Ordinato sacerdote nel 1571,
rivolse la sua attenzione apostolica
ai bambini ed ai giovani in generale.
Fondatore nel 1574 dell’Ordine dei
Chierici Regolari della Madre di Dio
e co-fondatore di Propaganda Fide
nel 1608, il Leonardi fu beatificato
nel 1861 da Pio IX e canonizzato il
17 aprile 1938 da Pio XI. Benedetto
XVI lo ha proclamato nel 2006 patrono
dei Farmacisti. L’annesso convento,
edificato dai Chierici del Leonardi
tra il XVII ed il XVIII secolo, è
oggi sede della Curia generalizia dell’Ordine.
Al suo interno si trovano
l’Archivio Generale, parte della Biblioteca
storica, la quadreria con
opere del XVII-XVIII secolo e l’Oratorio
della Comunità che custodisce alcune
memorie del Santo Fondatore.
Il doppio titolo di Santa Maria in Portico
in Campitelli, con il quale è indicata
l’attuale Chiesa, rimanda ad
una duplice localizzazione: quella
della Chiesa di Santa Maria in Portico,
oggi non più esistente, dove il
Leonardi giunse nel 1601 e vi morì il
9 ottobre 1609, e la Chiesa di Santa
Maria in Campitelli posta sull’omonima
piazza ed acquistata dai Padri
dell’Ordine nel 1618.
SAN GIUSEPPE CALASANZIO
(1557-1648). Ingresso dalla chiesa
di San Pantaleo e San Giuseppe Calasanzio
in piazza San Pantaleo.
Giuseppe Calasanzio, nato in Spagna
(Peralta de la Sal-Aragona) nel
1557, sacerdote, arrivò a Roma nel
1592. Si dedicò in particolare all’educazione
dei bambini e dei gio-
Eco dei Barnabiti 4/2009 27
STORIA DELL’ORDINE
Giubileo. Le prediche ebbero luogo
in alcune delle più importanti piazze
romane. Fra Leonardo fu il più
grande propagatore della pratica
devozionale della Via Crucis, arrivando
ad erigerne 572. La più illustre
di tutte fu quella fatta innalzare
all’interno del Colosseo in occasione
dell’Anno Santo 1750. In seguito,
per iniziativa di papa Giovanni
XXIII, il Venerdì Santo di ogni anno,
a ricordo e in continuazione della
Via Crucis di San Leonardo al Colosseo,
viene tenuto dal Santo Padre
il pio esercizio dopo il tramonto.
Morto sull’amato Colle Palatino,
il 26 novembre 1751, San Leonardo
venne dichiarato dalla Santa Sede
Patrono dei missionari nei paesi
cattolici.
la Casa dei Santi Barnabiti
da destra, le reliquie di Sant’Antonio M. Zaccaria, di San Carlo Borromeo,
e di S. Francesco M. Bianchi esposte alla venerazione nella Cappella della
Divina Provvidenza
vani più poveri. Al Calasanzio si
deve la fondazione del primo Ordine
religioso dedicato esclusivamente
all’educazione, con un quarto
voto di insegnare. Morì a Roma all’età
di 91 anni, il 25 agosto 1648.
La casa, situata in Piazza de’ Massimi
(presso piazza Navona), accanto
alla Chiesa di San Pantaleo, venne
acquistata dal Santo nel 1612. All’interno
si trovano: – la camera del
Santo (dove visse dal 1612 al 1648
e vi morì) che, rimasta intatta, conserva
le strutture, gli arredi e molti
oggetti appartenuti al Santo; – la
cappella delle Reliquie, che conserva
un grande numero di oggetti appartenuti
al Santo insieme al prezioso
reliquiario dove sono custoditi
il cuore, la lingua, il fegato, la
milza ed il cranio.
SANT’IGNAZIO DI LOYOLA (1491-
1556). Ingresso da Piazza del Gesù,
45. Ignazio Lopez di Loyola, il fondatore
della Compagnia di Gesù –
elevato ad Ordine religioso il 27
settembre 1540 sotto il pontificato
di Papa Paolo III – nasce nel Castello
di Loyola, nei Paesi baschi, nel
1491. Quando Ignazio arrivò a Roma
nel 1537, si dedicò, insieme ai
suoi compagni, al rinnovamento
della fede, provvedendo anche ad
alleviare tante miserie morali e sociali
della popolazione. Beatificato
da Paolo V nel 1609, venne canonizzato
nel 1622 da Gregorio XV.
Le camerette di Ignazio sono le
stanze dove il fondatore dei Gesuiti
trascorse gli ultimi dodici anni della
sua vita, scrivendo le Costituzioni
della Compagnia di Gesù e governando
l’Ordine. Vi morì il 31 luglio
1556.
SAN LEONARDO DA PORTO
MAURIZIO (1676-1751). Ingresso
da Via San Bonaventura, 7. Leonardo
nacque il 20 dicembre 1676 e fu
battezzato, nella chiesa collegiata
San Maurizio e Compagni martiri,
con il nome di Paolo Girolamo. Il 2
ottobre 1697 vestì l’abito francescano
assumendo il nome di fra Leonardo.
Dopo la professione solenne,
il 2 ottobre 1698, fu destinato al
convento di San Bonaventura al Palatino
in Roma, come studente di
Teologia. Qui tornò, ormai anziano,
nel luglio 1749, per tenere tre
corsi di missione di preparazione al
Il percorso ha preso il via proprio
dalla Casa dei PP. Barnabiti di San
Carlo ai Catinari. Grazie al coinvolgimento
dei confratelli della Comunità
e di persone ad essa legate: Lucio
Cusano e Gemma Lovison, e alla
presenza di due giovani guide volontarie:
Emilia de Marco e Cristina
Mochi, si è potuto organizzare al
meglio la visita alle fonti documentali
e monumentali paolino-zaccariane
ivi custodite, contemperando
le esigenze della caratteristica Humilitas
dell’Ordine con quelle della
necessaria sicurezza e fraterna accoglienza.
Seguendo due diversi percorsi,
si sono così potuti visitare vari
e suggestivi ambienti della Casa e
della Chiesa. L’ampio e apparentemente
senza fine Corridoio del piano
terra, con la sua caratteristica penombra
e i ritratti di numerosi e noti
confratelli barnabiti appesi alle pareti
– dal Vercellone al Denza, oltre al
tondo del Santo Fondatore e di San
Paolo – che bene introduceva il visitatore
nello spazio sacro della pietas
et eruditio.
La Sala San Paolo, al cui ingresso
si incontra un affresco dell’Apostolo
recante la breve iscrizione: «Sodalitas
Poenitentium Sancti Pauli Apostoli».
La volta, affrescata dal fratello
Antonio Cataldi, con diversi motivi
paolini rappresentati da radiosi
angioletti, fa da cornice alla grande
tela, raffigurante San Paolo mentre
risponde ad un angelo che scende
dal Paradiso portandogli una coro-
28
Eco dei Barnabiti 4/2009
STORIA DELL’ORDINE
mostra sulla santità barnabitica
na: «Non solum mihi, sed et iis qui
diligunt…» (non solo a me, la corona,
ma anche a quelli che amano),
cfr. 2 Tim 4,8. La cosiddetta Scala
Santa Barnabitica, che inizia dall’elegante
cancello in ferro battuto
sormontato dalla scritta borromaica,
in oro, Humilitas. Salendo i suoi
104 scalini, dopo aver baciato il
Crocifisso che si incontra subito alla
prima rampa ad altezza d’uomo,
si è accompagnati dagli sguardi dei
ritratti dei Santi Barnabiti o di coloro
che furono particolarmente vicini
alla Congregazione. Salendo le
scale si incontrano pertanto Sant’Antonio
M. Zaccaria, San Paolo Apostolo,
San Carlo Borromeo, San
Biagio, San Francesco di Sales,
Sant’Alessandro Sauli, San Francesco
Saverio M. Bianchi. Poi compaiono
una tela di San Filippo Neri
e, infine, una rappresentazione moderna
della Madonna della Divina
Provvidenza.
La Mostra Roma e i Santi Figlioli e
Piante di Paolo, allestita per l’occasione
al III piano, nei locali rinnovati
del sottotetto, con l’esposizione di
diverse testimonianze documentali e
iconografiche dei molteplici rapporti
intercorsi tra i Barnabiti e la Città
Eterna. In particolare evidenza le figure
del Venerabile Vittorio De Marino
e del Servo di Dio Giovanni Semeria.
La Postulazione Generalizia,
dove vengono custodite le reliquie
dei santi e oltre 2500 volumi di Processi
di Beatificazione e Canonizzazione
riguardanti Barnabiti e non
(stampati). La Positio più antica risulta
essere quella del cardinale Palafox.
Vi sono poi alcuni transunti
manoscritti, sempre inerenti a Processi
dei Chierici Regolari di San
Paolo. Per l’occasione sono state
mostrate al pubblico la Positio super
introductione causae e la Positio super
virtutibus di Sant’Antonio M.
Zaccaria.
La Biblioteca Storica, dove sono
custodite anche le opere e gli studi
sui santi. Risalente al XVII secolo,
contiene oltre 5000 volumi suddivisi
in Sacra Scrittura (testi e commenti),
Patristica, Teologia, Storia, Agiografia,
Spiritualità, Letteratura (latina,
italiana, greca e straniera), Diritto
Canonico e Civile, Concili e documenti
ecclesiastici, Numismatica, Archeologia,
Liturgia (con un’appendice
di testi in lingue antiche e moderne,
dal giapponese al persiano, ecc.).
«S’apre questa nel più bel sito e più
sollevato di una magnifica e sontuosa
casa, piena di dotti esemplari e
virtuosi abitatori, un sito opportunamente
ovato e capacissimo del numero
e più di libri che contiene, secondo
la natura architettonica di tal
figura, rivolta appunto a godere spaziosamente
quell’aria e quell’aspetto
dei venti che volle Vitruvio nella costituzione
delle Librerie» (Piazza, Eusevologio
romano, p. XCXLIV, Roma
1698).
La Cappella della Divina Provvidenza,
ultima tappa della visita. Essa
si trova nell’antico coro superiore
della chiesa, e risale al 1680.
