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la cultura dell’energia magazine per i clienti edito da<br />
Come uscire<br />
(bene) dalla crisi<br />
Idee per un mondo fuori dalla tempesta<br />
Boschi di cento piani<br />
Le nuove frontiere dell’ eco-grattacielo<br />
Teresa Mannino<br />
La spending review della comicità<br />
Democrazia energetica<br />
Viaggio nei paesi della decrescita
editoriale<br />
eCome superare<br />
(e bene) la crisi.<br />
Buona, perché ha sempre vissuto qui.<br />
“Crisi”. La parola “crisi” (accompagnata da spread, spending review,<br />
tagli, lotta all’evasione, risparmio ecc..) continua ad essere un lemma<br />
abusatissimo sulla bocca degli italiani. Ma laddove c’è un problema,<br />
accorre inevitabilmente una soluzione.<br />
Così, il tema di questo numero di <strong>Switch</strong> è “Come superare - e bene<br />
- la crisi”, confidando sia nella tenacia imprevedibile dell’Italia capace<br />
d’emergere nelle grandi sofferenze; sia nel genio e nell’improvvisazione<br />
dei nostri connazionali; sia, ammettiamolo, anche nella fortuna. Risolvere<br />
la crisi impiega un bel po’ d’energia, fisica, emotiva e mentale. Così ci<br />
siamo infilati nelle “fantastazioni italiane”, a zonzo tra i treni, nelle Centrali<br />
trasformate da luoghi d’attesa in cattedrali della cultura e dello shopping.<br />
E abbiamo indagato nella fantasia tecnologica di coloro che spaziano<br />
nelle nuove frontiere dell’energia, dall’idroelettrico al geotermico al<br />
nuovo solare; ci siamo avventurati nelle città in grado di mantenersi<br />
autonomamente oltre le fonti d’energia tradizionale; abbiamo scoperto<br />
che televisione, Internet e social network hanno riscoperto a loro<br />
volta la nobile arte del baratto, divenuto un’allegra necessità sociale,<br />
utile e divertente. E poi ci siamo intrufolati negli spazi urbani della<br />
“decrescita felice” dove nulla si spreca e l’economia di prodotto si<br />
sostituisce - in un bizzarro progetto di paese delle utopie - alla<br />
finanza: è il caso della “democrazia energetica” della tedesca<br />
Schonau o degli orti collettivi della Giudecca. Per non dire<br />
dell’idea dei “cibi di recupero” recuperati dalla tradizione della<br />
cucina povera ad opera di grandi chef che hanno compreso<br />
lo spirito del tempo. C’è anche l’esempio dei grattacieli<br />
ecologici fatti di architetture lievi e giardini verticali: tutte<br />
cose che fino a pochi anni fa sembravano uscite da un<br />
film di fantascienza e che oggi sono piacevoli realtà<br />
alternative. Oltre la crisi si può andare, basta volerlo:<br />
l’Argentina depressa dei tango-bond si è risollevata<br />
diventando una palestra di esperimenti sociali,<br />
l’Islanda che fino a solo due anni fa era la prima<br />
vittima della catastrofe finanziaria, oggi s’è ripresa<br />
la sua economia. Questo numero racconta le piccole<br />
grandi storie degli uomini che ci credono.<br />
• di Viviana Barozzi<br />
Direttore editoriale<br />
Addentratevi nei luoghi incantati dell’Alto Adige/Südtirol e scoprite dove nasce Forst, l’unica birra<br />
in cui l’acqua delle montagne scorre purissima e incontra il luppolo e il malto d’orzo migliori al mondo.<br />
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SWITCH03
s<br />
sommario<br />
6 Faccia a Faccia<br />
SALOTTI URBANI - LE FANTASTAZIONI<br />
di Francesco Specchia<br />
10 Scelte di vita<br />
RITORNO ALL’ANTICO<br />
di Arturo Bandini<br />
14 Cucina<br />
cuochi in trincea<br />
di Giuseppe Marino<br />
32<br />
Racconto<br />
strani menu<br />
di Edoardo Montolli<br />
36<br />
40<br />
Personaggi<br />
teresa mannino<br />
di Alessandra Menzani<br />
Design<br />
architettura green<br />
di Albina Perri<br />
<strong>Switch</strong><br />
la cultura dell’energia<br />
Direttore editoriale<br />
Viviana Barozzi<br />
Direttore responsabile<br />
Stefano Amoroso<br />
Supervisione editoriale<br />
Francesco Specchia<br />
Coordinamento di progetto<br />
Paolo Contenti<br />
18 Territori<br />
vivere felici<br />
di Ettore Colombo<br />
22 Innovazioni<br />
amarcord d’autore<br />
di Andrea Colombo<br />
26 Reportage<br />
sguardi al futuro<br />
di Antonio Marini<br />
46 Piccole/Medie Imprese<br />
italia impresa<br />
di Marco Di Troia<br />
Servizi&Offerte<br />
EDISON ENERGIA<br />
51 Posta<br />
52 Humour<br />
di Blozz<br />
48<br />
Redazione<br />
Riccardo Brega (grafica),<br />
Marco Di Troia (testi)<br />
Progetto grafico<br />
Cayenne<br />
Hanno collaborato<br />
Blozz,<br />
Arturo Bandini,<br />
Andrea Colombo,<br />
Ettore Colombo,<br />
Antonio Marini,<br />
Giuseppe Marino,<br />
Edoardo Montolli,<br />
Alessandra Menzani<br />
Albina Perri<br />
Stampa<br />
Optima - Via Paullo, 9/A Milano<br />
Registrazione al tribunale di Milano<br />
n° 723 del 21/<strong>11</strong>/2006<br />
<strong>Switch</strong> è un magazine di cultura<br />
dell’energia edito da <strong>Edison</strong>.<br />
Per ricevere <strong>Switch</strong> e per<br />
54 Citazione<br />
a. einstein<br />
informazioni scrivete a:<br />
switch@edison.it<br />
Copertina ©Troels Heien<br />
SWITCH39
f<br />
faccia a faccia<br />
LE FANTASTAZIONI<br />
Da luoghi classici d’attesa a cattedrali<br />
dello shopping e della cultura. Come cambia la vita<br />
del viaggiatore a zonzo nelle nuove Centrali italiane<br />
di Francesco Specchia<br />
Trattasi d’un luogo comune. Ma per ben descriverlo, ci<br />
vorrebbe lo svizzero Robert Walser che sull’arte della<br />
passeggiata, nel 1917 ci scrisse un saggio lieve come<br />
il volo d’una falena, un capolavoro per gentiluomi in<br />
movimento. O servirebbe un Charles Baudelaire, il cui sguardo<br />
da flaneur vagabondo per le vie epiche di Parigi fotografò una<br />
generazione. O - perché no?- un antropologo alla Marc Augè,<br />
che sulla mistica dei “non-luoghi” (autostrade, svincoli, aeroporti,<br />
centri commerciali, appunto) edificò la sua fama, decenni orsono.<br />
Comunque sia, la nuova concezione di Stazione Centrale Ferroviaria<br />
che sta cambiando il panorama urbanistico italiano ha un qualcosa<br />
di letterario. Non è semplicemente la sensazione, entrandoci, di<br />
aver attraversato due secoli, dal diciannovesimo direttamente al<br />
ventunesimo: dalle banchine coi treni ansimanti color grigiofumo<br />
sulla scenografia di un’opera verdiana all’intreccio di plexiglass e di<br />
vetro osservato da una sorta di binari-boutique. È quasi un’odissea<br />
metafisica, la nuova Stazione Centrale. Dire che incute poesia,<br />
forse è troppo: però avverti che quei luoghi antichi possiedono<br />
un’anima nuova. Nelle stazioni di Milano, Torino, Venezia, Verona,<br />
Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari e Palermo sono stati<br />
investiti, negli ultimi due anni, 900 milioni di euro - con un utile<br />
netto di 40 milioni - e questo vorrà pure dire qualcosa. In effetti le<br />
uniche infrastrutture, le mitiche “grandi opere”, che in Italia si sono<br />
trasformate da promesse a realtà sono, appunto, le riqualificazioni<br />
dei principali scali ferroviari storici realizzati da un’apposita società,<br />
GrandiStazioni - uno strano ibrido, 60% Ferrovie dello Stato e 40%<br />
azionisti privati tra cui Benetton, Caltagirone e Pirelli - . Le Stazioni<br />
dei treni - ormai sempre con la maiuscola - si sono modificate<br />
geneticamente, trasformate da scalo a gallerie commerciali, a<br />
centri culturali (la Feltrinelli di Milano è oramai una delle prime<br />
librerie della città, ed è la più grande d’Europa, l’unica aperta dalle<br />
7.00 alle 23.00), a snodi sociali con rampe fitte di insegne, vetrine,<br />
viaggiatori d’ogni risma. Sono diventate, le Stazioni, quasi delle<br />
cittadelle ammantate da un’aria inconsuetamente multiculturale.<br />
Prendete la Centrale di Milano. Il simbolo della rivoluzione. Ovvio<br />
che rimanga un posto da cui partono e arrivano i treni, come<br />
SWITCH06 SWITCH07
f<br />
SALOTTI URBANI<br />
sempre. Ma dei 60 mila metri quadrati riqualificati nell’ambizioso<br />
progetto di GrandiStazioni SpA (solo qui sono stati investiti 120<br />
milioni di euro) ben 30 mila sono dedicati a servizi, shopping e<br />
ristoro. Novantaquattro i negozi (quasi tutti in funzione) che sono<br />
aperti fino a tardi e tutti i giorni dell’anno. L’ammnistratore delegato<br />
di GrandiStazioni, Fabio Battaggia, sintetizzava all’apertura, due<br />
anni fa: “Mi piace pensare alla Centrale come nuovo salotto<br />
culturale, d’intrattenimento e shopping di Milano”. Lì, infatti,<br />
Autogrill si impone con l’avveniristico Sky Lounge, il nuovo bar<br />
soprelevato dove si possono vedere le partite e mangiare panini<br />
con prodotti tipici. Con vista treni. Poi puoi osservare ombrelloni,<br />
poltrone, dodici megaschermi in Hd che ti sparano programmi<br />
tematici sport-news e pubblicità a getto continuo neanche fossi<br />
a Times Square. “È ancora presto qui alle sei del pomeriggio” dice<br />
Michele de Luca, direttore dei punti vendita Autogrill in Centrale<br />
“però ci sono sempre più persone che vengono per trascorrere una<br />
serata”. S’intravvedono attori, politici, scrittori ma probabilmente<br />
anche commercialisti, viticultori, carpentieri, semplici studenti che<br />
comprano, parlottano tra loro, scrutano gli orologi, accendono il loro<br />
tablet e s’interconnettono sorgeggiando un Martini, o infilandosi<br />
nel labirinto degli spazi pubblici. Quest’elemento, poi, dello “spazio<br />
pubblico” è molto importante. Perché richiama il concetto, appunto,<br />
del flaneur, ossia del cazzeggiatore indomito sotto e sopra i binari,<br />
tra un negozio d’alta moda, uno stand gastronomico o quel che<br />
rimane del deposito bagagli che assieme ai treni era un tempo il<br />
vero segno connotante della stazione. Tra l’altro, a Milano, hanno<br />
tolto le scale mobili. E, accanto ai severi scaloni di pietra tanto cari<br />
al Ventennio fascista, si ergono adesso i “tappeti mobili”, i tapis<br />
roulant. Che sono tutta un’altra cosa. Roba ipertecnologica da 120<br />
milioni di euro, mi dicono. I tappeti sono magici. Tu ti fermi col tuo<br />
bagaglio e il pavimento ti solleva morbidamente e ti inforna nel<br />
centro commerciale dal piano terra, come fossi una pizza in attesa<br />
di cottura; quasi ti sospende nell’aria tra luci insegne e réclames; e,<br />
infine, ti scarica sul binario dove dovrei prendere il treno. Forse. Ma<br />
anche no. In fondo te la mettono giù così bene che alla fine, forse,<br />
prendere il treno non è poi così importante. Forse. L’architetto<br />
Susanna Bernardini, direttore tecnico di Grandi Stazioni, spiega che<br />
“le vecchie scale mobili non reggono l’urto dei nuovi flussi, i tapis<br />
roulant sono più funzionali, anche in termini di rapidità…”. E noi non<br />
abbiamo alcun motivo per non crederle. E aggiunge, l’architetto:<br />
“la verità è che la stazione non è più il posto dove andare solo a<br />
prendere il treno, ma un luogo di aggregazione”. Cioè luoghi dove<br />
la fretta o l’ansia si dovrebbe via via chetare, per cedere il posto<br />
alla riflessione, all’ammirazione per il bello che sboccia tutt’intorno:<br />
negozi di alte griffe da Brooks Brothers a Zara, da Swarosky ad<br />
Armani Jeans. Non te ne rendi conto ma ora è un labirinto di carichi<br />
sospesi. Nota lo scrittore Giuseppe Genna che “alla Stazione di<br />
Milano si materializza il detto di Ennio Flaiano, secondo cui in<br />
Italia la linea più breve fra due punti è l’arabesco”. E un po’ è vero.<br />
Questa storia dell’aggregazione è il vero punto. La nuova stazione<br />
nel suo nuovo concept dovrebbe “aggregare”, e far sonnecchiare,<br />
e spingere alla riflessione, sintonizzarti sul respiro della grande<br />
ferrovia. Dopo, magari ti può capitare di chiedere al viaggiatore<br />
col fiatone che brandisce il biglietto sul filo dei secondi: “Scusi lei<br />
si sintonizza col respiro?...”, e quello, nella fretta, vorrebbe darti una<br />
testata sull’arcata occipitale. Ma, insomma, è un’eccezione.<br />
Perché, in fondo, come si diceva, aspettare e prendere il treno<br />
in stazione oggi corre il rischio d’essere un vezzo. Sembra un<br />
paradosso, ma non lo è affatto. Poiché sanciscono gli ultimi studi<br />
di mercato commissionati da Grandi Stazioni che un visitatore su<br />
quattro non viene in Centrale per un treno. Cioè non si tratta d’un<br />
pendolare, di turisti. Il soggetto interessato è un milanese “che per<br />
le librerie e i ristoranti e i negozi si serve dello scalo”. E a ben<br />
vedere il medesimo scalo, ristrutturato sotto la regia di Grandi<br />
Stazioni, davvero è distante anni luce da alcuni titoli del Corriere<br />
della Sera che soltanto nel 2010, dopo approfondita visita sul<br />
posto sintetizzavano: “Milano, nella babele della Centrale tra disagi<br />
e viaggiatori smarriti”. Del resto, si aggiungeva, scegliendo a caso<br />
nell’elenco dei problemi, c’erano “una segnaletica inefficace, guasti<br />
e poche panchine”. Poi, dopo le lamentele, di panchine ne sono<br />
spuntate come funghi; e accanto alla foresta di schermi elettronici<br />
agganciati ai soffitti sono ricomparsi i vecchi cari cartelloni di carta<br />
gialla con gli orari impressi a stampa. Da un lato hai i FrecciaRossa<br />
che sembrano usciti da un film di fantascienza, razzi su rotaia che<br />
tendono ad inquietarti; e, dall’altro, l’usuale cartello giallognolo che<br />
rassicura i viaggiatori coi piedi fermi nel secolo scorso. Ogni tanto<br />
è utile mantenere la tradizioni. La Stazione di Milano, datata 1931,<br />
col transito delle sue 320 mila persone al giorno e 120 milioni<br />
all’anno, è l’emblema di un meccanismo in continua evoluzione.<br />
Una macchina gigantesca. Oggi raggiunge in pratica quota cento<br />
esercizi commerciali (assegnati tutti i posti disponibili) aperti<br />
tutto l’anno; per Natale viene allestito un mercato di bancarelle<br />
tradizionali con cinquanta stand, ricco il calendario d’iniziative tra<br />
dicembre e inizio anno, in programma un ascensore per i disabili<br />
che collegherà direttamente da piazza Duca d’Aosta alla stazione<br />
del metrò. I negozi, ripetiamo, sono il cuore nuovo del corpo della<br />
Stazione. Ma non solo quelli moderni. Il bar Motta rinverdisce la<br />
storica insegna che si riaffaccia su una piazza milanese dopo<br />
quindici anni, e distilla un caffè denso di storia. I panini e la<br />
pasticceria da Panzera con quel suo motto tanto demodè “le nostre<br />
brioche al pistacchio aiutano l’attesa” rappresentano una sorta di<br />
cordone ombelicale col passato delle vecchie botteghe. I commessi<br />
viaggiatori si lasciano tentare dalle cravatte di Boggi. Le mamme<br />
e i papà coi problemi legati agli infanti benedicono Imaginarium,<br />
negozio specializzato in giocattoli e accessori per bambini (anche<br />
se un po’ caro: un cuoci pappa costa <strong>11</strong>5 euro…). Si presentano<br />
come diversivi diversissimi e divertenti; molto lontani dal topos<br />
letterario proprio d’ogni stazione ferroviaria, epicentro perpetuo di<br />
addii, di malinconie, di ansie per un arrivo amato. Prima c’erano i<br />
baci dei fidanzati, le lacrime dei distacchi, i saluti delle madri, gli<br />
sbuffi aristocratici dell’Orient Express, al limite le sberle a raffica<br />
rifilate con saltelli prodigiosi da sotto i vagoni ai partenti in festa,<br />
come la scena esilarante dal film Amici miei di Monicelli. Adesso la<br />
sensazione, in Stazione, è quella di vivere nel prolungamento della<br />
città stessa. Dopodiché c’è il discorso della “cittadella etnica” da<br />
ricreare nell’area da 33 mila metri quadrati di via Sammartini negli<br />
ex tunnel e magazzini; il piano era nato in epoca giunta Moratti,<br />
obbligatorio ripartire con la squadra di Pisapia che su queste cose<br />
sembra assai sensibile. Poi, naturalmente bisognerebbe pensare<br />
a “qualcosa di più internazionale. Più personale, più guide, più<br />
informazioni, più aiuto. Pensando anche all’Expo”, dice Battaggia,<br />
anche se ancora il concetto non è chiarissimo. La cosa chiara, tanto<br />
per buttarci sul tecnico, è che il progetto GrandiStazioni si muove<br />
su un marketing a due livelli. Il primo è necessariamente pratico: si<br />
renda sicuro e confortevole il luogo da dove si parte e dove si arriva.<br />
Il secondo livello è quello di rendere economicamente profittevole<br />
un luogo altrimenti destinato soltanto a pesare sui bilanci, da<br />
qui l’esigenza di un mix di marchi, spazi commerciali e servizi e<br />
<strong>Edison</strong> e Grandi Stazioni di Marco Bigoni<br />
<strong>Edison</strong> Energia si è aggiudicata il bando di gara<br />
per la fornitura di energia elettrica relativa al<br />
periodo maggio 2012 – aprile 2013 alle principali<br />
stazioni ferroviarie italiane della società Grandi<br />
Stazioni SpA.<br />
Le stazioni fornite sono Milano Centrale, Torino<br />
Porta Nuova, Genova Brignole e Genova Piazza<br />
Immagine storica dell’inaugurazione<br />
della Stazione Centrale di Milano<br />
locali per l’organizzazione di eventi, che cercano di aggredire<br />
tutti i target. I due livelli, a differenza dei binari su cui scorrono le<br />
supervetture, s’incrociano spesso. Vissuta così la Stazione, ispira,<br />
per l’appunto, una vena filosofica sul concetto stesso di “viaggio”.<br />
Nella recente trasmission tv “Quello che non ho” su La7, Marco<br />
Paolini ci ha illustrato tutte le emozioni della parola “treno”. Ci<br />