Qui si conservano, oltre alla tela
originale della Madonna della Divina
Provvidenza – opera di Scipione
Pulzone da Gaeta († 1597) –, i ritratti
del 1855, opera di Ercole Ruspi,
dei tre Santi Barnabiti: Sant’Antonio
M. Zaccaria, Sant’Alessandro
M. Sauli e San Francesco Saverio
M. Bianchi, oltre naturalmente a
quello di San Carlo Borromeo, sovrastati
da una volta affrescata con
l’immancabile Rapimento al terzo
cielo di San Paolo: «Conversatio
nostra in coelis est» (Fil 3,20). Dopo
un breve momento di preghiera,
a tutti i gruppi è stata impartita la
benedizione con la reliquia del
Santo Fondatore. La Chiesa dei Santi
Biagio e Carlo ai Catinari. Accanto
alla grandiosa cupola progettata
Positio del Santo Fondatore
Eco dei Barnabiti 4/2009 29
STORIA DELL’ORDINE
visita alla Cappella della Divina Provvidenza
sala San Paolo
dal Rosati, decorata in oro e con gli
affreschi del Domenichino, tra le
varie opere d’arte aventi un particolare
riferimento barnabitico si trovano
la Cappella Cavallerini dedicata
a San Paolo e a Sant’Alessandro
Sauli, la Cappella Filonardi
dedicata a Sant’Antonio M. Zaccaria,
la pala dell’altare maggiore rappresentante
San Carlo che reca in
processione il santo Chiodo durante
la peste di Milano, la Gloria di San
Carlo nel catino dell’abside e la
cappella della Madonna della Divina
Provvidenza, oltre agli altri
innumerevoli riferimenti pittorici e
artistici. Immancabili lo stemma
“P.A.”, Paulus Apostolus, e il motto
Humilitas del Borromeo. La sacrestia
e il retro sacrestia, rispettivamente
con la tela San Paolo ispirato
nello scrivere le sue lettere e il Crocifisso
in bronzo di Alessandro Algardi
(† 1654) donato da Benedetto
XIV ai Barnabiti per la loro particolare
devozione a Cristo Crocifisso, e
l’affresco del 1636 circa di Guido
Reni, il quale ritrae San Carlo Borromeo
in preghiera, già sulla facciata
della Chiesa.
L’esito dell’iniziativa è stato di comune
soddisfazione. Per l’occasione
è stato distribuito diverso materiale
divulgativo riguardante la vita, le
opere e la spiritualità dei Barnabiti,
oltre a quello dedicato ai nostri
Santi, Venerabili e Servi di Dio. Hanno
varcato il portone d’ingresso di
S. Carlo 250 persone, che, guidate nella
silenziosa penombra dei suoi ambienti
austeri e solenni, per comune
attestazione hanno percepito le tracce
di una santità paolino-zaccariana,
che ancora commuove e affascina.
Davvero singolare poi è il fatto
che, in quegli stessi giorni dell’iniziativa,
si montassero i tanto attesi ponteggi
per il restauro della facciata interna
della Casa, oramai fatiscente in
alcune sue parti, soprattutto nei cornicioni.
Ritornano così alla mente le
belle parole del messaggio augurale
del compianto Papa Paolo VI, che il
18 ottobre 1975, in occasione del
compimento del IV Centenario della
venuta a Roma dei Padri Barnabiti,
tra l’altro scriveva: «Giova ricordare
che questa loro venuta [dei Barnabiti]
ebbe inizio nel clima d’intenso
rinnovamento, promosso dal Concilio
Tridentino e nell’anno giubilare
indetto da Papa Gregorio XIII nell’anno
1575… [Ciò] non potrà non
impegnare i Padri a ritemprare il loro
zelo alle fonti della propria spiritualità,
docili alle sollecitazioni dello
spirito e attenti ai bisogni più urgenti
delle anime».
Filippo Lovison
facciata interna della Casa di San
Carlo in restauro
30
Eco dei Barnabiti 4/2009
ALLA RICERCA
DI UN’ETICA UNIVERSALE
ETICA UNIVERSALE
Oggetto di appassionato dibattito tanto da parte del mondo credente come da quello laico, la
riflessione sull’etica universale e sulla legge naturale ha dato origine a molteplici interventi
qualificati anche in ambito ecclesiale. Nel presente articolo, il p. Giannicola Simone offre alcune
suggestioni e risonanze nate dalla lettura del documento della Commissione teologica nazionale
dal titolo: «Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale».
L
a scorsa primavera sono
usciti due documenti significativi
nel panorama
della riflessione teologica della Chiesa,
l’enciclica del papa Caritas in veritate
e il libro Alla ricerca di un’etica
universale: nuovo sguardo sulla legge
naturale della commissione teologica
nazionale (CTI), il primo più conosciuto
e pubblicizzato, il secondo
noto soltanto agli addetti ai lavori.
Sebbene il desiderio, quasi la tentazione,
di scrivere dell’enciclica sia
forte, per la passione che ho per la
dottrina sociale della Chiesa, il rispetto
di una certa correttezza metodologica
mi induce a rinunciarvi per
concentrarmi sul testo della Commissione
Teologica Nazionale, che mi
consentirà di concludere la nostra riflessione
sulla legge naturale. Sarà a
partire da questa conclusione che diverrà
possibile sviluppare in seguito
con maggior cognizione di causa e
quindi con maggiore profondità una
riflessione anche sull’enciclica papale.
Vorrei partire da una semplice constatazione,
relativa a un documento
che abbiamo più volte preso in esame,
ossia la Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo (1948). Per quanto
tale Dichiarazione sia stata approvata
dalla maggioranza degli stati aderenti
all’ONU, è nei fatti o non posta in pratica
o interpretata secondo le diverse
prospettive ideologiche e politiche dei
diversi stati membri. Di fronte a questa
situazione, è spontaneo chiedersi: è
possibile fondare un’azione comune a
salvaguardia dei diritti umani fondata
su di un pensiero comune e condiviso,
così come auspicata dalla Dichiarazione
stessa?
Il testo elaborato dalla Commissione
Teologica Nazionale si pone appunto
all’interno di questo dibattito,
andromeda
non tanto per dare o imporre risposte
definitive e normative, quanto per
contribuire alla riflessione che vorrebbe
tutti più consapevoli e garanti
di quei diritti che sono alla base della
felicità terrena che ciascuno cerca.
Il bisogno, la ricerca della felicità,
non è un valore secondario o effimero,
come potrebbe pensare chi pone fuori
da questa vita la più piena realizzazione
di sé; non sono forse le beatitudini
un inno al guadagno della felicità, già
da questa vita? Lo sottolinea anche
la Commissione Teologica Nazionale
nell’aprire il proprio libro con questa
domanda: «Esistono valori morali oggettivi,
in grado di unire gli uomini e di
procurare ad essi pace e felicità?» (1).
L’urgenza della risposta è sottolineata
dal fatto che oggi «gli uomini hanno
Eco dei Barnabiti 4/2009 31
ETICA UNIVERSALE
preso maggiormente coscienza di formare
una sola comunità mondiale» (1).
La prospettiva con cui la Commissione
Teologica Internazionale (CTI)
affronta il cammino di ricerca già indicato
dalla Dichiarazione universale sui
diritti dell’uomo (di cui già abbiamo
scritto) è in linea anche con la Dichiarazione
per un’etica planetaria, formulata
dal parlamento delle religioni del
mondo, nel 1993, la quale afferma che
esiste tra le religioni un consenso suscettibile
di fondare un’etica planetaria,
un consenso minimo che riguarda
valori obbliganti, norme irrevocabili,
tendenze morali essenziali, così riassumibili:
1) Nessun ordine del mondo
può esistere senza un’etica mondiale;
2) ogni persona umana deve essere
trattata umanamente; 3) esistono quattro
valori irrinunciabili: non-violenza e
rispetto della vita; solidarietà; tolleranza
e verità; uguaglianza dell’uomo e
della donna; 4) è necessario un cambiamento
di mentalità riguardo ai problemi
dell’umanità affinché ciascuno
prenda coscienza della propria responsabilità
(vd. Civ. Catt 2009 II 534).
Ai nn. 41 e 42 il documento della
Chiesa afferma che: «Il bene morale
corrisponde al desiderio profondo
della persona umana che – come ogni
essere – tende spontaneamente, naturalmente,
verso ciò che la realizza
pienamente, verso ciò che le consente
di raggiungere la perfezione che le è
propria, la felicità… Spetta alla ragione
del soggetto esaminare [come operare
per la] realizzazione autentica
della persona… Quest’ultima affermazione
è capitale. Fonda la possibilità
di un dialogo con le persone appartenenti
ad altri orizzonti culturali o religiosi.
Valorizza l’eminente dignità di
ogni persona umana sottolineandone
Cristo pantocratore
la naturale disposizione a conoscere
il bene morale che deve compiere».
Il documento desidera anche e specialmente
comprendere e contestualizzare
meglio l’affermazione di san
Paolo secondo la quale tutto è stato
ricapitolato in Cristo e in Cristo trova
la sua cifra di comprensione: «Ora,
grazie a uno sguardo più profondo sul
disegno di Dio di cui l’atto creatore è
il preludio, la Scrittura insegna ai credenti
che questo mondo è stato creato
nel Logos, da lui e per lui, il Verbo di
Dio, il Figlio diletto del Padre, la Sapienza
increata, e che il mondo ha in
lui la vita e la sussistenza. Infatti il Figlio
è “immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione, poiché
in lui furono create tutte le cose,
nei cieli e sulla terra, quelle visibili e
quelle invisibili [...]. Tutte le cose sono
state create per mezzo di lui e in
vista di lui. Egli è prima di tutte le cose
e tutte sussistono in lui” (Col 1,15-
17). Il Logos è dunque la chiave della
creazione. L’uomo, creato a immagine
di Dio, porta in sé un’impronta
speciale di questo Logos personale.
Perciò è chiamato ad essere conforme
e assimilato al Figlio, «il primogenito
tra molti fratelli» (Rm 8,29) (103).
Il documento, di cui le precedenti
citazioni già ci hanno offerto una prima
indicazione sugli obiettivi e sui
contenuti, si distingue in cinque capitoli
ossia Convergenze, che vogliono
mostrare l’evoluzione del concetto di
legge naturale dal mondo antico a
quello cristiano attraverso la scrittura,
per arrivare a parlare del magistero
della Chiesa in relazione alla legge
naturale; La percezione dei valori morali,
che spiega come la regola di fare
il bene ed evitare il male sia sentita
come fondante e determinante nel
cammino morale dell’umanità; I fondamenti
della legge naturale, una riflessione
ragionata e “aggiornata” sulla
legge naturale; La legge naturale e
la città, che illustra le relazioni e le divergenze
tra la città di Dio e la città
degli uomini; Gesù Cristo, compimento
della legge naturale, che delinea la
grande novità della proposta cristiana
e la legge nuova dello Spirito santo.
Come si evince dal quadro generale
del documento, il materiale di riflessione
e gli spunti di approfondimento
richiederebbero almeno quattro
numeri monografici dell’Eco dei
Barnabiti per essere trattati e approfonditi,
ma, considerati i limiti di
chi scrive e il rispetto della pazienza
di chi legge, sarà bene offrire solo alcune
pennellate (spero d’autore!).
Trama di questa Ricerca di un’etica
universale è sicuramente il metodo
della Gaudium et spes, ordito di questo
nuovo sguardo sulla legge naturale
è la rinnovata fede in Gesù Cristo: «La
ricerca di un linguaggio etico comune
è inseparabile da un’esperienza di
conversione, con la quale persone e
comunità si allontanano dalle forze
che cercano di imprigionare l’essere
umano nell’indifferenza o lo spingono
a innalzare muri contro l’altro o contro
lo straniero. Il cuore di pietra – freddo,
inerte e indifferente alla sorte del prossimo
e del genere umano – deve trasformarsi,
sotto l’azione dello Spirito,
in un cuore di carne, sensibile ai richiami
della saggezza, alla compassione,
al desiderio della pace e alla speranza
per tutti. Questa conversione è
la condizione di un vero dialogo» (4).
Il metodo della conoscenza, del dialogo
e del confronto con il mondo
contemporaneo non è semplice irenismo,
tanto che già nell’introduzione il
documento denuncia il pericolo di un
positivismo giuridico, cioè quel delegare
il riconoscimento e la formulazione
dei valori di riferimento a scelte di
semplice maggioranza con il pericolo
di un relativismo soggettivo: «questo
significherebbe aprire la via all’arbitrio
del potere, alla dittatura della maggioranza
aritmetica e alla manipolazione
ideologica, a detrimento del bene comune...
La conseguenza è che la legislazione
diventa spesso soltanto un
compromesso tra interessi diversi; si
tenta di trasformare in diritti interessi o
desideri privati che si oppongono ai
doveri derivanti dalla responsabilità
sociale… Il legislatore deve agire in
modo eticamente responsabile. La politica
non può prescindere dall’etica
né la legge civile e l’ordine giuridico
possono prescindere da una legge morale
superiore» (7). Il dibattito e il dialogo
sono sempre necessari per una
intelligente e pacifica convivenza, ma
non possono emarginare la coscienza.
La rinnovata fede in Cristo conduce
i credenti a verificare continuamente
il modo in cui testimoniano e trasmettono
la fede e la morale che da essa
deriva: «Nel corso della sua storia,
nell’elaborazione della propria tradizione
etica, la comunità cristiana, guidata
dallo Spirito di Gesù Cristo e in
dialogo critico con le tradizioni di sa-
32
Eco dei Barnabiti 4/2009
ETICA UNIVERSALE
pienza che ha incontrato, ha assunto,
purificato e sviluppato tale insegnamento
sulla legge naturale come norma
etica fondamentale. Ma il cristianesimo
non ha il monopolio della legge
naturale. Infatti essa, fondata sulla
ragione comune a tutti gli esseri umani,
è la base di collaborazione fra tutti
gli uomini di buona volontà, al di là
delle loro convinzioni religiose» (9).
Forte di questo monopolio non posseduto
la CTI, dopo avere analizzato i
riferimenti religiosi della legge naturale,
si occupa della riflessione filosofica.
Infatti, è stato il cammino filosofico
dell’uomo che ha condotto a una tale
distinzione e autonomia tra uomo e
natura dell’uomo, sino a porre da parte
la questione della legge naturale,
nonostante questa sia ultimamente tornata
alla ribalta per le ragioni di cui
s’è fatto cenno all’inizio. Da sempre
l’uomo ha sentito una tensione verso
quanto trascende i limiti del “qui ed
ora”, una comunione con quanto è
spirito e non soltanto concretezza e
materia. Il cristianesimo ha tolto dall’oblio
questa tensione annunciando e
testimoniando il progetto di comunione
tra lo Spirito e il cosmo, tra lo Spirito
e la persona. Il cristianesimo non ha
annullato, bensì mantenuto ed esaltato
la dimensione metafisica dell’essere
della natura offrendo la conoscenza
della meta di questa tensione continua.
«La persona non si oppone alla
natura. Al contrario, natura e persona
sono due nozioni che si completano.
Da una parte, ogni persona umana è
una realizzazione unica della natura
umana intesa in senso metafisico.
D’altra parte, la persona umana, nelle
libere scelte con cui risponde nel concreto
del suo «qui e ora» alla propria
vocazione unica e trascendente, assume
gli orientamenti dati dalla sua natura.
Infatti la natura pone le condizioni
di esercizio della libertà e indica un
orientamento per le scelte che la persona
deve compiere. Scrutando l’intelligibilità
della sua natura, la persona
scopre così le vie della propria realizzazione»
(68). Purtroppo l’evoluzione
della filosofia, specialmente di quella
moderna, porterà a separare e opporre
la natura, la soggettività umana e Dio.
È l’eclissi della metafisica dell’essere.
Ciò nonostante il cristiano, che ha
sempre caro il fine della natura e dell’uomo,
non smette di cercare delle
vie di conciliazione. «Per rendere tutto
il suo senso e tutta la sua forza alla
nozione di legge naturale come fondamento
di un’etica universale, bisogna
rivolgere uno sguardo di sapienza,
di ordine propriamente metafisico,
capace di abbracciare simultaneamente
Dio, il cosmo e la persona
umana per riconciliarli nell’unità analogica
dell’essere, grazie all’idea di
creazione come partecipazione» (71).
Tutto ciò comporta il rinnovato interesse
e approfondimento della libertà
della persona non come concorrenza,
bensì partecipazione alla Provvidenza
di Dio. In forza della sua apertura verso
il Bene assoluto, la libertà non è un
assoluto auto-creatore di se stesso, ma
una proprietà eminente di ogni soggetto
persona. La natura, dell’uomo e del
cosmo, non è solo tecnica, senza anima,
bensì luogo di azione morale che
partecipa e porta il Logos.
Come forse è emerso da queste brevi
e non esaustive annotazioni, il riferimento
alla legge naturale da parte del
pensiero cattolico si rende necessario:
– per evitare un pensiero molto
comune e non vero, che solo le
scienze positive possano vantare il
diritto di essere razionali;
– per superare l’individualismo relativista
e recuperare il valore oggettivo
delle norme fondamentali che
regolano la vita sociale e politica;
– per rivendicare il diritto di intervenire
della Chiesa cattolica nel dibattito
su argomenti aventi a che fare
con la legge naturale in forza della
preoccupazione per il bene della
società;
– per ricordare che le leggi civili
non obbligano la coscienza quando sono
in contraddizione con la legge naturale,
e chiedere il riconoscimento dell’obiezione
di coscienza, come pure il
dovere della disobbedienza in nome
dell’obbedienza a una legge più alta.
Particolarmente significativo e di valore
il riferimento finale del documento
a Cristo, quale piena realizzazione
dell’uomo, che promuove l’appello
conclusivo: «Offrendo il nostro contributo
alla ricerca di un’etica universale
e proponendone un fondamento razionalmente
giustificabile, desideriamo
invitare gli esperti e i portavoce
delle grandi tradizioni religiose, sapienziali
e filosofiche dell’umanità a
procedere a un lavoro analogo a partire
dalle loro fonti, per giungere ad un
riconoscimento comune di norme morali
universali fondate su un approccio
razionale alla realtà. Questo lavoro è
necessario e urgente. Dobbiamo arrivare
a dirci, al di là delle nostre convinzioni
religiose e della diversità dei
nostri presupposti culturali, quali sono
i valori fondamentali per la nostra comune
umanità, in modo da lavorare
insieme a promuovere comprensione,
riconoscimento reciproco e cooperazione
pacifica fra tutte le componenti
della famiglia umana» (116).
Giannicola Simone
Eco dei Barnabiti 4/2009 33
PRASSI MEDITATIVE
PRASSI MEDITATIVE A CONFRONTO
A VENT’ANNI DALLA LETTERA
DI RATZINGER SULLA PREGHIERA
La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla meditazione cristiana in rapporto
alle prassi meditative del vicino e del lontano Oriente ha costituito una pietra miliare nel dialogo
interreligioso. L’ammonimento di Gandhi e la testimonianza di tre Carmelitani. La ricerca di un
accademico pontificio.
N
el tardo autunno del
1989 usciva, a firma del
card. Ratzinger, prefetto
della Congregazione per la Dottrina
della Fede (CDF), una Lettera ai vescovi
della Chiesa cattolica su Alcuni
aspetti della meditazione cristiana.
La data del documento e quella dell’effettiva
promulgazione nascondevano
un eloquente richiamo alla tradizione
del Carmelo: 15 ottobre,
santa Teresa d’Avila e 14 dicembre,
san Giovanni della Croce. A vent’anni
dall’Orationis formas (questo il titolo
ufficiale), un libro a più mani di
autori che gravitano nell’orbita carmelitana
ne costituisce il migliore e
più attuale commento. Si tratta di
Meditazione cristiana di consapevolezza,
curato da Mary Jo Meadow,
terziaria carmelitana e professoressa
di psicologia e studi religiosi, Kevin
Culligan fondatore dell’Istituto di studi
carmelitani e Daniel Chowning direttore
dei Carmelitani scalzi per la
Provincia di Washington.
Prima però di soffermarci sia pure
rapidamente su quest’opera, vogliamo
dare uno sguardo ai motivi che hanno
ispirato il documento vaticano e all’iter
laborioso che ha compiuto prima
di vedere la luce. Che la meditazione
praticata in ambito cattolico si sia trovata
di fronte ad altre tradizioni meditative
è un dato di fatto quantomeno a
partire dagli anni Sessanta, e che questo
abbia comportato un ripensamento
e un arricchimento di metodi è altrettanto
evidente. Che poi a interessarsi
del problema sia stata la CDF, lo
si deduce dal fatto che «la legge del
credere è legge del pregare», in quanto
la pratica dell’orazione ha uno
stretto rapporto con il credo che si
professa e la cui tutela rientra nel
«santo ufficio» della Chiesa docente.
importanza del dialogo
A motivare il crescente interesse che
il mondo cristiano dell’Occidente riserva
alle tradizioni del vicino e lontano
Oriente, è non unicamente la visione
planetaria delle realtà umane tipica
della moderna sensibilità multiculturale
e interculturale, ma lo spirito di dialogo
di cui si è fatta promotrice la
Chiesa del Vaticano II. Nei documenti
del magistero pontificio che sviluppano
quest’aspetto tipicamente «cattolico»,
si afferma che il dialogo è lo strumento
che «rende presente Dio in
mezzo a noi, perché mentre ci apriamo
l’un l’altro ci apriamo anche a
Dio, il cui Spirito guida gli uomini alla
libertà solo quando questi si fanno incontro
l’uno all’altro». Di qui l’esigenza
di «rapporti amichevoli tra i credenti
di diverse religioni», chiamati a
«condividere le loro esperienze di preghiera,
di contemplazione, di fede». In
merito a quest’ultimo aspetto va menzionata
la Dichiarazione finale della II
Assemblea plenaria dei vescovi cattolici
dell’Asia (1978), dove si legge: «La
preghiera asiatica ha molto da offrire a
un’autentica spiritualità cristiana: una
preghiera riccamente sviluppata di tutta
la persona nell’unità di corpo-psiche-spirito;
la contemplazione caratterizzata
da una profonda interiorità e
immanenza, i libri e le scritture sacre e
34
Eco dei Barnabiti 4/2009
PRASSI MEDITATIVE
venerabili (…) i metodi di concentrazione
scoperti dalle antiche religioni
orientali, le forme semplificate di preghiera
[con cui] tanti facilmente rivolgono
a Dio il cuore e la mente nella
vita quotidiana».