è capitato di prendere il treno, nelle nuova Stazione, accanto a<br />
un signore che - guarda caso - leggeva Robert J. Hastings, la<br />
raccolta di racconti “Brodo caldo per l’anima”, da cui ne svetta in<br />
partcolare uno. “Nascosta da qualche parte nel vostro inconscio<br />
vi è una visione idilliaca. Ci vediamo in un lungo viaggio su tutto<br />
il continente”, scrive Hastings. “Viaggiamo in treno. Fuori dal<br />
finestrino ammiriamo il passaggio a livello, bestiame al pascolo su<br />
una collina lontana, fumo che fuoriesce da una centrale termica, file<br />
su file di grano e di mais, pianure e valli, montagne e dolci colline,<br />
profili di città e ville nei paesini. Ma dominante nella nostra mente è<br />
la destinazione finale. In un certo giorno a una certa ora entreremo<br />
nella stazione. Ci saranno bande musicali e sventolio di bandiere.<br />
Una volta arrivati lì, tanti sogni meravigliosi si avvereranno e i pezzi<br />
della nostra vita si completeranno a vicenda come un rompicapo<br />
portato a termine. Con quale irrequietezza percorriamo i corridoi,<br />
maledicendo i minuti d’ozio, aspettando, aspettando, aspettando la<br />
stazione. …Quando arriveremo in stazione, sarà fatta! Prima o poi<br />
dobbiamo renderci conto che non vi è nessuna stazione, nessun<br />
luogo a cui arrivare una volta per tutte. La vera gioia della vita è<br />
il viaggio. La stazione è soltanto un sogno. Ci distanzia sempre.<br />
smettete di percorrere i corridoi e di contare i chilometri”. Hastings<br />
è un fatalista di quella sospensione del mondo vista dal finestrino.<br />
E il suo finale è illuminante, consiglia di vivere attimo per attimo:<br />
“Scalate più montagne, mangiate più gelato, camminate più spesso<br />
a piedi nudi, nuotate in più fiumi, ammirate più tramonti, ridete di<br />
più, piangete di meno. La vita deve essere vissuta a mano a mano<br />
che si procede. La stazione arriverà fin troppo presto”. Prima,<br />
davvero, non ce ne eravamo accorti…<br />
Principe, Venezia Mestre e Venezia S. Lucia,<br />
Verona Porta Nuova, Bologna Centrale, Firenze<br />
S.M. Novella, Roma Termini, Napoli Centrale, Bari<br />
Centrale e Palermo Centrale, per un totale di 58<br />
GWh annui. GrandiStazioni ha scelto un’offerta<br />
indicizzata con un prezzo unico per tutte le fasce<br />
orarie.<br />
SWITCH08<br />
SWITCH09
s<br />
scelte di vita<br />
© Zsolt, Biczó<br />
la nobile arte<br />
del baratto<br />
Tecnicamente si chiama “permuta” di cose, servizi,<br />
perfino conoscenze. Oggi è lo scambio che Internet<br />
e la tv hanno reso un’allegra necessità sociale<br />
SWITCH10<br />
di Arturo Bandini<br />
Il baratto ci salverà. In economia il baratto - detto anche “permuta”<br />
secondo il linguaggio più aristocratico del codice civile - è<br />
un’operazione “di scambio bilaterale o multilaterale di beni<br />
o servizi fra due o più soggetti economici (indiviudi, imprese,<br />
enti, governi ecc.) senza uso di moneta”. Probabilmente sarà, a<br />
tempo breve, la soluzione per uscire egregiamente dalla crisi che<br />
attanaglia il mondo. Per alcuni lo è già. Tutto parte, come spesso<br />
accade, dalla televisione. Dalle televisioni degli Stati Uniti, per<br />
essere precisi. Ovvero il posto dove oggi, pur in piena recessione, le<br />
ristrettezze, il risparmio forzato possono abbandonare le loro vesti<br />
pesanti, almeno così insegnano i produttori del piccolo schermo.<br />
Così, ecco farsi strada negli ascolti “Affari di famiglia”, che è un<br />
successo dal 2009. Si tratta del programma non-fiction più seguito<br />
sulla tv via cavo degli Stati Uniti. A catturare tanta attenzione è<br />
la quotidianità di un banco dei pegni. Protagonisti del docu-reality<br />
SWITCH<strong>11</strong>
sritorno all’antico<br />
sono gli Harrison, proprietari di un banco dei pegni (appunto) a<br />
Las Vegas da tre generazioni. La settima stagione va in onda su<br />
History Channel il giovedì alle 21. Nel negozio - il Gold & Silver<br />
Pawn Shop, aperto 24 ore su 24, diventato tra i più popolari punti<br />
vendita degli Stati Uniti - si comprano (e poi rivendono) oggetti di<br />
cui chiunque può decidere di sbarazzarsi. A stabilire il valore della<br />
merce - dagli amuleti agli strumenti musicali, dagli almanacchi alle<br />
armi fino agli elettrodomestici passando per i gioielli e le palle da<br />
baseball - Corey “lo smilzo”, suo padre Rick “la volpe” e suo nonno<br />
Richard Benjamin “il vecchio”. I tre gestiscono i loro affari e parlano<br />
candidamente delle tecniche più efficaci per fare buoni affari: sono<br />
diventati popolari al punto da essere invitati negli show di Letterman<br />
o Jay Leno. A riprova del successo del programma, le guest star. Su<br />
tutti Bob Dylan, che in una puntata ha firmato una copia di un suo<br />
album. Ma sono apparsi anche Jeremy McKinnon, Meredith Vieira,<br />
gli Oak Ridge Boys e George Stephanopoulos, direttore della<br />
comunicazione durante la presidenza Clinton, che ha comprato una<br />
rara copia della prima edizione di “Per chi suona la campana” di<br />
Hemingway. Il suddetto format conta 6,4 milioni di spettatori con<br />
un incremento superiore al 30% rispetto all’anno precedente. Tra<br />
il pubblico 25-54 anni è il primo programma via cavo più seguito<br />
negli Stati Uniti, registrando oltre 3 milioni. Un caso mediatico. Il<br />
banco dei pegni è la forma più sofisticata - e spietata - di baratto.<br />
Il quale baratto, dal punto di vista sociale torna, appunto, di gran<br />
moda. In Grecia alcune comunità stanno abbandonando l’euro e<br />
riscoprendo il fai da te con prodotti realizzati in casa o grazie alla<br />
propria professionalità in cambio di servizi o altri prodotti. E sta<br />
accadendo anche in Italia con il “baratto agricolo” messo in piedi<br />
dalla Cia di Pisa. Probabilmente tornare al baratto, installare orti<br />
sui balconi, andare il sabato al supermercato per approfittare dei<br />
ribassi dei prezzi di frutta e verdura non rappresenta la soluzione<br />
definitiva, non risolve il problema dell’uso speculativo della moneta<br />
e forse alimenta anche un po’ la consumistica filosofia dell’usa<br />
e getta. Eppure online sono nate diverse iniziative riguardanti il<br />
baratto 2.0 : l’eco-store Reoose per il baratto e il riutilizzo degli<br />
oggetti oppure ZeroRelativo, ScambioCasa scambiarsi gli alloggi,<br />
La Settiamana del Baratto per soggiornare in B&B in cambio di<br />
servizi o prodotti. E poi nascono cose come gli SCEC, dei buoni<br />
che rappresentano un sistema di contabilità da usare insieme<br />
all’Euro all’interno di una comunità affinchè si creino rapporti e<br />
legami di fiducia e crescita sviluppando nelle persone un senso<br />
di libertà, indipendenza e legalità. Un’idea che non è innovativa<br />
ma che pare abbia riscontrato la fiducia di tanti. La domanda che<br />
sorge spontanea è: sarà questo il futuro dell’economia dei Paesi?<br />
Probabilmente non del tutto. Ma il suo ritorno non ha nulla di<br />
barbarico. Anzi. Tecnicamente il baratto è in generale considerato<br />
la prima forma storica dello scambio commerciale di beni, ed è<br />
dunque ben anteriore alle forme di scambio monetario. Una delle<br />
ragioni è che è molto più difficile, in assenza di moneta, risparmiare<br />
una parte del reddito. Il risparmio può avvenire in un sistema basato<br />
sul baratto solo acquistando beni non deperibili, il cui valore non<br />
si riduca nel corso del tempo. Di fatto, nel baratto, “il valore dei<br />
beni oggetto dello scambio viene considerato sostanzialmente<br />
equivalente fra le parti, senza ricorrere esplicitamente ad un’unità<br />
di misura, di valore monetario dei beni stessi. Il valore di equivalenza<br />
si raggiunge attraverso la considerazione qualitativa e quantitativa<br />
delle merci scambiate, secondo l’accordo delle parti, che talvolta<br />
può confidare negli usi, ma più spesso si richiama a fattuali ragioni<br />
di mutuo fabbisogno”. Ne consegue, che nei momenti di estrema<br />
urgenza sociale ed economica, anche nel baratto il valore delle<br />
Rick Dale,<br />
protagonista del reality<br />
americano “Missione Restauro”<br />
merci scambiate corrisponde al punto di incontro fra la domanda<br />
e l’offerta. Esistono vari tipi di baratto. C’è il baratto semplice (o<br />
baratto diretto), quando entrambe le parti desiderano procurarsi il<br />
bene o il servizio che ricevono in cambio del bene o del servizio<br />
ceduto. E c’è il baratto multiplo (o baratto indiretto), quando un<br />
soggetto cede un bene o un servizio ricevendone in cambio un<br />
altro bene o servizio che non desidera avere, ma che scambia<br />
per ottenere quanto desiderato (si dice che il bene ottenuto nello<br />
scambio è desiderato per il suo valore di scambio e non per il suo<br />
valore d’uso). Quest’ultimo è anche il caso in cui l’ottenimento del<br />
bene desiderato debba essere differito per ragioni di stagionalità o<br />
deperibilità. Una forma speciale e specifica di baratto, è costituita<br />
dallo scambio di appartamenti nei periodi estivi, e dalle Reti di<br />
ospitalità mondiali; associazioni per lo più recenti nate negli ultimi<br />
anni, che offrono alloggio e pernottamento gratuito ai soci, o<br />
membri delle stesse. Il baratto su internet è detto anche “swapping”,<br />
da swap, letteralmente scambio, ed è una forma sempre più<br />
popolare di baratto, generalmente informale, in cui singoli o gruppi<br />
di persone si spediscono beni e oggetti di valore comparabile, su<br />
base fiduciaria. I beni scambiati possono essere i più svariati, dagli<br />
indumenti, ai DVD, ai CD musicali, ad ogni tipo di oggetto e gadget<br />
e possono essere già in possesso dei partecipanti allo swapping,<br />
acquistati appositamente o creati con svariate tecniche, spesso<br />
seguendo un tema predefinito. Esistono anche e-mail swap, nei<br />
quali in genere sono scambiate informazioni, opinioni o foto a tema.<br />
Anche nel “paese reale”, ad incidere sull’economia dei luoghi,<br />
il baratto continua ad assumere dimensioni ragguardevoli. Per<br />
esempio, sta tornando in Ogliastra nel cuore della Sardegna,<br />
vicino al luogo in cui si svolse quel finto-vero reality a tutela degli<br />
operai di un’azienda sull’orlo del fallimento, L’isola dei cassintegrati.<br />
Tracy Hutson e Tanya<br />
McQueen, le “Pickers<br />
sisters” che viaggiano per<br />
gli Usa alla ricerca di<br />
tesori nascosti da<br />
restaurare e rivendere<br />
La famiglia Harrison, proprietaria del<br />
banco dei pegni Gold & Silver Pawn Shop<br />
e star del docu-reality “Affari di famiglia”<br />
Sul cui seguitissimo blog si invitava, appunto, a rinverdire questa<br />
pratica, nonostante lo strano pudore di chi utilizzava il baratto a<br />
parlarne perché “potrebbe svilire o dare una cattiva immagine di<br />
sé e del proprio territorio”. Eppure, in un accurato servizio del Tg2<br />
pescatori, allevatori, agricoltori, titolari di albergo, perfino edicolanti<br />
confessarono di lavorare per il 40% ricevendo beni materiali, cibo<br />
e altri servizi in cambio delle sue prestazioni professionali. Non<br />
è poco. Secondo una ricerca di Creative Commons, dopo quel<br />
servizio, tal Giangiacomo Pisu, tra l’altro autore di vari libri sulla<br />
Sardegna, decise di creare un gruppo su Facebook chiamato<br />
“Baratto Ogliastra” che conta oggi con più di 2200 iscritti. In questo<br />
gruppo la gente offre libri, olio, soggiorni turistici, moto, lezioni di<br />
lingue e le cose più disparate. Dopo pochi giorni hanno cominciato<br />
a nascere altri gruppi anche in altre parti della sardegna. Pian<br />
piano la piattaforma di Facebook è servita a un fine nobilissimo,<br />
un esempio di integrazione, tra saggezza e pragmaticità popolare<br />
e tecnologia. Altro che vergogna e pudore. Il baratto, poi, diventa<br />
l’epicentro di altri fenomeni, tutti attivati per reggere l’urto della crisi.<br />
Per tornare alla tivù, naturalmente il succitato “Affari di famiglia”,<br />
come scrive il Corriere della Sera in una recente analisi del<br />
fenomeno, come ogni produzione di successo, vanta anche uno<br />
spin off. Si chiama “Missione Restauro”. Anche questo programma<br />
va in onda su History ogni martedì alle 21 e segue le avventure<br />
di Rick Dale e della sua ditta che trova e restaura oggetti di ogni<br />
tipo: dalle Cadillac alle casseforti antiche, dalle stufe dell’800 fino<br />
ai caschi della Nasa. Sono sempre più numerose - negli States ma<br />
anche da noi - le attività che si propongono di svuotare cantine<br />
e sgomberare case gratuitamente: l’obiettivo è acquistare dai<br />
proprietari alcuni degli oggetti che altrimenti verrebbero gettati<br />
via per poi rivenderli. Così, dall’America arriva un altro docureality<br />
di successo: “A caccia di Tesori” (sempre su History, ogni<br />
lunedì alle 23). La serie segue le avventure di Mike e Frank, i più<br />
famosi “cacciatori di tesori” degli Stati Uniti. La tesi è che ovunque<br />
possano esserci tesori che aspettano di essere scoperti, reliquie<br />
nascoste tra le peggiori cianfrusaglie, seppellite nei granai o<br />
accatastate nei garage. Finché qualcuno li trova e li trasforma in<br />
denaro. Le telecamere seguono Mike e Frank mentre scovano tra<br />
la polvere oggetti dal valore storico o culturale, dimenticati dai loro<br />
proprietari. “A caccia di tesori” è la terza serie non- fiction più vista<br />
sulla tv via cavo americana. Esiste anche una versione “rosa” del<br />
programma, che ha debuttato il 15 maggio su FoxLife: “Pickers<br />
sisters”. Qui le protagoniste sono Tracy Hutson e Tanya McQueen,<br />
proprietarie di un negozio di design a Los Angeles che viaggiano<br />
per gli USA alla ricerca di tesori nascosti da restaurare e rivendere.<br />
Altro fenomeno: il couponing. Sempre in televisione, su Real Time,<br />
“Pazzi per la spesa” racconta una pratica oramai diffusa anche<br />
in Italia: la raccolta - maniacale - di buoni o tagliando con l’unico<br />
scopo del risparmio. In ogni episodio si entra nella vita quotidiana<br />
di alcune risparmiatrici “di professione”, vere e proprie ultrà dell’<br />
arte del raccogliere buoni sconto, che riescono a mettere da parte<br />
cifre inimmaginabili. Le tecniche utilizzate dalle parsimoniose<br />
protagoniste sono tra le più disparate. Nei casi più borderline, le<br />
si può vedere impegnate nell’ispezione della spazzatura pubblica<br />
in cerca di coupon gettati via oppure concentrate nell’elaborazione<br />
di complicate formule matematiche. Grazie a tali stratagemmi si<br />
scopre che è possibile tornare a casa dal supermercato con 1.600<br />
euro in prodotti alimentari avendone in realtà sborsati per la spesa<br />
solo 80. Il che poteva sembrare triste, anni fa. Ma oggi, incastonato<br />
nel contesto di un futuro alla ricerca di economie alternative,<br />
diventa addirittura una produttiva forma di divertimento.<br />
SWITCH12<br />
SWITCH13
c<br />
cucina<br />
OPERAZIONE<br />
RIBOLLITA: PARTE LA<br />
GRANDE MISSIONE<br />
DEGLI CHEF<br />
ANTI-SPERPERO<br />
Un piatto della Madonnina<br />
del Pescatore di Moreno Cedroni<br />
Vademecum dei cibi che allietano palato e portafogli<br />
di Giuseppe Marino<br />
Mussaka, cassoulet, ribollita, caciucco alla livornese.<br />
Schizzinosi di tutto il mondo arrendetevi: se l’idea di<br />
piatti a base di scarti di verdure e avanzi di carni vi fa<br />
arricciare il palato, ricordatevi che allora, per coerenza<br />
gastronomica, dovreste allentare la presa delle mandibole su alcuni<br />
dei più gustosi piatti della tradizione gastronomica mondiale. Dallo<br />
sformato di melanzane alla greca, alla minestra toscana di pane<br />
raffermo, alla cassoulet, delizia francese per stomaci ben allenati,<br />
frutto della lunga cottura di fagioli con un mix di carni, soprattutto<br />
di maiale. E poi le zuppe di pesce come il caciucco, tutte, al di là<br />
delle colorite leggende con cui i ristoratori più loquaci condiscono<br />
i loro piatti, nate dalla necessità di non buttare il pesce rimasto<br />
invenduto. Aveva voglia l’Artusi a disprezzare le polpette, “un piatto<br />
che tutti lo sanno fare, cominciando dal ciuco, il quale fu forse il<br />
primo a darne il modello al genere umano”. Chi ha avuto nonne<br />
addestrate al risparmio in cucina, rimpiangerà sempre il sapore di<br />
SWITCH14 SWITCH15
c<br />
cuochi in trincea<br />
Moreno Cedroni è lo chef a<br />
2 stelle Michelin che ha portato<br />
uno spirito avanguardista nella<br />
cucina italiana<br />
Lisa Casali, eco-foodblogger,<br />
è la “profetessa” della cucina<br />
anti sperperi<br />
© Claudia Castaldi<br />
sprecare è un comandamento che sembra farsi strada anche nelle<br />
istituzioni. C’è una Asl, la numero 3 di Pistoia, che ha organizzato<br />
un corso di cucina di recupero che partiva dal primo passo: come<br />
fare la spesa. “Quello è il primo passo per eliminare gli sprechi -<br />
spiega La Mantia davanti alle telecamere di Matrix -. Ho dimostrato<br />
come compravo il necessario a un pasto di quattro portate per<br />
quattro persone, spendendo 20,50 .. Si può fare: va recuperata<br />
anche l’arte di contrattare con il negoziante, non per ottenere uno<br />
sconto, ma per farsi dare il prodotto che al momento è il più fresco<br />
e ha il miglior prezzo”. Una pratica che echeggia le regole non<br />
scritte delle nonne e quegli avvertimenti che da bambino<br />
diventavano mantra: “Il cibo non si butta”. Lezioni disimparate? È<br />
chiaro che è tutto legato alla rivoluzione nella gestione della casa<br />
che ha completamente cambiato tempi e ritmi della preparazione<br />
del cibo. Inutile nascondersi che la cucina di recupero ha bisogno<br />
di impegno, anche se certamente può dare soddisfazioni. “A Roma<br />
- rievoca Colonna - la tradizione di recuperare le frattaglie degli<br />
animali risale al ‘700. Una volta la cucina senza sprechi non era<br />
solo un modo di far quadrare i conti, veniva pianificata per<br />
aumentare il piacere della tavola. Il tartù di riso, la lasagna, il<br />
timballo di ziti: sono tutti piatti preparati con eccesso di pasta che<br />
spesso non era casuale. Se facevi gli ziti, ne buttavi in pentola di<br />
più, programmando di metterne via un po’ per il timballo”. La nuova<br />
ondata di cucina risparmiosa per il momento invece è soprattutto<br />
una moda. Che va interpretata nel giusto modo, altrimenti rischia di<br />
essere un’altra eco ipocrisia: bisogna davvero avere il coraggio di<br />
cucinare con quel che c’è in dispensa. Partire da uno dei tanti<br />
ricettari anti sprechi che sono ora in libreria rischia di aumentare lo<br />
sperpero: fare la spesa per mettere insieme le sole parti di recupero<br />
per poi vantarsi con i commensali di aver cucinato “ecologico”<br />
sarebbe un bel paradosso. Ma c’è da giurarci che qualcuno ci<br />
cadrà. “Certo cucinare con gli scarti asseconda anche una tendenza<br />
verde che è decisamente modaiola”, ammette La Mantia; “serve a<br />
dare al cliente la sensazione di fargli mangiare “cibi di bottega”,<br />
oggi così richiesti”. Se il fenomeno finirà confinato a una stagione<br />
di serate eco chic, se servirà solo al “green washing” di qualche<br />
ristorante per vip e pseudo tali, solo il tempo potrà dirlo. Ma la vera<br />
battaglia, più che nei ristoranti si combatterà nelle cucine private.<br />
Perché è lì che la sperimentazione con gli avanzi, con le parti meno<br />
pregiate delle verdure, con gli scarti del pesce, ha permesso di<br />
crare tante prelibatezze. Il ritorno della fantasia al potere di chi apre<br />
il frigo in cerca di ispirazione potrebbe essere una svolta davvero<br />
epocale. Gli chef concordano: sperimentare a casa, nella propria<br />
cucina dà i risultati migliori (“è così che ho creato il 60 per cento<br />
dei miei piatti”, confessa La Mantia). E perché no: magari da questa<br />
ondata verde in cucina nascerà qualche altro classico della cucina<br />
italiana. Senza sprechi, ovviamente.<br />
certe polpette al sugo. E pazienza se sono figlie della carne<br />
avanzata a pranzo. La verità è che certi “piatti di recupero”, come li<br />
chiamano oggi un po’ pomposamente, sono migliori di tante<br />
sofisticate ricette di prima mano. Aggiungete una generosa<br />
manciata di crisi economica di lunga cottura, un pizzico di<br />
radicamento dell’abitudine al riciclaggio, una generosa spolverata<br />
di voglia di ecologia, ed ecco servita la moda di ritorno. Quel che<br />
per i nostri genitori era necessità, sta oggi diventando una tendenza<br />
che sarà anche risparmiosa, ma è tutt’altro che povera: non solo si<br />
usano in maniera creativa gli avanzi della sera prima, ma si tende<br />
anche a non gettare via parti di ortaggi fino a ieri considerati<br />
immangiabili. Bucce, gambi, torsoli sono protagonisti di una nuova<br />
primavera culinaria che svuota i sacchi della spazzatura e riempie i<br />
piatti. Detta così suona male? Assaggiata, gusta più che bene.<br />
Basta chiedere al romanissimo chef Antonello Colonna, che<br />
con i suoi clienti si diverte a fare un piccolo numero, quello del<br />
“boccone del cane”, un’antitesi scherzosamente dispregiativa del<br />
boccone del prete, un gioco per lasciare i commensali a bocca<br />
aperta (post deglutizione, of course). “Qui a Roma il capretto è un<br />
classico - spiega Colonna - ma la spalla è il classico taglio che il<br />
macellaio stesso offre alla massaia per darlo al cane: troppa<br />
cartilagine, finisce sempre come avanzo. E invece la carne<br />
disossata, tolta la cartilagine, arrotolata e messa al forno diventa un<br />
piatto prelibato, con cui ci si mangia in due, tra l’altro”. Stessa storia<br />
per le ali di pollo, passate da sorelle minori delle ambite cosce e del<br />
petto a protagoniste di piatti sofisticati, cucinate nei modi più<br />
fantasiosi. Ma è sul fronte degli ortaggi che il fenomeno è ancora<br />
più sorprendente. La nuova corrente di ecogastronomia teorizza un<br />
uso proficuo di parte di vegetali che normalmente prendono la via<br />
del cassonetto: l’interno dei torsoli del cavolfiore frullato serve a<br />
fare il brodo, le foglie esterne di cicoria e lattuga, di solito gettate<br />
via senza pietà, si possono ripassare in padella e trasformare in<br />
condimento per la pasta, le bucce di anguria e melone, trattate a<br />
dovere, prendono forma (e sapore) di sottaceti. Anche Filippo La<br />
Mantia, come Colonna protagonista delle più vivaci serate<br />
culinarie romane, sposa la linea anti spreco: “Il gambo del carciofo<br />
è buonissimo - dice estasiato lo chef siciliano - va ripulito con un<br />
pela patate, lessato, tagliato a pezzettini e condito con olio e<br />
limone, il gambo del sedano, la parte che di solito la gente butta,<br />
SWITCH16<br />
frullato con capperi, basilico, olio e limone diventa un ottimo<br />
condimento per la pasta. E poi il finocchio: mondandolo se ne butta<br />
la metà. Se invece lo si frulla con basilico, olive, mandorle tostate e<br />
olio crudo, si ottiene un pesto eccezionale”. Da Moreno Cedroni,<br />
patron del celebre “Madonnina del Pescatore” di Senigallia, arriva<br />
un altro semaforo verde d’autore alla cucina degli scarti (“ma non<br />
chiamateli così”, intima Colonna). Anzi, qualcosa di più: lo chef bistellato<br />
lo scorso 26 giugno ha servito una cena per mille persone<br />
al “Caterradue”, celebre raduno dei fan di Caterpillar, la trasmissione<br />
di Radiodue Rai. In tavola mezze maniche bio al sugo di arrabbiata<br />
di alici con prezzemolo e fonduta di grana padano, lasagna di<br />
grando duro bio condita come una pizza margherita, caponatina di<br />
verdure, crema di yogurt e frutta fresca. Cedroni, vero teorico del<br />
recupero, ha utilizzato ingredienti perfettamente commestibili<br />
anche se esteticamente non perfetti e per questo scartati al<br />
mercato. Una cornice scherzosa per un’operazione culturale su<br />
una questione scottante: ogni anno viene perduto o sprecato un<br />
terzo del cibo prodotto, cioè 1,3 miliardi di tonnellate, secondo<br />
quanto certificato dalla Fao. Ogni europeo e nordamericano butta<br />
95-<strong>11</strong>5 kg di cibo l’anno, in Italia finiscono nel sacco della<br />
spazzatura 10 milioni di tonnellate di cibo l’anno. Ma è inutile<br />
condannare, come al solito, l’Occidente, visto che a sprecare sono<br />
anche i Paesi in via di sviluppo. A finire al macero è soprattutto<br />
frutta e verdura e tra le cause, la Fao indica proprio la “dittatura<br />
dell’apparenza” che spinge a scartare ortaggi assolutamente<br />
commestibili. Perfino gli americani, da sempre re dello spreco,<br />
stanno cavalcando la gastronomia del recupero. Loro parlano di<br />
cucina “stem to root”, dal gambo alla radice. Il “New York Times” ha<br />
immancabilmente registrato il fenomeno, dando voce a tanti chef<br />
che si sfidano nel conquistare clientela chic con la loro cucina anti<br />
spreco, da Manhattan agli alfieri dell’ecocuina della Bay Area di<br />
San Francisco, come Delfina, Zuni Cafe e Chez Panisse. In Italia,<br />
neanche a dirlo, il web è straricco di proposte. Tra gli alfieri del<br />
“movimento” c’è Lisca, nickname dietro cui si nasconde, ma non<br />
troppo, Lisa Casali, eco-food-blogger e autrice di diversi libri in<br />
materia, oltre che del blog Ecocucina.org, su cui ci si può acculturare<br />
in materia. Sul suo sito le proposte non mancano, dai brownies di<br />
pane raffermo al panino con cotoletta di croste e foglie di ravanello<br />
saltate. Ma l’idea più “verde” della blogger è senz’altro quella di<br />
cucinare i suddetti piatti in lavastoviglie, sfruttando cioè il calore<br />
che la macchina emette quando entra in funzione. Cucinare senza<br />
© Courtesy of Edizioni Gribaudo<br />
Una delle ricette anti spreco di Lisa Casali,<br />
presentatrice del programma “Zero Sprechi” su<br />
Gambero Rosso Channel e autrice della guida<br />
“Ecocucina” (ed. Gribaudo)<br />
LA RICETTA:<br />
CIALDA DI BUCCE DI PATATA CON MOUSSE<br />
DI CAPRINO SPEZIATO di Lisa Casali<br />
INGREDIENTI<br />
· 200 g di bucce di patate<br />
· 200 g di caprino<br />
· 1 albume<br />
· 1 cucchiaino di curcuma<br />
· 1 pizzico di peperoncino piccante in polvere<br />
· erba cipollina<br />
· olio extravergine di oliva<br />
· sale<br />
· pepe<br />
Lavate le patate e sbucciatele con un pelapatate.<br />
Cuocete le bucce per 5 minuti a vapore o in acqua<br />
bollente. Scolatele e asciugatele. Stendetele<br />
su un foglio di carta da forno sovrapponendo<br />
leggermente i bordi, in modo da formare<br />
delle cialde. Schiacciatele con il matterello e<br />
spennellatele con l’albume leggermente sbattuto<br />
o, in alternativa, con malto d’orzo. Distanziate tra<br />
loro le cialde e infornate a 150 °C per 20 minuti.<br />
Mettete il caprino in una ciotola e lavoratelo con<br />
l’erba cipollina, la curcuma e il peperoncino.<br />
Continuate a mescolare versando a filo circa 3<br />
cucchiai di olio. Ponete la ciotola con il caprino<br />
in un piatto da portata e servitela con le cialde di<br />
bucce di patata.<br />
COSTO DELLA RICETTA: tra 1 e 3 euro.
t<br />
territori<br />
Copenhagen è la città dei ciclisti:<br />
qui ci sono 350 km di piste ciclabile e<br />
i ciclisti ogni giorno “macinano” in totale circa<br />
1,2 milioni di chilometri. Come dalla terra alla<br />
luna andata e ritorno…due volte!<br />
© copenhagenmediacenter.com<br />
OPERAZIONE<br />
DECRESCITA,<br />
“MENO SPRECO E<br />
PIù SALVO IL MONDO”<br />
Creare una democrazia energetica per pochi intimi,<br />
in Germania, scardinare le banche in Francia, eliminare<br />
l’automobile in Danimarca. Ecco la mappa dei luoghi<br />
della rinascita sociale<br />
di Ettore Colombo<br />
La si potrebbe anche chiamare “piccola guida (s)ragionata<br />
ai luoghi della decrescita felice”. Esistono dei luoghi, infatti,<br />
collocati nel cuore della opulenta, crapulona e sprecona<br />
Europa, e non nei villaggi sperduti e remoti dell’Oceania<br />
o dell’Africa, che rispecchiano alla perfezione le teorie di Serge<br />
Latouche (vedi box), inventore e cantore della “decrescita felice”.<br />
Alla base di un movimento ormai diffuso, a livello di cittadini attivi in<br />
gruppi, blog, siti, etc., ovunque, persino nella nostra Italia, sta l’ideaforza<br />
che decrescita non significa per forza sacrificio e rinuncia,<br />
ma piuttosto favorire uno stile di vita incentrato maggiormente<br />
sulla sobrietà, il senso del limite. Le “regole di vita” di una (vera)<br />
decrescita felice sono tante. Regola n. 1: prefiggersi di ridurre le<br />
proprie spese, in modo tangibile e con un piccolo micro-programma<br />
di riduzione dei costi. É il metodo migliore per aumentare il proprio<br />
reddito! Regola n. 2: non sprecare nulla (luci, PC, orologi, etc.).<br />
Regola n. 3: acquistare cibo nella sua forma più elementare,<br />
ma in grande quantità. Si potrebbe andare avanti, ma l’elenco è<br />
molto lungo e, molte volte, fa sorridere (c’è, anche, “Prendetevi<br />
cura di qualcuno di non umano”, che poi sarebbero gli animali…).<br />
Al di là delle facili ironie il punto fisso dei teorici della “decrescita<br />
felice” è che questa teoria non è soltanto una critica ragionata e<br />
ragionevole assurdità di un’economia fondata sulla crescita della<br />
produzione di merci, ma si caratterizza come un’alternativa radicale<br />
al suo sistema di valori. Si tratta, insomma, di una vera “rivoluzione”<br />
culturale che non accetta la riduzione della qualità alla quantità, ma<br />
fa prevalere le valutazioni qualitative sulle misurazioni quantitative.<br />
Non resta che andare a curiosare dove, in modo consapevole o<br />
meno, la teoria della “decrescita felice” viene applicata così bene da<br />
SWITCH18 SWITCH19
© Elektrizitätswerke Schönau Vertriebs GmbH<br />
t<br />
vivere felici<br />
diventare, da teoria più o meno bislacca a stile e comportamento di<br />
vita quotidiano e praticabile.<br />
1. Scardinare il potere delle banche: a Nantes vogliono<br />
sostituire l’Euro con il Bonus<br />
Riuscirà l’economia reale - fatta di scambi tra prodotti diversi<br />
regolati dal semplice dare e avere - a soppiantare le scatole<br />
vuote della finanza? Sarà possibile, per guardare avanti, tornare<br />
indietro ai tempi del baratto, seppure rivisto e corretto? La folle<br />
idea, partita dalle aule dell’Università Bocconi, sta per diventare<br />
realtà in Francia, a Nantes, dove l’ha importata Jean Marc Ayrault,<br />
l’ormai ex sindaco socialista della città, visto che è stato nominato<br />
primo ministro del presidente della Repubblica Francoise Hollande.<br />
Ayrault ha affidato a due professori italiani il compito di tradurre in<br />
realtà un progetto rivoluzionario, quello di implementare una nuova<br />
moneta. Si chiamerà “bonùs” e diventerà una moneta municipale<br />
e complementare, non sostitutiva, all’euro. Obiettivo: realizzare un<br />
sistema di credito cooperativo tra aziende allo scopo di rafforzare<br />
l’economia locale e avviare un circuito virtuoso che consenta<br />
di avere più risorse a disposizione per acquistare prodotti delle<br />
imprese che fanno parte del sistema. Il progetto nasce dagli studi<br />
di Massimo Amato, filosofo, e Luca Fantacci, che insegna scenari<br />
economici internazionali, due eretici della Bocconi di Milano, già<br />
autori, nel 2009, di un libro diventato un best-seller ma ignorato<br />
dagli economisti (“Fine della finanza, da dove viene la crisi e come<br />
si può pensare di uscirne”). Solo a Nantes, però, dove Amato ha<br />
insegnato due anni, è stato possibile passare dalla teoria alla<br />
pratica e avviare il processo che, dopo che la Banca di Francia ha<br />
approvato il progetto, dovrebbe portare alla realizzazione del nuovo<br />
sistema monetario. Il Credit Municipal, di proprietà del Comune,<br />
sarà il modello di una nuova banca che farà solo servizio pubblico e<br />
non avrà interessi privati. Sarà il Credit a tenere i conti degli scambi<br />
fra le imprese e fra queste e i privati (i quali avrebbero lo stipendio<br />
diviso tra euro e “bonùs”). Con il “bonùs”, paradossalmente, non<br />
servirà denaro per avere credito perché il circuito creditizio sarà<br />
concepito come una camera di compensazione al cui interno<br />
ognuno dispone di un conto corrente e fa i propri scambi dando<br />
servizi in cambio di prodotti.<br />
2. Passeggiando in bicicletta accanto a te. Senza auto in giro.<br />
A Copenaghen si può<br />
La bici, come si sa, offre numerosi vantaggi. Secondo una serie<br />
di studi a campione la mortalità media di chi si reca al lavoro in<br />
Ursula Slade e Michael<br />
Sladek, co-fondatori della EWS<br />
bicicletta (o trascorre un periodo equivalente in palestra) è del<br />
30-40% inferiore di chi invece si sposta in auto, tenendo conto<br />
anche del rischio incidenti. Inoltre, sostituire la bici all’auto consente<br />
di ridurre le proprie emissioni di anidride carbonica e altri gas<br />
serra, contribuendo alla riduzione complessiva dell’inquinamento<br />
atmosferico. Belle parole, ma chi lavora concretamente per far<br />
diventare comodo e praticabile l’alternativa bici all’automobile? I<br />
danesi, naturalmente. In Danimarca, infatti, il governo considera<br />
la diffusione del trasporto su bici come una priorità ambientale.<br />
Grazie ad una politica di riduzione dell’inquinamento urbano,<br />
Copenaghen si è aggiudicata nel 2006 il premio europeo per la<br />
gestione dell’ambiente. Del resto, si sa: la passione dei danesi per<br />
il ciclismo è famosa nel mondo, tanto che a Copenaghen i turisti<br />
amano noleggiare biciclette per sentirsi partecipi dello stile di vita<br />
locale. Ma la diffusione del ciclismo nella capitale è soprattutto il<br />
risultato della lungimiranza del governo e dei cittadini. La cultura<br />
della bici, infatti, ha attecchito facilmente in una città dove le piste<br />
ciclabili sono estese e ben mantenute e dove biciclette pubbliche<br />
gratuite sono messe a disposizione dei residenti dietro pagamento<br />
di un semplice deposito. Copenaghen dispone inoltre di numerosi<br />
spazi per il parcheggio delle biciclette, onde evitare l’affollamento<br />
di mezzi nelle zone di maggior traffico. La rete ciclabile è collegata<br />
a quella ferroviaria, grazie a un sistema che consente di trasportare<br />
con facilità la propria bici su qualsiasi treno. Infine, Copenaghen ha<br />
avviato la costruzione di superstrade per ciclisti, che si estendono al<br />
di fuori della cerchia urbana fino alle località circostanti. Con incentivi<br />
del genere, non è sorprendente che ben il 40% dei residenti della<br />
capitale danese si sposti in bicicletta: a loro conviene!<br />
3. Come costruire la democrazia energetica. Il caso di<br />
Schonau, Germania<br />
È possibile costruire una democrazia energetica e raggiungere<br />
un’autonomia attraverso le rinnovabili? Dalla Foresta nera, nel<br />
Sud-Ovest della Germania, a Schonau, arriva un esempio di<br />