Il dialogo che la Lettera istruisce sulla
meditazione tra Est e Ovest (come
suona il titolo di un notevole saggio in
merito), comporta un serio discernimento
e deve obbedire all’invito rivolto
da Gandhi «a guardare a ogni religione»,
e quindi alle rispettive tradizioni,
«dallo stesso punto di vista di
colui che le professa con fervore».
Questo ha indotto l’équipe della CDF
a prendere atto che esiste una trasposizione
cristiana di molti elementi contenuti
nelle vie di preghiera non cristiane,
elementi che possono essere
assunti senza difficoltà, anche se con
rettifiche e approfondimenti. Così da
chiedersi se non si potrebbe, attraverso
una nuova educazione alla preghiera,
arricchire ciò che è proprio e
acquisire ciò che finora era estraneo.
In particolare si poneva in rilievo l’importanza
del silenzio e dell’espressione
corporale come simbolo dell’atteggiamento
interiore, così da vivere costantemente
alla presenza di Dio in
mezzo alle sollecitazioni esterne.
l’iter del documento
Quanto si è detto finora spiega come
nella primavera del 1984 la CDF
mise in cantiere quella che da lì a cinque
anni sarebbe diventata l’Orationis
formae. Ci si domandava infatti quale
fosse l’aspetto caratterizzante della
preghiera cristiana e quale discernimento
fosse necessario nell’accogliere
le tradizioni oranti, soprattutto meditative,
dell’Oriente, onde evitare di incorrere
in antichi errori e soprattutto
di cadere in quello che la Lettera definisce
«pernicioso sincretismo».
Nella primavere dal 1986, ai primi
due progetti del documento di ispirazione
carmelitana, se ne affiancò un
terzo, più attento nel mettere a confronto,
su un piano di parità, le tradizioni
meditative sorte in ambito cristiano con
quelle indo-buddhiste, così da offrire
elementi utili per un serio e costruttivo
confronto (cf. I cristiani e le prassi meditative
delle grandi religioni asiatiche,
in La preghiera, Città Nuova 1988, pp.
363-386). Finalmente l’atteso documento
vide la luce nell’autunno del
1989. Una coincidenza (fortuita?) gettava
luce peraltro su un curioso ma significativo
retroscena che richiamiamo en
passant. Il giorno stesso in cui la Lettera
era resa di pubblico dominio, sul settimanale
“Il Sabato” veniva pubblicato
un articolo “inquisitorio” nei confronti
di un testo mistico uscito per la prima
volta in italiano nel maggio del 1981:
La Nube della non-conoscenza. E infatti
il pronunciamento della CDF, parlando
delle «proposte» di «fusione» tra i
due universi meditativi cristiano e noncristiano,
si riferiva tra l’altro a quanti,
«andando oltre» la preparazione psicofisica
caratteristica delle prassi asiatiche,
«cercano di generare, con diverse
tecniche, esperienze spirituali analoghe
a quelle di cui si parla in scritti di certi
mistici cattolici». In nota si rimandava
esplicitamente alla Nube, indicata con
il titolo italiano, a differenza di tutte le
altre opere citate nella lingua originale,
compreso il fiammingo… Sembra sia
sfuggito il fatto che «l’alto e santo Tutto
di Dio” e “il nobile e amoroso nulla»
dell’uomo su cui gravita la Nube, coincidono
con il «todo y nada» di Giovanni
della Croce e trovano un singolare riscontro
con le tradizioni asiatiche.
la meditazione di consapevolezza
(vipàssana)
In ogni caso un testo in gestazione in
quegli stessi anni avrebbe dissipato
ogni fraintendimento sullo stretto rapporto
che lega autentiche pratiche di
orazione profonda. Si tratta del Catechismo
della Chiesta cattolica del
1992, il quale, parlando delle «espressioni
della preghiera», sottolinea con
vigore l’importanza della dimensione
psicofisica e del silenzio davanti a Dio,
aspetti che stanno pure alla base delle
pratiche meditative orientali, che la
Lettera riassumeva nelle voci yoga e
zen (peraltro spostate dal testo in una
rapida nota nella redazione finale).
Non si citava invece la vipàssana, propria
dell’originaria prassi buddhista, anche
se all’epoca si stava diffondendo in
ambito cristiano, come fanno fede i tre
autori da cui abbiamo preso le mosse.
Radicati nella scuola carmelitana, essi
hanno compiuto non pochi ritiri di
vipàssana e ne hanno tratto il convincimento
che tale pratica non soltanto
consente di valorizzare con metodi raffinatissimi
«il simbolismo psicofisico
spesso carente nella preghiera dell’Occidente»
– così la Lettera di Ratzinger –,
ma spiana la via, come si è già detto, a
quel «nada» che è la condizione essenziale
per aprirci alla percezione amorosa
del «Todo». È così che gli autori che
stiamo citando concludono perentoriamente:
«I cristiani possono servirsi della
pratica della consapevolezza (alias
della vipàssana) per approfondire la
propria unione personale con Dio nell’amore,
per entrare più pienamente
nel mistero pasquale di Gesù e per
aprirsi completamente alle ispirazioni
dello Spirito santo. È questo a trasformare
la vipàssana buddhista nella meditazione
cristiana di consapevolezza»
(p. 250. Sottolineature nostre). La quale,
sempre al dire degli stessi, «affronta
direttamente le principali preoccupazioni
del monito vaticano» che «metteva
in guardia contro un’errata interpretazione
delle esperienze meditative».
Per restare in tema va segnalato,
concludendo, il saggio Yoga e preghiera
cristiana. Percorsi di liberazione
interiore (Paoline 2009) dovuto alla
penna e soprattutto all’esperienza
di Marco Guzzi, nominato recentemente
dal papa membro ordinario
della Pontificia Accademica di belle
Arti e Lettere. Vi si potranno trovare
somiglianze e differenze tra due mondi
spirituali messi a confronto e chiamati
a interagire in ordine alla «liberazione
interiore», a un tempo dono e
compito di ogni ricercatore spirituale.
Chi non ricorda il «va libero a Dio»
del nostro padre Fondatore?
Antonio Gentili
Eco dei Barnabiti 4/2009 35
SAN BARNABA
I RESTAURI DELLA SACRESTIA
E DELLA FACCIATA DEL SANTUARIO
DI S. ANTONIO MARIA ZACCARIA
Il giorno 26 settembre 2009, in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio, è stato
presentato al pubblico il restauro della Sacrestia della Chiesa dei Santi Paolo e Barnaba in
Milano, mentre proseguono gli urgenti lavori di restauro della sua facciata, sempre finanziati
dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia. Uno sguardo alle relative e puntuali relazioni
predisposte dallo Studio di Restauro Luigi Parma, danno un’idea dell’importanza degli interventi
decisi e promossi dalla locale Comunità dei Padri Barnabiti, custode delle spoglie mortali del
Santo Fondatore.
I
l 21 ottobre 1545 Giacomo
Antonio Morigia, uno
dei cofondatori dell’Ordine
dei Barnabiti, pose «la prima pietra
per la nuova fabbrica» sul luogo
della preesistente chiesa, che era denominata
Prepositurale di San Barnaba
in Brovo. La chiesa, che venne
consacrata nel 1547, si rivelò subito
troppo piccola, e nel 1556 venne incaricato
Galeazzo Alessi per la progettazione
di una nuova e più ampia.
I lavori cominciarono dalla parte
del coro e del presbiterio; nel
1567 la chiesa fu finita, e completata
nelle decorazioni interne nel
1568, quando San Carlo Borromeo
venne a celebrare la prima messa
sull’altare maggiore, che egli stesso
aveva donato.
la Sacrestia di S. Barnaba
interno del Santuario. Sotto l’altare, l’urna in rame dorato contenente i resti
mortali di S. Antonio M. Zaccaria
Legati alla tradizione di fine Seicento
e inizio Settecento – le quadrature
a Milano e in Lombardia furono
tipicamente barocche e derivanti dalla
scuola bolognese, che rispondeva
alle teorie del grande padre della
quadratura, che era stato Andrea
Pozzo – i fratelli Gerolamo e Battista
Grandi, varesini, furono gli autori
della decorazione della Sacrestia di
San Barnaba, le cui finte e solide architetture
furono rese più vive con
l’introduzione di elementi decorativi
(vasi con fiori e ghirlande), che sarebbero
state una caratteristica della
quadratura lombarda anche in epoca
successiva. Essa contiene un’interessante
collezione di dipinti riunita nel
corso del tempo dai Padri Barnabiti,
comprendente tele di Guglielmo
Caccia, detto il Moncalvo, e dell’ambito
di Camillo Procaccini.
Le rappresentazioni figurative (San
Paolo rapito al terzo cielo), dipinte in
un ovale da Carlo Preda, furono armoniosamente
contenute e completate
dalla finta prospettiva. Il ciclo
pittorico è stato realizzato prevalentemente
con la tecnica denominata
“Bianco di Calce” per cui la carbonatazione
avveniva principalmente
all’interno della materia cromatica,
grazie alla calce idrata aggiunta, che
poteva comunque sommarsi alla carbonatazione
dell’intonaco, qualora il
colore si fosse distribuito sulla superficie
ancora fresca di stesura.
36
Eco dei Barnabiti 4/2009
SAN BARNABA
calce e sabbia a grossa granulometria
per gli strati più profondi, e calce,
sabbia e polvere di marmo a
granulometria fine, per gli strati più
superficiali.
Raramente opere tipologicamente
diverse vengono restaurate contemporaneamente.