“democrazia energetica”, principi della decrescita applicati come<br />
in una felice “isola di Utopia” e, anche, di liberalizzazione dal<br />
basso. Tutto nasce con il drammatico incidente di Chernobyl, nel<br />
1986. Si mette paura un intero continente, compresi i cittadini di<br />
Schonau. Nasce il gruppo “Genitori per un futuro senza nucleare”.<br />
È un piccolo gesto, ma arriverà a scardinare il sistema usuale di<br />
approvvigionamento energetico. La richiesta iniziale è un sistema<br />
progressivo che incentivasse realmente il risparmio energetico;<br />
la KWR, società locale di fornitura elettrica, non aveva alcuna<br />
intenzione d’introdurlo. Così nel 1990, 13 abitanti e genitori di<br />
Schonau fondano un’azienda per il finanziamento dell’installazione<br />
delle prime centrali elettriche decentralizzate e di una moltitudine di<br />
cogeneratori. I cogeneratori producono energia in misura maggiore<br />
al fabbisogno e ne restituiscono alla rete un’ottima quantità che<br />
dovrebbe essere pagata dal distributore a prezzo più alto per<br />
permettere l’ammortamento dell’impianto. Altra concessione su<br />
cui la KWR non era disposta a cedere. Contemporaneamente,<br />
però, era nata un’altra società, la EWS, pronta a competere con<br />
la KWR per la concessione ventennale della distribuzione elettrica<br />
di Schonau. I “ribelli dell’energia”, riunitesi in una serie di comitati,<br />
colsero l’occasione al volo: organizzarono un referendum per<br />
la revoca del contratto alla KWR, ribadendo la ferma volontà dei<br />
cittadini di decidere sulla propria politica energetica. La vittoria<br />
fu netta, poi tutti gli sforzi furono spostati sulla raccolta dei fondi<br />
necessari all’acquisto delle rete elettrica di proprietà della KWR<br />
che la sovrastimò di quasi 5 milioni di marchi rispetto allo studio<br />
di fattibilità della EWS. I cittadini la spuntarono nel 1995, quando<br />
il comune confermò la concessione alla EWS. Da allora, la EWS<br />
garantisce energia in buona percentuale proveniente da impianti<br />
solari, continui investimenti in energie rinnovabili e Schonau<br />
è il comune europeo a maggiore densità d’impianti di microcogenerazione.<br />
4. Gli “Orti Collettivi” della Giudecca di Venezia. Ortaggi e<br />
benessere.<br />
Chissà come si dice, in veneziano, community garden. Quando<br />
pensi al verde della città della Laguna di solito ti vengono in mente i<br />
giardini della Biennale. Arte, radical chic e party all’imbrunire. Niente<br />
di tutto questo. Grazie al lavoro di “Spiazzi Verdi”, un’associazione<br />
no-profit, orti e giardini condivisi sono sbarcati a Venezia. Basta<br />
prendere il vaporetto per l’isola della Giudecca e fare due passi<br />
per svelare il mistero. È nell’antica casa di cura delle Zitelle che<br />
si nasconde l’orto collettivo: uno spazio aperto al quartiere,<br />
(pardon, “sestiere”) e a tutta la città. E così, l’antico orto prima di un<br />
convento di monache, poi di un carcere femminile, infine un luogo<br />
abbandonato pieno di erbacce, oggi non produce solo ortaggi e<br />
verdure, ma anche benessere. Perché questo è l’obiettivo di Spiazzi<br />
Verdi, creare situazioni ed esperienze di “felice convivenza” fra la<br />
terra e i suoi abitanti, ricollegando in maniera sostenibile i cittadini e<br />
le aree verdi urbane. L’opera di ripristino da parte della cooperativa<br />
“Rio Terà dei Pensieri”, che organizza anche attività lavorative e<br />
formazione professionale, comincia nel 1995. “I primi tempi sono<br />
stati impiegati a ripulire e a riordinare il terreno - spiegano - poi<br />
finalmente ci siamo potuti dedicare alla creazione dell’orto vero<br />
e proprio, seguendo i criteri dell’agricoltura naturale e ottenendo<br />
nel 2007 la certificazione biologica”. L’orto cresce rigoglioso e ben<br />
curato, anche grazie al lavoro di un gruppo di detenute: misura<br />
SERGE LATOUCHE, IL GURU DELL’HAPPY GREEN<br />
Economista e filosofo francese, Serge Latouche (Vannes,<br />
Francia, 1940), diventa subito noto, nel secondo dopoguerra,<br />
per la sua avversione alla dilagante occidentalizzazione dei<br />
popoli, e propugnatore di una cosiddetta “decrescita felice”<br />
che aiuti l’umanità a liberarsi definitivamente della sua visione<br />
economicista. Lo stesso concetto di sviluppo implica, per lui,<br />
una visione del mondo in chiave economica, così come il tanto<br />
decantato “sviluppo sostenibile”. Secondo Latouche, anche<br />
quest’ultimo è da considerare negativo, in quanto racchiude<br />
il tentativo estremo di far sopravvivere una costante crescita<br />
economica, lanciando il messaggio che da essa dipenda<br />
il benessere dei popoli. Decrescita, però, non significa per<br />
forza sacrificio e rinuncia, ma piuttosto favorire uno stile di vita<br />
incentrato maggiormente sulla sobrietà, sul senso del limite e sulle<br />
“8 R” (Rivalutare, Ricontestualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare,<br />
Ridistribuire, Ridurre, Riciclare, Riutilizzare) per far fronte ai<br />
problemi ambientali e sociali del nostro tempo, dovuti proprio alla<br />
crescita irresponsabile. L’Occidente rappresenta, per Latouche,<br />
6.000 metri quadri, è provvisto di grandi serre e al suo interno<br />
si coltiva un po’ di tutto, compresi numerosi ortaggi regionali, ma<br />
c’è spazio anche per oliveti, un frutteto, la zona per il compost, il<br />
tunnel con i semenzai e una sezione denominata “aromantica”,<br />
dedicata alle officinali e ai peperoncini. E così, “l’orto sinergico”<br />
della Giudecca, dove non serve neppure il concime, perché è la<br />
disgregazione del materiale organico che si reintegra nel terreno a<br />
far mescolare e crescere nuove semi e nuove sementi, diventa la<br />
metafora perfetta della teoria (a questo punto, e con questi esempi,<br />
non più solo teoria, ma reale possibilità di vita) della “decrescita<br />
felice”: Lavori, prendi e vendi dalla terra, mangi e consumi quanto<br />
è necessario in un’azione collettiva che permette di “mescolare la<br />
terra”, salvandola.<br />
Ettore Colombo è giornalista politico e di costume<br />
Serge Latouche,<br />
economista e filosofo<br />
francese, tra gli avversari<br />
più noti dell’occidentalizzazione<br />
del pianeta e un sostenitore<br />
della decrescita conviviale<br />
e del localismo<br />
non solo un’entità geografica, ma una creazione ideologica della<br />
stessa popolazione occidentale che pretende di imporre valori e<br />
credenze a tutto il genere umano.<br />
Quel che invece sarebbe auspicabile, secondo l’economista<br />
francese, dovrebbero essere il dialogo e la coesistenza fra<br />
le culture. Sarebbe importante riconoscere che esistono<br />
diversità ma che queste possono convivere pacificamente, se<br />
non instaurare un rapporto di serena cooperazione. Latouche<br />
chiama questa visione “universalismo plurale”, in opposizione<br />
alla normale idea di “universalismo” che, invece, porta a un<br />
dilagante imperialismo culturale. Decolonizzare l’immaginario<br />
occidentale dall’economicismo significherebbe anche rivalutare e<br />
ricontestualizzare alcune zone del pianeta, come il Terzo mondo,<br />
in totale stato di abbandono perché necessario alla macchina<br />
capitalistica. Tra le più significative opere di Serge Latouche,<br />
si segnalano: L’occidentalizzazione del mondo; Il pianeta dei<br />
naufraghi; Immaginare il nuovo. Il pensiero creativo contro<br />
l’economia dell’assurdo.<br />
SWITCH20<br />
SWITCH21
i<br />
innovazioni<br />
“e luce fu”<br />
Quando <strong>Edison</strong><br />
accese il MoMA<br />
L’avventura dell’azienda al Museo d’Arte Moderna<br />
di Andrea Colombo 1<br />
La storia della “Casa Elettrica” è ben nota agli addetti ai<br />
lavori e a quanti si sono occupati di storia dell’architettura.<br />
Considerata come uno dei primi esempi di struttura<br />
razionalista realizzata in Italia, patrocinata dalla Società<br />
Generale Italiana <strong>Edison</strong> di Elettricità a fronte di una esplicita<br />
richiesta fatta da Gio Ponti alla stessa <strong>Edison</strong>, venne realizzata dal<br />
Gruppo 7 ed esposta in occasione della “IV Esposizione Triennale<br />
Internazionale delle Arti Decorative ed Industriali Moderne” che<br />
si tenne a Monza dal maggio al novembre del 1930. La “Casa<br />
Elettrica” diede splendida mostra di sé all’interno del parco della<br />
Villa Reale per sei mesi, al termine dei quali venne demolita. Una<br />
vita breve, effimera, ma non per questo priva di significato visto<br />
che a due anni dalla sua uscita di scena fece la sua comparsa<br />
al Museum of Modern Art di New York nella prima esposizione<br />
dedicata da questo museo all’architettura moderna.<br />
La storia della “Casa Elettrica” è soprattutto una sfida di giovani tra<br />
giovani. Giovane è la società committente, la <strong>Edison</strong>, che nel 1930<br />
non ha nemmeno cinquant’anni. Ha poco meno di quarant’anni<br />
Gio Ponti, anima della IV Triennale di Monza, che individua nei<br />
giovanissimi architetti del Gruppo 7, nemmeno trentenni, coloro<br />
che possono proporre qualcosa di nuovo, di diverso, di esemplare.<br />
Perché questo interesse di Gio Ponti per il Gruppo 7, nato<br />
nell’autunno 1926? Il Gruppo 7, così denominato perché composto<br />
da sette studenti del Politecnico di Milano (Luigi Figini, Guido<br />
Frette, Sebastiano Larco, Gino Pollini, Carlo Enrico Rava, Giuseppe<br />
Terragni e Ubaldo Castagnoli, quest’ultimo sostituito da Adalberto<br />
Libera nell’estate del 1927) fa propri i temi affermati dal movimento<br />
moderno internazionale. A partire dal 1927, i membri del Gruppo 7<br />
incominciarono a partecipare, da soli o in coppia, a diversi concorsi.<br />
In quell’anno due dei suoi esponenti, il milanese Luigi Figini e il<br />
rovetano Gino Pollini, incominciarono un sodalizio destinato a<br />
durare per tutta la vita. Due anni dopo, nel 1929, il trentino Gino<br />
Pollini aveva - su commissione dell’Azienda Elettrica Consorziale<br />
- realizzato per l’Esposizione dell’Alto Adige un “Appartamento<br />
Elettrico” nel quale in un simulacro di appartamento venivano<br />
collocati i più disparati elettrodomestici. Quando Gio Ponti pensò<br />
di realizzare una casa elettrica per la Triennale di Monza, non poté<br />
non pensare a Gino Pollini che con il suo “Appartamento Elettrico”<br />
si era già cimentato con qualcosa di simile. Il progetto della<br />
casetta si presentava per <strong>Edison</strong> come una magnifica occasione<br />
pubblicitaria, ma non solo, visto che la società milanese, facendo<br />
sua la proposta di Gio Ponti “(…) Rendeva pubblico il proprio<br />
progetto sia industriale che sociale, destinato a trasformare non<br />
solo l’assetto di un singolo settore produttivo, ma le forme stesse<br />
del lavoro e della vita quotidiana: l’elettrificazione della casa” 2<br />
. La<br />
“Casa Elettrica” fu presentata come una realizzazione del Gruppo<br />
7, ma nella realtà era il frutto di solo alcuni dei suoi componenti.<br />
Se il Gruppo 7 agli inizi del 1930, a causa delle troppe divergenze<br />
sorte tra i suoi membri di fatto non esisteva più, la “Casa Elettrica”,<br />
realizzata dalla maggioranza dei suoi membri, può dirsi come l’unica<br />
creazione di questo gruppo. Pensata da Gio Ponti come un’iniziativa<br />
da affidarsi collettivamente al Gruppo 7, fu colta da Figini e Pollini<br />
come l’occasione per orchestrare in piena autonomia l’opportunità<br />
offerta. Luigi Figini e Gino Pollini erano i progettisti della casa e<br />
dell’arredo della camera del figlio; Guido Frette ed Adalberto Libera<br />
erano gli artefici dell’arredamento del soggiorno e della camera<br />
doppia; Piero Bottoni – esterno al Gruppo 7 – il progettista dei<br />
locali di servizio (cucina, acquaio, bagno, camera della domestica).<br />
Figini e Pollini concepirono la “Casa Elettrica” come un edificio a<br />
pianta rettangolare di 16 metri per 8 metri ad un solo piano, munito<br />
di una scala che conduceva ad una vasta terrazza panoramica<br />
in parte coperta. Nella parte frontale vi era un atrio d’ingresso<br />
coperto con un pilastro rotondo posto all’estrema destra. A sinistra<br />
dell’ingresso si sviluppava l’ampia vetrata della serra. Sulla parte<br />
posteriore vi erano le aperture di una delle camere da letto, della<br />
sala da pranzo e della cucina, quest’ultima munita anche di porta<br />
di servizio. Tuttavia, di che colore era esternamente la casa? Le<br />
foto in bianco e nero oggi esistenti non rendono giustizia alla<br />
costruzione tinteggiata di bianco, di grigio e di rosso. All’interno,<br />
l’ambiente centrale, la sala, risultava essere alta più di 5 metri,<br />
perché comprendente anche la loggia interna. I locali di servizio<br />
erano posti sui lati più corti. Da un lato vi erano le camere da letto<br />
e il bagno, dall’altro lato vi era la zona formata da cucina, acquaio,<br />
ingresso passante e camera della domestica. La loggia superiore<br />
venne pensata come una copertura sorretta da quattro pilastrini<br />
quadrati posti ai vertici del perimetro coperto. Prima di entrare<br />
nella casa, inaugurata il 18 maggio 1930, l’ipotetico visitatore si<br />
trovava di fronte a due grandi scritte: “Casa Elettrica” e “Gruppo<br />
7”. Un pannello a caratteri bianchi e rossi su fondo nero illustrava<br />
ai visitatori quanti avevano concorso alla realizzazione della casa,<br />
la Società <strong>Edison</strong> in primis. Entrando, si accedeva attraverso<br />
una piccola anticamera ad un ambiente comprendente stanza<br />
di soggiorno e sala da pranzo. A sinistra si incontrava la doppia<br />
parete vetrata della serra. Quest’ultima - realizzata da Guido Frette<br />
su ispirazione di Figini e Pollini - era anche una delle pareti della<br />
stanza di soggiorno. La serra fu verniciata di rosso. Di rosso erano<br />
anche le colonne circolari dell’interno.<br />
Sala da pranzo e stanza di soggiorno erano un unico grande<br />
ambiente, separabile però da tende di colore grigio. Con questo<br />
stratagemma da un ambiente se ne ricavavano due. Per suddividere<br />
le varie zone della casa, si giungeva ad un curioso espediente. La<br />
demarcazione era data dalla pavimentazione in linoleum. Gli intarsi,<br />
a diversi colori, contrassegnavano i confini tra le stanze. L’uso<br />
del linoleum era determinato da criteri artistici e funzionali, visto<br />
che questo materiale si prestava ad essere applicato con facilità,<br />
era facilmente lavabile, durevole, silenzioso, elastico e riposante.<br />
Naturalmente i colori della pavimentazione erano intonati alla tinta<br />
delle pareti e della mobilia. La stanza di soggiorno era arredata<br />
con poltroncine semicircolari, un tavolino a corona circolare<br />
ed un mobile in noce lucido. Questi arredi erano posti a fianco<br />
della scalinata, munita di una balaustra in metallo cromato, che<br />
conduceva alla vasta terrazza posta sul tetto. La sala da pranzo,<br />
confinante con la cucina, era composta da un tavolo con quattro<br />
sedie e un mobile basso posto sotto ad una delle grandi finestre<br />
panoramiche - tutte a sviluppo orizzontale - di circa 3 metri di<br />
larghezza per 1,13 metri di altezza. L’arredo era completato con<br />
opere di alcuni tra i più importanti artisti italiani contemporanei,<br />
quali Arturo Martini, Carlo Carrà e Fausto Melotti. Queste opere<br />
avevano la funzione di ambientare “(…) L’intera composizione<br />
cercando di rendere meno stridente la contemporanea esibizione<br />
di ozonizzatori, scaldavivande, lucidatrici, ventilatori e teiere, tutti<br />
naturalmente elettrici” 3<br />
. Percorrendo la scalinata si giungeva alla<br />
loggia superiore interna che si affacciava sul salone, caratterizzato<br />
da una bassa finestratura angolare ad “L”, passaggio alle due logge<br />
esterne ed alla terrazza scoperta. Ridiscendendo verso il piano<br />
inferiore, dal lato della stanza di soggiorno opposta all’ingresso,<br />
ci si trovava di fronte a tre stanze: la camera del figlio, il bagno<br />
e la stanza dei genitori. Attraverso un passaggio, si entrava nella<br />
prima di queste due camere, quella del figlio, opera del duo Figini<br />
e Pollini. Questa era caratterizzata da un arredo in cui i mobili -<br />
SWITCH22 SWITCH23
iletto, comodino, tavolo e poltroncina - erano composti da una<br />
struttura in tubi d’acciaio cromato. All’estremità opposta della<br />
stanza del figlio si accedeva alla camera matrimoniale, opera di<br />
Guido Frette ed Adalberto Libera, ambiente questo dominato<br />
dal letto matrimoniale e caratterizzato dalla presenza di armadi<br />
a muro. Tra queste due camere vi era il bagno, opera di Piero<br />
Bottoni. L’ambiente si presentava dotato di ogni confort moderno:<br />
un WC, un bidet, una vasca da bagno ed un “lavabo razionale”<br />
incassato in una toilette rivestita di gomma lavabile di colore<br />
arancione. Le pareti della stanza erano rivestite di gomma azzurra,<br />
materiale questo utilizzato per venire incontro a criteri di igiene<br />
e pulizia. Al lato opposto delle stanze fin qui esaminate vi era un<br />
agglomerato composto di tre vani, cucina, acquaio e camera della<br />
domestica. Queste stanze, disegnate da Piero Bottoni, furono il<br />
suo capolavoro, vero esempio di “taylorismo domestico”. Il gruppo<br />
cucina-acquaio era staccato dalla sala da pranzo da una paretecredenza<br />
costituita da tre vani apribili. Questi tre vani erano: un<br />
“passa vivande”, che metteva in comunicazione la cucina con la<br />
sala da pranzo; un “mobile rotante per stoviglie” di forma circolare,<br />
che metteva in comunicazione - contemporaneamente - cucina,<br />
sala da pranzo ed acquaio; un “passa piatti sporchi”, che univa la<br />
sala da pranzo con l’acquaio. I piatti cucinati e predisposti in cucina<br />
passavano per il passa vivande al tavolo della sala da pranzo per<br />
poi, una volta finito di mangiare, transitare per il passa piatti sporchi<br />
e andare nel lavandino dell’acquaio per il successivo lavaggio. I<br />
piatti venivano prelevati, o riposti, nel mobile rotante circolare da<br />
qualsiasi delle tre stanze comunicanti con questo apparato. Nella<br />
cucina vi erano un armadio ed una credenza dove gli sportelli<br />
della parte superiore erano stati sostituiti da ante avvolgibili in<br />
celluloide. Questa soluzione permetteva minimo ingombro e,<br />
grazie alla celluloide, leggerezza e facilità di pulizia. Accanto alla<br />
cucina elettrica, a quattro fuochi, sotto la grande finestra vi era un<br />
tavolo di legno ricoperto di linoleum. A completare la dotazione<br />
degli arredi della cucina, un ripiano, un lavello, una sedia munita<br />
di contenitore. Vi era inoltre un refrigerante per la conservazione<br />
degli alimenti. L’acquaio era composto da un doppio lavandino, il<br />
primo destinato ai piatti sporchi, il secondo al risciacquo. Terminate<br />
queste operazioni le stoviglie potevano essere riposte nell’apposito<br />
mobile rotante. Un ripiano, una vasca per risciacquare la biancheria<br />
e un ripostiglio erano gli ultimi componenti d’arredo dell’acquaio.<br />
Singolare la soluzione adottata per l’asse da stiro. Trattavasi<br />
dell’anta del ripostiglio che resa ribaltabile si tramutava in una<br />
superficie imbottita adatta allo stiraggio. Le pareti erano rivestite<br />
di gomma grigio-azzurra; il pavimento era in ceramica color crema.<br />
Una tenda in gomma scorrevole su anelli poteva separare la cucina<br />
dall’acquaio. Ultima stanza della “Casa Elettrica” era la camera<br />
della domestica, anch’essa realizzata da Piero Bottoni. L’elemento<br />
di maggiore interesse era il letto a scomparsa in legno di betulla.<br />
Chiuso, dava vita ad una scaffalatura libreria; aperto si tramutava in<br />
un ampio e comodo letto.<br />
I commenti pubblicati all’epoca sulla stampa specializzata<br />
risultarono essere tendenzialmente positivi, per una serie di<br />
innovazioni evidenti, osservabili, tangibili. Non mancarono però<br />
alcune considerazioni critiche nelle quali si accusava di asettica<br />
uniformità l’eccessivo ordine razionalistico espresso dall’insieme.<br />
Nella descrizione fatta finora mancano però le caratteristiche che<br />
definiscono la casa come “Elettrica”. Se è vero che l’abitazione da<br />
noi esaminata era un esercizio di stile razionalista compiuto dai<br />
giovanissimi architetti del Gruppo 7, essa era altresì qualcosa<br />
di più: era la “Casa Elettrica”, una vetrina di oggetti sconosciuti<br />
alla maggioranza degli italiani del 1930. Nel salotto e nella sala<br />
da pranzo venivano esposti una serie di prodotti della S.C.A.E.M.<br />
(Società Costruzione di Apparecchi Elettrodomestici Marelli) quali<br />
amarcord d’autore<br />
un aspirapolvere, una lucidatrice ed un ventilatore ad aria fredda,<br />
calda o profumata. Vi erano inoltre un telefono, un fonografo<br />
elettrico di marca Veravox Electric e un ozonizzatore per la<br />
depurazione dell’aria della società Ozono. Sul mobile posto sotto la<br />
finestra della sala da pranzo facevano bella mostra di sé un bollitore<br />
ad immersione e un tostapane della AEG, una teiera, un radiatore,<br />
uno scaldapiatti ed un bollitore per uova di produzione Therma.<br />
Sul tavolo della sala da pranzo vi era un grande scaldavivande. La<br />
stanza dei genitori conteneva una lucidatrice aspirante Columbus,<br />
un termoforo, una stufa, uno scaldapiedi, un asciugacapelli, tutti<br />
della Therma, e un ventilatore ad aria fredda, calda o profumata<br />
della S.C.A.E.M. Nella stanza del figlio vi erano un termoforo e uno<br />
scaldapiedi Protos, oltre ad una stufa della AEG. Nella camera<br />
della domestica faceva bella mostra una macchina da cucire della<br />
Compagnia Singer. Nella stanza da bagno vi erano due autentici<br />
“prodigi”, un asciugamani elettrico della Neptunia e un deodoratore<br />
automatico del WC; un piccolo aspiratore, azionato da un motorino<br />
elettrico, catturava i cattivi odori immettendoli direttamente nel<br />
tubo di scarico. La maggior parte degli elettrodomestici della<br />
“Casa Elettrica” erano concentrati - ovviamente - nella cucina. In<br />
quest’ambiente si trovavano una cucina elettrica a quattro fornelli<br />
- con tre intensità di calore - e forno della AEG oltre ad un forno<br />
elettrico munito di orologio della Protos. L’aspirazione degli odori<br />
di cottura avveniva tramite un piccolo aspiratore posto nel telaio<br />
della finestra. Sul tavolo da lavoro vi era un motore da cucina della<br />
KitchenAid composto da numerosi accessori, quali tritacarne,<br />
sbattiuova, impastatrice, frantumatrice, setaccio, etc., oltre ad uno<br />
spremilimoni ed un macina caffè entrambi della S.C.A.E.M. Poi,<br />
vi era un frigorifero elettrico automatico - o refrigerante - della<br />
società Frigidaire Corporation, del gruppo GMC, marca all’epoca<br />
sinonimo dell’apparecchio. Nell’acquaio vi era una lavabiancheria<br />
automatica della Neptunia. I panni sporchi venivano immessi nella<br />
lavatrice; una volta lavati venivano tolti dalla macchina e risciacquati<br />
nell’apposita vasca situata nella stanza. Successivamente, venivano<br />
riposti nuovamente nella lavatrice per essere centrifugati. Una<br />
volta asciutta, la biancheria poteva essere stirata con un ferro<br />
elettrico AEG. Tuttavia, quanto costava un’abitazione come la<br />
“Casa Elettrica”? Diciamo subito che gli architetti del Gruppo 7<br />
avevano concepito cinque tipologie di casa del costo compreso<br />
tra le 40.000 e le 100.000 lire. La “Casa Elettrica” aveva un costo<br />
di 60.000 lire, ma i suoi inquilini per dotarla del mobilio e delle<br />
lampade avrebbero dovuto sborsare altre 20.000 lire. Da questa<br />
cifra rimanevano esclusi gli elettrodomestici. Insomma, una casa<br />
da sogno per la quasi totalità degli italiani che si concretizzò in un<br />
unico esemplare dalla vita brevissima, ma dal fortissimo impatto<br />
simbolico. Nel 1931 il Museum of Modern Art di New York decise<br />
di organizzare per l’anno seguente la sua prima esposizione<br />
dedicata all’architettura moderna. Il direttore del museo, Alfred Barr,<br />
incaricò gli studiosi Philipp Johnson e Henry-Russell Hitchcock<br />
di organizzare l’evento. La mostra dal titolo “Modern Architecture.<br />
International Exhibition”, si svolse a New York tra il 10 febbraio<br />
e il 23 marzo 1932. All’interno dell’esposizione, si poterono<br />
visionare immagini dei modelli relativi alle opere architettoniche<br />
più interessanti realizzate negli ultimi anni in Europa e negli Stati<br />
Uniti. Tra queste costruzioni, unica proveniente dall’Italia, vi era<br />
anche la “Casa Elettrica”, o per meglio dire quella che gli americani<br />
chiamarono “Electrical House at the Monza Exposition”, opera di<br />
Luigi Figini e Gino Pollini. Ad oltre un anno dall’evento, la “Casa<br />
Elettrica”, ormai perduta per sempre, ma assurta a “classico” da<br />
tramandare, sopravviveva al divenire del tempo attraverso questa<br />
mostra e attraverso il ricordo e la testimonianza di chi concorse alla<br />
sua realizzazione.<br />
1<br />
Questo articolo è un sunto di un più ampio studio che l’autore sta dedicando<br />
alla “Casa Elettrica”: Da Monza al MoMA. La Casa Elettrica. Un estratto dello<br />
stesso verrà presentato al prossimo 75° Congresso Nazionale SIMLII [Società<br />
Italiana di Medicina del Lavoro ed Igiene Industriale] che si terrà a Bergamo tra<br />
il 17 ed il 19 ottobre 2012. 2<br />
G. Polin, La Casa Elettrica di Figini e Pollini. 1930,<br />
Roma 1982, pp. 52-55. 3<br />
G. Polin, La Casa Elettrica, op. cit., p. 100.<br />
SWITCH24<br />
SWITCH25
eportage<br />
© Adam Mørk<br />
COME VIVERE<br />
AD ALTA POTENZA<br />
(E A BASSO CONSUMO)<br />
Si riduce il petrolio e si abbassa il reddito.<br />
Ma tra foglie artificiali, impianti solari senza emissioni,<br />
idroelettrico a zero impatto ambientale e miracoli geotermici.<br />
Spuntano nel mondo i centri della svolta tecnologica<br />
di Antonio Marini<br />
Quando Oven Bendtsen e la moglie Hanne Beer decisero<br />
di cambiare vita, presero armi e bagagli e si trasferirono<br />
dalla grande città a Egendal, un comune di 41 mila abitanti,<br />
incastonato nel Nord dell’isola danese di Selandia, a un<br />
tiro di schioppo dalla Svezia. Da pensionati, pensarono, bisogna<br />
abbassare le esigenze, perché il reddito si riduce di molto. Meglio<br />
quindi tagliare i costi e godersi la natura. Ora, nella loro nuova casa<br />
a basso consumo, non pagano riscaldamento né l’acqua: a produrre<br />
l’energia necessaria ci pensa il sole mentre grazie alle vasche di<br />
raccolta, i temporali forniscono la materia prima per le esigenze<br />
quotidiane, lavatrice compresa. “Vivere qui ha solo aspetti positivi”,<br />
dice una sorridente signora Beer alle telecamere di Euronews,<br />
La Green Light House, il primo edificio<br />
pubblico danese a zero emissioni è la residenza<br />
per studenti della facoltà di Scienze presso<br />
l’Università di Copenaghen<br />
SWITCH26<br />
SWITCH27
sguardi sul futuro<br />
Green Lighthouse,<br />
interno dell’università<br />
© Adam Mørk<br />
pongono meno attenzione alle emissioni e al “global warming”.<br />
Allora il consumo mondiale sale e con lui l’inquinamento. Nel 2010<br />
le emissioni di gas serra, dopo due anni di calo, hanno registrato<br />
un nuovo picco; secondo il Centro ricerche della Commissione<br />
europea, sono balzate del 5,8%. Sono Cina e India a trainare la<br />
crescita mondiale. E in quei Paesi una bella fetta di energia viene<br />
prodotta attraverso vecchie centrali a carbone. In Europa invece,<br />
la domanda energetica primaria, pur avendo registrato un tasso di<br />
incremento decisamente inferiore rispetto a quello di Pechino e<br />
Nuova Delhi, ha visto il virtuoso incremento del consumo di energia<br />
derivante da fonti rinnovabili. E visto che il Consiglio europeo<br />
si è impegnato a ridurre entro il 2050 le emissioni di gas serra<br />
dell’80-95% rispetto ai livelli del 1990, è semplice supporre che<br />
lo sviluppo nella produzione di energia pulita dovrà quantomeno<br />
essere promossa, se non imposta.<br />
INVESTIMENTI NELLE FONTI RINNOVABILI<br />
È sempre il petrolio la fonte primaria di energia. Secondo l’Enea,<br />
l’Agenzia italiana per l’energia, oggi l’oro nero copre il 33% della<br />
domanda, segue il carbone (27%) e il gas (21%). Al momento le<br />
fonti rinnovabili si piazzano alla quarta posizione (13%) mentre il<br />
nucleare chiude la classifica con il 6%. L’Agenzia internazionale per<br />
l’energia prevede tre scenari di sviluppo: in tutti i casi sottolinea<br />
una crescente domanda di gas naturale. Ma se il mondo non<br />
cambia drasticamente rotta, puntando sulle energie a più basso<br />
o nullo impatto ambientale, sarà il carbone, nel 2035, a prevalere<br />
sul petrolio. Soltanto importanti investimenti sul lato delle fonti<br />
“pulite” può portare a raggiungere l’obiettivo del 75% di energia<br />
rinnovabile nei consumi finali entro il 2050, previsto dalla “Energy<br />
Roadmap”. Così i progetti e le idee più innovative non solo<br />
porteranno all’abbattimento dell’effetto serra, ma contribuiranno<br />
a uscire dalla crisi, grazie agli investimenti sulla ricerca. In questo<br />
contesto, gli investimenti mondiali dedicati allo sviluppo delle fonti<br />
rinnovabili, secondo il dipartimento dedicato delle Nazioni Unite,<br />
hanno raggiunto nel 20<strong>11</strong> il livello record di 257 miliardi di dollari.<br />
Purtroppo c’è poco da stare allegri perché il suo tasso di crescita, a<br />
causa della recessione, continua a ridursi. Però alcuni dei progetti<br />
messi in cantiere, cominciano a dare buoni risultati economici,<br />
riuscendo così in prospettiva a diventare interessanti anche senza<br />
incentivi pubblici.<br />
IL FUTURO DEL SOLARE E DEL GEOTERMICO<br />
La Barefoot Power è una “social for-profit enterprise”, una società<br />
dunque che pur essendo a scopo di lucro, ha come obiettivo il<br />
miglioramento della vita della collettività. Genera profitti per i soci<br />
ma vende prodotti socialmente utili. Ha piazzato a costi sostenibili<br />
350.000 kit per la produzione di energia solare utile ad accendere<br />
una lampada da tavolo. Il kit viene utilizzato nelle case, nelle cliniche<br />
nel corso di una recente intervista. Oven e Hanne hanno scelto<br />
di vivere in uno dei graziosi villini che compongono la zona “verde”<br />
di Egendal, formata da 750 edifici capaci di consumi ridottissimi e<br />
che comprende anche appartamenti in edilizia convenzionata, asili<br />
nido e residenze per anziani. Grazie al progetto, il comune ha potuto<br />
tagliare dai costi, la spesa per 400 mila litri di petrolio. In Danimarca<br />
fanno a gara per presentare idee verdi a risparmio energetico. Il<br />
primo edificio pubblico danese a zero emissioni è la residenza per<br />
studenti della facoltà di Scienze presso l’Università di Copenaghen,<br />
chiamata “Green Lighthouse”: è stata inaugurata nell’ottobre<br />
2009. In 950 metri quadrati si trova un concentrato di tecnologia<br />
ma normalmente reperibile in commercio. Grandi finestre e una<br />
eccellente coibentazione riducono al minimo i consumi e l’energia<br />
viene presa dal sole e stoccata negli accumulatori. Sull’argomento<br />
“green economy” i danesi vogliono fare i primi della classe e<br />
arrivare ad alimentare il Paese solo con l’energia prodotta da fonti<br />
rinnovabili. Un piano di lunghissimo periodo, certo, ma con scadenze<br />
ben precise. Entro il 2050, per esempio, la metà dell’energia dovrà<br />
essere prodotta dal vento. Perché l’eolico è, tra le energie pulite,<br />
attualmente una delle più economicamente efficienti.<br />
LA DOMANDA DI ENERGIA<br />
A dispetto della crisi, l’economia mondiale continua a crescere. Nel<br />
20<strong>11</strong>, dice il Fondo Monetario Internazionale, il prodotto interno<br />
lordo globale è salito del 3,8%. Un passo avanti, seppure ridotto<br />
rispetto al +5% dell’anno precedente. Anche nel 2012 la produzione<br />
del pianeta riuscirà ad ottenere un sudatissimo segno più. E questo<br />
grazie alle economie emergenti che in questi anni difficili hanno<br />
mantenuto un livello di incremento della produzione, seppure<br />
ridimensionato, pur sempre maggiore dei Paesi industrializzati.<br />
E più si cresce, più energia si consuma. Se poi sono i Paesi meno<br />
sviluppati ad aumentare la produzione, la corrente consumata<br />
per fabbricare un bene è maggiore rispetto a quella che avrebbe<br />
utilizzato, a partità di crescita annua, uno Stato maggiormente<br />
tecnologico. C’è un indice che mette in relazione l’energia richiesta<br />
e una unità di Pil: è “l’intensità energetica”. Più un Paese è virtuoso,<br />
più l’indice è basso. Questo vuol dire che la macchina produttiva ha<br />
raggiunto livelli di efficienza nei consumi di energia tali da riuscire<br />
a ridurre o a mantenere costante l’uso di corrente, seppure in<br />
presenza di un aumento della produzione. Così non è, come detto,<br />
se a crescere sono prevalentemente i Paesi in via di sviluppo, che<br />
Esterno della Green Lighthouse<br />
SWITCH28<br />
SWITCH29
sguardi sul futuro<br />
© Riccardo Brega © KiteGen<br />
© KiteGen<br />
e nelle scuole e ha trasformato la vita a 1,7 milioni di famiglie<br />
povere sparse in Asia, Africa, India e Sudamerica. In particolare, il<br />
lavoro svolto in Africa gli è valso l’Ashden Award, premio britannico<br />
dedicato a chi, grazie all’innovazione, contribuisce al taglio delle<br />
emissioni di CO 2<br />
, riduce la povertà e migliora il livello di vita della<br />
gente. Ma è l’australiana Enviro Mission di Melbourne a lavorare<br />
a uno dei progetti più ambiziosi al mondo capaci di produrre<br />
grande quantità di energia dal sole. Grazie alla sua “torre solare”<br />
sperimentata con successo a Wentworth, nel deserto australiano,<br />
ora esporta tecnologia in tutto il mondo. Di recente ha vinto l’appalto<br />
per la costruzione di una “Solar tower” a Sudovest degli Stati Uniti,<br />
che permetterà di fornire corrente a 100.000 famiglie. Si tratta di<br />
una struttura alta circa un chilometro circondata da una enorme<br />
serra di vetri trasparenti a forma quadrata o circolare, strutturata in<br />
modo di convogliare l’aria calda prodotta alla base della torre. La<br />
corrente nata dal movimento dell’aria fa girare una serie di turbine<br />
producendo energia mentre il “mega-camino” risucchia l’aria calda<br />
che si raffredda mano a mano si avvicina all’estremità. Una volta<br />
fuoriuscita, l’aria, tornata fredda, ricade verso suolo, alimentando<br />
nuovamente il ciclo. Il progetto è nato in Spagna negli anni ‘80 e<br />
sperimentato attraverso un prototipo a scala ridotta a Manzaranes.<br />
Ma è grazie allo sviluppo della tecnologia che Enviro Mission ne<br />