Solo in un’altra
occasione, alcuni anni fa, la stessa
ditta ha avuto infatti l’opportunità
di restaurare i dipinti murali e le tele
di un’altra chiesa dei Padri Barnabiti,
Santa Maria del Carrobiolo,
a Monza, dove una grande sinergia
tra pubblico, in questo caso la Soprintendenza
ai Beni Artistici di
Milano, e lo sforzo privato dei Padri,
ha permesso a numerose platee
di ammirare le tele di Simone Peterzano,
del Moncalvo, e del Semino,
simultaneamente le grandi volte
affrescate da Andrea Porta e dai
quadraturisti Giovan Battista e Gerolamo
Grandi.
le opere
sacrestia - San Paolo in gloria - all’interno della quadratura della volta
il restauro
La sacrestia di San Barnaba aveva
subìto nel corso degli anni diversi
interventi manutentivi, che avevano
interessato gli affreschi sia della
volta come delle pareti. L’intervento
è stato pertanto preceduto e affiancato
da una fase di ricerca che
ha permesso di avere un quadro
attendibile sui materiali impiegati
negli interventi precedenti e sullo
stato di conservazione attuale. Le
osservazioni avevano evidenziato
un’importante stratificazione di
polveri di deposito e di materiale
incongruo; diverse velature biancastre
(costituite dalla proliferazione
di sali, diffuse sulla volta soprattutto
nelle zone interessate da infiltrazioni
di umidità); numerose ridipinture
di natura organica (deturpanti
la superficie pittorica della
volta); altrettante ridipinture eseguite
con materiale sintetico sovrapposte
(in buona parte alla decorazione
originale); numerose stuccature
di materiale incongruo e
abrasioni del colore; altrettante cadute
di pigmento pittorico.
L’intervento di pulitura si rendeva
necessario sia per motivi estetici
che conservativi. Si è concentrato
dapprima sugli affreschi della volta,
con la rimozione a secco, mediante
gomme sintetiche, della stratificazione
polverosa, e con impacchi di
acqua distillata, satura di carbonato
di ammonio, per rimuovere le solfatazioni
biancastre presenti. La
metodologia di pulitura, che è stato
necessario diversificare, è stata
messa a punto in modo da rispettare
alcuni requisiti fondamentali, come
il rispetto esecutivo degli affreschi
(con grande attenzione a non
rimuovere i numerosi ritocchi a
secco e a limitare la penetrazione
dei solventi all’interno dei materiali
costitutivi, evitando pericolose interazioni
tra agenti di pulitura, leganti
e pigmenti originali). Gli affreschi
delle pareti sono stati in parte recuperati
con un attento e faticoso lavoro
di rimozione delle grandi ridipinture
sintetiche, recuperando
così cromie e materia pittorica sottostante.
Per il risarcimento delle
lacune degli affreschi si è riproposta
la stratigrafia originale, ovvero
Prima di entrare nella sacrestia –
ora vero gioiello artistico riportato
al suo naturale splendore – sulla
parete esterna si ammira la tela del
XVII secolo raffigurante S. Antonio
M. Zaccaria con un giglio tra le mani
(secondo provate testimonianze,
oggetto di un fatto miracoloso: nel
1747, visto da alcuni fedeli, il San-
sacrestia - S. Michele Arcangelo
Eco dei Barnabiti 4/2009 37
SAN BARNABA
sacrestia - interno
sacrestia - Visione di San Pietro e Visione di San Francesco
to avrebbe mosso il braccio destro
in segno di benedizione; da quel
momento il giglio, prima diritto sul
fianco sinistro, rimase reclinato sul
braccio), mentre sul cortiletto a
fianco è visibile un affresco di Madonna
che adora il Bambino (metà
XVI secolo).
Costituita da una stanza quadrangolare
(nella parte opposta all’ingresso
vi sono due aperture che portano
a un piccolo ambiente di servizio,
con un lavabo in marmo del 1756) a
volta a botte ad arco ribassato, la
quadratura della volta circonda un
S. Paolo in gloria (affresco di Carlo
Preda, 1708), mentre alle pareti ci
sono dodici splendide tele: sopra
l’ingresso si trova una Crocifissione
del XVII secolo, mentre ai due lati la
Visione di San Pietro e la Visione di
San Francesco, dipinti eseguiti per
mano forse del Moncalvo (primi decenni
del 1600). Sulla parete di fondo
una Madonna col Bambino e
Sant’Antonio di Padova (copia di fine
’700 dall’originale di Van Dyck custodito
a Brera), mentre ai lati San Paolo
in catene e il Salvatore (autore ignoto,
fine XVI secolo).
Sulle pareti laterali spiccano le
tele più grandi: l’Annunciazione e
S. Michele Arcangelo (probabilmente
del Procaccini), mentre verso
l’ingresso due copie cinquecentesche
riprese dai pannelli del polittico
del Perugino: l’Arcangelo
Raffaele e San Michele Arcangelo.
Verso il fondo della sacrestia si
fronteggiano una Immacolata (seconda
metà del XVI secolo) e Angeli
musicanti (copia di un particolare
della pala di Paris Bordone in
S. Maria dei Miracoli presso S. Celso,
fine XVI secolo).
Come recente novità, vi si trova
anche il notissimo altare maggiore,
prima in chiesa; costruzione realizzata
nel 1635 in ebano rivestito con
guscio di tartaruga marina e ornamenti
in argento, che nella parte inferiore
e sul retro presenta sbalzi
d’argento dorato con i busti e gli
stemmi dei SS. Paolo e Barnaba tolti
dal vecchio paliotto dell’altare.
Uscendo dalla sacrestia, nel corridoio
che porta alla casa religiosa,
è infine esposta una Deposizione
(Francesco Bellone, XVII secolo,
copia di un’opera di Gaudenzio
Ferrari appartenente alla Pinacoteca
di Torino).
38
Eco dei Barnabiti 4/2009
SAN BARNABA
facciata, anno 1965
la facciata di S. Barnaba
facciata, prima dell’inizio dei restauri
del 20 luglio 2009
Non è la prima volta che si procede
al restauro della facciata di S. Barnaba,
particolarmente esposta al
degrado causato dall’inquinamento
cittadino. Solo per il secolo scorso,
occorre ricordare l’intervento operato
dall’architetto Beltrame nel 1902.
Più tardi, il 6 maggio 1965, l’Arcivescovo
di Milano, Card. Giovanni Colombo,
inaugurava i restauri della
facciata curati dal Prof. Giovanni
Stoppani e benediceva le sue nuove
porte di bronzo. Ambedue si erano
cimentati con un’operazione particolarmente
delicata circa il timpano,
sanando le pareti, stuccando e rifacendo
gli intonaci, restaurando gli
stucchi in parte cadenti, rimodellando
le colonne corinzie.
Il 20 luglio 2009 sono iniziati nuovi
lavori di restauro della facciata
della chiesa di San Barnaba, anch’essi
finanziati dalla Fondazione Banca
del Monte di Lombardia. Il progettista
è l’architetto Daniela Fiocchi,
mentre i lavori sono stati affidati
sempre alla ditta Studio di Restauro
Luigi Parma, sotto l’alta sorveglianza
della Soprintendenza Beni Architettonici
e Paesaggistici di Milano. Le
brave restauratrici sono Daniela Traverso,
Francesca Esposito e Milena
Monti.
lo stato conservativo
La facciata è divisa in due ordini di
colonne più un frontone (nell’ordine
proporzionale di 4 a 3 e di 1,5
ascendente). Ogni ordine di colonne
presenta tre aperture, quello inferiore
facciata - San Paolo, particolare
oggi, in attesa della fine dei restauri
ha lesene con capitelli ionici, portone
formato da due colonne scanalate
con capitello corinzio, poggianti su
basamenti a forma di parallelepipedo.
I capitelli reggono una semplice
trabeazione, sulla quale posa il timpano,
puramente classico.
L’ordine superiore con colonne
corinzie – diviso dal sottostante da
una trabeazione con dedica (SS.
facciata - San Paolo, particolare
Eco dei Barnabiti 4/2009 39
SAN BARNABA
cui vi è un serpente) c’è il frontone.
Anch’esso adorno di stucchi
con decorazioni sobrie di ghirlande,
perline, motivi floreali, volute,
e al centro una testa di grifone alato.
Il fianco laterale della chiesa
verso Via San Barnaba, appare
sobrio e privo di ogni elemento
architettonico e decorativo, se si
eccettuano le finestre tripartite e la
lieve sporgenza delle lesene che
suggerisce la sequenza delle cappelle
laterali. La superficie muraria
è semplicemente intonacata con
una zoccolatura in pietra bocciardata,
che la delimita dalla quota
marciapiede.
il restauro
trabeazione con dedica agli Apostoli Paolo e Barnaba
le restauratrici al lavoro
PAULO ET BARNABAE APP.) – ha
ancora due nicchie laterali, che si
concludono con fastigio con due
volute spezzate e testa di figura
mitica, che ospitano le statue di
San Paolo a sinistra e di San Pietro
a destra. Al centro una loggia con
finestra sermana di stile palladiano.
Sopra la finestra due quadrati
con testa di mascheroni circondati
da motivi floreali, e, al centro di
essi, una testa di putto e motivo di
perline. Sopra, diviso da un ricco
fregio in stucco (a motivi floreali
con volute e rosette e al centro due
putti che reggono un cartiglio su
Il degrado, che interessa la superficie
esterna, è in relazione all’esposizione
e alla tipologia del materiale
interessato.
La pietra tenera di Vicenza delle
sculture è interessata da alterazioni
e degradazioni di varia natura:
croste nere (strato superficiale
di alterazione dovuto all’accumulo
di sostanze derivanti dall’inquinamento
o veicolate in superficie
dall’acqua; sono concentrate maggiormente
nei sottosquadri del modellato);
deposito superficiale (accumulo
di spessore variabile e
scarsa coerenza e aderenza di materiali
estranei di varia natura, quali
polvere, terriccio, ecc; interessa
diffusamente le superfici delle sculture
con maggiore concentrazione
sulle superfici orizzontali e oblique);
disgregazione ed erosione
(coesione di materiale lapideo caratterizzata
da scagliature, esfoliazioni
e rigonfiamenti; manifestazione
associata al fenomeno delle
croste nere, sono concentrate in
corrispondenza delle mancanze di
materiale); mancanze di materiale
lapideo (caduta, accompagnata dalla
disgregazione di materiale lapideo
sottostante deteriorato); alveolizzazione
(disgregazione che si
manifesta con la formazione di cavità
di forme e dimensioni variabili,
interconnesse e distribuite non
uniformemente; interessa in modo
disomogeneo buona parte delle
superfici lapidee); ruscellamento
(alterazione che si manifesta per
azione della pioggia, che, battendo
su una superficie verticale o a coe-
40
Eco dei Barnabiti 4/2009
SAN BARNABA
facciata - particolare
sione, mobilita e rideposita particelle
aderenti ad essa); stuccature
incoerenti (presenza di stuccature
di materiale incongruo).