ha potuto sviluppare un prodotto commerciale. Tra i grandi progetti<br />
in fase di realizzazione o pronti a partire, c’è sicuramente quello<br />
della Yingli Green Energy, società quotata al Nasdaq, specializzata<br />
nella posa di pannelli fotovoltaici integrati verticalmente. Lo Stato<br />
brasiliano le ha affidato il compito di creare un anello di 1.500<br />
pannelli solari sopra lo spettacolare stadio Maracanà di Rio.<br />
SPAZIO ALL’IDROELETTRICO<br />
Il sistema idroelettrico per la produzione di energia è ampiamente<br />
utilizzato in molte zone del Paese. Ma ha un limite: la diga. Per<br />
produrre una buona quantità di energia è necessario far girare<br />
grandi turbine e dunque il dislivello da cui precipita l’acqua capace<br />
di farle muovere dev’essere consistente e questo comporta<br />
investimenti adeguati. La tecnologia è venuta incontro all’esigenza<br />
di ridurre costi e limitare l’impatto ambientale. Così sono state<br />
inventate delle micro-turbine, capaci di produrre energia anche<br />
grazie al movimento dell’acqua in piccoli fiumi. La statunitense<br />
Hydrovolts (www.hydrovolts.com) ne ha prototte di “portatili”, da<br />
immergere lungo i corsi d’acqua e da utilizzare, per ottenere una<br />
maggiore potenza, anche in serie. L’esercito statunitense ne fa<br />
ampio uso perché queste mini-turbine possono essere agevolmente<br />
trasportate e riescono a produrre da 20 a 500 watt di potenza utili<br />
per alimentare radio e i servizi elettrici degli accampamenti.<br />
NUOVE FRONTIERE<br />
Sono tanti i progetti e i prototipi creati dagli scienziati, capaci di<br />
produrre energia da fonti pulite, alcuni dei quali curiosi ma che<br />
non passerebbero mai l’esame del mercato in quanto incapaci di<br />
raggiungere un livello di costo/beneficio accettabile. Altri però oltre<br />
che curiosi, sono anche, in prospettiva, molto interessanti. È il caso<br />
della foglia artificiale; un’evoluzione molto meno costosta di un<br />
prototipo ideato una decina di anni fa.<br />
Si tratta in pratica di una cella solare, sviluppata al Mit<br />
(Massachussetts Institute of Technology) di Boston, che, immersa<br />
in una bacinella piena d’acqua ed esposta ai raggi del sole, sfrutta<br />
lo stesso principio della fotosintesi, ma con una potenza di 10 volte<br />
superiore, e produce energia sufficiente per scaldare una casa di<br />
un Paese in via di sviluppo. Nei test dimostrativi si è visto come<br />
la foglia artificiale sia in grado di produrre energia per 48 ore<br />
consecutive senza cali di tensione. Il bello è che la foglia artificiale<br />
è già pronta per essere prodotta in larga scala. La conglomerata<br />
indiana Tata ha fiutato l’affare e si è buttata a pesce nel progetto,<br />
sottoscrivendo con i ricercatori del Mit un accordo per la costruzione<br />
di una piccola centrale elettrica. Tra un anno e mezzo, il tempo per<br />
la sua realizzazione, si potrà sciogliere il dubbio: saranno le foreste<br />
artificiali a salvare il pianeta?<br />
Alberto Marini è giornalista economico-finanziario<br />
© Dominick Reuter<br />
© KiteGen<br />
L’EOLICO PRENDE IL VOLO<br />
Dopo anni di ricerca, il progetto italiano KiteGen è pronto a sfidare<br />
la prova più dura: quella del mercato. L’idea di fondo è quella di<br />
sfruttare la forza del vento dove è più forte e costante: in alta quota.<br />
Il “kite” è un’aquilone, un’ala che vola fino a un migliaio di metri<br />
d’altezza legata a un cavo che, grazie ai continui strappi prodotti dal<br />
vento, produce energia attraverso una turbina collegata alla base. Il<br />
primo impianto verrà aperto entro l’estate in provincia di Cuneo e il<br />
costo di produzione previsto è di circa 50/90 euro per megawatt/<br />
ora. Più che accettabile per sperare in uno sviluppo. Una pala per<br />
ogni giorno dell’anno. Saranno infatti 365 le turbine azionate dal<br />
vento che comporranno il più grande parco eolico del pianeta. Ci<br />
vorranno tre anni di lavoro ma per il Turkana, regione a nord del<br />
Kenia dove vedrà la luce il progetto, sarà la svolta. Una svolta che<br />
coinvolgerà tutta l’Africa, visto che l’energia prodotta dall’impianto<br />
soddisferà il 20% del fabbisogno energetico di tutto il continente.<br />
In più la sua realizzazione, finanziata con 775 milioni da donatori<br />
privati e dalla Banca di sviuppo africana, darà lavoro a 2.800<br />
persone. Manna dal cielo per una zona fortemente sottosviluppata.<br />
La foglia artficiale creata al Mit, grande<br />
più o meno come una carta da gioco, riproduce<br />
il processo di fotosintesi clorofilliana delle piante<br />
trasformando la luce del sole e l’acqua in energia<br />
SWITCH30<br />
SWITCH31
acconto<br />
la mia cena<br />
delle beffe<br />
al ristorante<br />
dello spread<br />
La crisi raccontata a mio figlio: ovvero l’Odissea<br />
di uno scrittore che scopre i tagli alla spesa<br />
tra portate di lusso, conti salati e chef terribili<br />
«<br />
Guarda che l’hanno frainteso.»<br />
«Nonono non è vero!» si affretta a dirmi Simona.<br />
«Ma come non è vero? Sono 17 anni che lo fraintendono<br />
e proprio stavolta deve averla detta giusta?»<br />
«Sìsì. Berlusconi ha detto che c’è la coda fuori dai ristoranti e noi<br />
siamo gli unici stronzi che non ci andiamo mai! Ma non ti vergogni,<br />
eh?»<br />
Ecco è cominciata così, qualche mese fa. Capiamoci, non è che io<br />
non porti mai la mia famiglia al ristorante. Figuriamoci. Mia madre<br />
faceva la cuoca. Come posso non apprezzare l’arte culinaria?<br />
Ricordo anzi l’entusiasmo da bambino, quando papà arrivava a<br />
casa presto e annunciava trionfante: «Stasera mangiamo fuori!». Io<br />
esultavo. Ma mia madre, che conosceva l’andazzo, apparecchiava<br />
sul balcone. Quindi, questa cosa di mangiare al ristorante me la<br />
di Edoardo Montolli<br />
sono sempre portata dietro anch’io.<br />
Però Simona, la mia compagna, per ristorante non intendeva mica<br />
un ristorante qualsiasi, no.<br />
Lei intendeva quelli che fanno vedere al TG. Non so se avete<br />
presente. Nel TG non c’è un cuoco a pagarlo oro. Solo chef. E<br />
un tizio, lì sopra, che inventa ogni giorno un piatto nuovo, facile<br />
facile, su cui Simona prende rigorosamente appunti e che poi<br />
deve assolutamente, necessariamente riprovare a fare. Cascasse il<br />
mondo. Tipo: uova sbattute, salsa di parmigiano, una grattuggiata di<br />
tartufo e, fondamentale, un po’ di polvere di amaranto degli altopiani<br />
della Bolivia. Che dà quel tocco di esotico, no? Certo, io sono più<br />
tradizionalista, più per le portate preparate da un modesto cuoco,<br />
de gustibus. Ma per le preziose ricette che dà a Simona, per mesi<br />
ho sognato di ringraziare personalmente questo signore che porta<br />
gli chef nel TG. Di incontrarlo per strada e di stringergli la mano,<br />
spiegandogli nel dettaglio come abbia reso molto più frizzante la<br />
mia esistenza: «Ho girato tre centri commerciali, quattro alimentari<br />
e pure due farmacie. Ora, gentilmente, o mi dici subito dove la trovo<br />
questa cazzo di polvere di amaranto degli altopiani della Bolivia o ti<br />
faccio una faccia così».<br />
Purtroppo non c’è ancora stata occasione.<br />
In compenso, nel pieno della crisi economica, mentre affogavo nei<br />
debiti ed Equitalia mi aveva ormai proposto l’abbonamento, pur<br />
di non sentirmi un verme, ho infine portato Simona e i bambini in<br />
questi templi della nuova cucina, che io fatico a comprendere, dove<br />
i cuochi sono scomparsi e dove regnano gli chef.<br />
E tutto questo, faccio notare in famiglia sottolineando lo sforzo che<br />
sto compiendo, mentre «lo spread sale alle stelle».<br />
«Cos’è lo spread?» mi fa Manuel, mio figlio più grande che sta<br />
iniziando la scuola.<br />
Già, cos’è? Non lo so. Non lo sa nessuno. Pure wikipedia dice: “può<br />
essere inteso come…può anche essere inteso come…”. Perché di<br />
fatto non lo sanno bene manco loro. È un nome nuovo, impalbabile.<br />
Non sappiamo cos’è, non ne avevamo mai sentito parlare prima.<br />
Voglio dire, so benissimo che lo spread rappresenta la differenza<br />
tra il prezzo più basso a cui un venditore è disposto a vendere un<br />
titolo e il prezzo più alto che un compratore è disposto ad offrire<br />
per quello stesso titolo. Ma non l’ho mica capito cos’è. Però ci sta<br />
rovinando tutti quanti.<br />
«Allora? Cos’è lo spread?» insiste Manuel.<br />
«Te lo spiego domani al ristorante».<br />
IL PRIMO<br />
Il primo ristorante, chef pluridecorato, specialità pesce, ha le<br />
posate d’argento. A dirla tutta, non c’è ‘sta gran coda annunciata<br />
da Berlusconi (certamente frainteso): dieci persone. Ma a Simona<br />
non importa.<br />
Il menù non me lo danno. «Perché?»<br />
«Faccio io, non-si-preoccupi» dice il cameriere, uno solo per tutti.<br />
Che poi è il proprietario. Vola da un tavolo all’altro, illustrando<br />
le meraviglie della sua Casa, i suoi stemmi, gli attestati. È uno<br />
spilungone che parla tutto attaccato, come un telecronista<br />
brasiliano: «Signori-allora-da-dove-vogliamo-cominciare. Pesce?<br />
Vabeneilpesce? Abbiamo-dellottimo-branzino…» Parla per dieci<br />
minuti. Si agita, mima i profumi, i sapori del branzino.<br />
«Se no?» faccio io.<br />
«Eh, no, tumidevi ascoltarebene prima didecidere di non prenderlo,<br />
eh, dai, su…». E ci racconta la vita, le abitudini, le passioni del suo<br />
branzino e sul perché e il percome noi dobbiamo assolutamente<br />
mangiarci il suo dannato specialissimo branzino. Non so come<br />
faccia, non riesco a interromperlo. Secondo me c’ha solo quello.<br />
Ma alla fine decide tutto lui.<br />
I piatti sono un po’ più grandi del normale. Però il branzino è uno<br />
solo: uno diviso per quattro. Con tanti funghi sopra e infinito aglio.<br />
Non ne ricordo il nome da cotto. Ma Manuel, che ha sei anni ma<br />
non è scemo, mi guarda e mi fa: «Perché il pesce coi funghi?»<br />
«Mi sa che non hai ancora visto niente».<br />
Infatti, il resto lo vedo io appena lo chef-proprietario-cameriere<br />
porta il conto. «Guarda che ho chiesto il “mio” conto, non quello di<br />
tutto il ristorante».<br />
«Simpatico. Carta o contanti?»<br />
Duecento euro per due adulti, un infante e un bimbo di 4 anni.<br />
Simona è sicura: «Ci hai portato nel posto sbagliato».<br />
Sarà. Manuel non ha mangiato nulla.<br />
In compenso, adesso è un esperto ittico. E gli è rimasta la fissa:<br />
«Cos’è lo spread?»<br />
«Te lo dico da grande».<br />
SWITCH32<br />
06 SWITCH33
strani menu<br />
rIL SECONDO<br />
Il secondo ristorante ha il citofono. «Perché il citofono?» dice<br />
Manuel. Non lo so. Immagino che qualcuno, come in una casa<br />
dove si aspettano ospiti, si dia una ripassata ai capelli, alla divisa,<br />
e nasconda sotto al tappeto ciò che non vuole che si veda. Ma<br />
sicuramente sbaglio.<br />
Dentro, infatti, è tutto a posto. Comincio a guardarmi intorno, siamo<br />
sempre quattro gatti, tutte famiglie. E ad un’attenta osservazione<br />
si nota perfettamente che la donna sta chiedendo la ricetta al<br />
cameriere come se ci fosse il pimpante tizio del TG che intervista<br />
lo chef. E che l’uomo sta imprecando sulle parole (fraintese) di<br />
Berlusconi e sulla rata di Equitalia che lascerà nel conto.<br />
Stavolta, oltre alle posate d’argento, c’è la musica di sottofondo,<br />
Chopin, e le poltrone imbottite al posto delle sedie. Al tavolo arriva<br />
non una persona, ma due, magre magre.<br />
Una per il cibo, l’altra per i vini. A Manuel piace far scorpacciate di<br />
capesante?<br />
«Certo che le abbiamo, com’è scritto sulla lista» precisa il cameriere<br />
in guanti bianchi.<br />
Ovviamente sulla lista non c’è scritto un bel nulla. Ci sono solo<br />
lunghi nomi stranieri, sconosciuti, mai sentiti, non si capisce niente.<br />
Ti senti abbastanza a disagio a rispondere. E ti affidi: «Capesante<br />
per il bimbo».<br />
Mezzora di attesa, gliene portano due. Due! Due capesante su un<br />
piatto grandissimo vuoto con sopra un disegno. E il disegno è fatto<br />
con salsa di mandarino.<br />
«Era meglio il pesce coi funghi», sussurra Manuel.<br />
Duecentocinquanta euro di conto. Simona chiosa: «Lo fai apposta».<br />
Pure. Manuel non ha mangiato nulla. Adesso, oltre a conoscere<br />
tutta la storia del branzino, odia Chopin. E se la piglia con me:<br />
«Cos’è lo spread?»<br />
«Meglio che tu non lo sappia».<br />
IL TERZO<br />
Comincio a capire come funziona in questi posti. I piatti non sono<br />
mai abbondanti perché tanto oggi sono tutti a dieta. Pure chi<br />
li prepara e li serve. Però te li colorano. E tu non paghi più per<br />
mangiare, ma per i colori, la lezione che ti fanno e sa dio che altro.<br />
Paghi tutto, la recita, il servizio, le posate. Il cibo è una roba in più,<br />
un accessorio. Quasi un fastidio. Tanto che te ne vai con una fame<br />
della madonna. Ma, fa notare Simona, non è che si può fare un<br />
bilancio su due ristoranti.<br />
Già. Due sono ancora pochi per rovinarsi.<br />
Il terzo ristorante ha così il citofono, le posate d’argento, le poltrone<br />
imbottite, la musica.<br />
Al tavolo arrivano in tre: uno per primi e secondi, uno per i vini, uno<br />
solo per i dolci.<br />
Intorno a me solo donne che prendono appunti sulle ricette,<br />
bambini infuriati e mariti disperati che giocano a freccette con la<br />
faccia dell’ex premier.<br />
Manuel può scegliere tra risotto all’aceto balsamico, spiedini di<br />
prugne e prosciutto. E comincia a diventare seriamente nervoso:<br />
«Quella roba te la mangi te. Non c’hai le patatine?»<br />
No. L’alternativa, spiega il cameriere in livrea, è un tempura di<br />
gamberi e verdure in pastella leggera.<br />
E lui, che sta imparando a non fidarsi, fa gli occhi piccoli piccoli:<br />
«Cioè?»<br />
«È una pastella di farina cotta in maniera particolare» ammicca il<br />
cameriere.<br />
Manuel mi guarda confuso e gliela faccio breve: «Fritto misto. Solo<br />
che costa di più».<br />
Allora il cameriere, un po’ imbarazzato, annuisce: «Sì, più o meno<br />
fritto misto».<br />
Ha ragione lui, più o meno. Anzi, meno: tre gamberi, quattro verdure<br />
e una salsa di soia.<br />
Il tutto servito su un grosso piatto adagiato sopra ad un altro piatto<br />
ancora più grosso. Intorno, rametti e disegni realizzati con salse.<br />
Per il dolce si scopre che il terzo cameriere altri non è che<br />
l’ennesimo chef, un ungherese appositamente scelto e venuto<br />
in Italia unicamente per preparare dessert. E “scomodatosi” dalle<br />
cucine, ci fanno cortesemente notare, solo per illustrarci la pietanza.<br />
«Vedi che culo», dice Simona, non sapendo che gli dovremo pagare<br />
anche quello. E’ il più magro di tutti. Sciorina la solita manfrina di<br />
nomi stranieri lunghissimi, una storia della lavorazione del cioccolato<br />
e l’importanza della freschezza del cibo.<br />
Poi, tre quarti d’ora di attesa, e ci porta un budino. Coi suoi bei<br />
disegni, i suoi rametti, va bene. Cacao biologico, crema lavorata va<br />
bene. Ci avranno lavorato mesi per studiare gli ornamenti, i rametti,<br />
i disegni va bene.<br />
Ma è comunque uno semplice, unico, molle, striminzito budino. Solo<br />
che costa un’iradiddio.<br />
Manuel è nero: «E questi rametti, almeno, li mangio?»<br />
Il cameriere scuote la testa spazientito: «Ma no, ma dai, ma è la<br />
decorazione!»<br />
Già, perché lo scemo è il bambino.<br />
Il conto sale a trecento euro (il cardiologo che ha salvato la pelle<br />
a mio padre, 280 la visita), per mezzo chilo di roba divisa in primo,<br />
secondo e dolce per quattro persone. Manuel, naturalmente, non<br />
ha mangiato nulla. In compenso si è dato alcune risposte di alta<br />
sociologia applicata: «Oh, più i piatti sono grossi, meno cibo c’è<br />
sopra».<br />
«Già»<br />
«Cos’è lo spread?»<br />
«Ma che cazzo ne so».<br />
IL QUARTO<br />
Simona tentenna ma non cede. Il massacro economico si sta<br />
compiendo. E allora, suicidiamoci. Il quarto ristorante è il massimo<br />
del mercato: citofono, poltrona, musica, posate d’argento. E i<br />
camerieri nemmeno si contano più. Sono ovunque, grossi come<br />
bodyguard in divisa, petto in fuori, sguardo serio, mani dietro al culo,<br />
nemmeno dovessero custodire una cassa di uranio impoverito.<br />
Chissà, magari è nel menù.<br />
Versano l’acqua, mettono il pane.<br />
Simona beve. E uno, che sta alle sue spalle, versa nuovamente. Poi<br />
rientra nei ranghi, stile robot. E aspetta, come un condor, che la<br />
preda beva ancora.<br />
Manuel prende un panino, e una mano che sbuca dalle retrovie gli<br />
riempie subito la cesta. Allora, scende dalla sedia e mi si avvicina<br />
all’orecchio: «Oh, papà, fai finta di niente, ma ci sono quattro tizi<br />
fermi dietro di noi. Hanno paura che rubo la forchetta?»<br />
«No, - lo rassicuro – hanno paura che scappiamo quando ci portano<br />
il conto».<br />
Manco a farlo apposta arriva un quinto cameriere, per le ordinazioni.<br />
E lui ha anche il compito di osannarci lo chef. Anzi, guai a chiamarlo<br />
così, perché si offende. «Il Maestro consiglierebbe…».<br />
E io, alla parola “Maestro” inizio a sudare. Lo immagino avvolto<br />
nei fumi di arrosto di banana al sugo, sospeso nell’aria a dividersi<br />
mazzette della mia grana. E a inventare ricette che quel dannato<br />
signore del TG prima o poi mi rifilerà in televisione, costringendomi<br />
a girare per settimane intere nei centri commerciali di mezza Italia<br />
alla ricerca di forfora di scorpione della Nuova Caledonia o di erbe<br />