Il Ceppo di Poltragno delle quattro
edicole, dei capitelli ionici, dei
capitelli corinzi del II° ordine e le
mensole del frontone, presenta zone
interessate da degradazioni di diversa
natura: disgregazione ed erosione
(interessa aree puntuali variamente
distribuite sulle superfici); croste nere
concentrate maggiormente sui capitelli
corinzi del II° ordine; alveolizzazione
(interessa in modo disomogeneo
il cornicione del frontone); fessurazioni
e fratture (di varia forma
e direzioni, individuabili soprattutto
sulle cornici orizzontali del marcapiano
e verticali delle edicole); deposito
superficiale (interessa diffusamente
le superfici, con maggiore
sommità della facciata - nuova croce,
particolare
concentrazione sui piani orizzontali
e obliqui); macchie (sono presenti alterazioni
cromatiche, dovute probabilmente
ad interventi di restauro
precedenti); ruscellamento e croste
nere sul cornicione aggettante del
marcapiano.
Il marmo di Candoglia del basamento,
del portale; il gialletto di
Verona delle lesene, delle colonne
e dei capitelli della finestra serma-
facciata - particolare
facciata - particolare
Eco dei Barnabiti 4/2009 41
SAN BARNABA
facciata - particolare
na è interessato da alterazioni e degradazioni
di varia natura: croste
nere concentrate maggiormente sui
capitelli; deposito superficiale concentrato
sulle superfici piane dei
facciata - particolare
capitelli; mancanza (caduta e perdita
di parti di materiale lapideo);
macchie: alterazione che si manifesta
con pigmentazione accidentale
e localizzata delle superfici. Nello
specifico: si tratta di scritte vandaliche
localizzate nella fascia basamentale
e sulla parte inferiore delle
lesene.
Le decorazioni in stucco che caratterizzano
la parte superiore della
facciata presentano ampie zone
interessate da degradazioni che visivamente
appaiono piuttosto evidenti:
deposito superficiale, concentrato
sulle superfici concave degli stucchi;
disgregazione ed erosione, che
interessa aree puntuali variamente
distribuite sulle superfici materiche,
in particolare sopra la finestra nei
due quadrati raffiguranti due mascheroni
con motivi floreali; polverizzazione,
che interessa vari punti
delle decorazioni del frontone;
mancanze di materiale, in vari punti
delle decorazioni; macchie, riscontrabili
in modo disomogeneo sulle
superfici.
Analizzando gli intonaci si può
osservare come l’intonaco del primo
registro si presenti piuttosto
compatto nella parte superiore, e
con problemi di sfarinamento dell’intonachino
nella parte inferiore,
appena sopra il basamento di marmo.
Presenza di macchie è dovuta
a scritte vandaliche eseguite con
vernice. L’intonaco del secondo registro
si differenzia dall’intonaco
precedente come cromia e superficie
materica più chiara e più liscia.
Presenta piccoli fenomeni con
mancanza di materiale, fessurazioni
e alterazioni cromatiche dovute
a interventi di restauro precedenti e
a fenomeni chimico-fisici. Mentre
gli elementi in ferro, ovvero le grate
delle finestre del secondo registro
e il pastorale di Sant’Ambrogio,
risultano interessate da un
processo di ossidazione, così gli
elementi di copertura in rame presenti
risultano ossidati. Il portone
in bronzo risulta anch’esso alterato
da prodotti di corrosione sottili tenacemente
attaccati al substrato
metallico.
Il progetto di conservazione comprende
una serie di operazioni
riassunte in cinque classi d’intervento:
asportazione, pulitura, consolidamento,
aggiunta, protezione.
Ma dei risultati conseguiti, si darà
conto ai lettori una volta terminati
i lavori.
a cura di Filippo Lovison
42
Eco dei Barnabiti 4/2009
DAL MONDO BARNABITICO
DAL MONDO BARNABITICO
IL COLLEGIO
SAN PAOLO DI MBOBERO
Il collegio San Paolo di Mbobero,
opera dei Padri Barnabiti, è stato costruito
dai medesimi con l’aiuto del
Governo belga tra gli anni 1954-
1956. Da allora i Barnabiti ne hanno
preso la guida fino ai tormentati momenti
della zairizzazione delle istituzioni
voluta dal dittatore Mobutu nel
1972, che ha consegnato la scuola all’organizzazione
civile e statale. Dall’anno
1976 i Padri hanno lasciato definitivamente
il Rettorato, recandosi
alla sola parrocchia di Mbobero. Comunque
ci andavano spesso per qualche
materia, come la religione o anche
la direzione spirituale. L’anno
2003 è stato un momento decisivo,
perché ha segnato la ripresa di questo
Istituto da parte dei Padri. Il Collegio
San Paolo prima degli anni 1976, con
la zairizzazione era diventato Instituto
Kitumaini (Kitumaini che significa
“speranza” in Kiswahili; è un bel nome,
anche se bisognava cancellare i
nomi cristiani). La scuola ha ripreso il
suo primo nome di san Paolo (che è
nostro Padre e Maestro) e come nuovo
primo rettore congolese ha avuto
p. Emmanuel Sota. Dopo la nomina
dell’anno 2007, la guida della scuola
è passata nelle mani del p. Benoit Mirali.
Come luogo educativo, il collegio
presenta tre obiettivi: assumere la
formazione integrale dei giovani, aiutare
i genitori nel loro dovere come
primi educatori, e infine aiutare gli insegnanti
a realizzarsi nella loro vocazione.
Il Collegio pone una particolare
attenzione alla qualità morale e intellettuale
del personale e anche la
qualità degli alunni che devono intrecciarsi
sul modello di Cristo, in
virtù dell’esempio di San Paolo, patrono
della scuola. Il 3 di febbraio 2008
un terremoto spaventoso ha distrutto
quasi la totalità dei muri interni. Il
funzionamento scolastico diventò per-
Eco dei Barnabiti 4/2009 43
DAL MONDO BARNABITICO
tanto difficile per una scuola di circa
800 alunni, tra i quali 200 sono interni.
I ragazzi da quel momento sono
costretti a studiare tra muri pericolanti
o fessurati. Da quest’anno, la Congregazione,
con l’appoggio dei nostri benefattori,
ha mandato il primo aiuto
per il rinnovamento del primo blocco,
quello del C.O (ciclo di orientamento).
A tutti va il nostro ringraziamento.
Benoit Mirali
UN BARNABITA ALLA GUIDA
DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA
DEI PROFESSORI DI STORIA
DELLA CHIESA
Il 17 settembre 2009, durante il
periodico incontro dei Soci dell’Associazione
avvenuto in occasione
il logo dell’Associazione
del XV Convegno dedicato al tema
La penitenza: dottrina, controversie e
prassi, il p. Filippo Lovison è stato
eletto Presidente dell’Associazione
Italiana dei Professori di Storia della
Chiesa. L’incarico, della durata di un
triennio, vede per la prima volta un
barnabita salire alla guida della prestigiosa
Associazione, che conta, tra
i suoi passati Presidenti, personalità
di spicco, come mons. Michele Maccarrone,
p. Vincenzo Monachino,
mons. Gian Domenico Gordini, p.
Giacomo Martina, don Ugo Dovere,
p. Luigi Mezzadri.
Costituita nel 1967 a La Mendola,
presso il Centro di Cultura dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore,
l’Associazione intende favorire il
coordinamento e l’aggiornamento
dei docenti di Storia della Chiesa.
Oggi conta centosettanta soci distribuiti
su tutto il territorio nazionale,
tra docenti di Seminari, di Università
ecclesiastiche e civili, di Studentati
religiosi e cultori della materia. Al p.
Lovison i migliori auguri per questo
suo nuovo e impegnativo servizio alla
Chiesa.
FESTA DEL VENERABILE
FRANCESCO MARIA CASTELLI
PARROCCHIA DI S. ANTONIO
DI PADOVA IN S. ANASTASIA
18 Settembre. La nostra comunità
parrocchiale ogni anno si prepara
a celebrare l’anniversario della morte
del Ven. Francesco Maria Castelli,
nato a Sant’Anastasia il 19 Marzo
1752 ed ivi morto il 18 settembre
1771 a soli 19 anni, con un triduo di
preghiera che viene celebrato nella
cappella a lui dedicata, che per noi
è come un Santuario. Purtroppo
quest’anno abbiamo dovuto costatare
il furto delle dodici tele raffiguranti
i momenti salienti della vita del
venerabile, furto avvenuto nella notte
del 9 Settembre c.a.; le suddette
tele sono state dipinte dall’artista Lucia
Fiore di Striano ed erano state sistemate
nella stanza – cappellina
dove si dice che il venerabile F. Castelli
sia nato e sia morto; per fortuna
abbiamo conservato le foto ed un
depliant; è stato un danno soprattutto
di ordine affettivo pedagogico,
perché queste tele venivano portate
immagine del venerabile
Francesco M. Castelli
nelle scuole e nelle comunità parrocchiali
ed erano molto utili per illustrare
più facilmente la vita del venerabile.
Insieme alle tele sono stati
rubati alcuni candelieri ed alcuni reliquiari;
vi lascio immaginare lo
sconforto dei membri del comitato e
dei devoti del venerabile! Sono stati
lasciati due quadri che per noi sono
diventati due segni eloquenti: il quadro
dell’immagine – ritratto del venerabile
e l’ultimo quadro della serie,
dove ci sono i fedeli che si recano
a venerare il venerabile Castelli
presso la tomba a Napoli e presso la
Cappella in S. Anastasia. Abbiamo
interpretato questo segno: i ladri
cioè possono portare via dei quadri,
ma non ci possono portar via l’amore
che nutriamo per il venerabile
Francesco M. Castelli.
Il triduo di preghiera è stato annunciato
nella comunità parrocchiale
con un manifesto in cui si esortava
i fedeli a pregare il venerabile
Francesco Castelli per tutti i sacerdoti
e soprattutto per coloro che si preparano
nei seminari per essere ordinati
sacerdoti; sappiamo quanto il
Venerabile aveva desiderato raggiungere
questa meta, ma una grave
malattia lo strappò alla vita, offerta a
Dio per amore.
Nei giorni 15-16-17 Settembre il
Comitato e molti fedeli si sono riuni-
44
Eco dei Barnabiti 4/2009
DAL MONDO BARNABITICO
ti nella cappella, dove c’è stata la recita
del Rosario meditato e la celebrazione
della S. Messa, con una
breve riflessione sulla parola di Dio
e sulla vita del Venerabile. Inoltre
nella sera della vigilia (17 Sett.) a
tarda sera (ore 21:00) c’è stata un’ora
di adorazione Eucaristica, che è stata
vissuta con tanto raccoglimento
da parte di tutti.
Il giorno 18 Settembre, festa del
Venerabile, al mattino c’è stata la
S. Messa solenne celebrata dal p.
Enrico Moscetta, barnabita, accompagnato
dai novizi Massimiliano e
Stefano, con la partecipazione di
alcune classi delle scuole elementari,
i quali conoscono la vita del Venerabile
grazie alla partecipazione
del concorso fatto proprio sulla figura
del venerabile. La S. Messa si
è conclusa con la preghiera per la
sua beatificazione e con la benedizione
dei grappoli di uva, che sono
stati distribuiti in ricordo del miracolo
compiuto dal giovane Francesco
M. Castelli quando era ancora
in vita.
Alla sera del 18 il parroco ha celebrato
la S. Messa in Parrocchia e
con tutta la comunità parrocchiale
si è recato processionalmente alla
cappella del Venerabile, pregando
e cantando; è stato un vero e proprio
omaggio di devozione verso il
Castelli, è stata una manifestazione
di amore, perché egli è presente
nel cuore di tanta gente di Sant’Anastasia.
La processione si è conclusa
con la supplica letta dal sindaco
della città, avv. Carmine Pone,
che ha chiesto al venerabile di
vegliare e proteggere le persone e
le istituzioni della nostra città e soprattutto
di essere vicino ai deboli
e ai malati.
Il giorno 25 Ottobre tutta la comunità
parrocchiale si è recata
nella chiesa dei pp. Barnabiti a
Napoli, S. Maria di Caravaggio,
dove oggi è sepolto il nostro caro
venerabile. Erano presenti oltre al
Comitato, guidato dal vice-presidente
rag. Vincenzo Manfellotto, il
parroco p. Giacomo Verrangia, il
sindaco della città Avv. Carmine
Pone e circa 200 fedeli arrivati da
Sant’Anastasia con tre pullman e
con macchine private. Abbiamo
pregato molto insieme, tutti sono
stati a venerare il corpo del Venerabile.
P. Enrico Moscetta, quattro novizi
Barnabiti e un aspirante, unitamente
al p. Giacomo hanno celebrato
la S. Messa e, a conclusione, il sindaco
avv. Carmine Pone ha offerto
la lampada votiva al venerabile a
nome di tutta la città di Sant’Anastasia,
lampada che arderà per tutto
l’anno.
P. Giacomo, prima di congedare
l’assemblea, ha ricordato come il
nostro venerabile ha già fatto tanti
miracoli alcuni registrati ed altri
tramandati a voce; ha letto per tutti
la descrizione della guarigione della
nonna materna che soffriva per
le tante piaghe che si erano formate
alle gambe. A questa guarigione
è legato il sogno-visione in cui il
venerabile chiese di portare la sua
salma, sepolta in Sant’Anastasia, a
Napoli perché desiderava riposare
con i suoi confratelli. Ed ora con
gioia possiamo vedere che riposa
proprio accanto al suo santo maestro,
s. Francesco Saverio Bianchi,
che è anche un testimone diretto
della sua santità. Francesco Castelli
era il suo santo angelo Ciccillo.
Un grazie di cuore alla comunità
dei pp. Barnabiti che, come sempre,
ci hanno accolto con tanto
amore.
EMISSIONE DI UN FRANCOBOLLO
COMMEMORATIVO:
P. GIOVANNI SEMERIA
E P. GIOVANNI MINOZZI
Il 19 ottobre 2009, nei locali “Spazio
Filatelia” delle Poste Centrali di
Roma (e in contemporanea ad
Amatrice, presso il Salone Comunale,
e a Sanremo, presso il Palazzo
del Casinò), sono stati predisposti i
tre annulli del nuovo francobollo
commemorativo di padre Giovanni
Semeria e padre Giovanni Minozzi,
fondatori dell’Opera Nazionale per
il Mezzogiorno d’Italia, nel valore
di € 0,60. Vi hanno tenuto i discorsi
di circostanza il Sottosegretario
di Stato alla Presidenza del Consiglio,
Gianni Letta, il p. Michele Celiberti,
Presidente dell’Opera, e Michele
Giovanni Leone, Presidente
dell’Associazione, Amici di Don
Giovanni Minozzi. Non mancò la
presenza dei Barnabiti, rappresentati
dal Rev.mo Superiore Generale
Giovanni Villa.
Il francobollo è stato stampato
dall’Officina Carte Valori dell’Istituto
Poligrafico e Zecca dello Stato
S.p.A., in rotocalcografia, su carta
fluorescente, non filigranata. Il formato
della carta è mm 48×40,
mentre quello di stampa è di mm
44×36. La dentellatura corrisponde
a 13? ×13. A cinque colori, la sua
tiratura è stata pari a quattro milioni
di esemplari. La vignetta rappresenta
i fondatori dell’Opera Nazionale
per il Mezzogiorno d’Italia
con una moltitudine di ragazzi alle
loro spalle, mentre gli edifici sullo
sfondo simboleggiano le migliaia
di orfani di guerra accolti nelle Case
dell’Opera, il cui logo è riprodotto
al centro. Completano il
francobollo le leggende: “P. Giovanni
Minozzi”, “P. Giovanni Semeria”
e “Opera nazionale per il
Mezzogiorno d’Italia”, la scritta
“Italia” e il valore di “€ 0,60”. Il
bozzettista è Angelo Merenda.
Molto apprezzato l’intervento di
Gianni Letta, che riproponiamo per
il nostri lettori.
«Le figure dei padri Giovanni Semeria
e Giovanni Minozzi non hanno
bisogno di essere attualizzate: il
loro messaggio e la loro Opera vanno
al cuore stesso del nostro tempo,
dei suoi interrogativi e delle sue ansie.
È dunque doveroso e giusto, oltreché
opportuno, che si sia decisa
l’emissione filatelica in loro onore e
in loro memoria.
Padre Semeria ha nella sua origine
una sorta di profezia della sua biografia.
Orfano di padre, morto in
guerra per soccorrere il fratello, si
dedicherà per tutta la vita, insieme
a Padre Minozzi, all’assistenza dei
bambini e delle bambine rimasti sen-
Eco dei Barnabiti 4/2009 45
DAL MONDO BARNABITICO
za padre e madre. Nato a Coldirodi,
in provincia di Imperia, il 26 settembre
1867, morì a Sparanise, in provincia
di Caserta, il 15 marzo 1931.
Barnabita, diventò sacerdote il 5
aprile 1890. Da quel momento iniziò
un apostolato ininterrotto fatto di studio,
predicazione, scrittura, attenzione
agli ultimi della terra, sempre secondo
il suo non sufficientemente
noto motto: “A far del bene non si
sbaglia mai”.
Pensare bene e agire bene. Ortodossia
e orto prassi; mai disgiunte,
sempre richiamantesi e fecondantesi
a vicenda. In Padre Semeria, nella
sua vita e nella sua poderosa bibliografia,
sono sempre presenti la ricerca
della verità e la ricerca di una vita
migliore per i più poveri. Ciò che
oggi, nella nostra cultura, è diviso,
nell’apostolo della verità e dei poveri
è sempre unito. Non possono
non venire alla mente le parole
scritte da Papa Benedetto XVI nella
sua ultima Enciclica Caritas in Veritate,
dove ricorda la difficoltà, se
non l’impossibilità, di operare rettamente
senza pensare correttamente.
Chi potrebbe affermare che su questo
tema non siamo al cuore stesso
del nostro tempo? In questo Padre
Semeria può essere, oggi, per molti,
una guida.
Il Nostro sosteneva che “Nell’azione
si illumina il pensiero; e non solo
illumina il pensiero, ma anche comunica
efficacia, autorità alla parola.
Bisognava dare a quelle parole, perché
fossero efficaci, il suggello infrangibile
di una sincerità indubitabile,
perché la prova classica della sincerità
di chi parla è ciò che fa”. Sia
in lui che in Minozzi questo rappresenta
certamente un imperativo categorico:
la coerenza tra parole e vita
vissuta. Di più: il carattere confermativo
dell’azione nei confronti della
parola. Non una coerenza superficiale
e moralistica, ma profonda e fortemente
morale.
A Padre Semeria la ricerca della
verità è costata. L’accusa di modernismo
rappresentò per lui un dolore
gravissimo. Come poi è stato riconosciuto
più tardi, il suo non fu modernismo,
nel senso deleterio del termine,
ma ricerca della verità in un confronto
costante con il mondo
contemporaneo, esattamente come
auspicato dal Concilio Vaticano II. Il
suo impegno ebbe il riconoscimento
non formale da parte dei pontefici
Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Accanto alla ricerca della verità,
l’infaticabile azione a favore dei
poveri. Potremmo dire di lui, in
estrema sintesi: “sempre tra i libri,
sempre tra i poveri”. Sempre attento
alla questione sociale, figlio del suo
tempo, lo stesso dell’Enciclica Rerum
novarum, che inizia la Dottrina
Sociale della Chiesa, che trova in
Giovanni Semeria un pronto realizzatore.
Spedito al fronte, fa l’incontro
fondamentale della sua vita:
quello con il Padre Giovanni Minozzi.
Nato a Preta nel 1884 e morto
a Roma l’11 novembre del 1959,
fu ordinato sacerdote nel 1908 e
dopo i primi anni di impegno pastorale
nelle campagne romane fu cappellano
militare volontario nella
guerra di Libia del 1912 e poi ancora
durante la Prima guerra mondiale.
Dotato, grazie all’educazione ricevuta,
di un alto senso dello Stato,
mai abbandona il suo spirito apostolico
e pastorale, e crea le “bibliotechine”
e le “case del soldato”
per “rifocillare – come ebbe a dire
il Cardinale Camillo Ruini – l’animo
e la mente attraverso la lettura, il
dialogo, l’amicizia”. Ritroviamo anche
qui, come in Padre Semeria,
questa tensione verso l’unità di pensiero
e azione, questa considerazione
alta della funzione della cultura
anche nell’azione caritatevole. Evidentemente
l’incontro tra i due Giovanni
fu una specie di provvidenziale
e misterioso ricongiungimento
di strade che andavano nella stessa
direzione.