magiche di Asterix il Gallico.<br />
Perché intanto passa un’ora piena. Un’ora a mangiare pane e<br />
grissini coi quattro energumeni alle spalle. Che non è una roba<br />
facile. Ma pure per loro, credo. È ormai pacifico che si tratta<br />
dell’ennesima arma di distrazione di massa dalla portata che sta per<br />
arrivare. Un’altra portata dal nome nuovo, sconosciuto, dal sapore<br />
bizzarro, ignoto, incomprensibile.<br />
Intorno vedo donne che picchiettano le dita sul tavolo e uomini<br />
ossuti, provati fisicamente dall’attesa del cibo e dall’ansia<br />
dell’addition, avvolta in pelle nera. Devono aver fatto il mio stesso<br />
lungo, debitorio giro, avuto i miei stessi incubi al tg e subito la<br />
stessa (fraintesissima) frase di Berlusconi sulle code al ristorante.<br />
Poi arrivano finalmente i piatti, i più grandi di tutti. Sopra, ci sono<br />
70 grammi di pasta ammucchiata. Fredda. Con dentro qualcosa<br />
simile a fragole. «Troppo sforzo, Maestro», sfugge a Simona che<br />
odia darmi ragione.<br />
Intorno ramoscelli, disegni, bacche e bucce scolpite. Tutte, va da sé,<br />
come sempre, assolutamente immangiabili.<br />
Ma Manuel stavolta taglia corto: «Andiamo a farci una pizza».<br />
Lo bacio. E lui ne approfitta: «Cos’è lo spread?»<br />
Ed è stato allora che ho realizzato.<br />
E senza entrare troppo in discorsi filosofici ed economici, ho deciso<br />
di spiegarglielo, con un esempio da non rivelare mai a nessuno.<br />
Perché in una società che fa dell’estetica la propria ragione di<br />
esistenza, passerebbe sicuramente da ignorante: «Se tu non sai<br />
più cosa stai mangiando e come si chiama ciò che stai mangiando,<br />
se non ne riconosci più nemmeno il nome e il sapore, ciò che ha un<br />
valore di dieci può diventare di valore ipotetico mille. La differenza<br />
tra i due valori si chiama spread».<br />
«Cioè?»<br />
«Fregatura. E infatti non abbiamo più un euro».<br />
Ora, so bene che molti opineranno che questa mia teoria sullo<br />
spread e i ristoranti è basata unicamente sull’esperienza dei miei<br />
personalissimi pranzi. Ma siccome anche il figlio è mio, gli racconto<br />
quello che mi pare. Anzi, me lo porto pure dove mi pare. Il mese<br />
scorso, esasperati dalla crisi, siamo infatti emigrati in Sud America.<br />
Li ho portati sugli altopiani della Bolivia. Carico di entusiasmo sono<br />
entrato in un ristorante e finalmente, dopo mesi di disgrazie, ho<br />
ordinato soddisfatto il piatto che mi ha devastato la vita: «Dicono<br />
che facciate le uova con la polvere di amaranto che sono la fine del<br />
mondo! Me ne porti sei!»<br />
Il cameriere mi ha guarda. Sorride. Poi mi fa: «Cosa cazzo è la<br />
polvere di amaranto?»<br />
Edoardo Montolli è romanziere e direttore della colonna<br />
Yahoopolis di Alberti Editori - illustrazioni di Blozz<br />
SWITCH34
ppersonaggi<br />
Donne sull’orlo<br />
di una crisi<br />
di nervi (e di risate)<br />
“La gente sa che i problemi ci sono,<br />
ora vuole la soluzione...”.<br />
Teresa Mannino fa la sua personale<br />
spending review della comicità tra libri,<br />
figli, flirt assurdi e nuovi show a La7<br />
di Alessandra Menzani<br />
Teresa Mannino è positiva, solare. Vede il bicchiere<br />
mezzo pieno, sempre. È in un momento felice<br />
della carriera. I primi di settembre, dopo un lungo<br />
corteggiamento, sbarca a La7 con un programma<br />
tutto suo in prima serata. “Se stasera sono qui” è il titolo.<br />
Siciliana, 41 anni, mamma di una bambina, Giuditta, e<br />
compagna di Andrea, musicista, entra così nella squadra di<br />
comiche di Serie A: Luciana Littizzetto, Paola Cortellesi, Geppi<br />
Cucciari. I talenti femminili della comicità sono esemplari rari.<br />
Quando ne nasce uno è un evento. Teresa merita un posto<br />
d’onore. Si è laureata in filosofia, ha studiato teatro, ha fatto<br />
una lunga gavetta ed è stata premiata: il grande pubblico l’ha<br />
conosciuta meglio come conduttrice di Zelig Off e grazie allo spot<br />
dei telefonini in cui flirta (con poco successo) con il sex symbol<br />
Raoul Bova. E’ umile, spontanea, i monologhi dei suoi spettacoli<br />
sono quasi sempre ispirati alla sua vita vera, al suo rapporto con<br />
gli uomini, al suo aspetto fisico sicuramente non perfetto, ma<br />
autentico. E ci fa la sua spending review della comicità, come<br />
superare i tempi difficili con una risata. A una comica come lei<br />
facciamo la domanda da un milione di dollari.<br />
SWITCH36 SWITCH37
p<br />
A tu per tu<br />
Qual è la ricetta per superare la crisi?<br />
Non mi metto a dare consigli economici. Posso parlare a livello<br />
“micro”. Quando sono in crisi vado a comprare un libro. Se sono<br />
in crisi emotiva investo su me stessa. Se ho difficoltà sul lavoro<br />
mi fermo e ricomincio a studiare. A livello “macro” quindi direi che<br />
la ricetta è investire sulla cultura.<br />
La prima serata le mette paura?<br />
Non direi. Non sono una di quelle che alle 10.05 del mattino corre<br />
a guardare i dati d’ascolto. La7 ha l’intelligenza di aspettare che<br />
un programma cresca: lo hanno fatto con Serena Dandini, Geppi<br />
Cucciari e Sabina Guzzanti: non ha fatto ascolti eccezionali, ma<br />
lei è eccezionale.<br />
TERESA MANNINO<br />
Laureata in filosofia, diploma alla scuola europea di<br />
recitazione del Teatro Carcano di Milano. Dopo vari corsi<br />
e stage, comincia a lavorare in radio, conducendo una<br />
puntata della trasmissione “Due di notte” su Radio 2, e nel<br />
locale milanese Zelig e successivamente al programma<br />
notturno Zelig Off, poi in prima serata con Zelig Circus<br />
dalla stagione 2007-2008. Nel 2012 è candidata<br />
all’Oscar della Tv quale personaggio rivelazione, insieme<br />
a Marco Liorni e Rocco Papaleo, che si aggiudicherà il<br />
riconoscimento. Da settembre 2012 entra nella squadra<br />
di La7 con un programma tutto suo, “Se stasera sono qui”.<br />
Le donne, se sono depresse, di solito fanno shopping.<br />
Se esco e vado a comprare un vestito, o qualcosa di cui effettivamente<br />
non ho bisogno, poi mi metto a piangere. Il contrario delle altre<br />
donne, è vero. Mi sento impoverita, mi sembra che quell’oggetto sia<br />
già immondizia. Per i libri è diverso, ne compro uno, due, dipende.<br />
Un libro che l’ha colpita?<br />
Ultimamente quello di Wynton Marsalis, “Come il jazz può cambiarti<br />
la vita”. Non sono un’esperta del genere, ma è un testo bellissimo<br />
anche per chi non ne è amante. Insegna una cosa importante,<br />
ossia come fare venire fuori la propria personalità individuale pur<br />
rispettando gli altri. È una lezione di vita. Dovrebbe essere così anche<br />
nella comunicazione: se parli con qualcuno, lo devi anche ascoltare.<br />
Nel suo programma su La7 parlerà di crisi?<br />
Ho notato, nei miei spettacoli dal vivo o in tv, che alla parola “crisi”<br />
scatta tra il pubblico una specie di “uffa”. Sbuffano. Ormai tutti<br />
sanno che c’è, ora vogliono sapere come si può superare. Nel<br />
programma non parleremo di crisi. Il mood della trasmissione<br />
è quello di fare vedere cose belle e dare stimoli. Per esempio<br />
raccontare un’azienda che ha avuto un’idea particolare e che sta<br />
crescendo, uno scienziato italiano che ha avuto successo. Storie<br />
così. Ho letto una bella frase, non ricordo dove: “Il bicchiere è<br />
mezzo pieno o mezzo vuoto? Risposta: è mezzo pieno di acqua e<br />
mezzo pieno di aria”. Mi è piaciuta, è positiva.<br />
Come fa ad essere così ottimista, Teresa?<br />
Ho scoperto che gli ottimisti hanno più facilità a ricordare le cose<br />
belle delle cose brutte, che pure accadono. Hanno una memoria<br />
selettiva. La mia terra, la Sicilia, non so se ha influito. I siciliani<br />
sono abbastanza pessimisti. Ma devo dire che il sole influisce. I<br />
27 anni di sole che ho preso in Sicilia me li sono portati anche a<br />
Milano, dove mi sono trasferita con qualche difficoltà.<br />
Ci parli ancora del programma di La7.<br />
Quasi quasi ci ripenso. Voglio dire: è bellissimo, ma mettere in piedi<br />
una trasmissione tutta tua è pesante, totalizzante. Se facessi solo<br />
quello…Sono sull’orlo di una crisi, tante decisioni, tante riunioni,<br />
è come costruire un palazzo. I mobili, il trasloco, la tappezzeria….<br />
Cosa vedremo?<br />
Più che un talk show uno show talk. Sarà il luogo in cui metto<br />
ciò che mi piace, come in un cassetto delle gioie. Ci può essere<br />
la sociologa che ci dà la formula del matrimonio perfetto o il<br />
professore universitario che spiega come è cambiata la vita delle<br />
donne. I VIP faranno cose insolite. Renzo Arbore verrà a parlare<br />
di jazz. L’ho molto corteggiato.<br />
La7 com’è?<br />
Non so esattamente. Come a Mediaset, sono esterna: là la mia<br />
famiglia erano Gino, Michele e Giancarlo Bozzo, i papà di Zelig.<br />
Qui sono seguita, sono molto attenti. Ho tantissimi autori, non li<br />
ho nemmeno contati.<br />
Lei è stata tanti anni nella squadra di Zelig. Dopo l’addio<br />
di Claudio Bisio e Paola Cortellesi ha mai pensato alla<br />
conduzione della trasmissione?<br />
Gino e Michele sono dei geni, hanno grande intuito, se non me<br />
l’hanno proposto è giusto così. Troveranno sicuramente la persona<br />
adatta, e se non la dovessero trovare, mi candido! È comunque<br />
bello essere stata promossa e cercata da una TV diversa. La<br />
promozione a Zelig sarebbe come un posto nell’azienda di papà.<br />
Conosce qualcuno nella sua nuova casa televisiva?<br />
Sono stata una volta ospite di Daria Bignardi. Ma conosco bene<br />
solo Geppi (Cucciari, ndr), siamo cresciute insieme, tante Sagre<br />
della Salamella e notti insonni in macchina, io e lei, da una serata<br />
all’altra. Nutro molto affetto per Geppi, anche se ultimamente per<br />
gli impegni ci siamo perse di vista.<br />
Si sbilanci: chi è il più sexy di La7?<br />
Le prime volte che Gad Lerner andava in tv, mi pare fosse la<br />
trasmissione Pinocchio, litigavo con il mio compagno di allora<br />
perché…ero pazza di Lerner. Il mio ex non capiva i miei gusti.<br />
Forse è quel nasone simile al mio: lo trovo affascinante. Stimo<br />
molto Enrico Mentana e Michele Santoro, che seguo sempre, ma<br />
a cena uscirei con Gad! Il mio attuale compagno, il padre di mia<br />
figlia, effettivamente gli somiglia.<br />
Dopo la ricetta anti-crisi ha anche una ricetta per<br />
conquistare un uomo?<br />
Sono un po’ fuori allenamento. Da tre anni, da quando sono<br />
impegnata, non conquisto, ma la mia tecnica è: maltrattarli<br />
ma farli sentire al centro dell’attenzione. Le due cose sono<br />
complementari. Poi nel mio caso è stato il destino.<br />
Come fa, Teresa, a fare tutto: la mamma, l’attrice, la tv?<br />
Il mio compagno fa il batterista, ha orari strani. E’ perfetto per<br />
me perché ci alterniamo nella cura di Giuditta. Io scrivo di notte<br />
mentre lui dorme, me la godo di giorno.<br />
Al cinema pensa mai?<br />
Prima lo mettevo al terzo posto, dopo il teatro e la tv, ma vorrei<br />
che in futuro avesse un posto più importante nella mia carriera.<br />
Qual è la domanda che le fanno più spesso?<br />
Quanto è bono Raoul Bova?<br />
Un classico.<br />
Comunque, è bono bono.<br />
Qual è il segreto del suo successo, Teresa?<br />
Il mio talento, forse l’unico, è quello di essere esageratamente<br />
diretta. Mostro i miei difetti. Non ho tette ma non le imbottisco, ho<br />
l’accento siciliano, faccio errori di grammatica. Essere veri oggi è<br />
un valore perché la nel mondo della comunicazione i personaggi<br />
vengono visti come qualcosa di fittizio, filtrato.<br />
SWITCH39
d<br />
Reportage<br />
design<br />
30<br />
© Romses Architects_ Scott Romses<br />
LA FELICITà ?<br />
è UN BOSCO<br />
DI CENTO PIANI<br />
Il progetto ideato da Romses<br />
Architects, una torre con un impianto<br />
agricolo integrato che sorgerà nel 2030<br />
A New Dehli raccoglie l’acqua per<br />
la stagione delle piogge; a Londra<br />
accoglie i campus universitari; a Milano<br />
si avvita su giardini verticali: ecco<br />
le nuove frontiere dell’eco-grattacielo<br />
di Albina Perri<br />
L’erba cresce tra le nuvole, i mulini a vento girano sui tetti,<br />
le finestre mangiano il sole, i muri respirano e perfino le<br />
mucche pascolano in cielo. Le città si trasformano e le<br />
colate di cemento che una volta soffocavano i loro abitanti,<br />
diventano sostenibili. Non è il sogno di un architetto bizzarro: è già<br />
realtà. L’espressione “grattacielo ecologico” non è più un ossimoro.<br />
I Paesi del mondo stanno iniziando a capire l’antifona: le risorse<br />
del pianeta non sono infinite, meglio provare a sfruttare energie<br />
e materiali alternativi. Fa bene alla terra, ma pure ai portafogli.<br />
Attualmente, il mondo ha un’impronta ecologica superiore a 1,5.<br />
Significa che l’umanità consuma un quantitativo di risorse superiore<br />
di una volta e mezzo a quello che la Terra può offrire nel lungo<br />
termine. Un americano consuma risorse come 13 afghani, e la<br />
SWITCH40<br />
SWITCH41
dSvizzera ha un’impronta più che doppia rispetto alla Cina. E per<br />
vivere, vogliamo vivere tutti nelle metropoli, che per sfruttare gli<br />
spazi si alzano invece che allargarsi, inventare edifici ecocompatibili<br />
è ormai d’obbligo per risparmiare risorse, aumentare l’efficienza,<br />
mettere in comune i consumi e risparmiare soldi. “Città più dense,<br />
con meno sviluppo suburbano, meno strade e più trasporti pubblici<br />
su rotaia, sono l’unica soluzione per reggere l’impatto del rapido<br />
inurbamento della popolazione”, sostiene Ken Shuttleworth, che<br />
insieme al famoso Norman Foster ha realizzato il Gherkin (settimo<br />
edificio più alto di Londra), la nuova City Hall, il Millennium Bridge<br />
e ora, con il suo studio Make Architects, sta costruendo un pezzo<br />
importante della City, il palazzo al numero 5 di Broadgate. Lo skyline<br />
di Londra, con la Shard di Renzo Piano costruita per le Olimpiadi,<br />
si sta orientando in questa direzione, in opposizione a Parigi e a<br />
Berlino, che invece continuano ad allargarsi in orizzontale. “Con<br />
un’esposizione al sole corretta, l’aiuto della ventilazione naturale,<br />
l’utilizzo di facciate fotovoltaiche e del solare termico, il riciclo del<br />
calore per scaldare l’acqua e una copertura vegetale sul tetto per<br />
migliorare le caratteristiche bioclimatiche dell’edificio, si riesce<br />
a ridurre al minimo i consumi energetici”, spiega Shuttleworth.<br />
Su questo fronte, le tecniche costruttive sono in rapidissima<br />
evoluzione. “Se dovessi progettare oggi il Gherkin, ad esempio,<br />
diversificherei i materiali delle facciate a seconda dell’orientamento,<br />
per arrivare a uno sfruttamento ottimale dell’esposizione al sole”,<br />
confessa. Per spingere gli archietetti a impegnarsi in questa<br />
direzione è nato perfino un apposito concorso, la Skyscraper<br />
Competition. Qui sono stati presentati, ed esempio, il Vertical<br />
Ground, un campus universitario intero collocato in un grattacielo;<br />
la discarica verticale Monument to Civilization, da realizzare a<br />
Nuova Deli; la torre dell’Himalaya, che raccoglierà l’acqua nella<br />
stagione delle piogge, per purificarla, congelarla e conservarla<br />
per un uso futuro. I grattacieli stanno anche cambiando nome:<br />
oggi si chiamano “vertical village”, “vertical farm”, “vegetal tower”,<br />
“vertical forest”. Bjarke Ingels, architetto visionario, ha costruito una<br />
“montagna” nella pianeggiante Copenhagen; Norman Foster ha<br />
progettato per Mosca un vulcano, una gigantesca spirale costellata<br />
da terrazze-giardino che serviranno a evitare le dispersioni termiche<br />
dell’edificio nel gelido clima russo. A Milano, città molto lontana<br />
dalle metropoli ipermoderne che punteggiano il pianeta, sta<br />
nascendo il Bosco Verticale dell’architetto Stefano Boeri. Due<br />
torri-foresta, piene di alberi che verranno periodicamente potati e<br />
curati da giardinieri-acrobati. I due edifici ospiteranno infatti 120<br />
piante di grandi dimensioni, 544 di taglia media e oltre 4 mila<br />
piccoli arbusti. La scelta delle specie ha privilegiato sempreverdi,<br />
sfoglianti e rampicanti fra cui lecci, roverelle, corbezzoli, gelsomini,<br />
ed essenze aromatiche, considerati idonei per le ottime capacità<br />
di adattamento alle condizioni atmosferiche delle diverse quote e<br />
adatte ai residenti perché non allergenici. In fase di progettazione<br />
si è tenuto conto di diversi parametri: sono state fatte analisi di<br />
micrometeorologia, prove di aerodinamica ambientale per testare<br />
la resistenza degli alberi alle correnti d’aria alle diverse altimetrie<br />
e si sono cercate soluzioni per affrontare i casi più particolari<br />
come rotture accidentali, ribaltamenti, raffiche di vento. Il sistema<br />
di innaffiamento centralizzato sfrutterà l’acqua di falda, già<br />
utilizzata per il riscaldamento. Le fonti rinnovabili prevedono pale<br />
eoliche installate sulla copertura di ciascuna torre, 500 metri<br />
quadri di pannelli fotovoltaici che rivestiranno parte dei parapetti<br />
e le coperture e infine l’uso di energia geotermica per gli impianti<br />
di riscaldamento e condizionamento estivo. Il progetto ricorda la<br />
Torre Vegetale di Edouard François, che sta per essere inaugurata<br />
SWITCH42<br />
architettura green<br />
a Nantes, in Francia. Un complesso commerciale e residenziale<br />
destinato ad accogliere 85 abitazioni private, dislocate su 17 piani<br />
per 60 metri. François è famoso per aver progettato e costruito<br />
altri edifici che incorporano alberi e piante, come la Tower Flower e<br />
l’eden Bio, edifici per alloggi sociali e parcheggi, costruiti a Parigi nel<br />
2004 e nel 2008. Le specie vegetali sono state fornite dai giardini<br />
botanici di Nantes, che hanno contribuito alla selezione di quelle<br />
più adatte, testando la loro resistenza a condizioni di vita estreme<br />
dovute alla scarsità di terreno, acqua e alle alte temperature.<br />
Da grattacieli con le piante, a grattacieli a forma di pianta. Surreali le<br />
torri The Mangrove di Jakarta, in Indonesia, che sorgeranno proprio<br />
nella foresta di mangrovie della medesima città prendendone pure<br />
camaleonticamente l’aspetto. La struttura, formata da due torri<br />
asimmetriche collegate da un corridoio, potranno ruotare attorno<br />
a se stesse non solo per avere la miglior vista a seconda del<br />
momento della giornata, ma anche in base all’esposizione solare, in<br />
modo da catturare la luce e ridurre il consumo di energia elettrica.<br />
La particolare struttura esterna avrà la funzione di frangisole per<br />
gli spazi interni, prevalentemente destinati a uffici, mentre il piano<br />
terra sarà utilizzato per parcheggi e punti di ristoro. Sul tetto verde,<br />
da una grande terrazza con spazi dedicati alla ristorazione, si potrà<br />
ammirare tutto il panorama: un ponte dinamico fino al livello podio,<br />
riservato solo a ciclisti e pedoni, consentirà di avere una vista fino<br />
al mare. La Taiwan Tower, invece, si ispira all’albero di Banyan<br />
taiwanese, e regge un tetto giardino sospeso a 300 metri da terra. Il<br />
progetto dello studio di architettura Sou Fujimoto è il modello per la<br />
Stazione geotermica in Islanda<br />
© Laurence Gough / shutterstock<br />
© Riccardo Brega<br />
Skyline di Londra,<br />
dove spicca il Gherkin,<br />
il settimo edificio<br />
più alto della città<br />
Rendering del progetto dello Studio<br />
Sou Fujimoto, vincitore del premio Taiwan Tower<br />
SWITCH41<br />
© Edward Simpson<br />
© Sou Fujimoto
d<br />
architettura green<br />
La Hearst Tower è oggi<br />
il primo grattacielo verde<br />
di New York, con consumi<br />
energetici inferiori del 25%<br />
rispetto a quelli standard<br />
Green Architecture della nuova generazione. Un’oasi galleggiante<br />
nel cielo della città che fluttua su una foresta di pilastri pensata per<br />
rappresentare tutti i fenomeni naturali. Il tutto grazie ad un gioco<br />
di luci che, dicono, permetterà a ognuno di sentirsi in contatto con<br />
lo spirito della vita. E nel futuro i grattacieli saranno anche luoghi<br />
autosufficienti, dove produrre cibo, oltre che energia. Ecosistemi<br />
artificiali loro stessi. A Vancouver, per esempio, nel grattacielo ci<br />
sarà una fattoria. Il team di architetti canadesi Romses Architects, ha<br />
progettato infatti Harvest Green Project, una torre con un impianto<br />
agricolo integrato che sorgerà in città nel 2030. Turbine eoliche,<br />
pannelli fotovoltaici e un sistema in grado di generare energia<br />
dal metano proveniente dal compostaggio, faranno funzionare<br />
questo innovativo edificio alle cui finestre saranno installati vetri<br />
fotovoltaici. Sulle sue pareti cresceranno ortaggi e frutta, al suo<br />
interno sarà possibile ottenere latte freschissimo direttamente da<br />
capre e mucche. Un’enorme cisterna raccoglierà le acque piovane<br />
che saranno poi disponibili per l’irrigazione nei periodi più secchi.<br />
In ampi spazi educativi si insegnerà a grandi e piccini a occuparsi<br />
di piante e animali. Come grandi esseri, i grattacieli vivranno di vita<br />
propria. È già realtà la torre che respira. La stanno costruendo a<br />
Seoul e sarà pronta nel 2015. La Dmc tower, già ribattezzata Light<br />
Tower, la Torre della Luce, sarà infatti il primo grattacielo a vivere<br />
con un polmone proprio. Tre aperture nella struttura “respireranno”<br />
la luce naturale e l’aria pulita per metterla poi in circolo e diminuire<br />
così drasticamente luce e riscaldamento artificiale.<br />
Il grattacielo progettato dallo studio americano Studied Impact<br />
a Dubai, invece, l’energia se la farà da sé. Gigantesca “batteria”,<br />
sarà in grado di generare energia pulita per “vivere” ma anche per<br />
alimentare il quartiere in cui sorge, l’Al quoz di Dubai. Nel nome il<br />
suo programma: 10 MW Tower. Si tratta infatti di una Torre di 50<br />
piani con una superficie di 130.000 metri quadrati in grado di<br />
produrre 10 MW di energia, dieci volte più di quello che le serve. La<br />
10 MW Tower disporrà anche di un tetto giardino che ospiterà una<br />
grande pala eolica. Il pieno recupero di tutta l’energia consumata<br />
per la sua costruzione avverrà in pochissimi anni. Sempre a<br />
Dubai, città dove si sperimenta architettura d’avanguardia, verrà<br />
costruito un albergo che sarà invece un maxi mulino a vento di<br />
250 metri. Ogni piano ruoterà in maniera indipendente dagli altri<br />
producendo energia elettrica. I piani si muoveranno al variare del<br />
vento, facendo mutare continuamente l’aspetto dell’edificio. È il<br />
progetto di David Fisher, Fabio Bettazzi e Marco Sala, architetti<br />
fiorentini. Il risparmio energetico garantito da queste tecnologie<br />
consentirà di ammortizzare i costi dell’opera in 55 anni. La filosofia<br />
del “grattaverde” sta conquistando tutto il pianeta, perfino Paesi<br />
che finora non avevano mostrato grande interesse al controllo<br />
dell’inquinamento e degli sprechi energetici. L’idea di poter<br />
risparmiare ha giocato un ruolo decisivo nella scelta di adeguarsi al<br />
diffuso sentimento di affetto per il mondo e di attenzione alla sua<br />
salute. Se fino a poco tempo fa la Repubblica Popolare Cinese non<br />
sembrava toccata dai temi ambientali, per esempio, ultimamente ha<br />
intuito il business delle energie rinnovabili, preoccupandosi anche<br />
della qualità estetica e dell’integrazione architettonica dei nuovi<br />
edifici. Nel bando del Concorso Internazionale per la realizzazione di<br />
una Solar Tower da 1 Megawatt per la produzione di energia solare<br />
termica nella Contea di Yanquing, indetto dall’Istituto di Ingegneria<br />
Elettronica dell’Academia cinese delle Scienze, è espressamente<br />
richiesto un progetto innovativo ed efficiente dal punto di vista<br />
tecnologico, ma anche di elevata qualità estetico-formale.<br />
Chi nasce ecologico, e chi si rifà il trucco. I “vecchi” grattacieli<br />
americani stanno già vivendo la fase di restiling, una sorta di<br />
seconda vita. Perfino l’Empire State Building, uno degli edifici più<br />
importanti e rappresentativi di New York, si rinfresca dandosi un<br />
tono eco. Il progetto, commissionato dai facoltosi proprietari che<br />
hanno pensato a una riconversione globale dell’edificio, prevede<br />
una riduzione del consumo energetico del 40%, quasi la metà.<br />
L’investimento di 20 milioni di dollari verrà ammortizzato in poco<br />
tempo, perché si risparmieranno circa 4 milioni di dollari l’anno.<br />
Verranno cambiati i serramenti delle migliaia di finestre e arriveranno<br />
quelle isolanti, con tripla camera d’aria, che eviteranno dispersioni<br />
di calore e contribuiranno sensibilmente a far diminuire la bolletta<br />
del riscaldamento invernale e il costo del condizionamento<br />
estivo. All’interno verranno aggiornati gli impianti di illuminazione,<br />
riscaldamento, condizionamento e il sistema di ventilazione. Le<br />
bollette, poi, si pagheranno in base al consumo, così da incentivare<br />
gli affittuari a risparmiare. I lavori sulle parti comuni sono già iniziati<br />
e si concluderanno quest’anno; quelli all’nterno dovrebbero finire<br />
nel 2013. Anche la Willis Tower di Chicago, chiamata fino al 2009<br />
Sears Tower e realizzata nel 1973, si risistemerà per risparmiare<br />
energia e soldi. L’intervento riguarda il rifacimento della pelle<br />
esterna vetrata che da materiale energivoro diventa produttore<br />
di energia. Tutto è iniziato quando la ex Sears Tower, 443 metri<br />
che svettano nell’affollato cielo di Chicago, è stata acquistata dalla<br />
compagnia assicurativa britannica Willis Group Holdings. Dopo aver<br />
ribattezzato l’edificio, i nuovi proprietari hanno deciso di rinnovarne il<br />
look puntando sull’eco-compatibilità con balconi panoramici in vetro,<br />
roof garden ma soprattutto un’innovativa copertura fotovoltaica<br />
che permetterà di ridurre considerevolmente il consumo di energia<br />
elettrica. Deutsche Bank ha annunciato invece il completamento e<br />
la messa in funzione di un impianto fotovoltaico da 122,4 kWp per<br />
la sede di New York, che si trova a 60 Wall Street, nel cuore della<br />
città degli affari e della finanza. Il sistema fotovoltaico, sulla cima<br />
dell’edificio, è il più grande impianto a energia solare a Manhattan<br />
e tra i più alti sistemi solari su tetto del mondo.<br />
Anche la Hearst Tower di Foster & Partners, con i suoi 180 metri di<br />
acciaio e vetro, è diventata eco. Svetta sopra un edificio Art Deco<br />
realizzato nel 1928 a New York dal magnate William Randolph<br />
Hearst, che aveva in mente di renderlo sempre più alto man mano<br />
che il suo impero fosse cresciuto. L’idea si è trasformata in realtà:<br />
la Hearst Tower è oggi il primo grattacielo verde di New York, con<br />
consumi energetici inferiori del 25% rispetto a quelli standard. I<br />
vetri, che ricoprono tutto il grattacielo sono basso emissivi e filtrano<br />
i raggi esterni del sole lasciando passare solo la luce naturale ma<br />
non il calore, evitando così un eccessivo ricorso alla climatizzazione<br />
durante i periodi estivi. I sensori installati negli ambienti regolano<br />
la quantità di luce artificiale emessa dagli apparecchi luminosi<br />
in funzione di quella naturale che entra dai vetri. Rilevatori di<br />
movimento spengono automaticamente luci e monitor nel caso in<br />
cui non ci sia nessuno. Infine, un sistema di raccolta delle acque<br />
piovane in appositi serbatoi consente di annaffiare le piante e<br />
regolare il tasso di umidità nell’aria. Nell’atrio, poi, una cascata<br />
di acqua riciclata di 8 metri umidifica l’ambiente in inverno e lo<br />
raffresca in estate. In Italia, sempre a Milano, si stanno risanando<br />
due torri dell’area del Centro Direzionale Garibaldi. Opera di Lazzari<br />
e Perrotta, grazie al progetto di Progetto CMR, Massimo Roj<br />
Architects, diventeranno ecosostenibili grazie a cellule a ventilazione<br />
interattiva, una soluzione tecnologica che sfrutta l’energia solare<br />
per riscaldare gli ambienti in inverno e, attraverso la ventilazione,<br />
evita eccessivi accumuli di calore in estate; serre bioclimatiche;<br />
una vasca di raccolta dell’acqua piovana; collettori solari capaci<br />
di produrre il 50% dell’acqua calda necessaria nei servizi igienici.<br />
L’edificio sfrutta inoltre la geotermia, un impianto di climatizzazione<br />
invernale ed estiva, che utilizza il calore del sottosuolo per produrre<br />
energia. Sulla facciata sud verrà installato un impianto fotovoltaico<br />
e si impiegheranno turbine eoliche in copertura.<br />
Nuovi o vecchi che siano, insomma, i grattacieli cambiano pelle.<br />
Non saranno più sinonimo di cemento che soffoca, ma opportunità<br />
di risparmio o di produzione energetica. Giganti buoni, col cuore<br />
verde, dove vivere senza sensi di colpa. Guardando al cielo, ma con<br />
un occhio alla Terra.<br />
Albina Perri è giornalista e scrittrice<br />
Il Centro Direzionale<br />
Garibaldi sarà<br />
completamente<br />
rinnovato grazie<br />
al Progetto CMR<br />
© CMR<br />
SWITCH45
pPiccole/medie IMPRESE<br />
©Olly<br />
“Mi chiamo<br />
Italia impresa<br />
e risolvo problemi”<br />
È un’associazione che fa da ponte tra istituzioni e aziende.<br />
La sua mission? Tutela del made in Italy, sostegno delle<br />
buone idee e accesso al credito nella burrasca della crisi<br />
Italia Impresa è un’associazione sindacale senza scopo di lucro, un<br />
ponte tra le piccole imprese e gli organi istituzionali di riferimento.<br />
Lo scenario economico attuale impone alle imprese di<br />
esprimere al meglio le proprie potenzialità soprattutto in termini<br />
di innovazione, per fare in modo, non solo di affrontare il presente,<br />
ma soprattutto guardare al futuro con ottimismo. Ed è proprio in<br />
un contesto socio-economico in continua evoluzione che Italia<br />
Impresa risponde concretamente all’esigenza di condivisione di<br />
informazioni e conoscenze che rappresentano il luogo di incontro<br />
tra lavoro e mercato.<br />
All’interno di una tradizione ormai consolidata, le imprese<br />
associate, da sempre autonome ed efficienti, vengono coadiuvate<br />
e sostenute nel confronto con il mercato globale, traendone un<br />
vantaggio competitivo.<br />
In un’economia caratterizzata prevalentemente dallo scambio<br />
continuo di informazioni, diventano di fondamentale importanza<br />
le competenze e conoscenze mutuate dalle professioni<br />
prevalentemente intellettuali: per questo Italia Impresa offre agli<br />
imprenditori servizi mirati, ad personam, che possano sostenere<br />
l’attività nel suo insieme.<br />
di Marco Di Troia<br />
In quest’ottica l’Associazione fornisce supporto ai suoi consociati,<br />
privilegiando le aziende che sappiano valorizzare il made in Italy e<br />
fornendo servizi di tutela, assistenza, accesso al credito ed ogni<br />
supporto che possa coadiuvare l’impresa nel raggiungere i suoi<br />
obiettivi.<br />
Per aiutare concretamente le sue consociate, Italia Impresa le<br />
informa dettagliatamente e tempestivamente nelle materie di<br />
loro interesse tramite i sistemi convenzionali (circolari, bollettini,<br />
notiziari), tramite posta elettronica indirizzata ai vari Responsabili<br />
Aziendali o attraverso il portale dell’Associazione.<br />
La singola tematica affrontata trova poi sviluppo concreto nelle<br />
consulenze specializzate fornite dai professionisti presenti in<br />
Associazione e nei vari convegni e seminari organizzati presso la<br />
propria sede.<br />
Per dar vita a queste attività, Italia Impresa non potrebbe prescindere<br />
dal sentimento che la permea: la passione, una caratteristica<br />
innata che non si apprende né dai libri, né dalla vita, ma che può<br />
essere l’unica molla per affrontare momenti difficili come quello<br />
che le economie un tempo più sviluppate stanno attraversando e<br />
che forse da un po’ di tempo avevano accantonato.<br />
© Alistair Cotton<br />
© Alistair Cotton<br />
<strong>Edison</strong> e italia impresa<br />
di Massimiliano Cajani<br />
Lo scorso giugno è stato sottoscritto un accordo<br />
quadro tra <strong>Edison</strong> e Italia impresa, associazione<br />
di imprese che si propone di offrire assistenza e<br />
rappresentanza alle Piccole e Medie Imprese e<br />
agli esercenti operanti in vari settori dell’economia.<br />
Grazie a questo accordo oltre 1500 partite iva<br />
potranno usufruire di offerte a loro dedicate.<br />
L’associazione, oltre a veicolare le nostre offerte alle<br />
imprese consociate, è diventata essa stessa cliente<br />
<strong>Edison</strong>.<br />
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LORENZO<br />
SESSA<br />
Responsabile<br />
Direzione marketing<br />
Questa estate resterò in citta. Tra condizionatori e ventilatori<br />
mi devo aspettare una bolletta caldissima a settembre?<br />
Angelo Passalacqua, Milano<br />
Gentile Sig. Passalaqua, eccole alcuni consigli per evitare che<br />
la bolletta si impenni: aumentando di un grado la temperatura<br />
impostata sul condizionatore si possono ridurre i consumi del<br />
15 %. È buona norma poi utilizzare il condizionatore con porte<br />
e finestre chiuse, impostando come temperatura ottimale non<br />
meno di 25°C. Invece di sera, quando l’aria si rinfresca, è utile<br />
aprire le finestre per far uscire il calore accumulato durante il<br />
giorno. Qualche altro accorgimento per evitare sprechi di energia<br />
può riguardare l’isolamento delle porte e finestre, verificando che<br />
ci siano guarnizioni di gomma o silicone sugli infissi. È possibile,<br />
infatti, eliminare le dispersioni di calore sostituendo i vecchi infissi<br />
con finestre a doppio vetro, che consentono di evitare spifferi d’aria<br />
e di risparmiare energia.<br />
EMANUELA<br />
GATTESCHI<br />
Responsabile<br />
Customer Care<br />
Buongiorno vorrei chiedere un aumento della potenza<br />
contrattuale: posso farlo direttamente da web?<br />
Roberta Di Mello, Bari<br />
Certo. È possibile effettuare questa operazione direttamente<br />
nell’Area Clienti, nella sezione CONTRATTI. Dovrà semplicemente<br />
selezionare il contratto per cui richiedere la modifica e indicare il<br />
nuovo valore di potenza. Gli aumenti consentiti sono da 3 kW a<br />
4,5 kW o 6 kW e da 4,5 kW a 6 kW. A conclusione dell’attività sarà<br />
inviata una e-mail di conferma dell’avvenuta variazione.<br />
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MILANO<br />
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humour<br />
di Blozz
ccitazione<br />
“è nella crisi<br />
che emerge<br />
il meglio di ognuno,<br />
perché senza crisi<br />
tutti i venti<br />
sono solo lievi brezze.”<br />
Albert Einstein
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