Questo impegno lo portò a realizzare
l’Opera Nazionale per il Mezzogiorno
d’Italia e nel 1919 inaugurò
il primo istituto per gli orfani di guerra
ad Amatrice. Questo fu il seme di
una grande Opera che continua rigogliosa
anche oggi attraverso istituti di
educazione, scuole di tutti i gradi,
centri giovanili, pensionati universitari.
L’istituzione della Congregazione
dei Discepoli nel 1931 e delle
Ancelle del Signore nel 1940 rappresentano
da allora la certezza della
continuità dell’Opera di Padre Semeria
e di Padre Minozzi.
Un’Opera che sia per la mole, sia
per le modalità nelle quali si è svolta,
sia – infine – per lo spirito che
l’ha animata e l’anima, rappresenta
un modello sempre valido, soprattutto
oggi, nel ripensamento generale
delle politiche sociali che si sta
compiendo, nonché del ruolo sempre
valido e insostituibile della istituzione
come l’Opera di Semeria e
Minozzi.
C’è un richiamo forte alla speranza,
alla positività, in una delle tante
belle sentenze semeriane: “Il pessimismo
– egli scrive – è immorale
perché spegne e attenua ogni balda
energia dell’animo”. Mi sembra un
bel monito per tutti i tempi, ma in
particolare per il nostro, che vede al
suo interno un pessimismo preso, talora,
quasi a ideologia portante. Semeria
e Minozzi hanno indicato una
via diversa e, in più, possibile».
a cura di Filippo Lovison
PRIMA PROFESSIONE
A SAN FELICE A CANCELLO
Il giorno 20 Ottobre 2009 la Comunità
dei PP. Barnabiti di San Felice
a Cancello (CE) ha celebrato con
profonda gioia la Professione Semplice
dei novizi Massimiliano Palmieri
e Stefano Redaelli.
Massimiliano, 37 anni, della provincia
italiana Centro-Sud, ha conosciuto
i Barnabiti nella sua città di
Bologna, dove una scintilla del fuoco
di SAMZ, a lui unico figlio di madre
vedova, ha dato la forza di distaccarsi
da mamma Albertina e di lasciare
il lavoro di infermiere che da 15 anni
svolgeva nell’Ospedale Sant’Orsola
di Bologna. Tra medici santi (SAMZ,
Padre De Marino…) e infermieri dal
cuore grande ci si intende!
Stefano, 32 anni, della provincia
italiana del Nord, cresciuto all’ombra
del Carrobiolo di Monza e della
scienza dell’informatica (è dottore di
ricerca in questo campo), è stato attratto
dalla «Sublime scienza di Cristo
Crocifisso» che ha cominciato ad
assimilare alla scuola di S. Paolo e
di SAMZ.
La celebrazione si è svolta nella
nostra chiesa di San Giovanni Evan-
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Eco dei Barnabiti 4/2009
DAL MONDO BARNABITICO
gelista (diventata parrocchia da quasi
tre anni), gremita per l’occasione da
familiari e amici dei due novizi e da
tanti fedeli che con la preghiera, l’affetto
e doni di “natura” sostengono i
novizi che si avvicendano negli anni.
La celebrazione eucaristica ha visto
la partecipazione di una bella schiera
di sacerdoti: il Rev.mo P. Generale
Giovanni M. Villa, il P. Provinciale
della provincia CS Antonio M.Iannuzzi,
il P. Provinciale della provincia
Nord Daniele M. Ponzoni, altri
20 padri provenienti da diverse comunità
barnabitiche d’Italia (Milano,
Monza, Bologna, Firenze, Roma,
Napoli); P. Peragine dall’Albania
(dove i due novizi con il P. Maestro
Trufi sono stati per tre settimane);
P. Carmine Mazza, Assistente Generale
dei PP. Teatini venuto da Napoli
con quattro suoi studenti; P. Santino
Ardiri (OMI), parroco della Basilica
dell’Assunta a Santa Maria a Vico;
Don Luigi e Don Domenico sacerdoti
diocesani.
Dal nostro Studentato Teologico di
Firenze, accompagnati dal Superiore
P. Mauro M. Espen, sono venuti al
luogo del primo SÌ Antonio Bongallino
e Vito Giannuzzi. Facevano corona
lo studente brasiliano Yuri da Roma
e lo studente congolese Nsiku da
Monza, che hanno reso presenti due
nazioni in cui lo spirito paolino-zaccariano
ha attecchito in maniera sorprendente.
Non potevano mancare le nostre
sorelle Angeliche di Curti, Arienzo e
di Milot (Suor Anna, preziosa collaboratrice
dei Padri in questa missione).
Naturalmente erano presenti i
Laici di S.Paolo “campani” e i giovani
del MGZ di San Felice e Curti.
I professandi, molto emozionati,
hanno emesso i voti di castità, povertà
e obbedienza nelle mani del P.
Generale, che nell’omelia ha ricordato
la missione del religioso nella
Chiesa e in particolare del religioso
barnabita e hanno poi ricevuto l’abito
dai rispettivi provinciali. Una particolare
commozione ha pervaso
l’assemblea quando i Padri hanno
accolto con un abbraccio i professi
quali nuovi figli della Congregazione
dei Chierici Regolari di S. Paolo.
Un lungo e caloroso applauso dell’assemblea
esprimeva la gioia di un
momento indimenticabile.
In un salone del chiostro è seguita
un’agape fraterna che ha dato a confratelli,
parenti e amici la possibilità
di far festa e di chiudere in spirito di
famiglia un anno fecondo per tutti. Il
giorno seguente, 21 Ottobre, Massimiliano
e Stefano sono partiti per la
loro nuova destinazione: Firenze,
Studentato S. Paolo luogo propizio
per crescere barnabiticamente in
scienza e pietà.
AGIDAE:
I SUOI PRIMI 50 ANNI DI VITA
Nel mese di dicembre 2009,
l’Associazione AGIDAE (Associazione
Gestori Istituti Dipendenti
dall’Autorità Ecclesiastica), celebrerà
i suoi primi cinquanta anni di
vita e di servizio incessante svolto
a supporto delle attività apostoliche
degli associati. Essa è la prima
associazione cattolica a rappresen-
i novizi Stefano Redaelli e Massimiliano Palmieri attorniati da famigliari e amici
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DAL MONDO BARNABITICO
tare gli enti della Chiesa nei rapporti
sindacali con le organizzazioni
dei lavoratori dipendenti, prima
della scuola cattolica e, successivamente,
dell’intero settore socioassistenziale,
stipulando i relativi
Contratti Nazionali di Lavoro e
introducendo costantemente nel
mondo religioso quella cultura tecnico-gestionale
divenuta col tempo
ineludibile per la sopravvivenza
stessa delle Istituzioni. In vista di
un rinnovamento, tra le diverse iniziative,
la sostituzione della storica
rivista dell’Associazione, “Documenti
Agidae”, con la nuova, che
recherà il titolo “Agidae – Rivista
p. Bracco
bimestrale di formazione e aggiornamento
normativo, contrattuale e
gestionale per l’Associazione Gestori
Istituti Dipendenti dall’Autorità
Ecclesiastica, per Enti non Profit”,
l’aggiornamento del sito web
www.agidae.it e l’annullo postale
dedicato.
Come è noto, la storia di questa
Associazione è strettamente legata
ai Barnabiti. Fondata nel 1960
principalmente dal p. Giovanni
Bracco, barnabita, allora Assistente
Generale, ha avuto quest’ultimo
per suo primo Presidente. L’Associazione
poi lo ha rieletto a tale
carica fino al 1980. Gli è succeduto,
per un biennio, il p. Pierino
Moreno, somasco, mentre dal
1982, per un altro biennio, ricoprì
tale carica fratel Pietro Montanari,
dei Fratelli delle Scuole Cristiane.
Dal 1994 ad oggi, il posto del p.
Bracco continua a essere occupato
da un altro barnabita, il p. Francesco
Ciccimarra.
Filippo Lovison
LA BIRRA DEL CONVENTO
Nel sito curato dalla Comunità dei
Padri Barnabiti di Monza, accanto
alle notizie riguardanti la Chiesa di
Santa Maria al Carrobiolo, il Centro
educativo, il Teatro Villoresi, la Procultura
e il Gruppo Missionario, da
circa un anno se ne trova un altro
che così si presenta:
«Siamo il “Piccolo Opificio Brassicolo
del Carrobiolo – Fermentum”,
società costituita appositamente
per questo progetto da sette
amici con la passione per la birra
artigianale di alta qualità, per la
cura dei particolari, per la diffusione
di una cultura del bere bene e
consapevole. Proveniamo da diverse
esperienze: socio-educative, di
associazionismo e anche della
grande industria. Un padre Barnabita
è direttamente coinvolto nel
progetto. La produzione di birre artigianali
è iniziata alla fine del
2008 ed abbiamo l’onore di essere
il primo birrificio della città di
Monza. A dire il vero esattamente
un secolo fa, nel 1909, sembra che
già ci fosse una birra locale chiamata
“Birra Monza”, di cui rimane
solo una bellissima cartolina storica
nella collezione di “Ambroeus”
(al secolo Ambrogio Beretta) ed
una pubblicità su un giornale dell’epoca
(intitolato “La Patria”). Il laboratorio
di produzione ed imbottigliamento
è infatti situato all’interno
del convento dei Padri Barnabiti
di Piazza Carrobiolo (presenti in
città da più di mezzo millennio: dal
1571) e la tradizione delle birre
monastiche e d’abbazia è peraltro
quella di prendere nome dal luogo
in cui sorge l’insediamento religioso
(Chimay, Orval e Val-Dieu in
Belgio, bastino come esempio su
tutti). Padre Davide Brasca è direttamente
coinvolto nel progetto e a
lui e alla sua Comunità andranno
gran parte degli utili delle vendite,
al fine di sostenere le opere socioeducative
e spirituali promosse al
Carrobiolo. Il nostro obiettivo è di
promuovere una cultura del bere
consapevole, che metta in primo
piano: la qualità (e non la quantità);
la degustazione (e non il
“consumo”); la convivialità (e non
lo “sballo”). Per questo, oltre alla
produzione, intendiamo proporre
serate di assaggio guidato, corsi per
imparare a farsi la birra in casa,
piccoli percorsi educativi da proporre
nelle scuole o nei gruppi di
aggregazione giovanile rispetto ai
rischi dell’alcol».
Per ora bastino queste sintetiche
notizie a farvi visitare il sito www.
carrobiolo.it Ci riproponiamo presto
di parlare più diffusamente dell’esperienza
del piccolo opificio e del suo
significato e ruolo all’interno delle
attività socio educative che la nostra
comunità sta svolgendo in città, da
più di un decennio.
a cura di Roberto Cagliani
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